S.S. VAN DINE SIGNORI, IL GIOCO È FATTO (The Casino Murder Case, 1934) 1 UNA LETTERA ANONIMA (Sabato, 15 ottobre, ore 10...
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S.S. VAN DINE SIGNORI, IL GIOCO È FATTO (The Casino Murder Case, 1934) 1 UNA LETTERA ANONIMA (Sabato, 15 ottobre, ore 10) Fu in quell'autunno, l'autunno freddo e desolato seguito allo spettacolare caso dell'omicidio del Drago, che Vance si trovò ad affrontare il crimine forse più diabolicamente sottile della sua carriera. Un mistero, questa volta, legato al veleno. Ma non si trattava di un qualunque veneficio: troppo ingegnosa la tecnica, troppo sofistico il calcolo, per considerare quel delitto alla stregua dei casi, pur famosi, di Cordelia Botkin, Molineux, Maybrick, Buchanan, Bowers e Carlyle Harris. A stretto rigore, l'appellativo di assassinio del Casinò coniato dai giornali era inesatto, anche se la celebre casa da gioco di Kinkaid nella Settantatreesima Strada Est vi ebbe larga parte. In effetti, il primo sinistro episodio di quel crimine famigerato ebbe luogo mentre somme vertiginose venivano giocate al tavolo della roulette nella Sala d'Oro di quel palazzo, così come l'ultimo atto della tragedia si svolse nel locale arredato in stile giacobiano, rivestito di pannelli di noce dal proprietario, a due passi dal grande salone, usato come ufficio. Incidentalmente, posso dire che quell'ultima, terribile scena mi perseguiterà fino alla morte, e mi procura brividi di gelo su e giù per la schiena ogni volta che indugio sui particolari spaventosi. Con Vance, ho conosciuto molti terribili frangenti durante le sue indagini, eppure non sono mai stato tanto colpito come da quella fatale conclusione giunta così improvvisa e inaspettata nell'ambiente fastoso del noto ritrovo consacrato all'azzardo. Quanto a Markham, anche lui, lo so bene, subì una qualche agghiacciante metamorfosi in quei pochi momenti d'agonia quando l'assassino si alzò davanti a noi con quella sua stridula risata di trionfo. Tanto che, ancora oggi, la sola menzione della circostanza lo rende irritabile e nervoso, a riprova, di fronte alla sua calma abituale, della profonda e durevole impressione riportata dalla drammatica vicenda. A parte quell'unico avvenimento, fatale e definitivo, il caso dell'omicidio del Casinò non poté vantare gli aspetti teatrali di molti altri casi investigati e risolti da Vance. Un caso di ordinaria amministrazione, da un punto di
vista puramente oggettivo: di fatto, nei meccanismi esteriori, ricalcava da vicino celebri episodi della storia del delitto. Tratto distintivo, rispetto ai molti precedenti, fu il sottile e più coperto processo per cui l'assassino tentò di stornare i sospetti e creare ad arte nuove diaboliche situazioni per celare il vero movente del reato. Qui entrava in gioco non un semplice ingranaggio dentro un altro ingranaggio, ma un elaborato e complesso marchingegno psicologico, le cui rotelle spingevano quasi indefinitivamente in avanti, fino alla più sbalorditiva e fallace conclusione. La prima mossa del colpevole, forse la più accorta di tutto il progetto machiavellico, fu una lettera indirizzata a Vance trentasei ore prima che scattasse il piano. Per ironia della sorte fu quella suprema astuzia a svelare alla fine chi era colpevole. Uno stratagemma, forse troppo sottile, che si ritorse sull'ideatore, richiamando una tacita attenzione sui suoi processi mentali e offrì uno spunto che per fortuna stornò gli sforzi di Vance dalle linee più ovvie e coerenti del ragionamento. Sortì comunque il suo scopo palese, perché Vance assisté di persona, per così dire, alla prima stoccata del fellone. E, come testimone oculare del primo episodio, fu direttamente coinvolto nel caso; sicché, in quella circostanza, riferì il problema a John F.X. Markham, allora procuratore distrettuale della contea di New York, suo intimo amico e primo artefice della sua partecipazione alle altre indagini criminali. La lettera in questione arrivò sabato, 15 ottobre, con la posta del mattino. Stando al timbro regolamentare accompagnato dalla stampigliatura di Closter, New Jersey, era stata spedita alle 12 del giorno precedente. Quel venerdì sera Vance aveva lavorato fino a tardi per catalogare e confrontare i disegni ornamentali di alcuni reperti sumeri nel tentativo di stabilire le influenze culturali subite da quell'antica civiltà e, all'indomani, si era alzato verso le 10. All'epoca abitavo nel suo appartamento della Trentottesima Strada Est; benché la mia posizione fosse di consulente legale e "cassiere", a poco a poco, negli ultimi tre anni, ero divenuto una sorta di segretario factotum alle sue dipendenze. "Dipendenze" forse non è la parola esatta, perché eravamo intimi amici fin dai tempi di Harvard e proprio grazie a quel rapporto avevo troncato i legami con lo studio di mio padre, la ditta Van Dine, Davis e Van Dine, per l'impegno a me più congeniale di badare agli affari di Vance. In quella rigida, quasi invernale mattina di ottobre, dopo aver aperto e spartito come al solito la sua corrispondenza, dedicandomi a quelle lettere
che ricadevano sotto la mia giurisdizione, ero occupato con i moduli di iscrizione per i concorsi di cani dell'autunno, quando Vance entrò nella biblioteca e, con un cenno di saluto, prese posto nella prediletta sedia stile Regina Anna, davanti al camino. Restai lievemente stupito del suo abbigliamento: una veste da mandarino antica e preziosa con sandali cinesi: di rado si presentava alla prima colazione (invariabilmente composta da una tazza di caffè turco e una delle sue amate sigarette Régie) in costumi così ricercati. — Van — osservò dopo aver chiamato Currie, l'anziano maggiordomo inglese, premendo il bottone sul tavolo — non fare quella faccia stranita. Mi sentivo depresso, quando mi sono svegliato. Non riuscivo a connettere i disegni di quelle vecchie e straordinarie steli e dei sigilli cilindrici provenienti dagli scavi di Ur, sicché ho avuto una notte agitata. Così, mi sono agghindato in questi panni cinesi nel tentativo di controbilanciare il mio stato d'animo e, posso aggiungere, nella speranza di acquisire, per un processo di osmosi psicologica, un pizzico di quella calma orientale tanto vantata dai sinologi. In quel momento Currie portò il caffè. — Nessuna lettera entusiasmante? — domandò Vance in tono trascicato, fissandomi pigramente, dopo aver acceso una Régie e bevuto qualche sorso della bevanda nera. Ero rimasto così colpito dalla strana lettera anonima appena arrivata, pur non avendo alcuna idea del suo tragico significato, che gliela porsi senza una parola. Il mio amico la fissò con le sopracciglia leggermente inarcate, indugiando per un attimo sulla firma enigmatica, poi, deposta la tazza, la lesse adagio sotto il mio sguardo intento, con un'espressione velata negli occhi via via più fonda e poi del tutto seria, quando giunse al termine. La lettera e ancora nell'archivio di Vance: la cito qui fedelmente perché gli fornì uno degli indizi più preziosi e, se proprio non lo condusse subito fino all'assassino, perlomeno l'allontanò dalla direttiva più ovvia delle indagini, prevista dall'autore del piano. Si trattava di un messaggio dattiloscritto, ma battuto in modo inesperto, come se lo scrivente avesse una scarsa familiarità con i tasti. Eccone il testo: Caro signor Vance sono disperato: mi rivolgo a voi per chiedervi aiuto e lo faccio anche in nome dell'umanità e della giustizia. Vi conosco di fama. Siete il solo uomo a New York in grado d'impedire una spaventosa catastrofe o, almeno, di assicurare la punizione del responsabile
di un crimine imminente. Tremende nuvole nere si addensano da anni su una casa di questa città e io so che l'uragano sta per scatenarsi. Pericolo e tragedia sono nell'aria. Vi prego di non abbandonarmi in questo momento, anche se, lo devo ammettere, non vi conosco. Non so esattamente che cosa stia per succedere. Altrimenti, mi rivolgerei alla polizia. Vorrei poter essere più preciso, ma non so nulla di più. Tutto è terribilmente vago: più che di una situazione precisa, si tratta di un'atmosfera. Ma succederà: qualcosa succederà e, in ogni caso, l'esito sarà falso e ingannevole. Vi prego, quindi, di non lasciarvi fuorviare dalle apparenze. Cercate, cercate, la verità sotto la superficie. Tutte le persone coinvolte sono anormali e infide. Non dovete sottovalutarle. Ecco tutto quello che posso dirvi. Avete conosciuto il giovane Lynn Llewellyn, questo lo so, e probabilmente sapete del suo matrimonio, avvenuto tre anni fa, con l'avvenente stella della commedia musicale, Virginia Vale. La cantante ha rinunciato alla sua carriera e vive nella famiglia del marito, insieme a lui. Ma il matrimonio è stato un terribile errore e per tre anni in quella casa ha covato la tragedia. Il momento cruciale è ora giunto. Ho visto quegli orribili segni delinearsi. Altri ancora rientrano nel quadro, oltre ai Llewellyn. Qualcuno, non so chi, corre un pericolo tremendo. E il momento previsto è per domani sera, sabato. Lynn Llewellyn deve essere sorvegliato. E sorvegliato attentamente. Domani sera, tutti i principali attori della tragedia che sta per compiersi parteciperanno a una cena a casa Llewellyn: Richard Kinkaid, Morgan Bloodgood, il giovane Lynn con la sua infelice moglie, la sorella Amelia e la madre, di cui ricorre il compleanno. So di certo che a cena scoppierà un litigio e mi rendo conto che non potete far nulla. In ogni caso, non ha importanza. Il disastro avverrà dopo. So che avverrà. È giunta l'ora. Dopo cena Lynn Llewellyn andrà a giocare al Casinò di Kinkaid. Ci va ogni sabato sera. So che anche voi siete tra i frequentatori abituali di quel locale. Ciò che vi chiedo è di recarvi là domani sera. Dovete andarci. Dovete sorvegliare Lynn Llewellyn, minuto per minuto. E anche Kinkaid e Bloodgood.
Forse vi sorprenderà che io non prenda alcuna iniziativa diretta: ma vi assicuro che la mia posizione e le circostanze me lo rendono assolutamente impossibile. Vorrei essere più preciso. Ma non so dirvi altro. Toccherà a voi scoprire il resto. Seguiva la firma, egualmente battuta a macchina: "Una Persona profondamente Preoccupata". Letta la missiva per la seconda volta, Vance si sprofondò nella sedia con le gambe pigramente allungate. — Un documento straordinario, Van — commentò seguitando a fumare con aria pensierosa. — E del tutto insincero, non ti pare? Un tocco letterario qua e là, un po' di melodramma, qualche esempio di retorica pacchiana e, di tanto in tanto, un'accorata preoccupazione. Certo, oh, certo: la firma, per quanto vaga, è genuina. Sì... sì, questo è ovvio. È battuta con più forza del resto della lettera. Maggiore pressione sui tasti. La forza del sentimento. E non un sentimento piacevole: c'è un pizzico di rancore mescolato all'ansia... — Il mio amico s'interruppe: — Ansia! — riprese un attimo dopo come se parlasse a se stesso. — Proprio questo si legge tra le righe. Ansia per cosa? Per chi? Il vizioso Lynn? Potrebbe darsi, naturalmente. Eppure... Di nuovo s'interruppe. Esaminò la lettera, incastrando con cura il monocolo per studiare entrambe le facciate del foglio. — Carta ordinaria — osservò — la si può comprare in qualunque negozio. Una normale busta con il lembo a punta. Il mio ansioso e prolisso corrispondente ha evitato con ogni cura la possibilità di essere rintracciato mediante il suo fornitore. Molto noioso. Avrei preferito che il nostro dattilografo avesse frequentato una scuola commerciale. La battitura è atroce: spaziatura disordinata, tasti scambiati, nessun senso estetico riguardo ai margini o ai capoversi. Tutto dimostra una scarsa familiarità con gli innumerevoli, anche se poco utili, tasti a disposizione del dattilografo. Accese un'altra sigaretta, terminò di bere il caffè, poi, appoggiandosi allo schienale, rilesse la lettera per la terza volta. Di rado l'avevo visto così interessato. — Perché tutti quei particolari intimi sui Llewellyn, Van? — domandò alla fine. — Chiunque legga i giornali conosce la situazione di quella famiglia. L'attrice bionda e carina che si sposa nell'alta società nonostante le proteste di mammà e poi va ad abitare nella magione avita; Lynn Llewellyn, giovane fannullone e beniamino dei night-club; la sorellina seria
che si ritiene lontana dalle frivolezze del vortice mondano e studia arte: chi mai, in questa felice contea, non ne ha sentito parlare? Mammà è una filantropa invadente, è membro dei comitati di tutte le organizzazioni che si occupano di problemi sociali che le riesce di scovare. Quanto a Kinkaid, il fratello della vecchia signora, di sicuro non è un inconnu. Poche personalità della città sono più note di lui, con grande stizza e umiliazione della vecchia signora Llewellyn. Solo l'entità del patrimonio basterebbe a mettere quella famiglia sulla bocca di tutti. — Fece una smorfia. — Eppure il mio corrispondente mi ricorda tutti questi dettagli. Perché? Perché scrivere questa lettera? Perché mi sceglie come destinatario? Perché un linguaggio così fiorito? Perché l'abominevole battitura? Perché questo foglio e l'anonimato? Perché, perché... Mi chiedo... mi chiedo... Prese a camminare avanti e indietro. Ero sorpreso del suo turbamento: gli era così poco congeniale! Non ero rimasto molto impressionato dalla lettera, se non per le sue inusuali caratteristiche e a tutta prima aveva pensato di attribuirla a qualche tipo bislacco o a qualcuno che, per rancore verso i Llewellyn, fosse ricorso a quell'artificio contorto per procurare loro fastidi. Ma Vance, evidentemente, aveva captato qualcosa che a me era del tutto sfuggita. D'improvviso interruppe la sua deambulazione e il corso dei suoi pensieri per andare al telefono. Lo udii poco dopo insistere con il procuratore distrettuale Markham, perché passasse da noi nel pomeriggio. — È della massima importanza — insisté, con appena una traccia del tono scherzoso che gli era solito quando parlava con quel suo amico. — Ho un affascinante documento da mostrarvi... Fate un salto qui. Siate gentile! Dopo aver riagganciato il ricevitore tornò a sedersi e rimase a lungo in silenzio. Infine, si avvicinò alla sezione della biblioteca dedicata ai disturbi della psiche e alla psicoanalisi, consultò l'indice di diverse opere di Freud, Jung, Stekel e Ferenczi e, segnate varie pagine, tornò a sedersi per seguitare a leggere. Dopo circa un'ora rimise i libri negli scaffali e trascorse altri trenta minuti consultando vari almanacchi, come il Who's Who e il Social Register, oltre all'American Biographical Dictiontry. Infine, scrollando le spalle e dopo uno sbadiglio, sedette alla scrivania dov'erano sparse numerose riproduzioni dei reperti scoperti dal dottor Wooley durante la campagna di scavi a Ur durata sette anni. Il sabato era giornata semifestiva all'ufficio del procuratore distrettuale, sicché Markham arrivò poco dopo le due. Vance, nel frattempo, si era vestito e aveva pranzato. — Che giornata grama e infelice — disse all'amico,
ricevendolo in biblioteca. — Poco confacente alla solitudine. La depressione mi tormenta come una vecchia strega. Ho rinunciato al concorso dei cani a Long Island, oggi. Ho preferito restarmene in casa a meditare davanti al camino acceso. Forse sto diventando vecchio e in preda all'ansia. Sconfortante... Ma vi sono grato per essere venuto. Che ne dite di un bicchierino di Napoléon 1811 per cacciare le malinconie autunnali? — Oggi non soffro né di malinconie autunnali né d'altro genere — ribatté il procuratore, studiando l'amico da vicino. — E quanto più blaterate, tanto più lavorate di cervello: sintomo inconfondibile. — Osservò ancora Vance. — Accetto il cognac, comunque. Ma perché tanto mistero al telefono? — Mio caro Markham... oh, mio caro Markham! Davvero vi ho dato quest'impressione? Le giornate malinconiche... — Andiamo, andiamo, Vance. — Il procuratore cominciava a irritarsi. — Dov'è quell'interessante messaggio che volevate mostrarmi? — Ah, sì... certo. — Vance tolse di tasca la lettera anonima appena ricevuta e gliela porse. — Non me la doveva mandare in una giornata così deprimente. Markham la lesse con aria distratta, poi la gettò sul tavolo con un lieve gesto d'irritazione. — Ebbene? — domandò con malcelato fastidio. — Spero sinceramente che non la prendiate sul serio. — Né sul serio, né alla leggera — sospirò l'altro — ma con mente aperta, vecchio mio. L'epistola ha degli elementi non trascurabili, sapete. — Per amor del cielo, Vance! Di lettere come questa ne riceviamo ogni giorno. A dozzine. Se ci facessimo caso, non avremmo tempo per nient'altro. Sono scritte in genere da temperamenti ossessivi, insomma da inveterati scocciatori. Ma non è il caso che sia io a spiegarvelo, siete uno psicologo troppo esperto. Vance annuì con gravità inconsueta. — Sì, sì, naturalmente. Grafomania. Una combinazione di egocentrismo, viltà e sadismo... conosco il quadro chimico. Eppure, ve lo assicuro, non sono convinto che questa lettera rientri in questa categoria. Markham alzò lo sguardo. — Pensate sul serio che si tratti di sincere preoccupazioni, basate su un'intima conoscenza della situazione? — Oh, no. Al contrario. — Vance considerò assorto la sigaretta. — È qualcosa di più. Se fosse una lettera sincera, sarebbe meno verbosa e più
precisa. La verbosità e la fraseologia pomposa indicano un movente nascosto: è una lettera scritta con molta attenzione. Ci sono implicazioni sinistre, si intuisce un'atmosfera mentale alterata, una nota genuina di crudeltà, il senso della tragedia imminente come se un demonio stesse architettando un piano e, al tempo stesso, se la ridesse. Non mi piace, Markham. Non mi piace affatto. Il procuratore guardò l'amico con evidente sorpresa. Fece per dire qualcosa ma poi riprese la lettera e la lesse di nuovo con maggiore attenzione. Alla fine, scosse la testa. — No, Vance — protestò gentilmente. — La malinconia di queste giornate autunnali ha influenzato la vostra immaginazione. Questa lettera è solo lo sfogo di qualche donna isterica in preda al vostro stesso stato d'animo. — Ci sono alcuni tocchi femminili, vero? — osservò languido Vance. — Li ho notati. Ma il tono generale della lettera non lascia supporre che soffra di allucinazioni o di deliri isterici. Markham fece un gesto di disapprovazione e per un poco fumò il sigaro in silenzio. — Conoscete personalmente i Llewellyn? — domandò infine. — Mi hanno presentato a Lynn, una volta, un incontro superficiale, e lo vedo spesso al Casinò. Il solito ricco sfaccendato oberato da una madre che tiene ben stretti i cordoni della borsa. E, naturalmente, conosco Kinkaid. Tutti conoscono Richard Kinkaid, eccetto la polizia e l'ufficio del procuratore distrettuale. — Vance lanciò all'amico un'occhiata impertinente. — Ma avete proprio ragione a ignorare la sua esistenza e rifiutarvi di avvicinare il suo covo dorato e peccaminoso. È un posto condotto con tutte le regole e ci va solo la gente che può permetterselo. Parola mia! Immaginate l'ingenuità di chi pensa si possa fermare il gioco d'azzardo con le leggi e le incursioni della polizia! Il Casinò è un ambiente gradevole, Markham, più che corretto. Vi piacerebbe immensamente. — Vance sospirò, afflitto. — Se solo non foste il procuratore distrettuale! Triste... molto triste... Markham si agitò a disagio sulla sedia e fulminò l'amico con uno sguardo seguito da un sorriso indulgente. — Potrei andarci una volta o l'altra, dopo le prossime elezioni, forse — replicò. — Conoscete qualcuna delle altre persone menzionate nella lettera? — Solo Morga Bloodgood. È il primo croupier di Kinkaid, il suo braccio destro, per così dire. Lo conosco solo nella sua veste professionale, co-
munque, anche se ho sentito dire che è amico dei Llewcllyn e conosceva la moglie di Lynn quando lei lavorava ancora a teatro. Viene dal mondo accademico, è un genio del calcolo: Kinkaid una volta mi ha detto che si è specializzato in matematica a Princeton. Ha fatto l'assistente per un anno o due, poi ha preferito condividere la sorte del principale. Probabilmente aveva bisogno di ben altri stimoli, non saprei quali, ma non certo quelli che gli poteva dare la teoria quantistica. Non conosco le altre eventuali dramatis ptrsonae. Mai vista Virginia Vale: ero all'estero durante i suoi brevi trionfi sul palcoscenico. Né ho mai incontrato la vecchia signora Llewellyn o sua figlia Amelia, l'artista della famiglia. — E quali sono le relazioni tra Kinkaid e la vecchia signora Llewellyn? Vanno d'accordo come si conviene a fratello e sorella? Vance fissò l'amico con aria distaccata. — Ho preso in considerazione anche quell'angolo visuale. — Poi, dopo una pausa di riflessione: — Naturalmente, la vecchia signora si vergogna del fratello scapestrato: è piuttosto seccante per una fanatica attivista ospitare un fratello che esercita il gioco d'azzardo come professione; esteriormente mantengono dei rapporti civili, ma immagino che esistano dei contrasti, soprattutto considerando che la casa di Park Avenue appartiene a tutti e due e quindi i due vivono sotto lo stesso tetto. Ma non credo che la vecchia signora si spingerebbe al punto di macchinare contro Kinkaid... No, no. Dovremo trovare una spiegazione a questa lettera in tutt'altra direzione. In quel momento, Currie entrò nella biblioteca. — Scusate, signore — annunciò a Vance con aria preoccupata — ma una persona al telefono m'incarica di chiedervi se intendete andare al Casinò stasera. — Un uomo o una donna? — lo interruppe il mio amico. — Davvero, signore... — balbettò Currie — non saprei dire. La voce è molto debole, indistinta, contraffatta quasi. Ma quella persona mi ha incaricato di dirvi che non proferirà una parola e tuttavia aspetterà all'apparecchio una risposta. Vance rimase a lungo in silenzio. — Mi aspettavo qualcosa del genere — mormorò, rivolgendosi poi al maggiordomo. — Dite al mio interpellante dal sesso imprecisato che sarò là alle dieci. Markham si tolse lentamente il sigaro di bocca e guardò con ansia il suo ospite. — Intendete davvero andare al Casinò per via di quella lettera?
Vance annuì serio. — Oh, sì... certo. 2 IL CASINÒ (Sabato, 15 ottobre, ore 22,30) Ai suoi bei giorni, la famosa casa da gioco di Richard Kinkaid, il Casinò, nella Settantatreesima Strada Ovest, vicino a West End Avenue, avanzava molte pretese alle glorie del Canfield's da lungo tempo defunto. Non fiorì che per un breve periodo, eppure il suo ricordo è ancora vivo in molti e la sua fama si è sparsa in tutti gli angoli del paese. Quello scintillante e indispensabile anello nella catena di ritrovi che percorre la spettacolare storia della vita notturna newyorchese è stato ora soppiantato da un grandioso palazzo ad appartamenti con attici e terrazze. Per il passante non iniziato si trattava unicamente di una di quelle grandi e imponenti dimore in pietra grigia, tramontato orgoglio della zona alta del West Side. Edificata alla fine dell'Ottocento, la costruzione era stata la residenza del padre di Richard, Amos Kinkaid (detto il Vecchio Amos), uno dei più ricchi e sagaci agenti immobiliari della città. Era quella l'unica proprietà assegnata totalmente a Richard nel testamento del Vecchio Amos: tutti gli altri beni erano toccati congiuntamente ai due figli, lo stesso Richard e la moglie di Anthony Llewellyn, già vedova, al momento di ereditare, e madre a sua volta di Lynn e Amelia, allora ancora adolescente. Richard Kinkaid aveva vissuto da solo nella casa in pietra grigia per molti anni dopo la morte del padre. In seguito, ne aveva sbarrato le porte e sprangato le finestre, per soddisfare l'aspirazione ai viaggi e alle avventure nei luoghi più remoti del globo. Aveva sempre avuto un'irresistibile inclinazione per l'azzardo, trasmessa, forse, dal Vecchio Amos e, durante le sue peregrinazioni, aveva frequentato le più celebri case da gioco d'Europa. Come potrete ricordare, resoconti delle sue spettacolari vincite e perdite al tavolo verde spesso raggiunsero le prime pagine della stampa nazionale. Quando le perdite superarono di gran lunga le vincite, Kinkaid tornò in America più povero, ma, senza dubbio, più saggio. Contando su agganci politici e importanti legami personali, decise allora di rifarsi aprendo una casa da gioco alla moda di sua proprietà, ricalcata sul modello di alcuni dei più famosi templi del genere nell'America dei giorni andati. «Il mio guaio» aveva detto una volta Kinkaid a uno dei prin-
cipali tra i suoi finanziatori «è che ho sempre giocato dalla parte sbagliata del tavolo.» Fece ristrutturare e ridipingere il palazzo nella Settantatreesima Strada, l'arredò con mobili sfarzosi ed entrò nella sua celebre impresa "dalla parte giusta del tavolo", non senza aver dilapidato, a quanto si diceva, il resto del suo patrimonio per eseguire quei lavori di ristrutturazione. Il nuovo stabilimento fu battezzato Casinò di Kinkaid, ma così noto divenne il luogo tra gli eletti della buona società e le persone facoltose, che l'aggiunta di Kinkaid ben presto parve superflua: ormai in America c'era solo un Casinò. Come altre iniziative del suo genere, al limite della legalità, e a somiglianza dei vari night-club alla moda nati durante l'era del Proibizionismo, la casa da gioco era gestita come un circolo privato. Prima dell'indispensabile iscrizione, tutte le richieste venivano soppesate e sottoposte a prudenti controlli. La tassa iniziale, del resto, era sufficiente a scoraggiare tutte le persone indesiderabili e la lista di coloro cui si accordavano i privilegi di membro del "club" poteva quasi essere considerata come un elenco dei nomi più prestigiosi dell'élite sociale e professionale. Come primo croupier e direttore dei tavoli, Kinkaid aveva scelto Morgan Bloodgood, un brillante e giovane matematico conosciuto a casa della sorella. Bloodgood era stato all'università con Lynn Llewellyn, benché più giovane di tre anni; e, si può aggiungere, fu proprio lui a favorire l'incontro tra Virginia Vale e l'amico. Durante il periodo in cui frequentò il mondo accademico, prima come studente e poi come insegnante, si era interessato alle leggi della probabilità, applicando le sue scoperte specialmente alla relazione di queste leggi con i giochi basati sui numeri, e aveva elaborato una serie di percentuali da applicare ai vari giochi d'azzardo. Le sue stime relative alle permutazioni, alle possibilità di ripetizione e ai mutamenti delle sequenze nei giochi di carte sono oggi ufficialmente usate per il computo delle probabilità nei sorteggi e, una volta, lo stesso matematico lavorò con l'ufficio del procuratore distrettuale per dimostrare le soverchianti chances a favore dei proprietari in occasione di una campagna cittadina contro le slot-machine di ogni tipo. Alla domanda perché avesse preferito il giovane Bloodgood a un più anziano ed esperto croupier, Kinkaid aveva risposto: «Io sono come il vecchio Gobseck di Balzac, che aveva affidato tutti i suoi interessi personali e legali all'imberbe avvocato Derville, in base alla teoria che su un uomo sotto i trent'anni si può contare, ma dopo quell'età nessuno è più degno di fiducia».
I croupier in seconda e i mazzieri del Casinò erano stati egualmente scelti non tra i professionisti di quel settore, ma tra i giovanotti di buona famiglia, di bell'aspetto e ottima educazione, sollecitamente addestrati ai loro complessi doveri. Forse cinica nella concezione, l'idea di Kindaid all'atto pratico ebbe successo e la sua attività dalla "parte giusta del tavolo" poté prosperare. Il gestore si accontentava delle percentuali usualmente riconosciute alla casa e nessun esperto poté mai muovergli l'accusa di aver truccato anche uno solo dei suoi giochi. In tutte le dispute tra un ospite e il croupier, le poste venivano pagate senza discussioni. Nella sua relativamente breve esistenza, il Casinò vide perdere e vincere molte piccole fortune sull'onda delle puntate sempre sostenute, specialmente al venerdì e al sabato sera. Quando arrivai con Vance quella sera fatale di sabato 15 ottobre, c'erano solo pochi clienti sparpagliati: era troppo presto per trovarvi il contingente al completo de: gli habitués attesi, di solito, dopo teatro. Saliti gli ampi gradini di pietra, un portiere cinese ci accolse con un inchino sulla soglia dell'angusta anticamera tutta cristalli e ferro battuto. Grazie a un qualche segnale segreto, la nostra identità fu comunicata agli addetti all'interno e, quasi simultaneamente al nostro ingresso nel Vestibolo, si spalancò la grande porta di bronzo (comperata in Italia dal Vecchio Amos.) Due inservienti in divisa, straordinariamente alti e prestanti, ci presero cappotto e cappello in quell'atrio spazioso, ampio almeno ottanta metri quadrati e arredato con magnifici mobili nello stile del Rinascimento italiano e con sontuosi tendaggi di broccato e antichi dipinti. In fondo, una doppia scalinata di marmo saliva alle sale da gioco girando intorno a una piccola fontana luminosa. Al secondo piano, il proprietario aveva riunito il soggiorno e l'atrio in un unico, grande salone, battezzato la Sala d'Oro, lungo una ventina di metri ed esteso per l'intera ampiezza della casa. Una nicchia, allestita come un salottino, s'apriva verso ovest. Decorazioni in stile romano spurio correvano per tutto il locale salvo rari accenni di motivi ornamentali bizantini: i muri ostentavano un rivestimento in foglia d'oro, mentre i pilastri piatti di marmo, che li suddividevano in larghi pannelli rettangolari, si armonizzavano, nella tenue tonalità avorio, con il metallo e il soffitto paglierino, richiamati dalle tende di seta con aurei disegni ai finestroni. Il pavimento era coperto da un folto tappeto color ocra. In centro alla stanza c'erano tre tavoli da roulette; due tavoli per il vingtet-un si trovavano a metà del lato est e ovest, quattro per il chuck-a-luck ai
quattro angoli e uno per un complicato gioco di dadi all'estremità, tra le finestre. In fondo, a ovest, si apriva una saletta privata per le carte, con una fila di tavolini dove si poteva tentare ogni sorta di solitari, sotto gli occhi di un mazziere, pronto a incassare o a pagare, a seconda della fortuna e dell'abilità del giocatore. Il locale attiguo, rivolto a oriente, era un bar dai vetri di cristallo, comunicante con il grande salone attraverso un'ampia arcata, dove venivano serviti solo i vini e i liquori più scelti. I due vani, evidentemente, erano stati la sala da pranzo e il salottino per la colazione della dimora del vecchio Kinkaid. A sinistra del bar, in quello che una volta era stato un guardaroba, era stato disposto il gabbiotto del cassiere. Quanto all'ufficio privato del gestore, dotato di una porta verso il bar e una verso la Sala d'Oro, era stato ricavato murando l'estremità verso la facciata dell'atrio superiore. Si trattava di una saletta di circa tre metri quadrati, sobria e tuttavia elegantemente arredata, con pannelli di noce e un'unica finestra dai vetri smerigliati prospiciente la corte anteriore. (Faccio qui menzione dell'ufficio perché ebbe una grande rilevanza nel tenibile momento finale della tragedia che doveva cominciare di lì a poco sotto i nostri occhi.) La sera di quel sabato, dopo che avevamo raggiunto l'angusto atrio al secondo piano da cui si passava, per un'ampia entrata con tendaggi, nel salone principale, Vance diede un'occhiata distratta alle due sale da gioco, quindi si diresse verso il bar. — Van, credo che avremo tutto il tempo a disposizione per un sorso di champagne — disse, con un curioso ritegno nella voce. — Il nostro giovane amico siede nel salone tutto assorto, evidentemente intento ai suoi calcoli. Lynn gioca a sistema e prima che cominci sarà necessaria un'infinità di preliminari. Se stasera deve capitargli una disgrazia, o è felicemente ignaro, o serenamente indifferente. In ogni caso, adesso non c'è nessuno che appaia ragionevolmente interessato alla sua esistenza, o alla sua eliminazione, quindi possiamo trattenerci qui un pochino. Ordinò una bottiglia di Krug 1904 e sprofondò, con aria placida, nella comoda poltrona vicino al tavolino su cui fu servito lo champagne. Eppure, a dispetto di quel distacco apparente, lo sapevo in preda a una tensione inconsueta, resa palese ai miei occhi dal suo gesto lento e deliberato nel togliersi la sigaretta di bocca per scuoterla nel centro esatto del portacenere. Avevamo appena bevuto lo champagne quando Morgan Bloodgood, emerso da una porta laterale, attraversò il bar in direzione del salone. Era
un uomo snello, alto, con una fronte spaziosa e un poco sporgente, un naso aquilino affilato e diritto, palpebre pesanti e molli, le orecchie grandi con i padiglioni insolitamente larghi e i lobi sfuggenti. Gli occhi duri e vivaci di un particolare colore grigio-verde erano così infossati da apparire quasi perpetuamente in ombra. I capelli, biondi e sottili, si confondevano quasi con il colorito giallastro della pelle che gli dava un'aria anemica. Eppure non era un uomo privo di attrattiva. C'era una fredda calma nel complesso dei suoi lineamenti, un'immobilità che dava un'impressione di forza latente e profondità di pensiero. Benché lo sapessi a malapena trentenne, si sarebbe potuto facilmente scambiarlo per un uomo di quarant'anni, o perfino più vecchio. Quando scorse il mio amico, si fermò e gli rivolse un saluto affabile, ma riservato. — Tentate la fortuna, stasera, signor Vance? — chiese con voce profonda e modulata. — Sicuro — rispose l'altro, sorridendo solo con le labbra. Quindi soggiunse: — Ho un nuovo sistema, sapete. — Una manna per la casa — sorrise il primo di rimando. — Basato su Laplace o von Kries? — (Mi parve di percepire un velo di sarcasmo nella sua voce.) — Oh, mio caro giovane! È ben raro che mi dedichi alle astruserie della matematica: questo ramo della ricerca lo lascio agli esperti. Preferisco la semplice massima di Napoleone: "Je m'engage et puis je vois". — Buono o cattivo come qualunque altro sistema — replicò Bloodgood. — Alla fine, si riducono tutti alla stessa cosa. — E con un rigido inchino proseguì verso la Sala d'Oro. Dal tendaggio aperto lo vedemmo prendere posto presso la ruota del tavolo di roulette in centro. Vance depose il bicchiere e, accesa con cura un'altra Régie, si alzò senza fretta. — Credo che sia giunto il momento di unirci ai giocatori — mormorò. Mentre entravamo nel salone, Kinkaid apparve sulla porta del suo ufficio. Alla vista di Vance, gli rivolse un sorriso professionale e lo salutò con stereotipata bonomia: — Buona sera, signore. Vi si incontra di rado, da queste parti. — Felice di non essere stato del tutto dimenticato — rispose il mio amico in tono gentile. — Specialmente — soggiunse con voce ferma e incolore — perché uno degli scopi della mia visita di stasera era quello di veder-
vi. Kinkaid s'irrigidì quasi impercettibilmente. — Bene, ora mi vedete, non è vero? — domandò con un freddo sorriso e una gentilezza formale. — Oh, sicuro! — Anche Vance divenne maliziosamente cordiale. — Ma preferirei vedervi nella riposante atmosfera giacobiana del vostro ufficio privato. Kinkaid scrutò Vance stringendo gli occhi. Vance restituì lo sguardo senza batter ciglio, né cancellare il sorriso dalle labbra. Kinkaid, muto, si voltò e riaprì la porta, cedendoci il passo. Ci seguì, richiuse l'uscio e, impalato, con gli occhi incollati al mio amico, rimase in attesa. Vance portò la sigaretta alle labbra; dopo una lunga boccata, lanciò il fumo verso il soffitto. — Potremmo sederci? — domandò con distacco. — Ma sicuro, se siete stanchi. — La voce di Kinkaid era metallica, la faccia, una maschera impersonale. — Grazie infinite. — Vance ignorò i modi gelidi e si accomodò in una delle basse sedie foderate di cuoio vicine alla porta, accavallando con pigro agio le gambe. Malgrado il tono scostante, mi resi conto che Kinkaid non era in fondo veramente ostile, ma, da giocatore inveterato, assumeva una posizione difensiva di fronte a un'eventuale minaccia di natura sconosciuta. Come chiunque altro in città, sapeva che Vance era strettamente legato, seppure in modo informale, al procuratore. Pensai che probabilmente vedeva in lui l'inviato di qualche spiacevole missione ufficiale. Era quindi logico che reagisse con quell'atteggiamento guardingo e gelido. Richard Kinkaid, nonostante quel suo aspetto di giocatore inveterato, era un uomo colto e intelligente. Si era laureato con lode all'università, aveva due diplomi accademici, parlava correntemente diverse lingue e, in gioventù, era stato un archeologo di notevole valore. Sui suoi viaggi in Oriente, aveva scritto due libri che si trovano oggi in qualunque biblioteca pubblica. Era un uomo robusto, alto un metro e ottanta, vigoroso nonostante l'incipiente pinguedine. I capelli grigio ferro, tagliati a spazzola, sembravano molto chiari in contrasto con la pelle dal colorito rossiccio. La faccia era ovale, ma i tratti grossolani gli conferivano un'aria rude accentuata dalle sopracciglia larghe e basse, dal naso corto, schiacciato e irregolare e dalla
bocca tesa e dura che pareva una ferita lunga, diritta, immobile. Gli occhi erano il tratto dominante di quella faccia. Erano piccoli con le palpebre inclinate verso il basso agli angoli esterni, come se l'uomo fosse affetto dal morbo di Bright, tanto che le pupille, apparentemente poste al di sopra del centro dell'orbita, davano alla sua espressione un che di sardonico e quasi sinistro. In quegli occhi c'era sagacia, perseveranza, furbizia, crudeltà e alterigia. Quella sera, fermo davanti a noi con una mano appoggiata sul piano squisitamente intagliato della scrivania vicino alla finestra, l'altra cacciata nella tasca della giacca dell'abito da sera, li teneva fissi su Vance, senza mostrare fastidio né preoccupazione. La faccia era quella del perfetto giocatore di poker. — Desideravo vedervi, signor Kinkaid — disse infine il mio amico — per una lettera che ho ricevuto stamattina. Ho pensato che potesse interessarvi, dato che il vostro nome vi viene citato in modo non troppo benevolo. In effetti, la lettera riguarda i vari membri della vostra famiglia. Kinkaid continuava a guardarlo impassibile. Non una parola, non un gesto. Vance contemplò fuggevolmente la punta della sigaretta. — Credo — riprese — che sarebbe meglio se la leggeste da voi. Kinkaid prese i due fogli dattiloscritti e li spiegò con indifferenza. Lo osservavo attentamente mentre leggeva. Gli occhi rimasero impassibili, le labbra ferme. Solo il colorito della faccia si fece visibilmente più scuro. Quando giunse alla fine, contraeva spasmodicamente i muscoli delle guance e il collo sgradevolmente chiazzato di rosso pareva dilatarsi tanto da straripare oltre il colletto. Lasciò ricadere di scatto contro il fianco la mano che reggeva la lettera, tradendo la tensione del braccio, poi sollevò lentamente gli occhi fino a incontrare quelli di Vance. — Ebbene? — sibilò tra i denti. Vance fece un gesto elusivo. — Non intendo fare scommesse, per ora — rispose tranquillo. — Le accetto soltanto. — E se io non volessi scommettere? — Per me va benissimo. — Vance gli sorrise gelido. — È un vostro diritto. Kinkaid, dopo un'esitazione momentanea, emise un brontolio di gola, poi sedette davanti alla scrivania e posò la lettera. Dopo un breve silenzio, picchiò sui fogli con le nocche e scrollò le spalle.
