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STEPHEN KING IL GIOCO DI GERALD (Gerald’s Game, 1992) Questo libro è dedicato, con affetto e ammirazione, a sei donne speciali: Margaret Spruce Morehouse, Anne Spruce Labree, Catherine Spruce Graves, Tabitha Spruce King, Stephanie Spruce Leonard, Marcella Spruce. (Sadie) fremette. Nessuno Avrebbe saputo descrivere lo sdegno della sua espressione o l’odio sprezzante che mise nella sua risposta. «Voi uomini! Voi luridi maiali schifosi! Siete tutti uguali. Tutti. Maiali! Maiali!» W. SOMEREST MAUGHAM Pioggia 1 Jessie sentiva la porta di servizio che sbatteva piano, a intervalli regolari, nella brezza d'ottobre che soffiava per la casa. In autunno lo stipite si gonfiava puntualmente e occorreva tirare la porta con forza per serrarla. Questa volta se n'erano dimenticati. Pensò di dire a Gerald di andare a chiuderla prima che fossero troppo lanciati, con il rischio che quel rumore le facesse saltare i nervi. Poi rifletté che date le circostanze era ridicolo. Avrebbe guastato l'atmosfera. Quale atmosfera? Bella domanda, quella. E mentre Gerald ruotava il corpo cavo della chiave nella seconda serratura, mentre udiva lo scatto lieve poco sopra l'orecchio sinistro, concluse che, almeno per lei, non c'era atmosfera da conservare. Proprio per questo si era accorta che la porta non era stata fissata a dovere. Per lei l'erotismo del rapporto schiava-padrone era stato di breve durata. Lo stesso non si poteva però dire di Gerald. Indossava solo un paio di boxer, ora e non aveva bisogno di guardarlo in faccia per vedere che il suo
interesse per quel gioco era ancora più che vivo. Che stupidaggine, pensò, ma nemmeno la stupidità la raccontava tutta. C'era anche una punta di paura. Non le andava di ammetterlo, ma c'era. «Gerald, perché non lasciamo stare?» Lui esitò, un po' perplesso, poi attraversò la stanza diretto al comò a sinistra della porta del bagno. La sua espressione si rasserenò mentre camminava. Lei lo osservò dal letto, con le braccia sollevate e aperte, un po' come Fay Wray incatenata che aspettava lo scimmione in King Kong. Due coppie di manette le bloccavano i polsi ai montanti di mogano del letto. Le catenelle le concedevano non più di una spanna di movimento. Non molto. Gerald posò le chiavi sul comò, due tintinnii da niente, ma il suo udito era eccezionalmente sensibile per un mercoledì pomeriggio qualsiasi, e si girò verso di lei. Sopra di lui, sull'alto soffitto bianco della camera da letto, dondolavano e danzavano i riflessi delle increspature del lago. «Che cosa ne dici? Non lo trovo più molto eccitante.» Posto che lo sia mai stato, fu l'aggiunta che tenne per sé. Gerald ghignò. Aveva lineamenti pesanti di colorito roseo sotto la punta pronunciata dell'attaccatura dei capelli, neri come l'ala di un corvo, e quel ghigno aveva sempre suscitato in lei una reazione che non le piaceva molto. Non riusciva bene a definirla, ma... Ma dai, che sai benissimo che cos'è. Lo fa sembrare stupido. Vedi praticamente il suo quoziente di intelligenza scendere di dieci punti per ogni centimetro di ghigno. E quando arriva al massimo della distensione delle labbra, il micidiale avvocato esperto in diritto societario che hai per marito sembra un custode di istituto per malattie mentali nella sua giornata di libertà. Era crudele, ma non del tutto infondato. E come si fa a dire al consorte da quasi vent'anni che ogni volta che ghigna sembra che soffra di un lieve ritardo mentale? La risposta era semplice: non si fa. Ben altro era il suo sorriso. Aveva un sorriso adorabile e probabilmente era stato quel sorriso, così caloroso e affabile, a convincerla ad accettare di uscire con lui la prima volta. Le aveva ricordato il sorriso di suo padre quando raccontava alla famiglia episodi divertenti della sua giornata sorseggiando un gin tonic prima di cena. Quello però non era il sorriso. Quello era il ghigno, la versione tutta speciale che riservava ai momenti di gioco. Aveva il sospetto che dal suo punto di vista, vale a dire da dentro, il ghigno fosse lupesco. Anzi, forse piratesco. Da quello di lei, invece, sdraiata con le braccia sollevate sopra la te-
sta e nient'altro addosso che un paio di slip, era solo stupido. No... ritardato. Non era del resto un tracotante avventuriero di quelli che apparivano sulle riviste per uomini sulle quali aveva consumato le furiose eiaculazioni della sua solitaria e adiposa pubertà; era un avvocato con una faccia rosea e troppo larga che si apriva sotto il vertice di una stempiatura ineluttabilmente in viaggio verso la calvizie totale. Solo un avvocato con un'erezione che gli deformava le mutande. E neanche tanto, se è per questo. Ma le dimensioni della sua eccitazione erano poca cosa a confronto del ghigno. Non era cambiato affatto e questo voleva dire che Gerald non la stava prendendo sul serio. Era previsto che protestasse. In fondo faceva parte del gioco. «Gerald? Non sto scherzando.» Il ghigno si ampliò. Apparvero altri piccoli denti inoffensivi da avvocato; il suo quoziente di intelligenza precipitò di un'altra trentina di punti. E ancora lui non la sentiva. Ne sei sicura? Sì. Non leggeva nei suoi pensieri come in un libro aperto e probabilmente ci volevano molto più che diciassette anni di matrimonio per arrivare a tanto, ma di solito indovinava abbastanza bene che cosa gli passasse per la testa. Riteneva che se così non fosse stato, c'era da scivolare per qualche china molto pericolosa. Se è così, gioia, com'è che lui non capisce te? Com'è che non si rende conto che questa non è semplicemente una nuova versione della solita vecchia solfa pseudoerotica? Questa volta apparvero anche sulla sua fronte le rughe di un'espressione perplessa. Aveva sempre sentito voci estranee parlare nella sua testa, come probabilmente capitava a tutti, anche se normalmente non se ne parlava in giro più di quanto si conversasse in pubblico delle proprie funzioni corporali, e per la maggior parte le voci erano come vecchi amici, confortanti e confortevoli come un paio di vecchie pantofole. Ora invece c'era una voce nuova, che non le stava recando alcun conforto. Era una voce forte, vibrava di gioventù e vigore. Ed era anche spazientita. Parlò di nuovo, rispondendo alla propria domanda. Gioia, guarda che non è che non ti capisce perché non ne è capace: Certe volte non ne ha proprio voglia. «Gerald, davvero, non sono in vena. Riprendi le chiavi e toglimi le manette. Faremo qualcos'altro. Mi metto sopra io, se vuoi. Oppure tu te ne stai tranquillo, sdraiato sul letto con le mani dietro la testa e faccio tutto io
nell'altro modo, ti va?» Sei sicura di volerlo fare? la interrogò la voce nuova. Sei sicura di avere voglia di fare qualcosa con quest'uomo, qualunque cosa sia? Chiuse gli occhi, come se così potesse far tacere la voce. Quando li riaprì, Gerald era fermo ai piedi del letto, con i boxer tesi in avanti come la prora di una nave. Be'... di una barchetta a remi, magari. Il ghigno si era dilatato ancora, mettendo in mostra anche gli ultimi denti su entrambi i lati, quelli incapsulati. Ma sì, non trovava quel ghigno solo sgradevole. Lo trovava odioso. «Sono disposto a liberarti... se sarai molto, molto brava. Saprai essere molto, molto brava, Jessie?» Stucchevole, commentò in tono sbrigativo la voce nuova. Très stucchevole. Gerald si infilò i pollici sotto l'elastico dei boxer nell'improbabile posa di un pistolero. L'indumento scivolò velocemente verso il basso appena superato l'ostacolo non indifferente della ciambella di grasso intorno alla vita. Ed eccolo lì, in bella mostra. Non la formidabile macchina d'amore che aveva conosciuto da adolescente sulle pagine di Fanny Hill, bensì un cosino mansueto, roseo e circonciso; tredici centimetri di erezione decisamente trascurabile. Due o tre anni prima, in una delle sue sporadiche visite a Boston, aveva visto un film che si intitolava Il ventre dell'architetto. Pensò: Perfetto. E adesso vedo Il pene dell'avvocato. Dovette morsicarsi l'interno delle guance per non ridere. Ridere a quel punto sarebbe stato incauto. Le sovvenne un'idea in quel momento e le fece passare d'incanto tutta la voglia di ridere. L'idea è questa: lui non sapeva che lei non stava recitando perché per lui Jessie Mahout Burlingame, moglie di Gerald, sorella di Maddy e Will, figlia di Tom e Sally, madre di nessuno, non era più lì. Aveva cessato di esserci nell'istante in cui le chiavi avevano prodotto quel piccolo scatto metallico nelle serrature delle manette. Le riviste di avventure degli anni dell'adolescenza di Gerald erano state sostituite da una pila di riviste di donnine nude nell'ultimo cassetto della scrivania, riviste in cui le donne indossavano al massimo un filo di perle e stavano a quattro gambe su una pelle d'orso a farsi prendere da uomini equipaggiati con attributi genitali al confronto dei quali quelli di Gerald erano il corrispondente di una miniaturizzazione in scala ridotta. Nelle ultime pagine di quelle riviste, fra le inserzioni di numeri telefonici da chiamare per eccitarsi snocciolando porcherie, c'erano le pubblicità di bambole gonfiabili, delle quali si vantava la precisione anatomica, concetto bizzarro e senza precedenti, a suo
avviso. Pensò in quel momento a quei bamboloni pieni di aria, con la pelle rosa, il corpo senza rughe, da cartone animato, e il volto anonimo e privo di fisionomia, e la sensazione che provava era di illuminante stupore. Vi si mescolava qualcosa di simile all'orrore, ma non proprio; era come se dentro di lei fosse esplosa una luce intensa e il panorama che le aveva dischiuso era certamente più spaventoso di quello stupido gioco o del fatto che questa volta la messinscena era stata allestita nella casa estiva al lago, quando l'estate era già scappata da un pezzo all'inseguimento dell'anno prossimo. Ma nessuna di queste riflessioni aveva minimamente pregiudicato il suo udito. Ora era la sega a catena, quella che sentiva nel bosco a distanza considerevole, forse addirittura cinque miglia. Più vicino, sulle acque del Kashwakamak, levò il suo grido folle nell'aria blu d'ottobre una gavia ritardataria, che ancora indugiava a intraprendere il suo viaggio annuale verso sud. Ancora più vicino, nei pressi della casa sulla sponda settentrionale, abbaiò un cane. Erano brutti latrati, versi storpi, che Jessie tuttavia trovò stranamente consolanti. Stavano a significare che, anche in un giorno feriale in pieno ottobre, c'era qualcuno nelle vicinanze. Altrimenti c'era solo il rumore della porta, che sbatteva contro lo stipite imbarcato, dondolando come un vecchio dente in una gengiva fracida. Sentì che non avrebbe sopportato a lungo quella tortura prima di impazzire. Gerald, ora nudo salvo che per gli occhiali, si inginocchiò sul letto e cominciò a strisciare verso di lei. Gli brillavano ancora gli occhi. Jessie aveva il sospetto che era stato quel luccichio a indurla a restare al suo gioco ancora per tanto tempo dopo che la sua iniziale curiosità era stata appagata. Da anni negli occhi di Gerald era scomparsa quella luce ardente, quando la guardava. Non era da buttar via, era riuscita a non ingrassare e conservava in gran parte le sue belle curve femminili, eppure l'interesse di Gerald per lei si era appannato lo stesso. Sicuramente l'alcol aveva le sue responsabilità, se è vero che beveva molto di più ora che ai tempi in cui erano sposini novelli, ma sapeva che c'era dell'altro. Come faceva quel vecchio adagio secondo cui la confidenza fa perdere il rispetto? Così non si riteneva che dovesse essere per uomini e donne innamorati, almeno secondo i poeti romantici che aveva studiato al corso di letteratura inglese, ma negli anni trascorsi dopo il college aveva scoperto che c'erano certi fatti della vita di cui John Keats e Percy Shelley non avevano mai scritto. Del resto erano morti entrambi a un'età molto più giovane di quella che avevano ora lei e Gerald.
E comunque erano divagazioni abbastanza estranee alla situazione attuale. Più pertinente era forse il fatto che fosse stata al gioco più a lungo di quanto avesse in realtà desiderato perché le piaceva veder brillare quella piccola fiammella negli occhi di Gerald. La faceva sentire giovane, carina e desiderabile. Ma... ...ma se davvero hai pensato che vedesse te quando gli si accendeva quella luce negli occhi, ti sei sbagliata, gioia mia. O forse hai voluto ingannare te stessa. E forse ora è il momento di decidere, ma decidere sul serio, se hai intenzione di continuare a sopportare questa umiliazione. Perché è ben così che ti senti, non è vero? Umiliata, no? Sospirò. Sì. Era vero. «Gerald, sto dicendo sul serio, credimi.» Lo disse a voce più alta adesso e per la prima volta la luce nei suoi occhi vacillò. Bene. Allora la sentiva. Allora forse non tutto era perduto. Niente di cui felicitarsi troppo, era da tempo che c'era poco da stare allegri, ma forse qualcosa si poteva ancora salvare. Poi riapparve la luce e un attimo dopo arrivò il ghigno idiota. «Ti domo io, mia bella bisbetica», mormorò lui. Lo aveva udito bene, si era espresso proprio così, pronunciando bisbetica come un signorotto di campagna in uno scadente melodramma vittoriano. E allora lasciaglielo fare. Che lo faccia e sia finita. Quella era una voce che le suonava molto più familiare e aveva tutte le intenzioni di seguirne i buoni consigli. Non sapeva se Gloria Steinem avrebbe approvato e non gliene importava niente; il consiglio aveva l'attrattiva dell'assoluta praticità. Che faccia quel che vuole, così non ci pensiamo più. Come volevasi dimostrare. Poi la sua mano, una mano molle e con le dita corte, una mano con la pelle rosa come il cappuccio del suo pene, si allungò ad afferrarle un seno e qualcosa dentro di lei scattò all'improvviso come uno strappo a un tendine. Inarcò bruscamente schiena e anche, respingendolo. «Smettila, Gerald. Toglimi queste stupide manette e lasciami alzare. Questo gioco ha smesso di essere divertente in marzo, quando c'era ancora la neve. Non mi sento sexy. Mi sento ridicola.» Questa volta la udì perfettamente. Lo vide nel modo in cui la luce nei suoi occhi si spense di botto, come fiammelle di candela in una folata di vento teso. Le due parole che avevano finalmente aperto la breccia dovevano essere state stupide e ridicole. Da bambino Gerald era stato grasso, con lenti spesse negli occhiali, un giovane che non era riuscito a farsi la ragazza fino ai diciotto anni, un anno dopo essersi messo a dieta rigorosa e
aver cominciato a far palestra nello sforzo di smaltire il lardo che gli cresceva addosso prima di esserne strozzato. Al secondo anno di college, la sua vita era «più o meno sotto controllo», rifacendosi alla sua espressione, come se la vita — la sua, comunque — fosse uno stallone selvaggio che gli avessero ordinato di addomesticare; ma lei sapeva che i suoi anni del liceo erano stati un calvario e che gli avevano lasciato in eredità una notevole dose di disprezzo per sé e di sospetto nei confronti degli altri. Il successo professionale (e il matrimonio; Jessie riteneva che avesse avuto un valore anche quello, forse il più importante) lo aveva ulteriormente aiutato a ritrovare fiducia e stima in sé, ma esistono incubi che non scompaiono mai del tutto. In qualche angolo nascosto della sua mente, i bulli lo strapazzavano ancora in sala lettura, lo deridevano ancora della sua inettitudine ginnica all'ora di educazione fisica, e c'erano certe parole, per esempio stupido e ridicolo, che facevano riemergere quei ricordi come se il liceo fosse finito solo ieri... o così Jessie sospettava. Gli psicologi sapevano essere incredibilmente stolti su molti argomenti, quasi volontariamente stolti, le sembrava spesso, ma sull'orribile persistenza di certi ricordi riteneva che avessero fatto centro. Ci sono ricordi che succhiano la mente delle persone come crudeli sanguisughe e certe parole, stupido e ridicolo, per esempio, le resuscitavano all'istante alla loro vita avida e febbrile. Aspettò di avvertire la spina della vergogna per avere colpito sotto la cintura in quel modo e fu contenta quando non successe niente. Se non contenta, risollevata. Forse è semplicemente che sono stanca di fingere, pensò e questa riflessione portò a un'altra: forse aveva una propria agenda sessuale e se così era, sicuramente quel giochino delle manette non era nel repertorio. Ne era mortificata. L'idea nel suo insieme la mortificava. D'accordo, una certa emozione un po' ansiosa aveva accompagnato i primi esperimenti, quelli con i foulard, e in un paio di occasioni aveva avuto orgasmi multipli, una rarità per lei. Nondimeno, c'erano stati effetti collaterali che non le erano piaciuti e il senso di mortificazione era solo uno dei tanti. Aveva avuto anche lei degli incubi dopo ciascuna di quelle prime versioni del gioco di Gerald. Si era svegliata di soprassalto, sudata, con un nodo in gola e con i pugni stretti stretti affondati fra le gambe. Ricordava solo uno di quei sogni ed era un ricordo distante, sfocato: giocava a croquet senza vestiti addosso e tutt'a un tratto si era spento il sole. Allora una mano l'aveva toccata e dall'oscurità le aveva parlato una voce orribile, spaventosa: mi ami, scioccona? le aveva chiesto e la cosa più raccapricciante è che il suono di quella voce le era familiare.
Lascia stare adesso, Jessie. Sono argomenti sui quali potrai dilungarti un'altra volta. Ora come ora l'importante è che ti faccia liberare. Sì. Perché quello non era il loro gioco. Quel gioco era tutto suo. Aveva continuato ad accontentarlo solo perché così desiderava Gerald. E adesso non andava più bene. La gavia sul lago mandò di nuovo il suo grido solitario. Sul volto di Gerald, il ghigno ebete di pregustazione si era dissolto in un broncio di delusione. Mi hai rotto il giocattolo, stronza, gli si leggeva negli occhi. Jessie si ritrovò a ricordare l'ultima volta che aveva avuto occasione di guardare bene quell'espressione. In agosto Gerald le aveva mostrato una brochure patinata, le aveva indicato che cosa voleva e lei aveva risposto di sì, certo che poteva comperare una Porsche se voleva una Porsche, certo che potevano permettersi una Porsche, ma intanto pensava che forse avrebbe fatto meglio a comperarsi l'iscrizione al Club della salute di Forest Avenue, cosa che minacciava di fare da almeno due anni. «Ora come ora non hai una carrozzeria Porsche», aveva osservato, e sapeva di non essere molto diplomatica, ma non le pareva che fosse un momento adatto alla diplomazia. E poi l'aveva ormai esasperata al punto che non le importava un fico secco di offenderlo. Era un fenomeno questo che da qualche tempo si ripeteva con frequenza sempre più insistente e ne era sconcertata, però non sapeva che cosa farci. «Con questo che cosa vorresti dire?» aveva domandato lui piccato. Non gli aveva nemmeno risposto. Aveva imparato che quando Gerald le faceva domande di quel genere, erano quasi immancabilmente retoriche. Il messaggio vero era quello intrinseco, poche semplici parole: Mi stai contrariando, Jessie. Non stai al gioco. Quella volta tuttavia, forse perché senza saperlo faceva le prove generali per questa, aveva scelto di ignorare il messaggio sottinteso e di rispondere alla domanda. «Voglio dire che quest'inverno compirai lo stesso quarantasei anni, con o senza Porsche, Gerald... e peserai ancora quindici chili di troppo.» Crudele, sì, ma almeno non era stata perfida, non gli aveva rivelato l'immagine che le era balenata davanti agli occhi quando aveva osservato le fotografie delle automobili sportive sulla brochure che le aveva presentato Gerald. In quel breve istante aveva visto un ragazzino grasso, con la faccia rosea e la fronte stempiata, incastrato nella camera d'aria che si era portato al vecchio stagno. Gerald le aveva strappato di mano la brochure e se n'era andato via sen-
za una parola. L'argomento Porsche era stato accantonato per sempre... ma lei lo aveva ritrovato spesso nel suo sguardo cupo e risentito. Di quello sguardo vedeva ora una versione ancor più corrucciata. «Avevi detto che ti sembrava un'idea divertente. Ti sei espressa proprio così. 'Mi sembra divertente.'» Davvero lo aveva detto? Probabilmente sì. Ma era stato un errore. Una piccola svista, una scivolatina sulla proverbiale buccia di banana. Sicuro. Ma come spiegarlo a tuo marito, quando se ne sta lì con il labbro inferiore spinto in fuori come Baby Huey in procinto di scoppiare in una crisi di nervi? Siccome non sapeva come dirglielo, abbassò lo sguardo... e vide qualcosa che non le piacque per niente. La versione geraldesca di Mister Sollazzo non si era minimamente scomposta. Mister Sollazzo non doveva avere sentito che c'era stato un cambio di programma. «Gerald, non sono...» «...in vena? Be', ma che bella notizia. Mi sono preso un'intera giornata di ferie. E se restiamo qui per la notte, mi brucerò anche domani mattina.» Rimuginò per qualche momento sulle proprie parole, poi ripeté: «Avevi detto che ti sembrava divertente». Cominciò a esaminare il ventaglio delle scuse come spulciando stancamente una mano di poker senza grandi prospettive (sì, ma ora ho mal di testa; sì, ma ho questi odiosi crampi premestruali; sì, ma sono una donna e perciò ho il diritto di cambiare idea; sì, ma adesso che siamo veramente qui tutti soli, mi fai paura, mio bel maschiaccio, mio irresistibile bruto), le menzogne capaci di alimentare le sue illusioni o il suo amor proprio (due concetti quasi sempre intercambiabili, per lui), ma prima di scegliere una carta, una qualsiasi di quelle che aveva a disposizione, parlò la voce nuova. Era la prima volta che parlava esplicitamente e Jessie fu piacevolmente sorpresa di scoprire che all'esterno era identica a come la sentiva nella testa: forte, asciutta, perentoria, sicura. E anche curiosamente familiare. «Hai ragione. Probabilmente avevo detto così, ma quello che mi sembrava potesse essere divertente era piantare tutto e andarcene via noi due, come facevamo prima che mettessi la targa sulla porta. Pensavo che avremmo potuto far cigolare un po' le molle del letto e poi starcene seduti in terrazza a goderci il silenzio. Magari una partitina a domino dopo il tramonto. È un reato perseguibile, Gerald? Che cosa ne dici? Rispondi, perché sono veramente curiosa di saperlo.»
«Ma avevi detto...» Da cinque minuti non aveva fatto che ripetergli in vari modi che voleva essere liberata da quelle dannate manette e lui ancora non se ne dava per inteso. La sua impazienza ribollì in ira. «Insomma, Gerald, questo giochetto ha smesso di essere divertente per me praticamente nel momento in cui abbiamo cominciato e se tu non avessi la testa piena di segatura te ne saresti accorto!» «La tua bella bocca. La tua bocca così abile e sarcastica. Certe volte sono così stufo di...» «Gerald, quando ti fissi su qualcosa è impossibile comunicare con te prendendoti con le buone. E di chi è la colpa?» «Non mi piaci quando sei così, Jessie. Quando sei così non mi piaci affatto.» Stava andando dal male al peggio all'orribile e più spaventoso di tutto era la rapidità con cui accadeva. A un tratto si sentì molto stanca e le tornò alla mente il verso di una vecchia canzone di Paul Simon: «Non voglio avere niente a che fare con questo amore pazzo». Bravo Paul. Sarai basso, ma non sei stupido. «Lo so e mi va bene così, perché in questo preciso istante l'argomento sono le manette, non quanto ti piaccio o ti dispiaccio quando ti dico che ho cambiato idea su qualcosa. Voglio che mi liberi da queste manette! Mi senti?» No, si accorse con crescente sgomento. Non la sentiva. Gerald era ancora dietro l'ultima curva. «Sei così maledettamente volubile, così maledettamente sarcastica. Io ti voglio bene, Jess, ma non sopporto quella tua linguaccia. Non l'ho mai potuta soffrire.» Si passò il palmo della sinistra sul bocciolo imbronciato della bocca, quindi la contemplò mestamente: povero, bistrattato Gerald, sedotto da una donna che lo aveva trascinato nella foresta primeva per poi sottrarsi ai suoi obblighi sessuali. Povero, bistrattato Gerald, che non dava il minimo segno di voler andare a prendere le chiavi delle manette dal comò vicino alla porta del bagno. Il suo disagio si era trasformato in qualcos'altro, potremmo dire, mentre era girata dall'altra parte. Era diventato un misto di collera e paura che ricordava di aver provato solo una volta in precedenza. Verso i dodici anni, suo fratello Will le aveva dato una strizzata tra le gambe a una festa di compleanno. Tutti gli amici avevano visto e avevano riso tutti quanti. Ah ah, grande spasso, señora, direi. Non era stato uno spasso per lei, però.
Will aveva riso più di tutti, così forte che aveva dovuto piegarsi in due con le mani premute sulle ginocchia e i capelli che gli pendevano sulla faccia. Era passato un anno o giù di lì dall'avvento dei Beatles e degli Stones e dei Searchers e tutti gli altri, così Will aveva un bel po' di capelli da far pendere. La cortina gli aveva impedito di vedere Jessie, evidentemente, perché non aveva idea di quanto fosse infuriata... e in circostanze normali vigilava attentamente sui suoi repentini cambi di umore. Aveva continuato a ridere finché lei aveva sentito la schiuma della sua rabbia traboccare e aveva capito che se non avesse fatto qualcosa, rischiava di esplodere. Così aveva chiuso un piccolo pugno e quando l'amato fratello aveva sollevato la testa per guardarla, gliel'aveva sparato in bocca. Il colpo lo aveva fatto stramazzare come un birillo e gridare davvero forte. Più tardi aveva cercato di convincersi che aveva gridato più per la sorpresa che per il dolore, ma anche a dodici anni era abbastanza grande da saper distinguere la differenza. Gli aveva fatto male, e parecchio per giunta. Gli aveva spaccato il labbro inferiore in un punto e quello superiore in due e gli aveva fatto un male cane. E perché? Perché aveva fatto qualcosa di stupido? Ma all'epoca aveva solo nove anni, nove anni quel giorno, e a quell'età tutti i bambini sono stupidi. Era praticamente una legge nazionale. No, non era stato per la stupidità. Era stata la paura, la paura che, se non si fosse sfogata, quell'orribile schiuma verde di collera e imbarazzo sarebbe montata dentro di lei fino a (spegnere il sole) farla esplodere. La verità, incontrata per la prima volta quel giorno, era la seguente: dentro di lei c'era un pozzo, l'acqua di quel pozzo era avvelenata, e quando William le aveva dato il pizzicotto, aveva calato un secchio in quel pozzo, recuperandolo pieno di feccia e fango ribollente. Lo aveva odiato per quello e doveva essere stato l'odio a spingerla a percuoterlo. La fanghiglia che si era sentita dentro l'aveva spaventata. Ora, tanti anni dopo, scopriva che la spaventava ancora... ma continuava anche a infuriarla. Tu non spegnerai il sole, pensò senza idea di che cosa potesse significare. Non te lo lascerò fare. «Non mi interessano le discussioni teoriche, Gerald. Prendi le chiavi e liberami da queste fottute manette!» A quel punto lui la sbalordì con una frase così inaspettata che sulle prime nemmeno la capì: «E se non lo faccio?» La prima cosa che registrò fu il cambio di tono nella voce. Di solito aveva un modo di parlare burbero, un po' da spaccone (Qui comando io ed è
una gran bella fortuna per tutti noi, non è vero?), mentre questa volta aveva usato un tono gutturale e compiaciuto che non gli conosceva. Nei suoi occhi era riapparso quel piccolo brillio che un tempo sapeva accenderla di luce violenta. Non lo vedeva molto bene, teneva gli occhi socchiusi in fessure gonfie dietro gli occhiali dalla montatura d'oro, però il luccichio c'era. Senza dubbio. Poi c'era il caso strano di Mister Sollazzo. Mister Sollazzo non si era per nulla ricreduto. L'impressione era casomai che si drizzasse gagliardo più di quanto ricordasse d'averlo mai visto... ma probabilmente era solo la sua immaginazione. È così che pensi, gioia? Ebbene, io no. Elaborò tutte quelle informazioni prima di tornare alle ultime parole che gli aveva sentito pronunciare, quella domanda sorprendente. E se non lo faccio? Ora passò oltre il tono della voce e rifletté sul senso delle parole e quando giunse a comprenderle appieno sentì collera e paura aumentare nuovamente. Dentro di lei il secchio ridiscendeva nel pozzo per un altro tuffo nel liquame, un altro carico di acqua brulicante di microbi velenosi quanto una nidiata di vipere. La porta della cucina sbatté contro lo stipite e il cane riprese ad abbaiare nel bosco, ora più vicino che mai. Era un abbaiare rotto e disperato. Ascoltare per troppo tempo latrati come quelli avrebbe indubbiamente fatto venire l'emicrania. «Ascolta, Gerald», sentì dire dalla sua nuova voce autoritaria. Probabilmente avrebbe fatto meglio a trovarsi un momento più opportuno per rompere il lungo silenzio, dato che si trovava sulla deserta sponda settentrionale del Kashwakamak, ammanettata al letto, con addosso solo un diafano paio di slip di nylon, tuttavia non poteva fare a meno di ammirarla. Quasi contro la sua volontà, si ritrovava ad ammirarla. «Ti sei deciso ad ascoltarmi? So che in questi giorni non lo fai spesso quando sono io a parlare, ma questa volta è davvero importante. Allora, ti sei finalmente deciso a darmi retta?» Lui era inginocchiato sul letto e la osservava come se fosse una specie di insetto ancora sconosciuto. Le sue guance, in cui serpeggiavano complicati reticoli di minuscoli fili rossi (lei li considerava i marchi di fabbrica dei suoi liquori), erano quasi paonazze. Una macchia analoga gli attraversava la fronte. Il colore era così scuro, la forma così definita, che sembrava una voglia. «Sì», mormorò in quel nuovo tono di voce soddisfatto e sembrò che facesse le fusa. «Ti sto ascoltando, Jessie. Sono tutt'orecchi.»
«Bene. Allora adesso vai al comò e prendi le chiavi. Mi apri questa», precisò scuotendo il polso destro, «e poi questa.» Fece tintinnare le manette al polso sinistro. «Se lo fai subito, possiamo fare un po' di amore normale, indolore e appagante per tutti e due prima di tornare alla nostra normale, indolore vita a Portland.» Inutile, pensò. Te lo sei dimenticato. Normale, indolore, inutile vita a Portland. Forse era così o forse la stava buttando un po' troppo sul drammatico (trovarsi ammanettata al letto la spingeva a giudizi più categorici), ma in ogni caso era meglio che non le fosse scappato. Stava comunque a dimostrare che la nuova voce era autorevole ma aveva il dono della discrezione. Subito dopo, come a contraddirla, sentì la stessa voce, che del resto era la sua voce, cominciare a salire nelle inequivocabili cadenze della collera. «Ma se continui a menare il can per l'aia, appena uscita di qui vado diritta da mia sorella, mi faccio dire chi si è occupato del suo divorzio e lo chiamo subito. Guarda che non scherzo. Non voglio fare questo gioco!» Ora stava accadendo qualcosa di veramente incredibile, qualcosa che non avrebbe sospettato in un milione di anni: stava riaffiorando il ghigno sulle labbra di Gerald. Emergeva come un sommozzatore che finalmente trova acque amiche dopo un viaggio lungo e pericoloso. Ma non era quello l'aspetto più incredibile. La cosa veramente incredibile era che il ghigno non gli dava più l'espressione di un idiota inoffensivo. Ora l'immagine era quella di un pericoloso mentecatto. La sua mano si allungò di nuovo adagio, le accarezzò il seno sinistro, poi glielo strinse facendole male. Concluse quella spiacevole iniziativa strizzandole il capezzolo, una cosa che non aveva mai fatto prima. «Ahi, Gerald! Mi fai male!» Lui le rispose con un solenne cenno del capo, in segno di approvazione, che si accordava molto stranamente al suo orribile ghigno. «Brava, Jessie. Molto bene, tutto l'insieme, intendo. Potresti fare l'attrice. O la squillo. Una di quelle che si fanno pagare profumatamente.» Esitò, poi aggiunse: «Guarda che sarebbe un complimento». «In nome di Dio, che cosa stai dicendo?» Ma credeva di saperlo fin troppo bene. Ora era davvero spaventata. Qualcosa di maligno si era messo a girare per la stanza, roteava e ruotava come una trottola nera. Ma era anche in collera. Era in collera come il giorno che Will le aveva dato quella strizzata tra le gambe. Gerald rise. «Di che cosa sto parlando? Sai, c'è stato un momento in cui
ti ho creduta. È di questo che sto parlando.» Le posò una mano sulla coscia destra. Quando parlò di nuovo, la sua voce suonò asciutta, stranamente professionale. «Allora, vuoi aprirle per me o devo farlo io? Fa parte del gioco anche questo?» «Liberami!» «Sì... quando avremo finito.» Partì l'altra mano. Questa volta le aggredì il seno destro e la stretta fu così violenta da spedirle fitte di dolore come piccole scintille bianche giù lungo il fianco, fino all'anca. «Adesso spalanca quelle belle gambe, mia fiera bellezza!» Jessie lo osservò meglio e scoprì una cosa terribile: sapeva. Sapeva che non scherzava quando dichiarava di non voler andare avanti. Lui sapeva, ma aveva scelto di non sapere di sapere. Era possibile farlo? Puoi scommetterci, le rispose la voce, che badava al sodo. Se sei uno squalo di mozzorecchi nel più importante studio legale a nord di Boston e a sud di Montreal, puoi benissimo sapere quello che vuoi sapere e non sapere quello che non vuoi. Mi sa che sei in un guaio grosso, tesoro. Quel genere di guaio che chiude un matrimonio. Meglio che stringi i denti e gli occhi, perché penso che ti stia per arrivare una di quelle vaccinazioni che lasciano il segno. Quel ghigno, quel ghigno così brutto, così cattivo. Fingere di non sapere. E farlo con tanto impegno da poter poi superare brillantemente la prova della macchina della verità. Pensavo che fosse tutto parte del gioco, avrebbe sostenuto dopo, tutto contrito e con gli occhi sgranati. Davvero. E se avesse insistito, se lo avesse investito con la sua collera, sarebbe ricaduto alla fine nella più antica delle difese... e poi vi si sarebbe infilato come una lucertola nella crepa di una roccia: Ti è piaciuto. Lo sai che è così. Perché non lo vuoi ammettere? Fingere così forte da non sapere davvero. Sapere e voler andare avanti lo stesso. L'aveva ammanettata al letto, lo aveva fatto con il suo consenso, e adesso, oh merda, diciamocela tutta senza eufemismi, adesso aveva intenzione di violentarla, sissignora, violentarla mentre la porta sbatteva e il cane abbaiava e la sega a motore strideva e la gavia gorgheggiava sul lago. Faceva sul serio. Oh sì, ragazzi, yuk, yuk, yuk, non hai assaggiato fica vera finché non te ne sei fatta una che ti salta di sotto come una pollastra su una griglia rovente. E se davvero si fosse rivolta a Maddy, una volta uscita da quell'esercizio di umiliazione, avrebbe insistito imperterrito che la sua mente era lontana mille miglia dall'idea di uno stupro. Le infilò le mani rosa all'interno delle cosce e cominciò ad aprirle le
gambe. Non oppose molta resistenza. Al momento almeno era troppo agghiacciata e stupefatta da quello che stava succedendo per voler resistere più di tanto. Ed è proprio l'atteggiamento giusto, spiegò la voce interiore che conosceva meglio. Stattene buona e lascia che schizzi la sua spruzzatina. Sai che roba. L'avrà già fatto un migliaio di volte senza tanti drammi. Nel caso te lo sia scordato, sono passati un bel po' di anni dai tuoi ultimi rossori di verginella. Ma che cosa sarebbe successo se non avesse ascoltato e ubbidito ai consigli di quella voce? Che alternativa c'era? Come per risposta si manifestò nella sua mente un'immagine orribile. Vedeva se stessa nell'atto di deporre in tribunale per la causa di divorzio. Non sapeva se nel Maine esistevano ancora sezioni di tribunale dedicate ai divorzi, ma questo non tolse niente alla vivezza della visione. Si vide in un sobrio completo di Donna Karan di color rosa, con sotto la sua camicetta di seta color pesca. Teneva decorosamente unite ginocchia e caviglie. In grembo aveva la borsetta a busta, quella piccola, bianca. A un giudice che somigliava al compianto Harry Reasoner dichiarava che sì, era vero che aveva accompagnato Gerald alla casa estiva di sua volontà, sì, gli aveva permesso di legarla ai montanti del letto con due manette Kreig, sempre volontariamente, e sì, per la verità, avevano già indugiato ad altri giochi del genere, anche se mai nella casa sul lago. Sì, giudice. Sì. Sì, sì, sì. Mentre Gerald continuava ad allargarle le gambe, Jessie si sentì raccontare al giudice che assomigliava a Harry Reasoner come avessero cominciato con foulard di seta e come lei avesse acconsentito a che il gioco si evolvesse dai foulard alle corde e alle manette, per quanto rapidamente il gioco le fosse venuto a noia. Anzi, avesse cominciato a disgustarla. Disgustarla al punto da accompagnare Gerald per sessantatré miglia da Portland al lago Kashwakamak in un giorno feriale di ottobre; nauseata al punto da farsi docilmente incatenare di nuovo come un cane; annoiata al punto da tenersi addosso solo un paio di slip di nylon così trasparenti da leggerci il giornale attraverso. Il giudice avrebbe creduto a tutto questo e le avrebbe trasmesso tutta la sua affettuosa comprensione. Come no. Chi avrebbe potuto fare altrimenti? Si vide seduta alla sbarra nell'atto di raccontare: «Dunque mi trovavo lì, ammanettata al letto, con nient'altro addosso che uno scampolo di indumento intimo e un sorriso, però all'ultimo momento
ho cambiato idea e Gerald lo sapeva, di conseguenza si tratta di stupro». Sì, certo, i conti tornavano che era una bellezza, c'era da esserne felici. Emerse da questa fantasia spaventosa e trovò Gerald che le tirava gli slip. Era in ginocchio fra le sue gambe, così assorto che si sarebbe potuto credere che stesse sostenendo l'esame di stato per l'ammissione all'avvocatura e non che si accingesse invece ad aggredire sessualmente sua moglie. Dal centro del carnoso labbro inferiore, gli colava un filo di saliva fin sul mento. Lasciaglielo fare, Jessie. Lascialo schizzare. È quella roba che ha nelle palle a fargli perdere la testa, lo sai. Fa perdere la testa a tutti gli uomini. Dopo che se ne sarà liberato, potrai parlargli di nuovo. Ridiventerà trattabile. Non piantare grane, fai la brava, stattene buona e aspetta che si sia sfogato. Un ottimo consiglio, e lo avrebbe anche seguito se non fosse stato per la nuova presenza dentro di lei. L'anonima nuova arrivata considerava evidentemente l'abituale consigliera di Jessie (la voce che nel corso degli anni aveva assegnato alla Brava Mogliettina Burlingame) una pappamolle di prim'ordine. Jessie avrebbe anche forse lasciato fare, ma accaddero due cose simultaneamente. La prima è che si rese conto che, pur avendo i polsi bloccati ai montanti del letto, aveva le gambe libere. Contemporaneamente il rivolo di saliva si staccò dal mento di Gerald. Rimase appeso per un istante, allungandosi mentre dondolava, poi le cadde addosso, appena sopra l'ombelico. La sensazione che provò aveva qualcosa di familiare e si sentì risucchiare da un'orribile, intensa sensazione di déjà vu. La stanza si oscurò intorno a lei, come se i vetri delle finestre e del lucernario fossero stati improvvisamente affumicati. È il suo seme, pensò, anche se sapeva perfettamente che non era così. È il suo seme schifoso. La sua reazione non fu diretta contro Gerald, quanto in risposta all'odiosa sensazione che eruttò dal profondo della sua mente. Agì sicuramente senza pensare, mossa dalla repulsione istintiva, isterica di una donna che si rende conto all'improvviso che lo svolazzare che sente nei capelli è quello di un pipistrello intrappolato. Fletté le ginocchia, evitando per un pelo di urtarsi il mento, poi fece scattare in avanti i piedi nudi come pistoni. La pianta del suo piede destro sprofondò nel ventre di Gerald. Il tallone del sinistro gli calcò brutalmente la radice tumefatta del pene e i testicoli che vi pendevano sotto come pallidi frutti maturi.
Gerald piombò all'indietro, si schiacciò violentemente le natiche sui polpacci grassi e glabri. Rivolse la faccia al lucernario e al soffitto bianco con le sue increspature di luce e lanciò uno strillo acuto e sibilante. La gavia sul lago in quel momento gorgheggiò di nuovo, in un sinistro contrappunto. A Jessie sembrò di sentire un maschio che ne commisera un altro. Ora gli occhi di Gerald non erano più socchiusi. Nemmeno scintillavano. Erano spalancati, erano blu come il cielo immacolato di quel giorno (il pensiero di vedere quel cielo sul lago deserto d'autunno era il motivo principale che l'aveva spinta ad accettare la proposta di Gerald, quando l'aveva chiamata dall'ufficio per comunicarle che un appuntamento era stato rimandato e che avrebbero potuto passare la giornata alla casa estiva e magari rientrare l'indomani), e l'espressione era così vitrea e dolente che faceva male a guardarlo. Nel collo gli erano affiorati i tendini. Jessie pensò: Non glieli vedevo da quell'estate di piogge in cui rinunciò all'hobby del giardinaggio per dedicarsi a quello delle sevizie. L'urlo cominciò a indebolirsi. Era come se qualcuno abbassasse il volume con un telecomando. Non era così, naturalmente. Aveva gridato per un tempo straordinariamente lungo, forse trenta secondi, e cominciava a mancargli il fiato. Devo avergli fatto un male tremendo, pensò. Le chiazze rosse che aveva sulle guance e la striscia purpurea sulla fronte stavano diventando viola. Dio del cielo! esclamò la voce costernata della Brava Mogliettina. Che cosa hai fatto! Bel colpo, si complimentò la voce nuova. Hai tirato un calcio nelle palle a tuo marito! gridò la Brava Mogliettina. In nome di Dio, come hai potuto pensare di avere il diritto di fare una cosa del genere? Il diritto di pensarci anche solo per scherzo? Sentiva di saper rispondere a quella domanda: l'aveva fatto perché suo marito aveva avuto l'intenzione di violentarla e far passare poi il tutto come un errore di comunicazione fra due coniugi fondamentalmente in buona armonia, intenti a un innocuo gioco erotico. È stata colpa del gioco, avrebbe sostenuto con un'alzata di spalle. Colpa del gioco, non colpa mia. Non siamo costretti a giocare di nuovo, Jess, se non te la senti. Questo naturalmente perché sapeva che nessuna promessa o offerta l'avrebbe mai più indotta a consegnargli i polsi perché glieli ammanettasse. No, quella era la resa dei conti, non ci sarebbero state repliche, e Gerald lo sapeva e aveva pensato bene di ricavarne il massimo. La presenza oscura che aveva sentito aggirarsi per la stanza era sfuggita
a ogni controllo, come lei aveva temuto. Gerald stava ancora gridando, anche se dalla bocca, ora contratta in una smorfia di dolore, non scaturiva alcun suono. La sua faccia era così congestionata di sangue che in certi punti sembrava addirittura nera. Vedeva la sua giugulare (o forse era la carotide, per quanto poteva valere la precisazione in un momento come quello) pulsare furiosamente sotto la pelle accuratamente rasata della gola. Quale che fosse, sembrava che l'arteria stesse per esplodere e una fitta di terrore la trapassò da parte a parte come una pugnalata. «Gerald?» La sua voce risuonò sottile e incerta, la voce di una bambina che ha rotto un oggetto prezioso alla festa di compleanno dell'amica. «Gerald, stai bene?» Era una domanda stupida, naturalmente, incredibilmente stupida, ma era più facile rivolgergli quella che tutte le altre che le affollavano la mente: Gerald, è grave? Gerald, credi di essere in pericolo di vita? Ma che cosa vuoi che sia in pericolo di vita, intervenne la voce nervosa della Brava Mogliettina. Gli hai fatto male, questo sì, e hai il dovere di provare rimorso, ma non morirà per questo. Nessuno morirà qui dentro. Le labbra raggrinzite di Gerald continuarono a tremare senza produrre suoni, ma non rispose alla sua domanda. Si era portato una mano al ventre e nell'altra reggeva i testicoli colpiti. Ora le sollevò entrambe adagio e se le applicò al torace, appena sopra il capezzolo sinistro. Si posarono come una coppia di grassi uccelli rosa troppo stanchi per riprendere il volo. Jessie vide l'impronta di un piede nudo, il suo piede nudo, che cominciava ad apparire sulla rotondità dell'addome di suo marito. Era una macchia rossa e precisa come un'accusa sulla sua pelle rosa. Stava esalando, o cercava di farlo, emetteva una nebbia aspra che puzzava di cipolle marce. È la riserva del volume respiratorio, pensò Jessie. L'ultimo dieci per cento dei nostri polmoni alloggia l'ultima riserva del volume respiratorio, non è così che ci hanno insegnato al corso di biologia? Sì, mi pare di sì. La riserva di respiro, il presunto ultimo rantolo degli annegati e dei soffocati. Espulso quello, o si sviene o... «Gerald!» proruppe in un tono di voce brusco, quasi di rimprovero. «Gerald, respira!» Gli occhi gli uscirono dalle orbite come biglie azzurre in un pugno di plastilina e riuscì a risucchiare nei polmoni un filo d'aria. Se ne servì per pronunciare un'ultima parola, quell'uomo che in certi momenti era sembrato fatto solo di parole. «...cuore...»
Nient'altro. «Gerald!» Ora, insieme con il rimprovero, nella sua voce era affiorato lo sgomento, come nell'esclamazione di un'anziana insegnante che sorprende il discolo della seconda classe nell'atto di sollevarle la sottana per mostrare ai compagni i coniglietti che ha sulle mutandine. «Gerald, smettila di fare lo stupido e respira, dannazione!» Gerald non lo fece. I suoi occhi si rovesciarono nelle orbite, mostrando un bianco ingiallito. La lingua gli scattò fuori dalla bocca e fece un rumore come di pernacchio. Dal pene afflosciato partì l'arco di un getto di orina torbida e arancione che le spruzzò di goccioline surriscaldate cosce e ginocchia. Jessie mandò uno strillo prolungato. Questa volta non si accorse di strattonare le manette, di servirsene per ritrarsi il più possibile da lui, raccogliendo concitatamente le gambe sotto di sé. «Smettila, Gerald! Smettila prima che cadi dal let...» Troppo tardi. Anche se la udiva ancora, cosa della quale la sua mente razionale dubitava, era già troppo tardi. La schiena inarcata si piegò all'indietro oltre l'asse del corpo e la sponda del letto, dopodiché la gravità fece la sua parte. Gerald Burlingame, con il quale una volta Jessie aveva mangiato ghiaccioli a letto, cadde all'indietro con le ginocchia all'insù e la testa all'ingiù, come un bambino goffo che cerca di far colpo sugli amici all'ora di ricreazione in piscina. Il rumore del cranio che urtava il parquet la fece gridare di nuovo. Fu come lo schianto di un uovo enorme contro il bordo di una ciotola di pietra. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non averlo mai sentito. Poi ci fu silenzio, rotto soltanto dal ronzio lontano della sega. Una grande rosa grigia si andava dischiudendo nell'aria davanti agli occhi sbarrati di Jessie. I petali si ingrandivano aprendosi e quando si richiusero intorno a lei come le ali polverose di enormi falene bige nascondendo per qualche tempo tutta la stanza, l'unica sensazione chiara che provò fu di gratitudine. 2 Era in un corridoio lungo e freddo pieno di nebbia bianca, un corridoio che pendeva decisamente su un lato come quelli che percorrono sempre le persone in film come Nightmare — Dal profondo della notte e in telefilm come Ai confini della realtà. Era nuda e il freddo cominciava davvero a mordere, spargendole dolore nei muscoli, in particolare in quelli della schiena, del collo e delle spalle.
Se non riesco ad andare via da qui starò male, rifletté. Già comincio ad avere i crampi per la nebbia e l'umidità. (Ma sapeva che non erano nebbia e umidità.) E poi è successo qualcosa a Gerald. Non so bene che cosa, ma forse non sta bene. (Ma sapeva che aveva avuto qualcosa di più di un malessere.) Ciononostante, ed era strano, un'altra parte di lei non aveva alcun desiderio di fuggire da quel corridoio nebbioso e inclinato. Quella parte di lei lasciava intendere che le conveniva restare dov'era, che, se fosse uscita da lì, l'avrebbe rimpianto. Così indugiò. A rimetterle in moto sentimenti e pensieri fu un cane che abbaiava. Era un abbaiare quanto mai sgradevole, cupo nel fondo, ma che si frantumava in note stridule quando saliva nei registri più alti. Ogni volta che attaccava, era come se il cane stesse vomitando manciate di schegge affilate. Aveva già sentito quei latrati, sebbene era forse più opportuno, anzi, molto più opportuno, non ricordare troppo bene quando, o dove, o che cosa fosse accaduto in quel momento. Ebbe comunque l'effetto di smuoverla, piede sinistro, piede destro, sinist, dest, e a un tratto pensò che avrebbe visto meglio nella nebbia se avesse aperto gli occhi, così li aprì. Non trovò un corridoio pauroso da Ai confini della realtà, ma la camera da letto padronale della loro residenza estiva sulla sponda settentrionale del Kashwakamak, in quella zona nota come Notch Bay. Rifletté che se aveva sentito freddo era perché indossava solo un paio di slip e se le facevano male il collo e le spalle era perché era ammanettata ai montanti del letto ed era scivolata dal materasso quand'era svenuta. Niente corridoio inclinato, niente umidità brumosa. Solo il cane era reale, ancora intento ad abbaiare come un disperato. Ora sembrava molto vicino alla casa. Se Gerald l'avesse sentito... Pensare a Gerald le provocò uno spasmo e lo spasmo le trasmise complesse spirali di scintille nei bicipiti e tricipiti indolenziti. Il formicolio svanì all'altezza dei gomiti e con torbido, fosco sgomento, Jessie si rese conto di aver perso quasi totalmente la sensibilità negli avambracci e che al posto delle mani avrebbe potuto benissimo avere un paio di guanti pieni di puré di patate coagulato. Farà male, pensò, e allora le tornò in mente tutto quanto... specialmente l'immagine di Gerald che compiva la sua capriola giù dal letto. Suo marito era per terra, morto o svenuto, e lei era sul letto, a pensare che era una gran seccatura che le si fossero addormentate mani e braccia. Si poteva essere
più egoisti di così? Se è morto, è solo colpa sua, proclamò la voce senza tante palle. Cercò di allegare qualche altra verità elementare, ma Jessie la imbavagliò. In quello stato che era ancora a metà fra lucidità e incoscienza, si fece guidare da una mano più sicura negli archivi più reconditi della memoria e riconobbe all'improvviso la voce: lievemente nasale, tagliente, sempre pervasa da una vena di divertito sarcasmo. Apparteneva alla sua compagna di stanza al college, Ruth Neary. Ora che l'aveva riconosciuta, non ne era per niente sorpresa. Ruth era sempre stata prodiga con le sue opinioni e i suoi consigli avevano spesso scandalizzato l'ingenua diciannovenne con le labbra ancora sporche di latte che veniva da Falmouth Foreside... senza dubbio almeno in parte intenzionalmente; il cuore di Ruth era sempre stato al posto giusto e Jessie non aveva mai dubitato che fosse convinta del sessanta per cento di quello che diceva e avesse fatto il quaranta per cento di quello che sosteneva di aver fatto. In campo sessuale, le percentuali erano probabilmente più alte. Ruth Neary, la prima donna da lei conosciuta che si rifiutasse nella maniera più categorica di depilarsi gambe e ascelle; Ruth Neary, che una volta aveva riempito di bagnoschiuma alla fragola la federa del cuscino di un'assistente che le era antipatica; Ruth, che per principio partecipava a ogni assemblea e prendeva parte a ogni dramma sperimentale studentesco. Dovesse andare storto tutto il resto, gioietta, ci sarà pure qualche bel fusto che si toglie i vestiti, le aveva spiegato, lasciandola fra incredulità e fascino, al ritorno da una recita studentesca dal titolo Il figlio del pappagallo di Noè. Cioè, non è che succeda sempre, ma è abbastanza usuale. Credo che fondamentalmente è a questo che servono i drammi scritti e messi in scena dagli studenti, a dare un'occasione ai ragazzi e alle ragazze di togliersi i vestiti e di esibirsi in pubblico. Erano anni che non pensava a Ruth e adesso Ruth era dentro la sua testa, a elargire scampoli di saggezza come soleva fare a quei tempi. Perché no? Chi poteva essere più qualificato a dare consigli al mentalmente confuso ed emotivamente turbato se non Ruth Neary, che dall'università del New Hampshire era passata attraverso tre matrimoni, due tentati suicidi e quattro ricoveri di riabilitazione per abuso di droghe e alcol? Cara vecchia Ruth, un altro esempio smagliante dell'atteggiamento vincente con cui l'ex Love Generation affrontava la transizione verso la mezza età. «Mi mancava giusto questo, bontà di Dio», disse e la sua voce impastata e farfugliarne la spaventò più dell'insensibilità nelle mani e nelle braccia. Cercò di issarsi di nuovo in quella posizione quasi seduta che le era riu-
scita poco prima del piccolo esercizio acrobatico di Gerald (quell'orribile suono di uovo che si schiaccia era parte del sogno? Pregò che così fosse) e il ricordo di Ruth fu ingoiato da un'improvvisa esplosione di panico quando non riuscì a muoversi per niente. Le si avvitarono di nuovo nei muscoli quelle formicolanti spirali di sensazioni, ma non accadde niente di più. Le braccia continuarono a restare appese sopra di lei, leggermente all'indietro rispetto alla testa, immobili e insensibili come ceppi di legna da ardere. La nebbia che le riempiva la mente scomparve (scoprì che il panico era un vero portento, altro che sali) e il suo cuore innestò una marcia più alta, ma tutto finì lì. Le balenò per un attimo dietro agli occhi una vivida immagine ripescata da qualche lontano compito di storia: una cerchia di persone che ridevano additando una giovane donna con la testa e le mani nei ceppi. La donna era curva come la megera di una fiaba e i capelli le pendevano davanti al viso come il sudario di una penitente. Il suo nome è Brava Mogliettina Burlingame e la stanno punendo per aver fatto male a suo marito, pensò. Viene punita la Brava Mogliettina perché non trovano la vera responsabile... quella che ha la voce della mia vecchia compagna di stanza all'università. Ma far male era l'espressione giusta? Non era probabile che dividesse quella camera da letto con un morto? Non era anche probabile che, cane o no, la Notch Bay fosse totalmente deserta? Che se si fosse messa a gridare le avrebbe risposto solo la gavia? Solo un uccello e nient'altro? Fu soprattutto quel pensiero, con la sua strana eco de Il corvo di Poe, a offrirle l'improvvisa comprensione di quello che stava accadendo in quella stanza, della situazione in cui era finita, e fu travolta da un'ondata di terrore cieco e sordo. Per una ventina di secondi (se le avessero chiesto quanto era durata quella crisi di panico, avrebbe calcolato almeno tre minuti e probabilmente qualcosa come cinque) ne fu totalmente in balia. Le rimase viva nel profondo una sottile radice di coscienza razionale, ma era impotente, era solo spettatrice sgomenta di una donna che si dibatteva sul letto facendo svolazzare i capelli nel ripetuto sbattere della testa da una parte e dall'altra, inutile gesto con cui cercare di negare la realtà, nell'eco di roche grida terrorizzate. La fermò un dolore intenso, vetroso, alla base del collo, appena sopra il punto in cui cominciava la spalla sinistra. Era un crampo dei più dolorosi, in realtà una contrattura muscolare. Con un gemito lasciò ricadere la testa contro le assicelle di mogano che formavano la testiera del letto. Il muscolo alla base del collo si era blocca-
to in una posizione inclinata e sembrava duro come roccia. Il fatto che con quel movimento avesse spedito un formicolio di sensazione lungo gli avambracci fino ai palmi delle mani ebbe scarso rilievo nel dolore terribile che seguì alla scoperta che, appoggiandosi alla testiera, non faceva altro che sottoporre a una pressione ancora maggiore il muscolo contratto. D'istinto, senza assolutamente pensare, piantò i talloni contro il copriletto, sollevò le natiche e spinse con i piedi. I gomiti si piegarono e la pressione sulle spalle e sulle braccia diminuì. Un momento dopo il deltoide cominciò ad allentarsi. Mandò un lungo sospiro di sollievo. Il vento, che si era notevolmente rinforzato rispetto alla brezza di poco prima, soffiò il suo teso sospiro tra i pini del pendio fra la casa e il lago. Dalla cucina (che per quanto le concerneva era come un altro universo) giunse il rumore della porta che lei e Gerald avevano dimenticato di chiudere e che sbatteva contro lo stipite deformato dall'autunno: una volta, due volte, tre volte, quattro. Altri rumori non c'erano, solo quelli. Il cane aveva smesso di abbaiare, almeno per il momento, e la sega aveva smesso di stridere. Pareva che anche la gavia avesse deciso di prendersi un intervallo per il caffè. L'immagine di una gavia lacustre che fa una pausa per il caffè, planando magari nel serbatoio dell'acqua potabile a far quattro chiacchiere con le sue pennute comari, le strappò un verso gracchiante dal fondo della gola. In circostanze meno preoccupanti sarebbe stata forse una risata. Stemperò gli ultimi palpiti di panico, lasciandola ancora impaurita ma almeno di nuovo padrona di pensieri e azioni. Le lasciò anche uno sgradevole sapore di metallo sulla lingua. È adrenalina, gioia, o qualcun'altra delle secrezioni endocrine che il tuo corpo stilla quando cacci fuori gli artigli e cominci ad arrampicarti sui muri. Se qualcuno viene a chiederti che cos'è il panico, adesso sai rispondere: un imbuto emotivo che ti lascia addosso la sensazione di aver risucchiato una manciata di monetine. Le formicolavano gli avambracci e le propaggini di sensibilità si erano finalmente spinte fin nelle dita. Aprì e chiuse le mani ripetutamente, senza poter fare a meno di contrarre i muscoli del viso in una smorfia. Sentiva il rumore leggero delle catene delle manette contro i montanti e si prese un momento per chiedersi se Gerald fosse stato uno squilibrato e certamente così le sembrava ora, anche se non dubitava che fossero migliaia le persone che in tutto il mondo indulgevano quotidianamente a giochi di quel tipo. Aveva letto che esistevano persino certi spiriti liberi nel mondo delle
stravaganze erotiche, i quali si impiccavano masturbandosi via via che l'afflusso di sangue al cervello si riduceva a zero. Erano tutte nozioni che servivano solo ad accrescere la sua convinzione che, più che dotati del pene, gli uomini ne erano afflitti. Ma se davvero si era trattato solo di un gioco e niente più, perché allora Gerald aveva trovato necessario acquistare manette autentiche? Ecco un interrogativo interessante, o no? Forse, ma a me non sembra che sia l'interrogativo davvero più importante in questo momento, Jessie, ti pare? domandò dentro di lei Ruth Neary. Era davvero sorprendente in quante diverse direzioni sapeva inoltrarsi contemporaneamente la mente umana. Lungo una di esse si ritrovò ora a domandarsi che fine avesse fatto Ruth, che aveva visto per l'ultima volta dieci anni prima. Erano passati almeno tre anni dalle ultime notizie che aveva avuto di lei. L'ultima comunicazione era stata una cartolina in cui si vedeva un giovane in un sontuoso abito di velluto rosso con gorgiera di pizzo. Il giovane aveva la bocca aperta e mostrava la lunga lingua in una posa di esplicita malizia. COLPISCE PIÙ LA LINGUA DELLA SPADA, diceva la cartolina. Spirito da New Age, ricordava di aver pensato. I vittoriani avevano avuto Anthony Trollope; la Lost Generation aveva avuto H.L. Mencken; a noi spettano i biglietti d'auguri sconci e spiritosaggini da adesivi per paraurti, come SE L'HAI DETTO O L'HAI PENSATO, CI HAI AZZECCATO: LA STRADA È MIA! Sul francobollo c'era uno sbavato timbro dell'Arizona e la notizia che le spediva Ruth era il suo ingresso in una comune di lesbiche. Per Jessie non era stata una sorpresa clamorosa; aveva persino riflettuto che forse la vecchia amica, che sapeva essere incredibilmente irritante e sorprendentemente, malinconicamente dolce (certe volte nel corso della stessa frase), avesse trovato nella grande scacchiera della vita il quadratino appositamente disegnato per le forme singolari e irripetibili della sua personale pedina. Aveva riposto la cartolina di Ruth nel primo cassetto a sinistra della scrivania, quello dove teneva la corrispondenza assortita alla quale probabilmente non avrebbe mai risposto, ed era stata quella l'ultima volta in cui aveva pensato alla vecchia compagna di università, prima di ora: Ruth Neary, che agognava una favolosa Harley-Davidson, quando non era mai stata capace di usare propriamente il cambio nemmeno sulla docile, vecchia Ford Pinto di Jessie; Ruth, che spesso riusciva a perdersi al campus anche dopo tre anni di frequenza; Ruth, che scoppiava sempre in lacrime quando si dimenticava che stava cucinando qualcosa sulla piastra e lo ri-
duceva in carbone. Era un incidente al quale era così incline, che si poteva definire un vero miracolo se non aveva mai incendiato la stanza, per non dire il dormitorio intero. Buffo che la voce così sbrigativa e cinicamente realistica che sentiva nella testa dovesse essere quella di Ruth. Il cane riprese ad abbaiare. Non sembrava più vicino, ma nemmeno più lontano di prima. Il suo padrone non era a caccia di uccelli, questo era sicuro; nessun cacciatore avrebbe voluto aver niente a che fare con un esponente della razza canina così chiassoso. E se cane e padrone erano usciti per una normale passeggiata pomeridiana, come mai i latrati arrivavano sempre dallo stesso posto da almeno cinque minuti? Perché avevi visto giusto prima, bisbigliò la sua mente. Non c'è nessun padrone. Questa voce non era né di Ruth né della Brava Mogliettina Burlingame. E sicuramente non era quella che riconosceva come voce sua (per quanto approssimativamente ne avesse coscienza); era molto giovane e molto spaventata e, come già la voce di Ruth, le era stranamente familiare. È solo un cane randagio, che passa di qui per caso. Non ti aiuterà, Jessie. Non ci aiuterà. Ma forse era una valutazione troppo pessimistica. Del resto lei non sapeva con certezza che fosse un cane randagio, giusto? Non c'erano prove e, finché non ce n'erano, si sarebbe rifiutata di credere che fosse così. «Se non ti va, citami», brontolò. Frattanto c'era il problema di Gerald. Fra il panico di prima e il dolore di dopo, gli era scappato di mente. «Gerald?» La sua voce era ancora impastata, non del tutto presente. Si schiarì la gola e provò di nuovo. «Gerald!» Niente. Zero. Nessuna reazione. Però questo non vuol dire che sia morto, perciò tieni il cappotto addosso, donna... e non partirtene per un altro giro di giostra. Sicuro che teneva il cappotto addosso, grazie tante, e non aveva alcuna intenzione di fare un altro giro di giostra. Lo stesso, aveva una sensazione profonda e crescente negli organi vitali, un disagio che somigliava dolorosamente a una specie di nostalgia di casa. La mancata risposta di Gerald non significava che fosse morto, era vero, ma indicava che era almeno privo di sensi. È probabilmente morto, aggiunse Ruth Neary. Non voglio guastarti la festicciola, Jess, però non lo senti respirare, giusto? Di solito le persone prive di sensi si sentono respirare. Prendono queste boccate d'aria convulse e rumorose, non è vero?
«Cosa cazzo ne so?» sbottò, ma era stupido. Lo sapeva benissimo perché per quasi tutti gli anni del liceo era stata un'entusiasta infermierina volontaria e non le ci era voluto molto per farsi un'idea più che chiara della realtà della morte, una realtà che non è più affatto una realtà e non faceva alcun rumore. Ruth era a conoscenza del suo volontariato al Portland City Hospital, quello che lei stessa talvolta chiamava gli Anni della Padella, ma la proprietaria della voce che aveva appena parlato ne era comunque consapevole, anche se Ruth non ne avesse saputo niente, perché quella non era la voce di Ruth, era la sua, e doveva continuare a ricordarselo, perché aveva un modo di farsi sentire come se fosse indipendente da lei. Come le voci che hai sentito allora, mormorò la voce giovane. Le voci che hai sentito dopo il giorno nero. Ma a quello non voleva pensare. Mai, voleva pensarci. Non aveva già abbastanza problemi? Ma la voce di Ruth aveva ragione: le persone svenute, soprattutto quelle che perdevano i sensi a causa di una bella pestata alla zucca, normalmente respiravano come se russassero. Il che significava... «È probabilmente morto», mormorò con la sua voce impastata. «Eh già.» Si sporse a sinistra, muovendosi con cautela per non sollecitare il muscolo che le si era contratto tanto dolorosamente alla base del collo da quella parte. Non aveva ancora raggiunto l'estensione massima della catena che le tratteneva il polso destro quando scorse un braccio grassoccio e roseo e la metà di una mano, le ultime due dita, per la precisione. Era la mano destra di Gerald. Lo sapeva perché non vedeva la vera nuziale all'anulare. Vedeva invece le lunette bianche delle unghie. Riguardo a mani e unghie, Gerald era sempre stato molto vanitoso. Non si era resa conto di quanto, prima d'ora. Strano come certe volte uno non nota i particolari, persino quando crede di aver già visto tutto. Sarà anche vero, ma dammi retta, tesoro, ora come ora puoi anche tirare giù la tapparella, perché non voglio vedere altro. No, niente altro. Ma rifiutarsi di vedere era un lusso al quale, almeno per adesso, non le era dato di indulgere. Continuando a muoversi con esagerata prudenza, cercando di non compromettere collo e spalla, scivolò sulla sinistra per quanto le concedeva la catena. Non era molto, ancora cinque o sei centimetri al massimo, ma le consentì un'angolazione sufficiente per vedere parte del braccio di Gerald, parte della sua spalla destra e un pezzettino di testa. Non era sicura, ma le
sembrava di scorgere anche goccioline di sangue lungo l'attaccatura dei capelli radi. Era almeno tecnicamente possibile che fosse solo la sua immaginazione. Preferì sperarlo. «Gerald?» bisbigliò. «Mi senti, Gerald? Ti prego, dimmi di sì.» Nessuna risposta. Nessun movimento. Avvertì di nuovo lo struggimento profondo di poco prima, lo sentiva gonfiarsi e gonfiarsi, sgorgando come una ferita aperta. «Gerald?» bisbigliò di nuovo. Perché bisbigli? È morto. L'uomo che una volta ti ha sorpreso con un fine settimana ad Aruba (incredibile ma vero!) e una volta si è messo sulle orecchie le tue scarpe di alligatore a una festa di Capodanno... quell'uomo è morto. Allora si può sapere perché diavolo bisbigli? «Gerald!» Questa volta gridò. «Svegliati, Gerald!» Il suono della propria voce che urlava per poco non la fece sprofondare in un altro gorgo di panico e l'aspetto più spaventoso non erano il caparbio silenzio e l'immobilità di Gerald, ma era bensì accorgersi che il panico c'era ancora, era lì, a girare e rigirare nella sua mente cosciente con la pazienza di un predatore che gira intorno al boccheggiante focherello da bivacco di una donna che per qualche motivo si è allontanata dai compagni e si è persa nella vastità fonda e buia della foresta. Non ti sei persa, intervenne la Brava Mogliettina Burlingame, ma Jessie non si fidava di quella voce. La pacatezza che dimostrava le sembrava artificiosa, il suo buonsenso era solo una verniciatura. Tu sai dove sei. Sì, lo sapeva. Era in fondo a una tortuosa strada sterrata tutta buche e sassi, che s'imboccava da Bay Lane, due miglia a sud di lì. La carrareccia si era trasformata in un nastro di foglie cadute, rosse e gialle, quando l'avevano percorsa lei e Gerald in macchina, e quelle foglie erano la muta testimonianza del fatto che quella specie di sentiero che portava alla Notch Bay sul Kashwakamak, era stato usato poco o niente nelle tre settimane da quando le foglie avevano dapprima cominciato a cambiare colore e poi a cadere. Quel tratto di lago era dominio quasi esclusivo di villeggianti estivi e per quel che ne sapeva, era possibile che la stradina non fosse stata più percorsa dopo il Labor Day. In tutto erano cinque miglia, prima sulla strada e poi sulla Bay Lane, prima di sbucare sulla Route 117, dove c'erano alcune case abitate tutto l'anno. Io sono quaggiù da sola, mio marito giace morto per terra e io sono ammanettata al letto. Posso urlare fino a diventare cianotica e non mi ser-
virà a un bel niente, tanto non mi sentirà nessuno. La persona più vicina è probabilmente quello con la sega a catena e sarà ad almeno quattro miglia da qui. Potrebbe essere addirittura sull'altra sponda del lago. Mi sentirebbe il cane, ma il cane è quasi certamente randagio. Gerald è morto ed è un peccato, io non avevo intenzione di ucciderlo, se è così che ho fatto, ma almeno per lui è stata una cosa relativamente rapida. Non lo sarà per me. Se a Portland qualcuno non comincia a preoccuparsi della nostra assenza, e non c'è motivo perché qualcuno lo faccia, almeno per un po'... Non avrebbe dovuto pensare così, era come invitare il panico a farsi sotto di nuovo. Se non si toglieva di testa quell'idea, presto avrebbe visto gli occhi stupidi, rossi e famelici, dell'essere-panico. No, non doveva assolutamente pensare così. La fregatura è che, una volta che cominci, è maledettamente difficile smettere. Ma forse te lo meriti, l'ammonì all'improvviso la voce febbrile e petulante della Brava Mogliettina Burlingame. Forse è così. Perché la verità è che l'hai ucciso, Jessie. Non cercare di girarci intorno, perché non te lo permetterò. Sono sicura che non era in gran forma e sono sicura che presto o tardi sarebbe successo comunque, un infarto in ufficio o magari una sera, sulla corsia di sorpasso tornando a casa, con una sigaretta nella mano, nel momento in cui cerca di accenderla, e un semiarticolato che lo tampina a suon di clacson perché si tolga dalle scatole e torni a destra lasciandogli il passo. Ma tu non potevi aspettare il presto o tardi, vero? Ah no, tu no, non la cara piccola Jessie di Tom Mahout. Tu non potevi startene buona a lasciarlo schizzare il suo spruzzetto, vero? Cosmo Girl Jessie Burlingame dice: «Nessun uomo mi metterà mai in catene». Tu non hai potuto fare a meno di scalciargli pancione e marroni, vero? E hai pensato bene di farlo quando aveva già il termostato sopra il livello di guardia. Poche chiacchiere, mia cara, l'hai assassinato. Perciò forse ti meriti di trovarti dove ti trovi, ammanettata a questo letto. Forse... «Che gran mare di cazzate», esclamò. Le fu di sollievo inesprimibile sentirsi uscire di bocca l'altra voce, quella di Ruth. Certe volte (be'... forse spesso sarebbe più vicino alla verità) odiava la voce della Brava Mogliettina; la odiava e la temeva. Era spesso sciocca e capricciosa, glielo riconosceva, ma era anche così forte che ti rendeva difficile obiettare. La Mogliettina era sempre pronta a giurarle che aveva comperato il vestito sbagliato o che aveva scelto il fornitore sbagliato per allestire la festa di fine estate che organizzava tutti gli anni Gerald per i soci dello studio e le loro mogli (salvo che in realtà era Jessie a organizzare; Gerald era solo
quello che girava fra gli invitati a dire caspita e cavoli e si prendeva tutto il merito). La Mogliettina era quella che insisteva sempre che doveva perdere almeno tre chili. Non smetteva di tormentarla nemmeno quando le spuntavano le costole. Lascia perdere le costole! strillava di sdegnato orrore. Guardati le tette, tardona! E se ancora non ti basta a farti vomitare l'anima, guardati le cosce! «Che stronzate», disse cercando di metterci un vigore ancora maggiore, ma questa volta avvertì una screpolatura nella voce e non ne fu molto contenta. Non lo fu per niente. «Sapeva che facevo sul serio... sì, lo sapeva benissimo. E allora, di chi è la colpa?» Ma era vero? In un certo senso sì, lo aveva visto decidere di ignorare ciò che le vedeva in faccia e le sentiva nella voce, perché gli avrebbe rovinato il gioco. Ma da un altro punto di vista, da una prospettiva molto più fondamentale, sapeva che non era affatto vero, perché Gerald non la prendeva più sul serio da una decina d'anni. Aveva, si potrebbe dire, intrapreso una seconda carriera nello sviluppare la capacità di non udire quello che lei gli diceva se non riguardava i pasti o dove avrebbero dovuto trovarsi alla tal ora della tal sera (perciò vedi di non scordartelo, Gerald). Le sole altre eccezioni a questo Regolamento dell'Orecchio erano i commenti poco benevoli sul suo peso eccessivo e il troppo bere. Ascoltava quello che aveva da dirgli su questi argomenti e non gli piaceva affatto, ma archiviava i suoi rimproveri imputandoli a una sorta di mitico ordine naturale: i pesci sono costretti a nuotare, gli uccelli a volare, le mogli a rompere le scatole. Dunque, che cosa si era aspettata esattamente da quest'uomo? Che le rispondesse che sì, certo cara, l'avrebbe liberata all'istante e, a proposito, voleva ringraziarla per avergli aperto gli occhi? Sì. Aveva il sospetto che una parte ingenua di lei, una parte bambina e innocente, con grandi occhioni di cerbiatta, si era aspettata proprio quello. La sega a motore, che per qualche tempo aveva digrignato rumorosamente i suoi denti senza mai fermarsi, tacque all'improvviso. Anche il cane e la gavia, e persino il vento, si erano momentaneamente ammutoliti e il silenzio cadde pesante e palpabile come dieci anni di polvere indisturbata in una casa vuota. Non sentiva neanche in lontananza il rumore di un'automobile o dì un camion. E ora la voce che parlò non apparteneva ad altri che a lei. Oh mio Dio, disse. Oh mio Dio, sono quassù tutta sola. Sono sola.
3 Chiuse gli occhi con forza. Sei anni prima si era avventurata in un tentativo abortito di terapia che era durato cinque mesi, senza che Gerald ne sapesse niente, perché già immaginava il suo sarcasmo... e probabilmente la sua preoccupazione per tutto quello che avrebbe potuto scapparle detto. Aveva stabilito che il suo problema era lo stress e Nora Callighan, la sua terapeuta, le aveva insegnato una semplice tecnica di rilassamento. Per la gente di solito contare fino a dieci è il sistema con cui Paperino cerca di dominare il suo caratteraccio, aveva spiegato Nora. Ma la verità è che dà la possibilità di riazzerare tutte le emissioni emotive... e chiunque non abbia bisogno di un riazzeramento emotivo almeno una volta al giorno, ha probabilmente problemi più gravi dei tuoi o dei miei. Anche quella voce risuonò chiara, tanto da farle affiorare sulle labbra un sorrisetto malinconico. Mi piaceva Nora. Mi piaceva molto. Lo sapeva anche allora? Fu moderatamente sorpresa di scoprire di non ricordare molto bene, come non ricordava molto bene perché avesse smesso di recarsi da Nora tutti i martedì pomeriggio. Probabilmente era successo perché tutto era saltato fuori all'improvviso e contemporaneamente, il fondo di beneficenza, il ricovero per i senzatetto di Court Street, forse anche la raccolta di fondi per la nuova biblioteca. «La merda succede», come proclamava un'altra di quelle massime dell'insulsaggine della New Age che si volevano far passare per saggezza. E forse era stato un bene che avesse smesso. Se non si mette un punto fermo da qualche parte, la terapia è una di quelle cose che va avanti per l'eternità, finché ci si ritrova ad arrancare debolmente in compagnia del proprio terapeuta, diretti alla grande sessione di gruppo in cielo. Lascia stare, avanti, fai la conta, comincia dalle dita dei piedi, falla come ti ha insegnato lei. Sì. Perché no? Uno è per i piedi, dieci ditini, tutti quanti in fila, come porcellini. Ma invece otto erano tutti accartocciati e gli alluci sembravano le campane sulla testa di un paio di martelli da falegname. Due è per le gambe, lunghe e belle. Be', non poi tanto lunghe, non arrivava al metro e settanta di statura ed era lunga di busto; però Gerald aveva sempre sostenuto che erano la sua parte migliore, dal punto di vista delle attrattive fisiche. Era un'affer-
mazione che la divertiva, perché le era sempre sembrata assolutamente sincera da parte sua, il che significava che non le aveva mai guardato bene le ginocchia, brutte come nodi nel tronco di un melo, e non si era accorto della circonferenza eccessiva della parte superiore delle cosce. Tre è per il mio sesso, ciò che è giusto non può essere sbagliato. Carina questa, anche un po' troppo carina, avrebbero potuto commentare in molti, ma non particolarmente illuminante. Sollevò un po' la testa, come a voler vedere l'oggetto in questione, ma tenne lo stesso gli occhi chiusi. Non aveva bisogno degli occhi per vedere, aveva convissuto a lungo con quell'accessorio speciale. Sapeva bene che in fondo al ventre aveva un triangolo di peli crespi, color zenzero, intorno a un'insignificante fessura con tutta la bellezza estetica di una ferita mal rimarginata. Quella cosa, quell'organo che era poco più di una piega profonda di carne al centro di fasci muscolari sovrapposti, le sembrava un'improbabile fonte di mitologie, eppure era un mito nella mentalità collettiva maschile; non era forse la valle magica? Il recinto dove prima o poi finivano rinchiusi anche gli unicorni più selvatici e ribelli? «Mamma mia, che stronzata», disse, con mezzo sorriso, ma senza aprire gli occhi. Però non era una stronzata, non del tutto. Quella fessura era l'oggetto del desiderio di ogni uomo, quanto meno di quelli eterosessuali, ma era anche spesso un oggetto di inesplicabile disprezzo, diffidenza e odio. L'eco cupa del rancore non vibrava in tutte le loro storielle e battute di spirito, ma emergeva abbastanza spesso e in alcune era esplicita, in tutta la sua greve crudezza: Cos'è una donna? La struttura deambulatorio di una fica. Piantala, Jessie, ordinò la Brava Mogliettina Burlingame. La voce era turbata e disgustata. Piantala immediatamente. Ottima idea, concluse Jessie e tornò mentalmente alla conta di Nora. Quattro era per i fianchi (troppo larghi) e cinque per il ventre (troppo grosso). Sei era per il seno e secondo lei era quella la sua parte migliore. Sospettava che Gerald avesse qualche perplessità per via delle linee azzurrognole delle vene che si intrecciavano nella parte inferiore della dolce curvatura; nelle tette delle ragazze dei paginoni centrali non si vedeva il tracciato delle tubature sottostanti. Le ragazze della rivista non avevano nemmeno quella minuscola lanugine sulle aureole. Sette era per le sue spalle troppo larghe, otto era per il collo (che aveva
visto tempi migliori, prima di assumere un aspetto decisamente gallinesco da qualche anno a quella parte), nove era per il mento sfuggente e dieci... Un momento! Un momentino! intervenne la voce autorevole e sbrigativa. Che razza di gioco scemo sarebbe? Jessie strinse con più forza gli occhi, era spaventata dalla profondità dell'ira che sentiva in quella voce e dalla sua estraneità. Nella sua collera non sembrava una voce scaturita dalla fonte centrale della sua mente, ma sembrava invece un'autentica intrusa, uno spirito alieno che voleva possederla come lo spirito di Pazuzu aveva posseduto la bambina in L'esorcista. Non vuoi rispondere? chiese Ruth Neary, alias Pazuzu. Va bene, forse quella è troppo difficile. Allora te la semplifico, Jess. Chi ha trasformato la semplice filastrocca rilassante di Nora Callighan in un mantra di autorisentimento? Nessuno, rispose mentalmente, ma con scarsa convinzione, e capì all'istante che la voce sbrigativa non l'avrebbe mai accettato, perciò aggiunse: La Brava Mogliettina. È stata lei. No, che non è stata lei, ribatté all'istante la voce di Ruth. Dal tono sembrava provasse ribrezzo per quel tentativo fiacco di scaricabarile. La Brava Mogliettina è un po' stupida e in questo momento è molto spaventata, ma fondamentalmente è di animo dolce e le sue intenzioni sono sempre state delle migliori. Le intenzioni di chi ha rivisitato l'elenco di Nora erano invece attivamente maligne, Jessie. Non lo vedi anche tu? Non... «Io non vedo niente, perché ho gli occhi chiusi!» protestò con una voce tremante e infantile. Quasi li aprì, ma qualcosa le disse che rischiava di peggiorare la situazione. Chi era, Jessie? Chi ti ha insegnato a considerarti brutta e di scarso valore? Chi ha scelto Gerald Burlingame come tua anima gemella e Principe Azzurro, probabilmente già molti anni prima che lo conoscessi a quella adunata del Partito Repubblicano? Chi ha deciso che non solo era l'uomo che ti occorreva ma esattamente quello che meritavi? Con uno sforzo tremendo, Jessie scacciò dalla sua mente quella voce e sperò ardentemente di aver scacciato con essa anche tutte le altre. Ricominciò la sua cantilena, questa volta a voce alta. «Uno sono i miei ditini, come porcellini, due sono le mie gambe, lunghe e belle, tre è il mio sesso, ciò che è giusto non può essere sbagliato, quattro sono i miei fianchi, dolci e rotondi, cinque la mia pancia, dove metto quel che mangio.» Non ricordava il resto delle strofe (e probabilmente era un bene; aveva il forte sospetto che quella filastrocca fosse farina del sacco di
Nora, probabilmente con l'aspirazione segreta di vederla pubblicata in una di quelle riviste lacrimevoli e struggenti di autoterapia che c'erano sul tavolino della sua sala d'aspetto), perciò proseguì elencando solo le parti del corpo: «Sei il seno, sette le spalle, otto il collo...» S'interruppe per prendere fiato e si accorse con sollievo che il battito cardiaco non era più un galoppo sfrenato. Ora era una corsa vivace. «...nove il mento e dieci sono gli occhi. Occhi, spalancatevi!» Ubbidì alle proprie parole e la stanza riapparve intorno a lei nella sua luminosa esistenza, in parte nuova e, almeno per un attimo, quasi altrettanto accogliente quanto lo era stata quando vi aveva trascorso con Gerald la prima estate in coppia. Era ancora il 1979, un anno che aveva avuto, un tempo, un sapore di fantascienza e che adesso sembrava spaventosamente antico. Guardò le pareti grigie di legno, l'alto soffitto bianco con i riflessi del lago e le due grandi vetrate, ai lati del letto. Quella alla sua sinistra era rivolta a ovest e offriva una vista della terrazza, della china erbosa e del blu abbacinante del lago. Quella alla sua destra proponeva una vista meno romantica: il vialetto d'accesso e quella sua vecchia matrona grigia di una Mercedes, ora vecchia di otto anni e con le prime macchioline di ruggine sul battitacco. Di fronte a sé vedeva la farfalla di batik appesa alla parete sopra il comò e ricordò con superstiziosa assenza di stupore che era un regalo per il suo trentesimo compleanno da parte di Ruth. Non scorgeva la minuscola firma ricamata con filo rosso, ma sapeva in che angolo era: Neary, '83. Un altro anno da fantascienza. Non lontano dalla farfalla (e a farci decisamente a pugni, anche se non aveva mai trovato tutto il coraggio occorrente per farlo notare a suo marito), da un gancetto cromato pendeva il boccale dell'Alfa Gamma Ro di Gerald. La Ro non era una delle stelle più brillanti nel firmamento delle confraternite (spesso i suoi aderenti venivano ribattezzati Alfa Gamma Rospi), ma Gerald ne portava ancora il distintivo con una sorta di orgoglio perverso e teneva il boccale appeso alla parete e se ne serviva sempre per bere la sua prima birra estiva tutti gli anni, appena arrivava al lago in giugno. Era quel tipo di cerimoniale che qualche volta l'aveva spinta a chiedersi, molto prima degli eventi festaioli di oggi, se il giorno in cui aveva sposato Gerald fosse stata mentalmente in grado di intendere e volere. Qualcuno avrebbe dovuto darci un taglio, pensò con amarezza. Peccato non averlo fatto, perché guarda adesso com'è andata a finire.
Sulla poltrona dall'altra parte della porta del bagno vedeva la civettuola, corta gonna-pantalone e la camicetta senza maniche che aveva indossato in quella giornata d'autunno insolitamente calda; al pomello della porta era appeso il suo reggiseno. E attraverso il letto, d'incrocio alle sue gambe, a trasformarle in fili dorati la soffice peluria delle cosce, c'era una striscia di luce del sole del pomeriggio. Non il quadrato di luce che si disegnava quasi esattamente al centro del copriletto all'una e non il rettangolo che vi si adagiava sopra alle due; quella era una striscia ampia che presto si sarebbe assottigliata, e anche se un'interruzione nell'erogazione dell'energia elettrica aveva mandato in confusione il display della radiosveglia digitale del comò (lampeggiava le dodici con l'incrollabile cocciutaggine di un'insegna al neon), quella striscia di luce le diceva che si avvicinavano le quattro pomeridiane. Presto la striscia avrebbe cominciato a scivolare giù dal letto e allora avrebbe visto ombre negli angoli e sotto il tavolino a ridosso della parete. E mentre la striscia si sarebbe ridotta a un nastro sottile, scivolando dapprima per il pavimento e cominciando poi ad arrampicarsi sulla parete opposta, sempre più debole e opaca, quelle ombre avrebbero cominciato a strisciare fuori dai loro nascondigli e a espandersi per la camera come macchie d'inchiostro, mangiando la luce via via che crescevano. Il sole scendeva; un'ora ancora, una e mezzo al massimo, e avrebbe lambito l'orizzonte; non più di quaranta minuti dopo sarebbe stato buio. Quel pensiero non le provocò panico, non ancora almeno, ma posò una membrana di tetraggine sulla sua mente e un'atmosfera cupa di paura sul suo cuore. Si figurò sdraiata su quel letto, ammanettata, con Gerald morto sul pavimento poco distante e sotto di lei; s'immaginò ancora così nel buio, molte ore dopo che l'uomo con la sega a motore se ne fosse tornato alla sua casa bene illuminata, da sua moglie e dai suoi figli, e che il cane si fosse allontanato per altre mete, quando a farle compagnia sarebbe rimasta solo quella dannata gavia sul lago, solo quell'uccello e nient'altro. Il signore e la signora Burlingame a trascorrere un'ultima lunga notte insieme. Osservando il boccale per la birra e la farfalla di batik, improbabili vicini di casa tollerabili solo in una casa per una sola stagione, come quella, pensò a quanto era facile riflettere sul passato e altrettanto facile (ma molto meno piacevole) spingersi con la mente in diverse alternative possibili del futuro. Il difficile sembrava restare nel presente, ma riteneva che le convenisse mettercela tutta per riuscirci. Quella brutta situazione altrimenti sarebbe probabilmente precipitata in qualcosa di ancora più brutto. Non po-
teva contare su qualche deus ex machina che la togliesse da quell'impiccio, e quella era una fregatura, ma se fosse riuscita a cavarsi dai guai da sola, ne avrebbe tratto un premio: si sarebbe risparmiata l'imbarazzo di aspettare, quasi completamente nuda, che qualche aiuto sceriffo le togliesse le manette, le chiedesse che cosa diavolo era successo e contemporaneamente non perdesse l'occasione di una bella guardata al bel corpo bianco della neovedova. Si andavano frattanto sviluppando anche due effetti collaterali. Avrebbe dato non poco pur di non pensarci in quel momento, ma non poteva. Aveva bisogno di andare in bagno e aveva sete. Attualmente il bisogno di evacuare era più forte di quello di bere, ma era proprio il desiderio di un bicchier d'acqua a preoccuparla di più. Era ancora poca cosa, ma se non fosse riuscita a sfilarsi quelle manette e raggiungere un rubinetto, la situazione sarebbe cambiata in un modo al quale non le piaceva pensare. Sarebbe da ridere se morissi di sete a duecento metri dal nono lago del Maine in ordine di grandezza, pensò e scosse la testa. Ma no che non era il nono lago del Maine; che cosa diavolo aveva avuto in mente? Il nono lago in classifica era il Dark Score, quello dove si era recata con i genitori e suo fratello e sua sorella tanti anni prima. Molto prima delle voci. Molto prima... Lo troncò. Con forza. Era da tempo che non pensava più al Dark Score Lake e non aveva intenzione di cominciare adesso, con o senza manette. Meglio pensare alla sete. Che ci pensi a fare, gioia? È psicosomatico. Hai sete perché sai di non poter andare tranquillamente a bere un sorso. Molto semplice. No che non era semplice. Aveva litigato con suo marito e i due calci repentini che gli aveva sferrato avevano dato origine a una reazione a catena che aveva avuto come esito finale la sua morte. Lei subiva ora gli effetti di una secrezione ormonale di notevole entità. Il termine tecnico era choc e uno dei sintomi più comuni dello choc era la sete. Probabilmente doveva ritenersi fortunata di non avere la bocca ancora più secca e... E forse a questo posso porre rimedio. Gerald era la quintessenza dell'abitudine e una delle sue abitudini era di tenere un bicchiere d'acqua sul suo lato della mensola sopra la testata del letto. Torse il collo, sollevò la testa verso destra ed eccolo lì, c'era davvero, un bicchierone di acqua con un grappolino di cubetti di ghiaccio mezzo disciolti. Senza dubbio era posato su un sottobicchiere in modo da non lasciare un cerchio sulla mensola: Gerald era così attento alle piccole cose.
Perle di condensa erano distribuite sul vetro come gocce di sudore. Fu guardando quelle gocce che Jessie avvertì la prima fitta di sete autentica. Si leccò involontariamente le labbra. Si spinse sulla destra per quanto glielo concedeva la catena della manetta sinistra. In tutto erano solo quindici centimetri, ma ottenne comunque di spostarsi sul lato di Gerald. Il movimento le rivelò anche alcune macchie scure sul lato sinistro del copriletto. Le osservò un po' distrattamente per qualche istante prima di ricordare che Gerald aveva svuotato la vescica durante l'agonia. Poi girò nuovamente gli occhi al bicchiere di acqua, posato su un cerchio di cartoncino che probabilmente portava il marchio di qualche beveraggio da yuppie, Beck's o Heineken quasi certamente. Si spinse all'insù, piano piano, sperando di avere abbastanza gioco. Non l'aveva. La punta delle sue dita si fermò a sette centimetri dal bicchiere. La fitta di sete, una lieve contrazione in gola, un leggero dolore come di puntura alla lingua, venne e se ne andò di nuovo. Se non viene nessuno o se non trovo un modo per liberarmi prima di domani mattina, quel bicchiere non lo potrò nemmeno guardare. Quella considerazione era frutto di una fredda razionalità che era terrificante in sé. Ma era matematicamente impossibile che fosse ancora lì l'indomani mattina, questo era il punto. Era un'ipotesi assolutamente ridicola. Pazzesca. Da mentecatti. Impensabile. Era... Basta, le ordinò la voce sbrigativa. Vedi di smetterla. E lei così fece. Il fatto è che doveva affrontare la verità che quell'ipotesi non era assolutamente ridicola. Rifiutava di accettare o anche solo di prendere in considerazione l'eventualità di morire lì, quella sì che era da mentecatti, ma non poteva escludere che l'attendessero alcune ore lunghe e scomode, se non avesse strappato le ragnatele dalla sua vecchia macchinetta delle idee e non l'avesse messa in moto. Lunghe, scomode... e forse dolorose, aggiunse in tono nervoso la Brava Mogliettina. Ma il dolore servirà come atto di pentimento, no? In fondo sei stata tu a ficcarti in questo guaio. Spero di non essere noiosa, ma se tu gli avessi lasciato spruzzare il suo schizzetto... «Sei noiosa, Mogliettina», la interruppe Jessie. Non ricordava se avesse mai risposto a voce alta a uno di quei suoi interlocutori interiori. Si domandò se fosse un segno di pazzia. Concluse che non gliene importava un fico secco, non in quel momento. Chiuse gli occhi di nuovo.
