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JOYCE CAROL OATES QUELLI (Them, 1969) a mio marito, Raymond Quelli è stato scritto in parte grazie a una sovvenzione generosamente concessa dalla John Simon Guggenheim Memorial Foundation. ... poiché siamo poveri, dovremo essere depravati? Il diavolo bianco di John Webster NOTA DELL'AUTRICE Questa è un'opera storica in forma narrativa... veduta cioè in una prospettiva personale, che è poi il solo tipo di storia possibile. Negli anni 1962-1967 insegnai inglese nell'Università di Detroit, una scuola diretta da Gesuiti e frequentata da parecchie migliaia di studenti, molti dei quali pendolari. Durante tale periodo conobbi la "Maureen Wendall" di questo racconto. Era stata mia allieva in un corso serale e, alcuni anni dopo, mi scrisse e facemmo conoscenza. Le sue numerose difficoltà e complicazioni mi assillarono e mi affascinò la storia della sua vita, la sua vita come una possibile storia, attratta forse da lei a causa di certe affinità tra noi due come ella fa rilevare in una delle sue lettere. La mia sensazione iniziale per quanto concerneva la sua, vita fu: «Questa dev'essere fantasia, non è possibile che sia tutto vero!». La sensazione più definitiva fu: «Questo è il solo genere di fantasia che sia reale». E così il romanzo Quelli, che in realtà concerne "loro" specifici e non è semplicemente una tecnica letteraria per riferirsi a noi tutti, si basa soprattutto sui numerosi ricordi di Maureen. Le sue osservazioni, quando era possibile, sono state incluse alla lettera nel, racconto, e io devo i voluminosi particolari di questo romanzo alla terribile ossessione di lei per la propria vicenda personale. Per Maureen, questa "confessione" ebbe l'effetto di una sorta di terapia psicologica, il cui beneficio fu, forse, temporaneo; per me, che l'ascoltavo, tutto questo materiale ebbe l'effetto di escludere temporaneamente la mia real-
tà, la mia vita personale, sostituendola con le varie avventure da incubo dei Wendall. Le loro esistenze esercitavano una pressione magica sulla mia, per cui incominciai a sognare di quelle persone anziché di me stessa, a sognarne e a risognarne le vite. Il loro mondo, essendo così remoto da me, mi penetrò con una forza tremenda e, in un cerio senso, il romanzo si scrisse per suo conto. Determinati episodi, tuttavia, vennero riveduti dopo che attente ricerche avevano dimostrato come il contesto fosse confuso. Nulla nel romanzo è stato esagerato allo scopo di accrescere le possibilità di dramma... in effetti, i numerosi sordidi e scandalosi eventi della vita nei quartieri miserabili, descritti in ogni particolare in altre opere realistiche, sono stati qui attenuati, soprattutto a causa del mio timore che troppo realismo potesse divenire intollerabile. Da allora, siamo partiti tutti da Detroit... Maureen è attualmente una casalinga a Dearborn, nel Michigan; io insegno in un'altra università; e Jules Wendall, quello strano giovane, probabilmente si trova tuttora in California. Forse, un giorno, scriverà la propria versione di questo romanzo, alla quale non darà il titolo alquanto sdegnoso e timoroso che è Quelli. I FIGLI DEL SILENZIO 1 In una calda sera dell'agosto 1937, una ragazza innamorata si trovava in piedi davanti allo specchio. Si chiamava Loretta. Era innamorata della propria immagine riflessa nello specchio, e da questo amore sognante e piacevole scaturiva un senso di eccitazione irrequieto e cieco... in quale direzione si sarebbe mosso, che cosa sarebbe accaduto? Si chiamava Loretta; le piaceva anche quel nome, sebbene Loretta Botsford le piacesse meno. Il cognome era come un peso che la trascinasse in basso, non aveva melodia. In piedi, fissava lo specchio dalla cornice di plastica sul suo tavolino da toletta, cercando di sfruttare al massimo la luce, scorgendo, nella propria leggiadria dal colorito piuttosto acceso, sana e ordinaria, un accenno a qualcosa di audace e di pericoloso. Guardarsi allo specchio era come guardare nell'avvenire; tutto
si trovava lì, in attesa. Ella non amava soltanto quel viso. Amava altre cose. Durante la settimana lavorava nella lavanderia e tintoria Aiax, ed era molto fortunata ad avere quel posto, e nel corso della settimana il languore fumigante, frettoloso delle sue fatiche faceva nascere in lei un senso di eccitazione. Che cosa sarebbe accaduto? Quel giorno era sabato. Aveva la faccia pienotta e la lieve, birichina rotondità delle gote la faceva sembrare più giovane di quanto fosse - sedici anni - e gli occhi erano azzurri, di un azzurro blando, noncurante, non molto svegli. Le labbra erano dipinte di uno scarlatto scuro, esattamente secondo la moda del tempo. Aveva le sopracciglia depilate, esattamente secondo la moda del tempo. Non sognava, forse, sulle fotografie del supplemento domenicale, e non indugiava, andando al lavoro, davanti al cinematografo Trinity, per contemplare i cartelloni? Indossava un vestito blu-mare, stretto in vita. La vita era sorprendentemente sottile, le spalle un po' larghe, quasi maschili; una ragazza robusta. Su quelle spalle capaci si levava la testolina incostante e sognante, capelli biondi, rigonfi, che scendevano con riccioli civettuoli sulle orecchie, sul collo, sulla schiena, per cui, quando ella correva sul marciapiedi, si sollevavano dietro di lei e gli uomini si fermavano a fissarla... erano come gli uomini dei film che non appaiono in primo piano, ma si limitano ad accentrare l'interesse, a mostrare dove l'interesse dovrebbe essere diretto. Loretta era innamorata di questa riflessione. Dietro la sua bella pelle chiara si trovava un universo di epidermide, tutta sana. Questo le piaceva, amava il fatto che esistessero ragazze come lei, anche se non sarebbe riuscita a esprimere con precisione quel che sentiva. Diceva alla sua amica Rita: «A volte mi sento così felice per niente che devo essere matta». Anche mentre si trascinava qua e là, al mattino, cercando di fare alzare suo padre, cercando di dare la colazione a suo fratello Brock e di uscire prima che qualcuno incominciasse un litigio, provava ugualmente una singolare sensazione di felicità, di pungente eccitazione, che nulla avrebbe potuto spegnere. Che cosa sarebbe accaduto? «Oh, non sei matta,» aveva detto Rita, cogitabonda, «soltanto, non hai ancora provato.» Si lisciò i capelli con una pesante spazzola rosa. La crucciava vedere i suoi riccioli così cascanti... questo succedeva a causa del caldo. Dall'appartamento dirimpetto, attraverso la finestra aperta, le giunse la musica di una radio, il che significava sabato sera, e il cuore prese a martellarle per l'aspettativa delle lunghe ore imminenti, durante le quali qualsiasi cosa sarebbe potuta accadere. A suo padre, che era disoccupato da quasi dieci anni, e non poteva fare un bel niente, piaceva starsene a letto a bere e fu-
mare, infischiandosene del fatto che non sarebbe mai riuscito a ricuperare tante ore sciupate... ma Loretta sentiva che il tempo stava trascorrendo troppo in fretta. Questo la innervosiva. Si passò la spazzola sul braccio nudo, in un gesto dolce, ignaro, carezzevole e sentì l'atmosfera sognante del tardo pomeriggio d'estate scaturire in lei. In cucina, qualcuno sedette pesantemente, quasi rispondendole, una replica al suo fantasticare. «Ehi, Loretta!» chiamò Brock. «Sì, vengo.» La voce le uscì aspra riecheggiando le lavatrici a secco e i rumori della strada, ma non era la sua vera voce; la sua vera voce era velata e femminile. Andò a preparare la cena per Brock. La cucina era stretta e lui doveva starle per forza tra i piedi, sedendo, per cui ella fece una smorfia e disse, con ironia, schiacciandosi per passare: «Scusami tanto». Anche Brock era in ghingheri per il sabato sera. Indossava un vestito blu e si era messo una cravatta gialla. Aveva compiuto vent'anni appena poche settimane prima, la qual cosa lo faceva sembrare a Loretta vecchissimo, e sulla sua faccia si era impressa un'espressione permanente di nervosa scaltrezza. Come Loretta, aveva i capelli biondi, ma gli si erano scuriti; erano di un biondosciacquatura di piatti e non se li lavava più di una volta al mese... li aveva rigidi di brillantina. La faccia era forte, spigolosa, con zigomi prominenti. La stessa faccia della loro madre. Dopo la morte di lei, alcuni anni prima, Loretta aveva cominciato a vederla nella faccia di Brock. E negli improvvisi, impulsivi scoppi di rabbia di Brock - non faceva che prendersela con il vecchio e con certi vicini - ella vedeva la stessa irrequieta malevolenza di sua madre; era spaventoso. «Gesù Cristo, è profumo, questo? Questa roba che puzza?» disse Brock. «Va' al diavolo. Non sei spiritoso.» Tolse dalla ghiacciaia una scodella di patate e le mise in una padella; le aveva sbucciate prima. Il grasso sfrigolò come se volesse sputarle addosso. Brock, seduto a tavola con quell'aria di importanza, proprio all'estremità, in modo che lei stentava ad andare avanti e indietro, era come lo sputacchiare maligno del grasso; le bastò sbirciarne gli occhi divertiti per vedere quanto fosse odioso. «Senti, che diavolo ti rode?» domandò Loretta. «Il vecchio è ancora in casa?» «Lo sai che non c'è. È uscito stamane con quel Cole per andare a vedere un appezzamento di terreno. Oh, lo so che è pazzesco... non guardare me. Non è mia la colpa.»
«Quale appezzamento di terreno? Vuole acquistare un terreno?» «Non acquisterà niente.» «Con che cosa? Dove sono i soldi? Come può comprarlo?» «Lascia perdere. Non danneggia nessuno. Che differenza fa?» «È malato in testa. Dovrebbe essere portato via.» «Portato via dove?» «Dovrebbe essere ricoverato.» Brock si appoggiava in avanti sui gomiti e parlava con la sua voce rapida, vaga, alquanto indifferente, eppure, dietro a essa, v'era una singolare, nervosa malignità. Loretta lo aveva proprio in antipatia. Era suo fratello, e negli anni della fanciullezza si era comportato bene con lei... aveva fatto a botte con i ragazzetti che la stuzzicavano, attenendosi alle regole della strada, ma questo, forse, soltanto per il proprio onore, e, a un certo momento, nessuno avrebbe mai potuto indovinare che Brock Botsford, il ragazzetto sparuto e curvo dagli occhi celesti spalancati, sarebbe cresciuto diverso dagli altri ragazzi, divenendo quest'uomo strano, falsamente serio. Ma ora la spaventava; non voleva che le sue amiche gli parlassero perché, senza dubbio, se ne sarebbero andate dicendo «Non è un finocchio?» in quella maniera meravigliata, placida, tipica delle ragazze, compendiando un'intera vita con infallibile abilità. «Oh, tu parli troppo. Va' a trovarti un lavoro, trovati un buon lavoro, se credi di essere migliore di lui» disse Loretta con perfidia. Sedette all'altro lato del tavolo. Il braccio di Brock giaceva di traverso quasi sull'intera larghezza del tavolo, e, con le dita irrequiete, egli avrebbe potuto afferrare il braccio di lei e stringerlo. Gli fissò la mano. Brock lavorava in una fabbrica, adesso. Ancora non era chiaro a Loretta che cosa producesse quella fabbrica. Non produceva automobili, come le fabbriche di Detroit e di Flint; costruivano invece pezzi... pezzi di automobili? pezzi di treni? Brock lavorava in quella che veniva chiamata l'officina, e aveva le mani sempre sudice, le unghie sempre orlate di grasso, e sotto la sporcizia la pelle era di un bianco spento come lo era stata quella della mamma. Per una pelle così flaccida di natura, Loretta non provava alcun affetto, soltanto pietà; la crucciava perché le sembrava che non fosse a posto. Brock passava da un lavoro all'altro, insieme a due o tre dei suoi ex compagni di scuola, più tonti di lui sebbene altrettanto chiassosi, e amavano starsene in piedi con le mani nelle tasche della giacca e ridacchiare delle storielle spinte di Brock, sbirciando Loretta per vedere se le capisse. Lei li giudicava tutti quanti bastardi senza rimedio. Il mondo si stava suddividendo in
due parti, quelli che erano bastardi senza rimedio e non valeva nemmeno la pena di sputargli addosso, e quelli che sarebbero riusciti a combinare qualcosa. C'erano ragazzi come suo cugino Frank Benyas, giudicato già cinque volte, non una di meno, dal Tribunale dei Minorenni, che infelicitavano l'esistenza delle loro madri, ma, ciò nonostante, avevano in sé una certa onesta serietà la quale significava che se la sarebbero cavata bene nella vita. Frank era adesso apprendista tipografo, e se la sarebbe cavata benissimo. C'erano altri ragazzi, come Joe Krajenke e Floyd Sloan e Bernie Malin, che avevano finito con il cacciarsi tutti nei guai, finendo persino in carcere, eppure nei loro occhi non splendeva l'inutile e inquieta malignità di Brock... specie Bernie Malin, che a Loretta piaceva, e al quale ella pensava spesso, per lunghi, sognanti minuti. Bernie era in gamba. Perdeva la pazienza, prendeva a pugni un po' tutti, poi, il giorno dopo, si pentiva, e inoltre aveva un lavoro, e, qualsiasi cosa fosse a impedire alla gente di precipitare nel fondo del mondo come vi era precipitato suo fratello, Bernie la possedeva, era un mistero. «Sei un bastardo così esasperante che a volte mi dai la nausea» disse Loretta. Parlò in fretta e con durezza, come una sorella parla al fratello, senza nascondere niente. Alla presenza di lui sedeva con le spalle ingobbite e le braccia appoggiate sul ventre, che sporgeva un po' quando non ci stava attenta. «Tutta quella storia di ieri sera è stata stupida. Perché te la prendi sempre con lui? E poi non ti dai nemmeno la pena di nascondere la tua stupida pistola. Che cosa c'è di storto in te? Stai cercando di fargli venire un colpo, o che altro?» Brock rise. «Sarebbe un grande giorno!» «Una crisi cardiaca o che so io?» «Perché no, dopo quello che fece a Ma'?» «Oh, a lei non fece un bel niente. Che diavolo! Non fu colpa sua se lo licenziarono. Licenziarono tutti. Lei fu pazza a incolparlo di questo, doveva sempre incolpare qualcuno, così vedeva le cose...» «Senti, non darle della pazza.» «Be', sta' a sentire,» disse Loretta, stirando le labbra in un sorriso esagerato, «io non difendo nessuno dei due perché sono stufa di tutta questa faccenda. Sono stufa di questa casa. Sicché lui ha paura di lavorare; bene, ce l'ha anche il padre di Rita... nemmeno lui è più tornato laggiù. Hanno paura di rompere qualcosa, o di svenire, o di vomitare mentre lavorano. È pazzesco, d'accordo, ma non gliene faccio una colpa. Perché vuoi sempre incolpare la gente per cose delle quali non possono fare a meno? Ma' cre-
deva in Dio, ma tu, tu non ci credi, e allora perché vuoi sempre incolpare gli altri?» «Che c'entra questo?» «Io me ne frego. Non mi volto a guardare indietro, ecco tutto.» «Be', io sì.» «Che cosa ci farai con quella pistola?» Brock si batté la fronte con le dita e finse di pensare. «Ci ammazzerò qualcuno» disse seriamente. Loretta fece «Tss» per dimostrare il suo disprezzo, si alzò e andò a rimestare le patate. Le annaffiò abbondantemente con pepe. Che si bruciasse la bocca, il miserabile bastardo... Si voltò a sbirciarlo e vide quanto aveva curve le spalle, anche sotto il vestito nuovo. Vent'anni! Gli ci erano volute due settimane di paga per comprare quel vestito e, subito dopo averlo comprato, si era messo a schernirlo, vergognandosene; lei non aveva idea del perché. Brock era fatto così. Voleva qualcosa per un anno, voleva qualcosa per tutta la vita; e, non appena l'aveva, quella cosa diventava immondizia nelle sue, mani e a lui non restava che guardarla con scherno, interdetto. Provò compassione per Brock. Disse: «La stai tenendo per qualcuno, è così?». «Chi vuole saperlo?» «La stai tenendo per Harry Honigan.» Harry Honigan era un tipo del vicinato che aveva preferito le cose migliori, o così diceva, e possedeva un appartamento più in centro e una bella macchina; sfortunatamente, era stato condannato a dieci anni di carcere appena due giorni prima. Brock gli era sempre gironzolato attorno come un cucciolo. Quando si trovava nei guai, Honigan tornava nel quartiere, ove sua madre lo ospitava, lo nutriva bene, versava lacrime per lui, e ove la nonna e le zie gli si pigiavano attorno, proteggendolo, e in quei momenti Brock poteva riuscire ad avvicinarlo. Quando le cose gli andavano bene, nessuno sentiva più parlare di Harry per mesi. «Ha qualcosa a che vedere con Harry» disse Loretta. «Quanto sei intelligente.» «Conservi la pistola per lui? Quando pensa di poter uscire?» «No, non c'entra per niente con Honigan. Lui è finito.» «Oh, tornerà a essere libero, no?» «È finito.» Loretta mescolò un po' di carne tritata con le patate. Rimestò adagio, tutto in tondo, pensando a Harry Honigan che era finito. «Be', questo è un
vero peccato» disse. «Potrebbe darsi che abbia voglia di ammazzare qualcuno» disse Brock astutamente, come se lei avesse dimenticato di che cosa stavano parlando. «Certo.» Brock aveva proceduto a scatti nella fanciullezza, era passato attraverso "fasi", come seguitava a dire la mamma. Per qualche tempo lo avevano creduto tonto perché era lento nel restituire le botte degli altri ragazzetti e lento a imparare a scuola. Inoltre era rimasto molto basso di statura per la sua età. Poi, in quinta, nella scuola delle suore, aveva cominciato a crescere e a farsi furbo e in seguito aveva finito con il crearsi la fama di essere un po' matto. Era stato Brock ad arrampicarsi un giorno sul tetto della scuola, soltanto per spasso, e a passare sui binari della ferrovia che attraversavano il canale, ed era sempre Brock a fuggire urlando yodel e agitando le braccia quando un poliziotto inseguiva tutta la marmaglia. Brock lo faceva per burlarsi del proprio terrore, per burlarsi del fatto che stava scappando... questa era la cosa strana di lui che la gente non riusciva a capire. Quando un piedipiatti ubriaco lo aveva picchiato, una sera, scambiandolo per qualcun altro, Brock era rimasto lungo disteso in un vicolo, sanguinante, e allorché qualcuno lo aveva trovato, le sue prime parole erano state: «Ho compiuto un atterraggio senza paracadute!». Per conseguenza era un tipo strano. Non proprio matto. Non riuscivi a decidere che cosa egli fosse esattamente e ti dimenticavi di lui, sebbene, naturalmente, egli fosse in genere un bastardo senza rimedio e non riuscisse mai a combinare niente, era troppo sfrenato; ma nel suo impeto e nel suo furore non v'era alcuna felicità, lei lo capiva. Dai tredici anni ai diciotto era stato taciturno e irritabile, una disgrazia ad averlo per casa; come succedeva a sua madre, potevano passare settimane senza che sorridesse. Adesso che aveva vent'anni, adesso che era indipendente e aveva un po' di soldi, si comportava più educatamente con Loretta, sia pure in un modo ironico e calcato. Lei non riusciva a capirlo. Non riusciva a prenderlo sul serio. Mentre Brock mangiava, raschiò forte la padella e fece scorrere acqua nell'acquaio. Il babbo non era tornato a casa per tutto il giorno e non avrebbe cenato. Sarebbe stata costretta a tenergli in caldo la cena nel forno. Si alzò in punta di piedi e cercò di guardar fuori della finestra, ma non vide altro che la scala di sicurezza della casa dirimpetto. Ci abitava una famiglia tedesca, quattro bambini villani e un vecchio villano e una donna che parlava soltanto il tedesco. Bisognava prenderli sul serio. Al pianterreno abitava una vecchia sudicia, della quale Loretta non conosceva il nome. La
vedeva di continuo. E più avanti, lungo la strada, la gente già cominciava a uscire nella calura cittadina, senza essere infastidita dal caldo, in realtà, ma godendoselo stranamente, godendo della sua fluidità, come se si fosse trattato di creature tutte imparentate in un mare, legate dallo stesso elemento, che le toccasse su ogni poro e le accomunasse indifese. «Dove vai questa sera?» domandò Brock a un tratto. «Fuori.» «Con chi?» «Chi vuole saperlo?» «Io. Io voglio saperlo.» Loretta incrociò le braccia. Si sentiva la protagonista di un film, affrontata da un marito geloso in cucina mentre fuori la macchina da presa era impaziente di indietreggiare e di mostrare un paese delle meraviglie di avventure che l'aspettavano... lunghi, frenetici viaggi in treno, paesaggi con soldati feriti, un bel deserto bianco attraverso il quale una carovana di cammelli voluttuosamente avvolti da veli procedeva adagio con una sorta di affettata malinconia, le giungle fumiganti dell'India aperte dinanzi a ufficiali inglesi dall'uniforme bianca, giovani ufficiali, i misteri dei salotti inglesi che cedevano dinanzi al sorriso rapido e non divertito di una savia ragazza giunta dall'America... Brock la stava fissando. Ella guardò le sue mascelle macinare il cibo che gli aveva cucinato, e le accadde di pensare che non lo stava gustando. Questo era il guaio di Brock... non gustava mai niente. «Ammesso che siano affari tuoi,» disse «vado a trovare Sissy.» «Sissy?» disse Brock. Sissy era una vecchia amica di Loretta, una ragazza non graziosa come Loretta, dalla vita larga, che andava in giro con blusette ricamate da sua nonna - una vecchia mezza cieca la quale non usciva mai dalla sua stanza - e che per conseguenza aveva un'aria démodée da contadina europea, un aspetto ottuso, ingenuo, molto spento. Sissy, comunque, era una brava ragazza. Sul suo conto Brock non avrebbe mai potuto dir niente di male, la sua mente cessava, semplicemente, di funzionare. Pertanto fissò Loretta. «Taglieremo il modello di un vestito. Lei mi aiuterà» disse Loretta. «Stai mentendo.» «Non sto mentendo!» Brock si portò il cibo alla bocca con la spontanea schizzinosità di chi non ha voglia di mangiare. A un tratto le sorrise. «Sai, ho saputo certe cose sul tuo conto, tesoruccio.»
«Quali cose?» «Lo sai.» «Me ne infischio. Sono tutte bugie.» «Bernie Malin, anche questa è una bugia?» Loretta si sentì avvampare in viso. «Che cosa hai saputo di lui? Gli hai parlato?» «Non ci parlerei mai con un pivello come quello lì! Che cos'ha, sedici anni? Un pivello simile! Qualcuno ha detto che tu e lui stavate pomiciando non tanto tempo fa.» «Lasciali parlare.» «Non farti venire in mente di portarlo qui.» «Non ci porto nessuno quassù, in questa topaia.» «Be', non portarcelo.» «Magari l'ho già fatto... e con questo? Magari ce l'ho già portato!» «È vero?» «Ti riguarda, forse? Abito qui, vado e vengo da sola quando voglio, lavoro e mi guadagno i miei soldi. Non sono tenuta a dar retta alle tue castronerie. Se non ti va puoi andartene! Sei un pivello di vent'anni anche tu! Perché non te ne vai, si può sapere?» «Perché al mio posto possa venire Bernie?» «Oh, all'inferno!» Loretta era agitata e, sotto la superficie dell'ira, alquanto contenta. «Bernie è a posto» disse. «Mi piace. Ma non è niente di speciale. Te l'ho detto, vado soltanto a trovare Sissy. Non me la spasso con ragazzetti come lui per farmi una brutta nomea. Quando mi sposerò, non sarà con un marmocchio come quello.» Brock aveva finito di mangiare. Scostò il piatto, alla maniera di suo padre e degli altri uomini che conosceva; v'era un certo che, in quel gesto, che irritava Loretta e al contempo le faceva venir voglia di ridere. Erano così prevedibili! «A me sembra che ti interessi un po' troppo ai fatti miei» disse. «Non hai affari tuoi di cui preoccuparti?» «No.» «Perché non porti fuori anche tu qualche ragazza? Perché non spendi un po' di soldi? Non fai altro che giocare al biliardino e bighellonare con quei tuoi amici fottuti che, te ne accorgi tu stesso, sono stupidi. Si può sapere che cosa c'è di storto in te?» «Sono un mistero per me stesso» disse Brock, sorridendo gelido. «Oh, se vuoi cominciare a dire fesserie!»
Gli tolse di davanti il piatto e lo mise nell'acquaio. Accatastati nell'acquaio c'erano sei piatti, alcuni dei quali ancora incrostati di cibo; le posate formavano un mucchio. Una delle forchette era rimasta sotto un piatto e rendeva sbilenca la pila. La lentezza dei movimenti di Loretta e la stessa cucina piccola e ingombra le facevano nascere dentro, nelle ossa, una pressione. Si sentiva a disagio. Non che gliene importasse, in realtà. Non si curava neppure delle stupide prese in giro di Brock, alle quali era abituata, del resto, e che non approdavano mai a niente. Per tutta la vita era stata presa in giro. I bambini venivano stuzzicati, soprattutto le femmine, era inevitabile. Suo padre, prima di ammalarsi, l'aveva stuzzicata e fatta piangere, senza volerlo, ed ella ricordava anche suo nonno infastidirla, tirarle i capelli, un vecchio maleodorante, dai baffi disuguali, che litigava con la nonna, urlando e sbraitando in un'altra lingua. Quel passato era collegato a un'altra città, a una misera casa di due appartamenti davanti a un deposito di carbone, dove giocavano tutti i monelli, e a un altro genere di lavoro... un lavoro proficuo, come quello del nonno. Egli aveva guadagnato migliaia di dollari in un solo mese con la sua squadra di muratori, per poi perderli tutti in un modo che Loretta non era mai riuscita a capire e che non le importava nemmeno molto - perché per lei e per le altre donne della famiglia quel denaro era perduto e non rimaneva altro da dire... una realtà incontestabile e in qualche modo rispettabile! Il vecchio la stuzzicava affettuosamente e lei aveva avuto abbastanza buon senso per capire che le voleva bene, per cui quando egli era morto non aveva fatto come Brock, non si era scostata dal letto dove il vecchio li supplicava... era rimasta proprio là. E suo padre la stuzzicava nello stesso modo curioso, dimostrando affetto, mentre la mamma raschiava pentole con rabbia e lasciava cadere stoviglie nell'acquaio perché si rompessero, facendo capire che cosa pensava lei dello stare in ozio e dell'affetto quando c'era tanto lavoro da sbrigare, sempre. Poi l'intera famiglia si era trasferita in questa città con un autocarro preso a nolo, e nella stanza adiacente alla cucina la madre di Loretta era morta cinque anni prima. Ora ci dormiva il vecchio, solo. Era mai stata davvero una camera della morte? Nessuno poteva dirlo, nessuno riusciva davvero a ricordare, tranne Brock. A lui piaceva dire: «Fu il vecchio a ucciderla» e si poteva star certi che Loretta gli rispondeva urlando: «Un corno! Fu lei a uccidere lui!» come se fosse stato importante chiarire le cose, arrivare alla verità. Qual era la verità? Qua e là per la casa c'erano vecchie istantanee di suo padre: un uomo dai capelli scuri, dall'espressione sorridente, canzonatoria, l'uomo che si tra-
scinava adesso nel miserabile appartamento e vomitava nel bagno e a letto e chiamava Loretta continuamente in tono piagnucoloso (che cosa ci aveva fatto con i soldi che era riuscito a risparmiare, per esempio?), non era lo stesso, le spiaceva dirlo. Due uomini diversi, due diversi periodi di tempo. Un tempo lavorava con una squadra di muratori costruendo case, decine e decine di case, inchiodando fiancate e costruendo garages con rifiniture gialle, e aveva avuto un'automobile sua, e quando la situazione economica aveva cominciato a deteriorarsi, tutti i parenti gli avevano detto, invidiosamente: «Ah, be', la gente avrà sempre bisogno di case in cui abitare!» il che era risultato non essere affatto vero. Non vennero più costruite altre case, le case costruite a mezzo rimasero com'erano, finché i monelli non le devastarono o le intemperie stesse non le demolirono. Era il 1930. E poi venne il 1931. Il padre di Loretta trovò un posto come guardiano notturno, ma lo perdette dopo pochi mesi, sostituito dal cognato di qualcuno. «Chi ci crede?» disse sua moglie... e in seguito egli fece tutto quello che gli riuscì di trovare, vendette persino giornali. Loretta li ricordava bene, tutti quegli anni. E poi, quando gli elementi più giovani avevano ricominciato a trovare lavoro, grazie alle opere pubbliche del governo, e tutti erano ottimisti a causa degli assegni governativi divenuti regolari e permanenti come il ciclo stesso delle stagioni, suo padre si era dedicato di nuovo all'edilizia. Ma i tempi non erano ancora proprio maturi e lui aveva dovuto aspettare per alcuni anni, e i tempi non erano mai più diventati propizi per lui. Era terrorizzato, non riusciva a orientarsi nel suo terrore e così aveva cominciato a bere. Anche i giovani che avevano trovato un lavoro non riuscirono a conservarlo, perché la situazione peggiorò di nuovo, sbalestrando la gente; il padre di Loretta continuò a bere e divenne in ultimo un uomo prematuramente invecchiato, uno di quelli che Loretta vedeva spesso la domenica mattina, addormentati sulla soglia delle chiese o dei negozi chiusi. Ecco come erano andate le cose. Un cambiamento, un uomo diverso. Un altro uomo. Quando aveva trovato lavoro in un magazzino, per scaricare autocarri, era tornato a casa a mezzogiorno sin dal primo giorno, spiegando di aver lasciato cadere uno scatolone di articoli di vetro, e poi ammettendo di non aver lasciato cadere un bel niente perché aveva avuto paura di provare, paura di lasciar cadere qualcosa e di indebitarsi. E in questo modo era andato avanti fino ad ora, aggirandosi per casa, senza infastidire Loretta, in realtà, a meno che non avesse mal di stomaco o non combinasse qualche guaio. «Be', non metterti in nessun pasticcio, questa sera» disse Brock.
«Non mettertici tu.» Lo seguì nella sua stanza, il ''salotto", perché c'era ancora qualcosa di non finito tra loro. Non sapeva che cosa. Con il vestito blu, con i capelli lucenti e ondulati, sentiva di aver diritto di chiarire la situazione con lui. Brock tolse il pettine dal taschino, se lo passò rapidamente tra i capelli e lo rimise nel taschino quasi con uno stesso gesto. I capelli di lui, lunghi e non lavati, non erano mai arruffati e mantenevano le stesse ondulazioni per settimane. Ci metteva su una specie di lozione per capelli che ricordava a Loretta le ruote delle biciclette, il grasso che ti si appiccica alle dita quando le tocchi. Impulsivamente gli toccò la tasca della giacca. Vi sentì, dentro, il peso della pistola. «Sicché hai ancora quella pistola!» Brock la respinse. «No, sul serio, che cosa sta succedendo?» domandò lei. «Niente.» «Dove l'hai presa?» «In nessun posto.» «Ma che cosa vuoi fare?» Lo fissò. Per la prima volta si domandò se stesse facendo sul serio. «Ancora non lo so.» Gli zigomi sulla sua faccia pallida e scavata sembravano particolarmente aguzzi; era come se le ossa della sua faccia stessero pensando per lui. «Ti caccerai in qualche guaio» disse Loretta. Si espresse con il cantilenare fatale, definitivo, in parte soddisfatto, del quale si erano servite sua madre e altre donne della famiglia, come se fossero già arrivate al fondo di tutte le possibilità peggiori e stessero aspettando laggiù che gli uomini le raggiungessero. «No, per niente. Non lo so che cosa farò» disse Brock. Tolse la pistola dalla tasca e la tenne nel palmo della mano. Era una comune pistola, una rivoltella. Loretta ne aveva già vedute molte altre come quella; la gente non faceva che tirar fuori pistole simili per darsi delle arie. «Se vuoi darla a me, te la nascondo» disse Loretta. Lui si fece indietro. «E se Pa' la trova e si spara? Lo sai come diventa, a volte.» «Non la troverà.» «E se tu dovessi litigare con Pa'? Senti, non c'è niente di divertente... perché stai sorridendo in quel modo?» «Non sto sorridendo.»
«Sorridi come uno stupido bastardo!» «Non è vero... non è vero» disse Brock rabbiosamente. Ma gli angoli della bocca continuavano a guizzargli con rigidità; i muscoli della faccia erano due tesi groppi su ciascuna gota. Era pallidissimo. «Vuoi aspettare Pa' e attaccar lite con lui, è così?» disse Loretta. «No, esco.» «Vuoi attaccar lite quando tornerà ubriaco? Per quale motivo?» «Non sono mai io ad attaccar lite. È lui.» «È questo che hai in mente?» «Ho cose più interessanti da fare.» «Non tornerà per tutta la notte» disse Loretta. «Tornerà domattina, ridotto da gettar via. Senti, non gli farai del male, vero?» «Ho detto di no.» «Perché ti comporti in un modo così pazzesco, allora?» Lui rise e rimise la rivoltella nella tasca. Era pronto per uscire. «Va bene, va', esci! Vattene di qui!» gridò Loretta. Quando se ne fu andato, tornò in camera sua a dare un'occhiata al proprio aspetto. Il sudore le si era raccolto a goccioline sulla fronte... e lei questo non lo poteva soffrire. Le asciugò con un fazzoletto. Nessuno approdava a niente pensando a Brock, questo lo sapeva: già anni prima era stato giudicato dal tribunale dei minorenni e molte volte lo avevano arrestato e tenuto una notte in carcere; la cosa non serviva affatto a renderlo più assennato o più scaltro, e anche il fatto che altre persone si preoccupassero a causa sua non aveva alcun effetto. Gli piaceva soprattutto starsene seduto a leggere i giornali, e lasciar cadere i giornali sul pavimento quando aveva finito. Ma non parlava mai di quel che leggeva, non diceva mai niente. Aveva segreti. Con i suoi stupidi amici poteva sbraitare e ridacchiare come qualsiasi idiota di vent'anni, ma anche questo era un mascheramento, essi non lo conoscevano, nessuno lo conosceva, e per conseguenza nessuno si fidava davvero di lui. Loretta lo respinse dai propri pensieri e si fece più vicina allo specchio, così vicina che il suo alito vi posò sopra una pellicola sottile e l'immagine che ricambiò il suo sguardo con occhi guardinghi e colmi di aspettativa divenne la sola cosa che interessasse l'anima sua. Aveva un bel viso? Si stava facendo tardi. Incominciò ad affrettarsi. Tutte le meraviglie della strada le affollarono la mente, già un po' tumultuosa a causa delle assurdità con il fratello, ed ella si accarezzò adagio, con tenerezza, il braccio
lentigginoso, senza pensare. Si limitò a rimanere in piedi nella piccola camera da letto in penombra, come se stesse congedandosi in modo confuso, ma definitivo, da essa, senza riflettere. Era Loretta. Non la rendeva invidiosa il fatto che altre ragazze come lei saltassero fuori dappertutto, sane e pronte a una risata, pronte a divertirsi dopo una settimana di lavoro; le piaceva il fatto che vi fossero tante altre Lorette, era contenta di aver veduto in una settimana due ragazze con un vestito alla marinara come il suo, e centinaia di ragazze con i capelli ricciuti e lasciati ricadere all'indietro sulle spalle! La sua amica Sissy era la sola ragazza che indossasse quelle bluse pesanti ricamate, bellissime bluse con fili scarlatti e verdi e gialli sericamente intrecciati a formare disegni di pavoni e mulini a vento, e Sissy non incontrava mai se stessa che andava e veniva, ma Loretta non era Sissy, Loretta era Loretta. Si mise un altro po' di rossetto sulle labbra e uscì. Percorrendo la strada, sentì persino i tacchi alleggeriti e spinti verso l'alto dalla tesa allegria del sabato sera. Tutti erano fuori. Si aspettava quasi di vedere Brock starsene furtivamente all'angolo, dove rimanevano spesso lui e i suoi amici, né si sarebbe stupita di vedere suo padre seduto sulla verandina d'ingresso della casa di qualcun altro, le braccia ciondoloni tra le ginocchia scarne, finito, un relitto, addormentato con gli occhi aperti. Non vide nessuno dei due, ma vide tutti gli altri. I suoi polpacci traevano forza dalia dura e calda levigatezza del marciapiedi, il marciapiedi di tutti, ed ella sorrideva e scoccava saluti alla gente che respirava una boccata d'aria dopo cena - conosceva tutti e tutti conoscevano lei. Non era poi un così brutto quartiere. Sua madre l'aveva odiato, ma non si poteva dire che il quartiere fosse equivoco; alla gente piaceva soltanto passeggiare un po' e distendersi i nervi dopo una lunga settimana, e a volte qualcuno si cacciava nei guai, ma non per molto. Non c'era niente di male in questo. Da lunedì a sabato a mezzoggiorno, la schiena, le braccia e le spalle di Loretta dolevano a causa del lavoro e i suoi capelli dovevano essere raccolti sulla nuca in una crocchia miserabile e scomposta, e lei sapeva di non essere un granché a vedersi, ma la sera del sabato tutto cambiava. Gli uomini si toglievano gli abiti da lavoro sudici, indossavano vestiti nuovi e rigidi come quello di Brock, si lucidavano le scarpe, si mettevano a posto i capelli; le giovani donne non sposate si truccavano la faccia servendosi di pinzette, matite per le sopracciglia, belletto e ogni altra cosa di cui potessero disporre, si mettevano nastri tra i capelli imitando una diva cinematografica, oppure li lasciavano spiovere su un occhio, imitandone un'altra... e tutto questo era meraviglioso, tutto questo era stupendo! Loretta credeva
che l'universo stesso si spalancasse il sabato sera, che le piccole cellule chiuse e segrete esplodessero in lei bocciuoli. Chi sarebbe voluto essere un pessimista? Quali idiote (come le ragazze della scuola parrocchiale di Loretta, che ella aveva smesso di frequentare la primavera scorsa) potevano andare in giro, in un giorno come quello, cercando di vendere unguento in vasetti trasparenti di vetro azzurro con immaginette religiose in omaggio, o tentando di piazzare i biglietti di una lotteria della chiesa? Era quella una città abbastanza grande, su un canale del Midwest, sorta in modo caotico intorno al canale, estendendosi come due mezze lune irregolari, con sporgenze o vuoti di terreni ancor liberi, e altre estensioni di caseggiati popolari gremiti e devastati. L'industria principale era una piccola acciaieria che dava lavoro agli uomini di un quarto delle famiglie della città, e poi c'erano fabbriche di altro genere e depositi ferroviari e, entro il raggio visivo di Loretta, se ella si fosse data la pena di salire sul tetto di casa sua e di guardarsi attorno attraverso la bruma calda di quella sera, grandi magazzini. L'aria era brumosa, sì, ma anche melodica e ricca di odori misteriosi... una gigantesca panetteria in fondo alla strada emanava senza posa un odore di lievito che inquinava un poco il senso del gusto a tutti; ma continuavano ugualmente a esservi profumi di fiori invisibili e aromi di saporiti piatti cucinati in casa, che giungevano dalle finestre aperte al pianterreno, e, di fronte alla Taverna Dwight Corner, un piacevole odore stantio di birra e di roast beef. Anche al lato opposto della strada, e giù fino al primo dei ponti, si notava una sensazione carnevalesca di abbandono nell'aria, lievemente smossa dalle acque incolori sottostanti e dall'ininterrotto aspro scrosciare dell'acqua dalle chiuse. Se Loretta avesse avuto più tempo, o se vi fossero stati meno uomini in giro, le sarebbe senz'altro piaciuto appoggiarsi con aria sognante al parapetto del ponte per contemplare l'acqua che si riversava attraverso le chiuse - lo aveva fatto centinaia di volte - poiché tutti erano avidamente curiosi, nella maniera monotona e affascinata delle persone che vivono nelle città costruite intorno ai canali, di vedere che genere di battello stesse passando e se qualcuno avrebbe osato lanciarvi sopra una bottiglia o qualche altro rifiuto. Ma lei attraversò il ponte ricurvo senza quasi degnare di uno sguardo le acque ribollenti molto più in basso - questo ponte era assai alto sopra il canale, tanto alto da dare il capogiro - e passò accanto al cortile di ricreazione della scuola cattolica che aveva frequentato per anni, delimitato da alte recinzioni di rete metallica sulle quali i ragazzetti si arrampicavano continuamente, e si lasciò indietro la scuola stessa, senza quasi voltarsi a guardarla
- davvero, Loretta non la vedeva più - e andò oltre il gruppetto di uomini che ciondolavano in maniche di camicia davanti alla caserma dei pompieri, alcuni dei quali amici di suo padre, dopo essersi soffermata a parlare con loro, ridendo con timidezza e abbassando gli occhi, e indietreggiando in una breve pausa della conversazione, per far capire che doveva andare in qualche posto, che in realtà non aveva tempo da perdere con loro. Loretta Botsford, e come stava crescendo! Agli occhi di quegli uomini era quasi cresciuta, il che si riduceva a una questione di rossetto sulle labbra e a un certo consapevole ondeggiare delle spalle e delle anche, esattamente secondo la voga del tempo; la salutarono, comunque, e la lasciarono andare. La madre di Sissy aveva un appartamento sopra una drogheria di Main Street, un appartamento non certo migliore di quello nel quale abitava Loretta. Distava circa cinque minuti a piedi. E pertanto ella ebbe cinque minuti di una sorta di selvaggia e aperta libertà, durante i quali qualsiasi cosa sarebbe potuta accadere. Sulla strada passavano uomini in automobile e avrebbero anche potuto sbirciarla, ma lei non li guardava, e del resto dovevano essere quasi tutti in compagnia di una ragazza, a quell'ora del sabato sera. Guardò, dinanzi a sé, la facciata della clinica nella quale lei e Brock avevano accompagnato il babbo almeno dieci o dodici volte... un incubo, quel posto, con piccoli cubicoli le cui pareti non arrivavano nemmeno al soffitto, e infermiere brutte e stanche, e medici che la sua amica Rita chiamava furfanti da quando le era morto un bambino per un'infezione all'orecchio. Erano macellai, bastardi, furfanti. Tutti avevano soldi; gente come quella aveva soldi perché ogni paziente valeva due dollari, e due dollari a testa formavano un mucchio di quattrini. Ti girava la testa pensando a tutti quei soldi. E i dentisti erano altrettanto mascalzoni, o forse anche peggio. Lei non pensava mai ai propri denti, che erano mal ridotti; non osava indursi a pensare a quei sordi e insistenti dolori che certe notti la paralizzavano, arrivando sino in fondo alla mascella; e le gengive, a volte, quando si spazzolava i denti, le sanguinavano... no, meglio non pensarci, meglio dimenticarsene. Quando il dolore diventava insopportabile, succhiava ghiaccio. Quando diventava eccessivo, si faceva strappare il dente, pagava tre o quattro dollari ed era tutto finito. Un tram le si arrampicò accanto, appesantito da intelaiature, e Loretta badò bene a non alzare gli occhi per vedere chi potesse osservarla... il tetro mostro sferragliante la precedette su per la collina e la trascinò dietro di sé mentre Loretta incominciava ormai a domandarsi se i cinque minuti dovessero trascorrere senza che nessuno si accorgesse o si curasse di lei. Edifici
grigio-verdastri, edifici con vetrine di negozi ricamate a ghirigori con il sapone e abbandonate, e, sopra di esse, in una confusione rauca di radio, gente che stava affacciata alle finestre appoggiandosi sui gomiti, la superficie delle braccia simile alla bianca superficie delle tende a ciascun lato, come una cornice. Qualcuno chiamò: «Loretta!». Era una sua compagna di scuola. Loretta salutò con la mano, ma proseguì frettolosa. Quando si erano trasferiti in quella città - suo padre aveva accatastato tutte le loro masserizie su un autocarro, guidando l'autocarro egli stesso, ed era arrivato in città con una turba stanca e lenta d'altra gente di campagna (ma gente delle fattorie, non gente "negli affari" come loro), e tutti quanti avevano fatto il giro delle case chiedendo timidamente camere, un aiuto, indicazioni per arrivare al primo ufficio del governo - tutto le era sembrato terrificante. Ora la città le piaceva. Era una bambina quando avevano deciso di trasferirvisi, e nel mondo della sua fanciullezza ogni giorno era stato una schermaglia. A volte se la cavava bene, a volte falliva, a volte tutto andava malissimo e lei correva con la faccia sanguinante lungo i vicoli, vagando inorridita tra le macerie di terreni da costruzione che non riusciva a riconoscere, timorosa delle madri irate nonché dei ragazzetti estranei... non era stato affatto bello, meglio dimenticarsene. Brock, così sognante e tardo per anni, era stato picchiato a sangue più di una volta e chiamato "bifolco", cosa che non era, mentre sarebbe bastato che aprisse la bocca per far sentire a tutti che non aveva l'accento del Kentucky... e Loretta, una bambina ricciuta, con impulsi confusi di tenerezza e di perfidia, era riuscita a tirare avanti penosamente, corteggiando i ragazzetti importanti della sua classe, riconoscendo per istinto quali bambine erano importanti, quali bambine avevano fratelli maggiori che le proteggevano ed erano pertanto utili. Ma tutto questo apparteneva ormai al passato e, a dire il vero, ella vi pensava di rado. Si era innalzata al di sopra della fanciullezza e i terrori delle sue valli e delle sue montagne avevano finito con il ridursi a un paesaggio monotono sotto i suoi occhi, indulgenti o indifferenti, o entrambe le cose, e sebbene ella conoscesse ancora gli stessi ragazzi che l'avevano tormentata da bambina, in realtà non riconosceva in loro quei ragazzetti, ed essi non riconoscevano lei, man mano che ogni anno li trascinava più avanti nell'età adulta. Recandosi da Sissy, incontrò Bernie Malin, in compagnia di certi suoi amici, e in quel lento, goffo balletto di ragazzi si appartarono, mentre egli si incamminava con lei, fumando una sigaretta e parlando avidamente. «Che significa» disse «andare a fare un vestito! A cucire un vestito! Sciu-
pare tutto quel tempo cucendo un vestito? Non venirmi a raccontare che non lo ha cucito qualcun altro questo che indossi, è un vestito comprato in negozio, questo, ha stile!» «Cosa ne sai tu?» Si trovava di fronte a lei, le impediva di proseguire, e così dovette fermarsi, e dietro di loro, all'angolo, i suoi amici indugiavano, probabilmente osservandoli... Loretta si sentiva sconvolta mentre sarebbe dovuta essere contenta, e non capiva perché, ma Bernie era la causa di tutto questo e pertanto gli disse, fredda: «Sissy ed io ci siamo date questo appuntamento la settimana scorsa». La parola "appuntamento" suonò strana detta a lui. Bernie fece una spallucciata e le sorrise. Era un ragazzo piuttosto basso di statura, snello, appena più alto di Loretta, ma alquanto bello sebbene in un modo bamboleggiante. Meccanici erano inoltre i gesti abituali di lui, accentrati soprattutto sulla sigaretta - il modo di portarsela alle labbra increspate, di toglierla pensierosamente - e Loretta si sentì un po' stordita da tutto questo, impreparata, e si domandò che cosa ci fosse in lui che la turbava tanto. Disse: «Perché non vai in giro a divertirti con i tuoi amici?», ed egli disse: «Quei tonti non esistono per me». Il suo stesso espirare la eccitava. Percorsero insieme, fianco a fianco, la salita. Questa era la parte più bella del centro, un unico, lungo isolato di negozi. Il braccio di Bernie di quando in quando sfiorava il suo, ma nessuno dei due sembrava accorgersene. Lui le domandò di Brock. Lei si informò su certi suoi amici, ragazzi che conoscevano entrambi. Poi Bernie le chiese notizie di suo padre. Il padre di lui aveva lavorato un tempo con il suo, e questo legame sembrava importante a tutti e due. Proseguirono verso il canale e, a una interruzione nel susseguirsi di edifici, sostarono e si appoggiarono alla ringhiera. Si stava facendo buio. Giù alle chiuse c'era una piccola costruzione nella quale lavoravano gli uomini che le manovravano. Bernie disse che una volta era arrivato di nascosto sin là, ignorando il cartello «Vietato l'ingresso», e aveva guardato attraverso le finestre della casetta. Loretta osservò sarcastica che doveva esserci voluto del coraggio. Bernie domandò se le sarebbe piaciuto andare a nuotare nel canale, rimanendo vestita. Loretta gli domandò se non poteva andarci da solo. Bernie disse che un amico di suo fratello aveva invitato un po' di gente a casa sua per una festicciola, e sarebbe stato bello se lei ci fosse potuta andare. Loretta ricordò e dimenticò Sissy nello stesso attimo, mentre fissava accigliata i riflessi delle luci che dondolavano nell'acqua. L'attenzione
di lei era tesa ad accertare chi fosse questo amico. Esplorarono le loro comuni conoscenze e i rapporti tra esse, sforzandosi di trovare un legame, un qualche modo per rendere la cosa possibile. Bernie conosceva suo fratello e aveva un po' paura di lui. Loretta conosceva il fratello di Bernie, che la intimoriva un po'. Bernie si appoggiava alla ringhiera come se quello fosse stato un posto a lui familiare, voltato verso Loretta, e il modo con il quale rideva quasi senza incurvare la bocca, e il modo con il quale alzava gli occhi sui suoi con un movimento brusco della testa, la indussero a cedere. Loretta viveva in una eternità della carne: per tutta la settimana conosceva la resistenza dei muscoli, ne sperimentava i tristi limiti, e, sola, esplorava le unghie dei propri piedi seriamente come la propria faccia, compendiando ogni cosa, giudicando e sperando. Le braccia, le gambe, il ventre e i fianchi, il solco della spina dorsale, le caviglie piuttosto spesse... non possedeva altro, e confidava in queste cose: come un sacco di carne pieno di organi preziosi e di sangue avido, si protendeva un poco verso Bernie, in attesa. «Senti, per piacere, vuoi venire con me?» egli disse. «Perché dovrei?» «Non vuoi?» «Avresti dovuto invitarmi prima di questa sera.» Bernie scosse la testa, senza dare spiegazioni. «Sai benissimo come mi chiamo» replicò Loretta «e dove abito.» «Ho lavorato fino alle sei passate di questa sera.» «Lavorato dove?» «A scaricare roba.» «Dove?» «Con mio padre.» Era fanciullesco e un po' nervoso, mentre si sporgeva verso di lei. Loretta cominciò a sorridere. Tra loro scaturì un'eccitazione inebriante punteggiata dagli squilli dei clacson, la sfilata di automobili irrequiete del sabato sera. A lei sembrava prematuramente savio, questo ragazzo minuto di ossa e piccoletto, nel bel taglio obliquo e spavaldo degli occhi, e le ricordava non sapeva perché - gli eroi dei quali avevano parlato i giornali fino a poco tempo prima, Baby Face Nelson e Dillinger, morti ormai, ma ancora molto importanti. La zia di una delle sue amiche, venuta per una breve visita, aveva parlato loro di Dillinger a Chicago e di come avesse veduto con i suoi occhi l'orlo del vestito dell'amica di un'amica, macchiato del sangue di Dillinger, dopo che ella si era accosciata in un vicolo per assorbirlo... ma
Gesù Cristo, aveva detto qualcuno, perché si dovrebbe fare una cosa simile? Loretta però capiva e desiderava con violenza di essersi potuta trovare là anche lei, di aver potuto inginocchiarsi nel sangue per portarlo a casa in trionfo, perché non v'erano molte altre cose con cui ricordare un uomo tranne qualcosa di grezzo e di laido, e quel sangue era stato abbastanza reale in lui, caldo e rapido nelle sue vene, fino a quando la pallottola di qualche poliziotto non lo aveva sparso. «Vuoi venire con me?» disse Bernie con ardore, con una reale serietà che faceva pressione contro lo stile hollywoodiano della sua voce, e Loretta capì di dover cedere. Tutto era mortale. La carne incatenava ugualmente lei e Bernie. Tornò insieme a lui attraverso il ponte, gli archi della superficie acciottolata pungenti sotto i piedi sensibili, e le poche luci riflesse dal canale dolorose negli occhi, mentre Bernie continuava a parlare e a parlare di qualcosa che lui e suo fratello stavano progettando, vendetta contro un negozio che li aveva frodati o non aveva dato loro lavoro, e Loretta non provò alcuna sensazione di allarme udendolo dire che volevano incendiare la paglia e l'altra roba nello scantinato, dopo averci sparso sopra benzina ed essere filati via di corsa, lasciando che tutto andasse al diavolo in una gran fiammata... così quei bastardi avrebbero imparato! Lei e Bernie si recarono in una casa non lontana da quella dove abitava Loretta. Già dalla strada poterono udire lo strepito, un gran numero di persone che urlavano, per cui ella si lasciò persuadere ad andare nel salotto dove un mucchio di gente più anziana di loro due stava bevendo e ballando goffamente alla musica di una radio. Suppose che per il momento quella festa non presentasse alcun pericolo, ma continuò a sentirsi un po' sulle spine e a stare all'erta. Le donne avevano i capelli acconciati come i suoi, sciolti sulle spalle, oppure arricciati o ondulati con il ferro intorno alla faccia, e gli uomini, quanto a eleganza erano versioni più antiquate di Bernie. Sentì un'infatuazione improvvisa per la precoce virilità di Bernie, la quale non dipendeva per nulla dal fatto che egli aveva smesso di andare a scuola e correva la cavallina, ma dipendeva soltanto dalle scarpe e dai calzoni che portava e dal sorriso affettato e saputo con cui afferrava le spiritosaggini altrui senza degnarsi di rispondere. Uscì con lei nel cortile, poi andarono in un vecchio garage così pieno di cianfrusaglie che non vi sarebbe stato più posto per un'automobile, e bevvero birra tutti e due e si strinsero l'uno contro l'altra nell'oscurità. Ella gli mise le braccia intorno al collo. Scaturì in lei la rapida, acuta sensazione di
essere indifesa; le parve di essere sollevata in aria da un pallone, trascinata follemente, senza che potesse farci nulla, nel cielo, e fu come se fosse saltata sull'ultimo vagone di un treno che la strappava via lungo le rotaie lucenti e come se nessuno avesse mai più potuto vederla... Quando rientrarono nella casa, qualcuno stava urlando. Le sembrò di vedere un'automobile della polizia ferma davanti all'ingresso. Così loro due uscirono dalla porta di servizio, scavalcarono una staccionata, infiacchiti dalle risate e molto affettuosi, pronti a cadere l'uno nelle braccia dell'altra. Davanti alla porta di casa sua, nel sudicio corridoio, rimase in piedi con lui per mezz'ora, per quarantacinque minuti, finché, in ultimo, disse: «Puoi entrare con me, se vuoi». Bernie, scosso e non del tutto padrone di sé, si scostò da lei e domandò: «Dici sul serio? Dici davvero sul serio?». Gli rispose: «Se il mio Pa' è in casa ha la sbornia, non stare a preoccuparti, si lascia cadere sul letto e non capisce più niente, quanto a mio fratello, non tornerà fino a domattina. E in ogni modo, nella mia stanza non ci entra nessuno, è la mia camera, appartiene soltanto a me, è la mia vita, e nessuno osa entrarci!». Bernie la baciò e l'avvolse nelle avide braccia; lei gli si concesse, ma pensò a una cosa: i vecchi vestiti di sua madre in un armadio, le maniche rigide, come se fossero modellate definitivamente sulla forma delle braccia che vi si erano infilate. 2 Stanca e spossata, tanto spossata che persino l'indolenzimento si era spento in lei, dormì... e le parve di incespicare qua e là in stanze nelle quali non era mai stata, afferrandosi alle braccia soccorrevoli di altre persone, fissandole negli occhi, ma senza trovare in quegli occhi alcun centro, senza trovarvi le iridi. Non era però un sogno di terrore: si sentiva soltanto esausta e madida di sudore, sopraffatta. Un greve, plumbeo calore giaceva su di lei, come nuvole di fumo polveroso, accarezzandole il corpo. Poi vi fu uno schianto secco. Si destò. Si destò subito, quasi gridando, il grido mutilato e inaudibile. Era conficcato in profondità nel suo sonno, in profondità nella sua mente. Si destò subito. Nella luce fioca, qualcuno corse fuori dalla porta della sua stanza e incespicò contro una sedia in cucina - si rese conto immediatamente di quale sedia si trattava, su quella sedia si trovavano ad asciugare i piatti
della sera prima... e così, all'improvviso, ella fu completamente desta, e sul serio. Nel suo letto, accanto a lei, c'era un ragazzo. Lo conosceva, ma per un momento non riuscì a ricordare come si chiamava, né perché si trovava lì. Con il lenzuolo avvolto intorno al corpo, cominciò a scostarsi adagio da lui. Una riflessione la penetrò a un tratto, improvvisa e tagliente come quello schianto secco: È morto. Subito dopo, la sua mente parve bloccarsi. Lo fissò. Poi, adagio, un sudore doloroso la coprì tutta, trapelando oltre la pellicola umida che era stata così cullante e così dolce. Riuscì a pensare abbastanza chiaramente, È morto, quel bastardo lo ha ammazzato, e le parole passarono nella sua mente come se fossero state le parole di qualcun altro, le parole di qualcuno che guardasse dalla finestra. Il ragazzo giaceva del tutto immobile. Il lenzuolo gli era stato strappato in parte di dosso. Avrebbe voluto afferrarlo, destarlo scrollandolo. Bernie Malin! Perché non si svegliava? Che cosa voleva da lei, giacendo lì così pesantemente, senza muoversi? Il terrore che la pervadeva non gli faceva alcuna impressione; egli sembrava dormire il sonno ostinato di un uomo, dimentico di lei. Aveva un braccio ripiegato sul petto nudo e l'altro ciondolava oltre la sponda del letto. I capelli erano scuri e serici. Loretta discese dal letto molto silenziosamente. Indietreggiò, fissandolo con gli occhi sbarrati, finché non sentì il muro contro le spalle e dovette fermarsi, del tutto immobile. Fissò il ragazzo per vedere se stesse respirando o meno. Passarono minuti. Avrebbe riprovato; lo avrebbe fissato con molta attenzione per vedere se stesse respirando o no. Doveva essere assai presto, prima dell'alba. Come mai lo sparo non aveva destato nessuno, mettendo in moto la gente, facendola correre su per le scale e dare l'allarme e sbirciare attraverso la finestra? Sentiva la parete dura contro la schiena e si domandò come mai non fosse crollata, caduta, lasciando che tutti la vedessero. Le parve di sentire di già vibrazioni e tonfi di passi fuori nella strada, un esercito di stupidi curiosi e di accusatori, e che cosa non avrebbero saputo escogitare da urlarle in faccia! Che cosa farai adesso, piccola bagascia, come ti sbarazzerai di lui? Passarono altri minuti. Lei rimaneva rannicchiata e sudata nella luce fioca, fissando il letto. A poco a poco cominciò a vedergli il sangue addosso. Si muoveva. Su un lato della testa, timidamente voltata dall'altra parte rispetto a lei, un fiume di sangue si stava muovendo e inzuppava il guanciale. Quel guanciale era piegato in due; doveva essergli piaciuto dormire con il guanciale
ammonticchiato in quel modo. Loretta non si mosse. Sentiva l'odore del suo sangue. Parole riaffiorarono in lei, come una formula magica. È stato mio fratello, è stato lui, quel bastardo... Se avesse potuto gettargli in grembo tutto questo, prendere tutti questi guai e gettarglieli addosso come immondizia, se avesse potuto sbarazzarsene in qualche modo, allora sarebbe stata libera... la pressione soffocante nel petto e nella gola, la folle sensazione di terrore, che non era certa potesse essere sua, con tanta forza l'aggrediva, se ne sarebbe liberata appesantendo con essa suo fratello, e tutti si sarebbero precipitati verso di lui, agguantandolo e urlandogli in faccia, sulla brutta faccia, Assassino! Bastardo! Ma non accadeva niente. Aspettava, fiutando l'odore del sangue e dei corpi, l'odore delle lenzuola umide, e il cervello le vacillava, e il suo corpo restava immobile, in attesa, ma non succedeva niente. Non sarebbe successo niente? Forse uno sparo di rivoltella nel cuor della notte non era un fatto straordinario, in fin dei conti. Forse nessuno lo aveva udito, nessuno avrebbe alzato con rabbia una veneziana, nessuno sarebbe saltato fuori su una scala di sicurezza per vedere che cosa fosse successo. Tutto questo non era come nei film. Nulla si susseguiva con rapidità alle altre cose; nulla era collegato a ogni altra cosa. Cercò brancolando intorno a sé qualche indumento con cui coprirsi. Non ci vedeva molto bene. Le dita le si chiusero su qualcosa, un vestituccio di cotone che portava in casa. Chinandosi, non abbassò gli occhi, ma li tenne sempre fissi sulla testa del ragazzo, timorosa di un cambiamento se avesse distolto lo sguardo. Il sangue continuava a scorrere, fiorendo su un lato della testa. Non si sarebbe fermato più. Temeva che un suo movimento improvviso avrebbe rovesciato qualcosa e disturbato quel fluire del sangue, accelerandolo, per cui il sangue sarebbe zampillato fuori della testa cadendo sul pavimento e imbevendolo fino al soffitto sottostante, scorrendo caldo e appiccicoso su tutto. Si mosse molto adagio. Quel che vedeva era molto reale, ma una parte della sua mente continuava a respingerlo, a scostarlo, non apparteneva a lei; se soltanto avesse potuto agguantare Brock e urlare a tutti di venire a vedere che cosa aveva fatto: guardate un po' qui! Come lo avrebbe urlato, in modo che la città intera la sentisse! Come sarebbe corsa lungo la strada, accusando quel bastardo! Scivolò entro il vestito e si accorse che le mani le tremavano; non riusciva a dominarle, eppure in qualche modo la ubbidivano, facendo entrare i bottoni nelle asole, come sempre, passando per la stessa routine di sempre. Una persona deve pure vestirsi, pensò confusamente. Il ragazzo non la guardava mentre
si vestiva. Aspettò ancora che si muovesse, che si destasse dicendo qualche spiritosaggine imbarazzata, e facesse rientrare ogni cosa nella normalità... Era terribile, il modo che aveva Bernie di giacere, come sembrava esser divenuto ostinato quel suo corpo duttile e snello! Era bastato uno sparo a ottenere questo, come una magia. A un tratto Loretta lo odiò; l'odio esplose in lei e fu sufficiente, in pratica, a farla urlare di rabbia, perché gli uomini ti deludevano sempre, era inutile sperare in loro, niente da fare. Gli uomini non avevano un centro: i loro occhi, sorridenti o seri, non possedevano un centro, niente. Loretta rimaneva in piedi, circondata da un odio nebuloso eppur vivido, guardando il ragazzo. Odiava anche la pesantezza del suo corpo. Tutta la carne di lui si era tramutata in veleno. Ciò che era stato così ardente e dolce in precedenza, quella notte, era adesso greve di morte, e il fatto che la morte fosse sopravvenuta così rapidamente e senza lotta alcuna, dimostrava quanta poca fiducia si possa riporre nel corpo, anche nel corpo di un uomo, braccia e gambe, petto e ventre, tutto inutile. Portò le nocche contro la bocca e prese a piagnucolare mentre la consapevolezza di quel ch'era accaduto entrava nella sua mente, e tornava a entrarvi, rapida e feroce come lo era stato l'amore di Bernie, battendo contro di lei. «Dio mio,» disse in un bisbiglio «è accaduto davvero? Brock lo ha fatto davvero?» Brock era fuggito, lasciandola sola, e che cosa avrebbe fatto? Che cosa avrebbe potuto fare del cadavere? Dove si sarebbe nascosta? La rivoltella aveva sparato proprio accanto a lei, a pochi centimetri dalla sua testa. Un'esplosione nell'orecchio. Suo fratello doveva essersi proteso sopra il letto e aver appoggiato la canna della rivoltella al cranio di Bernie e aver premuto il grilletto, quel bastardo, e lo sparo l'aveva strappata al sonno e non sarebbe riuscita a dormire mai più. In qualche punto nel cervello di Bernie si trovava la pallottola che aveva fatto tutto questo. Tanto potere pigiato in un pezzetto di metallo, un potere più grande dell'uomo dietro ad esso, di gran lunga più grande. Sicché quel potere era stato sprigionato. Sicché Bernie era morto. Loretta si costrinse a guardarsi intorno attentamente nella stanza, la sua stanza. Doveva capire esattamente dove fosse. Quella camera era un enigma. ... E se fosse impazzita? Sua madre era impazzita, lanciando urli disperati e folli, piangendo per ore, per giorni, giacendo nel letto insozzato, gridando che la testa le si spaccava in due. Loretta aveva veduto altri pazzi, aveva veduto con quale rapidità perdessero il lume della ragione. Nessuno poteva dire con quale rapidità il cambiamento sarebbe potuto sopraggiun-
gere. Quel bastardo, con la sua rivoltella, aveva fatto accadere tutto questo, aveva posto in moto ogni cosa, e nulla poteva più essere fermato, nemmeno se lo stesso Brock avesse dovuto correre di nuovo su per le scale, incespicare di nuovo oltre la porta e protendersi nella sua stanza... era questo, pensò Loretta in preda all'orrore, era questo a rendere la cosa tanto terribile, che non ci si poteva far niente, che nessuno poteva più fermare quel che stava accadendo. Si guardò attorno. Per uscire dalla stanza doveva passare in fondo al letto, proprio accanto ai piedi di Bernie. Nella luce fioca, sembrava ancora che egli potesse essere addormentato; se non avesse udito lo sparo, forse Loretta non avrebbe neppure supposto... ma il sangue continuava a inzuppare il guanciale, sì, quello non lo si poteva fermare. Bernie era morto, adesso, e non si poteva muoverlo. Come avrebbe potuto spostare un corpo così pesante? Aveva sedici anni. Si domandò se sarebbe mai vissuta oltre quell'età. Il tempo sembrava essersi fermato. Aveva bisogno di qualcosa che l'aiutasse, di qualcosa cui avvinghiarsi, non sapeva che cosa. Un oggetto cadde dal cassettone, un flaconcino di vernice per le unghie; lo lasciò perdere, dimenticandolo. Nel primo cassetto del cassettone si trovava un intrico di vestiti. Erano suoi. Li fissò e un grido soffocato le salì nella gola, un grido che invocava suo padre. Disse davvero «Pa'!» a voce alta, come se la parola fosse uscita da lei spontaneamente. Tirò uno dei cassetti ed esso emise un suono raschiante, di protesta, legno contro legno. Questo la liberò: corse intorno ai piedi del letto e fuori in cucina, urtando contro una sedia e scaraventandola via per la metà quasi della larghezza della stanza. «Oh, Gesù! Guarda che cosa ha fatto là dentro!» gridò. Spalancò con un urtone la porta della camera di suo padre. Pur vedendo che la stanza era vuota, disse sommessamente, timidamente: «Pa'?». Il letto era disfatto, tale quale come il giorno prima. Suo padre non era tornato a casa. Per un momento non riuscì a ricordare se fosse rimasto in casa per tutta quella settimana, o se fosse tornato all'ospedale. No, era stato in casa, e ora si trovava soltanto fuori in qualche posto a smaltire la sbornia dormendo, meglio per lui essere fuori da questo guaio, del resto. Per la prima volta dopo lo sparo provò un senso di soddisfazione... era meglio che suo padre fosse fuori da quel pasticcio. L'orologio sopra la ghiacciaia segnava le cinque e mezzo. Era domenica mattina. Tutti dormivano tranne Loretta, e Brock, che stava correndo in qualche posto lungo un vicolo. La gente addormentata là attorno avrebbe forse udito il tonfo dei suoi passi di là delle finestre, ma nessuno si sarebbe
preso la briga di affacciarsi e di gridargli dietro: «Ehi, perché stai correndo? Da che cosa stai scappando?». I poliziotti, nei ristoranti economici aperti tutta la notte, avrebbero sorseggiato caffè e letto i giornali, e anche se si fossero dati la pena di dare un'occhiata fuori per seguire Brock con lo sguardo, non si sarebbero degnati di catturarlo... lasciamolo andare, chi se ne frega di un assassino? È troppo faticoso corrergli dietro. Libero in quel modo, Brock aveva il mondo intero in cui vagabondare, ma lei, Loretta, rimaneva bloccata in quell'appartamento: la cucina, molto silenziosa eccetto il ticchettio dell'orologio, con il tavolo dal piano nudo, e l'acquaio leggermente sbilenco, con due sgraziati rubinetti e il portasapone nel quale restava un pezzo sottile di sapone rosa, e la pila di piatti, piatti che nessuno avrebbe mai lavato tranne lei, Loretta! - questo particolare triviale la esasperò - e sopra l'acquaio una finestrella, non molto pulita, e a ciascun lato, credenze senza sportelli che si perdevano nell'ombra fino al soffitto, nelle quali piatti e bicchieri si ammonticchiavano in modo squallido, così familiare, e la finestra alla sua destra... la finestra attraverso la quale sarebbe disceso Bernie se vi fossero state complicazioni e qualcuno fosse tornato a casa prima del previsto. Avrebbe dovuto andarsene da quella finestra, questo era stato il loro piano. Era stato escogitato in un'altra dimensione, una dimensione che non si era realizzata. E da un lato c'era quella stanza, nella quale non sarebbe entrata mai più, mai. Mai più sarebbe passata per quella porta, mai più si sarebbe avvicinata al letto inzuppato di sangue, e al corpo morto che le aveva portato tanta sfortuna. Al lato opposto della cucina c'era la camera di suo padre, ove ogni cosa rimaneva sparpagliata sul pavimento e sul letto, un disordine maleodorante che Loretta non poteva eliminare perché a lui non piaceva che qualcuno toccasse le sue cose personali... le sue cose "segrete", ritagli di giornali, e altre carte, vecchie ricette delle quali più nessuno si curava ormai, in ogni caso, riposte in una scatola di sigari; la stanza era angusta come una cassa, aveva le stesse dimensioni della sua. Le due camere racchiudevano tra loro la cucina, e fino a quel momento Loretta non ci aveva mai pensato. Lo spazio nel quale vivevano lei e suo padre e Brock equivaleva allo spazio di poche casse, squadrate e murate; e tutta la vita inconscia che vi si era svolta!... tutti quegli anni, inconsci! Era strano che tutto dovesse finire in quel modo. Subito al di là della cucina v'era la camera di Brock, in realtà una specie di salotto, ove egli dormiva su un divano-letto e teneva le sue cose nascoste in un baule, spinto contro la parete, come il divano-letto, e non visibile, in modo che non sembrava mai che qualcuno vivesse davvero là dentro; una stanza a-
nonima, così come la voleva lui. Loretta guardò nella sua camera. La porta sul corridoio rimaneva aperta in parte, come l'aveva lasciata Brock nella fretta. Si avvicinò a quella porta e la toccò; era una sorpresa per lei che l'appartamento fosse aperto in quel modo, chiunque sarebbe potuto entrare, anche un ragazzetto avrebbe potuto introdurvisi. Parve che ella non sapesse che cosa fare. Intorno agli spigoli logori della veneziana abbassata splendeva una fioca luce, e quella luce sarebbe divenuta più forte man mano che il giorno si fosse aperto, rivelando ogni cosa, ma senza fare alcun male alla stanza semivuota di Brock... nessuno sarebbe mai tornato in quella stanza, essa non lo avrebbe mai smascherato o accusato, era una stanza innocente, e persino il logoro tappeto marrone sul pavimento aveva l'innocenza di un oggetto dimenticato. Loretta corse fuori dell'appartamento e lungo il corridoio. Era presto; nessuno aveva lasciato il letto e poteva aiutarla. L'aspetto squallido e familiare del corridoio le ricordò tutte le volte che lo aveva percorso senza sapere chi ella fosse o quanto pericolosa fosse la sua vita. Un ragazzo morto giaceva, ancor sanguinante, sul suo letto. Avrebbe urlato, ma erano le prime ore del mattino e regnava troppo silenzio. Nel corridoio non c'era nessuno, nulla; si trovava lì sola e respirava molto affannosamente. I suoi occhi erano come pietre nella faccia, duri e tesi, e sul primo gradino delle scale le dita dei piedi di lei guizzarono, smaniose di condurla fuori di lì. Discese le scale con cautela, giù per una rampa, intorno al pianerottolo, passando accanto al bidone dei rifiuti di chissà chi, giù, per un'altra rampa, e poi si trovò nell'androne. Qualcuno vi aveva lasciato cadere una monetina da un centesimo, proprio al centro del pavimento, ed ella la valutò con lo sguardo, per abitudine, e la raccattò e pensò: Questa porta fortuna! Fuori, il mattino era nebuloso. Sentì le dita dei piedi e i muscoli guizzarle per il desiderio di lanciarsi in una corsa a perdifiato. Non si mise a correre. Voltò in un vicolo trasversale, affrettando il passo. Era a piedi nudi, con il vestito da casa, inzuppato di sudore; probabilmente aveva gli occhi folli e i capelli scarmigliati. Si toccò i capelli come una ragazza cieca, battendovi su le mani aperte, lisciandoli. Se qualcuno l'avesse veduta, che cosa avrebbe pensato? A piedi nudi in istrada, come una bifolca o una negra schifosa! Una macchina di pattuglia della polizia si sarebbe fermata accanto alla cordonatura del marciapiedi e un agente magari anche qualcuno che lei conosceva - le avrebbe afferrato il polso e tutto sarebbe finito. C'era un ragazzo morto nella sua camera, sul suo letto. Cominciò a singhiozzare, affrettandosi lungo il vicolo. «Dio, devi aiutarmi
a cavarmela. Soltanto questa volta» disse. Le gambe forti la portavano avanti, e il respiro le usciva ad ansiti violenti. In fondo al vicolo si fermò, gli occhi sfreccianti tutto attorno, ma senza fermarsi su niente. Ebbe l'impressione che forse Dio l'avrebbe aiutata. Forse Egli le avrebbe dato una sorta di risposta. Se qualcuno avesse alzato una veneziana, nella casa vicina, meglio così, sarebbe stato un segno. O se un clacson avesse squillato in qualche posto. Ma niente. Loretta si voltò e corse lungo il vicolo dietro casa sua e finì in una stretta strada, una viuzza. Ovunque c'erano casse e mucchi di rifiuti, un ingombro che ella conosceva quasi a mente, ma non aveva mai realmente guardato fino a quel momento; ora, però, ebbe paura dei topi - così a piedi nudi com'era - ma se la famiglia di Bernie era già in giro a cercarlo, avrebbe potuto forse nascondersi ugualmente tra quelle immondizie. Avrebbe potuto nascondervisi finché non fosse discesa l'oscurità. Il fratello di Bernie sarebbe uscito di certo a cercarlo, e tutti gli avrebbero detto di loro due, e così egli sarebbe andato a casa sua, a cercare lei. Il fratello di Bernie non era più alto di quanto lo fosse stato Bernie, ma scuro di pelle e brutto, con una faccia malvagia, un po' matto, in un certo qual modo, non molto interessato alle ragazze. Si divertiva con coltelli. Aveva una pistola. Ecco che cosa doveva fare, pensò Loretta, procurarsi anche lei una pistola. Per prima cosa procurarsi una pistola. Poi avrebbe potuto riflettere sulla mossa successiva. Anzitutto le occorreva una pistola, ma per procurarsela aveva bisogno di soldi. In camera sua c'erano tre dollari messi da parte, ma si trattava di una bazzecola, e in ogni caso in quella stanza non ci sarebbe tornata. Si sarebbe procurata una pistola, pensò, e poi sarebbe stata al sicuro. Le accadde di pensare che le ragazze venivano sfregiate in faccia per ogni sorta di piccoli sbagli... una volta aveva veduto una donna correre per la strada con un lato della faccia zampillante sangue, e tutto quel sangue prorompeva dal taglio inferto dal rasoio di un uomo; e già sentiva lo squarcio nella pelle, simile a un lampo, dalla mascella alla tempia. E pensò alla ragazza picchiata quasi a morte, che era stata trovata un mattino proprio in quella stessa viuzza. Si disse, Devo procurarmi una pistola e ogni parte del suo corpo si protese verso questa certezza, si concentrò su di essa. Riusciva a capire, adesso, perché suo fratello avesse una pistola. Tutti avevano bisogno di una pistola; era pazzesco non averne una. Ora doveva correre mezza nuda per le strade a cercarla. Sentì graniglia sotto le piante dei piedi e abbassò gli occhi giusto in tempo per non passare sopra un pezzo di vetro spesso, ma non rallentò l'andatura. L'aria tepida e nebulosa era satura
della necessità incalzante di trovare una pistola. Udiva quasi le parole... una pistola, una pistola... nell'aria intorno a sé. Una volta che avesse avuto una pistola, allora, allora si sarebbe potuta difendere. Con il vestito di cotonina a fiori gialli corse accanto a un negozio di sigari chiuso e buio. Si azzardò ad affacciarsi su una strada più ampia - c'era un'automobile a qualche distanza, nessun pericolo - e l'attraversò correndo sul lastricato freddo a piedi nudi, ansimante come una vacca. Per prima cosa doveva trovare un po' di soldi in qualche posto e poi bisognava che acquistasse una pistola... concentrò la mente su questo problema. E le parve che la sua intera esistenza fosse stata una preparazione per questo momento, come una strada che, senza saperne niente, sale lungo un lieve pendio; tutte le buone intenzioni e le speranze, e il suo visetto grazioso, tutto sarebbe fiorito in quella domenica, per salvarla, o per condurla alla mutilazione e alla morte. O una cosa o l'altra, non esisteva via di scampo. Si trovava nel cortile dietro la casa di qualcuno. Ansimante, con una fitta acuta nel fianco, si fermò per appoggiarsi a una staccionata e si sforzò di pensare... cercò di pensare a una pistola, a Bernie e a Brock, alla rivoltella di Brock... al fratello di Bernie, che aveva veduto soltanto poche volte, ma del quale le erano state raccontate molte cose... sì, era un pazzo, era un assassino e gli occorreva soltanto qualcuno da uccidere. Anche Brock era un assassino, e aveva avuto bisogno di qualcuno da uccidere, ma lei non se n'era mai resa conto. Lo aveva capito troppo tardi. Brock aveva ucciso senza alcuna ragione, soltanto perché era pronto a uccidere, soltanto perché il momento era giunto. E il fratello di Bernie, riposato dopo qualche ora di sonno, si sarebbe messo in cerca di lei, torvo e soddisfatto di quel dovere da compiere. O forse l'avrebbe lasciata andare, si sarebbe limitato a spaventarla? Forse l'avrebbe lasciata andare? Si recò da Rita Moreines. La porta a zanzariera sussultò rumorosa sotto i suoi colpi. L'aprì e bussò alla porta interna. Era bagnata di sudore. Gridò: «Rita! Rita, fammi entrare!». La udissero pure tutti i vicini, se ne infischiava, voleva soltanto entrare in quella casa. Il cranio sembrava diventarle sempre più stretto e pieno di tumulto. A striarle la faccia erano o lacrime, o sudore, non lo sapeva bene, e urlò «Rita!» e raschiò la porta con le unghie. Proprio in quel momento le venne in mente, misteriosamente, senza alcuna ragione, che Bernie era stato colpito per la seconda volta da un'arma da fuoco! Un vecchio gli aveva sparato con il fucile quando aveva quattordici anni. Il vecchio si era nascosto nel suo negozio una volta scesa l'oscurità, deciso a far saltare le cervella ai ragazzetti che si introducevano
di notte nella bottega; non aveva ucciso Bernie, ma si era limitato a ferirlo a una spalla. Ricoverato in ospedale per qualche tempo, Bernie non era morto, e in seguito tutti lo avevano preso in giro. Ma adesso nessuno lo avrebbe più preso in giro, per nessuna ragione. Era stato un ragazzo sui diciassette anni, magro e vivace, ma adesso aveva il cervello spappolato e di lui non rimaneva più niente, più niente tranne quel cadavere nella camera di Loretta. «Dio mio» disse Rita, aprendo la porta. Stava stringendo la cintura intorno a una vestaglia verde. «Loretta, si può sapere che diavolo è successo?» Loretta le passò accanto ed entrò; lei chiuse la porta. Rita domandò: «Ti sta inseguendo qualcuno? C'è tuo padre, là fuori?». «No. Va tutto bene» disse Loretta. Si appoggiò al tavolo di cucina, premendo i palmi delle mani, bagnati di sudore, sul piano del tavolo e sporgendosi in avanti, la testa ciondoloni. Aveva un forte capogiro. Due dei bambini di Rita entrarono nella stanza. «Tornate a letto» disse Rita. «Uscite di qui.» Rita sedette su una sedia accanto al tavolo e aspettò che Loretta si calmasse. Con una voce volutamente calma, senza tradire troppo stupore, disse: «Se al tuo vecchio ha dato di nuovo di volta il cervello, puoi restare qui. Rilassati. Lo sai che te ne sei andata in giro mezza nuda? Sta' a sentire, bambina, faresti bene a prendere qualche provvedimento con quel tuo vecchio. Ci sono quattro o cinque tipi proprio come lui... voglio dire che li conosco personalmente; hanno qualcosa che non funziona nella testa, e quando bevono le rotelle si sregolano. Da troppo tempo sono tutti senza lavoro. Si tratta di tuo padre o di chi altro?». Loretta scosse la testa. «Puoi prestarmi un paio di scarpe?» chiese. «Sicuro. Dove vai?» «Mi occorre... Ho bisogno di...» Cercò di raddrizzarsi. Quando si scostò i capelli dalla fronte, rimase stupita sentendo quanto aveva madida la faccia. Disse: «Ho bisogno di soldi. Mi trovo in guai brutti». «Che genere di guai?» «Guai. Guai spaventosamente brutti.» Rita la stava fissando. Aveva i capelli, neri e tinti, scarmigliati e in disordine quanto quelli di Loretta, ma la faccia conservava, immota, la stessa espressione; stava tentando di capire che cosa volesse dire Loretta. Infine domandò: «Con la polizia, tesoro?». «No.»
«Non si tratta di tuo padre?» «No. Ma mio padre tornerà a casa tra poco. Forse potrebbe già essere diretto a casa.» Loretta si guardò attorno stordita. «Che ore sono?» «Guarda.» L'orologio si trovava sopra la ghiacciaia, proprio come a casa sua. Segnava le sei. «È così presto, ecco perché non riesco a pensare come si deve» disse Loretta. «Mio padre non è ancora a casa, ma potrebbe tornarci... o forse non tornerà, non lo so. A volte lo portano sin là, oppure chiamano i poliziotti. Una volta lo trovarono lungo disteso davanti al bar Ticonderoga. Faceva un freddo cane e sarebbe potuto morire intirizzito. Comunque non so quando tornerà a casa.» «Perché è così importante sapere quando tornerà? Che diavolo è successo?» Loretta fece capire con un gesto che non intendeva rispondere. «Me lo presti un paio di scarpe? E un vestito?» «Dove vuoi andare?» «Forse fuori città. Ma prima devo vedere qualcuno.» «Chi?» «Non posso dirtelo.» «Che significa, non puoi dirmelo? Perché no?» «Be', mi servono i soldi per una pistola.» «Una pistola?» «Sono nei guai, mi occorre una pistola» disse Loretta. «Meglio star lontana da una pistola, che tu sia nei guai o no.» Loretta si asciugò di nuovo la faccia. Rita stava accendendo una sigaretta. Sembrava che si guardasse attorno nella stanza, ignorando l'amica. La cucina era ingombra e sudicia; su una delle sedie si trovava un mucchio di giornali vecchi. Quel mucchio era lì da settimane. In cima ad esso Loretta poté vedere una pagina a fumetti, e, nonostante l'atmosfera nebulosa, abbacinante, che la circondava, scorse con lo sguardo "Gasoline Alley" e una parte di "Dick Tracy", domandandosi se li avesse già letti, probabilmente sì, non le riuscivano nuovi. Si costrinse ad alzare di nuovo gli occhi su Rita. «Sicché, me lo presti un vestito?» «Certo» rispose Rita. C'era una tale gravità materna, in lei, tanta severità, e un affetto in parte lesinato, che Loretta si sentì addolorata pensando quanto meno madre fosse stata sua madre, meno capace di affrontare le sorprese della vita. Rita
era sui venticinque anni, ma aveva già due mariti dietro di sé e molti uomini, in varie città. Indossava una vestaglia verde che sembrava di seta, ma non era di seta, e la pelle rosea e sana della sua gola e del petto fece capire a Loretta che aveva dinanzi una donna come lei, fatta della stessa carne, e prevedibile nello stesso modo. «Ho qualcosa qui che posso darti» soggiunse Rita. «Ma mi dirai di che cosa si tratta? Quando tutto sarà finito?» «Quando tutto sarà finito, sì» rispose Loretta. Passarono tra i bambini di Rita. Rita li scostò, borbottando: «Piccole pesti! Toglietevi dai piedi, filate!». Chiusero la porta di una camera da letto nel retro. «Ecco, eccoti un vestito. Togliti quello straccetto e infilatelo prima che ti arrestino» disse Rita. Tolse qualcosa da un mucchio di indumenti. «Là c'è qualche paio di scarpe. Ho soltanto quattordici dollari. Ma puoi comprarci qualcosa, se proprio ne hai bisogno.» «Non voglio prendere tutti i tuoi soldi.» «Non ti preoccupare.» «Ma poi tu come farai?» «Posso farmi prestare qualcosa da Harry Kaiserkof, lo sai...» Loretta si infilò rapidamente il vestito sul capo, imbarazzata perché Rita la vedeva. Un rossore di vergogna le discese dalla faccia al petto e al ventre. Era pazza, comportandosi così? Che cosa stava facendo in casa di Rita alle sei di una domenica mattina? Pensò, In ogni modo questa faccenda non può durare a lungo. Districò la testa dal vestito, respirando ad avide boccate d'aria, come se fosse presa dal panico. La prima cosa che attrasse il suo sguardo fu una fotografia incorniciata, alla parete, delle cinque gemelle Dionne, poco più che poppanti. Disse, stranamente, additando la fotografia: «Non credo di voler avere un bambino...». «Cosa?» Rita la stava fissando come se fosse impazzita. Loretta disse: «Oh, niente, no, dimenticatene. Sono un po' nervosa». «Vuoi un caffè o qualcos'altro?» «No, grazie.» «Se vuoi restare qui, puoi.» «No.» «Tutto questo ha qualcosa a che vedere con Brock?» «Be', sì. Con Brock» rispose Loretta. Si abbottonò il vestito. Si guardò, abbassando gli occhi, le mani tremanti. «Sì, Brock. È stato Brock. È stato lui.»
Rita l'accompagnò fino alla porta. Loretta guardò fuori nella strada, non vide niente, si accinse a uscire. Si domandò se il suo corpo avrebbe continuato a funzionare abbastanza a lungo per farle superare quella mattina. Se ne andò. Aveva in mente un negozio di prestiti su pegno, a due isolati di distanza, con rivoltelle in vetrina, ma in fondo alla strada, in piedi laggiù e intento a guardarla, c'era un agente. Sicché, tutto stava già per finire; ecco la polizia. Era Howard Wendall, vestito da poliziotto, e pertanto doveva essere entrato nella polizia, sebbene lei non lo avesse saputo. Egli prese a sorriderle e i suoi occhi pigri e imbronciati passarono dalle scarpe di Rita alla faccia irrigidita di Loretta, come se già sapesse tutto e stesse aspettando la sua confessione. «Da dove te ne torni a casa a quest'ora?» domandò. Loretta non riuscì a rispondere. Dopo un momento egli disse: «Ehi, indovina una cosa». Lo fissava. «Indovina dov'è il tuo vecchio.» «Dove?» «Dorme per smaltire la sbornia in centro. È stato fermato.» Loretta annuì adagio. «Lui e alcuni altri vecchi, li hanno portati dentro. Ora ci dormono sopra» disse Howard. Era un giovanotto robusto di ventidue o ventitré anni, ma con l'aspetto maturo anzitempo di certi uomini imbronciati e astuti, ma stupidi, che mescolano i loro sospetti e i loro entusiasmi. Loretta lo conosceva da anni e gli aveva parlato spesso nel modo cantilenante, di finta dolcezza, con il quale parlava a certi uomini, ma Howard non si era mai precisamente interessato a lei, e ora rimaneva lì in piedi al termine dell'isolato, sullo stesso marciapiedi, in attesa che ella confessasse. L'uniforme lo aveva trasformato. Sembrava più alto e più forte. Con la faccia affilata, da volpe, ma non magra, e un lieve rossore diffuso sulle gote, cercò di sorridere, ma il sorriso si dileguò di fronte al suo silenzio. «Sta benissimo, si limita a smaltire la sbornia con una dormita. Non vomita né altro» farfugliò Howard. Aveva i capelli castani suddivisi da una scriminatura sulla destra, con puntigliosa esattezza. L'uniforme del poliziotto, al pari del vestito rosa di Rita che Loretta indossava adesso, annunciava come fosse stata iniziata una nuova vita; un mutamento importante si era determinato. Loretta ri-
cordava questo Howard Wendall come un ragazzo grandicello che non era il più pericoloso tra i più sfrenati, ma che stava con loro, una sorta di subalterno, partecipando con entusiasmo alle birbonate: in breve, un tipo di ragazzo familiare. La sua faccia scaltra e audace riusciva a passare da un'aria perfida a un'aria vuota, e quello che poteva celarsi dietro a essa, nel cervello di lui, bisognava indovinarlo. Ricordò che Howard e alcuni altri ragazzi avevano fatto penzolare Floyd Sloan dall'orlo di un tetto, alcuni anni prima, e Floyd Sloan era a sua volta uno dei duri. «Mi trovo in un guaio spaventosamente brutto!» gridò Loretta. E così lo condusse a casa sua, su per le scale e in cucina, in silenzio: e là, ecco la sua camera, nella quale non sarebbe entrata mai più. Si mise a piangere. Howard si avvicinò alla porta della sua stanza e guardò dentro, poi entrò. Vi rimase soltanto per pochi minuti. Quando uscì, la fissò, imbarazzato e imbronciato. «È meglio che tu ti metta a sedere» disse. Loretta piangeva. Aveva le dita aperte sul vestito di Rita, stringeva la stoffa e la lasciava andare, a spasmi sussultanti. Howard fece il giro della cucina; in uniforme sembrava occupare l'intera stanza; urtò contro il tavolo, contro la cucina economica. «Maledizione» disse. Sembrava un orso, chiuso nel silenzio, imbronciato e rosso in faccia. Dopo qualche momento aprì lo sportello della ghiacciaia. Spinse da un lato una bottiglia di latte, si chinò per sollevare un piatto da una scodella, per vedere che cosa contenesse. Infine disse, dando una spinta irosa allo sportello e facendolo chiudere con un tonfo: «Gesù, ti sei proprio cacciata nei guai, adesso!». Loretta sedeva immobile. Non riusciva quasi a vederci, tanto forte piangeva. Howard fece il giro della stanza. La sfiorò e il contatto fu una sorpresa, quasi doloroso. Ella lo udì ansimare. «Quel maledetto, sudicio furfantello, ha avuto quello che meritava, lui! Gli sta bene!» borbottò Howard. Il suo respiro divenne ancor più udibile; stava guardando da un lato e dall'altro della cucina, senza vedere niente, molto arrabbiato. Una sorta di furia sembrava salire in lui e farlo girare intorno al tavolo, continuamente. Loretta si asciugò la faccia e lo guardò. «Che diavolo!» disse Howard con violenza, sbirciandola in tralice mentre passava, «era un dannato mascalzone. Doveva aspettarselo, uno di questi giorni.» Le sue sopracciglia scure e sospettose cominciarono a corrugarsi; pensieri gli si levarono nella mente con una tremenda energia irosa. «Tutti i Malin sono dei mascalzoni! Il vecchio pesta la madre, e non c'è chi non lo sappia. Se questo qui fosse caduto da un tetto, o lo avessero trovato per la strada, con una pallottola in
corpo o stritolato da un tram, nessuno se ne infischierebbe. Se ne fregherebbe anche suo padre. Voglio dire, sia che lo trovino in camera tua, o là dietro nel vicolo, è morto stecchito, il piccolo bastardo, è ugualmente morto in tutti e due i posti! Il piccolo bastardo!» Howard si interruppe e fissò Loretta. Era molto rosso in faccia. Ella gli vedeva il petto alzarsi e abbassarsi nello sforzo di respirare. «Ah, be', ci sei proprio dentro fino al collo! Ti trovi davvero nei guai!» egli disse. Urtò contro il tavolo e, con la gamba, scostò una delle sedie. La fissò, la faccia tutta guizzi. «Hai fatto uno sbaglio, eh? Hai fatto proprio uno sbaglio, portandolo quassù. Gesù, che sbaglio hai fatto, davvero...» La fissava come se fosse affascinato; lei non aveva mai veduto nessuno fissarla in quel modo. E rimase del tutto immobile, senza più riflettere, limitandosi ad aspettare. Howard si grattò la testa. I capelli parvero separarsi... e subito divennero arruffati. La scriminatura era frastagliata. «Tuo fratello ha tagliato la corda, e tu sei la sola rimasta qui, eh? Be', Gesù, ti trovi proprio in un bel guaio, adesso!» Emise un suono latrante, senza ilarità e breve. Poi le sorrise. «Sarà proprio uno spasso, e la gente ci si farà su una grossa risata. Quel piccolo bastardo ha avuto quello che si meritava. Gli sta bene; e sta bene anche a tuo fratello! Ma tuo fratello farà meglio a star lontano dalla città. Sei tu quella che è rimasta qui, eh? Sei rimasta con quel bastardo nel tuo letto, e, Gesù, che risate... non ci sarà nessuno in questa città che non verrà a saperlo entro oggi a mezzogiorno, posso assicurartelo.» Fece un brusco passo in avanti, venendo verso di lei. Le afferrò i capelli e la scrollò. «Sì, hai fatto uno sbaglio, ti sei cacciata in un guaio di prim'ordine, ragazzina, tu e lui credevate di essere tanto furbi. E non piangere, per giunta, non mi piace veder piangere la gente.» Ella non tentò di sottrarglisi. Sedeva come paralizzata, immobile, aspettando. «Hai fatto uno sbaglio portando quassù quel sudicio, piccolo furfante. Perché lui? Che cosa c'era di tanto straordinario in lui?» gridò Howard. «Non piangere, piantala. Non voglio nessun dannato piagnisteo. Mi innervosisce veder piangere la gente, e in ogni modo ancora non ho detto che cosa si deve fare. Potrebbero trovarlo tanto nel vicolo quanto quassù, è morto stecchito, no? Che differenza fa, eh? Sta' a sentire, che differenza fa?» Era agitato, rosso in faccia, molto strano. Loretta lo fissò. Si fissarono negli occhi, senza più distogliere lo sguardo. «Non prendertela» egli disse.
Continuarono a fissarsi per un lungo momento. Loretta non se la stava più prendendo; aveva la testa vuota, il cervello bruciato. Poi lo udì fare scorrere la lampo dei calzoni. Si alzò a mezzo, forse per correre fuori di lì, o forse per facilitargli la cosa, e lui l'agguantò e tutti e due incespicarono all'indietro, contro il tavolo. Howard aveva cominciato a gemere, goffamente e sommessamente, come se soffrisse. Loretta vide i piatti ancora ammonticchiati nell'acquaio. Vide l'orologio sopra la ghiacciaia, ma non ebbe il tempo di vedere che ora segnasse. «Non stare a crucciarti per quello che è successo, non per quel piccolo bastardo» disse Howard, avvinghiandosi a lei, alzandole la gonna, «non pensarci, non pensare a lui, che vada all'inferno!» E poi, divincolandosi tra le braccia di Howard, divincolandosi per facilitargli la cosa, pensò per la prima volta a Bernie: era morto. Lo aveva amato, ma era morto e non lo avrebbe veduto mai più. Mai più sarebbe venuto a lei come Howard stava tentando di venire a lei. Era morto, scomparso, finito, e questo significava la fine della sua gioventù. Cercò di non continuare a pensarci. 3 Incinta e sposata, andò a vivere con lui nel quartiere sud della città. Mise le poche cose che possedeva in scatole di cartone e sacchetti e si trasferì in un appartamento che la madre di Howard - mamma Wendall - aveva trovato per loro, non lontano da casa sua. Era per lei una strada imponente, con filari di olmi che impedivano la vista dalle finestre più alte delle vecchie case di mattoni e con giardinetti malconci delimitati da cordicelle legate a paletti conficcati nel terreno. I giardinetti erano delimitati con precisione. Sebbene i monelli li attraversassero di corsa e facessero cadere cordicelle e paletti, rimanevano ugualmente delimitati, e a Loretta piaceva questa nota di intimità. Sentì che stava incominciando una nuova vita. L'aveva fatta finita con il passato... con la necessità di provvedere a suo padre e a Brock, e di abitare in quella topaia, e di lavorarci, nubile, indipendente. Avrebbe dimenticato tutto questo. Avrebbe avuto un bambino. Era un'altra persona. Lì, quando aveva terminato di fare le pulizie nell'appartamento, poteva passeggiare su e giù lungo la strada, simile a un pallone nei vestiti premaman, e conversare con altre giovani mogli come lei, che cantavano le lodi dei loro bambini o atteggiavano la faccia in un'espressione d'ira comprensiva, quando parlavano degli argomenti di cui solevano parlare... cose che
le crucciavano, il lavoro incerto dei mariti, o la situazione minacciosa nel paese o in Europa... per cui ella corrugava il viso in un'espressione di sofferenza, come una mela che avvizzisse in un lampo e tornasse a essere fresca per magia. Le piaceva dire alle amiche: «Be', ho scoperto una cosa, che la gente è proprio buona. Mi trovavo in un brutto guaio, ma qualcuno mi ha aiutata e non posso lamentarmi del mondo», pensando a Howard e a come l'aveva salvata, a come si era innamorato di lei, decidendo di sposarla e cambiando completamente la sua esistenza. Howard Wendall, saltato fuori dal nulla nelle prime ore di una domenica mattina, con l'uniforme di poliziotto indosso, e venuto ad aiutarla. «Sì, la gente è proprio buona nel profondo del cuore» ella diceva, quasi piangendo, mentre pensava a quello che sarebbe stata la sua vita se non fosse apparso Howard. Anche la loro casa, alta tre piani più le soffitte, era imponente per lei, perché, a parte il villino appartenuto a suo padre parecchi anni prima, non aveva mai abitato in un appartamento degno di questo nome. Guardava la casa con voluta solennità, contemplando il colmo del tetto imponente come una montagna sopra di lei, mentre voltava nel breve viale d'accesso. Accesa dall'entusiasmo nell'aria pungente dei primi giorni d'autunno, eccitata dai pettegolezzi delle sue nuove amiche e dalla prospettiva del bambino che stava per avere, ne fissava proprio la sommità, il tetto di assicelle di un verde scuro, orlato dal muschio con ricami delicati, il gran camino di mattoni annerito dalla fuliggine, che si levava fino a un'altezza stupefacente contro l'aria autunnale. La casa era costruita con mattoni, annerita dal tempo, ma molto solida e simile a una fortezza, e le finestre, con le intelaiature di legno verniciato, erano enormi. Le finiture erano state rifatte non molto tempo prima: infissi di finestre e di porte e vari altri abbellimenti in verde scuro. La casa si trovava di fronte a un altro edificio situato al di là della strada, non proprio identico e i due palazzi sembravano opporsi l'uno all'altro, come due soldati veterani che si guardassero con reciproca diffidenza, ma avessero rinunciato all'azione... i ragazzetti che giocavano nei giardinetti davanti alle case e sulle verande, chiassosi, schizzando fango, facevano sì che gli edifici sembrassero ancor più giganteschi e silenziosi. Il loro stesso aspetto era silenzioso. Loretta sognava di quella casa, sognava di abitarci sola, di esserne la proprietaria, di poter chiudere tutte le porte e le finestre e di possedere ogni cosa: la sua casa! Dalla veranda sulla facciata al marciapiedi si stendevano forse tre metri di terreno tenuto come una sorta di prato, le cui recinzioni di cordicelle e
paletti erano state abbattute da tempo, ma dove l'erba cresceva a chiazze bizzarre, mentre altre chiazze erano segnate da orme e dai solchi di piccole ruote; in primavera, l'erba vi era stata seminata dallo stesso signor St. Onge, il padrone di casa, ma la pioggia aveva sospinto tutti i semi negli avvallamenti più profondi e soltanto in quelli cresceva folta un'erba di un verde smagliante. A St. Onge piaceva fermare Loretta quando usciva o entrava, e parlarle delle sue afflizioni. Era un uomo esile, dai preoccupati occhi celesti e dalla bocca inquisitiva, e sebbene Howard le dicesse di stare lontana da lui, accidenti, - St. Onge era un attaccabrighe e non faceva che chiamare la polizia per denunciare persone le quali, a suo dire, tentavano di entrare in casa, o monelli colpevoli di seguirlo quando usciva - Loretta non aveva il coraggio di evitarlo. Con un viso cortese e luccicante, lasciava che si lagnasse; lasciava che le parlasse di sua figlia sposata, della moglie defunta, degli altri inquilini della casa, della gente che abitava nella casa accanto e in quella dirimpetto, e di altre persone che avevano abitato lì un tempo, ma ormai erano andate altrove, o addirittura erano morte. Ogni cambiamento insospettiva St. Onge. Aveva le sue idee sulle ragioni per le quali i percorsi degli autobus erano stati modificati. Aveva le sue idee sul sindaco, il governatore, il presidente. Ascoltandolo - o non ascoltandolo affatto a Loretta veniva in mente il manifesto pubblicitario di qualche società di assicurazioni... un uomo e la sua ombra, quell'ombra ammonitrice, il simbolo forse della morte, o della vecchiaia, o di disgrazie future, un manifesto che ella vedeva continuamente e che la faceva sentire a disagio. Passeggiando con le sue nuove amiche, notava quanto fossero simili le case... grandi case di mattoni, a più piani, massicce, con angusti viali d'accesso e traballanti autorimesse sul retro... e faceva piacere a lei e alle sue amiche constatare come tutto fosse uniforme. Ci tenevano a che tutto fosse uniforme. Volevano affondare radici nel vicinato, così come la loro carne stessa voleva allignarvi e crescervi godendo di una salute ancor più prodigiosa; erano ansiose di mandare a mente la facciata di ogni casa davanti alla quale passavano, paragonando, accettando, riconoscendo nel disegno di un cuscino sul dondolo della veranda di qualcun altro lo stesso identico disegno delle tende nel salotto dei loro genitori o nel salotto dei loro nonni... per cui tutto scorreva insieme, caldo e mescolato e dolce. La più intima amica di Loretta, Janette, era una giovane donna piccoletta di statura, linda, dagli occhi lampeggianti e maliziosi, già madre di due bambini; aveva persuaso Loretta a prendere parte a una catena di lettere mondiale che le prometteva mille dollari in contanti giusto un anno dopo il
pagamento del suo dollaro... tutto questo, naturalmente, a insaputa di Howard. Janette era al corrente di tutto, più ancora di St. Onge. I suoi pettegolezzi erano più scaltri e più crudeli. Era al corrente degli aborti avuti da tutte le donne dell'isolato e delle botte che si buscavano dai mariti ubriachi; conosceva i litigi tra parenti, sapeva a chi era stata sequestrata l'automobile e chi aveva una sorella minore nei guai. Ma l'argomento che ella preferiva era la bellezza di quel quartiere, la pulizia, e seguitava a dire quanto fosse migliore del posto da dove veniva, pieno di teppisti di origine italiana praticamente appena voltato l'angolo e di gente di colore subito al di là di un isolato di magazzini... con la conseguenza che tutti quanti avevano rasentato un pericolo, i loro genitori soprattutto; e alcuni dei più anziani, respirando quell'atmosfera, erano diventati pieni di terrore e indifesi per tutta la vita, ma loro, le giovani, con i bambini appena messi al mondo, e i mariti, stavano migliorando socialmente e non avrebbero mai più veduto il fondo. Il governo a Washington era come una rete tesa nemmeno tre metri sotto di esse, per salvarle. Il marito di Janette faceva il camionista, un lavoro abbastanza comune; ma Howard, un agente di pattuglia, assumeva la statura di un uomo pericoloso, che era meglio tenere a distanza, sebbene lo si ammirasse e lo si temesse. Loretta veniva pungolata e stuzzicata dalla sua piccola amica affinché si decidesse a parlare di lui. Che tipo di uomo era? Aveva molto coraggio? Si serviva spesso della pistola nel suo lavoro? Aveva ammazzato qualcuno? Era molto affettuoso con Loretta? Ed era contento che lei fosse incinta? Timidamente, Loretta evitava di parlare di lui; non che non la lasciassero interdetta, a volte, i suoi silenzi, o le improvvise esplosioni di parole e d'ira, o il suo modo brusco di fare l'amore quando era ubriaco di birra, ma aveva un'indole abbastanza riservata per tenere queste cose per sé, e non ne parlava nemmeno a Howard e alla madre di Howard, che insisteva sempre perché andasse da lei... era una brava ragazza, la sapeva abbastanza lunga per non rivelare segreti, sapeva che certe cose non devono mai essere dette. Janette aveva idee matte; quando passeggiavano insieme, alzava gli occhi verso le case accanto alle quali passavano e, se si dava il caso che tutte le tendine delle finestre sulle facciate formassero una linea diritta e regolare, afferrava il braccio di Loretta ed esclamava: «Oh, guarda, questo significa fortuna. Fortuna per noi». Oppure, vedendo una donna anziana, dall'aria volgare, una donna che, a quanto pareva, incontravano sempre, diceva, afferrando il braccio di Loretta: «Scommetto che quella vecchia strega ci
sta facendo il malocchio. Perché lei è anziana e noi siamo giovani». Loretta si crucciava pensando che il futuro potesse essere deciso in quel modo; sapeva che crederlo era un male, la Chiesa diceva che era peccato, eppure si crucciava ugualmente. Non diceva niente di Janette a Howard. A lui Janette non piaceva, così come non aveva in simpatia St. Onge, o i suoi colleghi, sebbene nulla nella sua vita lasciasse pensare che gli sarebbe stato possibile trovare di meglio, e così Loretta taceva per quanto concerneva Janette, e quando Howard tornava a casa, la sera, gli parlava delle cose che erano necessarie nel loro appartamento, cose vedute in centro, oppure parlava di suo padre e delle afflizioni di lui, o gli riferiva quanto le era stato detto quel giorno da mamma Wendall. La sua esistenza di un tempo era finita, pensava Loretta, ed era una sensazione piacevolmente sicura pensare che forse avrebbe vissuto lì per sempre, vedendo crescere i ragazzetti del vicinato, dividendo dispiaceri e buone notizie con tutte le sue amiche, riuscendo a poco a poco a persuadere suo marito a giocare a pinnacolo con i mariti delle altre, e allevando i propri figli. Tutto era ormai deciso e stabilizzato per sempre. Sarebbe giunto il momento, persino, in cui non avrebbe più avuto tra i piedi mamma Wendall. La madre di Howard le era abbastanza simpatica, eppure immaginava per lei una morte improvvisa, incidenti. Però la suocera le riusciva davvero simpatica. Janette diceva: «Non capisco come tu riesca a sopportare quella vecchia bagascia», ma Loretta non rispondeva mai. Giocavano insieme molto spesso agli scacchi cinesi, fuori sulla veranda e sfogliavano le pagine di fumetti romantici, pagine ammorbidite dalla sporcizia. La veranda della casa era arredata con numerose poltroncine di vimini e con un divano di vimini, verniciato in nero, ma ormai un po' scrostato, e con cuscini che dovevano essere portati dentro durante la notte, e sul largo parapetto c'erano piante dalle foglie larghe e sottili. Tende proteggevano in parte la veranda. Durante il giorno, qualcuno teneva la radio accesa, lì accanto, e Loretta poteva ascoltarla, un tenue mormorio di musica e di parole, una sorta di ninnananna. Quasi tutte le canzoni parlavano d'amore. Quanto a lei, non pensava più all'amore, ma la musica le piaceva e girava per casa canticchiando le parole. La vita si era fermata per lei, e poteva rilassarsi, dormire. Le piaceva andare al cinema una o due volte la settimana con Janette - Ginger Rogers danzava, Errol Flynn lottava - e i film scorrevano dinanzi ai suoi occhi e la lasciavano un po' più contenta, come se la sua esistenza stesse diventando in qualche modo più stabile. Era simile all'odore che pervadeva la casa, un qualcosa che non si riusciva a definire.
Non si trattava soltanto di odore di cibi... sembrava che in esso si mescolasse polvere di carbone; e, a dire il vero, non era sgradevole. Nelle giornate umide diventava più greve e intenso. L'aria sapeva lievemente di zolfo e conteneva una traccia di cipolle, un odore così diverso da quello rancido e nauseante nell'appartamento ove suo padre continuava ad abitare. E le piacevano i sigari di Howard, il fumo che, in qualche modo, sgombrava un determinato spazio nel loro appartamento, respingendo gli altri odori. Tutto veniva accolto, assorbito, intessuto nella dolce, assopita densità della sua vita coniugale, per la quale le era stato dato persino un nuovo corpo. Un giorno andò a portare qualche dollaro a suo padre. Ma il vecchio non si trovava più lì, l'appartamento era vuoto, ed ella dovette informarsi nel caseggiato per sapere che cos'era accaduto. Qualcuno le disse che lo avevano portato all'ospedale. Quale ospedale? domandò Loretta, ma la donna con la quale stava parlando non lo sapeva. Così ella si recò all'ospedale più grande della città, ma suo padre non c'era; l'impiegata dell'accettazione le disse che il vecchio doveva trovarsi nello State Hospital. «Ma lo State Hospital è per i pazzi» disse Loretta, sbalordita. Se ne andò in fretta per non vedere più quella donna. Lo State Hospital! Suo padre era stato rinchiuso in manicomio! Prese il tram per tornare nel vecchio quartiere, sudando nella calura dei primi giorni di ottobre, ansiosa di vedere una faccia familiare, e in ultimo si recò nel posto dove lavorava Rita e le domandò se sapesse qualcosa. «Tesoro, che cosa potrei saperne io?» disse Rita. «Non ti hanno fatto firmare una carta, o qualcosa? Credevo che tu dovessi firmare un documento.» Loretta si sentì in preda al panico, confusa. Finse di guardare le stoffe. Grossi rotoli di tessuti si trovavano sui banchi, tessuti di ogni tinta e di ogni tipo. Continuò a srotolare e ad arrotolare una cotonina stampata a campanule azzurre; Rita cicalava. Parve a Loretta, mentre l'ascoltava a mezzo, che tutte le ragazze da lei conosciute, tutte le donne, avessero fiumi di parole da riversarle dentro, ed ella stessa si sentiva come resa più leggera e sollevata da una gran pressione di parole, chiacchiere, conversazioni, gesti eccitati, simile a un gigantesco battito cardiaco che, in qualche modo, le trascinava tutte più vicine... tutte le donne; gli uomini non facevano che tacere. Rita disse: «È una dannata vergogna questa faccenda di tuo padre, ma forse è meglio così. Forse si era cacciato in qualche pasticcio». «In un certo qual modo gli piaceva litigare» disse Loretta. Pensava a lui
come se fosse morto. «È strano che Howard non ne sappia niente.» Loretta riavvolse il tessuto intorno al grosso e pesante rotolo. Parve pensare a questo. Si discostò con la mente da suo padre, rinchiuso nello State Hospital per i malati di mente, e pensò a suo padre che saliva le scale ubriaco e sudicio, o che si destava da un incubo, urlando, e a tutte le preoccupazioni che aveva avuto a causa sua dopo la morte della mamma. A che cosa serviva tutto questo? Avere un padre o essere una figlia? Che cosa significava? Si ridestò adagio al presente, alla domanda di Rita. «Oh, se sarà un maschio lo chiameremo Jules. Il nonno di Howard si chiamava così. Se sarà femmina, la chiameremo Antoinettc.» «Sono bei nomi tutti e due» disse Rita. Loretta non resisteva più nel negozio e così se ne andò, domandandosi che cosa avrebbe dovuto fare, vergognandosi un po' di avere un padre chiuso in manicomio, e domandandosi inoltre se lo sapessero tutti. La pazzia era forse ereditaria nella famiglia? Anche sua madre era impazzita. Si sentì tremare. Per qualche tempo rimase immobile sul marciapiedi lasciando che la gente le passasse accanto, indifferente e silenziosa. Poi ebbe un'idea: sarebbe andata a trovare sua zia, la sorella di sua madre, il cui figlio maggiore era poliziotto, e per conseguenza la famiglia sapeva sempre quello che succedeva. La zia l'accolse senza molto entusiasmo. Loretta entrò, sedette in salotto, fissò una bella fotografia, colorata in rossiccio, di questo cugino-poliziotto in uniforme, sentendosi a disagio perché somigliava a Howard. Lasciò vagare lo sguardo verso il grande crocifisso d'avorio appeso sopra il divano. Disse: «Avrai saputo, immagino, che hanno portato il mio Pa' a Danby?». «Be', ho sentito dire qualcosa al riguardo» rispose sua zia. C'era un odor di mostarda, in quella casa. Loretta continuò rapidamente. «Quanto è grave, lo sai?» «No.» «Billy non ti ha detto niente?» «Qualcosa.» «Mi dispiace che lo abbiano portato via. Voglio dire, non era cattivo, ma beveva troppo, ecco tutto. A volte aveva le idee un po' confuse, ma non è mai stato pazzo. Billy lo vide? Voglio dire, fu arrestato o che altro?» «Billy in realtà non lo vide» disse la zia, con una certa freddezza, «ma ne sentì parlare. Probabilmente lo ha saputo anche Howard. Perché non lo domandi a lui?»
«Credo che Howard non ne sappia niente.» La zia di Loretta non disse nulla, ma fece una smorfia affettata con la bocca. «Fu arrestato per una rissa o per qualcos'altro? Ruppe i vetri di qualche finestra? Picchiò qualcuno?» «Non lo so davvero.» «Non potrebbero averlo rinchiuso se non avesse fatto qualcosa, non è vero?» «Temo proprio di non saperlo.» «Per quanto tempo li tengono rinchiusi?» «Per quanto tempo? Finché non guariscono, immagino.» La stupì il fatto che sua zia dicesse questo, che lo dicesse così generosamente. Le mani della donna rimanevano abbandonate in grembo; era sempre stata così gelida, così distaccata. «Non è impazzito, vero?» disse Loretta, sudando. «Va' a trovarlo» le consigliò sua zia. «Non voglio andare a trovarlo, ho paura di vederlo» disse Loretta. Mentre tornava a casa con il tram, sedette tenendo le mani sul ventre, e i suoi pensieri si tramutarono in una sensazione interiore di panico che le premeva sullo stomaco; si domandò se il bambino avesse già un sesso preciso... se fosse un maschietto o una femminuccia. Sperò che fosse un maschio, Jules. Pensò all'avere un bambino. Pensò a un bambino suo. Ma, scendendo dal tram, si mise a piangere a un tratto perché non era giusto che suo padre fosse stato arrestato e portato via in quel luogo, come un pazzo, soltanto per essere tolto di mezzo. Lo immaginò con la camicia di forza. Immaginò qualcuno entrare nella sua stanza e gettare a terra la scatola di sigari piena di carte, e sparpagliare a calci le carte sul pavimento... Quando Howard tornò a casa, quella sera, ella sedeva nella camera da letto, con le veneziane abbassate. «Sei in casa?» gridò lui. Gli rispose con voce fioca. Questo dovette bastargli, poiché non disse altro. Entrò in bagno. Ella lo udì, là dentro, e ascoltò i rumori senza alcun particolare disgusto perché li aveva sentiti per tutta la vita, e Howard, almeno, si chiudeva la porta alle spalle. Poi egli venne nella camera da letto e si sfilò la camicia scura. «Mi hanno raccontato qualcosa oggi, una storiella davvero pazzesca, a proposito di Eleanor Roosevelt e di un negro, ma non me la ricordo più bene. Tu l'hai mai sentita?» «No.» «Che cos'hai?»
«Sono sconvolta a causa di mio padre.» Howard tacque, spogliandosi. Gettò i vestiti sul letto. Quando rientrava dopo il lavoro, sembrava invecchiare, la barba gli spuntava con la stessa energia dei suoi crucci, e occorrevano molte ore di sonno profondo per rinnovargli il grasso sano sulla faccia. Sbirciò Loretta in tralice. «Sai che cosa è successo, non è vero?» ella gli domandò. «Lo hanno ricoverato in osservazione per trenta giorni.» «Che cosa significa?» «Lo terranno in osservazione per trenta giorni.» «Ma perché?» «Si comportava in modo strano.» «In modo strano come?» gridò Loretta. «Come se fosse pazzo.» «Chi può stabilire se uno è pazzo? Perché non mi hai detto niente?» «Sta meglio laggiù.» «Perché dovrebbe star meglio?» «Sta' a sentire, per poco non è stato investito da un'automobile. È continuamente ubriaco. Al posto di polizia disse che potevano anche sparargli, perché non voleva più vivere. È sempre stato un po' matto, e si trova meglio a Danby, quindi non pensarci più.» «Quando posso andare a trovarlo?» «Non per trenta giorni.» «Questo non è vero!» «Chi ti ha detto che non è vero?» «Ma trenta giorni sono un mese! Si sentirà solo, laggiù, e potrebbe peggiorare. Ho sentito dire com'è quel posto.» «In ogni modo ci siamo liberati di lui» disse Howard. Chiuso nel suo silenzio caparbio, si tenne lontano da lei, in attesa. Ella si rese conto che era diventato un uomo, un uomo come suo padre, o come i padri delle sue amiche, o qualsiasi padre, ovunque, qualsiasi uomo, silenzioso e iroso, affamato ma impaziente con il cibo, sempre a farlo rigirare sul piatto, gravato da un terribile fardello di carne, e bisognoso di qualcuno come lei per allentare la pressione. Pianse per suo padre e per Howard, sentendo il proprio corpo diventare dolente. «E se morisse laggiù? Li prendono a calci, lo so questo! Li picchiano!» Howard emise un suono grugnente di disprezzo. «E tu, se dovessero rinchiudere anche te, un giorno? Credi di essere così intelligente che una cosa simile non può accaderti?» «A me non accadrà» disse Howard.
«E ha detto davvero che voleva morire? Ha detto davvero così?» Howard uscì dalla stanza. «Ha detto che potevano anche sparargli?» gridò Loretta. Howard non rispose. E tutto finì lì per quanto concerneva il nonno di Jules. 4 Jules nacque in un mese mite, inaugurando una nuova stagione con la sua energia e la sua irritabilità. Adesso mamma Wendall veniva continuamente, ogni giorno, e ogni giorno la scala vibrava sotto i suoi passi poderosi. Ma Loretta contemplava il bambino e tutto il resto indietreggiava da lei, come talora, in un film, lo sfondo rimane sfuocato. Urtava contro i mobili. Lasciava la radio accesa quando la stazione aveva smesso di trasmettere e si sentivano soltanto rumori di fondo, una cosa che irritava mamma Wendall, la quale aveva l'udito fine e occhi acuti. La nonna portava sempre qualcosa al bambino. Un giorno gli portò una bambola Dopey, di gomma. Poi, un altro giorno, quando Jules aveva quasi un anno, Howard tornò a casa presto, un pomeriggio, con le gambe malferme, e le disse, rimanendo sulla soglia, che era stato sospeso dalla polizia... parole mai udite pronunciare da lei prima di allora, parole di quelle che si leggono sui giornali. La stessa serietà da ubriaco di Howard la terrorizzò. «Sospeso... che cosa significa?» gridò. «Come quando si è in aspettativa.» «Ma che cosa significa?» Lui sedette al tavolo di cucina e abbassò il mento. In quell'attimo ricordò a Loretta suo fratello, sebbene Howard non fosse in gamba come Brock; era l'atteggiamento della disperazione. Loretta mise la mano sulla testa soffice e calda del bambino, sui suoi capelli serici, e pensò, in preda al terrore: Allora non c'è più niente di stabile nella mia vita. Howard affondò il dito indice nella bambola Dopey. Aveva la faccia inespressiva. Dopo qualche momento disse: «Ci sono certi tizi i quali hanno a che vedere con i ristoranti. Con i bar degli alberghi. Come al Lenox Hotel, quell'albergo là. Il Lenox Hotel». Si interruppe. Loretta lo fissava. «Hanno qualcosa a che fare con il sindacato. Non lo so.» «Di che cosa stai parlando?»