— A me sembra l'opera di un pazzoide. — Il tono ora era leggero e sprezzante. — No, no. Andiamo, signor Kinkaid — protestò il mio amico. — Così non va, non va proprio. Avete fatto una puntata sbagliata, per così dire. Avete perso la vostra fiche. Perché non riprovate? — Che diavolo! — esplose Kinkaid. E ruotò sulla sedia, fissando Vance con sguardo freddo e minaccioso. — Non sono un maledetto investigatore — proseguì, muovendo appena le labbra. — E, comunque, che cosa ho a che vedere con questa lettera? Vance non rispose. Affrontò l'atteggiamento di Kinkaid con calma ferma e glaciale, una calma distaccata e, insieme, devastante. Non ho mai invidiato a nessuno l'arduo compito di sconfiggere il suo sguardo. Uno sguardo dotato di un sottile potere psicologico, quando lo desidera, e a cui non resistono neppure i caratteri più forti, anche se decisi a opporvisi con tutta la forza della loro personalità. Pur con tutta la sua forza d'animo, Kinkaid aveva trovato un degno avversario. Sapeva che l'altro non avrebbe abbassato né distolto le pupille; e in quel silenzioso scambio che avviene tra due validi avversari, quando si scrutano a vicenda negli occhi, in quello strano duello muto di due personalità, ebbe la peggio. — Molto bene — riprese con un sorriso benevolo. — Farò un'altra puntata, se vi potrà essere d'aiuto. — Sogguardò ancora la lettera. — C'è molta verità in questa lettera. Chiunque l'abbia scritta conosce bene la nostra situazione familiare. — Usate anche voi una macchina per scrivere, forse? Kinkaid sussultò, poi rise forzatamente. — Malridotta più o meno come quella che è stata usata per battere questa — rispose, agitando una mano verso i fogli. Vance annuì comprensivo. — Neanch'io ci so fare — osservò in tono leggero. — Assurda invenzione, la macchina per scrivere. Ma pensate veramente che qualcuno intenda far del male al giovane Llewellyn? — Non so, ma lo spero — sbottò Kinkaid, con uno sgradevole sorriso. — Bisognerebbe ucciderlo. — Perché non provvedete voi stesso? — Il tono di Vance era spassionato. Kinkaid ridacchiò in modo poco simpatico. — Ci ho pensato spesso. Ma non vale la pena di correre un simile ri-
schio. — Eppure — rifletté Vance — in pubblico sembra che più o meno lo tolleriate. — Necessità familiare, immagino. La maledizione dell'amore materno. Mia sorella stravede per lui. — Trascorre un bel po' di tempo qui al Casinò. — La frase di Vance suonò a metà come un'affermazione e a metà come una domanda. Kinkaid annuì. — Cerca di prendersi un po' di quei soldi di famiglia che la madre non è disposta a elargirgli troppo liberalmente. E io l'assecondo. Perché no? Gioca con un sistema. — Sbuffò. — Sono i pivelli o-la-va-o-la-spacca a decurtare i profitti. Vance tornò alla lettera. — Credete che una tragedia sovrasti la vostra casa? — Non è così in ogni famiglia? Ma se qualcosa accadrà a Lynn, non sarà al Casinò. — In ogni caso, la lettera insisteva perché io venissi qui stasera a sorvegliare il giovanotto. Kinkaid agitò una mano. — Non ci farei caso. — Ma avete appena ammesso che c'è molta verità, lì dentro. L'altro rimase immobile per un po', gli occhi fissi al muro come due dischetti scintillanti. Infine, si chinò in avanti e squadrò il mio amico. — Sarò franco con voi, signor Vance — disse seriamente. — Ho un'idea maledettamente precisa di chi abbia scritto quella lettera. Si tratta solo di un caso di grafomania e piedi freddi... Dimenticatela. — Davvero! — mormorò Vance. — Molto interessante. — Spense la sigaretta nel portacenere e, alzandosi in piedi, ripiegò la lettera e la rimise in tasca. — Spiacente di avervi disturbato. Penso comunque che mi tratterrò un po' da queste parti. Kinkaid non si alzò, né disse verbo quando uscimmo e ci avviammo verso la Sala d'Oro. 3 LA PRIMA TRAGEDIA (Sabato, 15 ottobre, ore 23,15) Il salone aveva già cominciato a riempirsi. Almeno un centinaio di "so-
ci" giocava ai vari tavoli o a gruppetti, chiacchierava e s'intratteneva piacevolmente. C'era un'atmosfera festosa nella sala grande e serpeggiava una certa eccitazione. Gli inservienti giapponesi, in costume nazionale, sfrecciavano qua e là senza rumore per le varie incombenze e da ambo i lati dell'arco d'ingresso due uomini in uniforme controllavano la situazione. Non un battito di ciglio di qualunque persona sfuggiva agli occhi vigili di quelle due sentinelle. Era un'accolta di gente alla moda, tanto che non ebbi difficoltà a identificare molti eminenti personaggi della buona società e dei circoli finanziari. Lynn Llewellyn sedeva ancora in un angolo del salottino, con matita e quaderno, apparentemente dimentico di attività intorno a lui. Percorsa la sala in tutta la sua lunghezza, salutando alcuni conoscenti sul suo cammino, Vance si fermò al tavolo del chuck-a-luck vicino alla finestra della parete orientale e comprò una pila di fiches. Puntò sull'uno, raddoppiando ogni volta fino a cinque giocate e ricominciando poi da capo. Incredibile quanti "uno" uscirono: dopo quindici minuti, il mio amico aveva guadagnato quasi mille dollari, eppure, in preda all'inquietudine, raccolse la vincita con indifferenza. Si voltò di nuovo verso il centro della stanza e si accostò al tavolo della roulette condotto da Bloodgood. Osservò molte tornate della ruota, poi sedette per unirsi al gioco. Si trovava di fronte al salottino e, mentre prendeva posto, gettò un'occhiata distratta in quella direzione indugiando con gli occhi su Llewellyn, ancora assorto nei suoi pensieri. I cinque o sei giocatori che si trovavano al tavolo da gioco avevano già fatto le loro puntate per il giro successivo della ruota e Bloodgood, in piedi, con il dito medio contro la pallina nel cavo della ciotola, era pronto a lanciarla perché compisse le sue imprevedibili circonvoluzioni, quando, per un qualche motivo, sospese il lancio. — Faites votre jeu, monsieur — recitò con una cantilena scherzosa, guardando in faccia il mio amico. Vance voltò di scatto la testa e scorse il sorriso un po' cinico sulle labbra pesanti del croupier. — Grazie infinite per l'avviso personale — disse con esagerata cortesia e, chinandosi sul tavolo, verso la ruota, mise un biglietto da cento dollari sul rettangolo verde contrassegnato con lo "0" in cima alle tre colonne di numeri. — Il mio sistema mi suggerisce di giocare il numero del banco, stasera. Il sorriso sulle labbra di Bloodgood svanì: il croupier inarcò le sopracci-
glia e con un gesto esperto avviò la ruota. Fu una lunga tornata, perché la pallina, spinta da un violentissimo abbrivio, danzò avanti e indietro per un po' tra la ruota scanalata e i fianchi della ciotola. Infine, parve acquietarsi in uno degli scomparti numerati ma la velocità della rotazione era ancora troppo alta per poter distinguere le cifre. D'improvviso, la pallina riprese di nuovo a ruotare, compì uno o due giri e andò a fermarsi nella fessura verde, il numero del banco. Un brusio si levò intorno al tavolo, mentre il rastrello raccoglieva tutte le altre puntate, ma, benché osservassi Bloodgood da vicino, non notai in lui il minimo mutamento d'espressione: era la perfetta incarnazione di un croupier impassibile. — Sembra che il vostro sistema funzioni — buttò là a Vance, mentre sospingeva verso di lui una pila di trentacinque fiches: — Vous vous engagez et puis vous voyez... mais, qu'est-ce que vous esperez voir, monsieur? — Non ne ho la più pallida idea — rispose il mio amico, raccogliendo la vincita. — Io non spero... lascio che le cose avvengano. — In ogni caso, avete fortuna, stasera — sorrise Bloodgood. — Chissà... — Vance fece scivolare in tasca i suoi gettoni e si allontanò dal tavolo. Si avviò adagio verso la saletta dove giocava a carte, si fermò sulla soglia, poi si avvicinò a osservare il gioco che si svolgeva all'alto tavolo semi-circolare del vingt-et-un a pochi metri dal salottino nella nicchia. C'erano due sedie vuote, rivolte verso l'atrio, Vance attese, poi, quando uno dei partecipanti si alzò a destra del mazziere sulla sua piccola piattaforma, ne prese il posto. Da quella posizione, come potei notare, vedeva perfettamente bene Llewellyn. Puntò un gettone giallo sulla sezione a pannelli del tavolo e guardò la sua carta coperta: gli ero alle spalle, vidi un'asso di fiori. La carta successiva era un altro asso. — Curioso, Van — mi disse di sopra la spalla — c'è una cifra che mi perseguita stasera. Voltò il primo asso a mise l'altro di fianco, puntando un altro gettone giallo. Fu l'ultimo a essere servito dal mazziere nella distribuzione successiva e, con mia meraviglia, ricevette due figure, un fante e una regina. In una sola mano, aveva così raggiunto la combinazione più alta, composta da un asso con una figura, contro il diciannove del mazziere. Il mio amico stava per puntare sulla giocata successiva, quando Llewellyn si alzò con decisione dall'angolo nel salottino e si avvicinò al tavolo
di Bloodgood, con il taccuino in mano. Anziché continuare la partita, Vance raccolse ancora una volta la vincita e lasciò la sua sedia, avviandosi lentamente verso il centro della stanza andandosi a fermare dietro la fila delle sedie di fronte al giovanotto. Lynn Llewellyn era snello, di media altezza e pareva dotato di una forza nervosa e scattante. Aveva occhi di un azzurro opaco e slavato, privi di vivacità, a dispetto della perpetua mobilità. Mobile e sensibile, invece, era la bocca nella faccia un po' smunta, dove si leggeva una sorta di debolezza unita all'astuzia - una faccia, comunque, non priva d'intelligenza, e che un certo tipo di donna poteva trovare attraente. Dopo essersi seduto, lanciò una rapida occhiata in giro con un cenno a Bloodgood e agli altri partecipanti, ma sembrò non vedere Vance, benché gli si trovasse di fronte. Osservò il gioco per diversi minuti, annotando i numeri usciti sul taccuino rilegato in cuoio posto davanti a lui, sul tavolo, poi, dopo cinque o sei tornate, cominciò ad accigliarsi e, voltatosi, chiamò uno dei servitori giapponesi che stava passando. — Scotch — ordinò — con acqua naturale a parte. E continuò le sue annotazioni. Infine, dopo che uscirono tre numeri in successione nella stessa colonna, cominciò a giocare con accanimento e allontanò bruscamente con un gesto l'inserviente tornato con il whisky, concentrandosi nelle sue giocate. Durante la prima mezz'ora in cui restammo in piedi a osservarlo, cercai di ricostruire una qualche sequenza matematica tenendo conto dei numeri scelti, ma senza successo, tanto che rinunciai. In seguito appresi che Llewellyn seguiva una curiosa e, secondo Vance, del tutto incoerente e contraddittoria variazione del sistema Labouchère, detto Labby e abbondantemente sperimentato per molti anni a Montecarlo. Eppure, per quanto inadeguato fosse il sistema dal punto di vista scientifico, Llewellyn ne traeva profitto. E anzi, se avesse sfruttato fino in fondo la sua fortuna e secondo l'abitudine istintiva del giocatore dilettante, sarebbe progredito più rapidamente. Ma ogni volta che indovinava un en plein, un cavallo o un carré, ritirava le vincite in modo da raddoppiare soltanto la posta, moltiplicando la puntata unicamente quando la sorte gli era avversa. Quasi dopo ogni giocata, consultava rapido le tabelle e le colonne di cifre accuratamente riportate nel suo libriccino, attenendosi evidentemente con rigore alla formula prescelta, contro qualunque altra tentazione. Poco dopo mezzanotte, quando una delle sue serie di raddoppi aveva raggiunto l'apice, indovinò un en plein. Fu una vincita cospicua: dopo aver
ritirato le sei pile di fiches il giovane respirò a fondo e si appoggiò allo schienale della sedia. Calcolai approssimativamente che, a quel punto, aveva vinto più di diecimila dollari. La notizia della sua fortuna si sparse tra gli altri giocatori nella sala e ben presto una folla di curiosi si riunì intorno al tavolo di Bloodgood. Guardandomi intorno, notai le espressioni dei vari spettatori, alcune ciniche, altre invidiose, altre solo interessate. Quanto al croupier, non dava a vedere né con uno sguardo, né con un'intonazione, che accadesse alcunché di insolito. Si comportava come un impeccabile automa, intento al suo compito con distaccata, meccanica precisione. Quando si rilassò nella sedia dopo il gran colpo, Llewellyn alzò lo sguardo e, scorgendo Vance, lo salutò distrattamente con un cenno di testa. Era ancora assorto nei suoi calcoli e nelle sue statistiche, perché annotava ogni tornata della ruota e registrava i numeri vincenti sul suo quadernetto. Ora, mentre scribacchiava le cifre, la faccia gli si era colorita, le labbra gli si muovevano nervosamente e le mani erano scosse da un tremito visibile. Ogni tanto inspirava a fondo, come per calmarsi. Una volta o due notai che spingeva in avanti la spalla sinistra, chinando la testa dalla stessa parte, come un malato di angina pectoris che cerchi sollievo all'oppressione del cuore. Dopo la stessa giocata, Llewellyn si sporse sul tavolo e ricominciò con il suo cauto sistema di scelta dei numeri e accumulo delle vincite. Aveva ora introdotto alcune variazioni al metodo. "Copriva", infatti, come si dice in gergo, le sue puntate, giocando alla pari sul rosso e sul nero contro il colore del numero stabilito, opponendo la prima, seconda o terza dozzina a quella dove tentava l'en plein e servendosi allo stesso modo del pari e dispari, del passe e manque. — Questa variante — mi sussurrò Vance all'orecchio — non è prevista dai manuali. Gli sono saltati i nervi, sta giocando contemporaneamente con il sistema d'Alembert e Montant Belge. Ma non ha alcuna importanza. Se è fortunato, vincerà comunque; altrimenti, perderà. I sistemi servono solo agli ottimisti e ai sognatori. Il solo fatto immutabile è che il banco paga trentacinque a uno contro trentasei possibilità, senza contare lo zero. Puro caso: non c'è alcun mezzo per dominarlo. Quella sera, al tavolo della roulette la sorte di Llewellyn era evidentemente benigna, perché non trascorse molto, prima che vincesse ancora su un numero con una posta multipla. Quando ritirò le fiches, le mani gli tremavano tanto che rovesciò una delle pile e solo con difficoltà la ricompo-
se. Sprofondò di nuovo nella sedia e si astenne dalla giocata successiva. Il suo colorito si era accentuato, gli occhi gli brillavano di uno scintillio innaturale e i muscoli della faccia cominciarono a contrarsi. Si guardò intorno con aria assente e si lasciò sfuggire uno dei numeri usciti sulla ruota, tanto che dovette chiederlo a Bloodgood, per completare gli appunti sul suo taccuino. La tensione si era impadronita degli spettatori. Uno strano silenzio s'impose al solito brusio della conversazione. Tutti parevano intenti all'esito di quell'antico conflitto tra un uomo e le incomprensibili leggi della probabilità. Llewellyn sedeva là, con una fortuna nelle fiches impilate davanti a lui. Ancora poche migliaia di dollari e il banco sarebbe saltato, dato che Kinkaid aveva fissato per la serata un tetto massimo di quarantamila dollari a quel tavolo. Nel silenzio teso che, d'improvviso, era calato nella sala, rotto solo dal rumore della pallina, dal tintinnio delle fiches e dal monotono intercalare di Bloodgood, il gestore emerse dal suo ufficio e si accostò alla roulette, fermandosi vicino a Vance, a osservare con indifferenza il gioco. — Evidentemente è la serata di Lynn — notò con noncuranza. — Già, già, proprio così. — Vance non staccava gli occhi dalla figura nervosa e tremante di Llewellyn. In quel momento, il giovane indovinò un altro en plain, coperto, però, da una sola fiche. L'evento, tuttavia, segnò la fine di un qualche ciclo matematico, secondo il suo confuso sistema: di nuovo, infatti, si appoggiò contro lo schienale, dopo aver ritirato la vincita. Respirava a fatica, come se non inalasse abbastanza aria nei polmoni e ancora spinse di nuovo in avanti la spalla sinistra. Rivolse un cenno a un ragazzo giapponese che passava nelle vicinanze. — Scotch — ripeté e, con uno sforzo evidente, annotò il numero vincente nel quaderno. — Ha bevuto molto, stasera? — domandò Kinkaid a Vance. — Ne ha chiesto uno un po' di tempo fa, ma poi l'ha rifiutato. Questo sarà il primo bicchiere, per quanto ne so. Pochi minuti dopo, l'inserviente deponeva di fianco a Llewellyn un vassoio d'argento con un whisky, un bicchiere vuoto e una bottiglietta di soda. Bloodgood, che aveva appena avviato la ruota, guardò da quella parte. — Mori! — avvertì il ragazzo. — Il signor Llewellyn preferisce l'acqua naturale. Il giapponese si voltò, mise il whisky sul tavolo davanti al giocatore e si
allontanò con il vassoio e la soda. Quando giunse all'altezza di Kinkaid questi lo chiamò con un cenno. — Potete prendere l'acqua della caraffa nel mio ufficio — suggerì. L'inserviente rispose con un cenno e si affrettò ad andare a prendere l'acqua. — Lynn ha bisogno di bere al più presto — spiegò il gestore. — Inutile farlo aspettare, con tutta quella folla al bar. Dannato idiota! Non avrà più un dollaro, quando tornerà a casa stasera. Quasi a riprova della profezia, Llewellyn puntò e perse una forte somma. Mentre consultava il quadernetto per scegliere il numero successivo, il cameriere riapparve e gli porse un bicchiere d'acqua naturale. Il giovane lo vuotò, subito dopo aver inghiottito un sorso di liquore, poi respinse i due bicchieri e puntò ancora. Perse di nuovo. Raddoppiò alla giocata successiva, con uguale insuccesso. Raddoppiò ancora, e ancora perse. Aveva giocato il venti nero e il cinque rosso; alla giocata seguente, divise la stessa somma a metà tra il ventuno rosso e il quattro nero. Uscì l'undici. A quel punto, divise la posta tra il diciassette, il diciotto, il venti e il ventuno da un lato e tra il quattro, il cinque, il sette e l'otto. Uscì di nuovo l'undici. Dopo che Bloodgood ebbe rastrellato le fiches, Llewellyn rimase a fissare immobile il panno verde. Restò così per cinque minuti interi, senza più prestare attenzione al gioco. Una o due volte si passò la mano davanti agli occhi e scosse la testa energicamente come sopraffatto da un'incipiente confusione mentale. Vance gli si era avvicinato e lo stava osservando attentamente, ma anche Kinkaid pareva profondamente preoccupato dalla condotta del giovane. Bloodgood lo guardava di tanto in tanto, senza però lasciare trasparire più che un interesse distratto. La faccia arrossata, Llewellyn si premette le mani alle tempie e inspirò, come succede quando un dolore lancinante alla testa ci procura un senso di soffocazione. All'improvviso, con uno sforzo penoso, si alzò rovesciando la sedia e si allontanò dal tavolo, le mani lungo i fianchi. Fece due, tre passi, barcollò e poi crollò a terra. Seguì un certo scompiglio, parecchi ospiti che si trovavano vicino al giovane si affollarono intorno alla figura accasciata. Subito i due inservienti in uniforme fermi all'ingresso giunsero in gran fretta e, facendosi largo a gomitate fra gli astanti, sollevarono Llewellyn, portandolo nell'uf-
ficio privato di Kinkaid, oltre la porta tempestivamente aperta dal gestore davanti al fardello inanimato. Vance e io li seguimmo all'interno, prima che Kinkaid avesse tempo di escluderci. — Che volete qui? — scattò lui. — Ho l'intenzione di fermarmi ancora un po' — rispose freddamente Vance. — Attribuitelo a una pura curiosità, se proprio dovete trovare un motivo. Kinkaid sbuffò, e mandò via i due inservienti con un gesto. — Coraggio, Van — mi chiese il mio amico — aiutami a sollevare il ragazzo su quella sedia. Sollevammo Llewellyn sulla sedia. Vance piegò il corpo del giovane in avanti in modo che la faccia, mortalmente sbiancata, ricadesse tra le ginocchia, poi gli sentì il polso. — Avete dei sali? — chiese a Kinkaid che se ne stava vicino alla scrivania, con una smorfia di lieve cinismo sulla bocca. L'altro gli diede una boccetta verde presa da un cassetto. Vance l'aveva appena accostata al naso di Llewellyn quando Bloodgood entrò nella stanza e chiuse rapidamente la porta. — Che succede? — domandò a Kinkaid con aria allarmata. — Torna al tavolo — ordinò rabbioso il proprietario. — Non succede niente... mai visto svenire una persona? Il croupier esitò, scrutò Vance, poi uscì scrollando le spalle. Il mio amico sentì ancora il polso di Llewellyn, poi gli tirò indietro la testa e, sollevata una delle palpebre, osservò l'occhio. Dopo di che, lo adagiò a terra, ficcandogli sotto la testa un cuscino piatto di cuoio. — Non è svenuto, Kinkaid — annunciò, alzandosi a fronteggiare l'altro con aria tetra. — È stato avvelenato... — Maledizione! — esclamò il gestore con tono gutturale. — Conoscete un medico nel quartiere? — domandò Vance con calma pregna di significato. Sentimmo Kinkaid trattenere il respiro. — Ce n'è uno alla porta accanto. Ma... — Chiamatelo! — ordinò il mio amico. — E in fretta. Kinkaid rimase per un attimo immobile, rigido e risentito, poi compose un numero al telefono. Si schiarì la gola e con voce alterata: — Dottor Rogers?... Parla Kinkaid. C'è stato un incidente, qui. Venite subito! Grazie. Riappese la cornetta e si rivolse a Vance con un'imprecazione strozzata.
— Che pasticcio! — esclamò furente. Si avvicinò a un mobiletto vicino alla scrivania, prese la caraffa di un servizio d'argento e la rovesciò su uno dei bicchieri di cristallo. La brocca era vuota. — All'inferno! — brontolò. Premette un bottone su uno dei pannelli di noce della parete. — Prenderò un brandy. E voi? — Lanciò a Vance un'occhiata stizzosa. — Molto gentile — mormorò il mio amico. Un cameriere comparve sulla porta che comunicava con il bar. — Courvoisier — ordinò il padrone — E riempite questa caraffa — aggiunse, indicando il servizio per l'acqua. L'inserviente uscì con la caraffa, senza mostrare che un impercettibile sussulto, alla vista del corpo a terra (Kinkaid aveva scelto con abilità il suo personale) e tornò poco dopo con il liquore. Il padrone del Casinò lo bevve in un sorso. Vance stava ancora centellinando il suo cognac, quando uno degli uomini dislocati nell'atrio al pianterreno bussò alla porta e introdusse il medico, un uomo corpulento e rotondo, con una faccia gentile dall'aria quasi infantile. — Ecco il vostro paziente — disse con voce rauca il gestore, indicando Llewellyn col pollice. — Che ve ne pare? Il dottor Rogers si chinò di fianco alla figura distesa, borbottando: — Siete stato fortunato a trovarmi. Mi avevano chiamato per un parto ed ero appena rientrato. Compì un rapido esame: controllò le pupille di Llewellyn, gli sentì il battito cardiaco, appoggiò lo stetoscopio al cuore, gli tastò i polsi e la nuca. Nel frattempo poneva diverse domande su quanto era successo immediatamente prima che il giovane si sentisse male. Gli rispose Vance, descrivendo il nervosismo di Llewellyn al tavolo della roulette, il colorito acceso della faccia e l'improvvisa prostrazione. — Si direbbe un caso di avvelenamento — concluse il medico rivolto a Kinkaid, aprendo in fretta la borsa e preparando un'iniezione ipodermica. — Non posso ancora indicare la causa. È in stato di torpore. Polso debole, accelerato, respiro corto, rapido, pupille dilatate: tutti sintomi di un'intossicazione acuta. Quanto mi riferite del colorito, del barcollamento e del collasso; e ora il pallore... tutto indica un qualche veleno. Gli farò un'iniezione di caffeina. Qui non ho altro. — Si alzò a fatica e ripose la siringa nella valigetta. — Bisogna portarlo immediatamente in ospedale. Richiede cure immediate. Chiamerò un'ambulanza. — Si avvicinò al telefono.
Kinkaid, tornato di nuovo al suo solito atteggiamento di giocatore freddo e impassibile, si fece avanti. — Portatelo all'ospedale più vicino, il migliore che conoscete — gli chiese con tono impersonale. — Provvederò io a tutto. Il medico annuì. — Il Park End: è qui vicino. — E cominciò a comporre goffamente il numero. Vance si avviò verso la porta. — Me ne vado — disse con la faccia scura lanciando verso Kinkaid una lunga occhiata piena di sottintesi. — Lettera interessante quella che ho ricevuto, vero? Arrivederci! Pochi minuti dopo, ci ritrovammo nella Settantatreesima Strada. La notte era rigida e aveva cominciato a cadere una pioggia gelida. Mentre camminavamo verso l'automobile posteggiata a una trentina di metri dall'ingresso del Casinò, dal portone di una casa vicina emersero Snitkin ed Hennessey. — Tutto bene, signor Vance? — chiese il primo, con voce bassa e sepolcrale. — Parola mia! Che cosa fanno qui due valorosi segugi come voi, in una notte simile? — Ci ha mandato il sergente Heath, raccomandandoci di rimanere a disposizione vicino al Casinò, nel caso aveste bisogno di noi — spiegò Snitkin. — A sentir lui, voi avevate previsto che qui sarebbe capitato qualcosa. — Davvero! Ma cosa mi dite? Buffa, questa! — Vance sembrava perplesso. — Un uomo in gamba, il sergente! Comunque, tutto è sotto controllo. Vi sono maledettamente grato di essere venuti, ma non c'è ragione che vi tratteniate ancora qui. Io stesso sto andandomene a letto. Ma, invece di puntare verso casa, guidò fino all'Undicesima Strada Ovest, dove abitava Markham. Con mia grande sorpresa, il procuratore era ancora in piedi e ci introdusse cordialmente nel suo soggiorno. Appena seduti davanti ai ciocchi finti nel camino, Vance si volse verso di lui con aria interrogativa. — Snitkin ed Hennessey facevano la guardia come due angeli custodi, stasera. Conoscete per caso il motivo di una così sollecita devozione? Markham sorrise, con aria un po' imbarazzata. — A essere sincero, Vance — spiegò in tono di scusa — è dopo essere uscito da casa vostra questo pomeriggio che ho cominciato a chiedermi se
dopo tutto non ci fosse qualcosa di vero in quella lettera, così, ho chiamato il sergente Heath e gli ho riferito tutto il messaggio, per quanto mi è riuscito di ricordarlo. Gli ho anche detto che avevate deciso di andare al Casinò, stasera, per tener d'occhio il giovane Llewellyn. Immagino abbia pensato che tanto valeva mandare due uomini pronti a intervenire nel caso la lettera avesse qualche fondamento. — Questo spiega tutto — annuì il mio amico. — Non c'era alcun bisogno, comunque, delle guardie del corpo. Ma il messaggio si è dimostrato sorprendentemente profetico. — Che cosa! — Markham ruotò di scatto nella sedia. — Già, già. Un'epistola davvero premonitrice. — Vance aspirò una profonda boccata di fumo. — Lynn Llewellyn è stato avvelenato davanti ai miei occhi. Markham balzò in piedi con gli occhi sbarrati. — Morto? — Non quando l'ho lasciato. Non mi sono trattenuto molto. — Vance era pensieroso. — Era piuttosto mal ridotto, comunque. Per ora è affidato alle cure di un certo dottor Rogers che lo ha portato al Park End Hospital. Situazione maledettamente curiosa. Sono abbastanza confuso. — Si alzò a sua volta. — Aspettate un momento. — Andò nel salottino e lo sentii parlare al telefono. — Ho appena comunicato con il panciuto Esculapio che si trova ancora in ospedale — riferì poco dopo. — Le condizioni di Llewellyn sono più o meno stazionarie, il respiro è lento, poco profondo. La pressione è scesa da settanta a cinquanta, ha le convulsioni. Stanno facendo il possibile: adrenalina, caffeina, digitale e lavanda gastrica. Impossibile avere una diagnosi definitiva, naturalmente. Molto sconcertante, Markham... Proprio allora squillò il telefono. Rispose il procuratore, che uscì un minuto dopo dal salottino, pallido in volto e con profonde rughe sulla fronte. Si avvicinò al tavolo in centro come stordito. — Buon Dio, Vance! — mormorò. — Sta davvero succedendo qualcosa di diabolico. Era Heath all'apparecchio. È appena arrivata una chiamata alla Centrale. Heath me l'ha riferita, per via della lettera, immagino... Markham s'interruppe fissando nel vuoto, mentre Vance lo fissava incuriosito. — Che grave notizia aveva da darvi il nostro caro sergente? Markham rivolse lo sguardo verso il mio amico come se gli costasse molta fatica.
— La moglie di Lynn Llewellyn è morta... avvelenata! 4 LA CAMERA DELLA MORTA (Sabato, 16 ottobre, ore 1,30) Vance sollevò rapido le sopracciglia. — Accidenti! Questa non me l'aspettavo. — Si tolse la sigaretta di bocca e la guardò assorto. — Eppure... Forse c'è uno schema, un brano. Markham, il sergente vi ha detto per caso a che ora è morta la signora? — No. — Il procuratore scosse la testa con aria assente. — Prima hanno chiamato un medico, a quanto pare, e poi hanno avvertito la Centrale. Possiamo presumere che la morte sia avvenuta circa mezz'ora fa... — Mezz'ora! — Le dita di Vance tamburellavano sul bracciolo. — Proprio l'ora del collasso di Llewellyn. Strano caso di simultaneità, vero? Strano, maledettamente strano. Nessun'altra informazione? — No, nient'altro. Heath stava recandosi in automobile con alcuni dei suoi uomini a casa Llewellyn. Probabilmente richiamerà appena sarà arrivato. Vance gettò la sigaretta nel camino e si alzò. — Noi non saremo qui, in ogni caso — disse con un'intonazione insolitamente depressa, volgendosi verso Markham. — Andremo in Park Avenue a renderci conto di persona. Non mi piace questa faccenda, Markham, non mi piace affatto. C'è qualcosa di diabolico, di sinistro, perfino di anormale. L'ho intuito fin da quando ho letto quella lettera. C'è un feroce assassino in libertà e questi due avvelenamenti possono essere solo l'inizio. Un avvelenatore è il più infame dei criminali, difficile sapere fin dove si può spingere. Andiamo. Di rado l'avevo visto così turbato e insistente. Lo stesso Markham, sentendo la forza della sua determinazione e delle sue paure, si lasciò condurre senza protestare nell'automobile di Vance, fino alla vecchia dimora dei Llewellyn in Park Avenue. La casa costruita in arenaria scura si ergeva arretrata di qualche metro dalla strada. Un'alta recinzione in ferro battuto con un ampio cancello, circondava tutto il terreno su cui si trovava la villa. Il viale che portava all'ingresso principale non era asfaltato ed era fiancheggiato da una siepe potata con cura, vicino alla casa torreggiavano due cipressi. Due piccole aiuole fiorite ornavano una per lato il suolo lastricato da cui si accedeva al-
la massiccia porta di quercia. La polizia ci aveva preceduto. Appena videro il procuratore, i due agenti in uniforme che presidiavano il vialetto lo salutarono e si fecero avanti. — Il sergente Heath è appena entrato con alcuni uomini della Squadra Omicidi, capo — annunciò uno degli agenti schiacciando col pollice il campanello. La porta d'ingresso fu subito aperta da un uomo alto, magro e pallidissimo, in vestaglia a quadretti bianchi e neri. — Sono il procuratore distrettuale — gli disse Markham — e voglio vedere il sergente Heath. È arrivato pochi minuti fa, credo. L'altro s'inchinò con cerimoniosa dignità. — Certo, signore — rispose con voce untuosa caratterizzata da un lieve accento cockney. — Accomodatevi, signore... Gli agenti di polizia sono al piano superiore, nella camera della moglie del signor Lynn Llewellyn, sul lato sud del corridoio. Io sono il maggiordomo, signore, e mi hanno detto di rimanere alla porta — concluse scusandosi di non mostrarci la via. Lo superammo di un balzo e salimmo l'ampia scalinata curva vividamente illuminata. Mentre raggiungevamo il primo piano, l'investigatore Sullivan, di guardia nel corridoio del piano superiore, salutò il procuratore. — Salve, capo. Il sergente sarà felice del vostro arrivo. Sembra una brutta faccenda. — E fece strada lungo il corridoio. Sullivan aprì una porta. La stanza dove entrammo era ampia, quasi quadrata. Il soffitto era alto, una parete era ornata da un antiquato camino a intagli e pesanti tendaggi di vecchio stile pendevano alle grandi finestre chiuse con le imposte. I mobili, tutti in stile Impero, parevano autentici e costosi. Ai muri erano appese stampe antiche e rare che avrebbero costituito un vanto per qualunque museo. Sull'alto letto a baldacchino alla nostra sinistra giaceva immobile, sotto la coperta di seta in parte rivoltata, la figura di una donna sui trent'anni, le braccia stese sopra la testa, i capelli appiattiti racchiusi in una retina legata sulla nuca. La faccia, sotto un recente strato di crema per la notte, era cianotica e chiazzata, come se fosse morta in preda a una convulsione. Gli occhi ci guardavano enormi e sbarrati. Una visione sgradevole e raggelante. Nella stanza trovammo Heath, gli investigatori Burge e Guilfoyle della Squadra Omicidi e un certo tenente Smalley, del commissariato di zona. Il sergente era seduto al grande tavolo centrale. Sul ripiano di marmo c'era un'agenda. Dall'altro lato, una donna alta e vigorosa, sulla sessantina, con
un volto energico dai tratti aquilini, si sfiorava gli occhi con un fazzoletto di seta. Non l'avevo mai vista prima, ma, grazie alle fotografie apparse di tanto in tanto sui giornali, la riconobbi: era la vedova di Anthony Llewellyn. Vicino a lei, c'era una giovane donna che assomigliava singolarmente a Lynn Llewellyn. Ne dedussi, con ragione, che era la sorella Amelia. I capelli neri, spartiti nel mezzo, erano pettinati all'indietro sulle orecchie e raccolti in un nodo intrecciato quasi sulla nuca. Il volto, dai tratti forti e aquilini come quelli materni, denotava una marcata durezza nell'espressione quasi sprezzante. Al nostro ingresso, ci guardò con occhio freddo, indifferente. Pareva quasi annoiata. Come la vecchia signora Llewellyn, indossava una vestaglia di seta trapuntata con maniche a chimono. Davanti al camino, un uomo snello e nervoso, sui trentacinque anni, vestito in abito da sera, fumava una sigaretta infilata in un lungo bocchino d'avorio. Era il dottor Allan Kane, come ben presto venimmo a sapere, amico della signorina Amelia. Abitava a un isolato di distanza. Chiamato dalla ragazza, aveva provveduto a informare la polizia del decesso. Pareva agitato, ma serbava un'aria di serietà professionale sulla faccia accesa e, pur spostando di continuo il peso del corpo da un piede all'altro, ci squadrò attentamente con uno sguardo diretto e penetrante. Al nostro ingresso, il sergente si alzò per salutarci. — Speravo che sareste venuto, signor Markham — disse con sollievo palese. — Ma non mi aspettavo di vedere il signor Vance. Pensavo fosse al Casinò. — C'ero, sergente — rispose il mio amico a bassa voce in tono serio. — E grazie infinite per Snitkin ed Hennessey. Ma non ne ho avuto bisogno. — Lynn! — Quel nome, come un grido d'agonia, squarciò l'atmosfera opprimente della stanza. Era stata la signora Llewellyn a pronunciarlo. — Avete visto mio figlio, là? — domandò a Vance con la faccia distorta dall'angoscia. — E stava bene? Vance considerò la donna per diversi secondi, come per decidere la risposta. Poi, con aria comprensiva, ma con risoluta precisione: — Mi duole dirvi, signora, che anche vostro figlio è stato avvelenato. — Morto? Mio figlio? — Fui percorso da un brivido a quelle parole dette con voce intensa. Vance scosse la testa, gli occhi fissi sulla madre straziata. — No, secondo le ultime notizie. È affidato alle cure di un medico al Park End Hospital.
— Devo andarci subito! — gridò la donna, lanciandosi verso la porta. Ma Vance la trattenne gentilmente. — No. Non ora, vi prego — le disse con voce cortese, ma ferma. — Non potreste far nulla. E c'è bisogno di voi qui, al momento. Tra poco mi metterò in comunicazione con l'ospedale per farvi avere notizie. Mi rincresce di avervi dovuto dare questa triste notizia, signora: ma prima o poi l'avreste saputo. Vi prego, sedetevi e aiutateci. La donna si ricompose e serrò la bocca con spartana forza d'animo. — Nessuno dirà che noi Llewellyn ci siamo mai tirati indietro di fronte al dovere — dichiarò in tono severo e sedette rigida ai piedi del letto. Amelia aveva osservato la madre con cinica indifferenza. — Tutto questo è molto nobile — commentò scrollando le spalle. — "Noi Llewellyn", la solita formula magica. Firmitas et fortitudo, il motto di famiglia. Un grifone rampant, o couchant, non mi ricordo più quale dei due. Comunque sia solo una chimera. Tipico della nostra famiglia: capace di tutto e di niente. — Forse il grifone dei Llewellyn è sejeant — suggerì Vance guardando dritto la ragazza. Amelia trattenne il respiro, gli restituì lo sguardo per qualche secondo, quindi rispose cinicamente: — Può anche essere, in effetti. I Llewellyn sono piuttosto volubili. Vance continuò a osservarla e, dopo poco, la ragazza gli si avvicinò con un sorriso forzato. — Così, il caro, piccolo Lynn, il figlio modello, è stato avvelenato? — disse, e il sorriso svanì dalle sue labbra. — Qualcuno, evidentemente, è deciso a compiere un lavoro definitivo. Non mi sorprenderebbe se io fossi la prossima. Ci sono troppi maledetti soldi in questa famiglia. Lanciò un'occhiata beffarda alla madre che la guardò furente; poi, seduta sul bordo del tavolo, si accese una sigaretta. Markham era impaziente e infastidito. — Continuate con il vostro lavoro, sergente — ordinò brusco. — Chi ha trovato questa donna? — E indicò il letto con un gesto di disgusto. — Io. — Amelia divenne seria, il seno le si alzò e abbassò per il respiro fattosi affannoso. — Ah! — Vance si sedette a studiarla con aria perplessa. — E se ci informaste sulle circostanze, signorina Llewellyn? — Siamo andati tutti a letto verso le undici — cominciò lei. — Lo zio Dick e il signor Bloodgood erano andati al Casinò subito dopo cena. Lynn
li ha seguiti un'ora dopo. E Allan, il dottor Kane qui presente, doveva fare alcune telefonate, così è uscito con Lynn... — Un momento — l'interruppe Vance, alzando la mano. — A quanto ho capito, la cena di stasera aveva il carattere di una ricorrenza familiare. Il dottor Kane era presente? — Sì, era con noi. — La ragazza annuì amara. — Sapevo a che cosa si sarebbe ridotto quest'altro, ennesimo anniversario... liti, recriminazioni, diatribe. E poi ero nervosa. Così, all'ultimo momento, gli ho chiesto di venire. Pensavo che la sua presenza avrebbe potuto frenare l'animosità. Naturalmente, c'era anche Morgan Bloodgood, ma lui è come uno della famiglia, non esitiamo mai a dar sfogo ai nostri contrasti in sua presenza. — E il dottor Kane ha esercitato un freno sulla riunione di stasera? — Temo di no. C'erano troppi impulsi repressi che dovevano trovare uno sbocco. Vance esitò prima di proseguire il suo interrogatorio: — Così, Lynn, vostro zio e gli altri se ne sono andati; e voi, vostra cognata e vostra madre vi siete ritirate verso le undici. Poi cosa è successo? — Ero turbata, inquieta, non riuscivo a dormire. Mi sono alzata verso mezzanotte e ho cominciato a disegnare. Ho lavorato circa per un'ora e avevo appena deciso di tornare a letto, quando ho sentito Virginia lanciare un grido isterico. La mia camera è in quest'ala della casa ed è divisa dalla sua da un breve corridoio privato che uso come guardaroba. — Indicò, con un movimento della testa, una porta in fondo alla stanza. — Avete sentito gridare vostra cognata al di là delle due porte e del corridoio? — Normalmente, non avrei potuto sentirla — concesse la ragazza — ma ero appena entrata nel guardaroba per appendere la vestaglia. — E cosa avete fatto dopo? — Mi sono avvicinata alla porta per ascoltare: sembrava che Virginia stesse soffocando. Ho saggiato la maniglia... la porta non era chiusa a chiave... — Era insolito che quella porta non fosse chiusa? — No. La chiudeva di rado. — Continuate, vi prego. — Bene, Virginia era distesa sul letto, come la vedete ora. Aveva gli occhi sbarrati, la faccia terribilmente rossa ed era in preda a una convulsione spaventosa. Sono uscita di corsa nel corridoio a chiamare mia madre. Lei è entrata, l'ha vista e mi ha detto: "Amelia, chiama un dottore"; e io ho tele-
fonato subito al dottor Kane. Abita a poca distanza da qui, è venuto subito. Prima che avessi concluso la telefonata, Virginia ha perso conoscenza. È rimasta immobile, troppo immobile. Ho subito capito che era morta... — La ragazza rabbrividì involontariamente e la sua voce si spense. — E voi, dottor Kane? — Vance si rivolse al medico, in piedi presso il camino. Kane si fece avanti con aria ansiosa e con mano tremante si tolse il bocchino dalle labbra. — Quando sono arrivato, signore, pochi minuti dopo — esordì con una studiata espressione di dignità professionale — la signora Llewellyn, la signora Virginia Llewellyn, ovviamente, era morta. Aveva gli occhi fissi, le pupille erano così dilatate che a stento si scorgeva l'iride e presentava un'estesa eruzione cutanea scarlattiniforme. Mi è parso che la temperatura corporea avesse subito un aumento post-mortem. La posizione delle braccia e la torsione dei muscoli facciali e del collo indicavano una convulsione e la morte per asfissia. Mi sembra che possa trattarsi di un qualche veleno del gruppo della belladonna: ioscina, atropina o scopolamina. Non ho mosso il corpo e ho avvertito la signora Llewellyn e la figlia di non toccarlo. Poi, ho subito telefonato alla polizia. — Molto giusto — mormorò Vance. — E poi avete aspettato il nostro arrivo? — Naturalmente. — Kane aveva recuperato gran parte del suo autocontrollo, ma respirava a fatica e aveva la faccia ancora arrossata. — E non è stato toccato niente nella stanza? — Niente. Sono rimasto qui tutto il tempo e la signorina Llewellyn e la madre hanno aspettato qui con me. Vance annuì. — A proposito, dottore — domandò — voi usate una macchina per scrivere? Kane ebbe un lieve scatto. — Be', sì — balbettò. — Ero abituato a battere i miei compiti all'università. Non che fossi molto abile, comunque. Io... io non capisco. Ma se la mia attività di dattilografo può esservi di aiuto... — Solo una domanda oziosa — rispose Vance con noncuranza, rivolgendosi quindi a Heath. — Il medico legale è stato avvisato? — Sicuro. — Il sergènte, con aria scura, masticava nervosamente il sigaro. — L'avviso è partito dalla centrale, secondo la solita prassi, però io ho telefonato a Doremus a casa sua... non mi piace quel che sta succedendo,
stasera... — E lui probabilmente si sarà molto seccato — suggerì il mio amico. Il sergente grugnì. — Potete scommetterci. Ma gli ho detto che forse ci sarebbe stato il signor Markham e lui ha risposto che sarebbe venuto. Dovrebbe arrivare tra poco. Vance si alzò e si mise di fronte a Kane. — Credo che sia tutto per ora, dottore. Ma devo chiedervi di rimanere finché non arriverà il medico legale. Potreste essergli di aiuto. Vi dispiacerebbe aspettare nel soggiorno al pian terreno? — No di certo. — Kane s'inchinò rigidamente e si avviò verso la porta. — Sarò felice di collaborare in qualunque modo mi sia possibile. Appena fu uscito, Vance si rivolse alle due donne. — Mi dispiace dovervi chiedere di non coricarvi, ma temo che sia necessario. Vorreste essere così gentili da aspettare nelle vostre stanze? — C'era, nella sua inflessione, distaccata ma cortese, un tono di comando sottinteso. La signora Llewellyn si alzò saettando fiamme dagli occhi. — Perché non posso andare da mio figlio? — domandò. — Qui non posso fare nient'altro. Non so niente di tutta questa faccenda. — Non sareste di alcun aiuto a vostro figlio — rispose Vance con fermezza — mentre potreste esserci utile. Però, come vi ho promesso, chiederò notizie all'ospedale per rassicurarvi. Poco dopo, parlava con il signor Rogers dal telefono sul comodino. Quando abbassò la cornetta, si rivolse alla padrona di casa con aria incoraggiante: — Vostro figlio è uscito dal coma, signora. Respira normalmente, il polso è più sostenuto e sembra fuori pericolo. Se dovesse esserci qualche peggioramento, vi avvertiranno immediatamente. La signora Llewellyn si portò il fazzoletto alla faccia e uscì singhiozzando. Amelia non se ne andò subito. Attese che la porta si chiudesse, poi guardò Vance con espressione perplessa. — Perché avete chiesto al dottor Kane se usava una macchina per scrivere? — domandò con voce atona e metallica. Vance estrasse la lettera che l'aveva coinvolto nella vicenda e gliela tese senza una parola, osservandola con gli occhi socchiusi mentre la leggeva. La ragazza, malgrado la contrazione ansiosa del viso, non mostrò alcuna sorpresa. Giunta alla fine, ripiegò con calma studiata i due fogli, ridandoli
a Vance. — Grazie — disse e si avviò verso il corridoio che portava in camera sua. — Un momento, signorina Llewellyn — la richiamò Vance, costringendola a voltarsi proprio mentre metteva la mano sulla maniglia della porta. — Usate anche voi una macchina per scrivere? La ragazza annuì senza reagire. — Oh, sì. Ne ho una piccola per sbrigare la mia corrispondenza. Però... — soggiunse con un sorriso stanco — sono molto più pratica della persona che ha battuto la lettera. — E anche gli altri membri della famiglia hanno la stessa abitudine? — Sì... siamo tutti molto aggiornati. — La giovane Llewellyn non pareva dar peso alla questione. — Perfino la mamma batte a macchina le sue conferenze. E lo zio Dick, che ai suoi tempi ha scritto dei libri, ha messo a punto un rapido, anche se poco elegante sistema a due dita. — E vostra cognata, ne usava una anche lei? La ragazza volse gli occhi verso il letto e sbatté le palpebre. — Sì. Virginia pasticciava con la macchina quando Lynn era fuori a giocare. Lo stesso Lynn è un ottimo dattilografo. Una volta ha frequentato una scuola commerciale, probabilmente pensava di essere chiamato prima o poi a occuparsi del patrimonio dei Llewellyn. Ma la mamma la pensava diversamente; così, lui si è dedicato ai night-club. — (Nel suo atteggiamento c'era un curioso distacco che, allora, mi riuscì indecifrabile.) — Rimane solo il signor Bloodgood... — cominciò Vance, ma la ragazza l'interruppe subito. — Anche lui batte a macchina. — Vedendo i suoi occhi scurirsi lievemente, sentii che il suo atteggiamento verso il croupier non era del tutto amichevole. — Ha battuto sulla macchina che è al pian terreno quasi tutti i rapporti di quel suo lavoro sulle slot-machine. Vance inarcò le sopracciglia con moderato interesse. — C'è una macchina per scrivere al pian terreno? La ragazza annuì di nuovo, scrollando le spalle come se il punto non la riguardasse affatto. — Ce n'è sempre stata una, nella piccola biblioteca, vicino al salotto. — Pensate che quella lettera sia stata battuta sulla vostra macchina? — Può darsi. — Amelia sospirò. — Ha gli stessi caratteri e lo stesso nastro colorato... Ma ce ne sono così tante dello stesso genere! — E forse — proseguì Vance — potreste suggerirci chi è l'autore del
messaggio. La faccia della signorina Llewellyn si rannuvolò, mostrando di nuovo una certa durezza nello sguardo. — Potrei fornire molti suggerimenti — rispose con voce piatta e irritata. — Ma non ho alcuna intenzione di farlo. — E aprendo la porta con decisione rapida, uscì dalla stanza. — Una caterva d'informazioni! — sbuffò Heath con pesante sarcasmo. — Questa casa è un covo di dattilografi. Vance l'osservò indulgente. — Ne ho saputo un bel po', invece. Heath spostò il sigaro tra i denti con una leggera smorfia. — Forse sì e forse no — brontolò. — Un caso assurdo, comunque, se volete sapere la mia opinione. Llewellyn viene avvelenato al Casinò e lo stesso trattamento viene contemporaneamente riservato qui alla moglie. Secondo me, c'è una banda all'opera. — Sergente — rispose blando il mio amico — i due atti potrebbero essere opera della stessa persona. In effetti, penso che si tratti di un solo individuo: quello che mi ha spedito la lettera. Un momento... Si avvicinò al comodino e, spostato il telefono, prese un foglietto ripiegato. — L'ho visto quando ho chiamato l'ospedale. Ma non l'ho guardato di proposito finché le signore non sono uscite. L'aprì tenendolo sotto la lampada accesa sul tavolo. Dalla mia posizione, potei vedere che si trattava di un messaggio battuto a macchina su un foglio di carta azzurrino. — Oh, perdiana — mormorò Vance. — Stupefacente! Lo passò a Markham che lo tenne in modo che Heath e io, in piedi alle sue spalle, potessimo leggere. Il testo era malamente scritto: Caro Lynn, non posso renderti felice e lo sa il cielo se qualcuno in questa casa ha tentato mai di rendere me felice. Lo zio Dick qui è l'unica persona che sia stata gentile o rispettosa nei miei confronti. Non mi sento desiderata e tutto mi riesce insopportabile. Ho deciso di avvelenarmi. Addio. Che il tuo nuovo sistema per la roulette possa darti il denaro che sembra starti a cuore più di ogni altra cosa. Anche la firma, "Virginia", era battuta a macchina.