4 Questa volta non fu il suo corpo, quello che visualizzò nell'oscurità dietro le palpebre, bensì la stanza intera. Ovviamente lei ne era ancora il fulcro, povera lei, sì, Jessie Mahout Burlingame, ancora un tantino sotto i quaranta, ancora abbastanza snella con i suoi cinquantasette chilogrammi per un metro e settanta di statura, con gli occhi grigi, capelli castani ramati (nascondeva il grigio, che aveva cominciato ad apparire cinque anni prima, con un lavaggio lucido ed era abbastanza sicura che Gerald non si fosse accorto di niente). Jessie Mahout Burlingame, che si era cacciata in quel guaio senza sapere bene come o perché. Jessie Mahout Burlingame, ora presumibilmente vedova di Gerald, ancora madre di nessuno, e legata a quel dannato letto con due paia di manette da poliziotto. Zoomò con la parte fantasiosa della sua mente su quell'ultimo particolare. Fra gli occhi chiusi le apparve una ruga di concentrazione. Quattro manette in tutto, ciascun paio distanziato da quindici centimetri di catena d'acciaio rivestita in gomma, ciascuna con M-17, un numero di serie, presumibilmente, inciso nell'acciaio della serratura. Ricordava che, quando il gioco era ancora nuovo, Gerald le aveva spiegato che ciascuna manetta aveva un braccio a tacche che la rendeva regolabile. Era anche possibile accorciare le catenelle in modo da stringere dolorosamente insieme le mani, polso contro polso, ma Gerald le aveva concesso benevolmente il massimo dell'estensione. E perché no, che diavolo? pensò ora. In fondo era solo un gioco... non è vero, Gerald? Ora però le tornò alla mente il suo interrogativo precedente e si domandò di nuovo se per Gerald fosse stato davvero solo un gioco. Cos'è una donna? bisbigliò un'altra voce, una voce da ufo, dal pozzo di tenebra che aveva in fondo all'animo. Il meccanismo di locomozione di una fica. Vattene, pensò. Vattene, non mi sei di nessun aiuto. Ma la voce ufesca ignorò il suo comando. Perché una donna ha una bocca e anche una fica? domandò invece. Così può pisciare e gemere in contemporanea. Qualche altra domanda, piccola signora? No. Data la sconcertante qualità surreale delle risposte, non aveva altre domande. Ruotò i polsi nelle manette. Strusciò la pelle contro il metallo e non seppe trattenere una smorfia, ma il dolore era minore e le mani ruotavano abbastanza agevolmente. Non sapeva se Gerald avesse ritenuto che l'unico scopo di una donna è quello di portare a spasso una fica, ma non
aveva comunque stretto le manette tanto da farle male; del resto si sarebbe opposta ancora prima di quel giorno, naturalmente (così disse a se stessa e nessuna delle sue voci interiori fu tanto maligna da contraddirla). Però erano troppo strette perché potesse sfilare le mani. O no? Diede una tiratina sperimentale. Le manette scivolarono all'insù lungo i polsi e le sue mani scesero, dopodiché i bracciali d'acciaio si bloccarono contro il complesso di osso e cartilagine nel punto in cui i polsi saldano la loro complicata e meravigliosa alleanza con le mani. Tirò più forte. Il dolore fu molto più intenso. Ricordò a un tratto la volta in cui papà aveva sbattuto lo sportello della vecchia familiare sulla mano sinistra di Maddy, per non essersi accorto che per scherzo Maddy aveva scelto di scendere dalla sua stessa parte. Che strilli! Si era rotta non ricordava bene che osso, ma ricordava Maddy che mostrava con orgoglio l'ingessatura e diceva: «Mi sono anche strappata il legamento posteriore». A lei e a Will era sembrata tutta da ridere perché sapevano che il posteriore era il sedere. Avevano riso e riso, più di stupore che di scherno, ma Maddy se n'era andata via immusonita, con la faccia buia come un temporale, dichiarando che avrebbe detto tutto a mamma. Legamento posteriore, pensò, aumentando la pressione e sopportando l'acuirsi del dolore. Legamento posteriore e qualcosa di radioulnare, non ricordo bene cosa, ma non ha importanza. Se non ti tiri fuori da queste manette, mi sa che ti conviene rassegnarti, gioia. Ci penserà qualche dottore a rimettere insieme i cocci. Incrementò lentamente la pressione, incitando mentalmente le manette a scivolare. Se solo fosse riuscita a spostarle di un pochino, mezzo centimetro forse sarebbe già stato sufficiente e un centimetro lo sarebbe stato quasi di sicuro. Passato il tratto più voluminoso alla base della mano, avrebbe agevolmente fatto scorrere gli anelli di metallo sui tessuti molli della parte superiore. Così almeno sperava. C'erano le ossa dei pollici, ma di quelle si sarebbe preoccupata a tempo debito. Tirò con più forza, schiudendo le labbra sui denti in una smorfia di dolore e concentrazione. Nelle braccia le erano affiorati i muscoli in piccoli rigonfiamenti bianchi. Il sudore cominciò a imperlarle la fronte, le guance, perfino la fossetta sotto il naso. Senza nemmeno accorgersi, spinse la punta della lingua all'insù per leccarsi quelle gocce. Il dolore era intenso, ma non fu quello a interrompere il suo tentativo. Si arrese invece più semplicemente per essersi resa conto di aver teso i mu-
scoli al massimo delle possibilità senza che le manette scivolassero di un solo millimetro più su di dove si trovavano. L'effimera speranza di spremersi facilmente fuori da quella pastoia morì in un ultimo palpito esangue. Sei proprio sicura di aver tirato più che puoi? Non è che stai cercando di accampare scuse perché fa troppo male? «No», rispose, sempre senza aprire gli occhi. «Più di così non posso tirare. Lo giuro.» Ma l'altra voce rimase, più sotto forma di rappresentazione grafica che di onde sonore, un po' come un punto di domanda in un fumetto. Dove l'acciaio aveva morsicato le carni, c'erano profondi solchi nei polsi, vicino alla base del pollice, attraverso il dorso e sopra le delicate nervature azzurre delle vene, e i polsi continuarono a pulsare dolorosamente anche dopo che ebbe smesso di tirare e anche quando sollevò le mani fino ad aggrapparsi alle stecche della testata. «Mio Dio», mormorò con la voce scossa. «Se non è il colmo questo.» Allora, aveva tirato più che poteva? Poteva affermarlo con certezza? Non importa, pensò, guardando i riflessi del lago tremolare sul soffitto. Non importa e ti spiego perché: posto anche che potessi tirare di più, mi ritroverei con tutti e due i polsi ridotti come quello sinistro di Maddy, quando restò con la mano chiusa nella portiera. Fratture, legamenti posteriori che saltano come elastici, e quella cosa radioulnare che esplode come un piattello al tiro a segno. L'unico cambiamento sarebbe che invece di essere bloccata qui incatenata e assetata, resterei bloccata qui incatenata, assetata e con due polsi fratturati per buona misura. Senza dimenticare che si gonfierebbero. Conclusione: Gerald è morto prima di potermi montare in groppa, eppure questa volta mi ha fottuta meglio del solito. Benissimo, allora che alternative c'erano? Nessuna, rispose la Brava Mogliettina Burlingame nel tono liquido di una donna che è a una goccia dal cedere totalmente. Aspettò di sentire se l'altra voce, quella di Ruth, aveva intenzione di dire la sua. Non la udì. Per quanto ne sapeva, Ruth nuotava nel serbatoio dell'acqua potabile dell'ufficio insieme con le altre cavie. In ogni caso, l'abdicazione di Ruth la costringeva ad arrangiarsi. Va bene, allora, arrangiati, pensò. Che idea hai per le manette, ora che hai accertato che è impossibile sfilartele? Che cosa pensi di fare? Ci sono due bracciali per ciascuna coppia, osservò un po' titubante la voce giovane, quella a cui ancora non era riuscita a dare un nome. Hai cercato di tirare le mani fuori dagli anelli che hai ai polsi e non ha funziona-
to... ma perché non provi con gli altri? Quelli chiusi intorno ai montanti del letto. Ci hai pensato? Schiacciò la nuca nel guanciale e inarcò il collo per vedere la testata e i montanti. Nemmeno si accorse che guardava alla rovescia. Il letto non era di quelli grandi, era un matrimoniale alla francese, con uno di quei nomi buffi come Court Jester o Chief Lady-in-Waiting, non ricordava più bene, ma è un fatto che con il trascorrere degli anni le era sempre più difficile tenere a mente dettagli di quel genere; c'era da stabilire se il fenomeno andava classificato come buonsenso o senilità galoppante. In ogni caso il letto su cui si trovava ora andava benissimo per scopare ma era un po' troppo piccolo per passarci la notte comodamente in due. Per lei e Gerald non era stato comunque un problema, dato che lì e anche a Portland dormivano in camere separate da cinque anni. La decisione era stata sua, si era stancata di sentirlo russare, ogni anno un po' più forte di quello precedente. Nelle rare occasioni in cui avevano avuto ospiti per la notte, avevano dormito insieme, scomodamente, in quella stanza, altrimenti avevano condiviso quel letto solo per i loro incontri sessuali. E il fatto che russasse non era stato il vero motivo della sua decisione di dormire altrove, ma sicuramente era stato il più diplomatico. La ragione vera era di carattere olfattivo. Il fastidio che aveva provato inizialmente per il sudore notturno di suo marito si era consolidato in ribrezzo. Anche se faceva la doccia prima di coricarsi, entro le due di notte cominciava a emettere dai pori l'odore acre dello scotch che beveva. Fino all'inizio di quell'anno era diventato abituale che dopo un accoppiamento sempre più meccanico seguisse un periodo di torpore (che per lei era diventato il momento migliore), dopodiché faceva la doccia e l'abbandonava. Da marzo però c'erano state delle innovazioni. Foulard e manette, e specialmente queste ultime, spossavano Gerald come non gli era mai successo con le normali sgroppate del passato e spesso piombava al suo fianco in un sonno profondo. Se non le era di eccessivo disturbo, lo doveva al fatto che i loro incontri avvenivano nel pomeriggio e il sudore di Gerald aveva un odore normale e non le ricordava il whisky annacquato. Anzi, a ben pensarci non russava nemmeno più di tanto. Ma tutti quegli incontri pomeridiani con foulard e manette sono avvenuti nella casa di Portland, pensò. Abbiamo passato qui quasi tutto luglio e una parte di agosto, ma le volte che abbiamo fatto l'amore, non molte per la verità, ci siamo limitati alla routine più ordinaria, Tarzan di sopra e Jane di sotto. Oggi è stata la prima volta che abbiamo giocato. Chissà
perché... Forse era per via delle finestre, che erano troppo alte e montate in modo tale da non accettare le tende. E per quanto Gerald non avesse fatto che ripetere che dovevano trovare una soluzione, per un motivo o un altro non si erano mai decisi a sostituire i normali vetri trasparenti con lastre riflettenti, e sì che l'aveva tirato fuori anche... be'... Anche oggi, finì la Mogliettina e Jessie ne benedisse il tatto. E hai ragione, era probabilmente per via delle finestre. Non gli andava l'idea di un'improvvisata di Fred Laglan e Jamie Brooks che venissero a chiedergli se voleva fare due tiri a golf e lo trovassero a sbattersi la signora Burlingame agganciata al letto con un paio di manette. Una storia del genere avrebbe fatto il giro del vicinato. Fred e Jamie sono dei bravi ragazzi, probabilmente... Due molluschi di mezza età, se dai retta a me, intervenne con asprezza Ruth. ...ma sono esseri umani anche loro e una storia così sarebbe stata troppo succulenta. E c'è un'altra cosa, Jessie... Non la lasciò finire. Non era un concetto che voleva sentire articolato da quella voce gradevole, sì, ma fastidiosamente leziosa. Era possibile che Gerald non le avesse mai proposto di giocare nella casa del lago per il timore di qualche balordo che venisse ad appollaiarsi in terrazza. Quale balordo? Diciamo che per esempio una parte di Gerald fosse davvero convinta che una donna è solo un meccanismo di deambulazione per una fica... e che un'altra parte di lui, quella che potremmo definire la sua «parte migliore», in mancanza di un termine più preciso, ne fosse consapevole. Può darsi che quella parte avesse paura che una volta o l'altra la situazione degenerasse. Del resto, non è andata proprio così? Su quel punto era difficile obiettare. Se quella non era una situazione degenerata, non avrebbe saputo come altrimenti definirla. Si sentì pervadere da un misto di nostalgia e tristezza e dovette resistere all'impulso di guardare per terra, dove giaceva Gerald. Non sapeva se provasse cordoglio per il marito morto, ma sapeva che se così fosse stato, era il momento sbagliato. Però era bello ricordare qualcosa di buono dell'uomo con cui aveva trascorso tanti anni, e il ricordo di come certe volte dopo aver fatto l'amore si addormentava al suo fianco era un bel ricordo. Non le piacevano i foulard e aveva finito con l'odiare le manette, ma le era piaciuto vederlo assopirsi, le era piaciuto vedere la sua larga faccia rosea distendersi piano piano.
E in un certo senso anche ora stava dormendo accanto a lei... non e vero? L'idea le raggelò persino la pelle delle cosce, dove giungeva la striscia sempre più stretta di luce solare. Accantonò quella riflessione, o almeno tentò di farlo, e tornò a studiare la testata del letto. I montanti erano inseriti nella struttura leggermente all'interno del telaio, così che le sue braccia erano sì divaricate, ma non tanto da obbligarla a una posizione troppo scomoda, specialmente tenendo conto dei quindici centimetri di gioco che le garantivano le catenelle delle manette. Fra i montanti c'erano quattro stecche di mogano disposte orizzontalmente. Il legno era ornato da una semplice incisione ondeggiante. Una volta Gerald aveva proposto di incidere nella stecca centrale le loro iniziali, aveva detto di conoscere a Tashmore Glen un uomo che avrebbe volentieri accettato di eseguire quel compito, ma lei aveva gettato subito acqua sul fuoco. Le sembrava una forma di esibizionismo alquanto infantile, come quando i piccoli innamorati incidono cuoricini sui banchi di scuola. La mensola era distanziata dal letto quanto bastava perché non accadesse che qualcuno vi urtasse la testa drizzandosi improvvisamente a sedere. Su di essa c'erano il bicchiere d'acqua di Gerald, un paio di tascabili rimasti dall'estate scorsa e, dalla sua parte, un piccolo assortimento di cosmetici. Anche quelli erano avanzati dall'estate e probabilmente si erano inariditi. Un vero peccato: niente conforta una donna ammanettata meglio di un po' di Country Morning Rose Blusher. C'era scritto su tutte le riviste femminili. Sollevò le mani lentamente, spingendo le braccia un po' lateralmente in maniera da non toccare con i pugni il lato inferiore della mensola. Continuò a mantenere la testa rovesciata all'indietro per vedere che cosa accadeva in fondo alle catenelle. Gli anelli metallici erano chiusi intorno al montante fra la seconda e la terza stecca orizzontale. Quando alzò le mani come se spingesse verso l'alto un invisibile bilanciere, le manette risalirono lungo i montanti fino a toccare l'assicella superiore. Se avesse potuto togliere quella stecca e quella che c'era sopra di essa, avrebbe potuto sfilare tranquillamente le manette dai montanti. Voilà. Troppo bello per essere vero, probabilmente, troppo facile per essere vero, cara mia, ma niente ti impedisce di provare. Sarà comunque un modo di ammazzare il tempo. Chiuse le mani sulla stecca orizzontale che in quel momento impediva alle manette di salire più su, lungo i montanti. Trasse un respiro profondo, trattenne il fiato e tirò. Uno strattone energico le fu sufficiente per capire
che anche quella via era senza speranza; fu come cercare di estrarre da un muro di cemento un tondino dell'armatura. Non avvertì il minimo cedimento. Potrei stare a tirare per dieci anni senza muoverlo di un niente, altro che strapparlo al montante, pensò e lasciò ricadere le mani, rimanendo di nuovo con le braccia appese alle catenelle. Le scappò un lamento di disperazione. Le sembrò di sentire il verso di una cornacchia assetata. «Cosa faccio?» chiese ai riflessi sul soffitto e finalmente si abbandonò a lacrime di disperazione e spavento. «Cosa diavolo posso fare?» Come in risposta, il cane riprese ad abbaiare e questa volta era così vicino da strapparle un grido di paura. Sembrava che fosse appena fuori della finestra a est, sul vialetto d'accesso. 5 Il cane non era nel vialetto, era ancora più vicino. L'ombra che si allungava sull'asfalto fin quasi al paraurti anteriore della Mercedes stava a significare che era sulla veranda posteriore. L'ombra allungata sembrava appartenere a un cane mostruoso e deforme, di quelli che si esibiscono nei baracconi delle stranezze della natura, e provocò in lei una ripugnanza immediata. Non essere così sciocca, si rimproverò. L'ombra fa quell'effetto perché il sole è molto basso. Ora apri la bocca e fai chiasso, ragazza. Non c'è scritto da nessuna parte che è randagio. Molto vero, non si poteva affatto escludere che ci fosse anche il padrone del cane da qualche parte nelle vicinanze, ma restava un'ipotesi assai magra di speranze. Era probabile che il cane fosse stato attratto dal cassonetto dei rifiuti che c'era vicino alla porta. Era un bel manufatto, con assicelle di cedro come copertura e due chiavistelli a bloccare il coperchio. Gerald l'aveva spesso definito la loro calamita per procioni. Quella volta aveva attirato un cane invece di un procione, quasi sicuramente un cane randagio. Un vagabondo denutrito e scalognato. Ma doveva provare lo stesso. «Ehi!» gridò. «Ehi! C'è nessuno? Ho bisogno di aiuto! C'è nessuno lì fuori?» Il cane smise di abbaiare all'istante. La sua ombra smagrita e distorta sussultò, s'avvitò su se stessa, cominciò a muoversi... e si fermò di nuovo. Durante il viaggio da Portland, lei e Gerald avevano mangiato sandwich in
macchina, bisunti tramezzini di salame e formaggio, e la prima cosa che aveva fatto al loro arrivo era stato radunare avanzi e incarti e buttarli nel cassonetto. Era stato probabilmente l'odore forte del grasso del salame ad attirare l'interesse del cane, e indubbiamente era stato quello a trattenerlo dal darsi alla fuga appena la ebbe sentita gridare. Quell'odore vinceva sull'istinto del suo cuore di animale. «Aiuto!» gridò Jessie e la mente cercò di avvertirla che probabilmente mettersi a gridare era un errore, che sarebbe riuscita solo a sgolarsi aumentando la sete, ma era una voce razionale che non avrebbe mai potuto ricevere ascolto. Aveva fiutato il tanfo della propria paura, forte e avvincente per lei quanto quello degli avanzi di sandwich lo era per il cane, e rapidamente la risucchiava in uno stato che non era solo di panico, ma confinava con una sorta di follia temporanea. «Aiuto! Qualcuno mi aiuti! Aiuto! Aiuto! Aiutooo!» Finalmente le si ruppe la voce e girò la testa quanto più poteva verso destra, con i capelli incollati alle guance e alla fronte in scomposti riccioli sudati, gli occhi fuori dalle orbite. La paura di essere rinvenuta ammanettata al letto, quasi totalmente nuda, con il marito che giaceva morto per terra al suo fianco, aveva cessato di occupare un posto significativo nella sua mente. Quell'ultimo attacco di panico somigliava a un'eclisse mentale, filtrava la luce brillante della ragione e della speranza e le permetteva di gettare uno sguardo sulle eventualità più orrende: inedia, follia indotta dalla sete, convulsioni, morte. Non era Heather Locklear o Victoria Principal, e quello non era un film scritto per un'emittente via cavo. Non c'erano telecamere, non c'erano riflettori, non c'era un regista a ordinare la fine della ripresa. Stava succedendo e, se nessuno l'avesse soccorsa, avrebbe potuto continuare a succedere fino a quando avrebbe cessato di esistere come forma vivente. Liberatasi una volta per sempre dalle preoccupazioni per le circostanze della sua detenzione, era arrivata al punto in cui avrebbe volentieri accolto Maury Povich e tutto il cast di A Current Affair con tanto di lacrime di gratitudine. Ma nessuno rispose ai suoi richiami affranti, nessun custode che passasse da quelle parti a controllare le residenze lungo il lago, nessun curioso a spasso con il cane (magari spinto dal desiderio di scoprire quale dei suoi vicini coltivasse una pianticella di marijuana tra i sospiri dei pini). E meno che mai Maury Povich. C'era solo quell'ombra lunga e un po' sinistra, che la faceva pensare a un'incredibile incrocio di cane e ragno, in equilibrio instabile su quattro zampette sottili e febbrili. Trasse un respiro profondo e
tremante e cercò di ristabilire il controllo sulla sua mente incostante. Sentiva la gola calda e secca, il naso fastidiosamente bagnato e otturato di lacrime. E adesso? Non sapeva rispondere. Le pulsava nella testa una delusione al momento troppo grande per lasciare posto a qualcosa di simile a riflessioni costruttive. L'unica cosa di cui si sentiva completamente sicura era che il cane non contava niente. Se ne sarebbe rimasto sulla veranda posteriore per un po' e se ne sarebbe andato quando avesse capito che l'odore che lo aveva attirato proveniva da un boccone inaccessibile. Mandò un gemito gutturale, pieno di infelicità, e chiuse gli occhi. Da sotto le ciglia sgorgarono le lacrime che le scivolarono lentamente lungo le guance. Nel sole del tardo pomeriggio sembravano stille di oro liquido. E adesso? domandò di nuovo. Fuori soffiò il vento facendo bisbigliare i pini e sbattere la porta. E adesso, Brava Mogliettina? E adesso, Ruth? E adesso, tutti voi altri ufo assortiti e compagnia bella? Nessuno di voi, nessuno di noi, ha qualche idea? Ho sete, ho bisogno di fare pipì, mio marito è morto e il mio unico compagno è un cane dei boschi la cui idea di paradiso si traduce negli avanzi di un supertramezzino di salame e formaggio comprato da Amato in quel di Gorham. Fra poco concluderà che il destino ha decretato che del paradiso abbia a godere solo del profumo e allora andrà via. Dunque... e adesso? Nessuna risposta. Tutte le voci interiori rimasero in silenzio. Non era una cosa buona, perché almeno le tenevano compagnia, ma intanto se n'era andato anche il panico, lasciando solo il suo retrogusto metallico, e questa era una cosa buona. Dormirò un po ', pensò, sorpresa di scoprire che era in grado di farlo tranquillamente, se lo avesse voluto. Dormirò per un po' e quando mi sveglierà può darsi che mi venga un'idea. Come minimo, me ne starò per qualche tempo lontana dalla paura. Le piccole rughe della tensione agli angoli degli occhi chiusi e le due più marcate fra le sopracciglia cominciarono a distendersi. Sentiva che cominciava ad assopirsi. Si lasciò scivolare verso quel rifugio su un'onda di sollievo e gratitudine. Quando il vento soffiò di nuovo le sembrò distante, e ancora più lontano fu il rumore irrequieto della porta che sbatteva: bangbang, bang-bang, bang. Il respiro, che diventava più profondo e lento a mano a mano che si appisolava, s'arrestò all'improvviso. Spalancò gli occhi. In un primo momen-
to l'unica emozione di cui fu cosciente, nello smarrimento di chi è stato bruscamente strappato dal sonno, fu di contrarietà: ce l'aveva quasi fatta, maledizione, e poi quella stupida porta... Sì? Quella stupida porta, cosa? Avanti, sentiamo. Quella stupida porta non aveva completato la sua normale serie di rintocchi, ecco che cosa. Poi, come se il rumore fosse stato evocato da quel pensiero, sentì distintamente il ticchettare delle unghie del cane sul pavimento dell'ingresso. Il cane randagio aveva varcato la soglia della porta rimasta aperta. Era in casa. La sua reazione fu istantanea e precisa. «Fuori!» urlò. Non si accorse che la tensione aveva dato alla sua voce una roca inflessione da sirena da nebbia. «Fuori, schifoso! Mi hai sentito? Fuori dalla mia casa!» S'interruppe con il fiato grosso e gli occhi sgranati. Le sembrava di avere la pelle intessuta di fili di rame caricati di elettricità; i due o tre strati superiori formicolavano. Sentì distrattamente i peli sotto la nuca, dritti come aculei di porcospino. L'idea del sonno era cancellata totalmente. Udì un convulso arrancare di unghie di cane sul pavimento dell'ingresso... poi più niente. Devo averlo spaventato. Probabilmente l'ho spedito fuori di filato. Un randagio come quello non può non aver paura delle persone e delle case private. Non so, gioia, ribatté la voce di Ruth. Era carica di una perplessità insolita. Non vedo la sua ombra nel vialetto. Per forza, probabilmente se l'è battuta passando dall'altra parte e puntando direttamente al bosco. O giù verso il lago. Con addosso una fifa della malora e al gran galoppo. Perché, secondo te non ha senso? La voce di Ruth non rispose. Non si fece sentire nemmeno quella della Brava Mogliettina, anche se a quel punto Jessie avrebbe gradito un commento, da qualunque parte le venisse. «Sì, l'ho scacciato», concluse. «Ne sono sicura.» Restò però con l'orecchio teso, ad ascoltare con tutte le forze, sentendo solo il pulsare del sangue nella testa. Almeno per ora. 6 Non lo aveva spaventato. È vero che aveva paura delle persone e delle abitazioni, su questo Jessie aveva visto giusto, ma aveva sottovalutato la sua condizione disperata. Il nome che aveva avuto in passato, Prince, era ormai una maligna ironia
della sorte. Nelle lunghe e affamate esplorazioni compiute durante l'autunno nei paraggi del Kashwakamak, aveva incontrato numerosi cassonetti come quello dei Burlingame e non aveva impiegato molto per decidere di trascurare l'odore del salame, formaggio e olio di oliva. Era un profumo stimolante, ma le lezioni amare dell'esperienza avevano insegnato all'ex Prince che proveniva da un cibo per lui irraggiungibile. Però c'erano altri odori; gliene arrivava una zaffata alle narici ogni volta che il vento spingeva la porta rimasta aperta. Erano odori più deboli di quelli che provenivano dal cassonetto e la fonte si trovava all'interno della casa, ma erano troppo allettanti perché potesse ignorarli. Il cane sapeva che probabilmente sarebbe stato scacciato dai padroni urlanti che lo avrebbero inseguito e preso a calci con i loro piedi sconosciuti e duri, ma gli odori erano più forti della sua paura. C'era forse qualcosa che gli avrebbe ricacciato in gola la sua terribile fame, ma ancora non conosceva le armi da fuoco. Ne avrebbe avuto occasione se fosse sopravvissuto fino alla stagione della caccia al cervo, ma mancavano ancora due settimane e per ora il pericolo peggiore che poteva immaginare era quello di esseri umani urlanti, armati di piedi duri e dolorosi. S'intrufolò in casa quando il vento aprì la porta e trottò nell'ingresso... senza spingersi troppo oltre. Era pronto a battere in frettolosa ritirata nell'istante in cui il pericolo si fosse materializzato. Le orecchie gli dicevano che l'abitante di quella casa era femmina e che si era accorta della sua presenza perché gli aveva urlato di andarsene, ma l'emozione che il randagio aveva sentito nella voce alterata della femmina era paura e non collera. Dopo un primo sussulto di spavento, si era fermato. Aveva aspettato che qualche altro padrone unisse la propria voce agli schiamazzi della femmina o arrivasse di corsa, e quando ciò non accadde, allungò il collo e fiutò l'aria un po' stantia dell'abitazione. Girò dapprima a destra, in direzione della cucina. Era da quella parte che erano giunti gli sbuffi fragranti, emessi a ogni sbattere di porta. Erano odori secchi ma piacevoli: burro d'arachide, cracker, uva passa, cereali (l'odore di questi saliva da una scatola di Special K posta in uno degli armadietti, una scatola nel cui fondo un topo di campagna affamato aveva scavato un buco). Fece un passo in quella direzione, poi girò di nuovo la testa dall'altra parte per accertarsi che non stesse per saltargli addosso qualche padrone. Nella maggior parte dei casi i padroni si mettevano a sbraitare, ma ce n'e-
rano anche di più subdoli. Non c'era nessuno nel corridoio che poggiava sulla sinistra, ma da quella direzione gli giunse un aroma molto più intenso, che gli accartocciò lo stomaco in un crampo di voglia irresistibile. S'incamminò per il corridoio con gli occhi luccicanti di un misto di paura e desiderio, con il muso tutto raggrumato all'indietro come un tappetino spiegazzato e il lungo labbro superiore che si sollevava e ricadeva nervosamente, rivelando a tratti il bianco balenio dei denti. Un getto di orina ansiosa schizzò sul pavimento, marcando l'ingresso, e pertanto tutta quanta la casa, come suo territorio. Lo scroscio fu troppo sommesso e breve perché l'udito teso di Jessie potesse registrarlo. L'odore che sentiva era di sangue. Era un odore insieme forte e sbagliato. Alla lunga, la fame estrema ebbe il sopravvento: o mangiava al più presto o sarebbe morto. L'ex Prince s'incamminò lentamente lungo il corridoio verso la camera da letto. Via via che avanzava, l'odore diventava più forte. Sì, era sangue, ma del tipo sbagliato. Era il sangue di un padrone. Ciononostante era troppo saporito e irresistibile perché non penetrasse nel suo piccolo cervello disperato. Continuò ad avanzare e, mentre si avvicinava alla porta della camera da letto, cominciò a ringhiare. 7 Jessie sentì il ticchettio delle unghie del cane e capì che era davvero ancora in casa e che stava venendo dalla sua parte. Cominciò a gridare. Sapeva che era probabilmente la peggior cosa da fare, andava contro tutti i buoni consigli che aveva ascoltato su come non bisogna mai mostrare di aver paura a un animale potenzialmente pericoloso, ma non seppe trattenersi. Aveva un'idea troppo precisa di che cosa stesse attirando il randagio verso la camera da letto. Sollevò le gambe, usando le manette come leva per ritrarsi verso la testata. I suoi occhi non abbandonarono mai la porta che dava in corridoio. Ora sentiva il ringhio. Quel suono le sciolse le viscere, calde e liquide. Il cane si fermò sulla soglia. Lì le ombre avevano già cominciato ad addensarsi e per Jessie era solo una sagoma vaga, non molto alta sul pavimento. Una sagoma piccola, ma nemmeno tanto da poter essere quella di un barboncino o di un chihuahua. Due spicchi color arancione di luce solare riflessa marcavano i suoi occhi. «Vattene!» strillò Jessie. «Sciò! Via! Non... non ti voglio qui!» Ecco, quelle erano parole davvero ridicole... ma date le circostanze, che cosa non
avrebbe fatto ridere? Facile che prima o poi gli chieda di prendermi per piacere le chiavi sul comò, pensò. Notò un movimento dietro l'ombra ferma sulla soglia. Aveva cominciato a scodinzolare. In uno sdolcinato romanzo sentimentale probabilmente avrebbe significato che il cane randagio aveva scambiato la voce della donna a letto con la voce di un'amata padroncina perduta da tempo. Jessie non era così ingenua. I cani non scodinzolano solo quando sono felici; come anche i gatti, muovono la coda anche quando sono indecisi, quando stanno valutando una situazione. Non si era scomposto più di tanto al suono della sua voce, tuttavia non si fidava neanche della penombra di quella stanza. Non ancora. L'ex Prince ancora non conosceva le armi da fuoco, ma aveva imparato molte altre dure lezioni nelle sei settimane trascorse dall'ultimo giorno di agosto. Quello era il giorno in cui il signor Charles Sutlin, avvocato di Braintree, Massachusetts, l'aveva abbandonato a morire nei boschi piuttosto che riportarlo a casa e pagare una duplice tassa che fra statale e municipale ammontava a settanta dollari. Settanta dollari per un quattrozampe che non valeva più di un bastardetto buono per la pubblicità della Heinz erano un bel mazzetto di banconote, secondo Charles Sutlin. Un po' troppo spesso. Giusto in giugno si era comperato un cabinato, un acquisto nell'ordine delle cinque cifre, ed era facile affermare che ci voleva una mentalità distorta per paragonare il prezzo della barca con la tassa per il cane, d'accordo, chiunque avrebbe potuto affermarlo, ma non era quello il punto. Il punto era che il cabinato era un acquisto programmato. Quell'acquisto in particolare era già da due anni o più nell'agenda del vecchio Sutlin. Il cane invece era stato uno di quegli acquisti lì per lì, a una bancarella di verdure di Harlow. Non l'avrebbe mai comperato se non avesse avuto la figlia al seguito, la quale si era invaghita del cucciolo. «Quello, papà!» aveva esclamato. «Quello con la macchia bianca sul naso, quello tutto solo come un principino.» Così le aveva comperato il cucciolo (e che nessuno avesse mai a dire che non sapeva come far felice la sua bambina), ma settanta dollari (magari anche cento se Prince fosse stato catalogato nella classe B, quella dei cani di taglia superiore) erano un bel salasso per un bastardino che non aveva da presentare in allegato nemmeno un pezzettino di carta. Troppo, aveva deciso il signor Charles Sutlin, alla vigilia del giorno in cui chiudere il cottage sul lago fino alla stagione prossima. Riportarlo a Braintree sul sedile posteriore della Saab sarebbe stato un altro fastidio non indifferente: avrebbe pisciato dappertutto, peggio ancora avrebbe magari
vomitato o defecato sui tappetini. D'accordo, avrebbe potuto comperargli un Vari-Kennel, ma quella specie di casette da bambole cominciavano a 29 dollari e 95 e da lì salivano a livelli stratosferici. E poi Prince non sarebbe mai stato felice in un canile. Sarebbe stato molto più felice se avesse potuto vivere in piena libertà, avendo per regno tutti i boschi settentrionali. Sì, si era detto l'ultimo giorno di agosto Sutlin mentre fermava la macchina in un tratto disabitato di Bay Lane e invitava con voce suadente il cane a scendere dal sedile posteriore. Il bravo Prince aveva il cuore di un allegro vagabondo, bastava guardarlo un attimo per capirlo. Sutlin non era un uomo stupido e sotto sotto sapeva che si stava somministrando un mucchio di fesserie, d'altra parte si sentiva anche inebriato dall'idea in sé. Rimontando in macchina e andandosene dopo aver lasciato Prince ai bordi della strada a guardarlo, fischiettava il tema di Nata libera, interrompendosi di tanto in tanto per buttar là qualche parola che ancora ricordava. Quella notte aveva dormito bene, senza alcun dubbio sulla sorte di Prince (in procinto di diventare l'ex Prince), il quale trascorse la medesima notte raggomitolato sotto un albero caduto, a rabbrividire e vegliare e patire la fame, e a guaire di paura ogni volta che sentiva il chiurlo di una civetta o il frusciare di un animale nella boscaglia. Ora il cane che Charles Sutlin aveva abbandonato sul tema di Nata libera era fermo sulla soglia della camera da letto padronale nella residenza estiva dei Burlingame (il cottage di Sutlin era dall'altra parte del lago e le due famiglie non si erano mai conosciute, oltre a qualche cenno di saluto da lontano al porticciolo nelle ultime tre o quattro estati). A testa bassa, con gli occhi spalancati e il pelo arruffato, non sapeva di ringhiare in continuazione, tutto concentrato com'era sulla stanza. Un istinto ancestrale gli diceva che presto l'odore del sangue avrebbe sconfitto ogni prudenza. Prima che accadesse, doveva assicurarsi al meglio che non fosse una trappola. Non voleva essere sorpreso da padroni con piedi duri e dolorosi, né da quelli che preferivano raccogliere dal suolo pezzi di terra dura e scagliarglieli addosso. «Vai via!» cercò di gridare Jessie, ma la voce le uscì di bocca debole e tremante. Non sarebbe riuscita a scacciare il cane gridando; quel bastardo aveva capito chissà come che non poteva alzarsi dal letto per fargli del male. Non è possibile che stia succedendo, pensò. Come può essere quando solo tre ore fa ero seduta sulla Mercedes con la cintura allacciata ad ascoltare i Rainmakers all'autoradio e a rammentare a me stessa di dare
un'occhiata a che cosa davano al cinema locale, nel caso avessimo deciso di passare la notte qui? Come può essere che mio marito sia morto quando cantavamo in coro con Bob Walkenhorst? «Un'altra estate», cantavamo, «un'altra occasione, un ultimo assaggio d'amore.» Conosciamo tutti e due le parole, perché è un gran bel pezzo, e stando così le cose, com 'è possibile che Gerald sia morto? Com'è possibile che si sia passati da quella situazione a questa? Spiacenti, cari miei, ma questo non può essere che un sogno. È troppo assurdo perché sia realtà. Il cane randagio cominciò a entrare lentamente nella stanza, con le gambe irrigidite dalla diffidenza, la coda abbassata, gli occhi grandi e neri, le labbra arricciate su una batteria intera di denti. Concetti come quello di assurdità gli erano totalmente estranei. L'ex Prince, con cui aveva giocato allegramente Catherine Sutlin di otto anni (almeno finché non aveva ricevuto una bambola Cabbage Patch di nome Marnie per il suo compleanno e aveva temporaneamente perso ogni interesse per lui), era in parte labrador e in parte collie, una mistura che non ne faceva nemmeno lontanamente un bastardo. Quando Sutlin lo aveva abbandonato in Bay Lane alla fine di agosto, pesava trentotto chili e aveva un bel mantello, lucido e liscio di salute, di una mescolanza di marrone e nero tutt'altro che sgradevole (con una pregiata pettorina bianca da collie che dal petto gli saliva fin sotto il muso). Ora non arrivava ai venti chilogrammi e a passargli una mano sul fianco si sarebbero sentite le costole a una a una, per non parlare del battito del suo cuore, rapido come per una febbre. Il mantello era opaco, disordinato, sudicio e disseminato di capolini di lappa. Gli zigzagava giù per una gamba una cicatrice ancora rosea di fresca rimarginatura, souvenir di una fuga affannata sotto un recinto di filo spinato, e dal muso gli sporgevano come baffi storti alcuni aculei di porcospino. Aveva trovato il porcospino morto sotto un ceppo una decina di giorni prima, ma aveva rinunciato dopo la prima musata di aculei. Aveva fame, ma non fino a quel punto di disperazione. Ora la disperazione della fame era al colmo. L'ultimo pasto era stato a base di qualche resto imputridito strappato con i denti a un sacchetto di rifiuti nel fossato lungo la Route 117 ed era stato due giorni prima. Il cane che aveva imparato alla svelta a riportare a Catherine Sutlin una palla rossa di gomma quando lei la faceva rotolare sul pavimento del soggiorno fin nel corridoio, stava ora letteralmente morendo di fame. Sì, ma qui, proprio qui, per terra, che spettacolo! Sul pavimento davanti a lui c'erano chili e chili di carne fresca, di grasso e di ossa piene di dolce
midollo. Sembrava un dono del Dio dei Randagi. L'ex prediletto di Catherine Sutlin continuò ad avanzare verso il cadavere di Gerald Burlingame. 8 Non sta per succedere, si disse Jessie. Non è possibile, dunque non perdere la calma. Continuò a ripeterselo fino al momento in cui la metà anteriore del cane scomparve alla sua vista dietro il lato sinistro del letto. Allora la coda prese ad agitarsi più vivace che mai e poi ci fu un rumore che riconobbe, il rumore di un cane che beve da una pozzanghera in una calda giornata d'estate. Solo che non era esattamente lo stesso rumore. Questo era in un certo senso più rozzo, non quello di una lingua che lambisce, ma di una lingua che lecca. Fissò la coda in movimento e la sua mente le disegnò all'improvviso quello che l'angolo del letto nascondeva ai suoi occhi. Quel cane vagabondo con il pelo cosparso di, lappe e gli occhi stanchi e irrequieti stava leccando il sangue fra i capelli radi di suo marito. «No!» Sollevò le natiche dal letto e ruotò le gambe a sinistra. «Stai lontano da lui! Vattene!» Sferrò un calcio con entrambi i piedi e sfiorò con un tallone i nodi sollevati della colonna vertebrale del cane. L'animale si ritrasse all'istante e sollevò il muso, con gli occhi così grandi da lasciar vedere i delicati anelli di bianco. Aprì le fauci e nella luce morente del pomeriggio i sottili fili di saliva che sembravano di ragnatela si allungarono fra gli incisivi superiori e inferiori come trame d'oro filato. Allungò il collo di scatto sul suo piede nudo. Jessie lo ritrasse con un grido, avendo avvertito l'alito caldo contro la pelle ma avendo salvato le dita. Ripiegò di nuovo sotto di sé le gambe senza accorgersi di farlo, senza sentire le proteste dei muscoli nelle spalle provate, senza sentire le articolazioni muoversi con riluttanza nei loro alvei ossei. Il cane la guardò ancora per un momento, continuando a digrignare, minacciandola con gli occhi. Vediamo di intenderci, signora, dicevano quegli occhi. Tu fai le faccende tue e io le mie. Stiamo d'accordo così. Ti va bene? È meglio, se ti va bene, perché se mi intralci, t'incasino. E poi è morto, lo sai benissimo tu quanto lo so io, e perché lasciarlo andare alla malora quando io sto morendo di fame? Faresti lo stesso anche tu. Dubito che adesso te ne renda conto, ma ho idea che potresti arrivare al mio modo dì vedere le cose in proposito anche tu, e magari prima di quel che pensi.
«Fuori!» gridò Jessie. Ora si era seduta sui talloni con le braccia distese da una parte e dall'altra, più che mai simile a Fay Wray sull'altare sacrificale nella giungla. La posa, a testa alta, con i seni spinti in avanti, le spalle così all'indietro da sbiancarsi per lo sforzo, le profonde incavature triangolari di ombra alla base del collo, era quella di una straordinariamente provocante pin-up in una rivista di donnine. Mancava l'obbligatoria espressione di imbronciato invito, però, perché la sua era l'espressione di una donna ormai molto vicina alla linea di demarcazione fra la terra dell'equilibrio mentale e quella dello squilibrio totale. «Vattene via da qui!» Per qualche momento il cane continuò a fissarla a denti scoperti. Poi, quando dovette essersi convinto che il calcio non sarebbe stato ripetuto, l'abbandonò al suo destino e riabbassò la testa. Questa volta non si udì né rumore di lambire né di leccare. Jessie udì invece un sonoro schiocco. Le ricordò i baci vibranti di entusiasmo che Will soleva stampare sulla guancia di nonna Joan quando andavano a trovarla. I ringhi continuarono per qualche secondo, ma ora erano stranamente ovattati, come se qualcuno avesse infilato la federa di un cuscino sulla testa del cane. Dalla sua nuova posizione seduta, con i capelli che quasi sfioravano la mensola sopra la testata del letto, di Gerald scorgeva un piede grassoccio e il braccio destro fino alla mano. Il piede sbatteva da una parte e dall'altra, quasi che Gerald stesse tenendo il tempo di un motivo ben ritmato, One More Summer dei Rainmakers, per esempio. Dalla nuova angolazione vedeva meglio il cane, nella sua visuale aveva tutto il corpo fino all'attaccatura del collo. Avrebbe potuto vederne anche la testa se l'avesse tenuta alzata. Ma non era così. La testa del cane era abbassata e i suoi arti posteriori erano flessi e irrigiditi. A un tratto udì un rumore di strappo, un rumore moccioso, come di qualcuno che cerca di schiarirsi la gola intasata da un forte raffreddore. Gemette. «Smettila... ti prego, vuoi smetterla?» Il cane non le badò. C'era stato un tempo in cui si metteva seduto e invocava che gli allungassero qualche avanzo dalla tavola, con gli occhi che sembravano ridere, la bocca che sembrava sorridere, ma erano giorni, quelli, che come il suo nome di un tempo erano migrati in un'altra epoca ed era difficile ritrovarli. Ora c'era il presente ed era come era adesso. La sopravvivenza non dava spazio all'educazione o alle scuse. Dopo due giorni di digiuno, adesso c'era del cibo, e anche se poco distante c'era un padrone che non voleva che mangiasse quel cibo (i giorni in cui c'erano stati padroni che ridevano e gli accarezzavano la testa e gli dicevano che era un bravo
cagnolino e gli regalavano gli avanzi se si esibiva nel suo piccolo repertorio di trucchi erano giorni di un'altra vita), i piedi di quel padrone erano piccoli e morbidi, tutt'altro che duri e dolorosi, e non erano in grado di opporsi. I ringhi dell'ex Prince mutarono in rantoli soffocati di fatica affannosa e sotto gli occhi di Jessie il resto del corpo di Gerald cominciò a sobbalzare insieme con il piede, prima da una parte e poi dall'altra, per cominciare addirittura a sussultare, come se la foga del ballo, morto o no, gli avesse preso il sangue. Dacci dentro, Disco Gerald! le venne da pensare. Non è il passo del tacchino, non è un volo di poiane... fai vedere come balla il cane! Il randagio non avrebbe potuto smuoverlo se ci fosse stato ancora il tappeto, ma dopo il Labor Day Jessie aveva preso accordi per far incerare il pavimento. Il custode, Bill Dunn, aveva fatto venire quelli di Lucida e Riluci, che avevano lavorato alla grande. Volendo che la signora apprezzasse appieno il loro intervento la prossima volta che fosse passata di lì, avevano lasciato il tappeto della camera da letto arrotolato nel ripostiglio dell'ingresso e, quando il randagio aveva messo in moto Disco Gerald sul pavimento lucidato, la salma si era scatenata come John Travolta in La febbre del sabato sera. L'unico vero problema del cane era quello di conservare la trazione. A questo riguardo venivano in aiuto le lunghe unghie luride, che lasciavano brevi segni irregolari nella cera a ogni strattone che dava con i denti affondati fino alle gengive nelle carni flaccide del braccio di Gerald. No, io non sto vedendo questa scena. Niente di tutto questo sta succedendo davvero. Solo poco fa stavamo ascoltando i Rainmakers e Gerald ha abbassato il volume per dirmi che aveva una mezza intenzione di andare a Orano sabato a vedere la partita di football. U. di M. contro B.U. Ricordo bene che si grattava il lobo dell'orecchio destro mentre parlava. Dunque come può essere morto con un cane che lo sta trascinando per un braccio sul pavimento della camera da letto? L'attaccatura stempiata dei capelli di Gerald era in disordine, probabilmente perché i capelli gli erano stati arruffati dal cane che aveva leccato il sangue dalla sua testa, però aveva gli occhiali ancora saldamente al loro posto. Vedeva i suoi occhi, semiaperti e vitrei, che fissavano dalle orbite rigonfie le increspature di luce sul soffitto. La sua faccia era ancora una maschera di brutte chiazze rosse e violacee, come se nemmeno la morte fosse stata capace di lenire la sua ira per il suo improvviso (l'aveva visto come un capriccio? Ma sicuramente) voltafaccia.
«Lascialo andare», disse al cane, ma la sua voce adesso era ammansita e triste e sfibrata. Il cane non ebbe la minima esitazione, reagì con un fremere di orecchie e niente di più. Continuò a trascinare la cosa con i pochi capelli scarmigliati e la pelle a chiazze. Quella cosa non somigliava più a Disco Gerald, tutt'altro. Ora era solo Gerald Defunto, trascinato sul pavimento della camera da letto con i denti di un cane affondati in un bicipite gravoso di grasso. Il muso del cane era seminascosto da un lembo di pelle irregolare. Jessie cercò di pensare che somigliava a tappezzeria, però la tappezzeria, per quanto ne sapeva, non era cosparsa di nei e non presentava cicatrici di vaccinazioni. Poi vide il ventre roseo e carnoso di Gerald, la cui uniformità era interrotta solo dal foro da proiettile di piccolo calibro che era il suo ombelico. Il pene ballonzolava nel nido di neri peli del pube. Le sue natiche bisbigliavano sulle assicelle del parquet scivolando con orribile fluidità. La soffocante atmosfera del suo terrore fu trafitta bruscamente da un fendente di collera abbagliante come una folgore attraverso la mente. Fece qualcosa di più che accettare quella nuova emozione: l'accolse con gioia. Forse il furore non l'avrebbe aiutata a uscire da quella situazione da incubo, ma sentiva d'istinto che sarebbe servita come antidoto alla sensazione crescente di vivere in uno stato di stupefatta irrealtà. «Bastardo», mormorò con un tremito nella voce. «Vigliacco schifoso.» Anche se non poteva raggiungere nulla sul lato della mensola riservato a Gerald, scoprì che ruotando il polso sinistro dentro la manetta in maniera da rivolgere la mano dietro la spalla, riusciva a percorrere con le dita un breve tratto della mensola dalla propria parte. Non poteva voltare la testa abbastanza da vedere che cosa stava toccando, perché quel settore era appena oltre quel punto nebuloso che la gente chiama la coda dell'occhio, ma non aveva una grande importanza. Più o meno sapeva che cosa c'era. Scorreva i polpastrelli avanti e indietro, sfiorando flaconcini di trucco, spingendone alcuni e facendone cascare altri. Alcuni finirono sul copriletto, altri rimbalzarono sul letto o sulla sua coscia sinistra e caddero per terra. Nessuno che si avvicinasse lontanamente alla cosa che stava cercando. Le sue dita si chiusero su un vasetto di Nivea per il viso e per un momento si concesse di pensare che potesse servire, ma era un vasetto molto piccolo, da campione, di dimensioni troppo insignificanti e troppo leggero per poter far del male al cane, anche se fosse stato fatto di vetro invece che di plastica. Lo lasciò ricadere sulla mensola e ricominciò la sua ricerca alla cieca.
Ai limiti dell'estensione, le sue dita esploratrici incontrarono la superficie arrotondata di un oggetto di vetro che era sicuramente il più voluminoso che avesse toccato finora. Lì per lì non seppe determinare che cosa fosse, poi le sovvenne. Il boccale appeso alla parete era solo un souvenir dell'Alfa Gamma Rospo a cui apparteneva Gerald; ora ne stava toccando un altro. Era un posacenere e l'unico motivo per cui non lo aveva riconosciuto immediatamente era che apparteneva al lato della mensola di Gerald, avrebbe dovuto trovarsi vicino al suo bicchiere di acqua fresca. Qualcuno, forse la signora Dahl, la donna delle pulizie, o magari Gerald stesso, lo aveva spostato sul suo lato del letto, forse mentre spolverava, o forse per far posto a qualcos'altro. Il motivo per cui aveva cambiato collocazione non era comunque importante. Era lì, e al momento bastava. Jessie chiuse le dita sul suo margine arrotondato, sentendo due tacche, quelle che servivano per appoggiarvi la sigaretta. Afferrò il posacenere, spinse la mano all'indietro per quanto poteva, poi la riportò in avanti. Era un momento di buonasorte e sbatté il polso all'ingiù nell'istante in cui avvertì la tensione della catena della manetta, come un lanciatore di baseball che ne spara una discendente. Fu tutto puro impulso, con il missile voluto, trovato e scagliato prima che avesse il tempo di valutarne le grandi probabilità di insuccesso nel colpire un cane con un posacenere, considerando l'insufficienza meritata nel tiro con l'arco dopo due anni di corso al college, quando il cane si trovava a cinque metri di distanza e la mano con cui lanciava era, guarda caso, ammanettata al montante di un letto. Eppure lo colpì. Il posacenere rotolò una volta durante il volo, mostrando per un attimo il motto dell'Alfa Gamma Ro. Da dove si trovava non poté leggerlo, ma non ne aveva bisogno; le parole in latino che stavano per servizio, crescita e coraggio, erano scritte intorno a una torcia. Il posacenere cominciò a rovesciarsi di nuovo prima di piombare fra le spalle ossute e protese del cane. L'animale mandò un guaito di sorpresa e dolore e Jessie visse un momento di trionfo, violento e primitivo. La sua bocca si distese in un'espressione che sentì come un sorriso, ma aveva l'aspetto di uno stridio. Ululò e parve delirare, ululò inarcando la schiena e tendendo le gambe. Di nuovo non sentì il dolore nelle spalle, quando cartilagine e articolazioni che da tempo avevano perso la fluidità dei ventun anni rischiarono la lussazione. Tutto questo lo avrebbe sentito più tardi, le sarebbero tornate le conseguenze di ogni movimento, scossone e strattone, ma al momento si sentì trasportare dalla gioia selvaggia del colpo andato a segno e le parve che, se
non avesse trovato il modo di esprimere il suo delirio trionfante, avrebbe rischiato di esplodere. Tamburellò i piedi sul copriletto e dimenò il corpo da una parte e dall'altra, facendo svolazzare i capelli sudati con cui si schiaffeggiò tempie e guance, con i tendini del collo tesi come cavi di comunicazione. «Hahh esclamò. «Ti... ho... beccato!... Hah!» Il cane schizzò all'indietro quando fu colpito e sobbalzò di nuovo quando udì lo schianto del posacenere che dopo aver rimbalzato si sgretolò sul pavimento. Abbassò le orecchie in reazione al mutamento nella voce della femmina padrona. Non sentiva più paura, ma trionfo. Ancora un attimo e si sarebbe alzata dal letto e avrebbe cominciato a dispensargli calci con quei piedi strani, che non sarebbero stati morbidi e succulenti, ma belli duri. Sapeva che se fosse rimasto dov'era avrebbe sofferto di nuovo come già in passato. Doveva scappare. Girò la testa per accertarsi che la via della ritirata fosse ancora sgombra e in quell'istante fu colto di nuovo dall'odore inebriante del sangue fresco. Un crampo gli contrasse lo stomaco, acido e imperativo come sapeva essere la fame, e gli strappò un gemito di indecisione. Sospeso com'era, in perfetto equilibrio fra due obblighi in contraddizione fra loro, mollò un altro rivolo di orina ansiosa. L'odore del proprio rilascio, che questa volta era odore di disagio e debolezza e non di forza e sicurezza, andò ad aggiungersi a frustrazione e confusione, spingendolo ad abbaiare di nuovo. Il suono secco e sgradevole fece trasalire Jessie con una smorfia disegnata sulla bocca, e si sarebbe coperta le orecchie se avesse potuto; allora il cane avvertì una nuova trasformazione nell'atmosfera circostante. Qualcosa nell'aroma della femmina padrona era cambiato. Il suo odore predominante si andava abbassando, già quando era ancora fresco e nuovo, e il cane cominciò a intuire che forse il colpo che aveva ricevuto fra le spalle non era preludio di altri colpi a venire. E poi quel primo colpo era stato più una sorpresa che un vero dolore. Azzardò un passo verso il braccio che aveva dovuto abbandonare... verso la satura ed eccitante fragranza di sangue e carne. Mentre si muoveva tenne d'occhio la femmina padrona. Poteva darsi che la sua valutazione iniziale di padrona inoffensiva e impotente fosse sbagliata. Doveva metterci la massima attenzione. Distesa sul letto, Jessie era ora solo parzialmente cosciente delle pulsazioni che provava nelle proprie spalle, lo era invece di un dolore più insistente alla gola, cosciente soprattutto del fatto che, posacenere o no, il cane era ancora lì. Nel primo sgorgo di ribollente trionfo, le era parsa conclu-
sione ovvia che dovesse scappare, mentre invece rimaneva dov'era. Anzi, addirittura veniva avanti. Prudente e circospetto, sicuro, però avanzava. Dentro di sé pulsava una sacca verde e rigonfia, piena di veleno, roba amara e detestabile, peggio della cicuta. Temeva che se quella sacca si fosse lacerata, si sarebbe soffocata con la propria furia frustrata. «Vattene, schifoso», disse al cane con una voce roca che aveva cominciato a sbriciolarsi lungo i bordi. «Vattene o ti ammazzo. Non so come, ma giuro davanti a Dio che ti ammazzo.» Il cane si fermò di nuovo, guardandola con occhi frementi di disagio. «Bravo, va bene così, è meglio che stai attento a quello che ti dico», gli disse Jessie. «Meglio per te, perché non scherzo. Guarda che faccio sul serio.» Poi la sua voce risalì in un grido, seppure di tanto in tanto cedette in sillabe sfiatate. «T'ammazzo, lo faccio, ti giuro che lo faccio, Vattene via. Via via!» Il cane che un tempo era stato il principino della piccola Catherine Sutlin spostò lo sguardo dalla padrona alla carne; dalla carne alla padrona; dalla padrona alla carne. Giunse a quel tipo di decisione che il padre di Catherine avrebbe definito compromesso. Si protese in avanti, ruotando gli occhi all'insù per tenere d'occhio Jessie e afferrò il lembo strappato di tendine e grasso maciullato che a suo tempo era stato il bicipite destro di Gerald Burlingame. Ringhiando, strattonò all'indietro. Il braccio di Gerald si alzò. Le dita inerti della mano parvero indicare la Mercedes, parcheggiata nel vialetto fuori della finestra rivolta a oriente. «Smettila!» strillò Jessie. Ora la sua voce ferita si spezzava con maggior frequenza in quel registro superiore in cui gli strilli si trasformavano in sfiatati bisbigli in falsetto. «Non hai fatto abbastanza? Lascialo stare!» Il cane non le badò. Scosse la testa velocemente da una parte e dall'altra, come spesso aveva fatto quando giocava al tiro alla fune con uno dei giocattoli di gomma di Cathy Sutlin. Ma questo non era un gioco, oh no. Dalle sue fauci, mentre scrollava la carne staccandola dall'osso, volarono piccoli fiotti di bava. La mano manicurata di Gerald sbatacchiava nell'aria. Ora sembrava un direttore di banda che sollecitava i suoi musicisti a tenere il tempo. Jessie udì di nuovo quel rumore denso di schiarimento di gola e a un tratto si accorse di dover vomitare. No, Jessie! Era la voce di Ruth ed era piena di allarme. No, non puoi farlo! L'odore del tuo vomito potrebbe attirarlo verso di te... scatenartelo addosso!
La faccia di Jessie si annodò in una smorfia forzata, nel tentativo di dominare la strozza. Le giunse di nuovo il suono di una lacerazione e scorse ancora per un attimo il cane, le zampe anteriori di nuovo irrigidite e flesse, e sembrava che stesse tendendo un lembo di grosso elastico, del colore della gomma di guarnizione di un vaso di vetro a tenuta stagna, prima di chiudere gli occhi. Dimenticandosi per un momento, sconvolta com'era, di essere ammanettata, cercò di coprirsi il volto con le mani. Le quali mani si fermarono all'improvviso ad almeno mezzo metro di distanza l'una dall'altra, in un tintinnio di catene. Mugolò. Era un verso che si sciolse dalla disperazione nella disperanza. Era il suono della rinuncia. Sentì di nuovo quel suono liquido e catarroso. Finì con un altro schiocco da bacio spensierato. Jessie non aprì gli occhi. Il cane cominciò a retrocedere verso la porta che dava in corridoio, senza mai distogliere gli occhi dalla femmina padrona sul letto. Nelle fauci teneva un pezzo grosso e luccicante di Gerald Burlingame. Se la padrona sul letto aveva intenzione di tentare di recuperarlo, avrebbe fatto la sua mossa adesso. Il cane non era in grado di pensare, quanto meno non nel senso che avrebbe inteso un essere umano, ma la sua complicata struttura di istinti gli forniva un'alternativa abbastanza pratica di quello che gli umani intendono per pensiero, perciò sapeva che quello che aveva fatto, e quello che stava per fare, soprattutto, rappresentava una sorta di sacrilegio. Ma la fame lo assillava da tempo. Era stato abbandonato nei boschi da un uomo che se ne era tornato a casa fischiettando il tema di Nata libera, e adesso pativa la fame. Se la padrona femmina avesse cercato di sottrargli in quel momento il suo pasto, avrebbe combattuto. Le spedì un'ultima occhiata, vide che non faceva nessuna mossa per scendere dal letto e non si curò più di lei. Trascinò la carne nell'ingresso e lì si accucciò tenendola saldamente fra le zampe anteriori. Il vento rinforzò per un attimo, aprendo la porta e poi richiudendola. Il cane guardò per un istante in quella direzione e considerò, nella sua maniera canesca e non del tutto intellettuale, che avrebbe potuto riaprire quella porta con il muso e darsela a zampe se fosse stato necessario. Archiviata quest'ultima considerazione, cominciò a mangiare. 9 La voglia di vomitare passò lentamente, ma passò. Sdraiata sulla schiena con gli occhi strettamente chiusi, cominciò solo ora a sentire veramente le
pulsazioni dolorose nelle spalle. Giungevano in lente ondate peristaltiche e la sgomentava il sospetto che fosse solo il principio. Voglio addormentarmi, pensò. Era di nuovo la voce infantile. Ora era costernata e impaurita. Aveva rinunciato alla logica, si rifiutava di valutare la praticità delle sue pretese. Stavo quasi dormendo quando è arrivato il cane cattivo, ed è quello che voglio fare adesso, dormire. Concordava senza riserve. Il problema era che non aveva più sonno. Aveva appena visto un cane che strappava un brano dal corpo di suo marito e non aveva per niente sonno. Invece aveva sete. Aprì gli occhi e la prima cosa che vide fu Gerald, sdraiato sul proprio riflesso nel lucidissimo pavimento della camera da letto come un grottesco atollo umano. Aveva gli occhi ancora aperti, ancora furiosamente fissi sul soffitto, ma ora aveva gli occhiali di sghimbescio, con una stanghetta infilata nell'orecchio, invece che dietro di esso. La testa era così ripiegata che quasi si schiacciava la carnosa guancia sinistra contro la spalla. Fra la spalla destra e il gomito destro non c'era nient'altro che un sorriso color rosso cupo, con bordi bianchi e frastagliati. «Dio del cielo», mormorò Jessie. Guardò precipitosamente altrove, fuori della finestra a ovest. La luce dorata (ormai era quasi luce del tramonto) l'abbagliò; chiuse di nuovo gli occhi e osservò il fluire alternato di rosso e nero del suo cuore che le spingeva sangue attraverso le palpebre abbassate. Dopo qualche momento così notò che i palpiti si ripetevano secondo uno schema regolare. Era un po' come guardare dei protozoi al microscopio, protozoi su un vetrino tinto di rosso. Trovava la ripetizione interessante e sedativa. Considerò che non occorreva essere un genio per capire l'appiglio morale che sapeva dare quel gioco reiterato di forme, date le circostanze. Quando tutti gli altri punti di riferimento nella vita di un individuo si sbriciolano e soprattutto con così sconvolgente repentinità, bisogna trovare qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa che sia insieme sano e prevedibile. Se non si riusciva a trovare altro che il fluire organizzato del sangue nelle sottili pellicole fra gli occhi e gli ultimi raggi solari di una giornata d'ottobre, lo si accettava con tanti ringraziamenti. Perché se non si trovava qualcosa a cui riferirsi, qualcosa che avesse un senso qualsiasi, gli elementi alieni del nuovo ordine mondiale rischiavano di spegnerti il lume della ragione. Elementi come i rumori che adesso giungevano dall'ingresso, per esempio. I rumori che erano quelli di un cane randagio lercio e affamato che si sbranava un pezzo dell'uomo che ti aveva portato a vedere il tuo primo
film di Bergman, l'uomo che ti aveva portato al parco dei divertimenti di Old Orchard Beach, che ti aveva attirato a bordo del grande vascello vichingo che dondolava sospeso nell'aria come un pendolo e aveva riso fino a sprizzare lacrime dagli occhi quando gli avevi detto che volevi riprovarci. L'uomo che una volta ti aveva fatto l'amore nella vasca da bagno fino a farti letteralmente urlare di piacere. L'uomo che adesso scivolava giù per il gozzo di quel cane in brani e bocconi. Elementi alieni di quest'ordine. «Tempi strani, cara mia», disse. «Tempi davvero strani.» La sua voce parlante era diventata un raglio polveroso e dolente. Meglio avrebbe fatto a chiudere la bocca e farla tacere, ma quando c'era silenzio nella stanza sentiva il panico ancora in agguato, ancora ad aggirarsi sulle grandi zampe silenziose, alla ricerca di un'apertura, in attesa che abbassasse la guardia. E poi non era silenzio vero. Quello che segava gli alberi aveva messo via l'attrezzo per quel giorno, ma la gavia mandava ancora il suo verso di tanto in tanto e il vento rinforzava con l'avvicinarsi della notte, facendo sbattere la porta più violentemente e frequentemente che mai. Più, naturalmente, il rumore del cane che si cibava di suo marito. Mentre Gerald aspettava di farsi consegnare e pagare i sandwich da Amato, Jessie aveva fatto un salto al Michaud's Market lì accanto. Il pesce che vendevano lì era sempre buono, fresco che quasi guizzava, come avrebbe detto la nonna. Aveva comperato dei bei filetti di sogliola, con l'idea di farli saltare in padella se avessero deciso di pernottare al lago. La sogliola andava bene perché Gerald, che lasciato a se stesso sarebbe vissuto di una dieta esclusiva di roast beef e pollo fritto (con un'occasionale contorno di funghi fritti per motivi nutrizionali), sosteneva di gradirla. Aveva comperato il pesce senza la minima premonizione che Gerald sarebbe stato mangiato prima di poter mangiare. «È una giungla là fuori, bimba mia», disse Jessie con quella nuova voce rauca e polverosa e si accorse che ora non si limitava più a pensare con la voce di Ruth Neary; adesso parlava come Ruth, la quale ai giorni del college, se lasciata a se stessa, sarebbe vissuta di una dieta di nient'altro che Dewar's e Marlboro. Quella voce asciutta, senza tante balle, si fece sentire in quel momento, come se Jessie avesse strofinato una lampada magica. Ricordi quella canzone di Nick Lowe che hai sentito alla radio mentre tornavi a casa dalla lezione di ceramica, lo scorso inverno? Quella che ti ha fatto ridere? Sì. Avrebbe preferito di no, ma se la ricordava. Era un pezzo di Nick
Lowe che s'intitolava Era un'artefice del suo destino (ora è solo la pappa del cagnolino), una meditazione pop cinicamente divertente sulla solitudine, confezionata su un assurdo ritmo sostenuto. Divertente da matti l'inverno scorso, sì, su questo Ruth aveva ragione, ma non più tanto divertente ora. «Smettila, Ruth», gracchiò. «Se proprio devi dimorare a scrocco nella mia testa, almeno abbi la decenza di smetterla di importunarmi.» Importunarti? Gesù, gioia, ma io non ti sto importunando! Sto cercando di svegliarti! «Ma sono già sveglia!» protestò lei. Sul lago la gavia gridò di nuovo, come per sostenerla. «Anche grazie a te!» No, non sei sveglia. Ed è già un bel pezzo che non lo sei, sveglia davvero intendo. Quando succede qualcosa di brutto, Jess, sai che cosa fai? Ti dici: «Oh, non è niente di preoccupante, è solo un brutto sogno. Ne faccio qualche volta, capita, ma mi basta girarmi sulla schiena e passa tutto». Ed è così che fai, povera ingenua. Fai così. Aprì la bocca per rispondere, perché certe calunnie non potevano essere ignorate, anche quando si ha la bocca secca e la gola che brucia, ma la Brava Mogliettina era già partita lancia in resta prima che Jessie avesse solo cominciato a organizzare i pensieri. Come puoi dire una cosa così orribile! Sei una strega! Vattene! La voce severa di Ruth rispose di nuovo con la sua cinica risata, così simile a un latrato, e Jessie considerò quanto fosse inquietante, orribilmente inquietante, sentire una parte della propria mente ridere nella voce di una vecchia conoscente persa di vista da anni immemorabili. Andarmene? Ti piacerebbe, lo so. Gioia gioiella, dolce cicciolina, bella bimba di papà. Ogni volta che la verità si avvicina troppo, ogni volta che cominci a sospettare che il sogno potrebbe non essere un sogno, te la dai a gambe. Ridicolo. Davvero? Allora che fine ha fatto Nora Callighan? Per qualche attimo quella domanda zittì la voce della Mogliettina e anche la sua, quella che di solito usava per soggetto la prima persona singolare, tanto all'esterno quanto nella sua mente; ma in quel silenzio si formò un'immagine strana e familiare, un circolo di persone che ridevano e additavano, per la maggior parte donne, tutt'attorno a una ragazza con la testa e le mani nei ceppi. Era difficile vederla perché era molto buio, avrebbe dovuto essere anco-
ra pieno giorno, ma per qualche ragione misteriosa era molto buio lo stesso, ma il volto della ragazza sarebbe rimasto nascosto anche nella luce più intensa. I capelli erano rovesciati in avanti come il velo di una penitente, per quanto arduo fosse credere che potesse aver fatto qualcosa di tanto orribile; non poteva avere più di dodici anni. Quale che fosse la colpa per cui aveva meritato quel castigo, non poteva essere quella di aver fatto del male a suo marito. Quella particolare figlia di Eva era troppo giovane persino per aver cominciato i suoi cicli mestruali, meno che mai poteva avere marito. No, non è vero, dichiarò a un tratto una voce che giungeva dalle profondità più recondite della sua mente. Era una voce insieme musicale e tanto potente da far paura, come il verso della balena. Ha cominciato quando aveva solo dieci anni e mezzo. Forse è proprio quello il problema. Forse lui ha sentito l'odore del sangue, come quel cane nell'ingresso. Forse gli ha messo addosso l'ansia. Zitta! gridò Jessie. A un tratto si sentiva in ansia lei. Zitta, non si parla di quello! E a proposito di odori, che odore è quell'altro? domandò Ruth. Ora la voce mentale era più intensa e aspra, la voce di un cercatore che finalmente ha scovato una vena di terreno aurifero di cui da tempo sospettava l'esistenza e da tempo cercava invano. Quell'odore minerale, come di sale e vecchie monete... Ho detto che non parliamo di quello! Era sdraiata sul copriletto, con i muscoli tesi sotto la pelle fredda, dimentica in quel momento della sua cattività e della morte di suo marito, di fronte invece a una minaccia nuova. Sentiva Ruth, o quella parte estranea di se stessa in nome della quale Ruth parlava, dibattersi sull'opportunità di affrontare l'argomento. Quando decise di no (non direttamente, almeno), sospirarono di sollievo sia Jessie sia la Brava Mogliettina Burlingame. D'accordo, allora parliamo di Nora, propose Ruth. Nora, la tua terapeuta, no? Nora, la tua consulente, no? Quella da cui sei cominciata ad andare più o meno all'epoca in cui hai smesso di dipingere perché certe cose che dipingevi ti facevano paura. Che, guarda la coincidenza, era anche lo stesso periodo in cui sembrava che l'interesse sessuale di Gerald per te fosse svanito e tu avevi cominciato ad annusare i colletti delle sue camicie a caccia di un profumo. Ti ricordi di Nora, no? Nora Callighan era una sporca ficcanaso! ringhiò la Brava Mogliettina. «No», borbottò Jessie. «Le sue intenzioni erano buone, non ne ho il mi-
nimo dubbio. È solo che voleva sempre spingersi un passo troppo oltre. Fare una domanda di troppo.» Hai detto che ti piaceva molto. Hai sentito quando l'hai detto? «Voglio smettere di pensare», disse Jessie. La sua voce era diventata insicura, vacillante. «Soprattutto voglio smettere di sentire voci e di dover rispondere. È da pazzi.» Be', ti conviene ascoltare lo stesso, insisté con energia Ruth, perché non puoi scappare questa volta come sei scappata da Nora... come sei scappata da me, se vogliamo raccontarla tutta. Io non sono mai scappata da te, Ruth! Una smentita concitata e non molto convincente. Naturalmente era vero che era scappata. Aveva fatto i bagagli e se n'era andata dall'appartamentino modesto ma accogliente in cui abitava con Ruth. Se n'era andata perché Ruth aveva cominciato a rivolgerle troppe domande sbagliate, domande sulla sua infanzia, domande sul lago di Dark Score, domande su che cosa era avvenuto lassù durante l'estate in cui Jessie aveva appena cominciato ad avere le mestruazioni. No, solo una cattiva amica se ne sarebbe andata per ragioni come quelle. Jessie non se n'era andata per ragioni come quelle. Jessie non se n'era andata perché Ruth aveva cominciato a farle domande; se n'era andata perché Ruth non la voleva più smettere di fargliele, neanche quando lei la pregava. E questo secondo la sua opinione faceva di Ruth un'amica cattiva. Ruth aveva visto la riga che Jessie aveva tracciato nella polvere... e l'aveva scavalcata deliberatamente. Come avrebbe fatto Nora Callighan anni più tardi. E poi l'idea di scappare in quelle condizioni era peggio che comica, no? Non era forse ammanettata al letto? Non insultare la mia intelligenza, bimbetta, l'apostrofò Ruth. La tua mente non è ammanettata al letto e lo sappiamo bene tutt'e due. Puoi ancora scappare se lo vuoi, ma il mio consiglio, il mio vivo, consiglio è di non farlo, perché io rappresento la tua unica occasione. Se te ne stai sdraiata lì a fingere che sia solo un brutto sogno che hai fatto per avere dormito sul lato sinistro, morirai ammanettata. È questo che vuoi? È questo il premio per aver trascorso la tua vita intera in manette fin da quando... «Non ci voglio pensare!» strillò Jessie alla stanza vuota. Per un momento Ruth tacque, ma prima che Jessie potesse solo cominciare a sperare che se ne fosse andata, era lì di nuovo... e a incalzarla ancora, a tormentarla come un terrier tormenterebbe uno stuoino. Senti, Jess, probabilmente preferiresti pensare di essere ammattita pur
di non dover rivangare in quella vecchia tomba, ma non è così, lo sai bene. Io sono te, la Brava Mogliettina sei tu... tutte noi siamo te, è chiaro. Io mi sono fatta un'idea abbastanza buona di ciò che è avvenuto quel giorno a Dark Score quando tutti gli altri erano via e l'aspetto che mi incuriosisce di più non ha poi molto a che vedere con i fatti in sé. Quello che mi premerebbe davvero sapere è se c'è una parte di te, una parte che io non conosco, che vuole dividere con Gerald lo spazio negli intestini di quel cane domani a quest'ora. Te lo chiedo perché a me non sembra un atto di lealtà. A me sembra piuttosto un atto di pazzia. Le scendevano di nuovo le lacrime sulle guance, ma non sapeva se stava piangendo per la possibilità, questa volta finalmente articolata, di morire lì o perché per la prima volta in qualcosa come quattro anni era arrivata così vicina a ripensare a quell'altro luogo di villeggiatura estiva, quello sul Dark Score Lake, e a quanto era accaduto il giorno in cui si era spento il sole. Una volta aveva quasi rivelato il segreto a un gruppo femminile di autocoscienza... ancora nei primi anni Settanta, era stato, e naturalmente l'idea di partecipare alla riunione era venuta dalla sua compagna di stanza, ma lei ci era andata volentieri, almeno dapprincipio; le era sembrata un'iniziativa abbastanza innocua, una delle tante nel girotondo di trovate di ogni genere che era la vita del college di quell'epoca. Per Jessie, quei primi due anni, specialmente in compagnia di una ragazza come Ruth Neary a farle da guida fra giochi, gite e avventure, erano stati per la maggior parte quasi meravigliosi, un'epoca in cui la temerarietà era la norma e il successo inevitabile. Quelli erano giorni in cui non c'era stanza del dormitorio che si potesse ritenere completa senza un poster di Peter Max e se si era stanchi dei Beatles, non che lo fossero tutte, si poteva sempre appiccicare un po' di Hot Tuna o di MC5. Era tutto un po' troppo brillante per essere reale, come quando si guarda con occhi surriscaldati da una febbre non tanto alta da poter essere ritenuta pericolosa. Insomma, quei primi due anni erano stati uno schianto. Lo schianto era finito con quella prima riunione del gruppo di autocoscienza. Lì Jessie aveva scoperto uno spaventoso mondo grigio che era contemporaneamente un'anteprima della futura vita adulta che l'aspettava negli anni Ottanta e l'evocazione sussurrata di tenebrosi segreti infantili rimasti sepolti vivi dagli anni Sessanta... che mai avevano riposato in pace. C'erano venti donne nel soggiorno del cottage attiguo alla Neuworth Interdenominational Chapel, alcune sul vecchio divano, altre a sbirciare dalle ombre proiettate dalle ali di ingombranti e malandate poltrone, per la mag-
gior parte sedute a gambe incrociate per terra, più o meno in circolo; venti donne di età variabile fra i diciotto e i quaranta e rotti. Si erano prese per mano rispettando un momento di silenzio all'inizio della sessione. Finito il preambolo, Jessie era stata assalita da storie raccapriccianti di stupri, incesti, torture fisiche. Fosse vissuta anche più di cent'anni, non avrebbe mai dimenticato la bella ragazza bionda, così calma, che si era sollevata il pullover per mostrare le vecchie bruciature di sigarette sotto il seno. Lì era finito il girotondo di Jessie Mahout. Finito? No, non esattamente. Era stato come se le fosse stato concesso di lanciare una breve occhiata dietro la giostra; le era stato permesso di vedere i campi deserti e grigi d'autunno che erano la verità reale: nient'altro che pacchetti di sigarette vuoti e preservativi usati e qualche figurina premio rimasta impigliata nell'erba alta ad aspettare di volare via nel vento o di essere seppellita dalle nevi invernali. Vide quel silenzioso stupido sterile mondo in attesa dietro il sottile tendone rappezzato, unico diaframma a separarne la desolazione e il turbinio accecante dei baracconi, le chiassose lusinghe degli ambulanti e il fascino pittoresco delle giostre, e ne era stata terrorizzata. Pensare che solo quello l'aspettava, solo quello e nient'altro, era orribile; pensare che l'aveva anche alle spalle, imperfettamente celato dal vecchio telone rappezzato dei ricordi sapientemente adulterati, era insopportabile. Dopo aver mostrato loro la parte inferiore dei seni, la bella biondina aveva riabbassato il pullover e aveva spiegato che non poteva dire niente ai genitori di quello che le avevano fatto gli amici del fratello durante un fine settimana in cui padre e madre si erano recati a Montreal, perché c'era il rischio che saltasse fuori quello che le aveva fatto suo fratello più o meno sporadicamente durante tutto l'ultimo anno e i suoi genitori non avrebbero mai potuto credere anche a quello. La voce della biondina era stata calma come l'espressione del suo viso, il suo tono perfettamente razionale. Quando aveva finito c'era stato un momento di silenzio sbalordito, un momento durante il quale Jessie aveva sentito qualcosa che le si strappava dentro e aveva udito cento spettrali voci interiori che strillavano in un coro di terrore mescolato a speranza... e poi aveva parlato Ruth. «Perché non avrebbero dovuto crederti?» aveva domandato. «Gesù, Liv... ti avevano bruciato con delle sigarette! Avevi i segni da mostrare! Perché non avrebbero dovuto crederti? Non ti volevano bene?» Sì, aveva pensato Jessie. Sì, le volevano bene, ma... «Sì», aveva risposto la biondina. «Mi volevano bene. Me ne vogliono
ancora. Ma adoravano mio fratello Barry.» Seduta vicino a Ruth, con la base di una mano non molto ferma posata contro la fronte, Jessie ricordava di aver mormorato: «E poi ne sarebbe morta». Ruth si era girata verso di lei. «Cosa...» aveva cominciato e la ragazza bionda, sempre senza piangere, sempre così incredibilmente calma, aveva detto: «E poi se avesse scoperto una cosa del genere, mia madre ne sarebbe morta». Allora Jessie aveva capito che, se non fosse uscita di lì al più presto, sarebbe esplosa. Così si era alzata, balzando in piedi in uno scatto convulso che per poco non fece rovesciare la brutta e ingombrante poltrona che aveva occupato. Era scappata sapendo di avere tutti gli occhi addosso, ma non gliene importava niente. Non contava che cosa pensavano di lei. Contava che il sole si era spento, il sole stesso, e se l'avesse raccontata, la sua storia non sarebbe stata creduta solo se Dio fosse stato buono. Se Dio fosse stato inverso in quel momento, allora sarebbe stata creduta... e anche se sua madre non ne sarebbe morta, la sua famiglia sarebbe stata spazzata via come per lo scoppio di un candelotto di dinamite dentro una zucca mezza marcia. Così era scappata attraverso la cucina e si sarebbe precipitata fuori della porta di servizio se non l'avesse trovata chiusa a chiave. Ruth l'aveva inseguita, gridandole fermati, Jessie, fermati. L'aveva fatto, ma solo per colpa di quella dannata porta chiusa a chiave. Aveva appoggiato il viso al vetro scuro e freddo, considerando realisticamente, sì, per un momento sì, se conficcarvi dentro la testa e tagliarsi la gola, qualunque cosa pur di cancellare l'orripilante visione grigia del futuro davanti e del passato dietro, ma alla fine si era girata scivolando per terra, si era afferrata le gambe nude sotto l'orlo della sottana corta che indossava, aveva appoggiato la fronte sulle ginocchia sollevate e aveva chiuso gli occhi. Ruth si era seduta accanto a lei e le aveva passato un braccio dietro la schiena, l'aveva cullata, consolata, le aveva accarezzato i capelli, l'aveva incoraggiata a sfogarsi, liberarsene, vomitare il rospo, buttarlo fuori. Ora, in quella casa sulla sponda del Kashwakamak, si domandava che cosa fosse stato della ragazza bionda, così innaturalmente calma e con gli occhi così incredibilmente asciutti, che aveva raccontato loro del fratello Barry e degli amici di Barry, tutti ragazzi che evidentemente ritenevano che una donna fosse solo il sistema di locomozione di una fica e che marchiare la carne viva fosse un castigo perfettamente giusto per una giovane
donna che trovava più o meno accettabile scopare con il fratello ma non con i suoi compagni e amici. Meglio ancora, Jessie si domandava che cosa avesse detto a Ruth mentre sedevano con la schiena appoggiata alla porta della cucina chiusa a chiave il braccio di una attorno alle spalle dell'altra. Ricordava con certezza solo qualcosa come: «Lui non mi ha mai bruciato, non mi ha mai bruciato, non mi ha mai fatto alcun male». Ma deve esserci stato qualcos'altro, perché le domande che Ruth non voleva più smettere di rivolgerle si accentravano con chiarezza in un'unica direzione, sul Dark Score Lake e il giorno in cui si era spento il sole. Alla fine, piuttosto che parlare, aveva lasciato Ruth, come aveva lasciato Nora, piuttosto che parlare. Era corsa via, lasciando che le gambe la trasportassero il più lontano possibile, Jessie Mahout Burlingame, altrimenti nota come l'Incredibile Peldicarota, l'ultima meraviglia di un'epoca discutibile, sopravvissuta al giorno in cui si era spento il sole, ora ammanettata al letto e non più in grado di fuggire. «Aiuto», domandò alla stanza vuota. Ora che aveva ricordato la biondina con il viso innaturalmente calmo e la voce pacata e la fila di vecchie cicatrici circolari sulle belle mammelle, non riusciva più a togliersela dalla testa, né riusciva a cancellare la certezza che non fosse calma la sua, niente affatto, bensì una scissione fondamentale dalla cosa terribile che le era accaduta. Chissà come il viso della ragazza bionda era diventato il suo viso, e quando Jessie parlò lo fece con la voce tremante e umile dell'ateo spogliato di tutto salvo che di un'ultima improbabile preghiera. «Ti prego, aiutami.» Non fu Dio a rispondere, ma quella parte di sé che a quanto sembrava sapeva parlare solo mascherandosi da Ruth Neary. Ora la voce parve dolce... ma non molto ottimista. Ci provo, ma tu devi aiutare me. So che sei disposta a fare cose dolorose, ma potresti dover anche pensare pensieri dolorosi. Ti senti pronta? «Qui pensare non c'entra niente», protestò debolmente Jessie e intanto pensava: Dunque questa è la voce udibile della Brava Mogliettina Burlingame. «Qui si tratta... be'... di scappare.» E potresti doverle mettere la museruola, disse Ruth. È una parte di te che ha un certo valore, Jessie, una parte di entrambe, per la precisione, e non è proprio da buttar via, ma è stato lasciato tutto nelle sue mani per troppo tempo e in una situazione come questa il suo modo di affrontare il mondo non serve a molto. Hai qualcosa da obiettare? Jessie non voleva obiettare né a quell'affermazione né ad altre. Era trop-
po stanca. La luce che entrava dalla finestra a occidente era sempre più calda e più rossa con l'avvicinarsi del tramonto. Il vento soffiava a folate, facendo frusciare le foglie sulla terrazza affacciata sul lago, ora vuota; tutti i mobili da giardino erano stati accatastati in soggiorno. I pini sospiravano; la porta sul retro sbatteva; il cane faceva una pausa, poi riprendeva il suo pasto liquido e rumoroso. «Ho tanta sete», mormorò tristemente. Va bene, allora, cominciamo da qui. Girò la testa dall'altra parte finché avvertì l'ultimo alito caldo del sole sul lato sinistro del collo e sui capelli umidicci appiccicati alla guancia, quindi riaprì gli occhi. Si ritrovò a fissare il bicchiere d'acqua di Gerald e la sua gola emise immediatamente un lamento scorticato. Cominciamo questa fase delle operazioni dimenticandoci il cane, propose Ruth. Il cane sta facendo solo quello che deve fare per sopravvivere e lo stesso devi fare anche tu. «Non so se sono capace di dimenticarlo», ribatté Jessie. Io credo di sì, gioia, lo credo davvero. Se sei capace di scopare sotto il tappeto quello che è successo il giorno in cui si è spento il sole, devo dedurne che sei capace di scoparci sotto qualunque cosa. Per un attimo ci andò vicino e capì che ce l'avrebbe fatta se veramente lo avesse desiderato. Il segreto di quel giorno non era mai veramente sprofondato del tutto nell'inconscio, come succede ai segreti degli sceneggiati televisivi e dei melodrammi cinematografici; era rimasto seppellito in una fossa non tanto profonda. Si era verificata una forma di amnesia selettiva, ma di un genere assolutamente volontario. Se avesse desiderato ricordare che cosa era successo il giorno in cui si era spento il sole, con tutta probabilità ne sarebbe stata in grado. Come se quell'idea fosse stata un invito, gli occhi della sua mente disegnarono all'improvviso un'immagine di sbalorditiva chiarezza: una lastra di vetro tenuta da un paio di pinze da barbecue. Una mano dentro un guanto da forno che la girava da una parte e dall'altra nel fumo di un focherello di zolle erbose. Si irrigidì sul letto e scacciò l'immagine. Vediamo di mettere in chiaro una cosa, pensò. Probabilmente si stava rivolgendo alla voce di Ruth, ma non ne era del tutto sicura; non era più sicura di niente. Non voglio ricordare. Capito? I fatti di quel giorno non riguardano assolutamente i fatti di oggi. Sono diversi come le mele dalle arance. È abbastanza facile vedere il nesso: due laghi, due case estive,
due casi di... (segreti silenzio dolore pena) stravaganze sessuali; ma ricordare quello che avvenne nel 1963 potrebbe servire al massimo ad accentuare il mio sconforto generale. Dunque lasciamo cadere l'argomento, d'accordo? Dimentichiamoci di Dark Score Lake. «Che ne dici, Ruth?» domandò a voce bassa e il suo sguardo si spostò sulla farfalla di batik. Per un attimo soltanto ci fu un'altra immagine, una bambina, il caro frugolino di qualcuno, a fiutare l'odore dolce del dopobarba e a guardare il cielo attraverso un pezzo di vetro affumicato, ma per fortuna scomparve subito. Guardò di nuovo la farfalla per qualche momento, desiderosa d'essere sicura che quei vecchi ricordi se ne stessero lontani, quindi tornò a osservare il bicchiere di acqua di Gerald. Incredibilmente galleggiavano tuttora in cima all'acqua alcune scaglie di ghiaccio, sebbene la stanza ora nella penombra avrebbe conservato il calore del sole pomeridiano ancora per qualche tempo. Lasciò scorrere lo sguardo lungo il bicchiere, lo lasciò accarezzare quelle gelide bollicine di condensa. Non vedeva il sottobicchiere sul quale era posato, per via della mensola, ma non aveva bisogno di vederlo per visualizzare l'anello scuro di umidità che si andava allargando via via che quelle perle fresche di condensa rotolavano lungo la superficie esterna del bicchiere e vi si annidavano sotto. Sporse la lingua dalla bocca e se la passò sul labbro superiore, senza riuscire a dispensare un gran che. Voglio bere! strillò la voce esigente e spaventata di una bambina, del dolce piccolo frugolino di qualcuno. Lo voglio lo voglio lo voglio... subito! Ma non arrivava al bicchiere. Era un caso emblematico di tanto vicino, eppure tanto lontano. Ruth: Non rinunciare così facilmente. Se sei stata capace di colpire quel cane maledetto con un posacenere, gioia mia, magari prendi anche il bicchiere. Chi può dirlo? Jessie alzò di nuovo la mano destra, per quanto glielo permetteva la spalla dolorante, e di nuovo arrivò ad almeno cinque centimetri, ma non di più. Deglutì e fece una smorfia quando sentì la gola ostruita e ruvida come cartavetra. «Visto!» disse. «Adesso sei contenta?» Ruth non rispose, ma lo fece la Brava Mogliettina. Parlò sommessa-
mente, quasi in tono di scusa, dentro la testa di Jessie. Ha detto di prenderlo, non di raggiungerlo. Può... può darsi che non sia la stessa cosa. La Mogliettina rise, quella risatina imbarazzata che vuol dire chi sono poi io per ficcare il naso, e Jessie ebbe un altro momento per riflettere quanto indiscutibilmente singolare fosse sentire una parte di sé ridere in quel modo, come se fosse un'entità totalmente separata. Se avessi qualche altra voce, pensò, potremmo anche organizzare un piccolo torneo di bridge. Osservò il bicchiere ancora per un attimo, poi si lasciò ricadere sui guanciali per poter studiare il piano inferiore della mensola. Vide che non era fissata al muro con dei tasselli; era posata su quattro supporti metallici che sembravano delle L maiuscole rovesciate. E la mensola non era nemmeno fissata ai sostegni, ne era sicura. Ricordava quella volta che Gerald stava parlando al telefono e si era distrattamente appoggiato alla mensola. L'estremità dalla sua parte aveva cominciato a sollevarsi, come l'estremità di un dondolo, e se Gerald non avesse staccato la mano immediatamente l'avrebbe fatta rovesciare come una catapulta. Il pensiero del telefono la distrasse per un momento, ma solo per un momento. Era sul tavolino davanti alla finestra a est, quella con la vista del vialetto e della Mercedes, e lo stesso sarebbe stato se si fosse trovato su un altro pianeta, per quanto poteva tornarle utile nella situazione attuale. I suoi occhi si posarono nuovamente sul lato inferiore della mensola, prima per studiare l'asse, poi per esaminare di nuovo meglio i sostegni a forma di L. Quando Gerald si era appoggiato alla propria estremità, aveva sollevato l'altra. Dunque, se avesse esercitato una pressione sufficiente dalla propria parte in maniera da inclinare quella di lui, il bicchiere d'acqua... «Potrebbe scivolare giù», disse in tono riflessivo la sua normale voce arrochita. «Potrei farlo scivolare dalla mia parte.» Naturalmente era possibile che se ne scivolasse allegramente fino in fondo e cascasse per terra, e avrebbe potuto anche urtare un ostacolo invisibile sulla mensola stessa e rovesciarsi prima di arrivare fino a lei, ma valeva la pena tentare comunque, no? Sì, mi pare di sì, concluse. Cioè, l'intenzione era di andare a New York sul mio jet privato, cenare al Four Seasons, farmi la nottata ballando al Birdland, ma ora che Gerald è morto non sarebbe molto di buongusto. E dato che tutti i libri buoni sono attualmente irraggiungibili (e anche tutti quelli scadenti, per la verità), mi sa che mi conviene tentare il premio di consolazione.
D'accordo, ma come? «Con molta prudenza», disse. «Ecco come.» Si servì delle manette per issarsi di nuovo e studiare meglio il bicchiere. Non poter vedere la superficie della mensola le sembrò ora un inconveniente. Aveva più o meno un'idea di che cosa si trovasse dalla sua parte, ma era meno sicura di quella di Gerald e della zona che poteva definire terra di nessuno, che corrispondeva al tratto centrale. Non c'era di che meravigliarsi; chi se non una persona con una memoria eidetica saprebbe snocciolare l'inventario completo di tutti gli oggetti sulla mensola di una camera da letto? Chi avrebbe mai potuto prevedere che fosse importante ricordarseli? Be', è importante adesso. Vivo in un mondo in cui sono cambiate tutte le prospettive. Come no. In quel mondo un cane randagio poteva apparire più minaccioso di Freddie Krueger, il telefono era ai confini della realtà, l'ambita oasi nel deserto, meta di mille rudi legionari in cento romanzi d'avventura e amore, era un bicchier d'acqua con poche ultime scaglie di ghiaccio. In questo nuovo ordine mondiale, la mensola della camera da letto era diventata una via di comunicazione vitale quanto il Canale di Panama, e un vecchio western o giallo tascabile messo al posto sbagliato si sarebbe trasformato in un blocco stradale dalle conseguenze letali. Non ti pare di esagerare un po'? si domandò ansiosa, ma in verità non le sembrava affatto. Sarebbe stata un'operazione problematica nelle migliori delle circostanze, ma se solo ci fosse stato qualche impedimento di qualunque genere, tanto valeva lasciar perdere. Un solo, smilzo Hercule Poirot, o uno dei romanzi della serie Star Trek che Gerald soleva leggere e abbandonare come fazzoletti di carta sporchi, sarebbe rimasto invisibile da sotto la mensola, ma sarebbe stato più che sufficiente per arrestare o far rovesciare il bicchier d'acqua. No, non stava esagerando. Le prospettive di quel mondo erano veramente cambiate ed erano cambiate abbastanza da farle pensare a quel film di fantascienza in cui l'eroe cominciava a rimpicciolire e continuava a diventare più piccolo fino a che si trovava a vivere nella casa delle bambole di sua figlia e nel terrore del gatto di casa. Doveva sfogliare alla svelta il nuovo manuale, imparare le nuove regole e adattarsi. Non perderti d'animo, Jessie, bisbigliò la voce di Ruth. «Non temere», rispose. «Ci provo. Non mi tiro indietro. Solo che in certi casi è bello sapere a che cosa vai incontro. Credo che qualche volta faccia
la differenza.» Ruotò all'infuori il polso destro per quanto riusciva, quindi sollevò il braccio. In quella posizione somigliava a una figura femminile in una serie di geroglifici egiziani. Cominciò a sfiorare di nuovo la mensola con le dita, cercando eventuali ostacoli lungo il tratto in cui sperava che sarebbe finito il bicchiere. Toccò un pezzo di carta abbastanza pesante e lo tastò per un momento, cercando di pensare che cosa potesse essere. La prima ipotesi fu quella di un foglio strappato da un bloc-notes, che normalmente finiva nascosto nella confusione sul tavolino del telefono, ma non era abbastanza sottile. I suoi occhi si posarono casualmente su una rivista, Time o Newsweek, visto che Gerald le aveva acquistate tutt'e due, che si trovava rovesciata accanto al telefono. Ricordava di averlo visto sfogliare rapidamente una delle due riviste, mentre si sfilava le calze e si sbottonava la camicia. Il pezzo di carta sulla mensola era probabilmente uno di quei cartoncini con modulo di abbonamento di cui erano solitamente appesantite le copie messe in vendita dai giornalai. Spesso Gerald strappava i cartoncini e li metteva da parte per usarli in seguito come segnalibro. Poteva essere qualcos'altro, ma Jessie giunse alla conclusione che per il suo piano non aveva una grande importanza. Non era abbastanza solido da fermare o rovesciare il bicchiere. Non c'era nient'altro lassù, almeno niente che riuscisse a raggiungere con la punta delle dita protese. «Okay», mormorò. Il suo cuore aveva preso a battere più forte. Una sadica stazione pirata nella sua mente cercò di trasmettere l'immagine di un bicchiere che piombava dalla mensola e lei si affrettò a spegnere il video mentale. «Calma, ci vuole calma. Piano piano e con calma. Costanza e lucidità fanno vincere la corsa. Spero.» Tenendo la mano destra nella posizione in cui si trovava, anche se ripiegandola all'infuori non le giovava affatto e, anzi, faceva un male d'inferno, sollevò la sinistra (la mano con cui ho lanciato il posacenere, pensò con un lampo di tetro umorismo) e afferrò la mensola ben oltre l'ultimo sostegno dalla sua parte del letto. Ci siamo, pensò e cominciò a tirare verso il basso con la sinistra. Non successe niente. Probabilmente sto tirando troppo vicino all'ultima squadra per riuscire a inclinare il piano. Il problema è di nuovo quella dannata catena. Non è abbastanza lunga perché riesca a spostarmi lungo la mensola quanto dovrei.