«Vengono sganciati soldi.» «Da chi?» «Dagli alberghi.» «Sganciati perché? Hai preso dei soldi?» Howard si spostò sulla sedia. Aveva un'aria da orso, arruffata, eppure v'era in lui qualcosa di stranamente tenero. In quella sconfitta, i peli stessi dei suoi grossi polsi e delle mani sembravano meno irsuti; Loretta sentì un trasalimento nel sangue e desiderò consolarlo. Anche suo padre, nei momenti brutti, silenziosi, seduto nello stesso modo al tavolo di cucina, aveva avuto un aspetto tenero... nella sconfitta. «Hai preso dei soldi?» domandò Loretta. «No.» «Allora perché ti hanno espulso?» «Non sono stato esattamente espulso.» «Allora perché... perché è successo?» «È toccato a quindici uomini. Io sono uno di loro.» «Ma se sei innocente...» «Questo non è facile a provarsi» disse Howard, senza guardarla. Dopo qualche momento Loretta disse: «Quei figli di puttana stanno cercando di rovinarti! Non ci riusciranno!». Howard sospirò, lo stesso sospiro del padre perduto di Loretta. «Sarà meglio che andiamo da tua madre a dirglielo.» Si misero i vestiti della festa, come se fosse stata una domenica. Howard era imbronciato ma calmo, Loretta incipriata, rabbiosa, agitata. Loretta portò il bambino in braccio e cicalò dicendo che non ci sarebbero riusciti, quei bastardi, a cercare di addossare la colpa a lui quando non aveva fatto niente! Anche Billy, il cugino di lei, era stato sospeso, disse Howard. Bene, disse Loretta. Era colpevole, Billy? Howard riteneva di sì, non sapeva un granché di tutto quel pasticcio, lui ne era fuori e nessuno gli aveva mai detto niente... Tanto peggio per Billy e per la madre di Billy, pensò Loretta, immaginando suo cugino con l'elegante uniforme umiliato finalmente, privato dell'automobile della squadra che lo inorgogliva tanto (Howard era soltanto un agente di pattuglia) e costretto a restituire la rivoltella e il distintivo. Bene, che fossero rovinati tutti quanti. E gli alti papaveri? domandò. Erano tutti furfanti, disse Howard imbronciato, ma senza entusiasmo. Loretta era loquace nella sua amarezza: com'era fatto il mondo! Come tutto era pazzesco! «Mio padre veniva sempre licenziato dai posti che trovava» disse irosa-
mente. «Capitava sempre qualcuno che lo buttava fuori! Il nipote, o il genero di qualche pezzo grosso, qualsiasi vecchio bastardo saltato fuori dal niente, e scacciavano a calci il mio Pa' e davano il posto al nuovo venuto. Nessuno gli diede mai il modo di farsi valere. Se è impazzito, eccolo il perché.» «Già, non ebbe mai un'occasione» disse Howard. La piccola casa di legno dei Wendall parve minacciosa allo sguardo di Loretta; lì per lì non capì bene il perché. Poi riuscì a capire... le veneziane erano tutte abbassate. Lo notò anche Howard. Ostentò la stessa espressione imbronciata, intrappolata, soddisfatta, che aveva esibito per tutto il pomeriggio, come se il peggio lo avesse infine raggiunto ed egli fosse finito; ma aveva gli occhi all'erta. Gli occhi, con la loro bizzarra assenza di un centro, nella grossa faccia, guizzavano innervositi sebbene il resto di lui fosse greve, abbattuto. L'andatura spietata da poliziotto, l'abitudine di tener dritte le spalle, erano state abbandonate insieme all'uniforme, e adesso camminava come un qualsiasi disoccupato... nell'atteggiamento familiare dell'insuccesso, la pancia in fuori, il torace informe, le spalle ingobbite in avanti come se fosse stato più facile camminare in quel modo, protendendosi in un futuro di pura gravità. Mamma Wendall li aspettava sulla soglia. Loretta sentì Howard esitare un poco, vedendola. Ma sua madre spalancò la porta e uscì con una scopa tra le grosse mani. Prese a urlare: «Stupido idiota! Tonto testone!». Con la scopa vibrò colpi a Howard. Lui cercò di pararli, piagnucolando: «Mamma, sta' attenta, fanno male» ma ella non gli diede ascolto e continuò ad avventarglisi addosso e a vibrargli con forza la scopa sulle spalle. Il bambino si mise a strillare. Loretta, terrorizzata, indietreggiò e finì tra i rifiuti accanto agli scalini, cassette di compensato, e nel fango. Howard tenne le braccia davanti al viso mentre sua madre lo pestava. «Ci hai disonorati!» urlò sua madre. «Stupido somaro, bamboccione idiota che non sei altro!» I capelli di lei erano un grigio groviglio, la faccia larga luccicava, coperta da una pellicola di sudore. Ora che Howard si trovava con le spalle al muro contro la veranda, rinunciò disgustata e gli gettò addosso la scopa. «Aver a che fare con puttane! Prendere soldi dalle puttane! Vuoi spezzare il cuore a tua madre? Vuoi uccidere tuo padre? Eh? Vuoi fargli venire un colpo a tuo padre? Vuoi vederla lungo disteso nella bara, morto, e tutto per colpa tua, pezzo di somaro, moccioso che non sei altro? Accettare banconote da quelle puttane, da quelle bagasce, con le malattie che hanno addosso! Probabilmente avrai portato una malattia anche a casa,
eh? E ora vieni a farci visita e magari adoperi anche il nostro gabinetto, eh? Non è così? Non è così?» «Mamma, no!» gridò Howard. «Entra, testone! Vuoi che ci sentano tutti i vicini?» Li spinse dentro tutti e due. Il suo corpo massiccio sembrava fremere dietro di loro, bloccando la porta, ansimante di furia. Loretta urtò contro il tavolo della cucina, sentendosi mancare le ginocchia, e mamma Wendall le strappò il bambino dalle braccia e prese a dondolarlo irosamente. Lacrimoni le scorrevano sulla faccia grigia e ruvida. «Figlio di un padre simile! Di un padre simile! Mio figlio diventato un così stupido testone!» Papà Wendall sedeva nel salotto buio, ascoltando la radio. Furono spinti in quella stanza. Howard sedette infelice a un'estremità del divano e si nascose la faccia tra le mani. «Sì, piangi, avanti, piangi adesso che è troppo tardi, grossa, stupida vacca!» urlò sua madre. Dondolava il bambino, tenuto contro il seno, e volgeva lo sguardo iroso da una faccia all'altra. Loretta rimaneva in piedi, tacendo. Sentiva di essere un'ospite della quale nessuno si era accorto. Sentiva che un suo improvviso movimento avrebbe rivolto contro di lei tutta la rabbia di mamma Wendall. Papà Wendall, un uomo con gli occhiali, dal fare lento e ringhioso, non guardava nessuno. Dietro il suo gomito, da una radio che affondava in parte nell'oscurità della stanza e si confondeva con lo spesso centrino lavorato al crochet dal quale era coperta, giungevano le notizie degli avvenimenti sportivi del giorno. «E ci sono guai anche da noi, anche là da noi» disse torva mamma Wendall, riferendosi al loro paese d'origine. Profilandosi gigantesca nella penombra, mentre dondolava il bambino contro le mammelle, sembrava compiangere il mondo e suo nipote, sul quale abbassava gli occhi; con le grosse e forti dita aveva afferrato il bambino, e da quelle dita nessuno avrebbe potuto mai toglierlo. «Oh, tu, povero piccino, figlio di un padre simile!» cantilenò. «Ma Howard non ha fatto niente» bisbigliò Loretta. Mamma Wendall non la degnò nemmeno di uno sguardo. «Hanno incolpato lui, ma non era uno di loro. Si trattava di tutt'altra cosa, c'era di mezzo un albergo.» Dopo un lungo, furente momento, mamma Wendall disse: «Non ha fatto niente un corno!». Era più grossa di suo marito, grossa press'a poco quanto Howard, una
donna dalla faccia lievemente brutale, sulla cinquantina, vigorosa e robusta di ossatura, dal colorito acceso piuttosto piacevole che in quel momento era grigiastro, il colorito di una lavandaia, con orecchie enormi che sembravano esserle state tirate per tutta la vita dalle delusioni, e con un petto massiccio, racchiuso dal busto. Era scaltra e calcolatrice e non si abbandonava mai all'ira tranne che per correre lungo il binario giusto, senza mai sbagliare. Per cui Loretta si rese conto disperata che mamma Wendall aveva ragione e che Howard era colpevole e che addirittura si era sporcato le mani con prostitute. Sì, tutto quadrava. Mamma Wendall non sbagliava mai. «E adesso, ecco che cosa faremo» disse mamma Wendall. 5 «La primavera è la stagione adatta por trasferirsi» disse mamma Wendall. Howard guidava l'autocarro, sua madre viaggiava con lui, e gli altri li seguivano sull'automobile di papà Wendall. Stavano andando in campagna. Si trasferivano presso lo zio di Howard, un vecchio rimasto nella fattoria quando tutti gli altri se n'erano andati. Howard aveva già trovato lavoro in una miniera di pietra da gesso... non certo redditizio come il posto nella polizia, ma abbastanza buono. Loretta sedeva sul sedile posteriore della vecchia Ford, schiacciata tra alcune scatole e sua cognata Connie, una ragazza grassa di quattordici anni. Connie rimaneva sempre immersa in un denso, accigliato silenzio, con le labbra appena dischiuse. Il bambino aveva già i pannolini bagnati, constatò Loretta, ma era troppo tardi per cambiarlo; le giaceva scomodamente in grembo, agitandosi e piagnucolando. «Questo bambino è così vivace» si lagnò Loretta in tono animato, rivolgendosi all'aria. Papà Wendall guidava seguendo l'autocarro a prudente distanza. Muoveva le braccia rigidamente, e quasi mai dava a vedere di aver udito Loretta; ciò nonostante, lei concentrava la propria attenzione sulla nuca rugosa di lui e cercava di farlo parlare; nella famiglia del marito, aveva scelto il vecchio cui "affezionarsi". Era più anziano della moglie di dieci anni. Il tragitto non finiva più, l'automobile sobbalzava, e durante il viaggio Howard bucò, per cui si aggirarono intorno all'autocarro nel crepuscolo mentre lui e suo padre si affannavano a sostituire la ruota. Mamma Wendall vezzeggiava il bambino e volgeva gli occhi scaltri verso l'orizzonte,
come se avesse potuto vedere che cosa sarebbe venuto dopo. Alta com'era, sembrava poter vedere più lontano della maggior parte della gente. «Non c'è riposo per i malvagi» disse con uno strano sorriso compiaciuto, dondolando Jules tra le braccia. Connie non era discesa dall'automobile. «Con un deretano grasso come il tuo dovresti scendere, fare un po' di moto, tanto per cambiare» disse sua madre, ma non scortesemente. Ora che avevano lasciato la città e stavano andando verso una nuova vita - il suo concetto di una nuova vita - era alquanto soddisfatta. Loretta le rimaneva accanto a causa del bambino. Se mamma Wendall avesse dovuto farlo cadere... se al bambino fosse accaduto qualcosa, pensò Loretta, lei avrebbe conficcato un paio di forbici nella gola della vecchia strega. Odiava mamma Wendall. Ma si sforzava di comportarsi bene con tutti, cercando di rallegrare Howard, di fare amicizia con Connie e di indurre il vecchio a parlare di tanto in tanto; in fin dei conti, dovevano vivere insieme, d'ora in avanti, e non sarebbero dovuti andare tutti d'accordo? Ma di tutti loro, soltanto mamma Wendall era ciarliera, e le sue ciarle, in qualche modo, aggiravano Loretta, escludendola. Era strano. A volte diceva a Loretta, con un sorriso tagliente: «Questo bambino ha la febbre?» oppure «Questo bambino è di nuovo bagnato?». E Loretta si irritava vedendo quanto scaltri, quanto saputi erano gli occhi della vecchia, fissi su ciò che era giovane e pertanto indifeso in lei, e sapendo come stanarlo. Più volte si sentiva scaturire dentro la sensazione sperduta, alimentata dalla malinconia o da una stanca felicità, che chiunque nascesse doveva essere un individuo - soltanto un individuo - e che quel nocciolo privato, personale, senza nome, dell'Io non poteva essere spezzato né evitato; e allora sorrideva vagamente rispondendo al perfido sorriso di mamma Wendall, e pensava, Be', sono giovane abbastanza, posso sopportare; oppure pensava, Howard mi ha salvata da qualcosa di tremendo, e, dopo quello che ha fatto, la mia vita non appartiene forse a lui e alla sua famiglia? In quella famiglia c'erano persone strane, remote e chiuse. La più interessante era il fratello maggiore di Howard, Samson, che costruiva macchine utensili a Detroit, per la Ford, e che certo se la cavava bene, ma era riluttante a mandare soldi. Parlavano spesso di Samson, a volte amaramente, a volte con fierezza, talora per umiliare Howard, che era stato licenziato, in fin dei conti, da un posto schifoso, e stava per cominciare a fare un
lavoro ancora più schifoso. Howard non parlava mai di suo fratello, mai. Esisteva una zia di cinquant'anni che era suora e aveva abbandonato l'ordine per poi tornarvi, e di lei dicevano tutti: «È pazza, ma innocua». E c'era lo zio di Howard, dal quale stavano andando. Si chiamava Fritz e aveva più di settant'anni. Era un eremita, dicevano, e aveva bisogno di essere "riportato" nel mondo. Secondo mamma Wendall gli ci voleva una donna in casa per fare le pulizie e per preparargli da mangiare come si deve. La fattoria si trovava nelle immediate vicinanze di una piccola cittadina; tutto intorno al centro abitato i campi erano deserti perché i contadini avevano venduto la terra andandosene anni prima per sfuggire al polverone e alla siccità del Middlewest e per trasferirsi nelle città, ove li aspettavano le case popolari, l'assistenza sociale, la disoccupazione. Ma Fritz non era stato abbastanza sensato per vendere, dicevano, e così era rimasto laggiù, e adesso la cittadina andava lentamente rifiorendo, la fabbrica per la lavorazione della pietra da gesso aveva riaperto, e loro erano in viaggio con un autocarro pieno di mobili, di casse e di scatole, decisi a sistemarsi definitivamente. Come diceva mamma Wendall: «La vera America è la campagna, non la città. La gente dovrebbe vivere in campagna. La campagna è un posto migliore di quella città puzzolente, per un bambino. Guardate che cosa ha fatto di Howard la città». Quel primo mese in campagna, Loretta rimase sveglia per molte notti e pianse udendo la vecchia casa cigolare, sentendo muoversi nell'oscurità insetti dalle ali silenziose, e tutto misterioso e umido. Pensava alla bella, sudicia città, con gli edifici municipali di finto marmo e i grandi magazzini e gli ascensori e gli stentati giardini pubblici aperti a tutti, ove chiunque poteva incontrarsi. Riportava la mente all'aspetto del canale melmoso e dei suoi alti argini artificiali, all'orribile aspetto di un canale dagli argini ripidi, nel quale potevi cadere e annegare senza scampo; giaceva con la schiena contro la schiena di Howard, gli occhi gonfi, sconfortata, mentre le parole di mamma Wendall le ronzavano nelle orecchie, così come i piatti troppo pieni di mamma Wendall, sul tavolo di cucina, la ossessionavano, adesso che era di nuovo incinta e portata alle nausee... tutto era troppo, troppo. Lì in campagna... lì in quella misteriosa campagna piena di grilli, ove qualsiasi cosa sarebbe potuta accadere eppure non accadeva proprio niente, ove Howard andava e veniva per recarsi al suo lavoro poco entusiasmante e tornare a casa, e non incontrava vecchi amici, non si cacciava in nessun guaio particolare, era apatico, depresso, grasso... lì c'era aria buona e pura per il bambino, ma niente altro. Loretta piangeva per la città perduta e per
l'aria inquinata della città. Dominati da mamma Wendall, lei e Howard avevano poco da dirsi quando infine restavano soli. Era come se la madre di lui si trovasse ancora nella stanza con loro e li osservasse con la sua faccia poderosa e rugosa, giudicandoli. Aveva la testa come quella di una statua, una fronte meravigliosamente brutta, penetranti occhi verdi. Se anche il suo corpo era simile a quello di una vacca o di un orso, come il corpo del figlio, gli occhi, ciò nonostante, erano crudelmente acuti e non si lasciavano sfuggire niente. Howard si stava impigrendo, ingrassava; non aveva ancora trent'anni, pensava Loretta in preda al panico, e già si lasciava andare! Si girava e si rigirava nel letto, pensando a quel mostro di donna e a suo figlio, tutti e due sottobraccio, mentre lei, Loretta, rimaneva esclusa, amareggiata e indifesa: la moglie, la madre, la giovane donna incinta, esclusa. Il cuore le si colmava di amarezza. La casa nella quale abitavano sembrava un vecchio granaio, e dietro a essa v'erano vecchie e putride stalle, una delle quali bruciata in parte da un incendio che era stato causato dal fulmine. Molti alberi intorno alla casa, colpiti dal fulmine, erano segnati da bruciature. Loretta considerava ciò un presagio di sfortuna; in città, il fulmine non colpiva mai niente, ma lì, allo scoperto, il fulmine poteva abbattersi ovunque. Tutto era troppo aperto. Abitavano lungo una strada di terra battuta, in cima a una collinetta. Torrenti di pioggia si riversavano giù per quella collina durante i temporali, e formavano pozzanghere che duravano per giorni e giorni, giù nel meleto; e c'era un vero corso d'acqua, non lontano, alimentato da torrentelli e da fossati, ove Loretta conduceva Jules a giocare, indifferente, mentre il bambino rideva di gioia. Se non avesse avuto con sé Jules e se il bambino non l'avesse aiutata ad avvinghiarsi alla realtà, sarebbe impazzita, ma Jules le bastava; la sua stessa energia e i suoi strilli erano sufficienti per tenerla occupata. In cucina, mamma Wendall era la padrona, e comandava a bacchetta tanto Loretta quanto Connie, impartendo loro ordini, prendendole in giro, costringendole a star ritte con una improvvisa gomitata; e fuori, durante i temporali, le saette zigzagavano pericolosamente vicine, terrorizzando Loretta; e la vecchia casa era infestata da scarafaggi e da topolini, e persino grossi topi di chiavica entravano liberamente a dare un'occhiata ai nuovi inquilini. Ma, nonostante tutto, ella aveva Jules ed era di nuovo incinta; questo le impediva di impazzire. L'estate trascorse. Passò un altro inverno; rimasero bloccati dalla neve per una settimana e si tennero compagnia a vicenda, spinti a ciò dalla fru-
strazione e dall'odio, tutti tranne mamma Wendall... lei sembrava godersi la neve. Le "situazioni di emergenza" la divertivano. Andava e veniva a gran passi per la casa, impartendo ordini, ficcando giornali negli spiragli intorno alle finestre, calzando le soprascarpe e infilando il cappotto di suo marito per andar fuori a divertirsi con un badile su quella neve impossibile. Prima che incominciasse la primavera, Loretta ebbe un'altra bambina da tirar su e la sua vita si adagiò in una tediosa, ipnotizzata routine di faccende domestiche e di cure materne, sotto il dominio della suocera. Gli uomini della famiglia di solito tacevano. Il silenzio di Howard si espandeva settimanalmente, quotidianamente; egli sembrava affondare nell'età matura, e di quel po' di vita che gli rimaneva per se stesso nei rari giorni in cui non tornava subito a casa dalla miniera, Loretta non sapeva niente, né poteva fargli domande. Non osava fargliele. Howard era ormai padre, uno dei padri del mondo, legato a un lavoro che odiava e reso astioso dallo sforzo quotidiano che doveva compiere con il proprio corpo, così pigro e cocciuto. La vivacità di Jules lo costringeva a un travagliato risveglio; Howard diceva: «Toglimi dai piedi quel bambino», ma era contento in qualche modo della nuova arrivata, Maureen, che dormiva quasi sempre e non dava alcun fastidio. Howard si metteva a sedere e contemplava a lungo la culla della bambina. Jules sembrava non accorgersi dell'indifferenza di suo padre e invadeva la casa con il suo entusiasmo... era un bimbetto dai capelli di un castano scuro, lievemente ricciuti, con gli occhi scuri e lunghe sopracciglia scure. A volte, quando diventava troppo chiassoso, Loretta, esasperata, gli faceva bere qualche sorso di birra, per calmarlo. Beveva birra anche lei, adesso, le calmava i nervi. Tra la piccola Maureen e Jules, Loretta riteneva di dover preferire Maureen che, in fin dei conti, era femmina, ma pensava che Jules fosse più intelligente: secondo mamma Wendall, il primogenito era sempre il più intelligente. Ella riponeva una salda fiducia nella mente. Sebbene Jules a volte balbettasse, pensava che ciò accadeva soltanto perché il bambino voleva dire troppo in fretta certe cose; e questo significava che era più svelto di tutti gli altri. Le persone che avevano fatto strada, le persone delle quali parlava la radio - H. V. Kalterborn era quello che lei, chissà per quale motivo, prediligeva in modo particolare - venivano citate per il loro cervello, e ciò significava scaltrezza, una sorta di capacità blandamente criminale che le faceva prevalere su tutti gli anonimi individui del mondo, come i Wendall. Poiché senz'altro i componenti della famiglia erano individui anonimi, retrogradi, esasperanti, Howard con il suo silenzio, e papà Wendall con la sua radio (aveva riportato una lesione
alla schiena, quell'inverno, e non poteva più lavorare), per non parlare della povera e grassa Connie, con i suoi sogni a occhi aperti, in attesa di un uomo, e del proprietario di quella grande casa percorsa da correnti d'aria, Fritz, un uomo che si metteva a sedere a tavola per la cena con la tuta sudicia, puzzolente di sudore e di letame, un uomo silenzioso e senza volto, del quale nessuno si accorgeva. Le stagioni passavano tra tutto questo silenzio maschile e soltanto Jules spezzava l'incantesimo con i suoi strilli, le sue lamentele e le sue risate. A volte, meravigliata dal figlio che aveva messo al mondo, Loretta aveva brevi momenti di allegria, e cantava stendendo nel cortile la pesante biancheria lavata, oppure sorrideva a se stessa, come se avesse fatto qualcosa di molto abile, senza sapere come vi fosse riuscita. Subito prima che Howard partisse per la guerra, rimase nuovamente incinta, per la terza volta. Con una sorta di oziosa curiosità si disse che forse questo era il terzo bambino avuto da Howard, o forse soltanto il secondo. Non riusciva mai a stabilire se Jules somigliasse a Howard o a Berme Malin; a volte le sembrava all'uno, a volte all'altro. Ma tutta quell'energia! tutto quel fascino! Giaceva desta accanto al marito addormentato e sognava Bernie, e lo immaginava vivo, intento a sorriderle piacevolmente nell'oscurità, lo immaginava tra le sue braccia. Jules aveva l'energia e il fascino di Bernie, questo era certo. Come le altre persone in quella zona, incominciarono ad ascoltare attentamente i notiziari della radio e a leggere i giornali: parlavano con quelli che abitavano nella cittadina, paragonando le notizie dei figli, dei nipoti e dei mariti. Erano tutti attratti gli uni dagli altri, preoccupati e irosi. Loretta ascoltava tutte le persone che poteva. Le piaceva sentir parlare, sentir parlare le donne, era attratta dalle loro chiacchiere, che la calmavano, e persino dalla loro ira frustrata. Pensava a Howard "laggiù in Europa" e cercava di immaginare come fosse la sua vita. Ma non riusciva a intuirla; non riusciva a immaginare che lo stesso Howard se ne accorgesse, che quella vita nuova gli entrasse nelle ossa e facesse qualche differenza per lui. Se lo raffigurava seduto in qualche posto, lo sguardo fisso su qualcosa che gli era vicino, con l'aria di essere mezzo addormentato, sebbene fosse invece completamente desto e imbronciato. Ma quando qualcuna delle donne le domandava sue notizie, si affrettava a rispondere allegramente: «Ho appena ricevuto una lettera da lui!», oppure, se da qualche tempo non riceveva lettere, rispondeva malinconicamente, frugando con gli occhi i loro occhi, in cerca di comprensione: «Non abbiamo saputo più niente». Quando Howard fosse tornato a casa, pensava, tutte quelle comprensive premure nei
suoi riguardi sarebbero finite. Nessuno le avrebbe più domandato notizie di lui. E, mentre pensava a Howard, si sorprendeva a pensare di nuovo a Bernie, e a immaginarlo nella divisa dei soldati. Era più facile immaginare Eernie che immaginare Howard. Il primo le appariva dinanzi agli occhi più rapidamente dell'altro, ecco tutto. Nel frattempo Jules cresceva in fretta, mangiava tutto quello che gli serviva mamma Wendall, ripulendo i piatti postigli dinanzi e nei quali si ammonticchiavano patate e taglierini, riso e verdure, con pochi pezzi di carne grassa, e il suo corpo esile bruciava tutto. Era un bambino rumoroso, gioioso, e Loretta non poteva fare a meno di volergli più bene che a chiunque altro. La seguiva dappertutto; seguiva dappertutto la nonna; scompariva e saltava fuori nelle vicine fattorie; giocava con i bambini più grandi lui, senza averne paura. Non aveva paura di nessuno. Loretta, prudente e circospetta alla maniera delle ragazze di città, si meravigliava del coraggio che aveva il bimbetto e delle distanze che riusciva a percorrere... a volte, tornando a casa in automobile dalla cittadina con papà Wendall, vedeva Jules giocare in un fossato con altri ragazzetti, o camminare lungo la strada con una fretta da adulto; non era che un bimbo, eppure sembrava così stranamente indipendente. Se rallentavano e si fermavano per farlo salire, lui diceva: «No, non voglio», e faceva loro cenno di proseguire, oppure saltava al di là del fossato e correva via in un campo. Era come un animale selvatico che fuggisse ogni qual volta si sentiva chiamare; poi tornava, più tardi, e si stupiva della loro ira. Era perverso e caparbio, un bambino misterioso, e Loretta cominciò a pensare che doveva essere un po' picchiato in testa sedendo, come faceva, sui gradini di pietra della scuola del distretto, in attesa dell'intervallo per la ricreazione o della fine delle lezioni a mezzogiorno; aveva appena cinque anni, era troppo piccolo per andare a scuola, ma l'edificio scolastico lo attraeva. Gironzolava là attorno tutto il santo giorno e a volte vi tornava anche dopo pranzo, soltanto per poter essere là. C'erano volte in cui tornava a casa sporco e insanguinato, con i vestiti strappati ed era mamma Wendall a fargli il bagno e a dargli consigli. Loretta, irritata, cercava di interporsi tra loro, e quasi balbettava, dicendo: «Questa è l'ultima volta che giochi con quel piccolo bastardo!». Però mamma Wendall la ignorava e diceva a Jules, con la solennità di un cavallo: «Continua a picchiarlo. Devi farti la tua strada». Jules sfuggiva anche a lei, era un bambino astuto, e andava ovunque volesse, senza lasciarsi turbare dalle sassate o dai lazzi a causa del prozio, quell'eremita pazzo.
Loretta gli urlava che, se non stava buono, suo padre non sarebbe più tornato a casa. Suo padre, gli diceva, avrebbe portato con sé un altro bambino, e gettato fuori a calci lui... gli sarebbe piaciuto? «Andrò a dormire nel granaio dei Benton» diceva Jules, sempre pratico. E non tradiva alcuna ansia. Loretta, cedendo, si domandava perché avesse creduto che lui si sarebbe mostrato ansioso. A che cosa servivano i suoi tentativi? Non giovavano a nessuno. E così gli faceva bere birra per calmarlo quando era indomabile, e a volte lo sculacciava quando seguitava a scendere giù dal letto. Faceva l'impossibile per essere affettuosa con le bimbette, escludendo Jules, ma lui sembrava rendersi conto che era il suo prediletto, il solo vero uomo in quella tomba di casa piena di uomini taciturni; Howard, partito per la guerra, non era più silenzioso durante la sua assenza di quanto lo fosse stato quando si trovava in casa. Jules faceva vibrare la casa intera a furia di correre. Loretta e mamma Wendall si sbirciavano a vicenda, e condividevano un orgoglio malizioso e segreto per aver generato almeno quel bambino... tutti gli altri non valevano un granché. Un sabato, tutti quanti, tranne Fritz, si recarono nella cittadina a vedere qualcosa di spettacolare che vi era successo... un aereo per passeggeri biposto era precipitato in qualche punto. L'autopompa dei pompieri volontari era stata portata fuori strada, i pompieri si affannavano nel bel mezzo dei rottami in fiamme e intorno a loro si trovava una cerchia di persone eccitatissime, attratte dal fumo nero e turbinoso della benzina che brucia. L'aria vibrava quasi spasmodica per il gran caldo. Sembrava che stesse rabbrividendo nella violenta previsione di vedere qualcosa di spaventoso. I pompieri erano tutti anziani o in età matura, e anche gli spettatori erano anziani, o in età matura, oppure ragazzi, per cui parve a Loretta che quell'incidente fosse un evento attraverso il quale ella poteva guardare con vacua indifferenza, senza che il suo sguardo venisse attratto dal corpo di nessun uomo e senza che il suo stesso corpo venisse coinvolto in qualsiasi cosa. Si sentiva completamente libera, protetta. Era un po' appesantita ella stessa, ormai, a causa dei pasti di mamma Wendall, a base di farinacei, e non si dava mai la pena di truccarsi o di acconciarsi i capelli. Era una giovane contadina ben piantata, abbronzata dal sole, e con l'ultima arrivata, Betty, tra le braccia, con Maureen che le trotterellava accanto e Jules che la precedeva correndo, si diresse verso tutta quell'eccitazione, attratta dallo strepito. Howard sarebbe potuto giacere morto nello stesso momento, in una catastrofe simile a quella, bruciato, esploso fuori dalla pigrizia delle proprie ossa, ma una prospettiva di quel genere non era in realtà credibile.
Sembrava che le vittime di quell'incidente fossero funzionari del governo dello Stato, uomini diversi da Howard, destinati ad andare incontro a una morte improvvisa e fiammeggiante... tutto l'opposto di Howard, che probabilmente sarebbe tornato a casa con l'identico aspetto di quanto era partito. Loretta si fermò ai margini della folla, guardando. In realtà, non ci teneva a vedere troppo. L'incendio le bastava. Non aveva mai saputo che l'aria potesse accartocciarsi in quel modo, vibrando per il calore; e non aveva mai veduto, né udito un incendio simile! Sicché, ecco che cosa rappresentavano le fotografie degli aeroplani in fiamme... il suono risucchiante, vorticoso di un incendio di benzina e d'olio lubrificante, un suono bizzarro che le ricordò lenzuola sbattute dal vento sulla corda del bucato. Intorno all'aereo bruciava anche il prato. Le erbacce si incendiavano e si accartocciavano in un secondo, le fiamme illuminavano i loro scuri semi, poi li rendevano incandescenti e, in un altro secondo, li riducevano a nulla. Rimase come paralizzata, senza voler vedere più nulla. Tutti gli altri si spingevano avanti, cicalando. Ragazzetti correvano qua e là. Jules si era spinto fino in prima fila, scivolando fuori della sua stretta. Ella vide una donna spingerlo indietro, ma lui ritrovò subito l'equilibrio e di nuovo si portò avanti. Loretta gridò: «Jules! Torna qui!». Poi lo perdette di vista. La folla calpestava il campo erboso e incalzava per farsi avanti, cercando di vedere il centro stesso di quei rottami fiammeggianti, insoddisfatta se avesse veduto meno di tutto. Qualcuno lanciò un grido. Vi fu un coro di esclamazioni... stupore, costernazione, una sorta di disperazione. Loretta si voltò, non volendo vedere, ma non molto sconvolta e vagamente irritata soltanto dal calore e da tutta quella gente e da Jules che si era allontanato... perché tutto era sempre un tal fastidio, pensò, perché si sentiva sempre infelice? Tornò adagio nella cittadina. Incontrò Connie dal droghiere, intenta a conversare con un ragazzo dal torace infossato che lavorava lì, e le domandò se avesse visto Jules. Jules le era scappato. No, Connie non lo aveva veduto, per cui Loretta si aggirò qua e là con Betty in braccio e Maureen ciondolante accanto a lei, sentendosi squilibrata senza Jules che la tirava dall'altra parte. La gente stava tornando dall'incendio. Tutti parlavano ancora dei cadaveri. Loretta non ci teneva affatto a sentire quello che dicevano, ma riuscì a capire che la sommità del cranio di uno degli uomini era stata tagliata via di netto «come da una scure». Udendo queste parole, Loretta distolse lo sguardo con ostentazione. La sua faccia si alterò in una smorfia di orrore, poi tornò all'espressione di prima, impenetrabile.
Non riuscirono a trovare Jules. Mamma Wendall andò in giro chiedendo di lui, mentre Loretta sedeva, esausta, sull'autocarro. Si recarono nell'ufficio dello sceriffo e denunciarono la scomparsa di un bambino. Poi tornarono a casa. Loretta si sentiva dolere la testa, in preda a una sensazione irreale, non chiara, di perdita: suo marito lontano, un figlio scomparso, era possibile, questo? Non chiuse occhio per tutta quella notte. Mamma Wendall fece il caffè e girò per casa chiocciando, vegliando con le pantofole e il vestito di casa. «Non stare a crucciarti, i bambini tornano. Tornano sempre» disse. Loretta era troppo stanca per ascoltarla. Verso l'alba la vecchia andò finalmente a coricarsi e Loretta uscì. Girò intorno alla parte coltivata della fattoria, collaudando il proprio corpo, toccandosi i fianchi e le cosce e il ventre, domandandosi chi fosse e come mai si sentisse così spossata e vecchia quando, in realtà, non le era accaduto niente di definitivo. Aveva creduto che certe cose fossero definitive, che l'avessero sistemata, ma si era sbagliata. Niente ancora era definitivo. Niente l'aveva ancora sistemata. Guardò per caso in una delle stalle, e là dentro vide qualcuno... era Jules. Sedeva, voltandole le spalle, sul fieno, un bimbetto, del tutto immobile, semplicemente seduto. Era spaventoso che potesse star seduto in quel modo, così immobile. Lo udì dire qualcosa, parlando tra sé e sé. Un farfugliare rapido, spaventato... una sorta di ansimante discussione. Probabilmente stava balbettando, una cosa che ella odiava, le sillabe iniziali delle parole incespicavano contro se stesse e si ammonticchiavano in modo che nulla riusciva più a districarsi, come se lui stesse soffocando, un bimbetto così piccolo, che soffocava a causa della necessità incalzante di parlare. Gli era capitata accanto più volte in passato, sorprendendolo mentre parlava tra sé e sé. Se avesse attratto la sua attenzione, egli si sarebbe alzato e si sarebbe allontanato con dignità. Ma adesso aveva un po' di paura a giungergli addosso in quel modo, mentre era solo e non aveva bisogno di lei. E v'era qualcosa di tenebroso e di strano nel posto ove si stava nascondendo. Perché non era entrato in casa? Voleva nascondersi da loro. Si stava nascondendo da loro, e parlava tra sé e sé, ragionando su qualcosa. Sembrava al contempo irritato e spaventato. Loretta si immobilizzò. Non lo chiamò. Sarebbe potuto essere il bambino di un'altra, il bambino di un'estranea. Si appoggiò allo stipite della porta imputridita, sentì un capogiro scaturirle dentro, così isolata da Jules a causa della solitudine di lui, del suo essere così poco infantile. Alcuni giorni dopo, mentre lo aiutava a destarsi da un incubo, le parve di capire che cosa
doveva averlo spaventato tanto: la testa di quell'uomo spaccata in due, la sommità del cranio tagliata via di netto. Jules, evidentemente, si era spinto troppo avanti e l'aveva veduta. Lo consolò ma non riuscì a capire perché mai quel triste evento si fosse radicato così profondamente nel cervello di un bambino, mentre si era già dileguato dal suo. 6 Lo formò la campagna, con le sue colline remote e le strade di terra battuta che non conducevano in nessun posto. Per tutta la vita avrebbe chiuso gli occhi dinanzi a un paesaggio di distanze assolute, che lo attraeva e lo risucchiava come se stesse vacillando sull'orlo di un perpetuo delirio, un bambino ancora intrappolato entro le sue ossa di adulto. Fuggì per la prima volta quando aveva sei anni, e venne trovato a ventiquattro chilometri di distanza, dalla moglie di un agricoltore. «Bimbetto,» gli disse la donna, in un tono di voce interrogativo e cortese, «di che famiglia sei?» Lui fissò in silenzio la donna, come se non riuscisse a credere che era reale. Parlare in quel modo, con quelle parole, con una voce così melodiosa! Gli parve che vi fosse qualcosa di musicale e di remoto in lei... una comune contadina con un maglione da uomo che rabbrividiva nell'aria del primo mattino, la faccia matura e resa rugosa dalla concentrazione, come non lo era mai quella di sua madre... e disse balbettando come si chiamava, vergognoso e perplesso. La donna lo riportò a casa in automobile ella stessa, di nuovo fino all'alta, desolata, brutta casa dei Wendall che era un pugno nell'occhio tra i tanti pugni nell'occhio lungo la Huron Road, e là lo consegnò a sua madre e a sua nonna, e così ebbe termine l'avventura. Quando la mamma pianse di rabbia a causa sua, lui disse: «Mi dispiace, Ma', mi dispiace» e, come se fosse stato colpito da una mazzata, capì che l'aveva resa infelice e che loro due erano legati insieme, irrimediabilmente. Voleva bene a sua madre, ma continuò a pensare alla donna che lo aveva accompagnato a casa, una donna più anziana, accigliata, seria, una vera donna di campagna. Sua madre aveva una faccia pallida, grassoccia, sulla quale le lacrime si raccoglievano a volte senza sforzo, confluendo nelle pieghe intorno alla bocca, e Jules non sopportava di vederle. Non sopportava di vedere sua madre infelice, perché ella era così indifesa al riguardo, così debole. Sognava di fuggire di nuovo, di tornare in quella fattoria o in un'altra simile. Tutte le sere ascoltava "Il Ranger solitario", e a scuola sfogliava vecchi libri accatastati in uno sgabuzzino, ansioso di imparare tutto quel
che poteva; si faceva prestare album a fumetti dagli altri bambini, desideroso di imparare tutto a memoria. La prossima volta che fosse fuggito, avrebbe attraversato l'aperta campagna e spedito una cartolina a sua madre, in modo che non si crucciasse. Ma in quale direzione doveva fuggire? Sognava di essere il Ranger solitario. Giocava a essere un cavallo, poi a essere l'uomo in sella al cavallo, e a scuola si esercitava continuamente a correre perché gli altri bambini lo inseguivano per lunghi, muti, trafelati minuti. Rinunciavano ammirandolo a malincuore, senza mai riuscire a raggiungerlo. Dicevano: «Corre come un cervo!». A volte lui tornava indietro verso di loro con i suoi occhi feroci, e quelli lo raggiungevano e ridevano dalla loro maggiore statura, talora lasciandolo andare senza fargli alcun male. Aveva un modo di ridere senza riprendere respiro, frastagliato. Rabbioso o eccitato, cominciava a balbettare. Gli dicevano: «Come sta il vecchio eremita? Tu sei il suo bamboccio, o che altro?». Le prese in giro giustificate potevano farlo impazzire di rabbia, e allora si scagliava contro di loro, sferrando calci e pugni. Incominciarono a dire di lui, meravigliandosi: «Jules Wendall è un ragazzetto matto». Quando era tranquillo, però, poteva passare per un bambino normalissimo. A scuola si applicava sull'album per colorare (era quello l'insegnamento più importante nella prima elementare), colorando profili di persone e animali e alberi con la stessa zelante accuratezza degli altri bambini, sebbene a volte si servisse del "colore sbagliato" - imparò che esistevano colori sbagliati e colori giusti e che era importante non confonderli. Ed era affascinato dalle carte geografiche - le vecchie carte un po' lacere dell'aula che potevano essere abbassate sopra la lavagna, o le cartine della guerra sui giornali, quelle minuscole riproduzioni appiattite di una determinata zona che un giorno avrebbe potuto effettivamente visitare. La guerra lo interessava, anche se non sapeva che cosa fosse. Poteva seguire sulle cartine gli eserciti che avanzavano o si ritiravano, e immaginare di essere insieme a essi, di attraversare montagne e fiumi, fiumi che scorrevano in gran numero ed equivalevano a tutte le distanze del mondo. A volte Loretta lo lasciava giocare con il mazzo di carte - ella stessa faceva sempre il solitario - e lui immaginava un gioco vago, complicato, nel quale voltare una carta poteva significare la vittoria per un esercito, la sconfitta per un altro, e nella sua fantasia la cartina del giornale veniva corretta. Non poteva influenzare in alcun modo quel che figurava sulle carte, sebbene fosse lui a voltarle. Non poteva determinare quello che veniva fuori e, in un certo senso, non poteva fare a meno di voltare le carte. In preda a una sorta di
intontimento, molto silenzioso, ossessionato, sedeva per ore al vecchio tavolo della sala da pranzo, voltando le carte, volgendo lo sguardo da esse alla cartina sul giornale di quella sera, socchiudendo gli occhi, crucciato da quanto stava facendo. In qualche punto su quella cartina suo padre, il suo vero padre, stava marciando. Ma quando Loretta gli parlava di suo padre, un soldato che portava il fucile ed era stato mandato Dio solo sapeva dove, si sforzava di crederle, ma non ci riusciva. Si sforzava di pensare a suo padre come a un soldato, ma seguitava a vedere un uomo panciuto in salotto, che beveva birra e aspettava. Che cosa aveva aspettato, il babbo? Il babbo non aveva nemmeno mai giocato con il mazzo di carte, come facevano Loretta e lui. Che cosa venisse giocato per lui, quali carte venissero voltate, non era nemmeno abbastanza interessato per accertarlo... Qualcun altro lo faceva in vece sua, non aveva importanza. E così il babbo aveva aspettato. E la mamma si aggirava ora per casa come in un sogno in parte tetro, in parte soddisfatto, aspettando, a piedi nudi o calzando vecchi e logori mocassini come quelli che portava sua zia Connie, e il nonno andava a lavorare soltanto poche mattine alla settimana (era il bidello delle scuole medie), e lo zio Fritz, quel vecchio imbarazzante e farfugliante, dormiva in preda a una sorta di eterno sonno, nella sua camera sul retro... e tutti aspettavano, ma che cosa stavano aspettando? Soltanto Jules e sua nonna, quella vecchia turbolenta, si svegliavano presto. Erano i primi a scorgere un'automobile, o un autocarro apparire lungo la strada; i primi ad arrivare alla porta, se qualcuno voltava nel viale d'accesso. Si destavano tutti e due di buon'ora al mattino, impazienti di alzarsi... mamma Wendall per incominciare a cucinare, o magari per mettere la frutta in conserva, o per fare il bucato, e Jules per controllare le trappole che disponeva lungo il torrente... in quanto sembrava a entrambi che il tempo fuggisse via febbrilmente e che non ce ne fosse mai abbastanza. A volte, irrequieto al punto da non riuscire a stare seduto, Jules traduceva in buffonate la propria rabbia per essere costretto ad aspettare altre persone... aspettava sempre le sorelle, aspettava sua madre, che aveva tutto il tempo del mondo. «Sta' fermo, Jules!» scattava Loretta, innervosita dalla sua impazienza. Ma lui poteva trascorrere ore disteso in salotto, leggendo un libro o studiando le carte geografiche, che a volte rubava a scuola; aveva l'espressione intensa e placida di un bambino che sta complottando qualcosa. In genere poteva passare per un bambino come tutti gli altri. La sua ossatura, la faccia, gli occhi intelligenti, le ginocchia graffiate e tutte cro-
ste... erano indizi di un'esistenza normale. Ma spesso si impadroniva di lui un che di febbrile, specie all'ora di andare a letto, e quando gli altri lo rimproveravano, non poteva fare a meno di imitarli, con una faccetta affilata, audace e insolente. Persino sua nonna gridava: «Gesù Cristo! Bisognerà toglierti di dosso a frustate tutta questa arroganza!». Un giorno stava giocando in una delle stalle, quella che era bruciata in parte anni prima, e sua sorella Maureen uscì per guardarlo. A volte egli la ignorava, fingendo che non fosse lì, a volte la faceva partecipare ai suoi giochi, e le era grato. Non sapeva egli stesso se Maureen gli piacesse, o se la sua presenza lo imbarazzasse. Era un po' geloso della sua forza lenta, passiva, cocciuta... ella riusciva a fare a modo suo mostrandosi triste e colma di sfida, non piagnucolando e saltellando qua e là come faceva lui. Jules intuiva che Maureen non sembrava interessante quanto lui alle persone grandi, ma quelle persone le volevano più bene. Maureen uscì per guardarlo giocare alla magia. Era un mago: poteva creare cose con le proprie mani, in aria, segnandone i contorni più e più volte con gesti rapidi e abili. Maureen, seduta e intenta a guardarlo, non sapeva creare nulla; si limitava a guardarlo. Egli era così ostinato che riusciva quasi a farle credere di vedere qualcosa: «La vedi, adesso, una conigliera? Guardala, tonta, è proprio qui!». Era accosciato nel fieno. Maureen abbassò su di lui lo sguardo degli occhi miti, verdi, piuttosto vuoti, una bambina non molto pulita, con una vestina molto corta di cotone, a piedi nudi, con una lunga crosta segmentata, pronta a staccarsi, sulla gamba. Jules, improvvisamente irritato, si tolse di tasca una scatola di fiammiferi che aveva rubato in cucina. Tenendo alta la scatola in una mano e muovendo l'altra mano lungo cerchi magici intorno a essa, gridò una serie di parolone difficili, concernenti per la maggior parte re, regine, fanti - le carte per lui così misteriose e potenti - e Maureen si fece più vicina, osservandolo affascinata. Lui prese un fiammifero e lo accese. «Questa è una cosa cattiva» disse Maureen. «Perché è cattiva?» domandò Jules. «Tu sei cattivo.» «Sto bruciando la conigliera... è mia e posso bruciarla!» Gli sembrava che la fiammella del fiammifero appartenesse a lui, che avesse in qualche modo a che fare con le parole pronunciate prima. Nessun altro conosceva quelle parole. Fissò il fiammifero e quando la fiammella gli bruciò le dita, in qualche modo la cosa parve un errore, un insulto. Scosse il fiammifero spegnendolo e subito ne accese un altro. Lontana
pochi metri, grattandosi un piede con le unghie delle dita dell'altro, sua sorella lo fissava, sorridendo. Sentì di averla in pugno, adesso. Non avrebbe più potuto distogliere lo sguardo da lui neppure se lo avesse voluto. Lasciò cadere il fiammifero sul fieno. «Posso fare anche questo. Posso fare qualunque cosa» disse. Si accosciò davanti al fuocherello, smarrito in un'improvvisa reverenza per il potere delle fiamme. Cercò di racchiuderlo tra le mani e di mantenerlo basso tra esse. Ma le fiamme attecchirono, ingrandendosi. Emettevano un suono scoppiettante. Lui rimase lì a fissarle, prima di rendersi conto che aveva fatto una cosa sbagliata. Allora balzò in piedi e cercò di spegnere il fuoco calpestandolo. Il fieno era secco e il fuoco divampò con energia, indietreggiando fuori della sua volontà. La pelle gli bruciava a causa del calore pungente, divenuto a un tratto così autonomo e indipendente da lui e dalle sue parole. «Faremmo meglio ad andarcene di qui!» disse, ma era ancora un po' paralizzato, rallentato da quella magia. Lui e Maureen fissarono le fiamme. Un mucchio di fieno prese fuoco con una piccola e soffice esplosione, che lasciò Jules esterrefatto. Non aveva mai visto niente di simile. L'altra fiammata che aveva veduto, l'altra grande fiammata, era stata l'incendio dell'aeroplano, e quelle erano fiamme ribollenti e maligne, fiamme che si alzavano alte come una casa, incontrollabili. Il ricordo di quell'altro fuoco lo riscosse. Disse a Maureen, con voce aspra: «Faresti bene ad andartene da qui». Ella rimase lì a fissare le fiamme, paralizzata. Poteva darsi che stesse aspettando di essere toccata da lui, di essere liberata. «Lo hai fatto tu, tutto questo?» domandò adagio. «Ho detto che faresti meglio a uscire.» «Saresti capace di bruciare tutto? In questo modo?» Il fuoco cominciò a diffondersi, adesso, in numerose direzioni, sempre rasentandolo, quasi fosse conscio della forza di lui, ma ai margini della visuale di Jules stava guizzando e assumendo un impeto che l'esile fiammella del fiammifero non aveva mai lasciato presagire. Semi e polvere presero fuoco su un trave e le fiamme si estesero, liquidamente rapide, correndo su verso il tetto fitto di ragnatele come un fulmine alla rovescia e facendo colpo su Jules con la loro bellezza. Il bambino indietreggiò. Afferrò Maureen, ma lei gli respinse la mano, contemplando il fuoco. «Potresti fermarlo, adesso?» domandò. «Stupida bamboccia, accidenti a te quanto puoi essere tonta! Vuoi bru-
ciare viva?» le disse. La rimise in piedi a forza. Strisciarono fuori attraverso una finestra sul retro e si nascosero. La stalla parve esplodere a un tratto in alte fiammate. Jules e Maureen si nascosero dietro un muro di pietre non lontano, guardando in silenzio. Gente corse fuori di casa, nonna Wendall stava gridando, Connie era strabiliata, Loretta, che veniva sempre colta di sorpresa, si stava avvolgendo in una vestaglia e l'abbottonava. Jules bisbigliò a Maureen: «Possiamo dire che è stato un temporale. Possiamo dire che sono stati i cacciatori». L'autopompa arrivò troppo tardi. La stalla era distrutta. Quando l'agitazione cessò e tutti furono tornati a casa, Jules venne fuori per farsi frustare. Fu sua nonna a frustarlo. Si trattò di una faccenda silenziosa e sudata, senza nessun altro tra i piedi. Nonna Wendall aveva detto a Loretta: «Non voglio che gridi anche tu. Entra in casa!». Jules non gridò per qualche tempo, resistendo al dolore terribile del frustino di cui si stava servendo la nonna. Ella gli urlò: «Avanti, grida, piccolo bastardo!». Lui sentiva il frustino sibilare nell'aria, quel suono teso; gli sembrava di sentirlo colpire un attimo prima che colpisse effettivamente. Dalle natiche, giù per le cosce e le gambe, il sangue prese a scorrere, rapidamente, e soltanto quando capì di che cosa si trattava egli cominciò a gridare. Era spaventatissimo. Nonna Wendall rinunciò, gli gettò contro il frustino, disgustata, e la punizione terminò. Lei sbraitò: «Finirai sulla sedia elettrica, e sarò io a fare scattare l'interruttore!». 7 Loretta andava spesso a piedi con i bambini nella cittadina, perché non aveva niente da fare e voleva star lontana da nonna Wendall. Si recava nel bar-farmacia, comprava Coca Cola a tutti, e un volta lì, sistemata, si guardava attorno come se si aspettasse di vedere qualcuno che conosceva - ma senza meravigliarsi non vedendo nessuno - e tirava fuori le lettere che aveva nella borsetta. Le spargeva sul piano appiccicoso del tavolino, nel séparé; erano state piegate e aperte tante di quelle volte che stavano per andare in pezzi. Si trattava di lettere da casa, diceva. Le leggeva ai bambini, con un viso serio, concentrato nella lettura: «Cara Loretta, come stai? È un pezzo che non ti vedo. Come sta Howard? Questo posto comincia ad annoiarmi. La campagna com'è? Scrivi
per piacere. Lo sai che Sissy E, si trova in convento? Non c'è più molta gente in questo posto, ormai. Mi si potrebbe spezzare il cuore, tanto è noioso». E un'altra lettera, che Jules conosceva tediosamente a memoria e avrebbe potuto recitare a mente: «Cara Loretta, pensa un po', sono a Detroit! Ti sei domandata chi potesse scriverti da Detroit? C'è questo Leonard che ho conosciuto e che da un pezzo abita a Detroit. Vieni a trovarmi qualche volta. Qui succedono molte cose. Ti stupirebbero tutti i negri che ci sono qui. Vieni a trovarmi Loretta e all'inferno sua madre». Ella meditava su queste lettere, scarabocchiate a matita su carta sottile, celeste, e alzava gli occhi su Jules per capire che cosa ne pensasse. Jules finiva una Coca Cola e aspettava la seconda. A volte lei gliene prendeva un'altra, se era soddisfatta della lettera e di quello che poteva significare. E inoltre volevano tutti quanti restar lontano da casa il più a lungo possibile, sebbene fosse difficile con una bambina piccola che si agitava e con Jules spazientito di dover restare seduto sempre nello stesso posto. Loretta non voleva che girasse per suo conto nella cittadina, da quando si era smarrito, sebbene sapesse benissimo che si era allontanato volutamente per evitare loro. «E comunque potresti essere investito da un'automobile» diceva. Rileggeva le lettere. Si leccava le labbra, riflettendo. E un giorno, nello stesso séparé in cui si metteva sempre a sedere, sparse le lettere dinanzi a sé e, mentre le leggeva, muovendo appena le labbra, si drizzò a sedere impettita e Jules scorse un cambiamento intervenire in lei, sulla sua faccia. Loretta si accigliò, fece scorrere, rapida, lo sguardo intorno al tavolino, una volta sola, premette le mani, a palmo in giù, sul piano del tavolo. Doveva aver deciso qualcosa. Quella sera, dopo cena, disse a mamma Wendall che partiva. «Io e i bambini andiamo a Detroit» disse. Seguì poi una lunga, chiassosa serata, un litigio fatto di parole lamentose e di minacce - Loretta temeraria e stridula, mamma Wendall bellicosa, pur rimanendo seduta, con la faccia contorta dalla rabbia. Jules andò subito a cercare Detroit sulla carta geografica. Rimase un po' deluso per il fatto che non era molto lontana. Loretta continuava a tempestare, e un sorriso le stirava la faccia deformandola lievemente, come se fosse stato il sorriso di
qualcun'altra, non il suo. «Oh, grossa e vecchia cavalla!» gridò infine. «Lasciami in pace! Sono libera di andare dove voglio!» «Eri una bagascia un tempo e adesso tornerai a esserlo!» «Chiudi il becco! Non parlarmi così davanti a questi bambini... e non è vero, niente di quello che hai detto è vero!» urlò Loretta. Era pallidissima, addossata alla parete della cucina, strillava. I bambini guardavano in silenzio. I loro occhi andavano dalla madre alla nonna e viceversa, cercando di capire chi avrebbe avuto la meglio. Loretta gridò: «Tu e la tua boccaccia... per tutti questi anni ho dovuto sopportarla! Ora tu e la tua bocca potete tacere, maledetta vecchia cavalla, vacca! Cagna, cagna, cagna!». Incominciò a singhiozzare e uscì di corsa dalla stanza. «Puoi renderti conto che tua madre è pazza» disse nonna Wendall, piano, a Jules. Ma il cuore di Jules stava martellando di entusiasmo ed egli sapeva che quella notte non avrebbe dormito. Si alzò verso le cinque e si vestì per aspettare gli altri. Nonna Wendall gli preparò la colazione, silenziosamente, gravemente, e quando udì qualcuno destarsi al piano di sopra, gli disse: «Potresti sempre restare qui, non andare con lei. Potresti restare qui con me». «No» disse Jules. «Non sei obbligato ad andare dove vuole condurti lei. Sei figlio anche di tuo padre.» «No» disse Jules, malinconicamente. Per evitare la vergogna, papà Wendall li portò in automobile fino alla più vicina fermata dei torpedoni, invece di lasciarli andare a piedi come aveva minacciato di fare Loretta. Così si misero in ghingheri come se avessero dovuto andare in chiesa e si guardarono a vicenda con sorrisi sciocchi e nervosi, Loretta simile a uno dei bambini. Papà Wendall non ebbe niente da dire. Li fece scendere alla fermata del torpedone e ripartì. «Merda a te, vecchio bastardo!» gridò Loretta, allegramente. «Sicché, bambini, con loro è finita. Adesso siamo del tutto indipendenti.» Quando si avvicinarono a Detroit la giornata era quasi al termine. Jules aveva il mal di capo, la bambina piccola era febbricitante, le persone sedute accanto a loro continuavano a guardarsi attorno irritate... l'uno o l'altro dei bambini stava sempre piagnucolando o sferrando calci al sedile; non potevano farne a meno. Jules non poteva farne a meno. Loretta si appoggiava alla spalliera del sedile con la bambina in grembo, spossata dal lungo viaggio, con i capelli in disordine e la faccia accesa. Seguitava a dire: «Ri-
ta ci tratterà proprio bene quando arriveremo». Ma arrivare a Detroit non fu facile. Entrarono in una città e continuarono a penetrarvi, sempre e sempre più profondamente, ma senza arrivare in alcun centro. Jules guardava con gli occhi spalancati fuori del finestrino. Non aveva mai visto niente di simile. Nessuna carta geografica lo aveva preparato a tutte quelle vie, a tutti quegli ampi viali, a quei palazzi, alle automobili, agli autocarri e alla gente, bianca e di colore, le donne con le labbra dipinte e le sopracciglia tracciate a linee spesse e scure, ferme agli incroci per attraversare calzando scarpe dai tacchi alti, gli uomini con i capelli che sporgevano a riccioletti dietro le orecchie, e un'aria molto pericolosa. La testa gli doleva violentemente. In preda allo stordimento, Loretta seguitava a mormorare: «Non appena arrivati, telefoneremo a Rita... ce l'ho qui, il numero... sarà così contenta di vederci e ci tratterà molto bene...». Ma il torpedone seguitava ad attraversare incroci, a fermarsi e a ripartire, finché Jules pensò che sarebbe impazzito. Non ce la faceva a sopportare tutto questo. Desiderava gli spazi vuoti e silenziosi della campagna, anche se vi risuonavano il tonfo dei passi di sua nonna, e il russare del nonno, e l'indistinto, opprimente ricordo del babbo, un uomo con la divisa di soldato. Maureen cominciò a piangere. Piangeva stancamente, come una bambina che sente troppo spesso il desiderio di versare lacrime. Loretta disse, dandole un pizzicotto: «Non continuare a strillare, perché questa è una città stupenda, con stupende possibilità, e Rita avrà cura di noi». Dopo alcune ore trascorse in un grande capolinea, per ripetere innumerevoli volte la stessa telefonata, e dopo quello che parve a Jules un periodo di tempo da incubo, durante il quale credette che la polizia sarebbe venuta ad arrestarli tutti e a rimandarli alla fattoria, Loretta riuscì finalmente a trovare la sua misteriosa amica. Saltò su e giù nella cabina telefonica, come una teen-ager, sopraffatta dalla gioia. «Rita! Sono io! Io, Loretta!» Jules cercò di non ascoltarla, perché la loro vita dipendeva da questo, ma doveva restare al fianco di sua madre, nell'eventualità che potesse accadere qualcosa di tremendo. Sulla panca, la bambina più piccola si era finalmente addormentata, rossa in faccia, e Maureen sedeva con i suoi occhi scialbi, seri e sconfitti, fissi sulla madre. Loretta piangeva di felicità. Qualche magia era in corso, pensò Jules. Certe parole; formule magiche. Una donna all'altro capo del filo, una donna che aveva scritto esattamente cinque lettere su carta celeste, e ora questo... la fine del viaggio in torpedone, questo. Si sentì afferrare la testa da un improvviso dolore bluastro, come se le ma-
ni di un estraneo l'avessero racchiusa con forza. Si recarono da Rita, che abitava in una strada caotica, di gran traffico, e la piccola venne finalmente cambiata e loro due mangiarono polpette di carne tritata e Jules si distese e finse di dormire mentre ascoltava conversare le due donne, una delle quali era sua madre. «No, senti, non ti sto prendendo in giro,» disse la sconosciuta «lui non tollera imbrogli, e non c'è niente, proprio niente, su cui passi sopra con una risata. Certe volte ho una paura da morire, questa è la verità. Ma per lo meno è un vero uomo. Quanti ne restano, qui attorno, di veri uomini?» «Ho trentaquattro dollari e pochi centesimi. Fammi controllare...» «No, tesoro, resta seduta. Gesù!» Da una radio, in qualche punto, giungeva una musica lamentosa e soffocata, una canzone popolare che parlava d'amore. "Se tu mi ami ed io t'amo..." Jules concentrò la propria mente sulla voce di Rita, cancellando quella di sua madre. Quella donna diceva due cose, una con le parole e l'altra sotto le parole, e lui temeva che sua madre udisse soltanto le parole. «No, certo, non gliene importerà. È fuori città, del resto, fino a venerdì. No, non lo so precisamente, è il suo modo di fare, non parla molto e non spiega niente. Gli uomini che chiacchierano molto sono dei buoni a niente, del resto. Senti, Loretta, non ti scrissi io di venire? E tu mi conosci, non mento mai...» Così passarono la notte lì, e Jules pensò malinconicamente alla grande casa in campagna, e al suo letto laggiù, e alla campagna stessa, dove c'era spazio dappertutto e non esistevano strade chiuse e senz'aria. Poi, quando venne il mattino, si alzarono e si prepararono a uscire, Loretta esaltata e come inebriata, parlando troppo. Rita seguitava a dire: «Ma, tesoro, potresti rimanere almeno fino a venerdì, davvero» e Loretta continuava a dire, con risatine nervose: «È tempo che mi renda indipendente. Sono vecchia abbastanza». Jules trasalì udendone la risata sciocca, quasi isterica. Ella disse: «Gesù Cristo, ho quasi venticinque anni» e finalmente uscirono, trascinandosi lungo la strada, la mamma con i tacchi alti e un vestito giallo spiegazzato dal viaggio in torpedone, i capelli lisciati all'indietro e raccolti in una crocchia un po' sfatta, le labbra spalmate di rossetto che aveva cominciato a screpolarsi. Trovò una stanza sopra un'impresa di pompe funebri. Era la prima che visitava, il primo posto ove aveva veduto il cartello - CAMERA DA AFFITTARE - e vi si precipitò trafelata, temendo che qualcun altro potesse prenderla senza dar loro il tempo di entrare. La stanza era ammobiliata,
con un letto. Ella vi mise su tutti i bambini. Non c'era coperta, ma non aveva importanza; Jules coprì Maureen e la piccola con il maglione di sua madre. «È una bella camera questa, vero?» disse Loretta. Jules rispose: «Sì» e sedette sulla sponda del letto, un bambino riflessivo e scosso, di quasi otto anni, che si domandava per quanto tempo avrebbero resistito. «E adesso che cosa farai?» domandò. Loretta si stava contemplando nello specchietto del portacipria. Mentre si scostava da Jules, mentre si muoveva con tanta decisione, parve solidificare la forma del proprio corpo, facendo risaltare l'opulenta e dolce curva dei fianchi. Si era cambiata, indossando un vestito stampato a fiori, tutto ori e arancioni e rosa, e muoveva indaffarata le dita intorno ai capelli... li aveva sciolti lasciandoli ricadere sulle spalle, capelli a striature bionde e castane. Sembrava che la sua immagine riflessa nello specchietto le stesse impartendo istruzioni. «Voi dormite, adesso, tutti quanti. Stanotte non avete dormito abbastanza.» «Dormire adesso?» disse Jules. «Sorveglia le bambine, allora.» Se ne andò. Discese in istrada. Per tutta la notte aveva pensato a Rita e all'uomo di Rita, i suoi pensieri si erano aggirati intorno a loro due fino a darle il capogiro; aveva dimenticato completamente Howard. Non pensò nemmeno a togliersi la fede dal dito. Erano le prime ore del pomeriggio. Percorse la strada, all'erta eppure non all'erta, in preda a una sorta di stordimento luminoso, vivace, senza riuscire a catturare con lo sguardo tutta la gente intorno a lei - un così gran numero di persone, di automobili, di alti palazzi, tante di quelle cose da vedere! - e voltò in una strada laterale, dondolando sui tacchi alti, già esausta. Il tempo passava. Si era smarrita, ma non ci pensò. Sentiva vagamente che qualche filo invisibile l'avrebbe ricondotta ai bambini, e in ogni modo Jules era abbastanza sensato per badare alle due piccole. Infine vide un uomo camminare accanto a lei, e l'uomo la sbirciò in tralice, in un certo modo. Il cuore prese a martellarle. Guardò dinanzi a sé, poi tornò a guardare lo sconosciuto. Aveva press'a poco la sua stessa statura, indossava un vestito marrone che poteva essere costoso, non era in grado di dirlo - erano anni che non vedeva un uomo vestito come si deve! - e lo sconosciuto la fissò con un'espressione seria e curiosa, in silenzio, persino un po' timidamente, finché ella si decise a dire: «Salve!». Questo bastò. L'uomo rallentò
il passo, le girò attorno per metterlesi di fronte. Ella ripeté: «Salve... è una bella giornata...». Stava sorridendo. L'uomo disse, con circospezione: «A quanto stava pensando?». Per un momento ella lo fissò. Poi si sentì il vuoto dentro; non riusciva a pensare a niente. Infine si riprese e disse: «Dieci dollari... dieci...». E lui ripeté, chinandosi un poco, come per udire meglio: «A quanto stava pensando?». Ella disse: «Dieci dollari...?» e la sua voce si spense con un tremito umiliante, in un punto di domanda. L'uomo le afferrò il polso. «Benissimo, sei in arresto» disse. «Cosa?» «La macchina di pattuglia è poco più avanti, voltato l'angolo. Vieni con me.» Non riusciva a muoversi. Non gli stava opponendo resistenza, il suo corpo era semplicemente tramortito, greve. Lui incominciò a scrollarla con violenza. Non era più circospetto. Se ne infischiava di essere udito da chi passava sul marciapiedi. Disse in tono iroso: «Su, vieni! Voltato l'angolo! Sei in arresto!». Loretta riuscì a mormorare: «Mi lasci andare e verrò per mio conto... la gente sta guardando!». Oltre l'angolo c'era una macchina di pattuglia, come lui le aveva detto, con le parole POLIZIA DI DETROIT scritte a lettere bianche sul fianco. Loretta venne condotta verso di essa per essere presentata ufficialmente alla Città di Detroit. 8 Quando Jules aveva dodici anni, si innamorò per la prima volta. I suoi sentimenti si accentrarono con passione su una giovane suora, l'insegnante della quinta elementare, a scuola... una donna alta, svelta, dall'aria stupita, che suonava il pianoforte alle riunioni; era la maestra di sua sorella Maureen. E fu il pianoforte ad attrarlo verso di lei. Sfilando nell'auditorio per le riunioni del giovedì mattina, Jules l'aveva notata, ammirando i rapidi svolazzi delle sue dita pallide sulla tastiera. Lo affascinava l'agitarsi delle maniche nere e il lampo bianco degli esili polsi di lei. Rimasto solo in classe, fingendo di lavorare a un compito, lasciò che i propri pensieri andassero alla suora e ai passaggi complicati e melodiosi della sua musica, che gli sembrava esotica, stupefacente, al di là della portata di tutto ciò che lui o i suoi conoscenti avrebbero mai potuto conseguire. V'era in lei, nel suo stesso essere, qualcosa di magico. Ella sembrava far parte della musica che
creava. Ogni sera Maureen aveva qualcosa da dire sul conto di suor Mary Jerome. Era una giovane suora irascibile, nonostante quel suo aspetto fragile. «Oggi la suora ha pianto di nuovo» riferiva Maureen, interessata e curiosa. Perché le suore, a volte, scoppiavano in lacrime? Perché, a volte, schiaffeggiavano le allieve che non avevano fatto niente, correndo lungo il passaggio tra i banchi e scegliendo quelle innocenti? «Voi marmocchi siete dei mascalzoncelli, far piangere le suore» diceva Loretta. «Avete bisogno di prenderle, tutti quanti.» «Ma non lo so perché si è messa a piangere. Ha pianto e basta» esclamava Maureen. Dopo la scuola, Jules correva per quasi un chilometro fino a un grande magazzino a prezzi fissi dove lavorava. Sebbene, stando alla legge, fosse troppo giovane per poter lavorare, era stato assunto per un quarto di dollaro o mezzo dollaro all'ora, purché si presentasse abbastanza presto; doveva dare una mano aprendo e vuotando le casse della merce. Aveva a che fare con casse di stoviglie, di giocattoli e di cianfrusaglie varie. Gli frullavano nella mente le lezioni della giornata, le minacce e le notizie urlate nel cortile durante la ricreazione, i fluttuanti andirivieni di suor Mary Jerome nel corridoio, e ogni notizia su di lei che potesse avere udito. «Come sta la vostra maestra, ha pianto di nuovo?» domandava con scherno a una delle compagne di classe di Maureen. Sua madre non si dava più la pena di piangere. Aveva pianto per anni; ora non voleva più saperne. Suo padre era come un alto muro pencolante all'interno, sul punto di crollare su di essi, ma poiché non era mai crollato del tutto, avevano smesso di temerlo e di piangere per lui. O, almeno, aveva smesso Loretta. Jules accomunava le lacrime di suor Mary Jerome doveva immaginarle, non avendole mai vedute - a un esotismo che sua madre non aveva mai posseduto. E le donne nei film piangevano spesso. Piangevano mirabilmente. Al pianoforte, le mani abili, violente, di suor Mary dominavano la tastiera, e ogni nota veniva martellata meravigliosamente nel cranio di Jules, per esservi suonata di nuovo mentre lui era alle prese con le casse, e le scaricava, o vuotava ceste piene di pezzi di carta e di cartone. Di tanto in tanto si tagliava le mani. Una volta mise il piede su un chiodo che gli perforò la suola della scarpa e il calzino, ma non accadde niente, uscì soltanto un po' di sangue. Talora, a casa, scopriva di avere grossi e misteriosi lividi sulle gambe. Ma, mentre lavorava, era dominato da un'eccitazione strana. Gli altri ragazzetti oziavano lì attorno e rubavano
oggetti quando nessuno stava guardando, ma Jules, in preda a una specie di stordimento, irrigidiva i muscoli per far bene il suo lavoro. Quando aveva in mente suor Maiy Jerome, era sempre un bravo ragazzo. «Tieni, Jules, prendi una di queste... provala» disse una delle commesse. Aveva sedici o diciassette anni, e si divertiva a venire a stuzzicarlo. Jules, che fumava da due anni, ma non poteva permettersi di comprare sigarette, si fingeva timido e le accettava. La ragazza strofinò un fiammifero e lo tenne per lui, guardandolo in faccia con un bizzarro sorriso. «Bene, come sta tua madre in questi giorni, ragazzino?» domandò. «Okay» rispose Jules. «E tuo padre?» «Okay.» «Vi ho visti in chiesa. Tua madre aspetta un altro bambino?» Era una domanda che, secondo Jules, non sarebbe dovuta essere posta. Fece di sì con la testa, imbarazzato. La ragazza gli rivolse un ampio sorriso, come se anche lui avesse qualche merito. «Sperate in un maschio o in una femmina?» «Io credo che sarà un maschio.» «Sai tutto al riguardo, eh? Tutto di queste cose.» Aveva una faccia affilata, incavata, quasi graziosa, con lunghi capelli neri che le scendevano sulle spalle. Intorno al polso portava un braccialetto di riconoscimento regalatole dal suo amichetto. Sull'avambraccio figurava il piccolo tatuaggio di un cuore trafitto da una freccia e le iniziali R. J, sovrapposte con ghirigori che sembravano un ricamo. Ella lo aveva mostrato a Jules, ma il tatuaggio rimaneva quasi sempre coperto. Diceva che non garbava alla direttrice del grande magazzino, una vecchia megera. «Uno di questi giorni tatuerò te» disse a Jules. Il vicolo dietro il magazzino era sempre sudicio. Scatoloni, casse sfondate, bidoni delle immondizie rovesciati, tutto un gran disordine; i cani sembravano essere particolarmente attratti da quel vicolo e Jules metteva sempre i piedi su qualche porcheria. Insieme a lui lavoravano alcuni altri ragazzi, che si alternavano ogni giorno. Il più grosso era Ramie Malone, un amico. Ramie aveva una reputazione a scuola; rubava roba sulle automobili, a volte persino radio; questa era la sua specialità. Aveva tredici anni. A tarda notte si aggirava nel vicinato, a qualche isolato da casa sua, dove c'erano molte macchine parcheggiate davanti ai bar. Lavorava solo e vendeva la refurtiva senza alcuna difficoltà a un amico di suo fratello. Tutta la
dedizione di Jules a suor Mary Jerome veniva minacciata dai racconti seducenti di Ramie. «Se questo colpo che sto preparando mi va bene, non mi vedrai più qui per un pezzo» egli gli assicurava. Faceva vedere a Jules coltelli a serramanico che gli aveva dato qualcuno. Parlava eccitato delle ultimissime notizie, notizie non ancora pubblicate dai giornali, di uomini trovati entro portabagagli di automobili, a pochi isolati appena di distanza dalla casa di Jules, legati con fil di ferro e ammazzati a colpi di rivoltella, o di ragazzetti della loro stessa età gettati giù dai tetti da negri. Raccontava a Jules di un negro che era stato pestato in uno dei posti di polizia, tutti gli agenti lo avevano tempestato di colpi di manganello su tutto il corpo e sulla faccia «finché gli occhi di quel bastardo non schizzarono fuori delle orbite cadendogli sulle gote, proprio così. Fantastico, no?». Ramie aveva un cugino, o un suo amico aveva un cugino, poliziotto. Sapeva tutto. Raccontava a Jules ogni cosa dei negri. «La cosa che gli preme più di ogni altra è prendere qualche ragazzo come te o come me, ragazzi bianchi, e scotennarlo. Ecco che cosa fanno. È stato trovato un uomo con il cuoio capelluto strappato a metà, e ha detto che erano stati i negri schifosi. Sta' attento a quei sudici bastardi.» Jules si sentiva accapponare la pelle per la paura a quella minaccia di guai; si guardava attorno, aspettandoseli. Quando vedeva un negro per la strada lo fissava circospetto, domandandosi quando gli sarebbe toccata la disavventura. Quale segreto avevano i negri? Dov'era il mistero? Alcuni anni prima c'era stata una rivolta sul ponte di Belle Isle e la gente ancora ne parlava, rabbiosamente. A Jules sarebbe piaciuto aver potuto assistere a quei disordini. Lavorando, non poteva fare a meno di stare tra i piedi a Ramie. Seguitava a domandargli: «Chi fu a essere scotennato, chi?», oppure «Ma quali ragazzi vengono gettati giù dai tetti?». Tremava, aspettando la risposta di Ramie, che era di solito evasiva e offensiva. E a volte, confidando disperatamente nella maggiore esperienza di Ramie, gli domandava: «Perché la maestra di mia sorella piange a scuola? È suor Mary Jerome. La conosci? È picchiata o che altro?». «Sono tutte picchiate» rispondeva Ramie. «Ma lei in particolare... perché piange?» «Come posso saperlo? Tutte quelle cagne hanno bisogno di una sola cosa.» In casa, Jules stava attorno a sua madre, quando lei era di buon umore, quando era sola e ascoltava la radio; voleva capire come erano fatte le donne. A Loretta piaceva ascoltare la "Parata dei Successi". Jules si do-
mandava se quella trasmissione piacesse anche a suor Mary Jerome e se le permettessero di ascoltarla. Restava tra i piedi di sua madre e di tanto in tanto le domandava: «Vuoi che faccia qualcosa?». Lei si sentiva sempre lusingata quando Jules o Maureen le domandavano questo. Rimaneva quasi sempre distesa sul divano, bevendo birra e tenendo la bottiglia appoggiata sul ventre, raschiando via l'etichetta con le unghie, ascoltando la radio. Durante il giorno, sola, era pigra e placida. Ascoltava alla radio le canzoni, oppure "Ma Perkins" e "One Man's Family" e "Il dottor Malone". A Jules piaceva così, distesa e pigra, alla sua portata. In certi giorni ella non si dava la pena di preparare la cena, non si sentiva bene, non ne aveva voglia, e Maureen e Jules andavano in cucina e preparavano qualcosa, giocando a cucinare. Preparavano la cena preoccupandosi di fare contento il babbo. Le sere in cui non arrivava, gli tenevano il piatto in caldo nel forno, senza che nessuno glielo avesse detto; Jules sbrigava molti lavori in casa, senza che nessuno glielo chiedesse. Non sopportava di essere costretto a fare qualcosa, e aveva imparato che era molto più semplice fare le cose di propria iniziativa. In questo modo sua madre se ne stava tranquilla, giacendo immobile e soddisfatta sul divano; e anche il babbo stava tranquillo. Ma la mole del babbo si affacciava nei suoi pensieri, scura e minacciosa come quella di qualsiasi negro, e lui pensava pigramente, Uno di questi giorni morirà. Gli piaceva la sua casa e gli piaceva la scuola. Ma in casa era sempre stanco e anche a scuola si sentiva sempre stanco. Dopo quel mattino di primavera del 1950, quando si era innamorato di suor Jerome durante una riunione, la sua spossatezza dipendeva da cause complesse; rimaneva alzato per gran parte della notte, e dopo la scuola doveva lavorare, ma, ciò nonostante, continuava a essere pieno di animazione e di entusiasmo e soltanto quando incominciavano le interrogazioni di catechismo, di storia e di grammatica la sua mente vacillava. Pensava alle maniche fluttuanti della suora e alle dita di lei sulla tastiera. Pensava al suo viso pallido e serio, agli occhi che si alzavano a guardare con una sorta di timido allarme quando la vedeva nel corridoio o a Messa. I lunedì e i mercoledì mattina serviva la Messa al convento. Poche ore dopo, seduto al banco, ripensava a quell'alba magica in chiesa (la chiesa più antica di Detroit!), una chiesa di mattoni rossi, dalle dimensioni enormi, molto buia, piena d'ombre, muffita, con un anziano irlandese che celebrava la Messa, capriccioso e imprevedibile; a volte rifilava gomitate ai chierichetti perché si affrettassero. E la fila silenziosa, fluttuante, di suore che risalivano il passaggio centrale per disporsi
dinanzi alla balaustrata della comunione, e tra esse la sua diletta suor Mary Jerome. Dormiva sì e no tre o quattro ore per notte, e la mente gli si annebbiava un po' durante il giorno, specie quando corpuscoli di polvere turbinavano sopra la sua testa, nella luce del sole. L'amo, l'amo, pensava, riecheggiando nell'immaginazione le note sonore della campana d'una chiesa, progettando di attraversare di corsa l'edificio scolastico fino all'aula di quinta, mentre la scolaresca era fuori, con il pretesto di andare a prendere sua sorella. Era un ragazzo piuttosto alto di statura per la sua età, un po' nervoso, teso, con una voce acuta, a volte irritante; aveva una carnagione chiara e occhi chiari e seri, sebbene non sempre riuscisse a tenerli a fuoco su quello che stava guardando. Nella settima studiavano la storia americana. Le interrogazioni cominciavano dalla prima fila di banchi, dai banchi all'estrema destra e continuavano intorno all'aula, fino ai banchi all'estrema sinistra dell'ultima fila, poi ricominciavano. Continuavano in eterno; non finivano mai. Al termine della giornata venivano rimandate, semplicemente, al giorno dopo. Se c'era un weekend o una vacanza, venivano riprese dal banco successivo, quando si tornava a scuola. Ogni bambino sembrava impiegare molto tempo per rispondere. Jules si sforzava di ascoltare, ma dopo un po' di tempo la sua mente cominciava a disintegrarsi, frantumandosi adagio in bei frammenti erotici. Non voleva accomunare suor Mary Jerome e quel che diceva Ramie, i due modi di pensare, le due realtà, ma le due realtà si associavano di loro iniziativa e lo lasciavano sconcertato e tremante. La suora che insegnava nella settima era anziana, o sembrava anziana. Aveva la voce simile a quella del padre di Jules. «Chi era Abramo Lincoln?» domandava, e la sua faccia volgare, coperta di peluria, si voltava verso l'allievo che doveva rispondere subito dopo. Un bambino rispondeva adagio, come se fosse stato tardo di mente: «Abramo Lincoln era un Presidente. Degli Stati Uniti». Toccava poi all'allievo successivo. «Che Presidente è stato?» «È stato... il sedicesimo Presidente degli Stati Uniti.» E a quell'altro: «Quando si celebra l'anniversario di Abramo Lincoln?». «L'anniversario di Abramo Lincoln si celebra il dodici febbraio.» E così continuavano le interrogazioni, tutto intorno all'aula, senza posa, e lungo le file di banchi, mentre Jules teneva alta la testa e si sforzava di ascoltare. Avevano tutti i loro logori libri aperti; abbassavano gli occhi per cercare le risposte alle domande della suora, talora facendo scorrere un
dito, adagio, lungo le righe di caratteri confusi. Erano tutti spaventati quando toccava a loro rispondere. Jules sognava suor Mary Jerome, le sue lacrime e la sua musica, e talora, quando toccava a lui, era impreparato, trasaliva, e doveva guardare il libro per trovare la risposta. Non era questo il modo con il quale la suora voleva che procedesse l'interrogazione; tutti dovevano saper rispondere e parlare sedendo impettiti, fissandola negli occhi. Così, lo guardava accigliata, arcigna e sospettosa, immobile alla cattedra, e, dopo qualche secondo di panico, Jules rispondeva, senza abbassare gli occhi sul libro, dando la risposta che era la sola risposta giusta, pronunciando le parole che erano le sole parole da pronunciare in quel momento particolare. «Abramo Lincoln fu assassinato mentre era in carica. Nel milleottocentosessantacinque.» Poi ricominciava a sognare. A mezzogiorno venivano portati in un "refettorio", ove pranzavano con quello che contenevano i sacchetti di carta portati da casa, e un quarto d'ora dopo passavano nel cortile della "ricreazione". Dietro la recinzione, in Howard Street, rombavano gli autocarri diretti al ponte per il quale si andava nel Canada, e Jules provava una grande invidia per gli adulti che potevano viaggiare avanti e indietro nel continente e persino in un paese straniero. Non erano costretti a fare ritorno in alcuna casa particolare. Sui loro autocarri erano eleganti, liberi e le distanze che coprivano gli sembravano divine e magiche. Ma si divertiva con gli altri bambini, lasciando che i loro lazzi e i loro litigi scacciassero queste cose dalla sua mente e quando si sentiva particolarmente contento studiava strategie nelle quali essi avevano parte. Immaginava di essere una specie di comandante. Un generale, un ammiraglio, un ministro della guerra. Dai suoi amici faceva tendere imboscate ad altri ragazzi, oppure li riportava di nascosto nell'edificio scolastico, il che era proibito. Studiava piani per loro; a volte disegnava persino piantine alle quali dovevano attenersi. «Ora tu seguirai questa strada, la strada laterale,» diceva severamente, dando di gomito a uno dei ragazzi, «e tu, tu invece seguirai quest'altra. Non tollero errori. I disertori saranno fucilati.» Si dava il caso che fosse più alto di statura della maggior parte dei suoi amici, e un certo tono della sua voce, o la sua energia, facevano sì che prevalesse su di loro; li tiranneggiava finché non resistevano più e si coalizzavano contro di lui, poi si disperdevano e tornavano dopo uno o due giorni, incapaci di resistergli, attratti dalle sue idee e dalla sua audacia. Li guidava nello scantinato della scuola, cantando: «Avanti per il Tigri! Avanti per l'Eufrate! Per il Mississippi! Per i Giardini Pensili di Babilonia!». Le sue parole magiche li incoraggiavano, e li inducevano ad andare avanti,
intimoriti e ridacchianti. Se venivano sorpresi, era sempre Jules a fare da capro espiatorio. «In te c'è il demonio» gli disse un giorno la Madre Superiora. Si trovava nell'austero ufficio di lei, prigioniero. Era una donna grande e grossa come sua nonna, e, a modo suo, altrettanto rude ed energica; doveva rispettarla. Non era una vera donna, come sua madre e come suor Mary Jerome, ma la rispettava. Con tre precisi e duri scappellotti ella gli percosse le mani protese, la spalla e la guancia. «Perché ti cacci sempre nei guai? Perché non riesci a star fermo nemmeno adesso? Perché sei così cattivo?» gli domandò irosamente. «Mi scusi, Madre» disse Jules. Era stato colto sul fatto mentre fumava nello spogliatoio dei ragazzi. Lo aveva sorpreso il bidello. «Chi ti ha insegnato a fumare?» «Nessuno, Madre.» «Chi ti ha dato le sigarette?» «Nessuno, Madre.» «Le hai rubate?» «No, Madre.» «Dove le hai prese?» Silenzio. Jules sedeva sulla dura sedia non imbottita, domandandosi che aspetto avesse e se fosse rosso in faccia, e se gli altri ragazzi avrebbero visto i segni delle dita della Madre Superiora sulla sua gota. La Madre Superiora si sporse oltre la scrivania e lo schiaffeggiò di nuovo. Egli cadde all'indietro contro la sedia. Il naso cominciò a sanguinargli. «Non hai un fazzoletto?» «Sì.» «Allora adoperalo! Sei maiale fino a questo punto?» Lui tenne il fazzoletto contro il naso, lieto di avere qualcosa dietro cui nascondersi, spaventato e infelice, e, ciò nonostante, un po' eccitato da tutto ciò. Perché si sentiva così eccitato ogni volta che qualcuno lo fissava, anche se lo sguardo precedeva un manrovescio? «Vuoi finire sulla sedia elettrica?» «No, Madre.» «E invece credo proprio di sì. Credo che questo sia quanto si propone il demonio dentro di te.» Parlava seriamente, persino un po' recisamente. Apparve chiaro a Jules che non stava inventando niente, che non immaginava niente; stava ricor-
dando qualcosa. Il suo avvenire le era noto, come il passato. Sapeva tutto. Jules tirò su il sangue con il naso, non volendo sporcare. Gli andò a finire in bocca, in qualche modo, e dovette inghiottirlo. Che schifo, il sapore di quel cattivo sangue. Si sarebbe ubriacato. La Madre Superiora stava parlando di un ragazzo che era stato cattivo nella stessa scuola dieci anni prima. Si trovava ora nel penitenziario statale, condannato a vita; in realtà avrebbero dovuto condannarlo alla sedia elettrica. Ma sarebbe finito all'inferno una volta morto. «Vuoi finire anche tu nello stesso modo?» «No, Madre.» «Un certo numero di ragazzi è destinato a morire sulla sedia elettrica» disse con freddo distacco la Madre Superiora. Egli pensò a un tratto al bel fulgore di elettricità che lo avrebbe ucciso; nei film e negli album a fumetti aveva veduto i preparativi di molte esecuzioni sulla sedia elettrica. Impiccagioni, plotoni di fucilazione, la camera a gas... anche queste morti venivano promesse, e in altri paesi si poteva essere giustiziati mediante impiccagione, ma la sedia elettrica, con la sua goffa e casalinga somiglianza a una sedia comune, lo affascinava. La Madre Superiora stava fissando un punto indeterminato sopra la testa di Jules. Poi tornò a guardarlo con i suoi occhi freddi e remoti. «Tua sorella Maureen è nella classe di suor Mary Jerome, vero?» «Sì, Madre.» «Tua sorella è una brava bambina. Un'allieva diligente.» «Sì, Madre.» «E quell'altra tua sorella, Betty, fa del suo meglio.» «Sì, Madre.» «Perché tu sei diverso?» Tacque per qualche momento, contemplandolo. Le donne contemplavano e giudicavano, lui se n'era reso conto; gli uomini picchiavano, ma senza riflettere. Le loro percosse erano insensate, bisognava evitarle, e basta. Ma le donne non facevano che pensare, vagliare, giudicare, preparare. Jules sedeva molto impettito, il fazzoletto premuto contro il naso. Aspettava. Nella sua mente si presentò a un tratto una riflessione strana... forse suor Mary Jerome si sarebbe stancata di tutto questo, di tutte queste balle, del brutto edificio e delle brutte suore, dei ragazzetti chiassosi e indisciplinati, dei ragazzetti mocciosi, della Messa nelle prime ore del mattino, del puzzo nei gabinetti, forse un giorno l'avrebbe veduta per la strada, a passeggiare come passeggiavano certe altre giovani donne, guardinghe e senza meta,
gli occhi attenti alle automobili di passaggio. Il viso pallido e nervoso di suor Jerome avrebbe figurato bene in quell'ambiente; c'erano troppe facce esageratamente truccate. Jules aveva desunto da innumerevoli litigi tra sua madre e suo padre, e tra i suoi genitori e i parenti di suo padre, che la mamma aveva "battuto i marciapiedi" un tempo, e non era riuscita ad affermarsi nemmeno in quello. «Che vacca! Che stupida vacca! Non è la goccia che fa traboccare il vaso?» Suo padre aveva riso molte volte di questa faccenda; suo padre tirava fuori la vecchia storia ogni volta che si ubriacava. Sembrava fargli piacere. E così Jules immaginò suor Jerome vestita press'a poco come vestiva da suora, con una lunga gonna nera e maniche ampie e una sorta di cappuccio, diretta verso le nebulose vie del centro, timida e un po' arrogante, e lui, Jules, la raggiungeva e diceva: «La mia Ma' sarebbe felice se tu venissi a casa con me. Puoi cenare con noi anche subito...». E lei veniva a vivere con loro: questo avrebbe risolto ogni cosa. Dopo la scuola, se non riusciva a trovar lavoro al magazzino a prezzi fissi, vagabondava con alcuni altri ragazzi, nei vicoli e fuori dei vicoli, gli occhi bene aperti, per qualsiasi cosa potesse capitare. Dato che le strade erano intasate dal traffico e dato che gli autocarri parcheggiavano dappertutto, il loro territorio era interrotto; non riuscivano a vedere molto lontano dinanzi a sé. Giocavano nei terreni da costruzione, e più in giù, verso il ponte, dove il fiume lambiva pesci morti e grandi chiazze galleggianti di petrolio. Si sfrenavano intorno ai magazzini, sugli autocarri parcheggiati, esploravano il deposito ferroviario, la Trans-American Cartage Company, il garage Greyhound, tutto. Raccattavano bottiglie di bibite e frugavano con i piedi nei rigagnoli cercando involucri spiegazzati di lecca-lecca che potevano essere raccolti per i premi. Quando si sentivano più irrequieti, entravano nei negozietti di generi di drogheria e il più piccolo dei ragazzi faceva il palo all'ingresso mentre Jules, tranquillo e accecato dall'audacia, usciva disinvolto con un tortino da dieci centesimi di dollaro ficcato in tasca. Alcune volte fu colto sul fatto e picchiato, ma la maggior parte delle volte riusciva a farla franca. Quando il colpo andava bene, si sentiva curiosamente depresso, deluso. Il territorio nel quale vagabondava si estendeva all'incirca tra la Ventunesima Strada e la Decima. Quando si aggirava libero per le vie del quartiere, però, il suo cuore continuava a essere con suor Mary Jerome; e se si comportava male si sentiva in colpa. Ma non poteva fare a meno di comportarsi male. Andava a confessarsi e diceva con il fiato corto all'anziano sacerdote dietro la grata del confessionale: «Sono stato disattento durante la Messa. Ho disubbidito a
mia madre e a mio padre. Ho trascurato le preghiere della mattina e della sera...». A una a una le frasi gli uscivano di bocca, esattamente identiche ogni settimana, ed egli conservava nel segreto dei propri pensieri il fascino peccaminoso esercitato su di lui da suor Mary Jerome, gli occasionali furtarelli e le botte che distribuiva ai ragazzetti che non volevano ubbidirgli. A Dio non pensava affatto. Non credeva all'esistenza di Dio, né essa lo interessava. Premeva le punte delle dita sugli occhi e cercava di immaginare, molto in profondità nel proprio cervello, un essere completamente diverso da lui che lo osservava, irato o colmo di rancore o di affetto nei suoi riguardi, ma non riusciva a raffigurarselo, affatto; chi mai, oltre a Jules, avrebbe potuto amare o odiare Jules? Quando si voltava di scatto, per la strada, di solito non vedeva nessuno... nulla. Non c'era niente alle sue spalle. Nessuno lo seguiva. Di notte, quando si destava di soprassalto, non c'era niente accanto a lui, ad alitare su di lui, a osservarlo. Soltanto lui stesso esisteva, libero. Ma era pur sempre possibile che vi fosse in lui un demonio; il demonio era, per la sua immaginazione, una sorta di persistente fallire, un trascinarsi da un lato, come quando le gomme di un'automobile incominciano ad andare da una parte e trascinano tutto da quella parte, inesorabilmente. Se aveva in sé un demonio, anche il demonio si chiamava Jules. E quel demonio avrebbe potuto trascinarlo sulla sedia elettrica. Ramie Malone diceva che se si ammazzava qualcuno a Chicago si finiva sulla sedia elettrica, perché lì non scherzavano. E Chicago sembrava a Jules una città attraente. Tutti i giovedì era impaziente di entrare nella sala delle riunioni, perché voleva ascoltare la musica di suor Mary Jerome. Se la prendeva con i passi rumorosi degli altri allievi. Tutti quegli stupidi ragazzetti! Quei piccoli bastardi mocciosi! Jules sedeva ingobbito in avanti, sommerso dall'amore per le abili dita e le braccia di suor Mary. Durante la riunione ella rimaneva da un lato, sul palcoscenico, composta e silenziosa. Gli occhi di Jules vagavano roventi su di lei. Non pensava che fosse una bella donna, ma la bellezza non gli premeva affatto; gli occorreva qualcosa di ardente e di puro, labbra senza rossetto, una fronte pallida, grave, un viso pronto a scoppiare in lacrime. Un giorno, dopo la riunione, si diresse verso il palcoscenico. Disse alla suora: «Suona il piano così bene...». Suor Mary si voltò a guardarlo allarmata. «Mi piace ascoltare la musica del pianoforte» disse Jules, quasi balbettando.
Ella si sforzò di sorridere. «Hai un pianoforte a casa?» Stava raccogliendo gli spartiti; aveva le nocche bianche e sporgenti. «No, non ce l'ho» farfugliò lui. Suor Mary chinò il capo silenziosa, come se quelle parole l'avessero lasciata interdetta, poi si voltò e scomparve dietro il pesante sipario di velluto. Jules avrebbe voluto chiamarla, ma non riusciva a parlare e non gli venne in mente niente da dirle. Ella non tornò indietro. Jules uscì fuori nel sole, stringendo i pugni, guardandosi le nocche e domandandosi se avrebbe potuto imparare a suonare il piano. In seguito si aggirò di quando in quando intorno alla sua aula, rimanendo in piedi a braccia conserte, aspettando lei, o qualcosa. Non accadde niente. Se ella lo notò, non lo diede a vedere. Passava in fretta, a capo chino, il viso pallidissimo, con libri e carte sulle braccia. L'anima stessa di Jules fremeva quando egli udiva il crepitio del suo lungo rosario nero. Maureen gli si avvicinò nel corridoio e domandò incuriosita: «Che cosa stai facendo qui?». «Va' all'inferno» disse lui. Suor Jerome dava lezioni di pianoforte nell'auditorio a certe ragazze, in certi giorni. Jules riuscì a scoprire quali fossero questi giorni. Si rannicchiava nell'oscurità in fondo alla sala, fissando il palcoscenico illuminato a mezzo, la testa china e grave della suora e le sue labbra pallide, austere, precise, mentre dicevano severamente: «Uno-due, uno-due, uno-due... che cosa stai facendo?», I pedali del pianoforte lasciavano udire tonfi, le note erano vuote e troppo forti. Jules rimaneva rannicchiato nell'oscurità e sognava certe tenere cose, le sue fantasticherie accarezzate dagli uno-due, uno-due di lei, dal ritmo spietato della sua voce quasi irosa. Perché si adirava tanto, che cos'era a renderla così pallida e schiva, così timida? Immaginava le sue lacrime scorrere nella violenza mentre una musica brutale, proprio brutale, prorompeva da lei, tutto ciò che veniva arginato da quegli uno-due, uno-due delle lezioni di pianoforte. Riteneva di amarla. Poi venivano le ore dopo la scuola, una libertà scarsamente concessa. Maureen e Betty tornavano a casa e Jules rimaneva fuori per alcune ore, scatenandosi libero, finché, spossato, e talora insanguinato, si faceva vivo a casa (abitavano adesso in una casa di due appartamenti) verso le sei. A quell'ora sua madre aveva ormai avuto la prima esplosione di rabbia, e Betty, o magari anche Maureen, erano state chiuse nell'armadio a muro per "calmarsi". Così Jules poteva mostrarsi senza paura. Diceva, adocchiando l'accappatoio sciolto e sudicio di Loretta e una certa arrogante altezzosità
sulla sua faccia: «Vuoi che faccia qualcosa, qui dentro, prima che lui torni a casa?». Questo li poneva tutti e due, come se si fossero trovati su una zattera, contro suo padre. Jules voleva che ella lo sentisse. E, raddolcita dal suo tono compito, la mamma poteva anche abbracciarlo e dirgli che, sì, c'era l'immondizia da portar fuori. O magari lui correva a fare uscire Betty o Maureen dall'armadio a muro. Loretta non era sempre ubriaca. A volte tornava a casa, dopo aver fatto gli acquisti, con un bel vestito e le scarpe dai tacchi alti, i capelli sciolti ma non ancora arruffati, e metteva sul tavolo di cucina tutte le cose che aveva comprato, per farle vedere a Jules e alle sue sorelle. Quasi sempre si trattava di commestibili. Jules guardava affascinato le dita di sua madre togliere da una grande borsa marrone per la spesa barattoli e pacchetti di cellophane, e anche Loretta godeva a tirar fuori quella roba, tutte quelle non sorprendenti sorprese. Diceva loro: «Oh, stupidoni! Siete matti, non c'è niente, qui dentro. Che cosa vi aspettate, eh? Che peste, siete! Jules, sei un gran tonto! Credi che sia Natale, o magari il tuo compleanno?». Ma anche lei era contenta. Dava loro bollini, verdi e gialli, e i tre bambini bisticciavano per stabilire chi avrebbe dovuto incollarli sull'apposito album. Avrebbero dovuto fare a turno, ma nel suo entusiasmo Jules non ricordava mai a chi toccasse; seguitava a insistere che toccava a lui. «Dateli a Jules, lui li appiccica meglio di tutti» diceva infine sua madre, e questo faceva tacere le bambine. Era titubante e affettuosa, sua madre, e, se cedeva, di solito cedeva con lui; Maureen era la classica brava bambina, ma qualcosa nel suo viso placido irritava Loretta: «Non fa che guardarmi, quella. Sorvegliarmi» si lagnava Loretta. Betty, una bambina piccoletta di statura, robusta, chiassosa, non somigliava affatto a Maureen e non possedeva affatto l'intelligenza di Jules; riusciva ad affermarsi a furia di urlacci e gomitate. Jules e Maureen tendevano a ignorarla. Ella non aveva alcuna dignità e non contava. Quando il padre tornava a casa, non sempre erano guai. A volte egli rientrava in tempo per la cena, sedeva a tavola con loro e mangiava, poi, dopo cena, si metteva in salotto e si appisolava sul giornale. Aveva una grossa testa zazzeruta, con orecchie a ventola che gli davano l'aria d'uno in grado di udire ogni cosa, mentre in realtà stava diventando sordo, pensava Jules, o troppo pigro per ascoltare. Non riusciva a credere che suo padre potesse essere stato un poliziotto. Che risate! Come avrebbe mai potuto quel grasso bastardo impugnare fulmineamente la pistola... come avrebbe potuto estrarla in tempo per servirsene? Jules era guardingo ed educato
quando si trovava accanto al padre, perché ne temeva l'irascibilità e la crudeltà, mentre non aveva peli sulla lingua con la madre e con le sorelle: «Quel vecchio bastardo mi sta rompendo le scatole, ve lo dico io. Uno di questi giorni...». C'erano invece guai, a volte, quando il babbo tornava a casa ubriaco. In quelle sere, non rimaneva altro da fare che uscire. Loretta attraversava la strada e si recava da un'amica, ove le due ragazzine giocavano a carte fino a tardi sorseggiando Royal Crown Cola o birra, oppure, se il tempo era abbastanza buono, Jules usciva con le sorelle. Percorrevano la viuzza, liberi e soli. Quasi sempre salivano sul tetto a terrazza di un caseggiato ove abitavano certi loro amici, alcuni dei quali passavano fuori la notte... qualcuno usciva di nascosto, qualcun altro doveva andarsene di casa perché c'era aria di burrasca. Maureen sedeva addossata al parapetto e dormiva, le braccia sulle ginocchia, la testa ciondolante. Betty oziava. Jules seguitava a guardar giù irrequieto, quel che poteva vedere del vicinato e di Detroit, facendo progetti... la mattina dopo avrebbe domandato a suor Mary Jerome se potesse prendere lezioni di pianoforte da lei; il pomeriggio dell'indomani avrebbe rubato qualcosa di grosso e di vendibile, magari una radio; la sera dopo avrebbe spaccato in due con una scure il cranio di suo padre, per poi fuggire nelle campagne seguendo le indicazioni di una carta geografica. Perché no? Perché non fuggire nelle campagne, perché non andarsene per il mondo? Anelava alla libertà degli autocarri, dei treni e degli aerei. Perché non spaccare la stupida, cocciuta testa di suo padre? Perché non afferrare la mano pallida e magra di suor Jerome e portarsela alle labbra? A volte, dopo alcune ore, potevano rientrare in casa di nascosto. Ormai il babbo era in letargo e non poteva succedere niente. A volte, se Maureen dormiva profondamente, passavano la notte fuori - "accampandosi all'aperto" - e Jules sedeva, sonnacchioso, di guardia. Scivolava nel sonno, poi sì destava con un sussulto, il cuore afflitto, la bocca che sapeva di qualcosa di schifoso. Molto presto, prima dell'alba, svegliava Maureen e Betty, risalivano la viuzza e tornavano a casa. «Gesù, quel bastardo mi sta rompendo le scatole» seguitava a dire Jules. Confessandosi, recitava, come una lezione imparata a mente: «Ho disubbidito a mia madre e a mio padre...». Doveva rievocare la sua fanciullezza a immagini saltuarie e lampeggianti, come se fosse stata un film girato prima della sua esistenza, una di quelle vecchie pellicole comiche sfarfallanti nelle quali individui stupidamente
vestiti non potevano aver provato né sofferenze né angoscia. Come potevano essere umane persone così antiquate? Era mai stato bambino, lui, Jules Wendall? Davvero un bambino? Nel senso in cui gli altri sono stati fanciulli? E che cosa significava, essere stato bambino? Significava forse che il bambino Jules era ancora con lui, racchiuso entro le sue ossa, un ragazzetto sveglio, nervoso, dagli occhi infossati, innamorato delle carte geografiche, della musica e di donne pallide e focose? Avrebbe dovuto sempre riportare a letto, quasi di peso, l'insonnolita Maureen? Avrebbe dovuto sempre sognar di schiacciare il cranio di suo padre, anche dopo che suo padre era morto? Un giorno, mentre i suoi pensieri andavano per una buona metà a suor Mary Jerome, lasciò che l'amica del magazzino a prezzi fissi lo portasse a casa sua. Aveva i capelli ravviati all'indietro e raccolti in una coda di cavallo. Era eccitatissima, parlava di un assassinio nel vicinato. «Oh, non ti dirò che cosa hanno trovato! Non tutto! Non era scritto nemmeno nei giornali!» Due gemelle di meno di dodici anni erano state uccise a pugnalate prima dell'alba. Una era stata pugnalata nella sua stanza, e l'altra fuori, in istrada, ove era fuggita, inseguita dall'assassino per quasi un isolato, tanto che macchie di sangue andavano dalla camera al marciapiedi. Tutti stavano parlando del delitto; e anche la ragazza non riusciva a smettere di parlarne. Seguitava a dar di gomito a Jules; seguitava a dire: «Sui giornali non possono scrivere tutto!». In casa non c'era nessuno. Lo fece entrare. Accese la radio. Disse a Jules, che era spaventatissimo: «Adesso inciderò su di te le mie iniziali, ragazzino». Jules aveva creduto che le ragazze sentissero dolore facendo questo, o facendoselo fare; ma scoprì che tra loro due non v'era alcuna sofferenza. Vi fu soltanto un'improvvisa e lieve pellicola di sudore tra loro. I gridolini della ragazza svolazzavano tra le quattro pareti della stanza e fecero scivolare Jules in un deliquio quasi di terrore, risucchiando la sua forza. Fu sempre consapevole di se stesso, Jules. Non riuscì a costringere i propri occhi a chiudersi, come faceva la ragazza: seguitavano a riaprirsi di scatto, allarmati e asciutti. Ma si sentiva molto debole. Non aveva più forza. Avrebbe voluto piangere, e invece tutto in lui era asciutto, vuoto. «Ora mi ami» disse la ragazza, disinvolta. Gli pizzicò la gota. Era come una ragazza nei film, agile e leggera a piedi nudi, mentre si rimetteva a posto i capelli toccandoli qua e là. Jules la fissò con gli occhi spalancati. «Sì, mi ami, penserai a me continuamente» ella disse. «Quando sentirai
questa canzone alla radio penserai a me. Sono stata io a svegliarti, ragazzino. Ricordatene.» «Sì» disse Jules. «Per tutta la vita...» «Sì» disse Jules. 9 Era una giornata nebbiosa, grigia, una di quelle giornate che piacevano a Jules, con un tenue lustro metallico, nel cielo, che sfiorava gli spigoli degli edifici e delle automobili; stava marinando la scuola per una buona causa, per portare la nonna in clinica. E così fischiettava sommessamente e succhiava l'aria sporca, come un bravo ragazzo, di quindici anni e ben vestito, con una camicia serica, con un paio di calzoni scuri leggermente attillati, con gli scuri capelli lunghi e ravviati all'indietro in due bande compatte così da formargli una massa ricciuta sulla nuca. Seguitava a vedere se stesso da lontano, immagini lampeggianti di se stesso - Jules Wendall - e non poteva fare a meno di sentirsi soddisfatto. Porse cavallerescamente il braccio a nonna Wendall. La vecchia lo afferrò borbottando una lagnanza che lo smontò un poco. «Era meglio, direi, se mi avesse accompagnata uno di loro, uno di quei due.» «Era meglio, direi, se mi avesse accompagnata uno di loro, uno di quei troit, vedova, con le grosse gambe simili a lardo divenute un disastro di vene gonfie e rotte, con i grigi capelli crespi e radi sul cocuzzolo della testa, e la faccia incisa da rughe irose e contemplative che la facevano sembrare un uomo anziano, inacidito dalla vita, ma non ancora disposto a lasciarla. Riversava nelle misere e pazienti orecchie di Jules tutte le laide notizie della sua vedovanza e del suo declino fino alla condizione di suocera gettata nella stanza sul retro d'una topaia di casa nella Ventesima Strada, una topaia di strada, comandata a bacchetta da una sudicia megera che beveva troppo. «Ma, Dio la benedica, è tua madre, e basta» disse nonna Wendall, torcendo la bocca, appoggiandosi pesantemente a Jules, «però in ogni modo a tuo merito c'è il fatto che hai preso dalla nostra famiglia... non da tuo padre, ma da me. Tu e io abbiamo la stessa intelligenza.» «Io non sono scaltro nemmeno la metà di te» disse Jules, prendendola benevolmente in giro come aveva fatto per anni, ma un po' sgomento. Si domandò dove diavolo fosse l'autobus. Perché bisognava sempre aspettare tanto? Sua nonna era forte d'ossa e di mente, questo sì, ma si stava indebo-
lendo, man mano che i mesi passavano, e soltanto quella passeggiata da casa a Fort Street l'aveva lasciata senza fiato. Ansimava come una cavalla, come una vacca, frustrata dall'incapacità del suo corpo di restare all'altezza della propria valutazione di se stessa. Aspettarono nella nebbia in Fort Street, Jules consapevole della sua bella faccia giovanile (anche se lievemente difettosa), del suo taglio di capelli a coda d'anatra, del proprio modo di vestire vistoso ma di buon gusto che lo situava in una certa categoria di studenti delle medie... sullo scalino più alto di quella categoria, amava pensare, dato che era abbastanza intelligente e duttile. Stava trascorrendo l'adolescenza nella pallida ombra dei veri gangster, o degli amici dei gangster; qualcosa in lui anelava allo stile condannato, trascurato, fascinoso del loro modo di vivere. Attingeva a essi, o ai loro imitatori, o ai film, una parte del proprio modo di esprimersi, e il suo modo di vestire, e persino di camminare, aveva un'aria lievemente rallentata, indugiante, letargica, sprezzante, altezzosa, uno stile da mezzano; e di tutto questo era molto soddisfatto. Disse alla nonna: «Pa' non ha potuto fare a meno di andare a lavorare. Ha avuto due giorni di malattia, il mese scorso». «E lei?» «Posso accompagnarti quanto lei, no? Hai detto che ti sarebbe piaciuto andare in autobus. Vuoi una sigaretta, o qualcos'altro?» Suo marito era morto di cancro alla gola, ed ella aveva scelto proprio quei momenti di una morte lenta per cominciare a fumare. Strabiliava tutti. Con Jules ostentava un cameratismo da uomo a uomo, da ragazzo a ragazzo, fraterno, fanciullesco, simile a una cospirazione e inutile secondo Jules, ma, supponeva lui, un espediente con il quale ella si vendicava della generazione di mezzo che a suo parere le aveva fatto torto, il figlio e la nuora. Così, con un sorriso di intesa, come se entrambi stessero facendo un dispetto a Loretta, accettò la sigaretta. Jules era rattristato vedendo sua nonna ridotta a una donna così sformata nel cappotto lungo, scuro e informe, con il ben calcato cappellino risalente a qualche moda indecifrabile, dalla veletta lacera e dall'ala di penne marrone. Com'era diventata vecchia! Sarebbe stato meglio per lei trasformarsi in un vegliardo! Nonna Wendall si lagnò di quel bastardo, il sindaco, e di quell'altro bastardo, il governatore, e soprattutto di quel bastardo che era il Presidente degli Stati Uniti. Tasse, troppe tasse. La previdenza sociale era una frode, una burla. La stavano prendendo in giro. Se non fosse stata vecchia, si sarebbe battuta a spada tratta. Gli Stati Uniti erano impazziti, lo capiva leggendo i giornali, e l'Eu-
ropa era pazza, una perdita secca. «Il mondo intero è un immondezzaio» disse. In Fort Street passava un torrente ininterrotto di automobili e di autocarri. Il fiume non era lontano. Jules si guardò attorno e scorse l'arco massiccio e non bello del ponte Ambassador, il ponte dal quale si andava verso il Canada, una visuale che campeggiava su di lui da molti anni. Si domandò quale fosse la via d'uscita, quale direzione avrebbe dovuto seguire. Sebbene sua nonna formulasse con acrimonia quelle lagnanze, era troppo tardi per lei: non avrebbe mai potuto fuggire. «Per tutta la vita ho vissuto intorno agli uomini» stava dicendo irosamente la vecchia. «Li conosco, gli uomini. Le donne no. Con le donne non ci parlo. È meglio lasciarle stare. Anche tu sei un uomo, ormai, alla tua età, hai buon senso, con te posso parlare. Giusto? Ma tua madre...» Sicché ricominciava daccapo con sua madre. Jules disse, evasivo: «Oh, lascia stare in pace Ma'». «E lei mi lascia in pace? Mi consente mai di dimenticare nella casa di chi sto abitando? Mi limito a domandarti questo, mi affido al tuo buon senso. Di' la verità. Mi lascia in pace, forse?» «Non lo so.» «Una casa di matti, aperta a tutti in quel modo. Gente che va e viene, quelle sue amiche, loro, quelle donne non hanno niente di meglio da fare che trascinare attorno il deretano avvolte in un accappatoio e bere birra per tutto il pomeriggio, e giocare a ramino continuamente. Non c'è da stupirsi se Howard rimane fuori fino a tardi, non posso fargliene una colpa. E tua sorella Betty finirà male...» «Questo è affar suo.» «Tua sorella Maureen è troppo pelle e ossa.» «È okay.» La vecchia succhiò la sigaretta. Jules notò con la coda dell'occhio che non sapeva fumare con grazia. «Mio figlio Samson mi si è messo contro, non c'è che dire» ella soggiunse, lanciandosi in un altro dei suoi argomenti prediletti. Quando Jules non le rispose, disse confidenzialmente: «È il solo che abbia cervello. Ne ha. Il povero Howard era rimasto in piedi dietro una porta, o non so dove, durante la distribuzione dei cervelli. Quando Samson era ancora un bimbetto, ho dimenticato quanti anni avesse, si divertiva già a riparare questo o quest'altro. Come per esempio l'automobile, il tostapane, cose del genere, il forno, i fili dell'impianto elettrico e così via. Adesso si è affermato alla Ford, per me è una gran festa andare da lui, sua moglie
crede che dovrei baciarle quei piedoni o che so io, ma io me ne sto seduta sulla poltrona e mi guardo attorno e non dico molto. Penso parecchio, però. E lei capisce quello che penso. Ma a loro non chiedo mai niente... possono aspettare che geli l'inferno prima di sentirsi chiedere un centesimo da me, anche se hanno un mucchio di soldi. Non appena lo volessero, potrebbero ospitarmi. Hanno una stanza al piano di sopra. Non do nessun fastidio, posso cucinare per mio conto, ma no, niente. Devo stare con Howard, devo stare con i tuoi genitori, che hanno già le loro rogne, e per giunta abitano in una topaia nella Ventesima Strada. No, dico per dire, Jules, non mi fraintendere. Non mi fraintendere...». E così via e così via, con quel monologo, scherzoso, iroso, lamentoso, mentre Jules si proteggeva dalle offese più amare tenendo gli occhi fissi verso lontananze nebulose. Ella disse: «Quel loro bambino nato con un difetto al cuore... gli sta bene, specie a lei, con quella sua faccia sdegnosa e quei piatti di vetro molato e tutte le altre bagattate alle quali tiene tanto!». Alcuni anni prima Loretta aveva dato alla luce un bambino affetto da un vizio cardiaco, un maschio, morto all'età di diciotto mesi. «Va bene, va bene, nonna» disse Jules. «La gente ha quello che merita. Vedrai.» «Va bene, ti prego.» «Be', non dipende da me! Non sono io a volerlo! Sarà Dio a vendicarsi, a suo tempo. Io non giudico e non mi aspetto niente» disse in tono velenoso. Jules vide l'autobus che stava arrivando. Sollievo, gratitudine. Guidò la vecchia su per i predellini e lungo il passaggio, timoroso che potesse cadere... era già caduta più di una volta, malamente, ed era toccato a lui riportarla a casa. Sua nonna non era certo una vecchia leggera di ossa, ma sembrava un vecchio obeso e pesante come piombo, i cui stessi muscoli lo ostacolassero spasmodicamente. L'autobus sapeva di gas di scarico e di sudore. Jules sedette accanto a sua nonna, ma sporgendo a mezzo nel passaggio, per lasciarle più posto, e si interessò al tragitto. Un giorno cambierò tutto questo, pensò con un lampo di gioia. Immaginò una zona deserta, un territorio dell'Ovest; un cielo dorato, o forse un dorato campo di frumento... montagne... fiumi... qualcosa che non figurava sulle carte. L'autobus procedeva adagio. Fermate e partenze. Gli occhi di Jules osservarono gli altri passeggeri e non videro alcunché di interessante; aveva già veduto altre volte tutta quella gente. Concentrò infine la propria attenzione su una donna, una donna molto graziosa. Gli piacevano le donne.
Sentiva il polso battergli più in fretta alla vista di ogni donna che avesse un minimo di attrattive, e riusciva a trovare aspetti attraenti quasi in tutte, un guizzo nervoso degli occhi, un modo particolare di tirar giù la gonna. Avendo vissuto cosi vicino a sua madre per tanti anni, ma, ciò nonostante, a una certa intelligente distanza da lei, capiva lo smarrimento delle donne di Detroit. Erano smarrite, confuse, timorose. Egli sognava di offrir loro la sua intelligenza, di mettersi al loro servizio, aiutandole a fare un tragitto in autobus, o ad attraversare la strada, o quando i mariti rientravano ubriachi. La donna che lavora in una lavanderia automatica di Detroit è solo in apparenza padrona delle macchine! La superiorità di una donna che guida l'automobile è soltanto apparente! Interiormente, i suoi meccanismi sono vacillanti e nervosi quanto i meccanismi della sua automobile, che possono essere stati montati alla meglio da qualcuno silenziosamente iroso quanto il padre di Jules, il quale lavorava ora alla catena di montaggio della Chrysler. Jules cominciò a sorridere pensando alle donne. Attraverso il pallido gonfiore di sua madre vedeva un viso grazioso - non aveva bisogno che glielo ricordassero le istantanee mostrate da lei con compiacimento - e sebbene ella avesse le gambe grosse, riusciva a immaginarle snelle e graziose negli anni che avevano preceduto la suocera, e il bambino affetto da un vizio cardiaco e il russare notturno di Howard, che teneva Jules desto per molte ore e innalzava il suo odio fino a un culmine appassionato. Sua sorella Maureen aveva una bellezza delicata e intelligente che gli piaceva; era sua sorella e in istrada si sentiva fiero di difenderla. A Betty si interessava meno. Era forte e svelta e sapeva badare a se stessa. «Perché pensi che Betty finirà male?» domandò a sua nonna. Quando ella meno se lo aspettava, finiva con l'arrenderlesi; c'era qualcosa in lui, come in sua madre, che propendeva verso la vecchia con una dolorosa e pavida aspettativa. La clinica era un edificio nuovo, costruito in economia, alto un solo piano, con un parcheggio delimitato da una recinzione che sembrava fatta di cartone marrone nuovo, ma che era probabilmente di legno. Jules condusse dentro la nonna; già spossata, ella si lasciò cadere con un'espressione di rancore, su una sedia. I passeggeri dell'autobus si trovavano già lì. O altri come loro. Gente di Detroit... madri polacche, bambini polacchi, vecchi disoccupati, uomini di mezza età disoccupati, poveracci della previdenza, i malati, i moribondi, i prematuramente brizzolati e i prematuramente sciupati, tutti lì seduti a fissarsi a vicenda con occhi sofferenti e sospettosi. I bianchi fissavano i bianchi e i negri; i negri fissavano gli altri negri e i
bianchi. Ogni volta che entrava qualcuno, tutti lo guardavano con una sorta di speranza, e poi tradivano delusione. Era misterioso, questo rituale. Alcuni pazienti uscirono dalle stanze interne dell'edificio e parvero aver finito per quel giorno. Indossavano i cappotti nel modo umile e rassegnato della gente che vive di carità, già a mezzo fuori della porta quando la manica sinistra era conquistata, a capo chino, gli occhi vendicativi e apprensivi. Jules per poco non si addormentò in piedi, tanto le lampade fluorescenti erano ipnotiche, e l'odore dei corpi non lavati soffocante ma al contempo propizio al sonno; pensò sognante alla ragazza della sua classe che adorava adesso, e pensò all'esistenza che avrebbe condotto quando avesse terminato le scuole e fosse stato finalmente un uomo, un'esistenza che avrebbe implicato mantenere la sua famiglia per poi affrancarsene. Dapprima li avrebbe mantenuti in modo che vivessero come tutti gli altri. Quindi si sarebbe sottratto alla loro tutela. In ultimo cambierò la mia vita, pensò. Sarebbe andato in California. Aspettarono. La prima ora trascorse adagio. Alcuni bambini magrissimi stavano giocando nella sala d'aspetto. Rovesciarono un posacenere. La madre, una donna molto esile, irascibile, li schiaffeggiò e poi si dimenticò di loro. La segretaria si sporse oltre la scrivania e disse con voce cortese ma tagliente: «Per favore, tenga tranquilli quei bambini». Stettero buoni per qualche tempo, imbronciati e annoiati, poi ricominciarono a far guizzare le gambe ed eccoli di nuovo in piedi, a correre qua e là. Un uomo dalla testa tremolante disse a un tratto, a voce alta: «Sto aspettando qui dalle nove! Mi hanno detto di venire alle nove. Ero qui prima ancora che aprissero le porte!». La segretaria lo fissò; era una donna piuttosto giovane, dalla faccia severa e rugosa. «Come si chiama, per favore? Si avvicini alla scrivania, prego» disse. L'uomo parve non udirla. Aveva una faccia rossa da bevitore di birra e un grosso naso, tutto pori e punti neri. Disse alla nonna di Jules, scorgendo una certa affinità nel suo cipiglio spazientito: «Qui danno pillole che contengono farina. In questo posto mettono bolle d'aria nel sangue per far crepare la gente. È tutto gratis». Nonna Wendall, sempre imprevedibile, lo trattò con disprezzo. La seconda ora sconfinò nella terza. Jules era sempre in piedi, troppo stanco anche per cercare un posto a sedere. I bambini continuavano a giocare, passando da un lato all'altro della stanza; altri ragazzetti si erano uniti a loro. Un bimbetto negro sui cinque anni si faceva piccolo dietro la coscia della madre, osservando i bambini bianchi. Si succhiava rumorosamente il
pollice. Finalmente la nonna di Jules venne chiamata. Si alzò; lui l'aiutò a entrare nell'ambulatorio, imbarazzato dalla sua goffaggine; non riusciva mai a capire se esagerasse le sue sofferenze o se soffocasse il dolore. Quando tornò indietro, il posto di lei era stato occupato da una donna grassa, per cui rimase di nuovo in piedi. Una strana e fredda pazienza lo pervase. Prese una copia del Saturday Evening Post e lesse un articolo sulla palla ovale. Lo lesse attentamente, come se stesse leggendo qualcosa che proveniva da un altro pianeta: ma qualunque cosa si sapesse, poteva servire. Gli sport non lo interessavano affatto. Tutta quell'energia sperperata tra ragazzi, per uno scopo futile, senza alcun profitto, gli sembrava una cosa stupida, eppure certe persone prendevano sul serio gli sport... perché li prendevano sul serio? Prese un numero del National Geographic Magazine con impronte digitali di sangue sulla copertina. Le fotografie lo affascinarono, era come se gli dessero strattoni agli occhi ed esclamassero: Guarda, guarda qui, guarda questo orizzonte, guarda questa formazione di rocce, guarda questo capo africano, guarda, perché ti trovi qui, chi sei? Rimise al suo posto la rivista e sfogliò un numero di Time. Lesse dei negri d'America - "Un decennio di prosperità" - del conseguimento dell'uguaglianza, della giustizia, della prosperità a Harlem; lesse l'articolo più importante a proposito di un indiano a nome Vinoba Bhave. «Sono venuto a saccheggiarvi con l'amore» diceva quest'uomo. Jules lesse, affascinato: «Apparteniamo tutti a una sola famiglia umana». Vinoba Bhave aveva letto soltanto tre libri, gli Elementi di Euclide, le Favole di Esopo, il Bhagavad Gita. Jules cominciò a entusiasmarsi: anche lui avrebbe letto quei libri. Se li sarebbe procurati sin dal giorno dopo. Vinoba Bhave diceva: «Il mio scopo è quello di trasformare l'intera società. Il fuoco si limita a bruciare... Il fuoco brucia e fa il suo dovere. Spetta agli altri fare il loro». Queste parole gli rimasero impresse nella mente, nonostante il tirar su con il naso della signora grassa. A lui sarebbe piaciuto, pensò Jules a un tratto, non essere un santo, precisamente, ma condurre un'esistenza secolare analoga a una vita sacra... una vita moderna, a qualunque costo... tale da espanderlo al di là dei limiti della sua epidermide e della portata del suo sguardo. Poteva riuscirci. Gli occorrevano soltanto tempo e un certo spazio in cui muoversi. Il fuoco brucia e fa il suo dovere... Poteva credere nel fuoco e in se stesso. Anche lui avrebbe fatto il suo dovere. Negli Stati Uniti d'America carte geografiche complesse vengono regalate in ogni distributore di benzina, basta
chiedere per averne una, tutti quei dati preziosi regalati... per quanto concerne questo mondo esistono innumerevoli dati, montagne di nozioni e di meraviglie, ma per quanto concerne quell'altro non v'è nulla, e così Jules se ne distaccava senza rincrescimento. Credeva in se stesso. Non confidava in nessun altro. Espulso dalla scuola delle suore per aver picchiato un piccolo bastardo italiano, era stato scacciato anche dalla routine del servire la Messa durante la settimana. Tutte queste cose erano finite. E in ogni modo, la scuola pubblica gli piaceva di più. Le insegnanti non piangevano. Si adiravano, ma non piangevano. Sentiva soltanto la mancanza delle lunghe vesti scure, delle maniche e dei rosari nervosi delle suore, quelle femmine asessuate, ma molto femminili, austere e di buon cuore, ma indotte facilmente a una violenza a occhi stravolti... ognuna di esse una madre per lui, pronta a essere adorata come una Maria Vergine; anche se aveva il fiato un po' acido e se dalla mascella le sporgeva qualche pelo, non importava. Ne sentiva la mancanza. Ma non sentiva la mancanza della chiesa, della prima Messa mattutina, dei quadri di Gesù adulto e bambino, glorificato, sanguinante, morente, morto, o risorto, in un'estasi di potenza. Gesù non gli era mai piaciuto. Lo aveva infastidito l'interessamento delle suore nei Suoi confronti. Lui, Jules, sarebbe stato un uomo migliore, o per lo meno un uomo più capace... perché non tutti i regni della terra? Perché no? I regni della terra andavano soltanto a qualcun altro. Questo era storia. Passò ancora un'ora. Sua nonna si trovava sempre di là. Erano entrate altre persone e rimanevano in piedi contro la parete; non pensavano nemmeno a sbottonarsi i cappotti. Jules cercò di non pensare a sua nonna che lottava in qualche stanza là in fondo, combattendo una battaglia perduta con qualche infermiera. Quale terrore nel sudiciume della biancheria intima di sua nonna e nei segreti della sua vita femminile di un tempo! Ogni volta che ella veniva alla clinica, si svolgeva una battaglia. Perdevano le sue cartelle cliniche, o non riuscivano a rintracciarle; il suo medico era fuori a sorseggiare un caffè; soffiava una corrente d'aria da qualche finestra; un'infermiera impaziente diceva in tono ringhioso che quasi tutti i pazienti si lavavano soltanto prima di presentarsi alla clinica. La vecchia usciva imprecando. A voce troppo alta, agitandosi goffa e clamorosa nella sala d'aspetto, rendendo noto a tutti che lei, lei non intendeva subire un simile trattamento. Dopo un'altra ora interminabile, ella apparve. Le era accanto un'infermiera che la sorreggeva. Jules le si fece subito incontro e le tolse di tra le dita i foglietti delle ricette. Vide dalla sua faccia che le notizie erano catti-
ve. L'aiutò a infilarsi il cappotto, la condusse fuori e fino all'angolo e aspettarono l'autobus. Un altro autobus. A Detroit. Nel pomeriggio. Stava impiegando una parte eccessiva della sua vita ad aspettare autobus, pensò Jules. Nonna Wendall taceva. La sua grossa faccia brutta e pallida come pasta per fare il pane era voltata dall'altra parte. Jules disse, in tono allegro: «Non c'è che dire, ti fanno aspettare in quella dannata clinica!». Sua nonna annuì. «Quale medico ti ha visitata, stavolta?» «Non lo so.» «Non lo sai? È stato il solito, quello con gli occhiali?» Lei si strinse nelle spalle. «Credevo che ti fosse simpatico. Non sai chi ti ha curata?» «Come posso saperlo?» scattò lei. «Che cosa dovrei sapere, io? Dovrei sapere tutto quello che succede? Sono vecchia, il mondo è merda per me, non parlarne più! Tu con le tue scarpe a punta e i calzoni stretti, chiudi il becco!» A un tratto gli venne voglia di piangere. Era ormai il tardo pomeriggio quando la riportò a casa. Abitavano in una casa di due appartamenti, in una viuzza stretta, tranquilla, con un gran numero di cani e di bambini nel vicinato. A meno di tre isolati di distanza risiedevano messicani, ma non erano come i negri. In casa non c'era nessuno tranne Loretta che, al tavolo di cucina, si stava togliendo forcine dai capelli. Guardò nonna Wendall con un'aria colpevole e allegra al contempo. Domandò: «Ebbene?». «Ebbene, che cosa?» domandò nonna Wendall. Si tolse l'orrendo cappellino e rimase in piedi tenendolo in mano. «Come stai? Che cosa ti hanno detto?» «Ce le ha lui le ricette per le pillole.» «Che cosa hanno detto?» «Chi lo sa che cosa hanno detto?» «Gli hai detto del sangue?» La vecchia sorrise sprezzante a Loretta. «Puoi fare a meno di domandarmi che cosa gli dico e che cosa non gli dico. Ti riguarda, forse? Gli dico quello che mi salta in mente. Parlo con il dottore faccia a faccia. Non riguarda nessun altro.» Loretta si passò le mani sul viso. «Va bene. Quand'è che devi tornarci?»