Markham ripiegò il foglio e si morse le labbra, poi, dopo aver osservato Vance a lungo, commentò: — Questo sembra semplificare la faccenda. — Caro amico! — protestò l'altro. — Questo biglietto non fa che complicare la situazione. 5 VELENO! (Domenica, 16 ottobre, ore 2,15) In quel momento Sullivan aprì la porta e lasciò entrare il dottor Doremus, un uomo disinvolto e spigliato con un'aria seria e professionale. Indossava un soprabito di tweed e il feltro grigio perla poggiava un po' inclinato sulla testa con un tocco di vanità. Ci salutò con teatrale costernazione e poi ammiccò impertinente all'indirizzo di Heath. — Quando non mi chiamate a vedere i vostri cadaveri alle ore dei pasti — si lamentò in un maligno falsetto — aspettate che dorma profondamente e mi buttate giù dal letto. Accidenti! È una cospirazione per privarmi di cibo e di riposo. Sono tre anni che faccio questo lavoro e sono invecchiato di venti. — Sembrate ancora abbastanza giovane e scattante — sogghignò il sergente, ormai abituato da tempo alle lamentele del medico legale. — Be', non è certo per il cortese riguardo mostrato dai cari ragazzi della Squadra Omicidi, per Giove! — sbottò l'altro. — Dov'è il cadavere? — Saettò con gli occhi per la stanza, posandoli infine sulla figura immobile di Virginia Llewellyn. — Una signora, eh? Di cosa è morta? — Questo ce lo dovete dire voi. — A un tratto, Heath era divenuto aggressivo. Con un brontolio, Doremus si tolse cappotto e cappello lasciandoli su una sedia prima di avvicinarsi al cadavere. Per dieci minuti esaminò la giovane donna morta e, ancora una volta, fui impressionato dalla sua competenza e accuratezza. Nonostante quei suoi modi noncuranti e il suo atteggiamento cinico, era un medico di vaglia, uno dei migliori e fra i più coscienziosi che New York abbia mai avuto in quel campo. Mentre il dottore era impegnato nella sua macabra incombenza, Vance ispezionò rapidamente la stanza. Si avvicinò al comodino dove si trovava un servizio d'argento per l'acqua, simile a quello nell'ufficio di Kinkaid al Casinò. Prese i due bicchieri, li esaminò: entrambi sembravano vuoti e
vuota era la caraffa che rovesciò dopo aver tolto il tappo, poi la rimise sul vassoio con la fronte aggrottata. Infine, dopo aver controllato l'interno del cassetto, andò in fondo alla camera verso la porta socchiusa del bagno. — Il servizio, stasera — osservò rivolto a Markham — è stato deplorevole. La caraffa dell'acqua di Kinkaid era vuota ed è vuota anche quella di Virginia Llewellyn. Strano, non vi sembra? A proposito, il cassetto del comodino contiene solo un fazzoletto, un mazzo di carte, probabilmente per fare i solitari, una matita con un blocchetto, un bastoncino di pomata per le labbra e un paio di occhiali da vista. Niente di letale. Seguii Vance nel bagno: quando aveva cominciato la sua ispezione sapevo che aveva un'idea precisa: quel suo atteggiamento apparentemente indolente e distratto che sempre assumeva nei momenti di maggiore tensione ne era la prova evidente. Il bagno, assai grande e interamente rimodernato, aveva due piccole finestre rivolte sulla corte a sud. Era una stanza disposta con cura e molto ordinata. Accesa la luce, Vance scrutò l'ambiente. Su un davanzale, c'era un piccolo nebulizzatore e un tubetto di tavolette di sali da bagno. Il mio amico schiacciò la pompetta e annusò l'essenza. — Fleur-de-lis di Derline, Van — annunciò. — Ideale per le bionde. — Poi lesse l'etichetta sul tubetto. — Fleur-de-lis di Derline. Più che giusto e coerente. Ahimè, troppe donne commettono l'errore fatale di scegliere dei sali da bagno che non s'adeguano al loro profumo. Aprì lo sportello dell'armadietto dei medicinali ed esaminò ciò che conteneva. Nulla d'inusuale: crema idratante, crema per la pulizia del viso, una lozione in bottiglia, acqua da toilette, talco e sali da bagno, un deodorante, un tubetto di pasta dentifricia, il filo interdentale, il termometro e il solito arsenale di medicine - aspirina, bicarbonato di sodio, canfora, soluzione di Dobell, risciacqui per la gola, glicerina, argirolo, essenza aromatica di ammoniaca, latte di magnesia, pillole di bromuro, un normale collirio con tappo a cappuccio, alcool, acqua ossigenata e così via. Vance impiegò diverso tempo a esaminare ogni articolo. Infine, prese una bottiglietta marrone con un'etichetta stampata e, incastrato con cura il monocolo, lesse gli esili caratteri della formula. Dopo di che, intascò la bottiglietta, chiuse l'armadio e tornò nella camera da letto. Il dottor Doremus stava appena ricoprendo con il lenzuolo la forma immobile sul letto. Poco dopo, si voltò verso Heath con studiata ferocia. — Ebbene? — chiese stizzoso, aprendo le mani con un gesto si perplessità. — È morta, se è questo che volete sapere. Mi avete tirato fuori dal let-
to alle due del mattino per confermarvi questa ovvietà. Il sergente si tolse adagio il sigaro di bocca e, scuro in faccia, guardò il medico legale. — D'accordo, dottore — ammise. — È morta, come dite voi. Ma da quanto? E che cosa l'ha uccisa? — Me l'aspettavo — sospirò l'altro, riacquistando subito la serietà professionale. — Ebbene, sergente, è morta avvelenata da circa due ore. Ora, immagino, vorrete che vi dica che veleno ha preso — seguitando a fissare Heath. Vance s'interpose tra i due. — Un dottore chiamato d'urgenza — spiegò gravemente a Doremus — ha avanzato l'ipotesi che sia morta per uno dei veleni nel gruppo della belladonna. — Qualunque studente del terz'anno lo capirebbe — replicò il medico legale. — Sicuro, è un avvelenamento da belladonna. Quel vostro medicastro è arrivato in tempo per osservare l'aumento della temperatura postmortem? Vance annuì. — È giunto dieci minuti dopo il decesso. — Bene, ecco fatto. — Doremus indossò il cappotto e aggiustò con cura il cappello di sbieco sulla testa. — Tutti i sintomi: occhi sbarrati, pupille molto dilatate, macchioline sulla pelle, aumento di temperatura, tracce di convulsione e asfissia... Semplice. — Oh, certo, certo. — Vance estrasse la bottiglietta presa nel bagno e la porse a Doremus. — Queste pillole potrebbero essere state la causa della morte? — chiese. Doremus guardò da vicino l'etichetta e la formula stampata. — Pillole per la cura della rinite... medicine casalinghe. — Ammiccò tenendo il flacone sotto il raggio della lampada da tavolo. — Canfora in polvere — lesse poi ad alta voce — estratto di radice di belladonna e solfato di chinina. Certo, è possibile, ammesso che fossero ingerite in quantità sufficiente. — La bottiglietta è vuota. Originariamente conteneva cento pillole. Il dottor Doremus annuì, scrutando ancora l'etichetta. — Cento pillole equivalgono secondo quanto dice l'etichetta a una quantità di belladonna sufficiente a stendere chiunque. — Restituì la bottiglietta a Vance. — Ecco la risposta. Perché svegliarmi nel cuore della notte quando sapevate già tutto?
— In realtà, dottore — rispose l'altro senza scomporsi — stiamo solo saggiando il terreno. Ho appena trovato questa bottiglia vuota, vedete, e ho semplicemente avanzato un'ipotesi. — Per me va benissimo. — Doremus andò alla porta. — Solo un esame post-mortem risponderà definitivamente alla vostra domanda. — È proprio questo che vogliamo, dottore — intervenne bruscamente Markham. — Quando potremo avere il referto dell'autopsia, al più presto? — Oh, cielo! — Il medico strinse i denti. — Domani è domenica. Questa fretta moderna mi ucciderà in breve tempo. Che ne dite delle undici di domani mattina? — Ne saremmo soddisfatti — rispose il procuratore. Il dottor Doremus prese un taccuino dalla tasca e, dopo aver scritto poche parole strappò la pagina e la diede al sergente. — Ecco il vostro ordine per la rimozione del cadavere. Heath intascò il foglietto. — Il corpo arriverà all'obitorio prima di voi — borbottò. — Questa è un'intimidazione. — Il medico guardò il sergente di traverso. — E ora me ne tornerò a dormire. Se anche dovesse verificarsi un massacro stanotte non mi rivedrete fino alle nove del mattino. — Agitò la mano in un gesto di saluto a tutta la compagnia e uscì di volata. Quando la porta sbatté alle spalle del medico legale, Markham si rivolse all'amico con aria grave. — Dove avete trovato quella bottiglia, Vance? — Di là nel lavatorium. È la sola cosa che mi è sembrata minimamente sospetta. — Considerata insieme a quell'annuncio del suicidio che avete rinvenuto, sembrerebbe fornire una spiegazione semplice di questa orribile faccenda. Vance fissò a lungo il procuratore, poi, seguitando a fumare, percorse avanti e indietro la stanza, la testa china in atteggiamento meditativo. — Non ne sono così sicuro, Markham — mormorò, quasi tra sé e sé. — Spiega in modo specioso la morte di questa giovane donna nel suo letto. Ma cosa mi dite di quel poveretto in ospedale? Non è stata la belladonna ad avvelenarlo e di certo lui non aveva alcun impulso suicida. Stava giocando per vincere, stasera; e il suo sciocco sistema sembrava funzionare. Eppure, nel bel mezzo, sviene... No, no. La bottiglia vuota delle pillole per curare la rinite è troppo semplice. Questo caso non è affatto semplice. È
gremito di ombre e di false piste, nasconde sottigliezze e circonvoluzioni... — Dopo tutto, voi avete trovato la bottiglia... — cominciò Markham, ma Vance l'interruppe. — Può essere stata messa lì proprio per farcela trovare. Combacia troppo con il quadro. Ne sapremo di più, o di meno, domani mattina quando Doremus ci darà il suo referto. Il procuratore era stizzito. — Perché pensare a ogni costo che ci sia un mistero? — Mio caro Markham! — lo rimproverò Vance, che subito dopo parve assorbirsi nella prolungata contemplazione di una delle stampe del diciottesimo secolo appese sopra il camino. Heath, nel frattempo, aveva chiesto per telefono al dipartimento della sanità un'ambulanza per il trasporto del cadavere. Al termine della comunicazione, parlò con il tenente Smalley del commissariato locale, rimasto a osservare in silenzio gli sviluppi in un angolo della stanza. — È tutto, tenente. Il signor Markham è qui e non ci resta che attenerci alla solita routine finché il dottor Doremus non farà l'autopsia. Ma sarà bene lasciare un paio dei vostri uomini di guardia all'esterno. — Qualunque cosa desideriate, sergente. — Smalley strinse la mano a tutti quanti e uscì con evidente sollievo. — Possiamo andarcene anche noi — disse il procuratore. — Voi, naturalmente, siete incaricato del caso, sergente... Domani mattina, prima di tutto, prenderò disposizioni con l'ispettore. — Markham — s'intromise Vance — non è il caso di andarcene via così presto. Non mi dispiacerebbe appurare qualche fatto, e dato che siamo qui stasera... — Che cosa vorreste sapere, per esempio? — sbottò, impaziente, il procuratore. Vance si distolse dall'ammirazione della stampa e guardò tristemente la giovane donna morta. — Vorrei scambiare ancora qualche parola con il dottor Kane prima di eclissarci nella gelida nebbia. Markham fece una smorfia, ma poi annuì, seppure a malincuore. — È da basso. — E aprì la via verso il corridoio. Quando entrammo nel salotto, il dottor Kane camminava nervosamente avanti e indietro. — Qual è il responso? — domandò prima che Vance avesse modo di parlare.
— Il medico legale ha semplicemente confermato la vostra diagnosi, dottore — rispose il mio amico. — L'autopsia sarà effettuata al più presto. In mattinata. A proposito, dottore, voi siete il medico di famiglia dei Llewellyn? — Non esattamente. Non credo che abbiano un medico che li visiti regolarmente. Non hanno bisogno di assistenza medica. Sono una famiglia molto sana. Di tanto in tanto, comunque, prescrivo qualche medicina per malanni di poco conto... ma come amico, più che in veste professionale. — E avete scritto qualche ricetta per loro, di recente? Kane si concesse un attimo di riflessione. — Nulla d'importante — rispose. — Ho suggerito un ricostituente a base di ferro, il Blaud's Mass, e della stricnina per la signora Llewellyn qualche giorno fa... — Lynn Llewellyn ha qualche malattia costituzionale che potrebbe provocargli un collasso in uno stato di particolare eccitazione? — l'interruppe Vance. — No-o. Ha il cuore ipertrofico e la pressione inevitabilmente alta, una conseguenza dell'atletica praticata all'università... — Angina? Il medico scosse la testa. — Niente di così serio, benché possa ingenerarsi in futuro. — Gli avete mai prescritto dei farmaci? — Circa un anno fa gli ho ordinato di prendere qualche pillola di nitroglicerina: tre decimilligrammi. Ma nient'altro. — Nitroglicerina, eh? — Un lampo d'interesse animò la fiamma che covava negli occhi di Vance. — Un'informazione davvero importante. E la moglie, siete mai stato chiamato per visitarla? — Oh, una volta o due — rispose l'altro, agitando con noncuranza il bocchino. — Aveva gli occhi piuttosto delicati e ho raccomandato un collirio comune. So per esperienza — aggiunse in tono pomposo — che le bionde con capelli molto chiari e gli occhi azzurri accusano questi disturbi più facilmente delle brune... carenza di pigmento, sapete... — Non perdiamoci nei problemi dell'oftalmologia — tagliò corto il mio amico, con un sorriso accattivante. — Si sta facendo spaventosamente tardi. Che altro avete prescritto alla moglie di Lynn Llewellyn? — Questo è tutto, davvero. — Kane, con tutta la sua affettata compostezza, stava innervosendosi. — Ho raccomandato un unguento per un lieve eritema a una mano diversi mesi fa, e la scorsa settimana, quando ha
avuto un noioso raffreddore di testa, le ho indicato un rimedio contro la rinite. Non ricordo nient'altro. — Pillole contro la rinite? — Vance seguitava a fissare il suo interlocutore. — Quante gliene avete consigliate? — Oh, la solita dose — rispose il medico, con forzata indifferenza — una o due pillole ogni due ore. — Quasi tutte le pillole contro la rinite contengono la belladonna, sapete — osservò Vance con voce dura e senza inflessioni. — Be', sì. Naturalmente... — Kane spalancò d'improvviso gli occhi e fissò Vance con un'espressione intensa, impaurita. — Ma... ma, veramente... — balbettò e si interruppe. — Nel suo armadietto dei medicinali abbiamo trovato un flacone vuoto da cento pillole — lo informò Vance senza distogliere lo sguardo. — E, secondo la vostra stessa diagnosi, la signora Llewellyn è morta per avvelenamento da belladonna. Kane lasciò ricadere la mascella e impallidì. — Mio Dio! — mormorò. — Non... non può averlo fatto. — Tremava visibilmente. — Lo sapeva... e io sono stato molto esplicito... — Nessuno può biasimarvi nelle circostanze, dottore — lo confortò Vance. — Ditemi, la signora Llewellyn era una paziente assennata e coscienziosa? — Sì, molto. — Kane s'inumidì le labbra con la lingua, facendo uno sforzo coraggioso per controllarsi. — Badava sempre a seguire le mie indicazioni senza discutere. Ricordo ora che l'altro giorno mi ha telefonato, chiedendomi se poteva prendere una pillola in più prima che fosse trascorso l'intervallo di due ore. — E il collirio per gli occhi? — domandò Vance con tono ostentatamente distratto. — Sono sicuro che ha seguito il mio consiglio — rispose il dottore in tono convinto. — Anche se, naturalmente, si tratta di una soluzione assolutamente innocua. — E che cosa le avete consigliato al riguardo? — Le ho detto di inumidirsi gli occhi ogni sera prima di andare a letto. — Quali erano le componenti dell'unguento che le avete raccomandato per la mano? Kane parve sorpreso. — Credo proprio di non saperlo — rispose malcerto. — I soliti, semplici emollienti, suppongo. Era un preparato in vendita in qualunque farmacia
che conteneva probabilmente ossido di zinco e lanolina. Non poteva certo esserci qualcosa di nocivo. Vance si avvicinò alla finestra davanti e guardò fuori. Era perplesso e turbato. — La vostra assistenza medica a Lynn Llewellyn e a sua moglie non si è spinta oltre? — domandò, tornando adagio verso il centro della stanza. — No! — La voce di Kane, benché tremante, aveva una forza innegabile. Vance indugiò brevemente con lo sguardo sul giovane dottore. — Credo sia tutto — concluse. — Non possiamo fare di più, qui, stasera. Kane trasse un profondo sospiro di sollievo e andò alla porta. — Buonanotte, signori — annunciò, con un'occhiata interrogativa a Vance. — Vi prego di rivolgervi a me se posso esservi di qualche aiuto. — Aprì, quindi si trattenne esitante. — Vi sarò molto grato se mi farete sapere il risultato dell'autopsia. Vance s'inchinò con aria distaccata. — Ne saremo felici, dottore. E le nostre scuse per avervi tenuto in piedi fino a quest'ora tarda. Kane rimase immobile per un attimo, dandomi l'impressione di voler aggiungere qualcosa, ma d'improvviso uscì e subito dopo sentimmo i passi del maggiordomo, venuto a infilargli il cappotto. Vance rimase per un pezzo vicino al tavolo, lo sguardo fisso davanti a sé, mentre con le dita percorreva il disegno intagliato nel legno. Poi, senza spostare gli occhi, sedette ed estrasse con movimenti lenti e precisi il portasigarette. Markham, che era rimasto in piedi vicino alla porta durante questo breve colloquio, osservando attentamente l'amico e il medico, attraversò la stanza e andò ad appoggiarsi alla mensola del camino di marmo. — Vance — annunciò — comincio a capire cosa avete in mente. L'altro alzò lo sguardo e sospirò a fondo. — Davvero, Markham? — Scosse la testa. — Siete assai più perspicace di me. Darei il mio vaso ting-yao per sapere cosa ho in mente. È tutto molto sconcertante. Ogni tassello combacia... un mosaico perfetto. Ed è questo che mi fa paura. Scosse appena la testa come a cacciare l'intrusione di qualche pensiero spiacevole e si avvicinò all'ingresso, chiamando il maggiordomo. — Vi prego, dite alla signorina Llewellyn — chiese al domestico appena
apparve — credo sia nella sua stanza, che le saremmo molto grati se venisse in salotto. Quando l'uomo si diresse verso la scala, Vance si accostò al camino e rimase in piedi accanto al procuratore. — Ci sono alcuni altri dettagli che vorrei sapere prima di andarcene — spiegò preoccupato e inquieto. Di rado l'avevo visto in uno stato d'animo simile. — In nessuno dei casi in cui vi ho aiutato, Markham, ho sentito con altrettanta forza la presenza di una personalità distruttiva così intelligente e sottile. Non una volta si è manifestata in tutti i tragici eventi di stasera; ma so che c'è e se la ride di noi, sfidandoci a scoprire questo suo piano infernale. Tutti gli elementi della sua trama sono, in apparenza, ovvii e banali... ma ho la sensazione che siano dei cartelli che ci spingono lontano dalla verità. — Fumò per un poco in silenzio, quindi aggiunse: — E il lato più diabolico è che non si aspetta neppure che noi seguiamo le indicazioni... Si udì un debole rumore di passi giù per le scale e un attimo dopo Amelia Llewellyn apparve sulla soglia del salotto. 6 UN GRIDO NELLA NOTTE (Domenica, 16 ottobre, ore 3) Invece della vestaglia trapuntata, indossava un comodo pigiama di satin nero. Mi accorsi che si era data di recente una rinfrescata al trucco con belletto, cipria e rossetto. Fumava una sigaretta infilata in un bocchino di ebano intagliato. E, mentre stava di fronte a noi, inquadrata negli stipiti color avorio della porta, componeva una sorprendente immagine che, in qualche modo, mi ricordava uno degli spettacolari manifesti dipinti da Zuloaga. — Ho ricevuto la vostra ingiunzione verbale dal nervoso eppur elegante Crichton (il nostro maggiordomo in realtà si chiama Smith) ed eccomi qui. — Parlava con tono mondano e malizioso. — Bene, a che punto siamo? — Noi preferiamo di gran lunga non stare in piedi, signorina Llewellyn — riprese Vance, pregandola con un gesto serio e autorevole di sedersi in poltrona. — Molto obbligata. — La ragazza prese posto e accavallò le gambe. — Sono terribilmente stanca, mi capite, vero? Tutte queste insolite emozioni! Vance le sedette di fronte. — Signorina Llewellyn — le chiese — vi è venuto in mente che la moglie di vostro fratello potrebbe essersi suicidata?
— Santo cielo, no! — La ragazza si chinò in avanti meravigliata, dubbiosa. All'improvviso il suo atteggiamento cinico era scomparso. — Non vi risulta alcun motivo, allora, per cui avrebbe potuto togliersi la vita? — proseguì Vance. — Non ne aveva più di chiunque altro. — Amelia Llewellyn guardava pensosa davanti a sé. — Noi tutti potremmo avere qualche buona ragione per meditare il suicidio. Virginia non aveva alcuna preoccupazione. C'era chi provvedeva largamente per lei e viveva con maggior agio, da un punto di vista materiale, di quanto le fosse mai capitato. — (L'osservazione era marcatamente sarcastica.) — Aveva conosciuto assai bene Lynn prima di sposarlo e deve aver valutato prima di farlo ogni vantaggio e svantaggio. Considerando che non avevamo particolare simpatia per lei, la trattavamo più che civilmente, specie la mamma. Ma del resto Lynn è sempre stato il preferito di mia madre e lei tratterebbe con rispettosa gentilezza anche un boa constrictor, se fosse Lynn a portarlo in casa. — Eppure — suggerì Vance — anche in simili circostanze le persone a volte si suicidano, sapete. — Verissimo. — La ragazza scrollò le spalle. — Ma Virginia era troppo vile per togliersi la vita, per quanto potesse essere infelice. — (Una nota di animosità permeò la sua voce.) — Inoltre, è sempre stata egocentrica e vanitosa... — A che proposito, per esempio? — l'interruppe Vance. — Per tutto. — Scosse a terra la cenere con uno scatto del dito. — Teneva particolarmente al suo aspetto. Pareva sempre essere sulla scena e recitare una parte. — Non vi sembra possibile — l'incalzò Vance con particolare insistenza — che se fosse stata abbastanza infelice... — No! — La ragazza prevenne la fine della domanda con un'enfatico diniego. — Se Virginia fosse stata troppo infelice per sopportare la sua vita qui, non l'avrebbe fatta finita. Sarebbe fuggita con un altro uomo. O forse sarebbe tornata al palcoscenico, il che è solo un modo indiretto di raggiungere lo stesso risultato. — Non siete molto caritatevole — mormorò Vance. — Caritatevole? — La ragazza si abbandonò a una risata stridula. — Forse no. Ma, in ogni caso, non sono nemmeno stupida. — E se vi dicessi — osservò Vance blandamente — che abbiamo trovato un messaggio che annunciava il suicidio? Amelia Llewellyn sbarrò gli occhi e lo guardò costernata.
— Non ci credo! — esclamò con foga. — Eppure, signorina Llewellyn, è proprio così — replicò l'altro con quieta gravità. Seguì un lungo silenzio. Gli occhi della ragazza si staccarono dal suo interlocutore, perdendosi nel vuoto, le sue labbra si irrigidirono e un'espressione sorniona le apparve sulla faccia. Vance l'osservava senza averne l'aria. Infine, Amelia si riscosse e osservò con artificiosa semplicità: — Non si può mai dire, vero? Immagino di non essere una psicologa molto sottile. Non riesco a immaginarmi Virginia che si uccide. Un gesto molto teatrale, comunque. Anche Lynn ambiva all'autodistruzione? Un patto suicida, o qualcosa del genere? — Se così fosse — ribatté Vance — allora evidentemente, stando alle ultime notizie, non ce l'ha fatta. — Molto in carattere con lui — osservò la ragazza impassibile. — Lynn non è quello che si dice una persona efficiente. Manca sempre il bersaglio. Un eccesso di protezione materna, forse. Vance era infastidito dal suo atteggiamento. — Sarà meglio lasciare da parte questo lato della questione, per adesso — replicò con un'asprezza a lui inconsueta. — Per ora siamo interessati solo ai fatti. Potete dirci qualcosa dell'atteggiamento di vostro zio, cioè del signor Kinkaid, verso vostra cognata? Il biglietto che abbiamo trovato asseriva che era stato particolarmente gentile con lei. — È vero. — La ragazza assunse un'espressione meno altera. — Lo zio Dick sembrava avere un debole per Virginia. Forse sentiva che, come moglie di Lynn, doveva essere compatita. O forse la considerava un'avventuriera come lui. In ogni caso, sembrava esserci un vincolo di qualche sorta fra loro. A volte ho pensato che zio Dick lasciasse vincere Lynn di tanto in tanto al Casinò perché Virginia avesse più soldi da spendere. — Molto interessante. — Vance accese un'altra sigaretta. — E tutto questo mi conduce a un'altra domanda. Spero non vi dispiaccia. È un po' personale, capite; ma la risposta può esserci d'inestimabile utilità... — Non scusatevi — l'interruppe la ragazza. — Non intendo affatto serbare i miei segreti. Chiedetemi tutto ciò che volete. — Molto generoso da parte vostra — mormorò Vance. — Il punto è che vorremmo conoscere l'esatto stato finanziario dei membri della vostra famiglia. — Tutto qui? — Amelia parve sinceramente sorpresa e persino delusa. — La risposta è molto semplice. Alla sua morte, mio nonno, Amos Kin-
kaid, ha lasciato il grosso della sua fortuna a mia madre. Aveva molta fede nella sua abilità negli affari, ma non altrettanta nello zio Dick, a cui ha riservato solo una piccola parte del patrimonio. Noi, suoi nipoti, cioè Lynn e io, eravamo troppo giovani per essere presi individualmente in considerazione. In ogni caso, è probabile che contasse su nostra madre, perché provvedesse a noi. Il risultato è che zio Dick ha dovuto cavarsela più o meno da solo, mentre mia madre è la depositaria dei soldi del Vecchio Amos. Lynn e io dipendiamo interamente dalla sua generosità e lei ci passa un assegno più che sufficiente. E questo è tutto. — Ma come sarà distribuito il patrimonio in caso di morte di vostra madre? — Questo può dirlo solo lei. Immagino che sarà diviso tra Lynn e me, anche se la quota più sostanziosa, naturalmente, andrà a lui. — E vostro zio? — Oh! Mia madre lo giudica troppo male. Dubito sinceramente che l'abbia anche solo preso in considerazione nelle sue ultime volontà. — Ma nel caso che vostra madre sopravviva a voi e a vostro fratello, a chi andrebbe il denaro? — A zio Dick, immagino, se fosse ancora vivo. Mia madre ha un pronunciato senso del clan. Preferirebbe di gran lunga che lo zio Dick ereditasse la fortuna, piuttosto che vederla cadere in mano a un estraneo. — Ma supponiamo che voi o vostro fratello moriste prima di vostra madre, pensate che il figlio sopravvissuto erediterebbe tutto? Amelia Llewellyn annuì. — A mio parere sì — rispose, con tranquilla franchezza. — Ma nessuno può essere sicuro dei progetti o delle idee di mia madre. E, naturalmente, non è un argomento che abbiamo mai discusso tra noi. — Oh, certo... certo. — Vance indugiò a fumare, poi: — C'è un'altra domanda che vorrei farvi. Siete stata molto gentile, sapete, ad accettare questa nostra intrusione negli affari di famiglia. La situazione è molto seria, al momento, e chissà quali fatti o indizi possono rivelarsi utili per noi... — Credo di capire — replicò la ragazza con una dolcezza di cui fino allora la ritenevo incapace. — Vi prego, non esitate a farmi qualunque domanda possa esservi di auto. Sono terribilmente sconvolta, davvero. Non m'importava di Virginia, ma, dopo tutto, una morte così, be', è qualcosa che non augurereste nemmeno al vostro peggior nemico. Vance distolse gli occhi dalla giovane e contemplò la punta della sigaretta. Cercai di sondare la sua reazione sul momento, ma il suo volto non mo-
strava traccia di quanto gli passava per la mente. — La mia domanda riguarda la moglie di Lynn Llewellyn, ed è semplicemente questa: se lei fosse sopravvissuta sia a voi, sia a vostro fratello, quale sarebbe stato l'effetto sul testamento di vostra madre? Amelia rifletté. — Davvero non saprei dire — rispose infine. — Non ho mai pensato a un'evenienza del genere. Ma tendo a credere che mia madre avrebbe nominato Virginia sua principale beneficiaria. Probabilmente si sarebbe aggrappata a qualunque appiglio pur d'impedire a zio Dick di entrare in possesso del patrimonio. E inoltre, la quasi patologica dedizione a Lynn avrebbe influenzato la sua decisione. In fondo Virginia era la moglie di Lynn. Lynn e tutto quello che lo riguarda è sempre venuto al primo posto per lei. — Sollevò lo sguardo con un'espressione toccante. — Mi dispiace di non potervi essere di maggiore aiuto. Vance si alzò. — Ci siete stata infinitamente utile. Davvero! Ora stiamo tutti brancolando nel buio. E non vi tratterremo più oltre. Ma vorremmo parlare con vostra madre. Vi dispiacerebbe chiederle di venire qui in salotto? — Oh, no! — La ragazza si alzò e andò verso la porta. — Sono sicura che ne sarà felice. La sua sola ambizione nella vita è mettere mano negli affari di tutti e trovarsi al centro di qualunque avvenimento. — Uscì lentamente dalla stanza e la sentimmo salire le scale. — Strana creatura — commentò Vance, come se stesse pensando ad alta voce. — Una combinazione di opposte caratteristiche: fredda come l'acciaio, eppure, fortemente emotiva. È preda di un continuo conflitto che non sa risolvere. È una persona labile: il cuore e la mente sono in continuo contrasto. È un personaggio curiosamente simbolico dell'intero caso. Siamo privi di una bussola, non abbiamo modo di orientarci. — Rivolse un'occhiata malinconica al procuratore. — Non ve ne accorgete, Markham? Abbiamo una dozzina di vie da seguire e tutte possono condurci fuori strada. Ma da qualche parte c'è un viottolo nascosto, ed è quello il cammino che dobbiamo intraprendere. Andò verso il fondo del salotto. — Nel frattempo — aggiunse in tono più leggero — indulgerò nella mia mania per la precisione. E, aperta una delle massicce porte scorrevoli dietro i pesanti tendaggi di velluto nel centro della parete posteriore, tastò il muro della stanza attigua, finché, pochi secondi dopo, un fiotto di luce rivelò una piccola biblioteca.
Lo vedemmo, ancora in piedi, guardarsi intorno per un momento, poi andò a sedersi al basso scrittoio a forma di fagiolo, dove si trovava una macchina per scrivere. Cominciò a battere sui tasti, dopo aver infilato un foglio. Ben presto lo estrasse, lo guardò da vicino e infine lo ripiegò mettendolo nella tasca interna della giacca. Mentre tornava verso il salotto, davanti a una serie di scaffali, lasciò correre l'occhio sulle schiere ordinate di volumi. Stava ancora esaminando i libri, quando la signora Llewellyn entrò con un'aria d'imperiosa regalità. Vance doveva essersi accorto del suo ingresso perché subito si volse e ci raggiunse. La invitò quindi a prendere posto, indicandole, dopo un inchino, le poltroncine foderate di seta vicino al tavolo centrale. — Perché desiderate vedermi, signori? — domandò la donna, senza accennare a seguire il suo invito. — Signora — rispose Vance ignorando il suo atteggiamento e la sua domanda — ho notato che avete una collezione assai interessante di libri di medicina nella piccola stanza laggiù — e indicò con un gesto le porte scorrevoli. — Non c'è proprio da sorprendersi — replicò la padrona di casa dopo un'esitazione. — Il mio defunto marito, benché non fosse medico, era profondamente interessato alle ricerche nel campo. Di tanto in tanto scriveva anche per qualche rivista scientifica. Vance continuò imperterrito: — Ci sono molte opere fondamentali sulla tossicologia oltre ai trattati di carattere più generale. La donna protese aggressivamente la mascella e, quasi con uno scrollar di spalle, sedette rigida e dignitosa sul bordo di una sedia dallo schienale diritto vicino alla porta. — È più che probabile — rispose. — Ritenete che abbiano qualche riferimento con la tragedia avvenuta stasera? — C'era un implicito tono sprezzante nella domanda. Vance lasciò cadere l'argomento: — Sapete se vostra nuora avesse qualche motivo per togliersi la vita? Non un muscolo nel volto della donna si mosse per diversi secondi, ma i suoi occhi si velarono a un tratto, come inseguendo un pensiero. Infine rialzò la testa. — Suicidio? — Una repressa animazione traspariva nella voce. — Non avevo pensato alla sua morte sotto questa luce, ma ora che ne fate menzione, mi viene in mente che questa potrebbe essere una spiegazione che non
manca di una certa logica. — Annuì. — Virginia, qui, era molto infelice. Non riusciva ad adattarsi al nuovo ambiente e molte volte mi ha detto che avrebbe voluto essere morta. Ma non ho attribuito alcuna importanza a questo genere di sfogo, perché lo consideravo solo un modo di dire esasperato. In ogni caso, ho fatto il possibile per rendere felice la povera piccina. — Una situazione dura da sopportare — mormorò Vance. — A proposito, signora, vi dispiacerebbe dirci, in tutta confidenza, vi assicuro, quali potrebbero essere i termini del vostro testamento? La donna lo guardò con irosa costernazione. — Mi dispiace, eccome! Sono realmente indignata per la domanda. Il mio testamento è una questione che riguarda me sola. Non può avere alcuna rilevanza per l'attuale, odiosa situazione. — Non ne sono del tutto convinto — rispose Vance con intonazione soave. — Sussiste una linea del ragionamento, per esempio, che potrebbe indurci a speculare sulla possibilità, per uno dei potenziali beneficiari, di guadagnare dalla.... vogliamo dire, mancanza... di certi eredi. La signora Llewellyn balzò in piedi e così rimase, tesa e immobile, gli occhi minacciosi rivolti a Vance con vindice aggressività: — State suggerendo, signore — con voce fredda, velenosa — che mio fratello...? — Mia cara signora Llewellyn! — si schermì l'altro risentito. — Non ho in mente proprio nessuno. Ma voi sembrate non afferrare appieno il significato dell'avvelenamento di due membri della vostra famiglia avvenuto stasera e il dovere, da parte nostra, di accertare ogni possibile fattore con un qualunque, seppur remoto, collegamento con il caso. — Ma voi stesso — protestò la donna raddolcita, tornando a sedersi — avete avanzato la possibilità che Virginia si sia suicidata. — Tutt'altro, signora — la corresse Vance. — Vi ho solo chiesto se vi sembrava una teoria plausibile. D'altro canto, ritenete possibile che vostro figlio abbia tentato di togliersi la vita? — No, certo che no! — rispose lei in tono sicuro. Un'espressione perplessa passò nei suoi occhi. — Eppure... non so, non saprei dire. È sempre stato molto emotivo, molto eccitabile. Il minimo incidente poteva turbarlo. Rimuginava, tendeva a esagerare... — Personalmente, non riesco a credere che vostro figlio abbia tentato di porre fine alla sua esistenza. Lo stavo osservando quando si è sentito male. Vinceva molto ed era concentrato su ogni tornata della roulette. La donna pareva aver perso ogni interesse, salvo che per il benessere del figlio.
— Siete certo che stia bene? — domandò supplichevole. — Avreste dovuto lasciarmi andare da lui. Non potreste chiedere altre informazioni? Vance si alzò all'istante e si avvicinò alla porta. — Ne sarò felice, signora. Poco dopo, lo sentimmo parlare al telefono nel corridoio, poi ritornò in salotto. — A quanto sembra, il signor Llewellyn è fuori pericolo. Il dottor Rogers ha lasciato l'ospedale, ma il medico di guardia mi ha assicurato che vostro figlio sta riposando tranquillamente e che il suo polso ora è pressoché normale. A suo parere, il signor Llewellyn potrà tornare a casa domani mattina. — Grazie a Dio! — La donna trasse un respiro di sollievo. — Adesso potrò dormire. Volevate chiedermi qualcosa d'altro? Vance chinò la testa. — La domanda vi sembrerà senza dubbio priva d'importanza; ma la risposta può chiarire un certo aspetto di queste sfortunate circostanze. — Guardò diritto l'anziana signora. — Esattamente, qual è la posizione del signor Bloodgood in questa casa? La donna inarcò le sopracciglia e restituì lo sguardo per un buon mezzo minuto prima di replicare in modo convenzionale e stranamente distaccato. — Il signor Bloodgood è un intimo amico di mio figlio. Erano insieme all'università. Credo che abbia avuto modo di conoscere assai bene Virginia diversi anni prima che entrasse nella nostra famiglia. Mio fratello, il signor Kinkaid, è stato per lungo tempo un ardente estimatore del signor Bloodgood: vedeva delle doti nel giovanotto e l'ha preparato per affidargli l'attuale suo incarico. Il signor Bloodgood viene qui a casa mia molto spesso, sia in visita, sia per affari. Vedete — aggiunse a guisa di spiegazione — mio fratello abita qui. La casa, anzi, è per metà sua. — Dove sono con precisione le stanze del signor Kinkaid? — Occupano tutto il terzo piano. — E posso chiedervi quale rapporto c'è tra il signor Bloodgood e vostra figlia? La donna lanciò a Vance una rapida occhiata, ma non esitò a rispondere alla domanda con evidente franchezza: — Il signor Bloodgood è sinceramente interessato ad Amelia. Credo le abbia chiesto di sposarlo, ma, per quanto ne so, non ha ricevuto una risposta definitiva. A volte penso che le piaccia, ma ci sono momenti in cui lei lo tratta in modo abominevole. Ho la sensazione che non si fidi di lui. D'altro canto, Amelia pensa costante-
mente alla sua pittura e può darsi ritenga che il matrimonio possa interferire con la sua carriera. — Voi approvereste l'unione? — s'informò Vance con noncuranza. — Non approverei, né disapproverei — rispose laconica la signora Llewellyn stringendo dopo le labbra. Il mio amico la guardò con una ruga di lieve perplessità. — Anche il dottor Kane s'interessa a vostra figlia? — Oh, sì, immagino che sia piuttosto interessato, a suo modo. Ma posso assicurarvi che Amelia non ha alcuna inclinazione sentimentale per il dottor Kane. Anche se lo usa costantemente: non ha alcuno scrupolo, da quel punto di vista. Allan Kane, a volte, le è molto utile, e proviene da un'ottima famiglia. Vance si alzò pigramente dalla sedia e s'inchinò. — Non vi tratterremo più a lungo — concluse con sobria cortesia. — Vi siamo grati dell'aiuto e teniamo a farvi sapere che provvederemo a tutto cercando di recarvi il minor disturbo possibile. La signora Llewellyn si ricompose, si alzò con un movimento altero e uscì dalla stanza senza pronunciare una parola. Appena fu certo che la vecchia signora non ci potesse udire, Markham si alzò a sua volta e con aria aggressiva fronteggiò Vance. — Ne ho abbastanza di tutto questo — lo rimproverò stizzito. — Tutti questi pettegolezzi domestici non ci portano da nessuna parte. State semplicemente inseguendo fantasmi. Vance sospirò rassegnato. — E va bene. Andiamocene. L'ora delle streghe è trascorsa da un pezzo. L'investigatore Sullivan stava scendendo le scale, mentre uscivamo dal salotto. — Il sergente ha intenzione di aspettare l'ambulanza e di mandare tutti a letto — riferì al procuratore. — Io me ne andrò a casa a ficcarmi sotto le coperte. Buonanotte, capo. Ci vediamo, signor Vance. — E uscì rumorosamente nella notte. Il cadaverico maggiordomo, con faccia stanca e assonnata, ci aiutò a infilare i soprabiti. — Prenderete ordini dal sergente Heath — gli diede istruzioni Markham. L'uomo s'inchinò e andò ad aprirci la porta. Non l'aveva ancora raggiunta quando udimmo il rumore di una chiave inserita nella serratura e Kinkaid fece irruzione nell'atrio, prima di fermarsi alla nostra vista.