Probabilmente era vero, ma l'intuizione non modificava il fatto che, nel punto in cui l'aveva afferrata, la mensola non si muoveva minimamente. Avrebbe dovuto spingersi con la punta delle dita un po' più distante, posto che le fosse possibile, e sperare che fosse sufficiente. Era fisica elementare, semplice ma mortale. L'ironia era che avrebbe potuto tranquillamente spingere la mensola da sotto. Solo che c'era un piccolo problema: il bicchiere si sarebbe inclinato dalla parte sbagliata, sarebbe scivolato lungo l'estremità della mensola di Gerald e sarebbe finito per terra. Considerandola più attentamente, si vedeva che la situazione aveva il suo aspetto comico; era come un episodio dei Più esilaranti video casalinghi d'America, trasmesso direttamente dall'inferno. All'improvviso il vento cadde e i rumori che provenivano dall'ingresso diventarono più forti che mai. «Te lo stai gustando, pezzo di merda?» strillò Jessie. Il dolore le lacerò la gola, ma non si fermò, non poteva. «Spero di sì, perché la prima cosa che farò quando riuscirò a liberarmi da queste manette è farti saltare la testa!» Parole grosse, pensò. Parole molto grosse per una donna che non ricorda nemmeno se il vecchio fucile da caccia di Gerald, quello che era appartenuto a suo padre, è qui o nella soffitta della casa di Portland. Seguì nondimeno un gratificante momento di silenzio dal mondo di ombra che c'era oltre la porta della camera da letto. Sembrava quasi che il cane avesse assegnato a quella minaccia la sua massima e più cosciente considerazione. Poi ripresero i rumori dello sbranamento. Nel polso destro ci fu una vibrazione di avvertimento, il preannuncio di un crampo, l'invito a condurre tempestivamente a termine l'operazione che aveva in programma... posto che avesse in programma qualcosa. Si sporse a sinistra e allungò la mano per quanto glielo consentiva la catena. Poi cominciò a tirare di nuovo. Dapprincipio non accadde nulla. Tirò più forte, con gli occhi ridotti a due fessure e gli angoli della bocca rivolti all'ingiù. Era l'espressione di una bambina a cui la mamma sta per somministrare una dose di medicina cattiva. E appena prima che giungesse al massimo della pressione di cui erano capaci i muscoli indolenziti del braccio, avvertì un minuscolo spostamento nella mensola, un cambiamento nell'uniforme trazione della gravità, così insignificante che ne ebbe consapevolezza più intuitiva che fisica. Illusione nata dalla speranza, Jess, guarda che non hai sentito niente. No. Fosse anche che la soglia della sua sensibilità era stata violente-
mente abbattuta dal terrore, non era stata comunque un'illusione. Lasciò andare la mensola e si concesse qualche momento per respirare a boccate lunghe e lente, mentre dava tempo ai muscoli di recuperare. Doveva evitare che venissero presi da spasmi o crampi proprio al momento critico, aveva già abbastanza problemi senza guai muscolari, grazie mille. Quando ritenne di essere giunta al massimo della preparazione possibile, chiuse intorno al montante del letto la mano sinistra, lasciando le dita allentate, e la fece scorrere su e giù finché le si fu asciugato il sudore dal palmo. Poi distese il braccio e afferrò di nuovo la mensola. Era ora. Con prudenza, però. La mensola si è mossa, non c'è alcun dubbio, e si muoverà di più, ma ci vorranno tutte le forze per mettere in movimento quel bicchiere. Sempreché ci riesca, intendiamoci. E quando una persona arriva vicino al massimo dello sforzo di cui è capace, il suo controllo comincia a vacillare. Era vero, ma non era quello l'aspetto saliente. L'aspetto saliente era che non sentiva dove fosse il fulcro della mensola. Non ne aveva la più pallida idea. Ricordava quando aveva giocato ai dondoli con la sorella Maddy nel campo giochi dietro la scuola elementare di Falmouth (un'estate erano rientrate dal lago in anticipo e le sembrava di aver trascorso tutto agosto ad andare su e giù su quelle assi sbucciate, avendo Maddy come compagna) e ricordava anche che quando lo volevano erano capaci di mantenere l'asse in perfetto equilibrio. Bastava che Maddy, che pesava un po' di più, risalisse di qualche centimetro verso il centro. Con il lungo esercizio di quei caldi pomeriggi, cantando filastrocche in coro mentre andavano su e giù, avevano scoperto il punto di equilibrio di ciascun dondolo con precisione quasi scientifica; quelle cinque o sei vecchie assi verdi, tutte in fila sullo spiazzo di cemento fumante, erano state per loro quasi come esseri viventi. Non ritrovava certo adesso la stessa esuberante vivacità sotto le dita. Poteva solo mettercela tutta e augurarsi che funzionasse. E per quanto la Bibbia sostenga il contrario, fai che la sinistra non dimentichi che cosa dovrebbe fare la destra. La tua sinistra è quella che ha lanciato il posacenere, ma sarà bene che la destra sia quella che afferra al volo il bicchiere, Jessie. Sono solo pochi centimetri, quelli entro i quali devi tentare la presa. Se scivola più lontano, non avrà nessuna importanza che cada o resti lassù, tanto sarebbe irraggiungibile come lo è ora. Non pensava che avrebbe in effetti potuto dimenticare che cosa stava facendo la mano destra: il dolore era troppo intenso. Che poi fosse in grado
di fare ciò di cui lei aveva bisogno era un altro paio di maniche. Aumentò la pressione sul lato sinistro della mensola, sforzandosi di mantenere una progressione uniforme. Una goccia di sudore le colò nell'angolo di un occhio e aprì e chiuse forte le palpebre per scacciare il bruciore. In lontananza la porta si era messa a sbattere di nuovo, ma era andata a raggiungere il telefono in quell'altro universo. Nel suo c'erano solo il bicchiere, la mensola e lei stessa. Non escludeva che si alzasse tutt'a un tratto, scattando verso l'alto come un odioso pupazzo da una scatola, e catapultasse giù tutto quello che sosteneva. Cercò di prepararsi a una possibile delusione di questo genere. Preoccupatene se succede, gioia. Adesso vedi invece di non perdere la concentrazione. Credo che stia cominciando. Sì, qualcosa accadeva. Sentì di nuovo quello spostamento minimo, la mensola che cominciava a disancorarsi in un punto imprecisato lungo l'estremità di Gerald. Questa volta, invece di abbandonare la presa, incrementò la pressione e i muscoli del braccio sinistro affiorarono in piccoli archi duri, che tremavano per lo sforzo. Mandò una serie di grugniti esplosivi. La sensazione della mensola che si staccava era sempre più forte. E all'improvviso il disco della superficie dell'acqua nel bicchiere di Gerald perse l'allineamento con il bordo superiore e udì gli avanzi del ghiaccio tintinnare debolmente. L'estremità destra della mensola si era veramente sollevata. Però il bicchiere non si mosse e allora ebbe un pensiero orribile: e se un po' dell'acqua che era scivolata lungo l'esterno del bicchiere si fosse infilata sotto il disco di cartone? Se inzuppando il sottobicchiere lo avesse praticamente sigillato alla mensola? «No, non può succedere.» Le parole le vennero fuori in un unico soffio, con la meccanicità di una preghiera recitata a memoria da un bambino stanco. Tirò più forte sul lato sinistro della mensola, mettendoci tutte le forze. Ora erano stati impiegati tutti i cavalli, la stalla era vuota. «Ti prego, fai che non succeda. Ti prego!» L'altra estremità della mensola continuò a sollevarsi, oscillando pericolosamente. Un tubetto di fondotinta Max Factor rotolò giù dalla sua parte e cadde sul pavimento vicino al punto in cui si era trovata la testa di Gerald prima che arrivasse il cane e lo trascinasse lontano dal letto. E ora le sovvenne una possibilità nuova, che per meglio dire era una probabilità. Se avesse aperto più ancora l'angolo d'inclinazione della mensola, sarebbe scivolata tutta quanta dalle squadre, portandosi dietro bicchiere e tutto il resto, come un toboga su un pendio innevato. Scambiare la mensola per
l'asse di un dondolo poteva metterla nei guai. Quello non era un dondolo; non c'era un vero fulcro al quale fosse fissata con uno snodo. «Scivola, bastardo!» gridò al bicchiere con uno strillo stridulo e sfiatato. Aveva dimenticato Gerald. Aveva dimenticato di aver sete. Aveva dimenticato tutto, salvo il bicchiere, ora inclinato a un angolo così acuto che l'acqua arrivava quasi al bordo, perciò non si capiva come mai non cadesse. Eppure non si muoveva. Se ne stava dov'era sempre stato, come se qualcuno l'avesse incollato alla mensola. «Scivola!» Lo fece tutt'a un tratto. Il movimento fu così diametralmente opposto alle sue più nere previsioni, che quasi non riuscì a comprenderlo. Più tardi avrebbe concluso che l'avventura del bicchiere le lasciava intravedere qualcosa di meno che ammirevole della sua mentalità: in un modo o nell'altro, aveva previsto un insuccesso. Lo sbigottimento le veniva invece dall'esito contrario. Il breve viaggio senza incidenti del bicchiere lungo la mensola verso la sua mano destra la sbalordì al punto che quasi tirò con più forza con la sinistra, una mossa che quasi certamente avrebbe rovesciato del tutto l'asse già in equilibrio instabile, spedendola a schiantarsi sul pavimento. Poi le sue dita toccarono il vetro e gridò di nuovo. Era lo strillo inarticolato di felicità di una donna che ha appena vinto alla lotteria. La mensola vacillò, cominciò a scivolare, poi si fermò, come se fosse provvista di una mente rudimentale e stesse decidendo se aveva veramente voglia di andar giù. Non hai molto tempo, gioia, l'ammonì Ruth. Prendi quel dannato coso finché puoi. Jessie ci provò, ma i suoi polpastrelli scivolarono sulla superficie umida del vetro. Non aveva appigli di sorta e non riusciva ad aderire al vetro con una porzione sufficiente di dita per poterlo stringere. Le cascò acqua sulla mano e in quel momento si rese conto che, anche se la mensola avesse resistito, il bicchiere sarebbe caduto. Immaginazione, gioia, la solita vecchia convinzione che un povero piccolo frugolino come te non è capace di fare niente nel modo giusto. Non era un giudizio molto distante dalla realtà, sicuramente era viceversa abbastanza vicino da non consolarla affatto, ma non era nemmeno del tutto centrato, non questa volta. Vero è che il bicchiere stava per cascare e che lei non aveva la minima idea di come intervenire per impedirlo. Perché le erano toccate in sorte dita così brutte, così corte e tozze? Perché? Se solo fosse riuscita a chiuderle un po' di più intorno a quel bicchiere...
Le apparve un'immagine da incubo di qualche vecchio spot pubblicitario televisivo: una donna sorridente con un'acconciatura anni Cinquanta e un paio di guanti di gomma blu infilati sulle mani. Così flessibili che puoi raccattare una monetina! starnazzava dal sorriso. Peccato che non ne hai un paio anche tu, Frugolino o Brava Mogliettina o chi diavolo sei! Forse riusciresti ad afferrare quel fottuto bicchiere prima che tutto quello che c'è sulla mensola prenda l'ascensore espresso! Si accorse all'improvviso che la donna sorridente e starnazzante con un paio di Playtex infilati sulle dita era sua madre e le sfuggì un singhiozzo roco. Fu come un terribile presagio di quelli che non suggeriscono la morte, ma la garantiscono. Non cedere, Jessie! gridò Ruth. Non ancora! Ci sei vicina! Te lo giuro! Attinse all'ultima, esigua riserva di forza per spingere il lato sinistro della mensola, pregando convulsamente che non scivolasse dai sostegni, non ancora, ti prego Dio, tu o chiunque ci sia al posto tuo, ti supplico, non farla scivolare, non ora, non ancora. Ma l'asse di legno scivolò... per un breve tratto, però. Poi si fermò di nuovo, forse incastrata su una scheggia od ostacolata da un'incurvatura del legno. Il bicchiere scivolò un po' di più nella sua mano e adesso (follia su follia) le sembrò che parlasse anch'esso, il maledetto bicchiere. La voce era quella di uno di quegli orsi di tassisti metropolitani che ce l'hanno sempre a morte con il mondo intero. Gesù, signora, che altro vuole che faccia? Che mi faccia crescere un manico e mi trasformi in un cazzo di brocca per la sua bella faccia? Sulla mano destra protesa scivolò qualche altra goccia di acqua fresca. Adesso il bicchiere sarebbe caduto, ormai era inevitabile. Alla sua mente già arrivavano i segnali di freddo dell'acqua che le bagnava il collo. «No!» Ruotò un po' di più la spalla destra, aprì un po' di più le dita, lasciò che il bicchiere scivolasse per qualche millimetro ancora nella coppa protesa della sua mano. Il metallo delle manette le mordeva con crudeltà il dorso dell'arto, inviandole fitte fino al gomito, ma tenne duro senza pensarci. Ora i muscoli del braccio sinistro vibravano più che mai e le scosse si comunicavano alla mensola inclinata. Un altro astuccio di trucco piombò sul pavimento. Le ultime scaglie di ghiaccio tintinnarono piano. Al di sopra della mensola ora vedeva l'ombra del bicchiere proiettata sul muro. Nella luce allungata del tramonto sembrava un silo per il grano piegato da un forte vento di prateria.
Ancora... solo ancora un pochino... È già il massimo! Non deve esserlo. È indispensabile che non lo sia. Tese la destra ai limiti estremi dei tendini e sentì il bicchiere che scivolava ancora di un piccolo tratto. Poi chiuse di nuovo le dita, pregando che finalmente fosse abbastanza, perché questa volta era davvero al capolinea, questa volta aveva davvero dato fondo alle sue risorse. Eppure ancora sentiva il bicchiere bagnato che cercava di guizzare via. Aveva cominciato a considerarlo un essere vivente, un essere senziente, con una vena di malignità larga quanto una corsia di sorpasso in autostrada. Il suo proposito era di continuare a fingere di stare al suo gioco, per sottrarsi all'ultimo momento fino a farle perdere la ragione, per poi abbandonarla nelle ombre del crepuscolo, ammanettata e farneticante. Non lasciarlo andar via Jessie non ti ci provare non t'azzardare a lasciare che quel bicchiere fottuto ti sfugga... E sebbene non ci fosse più niente da aggiungere, non un solo grammo di pressione, non un solo millimetro di estensione, riuscì a mettere in gioco qualcosa ancora, ruotando di un altro tantino il polso destro verso l'asse. E questa volta, quando serrò le dita intorno al bicchiere, lo arrestò. Forse ce l'ho fatta. Non sono sicura, ma può essere. Oppure era finalmente caduta vittima di un'illusione. Ma non le importava. Forse era così e forse era cosà e tutti quei forse non contavano più niente per lei e la constatazione le era di grande sollievo. L'unica certezza era che non poteva più tenere sollevata la mensola. L'aveva inclinata di non più di una decina di centimetri, ma era come se si fosse chinata a sollevare per un angolo la casa intera. Quella era la certezza. È tutta questione di prospettiva, pensò, e tutto dipende probabilmente dal modo in cui le voci ti descrivono il mondo. Quelle sì, che sono importanti. Le voci interiori. Pregando che il bicchiere rimanesse nella sua mano quando non ci fosse più stata la mensola a sostenerlo, staccò la sinistra. La mensola ripiombò sulle squadre, solo un poco distanziata dal muro, e si spostò di pochi centimetri soltanto verso sinistra. E il bicchiere le rimase nella mano. Ora vedeva il sottobicchiere. Il cartoncino si era appiccicato al vetro come un disco volante. Dio, ti supplico, fa' che non mi cada adesso. Dammi la... Un crampo le annodò il braccio sinistro, facendola andare a sbattere contro la testata. Le si annodò anche la faccia, raggrumata all'indentro finché
le labbra si trasformarono in una sottile cicatrice bianca e gli occhi in fessure tremanti di dolore. Aspetta, passerà... passerà... Sì, per forza sarebbe passato. Aveva avuto abbastanza crampi in vita sua da saperlo, ma intanto... Dio, che male. Se avesse potuto toccarsi il bicipite del braccio sinistro con la mano destra, sapeva che la sensazione sarebbe stata come se sotto la pelle qualcuno avesse accumulato dei ciottoli levigati, per poi ricucirle la ferita con filo invisibile. La sensazione non sarebbe stata quella di una contrattura muscolare, ma di un caso di rigor mortis. No, Jessie, è solo un crampo, come quello che hai avuto prima. Devi solo aspettare. Aspetta che si sciolga e per l'amore santissimo del cielo non lasciare cadere quel bicchier d'acqua. Aspettò e, dopo un'eternità o due, i muscoli del braccio cominciarono a rilassarsi e il dolore diminuì. Mandò un sospiro prolungato e roco di sollievo e si preparò a bere il suo premio. Bevi, sì, pensò la Mogliettina, ma credo che ti meriti qualcosa di più di una bevuta d'acqua fresca, mia cara. Goditi il tuo premio... ma goditelo con dignità. Senza tracannarlo! Mogliettina Mogliettina, non cambi mai, pensò ma, quando sollevò il bicchiere, lo fece con la calma composta di un'ospite al banchetto di corte, ignorando l'aridità alcalina del palato e le spine della sete nella gola. Perché si poteva criticare in mille modi la Brava Mogliettina, quasi quasi era lei a invitarti a farlo, ma comportarsi con un po' di dignità in quelle circostanze (specialmente in quelle circostanze) non era una cattiva idea. Aveva lavorato per quell'acqua, perché non concedersi allora l'onore di gustarla? Il primo sorso a lambirle le labbra e ad avvitarsi sulla guida torrida della lingua sarebbe stato autentico sapore di vittoria... e dopo la serie di sfortune che le erano capitate, il piacere era assicurato. Si abbassò il bicchiere verso la bocca, concentrandosi sulla dolce sensazione alla quale stava per offrirsi, sul gorgoglio che l'avrebbe dissetata. Le papille della lingua fremettero di pregustazione, arricciò le dita dei piedi e sentì un battito furioso appena sotto l'osso della mandibola. Si accorse che le si erano inturgiditi i capezzoli, come le accadeva qualche volta quando era eccitata. Segreti della sessualità femminile che non ti sei mai nemmeno sognato, Gerald, pensò. Mi ammanetti al letto e non succede niente. Mi mostri un bicchier d'acqua e mi trasformi in una ninfomane. Quel pensiero la fece sorridere e quando il bicchiere si arrestò bruscamente a più di una spanna dalla sua faccia, versandole acqua sulla coscia nuda e facendole accapponare la pelle, dapprincipio continuò tranquilla-
mente a sorridere. Non provò niente in quei primi secondi, tranne una specie di stupida meraviglia e (come?) incomprensione. Che cosa stava succedendo? Che cosa c'era che non andava? Sai benissimo cosa, le rispose una delle voci ufesche. Aveva parlato con una calma sicurezza che Jessie trovò raccapricciante. Sì, probabilmente aveva capito, dentro lo sapeva, ma non voleva che la nozione si spostasse nella luce della sua mente cosciente. C'erano verità troppo insopportabili. Troppo ingiuste. Purtroppo alcune di quelle verità erano anche troppo evidenti. Mentre fissavano il bicchiere, gli occhi gonfi e iniettati di sangue cominciarono a colmarsi di orripilata comprensione. La catena era il motivo per il quale non avvicinava le labbra al bicchiere. La catena delle manette era troppo corta. Era una realtà così ovvia, che l'aveva completamente trascurata. All'improvviso ricordò la notte in cui George Bush era stato eletto presidente. Lei e Gerald erano stati invitati a un elegante ricevimento sulla terrazza-ristorante dell'Hotel Sonesta. L'ospite d'onore era il senatore William Cohen ed era prevista per poco prima della mezzanotte una «chiamata televisiva» a circuito chiuso del presidente eletto, George il Solitario in persona. Per l'occasione Gerald aveva noleggiato una limousine color nebbia che si era presentata davanti a casa alle sette, puntuale come la morte, ma dieci minuti dopo lei era ancora seduta sul letto nel suo miglior vestito nero, a rovistare nel portagioie e a imprecare furiosa, a caccia di uno speciale paio di orecchini d'oro. Gerald aveva fatto capolino spazientito per vedere perché stesse ritardando, l'aveva ascoltata con quell'espressione da: «Perché voi donne dovete essere sempre così oche?» che lei detestava con tutto il cuore, poi le aveva detto che non era molto sicuro, ma aveva l'impressione che avesse già indosso gli orecchini che cercava. Era così, infatti. Si era sentita piccola e idiota, una perfetta giustificazione della sua espressione condiscendente. Le aveva anche messo addosso la gran voglia di aggredirlo e di fargli saltar via le perfette capsule odontoiatriche con una delle scarpette con il tacco alto che calzava, così sexy e così infinitamente scomode. Che cosa aveva provato allora era poco a confronto di quello che provava adesso, però, e se qualcuno meritava di farsi saltar via i denti, era lei. Protese la testa più che poteva, spinse in fuori le labbra come l'eroina del più melenso dei vecchi film d'amore in bianco e nero. Arrivò così vicina al
bicchiere da vedere minuscole bollicine d'aria incastonate negli ultimi frammenti di ghiaccio, tanto vicino da sentire l'odore dei minerali presenti nell'acqua di pozzo (o così immaginò), ma non tanto vicino da bere. Giunta al punto di massima estensione, le labbra protese e raggrinzite nell'atteggiamento di un bacio erano ancora ad almeno dieci centimetri dal bicchiere. Ci arrivava quasi, ma il quasi, come Gerald (e anche suo padre, a ben pensarci) si compiaceva di ripetere, era un eufemismo che valeva quanto una negazione. «Non ci credo», si sentì dire nella sua nuova voce di scotch e Mariboro. «Non ci posso credere.» La collera si svegliò all'improvviso dentro di lei e le strillò nella voce di Ruth Neary di scagliare il bicchiere contro il muro opposto. Se non poteva bere l'acqua che conteneva, dichiarò con asprezza la voce di Ruth, meritava una punizione; se non poteva soddisfare la sete con quell'acqua, poteva almeno appagare la mente con lo schianto del vetro che andava in mille pezzi contro il muro. Strinse la presa sul vetro e la catenella d'acciaio s'allentò in un piccolo arco quando spostò la mano all'indietro. Ingiusto! Era così terribilmente ingiusto! La voce che la fermò fu quella dolce e titubante della Brava Mogliettina Burlingame. Forse un sistema c'è, Jessie. Non arrenderti subito, forse trovi un modo. Ruth non rispose verbalmente al suo intervento, ma la sua smorfia di incredulità fu inequivocabile lo stesso; fu pesante come ferro e acida come uno schizzo di limone. Ruth insisteva perché scagliasse il bicchiere. Nora Callighan ne avrebbe sicuramente dedotto che Ruth aveva una mentalità fortemente vendicativa. Non darle ascolto, le consigliò la Mogliettina. La sua voce non era più titubante, anzi ora sembrava quasi emozionata. E rimettilo sulla mensola, Jessie. E poi? domandò Ruth. E poi, oh Grande Guru Bianco, o Dea del Tupperware e Santa Patrona della Chiesa delle Vendite per Corrispondenza? La Brava Mogliettina glielo disse e la voce di Ruth si zittì mentre Jessie e tutte le altre voci dentro di lei ascoltavano in silenzio. 10 Posò il bicchiere di nuovo sulla mensola, con molta cautela, attenta a
non lasciarlo troppo vicino al bordo. Ora al posto della lingua le sembrava di avere una striscia di carta smeriglio del numero cinque e le pareva di avere la gola addirittura infettata dalla sete. Le sovveniva il modo in cui si sentiva nell'autunno dei suoi dieci anni, quando era stata tenuta lontana da scuola per un mese e mezzo da un'influenza con complicazioni bronchiali. C'erano state lunghe notti, durante quell'assedio, in cui si svegliava da incubi confusi e tumultuosi che non riusciva a ricordare (ma invece li ricordi Jessie, tu sognavi il vetro affumicato; tu sognavi del giorno in cui si era spento il sole, tu sognavi l'odore piatto e lacrimevole simile a quello dei minerali nell'acqua di pozzo; sognavi le sue mani) ed era fradicia di sudore ma si sentiva troppo debole per prendere la brocca dell'acqua sul comodino. Ricordava che restava immobile, sdraiata nel letto, tutta bagnata e appiccicosa e odorosa di febbre all'esterno, bruciante e popolata di fantasmi all'interno; se ne stava sdraiata a pensare che la sua malattia vera non era la bronchite ma la sete. Ora, dopo tanti anni, le sensazioni che provava erano le stesse. La sua mente continuava a cercare di tornare al momento orribile in cui si era resa conto che non sarebbe riuscita a chiudere l'ultimo breve varco che separava il bicchiere dalla sua bocca. Continuava a vedere la spruzzatina di bollicine d'aria nel ghiaccio ormai sciolto quasi del tutto, continuava a odorare il debole aroma di minerali intrappolati nella falda acquifera, sprofondata nel terreno sotto il lago. Erano immagini che la tormentavano come un prurito irraggiungibile al centro delle scapole. Ciononostante si obbligò ad aspettare. Quella parte di lei che corrispondeva alla Brava Mogliettina Burlingame aveva detto che doveva darsi tempo, resistendo al tormento dell'immagine e alle fitte di dolore in gola. Doveva aspettare che il cuore rallentasse, che i muscoli smettessero di tremare, che le sue emozioni si placassero un po'. Fuori si spegnevano nell'aria gli ultimi colori; il mondo si scoloriva in un grigio solenne e malinconico. Sul lago, la gavia lanciò il suo strillo nella penombra serale. «Chiudi il becco, Comare Gavia», borbottò Jessie e sghignazzò. Fu come il cigolio di un cardine arrugginito. Va bene, cara, disse la Mogliettina. Credo che sia il momento di provare. Prima che faccia buio. Però è meglio che ti asciughi bene le mani. Questa volta le chiuse entrambe sui montanti della testata, sfregandole su e giù fino a sentire scricchiolare. Poi si mise la mano destra davanti agli occhi e l'agitò. Hanno riso quando mi sono seduta al piano, pensò. Lenta-
mente s'allungò oltre il punto in cui aveva posato il bicchiere sul bordo della mensola. Cominciò a tastare di nuovo la superficie di legno. Le manette tintinnarono una volta contro il vetro del bicchiere, paralizzandola per un istante, nel terrore di rovesciarlo. Quando non accadde niente, riprese la sua cauta perlustrazione. Aveva quasi concluso che quello che cercava fosse caduto dalla mensola, o comunque si fosse spostato oltre la sua estensione massima, quando finalmente toccò un angolino del modulo per abbonamenti. Lo pizzicò fra indice e medio e piano piano lo allontanò dalla mensola e dal bicchiere. Migliorò la presa quando gli fu più vicino, sostituendo il pollice al medio, e lo osservò con curiosità. Era viola, con tutta una fila di sonagli che ballavano, inclinati di qua e di là come altrettanti ubriachi, lungo il margine superiore. Fra le parole cascavano coriandoli e stelle filanti. Newsweek celebrava il FAVOLOSO RISPARMIO, spiegava l'inserto, e la invitava a non perdere la grande occasione. I giornalisti di Newsweek l'avrebbero tenuta aggiornata sugli eventi internazionali, l'avrebbero guidata dietro le scene dove operano i leader mondiali e le avrebbero garantito esaurienti servizi di arte, politica e sport. Anche se non lo diceva esplicitamente, lasciava chiaramente intendere che Newsweek l'avrebbe aiutata a dare un senso al cosmo intero. Ma soprattutto, gli adorabili mattoidi del reparto abbonamenti presentavano un'offerta così stupefacente da farti fumare l'orina ed esplodere la testa: usando QUESTA STESSA SCHEDA per un abbonamento triennale a Newsweek, i numeri che avrebbe ricevuto sarebbero costati MENO DELLA METÀ DEL PREZZO DI VENDITA DAL GIORNALAIO! E doveva forse preoccuparsi del pagamento? Assolutamente no! La fattura sarebbe arrivata in un secondo tempo. Chissà se hanno anche un servizio diretto a letto per le signore ammanettate, si domandò Jessie. Magari con George Will o Jane Bryant Quinn o uno di quegli altri pomposi molluschi a girarmi le pagine. Sai, è un'operazione che diventa maledettamente difficile con le manette ai polsi. Tuttavia, sotto il sarcasmo avvertiva uno strano stupore pervaso di nervosismo e non riusciva a smettere di esaminare quel cartoncino viola con le sue decorazioni festaiole, gli spazi bianchi per nome e indirizzo, tutti i quadratini con le scritte DiCl, MC, Visa e AMEX. È tutta la vita che maledico queste schede, specialmente quando scivolano fuori della rivista e sono costretta a chinarmi per raccoglierle per non fare la figura della solita sporcacciona, e mai avrei immaginato che il mio equilibrio mentale,
se non addirittura la mia vita, sarebbe un giorno dipeso da una di queste. La sua vita? Ma era possibile? Doveva veramente accettare un'eventualità così orrenda? Suo malgrado, cominciava a temere di sì. Era possibile che dovesse restare lì per un bel pezzo prima che qualcuno la trovasse e, sì, era anche vagamente possibile che la differenza tra la vita e la morte si riducesse a un sorso d'acqua. Era un'idea surreale, ma non le sembrava più così manifestamente ridicola. È ancora tutto come prima, cara, calma e attenzione ti faranno vincere la corsa. Sì... ma chi avrebbe mai sospettato che il traguardo sarebbe stato posto in una campagna così bizzarra? Si mosse con attenzione e calma e scoprì che maneggiare l'inserto con una sola mano non era così difficile come aveva temuto. In parte era per le dimensioni, quasi quelle di due carte da gioco affiancate, quindici centimetri per dieci, ma soprattutto era perché non stava cercando di utilizzarlo per niente di particolarmente complicato. Tenne il cartoncino per il lungo fra indice e medio e usò il pollice per ripiegarne l'ultimo centimetro lungo tutto il Iato. La piega non risultò uniforme, ma ritenne che potesse funzionare lo stesso. E poi nessuno sarebbe venuto a giudicare il suo operato; era passata molta acqua sotto i ponti dai tempi del corso di applicazioni tecniche, tutti i giovedì sera, alla Prima Chiesa Metodista di Falmouth. Strinse il cartoncino viola fra indice e medio e ricominciò il lavoro di ripiegatura di un altro centimetro. Le ci vollero quasi tre minuti e sette ripiegature per arrivare fino in fondo. Quando finalmente ebbe completato l'opera, teneva fra le dita qualcosa di simile a una canna di marijuana, rozzamente confezionata con una vistosa cartina viola. Oppure, a voler giocare d'immaginazione, una cannuccia. Se la infilò in bocca e cercò di trattenerne la piega scomposta con i denti. Quando le parve di averla bloccata al meglio, cominciò a tastare di nuovo la mensola alla ricerca del bicchiere. Piano, Jessie. Adesso non guastare tutto per essere stata troppo impaziente! Grazie del consiglio. E anche dell'idea. È stata grandiosa, lo dico sul serio. Ora però vorrei che te ne stessi zitta mentre faccio il mio tentativo. D'accordo? Quando la punta delle sue dita toccò la superficie di vetro del bicchiere, ve le fece scivolare all'intorno con tutta la dolcezza e la cautela di una gio-
vane amante che infila per la prima volta la mano nella patta dei calzoni del suo ragazzo. Afferrare il bicchiere nella nuova posizione in cui lo aveva sistemato fu un'operazione relativamente semplice. Lo ruotò e sollevò per quanto glielo consentiva la catena. Vide che si erano consumate anche le ultime scaglie di ghiaccio; il tempo se n'era proverbialmente fuggito, allegro e spensierato, per quanto lei conservasse la sensazione che si fosse arrestato completamente più o meno nel momento in cui era apparso il cane. Ma non voleva pensare al cane. Al contrario, ce l'avrebbe messa tutta per convincersi che non fosse mai esistito alcun cane. Sei brava a far desuccedere le cose, eh, gioia giaietto? Senti, Ruth, sto cercando non senza difficoltà di mantenere una presa salda su questo maledetto bicchiere, nel caso tu non l'abbia notato. Se per riuscirci mi viene comodo di distrarmi con qualche giochetto mentale, non vedo dov'è il problema. Staitene zitta per un po', vuoi? Dacci un taglio e lasciami fare. Ma Ruth non aveva evidentemente intenzione di darci un taglio. Statti zitta! esclamò con ironica meraviglia. Sapessi come mi riporta indietro. È meglio di un vecchio cavallo di battaglia dei Beach Boys alla radio. Sei sempre andata forte con i tuoi statti zitta, Jessie. Ricordi la sera al dormitorio, quando siamo rientrate dalla tua prima e ultima sessione di autocoscienza a Neuworth? Non voglio ricordare, Ruth. Ne sono sicura, perciò ricorderò io per tutt'e due, che te ne pare? Continuavi a sostenere che a sconvolgerti era stata la ragazza con le cicatrici sulle tette, solo quello e nient'altro, e quando io ho cercato di ripeterti quello che avevi detto in cucina, di quella volta che tu e tuo padre eravate soli nella vostra casa di Dark Score Lake, quando si spense il sole nel 1963, e che lui ti aveva fatto qualcosa, mi hai detto di starmene zitta. Siccome io non l'ho fatto, hai cercato di mollarmi uno schiaffo. Siccome io ho continuato lo stesso, hai preso il cappotto e sei scappata via e hai passato la notte da qualche altra parte, probabilmente in quella piccola topaia di Susie Timmel, sul fiume, quella che noi ragazze chiamavamo il Lesbotel di Susie. Prima della fine della settimana avevi trovato delle tizie con un appartamento in centro che avevano bisogno di un'altra compagna per l'affitto. Così, di botto, via come il vento... però è anche vero che tu ti sei sempre mossa con la velocità del vento una volta presa una decisione, Jess. Questo te lo concedo. E come ho detto, sei sempre stata brava a dire
agli altri di starsene zitti. Chiu... Visto? Cosa ti avevo detto? Lasciami in pace! Anche questa, la conosco bene. Sai che cosa mi ha fatto più male, Jessie? Non la mancanza di fiducia, quella no, avevo capito subito che non c'era niente di personale, che non ritenevi di poterti fidare di nessuno per la storia che era successa quel giorno, nemmeno di te stessa. Mi ha fatto male sapere quanto vicino eri arrivata a vuotare il sacco, là nella cucina della canonica di Neuworth. Eravamo sedute con la schiena contro la porta, abbracciate, e ti sei messa a parlare. Hai detto: «Non ho mai potuto raccontarlo, la mamma ne sarebbe morta, e anche se così non fosse, lo avrebbe lasciato e io gli volevo bene. Tutti gli volevamo bene, tutti avevamo bisogno di lui, avrebbero incolpato me e in fondo non aveva fatto niente». Ti ho chiesto chi non aveva fatto niente e ti è venuto fuori così velocemente che sembrava che da nove anni non aspettassi altro che qualcuno te lo chiedesse. «Mio padre», mi hai detto. «Eravamo a Dark Score Lake il giorno che si è spento il sole.» Mi avresti raccontato tutta la storia, lo so, ma proprio in quel momento è arrivata quell'imbecille per chiedere se stavi bene. Come se non fosse bastato guardarti in faccia per sapere quanto stavi male! Dio del cielo, certe volte non capisco come possa la gente essere tanto imbecille. Ci dovrebbe essere una legge che impone di avere una licenza, o almeno il nullaosta di un insegnante, prima che ti sia permesso parlare. Dovrebbe esserci l'obbligo di restare muti prima di aver sostenuto e superato l'esame di parlatore. Sai quanti problemi risolverebbe. Ma il mondo non va così e all'apparizione della nostra Florence Nightingale ti sei richiusa come un riccio. E io non ho più trovato un modo per farti riaprire e Dio sa quanto mi ci sono provata. Avresti dovuto solo lasciarmi in pace! ribatté Jessie. Il bicchiere d'acqua aveva cominciato a fremere nella sua mano e la cannuccia viola aveva cominciato a tremare fra le sue labbra. Avresti solo dovuto smettere di occupartene! Non erano affari tuoi! Certe volte gli amici non possono fare a meno di preoccuparsi, Jessie, disse la voce interiore, ed era così piena di affetto che Jessie restò ammutolita. Sono andata a cercare, sai? Avevo capito di che cosa stavi parlando e ho fatto una piccola ricerca. Non mi ricordavo assolutamente di un'eclisse agli inizi degli anni Sessanta, ma naturalmente all'epoca ero in Florida ed ero molto più interessata a nuotare con la maschera e a sognare il bagni-
no, per il quale mi ero presa una cotta bestiale. Immaginati se avevo la testa per i fenomeni astronomici. Volevo vedere se tutta quanta quella storia non fosse stata solo un'invenzione fantastica, suscitata magari da quella ragazza con le orribili bruciature sulle poppe. Non era una fantasia. C'era stata davvero un'eclisse solare totale nel Maine e la vostra casa estiva sul Dark Score doveva trovarsi proprio nella zona in cui era possibile vederne tutto l'effetto. Non hai voluto raccontarmi che cosa ti aveva fatto il tuo caro paparino, ma due cose sapevo, Jessie: che era tuo padre, ed è brutto, e che tu avevi poco più di dieci anni, sulla soglia della pubertà... ed è molto peggio. Ti prego, Ruth, smettila. Non avresti potuto scegliere un momento peggiore per riesumare questa vecchia... Ma Ruth non voleva darsene per inteso. La Ruth che un tempo era stata la compagna di stanza di Jessie, aveva sempre dimostrato la massima caparbietà nel dire la sua, dalla prima all'ultima parola, e la Ruth che era ora la compagna di testa di Jessie, non era cambiata per niente. Poi, di punto in bianco, te ne sei andata a vivere in città con le tre piccole Sorelline Susie, principessine in pullover Aline e camicette Ship'n Shore, ciascuna di loro senza dubbio con la sua brava serie di mutandine con su ricamati i giorni della settimana. Credo che sia stato più o meno in quel periodo che hai preso la decisione consapevole di allenarti per la squadra olimpica di Spolveratura e Tiratura a Lucido di pavimenti. Hai desuccesso quella sera nella canonica, hai desuccesso le lacrime e l'umiliazione e la collera, hai desuccesso me. Oh, ci siamo viste ancora per un po', giusto per una pizza o un boccale insieme giù da Pat, ma la nostra amicizia era un capitolo chiuso, non è vero? Quando hai dovuto scegliere tra me e quello che ti è successo nel luglio del 1963, hai scelto l'eclisse. IL bicchiere d'acqua tremava più forte. «Perché ora, Ruth?» domandò, senza accorgersi di pronunciare veramente le parole nella penombra sempre più densa della camera da letto. Perché ora, questo vorrei sapere, se in questa incarnazione sei in realtà una parte di me, perché ora? Perché proprio nel momento in cui meno che mai mi posso permettere di essere turbata e distratta? La risposta immediata a quell'interrogativo era anche la meno allettante: perché aveva un nemico interiore, una trista femmina, alla quale piaceva esattamente com'era ora, ammanettata, dolorante, assetata, impaurita e sconsolata. Una trista persona che non voleva che le sue pene fossero minimamente alleviate, disposta ad abbassarsi ai trucchi più gretti pur di im-
pedire che ciò accadesse. L'eclisse totale di quel giorno durò solo un minuto, Jessie... ma non così nella tua mente. Lì continua ancora oggi, vero? Chiuse gli occhi e radunò tutte le forze della sua mente e tutta la sua forza di volontà per fermare il bicchiere che teneva in mano. Parlò mentalmente alla voce di Ruth senza imbarazzi, come se si stesse realmente rivolgendo a un'altra persona e non a una parte del suo cervello che all'improvviso aveva giudicato il momento propizio per mettersi a lavorare un po' per conto proprio, come avrebbe detto Nora Callighan. Lasciami in pace, Ruth. Se dopo che avrò tentato di bere un sorso d'acqua ti premerà ancora tanto discutere di questi argomenti, sia pure. Ma per ora, vuoi farmi il favore di... «...ingoiarti la lingua», finì in un sibilo sommesso. Sì, riprese immediatamente Ruth. So che c'è qualcosa o qualcuno dentro di te che cerca di confondere le acque e so che qualche volta si serve della mia voce, deve essere un ottimo ventriloquo, ma non sono io. Io ti volevo bene allora, come te ne voglio adesso. È per questo che ho fatto di tutto per non perderti di vista... perché ti volevo bene. E anche perché secondo me le femmine di rango come noi hanno il dovere di fare causa comune. Jessie abbozzò un sorriso, distendendo un po' le labbra intorno alla cannuccia di cartoncino. E adesso coraggio, Jessie, buttati. Jessie attese qualche istante ancora, ma non sentì più niente. Ruth si era almeno momentaneamente appartata. Riaprì gli occhi, poi piegò lentamente la testa in avanti, con il cartoncino arrotolato che le sporgeva dalle labbra come il bocchino di Franklin Delano Roosevelt. Dio, ti scongiuro... fa' che funzioni. La cannuccia si immerse nell'acqua. Jessie chiuse gli occhi e succhiò. Per un momento non ci fu nulla e un lampo di disperazione le attraversò la mente. Poi l'acqua le riempì la bocca, fresca e dolce e reale, sorprendendola in un'emozione simile all'estasi. Avrebbe singhiozzato di gratitudine, se la bocca non fosse stata così strenuamente contratta intorno all'estremità della scheda di abbonamento arrotolata; in quelle condizioni poté produrre solo un suono dalle narici, come un sordo ululato. Ingoiò l'acqua, che le rivestì la gola come una fodera di raso liquido, poi cominciò a succhiare di nuovo. Lo fece con l'ardore incosciente di un vitello affamato che ciuccia il latte da sua madre. La sua cannuccia era tutt'altro che perfetta, alla bocca arrivavano solo fiotti irregolari e la gran parte del-
l'acqua che risucchiava usciva dalla fessura lungo la ripiegatura. Jessie lo sapeva, sentiva l'acqua picchiettare il copriletto come una pioggerella, ma la sua mente inebriata continuava lo stesso a ritenere che la sua cannuccia fosse una delle più grandi invenzioni di una mente di donna e che in quel momento i sorsi che traeva dal bicchiere d'acqua del marito morto rappresentassero l'apogeo della sua vita. Non berla tutta, Jess... tienine un po' per dopo. Non sapeva quale delle sue fantomatiche compagne avesse parlato questa volta, ma non aveva importanza. Il consiglio era più che valido, ma sarebbe stato lo stesso che andare a dire a un ragazzo di diciotto anni, mezzo impazzito dopo sei mesi di furiosi amoreggiamenti, che non importava se finalmente lei acconsentiva, se non aveva un preservativo doveva aspettare. Jessie stava scoprendo che qualche volta era impossibile ascoltare i buoni consigli della mente, per quanto sagaci. Certe volte il corpo si ribellava e buttava tutti i buoni consigli a mare. E stava scoprendo anche qualcos'altro: cedere a necessità fisiche così elementari poteva dare un sollievo inesprimibile. Continuò a succhiare dal cartoncino arrotolato, inclinando il bicchiere perché la superficie dell'acqua continuasse a lambire l'altra estremità del tubicino viola, ora deforme e molle, consapevole in qualche angolo della mente che gran parte dell'acqua andava sprecata e che era pazza a non fermarsi e aspettare che il cartoncino si asciugasse. Ad arrestarla fu infine la presa d'atto che stava succhiando solo aria, e già da qualche secondo. C'era ancora dell'acqua nel bicchiere di Gerald, ma la punta della sua cannuccia di fortuna non ci arrivava più. Il tratto di copriletto che si trovava al di sotto del cartoncino arrotolato era scuro di umidità. Potrei tirar su anche quella che è rimasta, lo so che potrei. Se riuscissi a girare la mano un po' di più in quella posizione innaturale, all'indietro, come quando cercavo il modo di afferrare quell'odioso bicchiere, credo che potrei allungare il collo di quel tanto che mi servirebbe per succhiare gli ultimi sorsi. Credo? No, che non credo, lo so! Davvero lo sapeva e più tardi avrebbe collaudato la sua convinzione,, ma per il momento quelli con il colletto bianco che stavano all'ultimo piano, il piano da cui si gode la vista migliore su tutti i fronti, avevano strappato di nuovo il controllo agli operai e ai loro rappresentanti sindacali addetti ai macchinari; era in corso un ammutinamento. La sete era lungi dall'essere stata veramente appagata, però la sua gola non pulsava più e si sentiva
molto meglio... mentalmente oltre che fisicamente. Erano più vividi i pensieri e, marginalmente, meno cupo lo stato d'animo. Si scoprì contenta di aver lasciato nel bicchiere un po' di acqua. Due sorsi succhiati da una cannuccia che perdeva non avrebbero probabilmente colmato la differenza fra rimanere ammanettata al letto e trovare un modo di sgattaiolare fuori da sola da quel pasticcio (e meno ancora quella fra la vita e la morte), ma la complessa operazione con cui assimilare quelle ultime gocce preziose avrebbe forse occupato la sua mente quando e se avesse deciso di azionare di nuovo i suoi meccanismi più morbosi. Del resto stava scendendo la notte, suo marito giaceva morto sul pavimento accanto a lei e sembrava proprio che sarebbe stata costretta a bivaccare. Un quadro non molto esaltante, specialmente se vi si aggiungeva l'affamato cane randagio che avrebbe bivaccato con lei, eppure sentiva che il sonno le appesantiva di nuovo le palpebre. Cercò di pensare a qualche buon motivo da opporre al torpore crescente e non ne trovò neppure uno. Nemmeno il pensiero di risvegliarsi con le braccia insensibili fino al gomito le parve sufficientemente minaccioso. Le avrebbe dimenate per quanto sarebbe stato necessario a riattivare la circolazione del sangue. Non sarebbe stato un piacere, ma si sentiva perfettamente in grado di farlo. E poi può darsi che ti venga un'idea brillante mentre dormi, cara, considerò la Brava Mogliettina Burlingame. Succede sempre nei libri. «Può darsi che l'idea brillante la trovi tu», ribatté. «In fondo finora la migliore è stata tua.» Si abbandonò sul letto, usando le scapole per sospingere il guanciale facendolo risalire il più possibile contro la testata. Le dolevano le spalle, le pulsavano le braccia (specialmente quello sinistro) e i muscoli dello stomaco le vibravano ancora per lo sforzo di aver sostenuto il busto per allungare la cannuccia nel bicchiere... ma si sentiva lo stesso stranamente soddisfatta. In pace con se stessa. Soddisfatta? Come puoi sentirti soddisfatta? Tuo marito è morto e non è che tu ne sia totalmente estranea, Jessie. Supponiamo allora che ti trovino, supponiamo che ti soccorrano, hai idea di come apparirebbe la situazione alla persona che ti rinvenisse qui? Secondo te, per esempio, come la prenderebbe lo sceriffo Teagarden? Quanto tempo ci metterebbe secondo te per decidere che è meglio chiamare la polizia statale? Trenta secondi? Magari quaranta? Ah, già, la gente di campagna è sempre un po' più lenta, non è vero? Potrebbe impiegarci anche due minuti. Non aveva niente da opporre, perché era vero.
E allora come fai a sentirti soddisfatta, Jessie? Come può essere umanamente accettabile che tu ti senta tranquilla con una spada di quel peso che ti pende sulla testa? Non sapeva come fosse possibile, ma così era. La sua tranquillità era spessa e soffice come un materasso di piume la notte in cui un forte vento di marzo carica da nordovest pieno di nevischio, e calda e confortevole come un piumino che avvolge il letto. Sospettava che la sensazione derivasse soprattutto da cause puramente fisiche: ad avere abbastanza sete, era evidentemente possibile inebriarsi con mezzo bicchier d'acqua. Ma c'era anche un aspetto mentale. Dieci anni prima aveva rinunciato con rammarico al suo posto di supplente, cedendo infine alla pressione della logica insistente di Gerald (ma forse l'aggettivo che cercava era «inesorabile»). Ormai Gerald guadagnava nell'ordine dei centomila dollari l'anno; al confronto del suo stipendio, i suoi seimila circa erano spiccioli, che si traducevano in un'autentica seccatura al momento dei rendiconti fiscali, quando l'ufficio delle imposte se li mangiava quasi tutti e poi andava a scartabellare la loro contabilità per vedere dove avevano nascosto il resto del malloppo. Quando lei si era lamentata del loro comportamento così sospettoso, Gerald l'aveva contemplata con un misto di affetto ed esasperazione. Non era proprio la sua espressione da: «Ma perché voi donne siete sempre così oche?» perché quella era cominciata ad apparire regolarmente solo cinque o sei anni dopo, ma ci andava vicino. Loro vedono quanto guadagno io, le aveva spiegato. Vedono due macchine tedesche di grossa cilindrata nel box, vedono le fotografie della casa sul lago, e poi guardano la tua dichiarazione dei redditi e vedono che tu lavori per quello che secondo loro è una manciata di monetine. Non ci possono credere, a loro sembra evidentemente fasullo, una copertura che serve a nascondere qualcos'altro, così vanno a rovistare dappertutto, in cerca di quel qualcos'altro. Molto semplicemente il fatto è che loro non ti conoscono bene come ti conosco io. Non era stata capace di spiegare a Gerald che cosa significava per lei il suo contratto di supplenza... o forse era stato lui a non voler ascoltare. Comunque fosse, la verità era che per lei insegnare, anche se senza una cattedra, l'appagava in una maniera importante e Gerald non lo capiva. Nemmeno era stato capace di capire che la supplenza costituiva un ponte che la teneva unita alla vita di prima che lo conoscesse al convegno repubblicano, quando era insegnante d'inglese di ruolo al liceo di Waterville, una donna indipendente che lavorava per guadagnarsi da vivere, che aveva
la simpatia e il rispetto dei colleghi e non doveva niente a nessuno. Non era stata capace di spiegare (o lui non aveva voluto ascoltare) che lasciare l'insegnamento, anche se era solo una supplenza a tempo parziale, la faceva sentire triste e sperduta e alquanto inutile. Quella sensazione di deriva, provocata probabilmente dalla sua incapacità di rimanere incinta in misura non inferiore alla sua decisione di restituire il contratto senza averlo firmato, era scomparsa dalla superficie della sua mente dopo un anno circa, ma non aveva mai abbandonato del tutto le stanze più profonde del suo cuore. C'erano state volte in cui si era sentita un cliché, quello della giovane insegnante che sposa l'avvocato di successo la cui qualifica finisce sulla porta alla tenera (in senso professionale) età di trent'anni. Questa giovane (be', relativamente giovane) donna varca a un certo momento la soglia dell'atrio di quel palazzo complicato noto come mezza età, si guarda intorno e scopre di essere improvvisamente tutta sola: senza lavoro, senza figli e con un marito che è quasi del tutto assorbito (non si vorrebbe dire fissato; sarebbe forse una definizione accurata, ma sarebbe anche poco gentile) dalla mitica scalata a quell'entità leggendaria che chiamiamo successo. Questa donna, improvvisamente di fronte al mistero dei quarant'anni appena oltre la prossima curva, è esattamente il tipo di donna che più probabilmente si caccia in qualche guaio per droga, per alcol o per un altro uomo. Più giovane di lei, normalmente. Niente di tutto questo era avvenuto a quella giovane (be'... ex giovane) donna, ma Jessie si era trovata lo stesso con una quantità un po' preoccupante di tempo libero, tempo per il giardinaggio, tempo per far compere, tempo per frequentare corsi (pittura, scultura, poesia... e avrebbe potuto avere una relazione con l'uomo che insegnava poesia se avesse voluto, e lo aveva quasi voluto). Aveva avuto tempo per pensare anche un po' a se stessa, motivo per il quale aveva conosciuto Nora. Tuttavia nessuna di quelle cose le aveva indotto una sensazione simile a quella che provava ora, come se stanchezza e dolori fossero altrettante medaglie al valore e il sonno una meritata ricompensa... Miller Time nella versione per signore ammanettate, si potrebbe dire. Dico, Jess, il modo come hai raggiunto quell'acqua è stato davvero grandioso. Era un altro ufo, ma questa volta non ne fu più sconcertata. Le bastava che almeno per un po' non si facesse risentire Ruth. Ruth era interessante ma anche estenuante. Chissà quanti non ci sarebbero mai riusciti a prendere quel bicchiere,
continuò il suo ammiratore ufesco, e usare il cartoncino per farne una cannuccia... quello è stato un colpo da maestro. Quindi hai tutto il diritto di sentirti bene. Ti è concesso. Ti è concesso anche un pisolino. Ma c'è il cane, intervenne dubbiosa la Mogliettina. Quel cane ti ignorerà nella maniera più assoluta... e sai anche perché. Sì. La ragione per cui il cane non l'avrebbe importunata era poco distante da lei, sul pavimento della camera da letto. Ora Gerald non era altro che un'ombra fra le ombre, della qual cosa Jessie benediceva il cielo. Fuori il vento si levò di nuovo. 1 suoi sibili tra le fronde dei pini le erano di conforto e le inducevano il sonno. Chiuse gli occhi. Attenta però a quello che sogni! l'avvertì la Brava Mogliettina con una voce inprovvisamente allarmata, ma anche lontana e non molto imperiosa. Però ci provò di nuovo: Attenta a quello che sogni, Jessie! Dico sul serio! Ma sì, certo che diceva sul serio, la Brava Mogliettina parlava sempre sul serio, per questo era spesso un tormento. Qualunque cosa sognerò, pensò Jessie, non sarà che ho sete. Non ho totalizzato molte vittorie lampanti in questi ultimi dieci anni, che del resto sono stati un susseguirsi di confuse scaramucce di guerriglia, una via l'altra, ma l'essere riuscita a bere quell'acqua è stata una vittoria senza ombre. O no? Si, confermò la voce dell'ufo. Era una voce vagamente maschile e le venne da chiedersi, nelle prime spire di sonno, se non fosse per caso la voce di suo fratello Will... Will da bambino, ancora negli anni Sessanta. Ma sicuro. Certo che è lui. Cinque minuti dopo Jessie dormiva saporitamente, con le braccia sollevate è divaricate in una V inerte, i polsi appesi mollemente ai montanti dentro le manette, la testa reclinata contro la spalla destra (quella che le faceva meno male), mentre soffiava dalla bocca respiri lunghi, lenti e rumorosi. A un certo punto, molto dopo che erano calate le tenebre e che una buccia bianca di luna si era levata a oriente, sulla soglia riapparve il cane. Come Jessie, ora che aveva soddisfatto la sua necessità più impellente e che i clamori del suo stomaco erano stati in certa misura appagati, era molto più calmo. La osservò rapito a lungo con l'orecchio buono drizzato e il muso spinto in avanti, mentre cercava di decidere se stesse davvero dormendo. Concluse (soprattutto sulla base dell'odore, il sudore che si andava asciugando, la totale assenza del tanfo dell'adrenalina, sfrigolante di ozono) che non fingeva. Questa volta non ci sarebbero stati calci e non ci sarebbero state grida, non ci sarebbe stata nessuna reazione se fosse stato
tanto attento da non svegliarla. Senza far rumore, raggiunse a passi felpati il cumulo di carne che c'era per terra. Anche se aveva meno appetito di prima, l'odore della carne era ancora più allettante. Il fatto è che il suo primo pasto aveva inferto un colpo mortale all'antico, innato tabù che vieta quella categoria di cibo, anche se il cane non lo sapeva e non gliene sarebbe importato niente anche se lo avesse saputo. Abbassò la testa, annusando ora l'appetitoso aroma di avvocato morto con tutta la delicatezza di un gourmet, per poi chiudere dolcemente i denti sul labbro inferiore di Gerald. Tirò, facendo pressione piano piano, distendendo la carne sempre di più. L'espressione di Gerald si trasformò in quella di un broncio mostruoso. Finalmente il labbro si lacerò, lasciando scoperti i denti inferiori in un gran ghigno di morte. Il cane deglutì quella piccola prelibatezza in un sol colpo, poi si leccò le fauci. Cominciò a scodinzolare di nuovo, questa volta in archi lenti di soddisfazione. Sul soffitto alto danzavano due punticini di luce; luce lunare riflessa dalle otturazioni in due dei molari inferiori di Gerald. Le otturazioni erano fresche di una settimana e brillavano ancora come monetine appena coniate. Il cane si leccò i baffi una seconda volta, mentre contemplava amorevolmente Gerald. Poi allungò il collo, quasi esattamente come Jessie aveva allungato il suo per infilare finalmente la cannuccia nel bicchiere. Annusò la faccia di Gerald, ma dire che l'annusò è dire poco; diciamo piuttosto che lasciò libero il naso di partire per una sorta di vacanza olfattiva, saggiando dapprima il leggero profumo di cera per pavimenti sepolto nell'orecchio sinistro del padrone morto, poi la mescolanza di odori, di sudore e di pelle lungo l'attaccatura dei capelli, infine l'aroma amarognolo, così intenso e inebriante, del sangue coagulato sulla testa di Gerald. Indugiò particolarmente a lungo sul naso di Gerald, a svolgere, con il muso ora graffiato, sporco, ma ah, quanto sensibile, una delicata indagine in quei due canali ora spenti. Lo colse di nuovo quel senso di ghiottoneria, una sensazione che il cane sceglieva fra le molte che maggiormente gli erano preziose. Finalmente affondò i denti aguzzi nella guancia sinistra di Gerald, li serrò e cominciò a tirare. Sul letto, gli occhi di Jessie avevano cominciato a muoversi velocemente avanti e indietro sotto le palpebre. Ora gemette. Fu un gemito acuto e ondeggiante, in cui il terrore era pari alla comprensione. Il cane rialzò subito il muso, accucciandosi istintivamente in un atteggiamento colpevole e impaurito. Non durò a lungo; aveva già cominciato a
considerare quel cumulo di carne non più come qualcosa di proibito, al quale avvicinarsi solo se preso dai morsi della fame e dalla minaccia dell'inedia, ma come la sua dispensa personale, per la quale, se sfidato, sarebbe stato pronto a combattere e forse anche a morire. E poi a fare quei versi era solo la padrona femmina e ormai il cane era sicuro che la padrona femmina fosse impotente. Abbassò la testa, afferrò di nuovo la guancia di Gerald Burlingame e strattonò all'indietro, scuotendo la testa con energia. Una lunga striscia della guancia del morto si staccò con lo schiocco di un pezzo di nastro adesivo strappato dal rotolo. Ora Gerald aveva il ghigno feroce e predatorio di un giocatore che ha appena pescato l'incastro di una scala in una mano di poker con un piatto particolarmente ricco. Jessie mugolò di nuovo. Seguì una fila di incomprensibili farfugliamenti gutturali. Il cane le lanciò un'altra occhiata. Era sicuro che non fosse in grado di alzarsi dal letto per importunarlo, ma quei versi lo mettevano a disagio lo stesso. Il vecchio tabù si era appannato, ma non era scomparso. E poi aveva saziato la fame; ora non stava più mangiando, faceva uno spuntino. Si girò e uscì al trotto dalla stanza. Dalle fauci gli pendeva un brano della guancia sinistra di Gerald, grande come lo scalpo di un neonato. 11 È il 14 agosto 1965. Sono passati poco più di due anni dal giorno in cui si è spento il sole. È il compleanno di Will; per tutto il giorno è andato in giro ad annunciare con solennità che ora è vissuto un anno per ogni inning in una partita di baseball. Jessie non riesce a capire perché il fatto debba essere così clamoroso per suo fratello, ma evidentemente lo è e conclude che se a Will va di paragonare la sua vita a una partita di baseball, non c'è assolutamente niente di male. Per qualche tempo in tutto quello che avviene alla festa di compleanno del suo fratellino non c'è niente che non vada bene. È vero che sul giradischi c'è Marvin Gaye, ma non è la canzone cattiva, la canzone pericolosa. «Non mi faccio fare fesso», canta Marvin in uno scherzoso tono di minaccia, «me ne vado fin da adesso... baby.» È una canzoncina simpatica, per la verità, e a voler essere sinceri la giornata è stata anche più che perfetta, finora; è stata, per dirla con le parole della prozia Catherine, «più bella di una sviolinata». La pensa così anche papà, anche se non si è mostrato molto incline a tornare a Falmouth per il compleanno di Will, quando è stata
lanciata la proposta. Jessie lo ha sentito dire alla mamma in fondo è stata un'idea molto azzeccata e questo fa star bene lei, perché è stata proprio lei, Jessie Mahout, figlia di Tom e Sally, sorella di Will e Maddy, moglie di nessuno, a suggerirlo. È grazie a lei se sono qui e non a Sunset Trails. Sunset Trails è il campo di famiglia (anche se dopo tre generazioni di espansione familiare, è ormai grande abbastanza da meritare la qualifica di villaggio) sul lato nord del Dark Score Lake. Quest'anno hanno interrotto l'abituale ritiro di nove settimane sul lago perché (per una volta, ha annunciato a padre e madre, nel tono di un vecchio aristocratico che, soffrendo con nobile dignità, sente che non potrà ingannare ancora a lungo la signora con la falce) Will desidera una festa di compleanno alla quale partecipino, oltre alla famiglia, anche i suoi amici di tutto l'anno. Dapprincipio Tom Mahout oppone il veto alla proposta. È un agente di cambio che divide il suo tempo fra Portland e Boston e da anni ripete alla famiglia che non si deve credere alla falsa propaganda diffusa su quelli che vanno a lavorare in giacca e cravatta e con il colletto bianco, per passare la giornata ad ammazzare il tempo, o facendo capannello intorno al serbatoio dell'acqua o dettando inviti a pranzo a belle dattilografe bionde. «Nemmeno il più disgraziato zappaterra di Aroostook sgobba come me», ripete spesso e sovente. «Stare dietro al mercato non è facile e non è nemmeno particolarmente esaltante, alla faccia di tutto quello che potreste aver sentito raccontare.» La verità è che nessuno di loro ha mai sentito raccontare niente in tal senso e che tutti loro (compresa la moglie, molto probabilmente, anche se Sally non lo avrebbe mai ammesso) hanno la netta sensazione che il suo lavoro sia di una noia mortale e che solo Maddy ha intuito vagamente di che cosa si tratti. Tom sostiene di aver bisogno di quel periodo al lago per riprendersi dalle fatiche del suo lavoro e che suo figlio avrà tutto il tempo di farsi chissà quanti compleanni con gli amici quando sarà più grande. Del resto sta per compiere nove anni, non novanta. «E poi», aggiunge Tom, «le feste di compleanno con gli amici non valgono niente finché non si è abbastanza grandi da farsi una birra o due.» Così la richiesta di Will di celebrare il suo compleanno nella residenza abituale della famiglia sulla costa sarebbe stata probabilmente bocciata se imprevedibilmente non fosse intervenuta Jessie a sostenerla (e per Will lo stupore è stato davvero grande; Jessie ha tre anni più di lui e spesso non è sicuro che si ricordi di avere un fratello). Quando la figlia osserva umilmente che sarebbe divertente tornare a casa solo per due o tre giorni, non
di più, e organizzare una bella festa sul prato, con una partita di croquet e una di volano, e il barbecue e le lanterne giapponesi da accendere quando tramonta il sole, Tom comincia a riconsiderare la faccenda. È il tipo d'uomo che pensa di sé di essere un «figlio di puttana con una volontà di ferro» ed è spesso visto dagli altri come un «caprone testardo»; fatto sta che è sempre stato ostico da scalzare, una volta che ha puntato i piedi... e serrato le mascelle. La sua figlia più giovane è un'eccezione alla regola generale. Jessie ha sempre trovato un modo di comunicare con lui per vie segrete, negate al resto della famiglia. Sally ritiene, non senza giustificazione, che la loro secondogenita sia da sempre la prediletta di Tom e Tom si è sempre illuso che nessuno degli altri lo sappia. Maddy e Will giudicano la situazione in termini più semplici: pensano che Jessie si condisca suo padre e che in cambio lui la vizi da far schifo. «Se papà beccasse Jessie che fuma», ha detto Will alla sorella maggiore l'anno scorso, quando Maddy è stata messa agli arresti domiciliari per quel reato, «probabilmente le comprerebbe un accendino.» Maddy ha riso, concordando pienamente e abbracciando suo fratello. Né loro, né la loro madre, hanno il più pallido sospetto del segreto che si nasconde fra Tom Mahout e la figlia secondogenita come un cumulo di carne putrescente. Jessie dal canto suo crede di aver voluto semplicemente sostenere la richiesta del fratellino, di avergli voluto dare man forte. Non sa, non a livello cosciente, comunque, quanto sia giunta a detestare Sunset Trails e quanto ansiosa sia di andarsene. Ormai prova odio anche per il lago che una volta amava appassionatamente, non le piace in particolare il vago odore minerale. Nel 1965 sopporta a stento di bagnarsi in quelle acque, persino nelle giornate più calde. Sa che sua madre crede che sia per le sue forme (sono sbocciate presto, come già quelle di Sally, e a dodici anni ha quasi una figura di donna), ma non sono le forme. Si è abituata e sa che in nessuno dei suoi due vecchi e un po' stinti costumi da bagno può essere scambiata per una pin-up di Playboy. No, non è per il seno, per i fianchi, non è per il sedere. È per l'odore. Al di là di eventuali motivazioni segrete, va a finire che la richiesta di Will Mahout viene finalmente approvata dal gran capo della famiglia Mahout. Sono tornati sulla costa ieri, per dare abbastanza tempo a Sally (assistita con zelo da entrambe le figlie) per preparare la festa. E adesso è il 14 agosto, il giorno che indubbiamente rappresenta l'apoteosi dell'estate nel Maine, un giorno di cieli color blue jeans stinti e di grasse nuvole bianche.
Il tutto rinfrescato da una brezza salmastra. Nell'entroterra, vale a dire anche nel Lakes District, dove Sunset Trails s'annida sulla sponda del Dark Score fin dai tempi in cui il nonno di Tom Mahout costruì la prima casetta nel 1923, i boschi e i laghi e gli stagni e gli acquitrini soffocano in temperature e tasso di umidità appena sotto il punto di saturazione, mentre sulla costa non si arriva ai ventisette gradi. Il venticello che sale dal mare è un extra, che rende trascurabile l'umidità e scaccia zanzare e pappataci. Il prato è popolato di bambini, perlopiù amici di Will, ma ci sono anche delle ragazze che fanno compagnia a Maddy e a Jessie e una volta tanto, mirabile dictu, sembra che vadano tutti d'accordo. Non c'è stato neanche un battibecco e verso le cinque, mentre si avvicina alle labbra il primo martini della giornata, Tom guarda Jessie, ferma lì vicino con la mazza da croquet in spalla come il fucile di una sentinella (e chiaramente a portata di udito di quella che può sembrare una casuale conversazione fra coniugi, ma che potrebbe essere un astuto complimento indiretto, rivolto alla figlia), quindi torna a girarsi verso la moglie. «In fondo è stata un'idea molto azzeccata», dice. Più che azzeccata, pensa Jessie. Una gran bomba di idea, se vuoi saperlo. Anche così non sta dicendo tutta la verità, non esprime fino in fondo il suo pensiero, ma dichiararlo a voce alta potrebbe essere pericoloso, potrebbe essere una sfida agli dei. In cuor suo pensa: ineccepibile, una giornata di squisitezza esemplare. Persino la canzone lanciata a tutto volume dal giradischi portatile di Maddy (che la sorella maggiore di Jessie ha allegramente piazzato nel patio per l'occasione, quando normalmente incombe su chi lo tocca la minaccia della pena capitale) è bella. Jessie non arriverà mai a essere un'appassionata di Marvin Gaye, non più dì quanto potrebbe assolvere il vago odore minerale che si alza dalle acque del lago nei caldi pomeriggi estivi, però quella canzone può andare. Sarò un fesso se non dico che sei bella adesso... baby: stupida, ma non pericolosa. È il 14 agosto 1965, un giorno che era, un giorno che è ancora, nella mente di una donna che sogna, ammanettata a un letto in una casa sulla sponda di un lago quaranta miglia a sud di Dark Score (ma con lo stesso odore minerale, quell'odioso odore evocativo, nelle giornate afose dell'estate), e anche se la bambina di dodici anni non vede Will che si avvicina di soppiatto alle sue spalle, mentre lei si china per colpire la palla di croquet, offrendo il sedere trasformato in un bersaglio troppo irresistibile per un ragazzino che ha vissuto solo tanti anni quanti sono gli inning di una partita di baseball, una parte della sua mente sa che il fratellino è lì
dietro e che quello è il punto in cui il sogno è stato imbastito all'incubo. Prende la mira, concentrandosi sull'archetto a tre metri di distanza. Un colpo difficile, ma non impossibile e, se fa passare la palla, potrebbe ancora raggiungere Caroline. Sarebbe bello, perché Caroline vince praticamente sempre a croquet. Poi, nel momento in cui fa oscillare la mazza all'indietro, la musica che giunge dal giradischi cambia. «Oilà, sturatevi le orecchie tutti quanti», canta Marvin Gaye, ma questa volta il tono minaccioso non le sembra più molto per finta, «specialmente voi ragazze...» La pelle s'increspa e rabbrividisce lungo le braccia abbronzate di Jessie. «...è giusto essere lasciati da soli quando chi ami non è mai a casa?... Io amo troppo forte, mi sento dire dagli amici...» Le si intorpidiscono le dita e non sente più il manico della mazza fra le mani. Ha un formicolio nei polsi, come fossero tenuti da (seppi la Brava Mogliettina nei ceppi venite a vedere la Brava Mogliettina nei ceppi venite a vedere che c'è da ridere) morse invisibili e all'improvviso il cuore le si riempie di sgomento. È l'altra canzone, la canzone sbagliata, la canzone cattiva. «...ma io credo... io credo... che è giusto amare così una donna...» Alza lo sguardo sul piccolo gruppo di ragazzine che aspettano che colpisca la palla e vede che Caroline se n'è andata. Al suo posto c'è Nora Callighan. Ha i capelli in trecce, ha una macchiolina bianca di ossido di zinco sulla punta del naso, porta le scarpe da ginnastica gialle di Caroline e il ciondolo di Caroline, quello con dentro la minuscola fotografia di Paul McCartney, ma gli occhi sono quelli verdi di Nora e la stanno guardando con una profonda compassione da persona adulta. Jessie ricorda a un tratto che Will, incitato senza dubbio dagli amici, ubriachi non meno di lui di coca cola e torta tedesca al cioccolato, le si sta avvicinando di soppiatto, si sta preparando a darle una strizzata. Lei reagirà con violenza, ruotando su se stessa e sferrandogli un pugno alla bocca, non arriverà forse a guastare del tutto la festa, ma certamente ne intaccherà la squisita perfezione. Cerca di lasciare andare la mazza con l'intenzione di raddrizzarsi e girarsi prima che possa accadere. Vuole cambiare il passato, ma il passato è pesante, provarci, ha scoperto, è come tentare di sollevare la casa prendendola per uno spigolo, per guardarci sotto alla ricerca di cose perdute, dimenticate o nascoste. Dietro di lei, qualcuno ha alzato ancora un po' il volume del piccolo giradischi di Maddy e la terribile canzone vibra più forte che mai, trionfante
e reboante e sadica: «Mi fa tanto male dentro... sentirmi trattare così male... qualcuno mi soccorra... le dica che è sbagliato...» Cerca di nuovo di abbandonare la mazza, gettarla via, ma non può. È come se qualcuno l'avesse ammanettata. Nora! grida. Nora, mi devi aiutare! Fermalo! (Fu questo il momento in cui Jessie gemette per la prima volta mentre sognava, facendo momentaneamente trasalire il cane, che si allontanò dal corpo di Gerald.) Nora scuote la testa, adagio e con gravità. Non ti posso aiutare, Jessie. Sei sola, come tutti noi. Di solito non dico queste cose ai miei pazienti, ma credo che nel caso tuo sia più conveniente essere sinceri. Tu non capisci! Non posso passarci un'altra volta! Non posso! Oh, non essere sciocca, la rimprovera Nora, improvvisamente spazientita. Comincia a voltarsi, come se non sopportasse più la vista dell'espressione affranta di Jessie. Non è che ne morirai, non è un veleno. Jessie si guarda intorno concitata (anche se lo stesso non riesce a rialzarsi, non può evitare di offrire quel bersaglio irresistibile al fratello in agguato) e vede che l'amica Tammy Hough non c'è più; al suo posto, con i calzoncini bianchi e la maglietta gialla senza maniche, che fino a un attimo prima erano indosso a Tammy, c'è Ruth Neary. Tiene la mazza da croquet di Tammy in una mano, la mazza a strisce rosse, e nell'altra ha una Marlboro. Gli angoli della sua bocca sono sollevati nel suo solito sorriso sornione, ma i suoi occhi sono seri e pieni di tristezza. Ruth, aiuto! grida Jessie. Devi aiutarmi! Ruth tira una gran boccata dalla sigaretta, che poi schiaccia nell'erba sotto uno dei sandali con la suola di sughero di Tammy Hough. Quante storie, gioia, ti fa solo una strizzatina, non sta per schiaffarti un manico di scopa su per il sedere. Lo sai meglio di me, ci sei già passata, non è il caso di farne una tragedia. Non è solo una strizzata! Lo sai anche tu che non è così! Strizza gli occhi la civetta che ti guarda senza fretta, recita Ruth. Cosa? Che cosa vuoi dire... Voglio dire che io non posso sapere niente di un bel niente! ribatte con durezza Ruth. Nella sua voce c'è collera in superficie, mortificazione in profondità. Non hai voluto raccontarmelo, non hai voluto raccontarlo a nessuno. Sei scappata. Sei scappata come un coniglio che vede l'ombra di una civetta nell'erba. Non potevo raccontarlo! strilla Jessie. Ora vede un'ombra nell'erba ac-
canto a sé, quasi fosse stata evocata dalle parole di Ruth. Ma non è l'ombra di una civetta; è l'ombra di suo fratello. Sente le risatine soffocate degli amici, sa che sta allungando il braccio e ancora non può rialzarsi, non riesce a muovere un dito. Non ha il potere di cambiare quello che è stato e capisce che in ciò consiste l'essenza dell'incubo e della tragedia. Non la paura, ma l'impotenza. Non potevo! strilla di nuovo a Ruth. Mai avrei potuto! Mia madre ne sarebbe morta... o la mia famiglia ne sarebbe stata distrutta... o l'uno e l'altro! L'ha detto lui! Papà l'ha detto! Mi spiace di dover essere io a portarti la triste notizia, gioia gioietta, ma il tuo caro vecchio sarà morto fra dodici anni dal dicembre prossimo. E non potresti risparmiarci questa scenata così melodrammatica? Non è che ti abbia appeso alla corda del bucato per i capezzoli per poi appiccarti fuoco alle chiappe, mi pare. Ma lei non vuole sentire quelle parole, non vuole prendere in considerazione un eventuale ritorno al passato sepolto, nemmeno in sogno; quando i tasselli del domino cominciano a cadere, chi può prevedere dove si andrà a finire? Così si tappa le orecchie per non sentire Ruth e continua a fissare l'antica compagna di stanza con quell'espressione di supplica che così spesso spingeva Ruth (la cui scorza di severità era sempre stata comunque sottile come un velo) a ridere e arrendersi, a fare quello che Jessie le chiedeva. Ruth, mi devi aiutare! Ti scongiuro! Ma questa volta lo sguardo supplichevole non diede risultati. Non credo, gioia. Le Sorelle Susie non ci sono più, è passato il tempo dei becchi chiusi, di scappare, non se ne parla proprio, e svegliarsi non è un'opzione praticabile. Questo è il treno del mistero, Jessie. Tu sei la gattina, io sono la civetta. Avanti, allora, tutti in carrozza! Allacciate le cinture e tenetevi forte. Questo è un treno che vola come il vento. No! Ma adesso Jessie si accorge con orrore che il giorno comincia a oscurarsi. Potrebbe essere il sole che finisce dietro una nuvola, ma sa che non è così. Il sole si sta spegnendo. Presto brilleranno le stelle nel cielo di un pomeriggio d'estate e la civetta strizzerà l'occhio guardando la colomba senza fretta. È venuto il momento dell'eclisse. No! grida di nuovo. Sono passati due anni! Ti sbagli, gioia, dice Ruth Neary. Per te non è mai finita. Perché il sole non è mai più riapparso.
Apre la bocca per obiettare, per dire a Ruth che pecca anche lei di eccesso di zelo come già Nora, che continuava a spingerla verso porte che non voleva aprire, insistendo che il presente si può migliorare con l'esame del passato, come se si potesse migliorare il sapore della cena di oggi condendola con gli avanzi ammuffiti di quella di ieri. Voleva dire a Ruth, come aveva detto a Nora il giorno in cui era uscita dal suo studio per sempre, che c'era una grande differenza fra vivere con qualcosa ed esserne tenuto prigioniero. Si può essere così scarsi da non capire che il Culto di Sé non è che un culto come tutti gli altri? vorrebbe dire, ma prima ancora che abbia aperto bocca c'è l'invasione: una mano fra le gambe leggermente separate, il pollice che affonda fra le sue natiche, le dita schiacciate contro il tessuto dei calzoncini poco sopra la vulva, e questa volta non è la piccola mano innocente di suo fratello; la mano che ha fra le gambe è molto più grande di quella di Will e non è per niente innocente. Alla radio c'è la canzone cattiva, le stelle sono spuntate in cielo alle tre del pomeriggio e quello (non si muore non è veleno) è il modo in cui si scambiano le strizzate gli adulti. Ruota su se stessa, sicura di trovare suo padre. Qualcosa di simile le ha fatto durante l'eclisse, una cosa che probabilmente i petulanti Cultori di Sé, i Viventi nel Passato, come Ruth e Nora, avrebbero classificato fra gli atti di libidine su un minore. Comunque si voglia chiamare il suo gesto, sarà lui, ne è sicura, e ha paura di voler riscuotere un terribile prezzo per quello che le ha fatto, grave o triviale che sia: solleverà la mazza da croquet e gliela calerà sulla faccia, fracassandogli il naso e facendogli saltare i denti e, quando cadrà nell'erba, arriveranno i cani a divorarlo. Ma dietro di lei non c'è Tom Mahout. C'è Gerald. È nudo. Il Pene di un Avvocato spunta da sotto la sacca molle e rosea del suo ventre. In ciascuna mano ha una coppia di manette Kreig, da poliziotto. Gliele porge in quella strana oscurità pomeridiana. Il brillio innaturale delle stelle spuntate di giorno si riflette sugli anelli aperti con la scritta M-17, perché il suo fornitore non è riuscito a trovargli dei modelli F-23. Dai, Jess, le dice sorridendo. Non è che devi far finta di essere tanto ingenua, so che ti è piaciuto. La prima volta quasi credevo che saltassi in aria, per la foga con cui sei venuta. Lascia che ti dica che è stata la più bella scopata della mia vita, così forte che certe volte me la sogno ancora. E sai perché è stata così bella? Perché non hai dovuto assumerti nessuna responsabilità. A quasi tutte le donne piace di più quando è l'uomo a fare tutto, è un fatto riprovato della psicologia femminile. Sei venuta quando
tuo padre ti ha molestato, Jessie? Scommetto di sì. Scommetto che sei venuta così forte che per poco non sei saltata in aria. I Cultori di Sé possono raccontare tutte le balle che vogliono, ma tu e io conosciamo la verità, non è vero? Ci sono certe donne che sono capaci dì dire che lo vogliono, ma ce ne sono altre che hanno bisogno che sia l'uomo a dirglielo, che lo vogliono. E tu sei una di queste. Ma va bene lo stesso, Jessie, è per questo che sono fatte le manette. Solo che non sono mai state vere manette. Sono braccialetti d'amore. Mettitele, dai, tesoro. Avanti, mettitele. Lei indietreggia, scuote la testa, non sa se ridere o piangere. È tutto così nuovo, ma la retorica che l'accompagna è fin troppo risaputa. I trucchi da avvocato non hanno presa su di me, Gerald, sono troppi anni che ne ho uno per marito. Quello che sappiamo tutti e due è che io con le manette non c'entro niente adesso e non c'entravo prima. Le manette sono un problema tuo... servono a risvegliare il vecchio John Thomas che si è ammollato nell'alcol, se vogliamo parlar chiaro. Perciò schiaffatele in quel posto, le tue elucubrazioni sulla psicologia femminile, d'accordo? Gerald sorrise con un'espressione risaputa e sconcertante. Bella mossa, piccola. Andata a vuoto, ma lo stesso un bel tentativo, complimenti. La migliore difesa è l'offesa, giusto? Credo di essere stato io a insegnartelo. Ma adesso non conta. Perché ora come ora hai solo un'alternativa, o ti metti i braccialetti o cali quella mazza e mi uccidi di nuovo. Si guarda intorno e con panico e sgomento si accorge che tutte le persone presenti alla festa di Will stanno assistendo al suo confronto con quell'uomo nudo (ha solo gli occhiali), in sovrappeso e sessualmente eccitato... e non ci sono solo i suoi parenti e i suoi amici d'infanzia. Vicino al punch c'è la signora Henderson, che sarà la sua consulente psicoattitudinale al college; sul patio c'è Bobby Hagen, che sarà il suo cavaliere al ballo dell'ultimo anno (e poi la scoperà sul sedile posteriore della Oldsmobile '88 di suo padre) e la ragazza bionda accanto a lei è quella della canonica di Neuworth, quella i cui genitori volevano bene a lei, ma stravedevano per suo fratello. Barry, pensò Jessie. Lei è Olivia e suo fratello è Barry. La ragazza bionda sta ascoltando Bobby Hagen, ma intanto guarda Jessie, con un'espressione calma ma anche un po' mesta. Indossa una felpa sulla quale c'è Mr. Naturai di R. Crumb che corre per una via cittadina. Le parole nel fumetto che esce dalla bocca di Mr. Naturai sono: «Il vizio è sfizio, ma l'incesto è un gran gusto». Dietro Olivia, Kendall Wilson, che assumerà Jessie per il suo primo incarico di insegnante, sta tagliando una fet-
ta della torta di cioccolato per la signora Paige, la sua maestra di piano dell'infanzia. La signora Paige sembra straordinariamente vivace, per una donna che è morta d'infarto due anni fa mentre raccoglieva mele al frutteto di Corrit ad Alfred. Questo non è come sognare, pensa Jessie, è come annegare. Tutte le persone che ho conosciuto sono riunite qui, sotto questo innaturale cielo pomeridiano in cui brillano le stelle, a guardare mio marito nudo che cerca di mettermi le manette mentre Marvin Gaye canta Chi mi trova un testimone. Se devo trovare un motivo di consolazione, è questo: peggio di così non si può. E invece sì. La signora Wertz, la sua maestra di prima elementare, scoppia a ridere. Il vecchio signor Cobb, loro giardiniere fino al 1964, quando è andato in pensione, ride con lei. Poi si uniscono Maddy e Ruth e Olivia con le bruciature sulle tette. Kendall Wilson e Bobby Hagen sono praticamente piegati in due e si danno gran pacche sulla schiena come se avessero appena sentito il colmo di tutte le storielle sporche del mondo nel negozio del barbiere. Forse quella che finisce con la battuta «il sistema di deambulazione di una fica». Jessie abbassa lo sguardo e vede che adesso è nuda anche lei. Sui seni, in una tonalità di rossetto nota come Peppermint Yum-Yum, ci sono quattro parole che la condannano: LA BIMBA DI PAPÀ. Devo svegliarmi, pensa. Se non mi sveglio morirò di vergogna. Ma non si sveglia, non subito. Rialza lo sguardo e vede che quel sorriso sconcertante e sapiente di Gerald si è trasformato in una ferita aperta. D'un tratto fra i suoi denti sbuca il muso del cane randagio lordo di sangue. Anche il cane ghigna e la testa che sporge fra le sue zanne, come all'inizio di un parto disgustoso, è quella di suo padre. I suoi occhi, che sono sempre stati di un azzurro brillante, ora sono grigi e mesti sopra il suo sorriso. Sono gli occhi di Olivia, se ne accorge in un secondo tempo, e contemporaneamente si accorge anche di un'altra cosa: c'è dappertutto quel piatto odore minerale dell'acqua lacustre, così blando e tuttavia così orribile. «Io amo troppo forte, mi sento dire dagli amici», canta suo padre da dentro la bocca del cane che è dentro la bocca di suo marito, «ma io credo, io credo, che è giusto amare così una donna...» Lascia cadere la mazza e scappa urlando. Quando passa vicino all'orribile creatura con quella bizzarra serie di teste una dentro l'altra, Gerald le fa scattare le manette intorno a un polso. Beccata! esclama in tono di trionfo. Ti ho beccata, mia fiera bellezza!
Dapprincipio pensa che l'eclisse non doveva essere stata veramente totale, perché il cielo sta diventando ancora più scuro. Poi si rende conto che probabilmente sta perdendo i sensi. Quel pensiero è accompagnato da sensazioni di profondo sollievo e gratitudine. Non essere sciocca, Jess, non si può svenire in un sogno. Ma lei crede che stia accadendo e alla fine non ha più molta importanza se si tratti di uno svenimento o solo di una galleria di sonno più profonda, quella verso cui sta fuggendo come la superstite di un cataclisma. Ciò che conta è che finalmente sta fuggendo dal sogno che l'ha aggredita in un modo assai più penetrante del gesto di suo padre in terrazza, che finalmente sta scappando, e la gratitudine le sembra una reazione stupendamente normale in quelle circostanze. È riuscita quasi a raggiungere l'accogliente galleria di tenebra quando s'intromette un suono: un rumore secco e sgradevole come un colpo spasmodico di tosse. Cerca di fuggire anche da quello ma non può. L'ha afferrata come un amo e come un amo comincia a trascinarla verso il vasto ma fragile cielo argentato che separa il sonno dalla coscienza. 12 L'ex Prince, che una volta era stato l'orgoglio e la gioia della piccola Catherine Sutlin, rimase seduto sulla soglia della cucina per una decina di minuti dopo l'ultima sortita in camera da letto. Sedeva con la testa drizzata e gli occhi bene aperti. Per due mesi era sopravvissuto a stento, dovendosi accontentare di pochi avanzi, e quella sera si era nutrito bene, anzi, si era fatto un'autentica scorpacciata, dunque avrebbe dovuto sentirsi appesantito e languido. E lo era stato per un po', ma adesso era più sveglio che mai. Alla sonnolenza si era sostituito un nervosismo che andava crescendo costantemente. Qualcosa aveva fatto scattare alcuni dei delicatissimi interruttori situati in quella zona misteriosa dove i sensi del cane si sovrappongono al suo intuito. La padrona femmina continuava a gemere nell'altra stanza e a farfugliare parole incomprensibili, ma l'irrequietudine del cane non derivava dal suo parlottare e lamentarsi; non erano stati quei suoni a indurlo ad alzarsi a sedere proprio nel momento in cui stava placidamente scivolando nel sonno, e non erano i gemiti a fargli tendere ora l'orecchio buono e arricciare le labbra tanto da scoprire la punta dei denti. Era qualcos'altro... qualcosa di sbagliato... qualcosa che poteva anche essere pericoloso.
Mentre il sogno di Jessie arrivava al culmine e da lì cominciava a ridiscendere in una lunga spirale verso il buio, il cane si alzò improvvisamente in piedi, non potendo più sopportare il formicolio dei nervi. Si girò, spinse con il muso la porta di servizio e balzò fuori nell'oscurità ventosa. In quel mentre gli giunse un odore strano, che non riuscì a identificare. Ma c'era pericolo in quell'odore... un pericolo quasi sicuro. Corse verso il bosco per quanto glielo consentiva la pancia gonfia e sovraccarica. Quando fu al sicuro nei cespugli, si girò e tornò indietro di qualche passo. Aveva battuto in ritirata, questo è vero, ma dovevano squillare ben altri campanelli d'allarme prima che considerasse l'opportunità di abbandonare del tutto la favolosa riserva di cibo che aveva trovato. Nascosto, con un reticolo di ideogrammi lunari disegnato sul muso appuntito, intelligente e all'erta, il randagio cominciò ad abbaiare e fu quel suono a ripescare infine Jessie al mondo cosciente. 13 Durante le loro estati al lago agli inizi degli anni Sessanta, prima che William imparasse a sguazzare nell'acqua bassa con un paio di galleggianti arancione attaccati alla schiena, Maddy e Jessie, che erano sempre state ottime amiche nonostante la differenza di età, scendevano spesso a nuotare dai Neidermeyer. I Neidermeyer avevano una zattera munita di trampolino ed era stato lì che Jessie aveva cominciato a sviluppare le doti atletiche che le avrebbero conquistato prima un posto nella squadra di nuoto del liceo e poi nella squadra statale, nel 1971. IL secondo momento magico nel tuffarsi dal trampolino sulla zattera dei Neidermeyer (il primo, allora e sempre, era l'arco compiuto nella calda aria estiva verso lo scintillio azzurro dell'acqua in attesa) era la risalita dalla profondità, attraverso strati in conflitto di acqua calda e fredda. Fu lo stesso riemergere dal suo sonno agitato. Prima ci fu una confusione nera e rombante e le sembrava di essere dentro una nuvola carica di temporale. Attraverso quel caos rotolò annaspando, senza la più pallida idea di chi fosse o quando fosse; meno che mai di dove fosse. Poi uno strato più caldo, più calmo: era stata catturata dall'incubo più spaventoso di tutta la storia conosciuta (almeno la sua storia), ma per fortuna era stato solo un incubo e adesso era finito. Nei pressi della superficie tuttavia trovò un altro strato freddo: il sospetto che la realtà che l'aspettava fosse quasi orribile quanto il sogno. Se non peggiore.
Che cosa? domandò a se stessa. Che cosa potrebbe essere peggiore di quello che ho appena passato? Rifiutò di pensarci troppo. La risposta era poco distante da lei ma, se l'avesse accettata, avrebbe forse deciso di rituffarsi e scendere di nuovo nell'abisso. Così sarebbe morta annegata e se annegare non era forse il modo peggiore per togliere l'incomodo (era peggio per esempio andare a sbattere con una Harley contro un muro di pietra o essere paracadutati su una rete di cavi ad alta tensione), l'idea di aprire il proprio corpo a quel piatto odore minerale, che le rammentava simultaneamente rame e ostriche, le era insopportabile. Continuò a nuotare verso l'alto, con tenacia, dicendo a se stessa che si sarebbe preoccupata della realtà che l'aspettava quando e se fosse finalmente emersa in superficie. L'ultimo strato che attraversò era caldo e angosciante come sangue appena versato: si sarebbe probabilmente ritrovata con le braccia più morte di due pezzi di legno da ardere. Poteva solo sperare di riuscire a forzare un minimo di movimento, così da poter riattivare la circolazione. Rantolò, sussultò e aprì gli occhi. Non aveva idea di quanto tempo fosse rimasta addormentata e la radiosveglia sul comò, bloccata nel proprio inferno di ossessiva reiterazione (dodici-dodici-dodici, lampeggiava nell'oscurità, come se il tempo si fosse fermato per sempre a mezzanotte), non le fu d'aiuto. Di sicuro poteva dire solo che il buio era totale e adesso la luna filtrava attraverso il lucernario invece che dalla finestra a est. Le sue braccia guizzavano in un susseguirsi di scariche nervose. Di solito era una sensazione che teneva nella massima antipatia, ma non in quel momento; era mille volte meglio dei crampi che si era aspettata come prezzo da pagare per voler risvegliare gli arti morti. Qualche istante dopo notò una macchia che le si andava allargando sotto le gambe e le natiche e si accorse di non sentire più il bisogno di orinare. Il problema era stato risolto in autonomia dal suo corpo mentre dormiva. Chiuse i pugni e con tutta la prudenza del caso si issò un po' più su, reagendo con una smorfia al dolore nei polsi e alla dura fitta che il movimento le scatenò nel dorso delle mani. La gran parte del dolore ti viene dall'aver provato a sfilare le mani dalle manette, pensò. Non hai che da biasimare te stessa, bella mia. Il cane aveva ripreso ad abbaiare. Ogni suo stridulo latrato era come una scheggia che le venisse piantata nei timpani e allora capì che erano stati i suoi strepiti a strapparla al sonno nel momento in cui si accingeva a tuffarsi sotto l'incubo. Valutando la direzione da cui giungevano i latrati, seppe
che il cane era di nuovo all'esterno. Era contenta che avesse lasciato la casa, ma ne era anche un po' perplessa. Forse molto semplicemente non si trovava comodo sotto un tetto, dopo una vita trascorsa all'aperto. C'era della logica in quell'ipotesi... quanta poteva essercene in qualsiasi altra ipotesi in una situazione come quella. Datti una mossa, Jess, si ammonì in un tono solenne e un po' impastato dal sonno e forse, ma solo forse, lo stava facendo davvero. Se ne stavano andando il panico e l'ottenebrante vergogna che aveva provato nel sogno. Anche il sogno si stava asciugando e assumeva quell'aspetto disseccato che hanno le fotografie sovraesposte. Ancora poco e sarebbe scomparso del tutto. I sogni dopo il risveglio sono come i bozzoli vuoti delle falene o l'involucro spaccato dei baccelli di crespino, conchiglie morte in cui la vita ha vibrato furiosa, ma fragile, per un breve attimo. C'erano stati casi in cui quella forma particolare di amnesia le era sembrata triste. Non ora. Mai in vita sua aveva scelto così repentinamente la misericordia come sinonimo di dimenticanza. E non importa, rifletté. Era veramente solo un sogno. Pensa per esempio a tutte quelle teste dentro ad altre teste. Sì, so anch'io che i sogni hanno un significato simbolico e suppongo che anche quell'immagine sia da intendersi come un simbolo... forse persino come una verità. Se non altro ora mi pare di aver capito perché ho colpito Will quando mi ha strizzato, quel giorno. Nora Callighan se ne sarebbe indubbiamente felicitata, avrebbe detto che era un primo passo verso la liberazione. Probabilmente è così. Anche se però non mi aiuta di un bel fico secco a liberarmi da questi bracciali da galera, quando è invece al primo posto nella lista delle mie priorità attuali. O c'è qualcuno che non è di questo avviso? Non risposero né Ruth né la Mogliettina; rimasero ugualmente in silenzio anche le voci ufesche. L'unica risposta per la verità le giunse dallo stomaco, che era dispiaciuto come mai per tutto quello che era accaduto, ma ritenne suo diritto protestare lo stesso per l'annullamento della cena con un brontolio lungo e cupo. Buffo, da un certo punto di vista... ma probabilmente molto meno divertente ora di domani. Quando si fosse fatto giorno di nuovo, sarebbe stata assalita anche dalla sete e non si illudeva certo di poterla domare a lungo con quei due sorsi d'acqua che aveva conservato. Devo concentrarmi, è indispensabile. Il problema non è il cibo e non è nemmeno l'acqua. In questo momento sono cose che non hanno più importanza del perché ho dato un pugno in bocca a Will alla festa del suo nono compleanno. Il problema è come...