«Tra quattro giorni.» «Quattro giorni!» Nonna Wendall andò in camera sua. Loretta si tolse le mani dagli occhi come una bambina e guardò Jules. Jules cercò di sorridere, poi sorrise. «Orina sangue» disse Loretta. «Scommetto che non gliel'ha detto. Nasconde sempre qualcosa. Ha segreti dei quali tutti si infischiano.» «Perché non avrebbe dovuto dirglielo?» osservò Jules. «Vuole guarire.» «I moribondi non vogliono guarire» disse Loretta. Jules la lasciò. Andò in bagno, si lisciò i capelli all'indietro, poi si recò al lavoro. Lavorava in un negozio di liquori. Aiutava a scaricare l'autocarro che portava la merce e ci viaggiava su; non vedeva l'ora che giungesse il giorno in cui avrebbe potuto guidare l'autocarro egli stesso. Ma ora continuò a pensare a sua nonna che perdeva sangue, che perdeva sangue nella tazza del gabinetto, la faccia chiusa su segreti e sofferenze; e continuò a pensare a quell'indiano del quale non riusciva proprio più a ricordare il nome. Apparteniamo tutti a una sola famiglia umana. Si domandò se fosse vero. La sua mente seguitò a girare e rigirare il concetto, affascinata. Il negozio di liquori si trovava in Fort Street. Le consegne venivano fatte fino a Grosse Pointe, e, sebbene non lo pagassero molto, gli piaceva l'aspetto costoso delle bottiglie e i loro nomi fantasiosi; gli piaceva stare attorno al successo; gli piaceva girare sull'autocarro e scaricare i liquori agli ingressi di servizio delle grandi dimore. Si sforzò di escludere dalla propria mente il pensiero di sua nonna, quella vecchia dagli organi interni che perdevano sangue e colavano, e dal cuore insaporito con veleno... ma non era meglio pensare al giorno dopo, alla scuola del giorno dopo, ai compiti che non avrebbe avuto il tempo di fare. Pensò invece a un Jules più anziano, a un Jules affermato. Cresciuto dal ragazzo che egli era adesso e divenuto un uomo con il successo in pugno. Si domandò in quale forma avrebbe raggiunto il successo... niente di ovvio come i liquori, come l'essere proprietario di un negozio di liquori, niente di così banale. Lavorò fino alle sei, poi si diresse verso casa passando per i vicoli. Era spossato, ma una sorta di rapimento penetrò in lui nell'aria man mano più buia, umida, nebbiosa che lo celava così bene e gli consentiva di scorgere soltanto vagamente le forme delle automobili, degli autocarri e degli altri passanti. In momenti simili gli accadeva di pensare che sarebbe potuto passare inosservato attraverso la città, conoscendone le viuzze nascoste e sapendo come rendersi invisibile; fantasticò di essere il personaggio di un libro scritto da lui stesso, un quindicenne immaginario con la capacità di
diventare qualsiasi cosa, proprio perché era immaginario. Che cosa non avrebbe potuto fare di se stesso? Ogni sera sua madre si lagnava per i soldi, ogni sera suo padre sedeva silenzioso, covando odio, un uomo squattrinato, ogni sera nonna Wendall lanciava frecciate velenose parlando di qualcuno che aveva cervello ed era arrivato alla vetta... vale a dire di qualcuno che aveva soldi. Il suo amico Ramie Malone non faceva che parlare di soldi, di far soldi, di fregare qualcuno per i soldi; parlava di suo fratello che aveva un deposito di automobili usate e vendeva macchine scassate a gonzi che non sapevano leggere, e tanto meno leggere le clausole relative agli interessi... polacchi, negri, spagnoli, messicani, tutti pronti a lasciarsi turlupinare e tutti turlupinati. Turlupinati a non finire. Jules non riusciva a pensare esclusivamente ai soldi. Se era il personaggio di un libro scritto da lui, perché i soldi avrebbero dovuto trattenerlo? Sarebbe diventato ricco, ma soltanto per navigare sulle sue ricchezze. In primo luogo avrebbe sistemato la famiglia, per poi liberarsene, agile e scaltro, e allontanarsi galleggiando su quell'oceano che era l'America, attraverso l'intera America, fino alle praterie del Midwest e alle Rocciose sulla costa ovest, ove si celava il futuro dell'America, in attesa di persone come lui. Avrebbe potuto cambiare nome. Avrebbe potuto cambiare aspetto in cinque minuti. Avrebbe potuto modificare se stesso e divenire qualsiasi cosa. La giornata lo aveva spossato. Si abbandonava a queste fantasticherie come se la stanchezza fisica spalancasse le porte della sua mente e, negli squallidi e pericolosi minuti dopo il ritorno a casa di suo padre e prima che la cena venisse portata in tavola, sedette ozioso accanto alla radio, perduto in un sogno, pallido e inerte. Non era un mezzo Alan Ladd in Shane, non era un mezzo Marlon Brando? Ma si confondeva con le persone alla clinica, con la signora grassa e con l'uomo dalla testa tremolante, con i ragazzini chiassosi. Era stato là. Era uno di loro. Ascoltò le notizie sulla Corea... "speranza in una tregua". Bene, splendido. Porte continuavano ad aprirsi e a chiudersi nella sua mente. Prese il secondo supplemento del giornale e lo sfogliò. Una notizia attrasse la sua attenzione: un texano di diciannove anni aveva avuto in dono diciannovemila dollari da un proprietario di ranch della California. Un dono di diciannovemila dollari. I due erano diventati amici in un carcere del Texas, ove il proprietario di ranch scontava una condanna a vita per aver ucciso sua moglie. Aveva regalato al ragazzo diciannovemila dollari perché diventasse onesto. Il giovane si era sposato con una ragazza della quarta media, aveva comprato una lussuosa automobile e si stava dando da fare per diventare onesto...
Lui non sapeva che farsi di diciannovemila dollari, pensò amaramente. Voleva un luogo solitario, una radura nei boschi, qualcosa di simile alla vecchia fattoria della sua fanciullezza, ove aveva vissuto un'altra nonna Wendall. Lì accanto, suo padre beveva birra allo zenzero dalla bottiglia. La camicia azzurra di suo padre era macchiata di sudore. I capelli gli si erano diradati, ma in modo irregolare; aveva la fronte incisa da rughe; sembrava che si stesse trasformando in una versione di sua madre. Quell'uomo chiuse ogni porta nella mente di Jules. Il ragazzo non riuscì a ricordare più nulla, nemmeno la notizia del giornale. Accorgendosi che Jules lo fissava, suo padre disse a un tratto: «Frequenti ancora quel ragazzo, quel Malone?». «Perché?» «E quell'altro, come si chiamava, quel piccolo bastardo dagli occhi sporgenti, quel piccolo bastardo?» domandò suo padre. Jules finse di essere assorto in riflessioni. «Roszak, vuoi dire. È in prigione» si intromise Betty, entrando in salotto dalla cucina. Sedette sul bracciolo del divano e agitò le dita sudice dei piedi, sporgendosi verso Jules. «In prigione dove?» domandò Jules, sebbene sapesse che era vero. «È un miracolo se non sei con lui» disse Betty. «Non sono suo amico» disse Jules. Si sentì formicolare il cuoio capelluto, sapendo che stava rasentando un guaio, ma, chissà perché, suo padre lasciò correre. Betty sorrise a Jules. «Ficcheranno dentro anche Ramie Malone. Quel somaro borioso!» «Che cosa ne sai tu?» domandò Jules. «So anche troppo.» Era una ragazzetta tozza di undici anni. V'era in lei qualcosa di inflessibilmente precoce, come se in realtà non avesse avuto undici anni, ma venti, o trenta, o quaranta, e fosse rimasta nana ma compiaciuta di se stessa. Jules vedeva spesso individui come lei a Detroit... di solito uomini, dai passetti brevi e affrettati, dai modi scattanti, impacciati, goffi, sagome che ti facevano venir voglia di prenderle a calci. Le fattezze di Loretta sembravano sommerse a mezzo nella faccia di Betty, fattezze che sarebbero state graziose, ma erano ottuse, le labbra troppo tumide, il naso troppo largo, come se Loretta e Howard si fossero messi insieme in un momento di buon umore da ubriachi e avessero plasmato una faccia con l'argilla, ognuno batten-
dosi per rappresentare il proprio aspetto. Ella capeggiava una banda di monelli, ragazzine della sua età e alcuni ragazzetti più piccoli, che si sfrenavano per le strade e combinavano piccoli disastri. Il babbo sedeva di fronte a loro, di nuovo silenzioso. Doveva pensare a qualcos'altro, e non li udiva. A che cosa stava pensando? Al suo lavoro? Alla madre malata e puzzolente? O alla propria pensione della previdenza? O all'automobile che si era di nuovo guastata? Alla pigione di quella topaia di casa? O ai negri che si stavano trasferendo a pochi isolati di distanza? O al ciabattare astioso di sua moglie in cucina? O alla cena, alle costolette di maiale che stavano sfrigolando nella padella? A che cosa pensava? Jules era certo che non stesse pensando alla speranza di una tregua in Corea, e se anche la United Automobile Workers chiedeva maggiori indennità di malattia e un aumento delle pensioni, lui non stava pensando a questo, perché avrebbe dovuto? Né pensava a Betty che lo spronava a dare uno schiaffone a suo figlio, come suo figlio meritava; e nemmeno pensava alla lampada verde del sostegno a forma di campana sul tavolo accanto a lui, né al Detroit News, letto soltanto a metà, sul pavimento, né al radiatore sormontato dalla mensola di finto legno sulla quale si allineavano uccellini di vetro, né al ritratto di profilo di una signora graziosa, alla parete, con il nasino altezzoso, uno degli abbellimenti di Loretta, né alla fodera rossa, sudicia e lacera del divano, né alle scarpe di tela sfondate di Jules, né ai denti guasti di Betty... Sotto il cristallo del tavolino da caffè si trovavano istantanee di famiglia. C'erano tutti. Jules vi figurava poppante, bimbetto imbronciato, dodicenne pelle e ossa; vi figuravano Betty e Maureen, Betty ancora piccola, Maureen magrissima a dodici anni; vi figurava Loretta in una vistosa, smagliante istantanea a colori, vestita di giallo, con un cappellino color canarino in testa e un bambino in braccio, forse quello che era morto; e vi figurava nonna Wendall, manco a dirlo, con l'aria di una ipocrita ubriacona, in un vestito blu-mare, agghindata per la domenica; c'era persino Howard, senza la pancia, in una fotografia un po' nebulosa, mascherato da soldato. Jules sentì che la mente gli si annebbiava. Che cosa stavano facendo insieme tutte quelle persone e quelle cose, che cosa gli stavano facendo? Poche settimane prima, aggirandosi nel vicinato con Ramie e con alcuni altri ragazzi, Jules aveva veduto suo padre e sua madre uscire da una rosticceria con annesso gioco delle bocce e nella luce al neon color birra, loro due erano sembrati molto... molto sposati, uniti da una grande intimità, assorti in una conversazione interrotta dalle risate latranti di Howard e
da un fanciullesco scuotere il polso di Loretta, un gesto che sembrava voler dire, Ehi, non è buona questa? Jules era rimasto scosso pensando che sua madre e suo padre potevano andare d'accordo, a volte. Loro non ne sapevano niente, ed era una vergogna che lui non potesse appartarsi con Loretta e dirle: «Be', la situazione non dev'essere poi così brutta, perché diavolo ti lamenti sempre di lui? Dico, vi ho visto ridere insieme per la strada, una sera, voi due...». Maureen venne a chiamarli per la cena. Jules aveva appetito, ma uscì dal salotto con paura. Là in cucina poteva accadere qualsiasi cosa. Bisognava che si concentrasse, mangiando in fretta e sbrigandosi per uscire e andare al lavoro. Sedette tra Maureen e il babbo, al suo solito posto. Incerto, pensò al futuro: a quella sera, e al giorno dopo, e al vero futuro. Il futuro era importante, non il presente. Quei minuti trascorsi intorno al tavolo per la cena, quei dieci o quindici minuti che doveva superare, non rivestivano alcuna importanza, se non per il fatto che facevano parte di un processo il quale conduceva al futuro, un futuro che sarebbe stato una bella sorpresa, ne aveva la certezza. Incominciò a servirsi. Suo padre si sporse oltre il proprio piatto e tagliò un pezzo di carne con l'orlo della forchetta. Betty urtò il tavolo facendolo vibrare. Maureen lasciò cadere una mano sull'orlo del tavolo, malinconicamente, soltanto per un momento. Loretta si appoggiò al tavolo, per cui i suoi grossi seni, entro il vestito, si delinearono. Riuscì loro irritante e penoso dover pensare a nonna Wendall, perché non era venuta a tavola. «Dov'è la vecchia?» domandò Howard. «Si è coricata» disse Loretta. «Sta di nuovo male?» «Oh, le duole qualcosa. La cistifellea.» Betty prese un pezzo di pane. Aveva una cicatrice non molto visibile sul braccio sinistro, dal polso al gomito; la madre ubriaca d'una sua amica le aveva lanciato addosso un ferro da stiro rovente, asserendo che Betty stava picchiando sua figlia, ma Betty aveva sostenuto che in quella casa erano tutti matti e che la vecchia un momento prima stava stirando panni e un momento dopo le era saltato in mente di scagliarle il ferro addosso. Jules smise di pensare a Betty. Pensò alle strade di notte, che lo eccitavano, e alla ragazza della quale era innamorato a scuola, una ragazza che andava a scuola di giorno e non lo degnava di uno sguardo, ed era lievemente imbarazzata dalle sue premure. Ma lui ne aveva un'altra, una ragazza dai folti
capelli neri, che gli stava sempre appiccicata... «L'hai trovata quella tavoletta da disegno?» domandò Maureen a Betty. «L'ho perduta.» «Come hai fatto a perderla?» «A scuola.» «È qualcosa che dovrò pagare?» volle sapere Loretta. «Dirò alla suora che l'ho perduta.» «Forse l'ha rubata qualcuno» disse Maureen. «Sicuro che l'ha rubata qualcuno.» «Probabilmente l'hai rubata proprio tu» disse Loretta con aria saputa, ma distrattamente. Lasciarono cadere l'argomento. Maureen si guardò attorno a tavola con i velati occhi verdi, era una ragazza placida dalle braccia sottili e dal collo sottile; aveva intorno agli occhi ombre malinconiche. A tredici anni, frequentava la terza media nella scuola delle suore. Tornò a fissare Betty. «L'hai rubata?» domandò. Betty fece una smorfia. «Quanto è grave la nonna?» «È okay.» «Morirà?» domandò Betty. «Sta' zitta» disse Loretta. «Sì, continuate a dirmi di stare zitta, continuate a dirmi che ho rubato quella tavoletta da disegno che costa quaranta centesimi» gridò Betty. «Dovrei starmene seduta qui e tacere?» «Tieni la bocca chiusa, hai capito?» disse Loretta. «Tienila tu la bocca chiusa!» disse Betty. Mangiarono. Jules fissava il centro della tavola, ove il portasale e il portapepe erano separati. Le dita gli smaniavano dalla voglia di avvicinarli e di metterli uno accanto all'altro. Sarebbe accaduto qualcosa? Sarebbe stata questa la notte in cui avrebbe afferrato il coltello da macellaio conficcandolo nel vecchio? Proprio in quel grasso pancione? Ma se avesse fatto questo, pensò Jules, la fronte ricoperta da una pellicola sottile di sudore, se avesse fatto questo, allora avrebbe posto termine troppo presto a ogni cosa. Quindici anni, era troppo presto per farla finita. Le suore, e sua madre, e la nonna, e persino alcuni poliziotti, non gli avevano garantito forse che non sarebbe arrivato oltre i vent'anni, la qual cosa significava che avrebbe vissuto almeno fino a vent'anni? Vent'anni d'età
erano una meta remota, mostruosa; non ce l'avrebbe mai fatta. Un vasto, selvaggio, indesiderato deserto, vent'anni d'età, e non gli sarebbe dispiaciuto affatto morire. Ma a quindici anni era giovane. «Ethel lavorerà in un salone di bellezza» disse Loretta. Howard non disse niente. «Ieri siamo andati a vedere un film. Ha vinto un piatto offerto in premio... è sempre fortunata, lei. Io per niente.» «Non l'ho rubata io quella tavoletta da disegno» disse Betty. «Qualcuno l'ha rubata a me.» «Ti ho detto di tenere chiuso il becco su questa storia.» «Be', nessuno può dimostrare che l'ho rubata.» Jules sorprese l'espressione da roditore, spaventata, di Betty, e si disse che doveva averla rubata lei; era già stata sorpresa a rubare, in passato, e aveva sempre negato. Negato tutto. Era il suo stile, stupido ma deciso, negare anche l'ovvio. «Molti bambini prendono cose a scuola» disse Maureen. «Suor Mary Margaret è entrata nello spogliatoio, oggi, e ha detto di aver trovato nella tasca del cappotto di qualcuno qualcosa che non sarebbe dovuto essere lì, e che il colpevole avrebbe fatto bene a restituire l'oggetto, ma non ha detto chi era stato. Era proprio arrabbiata. Nessuno aveva fatto niente. Ha girato per l'aula domandando chi le aveva preso il calendario, era un piccolo calendario sulla sua cattedra, e lo ha domandato a tutti, uno per uno, ma tutti hanno detto di non saperne niente. Ho avuto paura quando si è avvicinata a me. Ha detto: "Maureen, tu lo sai, vero?". Ho risposto di no. Tenevo le dita incrociate, anche le dita dei piedi.» «Chi lo aveva preso?» domandò Betty. «Oh, quel Floyd o forse Anna Cruise, non lo so, non li frequento quei tonti.» «Che cosa avrebbero potuto farne?» «Gettarlo via, ha detto qualcuno.» Loretta alzò gli occhi, a un tratto. «È lei a fare questo baccano? La vecchia?» Nessuno aveva udito niente. Maureen disse: «Vado a vedere». «Resta lì» disse Howard. «Stiamo cenando.» Jules fissò la tavola per qualche secondo, poi avvicinò il portasale e il portapepe. Vicini, avevano un senso. «Le occorrono altre pillole» disse Loretta.
Howard continuò a mangiare e non alzò gli occhi. «Ho detto che le occorrono altre pillole.» «Va bene.» «Be', tuo fratello Samson disse che le avrebbe passato venti dollari alla settimana, e lei gli rispose di andare all'inferno, sicché che cosa puoi aspettarti, adesso? Dobbiamo comprare tutte quelle medicine.» Howard non rispose. «Quelle pillole costano tre dollari ogni dannata volta! L'anno scorso prendeva un'altra medicina, poi le rifecero tutti i maledetti esami e le prescrissero qualcosa di nuovo...» Howard scostò il piatto, spingendolo verso il centro del tavolo. Aveva grosse mani cicciose. Jules guardò quelle mani e vide le mezzelune pallide delle unghie, una vista sorprendente. Loretta disse rabbiosa: «Quando cadrà morta stecchita, tuo fratello e sua moglie manderanno fiori. Faranno dire qualche Messa. Connie verrà qui con i torpedoni della Greyhound e avrà un altro bambino in salotto. Vorrà restare qui, in modo che io possa servirla. La tua dannata famiglia si trasferirà tutta qui, prima o poi. Bene, si accomodino». Howard la guardò. «Di che cosa stai parlando?» disse. «Se Connie viene a Detroit...» «Viene?» «Tua madre dice che forse verrà.» Howard parve ascoltarla, ma non disse niente. Loretta soggiunse, sporgendosi in avanti, contro il tavolo: «Be', io non la voglio! Eh no! Ho già Maureen qui a oziare. Non voglio averne due a ciondolarmi tra i piedi!». «Io non ozio» disse Maureen, sorpresa. «Non ospito nessun altro! Sto già badando alla vecchia, adesso, e che cosa ne ho in cambio? Niente! Ha detto al tuo dannato fratello di andare all'inferno con i suoi soldi, e adesso che succede? Che succede, adesso? Devo starle dietro e pulire! Eh, certo! E lo ha detto ella stessa, tuo fratello disse di non volerti dare quei cento dollari, quella volta, perché li avresti spesi per te... ecco come ti giudica tuo fratello!» «Lo ha inventato lei.» «No. No, assolutamente no, tua madre non inventa niente, dice sempre la verità, non hai che da domandarglielo. Tutto quello che dice è assolutamente la verità, per questo la teniamo qui.» «Va bene» disse Howard.
«Va bene per te.» «Quanto è grave?» domandò Betty, facendo sussultare il tavolo. «Chiudi il becco, tu!» urlò Loretta. Howard si alzò a un tratto. Si guardò le mani. «Vuoi che ti schiacci in dentro la faccia?» disse con una voce strozzata e sommessa. Loretta balzò in piedi indietreggiando dal tavolo. «Provaci! Tu, maledetta, grossa troia che non sei altro, porco, fetente maialetto di mamma!» strillò. Maureen si mise le mani sulla testa. Betty si fece piccola. Jules si preparò a scappar via. Il babbo si diresse verso la porta di servizio, incespicando. V'era in lui, anche nella schiena di lui, un che di placido, di intenso, di oscuro; lo udirono borbottare tra sé e sé. Betty si portò la mano a pugno contro la bocca, per non ridere. «Arrivederci! Buonanotte! Dormi bene nel vicolo, insieme ai topi di chiavica! Sai qual è il posto che fa per te! Bastardo! Piccolo bastardo di mamma!» gridò Loretta. Aveva un'aria vigile, vivida. La mascella parve lampeggiarle duramente; poi prese a muoversi qua e là per la cucina, a girarvi attorno, molto forte con le gambe nude. Aveva vinto di nuovo. «È vero, e lo sa, lo sanno tutti, quando quella vecchia troia creperà, strillerà come un piccolo maiale, lo sanno tutti, sto forse dicendo qualcosa di nuovo? Gesù Cristo, quanto sono stufa di questa storia!» Prese la bottiglia della birra allo zenzero di Howard e bevve un sorso. «La nonna può sentirti» disse Maureen. «Ha le orecchie, che senta.» Loretta si lasciò cadere sulla sedia di Howard. «Sicché ha un'azienda sua di macchine utensili, una fabbrica, si mette negli affari. Vostro zio. Lo zio Samson. Sicché farà i soldi e sua moglie potrà sputarmi in un occhio, e vostro padre sopporterà tutto perché è un dannato stupido minchione e la sola cosa che sa fare è maltrattarmi, ma, quanto a lui, non riesce a guadagnare il becco di un quattrino perché è un maledetto tonto minchione. Sto dicendo forse qualcosa di nuovo? È una storia così vecchia, questa, accidenti, che non ne parlano nemmeno più alla radio. La sanno tutti.» «Sei davvero una bella sagoma» disse Jules. «Sta' attento a come parli. Chi è stato espulso dalla scuola delle suore perché non combinava niente, eh? Finirai come tuo padre, tu che ti credi tanto furbo.» «Non finirò come lui né come nessun altro.»
«All'obitorio prima di essere arrivato a vent'anni!» Spinse il piatto di Howard, scostandolo ancora. Prese un pacchetto di sigarette e ne accese una. Aveva una faccia liscia e accesa. Jules ricominciò a mangiare, sentendosi alquanto soddisfatto. Dopo un momento Betty disse: «Che film hai visto oggi, Ma'?». «Oh, era proprio bello, mi è piaciuto tanto» disse Loretta. Incominciava sempre in questo modo, quando parlava di film. «Che cosa raccontava?» «Era proprio bello. C'era una specie di trama complicata, a tutta prima non capivi che cosa stesse succedendo. Vuoi che te lo racconti? C'era una casa proprio grande, e una festa in corso, e il maggiordomo e le cameriere stavano sgobbando. Il maggiordomo è un gran bell'uomo, si accerta che tutto venga fatto a dovere, spegne un piccolo incendio provocato da uno stupido vecchio riccone con il suo sigaro, e una vecchia e ricca sgualdrina rimane chiusa a chiave nel bagno, e lui svita la serratura per farla uscire... questa scena proprio comica. Be', la storia riguarda questo maggiordomo e le cameriere, persone molto simpatiche, e l'autista, e il giardiniere, e alcune altre persone che lavorano là... si svolge a Filadelfia, la famiglia è ricchissima, sebbene in realtà abbiano fatto bancarotta, ma ancora non lo sanno. Il vecchio lavora in Borsa. Ha una figlia, un figlio e una moglie matta, una vecchia e ricca donna molto divertente, con parrucche e che so io... fa giochi di prestigio con le carte e suona l'arpa, è proprio fantastica, presta le sue parrucche alle cameriere, e così via. Bene, il maggiordomo legge il Wall Street Journal ogni mattina, prima che il vecchio scenda, per sapere che cosa succede in Borsa, e scopre, leggendo un titolo, che la famiglia ha fatto bancarotta. Ma non vuole dirlo perché il vecchio è malato di cuore e inoltre la figlia sta per sposare un banchiere francese. E il film racconta come il maggiordomo convince gli altri servitori a ingannare la famiglia. Danno un gran ballo per il fidanzamento della figlia, e tutto viene preso in prestito o rubato in vari posti come fioristi, gioiellieri, ristoranti e così via. Comico... era proprio comico!» «Alla fine che cosa succede?» domandò Jules, paziente. «Oh, la Borsa risale. La figlia si sposa. Il maggiordomo sposa una delle cameriere, sono in due a stargli dietro per tutto il film. Finisce benissimo» disse Loretta. «Vorrei poterlo vedere» esclamò Betty. «Trova quella tavoletta da disegno, bambina, e sarai sulla buona strada!» «Ti ho detto, Ma'...»
«Lascia perdere. Lascia perdere.» Loretta schiacciò il mozzicone della sigaretta in un piatto di purea di patate. «Senti, ragazzina, quel pigro bastardo di tuo padre mi ha fatto venire il mal di testa. E quella vecchia mi sta esasperando, cioè mi fa star male in un modo che le pillole non possono guarirmi. Voi piccole pesti credete di essere tanto speciali, ma non sapete un bel niente! Tu Jules, ti dai un mucchio di arie, ma non sai niente di niente. Non sempre sono stata così mal ridotta. Sono quei due a ridurmi così. Potrei sdraiarmi sul marciapiedi qui fuori ed esalare l'ultimo respiro, ecco come mi hanno conciata, ma non sono sempre stata così. Un uomo si fece uccidere a causa mia, gli spararono alla testa, lo fulminarono con un colpo alla testa, e accadde a causa mia, e nessuno verrà mai sparato alla testa a causa tua, cara la mia Maureen, con la tua topa acida e il tuo collo goffo, e nemmeno a causa tua, Betty, sembri un piccione o una bestiola che sta per figliare. Non sempre sono stata così, e quando mi sarò liberata di quella vecchia strega tornerò a lavorare, con Ethel. Mi libererò dal giogo di tutti voi e delle vostre bocche di saccentoni e di tutto quello che mangiate. Cristo! Sono stufa di tutto questo. Voglio essere come la gente in quel film, voglio sapere quello che faccio, non voglio essere sbalestrata da questa parte e da quell'altra. E adesso, se dobbiamo andarcene da questa casa, come stava dicendo qualcuno, se vogliono rifare la strada... ecco, è questo, è questo che mi fa impazzire. Ascolta, Jules, mi fa impazzire dover sempre andare da un posto all'altro. Ricordi laggiù in campagna? Poi venimmo a Detroit. Poi tutte quelle topaie, tutti quei tragitti in autobus. Non sopporto più di traslocare continuamente! Voglio un posto mio, una casa mia! Voglio essere come qualcuno in un film, voglio potermi vestire come si deve e percorrere la strada e sapere che accadrà qualcosa di importante, come quell'uomo che fu ammazzato a causa mia... come quel fatto... e sul mio letto di morte, Jules, ragazzo, ti rivelerò un segreto a questo proposito che ti scombussolerà, aspetta e vedrai. Non ero fatta per ridurmi così... bloccata qui, dico. No, davvero. Non sono mica come sembro, io. Voglio dire, questi capelli, e così grassa. Il mio aspetto in realtà non è questo, sono diversa. E la tazza del gabinetto si è rotta di nuovo, c'è acqua sul pavimento, e io me ne frego, non sono venuta al mondo per pulire tutti i cessi della città, o per badare a un vecchio pipistrello come quella là, che farebbe dovuta crepare da vent'anni. Né per lasciare che lui mi salga addosso, quel grasso bastardo! No, ascolta, non sono nata per questo, sul serio, e non è che sia ubriaca, adesso, e voi lo sapete. Vi sto dicendo la verità. Faccia a faccia. Vi sto dicendo quello che sento. Credete tutti di essere speciali, tutti
quelli che vengono al mondo credono di essere speciali, ma non siete più speciali di me. So io quello che valgo... Ho un monte di cose da fare e di posti da vedere, e questo non è tutto quello che esiste al mondo! No, questo no! Non per me!» Jules aveva slancio abbastanza per arrivare fino alla Decima Strada prima di tentar di farsi dare un passaggio. Percorse la strada all'indietro, il pollice alzato. Automobili gli passavano accanto, vicinissime, ma chi le guidava sembrava non scorgerlo; e anche Jules, con un'espressione di fredda ansia, sembrava non vedere gli uomini al volante. Una macchina dopo l'altra lo rasentava. Gli occhi di lui cominciarono a riempirsi di lacrime nel vento della primavera precoce che soffiava dal fiume. C'era nell'aria un odor di metallo e di fumo, ed essa aveva un sapore bagnato. Al centro di un misero isolato di edifici e di terreni da costruzione fu così fortunato da trovare un passaggio; l'uomo al volante lo portò fino in centro, fino al parcheggio dove lavorava. Lavorava per mezzo dollaro all'ora, dando una mano all'inserviente nelle ore di punta tra le sette di sera e le due del mattino, quando persone su automobili meravigliose venivano ad affidarle a lui o all'inserviente dalla testa incassata, un tale a nome Rich, che aveva forse trenta o quarant'anni. L'odore all'interno di quelle automobili destava in un modo mistico la concupiscenza di Jules, e il profumo delle donne che talora indugiava sul cuoio freddo o aleggiava tenue nell'aria mentre esse passavano avvolte nelle pellicce, con acconciature immacolate, faceva sì che il suo cervello esplodesse in frammenti d'una selvaggia speranza. Che automobili! Che donne! Che uomini, con cappotti e guanti perfetti, con scarpe superlative, con facce ben sbarbate, e capelli appena tagliati, tutto perfetto! Quelle persone erano dirette verso due o tre buoni ristoranti nei pressi, o allo SheratonCadillac, al lato opposto della strada, ove l'animazione ferveva non soltanto le sere del sabato, ma sempre, senza fine. Jules, rabbrividendo nella sua giacchetta, vestito apposta alla meglio, portava a marcia indietro le automobili al loro posto, con un grande rispetto per la loro bellezza, e non intaccava mai un paraurti o un parafango; riteneva di avere un tocco magico per le cose belle e costose, mentre quel deficiente di Rich non lo possedeva affatto, ma spingeva violentemente le automobili al loro posto, confidando nella fortuna. Rich se ne stava seduto nel gabbiotto dell'inserviente, divertendosi con un giochetto di plastica nel quale quadretti numerati da uno a venti potevano essere fatti scivolare da un punto all'altro; lo scopo era quello di allineare i numeri nell'ordine giusto. E mentre persone magnifi-
che gli passavano accanto e l'Hotel Sheraton-Cadillac proiettava le sue belle luci nella notte, formando un disegno scintillante che una creatura dotata come Jules era in grado di interpretare, Rich non vedeva altro che il piccolo e piatto rettangolo di plastica stretto nella mano, come se i misteri e i segreti del mondo fossero presenti in esso e già avessero dimostrato di essere troppo difficili per lui. «Ehi, guarda come ci sono andato vicino, questa volta» diceva Rich al ragazzo che sognava e meditava al suo fianco, e piazzava il gioco di pazienza sotto il naso di Jules... di Jules il quale non sapeva che farsi dei giochi e restava sempre un po' interdetto guardandoli e constatando quanta energia sprecasse in essi, e perdesse per sempre la gente. Rich aveva il collo corto e una piccola testa rotonda sulla quale un grigio berretto di lana sembrava essere stato calcato permanentemente; i suoi modi erano quelli di un bambino diligente ma tardo, più infantile di Betty, la sorellina di Jules, e i suoi frequenti sorrisi di apprezzamento non erano consolanti. Quando il parcheggio era pieno, il che accadeva spesso sin dalle nove, le sere dei weekend o dei mercoledì, e il periodo di calma si protraeva sin verso la mezzanotte, Jules rimaneva seduto, assorto nei suoi pensieri, fumando una sigaretta, calcolando quale fosse la distanza reale fino al lato opposto della strada e a quell'albergo. La distanza tra l'albergo e il parcheggio non era niente, ma la distanza tra il parcheggio e l'albergo era tutto; molte volte aveva aiutato qualcuno che si era lasciato andare a libagioni eccessive, posando con cautela le mani sul cappotto lussuoso dello sconosciuto, o chinandosi a raccattargli i guanti sul marciapiedi, ed era scaltro abbastanza per capire come i passi che facevano insieme, pur sembrando essere identici, fossero in realtà molto diversi. In realtà, non stavano affatto camminando insieme. Le mance di un dollaro o più che intascava a volte erano un indizio di questa differenza e ne dimostravano l'esistenza potente e irrimediabile. Diceva sempre: «Grazie, signore» in tono vivace, come un automa, ma non riusciva a evocare nel proprio cuore un odio vero contro i ricchi. Sentiva che la sua vera essenza valeva molto e che un giorno si sarebbe espressa attraverso i simboli comuni delle automobili e delle donne, e in questo senso era già uno di loro, sebbene mascherato da una giacca a vento con i polsini e il colletto sudici, e da una faccia di giovane vagabondo, un po' equivoca. Quella era una sera animata e persino Rich si dava da fare, frettoloso, farfugliando parole di saluto e di gratitudine a facce che sembravano non udirle, e Jules sentì la propria energia tendersi fino al diapason verso le
undici, poi incominciare a diminuire in misura allarmante, come se stesse trasformandosi in un vecchio. Su una gigantesca Lincoln nera si scrutò ansioso nello specchietto, lieto di constatare che sembrava ancora a posto, e per un lungo momento rimase seduto nella macchina, cercando di rilassarsi, di raccogliere i propri pensieri. Sua nonna... la clinica. Bene. Si era lasciato indietro anche questo. Il suo lento sanguinare dentro... se ella voleva sanguinare, sanguinasse pure. Sarebbe morta per far loro dispetto. Il litigio a tavola, all'ora di cena, era scoppiato e passato. Poteva risalire a giorni prima. Era finito, dimenticato. Che cosa gli importava dei loro litigi? A volte suo padre sbatteva la porta di servizio, a volte schiaffeggiava Loretta, a volte prendeva a schiaffi qualcun altro, a volte rompeva una sedia o un piatto... quasi non aveva importanza. Jules era troppo grande ormai per fuggire. Era vergognoso continuare a fuggire. Fino a pochi anni prima era fuggito da casa ogni qualche mese, incuriosito dalla città o amareggiato dalla famiglia, e sempre era finito nel Ricovero dei Fanciulli... peggiore di casa sua, anche se anonimo, una confusione di case. Ragazzi piagnucolanti, con il moccio al naso, bianchi e negri, troppi. Erano tutti stanchi. Ossa affioravano irosamente. Denti giallastri sporgevano. Troppi. Fuggire era uno sbaglio. Era troppo grande ormai per fuggire, ma ancora troppo giovane per potersene andare. Suo padre non lo avrebbe scacciato di casa. Regolò il retrovisore della Lincoln, e si guardò di nuovo, seriamente. Aveva l'aspetto di uno che potesse scendere da quella Lincoln e salire su una Lincoln sua? Possedeva la necessaria intelligenza? O qualcosa in lui avrebbe ceduto prima che fosse grande abbastanza per mietere tutte le ricompense che l'immaginazione gli prometteva? Il parcheggio chiuse verso le due ed egli si avviò verso casa, infreddolito, ma debitamente eccitato. Si trovava sempre in uno stato di eccitazione, di bizzarra, informe tensione. In Fort Street c'era poco traffico. Attraversò, prendendo un vicolo lungo un'autorimessa, le mani affondate nelle tasche. Sentiva di essere invisibile. In alto il cielo era nebbioso, di nuvole o di fumo, ed egli sentì che sarebbe potuto entrare senza essere veduto in qualsiasi palazzo o in qualsiasi casa della città. Una fitta di eccitazione lo trafisse, quasi una fitta di lussuria. Si domandò se sarebbe potuto penetrare in un edificio quella sera, solo, per suo conto, perché no? Insieme a Ramie e ad altri ragazzi si era introdotto in bui magazzini, e aveva rubato mercanzie, niente di troppo pesante, o di troppo costoso o personale, e non erano mai stati pescati. Insieme ai suoi amici era visibile, né più né meno come loro, e una pesante catena li collegava tutti, per quanto in fretta potessero
correre; solo, era leggero come l'aria, con ogni possibilità aperta dinanzi a sé, così come loro erano aperti agli eroi invidiabili dei libri e dei film. Si fermò in fondo al vicolo e guardò da un lato e dall'altro della strada. Per suo conto, adesso; era completamente per suo conto. Vide un isolato di edifici commerciali, tutti bui. Bruce Knetz & Associates, Reinert Resale, Olsen Construction Co. Lì non c'era niente. Proseguì. Si avvicinò a un bar-rosticceria, il George, ormai chiuso. Potevano esserci in qualche posto, lì al George, dei contanti? Avrebbe potuto forzare una distributrice automatica di sigarette, o non valeva la pena di correre il rischio? E se ci fosse stato un sistema di allarme contro i furti? Tutti i soldi che aveva guadagnato quella sera doveva consegnarli a sua madre, o esporsi al pencolo degli isterismi di lei, e soltanto le mance, delle quali non diceva mai niente, erano sue. Ma qualsiasi cosa avesse rubato, sarebbe stata esclusivamente sua. Nessun altro ci avrebbe avuto niente a che vedere. Il denaro che si fosse procurato qua e là, di nascosto, si sarebbe accumulato, invisibile, aiutandolo a trasformare la sua esistenza. Si diresse verso il George, uno di quei bar all'angolo fatti di cemento che sembrano grossi blocchi di cemento, con strette finestre a forma di feritoie. Le insegne al neon erano spente. Jules suppose che vi fosse un ingresso di servizio, una via facile per entrare. Forse sarebbe riuscito a trovare una sbarra di ferro, o un'asse, o qualcos'altro per sfondare la porta. Rimase davanti alla facciata, in attesa. Sentì la mancanza del suo amico Ramie, il quale avrebbe saputo esattamente che cosa fare. Girò intorno al lato dell'edificio. Dietro a esso c'era qualcosa. Un ingresso di servizio, una catasta di bidoni per le immondizie, di casse. Fece il giro completo dell'edificio, incominciando a innervosirsi. L'oscurità era troppo fitta. C'era troppo silenzio. Di nuovo sulla facciata, accanto a un lampione, indugiò per qualche minuto, concedendosi il tempo di riflettere. Accese una sigaretta. Un'automobile di pattuglia voltò all'angolo, procedendo adagio. Jules commise un errore... fece un passo indietro con aria colpevole. Girò sui tacchi e prese a camminare. Camminò adagio, tenendo i gomiti accostati al corpo; non si voltò a guardare l'automobile. Ma era troppo tardi... aveva sbagliato. L'automobile frenò e si fermò in mezzo alla strada, la portiera si aprì e un poliziotto gridò: «Ehi, tu! Un minuto solo, ragazzo!». Jules gettò via la sigaretta. La mente gli si oscurò ed egli girò sui tacchi per fuggire. Si gettò in un vicolo, correndo, e a questo punto capì che davvero aveva commesso uno sbaglio, ma non poteva più fermarsi. Come avrebbe
potuto fermarsi? Lo sbirro stava sbraitando: «Fermati! Torna qui!» e sebbene nella mente di Jules fosse balenata la riflessione che era in pericolo, egli non riuscì ugualmente a fermarsi. Girò a perdifiato intorno a una catasta di rifiuti e fuggì attraverso il vuoto cortile di qualche alto edificio, slogandosi una caviglia, senza nemmeno gridare, e alle sue spalle il poliziotto stava borbottando qualcosa a voce alta. Jules pensò che doveva nascondersi, ma per quanto scaltre e rapide si susseguissero tali riflessioni, il suo corpo continuava a correre in preda al panico e non voleva essere riportato sulla terra. Gesù Cristo, aiutami!, pensò Jules, raggiungendo il rozzo muro di mattoni di un edificio e tentando di appiattirsi contro di esso. Mi ucciderà. Fu abbastanza furbo per non tornare sulla strada, ove certo l'altro poliziotto incrociava con la macchina di pattuglia, ma fuggì lungo una strada laterale che non aveva mai percorso, passando accanto a casette buie di un solo piano. Alle sue spalle lo sbirro sparò il primo colpo di pistola. Jules non aveva idea di quanto vicino gli fosse arrivata la pallottola. Si gettò verso la veranda di chissà chi, pensando che forse avrebbe avuto il tempo di strisciarvi sotto, ma, in preda al panico, non si fermò e continuò a correre nel cortile della casa. Cera un vecchio canile, ma per fortuna non il cane, e proprio mentre il poliziotto urlava «Fermati!» e sparava un altro colpo, Jules si gettò attraverso una recinzione rotta. Si mise in ginocchio, poi in piedi, e si ritrovò a correre accanto a un'altra piccola casa, verso un'altra strada. Stava singhiozzando. Non aveva idea di quello che gli succedeva. Nella strada lampeggiarono i fari di una macchina e lui pensò follemente che l'automobile di pattuglia doveva essere tornata indietro e che stava per investirlo e così si gettò da un lato e a tuffo attraverso la siepe del giardino di qualcuno, graffiandosi la faccia. Corse ansimante attraverso una fila di giardinetti. Il cuore gli martellava con violenza. Sentiva una fitta al fianco e nel petto, ma più di ogni altra cosa il suo cervello sembrava pulsare di stupore e d'ira, domandando: Come è accaduto tutto questo? Come hai lasciato che accadesse? «Ti ho preso!» gridò il poliziotto, e Jules ebbe la certezza che la pallottola lo avrebbe colpito alla schiena, ma se la sentì fischiare accanto. Non restava altro da fare che fuggire. Continuare a correre. Se fosse riuscito a giungere nel suo quartiere, dove conosceva posti in cui nascondersi... scantinati, magazzini, tettoie, autorimesse, casa sua... ma lo sbirro non gli consentiva di correre in quella direzione, sembrava guidare Jules, dirigerlo lontano, verso l'oscurità. Sebbene fosse buio, Jules stava diventando visibi-
le: sentiva se stesso diventare visibile. Due o tre spari echeggiarono. Irruppe nella baracca di chissà chi e là, ansimando, piangendo come un bambino, cadde in ginocchio e abbracciò il proprio corpo, che stava rabbrividendo. Era salvo. Lì non sarebbe stato trovato. Poi, a un tratto, udì di nuovo i passi del poliziotto; udì l'uomo borbottare vicinissimo alla baracca. I passi si avvicinarono con tonfi sordi sul terreno. La porta venne spalancata con un calcio. «Non mi spari!» gridò Jules. Era curvo, in ginocchio, con le spalle ingobbite, come se stesse sforzandosi di piegarsi in due. «Non ho fatto niente!» disse, singhiozzando. Chiuse gli occhi e si chinò verso il suolo, le mani strette con forza sulla nuca, avvinghiate al collo. «Ehi, tu, piccolo bastardo, piccolo fotti-madre, hai cercato di sfuggirmi!» gridò il poliziotto. Premette la canna della pistola contro la testa di Jules. «Lo sai che cosa sto per fare? Sto per spappolarti il cervello, ragazzo, ragazzo furbastro. Mi hai fatto correre per tutto il vicinato!» E premette il grilletto, che però scattò a vuoto. Irritato, l'uomo alzò la pistola e con essa colpì Jules alla testa. Jules cadde. Si sentì prendere a calci, si sentì voltare supino; sentì che le tasche gli venivano rivoltate, che qualcosa gli veniva preso, e cominciò a piangere con gli occhi chiusi, troppo terrorizzato per fingersi morto. Quando il poliziotto se ne andò, Jules non si mosse. Era strano che tutto quello strepito non avesse richiamato gente lì dietro, o forse tutti quanti, anziché uscire di casa, avevano preferito nascondersi sotto le coperte. Non accadde niente. Udì le sirene dei battelli sul fiume. Rimase immobile. Il tempo passava. Rabbrividì convulsamente; aveva la testa molle e bagnata là ove la pistola lo aveva colpito. Avrebbe fatto bene a tornarsene a casa. Per qualche tempo non riuscì a muoversi, come se fosse paralizzato... aveva le gambe troppo fiacche, o troppo furbe, per muoversi. Infine si girò bocconi, poi si sollevò sulle mani e sulle ginocchia. Aveva il respiro molto affrettato. Trovò il suo portafoglio vuoto a pochi centimetri di distanza e se lo rimise in tasca. Si alzò vacillante. La testa gli martellava con violenza, ma era già qualcosa che riuscisse a stare in piedi. La punizione per lo sbaglio commesso. Essere stupidi era uno sbaglio. Una mossa falsa, un passo con aria colpevole, la fuga mentre si sarebbe dovuto ben guardare dal fuggire, mentre avrebbe dovuto guardare negli occhi quello sbirro. Pianse silenziosamente, soffrendo, vergognandosi e tornò indietro sulla strada. Erano le tre passate quando finalmente giunse a casa. Si lavò la faccia nel bagno, trasalendo di dolore. Maureen venne a vedere che cosa stesse succedendo. Le disse: «Tornatene a letto. Bada ai maledetti affari tuoi».
Spinse e chiuse la porta, in modo che ella non potesse vederlo, ma quando uscì, era ancora lì. «Che cosa è accaduto?» domandò Maureen. «Ti ha picchiato qualcuno?» «No. Niente.» Maureen lo fissò. «Non ti hanno portato via i soldi, per caso?» Cercò di passarle accanto. «Jules, ti hanno preso i soldi?» «Sì.» E andò oltre per coricarsi. Lei disse: «Questo farà impazzire di rabbia Ma'». Jules cadde sul letto disfatto e si addormentò. Il primo suono che udì fu la sveglia trillante nella camera dei suoi genitori. Discese dal letto. Non si era spogliato e pertanto non si diede la pena di cambiarsi. Aveva un po' di sangue secco sulla testa, un'escoriazione. La testa gli martellava. Ma questo non aveva importanza, poteva sopportarlo. A sconvolgerlo era la propria stupidità. Gli venne un sapore di vomito in bocca pensando a quanto era stato stupido. Quando suo padre fu uscito per andare al lavoro, entrò in cucina e bevve un po' di caffè rimanendo in piedi. Loretta sedeva a tavola. Lo fissò con uno sguardo opaco. «A che ora sei rientrato, stanotte?» «Alla solita ora» rispose. Seguì un silenzio mentre ella aspettava, tutta cortesia, che lui dicesse qualcosa di più... non aveva qualche dollaro da darle? Ma Jules non disse niente. Loretta lo osservò, sonnacchiosa e un po' imbronciata. «A che ora torni a casa questa sera, se mi è lecito domandarlo?» disse. «Alla solita ora» rispose Jules. Si sottrasse alla sua presenza e uscì, sebbene avesse ancora due ore di tempo prima che cominciassero le lezioni. Si aggirò nei pressi. Visse e rivisse nell'immaginazione quell'inseguimento dietro le case, e lungo i vicoli, domandandosi come sarebbe stato alla luce del giorno. Il poliziotto gli aveva intimato l'alt, lo aveva ammonito: Guarda che ti sparo! Lui era stato troppo stupido per squagliarsela e troppo stupido per voltarsi e affrontare lo sbirro. Quella pistola gli era piombata sul cranio, con forza. Jules aveva abbassato la testa e sulla testa gli era piombata la pistola, molto violentemente, per spaccargli il cranio. Era stata quasi la fine. Quasi la fine di Jules. Una recinzione isolava la scuola media da una delle vie più caotiche di traffico della città. Alla recinzione, spinti dal vento fino alla sua massima altezza, aderivano pezzi di carta e sacchetti di carta. Jules vi si appoggiò e
fumò una sigaretta. Cercò di calmarsi. Alle nove meno un quarto entrò insieme a una turba di altri ragazzi. Istintivamente si diresse verso i suoi amici, che già oziavano nei corridoi accanto agli armadietti, odiando la scuola, ma in qualche modo attratti dalle sue mura, dal chiasso, dall'odore di prigione. Anche per loro si trattava di un istinto. Stavano scherzando a proposito di qualcosa. Sbatterono gli sportelli degli armadietti. A Jules doleva la testa ed egli voltò loro le spalle ed entrò nell'aula proprio mentre il campanello suonava per l'ultima volta, e non un secondo prima. Faceva così tutte le mattine. Andava tutto bene; non era morto. Tre banchi alla sua destra sedeva la ragazza della quale era innamorato, una ragazzetta bionda, dal naso piccolo, che vestiva con gonne pieghettate e portava calzini di lana bianca e scarpe di tela, e lo guardava soltanto di rado, essendo, per chissà quale motivo, innervosita da lui, dalle sue basette e dal sorriso affettato e stilizzato. Si lasciò colmare da un desiderio di lei magico e mistico, abbacinandosi con quel desiderio, mentre l'insegnante della sua classe - una donna sulla cinquantina, fragile, simile a un ragno spiegava loro il modo di riempire le schede sanitarie. Quando vi siete sottoposti per l'ultima volta a un esame odontoiatrico? Jules si voltò a guardare la ragazza. Non era in condizioni economiche migliori delle sue, i suoi genitori appartenevano a una classe sociale altrettanto umile, eppure curava molto la propria persona, badando a essere sempre in ordine, presentabile e pulita; le sue amiche erano brave ragazze come lei, anche se più portate di lei a fare le scavezzacollo. La ragazza si chiamava Edith. Jules l'amava e sognò di lei... Quando il campanello squillò, si diresse a malincuore verso la cattedra per dire all'insegnante: «Mia madre ha dimenticato di scrivermi la giustificazione per l'assenza di ieri», e la donna lo congedò, un pochino intimorita da lui e dai suoi amici, e sconcertata, forse dai suoi occhi vitrei. E anche dal suo alito, che sapeva di rancido. Tutto in lui era rancido... ma per lo meno continuava a vivere. Si recò adagio, quasi con circospezione, nell'aula di inglese. A tutta prima non riuscì a ricordare quale fosse il suo posto, e una ragazza sfrontata ridacchiò di lui, tanto Jules le pareva goffo quel mattino, ma infine egli trovò il posto e vi si lasciò cadere. Il corso di inglese. Aprì il quaderno. Aveva dimenticato, o perduto, il libro di testo. Cercò a tastoni sotto il banco e trovò il libro di qualcun altro, non era il testo di inglese, ma la copertina aveva un colore quasi uguale. Jules volse lo sguardo verso la cattedra. L'insegnante stava già parlando. La lavagna gli parve ondulala
come acqua. Sulla lavagna c'era scritto qualcosa, in lettere abbastanza grandi, ma stranamente confuse. Jules socchiuse gli occhi; si portò le dita sugli occhi e premette, sforzandosi di vederci. Che cosa dicevano le parole? Voltando all'angolo della caserma dei pompieri... Jules si protese in avanti e lasciò che i gomiti brancolassero contro il piano del banco, cercando un appoggio. Sentì la mente svuotarsi, poi riemergere alla vita. Stava per svenire. Con le dita aperte intorno agli occhi, cercò di avvinghiarsi alla conoscenza, disperato, vergognandosi, ma continuò a sentirsi venir meno. L'insegnante voltò la testa, poi la voltò dall'altra parte, una testa calva, parlando, e Jules si sentì cadere. Qualcosa gli strisciò sulla coscia, forse un grosso topo e, con una ripugnanza sognante egli ricordò un topo che gli era saltato addosso quando aveva sette o otto anni, stava giocando in qualche posto e un topo aveva spiccato un balzo contro di lui rimbalzandogli addosso in preda al panico, proiettandosi con violenza lontano dalle sue cosce, e ora, in preda a sua volta a un tramortito terrore, Jules cominciò a pencolare in avanti, la testa gli si abbassò adagio e la fronte si avvicinò lentamente al piano del banco. 10 Quando Maureen aveva tredici anni traslocarono dalla casa nella Ventesima Strada in un'altra casa simile a essa, in una via che si chiamava Labrosse, sempre nello stesso quartiere, ma più vicina allo stadio Tiger e non molto distante dalla stazione centrale di New York, un grande caseggiato in stile gotico, con centinaia di finestre. Maureen era ormai troppo cresciuta per esplorare edifici e case vuote, era troppo consapevole di se stessa, in quanto signorinella, per correre urlando attraverso i magazzini insieme a un branco di altri marmocchi. Se ne stava per suo conto, comportandosi con cautela, timorosa, ma senza sapere esattamente di che cosa avesse paura. Il cambiamento di casa la turbò. Per molte notti non riuscì a dormire nella casa nuova. Tutte quelle casse, il disordine, sua madre sudata e irritata e suo padre che grugniva per lo sforzo di trasportare mobili, ogni cosa in scompiglio, sradicata... aveva paura. Persino Jules perdeva la pazienza con lei. «Oh, piantala» diceva, dandole di gomito per farla muovere, perché anche lui stava crescendo e aveva sempre fretta. Anche quando stava seduto aveva un'aria sperduta, come se stesse facendo progetti su quello che avrebbe fatto non appena si fosse alzato. Maureen lo ammirava e al contempo ce l'aveva con lui. Gli frugava
le tasche dei calzoni, quando li appendeva in camera sua, cercando indizi della sua vita più ampia, misteriosa, una vita vissuta lontano da lei. La casa nella quale abitavano adesso sembrava un granaio, una costruzione quadrata vicinissima al marciapiedi. C'erano soltanto uno o due metri di giardino, senz'erba; pochi mattoni spezzati, qualche sasso, rottami indefinibili e impronte indurivano il terreno. La casa un tempo era stata dipinta di grigio. Quando correvi su per gli scalini dell'ingresso, il terzo scalino cedeva. In tutto il vicinato v'era un senso di isolamento, di segretezza, che sconcertava gli estranei - poliziotti o agenti in borghese durante i loro giri, controllori dell'acqua e del gas, ficcanaso della previdenza, assistenti sociali... «i vagabondi della previdenza», come li chiamava Loretta. Le donne gridavano da un cortile all'altro: «Sta arrivando l'Ispettore!» in pratica ogni volta che arrivava qualcuno che non abitava nel vicinato. A volte venivano i Testimoni di Jeova, e discutevano con i cattolici. Loretta affondò radici nel quartiere e strinse subito amicizie. Ogni mattina, donne come lei, più anziane o più giovani, incinte o non incinte, si affrettavano a uscire di casa con i vestitucci di cotone, i capelli ancora avvolti intorno ai bigodini di plastica, smaniose di pettegolare... che cos'era successo quella notte, nella casa accanto, perché tutto quel baccano? Che cosa gli era capitato a quel negro in automobile in fondo alla strada, aveva investito qualcuno? «Oh, i negri,» si lagnava Loretta, affabilmente, con le sue vicine di casa, la cui comprensione era immediata, «i negri mettono al mondo due volte più figli, o dieci volte più figli, non ricordo più bene, dei bianchi, si beccano tutti l'indennità di disoccupazione e giocano a poker con i gettoni. Li conosco bene, io.» Si lagnava della nuova casa, di sua suocera, dei suoi figli. Si lagnava del marito. Tutto quello che diceva veniva subito capito; affondò radici nel vicinato e si sarebbe detto che avesse abitato lì da tempo immemorabile. Erano stati costretti ad andarsene dall'altra casa perché l'isolato doveva essere demolito in parte... per qualche buona ragione, anche se non sapevano bene quale. Qualcuno diceva che doveva essere creato un giardino pubblico. Ma dovevano trascorrere anni senza che si vedesse alcun giardino pubblico, soltanto un mezzo isolato di case demolite, e tubazioni, e macerie, scantinati squarciati, simili a prigioni dalle mura frastagliate... Forse un giardino pubblico non era stato previsto, o forse le autorità lo avevano dimenticato. I Wendall, in ogni modo, erano stati costretti ad andarsene. Non che Loretta si rammaricasse davvero del trasloco, una volta strette nuove amicizie. Soltanto, non poteva soffrire di lasciarsi mettere i piedi
addosso. Tutte le mattine, a colazione, diceva a Maureen e a Betty: «Sentite, non lasciatevi mettere i piedi addosso da nessuno, oggi. A Jules non ho bisogno di dirlo, lui sa il fatto suo in questo mondo. Ma voi due, siete tonte abbastanza per farvi mettere i piedi sul collo, e non dovete sopportarlo, assolutamente... a chi ci prova dite che prepotenze non ne volete subire. Non permettete mai a nessuno di mettervi i piedi addosso». «Oh, Ma'» diceva Maureen imbarazzata «i piedi addosso come? Chi potrà metterci i piedi addosso?» «Non le suore, e nemmeno le altre ragazzine, ricordatene» rispose un giorno Loretta. «Con me il prepotente non lo farà nessuno» disse Betty. Maureen uscì di casa sulla veranda sbilenca con una sensazione di allarme, circospetta e confusa... chi le avrebbe messo i piedi addosso, quel giorno? Era vero che qualcuno aveva sempre cercato di prevalere su di lei una ragazza più grande, un ragazzo, una suora di pattuglia nel corridoio, o Betty... anche Betty poteva metterle i piedi sul collo, perché aveva la forza di una maggiore semplicità, e muscoli più nervosi e forti. Secondo Maureen era pazzesca questa paura di essere maltrattati, quando bastava indietreggiare al primo colpo e mettersi a piangere non appena possibile... tutto il contrario di come faceva Jules, che da anni, ormai, si rifiutava di piangere, qualunque cosa potesse accadere; e tutto il contrario di come faceva Betty, che sembrava sempre chiedere altre botte. Maureen usciva ogni mattina sulla veranda, tenendo ben stretti i libri e il sacchetto del pranzo, e lasciava vagare lo sguardo sulla strada per vedere se vi fosse qualche pericolo. La veranda era così lunga che potevano giocarvi tutti i ragazzini del caseggiato, e anche quelli della casa vicina; costruivano fortini con casse e si dividevano in due campi opposti. Da un lato della veranda c'era la porta dei Wendall e dall'altro la porta degli Stanley. Quando pioveva, i bambini uscivano ed entravano per queste porte sbattendole, e restavano al riparo, i più piccoli impegnati nei loro giochi chiassosi, e i più grandi, come Maureen e Betty e Faith, dell'appartamento vicino, leggendo fumetti. Quando i Wendall abitavano lì da un mese, gli Stanley se ne andarono e in casa loro traslocò un'altra famiglia con sei marmocchi dall'accento molto strascicato. Dissero di venire dal Kentucky. Tutta la loro roba si trovava su un autocarro, coperta da teli, e Jules, Maureen e Betty li aiutarono a scaricare, entusiasti dei nuovi vicini. Sei bambini! Il giorno del trasloco Maureen si sentì stordita e disorientata, tante erano le cose che stavano accadendo e tanto lo
strepito! Quante facce! Quanti passi, quante madri e padri e bambini tra cui non ci si doveva smarrire! Loretta portò fuori alcuni barattoli di birra. Maureen e i bambini corsero su e giù nelle stanze dell'altro appartamento, rovesciando scatoloni e scoppiando in risate stridule. Poi, di colpo, Maureen si augurò che nessuno fosse venuto ad abitare lì. Desiderò di poter vivere, per una volta tanto, senza vicini. E così, con un chiodo tracciò piccoli segni zigzaganti sulla carta da parati di quella che era stata la camera da letto dei genitori di Faith. Dopo qualche tempo, tutti si dimenticarono degli Stanley, che si erano trasferiti a Grand Rapids. I nuovi arrivati si chiamavano Stonewall. La signora Stonewall veniva continuamente a chiacchierare con la madre di Maureen, e le due donne si mettevano a sedere sulla veranda e sorseggiavano birra o caffè e fumavano, avevano tutte e due la stessa età e indossavano calzoni un po' troppo stretti sul di dietro, oppure gonne un po' troppo lunghe per la moda di quell'anno, mentre alle loro spalle i bambini piccoli giocavano e la radio sbraitava senza che nessuno l'ascoltasse. Ogni sabato Maureen era costretta ad andarsene a causa di tutto quel baccano; camminava a piedi per più di tre chilometri fino alla biblioteca, dove regnava il silenzio. La biblioteca era come sarebbe dovuta essere una casa, tranquilla. Camminando, ella mormorava tra sé e sé quello che avrebbe fatto se fosse stata grande abbastanza per essere mamma; diceva a se stessa che avrebbe fatto rigar dritto tutti quei bambini, castigandoli quando ne avevano bisogno, somministrando sonori ceffoni e sculacciate, o persino, per i bambini più cattivi come sua sorella Betty, trovando qualche posto buio e umido la "prigione sotterranea" sotto la veranda - e chiudendoceli dentro finché non si fossero calmati. Si domandava che cosa ci fosse di male nell'essere silenziosi... la gente diceva sempre che lei era troppo silenziosa. Loretta seguitava ad accusarla di avere "segreti", intendendo dire che era taciturna, e nonna Wendall parlava della sua "faccia lunga". «Ha la faccia lunga e mangia con lunghi denti» diceva la vecchia, astiosamente. L'antipatia di sua nonna lasciava interdetta Maureen; la vecchia non le aveva voluto bene, un tempo? Non aveva voluto bene anche a Jules? Ora si aggirava per la casa indisposta e acrimoniosa, appoggiandosi a un bastone anche quando stava seduta, quasi a sottolineare come fosse mal ridotta, con le gambe e i piedi gonfi, malata, umiliata in una casa di gente ostile. Maureen riteneva che la propria faccia non fosse più lunga di quella di tutti gli altri, e che non fosse una brutta faccia. Cercava di essere tranquilla, e composta e ordinata, ed era questo, forse, a
irritare la gente. «Oh, quanto sei pignola!» strillava a volte sua madre, quando Maureen voleva contare tutti i bollini nel libretto, o esaminare i piatti per accertare che fossero davvero puliti, o quando domandava se potesse lavarsi i capelli più di una volta alla settimana. Ma la mamma sbraitava con tutti, con i suoi figli, con i figli degli Stonewall e con i bambini dirimpetto... non voleva dire un bel niente, strillava anche la signora Stonewall. Non significava niente. Un momento dopo si calmavano, accendevano una sigaretta e dimenticavano di essersi arrabbiate. Il cuore di Maureen martellava ancora, ma sua madre aveva già dimenticato, dimenticava tutto, e per questo Maureen camminava sola lungo la strada, mormorando tra sé e sé, e per questo sognava a occhi aperti a scuola, pensando a castighi che potessero tenere tutti buoni e tranquilli in modo che sua madre non urlasse mai più. Quei monellacci! A scuola, la Madre Superiora, dalla faccia assennata e rugosa da uomo, chiamò un giorno Maureen nel suo ufficio e disse: «Maureen, tocca a te sorvegliare tua sorella durante la ricreazione. Tu sei la maggiore». «Sì, Madre» rispose Maureen. «Tua sorella è litigiosa e impudente. È come tuo fratello. Spetta a te, ha detto tua madre, sorvegliarla durante la ricreazione.» Così lei odiava Betty e odiava tutti gli altri bambini e si augurava che morissero. Avrebbe voluto seppellire tutti i loro cadaveri sotto la veranda, in quella prigione sotterranea buia, muffita, disseminata di foglie, dove vivevano ragni e altri insetti schifosi. O magari avrebbe strisciato là sotto ella stessa per nascondersi, per lasciare che la mente le si calmasse e le si svuotasse, per concedersi un lungo riposo in modo da poter mettere ordine nella propria vita. Nella biblioteca pubblica i soffitti erano così alti che ella alzava sempre gli occhi nervosamente. Le sembrava che il soffitto a volte galleggiasse via. I pavimenti erano vecchi ma ben lucidati. Anche se un po' disuguali. Maureen stentava a credere a quel silenzio... era come un bellissimo vaso di cristallo che si sarebbe potuto frantumare da un momento all'altro. Portava i libri in fondo alla sala di lettura, dove poteva mettersi a sedere a un tavolo accanto a "I Grandi Libri del Mondo Occidentale" e a un radiatore bollente, e leggeva per ore. In realtà, il silenzio nella biblioteca non veniva interrotto spesso, anche se lei se lo aspettava. Lì dentro la gente camminava addirittura a passi silenziosi. C'erano pochi bambini. Maureen stava leggendo, a uno a uno, tutti i volumi dello Scaffale dei Giovani. Non consentiva a se stessa di scegliere libri a caso, perché in questo modo avrebbe
potuto lasciarsi sfuggire qualcosa di importante. E ogni settimana riesaminava i volumi dal principio per vedere se sullo scaffale fosse stato messo qualche nuovo libro, libri restituiti nel corso della settimana, o libri nuovi ancor freschi di stampa, con schede in bianco. Scoprendo questi volumi, sorrideva con una sorta di cauto stupore. La bibliotecaria le ricordava la Madre Superiora della sua scuola, e pertanto Maureen sapeva che era preferibile mostrarsi timida e riservata con lei. Poiché dirigeva la biblioteca, era tremendamente autorevole nella vita di Maureen. Un giorno, alla sua scrivania, sfogliò distrattamente un volume che Maureen stava restituendo e scoprì un lungo strappo in una pagina. «Come è accaduto?» domandò. «C'era già quando ho preso il libro» bisbigliò Maureen. «No, non c'era. Tutti i nostri volumi vengono controllati.» Come per dimostrarlo, sfogliò alcune altre pagine e trovò uno strappo aggiustato. Vi era stato sovrapposto un nastro adesivo trasparente, ormai ingiallito. «Vedi? Sarebbe stato aggiustato. Così» disse la donna. «Non so come sia successo» disse Maureen. «Non sono stata io!» Vide gli occhi della donna squadrarla gelidi, lei, Maureen, con un maglione allentato di lana tutta a grumi, logoro sui gomiti e irregolare sul dietro; lei, Maureen, che aveva un'aria colpevole con quelle gambe assurdamente magre e nude. «Temo che questo libro fosse in perfetto stato prima di essere preso in lettura da te» disse la donna. Maureen incominciò ad annuire, spaventata. La colpa doveva essere sua. Qualcuno doveva avere strappato il libro a casa, senza volerlo, ma la colpa era sua. Sua. Non avrebbe mai dovuto portare un volume della biblioteca in una casa come quella. «Dovrai pagare una multa, temo» disse la bibliotecaria. «Venticinque centesimi.» «Li porterò domani» bisbigliò Maureen. «Va bene. Ma oggi non puoi prendere in prestito nessun libro.» «Li porterò domani» ripeté Maureen. Nel sollievo che provava per essere stata prosciolta così facilmente, dimenticò la delusione di non aver potuto prendere nessun altro libro. Per un momento sentì l'intensa e disperata gioia del criminale. Le avevano consentito di uscire dalla biblioteca e di tornare a casa e non le era accaduto niente. In casa non si diede la pena di chiedere i soldi a Loretta, ma aspettò che Jules fosse tornato. Rimase vicino al bagno mentre lui si lavava la faccia.
Jules si sfilò la camicia e si chinò sul lavabo; Maureen vide che aveva peli folti e scuri sulle braccia e che anche il petto era peloso. Sembrava stanchissimo. Disse timidamente: «Mi è capitato un guaio, oggi, e ho bisogno di un po' di soldi per pagare una multa». «Quanto?» domandò Jules. «Un quarto di dollaro» rispose Maureen. «Okay, tieni» disse lui, dandole un quarto di dollaro, ed ella si sentì un po' turbata pensando che ingannava suo fratello. In realtà aveva qualche centesimo da parte, monetine nascoste in un barattolo di latta in garage, ma erano soldi destinati a qualcosa di speciale e lei aveva promesso alla Vergine di non spenderli per un anno. Quei soldi risparmiati erano un segreto che nessun altro doveva conoscere, un segreto che la rendeva diversa da tutti loro. Si domandò se anche Jules stesse mettendo da parte soldi: era come lei, furtivo sotto le ossa aperte e sporgenti della faccia. C'era tanta di quella gente pigiata nella loro metà della casa... oltre a nonna Wendall, di tanto in tanto veniva zia Connie, che saltuariamente non si sentiva bene, ma che, quando guariva, lavorava in una lavanderia. Zia Connie aveva vissuto una brutta vita, diceva in un bisbiglio nonna Wendall. (Un'operazione agli intestini? Suo marito morto in un incidente automobilistico, o fuggito in California? Di che cosa si trattava?) Zia Connie era massiccia e sembrava molto anziana, più anziana di Loretta, e talora la sua stessa indolenza la faceva cadere così in basso che Loretta desiderava aiutarla a risollevarsi e perciò era comprensiva nei suoi riguardi, ma in altri momenti quell'indolenza le dava ai nervi, per cui ella si precipitava dalla sua vicina, Flora Stonewall, e urlava: «Quella sgualdrina! Quella sgualdrina tutta deretano! O se ne va lei o me ne vado io, stasera glielo dico a mio marito, questo è certo!». E poi naturalmente c'era Betty, che dormiva nella stanza di Maureen, e c'era Jules, che andava e veniva, senza far troppo rumore, ma pur sempre una presenza, un essere umano che la soffocava. Il babbo aveva un lavoro che rendeva bene, diceva lui, ma dove finivano i soldi? Dove finivano? Era un uomo robusto. Usciva con il pentolino del pranzo e portava sempre lo stesso paio di sudici calzoni scuri, nei giorni feriali e in quelli festivi. Si metteva camicie azzurre. Spesso sembrava contemplarsi le grosse mani, posandole sul tavolo di cucina o tenendole in grembo. Si sarebbe detto che si avvicinasse a ogni cosa obliquamente: il cibo, la birra allo zenzero, la gente, il televisore. Era circospetto, sospetto-
so, chiuso. Poi, man mano che i minuti passavano, si apriva alla cena, alla televisione, partecipando, cominciando a sudare... gli piaceva mangiare e bere, mangiava e beveva appassionatamente, e gli piacevano tutti gli spettacoli televisivi. Dapprima era sospettoso, ma poi si apriva. Maureen aveva finito con il rendersene conto. Il locale che prediligeva era una taverna a pochi isolati di distanza, l'Holyday Grill, nella cui vetrina si trovavano due alte piante polverose, piante con foglie simili a lance... e vedendo piante simili Maureen pensava sempre a suo padre, anche anni dopo che egli era morto e non costituiva più una minaccia. Foglie come lance. V'era qualcosa di denso, in suo padre, e, sotto la densità, un che di tagliente e di spaventoso. Una sera egli era venuto a cena, aveva mangiato e sudato; soltanto quando furono quasi al termine del pasto alzò gli occhi su Jules. Poi disse: «Che cos'è questa storia di Malone?». Maureen aveva notato l'allarme di suo fratello, un allarme che lo tradiva. Egli cercò di nasconderlo dicendo disinvolto: «Non lo so. Che cosa gli è successo?». «Si è fatto pestare, eh?» «Non lo so.» «Che significa, non lo so?» «Duane Tracey ha detto qualcosa...» «Piccolo stronzo, non mi mentire! Sai tutto della faccenda!» «Non so tutto, manco per niente!» disse Jules. «Che diavolo gli è successo?» domandò Loretta. «È stato picchiato. Gli hanno pestato a calci la dannata faccia superbiosa» disse rabbiosamente il padre di Maureen. Era difficile capire perché fosse arrabbiato: gli faceva piacere che Ramie le avesse prese, o gli dispiaceva? «Ah sì? Come è accaduto?» domandò Loretta. «Quell'idiota ha creduto di poter fare un colpo da furbo - me lo hanno raccontato giù all'angolo - ha fermato a Hastings un ragazzo negro che portava un sacchetto di carta, con un po' di contante, e lo stupido, dannato bastardo non ha mai pensato che sarebbe stato preso! Quei negri lo hanno pescato in un'ora!» disse il babbo. Aveva la faccia splendente e perfida; di nuovo, non guardava più Jules. E anche Jules non stava guardando lui. «Che razza di stupido figlio di puttana di un tonto rapinerebbe un fattorino della lotteria, eh? Quale razza di tonto? Un marmocchio negro di dodici anni che corre con quattromila dollari in un sacchetto non è un marmoc-
chio che agisca per suo conto, stupido bastardo! Credi che un ragazzetto con quattromila dollari in un sacchetto di carta sia fuori per suo conto a fare acquisti? Credi che forse voglia comprare un regalo alla sua mammina?» «Non insultarmi, io non ci ho avuto niente a che fare» disse Jules. «Sarebbe meglio per te, per tutti i diavoli. Ma se ci avessi avuto a che fare, ormai ti avrebbero già pescato. Ti piacerebbe se ti facessero cadere a calci tutti i denti?» «Io non ci sono entrato per niente.» «No, sei troppo scaltro! Gesù Cristo, questa è una buona cosa» disse suo padre, ma senza sollievo, sempre con una sorta d'ira perplessa. «Gli hanno fatto cadere i denti a calci, al ragazzo. Una buona metà. Gli hanno gonfiato gli occhi. Gli hanno rotto quattro costole. Che cosa abbiano fatto al resto di lui, non lo so, ma certo non si sono tenuti indietro, scommetto, e, anche se si tratta di negri, ha avuto quello che meritava, devo ammetterlo... quel piccolo bastardo altezzoso, sempre a vagabondare per le strade!» «Senti, io non ci ho avuto niente a che vedere» ripeté Jules. «Ma sai tutto della faccenda, no?» «No!» «Mi stai seduto davanti e osi mentirmi, eh?» Non si stavano guardando e Maureen sentì la tensione salire tra loro. Avrebbe voluto mettere la mano sul braccio di Jules e bisbigliare: «Lascia perdere», ma Jules, con la faccia pallida e tirata, mostrava tutto il suo odio attraverso la piega della bocca. Loretta li distrasse dicendo: «Ehi, ho preparato un pudding, questa sera. Lo volete tutti, il pudding?». Più tardi, il babbo disse, con un sospiro imbronciato: «Quei negri finiranno con il dominare la città. La chiuderanno con un lucchetto, istituiranno blocchi stradali e, cari miei, questa sarà la fine!». Loretta sedeva accanto a lui guardando la televisione, con le pantofole di paglia a lustrini. Disse: «La polizia dovrebbe arrestarli per il pestaggio di Ramie Malone. Puoi dire quello che ti pare, ma non era necessario che gli facessero saltare i denti. Era un bel ragazzo, tutto sommato». «Non mi stupirei se lo avessero castrato. Gli piace castrare la gente» disse adagio il babbo. «Giù alla fabbrica, se rimani nel parcheggio dopo che gli altri se ne sono andati, corri un grosso pericolo. Non si limitano a derubarti, ti castrano. È quello che gli piace fare. Lo fanno per lo spasso.» Altre sere, Maureen lo udiva parlare dei polacchi, che puzzavano, e dei
sudici latini, che si stavano insediando a un'estremità della stessa Bagley Street, e cicalavano rapidamente tutti quanti come matti, giravano armati di coltello, bevevano e si azzuffavano per la strada... Jules, prendendo in giro suo padre con Maureen, diceva: «Quei negri, quei polacchi, quei latini! Gesù Cristo, come sono stufo di doverli odiare tutti quanti! Come soffro nel di dietro!». Quando imitava suo padre, faceva in modo che la faccia gli diventasse volgare e lasciava cadere la mascella, per cui i suoi occhi assumevano un'espressione da deficiente. Maureen non poteva fare a meno di ridere, ma poi sentiva dentro di se un avvertimento, suggerito dalla costante osservazione della nonna: «Fa' una smorfia e ti si paralizzerà la faccia». Fa' una smorfia e ti si paralizzerà la faccia. Li vedeva tutti con la faccia paralizzata, sua madre e suo padre, sua sorella, suo fratello, sua nonna, la zia, le facce delle suore a scuola, le facce dei preti, le facce dei ragazzi del vicinato, tutte le facce del mondo... paralizzate in espressioni di astuzia e d'ira, mentre lei, Maureen, non avendo in sé alcuna crudeltà, scivolava in silenzio tra gli altri e aspettava il giorno in cui tutto sarebbe stato ordinato e lindo, in cui avrebbe potuto disporre la propria esistenza come riordinava la cucina dopo cena, e anche lei allora avrebbe potuto paralizzarsi, rimanere fissa, definitiva, al di là della loro capacità di fare del male. Sua madre concentrava la propria attenzione sulle facce, come se avesse imparato quest'abitudine da nonna Wendall; ma, senza rendersi affatto conto della sua origine, adottava un tono di cantilenante giovialità quando lei e Maureen andavano a fare spese, e indicava i passanti dicendo: «Guarda la faccia da cavallo!» «Guarda la faccia da troia!» «Voltati e guarda la scimmia!»... inducendo Maureen a voltare la testa e a guardare in uno specchio. La faccia di Loretta era a volte flaccida e brutta, a volte piuttosto graziosa, a volte i pori che aveva sul naso sembravano grossi e neri, a volte no, aveva alti e bassi, era brutta e bella, in disordine o linda, e chi mai poteva dire quale Loretta sarebbe uscita dalla sua camera sempre per aria? Tutto ciò faceva sì che Maureen si concentrasse su se stessa. Sua madre, del resto, la guidava in questo senso; diceva spesso, fissandola: «La tua faccia comincia a fiorire? Ormai sei arrivata press'a poco all'età nella quale si hanno molti foruncoli». Nelle cinque stanze che costituivano la loro metà della casa di due appartamenti, tutto faceva parte del regno di Loretta. Ella imperava su tutti loro. Non appena il babbo rientrava nelle prime ore della sera, la sua mole sembrava riempire le camere surriscaldate; egli girava intorno ai mucchi di
indumenti che dovevano essere lavati o stirati, o che, semplicemente, erano stati lasciati qua e là, si trovava tra i piedi le cianfrusaglie di Betty e doveva scansare Maureen che sedeva ingobbita al tavolo di cucina tentando di fare i compiti. Mangiava il cibo che Loretta cucinava per lui; e anche quando era Maureen, in realtà, a cucinarlo, si trattava pur sempre del cibo di Loretta, e l'intero appartamento era pervaso dal suo odore... dai suoi "sali per il bagno", dal profumo di lei, dalle sigarette che ella fumava. Anche quando usciva infine dal suo silenzio e la schiaffeggiava sbraitandole in faccia qualcosa, Loretta continuava a trovarsi al centro stesso della casa, passiva, e indolente, e maligna. Nonostante tutto ciò, Maureen si applicava sui compiti e cercava di non lasciarsi distrarre. Era molto brava a scuola. Betty non riusciva in niente, tranne che nel darsi delle arie. Quanto a Jules, da mesi non aveva neppur mai portato una pagella a casa. Aveva gli occhi cerchiati di scuro e infossati e conduceva un'esistenza segreta: una ragazza, a scuola, disse a Maureen che Jules andava fuori a bere con altri ragazzi; che si era messo con una ragazza a nome Rose Ann, che era amico di Ramie Malone... «e tu sai bene che cosa gli è successo a Ramie». Maureen gli frugò le tasche e vi trovò cose strane... un pettine nero di plastica, rotto e sudicio, una bustina di fiammiferi sulla quale si leggeva "Manhattan Lounge", del Kleenex appallottolato e macchiato di rossetto, una catenella per chiavi spezzata, qualche spicciolo, gettoni, noccioline americane, altre cianfrusaglie. Sapeva che lui stava marinando la scuola, ma non osava domandarglielo. E Betty... Betty era una piccola monella... una ragazzina così chiassosa e stupida che Maureen preferiva seguire la strada più lunga da casa a scuola per non doverci andare con lei, anche se questo significava non vedere le vetrine dei negozi e non passare davanti al cinematografo Rialto, i cui cartelloni cambiavano una volta alla settimana ed erano interessantissimi. Il lunedì era il giorno in cui sua madre si faceva lavare e acconciare i capelli dalla propria amica Ethel, la quale le depilava anche le sopracciglia e le curava le unghie. Il lunedì ella aveva le labbra e le unghie dello stesso colore dell'uva nera. Così Maureen si rendeva conto che sua madre era una donna come quelle dei cartelloni cinematografici: una di quelle donne che vogliono determinate cose e sono disposte a correre rischi pur di procurarsele. La madre di Maureen faceva gli acquisti in un supermarket e tutte e due portavano a casa quel che era stato comprato entro sacchetti di carta a quadratini rossi e neri, con i bollini gialli da applicare sul libretto; quello era il modo che aveva sua madre di procurarsi le cose.
Nei sabati in cui faceva troppo freddo per poter andare in biblioteca, Maureen era costretta a restare in casa. Odiava la casa e rimaneva per ore alla finestra guardando fuori. Ma non c'era niente da vedere. Soltanto la base di cemento, che andava sgretolandosi, della casa accanto, una casa vecchia e brutta quanto la loro. Non che la casa in cui abitavano appartenesse a loro; ogni mese il babbo brontolava a causa dell'affitto che doveva pagare. Quanto pagasse, era un segreto. I grandi avevano molti segreti, quasi tutti concernenti il denaro. Si poteva urlare a gran voce che Loretta era una sgualdrina, o che Howard era un pigro bastardo, si poteva sbraitare di qualsiasi cosa concernente le persone, ma di nulla che concernesse i soldi - le realtà del denaro - si poteva parlare a voce alta. Era quello un segreto per tutti i ragazzi. Era un segreto quanto guadagnava il babbo ogni settimana, e quanto dava alla mamma; era un segreto persino il prezzo di determinate cose. Zia Connie si lagnava perché riusciva a guadagnare soltanto cinquanta dollari alla settimana quando lavorava, ma questo era tipico da parte sua... non faceva che piagnucolare e tossicchiare cose che nessuno era disposto ad ascoltare. Quando entrava in cucina per lamentarsi con Loretta della propria esistenza, Maureen sospirava e si portava più vicino alla finestra della propria camera da letto, desiderando uscire, diventare sorda, e domandandosi perché la fredda luce invernale che rendeva ogni cosa dura e incolore, fosse pur sempre meglio, in qualche modo, dell'odor di chiusa e di stantio in casa sua. In fin dei conti, voleva bene a sua madre e a suo padre. Voleva bene a Jules. Voleva bene persino a Betty, sperando sempre che ella rinsavisse, e allora perché ci teneva tanto a vederli tutti morti e sepolti sotto la veranda di casa? Sì, persino Jules, morto e sepolto, nell'eterno riposo. Maureen sognava quasi sempre a occhi aperti. Nella propria immaginazione, sbraitava ordini come un militare; tutti i ragazzini ubbidivano e si allineavano. Non esistevano adulti in nessun posto che castigassero, o anche soltanto lodassero. Si stava tranquilli e sereni senza di loro, adesso che ella ne prendeva il posto e faceva quello che essi avrebbero dovuto fare. Oppure Maureen chiudeva gli occhi e giocava alla scuola. Era l'insegnante - una suora - e tutti i bambini del vicinato sedevano sulle file di banchi; lei gli faceva leggere la lezione uno alla volta e andava su e giù nel passaggio tra i banchi. Li faceva andare alla lavagna e addizionare lunghe colonne di cifre. Se commettevano errori venivano rimproverati davanti a tutti e non erano ammesse giustificazioni... se fossero state ammesse giustificazioni, si sarebbero limitati a dire: «Ieri sera non ho potuto fare i compiti, ci sono
stati litigi in casa», oppure: «Ieri sera sono dovuta uscire e non ho potuto dormire». No, quella sua scuola era diversa da ogni altra, «Qui dovete studiare. Studiare» diceva loro Maureen. E il cuore cominciava a batterle forte quando pensava ai bambini prigionieri e a lei che li sorvegliava, li custodiva e li maltrattava, una Maureen diversa dalla ragazza che conoscevano tutti. Perché la gente non poteva essere perfetta? Perché tutti facevano tanti sbagli? Quando si dedicava ai compiti, Maureen controllava e ricontrollava ogni cosa, timorosa di commettere errori. Anche quando giocava, e persino nelle sue fantasticherie, aveva sempre paura di sbagliare. Un anno prima, aveva giocato ancora ai cavalli, ma adesso stava diventando troppo grandicella. Aveva giocato a essere il capo di una grande torma di cavalli, un grosso stallone nero. Conficcava i tacchi nel terreno e sferrava calci in aria, giocando da sola, concentrandosi quasi dolorosamente nell'idea di essere un cavallo... giocava di nascosto, scuotendo i lunghi capelli come una criniera. In casa, o alla presenza di altri bambini, non si lasciava mai andare in quel modo. Non "giocava". Non era alta di statura per la sua età, ma sembrava, in qualche modo, più avanti negli anni; e per questo, quando succedeva qualcosa in cucina, non cercava mai di sottrarsi alle proprie responsabilità, ma ammetteva, calma, di essere stata lei... si trattasse di cibo rovesciato, di un piatto rotto, o di qualcosa che poteva aver combinato Betty. Non addiceva mai giustificazioni. Una volta che sua madre e Flora Stonewall avevano trascorso l'intera giornata bevendo birra e rievocando episodi della propria fanciullezza, senza che Loretta avesse mosso un dito per preparare la cena, Maureen si era data da fare in cucina ed entrambe le donne l'avevano presa in giro. «Ma guarda Maureen, sarà una brava moglie per qualcuno» aveva detto Flora. Era una donna bella e pigra, dai lunghi capelli rossi, talora scostati dal viso e annodati. Aveva grosse braccia dalle ossa forti e le gambe erano anch'esse alquanto grosse. Si esprimeva con una voce musicale, dal tono cantilenante e lievemente accusatore; sembrava che avesse Maureen in simpatia. Raschiando i rifiuti nel bidone maleodorante sotto l'acquaio, lavando piatti fino ad avere la faccia accesa dal calore. Maureen costringeva la propria mente a concentrarsi sulla sua aula scolastica o sul burrone nel quale vivevano i cavalli selvatici, o sulla biblioteca dai pavimenti lisci tirati a cera, con il ticchettio occasionale della macchina per scrivere della bibliotecaria. Quando era sola, i suoi pensieri scivolavano verso queste cose. A volte si riscuoteva e si trovava in piedi su una soglia, intenta ad accarezzarsi distrattamente un braccio, mentre Loretta, passandole accanto, diceva: «Svegliati bambina,
la casa sta bruciando». Si destava dai propri sogni a occhi aperti e vedeva la famiglia a cena, sagome racchiuse dai vestiti, appesantite sulle sedie. Le veniva il capogiro quando pensava a loro in quel modo. Suo padre era un oggetto denso, con la camicia sbottonata in parte; sua madre un oggetto svolazzante e privo di sostanza; sua nonna era tozza, pesante, imbronciata, vestita di nero. Una volta, in centro, aveva veduto sua sorella insieme a un branco di ragazzette sfrenate che scherzavano alla fermata dell'autobus. Le ragazze indossavano tutte blue-jeans e magliette: prorompendo al di là dell'angolo della strada, avevano fatto segno all'autobus e quando l'autobus si era fermato e la portiera si era aperta, loro avevano preso la fuga. Betty stava ridendo a più non posso, un piccolo oggetto duro e filiforme, simile a una marionetta o anche a una trottola che piroettasse via, sfuggendo a ogni controllo, girando e girando sul marciapiedi, fino a cozzare contro un passante e tutte le sue amiche avevano riso di lei. Maureen si era affrettata a indietreggiare e a farsi piccola, non volendo essere veduta. Era sua sorella quella spaventosa ragazzetta con i capelli biondo-scuri tagliati corti alla maschio, più corti dei capelli di Jules, quella ragazzetta con le gambe secche, muscolose, e la voce rauca? E spesso osservava Jules, mentre lui girava per casa, sempre stanco, e socchiudeva gli occhi finché suo fratello diventava un oggetto indistinto che le passava accanto, senza destare in lei alcuna reazione, né affetto, né la voce del sangue. Jules stava crescendo e doveva fare le cose che fanno i grandi. Doveva aggirarsi intorno a qualche ragazza, doveva fare certe cose con lei e con la turba di giovincelli che frequentava, doveva lavorare, doveva guadagnare soldi, e radersi, e curarsi i capelli; doveva passarsi le mani stancamente sugli occhi, rispondere con una voce aspra e cattiva se qualcuno gli dava fastidio... «Va' all'inferno, Maureen» diceva, oppure, a Betty: «Non ho tempo da perdere in castronerie, vattene». Non faceva altro che allontanarsi da loro, non faceva altro che sfuggire. Un giorno, in primavera, mentre tornava a casa dalla biblioteca, Maureen spaventò un rospo vicino a una casa dell'isolato. Lo inseguì sin sotto una vicina veranda. Trovò un bastone e cercò di punzecchiarlo per costringerlo a saltare, ma il bastone non era lungo abbastanza... e il rospo rimase là immobile, con il corpo gonfio, deglutendo, terrorizzato ma senza muoversi, su un mucchietto di foglie. Lei si sentì spregevole. Pensò: Se strisciassi sotto la veranda potrei prendere quel rospo, e v'era qualcosa nella stessa affinità tra loro, nel loro analogo trattenere il respiro, nel loro terrore, che la induceva a voler strisciare là sotto. Frugò qua e là con il bastone,
protendendosi in avanti sulle mani e sulle ginocchia, ma il rospo non si mosse e si fissarono silenziosi. Quando arrivò a casa, Flora Stonewall sedeva sugli scalini dell'ingresso. Mormorò con noncuranza: «Oh, Maureen, dove sei stata? Dovrei dirti una cosa». «Che cosa?» «Tua madre e tua nonna sono andate non so dove. Non sapevano dove tu fossi. Le ha accompagnate in macchina Jules. Hanno detto che dovevo aspettarti...» «Che cosa è successo?» «Credo che il tuo Pa' abbia avuto qualche guaio.» Maureen la fissò. «Che genere di guaio? Con la polizia?» «Tesoro, no, non parlare così» disse Flora, addolorata, inarcando contemporaneamente le labbra e le sopracciglia. «Il tuo Pa' ha avuto un guaio sul lavoro. Un incidente. È rimasto ferito mentre lavorava.» «Ferito? Come?» «Non lo so, tesoro. Perché non entri in casa, perché non prendi qualcosa? Vuoi una Royal Crown? Ne ho in frigorifero. La vuoi?» «No.» «Loretta mi ha detto di aspettarti. Mi dispiace molto di doverti dare una brutta notizia, mi fa proprio star male, tesoro. Sei sicura di non volere una Royal Crown? Perché non vieni a casa mia a rilassarti un po'?» «No, sto benissimo» disse Maureen. Passò accanto a Flora, dignitosa e gelida di paura, e il silenzio stesso della casa glielo disse: era la fine. La fine di qualcosa. Il salotto sembrava un inferno di disordine, la fodera del divano era allentata da una parte, e il paralume storto; la luce del sole cadeva, dalla finestra laterale, su un logoro tappeto rossiccio; tutto era familiare, lo stesso odor di chiuso della casa le riusciva familiare e avrebbe dovuto darle sollievo, ma a un tratto Maureen si rese conto come tutto fosse temporaneo; pur essendo brutto, era temporaneo e poteva ugualmente essere perduto. Andò a sdraiarsi sul suo letto, che era disfatto. Alzò gli occhi verso il soffitto. Aspettò. Dopo qualche tempo la porta di servizio si spalancò e qualcuno entrò in casa di corsa. «Ehi, Maureen» gridò Jules. Non gli rispose. Lui venne sulla porta della sua camera e guardò dentro. «Te lo ha detto, la vicina? Ti ha detto che cosa è successo?» «Pa' è morto?»
«È in ospedale.» Maureen lo fissò. Fu una sorpresa constatare quanto era ormai alto Jules. Non portava più i calzoni attillati di un anno prima, aveva i capelli ravviati all'indietro e scostati dal viso con impazienza, sembrava scosso e sconvolto. Disse: «Forse morirà. Un altro uomo che si trovava con lui è morto. Una tonnellata di non so che cosa gli è caduta addosso, due tonnellate...». «Gli sono cadute addosso?» «È successo qualcosa e il materiale è franato. Gli è caduto sopra.» Si fissarono a vicenda. Infine Maureen domandò, non sapendo che cosa avrebbe dovuto dire: «È in ospedale?». «Lo hanno portato al pronto soccorso del Ford.» Ella vide a un tratto l'ospedale, un edificio massiccio. «All'ospedale?» disse vagamente. «Ora andremo là. Prima ti porterò a mangiare una polpetta o qualcos'altro.» Maureen si coprì la faccia con le mani. «Ehi, bambina,» si affrettò a dire Jules «ehi, non piangere! Non sei obbligata a mangiare una polpetta. L'idea è stata di Ma'. Devo portare te e Betty a mangiare un boccone, e poi all'ospedale. Non piangere... o vuoi che mi metta a piagnucolare anch'io?» Maureen tolse adagio le mani dal viso e Jules si trovava sempre lì. Aveva la faccia tirata e pallida. «Tu non piangeresti per nessuno» gli disse. «È un diavolo di cosa da dire, questa!» Non trovarono Betty in nessun posto e così andarono con la macchina fino a un ristorante Biff, a Woodward. Maureen si sentì liberata, audace, sull'automobile... come se quello fosse stato un giorno di vacanza capitato inaspettatamente. «È successo davvero?» seguitava a domandare. Jules la sbirciò. «Ma sì, certo! Credi che scherzerei su una cosa di questo genere?» «Ma, voglio dire... è successo davvero come hai detto tu? Una tonnellata di materiale gli è caduta addosso?» domandò. «Erano due tonnellate» disse Jules. Se soltanto Jules avesse potuto continuare a guidare per sempre! Su a nord, lungo il viale, sempre voltando a nord, seguendo qualsiasi strada, portandoli entrambi fuori di quella città e lontano dall'ospedale dove il babbo giaceva e non aveva niente a che fare con loro, già cambiato, distante... Maureen seguitava ad afferrarsi la faccia con le mani, a tastarla, incer-
ta per quanto concerneva il proprio viso e il proprio cranio, interdetta. Anche quel suo cranio sarebbe potuto essere schiacciato. Jules la sbirciava, ma non commentò il suo comportamento bizzarro. Disse invece, quasi conoscesse i suoi pensieri: «Sarebbe maledettamente bello continuare a viaggiare, eh? Fino al nord del Michigan, dove ci sono molti laghi e molti boschi, al di là del limite degli alberi, in qualche posto dove nessuno sia ancora stato, ma già disboscato e pronto perché noi possiamo trasferirvisi. Riesco a immaginare il cielo, laggiù, e un lago. Riesco a immaginare un alce che va ad abbeverarsi al lago. O forse ho visto tutte queste cose in un film, in una rivista o in un calendario...». La spaventò il modo con il quale la voce gli venne meno a un tratto. Parve perdere energia. «Che cos'è esattamente un alce?» gli domandò. Entrarono nel ristorante. Maureen non aveva appetito, ma seduta al banco accanto a Jules, leggendo e rileggendo la lista, pensò che avrebbe fatto meglio a mangiare; era un privilegio, trovarsi in un ristorante. Ordinarono polpette di carne tritata e patate fritte. Maureen mangiò tutto, anche le ultime patatine fritte bruciacchiate, rugose. Passò la punta del dito sul piatto e leccò il sale. Jules disse, tenendo bassa la voce, in modo che nessun altro potesse udirlo: «Forse è già morto. Lo spero. Allora l'attesa sarà finita. Può darsi che ci affacciamo sulla soglia e che ci dicano: è già morto! E Ma' starà piangendo e nonna Wendall sarà fuori di sé. Non dovremo fare altro che parcheggiare la macchina, entrare, e ci diranno, Vostro padre è morto». Maureen si vergognava, adesso, di aver mangiato tanto. Aveva dimenticato, in un certo senso, perché si trovavano al Biff e non a casa. «Pa' non ti è mai piaciuto, vero?» disse sommessamente. «È una situazione schifosa. Quelle donne che strillano... L'ospedale puzza, non lo sopporto quell'odore. No, non mi è mai piaciuto, Reeny, ma chiudi il becco al riguardo. Non dirlo mai più. Se scherzavo, lo facevo soltanto per il gusto di dire certe cose... non so, il fatto che volevo vederlo cadere fulminato... soltanto per il gusto di dirlo e perché... perché non potevo sopportare il fatto che fosse così taciturno! Ne avevo avuto abbastanza del suo silenzio.» Jules si passò a un tratto la mano sotto il naso. «Mi dava i nervi, mi faceva quasi impazzire, a volte. Gesù Cristo, mi ha insegnato tutto quello che possa mai occorrermi di sapere a proposito del silenzio!»
11 Dopo il funerale di suo padre, Jules andò a fare una passeggiata in centro. Guardò le vetrine dei negozi, come tutti gli altri, e si lasciò sfiorare dalla gente che gli passava accanto frettolosa, sentendosi invisibile, con l'impressione di galleggiare. Aveva quasi sedici anni. Non riusciva a capire che cosa questo significasse: sedici anni di età. La morte di suo padre gli aveva sprigionato dentro la pesantezza dello spirito di lui, e questa pesantezza, simile a un gas, lo stava colmando. Aveva sentito dire che dentro ai morti si forma del gas. Eppure sentiva di avere la testa stranamente leggera, sebbene gli dolessero i piedi. La testa gli dava l'impressione di poter volare via, galleggiando nell'aria. I marciapiedi sudici intorno a lui e i piedi frettolosi della gente stavano andando in una direzione; ma il suo cervello sembrava tendere nella direzione opposta. C'era qualcosa che doveva chiarire, qualcosa con cui doveva fare pace, e invece eccolo lì, gelido e turbato, con la testa leggera, intento a dirigersi verso il Grand Circus Park, vivo, indossando innaturalmente un bel vestito scuro, mentre suo padre era morto e sotterrato. Chi era stato suo padre, precisamente? Non riesco a ricordare la sua faccia, né niente di quel che diceva, pensò Jules, in preda al panico. Ecco con chi doveva venire alle prese, con suo padre. Non era giusto che un uomo dovesse vivere e morire e ridursi a niente, ed essere dimenticato, con il suo stesso figlio incapace di ricordarlo davvero... non sembrava giusto. Mentre Jules passava davanti a una panchina nel parco, un vecchio lo osservò attentamente, come se fosse stato sul punto di riconoscerlo. Il ragazzo distolse lo sguardo. Non voleva essere riconosciuto. Il dolore piagnucoloso, sdolcinato di sua madre e la paura delle sorelle lo raggelavano; non voleva esserne parte. Doveva allontanarsi da tutti. Sicché, suo padre era rimasto ucciso; sicché, la cosa era accaduta e veniva ora del tutto superata, e, forse, anche suo padre non lo aveva mai realmente riconosciuto, e che differenza faceva? Si sforzò di assorbire ogni cosa. Sua madre non riusciva ad assorbire nulla, tutto si riversava fuori di lei, come quelle cocenti e penose lacrime, e pertanto lui, Jules, avrebbe accettato ogni cosa, considerandola normale. Indugiò davanti ai cinematografi, guardando i manifesti... le belle facce truccate sembravano non rivestire alcun significato. Potevano assorbire la sofferenza, il dolore, la felicità, senza alcuno sforzo... su quei volti non appariva alcuna ruga, niente. Jules si domandò se le loro facce lo avrebbero un giorno tradito. Nelle
grandi e vecchie sale dei cinematografi tutto si svolgeva come sempre, uno scarso pubblico andava e veniva, c'era il solito odore di tappeti sudici, di popcorn stantio e quella muffita oscurità dei vecchi e grandi edifici del centro, inesplicabile. Jules fissava i manifesti, aspettando di sentirsi interessato. Fissò la fotografia di Marion Brando. Gran parte della sua vita proveniva dai film, gran parte del suo modo di esprimersi e del suo morale alto, ma ora, mentre rimaneva lì sul marciapiedi, si sentì sconfortato e inerte e non c'era alcuna musica in nessun posto intorno a lui, né alcuna promessa di musica. Suo padre aveva avuto... quanti anni? Che dolore aveva provato? E il corpo che aveva sentito dolore era stato davvero di suo padre, dell'uomo che, per così lungo tempo, sì era messo a sedere allo stesso posto a tavola, dell'uomo che aveva cenato in un certo modo ogni sera, smanioso di finire al più presto? L'uomo che Jules aveva sempre odiato? Si incamminò adagio verso casa. Fu un lungo tragitto. La temperatura era bassa e lui non riuscì a ricordare che stagione fosse, se la primavera o l'autunno. Il fiume sembrava nebbioso, ma si trattava probabilmente del fumo delle fabbriche sulla riva ovest. Il fumo saliva, ondeggiando, da un certo numero di punti. Saliva e passava dolcemente sopra il ponte Ambassador, passando attraverso il ponte e facendolo sembrare irreale; automobili e autocarri correvano attraverso il fumo. Jules non riusciva a ricordare perché si fosse spinto così lontano per fare una passeggiata, e che cosa avesse sperato di capire, mentre aveva tante cose da fare a casa - sua madre aveva bisogno di lui - e inoltre si sentiva a disagio con quel vestito. Sua madre aveva bisogno di lui a casa, e sempre avrebbe avuto bisogno di lui. Cominciò a sudare. Là nel fiume, c'erano forse cadaveri sotto il pelo dell'acqua, o per lo meno i ragazzi raccontavano di aver visto cadaveri affiorare alla superficie e poi scomparire di nuovo... I morti, gli annegati, così silenziosi e pazienti... Jules sentì che quelle tenebrose e misteriose persone si muovevano nell'aria di ogni giorno, cadaveri che sembravano vivi. Potevi imbatterti in uno di essi, cadere in un abbraccio, sentire su di te quell'alito greve e gelido e quei capelli freddi, filacciosi, opachi... Come era stato suo padre, esattamente? Jules lo ricordò a un tratto mentre tentava di riparare la toletta, mentre tentava di fermare una perdita d'acqua. La porta del bagno era incurvata. Il linoleum si sollevava a vari livelli, gonfio e consumato fino a essere liscio, per cui, mentre sedeva nel bagno, Jules contemplava dall'alto questo paesaggio e aveva la vaga idea che si trattasse di una carta in rilievo o di qualcosa di simile, un territorio
segreto. Suo padre aveva tentato varie volte di riparare la toletta, e innumerevoli volte di riparare i rubinetti. Inutilmente. Il respiro ansimante, i borbottamenti, i minuti e minuti di lotta silenziosa, poi, «Oh, maledizione!» e lo strepito di qualcosa che veniva scaraventato sul pavimento, una chiave inglese o le tenaglie. Il silenzio, il respiro ansimante, poi lo strepito. Questo era suo padre. Mai un po' di fortuna nel riparare le cose. Scarafaggi uscivano dagli angoli nascosti del bagno durante la notte e, a volte, indugiavano ancora fuori al mattino, pigri insetti, e spesso li trovavi nelle credenze in cucina e sotto l'acquaio, molto spesso... e facevano imprecare suo padre. Jules socchiuse gli occhi e si sforzò di pensare a suo padre. Che cosa c'entrava suo padre con gli scarafaggi? Perché era più facile pensare a essi che a lui? Suo padre e i soldi. Questo era importante. Lì stava, forse, il segreto. Lui si lagnava per i soldi. Non si era mai lagnato molto, ma quando si lagnava era per i soldi, di solito. Dove finiva tutto quel denaro, un'intera busta paga? Dove finivano quei venti dollari? E così via, e così via, l'indigenza più forte del denaro, i crucci più forti del denaro, il non averne abbastanza, troppe persone da sfamare, la madre malata in casa, e ogni anno i bambini si prendevano l'influenza, e gli antibiotici costavano molto. Le medicine costavano molto. Loretta aveva avuto qualche disturbo alle reni e aveva dovuto prendere pillole ogni sei ore, e quelle pillole erano care, come ogni altra cosa negli Stati Uniti, carissime, per cui il padre di Jules diceva malignamente: «Uno di questi giorni me la squaglio! Potete andare all'inferno, tutti quanti!». Oppure diceva, alzando gli occhi dal giornale, ove aveva letto qualcosa: «Tutti i negri schifosi usufruiscono dell'assistenza, perché io no? Perché noi no? Possano andare all'inferno tutti quanti!». Jules aveva pensato all'ira di suo padre durante la Messa funebre. Non una Messa speciale, semplicemente una Messa funebre. Una chiesa squallida. Jules sedeva accanto alla madre, immensamente stanco del dolore di lei, che era confuso, scervellato e incontrollato come lo erano state di solito le sue ire. Se soltanto avesse potuto far conto su sua madre... Jules non aveva prestato molta attenzione alla Messa funebre. Non andava più in chiesa. Sentiva le chiese della città attrarlo mentre passava, un allettamento malinconico. Erano come vaste e leggendarie caverne sottomarine, che adescavano sott'acqua i nuotatori, risucchiandoli con correnti misteriose... con promesse di segreti, di ricompense, di conoscenze particolari che ormai non rivestivano più importanza. Non gliene importava. Suo padre non se n'era curato. Non vi era stata alcuna ira, in questo atteggiamento, vi era
stato soltanto il nulla. La faccia di suo padre, liscia e inespressiva come un teschio con pelle bianca distesa sopra... questo era stato suo padre. Jules riusciva quasi a ricordarlo. La Messa lo aveva oscurato, il morto, ma adesso egli stava tornando a Jules, penosamente. Nel suo nocciolo v'era l'ira. Questo era il segreto di lui... l'ira. Ma Jules non lo aveva ucciso. Sì, nel nocciolo di lui v'era stata l'ira; l'anima sua era ira, era fatta d'ira. Ira per che cosa? Per niente, per se stesso, per la vita, per la catena di montaggio, per gli scarafaggi e la toletta che gocciolava. Una cosa valeva quanto l'altra. Ira. Mancanza di soldi. Dove erano finiti i soldi? Da dove sarebbero venuti i soldi? Ira, soldi. Suo padre. Jules sentì un lampo di soddisfazione, quasi di gioia. No, non aveva ucciso suo padre. La sua ira era stata arginata per anni, arginata con successo; non aveva fatto del male a nessuno. I soldi erano un'avventura. Un'avventura aperta per lui. Qualunque cosa sarebbe potuta accadere. Sentì che l'essenza di suo padre, quell'ira oscura e borbottante, lo aveva circondato e quasi penetrato, ma non lo aveva penetrato del tutto; era libero. Pochi giorni dopo, mentre andava a scuola, stava pensando a questo - a suo padre, alla furia di suo padre, ai soldi di suo padre, alla morte di suo padre - quando vide qualcosa che lo fece trasalire. Poi un momento dopo, si rese conto che era Edith. Si trovava con altre due ragazze. Per un attimo non riuscì quasi a muoversi, mentre la fissava, mentre sentiva la stessa disperazione e lo stesso stupore che aveva sentito alla morte di suo padre scaturirgli dentro, adesso, alla vista della ragazza. Ella stava salendo gli scalini di cemento del sovrappasso di un viadotto insieme alle sue amiche. Jules si mise a correre per raggiungerle. «Ehi,» disse «dove state andando così in fretta?» Si voltarono a guardarlo con stupore. Una delle ragazze, la più audace, gli sorrise. Era la più carina, ma Jules rimase fedele a Edith; barcollò verso la sua parte del marciapiedi. Alla loro presenza era diventato un po' vacillante. «Cammini sempre in questo modo?» domandò. Edith si strinse appena nelle spalle. Si era ravviata i capelli all'indietro, raccogliendoli in una coda di cavallo. Aveva le sopracciglia e le ciglia bionde, era una ragazza casta e fredda, senza alcun sorriso per lui. Jules camminò appoggiando tutto il proprio peso sui calcagni, le mani ficcate nelle tasche, degnando le ragazze della propria presenza come se si fosse trattato di un dono importante; sentiva
una lieve trazione tra se stesso e le ragazze, un'esaltazione nervosa. Sbirciò Edith in tralice. Sembrava molto innervosita. Le altre ragazze presero a parlare con lui, stuzzicandolo apertamente, rinfrancandosi, e Jules rispose loro nello stesso tono: Ah, sì, è così? Non mi prenderete in giro, per caso? «Dov'è la tua amica, Jules?» gli domandarono. Stirarono la bocca in una dolce espressione d'accusa, e Jules fece una smorfia per dimostrare che la cosa non lo interessava affatto. Aveva, sì, un'amichetta, la sua ragazza, e pertanto, in realtà, non sapeva che farsi di Edith. La sua ragazza, Rose Ann, non era amica di queste ragazzine; le amiche di lei erano esperte e scaltre e molto sicure di se stesse. Andavano a scuola con le calze lunghe. Avevano le orecchie bucate e i loro segreti erano interessanti, eccitanti e tenui, mentre queste ragazze, desiderose di imitare la loro sofisticazione, ma al contempo temendola, cercavano di parlare nello stesso modo piatto, cantilenante e melodico. Jules ebbe un sorriso lievemente sprezzante per tutte loro. Si trovavano a metà strada sul viadotto. Il vento soffiava molto forte. I riccioli fragili di Edith le frustavano la fronte ed ella doveva socchiudere gli occhi per difenderli dal polverone. Aveva occhi di un celeste scialbo e una pelle molto chiara. Non si metteva il rossetto sulle labbra. Indossava un cappotto a scacchi gialli e bianchi, già un po' insudiciato dall'aria e dagli autobus di Detroit; portava una borsetta dalla lunga cinghia che le passava su una spalla. A Jules parve deliziosa. Non la conosceva affatto. A un tratto afferrò la cinghia della borsetta, pensando alla bretellina della sua sottoveste, e la tirò. Ella si scostò da lui, spaventata. Jules vide i muscoli guizzarle sulla gola. Avrebbe voluto dirle di non aver paura di lui e invece disse, ironico: «Che cosa c'è qui dentro, munizioni? Pesa parecchio». «Oh, è soltanto... la mia borsetta...» Le tre ragazze sembravano danzargli attorno nel vento, sebbene i loro piedi, in comuni scarpette da riposo marrone, non fossero in realtà molto graziosi; Jules sorrise a tutte loro e alle loro facce dall'espressione colma di una quasi stridula aspettativa. Non lasciò andare la borsetta di Edith. Domandò: «Ehi, hai qualche tua fotografia?». «Che cosa te ne importa?» «Ne hai qualcuna? Posso vederle?» «Perché? Che cosa te ne importa?» domandò Edith. Si voltò verso di lui. I capelli le ondeggiavano nel vento. «Dammi una tua fotografia, eh? Vuoi?» Era di moda, quella primavera, per le ragazze delle medie, farsi fare il
"ritratto", tre dollari e novantanove centesimi per una serie di copie, ritratti color seppia, con finti vestiti di velluto, e un unico filo di perle, e un trucco pesante. Andavano tutte da un fotografo italiano, vicino alla scuola. Jules smaniò a un tratto dalla voglia di avere una fotografia di Edith. Diede uno strattone alla borsetta. «Oh, va bene» fece lei, nervosamente. «Non so perché tu ne voglia una, probabilmente soltanto per essere...» O si perdette di coraggio, o non le venne in mente altro da dire. Tolse dalla borsetta un portafoglio di plastica blu, e dal portafoglio, mentre Jules stava a guardare teneramente, sfilò una fotografia e gliela porse. Egli si sentì a un tratto molto eccitato. Avrebbe voluto afferrarle una mano, avrebbe voluto baciarla, ma lei stava già facendo un passo di lato, come se avesse intuito la sua intenzione, e le altre ragazze le si avvicinarono, quasi per proteggerla. Una di loro disse in tono sprezzante: «Non chiedere a me una fotografia, perché non te la darei!». Jules non le badò affatto. Stava contemplando la fotografia di Edith. Era color seppia, e Edith vi figurava seduta rigidamente contro lo sfondo di quella che sembrava una notte stellata. Intorno alle sue spalle gracili v'era una scura stoffa di velluto, con una scollatura a "V", moderatamente audace. Sarebbe dovuta sembrare un vestito da sera. Portava un unico filo di perle e aveva le labbra delineate troppo pesantemente; gli occhi sembravano scialbi, sbiaditi, sopraffatti dal trucco greve della bocca. Jules si disse che non avrebbe potuto fare a meno di amare quella ragazza, sebbene non avesse idea di chi ella fosse. Edith si stava allontanando, imbarazzata e frettolosa. Le altre due si voltarono a guardarlo. «Grazie infinite! Dico davvero, grazie!» Jules gridò loro. E rimase indietro. Contemplò la fotografia. Edith. Edith Kamensky. Poiché aveva la fotografia, sentì che poteva permettersi di lasciare andare la ragazza; che cosa avrebbe potuto dirle, del resto? Aveva occhi freddi, gelidi, incerti. Le ciglia erano rade. Si vedeva un neo accanto al lato sinistro della bocca. Ciuffi di capelli si arricciolavano sulle tempie e intorno alla fronte. Jules si domandò se ridesse mai. Che aspetto aveva quando rideva? Sentì la concupiscenza salire in lui, il desiderio di trovarsi solo con lei, di stringerla a sé, anche se in realtà non voleva avvicinarla di nuovo nei prossimi giorni. Anzi, in realtà, non riusciva a immaginare di poterla avvicinare ancora. Sì fermò per mettersi in tasca la fotografia, ma, in qualche modo, la per-
dette. Il vento gliela strappò di tra le dita. Si gettò avanti per afferrarla, ma venne sospinta oltre la ringhiera. «Gesù. Merda» disse, stupito. La seguì con lo sguardo mentre il vento la portava, piuttosto languidamente, in basso e al di là della strada, sopra autocarri e automobili. Corse giù per le scale e si lasciò scivolare sull'argine fino alla strada, poi giù nel fango e appena pochi passi più in là una automobile della polizia gli passò accanto. Filò via a forse centotrenta chilometri all'ora. Portava fortuna. Dovevano inseguire qualcuno. Jules si guardò attorno cercando la fotografia... stava per posarsi proprio in quel momento. Vi fu una breve sosta nel traffico. Lui calcolò e cominciò a portarsi sulla strada. Qualcuno fece squillare il clacson rabbiosamente e Jules saltò di nuovo sul marciapiedi, che non era precisamente un marciapiedi, ma soltanto uno stretto passaggio rialzato. Nessuno sarebbe dovuto passare di lì a piedi; era proibito dal regolamento. Jules aspettò. Il vento gli faceva bruciare gli occhi. Anche la faccia gli stava ardendo, di vergogna e di esasperazione, eppure non voleva rinunciare, aveva ormai fissato lo sguardo su un pezzetto di carta bianca che sfarfallava al lato opposto della strada, sollevandosi e ricadendo con violenza al passaggio di ogni automobile. Tornò a farsi avanti, aspettò che una macchina fosse passata, poi attraversò la strada ciecamente. Qualcuno frenò, e cominciarono tremendi squilli di clacson. Jules li respinse con un gesto del braccio e balzò sull'altro marciapiedi. Afferrò il pezzo di carta, ma non era la fotografia. «Cosa?» esclamò a voce alta. Lo gettò dietro le proprie spalle, disgustato. Poi scorse un altro pezzo di carta. Quest'ultimo, caduto nel vicolo vicino, a pochi metri di distanza, era già spiegazzato. Corse a raccattarlo. Edith Kamensky, con le sue chiare, chiare ciglia... Per qualche tempo rimase lì sul marciapiedi, accanto all'argine fangoso, fissando la fotografia. Era sudicia, e piegata in due. Lo sfinimento scaturì in lui, una sensazione di stupore. V'era sempre qualcosa nella vita che non riusciva a capire. Adesso che aveva ricuperato la fotografia, pensò, doveva restarle fedele. 12 Aveva quattordici anni. Sedeva al tavolo di cucina mentre l'amica di sua madre, Ethel, le pettinava i capelli bagnati e vi strofinava su una lozione. La lozione era verde e aveva un odore di menta peperita; a Maureen quell'odore piaceva.