— Che significa tutto questo? — domandò con aria truce. — E cosa fanno quegli agenti là fuori? — Siamo qui per servizio — lo informò il procuratore. — In questa casa, stasera, è avvenuta una tragedia. I muscoli del volto di Kinkaid si rilassarono istantaneamente. Assunse un'espressione fredda e impersonale: in una frazione di secondo, era tornato a essere il giocatore imperturbabile. — La moglie di vostro nipote è morta — gli spiegò Vance. — È stata avvelenata. E, come sapete, anche Lynn Llewellyn è stato avvelenato stasera. — All'inferno Lynn! — esclamò Kinkaid tra i denti. — Che altro mi dite? — È tutto quel che sappiamo per ora. La signora Llewellyn è morta circa alla stessa ora in cui suo marito si sentì male nel vostro Casinò. Il medico legale parla di belladonna. Il sergente Heath della Squadra Omicidi sta aspettando di sopra l'ambulanza per portare il corpo all'obitorio. Speriamo di saperne di più domani, dopo l'autopsia. A proposito, vostro nipote, secondo le ultime notizie, è fuori pericolo. S'interruppe di soprassalto. Una voce di donna lanciò un urlo dal piano superiore. Una porta si aprì e sbatté, poi risuonò un lamento. Seguì un rumore di passi pesanti in corsa lungo il corridoio sopra le nostre teste. Non saprei dire perché mi sentii gelare il sangue nelle vene. Insieme agli altri mi affrettai verso le scale. All'improvviso Heath comparve sul pianerottolo. Nella luce abbagliante del corridoio potei distinguere i sui occhi sbarrati dall'emozione mentre ci chiamava con gesti concitati. — Salite, signor Markham — gridava con voce rauca. — È... è successo qualcosa. 7 ANCORA VELENO (Domenica, 16 ottobre, ore 3,30) Quando raggiungemmo il piano superiore, Heath si era già inoltrato lungo il corridoio verso la porta aperta di una stanza sul lato nord. Lo seguimmo in tutta fretta. Il suo dorso massiccio ci impediva la visuale, sicché solo quando entrammo nella stanza ci riuscì di scorgere il motivo dell'urlo allarmante e dei lamenti che ci erano giunti poco prima. Il locale, il-
luminato a giorno come il corridoio, era la camera da letto dell'anziana signora Llewellyn. Pur essendo più vasto della stanza di Virginia, c'erano meno mobili e l'arredamento era improntato a una rigorosa e quasi tetra severità che si addiceva al carattere e alla personalità di colei che l'occupava. La vedemmo in piedi appoggiata contro il muro appena oltre la porta, il fazzoletto di trine premuto contro la faccia tirata. Gli occhi spalancati fissavano il pavimento pieni di orrore e di paura. Si lamentava, tutta tremante, e non si mosse al nostro ingresso. Era come affascinata dall'orrore. Pareva non poter distogliere gli occhi dall'oggetto del suo raccapriccio. A poco meno di un metro da lei, afflosciato e scomposto sul tappeto blu giaceva il corpo immobile di Amelia Llewellyn. Dapprima la madre si limitò a indicarla. Poi, facendo uno sforzo enorme e con voce spettrale e rauca: — Se ne stava andando in camera sua, quando, all'improvviso, si è messa a barcollare, si è portata le mani alla testa ed è crollata lì. — Indicò di nuovo, tutta rigida, il corpo della figlia, immaginando quasi che non potessimo vedere il corpo disteso. Vance, già in ginocchio accanto alla ragazza, le sentì il polso, ne auscultò il respiro e le esaminò gli occhi. Fece quindi un cenno a Heath e gli indicò il letto di fronte. Sollevarono la ragazza e ve la disposero per traverso, lasciandone sporgere la testa oltre il bordo. — I sali — ordinò Vance. — Sergente, chiamate il maggiordomo. La signora Llewellyn parve riprendere vita e si avvicinò a un tavolino per prendere una bottiglietta verde come quella data da Kinkaid a Vance quella sera al Casinò. — Tenetela sotto il naso, non troppo vicino, per non irritarne la mucosa — spiegò il mio amico e si volse verso la porta. Comparve il maggiordomo. Svanita in apparenza ogni stanchezza, si mostrava ora nervosamente attivo. — Chiamate il dottor Kane al telefono — ingiunse Vance. Il domestico si affrettò verso un tavolino e cominciò a comporre un numero. Kinkaid rimase sulla porta a guardare, con un'espressione impenetrabile sulla faccia. Solo gli occhi si muovevano, mentre abbracciava ogni aspetto della situazione. Si voltò verso il letto, ma il suo sguardo non si posò sul corpo immobile della nipote, e si concentrò invece con freddezza sulla sorella. — Che cosa ne pensate, signor Vance? — chiese, rigido. — Veleno — borbottò il mio amico, mentre accendeva una sigaretta. —
Già, proprio così. Esattamente come Lynn Llewellyn. Brutto affare. — Sollevò lentamente gli occhi. — Vi sorprende? Gli occhi di Kinkaid si abbassarono minacciosi. — Che diavolo intendete con questa domanda? Il dottor Kane era all'apparecchio, sicché fu a lui che Vance si rivolse: — Amelia Llewellyn è in serio pericolo. Venite immediatamente. Portate delle siringhe. Prendete con voi caffeina, digitale e adrenalina. Capito? Subito. — Riagganciò e poi, rivolto a tutti i presenti: — Kane non era ancora andato a letto, per fortuna. Sarà qui a minuti. — Poi s'incastrò il monocolo scrutando Kinkaid. — Qual è la vostra risposta alla mia domanda? L'uomo stava per esplodere, poi parve ripensarci e rilassò la mascella contratta. — Sì! — sbottò affrontando senza paura lo sguardo di Vance. — Sono sorpreso quanto voi. — Vi stupirà sapere quanto poco io lo sia — mormorò il mio amico, e si accosto alle due donne. Prese i sali dalla mano della signora Llewellyn, controllò di nuovo il polso della giovane, infine sedette sul bordo del letto e indicò con un cenno alla padrona di casa di farsi da parte. — Vi dispiace dirmi tutto? — le chiese, non senza gentilezza. — Vi ascolto. Vi prego di parlare prima che arrivi il dottore. La vecchia signora, piombata su una sedia, si raddrizzò avvolgendosi nella vestaglia. Quando parlò, il suo tono era calmo, controllato. — Amelia è venuta nella mia stanza per dirmi che voi volevate vedermi. Si è seduta su questa sedia dove ora mi trovo. Mi ha promesso che mi avrebbe aspettato qui, perché voleva parlarmi. — Non c'è altro? — chiese Vance. — Voi non siete scesa subito, vero? Io ho avuto il tempo per esercitarmi un po' sulla vostra macchina per scrivere. La signora Llewellyn strinse le labbra, poi aggiunse: — Se è proprio indispensabile che lo sappiate vi dirò che mi sono data un velo di cipria e mi sono pettinata a quel tavolo da toilette. Ho indugiato per ricompormi. Sapevo che sarebbe stata una dura prova. — E durante questa preparazione spirituale, esattamente cosa ha fatto, o detto, vostra figlia? — Non ha detto niente. Ha acceso una sigaretta, fumava... — Nient'altro? Nessun altro indizio di qualunque altra attività? — Avrà accavallato le gambe o giunto le mani... non ci ho fatto caso. — Un sarcasmo sferzante traspariva dalle parole della donna. — Oh, sì — aggiunse. — Si è chinata sul comodino e si è versata un bicchier d'acqua
dalla caraffa. Vance annuì chinando la testa. — Un impulso naturale. Era nervosa, sconvolta. Troppe sigarette. La gola secca. Sì. Perfettamente comprensibile. — Si alzò a esaminare la brocca vuota sul comodino tra il letto e la sedia dov'era la signora Llewellyn. — Vuota — osservò. — Molto assetata. Sì. O forse... — Tornò al suo posto sul bordo del letto. Parve meditare. — Vuota — ripeté e annuì pensoso. — Maledettamente strano. Questa sera tutte le bottiglie d'acqua erano vuote. Al casinò. Nella stanza della moglie di Lynn Llewellyn. E ora qui. Eccezionale scarsità d'acqua... — Alzò rapidamente lo sguardo. — Signora Llewellyn, da dove si entra nella camera di vostra figlia? — La porta è in fondo al piccolo corridoio che si stacca dal corridoio grande in cima alle scale. — La donna scrutò Vance con una strana espressione, un misto di ansia e di ostilità. — Sergente — disse il mio amico rivolto a Heath — date un'occhiata al servizio per l'acqua nella stanza della signorina Llewellyn. Heath uscì con grande alacrità. Tornò dopo poco. — La caraffa è vuota — riferì con stupita meraviglia. Vance si avvicinò al portacenere che si trovava sul tavolino del telefono e indugiò pensieroso a spegnere la sigaretta. — Sì, sì. Naturale. Dev'essere così. Proprio come stavo dicendo. Una vera siccità, da queste parti. Niente acqua, in nessun posto, eppure una grande necessità di bere. Strano. Proprio come nella ballata del Vecchio Marinaio... — Rialzò la testa e riprese a fissare la nostra ospite. — Chi riempie le brocche? — La cameriera, naturalmente. — Quando? — Dopo cena, quando prepara i letti. — Si è mai dimenticata di farlo? — Mai. Annie è molto competente e fidata. — Bene, bene. Parleremo con Annie in mattinata. Pura routine. Nel frattempo, signora Llewellyn, vi prego di continuare. Vostra figlia ha acceso una sigaretta, si è versata un bicchiere d'acqua e voi avete cortesemente risposto al nostro appello. E dopo, quando siete tornata? — Amelia sedeva ancora qui. — La donna non aveva distolto lo sguardo. — Stava ancora fumando. Ma si è lamentata di una forte emicrania ed era molto Congestionata in viso. Ha detto che le dolevano le tempie e che sentiva un ronzio alle orecchie. Si sentiva debole, intontita. Non le ho dato
importanza: ho attribuito tutto alla tensione nervosa e le ho consigliato di andarsene a letto. Lei ha risposto che ne aveva tutta l'intenzione, che si sentiva a pezzi, e poi ha parlato in modo un po' incoerente di Virginia. Poi si è alzata. Si è premuta le mani alle tempie e si è avviata verso la porta. C'era quasi arrivata quando l'ho vista barcollare. Poi si è accasciata a terra. Mi sono avvicinata, l'ho scossa, le ho parlato. Poi, credo di aver urlato. Stasera stanno accadendo cose terribili e ho perso il controllo. Questo signore — indicò Heath — è entrato e poi vi ha chiamati immediatamente. È tutto ciò che posso dirvi. — È più che sufficiente — mormorò Vance. — Grazie infinite. Siete stata molto precisa. Avete fatto una descrizione perfetta di ciò che è capitato a vostro figlio. Ve lo assicuro. I due malori sono identici. Solo che lui è svenuto nella zona ovest della città e vostra figlia nella zona est. Ma i sintomi sono gli stessi. Lui se l'è cavata. Vostra figlia ne uscirà ancora meglio non appena avrà avuto l'assistenza medica che le serve. Estrasse il portasigarette e scelse con cura una Régie. Dopo averla accesa, lanciò un perfetto anello azzurrino verso il soffitto. — Mi chiedo chi sarà deluso di queste due guarigioni. Mi chiedo... Situazione interessante. Interessante, ma tragica. Infinitamente tragica. — Piombò in una tetra meditazione. Kinkaid, entrato nella stanza, sedeva ora guardingo sull'orlo del tavolo centrale in quercia patinata. — Siete sicuro che si tratti di veleno? — domandò, gli occhi fissi su Vance. — Veleno? Sì, sì. Un tremito sintomatico, un atroce mal di testa. E poi, il collasso. A un semplice svenimento dovuto a cause naturali si rimedia rovesciando la testa e facendo annusare i sali. Questo caso è diverso. È successo come a vostro nipote. Con una differenza, però: Lynn ha ingerito una dose più forte. Il volto di Kinkaid somigliava a una maschera. Mosse appena le labbra quando parlò: — E io, come un dannato imbecille, gli ho dato da bere dalla mia caraffa. Vance annuì. — Già. L'ho notato. Un grave errore da parte vostra, parlando ex post facto. Il maggiordomo ricomparve sulla porta. — Scusate, signore — disse direttamente a Vance. — Non vorrei essere considerato inopportuno. Ho ascoltato le vostre domande sulle brocche
d'acqua e mi sono preoccupato di svegliare io stesso Annie e d'interrogarla in proposito. Lei mi ha assicurato dj averle riempite tutte stasera, come al solito, quando ha preparato i letti poco dopo la cena, signore. Vance guardò con aperta ammirazione quell'uomo pallido e allampanato. — Eccellente, Smith! — esclamò. — Vi siamo molto grati. — Grazie, signore. Ci giunse il suono di un campanello. Il maggiordomo si allontanò di fretta e, pochi secondi dopo, introdusse il dottor Kane, ancora in abito da sera, ma fornito di una valigetta. Il medico pareva ancora più pallido di quando l'avevo visto l'ultima volta. Aveva gli occhi cerchiati. Si diresse rapido verso il letto dove Amelia Llewellyn giaceva priva di sensi, con un'espressione angosciata sulla faccia che mi parve di carattere più personale che professionale. — Sintomi di collasso — gli spiegò Vance, in piedi al suo fianco. — Polso debole, rapido, respiro fiacco, pallore. Consiglio drastici stimolanti. La caffeina, prima di tutto, due grammi, poi la digitale. Forse l'adrenalina non sarà necessaria. Non fate domande, dottore. Lavorate in fretta. Mi assumo io la responsabilità. Ci sono già passato una volta, stasera. Kane seguì le istruzioni. Mi sentivo un po' dispiaciuto per lui anche se allora non ero in grado di spiegare la mia disposizione d'animo. Mi colpì come una figura patetica, un debole dominato dalla più forte personalità di Vance. Mentre il medico, in bagno, preparava la siringa, il mio amico predispose il braccio di Amelia per l'iniezione. Dopo la somministrazione della caffeina, Vance si rivolse verso di noi. — Sarà meglio andare da basso ad aspettare. — Alludete anche a me? — domandò la signora Llewellyn in tono altezzoso. — Sì. Mi pare più opportuno. La padrona di casa acconsentì di malagrazia e ci precedette verso la porta. Poco dopo il dottor Kane ci raggiungeva in salotto. — Ha reagito — riferì a Vance con voce un po' tremula per l'emozione, — Il polso è migliorato e il colorito è più normale. Ha cominciato a muoversi e cerca di parlare. Vance si alzò. — Eccellente. Mettetela a letto, signora Llewellyn. E voi, dottore, tratte-
netevi un po' qui, vi prego, a sorvegliare la situazione. — Andò verso la porta. — Torneremo in mattinata. Mentre stavamo uscendo, giunse l'ambulanza a prendere il cadavere di Virginia. La pioggia era cessata, ma la notte era ancora umida e fredda. — Un caso esasperante — commentò Vance rivolto a Markham, mentre avviava il motore della sua automobile e puntava verso il centro. — Un piano diabolico è in atto. Tre persone avvelenate, una definitivamente spacciata, le altre due affidate alle cure dei medici. Quale sarà la prossima? Perché siamo qui, Markham? Che senso ha tutto questo? E tutta un'eternità per speculare sulle ragioni profonde di ciò che è avvenuto. Un pensiero deprimente. Tuttavia... — sospirò. — Siamo immersi nelle tenebre più fitte. Non riesco a trovare il bandolo della matassa. Troppi ostacoli disseminati sul nostro cammino ci ostruiscono la visuale. Menzogna e realtà mescolate a piene mani. Solo un percorso ci è aperto, la sequenza delle false apparenze che puntano verso il peggior crimine fra tutti... — Non riesco a seguirvi. — Markham era turbato. — Mi rendo naturalmente conto che su questo caso incombe un'atmosfera sinistra... — Oh! È molto peggio — l'interruppe Vance. — Quello che sto cercando di dire, è che questo caso comprende un crìmine all'interno di un altro crimine e ci si aspetta che noi si commetta un errore fatale. L'ultimo accordo di questa macabra sinfonia dovrebbe essere la condanna di un innocente. L'intera tecnica si basa su un falso colossale. Noi siamo spinti a individuare una verità speciosa e ingannevole, anzi una non-verità: tutto questo sottile disegno è inteso per farci approdare alla peggiore e più diabolica menzogna. — Prendete questo caso troppo sul serio — disse Markham, che si sforzava di attenersi ai fatti concreti. — Dopo tutto, Lynn Llewellyn e la sorella si stanno riprendendo. — Sì, sì. — Vance annuì accigliato, senza staccare gli occhi dall'asfalto scintillante della strada. — C'è stato un errore di calcolo. Il che rende semplicemente molto più difficile venirne a capo. — Si dà il caso, però... — cominciò Markham, ma Vance lo interruppe con impazienza. — Mio caro amico! Questo è il lato deplorevole della faccenda. "Si dà il caso." Tutto è un "caso". Non c'è uno schema ordinato. Caos ovunque. Si dà il caso che Kane abbia prescritto delle pillole per curare la rinite contenenti la droga che provoca gli esatti sintomi dell'orribile morte di Virginia Llewellyn. Si dà il caso che Amelia Llewellyn si trovasse nel guardaroba
proprio al momento giusto per sentire le grida di Virginia ed essere presente alla sua morte. Si dà il caso che Lynn Llewellyn e sua moglie siano stati avvelenati quasi contemporaneamente, benché in diverse zone della città. Si dà il caso che Amelia abbia bevuto l'acqua della brocca della madre. Si dà il caso che tutti fossero in casa stasera all'ora di cena e avessero quindi accesso a tutti i bagni e alle caraffe. Si dà il caso che in nessuna delle caraffe abbiamo trovato una goccia d'acqua. Si dà il caso che Kinkaid abbia dato da bere a Lynn dalla sua caraffa poco prima del suo collasso. Si dà il caso che io abbia ricevuto una lettera e fossi sul posto per essere presente allo svenimento di Lynn. Si dà il caso che il dottor Kane sia stato invitato a cena all'ultimo momento. Si dà il caso che noi fossimo sul posto quando Amelia è stata avvelenata. Si dà il caso che Kinkaid sia arrivato proprio allora. Si dà il caso che la lettera da me ricevuta sia stata impostata a Closter, New Jersey. Si dà il caso... — Un momento, Vance. Che significa quell'ultima osservazione riguardo a Closter? — Kinkaid ha un capanno di caccia nei dintorni di Closter dove trascorre molto del suo tempo, anche se ritengo che lo chiuda in quest'epoca dell'anno, di solito, in settembre. — Santi numi, Vance! — Markham si protese verso il mio amico. — Non starete suggerendo... — Caro amico, caro amico — lo interruppe con tono di rimprovero Vance. — Io non sto suggerendo nulla: mi limito a fare quello che in psicoanalisi si chiama una libera associazione di idee. Il solo punto che desidero sottolineare è che la vita è reale, e seria, e che non c'è nulla di reale né di serio in questo caso. È tragico, spaventosamente tragico, ma pare un dramma in cui alcune marionette, manipolate da un ignoto, recitino su un palcoscenico preparato con cura al solo scopo di trarci in inganno. — È l'opera del diavolo — mormorò il procuratore scorato. — Oh, certo. Un chiaro caso di cattiveria luciferina. Un'idea allettante. Ma del tutto futile. — Forse potreste almeno eliminare dal piano la moglie di Lynn Llewellyn — propose Markham. — Il suo suicidio... — Oh, parola mia! — Vance scosse la testa. — La sua morte è la parte più sottile e imponderabile del piano. Non è stato un suicidio, Markham. Nessuna donna, in simili circostanze, si uccide a quel modo. Era un'attrice, era certamente una donna vanitosa, Amelia ce l'ha assicurato senz'ombra di dubbio. Si sarebbe acconciata in modo così poco elegante, con quello
spesso strato di crema per il viso e una retina per i capelli, per recitare la sua ultima grande scena drammatica sulla terra? Oh, no, Markham. No. Era andata a letto in quel modo sciatto usato di frequente da certe donne sposate, convinta di poter contare su un domani anche se poco piacevole. E poi, perché mai si è messa a gridare spaventata quando il veleno ha cominciato a fare effetto? — E il messaggio che ha lasciato? — protestò Markham. — A me è sembrato chiaro e indicativo. — Quel messaggio sarebbe stato più convincente se fosse stato lasciato bene in vista. Invece era nascosto, per così dire, ripiegato e infilato sotto il telefono. Vedete, noi dovevamo trovarlo. Ma lei doveva morire senza che sapesse che c'era. Il procuratore tacque e Vance proseguì dopo una pausa. — Ma non dovevamo crederci. Questo è il lato più inverosimile. Dovevamo nutrire dei sospetti e cercare la persona che avrebbe potuto scriverlo e piazzarlo là per essere trovato da noi. — Buon Dio, Vance! — La voce del procuratore si percepiva appena a causa del rumore del motore. — Che idea assurda! — Ma come non riuscite a capire, Markham? — (Vance si era fermato bruscamente davanti alla casa dell'amico.) — Quel biglietto e la lettera che ho ricevuto erano battuti a macchina, da una persona poco esperta di dattilografia. È evidente che sono stati scritti dalla stessa persona: perfino la punteggiatura e la disposizione dei margini sono identiche. Potete credere per un momento che una donna sull'orlo del suicidio mi avrebbe mandato la lettera che ho ricevuto? A proposito, questo mi ricorda.. Mise una mano in tasca e ne trasse la lettera, il biglietto d'intenti suicidi e il foglio di carta su cui aveva battuto poche righe a casa Llewellyn, porgendoli a Markham. — Vi dispiace farli controllare da un esperto? Mettete all'opera uno dei vostri brillanti giovanotti con lente d'ingrandimento e test scientifici. Sarei entusiasta se si potesse trovare una conferma ufficiale a quello che credo. Secondo me sono tutti stati battuti con la stessa macchina per scrivere. Markham prese i fogli. — È un compito facile — disse e guardò Vance perplesso. Scese dall'automobile, si fermò sul marciapiede. — Avete qualcosa in mente per domani? — Oh, sì — sospirò l'amico. — La vita ha un suo modo tutto particolare di continuare. Niente finisce definitivamente. Una generazione scompare,
ma il sole si alza ancora. Tutto è vanità e tormento dello spirito. — Vi prego di smetterla di citare l'Ecclesiaste — lo supplicò Markham. — Che mi dite per domani? — Passerò a prendervi alle dieci e torneremo dai Llewellyn. Ci dovete tornare. Per dovere professionale. Siete al servizio della popolazione. Ve lo ricordate? Triste... — Vance parlava quasi scherzosamente, ma la sua espressione contraddiceva il tono della sua voce. Anche Markham se ne accorse e forse ne capì il significato. — Non mi dispiacerebbe avere un colloquio con Lynn e con Amelia quando si saranno ripresi. È giusto approfondire l'indagine. Tutt'e due ce l'hanno fatta a sopravvivere salvati dal vostro amicus curiae, cioè da me stesso medesimo. — Molto bene — acconsentì evidentemente scoraggiato Markham. — Vi aspetto alle dieci. Ma non vedo dove possa portarvi l'interrogatorio di Lynn e Amelia Llewellyn. — Non chiedo di vedere la scena lontana... — Va bene, va bene, ho capito — brontolò Markham. — A voi basta fare un passo alla volta. Lo so, lo so. La vostra cristiana pietà prevede sventure per qualcuno... Buona notte. Tornatevene a casa. Vi detesto. — E un allegro ciao-ciao a voi. L'automobile ripartì a velocità pericolosa lungo la strada sdrucciolevole verso la Sesta Avenue. 8 L'ARMADIETTO DEI MEDICINALI (Sabato, 16 ottobre, ore 10) L'indomani mattina, alle dieci in punto, Vance si fermò davanti alla casa di Markham. Il clima era migliorato, ma l'aria era ancora gelida e il cielo era coperto. Il procuratore ci aspettava nell'atrio, accigliato e impaziente. Gli si leggeva negli occhi la preoccupazione. I giornali del mattino avevano tutti pubblicato una breve cronaca della morte di Virginia Llewellyn con titoli infamanti. Riportavano una dichiarazione breve e poco impegnativa di Heath e dedicavano una mezza colonna alla storia della famiglia. Non menzionavano né l'avvelenamento di Lynn Llewellyn al Casinò, né il collasso di Amelia. Il sergente era riuscito a evitare, con tatto, qualunque accenno ai due fatti. Ma la notizia era già abbastanza sorprendente: la stessa mancanza di particolari aggiungeva mistero e stimolava la fantasia del
pubblico. La spiegazione avanzata era quella del suicidio e si dava particolare risalto al biglietto, anche se, stando ai resoconti, la polizia non ne aveva divulgato il contenuto. Diverse foto, di Virginia, della signora Llewellyn e di Kinkaid, corredavano gli articoli. Quando uscì sul marciapiede, Markham teneva i giornali malamente piegati sotto il braccio. — Mio caro Giustiniano! — lo salutò Vance. — Sono stupito e compiaciuto. Siete già pronto. E avete già fatto anche colazione? Una così toccante dedizione ai vostri doveri civici! — E ho anche messo sotto pressione uno dei nostri esperti, nonostante la mattinata festiva, mandandogli tutti quei fogli dattiloscritti al laboratorio. Inoltre, ho tirato giù dal letto Swacker e gli ho detto di fare rapporto all'ufficio — brontolò Markham, evidentemente di cattivo umore. Vance scosse la testa con scherzosa ammirazione. — Sono decisamente sbalordito da tutta questa vostra attività mattutina. Giunti a casa Llewellyn, il maggiordomo venne ad aprirci la porta. Heath, tetro e invadente, si trovava nell'atrio. C'erano anche Snitkin e Sullivan, che fumavano come ciminiere, con espressione annoiata. — Novità, sergente? — chiese Markham. — Se volete, potete anche chiamarle novità, signore. — Heath era nervoso. — Ho dormito tre ore. Poi ho dovuto affrontare la solita battaglia con i giornalisti. Non mi sono potuto muovere da qui. Sono rimasto con le mani in mano, in attesa che vi faceste vivo. — Spostò il sigaro dall'altro lato della bocca. — Tutti sono in casa. La signora anziana è scesa alle otto e mezzo e si è chiusa in quella stanza con dei libri presi dal soggiorno... Vance si voltò verso di lui. — Davvero! E quanto vi è rimasta? — Circa mezz'ora. Poi è tornata al piano superiore. — Nessuna notizia della signorina? — Credo che stia bene. L'ho sentita parlare. Il giovane dottor Kane è arrivato mezz'ora fa. Adesso è con lei. — Avete visto Kinkaid stamattina? Heath sbuffò. — Sicuro che l'ho visto. È sceso vispo e di buon'ora. Voleva offrirmi da bere. Mi ha detto che voleva uscire. Ma io gli ho risposto di non prendere il largo finché non avessi ricevuto ordini dal procuratore distrettuale. — Ha fatto obiezioni? — domandò Vance. — No, accidenti! Ha risposto che per lui andava bene. Sembrava contento. Diceva che poteva sistemare tutto per telefono, ha ordinato un gin e se
ne è tornato nelle sue stanze. — Mi avrebbe fatto un certo piacere ascoltare le sue telefonate — mormorò Vance. — Non vi sarebbe servito a nulla — ribatté Heath con un gesto di scorato disgusto. — Ho ascoltato le sue telefonate all'apparecchio quaggiù. Ha parlato con il suo agente, poi con quel tizio che si chiama Bloodgood e infine con il cassiere del Casinò. Nient'altro che affari. Non ha nemmeno telefonato a una donna. — Nessuna interurbana? — chiese Vance con indifferenza. Heath si tolse il sigaro di bocca e gli lanciò un'occhiata scaltra. — Già... una. Ha chiamato un numero di Closter... — Ah! — Ma non ha trovato nessuno e ha quindi riagganciato. — Molto seccante — commentò Vance. — Ricordate il numero? Il sergente sorrise, trionfante. — Sicuro. E ho scoperto tutto in proposito. È il capanno di caccia del nostro amico, appena fuori Closter. — Ragazzo intelligente! — annuì Vance ammirato. — Successo nient'altro, qui intorno, sergente? — Il giovanotto è arrivato circa venti minuti fa... — Lynn Llewellyn? Heath assentì senza entusiasmo. — Sembrava rintronato, ma non mi sembrava che stesse male. È entrato e ha cercato di attaccar briga con me e Snitkin. — Il sergente sorrise, amaro. — Immagino che non sapesse, anche se, a giudicare da tutte le chiacchiere che ho sentito qui, della moglie non gliene importava un accidente. Io ho tenuto la bocca chiusa: gli ho semplicemente detto che avrebbe fatto meglio a salire e parlare con la madre. E questo è tutto quello che è successo di emozionante. Vance scosse la testa sconsolato. — Non siete di grande aiuto stamattina, sergente. E io che nutrivo tante speranze! Comunque... — Guardò Markham e sospirò pensieroso. — Siamo condannati a comportarci come i castori, vecchio mio, industriosi e solerti castori. Affronteremo Lynn e Amelia. Ma prima penso che darò un'altra occhiata al boudoir di Virginia. Forse abbiamo trascurato qualcosa, ieri sera. — Si avviò verso le scale, seguito da me e da Markham. Mentre ci avvicinavamo al piano superiore, dalla parte della stanza di Virginia ci giunse il suono di una voce isterica, ma indistinta. Ma quando
avanzammo lungo il corridoio, la scena ci si rivelò in tutta la sua drammaticità. In fondo, dalla porta aperta potemmo vedere la signora Llewellyn seduta su una sedia vicino al letto di fronte al figlio inginocchiato. Lynn guardava la madre turbato tendendo le braccia, mentre la donna, la testa reclina verso il basso, gli teneva una mano sulla spalla. Entrambi erano di profilo e, apparentemente, ignari della nostra presenza nel corridoio. La voce acuta e singhiozzante del giovane risuonava adesso con chiarezza. — ...Cara, cara — stava gridando — dimmi che non l'hai fatto! Oh, Dio, dimmi che non sei stata tu! Sai che ti voglio bene, adorata... ma non avrei voluto questo! Non l'hai fatto tu, vero, mamma? — Il tormento di quella voce mi procurò un brivido. Vance si schiarì ostentatamente la gola per avvisarli che ci trovavamo nel corridoio, sicché entrambi girarono di scatto la testa verso di noi. Lynn Llewellyn balzò in piedi e scomparve dalla nostra visuale. Quando entrammo nella stanza era in piedi vicino alla finestra e ci voltava le spalle. La signora Llewellyn non aveva lasciato la sedia, ma si era raddrizzata e ci salutò con un rìgido cenno della testa mentre oltrepassavamo la soglia. — Ci dispiace disturbarvi, signora — si scusò Vance con un inchino. — Ma secondo quanto ci ha detto il sergente Heath, pensavamo che questa stanza fosse vuota. Altrimenti, avremmo chiesto di essere annunciati. — Non importa — rispose stancamente l'anziana signora. — Mio figlio è voluto venire qui, per un qualche suo impulso morboso. Ha appena saputo della morte di sua moglie. Lynn, sempre vicino alla finestra, si era voltato e ora ci fronteggiava. Aveva gli occhi iniettati di sangue, le palpebre arrossate e stava cancellando i segni di lacrime recenti. — Scusate il mio stato, signori — si scusò, salutando Vance con un inchino. — La notizia è stata un colpo terribile. Mi... mi ha sconvolto... e, in ogni caso, non sto molto bene, stamattina. — Sì, sì. Possiamo capirlo — rispose Vance comprensivo. — Una tragica vicenda. Ero al Casinò ieri sera. È stata una brutta esperienza. Capisco. E ieri sera, qui, vostra sorella ha accusato lo stesso malessere. Sono felice che tutti e due vi siate ristabiliti. Llewellyn rispose con un vago cenno del capo e si guardò intorno con occhi instupiditi. — Non... non capisco — mormorò. — Siamo qui per cercare di capire — riprese Vance. — Avremo bisogno
di parlare con voi, un po' più tardi. Nel frattempo, vi spiacerebbe aspettare altrove? Vorremmo compiere un'ulteriore ispezione di questa camera. — Aspetterò in soggiorno. — Lynn si avviò con passo pesante verso la porta e, mentre passava oltre la madre, si fermò per indirizzarle un'occhiata supplice e indagatrice a cui la donna rispose con uno sguardo inespressivo. Dopo che ebbe lasciato la camera, la signora Llewellyn si rivolse cauta verso Vance. — Lynn — disse con un sorriso senza allegria — mi ha virtualmente accusato di essere responsabile dei tragici eventi di stanotte. Vance annuì partecipe. — Mi dispiace, ma abbiamo involontariamente ascoltato alcune sue frasi. Cara signora, non dimenticate che forse lui non è ancora del tutto in sé, stamattina. La vecchia signora parve non udire ciò che le diceva. — Naturalmente — spiegò — Lynn non crede veramente alle terribili implicazioni delle sue parole. Il povero ragazzo soffre molto. È stato un grave colpo per lui. È confuso. Sta cercando una spiegazione. E ha il vago timore che io possa essere la responsabile. Vorrei poterlo aiutare... Soffre davvero tanto. — Malgrado la profonda preoccupazione che queste parole esprimevano, la voce della signora Llewellyn aveva un tono artificioso, secco. Vance la fissò per un lungo momento. Dietro le palpebre socchiuse gli occhi grigi avevano un'espressione disincantata. — Capisco perfettamente i vostri sentimenti — disse infine. — Ma perché vostro figlio dovrebbe sospettare di voi? La signora esitò prima di rispondere, poi i muscoli del suo volto si irrigidirono come se avesse preso un'improvvisa e drammatica decisione. — Tanto vale che ammetta con franchezza quanto ero fermamente contraria al suo matrimonio. Non mi piaceva la ragazza: non era degna di lui. E forse sono stata troppo esplicita. Ho parlato con mio figlio dicendogli chiaramente quello che pensavo di lei e lui ora teme che io non abbia saputo controllare a sufficienza i miei sentimenti. Eppure, quando si è trattato della felicità di mio figlio, io non sono stata in grado di dissimulare le mie emozioni. — Strinse le labbra, poi proseguì: — Forse ha frainteso il mio atteggiamento. Forse ha preso troppo sul serio le mie critiche e ha sopravvalutato la reale portata della mia reazione. Vance annuì con discrezione. — Capisco cosa volete dire — mormorò. Poi, senza distogliere gli occhi
dal volto della vecchia signora aggiunse: — Voi e vostro figlio siete molto legati, vero? Forse troppo. — Sì. — Ammise lei con uno sguardo un po' vacuo. — Mio figlio subisce molto la mia influenza. — Un caso di profonda dipendenza dalla madre — suggerì Vance. — Può darsi. — La signora Llewellyn abbassò lo sguardo verso terra e, dopo un attimo, riprese: — Questo, naturalmente, spiegherebbe i suoi timori e i suoi sospetti nei miei riguardi. Vance si avvicinò al camino. — Sì, potrebbe essere una spiegazione. Ma, per il momento, non ci dilungheremo su questa eventualità. Più tardi, forse. Nel frattempo... La donna si alzò con rinnovata energia. — Io sarò nella mia stanza, se vorrete vedermi. — E si avviò furente verso la porta e la chiuse alle sue spalle. Vance studiò la punta della sigaretta assorto in pigra meditazione. — Che significato hanno tutti quei particolari intimi? Non era affatto preoccupata per sé, sembrava anzi compiaciuta perché avevamo sorpreso l'isterico Lynn genuflesso e delirante. Mi chiedo... Doloroso e sconcertante, Markham. — Alzò la testa e si mise a guardarsi intorno con occhio distaccato. — Vediamo se riusciamo a scoprire qualcosa di nuovo. Qualunque cosa. Un minimo indizio. L'intero sfondo di questo caso è vago e nebuloso. Nessuna vera traccia. Davvero, Markham, non so nulla. L'intelligenza non mi serve a niente. Posso solo avere dei sospetti, tuttavia... Si avvicinò al tavolo da toilette e osservò tutti i prodotti di cosmesi che c'erano. — I soliti articoli — mormorò aprendo il cassetto in alto. — Sì, decisamente in carattere con la giovane donna che li usava. Ombretto per gli occhi, mascara, matita per le sopracciglia, tutti gli accessori della vanità femminile rimasti inutilizzati ieri sera. Come ho già detto, stanno a indicare una morte inaspettata, non preordinata. — Chiuse il cassetto e si avviò verso il camino, fermandosi davanti a un piccolo scaffale. — Tutti romanzi francesi, letteratura di consumo. Aveva un gusto letterario abominevole. — Controllò l'antiquato orologio di ceramica sulla mensola. — Debitamente carico. Spacca il minuto. — Si chinò sulla grata. — Niente — si lamentò. — Neppure un mozzicone di sigaretta. — Girò per la stanza, osservando con cura ogni mobile e decorazione e, poi, si fermò ai piedi del letto. — Temo non ci sia niente che ci possa essere utile, qui, Markham. — Senza entusiasmo, rimase a fumare per un po', scoraggiato, quindi, si volse
verso il retro della camera. — Il bagno, ancora una volta — sospirò. — Una semplice precauzione... Tornò a ispezionare il bagno e ancora passò di nuovo in rassegna l'armadietto dei medicinali. Quando tornò in camera da letto aveva uno sguardo turbato. — Maledettamente strano — borbottò senza rivolgersi a nessuno in particolare. Poi alzò gli occhi verso Markham. — Giurerei che qualcuno ha spostato qualche bottiglia nell'armadietto dei medicinali da quando ci ho guardato ieri sera. Markham rimase imperturbabile. — Che cosa ve lo fa pensare? — chiese impaziente. — E, anche se così fosse, che significato avrebbe? — Non posso rispondere a nessuna delle vostre domande. Ma ieri sera ho colto un quadro molto ben definito di com'erano... come devo dire? di com'erano sistemate le bottiglie, le scatole e i tubetti nell'armadietto. C'era un certo equilibrio nella disposizione delle linee, delle figure geometriche, come in un dipinto di Picasso. E ora le proporzioni e i rapporti non sono gli stessi. C'è una lieve distorsione dei valori rispetto a come si presentavano ieri sera, quasi fosse stato cancellato un accento o messo in rilievo un profilo: il quadro è stato ritoccato o modificato in qualche modo. Ma, a quanto pare, dall'armadietto non manca nulla, ho controllato i medicinali a uno a uno. — Aspirò a fondo la sigaretta. — Eppure, è stata eliminata o modificata una certa disposizione: un tocco particolare è stato aggiunto o un certo equilibrio è stato modificato. Non so dire altro. — Mi sembra che stiate lasciandovi influenzare da una strana inclinazione all'esoterismo — brontolò Markham. — È vero — convenne il mio amico. — Probabilmente è come dite voi. Comunque, non mi piace affatto. Disturba la mia sensibilità estetica. — Alzò le spalle e si avvicinò di nuovo alla testiera del letto. Per un poco, rimase a guardare in giù, in atteggiamento pensoso, verso il comodino, fissando il portacenere, il telefono e la lampadina dall'abat-jour di seta. Poi aprì lentamente il cassetto. — Parola mia! — A un tratto cacciò dentro la mano e ne estrasse una pistola. — Markham, non c'era ieri notte. Incredibile! Esaminò l'arma, poi la rimise con cura esattamente dove l'aveva trovata e si voltò. Il procuratore era ora più animato. — Siete sicuro che non ci fosse ieri notte, Vance? — Oh, sì. Sì. Ne sono certo. Non posso aver fatto un simile errore di
omissione. — Ma se anche fosse — insisté Markham, sconcertato e impaziente — quale possibile rapporto può avere con tutti questi avvelenamenti? — Non ne ho la più pallida idea — ammise calmo il mio amico. — Eppure questa strana faccenda ha un suo interesse accademico... Che ne direste di scendere a parlarne con l'infelice Lynn? 9 UN COLLOQUIO PENOSO (Domenica, 16 ottobre, ore 10,30) Quando entrammo in soggiorno, Lynn Llewellyn fumava la pipa, disteso su una poltrona bassa. Al vederci, si alzò in piedi con uno sforzo evidente e si appoggiò pesantemente al tavolo centrale. — Che ne pensate? — chiese con voce rauca, spostando dall'uno all'altro gli occhi velati. — Per ora, niente. — Vance lo guardò appena e andò verso la finestra che si apriva sulla facciata. — Noi speriamo molto nel vostro aiuto. — Sono a vostra disposizione. — Llewellyn compì con il braccio un vago gesto di docile condiscendenza. — Ma non vedo come possa esservi utile. Non so neppure cosa mi sia capitato ieri sera. Immagino che stessi vincendo troppo. — Il tono della sua voce si era fatto amaro e un sogghigno sarcastico gli increspava le labbra. — Quanto avete vinto? — domandò Vance in tono distratto, senza neppure voltarsi. — Oltre trentamila. Mio zio mi ha detto stamattina che li ha messi al sicuro in cassaforte. — Il giovane irrigidì i muscoli della mascella. — Ma io volevo far saltare il suo maledetto banco. — A proposito — domandò Vance, che era tornato verso il centro della stanza per sedersi vicino al tavolo — avete notato un qualche gusto particolare nel whisky o nell'acqua che avete bevuto ieri sera? — No, nessuno. — La risposta giunse senza esitazione. — Ci ho pensato stamattina, ho cercato di ricordare, ma non ho avvertito niente di strano. Anche se, al momento — aggiunse — ero particolarmente agitato. — Vostra sorella ha bevuto un bicchiere d'acqua qui, in camera di vostra madre, ieri sera — proseguì Vance — e ha avuto un collasso con i vostri stessi sintomi. Lynn Llewellyn annuì.