I suoi pensieri si spezzarono con lo schiocco secco di un nodo di legno che esplode nelle fiamme del fuoco. I suoi occhi, che vagavano per la stanza buia, si bloccarono sull'angolo più lontano, dove le ombre dei pini, scosse dal vento, danzavano scomposte nella luce madreperlacea che scendeva dal lucernario. C'era un uomo laggiù. La invase un terrore grande come mai ne aveva conosciuto. La sua vescica, che si era in realtà liberata solo di quel tanto che era diventato incontenibile, si svuotò ora in un fiotto di calore. Jessie non se ne accorse nemmeno. Non si accorse di niente altro. Il terrore le aveva sgombrato temporaneamente la testa da parete a parete e da soffitto a pavimento. Non le sfuggì alcun suono, nemmeno il gemito più debole. Era incapace di produrre suoni non meno di quanto fosse in grado di formulare pensieri. I muscoli del collo, delle braccia e delle spalle, le si sciolsero in qualcosa di simile ad acqua tiepida. Scivolò giù dalla testata e rimase appesa alle manette, come abbandonandosi a uno svenimento. Non perse i sensi, tutt'altro, ma il vuoto mentale e l'assoluta incapacità fisica che l'accompagnò furono peggio di un blackout. Quando rinacque in lei un tentativo di pensiero, fu dapprima ostacolato da una muraglia di paura nera e informe. Un uomo. Un uomo nell'angolo. Vedeva i suoi occhi neri che la fissavano, con un'attenzione ossessiva da idiota. Vedeva il biancore cereo delle guance magre e della fronte alta, sebbene la fisionomia dell'intruso le fosse negata dal diorama di ombre che vi si agitavano sopra. Riconosceva spalle cadenti e braccia scimmiesche penzoloni, che terminavano in mani lunghe; intuiva i piedi nel triangolo nero di ombra proiettato dal comò, ma niente di più. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimase in quell'orribile stato di semistupore, paralizzata ma cosciente, come un coleottero punto da un ragno. Le sembrò un tempo lunghissimo. I secondi passavano in uno stillicidio e Jessie non era in grado nemmeno di chiudere gli occhi, meno ancora di distoglierli dal suo sconosciuto ospite. Poi il primo momento di terrore cominciò a diminuire un po', ma l'emozione che lo sostituì era anche peggiore: orrore, al quale si mescolava un'irragionevole, atavica repulsione. Più tardi avrebbe pensato che l'origine di quelle sensazioni, le emozioni negative più potenti che aveva mai sperimentato in vita sua, comprese quelle che l'avevano scossa violentemente solo poco prima, nell'assistere ai preparativi del cane che si accingeva a pasteggiare con le carni di Gerald, fosse l'assoluta immobilità della creatura. Era entrato lì mentre lei dormiva
e adesso se ne stava nell'angolo, mimetizzato dall'incessante andirivieni di ombre sul volto e sul corpo, a fissarla con occhi neri e avidi, occhi così grandi e rapiti che le facevano pensare a orbite vuote in un teschio. Il suo visitatore restava fermo nell'angolo; non faceva niente altro che sostare. Ammanettata sul letto con le braccia distese sopra di sé, Jessie si sentiva come una donna sul fondo di un pozzo profondo. Il tempo passò, segnato solo dall'imbecille ammiccare della radiosveglia che proclamava le dodici, dodici, dodici, e alla fine un pensiero razionale spuntò nella sua mente, un'idea che era a un tempo pericolosa e infinitamente consolante. Qui dentro ci sei solo tu, Jessie. L'uomo che vedi nell'angolo è un miscuglio di ombre e immaginazione, niente di più. Tornò a issarsi faticosamente a sedere, tirandosi con le braccia, sopportando con una smorfia il dolore nelle spalle provate, spingendo con i piedi, cercando di puntare i calcagni nudi nel copriletto, ansimando roca per lo sforzo... e mentre faceva tutte queste cose, i suoi occhi non abbandonarono mai la sagoma lunga e sinistra che occupava l'angolo. È troppo alto e troppo magro per essere un uomo vero, Jess, lo vedi anche tu, no? È solo un concorso di vento, ombre, un pizzico di luce lunare... e qualche rimasuglio del tuo incubo, probabilmente. Sei convinta? Quasi. Cominciò a rilassarsi. Poi da fuori il cane si abbandonò a un'altra salva isterica di latrati. E la sagoma che occupava l'angolo, quella figura costruita solo di vento, ombre e un pizzico di luce lunare, quell'essere che in realtà non esisteva, non voltò forse la testa di qualche millimetro nella direzione da cui provenivano i latrati? No, certamente no. Era un altro trucco del vento, del buio e delle ombre. Poteva anche essere, per la verità si sentiva quasi sicura che quell'ultimo particolare, quello della testa che si girava, fosse stata un'illusione ottica. Ma il resto? La figura in sé? Non riusciva a convincersi del tutto che fosse solo immaginazione. Come presumere che una forma così somigliante a un uomo fosse una fantasticheria? Parlò a un tratto la Brava Mogliettina Burlingame e, se la sua voce era piena di paura, non c'era traccia di isteria, perlomeno non ancora; per quanto strano, era la Ruth che aveva dentro di sé ad aver subito lo scossone più violento all'idea raccapricciante di non essere sola nella stanza, ed era Ruth la più incline a lasciarsi andare alle farneticazioni. Se quella cosa non è reale, disse la Mogliettina, allora perché il cane è scappato? Io non credo che se ne sarebbe andato senza un'ottima ragione,
ti pare? Capiva comunque che la Brava Mogliettina era molto spaventata lo stesso e sperava in una spiegazione della ritirata del cane che escludesse la forma che Jessie vedeva o credeva di vedere nell'angolo. La stava pregando mentalmente di rispondere che la sua idea originaria, quella che il cane si era semplicemente sentito a disagio fra quattro mura, fosse l'ipotesi più probabile. O forse se n'era andato per il motivo più antico: aveva sentito l'odore di un altro randagio, quello di una cagna in calore. Era anche possibile che il cane si fosse impaurito per qualche rumore, mettiamo un ramo spinto dal vento contro una delle finestre al piano di sopra. Questa le piaceva di più, perché suggeriva una forma di rudimentale giustizia: che anche il cane fosse stato spaventato da un intruso immaginario e che i suoi latrati avessero lo scopo di scacciare l'inesistente nuovo arrivato per salvarsi la cena. Sì, dammi una di queste ragioni, la supplicò all'improvviso la Brava Mogliettina, e anche se tu non ci credi, cerca di persuadere me! Ma non pensava di riuscirci e il motivo era fermo nell'angolo vicino al comò. C'era sicuramente qualcosa. Non era un'allucinazione, non era un miscuglio di ombre mosse dal vento e fantasia troppo fervida, non era un avanzo di sogno, un fantasma transitorio intravisto in quella percettiva terra di nessuno che si trova fra il sonno e la veglia. Era un (mostro è un mostro un orco venuto a mangiarmi) uomo, non un mostro, ma un uomo, immobile a guardarla mentre il vento soffiava e faceva scricchiolare la casa e le ombre danzavano sul suo volto strano e seminascosto. Questa volta il pensiero (mostro! orco!) salì dai livelli inferiori della sua mente a quello meglio illuminato della sua consapevolezza. Lo ripudiò di nuovo, ma sentiva rinascere il terrore. La creatura in fondo alla stanza era forse un uomo ma, anche così, era sempre più sicura che nella sua faccia ci fosse qualcosa di estremamente sbagliato. Se solo avesse potuto vedere meglio! No che non vuoi, l'ammonì sibilando una sinistra voce di ufo. Ma io devo parlare con quella cosa, devo stabilire un contatto, pensò Jessie e immediatamente reagì a se stessa in un tono innervosito e severo che sembrava un frullato delle voci di Ruth e della Brava Mogliettina: Non pensare che sia una cosa, Jessie, convinciti che è un uomo, una persona che forse si è persa nei boschi, qualcuno che forse è spaventato quanto te. Ottimo consiglio, forse, ma Jessie sentì che non era in grado di pensare a
quella forma nell'angolo come a un essere umano di sesso maschile, né più né meno di quanto fosse capace di pensare al randagio come a un maschio di cane. E non era nemmeno disposta a credere che la creatura nell'angolo fosse smarrita o spaventata. Le sensazioni che le giungevano da laggiù erano lunghe, lente onde di malevolenza. È stupido! Parlagli, Jessie! Devi parlargli! Cercò di schiarirsi la gola e scoprì che non c'era niente da schiarire, era secca come un deserto e liscia come steatite. Ora sentiva il cuore che le batteva nel petto, battiti molto leggeri, molto veloci, molto irregolari. Soffiò il vento. Le ombre disegnarono forme bianche e nere sulle pareti e sul soffitto, dandole la sensazione di essere finita intrappolata in un caleidoscopio per daltonici. Per un attimo le parve di vedere un naso (sottile e lungo e bianco) sotto quegli occhi neri e immobili. «Chi...» La prima volta riuscì a emettere solo quel fragile sussurro che nessuno che si trovasse dall'altra parte della stanza avrebbe mai potuto sentire. Si arrestò, si passò la lingua sulle labbra e provò di nuovo. Sentiva le mani strette in palle dolorose e si ordinò di allentare le dita. «Chi sei?» Ancora un sussurro, ma questa volta un po' meglio di prima. La figura non rispose, restò ferma dov'era con le lunghe mani bianche che penzolavano all'altezza delle ginocchia e Jessie pensò: Le ginocchia? Ginocchia? Non è possibile, Jess, quando le mani di una persona sono abbandonate lungo i fianchi, arrivano alla parte superiore delle cosce. Rispose Ruth e la sua voce era così tremante e sommessa che Jessie faticò a riconoscerla. Le mani di una persona normale arrivano alla parte superiore delle cosce, è questo che intendi, vero? Ma tu credi che una persona normale entrerebbe di soppiatto in casa altrui nel cuore della notte, per starsene fermo in un angolo a guardare, quando trova la dama del castello incatenata al letto? Se ne starebbe laggiù e non farebbe niente? Fu allora che mosse una gamba... ma forse era di nuovo solo il movimento delle ombre ad averle dato l'illusione, questa volta registrata dal quadrante inferiore del suo campo visivo. Ombre, luna e vento contribuivano a rendere l'episodio terribilmente ambiguo e di nuovo Jessie si ritrovò a dubitare della concretezza del suo visitatore. Valutò la possibilità che stesse ancora dormendo, che il suo sogno della festa di compleanno di Will avesse semplicemente deviato in una direzione nuova e sconosciuta... ma non era molto disposta a crederlo. Sapeva di essere sveglia. Che la gamba si fosse veramente mossa o no (che ci fosse una gamba era
ancora da stabilire), lo sguardo di Jessie fu momentaneamente attirato verso il basso. Le parve di scorgere un oggetto nero seduto per terra fra i piedi della creatura. Era impossibile capire che cosa fosse perché l'ombra del comò rendeva quella zona della camera più scura che mai, ma la sua mente tornò all'improvviso al pomeriggio, quando stava cercando di convincere Gerald che il suo rifiuto non faceva parte della recita prevista dal gioco. I soli rumori erano stati il vento, la porta che sbatteva, i latrati del cane, i richiami della gavia e... La cosa appoggiata per terra fra i piedi del visitatore era una sega a motore. Jessie ne fu istantaneamente certa. Il suo visitatore l'aveva usata qualche ora prima, ma non per tagliare legna per il fuoco. Era andato in giro a tagliare persone e il cane era scappato perché aveva sentito l'odore del pazzo che si avvicinava, lo squilibrato che era venuto dal sentiero del lago facendo dondolare la sua Stihl imbrattata di sangue, stretta nella mano inguantata... Piantala! strillò rabbiosa la Brava Mogliettina. Piantala immediatamente e datti una regolata! Ma scoprì di non poter smettere, perché non era un sogno e anche perché aveva sentito crescere dentro di sé la certezza che la forma nell'angolo, silenziosa come il mostro di Frankenstein prima del colpo di fulmine, era reale. Tuttavia, anche se si trattava di un uomo in carne e ossa, non aveva certo passato il pomeriggio a ridurre persone in bistecche con una sega a motore. Naturalmente no, quella era solo una variazione ispirata da qualche film delle più ordinarie e macabre storie da campo estivo che sembravano così divertenti quando ci si riuniva tutti intorno al fuoco a far arrostire marshmallow in allegra compagnia, e così orribili dopo, quando ci si ritrovava a rabbrividire nel sacco a pelo, e a ogni ramoscello spezzato si pensava che stesse arrivando l'Uomo del Lago, il leggendario reduce della guerra di Corea rientrato in patria con il cervello semispappolato. La cosa ferma nell'angolo non era l'Uomo del Lago e non era nemmeno un assassino che macellava la gente segandola a pezzi. Per terra c'era qualcosa, questo sì, ne era più che sicura, e poteva anche essere una sega a motore, ma poteva benissimo essere una valigia... uno zaino... il campionario di un piazzista... O la mia immaginazione. Sì. Anche se gli occhi le confermavano che un oggetto c'era, qualunque cosa fosse, sapeva di non poter escludere la possibilità dell'immaginazione.
Eppure, in un modo tutto perverso, la riflessione rafforzò l'idea che la creatura stessa fosse reale e le era sempre più difficile negare la sensazione di cattiveria che si diffondeva da quel groviglio di ombre scure e farinosa luce lunare come un ringhio costante e sommesso. Mi odia, pensò. Qualunque cosa sia, mi odia. Deve essere così per forza. Altrimenti perché se ne starebbe lì invece di aiutarmi? Rialzò lo sguardo al volto invisibile, agli occhi che sembravano scintillare di febbrile avidità nelle orbite nere e rotonde, e cominciò a piangere. «Per piacere, c'è qualcuno laggiù?» Il tono era umile, rotto dalle lacrime. «Se c'è qualcuno, vuole per piacere aiutarmi? Vede queste manette? Le chiavi sono lì vicino a lei, sopra il comò...» Niente. Nessun movimento. Nessuna risposta. Se ne stava là, quasi che ci fosse sempre stato, a guardarla da dietro la ferina maschera di ombre. «Se vuole che non dica a nessuno che l'ho vista, starò zitta», tentò di nuovo. La sua voce stentava, le sillabe si confondevano le une con le altre. «Non avrei nessun interesse, glielo giuro! E le sarei così... così grata...» La forma la guardava. La guardava e basta. Jessie sentì le lacrime che le scivolavano lentamente sulle guance. «Così mi fa paura, sa?» disse. «Perché non dice qualcosa? Non può parlare? Se è davvero laggiù, vuole essere così gentile da parlarmi?» L'aggredì allora un'isteria affilata e terribile che prese il volo portandosi via fra gli artigli una parte di lei preziosa e insostituibile. Pianse e implorò la paurosa figura immobile nell'angolo della camera da letto; rimase sempre cosciente, ma sbandò di tanto in tanto in quel curioso luogo informe che è riservato a coloro che vivono un terrore così grande da rischiare il collasso. Sentiva la propria voce roca e singhiozzante chiedere alla forma di per piacere liberarla dalle manette, di per piacere oh la supplico la supplico, liberarla dalle manette, per poi ricadere in quella strana zona di vuoto. Sapeva che muoveva ancora la bocca perché lo sentiva. Sentiva anche i suoni che ne uscivano, ma quando si trovava in quella zona di vuoto i suoni non erano parole, ma solo torrenti inarticolati. Sentiva anche soffiare il vento e abbaiare il cane, ne era cosciente ma non lo sapeva, udiva ma senza capire, ogni coerenza andava persa nell'orrore di quella forma seminvisibile, quell'orribile visitatore, quell'ospite non invitato. Non riusciva a smettere di contemplare la sua testa stretta e deforme, le guance bianche, le spalle cadenti... ma sempre più spesso era sulle mani della creatura che si posava il suo sguardo: quelle mani penzoloni, dalle dita lunghe, che arri-
vavano molto più giù di dove sarebbero dovute arrivare delle mani normali. Un lasso di tempo imprecisato trascorreva in quella situazione di sospensione (dodici, dodici, dodici, riferiva l'orologio sul comò; nessun aiuto da quella parte), dopodiché tornava un po' in sé, cominciava a pensare pensieri invece di sperimentare solo uno scorrere tumultuoso di immagini incoerenti, cominciava a sentire le proprie labbra che pronunciavano parole invece di biascicare suoni. Ma era andata avanti mentre aveva soggiornato in quella zona vuota; ora le sue parole non riguardavano più le manette o le chiavi sul comò. Udiva invece i bisbigli sottili e striduli di una donna che si è ridotta a implorare una risposta... una risposta qualsiasi. «Che cosa sei?» singhiozzò. «Un uomo? Un demone? In nome del cielo, che cosa sei?» Soffiò il vento. Sbatté la porta. Davanti a lei la faccia della forma sembrò cambiare... parve arricciarsi in un sogghigno. C'era qualcosa di orribilmente familiare in quel sorriso e Jessie sentì il nucleo del suo equilibrio mentale, grazie al quale aveva sopportato finora quell'aggressione con notevole stoicismo, che cominciava finalmente a cedere. «Papà?» sussurrò. «Sei tu, papà?» Non dire scemenze! tuonò la Brava Mogliettina, ma ora Jessie sentiva che anche quella voce normalmente solida era incrinata dall'isteria. Non dire bestialità, Jessie! Tuo padre è morto nel 1980! Invece di soccorrerla, peggiorò la situazione. La peggiorò in maniera decisiva. Tom Mahout era stato tumulato nella cripta di famiglia a Falmouth, che si trovava a meno di cento miglia da lì. La mente di Jessie, mandata in ebollizione dal terrore, si bloccò su una figura ingobbita, con le vesti e le scarpe scassate tutte macchiate di muffa verdastra, che avanzava furtiva attraversando i campi illuminati dalla luna e allungando il passo attraverso la brughiera fra un suburbio e un altro; vide la forza di gravità operare sui muscoli marcescenti delle braccia, allungandogliele piano piano fino a fargli pendere le mani all'altezza delle ginocchia. Era suo padre. Era l'uomo che quando lei aveva tre anni l'aveva deliziata portandola in giro a cavalluccio, che quando ne aveva sei l'aveva consolata quando un clown al circo l'aveva spaventata tanto da farla piangere, che le aveva raccontato favole per farla addormentare fino a quando ne aveva compiuti otto e allora aveva dichiarato che ormai era abbastanza grande da leggersele da sé. Suo padre, che aveva affumicato da sé delle lastre di vetro il pomeriggio dell'eclisse e
l'aveva presa sulle ginocchia quando si era avvicinato il momento dell'oscuramento totale, suo padre che le aveva detto: Non ti preoccupare di niente... non temere niente e non ti girare. Ma lei aveva pensato che forse lui era preoccupato, perché la sua voce era densa e tremante, non somigliava affatto alla sua voce normale. Nell'angolo, il sorriso della cosa sembrò allargarsi e all'improvviso la stanza s'impregnò di quell'odore, l'odore piatto che era per metà metallico e per metà organico; un odore che le ricordava quello delle ostriche alla panna e quello che ti resta sulla mano se hai stretto per un po' una manciata di monetine e quello che pervade l'aria prima di un temporale. «Papà, sei tu?» chiese all'ombra ferma nell'angolo e da lontano giunse il verso della gavia. Jessie sentiva le lacrime che le scivolavano lentamente sulle guance. E ora stava accadendo qualcosa di estremamente strano, qualcosa che non si sarebbe aspettata in mille anni. Mentre si andava convincendo che era davvero suo padre, che nell'angolo c'era Tom Mahout, morto o no da dodici anni, il terrore cominciò ad abbandonarla. Aveva tirato a sé le gambe, ma ora le allungò di nuovo e le lasciò ricadere aperte. In quel mentre riaffiorò un frammento del" suo sogno, la scritta LA BIMBA DI PAPÀ tracciata sul suo seno con rossetto color Peppermint Yum-Yum. «Coraggio allora, fatti avanti», disse alla forma. La sua voce era un po' roca, ma nel complesso calma. «È per questo che sei tornato, non è vero? Avanti. Non potrei comunque fermarti, no? Solo promettimi che dopo mi liberi. Che mi liberi e mi lasci andare.» La forma non diede alcun segno di reazione. Rimase ferma dov'era dentro quel surreale gioco di sciangai fatto di luna e ombre. La fissava sorridendo. E mentre i secondi passavano (dodici, dodici, dodici, dichiarava la radiosveglia sul comò come a lasciar intendere che l'idea stessa del trascorrere del tempo fosse un'illusione, che in realtà il tempo si fosse congelato) Jessie cominciò a sospettare di aver visto giusto il primo momento, quando aveva pensato che forse in realtà non ci fosse nessuno con lei nella stanza. Aveva cominciato a sentirsi come una banderuola in balia di quei refoli giocosi e contraddittori che si alzano talvolta nell'imminenza di un forte temporale o di un tornado. Tuo padre non può ritornare dal mondo dei morti, dichiarò la Brava Mogliettina Burlingame in un tono di voce che si sforzava di trasmettere sicurezza e falliva miseramente. Ma Jessie elogiò lo stesso il suo tentativo. Cascasse il mondo, la Brava Mogliettina era sempre al suo posto, indomita. Questo non è un film dell'orrore o un episodio di Ai confini della realtà,
Jess. Questa è realtà. Ma un'altra parte di lei, una parte che forse era la dimora delle voci interiori veramente ufesche, e non le interferenze con cui il suo inconscio aveva cominciato a disturbare la sua mente cosciente, sosteneva con forza la presenza di una verità più scura, qualcosa che spuntava dai calcagni della logica simile a un'ombra irrazionale (e forse soprannaturale). Quella voce insisteva che al buio le cose cambiano. Le cose cambiano specialmente al buio, affermava, quando una persona è sola. In quella condizione, dalla gabbia che contiene l'immaginazione cadono i lucchetti e allora qualunque cosa può mettersi a circolare liberamente. Può benissimo essere tuo padre, bisbigliò quella voce essenzialmente aliena, e con un brivido di terrore Jessie riconobbe la voce della follia intessuta con quella della ragione. Può benissimo essere lui, non ti credere. Quasi sempre alla luce del giorno la gente è al sicuro da spettri e mostri e morti viventi e ne è normalmente al sicuro di notte, quando si è in compagnia di altre persone, ma quando si è soli nel buio, non c'è più niente da fare. Uomini e donne soli nel buio sono come porte aperte, Jessie, e se gridano o invocano aiuto, chi sa quali orribili creature risponderanno? Chi sa che cosa hanno visto certi uomini e certe donne nell'ora della loro morte solitaria? È così difficile credere che alcuni di loro siano morti di paura, quali che siano le parole scritte sui loro certificati di decesso? «Non ci credo», protestò, ma la sua voce era offuscata, incerta. Allora parlò più forte, fece appello a una fermezza che non sentiva. «Tu non sei mio padre! Io credo che tu non sia nessuno! Io credo che tu sia fatto di luce lunare!» Come in risposta, la forma si chinò in avanti in una specie di inchino irridente e per un attimo il suo volto, troppo reale per poterne dubitare la concretezza, emerse dalle ombre. Jessie si lasciò sfuggire uno strillo rugginoso quando i pallidi raggi che penetravano dal lucernario verniciarono i suoi lineamenti di una patina scintillante, come una pacchiana argentatura da baraccone. Non era suo padre. Piuttosto che trovarsi a tu per tu con la malvagità e la follia che lesse sul volto del suo visitatore, ben volentieri avrebbe accolto suo padre, anche dopo dodici anni trascorsi nel freddo di una bara. Dal profondo di orbite inghirlandate di rughe, la osservavano occhi cerchiati di rosso, animati da un inquietante brillio. Le labbra sottili erano arcuate all'insù in un ghigno asciutto e rivelavano molari anneriti e canini irregolari, lunghi quasi quanto le zanne del cane randagio.
Sollevò con una mano bianca l'oggetto che aveva per metà visto e per metà intuito fra i suoi piedi, nel buio dell'angolo. Lì per lì pensò che avesse preso la valigetta di Gerald dal piccolo locale che usava come studio privato alla casa del lago, ma quando la creatura ebbe alzato quella specie di scatola sotto i raggi della luna, vide che era molto più grande della valigetta di Gerald e molto più vecchia. Sembrava piuttosto un astuccio di campionario, di quelli che costituivano un tempo il bagaglio di tutti i commessi viaggiatori. «La prego», mormorò con un palpito di voce privo di nerbo. «Chiunque lei sia, la prego, non mi faccia del male. Non mi deve lasciare libera se non vuole, non importa, la supplico solo di non farmi del male.» Il sorriso si accentuò e Jessie vide lampi minuscoli accendersi in fondo alla bocca: laggiù il suo visitatore doveva avere qualche dente, d'oro o qualche otturazione d'oro, proprio come Gerald. Sembrava che ridesse silenziosamente, come se godesse del suo terrore. Poi le lunghe dita fecero scattare le serrature dell'astuccio (sto sognando, credo, adesso sembra davvero un sogno, oh, Dio ti ringrazio) e ne tennero sollevato il coperchio perché potesse vederne il contenuto. La valigetta era piena di ossa e gioielli. Vide ossa delle dita e anelli e denti e braccialetti e ulne e ciondoli; vide un diamante così grosso da soffocare un rinoceronte, che baluginava in mobili e bianchi trapezi di luce lunare da dietro le delicate stecche incurvate della scatola toracica di un neonato. Vide tutte queste cose e desiderò che fosse un sogno, sì, volle fortemente che lo fosse, ma sarebbe stato comunque un sogno come mai aveva fatto in vita sua. La situazione era da sogno, con lei ammanettata al letto e un maniaco seminascosto dal buio, che in silenzio le mostrava i suoi tesori. Ma la sensazione... La sensazione era di realtà. Inutile cercare di sottrarvisi. La sensazione era di realtà. La cosa nell'angolo teneva aperto il suo astuccio e ne sottoponeva il contenuto alla sua ispezione, sostenendone il fondo con una mano. Affondò l'altra mano nel cumulo di ossa e gioielli e rimestò, producendo un tetro rumore di fruscii frammisti a tintinnii, simile a nacchere rese sorde da incrostazioni di sudiciume. Intanto la fissava e i lineamenti non completamente formati della sua faccia singolare s'arricciavano in un'espressione di divertimento, con la bocca aperta in quel ghigno silenzioso, le spalle cadenti che si sollevavano e ridiscendevano in soffocati sussulti di riso.
No! gridò Jessie, ma dalla bocca non le uscì alcun suono. All'improvviso sentì qualcuno (molto probabilmente la Brava Mogliettina e, ragazzi, quanto aveva sottovalutato la sua forza d'animo) che si precipitava agli interruttori che governavano i suoi circuiti mentali. La Brava Mogliettina aveva visto fili di fumo che cominciavano a filtrare dai bordi dei coperchi dietro ai quali si trovavano le valvole di sicurezza e, avendo capito al volo che cosa stava per succedere, si era gettata in un ultimo tentativo disperato di spegnere tutto prima che i motori si surriscaldassero e i cuscinetti a sfera si deformassero bloccandosi. La figura sorridente pescò dal fondo del suo astuccio e sollevò nella luce della luna una manciata di ossi e ornamenti d'oro, da mostrare a Jessie. Nella sua testa si accese per una frazione di secondo una fiammata di intollerabile potenza luminosa, poi furono le tenebre. Non svenne elegantemente, come l'eroina di un fiorito dramma teatrale, ma fu invece brutalmente ricacciata all'indietro, come un'assassina condannata a morte che ha ottenuto una sospensione della pena quando era già stretta nelle cinghie della sedia e aveva già ricevuto la prima scarica. In ogni caso fu la fine dell'orrore e per il momento andava bene così. Jessie Burlingame precipitò nelle tenebre senza un mormorio di protesta. 14 Riaffiorò faticosamente nei pressi della coscienza qualche tempo dopo, consapevole solo di due cose: la luna aveva percorso un altro tratto di cielo per affacciarsi alle finestre esposte a ovest e lei traboccava di paura... per qualcosa che sulle prime non ricordò. Poi le sovvenne: suo padre era stato lì e forse c'era ancora. D'accordo, la creatura non gli somigliava affatto, ma era solo perché papà aveva indossato la sua faccia dell'eclisse. Si issò, spingendo così energicamente con i piedi da far scivolare all'indietro il copriletto. D'altra parte non riusciva a fare molto con le braccia. Il formicolio guizzante di poco prima si era spento del tutto mentre era priva di sensi e ora le erano diventate più insensibili di due gambe di seggiola. Ruotò gli occhi spalancati e argentati dalla luna nell'angolo vicino al comò. Il vento era caduto e almeno per il momento le ombre si erano fermate. Nell'angolo non c'era niente. Il suo oscuro visitatore se n'era andato. Forse no, Jess, forse si è solo spostato. Forse è nascosto sotto il letto, pensa un po' che allegria! Se fosse qui sotto, potrebbe allungare una mano da un momento all'altro e posartela addosso.
Si risvegliò il vento, solo uno sbuffo, non una raffica, e la porta sbatté debolmente. Altri rumori non c'erano. Il cane taceva ed era questo più di ogni altra cosa a convincerla che lo sconosciuto se n'era andato. La casa era tutta sua. Il suo sguardo si posò sulla grande massa scura che c'era per terra. Correzione, pensò. C'è Gerald. Impossibile dimenticarlo. Abbandonò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. Sentiva una pulsazione regolare e costante nella gola, ma non desiderava svegliarsi abbastanza perché la pulsazione si trasformasse in quello che era in realtà: sete. Non sapeva se si potesse scivolare dalla cupa incoscienza al sonno normale, ma sapeva che lo desiderava con tutte le forze; sopra ogni altra cosa, salvo forse che arrivasse imprevedibilmente qualcuno a salvarla, voleva dormire. Non c'è stato nessuno qui, Jessie, lo sai anche tu, non è vero? Assurdità delle assurdità, era la voce di Ruth. Ruth così pratica e sbrigativa, così refrattaria ai sentimentalismi, Ruth, la cui parola d'ordine, presa a prestito da una canzone di Nancy Sinatra era «Un giorno o l'altro queste scarpe ti cammineranno sopra»; Ruth, che una forma misteriosa nella luce della luna aveva ridotto a un ammasso di gelatina tremolante. Fai pure, gioia, l'apostrofò Ruth. Prendimi in giro finché vuoi, forse me lo merito, ma non illudere te stessa. Qui non c'era nessuno. È stata la tua immaginazione ad allestire un numero d'avanspettacolo. Lo sai benissimo. Ti sbagli, Ruth, rispose con calma la Brava Mogliettina. Qualcuno c'è stato e Jessie e io sappiamo chi era. Non somigliava molto a papà, ma è solo perché si era messo la faccia dell'eclisse. Però la faccia non era la parte importante e non conta nemmeno quanto era alto, poteva essersi messo scarpe con tacchi speciali o plantari di compensazione per gli uomini bassi di statura. Per quel che ne so io, poteva anche essere appollaiato su un paio di trampoli. Trampoli! proruppe Ruth sconcertata. Dio del cielo, adesso sì che le ho sentite tuuutte! Lasciamo stare che sia morto prima che lo smoking dell'Inauguration Day di Reagan fosse tornato dalla tintoria; Tom Mahout era così goffo, che avrebbe fatto bene ad assicurarsi per scendere dalle scale. Trampoli? Ma allora è vero che ti è venuta voglia di scherzare! Sono tutti particolari senza importanza comunque, insisté la Brava Mogliettina in un tono di serena caparbietà. Era lui. Riconoscerei quell'odore dappertutto, quell'odore denso e caldo come sangue vivo. Non l'odore delle ostriche o delle monetine. E nemmeno l'odore esatto del sangue. L'odore di...
Il pensiero si spezzò e i frammenti si dissolsero. Jessie dormì. 15 Due erano le ragioni per cui si ritrovò sola con suo padre a Sunset Trails, il pomeriggio del 20 luglio 1963. Una ragione serviva da copertura dell'altra. La ragione apparente era che aveva ancora un po' paura della signora Gilette, anche se erano passati almeno cinque anni (e probabilmente quasi sei) dall'incidente del biscotto e della mano schiaffeggiata. La ragione vera era più semplice e lineare: voleva essere con suo padre ad assistere a quell'evento così speciale che capita una sola volta nell'arco di una vita. Qualcosa sua madre l'aveva sospettato e l'essere manovrata come una pedina su una scacchiera da suo marito e dalla figlia di dieci anni non le aveva fatto molto piacere, ma ormai la questione era già praticamente un fatto compiuto. Jessie si era rivolta dapprima al padre. Mancavano ancora quattro mesi al suo undicesimo compleanno, ma non per questo era un'ingenua. I sospetti di Sally Mahout erano fondati: Jessie aveva consapevolmente e astutamente avviato una campagna che le avrebbe consentito di trascorrere il giorno dell'eclisse con suo padre. Molto più tardi Jessie avrebbe concluso che quello era un altro buon motivo per tenere la bocca chiusa su quanto era avvenuto quel giorno; ci sarebbero stati forse coloro che, come per esempio sua madre, avrebbero affermato che non aveva diritto di reclamare; anzi, a ben vedere se l'era andata a cercare. Il giorno prima dell'eclisse, Jessie aveva trovato suo padre seduto in terrazza, davanti alla porta dello studio, a leggere un'edizione tascabile di Ritratti del coraggio mentre moglie, figlio e figlia maggiore giocavano allegramente poco distante, nelle acque del lago. Le sorrise quando Jessie si sedette vicino a lui e Jessie lo ricambiò. Per quell'importante colloquio si era ravvivata le labbra con il rossetto, Peppermint Yum-Yum, per la precisione, regalo di compleanno ricevuto da Maddy. La prima volta che lo aveva provato non le era piaciuto, le sembrava una tinta da bambina e sapeva di Pepsodent, ma suo papà aveva detto che lo trovava bello e tanto era bastato a trasformare il rossetto nel più prezioso dei suoi pochi cosmetici, un accessorio da conservare con venerazione solo per le grandi occasioni come quella. Papà l'aveva ascoltata con attenzione e rispetto, ma non aveva fatto nien-
te per celare la luce di divertito scetticismo che gli si accese negli occhi. Vorresti davvero farmi credere che hai ancora paura di Adrienne Gilette? le aveva domandato quando aveva finito di ripetere la sua storia anche troppo risaputa della signora Gilette che le schiaffeggiava la mano quando lei l'allungava per prendere l'ultimo biscotto rimasto sul piatto. Deve essere un fatto che risale a... non mi ricordo più bene, ma lavoravo ancora per Dunninger, perciò deve essere stato prima del 1959. E dopo tutti questi anni hai ancora paura? Se non è un caso freudiano questo! Be'... sai... solo un pochino. Jessie aveva sgranato gli occhi, cercando di dare l'idea di dire poco, ma significare molto. Per la verità non sapeva se aveva ancora paura della vecchia Caccàlito, tuttavia non aveva mai smesso di considerare la signora Gilette una noiosa rompiscatole dai capelli blu e non aveva la minima intenzione di trascorrere in sua compagnia l'unica eclisse totale di sole che probabilmente avrebbe avuto in sorte di vedere in tutta la vita, se solo fosse riuscita a organizzarsi in maniera da assistervi con il suo papà, che adorava più di quanto parola potesse esprimere. Aveva valutato il suo scetticismo e aveva concluso con sollievo che era amichevole, se non addirittura un po' complice. Aveva sorriso e aggiunto: Ma voglio anche stare con te. Lui le aveva preso la mano, se l'era portata alla bocca e le aveva baciato le dita come un monsieur francese. Quel giorno non si era fatto la barba, come spesso accadeva quando era al campo, e la pelle ruvida le aveva provocato un piacevole brivido lungo le braccia e nella schiena. Corame tu es douce, le aveva detto. Ma jolie mademoiselle. Je t'aime. Lei aveva riso gioiosa, senza capire una sola parola del suo abborracciato francese, ma tutt'a un tratto sicura che l'esito finale del suo tentativo sarebbe stato quello che aveva sperato. Sarebbe bello, aveva esclamato felice. Noi due soli. Potrei preparare uno spuntino e potremmo mangiare qui fuori, in terrazza. Lui era sembrato compiaciuto. Eclipse Burger à deux? Allora Jessie aveva riso e intanto annuiva e batteva le mani. Poi lui aveva detto una cosa che le era sembrata un po' strana, perché non era uomo che si curasse molto di abbigliamento e moda: Potresti metterti quel bel prendisole nuovo. Certo, se ti fa piacere, aveva risposto, anche se aveva già preso mentalmente nota di chiedere alla mamma di cercare di cambiarlo. Era sì molto grazioso, almeno per chi non considerava un pugno nell'occhio quelle strisce rosse e gialle che riuscivano a essere quasi accecanti, ma era troppo
piccolo e troppo attillato. Sua madre l'aveva ordinato da Sears, andando un po' a spanne e, povera lei, scrivendo nel modulo una taglia di un solo numero superiore a quella che le andava bene l'anno prima. Invece lei era cresciuta un po' più in fretta e non solo nell'aspetto fisico. Però, se piaceva a papà... e se si fosse alleato con lei in quella faccenda dell'eclisse e l'avesse aiutata a spingere... E papà aveva davvero preso le sue parti e aveva spinto come un Ercole. Aveva cominciato quella sera stessa, suggerendo a sua moglie, dopo cena (e due o tre bicchieri imbonitori di vin rouge), di giustificare l'assenza di Jessie per la prevista gita dell'eclisse fissata per l'indomani, sulla cima del monte Washington. Vi avrebbero partecipato quasi tutti i loro vicini stagionali; già subito dopo il Memorial Day avevano cominciato a tenere riunioni informali sull'argomento, per decidere come e dove assistere all'imminente fenomeno astronomico (riunioni che agli occhi di Jessie erano sembrate in tutto e per tutto ordinali cocktail party estivi) e si erano persino dati un nome: gli Adoratori del Sole di Dark Score. Gli Adoratori del Sole avevano affittato un minibus scolastico e avevano in programma di salire sulla vetta più alta del New Hampshire armati di colazione al sacco, occhiali da sole Polaroid, scatole riflettenti costruite per l'occasione, macchine fotografiche munite di filtri speciali... e champagne, naturalmente. Fiumi di champagne. Sua madre e sua sorella vi avevano visto il paradigma del divertimento più spumeggiante e sofisticato. A Jessie era sembrata l'essenza di tutto quello che considerava noioso... e questo senza ancora aggiungervi Caccàlito. Dopo cena, la sera del 19, era uscita in terrazza con il proposito apparente di leggere venti o trenta pagine di Lontano dal pianeta silenzioso di C.S. Lewis, prima che tramontasse il sole. Il suo scopo vero era molto meno intellettuale: voleva ascoltare suo padre illustrare e difendere la sua (loro) mozione e darle silenziosamente man forte. Da anni lei e Maddy sapevano delle peculiari qualità acustiche del soggiorno con annessa sala da pranzo, nella casa estiva, probabilmente per via del soffitto alto e dell'orientamento della stanza nei confronti della terrazza; Jessie aveva il sospetto che persino Will si fosse accorto di come dalla terrazza si udisse bene tutto quello che avveniva in casa. Sembrava che solo i genitori fossero ignari della situazione e non si fossero mai resi conto che tutte le decisioni importanti che prendevano in quel locale sorseggiando un cognac o un caffè dopo cena erano già note (quantomeno alle figlie) ben prima che gli ordini venissero trasmessi alla truppa dal quartier generale.
Si era accorta di avere il romanzo di Lewis alla rovescia e frettolosamente aveva rettificato la situazione prima che passasse Maddy e le elargisse il suo grande nitrito silenzioso. Si sentiva un po' colpevole per quel che aveva fatto (più che dare man forte si trattava di origliare, a volerla mettere in parole povere), ma non tanto in colpa da rinunciarvi. Per la verità si considerava ancora sul lato giusto di un sottile confine morale. In fondo non è che si fosse nascosta nell'armadio o qualcosa del genere; era seduta in terrazza, sotto gli occhi di tutti, nella luce forte del sole del tardo pomeriggio. Era seduta là fuori con il suo libro a chiedersi se ci fossero eclissi su Marte e se allora i marziani si radunavano per assistere al fenomeno. Se i suoi genitori credevano che nessuno potesse sentire che cosa dicevano solo perché erano seduti al tavolo del soggiorno, era forse colpa sua? Aveva forse l'obbligo di andare a dirglielo? «Non mi pare proprio, mia cara», aveva bisbigliato Jessie nella sua più spocchiosa voce di Elizabeth Taylor in La gatta sul tetto che scotta, dopodiché si era affrettata a schiacciarsi le mani su un vasto sogghigno un po' scemo. E le andava anche bene, perché almeno per il momento non avrebbe dovuto subire le interferenze della sorella maggiore; sentiva Maddy e Will sotto di lei, nella tavernetta, ad accapigliarsi scherzosamente giocando a Cootie o Parcheesi o qualcosa di simile. Sinceramente non mi pare che ci sarebbe niente di male se domani restasse qui con me, no? Stava domandando il padre nel suo tono di voce più persuasivo e gioviale. No, di male non ci sarebbe niente, aveva risposto la mamma, ma non è che morirebbe se una volta tanto quest'estate andasse da qualche parte con il resto della famiglia. Ho l'impressione che ormai si stia attaccando decisivamente ai calzoni di papà. Ma se solo la settimana scorsa è venuta giù a vedere il teatro dei burattini a Bethel con te e Will. Anzi, mi ha detto che quando tu sei andata a quell'asta, lei è rimasta con Will e gli ha persino offerto un gelato pagandolo con i suoi soldi. Non è stato un gran sacrificio per la nostra Jessie, aveva commentato Sally. Nel tono della voce si annidava una critica. In che senso? Nel senso che è andata a vedere lo spettacolo dei burattini perché ne aveva voglia e si è occupata di Will perché ne aveva voglia. Alla critica era subentrato qualcosa di più familiare: esasperazione. Com'è possibile che tu non capisca che cosa intendo dire? era la domanda implicita in quel
tono di voce. Com'è possibile che tu non capisca, se sei un uomo? Era un tono che Jessie aveva sentito sempre più spesso nella voce di sua madre da qualche anno a quella parte. Sapeva che era anche perché crescendo vedeva e sentiva più di prima, ma era sicura che la voce di sua madre assumesse più spesso che in passato quel tono particolare. E non capiva perché il tipo di logica di suo padre indispettisse tanto sua madre. Tutt'a un tratto il fatto che abbia preso un'iniziativa perché ne aveva voglia diventa motivo di preoccupazione? stava domandando in quel momento Tom. Se non addirittura un difetto di nostra figlia? Che dovremmo fare se sviluppasse una coscienza sociale oltre a un senso di partecipazione alla famiglia, Sai? Dovremmo rinchiuderla in un ricovero per ragazze traviate? Non farla piovere troppo dall'alto con me, Tom. Sai benissimo a che cosa alludo. Nossignora, questa volta sono completamente alla deriva, dolcezza mia. Questa dovrebbe essere la nostra vacanza estiva, o te lo sei dimenticato? E io ho sempre avuto un'idea balzana secondo cui, quando la gente è in vacanza, dovrebbe fare quello che ha voglia di fare e stare con chi ha voglia di stare. Anzi, se devo dire la verità ho sempre pensato che fosse il succo stesso della vacanza. Jessie aveva sorriso, sapeva che l'affare era concluso, anche se sarebbe seguita la solita razione di urlacci. Quando sarebbe cominciata l'eclisse, l'indomani pomeriggio, lei sarebbe stata lì con papà e non in cima al monte Washington con Caccàlito e tutta l'allegra comitiva degli Adoratori del Sole di Dark Score. Suo padre era come un campione di scacchi di classe internazionale che avesse sollecitato alla gara una dilettante di talento e si accingesse ora a ripulirla dalla testa ai piedi. Potresti venire anche tu, Tom. Jessie verrebbe, se ci fossi anche tu. Quello era un trabocchetto. Jessie aveva trattenuto il fiato. Non posso, amore mio. Aspetto una telefonata di David Adams sulla Brookings Pharmaceuticals. È roba grossa... e anche abbastanza rischiosa. Arrivati a questo punto, trattare la Brookings è come maneggiare nitroglicerina. Ma sarò sincero con te. Anche se potessi, non sono sicuro che verrei. Non vado esattamente matto per la Gilette, ma posso anche sciropparmela. Quella testa di cazzo di Sleefort, invece... Abbassa la voce, Tom! Sta tranquilla. Maddy e Will sono da basso e Jessie è là fuori, in terrazza... la vedi?
In quel momento Jessie aveva avuto la precisa certezza che suo padre sapesse esattamente come funzionava l'acustica del soggiorno con annessa sala da pranzo. Sapeva che sua figlia stava ascoltando ogni parola della discussione. Voleva che udisse ogni parola. Un piccolo fremito caldo le percorse la schiena e le scese nelle gambe. Dovevo aspettarmelo, che si finisse a parlare di Dick Sleefort! C'erano divertimento e collera insieme, nella voce della mamma, un ibrido che faceva girare la testa a Jessie. Le sembrava che solo gli adulti sapessero fondere le emozioni nelle maniere più stravaganti: se le emozioni fossero state pietanze, quelle degli adulti sarebbero state qualcosa come bistecche ricoperte di cioccolato, puré di patate con dentro pezzetti di ananas, fette di torta cosparse di peperoncino invece di zucchero. Aveva pensato, e non per la prima volta, che essere adulti sembrava più un castigo che un premio. Tutto questo è davvero esasperante, Tom. Quando ci ha provato con me, è stato sei anni fa. Era ubriaco. Erano giorni in cui era sempre ubriaco, ma da allora è cambiato. Polly Bergeron mi dice che va all'Anonima Alcolisti e... Eroico, l'aveva interrotta in tono asciutto suo padre. Che facciamo, gli mandiamo un biglietto di buona salute o gli regaliamo un distintivo al merito? Non mi sembra il caso di fare del sarcasmo. Per poco non gli hai spaccato il naso... Poco ma sicuro. Quando un tizio entra in cucina per versarsi da bere e trova il trincone della porta accanto con una mano sul sedere di sua moglie e un'altra infilata nel suo reggiseno... Lascia stare, gli aveva intimato lei, ma Jessie aveva avuto la sensazione che nella voce di sua madre si annidasse qualcosa di simile al compiacimento. Sempre più curioso. Il fatto è che sarebbe ora che tu scoprissi che Dick Sleefort non è un diavolo scappato dall'inferno e sarebbe anche ora che Jessie scoprisse che Adrienne Gilette non è che una donna anziana e sola che una volta le ha dato uno schiaffetto sulla mano durante una festa, nella maniera più scherzosa. E ora ti prego di non saltarmi al collo, Tom. Non sto sostenendo che sia stato uno scherzo di buongusto. Non lo era. Sto solo dicendo che Adrienne non se ne è resa conto. Le sue intenzioni non erano cattive. Jessie aveva abbassato gli occhi e aveva visto che la sua edizione tascabile le si era quasi ripiegata in due nella mano destra. Come poteva sua madre, laureata cum laude (chissà che cosa voleva dire) a Vassar, essere
così stupida? La risposta le era balenata immediata ed esplicita: non poteva. O faceva finta o si rifiutava di accettare la verità e tanto valeva scegliere a occhi chiusi una o l'altra spiegazione, perché tanto la conclusione non cambiava: quando era stata costretta a decidere se credere all'orribile vecchiaccia che abitava poco distante dalla loro casa estiva o alla propria figlia, Sally Mahout aveva preferito Caccàlito. Ma che brava. Perché mi considera la bella di papà, ecco perché. La bella di papà e tutte le altre cose che racconta di me. Eppure io non potrei mai dirglielo e lei non lo capirebbe mai da sola. Nemmeno in un milione di anni. Si era costretta ad allentare la presa sull'edizione tascabile. La signora Gilette non aveva scherzato affatto, le sue intenzioni non erano state affatto buone, ma il sospetto di suo padre che lei avesse smesso di avere paura di quella vecchia cornacchia era lo stesso, probabilmente fondato. E poi l'avrebbe spuntata e sarebbe rimasta con suo padre, dunque che importanza avevano ormai tutte le divagazioni della mamma? Lei sarebbe rimasta lì con papà, non avrebbe dovuto sorbirsi Caccàlito, e tutte quelle belle cose sarebbero avvenute perché... «Perché lui mi difende», aveva mormorato. Sì, il nocciolo era tutto lì. Suo padre la difendeva, quando sua madre la osteggiava. Aveva visto la prima stella accendersi, ancora fioca, nel cielo che si andava oscurando e si era accorta a un tratto che erano quasi tre quarti d'ora che si trovava seduta in terrazza ad ascoltarli dissertare sul tema dell'eclisse (e sul tema di lei). Così aveva fatto una piccola ma interessante scoperta quella sera: il tempo vola più veloce quando origli conversazioni che ti riguardano. Senza pensare, aveva alzato la mano e aveva unito il pollice e le dita per farne un tubo, catturare la stella ed esprimere il rituale desiderio. Il quale desiderio, già in procinto di essere esaudito, era che le fosse permesso di restare a casa con papà l'indomani. Restare con lui a qualunque costo. Solo due persone che sapevano come difendersi a vicenda, seduti in terrazza a mangiare Eclipse Burger à deux, più come una coppia di anziani coniugi che come padre e figlia. E poi Dick Sleefort mi ha chiesto scusa, Tom. Non ricordo se te l'ho mai detto, ma... No, che non me lo hai detto, però non ricordo che abbia mai chiesto scusa a me. Probabilmente per paura che gli rompessi la faccia, o che almeno ti ci
provassi, aveva risposto Sally, tornando a quella voce che Jessie trovava tanto peculiare, un'inquieta mescolanza di felicità, buon umore e collera. Si era domandata per un istante se fosse davvero possibile parlare così ed essere assolutamente sani di mente, ma si era affrettata a schiacciare quella brutta riflessione. Inoltre, prima che abbandoniamo per sempre l'argomento, vorrei aggiungere ancora qualcosa su Adrienne Gilette... Sentiamo. Mi ha confidato... questo è stato nel 1959, due anni dopo; mi ha detto, insomma, che in quell'anno stava passando il suo periodo. Non ha alluso specificamente a Jessie e all'incidente del biscotto, ma secondo me cercava di scusarsi. Oh. Era stato l'«oh» più sornione e avvocatesco di suo padre. E a nessuno di voi signore è passato in mente di trasmettere l'informazione a Jessie... e spiegarle che cosa significa? Silenzio da parte della mamma. Jessie, che aveva un'idea ancora peggio che approssimativa di che cosa significasse «passare il periodo», aveva abbassato gli occhi e aveva visto che di nuovo stringeva il libro troppo forte e lo stava spiegazzando. Di nuovo si sforzò di rilassare le mani. O di chiedere scusa? Il tono della voce di suo padre era cortese... carezzevole... micidiale. Smettila di farmi il controinterrogatorio! aveva esclamato Sally dopo un'altra lunga pausa di riflessione. Questa è casa tua, non la seconda sezione della corte superiore di giustizia, nel caso non l'avessi notato! Sei stata tu a sollevare l'argomento, non io, aveva risposto lui. Io ho solo chiesto... Oh, sapessi come sono stufa del modo che hai di stravolgere sempre tutto, aveva protestato Sally. Dal tono della voce Jessie sapeva che se non stava piangendo, si preparava a farlo. Per la prima volta nella sua vita, per quel che ricordava, l'inflessione lacrimosa della voce di sua madre non le aveva suscitato commiserazione nel cuore, non le aveva fatto scattare il desiderio di correre a consolarla (probabilmente scoppiando in lacrime lei stessa). Aveva al contrario provato uno strano senso di crudele soddisfazione. Sally, sei scossa. Perché non ci limitiamo... Bella scoperta che sono scossa! Litigare con mio marito ha su di me questo strano effetto, sai? Hai mai sentito niente di più singolare? E sai poi perché stiamo litigando? Ti darò uno spunto, Tom, non è per Adrienne Gilette, non è per Dick Sleefort e non è per l'eclisse di domani. Noi stiamo
litigando per Jessie, per nostra figlia, sai che grande novità! Aveva riso fra le lacrime. Si era sentito il sibilo del fiammifero che aveva sfregato per accendersi una sigaretta. Non dico forse che è sempre alla ruota che cigola che si dà il grasso? E non è così con la nostra Jessie? È la nostra ruota che cigola. Mai del tutto soddisfatta di come vanno le cose, se non è lei a metterci il tocco finale. Mai completamente felice dei progetti degli altri. Mai capace di accontentarsi. Era stato un colpo per Jessie sentire nella voce di sua madre qualcosa di molto simile all'odio. Sally... Lascia stare, Tom. Vuole restare con te? Benissimo. Non sarebbe un piacere averla in comitiva in ogni caso. Non farebbe che bisticciare con sua sorella e piagnucolare perché deve tenere d'occhio Will. Insomma, sarebbe una petulanza costante. Sally, Jessie non piagnucola quasi mai ed è più che brava... Ah, ma allora non la vedi nemmeno! era esplosa Sally Mahout e il rancore che c'era nella sua voce aveva annichilito Jessie sulla sua seggiola. Giuro davanti a Dio che certe volte ti comporti come se fosse la tua ragazza invece che tua figlia! Quella volta era toccato a suo padre concedersi una pausa prolungata e, quando aveva parlato, la sua voce era echeggiata sommessa e fredda. Questo è un colpo basso dei più scorretti e ingiustificati, aveva risposto alla fine. In terrazza Jessie aveva guardato la prima stella della sera e aveva sentito lo sgomento sprofondare verso qualcosa di simile all'orrore. Aveva provato l'impulso di chiudere di nuovo le dita della mano e catturare la stella ancora una volta, ma per disdire tutti i suoi desideri, a cominciare dalla richiesta a papà di sistemare le cose in maniera che l'indomani potesse restare con lui a Sunset Trails. Poi le era giunto il rumore della sedia della mamma spinta all'indietro. Chiedo scusa, aveva detto Sally e anche se c'era ancora ira nella sua voce, Jessie aveva avuto l'impressione di una traccia di paura. Tienila qui domani, se è così che vuoi! Bene! Perfetto! Tienitela pure! Poi il rumore dei suoi tacchi che si allontanavano rapidi e un momento dopo lo scatto dello Zippo di papà che si accendeva una sigaretta. In terrazza, Jessie aveva sentito lacrime calde che le affioravano agli occhi, lacrime di vergogna, umiliazione e anche sollievo perché il litigio si
era interrotto prima che potesse peggiorare... perché lei e Maddy non avevano forse notato che le discussioni dei loro genitori si erano andate facendo più rumorose e virulente? Che la freddezza che poi si instaurava fra loro stentava sempre di più a stemperarsi nel calore della reciproca comprensione? Non era possibile, no, che fossero... No, aveva interrotto se stessa prima che il pensiero fosse completato. No, non è possibile. È assolutamente inconcepibile, perciò piantala lì subito. Forse un mutamento di scena avrebbe indotto un mutamento di pensiero. Si era alzata, era scesa trotterellando dagli scalini della terrazza e aveva imboccato il sentiero che portava al lago. Là si era seduta a scagliare ciottoli nell'acqua, finché mezz'ora dopo era arrivato suo padre. «Domani Eclipse Burger per due in terrazza», aveva annunciato e le aveva posato un bacio sul collo. Si era sbarbato e il suo mento era liscio, ma lei aveva avvertito lo stesso quel brivido sottile e delicato nella schiena. «Tutto sistemato.» «Si è arrabbiata?» «Figurati», aveva risposto allegramente papà. «Ha detto che per lei faceva lo stesso, visto che per tutta la settimana ti sei sempre comportata bene e...» Si era dimenticata di avere avuto il forte sospetto che papà sapesse dell'acustica del soggiorno con annessa sala da pranzo molto più di quanto desse a intendere, e la generosità della sua bugia l'aveva commossa al punto da farla quasi scoppiare a piangere. Si era girata verso di lui, gli aveva gettato le braccia al collo e gli aveva ricoperto guance e labbra di piccoli baci impetuosi. La reazione iniziale di papà era stata di sorpresa. Aveva ritratto le mani e, per un istante e non di più, si erano fermate sui boccioli del suo seno. L'aveva allora riattraversata quella sensazione di brivido, ma questa volta molto più intensa, quasi tanto da essere dolorosa, come una scarica elettrica, e con essa, come un estemporaneo fenomeno di déjà vu, era riaffiorata l'intuizione di poco prima sulle strane contraddizioni dell'età adulta: un mondo in cui si poteva ordinare un polpettone di carne alle more o uova fritte in succo di limone... e dove c'era gente che lo faceva davvero. Poi le sue mani le erano scivolate dietro il corpo, le si erano premute contro le scapole, in un abbraccio rassicurante e paterno e se avevano indugiato dove non avrebbero dovuto un momento di troppo, non se ne era praticamente accorta. Ti voglio bene, papà. E io voglio bene a te, frugolino. Un bene così grande che non si può di-
re. 16 Il giorno dell'eclisse albeggiò caldo e fumicante ma relativamente sereno; le previsioni meteorologiche, che avvertivano che nubi basse avrebbero potuto oscurare il fenomeno, si sarebbero dimostrate prive di fondamento, a quanto pareva, almeno nel Maine occidentale. Sally, Maddy e Will uscirono verso le dieci per prendere l'autobus degli Adoratori del Sole di Dark Score (Sally diede a Jessie un bacino contenuto e silenzioso prima di andarsene e Jessie contraccambiò di conseguenza), lasciando Tom Mahout in compagnia della ragazza che sua moglie aveva definito «la ruota che cigola», la sera precedente. Jessie si era tolta i calzoncini e la maglietta con la scritta Camp Ossippee e aveva infilato il suo nuovo prendisole, quello che era carino (se si sopportavano quelle strisce rosse e gialle che potevano anche accecare), ma un po' troppo stretto. Si mise una goccia del profumo di Maddy che si chiamava Il Mio Peccato, una spruzzatina del deodorante Yodora di sua madre e una nuova dose di rossetto Peppermint Yum-Yum. E anche se non era mai stata il tipo di ragazza da perder tempo davanti a uno specchio a rigirarsi e rimirarsi (l'espressione era di sua madre, come in: «Maddy, smettila di girarti e rimirarti e vieni fuori!»), questa volta ci restò il tempo necessario a tirarsi su i capelli, perché una volta suo padre le aveva fatto i complimenti per quella particolare acconciatura. Fissata l'ultima forcina, allungò la mano verso l'interruttore del bagno e lì si fermò. La bambina che la guardava dallo specchio non sembrava affatto una bambina, ma un'adolescente. Non era per il modo in cui il prendisole accentuava i minuscoli rigonfiamenti che non sarebbero diventati un vero seno se non di lì a un anno o due, e non era per il rossetto e nemmeno per i capelli, raccolti in uno chignon maldestro ma a suo modo accattivante; era un po' tutto l'insieme, un totale che risultava maggiore della somma dei suoi addendi per... cosa? Non lo sapeva. Qualcosa che nella tensione dell'acconciatura le accentuava la linea degli zigomi, forse. Oppure la curva scoperta del collo, tanto più sensuale di quei bitorzoli grandi come morsicature di zanzare che aveva sul petto o il busto un po' troppo diritto da maschietto. Ma forse era l'espressione degli occhi, una scintilla che fino a quel giorno era rimasta, nascosta o forse non c'era mai stata. Comunque fosse, l'impressione generale la trattenne per un momento in più a contem-
plare la propria immagine riflessa e a un tratto sentì sua madre che diceva: Giuro davanti a Dio che certe volte ti comporti come se fosse la tua ragazza invece che tua figlia! Si morsicò il roseo labbro inferiore, con un corrugare lieve della fronte, mentre ricordava la sera precedente, il brivido che l'aveva attraversata al suo tocco, la sensazione delle sue mani sul seno. Sentì che il brivido cercava di ripetersi e glielo impedì. Era insensato fremere su cose sciocche che non riusciva a capire. E nemmeno a pensare. Ottimo consiglio, si disse mentre spegneva la luce del bagno. Si scoprì dentro un'emozione che andava crescendo via via che la giornata passava e il pomeriggio si avvicinava al momento dell'eclisse. Sintonizzò la radio portatile sulla WNCH, la stazione rock di North Conway. Sua madre la detestava e dopo mezz'ora di Del Shannon e Dee Dee Sharp e Gary «U.S.» Bonds, obbligava chiunque avesse scelto quella stazione (di solito Jessie o Maddy, ma qualche volta Will) a spostarsi su quella che trasmetteva musica classica dalla cima di monte Washington; ma quel giorno sembrava che suo padre gradisse la musica, lo vedeva schioccare le dita e canticchiare. Una volta, durante la versione di You Belong to Me dei Duprees, catturò brevemente Jessie fra le braccia e ballò con lei in terrazza. Verso le tre e mezzo Jessie accese il barbecue, quando mancava ancora un'ora all'inizio dell'eclisse, e andò a chiedere a suo padre se voleva due hamburger o se gliene bastava uno. Lo trovò sul lato sud della casa, sotto la terrazza dove si trovava lei. Indossava solo un paio di calzoncini di cotone (su una gamba c'era scritto EDUCAZIONE FISICA DI YALE) e un guanto da forno a trapunta. Si era legato un fazzoletto intorno alla fronte perché il sudore non gli cascasse negli occhi. Era accosciato davanti a un focherello di zolle erbose che faceva un gran fumo. Con i calzoncini e il fazzoletto intorno alla testa dava una gradevole impressione di giovinezza; per la prima volta nella sua vita Jessie poté vedere l'uomo di cui si era innamorata sua madre nell'estate dell'ultimo anno di università. Accanto a sé, papà aveva alcune lastre di vetro, ricavate scalzando con molta attenzione lo stucco dalla finestra di un vecchio ripostiglio. Ne reggeva una nel fumo che si levava dal fuoco, usando le pinze del barbecue per rigirarla di tanto in tanto con grande delicatezza. Jessie scoppiò a ridere (fu soprattutto quel guantone da forno a suscitare la sua ilarità) e papà si girò sorridendo a sua volta. Le attraversò la mente il pensiero che da quella posizione potesse vederle sotto il vestito, ma solo di sfuggita. Che diamine,
era suo padre, non un qualsiasi ragazzotto carino e furbetto come Duane Corson, quello che stava giù alla marina. Cosa stai facendo? gli chiese ridendo. Credevo che per colazione avremmo mangiato hamburger, non sandwich di vetro! Sono schermi per l'eclisse, non sandwich, frugolino, rispose lui. Mettendo due o tre di questi vetri insieme, si può guardare l'eclisse per tutta la sua durata senza danni agli occhi. Ho letto che bisogna essere estremamente prudenti. C'è il rischio di bruciarsi le retine degli occhi e accorgersene soltanto in un secondo tempo. Au! esclamò Jessie rabbrividendo un po'. L'idea di bruciarsi senza accorgersene le sembrava una gran porcata. Per quanto tempo sarà totale, papà? Non molto. Un minuto circa. Be', allora preparane un bel po', di quei come cavolo li hai chiamati. Non ho nessuna intenzione di bruciarmi gli occhi. Ehi, vuoi un Eclipse Burger o due? Uno basterà. Se è abbastanza grosso. Okay. Si girò per andarsene. Frugolino? Tornò a voltarsi verso di lui, un uomo piccolo e compatto con delle belle perle di sudore sulla fronte, un uomo non più peloso di quello che avrebbe sposato, ma senza i fondi di bottiglia e la pancia di Gerald, e per un istante il fatto che quell'uomo fosse suo padre le sembrò la circostanza meno importante, a suo riguardo. Di nuovo fu colpita da quanto fosse piacente e quanto sembrasse giovane. Vide una perlina di sudore che gli scivolava lentamente sullo stomaco, passava appena a est dell'ombelico e diventava una macchiolina scura sulla banda elastica dei calzoncini di Yale. Tornò a guardarlo in faccia e fu improvvisamente, squisitamente consapevole dei suoi occhi su di sé. Anche socchiusi per via del fumo com'erano in quel momento, quegli occhi erano assolutamente favolosi, del grigio brillante dello spuntar di un giorno invernale su uno specchio d'acqua. Jessie si sorprese di dover deglutire prima di poter rispondere; aveva la gola secca. Era forse il fumo acre del suo fuoco di zolle. Ma forse no. Sì, papà? Per un lungo momento lui non disse niente, continuò a fissarla, mentre il sudore gli colava piano sulle guance e sulla fronte e sul petto e sul ventre e tutt'a un tratto Jessie ebbe paura. Poi lui sorrise di nuovo e tutto tornò normale e bello.
Sei molto carina oggi, frugolino. Anzi, se quello che dico non ti sembra troppo svenevole, devo dire che sei bellissima. Grazie. E non è affatto svenevole. E non lo era. Il suo commento la riempì anzi di gioia (specialmente dopo il severo editoriale che aveva redatto contro di lei sua madre la sera precedente, o forse proprio per quello), al punto che si sentì un groppo in gola e per un attimo ebbe voglia di piangere. Invece sorrise e gli spedì un bacetto al volo, poi scappò al barbecue con il cuore che le batteva nel petto come un rullare di tamburi. Una delle cose che aveva detto sua madre stava cercando di riemergere nella sua mente, la più cattiva di tutte (ti comporti come se fosse la tua) e Jessie la schiacciò con il furore con cui avrebbe schiacciato una vespa impazzita. Intanto però veniva colta da uno di quegli stravaganti cocktail di emozioni che avevano gli adulti (gelato e sugo di carne, pollo arrosto ripieno di caramelle al gusto di agrumi) senza riuscire a trovare il modo di sottrarsene. E nemmeno era tanto sicura di volerlo fare. Rivedeva nella mente quella gocciolina di sudore che pigramente gli scendeva sullo stomaco per essere assorbita dal cotone morbido dei calzoncini e trasformarsi in una macchiolina scura. Sembrava che fosse da lì soprattutto che aveva origine quel tumulto emotivo. Rivedeva la goccia di sudore e non riusciva a toglierselo dalla mente. Pazzesco. E allora? Era o non era una giornata di follia? Persino il sole stava per fare qualcosa di pazzesco. Perché non accettare le cose come stavano? Sì, convenne la voce che un giorno si sarebbe camuffata in quella di Ruth Neary. Perché no? Gli Eclipse Burger, guarniti con un contorno di funghi e dolci cipolline rosse fatto saltare in padella, non erano meno che fantastici. Eclissano sicuramente l'ultimo tentativo di tua madre, si complimentò papà, scatenando le risa gioiose di Jessie. Mangiarono in terrazza, davanti alla porta dello studio di Tom Mahout, tenendosi i vassoi di metallo sulle cosce. Li divideva un tavolino ingombro di condimenti, piatti di carta e strumenti vari per l'osservazione dell'eclisse. Fra gli altri c'erano occhiali Polaroid, due scatole riflettenti di cartone confezionate in casa del tipo di quelle che il resto della famiglia si era portata sul monte Washington, lastre di vetro affumicato e un mazzo di presine tolte dal cassetto vicino ai fornelli. Le lastre di vetro affumicato non scottavano più, spiegò Tom a sua figlia, ma non era un maestro nell'uso del tagliavetro e temeva che i bordi di alcune delle lastre potessero essere frastagliati e taglienti in alcuni punti.
Mi ci manca solo, le disse, che tua madre torni a casa e trovi un messaggio con scritto che ti ho portata al pronto soccorso dell'Oxford Hills Hospital a farti ricucire un paio di dita. Mamma non era proprio entusiasta di quest'idea, vero? domandò Jessie. Suo padre rispose con un'alzatina di spalle. No, disse, ma lo ero io. Ero abbastanza entusiasta per tutti e due. E le spedì un sorriso così smagliante che lei non poté fare a meno di ricambiare. Usarono dapprima le scatole riflettenti, quando si avvicinò il momento dell'eclisse, ora locale 16.29. Il sole al centro della scatola riflettente di Jessie non era più grande di un tappo di bottiglia, ma era così fulgente che prese precipitosamente dal tavolo un paio di occhiali scuri e li inforcò. Secondo il suo Timex, l'eclisse doveva essere già cominciata, perché segnava le 16.30. Credo che il mio orologio vada avanti, protestò innervosita. A meno che non so quanti astronomi in tutti gli angoli del mondo abbiano la testa a uovo con dentro un tuorlo. Controlla di nuovo, la esortò Tom sorridendo. Quando tornò a guardare nella scatola riflettente, vide che il cerchio scintillante non era più un cerchio perfetto; ora sul lato destro c'era un'intaccatura di oscurità. Un brivido le guizzò nel collo. Tom, che guardava lei invece dell'immagine dentro la sua scatola riflettente, lo notò. Frugolino? Tutto bene? Sì, ma... fa un po' paura, vero? Sì, disse lui. Lei gli lanciò un'occhiata e con grande sollievo vide che parlava sul serio. Gli sembrava quasi in ansia quanto si sentiva lei ed era solo un punto in più a favore del suo seducente aspetto fanciullesco. L'idea che potessero essere in ansia per motivi diversi non le sfiorò mai la mente. Vuoi sederti sulle mie ginocchia, Jess? Posso? Come no. Gli si calò delicatamente in grembo, sempre tenendo fra le mani la scatola riflettente. Si dimenò per trovare la posizione più comoda contro il suo corpo, fiutando con piacere l'odore della sua pelle appena appena sudata e calda di sole, dove indugiava una traccia di dopobarba, Sequoia, le pareva che si chiamasse. Il prendisole le risalì per le cosce (difficile che potesse fare diversamente, corto com'era) e lei quasi non s'accorse quando lui le posò una mano su una gamba. Del resto era suo padre, papà, non Duane Corson, quello che stava giù alla marina, o Richie Ashlocke, il ragazzo per
il quale lei e le sue amiche a scuola sospiravano e sghignazzavano. I minuti trascorrevano lentamente. Di tanto in tanto lei si dimenava, cercando di mettersi comoda (quel pomeriggio, chissà perché, il suo grembo era tutto pieno di spigoli) e a un certo momento dovette essersi assopita per tre o quattro minuti. Forse di più, perché il fiato di venticello che accarezzò la terrazza e la risvegliò era inaspettatamente freddo sulle sue braccia sudate e il pomeriggio era in un certo qual modo cambiato; i colori che le erano sembrati intensi prima di appoggiarsi alla sua spalla e chiudere gli occhi erano ora pallidi pastelli e la luce nell'insieme si era un po' indebolita. Era come se, pensò, il giorno fosse stato filtrato attraverso un buratto. Guardò nella sua scatola riflettente e fu con stupore, anzi, quasi sbalordimento, che vide che ora c'era solo mezzo sole. Controllò l'orologio e vide che erano passate da nove minuti le cinque del pomeriggio. Sta succedendo, papà! Il sole si spegne! Sì, disse lui. La sua voce era un po' strana, tranquilla e riflessiva in superficie, un po' annebbiata sotto. In perfetto orario. Jessie notò, non con assoluta lucidità, che la sua mano era risalita (parecchio, per la verità) lungo la sua gamba mentre lei era assopita. Posso già guardare con la lastra affumicata, papà? Non ancora, rispose lui e la sua mano salì ancora un po'. Era calda e sudaticcia, ma non era sgradevole. Lei gli posò sopra la propria. Si girò verso di lui e gli sorrise. Emozionante, no? Sì, rispose lui e il tono della sua voce era sempre stranamente annebbiato. Molto emozionante, frugolino. Molto più di quanto mi ero aspettato. Passò altro tempo. Nella scatola riflettente la luna continuò a rosicchiare il sole e intanto venivano le cinque e venticinque del pomeriggio, e poi le cinque e mezzo. Quasi tutta l'attenzione di Jessie era ora concentrata sull'immagine che si rimpiccioliva nella scatola riflettente, ma un angolino della sua coscienza prese nuovamente atto di quanto insolitamente duro fosse quel pomeriggio il suo grembo. Qualcosa le premeva contro il sedere. Non faceva male, ma era insistente. Le sembrava il manico di un attrezzo di qualche genere, un cacciavite, o il martelletto per bullette della mamma. Si dimenò di nuovo alla ricerca di una posizione più comoda e Tom trasse una sibilante boccata d'aria sopra il labbro inferiore. Papà? Sono troppo pesante? Ti faccio male? No. Va tutto bene.
Jessie consultò l'orologio. Le cinque e trentacinque, ora; quattro minuti prima dell'eclisse totale, forse qualcosina di più, se le sue lancette andavano avanti. Ora posso guardare con il vetro? Non ancora, frugolino. Ma manca poco. Sentiva Debby Reynolds che cantava qualcosa di medievale, per gentile concessione della WNCH: «La vecchia civetta strizza... strizza l'occhio alla colomba... Tammy... Tammy... Tammy è innamorato». Fu finalmente soffocata da un gorgo appiccicoso di violini e sostituita dal disc jockey, che li informò che si stava facendo buio a Sciolina City (che era la denominazione che davano solitamente i deejay dell'emittente a North Conway), ma che lungo il confine del New Hampshire il cielo era troppo nuvoloso perché si potesse vedere l'eclisse. Il deejay disse loro che il parco cittadino, dall'altra parte della strada, era pieno zeppo di gente delusa con occhiali scuri. Noi non siamo gente delusa, vero, papà? Tutt'altro, rispose lui e si spostò di nuovo sotto di lei. Io direi piuttosto che siamo fra le persone più felici dell'universo. Jessie sbirciò di nuovo nella scatola riflettente e dimenticò tutto eccetto l'immagine minuscola che ora poteva guardare senza stringere gli occhi attraverso le feritoie protettive dietro le lenti scurissime dei Polaroid. Lo spicchio scuro sulla destra, che aveva segnalato l'inizio dell'eclisse, era ora diventato uno spicchio abbacinante di luce solare sulla sinistra. Era così fulgente che sembrava quasi librarsi al di sopra della superficie della scatola riflettente. Guarda il lago, Jessie! Ubbidì e dietro gli occhiali scuri i suoi occhi si allargarono a dismisura Assorta com'era nell'esame dell'immagine che andava rimpicciolendo nella scatola riflettente, non si era accorta di quello che stava avvenendo tutt'intorno a lei. I colori pastello si erano disciolti in antichi acquerelli. Sul Dark Score si andava espandendo un crepuscolo prematuro, che per una bambina di dieci anni era insieme esaltante e spaventoso. Dal bosco una civetta mandò il suo verso sommesso e Jessie avvertì un fremito improvviso e forte che le scosse tutto il corpo. Alla radio finì una pubblicità della Aamco Transmission e Marvin Gaye cominciò a cantare: «Ahi, ohi, ascoltate tutti quanti, specialmente voi ragazze, è giusto essere lasciati da soli quando chi ami non è mai a casa?» La civetta chiurlò di nuovo nel bosco, a nord della terrazza. Era un verso
inquietante, pensò a un tratto Jessie, un verso molto poco tranquillizzante. Questa volta, quando rabbrividì, Tom la cinse con un braccio. Jessie gli si appoggiò volentieri al petto. Mi fa paura, papà. Non durerà a lungo, tesoro, e probabilmente non ne vedrai un'altra. Cerca di restare calma e goditi l'esperienza. Jessie guardò nella sua scatola riflettente. Non c'era più niente. «...Io amo troppo forte, mi sento dire dagli amici...» Papà? Non c'è più. Posso... Sì. Adesso puoi. Ma quando ti dico che devi smettere, smetti subito. Senza protestare, capito? Aveva capito. Trovava la prospettiva delle retine bruciate (bruciature di cui apparentemente non ci si accorgeva fino a quando era ormai troppo tardi per porvi rimedio) molto più spaventosa della civetta che gridava nel bosco. Ma mai e poi mai si sarebbe negata almeno una sbirciatina, ora che finalmente era arrivato il momento, che finalmente stava succedendo. No, mai! «...ma io credo», cantò Marvin con il fervore del convertito, «sì, io credo... che è giusto amare così una donna...» Tom Mahout le passò una presina, poi tre lastre di vetro affumicato, una sull'altra. Aveva il respiro corto e Jessie si sentì dispiaciuta per lui. Probabilmente l'eclisse aveva messo addosso paura anche a lui, ma naturalmente non era previsto che un adulto lo lasciasse vedere. Per molti versi gli adulti erano creature tristi. Pensò se fosse il caso di girarsi per consolarlo, poi decise che probabilmente Io avrebbe messo in imbarazzo, l'avrebbe fatto sentire stupido. Sentiva di capirlo. Se c'era una cosa che detestava era sentirsi stupida. Alzò invece le lastre di vetro affumicato davanti al viso, poi sollevò lentamente la testa per guardarvi attraverso. «Ora mie belle figliole voglio sentirlo cantare anche a voi», cantò Marvin, «quello che fai non è giusto e farlo non puoi! E allora fatemi sentire! Fatemi sentire che gridate SÌ SÌ!» Ciò che Jessie vide quando guardò attraverso le lastre di vetro sovrapposte... A questo punto la Jessie ammanettata al letto nella casa estiva sulla sponda nord del Kashwakamak, la Jessie che non aveva dieci anni, bensì trentanove, ed era vedova da quasi dodici ore, ebbe una duplice, chiara percezione: stava dormendo, e mentre dormiva non tanto sognava il giorno dell'eclisse, quanto lo riviveva. Per un po' aveva creduto che fosse un so-
gno e nient'altro, come quello della festa di compleanno di Will, dove la gran parte degli ospiti erano morti o persone che non vedeva da anni. Quella nuova produzione cinematografica cerebrale aveva lo stesso sapore surreale e insieme razionale di quella precedente, ma come metro di giudizio era del tutto inaffidabile, perché era stata la giornata stessa a essere surreale e onirica. Prima l'eclisse e poi suo padre... Basta, decise Jessie. Devo venirne fuori subito. Compì uno sforzo convulso per estrarsi dal sogno o ricordo che fosse. Il suo sforzo mentale si tradusse in uno spasmo corporeo e le catenelle delle manette tintinnarono sommessamente sotto tensioni repentine e violente. Quasi ci riuscì; per un attimo ne fu quasi fuori. E ce l'avrebbe fatta, se non avesse avuto un ripensamento dell'ultim'ora. L'arrestò il terrore inarticolato ma soverchiante di una forma misteriosa: una forma in attesa, che avrebbe potuto fare cose al confronto delle quali quanto era accaduto quel giorno in terrazza sarebbe apparso insignificante... se avesse dovuto affrontarla. Ma forse non ne sono costretta. Non ancora. E forse l'ansia di nascondersi nel sonno non era tutto; era possibile che ci fosse anche qualcos'altro, un bisogno inconscio di gettar luce una volta per tutte su quella tenebra. Si accasciò contro il guanciale, con gli occhi chiusi, le braccia sollevate e divaricate in quella posa sacrificale, il volto pallido e contratto dalla tensione. «Specialmente voi ragazze», bisbigliò nel buio. «Specialmente tutte voi ragazze.» Si accasciò sul guanciale e fu di nuovo il giorno dell'eclisse. 18 Ciò che Jessie vide attraverso le lenti scure degli occhiali e il filtro preparato da suo padre fu così strano, meraviglioso e inquietante, che sulle prime la sua mente si rifiutò di ammetterlo. Le pareva di osservare un grande neo rotondo, come quello che Anne Francis aveva sotto l'angolo della bocca, sospeso là in mezzo, al centro del cielo pomeridiano. «Se parlo nel sonno... perché è tutta la settimana che non vedo il mio amore...» Fu a questo punto che sentì per la prima volta la mano di suo padre sul bocciolo del seno destro. Glielo pizzicò delicatamente, spostò la mano a quello sinistro, poi tornò su quello destro, quasi che stesse facendo un con-
fronto di dimensioni. Ora respirava molto velocemente; alle orecchie di Jessie era come una locomotiva a vapore e di nuovo avvertì quella pressione dura contro il sedere. «Chi mi dà un testimone?» stava gridando Marvin Gaye, il banditore di anime. «Testimone, testimone?» Papà? Stai bene? Sentì di nuovo nei seni una vibrazione appena accennata, piacere e dolore, tacchino arrosto glassato e con sugo di cioccolato, ma questa volta avvertì anche allarme e una sorta di sorpresa confusione. Sì, rispose lui, ma la sua voce suonò quasi come quella di uno sconosciuto. Sì, sto bene, ma tu non ti girare. Si spostò. La mano che le teneva sul seno andò altrove; quella sulla coscia risalì di più, spingendo davanti a sé l'orlo del prendisole. Cosa stai facendo, papà? La sua domanda non fu proprio ansiosa; fu perlopiù curiosa. Ma vi serpeggiava lo stesso una venatura di timore, una specie di sottile trama rossa. Sopra di lei una strana corona di luce fulgente incorniciava il cerchio scuro sospeso nel cielo color indaco. Mi vuoi bene, frugolino? Sì, certo... Allora non ti preoccupare di niente. Non ti farei mai del male. Voglio essere carino con te. Tu guarda l'eclisse e lasciami essere carino con te. Non sono sicura di volerlo, papà. Il senso di confusione si andava dilatando, la trama rossa s'inspessiva. Ho paura di bruciarmi gli occhi. Di bruciarmi le comesichiamano. «Ma io credo», cantò Marvin, «che una donna sia il migliore amico di un uomo... e io voglio restare con lei... fino alla fine.» Non aver paura. Ora papà ansimava. Hai ancora venti secondi. Almeno. Perciò non aver paura. E non ti girare. Sentì lo schiocco dell'elastico, ma era quello di papà, non il suo; le sue mutandine erano dove dovevano essere, sebbene si rendesse conto che se avesse abbassato lo sguardo le avrebbe viste: tanto suo padre le aveva sollevato il prendisole. Mi vuoi bene? le domandò di nuovo lui e per quanto assalita dalla terribile premonizione che la risposta giusta a quella domanda sarebbe diventata sbagliata, aveva dieci anni ed era ancora la sola risposta che sapeva dare. Così gli rispose di sì. «Testimone, testimone», invocò Marvin, ora in dissolvenza.
Suo padre si spostò, premendole più saldamente l'oggetto duro contro il sedere. All'improvviso Jessie capì che cos'era (non il manico di un cacciavite o di martelletto o di qualche altro arnese preso dalla scatola degli attrezzi in dispensa) e all'allarme che provava si unì un momentaneo piacere dispettoso che riguardava più sua madre che suo padre. Così impari a osteggiarmi sempre, pensò, mentre guardava il cerchio nero nel cielo attraverso le lastre di vetro sovrapposte, e poi: Così impariamo tutt'e due, immagino. La vista le si annebbiò all'improvviso e il senso di piacere svanì. Restò solo l'allarme crescente. Oddio, pensò. Sono le retine... sono le retine che cominciano a bruciare. Ora la mano sulla coscia si spostò fra le sue gambe, risalì fino a fermarsi all'inguine e lì l'afferrò saldamente. Jessie pensò che non avrebbe dovuto fare così. Non era un posto dove avrebbe dovuto mettere la mano. A meno che... Ti sta dando una strizzata, le spiegò a un tratto una voce interiore. Negli anni successivi, la voce che avrebbe infine assegnato alla Brava Mogliettina l'avrebbe spesso esacerbata; sarebbe stata talvolta la voce della prudenza, spesso la voce del biasimo e quasi inevitabilmente la voce delle negazioni. Cose sgradevoli, cose svilenti, cose dolorose... sarebbero tutte scomparse con il semplice espediente di ignorarle con entusiasmo, questo era il punto di vista della Brava Mogliettina. Era una voce propensa a insistere ostinatamente che anche le cose più smaccatamente sbagliate erano in realtà giuste, elementi di un disegno benevolo troppo grande e complesso perché i comuni mortali potessero capirlo. Ci sarebbero stati momenti (specialmente durante l'undicesimo e il dodicesimo anno di età, quando quella stessa voce era la voce della signorina Petrie, la maestra di seconda), in cui sarebbe arrivata a portarsi le mani alle orecchie per difendersi dall'assillo di quella voce così ragionevole e fastidiosa (salvo naturalmente quando si metteva a parlare dal versante delle orecchie che non poteva raggiungere), ma in quel particolare momento di crescente confusione, mentre l'eclisse oscurava il cielo sul Maine occidentale e nelle profondità del Dark Score si riflettevano le stelle, nel momento in cui si rese conto (più o meno) di quel che stava facendo la mano che aveva fra le gambe, sentì nella voce solo un tranquillizzante realismo e vi si affidò con un sollievo che tremava di panico. È solo una strizzatina, Jessie, niente di grave. Sei sicura? domandò ansiosa. Sì, rispose con fermezza la voce; con il passare degli anni Jessie avrebbe
scoperto che quella voce era quasi sempre sicura, che avesse torto o ragione. È solo un gioco, senza malizia. Non sa che ti sta facendo paura, perciò non aprire bocca e non guastare un pomeriggio cosi bello. È una sciocchezzuola senza importanza. Non crederci, gioia! ribatté l'altra voce, quella autoritaria. Certe volte si comporta come se tu fossi la sua dannata ragazza invece di sua figlia ed è esattamente quello che sta facendo adesso! Non ti sta strizzando, Jessie! Ti sta scopando! Era quasi sicura che fosse una bugia, quasi sicura che quella parola strana e proibita che aleggiava nel cortile della scuola facesse riferimento a un atto che non si poteva compiere solo con una mano, però un dubbio restava. Con improvviso sconcerto ricordò Karen Aucoin che l'ammoniva a non permettere mai a un ragazzo di infilarle la lingua in bocca, perché avrebbe potuto insediargli un neonato in gola. Karen sosteneva che certe volte finiva così, ma che la donna costretta a vomitare il suo bambino per toglierselo dal gozzo moriva quasi invariabilmente e che di solito moriva anche il bambino. Io non lascerò mai che un ragazzo mi baci con la lingua in bocca, aveva dichiarato Karen. Magari lascio che qualcuno mi palpi un po' di sopra, se proprio gli voglio bene, ma mai e poi mai voglio un bambino in gola. Come farei a mangiare? Al momento Jessie aveva trovato quell'ipotesi di gravidanza così pazzesca da non essere priva di un certo fascino; e chi avrebbe potuto saltar fuori con un'idea come quella se non Karen Aucoin, che si preoccupava se, una volta chiuso lo sportello del frigorifero, la luce restasse accesa o no? Ora però, quell'idea balzana si rivestiva di una propria logica infida. Supponiamo, anche solo come ipotesi, che fosse vera? Se era possibile avere un bambino dalla lingua di un ragazzo, se poteva accadere una cosa del genere, allora... E c'era quella cosa dura che le premeva tra le natiche. Quella cosa che non era il manico di un cacciavite o del martelletto per bullette di sua madre. Cercò di stringere le gambe, un gesto che fu ambivalente per lei, ma non per lui. Suo padre rantolò (un suono doloroso e impressionante) e le premette con maggior forza le dita contro il punto più sensibile sotto il cavallo delle mutandine. Le fece un po' male. Jessie si irrigidì contro di lui e gemette. Solo molto più tardi considerò che suo padre dovesse aver frainteso il suo gemito scambiandolo per un'espressione di passione e probabilmente
era stato meglio così. Quale che fosse stata la sua interpretazione, segnò il punto culminante di quello strano interludio. S'inarcò all'improvviso sotto di lei, spingendola all'insù in un movimento uniforme. Fu un movimento insieme terrificante e stranamente piacevole... piacevole era che lui fosse così forte, che lei si sentisse così commossa. Per un attimo quasi capì la natura dei meccanismi psicofisici che erano entrati in azione, così pericolosi eppure avvincenti, e che avrebbe potuto assumerne il controllo... se solo lo avesse voluto. Non voglio, pensò. Non voglio saperne niente. Qualunque cosa sia, è brutta, fa schifo e fa paura. Poi la cosa dura le premette contro una natica, la cosa che non era il manico di un cacciavite o del martelletto della mamma, fu scossa da spasmi e contrazioni e sparse un liquido che le inzuppò le mutandine, dandole una sensazione di bagnato e di calore. È sudore, l'avvertì prontamente la voce che un giorno sarebbe appartenuta alla Brava Mogliettina. È solo sudore. Si è accorto che avevi paura di lui, che avevi paura di stargli seduta in grembo e si è innervosito. Dovresti rammaricartene. Sudore, un corno! protestò l'altra voce, quella Che un giorno sarebbe appartenuta a Ruth. Parlò in un tono pacato, ma veemente e deciso. Tu sai che cos'è, Jessie, è quella roba di cui hai sentito parlare Maddy e le altre ragazze la sera della festa in pigiama di tua sorella, quando credevano che ti fossi finalmente addormentata. Cindy Lessard ha detto che si chiama sperma. Ha detto che è bianco e che sgorga fuori dal coso dei maschi come dentifricio. È quello il seme che fa i bambini, altro che baci con la lingua in bocca. Per un momento rimase in bilico lassù, sospinta dalla sua improvvisa tensione, confusa e impaurita e anche eccitata, ad ascoltarlo respirare affranto a boccate frettolose di aria umida. Poi i suoi fianchi e le sue cosce si rilassarono lentamente e lui la riabbassò. Non guardarlo più, frugolino, le disse e, anche se ansimava ancora, la sua voce era tornata quasi normale. Il tumulto che tanto l'aveva preoccupata si era spento e non c'era più alcuna ambivalenza in quel che provava in quel momento: un profondo, semplice sollievo. Qualunque cosa fosse accaduta, posto che qualcosa fosse, era accaduta. Papà... No, niente storie. Adesso basta. Le tolse dolcemente dalla mano i vetri affumicati. Contemporaneamente
le baciò il collo, ancor più dolcemente. Jessie guardava l'innaturale oscurità che avvolgeva il lago, mentre lui la baciava. Sentiva distrattamente la civetta e i grilli che, ingannati dall'eclisse, avevano cominciato il loro gracidare serale con due o tre ore di anticipo. Persisteva ancora davanti ai suoi occhi l'immagine di un tatuaggio nero e rotondo circondato da un'aureola irregolare di fuoco verdastro e pensò: Se avessi continuato a guardare, mi sarei bruciata le retine e probabilmente sarei stata costretta a vedere quel cerchio per il resto dei miei giorni, come quello che si vede dopo che qualcuno ti ha sparato un flash negli occhi. Perché non vai dentro e ti metti un paio di jeans, frugolino? Forse quella del prendisole non è stata poi una gran bell'idea. Le aveva parlato in un tono di voce spento che sembrava far intendere che l'idea di indossare il prendisole fosse stata solo sua (anche in caso contrario, avresti dovuto farti furba, la rimproverò all'istante la voce della signorina Petrie) e le affiorò alla mente un'idea nuova: e se papà avesse deciso che doveva raccontare alla mamma che cos'era accaduto? Era un'eventualità così spaventosa che scoppiò a piangere. Scusami, papà, singhiozzò, gettandogli le braccia intorno alle spalle e schiacciandogli il viso nell'incavo del collo, dove sentì l'aroma vago e spettrale del suo dopobarba o dell'acqua di colonia o altro che fosse. Se ho fatto qualcosa di male, ti chiedo scusa, scusa scusa scusa. Mio Dio, no, rispose lui, ma era sempre il tono spento e pensieroso di poco prima, come se in cuor suo stesse cercando di decidere se fosse opportuno riferire a Sally quello che aveva fatto Jessie, o se non fosse forse più prudente agire con discrezione. Non hai fatto niente di male, frugolino. Mi vuoi ancora bene? insisté lei. Pensò per un attimo di dover essere pazza a chiederglielo, pazza a rischiare una risposta che avrebbe potuto devastarla, ma non poteva farne a meno. Doveva sapere. Naturalmente, rispose subito lui. Era riaffiorata un po' di animazione nella sua voce questa volta, abbastanza perché lei sentisse che era sincero (oh che grande sollievo), eppure resisteva il sospetto che tutto fosse cambiato e solo per colpa di qualcosa che non riusciva nemmeno a capire del tutto. Sapeva che (una strizzatina era una strizzatina solo una strizzatina) aveva a che fare con il sesso, ma non sapeva giudicare in quale misura, se più o meno grave. Probabilmente non era stato quello che le ragazze alla festa in pigiama avevano definito «andare fino in fondo» (con l'eccezione di Cindy Lessard, quella che chissà come la sapeva più lunga di tutte le al-
tre; lei l'aveva chiamato «immersione profonda del lungo palo bianco», una definizione che a Jessie era sembrata da una parte raccapricciante e dall'altra maledettamente comica), ma non era detto che solo perché non aveva messo il suo coso nella sua cosa si fosse salvata dall'essere in quella condizione che certe sue compagne di scuola chiamavano «inci». Le tornò alla mente quello che le aveva raccontato Karen Aucoin l'anno scorso, mentre tornavano a casa da scuola, e cercò di respingere il ricordo. Quasi certamente non era vero e anche se lo fosse stato papà non le aveva messo la lingua nella bocca. Udì allora la voce di sua madre, forte e contrariata: Non dicono forse che è sempre alla ruota che cigola che si dà il grasso? Sentiva sulla natica la macchia calda di bagnato. Si andava ancora allargando. Sì, pensò. Dev'essere così. È proprio alla ruota che cigola che si dà il grasso. Papà... Lui alzò la mano, un gesto che faceva spesso a tavola quando la mamma o Maddy (di solito sua madre) cominciavano a scaldarsi un po' troppo per una questione o l'altra. Jessie non ricordava di averlo mai visto rivolgere quel gesto a lei e ciò rafforzò il suo sospetto che qualcosa fosse andato molto storto e che, in conseguenza del terribile errore da lei commesso (probabilmente l'aver accettato di indossare il prendisole), si sarebbero verificati mutamenti profondi e inappellabili. Quella riflessione le provocò una pena così penetrante che le sembrò di sentire dita invisibili che le manipolavano crudelmente le viscere, rimestandole e annodandole le budella. Con la coda dell'occhio notò che i calzoncini da ginnastica di suo padre erano in disordine. Faceva capolino qualcosa, una forma rosea, che poco ma sicuro non era il manico di un cacciavite. Prima che Jessie potesse distogliere gli occhi, Tom Mahout si accorse della direzione del suo sguardo e si risistemò frettolosamente i calzoncini, facendo scomparire la forma rosea. Il suo volto si contrasse in una fuggevole smorfia di disgusto e Jessie si sentì di nuovo stringere da una morsa nell'addome. L'aveva colta a guardarlo e aveva scambiato uno sguardo del tutto casuale per un atto di sconveniente curiosità. Quello che è appena successo, cominciò, ma s'interruppe per schiarirsi la gola. Dobbiamo parlare di quello che è appena successo, frugolino, ma non in questo preciso momento. Fila dentro a cambiarti, magari ti fai una doccia veloce veloce, già che ci sei. Sbrigati, così non perdi la fine dell'eclisse.
Jessie aveva perso tutto l'interesse per l'eclisse, anche se nemmeno in un milione di anni glielo avrebbe confessato. Annuì, ma poi si girò. Papà, sono a posto? Lui fu sorpreso, disorientato, insospettito... una combinazione che acuì in lei la sensazione di mani rabbiose che le torcevano le budella... e a un tratto intuì che stava male anche lui come lei. Forse peggio. E in quell'istante di chiarezza negata ad altre voci che non fossero la sua, pensò: E ti sta bene! Dannazione, sei stato tu a cominciare! Sì, rispose suo padre, ma in un tono che non la convinse del tutto. Sei perfettamente a posto, Jess. E adesso vai dentro a rimetterti in ordine. Va bene. Cercò di sorridere, ce la mise tutta, e qualcosa riuscì a far affiorare. Suo padre sembrò stupito per un momento, poi ricambiò il suo sorriso. Lei ne fu parzialmente risollevata e per il momento le mani che le tormentavano le viscere allentarono la presa. Ma quando arrivò nella camera da letto grande al piano di sopra, quella dove dormiva con Maddy, le brutte sensazioni erano ricominciate. La peggiore era di gran lunga la paura che papà ritenesse di dover raccontare alla mamma quello che era avvenuto. E che cosa avrebbe pensato sua madre? È la nostra Jessie, non è vero? Lo ruota che cigola. La camera era stata divisa alla maniera del campeggio, con una corda da bucato tirata al centro. Sulla corda lei e Maddy avevano appeso dei vecchi lenzuoli ottenuti dalla mamma, che avevano poi ravvivato di disegni colorati con i pastelli di Will. Colorare le lenzuola e dividere la stanza era stato un gran divertimento ma, passato l'entusiasmo di allora, ora le sembrava un'iniziativa stupida e infantile, per non dire della sua ombra enfiata che vedeva ballare sul lenzuolo centrale e che la metteva a disagio, simile com'era all'ombra di un mostro. Anche l'aroma fragrante della resina dei pini, che le era sempre piaciuto tanto, ora le sembrava greve e soffocante, come quando si spruzza una dose eccessiva di deodorante per ambienti per nascondere un tanfo sgradevole. È la nostra Jessie, mai del tutto soddisfatta di come vanno le cose, se non è lei a metterci il tocco finale. Mai completamente felice dei progetti degli altri. Mai capace di accontentarsi. Corse in bagno, perché voleva scappare da quella voce, già prevedendo che non avrebbe potuto. Accese la luce e in un unico, rapido gesto si sfilò il prendisole dalla testa. Lo gettò nella cesta della biancheria da lavare, ben lieta di sbarazzarsene. Si rimirò allo specchio, con gli occhi grandi, e vide
un faccino di bimba sormontato da un'acconciatura da adolescente... che si andava disfacendo dalle forcine in ciuffi e boccoli e riccioli. Anche il corpo era da bambina, petto piatto e fianchi stretti, ma non sarebbe rimasto così ancora a lungo. Già aveva cominciato a trasformarsi e aveva fatto a suo padre qualcosa che non avrebbe dovuto. Non voglio avere mai le tettone e i fianchi rotondi, pensò corrucciata. Se fanno succedere cose così, chi li vuole? Il pensiero le fece ricordare la macchia di bagnato che aveva sul fondo delle mutandine. Se le sfilò (erano di cotone, comprate da Sears ed erano state verdi, ma ormai si erano così scolorite da sembrare più che altro grigie) e le esaminò incuriosita, tenendo le mani all'interno dell'elastico. Sì, c'era qualcosa di dietro, ma non era sudore. E non somigliava nemmeno a nessun dentifricio di sua conoscenza. Sembrava detersivo liquido per piatti di colore perlaceo. Vi avvicinò la faccia per annusare con cautela. Sentì qualcosa, un odore debole debole e piatto, che associò al lago dopo un periodo di calura afosa, e con l'acqua del loro pozzo. Una volta aveva portato a suo padre un bicchier d'acqua che mandava un odore particolarmente forte e gli aveva chiesto se lo sentisse anche lui. Papà aveva scosso la testa. No, aveva risposto giovialmente, ma non significa che l'odore non ci sia. Vuol dire semplicemente che fumo troppo. Immagino che sia l'odore della falda acquifera, frugolino. Tracce di minerali. Dà all'acqua un gusto strano e costringe tua madre a spendere un occhio della testa in ammorbidenti, ma ti giuro che non fa male. Tracce di minerali, pensò ora e annusò di nuovo l'aroma quasi impercettibile. Non riusciva a capire perché ne fosse tanto affascinata. L'odore della falda acquifera. L'odore di... Poi intervenne la voce più autoritaria. Il giorno dell'eclisse le sembrò un po' quella di sua madre (la chiamava gioia, tanto per cominciare, come faceva talvolta Sally quando era irritata con lei per essersi defilata da qualche faccenda domestica o per essere stata trascurata verso qualcuna delle sue responsabilità), ma Jessie aveva il sospetto che fosse in realtà la voce di se stessa adulta. E se quel raglio bellicoso la metteva molto a disagio, era solo perché, tecnicamente, quella voce si stava facendo sentire con largo anticipo sui tempi stabiliti. Comunque c'era. C'era e stava facendo del suo meglio per chiarirle le idee. Il suo clamore un po' saccente le era inaspettatamente di conforto. È quella roba di cui parlava Cindy Lessard, ecco che cos'è, è il suo sperma, gioia. Secondo me faresti bene a essere contenta che ti sia finito
sulle mutandine e non da qualche altra parte, ma non cacciare balle a te stessa sull'acqua del lago o sulle tracce di minerali nella falda acquifera o altre fesserie del genere. Karen Aucoin è una povera boccalona, non c'è mai stata donna in tutta la storia del mondo che abbia concepito un bambino in gola e lo sai benissimo anche tu, ma Cindy Lessard non è una stupida boccalona. Io credo che abbia visto questa roba e adesso l'hai vista anche tu. Roba di maschio. Sperma. Improvvisamente nauseata, non per la sostanza in sé quanto per la persona che l'aveva espulsa, Jessie gettò le mutandine nella cesta, sopra il prendisole. Poi ebbe la visione di sua madre, che vuotava le ceste e faceva il bucato nel locale lavanderia del seminterrato, pescava quel particolare paio di mutandine da quella particolare cesta e trovava quella macchia così particolare. Che cosa avrebbe pensato? Mah, che quel tormento quotidiano che era la ruota cigolante di famiglia avesse ottenuto il suo grasso, naturalmente... cos'altro? La nausea si trasformò in orrore colpevole. Corse a recuperare le mutandine. Tutt'a un tratto quell'odore piatto le colmò le narici, denso e oleoso e vomitevole. Ostriche e rame, pensò e tanto le fu sufficiente. Cadde in ginocchio davanti al water e rigettò con le mutandine appallottolate nel pugno stretto. Fece scorrere subito l'acqua, prima che l'odore di hamburger parzialmente digerito si diffondesse nell'aria. Poi aprì il rubinetto dell'acqua fredda nel lavandino e si sciacquò la bocca. Cominciò allora a calmarsi in lei la paura di dover trascorrere l'ora successiva chiusa là dentro, inginocchiata davanti alla tazza a vomitare. Il suo stomaco sembrava voler far giudizio. Se solo fosse riuscita a schivare un'altra zaffata di quell'odore... Trattenendo il fiato, mise le mutandine sotto l'acqua fredda, le bagnò, le strizzò e le rigettò nella cesta. Poi trasse un respiro profondo, ravviandosi i capelli sulle tempie con il dorso delle mani umide. Se sua madre le avesse chiesto che ci faceva un paio di mutandine bagnate in mezzo alla biancheria sporca... Stai già pensando come una criminale, lamentò la voce che un giorno sarebbe appartenuta alla Brava Mogliettina. Lo vedi come si finisce a fare la bambina cattiva, Jessie? Adesso lo capisci? Voglio certamente sperare... Stai zitta, impiastro che non sei altro, l'apostrofò in malo modo l'altra voce. Più tardi potrai star lì a recriminare e pontificare finché vuoi, ma per il momento facci il santo piacere. Abbiamo un problemuccio da risolvere. Capito?