Loretta sedeva di fronte a loro, la sedia girata verso l'esterno, le gambe accavallate. Le due donne stavano fumando. Loretta disse: «La principale non è poi così cattiva... Mi piace quella sua automobile... quella macchina rossa, l'hai vista?». Ethel stava arrotolando una ciocca dei capelli di Maureen intorno a un grosso bigodino di plastica rosa. Disse con aria preoccupata: «Mi ci ha portata a fare un giro, un giorno. No, non è cattiva, ma spreme ogni centesimo dalla sua attività. Preferirei avere un uomo come principale. E Dora May, quella piccola allocca, si precipita a farle la spia se qualcuno esce un po' prima. L'altro giorno avevo finito con la mia cliente alle quattro e mezzo, e quindi perché diavolo non me ne sarei dovuta andare? Me ne andai, e la mattina dopo...». Era ormai estate e il padre di Maureen era morto da mesi. Ella non ne sentiva la mancanza. A volte si metteva a piangere quando rimaneva sola, a piangere senza nessuna ragione; ma riteneva che ciò non avesse niente a che vedere con suo padre. Aveva a che vedere, con l'ospedale Ford e con tutte le corsie e tutte quelle persone, ognuna di esse indifesa come suo padre. Aveva a che vedere con il cimitero. Aveva a che vedere con suo fratello, il quale, ormai, rimaneva quasi sempre fuori di casa. Tutti questi cambiamenti, questa geografia del mutamento, ella non riusciva a reggere al ritmo. Cosi, a volte, piangeva quando era sola. Alla presenza di altre persone, stava imparando a non piangere. «La signora Forster è una donna gentile» disse Loretta. «È tornata indietro apposta per darmi un quarto di dollaro. Non è stato gentile da parte sua?» «Sì, è gentile. Anche la signora Abraham è gentile. Invece quella signora Freer, o comunque si chiami, è una cagna... si crede tanto affascinante, ma ho in serbo una sorpresa per lei, se per caso dovesse domandare il mio parere.» Ethel era una spilungona energica, sulla quarantina. Aveva frequentato un corso di estetista nella scuola locale e lavorava nel salone di bellezza La Marvel, sulla Vernor. Loretta, priva di ogni preparazione, lavorava anch'ella nello stesso salone di bellezza, ma poteva soltanto lavare i capelli alle clienti e dare una mano nelle pulizie. Era stata assunta sin dai primi di giugno. Improvvisamente, aveva cambiato aspetto: era tornata a casa con i capelli tinti di un biondo chiaro, rigonfi intorno al viso, con le sopracciglia arcuate in un modo nuovo e importante e le unghie curate in modo esperto, senza che si vedessero le mezzelune; aveva un modo nuovo di fumare, da
donna che lavora, con la sigaretta tenuta, frettolosamente tra il pollice e l'indice, sempre pronta a essere portata alla bocca. Maureen notò che Ethel fumava nello stesso modo. Ethel aveva i capelli tinti in rosso, acconciati a ondulazioni intorno al viso, e si vestiva sempre scegliendo tinte che, secondo lei, si armonizzavano con il rosso... marrone, verde, blu scuro. Lei e Loretta sfogliavano riviste quando se ne stavano sedute in cucina sorseggiando il caffè... Hair Design, Vogue, Salon & Boutique. Portavano a casa queste riviste dal salone di bellezza La Marvel e si dimenticavano di restituirle. Maureen era andata un giorno al salone di bellezza soltanto per vedere come fosse e i cristalli delle vetrine non troppo puliti l'avevano sconfortata un po', ma si trattava di un lavoro, ed era già qualcosa. Sua madre sembrava esserne contenta. «Vorrei poter seguire anch'io un corso, prendere qualche lezione» disse Loretta. Stava osservando Ethel mentre pettinava Maureen. «Mi piacerebbe saper tagliare i capelli e così via. Credo che ci riuscirei proprio bene, tu che ne dici? Non mi sarebbe affatto difficile acconciarli, mi farebbe paura soltanto tagliarli.» «Non c'è niente di difficile» disse Ethel. «Il mese prossimo andrò in centro, a informarmi in quella scuola, come si chiama, e vedrò in quanto tempo potrei farcela.» Maureen si toccò la testa. C'erano quattro grossi bigodini posti proprio sopra il cocuzzolo, che le tiravano i capelli, ma non voleva lamentarsi. Ethel stava lavorando adesso sui lati. Era stata un'idea di Loretta: qualche giorno prima, osservando Maureen con aria critica, aveva detto: «Faresti bene a lasciare che Ethel ti acconci i capelli. Quelle frange non ti donano mica tanto, bambina. Si direbbe che tu l'abbia comprate dal commesso viaggiatore delle spazzole Fuller». E ora, sopra i fogli di giornale disposti sul pavimento intorno alla sedia, si trovavano ciocche dei suoi capelli di un castano scuro. Sul tavolo c'erano le forbici portate dal salone di bellezza La Marvel, umide, con ciuffi di capelli appiccicati. Anche la lozione, lo spray e gli stessi bigodini erano stati portati a casa di nascosto dal La Marvel. «Come sta tua suocera?» domandò Ethel. «L'hai vista. Io non glielo domando.» Nonna Wendall, sebbene non stesse meglio, aveva occupato il salotto. Maureen non sapeva come questo fosse accaduto. A poco a poco, la vecchia si era impadronita del divano, giacendovi reclinata a mezzo, con una coperta imbottita sulle ginocchia, e guardando la televisione. Si svegliava
tutte le mattine alle sei. La sentivano in cucina, mentre si preparava la colazione, e, quando si alzavano, i piatti della colazione si trovavano tutti nell'acquaio, a mollo, e nonna Wendall, quanto a lei, era in salotto, con il televisore acceso e il volume tenuto piuttosto alto, a guardare lo spettacolo "Oggi". Le veneziane erano abbassate, in modo che non si determinassero riflessi sullo schermo. Quando voleva andare in bagno, la nonna chiamava Loretta, se Loretta era in casa, oppure Maureen, se Maureen si trovava in casa, o Betty, e, appoggiandosi pesantemente alla loro spalla, si trascinava in fondo alla casa. Sembrava più massiccia di un tempo, sebbene non godesse di buona salute. Mangiava un mucchio di gelati. Aveva i capelli crespi e bianchi, sottilissimi, e la faccia sembrava una massa di rughe. Ciò nonostante, v'era ancora in lei un certo antagonismo giovanile. In quel momento, alle nove e mezzo di sera, si trovava sul divano, nella stanza in penombra, e stava guardando un programma televisivo; Maureen udiva gli applausi artificiosi e le risate che scrosciavano nel salotto buio. In cucina, le due donne erano stranamente silenziose. «Be',» disse Ethel «era la stessa cosa anche con la mia Ma'... voglio dire che aveva con sé la suocera. Dovette godersela per trent'anni. Ti piacerebbe, piccola?» «Gesù Cristo!» esclamò Loretta. «Quella vecchia continuò a essere picchiata in testa per tutta la vita. Giuro, aveva il cervello rimescolato, o che so io. Arrivò dalla Cecoslovacchia quando aveva diciassette anni e non si diede mai la pena di imparare l'inglese. Diceva che era troppo faticoso, che era troppo tardi per lei. Visse fino a ottant'anni, e non seppe mai niente, dico sul serio, niente di niente, non seppe mai della seconda guerra mondiale, né di Hitler, né di niente altro, era semplicemente matta. Non che fosse una cattiva vecchia, ma a te piacerebbe, Loretta?» «Gesù Cristo, no!» «Abitavamo a Lycaste, allora.» Maureen sedeva remissiva, a capo chino. Ethel finì di disporre un'altra fila di bigodini e li fissò con fermagli d'acciaio. Poi afferrò lo spray per capelli e, per qualche tempo, spruzzò da ogni parte la testa di Maureen. «Dio, come puzza quella roba» disse Loretta. «Questo non è niente. Al salone di bellezza abbiamo un miscuglio davvero forte, altro che questo qui!» disse Ethel. «Viene fuori da una specie di cannone, l'hai visto? Dio buono, quanto è forte! Devo averne una pellicola sui polmoni, scommetto. Mi fa venir voglia di vomitare. Per quattro anni
l'ho adoperato, e quanto volete scommettere che ho i polmoni rivestiti da quella roba, eh?» «Oh, io scommetto di no.» A questo punto Ethel ravviò i capelli di Maureen lisci sulla fronte e li fissò con una striscia di nastro adesivo. «Va' a prendere il phon e asciugati ben bene tutti i capelli. Non devi andare a letto con i capelli umidi» disse Loretta. Inserirono la spina dell'asciugacapelli, e Maureen si rimise a sedere tenendolo in mano; era un modello portatile, acquistato per meno di dieci dollari. Le piaceva l'aria calda che le veniva soffiata sulla testa. Le lacrime che le faceva venire agli occhi erano lacrime innocenti, senza sofferenza. Come quando sbadigliava. Ben diverse dalle lacrime amare che la sorprendevano, aggredendola con tanta forza; talora, in biblioteca, dietro le pile di libri, si accorgeva di aver cominciato a un tratto a piangere, in preda a una passione di vergogna, senza capire. Sua madre piangeva di rado, ormai, e sua sorella non piangeva mai. Quanto a Jules, che ella ricordava di aver veduto piangere soltanto pochissime volte, non era quasi mai in casa, ormai, e pertanto non sapeva niente di lui. Jules aveva rinunciato a frequentare l'ultimo anno delle medie e diceva che non sarebbe più tornato a scuola. Le due donne sorseggiavano ora il caffè e parlavano, evasivamente e sommessamente, di qualcuno che Maureen non conosceva. Ne arguì che non avrebbe dovuto ascoltare. Si trattava di una donna che si era messa nei pasticci e il marito l'aveva scacciata di casa, e... Maureen pensò a Jules. Si sentiva al sicuro tra quelle due donne, sua madre e l'amica di sua madre, stranamente al sicuro nel loro intimo, pettegolo tepore; parlassero pure di argomenti qualsiasi, di qualsiasi cosa! In momenti come quelli ella riusciva a pensare a suo padre, o a Jules, o a episodi da incubo che normalmente l'avrebbero atterrita... come ad esempio la ragazza trascinata su un'automobile, a meno di due isolati di distanza da casa loro, e violentata, e poi gettata giù, e quasi ammazzata, una ragazza che Maureen conosceva. Jules aveva cominciato a restar fuori di casa anche di notte sin dal mese di aprile, dicendo a Loretta che dormiva e passava la notte in casa di un amico. Aveva dato un indirizzo. Loretta si era messa a piangere, ma non aveva cercato il nome sull'elenco né si era data la pena di telefonare, e a poco a poco Jules aveva cominciato a restar fuori di casa due o tre notti la settimana. Maureen aveva saputo da altri ragazzi che stava marinando la scuola. Che cosa facesse durante il giorno, se avesse un altro lavoro o passasse
il tempo vagabondando, se si stesse cacciando nei guai, questo nessuno lo sapeva. Aveva detto a Maureen: «Quei marmocchi a scuola mi stanno dando ai nervi, sono così tonti, accidenti. Sono dei poppanti. Non riesco a sopportarli». I ragazzi che aveva frequentato per anni erano tonti, secondo lui, e li evitava. Aveva nuovi amici, e Maureen non sapeva chi fossero. Una sera, quando gli domandò che cosa gli stesse succedendo, se non volesse più bene a lei, a Ma' e a Betty, lui rispose, spazientito: «È questa casa che non riesco a sopportare. Non la sopporto, questa topaia. Arrivo davanti alla porta e continuo a pensare, adesso vedrò lui, lì dentro... Invece c'è sempre la vecchia. Continuo a pensare che lo sentirò entrare con la macchina nel viale d'accesso. O che lo sentirò alzarsi nel cuor della notte e andare in bagno. Rimangono troppi suoi ricordi, qui, e io non ce la faccio a sopportarli». «Lo aveva fatto tre volte, scommetto. Ci furono tre diverse volte» disse Ethel. «Non avrebbe dovuto imparare? Gesù!» Loretta rise. «Come sta quella come-si-chiama, quella Connie? Continua a farsi vedere qui?» «Ha un appartamento a Highland Park. Ha trovato un lavoro, ma non so che cosa faccia, non domandarlo a me, si direbbe che sia qualche grande segreto, o che so io, da come parla. In realtà, secondo Maureen e me, fa la cameriera. Che altro potrebbe fare, quella vacca? Oh, sì, si fa ancora vedere, qualche volta. Lei e la vecchia si mettono a sedere in salotto e se per caso entri ti guardano storto, come se fossero a casa loro, maledizione. Connie deve pesare almeno novanta chili... che vacca! Viene qui dopo la Messa e ha sulla testa il più dannato velo di pizzo che tu abbia mai visto, pizzo nero, drappeggiato intorno alla testa come un toro o una vacca spagnoli o che so io. E quelle due seguitano a bisbigliare in salotto, a cicalare a più non posso. Parlano di me, lo so, ma me ne frego. Pettegolino pure. Se non avessi un lavoro, impazzirei con il puzzo di quella vecchia megera e tutte le sue balle e il televisore acceso continuamente, ma sta' a sentire, ecco come la penso io: la prossima volta che il televisore si guasterà, non mi darò certo la pena di farlo riparare, però fino a quel momento tanto vale che lo guardi. Perché no? Non sarebbe poi cattiva, se soltanto si raddolcisse di quando in quando. Voglio dire, ricordo quando abitavamo tutti quanti in quella spaventosa fattoria, in campagna, e lei era molto più giovane e faceva ogni genere di cose... faceva il pane e le tagliatelle e preparava un mucchio di roba in conserva, sgobbava da matti, era tanto buona con Jules,
e sembrava proprio un'altra persona. Adesso ha sempre la stessa espressione sulla faccia. Come una bomba. Sembra una bomba. Ma non mi piace parlar male di lei, perché...» Perchè morirà presto, pensò Maureen. «Perché è la madre di Howard, capisci» disse Loretta, senza molta convinzione. «Eh, sì, lo so. Come ti dicevo, mia madre ebbe la stessa gatta da pelare. Per trent'anni.» «Tua madre deve essere stata una santa.» «Sì, era una specie di santa, adesso che ci ripenso. Noi tutti, i suoi figlioli, siamo convinti che fosse proprio buona. Vorrei non averle dato tanti crucci...» «Crucci! Gesù Cristo, chi non ha crucci a questo mondo?» Loretta fissò lo sguardo su Maureen. Stava incominciando a guardare Maureen in un certo modo, ormai; seriamente, riflessivamente. La cosa risaliva ad alcuni mesi addietro, quando Maureen aveva compiuto i quattordici anni. «Quattordici anni! Dio mio!» aveva esclamato Loretta, e Maureen si era sentita a disagio per quelle parole. «Sì, questo è vero. Questo è certo» disse Ethel. «Nel salone ho i miei crucci, quando Howard era vivo avevo crucci, quando abitavo con mio padre avevo crucci... uno dopo l'altro, per tutta la vita. Ma non mi sono lasciata demoralizzare.» «Oh, no di certo. Hai proprio una bella cera, Loretta.» «Bah, all'inferno» disse Loretta, compiaciuta, rifiutando il complimento con un cenno della mano. «Non mi lascerò buttar giù dalle preoccupazioni. È venuto il controllore dell'acqua e ha detto che qualcuno, qualche monello, aveva rotto il contatore. Be', ho risposto io, la colpa non è mia. Sarà meglio che non lo rompano più, ha detto lui. Si rivolga ai miei vicini, ho risposto io, il contatore serve anche a loro, no? Te lo assicuro io, Ethel, ogni bastardo ignorante che passa per la strada finisce qui e cerca di farmi fare del cattivo sangue. Questo tizio mi fa, lei non è la signora Wendall e questa non è Labrosse Street? E io gli ho risposto di dare un'occhiata alla targa della strada, se sapeva leggere. Gli ho detto che nessuno dei miei figlioli aveva rotto il contatore e che poteva andare all'inferno se credeva che l'avrei pagato io.» «Eh, sì, cercano sempre di menarti per il naso. Se hanno un distintivo o che so io e arrivano su una camionetta, credono di poterti mettere i piedi sul collo.»
«Posso assicurarti che i piedi sul collo non me li metterà nessuno. Soltanto perché sono vedova. Quel piedipiatti, per esempio, quell'italiano, come diavolo si chiama, sta rompendo le scatole a Jules, e senza nessuna ragione. Com'è che si chiama, Reeny?» «Joe Mattuizzo.» «Sì, proprio lui. Suo fratello minore era amico di Jules. La settimana scorsa, o due settimane fa, ha fermato Jules, lo ha preso su sulla macchina di pattuglia, e Jules non stava facendo niente, niente di niente. Lui e quell'altro agente lo hanno perquisito. Hanno detto che stavano ripulendo la strada e cercando ragazzi con coltelli o stupefacenti. Jules non lo possiede nemmeno, un coltello, a che diavolo potrebbe servirgli? In ogni modo, dovettero lasciarlo andare. Quando vidi quel bastardo, il giorno dopo, ciondolare dalle parti di Vernor, gli dissi: Vada a perquisire qualche negro schifoso e lasci in pace mio figlio! Lui cercò di comportarsi cortesemente ma io gli dissi che se avesse infastidito i miei figlioli si sarebbe pentito, e di ricordarsene.» «Ma non fu lui, con Betty?» «No, quello fu un poliziotto anziano, e non una cattiva persona» disse Loretta. La sua faccia assunse un'espressione lievemente irritata, e Maureen si accorse che Ethel aveva sbagliato ad affrontare quell'argomento. «No, si comportò come si deve. Capì. Si limitò ad accompagnarla a casa e a parlare con me. Gli offrii una tazzina di caffè. Era un vero gentiluomo, non come quel bastardo di Mattuizzo, o come diavolo si chiama.» Betty, un giorno, era stata portata a casa dalla polizia, perché sorpresa insieme a una banda di ragazzetti che stavano forzando le serrature delle automobili parcheggiate nei pressi del Tiger Stadium. Era il pomeriggio di una partita di pallabase, e le automobili avevano riempito tutti i parcheggi e persino i giardinetti davanti e di lato alle case private. Contro Betty non era stata formulata alcuna accusa. Loretta aveva pianto per tutta la sera, poi aveva schiaffeggiato Betty e tutto era finito lì. Nessuno ne aveva più parlato. «Ti assicuro che non riusciranno a demoralizzarmi» disse Loretta, irosamente. «Non ci sono abbastanza bastardi in questa città per abbattermi a lungo.» L'unico lavoro che la nonna di Maureen avrebbe dovuto fare consisteva nello stirare la biancheria; era stata un'idea sua. Mentre Loretta rimaneva fuori di casa durante il giorno, lei avrebbe dovuto stirare stando seduta in
cucina, con l'asse da stiro collocato tra due sedie, in modo da poterci arrivare. Sulla credenza della cucina c'era una radio che funzionava continuamente, trasmettendo brevi racconti sceneggiati della durata di un quarto d'ora. Ma di solito la nonna si sentiva male e così era Maureen a stirare in vece sua, intenerendosi, sentendo la superficie della pelle sollevatesi in escrescenze minuscole perché era così debole. Loretta, tornando a casa dal lavoro, diceva: «Oh, vedo che hai stirato, Ma', grazie», ma la nonna non apriva mai bocca per dire che era stata Maureen a sbrigare il lavoro. «La odio! Vorrei che se ne andasse» bisbigliava Maureen a Betty. «Dovrebbero venire a prenderla e gettare la chiave» diceva Betty. In parte, la nuova vita di Loretta era caratterizzata da una certa disinvolta e allegra cecità; si sarebbe detto che non vedesse quello che succedeva. Aveva sempre fretta. Arrivava a casa e si cambiava, scendeva nel barfarmacia, andava a fare la spesa subito prima che la drogheria chiudesse, poi usciva per andare al cinema con Ethel o con altre "ragazze" che lavoravano nel salone di bellezza, andava al bowling con loro, era sempre incalzata dalla premura, e sembrava possedere l'energia beffarda di una sorella maggiore. Nei riguardi di nonna Wendall era comicamente cerimoniosa. Diceva: «Reeny pulirà la cucina e il bagno, stamane, Ma', e noi apprezzeremmo moltissimo la cosa se tu non camminassi sul pavimento. Sicché, se hai bisogno di andare in bagno, potresti magari andarci subito. Ti ci accompagno io». Veniva in cucina in sottoveste, circondata da un odor di sudore e di profumo, le bretelline della sottoveste fermate con spille di sicurezza, e la gonna tesa attorno alle cosce, per cui si poteva vedere dove erano fermate le calze. Canticchiava spesso tra sé e sé. Quando si lagnava della paga troppo bassa corrispostale dal salone di bellezza La Marvel, non si trattava di lamentele serie, ma di una sorta di canzone, un altro modo di canticchiare. Quando Maureen cercava di spiegarle qualcosa, perché avesse bisogno di una gonna nuova, o di quindici centesimi di dollaro per la campagna a favore della Croce Rossa, a scuola, Loretta, il più delle volte, non l'ascoltava. Oppure diceva: «Bla-bla-bla». Aveva preso l'abitudine di rimanere in piedi con le mani sui fianchi, a bocca irrigidita in un sorriso paziente e incredulo. Forse ascoltava con lo stesso sorriso i racconti incredibili delle altre donne che lavoravano nel salone di bellezza. A volte, quando tornava a casa tardi, essendo stata a vedere un film, o al bowling, o magari in un bar, svegliava Maureen e Betty e dava loro un sacchetto di ciambelline salate! Altre volte le destava soltanto per lagnarsi di qualcosa. Perché la
casa era così sporca? Perché quella gran tonta di Maureen non riusciva a tenerla più pulita? Avrebbe messo Betty in riformatorio, nel carcere delle ragazze, sì, proprio così... e Betty, con i suoi occhi furbi e a rughine agli angoli, con la sua pelle da ippopotamo, guardava la madre con lo stesso identico sorriso incredulo, lo stesso sorriso di Loretta. A volte Loretta entrava in casa con i capelli appena acconciati e con il viso tutto truccato, una donna quasi graziosa, dalla fronte lievemente accigliata, perplessa, e annunciava che sarebbe andata fuori a cena e voleva per piacere Maureen prendere il suo posto e cercar di non lasciare la casa in disordine? Quanto più Loretta restava fuori di casa, tanto più potente diventava nonna Wendall. Maureen doveva correre per lei giù al bar-farmacia. Doveva telefonare alla clinica per riferire i nuovi sintomi di sua nonna. Doveva andare dalla vicina per dire a Flora Stonewall che sua nonna avrebbe gradito in prestito un po' di cacao per preparare una cioccolata bollente. Se usciva per respirare una boccata d'aria e si limitava a rimanere sulla veranda della facciata con un'amica, sua nonna si sdraiava in salotto e chiamava: «Maureen! Maureen!», con una voce lamentosa. In estate Maureen giocava a tavola repale con una ragazza del vicinato e le partite venivano sempre interrotte. Sottovoce, mormorava, «Oh, all'inferno!», mentre rientrava in casa di corsa pensando: Che c'è ancora? Che cosa vuole, adesso? E si trattava sempre di qualcosa di sorprendente, qualcosa che non avrebbe mai immaginato. Un mattino, dopo che Loretta era uscita per andare a lavorare, nonna Wendall prese a parlare di lei. «Sapete, sta correndo la cavallina con ogni uomo che riesce ad accalappiare.» Betty ridacchiò e scostò la sedia dal tavolo. «Oh, sì che corre la cavallina! Credete che vostra nonna stia mentendo? Che inventi le cose? Me ne sto seduta in questa casa e non esco mai, ma so tutto quello che succede. Sono informata di tutto. Posso guardare dalla finestra, standomene da un lato, dietro la veneziana, e nessuno sa che vedo quello che succede, ma invece è così. So tutto sul conto di quella ragazzina, di quella tua amica, Maureen... la ragazza con la brutta pelle e i capelli unti, proprio lei. So tutto sul suo conto. E vi sento parlare. Sento tutto quello che dite.» Maureen distolse lo sguardo. «Sta soltanto inventando» disse Betty. «Sento tutto. Vedo tutto. E quando vostra madre torna a casa, non torna sola. Li vedo là davanti sulla strada, in automobile... so ogni cosa, osservo. Lei crede che mi addormenti qui con il televisore acceso, ma io non dor-
mo. So benissimo quando torna, e so tutto di lei. Non riesce a turlupinarmi...» «Sei pazza» disse Betty. «Non parlarmi così, piccolo avanzo di galera!» «Non sono un avanzo di galera» disse Betty in tono lamentoso. «Non mi hanno arrestata una sola volta! Non chiamarmi in questo modo!» «Sento tutto quello che dicono. Oh, vostra madre dice cose d'ogni genere, è una svergognata. Dice a quegli uomini tutto quello che vogliono sentirsi dire. Non posso riferire a due ragazzine come voi di che cosa si tratta. Dà loro appuntamenti per la sera seguente, fa promesse... quegli uomini sono ammogliati, probabilmente, e si limitano ad andare con lei soltanto per spasso, per vedere che cosa possano ricavarne, e vostra madre è cosi stupida da credere che la sposino. Be', invece non la sposerà nessuno, lei, con quei capelli tutti calcinati come un osso. Sembra proprio uno di quei galletti che hanno un ciuffo di piume bionde sulla testa.» «Secondo me Ma' è bella» disse Maureen. «Anche secondo me» disse Betty. La nonna si alzò da tavola puntellandosi con le mani. Era curva, ma ancora abbastanza alta di statura. Quelli che un tempo erano stati muscoli le pendevano a pieghe dalle braccia, visibili sotto le maniche troppo ampie del vestito di cotone. Aveva attorno a sé un odore di carni non lavate. In realtà era una donna molto sudicia; non le piaceva lavarsi. Somigliava tanto a un falco con quegli occhi aguzzi e la bocca a becco, che Loretta non osava dirlo. «A voi due piace rispondere e basta. Una con la faccia lunga e l'altra un avanzo di galera...» «Betty non è mai stata in prigione» disse Maureen. «Non mi hanno nemmeno mai arrestata» ripeté Betty. «Ti arresteranno» disse la vecchia. «Me ne infischio se mi arrestano! So badare a me stessa, non sono una vecchia matta» disse Betty. Indossava un paio di blue-jeans e una camicia da uomo, ed era a piedi nudi. Lei e sua nonna si fissarono irosamente, avevano quasi la stessa statura. Betty ridacchiò come un ragazzo. «Una di voi due mi aiuti, adesso... devo andare in bagno.» Maureen si avvicinò ubbidiente a sua nonna e l'aiutò a camminare. La vecchia si appoggiò a lei. Disse: «Non osereste dire a vostra nonna di andare al diavolo se vostro padre fosse ancora vivo. Vi darebbe una bella lezione. O se vostra madre non andasse in giro con ogni uomo che riesce a
trovare, con chiunque abbia i calzoni...» «Piantala» disse Betty. «... se non restasse fuori di casa fino alle ore piccole andando in giro in macchina e ubriacandosi!» Maureen andò ad aprire la porta del bagno, ma Betty ci arrivò prima di lei. Sbatté la porta e si avvinghiò alla maniglia. «Non farla entrare, la vecchia strega! Ti lasci sempre comandare a bacchetta!» «Betty!» «Lascia che se la faccia sotto! È già sudicia dalla testa ai piedi, del resto, la vecchia megera, la vecchia strega! Oppure lascia che vada fuori in cortile come i cani, buttala fuori, da questa parte, da questa parte!» Betty spalancò la porta di servizio. Stava urlando. «Avanti! Buttala fuori dalla porta di servizio! Non è migliore di un cane! Avanti, Maureen! Mollala!» «Betty, sei impazzita?» «Ne ho avuto abbastanza, non voglio più sentirla! Non mi comanderà a bacchetta, lascia che te lo dica! Questa porta è spalancata, e lei può scendere benissimo gli scalini e andare a fare le sue cose nel cortile dietro casa, visto che si crede tanto furba. Avanti! Avanti!» Mentre la nonna urlava, Maureen e Betty lottarono intorno a lei. Betty afferrò il polso della vecchia e cominciò a tirarla verso la porta. Maureen la tirava dall'altra parte. Era allibita, eppure trovava qualcosa di comico in quella situazione, nella furia di Betty, nei suoi occhi cerchiati di bianco, e nell'improvvisa debolezza della nonna. La vecchia era davvero debole. Non aveva più forza. Betty le diede uno strattone tirandola avanti e Maureen dovette lasciarla andare. «Ora va' fuori! Va'! Fa' quello che dico, perché adesso sono io a comandarti!» urlò Betty. Quando la vecchia si afferrò allo stipite della porta, Betty alzò il piede, portò indietro il ginocchio, come un uomo, e le sferrò un calcio bene assestato nel fondo della schiena. La vecchia cadde in avanti sul primo scalino dell'ingresso di servizio, poi rotolò giù per gli altri scalini e per qualche metro sul terreno. Abbassarono gli occhi su di lei. Giaceva là sotto, torcendosi senza un gemito. «Su, avanti, alzati! Non ti sei fatta niente!» urlò Betty. Il silenzio della vecchia le terrorizzava. Maureen non riusciva a muoversi. «Sta soltanto fingendo, è caduta apposta! Hai visto anche tu che è caduta apposta!» disse Betty. «Non intendo sopportare più niente né da lei né da nessun altro! Nessuno mi metterà i piedi sul collo! Lascia che rimanga lì e
crepi! Lasciala stare! Hai visto anche tu che è caduta apposta per farmi mettere in prigione! Lo hai visto!» 13 In quel mese di settembre, Maureen fu eletta segretaria della sua classe. Durante le riunioni doveva sedere alla cattedra di fronte alla vasta stanza, accanto al presidente. Doveva prendere accurati appunti. Con la sua scrittura minuta e obliqua, annotava tutto, ansiosa di non lasciarsi sfuggire niente; sedeva ingobbita, scrivendo, mentre il ragazzo che presiedeva la riunione, con una voce intimorita e incerta, cercava di mandare avanti le cose, e suor Mary Paul, la loro insegnante, si guardava attorno severamente nell'aula per accertarsi che nessuno combinasse marachelle. A volte venivano combinate marachelle, non durante le riunioni, ma fuori, nei corridoi... Maureen cercava di ignorarle. Nel cortile, durante l'intervallo di mezzogiorno, i ragazzi dicevano certe cose alle ragazze... era meglio non stare a sentire. Dopo la scuola, durante il lungo tragitto fino a casa, lei e un'altra ragazza, Carol - una sorta di amica - stavano attente a dove camminavano. Un pomeriggio, passando davanti a un vecchio magazzino, Maureen aveva veduto un vecchio chiamarla a cenni, ed era stata abbastanza scaltra per rimanere alla larga e per allontanarsi in fretta. Alcune ragazze raccontavano storie incredibili. Anche la madre di Carol raccontava storie incredibili. Maureen cercava di non ascoltare, con il viso in fiamme, e tutto in lei era confuso. A volte la madre di Carol attaccava bottone con lei e sua figlia, e le costringeva ad ascoltare. Ogni cosa di lei era strana: i capelli unti, scarmigliati, già grigi, il corpo sciatto, maleodorante, la faccia molto lustra, dall'espressione dura. Diceva a Maureen e a Carol di certe cose, parlando rapidamente e irosamente, senza guardarle; Carol rimaneva in piedi straziata dall'imbarazzo, una ragazza tarchiata, crucciata, bruttina, con la sudicia uniforme della scuola, scamiciato blu e blusa bianca; Maureen, un po' più educata, annuiva, sì, sì, agli ammonimenti della madre di Carol a proposito del fatto che le ragazze non dovrebbero mai scendere negli scantinati o entrare nei posti bui, non dovrebbero mai sedersi sulle tazze dei gabinetti pubblici, né guardare gli uomini per la strada, né ciondolare in nessun posto, né lavarsi le mani durante quel periodo del mese - altrimenti potrebbero ammalarsi gravemente e tutti saprebbero perché - e sapevano quanto era
facile restare incinte e avere un bambino? Maureen aveva paura della madre di Carol, eppure cercava di non indietreggiare; rimaneva immobile, compunta, e ascoltava, mentre Carol spostava il proprio peso da un piede all'altro, quasi sul punto di piangere. A scuola dicevano che la madre di Carol era matta, Carol, quanto a lei, non ne parlava mai. Maureen provava una sensazione di capogiro, pericolosa, era incapace di allontanarsi man mano che la donna le si avvicinava, sempre parlando, sempre bofonchiando ammonimenti, ammonimenti; era chiaro, quella donna sapeva tutto della vita che fosse brutto, e le sue esperienze la ossessionavano. La schiacciavano come un peso. Le brutture sembravano rigonfiarsi fuori di lei, facendola parlare così in fretta. Il sapere quelle cose l'aveva fatta ammalare di mente. Una volta mise la mano dietro il collo di Maureen e disse con rabbia: «Quel tuo fratello, quel ragazzo saccentone... Dove l'ha presa l'automobile? Quanti anni ha? Si crede in gamba, eh? L'altro giorno l'ho visto insieme a una donna, mentre passeggiava lungo la Michigan. Una donna. Chi è quella donna? Tua madre lo sa che cosa sta succedendo? O non riesce più a dominarlo?». Maureen balbettò: «Non ne so... niente». Tutti i venerdì, la classe di suor Mary Paul teneva una "riunione". In quei momenti Maureen diventava la "segretaria" e timidamente si alzava dal suo banco per portarsi di fronte alla scolaresca. Era molto fiera del proprio compito. Il resto della settimana la lasciava confusa, e, durante il trafitto di ritorno a casa, qualunque cosa sarebbe potuta accadere, e anche a casa qualunque cosa sarebbe potuta accadere, ma essere segretaria, avere un compito particolare, era una cosa sicura. E lei si era messa in mente che in questo modo avrebbe potuto farsi un'esperienza e le sarebbe stato così possibile diventare una vera segretaria dopo le medie. Quell'idea era piaciuta a sua madre. Avrebbe trovato un impiego, guadagnato uno stipendio e sarebbe stata indipendente. All'inizio della riunione, il presidente la pregava di leggere il verbale della riunione precedente. Lei lo leggeva adagio e con attenzione. Il quaderno ufficiale della segretaria era un comune quaderno con la copertina blu e fogli rigati dagli ampi margini. Sulla copertina un'etichetta diceva Aula 202. Verbali della segretaria. Suor Mary Paul, una donna massiccia, sulla cinquantina, aveva insegnato meticolosamente a Maureen come si prendevano gli appunti. Era una grossa responsabilità essere segretaria della classe. La suora, seduta alla cattedra con gli occhi chiusi, aveva detto a Maureen quello che doveva fare, molto seria, annuendo mentre parlava.
Per prima cosa, niente penne a sfera. Soltanto una stilografica. E soltanto inchiostro blu scuro. Non inchiostro blu chiaro, o inchiostro nero. Questo era importante. Ogni riga doveva essere asciugata accuratamente con la carta assorbente. Il tampone della carta assorbente doveva essere pulito. I verbali dovevano essere scritti su un foglio di carta qualsiasi, poi consegnati il lunedì mattina a suor Mary Paul per il controllo, quindi copiati con somma cura nel quaderno blu. Ogni parola doveva essere scritta adagio e attentamente. Nessuna parola poteva essere annullata tracciandovi su una riga: se si sbagliava bisognava cancellarla. Ed era difficile cancellare l'inchiostro blu scuro. Maureen era terrorizzata ogni volta che doveva copiare i verbali nel quaderno blu. E se avesse lasciato cadere una grossa goccia di inchiostro?... Aveva tanto da fare che si sentiva la mente un po' confusa. Il compito di segretaria era la cosa più importante della sua vita, ma c'erano molte altre cose che doveva fare. Doveva alzarsi presto, mentre sua madre dormiva, e preparare la colazione e mettere il caffè sul fuoco. Loretta usciva spesso tardi perché aveva lasciato il posto al salone di bellezza La Marvel e lavorava adesso al Checker Grill, che si trovava nella Michigan Avenue, a un tre chilometri di distanza. La paga era migliore e anche le mance erano più laute. Il locale aveva una clientela animata, diceva Loretta. Ma il lavoro la stancava e doveva dormire fino a tardi, per cui Maureen era costretta a sostituirla tutte le mattine. Doveva svegliare Betty e farla alzare, e a volte Betty era cattiva, al mattino. Doveva sciacquare i piatti della colazione; se si lasciava seccare crema di cereali su un piatto era difficile staccarla e sua madre le faceva ramanzine. Doveva scopare la casa quando tornava da scuola e in certi giorni lavare i pavimenti, specie il pavimento della cucina, che diventava appiccicoso, e doveva cominciare a preparare la cena, perché Loretta era sempre fuori a quell'ora della giornata. Al sabato faceva il bucato e durante il resto della settimana stirava, a seconda dell'urgenza con la quale la biancheria si rendeva necessaria. A volte Loretta l'abbracciava e diceva: «Questa è la mia brava bambina! Sei una ragazzina fantastica!». E a volte aveva fretta, si aggirava qua e là con i tacchi alti, cercando una blusa o qualcos'altro, e poteva anche esclamare, irritata: «Vorresti dirmi che quella blusa si trova ancora nella cesta della biancheria? È mercoledì e si trova ancora nella cesta?». Maureen scriveva a scuola i verbali della segretaria, trattenendosi fino a tardi, perché a casa il quaderno si sarebbe potuto sporcare o spiegazzare.
Un giorno sua madre si fermò un momento e venne a sederle accanto. Era un sabato. Mise la mano, con tenerezza, sulla spalla di Maureen. Maureen sì domandò che cosa stesse succedendo. Loretta era forse già ubriaca a quell'ora? Aveva i capelli arrotolati intorno a bigodini di plastica rosa. Odorava del borotalco che si metteva dopo il bagno. «Be' stai crescendo, eh?» disse, in tono confidenziale. «Tu e io dobbiamo discorrere un po', uno di questi giorni. Gesù, come passano in fretta, gli anni! E anche quella marmocchia di Betty, sta diventando alta per la sua età... dov'è che scappa, continuamente? Con chi va in giro?» «Oh, con certi ragazzini. Non lo so.» Ma Loretta si dimenticò di Betty. Betty, con le sue gambe muscolose, non faceva che entrare in casa e uscirne, urtando contro i mobili, e si stava sempre meglio quando lei non c'era, e quindi perché avrebbe dovuto insistere e tormentarla affinché restasse in casa? Loretta fissò Maureen in un modo tenero, critico, curioso. Maureen si tirò indietro appena un po'. Per qualche secondo vi fu il silenzio, poi Loretta disse, arrossendo: «Tu... tu faresti bene a guardarti dai ragazzi, eh? Continuano a scherzare con te, i ragazzi?». «Ma', no!» «Su, dimmi la verità.» «Ho detto di no» insistette Maureen, a disagio. Abbassò gli occhi e si guardò i piedi. Loretta cercò di ridere. Il momento divenne intollerabilmente penoso. Infine ella disse con un tono aspro ma non cattivo: «Le ragazzine della tua età non dicono mai la verità. Non credo a una sola delle parole che dici, bambina!». A Maureen non venne in mente niente da dire. Si vergognava moltissimo. «Non vuoi domandarmi niente? Voglio dire, a proposito di qualsiasi cosa... sai» disse Loretta. «No.» «Bene.» Rimasero sedute per qualche momento in silenzio. Loretta si stava raschiando la vernice da una delle unghie. Fece un suono di disapprovazione, ts-ts, come se la vernice per le unghie l'avesse delusa. «Non ti vengono forti dolori di ventre, né altro?» «No.» «Be', sei sempre stata chiusa in te stessa. Hai un monte di segreti per una
ragazzina della tua età» disse Loretta con una risata, provando un gran sollievo, e congedandola. Ma, una mezz'ora dopo, uscì dalla camera da letto in fondo alla casa e porse a Maureen un maglione, uno dei suoi. «Tieni. A me sta troppo stretto... e a te andrà bene. Lo vuoi? Su, prendilo. Provatelo.» «Posso tenerlo?» domandò Maureen, sorpresa. «Ti ho detto di prenderlo. Provalo.» Sedeva con il kimono di seta verde, a braccia conserte, osservando Maureen. La ragazza si infilò il maglione. Loretta disse: «Se ti tenessi più diritta, ti starebbe benissimo. Mai una bella figura, ma avrei dovuto metterti un busto... sai cos'è?». Maureen la fissava. «Un busto per farti stare diritta» disse Loretta. «Come... di che si tratta?» «Oh, Cristo, non vedi che scherzo? Non sai stare agli scherzi? Sempre la faccia lunga! Cristo! Non mi ringrazi nemmeno?» «Grazie, Ma'.» «Non hai una brutta faccetta per una ragazzina della tua età.» Maureen si voltò dall'altra parte. «Se qualche ragazzo ti infastidisce, o qualcosa del genere, dimmelo. A scuola o altrove. Okay?» Maureen annuì. «Se Jules non fosse sempre in giro a vagabondare...» Jules aveva lasciato la scuola. Lavorava in un'impresa di autotrasporti e aveva una macchina sua, una Ford 1950, e veniva a dormire a casa soltanto una o due volte alla settimana. Dove mangiasse, chi fossero i suoi amici, dove passasse le notti quando a casa non si faceva vedere, Loretta non lo sapeva. Quando glielo domandava, lui rispondeva: «Me la cavo benissimo, non stare a preoccuparti» e la conversazione passava a qualche altro argomento. Loretta non riteneva che egli facesse qualcosa di male perché, in fin dei conti, Jules le dava venti dollari alla settimana, tutte le settimane. Era un bravo ragazzo. La sola cosa brutta che fosse accaduta risaliva al mese di agosto, quando lo avevano arrestato insieme ad alcuni altri ragazzi e messo dentro per una ragione o per l'altra - furto, violazione di domicilio, "comportamento sospetto" - ma era stato rilasciato dopo tre giorni, senza altre conseguenze. Forse avevano perduto le carte. Era stato varie volte nell'ospizio dei fanciulli, e una volta ve lo avevano trattenuto per un giorno e una notte prima che Loretta venisse a saperlo; Jules aveva detto loro di
essere di Toledo, un fuggiasco. «Cristo, che ragazzino matto! Quale immaginazione!» si era limitala a esclamare Loretta. Ma le accuse erano state lasciate cadere, e Loretta aveva finito con il dimenticarsene. V'erano tante altre cose cui doveva pensare. In primo luogo, dovettero traslocare di nuovo. Ora che nonna Wendall si trovava in un ospizio e li aveva liberati della sua presenza, Loretta poteva fare quello che aveva sempre desiderato: trasferirsi in un appartamento. Era stufa, diceva, di mandare avanti una casa: doveva impiegare troppo del suo tempo. Le tubazioni del bagno perdevano sempre, la caldaia non faceva che impuzzolentire le stanze, tutto diventava sempre e sempre più sudicio e andava in pezzi, ed era pericoloso abitare lì, ormai, senza un uomo. Se soltanto Jules non fosse stato un tal vagabondo, ma non c'è niente da fare con un ragazzo della sua età... Trovò un appartamento d'angolo sopra un bar-farmacia, non lontano dalle fabbriche della Cadillac. Era un quartiere migliore, diceva Loretta. Le piaceva. Le piaceva abitare in un appartamento. Risultarono esservi più scarafaggi che nella casa di prima, ma Maureen seguitava a dire che l'appartamento era bello perché Loretta sembrava tenerci a sentirlo dire - voleva cose belle, cose belle!... dopo tutto quello che aveva passato! Le meritava. Meritava una vacanza, o una pelliccia, o un televisore più grande, o qualche altra meravigliosa sorpresa... non sapeva quale. Poi, un giorno, accennò a "Pat" per la prima volta. Seguitava a parlare di "Pat"... Maureen credette a tutta prima che "Pat" fosse una donna, ma poi si rese conto che si trattava di un uomo. «Pat conosce tutti i retroscena di quella faccenda del figlio del sindaco» diceva Loretta. Oppure: «Pat ha detto che l'incendio è stato doloso, in realtà, il proprietario è un ebreo, e ha intascato un milione di dollari dell'assicurazione». Maureen e Betty si scambiavano occhiate, ma Loretta non spiegava mai. Faceva parte del suo nuovo stile nervoso e incostante parlare in fretta, in tono eccitato. A scuola, Maureen pensava con paura: Chi è Pat? Un pomeriggio, incontrò suo fratello. Indossava un impermeabile scuro; era bello. Allontanatosi dall'atmosfera della famiglia, doveva essersi sentito libero, finalmente, di sembrare così bello per la strada! Gli afferrò il braccio, sopraffatta dalla felicità per averlo incontrato. «Tesoro, ho fretta, devo entrare qui per comprare le sigarette» disse. Aveva l'aria di sentirsi un po' colpevole.
Maureen si guardò attorno delusa. Vide un'automobile contro la cordonatura del marciapiedi, non il vecchio macinino di Jules, e sull'automobile c'era una donna dai capelli biondi molto corti, tagliati diritti sulla fronte e sulle orecchie. Aveva un'espressione fanciullesca, fredda. Guardava Maureen, ma la sua faccia non lasciava trapelare nulla. «Jules, c'è un tale che Ma' sta frequentando... si chiama Pat. Tu ne sai qualcosa?» «Ho fretta...» «Quando torni a casa? Che cosa è successo? Hai mai sentito parlare di questo Pat?» «È uno come tanti. È a posto.» «Lo conosci?» «È a posto.» Si sottrasse alla sua stretta con dolcezza ed entrò nel barfarmacia. Maureen lo seguì. «Non ti piace più stare a casa con noi?» domandò. «Hai una casa tua, adesso?» «Me la cavo benissimo.» «Non ci vuoi più bene?» «Certo che ti voglio bene.» «Non tornerai più a scuola?» «L'ho fatta finita con queste fesserie.» «Non verrai a trovarci, Jules? Perché no? Non mi piace l'appartamento dove abitiamo adesso. Non riesco a dormire. Continuo a pensare che ci troviamo in un altro posto... mi confondo. Mi sembra sempre di udire Pa' girare per la casa, sai, come quando si alzava per andare in bagno di notte. Perché Ma' ha voluto traslocare?» «Vi trovate meglio, lì dove siete.» «Non mi vuoi più bene, Jules?» «Ehi, hai bisogno di soldi?» «Non voglio soldi!» gridò Maureen. Jules le voltò le spalle, seccato. Sua sorella parlava a voce troppo alta. Si avvicinò al banco e comprò le sigarette. Maureen gli fissò le spalle, stava accadendo qualcosa, qualcosa di terribile... stava perdendo Jules, o già lo aveva perduto... stava perdendo qualcosa, o lo aveva già perduto. Quando Jules tornò indietro, gli disse, compita: «Sì, un po' di soldi potrebbero farmi comodo. Puoi prestarmi un dollaro?». «Ma certo, dolcezza.» Jules sorrise, sollevato, e si tolse di tasca il portafoglio. Maureen notò che sembrava nuovo. «Tieni,» le disse lui, dandole
tre dollari, «va' a vedere un film, o che so io. Comprati un vestito. Fai la brava.» «Un vestito con tre dollari?» disse Maureen. Lui le diede un'altra banconota... una banconota da cinque dollari. «Oh, Jules, grazie! Grazie!» Si fissarono, a un tratto in preda all'imbarazzo. Jules mise via il portafoglio. Maureen mise il denaro nel borsellino, un residuato dell'esercito, un piccolo borsellino a forma di scatola, come lo avevano tutte le ragazze; era servito, dicevano, per mettervi cartucce. Uscirono dal bar-farmacia. Maureen non osò fare domande sulla donna nell'automobile. «Ehi, come sta Ma' in questi giorni?» domandò Jules, facendo marcia indietro. «Benissimo.» «E Betty?» «Non lo so, come al solito.» «E la nonna?» «Come al solito anche lei, credo.» «Abbi cura di te, piccola.» Maureen non volse lo sguardo verso la donna sull'automobile. Aveva l'impressione di correre qualche strano pericolo, anche se non sapeva di quale pericolo si trattasse. Nei modi nervosi e allegri di Jules c'era qualcosa che la spaventava. Mentre tornava a casa, quel pomeriggio, si accorse di aver perduto il quaderno della segretaria. Era scomparso. E perché lo aveva portato a caso, che cosa le era saltato in mente? Il quaderno dalla copertina blu, i verbali ufficiali... I verbali risalivano al 1953, in quel quaderno, trascritti da altre segretarie; e lei, Maureen, l'aveva perduto. Aveva preso con sé parecchi libri e il quaderno, ma adesso il quaderno era scomparso. Guardò ripetutamente, tra i libri. Non trovò nulla. In preda al panico, corse indietro fino al bar-farmacia. Guardò dentro. Guardò fuori, sul marciapiedi. Lo strano era questo: perché aveva deciso di portare il quaderno a casa? Ma non riusciva a pensare. Tornò rapidamente verso la scuola, con il cuore che le martellava. Il quaderno blu era per lei così reale che continuava a credere di vederlo, sulla soglia di un portone, in un vicolo, nel rigagnolo... stava impazzendo, vedeva il quaderno là dove non era, e gli occhi cominciarono a riempirsi di lacrime... Ma come avrebbe potuto smarrirlo? Doveva averlo lasciato a scuola.
Posò i libri sulla cordonatine del marciapiedi e li sfogliò di nuovo. Le tremavano le dita. Deve essere qui, pensò. Alcune persone le passarono accanto. Guardarono la ragazzetta con l'uniforme della scuola delle suore, il cappotto aperto, i capelli folti e gonfiati, intorno al viso, dall'aria di quell'ampia, ventosa, fredda Michigan Avenue; una ragazzetta che stava passando per la peggiore esperienza della sua vita. La sbirciavano e distoglievano lo sguardo. Parve a Maureen che la sua vita si stesse sgretolando. Il mondo si stava spalancando per farla cadere in una trappola, stava perdendo il senno, si sentiva disfatta, smembrata. Era come quella volta che aveva avuto la prima mestruazione a scuola, un caldo fluire di sangue, una tremenda, sconvolgente sorpresa, anche se non del tutto una sorpresa, in realtà, ed era andata nei gabinetti delle ragazze e, tremante, quasi in preda a una convulsione, aveva tentato di rimediare, ma non le era venuto in mente nulla che potesse fare, c'era soltanto quel sangue che scorreva fuori di lei e non voleva fermarsi, e si sentiva alla presenza della madre di Carol... della greve, ammiccante, laida saggezza dei pazzi che sanno tutto, sono preparati a tutto e per i quali non v'è sorpresa così sconvolgente da non poter essere padroneggiata con un sorriso sbilenco... Sarebbe stata la fine se si fosse messa a piangere. E così riprese i libri e corse verso la scuola. Attraversò un terreno da costruzioni che aveva già attraversato prima. C'erano pezzi di carta e rifiuti dappertutto, ma nessun quaderno blu. Guardò bene lungo il sentiero, scostando i rifiuti con i piedi: niente. Guardò in un vicolo. Si voltò, in uno strano terrore sospeso, e guardò gli edifici che la circondavano, mal ridotti, privi di caratteristiche, i vuoti edifici degli adulti che non le dicevano nulla: Michaelson Brothers Towel Service, Lenox Photograplis, Detroit Furniture and Refrigerator Resale. Il vento le gettava contro minuscoli frammenti di terra. Gli occhi le lacrimavano. Pensò di nuovo a Jules, che si era allontanato in macchina, e alla madre di Carol, e all'aula 202 e a suor Mary Paul. La suora aveva una di quelle facce che sanno tutto. La vita di Maureen dipendeva da lei. Maureen era colpevole e mai, mai sarebbe stata perdonata, non esisteva alcuna via d'uscita, alcuna via di scampo, alcuna possibilità di aiuto... oh, avrebbe rinunciato a tutto, avrebbe rinunciato a sua madre, a suo fratello, alla sua vita stessa, soltanto per poter essere di nuovo innocente, perché le cose tornassero a essere com'erano state alle due e mezzo di quel pomeriggio! Trafelata, piangente, arrivò a scuola. Suor Mary Paul era ancora in aula. Parve disgustata. «Va' a cercarlo» disse a Maureen. Maureen corse fuori per cercare il quaderno. Rifece frettolosamente il giro del cortile di cemen-
to, pur sapendo che il quaderno non poteva essere lì, ma forse la suora la stava osservando da una finestra. Guardò lungo la recinzione, dappertutto lungo la recinzione: niente. Guardò in un mucchio di rifiuti. Il cortile era deserto. I muri erano insudiciati da parole scarabocchiate, in parte misteriose e proibite. Maureen, di solito, non leggeva quelle parole, ma quel giorno rimase in piedi a fissarle ottusamente. Nel cortile non si trovava nessun altro. Tutto era finito, terminato... il futuro era finito. Il vento, soffiando in alto intorno al campanile della vecchia chiesa, faceva un suono curioso, cavernoso. Maureen non sapeva che cosa fare. Non sapeva quasi che cosa pensare, come occupare la propria mente. Infine tornò sui suoi passi, fino all'angolo ove aveva incontrato Jules. Forse Jules aveva veduto il quaderno? Forse lo aveva lui? Guardò dappertutto, dappertutto. Andò avanti e indietro sul marciapiedi. Poteva mai essere che il quaderno fosse già in casa? In qualche modo, riportato a casa? O forse lo aveva rubato qualcuno a scuola? Sarebbe riuscita a comprare un quaderno identico a quello che aveva perduto? Ma non avrebbe mai potuto inventare i verbali del passato, le tante pagine di verbali degli altri anni... era impossibile, una trappola senza uscite... discussioni sui bicchierini di carta, discussioni per stabilire chi avesse preso i guanti di un compagno, tutti quei verbali di conversazioni svoltesi nell'aula 202, tutto perduto, e tutto per sua colpa. Sentì che la mente le si stava disfacendo. Tornò a scuola di corsa. Suor Mary Paul era a Messa, le dissero. L'orologio segnava già le quattro e mezzo. Maureen l'aspettò. «Non sono riuscita a trovarlo!» disse, ricominciando a piangere. «Continua a cercarlo» rispose, fredda, la suora. Maureen tentò di afferrarle le mani. «Mi perdoni, la prego! Mi perdoni! Non avevo l'intenzione di perderlo...» «Va' a cercarlo. Continua a cercare.» Continuò a cercare lungo la strada, finché non fece buio. A casa, pianse. La mattina dopo si alzò alle sei per uscire a cercare ancora... un quaderno blu, perduto, un quaderno blu, doveva trovarlo. Non pensava ad altro. Ogni mattina, per tutta quella settimana, dovette riferire a suor Mary Paul che stava ancora cercando. Cercando sempre. Suor Mary Paul diceva: «Continua a cercare. Quelli sono verbali importanti». La settimana trascorse adagio, come in un sogno. A Maureen doleva la testa, continuamente; non riusciva a dormire, giaceva sul letto e continuava a piangere finché Betty non le diceva di smetterla.
Un giorno, un'altra suora la fermò nel corridoio e disse: «Suor Mary Paul non te lo direbbe mai personalmente, Maureen, ma è molto soddisfatta di come tu stia cercando il quaderno. Continua a cercare». Maureen per poco non pianse di gratitudine. Volle baciare le mani della suora. Continuò a cercare, ma non trovò mai il quaderno. 14 Maureen si stava spazzolando i capelli. Si sporse verso lo specchio con un'espressione critica che somigliava alquanto a quella di sua madre. Già da qualche minuto era pronta per andare a scuola e non aveva altro da fare: aveva fatto colazione un'ora prima, e ora gli altri stavano mangiando e facevano rumori a tavola. Cercò di non ascoltarli, ma quei suoni non potevano essere ignorati. Doveva ascoltarli anche di notte; doveva ascoltare il russare di lui. Un tempo aveva dovuto ascoltare il russare di suo padre. Aveva dovuto ascoltare il russare della nonna... un boccheggiare rauco, come di chi soffochi, in cerca d'aria, quasi non umano. Di notte dormiva e si destava, dormiva e si destava, sognando, mentre dormiva, di essere desta, e terrorizzata dalla possibilità di non riuscir mai a dormire, udendo continuamente i rumori della sua famiglia, senza mai essere libera. Aveva cerchi scuri sotto gli occhi, segni che rimproveravano. Si contemplò criticamente nello specchio, udendo, attraverso la propria immagine riflessa, la voce di lui levarsi in cucina. «Credo che dovrò andare al garage, oggi» egli stava dicendo. «A vedere che cosa c'è di nuovo. Hanno...» Maureen non lo chiamava «Furlong», che era il suo cognome, e non lo chiamava nemmeno «Pat». Non v'era assolutamente nessun modo di chiamarlo. Loretta le aveva detto che avrebbe dovuto chiamarlo «Pa'», ma Maureen si era limitata a tacere, non avendo niente da dire. Betty, alle sue spalle, lo chiamava quell'uomo. Quando Maureen uscì, egli sedeva ancora al tavolo di cucina, che era stato spinto in un angolo. Non aveva la camicia. Il petto di lui, ampio, ma, ciò nonostante, un po' infossato, coperto di folti peli grigi e ricciuti, si sollevava e si abbassava nel respiro; egli stava sorseggiando rumorosamente il caffè. Teneva la tazza tra tutte e due le mani. Loretta rimaneva alle sue spalle e pigramente gli massaggiava la schiena. «Non sollevare niente, se qualcuno vuole che gli si dia una mano» disse Loretta. «Devi prima farti passare questo disturbo. Un'ernia del disco sa-
rebbe terribile.» «Una che?» domandò Furlong. «Un'ernia del disco, qualcosa nella spina dorsale. Succede agli uomini quando sollevano grossi pesi.» Sbirciò Maureen. Aveva la faccia increspata in un'espressione graziosa di preoccupazione. «Già, sì, questo freddo dannato non mi ha giovato per niente» disse Furlong. Aveva il mal di schiena. Un tempo, quando stava bene - alcuni mesi prima, presumeva Maureen - era stato camionista. Apparteneva al sindacato dei camionisti. Ma adesso si limitava a trafficare in un garage dove lavoravano certi suoi amici, sebbene quel genere di lavoro non fosse degno di lui. Aveva parecchio tempo libero per le mani. Sembrava esaminarsi spesso le mani, interdetto e irritato vedendole vuote, un pezzo d'uomo che stava ingrassando. Non appena la schiena gli fosse guarita, diceva sempre, si sarebbe rimesso sulla strada e avrebbe guadagnato parecchi soldi. Betty, che diceva di odiarlo, quel mattino lo stava assediando. Gli faceva domande sugli autocarri. Sugli incontri di pugilato. Che cosa pensava di Rocky Marciano? (Rocky Marciano era uno degli eroi di Betty; aveva applicato alla parete, con nastro adesivo, una sua fotografia nella propria stanza.) Aveva mai fatto a pugni, lui? Aveva mai maneggiato una pistola? Non c'erano sparatorie, a volte? Un camionista non era stato ammazzato proprio l'altro giorno? Lui sapeva tutto di quella faccenda, non era forse vero? I retroscena? Un camionista non iscritto al sindacato era stato ucciso mentre si recava a East Lansing; un grosso pezzo di metallo era stato lanciato da un sovrappasso e aveva sfondato il parabrezza del suo autocarro. Il News aveva pubblicato al riguardo un lungo articolo illustrato. Non sapeva tutto di quella storia, Furlong, non sapeva chi era stato? Lui strofinò con energia la mano sul capo di Betty, come se ella fosse stata un ragazzo, un ragazzetto che lo infastidiva e, ciò nonostante, gli era gradito. Betty cercò di non trasalire di dolore. «Scusami, piccola,» disse Furlong «ma questi sono segreti.» Si voltò verso Maureen, sorridendo. «Bene,» disse goffamente, ma con lo stesso sorriso protettivo e autoritario che soleva rivolgere a Betty. «bene, dove stai andando? A Hollywood per entrare nel cinema?» «È l'uniforme che portiamo a scuola, questa» disse Maureen. Cercò di non guardarlo; la sua stupida presa in giro la rendeva infelice. «Quel vecchio scamiciato ce l'ho sotto gli occhi da non so quanto tempo. Sono anni che Reeny lo mette per andare a scuola» disse Loretta, con una
voce acuta e sorpresa. Lasciò scivolare le braccia sul petto di Furlong e guardò Maureen oltre il capo di lui con una certa tenerezza. «Sono le suore a volere che lo portino, sai.» «Non stavo mica scherzando, né la prendevo in giro; secondo me sta benissimo. Non hai ancora fatto colazione. Maureen?» Stava cercando di essere amichevole. «Sì. Ora vado.» Egli aveva un corpo tozzo, muscoloso, e siccome era così spesso senza camicia - o in canottiera o a torso nudo - Maureen confondeva i peli grigiastri e ricciuti sul petto di lui con la sua faccia. Ne aveva un'idea confusa, come di un uomo peloso, con capelli ricci simili a trucioli, molto rigidi, grigi, irreali. Ma la sua faccia era sempre ben sbarbata. Una faccia pulita e schietta. La testa, come il corpo, sembrava dura e muscolosa; i capelli ricci erano tagliati corti sulla nuca, molto in ordine; il naso era piccolo ma molto in risalto, essendo le narici così grandi e scure. Ne spuntavano peli minuscoli, appena visibili. Maureen supponeva che le donne avrebbero definito bello quell'uomo. Ma quando doveva passargli vicino, sentiva l'odore che lo accompagnava sempre... non semplicemente di sporcizia, di sudiciume e di grasso, ma l'odore personale, privato, del suo corpo. Non ricordava che suo padre avesse mai avuto quell'odore... egli sapeva quasi sempre di tabacco. E non trovava bello Furlong. Lo odiava. Nei suoi sogni a occhi aperti lo immaginava morire come era morto suo padre, schiacciato da metallo, metallo ardente. La morte degli uomini doveva essere brutale, una morte causata da tonnellate di metallo che frantumavano costole, che frantumavano crani, perché gli uomini stessi erano così brutali. Persino il loro modo di respirare era brutale. Il loro modo di russare. Duro, ritmico, deciso, il loro modo di respirare di notte; o, durante il giorno, il loro modo di mangiare e di parlare, il modo con il quale sedevano a tavola, tutto degli uomini era brutale. Furlong non faceva che prenderla in giro, o quasi prenderla in giro. Cercava di farsela amica, con quelle dita tozze, brutali, e quelle unghie sudice. A volte, a Messa. Maureen si sorprendeva a pensare a lui. Pensava a un movimento balenante che non sapeva spiegarsi del tutto, a un cadere di metallo, a qualcosa di tagliente. Un'arteria recisa. Un braccio maciullato e stritolato. Un incidente, un incidente... una volta che fosse capitato, non si sarebbe più potuto tornare indietro! E, con il petto nudo, quell'uomo non poteva resistere a niente, era aperto, vulnerabile, in attesa... avrebbe gridato di dolore, invocando aiuto, ma nessuno sarebbe stato in grado di aiutarlo. Un uomo incamminato verso la morte non può
essere soccorso. Poi ella rientrava in se stessa, scossa e piena di vergogna, e ricordava di trovarsi in chiesa e di essere felice per sua madre: perché Loretta non avrebbe dovuto rimaritarsi ed essere felice? «Ehi, Reeny,» disse Loretta, mentre Maureen si avvicinava alla porta, «bada di tornare subito a casa, oggi.» «Va bene.» «Non andare a bighellonare in giro né altro. Ho bisogno che tu torni a casa.» «È Betty ad andare a bighellonare in giro» disse Maureen con dignità. «Va' all'inferno» disse Betty. «Torna subito, e basta, Maureen» disse Loretta. «C'è tutta quella biancheria da stirare nella cesta...» «Ho detto che tornerò subito.» Maureen voleva uscire, ma Loretta sembrava avvinghiarsi a lei. Loretta disse con una voce acuta, critica, eppure non sgradevole: «Stanno succedendo molte cose, a quanto mi dicono. Sento dire parecchie cose. Non voglio che tu vada a girare nel negozio a prezzi fissi, o con quella Carol, come si chiama, sua madre è matta da legare. L'hanno trovata in sottoveste mentre correva fuori, durante un temporale, che te ne pare? Ha detto che c'era qualcuno in casa, che qualcuno voleva farle la pelle. E non voglio nemmeno che tu torni a casa passando per la strada più lunga, ci sono troppi furboni in giro che cercano ragazzine come te». Ormai ella si chiamava signora Furlong. Non era più la signora Wendall. Maureen e Betty e Jules, però, continuavano a chiamarsi Wendall; Maureen ne era lieta. Pensava e ripensava al significato del suo cognome. Pensava al nuovo cognome di sua madre, Furlong, e continuava ad aspettare che le cose cambiassero, che tutto si chiarisse e si rasserenasse, ma non succedeva niente. Non cambiava niente. La signora Furlong continuava a lavorare al Ghecker Grill e Furlong restava fuori di casa quasi tutto il giorno andando chissà dove, facendo conoscenze, informandosi sulle novità, telefonando, facendo chissà che cosa, dandosi da fare, taciturno. Poi tornava a casa. «La madre di Carol non è poi così cattiva» disse Maureen, imbronciata. «È una persona con la quale si può vivere.» «Be', sì, non intendevo criticarla» disse Loretta, innervosita. «In effetti il manicomio servirebbe soltanto a farla peggiorare. Tu, però, farai bene a star lontana da loro, sennò crederanno matta anche te.»
«La gente pensa già adesso che sia matta» disse a voce alta Betty. «Non è vero» esclamò Loretta. «Pensano tutti che sia superba, ha sempre il naso in aria. È davvero un gran personaggio.» Betty, cercando di farsi guardare da Furlong, parlava sfacciatamente. Per dimostrare che sapeva qualcosa di cui nessuno di loro era informato, abbassò la testa, quasi che il peso delle sue conoscenze fosse eccessivo per lei, un giogo tremendo. «Tu, che vuoi sapere tu» disse Maureen, sprezzante, e aprì la porta. Loretta disse: «Ricordi quello che ho detto, di tornare subito a casa, bambina? Okay?». «Sì, Ma', sì.» «Non mi piace vedere le ragazze ciondolare in certi posti come il grande magazzino a prezzi fissi» soggiunse Loretta, seria, rivolta più a Furlong che a Maureen. «Ci vanno soltanto per rubare qualcosa, e lo si capisce benissimo. Non riescono a nasconderlo. Se dovessi mai sorprendere Maureen a rubare qualcosa in quel modo...» Maureen sospirò esasperata. Maureen, sempre Maureen. Perché sua madre non la lasciava andare? «Ma lei, probabilmente, si incontra con ragazzi» disse Loretta. Forse stava cercando di prenderla in giro, affettuosamente; forse no. V'era in lei qualcosa di animato e di nervoso, quel mattino. Era stato l'accenno alla madre di Carol, suppose Maureen. Sapeva che il padre di Loretta era morto in manicomio, che in ultimo era diventato pazzo, pazzo furioso, e Loretta, in un modo o nell'altro, continuava a ricordarlo... quando il babbo era vivo, accennava alla cosa lui stesso, immancabilmente. «Sono tutti matti nella tua famiglia» diceva. «Non mi incontro con ragazzi» disse Maureen. Se ne andò. Non sapeva se offendersi, adirarsi, o dimenticarsene. Sua madre se la prendeva sempre con lei, eppure non nel modo con il quale se la prendeva con Betty, era qualcosa di diverso. Maureen si innervosiva, ma non era che fosse proprio risentita. Non riusciva a capire. In quei giorni Loretta non era più la donna di un tempo. Lei e Furlong si erano sposati il primo ottobre ed erano andati in viaggio di nozze per quattro giorni, a Chicago, avevano detto, e adesso era il venticinque ottobre e continuava a esserci nell'aria un'eccitazione da capogiro, qualcosa di strano. Che cosa significava il loro matrimonio? Che cosa stava succedendo? Era legale, quel matrimonio, e definitivo, oppure lui se ne sarebbe andato, un giorno o l'altro?
Tutto era dinamico, rumoroso. Maureen pensava che la vita sarebbe dovuta essere tranquilla e ragionevole, e invece in casa loro accadevano sempre troppe cose. L'appartamento era troppo piccolo. La biancheria da lavare e da stirare e i piatti rimanevano in giro finché Maureen non riponeva ogni cosa. C'erano dappertutto vestiti. Asciugamani, lenzuola, scatole di crema di cereali non ben chiuse, coltelli sporchi, le scarpe di Furlong, le carabattole di Betty... Tutto rimaneva sparso qua e là, in attesa che Maureen lo mettesse a posto. A volte Furlong faceva venire suoi amici, uomini che giocavano a carte e bevevano in cucina fino alle ore piccole. Betty rimaneva fuori di casa fino a tardi. Jules non si vedeva mai, non veniva mai a trovarli. Maureen si metteva a sedere in camera sua, cercando di fare i compiti. Si sforzava di non udire il chiasso che giungeva a lei dalla cucina, o dal televisore, o da Loretta e Furlong che discutevano, o scherzavano, o ridevano insieme, due bambinoni, due sciocchi. Le riusciva sempre e sempre più difficile fare i compiti. Da quando avevano traslocato in quell'appartamento, non era più riuscita a dormir bene... dormiva, sì, per una parte della notte, ma non bene. Continuava a destarsi. Il cuore sembrava palpitarle, come se avesse udito qualcosa che a lei era sfuggito. Impiegava un'ora per fare una pagina di esercizi di matematica, a volte più di un'ora, mentre sedeva con le mani premute sulle orecchie, fissando il libro, sforzandosi di capire quello che leggeva. Era ormai arrivata alla quarta media. I compiti le sembravano più difficili. La sua mente sembrava funzionare a rovescio, tendere all'indietro, opporre resistenza a quanto avrebbe dovuto fare. Una piega o una macchia sulla pagina la distraevano, tornavano ad attrarre ripetutamente il suo sguardo, finché, in preda all'esasperazione, doveva coprirle con la mano. Voleva accontentare la sua insegnante... per lei, in quel momento, sembrava non esservi nulla che contasse di più. Ala la sua mente pareva resistere. Voleva fuggire. Gli amici di Furlong si trattenevano per ore, e verso le due del mattino, quando Loretta tornava a casa dal lavoro, nessuno si dava nemmeno la pena di andare ad aprirle la porta, doveva aprirla ella stessa. Maureen, che giaceva insonne e sfinita in camera sua, sentiva tutte queste cose, ma non riusciva a capire esattamente che cosa significassero. Perché succedevano sempre tante cose? Maureen si affrettò ad uscire. Era sempre piacevole andarsene da quell'appartamento. Andava a scuola sola, ormai, camminando in fretta. Non riuscì a decidere se offendersi o adirarsi a causa della presa in giro di Loretta. «Suppongo che tu abbia un amichetto segreto» diceva sempre Loret-
ta. Era diventata leggermente più magra dopo il matrimonio. Le si vedeva il profilo delle scapole quando si sporgeva in avanti, avvolta nel kimono verde. La sua faccia aveva un pallore bluastro quando non era truccata, e a volte ella si lasciava sfuggire oggetti di mano. La sera prima aveva lasciato cadere le forbici, e Maureen era stata costretta a raccattargliele. «Mi sento girare la testa, se mi piego» aveva detto sua madre. Maureen provava nei suoi riguardi una singolare tenerezza, in parte risentita, in parte protettiva. Ma non vedeva l'ora che giungesse il momento in cui se ne sarebbe andata da casa, come Jules. Ogni volta che era libera, si recava alla biblioteca. Crescere e andarsene da casa erano in qualche modo collegati, nella sua mente, alla biblioteca... la biblioteca di notte, il suo silenzio, la sua ospitalità. Qualsiasi cosa sarebbe potuta accadere. Non accadeva niente, ma poteva accadere tutto. Ella sedeva ai lunghi tavoli lucenti e liberi, leggendo, sfogliando nervosamente volumi, alzando gli occhi ogni volta che qualcuno entrava nella vasta sala di lettura, aspettando. Le piaceva andare alla biblioteca la sera, quando sua madre era fuori al lavoro. Furlong se ne infischiava di sapere dove andava lei. Se Loretta fosse stata in casa, non l'avrebbe mai lasciata uscire e così Maureen cominciò a pensare che era un bene se sua madre lavorava, era un bene essere lasciate sole. Sfogliava riviste, attenta e incuriosita da quel che stava facendo il resto del mondo. In una rivista di lusso trovò l'annuncio di un fermacarte, un gattino di cristallo. Costava cinquecento dollari e doveva servire a «tener ferme le vostre carte importanti». Immobile, fissò a lungo questo annuncio. Osservava i vestiti che indossavano le donne, dalle lunghe gambe e dall'aria imbronciata; i loro volti più belli del suo e remoti, come se si fosse trattato di donne provenienti da un altro pianeta, che parlavano una lingua diversa. Fissava queste fotografie, consapevole di aver fallito, sebbene fosse ancora giovane; il suo fallimento era collegato in qualche modo al fatto che non riusciva a dormire. Non sarebbe mai cresciuta e diventata una donna normale: qualcosa l'avrebbe afferrata e trattenuta, qualche intoppo, qualche incapacità di sognare il modo per sottrarsi alla fanciullezza. Più di ogni altra cosa le piacevano i romanzi. Le piacevano i romanzi ambientati in Inghilterra. Non appena leggeva la prima pagina di un romanzo di Jane Austen, si sentiva soddisfatta, stupita, eccitata, sapendo che era tutto vero: il mondo di quel romanzo era reale. La sua vita a Elson's Drug, o in Labrosse Street, non poteva essere reale. Il cicaleccio di sua madre, i grugniti e l'irascibilità di Betty, il fatto che doveva accontentarsi
di intravedere Jules per la strada, tutto questo non era reale come i romanzi, non era altrettanto persuasivo. In tutti loro non v'era alcunché di definitivo, come nei personaggi dei romanzi. E quando sua madre le muoveva quelle orribili accuse di incontrarsi con ragazzi mentre sarebbe dovuta essere a scuola, come poteva questo essere reale? Come potevano essere reali simili parole? «Il resto della giornata, la notte che seguì, quasi non bastarono ai suoi pensieri. Era disorientata tra la confusione di tutto ciò che si era avventato su di lei nelle ultime poche ore. Ogni momento aveva portato una nuova sorpresa; e ogni sorpresa doveva essere una questione di umiliazione per lei. Come capire tutto ciò? Come capire gli inganni che era andata così esercitando con se stessa e sotto i quali aveva vissuto?» Queste parole erano reali, e molto reale era la persona che si celava dietro a esse. Maureen, sognando su quelle parole, sentiva se stessa incominciare a dissolversi nel nulla, diventare nessuno, un occhio in una testa, un vuoto. La sofferenza di un personaggio come quello, in un romanzo come quello, era molto più grande della sua. Come avrebbero potuto, lei o i suoi, essere innalzati a quel livello di sofferenza? I grugniti e i gemiti di nonna Wendall la rendevano odiata. Nessuno si dispiaceva per lei, non sul serio. Nessuno avrebbe mai pianto a causa sua come si piangeva per l'infelicità di una donna in un romanzo. Le domeniche, quando andavano a far visita a nonna Wendall, Maureen portava con sé un libro per aver qualcosa da fare. Spesso veniva con loro zia Connie. Furlong le accompagnava con la macchina e le faceva scendere davanti all'ospizio, poi proseguiva lungo la strada per andare a bere qualche birra, mentre loro salivano i gradini e ascendevano attraverso strato su strato di aria viziata che puzzava di disinfettante, sbirciando senza curiosità attraverso porte aperte che mostravano un letto dopo l'altro, una donna anziana dopo l'altra, tutte sorelle nelle loro sudice camicie da notte bianche di flanella, e con i loro occhi ansiosi e gelosi. A volte una vecchia scivolava fuori nel corridoio per seguirle con lo sguardo, affascinata dalle scarpette di vernice e dai tacchi alti di Loretta e dai lunghi e splendenti capelli di Maureen, o adirata per qualche torto fantastico. «Venire qui a curiosare, è sudicio! Non è degno di creature umane! Vengono qui e fanno i comodi loro in un angolo della mia stanza, guarda gli scarafaggi, ragazzi-
na, vieni a vedere!» Maureen continuava sempre a camminare. «Povere creature!» diceva Loretta, scuotendo la testa. «È davvero spaventoso quando si invecchia!» Era un mondo di donne: pappagalli, mani scheletriche, tovagliolini di carta bagnati. Maureen fissava la curva liscia, innocente, di un cranio sotto radi capelli bianchi. Si sentiva giovanissima, remota. Ma si sentiva anche minacciata. I crocefissi alle pareti erano identici a quello che aveva appeso sua madre a casa, alla parete del salotto. Tutto era uguale in questo mondo fuori dei romanzi. Connie, con il cappotto leggero ampio di spalle e con il cappellino della festa, era sempre calma. O forse non vedeva niente. Le precedeva fino al quinto piano e alla camera della vecchia, non indulgeva alle assurdità, lei, non indugiava nei corridoi accanto alle donne anziane che volevano inoltrare una protesta al vescovo. Queste visite innervosivano e al contempo tediavano Maureen. Si sentiva molto giovane, persino minacciata. Non sopportava di essere fissata. Nella stanza sedevano sempre allo stesso posto... Connie e Loretta a ciascun lato del letto, Maureen sul davanzale della finestra, mezzo seduta e mezzo in piedi. Era contenta di isolarsi dalle altre. Nonna Wendall sembrava vecchissima. Si sarebbe detto che non fosse più la stessa donna. Il suo corpo, grosso sotto le coperte, aveva un che di statico, come se fosse saldato, come se nulla potesse muoverlo. Maureen si sforzava di sentirsi dispiaciuta per lei ma non riusciva a individuare in se stessa alcun dolore. L'odore di carni sudice e di cibo vomitato era eccessivo: escludeva la sofferenza. «Te lo hanno detto, eh, che ho avuto un colpo? Che ho tutto il lato destro paralizzato, paralizzato?» domandava la vecchia, rivolgendosi a Maureen. Stava all'erta ed era malevola, perché non voleva che Maureen aprisse quel libro e riuscisse a sfuggirle. «Jules come sta? Jules è il mio prediletto!» diceva la vecchia. Connie e Loretta, che ormai si vedevano soltanto in occasione di quelle visite, affrontavano nonna Wendall con un certo bizzarro entusiasmo. Erano trafelate per aver salito le scale e il loro ansimare si tramutava in una sorta di aspettativa. Cominciavano a parlare. Parlavano con nonna Wendall e tra loro con ironici sorrisi femminili, spostandosi a poco a poco nella sfera dei loro veri interessi e acquistando slancio, entusiasmo, man mano che i minuti passavano. Parlavano del loro lavoro. Loretta continuava a fare la cameriera e Connie lavorava in una lavanderia. Parlavano di religione, dei sacerdoti delle loro chiese. Parlavano dei prezzi dei generi ali-
mentari, del bambino che Loretta stava per avere (sì, un altro bambino... lo aspettava di lì a quattro mesi!), dell'appartamento di Loretta e dell'appartamento di Connie, delle brutte cose che succedevano per le strade, delle brutte cose che succedevano nella città, di Betty e del suo gruppo di amici, della stessa Maureen («Ha i suoi segreti, come una gatta furtiva» diceva Loretta, alla sua presenza), e infine, come se quello fosse stato il vero bersaglio intorno al quale avevano girato, di uomini. Furlong e il suo lavoro. Furlong e la sua schiena. Furlong. Uomini. Stan, l'amico di Connie. Il suo lavoro. La sua ex moglie. Quella pazza della sua ex moglie. Quando erano sole, quando si sentivano al sicuro e animate, le donne parlavano sempre di uomini: i loro occhi e le loro voci si impadronivano avidamente degli uomini. Dopo un'ora e mezzo circa di queste conversazioni, o Loretta o Connie, una delle due, si alzava in piedi e batteva piano le mani, in un gesto confuso di soddisfazione per aver veduto nonna Wendall e averla trovata "migliorata". Ma era giunto il momento di andare. Dobbiamo andarcene, ci dispiace. Il giorno dopo dovevano lavorare... «Mi sono svegliata e avevo tutto il lato destro paralizzato. Come di sasso» disse nonna Wendall, amaramente. «Che ne direste, voi due, se capitasse anche a voi? Sempre in giro a pavoneggiarvi!» «Ma', che cosa intendi dire con questo?» esclamò Loretta, offesa. «Salutami Jules. Non te ne scordare. Jules è il solo che prediligo.» «Jules dice che verrà a trovarti molto presto. Forse domenica prossima.» «Non importa se verrà o no. Lo conosco. È il solo che prediligo.» Sebbene non vedessero ormai l'ora di andarsene, indugiavano sempre. Poteva darsi che a Loretta venisse in mente qualcos'altro da dire. O magari era Connie alla quale veniva in mente qualcosa. Soltanto Maureen, che accuratamente metteva il segno nel punto del libro cui era arrivata, era pronta ad andarsene, spaventata e amareggiata dal potere che continuava ad avere la vecchia. Certe persone, anche quando stavano morendo, esercitavano un potere misterioso; altre non ci riuscivano mai. «Salutami Jules e Betty e come-si-chiama...» «Ma', sai bene che si chiama Pat! Patrick Furlong!» «Sì, anche lui, come-si-chiama...» Trovavano Furlong giù in istrada, in un bar. Aveva fatto amicizia con il barista. Si mettevano a sedere tutte e tre insieme a lui in un séparé. Dopo qualche minuto, Loretta e Connie cominciavano a piangere sommessamente, e Maureen sedeva oziosa e infelice, augurandosi che ci fosse abbastanza
luce per poter leggere. Loretta diceva, sonnacchiosamente affettuosa, la mano sul braccio di Furlong: «Perdinci, era una gran donna, quella vecchia! Non è così? Una donna proprio in gamba! Non era straordinaria, Connie?». «Sì, era davvero in gamba.» «Che inferno invecchiare...» Dopo che avevano lasciato Connie a casa sua, Loretta diceva sempre, scuotendo la testa: «Quella povera tonta! Mi verrebbe il voltastomaco se dovessi lavar via le porcherie dai panni degli altri. Lei riesce a sopportarlo». «Non è mai stata sposata?» domandava Furlong. «Sì, ma lui tagliò la corda. La lasciò.» «Ma perché la lasciò?» domandava Maureen. Loretta non diceva niente per qualche momento. Poi rispondeva, con la faccia tirata: «Che cosa te ne importa? Non è cosa che ti riguardi. Sei troppo giovane!». «Mi dispiace per zia Connie.» «Oh, al diavolo, tu non sei mai spiacente per nessuno!» Maureen la fissava, offesa. Non riusciva a capire. Si domandava se per caso sua madre stesse parlando alla vera Maureen, una ragazza ipocrita, egoista e falsa. Era quella la vera Maureen? A volte, quando restava sola, e camminava per la strada, veniva colta di sorpresa vedendo la propria immagine riflessa nella vetrina di un negozio, un'immagine remota, spettrale, che ella non si aspettava mai di vedere e non riconosceva; davvero, non sembrava lei. Loretta la tormentava, inoltre, dicendole che marinava la scuola e Maureen rispondeva, con una risatina stanca: «Va' a domandarlo alle suore, allora, se sei così sicura!». Loretta la tormentava, accusandola di avere adoperato il suo nuovo rossetto per le labbra, e Maureen diceva, con veemenza: «Ma', ti assicuro che non l'ho adoperato! Non lo toccherei mai quel tuo stupido rossetto color uva!». Si sentiva assediata da sua madre e incapace di trovare un centro qualsiasi negli assalti di lei, un punto di riferimento. Spesso Furlong stava a guardare con un sorrisetto, anch'esso incomprensibile... non sapeva che Loretta aveva torto, oppure lo sapeva e se ne infischiava? Un giorno Loretta gettò un tubetto dorato sul letto di Maureen. Disse: «Tieni. Ecco il tuo rossetto, non avrai più bisogno di adoperare di nascosto il mio».
Era un rossetto per le labbra. «Oh, Ma'!» disse Maureen. Lo prese cauta. Lo svitò: era rosa. «Su, prendilo, provatelo» disse Loretta. Gonfia e più lenta, con una blusa premaman, rimaneva sulla soglia, a braccia conserte, tamburellandosi un braccio, spazientita, con le dita. Maureen si avvicinò allo specchio, si mise un po' di rossetto, ancora circospetta, e nello specchio scorse sua madre che la guardava. La faccia di sua madre era cogitabonda dietro il solito sorriso canzonatorio, una specie di sorriso sbilenco acquisito quando faceva la cameriera. «Okay. Ti sta bene» disse Loretta. «Sono ridicola» disse Maureen. «No. Sei carina.» «Ma non posso metterlo a scuola. Non lo permettono...» «Non mi dici niente?» «Grazie.». «Ora puoi lasciar stare il mio, eh?» «Oh. Ma'!» Si voltò per sorprendere lo sguardo di sua madre. Loretta stava guardando dalla sua parte, ma non proprio lei; l'espressione riflessiva, seria, sulla sua faccia, era insolita e allarmò Maureen. Forse era dovuta al fatto che Furlong aveva cominciato a rimanere fino a tardi al garage, talora non venendo a casa per la cena. Loretta non lavorava più e non aveva molto da fare, tranne starsene seduta qua e là. Era ormai l'inverno. Sedeva a tavola, silenziosamente, guardando la tovaglia di tela cerata. Maureen tornava a casa da scuola e la trovava lì. Il televisore non era acceso. Maureen lo accendeva per sua madre. Poi cominciava a preparare la cena, gingillandosi in cucina, prendendosela calma. Le piaceva cucinare. Era facile accontentare la gente, accontentare gli uomini, semplicemente dando loro da mangiare. Un tempo aveva preparato la cena anche a suo padre. Era sempre la stessa cena. Gli stessi cibi. Chiacchierava con sua madre, aprendo e chiudendo gli sportelli della credenza, guardando nel frigo. Domandava sempre a sua madre come si sentisse. Loretta rispondeva invariabilmente: «Sto benissimo». Poi, con acrimonia, poteva aggiungere: «Sono troppo vecchia per passare di nuovo attraverso tutto questo». Ma Maureen fingeva di non capire. V'erano segreti della vita femminile aperti per lei, pronti per essere imparati da lei, ma ella li respingeva. Non guardava nemmeno il ventre di sua madre, se poteva farne a meno; magicamente, i suoi occhi si volgevano altrove.
Dopo cena, riordinava la cucina e lavava i piatti da sola, dato che Betty non era mai lì a darle una mano, e non l'avrebbe aiutata nemmeno se fosse stata presente. Poi faceva i compiti fino al ritorno a casa di Furlong. Lui rientrava sempre e sempre più tardi, man mano che ci si inoltrava nell'inverno. Nessuno diceva niente. Dalla cucina, Maureen vedeva sua madre ciabattare qua e là nell'altra stanza, andando a cambiare il canale della televisione, oppure entrando in camera da letto, aprendo un cassetto, chiudendo un cassetto, lasciandosi sfuggire a volte un suono che sarebbe potuto essere un singhiozzo. Loro due, per così lungo tempo sole, rimanevano ai lati opposti del piccolo appartamento. Maureen pensava a se stessa e a sua madre come a due donne che non avessero niente da dirsi. Anche lei era una donna, ma camuffata da bambina; se si fossero accorti che era cresciuta, avrebbero potuto volerle parlare. Maureen fingeva di non udire niente, nemmeno i singhiozzi di sua madre. Ma erano singhiozzi? Loretta era troppo forte per piangere, nessun uomo avrebbe potuto farla piangere. Era impensabile. Ciò nonostante, fingeva di non udire nulla, si premeva le mani sulle orecchie, cercava di capire qualcosa nei compiti. Perché sua madre avrebbe dovuto piangere? Forse il bambino la faceva dolere dentro? Che cosa si provava avendo un bambino? Maureen sognava a occhi aperti di essere incinta ella stessa. Un giorno avrebbe avuto un bambino. Si sarebbe sposata e avrebbe avuto un bambino, si sarebbe vestita con le bluse ampie che indossava sua madre, lo stesso tipo di bluse, una donna come sua madre; non poteva sfuggire. Non voleva sposarsi, ma non esisteva altro mezzo. Non voleva vivere con un uomo, dormire con un uomo. Si adirava pensando a un avvenire nel quale avrebbe aspettato in un appartamento che il suo uomo tornasse dopo aver fatto tutto quel che facevano gli uomini, dopo aver trascorso tutte quelle ore con altri uomini in qualche luogo, parlando di chissà che, bestemmiando e ridendo rabbiosamente, lasciando cadere i pugni semichiusi sui piani dei tavoli, staccando le etichette dalle bottiglie di birra, guardando gli orologi, muovendo le spalle con irrequietudine entro i vestiti. Quando stavano insieme, gli uomini parlavano di cose che non potevano essere riferite alle donne. Una sera, Furlong non tornò a casa fino a tardi. Maureen lo aspettò... vennero le undici, mezzanotte. Doveva restare alzata ad aspettarlo per servirgli la cena. Le doleva la testa. Si mise a sedere in cucina, con un libro dinanzi a sé, aspettando. Loretta e Betty si erano coricate tutte e due. Maureen tracciò segni sulla tela cerata con l'unghia di un dito, scrivendo il proprio nome e cercando di cancellarlo. Pensò a Loretta distesa a letto, in atte-
sa. L'orologio segnò mezzanotte e mezzo, poi l'una, e ancora lui non tornava a casa, e ancora ella aspettava. Il giorno dopo doveva alzarsi presto per andare a scuola. «Quel bastardo schifoso» disse a se stessa, scrivendo "Furlong" sulla tela cerata. Una notte, Furlong non rientrò fino alle due. Era ubriaco. Incespicò contro una sedia, facendola cadere con gran strepito e destando Maureen dal suo sonno intermittente. Lo udì in cucina... stava spostando qualcosa. Chiamò Loretta e la destò. «È a casa» disse. «Io me ne vado a letto.» «Che ore sono?» domandò Loretta. «Vado a letto.» Entrò frettolosamente in camera sua. Si distese sul letto, desiderosa di addormentarsi subito, sentendo quanto era urgente che dormisse. La mattina dopo doveva svegliarsi alle sette e mezzo... ma i suoi pensieri si incalzavano rapidi, in preda al panico. Pensò a Furlong, che picchiava sua madre: pensò a quel grido spaventato e furioso, il grido di sua madre. Pensò a Jules di nuovo in carcere. E se lo avessero arrestato ancora? Pensò a suo padre. Furlong si confondeva con suo padre, i due uomini si confondevano insieme, tornando barcollanti a notte alta. Non ci si poteva meravigliare. Due tonnellate d'acciaio gli erano cadute addosso, a suo padre. E se Furlong fosse morto? Aveva soldi? Quale sarebbe stata la sorte del bambino che Loretta stava per avere? L'assistenza ai bambini orfani? Un assegno mensile? La previdenza? Che cosa? Jules aveva smesso di studiare e lavorava. Portava a Loretta venti dollari alla settimana, di nascosto da Furlong. Venti dollari! Lei, Maureen avrebbe dovuto lavorare, così sarebbe stata in grado di guadagnare soldi; doveva andarsene. Nell'altra stanza stavano litigando. Bisognava che se ne andasse, come aveva fatto Jules... le occorrevano soldi... se ne doveva andare... Stava passando lo straccio sul pavimento della cucina. Doveva stare attenta a non camminare sul bagnato, altrimenti il linoleum si sarebbe sporcato di nuovo. Era a quadrati bianchi e neri. Lo straccio spruzzava sapone sul pavimento. Doveva spostare il tavolo e le sedie, poi lavare il pavimento... «Maureen! Maureen!» Il grido si confuse con l'atto di lavare il pavimento. Sentì il manico della scopa saldo nelle mani. Ci teneva a lavare il pavimento. Le piaceva l'odor di sapone, le piaceva la pulizia a fondo, luccicante... «Maureen!» disse irosamente Loretta. «Vieni qui! Stai soltanto fingendo
di dormire!» Si girò sul fianco. Nell'altro letto, a una trentina di centimetri dal suo, giaceva addormentata Betty. Non aveva sentito niente. Maureen sentiva tutto e doveva alzarsi. Si rese conto che sua madre era molto adirata, molto sconvolta. «Lo so che stai fingendo, che stai facendo la stupida!» disse Loretta. Era sul punto di piangere. «Vieni qui! Lui sta vomitando in cucina e io non voglio più alzare un dito a suo favore, vada all'inferno! Sono stufa!» Maureen entrò barcollante nel salotto. Si stropicciò gli occhi. Doveva essersi riaddormentata. «Che vuoi? Vuoi dormire nel mio letto?» «Tu dormirai qui sul divano. Su piantala!» «Di far cosa?» «Piantala di fingere o ti do un ceffone sulla bocca!» «Che cosa è successo?» «È là dentro a vomitare, e può andare all'inferno. Ne ho avuto abbastanza» disse Loretta. Aveva gli occhi striati da minuscole vene rosse. «Voglio dormire. Sto male.» «Che cosa sta succedendo? Hai pianto?» «Chiudi il becco.» «Domani devo andare a scuola...» «Oh, tu e la tua scuola, tu e la tua biblioteca! Va' a raccontarli a lui i tuoi guai, tu e lui avete tutti i guai della famiglia, a sentir voi! Va' a preparargli un po' di caffè.» «Cosa?» «Va' a fargli il caffè.» «Mi hai svegliata per fare il caffè?» «Ti ho detto di fare il caffè a quel bastardo.» Sbatté la porta dietro di sé. Maureen guardò in cucina. L'orologio segnava le due e mezzo. Vide le gambe di Furlong. Doveva essere seduto a tavola, intento ad ascoltare. Nella luce fioca, la stanza sembrava pulita e non familiare, come la superficie di un altro pianeta, o la fredda, liscia superficie della luna. Le pareti sudice non sembravano sporche. La tovaglia di tela cerata splendeva bianca. Sulla cucina economica, la caffettiera sembrava esser fatta d'argento. Si avvicinò alla cucina economica. Furlong domandò: «Che cosa è successo a tua madre? Cos'era tutto quel baccano?».
«È andata a dormire.» «Dove?» «Nel mio letto.» «Perché ha fatto questo?» Maureen non lo guardò. Tolse il barattolo del caffè da una mensola. «Dice che stai vomitando.» «Perché ti ha svegliata? Fai il caffè?» «Mi ha detto lei di farlo.» «Ti ha svegliata per questo?» «Voleva dormire nel mio letto.» Lo vide con la coda dell'occhio, seduto pesantemente, troppo stanco per muoversi. Come un cane, si scrollava inconsapevolmente e senza nessuna ragione. Disse: «Vuoi dire che ti ha buttato fuori della tua stanza? Cristo santo!». Ma rimase seduto a tavola, aspettando il caffè come un uomo seduto a una tavola calda. Maureen prese una tazza per lui. Era facile far contenti gli uomini, restar fuori della loro ira. Era un po' ubriaco, ma v'era sempre stato in lui un certo aspetto piacevole, lievemente brillo e goffo. Riusciva difficile convincersi che era pericoloso: poteva lanciare oggetti, romperli. Maureen gli servì il caffè. Dopo qualche momento lui disse: «Tua madre dice che vai in giro con cattive compagnie. È vero?». «Vorrai parlare di Betty.» «No. Di te.» «Io no.» «Il direttore di qualche grande magazzino ti ha sorpreso mentre rubavi?» «No.» Si voltò a guardarlo negli occhi. Aveva rughe sottili sulla fronte e agli angoli degli occhi, a furia di ridere troppo. In lui v'era il silenzio, ma un silenzio diverso da quello che aveva avuto suo padre; si presentava a blocchi, riflessivamente. «Tua madre non si sarà inventata tutte queste cose» disse, blandendola. «Non so che cosa abbia fatto.» «Voglio soltanto sapere se è vero o no.» «Ti ho già detto che non è vero!» «Senti, sono il tuo patrigno, adesso...» «No, non lo sei.» «Cosa?» Maureen fissò il pavimento.
«Vuoi dare della bugiarda a tua madre?» «Non do della bugiarda a nessuno.» «E a me, dai del bugiardo anche a me?» Maureen versò il resto del caffè nell'acquaio. «Che cosa stai facendo?» «Rimetto in ordine.» «Non avevo finito di bere il caffè.» «Non ne volevi più.» «Sì, invece. Ne volevo ancora. Lo hai fatto apposta.» «Non è vero.» «Sì che l'hai fatto apposta.» Tacquero. Maureen rimaneva in piedi voltandogli le spalle, davanti all'acquaio. Aspettava. Aveva la faccia ardente. Poi, bruscamente, egli si sporse in avanti e le fece cadere dalle mani la caffettiera, che piombò con fracasso sul pavimento. Maureen strillò. «Lo hai gettato via apposta, il caffè!» disse Furlong. Lei si chinò a prendere la caffettiera, senza guardarlo. Egli disse: «Mi ha detto che avrebbe preparato il caffè, e sarà meglio che ce ne sia un po', altrimenti rompo tutto qui dentro... non la riconoscerai più questa topaia, quando avrò finito! Rimetti la caffettiera sul fuoco!» Maureen la rimise sul fuoco. «Versaci dentro un po' d'acqua!» Maureen aveva paura di lui, ma aveva ancor più paura di sua madre: del silenzio di sua madre. Loretta stava ascoltando tutto questo, ascoltava in silenzio, e non si sarebbe alzata per venire a difenderla. «Ti ho detto di metterci un po' d'acqua. Che cosa te ne stai lì in piedi a fare... sei pazza?» «Il pazzo sei tu» farfugliò Maureen. «Come? Che cosa hai detto?» Maureen non rispose. «Vuoi che ti faccia cadere i denti?» disse Furlong. «I denti non me li farà cadere nessuno.» «Proprio adesso tua madre ha detto, cinque minuti fa ha detto che farei bene a insegnarti qualcosa prima che sia troppo tardi. Non voglio che la polizia venga a ficcanasare in questa casa.» «Che c'entra la polizia?» «Non fare la stupida!» «Non mi trovo in nessun pasticcio.»
«Senti...» «Proprio no! Non mi trovo in nessun pasticcio!» «Bene, sarà meglio per te» disse Furlong. Respirava a fatica. «Come quel dannato saccentone di tuo fratello, puoi andartene da questa casa a finire sulla strada. Io non intendo sopportarlo. Voglio che il mio nome non venga sporcato per nessuna ragione al mondo. Non voglio andarci di mezzo, né essere portato in nessun posto di polizia, credimi.» «Non mi trovo in nessun pasticcio» disse Maureen, febbrilmente. «E il rossetto che hai rubato nel grande magazzino a prezzi fissi?» «Non ho rubato nessun rossetto!» «Dai della bugiarda a tua madre?» «Ma' forse è malata...» Tacque. Intuiva che Loretta li stava ascoltando. Immaginava la faccia di sua madre, là al buio, distesa sul suo letto, intenta ad ascoltare tutto quello scambio di frasi. «Ma' ti ha detto davvero... che dovresti darmi una lezione? Prima che possa venire la polizia?» «Sì.» Stava sorseggiando il caffè. Era ancora un po' brillo, e aveva le spalle ingobbite verso il tavolo. «Tua madre mi dice un'infinità di cose sul tuo conto.» «Perché?» «Non lo so, perché.» «Perché mi odia? Io non la odio... perché deve odiarmi? Non lo sopporto! Non so che cosa fare. Ha sempre voluto più bene a Jules che a me. Per quanto io potessi essere buona. Poi Jules se n'è andato, ma lei continua a preferirlo, tutti lo preferiscono. E ora si comporta in questo modo strano, ma io non ho fatto niente, è Betty ad andare nei negozi e a rubare roba. Domandalo tu stesso a Betty. Guarda dalla sua parte della stanza, guarda sotto il suo letto! Prende ogni genere di cose, ruba cose che nemmeno le servono; dice che le si appiccicano alle dita... lo fa soltanto per divertirsi. Io non odio Ma'... perché lei mi odia? Perché dice queste cose di me, perché inventa queste cose?» «Va' a letto. Non pensarci più.» Furlong scostò la sedia dal tavolo, ma non per voltarsi verso di lei. Era voltato invece verso la parete, fissava la parete, con una tensione nel collo e nelle spalle. «Scapperò se non la smette. Se mi odia, scappo. Andrò ad abitare in qualche altro posto, come Jules...»
«Tu non andrai in nessun posto, quindi chiudi il becco.» «Troverò un lavoro e scapperò.» «Tu non te ne andrai da questa casa! Non ti caccerai nei guai! Chiudi il becco e scordatene» disse Furlong a voce alta. «Allora domandale perché mi odia...» Lui si voltò a un tratto, con uno sforzo, e la schiaffeggiò. La colpì su un lato della faccia, e fu una sorpresa per entrambi. Quel che Maureen sentì della sua mano fu l'improvvisa pressione crepitante, il colpo non le aveva fatto male. «Ora chiudi il becco» urlò Furlong, furente. «Esci e va' a letto!» «Sporco bastardo» disse Maureen. Lui balzò in piedi e la schiaffeggiò di nuovo. La sedia venne rovesciata. Maureen si diresse verso la porta, ma egli la tirò indietro con uno strattone. La scrollò con tanta violenza da farle ciondolare la testa e da farle pensare che le si sarebbe spezzato il collo. «Cacciaci nei guai e vedrai che cosa ti farò... vedrai che cosa succederà!» urlò, poi la lasciò andare. Maureen corse nel salotto, troppo sorpresa per poter piangere. Intuiva che sua madre stava ascoltando, vedeva quegli occhi a capocchia di spillo, là nell'oscurità. Perché Loretta non si alzava? Perché non veniva fuori? Perché regnava il silenzio in quella camera? Maureen aprì la porta di casa e uscì sulle scale. Adesso che era al sicuro, cominciò a piangere. Sedette addossata di spalle alla porta. Premette i pugni sugli occhi e tirò su le ginocchia contro il petto, sentendosi al sicuro sola, sulle scale percorse da correnti d'aria. Dopo qualche tempo smise di piangere. Trascorsero ore. Rientrò nell'appartamento. La luce in cucina era ancora accesa. Si distese sul divano e si addormentò. Quando si destò, aveva il mal di testa. Sua madre si chinava su di lei. Mormorò: «Ti ho detto cento volte che è irascibile. Ti ho detto di non provocarlo». Maureen giaceva esausta sul divano. Guardò sua madre con occhi inespressivi. «Faresti meglio ad alzarti» disse Loretta. «Cosa?» «È mattina. È l'ora di alzarsi.» «Mattina?» «Finiscila di fare quella faccia da stupida. Li hai voluti tu i guai, non trascinarmici anche me.» «Io non ho voluto nessun guaio.»
«Reeny, tu hai sempre quell'aria arrogante e impudente. Dovresti vederti allo specchio! Quando farai questa faccia, ci sarà sempre qualcuno che ti prenderà a schiaffi.» «Non l'ho provocato. Non ho detto niente.» «Be', questa sera sarà pentito. Ti chiederà scusa quando tornerà a casa.» «Me ne infischio di lui.» «Faresti bene a non infischiartene.» Loretta la guardò con aria critica, ma, ciò nonostante, con una sorta di affetto. Era uno sguardo incerto, esitante, che fece rabbrividire Maureen; non riusciva a capirlo. «Maureen, dovresti farti pareggiare quella frangia. È troppo folta da una parte. Sembri una tonta conciata così.» «Come?» fece Maureen, sorpresa. «I tuoi capelli. Vammi a prendere le forbici, che ci penso io.» «Che cos'hanno i miei capelli?» «Devono essere sistemati.» «Ci penserò dopo la scuola» disse Maureen. Era molto confusa. «Prendi le forbici. Vieni.» Andò in cucina e Maureen la seguì, stordita. Loretta si protese in avanti e fece con le dita il movimento di tagliare. Maureen andò a prendere le forbici in un cassetto, poi si sedette. Loretta si chinò su lei, appoggiandolesi contro il ventre gonfio, e cominciò a tagliarle i capelli. Maureen sedeva stordita, remissiva. «Mi dispiace per stanotte,» disse Loretta «ma tu lo sai com'è fatto. Gli uomini sono fatti così. Non sopportano stupidate. E ora questa frangia tienila corta, non lasciarla infoltire troppo. Troppi capelli quassù ti fanno venire i foruncoli. A causa del grasso che contengono. Dovresti saperlo ormai, alla tua età.» Loretta si chinò da un lato per guardare in faccia Maureen. «Hai qualche punto nero sul naso, bambina. Abbi cura di te. Il tuo è un visetto grazioso e quindi devi averne cura, no?» Maureen avrebbe voluto nascondere la faccia contro il vecchio kimono sudicio di sua madre e domandarle Perché? Perché? Perché tutto era così volgare e confuso? Perché tutto stava per volare in pezzi? Sapeva che avrebbe dovuto andarsene da casa. Più tardi, quel pomeriggio, quando tornò a casa da scuola, Loretta si era messa un vestito e aveva il viso truccato. Il rosso intenso delle labbra rivaleggiava con due chiazze ovali di rossetto sulle gote. Furlong era in casa. Loretta le disse: «Reeny, il tuo patrigno ha qualcosa da dirti». Riluttante, Maureen entrò in cucina. Furlong sedeva con un mucchio disordinato di giornali intorno a sé; ogni
giorno comprava due giornali. Quando ella si avvicinò, alzò gli occhi come se non avesse saputo, fino a quel momento, che era tornata a casa. Imbarazzato, disse: «Credo di aver bevuto troppo, ieri sera». Maureen lo fissava, audace. «Succedono troppe cose, dappertutto» disse lui, indicando con un gesto i giornali, pieni di titoli e di fotografie. La faccia di Eisenhower fissò Maureen. «Be', mi dispiace» disse Furlong. Maureen non disse niente. Loretta entrò in cucina e batté, piano, le mani. «Di nuovo tutti amici?» domandò. «Certo» disse Furlong. «E tu, superbetta?» Loretta mise il braccio intorno alle spalle di Maureen. «Non sei più arrabbiata, eh? È passato tutto?» «Certo, Ma'» disse Maureen. «Sicuro» disse Furlong. Lui e Maureen si sbirciarono per caso, e subito distolsero lo sguardo. La vergogna tra loro era forte e pungente come il borotalco che Loretta spargeva sempre su se stessa dopo il bagno. 15 La decisione le si presentò di notte, mentre credeva di dormire: doveva andarsene. Doveva guadagnare soldi. Nei suoi sogni, raggiunse Jules per la strada e gli domandò: Come te li procuri i soldi? Sognò suo padre. Suo padre morto sedeva a un tavolo di cucina in una stanza senza pareti, leggendo il giornale. Aveva gli occhi vacui e allarmati dai titoli. Maureen si avvicinò per vedere che cosa stesse leggendo, ma non c'era niente su quel giornale... non conoscevano il segreto, lei e suo padre, per scoprire che cosa conteneva il giornale. Ma dietro a tutto v'era il denaro, senza dubbio. Il denaro era il segreto. Adesso che lei e Furlong erano diventati "amici", toccava a Maureen andare a prenderlo quando si tratteneva al garage fino a un'ora troppo tarda. In passato, egli era tornato a casa passando per numerosi bar, prendendosela calma, ma adesso Maureen andava a prenderlo, per accertarsi che rientrasse subito. La sua schiena non migliorava. Non guariva come avrebbe dovuto. E così Loretta mandava fuori Maureen. «Senti, tu sei la prediletta» le spiegava. «Sei la sua prediletta. Va' a prenderlo, digli che venga a casa a mangiare.» Maureen odiava di dover percorrere il tratto di tre isolati fino al
garage, odiava di dover avvicinare il gruppo di uomini nel distributore di benzina, Furlong fosse con loro o no. A volte non c'era. Rimanendo in piedi nel freddo alone di luce che usciva dalla porta del garage, ella osservava gli uomini prima che l'avessero veduta, domandandosi di che cosa parlassero quando erano soli... quali segreti avessero. Odiava le loro espressioni di stupore e poi i loro sorrisi, i loro sorrisi saputi. Era la figliastra di Pat Furlong. Era Maureen Wendall, in piedi fuori nel freddo ad aspettare, venuta per accompagnare a casa il suo patrigno. Furlong, riluttante e barcollante, impiegava sempre molto tempo per dare la buonanotte ai suoi amici, ignorandola. A volte ella aspettava fuori, accanto alle pompe della benzina, per dieci minuti, per un quarto d'ora, mentre i fiocchi di neve le cadevano intorno adagio e il traffico sull'ampia strada andava diminuendo, i fari delle automobili nebulosi e ingranditi nell'aria umida. Si domandava dove fossero dirette quelle automobili. Una di esse si sarebbe fermata per darle un passaggio? Si accarezzava il braccio attraverso lo spessore della manica del cappotto, interdetta, senza riuscire a capire perché si sentisse interdetta, come se il fiacco scorrere del traffico dinanzi a lei conservasse qualche segreto che ella avrebbe dovuto conoscere. Nella parte più profonda di lei si celava un interrogativo: Perché era quella che era e non qualcun'altra? Ma poi, come per soffocare quella domanda, pensava: Potrei trovarmi tanto qui quanto in qualunque altro posto. Quando Furlong usciva, finalmente, spesso ella alzava gli occhi stupita, non ricordando bene che lo aveva aspettato. «Okay, vieni» diceva lui, già frettoloso. Doveva camminare svelta per restargli accanto. Furlong procedeva a passi impazienti, lunghi un metro, quasi tentasse di sfuggirle. Una sera gli chiese: «Perché Ma' non vuole che mi trovi un lavoro?». Furlong voltò la testa a sbirciarla. «Non vuole? Non lo so.» «Vuoi domandarle se posso trovarmene uno?» «Certo.» «Glielo domanderai, per piacere? Dice di non volere che io lavori. Non vuole che stia fuori di casa. Ma ho bisogno di trovar lavoro, ti prego, ti prego, domandaglielo.» Si rendeva conto che la sua voce lo irritava. Era uno sbaglio parlare troppo agli uomini, a quel tipo di uomini. Non volevano sentirsi supplicare dalla voce delle donne. «Adesso che ha il bambino, dice che dovrei restare in casa e aiutarla, ma potrei aiutarla in casa e avere anche un lavoro. Potrei riuscirci senz'altro, potrei fare qualsiasi cosa. Glielo domanderai?»
Stava supplicando la schiena di lui. Indossava un giubbotto corto, con la chiusura lampo alzata fino alla gola. Maureen si protese in avanti, camminando, e Furlong, sebbene frettoloso, parve sul punto di voltarsi verso di lei. «Okay, glielo domanderò.» «Se dice di no, torna a domandarglielo. Continua a domandarglielo. Devo guadagnare soldi.» Ma Loretta era contraria. Maureen serviva in casa. «E in ogni modo, non mi piace che vada a ciondolare altrove. Non mi piace che vada in giro più di quanto già fa, come quel suo continuo andare in biblioteca; stando a quello che dice.» Le parole stando a quello che dice erano ironiche; Maureen colse l'inflessione, ma non capì. Che cosa c'era di male nella biblioteca? Si destava di notte, pensando a un lavoro. Ci pensava continuamente, senza avere in mente alcuna occupazione precisa, ma soltanto una vaga idea, soltanto la parola di per sé. Loretta le bloccava la strada ostinatamente. Lei aveva bisogno di trovare un lavoro, aveva bisogno di soldi. Ma Loretta si limitava a dire, con un'espressione chiusa: «Ti ho detto che tu mi occorri qui! Ti caccerai nei guai anche troppo presto». «Ma', io non mi caccio nei guai!» «Non rispondermi, Reeny. Ti ho detto quello che penso.» «Non mi credi mai. Inventi cose. Vado in biblioteca, è il solo posto dove vado... nemmeno al cinema... ecco guarda i libri che ho nella mia stanza... non sono volumi della biblioteca?» «Basta, non cominciare a piagnucolare. Hai sempre avuto la faccia lunga, come diceva nonna Wendall. Prendi sempre le cose troppo sul serio.» Maureen si allontanò, stringendosi la testa con le mani. Pensò che qualcosa era sul punto di spezzarsi. Aveva bisogno di essere libera, fuori, sull'automobile di suo padre, con Jules che guidava, loro due liberati, all'aria libera, diretti fuori della città e su al nord. «Perché non posso trovarmi un lavoro?» urlò a Loretta. «Un lavoro a mezza giornata? Dopo la scuola? Perché no? Perché devo rimanere sempre in casa? Perché io, perché non Betty? Che cosa c'è da fare al bambino che tu non possa fare? Come mai Betty può sfrenarsi finché vuole e io devo restare in casa? Si può sapere perché? Perché è tutto così pazzesco?» «Non alzare la voce con me! Ti ho detto quello che penso, quindi basta.» Gli strilli del bambino cominciavano a dare ai nervi a Furlong, o così egli diceva. Non tornava più a casa quando Maureen andava a prenderlo.
«Al diavolo la cena» diceva. Così ella smise di andare a prenderlo e rimase invece alzata ad aspettarlo. Tutto concerneva lui, quell'uomo, e nulla concerneva la stessa Maureen. Doveva restare alzata fino a tardi per scaldargli la cena e preparargli il caffè. Egli non ci sapeva fare, e Loretta era troppo stanca; rimaneva sempre a letto. A volte Furlong restava fuori di casa per tutta la notte, e verso le due Maureen andava a coricarsi anche lei, rinunciando ad aspettarlo. Ma poi doveva rimanere in casa il giorno dopo, e rinunciare alla scuola, perché Loretta stava male e non se la sentiva di affrontare Furlong da sola. Così Maureen doveva restare a casa invece di andare a scuola e aspettare che egli tornasse la mattina dopo. Lo odiava. L'odio che provava per lui era tanto violento da accompagnarla sempre, in primo piano o nello sfondo dei suoi pensieri, la seguiva ovunque. Sentiva che egli si stava trasformando nel suo vero padre, in quanto rimaneva sempre con lei nella sua immaginazione. In quelle mattinate tranquille, sonnolente, rileggeva libri che aveva già terminato, la mente sconvolta, il corpo impigrito e astioso. Loretta portò il televisore nella camera da letto, e poiché Maureen non voleva restare nella stessa stanza con lei, non poteva nemmeno guardare le stupide trasmissioni diurne... non le rimaneva proprio nulla da fare, nessuna via di scampo. I sogni a occhi aperti di un tempo erano cessati tutti. Ella non riusciva più a evocare dalla propria immaginazione le scene scolastiche che l'avevano insuperbita e nelle quali era stata lei stessa l'insegnante. Non sarebbe mai diventata una maestra. E non riusciva nemmeno più a immaginare Furlong morto in un incidente... la visione si dileguò e Maureen dimenticò il modo di farla rivivere. Non rimaneva più niente in lei eccettuato un odio per quell'uomo così diffuso da essere come il suo sangue che meccanicamente le scorreva dentro. Frugava la propria mente, ma non vi trovava nulla. Tutto era svuotato, spossato. Si sarebbe detto che vivesse nel corpo di sua madre. La sua sola ricchezza consisteva nei libri, ma i libri rimanevano sul divano, letti e riletti, svuotati. Non riuscivano più a commuoverla. A volte pensava oziosamente a terremoti e incendi, a palazzi che si spaccavano in due. Pensava a incidenti nei quali automobili si ammonticchiavano una sopra l'altra, una contro l'altra. Pensava al denaro. A tutta prima pensò all'idea del denaro, come aveva pensato all'idea del lavoro. Poi cominciò a pensare alla sensazione del denaro; tolse un biglietto da un dollaro dal nascondiglio nella sua stanza e lo contemplò. In questo modo poteva trascorrere un'ora o più. Ricordava con quale disinvoltura Jules le aveva dato otto dollari; era accaduto così rapi-
damente, come una magia! Furlong teneva il portafoglio nella tasca posteriore dei calzoni; stava a malapena in quella tasca, grinzoso e logoro. Conteneva un mucchio di banconote. Maureen si domandava quanto denaro egli avesse. Riceveva un assegno due volte al mese, e Loretta ne riceveva uno al mese. Quanti soldi avevano? Immaginò un nascondiglio per i soldi, la veranda della vecchia casa in Labrosse Street. Avrebbe potuto strisciare sotto la veranda, in quel posto sudicio e segreto, e nascondere tutto là sotto. Nessuno avrebbe trovato il denaro. Sarebbe potuta rimanere là ella stessa, nascondendosi, e nessuno l'avrebbe trovata. I compiti incominciarono a esserle restituiti con dei cinque. Anche in inglese, la materia nella quale riusciva meglio, prendeva cinque. Sedeva stordita e piena di vergogna, facendo scivolare i compiti sotto il banco, affrettandosi a nasconderli. Tutto era così precario. I suoi voti, un tempo, erano sempre stati dieci o otto e adesso era discesa a cinque e, in tutta sincerità, non capiva perché. La cosa accadeva così, semplicemente, per conto suo. Avrebbe dovuto domandarlo all'insegnante e invece rimaneva seduta al suo posto, o usciva in fretta dall'aula, quando il campanello squillava, ansiosa di andarsene. Tornava a casa sognando a occhi aperti. Sedeva a scuola sognando a occhi aperti. Stava diventando lenta, taciturna. V'era una leggera insolenza nel suo sguardo, quando veniva rimproverata. Che diavolo importava? I compiti a casa, i compiti in classe, le interrogazioni, tutte quelle fesserie... Immaginava di trovare un vecchio sacchetto di carta, sul marciapiedi, contenente dei soldi! Nessuno si dava la pena di raccattarlo, tranne lei. Immaginava di trovare un vecchio sacchetto di carta accanto a sé sull'autobus, in un cinematografo, nell'angolo di uno spogliatoio... pieno di biglietti di banca... ogni sorta di biglietti di banca!... denaro che era tutto suo e del quale nessun altro sapeva niente. V'era come un punto dolente dietro i suoi occhi, e quel punto dolente le diceva che doveva procurarsi il denaro, che doveva andarsene, non importava dove, che doveva fuggire... come se, mentre tentava di leggere la lezione, o un libro della biblioteca, un certo passo si fosse sforzato di apparirle chiaro. Era una magia che non funzionava affatto. Poteva aprire un libro in qualsiasi punto e lasciare che lo sguardo le cadesse su un paragrafo, e quello era il paragrafo che avrebbe potuto dirle quanto le occorreva sapere... ma quando lo leggeva, non riusciva a capire. A volte non riusciva a capire nemmeno le singole parole. Che cosa significava quel codice se-
greto? Aveva un significato per gli altri? Domandava alla sua amica Carol: «Tu pensi mai di fuggire?». «Non più» rispondeva Carol, adagio. «Non ti annoi... a casa, voglio dire?» Carol si stringeva nelle spalle. «Ma non vuoi fuggire?» «Ti riportano subito indietro. Nello stesso posto» diceva Carol. Maureen parlò con un'altra ragazza, una ragazza più grande, che, scappata di casa, era stata presa a Buffalo. «Dove li hai trovati i soldi per il torpedone?» domandò Maureen. «Li ho rubati» rispose la ragazza. «Perché sei scappata?» «Ne avevo voglia. Sai com'è.» «Scapperai di nuovo?» La ragazza parve lievemente imbarazzata dalla curiosità di Maureen. «No, ho avuto troppi fastidi. Si limitano a pensare che tu stia per avere un bambino e ti sottopongono a un esame. La loro mentalità è bassa così» disse con una risata, abbassando la mano fino a una trentina di centimetri dal pavimento. Maureen cercò di scovare Jules per le strade. Aveva ormai diciassette anni e avrebbe dovuto sapere tutto. A volte le sembrava di vederlo davanti a sé, ma risultava sempre che non era lui. Incontrò il fratello di un suo amico, un ragazzo dai capelli unti di brillantina e dai calzoni attillati, e gli domandò di Jules; lui parve evasivo. «Digli che voglio vederlo. Che ho bisogno di parlargli» lo supplicò. E poi, quando fu passato un po' di tempo, le accadde qualcosa. Un mutamento intervenne in lei un mattino, mentre sedeva guardando il nulla fuori della finestra dell'appartamento. Il bambino stava strillando: Loretta gli faceva il bagno. Maureen sentì una certa durezza penetrare in lei, come se qualcosa di invisibile la stesse benedicendo, come se un guscio si stesse formando intorno alla sua pelle. Si tirò indietro dalla finestra., pensando che fosse stata una corrente d'aria fredda. Rabbrividì. I muscoli le si contrassero, poi si distesero nell'accettazione. Si sentì cambiare. Il giorno dopo se ne andò presto da scuola, subito dopo il pranzo. Disse a suor Mary Paul che aveva un forte mal di capo, ed era vero. Le doleva sempre la testa. Ma, tornando a casa, bighellonò - era una giornata limpida e assolata - e mentre le automobili passavano alzò gli occhi guardandole, blandamente stupita, come se non avesse idea di dove era diretta o di quel-
lo che poteva aspettarsi. La sua espressione era piacevole, meravigliata. Dopo che aveva percorso più di un chilometro e mezzo, andando verso il centro di Detroit, vide un'automobile rallentare davanti a lei e accostare al marciapiedi. Continuò a camminare sul marciapiedi senza affrettare il passo e senza aver paura. Mentre stava passando accanto all'automobile, l'uomo al volante si sporse fuori e domandò: «Ti piacerebbe fare un giro?». Lei credette, per un momento terrorizzante, che fosse Furlong, su un'altra macchina. Ma poi vide che si trattava di un estraneo e che non somigliava affatto a Furlong. Ne giudicò subito la faccia; era a posto. Non importava chi fosse. «Un passaggio potrebbe farmi comodo» disse. E salì. L'uomo si affrettò a domandarle: «Abiti da queste parti?». «Oh, abito più indietro. Stavo solo facendo una passeggiata.» «Le lezioni a scuola sono terminate?» «Sì.» «Frequenti le medie?» «L'ultimo anno.» «Come ti chiami?» «Maureen.» L'uomo sorrise nervosamente, senza aver udito una parola, e anch'ella sorrise... ma non nervosamente. Lasciò che i lunghi capelli castani le spiovessero in avanti. Sotto il cappotto indossava lo scamiciato blu-mare, un po' corto per lei, ormai, e calzava scarpette basse, come quelle che portano tutte le ragazze; i libri li teneva fanciullescamente tra le braccia. Una volta salita sull'automobile si sentì sollevata, come se avesse attraversato sana e salva una linea di confine. Lasciò cadere i libri sul sedile, tra loro. Disse sommessamente: «In una bella giornata come questa mi piace fare una gita in macchina, ma noi non abbiamo l'automobile. I miei genitori non hanno l'automobile, e non conosco nessuno che ce l'abbia». «Proprio nessuno?» «Oh, qualcuno sì, forse.» «Non hai corteggiatori?» «I ragazzi non mi interessano» disse Maureen. «Frequenti le... medie? In che anno sei?» «All'ultimo anno» rispose, mentendo con un sorriso abbacinante, consentendo a se stessa di rilassarsi. La luce del sole era come miele. Le parve di sentire un profumo d'acqua di Colonia... o lo immaginò. Dalle automobili che li superavano giungevano fino a loro folate di musica. Le sembrava di essere su una barca, portata dolcemente lungo un fiume, senza alcuna
fatica. L'uomo si diresse verso il fiume. A Maureen parve strano che tutto sembrasse così familiare. Contemplava ogni cosa; era inespressiva e sorridente. L'odore stesso dell'aria le era familiare. Passarono accanto a magazzini, a terreni da costruzione. Sul fiume c'erano battelli... grandi chiatte, chiatte lacustri che si muovevano adagio, silenziose. Si sentì libera. Nessuno avrebbe potuto vederla. La libertà veniva a lei come l'aria dal fiume, non precisamente fresca, ma gelida e impetuosa; era libera, ed era fuggita. L'uomo aveva forse trentacinque anni. Non avrebbe saputo dirlo. Taceva, e nel suo silenzio v'era una supplica. Scaltramente ella se ne rese conto, ma non lo diede a vedere... come un uomo, disprezzava le suppliche. Lui fermò l'automobile in qualche posto. Si tolse di tasca il portafoglio e ne sfilò istantanee, mostrando a Maureen fotografie della sua famiglia. Ella fissò, al di là delle fotografie, il portafoglio, che era screpolato e logoro come quello di Furlong. In una delle istantanee si vedeva un uomo in uniforme da soldato... era lui! Maureen sorrise alle fotografie. Pensò: Non sono affatto spaventata. Non sento niente. Dopo qualche tempo, nervosamente, goffamente, l'uomo la baciò. Pur sentendo la bocca di lui contro la sua, ella non provò niente, in realtà. Sentiva soltanto la pressione della bocca. Continuò a pensare, con chiarezza: Non sento proprio niente... Al di là della testa di lui vedeva il cielo. Era normale. L'uomo si protese verso di lei, ansimante, e, con una strana, avida fretta, l'abbracciò e la baciò di nuovo. V'era un che di supplichevole in lui, in ogni parte di lui. Maureen gli mise le mani sulle spalle, non per respingerlo, ma soltanto per completare l'abbraccio, come riteneva che avrebbe dovuto fare. Continuava a non provare nulla. Era intoccata. Dopo un minuto, egli le stava baciando la gola; si avvinghiò a lei e premette la bocca contro di lei, e Maureen si sentì un po' a disagio per la prima volta... ma soltanto per un attimo. Si trovavano fuori all'aperto. Avevano di fronte a sé il cielo azzurro sopra il fiume Detroit. Dopo qualche momento l'uomo si scostò. Era nervosissimo. Disse: «Sarà meglio che ti accompagni a casa». «Va bene» rispose Maureen. «Ti accompagnano a casa da scuola quasi ogni giorno? Un fidanzatino?» «Non ho nessun fidanzatino» disse Maureen. «Perché no?» «Non ho tempo per i ragazzi.» «Ti troverai là, domani? Dove ci siamo incontrati, dico. Domani, press'a
poco a quest'ora?» «Va bene» disse Maureen. Tra loro discese il silenzio. Lei non lo guardava. Infine egli disse: «Se ripassassi di là domani, magari potremmo andare a fare una gita. Ti piacerebbe?». «D'accordo.» «Non è necessario andare lontano.» «D'accordo.» Andò ad aspettarlo sulla strada il pomeriggio del giorno dopo. Non indossava la tenuta scolastica, dato che aveva marinato la scuola; si era messa invece una gonna e un maglione. Aveva i capelli sciolti al vento. L'uomo la fissò, quando salì sull'automobile; era uno sguardo intenso, indifeso. Lei non lo guardò. Si limitò a sorridere, vagamente, nella sua direzione. Percorsero la West Jefferson; la giornata era un poco nuvolosa e sembrava spingerli l'uno verso l'altra, incalzarli l'uno verso l'altra. «Siedi più vicina» disse l'uomo. Maureen si spostò accanto a lui. «Non puoi sedere più vicina a me di così?» egli disse. Maureen sollevò la gonna raccogliendola intorno alle ginocchia e si spostò ancora. L'uomo le prese subito entrambe le mani in una delle sue. Lei provò di nuovo un lieve disagio, quasi un ricordo di paura, ma passò. Al centro stesso dello sconosciuto v'era il denaro che egli aveva e che le avrebbe dato... pensava soltanto a questo. Continuarono a viaggiare. Superarono autocarri, automobili, autobus. Maureen si guardava attorno come se non avesse mai veduto prima nulla di tutto ciò, e lo sguardo dell'uomo seguitava a passare dalla strada a lei, al lato che poteva vedere del suo viso. Era nervoso e guidava piuttosto male. Maureen si domandò che cosa sarebbe accaduto se gli fosse capitato un incidente. Una macchina di pattuglia della polizia li superò, senza fretta. Maureen sbirciò l'interno della macchina. Tre poliziotti che fumavano sigarette. Portavano gli occhiali scuri, nonostante la giornata grigia. L'uomo la portò in un vecchio albergo della West Jefferson. Maureen non si diede la pena di guardarsi attorno. Salì le scale precedendolo, sentendolo dietro di sé con quel suo sguardo avido e intenso. Continuava a non provare nulla. Non v'era alcunché di personale in quanto stava facendo. Se il cuore le batteva in fretta, questo accadeva soltanto come un'imitazione di quel che avrebbe dovuto sentire, ma non sentiva affatto, quasi che il suo corpo si fosse trovato a una distanza sicura da lei. Riteneva che le
sue insegnanti, le suore le quali avevano posto in guardia le ragazze contro certe cose, non avrebbero sentito nulla di più di quanto stava sentendo lei... non era possibile sentire molto. Anche la paura era troppo. Stavano entrando in una stanza. L'uomo chiuse la porta dietro di sé e l'assicurò con la catenella. Maureen si guardò attorno e vide un letto, una sedia, un tavolino da toletta, poi rinunciò a guardare. «Vorrei che ti togliessi questo» egli disse, riferendosi al cappotto. Era alto come Furlong, un uomo alto di statura, ma nervosissimo. Quel che poteva vedere sulla sua faccia era a posto. Aveva una pelle chiara, comune. Finché la paura stava dalla parte di lui, Maureen non doveva temere affatto. Egli l'aiutò, compito, a togliersi il cappotto e lo appese. Poi le si avvicinò e l'abbracciò. Maureen si lasciò sfuggire un gridolino di stupore. Alzò le mani fino alle spalle di lui, come per respingerlo, ma gli rimase di fronte e non lo respinse. Non v'era in lei alcun timore. Non sentiva davvero nulla; era distaccata da tutto questo. Chiuse gli occhi. Egli si schiacciò contro di lei, per tutta la sua lunghezza, un uomo adulto che le si schiacciava contro. Come se si conoscessero, Maureen cominciò a muovere le mani dietro di lui, fino alla nuca. L'uomo la stava baciando sulla bocca. Sentì i capelli corti e pungenti sulla nuca. Così vicini, non potevano più vedersi, adesso; egli non sarebbe mai stato in grado di ricordare il suo viso. In cinque minuti era finito, e Maureen giacque accanto all'uomo, senza nemmeno guardarsi attorno nella stanza. Non aveva sentito un gran dolore, in realtà. Aveva immaginato che il dolore sarebbe stato intenso, e invece era stato blando, non aveva potuto neppure concentrarsi su di esso. Tutto, nell'uomo, era stato concentrato, vivido e rapido; in Maureen tutto era vago. V'era stata tanta passione da parte di lui, che ella aveva potuto fare a meno di sentire qualsiasi cosa. Dopo un'ora, si accinsero ad andarsene. L'uomo cercò di lisciarle la gonna, che era spiegazzata. Si comportava come un padre. «Oh, non importa» disse Maureen, stupita dal fatto che egli se ne preoccupava... che cosa importavano i vestiti? La sua preoccupazione la commosse. Si mise a piangere, sorprendendo se stessa e lui. Si coprì la faccia, piangendo; non era una cosa seria. Riuscì a imporsi di smettere. Si costrinse a smettere. Non sapeva perché tutto questo fosse accaduto... non aveva provato né dolore né paura. Era finito. In realtà non era accaduto niente. L'uomo la prese sulle ginocchia con tenerezza. Sembrava un padre. «Ho bisogno di soldi» disse Maureen. «Devo comprarmi qualcosa, vestiti e altro.»