— Lo so. Non riesco a capire. Sembra un incubo. — Proprio così — convenne il mio amico. Poi, dopo una pausa, rialzò lo sguardo. — Signor Llewellyn, pensate che vostra moglie possa essersi suicidata? Il giovane sussultò e, voltandosi rapidamente, fissò Vance con occhi sgranati. — Suicidio? Via, no, no, non aveva motivo... — S'interruppe bruscamente. — Eppure non si può mai dire — riprese con un tono di voce forzato, teso. — In fondo, può anche darsi. Non ci avevo pensato... Credete davvero che si tratti di suicidio? — Abbiamo trovato un biglietto — gli spiegò Vance con voce quieta. Llewellyn tacque per un po'. Mosse qualche passo incerto, quindi tornò indietro, sprofondo nella poltrona dove l'avevamo trovato. — Posso vederlo? — chiese infine. — Non l'abbiamo qui adesso — replicò Vance con voce distaccata. — Ve lo mostrerò più tardi. Era battuto a macchina e indirizzato a voi, parlava della sua infelicità in questa casa e della gentilezza di vostro zio nei suoi riguardi. E vi augurava ogni fortuna alla roulette. Breve, preciso, definitivo, ordinatamente ripiegato sotto il telefono. Llewellyn non si mosse. Guardava dritto davanti a sé. Non fece commenti. L'espressione della sua faccia non lasciava trapelare i suoi pensieri. Infine Vance riprese la parola. — Possedete una pistola, signor Llewellyn? Il giovane s'irrigidì nella poltrona, fissandolo con una subitanea, tacita domanda nello sguardo. — Sì, ne possiedo una. Ma non capisco che importanza abbia. — E dove la tenete di solito? — Nel cassetto del comodino vicino al letto. Ci sono stati due tentativi di furto. — Non era nel cassetto, ieri sera. — Naturale. L'avevo con me. — Llewellyn studiava ancora Vance con aggrondata perplessità. — La portate sempre con voi quando uscite? — No, di rado. Ma di regola la prendo quando vado al Casinò. — Perché riservate al Casinò questa particolare distinzione? Il giovane aspettò prima di rispondere, mentre negli occhi un'espressione di animosità repressa gli affiorava. — Non so mai cosa può succedermi là — rispose tra i denti. — Tra me e
mio zio non c'è molto affetto. Lui vorrebbe prendere i miei soldi e io i suoi. Per essere sincero devo ammettere che non mi fido di lui. E gli avvenimenti di ieri sera possono forse anche giustificare i mìei sospetti. In ogni caso, ho una mia teoria sull'accaduto. — Non vi chiederemo di svelarcela, per il momento, signor Llewellyn — rispose Vance. — Anch'io ho le mie idee. Inutile confondere questo caso già complesso con ulteriori divagazioni. Voi avete dunque portato la vostra pistola al Casinò ieri sera e poi l'avete rimessa nel cassetto del comodino questa mattina: è esatto? — Sì! È esattamente quello che ho fatto — assicurò il giovane con un tono apertamente aggressivo. — Avete il porto d'armi? — domandò Markham. — Naturalmente. — Llewellyn si adagiò di nuovo nella poltrona. Vance si alzò e rimase in piedi a fissarlo dall'alto. — Cosa mi dite di Bloodgood? — chiese. — Anche lui costituisce un motivo di timore? — Non mi fido di lui come non mi fido di Kinkaid, se è questo che volete sapere — ribatté il giovanotto prontamente. — Si lascia comandare a bacchetta da mio zio e farebbe qualunque cosa gli dicesse. È freddo e insensibile e ha molto da guadagnare se gli riesce di giocare, come lo desidera, le sue carte. Vance annuì con comprensione. — Già, proprio così. Capisco il vostro punto di vista. Vostra madre ci ha fatto capire abbastanza chiaramente che intende sposare vostra sorella. — Esatto. E perché no? Per lui è un buon partito! — Vostra madre ci ha anche detto che vostra sorella ha ripetutamente respinto la sua domanda di matrimonio. — Questo non significa niente — replicò Lynn con una nota amara nella voce. — Il suo entusiasmo per l'arte non si spinge a grandi profondità. È solo temporaneamente annoiata della vita. Le passerà. E alla fine sposerà Bloodgood. A suo modo, con freddezza e superficialità, lei si sente molto attratta da lui. — Si interruppe, poi concluse con un sogghigno: — Quei due formeranno una bella coppia. — Commenti illuminanti — mormorò Vance. — E il giovane dottor Kane? — Oh, lui non conta. Ha intenzioni serie, però, con Amelia, e le sarà sempre devoto. È condannato a vita a recitare il ruolo di Cayley Drummle con la sua Paula Tanqueray. A lei, in fondo, non dispiace. Sono tutti e due
così egoisti. — Un caso di patologia familiare — concluse Vance. Llewellyn non si irrito limitandosi a sorridere stancamente e a convenire: — È proprio vero. Nessuno di noi è veramente normale. Come tutti i membri di queste vecchie famiglie che hanno troppo denaro e nessuno scopo nella vita, ci limitiamo a rimuginare i nostri rancori e a tramare complotti. Vance lo guardò con impietosa curiosità. — Sapete nulla di veleni? — chiese a bruciapelo. Il giovane si abbandonò a una risata sgradevole: la domanda sembrava non averlo affatto turbato. — No — rispose subito. — Ma evidentemente qui c'è qualcuno che ne sa parecchio al riguardo. — Nella piccola biblioteca laggiù — osservò Vance, con un gesto distaccato della mano — ci sono diversi volumi che trattano a fondo questo argomento. — Che cosa! — sobbalzò Llewellyn. — Dei libri sui veleni, qui? — Per un attimo, fissò Vance con gli occhi sbarrati dalla sorpresa e l'orrore. Poi si abbandonò di nuovo sullo schienale e prese a giocherellare con la pipa. — Il fatto vi sorprende? — La voce di Vance era insinuante. — No, no. Certo che no — rispose Llewellyn in un bisbiglio quasi impercettibile. — Sul momento, forse, questa constatazione mi ha fatto intravedere alcune possibilità. Poi mi sono ricordato degli interessi scientifici di mio padre. Si tratta certo dei suoi vecchi libri. Sopra gli occhi socchiusi e pensierosi, una ruga pensosa si era incisa sulla fronte di Llewellyn. Una serie di sospetti spiacevoli sembrava attraversargli la mente, mentre tutto il suo corpo rimaneva rigido e immobile. Senza parere, Vance rimase a osservarlo a lungo prima di parlare. — Questo è tutto, per il momento, signor Llewellyn — annunciò prendendo cortesemente congedo. — Potete andare di sopra. Vi avvertiremo se mai avessimo ancora bisogno di voi. Fareste meglio a restare in casa, oggi, e a riposarvi. Mi spiace di avervi turbato ricordandovi i trattati di tossicologia che ci sono qui in casa. Il giovane si era alzato ed era già quasi alla porta. — Non è che mi abbiate proprio turbato — rispose fermandosi sulla soglia. — Kane è medico e Bloodgood si è laureato in chimica all'università, mentre Kinkaid ha scritto un capitolo intero sui veleni orientali in uno dei suoi libri di viaggi. — Sì, sì, capisco perfettamente — lo interruppe Vance con qualche im-
pazienza. — Non avrebbero naturalmente avuto bisogno di quei libri. E se quei volumi fossero stati usati come fonti di consultazione per quanto è avvenuto ieri, la rosa degli eventuali sospetti potrebbe restringersi a voi, vostra madre e vostra sorella. Siccome voi e vostra sorella siete stati entrambi vittime del piano criminoso, ci rimane solo vostra madre. Lei potrebbe essere la persona che avrebbe potuto servirsi dei trattati. È questo pensiero che vi è passato per la testa, vero? Llewellyn si inalberò. — No, niente del genere! — protestò con vigore. — Mi sono sbagliato — mormorò Vance, con una strana sfumatura di simpatia nella voce. — A proposito, signor Llewellyn, volevo chiedervi se casualmente, per un qualunque motivo, voi avete aperto l'armadietto dei medicinali. Il giovane scosse la testa. — No... sono sicuro di no. — Non importa. Qualcuno l'ha fatto. — Vance tornò alla sua sedia e Llewellyn ci lasciò con una scrollata di spalle. — Che ne pensate di lui, Vance? — domandò il procuratore. — Soffre. — Un sospiro meditabondo. — È in preda a idee morbose. Si preoccupa molto per sua madre. Un caso molto triste... — Ha detto che aveva una teoria sui fatti di ieri sera. Perché non l'avete spinto a esporla? — Sarebbe stato troppo penoso e avrebbe rivelato solo il suo stato d'animo. Sì, troppo penoso. Questo giovane mi fa molta pena, lo devo ammettere. Faccio fatica a reggere, Markham. Vorrei andarmene lontano. Vorrei andare a prendere un po' di sole. Vorrei vedere Santa Claus. Vorrei andare a mangiare una buona sogliola inglese. Vorrei poter ascoltare il quartetto in do diesis minore di Beethoven... 10 IL REFERTO DELL'AUTOPSIA (Domenica, 16 ottobre, ore 11,15) Sulla porta comparve il sergente Heath. — Il dottorino sta scendendo ora le scale. Volete vederlo, signore? Vance esitò, poi annuì. — Sì, chiedetegli di entrare, sergente. Heath disparve e un attimo dopo il dottor Kane entrò nel salotto. Aveva
la faccia dai tratti tirati di chi ha dormito poco, ma non gli si leggeva più l'ansia negli occhi. Ci salutò anzi in tono quasi allegro. — Come va la vostra paziente, questa mattina? — gli domandò Vance. — Si è quasi completamente ristabilita. Sono rimasto qui un paio d'ore dopo che voi, signori, siete usciti ieri notte, e quando me ne sono andato la signorina Llewellyn riposava tranquillamente. Stamane si sente certamente debole ed è molto nervosa, ma polso, respiro e pressione sono normali. — Dottore, avete idea di quale veleno possa averla ridotta in quelle condizioni, stanotte? Kane contrasse le labbra e guardò nel vuoto. — No — rispose finalmente — anche se ovviamente ci ho pensato a lungo. I sintomi erano quelli di un normale collasso. Da questo punto non ho notato niente. Ci sono naturalmente diverse droghe che, da un punto di vista medico, potrebbero averli provocati. Una dose eccessiva di un qualunque sonnifero contenente dei barbiturici sarebbe stata sufficiente. Ma, come potete capire, non vorrei esprimere un'opinione a caso. Intendevo svolgere qualche ricerca sulla questione appena tornato in studio. Vance, deciso a non insistere oltre, lasciò andare il dottore e mandò a chiamare il maggiordomo. Imperturbabile come sempre, Smith appariva ancora pallido in volto. — Vi prego, avvertite la signorina Llewellyn che vorremmo parlarle qui in salotto o se lo preferisce nella sua stanza. Il maggiordomo s'inchinò e uscì. Al ritorno, informò Vance che la signorina Llewellyn ci avrebbe ricevuto in camera sua. Salii insieme agli altri. La ragazza, distesa su una chaise-longue, indossava un pigiama giapponese dai ricami elaborati. Accanto a lei, uno sgabello di lacca con un servizio completo da fumo, alcune riviste d'arte e una statuetta d'argento di stile astratto, simile a un'opera di Archipenko. Ci salutò con un cenno brusco, abbozzando appena un sorriso beffardo. — A quanto mi dice il dottor Kane, è mancato poco che questo nostro incontro rientrasse nella voce: "Visita dei poveri resti". — Siamo molto contenti di vedere che vi siete ripresa così bene — disse Vance, serio. — Ma qualcuno, di sicuro, non considererà la mia guarigione in modo così caritatevole — replicò lei con sarcasmo. Scrollò lievemente le spalle con una smorfia. — Comincio a sentirmi come un visitatore al palazzo dei Borgia. Stamattina vi assicuro che ho mangiato il mio toast e bevuto il caffè con un certo timore.
Vance annuì comprensivo. — Dubito, comunque, che dobbiate nutrire ancora qualche timore. Qualcosa è andato decisamente storto stanotte. L'avvelenatore deve essersi imbattutto in una serie di coincidenze impreviste. Ora dovrà rielaborare il suo piano e studiare un sistema diverso. Noi speriamo però di avere ripreso in mano la situazione in quanto, ora, perlomeno, sappiamo quali sono le azioni che potrebbe compiere per portare a termine il suo crimine. Amelia Llewellyn lo fissò interessata. L'espressione del suo volto aveva perso il suo solito cinismo. — Questo mi fa pensare che sappiate più di quanto vogliate divulgare — disse. — Già, proprio così. Molto di più. Ma non abbastanza. Comunque, stiamo facendo dei progressi e speriamo... Avete visto vostro fratello? Si è quasi completamente ristabilito anche lui, sebbene l'avvelenamento di cui è stato vittima fosse molto più grave del vostro. — Sì — ammise la ragazza. — Rappresentiamo due fallimenti. Come ben sapete. — Deludiamo sempre qualcuno — ribatté Vance. — Io spero proprio di non deludere voi in questo caso. Nel frattempo vi dispiace se dò un'occhiata al vostro guardaroba e faccio un piccolo esperimento? — Guardate e sperimentate tranquillamente. Ne sarò felice. — Agitò il braccio verso una porta alla sua sinistra con un gesto quasi allegro. Vance andò ad aprirla. Come Amelia ci aveva spiegato la notte prima, dava su un corridoio che un tempo univa le due stanze principali dell'ala sud della casa. Sulla destra c'erano una scarpiera e un piccolo armadio, dal lato opposto erano appese molte gonne e abiti. A metà di una parete c'era ancora il vecchio lavabo rivestito di marmo con i suoi rubinetti a collo di cigno. Dall'altro lato dell'improvvisato guardaroba, si notava una porta. Quando Vance l'aprì, potemmo vedere la grande camera da letto dove Virginia Lleweilyn aveva trovato la sua tragica fine. — Van — mi disse il mio amico, tornato verso di noi — chiudete tutt'e due le porte e restate vicino al letto. Poi chiamatemi a voce alta. Quando mi sentirete bussare sulla porta più lontana, provate di nuovo a chiamarmi con la stessa intensità. Passai dal corridoio alla stanza più lontana e, accanto al letto di morte di Virginia, chiamai a voce alta. Poco dopo udii un colpetto sull'uscio e gridai di nuovo. Poi, Vance aprì la porta. — È tutto, Van. Grazie infinite.
Quando rientrammo nella camera di Amelia, la ragazza lanciò allo sperimentatore un'occhiata beffarda. — Che cosa avete appreso, Monsieur Lecoq? — chiese. — Semplicemente che ci avete detto la verità circa l'acustica fra le due stanze — rispose Vance scherzoso. — Con tutt'e due le porte chiuse, non sono riuscito a sentire il signor Van Dine, ma l'ho sentito chiaramente mentre mi trovavo nel guardaroba. La ragazza sospirò con fare teatrale. — Come sono felice che almeno una volta sia stata dimostrata la mia sincerità. Mia madre invece mi critica e afferma che io mentirei sempre piuttosto che dire la verità. — A proposito di vostra madre — riprese Vance sedendosi a guardarla con serietà — vorrei che ci diceste esattamente cos'è successo quando ieri sera avete bevuto il bicchiere d'acqua in camera sua. Il tono grave usato dal mio amico cancellò subito quei po' di allegria che c'era nell'atteggiamento della giovane. — Come succede che uno beva un sorso d'acqua? So soltanto che avevo sete e istintivamente ho preso l'acqua che avevo di fianco. Avevo l'intenzione di aspettare là il ritorno di mia madre. Ero ovviamente sconvolta e volevo parlare con qualcuno... — Avete avvertito un gusto particolare bevendo quell'acqua? — No. Sembrava del tutto normale. — Quanta acqua c'era nella caraffa? — A stento un bicchiere. Ricordo vagamente di aver desiderato che ce ne fosse dell'altra. Ma ero troppo pigra per alzarmi. Al ritorno di mia madre, avevo un gran mal di testa, mi pulsavano le tempie, mi ronzavano le orecchie e mi sentivo molto debole. Avevo la mente confusa. Mi sono avviata verso la mia camera. Questo è tutto quel che ricordo. — Rammentate chiaramente il ritorno di vostra madre nella stanza? — Oh, sì. Ci siamo dette qualcosa, non so più che cosa, con esattezza. Mi sono probabilmente lamentata del mal di capo, ma sentivo già che tutto mi girava intorno. — Quando vi è venuta sete, cioè, prima di bere, lo avete detto a vostra madre? La ragazza ci pensò per un lungo momento, poi rispose: — No. Mia madre si era seduta al tavolo da toilette e si stava preparando a scendere in salotto per parlarvi. Non credo di averglielo detto. Ho solo allungato la mano e mi sono versata quella poca acqua che c'era nella brocca. Poi mia madre è maestosamente uscita di scena.
— E l'acqua della vostra caraffa? L'avete bevuta voi? La cameriera ha detto di averla riempita. Ma quando l'abbiamo fatta esaminare, quando eravate ancora svenuta in camera di vostra madre, la caraffa è risultata vuota. — Sì, lo so che era vuota. L'ho bevuta tutta io nelle prime ore della sera mentre stavo disegnando. — Amelia spalancò un poco gli occhi. — Anche la mia acqua era avvelenata? Vance scosse la testa. — No, impossibile. È trascorso troppo tempo. Avreste avvertito gli effetti del veleno al massimo mezz'ora dopo averla bevuta. Vance si voltò di scatto e si avvicinò con passo leggero alla porta sul corridoio. Girò con cautela la maniglia e poi aprì bruscamente la porta. Fuori, davanti a noi, si trovava Richard Kinkaid. Non un muscolo della sua faccia si mosse a dimostrare un qualche sconcerto per l'iniziativa di Vance. Si tolse adagio la sigaretta di bocca e freddo e formale fece un breve inchino di saluto. — Buon giorno, signor Vance — disse in tono posato. — Sono venuto a informarmi sulla salute di mia nipote. Ma quando ho sentito delle voci nella stanza ho pensato che c'eravate voi e il signor Markham, e non volevo disturbare. Ma voi evidentemente mi avete sentito... — Sì, sì. Ho sentito qualcuno muoversi fuori dalla porta. — Si fece di lato. — Stavamo facendo qualche domanda alla signorina Llewellyn. Ma abbiamo ormai finito. Stamane sta molto meglio. Kinkaid entrò e, dopo aver salutato la nipote e detto un paio di frasi formali, si sedette. — Nessun altro sviluppo? — chiese puntando sul mio amico due pupille acute. — Oh! a non finire — rispose Vance senza sbilanciarsi. — Procedono le indagini. Non possiamo ancora cantare vittoria. Sono comunque lieto che siate capitato qui. Prima di lasciare questa vostra casa volevo chiedervi l'indirizzo di Bloodgood. Siamo particolarmente ansiosi di scambiare due chiacchiere con quel signore. Kinkaid serrò la mascella, indurì lo sguardo, ma non lasciò trapelare altro segno di sorpresa a quella richiesta. — Bloodgood risiede all'Astoria Hotel nella Ventiduesima Strada — informò Vance scuotendo la cenere della sigaretta su un portacenere al suo fianco. — State seguendo la pista sbagliata — aggiunse con una lieve sfumatura sprezzante. — Ma andate pure a interrogarlo. Resterà in albergo
tutto il giorno, gli ho appena parlato al telefono. Anche se perderete il vostro tempo: Bloodgood gioca a carte scoperte. — Io non lo conosco molto bene — mormorò Vance. — Ma poiché è stato lui a ordinare l'acqua naturale per Lynn Llewellyn ieri sera al Casinò, potrebbe essere interessante conoscere il suo punto di vista in materia, sapete. Amelia, che si era visibilmente irrigidita al sentire il nome di Bloodgood, a quel punto si alzò a fissare Vance con un'espressione di sfida negli occhi lampeggianti. — Che volete dire con questo? — domandò. — State accusando il signor Bloodgood di aver dato il veleno a Lynn? — Mia cara signorina! — Perché, in tal caso — proseguì la ragazza con tono rabbioso — posso dirvi esattamente chi è responsabile di tutto quel che è successo in questa famiglia la notte scorsa. Vance la guardò con calma e, con voce gelida pari a quella della giovane disse: — Quando si saprà la verità, signorina Llewellyn, temo che la vostra testimonianza non sarà necessaria. — E, con un inchino formale rivolto a lei e a Kinkaid, si accomiatò insieme a noi. Stavamo per scendere al pian terreno, e Vance esitò e tornò lungo il corridoio verso la camera della signora Llewellyn. — C'è un piccolo particolare di cui vorrei far parola alla padrona di casa prima di uscire — spiegò a Markham, mentre bussava alla porta. La signora Llewellyn ci ricevette di malagrazia, con un atteggiamento palesemente ostile. Vance si scusò per il disturbo che le arrecava. — Desideravo solamente dirvi, nel caso vi possa interessare, che vostro figlio è parso molto turbato quando l'ho informato dei volumi sulla tossicologia nella biblioteca dabbasso. Sembrava all'oscuro della loro esistenza. — Non mi stupisce — replicò la signora con algido distacco. — Mio figlio non legge molto, i suoi gusti letterari non vanno al di là del teatro. Dubito abbia familiarità con qualcuno dei libri lasciati da suo padre. Nulla potrebbe essere più estraneo alle sue inclinazioni della ricerca scientifica. E quanto al suo turbamento per l'esistenza di volumi che trattano di veleni in questa casa, posso assicurarvi che è perfettamente naturale, considerata l'esperienza vissuta ieri sera. Vance annuì come soddisfatto della spiegazione. — Più che plausibile — mormorò. — E forse potete offrirci una giustifi-
cazione altrettanto naturale del perché voi abbiate trascorso parte della mattina nella biblioteca. — Così i miei movimenti sono spiati! — esclamò la vecchia signora con voce tagliente e risentita, ma poi, quasi subito ci fu un brusco mutamento nei suoi modi. I suoi occhi si restrinsero e un sorriso più consapevole le sfiorò le labbra. — Il senso implicito nelle vostre parole, immagino, è che io stessa stavo consultando quei particolari volumi sui veleni. — Vance rimase in attesa e la signora Llewellyn proseguì. — Bene, è proprio quello che stavo facendo. Se può aiutare le vostre indagini: stavo cercando di individuare il tipo di droga che aveva provocato il malore dei miei figli ieri sera. — E avete trovato qualche riferimento a una droga del genere, signora? — No! Non ho trovato niente. Lasciato cadere l'argomento, Vance prese commiato e soggiunse: — Non ci sarà nessuno a spiare i vostri movimenti, almeno per il momento. La polizia sarà allontanata da questa casa: voi e i vostri familiari sarete liberi di andare e venire a vostro piacimento. A pian terreno, Markham trasse il mio amico in disparte. — Sentite, Vance — chiese preoccupato — non siete un po' troppo frettoloso? — Mio caro Markham — lo canzonò l'altro. — Io non sono mai frettoloso. Sono lento e ostinato e cauto: una tartaruga. C'è sempre un motivo per tutto quel che faccio. E ora ho eccellenti ragioni per liberare temporaneamente casa Llewellyn da ogni sorveglianza. — Eppure — obiettò il procuratore — la situazione non mi sembra chiara e penso che dovremmo vigilare. — Un pensiero virtuoso. Ma di scarsa utilità. — Vance contemplò Markham con espressione dolente. — Vigilare non ci aiuterà. Mi hanno invitato a vigilare sul possibile trapasso di Lynn. E noi tutti eravamo a vigilare in casa ieri notte quando anche Amelia è stata avvelenata. Davvero, sapete, non siamo assolutamente in grado di fornire a ogni membro della famiglia Llewellyn una guardia del corpo all'infinito. Markham lo fissò come se cercasse di leggere nei suoi pensieri. — Non vi è sembrata interessante quell'osservazione della ragazza, quando ha detto di sapere chi è il responsabile di tutto quanto? Voi le credete? — Oh, mio caro Markham! — sospirò Vance con rammarico. — Troppo presto per cominciare a credere a chiunque. La nostra sola speranza risiede
in un atteggiamento di completo scetticismo. L'onesto dubbio, poco stimato, ma quanto mai efficace, a volte, offre alla mente la possibilità di esercitarsi liberamente. — Eppure — insistette Markham — voi avevate un'idea precisa in testa quando avete deciso di ritirare la polizia. — No, no, niente di preciso — rispose Vance sorridendo. — Mi sto solo muovendo a tentoni. Cerco un'illuminazione... E ho un intenso desiderio di vedere il referto dell'autopsia. Quello, almeno, sarà preciso. E, ahimé, forse rivelatore. Markham cedette a malincuore. — Molto bene. Darò ordine a Heath di ritirarsi temporaneamente e di mandare via i suoi uomini. — Ditegli di passare a prendere il nostro croupier all'Astoria e portarlo al vostro ufficio — suggerì Vance. — Sono ansioso di metterlo sulla graticola, come direste voi, pubblici accusatori. Sono convinto che l'atmosfera deprimente dei dintorni del Palazzo di Giustizia potrebbe sortire il giusto effetto psicologico. — Che cosa vi aspettate di sapere da lui? — Nulla, decisamente nulla — rispose Vance, e poi soggiunse: — Ma anche un diniego potrebbe riuscire d'aiuto. Ho il presentimento che questo caso alla fine sarà risolto per via negativa. Markham emise un brontolio indistinto e uscì insieme a noi nell'atrio dove ci aspettava il sergente che pareva piuttosto depresso. Dieci minuti dopo, Vance, Markham e io puntavamo verso il centro. Heath era stato debitamente istruito sulla linea d'azione stabilita. Appena entrati nel vecchio ufficio del procuratore, una stanza spaziosa dall'arredo trasandato che s'affacciava sulle tetre muraglie grigie dei Tombs, Markham mandò a chiamare Swacker e gli chiese se era giunto il rapporto del dottor Doremus e quello sui campioni dei fogli dattiloscritti inviati al laboratorio scientifico. — Il rapporto del laboratorio è arrivato — rispose il segretario, indicando una busta sigillata sulla scrivania — ma il dottor Doremus ha telefonato alle undici per avvertirci che il referto tarderà. L'ho richiamato dieci minuti fa e uno degli assistenti mi ha assicurato che hanno appena mandato il rapporto. Ve lo porterò, appena l'avrò in mano. — Un ritardo, eh? — biascicò Vance. — Eppure non ci dovevano essere complicazioni. Con l'indicazione relativa all'avvelenamento da belladonna, il tossicologo sapeva esattamente cosa cercare. Mi chiedo... Nel frattempo,
vediamo cos'ha da offrire l'ingegnoso esperto che lavora con la lente d'ingrandimento. Markham aveva già aperto la busta additata da Swacker. Messi da parte i tre campioni, lesse il rapporto d'accompagnamento, poi, dopo pochi secondi, depose anche quello. — Esattamente come sospettavate — riferì a Vance senza entusiasmo. — Tutti battuti sulla stessa macchina ed entro un lasso ragionevole di tempo, vale a dire, la quantità d'inchiostro sul nastro era la stessa in tutti e tre i casi, né si può stabilire con certezza quale dei tre messaggi sia stato scritto per primo. Inoltre, l'annuncio del suicidio e la lettera che avete ricevuto probabilmente sono stati redatti dalla stessa persona. In entrambi risultano certe particolarità nella pressione, nella punteggiatura e si nota il persistere di alcuni errori di battitura. C'è una sfilza di particolari tecnici, ma questo è il succo. — Tese il rapporto a Vance. — Volete leggerlo? Il mio amico si schermì con un gesto. — No, mi basta la conferma. Markham si sporse in avanti. — Sentite, Vance, cosa significano questi due documenti dattiloscritti? Ammessa la possibilità che la giovane donna non si sia uccisa, quale scopo perseguiva la persona che l'ha avvelenata mandandovi quella lettera? Vance rispose, serio. — Davvero, Markham, non lo so. — E mentre seguitava a parlare si mise a camminare lentamente avanti e indietro per la stanza. — Se solo quella lettera e il messaggio fossero stati scritti da due persone diverse, la faccenda sarebbe relativamente semplice. Vorrebbe dire che qualcuno ha progettato di avvelenare la ragazza in modo da far pensare a un suicidio, e che qualcun altro, subodorando l'omicidio nell'aria, mi ha spedito una drammatica richiesta di aiuto. In tal caso, due conclusioni sarebbero plausibili: l'anonimo autore della lettera temeva che Lynn fosse la vittima, ovvero sospettava lo stesso Lynn di un disegno criminoso ai danni della moglie e voleva che lo tenessi d'occhio... — E invece tutti e due sono stati vittime — interloquì Markham malinconicamente. — Questa ipotesi non ci porta da nessuna parte. In ogni caso, è solo una supposizione basata sulla falsa premessa che due persone diverse abbiano messo per iscritto le due missive. Perché non venite al punto? — Oh, mio caro amico! — protestò Vance. — Mi sto adoperando disperatamente per venire al punto, ma... accidenti a tutto! Non so quale sia. Per come si presenta adesso il caso, l'avvelenatore deve aver deliberatamente
attirato la mia attenzione e anche lasciato chiaramente intendere che la moglie di Lynn non si sarebbe suicidata, ma sarebbe stata effettivamente assassinata. — Ma non ha senso. — Eppure, Markham, sulla vostra scrivania avete la prova della mia apparentemente folle conclusione. C'è l'annuncio del suicidio, c'è la lettera indirizzata a me, piena di allusioni e sospetti, e c'è il verdetto del vostro esperto che sono stati battuti dalla stessa persona. Vance fece una pausa. — E che dire del successivo, inevitabile passo del nostro ragionamento? Come ho sussurrato al vostro riluttante orecchio, secondo me l'assassino vuole indurci a cercare il colpevole nella direzione sbagliata. Sta tentando, per così dire, l'impossibile impresa di fare due mani dello stesso seme con un singleton. E proprio questo rende il gioco così sottile e malefico. — Ma non era un singleton — obiettò Markham. — Trascurate la circostanza che tre persone sono state avvelenate. Se la vostra teoria è corretta, perché l'assassino non ha semplicemente avvelenato la ragazza e poi la vittima su cui avremmo dovuto fissare i nostri sguardi? Perché farci partecipi del suo piano quando sembra quasi che lui si sia messo ad avvelenarci tutti? — Domanda ragionevole — assentì Vance — che mi tortura da ieri sera. Una linea d'azione del genere sarebbe stata l'unica razionale. Ma, Markham, non c'è nulla di razionale in questo crimine. Non ci troviamo di fronte a un solo eventuale falso colpevole, ma a tutta una serie. E ho l'orribile sospetto che siano disposti in cerchio, mentre il vero assassino se ne sta al di fuori. La nostra sola speranza è che qualcosa sia andato storto. In ogni meccanismo delicato e complesso, un piccolo difetto, un minimo scarto nel funzionamento, mette a repentaglio l'intera struttura e inceppa il marchingegno. Questo non è un crimine dinamico, malgrado tutte le sue esasperate sottigliezze, divagazioni e circonvoluzioni, è statico e fisso nella concezione. E qui risiede la sua forza e la sua debolezza insieme. In quel momento, Swacker bussò e aprì la porta oscillante rivestita di cuoio, con uno spesso plico nelle mani. — Il referto dell'autopsia — annunciò, mettendolo sul tavolo di Markham e uscendo di nuovo. Subito il procuratore dissuggellò la busta e scorse le pagine dattiloscritte rilegate in una cartellina blu. A mano a mano che leggeva, si andava rannuvolando in volto, mentre una luce stranita gli compariva negli occhi: al
termine dell'ultima pagina, un aggrondato cipiglio gli si era disegnato sulla fronte. Sollevò lentamente la testa e posò su Vance, che sedeva davanti alla scrivania, uno sguardo che pareva perso in vane congetture. — Mio caro Markham — si lamentò il suo amico — su quale tenebroso segreto state rimuginando? — Nello stomaco della ragazza non hanno trovato traccia di belladonna. Né chinino, né canfora, il che elimina totalmente le pillole contro la rinite. Vance accese una sigaretta con deliberata lentezza. — Nessun particolare? Markham lesse dal responso: — I riscontri esatti sono: congestione dei polmoni, considerevole quantità di siero nelle cavità pleuriche, sangue per lo più in circolazione venosa, parte destra del cuore ingorgata, parte sinistra relativamente sgombra, tessuti del cervello e meningi congestionate; gola, trachea ed esofago iperemici... — Tutti sintomi di morte per asfissia. — Vance guardò fuori con espressione poco allegra dai finestroni rivolti a sud. — E nessun veleno! Doremus esprime qualche parere? — Niente di preciso. Fa sfoggio di una notevole cautela professionale. Si limita ad asserire che la causa dell'asfissia è ancora sconosciuta. — Già, già. Analisi del fegato, dei reni, dell'intestino e del sangue in corso. Ci vorrà un paio di giorni. Ma un po' del veleno dovrebbe trovarsi nello stomaco, se è stato assunto per via orale. — Doremus afferma che la descrizione del caso e gli elementi desunti dall'esame superficiale del cadavere indicavano l'assunzione di una dose eccessiva di belladonna o di atropina. — Questo lo sapevamo ieri sera. — Vance prese il referto e lo scorse con attenzione. — Sì. Come dite voi. Ricadde indietro nella sedia e piano piano incontrò con gli occhi lo sguardo preoccupato dell'amico, inspirando una generosa boccata di fumo. Infine, gettò il referto sul tavolo con un gesto deluso. — Questo rimette tutto in discussione, vecchio mio. Somministrano del veleno a una signora, presumibilmente per via orale, ma, del veleno, non si trova traccia. Altre due persone vengono avvelenate e si riprendono. A noi invece spetta il compito di affibbiare l'orribile crimine a qualche innocente astante... Oh, perdinci! Questa situazione è assurda! 11
PAURA DELL'ACQUA (Domenica, 16 ottobre, ore 12,30) Swacker sbirciò nella stanza. — C'è il sergente Heath con un signore, un certo Bloodgood. Markham guardò Vance che annuì, quindi disse al segretario di far entrare i due nuovi arrivati. Bloodgood era di umore tetro e sgradevole. Una sigaretta scura gli penzolava dalle labbra carnose. Con aria assente, salutò Vance con un semplice cenno della testa, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni. Rispose a stento, quando gli fui presentato insieme a Markham. Poi si trascinò verso la sedia più vicina e vi sprofondò pesantemente. — Procedete — esordì con voce apatica. — Kinkaid mi ha detto al telefono che volete mettermi al tappeto. — Davvero? — Vance guardava di nuovo fuori dei finestroni. — Molto interessante. Vi ha avvertito di essere cauto o vi ha consigliato cosa dire? Bloodgood rizzò il pelo. — No. Perché avrebbe dovuto? Mi ha riferito che mi avete collegato all'incidente capitato a Lynn Llewellyn ieri sera. — Voi avete stabilito il collegamento, signor Bloodgood — corresse Vance soave, senza distogliere lo sguardo dai cieli grigi oltre le vetrate opache. — Noi pensavamo soltanto che poteste offrirci una spiegazione o un suggerimento per aiutarci a giungere al fondo di questa diabolica faccenda. Il tono, benché fermo e severo, non era ostile e Bloodgood, evidentemente, colse quella nota perché si drizzò un poco nella sedia e rinunciò ai suoi modi sgarbati. Anzi, quando riprese la parola, mi colpì il suo equilibrio e la sua urbanità. — Davvero non c'è nulla che possa spiegare, signor Vance. Voi vi riferite, immagino, ai miei ordini al ragazzo giapponese, perché portasse dell'acqua naturale a Llewellyn. Una sfortunata coincidenza. Mi limitavo a usare qualche cortesia con un ospite del Casinò, un semplice dovere professionale. Kinkaid ci tiene molto. Sapevo che Llewellyn non beve mai la soda e già prima, in serata, l'avevo sentito chiedere dell'acqua naturale. Quasi tutti i camerieri conoscono i suoi gusti, ma Mori non è con noi da molto. E dirò anche questo, a proposito di Llewellyn: non beve granché quando viene al Casinò. Probabilmente, ha letto chissà dove che bisogna tenere sgombro il cervello, quando si gioca. Come se importasse! — Sbuf-
fò sprezzante. — La fortuna non s'informa sullo stato mentale di una persona prima di favorirla. — Proprio così — mormorò Vance. — E la legge delle probabilità funziona per i sobri e per gli ebbri indistintamente. Sì. Del tutto amorale. Pensiero consolante. Non c'era quindi nessun motivo, dietro la vostra politesse nei confronti di Llewellyn, se non il desiderio di soddisfare le norme di gentilezza del vostro principale? — Un motivo sinistro? — chiese Bloodgood risentito, irrigidendosi all'improvviso. — Davvero, sapete, io non ho specificato. — Vance fumava placido. — Perché attribuire l'intento meno caritatevole alla mia domanda? Spero che il tarlo della cattiva coscienza non vi pesi addosso. Bloodgood si rilassò e l'ombra di un sorriso gli animò gli angoli della bocca. — Probabilmente tra poco mi metterò una corda al collo. Compio un atto gentile e il destinatario quasi soccombe. Voi mi porgete un coltello e io lo afferro per la lama. — Scrollò le spalle. — Il punto è che, in condizioni normali, non avrei interferito nelle bevande sorbite da Llewellyn al Casinò, non ho eccessiva simpatia per lui, ma, ieri sera, mi faceva pena. Kinkaid non ha simpatia per lui, e alla roulette in genere ha una sfortuna nera. Vince di rado e Kinkaid di solito ne gode. L'ultima volta ha avuto una serie favorevole: aveva già recuperato una larga parte delle perdite. Poi è crollato: una reazione psicologica, immagino. È diventato nervoso, ha smarrito l'equilibrio e ha cominciato a comportarsi al tavolo in modo assurdo: copriva le sue puntate e puntava perfino contro se stesso, scegliendo sempre le probabilità meno favorevoli. Aveva bisogno di bere, se mai una persona ne abbia avuto bisogno. E quando ho visto la soda, che non avrebbe toccato, ho provato una sorta di impulso umano ad aiutarlo. Così ho ordinato l'acqua naturale. In un certo senso, è stata una buona mossa: quando è svenuto stava guadagnando trentamila dollari. Ma la mia gentilezza ha evidentemente messo me nei guai. — Sì, le cose stanno così. Non si può mai dire, vero? Mondo bizzarro. Impossibile darsene ragione. — I commenti di Vance avevano un tono impersonale. — A proposito, sapete da dove veniva quell'acqua, da voi ordinata così caritatevolmente? — Dal bar, suppongo. — Oh, no. No. Non dal bar. Mori è stato deviato nella sua pietosa missione. L'acqua veniva dalla caraffa privata di Kinkaid.
Bloodgood si drizzò spalancando gli occhi. Vance annuì. — Sì. Kinkaid ha detto a Mori di prendere l'acqua dal suo ufficio. Troppe persone al bar, mi ha spiegato. Un ritardo inutile. Il suo unico pensiero era Llewellyn. Tutti molto preoccupati per il suo benessere, ieri sera. Angeli custodi. Tutti molto comprensivi. E poi, l'ingrato, crolla avvelenato. Bloodgood fece per parlare, ma subito richiuse le labbra e, ricadendo contro lo schienale, guardò dritto davanti a sé in cupo silenzio. Dopo una breve pausa, Vance spense la sigaretta e ruotò la sedia in modo da vederlo in faccia. — Voi sapete, naturalmente — gli chiese — della morte della moglie di Llewellyn avvenuta stanotte? Bloodgood annuì senza distogliere gli occhi dall'astratto punto focale. — Ho letto i giornali stamattina. — Credete si tratti di suicidio? Il croupier voltò di scatto la testa fissando Vance. — Non è così? Secondo i giornali è stato trovato un messaggio di addio... — La versione è esatta. Ma non del tutto convincente. — Ma lei avrebbe potuto benissimo suicidarsi — obiettò Bloodgood. Vance non insistette su quell'argomento. — Immagino che Kinkaid vi abbia detto al telefono che anche la signorina Amelia Llewellyn l'ha scampata per un soffio ieri sera? Il croupier balzò in piedi. — Che cosa! Non mi ha detto niente di Amelia. Che cosa le è successo? — Pareva profondamente sconvolto. — Ha bevuto un bicchiere d'acqua, in camera di sua madre, si è sentita male e ha presentato tutti i sintomi del fratello. Per fortuna senza conseguenze gravi. Stamattina era completamente ristabilita. Siamo appena stati in casa sua per assicurarcene. Non c'è motivo di preoccuparsi. Vi prego, sedete. Vorrei interrogarvi su una o due altre questioni. Bloodgood obbedì all'invito con apparente riluttanza. — Siete sicuro che stia bene? — Sì, ve lo assicuro. Potete andare a trovarla, quando ve ne andrete da qui. Sono certo che apprezzerà una vostra visita. C'è anche Kinkaid. A proposito, signor Bloodgood, quali sono i vostri rapporti con Kinkaid? L'altro tentennò e quando rispose lo fece con una certa diffidenza: — Puramente d'affari. — Vance rimase in silenzio, allora proseguì: — Natu-
ralmente, c'è anche una certa amicizia. Io gli sono molto grato. Non fosse per lui, probabilmente a quest'ora insegnerei chimica o matematica e guadagnerei un terzo dello stipendio che ricevo al Casinò e, per giunta, annoiandomi a morte. Pretende molto, ma è piuttosto generoso. Non posso dire proprio di ammirarlo, ma possiede molte qualità che apprezzo e, con me, non ha mai barato. — Si fermò per un attimo, quindi riprese con un debole sorriso: — Credo di essergli simpatico, e questo, naturalmente, tende a rendermi parziale nei suoi confronti. — Attribuite un qualche significato al fatto che abbia ordinato di prendere l'acqua per Llewellyn dalla sua caraffa? La domanda sembrò scuotere notevolmente Bloodgood, che, prima di rispondere, si agitò nella sedia e trasse un profondo sospiro. — Non so. Accidenti! Mi avete messo una pulce nell'orecchio. Potrebbe trattarsi di una pura coincidenza... è tipico di Kinkaid agire spontaneamente: lui, in fondo, è una persona molto civile. Accetta le perdite da vero gentiluomo e non si lamenta mai quando si prende una batosta. So che ai suoi tavoli si gioca pulito; e, a dire la verità, non riesco a immaginarmelo mentre propina un intruglio micidiale perché il banco è in cattive acque. Specialmente trattandosi di suo nipote. — Potrebbero esserci stati altri motivi, oltre alle vincite di Llewellyn di ieri sera — suggerì Vance. Bloodgood ci pensò per un po'. — Capisco cosa volete dire — rispose infine. — Con Amelia e Lynn e la moglie di Lynn tolti di mezzo... — S'interruppe e scosse la testa. — No! Non collima con il carattere di Kinkaid. Una pistola, forse, in un caso di emergenza... So, per caso, che in Africa si è cavato da un brutto impiccio a forza di pallottole. Ma niente veleno. Quella è un'arma femminile. Nonostante il suo carattere complesso e difficile, Kinkaid non è mai subdolo. — Agisce sempre a viso aperto, vero? — Sì, proprio così. O a viso aperto, o non fa niente. Nessuna finesse, in senso psicologico. Questo tratto del suo carattere ne fa infatti un grande giocatore di poker e un giocatore mediocre di bridge. Una volta mi ha detto: "Qualunque donna può eccellere nel bridge, ma solo un uomo può giocare bene a poker". È freddo, spietato, temerario e scaltro come il diavolo in persona. Non si fermerebbe davanti a nulla per raggiungere i suoi scopi. Ma sempre allo scoperto. Potreste fidarvi di lui anche se vi facesse la posta... Veleno? No. Non quadra. Vance fumava assorto.