Nessuna risposta. Meglio così. Jessie si ravviò nervosamente i capelli una seconda volta, sebbene ben pochi le fossero ricaduti sulle tempie, sciogliendosi dall'acconciatura. Se sua madre le avesse chiesto che ci faceva un paio di mutandine bagnate nella biancheria da lavare, avrebbe semplicemente risposto che faceva così caldo che aveva deciso di fare un tuffo senza spogliarsi. L'avevano fatto spesso tutti e tre durante quell'estate. Allora sarà meglio che ti ricordi di inzuppare d'acqua anche i calzoncini e la maglietta. Dico bene, gioia? Sì, rispose. Hai ragione. Indossò l'accappatoio appeso dietro la porta del bagno e tornò in camera a prendere i pantaloncini e la maglietta che indossava quella mattina, quando mamma, fratello e sorella maggiore erano partiti per la loro gita... mille anni prima, le sembrava adesso. Si guardò intorno, non trovò gli indumenti e si inghinocchiò per guardare sotto il letto. Anche l'altra donna è in ginocchio, osservò una voce, e sente lo stesso odore. Quell'odore come di rame e panna. Jessie sentì ma non sentì. La sua mente era sui calzoncini e la maglietta, stava elaborando una giustificazione plausibile. Come aveva sospettato, gli indumenti erano sotto il letto. Allungò la mano per prenderli. Sta uscendo dal pozzo, disse la voce di prima. L'odore viene dal pozzo. Sì, sì, pensò Jessie, mentre afferrava gli indumenti e si rialzava per tornare in bagno. Un pezzo di pizzo che puzza nel pozzo, che pazzo! Lo ha fatto cadere nel pozzo, disse la voce e allora finalmente ne prese atto. Si fermò di botto sulla soglia del bagno, sbarrando gli occhi. Provò tutt'a un tratto una paura assolutamente nuova e mortale. Ora che l'ascoltava bene, si rendeva conto che quella voce non somigliava ad alcuna delle altre; quella era come quelle voci che si intercettano alle volte alla radio a tarda notte, quando le condizioni sono quelle giuste, una voce che potrebbe provenire da molto, molto lontano. Non poi così lontano, Jessie. Anche lei è nella zona dell'eclisse. Per un attimo sparì il pianerottolo superiore della casa di Dark Score Lake. Al suo posto c'era un groviglio di cespugli di more, privi di ombre sotto il cielo oscurato dall'eclisse, e l'aria era permeata di un limpido odore salmastro. Jessie vide una donna magra con una veste da casa e i capelli brizzolati raccolti in una crocchia. Era inginocchiata davanti a un riquadro di assi scheggiate. Accanto a lei c'era una matassa di stoffa bianca. Jessie si sentì quasi certa che fosse la sottoveste della donna magra. Chi sei? chiese Jessie alla donna, ma già la donna non c'era più... posto naturalmente che
ci fosse mai stata. Girò effettivamente la testa per guardarsi alle spalle e vedere se forse la misteriosa donna magra si fosse spostata dietro di lei. Ma il pianerottolo era deserto. Jessie era sola. Si guardò le braccia e vide che aveva la pelle accapponata. Stai perdendo la testa, si lamentò la voce che un giorno sarebbe appartenuta alla Brava Mogliettina Burlingame. Oh, Jessie, sei stata cattiva, sei stata molto cattiva e adesso pagherai per questo perdendo la testa. «No!» ribatté con forza. Guardò il suo viso tirato e pallido nello specchio del bagno. «No!» Aspettò per un momento sospesa fra paura e speranza di sapere se sarebbero tornate le voci o se le fosse riapparsa l'immagine della donna inginocchiata davanti alle assi scheggiate con la sottoveste abbandonata per terra al suo fianco, ma non sentì niente e non vide nulla. Quell'altra, quella che aveva detto a Jessie che una certa lei aveva spinto un certo lui in un certo pozzo, non c'era più. Colpa della tensione, gioia, le spiegò la voce che un giorno sarebbe stata di Ruth, e Jessie ebbe la netta sensazione che, seppure la voce non credesse fino in fondo alle proprie parole, la mente che la governava aveva deciso che fosse meglio per lei rimettersi in azione al più presto. Hai pensato a una donna con la sottoveste accanto a sé perché oggi pomeriggio giri con le mutande sul cervello, cara mia. Se fossi in te, mi dimenticherei tutta quanta questa storia. Quello era un ottimo consiglio. Jessie sciacquò velocemente i calzoncini e la maglietta, li strizzò e finalmente si mise sotto il getto della doccia. S'insaponò, si sciacquò, si asciugò, tornò velocemente in camera. Normalmente non si sarebbe presa la briga di indossare di nuovo l'accappatoio per la breve corsa di pochi passi sul pianerottolo, ma quella volta lo fece, limitandosi tuttavia a tenerne i lembi accostati, senza perder tempo con la cintura. In camera si arrestò di nuovo e si morsicò il labbro inferiore, mentre pregava di non dover sentire di nuovo quell'altra voce strana, pregava di non dover affrontare un'altra di quelle balorde allucinazioni o illusioni o che altro fossero. Non successe niente. Abbandonò l'accappatoio sul letto, corse alla cassettiera e scelse mutandine e pantaloncini puliti. Sente lo stesso odore anche lei, pensò. Chiunque sia quella donna, sente lo stesso odore che viene dal pozzo dove ha fatto cadere l'uomo, e sta succedendo adesso, durante l'eclisse. Sono sicura... Si voltò con una camicetta pulita in mano e restò pietrificata. Sulla porta c'era suo padre che la os-
servava. 19 Si svegliò nella luce mite e lattescente dell'alba con la mente ancora dominata dal ricordo sinistro e sconcertante della donna misteriosa, quella con i capelli grigi raccolti in una stretta crocchia da campagnola, la donna inginocchiata nei cespugli di more con la sottoveste abbandonata accanto, la donna che guardava attraverso assi scheggiate e sentiva quell'odore cattivo. Erano anni che non ci pensava più e ora, fresca del suo sogno di quanto era accaduto nel 1963, un sogno che era in realtà una ricostruzione, le sembrava che le fosse stata accordata una percezione soprannaturale dei fatti di quel giorno, una conoscenza visiva che forse era stata provocata dallo stress e quindi di nuovo persa per la stessa ragione. Ma non importava: non contava né quello, né quanto era avvenuto con suo padre in terrazza, né ciò che era accaduto dopo, quando si era girata e l'aveva trovato fermo sulla porta della camera. Erano tutti fatti lontani nel tempo, e quanto a ciò che stava avvenendo ora... Sono nei guai. Credo di essere in un guaio molto serio. Si lasciò andare sui guanciali e alzò lo sguardo alle braccia sospese. Si sentiva stordita e impotente come un insetto avvelenato preso nella rete di un ragno, desiderosa solo di tornare a dormire, possibilmente senza sogni la prossima volta, con le braccia morte e la gola secca in un altro universo. Peccato, niente da fare. Sentiva un ronzio grave e sonnolento nelle vicinanze. Il suo primo pensiero fu sveglia. Il secondo pensiero, dopo due o tre minuti di assopimento con gli occhi aperti, fu rilevatore di fumo. Seguì un breve, infondato palpito di speranza che la portò un po' più vicino all'autentico risveglio. Si accorse che il rumore che sentiva non somigliava poi molto a quello di un rilevatore di fumo. Sembrava... be'... Sono mosche, gioia, non è vero? La voce senza tante palle sembrava ora fiaccata dalla stanchezza. Avrai sentito parlare dei Ragazzi dell'estate, no? Ebbene, queste sono le Mosche dell'autunno e la loro versione delle World Series è quella in cui si stanno esibendo in questo momento su Gerald Burlingame, il noto avvocato e feticista di manette. «Gesù, mi devo alzare», gracchiò e stentò a riconoscere la propria voce. Che cosa diavolo vorresti dire? pensò e fu la risposta (un bel niente, grazie tante) a finire di risvegliarla. Non che volesse essere sveglia, ma a-
veva l'impressione che le convenisse accettarlo e cavarne tutto quel che poteva, finché poteva. E probabilmente ti conviene cominciare a svegliare anche mani e braccia. Sempre che abbiano voglia di risvegliarsi, s'intende. Si guardò il braccio destro, poi girò la testa sul perno arrugginito del collo (che era solo parzialmente addormentato) e si guardò quello sinistro. Fu un trauma quando si accorse che li osservava in un modo totalmente nuovo: li contemplava come se fossero mobili in una vetrina. Pareva che non avessero niente da spartire con Jessie Burlingame e lei non ci trovò niente di veramente strano, perché erano assolutamente insensibili. Le sensazioni cominciavano solo poco sotto le ascelle. Cercò di rialzarsi e scoprì con orrore che l'ammutinamento delle braccia si era propagato più di quanto avesse sospettato. Non solo si rifiutavano di muovere lei, ma non volevano saperne nemmeno di muovere se stesse. Gli ordini del suo cervello venivano bellamente ignorati. Si guardò di nuovo le braccia e questa volta non le sembrarono più due mobili. Ora le sembrarono pallidi tagli di carne appesi a ganci da macelleria. Lanciò un grido roco di paura e furore. Ma doveva sopportare con pazienza. Con le braccia almeno per il momento non c'era niente da fare, e infuriarsi o lasciarsi prendere dal panico non avrebbe modificato di un millimetro la situazione. E le dita? Se fosse riuscita a fletterle intorno ai montanti del letto, allora forse... ...e forse no. Le dita non funzionavano meglio delle braccia. Dopo quasi un intero minuto di sforzi, fu ricompensata da un unico torpido fremito nel pollice destro. «Bontà di Dio», mormorò nella sua nuova voce gracchiante che sembrava polvere macinata dai cardini di una porta. Adesso il furore non c'era più. C'era solo la paura. Capitava che si morisse per un incidente, si capisce, doveva aver visto centinaia, se non migliaia, di «necrologi di cronaca» durante i telegiornali. Sacchi che venivano portati via da lamiere contorte di automobili o salme ripescate dagli elicotteri da burroni di montagna, piedi che sporgevano da coperte gettate frettolosamente sui cadaveri davanti a edifici in fiamme, testimoni bianchi in volto e balbettanti che indicavano chiazze scure in vicoli o sul pavimento di qualche locale pubblico. Aveva visto il sudario bianco con sotto John Belushi che usciva dal Chateau Marmont Hotel di Los Angeles, aveva visto l'acrobata Karl Wallenda perdere l'equilibrio, cadere pesantemente sul cavo che stava cercando di percorrere (era stato teso fra
due alberghi in un luogo di villeggiatura, se ricordava bene), aggrapparvisi per qualche attimo e poi precipitare. I programmi di informazione avevano mandato in onda quello spezzone con l'accanimento di un ossesso. Perciò sapeva che la gente moriva in seguito a degli incidenti, lo sapeva benissimo, ma fino ad allora non si era resa conto che c'erano persone dentro quelle persone, persone come lei, persone che mai avrebbero immaginato di non mangiare più un cheeseburger, di non vedere più Final Jeopardy (e siete pregati di ricordare che la vostra risposta deve essere formulata come una domanda) o di non chiamare più il loro migliore amico o la loro migliore amica per proporre un pokerino per giovedì sera o una giornata di acquisti per il sabato pomeriggio. Niente più birra, niente più baci, e la fantasia di fare l'amore su un'amaca durante un temporale non si sarebbe mai avverata, perché si sarebbe stati troppo presi a morire. L'ultimo giorno poteva essere un giorno qualsiasi. E oggi è un giorno che rappresenta qualcosa di più di una possibilità, pensò Jessie. Credo che questa volta sia piuttosto un caso di probabilità. Questa casa, la nostra bella e tranquilla casetta sul lago, potrebbe benissimo finire al telegiornale di venerdì o sabato sera. Ci sarà Doug Rowe, con quell'impermeabile bianco che detesto, a parlare al microfono e a parlare della «casa dove sono morti il noto avvocato di Portland Gerald Burlingame e sua moglie Jessie». Poi ripasserà la linea allo studio e Bill Green darà le notizie sportive e queste non sono le riflessioni morbose di Jessie, non sono i lamenti della Brava Mogliettina o i rabbuffi di Ruth. Questa è... Ma Jessie lo sapeva. Era la verità. Era solo uno stupido, piccolo incidente, di quelli sui quali si scuote la testa quando se ne legge sul giornale all'ora della prima colazione; e si dice: «Senti un po', caro», e si legge il pezzo al marito che sta mangiando il pompelmo. Solo uno stupido, piccolo incidente, peccato però che questa volta fosse toccato a lei. Che la sua mente continuasse a insistere che era un errore, poteva essere comprensibile, ma era altrettanto irrilevante. Non c'era un Ufficio Reclami dove andare a spiegare che le manette erano state un'idea di Gerald e che perciò era suo diritto pretendere di essere lasciata libera. Se voleva che l'errore fosse rettificato, doveva pensarci da sé. Si schiarì la gola, chiuse gli occhi e parlò al soffitto. «Dio? Potresti darmi retta per un istante? Quaggiù avrei bisogno di una mano, dico sul serio. Sono in un pasticcio e sono terrorizzata. Vuoi essere così gentile da farmi uscire da questo guaio? Io... ehm... io ti prego nel nome di Gesù Cristo.»
Cercò il modo di mettere più vigore nella sua preghiera e riuscì a venire fuori solo con qualcosa che le aveva insegnato Nora Callighan, una preghiera che era ormai sulle labbra di tutti i creduloni autogeni e i guru boccaloni del mondo: «Dio mi ha dato la serenità per accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio per cambiare le cose che posso cambiare e la saggezza di riconoscere la differenza. Amen». Nulla cambiava. Lei non sentiva serenità, non sentiva coraggio, meno che mai saggezza. Era ancora solo una donna con le braccia morte e un marito morto, ammanettata al letto come un cane cattivo incatenato e lasciato a morire ignorato e da nessuno compianto in un cortile polveroso mentre il suo padrone alcolizzato sconta trenta giorni nella prigione della contea per essere stato trovato a guidare senza patente e ubriaco fradicio. «Oh, ti prego, che non sia doloroso», gemette con un filo di voce tremante. «Se devo morire, Signore, fai che non sia doloroso. Sai che quanto al dolore sono peggio di una bambina.» Mettersi a pensare alla morte in questo momento è probabilmente un'idea davvero barbina, gioia. La voce di Ruth fece una pausa, per poi aggiungere: E sottolinea probabilmente. Va bene, inutile litigare, pensare alla morte era una pessima idea. E allora a che cosa doveva pensare? A vivere, le risposero all'unisono Ruth e la Brava Mogliettina Burlingame. Va bene, a vivere. La qual cosa la riportò di filato al problema delle braccia. Si sono addormentate perché sono rimasta appesa per le braccia tutta la notte. E lo sono ancora. Il primo passo sarebbe di alleggerirle. Cercò di spingersi all'indietro è all'insù, puntando nuovamente i piedi, e visse un momento di autentico panico nero quando dapprincipio anche i piedi si rifiutarono di muoversi. Si smarrì allora per qualche istante e, quando ritrovò se stessa, stava pedalando come una matta e stava spingendo coperta, lenzuola e coprimaterasso ai piedi del letto. Boccheggiava come una ciclista agli ultimi metri di una salita in una tappa di montagna. Le natiche, che pure si erano addormentate, erano un allegro crepitare di formicolii di risveglio. La paura aveva spazzato via dalla sua mente gli ultimi residui di sonnolenza, ma ci volle quella sconclusionata ginnastica aerobica per spingere definitivamente il suo cuore a pieno regime. Finalmente cominciò ad avvertire i primi guizzi di sensazione anche nelle braccia, alla profondità del-
le ossa, e sinistri quanto tuoni che brontolano in lontananza. Se non sai più a che santo votarti, gioia, tieni a mente quegli ultimi due o tre sorsi d'acqua. Cerca di ricordare che non potrai più riprendere quel bicchiere se non rimetti completamente in sesto mani e braccia. Jessie continuò a spingere con i piedi mentre il giorno si andava illuminando. Il sudore le aveva incollato i capelli alle tempie e le colava abbondante sulle guance. Si rendeva conto, anche se solo marginalmente, che insistendo in quella faticosa attività fisica avrebbe solo acuito la sua disidratazione, ma non vedeva altra scelta. Perché non c'è scelta, gioia. Non c'è nient'altro che puoi fare. Gioia qui e gioia lì, pensò distrattamente. Vorresti ficcarti una calza in bocca, rompiscatole? Alla fine le sue natiche cominciarono a risalire verso la testiera. Ogni volta che riusciva a muoverle, tendeva gli addominali e tentava di raddrizzarsi. Piano piano, l'angolo fra gambe e busto cominciò ad approssimarsi ai novanta gradi. I gomiti cominciarono a piegarsi e, a mano a mano che braccia e spalle venivano alleggerite dal peso del corpo, crebbero le scariche che le percorrevano gli arti. Non smise di muovere le gambe quando finalmente riuscì a mettersi a sedere, e continuò invece a pedalare per mantenere accelerato il battito cardiaco. Una goccia di sudore le scivolò nell'occhio sinistro facendoglielo bruciare. Se lo scrollò via con un movimento spazientito della testa e continuò a pedalare. Il formicolio s'intensificò, sfrecciando su e giù per le braccia a partire dai gomiti e cinque minuti dopo aver trovato la sua attuale posizione, simile a quella di un adolescente allampanato che si abbarbica mollemente allo schienale del sedile davanti nella platea di un cinematografo, fu colpita dal primo crampo. Fu come la percossa del lato ottuso di una mannaia. Gettò la testa all'indietro, spedendo tutt'attorno una pioggerella di traspirazione dalla testa e dai capelli, e lanciò un grido. Mentre respirava preparandosi a urlare di nuovo, la colpì il secondo crampo. Fu molto peggiore del primo. Fu come se qualcuno le avesse preso la spalla in un cappio incrostato di cocci di vetro e avesse dato uno strattone. Ululò di dolore serrando selvaggiamente i pugni e la violenza fu tale che si fece saltare via due unghie e le mani le si riempirono di sangue. Gli occhi, quasi nascosti da scure tumefazioni carnose, erano chiusi con forza, eppure ne sgorgarono lo stesso le lacrime che le rotolarono per le guance a mescolarsi con i rivoli di sudore che le scendevano dall'attaccatura dei capelli.
Continua a pedalare, gioia, non fermarti adesso! «Non mi chiamare gioia!» strillò. Il cane randagio era furtivamente tornato sulla soglia della porta di servizio poco prima che facesse chiaro e all'udire la sua voce drizzò la testa. Sul suo muso si disegnò un'espressione di sorpresa quasi comica. «Non mi chiamare così, carogna! Detestabile ca...» Un terzo crampo, fulminante come un colpo apoplettico, le trafisse il tricipite sinistro fino all'ascella e le sue proteste si sciolsero in un prolungato e irregolare urlo di dolore. Però continuò a pedalare. Chissà come, continuò a pedalare. 20 Passato il momento peggiore degli spasmi muscolari (almeno lei sperava che fosse stato il momento più duro), riprese fiato appoggiata alle stecche di mogano della testiera. Tenendo gli occhi chiusi, aspettò che la frequenza della respirazione si placasse, dal galoppo al trotto e finalmente al passo. Sete o no, si sentiva sorprendentemente bene. Un po' doveva c'entrare con qualcosa di simile a quello che accadeva nella vecchia barzelletta che finiva con la battuta «il bello viene quando mi fermo». Ma era stata atleta da ragazza ed era stata atleta da donna fino a cinque anni prima (oh, be', ammettiamo pure che ne sono passati quasi dieci) e sapeva ancora riconoscere una scarica di endorfina. Sarà stato assurdo in quelle circostanze, ma era anche molto piacevole. Forse non tanto assurdo, Jess. Forse utile. Quelle endorfine schiariscono la mente ed è proprio questa una delle ragioni per cui dopo un po' di esercizio fisico la gente di solito lavora meglio. E in effetti si sentiva la mente più limpida. Il momento di maggior panico era svaporato come fumi industriali dispersi da un forte vento e si sentiva più che razionale; si sentiva di nuovo perfettamente padrona di sé. Non lo avrebbe mai creduto possibile e trovava un po' inquietante quella dimostrazione della infaticabile adattabilità della mente e dell'animalesca risolutezza a sopravvivere. Tutto questo popò di roba e non ho nemmeno bevuto il caffè, rifletté. L'immagine del caffè, di quello nero, nella sua tazza preferita con i fiori blu tutt'attorno, la spinse a leccarsi le labbra. E le fece anche pensare a Today, il programma televisivo. Se il suo orologio interiore non si sbagliava, Today stava per andare in onda in quel momento. In ogni angolo degli Sta-
ti Uniti uomini e donne, per la maggior parte senza manette, erano seduti al tavolo della cucina a bere succo di frutta e caffè, a mangiare ciambelle e uova strapazzate (o magari una di quelle misture di cereali che dovrebbero simultaneamente tonificare il cuore e stimolare le viscere). Guardavano Bryant Gumbel e Katie Couric che tenevano mano a Joe Garagiola. Un po' più tardi avrebbero guardato Willard Scott che augurava il buongiorno a una coppia di centenari. Ci sarebbero stati degli ospiti, uno che avrebbe parlato di tassi e di banca centrale, uno che avrebbe mostrato ai telespettatori come evitare che i loro adorabili cagnolini gli facessero a brandelli le pantofole e uno che avrebbe fatto pubblicità al suo ultimo film; e nessuno di loro si sarebbe accorto che nel Maine occidentale era in corso un incidente; che una delle loro telespettatrici più o meno fedeli non era in grado di sintonizzarsi stamane perché era ammanettata al letto, a meno di venti metri dal marito nudo, mangiucchiato da un cane e invaso dalle mosche. Girò la testa a destra e alzò gli occhi al bicchiere che Gerald aveva collocato con molta cura sulla sua estremità della mensola poco prima che cominciasse la festa. Cinque anni addietro, pensò, lassù non ci sarebbe stato nessun bicchiere, ma con l'aumentare dell'assunzione serale di scotch, era aumentata anche quella diurna di tutti gli altri liquidi, soprattutto acqua, ma anche ettolitri di analcolici dietetici e tè freddo. Almeno per Gerald l'espressione «il problema del bere» non era un eufemismo, ma la verità alla lettera. Ma se aveva il problema del bere, pensò distrattamente, adesso gli è sicuramente passato. Il bicchiere era prevedibilmente dove lei lo aveva lasciato; se il suo visitatore della notte trascorsa non era stato un sogno (Non fare la scema, è ovvio che è stato un sogno, intervenne innervosita la Brava Mogliettina), evidentemente non aveva avuto sete. Ora prenderò quel bicchiere, pensò. Sarò anche più che mai prudente, dovesse essere in agguato qualche altro crampo. Qualche domanda? Non ce ne furono e questa volta prendere il bicchiere si rivelò un giochetto, perché era molto più facile raggiungerlo e non c'era bisogno di quella complicata acrobazia con il piano inclinato. Ebbe la lieta ventura di scoprire un inaspettato sovrappiù quando recuperò la cannuccia che si era fabbricata. Asciugandosi, il cartoncino si era arricciato lungo le pieghe. La strana costruzione geometrica somigliava a un origami di libera concezione e funzionò molto più efficacemente del giorno prima. Risucchiare le ultime gocce d'acqua fu ancora più facile che prendere il bicchiere e, mentre
ascoltava il gorgoglio della pubblicità del Malto Shoppe aspirando energicamente dal fondo, rifletté che avrebbe sprecato molto meno acqua se avesse saputo che la cannuccia si poteva «trattare». Troppo tardi, però, e inutile piangere sull'acqua versata. I pochi sorsi servirono più che altro a risvegliare la sete, ma qualcosa aveva mandato giù e l'avrebbe sopportato. Ripose il bicchiere sulla mensola e rise di sé. L'abitudine era una bestiolina cocciuta. Anche in circostanze bizzarre come quelle restava una bestiolina e restava cocciuta. Aveva rischiato un crampo generale per riporre il bicchiere vuoto sulla mensola invece di lasciare che precipitasse dal letto e andasse a schiantarsi sul pavimento. E perché? Perché l'ordine ha la sua importanza, che diamine! Era uno dei principi fondamentali che Sally Mahout aveva impartito alla sua gioia, la sua rotella cigolante che non veniva mai ingrassata abbastanza e che non sapeva mai accontentarsi; la sua gioietta che era disposta a qualsiasi cosa, incluso sedurre il proprio genitore, perché tutto continuasse come lei desiderava. Con gli occhi della memoria, vide la Sally Mahout come la vedeva così spesso allora: le guance arrossate di esasperazione, le labbra compresse, i pugni chiusi e piantati sui fianchi. «E ci credevi davvero», mormorò Jessie. «Non è così, carogna?» Sei ingiusta, rispose preoccupata una parte della sua mente. Sei ingiusta, Jessie! No che non lo era e sapeva di non esserlo. Sally era stata lungi dall'essere la madre ideale, specialmente negli anni in cui il suo matrimonio con Tom arrancava faticosamente come una vecchia automobile con la trasmissione incrostata di sudiciume. Il suo comportamento durante quegli anni era stato spesso paranoico e qualche volta irrazionale. Per qualche ragione misteriosa Will era scampato quasi del tutto alle sue strapazzate e ai suoi sospetti, ma c'erano stati momenti in cui sua madre aveva spaventato a morte entrambe le figlie. Era un'ombra del passato che ormai non esisteva più. Le lettere che Jessie riceveva dall'Arizona erano i messaggi banali e noiosi di un'anziana signora che viveva per la tombola del giovedì sera e guardava agli anni in cui aveva cresciuto i suoi figli come a un periodo pacifico e lieto della sua vita. Non sembrava ricordare di aver strillato da farsi esplodere i polmoni che la prossima volta che Maddy si dimenticava di avvolgere i suoi assorbenti interni in qualche foglio di carta igienica prima di gettarli nelle immondizie l'avrebbe uccisa; o la domenica mattina quando, per nessun mo-
tivo che Jessie fosse mai stata capace di indovinare, aveva fatto irruzione in camera sua, le aveva scagliato addosso un paio di scarpe con i tacchi a spillo e se n'era uscita come una tempesta. Certe volte, ricevendo i messaggi e le cartoline di sua madre (Qui tutto bene, tesoro, ho ricevuto notizie di Maddy, che non dimentica mai di scrivere, il mio appetito si è ristabilito un po' da quando ha ripreso a fare fresco), le prendeva una gran voglia di afferrare il telefono, chiamarla e strillare: Ti sei dimenticata proprio tutto, mamma? Ti sei dimenticata il giorno in cui mi hai tirato addosso le scarpe e hai fracassato il mio vaso preferito e io ho pianto perché ho pensato che tu sapessi tutto, che lui non ce l'avesse fatta più e avesse finito per raccontartelo, anche se ormai erano passati tre anni dal giorno dell'eclisse? Ti sei dimenticata quante volte ci spaventavi con le tue urla e i tuoi pianti? Sei ingiusta, Jessie. Sei ingiusta e sleale. Ingiusta forse, ma non per questo insincera. Se avesse saputo cos'era successo quel giorno... Riaffiorò l'immagine della donna nei ceppi, apparsa e scomparsa troppo in fretta perché la potesse riconoscere, come una pubblicità subliminale: le mani bloccate, i capelli che le coprivano la faccia come il cappuccio di una penitente, il capannello di spettatori che l'additavano al disprezzo generale. Quasi tutti donne. Probabile che sua madre non lo avrebbe mai ammesso esplicitamente, però sì, avrebbe sicuramente creduto che la colpa fosse stata sua e che in realtà il suo fosse stato un atto cosciente di seduzione. Da ruota cigolante a Lolita il passo è breve, no? E la rivelazione di qualcosa di sessuale avvenuto fra suo marito e sua figlia l'avrebbe con tutta probabilità indotta a smettere di pensare di andarsene e l'avrebbe spinta a farlo sul serio. Se l'avrebbe creduto? Ma avrebbe scartato a priori ogni alternativa! Questa volta la voce della discrezione non azzardò nemmeno un accenno di protesta e Jessie si sentì cogliere da un'illuminazione improvvisa: suo padre aveva capito al volo quello che lei aveva impiegato quasi trent'anni per intuire. Suo padre era consapevole di ogni risvolto della verità esattamente come aveva sempre saputo dello strano fenomeno acustico del soggiorno con annessa sala da pranzo nella casa del lago. Quel giorno suo padre si era servito di lei in più di un modo. Si aspettò di reagire con un'ondata di emozioni negative davanti a quella penosa verità; ora sapeva di essere stata circuita da un uomo i cui primi doveri erano quelli di amarla e proteggerla. L'ondata non venne. Forse era
ancora sotto l'influenza delle endorfine, ma riteneva che ad arginare il dolore fosse soprattutto il grande senso di sollievo per aver trovato finalmente la forza di rileggere quell'episodio, per quanto la disgustasse. Le emozioni principali furono la meraviglia per aver serbato il segreto così a lungo e una strana perplessità pervasa di irrequietudine. Quante delle piccole mansioni che aveva svolto dopo quel giorno erano state direttamente o indirettamente influenzate da quanto era accaduto nell'ultimo minuto che aveva trascorso sulle ginocchia di suo padre a osservare un grande neo rotondo in mezzo al cielo attraverso due o tre lastre di vetro affumicato? E la sua situazione attuale era forse una, conseguenza di quello che era successo durante l'eclisse? No, questo è troppo, pensò. Se mi avesse violentata, forse sarebbe diverso, ma quel giorno sulla terrazza c'è stato solo un incidente qualsiasi, e neanche grave; se vuoi sapere che cos'è un incidente grave, Jess, guarda la situazione in cui ti trovi ora. Tanto varrebbe prendermela con la vecchia signora Gilette per avermi schiaffeggiato una mano quando avevo quattro anni. O con un pensiero avuto mentre venivo partorita. O con peccati di una vita precedente che ancora aspettavano di essere espiati. E poi quello che mi ha fatto in terrazza non è niente a confronto di quello che mi ha fatto in camera. E non era necessario che lo sognasse; era lì davanti a lei, perfettamente chiaro e perfettamente accessibile. 21 Quando alzò gli occhi e vide suo padre fermo sulla porta della stanza, la sua prima reazione istintiva fu di incrociarsi le braccia sul seno. Poi notò la sua espressione triste e colpevole e le lasciò ricadere, anche se sentì salire nelle guance una vampata di calore e sapeva che le si andavano accendendo sulla faccia quelle brutte chiazze che erano la sua versione di un rossore virgineo. Non aveva niente da nascondere lassù (be', quasi niente), eppure si sentiva lo stesso più nuda che nuda, e così imbarazzata che avrebbe giurato di sentirsi friggere la pelle. Pensò: E se gli altri tornassero in anticipo? E se lei piombasse qui proprio adesso e mi vedesse così, senza camicia? L'imbarazzo diventò vergogna, la vergogna diventò terrore, e tuttavia, mentre frettolosamente s'infilava la camicetta e cominciava ad abbottonarsela, sentiva che nel terrore si andava insinuando un'altra emo-
zione. Era collera e non era molto diversa dall'ira acuminata che avrebbe provato anni dopo nell'accorgersi che Gerald sapeva che diceva sul serio e faceva finta di niente. Era in collera perché non meritava di sentire vergogna e paura. Lui era l'adulto, lui era quello che le aveva versato sul fondo delle mutandine quella crema dall'odore strano, lui avrebbe dovuto provare vergogna, e invece non era così che stava andando. Era tutto il contrario ed era tutto sbagliato! Quando la camicetta fu abbottonata e rimboccata nei calzoncini, la collera non c'era più, o per meglio dire era stata ricacciata nella sua grotta. Ma intanto continuava a immaginarsi la mamma che tornava a casa in anticipo. Poco avrebbe importato che l'avesse trovata vestita. Si leggeva loro in faccia che era accaduto qualcosa di brutto, il fattaccio era appeso nell'aria, enorme, orribile e ingombrante. Lo vedeva sul volto di suo padre e lo sentiva sul proprio. «Tutto bene, Jessie?» domandò lui in tono pacato. «Non è che ti senti girare la testa o niente del genere?» «No.» Cercò di sorridere, ma questa volta non ebbe molto successo. Sentì una lacrima che le scivolava sulla guancia e se l'asciugò alla svelta, con un gesto colpevole e un po' furtivo del dorso della mano. «Mi dispiace.» Gli tremava la voce e Jessie si accorse con orrore che luccicavano gli occhi anche a lui: oh, era sempre peggio e peggio ancora. «Mi dispiace davvero tanto.» Tom si girò di scatto, corse in bagno, afferrò un asciugamano e se lo passò sul viso. Mentre accadeva tutto questo, Jessie pensava precipitosamente. «Papà?» I suoi occhi apparvero sopra l'asciugamano. Le lacrime non c'erano più. Se Jessie non avesse avuto la certezza di averle viste, avrebbe giurato che non ci fossero mai state. La domanda le rimase quasi bloccata in gola, ma doveva assolutamente sapere. «Dobbiamo... dobbiamo dirlo alla mamma?» Suo padre inspirò dal naso e soffiò un sospiro lungo e tremante. Jessie aspettò con il cuore in bocca e quando lui rispose: «Credo di sì, non ti pare?» le sprofondò fino nei piedi. Andò verso di lui, un po' vacillante sulle gambe che improvvisamente non sentiva più, e lo abbracciò. «Ti prego, papà. Non farlo. Non dirglielo. Ti supplico. No...» Le si ruppe la voce in un accesso di singhiozzi, mentre gli schiacciava la faccia contro il torace nudo.
Dopo un attimo lui le passò le braccia dietro la schiena, questa volta nel suo normale modo affettuoso e paterno. «È un peccato», mormorò, «perché da qualche tempo a questa parte c'è una certa tensione fra lei e me, piccola mia. Sarei sorpreso di sapere che non te ne sei accorta, per la verità. Una cosa come questa potrebbe rendere tutto molto più difficile. Non è stata molto... be', diciamo molto affettuosa, ultimamente, e questo spiega in gran parte il problema di oggi. Un uomo ha... certe necessità. Sono cose che avrai modo di capire anche tu un giorno...» «Ma se lo scopre, dirà che è stata colpa mia!» «Oh no, non credo», rispose Tom, ma il suo tono era sorpreso, riflessivo... e per Jessie funesto come una sentenza di morte. «Noooo... sono sicuro, oddio, abbastanza sicuro, che non...» Alzò gli occhi verso di lui, occhi lacrimanti e rossi. «Ti scongiuro di non dirglielo, papà! Ti prego... ti prego...» Lui la baciò sulla fronte. «Ma Jessie... devo farlo. Dobbiamo.» «Perché? Perché, papà?» «Perché...» 22 Jessie cambiò posizione. Le catenelle tintinnarono; rumoreggiarono anche gli anelli delle manette sui montanti del letto. Ora la luce irrompeva dalle finestre esposte a est. «'Perché non saresti capace di mantenere il segreto'», disse in un sordo mormorio. «'Perché se deve saltar fuori, Jessie, è meglio per tutti e due che si sappia subito e non fra una settimana o fra un mese o fra un anno. O addirittura fra dieci anni.'» Che maestro era stato nell'ingannarla: prima le scuse, poi le lacrime e finalmente il coniglio dal cilindro: il suo problema trasformato d'incanto nel problema di Jessie! Comare Volpe, Comare Volpe, fai quello che vuoi, ma non gettarmi in quei rovi! Finché, alla fine, l'ebbe spinta a giurargli che avrebbe serbato il segreto per sempre, che nessuno sarebbe riuscito a strapparglielo nemmeno con tenaglie e carboni ardenti. Ricordava di aver giurato qualcosa del genere in uno scroscio di lacrime brucianti e impaurite. Finalmente lui aveva smesso di scuotere la testa e aveva guardato lontano, con gli occhi socchiusi e le labbra compresse. Lei vide quell'espressione nello specchio, come quasi certamente lui sapeva.
«Non potresti mai raccontarlo a nessuno», aveva commentato e Jessie ricordava bene il vertiginoso sollievo che aveva provato all'udire quelle parole. Quello che stava dicendo suo padre era meno importante del tono in cui glielo diceva. Era un tono che Jessie riconosceva di avergli udito molte volte in precedenza e sapeva quanto sua madre s'indispettisse che sua figlia potesse spingerlo a parlare così più spesso che sua moglie. Sto cambiando idea, era il messaggio sottinteso da quel tono di voce. So che non dovrei, ma mi sto ricredendo. Comincio a vederla dal tuo punto di vista. «No», gli aveva risposto. Le tremava la voce ed era costretta a deglutire in continuazione per non singhiozzare. «Non lo direi mai, papà... mai.» «Non solo a tua madre», aveva precisato lui, «ma proprio a nessuno. Mai. È una grande responsabilità per una ragazzina, frugolino. La tentazione potrebbe avere la meglio su di te. Mettiamo per esempio che ti ritrovi a studiare con Caroline Cline o Tammy Hough dopo la scuola e una di loro ti raccontasse un suo segreto. Potrebbe venirti la voglia di...» «A loro? Mai mai mai!» E lui doveva averle letto la verità negli occhi: il pensiero che Caroline o Tammy scoprissero che suo padre l'aveva toccata, l'aveva colmata di orrore. Soddisfatto del primo risultato ottenuto, era passato a quella che, ripensandoci ora, doveva essere stata la sua preoccupazione principale. «O tua sorella.» Si era ritratto da lei e l'aveva contemplata con molta serietà per un lungo momento. «Vedi, potrebbe venire il giorno in cui sentissi la voglia di confidarle...» «No, papà, non mi sognerei mai...» Lui l'aveva scossa dolcemente. «Stai zitta e fammi finire, frugolino. Voi due siete molto amiche, lo so. E so anche che certe volte le ragazze sentono questo bisogno di confidarsi quelle cose che normalmente non racconterebbero a nessuno. Se ti venisse quel desiderio con Maddy, credi che riusciresti lo stesso a tacere?» «Sì!» Nel disperato bisogno di convincerlo, aveva ripreso a piangere. Era vero che se mai avesse sentito la necessità di rivelare a qualcuno un segreto così terribile, sua sorella maggiore era la persona con cui più probabilmente avrebbe trovato il coraggio di farlo... non fosse stato che per un particolare. Fra Maddy e Sally c'era la stessa intesa che esisteva fra Jessie e Tom e, se Jessie avesse raccontato alla sorella che cosa era accaduto in terrazza, c'erano notevoli probabilità che la mamma sarebbe venuta a saperlo prima del tramonto. La consapevolezza del rischio dava a Jessie la quasi certezza di essere in grado di resistere alla tentazione di raccontarlo a
Maddy. «Ne sei proprio sicura?» aveva domandato lui, dubbioso. «Sì! Sicurissima!» E lui aveva ripreso a scuotere la testa con un'espressione di rammarico che la riempì nuovamente di terrore. «Non so, frugolino, io credo davvero che sarebbe meglio farla fuori subito. Mandar giù la medicina cattiva e non pensarci più. Non è che ci ucciderebbe...» Ma Jessie ricordava la collera che aveva sentito vibrare nella voce di sua madre quando papà le aveva chiesto che fosse esonerata dalla gita al monte Washington... e non era solo collera. Non le andava di pensarlo, ma al punto a cui si era arrivati non poteva concedersi il lusso di nasconderselo. Insieme con la collera, nella voce di sua madre aveva avvertito anche gelosia e qualcosa che si avvicinava molto all'odio. Fra le braccia del padre sulla soglia della camera da letto, Jessie aveva avuto una visione, momentanea ma di paralizzante nitidezza: loro due scacciati di casa, come Hansel e Gretel, raminghi per le vie d'America... ...e costretti naturalmente a dormire insieme. A dormire insieme di notte. A quel punto era crollata in una crisi isterica, si era messa a piangere supplicandolo di non dire niente, promettendogli che in cambio sarebbe stata per sempre una brava bambina. Lui l'aveva lasciata piangere fino a quando doveva aver stabilito che fosse giunto il momento giusto e allora aveva detto in tono grave: «Certo che per essere solo una bambina hai un potere incredibile, frugolino mio». Lei lo aveva guardato, con le guance bagnate e gli occhi frementi di rinnovata speranza. Lui aveva annuito adagio, poi aveva cominciato ad asciugarle le lacrime con la salvietta che aveva usato per sé. «Non sono mai stato capace di rifiutarti niente, sai, e non ci riesco neanche questa volta. Vuol dire che proveremo a fare come vuoi tu.» Jessie si era buttata fra le sue braccia e aveva cominciato a ricoprirgli il volto di baci. Sotto sotto aveva fatto capolino nella sua mente il timore che così facendo potesse (eccitarlo) provocare un nuovo guaio, ma ogni prudenza fu sopraffatta dalla gratitudine e non successe più niente. «Grazie! Grazie, papà! Grazie!» Lui l'aveva presa per le spalle e l'aveva tenuta a distanza di braccio, finalmente sorridendo. Ma c'era ancora tristezza nei suoi occhi e ora, quasi
trent'anni dopo, Jessie rifletteva che quell'espressione non aveva fatto parte della sua messinscena. Era tristezza sincera e quello stato d'animo era un'aggravante e non un'attenuante per ciò che aveva fatto. «Allora mi pare che abbiamo fatto un patto», concluse. «Io non dico niente e non dici niente neanche tu. D'accordo?» «D'accordo!» «Niente a nessuno, nemmeno fra noi stessi ne parleremo più. Per tutti i secoli e i secoli, amen. Quando usciremo da questa stanza, Jessie, non sarà mai successo. Va bene?» Aveva accettato all'istante, ma contemporaneamente le era tornata la memoria di quell'odore e aveva capito che c'era almeno una domanda che doveva rivolgergli prima che non fosse mai successo. «E c'è ancora una cosa che devo ripetere per l'ultima volta. Devo ripeterti che mi dispiace, Jess. Ho fatto una cosa brutta, di cui mi vergogno.» Aveva guardato altrove mentre lo diceva, lo ricordava bene. Per tutto il tempo impiegato a spingerla volontariamente a una crisi isterica di rimorso, paura e castigo incombente, per tutto il tempo impiegato ad assicurarsi che non avrebbe mai aperto bocca minacciando di raccontare tutto, l'aveva sempre guardata negli occhi. Ma quando le aveva rivolto quell'ultima scusa, il suo sguardo si era spostato sui disegni delle lenzuola che dividevano la stanza. A quel ricordo si sentì invadere da una duplice e simultanea sensazione di cordoglio e furore. Era stato capace di guardarla in faccia con le sue menzogne; era stata invece la verità a costringerlo infine a distogliere lo sguardo. Ricordava di aver aperto la bocca per rispondergli che non voleva sentirlo parlare così e di averla richiusa subito dopo, in parte perché temeva di indurlo involontariamente a cambiare idea di nuovo, ma soprattutto perché, anche se aveva solo dieci anni, capiva di avere diritto a quelle scuse. «Sally si è molto raffreddata, è vero, ma come giustificazione è abbastanza squallida. Non so proprio che cosa mi abbia preso.» Aveva riso sottovoce, sempre evitando di guardarla. «Forse è stata l'eclisse. Se è così, ringraziamo il cielo che non dovremo mai vederne una seconda.» Poi, come parlando a se stesso: «Cristo, se noi teniamo la bocca chiusa e lei lo scopre lo stesso, di qui a chissà quanto tempo...» Jessie gli aveva posato la testa sul petto e aveva detto: «Non lo scoprirà. Io non parlerò mai, papà». Dopo una pausa aveva aggiunto: «E poi, che cosa potrei raccontarle?» «Giusto.» Suo padre aveva sorriso. «Perché non è successo niente.»
«E io non sono... voglio dire, non potrei essere...» Aveva alzato il viso, sperando che lui le dicesse quello che aveva bisogno di sapere senza essere obbligata a domandarglielo, ma lui si era limitato a fissarla con le sopracciglia sollevate in una muta espressione di attesa. E l'ansia aveva sostituito il sorriso nella linea della sua bocca. «Non potrei essere incinta, vero?» aveva trovato la forza di chiedere Jessie. Papà aveva fatto una smorfia, poi i suoi lineamenti si erano contratti nello sforzo di sopprimere un'emozione violenta. Orrore o sofferenza, aveva pensato allora; solo a distanza di tanti anni le veniva il sospetto che avesse cercato invece di dominare un'esplosione di risa. Comunque alla fine ci era riuscito e le aveva baciato la punta del naso. «Ma no, tesoro. Certo che no. La cosa che rende le donne incinte non è accaduta. Non è accaduto niente di simile. Noi abbiamo solo scherzato un po'...» «E tu mi hai strizzata.» Ora ricordava distintamente di essersi espressa così. «Mi hai dato una strizzata, non è vero?» Lui aveva sorriso di nuovo. «Sì. Possiamo metterla così. Sei tutta sana e integra come sei sempre stata, frugolino. Allora, che ne dici? Possiamo chiudere l'argomento?» Lei aveva annuito. «E non succederà mai più niente del genere, lo sai, vero?» Lei aveva annuito di nuovo ma il suo sorriso si era momentaneamente adombrato. Con la sua promessa, papà avrebbe dovuto metterle il cuore in pace ed era anche così, in parte, ma qualcosa nella gravità delle sue parole e nella pena che gli vedeva in faccia per poco non aveva riattizzato in lei il panico di prima. Ricordava di avergli preso le mani per stringergliele con tutte le forze. «Però mi vuoi bene, papà? Mi vuoi ancora bene?» Lui l'aveva tranquillizzata con un cenno del capo e dicendole che l'amava più che mai. «Allora abbracciami! Tienimi forte!» E così lui aveva fatto, ma ora Jessie ricordava qualcos'altro: aveva evitato di sfiorarla con la parte inferiore del corpo. Quella volta e tutte le altre volte dopo quella, pensò Jessie. Almeno mi pare. Anche quando ho preso il diploma, l'unica altra volta in cui l'ho visto piangere per me, si è congratulato con uno di quei buffi abbracci da vecchie comari, quelli che si danno con il sedere sporto all'infuori per evitare anche il minimo rischio di toccarsi il basso ventre. Pover'uomo. Chis-
sà se alle persone che lo frequentavano per motivi professionali è mai successo di vederlo sperduto come si è mostrato a me il giorno dell'eclisse. Tutta quell'angoscia, e per che cosa? Un piccolo incidente sessuale grave quanto una pestata di piede. Gesù, che razza di vita. Che vita stronza. Quasi senza accorgersi, riprese a flettere lentamente le braccia su e giù, per mantenere viva la circolazione del sangue nelle mani, nei polsi e negli avambracci. Calcolò che dovessero essere più o meno le otto del mattino. Era incatenata a quel letto da diciotto ore. Incredibile ma vero. La voce di Ruth Neary sbottò così all'improvviso da farla sussultare. Era piena di indignata costernazione. Gli vai trovando ancora delle giustificazioni? Ti arrampichi ancora sui muri per scagionarlo e addossarti tutta la colpa dopo tutti questi anni? Incredibile! «Piantala», l'apostrofò con un brontolio roco. «Quella vecchia storia non c'entra neanche lontanamente con il pasticcio in cui mi trovo ora...» Che gran fenomeno sei, Jessie! «...e anche se c'entrasse», continuò lei, alzando un po' la voce, «anche se c'entrasse non ha a che fare niente di niente con la possibilità di uscire dal pasticcio in cui mi trovo ora, perciò dacci un taglio!» Non eri una Lolita, Jessie, alla faccia di tutti i dubbi che può averti insinuato nella testa. Eri a ventimila leghe dalla Lolita più vicina! Si rifiutò di risponderle. Ruth la superò: si rifiutò di tacere. Se credi ancora che il tuo caro paparino fosse un cavalier intrepido e cortese che passava la gran parte de! suo tempo a farti da scudo contro quel drago sputafuoco di tua madre, sarà meglio che ti dia una ripulita al cervello. «Sta' zitta.» Jessie riprese a flettere le braccia più velocemente. Le catene tintinnarono; le manette rumoreggiarono. «Sta' zitta, essere detestabile.» Aveva architettato tutto, Jessie, lo vuoi capire? Non è stata una trovata dell'ultimo momento, un papà in crisi di astinenza che si abbandona a un'occasione imprevista. Aveva progettato tutto. «Stai mentendo», proruppe Jessie. Il sudore le colava dalle tempie in grosse gocce trasparenti. Davvero? Allora dimmi un po', di chi era stata l'idea di farti indossare il prendisole? Quello troppo piccolo e troppo stretto? Chi sapeva perfettamente che sentivi la manovra con cui metteva in scacco tua madre e l'ammiravi per la sua maestria? Chi ti aveva messo le mani sulle tette la sera prima e quel giorno fatidico si è presentato con addosso solo un paio di
calzoncini da ginnastica? S'immaginò a un tratto Bryant Gumbel lì con lei, in un elegante completo con panciotto e catenella d'oro al polso, affacciato sul suo capezzale mentre un tizio armato di telecamera portatile riprendeva una lenta panoramica risalendo per il suo corpo quasi nudo prima di mettere a fuoco il suo volto sudato e tutto a chiazze; Bryant Gumbel in trasferta per un servizio in diretta sull'Incredibile Donna Ammanettata, a protendersi verso di lei con il microfono per chiederle: Quando ha capito per la prima volta che suo padre doveva essersi preso una cotta per lei, Jessie? Smise di flettere le braccia e chiuse gli occhi. Sul viso aveva un'espressione ermetica di risolutezza. Ora basta, pensò. Sopporterò le voci di Ruth e della Brava Mogliettina, se proprio ci sono costretta... e anche quelle assortite della banda di ufo con i loro interventi da due soldi... ma escludo categoricamente interviste in diretta con Bryant Gumbel, ripresa da una telecamera con addosso solo un paio di slip bagnati di orina. Non ammetto neanche di sognarlo. Vorrei che mi dicessi solo una cosa, Jessie, intervenne un'altra voce. Non era quella di un ufo. Era la voce di Nora Callighan. Una sola cosa e potremo considerare l'argomento chiuso. Almeno per ora e probabilmente per sempre. D'accordo? Jessie attese in silenzio, attenta. Quando ieri pomeriggio hai finalmente perso le staffe, quando hai tirato quel calcio tremendo, a chi lo stavi tirando? A Gerald? «Ma certo che l'ho tirato a Ger...» cominciò e lì s'interruppe, mentre la sua mente veniva occupata da un'unica immagine precisa e limpida. Era stato quel filo bianco di bava che Gerald aveva sul mento. L'aveva visto allungarsi, l'aveva visto staccarsi per caderle addosso, poco sopra l'ombelico. Solo una goccia di saliva, nient'altro, ben poca cosa dopo tutti gli anni insieme e tutti i baci appassionati con la bocca aperta e le lingue a duellare; non si erano certo risparmiati lo scambio di lubrificanti organici, lei e Gerald, e l'unico prezzo che avessero mai dovuto pagare era stato quello di qualche raffreddore da smaltire insieme. Ben poca cosa, sì, fino al giorno prima, quando lui aveva rifiutato di liberarla, sordo alle sue richieste, alle sue suppliche. Ben poca cosa finché non aveva sentito quel triste odore piatto di minerale, quello che associava all'acqua del pozzo di Dark Score e al lago stesso nelle giornate calde e afose... giornate come il 20 luglio 1963. Aveva visto saliva; aveva pensato sperma.
No, non è vero, si difese, ma questa volta non ebbe nemmeno bisogno di convocare Ruth nella parte dell'avvocato del diavolo; sapeva che era vero. È il suo seme schifoso: quello era stato il suo pensiero preciso, dopodiché aveva smesso di pensare per qualche secondo. Invece di pensare, aveva reagito di riflesso, affondandogli un piede nel ventre e un altro nei testicoli. Non saliva ma sperma; non uno scatto di repulsione nei confronti del gioco di Gerald, ma l'antico orrore olfattivo che all'improvviso riaffiorava come un mostro marino. Lanciò un'occhiata al corpo rannicchiato e mutilato del marito. Sentì bruciare per un attimo le lacrime, ma la sensazione fu breve. L'Ufficio Sopravvivenza doveva aver concluso che le lacrime erano un lusso che non poteva accordarsi, una debolezza da rimandare a tempi migliori. Sentì però un rimpianto: per Gerald che era morto, sì, naturalmente, ma anche per se stessa, finita in quella situazione. Il suo sguardo si sollevò a mezz'aria, sopra Gerald, e sulle sue labbra apparve un sorrisetto stanco e addolorato. «Credo di non aver altro da dire per ora, Bryant. I miei omaggi a Willard e a Katie. E a proposito... prima che se ne vada, le spiacerebbe aprirmi queste manette? Gliene sarei molto grata.» Bryant non rispose. Jessie non ne fu per niente sorpresa. 23 Se hai intenzione di uscire viva da questa esperienza, Jess, ti suggerisco di smettere di ricostruire il passato e di cercare di decidere che cosa vuoi fare del tuo futuro... a cominciare dai prossimi dieci minuti. Non credo che morire di sete su questo letto sarebbe molto divertente, e tu? No, divertente no. E aveva il sospetto che non sarebbe stata la sete il problema più grave. L'idea della crocifissione le si era annidata nella mente quasi dal momento in cui si era svegliata, spuntando e sprofondando come un cadavere annegato, ormai troppo appesantito dall'acqua per poter emergere del tutto. A proposito di quel simpatico metodo di tortura ed esecuzione, aveva letto un articolo per il corso di Storia, ai tempi dell'università, e aveva scoperto con meraviglia che il vecchio trucco dei chiodi conficcati in mani e piedi era solo l'inizio. Come gli abbonamenti alle riviste e le calcolatrici tascabili, la crocifissione era un omaggio che non smetteva più di elargire. La vera sofferenza cominciava con i crampi e gli spasmi muscolari. Jes-
sie dovette riconoscere malvolentieri che i dolori che aveva patito finora, anche la paralizzante contrattura che aveva determinato la fine del suo primo attacco di panico, erano solo un piccolo assaggio di quelli che l'aspettavano in futuro. Le avrebbero devastato braccia, diaframma e addome, sempre più terribili, sempre più frequenti e sempre più diffusi, con il passare del giorno. Piano piano il torpore le avrebbe invaso le estremità, per quanto si fosse sforzata di mantenere attiva la circolazione del sangue, ma il torpore non le avrebbe arrecato alcun sollievo, perché ormai sarebbe stata certamente in preda a lancinanti crampi al torace e allo stomaco. Non aveva chiodi piantati nelle mani e nei piedi ed era sdraiata su un letto e non appesa a una croce ai bordi di una strada, come uno dei gladiatori sconfitti in Spartacus, ma la posizione apparentemente più comoda avrebbe forse avuto il solo effetto di prolungare la sua agonia. Dunque che cosa intendi fare adesso, mentre ancora non stai soffrendo più di tanto e sei in grado di pensare? «Qualsiasi cosa possa servire», gracchiò, «quindi perché non chiudi la bocca e non mi lasci pensare per un momento?» Ma certo, con comodo. Avrebbe cominciato dalla soluzione più ovvia e avrebbe tentato di procedere da lì. E qual era la soluzione più ovvia? Le chiavi, naturalmente. Erano ancora posate sul comò, dove le aveva lasciate lui. Due chiavi, ma identiche. Gerald, che riusciva a essere melenso al punto da ispirare quasi tenerezza, vi aveva spesso alluso come a quella Principale e a quella di Riserva (aveva udito distintamente le lettere maiuscole nella sua voce). Supponiamo, in via puramente ipotetica, che riuscisse a spingere il letto fino al comò. Sarebbe stata in grado di raggiungere una di quelle chiavi e servirsene? Le dispiacque dover prendere atto che i quesiti erano due. Avrebbe forse potuto afferrare una delle chiavi con i denti, ma poi? Come infilarla nella serratura? La sua esperienza con il bicchiere d'acqua le aveva dimostrato che, per quanto allungasse il collo, restava sempre un varco. E va bene, accantoniamo le chiavi. Scendiamo al gradino successivo di probabilità. Che cosa poteva pensare di trovarci? Rifletté per quasi cinque minuti senza risultato, riesaminando la sua situazione da una parte e dall'altra come davanti al Cubo di Rubik. Mentre pensava, non smise di compiere esercizi con le braccia. A un certo punto, durante quel gran rimuginare, i suoi occhi si fermarono sul telefono, situato sul tavolino vicino alla finestra esposta a est. Prima lo aveva eliminato dai suoi pensieri decretando che apparteneva a un altro universo, ma forse
era stata frettolosa. In fondo il tavolino era più vicino al letto rispetto al comò e il telefono era molto più voluminoso della chiave di un paio di manette. Se avesse spostato il letto vicino al tavolino, avrebbe potuto sollevare il ricevitore con un piede? E se fosse riuscita a tanto, sarebbe stata in grado di pigiare con l'alluce il tasto in fondo, quello del centralino che si trovava tra i segni * e #. L'ipotesi le ricordava un po' troppo un numero teatrale da rivista, ma... Spingi il tasto, aspetti e poi ti metti a urlare come una forsennata. Sì, in capo a mezz'ora sarebbe arrivato a salvarla o il grosso furgone blu del pronto soccorso di Norway o quello arancione del servizio di pronto intervento della contea di Castle. Un'idea assai poco plausibile, d'accordo, ma lo era anche quella di ricavare una cannuccia da una scheda di abbonamento. Plausibile o no, poteva funzionare. Era comunque meno inverosimile dell'idea di spingere il letto attraverso tutta la stanza, per poi trovare il modo di infilare una di quelle chiavi in una delle serrature sulle manette. Resta tuttavia un problema grosso come una casa: come spostare il letto verso destra. Fra testate di mogano, materasso e tutto il resto, doveva pesare qualcosa come un quintale e mezzo, limitandosi a una stima prudente. Ma ci puoi sempre provare, bella mia, e chissà che il destino non abbia in serbo per te una straordinaria sorpresa. Non ti scordare che subito dopo il Labor Day sono venuti a lucidare il pavimento. Se un cane randagio con tutte le costole fuori è riuscito a spostare tuo marito, forse tu puoi spostare il letto. Non hai niente da perdere, ti pare? Giusto. Ruotò le gambe verso il lato sinistro del letto, spostando pazientemente verso destra schiena e spalle. Quando ebbe terminato lo spostamento che le era concesso con quel metodo, fece perno sull'anca sinistra. I suoi piedi superarono la sponda... e improvvisamente gambe e busto smisero di spostarsi verso sinistra e cominciarono a scivolare a sinistra, come l'inizio di una valanga. Un crampo spaventoso le saettò per il fianco sinistro quando il suo corpo si allungò in un modo che sarebbe stato innaturale anche nelle migliori delle condizioni. Fu come se qualcuno l'avesse fulmineamente strofinata con un attizzatoio rovente. La corta catenella di destra si tese di scatto e per un momento tutte le sensazioni che le provenivano dal lato sinistro furono ottenebrate dall'esplosione di dolore che le devastò spalla e braccio destro. Fu come se qualcuno volesse staccarle il braccio intero dal corpo. Adesso so che cosa
prova una coscia di tacchino, pensò. Urtò il pavimento con il tallone sinistro, mentre quello destro rimaneva sospeso nell'aria per qualche centimetro. Il suo corpo era tutto ritorto verso sinistra in una posizione assolutamente innaturale, con il braccio destro rigirato e contratto dietro la schiena in una specie di onda congelata. Alcune maglie della catenella in tensione scintillarono spietate nel sole del primo mattino, fuori della protezione di gomma. Allora Jessie fu certa che sarebbe morta in quella posizione, fra le sofferenze lancinanti nel fianco sinistro e nel braccio destro. Avrebbe dovuto morire lì, perdendo sensibilità a mano a mano che il suo cuore affaticato perdeva le forze di spingere sangue in tutte le parti del suo corpo. Fu colta nuovamente dal panico e invocò aiuto, dimenticandosi che nelle vicinanze della casa c'era solo un randagio arruffato con la pancia sazia di avvocato. Sventolò freneticamente la mano sinistra cercando di issarsi, ma era scivolata troppo; la colonnina di mogano del montante restava a un centimetro dalla punta delle dita protese. «Aiuto! Aiuto! Aiuto!» Nessuna risposta. Gli unici rumori in quella silenziosa e soleggiata camera da letto erano i suoi: voce arrochita e stridente, respiro strozzato, cuore martellante. Era sola e, se non fosse riuscita a rimontare sul letto, sarebbe morta appesa come un quarto di manzo. Né la situazione aveva smesso di peggiorare: le sue natiche continuavano a scivolare verso la sponda del letto, tirandole sempre di più il braccio destro all'indietro in un'angolazione che diventava sempre più estrema. Senza minimamente pensare a quel che faceva (a meno che ci avesse pensato da solo il suo corpo, traboccante di dolore), puntellò il calcagno sinistro contro il pavimento e spinse con tutte le forze. Era l'unico punto d'appoggio che restava a disposizione del suo corpo ubriaco di dolore e la manovra funzionò. La parte inferiore del suo corpo s'inarcò, la catenella fra le manette che le imprigionavano la destra si allentò e poté afferrare il montante del letto con l'avido affanno di una donna che sta per annegare e si aggrappa a un salvagente. Dopodiché si trascinò all'indietro, senza badare alle urla di protesta che salivano dalla schiena e dal bicipite. Appena i suoi piedi furono di nuovo sul letto, pedalò freneticamente per allontanarsi dalla sponda, come se si fosse immersa in una piscina popolata di cuccioli di squalo e se ne fosse accorta appena in tempo da salvarsi le estremità inferiori. Riacquistò finalmente la sua precedente posizione semiaccasciata, con le
braccia divaricate e il fondo della schiena contro il guanciale bagnato di sudore nella federa di cotone tutta stropicciata. Abbandonò la testa contro le stecche di mogano della testata, respirando convulsamente e guardandosi i seni nudi luccicanti di quel sudore che avrebbe fatto meglio a non sprecare. Chiuse gli occhi e rise debolmente. Dico, è stato emozionante, non è vero, Jessie? Credo che il tuo cuore non si fosse più messo a correre così forte dal 1985, quando sei arrivata a un bacio dall'andare a letto con Tommy Delguidace, alla festa di Natale. Niente da perdere a provarci, non è così che hai pensato? Ecco, adesso hai imparato la lezione. Sì. E aveva anche capito un'altra cosa. Davvero? Che cosa, gioia? «Ho capito che quel telefono del cazzo me lo posso scordare.» Infatti. Quando poco prima si era data la spinta con il piede sinistro, ci aveva messo dentro tutto il peso del corpo, cinquantasei chilogrammi e rotti, caricandolo di tutto l'entusiasmo del panico più sconvolgente. Il letto non si era spostato di un millimetro e ora che poteva riflettere sull'accaduto ne era contenta. Se fosse scivolato verso destra, sarebbe ancora appesa oltre la sponda. E anche se fosse riuscita a spingerlo fino al tavolino del telefono... «Mi sarei ritrovata appesa dalla parte sbagliata», disse fra una risata e un singhiozzo. «Gesù, che povera imbecille.» La vedo male, commentò una delle voci ufesche, una voce della quale avrebbe potuto fare proprio a meno in quel momento. Direi anzi che il Jessie Burlingame Show abbia appena ricevuto la notizia che si sbaracca. «Prova con qualcos'altro», ribatté digrignando i denti. «Questa soluzione non mi piace.» Ma non ci sono altre soluzioni. Non ce n'erano molte nemmeno per cominciare, e le hai già esaminate tutte. Chiuse di nuovo gli occhi e per la seconda volta da quando era cominciato quell'incubo vide il campo giochi dietro la vecchia scuola elementare di Falmouth in Central Avenue. Solo che questa volta non c'erano due bambine su un dondolo; c'era invece un maschietto, il suo fratellino Will, che eseguiva una giravolta sulla struttura metallica per arrampicarsi. Aprì gli occhi, si accasciò e girò la testa per osservare meglio le stecche di mogano. Per eseguire la giravolta, Will si appendeva a una sbarra, richiamava a sé le gambe e se le faceva passare oltre le spalle. L'esercizio terminava con una rapida piroetta, grazie alla quale si ritrovava in piedi. Will era così
abile in quel movimento aggraziato ed economico, che a guardarlo dava l'impressione di eseguire una capriola dentro le proprie mani. E se lo facessi anch'io? Se facessi una giravolta oltre questa dannata testiera? Se mi ribaltassi dall'altra parte e... «E atterrassi in piedi», finì in un bisbiglio. Per qualche attimo le sembrò pericoloso ma fattibile. Avrebbe dovuto allontanare il letto dal muro, naturalmente, perché non si poteva eseguire una giravolta se non c'era spazio in cui atterrare, ma forse a quello poteva porre rimedio. Tolta la mensola (e sarebbe stato facile buttarla giù dai supporti a squadra, dato che non era stata avvitata), avrebbe dovuto semplicemente allungare le gambe sopra di sé e spingere con la pianta dei piedi contro il muro sopra la testata. Non era stata in grado di spingere il letto lateralmente, ma avendo la parete come punto d'appoggio... «Stesso peso, ma una leva dieci volte più potente», mormorò. «Caso esemplare di fisica moderna.» Stava per allungare la mano sinistra alla mensola con l'intenzione di rovesciarla, quando guardò meglio le maledette manette da poliziotto con le loro odiose catenelle. Se Gerald l'avesse ammanettata un po' più in alto lungo i montanti, fra la prima e la seconda stecca, per esempio, avrebbe avuto una possibilità; nella manovra si sarebbe probabilmente spezzata i polsi, ma era ormai al punto in cui un paio di polsi rotti le sembravano un prezzo più che accettabile per comperarsi la libertà. Del resto non sarebbe stato un danno irreparabile, no? Ma le manette erano fissate fra la seconda e la terza stecca, vale a dire un po' troppo in basso. Un tentativo di giravolta oltre la testiera le avrebbe procurato qualcosa di peggio di una duplice frattura ai polsi; il risultato sarebbe stato non solo di lussarsi le spalle, ma di strapparsele di netto dalle articolazioni. E cerca di spostare questo letto bastardo con i polsi spezzati e le spalle fuori uso. Tutta da ridere, vero? «No», sospirò. «Non molto.» Allora guarda la realtà in faccia, Jess, sei bloccata. Chiamami la voce della disperazione, se ti fa star meglio, o se ti aiuta a mantenere un minimo di equilibrio mentale un po' più a lungo, e tu sai che io sono tutta a favore dell'equilibrio mentale, ma realtà vuole che io sia la voce della verità e la verità di questa situazione è che sei bloccata qui. Jessie girò bruscamente la testa da una parte per non sentire quella sedicente voce della verità e scoprì di non potervi sfuggire più di quanto fosse stata capace di sottrarsi a tutte le altre.
Quelle che hai ai polsi sono manette vere, non quei simpatici aggeggi che si usano nei film sado-maso, quelli che sono imbottiti all'interno degli anelli e hanno la levetta nascosta che si può sempre abbassare per liberarsi se qualcuno si monta la testa e si lascia prendere la mano. Tu sei incatenata sul serio e il caso vuole che tu non sia né un fachiro del misterioso Oriente, capace di contorcersi nelle posizioni più improbabili, né un artista della fuga come Harry Houdini o David Copperfield. Te la sto spiegando così come la vedo, d'accordo? E da come la vedo io, sei fritta. Ricordò all'improvviso che cosa era accaduto dopo che suo padre era uscito dalla sua stanza il giorno dell'eclisse, quando si era gettata sul letto e aveva pianto finché le era sembrato che il suo cuore si sarebbe spezzato o sciolto o fermato per sempre. E ora, mentre cominciava a tremarle la bocca, somigliava molto a quella di allora: stanca, confusa, spaventata e sperduta. Soprattutto sperduta. Jessie cominciò a piangere, ma dopo le prime poche lacrime i suoi occhi non ne produssero più; erano evidentemente entrate in vigore rigorose misure di razionamento. Continuò a piangere lo stesso, senza lacrime, con la gola scossa da singhiozzi asciutti come carta vetrata. 24 A New York, l'équipe del programma Today aveva chiuso un'altra giornata lavorativa. Sulla rete affiliata all'NBC che serviva il Maine meridionale e occidentale andò in onda dapprima un programmino domestico locale (un giunonico donnone dall'aria materna in grembiule di percalle mostrava come fosse facile cuocere lentamente fagioli nella vostra indispensabile Crockpot); seguì un gioco a premi con personaggi celebri che dispensavano spiritosaggini e concorrenti che lanciavano strilli orgasmici quando vincevano automobili e barche e gli aspirapolvere color rosso pompieri, targati Dirt Devil. A casa Burlingame, sul panoramico lago Kashwakamak, la neovedova sonnecchiava irrequieta in catene e, in quello stato di dormiveglia, ricominciò a sognare. Era un incubo, reso vivido e più convincente proprio dal fatto che il sonno era così superficiale. Nel sogno Jessie era di nuovo al buio e di fronte a lei, nell'angolo della stanza, c'era di nuovo un uomo, o comunque una forma di uomo. L'uomo non era suo padre; l'uomo non era suo marito; l'uomo era uno sconosciuto, era lo sconosciuto, quello che è in agguato in tutte le nostre fantasie più torbide e paranoiche e nelle nostre paure più profonde. Era una creatura
che Nora Callighan, con tutti i suoi buoni consigli e il suo dolce senso pratico, non aveva mai preso in considerazione. Era un essere tenebroso che non si sarebbe potuto esorcizzare con nessun vocabolo munito di «ologia» per suffisso. Era un jolly cosmico. Ma guarda che mi conosci, disse l'uomo con la lunga faccia bianca. Si chinò per afferrare il manico della sua borsa. Senza grande sorpresa, Jessie notò che il manico era una mandibola e che la borsa era confezionata con pelle umana. Lo sconosciuto la sollevò, fece scattare le serrature e l'aprì. Vide di nuovo ossi e gioielli; di nuovo lo sconosciuto infilò la mano nel groviglio e cominciò a muoverla lentamente, in senso circolare, provocando quegli orribili tintinnii e fruscii. No, rispose. Io non so chi sei, non lo so, non lo so, non lo so! Sono la Morte, naturalmente, e tornerò questa notte. Solo che questa notte credo che non mi limiterò a starmene in un angolo. Questa notte credo che ti salterò addosso... così! Spiccò un balzo in avanti, lasciando cadere la borsa (ossi e ciondoli e anelli e collane si rovesciarono dove si trovava Gerald, con il braccio mutilato che indicava la porta) e allungando le mani. Vide che le sue dita terminavano in unghie nere di lordura, così lunghe da essere quasi artigli, e in quel momento si svegliò di soprassalto con un gemito soffocato in gola, nel tintinnio delle catenelle che tendeva e scuoteva in inutili tentativi di proteggersi con le mani. Bisbigliava a ripetizione «no» in un monotono borbottio. È stato un sogno! Smettila, Jessie, era solo un sogno! Riabbassò lentamente le mani, lasciandole pendere di nuovo inerti negli anelli delle manette. Certo che era stato un sogno, una variazione sul tema dell'incubo che aveva avuto la notte precedente. Ma molto realistica, Gesù, anche troppo. Molto più angosciante, a voler guardare in fondo, di quello della festa di compleanno e persino di quello in cui aveva riesumato il furtivo e infelice interludio con suo padre durante l'eclisse. Era molto strano che quella mattina avesse dedicato tanto tempo a riflettere su quei sogni e tanto poco a pensare a quello più pauroso di tutti. In effetti non aveva più ricordato la creatura con le braccia straordinariamente lunghe e il macabro astuccio di souvenir fino a quando non si era assopita poco prima e l'aveva vista riapparire in sogno. Le tornò alla memoria un brano di canzone, qualcosa dell'Ultima Era Psichedelica: «C'è chi mi chiama cowboy dello spazio... yeah... c'è chi mi chiama il gangster dell'amore...»
Jessie rabbrividì. Il cowboy dello spazio. Molto azzeccato. Un outsider, qualcuno che non aveva niente a che vedere con niente, un jolly cosmico, un... «Uno sconosciuto», bisbigliò e a un tratto ricordò come gli si erano increspate le guance quando aveva cominciato a sogghignare. E una volta ritornato quel particolare, altri cominciarono a riapparire tutt'attorno. Il dente d'oro che scintillava in fondo alla bocca tesa nel sogghigno. Le labbra cagnesche. La fronte cinerea e il naso come una lama. E c'era l'astuccio, naturalmente, uno di quelli che ci si aspetterebbe di vedere sbattere contro la gamba di un commesso viaggiatore che corre per prendere il treno al volo... Smettila, Jessie, smettila di evocare orrori. Non hai già abbastanza problemi senza doverti preoccupare anche dell'uomo nero? Certamente sì, ma ora che aveva cominciato a pensare al sogno, non riusciva più a smettere. Peggio ancora, più ci pensava, meno la scena le sembrava onirica. E se fossi stata sveglia? si domandò a un tratto e, una volta formulata l'ipotesi, scoprì con orrore che dentro di sé l'aveva sempre sospettato. Aveva solo atteso che la sua mente conscia ne prendesse atto. No, oh no, è stato solo un sogno, non può... Ma se non lo fosse stato? La Morte, le rispose lo sconosciuto con la faccia di cera. Quella che hai visto era la Morte. Tornerò questa notte, Jessie. E domani notte avrò anche i tuoi anelli nella mia borsa con tutte le altre mie cose preziose... i miei souvenir. Si accorse di rabbrividire violentemente come per un colpo di freddo. Fissava inutilmente con le pupille dilatate l'angolo deserto dove aveva scorto (il cowboy dello spazio il gangster dell'amore) l'angolo ora illuminato dal sole del mattino ma che quella sera sarebbe stato scuro di un intrico di ombre. Le si propagarono per tutto il corpo gli affioramenti della pelle d'oca. Riapparve l'ineluttabile verità: probabilmente sarebbe morta lì. Prima o poi qualcuno ti troverà, Jessie, ma forse solo fra molto tempo. La prima ipotesi sarà quella di una fuga romantica. Perché no? Non presentavate forse all'apparenza una versione convincente di felicità coniugale da secondo decennio? Solo voi due sapevate che al momento buono Gerald riusciva a farselo drizzare con un minimo di affidabilità solo quando
eri ammanettata al letto. Vien quasi da chiedersi se qualcuno non abbia fatto qualche giochetto con lui il giorno dell'eclisse, no? «Smettetela», mormorò. «Smettetela tutti quanti siete. State zitti.» Ma prima o poi qualcuno comincerà a preoccuparsi e a cercarvi. Saranno probabilmente i colleghi di Gerald a muoversi per primi, non credi? È vero che a Portland ci sono due o tre donne che chiami amiche, ma non le hai mai veramente lasciate partecipare alla tua vita, vero? Sono solo conoscenti, signore con cui bere una tazza di tè e scambiarsi cataloghi. Nessuna di loro si scalderà più di tanto se scompari per una settimana o dieci giorni. Ma Gerald avrà degli appuntamenti e quando venerdì pomeriggio ancora non si sarà fatto vivo, credo che qualcuno dei suoi comincerà a far telefonate e domande. Sì, probabilmente è così che avrà inizio, ma immagino che probabilmente sarà il custode a rinvenire i cadaveri, no? Scommetto che girerà la testa dall'altra parte mentre ti lascerà cadere addosso la coperta di riserva presa dal ripostiglio. Non vorrà vedere le tue dita che sporgono dalle manette, dure come matite e bianche come candele. Non vorrà vedere la tua bocca paralizzata e la bava già da tempo coagulata sulle tue labbra. Soprattutto non vorrà vedere l'espressione di orrore nei tuoi occhi, così girerà i suoi mentre ti copre. Jessie mosse la testa da una parte all'altra in un lento e inutile gesto di negazione. Bill chiamerà la polizia e gli agenti verranno con quelli della Scientifica e il coroner della contea. Circonderanno il letto fumando sigari (Doug Rowe, con l'immancabile e altrettanto orribile trench bianco, sarà naturalmente fuori con la sua troupe) e, quando il coroner solleverà la coperta, tutti faranno una smorfia. Sì, credo che anche i più incalliti fra loro non potranno esimersi e qualcuno lascerà addirittura la stanza. Si faranno raccontare tutto più tardi dai colleghi. E quelli che resteranno si scambieranno cenni del capo e commenteranno fra loro che la tizia sul letto ha fatto proprio una brutta fine. «Basta vederla per capirlo», diranno. Ma non s'immagineranno neanche com'è andata sul serio. Non sapranno che il vero motivo per cui i tuoi occhi sono sbarrati e la tua bocca è paralizzata in un grido è quello che hai visto nel momento della fine. Quello che hai visto sbucare dal buio. Tuo padre sarà stato il tuo primo amante, Jessie, ma il tuo ultimo sarà lo sconosciuto con la lunga faccia bianca e la borsa da commesso viaggiatore fatta con la pelle umana. «Vi prego, perché non ve ne andate?» gemette. «Basta voci, basta.» Ma quella voce non voleva smettere, non la sentiva nemmeno. Continuava per
conto suo, bisbigliandole direttamente alla mente da un luogo nascosto in fondo al suo cervello. Ascoltarla era come sentire un pezzo di seta imbrattato di fango che passa leggero sulla faccia, avanti e indietro. Ti porteranno ad Augusta e il medico legale ti aprirà per fare l'inventario delle tue budella. È la regola nei casi di morte per cause non accertate o in mancanza di testimoni e il tuo caso risponderà a entrambe le qualifiche. Darà un'occhiata a quel che è rimasto del tuo ultimo pasto, il sandwich al salame e formaggio comperato da Amato a Gorham, e preleverà un piccolo campione di tessuto cerebrale per esaminarlo al microscopio, e alla fine decreterà: morte per disgrazia. «Il signore e la signora erano intenti a un gioco normalmente inoffensivo», dichiarerà, «solo che il signore ha avuto il cattivo gusto di farsi venire un infarto al momento critico e la donna è stata abbandonata a... be', non è il caso di entrare in particolari. Meglio non pensarci più di quanto sia strettamente necessario. Sia sufficiente sapere che la signora ha fatto una brutta fine. Basta guardarla per vederlo.» È così che si chiuderà la partita, Jess. Forse qualcuno si accorgerà che non porti più la vera, ma anche se si dovessero prendere la briga di cercarla, molleranno presto. Né il medico legale noterà che ti manca un osso, un ossicino poco importante, la terza falange del piede destro, ma noi sapremo, non è vero, Jessie? Noi lo sappiamo già adesso. Noi sapremo che è stato lui a prenderti anello e falange. Lo sconosciuto cosmico, il cowboy dello spazio. Noi sapremo... Pestò la testa all'indietro contro le stecche di mogano, così forte da farsi esplodere un'imponente banco di pesciolini bianchi davanti agli occhi. Il male fu terribile, atroce, ma la voce mentale fu troncata come una trasmissione radio all'interrompersi improvviso dell'energia elettrica e la sua sofferenza fu ripagata. «Beccati questa», disse. «E se ci riprovi, ci riprovo anch'io. Guarda che non scherzo. Sono stanca di ascoltare...» Ora fu la sua voce, forte e senza remore nella stanza vuota, a venir troncata come se avessero tolto la corrente alla radio. Mentre davanti ai suoi occhi si andavano spegnendo le macchioline bianche, vide che la luce del sole si rifletteva su qualcosa a una trentina di centimetri dalla mano protesa di Gerald. Era un piccolo oggetto bianco con una sottile voluta dorata che vi passava attraverso. Sembrava un simbolo di yin e yang. Pensò subito che fosse un anello, ma in verità era un po' troppo piccolo. Non era un anello, ma un orecchino con una perla. Era caduto per terra quando il suo visitatore aveva cominciato a rovistare nel contenuto del suo astuccio mo-
strandole i suoi tesori. «No», bisbigliò. «Non è possibile.» Eppure era lì, scintillava nel sole, in tutto e per tutto reale quanto il cadavere con la mano distesa come per additarlo: un orecchino di perla, tenuto da un delicato fermaglio d'oro. È uno dei miei! È cascato dal mio portagioie, è rimasto lì fin dall'estate e me ne accorgo solo ora! Peccato che possedeva solo un paio di orecchini di perla, che non erano montati in oro e comunque si trovavano a Portland. Peccato che erano venuti a lucidare i pavimenti la settimana dopo il Labor Day e se ci fosse stato un orecchino perso sul pavimento, qualcuno l'avrebbe raccolto per metterlo sul comò o per infilarselo in tasca. Peccato anche che c'era qualcos'altro. No, non c'è, non c'è niente, e guai a te se dici che c'è. Era poco distante dall'orecchino orfano. Anche se c'è, non lo voglio vedere. Peccato che non poteva fare a meno di vedere. Gli occhi si spostarono spontaneamente dall'orecchino per fissarsi sul pavimento appena davanti alla soglia della porta che dava in corridoio. Lì c'era una macchiolina di sangue rappreso, ma non era stato il sangue ad attirare la sua attenzione. Il sangue apparteneva a Gerald. Il sangue era nella norma. Era l'impronta che c'era accanto a preoccuparla. Se lì c'è un segno, vuol dire che c'era anche prima! Per quanto avrebbe desiderato crederlo, quell'orma non c'era mai stata. Il giorno prima non c'era stato un solo segnetto sul pavimento, meno che mai un'impronta di piede. Né era possibile che fossero stati lei o Gerald a lasciarla. Era l'impronta di una suola che era affondata nel fango, probabilmente sul sentiero che percorreva la sponda del lago per un miglio o giù di lì prima di tagliare per i boschi e dirigersi a sud, verso Motton. Dunque era vero che la notte scorsa in quella stanza c'era stato qualcuno. Mentre quella conclusione s'insediava inesorabilmente nella coscienza già troppo provata di Jessie, la sua bocca si aprì e cominciò a urlare. Fuori, sullo zerbino, il cane randagio sollevò per un attimo dalle zampe il muso spelacchiato e graffiato. Drizzò l'orecchio buono. Poi perse interesse e riabbassò la testa. Non era nessuno di pericoloso a fare quel chiasso; era solo la padrona femmina. E poi l'odore della cosa nera che era passata di lì la notte precedente adesso era addosso a lei. Era un odore che il cane conosceva bene. Era l'odore della morte.
L'ex Prince chiuse gli occhi e tornò a dormire. 25 Finalmente cominciò a ritrovare un barlume di controllo. Per quanto assurdo, ci riuscì recitando la piccola tiritera di Nora Callighan. «Uno è per i piedi», disse con la voce insicura nella stanza vuota, «dieci piccole dita, tutte in fila come porcellini. Due è per le gambe, belle e lunghe, tre per il mio sesso, dove è tutto sbagliato.» Continuò tenacemente, recitando le strofette che ricordava, senza indugiare quando la memoria le veniva meno, sempre tenendo gli occhi chiusi. Ripeté tutta la conta una mezza dozzina di volte. Sentiva che il cuore rallentava e che di nuovo il terrore scendeva a livelli accettabili, ma non si era accorta della revisione radicale che aveva apportato ad almeno uno dei raffazzonati distici di Nora. Dopo la sesta ripetizione aprì gli occhi e si guardò intorno come svegliandosi da un sonnellino breve e ristoratore. Evitò tuttavia l'angolo vicino al comò. Non voleva guardare di nuovo l'orecchino e soprattutto non voleva vedere l'impronta. Jessie? La voce era molto sommessa, titubante. Jessie pensò che fosse quella della Brava Mogliettina, ora spogliata del suo stridulo ardore e delle sue infervorate proteste. Jessie, posso parlare? «No», rispose immediatamente nella sua voce ruvida e severa. «Fatti un giro. Non voglio più sentirvi, né tu né tutte le altre.» Ti prego, Jessie. Ti prego, dammi retta. Chiuse gli occhi e scoprì di riuscire a vedere quella parte della sua personalità a cui aveva assegnato il nome di Brava Mogliettina Burlingame. Era ancora nei ceppi, ma ora aveva sollevato la testa, un movimento che non doveva esserle stato facile con quel crudele ceppo di legno che le segava la base del collo. Per un momento i capelli le lasciarono scoperto il volto e allora vide che non era la Brava Mogliettina, ma una ragazzina. Sì, ma sono sempre io, pensò e quasi rise. Era un tipico caso di filosofia da fumetti. Stava appunto pensando a Nora poco fa e uno dei cavalli di battaglia di Nora era la necessità di preservare il «bambino che abbiamo dentro». Sosteneva che la causa più comune dell'infelicità umana era l'aver trascurato il bambino che vive dentro di noi. Jessie aveva solennemente annuito a quella dichiarazione, tenendo per sé la convinzione che fosse più che altro un residuo di stucchevole sentimen-
talismo da Era dell'Acquario. Dopotutto Nora le era simpatica e anche se riteneva che si fosse affezionata un po' troppo a certi luoghi comuni della fine degli anni Sessanta e primi Settanta, le sembrava di vedere in quel momento «la bambina che c'era dentro Nora» e non ci trovava assolutamente niente di male. Anzi, poteva darsi che ci fosse qualcosa di valido sul piano simbolico e nelle circostanze attuali, i ceppi costituivano un'immagine quanto mai indovinata, no? La persona nei ceppi era la futura Brava Mogliettina, la futura Ruth, la futura Jessie. Era la bambina che suo padre soleva chiamare frugolino. «Sentiamoti», disse. Aveva ancora gli occhi chiusi e l'alleanza di stress, fame e sete conferivano alla visione della bambina nei ceppi un realismo quasi tangibile. Questa volta lesse la scritta sul foglio di cartapecora inchiodato al di sopra della testa della bambina: PER ADESCAMENTO. Le parole naturalmente erano scritte in rossetto Peppermint Yum-Yum color rosa confetto. Né la fantasia aveva esaurito le sue invenzioni. Vicino a Frugolino c'erano altri ceppi, dov'era alla berlina un'altra fanciulla. Questa era sui diciassette anni ed era grassa. Aveva la pelle guastata dai brufoli. Dietro le prigioniere apparve un prato e dopo un momento Jessie vide che vi pascolavano alcune vacche. Qualcuno suonava una campana, sembrava provenire da dietro la collina, la suonava con monotona regolarità, come se intendesse continuare per tutto il giorno... o almeno fino all'ora che gli armenti tornavano alle stalle. Stai perdendo la ragione, Jess, pensò debolmente e ritenne che potesse essere vero, ma poco importante. Chissà, forse di lì a non molto l'avrebbe considerata una fortuna. Respinse quel pensiero e riportò la sua attenzione alla ragazzina nei ceppi. Si accorse allora che l'esasperazione di poco prima era stata sostituita da tenerezza e rancore. Quella versione di Jessie Mahout era più grandicella della bambina molestata durante l'eclisse, ma non di molto, fra i dodici e i quattordici anni al massimo. Alla sua età non era concepibile che avesse potuto commettere un qualsiasi reato meritevole dei ceppi nella piazza del paese, come poter credere allora che la sua colpa fosse l'adescamento? Che razza di scherzo malvagio era mai quello? Come poteva la gente essere così crudele? Così volontariamente cieca? Che cosa vuoi dirmi, Frugolino? Solo che è vero, rispose la bambina nei ceppi. Il suo volto era pallido di dolore, ma i suoi occhi erano seri e intensi e lucidi. È vero, lo sai anche tu, e questa notte tornerà. Credo che questa notte non si limiterà a guardare.
Devi liberarti dalle manette prima che tramonti il sole, Jessie. Devi lasciare questa casa prima che torni. Di nuovo ebbe voglia di piangere, ma non aveva lacrime. Sentiva solo quel bruciore secco di carta vetrata. Non posso! esclamò. Le ho provate tutte! Non posso liberarmi da sola! Hai dimenticato una cosa, le disse la bambina nei ceppi. Non so se è importante, ma potrebbe esserlo. Cosa? La bambina ruotò le mani nei fori in cui era imprigionata e mostrò i palmi puliti e rosei. Ricordi che ha detto che ne esistevano di due tipi? M17 e F-23. Ieri quasi te lo sei ricordato. Lui voleva le F-23, ma non ne fabbricano molte e sono difficili da trovare, così si è dovuto accontentare di un paio di M-17. Te lo ricordi, vero? Te lo ha raccontato il giorno che è tornato a casa con le manette. Aprì gli occhi e guardò l'anello che le imprigionava il polso destro. Sì, gliel'aveva raccontato; aveva per la verità farneticato come un cocainomane che si è fatto una dose doppia e aveva cominciato già con un colpo di telefono dall'ufficio, in tarda mattinata. Voleva sapere se in casa non c'era nessuno, non ricordava mai quando la donna di servizio aveva la giornata libera, e quando ebbe accertato che era la giornata giusta, l'aveva invitata a indossare qualcosa di comodo. «Qualcosa che quasi non c'è», è l'espressione che aveva usato. Ricordava la sua perplessità. Già al telefono le era sembrato sovraeccitato e aveva intuito che aveva per la mente qualche misteriosa stravaganza erotica. Niente di male; erano in dirittura d'arrivo per i quarant'anni e se Gerald aveva voglia di tentare qualche esperimento, si sentiva più che ben disposta ad accontentarlo. Era arrivato a tempo di primato (facendole pensare che dovesse aver alzato fumo dall'asfalto nelle tre miglia di circonvallazione) e il particolare che Jessie ricordava meglio di quel giorno era la concitazione con cui si era affaccendato in camera da letto, con le guance rosse e gli occhi scintillanti. Il sesso non era la prima cosa che le veniva in mente quando pensava a Gerald (in un gioco di associazioni di idee, probabilmente il vocabolo che le sarebbe venuto spontaneo alle labbra sarebbe stato sicurezza), ma quel giorno sesso e Gerald sembravano sinonimi intercambiabili. Di sicuro il sesso era l'unica cosa che avesse in mente; Jessie aveva pensato che se non si fosse sbrigato a togliersi i calzoni di gabardine, il suo pisellino di avvocato di solito così cortese avrebbe finito con lo strappargli la patta. Sbarazzatosi finalmente dei calzoni e dei boxer sottostanti, si era calma-
to un po' e aveva aperto cerimoniosamente la scatola da scarpe che aveva portato in camera. Ne aveva tolto due coppie di manette e gliele aveva offerte perché le ispezionasse. Aveva una pulsazione in gola, un piccolo frullio veloce quasi quanto le ali di un colibrì. Ricordava anche quel particolare. Già allora il suo cuore doveva essere sottoposto a una tensione eccessiva. Gerald, non hai idea di che gran favore mi avresti fatto se fossi schiattato allora. Avrebbe voluto provare costernazione per quel pensiero così crudele nei confronti dell'uomo con cui aveva condiviso tanta parte della sua vita e scoprì che al più riusciva a provare un senso di autoindignazione quasi clinica. E quando tornò a riflettere su com'era quel giorno, con le guance avvampate e gli occhi scintillanti, chiuse silenziosamente i pugni. «Perché non mi hai lasciato in pace?» gli chiese ora. «Perché hai dovuto essere così stronzo? Perché hai voluto fare il prepotente?» Lascia perdere, non pensare a Gerald, pensa alle manette. Due coppie di Kreig d'ordinanza, modello M-17. La M sta per maschio; il 17 è il numero delle tacche che ne regolano il diametro. Una corolla di calore le germogliò nello stomaco e nel petto. Fai finta che non sia niente, ordinò a se stessa, E se devi per forza sentirlo, fai finta che sia indigestione. Ma non era possibile. Quello che provava era speranza ed era inutile fingere. Al meglio poteva contrastarla con il realismo alimentato dal ricordo del suo primo insuccesso, quando aveva cercato di sfilarsi le manette. Ma per quanto si sforzasse di ricordare il dolore che aveva inutilmente patito in quel tentativo, si ritrovava lo stesso a pensare a quanto vicino, maledettamente vicino, fosse giunta a farcela. Un solo centimetro ancora sarebbe stato forse sufficiente, aveva giudicato allora, e un centimetro e mezzo lo sarebbe stato di sicuro. Il problema era tutto nella curva dell'osso sotto i pollici, sì, ma possibile che fosse predestinata a morire su quel letto perché non era capace di colmare una distanza che non poteva superare lo spessore del suo labbro superiore? No, non era accettabile. Fece uno sforzo notevole per sgombrarsi la mente da quelle riflessioni e tornare al giorno in cui Gerald aveva portato le manette a casa. Le aveva esibite con la muta e fremente venerazione di un gioielliere che mostra la più squisita collana di diamanti mai passata per le sue mani. Del resto lei stessa era rimasta alquanto impressionata. Ricordava come scintillavano e come la luce dalla finestra accendeva bagliori nel metallo azzurrato degli
anelli e delle tacche dei bracciali che permettevano di regolare le manette su polsi di diverse dimensioni. Aveva cercato di sapere dove se le fosse procurate, solo per curiosità, senza ombra d'accusa, ma era riuscita a cavargli solo che aveva approfittato dell'aiuto di un commesso del tribunale. Un trafficone, aveva aggiunto con una mezza strizzatina d'occhio, come se le aule e i corridoi del Palazzo di Giustizia della contea di Cumberland pullulassero di quegli equivoci figuri e lui li conoscesse tutti. E in effetti quel pomeriggio si era comportato come se avesse messo le mani su un paio di missili Scud, invece che su un paio di manette. Sdraiata sul letto con addosso una blusa bianca di pizzo e fuseaux bianchi di seta, un insieme che decisamente c'era e non c'era, lei lo osservava in un misto di divertimento, curiosità ed eccitazione... ma quel giorno in testa c'era il divertimento, non è vero? Sì. Vedere Gerald, che normalmente s'impegnava tanto nella parte dell'uomo consumato, scalpitare di qua e di là per la stanza come uno stallone in calore le era sembrata una scena molto divertente. Aveva i capelli tutti scompigliati in quelle ciocche ritorte come cavatappi che il suo fratellino soleva chiamare «chiocciole» e si era dimenticato di togliersi i calzini neri di nylon, eleganti, da professionista lanciato verso il successo. Ricordava di essersi morsicata l'interno delle guance, e con forza, per impedirsi di sorridere. Il consumato uomo di mondo parlava come una macchinetta, peggio di un banditore a un'asta fallimentare, quel pomeriggio. Poi, tutt'a un tratto, si era bloccato di colpo. Sul volto gli si era disegnata un'espressione di comica sorpresa. «Cosa c'è, Gerald?» «Mi è appena venuto in mente che non so nemmeno se hai anche solo l'intenzione di considerare quest'idea», le aveva risposto. «Non sono stato zitto un momento, sono qui che sbavo per sai bene cosa, come si vede a occhio nudo, e non ti ho nemmeno chiesto se...» Allora lei aveva sorriso, in parte perché non ne poteva più dei foulard e non sapeva come confessarglielo, ma soprattutto semplicemente perché era bello vederlo di nuovo così sessualmente eccitato. D'accordo, forse era un po' bizzarro trovare spunto dalla prospettiva di ammanettare la propria moglie prima di tuffarsi negli abissi con il lungo palo bianco. Ma che importava? Era solo fra loro due, no, ed era fatto in allegria, una specie di film pornografico da ridere. Gilbert e Sullivan a luci rosse, sono solo una signora in manette, che esercita fra le quattro e le sette. E poi era un tema
con varianti molto più bizzarre di quella; Frieda Soames, la dirimpettaia, le aveva confessato una volta (dopo due bicchierini prima di pranzo e mezza bottiglia di vino durante) che al suo ex marito piaceva farsi mettere il pannolino dopo essere stato cosparso di borotalco. Morsicarsi l'interno delle guance non aveva funzionato la seconda volta, cosicché era scoppiata a ridere. Gerald l'aveva contemplata con la testa ripiegata sulla destra e un sorrisetto che gli arricciava l'angolo sinistro della bocca. Era un'espressione che aveva imparato a conoscergli bene in diciassette anni: o si preparava a infuriarsi o a ridere con lei. Normalmente era impossibile prevedere la direzione che avrebbe scelto. «Ci stai?» le aveva chiesto. Non gli aveva risposto immediatamente. Aveva invece smesso di ridere e l'aveva fissato con quella che sperava fosse un'espressione degna della più perfida schiavista nazista mai apparsa sulla copertina di S & M. Quando aveva ritenuto di aver raggiunto il giusto grado di glaciale altezzosità, aveva sollevato le braccia e pronunciato tre parole non calcolate che lo avevano catapultato al letto, evidentemente fuori di sé per l'emozione. «Vieni qui, bastardo.» In men che non si dica le aveva serrato le manette ai polsi e l'aveva imprigionata ai montanti del letto. Non c'erano stecche sulla testata del letto nella casa di Portland; se avesse subito un infarto lì, Jessie avrebbe potuto sfilare semplicemente le manette dalle colonnine. Mentre ansimava e armeggiava con le manette, strofinandole gioiosamente un ginocchio fra le gambe, non aveva mai smesso di parlare e fra le altre cose le aveva spiegato della M e della F e di come funzionavano le tacche. Aveva cercato un modello F, perché le manette per le donne avevano ventitré tacche invece delle diciassette che si trovavano solitamente su quelle per gli uomini. Grazie al maggior numero di tacche, le manette per le donne potevano essere chiuse con un diametro inferiore. Ma era difficile procurarsele e quando il suo amico del tribunale gli aveva fatto sapere di potergli fornire due coppie di manette da uomini a un prezzo più che ragionevole, non si era lasciato scappare l'occasione. «Certe donne possono sfilarsi facilmente le manette da uomo», le aveva detto. «Ma tu non hai polsi così piccoli. E poi non avevo voglia di aspettare. Ora... vediamo un po'...» Le aveva chiuso l'anello sul polso destro, facendo dapprima scorrere le tacche abbastanza rapidamente, ma rallentando quando fu vicino alla fine della corsa e chiedendole se le stesse facendo male a ogni tacca in più che
faceva scattare. Era giunto all'ultima tacca senza che lei provasse alcun dolore, ma quando le aveva chiesto di provare a liberarsi, non ne era stata capace. Aveva sfilato praticamente tutto il polso e Gerald aveva commentato più tardi che con le manette della misura giusta non sarebbe dovuto succedere neanche quello, ma quando l'anello aveva incontrato la base del pollice si era bloccato e la comica espressione di ansia sul volto di suo marito era svanita. «Credo che funzioneranno benissimo», aveva concluso. Lo ricordava molto bene e ricordava ancora meglio le parole che aveva aggiunto: «Avremo da divertirci un mondo con questi aggeggi». Con il ricordo di quel giorno ancora vivido nella mente, Jessie provò di nuovo a tirare all'ingiù, cercando di rimpicciolirsi in qualche modo le mani per poterle strappare fuori dai bracciali. Il dolore la colpì più precocemente questa volta, cominciando non nelle mani bensì nei muscoli affaticati delle spalle e delle braccia. Chiuse gli occhi stringendoli e tirò con energia un'altra volta, cercando di sopportare il dolore. Ora al coro di proteste si aggiunsero anche le mani e, quando raggiunse di nuovo il limite estremo dello sforzo muscolare e i bracciali cominciarono a calcare nel sottile strato di carne dei dorsi, si misero a urlare. Legamento posteriore, pensò, con la testa reclinata e le labbra tese in una larga e arida smorfia di dolore. Legamento posteriore, legamento posteriore, bastardo legamento posteriore! Niente. Nessun cedimento. E cominciò a sospettare, a sospettarlo fortemente, che la questione non riguardasse solo i legamenti. C'erano anche ossa da quelle parti, un paio di stupidi ossicini che correvano lungo i bordi esterni delle mani sotto l'articolazione del pollice, un paio di stupidi ossicini che probabilmente l'avrebbero condannata a morte. Con un ultimo strillo di dolore e delusione, lasciò ricadere le mani penzoloni nei bracciali. Braccia e spalle sussultavano per lo sforzo. Altroché sfilarsi le manette perché erano M-l7 e non F-23. La delusione era così grande da superare persino il dolore fisico; le bruciava dentro come ortiche velenose. «Merda schifa!» gridò alla stanza vuota. «Merda schifa, merda schifa, schifamerda!» In direzione del lago, ma da più lontano oggi; le giunse di nuovo il rumore della sega a motore, che la mandò in bestia ancora di più. Era lo stesso tizio di ieri, tornato a tagliare altra legna. Un anonimo babbeo in camicia di flanella a scacchi rossi e neri comprata da L.L. Bean, in giro per bo-
schi a giocare a Paul Bacinculo Bunyan, facendo andare la sua McCullough e sognando il momento in cui si sarebbe buttato nel letto con la sua bella alla fine della giornata... ma magari sognava una partita di football, o due o tre birre gelate giù al bar della marina. Jessie vedeva chiaramente il povero stronzo con la camicia di flanella a scacchi così come aveva visto la ragazzina nei ceppi e, se mai fosse stato possibile uccidere con il pensiero, in quel preciso istante si sarebbe sparato fuori la testa dal sedere. Non è giusto! urlò. Non è giu... Un crampo le serrò la gola e allora tacque, impaurita, con la bocca contratta in una smorfia. Aveva sentito il duro delle ossa che le impedivano di liberarsi, oh sì, se lo aveva sentito, però ci era andata vicina lo stesso. Quella era la vera origine della sua amarezza, non il dolore e certamente non l'invisibile taglialegna con la sua sega chiassosa. L'angosciava sapere di esserci arrivata vicina, ma non abbastanza. Avrebbe potuto continuare a digrignare i denti e sopportare il dolore, ma ora non credeva più che sarebbe servito. L'ultimo mezzo centimetro avrebbe continuato a irriderla. Continuando a tirare si sarebbe solo procurata un edema con tumefazione ai polsi, peggiorando una situazione già precaria. «E non venirmi a dire che sono fritta, non ti ci provare» sibilò. «Non voglio sentirlo.» Ma devi lo stesso trovare il modo di uscirne, le rispose in un bisbiglio la ragazzina. Perché guarda che quello torna sul serio. Questa notte. Dopo il tramonto del sole. «Non ci credo», gracchiò Jessie. «Io non credo che fosse un uomo reale. Non mi importa niente dell'impronta e dell'orecchino.» Sì che ci credi. No, non ci credo! Sì che ci credi. Lasciò ricadere la testa da una parte, con i capelli che le spiovvero fin quasi sul materasso, la bocca storta e tremante. Sì, lo credeva. 26 Cominciò ad assopirsi di nuovo nonostante il crescere della sete e delle fitte di dolore alle braccia. Sapeva che era pericoloso dormire, che durante l'assenza delle sue percezioni coscienti le sue forze avrebbero continuato a deprimersi, ma faceva forse qualche differenza? Aveva esplorato tutte le sue possibilità ed era ancora e sempre la Bella Ammanettata d'America. E
poi desiderava quell'oblio delizioso, ne sentiva il bisogno come un tossico che brama la sua dose. Poi, un attimo prima di perdere coscienza, un pensiero che era insieme semplice e straordinariamente diretto illuminò come un razzo segnaletico la sua mente confusa e alla deriva. La crema per il viso. Il vasetto di crema per il viso sulla mensola sopra il letto. Tieni a bada la speranza, Jessie. Lasciarsi andare sarebbe un grave errore. Se non è caduto direttamente sul pavimento quando hai inclinato la mensola, probabilmente è comunque scivolato in una posizione dove nemmeno con l'aiuto di tutti i diavoli dell'inferno potrai raggiungerlo. Perciò tieni a bada le speranze. Il fatto è che non poteva tenerle a bada, perché se la crema era ancora sulla mensola e si trovava in un punto per lei raggiungibile, forse sarebbe riuscita a rendersi una mano abbastanza scivolosa da farla passare attraverso un anello delle manette e forse addirittura tutte e due, anche se non credeva che sarebbe stato necessario. Se si fosse liberata di una sola manetta, avrebbe potuto scendere dal letto e, se fosse scesa dal letto, il peggio era superato. Jessie, era solo uno di quei campioncini di plastica che mandano per posta. Non può non essere scivolato per terra. Invece no. Girando la testa a sinistra per quanto poteva senza farsi saltare i tendini del collo, vide una piccola macchia blu scuro che entrava solo per un soffio nel suo campo di visuale. Guarda che non c'è, bisbigliò l'odiosa vocina del pessimismo. Tu credi che ci sia ed è più che comprensibile, ma non c'è. È un'allucinazione, Jessie, tu vedi quello che la tua mente vuole vedere, quello che ti ordina di vedere. Ma io no. Io sono realista. Guardò di nuovo, resistendo al dolore per torcere il collo un po' di più verso sinistra. Invece di scomparire, la macchia blu acquisì momentaneamente contorni più precisi. Sì, era il vasetto di campione. Sul suo lato della mensola c'era una piccola lampada da studio, che non era precipitata sul pavimento quando aveva inclinato l'asse perché era fissata al legno. Un'edizione tascabile di La valle dei cavalli, rimasta sulla mensola dalla metà di luglio, era scivolata contro la base della lampada e il vasetto di Nivea era scivolato contro il libro. Jessie si rese conto che si stava delineando la possibilità che la sua vita fosse salvata da una lampada e da una banda di romanzeschi abitanti delle caverne con nomi come Ayla e Oda e Uba e Thonolan. Era più che sorprendente; era surreale.