Lui l'abbracciò. Le disse di smettere di piangere. Con un dito le asciugò una lacrima sulla gota, poi si portò il dito alla bocca. «Ho bisogno di soldi, di soldi» ella disse. Capiva che egli le avrebbe dato del denaro. Era ansioso di darle del denaro. Bisognava che passasse un po' di tempo, pochi minuti, svariati minuti... ma le avrebbe dato del denaro. Fu questo a impedirle di andare in pezzi. 16 «Ha avuto un bambino... la parte bassa della spina dorsale non era a posto... com'è che si dice?... qualcosa continuava a gocciolare, dell'acqua... il bambino ha vissuto soltanto per poche settimane...» «È davvero una brutta cosa...» Maureen sedeva sulla sponda del letto, sfogliando un libro. Di tanto in tanto alzava gli occhi verso la porta della sua stanza, che non si chiudeva abbastanza bene per escludere le voci nella cucina. Loretta aveva una visita, una donna a nome Rita. Maureen odiava di dover sentire le loro voci, odiava di dover udire le cose che dicevano, eppure, al contempo, desiderava trovarsi là con loro, capire tutto. Parlavano a luminose chiazze di suono, ritmiche, energiche, con una comprensione perfetta, molto vicine l'una all'altra: Maureen non sapeva se odiarle o se invidiarle. Per tutta la vita aveva udito donne conversare insieme, quasi fuori di portata dell'orecchio, mai però proprio del tutto. Ma quella conversazione non aveva alcun senso: sedeva sulla sponda del suo letto, sola, sfogliando nervosamente un libro della biblioteca, senza capire nulla. La donna che si trovava in cucina, Rita, aveva salito in fretta le scale, quel mattino, saltata fuori dal nulla, «sono appena tornata dalla Florida, e per sempre», indossando un maglione nero a lustrini e un paio di pantaloni neri. Anche i capelli li aveva troppo neri perché potessero essere naturali. Le orecchie erano forate, e su di esse brillavano orecchini d'oro a rosetta. Loretta, aprendole la porta, si era lasciata sfuggire un grido di sorpresa e di gioia, e le due donne si erano abbracciate, eccitatissime, affettuose. Maureen si era rifugiata in camera sua per sottrarsi all'atmosfera inebriante del loro entusiasmo e del loro affetto. Non le piaceva l'entusiasmo, e non capiva l'affetto. Il libro che aveva in grembo era Poeti del Nuovo Mondo, un libro proprio delle dimensioni giuste e con il titolo giusto per escludere i ficcanaso. A pagina duecento si trovava un certo numero di banconote. Una di esse
era un biglietto di banca da cinquanta dollari. A pagina trecento v'erano altre banconote. Maureen, seduta, continuò a sfogliare con aria sognante il volume, senza guardare i numeri delle pagine per vedere se stesse arrivando al suo denaro nascosto, ma lasciandosene cogliere di sorpresa. Provava una tenue scossa ogni volta che capitava sui soldi. Questa era la cosa strana del denaro; costituiva sempre una sorpresa. Rimase seduta per qualche tempo in camera sua, aspettando. La parte della stanza che apparteneva a Betty era uno scompiglio; avevano diviso la stanza in due parti, e le carabattole di Betty giacevano proprio contro la linea di confine, dove Maureen le aveva spinte indietro con il piede. I vestiti di Betty erano sparsi dappertutto alla rinfusa, quelli puliti e quelli sporchi, e tutte le cianfrusaglie che ella andava collezionando - fumetti, e persino piccoli cartelli indicatori del traffico - si ammonticchiavano in pile disuguali. La presenza dilagante e frettolosa di Betty era quasi udibile nella stanza, mentre non lo era affatto quella di Maureen; il lindore dal lato di Maureen, il letto rifatto, e la breve fila di libri sul pavimento, lasciavano capire che nessuno viveva lì in permanenza. Ed era quasi vero: le notti in cui Loretta litigava con il marito, scacciava a calci Maureen fuori del suo letto, e la ragazza doveva dormire sul divano. Quel letto era divenuto di Loretta tanto quanto lo era di Maureen. In realtà non apparteneva a Maureen. Come ogni altra cosa che fosse sua, era precario, e in ogni modo a lei sembrava giusto dover dormire o giacere sveglia su tanti letti estranei, dato che non ne aveva mai avuto uno suo. Alle cinque in punto, rimise al suo posto sul pavimento Poeti del mondo nuovo e prese altri tre libri. In cucina, sua madre e la chiassosa amica di sua madre stavano ancora cicalando. Bevevano birra. «Questa è la mia Reeny, la mia Maureen, ti ricordi di lei?» disse Loretta, afferrando la mano di sua figlia. «Non è diventata proprio carina?» «Sicuro che mi ricordo di lei. È davvero graziosa. Era molto graziosa anche allora, da bimbetta.» Rita sorriso con affetto a Maureen. «Quanti anni hai, cara?» «Sedici.» «Sedici, Cristo!» La donna increspò la bocca, assumendo un'espressione simpatica, allibita. «Sai, la tua Ma' e io eravamo grandi amiche quando tu ancora non eri nata. In effetti, tua madre aveva press'a poco la tua età. Che cosa te ne pare?» «Non è fantastico?» disse Loretta, entusiasta. Maureen abbassò gli occhi, fissando il pavimento. Sua madre continuava
a tenerle la mano, aspettandosi qualcosa da lei. Si sentì intrappolata dalla loro goffa benevolenza. Che cosa odiava, ormai, anche nell'affetto? Il fatto che bisognava sentirsi vicini a qualcuno, che si doveva guardare negli occhi qualcuno? Lei non voleva guardare nessuno negli occhi. «È molto bello» disse. «Sì, tua madre aveva appena la tua età. Che tu lo creda o no.» «Avevo i capelli lunghi, allora, proprio lunghi. Mi scendevano sulla schiena» disse Loretta. Maureen sorrise e si scostò da lei. Aspettò, per andarsene, il permesso di Loretta; era ubbidiente ed educata, con lo scamiciato della scuola e la blusetta bianca pulita. Sembrava che non volesse alzare gli occhi su sua madre e su quella sua amica. E non voleva neppure immaginare sua madre all'età di sedici anni, con i capelli lunghi e biondi. «Be', bambina, dove te ne stai andando, adesso? Tornerai, suppongo, alla biblioteca?» Maureen si domandò che cosa avesse voluto dire sua madre. «Sì, Ma', devo restituire tre libri.» «Oh, tu... tu e quella biblioteca!» «È una ragazza proprio bellina» disse Rita con entusiasmo. «Mi piace come portano i capelli di questi tempi le ragazzine. Soltanto, che cos'è quel vestito?» «La tenuta della scuola delle suore.» «Vuoi scherzare, Loretta? Mandi le tue figliole in una scuola di suore, dopo quello che abbiamo passato noi? Da quelle stupide streghe?» «Oh, gli fa bene, alle ragazze, gli fa bene.» Maureen salutò e uscì. Era ormai primavera, e non portava più il cappotto. Si diresse verso la biblioteca, quasi felice di essere fuori di un posto e non ancora entrata in un altro, sospesa e libera per qualche minuto. Quando entrò in biblioteca, sentì un fremito di aspettativa passare su di lei. Si avvicinò alla scrivania della bibliotecaria per restituire i volumi. Poi entrò nella sala di lettura ove poche persone sedevano ai tavoli, leggendo, sognando a occhi aperti. Un uomo colse il suo sguardo. Aveva dinanzi a sé una copia di Newsweek e sulla copertina della rivista c'era un viso di donna... Maureen non riconobbe il viso, ma era bellissimo. Ricambiò lo sguardo, poi girò sui tacchi e uscì dalla biblioteca. Aspettò fuori, sul marciapiedi, finché l'uomo non l'ebbe raggiunta. «Tua madre ti ha infastidita?» egli domandò.
«No. Press'a poco come al solito.» Gli camminò accanto, facendo ciondolare piano la borsetta, sorridendo, e lui si appoggiò un poco a lei. Lo aveva conosciuto circa tre settimane prima, prendendo l'iniziativa perché aveva una certa espressione innocua, irrequieta. Poteva avvicinare un uomo e valutarlo a occhi socchiusi, senza mai guardarlo sul serio; era una sensazione che aveva nel sangue. Chinava il capo in un certo modo, lasciava scivolare un piede all'infuori, facendo sì che la caviglia toccasse il pavimento, fingeva di pensare seriamente a qualche evento della sua vita, e così sentiva l'attenzione dell'uomo concentrarsi su di lei come una vivida luce, che l'avvolgeva e la contrassegnava. «È una bella giornata, oggi. Una giornata splendida.» Egli le si appoggiò contro leggermente mentre camminavano, toccandole il braccio. Maureen sentì il suo corpo inclinarsi verso di lei. Non era un uomo timido, e neppure un uomo molto gentile, ma la capiva; le dava denaro. Maureen pensò avidamente al denaro che le avrebbe dato quel giorno e che ora era riposto nel portafoglio. In teoria sarebbe dovuto essere invisibile e per il momento escluso dal suo interesse. Ma vi pensò avidamente, pensò all'attimo in cui dalle mani di lui sarebbe passato nelle sue, per appartenerle. Le banconote, pur non cambiando in alcun modo, sarebbero divenute sue. Il loro potere sarebbe divenuto suo. Il fatto che l'uomo le dava denaro non era un semplice gesto, ma una trasformazione del denaro stesso, per cui quei biglietti di banca diventavano un altro tipo di denaro, diventavano suoi, erano magici nelle sue mani, un segreto nascosto a tutto il mondo, eppure rimanevano immutati. Egli stava dicendo, dandole di gomito: «A che cosa pensi? Hai un'aria così strana. A che cosa pensi continuamente?». «A niente.» «A niente? Non a me?» «No.» «Sì, invece, che stai pensando a me!» Scherzava, ed ella alzò gli occhi su di lui, sorridendo. Non lo vedeva affatto. Lo aveva veduto quanto bastava, il primo giorno, per sapere che aveva una faccia alquanto dura ed esigente, che i capelli erano tagliati corti, che le unghie non sembravano sporche, che indossava vestiti piuttosto eleganti, o almeno a lei sembravano eleganti. Si era resa conto che, non appena fossero rimasti soli, egli l'avrebbe afferrata, e che, quando avessero cercato di parlare insieme, le loro parole si sarebbero susseguite nervose e calde, simili a schiaffi. Era come parlare con Loretta, a volte: non un vero
discorrere. Alla vita privata di lui non aveva mai pensato, e non ne era affatto incuriosita. Non si domandava se fosse ammogliato o meno, se avesse o no un buon lavoro. Poteva anche darsi che fosse disoccupato. In realtà pensava al suo amico soltanto come a un uomo con il quale si incontrava alcune volte ogni settimana, un uomo il quale le dava soldi e aveva ora in tasca il denaro che le avrebbe dato più tardi quel pomeriggio... questo era il segreto e la parte centrale dell'essere di lui, un segreto che si sarebbe aperto per esserle dato. «Vuoi andare in qualche posto?» egli domandò. «In un posto qualsiasi» disse Maureen. «Ho la macchina parcheggiata qui. Vuoi andare a fare un giro, piccola?» «D'accordo.» Le strofinò la mano sulla nuca, ora che si trovavano nel parcheggio e lontano dalla strada. Le aprì la portiera dell'automobile. Maureen salì, passandogli accanto, e lui si chinò a baciarla. A questo punto la cosa cominciò: una sorta di inizio. Egli cambiò, Maureen poté sentirlo cambiare. Le disse contro la bocca: «Ho pensato a te per tutto questo tempo...». E non era una particolare verità, quella che le stava dicendo - in realtà Maureen supponeva che mentisse - ma fu la verità della sua necessità di dirlo a farle capire che tutto andava bene. L'uomo l'abbracciò. Andava tutto bene, per quanto lo concerneva. Seduta sull'automobile, ella lasciò che la forza defluisse dal proprio corpo, come se fosse stata lei stessa, Maureen, a scorrere fuori, a sfuggire, a scomparire nell'aria, e goffamente l'uomo si protese su di lei, tentando di definire una qualche sua necessità con il proprio corpo, con le proprie mani. V'era un che di gaio e di stravagante nella sua passione... scintille che sembravano civettare con lei, sprizzare intorno a lei, scintille di eccitazione che ella non riusciva affatto ad afferrare e che a volte la incuriosivano un poco, sebbene non riuscisse a farle sue. Scosso, egli portò la macchina fuori di Woodward Avenue, guidando velocemente, come per esibire la propria forza. Maureen lasciò scorrere lo sguardo sulla sequela di edifici familiari. La radio stava trasmettendo una canzone popolare. L'aria era piacevole, come aveva detto quell'uomo, sfiorata dalla primavera. Maureen si domandò perché non significasse qualcosa di più per lei. Non riusciva a ricordare affatto la primavera precedente, l'anno precedente. Pensò che la primavera le era sempre piaciuta, e si sentì sollevata per aver superato un altro inverno, ma ora questo stato d'animo apparteneva al suo amico, che stava guidando l'automobile con una mano e
stringendole la mano con l'altra. Aveva assorbito tutta l'energia della primavera e ne era stordito, mentre Maureen sedeva placida e contemplava i negozi e la gente, tutta quella gente con le mani in tasca che entrava nei negozi per acquistare qualcosa, per deporre denaro sui banchi, per dare denaro ad altre persone, un ciclo che non si fermava mai. Egli le stava parlando e lei dovette ascoltare. «Sei ancora la segreria della tua classe?» le domandò. «Parlamene.» «Non c'è niente da dire.» «Ricordo quando andavo a scuola io... nella mia classe... avevamo un presidente e anche una segretaria. Dimmi che cosa fai.» «Davvero, non c'è niente da dire.» Dopo qualche momento egli disse: «Parlami ancora di tua madre. Voi due litigate continuamente. Lei non crede sul serio, vero?... che tu stai correndo la cavallina? E tuo padre, che cosa pensa?». «Non lo so. Non so niente di loro.» «Qualcuno cercò di darti un passaggio, una volta, e lei lo seppe? Raccontami.» Passò accanto al Palmer Park, ove gruppetti di persone passeggiavano nel sole primaverile, con l'aria di esserne abbacinati. Un branco tumultuoso di anatre e di oche si stava azzuffando per conquistare ghiottonerie intorno allo stagno. Alcune panchine erano state gettate nell'acqua, una di esse vi rimaneva ritta, e un piccione vi stava appollaiato, contemplando lo spettacolo. La luce del sole scintillava mirabilmente su tutto. Vi sarebbe dovuta essere musica. Nei campi di tennis v'era gente che giocava o curiosava. Maureen mise la mano sulla mano dell'uomo e gli accarezzò le dita. Questo avrebbe potuto farlo tacere. Si domandò che cosa si provasse a essere una giocatrice di tennis; non a giocare a tennis, questo non la interessava affatto, ma a essere una giocatrice di tennis, una di quelle ragazze in camicetta e calzoncini bianchi, con un maglione gettato sulle spalle e le maniche annodate sul davanti... Egli passò accanto allo State Fair Ground. Negri aspettavano l'autobus sotto un'ampia tettoia; alcune donne rimanevano fuori al sole. La condusse in un motel fuori di Detroit, un alberghetto verniciato in bianco, con insegne al neon rosa. V'erano parecchie automobili nel parcheggio, con targhe di altri Stati. Maureen discese dalla macchina e aspettò che egli tornasse dopo aver firmato il registro, poi andò in camera con lui. Le veneziane erano già abbassate. L'uomo l'aiutò a togliersi lo scamiciato, poi, con una dolce, cortese fin-
zione di autorevolezza, le tese la pelle agli angoli degli occhi. «Dovresti dormire di più. La tua famiglia è sempre così matta?» disse. Maureen non rispose nulla. In piedi nella sottoveste bianca, tolse via le coperte dai guanciali, e si disse che quella scena, i guanciali, e la luce scialba, era ormai così familiare da evitarle di situarsi in essa. Si trovava lì e al contempo non era presente. Ma un particolare la turbò... scorse per caso la faccia dell'uomo nello specchio. Non aveva avuto l'intenzione di guardarlo. Egli si stava sbottonando la camicia, aveva gli occhi abbassati, e Maureen notò che portava un orologio da polso di platino con bracciale elastico e che, sulle punte del colletto, c'erano bottoncini per tenerle giù; la sua faccia sembrava un po' grossolana per la fretta. Le si avvicinò e passarono in un'altra fase del ciclo, ora che avevano smesso di parlare, e Maureen gli palpò doverosamente la carne della schiena, come se soltanto adesso stesse incominciando a riconoscerlo. Ma anche questo era familiare. Aveva imparato a mente tutte le fasi del ciclo, la via che il macchinario seguiva fino alla meta inevitabile; e voleva accelerare il processo. La pelle di lui era una pelle di uomo, un po' ruvida. Sembrava quasi granulosa come sabbia sotto le sue dita. Egli stesso era un po' ruvido, e così ella parve guidarlo con le mani sulla sua schiena e la bocca accanto alla sua. Un uomo era come una macchina, una di quelle macchine della lavanderia automatica, ove ella portava la biancheria. Esistevano certi cicli attraverso i quali passare. Il ciclo era incominciato quando egli le aveva aperto la portiera dell'automobile, e tra un minuto o due si sarebbe concluso con una improvvisa e paralizzata tensione, con il respiro rotto contro la faccia di lei, con gli indizi incalzanti e familiari dell'amore di un uomo. Poiché, gemendole contro, egli parlava d'amore: «Gesù Cristo, quanto ti amo... sono pazzo di te...». In seguito giacquero insieme sotto la coperta di cotone da pochi soldi e lui si espresse con una voce diversa. Era allegro ed energico, parlava in tono un po' troppo alto. «Tua madre non ci crede sul serio, alle balle che dice, vero? Perché ti lascerebbe uscire, allora?» Stava esponendo un certo argomento dinanzi a lei, determinati blocchi di logica. Quello che significavano non aveva importanza. «Non lo so» rispose Maureen. «Dovresti dormire di più. Va' a letto presto.» «Va bene.» «Ti servono molti soldi?» «Sì.»
«Perché? Per comprare cose?» «Forse.» «Che genere di cose? Gonne e vestiti?» «Non lo so.» «Vuoi comprare cose belle per te, eh?» Maureen chiuse gli occhi. «Potrei comprartele io. Lascia che ti compri qualcosa.» «No» disse lei con semplicità. «Preferirei avere i soldi.» «Ma potrei comprarti qualcosa di grazioso io stesso. E tu potresti scegliere.» «Preferirei avere il denaro.» «Se non ti dessi il denaro, non verresti con me?» Maureen non rispose. Si sentiva troppo stanca per rispondere. «Allora non ti piaccio, eh?» «Mi piaci.» Lui rise. Era d'ottimo umore. «Mi ami?» domandò. «Si, ti amo.» Lo disse in un modo spento, del tutto remissivo. Udiva il traffico diventare più intenso fuori, sulla Woodward; si stava facendo tardi. La gente andava fuori città, dirigendosi a nord. Sentì un fremito percorrerla, mentre pensava agli uomini sulle automobili dirette fuori città, a nord, verso i sobborghi dove abitava quella gente, un incessante, rumoroso fiume di macchine. Un così gran numero di persone, e tutta quella fretta. Era strano che dovesse giacere su quel letto estraneo, in una camera pagata da quell'uomo, mentre tutti gli altri fuggivano, si allontanavano dalla città. Si scostò un poco da lui. Il cuore aveva preso a batterle rapidamente. Quando fu tornata a casa, verso le sette, andò subito in bagno e tolse dall'armadietto delle medicine il vasetto di cold cream di sua madre. Loretta seguì Maureen nel bagno. «Serviti pure. Non darti nemmeno la pena di chiedere. Prendi liberamente» disse. Rita se n'era andata, ma la sua loquacità aleggiava nell'aria e aveva contagiato Loretta. «Be', posso adoperarlo?» domandò Maureen con pazienza. «Perché no? Dobbiamo vivere insieme.» Scivolò accanto alla madre e andò in camera sua, ove sedette sulla sponda del letto. Loretta la seguì. Da dove sedeva, Maureen poteva vedere Poeti del nuovo mondo. Aveva altro denaro da mettere nel volume... quella sera avrebbe potuto contarlo tutto. Avrebbe potuto chiudersi nel bagno e contarlo.
Si spalmò la crema sul viso mentre sua madre rimaneva con aria negligente sulla soglia, fumando. Maureen non ne ascoltava il cicaleccio, ma pensava alla propria faccia. Forse incominciava a invecchiare, a cambiare, a causa dell'attrito di quelle altre facce ruvide contro la sua. Qualcosa sarebbe mutato nel suo viso. Si domandò se tutte le donne che si concedevano agli uomini sentissero impronte di facce sulla loro... si domandò come si potesse strofinarle via e cancellarle. Erano simili a conchiglie che le racchiudessero il viso, dure e laide. Anche la sua pelle sarebbe diventata ruvida. Loretta stava dicendo, con la voce di chi è un po' brilla: «Quella Rita è proprio una cara creatura; l'ho nel cuore, quella ragazza. Per due volte mi ha aiutata, per due volte, quando mi trovavo in brutti guai...». Maureen si tolse la crema dal viso con un fazzoletto di carta. Sulla carta non rimasero tracce particolari... soltanto cold cream, un pochino sporca. Macchioline di sporco. Niente altro. Non osò, però, sentirsi sollevata. Portava sfortuna provare sollievo quando il pericolo era passato; e del resto il pericolo non passava mai realmente. E i soldi che aveva nella borsetta? Se sua madre avesse preso la borsetta, tanto per scherzare, guardandoci dentro? Era abbastanza curiosa per farlo. Un brivido incominciò in basso nella spina dorsale di Maureen. Ella si asciugò la faccia e appallottolò il fazzoletto di carta, domandandosi se sua madre avrebbe potuto sospettare. Sì, avrebbe sospettato, qualora avesse aperto la borsetta. Ma no, non avrebbe sospettato niente. Sapeva già? O era tutto uno scherzo? Maureen sentì di avere la spina dorsale gelida e fragile, come se si stesse tramutando in ghiaccio. Le parve che potesse spezzarsi a un tratto. E allora tutto il liquido spinale sarebbe sfuggito. Pensò a quell'uomo sopra di lei, al suo peso su di lei, a tutto quell'amore spinto dentro di lei e sprigionato, come se fosse, semplicemente, eccessivo per lui, ed egli dovesse liberarsene, quanto prima accadeva tanto meglio era. Pensò a sua madre e a Furlong. Pensò a sua madre a suo padre, a suo padre defunto. Molto adagio si tolse la crema dal collo, pensando a queste cose. Era piacevole sentirsi pulita, eppure la crema le aveva lasciato sulla pelle una sensazione di unta vischiosità. La sua pelle non era realmente pulita. Aveva la schiena molto gelida, fragile. Se un uomo si fosse gettato su di lei in quel momento, l'avrebbe spezzata in due, la spina dorsale le si sarebbe schiantata. Non riusciva a capire queste cose. Non capiva quali fossero il peso, la forza che avvicinavano uomini e donne, perché uomini e donne si cercassero di loro libera volontà. Riusciva a capire soltanto il denaro che aveva nella borsetta, e il denaro nascosto in
quel libro. Era una cosa che poteva essere contata e ricontata; era reale come un romanzo di Jane Austen. Loretta, che indugiava sulla soglia, che cicalava e fumava, non dava a vedere in alcun modo di volersene andare. «Sicché, che cosa hai fatto in biblioteca, bambina? Hai imparato molte cose?» «Ma', dovresti spegnere quello stupido televisore e leggere qualcosa anche tu. Ci sono libri di ogni genere in biblioteca» disse Maureen a un tratto. «Impareresti qualcosa.» «Oh, un corno imparerei! Che cosa?» «Ci sono libri su ogni genere di argomenti.» «Come per esempio?» «Io ho preso un libro di poesie, è proprio lì sul pavimento. Poesie.» Loretta abbassò gli occhi sulla fila di libri. «Poesie, all'inferno! Merda» disse, e si allontanò dalla soglia. Ma è reale? si domandò Maureen a un tratto. È reale tutto questo? Ricordò di aver sentito parlare una volta sua madre della maternità, dell'avere figli. Loretta aveva detto che era strano essere madre perché se i bambini non si trovavano nella stessa stanza con te... esistevano davvero? Li avevi sul serio? E forse il bambino migliore che avresti dovuto avere, il più importante, era quello che non mettevi mai al mondo... e allora? Loretta si era espressa adagio e con serietà. Aveva parlato a Connie, oltre la salma di nonna Wendall. E Maureen, che ascoltava a mezzo, era stata colpita da un che di patetico e di spaventoso nella voce di sua madre. Se i bambini non si trovavano nella stessa stanza con te, li avevi avuti sul serio? Ed ella stessa, la figlia di Loretta, non avrebbe saputo dire quale fosse la risposta. Forse il libro con il denaro nascosto tra le pagine, e il denaro così avidamente risparmiato, e l'idea del denaro, forse anche queste cose non erano reali. Che cosa sarebbe accaduto se tutto fosse andato in pezzi? Era strano come si sentiva, istintivamente, che un certo spazio di tempo era reale e non un sogno, e come si dedicava ad esso la vita, tutte le nostre energie e la nostra fede, credendolo reale. Come si poteva dire che cosa sarebbe durato e che cosa no? Come ci si poteva impadronire di qualcosa che non avrebbe avuto fine? I matrimoni finivano. L'amore finiva. Il denaro poteva essere rubato, trovato e preso, lo stesso Furlong avrebbe potuto trovarlo, oppure i soldi sarebbero potuti scomparire da soli, come il quaderno della segretaria. Queste cose accadevano. Gli oggetti scomparivano, lasciati scivolare attraverso fessure, divorati, scostati con un calcio, gettati sotto il letto o nei rifiuti, smarriti. Nulla durava a lungo. Maureen pensò ai terre-
moti che aprivano la terra con crepe violente, inghiottendo interi isolati di città, chiese, binari ferroviari. Pensò agli incendi, ai bulldozer che spianavano alberi e edifici. Perché no? Mentre giaceva con quell'uomo, poco tempo prima, le era accaduto di pensare, priva di ogni difesa, che si trovava lì, e non fuori nel viale, che si trovava a letto con un uomo, e non su un'automobile diretta in qualche posto. Il suo destino voleva che fosse Maureen, tutto lì. Ma la Maureen che ella era alla presenza dell'uomo con il quale aveva fatto l'amore - e gli diceva di essere pazzo di lei, e di avere violentemente bisogno di lei - non durava. La cosa giungeva a un termine. Con la stessa avidità con la quale egli si impegnava nel ciclo dell'amore, era ansioso di uscirne, e di accompagnarla a casa in macchina e di sbarazzarsi di lei. Questo era incontestabile. Rimaneva molto reale per lei per circa cinque minuti, tutto lì. Il suo ricordo più chiaro degli uomini con i quali era stata, consisteva nel loro scostarsi da lei. Erano tutto corpo, allora, completi. Quella sera Furlong tornò a casa presto, verso le dieci. Maureen lo udì. Poi udì Loretta che la chiamava... «Ehi, bambina, vieni qui, ho un lavoro per te.» Maureen si alzò subito e uscì dalla stanza, senza nemmeno fare una smorfia a se stessa. Era in accappatoio. Furlong, in piedi accanto al tavolo di cucina, si teneva una mano sul fondo della schiena... un gesto di sconfitta che parve stranamente tenero. Maureen non aveva mai pensato molto alla possibilità che gli uomini soffrissero, ma vide che quell'uomo stava soffrendo. «Tesoro, puoi massaggiargli la schiena?» disse Loretta. «Lo sta tormentando di nuovo e io sono troppo stanca. Ho avuto capogiri per tutto il giorno.» Maureen guardò negli occhi sua madre e annuì. «Vado a prendere il necessario» disse Loretta. «Gli farai un grande favore, Reeny. Altrimenti non riuscirà a chiudere occhio.» Furlong si mise a sedere. Maureen aspettò. Non parlarono né si guardarono. Loretta tornò dal bagno con l'alcool per il massaggio, e sbottonò la camicia di Furlong, briosa e autoritaria. «Reeny può anche rendersi utile» disse. «Il bambino ha vomitato due volte, oggi, povera creatura. E io non ce la faccio più. Su, Reeny, vieni qui. Ecco come devi fare. Guarda me.» Mostrò a Maureen come doveva massaggiare la schiena di Furlong. «Muovi energicamente le dita, devi farlo con forza. Muovendole tutto attorno in circolo» disse. Da lei saliva un odore di qualcosa a buon mercato, qualcosa di polveroso e di piacevole. L'odore di Furlong era diverso. Come
il corpo di lui era robusto e greve e inerte, così l'odore del suo essere, l'odore misterioso dell'anima sua, era greve, scuro, opaco. Non aveva alcunché di chiaro, alcunché di polveroso. Maureen si sentiva un po' stordita, come se il capogiro di sua madre fosse passato a lei. Era strano: non le importava di sentire le mani di sua madre sulle sue, a guidarle le mani sottili sulla schiena di Furlong, mentre le punte delle dita si muovevano adagio e con una sorta di stupore su quelle strane, piccole ossa che formavano la spina dorsale. Sebbene fosse stanchissima, non le importava di tutto questo, nemmeno del fatto che sua madre si appoggiava a lei. «Così, così» disse Loretta, compiaciuta. E a Furlong domandò: «Come va?». Lui annuì con gratitudine. Aveva la faccia sudata per il dolore. Maureen fissò la sua carne spessa, liscia, sotto le proprie dita, e capì perché egli taceva. Anche suo padre era stato taciturno. V'era troppa carne intorno agli uomini, troppo peso attraverso il quale forzare le parole. «Okay, Reeny, hai capito come si fa? Io me ne vado a letto» disse Loretta, e uscì. Maureen la udì in camera da letto, mentre parlava con il bambino. Il bambino piagnucolava. Quei suoni, giungendo da un'altra stanza, erano come un muro. Loretta si trovava all'altro lato di quel muro. Maureen osservò la nuca di Furlong. Gli fissò il collo, che era immobile, e la schiena massiccia, con la carne pallida chiazzata da piccole macchie e da verruche, simili ai segreti della sua debolezza, qualcosa di cui non avresti mai saputo niente, se non standogli così vicino. Fu presa da una sensazione travolgente, tagliente, di stordimento. Massaggiarlo divenne un qualcosa di ipnotico. Eppure lo sfinimento le rallentava le mani; i muscoli in alto sugli avambracci le dolevano. Si interruppe. Si chinò su di lui, come per bisbigliargli qualcosa all'orecchio, e invece posò la gota contro il tepore della sua schiena, accanto alla spalla. Rimase così per un momento. Poi disse, indietreggiando: «Buonanotte. Me ne vado a letto». 17 La settimana seguente, un pomeriggio verso le cinque. Maureen guardò per caso fuori del finestrino dell'automobile del suo amico, mentre aspettavano in Livernois Street che il semaforo passasse al verde. Sul marciapie-
di, insieme a un gruppo di uomini che avevano l'aria di essere rimasti lì per tutto il giorno, c'era il marito di sua madre, ed egli la stava fissando. Maureen si fece schermo alla faccia con la mano e voltò la testa. «Che cosa c'è?» domandò l'uomo. «Niente. Non preoccuparti.» Lui continuò a guidare. Quel giorno era di umore diverso, più taciturno. Ella non badava ai suoi stati d'animo e rimaneva passiva, in attesa che tutto fosse finito, che la routine si svolgesse fino in fondo e si esaurisse. Ma a un tratto si spaventò molto e cominciò a tremare. La sensazione curiosa nella spina dorsale tornò a farsi sentire, come se fosse stata l'inizio di una paralisi: il gelo si diffuse nel suo corpo. Si domandò che cosa sarebbe accaduto. Furlong l'aveva veduta, sì. Lei si era nascosta il viso con la mano. Tutto era cominciato e finito in un attimo, ma, ciò nonostante, nulla poteva considerarsi finito. Si prese la testa tra le mani, sentendo il cranio sotto la pelle, domandandosi se sarebbe svenuta sull'automobile di quell'estraneo. Egli stava parlando di qualcosa. Maureen sedeva del tutto immobile e guardava, fuori, lo scenario in fuga di marciapiedi e negozi. Tutto era troppo luminoso. Le dolevano gli occhi. Non pensò all'uomo accanto a sé, né a Furlong, né a quello che sarebbe accaduto al ritorno a casa. Concentrò invece tutti i suoi pensieri sul libro e sul denaro nascosto in esso, risparmiato una settimana dopo l'altra. Non poteva esserle tolto. Non così facilmente. Non era possibile che potesse perderlo. Cominciò a respirare in fretta, pensando ai soldi. Erano i suoi soldi. Una corrente d'aria, penetrando attraverso il finestrino dell'automobile, le smuoveva i capelli e le faceva dolere gli occhi. Perché faceva tanto freddo? Non riusciva a ricordare affatto dove stavano andando. Erano già stati a letto insieme, quel pomeriggio, o stavano per andarci? Era stata con quell'uomo due giorni prima, o tre giorni prima? Non riusciva a ricordare. Con cautela spostò il proprio corpo e si sforzò di pensare, di esaminare se stessa... era indolenzita di lui, o ancora non era accaduto niente? Comunque stessero le cose, in realtà non le importava. Tutto era così vuoto in lei, che non sentiva niente; il suo corpo dimenticava più rapidamente di lei stessa. L'automobile dell'uomo sapeva di cuoio e di metallo. Sapeva dell'acqua di Colonia con la quale ella si spruzzava, l'acqua di Colonia di sua madre, contenuta in un flacone azzurro. Teneva le mani abbandonate sulle ginocchia, mani da studentessa, con le dita lunghe e le nocche rilevate e qualche macchia d'inchiostro. Aveva le mani molto fredde. Si tastò i piedi e sentì che anch'essi erano gelidi. Ma non si trovavano più nell'inverno - non ri-
manevano più sbilenchi e sudici mucchi di neve - era la primavera inoltrata, la gente passeggiava per le strade in maniche di camicia, senza la giacca, eppure a lei sembrava che facesse un gran freddo. Guardò fuori. Non riusciva a capire che strada fosse quella. I pali di un passaggio a livello si stavano sollevando adagio davanti a loro... avevano aspettato che un treno passasse. Maureen fissò i pali che si sollevavano e si sentì terrorizzata. «Ehi, c'è qualcosa che non va? Non ti senti bene, forse?» «No.» Lui le prese la mano, preoccupato. Spense la radio della macchina, che Maureen non aveva udito fino a quel momento. Ella cominciò a scuotere la testa, no, era sempre no, qualsiasi cosa l'uomo le domandasse, mentiva meccanicamente e senza animazione. Poi, smentendo se stessa, e mentendo di nuovo, disse: «Ho un po' di mal di capo. Non è niente». Lui le strinse la mano. Gliela premette contro la coscia. Ella abbassò gli occhi su quella grossa mano, sui peli che l'adornavano, e si domandò perché le donne si concedessero agli uomini quando tutto si riduceva soltanto a questo: una mano o un'altra parte del corpo. Nella sua scuola, le ragazze si accompagnavano con i ragazzi della loro stessa età, ragazzetti sfrenati. Accondiscendevano a tutto, e in cambio non prendevano un centesimo. Maureen non riusciva a capirle: le loro conversazioni eccitate nei gabinetti le riuscivano incomprensibili quanto un'altra lingua. Le ragazze dicevano continuamente: «Oh, lo amo tanto. Sono pazza di lui»... e Maureen, curiosa, provando una vaga ripugnanza, poteva intuire, attraverso le loro parole, una incerta tenerezza che le riusciva misteriosa. Erano come creature di un altro elemento, quelle ragazze, sfrenate e graziose, con i capelli raccolti a crocchia sul cocuzzolo della testa, e le labbra di un rosso vivido, e le calze, le scarpe, i vestiti, tutto stretto per mettere in risalto le loro forme snelle. Portavano braccialetti di riconoscimento che lasciavano sui polsi segni di un verde spento. Portavano anelli da uomo appesi a catenine intorno al collo, catenine che lasciavano vaghi segni verdognoli. Accomunate dalla loro passione, dalla necessità di cadere nell'amplesso frenetico di qualche ragazzo e di concedergli tutto, si riunivano in gruppi innervositi, deliziati, e parlavano. A volte conversavano a bisbigli, come se fossero state in chiesa. Gli scamiciati regolamentari della scuola non riuscivano a contenere il loro respiro eccitato. Le loro mani si agitavano tracciando gesti identici, tradendo abbandono, una felicità sgomenta, un cadere folle, stravagante. Era incomprensibile. Maureen fissò la mano di quell'uomo, le cui dita si intrecciavano con le
sue. Non capiva perché gli esseri umani volutamente intrecciassero i loro corpi, che necessità avessero di essere così avidamente e violentemente soddisfatti, perché si determinasse all'ultimo momento un'ansia così impetuosa di unirsi, di fare quella cosa... La pelle di lui era ruvida. Eppure v'era in essa un che di tenero, di vulnerabile. Sotto la superficie si vedevano tre grosse vene azzurre, che sembravano gonfie, e quattro tendini che partivano dalle nocche, sollevando la superficie della pelle. Maureen continuò a fissare la sua mano. Sentì che stava impazzendo... Era un uomo, un estraneo che alzava gli occhi su di lei da una rivista. I suoi occhi si volgevano verso di lei come avevano seguito il rigo stampato, indicandola, valutandola. Stava tornando da scuola e un'automobile le passò accanto. L'automobile rallentò. Lei non rallentò né affrettò il passo, ma continuò a camminare sul marciapiedi. Cominciò a sentire su un lato della faccia una sensazione pungente. Quale pericolo? Sua madre e un'altra donna stavano parlando: del negro che vendeva Bibbie e si introduceva nelle case delle donne e squarciava loro il seno con un coltello. Indossava un impermeabile, portava gli occhiali scuri e aveva un aspetto distinto. Aggrediva tanto le bianche quanto le negre. Lui, del resto, aveva la pelle chiara. Era avvenente. Indossava un impermeabile. Andava a piedi. Poteva presentarsi alla porta di chicchessia, vendendo Bibbie. Dietro gli occhiali scuri si celavano probabilmente occhi comunissimi, sebbene nessuno li avesse mai veduti. Era armato con un coltello. Si stavano avvicinando ai lavori della strada di scorrimento rapido. Quella strada tagliava verso nord attraverso la città. Dappertutto c'era fango e c'erano gigantesche travature arancione. Alcune già erette sopra la strada, altre abbandonate nel fango. Uomini lavoravano nel fango. Si vedevano parecchi compressori stradali e autocarri e molti uomini. Maureen scorse un uomo che somigliava a Furlong, in piedi al margine della strada, intento a guardare lontano, fumando. Stava lavando il pavimento della cucina, il linoleum. Non si riusciva mai a pulirli bene, quei quadrati bianchi e neri. Il sapone aveva un odore asprigno, gradevole. Il pavimento si asciugava in modo disuguale; alcune parti brillavano, altre si asciugavano, ma sembravano subito sporche. I quadrati bianchi del linoleum erano giallastri. Un'amica di Loretta parlava in cucina con lei: «Suo padre sta morendo di cancro e allora io ho detto che vorremmo l'automobile quando morirà e la vecchia cagna si è arrabbiata. Chi può meritare l'automobile più di noi, con
Bob che deve andare al lavoro fino alla Ford?». Certi bifolchi erano in piedi sul marciapiedi, in attesa di attraversare la strada. Maureen capì chi erano dalle facce pallide, tirate, sonnacchiose, sospettose; erano snelli e, ciò nonostante, goffi. Un uomo sulla trentina guardò dalla sua parte. Aveva la faccia bianca, come se fosse stata incipriata, una faccia molliccia, da roditore. Si domandò se fosse il fratello di qualcuno che conosceva... Il motel era costruito con blocchi di cemento verniciati in beige. Un'insegna al neon, con grandi lettere rotonde, sporgeva verso la strada. A causa di un vicino sovrappasso, il motel sembrava infossato, e una vasta pozzanghera si era formata davanti al viale d'accesso. Due automobili erano parcheggiate a una estremità dello spiazzo, con targhe di New York e di Ontario, nel Canada. Nella stanza v'erano tende beige di tessuto sintetico, ignifughe. Maureen le accostò. Il copriletto era color fulvo, a strisce rosse e nere. Sembrava familiare. L'uomo si stava sbottonando la camicia e abbassava gli occhi. Maureen scosse la testa per vederci meglio; pensava alle ragazze a scuola, riunite a gruppi nella sala di ricreazione, intente a fumare sigarette proibite e a parlare con gioia di cose proibite... pensava al commesso viaggiatore negro che vendeva Bibbie ed era armato di coltello. L'uomo le si avvicinò e l'abbracciò. Lei lo allacciò con le braccia. Aveva una paura mortale, ma non riusciva a ricordare perché. Stavano tornando a casa in automobile, lungo la strada di scorrimento rapido. I sovrappassi erano costruiti a mezzo; poi anche la strada di scorrimento terminò, a un tratto. Grossi lembi della città erano stati squarciati, case e terreno. Alberi giacevano riversi ove erano caduti, immobili. Le loro radici erano un raggrupparsi di filamenti sottili e di grumi di fango. Maureen capì a poco a poco che cosa le avesse suggerito l'idea di un terremoto. Dietro le case che ancora rimanevano in piedi, dietro gli alberi che ancora non erano stati abbattuti, il cielo aveva assunto il rosa del tardo pomeriggio, macchiato dal fumo che saliva dal basso corso del fiume. Gli occhi di Maureen scorsero tutto ciò e tentarono di apprezzarlo: era abbastanza precario, come ogni genere di bellezza. L'uomo disse: «Vorrei che si decidessero a finirla, questa dannata strada di scorrimento!». «Qualche volta potremmo continuare a viaggiare, forse» disse Maureen. Aveva la voce fioca e stridula. «Per fare una gita, una lunga gita.» Lui la sbirciò. «Certo. È una buona idea.» «Mi piacerebbe andare a fare una lunga gita, qualche volta, magari al di
là del ponte e nel Canada, e più avanti... non sono mai stata nel Canada.» «Sicuro, un giorno o l'altro andremo.» La fece scendere a un isolato di distanza da casa sua ed ella si affrettò a tornare. Aveva i libri di scuola. Il corpo le si era intorpidito. A metà strada vide una ragazza in blue-jeans saltar fuori da un portone; era sua sorella. «Ehi. Reeny,» disse Betty «che diavolo succede? Il vecchio è furioso, Ti sta aspettando su in casa. Faresti meglio a non salire.» Maureen la fissò. Si strinse al petto i libri di scuola. «Che cos'è tutta questa storia?» domandò Betty, apertamente curiosa. «Ma' ha detto di dirti di andare dov'è lei, da Ginny. Anch'io passerò la notte là. Faresti bene a non andare prima a casa, è furioso. È ubriaco.» Maureen proseguì. «Reeny, perché ce l'ha con te? È soltanto ubriaco? Stava mettendo per aria la nostra stanza, il bastardo, e ha trovato dei soldi in un tuo libro. Dove li hai presi tutti quei soldi, Reeny?» «Non te ne preoccupare.» Maureen si stava affrettando verso l'angolo dove abitavano. Si domandò se Furlong stesse guardando dalla finestra, la stesse aspettando. «Lo hai rubato, Reeny? Dove lo hai preso tutto quel denaro? Quelle banconote di grosso taglio?» «Non te ne preoccupare. Chiudi il becco.» Maureen la lasciò e salì le scale verso l'appartamento. Salì adagio. Non udiva niente. Betty le gridò dietro: «Sei matta! Torna giù! È furioso di rabbia... vuoi che ti faccia cadere i denti a calci? Dice che ti consegnerà agli sbirri, per quei soldi...». La porta dell'appartamento si spalancò quando Maureen la spinse. Egli stava venendo verso di lei. Maureen vide un terremoto alle sue spalle... il divano scostato dalla parete e di traverso, un cuscino sul pavimento, il tavolino da caffè rovesciato. Furlong aveva indosso lo stesso giubbotto che portava poche ore prima per la strada. Ancora chiuso dalla lampo. Venne verso di lei, l'agguantò per il collo e la trascinò nella stanza. Stava urlando qualcosa che lei non riuscì a capire. Udì le parole, ma le erano così vicine, la martellavano a tal punto, che non riuscì a distinguerle. Con la mano libera egli cominciò a percuoterla. La tenne sollevata, in modo che non potesse cadere, e la colpì, ancora e ancora, mentre lei cercava di sottrarglisi, di gettarsi all'indietro, di strapparsi alla sua mano. Urlò. Furlong cominciò a farle piovere colpi sul corpo. La lasciò andare ed ella cadde. Si
protesse la testa con le braccia e urlò contro il pavimento, contro il pavimento di linoleum, mentre lui si chinava per martellarle la schiena con i pugni. II DI CHI È IL PAESE OVE SON GIUNTO? L'aria si raddensa a un tratto. Ella chiude gli occhi. Una bruma scende su di lei, un clacson risuona vicino. MAUREEN, CHE DIAVOLO STAI FACENDO! Qualcuno le prende il braccio. Bene. Essere tenuta, al sicuro, bene. Il braccio le viene stretto, con impazienza, ed ella sente il suo corpo svuotarsi, la sua mente svuotarsi... il suo corpo diventa una, conchiglia delicata, carnosa, ed è molto sottile. Una voce d'uomo le sta dicendo qualcosa all'orecchio. Il tintinnio delle monete. Traffico, clacson. L'odore dei gas di scarico. È già sull'autobus, con sua madre che ancora si afferra a lei, quando si volta e vede se stessa uscire dal proprio corpo, con un improvviso movimento convulso, liberandosi, fuggendo. Questo lo è lei. Scende di nuovo sul marciapiedi, facendosi largo tra altre persone che vogliono salire sull'autobus. Si volta a sbirciarla. Tutto si precipita fuori di Maureen, adesso e si unisce a quell'altro corpo, a quel corpo libero, che corre via... è come la pressione tremenda dell'acqua che vuole sprigionarsi esplodendo. Quanto anela a unirsi a quel corpo, a liberarsi, a urlare per la sofferenza e il terrore di liberarsi... SIEDI LÌ, STA' FERMA, PER AMOR DI DIO, dice sua madre. Siede. Si volta con un impeto selvaggio a guardare attraverso il finestrino, là ove l'altro suo lo rimane ritto sul marciapiedi. La folla passa. Persone, estranei, sembrano suddividersi intorno a lei, senza toccarla. Le passano intorno. Diventano invisibili, mentre lei, quell'altro Io, diviene vivida, abbacinante, ritta sul marciapiedi con la testa voltata all'indietro a un angolo doloroso, guardando sull'autobus Maureen il cui viso è colpevole e stravolto. 1 Jules sedeva nella cucina dell'appartamentino ingombro, guardando entro la tazza di caffè. Sul tavolo accanto a lui c'era una pianta in vaso con grandi fiori rosa.
«Non stare a preoccuparti, guarirà» stava dicendo Loretta. «Riposa molto, si sente giù di morale e affranta, ma a chi diavolo non succede? Una donna cresce per sopportare tutta la merda che può dagli uomini, poi crolla, così vanno le cose, ma, figliolo, io non crollerò. Può marcire in carcere, lui.» «Quattro mesi non significano marcire in carcere.» «Quattro mesi! Quattro schifosi, merdosi mesi!» Jules lo riconobbe torcendo la bocca. Aveva diciotto anni, adesso, e resisteva in quell'appartamento come un uomo che trasporti qualcosa di fragile, con un'espressione di rammarico e di apprensione. Voleva bene a sua madre. Voleva bene a sua sorella. Non sopportava di aver paura di loro e di venire contaminato da loro, pensando che ciò potesse tradire una debolezza in se stesso, e pertanto sedeva irrigidito al tavolo di cucina, conscio del respiro iroso, greve, di sua madre, e dell'eterno ticchettare dell'orologio sul frigorifero. Anelava a balzare in piedi e ad abbandonarsi a una routine di sfogo scatenato. La maggior parte delle volte scherzava per casa. Perché non imitare il sorriso scimmiesco di Furlong, quel suo miserabile tentativo di essere un brav'uomo? Perché non danzare intorno al tavolo, come faceva con gli altri, posando, un ragazzo intelligente che non si prendeva mai sul serio? La gente gli diceva: «Jules, sei matto!» piegandosi in due per le risate, oppure diceva: «Jules, dovresti esibirti alla televisione!». Ma in questo momento non riusciva a immaginare perché gli altri lo giudicassero divertente. Sedeva nell'ultimo appartamentino di sua madre, innervosito dalla prospettiva di vedere quello che si trovava nella stanza accanto, camuffato da figlio, da fratello, qualcuno che era stato trascinato al fondo del fiume dalle catene del sangue e dell'amore... «Credi che non sia troppo grave, allora?» disse Jules, riscuotendosi. «L'altro giorno stavo parlando con Betty e...» «Al diavolo Betty. Quello che lei sa sta sulla capocchia di uno spillo. Sono quasi decisa a lavarmene le mani della piccola marmocchia, lascia che te lo dica.» «Ma', tu ti senti bene, vero?» Dopo il pestaggio di Maureen, nel mese di aprile, e l'arresto di Furlong, e i vari stadi del divorzio, Loretta era cambiata. Aveva sempre un'aria macilenta. A volte, pensava Jules, sembrava quasi intelligente, come se quelle sofferenze le avessero insegnato qualcosa. Si protese in avanti contro il tavolo e appoggiò il mento alle mani. Energico altrove, quasi febbrile di energia, si sentiva stanco e vecchio alla presenza di sua madre. Sentiva che
andava a poco a poco invecchiando, mentre lei restava sempre della stessa età; e voleva che questo accadesse, soltanto per poterne guidare la vita. Avevano vissuto insieme per così lungo tempo, Jules e sua madre, lui l'aveva conosciuta, consapevolmente, prima ancora che ella si accorgesse della sua esistenza, era più scaltro di lei, riusciva a vedere al di là degli angoli e Loretta, naturalmente, riusciva a malapena a vedere a un palmo dal proprio naso. Quel mattino la sua faccia aveva un'espressione sottomessa, cauta, e le sopracciglia sottili, sopra gli occhi penetranti, le davano un'aria delicata. Jules riuscì a scorgere in lei un'immagine fantomatica della faccia di Maureen. Crescendo, Maureen avrebbe avuto quella faccia. «Bene, posso parlarle?» «Probabilmente dorme.» «L'ultima volta che sono venuto, dormiva. Dorme sempre?» «No, non sempre» disse Loretta, spazientita. Tolse il bambino da una sorta di culla nella quale era rimasto sdraiato. Aveva il faccino e le braccine arrossati, come per un esantema. Jules guardò il suo fratellastro senza molta curiosità, domandandosi perché non lo interessasse affatto. «Guarda la televisione. Io discorro con lei, andiamo d'accordo, le cose si mettono male soltanto quando quella peste di Betty combina guai. Sta' a sentire, Jules, ho parlato di Reeny con un dottore giù alla clinica, e lui dice che se la caverà.» «Quando gli hai parlato?» «Alla fine di aprile.» «Be', adesso siamo in giugno... sta meglio, forse?» «Sta molto meglio.» «Perché non esce da quella stanza?» «Si sta riposando. Sta ricuperando le forze. Mangia tutto quello che le cucino, e quindi deve star bene. Ha un ottimo appetito, Jules, e un'infermiera mi ha detto che questo è un buon segno.» «Quale infermiera, dove?» domandò Jules, spazientito. «Oh, una donna proprio simpatica che ho conosciuto sull'autobus, un'infermiera diplomata. Ci siamo messe a parlare e le ho detto qualcosa di Maureen...» «Gesù, un'infermiera sull'autobus!» «Che cosa c'è di male in un'infermiera sull'autobus? Che cosa vuoi? Vuoi che faccia rinchiudere tua sorella in qualche manicomio, vuoi che mi dimentichi di lei? Che diavolo ne sai tu di quei posti? Mio padre non impazzì finché non lo rinchiusero, poi andò in pezzi, non faceva che starsene
seduto con le mutande sporche, e puzzava, ed erano tutti come lui, là dentro. E inoltre, lo sai che le donne restano incinte in quei posti? Sì, proprio così... ci sono soltanto poche infermiere e, com'è che si chiamano, le inservienti, e un paio di medici, e di notte succedono cose pazzesche d'ogni genere. È un immondezzaio, il manicomio, tutti i manicomi lo sono!» esclamò Loretta, attingendo ira in se stessa come per giustificare tutto con Jules. «Succedono cose d'ogni genere! Cose sozze! Cose che tu non crederesti! Lui si è limitato a picchiarla, figliolo, ma in un immondezzaio come quello Maureen diventerebbe molto peggio e non tornerebbe mai più a essere normale. Io lo so. Le cose che una donna deve sopportare dagli uomini possono farla impazzire, e Maureen ha bisogno di starne lontana fino a quando non sia in grado di capirle.» «Ma Betty mi ha detto...» «Al diavolo Betty! È come te, sempre in giro! Passa una metà del suo tempo con cosiddette amiche, e una di loro è una ragazza negra di diciassette anni!» «Ma', non interrompermi per piacere» disse Jules. Si sforzò di sorridere. Sua madre aveva sempre un debole per un sorriso, per una nota di gentilezza. «Betty ha detto che c'era un mucchio di soldi in camera sua. Soldi di Maureen. Così ha detto, così mi ha detto.» «Non erano soldi di Maureen, erano soldi di lui.» «Betty dice che erano di Maureen. Li teneva nascosti in un libro.» «No, era denaro di lui, ed egli me lo nascondeva. Lo nascose, il bastardo, e si ubriacò, e cercò di dire che Maureen lo aveva rubato in qualche posto... disse che lo avevano rubato tutte e due, Maureen e Betty... disse proprio così...» «La versione di Betty è diversa.» «Mente! È una dannata marmocchia che finirà in carcere, e quando verranno a prenderla dirò agli sbirri di chiuderla in cella e di gettar via la chiave! Lei e la sua maledetta amica negra dalla brutta faccia! No, egli cercò di dire che il denaro era di Maureen e che Maureen l'aveva rubato, ma si trattava di denaro suo, guadagnato chissà dove, e lo stava nascondendo a me.» «Allora non è vero quello che dice Betty... che Maureen batteva i marciapiedi?» «Gesù! Ma certo che non è vero» esclamò Loretta. Jules si voltò a guardare la porta chiusa della camera di Maureen. Sentì il respiro affrettato di sua madre. Dopo un momento disse: «Be', non che ci
abbia proprio creduto, ma...». «Ma, cosa?» «Ma Betty ha detto, e anche un'altra ragazza...» «Sono pazze! E in ogni modo Betty è sempre stata gelosa di Maureen, lo sai.» «Se aveva denaro, perché nasconderlo? Perché nasconderlo tutto?» «Sicuro, perché nasconderlo?» si affrettò a dire Loretta. «I giovani non nascondono i soldi, non è naturale. So che Betty si procura quattrini in qualche posto, ma non parla. Sono stufa di lei. Li spende subito in vestiti e in cianfrusaglie. In effetti, lei e quella sgualdrina negra stanno per comprare una motoretta... che diavolo ne dici? Sarà bello vedere mia figlia girare in motoretta con una negra schifosa! Comunque, i ragazzi li spendono subito i loro soldi, e Reeny non sarebbe stata diversa dagli altri. No, il denaro è sempre stato di Furlong, e lui si ubriacò e cercò di incolpare Maureen perché non erano mai andati d'accordo. Era geloso di lei, e anche di te, a causa mia... sapeva che volevo bene ai miei figli più che a lui, e questo lo faceva andare in bestia. No, Maureen non batteva i marciapiedi. Cristo, se pensassi...» «Okay, Ma'.» «Una prostituta...» «Okay.» «Non dar retta a quello che dicono nel quartiere dove abitavamo prima. Parlano a vanvera continuamente. Sarò contenta quando lo avranno demolito tutto, così quelle grasse bagasce non potranno più pettegolare sui guai altrui... sarò contenta quando ci faranno passare attraverso la strada di scorrimento, sono tutti maledetti irlandesi alcolizzati, del resto! Picchiati in testa per una buona metà. I negri si stanno trasferendo là dal centro, e i messicani dall'altro lato, per cui, uno di questi giorni, farà molto caldo. Con chi stai bazzicando, di quelle parti? Con quel Ramie Malone?» «Non bazzico con lui né con nessun altro.» «Chi sono adesso i tuoi amici, Jules?» «Non sono venuto qui per parlare di loro.» «Jules...» «Posso parlare con Maureen?» Loretta lo guardò malinconicamente. Dopo qualche momento disse: «Certo. Ma bada a questo bambino, ti spiace? Voglio dire, sta' attento che non cada giù dalla culla, o qualcos'altro». Rimise il bambino nella culla. Non era né desto né addormentato. Aveva un visetto grassoccio, piuttosto
ebete, con sorpresi ciuffi di capelli sulla testa. A Jules quella raccomandazione parve strana, la raccomandazione di sorvegliare il bambino sebbene ella dovesse entrare soltanto un momento nella camera di Maureen... era tutto così precario per lei, adesso? Gli aveva dato l'impressione di essere così ragionevole, durante tutto quel periodo. Loretta si alzò e andò nell'altra stanza. Jules, a disagio, guardò il viso del bambino. Il figlio di Furlong. Abbandonato e lasciato a Loretta perché lo allevasse. Dormiva, si nutriva e aveva persino un nome... Randolph... ed era molto più grosso di quanto fosse stato l'ultima volta che lo aveva veduto. Quanti ne nascevano di bambini! Venendo lì, in quella topaia di casa, aveva veduto una ragazza negra sui quindici anni chiacchierare con due giovani negri passeggiando sui marciapiedi, ingannando il tempo; i giovani con grandi occhi maliziosi e zazzere scarmigliate e la ragazza con una faccia scura e allegra, incinta da circa sette mesi, fuori per la strada semplicemente a ingannare il tempo. Quanto gli aveva detto sua madre delle donne che restavano incinte al manicomio era stato una sorpresa per lui. Non ne aveva mai sentito parlare. Molte altre cose gli erano state dette di quel posto e delle varie prigioni, ma questo mai. Una volta, rinchiuso per una notte nell'Ospizio dei fanciulli, gli era accaduta una cosa tremenda, e non si consentiva spesso di pensarvi, ed era un maschio, un maschio. Che cosa potesse capitare a una ragazza, poi, non poteva nemmeno pensarci. A Maureen era capitato già abbastanza. Loretta si sporse oltre la porta. «Okay,» disse «entra pure. Vuole vederti.» La stanza lo impressionò: carta da parati staccata, il gesso del soffitto scrostato a chiazze bizzarre, una nuda lampadina avvitata in alto nel portalampada. Si sentì a un tratto accaldato. Anche Maureen, seduta sul letto e intenta a fissarlo, fu per lui uno choc. «Ciao, Maureen» disse, e le porse il vaso di fiori. Quando ella non lasciò capire in alcun modo di averlo veduto, lo posò sul davanzale della finestra. «Come stai?» Maureen lo fissò. Sedeva sul letto, appoggiata a un guanciale. Aveva le coperte avvolte intorno a sé, sebbene la stanza fosse calda. I capelli le erano diventati lunghi ed erano arruffati, in condizioni peggiori di quelli delle infime donne di malaffare della città; quanto al viso, aveva un che di lustro, di gonfio, di paffuto. Era passato più di un mese dall'ultima volta che l'aveva veduta, e in quel breve periodo di tempo sembrava che fosse ingrassata parecchio.
«Si sente bene» disse Loretta. Loretta rimaneva alle sue spalle, spostando il vaso di fiori sul davanzale della finestra. Si portò ai piedi del letto e tirò le coperte, cercando di spianarle. «Siedi, Jules, fa' riposare i piedi» gli disse, dandogli una spinta. Jules sedette sul davanzale della finestra. Volse lo sguardo verso sua sorella e si sforzò di sorridere. Maureen stava annaspando con qualcosa... no, non annaspava, si limitava a muovere le dita sull'orlo della coperta. Le dita si muovevano nervosamente, ma, quanto a lei, non era nervosa. Lo fissò con uno sguardo fermo, sonnacchioso, non stupito, ma alquanto circospetto. Forse l'avrebbe riconosciuta se l'avesse incontrata per strada, ma forse no. «Oggi è proprio una bella giornata, dovresti uscire» disse Jules. «Comprerò un'automobile con il tetto che si può abbassare...» «Una trasformabile!» esclamò Loretta, toccandolo di nuovo... non avrebbe dovuto parlare a Maureen come se fosse stata una bambina. «Non è una gran bella cosa, Reeny? Ti è sempre piaciuto andare a fare gite in macchina. Quando farà più caldo potrà portarti fuori, eh?» Le ciglia di Maureen parvero palpitare, eppure ella non stava reagendo né a sua madre né a Jules. Aspettarono, ma non accadde niente. Maureen si guardò le dita. Il suo viso, un tempo molto grazioso, era adesso volgare e deturpato; le erano venute macchie sulla fronte e sulle gote. Sulla gota sinistra aveva un'eruzione di foruncoli tramutatisi quasi in una crosta. Jules la fissò e non riuscì a distogliere lo sguardo. «Di' qualcosa, parla, parlale di te» disse Loretta. «Dille che andrai in macchina a St. Louis.» «Sì, accompagnerò in macchina qualcuno a St. Louis. Si tratta di lavoro. Accompagno un tale che ha affari laggiù» disse Jules, con una voce falsa. «Cioè, i suoi affari li fa qui, ma ha bisogno di incontrarsi con qualcuno laggiù... mi paga parecchio... non vuole viaggiare in aereo o in treno... e... e mi paga parecchio.» Fissò Maureen e lei volse gli occhi verso di lui, ma i loro sguardi non si incontrarono. Egli ebbe l'impressione di trovarsi sull'orlo di una rivelazione terribile. Improvvisamente tremante, tastò il portafoglio. Era nella tasca. Provò una sensazione di sollievo perché non l'aveva perduto, perché qualche borseggiatore non glielo aveva sfilato di tasca. «Non voglio dimenticarmi di darti qualcosa» disse goffamente. Guardò nel portafoglio. «Forse, un po' di soldi ti faranno comodo... Ti piace questa nuova casa? L'appartamento?» «Va benissimo» disse Loretta.
«Perché hai traslocato qui, proprio in questa casa?» «Per essere più vicina al centro, più vicina all'ufficio dell'assistenza. Bisogna sempre andare là a discutere con quella gente, sai...» «Non è un quartiere pericoloso?» Loretta emise un suono sbuffante, sprezzante. «Sai bene com'è Detroit» disse ridendo. Jules cercò di sorridere. Ma pensò che qualcuno avrebbe potuto introdursi in quella topaia e che i mobili - sempre trasportati fedelmente, nel corso degli anni, da un posto all'altro - potevano essere rubati da negri e bifolchi, e Loretta non avrebbe fatto niente al riguardo, non se ne sarebbe nemmeno accorta. «Come ti trattano quelli dell'assistenza?» domandò. «Dipende se capiti con un mascalzone o no. Certi impiegati sono okay. Riesco a farcela. Basta arrivare presto a mettersi in fila. Ma c'è un grassone, porta gli occhiali da sole anche quando lavora ed è scaltro come una volpe... quello riesce a coglierti in fallo anche sul prezzo dello shampo e su quello che c'è in vendita da Kroger questa settimana. Mi ha domandato perché avessi bisogno di lamette da barba, chi le adoperava in famiglia. Della famiglia faceva parte per caso un uomo che non era stato denunciato? Il furbo bastardo. Non so se stesse scherzando o no. Bisogna stare attenti con quelli là, a scherzare con loro. Lo scherzo cessa sempre, a un certo momento.» Jules stava togliendo nervosamente banconote dal portafoglio. «Un po' di soldi mi farebbero comodo, certo. Fino alla prossima settimana» bisbigliò Loretta. Aveva paura; era contro il regolamento dell'assistenza accettare denaro senza riferirlo. «Ne hai abbastanza per il mangiare? A quanto ammonta qui l'affitto?» «Un po' di quattrini mi farebbero comodo» disse Loretta, incalzante e imbarazzata. Lui tolse dal portafoglio una manciata di banconote. Gli sarebbe piaciuto agitarle sotto il naso di Maureen, per riscuoterla. Non lo hai fatto per i soldi? Non è così? E adesso vuoi tornare a essere una santa, una troia di santa... Ma Maureen non vedeva niente. Aveva gli occhi grandi, come se fosse stata sotto l'azione di stupefacenti. Jules stentava a credere, guardando quella ragazza grassa e brutta, che fosse la stessa creatura di un tempo, sua sorella. «Tieni, Ma'» disse, porgendo il denaro. Ella gli tolse di mano le banconote e rapidamente le ficcò nella tasca del
vestito. Quel passaggio di soldi li lasciò entrambi con il respiro corto e un po' vergognosi. «Devo rispondere a domande di ogni genere sul tuo conto, laggiù» disse Loretta. «Quel tizio vuole sapere quanto guadagni. Gli ho detto che non ti fai più vivo, che te ne sei andato da casa e non ti curi di noi. Lo dicono tutte, sai... tutte le madri che hanno figli i quali gli portano soldi, purché non abitino in casa. Sanno che tu hai precedenti penali, e quindi ci credono. Be', figliolo, grazie mille. Sul serio.» Maureen rimaneva seduta senza muoversi. Soltanto le sue dita si muovevano sull'orlo della coperta. Si sarebbe detto che aspettasse di vederli andar via entrambi. «Vuoi una fetta di torta e ancora un po' di caffè, Jules?» domandò Loretta. «Reeny e io di solito facciamo uno spuntino, a quest'ora, biscotti o qualcos'altro.» «È meglio che vada.» «Così presto?» «Devo incontrarmi con una persona a mezzogiorno.» «Ti preparo qualcosa, non ci metterò nemmeno un minuto.» Uscì e lui rimase solo. Si sentì solo nella stanza, non osservato. Maureen non lo vedeva ed egli non sapeva indursi a guardarla ancora. Provò la sensazione di essere sporco. Aveva i vestiti bagnati di sudore. Pensò a Maureen insanguinata e priva di sensi, e pensò a se stesso, quella notte, nell'Ospizio dei fanciulli, ove aveva scherzato per dimostrare che non aveva paura, e a tutta la violenza delinquenziale e ribalda in corso intorno a lui... tre ragazzi lo avevano messo con le spalle al muro nei gabinetti, attratti dalla sua spavalderia... e così... gli avevano inferto tagli alle braccia con un pezzo di vetro, ma non era stato questo a sconvolgerlo... a ogni modo era passato. Pensò a Maureen in ospedale, con gli occhi pesti, e un grosso gonfiore giallo sulla fronte, un giallo verdognolo. Pensò ai suoi denti orlati di sangue. Furlong l'aveva pestata sul serio, forse con l'intenzione di ucciderla. Adesso era in carcere per quattro mesi. Jules sentì scaturirgli dentro un'ira tremenda, una sensazione di follia... di lì a quattro mesi quell'uomo sarebbe stato libero! Si premette le mani sugli occhi, pigiandoli. Pensò a Furlong e pensò a suo padre, confondendo i due uomini. Pensò all'Ospizio dei fanciulli, a tutto quel gemere, quel piagnucolare, a quei ragazzini mocciosi; pensò a se stesso che si era pavoneggiato tra loro esibendosi spavaldo, e a quello che di avevano fatto... Si voltò di scatto, respinto dalle reminiscenze. Ma Maureen non lasciò
capire in alcun modo di averlo veduto. Loretta tornò con un sorriso allegro e gli offrì una fetta di torta al caffè. Lui scosse la testa rifiutando, sentendosi debole, e quella debolezza crebbe quando vide con quale avidità Maureen afferrava una fetta di torta e come rapidamente la mangiava. No, non sarebbe rimasto seduto lì a guardarla mangiare, non poteva guardarla mentre mangiava in quel modo. Non ce la faceva. Incespicando all'indietro, irrigidendo la faccia in un sorriso allegro e spaventoso, le salutò e disse che sarebbe tornato presto e avrebbe portato un po' di soldi. Loretta lo accompagnò fuori. Gli disse ansiosamente, a voce bassa: «Abbi cura di te, Jules. Non stare a crucciarti per lei. Ha un così buon appetito, ed è un buon segno. Alcune di loro, quando diventano così, sai, devono essere nutrite con sonde o con punture, e diventano tutte pelle e ossa e si indeboliscono, e questo è molto grave. Ma Reeny mangia tutto quello che le do...». «Meglio così» disse Jules. E scappò. 2 L'automobile non era sua, ma apparteneva a un tale a nome Bernard, che lui aveva conosciuto per il tramite di Faye. Star seduto nel maleodorante appartamento di sua madre gli aveva fatto venire il capogiro, e ora guidò senza meta, contemplando i palazzi e le case che non conosceva. Gruppi di ragazzi giocavano per la strada. Bianchi e negri, mescolati, I negri erano più numerosi. Jules ricordò di aver giocato per la strada da bambino, ma si trattava di un ricordo esteriore, come se avesse veduto se stesso giocare, e la reminiscenza fosse rimasta in lui, fotografata. Sicché Maureen aveva molto appetito, e questo era un buon segno... Il tempo era mite, ma si trattava di un tepore opprimente; fiocchi di fuliggine cadevano contro il parabrezza della macchina. Jules l'aveva fatta lavare di recente e provò la sensazione di essere insozzato egli stessi. Faye era una donna schizzinosa, schizzinosa per quanto concerneva il proprio corpo. Ricordò Maureen che preparava la cena, dandosi da fare in cucina, sciacquando via gli avanzi dai piatti dopo cena, lavando, asciugando, il viso lievemente acceso e soddisfatto. Bisognava che si tirasse su. Aveva bisogno di rinfrancarsi guidando
quell'ottima automobile, e il caos del traffico di Detroit e l'aspettativa del viaggio che doveva fare quella sera avrebbero dovuto riuscirci, ma in qualche modo non vi riuscirono, qualcosa in lui stava affondando sempre più, sempre più in basso... Poteva fiutare Detroit intorno a sé, una sorta di foro allungato come un elastico, un foro come un orizzonte. Aveva mai vissuto fuori da quella città? O il ricordo della campagna era un inganno? Pensò al denaro che aveva dato a sua madre, ai biglietti di banca spiegazzati, soffici, sudici sotto i polpastrelli; questo, almeno, era accaduto. Telefonò a Faye, ma non rispose nessuno. Pensò di tornare di nuovo da sua madre e di farle altre domande su Maureen. Ala era meglio non andare da lei. Non aveva abbastanza tempo. Rimise la monetina nella fessura e formò di nuovo il numero di Faye. Non rispose nessuno. Aveva conosciuto Faye in centro, non molto tempo prima. Era disceso dal marciapiedi e soltanto per poco un'automobile non l'aveva investito, e una donna alle sue spalle si era lasciata sfuggire un grido. Gli aveva afferrato il braccio, tirandolo indietro. L'automobile era passata velocemente, voltando all'angolo, e Jules era rimasto tremante sulla strada. «Ci è mancato poco» aveva detto la donna. Sembrava scossa, ma, al contempo, divertita. Jules, che non mangiava da qualche tempo, si era sentito più stordito che mai voltandosi e vedendo che aspetto ella aveva. Girò sui tacchi, ciecamente, sconvolto dal viso di lei. Aveva veduto un viso vago, bellissimo, e non riusciva a crederlo. Mentre incespicava verso l'ingresso di un bar-farmacia, qualcuno uscì e lo urtò. «Guardi dove va!» urlò l'uomo. La donna rimaneva sul marciapiedi, a osservarlo. Infine domandò: «Si sente bene?». Aveva i capelli di un biondo quasi argenteo, un colore metallico che, pensò lui, non poteva essere naturale; era sui ventisei anni e rimaneva immobile a guardarlo. Così si erano conosciuti. Aveva figli in qualche posto, sistemati in qualche luogo; si era decisa ad ammetterlo nella sua vita con una sorta di languida, cinica indifferenza, vedendo chissà che nella sua faccia, compassionandolo, sebbene fosse stabilmente legata a un altro uomo, che abitava nel sobborgo di Bloomfield Hills e che era sposato. Fu Faye a decidere che lei e Jules dovevano conoscersi. Lui stava cercando di riprendersi ed ella si era soffermata a guardarlo, ancor divertita, e incuriosita. Jules era un po' intimorito dalla donna. La faccia gli ardeva per essersi reso così ridicolo due volte di seguito alla sua presenza, due volte in un minuto. Pensava di non aver mai visto una donna dalle fattezze così intel-
ligenti e così attraenti, una donna quasi virile per lo sguardo fermo degli occhi. Indossava una pelliccia ed era a testa nuda, e i capelli biondi erano tagliati molto corti per incorniciarle il viso e scendevano con piccole punte delicate davanti alle orecchie, scoprendo queste ultime e dandole un'espressione ascetica, impaziente. Si sentiva intimidito dal suo viso e dalla sua pelliccia. Ella si avvicinò. «Lasci che le chiami un tassì» disse. Non riusciva a parlare. Non avrebbe potuto voltarle le spalle nemmeno se avesse voluto. Rimase dov'era, timido e allarmato, finché lei riuscì a fermare un tassì e vi salirono tutti e due, improvvisamente insieme. Ella gli sedette accanto, sul sedile posteriore, del tutto assuefatta a piaceri di questo genere e non molto audace. V'era in lei una dignità tremendamente impersonale. Diede all'autista un numero della East Jefferson. Jules sentì una fitta di piacere, poiché il suo corpo era più scaltro della sua immaginazione... aveva riconosciuto il valore della East Jefferson, il valore dei modi di quella donna e degli anelli che portava alle dita. Discesero davanti al palazzo nel quale ella abitava. Al di là del fiume v'era Belle Isle, molto silenziosa. La donna pagò il tassista. Il respiro di Jules cominciò a diventare più rapido e superficiale, mentre egli si domandava se il mondo fosse diventato a un tratto perfetto, o se lui stesse interpretando male ogni cosa. La donna si voltò a guardarlo. Aveva un'aria fraternamente divertita, che esprimeva però anche una sorta di nobile affetto. «Vuole salire?» domandò. A queste parole Jules socchiuse gli occhi. Doveva essere un trucco. Una metà di lui anelava a sorprese, ai piaceri più improbabili - stava ancora aspettando che il suo ricco zio Samson gli trovasse un lavoro - ma l'altra metà si ritraeva, sospettosa e astuta. «Su? Su a casa sua?» domandò. «Non c'è qualcuno sulla porta... qualcuno che sta guardando?» Ella rise, «Bene, salga oppure no. Comunque sembra molto scosso» disse. La sua voce era plana e non certo sfrontata. Così, quel primo giorno, lo portò in casa con sé, e lui cedette, intimorito e al contempo esultante, guardando attentamente i riflessi del bel legno scuro - suppose che fosse bello, e per lo meno sembrava antico e lussuoso - cercando di situarsi in quell'avventura, di adattare se stesso. I luoghi che non conosceva lo innervosivano, lo sconcertavano. Dovette sforzarsi di respirare più adagio. Mentre la sbirciava in tralice sull'ascensore, ella colse il suo sguardo e, pronto nell'esagerare ogni suo stato d'animo, Jules si portò le dita alla fronte, in un
gesto indifeso, soffiando fuori il respiro... e fu una cosa indovinata a farsi, funzionò, lei sorrise e lo trovò simpatico. Jules sentì che le piaceva. Aveva bisogno di questo. «Mio Dio» disse, fingendo di essere sopraffatto, mentre lo era davvero, in quanto non riusciva a farsi un'idea di quella sconosciuta. Una volta entrato nel suo appartamento, prese a parlare, a chiacchierare, ma ancora non aveva un'idea chiara per quanto la concerneva. «Sì, dovrei trovare un lavoro. Ho lavorato da quando avevo quindici anni e mi è sempre piaciuto. Il lavoro fa bene. Scarica l'aggressività.» Ella scostò le tende alle finestre e il cielo sopra Belle Isle ferì gli occhi di Jules, troppo vivido. «Mi chiamo Faye» disse, avvicinandoglisi a un tratto. Gli strinse la mano. «Io Jules.» Si sentiva davvero molto debole. «L'appartamento è in disordine perché dormo fino a tardi. Poi vado a fare una passeggiata» disse Faye. Girellò qua e là, spostando oggetti, sistemando cuscini. A lui parve che non stesse riordinando un bel niente. «Mangio soltanto verso le quattro. Odio il cibo. È disgustoso, a pensarci bene. E la necessità del cibo, dato che abbiamo un corpo e siamo costretti a nutrirci... ci ha mai pensato?» «Sì. No» disse Jules. Sedettero su due poltrone, l'uno di fronte all'altra. Egli stava all'erta ed era molto nervoso; lei andava calmandosi sempre più. Aveva quasi un'aria annoiata. Sotto la pelliccia indossava un vestito giallo di lana; il giallo offuscava la vista di Jules e lo confondeva. Faye aveva lasciato cadere su un divano la pelliccia, che ora stava scivolando adagio sul pavimento. Lui sedeva sull'orlo della poltrona, domandandosi che cosa sarebbe accaduto. Perché parlava di cibo? «A volte ordino specialità cinesi. C'è un ristorante in fondo alla strada, molto simpatico» disse Faye. «Se si tratterrà un po' possiamo far venire qualcosa di là... per un pezzo non voglio prendermi il fastidio di uscire.» Jules si alzò e si precipitò verso la pelliccia, che stava scivolando giù. «La sua pelliccia...» disse. «Oh, la lasci cadere. Perché è così nervoso?» Quanto a lei sedeva calma, adocchiandolo, per nulla sorpresa. Ora che sedeva senza la pelliccia, con le gambe accavallate, in casa sua, aveva un che di sciatto e di fragile; era quasi fanciullesca. Lo fissò. Si protese in avanti per riordinare una pila di riviste. «Leggo molto, ci sono tutte queste riviste... può sfogliarle, se vuole. In realtà non ho nessun
progetto fino a domenica pomeriggio. E lei? Leggo molto. Sto molto sola. Ma no, in realtà credo di non leggere. Sfoglio le riviste e mi disinteresso. A quanto pare, non riesco a interessarmi a niente fino in fondo.» Jules cambiò posizione sulla poltrona, cercando di calmare il battito del proprio cuore. Si domandò: Accadrà sul serio? Frugò il viso di lei, cercandovi qualche indizio di una burla, l'ombra di un sorriso ironico. Niente. Ella era serissima e al contempo molto noncurante. «Perché mi sta fissando in quel modo?» gli domandò. «Mi scusi...» «A che cosa sta pensando?» «A niente.» «Me lo dica.» «Sto pensando, è uno scherzo o no? Uno scherzo...» «Che cosa dovrebbe essere uno scherzo?» Si alzò barcollante. Poi, dopo un silenzio lungo e molto goffo, si inginocchiò davanti a lei. Cominciò a baciarle le mani, tremante. Faye lo toccò sulla nuca. «No, non è uno scherzo» disse, senza dolcezza, ma semplicemente spiegando. Più tardi, quella notte, gli parlò della sua famiglia. Parlava svelta e con un'aria di distacco, come se Jules non le fosse particolarmente vicino, come se la sua infatuazione per lei significasse assai poco. Veniva da una cittadina dell'Ohio, ove era stata sposata per cinque anni con un uomo che ormai non riusciva neppur più a ricordare molto bene. «Non ricordo esattamente che faccia avesse» disse a Jules. «Ti sembra strano? Ho molto più chiara nella mente la faccia della mia maestra alle elementari.» Jules era già innamorato e ansioso di riconoscere che gli sembrava strano, tutto era strano, quello che lei diceva e quello che non diceva. Si sentiva in preda a un intontimento. Aveva dimenticato la fame. Mentre ella parlava, l'abbracciò e giacque con lei, tra le sue braccia premurose, e pianse per la dolcezza del corpo di lei e per la sua lontananza. Gli sembrava che il fondo stesso dell'anima sua fosse stato sconvolto. Nulla poteva minacciarlo perché la donna era tanto distaccata ella stessa e non voleva niente da lui. Non voleva conoscerlo. Le sensazioni che provava gli facevano sembrare irreale il proprio corpo. È accaduto davvero, questo? Come è accaduto? Faye parlava con noncuranza della sua famiglia, e lui sentì con gelosia quanto questa famiglia la legasse, sebbene, in realtà, ella non riuscisse a ricordarla. Due figlie. Un marito. Genitori. Il gravoso centro della vita di lei si trovava laggiù nell'Ohio, non lì con Jules, e Faye era costretta
a parlarne nel suo modo freddo, malinconico, indifferente, senza approdare a nulla. Jules pensò, abbacinato, Sono tutti così, cercano di liberarsi? Di strapparsi agli altri? Aveva pensato, quella prima notte, che si sarebbe innamorato sempre e sempre più profondamente di lei, e quel pensiero lo impauriva, ma risultò che non provava niente di più di quanto avesse provato all'inizio. Non seguì niente di più forte. Divennero amici. Jules la portava in giro in macchina. Prendeva il caffè con lei nei momenti più impensati della giornata. Andavano insieme alla deriva, in modo che Faye potesse parlare di se stessa; si sentivano attratti uno dall'altra, senza alcuna ragione che Jules riuscisse a concepire, tranne questa. Quando Faye non aveva altro da fare, la sera, Jules andava a trovarla come un cugino o un fratello. Era bruno, snello, imbarazzato. Lei era bionda e fredda, impersonale come l'hostess di una sala da cocktail. Jules abitava allora nella camera di una pensione, a pochi chilometri dalla casa di sua madre, sebbene non avesse dato a Loretta il suo indirizzo. Considerava importante la propria libertà. Era libero. Ogni suo pensiero lo trascinava indietro, verso quel disastro che era la sua famiglia, ma tecnicamente poteva considerarsi libero. «Credo che se riuscissi a guadagnare abbastanza soldi per sistemarli tutti» diceva a Faye «per procurare un buon medico a mia sorella, allora... credo che partirei per la California, e andrei a vedere che cosa c'è laggiù.» «Non c'è niente, laggiù» diceva Faye, sbadigliando. «Niente?» gridava Jules. Ella beveva liquori, e lui bibite. Odiava il sapore dei liquori e della birra, ricordando come Loretta, anni prima, gli desse birra da bere per farlo stare zitto: la birra era legata a sua madre. Odiava tutti gli alcolici. Per lui era importante stare sempre all'erta. Essere innamorato affievoliva questa sua capacità di stare all'erta, e al contempo gli rendeva tenera la pelle, come se lo strato più esterno della sua epidermide si fosse staccato lasciandogli a nudo la carne. Non era realmente innamorato. Continuava a scivolare nell'amore e a scivolar fuori dell'amore per quella donna che gli dimostrava soltanto affetto, e un affetto stranamente gentile; portava con sé, ovunque, la presenza di lei, sognando le loro serate insieme e sforzandosi di immaginare che cosa ella provasse. Le ragazze della sua età non le vedeva più. Le aveva dimenticate. Innamorato di Faye, si destava all'improvviso, al mattino, pensando che era impossibile... doveva liberarsi, con una risata. Non poteva amare una donna più anziana di lui, non poteva amare una
donna che era l'amante di un uomo sposato... impossibile... «Come puoi sopportarla? La tua relazione con lui?» domandava Jules. «Non capisco che cosa tu voglia dire.» «Io non potrei sopportare niente di simile.» «Non devi sopportarlo.» «Anche se ti piacesse, se volessi sposarlo, sul serio... dopo un inizio come questo tutto sarebbe rovinato, no?» «Non sai quello che dici.» «Non ti senti mai avvilita? Non hai voglia di ucciderti?» «Volevo togliermi la vita di tanto in tanto, quando ero sposata, ma ora no. Ora non ci penso mai» ella disse. «Vissi tutta quell'esistenza onesta, a casa. Passai attraverso tutti gli stadi. Avevo due bambine, sai, adesso si trovano in buone mani. Ne sono uscita, semplicemente, ho perduto ogni interesse. Bisogna credere in tutte queste cose, per poter resistere. Il mio ex marito si è riammogliato, ho saputo, e gli auguro ogni bene.» «Non pensi più a lui, non pensi di amarlo? È proprio finito tutto?» «Naturale.» «Non è strano?» «Perché strano?» Ella rise. V'era in lei qualcosa di saldo come l'acciaio che allarmava Jules, perché si trattava d'una ragazza di campagna, mentre lui, o così amava pensare, era un ragazzo duro di città, molto esperto. Ma non possedeva la sua inflessibilità. «Sicché non ti crucci per le tue bambine? E quest'uomo con il quale ti trovi adesso, non ti preoccupi mai a causa sua... non temi che possa tornare alla moglie, che possa cambiare idea?» «Non può tornare a sua moglie perché non l'ha mai abbandonata. Lei non sa nulla. Vanno molto d'accordo. So tutto di lei, ogni cosa. È qualcosa che c'è nell'aria in questa città» soggiunse con un sorrisetto «e ne sono tutti contagiati. Abitano a Grosse Pointe o a Bloomfield e vogliono tener nascosto qualcosa in qualche altro posto... sono disposti a pagare molto per questo. Dio mio! Potrei parlarti di una donna che conosco, come me venne qui sola e ora è ricca e non deve più darsi da fare, né preoccuparsi per niente, e la cosa pazzesca è che ha sempre avuto un difetto fisico... è stata operata e ha l'utero sostenuto in parte con metallo, o plastica, o che so io, e se uno degli uomini che la frequentano lo sapesse, vomiterebbe. Ma come potrebbe saperlo, un uomo? Non sanno niente, e lei tira avanti benissimo.» Tutti gli scandali dell'automobilistica Detroit, le angosce dei milionari o dei quasi-milionari, che abitavano in dimore lontane dai fumi e dai pericoli
della città, ma si sentivano tremendamente irrequieti e insoddisfatti in quelle dimore... a Faye quelle angosce non interessavano particolarmente, ma la sapeva abbastanza lunga per riconoscerne il valore. Jules conobbe Bernard Geffen per il tramite di Faye. Jules si trovava con lei, una sera, quando squillò il telefono. Andò Faye a rispondere e disse: «Ma certo, sali. No, non c'è». Jules era molto offeso. Pochi minuti dopo, un uomo sciatto, nervoso, con l'impermeabile bagnato dalla pioggia, apparve sulla soglia dell'appartamento. Faye lo abbracciò languidamente, con un gesto così ritualizzato da sembrare a Jules adorabile. L'uomo le sfiorò la gota con le labbra. Già, voltando la testa, stava sorridendo a Jules. «Ti presento il mio buon amico Jules Wendall» disse Faye. «Ti presento il mio buon amico Bernard Geffen.» «Wendall, vero? Wendall? Sono molto lieto di conoscerla!» disse l'uomo, stringendo la mano a Jules. Jules intuì qualcosa di strano, di squilibrato; quell'uomo aveva più di cinquant'anni e sembrava prospero, ma gli stava stringendo la mano come se lui fosse stato un personaggio importante. «Lei è quello di cui mi ha parlato Faye? Le tiene compagnia, va con Faye al cinema, e così via? È giovanissimo. È molto bello, certo... voglio dire...» «Togliti la giacca» disse Faye, gelida. Trascorsero un'ora imbarazzante, o più, Bernard ancora con la giacca, Jules domandandosi perché non se ne andasse, Faye sfogliando una rivista di moda e tentando di mantener viva una conversazione misteriosa con Bernard. Jules non riusciva a capire che cosa concernesse la conversazione. Un viaggio in Florida? Nell'America del Sud? Sul panfilo di qualcuno? «Lo domando a lei, figliolo,» disse Bernard, volgendo su Jules gli acquosi occhi grigi, «crede che dovrei farla questa spesa? Un'altra barca? Si tratta di un investimento di cinquantamila dollari, ma, quel che più conta, deve tener presente che non ne ricaverei alcun interesse, mentre invece intascherei interessi anche soltanto limitandomi a lasciar la somma in banca.» Jules lo fissava con gli occhi sbarrati. «Vi sono investimenti di vario genero. Alcuni diminuiscono di valore, altri aumentano. Guardi qui,» soggiunse Bernard, prendendo la mano di Faye per mostrare a Jules l'anello di lei, «questo diamante vale... farò una supposizione... novemila dollari, diecimila? O forse non lo sai, mia cara? Qualsiasi somma valga, varrà di più tra pochi anni, ovviamente, e nel frattempo puoi portarlo, è molto bello, e rende giustizia alla tua mano meravi-
gliosa.» «Questo anello vale diecimila dollari?» rise Faye. «Sicuro. Ma non è tuo, tu lo porti, semplicemente, lo esibisci. Tu non hai problemi, non paghi nessuna assicurazione, non potresti nemmeno venderlo, anche se volessi. Questo è un tipo di investimento. Una barca, d'altro canto...» disse, emettendo un sospiro da vecchio lupo di mare, «una barca... ti avevo già fatto vedere questa fotografia, Faye?» Si tolse di tasca il portafoglio e ne sfilò una fotografia. Faye la guardò e la passò a Jules senza fare commenti. Era la fotografia a colori di una donna in piedi sul ponte di un grande panfilo, vestita di bianco e un po' tarchiata, anche se ancora una donna graziosa, non più giovane. «È mia moglie. La mia ex moglie» disse Bernard. «È morta di cancro l'anno scorso.» «Mi dispiace» mormorò Jules, compito. La donna in bianco gli parve condannata, già da allora. «Abbiamo vissuto insieme per lungo tempo, saltuariamente» disse Bernard. «Il guaio era che non mi capiva e non si fidava di me. Nella sua famiglia erano tutti ricchi, ma lavoravano ugualmente, con incarichi poco importanti. Lei non capiva la mia famiglia, mio padre, e io mi sentivo intrappolato nella sua mente.» Alzò gli occhi su Jules, sorridendo. «Ragazzo mio, le interesserebbe lavorare per me, quest'estate? Sulla mia nuova barca? Forse sulla mia nuova barca?» Jules gli restituì l'istantanea. Un certo movimento delle punte delle dita di quell'uomo lo aveva insospettito. «Facendo che cosa?» «Dando una mano. Come cameriere di cabina.» «Sono camionista.» «Potrei pagarla molto di più.» «Ho un lavoro. Mi piace guidare.» Jules senti la bocca stringerglisi sempre più, e tanta cautela lo lasciò interdetto. Pertanto disse, con voluto entusiasmo: «Ma potrebbe essere una buona idea viaggiare per mare. Sarebbe sano». «Potremmo andare nei Caraibi!» disse Bernard. «La sua cara amica Faye mi renderebbe felice, se soltanto volesse... forse lei riuscirebbe a persuaderla? Se la crociera la interessasse, forse interesserebbe anche a lei? Se io cominciassi a corrisponderle la paga sin d'ora, con mesi di anticipo?» «Bernard, sei pazzo? Credevo che non avessi denaro» disse Faye. «Ho denaro a partire da sabato scorso» disse lui. Era nervosissimo. Jules, ansioso di svignarsela, guardò preoccupato la fronte calda, umida,
piuttosto ampia, di Bernard; v'era qualcosa di fanciullesco e al contempo di stanco in quell'uomo, chiunque egli fosse, come se la strana energia che lo faceva parlare per minuti e minuti di seguito potesse fargli agitare i piedi nella danza e portarlo alla frenesia, ma soltanto per lasciarlo poi cadere, di nuovo fiacco. Rivoletti di sudore gli scorrevano sulla fronte. «Mi è stato concesso un certo finanziamento. Ammetto di non avere un reddito fisso come il tuo amico, ma nemmeno lo desidero» disse a Faye. «Mi piace l'avventura. E non oso profetare dove mi porterà la passione per le avventure. Credo che tu lo sappia, ma non si deve mai parlarne tra noi, nel tuo interesse e nell'interesse del nostro giovane amico, qui.» «Che cosa vuol dire?» domandò Jules, allarmato. «Buonanotte a tutti e due. Io me ne vado a letto» disse Faye. Li accompagnò fino alla porta di casa. Là Bernard mise un braccio sulle spalle di Jules e disse: «È come una principessa nordica, una principessa di fiaba, molto gelida, incantevole. Jules, ragazzo mio, lasci che la segni sin d'ora nel mio ruolino paga. Mi sento un po' scosso, questa sera, e vorrei che lei mi accompagnasse a casa in macchina. Che cosa te ne pare, Faye, va bene per te?» «Naturale. Buonanotte» disse Faye. Rimasero in piedi insieme nel corridoio. Jules si voltò a guardare la porta, interdetto. Non sapeva se essere adirato o no, se il suo onore gli imponesse di bussare a quella porta, o di respingere Bernard. Bernard stava dicendo: «Ma ce l'ha la patente?». «Sì.» «Vuole accompagnarmi a casa, allora?» «Dove abita?» «Non lontano. Poco più di un chilometro e mezzo.» Era più basso di statura di Jules, un uomo agitato, indaffarato. Per parlare doveva muovere le mani. Il costoso impermeabile era spiegazzato e macchiato; aveva i polsini sporchi di fango; le scarpe dovevano essere lucidate. Mentre scendevano con l'ascensore, parlò confidenzialmente e rapidamente all'orecchio di Jules, come se stesse parlando nel ricevitore di un telefono. Jules si domandò se fosse pazzo. «Mi piace avere sul mio ruolino paga persone delle quali posso fidarmi. Amici degli amici. Faye si sbagliava a proposito del fatto che io non avrei denaro... le donne non capiscono queste cose. Capiscono il denaro soltanto quando lo vedono. Sono, soprattutto, molto rozze. Non capiscono da dove venga il denaro, né che cosa significhi, né come un uomo possa valere
molto denaro, pur non avendone affatto momentaneamente. Gli uomini, invece, queste cose le capiscono.» «Presumo di sì» disse Jules. «Com'è la sua famiglia?» «Mio zio Samson Wendall, forse lo avrà sentito nominare.» «Non è negli... negli autotrasporti?» «Macchine utensili.» «Macchine utensili, sì. Wendall. Il nome non mi riesce nuovo, un buon nome» disse Bernard. «E le si chiama Julian? Jules! Sì, bene, Jules, il mio guaio, vede, è che prendo le cose troppo sul serio, mi eccito molto, una sorta di debolezza sale in me... può darsi che sia la pressione del sangue troppo alta. Ma concepisco la vita come un dramma, concepisco la storia come una tragedia che va svolgendosi e... e mi occorre qualcuno che guidi la mia automobile, incontro difficoltà soltanto ad andare in giro, nelle cose più terra-terra. Avevo un autista, un negro, ma gli capitavano sempre degli incidenti. Dovetti licenziarlo. Incendiò il sedile posteriore della macchina. Ancora non mi sono deciso a farlo riparare. Che cosa ne direbbe di cento dollari alla settimana?» «Cento?» «Duecento, vogliamo fare duecento dollari alla settimana?» «Devo soltanto guidare un'automobile? Soltanto in città?» «Avrò bisogno di andare a Toronto, a St. Louis e a Buffalo tra non molto, a seconda di come si metteranno gli affari,» disse Bernard, parlando in fretta, quasi non volesse che quei nomi restassero nella mente di Jules, «ma in generale dovrebbe guidare soltanto a Detroit. Mi occorre qualcuno che sappia custodire i segreti. Mi occorre una persona intelligente, come lei... è ovvio, dalla sua faccia, che lei è intelligente. Lasci che la porti in qualche posto e le faccia tagliare i capelli.» «Tagliarmi i capelli?» disse Jules. «Li ha troppo lunghi. E ha bisogno di un vestito nuovo. Ha bisogno di un cappotto. Il mio aspetto non ha importanza, io sono al di là di tutto questo, ma lei dovrebbe figurare bene. Mi accompagni a casa, tenga la macchina stanotte e torni domattina con i capelli tagliati. D'accordo?» «Potrò tenere la macchina?» «Sì, durante la notte» disse Bernard. Erano in istrada. Egli sembrava al contempo entusiasta e crucciato. Seguitava a voltarsi e a sbirciare alle proprie spalle, come se si aspettasse che qualcuno potesse avventargli contro e por termine a quella follia. «Ecco la mia automobile,» disse, mentre si av-
vicinavano a una Lincoln parcheggiata lungo il marciapiedi, con il modulo di una multa tra il tergicristallo e il parabrezza, «ed ecco le chiavi.» Jules vide che strappava il foglietto, agitatissimo, ma probabilmente senza rendersi conto di quello che faceva. «Alloggio in un albergo in centro. È molto comodo per andare a caso di Faye, ma lei mi riceve di rado. La sua esistenza è tremendamente semplice, eppure complicatissima. Deve parlarmi di lei, qualche volta, degli argomenti delle sue conversazioni con lei.» Jules lo portò all'albergo e, prima di scendere, Bernard si protese in avanti, contro il sedile e porse a Jules qualcosa. «Ecco un assegno, lo incassi domattina, si rimpannucci e torni a prendermi. Porteremo Faye a pranzo, se sarà alzata. Si faccia tagliare i capelli. Si compri un vestito nuovo.» Jules guardò l'assegno. Era di cento dollari, intestato a Jules Wendall. Alle dieci della mattina dopo si recò alla National Bank di Detroit e là, per un quarto d'ora, dovette dissipare i sospetti di una cassiera, sebbene avesse la patente automobilistica come documento di riconoscimento. «Un momento solo» disse la ragazza. Jules, così vicino a cento dollari che lo stomaco aveva cominciato a dolergli, si smarrì nella contemplazione dei capelli crespi di un cassiere negro il quale, allo sportello vicino, stava contando banconote. Banconote a non finire. Cento dollari stavano per venire a lui... un dono... un incantesimo. La sua cassiera stava facendo una telefonata. Jules si sforzò di non udire quel che diceva, perché, che cosa sarebbe accaduto se avesse detto, Oh, il conto corrente è stato chiuso? Oh? Jules pensò ai cento dollari, che gli occorrevano. Bernard sarebbe stato come un padre per lui. Già aveva riconosciuto la sua intelligenza, ed era disposto a puntare su di lui e a segnarlo sul suo ruolino di paga... La cassiera stava dicendo «Grazie» con vivacità, e, come se nulla fosse accaduto, come se non avesse mai nutrito sospetti, si avvicinò al cassetto dei contanti e cominciò a toglierne banconote. Jules stette a guardare. Lei prese quattro banconote, poi due. Si avvicinò a Jules e le contò sul marmo del banco, accanto alla mano prurigginosa di Jules. «... cento dollari!» disse. «Grazie» disse Jules, con voce rauca. Uscì nella nuvolosa mattinata di Detroit. I cento dollari erano al sicuro nel suo portafoglio. Il portafoglio si trovava al sicuro nella tasca posteriore dei calzoni, stretto contro il suo corpo dalla pressione dei pantaloni stretti. Lui lottò contro il vento mentre sì recava allo Sheraton-Cadillac, ove si fece tagliare i capelli. Era importante che se li facesse tagliare proprio lì,
sebbene fosse un cimento sedere in quel salone di parrucchiere profumato, silenzioso, e sentirsi troppo conscio di se stesso, Jules Wendall che si faceva tagliare i capelli e si preoccupava domandandosi quanto avrebbe dovuto dare di mancia... e qualche tempo dopo fu un cimento togliersi i calzoni attillati, in uno sgabuzzino di prova, e misurarsi un altro vestito. Gli occorreva un vestito nuovo. «Questo le sta a pennello, questo le sta proprio a pennello» disse il commesso, con solennità. Jules credeva a tutto... Era ancora stordito, innamorato di Faye, e con la promessa di un nuovo, caotico, aperto futuro. «È ovvio dalla sua faccia che lei è intelligente» aveva detto Bernard. Jules voleva essere benvoluto e stimato soprattutto per questo... per la sua intelligenza. Rimase molto deluso quando il commesso disse che il vestito doveva essere modificato; non avrebbe potuto indossarlo subito! Sarebbe stato pronto soltanto venerdì! Così, goffo e afflitto, si rimise i calzoni e la giacca da pochi soldi; la nuca rossa di vergogna. Andò a prendere Bernard. Il mal di stomaco cominciato in banca gli si era diffuso in tutto il corpo; gli sembrava di non essere più se stesso, Jules, lui che aveva rinunciato a un lavoro per un altro lavoro pazzesco, per un lavoro strano, e doveva passare a prendere qualcuno a nome Bernard, senza nemmeno essere ben certo di saperlo riconoscere. Per fortuna, Bernard lo stava aspettando sul marciapiedi. Jules riuscì ad accostare l'automobile alla cordonatura senza salire sul marciapiedi, e non tradì la propria incertezza quando si sporse per aprire la portiera dietro di sé. Il portiere negro dell'albergo l'aprì prima di lui con un gesto ampio, e Bernard salì sospirando: «Oh, quest'aria mattutina! Questo smog!» esclamò. Diede una mancia al portiere - Jules non riuscì a vedere quanto - e si sistemò sul sedile bruciacchiato. «Vada sempre diritto. Voglio riflettere. Stamane devo pianificare il resto della mia esistenza» disse. Questa osservazione innervosì Jules: pianificare quel mattino il resto della sua esistenza! Si pentì di aver dubitato di Bernard. Perché anche lui, Jules, non avrebbe potuto pianificare quel mattino il resto della sua vita? Non era libero di fare accadere quasi qualsiasi cosa? 3 Quando suonarono il campanello di Faye, ella non era in casa, o non volle venire ad aprire. Bernard disse, malinconicamente: «Non so come abbia conosciuto questa donna, né che cosa significhi per me». Aveva un
fiuto per il drammatico che sarebbe stato imbarazzante in chiunque altro; ma, mentre si succhiava le dita in preda al nervosismo, mentre dava strattoni al colletto, Bernard sembrava un uomo coinvolto in un dramma invisibile, impotente nel proprio fato. Ridiscesero in istrada. Bernard precedette Jules, parlando delle quotazioni di Borsa di quel mattino, delle previsioni meteorologiche, e dell'imbottitura del sedile della macchina, rimastagli appiccicata alla schiena. Jules sentì un empito di affetto nei suoi riguardi, era così diverso dagli uomini che conosceva. «Sì, devo pianificare tutto. Devo chiarire ogni cosa» disse Bernard. «Il viaggio a Toronto è annullato, ma il viaggio a St. Louis è più urgente di quanto credessi. Devo stabilire dei contatti, laggiù. E lei, Jules, è in grado di condurmici con poche ore di preavviso? Ha famiglia, qualcuno cui deve provvedere? Quanto denaro le occorre?» Si mise sul sedile posteriore. Jules, sedendo al volante, guardò per caso nel retrovisore e scorse la faccia grigia, seria, di quell'uomo. Gli occhi acquosi di Bernard si stavano spostando irrequieti e gli guardavano la nuca. «Denaro... gliene occorre? Quanto?» «Credo di non averne bisogno, per il momento» rispose Jules, imbarazzato. «Le darò qualcosa per sua madre. Per le spese.» Compilò un assegno, tenendo in equilibrio il libretto sul ginocchio, e lo passò a Jules. Era di duecento dollari. Jules, sorpreso, lo prese e lo fissò. «Ma, per le spese?...» «E ora dobbiamo cominciare. Ho un programma molto pieno, stamane.» Jules avviò la macchina con uno slancio energico. Ma, quasi subito, Bernard disse, facendo schioccare le dita: «Aspetti, voglio entrare là dentro per un minuto». Discese di fronte a un bar-farmacia e, con un cenno, invitò Jules a fare il giro dell'isolato. Jules ripartì. Era stordito dalla sorpresa del secondo assegno. Si trovava accanto a lui sul sedile, e abbassò gli occhi sbirciandolo, per assicurarsi che fosse reale. Gli parve di aver notato un errore. La parola "cento" era scritta erroneamente, "ceno"? E il cassiere della banca sarebbe passato sopra a quell'errore, o avrebbe annullato l'assegno? Afferrò il foglietto. No, "cento" era scritto giusto. Qualcuno gli segnalò irosamente con il clacson, un tassista. Jules con una sterzata riportò la macchina sulla destra, appena in tempo. Sì, "cento" era scritto in modo corretto.
Al terzo giro dell'isolato, Bernard uscì dal negozio di corsa, le gote tremolanti. «Presto, si porti sulla corsia della svolta a sinistra. Abbiamo affari da sbrigare!» disse. Jules si mise in mente che stava guidando male. Sembrava che non riuscisse a calmarsi. Lì, nel traffico mattutino, e su un'automobile lussuosa che quasi non meritava, si stava esponendo a gravi rischi... sarebbe potuto essere fermato da qualche agente, il castigo della sua audacia. Ma suppose che Bernard non avrebbe notato niente, nemmeno un piccolo incidente. E un piccolo incidente non avrebbe rivestito molta importanza. Bernard, sul sedile posteriore, aveva fretta. Sembrava protendersi in avanti. Emanava un odore umido, triste, di cane. «Jules,» disse in tono drammatico «nelle prossime ore accadrà qualcosa che potrebbe cambiare le vite di entrambi.» «Di che si tratta?» «Non posso dirglielo, ma ha a che fare con la valuta. Con il mercato dell'oro. Capisce, adesso?» «Io... credo di no.» «Che giorno è oggi, Jules?» «Il 18 giugno 1956.» «Ora lo sa?» «Che cosa dovrei sapere?» «Non li legge i giornali?» «Non capisco.» «Volti qui. No, attento all'autobus... sì, vada avanti, si porti sulla corsia, destra.» Jules si sorprese a voltare di nuovo nella East Jefferson. Bernard disse con petulanza: «Oggi nel pomeriggio compreremo una macchina nuova. Sono stufo di questa! Guardi questa imbottitura, ce l'ho dappertutto, sulla giacca e nel naso... ho l'asma... per l'assicurazione ci vorranno anni, tanto vale che ci rimetta con il fisco. Compreremo un'automobile nuova oggi nel pomeriggio. Una nuova Lincoln». Mentre Bernard parlava, Jules sentì il proprio cuore gonfio dall'idea di... di qualcosa di intangibile e bello... qualcosa che non concerneva soltanto il denaro, ma era profumato dall'odore grigio-verdastro, metallico, del denaro, dal suo potere, e, più ancora di questo, dalla sua essenza misteriosa. «Volti qui e faccia il pieno di benzina, abbiamo bisogno di benzina!» gridò Bernard. Il serbatoio era quasi vuoto e, una volta fatto il pieno, Bernard gridò: «Quanto fa? A chi lo devo intestare l'assegno?».
«Non possiamo accettare assegni» disse l'inserviente, accigliato. «Certo che li accettate, nessuno va più in giro con denaro liquido, al giorno d'oggi» disse Bernard. «A chi devo intestarlo?» «Accettiamo soltanto contanti.» «Jules, gli dia i soldi, allora. Presto.» Jules pagò la benzina, porgendo all'inserviente un biglietto da venti dollari. «Bene, tenga il resto» disse Bernard. «Andiamo!» Seguirono la Lakeshore Drive e entrarono nella cittadina di Grosse Pointe. Le case si allontanarono subito dalla strada, case di mattoni che sembravano a disagio nella luce grigia, i prati insudiciati da pezzi di giornale che il vento aveva portato da Detroit. Ovunque il vento trascinava via pezzi e strisce di carta e intere pagine di giornali. Macchie bianche danzavano davanti agli occhi. Bernard gli disse dove doveva voltare ancora, e Jules si sorprese a muoversi adagio in un mondo di fogliame e di mattoni rossoscuri; aveva dimenticato di far colazione, quel mattino, e uno scenario come quello gli diede alla testa. Che belle case! Marciapiedi e vie silenziose e pulite, ove non si vedeva anima viva - questa era sempre la cosa più sorprendente, quella solitudine... Sin dove giungeva il suo sguardo non vedeva nessuno a spasso, non esisteva nessuno! «Entri là» gli ordinò Bernard, e Jules entrò in un viale d'accesso circolare che conduceva a una vasta dimora di mattoni chiari, in uno stile elegante, con colonne, di gran lunga troppo grande per una famiglia comune. Jules l'avrebbe scambiata per un'impresa di pompe funebri o per un ristorante fantasioso. Di fronte a quella vista cominciò a sentire un fremito nel corpo. Bernard saltò giù dall'automobile come se avesse abitato lì. Si avvicinò a balzi alla porta e suonò il campanello. Jules finse di non osservarlo attentamente. Un'altra automobile entrò nel viale d'accesso dietro a Jules, una giardinetta blu. Si fermò per far scendere una ragazza, poi l'autista proseguì oltre Jules e usci di nuovo nella strada. Jules ammirò tutto quel movimento. La ragazza discesa dalla giardinetta era sui sedici o diciassette anni, indossava un paio di shorts Bermuda e aveva lunghi capelli neri che le scendevano sulle spalle; reggeva una borsa di paglia. Senza alcuna fretta, passò accanto a Jules, sulla Lincoln nera, e non degnò di un solo sguardo l'automobile, guardò soltanto Jules, facendo scorrere su di lui gli occhi scuri, seri, critici. Egli ricambiò lo sguardo. Sentì quell'occhiata penetrargli fino alla nuca. Con la coda dell'occhio la vide passargli accanto e avvicinarsi a Bernard. I due presero a parlare. La ragazza alzò le mani, in un gesto di impossibilità.
Bernard stava insistendo a proposito di qualcosa... faceva movimenti brevi ed energici con le braccia, discutendo. La porta venne aperta da una cameriera negra. Bernard si fece avanti per entrare, sempre discutendo, e la cameriera esitò, poi lo lasciò passare. La ragazza lo seguì. Non si era nemmeno più voltata a guardare Jules. La casa parve chiudersi dietro di loro. Si levava, chiara e imponente, una piccola montagna di mattoni che fece allegare i denti a Jules per la meraviglia. Chi poteva sopportare di vivere in una dimora così grande? Lo spazio non avrebbe prodotto echi? La pressione non sarebbe stata eccessiva sul cervello di chi ci abitava? E chi aveva tanto denaro da costruire una casa simile? Agitato, un po' risentito, si guardò attorno e vide l'aspetto preciso di un prato sul quale nessuno si prendeva mai la briga di passeggiare, vide siepi, alberelli ornamentali, fiori... tutto era nebuloso, come se fosse stato sotto un incantesimo. Comunque, aveva un altro assegno. Lo prese. Duecento dollari... Loretta gli aveva regalato alcune cose per il suo compleanno e per Natale. Anche Maureen gli aveva regalato alcune piccole cose. Mai però gli era stato fatto un dono, un dono sorprendente, di quelli che stordiscono il cuore, che ti fanno capire perché la gente continua a vivere... per quale altra ragione, se non nell'aspettativa di doni simili, di sorprese così immeritate? La ragazza entrata in casa era così anche lei, una sorpresa. Jules non riusciva a smettere di pensarla. Eppure non riusciva affatto a ricordarne il viso. Ricordava qualcosa di curioso e di penetrante del suo aspetto, una pigra scrupolosità, e il vezzo di tenere il piede voltato in dentro - calzava scarpe di tela - e le sue ginocchia esili, di un rosa pallido. Era entrata nella casa. Non ci si poteva stupire che abitasse lì. Era la figlia di un pezzo grosso, inattaccabile. Jules fissò la grande porta d'ingresso e aspettò. Dopo un quarto d'ora, Bernard riapparve, solo, frettoloso. Aveva la giacca sbottonata, che gli sbatteva ai fianchi. Jules si sporse all'indietro per aprire la portiera, reagendo meccanicamente, come se fosse stato generato da secoli di carni schiave, ed ebbe il tempo di osservare la faccia del suo principale: era pazzo o no, quell'uomo? «Quella gente! Quei parassiti, anche loro sono parassiti, privi di immaginazione, gente come quella!» borbottò Bernard. «Come se non avessi saputo che erano in casa... lei per lo meno era in casa, la mia cara sorella, nascosta, ragion per cui di loro mi lavo le mani, per sempre!» «Dove vuole andare adesso?» domandò Jules, umilmente.
«Parta! Vada lontano da qui!» Bernard aveva un'espressione intelligente, ma v'era in essa qualcosa di sconvolto e di vitreo. Gli occhi di lui vagavano ovunque. La sua fronte, ampia e obliqua, sembrava rivestita da una pelle più pallida di quella della faccia, una pelle non più chiara, ma in qualche modo più tesa e sottile, di una grana diversa. Poteva darsi che la parte superiore del suo cranio si stesse gonfiando e deformando adagio. Le gote e la mascella erano flaccide e sulle guance vene minuscole erano affiorate alla superficie, dandogli l'espressione accesa e stupita dei tanti vagabondi e poveracci che Jules vedeva ogni santo giorno, in centro. «Metta in moto!» disse Bernard a voce alta. Mentre la sera prima era stato fraterno e quasi confidenziale con Jules nell'appartamento di Faye, adesso che erano soli tendeva a non guardarlo e a tirarsi indietro occupandosi in modo dignitoso e lievemente assurdo dei bottoni della giacca, o delle proprie unghie lunghe e mal curate, o dei frammenti di imbottitura bianca e bruciacchiata che stavano uscendo dagli squarci nel sedile. La sua voce, tremante e imperiosa, parve a Jules la voce di un attore, tenuta su una nota un po' troppo alta per i contatti personali. «Hanno sempre preso le parti di mia moglie» disse Bernard. «Nessuna fiducia. Mostrai loro gli onorari e le ricevute dei suoi medici - dodici medici, che lei mi creda o no, ragazzo mio! - e glieli sventolai in faccia. Immaginano di essere americani aristocratici perché lavorano, ma io, ritengo di non appartenere ad alcuna classe sociale...» Jules ascoltava avidamente tutte queste parole, sperando di venire a conoscenza di qualche fatto. Voleva sapere qualcosa di più sul conto della ragazza. Infine, dopo circa cinque minuti di quelle chiacchiere, si spazientì e domandò: «Chi era la ragazza?». «Quale ragazza?» «La ragazza che è entrata in casa con lei.» «Oh, quella era mia nipote Nadine. Deve avere dieci o dodici anni, ormai, anzi no, deve averne di più... il tempo passa così in fretta... direi che ne ha quattordici, forse quindici.» «Ne ha di più.» «Ah sì? Non lo so, non ci ho fatto caso. Una ragazzina simpatica, se si pensa ai genitori che ha... un matrimonio riuscito ma infelice, un tipo di matrimonio comunissimo... la ragazza per poco non annegò nella piscina, me ne ricordo come se fosse ieri, anche se doveva avere allora due o tre anni. In realtà, non le ho più fatto molto caso, da allora. Fui io a salvarla.»