— Voi siete un chimico, signor Bloodgood — riprese poi — e siete piuttosto intimo di Kinkaid. Ditemi: anche lui, per caso, s'interessa alla chimica? Palesemente a disagio per la prima volta in tutto il colloquio, Bloodgood frugò Vance con gli occhi e si schiarì la gola. — Non direi proprio — proferì in tono non del tutto convincente. — È un campo completamente al di fuori dei suoi interessi e delle sue propensioni. — Si bloccò, poi concluse: — Se però ci fosse da ricavarne denaro, naturalmente Kinkaid potrebbe prenderla in considerazione da un punto di vista puramente speculativo. — Bene, bene — mormorò Vance. — Un uomo sempre pronto, sempre alla caccia di una prospettiva lucrosa, per così dire. Sì. Una qualità che si accompagna sempre all'istinto del giocatore. — Kinkaid — ribadì Bloodgood — si rende conto che la sua iniziativa attuale non può durare all'infinito. Un casinò, nel migliore dei casi è solo una fonte temporanea di reddito. — Certo. La nostra civiltà ultra-moralistica! Deludente, vero? Ma lasciamo da parte Kinkaid, per il momento. Diteci quanto sapete del giovane dottor Kane. Era a cena dai Llewellyn, ieri sera, non è vero, e la signorina Llewellyn l'ha chiamato quando la moglie di Lynn si è sentita male. Bloodgood si fece scuro in volto. — L'ho visto poche volte — rispose secco — e comunque sempre a casa loro. Si interessa, credo, alla signorina Llewellyn. È di ottima famiglia. Mi è sempre sembrato abbastanza simpatico. Ha un carattere socievole, ma mi dà l'impressione di essere un debole. E, visto che me l'avete chiesto, aggiungerò che a volte mi è parso un po' elusivo, come se ci pensasse due volte prima di rispondere a una domanda o a esprimere un'opinione. — Un uomo pieno di arrière-pensées — suggerì Vance. Bloodgood fece un cenno di assenso. — Sì. Piuttosto effeminato nei processi mentali. Ma, forse, si tratta solo di una forma di snobismo e del suo costante sforzo di piacere: i modi accattivanti coltivati dai dottori alle prime armi. — Che tipo era Lynn Llewellyn quando l'avete conosciuto all'università? — Un tipo a posto. Normale, ma con eccessi imprevedibili. Non era granché come studente, se la cavava a malapena. Troppo amante degli svaghi e poi gli mancava uno scopo serio da raggiungere. Non l'ho mai biasimato per questo: non era del tutto colpa sua. La madre l'aveva sempre viziato. Gli perdonerebbe qualunque cosa e dopo si volterebbe dall'altra
parte permettendogli di farlo ancora. Ma ha avuto il buon senso di tenere lei i cordoni della borsa. Per questo il ragazzo gioca, lo ammette francamente lui stesso. — Si è messo in testa — osservò Vance in tono discorsivo — che sua madre possa essere responsabile degli avvelenamenti di ieri sera. — Accidenti! Dite davvero? — Bloodgood sembrava colpito. Rimase seduto a riflettere per un pezzo, poi — in un certo senso, posso capirlo. Lui stesso la definiva come "la più nobile imperatrice-madre di Roma che ci sia mai stata". E non si sbagliava. È sempre stata lei alla guida del casato e non sopporterebbe il minimo intralcio ai suoi piani da parte di nessuno. — Una specie di Agrippina? — Qualcosa del genere. — Bloodgood ripiombò nel silenzio. Vance andò fino in fondo alla stanza, fermandosi, al ritorno, davanti al croupier. — Signor Bloodgood — disse fissandolo pigramente — tre persone sono state avvelenate la notte scorsa. Una di queste è morta; le altre due si sono riprese. Nello stomaco della moglie di Lynn Llewellyn non hanno trovato traccia di veleno. Due delle vittime, Llewellyn e la sorella, si sono sentite molto male dopo aver bevuto un bicchiere d'acqua. E la caraffa dell'acqua di fianco al letto della donna morta era vuota quando siamo arrivati. — Buon Dio! — L'esclamazione giunse come poco più che un sussurro, ma risuonava di orrore autentico. Bloodgood si alzò a fatica, pallido, tutt'a un tratto, gli occhi vividi come due dischi di metallo levigati, senza far caso neppure alla sigaretta che gli cadde dalle labbra. — Cosa state cercando di dire? Tutti e tre avvelenati con l'acqua... — Perché dovrebbe stupirvi tanto, anche se fosse vero? — domandò Vance in tono fermo e quasi indifferente, continuando a scrutarlo con calma. — In effetti, dopo avervi fornito i particolari delle vicende della scorsa notte, stavo per chiedervi se potevate suggerirmi una qualche spiegazione. — No... no. Assolutamente nessuna. — Bloodgood respirava a fatica, il tono della sua voce era innaturale. — Io... sono rimasto sconvolto da questo motivo ricorrente dell'acqua, perché sono stato io a ordinarla per Llewellyn. Vance sorrise freddamente e gli si avvicinò di un passo. — Così non va, signor Bloodgood. — I suoi modi e il suo atteggiamento avevano la durezza dell'acciaio. — Dovrete trovare una giustificazione migliore per il vostro soprassalto. — Ma come posso? Vi assicuro che non c'è alcun'altra ragione — prote-
stò Bloodgood, frugandosi affannosamente in tasca alla ricerca di un'altra sigaretta. Vance incalzò: — Punto primo: voi eravate a cena dai Llewellyn, ieri sera, e potevate arrivare alle caraffe nella casa. Punto secondo: per quanto ci è dato sapere con certezza, la sola caraffa non avvelenata era quella della signorina Llewellyn. Punto terzo: voi avete chiesto alla signorina Llewellyn di sposarvi. Punto quarto: siete un chimico. E ora considerate questi quattro punti alla luce del fatto che voi avete ordinato dell'acqua naturale per Llewellyn al Casinò. Avete nulla da dire? Mentre Vance parlava, Bloodgood si era ricomposto. Deglutì diverse volte e s'inumidì le labbra con la lingua. Le braccia gli pendevano diritte lungo i fianchi. Dava l'impressione di essere teso in ogni muscolo del corpo. Alzò la testa e squadrò il mio amico. — Capisco perfettamente la situazione — ribatté con voce piana, senza inflessioni. — Pur non essendo stato scoperto alcun veleno, sembra che io abbia presieduto agli avvenimenti di stanotte. Non ho alcuna spiegazione da dare. Né altro da aggiungere. Potete fare ciò che volete. I giochi sono aperti. — Poi, con un sorriso indecifrabile: — Faites votre jeu, monsieur. Vance lo studiò senza mutare espressione. — Credo che riserverò le mie fiches per la prossima tornata, signor Bloodgood. La partita non è conclusa, sapete. E ho un nuovo sistema in mente. — Prese formale congedo con un cenno. — Siete libero di andare a far visita alla signorina Llewellyn. — Voglia il Cielo che il vostro nuovo sistema sia migliore dei soliti — borbottò Bloodgood e si accomiatò senza aggiungere una parola. Vance tornò a sedersi, prese un'altra Régie e si mise a fumare, pensieroso e preoccupato. — Maledettamente bizzarro, questo giovane — ruminò. — Mi ha detto qualcosa della massima importanza, ma, accidenti, non so che cosa. È stato onesto e razionale, fino a quando non ho menzionato l'acqua. L'idea del veleno non l'ha sconvolto, ma l'acqua, sì. Una sorta d'idrofobia psichica. Molto sconcertante, Markham... Ha qualcosa in mente, che è vitale per la comprensione di questo caso. Ma non c'è modo di farlo parlare. Conosco il tipo. Ci ha letteralmente invitati ad arrestarlo piuttosto che rispondere alle mie domande. Paura, ecco cos'era. Sapeva di essere alle corde, ma si rendeva anche conto che non sapevamo il perché. Un giocatore molto avveduto. Capace di rapidi calcoli mentali, abile a giocare sulle probabilità. Vance scosse la testa desolato.
— Un pensiero poco consolante. Abbiamo a che fare con viluppi impalpabili, Markham. Ed è come se avessimo una benda sugli occhi. Mi pare di andare a caccia di ombre. Eppure ci ha detto qualcosa! Vorrei tanto capire di che si tratta. Forse proprio quel che ci nasconde è la chiave del problema. Non disperiamo. Andiamo avanti, caro amico, e su col morale, vecchio mio. Spes fovet, et fore cras semper ait melius. La speranza dà conforto e sempre sostiene che il domani sarà migliore. 12 VANCE FA UN VIAGGIO (Domenica, 16 ottobre, ore 13,30) Vance si alzò con un movimento deliberato e si avvicinò alla scrivania. — Markham — proseguì con inconsueta serietà — c'è un solo modo di affrontare il problema. Dobbiamo fissare la nostra attenzione sui fatti concreti che ci sono già noti e ignorare qualunque particolare tenda a fuorviarci. Per questo ora vi chiedo di mettermi immediatamente in contatto con il vostro tossicologo ufficiale. Il procuratore alzò lo sguardo, accigliato. — Oggi, volete dire? — Sì — rispose il mio amico con enfasi. — Questo pomeriggio, se è possibile. — Ma è domenica, Vance — argomentò Markham. — Può risultare impossibile. Comunque, vedrò che cosa mi riesce di fare. Chiamò Swacker con il campanello. — Cercate di trovare il dottor Adolph Hildebrandt — disse quando apparve il suo assistente dandogli le istruzioni necessarie. — Avrà ormai lasciato il laboratorio. Provate a telefonargli a casa. Swacker uscì. — Hildebrandt è un uomo competente — spiegò poi il procuratore. — Uno dei migliori specialisti nel paese. È il tipico tecnico d'origine tedesca che procede coi piedi di piombo. È cauto, serio, ha un atteggiamento un po' troppo pomposo e accademico. Ma alla fine sembra sempre trovare il bandolo della matassa. Senza di lui, non avrei mai ottenuto una condanna nei casi Waite e Sanford. Può darsi che ora sia a casa, ma può anche darsi che non ci sia. Se oggi non fosse domenica... Comunque... In quel momento squillò il telefono e Markham rispose. Dopo una breve conversazione, riagganciò la cornetta.
— Siete fortunato, Vance. Hildebrandt è in casa e ci resterà tutto il pomeriggio. Abita nell'Ottantaquattresima Strada Ovest. Avete sentito quello che gli ho detto: più tardi andremo da lui. — Sarà forse una mossa utile — mormorò il mio amico. — O stiamo solo seguendo una falsa pista. Ma non abbiamo un altro punto di partenza. Parola mia! Non so cosa darei per sapere che cosa aveva in mente Bloodgood. Ahimè, il caso si riduce a una gara d'indovinelli. — Sospirò e si concesse una lunga boccata di fumo. — Nel frattempo, in alto i cuori. Conosco un posto dove il brodo di tartaruga e l'Harvey's Shooting Sherry sono eccellenti e dove sanno cucinare a dovere un'omelette aux rognons. Allons-y, mon vieux... Il nostro amico ci condusse con la sua automobile a un ristorantino francese nella Settantaduesima Strada Ovest, nei pressi di Riverside Drive. Dopo la crème de menthe con ghiaccio tritato, proseguimmo verso la casa del dottor Hildebrandt. Il dottore, un uomo grassoccio, completamente calvo, con una faccia da luna piena e orecchie a sventola aveva due occhi azzurrini, apparentemente sonnolenti, ma acuti. Indossava una frusta giacca da casa, un paio di calzoni con le borse alle ginocchia e un paio di pantofole di feltro sformate dall'uso. La camicia floscia era aperta sul collo e gli spessi calzettoni di lana fantasia che portava erano un miscuglio di colori impossibili e ricadevano in larghe pieghe intorno alle caviglie. Fumava un'enorme pipa di schiuma dal cannello di legno che s'incurvava fin verso il torace per trenta buoni centimetri. Era venuto lui stesso ad aprirci e ci aveva introdotto in un angusto soggiorno stipato di mobili rococò del diciottesimo secolo. A dispetto dei modi bruschi e un po' altezzosi, si dimostrò gentile e affabile e rispose alle presentazioni di Markham con cortesia formale. Vance affrontò subito l'argomento della visita. — Dottore, siamo qui per farvi alcune domande sui veleni e la loro azione. Ci troviamo di fronte a un problema molto grave, apparentemente oscuro, che riguarda la morte di una certa signora Llewellyn, avvenuta la notte scorsa. — Ah, sì. — Il medico si tolse lentamente la pipa di bocca. — Doremus mi ha telefonato stamattina, sono stato presente all'autopsia. Ho anche analizzato lo stomaco, cercando un veleno del gruppo della belladonna, ma non ho trovato nulla. Domani condurrò un'analisi chimica completa degli altri organi.
— A noi, in particolare, preme sapere — proseguì Vance — se un veleno avrebbe potuto causare la morte e tuttavia non risultare alle analisi; e, in tal caso, come avrebbe potuto essere stato somministrato. Il dottor Hildebrandt fece un lento cenno di assenso. — Forse potrò esservi di aiuto. Ma può anche darsi di no. La tossicologia è una scienza complessa e difficile. Ci sono ancora molti aspetti di cui non sappiamo nulla. Portò di nuovo la pipa alla bocca e per un po', come intento a riordinare i pensieri, ne trasse fitte nubi di fumo. Poi, in tono didattico, professorale: — Sapete, naturalmente, che il veleno, in senso biologico, non esiste nel corpo se la sostanza è interamente insolubile, poiché, in questo caso, non viene assorbito nella circolazione sanguigna. Ne consegue che, quanto più una sostanza è solubile, tanto più rapidamente entra nella circolazione sanguigna e agisce sull'organismo. — Ma se il veleno fosse diluito in acqua? — L'acqua non solo accelera l'assorbimento di un veleno, ma, in generale, accresce la sua azione. Tuttavia, nel caso di un corrosivo, l'acqua riduce l'effetto tossico. D'altro canto, nel caso di un qualunque veleno ingerito per bocca, bisogna tenere conto delle condizioni dello stomaco. In presenza di cibo, al momento dell'assunzione, l'assorbimento della sostanza è ritardato; altrimenti, risulta accelerato e accelera anche l'azione tossica. — Nel caso della signora Llewellyn lo stomaco doveva essere relativamente vuoto. — Infatti. Possiamo quindi presumere che, se un veleno è stato assorbito dallo stomaco, la sua azione è stata immediata. — Noi pensiamo di conoscere l'ora approssimativa in cui il veleno è stato ingerito, ma ci interesserebbe un parere scientifico. Il dottor Hildebrandt assentì di nuovo. — Sì, l'elemento tempo è utilissimo in tutti i casi sospetti. Ma precisarlo non è facile, perché, in situazioni di questo genere, non abbiamo prove effettive sul come, o in presenza di quali condizioni, il veleno sia stato assunto. L'ora in cui è stato somministrato può essere stabilita solo in base al tipo di sostanza e ai sintomi osservati. Quasi tutti i veleni comuni agiscono rapidamente, ma ricordo molte eccezioni di carattere fisiologico, in cui l'azione è stata ritardata per ore dopo l'ingestione. In genere, i sintomi dei veleni assunti per bocca appaiono entro un'ora. Nella maggioranza dei casi, se lo stomaco è vuoto, i sintomi si manifestano dieci o quindici minuti dopo la somministrazione. E questo vale, in particolare, per la belladonna e
l'atropina. — E se un veleno — chiese ancora Vance — fosse ingerito per via orale, ma in seguito non se ne trovasse traccia nello stomaco? Il dottor Hildebrandt si schiarì solennemente la gola. — È una situazione che può verificarsi con un'infinità di veleni assunti per bocca. Vorrebbe semplicemente dire che l'organismo ha assorbito tutto il veleno passato nello stomaco. Ma, naturalmente, si dovrebbe trovarne tracce nel sangue e nei tessuti. Sfortunatamente, in troppi casi di avvelenamento doloso, solo lo stomaco viene dato al tossicologo per l'esame chimico. I risultati dedotti da quel solo organo sono inconcludenti, perché, come dico, il rapido assorbimento del veleno può cancellarvi ogni traccia. Naturalmente, il tossicologo che ha a disposizione per le analisi solo lo stomaco può presumere che, qualunque veleno vi trovi, si possa considerare un sovrappiù della sostanza tossica effettivamente ingerita e assorbita dall'organismo. Questa, comunque, non è certamente una prova diretta. Perciò anche gli altri organi di qualunque persona morta per avvelenamento sospetto dovrebbero essere analizzati chimicamente: il fegato, i reni, gli intestini, perfino il cervello e il midollo spinale. Quando entra nell'organismo per via orale, il veleno viene prima assorbito attraverso lo stomaco. Poi entra in circolo nel sangue. E infine si deposita nei tessuti del fegato, dei reni e degli altri organi. Voi capite, naturalmente, che i veleni possono essere introdotti nel corpo anche per altre vie, oltre alla bocca; e, in questo caso, naturalmente, nello stomaco non ce ne sarebbe traccia. — Ah! — Vance si protese in avanti. — Questo è uno dei punti che volevamo chiarire. Dato che la signora Llewellyn è morta poco dopo aver ingerito il veleno e della sostanza non c'erano tracce nello stomaco, vorrei chiedervi se questa droga, presumibilmente la belladonna, poteva essere assunta in altri modi. Il dottore guardò pensoso nel vuoto. — Potrebbe essere stato somministrato per via parenterale, cioè con un'endovenosa. Oppure, essere stato assorbito attraverso le membrane mucose del naso o la congiuntiva. In entrambi i casi, ovviamente, non ci sarebbero tracce nello stomaco. Vance fumò meditabondo. Infine, passò a un'altra domanda: — Non c'è alcun caso in cui il veleno sia stato ingerito per via orale con esiti letali, eppure non abbia lasciato residui in nessun organo del corpo? Il dottore lasciò indugiare lo sguardo su Vance. — Ci sono veleni che, se assorbiti dal corpo, non hanno alcuna azione
sul sangue e ce ne sono altri che non si trasformano in composti insolubili quando vengono in contatto con i tessuti. Questi elementi vengono rapidamente eliminati dall'organismo. Se la vittima di un avvelenamento vive abbastanza a lungo dopo aver assunto una sostanza del genere, le tracce della droga fatale possono scomparire interamente dall'organismo. Ma nulla ci dice che questa sia l'eventualità occorsa alla Llewellyn. Nel suo caso, i sintomi violenti da avvelenamento si sono manifestati poco dopo l'introduzione della sostanza; e, per quanto ne so, non ci sono stati processi di eliminazione. — Ma — insiste Vance — se anche non si trovasse traccia del veleno in nessun organo, non sarebbe possibile stabilirne la natura dalle alterazioni sopravvenute nel corpo? — A volte, sì. — Ancora lo sguardo del dottor Hildebrandt vagò nello spazio. — Tali indicazioni, però, sono poco probanti. Vedete, vari tipi di malattie possono produrre sugli organi effetti simili a quelli di certi veleni. Se, tuttavia, le lesioni scoperte sono identiche a quelle prodotte da una sostanza tossica sicuramente somministrata alla vittima, allora si può presumere che le lesioni siano provocate dal veleno. D'altro canto, ho avuto modo di osservare personalmente taluni casi in cui si sapeva per certo che era stato somministrato un determinato veleno, eppure gli organi non mostravano alcuna delle conseguenze normalmente prevedibili. Nel famoso caso Heidelmeyer, per esempio, si sapeva che la morte era stata causata dall'arsenico; eppure, né lo stomaco, né gli intestini erano irritati e la mucosa si presentava di un colore persino più pallido dell'ordinario. Vance cedette a un sorriso di sconforto e scosse la testa. — La tossicologia, a quanto vedo, non è proprio quella che si potrebbe definire una scienza molto esatta. Eppure, ci deve essere un modo per giungere a una conclusione precisa basata su una determinata serie di dati. Per esempio, anche se nell'organismo non si trovassero tracce del veleno, non è possibile stabilire, dai sintomi di una persona e dalle condizioni esterne post-mortem di quale sostanza si tratti? — Questo è un problema vuoi medico, vuoi tossicologico. In ogni modo, dirò questo: i sintomi di molte malattie ricordano da vicino certi tipi di avvelenamento. Per esempio, quelli della gastroenterite, del colera, dell'ulcera duodenale, dell'uremia e dell'acidosi acuta ripetono con notevole precisione i sintomi di un avvelenamento prodotto da arsenico, aconito, antimonio, digitale, iodio, mercurio e vari altri alcali e acidi corrosivi. Le convulsioni che si accompagnano al tetano, l'epilessia, l'eclampsia e la me-
ningite, sono causate anche dalla canfora, dai cianuri e dalla stricnina. La dilatazione delle pupille, presente nelle malattie che provocano l'atrofia ottica o l'indebolimento del nervo ottico, si verifica anche nel caso di avvelenamento dovuto a sostanze del gruppo della belladonna, dalla cocaina e dal gelsenium. La contrazione della pupilla, comune nella tabe, per esempio, è provocata anche da oppio, morfina ed eroina. L'oppio, la paraldeide, il diossido di carbonio, l'ioscina e i barbiturici provocano il coma, esattamente come lo provocano un'emorragia cerebrale, l'epilessia e altre lesioni cerebrali. Il delirio da noi riscontrato nei casi di malattie organiche del cervello e di nefrite può spesso verificarsi anche nel caso di somministrazione di atropina, cocaina, canapa indiana o hashish e varie altre droghe. Il nitrobenzene, l'anilina e l'oppio con i suoi derivati inducono cianosi, ma non diversamente da certi disturbi dell'apparato cardiaco e respiratorio. La paralisi sopravviene per assunzione dei cianuri e dell'ossido di carbonio, ma può anche essere dovuta da un tumore al cervello e dall'apoplessia. L'oppio rallenta la respirazione, come lo fa l'uremia e l'emorragia cerebrale. I veleni del gruppo della belladonna l'accelerano, come è dato normalmente di rilevare nell'isteria o in un caso di lesione della medulla oblongata. — Parola mia! — sorrise Vance. — Più andiamo avanti, più problematica diventa la certezza di individuare il veleno. — Conoscete Goethe, sì? Eigentlich weiss man nur wenn man wenig weiss; mit dem Wissen wächst der Zweifel. (Si sa solo quando si sa poco: con il sapere aumenta l'incertezza) — Non che siate di grande aiuto — sospirò Vance. — Io voglio saperne di più, non di meno. — La tossicologia non è una scienza interamente condannata alla disperazione — rispose benigno il dottore. — Se negli organi di una persona morta si trova un veleno, e la patologia del caso corrisponde con precisione ai sintomi, si può desumere con ragione che quella è la causa del decesso. — Sì. Mi rendo conto. Ma, per quanto ho capito, l'assenza di qualsiasi veleno riconoscibile negli organi non lo esclude come possibile agente letale. Ora, è possibile che una di queste sostanze si trovi, in realtà, negli organi analizzati e tuttavia sfugga all'esame chimico? — Oh, certo. Ci sono molte sostanze tossiche che la chimica non è ancora in grado di individuare. Inoltre, non dovete dimenticare l'esistenza di veleni che, venendo in contatto con il corpo umano, si trasformano in sostanze innocue normalmente presenti nell'organismo.
— Allora, si può deliberatamente avvelenare qualcuno, senza timore di lasciare traccia del gesto criminoso? Il medico chinò lievemente la testa. — Sì, è possibile. Se si potesse introdurre successivamente del sodio nello stomaco... — Sì, lo so — l'interruppe Vance. — Ma non era la perforazione delle pareti dello stomaco per mezzo del sodio, quello che avevo in mente. Io volevo chiedervi se esistano sostanze venefiche in grado di provocare la morte senza lasciare traccia. — Sì, ce ne sono — rispose lentamente il dottor Hildebrandt, togliendosi la pipa di bocca. — Esistono diversi veleni vegetali che non producono alcuna lesione specifica, né sono chimicamente identificabili. Certe sostanze tossiche di natura organica possono essere trasformate in elementi comunemente presenti nel corpo. Inoltre, alcuni veleni volatili possono venire interamente dissipati prima che il tossicologo disponga degli organi per l'esame. Non faccio menzione degli acidi minerali che possono avere un'azione corrosiva ed essere eliminati dall'organismo prima del sopravvenire della morte, dato che, a quanto capisco, non è questo il genere di veleni che vi interessa. — Io pensavo in particolare a qualche veleno facilmente reperibile, che si potesse somministrare in un bicchiere d'acqua senza che la vittima ne avvertisse la presenza. Il dottor Hildebrandt ponderò brevemente la questione, poi scosse con gravità la testa. — No. Temo che le droghe e gli elementi chimici a cui penso non potrebbero esaudire tutte le vostre condizioni. — Eppure, dottore — insisté Vance — non è possibile che di recente sia stato scoperto un nuovo veleno in grado di soddisfare tutti i miei ipotetici requisiti? — Certo, è possibile — ammise l'altro. — Si scoprono di continuo nuovi veleni. Vance rimase a lungo in silenzio, poi: — Sarebbe facile per chiunque lo bevesse, scoprire in un bicchier d'acqua una dose letale di atropina o belladonna? — Oh, sì. L'acqua avrebbe un gusto decisamente amaro. — Il medico rivolse pigramente lo sguardo verso Vance. — Avete motivo di credere che il veleno nel caso Llewellyn sia stato mescolato all'acqua? Vance esitò prima di rispondere: — Per ora stiamo solo pensando a una
tale evenienza. Due persone, oltre alla signora Llewellyn, sono state avvelenate ieri sera, anche se in seguito si sono riprese. E tutt'e due avevano bevuto un bicchiere d'acqua prima del collasso. Inoltre, la caraffa a lato del letto della signora Llewellyn era vuota, al nostro arrivo. — Capisco — mormorò il dottore, annuendo lentamente. — Bene, forse potrò dirvi di più domani dopo aver terminato le analisi degli altri organi. Vance si alzò. — Vi sono profondamente grato, dottore. Non c'è altro che mi venga in mente, al momento. Il caso, per ora, sembra molto nebuloso. A proposito, quando sarà pronto il vostro rapporto? Il medico si alzò con gravità e ci accompagnò alla porta. — Difficile a dirsi. Mi metterò subito al lavoro domani mattina e, se avrò un po' di fortuna, potrei averlo completato per domani sera. Ci accomiatammo e Vance ci condusse a casa sua. Era taciturno e assorto. Pareva molto preoccupato e Markham non fece alcun tentativo per rompere il silenzio finché non ci sedemmo in biblioteca. Entrò Currie ad accendere il camino e Vance gli ordinò di servire cognac Napoléon. Solo allora il procuratore fece la prima domanda da quando avevamo lasciato la casa del medico. — Avete appreso nulla di nuovo, o meglio, vi si è presentata qualche nuova idea durante il colloquio con Hildebrandt? — Nulla di preciso — rispose Vance depresso. — Questo è il lato bizzarro del caso. Ho l'impressione a volte di essermi quasi avvicinato a un elemento di vitale importanza e poi ne rimango deluso. Diverse volte, oggi pomeriggio, mentre il dottore dissertava, ho sentito che mi stava dicendo qualcosa che mi poteva essere utile, ma senza riuscire ad afferrare di che cosa si trattasse. Ah, Markham, se solo fossi un sensitivo! Sospirò, riscaldò il cognac tra le mani inspirtndone gli effluvi. — Ma c'è un motivo che ricorre in tutte le vicende di ieri notte, il motivo dell'acqua. Markham l'osservò. — Ho notato che molte delle vostre domande si concentravano su quel tema. — Oh, sì. Sì. Era inevitabile, capite. L'acqua compare in ogni momento importante di questo diabolico dramma. Llewellyn ordina un whisky e insiste per avere dell'acqua naturale; ma non lo beve quando glielo portano. Più tardi Bloodgood la ordina per lui e Kinkaid manda il cameriere nel suo ufficio a prendere l'acqua. Poi lo stesso Kinkaid ne vuole un sorso e la ca-
raffa è vuota, rimanda quindi al bar la caraffa perché la riempiano. La caraffa di Virginia Llcwellyn è vuota quando arriviamo a casa sua. Amelia Llcwellyn beve un bicchiere dell'acqua rimasta nella caraffa della madre e si sente male. Più tardi, pure la sua caraffa viene trovata vuota anche se lei ce ne spiega il motivo. Infine Bloodgood si emoziona e si chiude in un totale mutismo alla sola menzione del liquido fatale. Acqua, ovunque ci volgiamo! Accidenti, Markham! Mi sembra di trovarmi davanti a un'orrenda e spaventosa sciarada... — Pensate forse che tutte queste persone siano state avvelenate con l'acqua? — Se lo pensassi, l'intero problema sarebbe semplice. — Vance fece un gesto di sconforto con la mano. — Ma non c'è alcun filo conduttore fra tutti questi fatti che si collegano all'acqua. Certo, Virginia Llewellyn potrebbe essere stata avvelenata con l'acqua, ma se la droga fosse stata belladonna o atropina, come indicavano gli indizi post-mortem, l'avrebbe avvertita al gusto e non avrebbe vuotato l'intera caraffa. La sola delle tre vittime che, con qualche grado di certezza, possiamo dire sia stata avvelenata così, è Amelia. Ma neppure lei ha notato un gusto strano; e in precedenza, in serata, ha vuotato la sua caraffa senza subire alcun effetto malefico. Dannatamente strano. È come se l'acqua fosse stata introdotta di proposito in questo caso per condurci in una direzione. Nessun assassinio premeditato con una simile, apparente sottigliezza presenta un segnale ricorrente a ogni svolta, se non per un calcolo ben preciso. Potrebbe, naturalmente, trattarsi di una coincidenza. Ma non riesco a crederci. Non può essere. E il turbamento di Bloodgood alla sola menzione dell'acqua... Abbiamo una chiave, Markham. Ma, accidenti, non riusciamo a trovare la porta! Si abbandonò a un moto di sconforto. — Acqua. Che idea sciocca! Se solo ci fosse qualcosa d'altro, a parte l'acqua! L'acqua non può far male a nessuno, se non a chi ne viene sommerso. Perché l'acqua, Markham? Due parti di idrogeno e una di ossigeno... una formula semplice, elementare... Vance s'interruppe bruscamente. Gli occhi fissi davanti a sé, depose automaticamente il bicchiere di cognac, poi si protese in avanti sulla poltrona e balzò in piedi. — Oh, perdinci! — Si voltò di scatto verso il procuratore. — La formula dell'acqua non è necessariamente H2O. Qui abbiamo a che fare con l'ignoto. Entità impalpabili. — Socchiuse le palpebre inseguendo un suo pensiero. — Sì. Certo. Potrebbe darsi. Forse il criminale si aspetta che noi si
segua la pista dell'acqua per una qualche oscura ragione. Sono coinvolti un chimico, un medico, un finanziere-giocatore, libri di tossicologia, odi e gelosie, un evidente complesso di Edipo... tre casi di avvelenamento... e acqua ovunque... Per favore, Markham, cercatevi un'occupazione. Leggete, pensate, dormite, sgranchitevi le gambe, fate un solitario, qualunque cosa. Ma non parlate. Ruotò su se stesso in un lampo e si accostò a una sezione degli scaffali dove teneva le riviste e gli opuscoli scientifici. Per mezz'ora rovistò tra quelle pubblicazioni, fermandosi qua e là a leggere qualche paragrafo e a scorrere un articolo. Infine, restituì alla libreria tutti i periodici e la documentazione e suonò per chiamare Currie. — Preparate la mia sacca da viaggio — ordinò quando il vecchio maggiordomo inglese apparve. — Per un giorno. Abiti sportivi. E mettetela nell'Hispano-Suiza. Parto in automobile. Markham si alzò e lo affrontò. — Accidenti a voi! — esclamò senza nascondere la sua irritazione. — Dove andate, Vance? — Faccio un piccolo viaggio — rispose l'amico con un sorriso accattivante. — In cerca d'illuminazione. La pista dell'acqua mi chiama. Tornerò in mattinata, o più saggio o più triste, o tutt'e due le cose. Il procuratore lo squadrò. — Che cosa avete in mente? — Forse solo un sogno fantastico, vecchio mio — sorrise Vance. Markham lo conosceva troppo bene per sollecitare in quel momento ulteriori spiegazioni. — Anche la vostra destinazione è segreta? — domandò appena un po' più calmo. — Oh, no. No. — Vance andò alla scrivania per riempire il portasigarette. — Nessun segreto. Vado a Princeton. Markham lo fissò sbalordito. Poi scrollò le spalle e scosse la testa con aria scherzosa. — Proprio voi che avete frequentato Harvard! 13 UNA SCOPERTA STUPEFACENTE (Lunedì, 17 ottobre, mezzogiorno) Era quasi mezzogiorno del giorno seguente quando Vance tornò a New
York. Mi stavo dedicando al mio consueto lavoro in biblioteca quando apparve, mi rivolse un vago cenno di saluto e se ne andò rapido nella sua camera da letto. La sua espressione concentrata e i suoi movimenti decisi, mi fecero facilmente capire che lo assillava un problema. Riapparve poco dopo in un abito grigio sportivo, bombetta verde pallido e un paio di pesanti e alte scarpe di cuoio. — È una brutta giornata, Van — osservò. — C'è pioggia nell'aria e noi ce ne andiamo in campagna. Mettete via i vostri libri e venite con me. Prima però devo vedere Markham. Siate gentile, telefonategli in ufficio e avvertitelo che sarò là tra venti minuti. Mentre chiamavo il procuratore distrettuale, Vance chiamò il maggiordomo e gli diede istruzioni per il pranzo. Markham era solo quando arrivammo nel suo ufficio. — Ho rimandato gli appuntamenti per aspettarvi — annunciò a Vance. — Che cosa avete da dirmi? — Mio caro Markham, oh, mio caro Markham! — protestò l'amico, sprofondando in una sedia. — Devo proprio farvi un rapporto? — Poi tornò a essere serio e guardò l'altro in atteggiamento pensieroso. — Purtroppo, in realtà, non ho niente da riferire. Una visita molto deludente. — Perché mai siete andato a Princeton? — A far visita a una mia vecchia conoscenza. Il dottor Hugh Stott Taylor, uno dei grandi chimici dei nostri giorni. È preside della facoltà di chimica all'università. Ho trascorso con lui un paio d'ore ieri sera e abbiamo visitato il Frick Chemical Laboratory. — Solo una visita? — chiese Markham, lanciandogli uno sguardo furbesco. — O stavate cercando qualcosa di preciso? — Infatti. Non era una visita generica. — Vance aspirò una boccata dalla sigaretta. — Volevo sapere qualcosa di molto preciso. Vedete, ero interessato all'acqua pesante. — Acqua pesante! — Markham saltò di botto sulla sedia. — Avevo letto alcuni riferimenti sull'acqua pesante... — Sì... sì. Naturalmente. Se n'è scritto molto sui giornali. Una scoperta stupefacente. Forse uno dei più importanti eventi della chimica moderna. Un argomento affascinante. Vance si adagiò contro lo schienale e distese le gambe. — L'acqua pesante è un composto in cui l'atomo di idrogeno pesa il doppio dell'atomo corrispondente nell'acqua comune. Si tratta di un liquido in cui almeno il novanta per cento delle molecole consiste in ossigeno
combinato con idrogeno pesante, scoperto di recente. La formula è H2H2O, anche se ora in generale gli scienziati, avendo dato all'idrogeno pesante il nome di deuterio, preferiscono indicarlo con D2O. Ha l'aspetto e il gusto dell'acqua normale. Questo è ciò che mi interessava. Pare infatti che esista una parte di acqua pesante in cinquemila parti di acqua comune. A causa delle perdite nel processo di estrazione, ci vogliono quasi diecimila parti di acqua normale per produrne una di acqua pesante. In certi laboratori hanno trattato oltre mille litri di acqua per ottenere trenta centimetri cubici di acqua pesante. Il composto è stato scoperto dal dottor Harold C. Urey della Columbia University. Ma larga parte della ricerca a fini pratici su questo nuovo e stupefacente liquido è stata svolta dagli studiosi di Princeton. Le apparecchiature del Frick Chemical Laboratory sono le prime concepite per la produzione dell'acqua pesante su vasta scala. E quando dico "vasta scala" uso un modo di dire assai relativo. Ieri sera, il dottor Taylor mi ha detto che la produzione giornaliera del loro impianto è inferiore a un centimetro cubico. Sperano di aumentare la produzione fino a un cucchiaino da tè al giorno. Princeton dispone per ora di appena una ventina di centilitri di questo liquido prezioso. Il costo di produzione è enorme; e, a causa della richiesta di campioni da parte di scienziati di tutto il paese, il prezzo è di oltre cento dollari al centimetro cubico. Un cucchiaino da tè costerebbe oltre quattrocento dollari, e un litro circa centomila dollari. Alzò lo sguardo verso Markham, poi continuò. — Ci sono immense possibilità commerciali per questo nuovo ritrovato. Il dottor Taylor mi dice che una società chimica dell'ovest ha già cominciato a venderlo sul mercato. Il procuratore, profondamente interessato, non staccava gli occhi da Vance. — Voi pensate, quindi, che quest'acqua pesante sia la risposta agli avvelenamenti di sabato notte? — Può essere una delle risposte — replicò lentamente il mio amico — ma dubito che sia quella definitiva. Ci sono troppi elementi contraddittori, perché possa fornirci una spiegazione completa. Tanto per cominciare, il costo dell'acqua pesante è quasi proibitivo e ce n'è troppo poca in circolazione per dare ragione del ricorrente motivo idrico nel caso Llewellyn. — Ma se pensassimo ai suoi effetti tossici sull'organismo umano? — Ah! Esattamente. Purtroppo, nessuno sa quali conseguenze avrebbe su una persona che ne assorbisse una dose abbastanza alta. I quantitativi minimi disponibili hanno reso virtualmente impossibile la sperimentazione
da questo punto di vista. Possiamo solo abbandonarci a una serie di ragionamenti. Il professor Swingle, a Princeton, ha dimostrato che il composto è letale per i piccoli pesci d'acqua dolce come il Lebistes reticulatus. È assodato che il girino della rana verde e le larve dei platelminti vi sopravvivono solo per breve tempo. La crescita dei vegetali dai semi è ritardata o totalmente bloccata e questo effetto inibitorio sulle funzioni del protoplasma della vita ha condotto alcuni sperimentatori di San Francisco all'ipotesi che i segni dell'età avanzata e della vecchiaia siano dovuti alla normale accumulazione di acqua pesante nell'organismo. Vance indugiò a fumare, poi concluse: — Comunque, non sono convinto che queste congetture abbiano una qualche diretta relazione con il nostro problema. Inoltre, Markham, tendo a credere che il nostro delinquente voglia proprio incanalarci lungo questa direttiva; comunque sia, chissà se non finirà con il guidarci fino alla verità. — Cosa volete dire di preciso? — Ho parlato con uno dei giovani e brillanti assistenti del dottor Taylor, un certo Martin Quayle che ho conosciuto ieri sera. È un chimico molto esperto, coscienzioso e pieno di risorse. Pare che sia una promessa della facoltà di chimica anche se, personalmente, non gli darei troppo credito. È una persona molto ambiziosa... — Che cosa c'entra questo Quayle con la mia domanda? — sbottò il procuratore. — Siate paziente, Markham. Quayle era compagno di corso di Bloodgood. Due giovani aspiranti chimici. Ottimi amici. Tutto gemütlich. Markham studiò per un breve attimo l'espressione del volto di Vance e poi scosse la testa. — Intuisco che possa esistere un qualche vago collegamento con questa informazione — ammise — ma non vedo ancora quale possibile rapporto abbia con il caso che cerchiamo si risolvere. — Neanch'io — ammise il mio amico, quasi allegramente. — Ho solo enunciato i fatti in attesa di notizie più precise. Il procuratore, colto da un moto di stizza, abbatté il pugno sul tavolo. — Stando così le cose — tuonò — che cosa ci avete guadagnato dal vostro misterioso viaggio a Princeton? — Sinceramente non lo so — replicò Vance ingenuamente. — Ammetto di essere molto deluso. Speravo di sapere molto di più. Ma non mi trovate del tutto sconsolato. Un tema elusivo attraversa il canto dell'acqua e mi aspetto di saperne di più stasera. Farò un altro viaggetto oggi pomeriggio.
Questa volta mi recherò in campagna. Notate la mia tenuta sportiva, vero Markham? Conto su quanto mi ha detto Quayle per guidare i miei passi ancora assai incerti. Markham lo fissò con uno sguardo acuto, poi, sbuffando, abbozzò un sorrisetto acido: — Un responso oscuro degno dell'oracolo di Delfi. La tecnica del perfetto indovino. Vi comportate come una chiromante. Dovrei esserci abituato, ormai... Così andate a fare una gita in campagna? — Sì — mormorò Vance con tono soave. — Dalle parti di Closter... Markham balzò in piedi. — Che cosa! — esclamò, quasi urlando. — Oh, mio caro Markham, non spaventatemi così. Avete davvero troppa energia. — Vance sospirò. — Spero che vorrete chiedere a Swacker di appurare quali società forniscono l'acqua e l'energia elettrica alle abitazioni di Closter e dintorni... Markham farfugliò qualcosa, poi strinse le labbra. Infine, chiamò il segretario e gli ripeté la richiesta dell'amico. Quando il segretario fu uscito, Vance si rivolse al procuratore e riprese: — E quando avrete i nomi, vi dispiacerebbe scrivermi una bella lettera di presentazione ai dirigenti? Sto cercando informazioni... — Che informazioni? — Se proprio volete saperlo — rispose Vance, sempre in tono volutamente soave — desidero stabilire la quantità di acqua e di energia elettrica consumate da un certo eminente cittadino nelle vicinanze di Closter. Il procuratore ripiombò nella sedia. — Buon Dio! Pensate che Kinkaid...? — Mio caro amico! — l'interruppe Vance. — Non penso: è uno sforzo troppo gravoso. — Sospirò ad arte e non disse più verbo. Pochi minuti dopo, Swacker tornava con l'informazione che Closter e dintorni erano riforniti dalla Valley Stream Water Company e dalla Englewood Power and Light Company. Tutte e due le società avevano uffici a Englewood. Markham dettò le lettere sollecitate da Vance e, dieci minuti dopo, puntavamo verso Englewood che dista pochi chilometri da Closter. Englewood si trova a breve distanza da New York e, grazie alla guida esperta del mio pilota, raggiungemmo quella florida cittadina in meno di mezz'ora. Vance chiese la via per raggiungere gli uffici della prima società e, appena giunto, fece pervenire la lettera al direttore. Un certo signor McCarty, serio, quarantenne, modi gentili, ci ricevette subito in un piccolo
ufficio privato. — Cosa posso fare per voi, signore? — domandò, dopo averci stretto la mano. — Sarei lieto di potervi essere di aiuto. — Mi interessa sapere — chiese Vance — quanta acqua consuma un certo signor Richard Kinkaid, che abita vicino a Closter. — Un'informazione facile da ottenere. — Si avvicinò a uno schedario di acciaio e, dopo una breve ricerca, ne trasse un cartoncino giallo con i dati del contatore. Tornato al tavolo, vi lanciò un'occhiata, poi inarcò le sopracciglia sorpreso. — Ah, sì — disse poco dopo, come ricordando improvvisamente qualcosa. — Adesso rammento le circostanze. Il signor Kinkaid ha un contatore di due centimetri e usa una grande quantità di acqua. La tassa che paga viene calcolata in base a una fornitura che va da 1200 a 12000 metri cubici all'anno. — Eppure il signor Kinkaid ha solo una specie di capanno di caccia di modeste dimensioni — completò Vance. — Sì, mi rendo conto. La quantità d'acqua usata dal signor Kinkaid equivale a quanto viene usato da un impianto industriale. Più di un anno fa, ero già rimasto colpito da questo consumo eccessivo. Ma ho appurato che il cliente non si lamentava e a noi non è rimasto che continuare il servizio. — Ditemi, signor McCarty, c'è qualche variazione nel quantitativo usato dal signor Kinkaid a seconda del periodo dell'anno? Le letture del suo contatore sono più alte nei mesi di primavera e d'estate che in inverno, quando il capanno è chiuso? — No — rispose il direttore, scorrendo le cifre — non risulta pressoché alcuna variazione. Secondo la bolletta, il consumo è uguale in estate e in inverno. Alzò infine gli occhi verso Vance. — Pensate che dovrei indagare a fondo in proposito? — Oh, no. No. Io non indagherei — rispose il mio amico in tono distratto. — A proposito, quando è cominciato questo anormale consumo d'acqua? Il direttore abbassò ancora lo sguardo sul cartoncino, poi lo voltò esaminando le cifre sul retro. — Gli allacciamenti sono stati fatti più di un anno fa, in agosto, per l'esattezza, e il consumo massiccio è iniziato quasi immediatamente. Vance si alzò e tese la mano al funzionario. — Grazie infinite, signore. Questo è davvero tutto quanto volevo sapere.