Anche se c'è, non lo raggiungerai mai, commentò la voce della iattura, ma Jessie non la sentì nemmeno. Non ci badò perché pensava di poter raggiungere il vasetto. Anzi, ne era quasi sicura. Ruotò la mano sinistra dentro l'anello delle manette e l'allungò lentamente verso la mensola, muovendosi con infinita cautela. Mai avrebbe dovuto commettere un errore in quel momento, spingere involontariamente il vasetto di Nivea di qualche fatale centimetro lungo la mensola, o urtarlo, spedendolo contro la parete. Per quel che ne sapeva, poteva darsi che ora fosse rimasto un varco fra l'asse di legno e il muro, una fessura attraverso la quale un vasetto così piccolo come quello di un campione sarebbe potuto precipitare facilmente. E se fosse andata così, era certa che avrebbe perso definitivamente il lume della ragione. Sì. Avrebbe sentito il vasetto che finiva per terra, fra sterco di topo e batuffoli di polvere, e a quel punto il lume della sua mente... be', si sarebbe semplicemente spento. Perciò doveva stare attenta. E se fosse stata attenta, c'era qualche buona probabilità che tutto filasse per il verso giusto. Perché... Perché forse un Dio c'è, pensò, e non vuole che io muoia qui su questo letto come un animale preso in una trappola a laccio. A volerci riflettere bene, ha anche senso. Ho preso quel vasetto dalla mensola quando il cane ha cominciato ad addentare Gerald, poi mi sono accorta che era troppo piccolo e troppo leggero per potergli fare del male, anche se fossi riuscita a colpirlo. In quel momento, nauseata, confusa e spaventata com'ero, il gesto più naturale del mondo sarebbe stato di lasciarlo cadere prima di rimettermi a tastare lungo la mensola alla ricerca di qualcosa di più pesante. Invece, l'ho rimesso a posto. Perché una persona nelle mie condizioni avrebbe dovuto agire in una maniera così illogica? Per la volontà di Dio, ecco perché. È l'unica risposta che so dare, l'unica che abbia senso. Dio mi ha fatto conservare il vasetto perché sapeva che ne avrei avuto bisogno. Spostò delicatamente la mano ammanettata lungo l'asse, cercando di trasformare le dita aperte nelle antenne di un radar. Non poteva sbagliare. Capiva che, a parte Dio o il destino o la provvidenza, quasi certamente quella era la sua occasione migliore e anche l'ultima. E quando le sue dita toccarono la superficie arrotondata e levigata del vasetto, le tornò alla mente un brano di blues parlato, una piccola composizione attribuita a Woody Guthrie. L'aveva sentita cantare per la prima volta da Tom Rush, ai tempi del college:
Se ti preme andare in cielo, Come farlo qui ti svelo, Spalmati i piedi dalle dita al tallone Con del grasso di rognone. Vedrai come sali diritta fin lassù, Sgusciando dalla mano di Belzebù; Segui un buon consiglio, Unto è meglio. Infilò le dita dietro il vasetto, ignorando l'aspra tensione dei muscoli della spalla e muovendosi con angelica prudenza, e cominciò a tirarlo verso di sé. Ora sapeva che cosa provavano gli scassinatori di casseforti quando maneggiavano la nitroglicerina. Segui un buon consiglio, pensò, unto è meglio. Si erano mai sentite parole più vere in tutta la storia del mondo? «Non direi proprio, mia cara», rispose nella sua più spocchiosa imitazione di Elizabeth Taylor in La gatta sul tetto che scotta. Non sentì che stava parlando, non si accorse di aver mosso la bocca e le labbra. Il sollievo già cominciava a invaderla come un balsamo benedetto; era dolce come sarebbe stato il primo sorso d'acqua fresca, quando finalmente l'avrebbe versata sulla lama di rasoio arrugginita che si sentiva conficcata nella gola. Sarebbe sgusciata dalla mano di Belzebù e salita diritta fin lassù; non c'era il minimo dubbio, bastava che sgusciasse con cautela. Era stata messa alla prova; era stata temprata nel fuoco; ora avrebbe maturato la sua ricompensa. Stupida era stata a dubitare. Credo che faresti bene a smettere di pensarla così, intervenne in tono preoccupato la Brava Mogliettina. Va a finire che diventi sbadata e non mi risulta che siano molte le persone sbadate che sono riuscite a sgusciare dalla mano di Belzebù. Probabilmente era vero, ma lei non aveva la benché minima intenzione di diventare sbadata. Aveva trascorso le ultime ventun ore all'inferno e nessuno sapeva meglio di lei quanta parte della sua sopravvivenza fosse affidata a quel tentativo. Nessuno poteva saperlo, né ora né mai. «Starò attenta», la rassicurò Jessie. «Mediterò ogni piccolo passo. Lo prometto. E poi... e poi...» Poi cosa? Ah, poi avrebbe seguito il buon consiglio, no? E non si sarebbe limitata a ungersi solo per scivolare fuori dalle manette, ma avrebbe fatto di quel buon consiglio lo slogan della sua vita. All'improvviso si sentì parlare di
nuovo a Dio e questa volta con tutta disinvoltura. Voglio farti una promessa, disse a Dio. Prometto di continuare a sgusciare. Comincerò con una bella pulizia di primavera dentro questa testa, così butto fuori tutta la roba guasta e rotta e i giocattoli che ho smesso da un pezzo, tutta quella roba che non serve ad altro che a occupare spazio e ad aumentare i rischi di incendio, in altre parole. Magari chiamo Nora Callighan e le chiedo se vuole darmi una mano. Potrei chiamare anche Carol Symonds... ah già, adesso è diventata Carol Rittenhouse. Se c'è qualcuno del vecchio gruppo che sa ancora dove trovare Ruth Neary è certamente Carol. Ascoltami, Signore. Io non so se qualcuno arriva davvero in cielo, ma ti prometto che da oggi in poi non smetterò più di ungermi e di continuare a provarci. Okay? E vide (quasi che fosse una risposta positiva alla sua preghiera) esattamente come avrebbe dovuto funzionare. Togliere il tappo dal vasetto sarebbe stata la parte più ardua; avrebbe richiesto pazienza e prudenza estrema, ma le sarebbero state d'aiuto le dimensioni insolitamente ridotte del contenitore. Spingere saldamente il fondo del vasetto nel palmo della mano sinistra; serrare il coperchio con le dita; usare il pollice per svitare. Le sarebbe stato d'aiuto se il coperchietto fosse stato un po' allentato, ma era abbastanza sicura di riuscirci in ogni caso. Stai pur tranquilla che ci riesco, gioia, pensò con forza. Il momento pericoloso sarebbe stato probabilmente quando il coperchietto avrebbe cominciato a girare. Se fosse accaduto tutt'a un tratto cogliendola di sorpresa, era possibile che il vasetto le schizzasse via dalla mano. Le scappò una risatina gracchiante. «Che fortuna», disse alla stanza vuota. «Che fortuna grassa, mia cara.» Alzò il vasetto fra le dita e lo osservò con attenzione. Era difficile vedere attraverso la plastica blu semitrasparente, ma le sembrava che fosse almeno pieno per metà, forse un po' di più. Tolto il coperchio, si sarebbe semplicemente rovesciata il vasetto nella mano e avrebbe lasciato che il liquido denso le colasse nel palmo. Fatta sgorgare tutta la crema possibile, avrebbe sollevato la mano in verticale e avrebbe aspettato che la crema le scivolasse fino al polso. Il grosso le si sarebbe raccolto fra polso e anello delle manette. Allora se lo sarebbe spalmato tutt'attorno ruotando la mano. Sapeva già comunque qual era il punto vitale: la zona subito sotto il pollice. E quando fosse stata ben lubrificata, avrebbe dato un ultimo, violento strattone. Avrebbe dominato il dolore con la forza di volontà e avrebbe continuato a tirare finché la mano fosse scivolata fuori dell'anello e allora
sarebbe stata la libertà, finalmente, Dio Onnipotente del Cielo, finalmente libera! Poteva farcela. Sapeva di potercela fare. «Attenta», mormorò, sistemandosi il fondo del vasetto nel palmo e distanziando e applicando i polpastrelli delle dita sul coperchio a intervalli più o meno regolari e... «È aperto!» gemette con un filo di voce tremante. «Oh Dio mio, non ci credo, non è stato chiuso bene!» Non poteva crederci e la voce iettatrice che si annidava dentro di lei sbuffò disgustata, ma era così. Schiacciando dolcemente la punta delle dita e rilasciandole sentiva il coperchietto dondolare sulle spire della filettatura. Piano, Jess, mi raccomando, piano. Fai come eravamo d'accordo. Sì. Ora nella mente vedeva qualcos'altro: se stessa seduta allo scrittoio nella casa di Portland, con indosso il vestito nero più elegante, quello corto e alla moda che si era comperata la primavera scorsa come premio per aver rispettato la dieta fino in fondo e perso cinque chili. I capelli, lavati di fresco e fragranti di qualche dolce shampoo alle erbe invece di vecchio sudore rancido, erano tenuti da un semplice fermaglio d'oro. La superficie dello scrittoio era inondata dall'amichevole luce pomeridiana che entrava dai bovindi. Vide se stessa che scriveva alla Nivea Corporation, o qualcosa del genere, la ditta insomma che produceva la crema Nivea per il viso. Egregi signori, avrebbe scritto, non ho potuto fare a meno di farvi sapere come e perché il vostro prodotto possa avere effetti di importanza vitale... Quando fece pressione con il pollice sul coperchio del vasetto, esso cominciò a ruotare docilmente. Tutto secondo i piani. Come un sogno, pensò. Dio, ti ringrazio. Grazie. Grazie, infinitamente gra... Un movimento improvviso le animò la coda di un occhio e il suo primo pensiero non fu che qualcuno l'avesse trovata e che fosse finalmente salva, ma che il cowboy spaziale fosse tornato per prendersela prima che potesse sfuggirgli. Lanciò un grido stridulo e spaventato. I suoi occhi si staccarono con un guizzo dal vasetto di crema. Le sue dita lo strinsero in uno spasmo involontario di paura e sorpresa. Era il cane. Il cane tornava per uno spuntino di tarda mattinata e si era fermato sulla soglia a controllare la situazione in camera da letto prima di entrarvi. Nel momento stesso in cui Jessie si rendeva conto di tutto questo, capiva anche di aver stretto con troppa violenza il piccolo contenitore blu. Le stava sgusciando fra le dita come un chicco d'uva senza buccia. «No!» Annaspò e quasi riuscì a riafferrarlo. Poi il vasetto le rotolò dalla mano,
le cadde sull'anca, rimbalzò e cascò dal letto. L'urto con il parquet produsse un rumorino stupido e ovattato. Era il rumore che meno di tre minuti prima aveva temuto di udire, quello che le avrebbe spento il lume della ragione. Non andò così e ora scoprì un terrore nuovo e più profondo: alla faccia di tutto quello che le era successo, era ancora molto lontana dalla follia. Si rendeva conto che, quali che fossero gli orrori che l'attendevano da quel momento in avanti, ora che era stata sprangata anche quell'ultima porta verso la salvezza, sarebbe stata costretta ad affrontarli nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. «Perché sei dovuto entrare proprio ora, bastardo?» chiese all'ex Prince e un'inflessione nella sua voce roca e funesta lo indusse a fermarsi e a osservarla con un rispetto diffidente che finora né strilli né minacce erano riusciti a ispirargli. «Perché proprio ora, maledetto? Perché ora?» Il cane concluse che la femmina padrona era probabilmente ancora inoffensiva nonostante l'inflessione tagliente che ora le luccicava nella voce, ma continuò tuttavia a tenerla prudentemente d'occhio mentre trotterellava alla sua riserva di viveri. Meglio non sfidare la fortuna. Aveva grandemente sofferto nell'apprendere quella semplice lezione, né l'avrebbe dimenticata facilmente o molto presto: sempre meglio non sfidare la fortuna. Le lanciò un'ultima occhiata con quegli occhi luminosi e disperati prima di abbassare la testa, afferrare il cuscinetto di grasso sul fianco di Gerald e strapparne via una grossa porzione. Assistere a quello spettacolo fu brutto, ma per Jessie non fu la scena-terrore. Era peggio il nugolo di mosche che si alzò in volo dal territorio dove mangiavano e si riproducevano, quando il cane affondò i denti e strappò. Il loro ronzio sonnolento portò a termine la demolizione della parte di lei più vitale e impegnata nella lotta per la sopravvivenza, la parte che avocava a sé speranza e cuore. Il cane indietreggiò con la delicata grazia di un ballerino in un musical, con l'orecchio buono drizzato e il pezzo di carne che gli pendeva dalle fauci. Poi si girò e uscì al rapido trotto. Prima ancora che fosse scomparso del tutto, le mosche già cominciavano la loro manovra di reinsediamento. Jessie appoggiò la testa alle stecche di mogano e chiuse gli occhi. Riprese a pregare, ma questa volta non pregò di riuscire a liberarsi. Questa volta pregò che Dio la prendesse al più presto e pietosamente, prima che il sole tramontasse e riapparisse lo sconosciuto con la faccia bianca. 27
Le quattro ore successive furono le peggiori nella vita di Jessie Burlingame. I crampi si susseguirono sempre più frequenti e più intensi, ma non furono le sofferenze inframuscolari a renderle così terribili le ore fra le undici e le tre; fu il rifiuto caparbio e macabro della sua mente a rinunciare alla presenza di spirito e abbandonarsi alle tenebre. Al ginnasio aveva letto Il cuore rivelatore di Poe, ma solo ora toccava con mano l'orrore delle battute iniziali: Nervoso! Vero, molto nervoso sono ed ero, ma perché dire che sono pazzo? La pazzia sarebbe stata una liberazione, ma la pazzia non voleva saperne di venire. E nemmeno il sonno. Probabilmente la morte li avrebbe battuti sul tempo e certamente li avrebbe anticipati il buio. Poteva solo restare dov'era, semidistesa sul letto, in un'opaca realtà grigioverde in cui brillavano gli sporadici lampi di dolore dei suoi muscoli contratti dai crampi. Erano una realtà i crampi e lo era la sua spaventosa, defatigante lucidità mentale, ma ben poco di tutto il resto aveva per lei ancora qualche significato, certamente aveva cessato di averne il mondo all'esterno di quella camera. Era anzi arrivata a convincersi che non esistesse nemmeno un mondo fuori di lì, che tutte le persone che una volta l'avevano popolato fossero rientrate a un esistenziale ufficio centrale per l'assegnazione di nuovi ingaggi e che tutto il materiale di scena fosse stato riposto in magazzino come le quinte di palcoscenico dopo il saggio teatrale di fine corso. Il tempo era un mare freddo nel quale la sua coscienza navigava lentamente come uno sgraziato rompighiaccio. Le voci andavano e venivano come fantasmi. Per la maggior parte parlavano dentro la sua testa, ma per un po' Nora Callighan le parlò dal bagno e in un altro momento Jessie ebbe una conversazione con sua madre, che doveva essersi appostata in corridoio. La mamma era venuta a dirle che non si sarebbe mai cacciata in un guaio come quello se fosse stata più attenta a raccogliere i suoi vestiti. «Se io avessi vinto un nichelino per ogni sottoveste che ho ripescato da sotto i mobili e rivoltato per il verso giusto», disse sua madre, «avrei potuto comperarmi l'azienda del gas di Cleveland.» Era stata una delle frasi preferite di sua madre e solo ora Jessie notò che nessuno le aveva mai chiesto perché avrebbe desiderato comprare l'azienda del gas di Cleveland. Continuò debolmente la ginnastica, pedalando con i piedi e flettendo le braccia su e giù per quanto le era permesso dalle manette e dalle forze declinanti. Non lo faceva più perché il suo corpo fosse pronto alla fuga quando le si fosse presentata l'occasione buona, perché era giunta finalmente a concludere, nel cuore e nella testa, che non ci sarebbero state altre occa-
sioni. L'ultima se n'era andata con il vasetto di crema per il viso. Continuava a muoversi ormai solo perché così alleviava un po' la sofferenza dei crampi. Ma nonostante la ginnastica, avvertiva il freddo che le si andava insinuando nei piedi e nelle mani e si propagava sulla pelle come una pellicola di ghiaccio e da lì le penetrava verso le ossa. Non somigliava per niente alla sensazione di torpore nelle membra con cui si era risvegliata quella mattina; era più simile al principio di congelamento che aveva patito durante un lungo pomeriggio di sci di fondo, da adolescente, sinistre macchie grigie sul dorso di una mano e in fondo a un polpaccio, dove non arrivavano a coprirla del tutto i pantaloni della calzamaglia, macchie di necrosi che erano sembrate refrattarie perfino al calore cocente del caminetto. Pensò che l'insensibilità avrebbe infine avuto il sopravvento sui crampi e che alla lunga la morte non sarebbe stata troppo dolorosa, un po' come addormentarsi sotto una slavina. Ma il fenomeno era troppo lento. Il tempo passava ma non era tempo; era un costante, immutevole flusso di informazioni che passavano dai suoi sensi insonni alla mente che si ostinava a conservare una lucidità innaturale. C'erano solo la camera da letto, la vista all'esterno (le ultime poche quinte che ancora non erano state portate via dall'attrezzista ingaggiato per quella squallida, piccola produzione teatrale), il brusio delle mosche che trasformavano Gerald in un'incubatrice in tarda stagione e il lento muoversi delle ombre sul pavimento mentre il sole compiva il suo viaggio in un cielo autunnale che sembrava dipinto. Ogni tanto un crampo le trafiggeva un'ascella come un punteruolo da ghiaccio o le piantava un grosso chiodo d'acciaio nel fianco destro. Mentre il pomeriggio si consumava con infinita lentezza, cominciò ad avvertire i primi crampi all'addome, dove si erano spenti ormai tutti i morsi della fame, e nei tendini sfiniti del diaframma. Erano le contrazioni peggiori, perché le paralizzavano i fasci muscolari del torace e le serravano i polmoni. A ogni crampo alzava gli occhi strabuzzati alle increspature dell'acqua riflesse sul soffitto, con le braccia e le gambe che tremavano per lo sforzo di continuare a respirare finché la contrazione fosse passata. Era come essere sepolti fino al collo nel cemento fresco. Era passata la fame, ma non la sete e, mentre intorno a lei trascorreva quel giorno interminabile, sentì che la semplice sete (solo quella e nient'altro) avrebbe potuto provocare ciò che non erano riusciti a ottenere né il crescere perseverante del dolore, né la certezza della propria morte imminente: la perdita della ragione. Ora non più solo gola e bocca, ma ogni par-
te del suo corpo invocava un sorso d'acqua. Persino gli occhi erano assetati e la vista delle increspature del lago che oscillavano sul soffitto, a sinistra del lucernario, le strappò un gemito sommesso. Assediata da questi pericoli così reali, il terrore che aveva provato per il cowboy dello spazio avrebbe dovuto appannarsi, se non scomparire del tutto, ma con il trascorrere del pomeriggio sentì invece aumentare nei suoi pensieri il peso incombente dello sconosciuto con la faccia bianca. Vedeva continuamente la sua forma, ferma appena oltre il piccolo cerchio di luce che conteneva la sua depauperata coscienza e, anche se riusciva a distinguerla solo a stento (magra com'era, quasi emaciata), le pareva di scorgere il suo ghigno scavato e malevolo sempre più chiaro, a mano a mano che il sole trascinava a occidente il suo erpice di ore. Le echeggiava nelle orecchie il frusciare secco di ossi e gioielli, che la sua mano rimestava nell'astuccio d'altri tempi. Sarebbe venuto per lei. Al calar delle tenebre sarebbe venuto. Il cowboy morto, l'outsider, lo spettro dell'amore. Sì che l'hai visto, Jessie, era la Morte, e l'hai visto davvero, come capita spesso alle persone che muoiono in solitudine. Sicuro che la vedono; ce l'hanno stampato sul volto contratto e glielo si legge negli occhi sporgenti. Era la Morte, il vecchio cowboy che hai intravisto nell'angolo, e questa notte, dopo che sarà tramontato il sole, tornerà per te. Poco dopo le tre si alzò il vento che era rimasto calmo per tutta la giornata. La porta sul retro riprese il suo instancabile sbattere contro lo stipite. Non molto tempo dopo la sega si spense e nel silenzio le giunse il debole sciacquio delle onde sollevate dal vento che s'infrangevano sui ciottoli della sponda. La gavia non mandò il suo verso; forse aveva deciso che fosse venuto il momento di migrare a sud, oppure si era trasferita in una parte del lago da dove non la si sentiva più. Sono rimasta solo io. Finché arriverà il mio nuovo compagno. Non tentava più di convincersi che il suo tenebroso visitatore fosse solo un'invenzione della sua fantasia; non c'era più spazio per quegli esercizi mentali. Un nuovo crampo le affondò denti lunghi e malvagi nell'ascella sinistra e Jessie distese le labbra screpolate in una smorfia. Era come se qualcuno le forasse il cuore con i rebbi di un forchettone da barbecue. Poi le si tesero i muscoli sotto il seno e i fasci di nervi nel plesso solare s'incendiarono come una catasta di legna secca. Era un dolore del tutto nuovo ed era enorme, di gran lunga superiore a tutti quelli sperimentati finora. La incurvò
all'indietro come un ramo ancora verde, costringendola a torcere il busto da una parte e dall'altra, aprendo e richiudendo violentemente le ginocchia. Sventagliò i capelli nell'aria. Cercò di gridare senza riuscirci. Per un momento pensò di essere arrivata al capolinea. Un'ultima convulsione, possente come sei candelotti di dinamite piantati in una sporgenza di granito, e tanti saluti, Jessie; la cassa è alla tua destra. Ma passò anche quello. Si rilassò adagio, anelando, con la testa girata all'indietro e gli occhi al soffitto. Per un momento almeno non fu tormentata dai riflessi danzanti; tutta la sua concentrazione fu focalizzata su quel fascio di nervi incendiato che aveva fra e sotto i seni, in attesa di sapere se il dolore avesse veramente intenzione di spegnersi o se stesse per riprendere in una nuova vampata. Si spense... ma a malincuore, con la promessa di tornare presto. Chiuse gli occhi e invocò il sonno. A questo punto sarebbe stata grata anche di un breve intervallo nel lungo e faticoso compito di morire. Il sonno non venne, ma venne invece Frugolino, la bambina nei ceppi. Ora era libera come l'aria, alla faccia dell'adescamento, camminava scalza nel prato al centro della piazza dello sconosciuto paese puritano di cui era abitante ed era gloriosamente sola: non era costretta a camminare con gli occhi pudicamente abbassati perché qualche ragazzo di passaggio non avesse a cogliere il suo sguardo con un ammiccamento o un sorrisetto. Il prato era di un verde cupo e vellutato e in lontananza, in cima alla collina (questo deve essere il parco cittadino più vasto del mondo, rifletté Jessie), pascolava un gregge di pecore. Nelle prime ombre della sera la campana che aveva già udito la prima volta continuava a mandare i suoi rintocchi sordi e monotoni. Frugolino indossava una camicia da notte di flanella blu che aveva sul davanti un grande punto esclamativo giallo. Non era certo un indumento puritano, anche se sicuramente morigerato, visto che la ricopriva dal collo fino ai piedi. Jessie lo conosceva bene ed era contenta di rivederlo. Fra i dieci e i dodici anni, l'età che aveva quando era stata finalmente persuasa a regalarlo alla cesta degli stracci, doveva aver indossato quella stupida tunica ad almeno una ventina di feste in pigiama. I capelli di Frugolino, che quando era costretta a testa bassa dai ceppi le nascondevano il viso, erano ora raccolti dietro la nuca con un fiocco di velluto del più scuro blu di mezzanotte. Era bella e sembrava felice, cosa che non stupì per niente Jessie, perché era sfuggita alle sue catene, perché adesso era libera. Non provò invidia per lei, ma sentì forte il desiderio, qua-
si un bisogno, di dirle che non doveva limitarsi a gioire semplicemente della sua libertà; doveva tenerla da conto e proteggerla e usarla. Allora si vede che sono riuscita ad addormentarmi, dopotutto. Deve essere così, perché questo non può essere che un sogno. Un altro crampo, questo non terrificante come quello che le aveva messo a fuoco il plesso solare, le paralizzò i muscoli della coscia destra, facendole agitare stupidamente il piede in aria. Aprì gli occhi e vide la camera da letto, dove di nuovo la luce si era allungata e inclinata. Non era esattamente quella che i francesi chiamavano l'heure bleue, ma si andava rapidamente avvicinando. Sentì sbattere la porta, fiutò il proprio sudore e l'orina e l'alito acido e spento. Tutto era esattamente come prima. Il tempo si era spostato in avanti, ma non aveva spiccato un balzo in avanti, come spesso appare quando ci si risveglia da un assopimento imprevisto. Le braccia erano un po' più fredde, pensò, ma né più né meno sensibili di prima. Non si era addormentata e non aveva sognato... però qualcosa aveva fatto lo stesso. E posso farlo di nuovo, rifletté chiudendo ancora gli occhi. Si ritrovò immediatamente nell'improbabile, sconfinato parco di un centro cittadino. La bambina con l'enorme punto esclamativo giallo che le germogliava fra i piccoli seni la stava osservando con un'espressione grave e dolce. C'è una cosa che non hai tentato, Jessie. Non è vero, rispose a Frugolino. Le ho tentate tutte, credimi. E sai una cosa? Credo che se non avessi lasciato cadere quel maledetto vasetto di crema per il viso quando sono stata spaventata dal cane, sarei forse riuscita a liberarmi dalla manetta sinistra. È stata una vera sfortuna che il cane sia entrato in quel preciso istante. O un destino avverso. Qualcosa di storto in ogni caso. La ragazzina si avvicinò facendo bisbigliare l'erba sotto i piedi scalzi. Non le manette di sinistra, Jessie. È da quelle di destra che puoi liberarti. È una possibilità disperata, lo ammetto, ma è una possibilità. La domanda importante a questo punto, credo, è se vuoi veramente vivere. Ma certo che voglio vivere! Ancora più vicina. Quegli occhi, un color fumo che cercava di essere azzurro e non ci riusciva fino in fondo, parvero ora penetrarle sotto la pelle fino al cuore. Davvero? Ho qualche dubbio. Dico, ma sei pazza? Credi che voglia restare qui, ammanettata a questo letto, quando... Gli occhi di Jessie, che ancora cercavano di essere azzurri dopo tanti an-
ni e non ce la facevano del tutto, si riaprirono lentamente. Guardarono la stanza da una parte all'altra con un'espressione di atterrita solennità. Videro suo marito, ora in una posizione impossibile, con lo sguardo fisso al soffitto. «Non voglio essere ancora ammanettata a questo letto quando farà buio e tornerà l'uomo nero», dichiarò alla stanza vuota. Chiudi gli occhi, Jessie. Li chiuse. Frugolino era davanti a lei nella vecchia camicia da notte di flanella a osservarla con calma e ora Jessie scorse anche l'altra ragazza, quella grassa con i foruncoli. La ragazza grassa non era stata fortunata quanto Frugolino; lei non era riuscita a fuggire, a meno che si volesse intendere la morte come una forma di fuga, un'ipotesi che Jessie aveva cominciato a trovare quasi attraente. La ragazza doveva essere morta per soffocamento o di crepacuore. La sua faccia aveva il colore violaceo delle nubi temporalesche d'estate. Le sporgeva un occhio; l'altro era scoppiato come un acino schiacciato. La lingua, insanguinata dove se l'era morsicata ripetutamente negli ultimi spasmi, le sporgeva dalle labbra. Jessie tornò a girarsi verso Frugolino con un brivido. Non voglio fare quella fine. Avrò anche tutte le colpe di questo mondo, ma non voglio finire così. Ma tu come sei fuggita? Sono sgusciata, rispose prontamente Frugolino, sono sgusciata dalla mano di Belzebù, schizzata via fin lassù. Jessie provò una vibrazione di collera nonostante lo sfinimento. Non hai sentito neanche una parola di quello che ti ho detto? Ho lasciato cadere quell 'odioso vasetto di Nivea! È entrato il cane e mi ha spaventata e me l'ha fatto cascare! Ora come posso... E poi mi sono ricordata l'eclisse. Frugolino era intervenuta in tono brusco, come di chi si è spazientito di qualche complicato ma insignificante, rituale luogo comune: prego, mi inchino, non c'è di che. È così che mi sono liberata. Ho ricordato l'eclisse e quello che è successo in terrazza mentre avveniva. E devi ricordare anche tu. Credo che sia l'unica speranza che ti resti per liberarti. Non puoi più scappare, Jessie. Devi girarti e guardare la realtà in faccia. Di nuovo? Solo quello e nient'altro? Jessie provò un'onda profonda di stanchezza e delusione. Per qualche istante era quasi riaffiorata la speranza, ma erano discorsi a vanvera quelli che stava ascoltando, solo chiacchiere inutili. Non capisci, disse a Frugolino. Abbiamo già percorso questa strada, ce
la siamo fatta tutta fino in fondo. Sì, suppongo che quello che mi ha fatto mio padre quel giorno possa avere un nesso con quanto mi sta accadendo ora, immagino che sia almeno possibile, ma perché sottopormi di nuovo a quella pena quando ben altre pene dovrò sopportare prima che Iddio si stanchi finalmente di torturarmi e decida di calare il sipario? Non ci fu risposta. La ragazzina con la camicia da notte blu, quella che in passato era stata lei stessa, non c'era più. Ora c'era solo buio dietro le palpebre abbassate di Jessie, come il buio di uno schermo cinematografico quando la proiezione è finita, così aprì di nuovo gli occhi e spaziò con lo sguardo per tutta la stanza in cui stava per morire. Guardò dalla porta del bagno alla farfalla di batik, al comò, al corpo di suo marito, sotto il suo ripugnante tappetino di brulicanti mosche d'autunno. «Lascia stare, Jess, torna all'eclisse.» Sgranò gli occhi. Quella era sembrata davvero reale, una voce autentica che non proveniva dal bagno o dal corridoio e nemmeno da dentro la sua testa, ma sembrava scaturire dall'aria che la circondava. «Frugolino?» La sua voce ormai raspava. Cercò di alzarsi un po' meglio a sedere, ma un altro crampo feroce le minacciò la parte bassa del torace e tornò subito ad appoggiarsi alla testata, in attesa che passasse. «Frugolino, sei tu? Sei tu, cara?» Per un momento ebbe l'impressione di udire qualcosa, che la voce avesse pronunciato qualche parola, ma, se così era, non riuscì a intenderne il significato. Poi più niente. Torna all'eclisse, Jessie. «Lì non ci sono risposte», mormorò. «Solo dolore e stupidità e...» E che cosa? Cos'altro? Il vecchio Adamo. La risposta le salì con naturalezza nella mente, prelevata da un sermone che doveva aver udito da bimba annoiata seduta fra papà e mamma, a far dondolare i piedi per vedere il gioco di luci colorate che dalle finestre della chiesa le si disegnava sulle scarpette di vero cuoio. Una frase rimasta impigliata nel suo inconscio. Il vecchio Adamo: e forse era tutto lì, né più né meno. Un padre che, forse non del tutto consapevolmente, aveva fatto di tutto per rimanere solo con la sua figlioletta così vivace e carina, continuando a ripetersi che non c'è niente di male, niente di male, assolutamente niente di male. Poi era cominciata l'eclisse e lei si era seduta sulle sue ginocchia nel prendisole che era troppo stretto e troppo corto, il prendisole che lui stesso l'aveva invitata a indossare, e quel che era stato, era stato. Solo un breve interludio lascivo che era costato vergo-
gna e imbarazzo a entrambi. Lui aveva spruzzato il suo schizzetto, in definitiva il succo era tutto lì (e se vogliamo vederci un gioco di parole, gliene importava meno che zero); anzi, diciamo pure che le aveva imbrattato tutto il fondo delle mutandine, e decisamente non era stato un comportamento lecito per un papà e sicuramente non era stata una situazione che lei avesse mai esplorato in La famiglia Brady, ma... Ma guardiamoci in faccia, pensò Jessie, me la sono cavata senza nemmeno un graffio a paragone di quello che sarebbe potuto succedere... di quello che succede in effetti tutti i giorni. E non solo in posti come Peyton Place o lungo Tobacco Road. Mio padre non è stato il primo uomo di buona famiglia e con tanto di laurea a farsi venir la fregola per sua figlia e io non sono stata la prima figlia a trovarsi una macchia di bagnato sul fondo delle mutandine. Non intendo sostenere che sia giusto e nemmeno giustificabile; dico solo che è finita e che avrebbe potuto essere molto peggio. Sì. E adesso dimenticare quella brutta avventura le sembrava molto più opportuno e sensato che riviverla, comunque volesse metterla Frugolino. Meglio lasciare che si sperdesse nell'oscurità generale che sopraggiunge con tutte le eclissi solari. Aveva ancora un bel po' da morire in quella puzzolente stanza piena di mosche. Chiuse gli occhi e immediatamente sentì nelle narici il profumo dell'acqua di colonia di suo padre. Insieme con esso, l'odore del suo sudore leggero e nervoso. L'oggetto duro che le premeva contro il sedere. Il suo gemito soffocato quando lei gli si era dimenata in grembo alla ricerca di una posizione più comoda. Le sue mani che le si posavano dolcemente sui seni. Il dubbio che ci fosse qualcosa di scorretto. Lui aveva cominciato a respirare così velocemente. Marvin Gaye alla radio: «Io amo troppo forte, mi sento dire dagli amici, ma io credo... io credo... che è giusto amare così una donna...» Mi vuoi bene, frugolino? Sì, certo... Allora non ti preoccupare di niente. Non ti farei mai del male. Ora l'altra mano le risaliva per la gamba scoperta, le spingeva all'insù l'orlo del prendisole, glielo ammucchiava in grembo. Voglio... «'Voglio essere carino con te'», borbottò Jessie spostandosi contro la testata del letto. Il suo viso era cinereo e tirato. «È così che ha detto. Dio del cielo, ha detto proprio così!» «Tutti sanno... specialmente voi ragazze... che un amore può essere tri-
ste, ebbene il mio è due volte triste...» Non sono sicura di volerlo, papà. Ho paura di bruciarmi gli occhi. Hai ancora venti secondi. Almeno. Perciò non aver paura. E non ti girare. Poi c'era stato lo schiocco dell'elastico, non il suo ma quello di suo padre, quando aveva tirato fuori il vecchio Adamo. Una lacrima solitaria affiorò all'occhio sinistro di Jessie, sfidando l'avanzato stato di disidratazione e scivolandole lentamente giù per la guancia. «Lo sto facendo», balbettò con un filo di voce roca. «Sto ricordando. Spero che tu sia felice.» Sì, rispose Frugolino e, pur non vedendolo, Jessie si sentì sul viso quello strano sguardo intenerito. Ma sei già andata troppo avanti. Torna indietro. Solo un pochino. Enorme fu il senso di sollievo che invase Jessie nell'accorgersi che Frugolino voleva farle ricordare qualcosa che era avvenuto prima della seduzione di suo padre, anche se non di molto, e non durante o dopo. Allora perché ho dovuto rivivere anche tutto il resto di quell'orrore? Le parve che quella domanda si rispondesse da sé. Poco importava che si avesse intenzione di mangiare una sardina o di mangiarne venti, bisognava comunque aprire la scatola e vederle tutte; bisognava per forza sentire quell'orribile tanfo di olio pescioso. E poi non sarebbe certo morta per qualche paragrafo di storia antica. L'avrebbero uccisa probabilmente le manette che la tenevano inchiodata a quel letto, non quei vecchi ricordi, per quanto dolorosi. Era ora di smettere di piagnucolare e protestare, e di metterci un po' di impegno. Era ora di capire che cosa Frugolino voleva che ricordasse. Torna a prima che cominciasse a toccarti in quell'altro modo, il modo sbagliato. Torna alla ragione iniziale per cui vi trovavate insieme là fuori. Torna all'eclisse. Jessie chiuse energicamente gli occhi e tornò indietro. 28 Frugolino? Tutto bene? Sì, ma... fa un po' paura, vero? Ora non le occorre guardare nella scatola riflettente per sapere che sta accadendo qualcosa; il giorno si va oscurando come quando una nuvola passa sopra il sole. Ma questa non è una nuvola; il buio si espande e le po-
che nuvole che ci sono se ne restano tranquille in lontananza. Sì, dice lui e, quando lo guarda, Jessie si sente enormemente risollevata scoprendo che è sincero. Vuoi sederti sulle mie ginocchia, Jess? Posso? Come no. Così lei si siede sulle sue ginocchia, contenta della sua vicinanza e del suo calore e del suo buon odore, l'odore di papà, mentre il giorno continua a oscurarsi. Contenta soprattutto perché fa veramente un po' paura, di più di quanto si era aspettata. La intimorisce soprattutto il modo in cui svaniscono le loro ombre sulla terrazza. Non ha mai visto ombre scomparire così ed è quasi sicura che mai più ne vedrà in futuro. Ma va benissimo così, pensa, e si accomoda meglio contro il corpo di suo padre, contenta di essere (almeno per la durata di quell'interludio un po' inquietante) di nuovo il frugolino di papà, invece che la solita, trascurabile Jessie, quella troppo alta, sgraziata... cigolante. Posso già guardare con la lastra affumicata, papà? Non ancora. La sua mano, pesante e calda sulla gamba. Lei vi posa sopra la sua, poi si gira verso di lui e sorride. Emozionante, no? Si. Molto emozionante, frugolino. Molto più di quanto mi ero aspettato. Si dimena di nuovo, alla ricerca di un modo di coesistere con quella parte dura di lui contro la quale ora si ritrova ad aderire con le natiche. Lui trae una boccata d'aria precipitosa e sibilante sopra il labbro inferiore. Papà? Sono troppo pesante? Ti faccio male? No. Va tutto bene. Ora posso guardare con il vetro? Non ancora, frugolino. Ma manca poco. Il mondo non ha più l'aspetto di quando il sole si tuffa in una nube; ora sembra che sia sceso il crepuscolo a metà pomeriggio. Sente la civetta chiurlare nel bosco e il suo verso la fa rabbrividire. Alla WNCH, Debbie Reynolds è in dissolvenza e il deejay che sta intervenendo sarà presto sostituito da Marvin Gaye. Guarda il lago! la esorta papà e quando lei alza gli occhi vede un imbrunire arcano effondersi su un mondo smorto, al quale sono stati sottratti tutti i colori più intensi, ora slavati in tenui sfumature pastello. Rabbrividisce e gli dice che le fa paura; lui le risponde di cercare di non pensarci e godersi invece l'esperienza, un invito che anni più tardi avrebbe esaminato
attentamente, forse anche troppo, alla ricerca di un duplice significato. E ora... Papà? Non c'è più. Posso... Sì. Adesso puoi. Ma quando ti dico che devi smettere, smetti subito. Senza protestare, capito? Le passa tre lastre di vetro affumicato, una sopra l'altra, ma prima le dà una presina. Gliela dà perché ha ritagliato i vetri da una vecchia finestra e sa di non avere una grande dimestichezza con il tagliavetro. E mentre osserva la presina, in quell'esperienza che è insieme sogno e ricordo, Jessie compie un altro balzo ancora più indietro, agile come un'acrobata che spicca un salto mortale, e sente suo padre dire: Mi ci manca solo... 29 «...Che tua madre torni a casa e trovi un messaggio con scritto...» Spalancò di scatto gli occhi mentre pronunciava queste parole nella stanza vuota e la prima cosa che videro fu il bicchiere vuoto: il bicchiere d'acqua di Gerald, ancora sulla mensola. Vicino all'anello delle manette che le imprigionava il polso al montante del letto. Non quello sinistro, quello destro. ...un messaggio con scritto che ti ho portata al pronto soccorso a farti ricucire un paio di dita. Ora Jessie capì lo scopo di quel vecchio ricordo doloroso; capì che cosa stava cercando di dirle Frugolino. La risposta non riguardava il vecchio Adamo o il vago odore minerale della macchia di bagnato sulle mutandine di cotone. Riguardava la mezza dozzina di lastre di vetro ricavate da una vecchia finestra di ripostiglio, accuratamente scalzata dallo stucco rinsecchito. Aveva perso il vasetto di Nivea, ma aveva ancora un lubrificante con cui tentare, no? Un altro unguento con cui sgusciare fin lassù. Aveva il suo sangue. Prima che si coaguli, il sangue è quasi viscido come olio. Farà un male d'inferno, Jessie. Sì, certo che avrebbe fatto un male d'inferno. Ma le sembrava di aver sentito o letto da qualche parte che l'innervatura dei polsi è molto più rarefatta che in molti altri punti vitali del corpo umano; per questo tagliarsi i polsi, specialmente in una vasca piena di acqua bollente, era uno dei metodi di suicidio più diffusi fin dai tempi dell'impero romano. E poi la sua sensibilità si era già di gran lunga ottenebrata. «Ottenebrata, sono stata io a permettergli di chiudermi questi cosi ai pol-
si», gracchiò. Se il taglio è troppo profondo, morirai dissanguata come quegli antichi romani. Sì, lo sapeva. Ma se non si fosse tagliata, avrebbe dovuto aspettare di morire di convulsioni muscolari o disidratazione... sempre che quella sera non fosse venuto a portarla via il suo amico con la valigetta di ossi. «E sia», mormorò. Il suo cuore pompava con accanimento e Jessie si sentiva pienamente sveglia per la prima volta da molte ore. Il tempo ripartì con un sussulto e uno strattone, come un convoglio merci che abbandona il binario di sosta per immettersi nuovamente sulla rete operativa. «E sia, mi hai convinto.» Ascolta, l'ammonì una voce ansiosa e Jessie sentì, non senza meraviglia, che era contemporaneamente la voce di Ruth e della Brava Mogliettina. Si erano fuse insieme per l'occasione. Ascolta attentamente, Jess. «Sto ascoltando», rispose alla stanza vuota. Stava anche guardando. Guardava il bicchiere. Apparteneva a un servizio da dodici che aveva comperato in saldo da Sears tre o quattro anni prima. Più di metà erano stati rotti. Presto se ne sarebbe aggiunto un altro. Deglutì e fece una smorfia. Era come cercare di inghiottire saliva facendola passare oltre un sasso rivestito di flanella e incastrato in gola. «Ascolto con molta attenzione, credimi.» Bene, perché quando avrai cominciato, non potrai più tirarti indietro. Avverrà tutto velocemente, perché il tuo organismo è già disidratato. Ma ricorda una cosa: anche se dovesse andare tutto storto... «...il successo è assicurato», finì Jessie. Era così, non è vero? La situazione si era semplificata in una nuova realtà non priva di una sua peculiare, agghiacciante speranza. Naturalmente non aspirava a morire dissanguata, non era così pazza, ma sarebbe stato comunque meglio che subire l'assalto finale dei crampi e della sete. Sarebbe stato meglio che affrontare lui. L'allucinazione. Qualunque cosa fosse. Si passò la lingua asciutta sulle labbra asciutte e radunò i suoi pensieri sbandati e confusi, cercò di riordinarli come quando si era preparata al tentativo con il vasetto campione di crema per il viso, che ora giaceva inutilizzabile sul pavimento accanto al letto. Scoprì che le era sempre più difficile pensare. Le tornavano frammenti di (unto è meglio) quel blues parlato, le tornavano aliti dell'acqua di colonia di suo padre, le tornava la sensazione di quella forma dura contro il sedere. Poi ci fu Ge-
rald. Gerald le parlò da dove si trovava, riverso al suolo. Tornerà, Jessie. Non puoi fare niente per impedirlo. Ti impartirà una lezione, mia fiera bellezza. I suoi occhi guizzarono verso di lui, poi tornarono precipitosamente al bicchiere dell'acqua. Aveva incontrato il ghigno feroce di Gerald che la fissava con quella parte di faccia che il cane aveva lasciato intatta. Fece un altro sforzo per rimettere in funzione il cervello e con qualche fatica, finalmente, la sua mente si riattivò. Impiegò dieci minuti, rivedendo attentamente punto per punto. Per la verità non c'era molto da pianificare: il suo progetto rappresentava un rischio suicida ma non era complicato. Riesaminò comunque ogni mossa più di una volta, a caccia di quella svista insignificante che avrebbe potuto costarle la sua ultima speranza di salvezza. Non trovò difetti visibili. In definitiva il piano aveva un solo difetto importante: quello di dover essere messo in pratica molto velocemente, prima che il sangue cominciasse a coagularsi. Dopodiché c'erano solo due esiti possibili: una rapida liberazione o la perdita di conoscenza e la morte. Infine studiò il suo proposito per un'ultima volta ancora, mentre il sole continuava a scivolare verso occidente, non per ritardare un destino orribile ma ormai necessario, ma per esaminarlo come avrebbe esaminato una sciarpa a caccia di eventuali smagliature, appena posati i ferri dopo aver completato il lavoro. Il cane si rialzò dallo zerbino, dove abbandonò il luccicante nodo di nervi e grasso che aveva finito di rosicchiare. Tornò lentamente verso il bosco. Aveva fiutato ancora quell'odore nuovo e con la pancia piena anche una sola zaffata era già troppo. 30 Dodici-dodici-dodici, lampeggiava la radiosveglia e, qualunque fosse l'ora giusta, era ora. Una cosa ancora prima che inizi. Ti sei preparata mentalmente per quello che ti aspetta e va bene, ma ricordati di agire con la dovuta attenzione. Se tanto per cominciare fai cadere quel dannato bicchiere, sei veramente fregata. «Stai lontano, cane!» strillò senza sapere che il randagio si era già ritirato da qualche minuto dietro gli alberi in fondo al vialetto. Esitò ancora per un attimo, valutò se pregare di nuovo e concluse di aver già pregato abbastanza. Ora il suo destino sarebbe dipeso dalle sue voci... e da se stessa.
Allungò la mano destra verso il bicchiere, senza tutta la circospezione che aveva messo nel tentativo precedente. Forse quella parte di lei che tanto aveva ammirato Ruth Neary capiva che giunti a quel punto non era più questione di prudenza, bensì di abbassare la testa e buttarsi a capofitto. Ora devo fare la samurai, pensò e sorrise. Chiuse le dita intorno al bicchiere, cosa che le era costata tanta fatica la prima volta, lo osservò incuriosita per un momento (lo osservò come contemplando sorpresa un esemplare inatteso fra i piselli e i fagiolini dell'orto), e lo afferrò. Serrò gli occhi per proteggerli da eventuali schegge di vetro, poi calò il bicchiere sulla mensola come si fa per rompere il guscio di un uovo sodo. Il rumore del bicchiere fu assurdamente familiare, assurdamente normale, un rumore non diverso da quello delle centinaia di bicchieri che le erano sfuggiti dalle dita mentre lavava le stoviglie o che aveva urtato con il gomito o il dorso della mano in tutti gli anni da quando, all'età di cinque anni, aveva archiviato per sempre la sua Paperina di plastica. Lo stesso schianto, nessuna speciale risonanza a indicare che aveva intrapreso l'ineguagliabile impresa di rischiare la vita per salvarsela. Sentì un coccio che la colpiva alla fronte, in basso, poco sopra il sopracciglio, ma fu l'unico a raggiungere il suo volto. Un altro coccio, di notevoli dimensioni, a giudicare dal rumore, volò giù dalla mensola a infrangersi sul pavimento. Compresse le labbra in una linea stretta ed esangue, anticipando quello che sicuramente sarebbe stato il dolore più intenso, almeno dapprincipio, il dolore delle dita fra le quali aveva tenuto saldamente il bicchiere nel momento in cui lo fracassava. Ma non fu dolore vero, solo una sensazione di lieve pressione e ancor più lieve calore. A paragone dei crampi che l'avevano straziata nelle ultime due ore, non era niente. Deve essersi rotto dalla parte giusta. E perché no? Non sarebbe ora che avessi un po' di fortuna? Poi sollevò la mano e vide che il bicchiere non si era rotto dalla parte giusta. Gocce di sangue scuro le si andavano gonfiando sui polpastrelli del pollice e di altre tre dita; non si era tagliato solo il mignolo. Ne sporgevano sottili frammenti di vetro, come strane setole. Il torpore che le aveva preso le estremità e forse il filo tagliente delle schegge di vetro che l'avevano ferita, le avevano impedito di sentire le lacerazioni. Poi le gocce di sangue cominciarono a cadere sulla superficie trapuntata del materasso, macchiandone il color rosa di una tinta molto più scura. Quelle sottili frecce di vetro che le spuntavano dalle dita come spilli, le fecero venir voglia di vomitare anche se non aveva niente nello stomaco.
Bel samurai, l'apostrofò una delle voci ufesche. Ma sono le mie dita! rispose con forza. Non vedi? Sono le mie dita! Avvertì un primo tremito di panico, lo ricacciò indietro e concentrò la sua attenzione sul coccio di bicchiere che teneva ancora nella mano. Era un pezzo della parte superiore, un coccio ricurvo grande probabilmente un quarto dell'intero, con un lato spezzato in due archi uniformi. Gli archi si congiungevano in una punta quasi perfetta che mandava scintillii crudeli nel sole pomeridiano. E forse quello era un colpo di fortuna... a suo modo. Se avesse avuto il coraggio di andare fino in fondo. Era un piccolo rebbio di vetro che ai suoi occhi appariva come l'arma fantastica di una fiaba, la piccola scimitarra di un folletto guerriero che si accinge a dare battaglia sotto il cappello di un fungo. La tua mente se ne sta andando a zonzo, cara, l'ammonì Frugolino. Credi di potertelo permettere? Naturalmente la risposta era negativa. Jessie posò il coccio di bicchiere sulla mensola, sistemandolo attentamente in modo da poterlo raggiungere con agilità senza torsioni eccessive. Lo lasciò appoggiato con la punta che sporgeva. Su di essa brillò la luce del sole come una minuscola scintilla. Se fosse stata attenta a non calcare con troppa energia, sentiva di potercela fare. Se avesse esagerato, probabilmente avrebbe spinto il coccio giù dalla mensola, o ne avrebbe spezzata la punta tagliente. «Con calma», si raccomandò. «Non c'è bisogno che premi troppo se fai con calma, Jessie. Fai finta...» Ma il resto di quel consiglio (che stai tagliando una fetta di roast beef) non le sembrò molto produttivo, così lo interruppe prima che scatenasse qualche indesiderata associazione di idee. Sollevò il braccio destro, estendendolo fino a tendere quasi del tutto la catenella della manetta e a sovrapporre il polso alla punta scintillante di vetro. Molto avrebbe desiderato ripulire la mensola da tutti gli altri pezzetti, insidiosi peggio di un campo minato, ma non ne ebbe il coraggio, non dopo quello che le era successo con il vasetto di Nivea. Se avesse involontariamente fatto cadere o rotto il coccio appuntito, avrebbe dovuto setacciare le altre schegge per trovare un sostituto accettabile. Erano precauzioni che in quei frangenti le apparivano quasi surreali, ma nemmeno per un istante cercò di illudersi che non fossero necessarie. Se voleva uscire da lì, avrebbe dovuto sanguinare molto più di quanto stesse sanguinando in quel momento.
Fallo come te lo sei preparato, Jessie, avanti... e niente ripensamenti. «Niente ripensamenti», ripeté con quella voce ruvida di polvere nelle fessure. Aprì la mano e scrollò il polso, sperando di staccarsi le schegge dalle dita. Riuscì solo in parte: le rimase conficcato nella carne tenera sotto l'unghia solo il frammento che le aveva ferito il pollice. Decise di lasciar perdere e di continuare nella sua triste operazione. Quello che hai in mente è assolutamente pazzesco, protestò una voce innervosita. Non era la voce di un ufo. Era invece una voce che conosceva molto bene. Era la voce di sua madre. Non che mi sorprenda, capirai. È una tipica reazione esagerata delle tue e ti avrò vista reagire così mille e una volta. Pensaci, Jessie, perché tagliarti e morire probabilmente dissanguata? Prima o poi arriverà qualcuno a salvarti. Qualunque altra cosa è semplicemente impensabile. Morire nella casa delle vacanze? Morire in manette? Assolutamente ridicolo, credimi. Una volta tanto sii superiore alla tua innata autocommiserazione! Solo per una volta, Jessie! Non ti tagliare con quel vetro. Non farlo! Sì, era proprio sua madre, l'imitazione era così perfetta da dare i brividi. Voleva farle credere di sentire affetto e buonsenso travestiti da collera e, sebbene sua madre non fosse stata del tutto incapace di amare, Jessie riteneva che la vera Sally Mahout fosse quella che un giorno aveva fatto irruzione nella sua stanza e le aveva scagliato addosso un paio di scarpe con i tacchi a spillo senza una parola di spiegazione, né allora né poi. Inoltre tutto quello che diceva quella voce era una menzogna. Una menzogna piena di spavento. «No», rispose, «non ti crederò. Non verrà nessuno, se non forse quello che è stato qui la notte scorsa. Niente ripensamenti.» Con questo, Jessie abbassò il polso destro sulla scintillante lama di vetro. 31 Era essenziale che vedesse quello che stava facendo, perché dapprincipio non sentì quasi niente; avrebbe potuto affettarsi il polso senza avvertire altro che quelle sensazioni incerte di pressione e calore. Fu infinitamente lieta di constatare che vedere non avrebbe rappresentato un problema; aveva spezzato il vetro in un punto della mensola dove poteva allungare lo sguardo quasi completamente senza impedimenti (finalmente una buona notizia! gioì con sarcasmo una parte della sua mente).
Con la mano rivolta all'insù, Jessie abbassò il polso offrendo alla punta di vetro il lato interiore, quello con le linee che i chiromanti chiamano Braccialetti della Fortuna. Osservò affascinata il bordo tagliente che dapprima le increspava delicatamente la pelle e poi gliela lacerava. Continuò a spingere e il vetro continuò a penetrarle nel polso. La fossetta si riempì di sangue e scomparve. La sua prima reazione fu di delusione. La punta di vetro non aveva provocato quello zampillo che si era augurata (e che per metà aveva temuto). Poi il bordo tagliente incise il fascio azzurrognolo di vene più superficiali e il sangue cominciò a fluire più velocemente. Non sgorgò a fiotti come si era aspettata, ma in un flusso rapido e costante, come acqua da un rubinetto aperto quasi del tutto. Poi il vetro fendette l'arteria radiale al centro del polso e il rivolo si trasformò in zampillo. Si rovesciò sulla mensola e le gocciolò lungo l'avambraccio. Troppo tardi ormai per tornare indietro; era in ballo. Nel bene o nel male, ormai era in ballo. Tira su quella mano! strillò sua madre. Non peggiorare la situazione! È già grave abbastanza! Prova adesso! La tentazione era forte, ma giudicava che quanto aveva fatto finora fosse ancora ben lontano dall'essere sufficiente. Non conosceva il termine medico per lo scorticamento, una pratica usata soprattutto dai medici che si occupano di vittime di ustioni, ma ora che aveva dato inizio a quella raccapricciante operazione, capiva che se voleva liberarsi non poteva contare solo sul sangue. Poteva non bastare. Adagio, delicatamente, ruotò il polso, lacerandosi la pelle tesa della parte inferiore della mano. Ora percepiva uno strano formicolio nel palmo, come se avesse reciso un fascio piccolo ma vitale di nervi, fino a quel momento assopiti. Anulare e mignolo ricaddero in avanti come se fossero stati uccisi. Indice e medio, insieme con il pollice, cominciarono a tremare. Per quanto insensibili fossero diventate le sue carni, Jessie trovò lo stesso qualcosa di indicibilmente orribile in quei segni del danno che stava arrecando a se stessa. Quelle due dita rattrappite, come due piccoli cadaveri, erano anche peggio di tutto il sangue che aveva versato finora. Poi l'orrore e la sensazione crescente di calore e pressione nella mano ferita furono soverchiati da un crampo che la investì al fianco come una tempesta. L'afferrò senza pietà, cercando di strapparla dalla sua posizione contorta, obbligandola a ingaggiare una battaglia furiosa, in preda al terrore. Non poteva assolutamente muoversi proprio ora. Quasi certamente avrebbe fatto cadere per terra il suo improvvisato
strumento da taglio. «No che non me lo fai», brontolò a denti stretti, «no, bastardo, togliti di mezzo...» Si mantenne rigidamente nella posizione che si era assegnata, cercando di evitare una pressione eccessiva sulla fragile lama di vetro, per tema che si spezzasse costringendola a rovistare nelle schegge alla ricerca di qualche altro strumento, sicuramente molto meno adatto. Ma se il crampo le fosse risalito dal fianco nel braccio destro, come stava cercando di fare... «No», gemette. «Vattene, mi hai sentito? Vattene via, maledetto!» Aspettò, sapendo di non poter aspettare, sapendo anche di non poter fare altrimenti; aspettò e ascoltò il rumore del sangue della sua vita che gocciolava sul pavimento dalla testata del letto. Osservò altro sangue che scivolava lungo la mensola in rivoli sottili. In alcuni di essi baluginavano bruscoli di vetro. Aveva cominciato a sentirsi come la vittima di un giallo truculento. Non puoi più aspettare, Jessie! la incalzò Ruth. Ti è scaduto il tempo! Mi è scaduta la fortuna, cara mia, le rispose, e sì che non ne ho mai avuta molta. In quel momento, o sentì che il crampo si allentava, o riuscì a convincersi che così fosse. Ruotò la mano dentro l'anello delle manette, urlando di dolore a una nuova aggressione del crampo che le affondava i suoi artigli roventi nello stomaco cercando di incendiarglielo di nuovo. Ma continuò a muoversi lo stesso e questa volta impalò la parte esterna del polso. Ora il lato interno, quello più cedevole, era rovesciato verso l'alto e osservò affascinata la fenditura profonda nei Braccialetti della Fortuna che apriva le sue labbra rosso scuro come per deriderla. Si spinse il vetro per quanto più profondamente si sentiva di osare nel dorso della mano, continuando a ingaggiare battaglia con il crampo che le divorava il basso torace, quindi tirò violentemente la mano verso di sé, spruzzandosi una pioggerella fine su fronte, guance e naso. Il coccio che le era servito per eseguire quel rudimentale intervento chirurgico volò ruotando nell'aria e cadde sul pavimento. E lì la minuscola scimitarra da folletto si frantumò. La sua fine non sfiorò neppure la mente di Jessie; aveva esaurito il suo compito. Ora le restava l'ultima fase, ancora un'ultima verità da assodare: se le manette avrebbero gelosamente difeso la loro prigioniera, o se le carni straziate e il sangue non volessero finalmente congiurare per decretarne la sconfitta. Con una stretta finale, il crampo al fianco cominciò ad allentarsi. Jessie se ne accorse non più di quanto avesse notato il volo del suo pri-
mitivo bisturi di vetro. Percepiva concretamente tutta la forza della sua concentrazione, le sembrava che la sua mente ne fosse consumata, come una torcia colante di resina di pino, ed era tutta compressa nella sua mano destra. Se la esaminò nella luce dorata del tardo pomeriggio. Le dita erano inondate da sangue colloso. L'avambraccio sembrava impiastrato di lattice color rosso vermiglio. Il bracciale della manetta era poco più di una forma ricurva che affiorava a stento nell'inondazione generale. E Jessie giudicò che fosse il massimo a cui poteva aspirare. Fletté il braccio e tirò verso il basso, come già aveva fatto due volte. L'anello delle manette scivolò... scivolo un po' di più... e poi s'incastrò di nuovo. Ancora una volta aveva incontrato l'ostacolo ostinato dell'osso sotto il pollice. «No!» urlò dando uno strattone più violento. «Mi rifiuto di morire così! Mi hai sentito? Mi rifiuto di morire così!» Il bracciale le si affondò nelle carni e per un momento ebbe la terrificante certezza che non si sarebbe spostato di un altro millimetro, che il suo prossimo spostamento spaziale sarebbe avvenuto solo quando un poliziotto avrebbe aperto le manette con la chiave e gliele avrebbe sfilate dal braccio defunto, masticando un sigaro. Non era in grado di muoverlo, nessuna forza al mondo ci sarebbe riuscita, non lo avrebbero smosso tutti i prìncipi del paradiso, né tutti i potenti dell'inferno. Poi avvertì sul retro del polso una sensazione simile a un lampo di calore e il bracciale risalì di un niente. S'arrestò, poi cominciò a scivolare di nuovo. Quel formicolio rovente, elettrico, cominciò allora a diffondersi, trasformandosi velocemente in un bruciore cupo che le si propagò intorno a tutta la mano come un braccialetto di fuoco e finalmente le penetrò le carni come un famelico battaglione di formiche rosse. Il bracciale si muoveva perché la pelle contro cui aderiva si stava muovendo, scivolando come farebbe un oggetto pesante su un tappeto che viene trascinato sul pavimento. L'irregolare taglio circolare che si era iscritta intorno al polso si aprì, sollevando brandelli di tendine e dando origine a un bracciale rosso. La pelle del dorso della mano s'increspò e cominciò ad ammucchiarsi davanti al ferro delle manette, e allora le tornò alla mente il copriletto, quando l'aveva spinto verso il fondo pedalando forsennatamente. Mi sto spellando la mano, pensò. Dio del cielo, mi sto sbucciando come un'arancia. «Mollatemi!» urlò alle manette, improvvisamente infuriata oltre ragione. In quel momento si erano trasformate ai suoi occhi in qualcosa di vivo, un
essere odioso e dentuto, una lampreda, una donnola idrofoba. «Lasciatemi andare, vigliacche!» Il bracciale era risalito molto di più che nei suoi precedenti tentativi, però teneva ancora, rifiutandosi cocciutamente di mollare l'ultimo mezzo centimetro (e forse non erano più di un paio di millimetri). Ora il confuso anello di metallo imbrattato di sangue mordeva le carni di una mano parzialmente spogliata di pelle, in un luccicante reticolo di tendini del colore di piume neonate. Il dorso della sua mano sembrava una coscia di tacchino ripulita del suo croccante strato di pelle. La costante pressione che aveva esercitato verso il basso aveva dilatato la ferita del polso, aprendo un varco maculato di sangue. Le venne da chiedersi se, nello sforzo di liberarsi, non stesse rischiando di strapparsi la mano dal polso. E a questo punto il bracciale, che pure stava minimamente scivolando, o almeno così le sembrava, si fermò di nuovo. E questa volta si fermò di botto. Per forza, Jessie! strillò Frugolino. Guardala! È tutta storta! Se solo la rimetti diritta... Jessie spinse all'insù il braccio, facendo ridiscendere l'anello delle manette sul polso, poi, senza dar tempo alla propria mente di temere un crampo, tirò verso il basso, mettendoci tutte le forze che le restavano. Una nebbia rossa di dolore le avviluppò la mano quando il bracciale delle manette le scavò la carne viva fra il polso e il punto di massima circonferenza dell'arto. Tutta la pelle che le si era staccata si era raccolta lì, su una linea diagonale che andava dalla base del mignolo fino alla base del pollice. Per un momento quella massa di pelle allentata trattenne le manette, poi passò sotto il metallo con un debole rumore di sciacquio. Restò solo l'ultimo affioramento osseo, ma bastò a fermarla. Jessie tirò più forte. Non successe niente. Fine della trasmissione, pensò. Possiamo tornarcene tutti a casa. Allora, proprio nel momento in cui stava per rilasciare il braccio indolenzito, l'anello sormontò il piccolo ostacolo che per tanto tempo l'aveva trattenuto, le sfuggì dalle dita e andò a sbattere rumorosamente contro il montante del letto. Accadde tutto così velocemente che in un primo momento Jessie non riuscì nemmeno a rendersi conto che fosse veramente accaduto. La sua mano non somigliava per niente allo strumento di squisita fattura che la natura normalmente assegna agli esseri umani, però era lo stesso e sempre la sua mano, ed era libera. Libera. Lo sguardo di Jessie si spostò lentamente dall'anello metallico, vuoto e
grondante di sangue, alla mano scorticata, e piano piano i suoi occhi si ingrandirono colmandosi di comprensione. Sembra un uccello finito in una macchina utensile e sputato fuori dall'altra parte, pensò, ma adesso la manetta non c'è più. È scomparsa. «Non ci credo», gracchiò. «Cazzo! Non ci credo!» Lascia perdere, Jessie. Non hai tempo. Cominciò come se qualcuno l'avesse scrollata dal sonno. Non c'è tempo? Ah, già. Non poteva sapere quanto sangue avesse perduto, a giudicare dal materasso intriso e dai rivoli che scorrevano e gocciolavano, sulle stecche della testata, poteva essere un mezzo litro, ma sapeva che se non si fosse affrettata ad applicarsi un tampone al polso e un laccio emostatico di qualche genere al braccio, sarebbe svenuta e il suo viaggio dalla perdita di coscienza alla morte sarebbe stato breve, un traghetto di pochi minuti da sponda a sponda attraverso un fiumiciattolo. No e poi no, pensò. Era di nuovo la voce senza tante palle. Ma questa volta apparteneva solo a lei e ciò la rese felice. Non mi sarò sobbarcata tutto questa maledizione solo per morire svenuta sul pavimento. Non ho avuto modo di esaminare le scartoffie, ma sono più che sicura che sul mio contratto non c'è scritto così. Sì, ma le gambe... Non aveva bisogno che qualcuno glielo ricordasse. Erano più di ventiquattr'ore che non si reggeva sulle gambe e, nonostante tutti gli sforzi che aveva compiuto per tenerle sveglie, poteva essere un grave errore fidarsi più di tanto, almeno all'inizio. Poteva darsi che venissero aggredite dai crampi, poteva darsi che cedessero, poteva darsi che l'una e l'altra cosa si assommassero in un nuovo incubo. Ma, come si suol dire, uomo mezzo avvisato è mezzo salvato. Naturalmente aveva accumulato un bel bagaglio di avvisi di quel genere in vita sua (spesso attribuibili a quel misterioso e onnipresente gruppo di sapienti che andava sotto la definizione di «loro») e nulla di quanto avesse mai visto in Firing Line o letto sul Reader's Digest l'aveva preparata per quello che aveva appena fatto. Tuttavia ci avrebbe messo il massimo della cautela. Aveva una mezza idea di non poter contare su un largo margine, a quel proposito. Rotolò sul fianco sinistro e il braccio destro le andò dietro come la coda di un aquilone o il tubo di scarico sgangherato di una vecchia automobile. L'unica parte di esso che sentiva sicuramente viva era il dorso della mano, dove andavano arrosto i tendini esposti. Il dolore era spaventoso, superato solo dalla sensazione che il braccio destro volesse divorziare dal resto del
suo corpo, ma tutto si spegneva in un'esplosione di speranza e trionfo. Provò una gioia quasi divina nel poter rotolare sul letto senza essere trattenuta dalle manette intorno al polso. La colpì un altro crampo che la sfondò come una pallonata, ma lo ignorò. Aveva definito gioia quella sensazione? Oh, ma com'era stata avara! Era estasi! Traboccante, incontenibile esta... Jessie! La sponda del letto! Jessie, fermati! Altro che sponda del letto; sembrava la sponda del mondo in una di quelle antiche mappe disegnate prima di Colombo. Oltre questo limite ci sono solo mostri e serpenti marini, pensò. Senza contare un polso sinistro fratturato. Smettila, Jess! Ma il suo corpo fece orecchie da mercante; continuò a dibattersi, fra crampi e tutto il resto, ed ebbe solo il tempo di ruotare la mano sinistra nelle manette prima di piombare sul ventre sulla sponda del letto e da lì cadere come un peso morto. Le dita dei suoi piedi vennero a contatto con il pavimento con uno schianto lancinante, ma il suo urlo non fu solo di dolore. Perché i suoi piedi erano dopotutto di nuovo per terra. Toccavano finalmente il pavimento. Terminò la sua fuga sconnessa dal letto con il braccio sinistro rigidamente puntato in direzione del montante al quale era ancora incatenato e il braccio destro temporaneamente intrappolato fra il torace e il lato del letto. Sentiva il sangue caldo che le pulsava sulla pelle e le colava sui seni. Girò la testa, dopodiché dovette aspettare in quella nuova posizione di massima sofferenza mentre un crampo di vitrea intensità paralizzante le storpiava la schiena dalla base del collo fino al taglio delle natiche. Il lenzuolo contro il quale premeva i seni e la mano lacerata si andava inzuppando di sangue. Devo alzarmi, pensò. Devo alzarmi subito, o morirò dissanguata in questa posizione. Trascorso il crampo nella schiena, le fu possibile finalmente piazzare con solidità i piedi sotto di sé. Le sue gambe non erano affatto così tremanti e deboli come aveva temuto; anzi, sembravano più ansiose che mai di sostenerla. Jessie spinse all'insù. L'anello che le serrava la mano sinistra risalì lungo il montante fino a incontrare la stecca della testata del letto e Jessie si ritrovò all'improvviso in una posizione che più che mai aveva cominciato a sospettare di non poter mai più riprendere: eretta sui propri piedi, accanto al letto che era stata la sua prigione... quasi la sua bara. Un'onda di enorme gratitudine minacciò di travolgerla, ma vi resistette con la tenacia con cui aveva resistito al panico. Ci sarebbe stato in seguito
un momento per la gratitudine, ma ora le era indispensabile non dimenticarsi che non era ancora libera da quel letto dannato e che il tempo che le era dato per liberarsi era agli sgoccioli. Non aveva ancora sentito indizi di capogiro o vertigine, ma non si fidava affatto. Quando fosse giunto il collasso, probabilmente l'avrebbe colta di sorpresa, tutt'a un tratto, come un fulmine su una centrale elettrica. E tuttavia, ritrovarsi eretta, solo quello e niente di più, le era mai sembrato così esaltante? Così inesprimibilmente meraviglioso? «Mai», gracchiò. Con il braccio destro premuto contro il petto e la ferita all'interno del polso schiacciata contro il seno sinistro, ruotò per metà su se stessa, appoggiando le natiche al muro. Si ritrovò allora accanto al lato sinistro del letto, in una posizione che somigliava molto a quella del riposo di un militare. Trasse un respiro profondo, poi chiese al suo braccio destro e alla sua povera mano martoriata di rimettersi al lavoro. Il braccio si sollevò scricchiolando, come la biella di un giocattolo meccanico vecchio e mal tenuto, e la sua mano si fermò sulla mensola. Anulare e mignolo si rifiutarono ancora di ubbidire, ma riuscì ad afferrare il legno fra il pollice, l'indice e il medio, per tirarla via dai sostegni e farla piombare sul materasso dove era rimasta sdraiata per tante ore, il materasso dove era ancora visibile l'impronta sudata del suo corpo nel rosa della trapunta, striata di sangue nella parte superiore. Vedere la propria sagoma stampata nel materasso fece provare a Jessie nausea e furore e paura. Vederla la faceva impazzire. Spostò gli occhi dal materasso, su cui ora si trovava la mensola, alla sua mano destra tremante. Se la portò alla bocca e con i denti cercò di afferrare la spina di vetro che le spuntava da sotto l'unghia del pollice. Le sfuggì la presa e il pezzetto di vetro le si infilò fra un canino e un incisivo superiori, tagliando in profondità la tenera carne rosea della gengiva. Sentì un rapido bruciore penetrante e poi il sangue le sgorgò nella bocca, dolce e salato, denso come lo sciroppo alla ciliegia per la tosse che prendeva quando aveva l'influenza da piccola. Non si scompose per la nuova ferita, da qualche minuto a quella parte era venuta a patti con ben più gravi lesioni; riafferrò la scheggia e se là estrasse lentamente dal pollice. Dopodiché la sputò sul letto insieme con un fiotto di sangue caldo. «Bene», mormorò, e ansimando pesantemente cominciò a dimenarsi per introdursi fra la parete e la testata.
Il letto si allontanò dal muro più facilmente di quanto avesse potuto temere, ma una cosa che mai aveva messo in dubbio era che si sarebbe mosso, se solo avesse trovato un punto d'appoggio abbastanza saldo. Ora l'aveva e potè cominciare a spingere l'odioso giaciglio sul pavimento lucidato. Il mobile slittava sulla destra perché poteva spingerlo solo con il fianco sinistro, ma anche quell'effetto rientrava nelle sue previsioni e non la preoccupò. Anzi, la traiettoria destrorsa faceva parte del suo piano rudimentale. Quando la tua fortuna gira, pensò, gira come dalla notte al giorno. Ti sarai anche maciullata la gengiva superiore, Jessie, ma guarda un po', ancora non hai calpestato un solo coccio di vetro. Continua a spingere questo letto, tesoro, e continua a contare i se... Il suo piede urtò qualcosa. Guardò giù e vide che lo aveva affondato nelle carni cedevoli della spalla destra di Gerald. Gli gocciolò sangue sul torace e sul viso. Una goccia gli cadde in un occhio blu sbarrato e glielo velò come una lente a contatto. Non provò pietà per lui; non provò odio per lui; non provò amore per lui. Provò orrore e disgusto per se stessa, al pensiero che tutti i sentimenti che erano stati per anni il suo pane quotidiano, tutti quei presunti sentimenti virtuosi che erano al fulcro di ogni telenovela e talk-show, di ogni programma radiofonico con telefonate in diretta, dovessero dimostrarsi di così rarefatto spessore a confronto con l'istinto di sopravvivenza, che si rivelava (almeno nel suo caso) più travolgente e brutalmente accanito della pala di un bulldozer. Eppure occorreva arrendersi alla realtà dei fatti e pensare che, se Arsenio o Oprah si fossero mai trovati in una situazione come quella, si sarebbero comportati più o meno nella stessa maniera. «Fuori dai piedi, Gerald», brontolò e gli sferrò un calcio (nascondendo a se stessa l'enorme soddisfazione che provò nel farlo). Gerald si rifiutò di muoversi, quasi che i mutamenti chimici della sua decomposizione lo avessero incollato al pavimento. Si alzò in volo in un brusio concitato lo sciame delle mosche disturbate dal loro pascolo sul suo ventre rilassato. Altro non accadde. «E allora vaffanculo», disse Jessie. Ricominciò a spingere il letto. Riuscì a montare su Gerald con il piede destro, ma affondò il sinistro nel suo addome. La pressione provocò un macabro brusio nel fondo della gola del cadavere e gli spinse fuori della bocca aperta uno sbuffo di gas nauseante. «Chiedi scusa, Gerald», borbottò Jessie e se lo abbandonò alle spalle senza rammarico. Solo il comò vedeva in quel momento, il comò sopra al quale c'erano le chiavi.
Appena ebbe superato Gerald, le mosche disturbate calarono nuovamente in massa a riprendere il loro lavoro. Del resto c'era tanto da fare ed era così poco il tempo a disposizione. 32 Il suo timore principale era stato che il fondo del letto cercasse di incastrarsi nella porta del bagno nell'angolo in fondo alla stanza, al che sarebbe stata costretta a indietreggiare e rifare la manovra, come cercando di incastrare un'automobile di grosse dimensioni in uno spazio ristretto di parcheggio. L'arco destrorso disegnato dal letto, sotto le sue lente spinte attraverso la stanza, risultò invece quasi perfetto. Dovette intervenire una sola volta con una piccola correzione, tirando il suo lato un po' verso sinistra per essere sicura che l'altra sponda oltrepassasse il comò. Fu in quel momento, quando stava con la testa bassa e il sedere sporto all'infuori ed entrambe le braccia strette intorno al montante del letto, che avvertì il primo capogiro... salvo che, con tutto il peso contro la colonnina, come se fosse tanto ubriaca e stanca da reggersi in piedi solo fingendo di ballare guancia a guancia con il suo ragazzo, l'impressione che ebbe lei fu piuttosto di capofitto. La sensazione dominante fu di smarrimento, non solo del pensiero e della volontà, ma anche a livello sensoriale. Visse un momento di confusione totale in cui le parve di subire una sorta di colpo di frusta temporale che la scaraventò in un posto che non era né Dark Score né Kashwakamak, ma un posto completamente diverso, un posto sulla sponda di un oceano, non di un lago. L'odore non era più quello di ostriche e monete, ma di salmastro. Era di nuovo il giorno dell'eclisse. Era quella l'unica sensazione riconoscibile. Era finita di nuovo nei cespugli di more per sfuggire a un altro uomo, un altro papà che aveva in mente qualcosa di molto peggio che spruzzarle il suo seme sulle mutandine. E adesso era in fondo al pozzo. Le si versò addosso un déjà vu, come strana acqua. Gesù santo, ma che mi prende adesso? pensò, ma c'era una sola risposta. Di nuovo quell'immagine sconcertante, quella che aveva perso di mente fino a quando era tornata alla camera divisa in due dal lenzuolo per cambiarsi il giorno dell'eclisse: una donna magra magra, sotto un semplice vestitino da casa, con i capelli sale e pepe raccolti in una crocchia e una sottoveste bianca accasciata accanto. Huuu, pensò, stringendo il montante del letto con la mano a brandelli e cercando disperatamente di impedire alle ginocchia di cedere. Tieni duro,
Jessie, tieni duro. Non pensare a quella donna, non pensare all'odore di salmastro e di more, non pensare alle tenebre. Tieni duro e vedrai che passa. Tenne duro e passò. Si dileguò dapprima l'immagine della donna inginocchiata vicino alla sua sottoveste a sbirciare fra le vecchie assi scheggiate, poi cominciarono a sciogliersi le tenebre. La stanza da letto cominciò a rischiararsi di nuovo, riprendendo la sua opaca luminosità di un pomeriggio d'autunno. Vide bruscoli di polvere danzare nella luce obliqua che entrava dalle finestre esposte verso il lago, vide l'ombra delle proprie gambe che s'allungava sul pavimento. Si spezzava all'altezza delle ginocchia, cosicché il resto della sua ombra potesse arrampicarsi per la parete. Il buio si ritirò, ma le lasciò un fischio sottile nelle orecchie. Quando si guardò i piedi, vide che erano ricoperti di sangue. Ci camminava dentro, lasciandosi dietro una scia rossa. Ti sta scadendo il tempo, Jessie. Lo sapeva. Abbassò di nuovo il petto contro la testata. Smuovere di nuovo il letto questa volta fu più difficile, ma alla lunga ci riuscì. Due minuti dopo era vicino al comò che per tanto tempo aveva fissato senza speranza da lontano. Gli angoli delle sue labbra tremarono in una risatina secca. Mi sento come una donna che ha speso tutta la vita sognando le sabbie nere di Kona e non può credere di esserci finalmente arrivata, pensò. Sembra un sogno anche questo, come tutti gli altri, ma un tantino più reale, perché questa volta ti si arriccia il naso. Non le si arricciava il naso, mentre invece osservava il serpente disordinato della cravatta di Gerald, ancora annodata. E quello era un particolare che non si trova nemmeno nei sogni più realistici. Vicino alla cravatta rossa c'erano due piccole chiavi, con il corpo cavo, assolutamente identiche. Le chiavi delle manette. Sollevò la mano destra e se la esaminò con occhio critico. Vedendo pendere inerti anulare e mignolo, si domandò per un attimo quanto grave potesse essere il danno che si era inferta al sistema nervoso della mano, poi decise di lasciar perdere. Avrebbe avuto forse importanza in seguito, come alcuni altri elementi che erano finiti in secondo piano durante quella conquista di terreno nell'ultimo quarto d'ora, ma per il momento il destino toccato alla sua mano destra valeva meno delle quotazioni della trippa di maiale a Omaha. L'importante era che pollice, indice e medio rispondessero ancora agli ordini che emetteva dal cervello. Tremavano un po', come
per esprimere lo sgomento per l'improvvisa perdita dei loro vicini di sempre, ma reagivano ancora. Chinò la testa e parlò alle dita. «Dovete smetterla. Poi potrete anche tremare e impazzire, ma adesso dovete aiutarmi. È un ordine.» Sì. Perché il pensiero di lasciarsi sfuggire le chiavi o urtarle e farle cadere dal comò dopo tutto quello che aveva fatto... era insostenibile. Fissò le dita della mano destra con occhi severi. Non smisero di tremare, non del tutto, ma sotto il suo sguardo di rimprovero le loro contrazioni si sedarono, riducendosi a una vibrazione appena visibile. «Brave», mormorò. «Non so se basta, ma lo scopriremo presto.» Le chiavi erano identiche e questo le garantiva una possibilità di riserva. Non c'era niente di strano se Gerald le aveva portate tutte e due; non si poteva negare che fosse stato un uomo metodico. Considerare ogni evenienza, ripeteva spesso, faceva la differenza fra l'essere bravi e l'essere superiori. Le sole evenienze che non aveva considerato quella volta erano l'infarto e il calcio che glielo aveva provocato. Il risultato naturalmente era che non era né bravo né superiore; solo morto. «La pappa del cagnolino», mormorò, di nuovo senza accorgersi di parlare ad alta voce. «Avvocato dal talento sopraffino, il nostro Gerald, ora solo pappa per il cagnolino. Giusto, Ruth? Giusto, Frugolino?» Pizzicò una delle piccole chiavi fra il pollice e l'indice dell'infuocata mano destra (quando toccò il metallo, riaffiorò la viva sensazione che fosse tutto un sogno), la sollevò, la esaminò, poi guardò il bracciale della manetta che le imprigionava il polso sinistro. La serratura era un circoletto che le ricordò quei campanelli che i ricchi fanno montare sullo stipite della porta di servizio della loro villa sontuosa. Per aprire le manette s'infilava semplicemente il corpo cavo della chiave nel forellino, ci si accertava di avervi fatto penetrare il perno del meccanismo e si girava. Abbassò la chiave verso la serratura ma, prima di poterla inserire, la sua mente vacillò sotto un'altra ondata di quella strana sensazione che aveva definito di capofitto. Barcollò sulle gambe e si ritrovò a pensare di nuovo a Karl Wallenda. La mano ricominciò a tremare. «Fermati!» le intimò, calando disperatamente la chiave verso la serratura. «Ferma...» La chiave mancò il foro, colpì il metallo duro circostante e le si rigirò nelle dita scivolose di sangue. La strinse ancora per un secondo, dopodiché le sfuggì dai polpastrelli (le sgusciò via, si potrebbe dire) e cadde per terra. Ora le restava solo una chiave e se avesse perso quella...