«La salvò? Quando stava per annegare?» «Sì. Accadde nella piscina dello Yacht Club.» Jules provò un'invidia assurda. «Senta, Jules, mi consenta di dirle una cosa che vorrei ricordasse per tutta la vita: non si fidi mai di nessuno. Se ne ricorderà?» «Certo.» «È troppo giovane per poter capire com'è la vita. Alla mia età lo saprà.» «So tutto della vita» disse Jules, allegramente. «Devo fare parecchie telefonate, me n'ero quasi dimenticato. Devo stabilire contatti con persone che sono difficili da avvicinare, che sono sempre in movimento, come me. Mi riporti all'albergo, adesso, poi potrà andare per suo conto a comprare una nuova automobile.» «Ha detto... una nuova automobile?» «Sì, ma non una Lincoln, tutto sommato. Voglio una Cadillac.» «Vuole che acquisti io un'automobile nuova?» «Gli lasci questa. Per questa le daranno un po' di soldi.» «Ma io non so come si compra un'automobile, un'automobile di questo genere» protestò Jules. «Allora imparerà.» «Potrebbero non lasciarmi entrare.» «Lei mi piace, Jules. Mi piacciono la sua faccia, la sua intelligenza e una certa grazia che la distingue» disse Bernard. «Per essere sincero, vorrei aver avuto un figlio come lei. Gli uomini hanno bisogno di figli, ha a che vedere con i geni, con il tramandare i sogni. Non si tratta soltanto del fatto che lei è stato l'amante di Faye, il che costituisce già un miracolo, ma mi è simpatico di per sé... se l'avessi veduta per la strada, mi sarei fidato di lei immediatamente, c'è in lei qualcosa che desta simpatia, ha la faccia di una vittima intelligente. Quando avrò portato a termine questo progetto al quale sto lavorando, quando tutte queste ansie saranno finite, le pagherò gli studi all'università.» «Gli studi all'università?» «Sì, certo. Potrà laurearsi in... in filosofia, o in lettere, o in qualunque cosa vorrà.» «Ma ho interrotto gli studi alle medie.» «Non è possibile, in realtà, ricavare molto dalla vita, direttamente. Questa è una delle ironie dell'esistenza» si affrettò a dire Bernard. «La vita bisogna impararla dai libri. La manderò all'Est. È possibile comprimere secoli di saggezza in pochi volumi. Volti a sinistra qui. Attento a quell'au-
tocarro!» Così accade nella vita: un improvviso ascendere. Jules sterzò come in sogno intorno all'autocarro della lavanderia, senza nemmeno vedere la faccia arcigna dell'altro uomo al volante. Stava salendo, e niente avrebbe potuto fermarlo. La sensazione fluttuante nel suo petto era il cuore che si espandeva, o forse i polmoni, storditi da troppo ossigeno. Lui, Jules, all'università! «Mi piacerebbe andare all'università, sì, certo, mi piacerebbe, farei qualunque cosa pur di riuscirci» disse eccitato. «Volti di nuovo a sinistra. No, a destra. Può arrivare in tempo al semaforo, se accelera...» In centro, Bernard gli porse un altro assegno, staccato in fretta dal libretto e un po' frastagliato lungo la perforazione. «Tenga. Acquisti una splendida automobile. Torni a prendermi qui alle tre» disse. Sbatté la portiera della macchina e si allontanò precipitosamente. Jules si accostò l'assegno agli occhi. Diecimila dollari? Dovette socchiudere le palpebre per impedire che la cifra scritta sull'assegno ondeggiasse diventando invisibile. Un assegno di diecimila dollari intestato a Jules Wendall? Per qualche tempo non riuscì a muoversi. Poi, senza sapere che cosa stesse facendo, avviò goffamente l'automobile, voltò a un angolo ed entrò in una strada a senso unico. Stava andando nella direzione vietata. Un tassì giallo per poco non lo investì, con il clacson che squillava. Non contrariato, ma soltanto stordito, sentendosi la testa liscia come un vaso di terracotta, cominciò a fare marcia indietro. Il tassista stava azionando il clacson a tutta forza. A Jules quel suono sembrava musica. Portò all'indietro la lunga automobile intorno all'angolo, sempre all'indietro, poi ripartì. A metà isolato per poco non si scontrò con un autobus che si scostava dal marciapiedi. Elegantemente, magicamente, sterzò intorno all'autobus, e non investì nessuna macchina nella corsia di sinistra, che si apri per lui, stranamente, e lo lasciò passare, e così continuò a guidare per dieci, o forse venti minuti, senza avere un'idea chiara del tempo che passava, senza nemmeno formulare pensieri costruiti con parole, ma limitandosi a bearsi alla musica di quell'assegno accanto a lui sul sedile, un assegno di diecimila dollari intestato a Jules Wendall. Avrebbe incassato l'assegno e sarebbe partito. Per la California. Era una tentazione, ma non avrebbe potuto farlo. Mai. Bernard gli era simpatico e non sarebbe stato capace di derubarlo. Inoltre, sarebbe stato un peccato concludere bruscamente quell'avventura. Il suo destino poteva essere quello di seguirla fino in fondo. E c'era la ragazza, la nipote di Ber-
nard, il cui viso era confuso in modo così allettante nel suo ricordo. Continuava a vederla muoversi nella propria visuale, davanti all'automobile, laggiù, oltre alla nera e lucente distesa del cofano. Si sforzò di rivederne il viso, ma non riuscì a ricordarlo affatto... ricordava soltanto lo sguardo intento, serio, impertinente, e le orecchie gli fischiarono in modo allarmante. Ella stava forse pensando a lui? Parlando di lui? Non bastava che gli capitassero simili meraviglie, pensò Jules, severamente, bisognava che sapesse essere alla loro altezza. Che disastro, che vergogna per tutta la vita, se non avesse saputo essere all'altezza di quanto gli accadeva! Girò ancora per qualche tempo con la macchina, in preda a uno stordimento, domandandosi se fosse il caso di passare da sua madre per mostrarle l'assegno... ma questa era un'idea pazzesca. Avrebbe voluto fermare la gente per la strada e farlo vedere a tutti. Meglio pensare all'aspetto più serio della sua nuova vita: terminare le medie. Sarebbe stato difficile finirle, con tanto denaro che gli veniva prodigato. Avrebbe dovuto resistere alle distrazioni, resistere anche all'esaltazione che gli faceva provare la nipote di Bernard, e con la quale avrebbe potuto incontrarsi di nuovo un giorno... bisognava che terminasse le medie la sera... poteva terminarle rapidamente, e poi... e poi sarebbe andato a studiare nell'Est, a studiare in qualche università dell'Est, anche se la sua mente veniva meno a quella riflessione, e il fischio nelle orecchie diventava più stridulo. La sola università che conoscesse era la Wayne State University, un gruppo di edifici moderni in alluminio e cristallo al centro delle macerie di Detroit, e la sola cosa che conoscesse dell'Est era la dolce linea curva che esso tracciava sulla carta geografica, rosicchiato dall'Oceano Atlantico. Ciò nonostante, questa era pur sempre una svolta della sua vita, lo sapeva, era l'inizio stesso della sua vita. Doveva dimostrarsi all'altezza di quanto accadeva. «Questo sembra essere il Capitolo Primo» si disse. Riuscì a parcheggiare l'automobile... nella foga facendo salire la ruota posteriore destra sulla cordonatura, e poi ripiombando giù con violenza, e frugandosi due volte tutte le tasche prima di riuscire a trovare gli spiccioli che occorrevano per il contatore del parcheggio; si incamminò poi lungo la strada, verso la National Bank di Detroit, sperando di trovare la stessa cassiera di prima. Quando fu entrato nella banca, l'alto soffitto lo rassicurò: dovevano avere denaro abbastanza per lui, lì. Ma se qualcuno lo avesse avvicinato per domandargli: «Come te lo sei procurato un assegno simile, Jules? Ti conosciamo, Jules, proprio tu tra tanti!»? E se il poliziotto all'angolo avesse cominciato a venire verso di lui, aprendo la fondina e impu-
gnando la pistola? Aspettò in coda. La coda allo sportello vicino si muoveva più rapidamente, ma lui non passò ad essa, dato che era molto buono, molto virtuoso. Era un buon cittadino; con quel nuovo taglio corto di capelli, si trovava sulla buona strada! Aspettò. Non gli sarebbe toccata la stessa cassiera di quel mattino. Questa volta si trattava di un uomo di età matura, di un uomo sospettoso. Quando venne la volta di Jules, il cassiere lo scrutò in faccia. Fissò l'assegno, tornò a guardare Jules e disse: «È lei Jules Wendall?». Jules sorrise per dimostrare che quella domanda non lo metteva affatto a disagio. Si tolse il portafoglio di tasca e ne sfilò la patente di guida, lasciando il portafoglio sul banco, in modo che l'uomo potesse vedere, se voleva, l'altro denaro contenuto in esso, piegato, a mazzetti. Poi ricordò il secondo assegno, l'assegno di duecento dollari. Lo cercò in tasca. Lo mise sul banco di marmo, lisciandolo, domandandosi se valesse la pena di incassarlo... duecento dollari, in fin dei conti, non erano molto. Il cassiere prese quest'altro assegno. Aveva la bocca sottile e maligna. «Questo non lo ha firmato» disse. Jules firmò con una penna della banca e si stupì constatando che la sua scrittura differiva da un assegno all'altro. Stava addirittura per scrivere Wendall con due "n", ma si accorse appena in tempo di quello che faceva. Sull'assegno da diecimila dollari, "Jules" sembrava spavaldo e giovanile; sul secondo assegno, firmato sotto gli occhi del cassiere, "Jules" sembrava umile e vecchiotto. Il cassiere fissò le due firme. Esaminò la patente di guida di Jules. «Questa patente è scaduta» disse. «Cosa?» «È scaduta. Il giorno del suo compleanno, in aprile.» «Ma... ma io non sapevo... ho dimenticato... voglio dire...» Riuscì a dominarsi. Disse: «Grazie per avermelo ricordato. Andrò subito al posto di polizia». Il cassiere si allontanò, portando con sé entrambi gli assegni. Jules lo osservò facendo finta di nulla. E se il denaro non fosse stato disponibile? Se nulla di tutto ciò fosse stato reale? Aveva diciotto anni appena, e non erano abbastanza per tutte quelle sorprese che gli cadevano in grembo, bisognava che si dimostrasse all'altezza. Doveva dimostrarsi all'altezza delle aspettative di Bernard. Doveva terminare le scuole medie. Andare all'università, laurearsi in filosofia. Doveva essere all'altezza di un Jules supremo, un dittatore che si aspettava ancor più di quanto si aspettasse Bernard. Doveva
essere all'altezza della nipote di Bernard, che alla sua età sapeva già più di quanto lui potesse imparare, probabilmente, soltanto vivendo in una casa come quella. Il cassiere stava parlando adesso con un altro uomo. I due si trovavano più indietro, accanto a una grossa cassaforte che era chiusa. Sopra le loro teste Jules vide una macchina fotografica. Lo stavano fotografando? E se vi fosse stata una rapina in quella banca, nei pochi minuti successivi, e la sua fotografia, in qualche modo, l'avessero scattata mentre la rapina era in corso? Poteva darsi che lo stesso Bernard fosse un criminale, un falsario. Potevano essere arrestati tutti e due. E la polizia avrebbe supposto che lui, Jules, fosse stato il suo complice per anni di delitti, la sua guardia del corpo, il suo autista, suo figlio... Ma il cassiere avrebbe anche potuto dargli i diecimila dollari, tutto sommato. E una folla di persone si sarebbe riunita intorno a lui, silenziosa, stando a guardare mentre il denaro gli veniva contato nelle mani tremanti. Poi accadde a Jules di pensare che nessuna persona sana di mente avrebbe ritirato diecimila dollari. Avrebbe dovuto aprire un conto corrente intestato a se stesso. Ma come si apriva un conto corrente? Troppo tardi. Il cassiere era al telefono, l'altro individuo stava guardando furtivo dalla parte di Jules e le code agli sportelli a entrambi i lati procedevano, i clienti venivano serviti, denaro e documenti venivano distribuiti o consegnati, la gente si voltava, usciva dalla banca e scompariva, gli ingranaggi erano in moto, e lui Jules, rimaneva bloccato in essi senza difesa. L'uomo parlava ancora al telefono. Stava guardando lui, Jules. Una babele di voci si levò a un tratto nella banca, giungendogli con chiarezza. Tutti parlavano contemporaneamente. L'alto soffitto della banca gli rimandava echi, affrettandogli il polso. Il cassiere tornò con l'altro uomo e una donna maestosa, dall'aria severa. Fissarono Jules tutti e tre. Il cassiere lisciò i due assegni sul banco e disse: «C'è qualche difficoltà, all'altro capo del filo, per un assegno versato su questo conto due giorni fa, dal signor Bernard Geffen sulla Bank of the Commonwealth, un assegno del signor Geffen di dodicimila dollari. Riceveremo una telefonata al riguardo tra un minuto o due. Le dispiace aspettare?». «Voleva la somma in contanti? In tagli diversi, in contanti?» domandò la donna. «Credo di si» rispose Jules. Dietro di lui, nella coda, la gente spostava il proprio peso da un piede
all'altro, borbottando, spazientita di dovergli fissare la nuca e dal suo vestito attillato, criticando il lustro opaco della sua giacca, certo, e le sue scarpe consumate. Scarpe! Doveva comprarsi un paio di scarpe! Gli girò la testa a causa di tutto quello che doveva comprare e fare. Bisognava che passasse alla scuola media e si informasse sui corsi serali, che firmasse la domanda, e frequentasse tutti quei vecchi corsi ai quali aveva attribuito così poca importanza prima, tutte le lezioni che aveva marinato con un sorriso idiota da giovinastro. Jules Wendall, uno stupido giovinastro. Aspettò. Finalmente trillò un campanello. Il cassiere alzò il ricevitore del telefono e ascoltò. Jules cercò di non udire. La donna si allontanò aggiustandosi gli occhiali. Il cassiere annuì con vivacità. Posò il ricevitore. «Vuole l'importo in tagli diversi, o soprattutto in banconote di grosso taglio?» «Sì. Cioè, sì, in banconote di grosso taglio. Non ci sarebbe abbastanza posto...» Il cassiere aprì un cassetto. Cominciò a contare biglietti di banca, di tanto in tanto passando le dita su una grande spugna rossa posta in un piatto di vetro. Jules vide tutto ciò e a un tratto fu preso da un forte capogiro, come se fosse stato sul punto di svenire. Allora gli davano il denaro? Stava per avere in tasca diecimila dollari? Incespicò un poco all'indietro e urtò una donna con una borsa per la spesa. «Mi scusi, la prego» disse. La donna bofonchiò qualcosa. Jules si premette la mano gelida sulla fronte, facendosi forza. Il cassiere stava contando il denaro. L'altro uomo, a braccia conserte, sorrise a Jules. Voci si levavano ovunque nella banca. Jules guardò la macchina fotografica, pensando che forse gli avrebbero scattato una fotografia nel momento in cui avesse ritirato il denaro dal cassiere, forse ciò era necessario come prova legale. Volse lo sguardo verso il soffitto dorato della banca, scambiandolo momentaneamente per il soffitto di una chiesa, pensando di trovarsi, in qualche modo, in una chiesa. Non era ancora troppo tardi per sottrarsi a tutto ciò. Il momento magico non era ancora venuto. Non appena avesse toccato le banconote, sarebbe stato contaminato: forse si sarebbero accese lampadine flash e tutti nella banca si sarebbero gettati a terra in modo che soltanto lui, Jules, rimanesse in piedi e potesse essere colpito dalla polizia. Ma era troppo tardi per andarsene. Aveva fatto aspettare tutti quelli che formavano la coda. Rimase lì in piedi, sudando, mentre il cassiere contava sul banco quindici o venti banconote, poi le metteva insieme e le contava di nuovo. Era ovvio che Jules doveva prenderle.
Diecimiladuecento dollari... Farfugliò un ringraziamento e ciecamente si voltò per andarsene. Quando ritrovò la Lincoln di Bernard - non era riuscito a ricordare bene dove l'avesse parcheggiata - vide che qualcuno aveva urtato il parafango posteriore sinistro, niente di serio, ma la vernice era stata raschiata via e il metallo era lievemente incavato. Tentò di raddrizzarlo con le mani. Inutile. Forse Bernard non se ne sarebbe accorto. Ma, del resto, doveva vendere la macchina, che cosa importava? Ripartì, Continuava a vederci male. La sua vista era assediata da particelle di luce e di polvere, per cui doveva continuare a battere le palpebre nel tentativo di liberarsene. Guidò attraverso il traffico del centro, silenziosamente. Ora doveva recarsi a una mostra di automobili, rivolgersi a un rivenditore di Cadillac. Non riuscì a trovarne uno per qualche tempo. Continuò a guidare per chilometri. E si domandò se sarebbe diventato cieco. Trovò la sala di esposizione delle Cadillac ed entrò. Nel portafoglio, entro la tasca posteriore dei calzoni, aveva più di diecimila dollari; era diventato immortale. «Vorrei acquistare una nuova macchina» disse compito. «Vorrei dare in cambio la mia vecchia automobile.» Gli accadde di pensare che avrebbe ottenuto condizioni più favorevoli presso un rivenditore della Ford, ma la colpa non era sua, la colpa era di Bernard. Il rappresentante della Cadillac stava parlando con lui. Mentre spiegava certe cose - le sue frasi erano impeccabili - continuò ad adocchiare Jules con una certa curiosità. Jules se ne accorse, ma non lo lasciò capire. L'uomo gli stava parlando di un'automobile che si trovava davanti a lui. Non riuscì a concentrare su di essa tutta la sua attenzione. Era troppo grande, poggiava pesantemente con i pneumatici dalla fascia verniciata di bianco sul pavimento lucidissimo, immobile, scintillante ed enorme, tanto che Jules fu tentato di chiudere gli occhi. Era diventato una formica, una pulce, strisciava sulla superficie di un enorme frammento di metallo ricurvo. Il rappresentante della Cadillac aprì cerimoniosamente una delle portiere. Jules venne consigliato di guardare qualcosa, dentro. Chiuse gli occhi per un momento. Stava pensando alle notti in campagna, a se stesso bambino, quando sua madre gli dava da bere birra per ubriacarlo un po' e per prepararlo al sonno; si sentiva quasi sonnacchioso anche adesso. Non aveva dormito molto, quella notte. Pensò che forse non avrebbe dormito sul serio mai più. Il rappresentante della Cadillac era molto loquace e imponente, ma Jules si mise in mente la stramba idea che l'uomo stesse per afferrarlo e fargli
qualcosa... ficcargli in bocca, magari, l'opuscolo che aveva in mano, e trascinarlo sulla Cadillac. Era già stato trascinato in qualche posto in passato. Tre ragazzi lo avevano trascinato... ma era un errore pensare al rappresentante della Cadillac in rapporto a quell'episodio... Jules capì che doveva riscuotersi. La difficoltà stava nel fatto che quell'uomo non era reale come l'automobile, né altrettanto piacevole a guardarsi. Jules era avido di qualcosa da guardare con chiarezza, senza indietreggiare. Come aveva trovato quell'impiego? A Jules sarebbe piaciuto domandargli se vi fossero altre possibilità di lavoro per un ragazzo come lui. Forse sarebbe stato preferibile nascondersi lì, sottrarsi al fato che la vita sembrava avergli predisposto. C'erano possibilità di fare carriera rapidamente, lì dentro? Si ritrovò seduto in un piccolo ufficio, mentre il rappresentante andava in qualche posto a passi silenziosi, silenzioso come pneumatici verniciati di bianco. Jules aveva sulle labbra un sorriso stereotipato. Forse gli stavano preparando l'automobile? Forse si aspettavano che la portasse via guidandola lui stesso, mentre loro sarebbero stati a guardare? Il rappresentante tornò con un altro signore, un uomo assennato, affabile, dai capelli grigi, che sembrava comprensivo. Cominciò a porre domande a Jules. «Lavoro per una ditta di autotrasporti» disse Jules «o meglio, lavoravo per quella ditta, ma me ne sono appena andato. Adesso sono alle dipendenze di un privato. Mi ha incaricato di acquistare questa automobile.» Gli chiesero documenti di riconoscimento. Jules si tolse di tasca il portafoglio, meravigliandosi nel sentirlo così pesante. Mostrò loro la spiegazzata patente automobilistica. «È scaduta il mese scorso» disse il più anziano. «Ma non è ugualmente un documento? Sono pur sempre la stessa persona» disse Jules, sobbalzando quasi sulla sedia. «Sicuro, non si allarmi.» Gli sorrisero e si sorrisero a vicenda. Gli fecero domande sul suo principale: dove abitava? «Non lo so con esattezza» disse Jules. E il libretto di circolazione dell'altra automobile? «Potrebbe essere nel cassetto dei guanti, non lo so. E dovrei dirvi, credo, che c'è stato un incendio su quella macchina, un piccolo incendio... ha causato qualche danno al sedile posteriore, ma niente di importante» spiegò. Guardarono il suo sorriso stereotipato. Dove abitava? «In una pensione, ma mi propongo di andarmene. Credo che sia in Bagley Street, ma il numero non lo ricordo... voglio dire, non è importante.
Posso trovare la casa senza alcuna difficoltà. Conosco il quartiere» rispose. Seguì il silenzio. Lui adocchiò la porta dell'ufficio e si domandò se non avrebbe dovuto precipitarsi fuori. Non aveva rubato i diecimila dollari, ma poteva esservi stata, quel mattino, una rapina di diecimila dollari, e in quel caso avrebbero arrestato lui. Dovevano pur pescare qualcuno... «Ripensandoci,» disse «sarà meglio che passi più tardi a ritirare l'automobile.» Si alzò. Si diresse verso la porta dell'ufficio. L'uomo di età matura fece tre rapidi passi verso di lui, allarmato, e Jules, come un automa, alzò il gomito per proteggersi. «Tornerò dopo!» disse con voce stridula. «Ma la sua patente, e il portafoglio, là sulla scrivania...» «Ah, sì.» Jules tornò a prenderli. Stentò alquanto a ficcare il portafoglio nella tasca posteriore dei calzoni. «Lei... lei dice che potrebbe tornare più tardi? Oggi stesso?» domandò uno degli uomini. «Più tardi oggi stesso, sì» rispose Jules, sconvolto. «È ora che vada a un appuntamento. Devo trovarmi con una persona. L'illuminazione, qui dentro, le lampade fluorescenti, mi irritano gli occhi.» Uscì dall'ufficio. Riuscì a non urtare contro le automobili esposte. Sopra i due uomini che restavano in piedi a guardarlo v'era l'emblema imperiale della Cadillac, uno stemma inchiodato in alto alla parete. Jules si diresse verso l'uscita, camminando con cautela. Con cautela uscì sul marciapiedi. Quando si voltò, vide i due uomini che lo osservavano attraverso la vetrina. Bernard indossava sempre lo stesso impermeabile quando Jules passò a prenderlo. E aveva sempre la stessa fretta. Si gettò sull'automobile e diede a Jules un indirizzo, parlando già di qualcosa di urgente, qualcosa che concerneva minerali preziosi nel Congo. Jules riusciva a udire soltanto una parola su quattro. Guidava con gli occhi quasi chiusi, sfinito. Bernard sembrava essersi dimenticato dell'automobile e dei diecimila dollari. Era agitato e imperioso, picchiava i pugni sul sedile di Jules per sottolineare le sue affermazioni. «Non riusciranno a buttarmi fuori prima che abbia cominciato. Ho cinquantacinque anni, e se non comincio adesso, quando comincerò?» «Non lo so» disse Jules. Stava pensando a Faye, pensava di fare l'amore con Faye. Tutto questo era venuto dal suo corpo misterioso e freddo. Un'automobile, un uomo, un portafoglio gonfio di banconote. Quanto a lei, non era toccata da tutto ciò; e se ne disinteressava. Pensò alle ore trascorse giacendo tra le sue braccia,
con le lunghe, esili gambe di lei contro le sue, e gli venne voglia di piangere amaramente per tutto ciò che stava perdendo in quell'incubo di città. Faye gli aveva detto, una sera, mentre lui stava facendo il buffone: «Fai continuamente il pagliaccio e scherzi, ma in realtà sei sempre serio». Queste parole lo avevano colpito. Era vero. Ora avrebbe voluto voltarsi verso Bernard e dirgli: «Lei è sempre serio, ma si tratta di una burla, di uno scherzo! Non fa che scherzare!». Se voleva spendere quei diecimila dollari, doveva spenderli cinque dollari alla volta, distribuendo banconote di piccolo taglio. Altrimenti lo avrebbero preso. Bernard stava parlando irosamente del conteggio del polline. Jules lo condusse in quello che sembrava un circolo privato e Bernard discese. Un negro dalla faccia raggrinzita si affrettò ad aiutarlo a scendere, ovviamente riconoscendolo. Sicché, Bernard esisteva. Jules aspettò. Era una limpida giornata di giugno e in alto, nel cielo, un aeroplano stava eseguendo manovre misteriose. Lunghe e lanugginose striature bianche si trascinavano dietro ad esso. Jules si domandò che cosa si potesse provare stando lassù, liberi e in volo, sorvolando la terra, tracciando segni nel cielo. Bernard tornò indietro frettolosamente, con un pacco. Aveva la faccia chiazzata di rosso, accesa. Disse: «Torni sull'East Side, presto». Quando si fermarono, quest'altra volta, Jules dovette aspettare per un pezzo. Aveva parcheggiato la macchina accanto a un noto ristorante e lo interessò, in un certo qual modo, osservare la gente che usciva, dopo i protratti pranzi, gente senz'altro da fare, in quella mite giornata di giugno, tranne che bere e mangiare e parlare. Di che cosa parlava la gente? Certo non parlava di denaro durante tutte quelle ore. Per tutto il giorno, portando Bernard qua e là, Jules desiderò spiegare perché non fosse riuscito ad acquistare un'automobile, ma non ne ebbe il coraggio. Bernard, in ogni modo, sembrava essersene dimenticato. Stava parlando sempre più di St. Louis, adesso; vi sarebbero andati il giorno dopo. «C'è qualcuno... i suoi genitori, forse... una persona qualsiasi che desidera salutare? Qualche parente stretto?» domandò Bernard. «Mia madre» disse Jules, adagio, colpito da qualcosa di strano in quella domanda, ma troppo stanco per sforzarsi di capire. «Sarà meglio che passi da lei.» «Oh, sua madre! Ha una madre? È a suo carico?»
«Le do un po' di denaro, ma tira avanti soprattutto grazie all'assistenza.» «Ha i soldi per comprar da mangiare?» domandò Bernard, preoccupato. «Sì, credo di sì.» «Ma gode dell'assistenza?» «A partire dal mese di aprile.» «Francamente, non sono favorevole all'assistenza sociale» disse Bernard. «Non la incoraggia a rimanere in ozio?» «Potrebbe darsi.» «Non le occorre denaro per lei? Mi consenta di darle un assegno, ragazzo mio.» «No, davvero, non ne ho bisogno.» «Sciocchezze! Le darò un assegno e potrà fare una corsa da sua madre e portarglielo, naturalmente; ma dovrebbe dirle di fare a meno della pubblica assistenza, se può. Può prenderla con sé e io vi manterrò entrambi volentieri.» «Forse potrei frequentare l'università qui, la Wayne State, invece di andare all'Est» disse Jules. Bernard staccò l'assegno e lo consegnò a Jules. Era intestato a John Wendall, un assegno di venticinque dollari. «Non ne ho bisogno, sul serio» disse Jules, a disagio. «Assurdo, lo prenda. Lo faccio volentieri. Sono lieto di darglielo.» Fecero uno spuntino verso le cinque, in uno dei ristoranti Howard Johnson. Bernard portò il pacco con sé. Jules ordinò le stesse cose che aveva ordinato Bernard: polpette di carne tritata con cipolla e patatine fritte. Bernard era imbronciato. Mangiò con le spalle curve in avanti, deludendo Jules; mangiava come un camionista seduto al banco. Masticando la polpetta, Jules pensò all'avventura che lo aspettava. Si sforzò di provare di nuovo quella sensazione di leggerezza nel petto; come era stata? All'altro lato della sala, vide una cameriera che, con uno straccio, puliva qualcosa lasciato cadere sul pavimento. Gli parve che quella scena avrebbe potuto trascinarlo in basso per sempre, se non fosse stato attento, se non avesse distolto lo sguardo... «Ah, dimenticavo! Questo è per lei!» disse Bernard, facendo schioccare le dita. Mise sul tavolo il pacco. «È una parte necessarissima del nostro equipaggiamento... spero che non si allarmerà.» Jules stette a guardare mentre lui apriva il pacco. Era una rivoltella, Jules, in preda al panico, allungò un braccio e si affrettò a coprire l'arma con la carta dell'involto. «Dio mio! Gesù!» bisbigliò.
«Naturalmente non avrei dovuto aprire qui il pacco, certo» disse Bernard, giudizioso. «Gliela darò fuori.» «No, a me no, grazie» disse Jules. «Non voglio essere armato di rivoltella!» «Perché no?» «Non voglio finire in carcere, non voglio rimetterci i denti per porto d'armi abusivo!» «Be', la metteremo allora nel cassetto dei guanti.» «Ma è la stessa cosa!» «Non ne parleremo più, per il momento.» «Ma...» La mattina dopo, andò a trovare sua madre. Ella gli preparò il caffè e parlarono. Fu la solita conversazione: parlarono dell'appetito di Maureen. Mangia tutto quello che le cucino, quindi sta benissimo... E poi dovette andare a dare un'occhiata a Maureen, che giaceva sul letto, eternamente giaceva sul letto e si gonfiava la faccia a furia di torta al caffè e dolciumi e qualsiasi altra porcheria di dolce le desse Loretta per cui il viso le si era deformato, il corpo era diventato disgustoso. Maureen avrebbe fatto impazzire anche lui, a meno che non avesse interposto una grande distanza tra loro. St. Louis non era lontana abbastanza. Passò a prendere Bernard a mezzogiorno. Bernard esisteva davvero: apparve tra una piccola folla, materializzandosi fuori di essa. Indossava sempre la stessa giacca. Jules si sporse all'indietro per aprirgli la portiera e provò l'impressione che loro due fossero già stati insieme per un'intera vita e che sarebbero potuti essere condannati a trascorrere sempre insieme un'altra esistenza, una vita eterna, come cospiratori che finiscono all'inferno, un ben triste tiro dover trascorrere insieme l'eternità... Bernard disse: «All'aeroporto!». «Quale?» «Il Metropolitan. Presto!» Fu un lungo tragitto. Jules quasi si addormentò. Per tenersi sveglio cercò di spiegare il mancato acquisto della Cadillac, ma Bernard stava leggendo un giornale e parve non udirlo. All'aeroporto disse a Jules di girare lì attorno mentre lui sarebbe entrato in uno dei terminal per informarsi su qualcosa. Jules si domandò perché non si fosse limitato a telefonare. Bernard tornò indietro di corsa. Sospirò allegramente. «È tutto combinato! I nostri progetti per St. Louis!» Batté la mano di piatto sulla spalliera
del sedile, come per sottolineare una verità nella quale in realtà non credeva. Jules tornò a Detroit. E poi... Anche se doveva avere tutto il tempo di ripensarvi, l'evento che seguì non gli parve mai davvero credibile. Alcuni anni dopo, giacendo in un letto d'ospedale, senza dover fare altro che ricuperare le forze, poté pensare e ripensare a quel pomeriggio, ma non riuscì mai a credervi sul serio. Bernard gli ordinò di recarsi a un certo indirizzo in Livernois Street, che risultò essere un sudicio negozio. Poi si fece portare a un altro recapito, vicino al Grand Boulevard. Jules riuscì a parcheggiare sulla strada davanti alla casa, dato che quello era un quartiere residenziale. «Devo concludere qualcosa qui» disse Bernard. Jules si sporse all'indietro, prese il giornale sul sedile posteriore e lo lesse, cominciando dalla pagina dei fumetti. Il tempo passò. Dopo qualche minuto, alzò gli occhi, sentendosi a disagio. La via era alquanto affollata. La gente passeggiava qua e là. Bernard non si faceva vivo. La casa nella quale era entrato era di mattoni, vetusta, decrepita. La tenda, sopra la veranda dell'ingresso, sembrava marcita. Jules lasciò passare altro tempo, forse un'ora, prima di indursi a scendere dall'automobile. Fissò la casa e una sensazione terribile si impadronì di lui: non sarebbe andato oltre? Suonò varie volte il campanello. Nessuno venne ad aprire. Provò a girare la maniglia e risultò che la porta era aperta. Un ingresso, una scala. Il gesso si scrostava dalle assi. Sul pavimento giacevano alcune grucce per abiti. La casa era disabitata, e, ciò nonostante, ingombra da casse, vestiti vecchi, cianfrusaglie, i resti lasciati da una famiglia. Puzzava. Jules curiosò al pianterreno, sebbene intuisse istintivamente che quanto cercava non si trovava lì sotto. Salì al primo piano. «Signor Geffen?» disse. In cima alle scale si trovava un topo morto, molto rigido. Aveva la coda lunga e gommosa, ma immobile. Scavalcò il topo e guardò nella prima stanza, ove era stato preparato un tavolo da gioco. Due sedie erano accostate ad esso, molto vicine. Sul pavimento giaceva una tenda rosa, increspata. Accanto a una delle sedie si trovava un album a fumetti di Capitan Meraviglia. Jules sentì dentro di sé un odore terribile, gelido, che non aveva nulla a che vedere con quel tugurio di casa, o con il topo morto sul pianerottolo. Si avvicinò alla stanza adiacente, si sporse oltre la soglia, e là vide Ber-
nard. Bernard giaceva supino accanto a un armadio a muro aperto. Aveva la gola squarciata. Jules si sporse ancor più nella stanza, come se qualcuno gli avesse dato un urtone, ma non mosse i piedi. Bernard, un uomo brizzolato, sulla cinquantina, era riverso sul nudo pavimento, con la gola tagliata da poco e il coltello da macellaio tra le mani, le dita aperte intorno ad esso. «Dio mio!» disse Jules a voce alta. Stava incominciando adesso a svegliarsi, anche se ancora piuttosto lentamente, e i suoi occhi danzarono intorno allo spettacolo di quel sangue vivido che rigava il pavimento e macchiava l'impermeabile di Bernard, il rosso così scarlatto da dare a Bernard un aspetto giovanile ed energico. Il sangue era dappertutto, spalmato sulle gote, persino sulla fronte. Gli occhi erano spalancati e il sangue si distendeva anche su uno degli occhi e si raggrumava tra le ciglia. «Signor Geffen?» disse Jules, fiocamente. Si avvicinò in punta di piedi al morto. Sì, il coltello da macellaio gli era stato posto nella mano e ne era scivolato di nuovo fuori, un poco. Bernard sembrava del tutto indifferente al coltello. Aveva un'espressione stupita, sebbene dignitosa, anche con tutto quel sangue. Jules gli scrutò la faccia e vide che il sangue si era sparso sul globo oculare di un solo occhio, l'occhio sinistro. Questo sembrava strano. Jules chiuse gli occhi, sentendo che gli dolevano. Quando li riaprì, dopo un momento, niente era cambiato. Si tolse di tasca il portafoglio e, con un lento, freddo panico, ne sfilò tutto il denaro, una spessa manciata di banconote. Provando disgusto, ma non senza dignità, si chinò e ficcò il denaro nella tasca interna della giacca di Bernard, conficcandovelo dentro. Ricordò le chiavi dell'automobile. Mise anche quelle nella tasca. L'odore del terrore stava scaturendo tagliente intorno a lui. Si raddrizzò. Uscì dalla stanza. Fuori, in istrada, passò accanto alla Lincoln, che aveva attratto un gruppetto di ragazzini negri, poi si diresse a piedi verso la sua camera, lontana parecchi chilometri, lasciandosi indietro le proprie impronte digitali e ogni prova contro di lui che il fato potesse maneggiare. Non passò a ritirare il vestito venerdì. 4 Settembre 1956. Jules stava guidando un autocarro carico di fiori per le vie senza fiori di Detroit. Aveva fatto una tale abitudine alla guida che il ronzio del motore si confondeva con i suoi pensieri, con la sua energia
stessa. In preda a uno stordimento soave, pensò alla nipote di Bernard, sebbene non avesse nulla a cui pensare sul suo conto, nessun punto di riferimento. Quando aveva modo di recarsi a Grosse Pointe, passava vicino alla casa di lei, senza alcun timore di essere veduto, sentendosi invisibile. Aveva i capelli pettinati lisci e appiattiti sotto il berretto di fattorino. A Bernard non pensava spesso, perché la vista di quell'uomo lo aveva un po' snervato. Troppo sangue, e per giunta sangue sparso su un occhio... Ma alla nipote di Bernard pensava costantemente. Ella era l'opposto dello spettacolo di quel cadavere, aveva qualcosa a che vedere con il fragrante carico di fiori che egli portava per le strade, i cui steli, le cui foglie e le cui corolle annuivano al ritmo dei movimenti da lui imposti all'autocarro, sempre lanciato a tutta velocità, ma senza alcuna meta. Jules non aveva alcun chiaro punto di riferimento. Pensava alla ragazza e la confondeva con il freddo, adorabilmente sdegnoso distacco del corpo di Faye - Faye era ormai scomparsa - e con la futilità della ricerca di Bernard, un mistero per lui. Cercava di evitare di riflettere seriamente su qualsiasi cosa. Era meglio attenersi a se stesso e continuare a guidare. Gli piaceva essere stanco la sera, per poter dormire senza alcun pensiero, tranne i pensieri concernenti la nipote di Bernard; ma questi ultimi non erano realmente pensieri. Eppure, lo aveva lasciato interdetto il fatto che Bernard fosse morto così repentinamente. Un minuto prima era saltato sull'automobile, un minuto dopo giaceva supino, e quella era stata la fine. Jules non si stupiva del fatto che la polizia non lo avesse mai arrestato, perché sapeva come cancellassero le impronte digitali e perdessero le prove, lavorando in fretta, ma lo stupiva di non aver mai saputo che cosa fosse successo... per settimane aveva letto attentamente i giornali, cercando la notizia della morte di Bernard, ma senza trovare un solo accenno al delitto. Sicché un uomo poteva morire e scomparire? Era come il colpo di fucile sparato attraverso la finestra di un'amica di Loretta, nel mese di agosto. Si era sentito echeggiare uno sparo, una pallottola aveva sfondato la finestra andando a conficcarsi nel muro, e poi niente altro... qualche grido, un po' di spavento, ma niente altro. Era attratto da Grosse Pointe, sebbene questo lo portasse fuori di strada; riguadagnava il tempo perduto guidando in fretta lungo le solite strade. Grosse Pointe era per lui un paradiso di sempreverdi e di mattoni. Là, nessuno sparava mai attraverso le finestre; là le porte venivano lasciate aperte; i capi della Mafia di Detroit, volendo vivere da signori, acquistavano dimore e assumevano bambinaie per i loro bambini ricciuti; tutti si sistema-
vano laggiù, vi si stabilivano, respiravano a pieni polmoni l'aria che veniva dal lago. Jules avrebbe voluto che il suo principale facesse più affari alle Pointes. Nulla era più piacevole per Jules che il consegnare fiori in una dimora di Grosse Pointe, portando un grosso mazzo di crisantemi avvolto in carta dorata, i fiori leggeri e i loro involucri pesanti, costosi, premendo il pulsante dorato di un campanello, udendo dorati carillon in profondi recessi all'interno. Faceva sogni nei quali il corpo di Faye si confondeva con la mole di una casa, una di quelle belle case decorate, e quest'ultima, a sua volta, si confondeva con il corpo, con l'essere stesso, della nipote di Bernard, che, innocente come non lo era Faye, aveva il diritto di vivere in una simile casa. Faye non avrebbe mai abitato in una casa come quella. E Jules sognava, dormendo un sonno leggero, il misterioso e dorato interno di una di quelle case, le stanze e i corridoi e la morbidezza, simile alla morbidezza fragrante del corpo segreto di una donna, un mistero per lui. Aveva ancora diciotto anni. Il lavoro era schifoso, e lo sapeva. Ciò nonostante era riluttante ad andarsene e a cercarne un altro. Si sentiva rinchiuso in una inerzia gioiosa, innamorato come se fosse stato ipnotizzato da lontano; immaginava i propri itinerari intorno alla città e a Grosse Pointe come una ragnatela ingegnosa di incroci e intersezioni, che lo avrebbe condotto, inesorabilmente, a quella ragazza. Ella non lo avrebbe riconosciuto. Non poteva ricordarsi di lui. Ma Jules sedeva al suo posto di autista preparandosi per lei, la faccia raddolcita dai progetti dell'amore, gli occhi che scattavano intelligenti sotto l'asinino berretto verde ch'era costretto a portare, o portava per indifferenza. «Non mi piaci con quella specie di uniforme. Non mi piacciono le uniformi» diceva Loretta, ubriaca, forse perché le ricordava l'uniforme dei poliziotti. «Per lo meno, togliti quel berretto dannato!» «Non mi do arie. Sono contento di guidare l'autocarro di un fioraio» diceva Jules, con esagerata compitezza. «Togliti quel maledetto berretto, in casa!» Allora Jules si inchinava e si strappava dalla testa il berretto, con un gesto da cavaliere, irritando ancor più sua madre. «Sei matto!» ella diceva. L'autunno era bello a Grosse Pointe, anche se non lo si vedeva affatto a Detroit. Jules notava le foglie sul punto di cambiare, notava i fiori autunnali disposti a disegni geometrici intorno ai viali d'accesso, notava le teenagers che avevano appena fatto ritorno a scuola, con gonne scozzesi o shorts Bermuda di stoffa scura; a volte portavano calze alte fino alle ginocchia
sulle gambe snelle e forti. La sua concupiscenza per una ragazza fioriva generosamente su tutte loro; se si era innamorato della nipote di Bernard, si era innamorato di tutte le nipoti e le figlie di Grosse Pointe, quelle ragazze pensose, dalla pelle chiara, dai capelli puliti e lucenti. A quattordici anni era stato più vecchio di quanto lo fosse a diciotto. A diciott'anni, innamorato, vulnerabile, doveva incitarsi a pensare a un altro lavoro, al denaro, a sua sorella. La nipote di Bernard lo liberava dai pensieri concernenti il denaro, perché nessuna somma di denaro avrebbe mai potuto dargliela. Era un'impresa disperata. Cento dollari avrebbero potuto comprare Faye qualche tempo prima, ma anche le tariffe di Faye erano più alte, adesso, e in ogni modo Faye era scomparsa... e perché poi aveva bisogno di un altro lavoro? Non viveva forse nel presente? Che altro importava? E, vivendo nel presente, come poteva sopportare di indursi a pensare a Maureen? Le portava i rimasugli dei fiori, ma lei si aggirava per casa con una camicia da notte sudicia, senza vedere nulla. Jules evitava l'appartamento per evitare lei e Loretta e gli strilli del marmocchio, il figlio di Furlong. Se fosse riuscito a guarire dall'infatuazione per quella ragazza e a ridiventare il Jules di un tempo, scaltro e in cerca di buone occasioni, avrebbe messo insieme un po' di soldi e portato Maureen da un vero medico e si sarebbe liberato di tutte loro. Ma aveva paura di rubare e di farsi prendere, ora soprattutto. Ora che sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa. Non poteva permettersi di mettere a repentaglio la propria libertà. Smise di pensare a Maureen e cominciò a pensare alla nipote di Bernard. Ella era sempre con lui. Jules, si domandava se gli stesse dando di volta il cervello: concedersi al ricordo di una ragazza che aveva veduta per mezzo minuto, quando c'erano altre ragazze che si lasciavano prendere tra le sue braccia con l'entusiasmo di una canzone popolare, e ci si trovavano bene, e lui pensava che mai, mai quell'altra ragazza si sarebbe trovata bene tra le sue braccia. Ma si preparava per lei con le altre; si esercitava a essere Jules Wendall, il suo amante. Osservava se stesso in modo critico. Ammirava se stesso. Non era Jules Wendall, messo al tappeto e preso a calci, mai però fuori combattimento? Non si era sottratto al pericolo per tutta la vita? La sua fortuna non lo aveva sempre riportato sulla cresta dell'onda, come se fosse stato una palla di gomma, una di quelle palle piene, di schiuma di gomma, una struttura di gomma gioiosa e invulnerabile che niente poteva distruggere? No, non pensava a Maureen, a quel suo altro e più tenebroso Io, a sua
sorella, che giaceva silenziosa, non lavata, sciatta e volgare... non riusciva a indursi a pensare a lei perché aveva diciotto anni ed era innamorato e sapeva fare qualcosa di meglio che pensare. Barcollava in preda alla sonnolenza dell'amore immaginato, tutti i suoi pensieri concentrati su una ragazza dai lunghi capelli neri, e dallo sguardo fermo e inquisitorio, legata a lui dalla violenza della morte di suo zio, eppure totalmente ignota, e innocente di tutto, ignara delle altre donne della sua vita, le cui braccia sempre minacciavano di trascinarlo giù. Ma continuava a essere libero. Tutto gli si apriva dinanzi. A volte, però, sotto il profumo lieve dei fiori sull'autocarro, coglieva una folata di qualcosa di più aspro, di più permanente, il fetore dell'insuccesso che gli veniva soffiato in faccia dallo scappamento di un autobus cittadino o da un grosso autotrasporto di automobili, l'odore acre e immondo dell'insuccesso, della laida, tenebrosa burla di un mondo nel quale egli aveva vissuto per tutta la vita e al quale non avrebbe mai potuto sottrarsi. Una sera, disfatto, passò da Loretta per sapere che cosa ci fosse di nuovo e là in cucina sedeva un uomo. Gesù, un altro bambino per la strada, pensò Jules. Loretta balzò in piedi. «Jules, indovina! Indovina chi c'è qui!» L'uomo, sbarbato così di recente che aveva ancora alcuni grumi di sangue fresco sul mento, si alzò per stringere la mano a Jules. Loretta gridò: «Jules, è tuo zio Brock! Tuo zio! Mio fratello! E, Brock, questo è mio figlio Jules, il mio maggiore. Che cosa te ne pare? Non è bello?». Si strinsero la mano energicamente. «È un piacere... un piacere conoscerti» balbettò Jules. «È un piacere conoscere te. Che cos'è quell'uniforme?» domandò Brock. «Jules consegna fiori. Con un autocarro.» «Un lavoro simpatico.» «Un lavoro sicuro. Jules sgobba molto.» Brock sorrise e non gli venne in mente niente da dire. Era molto a disagio. Jules si sentiva rimpicciolito dalla statura di Brock e dalia mole delle sue spalle; non sapeva che cosa pensare... che voleva quel tizio, che cosa poteva aspettarsi? O era un bene che il fratello di Loretta si fosse fatto vivo? «È incredibile, che Brock ci abbia trovati! Dio mio!» esclamò Loretta. Il suo entusiasmo, che era un po' eccessivo, fece trasalire Jules, ed egli si sforzò di capire che cosa mascherasse... faceva sul serio, sua madre, o sta-
va recitando? Sembrava che facesse sul serio. Era COSÌ agitata e contenta; e comunque, egli pensò, sarebbe dovuto essere grato per il fatto che non si trattava di un altro Furlong venuto ad abitare con lei e a farle concepire un altro piccolo bastardo. In quel momento il bambino giocava intorno al tavolo e stava per rovesciare un barattolo di birra. Jules stette a guardare, impassibile. «Mettetevi a sedere, tutti e due! Jules, bevi un po' di birra. Dio mio, che sorpresa! Brock ha bussato alla porta un'ora fa Ha salito le scale, semplicemente, come se niente fosse! Io l'ho riconosciuto subito, anche se non ci vedevamo da... da quanto?... da diciannove anni. Gesù Cristo, diciannove anni! Non è pazzesco, come passa la vita?» Loretta rise. Spinse Jules e lo costrinse a sedersi. Brock si mise a sedere a sua, volta, goffamente. Jules lo osservò con un sorriso cauto; non si fidava di lui. Questo fratello era un mistero. Loretta aveva accennato di tanto in tanto al fatto che esisteva un suo fratello il quale, avendo combinato qualcosa, era stato costretto a fuggire dalla città, di qualsiasi città potesse essersi trattato, e non si era più fatto vivo; raccontava tutte queste cose con un'eccitazione vivace e malinconica. Brock doveva aver ammazzato qualcuno. Aveva l'aria di un uomo capace di uccidere, capace di tirarsi su i calzoni e di puntare un fucile e di sparare nella finestra di qualcuno, una finestra qualsiasi, e poi andarsene lemme lemme, lungo un vicolo. Brock non aveva l'aria stupida, ma, piuttosto, un'aria cocciuta, con una faccia crudele, scontenta, e occhi che, Jules se ne rese conto, somigliavano molto ai suoi. Si accorse che lo stava fissando negli occhi, che stava fissando in faccia quell'uomo corpulento e grasso. Sorrise stupidamente. Il bambino di Furlong, Randolph, rovesciò il barattolo di birra e la birra gli schizzò sul davanti della camicia. «Maledizione, sta' attento! Continua a far cadere qualcosa, combina sempre disastri!» gridò Loretta. Afferrò Randolph e lo schiaffeggiò. Brock non le badò affatto. Appoggiava le grosse braccia al tavolo e tentò di sorridere a Jules, quasi supponesse che il parere di Jules era importante. Jules, turbato dal chiasso a causa di Randolph, e da questo zio inaspettato, lo fissò con uno sguardo inespressivo e si domandò che cosa dovesse fare. Si costrinse a pensare alla nipote di Bernard... ella, era una sorta di oasi per i suoi pensieri. Avrebbe pensato a lei. Che cosa avevano le ragazze, che cosa avevano le donne, per cui si poteva cadere nei pensieri che le concernevano come si cadeva nelle loro braccia, rinunciando a tutto, soffocando, affondando in una morte calda e soffice? Si immaginò soldato in qualche
paese remoto come la luna, magari in Corea, di ritorno dalle brutture della guerra degli uomini per cadere tra le braccia di una donna, accarezzandole i capelli e la lunga schiena liscia con le dita che avevano tanto faticato per uccidere ed erano altrettanto adatte a questo, uccidere o accarezzare... Tamburellò nervosamente con le dita sul tavolo. Aveva un'altra notte da passare, e forse il giorno dopo avrebbe incontrato la nipote di Bernard. Affrontava le notti una alla volta. «... sicché Pa' morì là dentro? Che vergogna. Quando fu?» stava dicendo Brock. «Molto tempo fa, non si accorse mai di niente... non mi riconosceva nemmeno quando andavo a trovarlo.» «E Howard Wendall? Lo sposasti, eh? Quello che era nella polizia?» «Sì, Howard Wendall» disse Loretta. Jules la guardò affascinato. Aveva pronunciato il nome con circospezione, quasi timorosa di dirlo sbagliato, accigliata, schizzinosa nel vestito rosa, individuando suo marito e il padre dei suoi tre figli come se stesse scegliendo qualcuno tra una fila di sospetti alla polizia. «Howard Wendall. Lo sai, fu nella polizia per qualche tempo.» «Sicché morì ammazzato, eh?» «In un incidente sul lavoro» disse Loretta, adagio. «Non gli spararono?» «Aveva un altro genere di attività, allora. Era in una fabbrica.» Jules ascoltava. Si sentiva triste, ma al contempo lo affascinava quella coppia, fratello e sorella legati da oscuri ricordi, e intenti a rievocarli, seduti come due persone qualsiasi a un comune tavolo da cucina. Bene, la vita era misteriosa. Jules si domandò perché il mistero assumesse la forma di persone così insignificanti. «Sarà meglio che vada» disse. «Oh, Jules, resta. Non vuoi cenare, stasera? Preparerò una buona cenetta per tutti.» «No, grazie.» «Non vuoi parlare con tuo zio? Sei appena arrivato e già vuoi scappare via. Che cosa c'è? Che cosa c'è di tanto importante?» «Niente.» «Non ti sarai mica cacciato in qualche guaio, in questi giorni, eh?» «No, diavolo.» «Non ti capita mai di incontrare Betty?» «No.»
Betty rimaneva quasi sempre fuori di casa, ormai. Sentivano chiacchiere sul suo conto, chiacchiere esagerate, forse, ma la vedevano di rado; abitava insieme a certi suoi amici in una casa della Seconda Avenue, più in giù della Wayne State University. «Bene» disse Jules «Maureen come sta? Dovrei salutarla?» «Dorme. Ma puoi fare capolino in camera sua. Va' pure.» Jules fece capolino nella stanza, ma era buia. In ogni modo, disse ciao a lei, o all'oscurità, e se ne andò. Il giorno dopo, voltando dalla Kercheval nella zona dei negozi a Grosse Pointe, vide la ragazza sul marciapiedi. Capì subito che si trattava della nipote di Bernard. Era sola. Indossava un paio di pantaloni bianchi e un maglione rosa. Le passò accanto senza agitarsi molto, fissandola, accertandosi che fosse proprio lei. Ella lo sbirciò, una volta sola. Lui portava gli occhiali da sole e, a un tratto se ne ricordò, quel berretto verde. Si strappò via il berretto e lo gettò dietro di sé... poi passò subito in una tormenta di eccitazione. Vi sono momenti in cui l'aria si suddivide in particelle abbacinanti, accecanti e adorabili, in cui i polmoni rimangono indolenziti dall'improvviso gelo, simile a quello dell'acciaio, nell'aria; così accadde a Jules. Era la stessa tormenta che spazzava la parte più alta del globo, uccidendo ogni cosa, e, nella visuale di Jules, tutto rimase ucciso tranne quella ragazza. I capelli le oscillavano senza sforzo accanto al viso. Jules, tremante, frenò e fermò l'autocarro, poi saltò giù. «Nadine,» disse «ho qualcosa per lei, qualche fiore...» La ragazza lo fissò con gli occhi spalancati. Ciò nonostante si avvicinò, con esitante fiducia, la fiducia di Grosse Pointe e dei suoi marciapiedi puliti, si avvicinò al ragazzo tremante venuto dalla città, la cui faccia era imperlata di sudore e le cui dita ansiose erano ovviamente pronte per lei. «Ho un po' di fiori da darle. Una sorpresa» disse Jules. «Come conosce il mio nome?» «Non è Nadine?» «Nadine, sì, ma come mi conosce?» Jules alzò le spalle allegramente, con un'aria indifesa. «Suo zio. Lavoravo con lui.» «Mio zio Bernard? Che cosa faceva?» «Ero il suo autista.» Nadine lo fissò. Si sentiva del tutto al sicuro sul marciapiedi, per la strada. Jules disse, sorridendo: «Non l'ho ucciso io».
«Perché, è stato ucciso da qualcuno?» «Non sa che è morto?» «Dissero che era morto di una crisi cardiaca... non è così? Che cosa accadde?» Si fissarono. La ragazza, sconcertata dal sorriso di Jules, aveva cominciato a sembrare apprensiva; egli vide le labbra di lei dischiudersi adagio. Nella sua visuale Nadine venne quasi cancellata da quella tormenta di lussuria che lo investiva ormai da ogni lato, spingendolo verso di lei. Ciò di cui stavano parlando non aveva senso, era insignificante. Non sapeva quasi che cosa stesse dicendo. Gli sarebbe piaciuto afferrarla in un abbraccio a occhi vitrei; forse Nadine non gli avrebbe opposto resistenza. Disse invece, sorridendo come un idiota: «Molte persone muoiono in modi strani a Detroit... succede soprattutto laggiù. Io non l'ho ucciso e non so chi sia stato. Preferirei che non l'avessero ucciso, però». «Non era molto buono. Se ne andò quando mia zia stava morendo di cancro.» La ragazza rise nervosamente, senza prestare attenzione alle proprie parole. Jules sorrise. Come l'amava! Andò verso di lei nella luce del sole a chiazze e disse - come recitando le parole con l'accompagnamento di un motivetto orecchiabile - qualunque cosa pur di interessarla: «L'ultima volta che vidi suo zio, giaceva supino in una pozza di sangue... il suo sangue... aveva in mano un grosso coltello da macellaio... Non ce lo avevo messo io, cara, e mi dispiacque molto di vederlo così. Mi aveva detto che lei era la sua nipote prediletta». «La sua prediletta! Sono la sua unica nipote» disse Nadine, abbassando gli occhi. «A ogni modo, le voleva un gran bene, mi disse che si chiamava Nadine, e noi due ci siamo già veduti, Nadine, anche se lei non se ne ricorda. Un giorno lo accompagnai con la macchina a casa sua... se ne ricorda?» «No.» «Guidavo la macchina e lei era in calzoncini corti e aveva una borsetta e mi guardò negli occhi, come se avesse voluto mettere un segno su di me, un marchio. E il giorno dopo suo zio morì. Mi dispiacque molto.» Ella scosse la testa, come se fosse lievemente confusa. Non riusciva a cancellare dal proprio viso un sorrisetto da trance. «Oh, lui, era così strano. Non mi stupisce. Chiedeva sempre soldi a mio padre. Voleva diventare un criminale, un gangster... lo desiderò per tutta la vita, ma non sapeva come fare. Aveva un mucchio di libri sui criminali, ammirava Willie Sutton.»
Rise. V'era in lei un che di astratto e di stordito, come se la presenza di Jules fosse stata una minaccia che non capiva con chiarezza, ma riusciva a intuire. «Sicché, morì in quel modo? È un modo così strano di morire, non è come morire in un ospedale, dove ti curano.» «Be', non gliela tagliai io la gola, né l'ho tagliata a nessun altro, glielo assicuro.» «Non ho detto che sia stato lei.» Si espresse con un lievissimo accenno di civetteria, un'intonazione quasi meccanica. Jules era orami duro come roccia per l'eccitazione e si domandò come avrebbe potuto portare la ragazza in un posto sicuro e segreto... in fondo all'autocarro? Sentiva che se l'avesse brancicata, se avesse strofinato la faccia contro la sua abbastanza a lungo, lei gli avrebbe concesso tutto, constatando quanto era gentile, e quanto meritevole d'amore, non gli sarebbe occorso un coltello per persuaderla... Ma si dominò. Riappoggiò tutto il proprio peso sui calcagni. Disse: «Voglio vederla, qualche volta. Se fosse subito? Non potrebbe venire con me subito?». «Vuol dire al cinema, o qualcosa del genere?» «Sì, al cinema.» Nadine cominciò a sorridere. Poi si accigliò. Dopo un attimo di esitazione, disse, cauta: «No, non subito». «Perché no? Andiamo al lago, la porto fino al lago. Perché no?» «Non credo.» «Cinque minuti?» «Devo tornare a casa» disse lei. A un tratto si innervosì. Si scostò lateralmente da Jules con una manovra lenta, ma studiata; egli poté misurare con gli occhi dove la manovra l'avrebbe portata, a quanti passi da lui. Troppo lontano. «Devo tornare a casa» disse Nadine. «Non le farò del male» disse lui, alzando le mani per mostrarle che erano vuote, che erano pulite, e persino, dopo un momento di riflessione, aprendo il giubbotto che indossava per farle vedere come non avesse nessun'arma infilata sotto la cintola. Nadine rise di questo. «Potrei accompagnarla a casa. In fin dei conti, so dove abita. Non le farò alcun male, non le farei mai alcun male.» Questo era vero. Una folata di musica parve sostenere le sue parole, inondandogli follemente la mente. Si sentì fiacco. Udiva davvero una musica? Scosse la testa, per schiarirsela, e disse alla ragazza, che lo stava guardando adesso con occhi fissi, frigidi, disperati, lo sguardo di una ragazza sul punto di gridare: «Ripensandoci, forse è meglio che
torni a casa». Ella gli manovrò attorno. Alle sue spalle, da uno sfondo confuso in technicolor, apparve una donna vestita di beige, le cui gambe salde si muovevano a falcate rapide. Jules indietreggiò verso l'autocarro. Non voleva che qualcuno strillasse o chiamasse la polizia. Niente di tutto questo. Indietreggiò, il labbro trattenuto dai denti, costringendosi a una sorta di sorriso, cui la ragazza involontariamente rispose, mostrando i propri denti bianchi e piccoli in un sorriso fuggevole e timido. Gesù, questa ragazza mi spaccherà il cuore in due con un morso, pensò Jules, musicalmente, brancolando all'indietro con un piede, in cerca della sicurezza dell'autocarro, e gli parve di vedere con chiarezza, dinanzi a sé, una distesa di ore terribili, aride come ossa, che avrebbe dovuto sormontare prima di rivedere la ragazza e di condurla, sola, in qualche angolo nascosto di Grosse Pointe. La donna proseguì. Molto insospettita. Jules disse, sommessamente: «Ci rivediamo domani... qui? Press'a poco a quest'ora?». Lei non diede a vedere in alcun modo di averlo udito. «Si ricordi, non le farò del male. Si faccia vedere, altrimenti dovrò venire a cercarla. Non voglio mettermi nei guai. Non voglio che mi spanno. Suo padre ha una rivoltella? L'amo, ci rivedremo domani. Si ricordi che non ho ucciso suo zio né nessun altro, e che per lui avevo la più alta considerazione.» L'autocarro sul quale ripartì era pesante come un gigantesco blocco tutto di ghisa, un mostro come le gigantesche acciaierie di Detroit, quello stravagante punto di riferimento, creato da una prodigiosa follia, e per sempre, dopo avere squarciato la terra stessa... ma lui lo guidò fermamente, con la consapevolezza di essere osservato; il piede gli diventò di ferro, rivoli di sudore presero a scorrergli sulla fronte, attorno a lui infuriava una gelida ed erotica tormenta di particelle. Fu preso dal panico al pensiero che avrebbe dovuto vivere fino al giorno dopo. 5 Come la vita di tutti, quella di Jules era lunga e ampiamente noiosa, oppressa da prodigiose particolarità dell'esistenza fisica che egli si sarebbe vergognato di menzionare, qualora avesse dovuto scrivere la propria storia; la sua storia avrebbe trattato esclusivamente lo spirito. Pensava a se stesso come a un puro spirito che si dibatteva per liberarsi dal pantano della carne. Pensava a se stesso come a uno spirito che lottava contro la carnosa terra, contro la forza stessa della gravità, contro la morte. Per tutta la vita
pensò a se stesso in questo modo, e soltanto durante certi periodi squallidi e incredibili - mentre vagabondava nel sud-ovest, ad esempio, o mentre giaceva in un letto d'ospedale cercando di riemergere alla vita - avrebbe sospirato tra sé e sé: La mia esistenza è un racconto immaginato da un pazzo! Lo sforzo compiuto dallo spirito, questo è l'argomento della storia di Jules; lo sforzo dello spirito per conseguire la libertà, per sfociare nella bellezza, saltuaria, forse, ma pur sempre bellezza, e Jules in quanto un giovane americano... ecco alcune delle lotte che egli avrebbe ritenuto degne di essere riferite. Tutto di Detroit è melodramma, e quasi tutte le esistenze a Detroit sono destinate al melodrammatico, ma il destino di Jules era quello di precipitare ancora e ancora in stupefacenti e striduli spazi di follia, nei quali ogni cosa era esagerata fisicamente e abortita spiritualmente, ma in qualche modo logica. Non vi è stato molto tempo per parlare delle sue esperienze di ragazzo, e in ogni modo abbiamo un numero sufficiente di tali ricordi in altri libri. A proposito delle molte migliaia di ore trascorse intorno a tavoli di cucina - quegli eterni tavoli di cucina dei poveri! - non c'è molto da dire, e non c'è molto da dire della conoscenza superficiale che egli ebbe di delinquenti e mezzi furfanti, di ladruncoli, di truffatori, di mezzani, di uomini senza un reddito e un lavoro e un avvenire, ma pieni di soldi; Jules, in realtà, non li conosceva poi così bene. Delle ore che trascorreva a letto sognando, delle ore sul lavoro, del modo con il quale si infilava le scarpe... se ne infischiano tutti... sebbene queste cose siano più vicine al vero cuore di Jules del suo delirio d'amore. L'amore, infatti, essendo un delirio e una condizione patologica, fa dell'innamorato un pazzo; il suo sangue brulica di batteri che fanno salire la temperatura verso la morte. Il vero Jules, un ragazzo scaltro dall'aria soave, venne impregnato e sopraffatto dal sudore del Jules impazzito, di un Jules innamorato. Tornò laggiù con l'autocarro il giorno dopo, pronto a far salire la sua ragazza, ma lei non c'era. Aspettò. Poi, né stupito né deluso, prosegui lungo la strada, afferrando con gli occhi ogni ragazza che vedeva, aspettandosi di vedere lei. Non indossava l'uniforme di fattorino. Si era messo una camicia bianca; aveva una cravatta ficcata in tasca, per ogni eventualità. Si era sbarbato accuratamente. E aveva ben pettinato all'indietro i suoi lunghi capelli. Come se si trovasse su una giostra, e senza alcuna fretta, continuò a girare per parecchie volte intorno all'isolato, cercandola. Quando non la vide, nel pigia-pigia delle ragazze e dei ragazzi usciti di
scuola, e tra le sagome delle matrone di Grosse Pointe dall'andatura energica, tornò indietro verso la casa di lei, seguendo l'istinto. V'era una dolce svogliatezza nel suo modo di guidare verso la dimora della ragazza, come se stesse tornando a casa. Gli isolati di eleganti dimore di mattoni, susseguendosi uno dopo l'altro, sembravano ipnotizzarlo. Si barricasse pure, la ragazza, dietro una porta chiusa a chiave, dalla grata di ferro; corresse pure su per lo scalone e si nascondesse dietro un'altra porta, e poi dietro un'altra ancora; si precipitasse pure in soffitta per sfuggire al suo destino... egli sarebbe ugualmente riuscito ad abbattere ogni ostacolo e a trovarla, e a persuaderla, con le mani e il corpo e la voce, che tutto andava bene; Nadine non avrebbe potuto sfuggirgli. Aveva acquisito una parte dell'implacabile ottimismo di Bernard, un ottimismo a occhi un po' vitrei, inflessibile, forse condannato, ma entusiastico fino all'ultimo. Il peggio che possa accadere è la morte, pensava Jules. Una macchina di pattuglia della polizia, con la scritta "Polizia di Grosse Pointe", voltò all'angolo e, vedendo l'autocarro delle consegne, gli agenti ritennero che tutto andasse bene: un autocarro pieno di fiori, nella cabina di guida un autista anonimo. Jules si avvicinò a uno scoiattolo schiacciato sulla strada. Sterzò per evitare l'animaletto. Non voleva contaminarsi, recandosi da Nadine. Ciò nonostante, la faccia gli si raggelò in una sorta di sorriso anche per quell'animale morto, accettandolo, collegandolo con l'itinerario inevitabile verso la casa di Nadine... soltanto una cosa ancora avrebbe dovuto vedere e superare recandosi da lei. Si domandò se avrebbero potuto sparargli. La gente sparava, forse ai suoi simili, a Grosse Pointe? Come moriva lì la gente... negli ospedali, curata? Aveva letto che non vi era stato alcun delitto grave, nella cittadina, per un intero periodo di dodici mesi, e la cosa gli era sembrata fantastica, forse un errore da parte del giornale. Eppure, che bel mondo in cui vivere, per Nadine! La casa della ragazza si stava avvicinando. Come in un sogno, parve scivolare verso di lui, silenziosamente. Egli fissò lo sguardo su quella miracolosa porta d'ingresso, munita non soltanto di una grata di ferro, ma coperta anche, castamente, da una lastra di cristallo, e, dietro a tutto ciò, una porta di legno dall'aspetto medioevale, destinata a escludere ogni estraneo. Parcheggiò l'autocarro nel viale d'accesso circolare. Sufficientemente sveglio per prendere con sé una pianta in vaso molto pesante - era avvolta in carta rossa frusciante e sormontata da un nodo bianco, essendo diretta a un ospedale - saltò giù e scorse con la coda dell'occhio la macchina di pattuglia che filava via, andavano a fare una gita, senza dubbio, e si
godevano la vita. Nessun guaio in vista! Jules suonò il campanello. Ricordò Bernard, destinato a morire, mentre suonava quello stesso campanello. Venne ad aprirgli una cameriera negra. «Ho qui una pianta da consegnare a Miss Nadine... Nadine... non riesco a decifrare il cognome» disse Jules, guardando il biglietto. «Greene?» «Sì, Greene. Nadine Greene. È in casa la signorina?» «Gliela consegnerò io» disse la cameriera, stizzosa. «Ma è raccomandata, deve firmare personalmente» disse Jules. Stava respirando a fatica. La cameriera lo scrutò apertamente e scorse l'espressione avida di un ragazzo di città, non celata dai fiori che egli reggeva; esitò e lui se ne rese conto. Infine disse: «Vado a vedere se è in casa. Un momento solo». Jules si fece avanti in un piccolo ingresso, tra la porta di casa e una porta interna, non altrettanto massiccia. Un altro ingresso lo aspettava. Passò per la seconda porta, e la cameriera, voltandosi a sbirciarlo, disse: «Dovrebbe entrare dalla porta di servizio per fare le consegne, non lo sa?». Lo fissò con un disprezzo mal celato, come se avesse intuito il suo piano, trovandolo spregevole. Jules si sarebbe battuto la mano sulla fronte, se avesse pensato che il gesto poteva persuaderla; le consegne dovevano sempre essere fatte alla porta di servizio, questo lo sapeva, lo aveva saputo per tutta la sua servile esistenza! Eppure, venendo per Nadine, senza la tenuta di fattorino, lo aveva dimenticato e si era presentato alla porta di casa come un corteggiatore. «Mi scusi, sono nuovo in questo lavoro.» La donna scomparve. Lui la seguì con lo sguardo lungo un corridoio. Il pavimento era lucidissimo. Una lumiera pendeva dal primo piano, mille frammenti di cristallo a forma di goccia. Alzò gli occhi guardandoli innervosito. Si aspettò quasi che l'aria li smuovesse e richiamasse l'attenzione su di lui, Jules, un intruso. Si aspettò che una porta si spalancasse in qualche punto della casa e che un uomo ne uscisse di corsa impugnando una rivoltella. Eppure, l'essere penetrato nella casa era già un successo, era già giunto più oltre di quanto avesse seriamente osato sperare, e doveva soltanto restare lì, impegnato e sorridente, perché l'avventura gli si schiudesse dinanzi. Audace e calcolatore, Jules riponeva fiducia, al contempo, nella passività; pensava a eventi che si spalancavano dinanzi a lui, tuonavano intorno a lui, trascinandolo in alto, come l'atto stesso dell'amore lo trascinava avanti
e faceva di lui un Jules quale egli non avrebbe mai immaginato se stesso. Gli giunse, da qualche punto, la voce della ragazza. Un suono di musica... cristallo tintinnante? «Al pianterreno. Alla porta di casa» disse la cameriera, con la sua voce strascicata, cittadina. Jules intuì passi anche se non li udì. Vide la figura di una ragazza apparire in cima alle scale. Lo scalone era coperto da uno spesso tappeto beige, ogni scalino, e anche la parte inferiore di ogni scalino, un tappeto elegante, pretenzioso, ricco, ed egli anelò ad essere il tappeto sotto i piedi di lei e a sentire quella pressione delicata. La ragazza scese solo pochi gradini. Esitò. «Che cos'è?» domandò. «Una raccomandata.» «Da parte di chi?» «Il biglietto dice: "Da tua zia"» rispose Jules, guardandolo. In realtà diceva: "A Tanya, con affetto, Bessie". Porse la pianta. Non aveva idea di che cosa fosse... fiori bianchi, delicati, che oscillavano sopra foglie ceree di un verde scuro, dall'aspetto irreale. Una pianta per i morti. Lo sguardo di Nadine si spinse oltre il fascio di fiori, incredulo. Jules non l'aveva ancora veduta con chiarezza, essendo nervoso egli stesso, ma osò guardarla al di là dei fiori compatti. Era pallida in viso. «Mia zia è morta» disse. «Da un'altra zia. Dalla zia di qualcun altro» disse subito Jules. Ella rimase sullo scalone, immobile. La sua paura lo ispirò. Con tutta la paura che v'era nella ragazza, perché Jules avrebbe dovuto sentire qualcosa? «So chi è lei. Mi ricordo di lei» ella disse. Jules disse, premurosamente: «Metterò la pianta qui sul pavimento. Potrà venire a prenderla quando me ne andrò». «Credevo di dover firmare una ricevuta.» «Può spedirla.» «Lei è matto!» Era vestita di bianco. Un vestito di cotone ruvido, di taglio sportivo, molto grazioso. Jules l'amava. Posò la pianta sul pavimento e la spinse avanti di pochi centimetri verso di lei con il piede. «Vede? Non c'è nessun pericolo.» «È vera quella pianta?» «Suo padre è in casa?»
«No.» «E sua madre?» «No.» «Dove si trovano?» «Mio padre è a Chicago e mia madre è fuori per tutto il pomeriggio» disse lei, fissando la pianta. «C'è una stanza dove possiamo parlare?» «Una stanza?» «Possiamo parlare in camera sua?» «No.» «Perché no? Preferirebbe andare al cinema? Fare un giro sul mio autocarro, un'ascensione in pallone o...» «No!» «È, occupata? Che cosa sta facendo? Che cosa stava facendo poco fa, quando ho suonato il campanello?» «Stavo rivedendo i compiti, facendo il conto dei mici vestiti...» «Facendo il conto dei vestiti! Ma che conti ci sono da fare con i vestiti?» Mosse un passo avanti, affascinato. Lei indietreggiò di un passo su per lo scalone. Jules si domandò dove fosse la cameriera. Dietro di lui, l'autocarro delle consegne era un peso che lo trascinava in basso; aveva commesso un errore, parcheggiandolo là. Pertanto disse, indietreggiando: «Bene, lascio qui la pianta e la saluto. Mi aspettano cinque ore di lavoro». Nadine lo fissò, sorpresa. «Deve soltanto riempire la ricevuta e spedirla» disse Jules. Portò l'autocarro intorno all'isolato, lo parcheggiò in una strada trasversale e tornò indietro a piedi, rapidamente. Nell'articolo del giornale su Grosse Pointe, ove aveva letto del basso indice di criminalità, era venuto a sapere inoltre che ben poche persone si davano la pena di chiudere a chiave la porta di casa, anche di notte, e pertanto fu una cosa naturalissima per lui dirigersi senz'altro verso la porta della dimora e aprirla. Nadine era curva sulla pianta in vaso. La scorse attraverso la porta interna. Era a capo chino, con i capelli neri intorno alla faccia, la faccia seria, pallida, dubbiosa, eppure continuò a non apparirgli del tutto reale. Sperò che la propria faccia non facesse sembrare immatura quella di lei. Bussò Sul cristallo della porta interna e l'aprì adagio. Ella si girò di scatto. «Possiamo parlare in camera sua?» bisbigliò Jules. «Che cosa vuole?»
Sembrava spaventata, eppure un sorriso lieve le dischiuse le labbra. «Pochi minuti.» «Può essere arrestato per questo» disse lei. «Perché dovrei essere arrestato? L'amo... che reato ho commesso?» disse Jules. «Allora è pazzo, può essere rinchiuso in manicomio!» «È di sopra, la sua camera?» «Che cosa vuole da me? Che cosa sta facendo?» ella disse. «Sto facendo soltanto quello che devo fare» rispose Jules. Con una mano ella parve tenerlo a distanza, come se volesse parare un colpo di scure. L'altra mano era immobile, indifesa. Jules avrebbe voluto afferrarle entrambe e baciarle avidamente. Sospirò. «Se in casa non c'è nessuno, perché non possiamo parlare? Parlare di sopra? Posso aiutarla a riordinare i vestiti.» «Vuole svaligiare la casa?» «Svaligiare la casa! Perché?» «C'è qualcun altro con lei, fuori?» «Perché avrei dovuto portare con me qualcun altro?» Ella rise. La sua risata fu brusca e acuta; cessò di colpo. Poi Nadine disse: «È entrato qui per vincere una scommessa. Venga fuori con me e mi presenti agli altri». «Non c'è nessuno, fuori.» «Sì, sì, c'è qualcuno fuori! Qualche studente, qualcun altro! È uno scherzo... mi racconti. Voglio sapere di che scherzo si tratta, non voglio che la gente rida di me.» «Non è uno scherzo. Siamo completamente soli.» «Non siamo soli!» «Siamo completamente soli, qui, a parlare.» Nadine scosse la testa. «No, non è divertente. Non dovrebbe burlarsi di me. A volte piango a letto per tutta la notte... è già abbastanza brutto piangere per niente, ma ora, ora piangerò per questo, perché lei si è burlato di me!» «Quale sarebbe la burla? Il fatto che l'amo?» «Lei non mi ama!» «Perché sarebbe una burla?» «Lei non mi ama, sta soltanto ridendo di me. Come può amarmi?» disse Nadine, con ira. Jules vide quanto aveva bianco il bianco degli occhi, e come le rendesse più scure le iridi; aveva uno sguardo innaturale. Il suo
viso si sarebbe potuto indurire nella bellezza verso i trent'anni, forse. V'era un che di lievemente sfuocato, di non coordinato nel suo aspetto; era nervosa e vicina all'isterismo. «Perché piange a letto tutta la notte?» le domandò con dolcezza. «Non lo so. La gente non piange a letto? Vuole burlarsi di me?» «Non è una burla. Non le farò alcun male.» «A proposito di mio zio... ha detto...» «Non so niente di lui.» «Ha detto di averlo visto morto! Con la gola squarciata!» «Era lo zio di qualcun'altra.» «No, ha detto così. È stato proprio lei a dirlo. L'ha visto morto.» «Lo ha riferito a suo padre?» «Non è ancora tornato a casa. Perché avrei dovuto dirglielo?» «E a sua madre?» «No, no, naturalmente!» «Possiamo salire di sopra?» Ella lo fissò con uno strano mezzo sorriso, un sorriso ipnotizzato. «C'è qualcuno in casa, oltre a lei e alla cameriera?» «Nessuno.» «Non le farò alcun male» disse Jules, sommessamente. «Potrebbe accadermi qualunque cosa e non me ne renderei conto» disse Nadine. Jules le prese la mano. Ella guardò la mano di lui che stringeva la sua. «Mi sento così lontana da tutto. Cose potrebbero accadermi, passare su di me, porte che si aprono, e via dicendo... fango potrebbe insozzarmi... e sul momento non me ne accorgerei. Poi, in seguito, me ne ricorderei e mi metterei a gridare. Ho pensato a lei tutta la notte, a quello che ha detto ieri. Sul momento non vi ho attribuito alcuna importanza. Quasi non l'ho notata. Poi, non appena è ripartito, ho cominciato a pensare a lei e a quello che aveva detto, di mio zio e tutte quelle cose, e al fatto che sarebbe tornato oggi...» «Non ha avvertito la polizia?» Le accarezzò la mano, che era gelida. «Cinque minuti su di sopra. Di nascosto. Voglio presentarmi.» Come Jules, ella sembrava essere quasi in uno stato di trance. Ma lui non poteva far conto che le cose continuassero così. Le baciò la mano. Il gesto fu deliberato, enfatico, molto tenero, per cui la testa di Nadine si spostò appena in avanti, meccanicamente, come se ella si accingesse a sottoporsi al filo pesante di una scure. «Non la conosco» bisbigliò.
«Tra poco saprà tutto. Mi rovescerò come un guanto per lei.» Prese la pianta e si avviò con Nadine, tenendole un braccio sulle spalle. I mobili sembravano indietreggiare da essi, contro le pareti, facendo loro posto. Quei mobili, suppose Jules, avevano il solo scopo di occupare spazio... c'era una quantità di spazio, nella casa, e non si vedeva nessuno. Tutto taceva, in preda a un timore reverenziale per la sua audacia. Sarebbe stata bella l'esistenza, vissuta in un museo di casa? Avrebbe fatto soldi, tutto sommato. Perché no? Un milione di dollari? Non v'era altra direzione nella quale potesse andare se non in alto... tutto era sopra di lui, l'intera America... e, mentre procedeva, perché non avrebbe dovuto tentare di conquistare tutto? Avrebbe guadagnato un milione di dollari prima di essere arrivato ai trent'anni, e avrebbe sposato questa ragazza, Nadine Greene. «Ti amo» bisbigliò. «Sono stato innamorato di te dal giorno in cui condussi qui tuo zio. Tu passasti di fronte all'automobile e io mi innamorai di te. Non so spiegare...» Ella si appoggiava a lui, ascoltandolo. Era molto tesa. Jules ne vedeva la fronte pallida sotto un infantile, piumato grappolo di ciocche, capelli che desiderava scostare impaziente perché voleva vedere appieno il viso. Aveva paura della sua innocenza. Forse faceva male a trascinarla nel suo amore, fuori da quella casa splendente, lontano da quei ricchi mobili, silenziosi e vuoti. «Non ti farò del male. Mai» disse, e nello stesso momento stava pensando, involontariamente, a un armadio a muro della sua fanciullezza nel quale era rimasto per parecchie ore con una ragazza, appena una ragazzina; quanto a lui, un ragazzetto, non più innocente. Pensò a Nadine, chiusa in un armadio a muro, e a se stesso chiuso con lei, per otto ore. Jules tracciò una linea, con le dita, dall'orecchio di lei alla punta del mento. «Quando rientrerà tua madre?» «Non lo so.» Lo condusse di sopra e in camera sua. Egli si rese conto adesso che quella era la prima stanza nella quale fosse mai entrato, la prima stanza nella quale chiunque avesse mai vissuto per davvero. Le stanze delle sue sorelle non erano state vere stanze. Questa era decorata in bianco e giallo. Il cuore gli martellò a un tratto mentre la guardava, mentre si rendeva conto che apparteneva a Nadine ed era stata costruita intorno a lei, costruita per lei e per lei sola. Il prezzo di Nadine era inestimabile. Posò i fiori in vaso sul suo cassettone, lieto che fossero bianchi e puri, un'offerta degna di lei. Taceva. Nadine si coprì la faccia con le mani. I sensi di Jules parvero fondersi in
una urgenza improvvisa, in una urgenza esplosiva; andò ad abbracciarla. Ella gli rimase rigida tra le braccia, ma non oppose resistenza. Le diede baci leggeri, desideroso di addormentarla con i baci, di consolarla, la bocca leggera contro la sua come petali di rose, o come palpitanti ali di falene, niente di concreto. Era tutto così aereo, anche quell'abbraccio. Le baciò gli occhi, i capelli, la gola, la bocca, respirando piano attraverso la propria bocca e quella di lei, ansioso del suo alito dolce, preparato a esserne inebriato. Come desiderava quell'ebbrezza! Ma al culmine della tenerezza sentì che stava impazzendo e che così non poteva durare. Incespicò con lei all'indietro verso il letto. La spinse giù, sul luminoso copriletto giallo e si distese sopra di lei, a un tratto ansioso, stupito che ella fosse così reale, che non si dimenasse e non si difendesse, ma fosse soltanto una piccola densità di carne, molto calda. Nadine teneva gli occhi chiusi. Egli sentì il suo terrore. In silenzio ella muoveva la testa da un lato e dall'altro, senza evitare le labbra di lui, ma non del tutto preparata a esse. Gli parve di trovarsi sull'orlo della follia, o di qualche atto terribile che l'altro Jules avrebbe commesso per poi andarsene, lasciando lui lì. Gli parve di svenire e di riprendere i sensi, nello stesso momento. Era una situazione delicata essere di nuovo cosciente. Le incorniciò il viso con le mani e la fissò. Il cuore gli martellava in petto incitandolo a continuare, quel suo cuore di ladro, ma l'immobilità di lei lo esortava ad andarci piano, ad amarla. Se non fosse stato tenero con lei non si sarebbe mai perdonato. «Ti senti bene? Ti sto facendo male?» domandò. Nadine non rispose. Sembrava quasi priva di sensi. Per qualche tempo Jules rimase così, puro e intimorito dal suo viso, sebbene la violenza si stesse accumulando in lui e le avesse tolto le mani dal viso portandogliele sul collo, brancolando, accarezzando, meravigliandosi... sui piccoli seni, che gli parvero terribilmente non protetti, proprio contro di lui e vicini al suo cuore palpitante, e con le cosce la teneva stretta... sentiva il piccolo solco nell'inguine, l'esile muscolo. Con le gambe teneva strettamente unite le gambe di lei, proteggendola da se stesso, ma un'improvvisa frenesia lo indusse a un tratto a gettarlesi contro pesantemente, mentre con i denti cercava carne, qualsiasi cosa contro cui strofinarsi indifeso, la faccia contorta in una smorfia che non aveva nulla del vero Jules. E tutti i suoi sensi si avventarono infine insieme, incontrollabili, per cui gemette e dovette schiacciarsi contro il corpo rigido di lei per sopportarlo. E così tutto finì. Le giacque accanto, destandosi. Non si era addormentato, eppure parve
destarsi, tornare alla vita. Aveva il respiro ansimante. Nadine, rigidamente distesa, con un braccio piegato sulla fronte, non lo guardava. Egli poté ora guardarsi attorno. Vide che si trovava nella camera di una ragazza, una bella camera bianca e gialla, una camera da libro illustrato. Sul tavolino da toletta c'erano alcune cose... tra le altre, fiori bianchi. Il tappeto era soffice e giallo, fatto per piedi nudi. Eppure, sebbene si trovasse in quella stanza, sebbene giacesse sul letto, provava la sensazione bizzarra di non trovarsi realmente lì, ma di limitarsi a contemplare tutto ciò. Ella non spostò il braccio. «Nessuno mi aveva mai fatto questo prima» disse. «Tesoro, scusami.» «Non ci avevo nemmeno mai pensato. A certe cose non penso. Poi, se accadono, non so che cosa siano, devo lasciar passare del tempo per poterle capire...» Jules divenne ansioso che ella continuasse a parlare, perché sembrava trovare così difficili, quasi dolorose, le parole. Gli sembrava di vedere la sua mente brancolare in cerca di un pensiero, di parole, di qualsiasi cosa. Ma non poteva aiutarla. «La gente non mi tocca» disse Nadine. «Non le permetto di avvicinarmi, non voglio che abbia a che fare con me, che tutti mi siano così vicini...» «Spero di non averti fatto male» disse Jules, sentendosi indolente e sudato, tutto corpo. «Sono fuggita due volte. La donna poliziotto, una donna simpatica, mi ha domandato tutte e due le volte se fossi stata con un uomo. Credono che una ragazza non possa fuggire in nessun posto, e non si dia la pena di uscire dalla porta di casa, se non deve fare qualcosa con un uomo. Non ebbe mai bisogno di domandarmi altro perché lo capì solo guardandomi. Nessuno mi era mai stato così vicino prima d'ora.» «Non ti ho fatto male?» «Non ricordo che cosa è accaduto. Tutto si confonde con mio zio.» «Non pensare più a lui.» «Sento che giaccio supina in qualche posto, come adesso, in una stanza sconosciuta di Detroit, con la gola tagliata e il sangue che mi scorre sotto la schiena, bagnandomi. Posso quasi vederlo. E tu stai accovacciato su di me e mi guardi.» «Ma perché?» domandò Jules, scosso. Nadine abbassò il braccio e aprì gli occhi, sperimentalmente. Lo guardò. Il suo sguardo fu franco, inquisitivo e un po' civettuolo, anche se Jules
pensò che poteva sbagliarsi. Forse si stava accingendo invece a gridare, e lui, avrebbe avuto il buon senso di metterle una mano sulla bocca? «Sicché sei fuggita da casa?» si affrettò a domandarle. «E dove andasti?» «In centro.» «Perché in centro?» «È abbastanza lontano, è come qualsiasi altra città. Perché dovrei arrivare fino a Los Angeles? Detroit è Grande abbastanza.» «Io abito in centro.» «Solo?» «Sì, solo.» Ella si sforzò di sorridergli. Confortato, rassicurato, Jules si protese di nuovo su di lei e le accarezzò la faccia e le spalle. Subito Nadine chiuse gli occhi. Parve liberarsi di se stessa, abbandonarsi a lui. Una puntura di spillo nel cervello di Jules cominciò a dilatarsi a un tratto, ed egli gemette e si mosse di nuovo su di lei, un braccio intorno al capo della ragazza, molto dolcemente, baciandola. Non aveva idea di dove fosse. Dimenticò tutto... il letto, la camera da letto, la casa, la strada, la macchina di pattuglia della polizia... non riusciva a ricordare e, a parte la pelle soffice e pallida di Nadine, non riusciva a credere in niente. Le prese il braccio e lo baciò. Se lo portò alle labbra, facendovi scorrere su la lingua, innamorato della carne delicata di lei; cercò di mettersi intorno al collo il braccio di Nadine, in un abbraccio, ma ella era inerte. Inarcava il collo, ma gettava la testa all'indietro. Jules chiuse gli occhi e si schiacciò contro di lei, sentendo tutta la chiarezza di un momento prima - avevano conversato insieme! - turbinare fuori di lui e non lasciarlo affatto più savio. Ah, Jules, pensò, riuscendo a ricordare il proprio nome, vale la pena di morire per questo! Credeva che davvero sarebbe diventato il suo amante, di lì a pochi minuti, e che le loro vite sarebbero state allacciate per sempre, irrevocabilmente, e pertanto cominciò a spiegarsi. Aveva una voce fioca e affrettata. «So che da questo può venire soltanto del bene. Soltanto del bene. Hai fatto bene a lasciare che fossi io a toccarti, e nessun altro... Questo perché sai chi sono, lo senti. Mi concederò alcuni anni per guadagnare abbastanza, non farò fiasco. Rimarremo vicini per tutta la vita, e niente potrà separarci...» La ragazza non aprì gli occhi. Lo stava ascoltando, tesa, silenziosa. «Per tutta la vita ho creduto in certi segni, in certi presentimenti» disse lui. «Per esempio, mi capita di camminare e qualcosa entra in me, come in
un sogno, mi viene un'idea, e sento una necessità tremenda di farla avverare, subito. Il cuore comincia a battermi come se fosse indemoniato. Una volta, quando poco mancò che perdessi la fotografia di una ragazza, provai questa sensazione. Dovevo ritrovare la fotografia, era il segno di qualcosa, non so di che, anche se poi dimenticai completamente quella ragazza, non so per quale motivo; ma dovevo ritrovare la fotografia e la ritrovai. Sarebbe stata la fine per me, se non fossi riuscito a trovarla. Non saprei dirti come lo so.» Il telefono squillò accanto al letto di Nadine. Jules, terrorizzato, balzò quasi in piedi per fuggire. Lo squillo aveva interrotto il corso dei suoi pensieri; non riusciva più a pensare. Nadine, sonnacchiosamente, si protese per alzare il ricevitore. L'apparecchio era giallo. La guardò brancolare verso di esso, desideroso di guidarle la mano. Ella staccò il ricevitore e lo lasciò cadere sul letto. Una voce sottile lì interrogò. «Prendilo! Di' pronto» la esortò Jules, allarmato. Il ricevitore cominciò a scivolar giù, sul punto di cadere sul pavimento. Jules lo prese egli stesso. «Chi parla? Chi è al telefono?» disse con l'accento scorretto di un negro, poi schiaffò giù il ricevitore. Nadine rise. «Chi era? Una tua amica? Tua madre?» «Non lo so. Perché sarebbe dovuta essere mia madre?» Il telefono squillò ancora. Questa volta Nadine si drizzò a sedere sul letto e rispose; stupì Jules con la sua improvvisa freddezza. «Pronto, Brenda.» disse, gli occhi già velati, nei confronti di Jules, al suono di quella vocetta estranea che per lei significava qualcosa e per lui proprio niente. «No, non posso. È accaduto qualcosa. Telefona a Sue. Come? Perché no? Non lo so. Mia madre non vuole. Credo di no. No.» Jules avrebbe voluto strapparle di mano il ricevitore e schiaffarlo giù. Gli sembrava offensivo che ella potesse parlare con tanta noncuranza a un'amica, ammaccata e bagnata com'era dalla sua passione. «Riattacca!» le disse. Lei salutò bruscamente e riattaccò. «Come ti chiami?» domandò a Jules. «Jules.» «Mi piace questo nome. È un nome bellissimo per un uomo. Ma non puoi comandarmi a bacchetta in questo modo. Non puoi dirmi quello che devo fare.» Cercando di adattarsi con dolcezza su di lei, sentendosi pesante e goffo,
egli non udì nulla di quel che aveva detto. Non voleva sorprenderla con il proprio corpo. Nadine era così ingenuamente opaca, così passiva, e priva di stupore, da indurlo a ritenere che non avesse un'idea chiara di quanto stava per accaderle... le aveva alzato sin sulle cosce la gonna del vestito bianco e fu tentato di tirarla di nuovo giù, per proteggerla. «Non ti dirò mai che cosa dovrai fare, mai più» le assicurò. Giacquero viso contro viso. Jules era madido di sudore. La fronte di Nadine era umida, del sudore di lui o del proprio, lui non avrebbe saputo dirlo. Ebbe l'impressione che i confini dei loro corpi venissero fusi dall'accesa passione del suo amore. Si trattava di un fenomeno che avveniva indipendentemente da lui, da loro, di un fatto naturale. Non era mai stato così vicino a nessuna prima di allora... come se stesse giacendo con una creatura che aveva inventato, una ragazza creata in sogno. Nadine gli afferrò il polso e gli fermò la mano. «No» disse. Stavano tremando entrambi. Dopo un momento, senza muoversi, ella soggiunse: «Potresti portarmi in qualche posto?». «Eh? Dove?» «Non potremmo andarcene in qualche posto? Tu e io?» «Fuggire, dici?» «Sì, fuggire. Potremmo? Potresti portarmi via? Potremmo andare nel Messico?» Jules rifletté un momento. «Va bene.» «Potremmo partire oggi stesso?» «Oggi?» «Potremmo fingere di essere sposati?» «Vuoi che ti sposi?» Ella disse, seriamente, febbrilmente: «Possiamo fingere. Potremmo dirlo a chi ce lo domandasse...». Jules le toccò le gambe e lei strinse energicamente le ginocchia, in preda al panico. «No, non farlo» disse. Giaceva sudata tra le sue braccia. Non aveva mai veduto nessuno in preda a una tale agitazione... e per un momento si domandò se non dovesse aver paura di lei. Lacrime gli facevano bruciare gli occhi... per Nadine, e per la sofferenza che egli stesso stava sopportando, in parte compassione in parte delirio. Strofinò la faccia contro la sua. Aveva anche lui le labbra un po' irritate e il corpo gli doleva di una passione che era diventata scettica. Sembrava che si trovassero insieme su una barca, una piccola zattera,
trascinata via rapidamente, non più dominabile da Jules; egli non riusciva nemmeno a vedere dove fosse diretta. La ragazza mormorava «Jules, Jules», come se in qualche modo lo stesse creando, gli stesse dando una forma con la sua immaginazione. V'era qualcosa di esitante e di sperimentale, in lei, ma Jules cercava di non pensarci. Non voleva esserne spaventato. Al culmine della sua felicità, v'era in questo uno strano presentimento di follia, la sua stessa follia o quella di lei... la paura della follia, lo sguardo vacuo di Maureen, che sarebbe potuto risultare essere anche un suo retaggio. I loro corpi, così indolenziti dai vestiti che indossavano, e così bagnati, sembravano andare alla deriva in qualche luogo, sospinti dalla gravità di un fiume, trascinandoli miseramente a valle, verso un culmine di calore intenso e nero. «Lascia che entri in te» disse Jules. Ella si scostò da lui terrorizzata. Jules parve perdere di nuovo i sensi, trascinato rapidamente in basso e avvinghiato a lei, sentendo la trama del vestito di cotone di Nadine sotto le dita tese, dimenticandola. Era come se in un film, trasmesso dalla telecamera, la tensione fosse diventata così forte da essere intollerabile: donde una dissolvenza, la fine. Jules si udì gemere come se soffrisse, sorpreso dalla propria sofferenza. Dopo qualche momento ella cominciò a singhiozzargli contro la faccia. «Mi porterai lontano da qui. Salirò sul tuo autocarro e chiuderò la portiera. Non potranno seguirmi. Non c'è nessun indizio, non rimane alcuna traccia... soltanto autostrade. Ali ucciderò se non riuscirò ad andarmene di qui.» Jules non riusciva a cogliere un senso nelle sue parole. Premeva la faccia contro quella di lei, senza udire. «Non importa se ci sposeremo o no, non me ne importa. Voglio continuare a viaggiare e andarmene da questo paese e arrivare nel Messico. Voglio vivere dove la gente parla un'altra lingua, in modo che nessuno possa conversare con me e io con nessuno.» Sembrava che non avesse ancora capito che cosa era accaduto a Jules e che cosa stava accadendo. La sua eccitazione era quasi violenta, ma aveva sede nella mente e soltanto là... Jules poteva quasi sentirla, una pressione più dolorosa di quella sopportata da lui. «A scuola cerco di costringermi a dormire. Siedo sul banco, ma chiudo la mia mente, cancellando una parte dell'aula. È come un gioco di pazienza a incastro, suddiviso in vari pezzi. Cancello un pezzo, poi un altro e un altro ancora. Posso starmene seduta sul banco senza dormire, eppure la mia mente è addormentata, è neutra, neppure sconvolta. La, ragazza che mi
ha telefonato... non ho nessun rapporto con lei, nessun vero rapporto, né con nessun altro. Non so perché. E adesso sei venuto tu... non so nemmeno come tu sia entrato in questa casa. Sei in camera mia e non riesco a ricordare come. La gente dovrebbe capitare in questo modo, per caso. Nessun altro nella mia vita è un caso» ella disse, e Jules si sentì marchiato come da una chiazza di vernice rossa, marchiato e isolato, una sorta di scherzo di natura. «Sto per compiere diciassette anni, ma in realtà sono più vecchia di mia madre. Non voglio essere così, ma non posso farne a meno. Jules, mi stai ascoltando, mi credi?» «Sì.» «Perché ho sempre voglia di dormire? Perché sono troppo vecchia per tutto? Quando mia madre si entusiasma per qualcosa, provo un certo imbarazzo vedendo quanto sia infantile. Tu non la conoscerai mia madre. Ma è felice e io non lo sono. Non conoscerai nemmeno mio padre. Sono brave persone, mi piacciono, ma quando stai con loro finisce con il non importarti più niente di essere buona. Pensi: be', se loro sono brava gente, io potrei anche fare qualcosa di diverso. E ti viene il mal di capo. È tutto scontato. Mio padre ha sempre fretta, ma trova anche il tempo di progettare le cose. Rimane alzato fino a notte tarda, facendo progetti, sorseggiando latte... fa progetti per cinque, dieci, quindici anni nei suoi affari. È vicepresidente addetto alle relazioni pubbliche. Probabilmente tu non sai nemmeno di che si tratta. Viaggia dappertutto. Un tempo gli volevo bene, ma ora credo di amare te. Quando mi stringi, stento a ricordarlo. Credo che con te li dimenticherò tutti. Se potessimo soltanto uscire di qui e andare in qualche posto velocemente, fino al Messico o nel Texas.» Jules si asciugò il sudore dagli occhi. «Tesoro, perché nel Messico o nel Texas?» «Così, è un'idea che ho avuto.» «Non stai inventando tutto questo?» «No.» L'accarezzò invano, sentendo il torpore di lei passare in se stesso. Capì perché gli uomini di bassa levatura - inservienti dei distributori di benzina, autisti di tassì - ammazzavano le donne, sentendo il loro torpore scorrere violentemente in se stessi e porre termine a ogni cosa. Nadine si sollevò di scatto su un gomito. Dalla tensione del corpo di lei Jules capì come ella stesse udendo qualcosa che lui non poteva udire. «Mia madre è tornata a casa» ella disse. Jules udì un rumore ronfante, poi un tonfo sordo.
«Sta uscendo dal garage... è in cucina...» Jules non udì più nulla. Nadine si alzò adagio. Si districò da lui educatamente, come se non avesse voluto ferire la sua suscettibilità. Vide con stupore che sembrava indisposta... con la faccia infiammata a furia di strofinamenti, con i capelli umidi e scompigliati, con il vestito spiegazzato e macchiato. Sono innamorato? È amore, questo?, si domandò. Era inebriato dalla concupiscenza, ma ne era anche un po' esacerbato. Nadine, irosamente, scostò all'indietro i capelli dal viso con le mani. «Devo uscire, o verrà qui a parlare con me. Puoi aspettarmi.» Jules pensò che anche se avesse voluto fuggire sarebbe stato troppo esausto; la sua volontà era come appiattita. L'aspettò. Passò mezz'ora. Passò un'ora. Non si sentiva affatto intimorito. Il suo corpo era il corpo di un affogato, immobile. Il peggio che potesse accadergli sarebbe stato la morte, una seconda morte... Dopo qualche tempo Nadine tornò. Si avvicinò al letto. «Verranno adesso certe persone per i cocktails. Dovrò conversare con loro per un po'. Non ho commesso alcun errore. Non ho pianto né mi sono messa a gridare. Questo perché non riesco a credere a quello che è accaduto. Non riesco ancora a capirlo.» Gli sorrise. «Sicché sei al sicuro. Mi aspetterai?» Jules alzò le braccia verso di lei. Ella si chinò e si baciarono. «O forse chiamerò la polizia, non lo so» disse, uscendo. Jules dovette dormire; quando si destò, era quasi buio, fuori. Balzò in piedi, mettendo alla prova se stesso. Era sempre lui. Gli doleva la faccia, gli doleva il corpo, quando stirò la bocca le labbra gli si screpolarono in vari punti, eppure tutto era riconoscibile. Si sentì allegro. Ovviamente, il suo destino era ormai stato deciso e non poteva più essere evitato. Per conoscere meglio Nadine guardò nei cassetti - pigiami, maglioni, sottovesti, biancheria intima -, era una ragazza reale, in fin dei conti, una comune ragazza. Aprì la porta dell'armadio a muro. Una luce si accese automaticamente. Esaminò i vestiti di lei, toccandoli con dolcezza, soddisfatto delle loro tinte vivaci. Con la punta di un piede toccò le sue scarpe, compiaciuto. Presumeva di amarla. Ella era accessibile attraverso quegli oggetti, vestiti e scarpe, nonostante il suo alto prezzo. Forse avrebbe potuto riempire il vuoto in lei con qualcosa di suo. Perché non sarebbero dovuti fuggire insieme? Era tempo che egli stesso fuggisse, per sempre, nel Messico o nel Texas. Il fato lo aveva voluto. Oziosamente, masticò i fiori che le aveva portato, e poi li sputò sul tappeto.
Ella tornò. Venne a lui silenziosa e si abbracciarono. Vecchi amici. Amanti da tempo. Gli disse, in un bisbiglio teso e gioioso: «Sei molto bello. Mi condurrai via?». «Certo.» «Hai denaro?» «Tu no?» «Soltanto in banca, ma la banca è chiusa. Tu non ne hai?» «Poco.» «Non ci occorre molto, vero?» Si ridistesero, con dolcezza. Jules la baciò e, in fondo ai suoi pensieri, vide qualcosa che lo spaventò, ma poi il qualcosa si perdette. Le accarezzò i capelli. Lei gli accarezzò la nuca. Si sorrisero a vicenda come se si fossero appena incontrati, come se si vedessero per la prima volta. La casa era pericolosa, Jules lo sapeva, ma l'inerzia lo allettava. Non gli andava di muoversi. L'idea del Messico sembrava improbabile. «Potrei restare qui. Potrei vivere qui, nella tua camera, per tutto il resto della mia esistenza.» Nadine lo lasciò con riluttanza. Si avvicinò allo specchio e si contemplò. «Non c'è da stupirsi se mi hanno fissata con gli occhi sbarrati. La mamma mi ha domandato se avessi mangiato qualcosa, oggi. Be', non dovrò più guardarmi, non qui» disse in tono soddisfatto. V'era qualcosa di energico e di intelligente in lei, in fin dei conti, pensò Jules. Nadine cominciò ad ammonticchiare capi di vestiario, rapidamente e con impazienza, come se fosse sola. Jules giaceva sul letto e la guardava. «Non starai facendo sul serio?» le domandò. «Faccio sempre sul serio.» La risposta gli piacque. «Bene» disse. «E hai proprio deciso per il Messico?» «Preferirei partire con te che da sola» disse lei. «Avevo già in mente di andarmene, del resto. Continuo a pensare di andarmene, di fuggire. Non so perché. Non è che voglia fare la vagabonda, in realtà. Non voglio frequentare altri ragazzi... tutte queste scemenze. Voglio andarmene in un posto solitario, dove parlino un'altra lingua. Ci proverò. E non sono stata io a scegliere te, sei stato tu a venire. Non è colpa mia. Deve significare qualcosa, dev'essere un segno. Non ho potuto impedirti di salire qui e mi piacciono il tuo nome e la tua faccia. Non amo nessun altro, sono morta per loro, addormentata per loro. Eppure non sono stata io a fare in modo che
questo accadesse. Sei stato tu. Ti sei presentato alla porta di casa. La colpa non è mia.» «Non è nemmeno mia» disse Jules, allegramente. Aspettarono per qualche altra ora. Sedettero l'uno al fianco dell'altra sul letto, Jules fumando una sigaretta, e Nadine allontanando il fumo con la mano, quasi volesse istituire un precedente per i successivi quarant'anni. Parlava. Di tanto in tanto egli vedeva il suo viso contrarsi in una maschera di minuscole rughe spazientite, irritato da qualcosa. Si sporse a baciarle la spalla. Nadine gli accarezzò il viso, con tenerezza meravigliandosi, in un certo qual modo, di se stessa, perché era così tenera. Verso l'una, si accinsero ad andarsene. Jules sentì che stava per uscire da una stanza nella quale aveva trascorso buona parte della sua vita. «Sei nervosa?» le domandò. «Sì. E tu?» «Sono pronto.» Discesero al pianterreno. Una sola lampada era accesa nell'ingresso. Jules rispettava la casa, si sentiva umile, lì dentro, e, ciò nonostante, impersonale; era giustissimo che rubasse la ragazza a quella casa. Nadine lo prese per mano e lo condusse fino alla porta. «E ora... ora che cosa faremo?» «Ruberemo un'automobile, tesoro.» «Rubare un'automobile? Dove?» «Mi occorre soltanto per tornare a Detroit a prendere la mia macchina. Ho una macchina. Non avete amici, vicini?» «C'è la casa accanto. Non so come si chiamino. Ma come farai a rubare un'automobile?» «Mi limiterò a salire e a prenderla, purché ci siano le chiavi dell'accensione.» «Le chiavi saranno sull'automobile della moglie» disse Nadine. Aveva messo i vestiti in un sacchetto di carta, non molto grande. Era il fardello più leggero della loro nuova vita. Senza timore, affidandosi al destino, Jules si portò sul retro di un'immensa dimora, verso il garage. La porta era aperta. Vi si trovavano tre automobili e su una di esse le chiavi erano infilate nel dispositivo di accensione, in attesa. Tutto sembrava essere dominato da un incantesimo. Alcuni minuti dopo, mentre correvano liberi lungo la Lakeshore Drive, Jules si sporse a prendere la mano di Nadine. La baciò, come uno sposino. Lei aveva cominciato a piangere. «Niente può fermarci» egli dichiarò.
6 Il respiro gli veniva risucchiato a lenti, languidi, dolorosi sospiri. Non riusciva a mettere a fuoco l'oggetto della sua brama. Dormendo, cercò di liberarsi del sonno, desideroso di capire con chiarezza... che cos'era tanto doloroso, che cosa lo trafiggeva così amaramente? Non chiedeva altro che di capire. Immagini di sogni non sognati lampeggiavano in lui come cartoncini. Ricordò la prima elementare, i cartoncini sui quali figuravano parole e numeri. Ricordò suor Mary Jerome. Il suo viso pallido e luminoso gli balenò nella mente e poi si perdette. Pensò a sua madre, mentre toglieva gli acquisti per il pranzo da un sacchetto di carta. Pensò a Maureen. Si destò. Era molto presto, troppo presto per svegliarsi. Alla finestra, una luce vaporosa e vivida delineava la veneziana; la luce filtrava attraverso numerosi spiragli. Sembrava che fossero stati tracciati con una matita magica. Jules si affrettò a chiudere gli occhi, sperando di dormire ancora. Le giornate di guida, di continua fuga, erano troppo faticose per lui e, mezz'ora dopo essersi alzato, gli sembrava di non essersi coricato affatto. Ma fuori, sull'autostrada, il traffico era rumoroso, desto parecchie ore prima di lui. Aveva sentito le vibrazioni dei grossi autocarri passare per tutta la notte. E, molto tardi, vi erano state grida, là fuori... giovinastri, forse ubriachi, che chiedevano un passaggio, o erano diretti alle rispettive fattorie, ragazzi esattamente della stessa età di Jules, ma dissimili da lui. L'autostrada era una lunga linea nera sulla carta che lui e Nadine avevano studiato, ma Jules non riusciva a ricordarne il nome o il numero. Si trovavano già nell'Arkansas, o avevano attraversato l'Arkansas? Erano nel Texas? Jules aprì gli occhi, a un tratto, timoroso che le carte mentissero. Una volta in fuga, non si riusciva mai a compiere alcun progresso, e un paesaggio poteva confondersi con l'altro. Il Michigan, l'Illinois, l'Arkansas, il Texas... non esistevano cartelli conficcati nel terreno per mostrare dove l'uno finisse e l'altro cominciasse. Accanto a lui giaceva Nadine, voltandogli la schiena. I suoi capelli intricati e lucenti erano mescolati con la sofferenza del sonno di Jules. Gli sarebbe piaciuto spostarsi contro di lei, allacciarla facendole scivolare attorno le braccia, affondare in lei la faccia e dormire ancora, ma non poteva far questo. Non poteva disturbarla. Chissà per quale ragione, ricordò un bambino che aveva incontrato una volta a Detroit, un bambino smarrito, di
notte. Non era poi tanto strano vedere bambini che vagabondavano e quasi sempre sapevano dove stavano andando e dove si trovavano, e dopo qualche tempo se ne tornavano a casa, ma quel ragazzino aveva toccato il cuore di Jules perché si era realmente smarrito e il suo terrore lo isolava da tutto quel che gli si trovava attorno. Aveva circa sei anni, era un bianco. I capelli erano lunghi e aggrovigliati non essendo stati pettinati da giorni e giorni, i vestiti erano sudici, ma quando Jules gli aveva domandato: «Ti sei perduto, bambino?», lui era parso timoroso di rispondere. Aveva gli occhi liquidi di un diffuso, spossante terrore e sembrava che non udisse e non vedesse Jules, sebbene fosse conscio della sua presenza. Erano circa le tre del mattino, per la strada passavano numerosi ritardatari e il bambino rimaneva davanti a un negozio di liquori chiuso, davanti alla serranda, limitandosi a restare lì in piedi. Distava appena uno o due passi da Jules, ma si trovava in un vuoto terribile, in un sogno nel quale Jules non aveva osato entrare. Si era messo in mente che, se lo avesse toccato, il bambino gli avrebbe affondato i denti nella mano, come un animale. Nadine era così, pensò. La sua leggiadria costituiva di per sé lontananza. Se avesse dovuto affondare in lei, finalmente, gettando il proprio corpo contro il suo con un'ultima richiesta di misericordia, ella si sarebbe riscossa dalla propria letargica dolcezza tramutandosi subito in un animale, pronta a lottare fino alla morte. «No, non toccarmi. Non posso. Ho paura» gli diceva sempre. Le sfiorò i capelli con la punta delle dita. Dormiva. Ogni sera scivolava nel sonno come una bambina narcotizzata, lasciando lui desto; sull'autostrada gli autocarri passavano rombando e facevano vibrare il minuscolo villino o la stanza che avevano preso per trascorrervi la notte. Jules, certo, non riusciva a dormire, desto a causa dei propri pensieri e di tutto quello strepito. Stava diventando più perspicace, più intelligente, man mano che la carne gli si consumava addosso... era dimagrito, ma sembrava esserci in lui, inoltre, una sorta di magrezza spirituale, una sorta di intensità. Che cosa voleva tranne quella ragazza? La sua mente non riusciva a far niente con lei, non riusciva a ragionare con lei, né ad ignorarla. Jules non riusciva a ragionare nemmeno con se stesso. Ella era magicamente dolce, mentre gli giaceva tra le braccia, completamente vestita, sebbene avesse i vestiti sempre spiegazzati e tirati su di traverso, e sebbene i vestiti di Jules fossero bagnati dal tormento del suo corpo, eppure Nadine manteneva pura la propria immagine, se lui l'amava non le avrebbe fatto del male... e studiava progetti che si dissolvevano ogni sera, quando Jules le faceva capire che
non potevano andare oltre, quel giorno, che era finito. La malinconica, perversa visione di purezza di lei lo mantenne puro. Non avrebbe mai potuto contaminarla con la propria lussuria; ella sembrava non sentire niente. «Che ore sono?» domandò Nadine, destandosi. Jules premette la faccia contro la sua schiena. Non si erano spogliati, la sera prima, e avevano dormito senza coperte nel tepore autunnale del sud, per cui non poteva esservi stato per loro un vero sonno, pensò Jules; sempre quel riposare inquieto, temporaneo, come se entrambi fossero pronti a saltar su e a uscire di corsa con un attimo di preavviso. «È presto» disse Jules. «Non dovremmo ripartire?» «Tra qualche tempo.» Ella si contorse per guardarlo. Aveva la faccia gonfia di sonno. Come si fidava di lui, del suo innamorato Jules! Era un indizio del fatto che in vita sua nessuno l'aveva mai offesa, maltrattata, tradita, e che il suo corpo era passato attraverso diciassette anni di vita in America senza essere stato insultato. A Jules piaceva questo di Nadine, la sua stupida purezza. Gli piaceva che ella si fidasse di lui come faceva. Quanto veniva affidato alle sue mani, così completamente, era un dono dell'opinione che egli aveva di se stesso... una brava persona, tutto sommato, non depravata, capace di innamorarsi più di quanto lui stesso avesse mai immaginato. Nadine gli passò le braccia intorno al collo. Si baciarono. Jules, con il tormento nuovamente desto e avido, contemplò gli occhi annebbiati, semichiusi di lei e si domandò se sarebbe uscito vivo da quell'esperienza. «Oggi lascia guidare me. Per piacere» ella disse. «Non hai la patente. E la polizia?» «Perché dovrebbero fermarci?» Jules, che guidava una Ford non nuovissima, la quale aveva precisamente l'aria di poter appartenere a un ragazzo come lui, continuava a sentire il pericolo ovunque. Lo lasciava stupefatto il gran numero di agenti che vedeva. Ogni volta che attraversavano piccole cittadine, stava bene attento a rallentare, poiché là si trovava la polizia, due o tre uomini oziosi in uniforme, su una macchina di pattuglia, dietro un cartellone pubblicitario; non facevano niente tranne che tener d'occhio il traffico e affrettarsi a prendere nota delle targhe di altri Stati; sulle autostrade deserte, Jules procedeva alla massima velocità consentitagli dalla sua automobile, intorno ai centocentocinque chilometri all'ora, e là v'erano gli agenti statali... uomini snelli, anonimi, con gli occhiali da sole, che pattugliavano senza posa, facendo
vietate inversioni di marcia per inseguire a tutta velocità qualche trasgressore o immaginario trasgressore, e non avevano altro da fare tutto il giorno se non andare avanti e indietro sulle autostrade, godendosi la vita, dedicata esclusivamente a viaggiare, giudicare, cronometrare. Temeva che lo raggiungessero, affiancandoglisi, e gli urlassero: «Si fermi sulla corsia d'emergenza!». E là, al margine della strada, si sarebbero protesi entro il finestrino sbraitando: «Dove ha trovato quella ragazza?». Immaginava Nadine gridare: «Mi ha costretta a seguirlo! Mi ha rapita a Detroit!». Nadine si drizzò a sedere sul letto. «Prima di ripartire dovremmo comprare qualcosa da mangiare. E anche uno shampo. Voglio lavarmi i capelli.» «Devi lavarli così spesso?» «Voglio essere pulita. Puoi comprare quello che ho detto?» Stancamente egli mise alla prova le proprie gambe, si mossero. «Vorrei che tu mi amassi» disse, malinconico. «Ti amo. Che cosa vuoi dire?» Si girò per alzarsi. Tutto cambiava eppure ogni mattina era lo stesso: aveva fiducia nel futuro e riteneva che, in ultimo, sarebbero giunti in un paesaggio ideale, un luogo gradito a Nadine, ma non era lì. Nell'Arkansas o nel Texas, quale che fosse lo Stato nel quale si trovavano... una condizione del cielo e della terra in qualche modo non adatta... o che per lo meno non sembrava adatta a Jules. L'istinto gli diceva che doveva continuare a correre; lo irritava dover ricordare un sogno che aveva fatto un tempo... di un luogo selvaggio e di una radura simile a un'isola in esso... e infatti come poteva esservi una radura disboscata in un luogo deserto? Senza che qualcuno venisse tradito? «Dove vado a prenderli i soldi, amor mio?» disse Jules. «Sono ridotto a due dollari.» Nadine non disse niente. «Va bene, torno tra mezz'ora» disse Jules. Si spruzzò acqua sulla faccia nella piccola toletta maleodorante, con lo sgabuzzino per la doccia bagnato e gocciolante. Dappertutto c'erano resti di cimici, e alcune cimici che si muovevano pigramente. Quando uscì, Nadine si stava pettinando i capelli all'indietro dal viso, e gli sorrise. Averla con sé a viaggiare con lui, come se gli appartenesse... quale trionfo! Non si allontanava mai dalla portata del suo amore per lei. Esso lo se-
guiva ovunque. Veniva inspirato ed espirato dai suoi polmoni indolenziti, faceva sì che le gote incavate delle vecchie per la strada assumessero un aspetto incantato. Quel mattino, una tiepida mattinata di settembre, tutto sembrava nebulosamente incantevole, immerso in un bizzarro color oro, al contempo minaccioso e promettente. Davvero, pensò Jules, camminando in fretta lungo la strada, verso una vicina cittadina, davvero lui era una creatura incantata. Nadine si sarebbe destata un giorno all'amore che egli aveva per lei; riponeva fiducia nella sua intelligenza. Gli sembrava che fosse davvero straordinaria, e che l'intensità stessa della sua stranezza corrispondesse a qualcosa in lui, a un'impetuosità che non aveva mai valutato esattamente. Senza dubbio a loro due era riservato un destino particolare. I destini particolari erano di due specie, entrambe miracolose, ma l'uno conduceva alla ricchezza, al potere, alla notorietà, e l'altro portava a una morte improvvisa, a una gola squarciata dal coltello di uno sconosciuto, o a un cranio resistente portato via di netto a un centimetro dal cocuzzolo. Bisognava pagare una sorta di scotto per il proprio destino. Jules pensò. Jules Wendall è il mio destino, sapendo che non era stata Nadine a foggiarlo, ma lui stesso... poiché un altro uomo non si sarebbe innamorato di quella ragazza... soltanto lui, Jules, avrebbe potuto amarla così violentemente. Nadine alimentava i suoi sogni oziosi di arricchire, come se fosse stato egli stesso a suggerirle le parole. Sarebbe diventato ricco, lei ne era certa, come avrebbe potuto non riuscirci? «Perché ci sono tante persone stupide che io conosco e che sono ricche» gli diceva. E Jules, che era intelligente e aveva fortuna, non poteva fallire. Jules, segretamente, concordava con lei. Confidava in un automatico risalire la china, una volta che fosse arrivato proprio al fondo; ovviamente, non esisteva avvenire che non gli fosse aperto. Perché no? Si sarebbe stabilito nel sudovest e avrebbe cominciato in una zona in espansione... commesso viaggiatore, nelle assicurazioni, nella compra-vendita di immobili, nel petrolio? Con il suo aspetto e la sua intelligenza, pensava, perché non avrebbe dovuto guadagnare tanti quattrini quanti era riuscito a guadagnare lo zio Samson? Perché, cioè, non avrebbe dovuto incamminarsi sulla strada per diventare milionario? Il motel ove si erano fermati sembrava squallido alla luce del giorno, e lungo l'autostrada, ai piedi dell'argine rosso ed eroso, vari edifici avevano lo stesso aspetto. Jules scrutò l'orizzonte piatto e non riuscì a scorgere niente di promettente in nessun punto. Dov'era la bellezza che aveva aspettato? Si vedevano pini sparsi, ma sembravano anemici e di second'ordine. Gli olmi malati di Detroit non erano meno belli. Passò davanti a un campo
di bocce che sembrava chiuso. Sul viale d'accesso inghiaiato alcuni ragazzi si divertivano ad andare in bicicletta. Le loro grida eccitarono Jules. Non era stato bambino anche lui, e in campagna? Ma quella non era campagna. E non era nemmeno città. Grandi e rozzi squarci erano stati aperti nel terreno, forse i primi lavori del piazzale di un centro di acquisti... e c'erano alberi abbattuti, disseccati. E campi deserti. E una taverna dipinta di rosa. Le insegne al neon, spente, sembravano guaste nella luce del giorno. Mentre stava guardando la taverna, il sole spuntò, o bruciò un varco nella nebbia, e una improvvisa ondata di caldo lo investì. Si trovava davvero in un paese straniero; era un forestiero; non era necessario non capire la lingua. Sebbene ricordasse di lavarsi ogni sera, ansioso di non disgustare Nadine, il sole del sud gli faceva ugualmente dolere i pori a furia di sudare. Si sentiva sudicio quasi subito; non poteva far niente per mantenersi pulito. Nadine era schizzinosa per quanto concerneva se stessa, attenta a mantenersi puliti i capelli e il viso e il corpo, quanto si manteneva pulita dalla contaminazione dell'amore. Si lavava i capelli un giorno sì e uno no, quei capelli lunghi, folti e neri che egli amava, e li lasciava asciugare e li spazzolava, cogitabonda, accigliandosi, come una bambina per la quale le disgrazie del mondo si riducono a grovigli in una spazzola; qualcosa su cui lavorare con pazienza per districarlo. L'amava tanto! Amandola, solo in quella regione sconosciuta, camminava in preda a uno stordimento caldo e umido. Il sole gli accarezzava la schiena così come ingenuamente gliel'accarezzava Nadine. Era sicuro che ella lo amasse, ma che avesse paura di lui. Certo che doveva temerlo: troppo di lui l'aspettava, troppa violenza. Ma voleva darle il piacere che era accumulato in lui, per lei sola, avvolgerla nelle proprie braccia e consegnarla a un abbandono d'amore, perderla nell'amore. Il desiderio che provava per Nadine, e che lentamente lo faceva impazzire, era in parte il desiderio di piacerle e di fare di lei una creatura lievemente diversa, una giovane donna innamorata. Eppure, ella diceva, con autocompatimento: «Vuoi farmi del male», e Jules cercava di spiegarle che non le avrebbe mai fatto del male... tranne il fatto che, naturalmente, sarebbe stato costretto a causarle un po' di dolore. «Ma perché pensi soltanto a questo?» diceva lei, a disagio. «Non basta che siamo amici? Intimi amici? Non mi ami abbastanza in questo modo?» Mentre camminava, autocarri e automobili gli lanciavano addosso granelli di polvere. La polvere aderiva. Aveva già la camicia bagnata e stava appena entrando nella cittadina. Si sorprese a fissare una giovane contadina su un autocarro, al posto del passeggero, intenta a guardarlo. Ella lo
salutò con la mano. L'autocarro gli passò accanto rombante. Jules sentì una fitta di eccitazione e si domandò se la ragazza lo avesse scambiato per qualcuno che conosceva, o se il suo fosse stato soltanto un gesto amichevole, un indizio del fatto che egli era bello, amabile. L'affetto degli altri era come un amo conficcato in Jules. Si sentiva attratto avidamente da ogni parola cortese. E non sarebbe potuto accadere che Nadine, portata sempre e sempre più lontano, a sud, divenisse affettuosa e burrosa sotto le sue carezze, man mano che il ricordo di Detroit andava offuscandosi? Nel Texas, in una piccola cittadina, sarebbe divenuta la sua sposa, come le ragazze quattordicenni e quindicenni del sud divenivano spose, senza tante storie. Passò accanto a una lavanderia automatica. Una folata d'aria proveniente dall'interno per poco non lo soffocò... che calore! Alcune massaie, spensierate e chiacchierine, si trovavano nel negozio, ficcando biancheria negli sportelli o estraendola. Una ragazzetta accosciata sulla soglia sorrise a Jules: buon segno. Passò poi davanti a un supermarket. I carrelli per gli acquisti erano ammonticchiati all'esterno, contro l'edificio; se ne vedevano altri sparsi qua e là. Non appena fosse riuscito a procurarsi soldi, avrebbe comprato qualcosa in quel negozio, proprio in quello. Sembrava un posto sicuro. Proseguì, passando sempre all'ombra quando poteva, fasciandosi indietro automobili parcheggiate, gente che faceva gli acquisti, ragazzini. Vide un bar-farmacia, attraversò una strada e il suo sguardo fu attratto da una donna in pantaloni e blusa gialla che stava parlando con un poliziotto. Jules non riuscì a distogliere gli occhi da lei, dovette voltare la testa mentre le passava accanto, pur pensando che questo poteva essere pericoloso... in fin dei conti l'uomo era un agente. Quest'ultimo aveva una zazzera di capelli biondo-castani, molto ricciuti. Stava masticando gomma e non si accorse di Jules. L'eccitazione era penetrata d'impeto in Jules; nervoso, con gli occhi guizzanti, esitò davanti a un negozio di articoli sportivi e finse di interessarsi alle attrezzature per campeggiatori. Canne da pesca di fibra di vetro e metallo... stivaloni di gomma... reti... Gli sembravano prodigiose, tutte queste cose, impensabili, la loro virilità gli piaceva. Nel cristallo della vetrina poteva vedere, riflesse con chiarezza, le forme delle ragazze che passavano. Il sangue gli ribolliva di ambizioni per l'avvenire... avrebbe venduto pozzi petroliferi, sarebbe diventato architetto e avrebbe costruito palazzi, grattacieli spettacolari, sarebbe stato un uomo politico, un governatore, un senatore, avrebbe parlato alla televisione e nulla sarebbe stato al di fuori
delle sue possibilità... Giunse davanti a un negozio di sigari. Gli ricordò Detroit e pertanto entrò, perché gli piaceva l'odore maschile del tabacco e dei giornali. Le riviste esposte al pubblico attrassero il suo sguardo. Avrebbe dovuto proseguire, ma continuò a indugiare. Lo incuriosirono le copertine delle edizioni economiche. Il titolo di uno dei libri era Amore e lussuria; Jules lo sfogliò, sperando di trovarvi qualche consiglio, qualche consolazione. Su un'altra copertina si vedeva una ragazza dai capelli rossi scarmigliati che calpestava un uomo disteso e incatenato, un uomo la cui faccia somigliava alquanto alla sua. Che destino! Jules si spostò con riluttanza. Riviste in mostra, centinaia di copertine. Annali polizieschi... sulla copertina, una ragazza dall'attillata gonna rossa veniva trascinata su un tassì. "Il tassista di Memphis pazzo di lussuria" era uno dei titoli. Jules prese la rivista e la sfogliò nervosamente. Le pagine di carta ruvida non lo assecondavano con grazia. Lo sguardo gli cadde su un altro articolo: "Minorenne procace fustigata, violentata e assassinata a Boise". L'articolo era illustrato con parecchie fotografie di una ragazza di quattordici anni dalla faccia arrogante, con lunghi capelli biondi e una strana, demoniaca voluttà evidente sulla bocca, sulle labbra dischiuse. Sua madre ebbe una crisi isterica quando la polizia... Nessuno dei genitori era a conoscenza della sua vita segreta... Faceva l'autostop per godersela... Jules diede una scorsa all'articolo, cercando un paragrafo cruciale, ma non ebbe fortuna, e, quando cercò di voltar pagina, ne voltò troppe. La ragazza andò perduta per lui. Tremante, capitò su un altro articolo: "Il padre di mio figlio fu ucciso tra le mie braccia!". La fotografia di una roulotte infangata, una donna in pantaloni dalla faccia indistinta, e, in secondo piano, uomini che sembravano agenti statali. Un minuto dopo che mio figlio era stato concepito, il padre fu ucciso tra le mie braccia... il mio ex marito entrò e lo ammazzò, ficcandogli in corpo cinque pallottole! Jules diede una scorsa anche a questo articolo, sentendosi al contempo eccitato e disgustato. Scrutò le frasi che descrivevano il convegno della coppia, il ritorno dei due all'auto-campeggio, l'amplesso e, in ultimo, la raffica di pallottole, la fine. Poi, disgustato, rimise a posto la rivista. Gli girava la testa. Tutto intorno a lui c'erano fotografie di ragazze, sulle copertine delle riviste, sulle copertine dei libri, sulle cartoline messe in mostra, ragazze spogliate e non protette nemmeno dal tormento di Jules. Le fissò, sudando. Il proprietario del negozio si avvicinò e lui uscì. In istrada l'aria era soffocante. Il sole non si vedeva più. L'afa gravava
pesante su di lui, come se fosse satura dei respiri di troppe donne, di troppi uomini. Una ragazza sui vent'anni, passandogli accanto, lo scrutò in faccia con lo scoperto interessamento d'una campagnola ed egli si sentì immediatamente fiacco, come se lo avessero colpito. Pensò alle sue cosce entro la gonna attillata, alla bocca di lei aperta in un grido, fotografata. Proseguì, quasi cieco. Amava tanto Nadine... Davanti al capolinea dei torpedoni Greyhound una donna lo sfiorò, rimproverando il suo bambino, e lui sentì il pericolo delle donne come una mazzata tremenda e si scostò da lei. Erano una sorta di veleno, anche i contatti accidentali. Entrò nella stazione del capolinea. Pareti verniciate superficialmente in bianco. Una macchina automatica che distribuiva caramelle. Una macchina che distribuiva granturco soffiato. Finse di interessarsi ad esse, con circospezione, e si guardò attorno nella sala. C'erano bambini irrequieti. Un vecchio si chinò a sputare meticolosamente sul pavimento. Jules non osò guardare una sola delle donne, ma si limitò alle facce degli uomini, che gli parvero volgari. Ciò nonostante, la febbre saliva in lui. Piccoli grumi nel sangue, come spore di quelle piante primaverili che danno la febbre, forse di denti di leone, gli galleggiavano nelle vene, soffocandolo. Se solamente non avesse amato tanto quella ragazza! Vide un uomo con un misero vestito grigio dirigersi verso i gabinetti. Andò da quella parte ed entrò a sua volta. L'uomo era in piedi davanti a uno dei lavabi e si guardava malinconicamente nello specchio... era un giovane dall'aria di un vecchio, con la pelle simile a pergamena. Jules vide gli occhi di lui scattare sulla sua faccia nello specchio ancor prima di muoversi... lo afferrò per i capelli piuttosto lunghi e gli diede uno strattone all'indietro, piazzandogli una mano sulla bocca, poi cercò di battergli la testa contro il muro rivestito a piastrelle. Non vi riuscì. Agguantò allora l'uomo per la gola e questa volta riuscì a sbatterlo contro il muro. Lo sconosciuto cadde pesantemente. Jules gli infilò la mano sotto la giacca per impadronirsi del portafoglio, pensando, soltanto in quel momento, che era abbastanza inutile derubare un individuo vestito in quel modo; ma troppo tardi! Pochi momenti dopo si trovava di nuovo nella sala d'aspetto e stava uscendo. Il sudore gli si era tramutato in una pellicola di brina sul corpo. Al supermarket, come un giovane marito, comprò un sacchetto di patatine fritte, un po' di formaggio e di pane bianco, e qualche altra cosa, compreso lo shampo per la sposina, aspettando in fila con pazienza dietro le massaie. In quale altro posto si sarebbe potuto trovare al sicuro come in un
supermarket? Lo stordivano le gambe nude delle giovani mogli che girellavano con i carrelli... ma era fedele al suo amore, a Nadine, che si manteneva intatta e gli posava le mani di bambina sulla nuca e parlava con lui, bisbigliava con lui fino a notte alta. «Ora non mi capita più di restare sveglia e di piangere durante la notte» gli aveva detto, sorpresa. Dormiva mentre Jules rimaneva sveglio, non proprio piangendo, con gli occhi asciutti, ma molto pensieroso. Si trastullava con l'idea di gettarsi su di lei e di farla finita, scacciandola a calci e poi tagliandosi i polsi... ma non aveva altro che lei, in fin dei conti, con il suo egoismo e la sua purezza. Non avrebbe mai potuto farle del male. Alla cassa, guardò nel nuovo portafoglio, il portafoglio di uno sconosciuto; era un indizio della sua confusione il fatto che non si fosse dato la pena, fino a quel momento, di controllare quanto denaro avesse. Lo aspettava comunque una sorpresa piacevole: due banconote da venti dollari, chissà di chi, denaro sufficiente per un po' di tempo. Era salvo. Pagò il conto con una banconota da venti dollari e si sentì alquanto fiero di se stesso. «Eccole i bollini» disse la cassiera, porgendogli alcuni bollini-sconto; e Jules, galante, si voltò verso la signora che aspettava in coda dietro di lui e glieli offrì. Ella sorrise stupita, ringraziandolo. Quando tornò al villino, Nadine aveva lasciato la porta aperta e lo stava aspettando. «Incominciavo a preoccuparmi per te» gli disse. «Hai comprato lo shampo?» «Ogni genere di cose.» Sorrise a fatica, ma non evitò l'abbraccio di lei. Tornando, aveva gettato via il portafoglio, ma senza dubbio era in pericolo. «Se ripartissimo» disse. «Non appena mi sarò lavata i capelli.» «Sarebbe una buona idea se partissimo subito.» «Jules, per favore...» Nella toletta, si chinò sul lavabo, con un asciugamano sulle spalle, e Jules stesso le lavò i capelli. Aveva bei capelli folti e gli piacevano anche le ciocche bagnate che si separavano dalle altre, avvolgendoglisi intorno alle dita insaponate. Arrivarono a Beaumont, nel Texas, sospinti, si sarebbe detto, da ondate di calura sull'autostrada. Jules aveva sempre una sensazione bruciante negli occhi... troppe estensioni di terra, troppa luce solare, il tutto mescolato con i vacillamenti della sua mente. Quei numerosi giorni trascorsi con Na-
dine avevano fatto si che cominciasse a parlare come lei, a foggiare la bocca come la sua. Forse la lieve sensazione delirante che provava era isterismo femminile, inevitabile. Come avrebbe potuto impedire a se stesso di trasformarsi in lei? Nadine gli si rannicchiò contro nonostante la calura, bisognosa d'affetto, di premure. Disse con petulanza: «Qualcosa sembra sempre strapparmi dentro, lacerarmi. Non so che cosa voglio». Lo stava invitando a risponderle, e lui le rispose, sebbene fosse pervaso da una sconfinata disperazione, sebbene sapesse quanto fosse futile parlarle. «Forse hai bisogno di amore?» E lei disse: «Ma poi? Che cosa succede dopo? Non succede qualcosa, dopo?». Avevano viaggiato per ore. Scendendo nel Golfo del Messico, il capriccio di Nadine, rimasero un po' delusi dalla regione piatta, tetra e dalle lunghe estensioni di campi petroliferi... torri di trivellazione in rettangoli recintati di terra arida, con qualche mucca isolata che pascolava nei pressi... e poi vi fu la sorpresa di un fitto bosco. Beaumont si trovava sul fiume Neches, un fiume che non impressionò Jules. Non lo aveva mai sentito nominare prima di allora. A est v'erano il fiume Sabine e la Louisiana; fu come se gli avessero dato uno strattone alla fantasia, anelò a vedere le città che si celavano dietro nomi come Sulphur e Creole. Ma la carta geografica lo aveva già deluso abbastanza; le pieghe che andavano lacerandosi in essa erano come le cuciture disintegrate della sua mente. «Se non hai bisogno d'amore, perché sei venuta sin qui con me?» domandò. Ella continuava a dar prova di una curiosa aspettativa infantile, mentre Jules faceva fatica soltanto a restare sveglio; già si aspettava una sorpresa nella cittadina ove stavano per giungere e cercava con lo sguardo i monumenti storici o le dimore che avevano un aspetto storico. Eppure, non si presero mai la briga di scendere dall'automobile. Passando, osservarono quello che si offriva al loro sguardo, e rimasero sempre vagamente delusi; Nadine trovò quasi ogni cosa deludente. Jules era contento perché la polizia non li aveva ancora scoperti. «Dovresti fare una cosa, tesoro,» seguitava a proporle «telefonare ai tuoi genitori e dir loro che ti trovi in California. Dire che stai bene di salute, sei felice e ti trovi in California.» «Non posso più parlare con loro.» «Ma certo che puoi. Per il mio bene.»