Vi sono grato per la vostra cortesia. Dagli uffici della Valley Stream Water Company ci trasferimmo, pochi isolati più in là, alla sede della Englewood Power and Light Company. Nuovamente preceduti dalla lettera indirizzata al direttore, un certo signor Browning, fummo ricevuti con eguale sollecitudine. Quando Vance espresse il desiderio di controllare il consumo di energia elettrica di Kinkaid, il responsabile lo guardò con aria estremamente attenta. — Voi capite, signore, che non è nostra abitudine dare informazioni di questo genere — annunciò in tono aulico. — Ma, date le circostanze, mi sento giustificato nel farvi sapere che il signor Kinkaid, persona ben nota da queste parti, si è accordato con me, oltre un anno fa, per un quantitativo sufficiente a soddisfare le sue esigenze, che, lo devo ammettere, eccedono di gran lunga un normale consumo di energia necessario a una casa o a un capanno di caccia di quelle dimensioni. Alla fine è stata pattuita una fornitura in grado di esaudire un fabbisogno di cinquecento kilovatt invece dei soliti cinque ordinari. — Grazie dell'informazione, signore. — Vance gli offrì una sigaretta e ne prese una per sé. — Quando il signor Kinkaid ha stipulato con voi questa consistente fornitura di energia, vi ha detto a quale scopo l'avrebbe usata? — Naturalmente gliel'ho domandato, e lui mi ha risposto solo che gli serviva a scopi sperimentali. — Non vi siete informato con maggior precisione? — Il signor Kinkaid mi ha fatto sapere che il lavoro sperimentale che progettava era di carattere piuttosto riservato. Il mio interesse specifico in proposito, ovviamente, si è fermato a questa sua affermazione. Naturalmente, vi renderete conto che il nostro lavoro, il nostro scopo preciso, consiste nell'offrire il miglior servizio possibile al pubblico. — Il vostro atteggiamento, signore — replicò Vance inclinando leggermente la testa — è più che corretto. Vi sono molto grato per la vostra collaborazione. Il signor Browning si alzò. — Mi spiace di non potervi dare ulteriori informazioni, a meno che non vogliate conoscere l'esatto ammontare dell'energia consumata. — No, grazie — rispose Vance, avviandosi verso la porta. — Mi avete già detto tutto quello che per il momento volevamo sapere. — E si accomiatò. Quando ci ritrovammo in automobile, il mio amico si sedette al volante
e rimase per diversi minuti immerso nei suoi pensieri. Pareva incerto. Poi, lentamente, prese dalla tasca il portasigarette e si accese un'altra delle sue Régies. — Van — disse lentamente — sarà bene andare a dare un'occhiata al rifugio di Kinkaid. So vagamente dove si trova. Se ci dovessimo smarrire, potremo chiedere la via. Voltò l'automobile e rifece il cammino verso il fiume Hudson, poi, tornato sulla statale 9, puntò a nord lungo le Palisades. — Entro i prossimi chilometri, dovrebbe esserci una strada laterale. Ci sarà forse un segnale indicatore — mi avvertì. — Tieni gli occhi aperti. Se la manchiamo, dovremo andare a Closter e chiedere indicazioni più precise. Ma non fu necessario: circa tre chilometri dopo, un rustico cartello battuto dalle intemperie, posto all'ingresso di un viale privato che si dipartiva dal fiume tra i margini alberati, ci avvertì che in quella direzione, più oltre, si trovava il capanno di Kinkaid. Quasi subito, dopo aver imboccato la strada laterale, ci trovammo in una zona boscosa. Eravamo adesso nella contea di Bergen, in un punto imprecisato fra il circondario di Closter e il confine dello stato di New York, vicino a Rockleigh, un vasto territorio del New Jersey. Dopo circa un chilometro di quella strada secondaria, arrivammo d'improvviso a una radura nel cui centro si ergeva un vecchio villino in pietra a due piani che pareva essere stato destinato, in origine, ad abitazione. La casa era in uno stato di abbandono desolato. Le finestre erano state sbarrate con delle assi, il piccolo portico antestante e la porta massiccia dell'ingresso principale non sembravano essere stati usati da anni. Dietro la costruzione, sulla destra, c'era un'autorimessa in lamiera. Vance guidò l'automobile nel folto, sulla sinistra, e scese a terra. — Sembra un tantino deserto, eh, Van? — commentò mentre ci avvicinavamo alla porta anteriore. Tirò diverse volte l'antiquata manopola di ottone, ma, sebbene udissimo il tintinnio di un campanello all'interno, nessuno venne ad aprire. — Qui non c'è nessuno — concluse il mio amico. — Eppure io voglio entrare in questa casa. Vediamo che cosa ci riserva il retro. Ci avviammo lungo il sentiero, ma invece di andare direttamente verso la parte posteriore, Vance proseguì verso l'autorimessa. La porta era socchiusa, ma dal saliscendi pendeva un grosso lucchetto a cui Vance dedicò la sua attenzione, prima di guardare dentro.
— Segni recenti di vita — mormorò. — Non c'è nessuna automobile, ma sulla serratura non c'è polvere né ruggine. Ci sono inoltre segni di pneumatici sulla strada e tracce fresche di olio sull'impiantito di cemento. Conclusione: l'abitante o gli abitanti del capanno se ne sono andati solo di recente. Destinazione e momento del suo, o del loro, ritorno, problematici. Guardò il sopralzo, sul retro del villino, e rimase in silenzio, fumando. — Mi chiedo... — mormorò. — Sì, credo che si possa fare. Van, ti senti in vena di effrazione? Si avvicinò al piccolo portico schermato dietro la casa e salì la breve rampa di scale. La porta non era serrata e ci riuscì agevole entrare all'interno, ma sia l'uscio del capanno, sia la finestra della piccola dispensa sul fianco, erano chiuse. — Aspettami qui un minuto — ordinò Vance e sparì giù per i gradini, nello spiazzo sul retro. Poco dopo tornava con uno scalpello recuperato dalla scatola dei ferri dell'automobile. — Ho sempre avuto una passione repressa per il mestiere dello scassinatore — mi spiegò. — Ora, vediamo... Insinuò la testa piatta dello scalpello fra i due listelli e, dopo qualche manovra, riuscì a far saltare la serratura circolare che li bloccava. Poi, inserita in basso la leva, alzò la parte inferiore della finestra. Quindi, mise al piede del davanzale una scatola vuota trovata in un angolo e; dopo essersi arrampicato, riuscì, con notevole sforzo, a sgusciare per l'apertura; l'attimo successivo, udii un tonfo e scomparve nel buio dall'altra parte. Dopo pochi secondi la sua faccia fece capolino alla finestra. — Tutto in ordine, Van — annunciò. — Vieni anche tu. Ti aiuto io. Mi calai il cappello sulle orecchie e mi introdussi a forza nel pertugio, finché il mio amico, afferrandomi per le spalle, mi trasse nell'angusta dispensa, immersa nell'oscurità. — Parola mia! — sospirò. — Quella di scassinatore è una professione troppo impegnativa. Ho avuto ragione a non dedicarmi a questa carriera! Ora dobbiamo cercare la porta della cantina. Dubito che ci sia qualcosa d'interessante ai piani. Il compito si rivelò assai facile. L'ingresso era in diretta comunicazione con la cucina, divisa dalla dispensa da una porta oscillante. Vance fece strada per le scale, tenendo davanti a sé l'accendino acceso. — Accidenti! — udii la sua voce dalla penombra. — Una strana porta per un semplice capanno di caccia. Gli ero giunto a ridosso ai piedi degli scalini e, guardando sopra la sua spalla, intravidi alla luce vacillante della fiammella un'enorme porta di
quercia massiccia, relativamente nuova. Non c'erano né maniglia, né serratura, solo una grande sbarra di ferro poggiava dove di solito ci sarebbe dovuto essere il pomolo. Vance la alzò e sospinse il battente. Dagli oscuri recessi giunse un pungente odore di preparati chimici e un ronzio continuo, insistente, come di motori, mentre nelle tenebre in distanza distinsi diverse lingue danzanti di fiamme, probabilmente di becchi Bunsen. Vance avanzò oltre la soglia e cercò a tentoni sulla parete vicina, finché trovò l'interruttore. Seguì uno scatto e una vivida luce, proveniente da una dozzina o più di lampadine elettriche sospese, sostituì l'oscurità. Davanti ai miei occhi si aprì uno spettacolo inverosimile. La cantina dalle pareti di pietra, benché in orìgine dovesse misurare almeno sei metri quadrati, era stata ampliata sui due lati, tanto che il sotterraneo dove ci venimmo a trovare si estendeva per almeno trenta metri in larghezza e trentasei in lunghezza. File di enormi tavoli coperti da migliaia di ampolle di vetro stipavano il locale. In fondo, si trovava una serie di generatori elettrici, su alcuni tavoli; sugli ampi scaffali a muro, si allineavano variegate collezioni di bottiglie e complessi strumenti da laboratorio. Vance si guardò attorno e andò qua e là fra i piani ingombri: — Parola mia! — mormorò. — Il dottor Taylor sarebbe verde d'invidia al vedere questo impianto. Stupefacente! Attraversò la stanza fino a. una serie di tavoli, con un'attrezzatura particolare di cui avevo visto il guizzare di fiamme azzurre. — Acqua pesante, Van — spiegò, indicando le diverse bottiglie a cono al termine di una lunga serie di tubi, valvole e celle. — Deve essercene più di un litro. Produzione su larga scala. Se è pura, Kinkaid ha una fortuna in quelle bottiglie. Lo vedi come si ottiene, Van? Un processo affascinante. Studiò da vicino le apparecchiature. — Qui viene usato lo stesso metodo di produzione prescelto dai chimici di Princeton, il primo, fra l'altro, che abbia un'utilità pratica. L'elettrolito di una delle normali cellule elettrolitiche che si trovano in commercio viene sottoposto a distillazione frazionata per liberarlo dal carbonio e dall'ossido di carbonio. Si aggiunge idrossido di sodio e si sottopone la soluzione al processo elettrolitico in quei contenitori. Indicò parecchi tavoli in fondo su cui stavano innumerevoli ampolle idrometriche raffreddate per immersione in grandi vasche poco profonde di acqua corrente. — Gli elettrodi, come puoi vedere, sono piegati in un duplice angolo retto per formare l'anodo e il catodo nelle celle contigue. Quei generatori lag-
giù provvedono a fornire l'elettricità continua necessaria al procedimento. Ci vogliono tre giorni per ridurre l'elettrolito fino a circa il dodici per cento del suo volume originario; dopo di che, l'elettrolito concentrato viene parzialmente neutralizzato facendo gorgogliare l'anidride carbonica. Poi si procede a un ulteriore processo di distillazione e lo si aggiunge a un'altra serie di celle, quelle sui tavoli là in fondo, contenenti acqua dello stesso grado che ha ancora l'originario contenuto di idrossido di sodio. Dopo tre successive elettrolisi, si ottiene un liquido che contiene il due e mezzo per cento circa di acqua pesante. In seguito, continuando il processo di produzione, l'idrogeno liquido che man mano si forma è sempre più ricco di deuterio che viene ricuperato dalle apparecchiature sui tavoli che vedi. Indicò con la mano la batteria di elaborati strumenti chimici davanti a noi. — Portato allo stato gassoso passa da quelle celle a destra attraverso questa specie di trappola per gas, poi per il tubo a T che, come puoi osservare, è immerso nel mercurio che serve come valvola di sicurezza, ed evitare la formazione di una pressione eccessiva; e infine defluisce per quel minuscolo tubo a becco di vetro dove brucia come una fiamma. Vance lasciò cadere a terra la sigaretta e la schiacciò con il piede. — Poi si giunge, mio caro Van, alla fase finale della produzione del più costoso liquido del mondo. L'acqua prodotta dalla combustione viene condensata in questo tubo di quarzo inclinato... In quel momento ci giunse una debole eco di passi frettolosi per le scale della cantina. Vance si voltò di scatto e si precipitò in avanti. Troppo tardi. La grande porta di quercia era stata violentemente richiusa e, quasi simultaneamente, la pesante sbarra di ferro fu tirata con un sordo colpo metallico. Nonostante il ronzio dei motori e il flusso dell'acqua corrente nelle vasche, potemmo distintamente udire la rabbiosa ma trionfante risata di qualcuno che stava risalendo le scale. 14 L'ETICHETTA BIANCA (Lunedì, 17 ottobre, ore 15) Vance rimase a fissare la nuda porta massiccia con un sorriso sarcastico. — Accidenti, Van! — mormorò. — E io che detesto il melodramma. Sono le tre del pomeriggio e non abbiamo neppure fatto colazione. Situa-
zione spiacevole, ma interessante. — Avvicinò una sedia di abete e vi si abbandonò, fumando con aria pensierosa. D'improvviso, tutte le luci dello scantinato si spensero, lasciandoci in una tenebra carica di effluvi chimici. — I nostri carcerieri hanno staccato l'interruttore centrale — sospirò il mio amico. — Bene, bene. Puoi resistere, Van? Mi dispiace maledettamente di averti trascinato in quest'imprevedibile avventura. Ma vediamo se i nostri guardiani sono tipi comunicativi. Andò alla porta e picchiò diversi colpi sonori con lo schienale della sedia. Si udì il rumore di passi che scendevano le scale e una voce ovattata e indistinta domandò: — Chi siete, e cosa cercate qui? — Mi dispiace dover ammettere che sono Vance — gridò di rimando il mio amico. — Gradirei che mi facesse portare due porzioni di homard à la Turque e una bottiglia di Chauvenet leggero. — Vi toccherà qualcosa di peggio — giunse la voce coperta, con un tono fievole, ma non per questo meno aspro e aggressivo. — Quanti siete lì? — Solo due. Del tutto innocui. Turisti. Gitanti per le campagne del Jersey. — Innocui scassinatori, questa è buona! — E la voce ridacchiò maligna. — Comunque, sarete innocui quando avrò finito con voi. Tornerò tra un minuto, appena avrò avvertito la polizia. — E sentimmo i passi salire i gradini. Vance picchiò ancora sulla porta con la sedia. — Solo un momento — gridò. — Be', che c'è adesso? — La voce sembrava più lontana, questa volta. — Prima che disturbiate i gendarmes, posso anche informarvi che la polizia di New York sa esattamente dove sono e perché sono venuto qui. Inoltre, ho un appuntamento con il procuratore distrettuale Markham alle cinque in punto e se non mi farò vedere, questo capanno di caccia sarà teatro di un giro d'ispezione quanto mai accurato. Ma non lasciatevi impressionare. Ho molto su cui riflettere per le prossime ore. — Lo sentii deporre la sedia e riprendervi posto. Poi, al lieve lampeggiare della fiamma, accese un'altra Régie. Sopravvenne un breve silenzio, seguito da passi sulle scale e un mormorio di voci basse. Poco dopo, le luci nella cantina si accesero di nuovo e i motori ripresero a ronzare. Ben presto giunse il rumore della sbarra di ferro che veniva alzata e l'imponente porta di legno ruotò verso l'interno. Ai piedi delle scale vedemmo Kinkaid, la faccia più che mai inespressi-
va e simile a una maschera. — Non sapevo foste voi, signor Vance — disse con voce atona — o non sarei stato così poco ospitale. Sono arrivato in automobile e ho notato che la finestra della dispensa era stata forzata. Ero convinto che ci fossero degli scassinatori e quando ho visto le luci accese nella cantina, ho ordinato di sprangare la porta. — Perfettamente comprensibile — rispose Vance. — La scorrettezza è stata mia, non vostra. Kinkaid tenne la porta aperta e si scostò di lato. Salimmo le scale fino alla cucina, dopo di che il padrone di casa fece strada fino al soggiorno. Un uomo robusto, con fiammeggianti capelli rossi e la faccia corrucciata, si teneva a lato di una tavola poderosa. Portava mollettiere di cuoio, un abito da lavoro in tela grezza e una camicia pesante di flanella grigia. — Il signor Arnheim — annunciò Kinkaid con noncuranza, a guisa di presentazione. — Incaricato del laboratorio che avete appena ispezionato. Vance si voltò con un lieve inchino. — Ah! Un compagno di scuola di Bloodgood e di Quayle? Arnheim sussultò. — Ebbene? — borbottò ruvidamente, con lo sguardo rannuvolato. — Non c'è altro, Arnheim — disse Kinkaid e lo congedò con un gesto della mano. L'uomo tornò in cucina, da dove lo sentimmo scendere per i gradini verso lo scantinato. Kinkaid sedette a scrutare Vance con occhio malevolo. — Sembrate molto informato dei miei affari — osservò. — Oh, no. No. Solo i fatti più ovvi — lo rassicurò Vance affabile. — Stavo cercando altri dati quando siete arrivato. — Siete stato fortunato che sia andata così. Arnheim non è molto tenero con gli ospiti non invitati del laboratorio. Io mi trasferisco per qualche giorno ad Atlantic City e lui è venuto a prendermi in automobile a Closter per portarmi qui. Vance inarcò le sopracciglia. — Un percorso maledettamente strano, per uno che va da New York ad Altantic City, non trovate? La faccia di Kinkaid si indurì, gli occhi gli si ridussero a due fessure. — Non è così maledettamente strano — ribatté. — Volevo parlare di alcune questioni di lavoro con Arnheim prima di partire, così ho preso il treno per Closter e gli ho chiesto di venirmi a prendere là. Più tardi, mi accompagnerà a Newark, in tempo per il treno delle sette per Atlantic City.
Vi sembra una spiegazione soddisfacente per il mio itinerario? — Da un certo punto di vista, sì. Potrebbe darsi. Più che logico, a sentire le vostre parole. Vi allontanate per un po' dal tumulto della metropoli tentacolare, vero? — Chi diavolo non lo farebbe... dopo quello che ho passato? — Il tono di Kinkaid era divenuto quasi petulante. — Ho fatto temporaneamente chiudere il Casinò, per rispetto a Virginia. — Si drizzò nella sedia e fissò Vance con uno sguardo maligno. — Credetemi, signore, mi piacerebbe mettere le mani sul bruto che l'ha uccisa. — Nobile sentimento — mormorò Vance. — Primitivo, ma nobile. A proposito, la sua caraffa dell'acqua era vuota quando siamo arrivati a casa sua sabato sera. — Così mi ha detto mia nipote. E con ciò? Non è un crimine bere un bicchier d'acqua, no? — No — concesse il mio amico. — E neppure produrre acqua pesante. Straordinario laboratorio, il vostro. — Il più bello che ci sia al mondo — asserì l'altro con palese orgoglio. — È stata un'idea di Bloodgood. Lui ne ha visto le possibilità commerciali, me ne ha parlato e io gli ho promesso che l'avrei finanziato. Fra circa un mese saremo pronti per entrare sul mercato. — Già, capisco. Tipo molto intraprendente, il signor Bloodgood. — Vance annuì, guardando Kinkaid con occhi astratti e sognanti. — Così, lui ha messo a punto l'idea, è andato da Quayle al Frick Laboratory e ha raccolto tutti i dati e i piani necessari; poi ha puntato gli occhi su Arnheim e l'ha incaricato delle operazioni. Tre giovani chimici ambiziosi, tutti buoni amici, che si danno da fare, per così dire. Molto chiaro. Kinkaid sorrise sornione. — Sembrate saperne quanto me sulla mia impresa. Ve l'ha detto Bloodgood? — Oh, no. — Vance scosse la testa. — Lui ha evitato con gran destrezza l'argomento. Ma con un briciolo di ostinazione di troppo. Mi ha insospettito. Ieri notte ho tatto un salto a Princeton. Ho messo insieme i vari elementi. Il vostro capanno di caccia era ideale per un simile progetto. Così, mi sono deciso a venire a vedere. — Perché siete così interessato al mio laboratorio? — Il tema dell'acqua, capite. C'è fin troppa acqua che gorgoglia qua e là in questo caso di avvelenamento. Kinkaid balzò in piedi, paonazzo in viso.
— Che diavolo volete dire? — domandò con una voce impastata. — L'acqua pesante non è un veleno. — Nessuno lo sa, vero? — replicò Vance soave. — Potrebbe esserlo. Non c'è ancora modo di dirlo. Argomento interessante... Comunque tutto puntava sull'acqua. Ho semplicemente seguito i cartelli indicatori. Kinkaid tacque per un po'. Infine, annuì con un'espressione pensierosa. — Sì, ora posso capire cosa volete dire. — Lanciò a Vance un'occhiata penetrante. — Avete scoperto qualcosa? — Niente che già non sospettassi — rispose l'altro evasivo. — Un vero peccato che la vostra effrazione non abbia avuto risultati gratificanti. — Effrazione... oh, sì. Certo, certo. — Vance scrollò le spalle. — Pensavate a qualche accusa di vostro maggior gradimento? Kinkaid ridacchiò. — No, per questa volta lascerò andare — rispose quasi cordiale. — Vi sono molto grato — rispose Vance alzandosi. — Stando così le cose, credo che il signor Van Dine e io porteremo via le nostre stanche ossa. Spiacente di andarmene così di fretta, ma ho una fame spaventosa. Non abbiamo ancora pranzato. — Andò alla porta, poi si fermò: — A proposito, dove alloggerete ad Atlantic City? Kinkaid mostrò un palese interesse a quella domanda. — Pensate di aver bisogno di raggiungermi? — chiese. — Sarò al Ritz. — Una visita piacevole — concluse Vance. Uscimmo all'aperto e salimmo in automobile. Non erano ancora le quattro e mezzo quando arrivammo a casa. Vance ordinò il tè e si cambiò, poi telefonò a Markham. — Ho passato un simpatico pomeriggio — gli disse. — Me ne sono andato a scassinare case. Mi son trovato con Van in una tenebrosa cantina, proprio come nei romanzi d'appendice. Ho fatto il vostro nome. Apriti sesamo. Mi hanno cerimoniosamente rilasciato, chiedendomi scusa. Una chiacchieratina con Kinkaid, ed eccomi qui, pronto a sorbire un po' dell'eccellente tè di Taiwan di Currie... Kinkaid, fra l'altro, sta producendo litri di acqua pesante nella cantina del suo capanno di caccia nel Jersey. Un grande impianto, molto complesso. Un'idea di Bloodgood, con la collaborazione e l'assistenza di un altro compagno di corso, un tipo scorbutico di nome Arnheim. Kinkaid non sembra particolarmente seccato che abbia scoperto il suo segreto. Mi ha perfino perdonato di essermi introdotto forzando una finestra. È diretto ad Atlantic City, per un periodo di riposo. La pista rela-
tiva al mistero dell'acqua progredisce. Fra non molto porterò uno o due secchi di acqua fredda, figurativamente parlando, a casa Llewellyn. Caso bizzarro, Markham. Ma la luce comincia a farsi strada. Non certo un'illuminazione accecante. Ma basta per mostrarmi la via. Venite a cena nella mia umile dimora alle otto e mezzo, stasera? Poi andremo a sentire il Terzo Quartetto per pianoforte di Brahms alla Carnegie Hall. Durante il primo tempo suonano Rimsky-Korsakov, ma io preferirei infinitamente un canard Molière accompagnato da una bottiglia di Château Haut-Brion... Vi fornirò tutte le notizie di persona. A proposito, Markham, portate il rapporto di Hildebrandt, se è pronto. A più tardi. Verso le sei, Vance si presentò in casa Llewellyn. il maggiordomo ci fece entrare con austera dignità, in apparenza per nulla sorpreso dalla nostra visita. — Chi desiderate vedere, signore? — Chi è in casa, Smith? — chiese Vance a sua volta. — Tutti, signore, salvo il signor Kinkaid. Ci sono anche il signor Bloodgood e il dottor Kane. I signori sono in soggiorno con il signor Lynn. Le signore di sopra. Lynn Llewellyn, che evidentemente ci aveva sentito, apparve sulla soglia del salotto e ci invitò a raggiungerlo. — Sono felice che siate venuto, signor Vance. — Sembrava ancora sciupato e depresso, ma i sudi modi tradivano una palpitante attesa. — Avete scoperto qualcosa? Prima che Vance potesse rispondere, Bloodgood e il dottor Kane si fecero avanti per salutarlo. Terminati i convenevoli, il mio amico sedette al tavolo centrale. — Ho scoperto alcuni particolari — rispose a Llewellyn. Poi, rivolgendosi direttamente a Bloodgood: — Sono andato a Closter. Ho visitato il capanno di caccia e ho fatto due chiacchiere con Kinkaid. Interessante cantina, quella di laggiù. Llewellyn si avvicinò al tavolo e si parò di fianco. — Ho sempre sospettato che il vecchio furfante avesse dei buoni vini al capanno — si lamentò. — Eppure non mi ha mai invitato ad assaggiarli. Bloodgood tenne gli occhi fissi su Vance, ignorando le parole di Llewellyn. — Avete incontrato qualcun altro, là? — chiese. — Oh, sì. Arnheim. Tipo energico. È stato lui a chiuderci a chiave nello scantinato. Ordini di Kinkaid, naturalmente. Molto seccante. — Vance si
appoggiò allo schienale e lo guardò negli occhi. — Ho incontrato un altro dei vostri compagni di università, ieri sera, Martin Quayle. E ho anche fatto una rapida visita al dottor Hugh Taylor. Mi hanno permesso di dare un'occhiata al Frick Laboratory. Bloodgood mosse un passo, ma non distolse gli occhi. — E che cosa avete saputo? — chiese dopo un attimo. — Ho saputo molto sull'acqua — rispose Vance, con un debole sorriso. — Avete forse anche appreso chi è il responsabile di quanto è avvenuto qui sabato notte? Vance chinò la testa in un cenno affermativo: — Sì. Credo di averlo capito. Bloodgood si fregò il mento con la mano. — Quali passi intendete compiere, adesso? — Mio caro amico! — sospirò Vance. — Sapete perfettamente bene che non posso compiere alcun passo. È stato abbastanza difficile appurare certi fatti, capite, ma è molto più difficile dimostrarli. Voi potreste aiutarci, per caso? Bloodgood si chinò in avanti rabbioso. — No, accidenti! — sbottò quasi in un'esplosione. — Questo è un problema vostro. — Oh, certo, certo. — Vance aprì i palmi sconsolato. — Una situazione triste, oltre che complicata... Il dottor Kane, che aveva ascoltato assorto, si riscosse come da un brutto sogno e si alzò. — Me ne devo andare — disse, guardando nervoso l'orologio. — Devo trovarmi in studio alle sei. Ho due pazienti che mi aspettano. — Strinse la mano a tutti i presenti e uscì in fretta. Bloodgood, ancora concentrato su Vance, non gli prestò molta attenzione. — Se sapete chi è il colpevole — chiese in tono pacato — e non potete provarlo, forse intendete abbandonare il caso? — No, no. Tenacia è la mia parola d'ordine. E perseveranza. Mai darsi per vinto. "Aiutati che Dio ti aiuta." Pensiero confortante. La goccia d'acqua scava la roccia, come ha detto Giobbe. Interessante osservazione, questa. Ancora l'acqua, come vedete... Sono certo, signor Bloodgood, che tra non molto avrò prove a sufficienza. Stasera avrò nelle mani il rapporto eseguito dal laboratorio di tossicologia della polizia. Il dottor Hildebrandt è una persona capace. Domani avrò qualcosa su cui basarmi.
— E se non avesse trovato traccia di veleno? — Meglio ancora. Questo semplificherà la situazione. Ma sono sicuro che il veleno ci sarà. Troppa sottigliezza in questo caso. Questo è proprio il punto di questo disegno criminale. Mi piacciono molto i numeri trascendenti. È tanto più facile scrivere pi greco, anziché una sfilza di centinaia di numeri. — Capisco quel che intendete. — Bloodgood guardò l'orologio e si alzò. — Vorrete scusarmi. Devo prendere un treno alle sette per Atlantic City. Kinkaid mi vuole là. Lui salirà a Newark. — Ci rivolse un rigido inchino e si avviò verso la soglia. Giunto alla porta, si fermò. — Avreste qualche obiezione — domandò a Vance — se riferissi a Kinkaid quanto mi avete detto sulla scoperta dell'avvelenatore di Virginia? Il mio amico rispose dopo una breve riflessione: — No, assolutamente. Buona idea. Kinkaid ha diritto di essere informato. Potreste anche aggiungere che domani risolverò il caso. L'altro trattenne il respiro guardandolo fisso. — Siete sicuro di volere che gli dica anche questo? — Oh, certo — Vance esalò una serie di anelli di fumo. — Presumo che anche voi vi fermerete al Ritz...? Bloodgood lasciò trascorrere qualche secondo. — Sì. Sarò là. — E, voltati i tacchi, uscì di gran carriera. Era appena scomparso che Lynn Llewellyn balzò dalla sedia e afferrò eccitato il braccio di Vance. Aveva gli occhi scintillanti e tremava da capo a piedi. — Mio Dio! — ansimò. — Non crederete davvero... Vance si alzò di scatto e si divincolò. — Niente isterismi, per favore — disse sprezzante. — Andate a dire a vostra madre e vostra sorella che vorrei vederle. Llewellyn, sconcertato e vergognoso, borbottò qualche parola di scusa e uscì dalla stanza. Tornò pochi minuti dopo, informando Vance che le due donne erano entrambe in camera di Amelia Llewellyn e che l'avrebbero ricevuto là. Vance salì immediatamente e si recò dove la padrona di casa e la figlia l'aspettavano. — Mi sembra doveroso — esordì dopo un breve saluto, tenendo fissi gli occhi sull'anziana signora — riferirvi quanto ho già detto alle altre persone coinvolte nel caso. Credo di sapere chi è il responsabile di questa orribile
situazione. So chi ha avvelenato vostro figlio, signora, e chi ha messo il veleno nella vostra caraffa, prima che bevesse la signorina Llewellyn. E so anche chi ha avvelenato vostra nuora e ha scritto il biglietto su cui lei annunciava la sua morte. Non posso ancora fare nulla al riguardo, dato che non ho le prove indispensabili che la legge richiede. Spero per domani di avere in mano una quantità sufficiente di fatti che ci permetterà di prendere le misure necessarie ad assicurare il colpevole alla giustizia. Ciò che avrò da dirvi sarà molto doloroso per entrambe, desidero che siate preparate. Tutt'e due le donne rimasero in silenzio e Vance, dopo un malinconico inchino, uscì dalla stanza. Invece di tornare al pian terreno, svoltò per il corridoio verso la camera in cui era morta Virginia. — Voglio dare ancora un'occhiata in giro, Van — mi spiegò, superando la soglia e richiudendosi la porta alle spalle senza rumore, appena lo ebbi seguito all'interno. Per cinque minuti vagò per il locale, esaminando soprappensiero ogni pezzo dell'arredamento. Indugiò sul tavolo da toilette, passò di nuovo in rivista i libri sugli scaffali a muro, aprì il cassetto del comodino e ne controllò il contenuto, saggiò la porta del corridoio che portava in camera di Amelia Llewellyn e infine entrò nel bagno. Si guardò attorno, annusò il profumo del nebulizzatore, aprì lo sportello dell'armadietto dei medicinali, contemplando per diversi minuti l'interno, senza toccare nulla. Finalmente, lo richiuse e tornò nella camera. — Qui non c'è altro da scoprire, Van — annunciò. — Andiamo a casa e aspettiamo il domani. Mentre passavamo oltre la porta del salotto, vedemmo Lynn Llewellyn, seduto vicino al camino, la testa fra le mani. Forse non ci sentì, o forse era troppo sconvolto dalle recenti affermazioni del mio amico per occuparsi nel solito modo convenzionale dei suoi ospiti, poiché non sembrò neppure accorgersi che stavamo lasciando la casa. Markham arrivò da Vance alle sette e mezzo. — Ho bisogno di bere un aperitivo prima di cena — informò subito il mio amico. — Questo caso mi ha tormentato per tutto il giorno. E la vostra criptica telefonata non è esattamente servita a sollevarmi il morale. Raccontatemi tutto, Vance. Come e perché siete finiti chiusi in una cantina? Una vicenda che ha dell'incredibile! — Al contrario, era più che ragionevole — sorrise l'altro. — Van e io ci siamo trasformati in scassinatori. Abbiamo usato uno scalpello come piede di porco per introdurci nel capanno di caccia di Kinkaid. Davvero ri-
provevole. — Grazie a Dio siete sani e salvi. — A dispetto del tono scherzoso, c'era molta ansia nell'espressione dei suoi occhi, mentre fissava Vance. — Lo sapete, vero, che la mia giurisdizione non si estende fino al Jersey. Vance suonò per chiamare Currie e gli chiese di preparare un Martini dry e un Dubonnet. Ordinò anche alcuni stuzzichini al caviale beluga. — Se proprio dovete prendere un aperitivo... — sospirò scrollando le spalle. — Scusatemi se non mi unisco a voi. Mentre Markham e io bevevamo i nostri aperitivi, Vance, dedicandosi al cognac, riferì con cura gli eventi di quella giornata memorabile. Alla fine, Markham scosse la testa costernato. — E tutte queste ricerche dove diamine vi hanno condotto? — chiese. — All'avvelenatore. Conoscendo la vostra mentalità di tutore della legge, non posso ancora consegnarvi il colpevole. La giurìa di un processo istruttorio si limiterebbe a infliggervi un richiamo ufficiale per eccesso di ambizione. — Vance tornò a essere serio. — A proposito, avete il rapporto di Hildebrandt? Il procuratore annuì. — Sì, ma non è definitivo. Mi ha telefonato poco prima che uscissi dall'ufficio, mi ha detto che ha lavorato tutto il giorno e che non ha ancora trovato tracce di veleno. Sembrava piuttosto deluso e mi ha assicurato che avrebbe continuato a lavorare stasera. Ha analizzato il fegato, i reni e gli intestini senza nessun risultato probante; ora passerà al sangue, ai polmoni e al cervello. A quanto sembra, è estremamente interessato al caso. — Speravo che avesse trovato qualcosa di più tangibile — osservò Vance, cominciando a camminare avanti e indietro. — Non riesco a capire — mormorò, il mento chino sul petto. — Avrebbe dovuto trovare del veleno. Non vi pare? Tutta la mia teoria traballa, Markham. Non ho altro su cui basarmi. Tornò a sedersi e per un lungo momento fumò in silenzio. — Oggi ho di nuovo ispezionato la stanza e il bagno di Virginia Llewellyn, sperando in un qualche indizio, ma non ho trovato niente che potesse darmi un'indicazione utile. Ho solo notato che l'armadietto dei medicinali è stato artisticamente ricomposto. Ora è di nuovo come l'avevo visto la prima volta. Tutto è in ordine. In perfetto equilibrio. La disposizione dell'insieme è più che corretta. — Avete scoperto che cosa ha turbato la vostra sensibilità estetica, ieri? — domandò Markham senza troppo interesse.
— Sì. Oh, sì. Ieri mancava una macchia, un quadrato bianco. L'etichetta di un farmacista su un'alta bottiglia azzurra. Una bottiglia di collirio. Qualcuno evidentemente l'ha presa, dopo che avevo esaminato l'armadietto per la prima volta e l'ha rimessa con l'etichetta voltata verso il fondo o di fianco. Così, ieri, invece di cogliere il valore compositivo di un'alta bottiglia blu con una grande etichetta bianca, ho scorto solo la nuda rotondità azzurra del flacone. Ma oggi l'etichetta era di nuovo voltata come l'altra volta. — Molto utile — commentò ironico il procuratore. — E questo particolare rientra per caso fra le prove richieste a norma di legge? Prima che Markham avesse terminato la domanda, Vance era balzato in piedi. — Per Giove! — esclamò, tentando di controllare l'eccitazione che traspariva dalla sua voce. — Quell'etichetta voltata può rappresentare l'indizio che speravo di trovare quando vi ho chiesto di ritirare la polizia da casa Llewellyn. Non sapevo che cosa sarebbe successo se tutti fossero stati liberi, senza sorveglianza né restrizioni. Ma pensavo che qualcosa poteva succedere. Lo spostamento di quella bottiglia è il solo cambiamento intervenuto. Mi chiedo... Si voltò di scatto e andò verso il telefono. Pochi secondi dopo era in comunicazione con il dottor Hildebrandt, che si trovava ancora nel laboratorio di medicina legale. — Prima di qualunque altro passo, dottore — gli disse — analizzate le congiuntive, le sacche lacrimali e le mucose del naso. Esami relativi al gruppo della belladonna. Questo potrebbe risparmiarvi ulteriori ricerche... 15 L'APPUNTAMENTO DELLE DUE (Martedì, 18 ottobre, ore 9,30) Vance arrivò all'ufficio del procuratore distrettuale alle nove e mezzo del mattino successivo. Dopo il concerto di musica da camera della sera prima alla Carnegie Hall, Markham era andato direttamente a casa e il mio amico era rimasto alzato fino a tardi, oltre la mezzanotte, a leggere varie pagine dei diversi libri di medicina che possedeva. Mi era parso nervoso e impaziente, quindi, dopo uno Scotch con soda, ero andato a letto, lasciandolo in biblioteca. Ero però ancora sveglio quando anche lui si ritirò, due ore più tardi. Gli avvenimenti della giornata avevano stimolato i miei processi mentali ed era quasi l'alba quando mi addormentai. Vance mi svegliò alle
otto e mi chiese se desideravo partecipare all'incontro previsto per quel giorno. Mi alzai all'istante. Era di umore eccellente quando lo raggiunsi in biblioteca per la colazione. — Oggi, Van — mi annunciò allegro — dovrebbe succedere finalmente quell'evento definitivo e chiarificatore. Conto sull'esame delle congiuntive e sui processi psicologici della paura. Ho detto a tutte le persone coinvolte nel caso, salvo Kinkaid, tutto quello che so e possiamo fidarci di Bloodgood che gli ha sicuramente riferito le mie osservazioni quando lo ha raggiunto al mare. Spero che le mie poche rivelazioni siano cadute su un terreno propizio e producano buoni frutti. Non credo a un successo totale e immediato, ma sarei più che soddisfatto se solo in parte riuscissero a smuovere le acque... Punteremo verso l'ufficio di Markham appena avrai fatto fuori quelle uova in camicia. Vorrei conoscere gli ultimi risultati delle analisi di Hildebrandt... Quando arrivammo, Markham, giunto da poco, non si alzò, ma seguitò a leggere un foglio dattiloscritto. — L'avete azzeccata — informò subito Vance. — Il referto di Hildebrandt era sulla scrivania quando sono entrato. — Ah! — Congiuntive, sacche lacrimali e mucose nasali: tutti saturi di belladonna. Belladonna anche nel sangue. Il dottore afferma che non ci sono più dubbi sulla causa della morte. — Molto interessante — commentò Vance. — Ieri sera stavo leggendo il caso di un bambino di quattro anni morto per una dose di belladonna instillata negli occhi. — Ma così stando le cose, come c'entra la vostra acqua pesante? — Oh, c'entra, c'entra. Il colpevole non si aspettava che venissimo a sapere della droga trovata negli occhi. Noi dovevamo scoprire la produzione di acqua pesante. L'avvelenatore è un esperto in tossicologia, ma non ha tenuto in considerazione tutte le possibili eventualità. — Non fingerò di capire queste vostre misteriose osservazioni — replicò Markham irritato. — Il rapporto del dottor Hildebrandt, comunque, è abbastanza preciso, anche se non ci è di alcun valido aiuto, da un punto di vista giuridico. — No — ammise Vance. — Sotto questo aspetto, rende il caso più difficile. Potrebbe trattarsi pur sempre di suicidio, non vi pare? Ma non è così. — Secondo la vostra teoria la belladonna è stata assunta anche da Lynn
Llewellyn e sua sorella? — Oh, no. — Vance scosse la testa con vigore. — Quei due casi sono di natura completamente diversa. Quello che più mi preoccupa è che non abbiamo alcuna prova che ci sia stato un intento omicida in nessuno dei tre casi di avvelenamento. Ma almeno ora sappiamo su che terreno ci muoviamo. Abbiamo il rapporto di Hildebrandt agli atti... Nessun'altra notizia? — Sì — annuì il procuratore. — Una notizia piuttosto singolare. Io, comunque, non vi annetto alcuna importanza. Stamattina, molto presto, prima ancora che arrivassi qui, Kinkaid ha telefonato da Atlantic City. Gli ha risposto Swacker: lo ha informato che era stato richiamato inaspettatamente a New York, per dei problemi al Casinò. E ha aggiunto che se lo avessimo raggiunto là, pensava di poterci fornire nuove informazioni sul caso Llewellyn. Vance rimase profondamente colpito. — Ha specificato un'ora precisa? — A Swacker ha detto che sarebbe stato molto occupato per tutto il giorno, ma che ci avrebbe aspettato alle due del pomeriggio. — Lo avete richiamato? — No. Kinkaid ha detto a Swacker che avrebbe preso il treno immediatamente. E comunque non sapevo dove alloggiasse. Inoltre, non avevo alcun motivo per richiamarlo e, in ogni modo, non avrei preso nessuna iniziativa prima di avervi parlato. A quanto pare, voi sembrate sapere qualcosa che, lo devo ammettere, a me non è venuto in mente. Cosa ne pensate del suo invito? Ritenete probabile che possa fornirci qualche informazione interessante? — No, non credo. — Vance si abbandonò contro lo schienale della sedia e, con gli occhi socchiusi, soppesò a lungo il problema. — Situazione bizzarra. Agisce con diabolica noncuranza. Forse è solo preoccupato perché ho scoperto che produce l'acqua pesante e desidera scagionarsi di un qualche nostro eventuale sospetto. Non credo comunque che sia seriamente preoccupato. Se lo fosse sarebbe venuto qui nel vostro ufficio, anziché rischiare che mancassimo al suo appuntamento al Casinò. Vance si drizzò d'improvviso. — Per Giove! — esclamò. — C'è un altro modo di considerare la cosa. Si mostra noncurante, certo. Troppo maledettamente noncurante. Come in tutto il resto del caso. Nessuno agisce razionalmente. C'è sempre troppo o troppo poco di tutto. Nessun equilibrio. Si alzò e si diresse verso la finestra, gli occhi rannuvolati.