Non la perderai, intervenne Frugolino. Ti giuro che non la perderai. Ma sbrigati a prenderla, prima di perdere il coraggio. Fletté una volta il braccio destro, poi si alzò le dita al viso. Le guardò attentamente. Il tremito si stava calmando di nuovo, un po' troppo lentamente per la verità, ma non poteva aspettare. Temeva di perdere i sensi. Allungò la mano che fremeva debolmente e, al primo tentativo di afferrarla, per poco non spinse la seconda chiave giù dal comò. Era colpa dell'insensibilità, quel dannato torpore che sembrava le avesse addormentato le dita senza speranza. Trasse un profondo respiro, lo trattenne, chiuse il pugno, nonostante il dolore e l'emorragia che provocò con quel gesto, quindi svuotò i polmoni in un lungo sospiro sibilante. Si sentiva un po' meglio. Questa volta premette l'indice sulla testa della piccola chiave e la trascinò verso il bordo del comò, invece di cercare di raccoglierla immediatamente. Non smise di tirare finché la chiave non cominciò a sporgere. Se la fai cadere, Jessie! gemette la Brava Mogliettina. Oh, se fai cadere anche questa! «Zitta», le ordinò Jessie e applicò il pollice al lato inferiore della chiave, come il secondo becco di una pinza. Poi, cercando di non pensare affatto a che cosa sarebbe stato di lei se avesse fallito anche questa volta, sollevò la chiave e l'avvicinò alle manette. Trascorsero una manciata di brutti secondi, durante i quali non riuscì ad allineare il corpo della chiave sul foro della serratura per via del tremito nella mano, e sfiorò il panico quando per un attimo la serratura si raddoppiò... e si quadruplicò. Strinse gli occhi, trasse un altro respiro profondo e li riaprì di scatto. La serratura era di nuovo una sola e allora vi conficcò la chiave prima che i suoi occhi le giocassero qualche altro brutto scherzo. «Bene», sospirò. «Vediamo.» Ruotò la chiave in senso orario. Non accadde niente. Il panico l'aggredì alla gola, ma a un tratto ricordò il vecchio camioncino sgangherato con il quale girava Bill Dunn, il custode tuttofare, e l'adesivo che aveva sul paraurti posteriore: TIENI LA DESTRA, TIRA VIA A SINISTRA. Sopra la scritta era disegnata una grande vite. «Tira via a sinistra», borbottò Jessie e cercò di girare la chiave in senso antiorario. Per un attimo non capì che l'anello si era aperto; pensò che lo scatto sonoro che aveva udito fosse il rumore della chiave che si spezzava dentro la serratura e strillò, schizzando sangue sul comò dalla ferita nella gengiva. Lo spruzzo cadde anche sulla cravatta di Gerald, rosso su rosso. Poi vide che l'estremità con le tacche era uscita dal bracciale e si rese conto
di esserci riuscita. Ce l'aveva fatta davvero. Jessie Burlingame sfilò la mano sinistra, un po' gonfia intorno al polso ma tutto sommato ancora incolume, dal braccialetto aperto, che ricadde contro la testata come aveva fatto il suo gemello. Poi, con un'espressione di infinita meraviglia, sollevò lentamente entrambe le mani. Spostò lo sguardo dalla sinistra alla destra e ritorno. Non vedeva nemmeno che la mano destra era ricoperta di sangue; in quel momento il sangue era lontano un universo intero dai suoi pensieri. In quel momento voleva solo accertarsi senz'ombra di dubbio di essere veramente libera. Per quasi trenta secondi continuò a guardarsi le mani, spostando gli occhi dall'una all'altra, come seguendo una partita di ping pong. Poi trasse un respiro, rovesciò la testa all'indietro e spedì al soffitto un altro strillo assordante. Sentì tuonare dentro di sé un'altra ondata di tenebra. Possente e melliflua e minacciosa, ma la ignorò e continuò a strillare. Le sembrava di non avere scelta. O strillare o morire. Era inequivocabile nel suo grido la presenza di un filo fragile e tagliente di follia, ma era lo stesso un grido di trionfo e vittoria. A duecento metri dalla casa, fra gli alberi in fondo al vialetto, l'ex Prince sollevò la testa e lanciò alla porta uno sguardo ansioso. Jessie non riusciva più a distogliere gli occhi dalle mani, come non riusciva a smettere di strillare. Non ricordava di aver mai provato niente di lontanamente simile, un'estasi che innescò nella sua mente un'involontaria considerazione: se fare l'amore desse anche solo la metà di questo piacere, la gente si salterebbe addosso per le strade, perché non potrebbe trattenersi. Poi restò senza fiato e vacillò all'indietro. Annaspò alla ricerca della testata del letto, ma era già troppo tardi: perse l'equilibrio e cadde per terra. Mentre stramazzava, si rese conto che il suo corpo si era aspettato meccanicamente di venir trattenuto dalle catenelle delle manette. Comico, a pensarci bene. Urtò violentemente la ferita aperta all'interno del polso. Il dolore le illuminò il braccio destro come un albero di Natale e questa volta quando gridò fu solo ed esclusivamente strazio. Ma soffocò precipitosamente il grido quando si ritrovò di nuovo sul punto di perdere conoscenza. Aprì gli occhi e fissò il volto sbranato di suo marito. Gerald reagì al suo sguardo con un'espressione di infinita, vitrea stupefazione: È inaudito che mi sia successa una cosa del genere, sono un avvocato con tanto di qualifica davanti al nome sulla porta! Poi la mosca che si strofinava le zampe anteriori appollaiata sul suo labbro superiore scomparve in una narice e Jessie girò la te-
sta dall'altra parte così violentemente da sbatterla sul parquet. Vide le stelle. Quando riaprì gli occhi, questa volta, si ritrovò a guardare la testata del letto, con le sue macabre decorazioni di gocce e chiazze di sangue. Ma davvero era in piedi lassù solo pochi istanti prima? Ne era più che certa, eppure le riusciva incredibile: da laggiù quel letto dannato le sembrava alto quanto il grattacielo della Chrysler. Muoviti, Jess! Era Frugolino, che riprendeva a incalzarla con quella voce querula. A dispetto del faccino così dolce, riusciva a essere un vero tormento, quando ci si metteva. «Non un tormento», si corresse lasciando che gli occhi le si chiudessero. Un sorrisetto trasognato le sfiorò gli angoli della bocca. «Una ruota cigolante.» Muoviti, maledizione! Non posso. Ho bisogno di riposare un po'. Se non ti dai da fare subito, riposerai per sempre! Alza quei prosciutti che hai per culo! Quelle parole offensive sortirono l'effetto desiderato. «Non ho un grammo di grasso di troppo laggiù, linguaccia», protestò debolmente mentre cercava di rialzarsi. Le bastarono due tentativi (il secondo pregiudicato da un altro di quei crampi paralizzanti al diaframma) perché si convincesse che rialzarsi, almeno per il momento, era una pessima idea. Anzi, se ci fosse riuscita si sarebbe creata più problemi ancora, perché aveva bisogno di andare in bagno e la porta era attualmente sbarrata dal letto come un blocco stradale. Si infilò sotto il letto, strisciando come se nuotasse, con movimenti quasi aggraziati. Mentre si trascinava in avanti soffiò per togliere di mezzo qualche ricciolo di polvere. Le piccole matasse rotolarono via come grigi cespugli mobili spinti dal vento del deserto. Per qualche ragione le fecero pensare alla donna della sua visione, quella inginocchiata nei rovi di more accanto alla sottoveste bianca. Entrò nella penombra del bagno e fu subito investita da un odore nuovo. Era l'odore scuro e muscoso dell'acqua. Acqua che gocciolava dai rubinetti della vasca; acqua che gocciolava dal diffusore della doccia; acqua che gocciolava dai rubinetti del lavandino. Registrò persino il particolare odore di muffa in gestazione emanato da un asciugamano umido nella cesta dietro la porta. Acqua, acqua dappertutto, gocce da bere dalla prima all'ultima. Le si contrasse la gola secca come per un grido che non esplose e intanto si accorse che stava addirittura toccando dell'acqua, una piccola pozzanghera formatasi per una perdita nel tubo sot-
to il lavandino, la perdita che l'idraulico era sempre riuscito chissà come a evitare di riparare, e dire che aveva perso il conto delle volte che gliel'aveva chiesto. Boccheggiando, si trascinò fino alla pozzanghera, abbassò la testa e cominciò a leccare il linoleum. Il sapore dell'acqua fu indescrivibile, la sensazione di seta sulle labbra e sulla lingua superò il sogno più ardito di consumante sensualità. Ma non era sufficiente. L'aria intorno a lei era satura dell'incantevole fragranza verde dell'acqua, ma le poche gocce sotto il lavandino erano già finite e la sua sete, invece che placarsi, si era arroventata. Quell'odore, l'aroma di fonti ombrose e antiche sorgenti seminascoste, fece quello che nemmeno la voce di Frugolino era riuscita a ottenere: la spinse a rialzarsi in piedi. S'aggrappò al lavandino per issarsi. Scorse per un istante fuggevole un volto di donna ultracentenaria che si affacciava allo specchio, poi ruotò la manopola del rubinetto con la stellina blu dell'acqua fredda. Ne scaturì un getto di acqua fresca, tutta l'acqua del mondo! Cercò di ripetere il suo grido di trionfo, ma questa volta le uscì dalla gola solo un sibilo rauco. Si chinò sul lavandino aprendo e chiudendo la bocca come un pesce e si tuffò in quel muscoso e inebriante profumo d'acqua di fonte. C'era anche quel vago odore di minerali che l'aveva perseguitata per tanti anni dal giorno in cui, durante l'eclisse, suo padre l'aveva molestata, ma adesso le sembrava invitante e normale, adesso non era più l'odore della paura e della vergogna, ma quello della vita. Lo inalò, poi lo tossì fuori gioiosamente mentre apriva la bocca sotto il getto dell'acqua. Bevve fino a quando un crampo potente ma indolore le contrasse lo stomaco obbligandola a restituire l'acqua. Le eruttò dalla bocca ancora fredda dalla breve visita dentro il suo corpo e inondò lo specchio di goccioline rosate. Jessie prese qualche boccata rantolante e riprovò. La seconda volta l'acqua restò giù. 33 L'acqua la rianimò oltre ogni aspettativa e quando finalmente chiuse il rubinetto e si guardò di nuovo allo specchio, giudicò di essere ridiventata un ragionevole facsimile di essere umano: debole, sofferente e insicura sulle gambe... ma viva e presente. Pensò che mai avrebbe ripetuto un'esperienza così appagante come bere i primi sorsi di acqua fresca dal rubinetto e in tutta la sua vita precedente ricordava qualcosa di simile solo in occa-
sione del suo primo orgasmo. In entrambi i casi, per pochi brevi secondi, si era abbandonata totalmente al suo io fisico e ogni pensiero cosciente era stato spazzato via (ma non la coscienza) ed era stata pura estasi. Non lo dimenticherò mai, pensò, sapendo di averlo già dimenticato, come si era dimenticata l'ineffabile, mielosa fitta di quel primo orgasmo appena i suoi nervi si erano placati. Sembrava quasi che il corpo disdegnasse il ricordo... o ne ripudiasse la responsabilità. Lascia perdere, Jessie, devi sbrigarti! La vuoi smettere di abbaiarmi addosso? rispose, anche se sapeva che Frugolino aveva ragione. Il polso ferito non perdeva più sangue a fiotti, ma l'emorragia era lungi dall'essersi arrestata. Il letto che vedeva riflesso nello specchio del bagno era un orrore, con il materasso inzuppato di sangue e la testiera striata di rosso. Aveva letto che si poteva continuare a operare discretamente anche perdendo molto sangue, ma che dopo i primi sintomi di cedimento l'organismo si arrendeva tutto d'un colpo. E a lei non poteva mancare molto a quel momento. Aprì l'armadietto dei medicinali, guardò la scatola dei cerotti e le scappò una risata amara. Cercare di medicarsi i guasti che si era arrecata da sé con un cerotto sarebbe stato come cercare di sostenere la torre pendente di Pisa con il martinetto di una Toyota. Poi scorse una piccola confezione di assorbenti sistemata con discrezione dietro un assortimento di profumi, acqua di colonia e dopobarba. Rovesciò alcuni flaconi per tirar fuori la scatola e l'aria si riempì di un soffocante miscuglio di aromi contrastanti. Strappò la busta di un assorbente e se lo avvolse intorno al polso come un grosso bracciale bianco. Subito cominciarono a sbocciare i primi papaveri. Chi avrebbe mai detto che la moglie di un avvocato ha tutto questo sangue? rifletté e le scappò un'altra risata amara. Sulla mensola in alto, nell'armadietto dei medicinali c'era un rocchetto di adesivo della Croce Rossa. Lo prese con la mano sinistra. Ora la destra non sapeva far altro che sanguinare e gridare di dolore. Eppure sentiva di provare per lei un affetto profondo. Quando ne aveva avuto bisogno, quando non le era rimasta altra risorsa, era stata capace di afferrare la chiave, infilarla nella nocca e girarla. No, non aveva proprio niente contro la Signora Destra. Eri tu, Jessie, disse Frugolino. Cioè... tutti noi siamo te. Questo lo sai, non è vero? Sì. Lo sapeva benissimo e pregava di non scordarselo mai, se fosse uscita viva da quell'orrore. Spinse con il pollice il rocchetto fuori dal suo astuccio circolare, poi lo
tenne come meglio poteva nella destra mentre con l'unghia del pollice sinistro sollevava l'estremità del nastro adesivo. Si passò nuovamente il rocchetto nella sinistra, premette l'estremità del nastro sull'assorbente usato come benda e ne srotolò un lungo tratto girandoselo ripetutamente intorno al polso e fissandosi il più strettamente possibile l'assorbente già inzuppato contro la lacerazione che si era inferta. Strappò con i denti il nastro, esitò e ripeté l'operazione un po' più in basso, sovrapponendo alla medicazione ancora un paio di giri di adesivo appena sotto il gomito, a mo' di laccio emostatico. Probabilmente gli effetti sarebbero stati solo modesti, ma male non le avrebbe fatto di sicuro. Strappò il nastro una seconda volta e quando lasciò cadere il rocchetto, ora semivuoto, vide sul ripiano di mezzo dell'armadietto un flacone verde di Excedrina, grazie a Dio non di quelli con il tappo di sicurezza. Lo prese con la sinistra e usò i denti per sfilarne il tappo bianco di plastica. L'odore delle compresse di aspirina era acido, penetrante, vagamente acetoso. Non mi sembra affatto una buona idea, commentò nervosamente la Brava Mogliettina Burlingame. L'aspirina fluidifica il sangue e ritarda la coagulazione. Probabilmente era vero, ma i nervi esposti nel dorso della mano destra la stavano facendo impazzire e, se non avesse trovato al più presto un modo per mitigare almeno parzialmente il dolore, di lì a poco si sarebbe messa a rotolare per terra ragliando ai riflessi sul soffitto. Si fece cadere due compresse in bocca, ci ripensò e ne aggiunse altre due. Aprì di nuovo l'acqua, ingoiò le compresse, poi osservò con ansia colpevole la medicazione di fortuna che si era praticata al polso. Il rosso continuava ad affiorare attraversando velocemente gli strati di carta e presto avrebbe potuto togliersi l'assorbente e strizzarne fuori il sangue come calda acqua rossa. Un'immagine orribile... e una volta che la ebbe evocata, non fu più capace di liberarsene. Se adesso ti metti a sanguinare più velocemente... cominciò lamentosa la voce della Brava Mogliettina. E dammi respiro! la interruppe bruscamente Ruth. Il tono era sbrigativo come sempre, ma non collerico. Se dovessi morire dissanguata adesso, dovrei forse prendermela con quattro aspirine quando per poco non mi sono scotennata la mano destra per riuscire a liberarmi da quel letto? È surreale! Sì, decisamente. Tutto sembrava surreale adesso. Ma forse non era il termine giusto. Forse la definizione era...
«Iperreale», mormorò Jessie in tono riflessivo. Già. Proprio così. Si girò di nuovo verso la porta del bagno e trattenne il fiato improvvisamente spaventata. La parte della sua mente che controllava l'equilibrio riferì che si stava ancora girando. Per qualche istante immaginò decine di Jessie in una catena sovrapposta, a documentare l'arco del suo movimento come i fotogrammi di una pellicola cinematografica. Il suo allarme si consolidò quando notò che le lame di luce dorata che entravano oblique dalla finestra esposta a ovest avevano assunto una inspiegabile concretezza: somigliavano a campioni color giallo vivo di pelle di serpente. I bruscoli di polvere che vi roteavano dentro si erano trasformati in fitte incrostazioni di diamantini. Udiva il battito leggero e affannato del suo cuore, fiutava l'aroma composito del sangue e dell'acqua di pozzo. Era come annusare un vecchio tubo di rame. Sto per svenire. No, Jessie, non puoi svenire. Probabilmente era vero, ma stava per svenire lo stesso. Non poteva farci niente. Sì, che c'è qualcosa che puoi fare. E lo sai anche tu. Si guardò la mano scorticata, poi la sollevò. Non avrebbe dovuto fare nient'altro che rilassare i muscoli del braccio destro. La forza di gravità avrebbe pensato al resto. Se il dolore della mano ferita che colpiva il bordo del lavandino non fosse stato sufficiente a risucchiarla fuori da quel terribile luogo abbagliante in cui era venuta a trovarsi all'improvviso, allora non aveva vie di scampo. Trattenne a lungo la mano vicino al seno sinistro sporco di sangue, mentre cercava di darsi coraggio. Alla fine riabbassò il braccio. Non poteva. Le era semplicemente impossibile. Era troppo. Un dolore di troppo. Allora muoviti prima di perdere i sensi. Non posso fare neanche quello, rispose. Si sentiva più che stanca; si sentiva come se avesse fumato un etto intero di rosso cambogiano di primissima scelta. Aveva solo voglia di restare dov'era a contemplare i bruscoli di polvere come grani di diamante che ruotavano lentamente nei raggi del sole. E magari bere un altro sorso di quell'acqua dal sapore verde scuro di muschio. «Oddio», mormorò con un filo di voce stranita. «Oddio.» Devi uscire dal bagno, Jessie, subito! Non devi pensare a nient'altro in questo momento. Credo che ti convenga trascinarti sopra il letto, questa volta. Non credo che ce la faresti a passarci sotto di nuovo.
Ma... ma sul letto ci sono dei pezzi di vetro. E se mi tagliassi? Quelle parole richiamarono Ruth Neary, questa volta fuori di sé. Ti sei già scuoiata quasi completamente la mano destra, che vuoi che ti faccia qualche altro taglietto? Gesù santo, gioia, che te ne pare di schiattare in questo bagno con un pannolino intorno al polso e un sorriso da beota stampato sulla faccia? Ti va come finale? Muoviti, imbecille! Due passi prudenti la riportarono sulla soglia del bagno. Indugiò solo per pochi istanti, barcollando e sbattendo le palpebre nella luce abbagliante del sole, come affacciandosi all'esterno dopo un intero pomeriggio trascorso al cinema. Il passo successivo la portò al letto. Quando ebbe toccato con le cosce il materasso sporco di sangue, alzò piano piano il ginocchio sinistro per posarcelo sopra, si aggrappò a un montante per mantenere l'equilibrio e salì. Il senso di paura misto a odio che la inondò, la trovò impreparata. Non avrebbe saputo immaginare di poter dormire di nuovo in quel letto più di quanto avrebbe dormito volentieri nella propria bara. Solo inginocchiarvisi sopra le bastava a darle la voglia di urlare. Non è che devi intrattenere una relazione profonda e significativa con questo letto, Jessie, devi solo attraversarlo, dannazione! In qualche modo ci riuscì ed evitò la mensola e tutti i cocci e le schegge del bicchiere infranto mantenendosi vicino ai piedi del letto. Ogni volta che i suoi occhi sfioravano le manette appese alle colonnine della testata, l'una aperta e l'altra ancora chiusa e ricoperta di sangue (il suo sangue), le sfuggiva dalle labbra un gemito di rancore e angoscia. Non le sembravano oggetti inanimati, quelle manette. Le sembravano vive. E ancora affamate. Si allungò fin sull'altro lato del letto, si aggrappò alla colonnina dei piedi con la mano sinistra, ruotò su se stessa sulle ginocchia con tutto il riguardo di una convalescente, quindi si sdraiò sul ventre e fece scivolare le gambe verso il pavimento. Visse un momento di ansia atterrita quando temette di non avere la forza di rimettersi in posizione eretta; quando temette che sarebbe rimasta distesa così e sarebbe svenuta per poi rotolare al suolo priva di sensi. Respirò a fondo e si spinse con la mano sinistra. Un attimo dopo era in piedi. Ora le vertigini erano più difficili da dominare, sembrava un marinaio alla domenica mattina dopo un fine settimana di sbornie, ma, volendo il cielo, si era rialzata. Le attraversò la mente un'altra ondata di sensazione di capofitto, come un galeone pirata con enormi vele nere. O come un'eclisse. Accecata, vacillando in precario equilibrio sui piedi, pensò: Dio, ti prego, non farmi svenire. Te lo prego con tutto il cuore. Aiutami.
Finalmente il giorno cominciò a rischiarare di nuovo. Quando ritenne che più luce di così non avrebbe visto, partì lentamente in direzione del tavolino su cui si trovava il telefono, con il braccio sinistro discosto di qualche centimetro per mantenere l'equilibrio. Sollevò il ricevitore, che le sembrò pesare come un volume dell'Oxford English Dictionary, e se l'avvicinò all'orecchio. Non udì niente. La linea era come morta. Non ne fu molto stupita, ma sorgeva immancabilmente una domanda: era stato Gerald a staccare il telefono, come faceva talvolta quando andavano al lago, o era stato il suo visitatore notturno a tagliare i fili all'esterno? «Non è stato Gerald», gracchiò. «Lo avrei visto.» Poi pensò che non doveva essere necessariamente così, dato che si era recata in bagno appena avevano messo piede in casa. Poteva averlo fatto mentre lei non era presente. Si chinò, afferrò il nastro bianco che andava dall'apparecchio alla scatola montata sul battiscopa dietro la poltrona e tirò. Le sembrò di avvertire un lieve cedimento all'inizio, poi più nulla. Ma anche quel cedimento iniziale poteva essere dovuto alla sua immaginazione; sapeva bene di non potersi più fidare dei suoi sensi. Era possibile che la spina si fosse incastrata contro la poltrona, eppure... No, intervenne la Brava Mogliettina. Non viene perché la spina è ancora inserita. Gerald non l'ha mai sfilata. Se il telefono non funziona, è perché quella cosa che è stata qui con te ieri notte ha tagliato i fili. Non darle ascolto. Sotto quel tono deciso ha paura persino della sua stessa ombra, ribatté Ruth. Il cavo si è arrotolato a una delle gambe della poltrona, te lo posso garantire. E poi non ci vuole niente a verificarlo, no? Aveva ragione. Le bastava spostare la poltrona e guardarci dietro. Se la spina era per terra, non aveva che da reinserirla. E se dopo che avrai fatto tutto questo il telefono continuerà a non funzionare? domandò la Brava Mogliettina. Allora saprai anche tu come stanno in realtà le cose, giusto? Ruth: Non perdere altro tempo. Hai bisogno di aiuto e al più presto possibile. Era vero, ma la prospettiva di spostare la poltrona la riempiva di timor panico. Probabilmente ce l'avrebbe fatta, era una poltrona pesante ma mai avrebbe potuto competere con il letto, e se era riuscita a spingere quello da una parte all'altra della stanza... Ma era il pensiero a essere pesante. E spingere la poltrona sarebbe stato solo l'inizio. Una volta spostata avrebbe dovuto inginocchiarsi... infilarsi carponi nell'angolo polveroso e buio alla ricerca della presa... Gesù, gioia! proruppe Ruth. Era allarmata. Non hai
scelta! Pensavo che alla fine concordassimo almeno su questo, che hai bisogno di aiuto e al più pre... Jessie sbatté improvvisamente la porta troncando la voce di Ruth. Invece di spostare la poltrona vi si chinò sopra, raccolse la gonna pantalone e se la infilò. Subito alcune gocce di sangue caddero dalla medicazione intrisa, intorno al polso, e macchiarono la poltrona, ma quasi non se ne accorse. Era troppo occupata a ignorare il vociferare confuso che si sentiva nella testa e a chiedersi chi avesse mai permesso a tutta quella gente strana di entrarvi. Era come svegliarsi una mattina e scoprire la casa trasformata in un albergo. Tutte le voci esprimevano orripilata incredulità per ciò che aveva in animo di fare, ma all'improvviso Jessie sentì che non gliene importava un fico secco. Era la sua vita in gioco. La sua. Raccolse la camicetta e se la fece passare dalla testa. Nel caos della sua mente, il fatto che il giorno prima la temperatura fosse stata abbastanza alta da indurla a scegliere quell'indumento senza maniche era la prova conclusiva dell'esistenza di Dio. Mai sarebbe riuscita a far passare la mano destra in una manica lunga. Lascia stare queste fesserine, pensò, ti sta dando di volta il cervello e non c'è bisogno che vengano a raccontartelo le tue voci. Sto meditando di andarmene di qui in macchina, di provarci almeno, quando l'unica cosa sensata che avrei da fare sarebbe spostare questa poltrona e inserire di nuovo la spina del telefono. Deve essere la perdita di sangue a farmi perdere anche temporaneamente il lume della ragione. Questa idea è follia pura. Cristo, la poltrona non peserà certo una tonnellata... ce l'ho quasi fatta! Sì, ma non era la poltrona, non era nemmeno l'idea degli uomini del pronto intervento che la trovavano in compagnia del cadavere nudo e smangiucchiato di suo marito. Sospettava invece che si sarebbe preparata ad andarsene sulla Mercedes anche se il telefono avesse funzionato perfettamente e avesse già convocato polizia, ambulanza e fanfara del liceo di Deering. Il telefono infatti non contava niente, meno di niente. L'importante era... ebbene... L'importante è andarmene subito da questa casa, pensò e fu scossa all'improvviso da un brivido, le si accapponò la pelle delle braccia. Perché quella cosa sta per tornare. Tombola. Il problema non era Gerald, non era la poltrona, non era quello che avrebbero pensato i soccorritori quando si fossero trovati quella scena davanti agli occhi. Non era nemmeno il telefono. Il problema era il co-
wboy dello spazio, il suo vecchio amico Esattore di Anime. Per questo si rivestiva e schizzava all'intorno un altro po' del suo sangue invece di sforzarsi di ristabilire un minimo di comunicazioni con il mondo esterno. Lo sconosciuto non era lontano, ne era certa. Stava solo aspettando il buio e non mancava più molto. Se avesse perso conoscenza mentre cercava di allontanare la poltrona dalla parete o mentre allegramente frugava carponi fra polvere e ragnatele, si sarebbe fatta sorprendere ancora lì, tutta sola, all'arrivo della cosa con il suo bagaglio di ossicini. Peggio ancora si sarebbe fatta trovare viva. E poi il suo visitatore le aveva sicuramente isolato il telefono. Non aveva modo di appurarlo con sicurezza, ma glielo diceva il cuore. Anche a sobbarcarsi la complicata impresa di spostare la poltrona e reinserire la spina, il telefono sarebbe rimasto muto, esattamente come quello che c'era in cucina e quello dell'ingresso. E che cosa c'è di tanto scandaloso? chiese alle sue voci. Ho solo intenzione di raggiungere la strada principale. A paragone di un improvvisato intervento chirurgico con un coccio di vetro e il trasferimento a mani nude di un quintale e mezzo di letto da una parte all'altra di una stanza nel bel mezzo di un'emorragia, sarà uno scherzetto. La Mercedes è un'ottima macchina e il vialetto è tutto diritto. Me ne scenderò alla Route 117 a dieci miglia all'ora e se mi sentirò troppo debole per arrivare fino a Dakin's Store quando sarò sulla statale, vorrà dire che accosterò, accenderò i lampeggiatori di emergenza e farò andare il clacson finché non vedrò arrivare qualcuno. Non capisco perché non dovrebbe funzionare, con un paio di miglia di rettilineo pianeggiante davanti e dietro. Quello che mi sta a cuore dell'automobile sono le serrature. Una volta salita, potrò sprangare le portiere. E lui non potrà entrare. Ruth cercò di sbuffare, ma Jessie ebbe l'impressione che cercasse di mascherare la paura. Sì, persino lei. Così stanno le cose, ribadì. Non eri tu quella che mi esortava a smettere di essere troppo razionale di tanto in tanto e ad ascoltare la voce del cuore? Non mi dirai che te lo sei dimenticato. E sai che cosa mi dice in questo momento il cuore, Ruth? Mi dice che la Mercedes è l'unica possibilità che mi resta. E se ti va dì riderne, accomodati, fai come credi. Tanto io ho già deciso. Ma Ruth evidentemente non aveva voglia di ridere. Ruth si era zittita. Appena sceso dalla macchina Gerald mi ha passato la chiave perché doveva prendere la cartella dal sedile posteriore. È andata così, vero?
Dio, ti prego, fai che mi ricordi giusto. S'infilò la mano nella tasca sinistra della gonna pantalone e trovò solo un paio di Kleenex. Abbassò allora con cautela la mano destra e si tastò adagio l'esterno della tasca dall'altra parte. Le sfuggì un sospiro di sollievo quando sentì il rigonfiamento della chiave appesa al grande ciondolo a forma di disco che Gerald le aveva regalato all'ultimo compleanno. Sul disco c'era scritto CHE COSUCCIA SEXY CHE SEI. Pensò che mai, in tutta la sua vita, si era sentita meno sexy e più cosa, ma era ancora una cosa viva e per il momento poteva bastare. L'essenziale era che avesse la chiave in tasca. Quella chiave era il suo biglietto d'uscita da quel luogo d'inferno. Sotto il tavolino del telefono erano allineate le sue scarpe sportive, ma giudicò di essere già vestita più che a sufficienza. Si avviò lentamente verso la porta del corridoio a passetti da invalida. Ricordò intanto a se stessa di provare il telefono nell'ingresso, prima di uscire. Tanto per non sbagliare. Aveva appena superato il letto, quando la luce del giorno cominciò ad affievolirsi di nuovo. Era come se i fasci di luce che entravano obliqui dalla finestra esposta a ovest fossero collegati a un regolatore d'intensità e qualcuno stesse ruotando la manopola del reostato. Quando la luce cominciò a diventare opaca, il pulviscolo di diamanti si spense. Oh no, non ora, gemette. Non può succedermi adesso. È uno scherzo troppo orribile. Ma la luce continuava a indebolirsi e lei aveva ripreso a vacillare, la parte superiore del suo corpo descriveva cerchi sempre più ampi. Cercò a tentoni il montante del letto e si trovò invece aggrappata alla manetta sporca di sangue dalla quale si era appena liberata. 20 luglio 1963, le venne da pensare incomprensibilmente. Ore 17.39. Eclisse totale. Chi mi trova un testimone? Il naso le si colmò dell'odore composito di sudore e sperma, mescolati con l'acqua di colonia di suo padre. Cercò di risalirle per la gola un conato di vomito, ma all'improvviso si sentì troppo debole. Riuscì a compiere ancora due passi incerti, poi stramazzò sul letto insanguinato. Aveva gli occhi aperti e di tanto in tanto sbatteva le palpebre, ma per il resto il suo corpo era inerte e abbandonato come il cadavere di un'annegata ributtato dalla risacca su una spiaggia deserta. 34 Il suo primo pensiero fu che il buio fitto fosse a riprova della sua morte.
Il secondo fu che, se era morta, non si spiegava perché le sembrasse di aver avuto la mano bombardata con il napalm e quindi straziata con una lama di rasoio. Il terzo, pervaso di sgomento, fu che se era buio e lei aveva gli occhi aperti, come le sembrava, allora il sole era tramontato. Quell'ultima riflessione la strappò violentemente da quel luogo intermedio in cui era scivolata, non di incoscienza, ma di ottenebrata fiacchezza post traumatica. All'inizio non riuscì a ricordare perché l'idea del tramonto dovesse apparirle così spaventosa, ma poi (cowboy spaziale... mostro dell'amore) tutto le tornò in un'ondata folgorante come una scarica elettrica. Le guance smagrite e bianche di cadavere; la fronte alta; gli occhi spiritati. Mentre giaceva stordita sul letto il vento era rinforzato ancora una volta e la porta aveva ripreso a sbattere. Per un momento porta e vento furono gli unici rumori che sentì, poi l'aria vibrò di un lungo ululato ondeggiante. Non credeva di aver mai sentito un suono più terribile; immaginava che potesse essere solo il grido della vittima di una sepoltura prematura, dopo essere stata dissotterrata e riesumata dalla sua bara ancora viva, ma fuori di senno. Il lamento morì nella notte irrequieta (ed era notte davvero, non c'era alcun dubbio), ma pochi attimi dopo si levò di nuovo un falsetto disumano, traboccante di terrore idiota. Sfrecciò sopra di lei sfiorandola come un essere vivente e facendola rabbrividire di atterrita impotenza sul letto. S'affannò in un movimento convulso per tapparsi le orecchie, ma nemmeno schiacciandole con le mani poté salvarsi dal terribile ululato quando si alzò per la terza volta. «Oh no», mormorò. Non aveva mai sentito tanto freddo, tanto freddo, tanto freddo. «Oh no... no.» La notte tumultuosa ingoiò l'ululato e non se ne levò un altro immediatamente. Jessie ebbe un momento per riprendere fiato e rendersi conto che era solo un cane, in fondo, probabilmente il cane, quello che aveva eletto suo marito a proprio MacDonald's personale. Ma poi l'ululato lacerò di nuovo la notte e non le fu possibile credere che una creatura del mondo naturale fosse capace di un lamento simile; era sicuramente un'anima in pena o un vampiro che si contorce con un paletto di legno conficcato nel cuore. Mentre l'ululato saliva al suo culmine cristallino, Jessie capì perché la povera bestia urlava in quel modo. Lui era tornato, proprio come aveva temuto. Il cane lo sapeva, lo aveva percepito.
Era scossa da tremiti dalla testa ai piedi. I suoi occhi frugarono febbrili l'angolo dove aveva visto il suo visitatore la notte prima, l'angolo dove aveva lasciato l'orecchino e l'impronta del piede. Buio com'era non avrebbe potuto vedere quegli indizi del suo passaggio in ogni caso (posto che esistessero davvero), ma per un momento le parve di vedere lui e sentì un grido che le riempiva la gola. Chiuse gli occhi con forza, li riaprì e non vide altro che le ombre degli alberi percossi dalle raffiche di vento, fuori della finestra. Più oltre, in quella direzione, dietro alle ombre indiavolate dei pini, scorse una debole striscia dorata lungo l'orizzonte. Potrebbero essere le sette ma, se vedo ancora un barlume di tramonto, probabilmente è anche più presto. Allora devo essere rimasta intontita per un'ora, un'ora e mezzo al massimo. Forse non è troppo tardi per scappare. Forse... Questa volta parve che il cane urlasse addirittura. Quasi non seppe resistere alla tentazione di gridare con lui. S'aggrappò a una colonnina del letto perché aveva ricominciato a barcollare e solo allora si accorse di non ricordarsi nemmeno di essersi alzata. Fino a quel punto il cane l'aveva atterrita. Controllati, ragazza. Prendi un bel respiro e controllati. Prese un bel respiro, come le veniva suggerito, e l'odore che le penetrò le narici insieme con l'aria era un odore che conosceva bene. Era simile a quell'odore piatto e minerale che per tanti anni l'aveva perseguitata, l'odore che per lei significava sesso, acqua e papà, ma non era esattamente lo stesso. Vi si mescolava qualcos'altro, odore di aglio appassito, forse, di cipolle vecchie... sudiciume... piedi sporchi. La fece comunque precipitare all'indietro negli anni e la colmò di quel terrore impotente e inarticolato che provano i bambini quando hanno la sensazione della presenza di una creatura senza volto e senza nome, un It, in agguato sotto il letto ad attendere paziente di vedere sporgere un piede... o penzolare una mano... Il vento soffiò. La porta sbatté. E non lontano da lei un'asse scricchiolò furtiva come fanno le assi quando qualcuno cerca di camminarci sopra in punta di piedi. È tornato, le bisbigliò la mente. Ora era una voce composta da tutte le voci, intrecciate l'una nell'altra. È quello che ha fiutato il cane, è quello che hai fiutato tu, Jessie, è quello che ha fatto scricchiolare il pavimento. È la stessa cosa che è stata qui la notte scorsa e che adesso è tornata per te. «Oh Dio, ti supplico, no», gemette. «Mio Dio no. Mio Dio no. Mio Dio fai che non sia vero.»
Cercò di muoversi, ma aveva i piedi avvitati al pavimento e la mano sinistra inchiodata alla colonnina del letto. La paura l'aveva immobilizzata come accade a un capriolo o a un coniglio sorpreso dalle luci degli abbaglianti nell'attraversare la strada. Sarebbe rimasta lì a gemere sommessamente e a cercare di pregare, finché fosse arrivato lui, finché fosse arrivato a prenderla, il cowboy dello spazio, il mietitore di amore, il piazzista di morte porta a porta, con il campionario pieno di anelli e ossi al posto di spazzole e pettini. Si levò nell'aria l'ululato del cane, si levò nella sua testa, finché pensò che la sua mente non avrebbe retto. Sto sognando, disse a se stessa. È per questo che non mi ricordo quando mi sono alzata in piedi. I sogni sono come i libri condensati del Reader's Digest e quando ne fai uno vengono eliminati tutti i particolari di scarso rilievo. Sono svenuta, sì, questo è successo davvero, solo che invece di sprofondare in una specie di coma, mi sono assopita in un sonno naturale. Questo vuol dire che l'emorragia deve essersi arrestata, perché non credo che le persone che stanno morendo dissanguate abbiano gli incubi quando arrivano agli ultimi. Sto dormendo, molto semplice. Dormo mentre faccio il sogno più brutto e spaventoso del mondo. Ipotesi straordinariamente confortante, peccato che avesse un piccolo difetto: era infondata. Le ombre degli alberi che si muovevano sulla parete vicino al comò erano reali. Altrettanto reale era lo strano odore che si era propagato per la casa. Era sveglia e doveva andarsene da lì al più presto. Non riesco a muovermi! singhiozzò. Sì che ce la fai, la incalzò la voce severa di Ruth. Non ti sei liberata da quelle fottute manette solo per morire di fifa, gioia. Muoviti adesso. Non sarò io a doverti dire come devi farlo, no? «No», bisbigliò Jessie e calò fiaccamente il dorso della mano destra contro il montante del letto. L'esplosione di dolore fu immediata e sconfinata. La morsa di panico di cui era prigioniera si sgretolò come vetro infranto e, quando il cane lanciò un altro di quegli ululati agghiaccianti, non lo sentì nemmeno: la sua mano era molto più vicina e ululava molto più forte. E adesso sai che cosa devi fare, gioia, non è vero? Sì. Era ora di fare come il ciabattino e alzare i tacchi, come il marinaio e tagliare la corda. Affiorò per un secondo nella sua mente l'immagine del fucile di Gerald, ma la scacciò. Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse, non sapeva nemmeno se era in quella casa. S'incamminò prudente e lenta sulle gambe che tremavano, scostando di
nuovo il braccio sinistro per mantenersi in equilibrio. Il corridoio oltre la soglia della camera da letto era una giostra di ombre in movimento, con la porta della stanza degli ospiti aperta a destra e quella dello stanzino che Gerald usava come studio spalancata a sinistra. Più avanti, sulla sinistra, c'era l'arco dal quale si accedeva alla cucina e al soggiorno. A destra c'era la porta di servizio che sbatteva... e poi la Mercedes... e poi forse la libertà. Cinquanta passi, calcolò. Non possono essere di più, probabilmente sono di meno. Dunque muoviti. Ma sulle prime non ci riuscì. Per quanto illogico potesse sembrare a chi non avesse passato tutto quello che aveva sopportato lei nelle ultime ventotto ore, la camera da letto le appariva come una seppur lugubre rappresentazione di sicurezza. Il corridoio invece... Poteva esserci qualsiasi cosa in agguato in corridoio. Qualsiasi cosa. Poi il lato ovest della casa vibrò sotto un colpo sordo, come di un sasso scagliato, non lontano dalla finestra. Sfuggì anche a lei dalla gola un fievole ululato di terrore prima che capisse che era stato il ramo del vecchio abete canescente che s'affacciava sulla terrazza. Riprenditi, le ordinò Frugolino. Riprenditi e Vattene da qui. Ripartì coraggiosamente, barcollando in avanti, con il braccio sinistro sempre aperto, contando i passi sottovoce. Superò la stanza degli ospiti al dodici. Al quindici raggiunse lo studio di Gerald e a quel punto cominciò a udire un sibilo sordo, come vapore che esce dalla valvola difettosa di un vecchio termosifone. Non associò subito il sibilo allo studio; pensò di essere lei stessa a produrlo. Poi, mentre sollevava il piede destro per il sedicesimo passo, il suono s'intensificò. Questa volta lo udì più distintamente e allora capì che non poteva essere lei, perché stava trattenendo il fiato. Adagio, molto adagio, girò la testa da quella parte, verso lo studio dove il marito non avrebbe più lavorato alle sue scartoffie fumando una Marlboro dietro l'altra e canticchiando sommessamente vecchi successi dei Beach Boys. Ora la casa gemeva tutt'intorno a lei come una vecchia nave in un mare moderatamente mosso, cigolando in ogni giuntura a ogni spallata del vento gelido. Ora oltre alla porta che sbatteva sentiva schioccare un'imposta, ma erano rumori che arrivavano da lontano, appartenevano a un altro mondo, dove le mogli non venivano ammanettate e i mariti non facevano orecchio da mercante e le creature della notte non tendevano agguati. Mentre girava la testa sentiva scricchiolare i muscoli e i tendini del collo come le molle di un vecchio pagliericcio. Gli occhi le pulsavano nelle orbite come tizzoni ardenti.
Non voglio guardare! strillò la sua mente. Non voglio guardare, non voglio vedere! Ma non poteva farne a meno. Era come se nerborute mani invisibili le stessero ruotando la testa mentre il vento soffiava e la porta sbatteva e l'imposta schioccava e il cane lanciava di nuovo il suo triste e raggelante ululato nel cielo nero d'ottobre. Continuò a girare la testa finché il suo sguardo entrò nello studio del marito morto e allora sì, eccolo là, alto e magro, di fianco alla poltrona di Gerald, davanti alla porta-finestra scorrevole. La sua faccia stretta e bianca era sospesa nell'oscurità come un teschio allungato. Fra i piedi c'era l'ombra nera e squadrata del suo bagaglio di souvenir. Prese fiato per urlare, ma le uscì dalla bocca solo un suono lungo e fiacco come di un bollitore con il fischietto rotto: «Huhhhh-aaahhhhhhh». Solo quello e niente più. Nell'altro mondo le scorreva orina calda all'interno delle cosce; aveva stabilito un nuovo primato facendosela addosso per due giorni di fila. Nell'altro mondo si alzò una raffica di vento che scosse la casa fin nelle ossa. Il vecchio abete batté di nuovo il ramo sul muro. Lo studio di Gerald era popolato di ombre danzanti e ancora una volta le era molto difficile stabilire con certezza che cosa stesse vedendo... o se in effetti stesse vedendo qualcosa. Il cane levò di nuovo il suo penetrante grido d'orrore e Jessie pensò: Oh, sì che lo vedi. Forse non bene come lo ha fiutato il cane là fuori, ma lo vedi. Mentre denudava la speranza anche dell'ultimo velo di dubbio, il suo visitatore spinse la testa in avanti in una parodia di curiosità e per un attimo, fortunatamente breve, Jessie lo vide con chiarezza. La faccia era quella di un essere alieno che avesse cercato di imitare una fisionomia umana con scarso successo. Era troppo stretta, per cominciare, stretta come mai ne aveva viste in vita sua. Il naso non poteva essere più spesso della lama di un coltellino da burro. La fronte alta sporgeva grottesca come un bulbo abnorme. Gli occhi erano semplici cerchi neri sotto la sottile V rovesciata dell'arcata sopraccigliare; le labbra color fegato parevano protendersi e sciogliersi contemporaneamente. No, non si stanno sciogliendo, pensò con la lucidità brillante e precisa che sopravvive talvolta nella bolla del terrore più assoluto come il filamento incandescente in una lampadina. Non si sta sciogliendo, sta sorridendo. Sta cercando di sorridermi.
Poi l'essere si chinò a raccogliere la valigetta e la sua faccia lunga e discordante scomparve. Jessie indietreggiò goffamente di un passo, cercò di gridare di nuovo e riuscì solo a emettere un altro bisbiglio vetroso. Il vento gemeva più forte lungo le gronde. Il visitatore si rialzò. Teneva la valigetta in una mano, mentre l'apriva con l'altra. Jessie registrò due particolari, non perché lo desiderava, ma perché la sua mente non era più in grado di scegliere a che cosa prestare attenzione. Il primo riguardava l'odore che aveva notato in precedenza. Non erano aglio o cipolle o sudore o sudiciume. Era odore di carne in decomposizione. Il secondo particolare riguardava le braccia della creatura. Ora che era più vicina e le vedeva meglio (per quanto avrebbe desiderato che fosse il contrario), le sembravano ancora più straordinarie, arti di abnorme lunghezza che oscillavano come tentacoli nelle ombre agitate dal vento. Le porsero l'astuccio come sollecitando la sua approvazione e allora Jessie vide che non era una comune valigetta da commesso viaggiatore, bensì un contenitore di vimini, simile a una cesta da pescatore. Ho già visto una scatola come quella, pensò. Non so se in qualche vecchio programma televisivo o dal vero, ma sono sicura di averla vista. Da piccola. Usciva da una lunga macchina nera con un portellone sul retro. All'improvviso parlò dentro di lei una suadente e sinistra voce di ufo. Un tempo, cara Jessie, quando il presidente Kennedy era ancora vivo e tutte le bambine erano frugolini e ancora non avevano inventato i sacchi di plastica per i cadaveri, diciamo ancora nell'Era dell'Eclisse, le scatole come questa erano molto comuni. Ce n'erano di tutte le dimensioni, dal modello extralarge per uomini a quello per feti abortiti spontaneamente al sesto mese. Il tuo amico conserva i suoi souvenir in una cassa da morto d'altri tempi, cara Jessie. Nel prendere atto di quella agghiacciante verità, si rendeva conto anche di un'altra cosa, perfettamente ovvia, a ripensarci. Se il suo visitatore emanava un odore così sgradevole, era perché era morto. La cosa nello studio di Gerald era un cadavere ambulante. No... no, non può essere... Eppure era. Aveva sentito lo stesso, identico odore addosso a Gerald non più di tre ore prima. Lo aveva sentito in Gerald, a saturargli le carni come un morbo esotico che aggredisce solo gli organismi defunti. Ora il suo visitatore stava aprendo di nuovo l'astuccio e glielo mostrava e di nuovo vide lo scintillio degli ori e dei diamanti fra mucchietti di ossi. Di nuovo osservò la lunga mano del morto che cominciava a rovistare il
contenuto della cassetta di vimini, una cassetta che forse aveva ospitato in passato cadaveri di neonati o di bambini ancora molto piccoli. Di nuovo udì il macabro tintinnio e fruscio degli ossi, un rumore come di nacchere incrostate di sporcizia. Guardava come ipnotizzata, in una sorta di estasi atterrita. In lei si andava affievolendo il lume della ragione; lo sentiva distintamente, quasi lo udiva, e non c'era nulla al mondo che potesse fare per opporvisi. Sì che c'è! Puoi scappare! Devi scappare e devi farlo subito! Era Frugolino e strillava, ma la sua voce era anche molto lontana, perduta in qualche burrone profondo nella testa di Jessie. C'erano molti burroni lassù, orridi, per meglio dire, e numerose gole scure e tortuose e spelonche che mai avevano visto la luce del sole: luoghi, si potrebbe dire, dove l'eclisse non finiva mai. Era interessante. Era interessante scoprire che la mente umana non è in fondo altro che un cimitero costruito su un antro buio, sul cui fondo strisciano e si annodano rettili bizzarri come quelli. Molto interessante. Fuori il cane ululò di nuovo e finalmente Jessie ritrovò la voce e ululò con lui, un lamento canino privato di quasi tutta la sua razionalità umana. S'immaginò a ululare così in qualche manicomio. A ululare così per il resto dei suoi giorni. Scoprì di non dover compiere il minimo sforzo per immaginarselo. No, Jessie! Tieni duro! Tieni duro e scappa! Via! Il suo visitatore le sorrideva, con le labbra arricciate al di sopra delle gengive, rivelando di nuovo lo scintillio dell'oro in fondo alla bocca, lampi dorati che le ricordarono Gerald. Denti d'oro. Aveva i denti d'oro e questo stava a dimostrare... Che è reale. Sì, ma questo lo avevamo già stabilito, no? La domanda che ancora non ha una risposta è che cosa farai ora. Qualche buona idea, Jessie? Se ce l'hai, è meglio che ti affretti a metterla in pratica, perché sei già ai supplementari. L'apparizione venne avanti, sempre tenendo aperto il suo bagaglio, come se si aspettasse che lei ne ammirasse il contenuto. Jessie notò che portava una collana, ma quantomai strana. Il cattivo odore era sempre più penetrante. Con esso cresceva l'inequivocabile sensazione di malvagità. Cercò di mantenere le distanze con un altro passo all'indietro, ma scoprì di non riuscire a muovere i piedi. Erano come incollati al pavimento. Ha intenzione di ucciderti, gioia, le comunicò Ruth e Jessie sentì subito che era vero. Glielo lascerai fare? Non c'erano né contrarietà, né sarcasmo
nella voce di Ruth; c'era solo curiosità. Dopo tutto quello che ti è successo, vuoi lasciarglielo fare? Il cane ululò. La mano si mosse. Gli ossi sussurrarono. Diamanti e rubini ammiccarono debolmente. Senza quasi accorgersi di quel che faceva, senza un'idea anche solo approssimativa del perché lo facesse, Jessie prese fra il pollice e l'indice della mano destra gli anelli che portava all'anulare della sinistra. Quando aumentò la pressione delle dita tremanti, il dolore che provò nel dorso della mano ferita le parve oscuro e distante. Portava quegli anelli praticamente notte e giorno da quando si era sposata, e l'ultima volta che se li era sfilati aveva dovuto insaponarsi il dito. Non ora. Questa volta scivolarono via senza difficoltà. Tese la mano insanguinata alla creatura, che frattanto aveva raggiunto la scaffalatura dei libri appena oltre la soglia dello studio. Gli anelli posati nel palmo della mano di Jessie formavano un otto di sapore esoterico, a pochi centimetri dall'assorbente che le avvolgeva il polso. La creatura si fermò. Il sorriso sulla sua bocca carnosa e deforme vacillò in una nuova espressione che poteva essere di collera ma anche solo di confusione. «Prendi», gli disse Jessie in un ringhio soffocato. «Prendili. Prendi questi e lasciami stare.» Prima che la creatura potesse muoversi, gettò gli anelli nell'astuccio aperto come in passato aveva lanciato le monete del pedaggio nei cestini con la scritta IMPORTO ESATTO al casello dell'autostrada. Li separavano ormai meno di due metri, la cesta era di grandi dimensioni ed entrambi gli anelli andarono a segno. Li udì distintamente urtare la collezione di ossi di sconosciuti, prima la vera nuziale, poi l'anello di fidanzamento. L'essere arricciò nuovamente le labbra sollevandole dai denti ed emise di nuovo quel sibilo vellutato. Fece un altro passo avanti e qualcosa, che fino a quel momento era rimasto stordito e incredulo sul fondo della sua mente, si svegliò di scatto. «No!» gridò. Ruotò su se stessa e fuggì per il corridoio mentre il vento rinforzava e la porta sbatteva e l'imposta schioccava e il cane ululava e l'essere la inseguiva, sì, sentiva i suoi sibili, e da un momento all'altro avrebbe allungato la mano bianca e magra in fondo a un braccio fantastico, sinuoso come un tentacolo, da un momento all'altro avrebbe sentito le sue dita bianche e putrescenti che le serravano la gola... Poi fu alla porta di servizio, l'aprì, uscì a precipizio e inciampò nei pro-
pri piedi; stava cadendo e mentre perdeva l'equilibrio riuscì a ricordare a se stessa che doveva girarsi per metà in maniera da toccare il suolo con il lato sinistro. Ci riuscì, ma l'urto fu lo stesso tanto violento da farle vedere le stelle. Rotolò sulla schiena, sollevò la testa e osservò la porta, aspettandosi di veder apparire il volto bianco e allungato del cowboy spaziale dietro alla zanzariera. Non lo vide e non udì neppure il sibilo. Non che bastasse così poco a tranquillizzarla, si capisce: si sarebbe potuto materializzare da un istante all'altro, per afferrarla e squarciarle la gola. Si rialzò barcollando, riuscì a scendere un gradino, poi le gambe tremanti per lo spavento e per la perdita di sangue la tradirono, facendola ruzzolare contro il cassonetto delle immondizie. Gemette e alzò gli occhi al cielo, dove le nuvole, filigranate da tre quarti di luna, correvano da ovest a est in una gara forsennata. Le ombre s'avvicendarono sul suo viso come fantastici, mutevoli tatuaggi. Poi il cane ululò di nuovo, molto più vicino ora che era all'esterno, e il suo lugubre lamento le diede quel piccolo incentivo di cui aveva bisogno. Alzò la mano sinistra al coperchio inclinato del cassonetto, trovò a tentoni la maniglia e se ne servì per issarsi in piedi. Per qualche secondo rimase dov'era, aggrappata alla maniglia, ad aspettare che il mondo smettesse di rollare. Poi si staccò e s'incamminò lentamente verso la Mercedes, tenendo ora entrambe le braccia aperte per mantenere l'equilibrio. Come somiglia a un teschio la casa nella luce della luna! pensò dopo la prima occhiata ansiosa che si lanciò alle spalle. Sembra proprio un teschio! La porta per bocca, le finestre per occhi, le ombre degli alberi per capelli... Poi le sovvenne un altro pensiero e doveva essere divertente, perché levò una risata stridula nella notte ventosa. E il cervello, non ti scordare il cervello. È Gerald il cervello, naturalmente. Il cervello morto e marcio della casa. Rise di nuovo mentre raggiungeva l'automobile, rise più forte che mai, e per tutta risposta il cane ululò. Il mio cane ha i pidocchi che gli mordono i ginocchi, recitò mentalmente. Le ginocchia le si piegarono e si appese alla maniglia dello sportello per non cadere, senza mai smettere di ridere. Perché poi stesse ridendo, non se lo sapeva spiegare nemmeno lei. Lo avrebbe forse intuito se si fossero risvegliate le parti della sua mente che avevano abbassato le saracinesche per autodifesa, ma non sarebbe accaduto prima che fosse stata lontana da lì. Se mai ci fosse riuscita. «Immagino che prima o poi avrò bisogno anche di una trasfusione»,
mormorò e si lasciò andare a un altro accesso di ilarità. Si infilò laboriosamente la mano sinistra nella tasca destra, sempre ridendo. Stava frugando alla ricerca della chiave quando sentì di nuovo l'odore e avvertì alle spalle la presenza della creatura con la sua cesta. Girò la testa, con una risata ancora in gola e un sorriso che ancora le faceva fremere le labbra, e per un attimo vide davvero quelle guance scavate e quegli occhi spiritati e senza fondo. Ma li vide solo per via (dell'eclisse) del terrore che provava, non perché ci fosse veramente qualcosa; i gradini della porta di servizio erano ancora deserti, la zanzariera era solo un rettangolo di tenebra. Ma è meglio che ti sbrighi, la incalzò la Brava Mogliettina Burlingame. Sì, è meglio che fai come il ciabattino finché puoi, ti pare? «Farò come il maniscalco e me la batto», rispose e rise ancora, mentre si sfilava la chiave di tasca. Per poco non se la lasciò sfuggire, ma l'acchiappò in tempo per l'enorme ciondolo di plastica. «Che cosuccia sexy che sei», mormorò e rise di gusto mentre la porta sbatteva e lo spettro del cowboy dell'amore usciva all'improvviso dalla casa in una nube biancastra di farina di ossa, ma quando lei si girò (rischiando di nuovo di perdere le chiavi nonostante l'enorme ciondolo), non c'era niente. Era stato solo il vento a far sbattere la porta, nient'altro. Aprì lo sportello, si sedette al posto di guida e riuscì a issare nell'abitacolo anche le gambe tremanti. Richiuse lo sportello con uno strattone energico e abbassò la sicura che bloccava tutte le portiere (compreso il bagagliaio, naturalmente; non c'è davvero niente al mondo come l'efficienza teutonica) e finalmente poté abbandonarsi a un inesprimibile sollievo. Era sollievo, ma era anche qualcos'altro. Quel qualcos'altro somigliava alla ritrovata ragione, e pensò di non aver mai provato una felicità paragonabile a quella... escluso ovviamente quel primo sorso d'acqua dal rubinetto. Aveva il presagio che, con il tempo, per lei sarebbe diventato come un sorso di champagne. Quanto vicina sarò andata a perdere la testa là dentro? Quanto? È probabile che sia una curiosità che non desidererai mai toglierti del tutto, gioia, le rispose in tono grave Ruth Neary. Sì, probabilmente sì. Infilò la chiave nell'accensione e la girò. Non successe niente. Esaurì gli ultimi sussulti di ilarità, ma non si lasciò prendere dal panico. Si sentiva ancora lucida e relativamente in possesso delle sue facoltà. Pen-
sa, Jessie. Pensò e la risposta le giunse quasi immediata. La Mercedes cominciava a essere un po' avanti con gli anni (non era sicura che potesse davvero accaderle qualcosa di tanto volgare come invecchiare), e ultimamente la trasmissione aveva cominciato a dare tante piccole noie, alla faccia dell'efficienza teutonica. Una di esse era talvolta una certa pigrizia nel mettersi in moto, a meno di spingere sulla leva del cambio fra i sedili anteriori, e spingere con una certa forza. Ma girare la chiave dell'accensione spingendo contemporaneamente la leva del cambio era un'operazione che richiedeva l'uso simultaneo di entrambe le mani, e la destra già era martoriata da fitte spaventose. L'idea di doverla usare per spingere la leva del cambio la riempiva di terrore e non solo per il dolore che le avrebbe procurato: era più che sicura che lo sforzo avrebbe riaperto la profonda incisione all'interno del polso. «Dio, ascoltami, qui mi occorre un piccolo aiuto», mormorò girando nuovamente la chiave. Niente. Nemmeno un accenno. Allora nella sua mente s'intrufolò una nuova idea, come un piccolo ladro maligno: se non riusciva a mettere in moto l'automobile, non c'entrava niente il piccolo difetto che si era sviluppato nella trasmissione. Era invece di nuovo opera del suo visitatore. Già sapeva che le aveva isolato il telefono; ora sospettava che avesse aperto il cofano della Mercedes per strappare la calotta dello spinterogeno e gettarla nei cespugli. Sbatté la porta. Lanciò uno sguardo nervoso in quella direzione, sicura di aver visto la sua faccia bianca e sogghignante nell'oscurità per un breve attimo. Ancora un momento o due e l'avrebbe visto uscire. Lo avrebbe visto raccogliere un sasso e fracassare il finestrino, poi impugnare una grossa scheggia di vetro e... Si passò il braccio sinistro davanti al ventre e spinse la leva del cambio con tutte le forze (anche se in verità ebbe l'impressione che non si muovesse affatto). Contemporaneamente infilò la mano destra sotto il volante, afferrò la chiavetta e la girò di nuovo. Niente anche questa volta. Niente eccetto la muta risata di scherno del mostro che la osservava. Quella le risuonò cristallina nella mente. «Dio, ma non vuoi concedermi neanche uno straccio di respiro?» urlò. La leva del cambio vibrò un po' sotto la sua mano e questa volta, quando Jessie ruotò la chiavetta, il motore partì: Ja, mein Führer! Singhiozzò di felicità e accese i fari. Due brillanti occhi color giallo intenso la fissarono con odio dal fondo del vialetto. Cacciò un grido, sentendo il cuore che cercava di liberarsi dalle arterie per arrampicarlesi in gola e soffocarla. Era il
cane, il randagio che, in un certo senso, era stato l'ultimo cliente di Gerald. L'ex Prince era immobile, momentaneamente abbagliato dai fari. Se Jessie avesse ingranato la marcia in quel momento, con tutta probabilità avrebbe potuto travolgerlo. L'idea le attraversò persino la mente, ma in una versione distaccata, quasi accademica. Non provava più né odio né paura nei confronti di quell'animale. Vide com'era sparuto e vide le lappe che gli costellavano il pelo disordinato, un pelo troppo rado perché potesse offrirgli una protezione sufficiente contro l'inverno in arrivo. Soprattutto vide come si ritraeva rannicchiandosi davanti alle luci, con le orecchie abbassate e le zampe posteriori ripiegate. Sembra impossibile, rifletté, ma mi sono imbattuta in qualcosa che ha più paura di me. Premette con il fondo della mano sinistra l'anello del clacson, che mandò un unico belato, più simile a un rutto, ma quanto bastava a scuotere il cane, che girò su se stesso e scomparve nel bosco in meno di un lampo. Segui il suo esempio, Jessie. Vattene da qui finché puoi. Buona idea. Anzi, l'unica idea. Si passò di nuovo il braccio sinistro davanti al corpo, questa volta per innestare la marcia. I meccanismi ingranarono con il solito piccolo sussulto rassicurante e l'automobile si avviò lentamente per il vialetto asfaltato. Su entrambi i lati gli alberi sferzati dal vento si agitavano come ombre danzanti e scaricavano nel cielo notturno le prime spirali di foglie d'autunno. Sto andando, pensò con meraviglia Jessie. Me ne sto andando davvero. Me la sto battendo. Stava percorrendo il vialetto di casa, si stava avvicinando alla strada senza nome che l'avrebbe portata a Bay Lane, da dove avrebbe guadagnato la Route 117 e il mondo civile. Mentre guardava la casa (più che mai somigliava a un enorme teschio bianco nella luce lunare di quell'ottobre ventoso) che rimpiccioliva nello specchietto retrovisore, pensò: Perché mi lascia andar via? Devo fidarmi? Qualcosa dentro di lei non si fidava affatto, era quella parte impazzita di paura che mai si sarebbe liberata del tutto dalle manette e dalla camera da letto padronale nella casa sulla sponda del Kashwakamak; la creatura con la valigetta di vimini stava solo giocando con lei, come il gatto con il topo ferito. Non l'avrebbe lasciata andare lontano, sicuramente non fino in fondo al vialetto, poi sarebbe partito all'inseguimento, sulle sue lunghe gambe da cartone animato, protendendo le sue lunghe braccia da cartone animato per afferrare il paraurti posteriore e bloccare la Mercedes. L'efficienza teutonica era una garanzia, ma quando si aveva a che fare con qualcosa torna-
to dal mondo dei morti... be'... Ma intanto la casa continuava a rimpicciolire nello specchietto retrovisore e dalla porta non usciva nulla e nessuno. Arrivò in fondo al vialetto, svoltò a destra e cominciò a seguire la luce dei fari lungo la stretta sterrata che portava a Bay Lane, guidando con la mano sinistra. Ogni due o tre anni, in agosto, fra i residenti estivi si formava una squadra di volontari, alimentata soprattutto da birre e passione per il pettegolezzo, che s'incaricava di ripulire quella specie di sentiero dall'erba che vi era cresciuta e di sgombrare il passaggio potando i rami troppo lunghi, ma quello era stato uno degli anni di intervallo e la strada le sembrava più angusta che mai. Ogni volta che un ramo spinto dal vento sfiorava il tetto dell'automobile, non riusciva a sopprimere un brivido. Ma intanto stava scappando. A uno a uno apparvero i punti di riferimento che aveva imparato a riconoscere nel corso degli anni, a uno a uno li vide svanire dietro di sé: il masso con la spaccatura in cima, il cancello soffocato dai rampicanti con la scritta LA TANA DELLA RANA ormai quasi illeggibile sulla targa, l'abete sradicato che pendeva tutto storto fra alberi più giovani, come un omaccione ubriaco che veniva trasportato a casa dagli amici più piccoli e meno sbronzi di lui. L'abete ubriaco era a poco più di cinquecento metri da Bay Lane e da lì sarebbero state sole due miglia fino alla statale. «Basta fare con calma», si disse e spinse con il pollice destro e con tutta la cautela del mondo il pulsante che accendeva la radio. Bach, suadente, solenne e soprattutto razionale. Di bene in meglio. «Segui il mio consiglio», si esortò, mettendo un po' più di vigore nella voce. «Unto è meglio.» Anche l'ultima esperienza traumatica, quella degli occhi gialli e scintillanti del cane, si stava stemperando un po', anche se sentiva che cominciava a tremare. «Nessun problema, se mantengo la calma.» E lo stava facendo, anche troppo, forse. L'ago del tachimetro stentava a raggiungere la tacca delle dieci miglia orarie. Nel chiuso dell'ambiente familiare della propria automobile si sentiva piacevolmente sicura al punto che già cominciava a domandarsi se le sue non fossero state solo brutte fantasie; ma sarebbe stato il peggiore dei momenti per cominciare ad abbassare la guardia. Se davvero c'era stato qualcuno in casa, era possibile che fosse uscito da una delle altre porte. Era possibile che già in quel momento la stesse pedinando. Era persino possibile che, mentre lei avanzava adagio a passo d'uomo, un inseguitore davvero risoluto la raggiungesse. Alzò di scatto gli occhi allo specchietto per poter concludere che la sua
era solo paranoia indotta dagli orrori della sua disavventura e dalla spossatezza fisica, ma quando guardò, sentì il cuore che le moriva d'incanto nel petto. La sua mano sinistra abbandonò il volante e le cadde in grembo sopra la destra. Il colpo avrebbe dovuto procurarle un dolore lancinante, invece non sentì niente. Niente di niente. Lo sconosciuto era seduto sul sedile posteriore con le sue mani impossibilmente lunghe schiacciate ai lati della testa, come la scimmia che non sente niente. I suoi occhi neri la fissavano con sublime vuoto di interesse. Tu vedi... io vedo... noi vediamo... solo ombre! esclamò Frugolino, ma il suo richiamo echeggiava da lontananze impensabili, sembrava aver origine all'altro capo dell'universo. E non era vero. Non erano ombre quelle che vedeva nello specchietto. La cosa seduta là dietro era in un groviglio di ombre, sì, ma non era fatta di ombre. Ne vedeva il volto: la fronte sporgente, i dischi neri degli occhi, il naso come una lama, le labbra gonfie e deformi. «Jessie!» la chiamò in un bisbiglio estatico il cowboy spaziale. «Nora! Ruth! Frugolino, bel cosino!» I suoi occhi fissi nello specchietto videro il passeggero sporgersi lentamente in avanti, videro la sua fronte escrescente muoversi in direzione del suo orecchio destro, come se la creatura intendesse confidarle un segreto. Videro le labbra carnose scostarsi dai denti scuri e sporgenti in un sorriso insulso che somigliava più a una smorfia. Fu questo il momento in cui ebbe inizio la disgregazione finale della mente di Jessie Burlingame. No! gridò con una voce sottile come la voce di una vocalist su un vecchio e scricchiolante disco a 78 giri. No, mio Dio no! Non è giusto! «Jessie!» L'alito della creatura era ruvido come la lama di una raspa e gelido come l'aria di una cella frigorifera di macelleria. «Nora! Jessie! Ruth! Jessie! Frugolino! Brava Mogliettina! Jessie! Mamma!» I suoi occhi sbarrati notarono che la lunga faccia bianca le si era semiaffondata nei capelli e che la bocca ghignante le stava quasi baciando l'orecchio nel bisbigliarle incessantemente il suo delizioso segreto: «Jessie! Nora! Mogliettina! Frugolino! Jessie! Jessie! Jessie!» Dentro i suoi occhi brillò la vampata bianca di un'esplosione e quando la luce si diradò rimase solo un enorme varco nero. Mentre vi si tuffava dentro, Jessie formulò un ultimo pensiero coerente: Non avrei dovuto guardarlo. Alla fine mi ha bruciato davvero gli occhi. Poi si accasciò svenuta sul volante. Quando la Mercedes urtò una delle possenti conifere che costeggiavano quel tratto della strada, la cintura si
serrò ributtandola all'indietro. La collisione avrebbe probabilmente fatto gonfiare il cuscino di protezione, se la Mercedes fosse stata di un modello abbastanza recente da averne uno in dotazione. Non fu comunque tanto forte da danneggiare il motore e nemmeno da fermarlo; la proverbiale efficienza teutonica aveva trionfato ancora una volta. Furono ammaccati il paraurti e la griglia del radiatore, e il fregio sul cofano saltò via, ma il motore continuò a brontolare serenamente. Dopo cinque minuti, una microchip nel fondo del cruscotto stabilì che il motore era ormai abbastanza caldo perché potesse entrare in funzione il sistema di riscaldamento. Le bocchette sotto la plancia cominciarono a soffiare sommessamente. Jessie era scivolata di traverso contro lo sportello del posto di guida, con la guancia schiacciata contro il finestrino, come una bambina stanca che finalmente ha ceduto al sonno quando la casa della nonna era ormai a due passi, dietro l'ultima collina. Sopra di lei lo specchietto retrovisore rifletteva l'immagine del sedile posteriore vuoto e di un'altrettanto deserta carrareccia illuminata dalla luna. 35 Era nevicato tutta mattina, giornata tenebrosa, ma adatta più che mai a scrivere lettere, e quando un raggio di luce si allungò sulla tastiera del Mac, Jessie rialzò gli occhi sorpresa, strappata all'improvviso alle sue meditazioni. Ciò che vide fuori della finestra non si limitò a rasserenarla, ma la riempì invece di un'emozione che non provava da molto tempo e che non si era aspettata di provare di nuovo per molto tempo ancora, se mai. Era gioia. Una gioia profonda e complessa, che non sarebbe mai stata capace di spiegare. La nevicata non era finita, non del tutto, eppure fra le nubi si era aperto un varco un sole brillante di febbraio, accendendo il manto spesso quindici centimetri che ricopriva il suolo e i fiocchi che fluttuavano nell'aria di un candore abbagliante. La finestra le offriva la vista panoramica del lungomare di levante ed era una scena che aveva il potere di incantarla e restituirle il buonumore in tutte le condizioni atmosferiche e in tutte le stagioni, ma non l'aveva mai vista in quella particolare circostanza; la presenza contemporanea della neve e del sole avevano trasformato l'aria grigia di Casco Bay in uno straordinario diadema di arcobaleni concatenati. Se le figurine che ci sono in quei globi di vetro in cui puoi scatenare una bufera in qualsiasi momento fossero persone in carne e ossa, questo è il
tempo che avrebbero tutti i giorni, rifletté e rise. Quel suono era fiabesco per le sue orecchie quanto lo era la sensazione di gioia per il suo cuore e le bastò un momento per capirne la ragione: non aveva più riso dall'ottobre scorso. Aveva preso l'abitudine di chiamare quelle ore, le ultime che avrebbe mai trascorso sulle sponde del Kashwakamak (o di qualsiasi altro lago), semplicemente «il mio momentaccio». Era una definizione che lasciava intendere quanto era necessario rivelare, senza aggiungere niente di più. Il che le andava benissimo. Non hai più riso da allora? Neanche una volta? Ne sei proprio sicura? Non assolutamente sicura, questo no. Forse aveva riso sognando (Dio sapeva se non aveva pianto abbastanza mentre dormiva), ma quanto alle sue ore di veglia, il riso era rimasto bandito dalla sua vita fino a pochi istanti prima. Ricordava l'ultima volta con molta chiarezza: si era passata il braccio sinistro davanti al corpo per estrarre la chiave della macchina dalla tasca destra della gonna pantalone, mentre dichiarava al buio vibrante di vento che avrebbe fatto come il maniscalco e se la sarebbe battuta. A quanto le risultava quella era stata la sua ultima risata prima di adesso. «Solo quello e niente più», mormorò. Si tolse dalla tasca della sottana un pacchetto di sigarette e se ne accese una. Dio, quante cose le tornavano alla mente aizzate da quella frase; aveva scoperto che l'unico altro catalizzatore con la capacità di evocare i ricordi così velocemente e vividamente era quell'orribile canzone di Marvin Gaye. Le era capitato di risentirla una volta sola alla radio della macchina, di ritorno da uno di quegli innumerevoli appuntamenti con il medico che avevano praticamente costituito la sua sola esistenza durante tutto l'inverno. Marvin si era messo a piagnucolare «Tutti lo sanno... specialmente voi ragazze...» con quella sua voce dolce e insinuante. Aveva spento immediatamente la radio, ma era già troppo scossa per continuare a guidare. Aveva accostato per aspettare che le passassero le convulsioni. Ma di notte, quando non le accadeva di svegliarsi mormorando quel verso de Il corvo con la bocca affondata nel guanciale madido di sudore, sentiva la propria voce intonare: «Testimone, testimone». A spanne, calcolava che le fosse accaduto un mezzo milione di volte per notte. Tirò una boccata profonda, soffiò tre anelli di fumo perfetti e li osservò salire lentamente nell'aria sopra il Mac acceso. Alle persone tanto stupide o tanto prive di tatto da chiederle particolari sulla sua disavventura (aveva scoperto di conoscere molte più persone stupide e prive di tatto di quante avrebbe mai immaginato), rispondeva di ri-
cordare ben poco. Dopo i primi due o tre colloqui con funzionari di polizia, cominciò a rispondere nello stesso modo anche agli agenti e a tutti i colleghi di Gerald, eccetto uno. L'unica eccezione era rappresentata da Brandon Milheron. A lui aveva raccontato la verità, in parte perché aveva bisogno del suo aiuto, ma soprattutto perché Brandon era stato l'unico a dimostrare un minimo di percezione degli orrori che aveva dovuto sopportare... e che ancora la perseguitavano. Non aveva sprecato il suo tempo con la compassione ed era stato per lei di grande sollievo. Jessie aveva anche scoperto che la compassione si svende facilmente all'indomani di una tragedia e che tutta la compassione del mondo non valeva una sola pisciatina nella neve. Poliziotti e giornalisti avevano comunque accettato a scatola chiusa la sua versione dell'amnesia e quel poco che aveva voluto raccontare. Del resto, perché non avrebbero dovuto farlo? Spesso le persone sottoposte a gravi traumi fisici e mentali soffocavano il ricordo dell'accaduto. I poliziotti lo sapevano anche meglio degli avvocati e Jessie lo sapeva meglio degli uni e degli altri. Aveva appreso molto sui traumi fisici e mentali dall'ottobre scorso a oggi. Libri e articoli l'avevano aiutata a trovare ragioni plausibili per non raccontare cose di cui preferiva non parlare, ma per il resto non le erano serviti a molto. Ma forse era solo perché non aveva avuto la fortuna di imbattersi nei casi giusti, quelli di donne ammanettate e costrette ad assistere alla riduzione del proprio marito in prodotto alimentare per cani, assolutamente naturale, senza conservanti. Sorprese se stessa ridendo di nuovo e fu una bella risata sonora, questa volta. Ma era davvero così divertente? A quanto sembrava sì, ma era anche una di quelle cose buffe di cui mai e poi mai si poteva raccontare al prossimo. Come per esempio quando papà si era tanto eccitato per un'eclisse solare da scaricarsi addosso a lei imbrattandole tutte le mutandine, per esempio. O come quando, e questo è spasso autentico, aveva pensato che qualche goccia di liquido seminale sul sedere avrebbe potuto metterla incinta. Comunque sia, la maggior parte dei casi di cui aveva letto indicavano che la mente umana reagisce spesso ai traumi estremi nello stesso modo in cui il calamaro reagisce al pericolo, oscurando cioè tutto il paesaggio con una grande nuvola d'inchiostro. Si sapeva allora che era accaduto qualcosa, e che non era stata una scampagnata, ma niente di più. Tutto il resto svaniva, nascosto dietro quella cortina d'inchiostro. Di questo tenore erano le testimonianze di molte persone a cui erano accaduti fatti sconvolgenti,
vittime di violenze sessuali e di incidenti stradali, persone rifugiatesi a soffocare in uno sgabuzzino per sottrarsi a un incendio, persino una donna alla quale non si era aperto il paracadute e che era stata recuperata, gravemente ferita, ma miracolosamente viva, dall'acquitrino in cui era precipitata. Che cosa ha provato, mentre piombava giù? avevano chiesto alla paracadutista. A che cosa ha pensato quando si è resa conto che il suo paracadute non si era aperto e non si sarebbe aperto? E la paracadutista aveva risposto: Non ricordo. Ricordo l'istruttore che mi dava una pacca sulla schiena, mi pare di ricordare il momento del salto, ma dì tutto il resto ricordo solo di essermi ritrovata su una lettiga e di aver chiesto a uno degli uomini che mi stava caricando sull'ambulanza se ero ferita gravemente. Tutto il resto è nebbia. Immagino di aver pregato, ma non potrei affermarlo con sicurezza. O magari invece ricordi tutto benissimo, mia cara amica paracadutista, pensò Jessie, e hai semplicemente mentito, come ho fatto anch’io. Forse anche per le stesse ragioni. Per quel che ne so, tutte le persone di cui ho letto in tutti quei dannati libri hanno sempre mentito. Forse. Rimaneva comunque il fatto che lei ricordava bene le ore trascorse ammanettata al letto, dallo scatto della chiave nella seconda serratura fino all'ultimo momento agghiacciante in cui aveva alzato lo sguardo allo specchietto retrovisore e aveva visto che la cosa che c'era in casa era diventata una cosa sul sedile posteriore. Ricordava quei momenti di giorno e li riviveva di notte in sogni terrificanti nei quali il bicchiere d'acqua scivolava sul piano inclinato della mensola, sfuggendo alla sua presa, e cadeva a schiantarsi sul pavimento; nei quali il cane randagio scartava il buffet freddo per terra a favore del pasto caldo sul letto; nei quali il ripugnante visitatore della notte le domandava dall'angolo: Mi vuoi bene, frugolino? con la voce di suo padre, mentre larve di mosche gli sgorgavano come sperma dalla punta del pene eretto. Ma ricordare un evento e riviverlo non la obbligavano a raccontarlo, anche quando i ricordi la facevano sudare e gli incubi la facevano gridare. Da ottobre aveva perso cinque chili (d'accordo, stava medicando un po' alla verità; diciamo pure che ne aveva persi qualcosa come otto), aveva ripreso a fumare (un pacchetto e mezzo al giorno, oltre a uno spinello più o meno delle dimensioni di un Avana prima di coricarsi), la sua pelle era andata a farsi benedire e tutt'a un tratto i suoi capelli avevano cominciato a ingrigire dappertutto e non solo sulle tempie. A quell'ultimo fenomeno po-
teva porre facilmente rimedio, come del resto faceva già da circa cinque anni, ma finora non aveva ancora trovato le energie per chiamare Oh Pretty Woman a Westbrook e fissare un appuntamento. E poi, per chi cercare di rendersi presentabile? Aveva forse in programma di passarsi qualche bar per single, andare a caccia del Casanova locale? Buona idea, pensò. Qualcuno mi chiederà se mi può offrire qualcosa da bere, io risponderò di sì, dopodiché mentre aspettiamo che il barista ci serva, gli racconterò, tanto per fare conversazione, di questo mio simpatico sogno in cui vedo mio padre che eiacula larve di mosche. Con un argomentello così stimolante come aperitivo, sono sicura che mi inviterà seduta stante a casa sua. Non pretenderà nemmeno di vedere un certificato medico che garantisca che sono sieronegativa. A metà novembre, quando aveva cominciato a credere che la polizia avesse finalmente intenzione di lasciarla in pace e che i particolari piccanti della storia non sarebbero finiti sui giornali (era stata molto restia a convincersi che fosse possibile, perché sopra ogni altra cosa aveva temuto quel genere di pubblicità), aveva deciso di riprovare a mettersi in terapia da Nora Callighan. Forse non le andava la prospettiva di starsene rinchiusa a emettere scarichi nocivi per i prossimi trenta o quarant'anni. Quanto diversa sarebbe stata la sua vita se avesse trovato il modo di confessare a Nora che cosa era successo il giorno dell'eclisse? Ma se è per questo, quanto diversa sarebbe stata se quella ragazza non fosse entrata in cucina la sera in cui aveva partecipato alla riunione nella canonica di Neuworth? Forse non sarebbe cambiata affatto... ma forse sarebbe cambiata moltissimo. Forse enormemente. Così aveva chiamato Nuovo Oggi Nuovo Domani, l'associazione di terapeuti alla quale era affiliata Nora, ed era rimasta ammutolita quando la receptionist l'aveva informata che Nora era morta l'anno prima di leucemia, una variante insolita e subdola, che si era nascosta con successo nelle vie secondarie del suo sistema limbico fino a quando era stato troppo tardi per poter intervenire. Desiderava forse avere un colloquio con Laurei Stevenson? aveva proposto la receptionist, ma Jessie ricordava bene Laurei, una bellezza alta, mora di capelli e di occhi, che calzava scarpe con i tacchi alti e un cinturino dietro il tallone e aveva l'aria di provare davvero piacere nel fare l'amore solo quando stava sopra lei. Aveva risposto alla receptionist che ci avrebbe pensato e così si era conclusa la sua iniziativa. Nei tre mesi successivi alla notizia della morte di Nora, aveva avuto giorni buoni (in cui aveva avuto solo paura) e giorni cattivi (quando il ter-
rore non le permetteva di uscire nemmeno dalla sua stanza), ma solo Brandon Milheron aveva ascoltato qualcosa che si avvicinava alla storia completa del momentaccio di Jessie Mahout nella casa sul lago... e Brandon non aveva creduto ai particolari più pazzeschi di quel racconto. Le aveva offerto sostegno morale e comprensione, non la disponibilità a crederle. Non subito, almeno. «Nessun orecchino», aveva riferito il giorno dopo aver ascoltato la storia dello sconosciuto con la lunga faccia bianca. «E nessuna impronta di fango. Nessun accenno scritto, quantomeno.» Jessie si era stretta nelle spalle senza parlare. Avrebbe potuto dire qualcosa, ma le era sembrato più prudente tacere. Nelle settimane seguenti alla sua fuga dalla casa estiva aveva avuto un bisogno accorato di un amico e Brandon aveva interpretato quel ruolo in maniera ammirevole. Non voleva far nulla per allontanarlo da sé o, peggio ancora, indurlo a prendere il largo. Così aveva tenuto per sé un'osservazione che certamente era abbastanza intelligente da prendere in considerazione lui stesso: era possibile che l'orecchino fosse scomparso in tasca di qualcuno e che nessuno si fosse accorto di una comune impronta di fango vicino al comò. Del resto la camera da letto era stata trattata come la scena di un incidente, non di un omicidio. E restava comunque ancora una possibilità molto semplice: che Brandon avesse ragione. Forse il suo visitatore era stato un miraggio creato dalla luce della luna. A poco a poco era riuscita a convincersi, almeno nelle ore di veglia, che la verità fosse quella. Il suo cowboy spaziale era stato una specie di disegno Rorschach, che invece di essere tracciato con l'inchiostro su un foglio di carta era scaturito dalle ombre agitate dal vento con la complicità della sua immaginazione. Non se ne faceva però una colpa, tutt'altro. Non fosse stato per l'immaginazione, non avrebbe mai visto come raggiungere il bicchiere dell'acqua... e anche se fosse riuscita a prenderlo, non avrebbe mai pensato di servirsi di un tagliando di iscrizione per fabbricarsi una cannuccia. No, riteneva che la sua immaginazione si fosse guadagnata a pieno titolo il diritto a qualche capriccio allucinatorio, ma era lo stesso importante per lei ricordare che quella notte era stata sola. Se avesse dovuto stabilire un momento in cui aveva cominciato il recupero, era convinta che fosse stato quando aveva acquisito la capacità di separare la realtà dalla fantasia. Ne aveva accennato a Brandon. Lui aveva sorriso, l'aveva abbracciata, l'aveva baciata sulla tempia e le aveva detto che stava migliorando da ogni punto di vista.
Poi, il venerdì precedente, il suo sguardo era caduto sul servizio principale nella sezione delle notizie locali sul Press-Herald. Da quel momento tutti i suoi presupposti avevano cominciato a cambiare ed avevano continuato via via che la storia di Raymond Andrew Joubert procedeva nella sua marcia costante da riempitivo fra il calendario della comunità e le segnalazioni della polizia di contea ai titoli cubitali in prima pagina. Poi, il giorno prima... sette giorni dopo la prima apparizione del nome di Joubert sulla pagina delle notizie locali... Qualcuno bussò alla porta e la sua reazione immediata fu, come sempre, Un istintivo brivido di paura. Venne e passò senza che nemmeno avesse il tempo di accorgersene. Quasi... ma non del tutto. «Meggie, sei tu?» «In persona, signora.» «Entra, entra.» Megan Landis, la governante che aveva assunto in dicembre (poco dopo l'arrivo per raccomandata del suo primo, consistente assegno versatole dalla compagnia di assicurazioni), veniva a portarle un bicchier d'acqua. Sul vassoio, vicino al bicchiere, c'era una pillolina grigia e rosa. Alla vista del bicchiere cominciò a pruderle fastidiosamente il polso destro. Era un fenomeno che non si ripeteva tutte le volte, ma nemmeno quella era una reazione sconosciuta. Almeno erano finite le fitte improvvise e quella strana sensazione che la pelle le si stesse ritirando dalle ossa. C'era stato un periodo, prima di Natale, in cui aveva davvero creduto che sarebbe stata costretta a bere da bicchieri di plastica per il resto dei suoi giorni. «Come va la zampetta, oggi?» chiese Meggie, come se avesse avuto telepaticamente sentore del suo prurito. Nemmeno quell'idea sembrava ridicola a Jessie. Certe volte trovava le domande di Meggie, nonché le intuizioni che le provocavano, un po' inquietanti, ma mai ridicole. La mano in questione, ora abbandonata nel raggio di sole che l'aveva distolta all'improvviso da quanto stava scrivendo al computer, era protetta da un guanto nero foderato con uno strato di futuribile composto polimerico antifrizione. C'era da sospettare che un simile gioiello della tecnica moderna fosse stato perfezionato in qualche piccola guerra sporca in un angolo lontano del mondo. Non che solo per quel motivo si sarebbe mai rifiutata di indossarlo e non che non fosse grata ai ricercatori che l'avevano inventato. Anzi, la sua gratitudine era immensa. Dopo il terzo innesto di pelle, si impara che la gratitudine è uno dei pochi argini affidabili che la vita ti mette a disposizione contro la follia.
«Non male, Meggie.» Meggie inarcò il sopracciglio sinistro, fermandolo prima che assumesse un angolo di incredulità. «Sicura? Se ha continuato a pestare su quella tastiera per tutte le tre ore che è rimasta qui dentro, scommetto che sta recitando l'Ave Maria.» «Sul serio sono rimasta qui per?...» Consultò velocemente l'orologio e vide che era vero. Controllò la riga di stato sopra la schermata e vide che era sulla quinta pagina del documento aperto poco dopo colazione. Adesso era quasi ora di pranzo e trovava sorprendente di non essersi in fondo distanziata dalla verità tanto quanto mostrava di sospettare Meggie con quel sopracciglio inarcato: davvero la mano non le faceva molto male. Se fosse stata costretta, avrebbe potuto tener duro per un'ora ancora prima di prendere la pillola. La prese lo stesso, mandandola giù con il latte. Mentre finiva il bicchiere tornò con lo sguardo allo schermo e lesse le ultime parole. Nessuno mi ha ritrovato quella notte e mi sono svegliata da me poco dopo l'alba del giorno dopo. Il motore si era finalmente spento, ma nell'abitacolo c'era ancora abbastanza tepore. Sentivo gli uccellini che cinguettavano nel bosco e attraverso gli alberi scorgevo il lago, piatto come uno specchio, da cui si alzavano piccoli nastri di vapore. Era uno scenario molto bello e contemporaneamente sentivo di detestarlo, come ho continuato a detestarne anche solo il ricordo da allora. Tu lo capisci, Ruth? Io no. La mano mi faceva un male spaventoso perché ormai si era esaurito anche quel po' di sollievo che mi aveva dato l'aspirina, ma nonostante il dolore, lo stato d'animo in cui mi sono risvegliata era quello del più incredibile senso di pace e benessere. Guastato da un piccolo cruccio, l'impressione di qualcosa che mi sfuggiva. Dapprincipio non sono riuscita a ricordare che cosa potesse essere. Credo che fosse il mio cervello a impedirmi di ricordarlo. Poi ci sono arrivata tutt'a un tratto. Era seduto dietro di me e si era sporto in avanti per bisbigliarmi all'orecchio i nomi di tutte le mie voci. Ho guardato nello specchietto e ho visto che dietro non c'era nessuno. Questo mi ha tranquillizzato un po', ma poi... A quel punto s'interrompevano le parole, con il piccolo cursore che lampeggiava in attesa dopo l'ultima lettera della frase incompiuta. Sembrava che la chiamasse, incitandola a proseguire, e in quel momento Jessie ricordò una poesia di uno squisito libriccino di Kenneth Patchen. Il libro s'inti-
tolava Ma anche così e la poesia diceva più o meno: «Se avessimo voluto farti del male, mia cara, / Saremmo rimasti forse qui ad aspettarti / Qui, nell'angolo più folto e scuro / Del cuore della foresta?» Bella domanda, pensò Jessie, lasciando che il suo sguardo si spostasse spontaneamente dallo schermo al volto di Meggie Landis. L'energica governante irlandese le era simpatica, molto simpatica, che diamine, le doveva più che molto, ma se l'avesse sorpresa a leggere le parole sullo schermo del Mac, la brava Meggie si sarebbe ritrovata in strada con la liquidazione in tasca prima di avere il tempo di recitare: «Cara Ruth, immagino che sia una sorpresa per te ricevere mie notizie dopo tutti questi anni». Ma Meggie non stava guardando lo schermo; stava guardando il lungomare e la baia fuori della finestra. Brillava ancora il sole e cadeva ancora la neve, anche se i fiocchi erano visibilmente più radi. «È il diavolo che picchia sua moglie», commentò la governante. «Scusa?» rispose Jessie sorridendo. «È quello che diceva sempre mia madre quando usciva il sole prima che avesse smesso di nevicare.» Ora sembrava un po' imbarazzata mentre tendeva la mano per ricevere il bicchiere vuoto. «Ma non so bene che cosa dovrebbe voler dire.» Jessie annuì. L'imbarazzo sul viso di Meggie Landis si era trasformato in un'espressione nuova, che somigliava al disagio. Per un momento non capì che cosa potesse aver suscitato la sua perplessità, poi si rese conto che se non ci era arrivata subito era solo perché spesso l'evidenza sfugge al primo sguardo. Era stato il sorriso. Meggie non era abituata a vederla sorridere. Provò il desiderio di rassicurarla, di spiegarle che quel sorriso non era un sintomo pericoloso, che non aveva intenzione di saltarle improvvisamente alla gola. Le disse invece: «Mia madre aveva un'altra frase ricorrente. 'Il sole non splende ogni giorno sullo stesso culo di cane.' Neanch'io ho mai saputo che cosa dovrebbe significare». Ora la governante indirizzò lo sguardo verso lo schermo, ma fu un'occhiata fugace, di quelle che contengono un messaggio di bonario rimprovero: È ora di mettere via i giocattoli, signora. «Quella pillola le farà venir sonno se non manda giù un boccone. Le ho preparato un sandwich e ho messo a scaldare della minestra.» Minestra e sandwich, cibo per bambini, il pranzo che prepara la mamma dopo una mattinata passata a giocare con la slitta il giorno in cui la scuola è stata sospesa per una nevicata abbondante; cibo da mangiare con il gelo
che ancora ti infiamma di rosso le guance come fuochi. È una prospettiva allettante, però... «Credo che rinuncerò, Meg.» La fronte di Meggie si corrugò e gli angoli della sua bocca si piegarono all'ingiù. Era un'espressione che Jessie le aveva visto sovente nei primi giorni della sua assunzione, quando aveva sentito tanto forte il bisogno di una razione supplementare di antidolorifico da non aver saputo trattenere le lacrime. Megan non aveva mai ceduto al suo pianto. Probabilmente proprio per quello aveva deciso di tenere con sé la piccola irlandese, per aver riconosciuto in lei fin dal principio un carattere dalla decisione inattaccabile. Diventava in effetti un osso duro, quando ci si metteva... ma questa volta non l'avrebbe spuntata lei. «Ha bisogno di mangiare, signora. È ridotta a uno scheletro.» Poi il suo sguardo come un colpo di scudiscio vibrò sul posacenere stracolmo. «E deve piantarla anche con quella porcheria!» Ti farò smettere io, mia fiera bellezza, sussurrò nella sua mente la voce di Gerald e Jessie rabbrividì. «Signora Jessie? Tutto bene? Sente corrente?» «No. È solo un'oca che è passata sulla mia tomba.» Fece un sorriso vago. «Oggi siamo un bel catalogo di vecchi modi di dire, vero?» «Le hanno tanto raccomandato di non esagerare...» Jessie allungò la mano inguantata e toccò la sinistra di Meggie, sfiorandogliela appena. «Ma sta davvero migliorando, vero?» «Sì. Se può scriverci su quella macchina, anche per metà del tempo, per tre ore o più di seguito, senza invocare la pillola nel momento stesso che mi vede, evidentemente sta migliorando, anche più in fretta delle previsioni del dottor Magliore. Però...» «Però sta migliorando ed è una bella cosa, giusto?» «Certo che è una bella cosa.» Meggie la osservava come se avesse a che fare con una svitata. «Bene, adesso sto cercando di far migliorare anche tutto il resto. Il primo passo è scrivere una lettera a una vecchia amica. Avevo promesso a me stessa, durante il mio momentaccio, l'ottobre scorso, che se fossi uscita viva da quel guaio le avrei scritto. Poi ho continuato a rimandare. Ora finalmente ci sto provando e non ho il coraggio di fermarmi. Potrei perdermi d'animo prima di aver finito.» «Ma la pillola...» «Credo di aver abbastanza tempo per finire la lettera e infilare il testo
stampato in una busta prima che mi venga troppo sonno per poter continuare a lavorare. Dopodiché mi farò una bella dormita e quando mi sveglierà mangerò pranzo e cena in una volta sola.» Sfiorò di nuovo la mano sinistra di Meggie in un gesto di rassicurazione che era insieme goffo e a suo modo affettuoso. «A quattro palmenti.» Meggie era ancora corrucciata. «Non va bene saltare i pasti, signora Jessie, lo sa anche lei.» Con tutta dolcezza, Jessie ribatté: «Ci sono cose più importanti dei pasti. Te ne rendi conto anche tu, non è vero?» Meggie lanciò di nuovo uno sguardo allo schermo del computer, sospirò e annuì. Quando parlò, il suo tono era quello di chi si adegua a un'opinione comune che non sente di condividere fino in fondo. «Immagino di sì. E anche se così non fosse, è lei che comanda.» Jessie le rispose con un cenno affermativo del capo, sentendo per la prima volta di non vivere solo in una finzione alimentata da entrambe per mero opportunismo. «Sì, credo di sì.» Il sopracciglio di Meggie si era inerpicato di nuovo a mezz'asta. «E se portassi il sandwich e glielo lasciassi sull'angolo della scrivania?» Jessie sorrise. «Affare fatto!» Questa volta Meggie rispose al suo sorriso. Quando tre minuti dopo arrivò con il sandwich, Jessie era di nuovo seduta davanti allo schermo acceso, la pelle di un malsano color verde da fumetti, assorta nel testo che andava lentamente componendo sulla tastiera. La piccola governante irlandese non fece niente per non farsi sentire (era di quelle persone che probabilmente non sarebbero state capaci di muoversi in punta di piedi nemmeno se solo così avrebbero potuto salvarsi la vita), ma Jessie non la sentì né arrivare né andare. Aveva estratto dal primo cassetto un fascio di ritagli di giornale e li stava passando in rassegna. Per la maggior parte gli articoli erano corredati da una fotografia, immagini di un uomo con una strana faccia lunga e stretta, mento sfuggente e fronte sporgente. Gli occhi infossati erano neri e rotondi e perfettamente vuoti, occhi che le ricordavano simultaneamente Dondi, il vagabondo dei fumetti e Charles Manson. Labbra grosse e carnose come fette di frutta sciroppata gli sporgevano da sotto una lama di naso. Meggie sostò per qualche istante accanto a lei, in attesa di un cenno, poi sbuffò sottovoce e se ne andò. Tre quarti d'ora dopo Jessie guardò alla sua sinistra e vide il sandwich di pane tostato con il formaggio. Ormai era freddo e il formaggio si era rappreso in grumi, nondimeno lo sbranò in
cinque rapidi bocconi. Poi tornò al Mac. Il cursore riprese ad avanzare lampeggiando, conducendola verso il cuore della foresta. 36 Allora mi sono sentita un po' più tranquilla, ma poi ho pensato: potrebbe essere accovacciato dietro lo schienale, per evitare di essere riflesso dallo specchio. Così in qualche modo mi sono girata, e ti assicuro che sembrava anche a me impossibile che mi sentissi così debole. Anche il più lieve sobbalzo era per me una sofferenza indicibile, come se qualcuno mi pugnalasse la mano con un attizzatoio rovente. Naturalmente non c'era nessuno, così ho cercato di convincermi che l'ultima volta che l'avevo visto era davvero una forma creata dalle ombre... dalle ombre e dalla mia mente sovraffaticata. Eppure non riuscivo a crederci fino in fondo, Ruth, nemmeno con il sole che spuntava, nemmeno considerando che ero libera, fuori da quella casa e ben chiusa dentro la mia automobile. Mi è venuta invece l'idea che se non era sul sedile posteriore, doveva essere nel bagagliaio e, se non era nel bagagliaio, era accovacciato sul paraurti posteriore. Mi è venuta l'idea che fosse ancora con me, in altre parole, e che sarebbe rimasto con me per sempre. È questo che ho bisogno di far capire a te. A te o a qualcuno, in ogni caso. È questo che ho bisogno di dire. Da allora è sempre rimasto con me. Anche quando la mia mente razionale è giunta a concludere che probabilmente sarebbe stato un gioco di ombre e luce lunare tutte le volte che l'avessi rivisto, è rimasto con me. E non saprei dire se è giusto che parli di una persona e non dovrei invece parlare di una cosa. Vedi, il mio visitatore è «l'uomo con la faccia bianca» quando il sole è alto, ma diventa «la cosa con la faccia bianca» quando il sole è tramontato. In ogni caso la mia mente razionale è riuscita alla lunga a sbarazzarsene, ma ho scoperto che conta poco o niente. Perché ogni volta che di notte sento scricchiolare un'asse in casa so che è tornato, ogni volta che un'ombra strana si agita sulla parete so che è tornato, ogni volta che sento un passo sconosciuto per la via, so che è tornato... è tornato a finire il lavoro. Era con me sulla Mercedes quella mattina, quando mi sono svegliata, ed è qui in questa casa di Portland, sul lungomare, quasi tutte le notti, magari nascosto dietro le tende o nell'armadio con il suo astuccio di vimini tra i piedi. Non esistono paletti magici da piantare nel cuore di mostri autentici, e sapessi, Ruth, quanto sono stanca.
S'interruppe per svuotare il posacenere ricolmo e accendersi un'altra sigaretta. Lo fece con studiata lentezza. Nelle sue mani si era insinuato un tremito appena percettibile e non voleva bruciarsi. Accese la sigaretta, trasse una boccata e la esalò. Posò quindi la sigaretta prima di riportare la sua attenzione allo schermo del computer. Non so che cosa avrei fatto se la batteria della Mercedes fosse stata scarica, forse sarei rimasta seduta lì ad aspettare l'arrivo di qualcuno, anche per tutta la giornata. Invece il motore è ripartito al primo colpo. Mi sono allontanata a marcia indietro dall'albero contro cui ero andata a sbattere e sono riuscita a rimettere l'automobile diritta sul viottolo. Avevo una gran voglia di guardare nello specchietto, ma avevo paura. Avevo paura di vederlo. Non perché c'era, vorrei che tu lo capissi bene, questo, sapevo che non c'era, ma perché la mia mente avrebbe potuto farmelo vedere. Finalmente, quando ho raggiunto Bay Lane, mi sono fatta forza e ho alzato gli occhi. Non potevo evitarlo. Naturalmente nello specchietto non c'era altro che il sedile posteriore e grazie a questo il resto del mio viaggio è stato un po' più facile. Sono arrivata alla 117 e da lì al Dakin's Country Store, uno di quei posti che bazzica la gente del luogo quando è troppo al verde per andare da Rangeley o in uno dei locali di Motton. Se ne stanno seduti al bancone a mangiare ciambelle e a scambiarsi balle su quello che hanno fatto il sabato sera. Ho accostato dietro ai distributori di benzina e sono rimasta seduta lì per cinque minuti a guardare entrare e uscire dal bar i boscaioli e i custodi delle case di villeggiatura e quelli della centrale elettrica. Non mi sembrava vero che fossero gente in carne e ossa, ci crederesti? Continuavo a pensare che fossero fantasmi, che presto i miei occhi si sarebbero abituati alla luce del giorno e ci avrei visto tranquillamente attraverso Avevo sete di nuovo e ogni volta che vedevo uno di loro uscire con il suo bicchierino di plastica pieno di caffè, la sete aumentava, eppure non riuscivo lo stesso a scendere dalla macchina... a mescolarmi agli spettri, potrei dire. Immagino che prima o poi ce l'avrei fatta, ma quando avevo trovato appena il coraggio di togliere la sicura allo sportello, è arrivato Jimmy Eggart che ha parcheggiato di fianco a me. Jimmy è un commercialista in pensione di Boston che dalla morte di sua moglie, nel 1987 o '88, si è trasferito a vivere nella casa al lago. È sceso, mi ha guardato, mi ha riconosciuto e ha cercato di sorridere. Poi ho visto la sua faccia cambiare di punto in bianco, passare dalla sorpresa all'orrore.