«Non posso nemmeno pensare a loro.» Lo stupì constatare con quale frigida noncuranza ella li ignorava tutti... davvero, non pensava mai ai suoi familiari, se non come personaggi nel lungo monologo della propria vita. Era mai possibile dimenticare così facilmente le persone? si domandava Jules. Oppure ella tardava a risentire le conseguenze delle sue azioni? Lo raggelava pensare che quella ragazza tanto giovane, figlia di persone benestanti, soave e delicata e bene educata, potesse essere così superficiale. Quanto più egli si allontanava dalla propria miserabile famiglia, tanto più immediata essa gli sembrava. Anche in viaggio come si trovava adesso, senza essere manifestamente il figlio o il fratello di qualcuno, si sentiva appesantito dai guai dei suoi. Continuava a sentirsi responsabile nei loro riguardi. «Ala se tu mi amassi...» diceva Jules stancamente, sull'automobile, in una tavola calda, o a letto, e Nadine ripeteva a volte, stancamente: «Ma io ti amo. Che cosa vuoi dire? Perché continui a ripetere questo?». Davvero non riusciva a capire. A volle diceva, in tono esasperato, come se stesse sforzandosi di farsi capire da qualcuno che parlava un'altra lingua: «Parli tanto d'amore! Non so che cosa tu voglia dire... perché continui ad assillarmi? Perché sempre l'amore, l'amore, l'amore? Non ho mai conosciuto nessuno che parlasse tanto d'amore, a parte i personaggi dei libri». Beaumont, nel Texas. Niente montagne, niente bellezze. Jules era stufo del Texas. La città era più grande di quanto avesse sperato e già piena, alla periferia, di centri d'acquisti e cinematografi all'aperto. Il paesaggio da Detroit a Beaumont era simile nelle città e nelle campagne... in campagna fossati di drenaggio e terra che andava dal marrone scuro nel nord al quasi rosso rugginoso nel sud; nei centri abitati, campi di golf in miniatura e file di case nuove a basso costo, tutte in stile coloniale americano, tutte coloniali, coloniali con fiancate di alluminio, acri e pendii di colline tappezzati da case coloniali, la lontananza riempita da, splendenti nuove case coloniali. Da tutto questo viaggiare, Jules voleva per lo meno riuscire a estrarre una sorta di personalità per quanto lo concerneva, la personalità di un giovane innamorato, o di un criminale nato, o di un milionario nella prima fase della sua "carriera"; tutte quelle estensioni di territorio dovevano pur condurre a qualcosa! Quando arrivarono a Beaumont, Jules disse: «Questo è il termine, per oggi». «Non possiamo proseguire fino al Golfo?» «Non c'è niente là, sul Golfo. Niente da vedere. Guarda la carta e vedi
che cosa c'è. Io non ce la faccio più a guidare, oggi.» L'aria a Beaumont puzzava; dovevano essere i gas delle raffinerie; una brezza ti faceva sentire nella bocca un sapore lievemente nauseabondo, un'altra portava un sapore lievemente acre. Nadine fiutava, con la sua ingenuità, e continuava a guardarsi attorno interdetta. Jules, il quale aveva abitato a lungo a Detroit, sapeva che non ci sarebbe stato niente da vedere. L'indicatore del livello della benzina segnava zero. Ma non erano ancora del tutto all'asciutto. Jules si crucciava perché sentiva di essere come la benzina nel serbatoio dell'automobile. Lui, lui stesso era la benzina. Doveva continuare a farli andare; e si stava esaurendo; aveva bisogno di un rifornimento. Che cosa gli succedeva? Rise e baciò l'orecchio di Nadine. «Trova un posticino, tesoro, in modo che possiamo dormire un po'. Sono proprio sfinito.» Stavano passando accanto a palmizi giganteschi. I cespugli di rose erano ancora in fiore. Un'umidità greve, simile a una ragnatela, pesava su ogni cosa. I palmizi avevano tronchi troppo spessi, erano troppo grandi. Un certo che nel loro tozzo spessore faceva bruciare gli occhi a Jules. Anche l'aspetto delle case di legno verniciate di bianco e delle baracche lavate dalla pioggia lo sorprendeva e lo induceva a domandarsi fino a che punto tutto ciò fosse reale. Il Texas? Si trovavano davvero nel Texas? Rimase bloccato dietro un autobus sudicio, un autobus cittadino. Nella strada c'erano buche... dapprima dondolava l'autobus, poi dondolava Jules. Nadine si guardava attorno meravigliata. «È questo il Texas?» domandò. La strada divenne a un tratto di terra battuta. Si suddivise e una delle due diramazioni parve condurre a quello che doveva essere il deposito dei rifiuti della città. Jules seguì l'autobus lungo l'altra diramazione. Il puzzo di gas divenne più intenso. Una frotta di bambini negri sfrecciò attraverso la strada davanti all'automobile; al margine della strada apparvero baracche di legno e di cartone catramato. Galline beccavano il terreno, un cane scheletrico fissava luttuosamente Jules con occhi che sembravano quelli di Jules. «Ora sta incominciando a piovigginare» disse Nadine. «Questo è un posto in cui si può morire.» Scelse un motel quando ritrovarono l'autostrada... un motel identico a quelli che avevano sempre veduto, fatto di cemento verniciato in rosa, con insegne al neon e poche sdraie sparse davanti alla facciata. Jules notò subito, con i suoi occhi essiccati, con la sua mente essiccata, che non distava molto da un quartiere residenziale di comuni case e di alcuni negozi.
Prese una stanza, senza esitare a firmare il registro con il proprio nome, lieto di trascrivere il numero di targa della sua automobile. Non era un criminale, no davvero. Non aveva niente da nascondere. Ciò nonostante, mentre firmava fu sopraffatto da un'immensa stanchezza e quando tornò da Nadine la terra gli parve precaria sotto i piedi. Ella era ancora sulla macchina. «Sembra lo stesso posto nel quale abbiamo trascorso l'ultima notte» disse lei. «Non fa niente. Abbiamo bisogno di riposo tutti e due.» «Io non voglio riposare.» «Che cosa vuoi fare?» «Non lo so. Perché è così presto? Sono le cinque e mezzo e già vuoi fermarti a trascorrere la notte. Non capisco.» Jules aprì la portiera dell'automobile e Nadine discese adagio. Si abbracciarono. Sebbene fosse ancora pieno giorno e l'autostrada non lontana fosse percorsa dal traffico, ella non gli oppose resistenza. Era inerte e astratta. «Sembri così stanco» disse. «Sai, ti amo davvero. Ti amo perché mi hai portata sin qui.» Jules aprì con la chiave la porta della camera. Quest'ultima era buia, umida. Vi si sentiva un forte odore di insetticida. Egli accese la luce e un rapido movimento in un angolo attrasse la sua attenzione... uno scarafaggio... ma per fortuna Nadine non lo aveva veduto. Lei provò il letto con un ginocchio. «Perché c'è tanta umidità, qui dentro? Puzza d'umido, questa stanza.» «Non è male.» Sedette tremante sulla sponda del letto. Si sforzò di sorridere a Nadine. Si era aspettato che ella crollasse e invece non aveva mai vacillato, non aveva tradito nulla... quale trionfo sui nervi! Ora sembrava che fosse lui, Jules, a crollare. Sentiva qualcosa muoverglisi dolorosamente negli intestini. Persino la sua concupiscenza, in quel pomeriggio afoso e piovigginoso, era divenuta debole. Nadine gli si inginocchiò accanto e lo allacciò con le braccia. Le piaceva baciargli gli occhi... immetteva nella cosa la stessa aspettativa vaga e compiaciuta di cui dava prova in automobile, aspettandosi un nuovo paesaggio. Era un modo di spostarsi con successo attraverso il tempo. Vedendo il suo viso giovane, i suoi occhi sognanti, Jules pensò a Annali polizieschi e si domandò se potesse esservi qualcuno per il quale Nadine non sarebbe stata altro che un lampeggiare di braccia e di gambe, un grido soffocato, un corpo frenetico, insignificante. Lei gli stava parlando allegramente di qualco-
sa; le sue parole lo lambivano, ma prive di ogni significato. Jules sentiva di avere il corpo sudato, i vestiti putridi sul corpo sudicio. «Abbiamo i soldi per qualcosa da mangiare?» domandò Nadine. Il pensiero del cibo nauseò Jules, che però non lo diede a vedere. Si lavò nella piccola toletta e uscì di nuovo, e si incamminò lungo la strada. Ecco Jules nel Texas, pensò. No, non avevano soldi, ma questo non era un problema per Nadine; era un problema che doveva risolvere lui. Come un cane, si sentiva attratto dai vicoli e dagli angoli. Gli doleva la pancia, ma agiva spinto dall'abitudine. I movimenti meccanici sembravano magici a Jules, e pertanto benedetti, quasi invisibili... non si poteva essere colti sul fatto facendo qualcosa per la decima volta... senza dubbio lui non sarebbe mai stato colto sul fatto. Sorrise, pensando a Jules, il criminale nato, un giovanotto invisibile, mai catturato. La polizia ha assicurato che le rapine erano state commesse da una banda numerosa... Si trovava in un quartiere bianco, ma sembrava miserabile: non c'era niente che valesse la pena di rubare. Pertanto proseguì, attraversò una serie di binari ferroviari e venne a trovarsi in un quartiere migliore, costruito su terreno spugnoso, paludoso, costituito da case di mattoni in stile colonico, con strette finestre orizzontali alte dal suolo. Una massaia in grembiule verde attraversò il prato a piedi nudi per andare a prendere un giornale piegato. Quella vista piacque a Jules... era così comune e razionale. Mentre camminava lì, solo, sia pure nei vestiti impregnati di sudore, era vicino allo svolgersi segreto delle cose, al modo come viveva la gente quando non era osservata. In lui non esisteva nulla di segreto: non aveva una vita normale, ragionevole. Passò davanti a una casa con le veneziane abbassate e la veranda disseminata di giornali - una tentazione - ma nella casa accanto un cane stava latrando. Jules proseguì in fretta, pensando a Nadine, alle sue braccia, al suo bel viso, all'aspetto lievemente umido delle palpebre di lei, domandandosi come potesse essere accaduto che egli fosse innamorato e trascinato così in basso dall'amore, quando nulla lo legava a Nadine o a chiunque altro. Bastava che continuasse a camminare per essere libero... Un'altra massaia, larga di vita, ma dai movimenti agili, attraversò frettolosamente un altro prato per andare a bussare alla porta della casa vicina; gridò un nome, qualcuno aprì la porta ed ella entrò. Questa sembrava essere l'occasione buona; i capelli sulla nuca di Jules si drizzarono. L'istinto lo guidò verso la casa. Le sue gambe risalirono il vialetto d'accesso senza alcuna esitazione. Lì non poteva sbagliare. Era al sicuro. Andò senz'altro alla porta, finse di suonare il campanello e, un momento dopo, per trarre in ingan-
no chiunque potesse osservarlo, finse di salutare qualcuno mentre apriva la porta. Una volta entrato, non ebbe tempo da perdere: subito in cucina. La casa era fresca, con l'aria condizionata, e sapeva di insetticida. Attraversò rapidamente un salotto, una sala da pranzo, ed entrò nella cucina. In una stanza vicina c'era un televisore acceso, dinanzi al quale si trovavano forse dei bambini. Ma lui non aveva paura di loro e, un secondo dopo che era entrato in cucina, i suoi occhi scorsero quello che cercavano... una borsetta. Andò ad aprirla, muovendosi silenziosamente, senza paura. Ne tolse il borsellino e se lo mise in tasca. Una porta aperta lo attrasse: una camera da letto, il letto rifatto alla meglio, la sua immagine riflessa con aria colpevole nello specchio del cassettone. Impulsivamente, si distese sul letto, i piedi l'uno accanto all'altro. Sorrise. Sicché, ecco quello che si provava. Quando fu uscito dalla casa, pochi minuti dopo, si sentì sconvolto e madido di sudore. Contò i soldi nel borsellino... più di cinquanta dollari. Ma il denaro non lo fece star meglio. Sudava ancora. Si diresse verso il motel, tornando sui propri passi. Aveva un certo istinto primitivo per quanto concerneva l'orientamento e non sbagliava mai. Di nuovo al di là dei binari ferroviari e nel quartiere più povero, sulla strada giusta, nervoso ma senza fretta, un giovincello che poteva abitare da quelle parti. Un ragazzo del posto. Oppresso dalla calura del Texas. I capelli gli erano cresciuti di nuovo e gli davano un'aria paesana, sonnacchiosa. Sembrava innocuo. Entrò in un negozietto di commestibili. Conosceva già i gusti di Nadine; voleva soltanto farla contenta. Vicino al banco si trovavano due poliziotti bianchi e un uomo di colore, che conversavano con esplosioni di vocali strascicate e di esclamazioni stupite. Uno di loro si piegò quasi in due, ridendo. Fu inquietante per Jules veder ridere un poliziotto, così come lo infastidiva un tempo veder ridere sgangheratamente un sacerdote. Comprò un po' di latte, un pezzo di formaggio, del pane, una scatola di cioccolatini per Nadine. I poliziotti non se n'erano ancora andati e lui girò alla larga portandosi in fondo al negozio, sentendo che le viscere incominciavano a torcerglisi di dolore e aspettando che se ne andassero. Il dolore non era più di quanto potesse sopportare e cercò di evitare che gli si leggesse in faccia quello che sentiva. Una donna bianca in pantaloni si voltò a sbirciarlo dalla cassa, sorvegliando il cliente, ma al contempo enormemente divertita dai poliziotti e dal negro, dalla loro conversazione esilarante, e Jules sentì che doveva avvicinarsi, pagare quanto aveva acquistato, e tagliare la corda. Dovette andare là, proprio accanto ai poliziotti. Il dolore al ventre divenne
tagliente e lancinante. «Ehi,» disse uno dei poliziotti, voltandosi verso Jules, «lei non crederebbe mai a quello che ci sta dicendo questo ragazzo!» Jules non batté palpebra. Il poliziotto non sembrava più avanti negli anni di lui; stava scuotendo la testa, incredulo. Tutti e due i poliziotti sogghignavano. Il negro, che poteva avere tanto quarant'anni quanto sessanta, crollava a sua volta il capo fingendosi attonito, sforzandosi di conseguire un effetto comico, protestando con una voce acuta e raschiante, simile a quelle che Jules aveva udito spesso per le vie di Detroit. «Non ho mai raccontato bugie, io! Cosa credete? E non incomincerò certo adesso!» Tutto questo non aveva alcun senso per Jules, era come una musica della quale non avesse udito l'inizio e che non lo interessasse affatto; sorrise loro inespressivo e posò i pacchi sul banco. La donna ridacchiò e guardò oltre Jules, aspettando dell'altro. «Questo ragazzo è un minchione,» disse il poliziotto a Jules, battendogli la mano sul braccio, «non andrà più in là di quest'anno!» V'era una sorta di benevolo e gioviale fraternizzare, tra i poliziotti e il negro e Jules, una specie di danza; ma Jules non poteva danzare; il corpo gli doleva a tal punto che temeva di afflosciarsi tra le braccia del poliziotto. «Guardi un po' che cosa gli ha combinato sua moglie! Lei si lascerà mai trattare in questo modo da sua moglie?» disse a Jules il poliziotto, inarcando in modo drammatico le sopracciglia. Jules guardò educatamente il negro. Vide che aveva la faccia sfregiata... stranamente sfregiata, a chiazze lunghe e spesse, simili a grosse gocce, La pelle di una parte di quella faccia era ispessita come la pelle di un alligatore. Jules spalancò gli occhi. Non vide niente di buffo. Il negro trattenne la risata per un momento, poi si arrese a un'ilarità sorpresa, da soprano, come se non potesse resistere a una situazione così esilarante: lui stesso, e quei due poliziotti che attribuivano tanta importanza alla sua faccia, e per giunta Jules, un nuovo venuto, ovviamente desideroso di sapere tutto. «Che cosa gli è successo alla faccia?» domandò Jules. «Sua moglie si è stancata che lui corresse la cavallina» spiegò il poliziotto, sempre agguantandolo, come per aiutarlo a trattenere le risate, «e ha messo a bollire sulla stufa un bel pentolone pieno d'acqua, e ci ha versato un po' di zucchero - zucchero, capisce? - e quando lui è tornato a casa non ha perduto tempo per domandargli dove sei stato, né niente... nossignore, si è limitata a rovesciargli addosso tutta quell'acqua... non è la cosa più pazzesca che abbia mai sentito?» «Perché ha fatto questo?» domandò Jules, sforzandosi di sorridere. «Vo-
glio dire, perché lo zucchero?» «Lascia che lo dica lui» si intromise l'altro poliziotto, e guardarono tutti il negro. Costui scosse la testa con aria meravigliata. «Ci ha messo lo zucchero perché si appiccica addosso, figliolo... l'acqua non si appiccica, scorre via. Ma lo zucchero è appiccicoso, figliolo, farà bene a ricordarsene!» Il poliziotto scoppiò in una risata rauca, e Jules riuscì a ridere affannosamente, per dimostrare che partecipava alla loro allegria. Approfittò del buon umore generale per spingere i pacchi verso la cassiera. Gesù, sarebbe mai uscito da quella topaia? «Lo zucchero è appiccicoso!» gridò uno dei poliziotti, sopraffatto dall'ilarità. Le risate lo seguirono sulla strada. Doveva assolutamente andare al gabinetto, adesso, e questo bastò a catturare la sua immaginazione. Dimenticò i poliziotti. I loro scoppi di risate si assottigliarono, poi ricominciarono a imperversare... c'era davvero tanto da ridere, a questo mondo! Non riusciva a ricordare di aver mai riso di cuore; prigioniero in un corpo come il suo, un corpo ardente di sofferenza, come era possibile ridere? Rientrò nella camera del motel, mise i pacchi sul letto, e andò immediatamente nella toletta. La porta non si chiudeva del tutto, non saldamente. Disperato, le diede un urtone, ma continuò a non chiudersi. Aveva portato con sé l'immagine di Nadine, Nadine nell'altra stanza... sorpresa quando lui le era passato accanto dicendole, «Devo andare là dentro», allarmata dall'aspetto della sua faccia, senza più giudicarlo bello. In quel miserabile stanzino gemette di dolore e tentò di liberarsi della sozzura che si era formata in lui, ma non ci riuscì... non accadde niente. Premette la fronte contro il legno incurvato della porta della toletta e si mise a piangere. Dopo un po' uscì tremando. «Credo di avere l'influenza» disse. «Ti senti male?» «L'influenza.» Ella distolse lo sguardo da lui. Il filoncino di pane era tagliato, sul comodino. «Sa di spray contro gli insetti, quel pane. Non riesco a mangiarlo.» «Mi dispiace.» Jules era troppo debole per parlare. Si distese sul letto. Nadine disse, mentre un senso di compassione si agitava in lei: «Posso tirarti sui i guanciali». «Non rimarrò malato a lungo.» «C'è qualcosa che potrei fare per te?»
«Forse potresti andare a prendermi un po'... un po' di aspirina, al barfarmacia.» «Dov'è il bar-farmacia?» Jules aveva cominciato a tremare violentemente. Si infilò sotto le coperte, con gli occhi chiusi. Doveva fare uno sforzo tremendo per non gemere forte. «Dovrei chiamare un dottore?» domandò Nadine, spaventata. «È soltanto influenza.» «Hai l'aria di star così male.» Il dolore divenne tanto forte che lui aprì gli occhi, spaventato. Poi, gettate indietro le coperte, incespicò di nuovo verso la toletta. La diarrea parve scottarlo. Scosso, sconvolto dal fetore dei suoi stessi intestini, prese a dondolarsi avanti e indietro sulla tazza del gabinetto e premette il palmo delle mani contro le orecchie. Cosa aveva voluto da quella ragazza nell'altra stanza? Cosa cercavano di avere, gli esseri umani, gli uni dagli altri? Non riusciva a pensare ad altro che alla propria sozzura. Quando tornò a letto, Nadine era in piedi sulla soglia della camera del motel, come sul punto di andarsene. «Jules, ti prego, lascia che vada a chiamare un medico. Ti prego.» Lui si distese, sentendosi debolissimo. Non la udì affatto. «Come è successo?» domandò Nadine. «Sono germi, o che altro? È nell'aria?» Non capiva il senso delle parole, ma era grato ugualmente che venissero pronunciate; riempivano lo spazio tra lui e Nadine. Il tempo passò. Voleva dormire. Nadine sedette sulla sponda del letto e gli prese le mani, gli massaggiò le mani. Gli frizionò le dita, guardandolo malinconicamente in faccia. «Oh, ti amo, Jules, guarisci, per favore. Ho paura. Non sopporto che tu sia malato.» «Domani starò meglio.» Ma la notte fu terribile. Continuò ad alzarsi barcollando per andare alla toletta, stupito e terrorizzato dal fatto che non riusciva più a dominare il proprio corpo, piegato in due per il dolore, rabbrividendo. Non aveva mai avuto tanto freddo. «Ma non fa freddo. Fa caldo, qui dentro. Fa un caldo bestiale» diceva Nadine, ma lui continuava ad aver freddo, a tremare di freddo. Si domandò se sarebbe potuto morire. Era una fine immaginabile. Verso il mattino, Nadine si addormentò sulla sedia accanto al letto. Jules le fu grato per questo... voleva restar solo con la sua afflizione. Se ne vergo-
gnava. Al mattino Nadine uscì per andare a comprargli qualcosa. Jules ne approfittò per togliersi di dosso il vestito sudicio e lasciarlo cadere sul pavimento. Si rimise a letto in mutandine e canottiera. Anche questo era vergognoso e fu pervaso dal terrore frenetico, irrazionale, che Nadine lo odiasse, che odiasse il suo corpo. Si tirò le coperte intorno alla faccia. Si odiò. Jules morente. Ricordava vagamente, come a brandelli, la sua ossessione per Nadine, ma non riusciva a ricordare che cosa fosse l'amore di per sé. Aveva il corpo percorso da continui brividi. La ripugnanza che il suo corpo provava per se stesso gli paralizzava la spina dorsale. Nadine tornò, gli diede alcune pillole da prendere, chiacchierò con lui. Lui ricominciò a rabbrividire, gli battevano i denti. Nadine gridò, in preda alla disperazione: «Che cosa ti sta succedendo? Che cos'hai». Gli premette la faccia sul cocuzzolo della testa. «Non morire, non lasciarmi!» disse. «Non morirò.» Jules si sforzò di ridere. Poi accadde qualcosa... dovette delirare. Si sentì scottare, e dopo qualche tempo i denti ricominciarono a battergli. Nadine, avvicinandosi ed emergendo da una nebbia, si chinò su di lui e lo fissò con gli occhi sbarrati. «Jules, ti sanguinano i denti, le gengive. Perché hai sangue intorno alle gengive?» Si domandò se quelle parole fossero reali o facessero parte di un sogno. Si asciugò le gengive e, sì, aveva sangue sulla mano, ma anche la sua mano gli sembrava irreale. Nelle vene, gli si stavano espandendo frammenti minuscoli di graniglia. La febbre saliva. Alai il desiderio di Nadine gli aveva incendiato il sangue come glielo incendiava l'influenza, alimentando il fuoco sempre e sempre più, portandolo a una temperatura sempre più alta, finché il suo cervello parve galleggiare senza peso, libero dal corpo sudicio, anelando ad essere libero dal corpo... che era diventato un pozzo nero... un pozzo nero in una cella sotterranea, corrotto da cattivi odori, da melma... un improvviso, ardente fluire intorno alle sue cosce fu come un miracolo, uno sfogo della sofferenza. La sozzura del suo corpo era adesso fuori di lui, un miracolo. Giacque nel proprio fetore e si domandò se quello fosse un segno di speranza. Perdette i sensi. Sognò. I suoi sogni vennero disturbati dalla luce. Si destò e trovò il letto bagnato, escrementi nel letto e, in preda al terrore, tentò di alzarsi. Era troppo debole. Aveva il corpo debole ma non ancora del tutto svuotato. Una nuova tempesta di dolore si andava formando in lui. Gemette forte, paralizzato da una spirale di dolori brucianti e pensò al ne-
gro sulla cui testa era stato rovesciato un pentolone d'acqua bollente contenente zucchero, per far sì che aderisse e scottasse. Quanto dolore poteva sopportare un uomo prima di cessare di essere tale? Quando rientrò in sé, a una certa ora imprecisata, con la mente libera dalla febbre e il corpo stranamente infiacchito, era solo. Dapprima lo intuì, poi lo constatò. Nadine non c'era. La chiamò. Nessuna risposta. Dopo qualche tempo si trascinò giù dal letto insozzato e guardò fuori della porta. Non vide Nadine e non vide l'automobile. Ella lo aveva abbandonato nel sud-est del Texas e questa gli parve la fine della storia di Jules e Nadine. 7 Una persona, una ragazza, immagina che lo specchio non le mostrerà alcuna immagine riflessa. Per conseguenza non osa guardare. Il suo corpo è pervaso dalla sensazione disperata di essere diventato un peso, una massa; è stato troppo amato, troppo sfruttato e consumato. È infiacchito da mesi di sonno. Non ha alcuna immagine riflessa, alcun volto. È un corpo decapitato. Il soffitto è disposto in un certo modo. Non si solleva né si abbassa. La carta da parati è incollata ai muri, spessore su spessore. Vi si formano riccioli. Alcuni pezzi sono sul punto di cadere. Se la ragazza si consentirà di pensare alla carta da parati, le verrà nausea. È già abbastanza essere un peso morto, sudato nel letto. Qualcuno si mette a sedere e le parla: sua madre. Chiacchiere, chiacchiere... tutte le parole sono urli... come di uccelletti maligni. Gli uccelli ciangottano a volte fuori della finestra, ma rimangono invisibili. Lei non può voltare al testa fino a quel punto. Non si fida delle finestre... guardare attraverso i vetri la spaventa. Qualcun altro si mette a sedere e parla. Un uomo. Legge giornali. Il fruscio dei giornali, il loro particolare odore, la sensazione fluttuante, colma di panico, di cose che accadono fuori della stanza. Meglio non ascoltare. Ella non ascolta. Il televisore è acceso nell'altra stanza. Suoni soffocati, un rigonfiarsi di risaie. Risate? Sua madre sta svolgendo un pezzo di carta color arancione. «Non riesco a capire come funziona questo maledetto frullino!» dice. Ha l'acquolina in bocca. È affamata, affamata. Una fame terribile scaturisce in lei. Il cibo è qualcosa che deve riempire tutto il suo corpo e mantenerlo pesante e tranquillo. Poi segue il sonno. Il televisore indietreggia. I
pianti del bambino indietreggiano. Suo zio, Brock, seduto sulla poltrona, legge a voce alta i fumetti e la sua voce indietreggia. Un dolcetto, un biscottino allo zenzero, fuori della scatola. Cade sul pavimento. Lei aspetta, pensando al biscotto sul pavimento, invisibile. Le viene l'acquolina in bocca. Infine si sporge, grugnendo, per raccattarlo. Lo raccatta. Lo mangia rapidamente. Il sapore scialbo, blando, del biscotto allo zenzero raffermo la desta. Ha l'acquolina in bocca e ne vuole ancora. Non pensa, ma di tanto in tanto parole si formano in lei, contro la sua volontà. Che cosa sta facendo adesso l'altra Maureen? Raccoglie in alto i capelli sopra il capo, in trecce folte simili a serpenti, gli occhi chiusi, le dita molto aggraziate... Oh sgualdrinella... andare in giro con quella negra schifosa, questo non lo sopporto... vattene di qui... chiamerò la polizia perché ti prenda a calci... questa non è una casa di tolleranza negra dove tu possa nasconderti... torna sulla strada... va' all'inferno... sudicio piccolo avanzo di galera... muso di cavallo! Loretta sta urlando. Betty le passa accanto di corsa ed entra nella camera di Maureen, in blue-jeans. Ehi, Reeny! Liberami da questa vecchia megera! Svegliati dal letargo! Non sei affatto malata, e lo sai! Loretta cerca di trascinare via Betty. Sì che è malata... Be', allora l'hai fatta ammalare tu con le tue balle! Loretta schiaffeggia Betty. Betty vibra colpi con le braccia e scaraventa Loretta all'indietro. Loretta urla. Betty urla qualcosa a sua volta ed esce di corsa dalla stanza. Altri urli. Loretta se ne va. Loretta sta urlando. Farsi vedere in giro con una negra... Me ne frego se è maschio o femmina... finirai diritta all'inferno! Brock legge i fumetti. Rex Morgan, Gasoline Alley, Brenda Starr. Fa vedere a Maureen la pagina dei fumetti, ma lei non la guarda. E nemmeno distoglie lo sguardo. Brock dice: «Tua madre è andata all'A & P. È arrivata una sorpresa con la posta. Vuoi sentire di che si tratta?». Maureen tace, giace gelida e greve sotto le coperte, senza aspettare. A volte guarda Brock, a volte no. Quest'uomo è suo zio. Non sa bene di quale zio si tratti. La sua faccia, la sua voce annaspante, le frequenti vibrazioni del letto quando lui passa, le ricordano qualcosa, qualcuno. Non insegue il ricordo. Cocciuta, greve di sonno, giace camuffata in un corpo che non è il suo e aspetta senza aspettare niente.
Brock apre una lettera: 14 dicembre 1956 «Care Ma' e Maureen, «come vedete, mi trovo qui a Houston, nel Texas! Scriverò ancora quando ne avrò il tempo. Non crucciatevi per me, perché me la sto cavando OK. Il secondo giorno che cercavo lavoro ho trovato un posto in una agenzia immobiliare sul Golfo. Qui accluso c'è un opuscolo che spiega la nostra attività, con fotografie eccetera. Diventerò un rappresentante e andrò a visitare i clienti non appena avrò fatto pratica. Devo comprarmi un vestito. Come stanno tutti quanti? Spero bene. Penso spesso a voi tutte. Sto molto bene, adesso che sta cominciando l'inverno. Il caldo mi abbatteva; mi faceva proprio male. Nel Texas l'inverno non comincia fino a dicembre, dove sono io nel Texas, voglio dire. Lo Stato è molto vasto, dovreste guardarlo qualche volta sulla carta. Le cimici sono ormai scomparse, o morte o nascoste. Io esco senza cappotto, anche se è dicembre, ma resisto molto meglio al freddo che al caldo. Per me va tutto bene. Penso a voi. Portate Maureen da un bravo medico, curatela. Vi manderò soldi quando potrò. Mi dispiace di non avere scritto per tanto tempo. Affettuosamente, «Jules». Sua madre sta togliendo la lettera dalle mani di Brock, molto sorpresa. Cosa, da Jules! Una lettera da Jules! grida. Apre un opuscolo. Ehi, sembra una cosa importante, dice in tono di timore reverenziale. Brock, con la sua faccia pelosa e il corpo goffo, che ha sempre la lieve aria di volersi scusare, lo esamina insieme a lei. Rifugio Paradiso del Triangolo d'Oro. Lotti di terreno ancora disponibili sul golfo. Loretta legge l'opuscolo a Maureen che giace senza guardarla, senza ascoltare. Eppure, ode qualcosa. Isola la propria mente da ciò che si cela dietro le parole: Golfo del Messico? Texas? Suo fratello Jules? Non vuole pensare a queste cose. Non vuole soffrire. Ora viene esortata ad alzarsi dal letto. «Su, avanti, tesoro, così va bene» dice sua madre. Ha dimenticato come si infilano le braccia nelle maniche. Devono insegnarle come si fa... sua madre e un'altra donna. Una donna dai capelli corti, tinti di rosso, un'amica. Lei e Loretta hanno la stessa statura. «Tesoro,» dice Loretta «te la stai cavando proprio bene. Non se la sta ca-
vando benissimo? Non aver paura. Sta' attenta alle mie violette africane, là...» Brock è seduto in cucina. Sorride e il sorriso si trasforma nel sorriso di Furlong. Maureen indietreggia. «Che cos'hai?» grida Loretta. Maureen indietreggia da tutti, disperatamente desiderosa di tornare in camera sua, sul suo letto. Deve tornare a letto. La donna dai capelli rossi la lascia andare, Loretta la trattiene ancora per un secondo, tirandola, e poi la molla, esasperata. «Oh, al diavolo, merda!» grida. «Sono stufa di questa vita, di queste balle che non finiscono mai. Me ne frego se è malata o no; e io, allora? E la mia vita?» Maureen può udirla dal letto, sua madre che sta piangendo nell'altra stanza. «E la mia vita» dice Loretta «quando comincerà?» Brock legge un'altra lettera: 1 febbraio 1957 «Care Ma' e Maureen, «come potete vedere dal timbro postale, non mi trovo più a Houston, ma sono adesso a Dallas. Il lavoro dell'agenzia immobiliare non andava d'accordo con me! Non sono stato messo in prigione né niente, nemmeno per una notte, quindi non preoccupatevi a causa mia. So comunque badare a me stesso. Questa gente matta! Vi accludo venti dollari. Portate Maureen da qualche bravo medico, non soltanto all'ospedale. Spero che stia meglio. Scrivetemi fermo posta a Dallas, nel Texas, penso a voi tutte e mi mancate, voglio bene a tutte. Sono pervenuto alla conclusione che tutti ci sentiamo soli, ognuno di noi, anche se adesso lo star solo non mi infastidisce molto. Quando rifletto sulle cose posso sopportare meglio la solitudine. In questo momento sto sostituendo un tale che è malato, faccio il suo lavoro di muratore costruendo una casa ed è un buon lavoro, finché non piove. La pioggia può diventare molto gelida. Ci sono due tizi con i quali ho fatto, in un certo qual modo, amicizia, e hanno la mia stessa età. Non li frequento molto, però. Tutti sono molto cordiali, ma io evito le eccessive confidenze. La faccenda del Rifugio Triangolo d'Oro è colata a picco. Non so dove sia finito il presidente. Andai a parlare con un cliente, un vecchio tutto storpio, con la faccia proprio cattiva, e la casa aveva qualcosa di equivoco e vidi
anche alcuni agenti in istrada e così tagliai la corda. Sono arrivato a Dallas facendo l'autostop. Di salute sto molto meglio, adesso. Mi sento bene quasi tutti i giorni. Non crucciatevi per me e abbiate cura di voi. Penso spesso a voi, come fanno tutti quando sono lontani e soli. «Con affetto, «Jules». Un ricordo: sta viaggiando in macchina sulla strada di scorrimento rapido. Grossi squarci nella terra, fango, file di automobili, cartelli arancione che dicono: DEVIAZIONE. È seduta su un'automobile accanto a un uomo che non è suo padre, non è Furlong, non è Brock. Si tratta di un estraneo. Sta dicendo, Bene, martedì è escluso... che ne diresti di mercoledì? Con la mano le copre la mano. La mano di lui si muove sulla sua coscia. Ella sente la propria carne andare verso l'uomo, come granelli di sabbia che scendono in basso, senza fretta. La sua carne gravita in quel senso. Ora si trovano in qualche altro posto, in una stanza buia. Lui le sta sopra. Con le gambe le allarga le gambe... qualsiasi cosa può accadere, qualsiasi tagliente, fulminea sorpresa... ella sente i muscoli della faccia raggelarseli nell'attesa... l'uomo la penetra e tutto nel corpo di lei si raggela, paralizzato dall'uomo, da quello che egli sta facendo, e tutte le cellule vibranti del suo corpo vengono incalzate verso quel centro congelato, verso di lui, indifese. Nell'altra stanza il televisore è acceso. Ella giace sola, senza dormire e senza essere desta. Nel suo ricordo v'è l'odore costante del seme e della sensazione che le dà, uscendo dal suo corpo... caldo dal suo corpo. Ce n'è tanto, uno scorrere come lo scorrere del sangue, interminabile. Maureen ne è paralizzata. Lo immagina adesso, tra le proprie cosce. Il soffitto è minaccioso... ma se pezzi della carta da parati si staccheranno e le cadranno sulla faccia lei non riuscirà né a muoversi né a gridare. Chiude gli occhi. L'altra Maureen è fuori per la strada, e fa dondolare la borsetta. Fessure al posto degli occhi, una bella bocca, tutto soffice. Come in una danza, si sofferma per aggiustarsi il fazzoletto bianco intorno al capo, e un uomo, passandole accanto, si ferma per aiutarla; le annoda i capi del fazzoletto sotto il mento. Ella abbassa gli occhi. Con le mani l'uomo le afferra la faccia, il collo. La fissa negli occhi. Si china per baciarla. La bacia sulla bocca e con le mani le agguanta le spalle, immobilizzandola. La bacia adagio e le deforma la bocca. Betty, sulla soglia, accesa dall'aria gelida in istrada, i corti e informi ca-
pelli ancora umidi, dice, a voce alta e ridendo, Tu non hai proprio niente, e lo sai! Non sei la prima donna al mondo pestata da qualche bastardo! E Loretta le grida, Vattene! Vattene! Betty urla, Nessun figlio di puttana mi metterà mai le mani addosso, lascia che te lo dica. E non sopporto neanche nessun maltrattamento come te o Reeny e puoi andare all'inferno, Ma', tu che ti credi tanto furba, accidenti! Stanno parlando di Betty, e Maureen si sorprende ad ascoltare. Loretta dice alla donna dai capelli rossi, «È una ribelle, ecco tutto, nessuno riesce a dominarla. Ha il cuore duro. Non è colpa mia se finirà dove finirà», che cosa ho fatto di male?». La sua amica dice: «Cara, non hai fatto niente di cui tu possa rimproverarti. Se devono finir male, finiranno male. Questo lo sai. Pensa a Jules, non se l'è cavata bene, per un ragazzo della sua età? Se ne è andato a conoscere il paese e ha trovato un lavoro e manda soldi a casa». Loretta dice, malinconica: «Un tempo parlavo con Betty, sul serio. Le dicevo di rinsavire. Ma lei mi ha sempre dato rispostacce e ha continuato ad andare in giro con una banda proprio schifosa, negri e bianchi tutti insieme, e tu sai come la penso al riguardo. Sarei capace di denunciarla io stessa, uno di questi giorni». Maureen chiude gli occhi e vede Betty, di nuovo una ragazzetta di undici anni, mentre gioca per la strada con un branco di ragazze che indossano tutte vecchi blue-jeans, e ridono e strillano. Un loro linguaggio privato. Lei, Maureen, si fa piccola dietro alla gente, non volendo essere veduta. L'aria si raddensa di colpo. Chiude gli occhi. Una bruma dilaga su di lei, un clacson risuona vicino. Maureen, che diavolo stai facendo! Qualcuno le afferra il braccio. Bene, essere tenuta al sicuro, bene. Il braccio le è tenuto stretto, con impazienza, e lei sente il proprio corpo svuotarsi, la testa svuotarsi... Una voce di uomo sta dicendo qualcosa accanto al suo orecchio... il tintinnio delle monete... traffico, clacson... l'odore dei gas di scarico. È già sull'autobus, con sua madre che ancora la tiene stretta, quando si volta e vede se stessa uscire dal proprio corpo con un improvviso movimento convulso, liberandosi, fuggendo... Quell'Io è il suo. Scende di nuovo sul marciapiedi, aprendosi un varco tra le altre persone che vogliono salire sull'autobus. Si volta a sbirciarla dal basso. Tutto si avventa fuori di Maureen, adesso, e si unisce a quell'altro corpo, a quel corpo libero, che fugge via... È come la pressione tremenda dell'acqua che vuole esplodere libera... quanto anela a unirsi a quel corpo, a liberarsi, a urlare per il dolore e il terrore della liberazione...
Siedi qui, sta' ferma. Per amor di Dio, dice sua madre. Siede. Si volta impetuosamente per guardare attraverso il finestrino, là ove l'altro suo Io è ritto sul marciapiedi. La folla passa. Persone, estranei, sembrano separarsi intorno a lei, senza toccarla. Passano intorno a lei. Diventano invisibili, mentre ella stessa, quell'altro Io, diviene vivido e abbacinante, ritto sul marciapiedi con la testa voltata a un angolo doloroso, guardando Maureen sull'autobus, Maureen dalla faccia colpevole e sconvolta. Adesso attenta a dove metti i piedi! Scende pesantemente, come in sogno. L'autobus si è fermato. Perché il marciapiedi non si avventa su da ogni parte e non la schiaccia? È così greve e così morta, questa Maureen! Camuffata da Maureen! Nessun uomo sarebbe disposto ad avvicinarla e a trastullarsi con i capi del suo fazzoletto. Nessun uomo riuscirebbe a penetrare questa carne. Barcolla sul marciapiedi, stordita dall'aria e dal vento. Maureen, vieni! Siamo già in ritardo per colpa tua! Un edificio, di cemento. Un certo odore acre... medicina? Si mette a sedere. Sedie simili a sedie di cucina, fatte con tubi di alluminio e plastica screpolata. Di fronte a lei una bambina grassa, dalla faccia bianca, bulbosa, molto grassa. Gli occhi lievemente sporgenti. Fissi su Maureen. Una tutina per la neve, gonfia, rossa, sudicia, floscia, occhi sporgenti e una bocca tumida, che sbava. Maureen siede addormentata nel proprio corpo, sapendo di essere al sicuro. Sua madre, accanto a lei, si protende in avanti, di quando in quando, per bisbigliare come fanno le madri con le figlie. È graziosa quella borsetta, hai visto? Devi andare in bagno, o qualcos'altro? Non fare arrabbiare la gente fissandola troppo a lungo. La bambina grassa pencola dalla sedia di sua madre, con una gamba. Cade. Piagnucolando malignamente, cade e non si rialzerà. La sedia viene spostata dal suo posto. La bambina sferra calci, piangendo a dirotto, sbavando... Non è una vergogna? bisbiglia Loretta a Maureen. Una lastra di vetro davanti al banco della segretaria, per proteggerla. L'infermiera sta esaminando alcune carte. Wendall? È sicura di essere già stata qui? È giovanissima, ma ha già la faccia rugosa per aver esaminato troppi documenti. Adesso le riceverà il dottor Morris. Chi? Dov'è il dottor Stein? Non è più a Detroit.
Ma avrei dovuto parlare ancora con lui. Dovevo chiedere di lui ogni volta che fossi venuta qui... Adesso le riceverà il dottor Morris. Oh, merda! Brock sta leggendo a entrambe una lettera: 8 marzo 1957 «Care Ma' e Maureen, «grazie, Ma', della tua lettera, ma non mi hai detto molto. Come si sente Maureen? Meglio, spero. Ti accludo cinque dollari. Gli assegni arrivano regolarmente? Spero di sì. Non lasciare che ti maltrattino, all'assistenza. Tu hai gli stessi diritti di tutti gli altri. Tuo fratello è ancora a Detroit? Come state, tutti? Il tempo si sta mettendo al meglio, qui. Io faccio un po' di tutto. Quando tornerò a Detroit, terminerò le medie. Non si riesce a combinare niente senza aver terminato le medie e aver frequentato l'università. Credo che seguirò un corso commerciale. Godo di ottima salute. Qui non frequento nessuno, e me ne sto per conto mio. Non parlo più tanto come quando ero un bambino e scherzavo continuamente; ho fatto giudizio. Tuo fratello ha un lavoro? Io sto cercando un posto fisso, ma è un guaio continuare a fare telefonate, ci vogliono troppe monetine. Seguo gli annunci delle offerte di lavoro. Tutto va bene qui. Non appena mi sarò sistemato scriverò ancora. Non state a crucciarvi. Vi amo. «Con affetto, «Jules». «È un ragazzo strano» dice Brock. «Sì, è sempre stato strano, in un certo senso. Ma intelligente.» «Sembra che sia proprio in gamba e sembra che ti voglia bene, continua a mandar soldi. È davvero uno strano ragazzo» dice Brock, imbarazzato. «Quel suo continuo ripetere che ti vuol bene, dico.» «Mi ha sempre voluto bene, non è mai stato come gli altri ragazzi che scappano e dicono alle madri di andare all'inferno» afferma Loretta. «E io l'ho sempre trattato bene.» «È bello che continui a tenersi in contatto con te.» «Sì, l'ho trattato bene, gli ho sempre prodigato affetto e mi sono occupa-
ta di lui, non come nostra madre... lei non sapeva nemmeno come si comincia ad allevare figli. Ora che ci ripenso, è un miracolo se ho potuto avere figli io stessa!» Maureen pensa a Jules, ma, pensando a lui, si sente improvvisamente debole. Vorrebbe gridare, Jules, Jules... No, no, no, no... Non Jules, ma un uomo si china su di lei, qualcun altro. Prima che possa picchiarla, ella si addormenta. Non giace più sul pavimento, ma a letto. Dorme. «Ehi, posso fare il bagno qui? A casa mia tutto è scassato, l'acqua non scorre.» Voci nell'altra stanza, un'amica di Loretta. Donne, donne. Amiche. Non fanno che parlare, chiacchierare. Parlano di uomini e di mal di stomaco e di lattuga che è marcita non appena portata a casa, parlano di acquistare un pezzo di terra al cimitero... «quel matto di mio suocero e morto, finalmente, era andato alle corse di cavalli appena la sera prima e aveva vinto... il vecchio bastardo è sempre stato fortunato... e poi, il giorno dopo, a mezzogiorno, è rimasto secco!... ha sempre avuto sfortuna, subito dopo essere stato fortunato. Così gli andavano le cose...». A volte sono nella stanza con Maureen, fumano e chiacchierano. Maureen dorme. Le stanno "tenendo compagnia". Loretta dice, eccitata: «Se quel figlio di puttana crede di potermi spremere qualcosa, è matto. Ci sono passata già troppe volte». La sua amica dice: «Oh, non è poi un così cattivo soggetto. Il suo figliolo, quel ragazzetto di dieci anni, è stato arrestato per aver disubbidito alla polizia, e lui ne soffre molto. Sta soltanto bevendo un po' troppo. Pensa un gran bene di te, Loretta, me lo ha detto lui stesso». Loretta dice, con la sua voce rauca: «Merda!». Midge ha i corti capelli rossi avvoltolati intorno a bigodini rosa; si direbbe che abbia la faccia increspata, con la pelle tirata in alto. Tabacco e profumo. Maureen, addormentata nel proprio corpo, non guardinga, non cauta, lascia scorrere adagio lo sguardo su questa donna, per nulla interessata. Che cosa significa essere donna? Come fa a resistere questa gente, come può continuare a tirare avanti?... trascinandosi nell'involucro dei corpi, la pelle gonfia sopra le ossa, vivendo. Tirano avanti. Dormendo, Maureen stessa sta dormendo. Una massa in riposo. Nel suo corpo niente si muove, nel suo cervello niente si muove, tutto è gonfio, ingordo, e si riposa dormendo. «Tutti dicono che i negri preparano guai» dice Midge. «La vigilia di Capodanno ero preoccupata da morire. E se incendiassero tutti quei tuguri?»
«Gesù, fu buffo nel... che anno era... il 1945?» Loretta ride. «Avevamo sentito parlare tutti quanti della rivolta e io andai a vedere che cosa stesse succedendo, presi una delle bambine, che quasi non camminava ancora... era Betty. E i poliziotti mi fermarono sullo Hudson e mi dissero di tornare indietro. Alzarono la voce con me. Gesù, avrebbero potuto farmi la pelle! Non credevo che sarebbe stato come andò poi a finire.» «Furono veri disordini, quelli.» «Non mi comportai da idiota, uscendo con una bimbetta? Dio mio, faccio le cose più stupide!» «Me ne ricordo, furono veri disordini.» «Si erano scatenati tutti quanti. Fu pazzesco.» «Ho paura che quei quartieri prendano fuoco.» «Qualcuno ci disse, un amico di Howard, che c'era sangue vero all'ospedale, sangue che scorreva sul pavimento. Ci pensi? Sangue che scorreva nel corridoio. Che cosa te ne pare?» dice Loretta, seria. Adesso le riceverà il dottor Morris. Ci occorre un po' di sangue per una Wasserman. Da quanto tempo si trova in queste condizioni? Non abbiamo nessuna pratica per quanto la concerne... Miss Greacon dello Stato del Wayne... assistenza sociale... assistente sociale. Apre una borsa, apre una cartella. Porta le calze... e un cappotto che non si è tolto. Domanda a Loretta, Da quanto tempo si trova in queste condizioni, signora Wendall? Brock spalanca la finestra. «Che ne diresti di un po' d'aria pura?» domanda. Loretta sbatte la porta dietro di sé. «Quello sporco bastardo, quel fottuto, se crede di tiranneggiarmi! Gli ho detto che mi occorrevano soldi per una necessità urgente, a quel somaro, e lui mi fa aspettare per quattro ore in piedi... Gesù Cristo, sarei capace di strozzare qualcuno! E c'era accanto a me una negra grassa che farfugliava di non so cosa, con i suoi marmocchi attaccati alla gonna, e sì che il regolamento vieta di portare i bambini! E quell'altro mi fa aspettare, mi fa fare quattro ore di anticamera, e non c'era nessun altro che potesse occuparsi di me. Dicevano: "Chi è a occuparsi del suo caso? Deve aspettare!". Io torno là e appicco il fuoco a tutto quel posto merdoso!» «Farai meglio a calmarti.» «Non dirmi che devo calmarmi!» sbraita Loretta. «Sono io a fare anticamera, non te! Il denaro è mio, non tuo! Che diavolo significa, dirmi
quello che devo fare?» «Dico soltanto che sarebbe meglio...» «Meglio un corno! È meglio che tu tenga le tue opinioni per te, bastardo! Tutto questo succede per colpa tua, e quindi farai bene a tenere per te quello che pensi!» «Come può essere colpa mia?» dice Brock. «Colpa tua! Colpa tua, maledizione, tua! Perché diavolo dovevi ammazzarlo, quella notte? Cialtrone bastardo, ti davi delle arie! Ti davi delle arie con quella tua maledetta pistola!» «Loretta...» «La colpa è tua! Chiudi quella bocca cicciosa! Non era che un ragazzo e tu, tu dovevi fare lo spaccone con quella pistola, dovevi sparare a qualcuno, non te ne fregava niente di sapere a chi, e così sparasti a lui... facesti la pelle a lui... e adesso guardami, guarda che razza di vita devo vivere, sei stato tu la causa di tutto, e vieni anche qui a cenare, c'è proprio da ridere, maledizione! Dovrei buttarti fuori a calci nel sedere! La mia vita è tutta una burla e non posso nemmeno farci su una risata!» Cade qualcosa, un piatto. Brock dice, quasi piagnucolando: «Mi hai sporcato di cibo la camicia». «Te lo spalmo sulla camicia il cibo, bastardo! Te lo ficco nel culo!» Dopo cena il televisore viene acceso. E portato nella camera di Maureen. Loretta esce e Brock guarda la televisione e parla a Maureen. Dice: «Non badare a tua madre, quando si eccita troppo. La sua vita non è allegra. Si cruccia per te, cara, ecco perché devi guarire. Il primo maggio cerca di alzarti dal letto, okay?». Le sta leggendo un articolo sui cani. Sui cani ammaestrati. Lei non lo ascolta, ma nemmeno preclude la mente. Giace immobile. Brock le sta leggendo il giornale. Sta aprendo una lettera, gliela legge: 24 aprile 1957 «Care Ma' e Maureen, «a Tulsa, dove mi trovo, ho un lavoro per sei settimane, insieme a qualcun altro. Vi scriverò ancora quando avrò tempo. Ecco venti dollari. Il lavoro è molto interessante, ma non so di che cosa si tratta esattamente, alloggio in un dormitorio insieme ad alcune altre persone e tutte le mattine alle sei andiamo in un posto che sembra un ufficio e aspettiamo finché
qualcuno ci fa entrare nella stanza adiacente. C'è dentro un medico. Ci fa una visita di controllo, la lingua, il cuore, eccetera. A me, mette alcune gocce negli occhi. Bruciano soltanto un po'. Non devo mai stare al sole, poi devo tornare il giorno dopo e lui mi visita di nuovo. Ho tutto il tempo per leggere in una biblioteca che c'è qui e per ascoltare alcuni dischi che hanno. Dovreste comprare qualche disco e un giradischi per Maureen. La musica è piacevole quando si è soli. Uno degli altri è in condizioni molto peggiori delle mie, gli fanno iniezioni. Ha il braccio tutto indolenzito e bucherellato. «Con affetto, «Jules» «P.S. Credo che tutto questo abbia a che fare con il governo, o con l'esercito, o qualcosa di simile. Sono proprio matti!». Brock sta spazzolando i capelli di Maureen. È serio, un uomo dalla faccia seria. Maureen si tiene rigida. Lui dice: «So che puoi udirmi e non mi importa del gioco che stai giocando. La tua Ma' mi ha spiegato quello che successe e come lui ti picchiò, e non è affar mio, accadde tutto prima che arrivassi. Ma voglio farti sapere che quando troverò lavoro cominceremo a mandarti da un vero medico. I bravi medici bisogna pagarli. Dovrebbe essere lui a pagarli, ma è scomparso, e non si riesce più a rintracciarlo, ma al diavolo, non fa niente. Tu mi hai promesso una cosa... il primo maggio devi alzarti, okay?». Seduto sulla poltrona, trascinata nella camera di Maureen, sta dicendo: «La vita è la cosa più pazza che si possa immaginare! Ho passato un anno in carcere nell'Indiana, ma non dirlo a nessuno. Non voglio scombussolare tua madre. Ecco come successe: mi sentivo così giù di morale che volevo morire. Non riuscivo a riscuotermi, non riuscivo a cambiare. Così pensai tra me e me, mi farò sparare dalla polizia, perché da solo combinerei un disastro. Entrai subito in un ristorante, dissi mani in alto e non ero nemmeno armato. Be', la cassiera mi diede tutti i soldi. Era appena una ragazzina. Poi, una volta che ebbi i soldi in mano, dovetti andarmene, non c'era altro da fare. Così potei tirare avanti per altri tre giorni circa; bevevo parecchio e questo mi teneva molto su. Poi i soldi finirono, mi sentii di nuovo a pezzi e decisi di farla finita. Così andai in centro, in non so più quale miserabile cittadina, ho dimenticato quale, ed entrai in un bar-farmacia. Finsi di voler
acquistare del whisky, presi alcune bottiglie, poi dissi al vecchio, il proprietario, che era una rapina, che doveva darmi tutti i suoi soldi. Una donna, là dentro con una bambina, si mise a strillare. Le dissi di tacere. E lei tacque. Il vecchio scemo vuotò il registratore di cassa e mi diede tutto il denaro, per cui che cosa dovevo fare? Indugiai un po', in un certo qual modo andando adagio verso l'uscita, ma non vennero poliziotti, e così me la filai. Intascai circa cento dollari, in quel bar-farmacia, senza aver fatto prima nessun piano. Potei tirare avanti bene ancora per una settimana. Verso la fine della settimana qualcuno mi derubò mentre ero ubriaco. Mi destai con il voltastomaco e la faccia tumefatta e questa volta decisi sul serio di farmi ammazzare. Ero stanco della vita. Ero stufo della mia faccia... l'avevo sempre odiata, del resto. Così entrai in una banca, mi misi in coda, quando fui arrivato allo sportello dissi che era una rapina, e la ragazza, la cassiera, per poco non svenne e dovette tenersi al coso di marmo, al banco; ma non svenne del tutto e continuò a fissarmi come se fosse stata sul punto di mettersi a gridare, ma non gridò e in ultimo mi diede buste contenenti denaro. Avevo arraffato seicento dollari. Il campanello d'allarme non funzionò, lo lessi sul giornale la mattina dopo... lei stava schiacciando il pulsante con il piede, ma non funzionava, il collegamento era mal fatto. Mi venne una mezza idea di tornare là dentro e di farla crepare di paura... ma poi mi fece compassione, si era già spaventata tanto, e aveva continuato a schiacciare con il piede il dannato aggeggio! «Me ne andai dalla cittadina, comunque, e continuai a sentirmi su di morale per qualche settimana, poi eccomi di nuovo a pezzi. Volevo arrivare con l'autostop fino a un lago del quale avevo sentito parlare, dove in estate la gente se la spassava parecchio. Volevo prendermi una sbornia e annegarmi una volta per tutte. Ero proprio ottimista al riguardo. Ma durante il viaggio un tale si fermò per prendermi su sulla sua macchina, stavo facendo l'autostop, e fu molto gentile con me, mi offrì sigarette e qualcosa da bere, un liquore che aveva accanto a sé sul sedile e io bevvi, e poi lui cominciò a comportarsi in un modo piuttosto strano, mi stava accarezzando la mano, e allora dissi: "È meglio che mi faccia scendere, caro lei!", e lui esclamò: "No, da questa macchina ancora non scendi" e cominciò a ridere come se fosse pazzo. Oh, Dio mio, che paura avevo! Ero un pivello di venticinque anni, appena un ragazzino, non come adesso, ero tanto spaventato che per poco non me la feci addosso, e questo tizio continuava a guidare con una mano e con l'altra mi palpava dappertutto, per cui finii contro la portiera e mi domandai se avrei dovuto aprirla e saltar giù sull'autostrada,
con quello lì che andava a circa centodieci; intanto lui cominciò, in un certo qual modo, a torcermi la pelle sul collo e mi fece un male d'inferno; lo respinsi, e lui spinse me, ansimando, e allora gli mollai un pugno su un lato della testa e l'automobile per poco non si rovesciò, ma era un uomo combattivo, quel tizio, e rimise la macchina sulla carreggiata, rifilando un pugno anche a me sulla testa, e vidi le stelle, e gli saltai al collo per strozzarlo, tanto ero spaventato, quel maledetto bastardo di un matto che voleva farmi la pelle mentre io non gli avevo fatto niente, e proprio in quel momento una macchina della polizia superò il dosso e ci sbattemmo dentro in pieno. Finimmo capovolti in un campo e la macchina della polizia si trovava nel fossato rovesciata sul fianco e quelli venivano di corsa verso di noi sbraitando, e l'amico perse la testa e disse agli sbirri che mi aveva dato un passaggio perché io stavo facendo l'autostop e mi accusò di aver cercato di derubarlo e di portargli via la macchina; stavamo lottando proprio all'arrivo dei poliziotti. Loro diedero un'occhiata alla sua automobile, che era molto bella, e ai suoi vestiti; oltretutto portava gli occhiali, per cui sembrava un insegnante, o qualcosa di simile; poi guardarono me, un vagabondo, e naturalmente seppero subito a chi dovevano credere... ed ecco come finii in carcere. Un anno intero della mia vita... e quando uscii dimenticai l'idea di uccidermi, era troppo complicato». Legge una lettera: 16 maggio 1957 «Care Ma' e Maureen, «non spaventatevi, sto benissimo. Hanno dovuto ricoverarmi in questo ospedale da dove vi sto scrivendo perché qualcosa mi faceva dolere la testa. L'esperimento è finito. Sono stato pagato. Ma ora devo pagare la retta all'ospedale, per cui non ho niente da mandarvi, alla fin fine; in effetti, devo già loro cinquanta dollari, e qui, lunedì sera, mi sono preso un'infezione e martedì mattina stavo molto male. È un'infezione dell'ospedale, ha detto l'infermiera, molti se la stavano prendendo. Gira nell'ospedale. Mi sentivo proprio male e hanno dovuto alimentarmi attraverso le vene, attraverso il sangue, ma tutto questo non aveva niente a che vedere con il mio primo disturbo che, credo, è guarito. Gli occhi vanno meglio, adesso. Non dovrei star fuori al sole per qualche mese. La testa non mi duole più tanto. Come state voi tutte? Non vedo l'ora di tornare a Detroit non appena le
cose si saranno sistemate, qui. O forse dovrei restare ancora un po'; subito prima di ammalarmi avevo sentito parlare di un altro lavoro. È bello lì il tempo? Nel letto accanto al mio c'è un uomo con l'ulcera perforata, sua moglie dice che è molto grave, e, dall'altra parte, un uomo è morto due giorni fa. Adesso hanno messo su quel letto un vecchio legato. Non so che malattia abbia. Non può nemmeno adoperare la padella. È molto vecchio. Il solo guaio è che mi pregò di aiutarlo a mettersi a sedere, la prima notte, dopo che avevano spento la luce, e io cercai di tirarlo su e poi mi accorsi che lo avevano legato con cinghie o non so che altro. Questo mi spaventò. Gli dissi allora che dovevo tornare a letto. Ma tutte queste cose non mi scoraggiano, anzi, quando il mal di capo mi sarà passato definitivamente e gli occhi mi saranno guariti, tornerò a essere meglio che nuovo, controllato a fondo in un ospedale, e così via. Qualunque cosa può capitare, quando uscirò. Ho molte speranze. Qui dentro ho letto alcuni libri che distribuiscono e ho sfogliato la Bibbia che, come sapete, non mi aveva mai interessato molto, né mi interessa molto anche adesso, ma contiene alcune cose interessanti. La mia scoperta più importante è che gli uomini sono sempre stati gli stessi, soli e preoccupati e pieni di speranze, e che hanno scritto i loro pensieri, e quando noi li leggiamo è come se vivessimo nel loro tempo, è come se il tempo non fosse passato, in realtà. Andate sempre in chiesa? In tal caso pregate per me, mi piace pensare che facciate questo. Io non prego Dio, ma prego soltanto me stesso, voglio dire che penso le parole per me, oppure a volte prego altre persone che ho conosciuto... immagino che sembrerà pazzesco. Mi piace riflettere con chiarezza sui pensieri. Quello che intendono nei libri parlando di Spirito del Signore è qualcosa cui amo pensare. So di averlo in me. Mentre soffrivo ed ero gravemente malato, ho avuto molto tempo per pensarci e sono certo che esiste uno Spirito del Signore in noi tutti, esso ci pone in grado di parlare gli uni con gli altri e di amarci a vicenda. Confido nella mia fortuna. So che le cose finiranno con l'andar bene. Non appena sarò dimesso dall'ospedale vi scriverò ancora, non preoccupatevi, vi amo, «Jules». «Non so che cosa pensare di lui» dice Loretta, eccitata e orgogliosa. «Hai mai sentito qualcuno parlare così? Quando era un ragazzetto sembrava che sarebbe finito in prigione come tutti quegli altri marmocchi, e adesso, invece...»
«Dovresti essere fiera di lui, cara» dice Midge. Maureen sogna, resa un po' irrequieta dalla primavera. La finestra aperta le lascia vedere il cielo. Le sue braccia lievemente bluastre giacciono immobili sulle coperte del letto. Un letto maleodorante. Un inverno di letto. Il torpore dal quale è circondata sembra fitto di corpuscoli, l'aria sembra densa di graniglia, che le piove addosso. Ella sbadiglia, dorme. Una porta si apre nel suo cervello. Dice a se stessa, interrogativa: Dov'è Maureen, adesso? Ma, guardando fuori della porta, non riesce a vedere nessuno. Maureen non c'è. Pensa: Che ne è stato di Jules, allora? Una sensazione di paura si apre in lei, per Jules. Perché Jules non è lì? Jules con tubi infilati nel braccio per le trasfusioni di sangue, Jules all'estremità opposta del paese, lontano nel Texas e nell'Oklahoma... Maureen dorme e cerca di allontanarsi da questi pensieri. Ma si sorprende a parlare con un uomo, all'angolo di una strada. Ha smarrito il quaderno della segretaria della sua classe e suor Mary Paul è adirata, gli dice. L'uomo la schiaffeggia facendole venire lividi in faccia. O è suor Mary Paul a schiaffeggiarla? Se ha la faccia piena di lividi, non riuscirà mai a far soldi. Se ha il corpo ammaccato e contuso dai calci, niente soldi, niente soldi. Se è diventata indolente e puzzolente e grassa, niente soldi. Dice allo sconosciuto, all'angolo di una strada, sembra che sia Michigan Avenue, gli dice con una voce querula di bambina: Ha visto il mio quaderno? L'uomo è ben vestito, elegante, deve avere denaro, si china su di lei e l'abbraccia in modo da farle sentire tutto il proprio corpo, quanto è lungo. Il quaderno, dice lei, voltando la testa e guardando il cielo, lo ha veduto? Ella ricorda un giorno a Belle Isle, mentre girava senza meta per il parco con un uomo, sull'automobile di un uomo. L'uomo sta parlando, parlando. È molto triste. «Conosco la donna che è mia moglie da venticinque anni... venticinque anni... da un quarto di secolo ci conosciamo... ed è quasi altrettanto tempo che siamo sposati... abbiamo quattro bellissimi figlioli e... e io voglio bene a tutti... mi si spezza il cuore quando penso a loro... ti amo e penso a te continuamente... mi sembra di essere fatto a pezzi... ho la sensazione di essere fatto a pezzi dal tuo amore...» I pezzi del corpo di Maureen, umido e caldo, sono adattati insieme nella massa del suo corpo, un camuffamento. Ella dorme un sonno irrequieto. Stando all'erta in attesa di suoni che non vuole udire. Oltre al cantilenare della televisione, ode nuovi suoni, altri suoni, gente che parla sulle scale, gente fuori... tanta di quella gente... le finestre sono aperte a causa della temperatura mite, e lasciano sfuggire le voci della gente. Ella ascolta con-
tro la sua volontà. Curiosa e timida e un po' irritata, e timorosa, ascolta. Brock le legge il giornale. Rex Morgan. Gasoline Alley. Brenda Starr. I personaggi dei fumetti che lui predilige. Loretta esce e Brock rimane in casa a sorvegliare Maureen. Le tiene compagnia. Parla per ore. Parla dell'Indiana, di viaggi in treno, del lavoro nelle fattone, della prigionia... parla per ore, per ore. Maureen si addormenta, si sveglia, e lui ancora sta parlando. Il corpo di Brock è come il suo, sicuro. Incomincia ad aver fiducia in lui. Mette a fuoco gli occhi su di lui. Egli le legge le lettere di Jules, più e più volte. «Ti leggerò quella del viaggio che ha fatto in torpedone, è una bella lettera» dice Brock. Toglie le lettere da una scatola di sigari e cerca tra esse. Le fa vedere i fumetti. Mette il televisore ai piedi del letto, su un tavolino da gioco. Cerca di giocare alle carte con lei, ma ella non vuole saperne. Giace ostinata e gelida sotto le coperte, desta, ma non disposta a giocare a carte, nascondendosi. Brock gioca il solitario. Loretta torna a casa, con i tacchi alti rumorosi nella cucina. Apre lo sportello del frigorifero per vedere che cosa contiene, prima di entrare nella camera di Maureen, e Maureen sente tutto quello che lei dice. «Indovina chi ho incontrato in centro?» dice Loretta. Dio mio, pensa Maureen, mi sto svegliando? Ha paura. Si sente aperta, come se le gambe le fossero state divaricate a forza, qualunque cosa può accadere. Chiude gli occhi, desiderosa di riaffondare indietro, ma è inutile, e giace invece con il cuore che le batte così forte da stordirla, incapace di dormire, desta. È desta. Un giorno si spazientisce con sua madre e con Brock. Sono in cucina e stanno sorseggiando il caffè. Maureen si drizza a sedere sul letto e ascolta; sente che è arrivata la posta. Sente il postino in fondo alle scale. Sudando, in preda al panico, si contorce sotto le coperte e pronuncia con le labbra parole silenziose. Come mai non lo sentite al pianterreno? Ci sarà una, lettera, di Jules? Le tacite parole sono dolorose. Ella le sente voluminose nella gola, le gonfiano la bocca. Esasperata, spossata, tenta di respingerle e di giacere immobile sul guanciale, greve e fredda. Poi, a un tratto, si trova seduta, sul letto e sta gridando: «È arrivata la posta? C'è una lettera di Jules?». Loretta e Brock si affacciano subito sulla soglia e la fissano con gli occhi sbarrati. A voce alta, ella torna a dire, infantile e spazientita, sul punto di piangere: «Per favore, andate a guardare giù al pianterreno. Non avete sentito che è arrivato il postino? Forse c'è una lettera di Jules».
Si è destata definitivamente. 8 11 febbraio 1966 «Cara Miss Oates, «anni fa fui una sua allieva, lei non si ricorda di me. Le scrivo questa lettera pur sapendo che non si ricorda di me. «Perché voglio parlarle? Lei è sempre presa dalla fretta, nella sua vita, e non mi ascolterà. Quando ero sua allieva, me la cavavo male, perché dovrebbe ricordarsi di me? Allora non ero grassa, ma sono tornata a essere come prima. Qualche tempo fa ero grassa. Non importa. Voglio farle avere un messaggio, ma non so di che messaggio si tratti. «Mi stringo la testa tra le mani e cerco di ricordare la mia vita, come è accaduto, l'ordine con il quale le cose sono accadute. Ma tutto e confuso. Così sono tornata in biblioteca, l'altro giorno, e ho preso i giornali tra l'aprile 1956 e il maggio 1957 e li ho letti. «Mentre io dormivo, tutto era continuato! - senza fine, un guazzabuglio di persone e di cose... fotografie di carri armati e soldati, gente distesa per la strada... tutto continua ad accadere, continua ad accadere. I libri che lei ci ha insegnato non spiegano questo. Il guazzabuglio era nascosto, in qualche modo. I libri che lei ci ha insegnato sono per la maggior parte bugie che io posso ripeterle. Ma non la sto criticando. «Credo di scriverle perché riuscivo a vedere, al di là delle sue lezioni e della sua calma e del modo come prendeva accuratamente appunti sui libri, mentre insegnava, annotando le sue stesse parole man mano che le pronunciava, qualcosa che mi somiglia. Mi chiamo Maureen Wendall. Spero che si ricordi di me, ma perché dovrebbe ricordarmi? Non me la cavavo bene, al suo corso, e marinavo la scuola e dovrei vergognarmi di scriverle in questo modo. La prego, non pensi male di me. È un'offesa dirle che le sto scrivendo perché c'è qualcosa che mi somiglia, in lei? «Sinceramente sua, «Maureen Wendall.» 9
11 marzo 1966 «Cara Miss Oates, «grazie per aver risposto alla mia lettera. Ero pentita di averla scritta e avrei voluto poterla ritirare, ma ora sono contenta, è meglio così. Vorrei poterle scrivere i miei pensieri non in un caos come la maggior parte della mia vita, ma con un certo ordine... voglio spiegarle una cosa, voglio chiarirla. Sì, seguii il suo corso all'Università di Detroit nel 1964. Se ne ricordava? O ha cercato il mio nome in un registro? Avrebbe tanta importanza per me poter pensare che mi ricordava, ma non mi aspetto questo, perché lei dovrebbe ricordarmi se quasi io non riesco a ricordare me stessa? Giovedì scorso, dopo il lavoro, sono tornata in biblioteca e ho sfogliato di nuovo i giornali. Non si può vedere quello che è accaduto giorno per giorno, leggendo i giornali, bisogna consultare quelli di un intero anno. Allora tutto ti si avventa addosso. E vedi quale sperpero è stato l'anno. Sempre e sempre più rapidi si susseguono i titoli, ogni singolo giorno non ha mente a che vedere con quello successivo, a un tratto qualcuno è stato ucciso, o una nazione figura in prima pagina, cambiano le fotografie delle persone distese per le strade, tutto sale e scende, confondendo lo sguardo. In biblioteca ho cominciato a sudare, tanto avevo paura. Come posso vivere la mia vita se il mondo è fatto così? Il mondo non può essere vissuto, nessuno può viverlo come si deve. È scatenato, impazzito. Ho sentito tutto questo là in biblioteca, sebbene ognuno sedesse silenzioso ai tavoli. Mi sono guardata attorno. A quella gente sarebbe piaciuto gettare i libri fuori delle finestre, fracassare le lampade e le sedie, colpirsi a vicenda sulla testa con qualunque cosa si fossero trovata tra le mani. Invece erano tutti tranquilli, stavano seduti e leggevano. Non voglio sembrarle pazza. Mi limito a dire quello in cui credo. La biblioteca è molto pulita e moderna, mi piace quel posto, non c'è niente dietro ad esso, o non molto... non molta storia. Mi piace la gente che cammina tranquillamente ed è molto cortese. A casa mia nessuno era tranquillo e cortese. «Voglio parlarle della mia famiglia di come vivevamo. Voglio parlarle di me. Adesso è il mese di marzo del 1966 e io non riesco a credere a questa data. È come vivere nel futuro... non e reale. Sono passati molti anni dopo quello che mi è accaduto, ma sono ancora viva, e sto per cominciare una nuova vita, per ricominciare daccapo con una nuova vita. Ho il cuore gelido e tanto spaventato al pensiero di uscire di nuovo di casa per ricominciare, voglio parlare con qualcuno. Voglio mandarle un messaggio.
«Che cosa accadrà dopo oggi? Me ne sto seduta qui in camera mia a Detroit, e sto scrivendo questa lettera perché lei la legga. Alle dieci di sera. Sono sola, vivo sola. La mia esistenza è tranquilla. Quando ero sua allieva in quel corso serale, lavoravo di giorno come segretaria, a orario pieno, ora ho un impiego migliore e sto seguendo un corso della Highland Park Junior College due sere alla settimana. Dovrebbe essere una scuola molto più facile dell'Università di Detroit. Ma voglio continuare gli studi universitari. Voglio imparare tutto quello che potrò, forse mi aiuterà a non aver paura. Addormentata o desta, ho paura, e come posso vivere in questo modo, sempre spaventata? Ho paura degli uomini per la strada, che li veda o non li veda, ho paura di essere investita dalle automobili, di essere derisa dalla gente, ho paura di perdere la borsetta, di vomitare in un negozio, di mettermi a urlare in biblioteca e di esserne scacciata senza poterci più tornare. Continuo a starmene seduta qui pensando al tempo. Le dieci e un quarto dell'11 febbraio 1966, e so che dovrebbe essere un'ora sacra, perché non tornerà mai più, ma non sento niente per essa, sono intontita. Che cosa accadrà in avvenire? Ho paura. Ho paura non soltanto del mio avvenire, ma di tutto il mondo. Quando leggo i giornali, sento di perdere me stessa, il mio Io, Maureen Wendall, e di diventare come il mondo stesso, senza, sapere che cosa accadrà il giorno dopo e mai pronta ad accettarlo. Forse le sto scrivendo non perché lei mi somiglia - ho l'aria di essere un po' matta! ma perché è proprio l'opposto di me, perché non si lascia mai sorprendere, prevede tutto, e, entro il disastroso caos dei giornali, vive la sua vita in pace, preparata. «Gli studenti del nostro corso, alcuni di loro, la giudicavano un po' strani. Pensano che quasi tutti i professori siano strani. Questo nel gennaio e nel febbraio del 1964, il secondo semestre. Pensavano che lei fosse intelligente, ma fredda. Era felice dei libri che leggevamo, era felice di leggercene brani ad alta voce, e noi capivamo che la felicità nell'aula, per lei, stava nel libro e non in noi. Non so nemmeno se a prima vista mi sia piaciuta. A volte le donne mi piacciono molto, e altre volte le odio. Lei non era molto più avanti negli anni di me, per cui, forse, ero gelosa. Ho sempre desiderato che i miei insegnanti fossero più anziani di me, anzi, vorrei che tutti fossero più anziani di me, per poterne seguire l'esempio. Ora sto invecchiando anch'io, ho ventisei anni!... e questa sembra un'età terribile essendo soli, non avendo una carriera, essendo diversi da tutti quelli che hanno un'esistenza stabile. Ma ne ho passate tante che invece di avere ventisei anni dovrei in realtà averne quaranta o cinquanta. Entro il corpo e la faccia
sono una vecchia e nemmeno una donna o un uomo, ma semplicemente una persona vecchia; forse le sto scrivendo per liberarmi di tutto questo e per rendermi di nuovo giovane, per sentire quello che dovrei sentire all'età di ventisei anni e sul punto di innamorarmi. «C'è un uomo che voglio sposare... voglio innamorarmi. «Lei ci incuriosiva, ci incuriosiva il suo matrimonio. Era così calma e intelligente e il suo senso dell'umorismo ci intimoriva. Come poteva essere innamorata e sposata? Era questo a meravigliarmi. Lei mi ricordava in qualche modo mio fratello Jules. Jules sarebbe potuto essere intelligente come lei... sarebbe potuto essere colto, voglio dire, se le cose non fossero andate come andarono. Ho parlato a Jules di lei. Mio fratello Jules è la persona più importante della mia vita, ma che cosa si può fare con le persone che significano molto per noi? Amarle? Come le si ama? Che cosa vuol dire questo, esattamente? Significa starsene seduti e pensare a loro, desiderare di proteggerle? In questo caso, Jules per trovarsi al sicuro, dovrebbe essere morto e sepolto. Voglio sposare un uomo, e innamorarmene, ed essere protetta da lui. Sono pronta a innamorarmi. Ma ho il cuore duro, e il corpo duro, gelido. «Probabilmente lei non si ricorda di me. Il corso che seguii era "Introduzione alla letteratura". Mi è sempre piaciuto leggere libri, ma in quell'aula, nella Facoltà di Commercio e Finanza, tutto sembrava freddo e strano, una minaccia. Gli altri studenti rappresentavano una minaccia. Era un corso serale, e questo peggiorava le cose. Di notte, tutto sembra esagerato. Si capiva che a lei non piaceva insegnare a un corso serale. Io sedevo nella terza fila e avevo allora i capelli lunghi, capelli lunghi e neri, ma adesso li ho corti, e ho notato, vedendo una sua fotografia sul giornale, che anche lei li ha corti adesso, capelli corti e scuri. Tutto questo fu tre anni fa. Mi guardò mai e pensò mai a me? Pensò. Quella ragazza mi somiglia un po'? «Una sera lei lesse un brano di Madame Bovary, che ci era stato assegnato come compito, il brano sulla donna che va a fare una passeggiata nei campi con il suo cane. Sembrava ritenere che fosse importante. Nei campi ella si guarda intorno, vede... non so che cosa. Non ricordo. Poi sente che comincia a soffiare un vento gelido, e torna a casa. Lei ci lesse il brano e ci fece rilevare qualcosa al riguardo, ed io capii che stava pensando, Quella donna è un po' come me, già, come lei, un'estranea per noi, e, mentre sedevo in aula, udii me stessa pensare, Questo non è importante, niente di tutto ciò è reale. Mi sentii fiacca e stordita, pensandolo. A quei tempi mi piaceva digiunare, per compensare i giorni nei quali avevo mangiato tanto, e
così a volte, la sera, mi prendeva il capogiro. Mangiavo crackers al mattino, un po' di pane dopo il lavoro e una banana o un'arancia, o qualcos'altro, tutto lì. Mi piaceva sentire lo stomaco dolermi per la fame, sapere di essere affamata e non sazia, non più grassa. Durante le sue lezioni mi prendeva spesso il capogiro. Perché pensava che il libro su Madame Bovary fosse tanto importante? Tutti quei libri? Perché ci diceva che erano più importanti della vita? Non sono più importanti della mia vita. «Quando ero una persona diversa, prima che impazzissi, i libri mi piacevano. Rimasi pazza per tredici mesi. Nessuno mi ricoverò, mi lasciarono restare a casa. Giacevo sul letto, pazza. Udivo le cose, ma non ascoltavo. Non ero Maurcen Wendall, ma una certa massa di carne, distesa su un letto. Avrei potuto restarvi per tutta la vita, ma mi ripresi, mi destai. Non so perché mi destai. Andò così. «Ora sto scrivendo questa lettera in una biblioteca, non in camera mia. Fuori è buio. Domani sera mi vedrò con l'uomo che mi propongo di sposare, l'uomo che voglio, ma questa sera sono una giovane donna sola in una biblioteca di Detroit, una piccola biblioteca, siedo sola a un tavolo e scrivo una lettera a una donna a nome Joyce Carol Oates, una mia ex insegnante. Vi sono soltanto altre tre persone qui, questa sera, perché fuori sta nevicando a larghe falde. È quasi una tormenta. C'è una donna con il cappotto, ancora abbottonato, e un collo di finta pelliccia, infeltrito e brutto, un cappotto che sembra un cappotto da uomo; e c'è un uomo che può avere settant'anni, chino sul Detroit News, con la faccia molto vuota, intento a leggere il giornale molto adagio; e c'è un altro uomo, sulla cinquantina, non voglio guardarlo molto perché gli sta, colando il naso, non ha il fazzoletto, e se lo pulisce con le dita. Poi c'è la bibliotecaria, con gli occhiali cerchiati di bianco. Vengo qui continuamente, ma finge di non conoscermi. Lavora alla sua scrivania. Ci troviamo tutti qui dentro e fuori nevica a larghe falde e dovremmo sentirci vicini gli uni agli altri, ma non è così. Non parliamo e non ci guardiamo. «Questa lettera è un'idea pazzesca, ma non me ne importa. Non mi importa di quello che lei può pensare. Forse riceve molte lettere pazzesche. Ho rinunciato a preoccuparmi di quello che pensa la gente, non posso cambiarla. Tutto intorno a me vi sono scaffali pieni di volumi, e nessuno di questi libri vale qualcosa, lo so, ormai, non i libri di Jane Austen che mi piacevano un tempo, né il libro su Madame Bovary che le piaceva tanto. Quelle cose non accadono e non accadranno. Nessuna di esse è mai accaduta. Nella mia vita è accaduto qualcosa e devo continuare a pensarci, al-
l'infinito. Per qualche tempo sono stata molto malata; era la mia mente a essere malata, rinunciò a pensare, divenne annebbiata e lenta, si ritirò dalle persone che parlavano. Lei parlava sempre troppo in fretta, in aula, quello era un suo difetto. Ce ne stavamo seduti, sforzandoci di capire qualcosa delle sue parole, e lei parlava sempre e sempre più in fretta, allontanandosi da noi. Ci odiava, forse, per parlare così in fretta? Ci lasciava indietro. Io avrei voluto avvicinarla, dopo la lezione, e domandarle: "Perché vuole lasciarci indietro?" ma non ne trovai mai il coraggio. «Quando guarii, mio zio mi portò a fare passeggiate. Fu lui a riportarmi indietro da dove ero finita, dalla pazzia. Fu lui a destarmi, mio zio. Non lo vedo più da anni, ormai, ma non importa, è lo zio Brock del 1957 che io ricordo, e ricordo mia madre del 1957 altrimenti tutto diventerebbe un guazzabuglio. La mia faccia era un disastro. Lui mi riportò indietro parlandomi. Aveva una faccia malinconica, seria, era un disastro egli stesso, un uomo fallito, senza coraggio. Ma' lasciava capire che aveva fatto qualcosa, un tempo, qualcosa di brutto, e che era stato costretto ad andarsene dalla città. Non lo so. Ma mi riportò indietro da dove ero arrivata. Gli voglio bene, per quanto possa essere un relitto nella sua vita, o per quanto nemmeno lui abbia una vita. «Perché continuo a ricordare la signora che camminava in un campo in Francia, in qualche località di campagna, facendo passeggiare un cane e rabbrividendo nel vento? Non voglio ricordare questo, dopo che ho dimenticato tante altre cose. Lei ci lesse quel brano, ce lo lesse con una certa espressione seria, e con un tono serio nella voce che quasi mi fece rabbrividire, significava tanto per lei, e non ci parlava mai in quel modo; questo perché riteneva il libro più importante dei suoi studenti. Non è forse vero? Lei si avvinghiava ai suoi libri e noi studenti venivamo e andavamo, studenti dei corsi serali e di quelli diurni, dentro e fuori, e poi lei lasciò quella scuola e andò altrove, ma portò con sé i libri e su tutti c'era scritto il suo nome, scommetto, e per lei erano più importanti di noi. Non importa. Non conoscevo gli altri studenti. Non avevo tempo per loro. La mia vita era un turbine. Volevo riuscire a scuola e trovare un impiego, fare carriera, sposarmi, ma la mia vita era un turbine, ed io ero troppo nervosa per far bene. A un certo momento ero rimasta a letto, pazza, e pochi anni dopo frequentavo l'università, il suo corso, seduta là in terza fila a fissarla, spaventata da lei e dalla scuola. A un certo momento ero rimasta distesa in un letto, chiusa nel silenzio, e pochi anni dopo scrivevo compiti per lei, mi sforzavo di scrivere. Ma lei mi venne meno. Mi respinse.
«Non incolpo nessuno. Non incolpo mai nessuno. Sono come un pezzo di legno trascinato dall'acqua, che va alla deriva, incontrando cose e passandovi accanto, senza giudicare, senza insultare nessuno. L'uomo seduto di fronte a me all'altro tavolo tira su con il naso, con quell'aspirazione nasale sonora e rapida che è abitudinaria in certi uomini, nei luoghi pubblici, per cui vien voglia di gridargli: Procurati un fazzoletto, sudicio maiale! ma io penso, No, è soltanto un uomo, non badargli affatto. Anche mio padre faceva così. Si sgombrava le cavità nasali tutte le mattine, nel bagno adiacente alla camera di Betty e mia. Facciano pure. Fanno queste cose. Fanno anche altre cose con te, ti feriscono, ti alitano in faccia il loro fiato, e poi muoiono, non ha importanza. Non gliene faccio una colpa. E non incolpo nemmeno lei. «Il mio insegnante di inglese, in quella scuola, il signor Kovack, era molto severo quando correggeva i miei compiti, e io credevo che fosse costretto a fingere, a far credere le cose difficili mentre tutti se ne infischiavano, mentre fuori, sulla Livernois, i freni non facevano che stridere e l'aria puzzava e i negri rimanevano in piedi agli angoli delle strade per tutto il santo giorno, pensando al da farsi, studiando piani. Incendi e sparatorie. Bruciare Detroit. Ma lui mi restituiva i compiti con dei cinque e dei tre, e in inchiostro rosso spiegava tutti i miei errori. Lei mi diede un tre, per il solo compito che consegnai, ma non si prese la briga di spiegarmi come avevo sbagliato. Mancanza di coerenza e di sviluppò, scrisse in fondo al foglio. Lo scrisse in inchiostro blu, il signor Kovack scriveva in rosso. La sua scrittura era, e lo è ancora, probabilmente, grande e sognante, con lettere circolari e lunghi tagli delle "t" inclinati verso l'alto o il basso, e molto chiara, ma che cosa mi aveva detto? Non riuscii a capire che cosa avesse voluto dirmi. Lei sapeva che cosa intendeva, ma io no. Lei non è donna da giacere paralizzata per tredici mesi perché un uomo ha tentato di ucciderla, non è donna che si concederebbe agli uomini per denaro o per qualsiasi altra ragione, nemmeno per amore, e non è donna da passare sere come questa in una biblioteca scrivendo una lettera a un'estranea. «Non chiedo di trasformarmi in lei, ma di vedere me stessa così: una donna che vive in una casa fuori città, una casa in stile rustico o coloniale, con uno steccato intorno al cortile, una donna che lavora in cucina, indossando magari i pantaloni, con un bambino nella culla nella camera dei bambini, tende bianche, sottili, trasparenti, una camera da letto per mio marito e per me, una finestra nel soggiorno che dà sul prato e sulla strada e sulla casa dirimpetto. Ogni cellula del mio corpo anela a questo! Vi anela-
no i miei occhi, i globi oculari nelle orbite, avidi e anelanti a questo, Dio mio, come desidero quella casa e quell'uomo, chiunque egli sia. «Sto pensando ai mesi durante i quali tornai alle medie, alla scuola serale, rifacendomi di quello che avevo perduto. Incominciai allora a sognare il mio avvenire. Frequentai la scuola, mi rifeci dei mesi durante i quali ero stata pazza. Ci riuscii. Ma come ci si innamora? Ho sentito Ma' dire a una sua amica che non c'è altro nella vita tranne gli uomini, niente altro tranne l'amore. "Gesù, a pensarci bene, che altro esiste?"' disse con la sua voce monotona e divertita, come se avesse sperimentato tutto e fosse costretta a riconoscere questa verità. Ma come ci si innamora? Sto pensando a Ma' che sbatteva qua e là cose in cucina, ubriaca, piangente, la faccia brutta e contorta, pronunciando parolacce, quando qualche uomo la deludeva... non facevano che deluderla, povera Ma', e sì che, in un certo qual modo, era una donna graziosa. Perché si esponeva a tutta quella sofferenza? Non faceva che esporvisi, ripetutamente. «Mi innamorerò. Domani sera mi incontrerò con l'uomo che ho scelto e che voglio amare. È già sposato; ha tre figli. Lo voglio. Voglio che sposi me. Farò in modo che questo accada e incomincerò la mia vita. Avremo una camera da letto insieme, avremo figli, lui lascerà i suoi figli a quell'altra donna. Le sto dicendo queste cose sebbene lei sia una donna sposata e anche se non vorrebbe che un'altra le portasse via il marito. Ma lei è una donna sposata, credo, che non si farebbe scrupolo di togliere il marito a qualcun'altra, purché accadesse abbastanza bene, in modo abbastanza bello, come un romanzo. Di tanto in tanto, però, non credo che la mia vita cambierà. Non credo che egli mi sposerà, o anche soltanto penserà a me. Non credo che potrebbe accadere una cosa tanto strana. E allora divento malinconica e non riesco a togliermi di dosso la malinconia. Mi curvo in avanti, la testa mi ciondola tra le spalle, le mie ossa sembrano diventare indifese, penso, Perché non sono morta? Perché lui non mi ha uccisa? Per tredici mesi fui un animale. Ma' adopera altre parole, dice che stavo "attraversando una fase", ma io ricordo tutto, so. Non pensavo mai a niente, in questi mesi, ma immagini galleggiavano nella mia mente come un incubo. Anche quando ero desta, dormivo. Anche in questo momento, mentre siedo in biblioteca e ho tempo davanti a me, tanto tempo pericoloso, sento nelle braccia e nelle gambe una strana e soffice sensazione, che è come una reminiscenza. Non riesco a togliermi di dosso queste reminiscenze. Non ero affatto innamorata degli uomini che allacciavo con le braccia. Entravano nel mio corpo, nel suo punto più segreto, quegli estranei, e lo
spazio tra noi era soltanto una superficie scivolosa di pelle e di sudore. Tutto questo è diverso quando c'è l'amore? Che cosa si prova concedendosi con amore? Oppure si giace lì sentendo il terrore di sapere che, con l'amore o senza, con un marito o con un estraneo, è sempre la stessa cosa e non esistono parole che possano cambiarla? Non sono mai stata innamorata. Loro non mi amavano. Si limitavano ad abbracciarmi, ancora e ancora; nella mia mente vedrò sempre un uomo abbracciare una ragazza che sono io. Vedo le mani di un uomo sul suo corpo, ma i corpi sono di estranei. Non riesco a liberarmi di questo ricordo. Il mio corpo è come il corpo di un animale, o uno di quegli esseri minuscoli che sono fatti di una sola cellula e che contengono tutto in sé, tutta la loro storia, e hanno sempre la stessa età, in ogni secolo, voglio dire, quando viveva Gesù Cristo, o anche adesso, quegli esseri sono sempre gli stessi, la loro memoria è resistente e non ha nulla a che vedere con il cervello. Io ricordo. Vivrò molto a lungo e ricorderò. «Sicché rientrai in me stessa. Mi destai. Terminai le scuole medie. Me ne andai dalla casa di mia madre, mi impiegai come dattilografa e trovai una stanza vicino alla fermata dell'autobus, mi iscrissi all'Università di Detroit per un corso autunnale di composizione, nel 1963, e il signor Kovack mi respinse con un quattro. Mi iscrissi a un altro corso, il suo. Venivo in classe, l'ascoltavo, giacevo desta le notti, pensando che non dovevo fallire, che dovevo essere promossa in questo corso, che dovevo dominarmi e diventare come tutti gli altri. Ma fallii ugualmente, lei mi venne meno. Mi respinse. «Mi venne meno. «Quell'anno all'Università di Detroit fu strano per me. Durante il giorno lavoravo. Altre tre dattilografe, oltre a me, e una segretaria. In centro. Prendevo l'autobus all'andata e al ritorno. Lo odiavo. Me ne stavo seduta per mio conto. Avevo paura, ma resistevo. Non cercai un altro lavoro. Non andai mai in nessun posto, tranne che in ufficio e a scuola. Non osavo andare al cinema. Avevo paura di quei primi minuti, quando non ci si vede bene nelle sale dei cinematografi. La sera, dalle sette alle otto e mezzo, due volte alla settimana, frequentavo il corso all'università. Mi sforzavo di avere lo stesso aspetto delle altre ragazze. Ormai ero dimagrita, la faccia mi si era schiarita. Me la lavavo due volte al giorno, vi spalmavo su cold cream, facevo tutto il possibile, e la faccia, che lei vide, se si diede la pena di guardarla, era di nuovo un visetto grazioso. Compravo scarpe e vestiti come le altre ragazze. Avvolgevo i capelli sui bigodini, li lavavo continua-
mente. Ero una bella ragazza. Ora, a ventisei anni, credo di essere ancora più bella. Merito di innamorarmi e di sposarmi. A quei tempi non osavo pensare ad alcunché di così remoto, era già molto barcamenarsi per tutta una giornata senza crollare. Non pensavo mai al matrimonio. Avevo paura degli uomini. Quello che invidiavo in lei era la sua disinvoltura con gli uomini, il modo con il quale conversava con loro, come amici, la vedevo con altre insegnanti nel corridoio, amiche degli uomini. Credevo che una donna non potesse mai essere amica di nessun uomo. Un giorno, prima della lezione, la vidi avvicinarsi alla sede della facoltà con un uomo, un professore come lei, un uomo alto, bello, dai capelli brizzolati, molto ben vestito, la vidi conversare con lui, sorridere, come se fosse stata una cosa normalissima, e nessuno di loro due mi vide; e un'altra volta la notai su una Volkswagen nera; suo marito la stava accompagnando all'università e risaliva il viale, suo marito. «Tutto in me anela a un marito. A una casa. «Ho portato questo desiderio in me per tutta la vita, senza sapere che cosa fosse. Tutte ne sono affette, è come una crepa che serpeggi in loro. In lei è stato soddisfatto per qualche tempo. Non prova alcuna sofferenza. So che non prova alcuna sofferenza in questo momento. Non la invidio, né voglio essere come lei, voglio soltanto sottrarmi alla condanna di essere Maureen Wendall per tutta la vita. Sogno un mondo ove si possa entrare nei corpi e uscirne, cambiare anima, ove tutto cambi e non sia eternamente stabile, ove si possa diventare uomini e donne, figlie, di nuovo bambine, persino vecchie, provando quello che significa e senza più dover odiare i vecchi per la strada. Non voglio odiare. Vi sono troppi estranei. Sto scrivendo questa lettera a un'estranea, scrivo in una biblioteca che sta per chiudere. Lei, l'estranea, la mia ex insegnante che mi è venuta meno, legge questa lettera il più rapidamente possibile, ne è spazientita. Non vuole che la gente avanzi pretese con lei. Io non incolpo e non giudico nessuno. Lei disse: "La letteratura dà una forma alla vita". Ricordo molto bene che lo disse. Che cos'è la forma? Perché dovrebbe essere migliore di come la vita si svolge, di per sé? Odio tutte queste cose, tutte queste menzogne, non sono altro che parole in tutti quei libri. In questa biblioteca mi piace leggere i giornali. Voglio sapere. Il vecchio sta leggendo un giornale, e così l'uomo al quale cola il naso. Al pari di me, vogliono sapere quello che succede, quello che è reale. Non hanno tempo, nella loro esistenza, per le cose inventate. Ma ricordo che lei disse quella frase a proposito della forma. Forma. Non so che cosa significhi questa parola. Forse mio fratello Jules
lo saprebbe. Non lo so. Io stessa sono una certa forma, una figura, seduta qui con la testa vuota e spaventata, ecco tutto. «All'ospedale, dopo che il marito di mia madre mi aveva picchiata, un medico stava cercando di togliermi sangue. Ero in me. Aveva un grosso ago e mi sforacchiava il braccio cercando una vena. Non riuscì a trovarla. Estrasse l'ago e lo conficcò di nuovo, cercando la vena, e mi strinse il polso per far gonfiare la vena così da potervi penetrare, ma anche questo non funzionò, e così provò con l'altro braccio, tenendomelo teso, adesso, perché stavo piangendo. Continuo a pensare a questo, all'ago che entrava e frugava cercando la vena, al dottore, un uomo, che mi sforacchiava il braccio in cerca di una vena, senza trovarla. Avrei reso la vena grande e soffice per lui, se avessi potuto, ma come si può far questo? Finalmente estrasse il sangue. Disse: "Bisogna farle una Wasserman" a qualcuno, senza rivolgersi a me. Io mi aprirei e mi preparerei all'amore, ma come si può far questo, come si può cambiare se stessi? «Qui alla biblioteca è quasi l'ora di chiusura. «Non c'è fine a tutto questo. «Che forma può esservi nel modo come le cose accadono? Volevo precipitarmi da lei, dopo la lezione, e farle questa domanda, gridargliela. Quello che avevo detto era sbagliato! Aveva sbagliato! Un giorno la segretaria, là dove lavoravo, entrò di corsa nel nostro ufficio. Ci disse: "Dio mio, hanno sparato al Presidente! Hanno sparato al Presidente!". Mandy, la ragazza accanto a me, balzò in piedi e fece cadere alcune carte dalla scrivania. Incominciarono tutti a porre, domande. La radio si trovava nell'altra stanza. Venne il nostro principale, era molto sconvolto. Io rimisi a posto le carte e, mentre mi chinavo, la mia mente fuggì via veloce come un treno, pensando Qui sta accadendo qualcosa che dovrei capire. Nello spogliatoio Mandy stava piangendo e io non volevo guardarla, non volevo vedere quelle lacrime, quelle spalle sussultanti. Le dissi: "Ma la gente muore ogni giorno. Anche qui a Detroit sparano alla gente". Una cosa terribile, invisibile, mi stava passando accanto. Che cos'era? Perché non riuscivo a capire? Fuori, in istrada, la gente era strana, turbata. Avrei voluto correre accanto a tutti, afferrarli per le braccia, avrei voluto gridare, "Ma perché? Perché? Perché tutto si è fermato? Perché proprio adesso? Che cosa è accaduto? Di che si tratta?". «Quando andai a scuola, quella sera, tutti stavano parlando dell'assassinio. Alcune ragazze piangevano. Un ragazzo scherzò a proposito del vestito di lana rosa della signora Kennedy, dicendo non so che della marmellata
di fragole. Le ragazze si allontanarono da lui facendo smorfie. Io me ne stavo per mio conto, sola, silenziosa. Ma la gente muore ogni giorno, pensavo. Chi era mai John Kennedy, per cui non sarebbe dovuto morire? Una pallottola gli era penetrata nel cranio in un certo qual modo, spappolando quello che si trovava nel cranio. Accadrà anche a noi, un giorno. È già accaduto ad alcuni di noi, e sta accadendo anche adesso, a Detroit. Una ragazza disse, eccitatissima: "Avete saputo di quel professore di scienza delle finanze? Credo che insegni scienza delle finanze. È entrato in aula e ha detto: 'Grazie a Dio, qualcuno ha avuto il fegato di farlo!'. Proprio così ha detto, davanti alla classe". Le ragazze si lasciarono sfuggire esclamazioni, scuotendo la testa. Uno dei ragazzi rise. Mi toccai la faccia per sentire come avessi la pelle, sperando che non mi guardassero, sperando che non scoprissero il mio segreto. «Mancano pochi minuti alle nove. La bibliotecaria spegne e riaccende la luce, per avvertirci. È il momento di alzarsi, è il momento di andare. Di mettersi le soprascarpe. Fuori farà molto freddo. L'uomo al quale cola il naso alza gli occhi, stupito. Ha paura? Non sa dove andare? Ha una faccia pallida, con borse sotto gli occhi, lentigginosa, e indossa una camicia gualcita. Meglio non guardarlo. La lancetta dell'orologio scatta di un altro minuto, il vecchio piega il giornale con cura e lo rimette sullo scaffale. Basta per oggi. Le sue mani sono schizzinose. Indugia là, ordinando a pile altri giornali. Accanto al radiatore, la donna emette un sospiro che posso udire dal lato opposto della stanza, scosta da sé una rivista, come se scostasse un piatto, fissa il piano del tavolo. E io, io rimango seduta con il cuore che batte fermamente e adagio, scrivendo tutto questo per odio, perché mi sembra adesso di odiare lei, la mia ex insegnante, una donna, ma questo è pazzesco perché non la conobbi e non feci alcun lavoro per lei, forse sarei potuta essere promossa e forse no, come poté essere sua la colpa? «Ma sì. Odio lei e nessun altro, nemmeno quegli uomini, nemmeno Furlong. La odio, e questa è la sola cosa sicura in me. Non v'è in me amore per l'uomo che voglio sposare, ma odio per lei. Odio per lei, con i suoi libri e le sue parole e il suo sapere tante cose che non accaddero mai, in una forma perfetta, e il fatto che veniva accompagnata a scuola da suo marito, e ora ci sono persino sue fotografie nel giornale, a volte, lei con tutta la sua scienza, mentre io ho già vissuto un'intera vita, e mi sono rovesciata come un guanto e non ne ho ricavato niente, non una sola cosa. Non so niente, adesso, niente di più di quanto sapessi prima. Quegli uomini non mi insegnarono niente. E io nemmeno li odio. Ho vissuto la mia vita, ma in essa
non v'è alcuna forma. Tutte le persone che giacciono sole di notte si contorcono in preda a un odio che non riescono a chiarire, al quale non riescono a dare una forma, tutte le donne che si concedono agli uomini senza sapere chi siano quegli uomini, noi tutte camminiamo in fretta con un odio simile a sofferenza nelle viscere, terrorizzate, e lei che cosa può saperne? Lei scrive libri. Che cosa ne sa? «La donna accanto al radiatore si alza in piedi. È pesante, sembra sofferente quando è in piedi: grosse gambe di vecchia, color crema, venate, povere gambe, vene che cedono e affiorano alla superficie, una donna di età matura. Oh, noi donne sappiamo cose che loro non sanno, loro professori, loro lettori e scrittori di libri, siamo noi a indugiare nelle biblioteche quando è l'ora di andarsene, o a star sedute sole in cucina sorseggiando caffè; facciamo pazzeschi progetti matrimoniali, ma non abbiamo un uomo, e sogniamo di rubare uomini, siamo noi a guardarci intorno adagio quando scendiamo dall'autobus e a non riuscire nemmeno a trovare quel che cerchiamo; non ricordiamo bene come siamo arrivate sin lì, ci domandiamo sempre che cosa accadrà dopo, quale cosa terribile accadrà dopo. Siamo noi a sfogliare riviste illustrate a colori e a passare lunghe e grevi ore affondate nei nostri corpi, pensando, ricordando, sognando, aspettando che qualcosa venga a noi e dia una forma a tanto dolore.» 10 Luglio 1966. Jules continuava a essere così contento di ritrovarsi al nord che non gli importava di dover accompagnare in macchina tutte le settimane sua madre all'ospedale, dove era ricoverato lo zio Brock - vi si trovava da alcuni mesi - affetto da una malattia misteriosa dalla quale non si ristabiliva affatto. Diceva a se stesso che in parte la vita consisteva nell'accompagnare gente agli ospedali, nel far visite in ospedale e, di tanto in tanto, nell'esservi ricoverati. Mentre si trovava nel sud-ovest, aveva dovuto essere ricoverato in ospedale tre volte per vari disturbi. Il clima lo aveva indebolito, rendendolo facile ai mal di capo, ai dolori agli occhi, ai capogiri, e una volta era stato colpito violentemente al ginocchio da una leva per smontare pneumatici, aveva avuto il ginocchio quasi fracassato e, mentre giaceva in ospedale, si era sforzato di creare un'isola di tranquillità intorno a se, per poter pensare e pianificare la propria vita. Ma gli ospedali erano tutti così rumorosi... la notte e il giorno vi si confondevano, notti insonni e giornate insonni, e si mangiava troppo, e si rimaneva troppo esposti al
prossimo; aveva finito con il pervenire alla conclusione che sarebbe stato preferibile non avere affatto un cervello, ma giacere inerti e aspettare. Ora che sua madre si era messa con un altro uomo, la situazione stava migliorando... ma per una visita all'ospedale occorre fare la faccia di circostanza, e pertanto ella aveva un'aria triste. Jules riusciva a leggere nei suoi pensieri. Le era affezionato e le voleva bene per tutte le cose che lo avevano esasperato quando era stato più giovane. Gli piaceva il passo elastico di sua madre, quando ella saliva le scale dell'ospedale. Era qualcosa su cui poteva far conto. «Dovrei essere stufa, ormai, di questa città,» disse Loretta «ma in una giornata come questa non è possibile, il tempo è così splendido. Se soltanto Brock potesse rimettersi in piedi...» «Guarirà.» «Adesso dicono che si tratta del fegato. Il fegato, i reni, che cos'ha? Mi ricorda tuo padre, e tuo nonno. Ci sono uomini così in tutto il mondo, non riescono a rimettersi in piedi, non ce la fanno a continuare, incespicano e cadono e se si dà il caso che tu sia una donna, devi tentare di rialzarli. Ma non puoi. La donna trascorre la maggior parte della sua esistenza carponi a pulire i pavimenti dopo che loro ci sono passati, a lavargli la biancheria sporca, a raschiargli il fango dalle scarpe e a cucinare per loro montagne di cibo... mangiano come porci e bevono come porci, bevono come pesci. Ti frastornano a furia di dire che cosa faranno una volta guariti, ma alla fine sei tu a doverti trovare un lavoro, proprio tu, e questo è il solo modo per sapere da dove vengono i soldi e se ce ne saranno. È l'unico modo. Loro non fanno che cianciare, e vomitare nell'acquaio perché hanno bevuto troppo, e hanno il fiato puzzolente a causa dei denti gialli e marci, e la prima bagascia che cammina per la strada riesce a farseli venir dietro, mentre qualcun'altra rimane in casa a cucinare e a pulire tutte le loro sozzerie. Adesso anche Brock si è ammalato. Che diavolo può avere?» L'ira aveva continuato a farle accelerare il passo. A questo punto si voltò verso Jules. «Non lo so. Lo rimetteranno in sesto, non stare a crucciarti» disse Jules, con un'allegria che non andò più in là del suo sorriso. Passarono davanti al banco dell'accettazione, nel vestibolo, camminando su un decrepito pavimento a piastrelle che non era molto pulito e inoltrandosi in un corridoio ingombro da carrelli carichi di biancheria, da carrelli sui quali si ammonticchiavano piatti sporchi, da carrelli con lenzuola sudice; proseguirono rapidamente, lasciandosi indietro la sala dei raggi X, la
stanza delle distributrici automatiche, e giunsero in un corridoio buio nel quale un ascensore scaricava in quel momento alcune infermiere. Jules infilò la mano nell'ascensore per impedire che la porta si chiudesse e lui e Loretta entrarono; avevano già familiarità con la spia luminosa verde della piccola cabina e con il suo ronzio sommesso. «Odio gli ospedali, mi danno i brividi» disse Loretta. «Dovresti essere contenta che ci siamo» disse Jules. La sua esistenza non era adesso spiacevole. Lavorava con lo zio, il fratello di suo padre, Samson Wendall, un uomo tutto prudenza e flaccidità e irascibilità, il tipo di uomo al quale Jules immaginava di poter tenere testa. Un lavoro con Samson Wendall! Non importava se non era un granché, se non rendeva bene... Jules credeva nell'avvenire. Il vecchio si era fatto vivo un giorno: cercava Jules. Suo figlio era passato da una università all'altra e stava ora facendo l'autostop in Europa, non più rintracciabile, chissà dove in Europa, sconcertando e irritando il vecchio, che si era così deciso a cercare il nipote, del quale aveva sentito dire cose straordinarie ai tempi ormai lontani di nonna Wendall, sempre pronta a travasare storie favolose da una famiglia all'altra. A quei tempi, tutte le profezie sulla superiorità di Jules erano passate inosservate o erano state accolte con scherno, ma ora, misteriosamente, qualche fiore era sbocciato nella testa di Samson, e Jules aveva un posto nella sua officina a Wyandotte. Si stava affermando, finalmente. Aveva ventisette anni. Questo reparto dell'ospedale era riservato principalmente agli assistiti dalla previdenza sociale, e pertanto vi si trovavano numerosi negri più o meno vestiti, seduti sui letti, sdraiati e doloranti, immobili sotto lenzuola rigide e bianche, un letto dopo l'altro di persone ammalate e innocue. Jules guidò sua madre, conducendola più avanti. Temeva che ella gli bisbigliasse: «Non sei contento di non essere un negro, almeno?» come gli aveva detto altre volte. Passarono accanto a corsie aperte, lunghe file di letti. Loretta si guardò attorno con compassione. Era così conscia di essere bianca! E infine si rivolse a Jules e disse a voce bassa, non proprio in un bisbiglio: «Gesù, vorresti essere negro, e malato, per giunta? Questo, almeno, sono riuscita a evitartelo, figliolo». Jules soffiò fuori aria dai polmoni, per dimostrarsi comprensivo, divertito. In effetti, le era immensamente grato per essere bianco. A Detroit l'essere bianco gli sembrava un dono particolare, una benedizione... come sarebbe stato facile non esserlo! Soltanto in un incubo gli poteva accadere di portarsi le mani al viso e di vedere pelle di colore, pelle negra, un color bruno scuro e irrimediabile, che niente avreb-
be potuto eliminare, nemmeno un rasoio. Il letto di Brock si trovava tra due letti disgraziati, i cui occupanti stavano morendo a poco a poco, e senza bellezza né mistero; nell'uno un negro anziano che aveva avuto parecchi attacchi cardiaci, un uomo grasso divenuto pelle e ossa; e nell'altro un bianco di età matura, greco o italiano, che giaceva chiuso in un silenzio di pietra e fissava il soffitto emettendo un odore strano, quasi l'odore della tomba. I suoi visitatori, quando ne venivano, tacevano, tacevano tutti. Bene, eccoci qui! La faccia di Loretta assunse l'espressione delle visite all'ospedale, un sorriso ampio, falso, e Jules rimase in piedi dietro di lei, attento, sentendosi più vecchio di dieci anni. «Bene. Brock, chilà! Pensavi che non saremmo venuti?» disse Loretta, gridando quasi, tanto grande era la sua benevolenza. «Ehi, salve. È un piacere vedervi» disse Brock, sforzandosi di sorridere. Brock non era un vecchio; ciò nonostante aveva il corpo invecchiato, diceva il dottore; il suo cuore era il cuore di un vecchio, i reni e il fegato erano logori, lo stomaco debole, a causa di tutto il suo bere, bere, o vagabondare, o semplicemente vivere... il dottore aveva detto questo, o lo aveva detto qualcuno con l'aria di essere un medico, mentre magari era soltanto uno studente in medicina; sarebbe stato difficile capirlo. Gli stavano facendo esami. Ed erano bastati quegli esami a invecchiarlo, constatò Jules. Aveva la faccia smunta, sudata, i capelli radi che indietreggiavano sempre più dalla faccia lievemente attonita, imbronciata, e la bocca molle, le gote flaccide, lo sguardo stesso degli occhi flaccido e non a fuoco, tranne quando si avvicinava qualcuno vestito di bianco... quegli occhi assumevano allora un'espressione inquietante, quasi demoniaca, come se egli fosse pronto a lottare. Aveva detto loro qualcosa degli esami, ma più che altro si era mostrato reticente per quanto li concerneva. Meglio non sapere, pensò Jules, saggiamente. Meglio non pensare a quello che facevano negli ospedali. Jules sentì che esisteva un ponte tragico tra se stesso e suo zio, un ponte di affinità e di disperazione. Ma lui, Jules, aveva soltanto ventisette anni e si trovava sull'orlo di una vita nuova, si sentiva immortale, con un lavoro decente per la prima volta nella sua carriera, vestito in modo decente, dopo che si era lasciato alle spalle la terra rossa del sud e del sud-ovest, ed era rinato nel nord... per un mese la fortuna lo aveva abbandonato a tal punto, si era ridotto in condizioni così miserevoli da essere costretto a fare l'accalappiatore di cani e gatti: catturava animali randagi ai margini dei prati
suburbani o nei vicoli e li portava a un veterinario che, a sua volta, li vendeva a un laboratorio medico sperimentale, con quali utili Jules non era mai riuscito a scoprire, sebbene ci avesse provato, in quanto voleva mettersi in quel lavoro per suo conto; era caduto in basso fino a questo punto; e per qualche tempo, tornando al nord, era stato assunto da una società di St. Louis, una società finanziaria di prestiti che vendeva anche automobili usate. Lui aveva il compito di portar via le automobili ai debitori in arretrato con i versamenti, un lavoro avventuroso all'estremo e ingrato, sebbene richiedesse intelligenza e abilità... aveva fatto tutte queste cose pazzesche, ma adesso, superato il ventisettesimo compleanno, sembrava che finalmente le cose volessero mettersi bene. C'era movimento all'altra estremità della corsia... alcune infermiere, un inserviente. Sembrava che un paziente stesse vomitando... o che avesse un'emorragia. Jules tenne gli occhi fissi su suo zio, costringendo anche Loretta a restare voltata verso di lui, perché non voleva storie. Quelle visite erano già abbastanza penose, abbastanza imbarazzanti... bisognava evitare che peggiorassero osservando anche le disgrazie altrui. Paventava le esclamazioni di Loretta, Oh, quanto sangue, guarda!, oppure. Dov'è la gamba di quell'uomo? Non che la giudicasse stupida fino a questo punto, ma riteneva che ella ricorresse soltanto a un'astuzia femminile, recitando inconsapevolmente l'ignoranza e la sorpresa per lasciar capire quale grande distanza esistesse tra simili orrori e lei... era una donna bionda, superficiale, di umore allegro, non certo fatta per l'orrore. L'orrore la sorprendeva. Ma aveva buon senso a sufficienza per non lasciarsi sfuggire esclamazioni a causa dell'aspetto di Brock. A questo proposito taceva. Qualcosa stava succedendo sulla faccia di Brock... il labbro superiore di lui sembrava erodersi, disintegrarsi lentamente. Settimana dopo settimana. Il labbro inferiore era normale, ma il labbro superiore si assottigliava a sinistra, sabbioso e granuloso, molto secco. Jules ricordò di essersene già accorto in occasione di altre visite, di averlo notato pur senza soffermarsi sulla cosa, pensando che non era affar suo, e perché il dottore non ne aveva parlato. D'altro canto, non vedevano il dottore da tre settimane. Forse suo zio aveva la lebbra. E invece parlavano soltanto del cuore, dei reni e del fegato, misteriosi congegni interni. Si sforzò di non notare il labbro di suo zio. «E Maureen sta bene, Brock, proprio bene, se la cava tanto benino con il suo lavoro, e continua a studiare» disse Loretta. In realtà, Maureen era stata respinta all'Università di Detroit e aveva un impiego schifoso come dattilografa, ma il solo fatto che ella prendesse l'autobus sembrava un mi-
racolo dopo un anno di immobilità a letto, e tutti lo sapevano. «Inoltre è davvero graziosa, adesso, si è comprata un soprabito primaverile, non è mai sembrata più carina. Né più sana.» «È felice?» domandò Brock. «Oh, felicissima! Sicuro che è felice!» gridò Loretta. «Sarebbe venuta, oggi, ma doveva andare in qualche posto. È semplicemente meraviglioso come Maureen sia tornata a essere quella di una volta e... e tutto grazie a te.» Brock accettò queste affermazioni con gravità. Ci credeva. Respirando rauco, giacendo in silenzio, parve contemplare l'esile e misteriosa Maureen. Era strano che ella non fosse mai venuta a trovarlo. La giustificavano, inventavano pretesti per lei. Maureen, però, spaventata e brusca, si rifiutava invariabilmente di recarsi all'ospedale. «Desidero vederlo, ma non posso, non posso! Lasciatemi in pace!» gridava con ira, ansiosa di andarsene, di riprendere la sua esistenza solitaria. Brock giacque in silenzio per qualche minuto, pensando a lei. «Be', sono contento che abbia trovato un impiego, e così via» disse infine. A questo punto Loretta ricominciò a cicalare, degli inquilini nel loro caseggiato, dei ragazzini che avevano i pidocchi, bastardi di ragazzetti, capaci di rubarti anche la camicia se non gli facevi capire chi era a comandare; al piano di sopra abitavano rifiuti umani e rifiuti umani abitavano al piano di sotto, una vedova aveva avuto il bagno rotto per tutto l'inverno e non si era mai sognata di farlo riparare, le tubazioni dell'acqua perdevano, un gradino delle scale era sbrecciato, c'erano donne incinte, con la pancia che sembrava un cocomero, e se non cedevi loro il passo sui marciapiedi ti urtavano con quei pancioni... tutte bagasce negre, naturalmente, e lei, Loretta, cercava di tenerle alla larga, anche a costo di crepare, e anche a costo di crepare cercava di convincere Betty a tornare a casa, si sforzava di riunire la famiglia, e aveva una paura da morire anche soltanto ad andare in macchina da quelle parti, perché che cosa sarebbe successo se Jules avesse investito un marmocchio negro? Sciamavano dappertutto per le strade, ovunque. Se lui avesse investito un ragazzetto e tutti fossero corsi fuori delle case avventandogli contro e facendolo a pezzi? E a lei, che le avrebbero fatto? «Ma', non parlare così forte» disse Jules. La sua attenzione venne attratta da un'infermiera che si faceva avanti nella corsia. Era più giovane di lui, ma aveva un modo di camminare sicuro, silenzioso, con le scarpe bianche dalla suola di gomma; una ragazza dal
viso color del miele, che gli sarebbe piaciuto abbracciare, sorprendendola. Le sorrise; lei lo sbirciò e abbassò gli occhi. Ricordò di averla già veduta altre volte. Sentì un inutile, piccolo guizzo al cuore. Non era mai riuscito a superare il proprio amore per Nadine, anche se la sofferenza avrebbe dovuto spegnerlo, e ora tutti i suoi rapporti con le donne, sia pubblici, come in quel caso, sia privati e fisici, venivano oscurati dal ricordo di Nadine, che gli scioglieva nelle vene una stupida malinconia. Quanto aveva amato quella ragazza! Odiarla era soltanto una manifestazione del suo amore, disperata come quell'amore, e l'ossessione aveva continuato ad alimentarsi di se stessa per molti mesi, per anni, finché l'idea di Nadine gli si era radicata definitivamente nella testa, così inflessibile che poteva esserle infedele con un numero qualsiasi di donne, e lei, Nadine, non ne restava tradita, ma, in qualche modo, onorata. Egli non sapeva se odiare questa sua debolezza, questo amore, o essere grato per esso. Mentre sua madre continuava a ciarlare amaramente di qualcuno che abitava al piano di sopra, Jules si scusò e seguì l'infermiera fuori della corsia. Camminò in fretta, consapevole di avere un bell'aspetto, di essere un giovane piacente, che tuttavia zoppicava ancora un po' a causa del colpo terribile infertogli a un ginocchio un anno prima (durante la rissa con un tale la cui automobile egli stava sequestrando a nome della società finanziaria, un negro che aveva tentato di fracassargli la rotula con un ferro per smontare pneumatici), e la raggiunse nel corridoio. Ne approvò l'uniforme bianca, pulita, e i capelli lustri. «C'è un caffè, da questi parti?» domandò. Lei lo fissò, confusa. Jules rimase deluso, in un primo momento, da un che di poco immaginoso nel suo sguardo, ma proseguì camminandole accanto adagio, guidandola lungo il corridoio. «Veniamo tutte le settimane a trovare mio zio, ma sembra che non migliori.» «Sì, ricordo di averla già vista.» «Mio zio non si riprende affatto. Mi domando se stia morendo. Lei conosce i retroscena?» le domandò Jules, con un sorriso. La ragazza guardò da un lato e dall'altro del corridoio. Aveva la fronte aggrottata. «Che cosa intende dire? I retroscena?» «Può venire a prendere un caffè con me in qualche posto?» «No.» «Perché no?» «Sono di turno. Devo lavorare.» «Quando smonta?»