— Speravo che succedesse qualcosa, aspettavo che succedesse. Ma non questo. — Cosa pensavate che sarebbe successo, Vance? — domandò il procuratore, studiando la schiena del mio amico. — Non lo so — sospirò Vance. — Qualunque cosa, salvo questa. — Tamburellò con le dita sul davanzale scrostato. — Pensavo piuttosto che ci saremmo trovati di fronte a un gesto imprevisto ed elettrizzante. Ma la prospettiva di conversare con Kinkaid alle due del pomeriggio non mi eccita particolarmente. Poi, di scatto, si voltò. — Parola mia, Markham! Questo suo invito è forse proprio quello che aspettavo. — C'era già nei suoi occhi il riflesso di un'accesa curiosità. — Sì. È forse così che doveva essere. Io andavo cercando ulteriori sottigliezze. Ma è forse ormai troppo tardi. Avrei dovuto capirlo. Il caso ha raggiunto la fase più scoperta... Markham, non dobbiamo mancare a quell'appuntamento. — Ma, Vance... — cominciò a protestare il procuratore. — No, no. Dobbiamo andare al Casinò e conoscere la verità. — Vance prese cappotto e cappello. — Passate da me all'una e mezzo. Andò verso la porta, seguito dallo sguardo sorpreso di Markham. — Siete sicuro che sia la mossa giusta? Vance si arrestò con una mano sul pomolo. — Sì. Credo di sì. — Raramente lo avevo visto così serio. — E cosa farete fino all'una e mezzo? — domandò il procuratore con un sorriso sagace. — Mio caro Markham! Avete un carattere quanto mai sospettoso. — Con un subitaneo mutamento di umore, Vance rispose al sorriso. — In primis, farò un po' di telefonate. Svolto questo noioso compito, mi recherò al 240 di Centre Street per parlare con il prode sergente Heath. Poi qualche commissione, quindi una visita lampo a casa Llewellyn. Dopo di che, farò una capatina da Scarponi, dove pranzerò con uova Eugénie, un'insalata di carciofi e... — Arrivederci! — sbottò Markham. — Ci vediamo all'una e mezzo. Vance mi lasciò appena fummo usciti dal Palazzo di Giustizia, e io me ne andai subito a casa, dove mi dedicai al lavoro arretrato. Il mio ospite tornò poco dopo l'una. Pareva lontano col pensiero e in uno stato di estrema tensione interiore. Fu molto laconico e non una volta si riferì alle circostanze che più gli stavano a cuore. Misurò avanti e indietro la
biblioteca per dieci minuti circa, senza smettere di fumare, poi andò in camera da letto, da dove lo sentii telefonare. Non distinsi una sola parola, ma, quando tornò, pareva più sollevato. — Tutto sta andando bene, Van — annunciò e si sedette davanti all'acquarello di Cézanne che preferiva tra i tanti che possedeva. — Se solo questo caso funzionasse con la metà dell'armonia di quella splendida composizione — mormorò. — Mi chiedo... Markham arrivò all'una e mezzo in punto. — Eccomi qua — annunciò senza celare la sua irritazione — anche se non vedo perché non avremmo potuto convocare Kinkaid in ufficio e farci dire là quello che ci vuole comunicare. — Oh, c'è un buon motivo — rispose Vance, osservando l'amico con affetto, prima di distogliere lo sguardo. — Spero ci sia un buon motivo. Non ne sono sicuro... dico davvero. Ma è la nostra sola possibilità e dobbiamo afferrarla. C'è un criminale a piede libero. Markham sospirò. — Credo di capire quello che provate. Comunque, eccomi qui. Sarà il caso di muoverci, è l'ora. Vance esitò. — E se fosse pericoloso? — Non preoccupatevi — ribatté burbero il procuratore. — Come ho già detto, ci sono qua io. Andiamo. — C'è un avvertimento che vorrei dare a voi e a Van: non bevete niente al Casinò, in nessun caso. Salimmo sull'automobile e, quindici minuti dopo, puntammo verso Riverside Drive dopo aver svoltato nella Settantatreesima Strada Ovest. Appena giunti di fronte all'ingresso della casa da gioco scendemmo dall'automobile e salimmo i gradini di pietra per raggiungere il vestibolo. Vance guardò l'orologio. — Sono esattamente le due e un minuto — osservò. — Date le circostanze, direi che siamo puntuali. Schiacciò il piccolo campanello d'avorio di fianco alla porta di bronzo, poi scelse con gran cura una Régie dal portasigarette e l'accese. Poco dopo, sentimmo scattare la serratura, il battente della porta si aprì verso l'interno, ed entrammo nell'atrio in penombra. Con sorpresa, mi accorsi che era stato Lynn Llewellyn ad aprirci. — Mio zio sperava di poter venire — disse, dopo averci salutato cortesemente. — Prevede di essere piuttosto occupato e mi ha chiesto di rag-
giungerlo per aiutarlo. Vi aspetta nel suo ufficio. Vorreste essere così gentili da salire? Dopo i ringraziamenti mormorati a fior di labbra da Vance, il giovane ci fece strada verso il fondo della sala, salì l'ampia scalinata, attraversò il corridoio superiore, passò nella Sala d'Oro e, dopo aver bussato discretamente alla porta dell'ufficio di Kinkaid, l'aprì e con un inchino ci fece entrare. Mi ero appena reso conto che Kinkaid non era affatto nella stanza, quando la porta fu richiusa di scatto e la chiave girò nella serratura. Mi voltai preoccupato e là, appena oltre la soglia, leggermente incurvato, vidi Llewellyn con una pistola color acciaio in mano. La canna ci teneva tutti e tre sotto tiro, muovendosi minacciosa dall'uno all'altro. Un maligno mutamento sembrava essere intervenuto nel nostro ospite: gli occhi socchiusi, lo sguardo sinistro, un bagliore tagliente come una lama di coltello, mi diedero un senso di gelo. La bocca era contorta in un sorriso crudele e c'era una concentrata sicurezza nelle oscillazioni composte del suo corpo. Su noi incombeva un pericolo mortale. — Grazie per essere venuti — disse con voce bassa ma ferma, le labbra ancora atteggiate a un sogghigno malevolo. — E ora, cari i miei segugi, sedetevi su quelle tre sedie contro il muro. Prima di spedirvi tutti quanti all'inferno, ho qualcosa da dirvi. E tenete le mani davanti a voi. Vance lo fissò con curiosità, lasciando poi indugiare lo sguardo sulla pistola. — Non c'è altro da fare, Markham — concluse. — Sembra proprio che qui il maestro delle cerimonie sia il signor Llewellyn. Il mio amico, che si trovava fra me e Markham, prese posto con aria rassegnata sulla sedia in mezzo alla piccola fila evidentemente predisposta per il nostro arrivo contro i pannelli a un'estremità dell'ufficio. Markham e io ci sedemmo da ambo i lati, con le mani sui braccioli seguendo il suo esempio. Llewellyn avanzò guardingo e si fermò a poco più di un metro da noi. — Markham, mi dispiace di avervi cacciato in questo pasticcio — mormorò Vance in preda allo sconforto. — E anche voi, Van. Ma è troppo tardi, ormai, per i rimpianti. — Sputate fuori quella sigaretta — ordinò Llewellyn con gli occhi fissi su di lui. Quando l'altro obbedì, la schiacciò sotto il piede, senza neppure guardare per terra. — E non fate il minimo gesto — proseguì. — Non vorrei dovervi bucherellare prima di avervi fatto il mio discorso.
— Siamo qui per ascoltarvi — rispose il mio amico, con voce stranamente strozzata. — Pensavo di aver capito fino in fondo il vostro sistema di gioco, ma siete più furbo di quanto non avessi immaginato. Llewellyn si concesse una risatina. — Non siete stato in grado di capire. Credevate che le mie riserve fossero agli sgoccioli, che dovessi rinunciare, e perdere la partita. Ma ho ancora sei fiches da giocare, queste piccole fiches di piombo. — Batté un colpetto affettuoso con la sinistra sul tamburo della pistola. — E ne ficcherò due in ognuno di voi. Non vi sembra una giocata vincente? Vance annuì. — Sì. Potrebbe esserlo. Però, alla fine, avete dovuto rinunciare a tutte le sottigliezze del vostro schema e siete costretto a ricorrere a un metodo più diretto. Dopo tutto, non è stato un delitto perfetto. Solo trasformandovi in un pistolero, riuscirete a coprire le poste perdute. Un finale non del tutto soddisfacente. Un po' umiliante, in effetti, per uno che si considera diabolicamente furbo. Un profondo e sdegnoso disprezzo animava la voce di Vance. — Vedete, Markham — proseguì — questo gentiluomo ha assassinato sua moglie. Ma non è stato abbastanza intelligente da raggiungere il suo scopo finale. Quel suo meraviglioso schema che credeva di aver messo a punto è fallito. — Oh, no — lo interruppe Llewellyn. — Non è fallito. Ho solo dovuto condurre il gioco un po' oltre, solo un altro giro di roulette. — Un giro in più. — Vance sorrise, acido. — Già, proprio così. Dovrete aggiungere altri tre delitti per coprire il primo. — Non importa — ribatté il giovane malignamente. — Anzi, sarà un piacere. Se ne stava in piedi, composto e vigile, senza la minima traccia di nervosismo, la pistola tenuta saldamente in mano, lo sguardo freddo e spietato. Io lo fissavo affascinato. Tutto, in lui, sembrava indicare che ci sarebbe toccata una morte repentina e ineluttabile. Quell'uomo possedeva una forza dall'apparenza ancor più terribile in quanto contrastava con i lineamenti delicati e quasi femminei del suo volto. C'era, in lui, un tratto di anormalità assai più terrificante e funesto dei noti, comprensibili terrori della vita. — Esattamente quanto sapete? Colmerò le vostre lacune. Così ci vorrà meno tempo. — Sì, dovete gratificare la vostra vanità — rispose il mio amico. — Ci contavo. In fondo siete un debole.
Le labbra di Llewellyn si torsero in un sorriso crudele. — Non crederete, spero, neppure per un attimo, che non abbia il coraggio di uccidervi tutti e tre? — Cercò di ridere, ma dalla gola gli uscì un suono rauco. — Oh, no. No. — Esclamò Vance avvilito. — Sono più che convinto che intendete ucciderci. Ma questo dimostra solo la vostra profonda debolezza. È semplice premere un grilletto e sparare. Il malvivente più ignorante e codardo eccelle in azioni del genere. Ci vuole coraggio e intelligenza per raggiungere il proprio scopo senza usare violenza, senza abbandonarsi al crimine. — Vi ho ingannati tutti — si vantò il giovane in tono stridente. — E questa farsa finale è più sottile di quanto pensiate. Ho un alibi perfetto per oggi pomeriggio. Se vi interessa, io sto ora attraversando Westchester in automobile con mia madre. — Sì. Naturalmente. Sospettavo qualcosa del genere. Vostra madre non c'era quando sono andato in casa vostra, stamattina... — Siete andato a casa nostra stamane? — Sì. Sono passato là stamane. Vostra madre giurerebbe il falso per voi, purtroppo. Vi sospettava fin dall'inizio e ha fatto tutto il possibile per coprirvi e stornare i sospetti su qualcun altro. Anche vostra sorella ha intuito la verità. — Può darsi di sì, come può darsi di no — lo rimbeccò Llewellyn. — Comunque, i sospetti non fanno male a nessuno. Sono le prove che contano e nessuno può provare un bel niente. Vance annuì. — Sì. C'è del vero in quel che dite. A proposito, siete andato ad Atlantic City ieri sera, vero? — Naturalmente. Ma nessuno lo sa. Ci sono andato solo per telefonare in vece del mio caro zio. Piuttosto semplice. Ha funzionato abbastanza bene, non vi pare? — Sì. Così pare. Eccovi qui, se è questo che intendete. Fortunatamente per il vostro piano il segretario del signor Markham non conosce la vostra voce, né quella di Kinkaid. — Per questo ho fatto in modo di telefonare prima che l'eminente procuratore distrettuale arrivasse in ufficio. Llewellyn accompagnò con un sorriso esultante quelle parole dette con un tono di sconfinato sarcasmo. Vance si limitò a un lieve cenno di assenso, gli occhi sempre concentrati
sulla pistola che era, ora, puntata contro di lui. — È evidente che avete capito tutto quello che vi ho detto a casa vostra, ieri sera. — Non è stato difficile — rispose il giovane. — Sapevo che in realtà, quando fingevate di rivolgere le vostre osservazioni a Bloodgood, stavate parlando con me, nel tentativo di dirmi quanto sapevate. E avete pensato che avrei subito agito per darvi scacco matto. — Un sogghigno gli sfiorò le labbra. — Bene, l'ho fatto, vero? Vi ho costretti a venire qui e tra poco sparerò a tutti quanti. Ma non era proprio la mossa che vi aspettavate. — No. — Vance sospirò. — Lo ammetto. La telefonata e l'appuntamento mi hanno sconcertato parecchio. Non capivo la ragione per cui Kinkaid si dovesse allarmare. Ma ditemi, Llewellyn, come potete sapere che questa vostra iniziativa si risolverà in un successo? Qualcuno nel palazzo potrebbe udire i colpi... — No! — Senza demordere dalla sua vigilanza, il giovane sorrise compiaciuto. — Il Casinò è chiuso a tempo indeterminato: non c'è nessun altro, qui. Kinkaid e Bloodgood sono lontani. Ho preso una chiave del Casinò che mio zio teneva in casa, nelle sue stanze, una settimana fa, pensando che mi potesse servire se gli fosse venuto in mente di tardare troppo a consegnarmi i soldi che ho vinto. — E, di nuovo, rise con un suono rauco e ingoiato. — Siamo completamente soli, qui, Vance, senza pericolo che ci interrompano. Quest'ultima fase si risolverà in un mio successo. — Avete pensato a tutto — mormorò il mio amico scoraggiato. — Sembra che controlliate perfettamente la situazione. Che cosa aspettate? Llewellyn rise. — Mi sto divertendo. E mi interessa sapere esattamente fino a che punto siete riuscito a scoprire il mio piano. — Vi brucia, vero, pensare che qualcuno abbia visto chiaro nei vostri stratagemmi? — No — sbottò Llewellyn. — M'interessa, ecco. So che, in parte, avete capito e io vi dirò il resto, prima di sistemarvi. — A tutto vantaggio, naturalmente, della vostra boria — osservò Vance pacato. — Rafforzerà il vostro ego... — Lasciamo perdere! — Il tono calmo e freddo di Llewellyn era più terrificante di uno sfogo violento. — Raccontate... voglio sentirvelo dire. E sono sicuro che lo farete. Finché parlate, rimanete in vita, e chiunque si aggrapperebbe alla vita sino all'ultimo respiro, anche se solo per pochi minuti... Tenete le mani sui braccioli della sedia, tutti e tre, o vi spedirò all'in-
ferno in una frazione di secondo. 16 LA TRAGEDIA FINALE (Martedì, 18 ottobre, ore 14,15) Vance fissò Llewellyn con uno sguardo quietamente critico. Infine, si decise. — Sì, avete perfettamente ragione. Finché continuerò a parlare, mi lascerete in vita, poiché sembrate ritenere che io possa alimentare la vostra vanità... — Vance! — Markham prese la parola per la prima volta da quando eravamo entrati al Casinò. — Perché dare soddisfazione a questo assassino? Ormai ha deciso e, a quanto pare, non c'è rimedio. — Si esprimeva con voce rauca, strozzato, ma con un fondo di rassegnato coraggio che aumentò la mia ammirazione per lui. — Forse avete ragione, Markham — rispose Vance, senza distogliere gli occhi da Llewellyn. — Ma non c'è nulla di male a parlare con il nostro giustiziere prima che tiri il grilletto. — Avanti! Parlate. — La calma di Llewellyn era innaturale. — O devo farlo io? — No, non è necessario, mi mancano solo pochi particolari. Ecco quello che ho capito: voi avete deciso di liberarvi di vostra moglie e addossare la colpa a vostro zio. Vostra moglie era un impiccio: né voi, né vostra madre l'amavate, e vi sentivate più certo di ottenere quasi tutta l'eredità se foste riuscito a toglierla di mezzo. Non avevate comunque mai avuto simpatia per Kinkaid. Eliminando anche lui, come possibile erede, avreste eliminato anche un'altra fonte di fastidi. Voi nutrite un acuto risentimento nei suoi confronti per la sua superiorità e il disprezzo che vi manifesta apertamente. Un atteggiamento che provano spesso le persone come voi che soffrono di un complesso di inferiorità. Insensibile, egoista come siete, avete inventato un piano che secondo voi doveva portarvi a compiere un delitto perfetto che eliminava tutti gli ostacoli che vi intralciavano. Avete, secondo la vostra mentalità, studiato un colpo da maestro, vi siete messo all'opera facendo in modo di stornare i sospetti, qualunque cosa succedesse. L'idea era intelligente. Ma non avete avuto la capacità di perfezionare il vostro piano. Vance fece una pausa, sostenendo sprezzante lo sguardo minaccioso del giovane, quindi proseguì: — Avete deciso di usare il veleno per compiere
il delitto perché era un mezzo indiretto e codardo e ovviava alla necessità di un'iniziativa coraggiosa. Rispecchiava insomma il vostro carattere, naturalmente. Sapevate che vostra moglie usava il collirio ogni sera. E, consultati probabilmente i libri di tossicologia di vostro padre, siete venuto a sapere che si può procurare la morte instillando la belladonna nelle mucose degli occhi e del naso. Non vi è stato difficile sciogliere una dose di belladonna o di atropina. Ma non eravate abbastanza versato nei metodi moderni della tossicologia (ignoranza, forse, dovuta all'arretratezza nei manuali di vostro padre) da sapere che oggi lo stomaco non è il solo organo che un medico legale fa esaminare in caso di morte sospetta. Un tempo si pensava, a torto, che bastasse dissezionare lo stomaco per provare o smentire un possibile avvelenamento; ma i successivi libri dèi ricercatori sono più accurati in proposito. Avreste dovuto leggere Webster, o Ross, o Withaus e Becker, o Autenrieth. Comunque, ci avete dato parecchio filo da torcere fino a quando non ho notato la bottiglia di collirio nell'armadietto dei medicinali nel vostro bagno. — Che cosa? — gli occhi di Llewellyn si aprirono un po' di più, ma senza allentare l'inesorabile sorveglianza. — Una volta mi avete interrogato sull'armadietto dei medicinali. — Oh, sì. Anche se, allora, mi muovevo alla cieca. Dopo aver preso la bottiglia, l'avete vuotata, domenica mattina, quando siete tornato dall'ospedale e l'avete rimessa di sbieco, nascondendo l'etichetta. Io ho notato che c'era qualcosa di cambiato, ma non sono stato subito in grado di ricordarmi. Ed è per questa ragione che quella stessa domenica abbiamo allontanato la polizia perché tutti in casa fossero completamente liberi di agire... A proposito, domenica siete andato dal farmacista, vero? Avete fatto riempire nuovamente la bottiglia di collirio con la solita innocua soluzione, nel timore che un flacone vuoto desse nell'occhio. — Ebbene, sì, lo ammetto. Continuate. — Grazie infinite per aver riposto la bottiglia con l'etichetta davanti. Mi avete fornito l'indizio che cercavo e l'analisi chimica del tossicologo ha confermato la mia ipotesi. A quel punto sapevo che vostra moglie era morta per aver assunto la belladonna attraverso gli occhi e che qualcuno in casa aveva manipolato la bottiglia del collirio per coprire le sue tracce. — D'accordo, quello è stato un primo passo. E suppongo che abbiate pensato che anch'io e Amelia fossimo stati avvelenati con la belladonna. — No. Oh, no. Non con la belladonna. Perfino io ero abbastanza esperto in materia da non crederlo. Voi vi siete avvelenato con la nitroglicerina.
La testa di Llewellyn ebbe un lieve scatto all'indietro. — Come l'avete capito? — domandò a denti stretti. — Semplice deduzione. Il dottor Kane mi ha riferito che soffrivate di cuore e che vi aveva prescritto pillole di nitroglicerina. Probabilmente, qualche volta ne avete presa una di troppo e vi siete sentito stordito. Così, vi siete informato sull'azione del medicinale e avete scoperto che una dose eccessiva vi avrebbe procurato un collasso senza il rischio di un danno permanente. Così, dopo aver preparato la scena a casa, vi siete servito una dose abbastanza alta di nitroglicerina e siete uscito temporaneamente dal proscenio, in piena vista di un largo pubblico. Impossibile, naturalmente, accertare di che veleno si trattasse. C'erano solo i soliti sintomi di un collasso. Ho immaginato tutto nel momento in cui il dottore mi ha parlato di nitroglicerina. — Amelia? — Lo stesso sistema. Solo che si è trattato di un caso che non avevate pensato. Non era lei che intendevate avvelenare, vero? Secondo le vostre previsioni, era vostra madre che avrebbe dovuto bere dalla caraffa l'acqua con la soluzione di nitroglicerina. Ma vostra sorella ha sconvolto i vostri piani. — Pensate davvero che volessi avvelenare mia madre? — Oh, no. Al contrario. Volevate che apparisse come una delle vittime del disegno criminoso, al pari di voi, per eliminarla dalla rosa dei sospetti. — Sì! — Una strana luce brillò negli occhi del giovane. — Dovevo proteggere mia madre. Dovevo pensare a lei, oltre che a me. Troppe persone sapevano che non amava mia moglie. E mia madre è per molti versi una donna dura, aggressiva. I sospetti potevano facilmente puntare nella sua direzione. — Mi sembra piuttosto ovvio — osservò Vance. — E quando avete saputo che vostra sorella aveva preso la nitroglicerina, avete cercato un altro modo di stornare i sospetti da vostra madre. Appena ci avete sentito sulle scale domenica mattina, avete recitato una scena toccante a sfondo edipico e tutta a nostro beneficio, fingendo di sospettarla. Una mossa molto sottile e abile: riaffermavate la vostra innocenza e le offrivate il modo di convincerci della sua. Con una punta di vigliaccheria, poiché potevate effettivamente coinvolgerla. Ma di sicura efficacia, in senso drammatico, naturalmente. C'è altro che volete sapere su come sono giunto alla soluzione giusta? Llewellyn lo guardò con una certa irritazione, poi con un impercettibile
segno di assenso, chiese: — Che cosa avete pensato delle pillole contro la rinite e della lettera in cui mia moglie diceva del suo intento suicida? — Esattamente quello che volevate farmi credere. Era una delle linee portanti del vostro progetto. Ammetto che è stata brillantemente concepita. Però mi sono spinto più oltre di quanto prevedevate. Il vostro scopo era che la colpevolezza di Kinkaid fosse una realtà incontrovertibile e invece io ho capito che era lui la vittima designata. Llewellyn corrugò la fronte, socchiuse minacciosamente gli occhi, poi, l'espressione di odio smisurato che vi si leggeva si trasformò in un sorriso furbesco. — Così avete visto subito giusto e capito che l'ipotesi del suicidio era fasulla, vero? Sì, era questo che intendevo. E avete immediatamente pensato a Kinkaid? — Più o meno. Però mi è sembrata una pista troppo ovvia. — E l'acqua pesante? — Oh, sì. Dopo tutta una serie di ragionamenti ci sono arrivato abbastanza facilmente. Come volevate. Ma la trama del vostro disegno è diventata abbastanza trasparente non appena si sono risolti uno o due degli elementi principali. Il vostro schema delittuoso era abbastanza bene architettato, ma c'erano alcuni particolari poco convincenti. Un difetto di informazione e una ricerca carente da parte vostra. Nel complesso c'erano degli evidenti dati di incompetenza e puerilità. Sin dal primo momento voi eravate un possibile colpevole... — Mentite — ringhiò Llewellyn. — Sentiamo il vostro ragionamento. Vance inspirò a fondo e scosse le spalle. — Lo avete detto voi, fino a quando seguiterò a parlare, rimarrò a questo mondo. Certo, non per molto. Date le circostanze, vi sono maledettamente grato per i più modesti favori. E poi non sopporterei di lasciare questa vita abbandonandovi in tanta incertezza. Parlava, adesso, con tono freddo e sostenuto al pari dell'altro. — La lettera che mi avete indirizzato, chiedendo la mia presenza al Casinò per sabato sera, è stato il vostro primo errore. Era una mossa abile, in realtà, ma non abbastanza. Secondo il vostro intento, doveva essere palesemente insincera, ma diceva troppo perché rivelava alcuni tratti del carattere di chi l'aveva scritta. Era l'opera di una persona dalla logica sottile, abituata alla doppiezza, effeminata. Indicava chiaramente il genere di persona da cercare. Inoltre, non era affatto necessario che assistessi di persona al vostro collasso al Casinò: chiunque avrebbe potuto fornirmi i particolari.
Ma sorvoliamo... Voi avete battuto la lettera che mi avete mandato e il biglietto che ci doveva far credere al suicidio di vòstra moglie, in modo maldestro per far credere che l'autore aveva scarsa dimestichezza con la macchina per scrivere, vale a dire: Kinkaid. Dopo di che, avete impostato la lettera a Closter per attrarre l'attenzione sul capanno di caccia di vostro zio. Ma anche in questo caso avete strafatto, perché, se davvero avesse spedito la missiva, Kinkaid l'avrebbe imbucata ovunque ma non là. È un dettaglio, comunque, e non ve ne farò carico, perché altri indizi sarebbero trapelati, in grado di controbilanciare un errore così banale... Avete vuotato la bottiglia delle pillole contro la rinite per fornire una sorta di conferma indiretta della colpevolezza di vostro zio. Sapendo, naturalmente, che non si sarebbe trovata traccia di belladonna nello stomaco, era facile prevedere che la mancata scoperta avrebbe suggerito l'idea di un suicidio fasullo. Quanto alla manipolazione dell'acqua nelle caraffe, doveva dare l'impressione che il veleno fosse stato somministrato per via orale. E questo, certo, era il secondo cartello indicatore, dopo il timbro postale di Closter, verso il tema dell'acqua pesante. Una volta saltata l'ipotesi del suicidio e appurato che Kinkaid produceva acqua pesante, i sospetti contro di lui sarebbero divenuti assai consistenti. E voi e vostra madre sareste stati automaticamente esclusi, sempre che vostra madre avesse ingerito la nitroglicerina preparata per lei... Che ne dite del mio ragionamento? Ho visto giusto? — Sì — ammise Llewellyn seccato. — Proseguite. — Nessuno, naturalmente — continuò Vance — sa quale effetto abbia l'acqua pesante sull'organismo umano, se assunta in larga quantità, dato che non si sono fatte ricerche in quel senso, se mai sarà possibile farle. Ma molto si è speculato sulla sua eventuale azione tossica e, pur mancando la controprova scientifica che voi e vostra madre, nel caso, ne aveste bevuta, la presunzione di colpa nei confronti di Kinkaid sarebbe sembrata molto fondata. Un sospetto che, insieme alle altre prove precostituite, l'avrebbe cacciato in un vicolo cieco. Impossibile, ovviamente, stabilire la natura del veleno in apparenza propinato a voi e vostra madre, poiché entrambi sareste scampati agli effetti letali. E così, il caro zio Richard era sistemato a dovere. A proposito, come avete scoperto quello che Kinkaid stava facendo al capanno di caccia? Un lampo animò gli occhi del giocatore. — L'ho spesso udito parlarne con Bloodgood, grazie alla cappa di un camino, tra la mia e la sua stanza. — Ah! — Vance sorrise disgustato. — Così, oltre alle altre vostre im-
prese, avete anche origliato. Siete un giovane davvero ammirevole. — Perlomeno, raggiungo i miei scopi — ribatté l'altro senza ombra di vergogna. — Così pare. Forse sono troppo critico. Ma c'è un punto che ammetto di non capire. Forse sarete così gentile da illuminarmi. Perché non avete semplicemente avvelenato vostra moglie e Kinkaid, risparmiandovi il fastidio di tutte queste tortuose elucubrazioni? Llewellyn disse con smorfia di condiscendenza: — Non sarebbe stato facile, in pratica. Kinkaid è sempre in guardia. Inoltre, la sua morte sommata a quella di mia moglie poteva gettare un sospetto su di me. Perché rischiare? Preferivo, comunque, stare alla finestra e vederlo nei guai. Volevo prima rovinarlo, e poi mandarlo alla sedia elettrica. — Una luce di crudeltà perversa gli illuminò lo sguardo. — Sì — annuì Vance. — Capisco il vostro punto di vista. Giocare sul sicuro e ottenere risultati più soddisfacenti. Pensato con molta astuzia e finezza. Ma noi avremmo anche potuto non raccogliere il suggerimento dell'acqua pesante, sapete. — In tal caso, vi avrei aiutato. Ma contavo su di voi. Per questo vi ho spedito la lettera. Sapevo che la polizia non ci sarebbe arrivata, ma ho sempre ammirato la vostra capacità logica nelle indagini. Voi e io abbiamo molte qualità in comune. — Sono abominevolmente lusingato — mormorò il mio amico. — E voi avete rilevato il tema dell'acqua pesante piuttosto bene, sapete. Ma Kinkaid e Bloodgood di sicuro vi hanno favorito nel primo atto del vostro emozionante dramma qui al Casinò. Llewellyn ridacchiò. — È vero! È stato un colpo di fortuna. Non molto importante. Avevo già ordinato dell'acqua naturale in modo che mi sentiste. E avrei fatto fuoco e fiamme per la soda, se Bloodgood non fosse intervenuto caritatevolmente. Ricorderete che ho anche aspettato che Kinkaid si avvicinasse al tavolo prima di ordinare il secondo whisky. — Sì, l'ho notato. Molto abile. Avete giocato bene le vostre carte. Peccato che non vi siate preparato meglio sulla tossicologia. — Ormai non importa. — Llewellyn sbuffò sprezzante. — Ha funzionato meglio così. Kinkaid dovrà spiegare la presenza di tre cadaveri qui, nel suo ufficio. Non avrà scampo, perché se anche disponesse di un alibi, non può provare di non aver assunto uno dei suoi tirapiedi per spararvi. Ed è ancora meglio che vederlo arrestare per un sospetto e processare in base a
prove indiziarie per un avvelenamento in Park Avenue. — Questo significa che anche noi abbiamo fatto il vostro gioco — osservò Vance desolato. — Sì. Certo. E lo avete fatto in modo meraviglioso. — Llewellyn lo fissò, trionfante. — Di questi tempi mi capitano sempre carte buone. Fortuna e intelligenza vanno spesso di pari passo. — Certo. Certo. E quando ci avrete sparato, raggiungerete vostra madre in campagna e vi procurerete un alibi inattaccabile. Il segretario del signor Markham testimonierà che Kinkaid ci ha fissato qui un appuntamento per le due. Voi potrete riferire la mia conversazione di ieri sera con Bloodgood e Kane la confermerà. Direte anche tutto quel che sapete sull'acqua pesante e Arnheim dovrà ammettere che sono stato al capanno di caccia. Troveranno qui i nostri cadaveri. Tutti gli indizi punteranno su Kinkaid, lo arresteranno, non uscirà più dalla galera. — Vance annuì ammirato. — Sì. È come dite voi. Non ha scampo. In nessun caso. Basterà che si riesca a dimostrare che se anche non è stato lui l'esecutore materiale ha ingaggiato qualcuno per farlo al suo posto. Sarà sicuramente rovinato. Sistemato a dovere. Il ragionamento non fa una grinza. — No. — Llewellyn sorrise. — Ne sono piuttosto orgoglioso. Markham lo stava fissando. — Miserabile canaglia! — sbottò. — Parole, signor procuratore distrettuale, solo parole — rispose il giovane con una gentilezza agghiacciante. — Sì, Markham — convenne Vance. — Questi epiteti non fanno che lusingare questo giovane. Le labbra di Llewellyn si tesero in una smorfia ripugnante. — Nessun altro punto oscuro, Vance? Sarei felice di spiegarvelo. — No. — Il mio amico scosse la testa. — Credo che il caso sia stato completamente sviscerato. Llewellyn sogghignò con compiaciuta esultanza. — Bene! L'ho pensato io e me la sono cavata. Ho previsto tutto dall'inizio alla fine. Ho inventato un omicidio che va oltre quanto sia mai avvenuto prima. Vi ho fornito quattro sospetti e mi sono accuratamente tenuto in disparte. Non m'importava dove vi foste fermati. Quanto più andavate avanti, tanto più vi allontanavate dalla verità... — Dimenticate che alla fine vi abbiamo scoperto — si arrischiò a dire Vance, interrompendolo. — Ma questo è il mio più grande trionfo — si vantò Llewellyn. — È ve-
ro che mi sono scoperto a causa di una conoscenza poco approfondita dei veleni e vi ho fornito uno spunto. Ma ho controbattutto i vostri sospetti con un colpo ancora più brillante. Trasformando quella che consideravate la mia sconfitta in un'apoteosi finale. — C'era una folle espressione di megalomania che brillava nei suoi occhi. — E ora, passiamo alla fase finale. I muscoli della sua fàccia si rilassarono trasformandola in una maschera fredda e micidiale. Il suo sguardo era fisso, gelido e distaccato. Fece un passo avanti e con un'insistita lentezza puntò la pistola contro la bocca dello stomaco di Vance... In simili, supremi frangenti, quando si è sul punto di perdere la vita, quando quello che chiamiamo coscienza di sé e a cui tutti ci aggrappiamo con un profondo istinto di conservazione sta per essere cancellata, avviene un fatto curioso: la mente riceve e registra i rumori quotidiani e comuni del mondo circostante, rumori che passano inosservati nel normale corso degli eventi. In quel momento tremendo, mentre me ne stavo seduto, impotente, udii, distante, lo stridulo richiamo di una voce di donna. Udii anche il suono della sirena di un'imbarcazione che navigava sull'Hudson. Sapevo che fuori, in strada, un'automobile aveva frenato con violenza: percepivo il sordo brontolio del traffico... Vance si drizzò appena sulla sedia. Si sporse in avanti. Aveva gli occhi socchiusi, uno sguardo severo e un sorriso di scherno sulle labbra. Per un attimo, pensai che si stesse preparando a balzare addosso a Llewellyn. Ma se questa era stata la sua intenzione, giunse troppo tardi. In quel preciso momento Llewellyn tirò due volte il grilletto in rapida successione. Le detonazioni assordanti echeggiarono nel piccolo ufficio, accompagnate dal guizzo di due lingue di fuoco dalla bocca della pistola. Un'ondata di orrore mi sovrastò, bloccando ogni muscolo del mio corpo. Gli occhi del mio amico si chiusero adagio. Portò una mano alla bocca. Tossì. La mano gli ricadde in grembo. Sembrò afflosciarsi, la testa reclina. Poi crollò piano piano con la faccia in avanti e restò esanime, in un mucchio disarticolato ai piedi di Llewellyn. I miei occhi, che parevano schizzare dalle orbite, erano concentrati su Vance in uno sguardo di orrore impotente e senza nome. Llewellyn gli lanciò uno sguardo rapido senza mutare espressione. Si spostò lievemente di lato, e puntò di nuovo l'arma prendendo con cura di mira Markham che sedeva immobile, come pietrificato. — In piedi! — gli ordinò. Markham respirò a fondo e si alzò vigorosamente, le spalle dritte in atto
di sfida. Il suo sguardo fermo, aggressivo, non vacillò nemmeno per un istante. — Siete solo un poliziotto — disse il giovane. — Vi sparerò alle spalle. Voltatevi. Il procuratore non si mosse. — Mi rifiuto, Llewellyn — rispose con calma. — Qualunque cosa mi debba venire da voi, la riceverò guardandovi in faccia. Mentre parlava, udii un inconsueto scricchiolio all'altro lato dell'ufficio. Istintivamente, mi voltai. Uno spettacolo sorprendere si parò davanti ai miei occhi. Uno degli ampi pannelli di legno nel muro di fronte sembrava scomparso e nel vano era apparso Kinkaid, una grossa automatica in mano. Era un po' chino in avanti, ma teneva l'arma puntata sul nipote. Anche Llewellyn aveva udito il rumore e si era guardato sospettoso alle spalle. Poi echeggiarono due spari. Ma a sparare questa volta fu la pistola di Kinkaid. Llewellyn ebbe un brusco sussulto. Gli occhi gli si spalancarono in un vitreo stupore e la pistola gli cadde di mano. Rimase immobile per due interi secondi. Poi tutti i suoi muscoli parvero allentarsi e la testa gli cadde in avanti mentre si accasciava a terra. Markham e io, consapevoli dell'accaduto, eravamo troppo annichiliti per muoverci o aprire bocca. Nel breve, terribile silenzio successivo assistei a un evento straordinario. Per un attimo provai l'impressione di assistere a un assurdo e inspiegabile atto di magia: stava verificandosi un miracolo. Con sguardo affascinato avevo seguito il crollo di Llewellyn e avevo poi spostato gli occhi sulla figura immobile di Vance. Ma Vance si era mosso e si stava alzando senza fatica. Poi, tolto il fazzoletto dal taschino, prese a spolverarsi. — Grazie infinite, Kinkaid — disse con tono strascicato. — Ci avete risparmiato un mucchio di fastidi. Ho sentito arrivare la vostra automobile e ho cercato di trattenere il ragazzo per darvi il tempo di salire. Ho proprio sperato che avreste udito i colpi e che sareste venuto a dare un'occhiata. Per questo gli ho lasciato credere di avermi ucciso. Kinkaid, furente, strinse gli occhi; poi, cambiando espressione, scoppiò in una ruvida risata. — Volevate che gli sparassi, vero? Per me va bene. Lieto dell'opportunità. Sono spiacente di non essere arrivato prima, ma il treno era un po' in ritardo e il mio taxi è stato intralciato dal traffico. — Vi prego, non scusatevi. Siete arrivato esattamente al momento giusto. — S'inginocchiò accanto a Llewellyn, gli controllò il polso, esaminò il corpo esanime. — È proprio morto. Gli avete trapassato il cuore. Siete un
tiratore eccellente, Kinkaid. — Lo sono sempre stato — rispose, asciutto. Markham era ancora in piedi come trasognato. Era pallido e grosse gocce di sudore gli bagnavano la fronte. Finalmente tentò di parlare. — Siete... siete sicuro di star bene, Vance? — Oh, perfettamente — sorrise l'amico. — Mai stato meglio. Dovrò morire prima o poi, ahimè. Ma non avrei mai permesso a un povero folle degenerato come Llewellyn di scegliere il momento per la mia dipartita. — Lo guardò contrito. — Mi dispiace maledettamente di aver procurato a voi e a Van tutta questa agitazione. Ma dovevo ottenere e registrare la piena confessione di Llewellyn. Lo capite, vero? Non avevamo nessuna prova contro di lui. — Ma... ma... — balbettò il procuratore, ancora incapace, evidentemente, di accettare l'inverosimile situazione. — La pistola di Llewellyn era caricata con cartucce a salve — spiegò Vance. — Ho provveduto a farlo questa mattina quando ho fatto quella mia breve visita al suo domicilio. — Sapevate quel che sarebbe successo? — Markham lo guardò incredulo, strofinandosi vigorosamente la faccia con il fazzoletto. — Lo sospettavo — rispose l'altro e si accese una sigaretta. Il procuratore, esausto, si lasciò cadere sulla sedia. — Ho bisogno di un po' di brandy — annunciò Kinkaid. — Non ci farà male ingerire un liquore forte. — E uscì dalla porta che comunicava con il bar. Gli occhi di Markham, ancora fissi su Vance, avevano perso l'espressione stranita. — Che cosa intendevate, poco fa, quando avete detto che dovevate registrare la confessione di Llewellyn? — La mia frase va presa nel suo significato letterale. A proposito. Sarà bene fermare il registratore. Si accostò a un piccolo quadro appeso sopra la scrivania di Kinkaid e lo tolse rivelando un dischetto metallico. — Questo è tutto, amici — disse, rivolgendosi apparentemente al muro. Poi staccò i due fili collegati al disco. — Vedete, Markham — spiegò Vance — quando stamattina mi avete parlato della telefonata fatta da Kinkaid, non riuscivo a capirne la ragione. Poi mi è subito venuto il sospetto che non si trattasse affatto di Kinkaid, ma di Llewellyn. Dopo le informazioni che gli avevo indirettamente pro-
pinato ieri sera, era da lui che mi aspettavo una mossa. Ammetto che non mi attendevo un gesto così drastico e definitivo ed è per questo che sulle prime sono rimasto perplesso. Ma, poi, ho pensato che potesse tentare un'azione disperata, ho compreso che si trattava di una mossa logica, oltre che sottile. Premessa: voi e io eravamo d'ostacolo. Conclusione: voi e io dovevamo essere tolti di mezzo. E, dato che voleva attirarci al Casinò, non è stato particolarmente difficile seguire il ragionamento di Llewellyn. Ero assolutamente sicuro che fosse andato ad Atlantic City a telefonare: non è facile, sapete, far credere a un'interurbana telefonando da un apparecchio locale. Sapevo quindi di avere diverse ore per fare i miei preparativi. Ho subito chiamato Kinkaid ad Atlantic City, gli ho riferito tutti gli sviluppi e gli ho chiesto di venire immediatamente a New York. Grazie a lui, ho saputo come entrare nel palazzo e installare un registratore. Per questo sono andato dal nostro prode sergente. Lui e alcuni uomini della Squadra Omicidi si trovano con uno stenografo in un appartamento della casa vicina e hanno annotato tutto quello che è stato detto questo pomeriggio. Sedette di fronte all'amico e tirò una generosa boccata dalla sigaretta che si era acceso. — Vi concedo — proseguì — che non ero affatto sicuro del metodo che Llewellyn avrebbe scelto per sistemarci e gettare i sospetti sul suo affezionato zio. Così, ho detto a voi e a Van di non bere niente, nella possibile eventualità che ricorresse ancora al veleno. Ma ho pensato che potesse usare la pistola, ho quindi acquistato una scatola di cartucce a salve, sono andato a casa sua stamattina con un pretesto qualunque e, appena solo nella sua camera da letto, le ho sostituite ai proiettili della sua pistola. C'era la possibilità che se ne accorgesse guardando l'arma di fronte, ma, prima di prendere il mio posto di fianco a voi, poco fa, ho notato che c'erano ancora. Se così non fosse stato, sarei immediatamente ricorso al ju-jitsu per atterrare il nostro uomo. Kinkaid rientrò nell'ufficio con una bottiglia di brandy e quattro bicchieri, depose il vassoio sul tavolo, versò il liquore e ci invitò a servirci. — Posso, Vance? — domandò Markham, con un truce sorriso. — Ci avete detto di non bere niente, qui. — Va tutto bene, adesso. — Vance assaggiò il suo brandy. — Fin dall'inizio, io avevo considerato il signor Kinkaid come il nostro più prezioso alleato. — Potete dirlo forte! — borbottò Kinkaid di buon umore. — Dopo tutto quello che mi avete fatto passare!
In quel momento ci giunse il colpo di una porta chiusa con violenza, seguito da passi affrettati sulle scale. Kinkaid andò ad aprire la porta verso la Sala d'Oro. Sulla soglia c'era Heath con una Colt in mano. Alle sue spalle si pigiavano Snitkin, Hennessey e Burke. Lo sguardo del sergente, fisso su Vance, esprimeva uno sconfinato stupore infantile. — Non siete morto! — gridò quasi. — Tutt'altro, sergente — rispose il mio amico. — Ma vi prego, mettete via quella pistola. Basta sparatorie, per oggi. Heath lasciò ricadere la mano lungo il fianco, senza però distogliere gli occhi sgranati. — Signor Vance — disse — lo so che mi avete raccomandato di non agitarmi, qualunque cosa sentissi al registratore, e di rimanere al mio posto fino a quando mi avreste dato il segnale di arresto. Ma quando ho udito quel che ha detto il giovane e poi gli spari e poi il tonfo di Un corpo che si accasciava, sono partito a razzo. — Molto gentile da parte vostra — osservò Vance. — Ma inutile. — Agitò la mano verso il corpo inanimato di Lynn Llewellyn. — Ecco il nostro colpevole. Tutto è a posto. Colpito al cuore. È morto stecchito. Bisognerà, naturalmente, farlo portare all'obitorio. Nient'altro. Tutto ha funzionato a meraviglia. Nessun fastidio. Non ci sarà un processo. Ma la giustizia ha trionfato. La vita continua. Ma perché? Dubito che Heath udisse una sola parola, perché continuava a fissarlo con la bocca spalancata. — Siete sicuro... di non essere ferito? — Pronunciava quelle parole di sollecitudine con voce automatica. Vance depose il bicchiere di brandy e, avvicinatosi a lui, gli mise affettuosamente una mano sulla spalla. — Sicurissimo — rispose a voce bassa. Poi scosse la testa con scherzosa commiserazione. — Terribilmente spiacente di deludervi, sergente. Come forse ricorderete, l'omicidio di Virginia Llewellyn occupò le prime pagine della stampa nazionale per diversi giorni, ma ben presto cedette il posto ad altri scandali. Quasi tutti i fatti più importanti del caso divennero di dominio pubblico. Ma non tutti. Kinkaid, naturalmente, non fu incriminato per aver sparato a Lynn Llewellyn: fu Markham a provvedere, perché la faccenda non arrivasse neppure davanti alla giuria di un processo istruttorio. Il Casinò fu definitivamente chiuso nel corso dell'anno e la bella e antica
casa di pietra grigia fu abbattuta. Su quel terreno venne costruito un grattacielo moderno. Kinkaid aveva nel frattempo ammassato una piccola fortuna e deciso di dedicarsi stabilmente alla produzione di acqua pesante. La signora Llewellyn si riprese dal colpo della morte del figlio in un tempo assai più breve di quanto ritenessi possibile, gettandosi con più energia che mai nelle opere di beneficenza. Spesso vedo il suo nome citato in relazione ad attività filantropiche. Bloodgood e Amelia Llewellyn si sposarono la settimana dopo che Kinkaid chiuse per sempre i battenti della casa da gioco. Vivono ora a Parigi. (La signora Bloodgood ha rinunciato alla carriera artistica.) Di recente ho incontrato il dottor Kane in Park Avenue. Dandosi un'aria di grande importanza, mi informò che stava correndo in studio dove lo stavano aspettando le sue pazienti. FINE