Si è avvicinato alla Mercedes e si è chinato per sbirciare attraverso il finestrino ed era così stupefatto che gli erano scomparse tutte le rughe. Me lo ricordo molto bene: lo stupore aveva ringiovanito Jimmy Eggart. Ho visto che muoveva la bocca e formulava una frase. «Jessie, stai bene?» mi ha chiesto. Volevo aprire lo sportello, ma all'improvviso non osavo farlo. Mi era venuta un'idea balzana. Mi era venuta l'idea che la cosa che avevo chiamato cowboy spaziale fosse stata anche a casa di Jimmy e che Jimmy non avesse avuto la mia stessa fortuna. La cosa lo aveva ucciso, gli aveva tagliato via la faccia e se l'era messa addosso come una maschera di Halloween. Sapevo che era un'idea balorda, ma anche saperlo non serviva, perché non riuscivo a togliermela dalla testa e non riuscivo nemmeno a costringermi ad aprire quella maledetta portiera. Non so che spettacolo offrivo quella mattina e non voglio saperlo, ma non deve essere stato esaltante perché, immediatamente dopo, Jimmy Eggart ha smesso di sembrare stupito. Era abbastanza spaventato da scappare e nauseato da vomitare. Ma non ha fatto né l'una né l'altra cosa e Dio lo benedica per questo. Invece ha aperto la portiera e mi ha chiesto che cosa era successo, se era stato un incidente o se qualcuno mi aveva fatto del male. Mi è bastata un'occhiata per capire che cosa lo avesse tanto impressionato. Lo ferita al polso doveva essersi riaperta perché l'assorbente con cui avevo cercato di medicarmi era completamente saturo. Avevo anche tutta la gonna pantalone sporca, come se fossi stata colta di sorpresa dalle mestruazioni più abbondanti di questa terra. Ero seduta nel sangue, c'era sangue sul volante, sangue sul cruscotto, sangue sulla leva del cambio... c'erano persino spruzzi e gocce sul parabrezza. Era quasi tutto asciutto e aveva assunto quell'orribile color rosso-marrone che prende il sangue quando si secca, quello che a me ricorda sempre la cioccolata al latte, ma c'erano chiazze che erano ancora rosse e umide. Finché non ti trovi in un mare come quello, Ruth, non hai assolutamente idea di quanto sangue circoli dentro una persona. Per forza Jimmy era atterrito. Ho cercato di scendere da sola, credo che volessi mostrargli che ero ancora in grado di agire di mia volontà, in modo da tranquillizzarlo, ma ho urtato la mano destra sul volante e tutto è diventato bianco e grigio. Non ho perso completamente i sensi, ma è stato come se qualcuno mi avesse tranciato gli ultimi fili che ancora collegavano la testa al corpo. Mi sono sentita cadere in avanti e ricordo di aver pensato che stavo per concludere le mie avventure lasciando i denti sull'asfalto... e questo dopo aver
speso un occhio della testa solo l'anno scorso per farmi incapsulare quelli di sopra. Ma Jimmy mi ha afferrata... per le tette, se devo essere sincera. L'ho sentito gridare verso il bar: «Ehi! Laggiù! Ho bisogno di una mano qui!» con quella voce sottile e stridula che hanno le persone anziane e mi è venuta voglia di ridere. Solo che ero troppo stanca per ridere. Gli ho appoggiato la testa al petto e mi sono messa ad ansimare, perché mi mancava il fiato. Ho sentito il mio cuore che correva veloce ma non sembrava battere per niente, come se non avesse niente su cui battere. Intanto però vedevo riapparire un po' di luce e cominciavo a distinguere qualche colore. Ho visto un gruppo di uomini che uscivano per vedere che cosa stava accadendo. Fra di loro c'era Lonnie Dakin. Sgranocchiava una focaccina e indossava una maglietta rosa con la scritta QUI NON C'È UN UBRIACO DEL VILLAGGIO, FACCIAMO A TURNO. Strane cose si ricordano quando si crede di essere sul punto di morire, vero? «Chi ti ha conciata così, Jessie?» mi ha chiesto Jimmy. Ho cercato di rispondergli, ma non ci sono riuscita. Credo che sia stato meglio così, considerato che cosa avevo tentato di dire. Credo che fosse: «Mio padre». Jessie schiacciò la sigaretta, poi osservò la prima fotografia del mazzo. Dal suo volto magro e anomalo, Raymond Andrew Joubert la fissò come rapito... come l'aveva fissata dall'angolo della camera da letto la prima notte e dallo studio del marito di recente scomparso la seconda. Trascorsero quasi cinque minuti in quella muta contemplazione. Poi, con l'aria di chi si risveglia di soprassalto da un breve torpore, Jessie si accese un'altra sigaretta e tornò alla sua lettera. Ora la riga di stato indicava che era a pagina sette. Si sgranchì le membra, ascoltò gli scricchiolii sommessi delle vertebre, quindi posò nuovamente le dita sui tasti. Il cursore riprese la sua danza. Venti minuti dopo, venti minuti durante i quali ho scoperto quanto dolci e premurosi e comicamente stupidi sanno essere gli uomini (Lonnie Dakin mi ha chiesto se volevo del Midol), ero a bordo di un'ambulanza diretta al Northern Cumberland Hospital, con tanto di luci lampeggianti e sirena spiegata. Un'ora dopo ero a letto a guardare il sangue che mi entrava nel braccio dentro un tubicino e ad ascoltare non so che imbecille raccontare in un pezzo country quanto era diventata dura la sua vita da quando la sua donna l'aveva abbandonato e il suo camioncino si era guastato. Qui si conclude più o meno la prima parte della storia, Ruth, quella che possiamo intitolare «Pollicino esce dal bosco», oppure «Come mi sono liberata dalle manette e mi sono messa in salvo». Ci sono altre due parti,
che mentalmente ho intitolato «Epilogo» e «Colpo di scena finale». Salterò l'epilogo, in parte perché in fondo può interessare soltanto chi abbia attinenza professionale con gli innesti di pelle e relative sofferenze, ma soprattutto perché voglio arrivare al colpo di scena finale prima di essere troppo stanca e ubriaca di computer per poterlo raccontare nel modo in cui sento di doverlo fare. Del resto, senza il colpo di scena finale, forse non sarei qui a scriverne adesso. Prima di arrivarci, però, devo dirti ancora qualcosa di Brandon Milheron, che rappresenta in pratica la sintesi del capitolo che ho intitolato «Epilogo». È stato durante la prima fase della mia convalescenza, la parte più difficile, che è spuntato Brandon e mi ha adottata. Mi piace definirlo un uomo dolce perché mi è stato accanto durante uno dei periodi più infernali della mia esistenza, ma parlare di dolcezza nel caso suo sarebbe una mistificazione. La vera virtù di Brandon è nella sua abilità di nocchiero e pastore, nella presenza di spirito e nella lungimiranza della sua opera di sorvegliante e supervisore. E anche questo non è giusto, c'è molto di più in lui, descriverlo così non gli rende il merito che gli è dovuto, ma si sta facendo tardi e dovrò accontentarmi. Basti dire che per aver avuto l'incarico di badare agli interessi di uno studio legale di consolidata tradizione dopo un incidente dai risvolti forse scabrosi che vedeva coinvolto uno dei loro soci anziani, Brandon non mi ha mai negato una parola di conforto e incoraggiamento. Inoltre non mi ha mai mandato a quel paese per avergli inondato di lacrime i risvolti delle sue belle giacche firmate. Fosse tutto qui, probabilmente non insisterei tanto, ma c'è qualcos'altro. Qualcosa che ha fatto per me solo ieri. Abbi fede, ragazza mia, ci arriveremo. Da più di un anno Brandon e Gerald avevano lavorato insieme a una causa che riguardava una delle più importanti catene di supermercati di quaggiù. Avevano vinto quello che c'era da vincere e, particolare più importante per la sottoscritta, avevano stabilito un buon rapporto di amicizia. Ho idea che quando i matusa che dirigono lo studio si decideranno a togliere il nome di Gerald dalla carta intestata, sarà Brandon a prendere il suo posto. Per ora era la persona più adatta all'incarico che, durante il primo incontro con me ancora in ospedale, Brandon stesso ha definito di «carta assorbente». La dolcezza non gli manca, non ne avevo accennato senza ragione, ed è stato sincero con me fin dal principio, ma naturalmente aveva il suo programma da svolgere. Credimi, se sostengo di avere avuto gli occhi bene aperti da questo punto di vista, cara; in fondo sono stata sposata per quasi
vent'anni a un avvocato e so con quale accanimento suddividono in scomparti i vari aspetti della vita e personalità. Immagino che sia questo a permettere loro di sopravvivere senza troppi esaurimenti nervosi, ma è anche la ragione per cui tanti di loro diventano assolutamente detestabili. Brandon non è mai stato detestabile, ma aveva comunque una missione da svolgere: tenere il coperchio abbassato su qualsiasi pubblicità negativa potesse ritorcersi sullo studio. Il che naturalmente significava tenere abbassato il coperchio su qualunque pubblicità negativa potesse colpire me o Gerald. È uno di quegli incarichi che ti possono fregare per un semplice colpo di sfortuna, eppure Brandon lo ha accettato senza riserve... e vada a suo ulteriore credito il fatto che non abbia mai cercato di raccontarmi di essersi assunto la responsabilità per rispetto della memoria di Gerald. Lo ha accettato perché era uno di quegli incarichi che Gerald chiamava «trampolini», uno di quelli che possono rappresentare una rapida scorciatoia per salire al successivo livello, quando tutto va bene. E si sta mettendo tutto bene per Brandon, e io ne sono contenta. L'affetto e la comprensione con cui mi ha trattata è già motivo sufficiente perché io sia felice per lui, ma non è l'unico. Non si è mai lasciato andare agli isterismi quando gli ho detto che si era fatto vivo di persona o per telefono qualche giornalista e non si è mai comportato come se io fossi solo un incarico da portare a termine, solo quello e niente più. Vuoi sapere che cosa penso davvero, Ruth? Penso che anche se ho sette anni più dell'uomo di cui ti sto raccontando e se così mutilata, impacchettata e ricucita non presento certamente il meglio di me, è possibile che Brandon Milheron si sia un po' invaghito di me... o dell'eroica Pollicino che vede con gli occhi della mente quando mi guarda. Non credo che il sesso c'entri niente nel suo caso (non ancora, comunque; pelle e ossa come sono, somiglio ancora troppo a un pollo spennato appeso nella vetrina di una macelleria), e mi sta bene così; se non dovrò mai più andare a letto con un uomo, ne sarò strafelice. Tuttavia mentirei se sostenessi di non aver provato piacere a vedergli quell'espressione negli occhi, quella che significa che adesso sono entrata a far parte anch'io dei suoi impegni, io, Jessie Angela Mahout Burlingame, in contrasto con quell'inanimata aggravante che i suoi superiori avranno senz'altro battezzato Increscioso Incidente Burlingame. Non so se nell'elenco degli impegni di Brandon io vengo prima dello studio legale, o dopo, o allo stesso livello, e non m'importa. Mi è sufficiente sapere di esserci anch'io e di essere qualcosa di più di un Qui Jessie si fermò, si tamburellò i denti con l'indice sinistro e meditò
con cura. Tirò una lunga boccata dall'ultima sigaretta che aveva acceso e riprese: di più di un gradevole effetto secondario. Brandon è stato accanto a me durante tutti i colloqui con i funzionari di polizia, armato del suo piccolo registratore. Educato, ma puntuale come la morte, ha fatto sapere a tutte le persone presenti a ogni colloquio, comprese stenografe e infermiere, che chiunque avesse lasciato trapelare qualcuno dei particolari indiscutibilmente clamorosi del caso avrebbe dovuto subire tutte le più spietate rappresaglie che un importante studio legale del New England, costituito solo da intransigenti moralisti, avesse saputo escogitare. E deve essere stato convincente con loro come lo è stato con me, perché non si sa di nessuno che abbia aperto bocca con la stampa. Gli interrogatori più difficili hanno coinciso con i tre giorni che ho trascorso «in osservazione» al Northern Cumberland, a succhiare sangue, acqua ed elettroliti attraverso tubicini di plastica. I rapporti di polizia scaturiti da quegli incontri erano così strani da risultare addirittura credibili quando erano riportati dai giornali, come quelle storie che capitano di tanto in tanto tipo «l'uomo che ha morsicato un cane». Solo che questa volta si trattava davvero di un cane che ha morsicato un uomo... e anche una donna. Vuoi sapere che cosa è finito agli atti? Va bene, eccoti servita. Avevamo deciso di trascorrere la giornata nella nostra casa di villeggiatura nel Maine occidentale. Dopo un interludio erotico che era stato per due parti scontro e per una parte incontro, avevamo fatto la doccia insieme. Gerald se n'era andato mentre io mi stavo lavando i capelli. Lamentava dolori di stomaco, probabilmente a causa dei sandwich che avevamo mangiato lungo la strada, e mi aveva chiesto se in casa c'era del bicarbonato o del Maalox. Gli avevo risposto che non lo sapevo, ma che se qualcosa c'era doveva essere sul comò o sulla mensola sopra il letto. Tre o quattro minuti dopo, mentre mi sciacquavo i capelli, avevo sentito un grido. Era apparentemente il segnale dell'inizio di un attacco grave alle coronarie. Al grido era seguito un tonfo pesante, il rumore di un corpo che stramazza al suolo. Ero saltata fuori dalla doccia e, arrivata in camera da letto, ero scivolata. Cadendo, avevo battuto la testa su uno spigolo del comò ed ero rimasta priva di sensi. Secondo questa versione, ricostruita dallo sforzo comune del signor Milheron e della signora Burlingame, e sottoscritta con entusiasmo dalla polizia, posso aggiungere, sarei tornata in me ripetutamente, per perdere
ogni volta di nuovo i sensi. Riavutami per l'ultima volta, avevo trovato che il cane si era stancato di Gerald e aveva cominciato ad assaggiare me. Mi ero arrampicata sul letto (secondo la nostra versione, io e Gerald l'avevamo trovato dov'era, probabilmente spostato dagli uomini venuti a lucidare il pavimento, ed eravamo così surriscaldati che non avevamo perso tempo a spingerlo nella sua posizione naturale) e avevo scacciato il cane scagliandogli addosso il bicchiere di Gerald e un posacenere con il motto della sua confraternita. Poi ero svenuta di nuovo e avevo trascorso alcune ore in stato dì incoscienza, versando il mio sangue sul letto. Più tardi mi ero risvegliata, avevo raggiunto l'automobile e mi ero messa finalmente in salvo... dopo un ultimo momento di involontario torpore, per la precisione. Quello a causa del quale ero finita contro l'albero. Solo una volta ho chiesto a Brandon come fosse riuscito a far bere alla polizia questo cumulo di fesserie. «Adesso è un'inchiesta della polizia statale, Jessie», mi ha risposto, «e noi, nel senso del nostro studio legale, abbiamo molti amici alla polizia di stato. Mi sto avvalendo di tutti i crediti che abbiamo accumulato negli anni, ma per essere sincero non devo sprecarne neanche molti. Sai, anche gli sbirri sono esseri umani. Si sono fatti un'idea abbastanza precisa di come sono andate in realtà le cose appena hanno visto le manette attaccate alle colonnine del letto. Non è la prima volta che vedono manette dopo che a qualcuno è saltato il carburatore, credimi. Non c'è n'è stato uno solo, agenti statali o locali, che abbia provato il desiderio di trasformare te e tuo marito in una barzelletta sporca a seguito di qualcosa in cui tutti hanno riconosciuto un grottesco, sventurato incidente.» Dapprincipio non ho detto niente neanche a Brandon dell'uomo che avevo creduto di aver visto, o delle impronte di piede, o dell'orecchino. Aspettavo, capisci, aspettavo probabilmente che saltasse fuori un piccolo indizio. Jessie rilesse quelle ultime parole, scosse la testa e riprese a scrivere. No, non voglio nascondermi con te. Aspettavo che mi si presentasse un poliziotto con una bustina di plastica e mi chiedesse di identificare gli anelli che c'erano dentro. E bada bene, anelli, non orecchini. «Siamo più che sicuri che siano suoi», mi avrebbe detto, «perché all'interno ci sono incise le sue iniziali e quelle di suo marito, e anche perché li abbiamo trovati sul pavimento dello studio di suo marito.» Continuavo ad aspettarmelo perché quando mi avessero mostrato i miei anelli avrei saputo con certezza che il Visitatore di Mezzanotte di Pollici-
no era stato frutto della mia immaginazione. E ho aspettato e aspettato, ma non è successo. Alla fine, alla vigilia del primo intervento alla mano, ho confidato a Brandon il sospetto che avevo di non essere stata sola in casa, almeno non sempre. Gli ho detto che forse era tutto frutto della mia fantasia, che non lo si poteva affatto escludere, ma che al momento la sensazione che avevo avuto era stata più che concreta. Mi sono ben guardata dall'accennare agli anelli scomparsi, ma ho parlato molto delle impronte del piede e dell'orecchino con la perla. A proposito dell'orecchino credo che sarei onesta nell'affermare che ho balbettato, ma credo di sapere perché: era il mio capro espiatorio per tutto quello che non osavo confessare, nemmeno a Brandon. Mi capisci? E per tutto il tempo che mi confidavo con lui, non smettevo di adoperare formule come «poi ho pensato di vedere» e «mi sentivo quasi sicura». Dovevo dirglielo, dovevo dirlo a qualcuno, perché la paura mi consumava da dentro come un acido, eppure tentavo in ogni modo di dimostrargli che non stavo confondendo le sensazioni personali con la realtà oggettiva. Soprattutto mi sforzavo di impedirgli di accorgersi di quanto fossi ancora terrorizzata. Non volevo che mi prendesse per matta, capisci? Non mi importava che mi considerasse un po' isterica, era un prezzo che ero disposta a pagare pur di non ritrovarmi addosso il fardello di un altro orribile segreto come quello di mio padre nel giorno dell'eclisse, ma disperatamente volevo che non mi prendesse per matta. Non volevo che nascesse in lui nemmeno il sentore di un'ipotesi come quella. Brandon mi ha preso la mano e me l'ha accarezzata e mi ha detto che capiva perfettamente che mi fosse venuta un'idea del genere, mi ha detto che, date le circostanze, probabilmente era la via d'uscita migliore. Poi ha aggiunto che era importante soprattutto che ricordassi che non era più rispondente alla verità della doccia che avrei fatto con Gerald dopo la nostra atletica sgroppata un po' affettuosa e molto manesca sul letto. La polizia aveva perquisito tutta la casa e se c'era stato qualcun altro, quasi certamente ne avrebbero trovato un indizio. Il fatto poi che la casa fosse stata di recente sottoposta alla pulizia generale di fine estate valeva come garanzia supplementare. «Ma può darsi che qualcosa abbiano trovato», gli ho fatto notare. «E può darsi che un agente abbia pensato bene di infilarsi in tasca un orecchino perduto.» «Te lo concedo, in questo mondo gli sbirri dalla mano svelta non sono una rarità», mi ha risposto, «ma mi è difficile credere che anche un piedi-
piatti stupido voglia rischiare la carriera per un orecchino orfano. Mi sarebbe molto più facile credere che questo individuo, che secondo te era entrato in casa quando c'eri ancora tu, sia tornato più tardi per portarsi via il gioiello.» «Sì!» mi è venuto da esclamare. «È possibile, no?» Lui ha cominciato a scuotere la testa, poi si è limitato a stringersi nelle spalle. «Tutto è possibile, nel senso che non possiamo nemmeno escludere la cupidigia o l'errore umano da parte degli agenti incaricati dell'indagine, ma...» Si è interrotto a questo punto, mi ha preso la mano sinistra e mi ha esibito quella che penso sia la versione brandonesca di un'espressione censoria. «Il tuo ragionamento si basa sul presupposto che gli investigatori abbiano dato alla casa un'occhiata solo superficiale e si siano quindi accontentati della tua versione. Non è così. Se fosse entrato qualcun altro, è doveroso credere che la polizia ne avrebbe trovato le tracce. E se così fosse, io lo saprei.» «Perché?» ho chiesto io. «Perché uno sviluppo di questo genere ti avrebbe messa in una posizione estremamente delicata, una di quelle posizioni per cui i funzionari di polizia smettono di essere tanto gentili e cominciano a leggerti i tuoi diritti.» «Non capisco di che cosa tu stia parlando», gli ho detto, ma invece capivo, Ruth, eccome, se capivo. Gerald era una specie di mago delle polizze assicurative e io ero già stata informata dai rappresentanti di tre diverse compagnie che avrei trascorso il mio periodo di lutto ufficiale, nonché un congruo numero di anni a venire, in condizioni di assoluta tranquillità economica. «L'autopsia di tuo marito è stata eseguita ad Augusta da John Harrelson, con tutta l'attenzione che il caso esigeva», mi ha spiegato Brandon. «Secondo il suo referto, Gerald è morto di quello che i medici chiamano infarto del miocardio, nel senso di lacerazione del cuore non accompagnata da avvelenamento da cibo, affaticamento eccessivo o grave trauma fisico.» A questo punto non ha fatto una pausa, Ruth, si vedeva che stava per proseguire normalmente, in quel tono che ora mi viene voglia di definire «didattico», e che non gli è del tutto insolito, però deve aver visto qualcosa sulla mia faccia che l'ha interrotto. «Jessie, che cosa c'è?» «Niente.» «Ma sì che c'è qualcosa, hai un'espressione spaventosa. Hai un crampo?»
Sono riuscita a convincerlo che andava tutto bene e mentre lo convincevo le cose si mettevano a posto davvero. Immagino che tu abbia capito che cosa stavo pensando, Ruth, perché te ne ho parlato prima: i due calci con cui avevo colpito Gerald quando non voleva darmi ascolto e sì rifiutava di liberarmi. Uno al ventre, un altro diritto diritto nei gioielli di famiglia. Pensavo alla mia fortuna di aver affermato che avevamo avuto un incontro sessuale mescolato più che altro con uno scontro di pugilato, perché serviva a spiegare i lividi. Credo che fossero comunque appena accennati, perché l'infarto è intervenuto subito dopo i calci e deve aver bloccato il versamento di sangue praticamente nel momento stesso in cui cominciava. Questo ci porta naturalmente a un altro importante interrogativo: sono stata io a provocare l'infarto con i calci che gli ho dato? Nessuno dei libri di medicina che ho consultato mi ha dato una risposta esauriente, ma siamo realistici: probabilmente una mano gliel'ho data. Ma mi rifiuto lo stesso di assumerne le responsabilità, maledizione! Era sovrappeso, beveva troppo e fumava come un turco! L'infarto era dietro l'angolo. Non fosse stato quel giorno, sarebbe stata la settimana seguente o il mese dopo. Il diavolo fa un mucchio di pentole, ma non i coperchi, lo sai anche tu, Ruth. E io ci credo. Se tu non sei d'accordo, ti invito cordialmente a fartelo su piccolo piccolo e ficcartelo là dove non splende il sole. Si dà il caso che sia arrivata a pensare di essermi meritata il diritto di credere quello che voglio credere, almeno su questo argomento. Specialmente su questo argomento. «Se ho l'aspetto di una donna che ha mandato giù una maniglia», ho detto a Brandon, «è solo perché sto cercando di abituarmi all'idea che qualcuno pensi che abbia ucciso Gerald per incassare la sua assicurazione sulla vita.» Lui ha scosso di nuovo la testa, senza smettere di guardarmi con un'aria molto seria. «Non lo pensano affatto. Harrelson dice che Gerald ha avuto un infarto al quale potrebbe aver contribuito uno stato di sovreccitazione sessuale e la polizia di stato ha accettato la sua tesi perché John Harrelson è praticamente il migliore nel campo. Al massimo resterà qualche cinico che potrà pensare che tu abbia fatto Salomè a costo della sua vita.» «Tu lo pensi?» gli ho chiesto. Avevo pensato magari di lasciarlo di sasso, affrontandolo con tanta franchezza, e da un certo punto di vista ero curiosa di sapere che faccia avesse Brandon Milheron allibito, ma sono pronta ad ammettere tutta la mia ingenuità. Ha sorriso e basta. «Penso che tu abbia avuto tanta fanta-
sia da vedere il modo di far saltare le coronarie a Gerald, ma non abbastanza da vedere che con tutta probabilità di conseguenza saresti morta ammanettata al letto? No. Per quanto possa valere, Jessie, io credo che sia andata esattamente come tu me l'hai raccontata. Posso parlare fuori dai denti?» È toccato a me sorridere. «Non chiedo altro.» «D'accordo. Ho lavorato con Gerald e mi sono trovato bene con lui, ma in ditta sono molti quelli che non ci si trovavano. Era un autentico maniaco del controllo. Non mi sorprende affatto che potrebbe entusiasmarsi all'idea di fare l'amore con una donna ammanettata.» L'ho guardato di scatto quando gli ho sentito fare questa affermazione. Era notte, c'era accesa soltanto la luce vicino al mio letto, e lui era seduto nel buio che lo nascondeva dalle spalle in su, ma sono più che sicura che Brandon Milheron, il giovane avvocato rampante, stesse arrossendo. «Se ti ho offesa, chiedo scusa», ha mormorato e ti giuro che ho sentito tutto il suo imbarazzo, per quanto inaspettato. Quasi mi è venuto da ridere. Non se lo meritava, ma in quel momento mi sembrava di sentire un diciottenne appena uscito dal liceo. «Non mi hai offesa, Brandon», gli ho risposto. «Meglio così. Detto questo posso chiamarmi fuori, ma è compito della polizia considerare quantomeno la possibilità di un comportamento intenzionale, la possibilità che tu abbia fatto qualcosa di più di sperare soltanto che tuo marito avesse quello che in gergo chiamano un'collasso copulatorio'.» «Ma io non immaginavo nemmeno che avesse problemi di cuore!» ho esclamato, «e a quanto pare non lo presumevano nemmeno le compagnie di assicurazione. Se l'avessero sospettato, non avrebbero mai sottoscritto le polizze, ti pare?» «Una compagnia di assicurazioni è pronta a firmare un contratto con chiunque sia disposto a pagare i premi», mi ha risposto, «e gli agenti che hanno contattato Gerald non lo vedevano fumare come un turco e mandar giù litri di alcol al giorno. Tu sì. Parlandoci chiaro, tu non puoi non aver saputo che Gerald era un infarto ambulante in cerca di un posto dove esplodere. La sanno anche gli sbirri. Così dicono: mettiamo che abbia invitato nella sua casa sul lago un amico senza che lo sapesse suo marito? E mettiamo che questo amico sia saltato fuori da un armadio e si sia messo a gridare Bu-Bu nel momento esattamente giusto per lei ed esattamente sbagliato per lui? Se avessero anche soltanto uno straccio di indizio in quel
senso, saresti in un mare di cacca, Jessie. Perché, in date circostanze, un Bu-Bu gridato vigorosamente al momento giusto potrebbe essere visto come omicidio di primo grado. Il fatto che tu abbia passato due giorni in manette e abbia dovuto scuoiarti per liberarti ti scagiona in maniera sostanziale dall'ipotesi di un complice; d'altra parte, il fatto stesso della presenza delle manette rende la presenza di un complice più che plausibile... almeno per un certo tipo di mentalità che esiste nell'ambito della polizia.» Io lo ascoltavo e lo guardavo affascinata. Mi sentivo come una donna che si è accorta all'improvviso di aver ballato la quadriglia sul ciglio di un abisso. Fino a quel momento, osservando i lineamenti del volto di Brandon ricalcati dalla luce della lampada vicino al letto, l'idea che la polizia pensasse che potessi aver assassinato Gerald mi aveva attraversato la mente un paio di volte, ma solo come uno scherzo di cattivo gusto. Grazie a Dio non mi è mai venuto in mente di buttarla in burla con gli sbirri, Ruth! «Capisci perché è più saggio non menzionare questo presunto intruso alla polizia?» mi ha detto Brandon. «Sì», gli ho risposto. «Meglio non stuzzicare il can che dorme, giusto?» Lo avevo appena detto, che subito mi apparve davanti agli occhi l'immagine di quello schifoso bastardo che trascinava Gerald per il braccio. Vedevo il lembo di pelle che si era staccato e gli nascondeva in parte il muso. A proposito, hanno beccato quel poveraccio un paio di giorni dopo. Si era fatto una piccola tana sotto la rimessa nautica dei Laglan, a mezzo miglio da casa nostra. Si era portato dietro un bel pezzo di Gerald, perciò doveva essere tornato alla casa almeno una volta dopo che lo avevo cacciato via con i fari e il clacson della Mercedes. Lo hanno abbattuto a fucilate. Portava una medaglietta di bronzo, con sopra il nome Prince. Purtroppo non era una targhetta regolare, perciò non è stato possibile alla Protezione degli animali rintracciare il proprietario e fargli passare un inferno, come si meritava. Si chiamava Prince, hai capito? Quando lo sceriffo Harrington è venuto a informarmi che lo avevano ucciso, ne sono stata contenta. Non lo biasimo per quello che ha fatto, non era in condizioni migliori delle mie, Ruth, ma ho provato contentezza lo stesso e sono contenta ancora adesso. Tutto questo è fuori tema, me ne rendo conto. Ti stavo raccontando della conversazione che ho avuto con Brandon dopo che gli avevo confidato che forse in casa c'era uno sconosciuto. Ha convenuto con me, e non senza vigore, che era meglio non aizzare il cane che dormiva. Suppongo che avrei
potuto accontentarmi, era già di grande sollievo per me averlo raccontato a una persona, eppure ancora non ero soddisfatta. «A convincermi è stato il telefono», gli ho spiegato. «Quando mi sono liberata dalle manette e ho cercato di usarlo, era più morto di Abramo Lincoln. Allora la mia certezza è stata immediata: c'era stato davvero qualcuno in casa e a un certo momento mi aveva isolato il telefono. È stata proprio questa certezza a darmi la forza di arrivare alla porta, uscire e salire sulla Mercedes. Brandon, non si sa che cosa vuol dire provare terrore finché non ci si accorge di essere in mezzo al bosco in compagnia di un ospite non invitato.» Lui stava sorridendo, ma quella volta temo che non fosse un sorriso dei suoi, mi è sembrato quel tipo di sorriso che affiora sempre sulle labbra degli uomini quando pensano quanto sono stupide le donne e quanto sia legalmente sbagliato lasciare che circolino da sole, senza un sorvegliante. «Sei giunta alla conclusione che il telefono fosse stato isolato dopo aver controllato un solo apparecchio, quello che c'era in camera da letto, e aver scoperto che non funzionava. Giusto?» Non era esattamente quello che era avvenuto e non era esattamente quello che avevo pensato, però annuii lo stesso, in parte perché era più semplice così, ma soprattutto perché non serve a niente parlare a un uomo quando gli si sviluppa quell'espressione sulla faccia. Era quell'espressione che vuol dire: «Donne! Senza di loro non esisto, con loro non resisto!» A meno che tu sia diventata tutt'altro persona, Ruth, sono sicura che capisci di che genere d'uomo sto parlando e sono sicura che capisci se ti dico che in quel momento avevo solo voglia che la nostra conversazione finisse immediatamente. «Molto semplice, c'era la spina staccata», ha risposto Brandon. A quel punto sembrava in tutto e per tutto Mister Rogers che spiegava che certe volte, come no, sembrava proprio che ci fosse un mostro sotto il letto, quando in realtà non c'era affatto. «Gerald aveva sfilato la spina dalla presa. Probabilmente non voleva che il suo pomeriggio di libertà, diciamo pure la sua piccola sessione sadomaso, fosse guastata da qualche chiamata dall'ufficio. Aveva staccato anche la spina dell'apparecchio nell'ingresso, ma quello della cucina funzionava perfettamente. Ho tratto tutto questo dai rapporti della polizia.» Allora ho cominciato a vedere la luce, Ruth. All'improvviso ho capito che tutti loro, tutte le persone che avevano indagato su quanto era accaduto nella casa sul lago, si erano fatti una certa idea su come avessi gestito
la situazione e sul perché avessi fatto quello che avevo fatto. Le teorie erano per la maggior parte a mio favore e questo certamente semplificava le cose, ma c'era ancora qualcosa di infuriante e inquietante nel fatto che traevano la gran parte delle loro conclusioni non da quello che avevo detto io o dalle prove che avevano raccolto nella casa, ma solo dal fatto che io sono una donna e che si presume che le donne si comportino in certi modi del tutto prevedibili. Quando guardi la situazione da questa prospettiva, non c'è nessuna differenza tra Brandon Milheron nel suo elegante abito di sartoria e il vecchio sceriffo Harrington nei suoi blue jeans con il culo basso e le bretelle color rosso fuoco. Gli uomini pensano di noi come hanno sempre pensato, Ruth, ne sono più che certa. Molti di loro hanno imparato a dire le cose giuste al momento giusto, ma come mia mamma diceva sempre: «Anche un cannibale sa imparare a recitare il Padre Nostro». E sai una cosa? Brandon Milheron mi ammira, ammira di me soprattutto come mi sono comportata dopo la morte di Gerald. Sissignore. Gliel'ho letto sul viso più di una volta e se dovesse passare di qui questa sera, come fa spesso, è probabile che glielo leggerei di nuovo. Brandon ritiene che mi sia comportata alla grande, che mi sia comportata con straordinario coraggio... per essere una donna. Se devo riassumere, direi che dopo la nostra prima conversazione a proposito del mio presunto visitatore ha concluso che mi sono comportata come si sarebbe comportato lui in una situazione analoga... se, cioè, avesse dovuto vedersela con una febbre da cavallo mentre cercava di fronteggiare un pasticcio come quello in cui mi sono trovata io. Ho idea che sia così che la maggior parte degli uomini pensino che ragionino la maggior parte delle donne: come avvocati con la malaria. Spiegherebbe molto il loro comportamento. Non credi? Sto parlando di condiscendenza, uomo contro donna, in un certo senso, ma sto parlando anche di qualcosa di dannatamente più grande e dannatamente più spaventoso. Vedi, lui non capiva e questo non ha niente a che vedere con presunte differenze di sesso; questa è la maledizione dell'essere umano e la riprova più certa che ciascuno di noi è effettivamente solo. Cose terribili sono accadute in quella casa, Ruth, io stessa non mi sono resa conto di quanto terribili fino a poco tempo fa. E lui non lo ha capito. Gli ho raccontato tutto quello che ho fatto per impedire che quel terrore mi divorasse viva e lui annuiva e sorrideva e mostrava di capirmi e io credo che alla fine mi abbia fatto bene, eppure, benché sia stato il migliore fra tutti, non si è avvicinato minimamente alla verità... a comprendere quanto
il terrore continuasse a crescere e crescere fino a consolidarsi in un'enorme casa nera dentro la mia testa. E c'è ancora, sai? Con la sua porta aperta come a invitarti a tornare in qualsiasi momento e ti assicuro che io non ne voglio assolutamente sapere, eppure ci sono momenti in cui mi ritrovo a camminare in quella direzione lo stesso e, nel momento in cui varco la soglia, la porta sbatte, mi si serra dietro e mi rinchiude. Ma lasciamo perdere. Immagino che avrei dovuto sentirmi sollevata nel sapere che la mia intuizione sul telefono era infondata, ma non è così. Perché ti dico che dentro di me ero convinta e lo sono tuttora che il telefono della camera da letto non avrebbe funzionato nemmeno se mi fossi inginocchiata dietro quella poltrona e avessi reinserito la spina, e sono convinta che forse l'apparecchio in cucina funzionava dopo, ma sono maledettamente sicura che non funzionava allora, che l'unica possibilità che avevo era di scappare da quella casa sulla Mercedes o morire per mano di quella creatura. Brandon si è proteso verso di me fino a quando la luce della lampadina sul letto gli ha illuminato tutta la faccia e mi ha detto: «Non c'era nessuno in quella casa, Jessie, e se vuoi seguire il mio consiglio, è meglio che te lo dimentichi». A quel punto c'è mancato poco che gli raccontassi dei miei anelli scomparsi, ma ero stanca e soffrivo e alla lunga non ce l'ho fatta. Sono rimasta sveglia a lungo dopo che se ne è andato, quella sera nemmeno un sedativo è riuscito a farmi dormire. Pensavo all'intervento di innesto cutaneo che mi aspettava il giorno seguente, ma probabilmente non quanto tu potresti credere. Soprattutto pensavo ai miei anelli e all'orma che avevo visto solo io e alla possibilità che quell'uomo, o quella cosa, fosse tornato a rimettere tutto a posto e, prima di assopirmi, ho concluso che non poteva esserci stata mai nessuna impronta, non poteva esserci stato mai nessun orecchino. Ho concluso che un agente avesse trovato i miei anelli sul pavimento nello studio vicino alla libreria e se li fosse presi. Probabilmente in questo momento sono nella vetrina di un banco di pegni di Lewiston, ho pensato. Forse avrei dovuto infuriarmi a questa idea, ma non è così. Lo stato d'animo che ho provato è stato lo stesso di quando mi sono svegliata al volante di quella Mercedes, quella mattina, pervasa da quel senso incredibile di pace e benessere. Nessuno sconosciuto. Nessuno, mai, né prima né poi. Solo un poliziotto dalla mano lesta che si guarda ratto alle spalle per assicurarsi che nessuno lo guardi, e poi zac, zup, in tasca. Quanto agli anelli, non m'importa un fico secco di che fine abbiano fatto. In questi ulti-
mi mesi mi sono convinta sempre più che l'unica ragione per cui un uomo ti infila un anello al dito è che la legge non gli permette più di infilartene uno al naso. Ma lasciamo stare. Il mattino è diventato pomeriggio, il pomeriggio se ne va via che è un piacere, e non è questo il momento di discutere di questioni da donne. Questo è il momento di parlare di Raymond Andrew Joubert. Si appoggiò allo schienale e si accese un'altra sigaretta, notando distrattamente che l'eccesso di tabacco le faceva pizzicare la punta della lingua, che aveva mal di testa e che i reni protestavano per quella maratona davanti al Mac. Protestavano vigorosamente. In casa regnava un silenzio mortale, quel silenzio che stava a indicare che la coriacea, piccola Megan Landis era uscita per una scorribanda in supermercati e tintorie. La meravigliava che fosse uscita senza provare almeno un'ultima volta a separarla dal computer, ma evidentemente Meggie doveva essersi resa conto che ogni suo sforzo sarebbe stato inutile. Che si sfoghi una buona volta e la faccia finita, doveva aver pensato. In fondo lei era lì solo per fare il suo lavoro. Quest'ultima riflessione provocò una piccola fitta al cuore di Jessie. Al piano di sopra scricchiolò un'asse. La sigaretta le si fermò a un centimetro dalle labbra. È tornato! strepitò la Brava Mogliettina. Oddio, Jessie, è tornato! Invece no, non era tornato. Il suo sguardo scese sul volto magro che la guardava dalla nebbia di grana grossa della telefoto: io so esattamente dove sei, bastardo. Vero? Era vero, eppure una parte della sua mente insisteva che al piano di sopra c'era davvero lui, anzi, non lui, ma la cosa, il cowboy spaziale, lo spettro dell'amore, riscritturato per una breve replica. Aveva solo aspettato che la casa fosse vuota e se ora lei avesse sollevato il ricevitore del telefono sull'angolo della scrivania non avrebbe sentito niente, come erano rimasti muti quella notte tutti gli apparecchi nella casa del lago. L'amico Brandon può anche bearsi dei suoi sorrisetti sornioni, ma noi sappiamo come stanno le cose, non è vero, Jessie? La sua mano sana scattò all'improvviso, staccò il ricevitore e glielo avvicinò all'orecchio. Jessie udì il rassicurante ronzio della linea libera e in funzione. Posò il ricevitore. Uno strano sorriso senza sole le animava gli angoli della bocca. Sì, so esattamente dove sei, figlio di puttana. Comunque vogliano credere la Brava Mogliettina e tutte le altre voci. Io e Frugolino sappiamo che indossi una tuta arancione e sei seduto su una panca in una cella della
prigione di contea, quella che c'è in fondo al corridoio dell'ala vecchia, mi ha informato Brandon, per evitare che gli altri arrestati possano metterti le mani addosso e sistemarti a dovere prima che lo stato ti conduca davanti a una giuria di tuoi pari... Sempre che una cosa come te abbia dei pari. Ora come ora non possiamo forse dire di esserci liberati di te, ma ci manca poco. Credimi, è una promessa. Il suo sguardo tornò allo schermo e anche se ormai si era dissipata la lieve sonnolenza dovuta alla pillola con la complicità del sandwich, provò un senso di stanchezza che le scendeva fin nelle ossa, insieme con la sfiducia più totale nella sua capacità di portare a termine l'impresa in cui si era imbarcata. Questo è il momento di parlare di Raymond Andrew Joubert, aveva scritto. Ma era proprio così? Era in grado di farlo? Si sentiva così stanca. Ma era naturale; era tutto il giorno che spingeva in giro per il video quel dannato cursore. Tutto il giorno a spingere avanti l'occhiolino e, a forza di spingere, c'era il rischio di finire giù dal precipizio. Forse era meglio che salisse al piano di sopra per mettersi a letto. Meglio tardi che mai, come si suol dire. Poteva salvare il file, richiamarlo l'indomani mattina e rimettersi al lavoro... La fermò la voce di Frugolino. Ormai la udiva sporadicamente, ma quando si faceva viva l'ascoltava con molta attenzione. Se decidi di smettere ora, Jessie, è inutile che salvi il documento. Cancellalo e non pensarci più. Sappiamo tutte e due che non avresti più il coraggio di affrontare Joubert una seconda volta, e non nel modo in cui una persona deve affrontare una cosa di cui sta scrivendo. Ci sono casi in cui ci vuole fegato anche per scrivere, non è vero? Per lasciare uscire quella cosa dall'ultima stanzetta in fondo al cervello e trasferirla sullo schermo. «Sì», mormorò. «Una mezza tonnellata di fegato. Forse anche di più.» Fumò, poi schiacciò la sigaretta quando era ancora a metà. Sfogliò per un'ultima volta i ritagli di giornale e contemplò il lungomare dalla finestra. Da tempo non nevicava più e splendeva il sole, ma non sarebbe durato molto; le giornate di febbraio nel Maine sono avare e insoddisfacenti. «Che ne dici, Frugolino?» domandò alla stanza deserta. Intonò la voce altezzosa di Elizabeth Taylor, quella che le piaceva tanto da bambina e che faceva impazzire sua madre. «Vogliamo procedere, mia cara?» Non ci fu risposta, ma non le occorreva. Si sporse in avanti e ricominciò a spingere il cursore. Non s'interruppe più per molto tempo, nemmeno per accendersi una sigaretta.
37 Questo è il momento di parlare di Raymond Andrew Joubert. Non sarà facile, ma ce la metterò tutta. Versati dell'altro caffè, cara, e se hai a portata di mano una bottiglia di brandy magari te lo rinforzi un po' con un goccetto. Siamo arrivati alla Parte Terza. Qui accanto a me, sulla scrivania, ho tutti i ritagli di giornale, e se alla fine troverò il coraggio di spedire questa lettera (comincio a crederlo), ti includerò delle fotocopie. Ma gli articoli non raccontano nemmeno tutto quello che so io, meno ancora tutto quello che c'è da sapere. Dubito che qualcuno abbia la minima idea di tutte le cose che ha fatto Joubert (compreso lui stesso, devo pensare) e probabilmente è una fortuna per tutti. I fatti ai quali i giornali hanno potuto solo alludere e tutti quelli che ai giornali non sono mai nemmeno arrivati sono autentico materiale da incubo e io non vorrei mai conoscerne tutti i particolari. Sono venuta a conoscenza della gran parte di quanto non è stato pubblicato dai giornali durante la settimana scorsa, grazie a un Brandon Milheron insolitamente taciturno, insolitamente sottomesso. Gli avevo chiesto di venirmi a trovare appena i nessi fra la storia di Joubert e la mia erano diventati troppo evidenti perché si potesse far finta di non vederli. «Tu credi che sia l'uomo che hai visto tu, vero?» mi ha chiesto. «Quello che c'era in casa con te?» «Brandon, io so che è lui», gli ho risposto. Lui ha sospirato e si è guardato le mani per non so quanto tempo prima di rialzare gli occhi. Eravamo proprio in questa stanza, erano le nove del mattino e questa volta non c'erano ombre a nascondere la sua espressione. «Ti devo le mie scuse», mi ha detto. «Allora non ti ho creduta...» Gli ho risposto che lo sapevo, nel tono di voce più blando possibile. «...ma ti credo ora. Dio del cielo, quanto di questa storia vuoi sapere, Jess?» «Tutto quello che riesci a scoprire», gli ho detto. Ha voluto sapere perché. «Sia ben inteso che se mi dici che sono affari tuoi e che non devo metterci il naso dovrò per forza accettarlo, però mi stai chiedendo di riaprire una questione che lo studio considera chiusa. Se qualcuno, che sa che in autunno mi sono adoperato per proteggerti, si accorge che in inverno mi sono messo a indagare sul conto di Joubert, non è escluso che...»
«Che ti metti nei guai», ho finito per lui. Era un aspetto che non avevo considerato. «Sì», ha ammesso, «ma non è questo che mi preoccupa di più. Sono adulto e vaccinato e so badare a me stesso... credo. Sono invece molto più preoccupato per te, Jessie. Potresti finire di nuovo in prima pagina, dopo tutto il lavoro che abbiamo fatto per far sì che ci si dimenticasse di te al più presto e nella maniera più indolore. E tuttavia il punto cruciale non è nemmeno questo. Anzi, al confronto sono tutti rischi solo marginali. Ma questo è il caso criminale più orrendo che sia avvenuto nel New England settentrionale dalla seconda guerra mondiale a oggi. Ci sono particolari di questa storia così raccapriccianti che potremmo considerarli radioattivi, e credo che faresti bene a stare alla larga dalla zona contaminata se non hai una ragione maledettamente valida per andarci.» Ha fatto una risatina nervosa. «Diamine, dovrei starci alla larga anch'io senza una ragione maledettamente valida.» Così mi sono alzata e gli ho preso le mani. «Nemmeno in un milione di anni saprei spiegarti perché», gli ho detto, «ma credo di poterti spiegare che cosa. Pensi di poterti accontentare, almeno all'inizio?» Lui mi ha preso dolcemente la mano fra le sue e ha annuito. «Ci sono tre cose», gli ho detto. «La prima è che ho bisogno di sapere che è una persona reale. La seconda è che ho bisogno di sapere che le cose che ha fatto sono reali. La terza è che ho bisogno di sapere che non mi succederà mai più di svegliarmi e di trovarlo nella mia stanza.» Allora mi è tornato in mente tutto, Ruth. E ho cominciato a piangere. Ti assicuro che non c'era nessun calcolo in quelle lacrime, il mio era un pianto spontaneo e non avrei potuto fare niente per trattenerle. Ho supplicato Brandon perché mi aiutasse. «Ogni volta che spengo la luce», gli ho spiegato, «me lo trovo davanti nel buio e temo che, se non gli pianto addosso la luce di un riflettore, questa situazione si ripeterà per sempre. Non so a chi altri rivolgermi, ma devo assolutamente sapere. Aiutami, ti prego.» Mi ha lasciato andare la mano, ha fatto apparire un fazzoletto da dentro l'abito da avvocato che quel giorno era di un'eleganza clamorosa, e mi ha asciugato la faccia. L'ha fatto delicatamente come soleva farlo mamma quando piombavo in cucina urlando come una matta perché mi ero sbucciata un ginocchio... Come sicuramente avrai capito, alludo alla prima infanzia, prima che diventassi la ruota cigolante di famiglia. Alla fine si è arreso. «Scoprirò tutto quello che posso e ti riferirò», mi
ha promesso. «Andrò avanti solo finché non mi chiederai di fermarmi. Ma credo che ti convenga allacciare la cintura di sicurezza.» Sono parecchie le cose che ha scoperto e adesso io le riferisco a te, Ruth, ma un avvertimento te lo devo: aveva ragione a proposito della cintura di sicurezza. Se decidi di saltare alcune delle prossime pagine, hai tutta la mia comprensione. Vorrei poter io evitare di scriverle, ma ho idea che faccia parte anche questo della terapia. L'ultima parte, spero. Questo capitolo della storia, quello che potremmo intitolare «Il racconto di Brandon», parte dal 1984 o 1985. È a quegli anni che risalgono i primi casi di vandalismo nei cimiteri della zona dei laghi nel Maine occidentale. Casi analoghi furono segnalati in una mezza dozzina di cittadine al di là del confine, nel New Hampshire. Lapidi rovesciate, scritte con le bombolette spray e furti di bandiere commemorative non sono fatti così straordinari in provincia e naturalmente il primo di novembre non c'è piccolo cimitero che non debba essere ripulito da qualche zucca schiacciata, ma qui non stiamo parlando di bravate o furtarelli. Quando è venuto a rendermi il suo primo rapporto, la settimana scorsa, Brandon ha usato la parola profanazione, la stessa che aveva cominciato ad apparire con frequenza crescente in quasi tutti i verbali della polizia a partire dal 1988. I crimini in sé apparivano anormali alle persone che li scoprivano e a quelle che si occupavano delle indagini, ma il modus operandi era abbastanza razionale, condotto con precisione e metodo. Qualcuno, forse due o tre persone, ma più probabilmente un individuo che agiva da solo, penetrava nelle cripte e nei sepolcri dei cimiteri di provincia con la perizia di un bravo svaligiatore di abitazioni e negozi. Giungeva sul posto di lavoro munito di trapani, tagliabulloni, seghetti a mano per metalli e probabilmente aveva con sé anche un verricello. Brandon dice che oggigiorno ce n'è uno in dotazione su molti veicoli a trazione integrale. Le incursioni prendevano di mira esclusivamente cripte e sepolcri, mai tombe individuali, e avvenivano quasi sempre in inverno, quando il suolo è troppo duro e le salme devono essere parcheggiate in attesa che passi la stagione delle gelate. Una volta entrato, lo sconosciuto apriva le bare servendosi del tagliabulloni e del trapano. Spogliava sistematicamente le salme di tutti gli eventuali gioielli e usava delle tenaglie per strappare le capsule d'oro e i denti con otturazioni in oro. Sono atti deplorevoli, ma almeno sono comprensibili. La verità è che i furti erano solo il prologo. Scalzava gli occhi, strappava le orecchie, tagliava la gola ai morti. Nel febbraio 1989 furono rinvenuti al Chilton Re-
membrance Cemetery due cadaveri privi del naso, che a quanto pare il nostro uomo aveva fatto saltar via con il martello e scalpello. Il poliziotto che si occupò di quel caso ha detto a Brandon: «Non deve essere stato difficile, là dentro era peggio che in una ghiacciaia, e probabilmente è stato come spezzare un ghiacciolo. Ma la domanda è: che cosa se ne fa un tizio di due nasi surgelati? Li usa come portachiavi? O ci sparge sopra un po' di parmigiano e li mette a gratinare nel forno a microonde? Che ci farà mai? Quasi tutti i cadaveri profanati venivano ritrovati senza piedi e mani, qualche volta anche senza le braccia e le gambe e in alcuni casi il responsabile di queste mutuazioni faceva scomparire anche testa e organi genitali. Dall'esame dei patologi risultava che si servisse di ascia e mannaia per il lavoro più grossolano e di una varietà di bisturi per quello più raffinato. E non era neanche maldestro. «Un dilettante di notevole talento», ha commentato un vicesceriffo della contea di Chamberlain. «Non gli metterei in mano la prostata, ma credo che mi lascerei togliere un neo dal braccio... naturalmente solo se fosse imbottito di psicofarmaci.» In alcuni casi ha aperto il corpo della salma e/o il cranio della salma e l'ha riempito di escrementi animali. I casi di profanazione che venivano riscontrati più spesso erano di carattere sessuale. Il nostro uomo era equanime quando si trattava di sottrarre denti d'oro, gioielli e membra, ma nella scelta degli organi sessuali da portar via o delle salme di cui abusare sessualmente, si limitava rigorosamente ai maschi. Questo aspetto può essere stato di vitale vantaggio per me. Nel mese successivo alla mia fuga dalla casa al lago ho imparato molto sul modo in cui lavorano le polizie di provincia, ma non è niente in confronto a quello che ho appreso in quest'ultima settimana. Una delle cose più sorprendenti è la discrezione e il tatto che sanno avere i poliziotti delle piccole città. Immagino che quando conosci per nome tutte le persone che vivono nella zona dove hai il compito di far rispettare l'ordine e la legalità, e sei imparentato con non pochi di loro, la discrezione ti diventa naturale come respirare. Il modo in cui hanno trattato il mio caso è un esempio di questa particolare virtù; il modo in cui hanno trattato il caso di Joubert ne è un altro. L'inchiesta è durata sette anni, non te lo scordare, perciò ti puoi immaginare quante sono state le persone che se ne sono occupate prima che il caso fosse chiuso: due dipartimenti di polizia statale, quattro sceriffi di contea, trentun aiuto sceriffi e Dio solo sa quanti agenti. La pratica era sempre lì sulle loro scrivanie sopra a tutte le altre, e nel
1989 gli avevano persino assegnato un nome: Rodolfo, come Valentino. Discutevano di Rodolfo quando erano al palazzo di giustizia in attesa di deporre su qualche altro episodio criminale, confrontavano gli appunti su Rodolfo ai seminari delle forze dell'ordine che si tenevano ad Augusta e a Derry e a Waterville, parlavano di lui durante la pausa del caffè. «E ce lo portavamo a casa», ha confidato un agente a Brandon, lo stesso che gli ha raccontato dei nasi, per la precisione. «Come no. I tipi come noi si portano sempre a casa i tipi come Rodolfo. Ti fai mettere al corrente sugli ultimi sviluppi a un barbecue in giardino, magari ci torni sopra con un collega di un altro dipartimento mentre guardi i figli affrontarsi in una partitella della Little League. Perché non potrai mai prevedere quando accadrà che metterai i dati in tuo possesso in una nuova prospettiva e finalmente vedrai la luce.» Ma ecco qual è l'aspetto davvero stupefacente (e probabilmente tu mi hai già preceduta, se non sei in bagno a tirar su i biscotti). Per tutti quegli anni tutti quei poliziotti sapevano che nelle regioni occidentali dello stato circolava a piede libero un autentico mostro, un ghoul, sarebbe giusto definirlo, uno di quei fantastici esseri demoniaci che divorerebbero i cadaveri e la storia non è mai finita sui giornali fino a quando Joubert non è stato preso! Da una parte lo trovo innaturale e mi fa un po' paura, ma nell'insieme lo trovo meraviglioso. Immagino che la lotta delle forze del bene contro quelle del male non proceda con grande successo in molte metropoli, ma quassù, dalle parti nostre, mi sembra che i buoni se la sbroglino egregiamente. Naturalmente puoi obiettare che c'è parecchio spazio per un miglioramento, se ci vogliono sette anni per prendere un balordo come Joubert, ma Brandon si è affrettato a chiarirmi la situazione. Mi ha spiegato che il soggetto (lo definiscono veramente così) operava esclusivamente in centri abitati di piccole dimensioni, dove la scarsità di risorse economiche delle amministrazioni obbligava i poliziotti a occuparsi solo dei problemi più gravi e immediati... il che significa reati contro i vivi e non a danno dei morti. I poliziotti dicono che nella metà occidentale dello stato ci sono almeno due racket che trafficano in auto rubate e quattro officine dove trasformare i veicoli in pezzi di ricambio, e questo limitandosi alle organizzazioni malavitose di cui sono al corrente. Poi ci sono gli assassini, i mariti che picchiano le mogli, i rapinatori, i pirati della strada e gli ubriachi. E dappertutto e sempre c'è il solito problema della droga. La si compra, la si vende, la si coltiva, e ci sono quelli che per la droga continuano a farsi del
male o ad ammazzarsi. Secondo Brandon, il capo della polizia a Norway non usa più nemmeno la parola cocaina. Lui la chiama Merda in polvere e quando redige i suoi rapporti scrive M****. Non mi è stato difficile capire che cosa Brandon cercava di asserire. Quando si ha la responsabilità dell'ordine e della legalità in un piccolo centro abitato e si cerca di compiere il proprio dovere correndo di qua e di là su una Plymouth vecchia di quattro anni che minaccia regolarmente di perdersi qualche pezzo per la strada se osi superare le settanta miglia, fai in fretta a stabilire un ordine di priorità e un tizio che prova gusto a giocare con i cadaveri non si piazza sicuramente nei primi posti della lista. Ho ascoltato tutto molto attentamente e ho accettato in generale le sue argomentazioni, ma non fino in fondo. «C'è sicuramente del vero in tutto quel che dici, ma tutte queste giustificazioni mi sembrano un po' tendenziose», gli ho detto. «Insomma, volendo ben considerare le imprese di Joubert... be', non è che proprio 'giocasse con i morti', ti pare? O mi sbaglio?» «Non ti sbagli affatto», mi ha risposto lui. Nessuno dei due se la sentiva di venir fuori allo scoperto e affermare esplicitamente che per sette anni quell'anima aberrante era saltata da una città all'altra a farsi fare pampini dai morti e che fermarlo era parecchio più importante che pizzicare le ragazzine che rubavano un cosmetico al drugstore locale o scoprire chi aveva coltivato l'erba che fa ridere nel campo dietro alla chiesa battista. Resta il fatto che nessuno si scordò di lui e che tutti continuarono a tenersi informati, gli uni con gli altri. Un «soggetto» come Rodolfo innervosisce i rappresentanti della legge per tutta una serie di ragioni, ma la principale è che un individuo così squilibrato da seviziare dei cadaveri potrebbe essere anche abbastanza squilibrato da decidere un giorno o l'altro di provarci con qualche vivente... non che si vivrebbe molto a lungo dopo che Rodolfo avesse deciso di spaccarti la testa con la fedele ascia. Un'altra preoccupazione della polizia erano gli arti mancanti. A che servivano? Brandon dice che per breve tempo è circolato all'ufficio dello sceriffo della contea, a Oxford, un appunto anonimo con scritto: «Forse Rodolfo l'Amante è in realtà Annibale il Cannibale». Il foglio fu distrutto non perché l'ipotesi venisse considerata come una battuta di pessimo gusto, e non lo era, ma perché lo sceriffo temeva che la notizia trapelasse alla stampa. Tutte le volte che qualche ufficio di sceriffo o dipartimento locale poteva permetterselo, si mandava qualcuno a sorvegliare questo o quel cimitero.
Ce ne sono molti nel Maine occidentale e immagino che fosse diventato una specie di hobby per alcuni di questi poliziotti. La semplice teoria è che se continui a tirare i dadi, prima o poi farai il punto che vuoi. E in pratica è proprio così che è andata a finire. All'inizio della settimana scorsa, ma per l'esattezza sono passati ormai dieci giorni, lo sceriffo della contea di Castle, Norris Ridgewick, era parcheggiato davanti a un fienile abbandonato vicino all'Homeland Cemetery, in compagnia di uno dei suoi aiutanti. Il fienile si trova su una strada secondaria, sulla quale c'è il cancello posteriore del cimitero. Erano le due di notte e stavano per sospendere l'appostamento e andarsene a dormire, quando John LaPointe, il vice, ha sentito un motore. Non hanno visto il furgone, se non quando si è fermato proprio davanti al cancello, perché nevicava e il furgone procedeva a fari spenti. LaPointe avrebbe voluto arrestarlo nel momento in cui lo ha visto scendere e mettersi al lavoro con un grimaldello sul cancello in ferro battuto, ma lo sceriffo l'ha trattenuto. «A vederlo non gli daresti molto credito», mi ha detto Brandon, «ma Ridgewick conosce l'importanza di un arresto eseguito al momento giusto. Neanche nei momenti cruciali perde di vista l'aula di tribunale. L'ha imparato da Alari Pangborn, quello che ha ricoperto l'incarico prima di lui, e questo vuol dire che lo ha imparato dal migliore.» Quando il furgone è entrato nel cimitero, Ridgewick e LaPointe gli hanno concesso dieci minuti, dopodiché lo hanno seguito senza accendere i fari e procedendo con la massima lentezza nella neve. Pedinando le tracce lasciate dal furgone, non hanno impiegato molto a capire dov'era diretto: la cripta municipale scavata nella china del poggio. Tutti e due pensavano a Rodolfo, ma nessuno dei due si è azzardato a pronunciare il suo nome. LaPointe ha detto che sarebbe stato come menare gramo a un lanciatore che sta arrivando alla terza eliminazione senza aver concesso neanche una base. Ridgewick ha ordinato al suo aiuto di fermarsi prima che fossero in vista della cripta, perché voleva dare al loro uomo tutta la corda che gli serviva per impiccarsi da sé. E alla fine Rodolfo se ne è ritrovata abbastanza da appendersi alla luna. Quando finalmente Ridgewick e LaPointe sono entrati in scena con le armi spianate e le torce accese, hanno sorpreso Raymond Andrew Joubert metà dentro e metà fuori una bara scoperchiata. In una mano aveva la scure e nell'altra l'uccello e LaPointe ha detto che sembrava in procinto di mettersi al lavoro con tutti e due. Credo di immaginarmi lo spavento che devono aver provato la prima
volta che l'hanno visto alla luce delle loro torce e non ne sono sorpresa, ma mi compiaccio di affermare che nessuno si può figurare meglio di me la scena dei due poliziotti che si trovano a tu per tu con una creatura come quella in una cripta di cimitero alle due di notte. A parte tutto il resto, Joubert soffre di acromegalia, un ingrossamento progressivo di mani, piedi e faccia, originato da un cattivo funzionamento della pituitaria. È per questo che ha la fronte così prominente e le labbra sporgenti. Ha anche braccia incredibilmente lunghe, che gli arrivano fino alle ginocchia. Circa un anno fa a Castle Rock c'è stato un grave incendio che ha distrutto gran parte del centro cittadino, perciò di questi tempi lo sceriffo trasferisce i criminali più gravi a Chamberlain o a Norway. Ma né lo sceriffo Ridgewick né l'aiuto LaPointe avevano molta voglia di affrontare le strade innevate alle tre di notte, così l'hanno portato invece al capannone ristrutturato, dove hanno organizzato la loro stazione di polizia di fortuna. «Loro sostengono che era per l'ora tarda e la neve nelle strade», ha commentato Brandon, «ma io credo che ci fosse dell'altro. Penso che sotto sotto lo sceriffo Ridgewick non volesse mollare a qualcun altro la pignatta del suo albero della cuccagna senza metterci mano lui per primo. In ogni caso, Joubert non ha fatto storie, se n'è rimasto tranquillamente seduto di dietro, beato come una Pasqua, quasi che lo avessero salvato da un episodio di I racconti del terrore. E durante il tragitto, lo giurano tutti e due, cantava quel vecchio pezzo dei Turtles che s'intitola Happy Together. «Ridgewick ha chiesto via radio che due altri aiutanti occasionali si facessero trovare alla stazione di polizia. Prima di andarsene di nuovo con LaPointe, si è assicurato che Joubert fosse al sicuro e che gli aiutanti fossero sufficientemente armati di fucili e caffè fresco. Dopodiché è tornato a prendere il furgone. Si è messo i guanti, si è seduto su uno di quei sacchi di plastica verdi che i poliziotti chiamano 'proteggi prove ' quando se ne servono sul lavoro ed ha riportato in città il furgone. Ha guidato con tutti i finestrini aperti e ha detto che l'abitacolo puzzava lo stesso come una macelleria rimasta per sei giorni senza energia elettrica.» La prima vera occhiata all'interno l'ha data sotto le lampade ad arco dell'officina meccanica della città. Nei gavoni montati lungo i fianchi del cassone c'erano alcune membra semiputrefatte. Ha trovato anche un astuccio di vimini, molto più piccolo di quello che ho visto io, e una cassetta per gli attrezzi piena di strumenti da scassinatore. Quando ha aperto l'astuccio, ha trovato sei peni appesi a un pezzo di corda di iuta. Ha detto di avere capito subito di che cosa si trattava: era una collana. In seguito
Joubert avrebbe ammesso di essersela infilata spesso al collo durante le sue spedizioni nei cimiteri, aggiungendo di essere convinto che, se l'avesse portata anche in quell'ultima incursione, non lo avrebbero mai preso. «Mi portava un mucchio di fortuna», ha detto e considerato quanti anni ci sono voluti per prenderlo, Ruth, mi pare che non si possa dargli torto. La cosa peggiore però era il sandwich sul sedile di fianco a quello di guida. Dalle due fette di pane sovrapposte sporgeva quella che non poteva essere altro che una lingua umana. Era anche tutta spalmata di quella senape color giallo canarino che piace tanto ai bambini. «Ridgewick è riuscito a scendere dal furgone prima di vomitare», mi ha riferito Brandon. «Meglio per lui, perché quelli della statale gli avrebbero scavato un secondo foro nel sedere, se avesse rovesciato la cena sulle prove. D'altra parte, se non avesse vomitato, ci sarebbe stato da meditare sull'opportunità di rimuoverlo dall'incarico per motivi psicologici.» Poco dopo il sorgere del sole Joubert è stato trasferito a Chamberlain. Mentre Ridgewick era girato per leggere a Joubert i suoi diritti attraverso la rete di protezione (era già la seconda o terza volta che glieli leggeva; Ridgewick è evidentemente molto preciso), Joubert lo ha interrotto per dire che forse aveva fatto «qualcosa di brutto a papà-mamma, mi spiace molto». Dai documenti trovati nel suo portafogli avevano già stabilito che abitava a Motton, una cittadina rurale sull'altra sponda del fiume, di fronte a Chamberlain. Messo al sicuro Joubert nei suoi nuovi alloggi, Ridgewick ha informato i colleghi di Chamberlain e di Motton di quanto aveva dichiarato l'arrestato. Di ritorno a Castle Rock, LaPointe ha chiesto allo sceriffo che cosa secondo lui avrebbero trovato gli agenti diretti a casa di Joubert. «Non lo so», ha risposto Ridgewick, «ma spero che si siano ricordati di portarsi le maschere antigas.» Una versione di ciò che hanno trovato e le conclusioni che ne sono state tratte sono apparse sui giornali nei giorni successivi, occupando naturalmente sempre più spazio, ma gli agenti della statale e gli uomini della procura generale del Maine si erano già fatti un quadro abbastanza preciso di quanto era accaduto nella casa di Kingston Road prima che il sole tramontasse sul primo giorno trascorso da Joubert dietro le sbarre. La coppia che Joubert aveva definito i suoi «papà-mamma», era costituita in realtà da una matrigna e dal suo compagno convivente. Naturalmente erano morti. Erano morti da mesi, ormai, anche se Joubert, nel far riferimento alla «cosa brutta», ne parlava come se li avesse uccisi solo pochi
giorni o poche ore prima. Li aveva scotennati tutti e due e aveva mangiato quasi tutto «papà». C'erano pezzi di corpi umani un po' dappertutto, in giro per casa, alcuni imputriditi nonostante la bassa temperatura della stagione, altri accuratamente imbalsamati. La maggior parte degli organi imbalsamati erano organi sessuali maschili. Su una mensola vicino alle scale che scendono in cantina la polizia ha trovato una cinquantina di vasi contenenti occhi, labbra, dita di mani e piedi e testicoli. Era un patito delle conserve, il nostro Joubert. La casa era anche piena, e intendo proprio piena, di refurtiva, soprattutto oggetti provenienti da campi estivi e abitazioni di villeggiatura. Joubert li chiama «le mie cose»: elettrodomestici, utensili, attrezzi da giardinaggio e abbastanza biancheria intima da rifornire una boutique. A quanto pare gli piaceva mettersi addosso mutandine e reggiseni. La polizia sta ancora cercando di dividere le parti dei corpi umani provenienti dalle sue spedizioni ai cimiteri da quelle derivanti dalle sue altre attività. Calcolano che debba aver ucciso almeno una decina di persone nell'arco degli ultimi cinque anni, tutti autostoppisti che caricava sul suo furgoncino. Brandon dice che può darsi che la conta totale superi la prima stima, ma il lavoro all'istituto di Patologia procede a rilento. Joubert non è di alcun aiuto, non perché non voglia parlare, ma perché parla troppo. Secondo Brandon, ha confessato già più di trecento crimini, incluso l'assassinio di George Bush. Pare che sia convinto che George Bush sia in realtà Dana Carvey, l'attore di Saturday Night Live. È vissuto dentro e fuori un numero imprecisato di istituti per malattie mentali fin dall'età di quindici anni, quando fu arrestato per pratiche sessuali contro la legge con la cugina. La cugina in questione all'epoca aveva due anni. Naturalmente lui era a sua volta vittima di abusi sessuali. Pare che abbia ricevuto le attenzioni del padre, del patrigno e della matrigna. Com'è che si diceva una volta? La famiglia che gioca insieme resta insieme, no? Fu inviato a Gage Point, una combinazione fra centro di riabilitazione, ostello e istituto mentale per adolescenti, nella contea di Hancock, con l'accusa di molestia sessuale aggravata, e rilasciato come guarito quattro anni dopo, quando ne aveva diciannove. Si era nel 1973. Trascorse la seconda metà del 1975 e gran parte del 1976 all'AMHI di Augusta. Ci era finito in conseguenza del suo periodo di «giochi con gli animali». So che faccio male a scherzarci sopra, Ruth, chissà che cosa penserai di me, ma
sinceramente non so che cos'altro fare. Certe volte penso che se non scherzassi mi metterei a piangere e se mi mettessi a piangere non riuscirei a fermarmi più. Chiudeva i gatti nei bidoni delle immondizie e li faceva saltare in aria con quei petardi, quelli potenti che chiamano castagnole, ecco che cosa faceva... e ogni tanto, quando sentiva il bisogno di un diversivo dalla routine quotidiana, inchiodava un cagnolino a un albero. Nel '79 finì a Juniper Hill per aver violentato e accecato un bambino di sei anni. Questa volta ci entrava per restarci, ma quando ci sono di mezzo la politica e gli istituti statali, specialmente quelli per malattie mentali, sappiamo bene che non c'è niente di veramente duraturo. Così fu dimesso da Juniper Hill nel 1984, giudicato di nuovo «guarito». Brandon è dell'opinione, alla quale mi associo anch'io, che questa seconda guarigione dipendesse più dai tagli negli stanziamenti per gli ospedali psichiatrici dello stato che da qualche miracolo della scienza moderna. Fatto sta che Joubert tornò a Motton a vivere con la matrigna e il suo compagno e lo stato si dimenticò di lui... se non per consegnargli una patente di guida. Sostenne l'esame e ottenne una patente assolutamente legale (cosa che per certi versi trovo più stupefacente di tutto il resto) e in un momento imprecisato fra la fine del 1984 e l'inizio del 1985 ha cominciato a usarla per compiere giri turistici nei cimiteri locali. Non se ne stava certo con le mani in mano. D'inverno aveva le sue cripte e i suoi sepolcri; in primavera e in autunno si faceva i campi estivi e le abitazioni di villeggiatura di tutto il Maine occidentale prendendosi tutto quello di cui s'invaghiva. Le «mie cose», se ben ricordi. A quanto pare aveva un debole particolare per le fotografie in cornice. Ne hanno trovati quattro bauli nella soffitta della casa di Kingston Road. Brandon dice che stanno ancora contando, ma che il totale si aggirerà sulle settecento. È impossibile capire fino a che punto papà-mamma abbiano partecipato alle sue imprese prima che li liquidasse. Non poco, di certo, perché Joubert non aveva mai fatto il minimo sforzo per tenere nascoste le sue attività. Quanto ai vicini, pare che il loro motto sia: «Pagavano i conti e stavano per conto loro. Noi non ne sappiamo niente». C'è una macabra forma di perfezione in tutto questo, non ti pare? Gotico del New England, riportato dalla rivista specializzata Psichiatria aberrante. In cantina hanno trovato un'altra valigetta di vimini, quella grande. Brandon si è procurato fotocopie delle fotografie scattate dalla polizia a documentazione di quel particolare ritrovamento, ma dapprincipio non si sentiva di mostrarmele. Va bene, mi correggo, sto ricorrendo agli eufemi-
smi. Quello è stato l'unico momento in cui ha ceduto a una tentazione che sembra comune a tutti gli uomini, sai a quale alludo, quella di fare John Wayne. «Faccia come le dico, piccola signora, continui a guardare dalla parte del deserto finché non saremo passati in mezzo a tutti questi indiani morti. Le dirò io quando sarà finita.» «Sono pronta ad ammettere che con tutta probabilità Joubert è stato in quella casa con te», mi ha detto. «Dovrei essere uno struzzo con la testa ficcata nella sabbia per non concederti almeno l'ipotesi. Quadra da ogni punto di vista. Ma rispondi a questa mia domanda: perché vuoi andare avanti, Jessie? Che bene potrebbe mai arrecarti?» Non sapevo rispondere a quella domanda, Ruth, ma sapevo una cosa: non c'era niente che potessi fare per rendere la situazione peggiore di quanto già fosse. Così ho tenuto duro finché Brandon ha capito che la piccola signora non sarebbe risalita sulla diligenza prima di aver visto con i propri occhi tutti quegli indiani morti. Così mi ha mostrato le fotocopie. Quella che ho osservato più a lungo era contrassegnata da un cartellino messo nell'angolo con la scritta POLIZIA DI STATO-REPERTO 217. Mi sembrava di vedere una registrazione video del mio incubo peggiore. Vi si vedeva una valigetta di vimini aperta in maniera che vi si potessero scattare foto del contenuto, vale a dire un mucchio di ossi e ossicini insieme con un assortimento di gioielli, in parte bigiotteria, ma in parte preziosi di valore, alcuni rubati nelle residenze estive e alcuni senza dubbio presi dalle mani gelide di cadaveri conservati nei piccoli cimiteri di provincia in attesa della tumulazione. Ho guardato quella fotografia così freddamente atroce e in certo modo spudorata, come sono sempre le fotografie della polizia, e mi sono ritrovata nella casa al lago. Lo sensazione è stata immediata. Ci sono ripiombata dentro di punto in bianco. Non stavo ricordando, capisci? Sono là, ammanettata e impotente a guardare le ombre che si muovono sul suo sogghigno, a sentire la mia voce che gli dice che mi sta impaurendo. Poi si china per raccogliere l'astuccio, senza mai distogliere da me quegli occhi spiritati, e lo vedo infilarvi dentro la mano deforme, vedo la mano che comincia a rimestare ossi e gioielli e sento il rumore che fanno, come di nacchere sporche. E vuoi sapere qual è l'orrore più grande che mi è rimasto ancora dentro? Pensavo che fosse mio padre, che quello fosse il mio papà, tornato dal mondo dei morti a fare quello che aveva voluto fare molti anni fa. «Coraggio allora, fatti avanti», gli ho detto. «Avanti. Solo promettimi che do-
po mi liberi. Che mi liberi e mi lasci andare. Promettimi solo questo.» Ruth, credo che avrei detto le stesse parole anche se avessi saputo chi era in realtà. Credo? Ma io so che avrei detto quelle stesse parole. Capisci? Gli avrei permesso di infilare il cazzo nel mio corpo, lo stesso cazzo che infilava nella gola dei morti, se solo mi avesse promesso che non mi avrebbe lasciato morire come un cane dì crampi e convulsioni. Se solo mi avesse promesso di liberarmi. S'interruppe per un momento. Respirava così forte e velocemente che quasi ansimava. Guardò le parole sullo schermo, quell'incredibile, indicibile ammissione, e provò l'impellente spinta di cancellarla. Non perché si vergognasse di farle leggere a Ruth; se ne vergognava, sì, ma non era per quello. Era perché non voleva affrontarle e, se non le avesse cancellate, sentiva che sarebbe stata costretta a farlo. Le parole hanno la capacità di creare i propri imperativi. Ma solo quando non le tieni più in pugno, pensò e allungò l'indice della mano destra. Toccò il tasto di cancellazione, anzi, lo accarezzò, ma poi si ritrasse. Era o non era la verità? «Lo è», mormorò nello stesso borbottio con cui tante volte aveva espresso i suoi pensieri durante le ore di cattività; solo che adesso almeno non si rivolgeva più alla Brava Mogliettina o alla fantomatica Rutti; era tornata da sola e senza dover fare il giro del mondo per arrivarci. Forse c'era qualche progresso. «Sì, è proprio la verità.» E nient'altro che la verità, che Dio l'assistesse. Non avrebbe usato il tasto di cancellazione contro la verità, per quanto certa gente, a cominciare da lei, potesse trovarla peggio che scomoda. L'avrebbe lasciata esistere. Forse alla fine avrebbe deciso di non spedire la lettera (non sapeva nemmeno se fosse giusto caricare sulle spalle di una donna che non vedeva da anni un così pesante fardello di sofferenze e follia), ma non l'avrebbe cancellata e allora era meglio finire subito, alla svelta, prima che il coraggio l'abbandonasse del tutto, prima che finissero di consumarsi anche le ultime forze fisiche. E riprese a scrivere. «C'è una cosa che dovrai ricordare e accettare, Jessie», mi ha detto Brandon. «Non esiste alcuna prova empirica. Sì, so che i tuoi anelli sono scomparsi, ma a questo proposito è possibile che tu abbia visto giusto la prima volta, che siano stati portati via da qualche poliziotto dalla mano un po' troppo lesta.» «E il Reperto 217?» gli ho chiesto. «L'astuccio di vimini?»
Ha alzato le spalle e io ho avuto una di quelle illuminazioni improvvise che i poeti chiamano epifania. Si stava aggrappando alla possibilità che la valigetta fosse solo una coincidenza. Non era facile, ma era più facile che dover accettare tutto il resto, soprattutto il fatto che un mostro come Joubert avesse veramente sfiorato la vita di una persona che conosceva e a cui voleva bene. Ciò che ho visto quel giorno sul volto di Brandon Milheron era più che semplice: avrebbe ignorato un cumulo intero di prove circostanziali e si sarebbe concentrato sulla mancanza di prove empiriche. Si proponeva di credere che fosse stato tutto frutto della mia immaginazione, appigliandosi al caso Joubert per spiegare un'allucinazione particolarmente vivida che avrei avuto mentre mi trovavo ammanettata al letto. E questa intuizione fu seguita da un'altra, ancora più luminosa: potevo farlo anch'io. Sarei stata capace di convincermi di essermi sbagliata... ma se ci fossi riuscita, la mia vita ne sarebbe stata rovinata. Avrei ripreso a sentire le voci, non solo la tua o quella di Frugolino e di Nora Callighan, ma le voci di mia madre e di mia sorella e di mio fratello e delle amichette del ginnasio e di persone conosciute per non più di dieci minuti nella sala d'aspetto di qualche medico e Dio solo sa quante altre. Credo che sarebbero state soprattutto quelle terribili voci di ufo. Non avrei potuto sopportarlo, Ruth, perché nei due mesi trascorsi dopo il mio momentaccio nella casa al lago ho ricordato molte cose per reprimere le quali avevo impiegato anni. Credo che il più importante di quei ricordi sia emerso fra la prima e la seconda operazione alla mano, quando ero in «terapia farmacologica» (definizione tecnica ospedaliera per «fatta sbiellata») quasi costantemente. Ebbene, ho ricordato che nei due anni circa fra il giorno dell'eclisse e il giorno della festa di compleanno di mio fratello Will, nella quale mi diede la strizzata durante la partita a croquet, ho sentito tutte quelle voci in continuazione. Forse la strizzata di Will ha avuto su di me l'effetto di una terapia rozza e accidentale. Non lo posso escludere; non si dice forse che i nostri antenati abbiano imparato a cucinare i cibi dopo aver assaggiato quello che restava dopo gli incendi nelle foreste? Sebbene devo aggiungere che se quel giorno accadde qualcosa che mi restituì una certa serenità interiore, ho idea che non fosse la strizzata di Will, ma il cazzotto che gli ho tirato in bocca di conseguenza. E comunque a questo punto non ha più molta importanza. È importante che, dopo quella volta in terrazza, per due anni ho ospitato in questa testa una specie di coro di bisbigli, decine di voci che trinciavano giudizi su tutto quello che dicevo e facevo. Alcune erano benevole e indulgenti, ma perlo-
più erano voci di persone che avevano paura, persone che èrano confuse, persone che pensavano che Jessie fosse solo zavorra di scarso valore che meritava tutte le cose brutte che le accadevano e che avrebbe dovuto pagare il doppio per ogni cosa buona. Per due anni ho sentito quelle voci, Ruth, e quando sono cessate mi sono dimenticata di loro. Non a poco a poco, ma tutto in una volta. Come può succedere una cosa simile? Io non lo so e con la massima sincerità affermo che non m'importa niente. Mi importerebbe se il cambiamento avesse peggiorato la situazione, immagino, ma non è così, al contrario l'ha migliorata in misura stratosferica. I due anni intercorsi fra l'eclisse e la festa di compleanno sono anni che ho vissuto in uno stato di alienazione, con la mente cosciente suddivisa in un numero imprecisato di chiassosi frammenti e la vera epifania è stata questa: se la do vinta al nostro caro e buon Brandon Milheron, tornerò al punto di partenza, imboccherò inevitabilmente la Via del Manicomio passando per lo Schizofrenia Boulevard. E la prossima volta non ci sarà un fratellino a somministrarmi una rude terapia traumatica; questa volta dovrò cavarmela da me, come ho dovuto liberarmi da me dalle dannate manette di Gerald. Brandon mi osservava, cercando di valutare la reazione che aveva ottenuto con le sue parole. Non deve esserci riuscito, perché si è ripetuto, questa volta formulando un po' diversamente il suo pensiero. «Devi ricordarti che, al di là delle apparenze, è possibile che ti sbagli. E credo che tu ti debba rassegnare al fatto che non potrai mai sapere con assoluta certezza.» «No, non è così.» Ha sollevato le sopracciglia. «Ho ancora un'ottima probabilità di poter accertare che cosa è realmente successo. E tu mi aiuterai, Brandon.» Sulle sue labbra stava cominciando ad affiorare quel suo sorriso non molto piacevole, quello che scommetto che non sa nemmeno di avere in repertorio, quello che vuol dire: non ci puoi convivere e non li puoi neanche ammazzare. «Ah sì? E come?» «Accompagnandomi a trovare Joubert.» «Oh, no», ha protestato subito. «Questa è sicuramente una cosa che non in tendo fare nel modo più assoluto, Jessie. Una cosa che non posso fare.» Ti risparmio il batti e ribatti di un'ora intera di conversazione, che a un certo punto è degenerata in affermazioni profondamente intellettuali come «Sei matta, Jessie» e «Smettila di cercare di governare la mia vita, Bran-
don». Ho riflettuto se agitargli davanti agli occhi lo spauracchio della stampa, perché sapevo che con quello l'avrei avuta vinta di certo, ma alla fine non mi è stato necessario. Mi è bastato piangere. Scriverlo mi fa sentire incredibilmente sporca, ma da un altro punto di vista riconosco più semplicemente un sintomo di quello che non va fra uomini e donne in questo particolare minuetto. Vedi, non ha creduto fino in fondo alla mia serietà finché non mi ha visto piangere. Per farla breve, Brandon si è messo al telefono, ha parlato con quattro o cinque persone ed è tornato a darmi la notizia che l'indomani Joubert sarebbe apparso alla corte distrettuale di Cumberland per rispondere di una serie di accuse complementari, soprattutto furti. Ha detto che mi avrebbe accompagnata se davvero non potevo farne a meno... e se avevo un cappello con veletta. Ho accettato subito e, anche se si capiva dall'espressione che era convinto di aver commesso uno dei più gravi errori della sua vita, ha tenuto fede alle sue parole. S'interruppe di nuovo e quando riprese a scrivere lo fece lentamente, rivedendo attraverso lo schermo la giornata precedente, quando i quindici centimetri di neve caduta la notte scorsa erano ancora solo un minaccioso velo bianco nel cielo. Vide luci lampeggianti in lontananza, sentì la Beamer blu di Brandon che rallentava. Siamo arrivati in ritardo all'udienza perché sulla I-295, che sarebbe la tangenziale, c'era un camion rovesciato. Brandon non l'ha detto, ma so che sperava che arrivassimo troppo tardi, che Joubert fosse già stato riportato nella sua cella in fondo al braccio di massima sicurezza della prigione della contea, ma la guardia in servizio all'ingresso del palazzo di giustizia ci ha detto che l'udienza era ancora in corso, anche se volgeva al termine. Mentre mi apriva la portiera, Brandon mi ha avvicinato la bocca all'orecchio e ha mormorato: «Ora mettiti la veletta, Jessie, e non tirarla su». Ho ubbidito. Brandon mi ha passato un braccio intorno alla vita e mi ha accompagnato dentro. L'aula... Jessie si fermò qui, guardando nella luce morente fuori della finestra con occhi che erano grandi e grigi e vuoti. Ricordando. 38 L'aula è illuminata da quei globi di vetro sospesi che Jessie associa ai negozi economici della sua infanzia e l'atmosfera è sonnacchiosa come
quella di un'aula di scuola elementare sul finire di una giornata invernale. Camminando percepisce in particolare due sensazioni: la mano di Brandon ancora posata sulla vita e il velo che le solletica le guance come una ragnatela. Si sente curiosamente un po' come una sposa che va all'altare. Davanti al seggio del giudice ci sono due avvocati. Il giudice è sporto in avanti, confabula con loro. Sono tutti e tre assorti nell'esame di qualche misterioso dettaglio tecnico. A Jessie sembrano una riproduzione vivente di una scena tratta da qualche romanzo di Charles Dickens. A sinistra, vicino alla bandiera americana, c'è l'ufficiale giudiziario. Accanto a lui, la stenografa di corte legge un romanzo mentre aspetta che si concluda la discussione legale in corso, dalla quale è stata apparentemente esclusa. E, seduto a un tavolo lungo dall'altra parte della balaustrata che separa la zona riservata agli spettatori da quella assegnata ai protagonisti del dibattimento c'è un uomo magro e incredibilmente alto in una tuta arancione da detenuto. Al suo fianco c'è un uomo in giacca e cravatta, certamente un altro avvocato. L'uomo in tuta arancione è chino su un bloc-notes e sta scrivendo qualcosa. Lontana un milione di miglia, Jessie sente la mano di Brandon Milheron che le aumenta la pressione sulla vita. «Così siamo abbastanza vicini», le mormora. Si stacca da lui. Brandon si sbaglia. Non è abbastanza vicino. Brandon non riesce nemmeno a immaginare che cosa stia pensando o provando, ma va bene così; lo sa lei. Al momento tutte le sue voci si sono fuse in una voce sola; si sente deliziata da un'inaspettata unanimità e ha chiara la certezza che se non gli si avvicina ora, se non scende il più vicino possibile a quell'uomo, non se ne allontanerà mai abbastanza. Lui sarà sempre nell'armadio, o dietro la finestra, o nascosto sotto il letto a mezzanotte, con il suo pallido sogghigno raggrinzito, quello che lascia intravedere il baluginare dell'oro in fondo alla bocca. Prosegue a passi veloci verso la balaustrata, con la garza della veletta che le sfiora le guance come una miriade di dita minuscole e ansiose. Sente il brontolio contrariato di Brandon, ma è un suono che le giunge da almeno dieci anni luce di distanza. Più vicino (ma ancora su un altro continente), uno degli avvocati davanti al seggio sta mormorando: «...ritengo che lo stato sia stato intransigente a questo proposito, vostro onore, e se volesse consultare i precedenti da noi presentati, in particolare nel caso Castonguay contro Hollis...» Ancora più vicino, e ora l'ufficiale giudiziario la guarda, per un momen-
to insospettito, ma subito si tranquillizza quando Jessie solleva la veletta e gli sorride. Sempre guardandola negli occhi, l'ufficiale giudiziario indica con il pollice Joubert e muove impercettibilmente la testa in un gesto che, nel suo stato di acuita reattività emotiva, Jessie interpreta con immediata naturalezza, quasi che leggesse un titolo di giornale: Stia lontana dalla tigre, signora. Non si avvicini ai suoi artigli. Poi si rilassa ancora di più vedendo Brandon che la raggiunge, perfetto cavalier cortese se mai ne è esistito uno, ma non sente il ringhio sommesso che le rivolge: «Riabbassa il velo, Jessie, o te lo tiro giù io, dannazione!» Non solo si rifiuta di fare come lui le ordina, ma si rifiuta persino di girarsi. Sa che la sua minaccia è inconsistente. Non provocherebbe mai una scenata nella severa solennità di quell'ambiente e sarebbe disposto praticamente a qualsiasi cosa pur di evitare di finirne coinvolto; ma anche se così non fosse, non cambierebbe nulla. Ha simpatia per Brandon, le piace sinceramente, ma i giorni in cui ha agito solo perché c'era un uomo a dirle di agire sono passati per sempre. Solo marginalmente è consapevole di Brandon che le sibila qualcosa, del giudice che è ancora a consulto con l'avvocato difensore e il pubblico ministero, dell'ufficiale giudiziario che è risprofondato nel suo torpore, della stenografa che lentamente gira una pagina, con un'espressione assorta e un po' trasognata. Sul viso di Jessie c'è ancora, come stampato, il sorriso amabile che ha disarmato l'ufficiale giudiziario, ma il cuore le batte furioso nel petto. È ormai a due passi dalla balaustrata, due piccoli passi, e ora vede che ha giudicato frettolosamente ciò che sta facendo Joubert. Non sta scrivendo. Disegna. Disegna un uomo con un pene eretto più o meno delle dimensioni di una mazza da baseball. L'uomo ha la testa china e si sta succhiando da sé. Vede molto bene la sua opera, ma vede ancora solo una pallida fetta ridotta della guancia dell'artista e le ciocche di capelli flaccidi che gliela sfiorano. «Jessie, non puoi...» comincia Brandon afferrandola per un braccio. Lei se ne libera con uno strattone, senza voltarsi. Ora tutta la sua attenzione è su Joubert. «Ehi!» gli bisbiglia. «Ehi, tu!» Niente, nessuna reazione per adesso. Jessie sente crescere dentro di sé una sensazione di irrealtà. È proprio lei in quell'aula? Ne è sicura? E se è lei, sta davvero chiamando Joubert? Nessuno mostra di essersi accorto di lei. «Ehi! Bastardo!» La voce ora è un po' più alta, stizzita, ancora un sussurro, ma per poco. «Pssst! Pssst! Ehi, sto parlando a te!» Ora il giudice alza la testa, corruga la fronte, allora significa che c'è al-
meno qualcuno che la sente. Brandon le strizza una spalla, soffocando un mugolio di disperazione. Si sarebbe scrollata la sua mano di dosso se avesse cercato di trascinarla via, a costo di strapparsi mezzo vestito, e probabilmente Brandon lo ha intuito, perché si limita a spingerla verso il basso, obbligandola a prender posto sulla panca vacante dietro al tavolo della difesa (tutte le panche sono deserte; tecnicamente è un'udienza a porte chiuse), e in quel momento Raymond Andrew Joubert, finalmente, si gira. Il grottesco asteroide che ha per faccia, con le guance gonfie e sporgenti, la lama del naso e il bulbo deforme della fronte, è totalmente spento, senza il minimo barlume d'intelligenza, di curiosità... ma la faccia è quella, la riconosce all'istante, e l'emozione incontenibile che la riempie non è di terrore. Perlopiù è sollievo. Poi, tutt'a un tratto, il volto di Joubert s'illumina. Le guance magre gli si colorano a chiazze come per uno sfogo cutaneo e gli occhi cerchiati di rosso assumono un raccapricciante luccichio che Jessie già conosce. La fissano, quegli occhi luccicanti, come l'hanno fissata nella casa sul Kashwakamak, con il rapimento esaltato dell'irrimediabilmente squilibrato, e Jessie è come ipnotizzata dall'orribile percezione di essere stata riconosciuta. «Signor Milheron?» sta chiamando in tono severo il giudice da quache altro universo. «Signor Milheron, mi vuol dire che cosa fa lei qui e chi è questa donna?» Raymond Andrew Joubert non c'è più; c'è il cowboy dello spazio, lo spettro dell'amore. Le sue labbra smisurate si arricciano ancora una volta e mostrano i denti, denti macchiati, brutti e perfettamente funzionali da animale selvatico. Vede lo scintillio dell'oro come occhi di fiera in fondo a una grotta. E piano piano, lentissimamente, l'incubo si anima e comincia a muoversi; piano piano l'incubo comincia ad alzare braccia arancioni e troppo lunghe. «Signor Milheron, esigo che lei e la persona che l'accompagna vi avviciniate immediatamente a questo seggio!» Richiamato dal tono sferzante della voce, l'ufficiale giudiziario si scuote di scatto. La stenografa chiude il romanzo dimenticandosi di segnare dov'è arrivata e si guarda intorno. Jessie ha l'impressione che Brandon la prenda per un braccio per ubbidire all'intimazione del giudice, ma non ne è sicura, e comunque non avrebbe importanza, perché non si può muovere; è come immersa fino alla vita nel cemento. E di nuovo l'eclisse, naturalmente; l'eclisse totale, l'eclisse finale. Dopo tanti anni, le stelle brillano di nuovo in
pieno giorno. Brillano nella sua testa. Immobile, guarda la creatura sogghignante che alza le braccia deformi nella tuta arancione, tenendola di nuovo prigioniera con quello sguardo limaccioso e bordato di rosso. Solleva le braccia finché le sue mani lunghe e magre restano sospese nell'aria a una spanna dalle pallide orecchie. Il realismo della sua imitazione è orribile: le pare quasi di vedere i montanti del letto, quando la cosa in tuta arancione prima ruota le mani con lunghe dita pendenti... e poi le agita, come se fossero trattenute per i polsi da qualcosa che possono vedere solo lui e la donna con la veletta rialzata. C'è un bizzarro contrasto tra la voce che esce dalla sua bocca ghignante e la grossolana dilatazione della faccia. È una voce esile e piagnucolosa, la voce di un bambino mentalmente malato. «Io credo che tu non sia nessuno!» pigola Raymond Andrew Joubert. Il suo filo di voce infantile fende l'aria surriscaldata dell'aula come una lama lucente. «Sei fatto solo di luce lunare!» Poi comincia a ridere. Agita le mani orrende dentro manette che solo loro due possono vedere e ride... ride... ride. 39 Jessie allungò la mano verso le sigarette, ma riuscì solo a spingere il pacchetto, facendolo rotolare in giro per tutta la stanza. Tornò alla tastiera e al video senza preoccuparsi di raccoglierlo. Mi sono sentita impazzire, Ruth. Dico sul serio, sentivo perfettamente che stavo perdendo la ragione. Poi una voce ha parlato dentro di me. Frugolino, penso. Frugolino, che mi mostrò come liberarmi dalle manette e mi incitò quando la Brava Mogliettina cercò di interferire, la Brava Mogliettina con la sua logica così malinconica e mistificante. Era Frugolino, che Dio la benedica. «Non dargli soddisfazione, Jessie!» mi ha gridato. «E non lasciare che Brandon ti porti via prima che tu abbia fatto quello che devi!» Brandon ci stava provando. Mi aveva preso per le spalle con entrambe le mani e mi stava tirando come se fossi una corda in un gioco di tiro alla fune e intanto il giudice batteva il suo martelletto e l'ufficiale giudiziario stava accorrendo e mi restava solo un secondo per fare quella cosa che sapevo di dover fare, quella che avrebbe cambiato tutto, mi avrebbe dimostrato che nessuna eclisse può durare per l'eternità così... Così si era protesa in avanti e gli aveva sputato in faccia.
40 E ora s'appoggiò improvvisamente contro lo schienale, si portò le mani agli occhi e cominciò a piangere. Pianse per quasi dieci minuti, vibranti singhiozzi convulsi nella casa deserta, poi riprese a scrivere. S'interruppe spesso per passarsi il braccio sugli occhi lacrimanti, cercando di schiarirsi la vista annebbiata. Dopo un po' cominciò a prendere vantaggio sulle lacrime. ...così mi sono protesa in avanti e gli ho sputato in faccia. Ma non è stato solo uno sputo; gli ho piazzato addosso un autentico scaracchio. Credo che non se ne sia nemmeno accorto, ma non fa niente. Non era per lui, vero? Dovrò pagare una multa per il privilegio e Brandon dice che sarà anche parecchio salata, ma almeno lui se l'è cavata con un semplice rimprovero e questo per me è molto più importante di qualsiasi multa sarò costretta a pagare, dato che praticamente l'avevo obbligato a entrare in quell'aula torcendogli un braccio. Credo che sia tutto. Finalmente. E credo anche che ti manderò questa lettera, Ruth, dopodiché suderò per un paio di settimane in attesa della tua risposta. Non mi do pace per come ti ho trattata tanti anni fa e anche se so di non dovermene addossare la colpa (solo di recente ho cominciato a capire quanto spesso e fino a che punto sono gli altri a muoverci, anche quando ci vantiamo della nostra indipendenza e autonomia), voglio che tu sappia che mi dispiace immensamente, e c'è un'altra cosa che desidero dirti, qualcosa di cui sto cominciando a convincermi: mi riprenderò completamente. Non oggi, non domani e nemmeno la settimana prossima, ma alla lunga starò bene. Bene almeno per quanto è dato a noi comuni mortali. È bello saperlo... è bello sapere che la sopravvivenza è e resta un'alternativa praticabile e che in certi casi è persino soddisfacente. Sapere che in certi casi ha addirittura il sapore della vittoria. Ti voglio bene, cara Ruth. Anche se non potevi saperlo, tu e la tua linguaccia avete avuto gran parte del merito se, in ottobre, ho avuto salva la vita. Ti voglio un mondo di bene. La tua vecchia amica, P.S.: Scrivimi, ti prego. Meglio ancora... perché non mi telefoni?
Due minuti dopo posava sul tavolino dell'ingresso la sua lettera: alcuni fogli di tabulato chiusi in una busta commerciale (lo scritto era troppo voluminoso per una busta ordinaria). Aveva ottenuto l'indirizzo di Ruth da Carol Rittenhouse (un indirizzo, a ogni modo) e lo aveva trascritto sulla busta nelle lettere faticose e un po' stentate che riusciva a vergare con la sinistra. Vicino alla missiva lasciò un messaggio nella stessa scrittura sbilenca. Meggie: imbucami per piacere questa lettera. Se dovessi chiamarti per dirti di non farlo, ti chiedo di far finta di accontentarmi... e di spedirla lo stesso. Andò alla finestra del salotto e rimase lì per un po' a guardare la baia, prima di salire. Cominciava a far buio. Per la prima volta da tanto tempo l'imbrunire non la riempì di terrore. «Ma sì, che me ne frega», brontolò alla casa vuota. «Venga pure la notte.» Poi si girò e salì lentamente le scale. Quando Megan Landis rientrò dalle sue commissioni, un'ora più tardi, e vide la lettera sul tavolino dell'ingresso, Jessie dormiva saporitamente sotto due trapunte di piuma nella stanza degli ospiti, quella che ormai chiamava la sua stanza. Per la prima volta da mesi i suoi sogni non furono sgradevoli e un sorrisetto da gatta le incurvava gli angoli della bocca. Quando si alzò un vento freddo di febbraio e prese a fischiare sotto le grondaie e a gemere nel caminetto, si accoccolò meglio sotto le trapunte... ma quel sorrisetto sornione non scomparve. FINE