«Alle sei.» «Permetta che torni qui a prenderla, poi potrà raccontarmi i retroscena» disse Jules, toccandole appena il gomito. «Non ci sono sempre retroscena? Per quanto concerne i medici e le infermiere? Che cosa succede nella sala operatoria?» Ella arrossì, senza guardarlo. «Vuole scherzare» disse. «Si sta burlando di me.» «Sono serissimo. E non voglio criticare, voglio soltanto sapere. I retroscena degli ospedali li vogliono conoscere tutti. I profani ripongono una grande fiducia negli ospedali e nei medici, ma ciò non toglie che siano curiosi. Sono stato per qualche settimana in un ospedale nel sud e ho trovato zampe di scarafaggi nella minestra... uno scarafaggio intero sarebbe stato un'altra faccenda, avrei potuto gettarlo sul pavimento con un dito e toglierlo di mezzo, "ma pezzi di scarafaggio sono una cosa un po' più grave... non può sperare di eliminarli tutti. Che ne pensa?» «Non ho mai visto scarafaggi nella minestra di nessuno» disse la ragazza. «Il labbro di mio zio si sta erodendo. Ma nessuno dice niente. Ho notato che ha sul braccio molti puntini rossi, punture d'ago. Gli state per caso iniettando il cancro?» La ragazza guardava diritto davanti a sé. «Io non inietto niente a nessuno, tranne quando ricevo disposizioni precise» disse. «Oh, non lei. Non mi riferisco a lei; e, anche se lo facesse, non lo farebbe volutamente» disse Jules in tono allegro. «Parlo di alcuni dei medici interni, quelli del turno di notte, magari. Non fanno tutti esperimenti? Tutti quei negri che lavorano qui dentro, perché no? Qualche cellula cancerogena qui, un nuovo farmaco anti-cancro là, un letto e poi un altro... perché no? E quelli della previdenza collaborano volentieri.» «Non so di che cosa stia parlando» disse la ragazza. «Parlo soltanto per far passare il tempo, perché lei mi piace» disse Jules, mentre il suo buon umore si dileguava adagio. «Non riguarda nessuno quello che i medici, negri o bianchi, fanno ai pazienti. Perché non eseguire esperimenti? Io non li voglio giudicare. Se fossi medico, potrei comportarmi anch'io nello stesso modo. Sperimenterei sempre qualcosa di nuovo, e durante il turno di notte nessuno potrebbe impedirmi di trapiantare alluci e dita, di fare innesti di orecchie su stomachi, tanto per ridere, di lasciare spugne entro uteri, o una forchetta di acciaio inossidabile che sporge da un occhio, nell'interesse della scienza medica. Scoprirei nuove malattie e il
modo di guarirle, tutto nella stessa notte. Me la spasserei da matti. Passo a prenderla alle sei, all'ingresso del personale, allora.» «Be', non so...» «Sì, alle sei. Sarò là. La mia automobile è bianca.» «Non credo di poter venire. Non lo so.» «Alle sei» disse Jules. La lasciò e tornò nella corsia di suo zio, un po' depresso. L'odore dell'ospedale non era il profumo che piaceva a Jules; mescolato al lieve odore di una donna, diventava perverso e greve. E cancellava l'odore femminile. Tornò indietro adagio, tenendo le mani in tasca; udì una macchina per scrivere ticchettare in qualche posto, e, al di là di quel suono, un mormorio basso e sordo, simile al mormorio in qualche caverna, al mormorio dei dannati all'inferno. Ci troviamo qui da anni! Ti stiamo aspettando da anni! avrebbe potuto gridare un coro di morenti, mentre lui entrava nella corsia, avido della propria gioventù. La sua gioventù... La notte prima, giacendo tra le braccia di una donna che era sposata con un suo conoscente, aveva fatto una riflessione terribile: entrare in quelle donne era sempre la stessa cosa, per ognuna di loro la stessa cosa, eppure lui non era mai realmente entrato, lo avevano sempre respinto, Veniva lasciato fuori, congedato. Non aveva mai portato a termine niente. In uno dei letti vicini a quello di Brock, un tizio si drizzò a sedere, con un rosario nero che gli ciondolava tra le dita, contemplando Jules come se fosse stato sul punto di dire, Sì, noi uomini siamo sempre respinti. Jules distolse lo sguardo. Non era possibile che lui, Jules, stesse diventando un uomo come tutti gli altri... che non avesse in sé alcuna particolare abilità, alcuna grazia né alcuna delicatezza, alcun destino proporzionato al suo desiderio. Voleva tanto! E ora, andando verso il letto dello zio morente, verso il corpo dondolante e cicalante di sua madre, sentì di non trovarsi tanto in un ospedale quanto in una prigione, libero soltanto entro le mura del carcere, con una minima possibilità di muoversi. Gli sarebbe piaciuto accendere una sigaretta. La paura cominciò a farsi sentire in lui, niente di serio, ma quando tornò accanto a Brock e contemplò quel rottame, rivedendo, incidentalmente, le macchioline rosse sulle braccia di suo zio, gli parve probabile che davvero i medici stessero eseguendo esperimenti con cellule malate di cancro - non era uno scherzo, ma una cosa seria - iniezioni seguite dalla crescita di colture, cellule colorate sotto i microscopi, una sequela di antibiotici, di anti-virus, di anti-germi, di pozioni segrete prepa-
rate durante la notte dal più brillante medico interno dell'ospedale, destinato a diventare famoso. Tutto era possibile. Che vittoria trionfale essere medico! 11 Jules accompagnò in macchina suo zio Samson al ristorante London Chop House per il pranzo e consegnò l'automobile all'inserviente negro del parcheggio; quanto a lui, era qualcosa di più di un custode di parcheggio, e poco di più di un autista, ma si godeva l'amabile servilismo di quella gentucola... era un modo di tirare avanti. Vestiva bene, con un leggero abito estivo che gli era costato più di cento dollari, una cravatta grigio-chiara dai riflessi acciaio, le scarpe lucide, i capelli ben pettinati, lo sguardo fisso sull'incedere bellicoso e un po' malfermo dello zio. Zio Samson non poteva essere il fratello di Howard Wendall... sembrava quasi impossibile. Soltanto il vizio di bere li accomunava. La fabbrica di macchine utensili di Samson Wendall si trovava a Wyandotte, nel Michigan, ed egli era bene avviato, il denaro gli pioveva addosso; abitava adesso in un'immensa dimora in stile Tudor nella stessa Grosse Pointe, con la grassa moglie e le figlie, che dovevano passare quasi tutto il loro tempo guardando, fuori delle finestre barocche, il lungo prato in pendio, un prato da bacheca, aspettando le visite delle dame di Grosse Pointe. Ma non una di quelle signore andava a trovarle. Lo Yacht Club di Grosse Pointe non faceva alcun cenno, né faceva cenno l'Athletic Club di Detroit, sebbene Samson schernisse abbastanza malignamente il grande edificio, quando Jules vi passava davanti. «Guarda là, da' un'occhiata! Un isolato più indietro ci sono quelle prostitute negre sul marciapiedi, con i capelli tinti per andare all'inferno... che te ne pare?» Jules sorrideva e proseguiva. Era suo dovere, con Samson, non fare lo spiritoso né il curioso, ma limitarsi a essere un figlio, un sostituto del suo scatenato e smarrito cugino. Era saltato fuori proprio quando suo cugino, un giovane a nome Joseph, non aveva più dato notizie di sé. All'inferno Joseph, Joseph che si trovava in Europa. Jules era a Detroit e portava in giro in automobile lo zio Samson, abilmente. La sola cosa che dovesse fare, seguitava a dire Samson, consisteva nel tenere la bocca chiusa, e gli occhi bene aperti, e così le orecchie. Doveva lavorare con il direttore della fabbrica. Doveva restare al fianco dello stesso Samson, per imparare il mestiere. «Ehi, lo sai che viaggio in aviogetto, adesso? Un aereo di linea a reazio-
ne?» «È meraviglioso» disse Jules. «I tempi sono cambiati, non c'è che dire, rispetto al passato. Dio, e come se sono cambiati!» disse Samson, con un sorriso al limone. Del padre di Jules non parlavano mai. Della madre di Jules, Samson aveva detto una volta: «Ho saputo che tua madre ha un bambino. Bene, questo la manterrà giovane... alle donne piace darsi da fare con un bimbetto, eh?». Parlava soltanto dello stesso Jules, con quel rincorrersi entusiastico di parole che, Jules lo intuiva, poteva non significare un bel niente, così come non avevano significato niente, quelle parole frettolose, con Bernard Geffen. «Per prima cosa, ti iscriveremo all'università, seguirai i corsi che si devono seguire, e toglierai di mezzo questo ostacolo. Imbottisciti la testa, figliolo, e il resto lo imparerai direttamente da me. Ho bisogno di qualcuno di cui possa fidarmi. La tua faccia mi piace.» «Grazie» disse Jules. «Niente ringraziamenti! Ho detto che mi piace la tua faccia. Mi fido di te.» Entrarono nello Chop House, calando entro la penombra costosa, e Jules si chinò; compito, all'orecchio della hostess per domandarle quale fosse il loro tavolo. Sì, doveva avere una faccia simpatica, tutti reagivano bene alla sua faccia. Ma era la stessa faccia che vedeva lui? Al tavolo con la tovaglia a scacchi bianchi e rossi, in un angolo appartato, perduto nella ricca penombra da cantina del locale, sedeva un tale a nome Yates, aspettandoli. Samson era in ritardo di quaranta minuti, essendosi liberato, a furia di tossire, da qualcosa nella toletta del suo ufficio, mentre Jules, intontito da un certo intontimento professionale che stava coltivando, guardava, fuori della finestra, l'aria caliginosa di Wyandotte, nel Michigan. Samson, ora, grugnì un saluto all'uomo, gli strinse la mano, presentò Jules, sedette pesantemente, con quell'espressione di irritata aspettativa che si confà ai dignitosi industriali, insuperbiti dalla ricchezza, di Detroit, quando pranzano al London Chop House. «Che tana buia! Ci nascondono qualcosa, qui?» borbottò Samson. L'altro reagì subito con un latrato di apprezzamento e Jules spiegò il tovagliolo con un sorriso che voleva essere il sorriso di Joseph Wendall. Si sentiva responsabile per questo zio, sebbene Samson pesasse quarantacinque chili più di lui e lo superasse di parecchi decibel in fatto di intensità di suono, anche quando si limitava a respirare; un uomo dal torace enorme,
con i capelli grigi, senza alcunché che lo distinguesse tranne l'arroganza; portava con sé, sopra la cintola troppo tesa e lussuosa, il coraggio spavaldo dimostrato da Howard Wendall sulla catena di montaggio. Il sangue di Jules circolava liberamente, alla presenza di questo zio, soltanto quando, annuendo, lui, Jules, approvava con un sì qualsiasi cosa, per quanto fantastica. Quel giorno sembrava che si facesse dello spirito principalmente alle spalle di Lady Bird Johnson. «A quanto pare, Lyndon Baines stava uscendo dalla vasca da bagno, un mattino, quando chi ti vede...» Jules sorrise prima del tempo, approfittando dell'occasione per osservare intorno a sé il ristorante gremito, e domandandosi se la faccia gli si stesse assottigliando a causa di tutti i sorrisi che doveva fare. Ammirava sinceramente suo zio. Lo aveva sempre ammirato per i suoi soldi, spronato dall'ammirazione e dalla gelosia di nonna Wendall, nonché dall'odio di sua madre, sapendo che il successo di un uomo non può non destare la gelosia e l'odio dei falliti. Era andato a pranzo con lui molte altre volte. Nei salatissimi ristoranti del centro, nei ristoranti vicino al Fisher Center, a Dearborn, fuori città, a Woodward, all'aeroporto, sempre pranzi d'affari durante i quali doveva tacere e ascoltare, un figlio, rispettoso e silenzioso, con un'aria intelligente e degna di fiducia, bevendo un solo aperitivo e lasciando poi che i più anziani passassero al secondo, al terzo e al quarto, come facevano sempre. «Questo locale è buio, non c'è che dire! Se faccio cadere qualcosa qui, qualcun altro dovrà pagarla salata» disse Samson. Come un personaggio dei fumetti, restava incatenato a una determinata osservazione e seguitava a rilanciarla con un sorriso petulante, quasi che anche tutti gli altri ne fossero mirabilmente dotati, un salvagente per tenerli a galla nelle acque perigliose della conversazione. «In questi locali bui, quando fanno il conto, ci aggiungono il giorno del mese» soggiunse. L'altro uomo emise un suono brusco, simile a una tossetta secca, che voleva essere una risata. Samson aveva cominciato la carriera come operaio non specializzato alla Ford, decenni prima; si era impratichito di macchine utensili; poi se n'era andato per fondare la sua azienda, fornitrice di industrie più grandi. Aveva fatto strada senza commettere sbagli, senza stupidità, affermandosi, attirando investimenti, tanto che ora poteva vantarsi di aver reso milionari altri sei uomini, oltre a lui. Jules sedeva accanto a un milionario. Eppure la cosa non sembrava convincente: avrebbe potuto sedere a una tavola calda, accanto a uno sconosciuto. «Il guaio infernale della faccenda è che vale seicentomila dollari,» stava
dicendo Samson a Yates, e puntava irosamente il pollice, «per cui che cosa facciamo? Il bastardo dice: "Intratteniamoli un po' ". E io rispondo: "Intrattenerli come?". Ma non si ottiene niente da quelli là... parlano una loro lingua tutta speciale su nel New England! Così telefono a Mike e glielo riferisco e lui dice: "Be', c'è quel tale al Metro Airport, mettiti in contatto con lui"; e che cosa ti combina, quello? Si mette d'accordo per certe ragazze che sono all'Università del Michigan...» «Alla che?...» disse Yates. «All'Università del Michigan. Ragazze. Studentesse. Trenta dollari per sera; ma, io dico a Mike, dovremmo pagare noi?... perché seicentomila dollari sono seicentomila dollari, però io non mi sono mai messo in affari di questo genere prima d'ora, e forse è troppo tardi per cominciare. Allora lui dice, noi non ci muoviamo e stiamo a vedere chi vuol pagare i trenta dollari, sarà questo a decidere. Non è questione di trenta dannati dollari per quanti... quanti sono? quattro o cinque tipi?... ma, Gesù Cristo, nessuno mi metterà i piedi addosso.» «Chi ti ha parlato dell'Università del Michigan? Stai scherzando?» «Non ho il tempo di scherzare» disse Samson, irosamente. Arrivarono gli aperitivi. Il ristorante sembrava più luminoso. Samson si sporse in avanti, contro il tavolo, per parlare in faccia al signor Yates, un uomo alquanto simile a lui, e cominciò ora a discorrere della sua barca. Jules sentiva parlare continuamente di questa barca. Lunga quindici metri, era costata parecchie migliaia di dollari, ma non sempre riusciva a navigare; non sempre il motore partiva. Samson continuava a invitare Jules sulla barca, ma non si era mai deciso a fissare un giorno preciso. Samson disse a Yates: «Ho parlato al telefono per cinque volte con i miei avvocati, stamane, e, all'inferno, credi che riescano a risolvere una cosa maledettamente semplice come questa? Gesù! Lei ha fatto una cosa stupidissima, accidenti, gettando in mare un grosso cocomero - era da buttar via, marcia, la dannata anguria - e certi ragazzetti stavano facendo lo sci d'acqua, be', tu non ci crederesti, è scoppiato un inferno di putiferio, e mia moglie, si ostina a volergli telefonare, ai genitori, per piangere al telefono o che so io. Le ho spiegato che è proprio quello che vogliono...». Lo sguardo di Jules vagò stancamente da un lato, e là egli vide Nadine in persona. Era in compagnia di altre due donne, e lo stava fissando. Il cuore gli diede un balzo nel petto. Distolse subito gli occhi. Suo zio stava parlando della barca e del processo. Una causa si susseguiva all'altra. Doveva incominciarne una nuova lunedì. Cause, avvocati.
Giudici. Aule di tribunale. «Un tempo la vita non era così complicata» disse Samson, torcendo la faccia in un modo che la fece sembrare quasi identica alla faccia del padre di Jules, riportato su, orribilmente, dalla tomba, con un'espressione arcigna, perplessa, sospettosa. Sembrava che avesse assunto un certo giovanotto brillante di una certa società - quest'ultimo oltraggio si confuse con l'incidente del panfilo - e che questo giovanotto fosse risultato essere un ladro, un volgarissimo ladro, «un figlio di puttana bastardo di ladro, il piccolo pompinaro!» disse Samson, a voce altissima. Un altro processo. Una società del New Jersey gli stava facendo causa, faceva causa a lui, Samson Wendall, per aver assunto quell'uomo, e l'uomo in questione se n'era già andato e lavorava alle dipendenze di un'altra società in California, il bastardo, e la vita doveva complicarsi in questo modo. Il signor Yates masticò rumorosamente del sedano, sorseggiò l'aperitivo e disse: «Ho saputo che proprio la stessa cosa è successa all'Indiana Floeman. Proprio la stessa cosa». «Come se la sono cavata?» «Sono andati in bancarotta.» «Non sapevo che rubasse i loro progetti. Non sapevo niente.» «Sei in grado di provarlo?» Arrivarono altri aperitivi. Jules, nervosissimo, si voltò a guardare la donna che credeva essere Nadine, ma non riuscì a stabilirlo: le immagini gli tremolavano troppo negli occhi. Gli parve di soffocare. Il fumo del sigaro di suo zio lo esasperava. Poi ella lo sbirciò di nuovo e i loro occhi si incontrarono ed egli seppe che era Nadine, Nadine, proprio lei. Lasciò che il suo sguardo le cadesse di dosso pesantemente, come se fosse stato colpito da una bastonata. Samson stava dicendo adesso qualcosa a proposito di George Romney... era un furfante o un santo? Yates gli fece eco a voce alta. Uno di loro odiava Romney e l'altro l'ammirava. Jules non riuscì a capire di chi fossero le rispettive opinioni, forse se le scambiavano, o le confondevano, ma la discussione continuò, in ogni modo, in toni amabili e chiassosi, mentre Jules sedeva impietrito. Tornò a guardare Nadine. Era in compagnia di altre due donne, più anziane di lei, e non lo guardava più. Voltandogli a mezzo le spalle, il capo inclinato per ascoltare le parole di una delle sue amiche, era del tutto immobile; aveva le braccia nude, vestiva di nero, con i capelli neri raccolti sul capo e intrecciati in un'accon-
ciatura complicata. Jules si sentì stringere il cuore, contemplandoli, tanto gli parvero belli. Avrebbe voluto premere la bocca contro quelle trecce folte e lucenti. Avrebbe voluto avvicinarla alle spalle e abbracciarla, perché, in fin dei conti, ella non si era forse trovata tra le sue braccia anni prima? Non aveva accettato i suoi baci, le sue carezze, la sua passione? «Ehi, figliolo, che cosa stai guardando?» Jules tornò a volgere gli occhi verso lo zio. «Ragazzo, hai l'aria di essere stato messo sulla sedia elettrica.» «Sto benissimo» disse Jules, gelido. L'aria nel ristorante sembrava sollevarsi e ricadere. Jules la sentì pulsare. Cercò di mangiare e guardò gli altri due uomini che stavano mangiando al suo tavolo, deciso a imitarli. Un'oscurità strana e più fitta scaturiva dalla luce tenue e pretenziosa del ristorante, come una sensazione, in Jules, di sera, di nullità. Lo spaventò perché non riusciva a capirla. Era come se una porta venisse aperta in profondità dentro di lui, ma non era un vero aprirsi, non era un inizio, quella porta si apriva invece sul nulla. Tuttavia una costante eccitazione cominciò a salire in lui, ricoprendolo di un velo di sudore. Non se ne andrà senza aver parlato con me, pensò. Era consapevole della presenza a quel tavolo di Nadine che pranzava con due donne, con due sconosciute, protendendosi verso di loro, sorridendo, conversando, una donna micidiale al margine stesso della sua vita, intenta a pungolarlo con la punta della lussuosa scarpetta. Aveva la testa pesante, la mente abbagliata. Si rese conto che l'amava ancora e che il suo desiderio di lei era più forte di un tempo. Anch'ella era mutata, più avanti negli anni, più elegante, con una bellezza singolare, translucida, misteriosa, come se avesse immaginato in quel momento di essere una donna diversa, proprio la donna che ci voleva per sedurre Jules. Nonostante la positura attenta della sua spina dorsale, v'era qualcosa in lei che faceva pensare a uno stato di trance, come se stesse ascoltando con eccessiva concentrazione le parole delle sue amiche. Come Jules, non faceva che fingere... egli intuì questa verità sul suo conto. Nadine era impaziente, il collo incurvato per ascoltare, e Jules sentì che andava disintegrandosi adagio. Quando rispose alla domanda di Samson, la sua voce suonò lenta e greve. Gli parve di udirla da lontano. Per fortuna suo zio e Yates avevano bevuto parecchio e si trovavano essi stessi in una sorta di stato di trance buffonesco, scalpitante e irrequieto, barcollavano in avanti per preoccuparsi dell'andamento lento delle vendite di automobili, barcollavano all'indietro per borbottare un'osservazione sul panfilo di non si sapeva chi, sul co-
comero di non si sapeva chi. Jules non riusciva a capirci niente. Vide Nadine alzarsi. Avrebbe voluto chiamarla, ma non poté fare altro che guardarla impotente mentre lei prendeva la borsetta, né più né meno come le altre due donne. Poi si voltò, esile e simile a una freccia, quasi stesse osservando la sala da un punto elevato ch'era invisibile e invulnerabile, non disturbato dai vari sguardi rivolti verso di lei. La vide avvicinarglisi. Calzava scarpe di gran moda, secondo la voga più spinta di quel tempo, aperte, con cinghiette, piccoli tacchi arrotondati e un ornamento in tartaruga sulla punta. Alzò adagio lo sguardo verso il viso di lei, quasi fosse riluttante a vederla davvero, e suo zio e Yates fissarono a bocca aperta la sconosciuta che si avvicinava a Jules e gli porgeva un foglietto. Lui glielo tolse subito dalle dita e se lo mise in tasca, per nulla sorpreso. Ed ella si allontanò. «Gesù Cristo, che cos'è questa storia?» esclamò Samson. «Abbiamo frequentato insieme le scuole medie» disse Jules. «Le scuole medie!» gridò Samson. «Gesù, alcune di queste donne sembrano ragazzi, piatte di petto... Dio mio, è una cosa che non può andare... siete stati insieme alle medie?» «Abbiamo frequentato insieme le scuole medie» ripeté Jules. «Gesù, sembrano maschi. Disapprovo. Com'era la sua faccia? Tutto sta cambiando...» Gli occhi di Samson si sfuocarono adagio. Jules si domandò se suo zio si sarebbe addormentato a tavola, come aveva fatto in occasione dell'ultimo pranzo, russando sommessamente mentre un cameriere toglieva senza far rumore le briciole, attento a non disturbarlo. «Ordina un piccolo brandy per tutti, figliolo» disse a Jules. Di cognome non si chiamava più Greene. Non abitava più a Grosse Pointe: abitava a Bloomfield Hills. Fu un lungo tragitto, passando per la Woodward Avenue. Il tragitto in macchina cominciò per Jules con una frenesia di eccitazione e di nervosismo che tuttavia si placò a poco a poco, distendendosi in una strana serenità, nella sensazione di galleggiare, come se egli avesse guidato una macchina i cui meccanismi fossero regolati per un certo fato e non potessero mancare di condurvelo. A tutta prima il traffico lo allarmò, ma, press'a poco all'altezza di Six Mile Road, i palazzi rimasero indietro e cominciò il verde interrotto del Palmer Park, seguito dai campi di golf municipali e da una serie di cimiteri. Vedere cimiteri non infastidiva Jules; secondo lui, erano il meglio che si potesse ammirare a Detroit. La Woodward Avenue era suddivisa da una striscia di verde, disseminata di rifiuti ma pur sempre verde, una delizia per lo sguardo. Mentre
guidava, la sua disperazione si sollevò. Finché possedeva un'automobile sua, poteva sempre dominare il proprio destino... non era predestinato a niente. Era un autentico americano. Pensava alla sua automobile come a un guscio che poteva manovrare ovunque, a velocità impressionanti; non rappresentava la seconda generazione di nessuno. Era gli antenati di se stesso. Nadine lo attraeva con una forza alla quale non poteva resistere. Una linfa sventata gli stava scorrendo dolcemente nelle vene. Che cosa poteva importargli dello zio Brock morente, un corpo sul letto d'una corsia di ospedale, con il labbro che andava consumandoglisi e gli occhi resi vividi dal disastro e dalla speranza? Che cosa poteva importargli di sua sorella Betty, che era stata tratta in arresto, accusata di comportamento indecente e lascivo, parole che potevano significare qualsiasi cosa? aveva in mente che ci fossero di mezzo stupefacenti, ma come poteva curarsi di Betty quando tutto in lui si avventava verso Nadine, un'estranea? A sua madre, a sua sorella Maureen, al suo fratellastro, era impossibile pensare seriamente. Pensava soltanto a Nadine. Il tragitto era lungo e la giornata calda. Cercò di non accelerare. Oltre i sobborghi a nord della città, sempre più avanti sul lungo, lungo viale, attraverso Birmingham, nella cittadina di Bloomfield Hills... che non era affatto una cittadina, che non aveva un quartiere commerciale e sembrava non essere formata nemmeno da case, tutte le dimore essendo situate molto indietro dalla strada, in piena campagna, lungo stradine silenziose... egli continuò a guidare con una sensazione di briosa condanna. Nadine gli aveva dato un foglietto di carta con il suo nome e un indirizzo. Senza proporgli un appuntamento. Jules era riuscito ad aspettare un giorno, due giorni, e il terzo giorno si era alzato tremante, con la convinzione che avrebbe detto a suo zio Samson di doversi fare visitare da un medico, quel pomeriggio, sottraendosi così all'autorità del vecchio, alle sue promesse, ai suoi occhi freddi e savi... Lungo il margine della strada, al di là dell'erba ben falciata, c'erano erbacce cresciute da tempo. A farlo correre verso Nadine era il desiderio terribile di affondarsi in lei, di completarsi in lei, di arrivare su una strada diritta e pulita come la Woodward Avenue, ma più definitiva, un viale di chiarezza nella sua mente: qual era la verità per quanto lo concerneva? Qual era il significato della sua vita? Sentiva che il significato della sua vita era irrevocabilmente legato a quella donna. Si trattava d'una persuasione cui era pervenuto durante una delle visite domenicali allo zio Brock. Maureen li aveva accompagnati con riluttanza.
Loretta era calma dopo una settimana priva di sconfitte spettacolari, la bocca increspata nella comprensione. Jules l'aveva provata, la loro comprensione... Le donne nei momenti migliori, nei momenti più sani, che prodigano comprensione a un uomo, e i cui occhi divengono umidi d'amore per la morte di un uomo. Sentiva tale comprensione, la capiva. Questa comprensione che le donne attingevano alla parte più profonda, più intima del loro essere, che scaturiva da una sensazione spaventosa di condanna, di mortalità, e che adesso veniva diretta verso suo zio - un uomo senza alcun valore, un fallito! - e che un giorno sarebbe stata rivolta a lui stesso, frugandolo come un faro, precisa ed esperta e indulgente, ma impersonale. Ed era questa compassione impersonale, cieca, quasi un anelare all'unione fisica, che egli sentiva in Nadine, sebbene lei non avesse il corpo di una madre o di una sorella, ma il corpo di un'estranea. Trovò la casa di Nadine. Lo stupì constatare quanto somigliasse all'altra dimora costruita da suo padre. Situata indietro su un prato più vasto - essendovi lì molta più disponibilità di terreni che a Grosse Pointe - aveva un aspetto rozzo e lussuoso, un'aria di nuovo del tutto impersonale. Jules risalì il viale d'accesso ovale e parcheggiò davanti alla porta, stordito da una sensazione improvvisa di déja vu. Si vide nitidamente da lontano, il personaggio di una fotografia o di un film. Una crocetta aleggiava sopra di lui, accanto a lui, indicandolo. Udì una falciaerba che funzionava in qualche punto, un ronzare acuto, insistente. Mentre toglieva le chiavi dalla macchina, sentì una strana nausea salire in lui, la paura del forestiero in una terra ben coltivata. Era pervenuto troppo rapidamente all'appagamento del suo desiderio. Il rumore della falciaerba divenne più forte, ma lui non riuscì a vedere da dove giungesse. Fu Nadine stessa a venirgli ad aprire. Fece per afferrargli la mano, ma una certa esitazione in lui tramutò il gesto in una stretta consueta. «Salve» disse. Jules la salutò con un cenno. Era trafelata, strana, con un vestito di tessuto serico color acqua che lasciava scoperta la carne soffice degli avambracci. Per tenere a bada il proprio nervosismo, le disse, sorridente: «Tutto questo mi sembra familiare». E indicò con lo sguardo l'ingresso, il tavolo bianco dalle gambe ricurve, le sedie dai cuscini scarlatti, lo specchio massiccio accanto allo scalone. In quello specchio lui e Nadine si riflettevano innaturalmente, le loro facce ingrandite dalla curvatura del vetro.
«Abito qui da tre anni» disse Nadine, ansiosa di fargli piacere, ma senza sapere che cosa lui avesse voluto dire. «E ancora non mi sono familiarizzata con la casa.» La stretta di mano cessò. Ella si scostò un poco, imbarazzata. Jules chiuse la porta dietro di sé e si abbracciarono, anche se un po' cerimoniosamente. Nadine fece un passo di lato, con una risata di scusa. Urtò contro il tavolo bianco - sembrava un bianco antico, spento, con una patina d'oro. Jules domandò: «Ti sei fatta male?». Lei rise di nuovo, scuotendo la testa. Come avrebbe potuto farsi male in quella casa? «È un posto bellissimo, questo» disse Jules. «Proprio come te. Tutto, qui, è esattamente identico a te.» Avrebbe quasi voluto che ella lo negasse, ma Nadine non capì; Jules sentiva come la intimidissero le sue parole, la sua presenza. «Non saprei. Non capisco» disse Nadine. Lo condusse in qualche stanza. Jules, stordito dal viso e dal corpo di lei, consentì a se stesso di infiacchirsi non appena ella gli ebbe voltato le spalle; sebbene si trovasse soltanto a un passo da lei, adesso, si sentì colmo di paura. Possedeva forse questa paura essenziale degli altri, era questo il suo segreto? Voleva Nadine e, ciò nonostante, la paventava? Nadine si voltò. Sedette su un divanetto. Jules le sedette accanto. Una nuvola di astrazione calò su di lui - una delle esperienze più singolari, più bizzarre della sua vita - alcuni frigidi secondi di dissoluzione, di immobilità. Fu come se lo avessero condotto attraverso una porta aperta in un tempio e là si fosse trovato di fronte a un essere senza volto e senz'anima, o fu come se si fosse destato trovandosi sulla faccia grezza, vuota, illuminata della luna, ove tutto era liscio e irreale, ove l'anima sua si perdeva, scorrendo fuori del suo terrore e nel nulla. Nadine gli parve il nulla... non riuscì a ricordarla. Si sentiva gelato, fiacco, come se stesse subendo una trasformazione fisica che lei non avrebbe potuto fare a meno di vedere. Aveva la faccia più piena di quanto la ricordasse. La pelle era adesso lievemente accesa, rosea ed eccitata, particolarmente lungo l'orlo degli zigomi. Jules non riuscì a muoversi. Cominciò a immaginare, con riluttanza, il battito del cuore di lei e il pulsare del suo denso sangue. Fissò la donna come se, quanto a lui, non si fosse trovato realmente lì, non accanto a lei, ma come se la stesse scrutando attraverso un telescopio. Ella aveva l'espressione tesa di una donna conscia di essere spiata. Sembrava terrorizzata, ma non da qualcosa che potesse vedere.
«Non mi sembri reale» gli disse. Si sporse e lo toccò. Il momento passò per Jules. Ricominciò a respirare. Nadine, intuendo il suo stato d'animo, gli prese il braccio, fanciullescamente, e si sforzò di sorridergli. Sembrava guardar fuori da una finestra, colma di speranza. «Non mi rovinerai l'esistenza?» «Mai.» «Perché non sei venuto prima?» «Quando, oggi?» «No,» disse lei, spazientita, «prima... l'altro giorno, il giorno in cui ti vidi. Tornai a casa e ti aspettai. Ti aspettai tutto il giorno.» «Lunedì, vuoi dire? Mi aspettavi lunedì?» «Sì, certo. Che cosa credevi? Non riuscivo a pensare ad altro. Tornai a casa, mi liberai di quelle donne, ti aspettai.» «Non credevo che volessi vedermi così presto.» «Sì, ti volevo.» «Ma adesso non è troppo tardi?» «Sei così strano. Mi fai aver paura di te.» «Sono io ad aver paura di te.» Le prese una mano e se la portò alle labbra. La baciò, chiudendo gli occhi. Aveva davvero paura di lei, paura di seppellirsi nel suo corpo e di romperle le ossa, di ucciderla. Nadine sembrava così disposta a essere uccisa! Il suo corpo aveva un aspetto precario, come se fosse sempre sull'orlo dell'isterismo fisico... bastava che un uomo si limitasse a toccare un corpo come quello per distruggerlo. Le disse: «Nadine, ascolta. Dimmi che cosa vuoi. Dimmi com'è adesso la tua vita. Parlami senza interromperti e spiegami tutto, vuoi?». «Non c'è niente da dire.» «Chi hai sposato, che cosa stai facendo, hai figli?» «No.» «Quando ti sposasti?» «Frequentai saltuariamente l'università, poi smisi di studiare per sposarmi.» «Chi è?» «Questo non ha nessuna importanza.» «Certo che è importante!» «Un uomo, un brav'uomo, il legale di una società...» «Che genere di legale?» «È specializzato in questioni fiscali» disse Nadine. «Tutto viene tassato
e lui trova il modo di eludere il fisco.» Stava fissando le mani che tenevano le sue, e per un momento parve che ne sapesse assai meno di Jules sul proprio conto. Sarebbe dovuto essere Jules a guidarla. «Non c'è, adesso. È partito lunedì per New York. Tornerà domani.» «Domani è così presto» egli disse, deluso. «No, non c'è mai. Parte continuamente per New York in aereo.» «Com'è?» Nadine si portò sul viso la mano di lui. Premette contro di essa la gota. Jules avrebbe voluto ridere istericamente... in effetti un ampio sorriso gli si dilatò sulla faccia, ma si frantumò in qualcosa di diverso. Vide all'improvviso se stesso mentre strozzava quella donna. Le mise le mani intorno al collo e rimasero entrambi del tutto immobili, con gli occhi bassi, ansimanti. Ella sembrava essere consenziente, permettergli di fare a modo suo. Ma lui si limitò a dire: «Sei bellissima. Molto più di prima, molto diversa. Non credo di poter resistere». «Mi sposeresti, allora?» «Sì.» «Se tu rovinassi la mia vita, voglio dire la mia vita qui,» disse Nadine, confusa, guardandosi attorno nella stanza, «mi daresti un'altra vita? Mi sposeresti?» «Ti sposerò subito.» «Non mi abbandonerai?» «Come potrei abbandonarti?» «Ma io ti abbandonai, ti lasciai.» Jules ignorò la cosa con un gesto. «Ti lasciai solo in quella camera. Eri malato...» «Non mi sarei dovuto ammalare» disse Jules con una risata. «Ti amavo. Non so perché fuggii.» «Non pensarci più.» «Ti amavo. Ti amavo davvero. Ero malata d'amore per te, e cercai di guarire, ma non ci riuscii mai.» Jules, alla presenza di una donna, sentiva un certo stordimento, un bagliore dorato che sembrava emanare da lei, un tepore che era inconscio e consolante; ma un pochino pericoloso, proprio perché inconscio. Si sentiva attratto dalle donne come verso qualcosa di caldo, attratto fuori del gelo, gravitante in avanti e smanioso di perdersi in quel tepore. Con Nadine l'istinto era più forte e più cieco. Sentì il pericolo più acutamente, come se, attraverso gli occhi socchiusi, stesse in realtà distinguendo la forma delle
rocce sotto i piedi, pur fingendo di non vedere nulla. L'aspettativa del piacere lo rendeva sordo. I suoni gli giungevano come attraverso dondolanti ondate d'acqua, e il suo stesso sangue era soffocato e muto. Non voleva vedere né udire. Voleva essere violato in un modo strano, lieve, indolore, violato senza rendersene conto. Disse, in preda alla confusione: «Bene, ti amavo anch'io, naturalmente. E continuo ad amarti. Non è una scelta da parte mia. Che cosa posso fare di questo amore per te?». L'agitazione lo riportò a quelle ore sudate nelle camere dei motel, quando giaceva su copriletti leggeri. Con le dita le accarezzò la gola. Pensò tra sé e sé, Ora questa donna mi vuole, e la certezza lo calmò. Intuiva la paralisi di lei. Riusciva a immaginarla mentre lo aveva aspettato, per più giorni, una donna in attesa di un uomo, seduta e in piedi e andando e venendo in una bella casa, con il viso proprio così, truccata per essere fragrante e bella, ma, ciò nonostante, sola, in attesa, incompleta; la mente di una donna avrebbe potuto cedere sotto quella tensione. Intuì inoltre la cecità di lei, la strana sordità di lei. Ebbe la visione improvvisa di loro due a galla su un fiume - seduti su quel divano di velluto verde - dolcemente dondolanti, mentre galleggiavano sul filo della corrente, senza udire né vedere niente sulla riva. Non riusciva più a ricordare gli anni durante i quali non l'aveva veduta e, in un certo qual modo, non riusciva neppure a ricordare quella più giovane e meno importante Nadine. «Non ti rovinerò l'esistenza» disse. «Tutto sarà come tu lo vuoi. Dimmi soltanto che cosa vuoi.» Sembrava che Nadine tentasse le sue parole, le accarezzasse. Jules sentì loro due andare alla deriva, inesorabilmente, lungo il fiume... Disse: «Ma tu mi ami?». «Non ho mai dimenticato te, né niente. Ti amo.» «Sono diverso, adesso. Non vado più in giro a rubare automobili o altre cose, a stordire la gente con un colpo sulla testa. Sembra una fantasia, tutto questo, ma so di averlo fatto. Sono più avanti negli anni. Non avrei mai creduto di poter vivere fino a trent'anni» disse Jules. Si sentiva a disagio; le sue parole non esprimevano davvero quello che sentiva. «Volevo rivederti» disse Nadine. «Tentai di scriverti, ma non sapevo dove tu fossi. Cercai un po' di nomi nell'elenco telefonico... ma era tutto molto confuso. Quando tornai a Detroit, mi ammalai anch'io. Mi curarono in casa, per qualche tempo, e poi mi ricoverarono in una clinica.» «Che malattia avesti?» «Non riuscivo a dormire né a mangiare. Piangevo continuamente» gli
disse spazientita. «Non riuscivo a pensare che a te. Cercavo di farmi morire di fame. Mi autocompativo e volevo punire i miei genitori. Continuavo a pensare a te, soltanto a te. Jules, dovevo lasciarti, dovevo andarmene da quel posto. Ricordo quello che provavo. Eri così malato, non sembravi nemmeno tu, avevo l'impressione di trovarmi con un estraneo. E continuavo a pensare a te malato, un estraneo, per cui non sarei stata tenuta ad amarti, ma non riuscivo mai a crederlo sul serio. Non ero libera. Dovevo andarmene, ma quando me ne andai non riuscii mai a superare quello che era accaduto. Guidai la tua automobile per alcune centinaia di chilometri, poi si guastò. Telefonai a casa. Vennero a prendermi tutti e due, in aereo.» Avrebbe voluto dirle, Non pensare più all'automobile, poi si rese conto che lei se n'era dimenticata, che non ci aveva mai più pensato. «Dovevo andarmene e abbandonarti. Dovevo fuggire. Mi dispiace.» «Capisco.» «Ti scrissi lunghe lettere, lettere pazzesche. Mi misero in una specie di ospedale, un posto molto bello. Non tornai più all'università, ma frequentai corsi per mio conto. Be', non è che fosse un gran bel posto. Non so perché lo abbia detto, era una clinica per persone malate di mente. Ci comportavamo tutti come se fossimo di vetro, come se fossimo molto fragili. Mio padre mi procurò insegnanti privati, laureati dell'Università del Michigan. Non era lontana di là. Continuavo a guardare quegli uomini e ad ascoltarli, ma non li vedevo e non li udivo, seguitavo ad aspettare che si trasformassero in te. Non concepivo un uomo che non fosse come te, mi sembravano tutti te.» Jules la fissò. «Mi sembrava molto strano che un uomo, un uomo giovane, potesse avere una faccia sua, una faccia diversa dalla tua» disse Nadine, in tono sognante. «Guardavo i particolari della sua faccia, gli occhi, la bocca, e mi dicevo che sarebbero potuti essere tuoi, appartenere a te. Non so che cosa sia a differenziare le facce. Gli occhi potrebbero essere tutti uguali, se non fosse per il colore. Le bocche si somigliano. Io non so... come le persone si distinguano l'una dall'altra, come si differenzino. Ma nessuno di quegli uomini era mai te.» Jules avvertì una sensazione di pericolo. Domandò: «C'è qualcun altro in questa casa?». «Non oggi.» Gli sembrò di essere sul punto di esplodere e pensò che la violenza avrebbe ucciso Nadine. Ella era immobile e sognante, appoggiata a lui, e gli
allacciava il collo con le braccia. Un abbraccio soltanto formale. Se stava perdendo la ragione, si trattava di un caso dovuto alla presenza di lei, alla sua voce, al divano verde, alle onde ostinate che li trascinavano con sé. Ma se quella donna non fosse stata Nadine, se fosse stata qualche altra donna a mettergli le braccia intorno al collo e a ipnotizzarlo? Se, di lì a un momento, l'incantesimo si fosse spezzato ed ella avesse tastato dietro di sé, sotto uno dei cuscini del divano, e impugnato una rivoltella? «Ti apparterrò in qualche altro posto» disse Nadine. «In centro. In qualche altro posto. Non qui.» «In un albergo? Quando?» «Domattina.» «Quando torna a casa tuo marito?» «Verso le tre, ma non telefonerà, l'automobile è all'aeroporto...» «Quale aeroporto?» «Il Metro.» «Non si aspetterà di trovarti a casa?» «Sarò a casa quando lui arriverà. Sarò di ritorno alle tre e mezzo.» «Verrai in centro, allora? All'Hotel Sheraton-Cadillac?» «Sì.» «Farai davvero questo?» «Sì, sì.» «Devo prendere una stanza, devo aspettarti? Per che ora potrai venire?» «Alle undici.» «Ma non farlo se... se pensi che potrà sconvolgerti.» «Non mi sconvolgerà.» «Credo di sì.» «No, devo farlo. Ho bisogno di te» disse Nadine. Sentì nei suoi riguardi una comprensione indifesa, addolorata. Ma come avrebbe potuto crederle? Il suo abbandono, il suo senso di condanna, quel respiro spaventato gli sembravano innaturali, una esagerazione della propria paura. Il tremito che sentiva nel corpo di lei era identico a quello che tratteneva nel proprio, quasi che entrambi fossero destinati a qualche convulsione ultima, chiusi l'uno nelle braccia dell'altra, le bocche premute avidamente in una posa che nessuno dei due aveva scelto in realtà... simili a gurguli scolpite insieme nella roccia, scherzi di natura di roccia muschiosa. Jules si affrettò a dire: «Non dobbiamo far niente subito. Potremmo prima vederci alcune volte...». «No, verrò domani in centro.»
«Possiamo parlare...» «Non c'è niente di cui parlare.» «Io credo di sì. Vuoi davvero sposarmi?» Lei gli premette la fronte contro la spalla. Rifletté. «Vuoi divorziare e sposare me? Jules Wendall?» «Sì. Credo di sì.» «Tutto quello che vuoi, allora.» «Voglio te. Non posso smettere di pensare a te.» «E il tuo matrimonio?» «È un matrimonio riuscito, lui è un brav'uomo, ma... ma non è te. Lo sposai alcuni anni fa, quando era tempo che mi maritassi. E fu come quei miei insegnanti dell'Università del Michigan; non si trasformò mai in te. Non ho niente da dirti sul suo conto. Non appena ti vidi in quel ristorante, incominciai a perdere il contatto con le altre persone, anche con quanto stavo dicendo. Tutto traballa, ma in un modo sognante, non collegato. Ho l'aria di essere pazza. Non è davvero una mia abitudine comportarmi in questo modo, sono molto più matura e diversa da com'ero quando mi conoscesti. Dovetti passare alcuni mesi orribili per superare quello stadio. Ma lo superai. Ora, però... Con te, Jules, non so pensare alla mia vita, né ricordare come sia. Non riesco a ricordare me stessa. È come se stessi camminando in qualche luogo e una musica cominciasse a suonare molto forte, rendendomi sorda, e qualcuno mi prendesse per mano per condurmi via... perché no? Come posso ricordare chi sono? Che importanza ha? Ti ho aspettato per tre giorni. Ogni ora, circa, mi appariva chiaro che sarei dovuta uscire, andare da mia madre, o semplicemente uscire, recarmi in qualche posto. Che non avrei dovuto rivivere tutto questo, con te. Ma non sapevo indurmi a uscire. Poi pensavo che non saresti venuto, o che mi avresti insultata venendo qualche giorno dopo, come hai fatto, ma continuavo ugualmente ad aspettare. Tutto nella mia vita sembrava tendere verso di te... era come qualcosa che cadesse adagio. Mi resi conto che non mi importava di niente altro, anche se volevo che mi importasse. Ma non me ne importava.» Tacquero. Jules disse infine: «Be', ho pensato a te. In questi anni». «Davvero?» «Non era che ti amassi, esattamente, si trattava di qualcosa di più profondo. Volevo tenerti di nuovo, così. No, non così. Non come siamo adesso. Volevo tenerti...» Non poteva spiegare. Nadine disse: «Capisco».
«Ti sei sentita sola?» «Sì.» «Anche con tuo marito?» «Sì, molto sola. Con lui e con tutti.» «È duro per te, per una donna, sentirti sola?» «Sono riuscita a sopravvivere. E tu?» «Sono riuscito a sopravvivere.» Si sorrisero a vicenda. Jules sentì che sarebbe stato possibile per loro diventare amici! «Che cosa facesti dopo che ti lasciai?» ella domandò. «Mi ristabilii dopo pochi giorni. Trovai qualche lavoro, vagabondai qua e là, mi rimisi in piedi. Dovevo guadagnare qualcosa per mangiare. Tirai avanti. Infine tornai a Detroit, quando sentii di essere di nuovo pronto per Detroit. Cercavo di non pensare a te, ma eri sempre là, nel fondo dei miei pensieri.» «Grazie» disse Nadine. Cominciò a baciarlo. Jules l'abbracciò avidamente. Parvero cadere con occhi di pietra in quell'abbraccio, respirando con sollievo e con sofferenza. Non appena l'ebbe baciata, egli volle parlare: volle spiegarle quanto era inappagata la sua vita. Accecato da lei, sentì in sé una chiarezza improvvisa per quanto concerneva il suo amore... non era in realtà qualcosa di suo, niente che potesse dominare, ma un torrente di passione nel quale in qualche modo aveva finito con il restare intrappolato, un fato all'antica. Una bella luce dorata sembrava accecarlo: muoveva le mani disperatamente sul corpo di Nadine. La luce era una radiosità che proveniva in parte dal viso di lei, in parte dai mobili di quella stanza splendente. Disse, molto eccitato: «Le donne si innamorano sempre di me, o vogliono da me qualcosa che non posso dare. Devo staccarmele di dosso, devo liberarmi di loro. Nessuna di loro è mai te» e questa verità gli incrinò la voce. «Sei molto buono. Non sei egoista come me.» «Non potremmo salire di sopra qui? Subito?» «No.» «Nadine?» «No,» ella disse, dolorosamente, «qui no. "Non posso. Sono sposata con lui, io...» «Va bene.» «Jules, per favore...» «Capisco, d'accordo. Dovrei andarmene, adesso?»
«Tra un minuto.» Rise. Le circondò la faccia con le mani e rise. «Sei così bella, non è possibile che tutto questo stia accadendo. Che cosa c'è di buono in questo, in fin dei conti? Possiamo avvantaggiarcene, in qualche modo? Come ci gioverà essere di nuovo innamorati? Che cosa possiamo fare dell'amore?» «Non parlare così.» «Mi trovo faccia a faccia con il tuo Io femminile... con l'anima tua... che cosa potrò farne?» «Non scherzare. Non mi sono mai piaciute le tue facezie.» «Le facezie sono l'indizio di un uomo disperato» disse Jules. Si alzò e si lisciò i capelli, si riassettò i vestiti. Era un uomo disperato. «Dimmi soltanto quello che vuoi, Nadine, e te lo darò. Prendi una decisione.» Ella alzò gli occhi su di lui. Aveva la gonna sollevata fino alle cosce. Jules vide la sua pelle, liscia sotto la trama delle calze, quella Nadine privata che era in suo possesso... sembrava una bambola di stracci, in suo possesso, noncurante di se stessa. Eppure non la possedeva, in realtà, e non aveva idea di che cosa ella stesse pensando. «Dimmi a che cosa stai pensando.» «Sto pensando a questo» rispose lei, stancamente. «Una donna è come un sogno. La sua vita è un sogno d'attesa. Voglio dire, vive in un sogno, aspettando un uomo. Non c'è scampo, per quanto possa essere offensivo, nessuna donna può sottrarsi a questo destino. La sua vita è attesa di un uomo. Tutto qui. Esiste una certa porta, in quel sogno, e lei deve passarvi attraverso. Non ha scelta. Prima o poi deve spalancare quella, porta, e varcare la soglia, e darsi a un certo uomo, a un determinato uomo. Non può farne a meno. Può sposare chiunque, ma di questo non può fare a meno. Ecco a che cosa stavo pensando.» «Dici sul serio?» «Sì.» «Non è esagerato?» «Quell'uomo non sei tu, precisamente. È quello che ho bisogno di fare con te, per poter continuare a vivere. Ho bisogno di te per me, per la mia vita. Ho bisogno di amarti.» «Non fuggirai, dopo, abbandonandomi?» «Sono più matura, adesso. Sono una donna sposata.» «Ma io non voglio dividerti con un altro uomo.» «Va bene.» Lo seguì fino alla porta di casa. Si sentivano entrambi scossi, eppure i
loro movimenti erano leggeri e aerei. A Jules sembrava di essere inebriato. Le prese la mano e gliela coprì di baci, deliziato dalle libertà che poteva prendersi con lei, da quella mano inerte, calda, una parte del corpo che gli sarebbe appartenuto, e anche il grosso brillante al dito di lei gli sarebbe appartenuto. «A domattina, allora. E non ti turberai?» «No.» «Benissimo. Ti amo. Staremo a vedere che cosa accadrà.» «Ti amo, Jules.» Mentre tornava indietro in macchina, vide ogni cosa con chiarezza: cartelloni pubblicitari, ristoranti, distributori di benzina, altre automobili. Vide ogni cosa e non lasciò impronte di sé su nulla, tanto era divenuto libero e tanto forte. Soltanto alle dieci di quella sera, solo in camera sua, si rese conto di quanto stava per accadere, di quanto era già accaduto. E fu sopraffatto da una sensazione di sconforto. Sarebbe uscito vivo da tutto ciò? Sarebbe rimasto qualcosa al mondo capace di stupirlo? 12 Firmò il registro dell'albergo alle nove della mattina dopo. La camera, a sedici dollari al giorno, fu una delusione; la finestra dava su un muro vicino. Lo sorprese il trovarsi in una camera così comune, senza alcunché di magico. Dal bagno veniva un rumore incessante d'acqua corrente e lui non riuscì a scoprire che cosa ci fosse di guasto, o se qualcosa era guasto. Iniziò un andirivieni dalla finestra al letto, cercando di calmarsi. La sera prima, sua madre gli aveva dato la diagnosi scritta di un patologo sullo zio Brock. L'aveva letta rapidamente, e certe parole-chiave gli erano rimaste impresse nella mente... citologia, leucemico, esame del sangue, possibilità di regresso... meravigliandolo, perché sembrava ormai che suo zio stesse morendo di una forma di cancro. Era mai possibile? Essere ricoverati in ospedale per una ragione e morire per un'altra? Aveva sentito un'affinità con suo zio, quell'essere inevitabilmente legati ad un fato... che importava com'era accaduto? Jules si distese sul letto quasi in attesa del proprio fato, in attesa che esso scorresse in lui e lo annegasse. Fissò il soffitto. Sicché suo zio stava morendo. Uno di meno. Suo padre era già morto e dimenticato. Quell'altro zio, lo zio sano, Samson Wendall, si trascinava avanti ogni mattina... partiva tutte le mattine alle sei e mezza da Grosse
Pointe, ansioso di cominciare la giornata, spazientito dal sonno e dalla condizione stessa del sonno, dal letto che possedeva, dalla camera da letto nella quale dormivano lui e sua moglie, e forse anche da sua moglie... questo zio, dalla tosse secca e dagli occhi cisposi, sospettosi, non stava ancora morendo e, se fosse dipeso da lui, non sarebbe mai morto. Jules lo capiva: a sua volta non avrebbe mai voluto morire. Giaceva del tutto immobile. Sebbene non avesse dormito per la maggior parte della notte precedente, non era disposto a dormire adesso. Pensieri gli turbinavano nella mente. Riteneva che ella non sarebbe venuta, e avrebbe provato un gran sollievo se lo avesse saputo con certezza; ma Nadine era così incerta che si sarebbe fatta viva, tutto sommato. Cercò di non pensare a lei, ma il suo viso continuava a formarglisi e a riformarglisi nella mente. La bellezza di Nadine era una ricompensa per lui, per lui solo. Aveva saputo esserle fedele ed ora stava per essere premiato. Fuori, nel corridoio, un uomo e una donna stavano litigando. Jules li immaginò sposati, di età matura. La discussione non era accesa, e in realtà non li accendeva sul serio. Cercò di ascoltare le parole, ma non riuscì a distinguerne una sola. Sentì rughe formarglisi sulla faccia. Concentrazione. Era pronto a un improvviso sprigionarsi di energia, a uno scorrere in lui, a una morbidezza. Un processo si sarebbe completato per il suo tramite, per il tramite del suo corpo. Gli parve di galleggiare in una strana tenebra, nel silenzio; i due nel corridoio erano scomparsi; più in basso, nel Washington Boulevard, il traffico sembrava tedioso e remoto, non immaginabile. Si premette le mani sugli occhi e gli venne voglia di gridare a gran voce che era perduto... in questo modo si moriva, rinunciando a tutto, vergognandosi di vivere. Sentì la propria volontà defluire. Scorreva via come la perdita d'acqua nel bagno, un errore troppo banale perché vi si ponesse rimedio, l'indizio di un materiale poco resistente. Il tempo sta passando, pensò. Non si mosse. Alle undici si era rassegnato. Nadine sarebbe venuta o non sarebbe venuta; la decisione non dipendeva da lui. Forse sarebbe venuto invece suo marito. Era troppo letargico per preoccuparsene. Una gelida fiamma gli correva sul corpo, e cercò di concentrarsi sulle conversazioni nel corridoio... sullo scroscio dello scarico di una toletta lì accanto... sul traffico nel viale... qualcosa su cui fissarsi, qualcosa che lo distraesse dalla consapevolezza di essere soltanto un corpo in attesa di cadere con parossismo su un altro corpo. Era vergognoso essere Jules ed essere una simile creatura. Significava tradire il vero Jules.
Il telefono squillò. Erano le undici e venti. Squillò una sola volta, brevemente, e Jules alzò subito il ricevitore. «Pronto?» disse con la voce tremante. «Pronto» disse Nadine. «Bene, dove sei?» le domandò. Ella disse: «Sono ancora a casa...». «A casa? Perché a casa?» disse lui. La propria esasperazione gli diede qualcosa cui avvinghiarsi... sentì che la odiava. «Vuoi ancora che venga?» domandò Nadine. Jules non disse niente. «Non ho chiuso occhio tutta la notte. Non mi sento bene. Io... Jules? Sei al telefono?» «Certo.» «Vuoi ancora che venga?» «Sta a te decidere.» «Si, verrò.» Riattaccò. L'ira lo riscosse. Andò avanti e indietro, dal bagno alla finestra, al letto, stropicciandosi le mani gelate. Aveva rasentato quasi uno stato di choc, non si era più sentito padrone del proprio corpo, e ora quel dilagare di rabbia era come uno scorrere di liquido bollente che lo attraversasse. Ciò nonostante, aveva le mani fredde, i piedi gelidi. Guardò l'orologio e calcolò che le sarebbe occorsa almeno mezz'ora per giungere, probabilmente un'ora. Discese al pianterreno e bevve un bicchiere di birra. Poi risalì pensando che Nadine potesse essere arrivata durante la sua assenza. Aprì la porta della camera: una camera vuota. Si ridistese sul letto, aspettò. Qualcuno bussò alla porta. Saltò giù per farla entrare. Adesso tutto era semplice, frettoloso. Si abbracciarono. Esclamarono saluti. «Sei venuta davvero, sei proprio qui» egli disse. Nadine rise. «Non mi avevi creduto?» «Ma stai tremando. Siediti. Siedi qui.» Cortese, la condusse verso la sola sedia che esistesse nella camera. Le si inginocchiò accanto. Le baciò le ginocchia. Nadine gli mise una mano sulla nuca, proteggendosi su di lui. Jules sentì la paura di lei e la propria esaltazione che si stuzzicavano a vicenda. «Non volevo venire, ti ho telefonato per questo,» ella si affrettò a dire «perché stamane non mi sento bene. Sono indisposta...»
«Che cos'hai?» «Non sono riuscita a dormire per tutta la notte. Sono sempre rimasta sveglia.» «Anch'io.» «Adesso sono indisposta. Voglio dire... non mi sento bene.» «Tesoro, Stattene lì tranquilla. Non essere così nervosa. Possiamo parlare, abbiamo cose da dirci per anni. Che cosa posso fare per te? Vuoi che faccia servire qualcosa in camera? Il pranzo? Una bottiglia di champagne? È ora di pranzo? Posso dire che ci mandino su giornali d'altre città. Sono disposto a star ritto sulla testa per te, dolcezza, soltanto non avere quell'aria così infelice.» «Ma non mi sento bene. È cominciato stanotte.» «Che cosa?» «I crampi. Sono cominciati stanotte.» Jules, silenzioso, accarezzò le lunghe, seriche gambe. Le contemplò, poi fissò il tappeto. Era di un oro spento, incolore, non molto pulito. Fissò i singoli pezzetti di filato, schiacciati dalle scarpe bianche di Nadine e dalle sue ginocchia. «Non sarei dovuta venire, quindi. Probabilmente...» «Non fa nulla.» «Jules, ti amo tanto, mi dispiace.» «Vuoi un'aspirina o qualcos'altro? Qualcosa da bere?» «No.» «Ti senti molto male?» «Mi sento un po' debole. Io...» Jules rimase inginocchiato. Premette la faccia contro le ginocchia di lei, in atto di sottomissione e si sentì terrorizzato dalla propria impotenza. Anche il dolore nei lombi di lei era qualcosa su cui non poteva influire in alcun modo, qualcosa che non poteva far cessare. Tutto era privato. Nadine gli stava accarezzando avidamente la nuca. «Sembrava che non riuscissi a dominare me stessa, stanotte. Ero molto sconvolta... mi sembrava di vivere in un incubo. Continuavo ad aggirarmi per la casa, e a domandarmi come faccia la gente a superare la notte, specie le donne. Sai, Jules, l'amore dell'uomo crea l'amore della donna. Sei stato tu a farmi come sono. Ne ho la certezza. Esistono uomini che sono permanenti nella vita di una donna, tutto in essi è permanente, e terribile, nessuno pensa, a proposito di loro, Questo è qualcosa che ho deciso di fare, non c'è possibilità di scelta. Tu mi ami ed io ti amo, non ho scelta al riguardo.»
Jules emise un suono esasperato, una sorta di risata. «Presumo che questo sia sensato» disse. «Non vuoi che parli con te?» ella gli domandò. «Sei arrabbiato?» Jules si alzò. «Non sono arrabbiato, naturalmente.» «È così strano per me trovarmi qui, dirti queste cose. Tu sei una delle persone che non potrebbero venire a trovarmi se mi ammalassi, né venire al mio funerale.» «Perché no?» «Non verresti. Forse non ne sapresti niente.» «Forse no. Nessuno me lo direbbe. Ti stai proponendo di morire?» Nadine rise nervosamente. «Mio marito ha una rivoltella...» «Dove?» «A casa, una rivoltella. L'ho tolta dal suo posto stanotte. L'ho guardata e ho pensato che una rivoltella è un oggetto misterioso. Sono andata davanti allo specchio e me la sono puntata alla fronte contemplandomi per qualche momento.» «Perché diavolo hai fatto questo?» «Non ti adirare, non c'era nessun pericolo. Ma era molto interessante vedermi così.» «Che cos'hai?» «Ho soltanto paura.» «Ma si tratta semplicemente di me, Jules. Non sono che un uomo. Sono un relitto. Perché dovresti avere paura di me?» Sedette sulla sponda del letto e si voltò verso di lei. Sentì che gli traspariva sulla faccia la benevolenza di un idiota. «Ti amo tanto» disse Nadine sommessamente. «Tanto da desiderare di spararti?» «Non voglio spararmi.» «A chi vuoi sparare, allora?» «A nessuno. Non voglio far niente. Voglio vivere un'esistenza piacevole, semplice. Voglio riporre fiducia nelle cose che sono semplici e chiare. Una donna non chiede altro. Voglio mettere ordine nella mia vita.» «Questo non è facile a farsi» osservò Jules. «Posso domandarti qualcosa?» «Sicuro.» «Del tuo passato?» «Non ho alcun passato, tesoro.» «Non scherzare.»
«Non è uno scherzo.» «Il tuo passato... che cosa hai fatto la settimana scorsa, l'anno scorso. Voglio conoscere la tua vita.» «A proposito di che cosa?» «Non ti sei mai sposato?» «No.» «Sei stato vicino a sposarti?» «Mai.» «Che cosa pensi del... del matrimonio?» «Con te? Voglio sposare te.» Nadine sorrise timidamente. «Ma in realtà non sono molto ricca, no davvero, e forse ti pentiresti. Una volta divorziata, rimarrei in cattive acque. Mi vorresti lo stesso?» «Certo che ti vorrei.» «Ma... sei mai stato innamorato? Di qualcun'altra?» «No.» «Stai parlando seriamente?» «Non sono mai stato innamorato, no. Tranne che di te. E questa è la fine. Non voglio essere innamorato, o anche soltanto pensare all'amore, tranne che con te. Questa è la fine della faccenda.» Nadine si protese verso di lui e gli premette le labbra contro la gota. Jules non riusciva a capirla, né a capire se stesso. Se la natura lo stava spingendo verso di lei, costringendolo a un atto d'amore con quella donna particolare, l'eccesso di passione che doveva sopportare era travolgente come lava: soffocante e assurdo, una sorta di beffa. Certo tutto questo non si sarebbe concluso con il concepimento di un bambino? Detroit era gremita di bambini. «Hai fatto l'amore con molte donne?» «No.» «Non l'hai fatto?» «Non ricordo. Ho dimenticato.» «Perché non mi dici la verità?» «Tu non vuoi sentire altro che oscenità, e allora perché dovrei parlartene? L'idea che ti fai del passato è oscena» disse Jules. «Dimentica tutto quello che è finito. Non appartiene a noi.» «Ma voglio sapere tutto di te.» «Be', non lo saprai. È finito.» «Tu non vuoi sapere di me?»
«A titolo di conversazione, sì. Per i prossimi trent'anni. Ma non è essenziale. Non riesco a concentrarmici. Non posso neppure domandarti se hai avuto amanti dopo il matrimonio, o prima, perché non è affar mio.» «Non ne ho avuti, naturalmente.» «D'accordo. Bene.» Nadine tacque. Si scostò da lui. «Be',» disse «credo che ora dovrei andare.» «Andartene?» «Una donna al pianterreno mi ha riconosciuta, ne sono certa. Mi ha guardata in un certo modo.» «E con questo?» «Credo... credo che dovrei tornare a casa.» Jules produsse un suono malinconico, risucchiante, con la bocca. «Jules, ascolta» si affrettò a dire lei. «Non odiarmi. Ma ho sempre pensato, ho sempre temuto, che tu potessi avere qualche malattia. Sai.» Parve a Jules che qualcosa di gelido gli fosse stato rovesciato addosso. La fissò irosamente. Poi, prendendo la cosa sul piano dello scherzo, cercò di sorridere. «No, tesoro. Sono a posto.» «Quest'idea mi ha sempre terrorizzata.» «Non ho la sifilide.» «Pensavo a dove hai vissuto, a come stanno le cose in città, e alle donne, alle ragazze negre...» «No.» «Sei mai stato... con negre?» Jules si stropicciò gli occhi. Dopo gli esperimenti medici ai quali si era sottoposto anni prima, gli occhi gli dolevano spesso, soprattutto quando era turbato. Ora incominciarono a lacrimargli. «Perché tutto nella tua mente è osceno? Perché la tua immaginazione è tutta oscena?» domandò, angosciato. «Non dire questo!» «Oh, Gesù!» Tacquero, per qualche tempo, senza guardarsi. Dopo alcuni momenti Jules disse: «Puoi andartene, se vuoi». «Ti telefonerò tra pochi giorni.» «Non mi telefonerai mai.» «Si, invece.» Si appoggiò alla spalliera della poltrona, con una mano sul ventre. «Ti telefonerò, Jules. È soltanto che non sto bene. Ho preso alcune pillole per
far passare il dolore, ma non hanno agito. Dovrei essere a letto, non sarei dovuta venire qui a tormentarti. Ma che cosa posso farci se mi è capitato questo?» «Te lo aspettavi?» «Non fino alla prossima settimana.» «Be', evidentemente lo hai fatto accadere» disse Jules, compiendo uno sforzo verso la tenerezza. «Non te ne faccio una colpa, e non ho nessuna opinione particolare. Mi dispiace che tu soffra.» «Ho parcheggiato l'automobile proprio dirimpetto.» «Davvero? Vediamo lo scontrino.» «Perché vuoi vederlo? Non mi credi?» «Vediamolo.» Gli mostrò il rettangolino di cartone. «Sì, è proprio lo stesso. Un tempo ci ho lavorato.» «In quel parcheggio?» «Parcheggiavo automobili, sì. Quando ero ragazzo.» Nadine frugò nella borsetta. «Credo di non avere abbastanza soldi, per pagare. Non ho portato un centesimo con me.» «Pagherò io» disse Jules. «Ma... perché non ho portato denaro? Sono uscita senza un soldo.» Tornò a frugare nella borsetta, esasperata. Sembrava del tutto indifesa. «Sarò lieto di pagarti il parcheggio.» Jules vide una singola lacrima caderle dalla gota nella borsetta, e ne fu commosso. L'amava, tutto sommato. «Non so che cosa mi abbia preso» disse Nadine. Le diede una banconota da dieci dollari. Lei lo ringraziò e la mise con cura nella borsetta. Si fece restituire lo scontrino da Jules. Quei gesti gli annunciarono la fine del loro convegno. Si sentì subito sconfortato. «Mi telefonerai davvero?» domandò. «Sì.» Si alzarono. La tristezza di Jules fluì in lei, e Nadine gli si gettò tra le braccia, piangendo. Si strinsero. Jules sentiva sotto le mani il corpo di lei, caldo, lievemente umido, intenso e si domandò se nel suo intimo continuasse ad esservi quella voluta e perversa purezza, quella purezza oscena, cui ella aveva attribuito tanta importanza anni prima. Si aggirava forse tra gli ingombri della sua vita pensando, Nadine Greene sta camminando qui incontaminata, a sinistra di questo, a destra di quello, scrupolosa e virgi-
nea? Capì che il suo rivale non era il marito di lei, il quale costituiva una sorta di alleanza, essendo un uomo, ma l'immagine che quella donna aveva di sé come donna, la sua malinconica frigidità. «Forse non vuoi amarmi» disse sommessamente, accusandola. «Questo non è vero.» «Vuoi costruire un modello con noi. Come se spostassi cubetti per bambini qua e là sul pavimento.» «Non ti capisco.» «Non vuoi concederti a me.» «Ti amo, penso a te sempre, sono malata d'amore per te... che altro puoi volere? Sono intrappolata dal mio amore per te.» «Questo non sembra gentile.» «Sento che potrei impazzirne, Jules, è una cosa nella quale io non ho avuto alcuna possibilità di scelta, e ne sono irritata.» Gli rimase piangente tra le braccia; non avevano altro da dirsi. Jules si guardò attorno cercando la loro immagine nello specchio del cassettone, come per dimostrare a se stesso che si trovavano lì in piedi, proprio così, quella donna tra le sue braccia, entrambi rigidi e frustrati. Quando Nadine se ne fu andata, lasciò subito l'albergo ed entrò in un bar, ove bevve parecchi whisky. Uno sconforto tenebroso gravava su di lui. Non trovò la forza di andare in automobile fino alla fabbrica di suo zio, come aveva promesso al vecchio; telefonò, invece. Disse: «Oggi devo andare di nuovo all'ospedale. Accompagnare mia madre. Sì. No, non ancora. Molto grave. Sì. Cancro». Un silenzio rispettoso. Lo zio Samson rispettava il cancro e il denaro. «Sì, grazie. Mi dispiace per oggi. Non mi va particolarmente a genio quello che devo fare. Grazie. Sì. Arrivederci. Sì. Cancro delle glandole linfatiche, o qualcosa del genere, un tipo di cancro. No, non causato dal fumo. No.» 13 Passarono due settimane. Jules aspettò. Quando infine Nadine telefonò era diventato scettico, e la voce di lei gli parve irriconoscibile: qualcuno che aveva sbagliato numero. Ella aveva l'aria di leggergli un certo indirizzo, una certa ora. Mentre ne prendeva nota, Jules si sporse in avanti per premere la fronte contro il muro. In tutto il suo corpo non v'era alcunché di fermo, niente che gli impedisse di cadere, tranne quel muro.
Uscì presto, per non essere costretto a guidare in fretta. La sua mente, colma delle novità irrilevanti dell'ufficio di suo zio e della vita pubblica, arginò l'eccitazione che minacciava di coglierlo di sorpresa. Guidando, gli parve di scivolare in una sorta di stato di trance, nel quale conservava il vocabolario della sua esistenza normale, ma esentandolo dai rispettivi significati. Qualsiasi cosa facesse, sentì Jules, non si sarebbe potuto fargliene colpa, non avrebbe potuto subire le conseguenze della vita reale; non era un personaggio della "vita vera". Sintonizzò la radio sul giornale radio delle ore dodici per controllare il mondo reale, che gli parve lo stesso di sempre. Poté così pensare con sollievo, Sono già passato attraverso tutto questo. La sua esistenza, nelle scorse due settimane, non era stata vissuta a dovere. Aveva lottato con Nadine come si lotta con una donna che affoga, immaginandola senza posa. La battaglia era stata silenziosa e segreta e priva di un vero avversario, perché Nadine sembrava scomparsa... aveva tentato di telefonarle, ma nessuno era venuto a rispondere all'apparecchio. Aveva riattaccato, con sollievo. Nadine era però presente ovunque intorno a lui, così come era rimasto su di lui il suo profumo, una lieve, aerea nota di condanna. Ragionava con se stesso. Parlava di se stesso in terza persona; si rivolgeva a se stesso disperatamente, dicendo: "Jules, devi uscire da questo pasticcio!". Ma lo Jules essenziale, il più profondo e più savio Jules, non faceva altro che dire, continuamente: Come potresti continuare a vivere con te stesso se non ti dimostrassi all'altezza di questa situazione?... Di questa emozione? L'appartamento che ella aveva preso in affitto si trovava al quinto piano di un vecchio palazzo vicino al Palmer Park. Era costruito con mattoni rosso-scuri, massiccio e pomposo, e aveva piccoli e inutili balconi di ferro battuto. I balconi erano soltanto simbolici, cerimoniali. Ai quattro angoli dell'edificio si levavano sudice torrette, inesplicabili. Agli occhi di Jules avevano un aspetto militaresco, ma non si intendeva affatto di architettura e non avrebbe saputo dire che cosa fossero, o che cosa fossero state un tempo, in un altro secolo. Lo resero apprensivo. Intorno ad esse volavano pesantemente soltanto piccioni, ma si aspettò di vedere un movimento nervoso di armi. Si fece piccolo all'idea di una simile morte. Voleva morire fulminato da un proiettile, o voleva morire in un letto d'ospedale come suo zio? La sua immaginazione era stata accesa dalle reminiscenze di film: crude morti in bianco e nero di uomini abbattuti da una pallottola, sempre abbattuti da una pallottola; era lo scotto che si doveva pagare per essere
importanti. Jules era troppo importante per se stesso, troppo solo. Da bambino aveva intuito che nei film una morte improvvisa e rumorosa si determinava ogni qual volta un uomo rimaneva solo per due o tre minuti; imprudentemente abbandonava i suoi compagni, fischiettava piano aprendo una cassaforte o cambiandosi la camicia, solo, e dopo un minuto la macchina da presa si spostava scaltramente per mostrare la canna di un'arma... Quel palazzo lo colpì. Nell'aria, quasi fosse stato smosso dalla sua presenza, si sentì un improvviso odor di polvere; era un odore che gli parve strano ed elegante. Aveva percepito abbastanza spesso l'odore del sudiciume, mai però quella sorta di polvere pulita, acre, limpida, invisibile. L'ascensore era antiquato. Si mise in moto con riluttanza. Lui era abituato ad ascensori veloci, silenziosi, era abituato alle scale mobili, al funzionamento di macchine efficienti. La lentezza stessa di quell'ascensore lo incantò. Quando uscì al quinto piano, si perdette a un tratto di coraggio. Come in sogno, si diresse verso la porta dell'appartamento di Nadine... vide che la porta era aperta. Lo spiraglio si ampliò, in modo irritante. Lo fissò come se avesse fissato uno schermo cinematografico. La simmetria della porta stava venendo distrutta; era una porta di legno scuro, e gli parve lussuosa. Tutto gli sembrava lussuoso, lì dentro. Tese la mano per toccare la porta, e Nadine gliela afferrò. Le si accostò, senza pronunciar parola, e affondò la faccia contro l'incavo tra la spalla e la gola di lei. Si sentì informe in quell'abbraccio, incapace di ricordare se stesso. Nadine, tra le sue braccia, gli parve priva di forma e molto calda, anelante a lui. Non avrebbe saputo dirne il nome. Sembrava che stesse osservando se stesso, Jules, diventare sempre e sempre più piccolo, come una luce morente, spenta nella confusione di quel corpo femminile. Tutto il resto passò al di là della sua portata. Non aveva un vocabolario. La faccia e il corpo di Nadine e il movimento tormentato delle mani di lei contro la sua schiena erano come parole che gli urlassero contro. Ella stava dicendo qualcosa, diceva «Jules»... e Jules non aveva la forza di risponderle. Nadine lo trascinò in qualche posto. Sentì la cecità nel suo corpo, la sentì incespicare contro qualcosa, e le sue stesse gambe erano intorpidite e cieche. Ella sedette sulla sponda di un letto. Jules Le si inginocchiò dinanzi e l'abbracciò. Schiacciò la faccia contro di lei. Sentì le dita di lei tra i propri capelli umidi e la immaginò intenta a fissarlo, come se non capisse la sua passione ma si arrendesse ad essa, riconoscendone la forza. Nadine lo tirò su. E, con un'energia impersonale ed astratta, egli si alzò verso di lei.
Jules fece l'amore con lei, sempre senza parole e senza alcun ricordo di avere già fatto la stessa cosa prima con altre donne; il suo corpo lo portava avanti, mentre la mente, in deliquio, brancolava in cerca di qualche appiglio, di qualche punto fermo, per poterlo porre in grado di rientrare in se stesso. Gli occorreva uno stile; lo terrorizzava la possibilità di perdere la presa su se stesso. Ma tutto cedette in lui. Sentì di trovarsi entro un'onda di violenza che lo scagliava avanti, lui, Jules Wendall, una sorta di vittima, e si affondò in Nadine con gemiti di stupito amore, mentre Nadine gli si sottometteva, abbracciandolo, la propria morbidezza consegnata alla sua forza impersonale. Ciò nonostante, provò una sorta di orrore non sapendo quel che faceva. Non se ne sarebbe ricordato. «Jules, ti amo» disse Nadine. Lui aprì gli occhi. Si guardarono. «Jules, mi ami?» «Ti amo.» Stava tremando, coperto di sudore. Si sentiva beato, libero dal greve peso che aveva sopportato ovunque per settimane. Ora quella densità, quell'impurità, erano scomparse; sentì di avere sparso tutto tra le braccia di Nadine. Giacquero insieme in silenzio e si contemplarono, Jules fingendosi sonnacchioso per una sorta di cortesia. Nadine sorrise. Ebbe un sorriso improvviso, sorprendente; sembrava felice. Questo abbacinò Jules. Le fissò la bocca, foggiata nel dono di quel sorriso. Stentava a credere alla sua bellezza. Ella gli portò le braccia intorno al collo e gli toccò la bocca con la sua, timidamente. In preda a una sorta di terrore, Jules la tenne di nuovo stretta tra le braccia, desideroso di seppellirsi in lei. Si avvinghiarono strettamente. Jules giaceva supino e si guardava attorno. Un soffitto, una stanza. Non aveva mai veduto quella stanza, prima di allora, e, a questo punto, essa gli si aprì con una rapida serie di chiazze di luce - soffitto bianco, pareti bianche, una finestra con tende bianche trasparenti. Tutto era nudo. Si provava lì la sensazione di un'eco, di un vuoto indefinito. Jules si asciugò il sudore dagli occhi, come un nuotatore toglie le gocce d'acqua, disperato di vedere, timoroso dell'elemento nel quale si trovava. Gli parve di essere affiorato alla superficie da una grande, pericolosa profondità. «Non credevo che questo sarebbe mai accaduto. Così» disse. «Mi ami?» Non voleva affogare nella sua vicinanza... la sua vicinanza era inquietante. Tutto in lui avrebbe potuto resistere, ma non disponeva di alcun appi-
glio su se stesso, di alcun ricordo chiaro di se stesso. Sicché aveva fatto l'amore con questa donna? Era la sua amante? «Come è accaduto, questo?» domandò. «Oh, non scherzare!» «Ma è uno scherzo meraviglioso. Meraviglioso. Ne morirò.» Sentì il sole della stanza penetrare la parte più profonda del suo cervello, abbacinandolo. La luce inondava tutto. «Dove siamo, tesoro? Hai preso in affitto questo appartamento?» «Sì, per un mese.» «Lo hai preso in affitto per noi?» «Sì.» «Ma non ho avuto tue notizie per tanto di quel tempo! Credevo che tutto fosse finito. Credevo che tu avessi rinunciato.» «Non ho rinunciato.» «Perché non mi hai telefonato, Nadine?» «Ho pensato a te continuamente. Non potevo pensare ad altro» disse lei. Adesso che erano amanti, anche l'ostacolo del suo modo di esprimersi freddo, rapido, nervoso, sembrava scomparso; parlava sommessamente. La carezza dolce e ardente del suo alito era per lui una meravigliosa intimità. Jules era meravigliato dalla soavità di Nadine. Le baciò il corpo, l'accarezzò, si stupì della sua pelle liscia. La propria mano lo fece vergognare; quelle mani, quel corpo di maschio. Si vergognava a toccarla. Ma Nadine lo trasse a sé, dicendo: «Ti amo. Ti amo» come una donna in stato di trance. «Non volevo rivederti, ma non ho saputo resistere. Avresti potuto telefonarmi. Ho continuato ad aspettare...» «Non stavi aspettando... ho tentato di telefonarti.» «Ah sì? Ma io... anch'io non avevo più saputo niente di te e temevo che telefonando... Avrei voluto morire, tanto ero infelice. Ho pensato a te sempre.» «Ho pensato a te sempre» disse Jules felice, ricordando l'infelicità di quelle settimane come se fosse stato un altro uomo a sopportarla, un individuo ridicolo. Si sollevò e tornò a lei, e Nadine, graziosa e stupita, premette la bocca aperta contro la sua e aspettò. Penetrò in lei agevolmente come se tutti quegli anni di lontananza e di privazione non fossero esistiti. Non pensava a quella donna come alla moglie di un altro, e pertanto esperta nell'amore, ma come alla più profonda, essenziale Nadine, sempre preparata per lui e soltanto per lui, il solo uomo che il suo corpo potesse realmente accettare. Nella passione vedeva la sua faccia offuscata, pallida,
troppo vicina per poter essere veduta; si avvinghiarono, molto accesi; i contorni dei loro corpi erano incerti. Jules si gettò ancora e ancora sui suoi gridi sommessi, consolandola. Gli sembrava che la testa gli si fosse svuotata e che i gemiti di lei vi echeggiassero dentro. Una grande voluttà incominciò in lui; voleva prenderla violentemente tra le braccia e penetrarla fino al nocciolo stesso del suo essere, fino al suo più profondo silenzio, conducendola alla liberazione di quella voluttà. Ma ella sembrava scivolar via da lui, troppo debole o troppo stordita, e sentì il suo amore tornare a svuotatesi dentro con violenza mentre ella lo tratteneva, le mani premute con forza sulla schiena, tese quasi da una sensazione di allarme, il corpo rigido in quel momento di crisi. «Nadine?» Nadine si passò il dorso della mano sulla fronte. «Stai bene?» «Sì. Meravigliosamente.» Jules vide il guanciale per la prima volta: bianco, con ricami verdescuri sugli orli. Tutto era strano. Seguì con le mani l'esile curva del corpo di Nadine, incantato dalla pelle di lei. Non riusciva a ricordare alcun'altra donna, non era sicuro di aver già fatto questo in passato. Tutto gli era stato levato via dalla mente, non esisteva nulla di autentico nella sua esperienza; quelle che erano le sue vicende personali potevano essere state rubate a film e a libri, all'immaginazione di altre persone. La stanza aveva una grande finestra che dava sul parco. La finestra era stata sostituita e sembrava più nuova del resto della stanza, antiquata. Sul soffitto, le decorazioni in gesso avevano un aspetto antico, come una torta mummificata; fu uno choc vedere un telefono nero sul pavimento, modernissimo, nudo e deciso. «Come mai hai il telefono?» domandò Jules. «Non è collegato.» «Si trovava nell'appartamento?» «Sì.» Questo gli fece un immenso piacere. Era delirante di felicità. Le gambe parvero diventargli molto forti a un tratto, forti in modo stimolante. «Allora non ci telefonerà nessuno. L'apparecchio non squillerà mai» disse. «Mai.» Giacquero per qualche tempo contemplandosi a vicenda, sorridendo. Jules sentì la forza rifluire nel suo corpo. Era una sensazione curiosa. Nadine lo accarezzava e la pelle, sotto le dite di lei, si sollevava in protuberanze
minuscole. «Dov'è tuo marito?» «Non stare a preoccuparti per lui.» «È ripartito?» «Sì.» «Ma quando tornerà?» «Non domandarlo.» Giacquero schiacciati l'uno contro l'altra. Jules, innamorato, contemplava il corpo di Nadine con un certo timore... non riusciva a convincersi del tutto di quella bellezza, di quel dono di bellezza, di tanta perfezione. Temeva di averla conquistata in seguito a un errore, a un malinteso. Furtivamente sbirciò il corpo di lei per tutta la sua lunghezza, fino ai piedi nudi. La gola gli si strinse: non era mai stato così commosso. Disse con un'allegria disperata: «Possiamo abitare qui tutti e due? In questo appartamento?». «Sì» rispose Nadine. Nel pomeriggio tardi si destarono tremanti. Jules guardò il pavimento nudo, un pavimento lucido tirato a cera. Scorse ovunque, intorno a sé, i risultati di una fatica che non era sua, una sorta di magia. La stessa Nadine era magica. Si sentì imbarazzato scendendo dal letto in un modo così comune e andando in bagno, mentre Nadine si drizzava a sedere con l'elegante, bianca spina dorsale lievemente incurvata. Ella non lo guardò. Nudo, Jules voleva celarsi a lei, a un suo sguardo casuale. Ma Nadine non si voltò. I capelli le si erano sciolti sulle spalle e formavano grovigli scuri e lucenti. Sembrava che fosse appena emersa dal mare, scompigliata da ore di ansimanti fatiche. Il bagno era radioso di luce... tendine bianche, piastrelle bianche, una tenda bianca intorno alla doccia. Anche quell'ambiente era stato rimesso a nuovo, rinnovato. Jules barcollò fino al lavabo e si guardò. Aveva il rossetto per le labbra di Nadine sparso a chiazze vaghe sulla faccia, ma si riconobbe ugualmente, Jules innamorato, malato d'amore... Aveva già veduto quella faccia, un suo accenno, ma non ne aveva mai sentito così forte la disperazione nelle ossa. Quando tornò in camera da letto, lei stava infilando una vestaglia gialla. I suoi movimenti erano lenti, letargici, come se fosse stata in stato di trance. Sembrava davvero che fosse emersa da un altro elemento, un elemento privo d'aria, o un mondo nel quale l'atmosfera era densa e cremosa. La sua pelle sembrava cremosa. Si sarebbe detto che vi fosse su di essa un molle
rivestimento, qualcosa di languido, di soffice. Si avvicinò all'armadio a muro nel cui interno si trovava una valigia aperta, piena di vestiti. Appesi a numerosi ganci nell'armadio a muro v'erano altri indumenti. Jules deglutì con la gola secca vedendo là appese le sue cose. Sembravano così intime. Per la prima volta prese in considerazione la possibilità che ella gli appartenesse, che loro due si appartenessero a vicenda, e vivessero insieme le loro esistenze. La riflessione gli vibrò nelle vene. «Nadine?» Provò per lei un amore così tagliente che il suo corpo parve tramutarsi in un cristallo d'amore, in un'opera d'arte, e sentì le ossa stesse stordite e dure. Nadine, mentre si voltava timidamente verso di lui, senza guardare il suo corpo, gli parve anch'ella un'opera d'arte... fragile nella vestaglia di seta, rosea, spaventata, timida. Sentì il panico nella necessità di possederla. Egli stesso era posseduto da lei, dal suo amore; si trattava di un peso frenetico, di una pressione simile all'elettricità, che esigeva di essere scaricata. Jules non riuscì affatto a pensare. L'abbracciò mentre era in piedi accanto alla porta dell'armadio, esitante tra lui e l'armadio a muro, sul punto di fare qualche casuale e imbarazzata osservazione della vita d'ogni giorno. La prese tra le braccia e sentì fino a qual punto fosse rimosso al di là di se stesso, trasfigurato. La trascinò di nuovo sul letto, sentendo quanto la sua smania sfrenata la attraesse, tacitandola. Ella lo allacciò con le braccia e gli si diede. Quando si destò, Jules vide che Nadine se n'era andata. Ma lei si affacciò subito sulla soglia, quasi intuendolo, un'ombra di giallo che si spostò nella sua visuale. «Sei sveglio, Jules? Vieni qui» disse. Discese dal letto. Si infilò i calzoni, trasognato, e la raggiunse. «Guarda il sole al tramonto. Guarda il parco» ella disse. Si appoggiò pesantemente contro di lui. Erano in una lunga e vasta stanza, evidentemente un soggiorno. Vi si trovavano soltanto due sedie... l'una una sedia antica, con l'imbottitura di seta verde, forse un pezzo d'antiquariato o una riproduzione, l'altra una sedia comune dalla spalliera diritta. Sul pavimento alcune riviste, un giornale. Il sole splendeva attraverso le foglie fuori della finestra e fioriva in migliaia di chiazze baluginanti. «Ci troviamo in un dipinto. Figure in un dipinto» disse Jules avidamente, pensando a un dipinto anonimo che aveva veduto una volta al museo d'arte, anni prima, durante uno dei suoi vagabondaggi, giorni di curiosità in quella parte di Detroit. Gli era sembrato allora che il dipinto contenesse un
segreto per lui... il modo di allontanarsi da Detroit. Ora, mentre era lì con Nadine in quell'appartamento vuoto, tornò ai tempi lontani. Sentì che la sua vita superava ormai qualsiasi cosa avesse potuto immaginare, sia pure con tutta l'energia di cui era capace. Aveva saputo andare al di là di se stesso. Si trovava in un dipinto, abbracciava una donna in un dipinto. Il loro amore, così faticoso e violento al proprio culmine, era esploso in migliaia di puntini luminosi e di foglie dorate. «Sento di essere posseduto da qualcosa. Da te» disse. «Stai scherzando di nuovo.» «Non scherzo mai.» «Sì, scherzi sempre, e sei sempre serio. Tutte e due le cose contemporaneamente. Me ne ricordo. Ma ero troppo giovane per poterti amare davvero, allora. Dovevo crescere.» «Io ti amavo, allora.» «Lo so. È quello che ho sempre ricordato di te. Non c'è mai stato un giorno, in tutti questi anni, in cui non abbia pensato a te.» «Penserai sempre a me?» «Per tutta la vita. So che sarà così, qualsiasi cosa possa accaderci.» «Che cosa ci accadrà?» Nadine rise e premette il viso contro il suo. Era fresca, adesso, graziosa. Si era pettinata e aveva applicato il rossetto sulle labbra, facendosi bella per lui. Sembrava a Jules che la grazia inaspettata di questa donna lo sbalestrasse fuori dal mondo che aveva conosciuto, lanciandolo in una dimensione bizzarra nella quale il suo modo di vivere, le sue parole, il suo stesso Io non avevano alcun potere. «Vieni in cucina. Ti preparerò qualcosa da mangiare» gli disse. La cucina era piccola e antiquata, con l'acquaio un po' ossidato. Nel cuore di un edificio, nei suoi impianti idraulici, certi segreti affiorano... il rubinetto dell'acquaio gocciolava adagio, silenziosamente. Jules portò là le due sedie e Nadine si mise su quella elegante, lui su quella comune, compassato come un ospite. Lei affettò del formaggio per entrambi, con un coltellino da pochi soldi. La fame di Jules era travolgente. Non si era mai sentito così sano. «Ho anche del pane di segala» disse Nadine, lietamente. Era rosea di felicità, fanciullesca, quasi svampita. Lo guardò mentre mangiava, di soppiatto, e lui si sentì imbarazzato... tutto era così intensificato, sin quasi al punto di riuscire doloroso. Rise. Sedeva a un passo da quella donna, in uno stordimento d'amore, affamassimo, mangiando formaggio. Dal soggiorno venivano chiazze di luce dorata, posandosi su un lato del-
la faccia di Nadine. Sembrava giovane, con Sa pelle un poco infiammata. Gliel'aveva infiammata lui, con la propria. Intorno alle labbra, sbavata sulla pelle morbida, c'era una tinta rosea... il rossetto. Jules mangiò i pezzi di formaggio e di pane che ella gli porgeva, fissandola. Era un miracolo, quella trasformazione. Le contemplò il viso, il viso privato di una donna, a suo modo impersonale e bello come ogni opera d'arte, assolto dall'angoscia personale. Un volto finemente lavorato, eppure non saturo di intelligenza... che rifletteva luce, la luce del sole, proveniente dalla finestra, oppure la luce dell'attenzione feroce di Jules. Jules guardò l'apertura nella vestaglia. Non riuscì a scorgere la sommità dei seni, ma si rese conio che sotto la vestaglia ella era nuda, una intimità che lo lasciò stordito, tanto era un dono strano e immeritato. «Mi amerai? Mi consentirai di amarti?» le domandò a un tratto. «Non ho altra scelta» ella disse. Aveva la pelle traslucida, la pelle di una vittima. Ma sorrise. Aveva denti regolari, bianchi, comuni. Il suo sorriso rivelò adagio quei denti. I denti di Jules non erano altrettanto bianchi né altrettanto belli, ma per lo meno non gliene avevano fatto sputare nessuno. Le sorrise adagio, prendendole la mano. V'era qualcosa di fragile, qualcosa di simile a una pietra preziosa, a una perla nell'impersonale perfezione di lei. Quello che egli le aveva fatto, tutta quella lussuria, giaceva placido in lei e splendeva attraverso i suoi pori, in attesa. «Non sembra vero» ella disse infine. «Nemmeno a me.» «Mi hai resa tanto felice, Jules.» «Sì.» Nadine si portò la mano di lui al viso e la premette contro la gota. Jules vide le vene di un celeste chiaro sul dorso della sua mano. «Sento quello che hai lasciato in me, dentro di me» ella disse, sognante. V'era un che di letargico, quasi di affaticato, nella sua voce; sembrava sotto l'azione di uno stupefacente. Jules fu un po' spaventato da quelle parole, e poi incantato, e poi eccitato. Si domandò se, come lui, Nadine si sentisse annientata dall'improvviso espandersi dell'amore... troppa luce soffocante, troppa violenza. L'afferrò per le spalle e baciò l'apertura della vestaglia. «Non te ne andrai, Jules?» «Dove potrei andare?» Era lenta e ipnotica, come una bambina affascinata da qualcosa di inesplicato. Aveva i capelli sciolti intorno al viso. Jules sentiva una concupi-
scenza disperata di lei, ma se ne vergognava. Il corpo di Nadine, così ubbidiente al suo, gli sembrava un ricettacolo troppo fragile per quel desiderio; non voleva distruggerla. La baciò sulla bocca, sul viso; gli parve di baciare pelle ammaccata. Ella chiuse gli occhi e gli portò le mani sulla nuca, accarezzandolo. Quel contatto lo rese frenetico. Ricordò che lo aveva toccato così mentre faceva l'amore con lei, una carezza così dolce che lo spronava, che lo invitava. «Potremmo?... Come ti senti?» domandò con voce rauca. Nadine si alzò. Lui l'abbracciò avidamente. «Voglio renderti felice. Non voglio farti del male» le disse. Andando con lei nell'altra stanza, ebbe una sorta di allucinazione... il lampo di una fotografia ingrandita di se stesso. A volte pensava ironicamente a se stesso fotografato, nell'atto di correre, in una situazione ridicola, mentre sorrideva come un idiota, mentre mangiava. Ora si vide in un lampo; il lampo si accese e si spense. Non si vide realmente, si immaginò. Immaginò se stesso condurre quella donna splendida su un letto, il braccio intorno a lei in un atteggiamento intimo, coniugale, la faccia immobilizzata in un'espressione di fiducia e di tenerezza. Era diventato un marito. Ma lo Jules di questa fotografia era stato immaginato in altre parti, in altre posizioni meno lusinghiere. Senza fine Jules aveva inseguito Jules, in interminabili episodi e sogni: adesso era entrato in quel regno lucidato, tirato a cera e l'immediatezza del corpo di Nadine era tanto miracolosa che si meravigliava della propria audacia. Le aprì la vestaglia. Si chinò a baciarle il corpo. Ella indietreggiò da lui quasi fosse spaventata, ma non proprio spaventata; Jules la seguì, lasciò cadere la vestaglia sul pavimento. La porta dell'armadio a muro era socchiusa; la chiuse con una spinta. Aveva sempre avuto paura, da bambino, delle porte aperte, perché invitavano i guai. Jules si inginocchiò sopra di lei ed entrò in lei con dolcezza. Nadine inarcò la schiena. La prese tra le braccia e l'avvinghiò, quasi timoroso che qualcuno potesse strapparlo via. Le pareti bianche della stanza parvero indietreggiare da loro. Se vi fosse stato uno specchio in qualche punto, lì accanto, avrebbe mostrato la forma ipertesa di Jules che, in una bruma bianca, si sforzava di conseguire qualche permanenza. Rimaneva inginocchiato come se stesse cadendo senza fine e soltanto il corpo di lei gli impedisse di precipitare. Una fotografia di Jules che cadeva. La tenebra del corpo di Nadine, il suo caldo segreto, ma anche il fresco, esterno biancore del suo corpo, la sua pelle pulita, lavata... questo lo lasciava stupefatto. Si sentiva incalzato fuori di sé. Timoroso di finire troppo presto e di abban-
donarla, gettò all'indietro la testa selvaggiamente, giovanissimo. Le mani di Nadine, sulla sua schiena, erano le mani del possesso sicuro, lo esortavano a continuare. Disse: «Tesoro mio...» e sperò che le sue parole lo avrebbero situato a qualche distanza. V'era in lui una pressione terribile che egli paventava, in quanto, con lei, era incapace di dominarla. Non era una macchina, ma una massa incalzante di carne, vergognosa in un certo qual modo, una massa di brama senza nome. Nadine lo abbracciò. Mosse la bocca contro la sua come se gli stesse parlando, disperatamente; non aveva parole. Smarrita entro il suo amore per lei, impotente sotto il suo corpo, giaceva tendendosi verso il piacere che lui aveva raggiunto così facilmente. Cominciò ad ansimare a respiri laceranti, rauchi. La faccia di Jules era contorta. Se almeno adesso, almeno adesso... se soltanto fosse stata sollevata con lui, in quel modo, come lui, e come lui liberata da quella lotta. Ma la sentì sollevarsi e fallire. Sentì la tensione in lei crescere fino all'isterismo, poi ricadere, come se il suo corpo non avesse avuto la forza di sostenerla. In preda a una sorta di delirio, Jules fece l'amore con lei per molti minuti, con il desiderio disperato di aiutarla, ma a un tratto la disperazione si dileguò, egli non riuscì più a ricordarsene, o non poté preoccuparsene, e tutto di lui venne sospinto con impeto a svuotarsi in Nadine. I suoi nervi erano accarezzati fino a un diapason di follia. Il nocciolo del suo essere, lo Jules del suo corpo, anelava frenetico alla liberazione e non poteva più essere trattenuto, sebbene Nadine, contorcendoglisi tra le braccia, gli dicesse: «Non lasciarmi, ti prego, Jules» e si avvinghiasse a lui con mani febbrili, afferrandogli la schiena, le cosce, le spalle. Jules scivolò via da lei. Provò la sensazione di cadere attraverso di lei, di eluderla. I loro crani, con la mediazione della pelle accesa, si strofinavano con una forza silenziosa. Ella cominciò a singhiozzare. Era febbrile tra le sue braccia, vicina all'isterismo. Jules disse: «Mi dispiace». Le baciò la fronte e le scostò i capelli dal viso. Il suo insuccesso era bizzarro, così vividamente in contrasto con la leggerezza che aveva nel corpo. Sapeva di esserle venuto meno, ma il suo corpo, premuto contro quello di lei, non sentiva altro che vittoria. Quell'indugiante, rifluente passione, il ricordo cocente della passione, non gli consentivano di credere di esserle davvero venuto meno. Eppure Nadine piangeva. Si ingobbì su di lei e mosse la bocca contro il suo corpo. Era bagnata, serica. Fremette sotto di lui e Jules sentì che lo stava respingendo prima ancora che ella gli afferrasse i capelli e dicesse, aspra: «No». Jules si fermò. Premette la faccia contro il suo ventre. «Lasciami fare.
Lascia che ti baci» disse. Ma Nadine cominciò a singhiozzare con lunghi ansiti frementi. «Non farlo, ti prego» disse. Ebbe paura di disgustarla... ebbe paura di lei, della sua passione, non riusciva a capire. Si avvinghiarono ciecamente. Jules le accarezzò le cosce e aprì la bocca contro la carne di lei, ma di nuovo ella si ritrasse, lo respinse. «È dentro di me, è profondo dentro di me, dove ho bisogno di te» disse con voce fioca. E lo respinse incalzante. Lui le giacque accanto cauto, sentendosi strano e irreale, ancor colmo di leggerezza, senza peso, abbagliato. La paura lo sfiorò, per il fatto che era venuto meno così completamente a quella donna, e, ciò nonostante, ella giaceva docilissima tra le sua braccia, minuta di ossa, delicata, una parte del suo stesso corpo. Non la guardava. «Mi dispiace» disse Jules, coprendole la mano con la sua. «Ti amo tanto.» «Ti amo» disse Nadine. Tacquero. Questa intimità era magica per Jules... non riusciva a credere che vi fosse, tra lui e Nadine, la grande distanza che la sua infelicità lasciava capire. Sentiva che ella era divenuta una parte di se stesso. Il ricordo del corpo di lei, l'esperienza del corpo di lei, gli sembrava serica, misteriosa, calda. Non esistevano complicazioni. Eppure v'erano complicazioni che non riusciva a capire. L'incontenibilità e la forza stessa di quel che aveva provato lo spaventavano, poiché il possederla, l'amarla, non lo soddisfacevano, ma lo eccitavano, facendo sì che la volesse ancora, incatenandola a lui nell'immaginazione... La via d'uscita da una simile tensione consisteva nel liberarsene, ma la violenza di tale liberazione era inebriante. Non riusciva a distaccarne e a scioglierne i pensieri. Era come se il suo cervello fosse contagiato dalla febbre che gli aveva bruciato il corpo, per purificargli il corpo. Nadine era spossata. Jules sentì un silenzio greve tra loro e provò una sensazione di sollievo quando ella si addormentò, con il capo sulla sua spalla. Dormiva un sonno irrequieto. Ma era un sollievo sentirsi libero dalla sua consapevolezza. Jules si guardò attorno nella stanza, stringendo Nadine. Siccome era così nuda, la stanza non conteneva alcuna minaccia. Era un ambiente senza passato e apparteneva soltanto all'avvenire; si sarebbe completato nel futuro. Attualmente, nel presente, era vuoto e irreale. Qualunque cosa sarebbe potuta accadervi. Il peso del corpo febbrile di Nadine contro il suo sembrava irreale. Egli continuava a vederla a distanza, la sua visuale si proiettava in alto per contemplarne il viso, gli occhi, il contorno delicato del corpo... quel corpo, così vicino al suo, era un enigma per lui. Tutto vi rimaneva dentro rinchiuso. Lui non possedeva le parole per libe-
rarla, per destarla dal sonno irrequieto. Il respiro di Nadine era affannoso. Jules divenne acutamente conscio della sottigliezza delle sue ossa sotto la pelle bagnata, dell'esilità del collo, anche dei bei tratti del viso. Ma i capelli erano scompigliati. Anche nella spossatezza e nel sudore ella gli parve elegante, un mistero. Il suo lungo, liscio corpo era una sfida. Si sentì diventare lentamente cieco, risucchiato interiormente dalla calda, serica sfida del corpo di Nadine. Giaceva semi-addormentato. Era notte. Il braccio di Nadine rimaneva abbandonato ed esteso all'altro lato di lei, in un atteggiamento infantile di resa. Il suo respiro era adesso tranquillo. Jules cercò di chiarire i propri pensieri. Tutto era umido. Le lenzuola, spiegazzate. Non riusciva a pensare, giacendo lì. Una strana paura si impadronì di lui: sarebbe potuto restare legato per sempre a quella donna, loro due incatenati insieme da una passione che non poteva giungere ad alcun compimento? Aveva la forza di fare un miracolo, tutto sommato? Madido, saziato dai miracoli del proprio corpo, si sentiva dilaniato per essere sopravvissuto a tali eccessi. Gli occhi gli bruciavano dell'esperienza dei miracoli, come gli occhi di un profeta biblico, un profeta barbuto, dagli occhi folli, in qualche deserto senza nome, vagabondante attraverso un'ardente eternità di deserti, di cespugli fiammeggianti, di apocalittici, screpolantisi cicli, di impennate acque bianche, di voli deliberati d'immaginari uccelli favolosi... Stava perdendo adagio la propria forza, l'anima sua. Si destò toccato da lei. «Jules?» ella disse. «Stai sognando?» «Non lo so...» Aprì gli occhi, confuso. Nadine si protendeva su di lui. L'atmosfera del loro letto era viziata e dolce. Sentì i capelli di Nadine sul torace, la sua presenza sopra di sé, lattiginosa e dolce. Con impeto, tutto il suo amore per lei tornò; si sentì quasi svenire. «Ti amo tanto» disse Nadine, ma le sue parole erano fanciullesche e non minacciose; quando la baciò, lo fece senza angoscia. Jules le mise le braccia intorno al capo, premendole la faccia contro di sé. Era curioso ed eccitante, per lui, avere l'avambraccio contro la nuca di Nadine, premerle i capelli contro il collo. «Parlami e raccontami di te» ella disse. «Non c'è niente.» «Jules...» «No,» egli disse con la voce tremula «niente. Non ricordo la mia vita. Per quanto tempo riuscirai a rimanere con me in questo modo?»
Nadine esitò. «Perché non potrei restare per sempre?» «Dici sul serio?» «Sì, sul serio. Per sempre. Rimarrò per sempre.» Premette tutta la lunghezza del proprio corpo contro il suo. Placida, calda, giaceva come se stesse riflettendo meticolosamente sulle proprie parole. «Mi sono sempre perduta nell'amore che gli altri avevano per me. Mio marito... pronunciavo il suo nome, un nome particolare, e credevo di amarlo. Glielo dicevo. Ma mi limitavo a dirla, quella parola, la parola amore. La dicevo contro tutto ciò che al mondo non era lui, che non mi conosceva, in quel mondo ove tutti si infischiavano di quello che io ero, o di quanto soffrivo, cercando di amare qualcuno. Anteponevo il suo nome a tutto questo. Sono sempre stata terrorizzata da questo.» «Da che cosa?» «Da tutto, dalla possibilità di andare oltre l'orlo.» «Nadine, tu? Ma stai parlando sul serio?» «Devi prendermi sul serio, Jules.» «Voglio prenderti sui serio, ma non posso crederlo. Che cosa può mai essere accaduto nella tua vita per spaventarti?» Nadine taceva. «No, sul serio» mormorò Jules con dolcezza. «Dimmelo.» Il suo silenzio era ostile. Le accarezzò il viso, come se si sforzasse di leggerne l'espressione. «Cosa c'è che non va?» domandò Jules. «Mi sembri così distante.» «Questo non è vero. Che cosa vuoi dire?» «Mi ami, ma non mi ascolti. Ti ritrai da me. Per tutta la vita ti rifugerai nell'essere stato povero, nell'essere stato maltrattato, per sentirti superiore alle persone come me. Non vuoi pensare che siamo reali.» «Questo non è vero!» «Ricordo di essermi trovata sola con mio padre, su un treno. Lui cominciò a vomitare. Vomitò sangue e c'erano cose nel sangue, piccoli brandelli di carne. Me ne ricordo bene...» «Dio mio, mi dispiace. Non pensarci.» «Voglio pensarci. So che cos'è l'orlo, proprio come lo sai tu. Potrei saperlo meglio. Ma tu non mi credi, non credi che io sia reale. Sono qualcosa che hai inventato, anche il mio corpo è qualcosa che hai inventato.» La sua voce lo eccitò. C'era del vero in quanto diceva... l'aveva inventata, immaginata. Ma era anche reale. «Non parlare così» le disse.
«Perché sembra che io sia pazza? Ma è proprio questo l'orlo al quale mi riferisco soprattutto, andare oltre l'orlo...» Jules udiva le loro voci e le loro parole, ma la sua mente non le assimilava affatto. Voleva soltanto abbracciarla, ma temeva che ella si facesse indietro. Adagio, con dolcezza, le faceva scorrere le mani sul corpo, mentre parlavano, come se quelle carezze non fossero importanti e si limitassero a far parte della loro conversazione. Ella stava dicendo: «Ti immagino per la strada, diretto in qualche posto. Facendo l'autostop. Quegli uomini camminano lungo il margine della strada, a volte camminano all'indietro, tenendo d'occhio le automobili. Sembrano molto scaltri, molto pericolosi. Alzano il pollice e fanno il gesto di chi chiede un passaggio, osservando ogni cosa, beffardi. Sono pericolosissimi, credo. O forse non sono pericolosi, forse sono teneri, come posso saperlo? Io non faccio mai salire autostoppisti. Ma tu entrasti addirittura in casa di mio padre. Non potei dirti di no. Per anni, da allora, ebbi l'incubo di te che ti introducevi di nuovo in casa mia, arrampicandoti fino alla finestra...». Jules era talmente nervoso che riuscì soltanto a ridere. «Ma perché stai ridendo? Mi terrorizzava.» «Non c'è nessuna ragione di aver paura. Non parlare così.» «Ti amo, ti desidero così intensamente, così accanitamente, non credo di poterlo sopportare» disse Nadine, a un tratto. «Se ci trovassimo su una barca, la spezzerei in due. La farei affondare sotto di noi. Annegheremmo. Non so dominare i miei sentimenti per te, e così annegheremmo. Se ci trovassimo su un'automobile, lanciata a tutta velocità, ti strapperei le mani dal volante e provocherei un incidente.» «Perché stai dicendo queste cose?» «Non lo so.» Respirava rapidamente. Jules le fece scorrere le mani sulle spalle e sulla schiena, spaventato di lei, incapace di fermarsi. Non riusciva a capirla. Il più sottile dei cunei tra loro si era allargato a un tratto, spalancando una grande distanza ventosa, e gli accadde di pensare che, da quella distanza, ella lo odiasse. Perché non credeva in lei? al suo terrore? Perché, come sua sorella Maureen, era una donna che doveva prostrarsi sotto il terrore, sottoporvisi, non essendo abbastanza forte per sfuggirgli? Nadine disse: «Una volta un cane mi inseguì, un pastore tedesco. Arrabbiò. Mi morse, le caviglie, le gambe, le braccia. Arrabbiò, e io urlai e urlai, tentando di fuggire, ma il cane continuava a gettarmisi contro e a farmi cadere. Era infuriato. Era qualcosa di incontrollabile che turbinasse, lan-
ciandosi contro di me. Non pensai che sarei morta, non ebbi il tempo di pensarci. Ero troppo terrorizzata. Il cane continuava ad avventarmisi contro, e la saliva volava dappertutto, dalla sua laida bocca. Vedo ancora quella bocca - le labbra nere, la lingua, i denti - era in preda a una rabbia così folle, senza nessuna ragione, voleva farmi a brandelli. Per mesi, in seguito, non riuscii più a dormire senza sognare quel cane. A volte, anche quando mi destavo, lo sentivo formarsi nell'aria accanto a me... un cane che si concretava nell'aria, una forma molto tesa, pesante, spaventosa, nell'aria. Avevo le braccia e le gambe tutte coperte di sangue. Mi rimangono ancora alcune cicatrici. Ma non furono i morsi a spaventarmi, in seguito. Fu tutta quella forza. Era la forza che si concretava nell'aria proprio accanto a me, un pericolo terribile. Pensavo che sarebbe potuta entrare in me e che avrei potuto fare qualcosa di spaventoso, che avrei ucciso me stessa o qualcun altro...». Jules la strinse. «Gesù, deve essere stato terribile» disse. «L'aspetto del cane era spaventoso. Credevo che sarei impazzita.» «Vorrei che tu non ci pensassi, adesso.» «Non so perché ne ho parlato. Forse per convincerti dei pericoli che ho sormontato? Ma tu stesso sei il mio pericolo più grave... che cosa posso fare per quanto concerne il mio amore per te?» «Che cosa possiamo fare?» «Altre persone mi hanno amata, e io sapevo di che cosa si trattava, esattamente. Ma tu mi ami come qualcuno che gridi il mio nome tra la folla... conoscendomi, venendo subito a me. Non posso fuggire. Voglio soltanto giacere tra le tue braccia così, voglio che tu faccia all'amore con me, il desiderio di te mi fa perdere la testa.» Parlava rapidamente, con una fioca, disperata urgenza. Si sarebbe detto che stesse confessando qualcosa di troppo laido per poter essere detto a voce alta. Jules sentì che stava evocando in lui l'eccitazione, quel corpo nervoso, calcio, che si muoveva contro il suo, quasi sfidandolo. Fece scorrere le mani con forza su tutta la lunghezza del suo corpo, come se la valutasse, come se la determinasse. Si sentì prendere forma accanto a lei, la forza della sua lussuria gli stava dando una forma a tutto il corpo, delineandolo nell'oscurità. Nelle sue sensazioni v'era una chiarezza strana. La mente gli fece balenare dinanzi un'immagine di se stesso e di Nadine, allacciati insieme, le lunghe, pallide braccia di una donna avvinte intorno al suo corpo, e la salda schiena di Jules inarcata su di lei, in una presa mortale. Non aveva sempre riposto la propria fiducia in simili bizzarre immagini? Jules che
rischiava questo, Jules che si gettava su quest'altro, Jules che si tuffava. Era l'eroe di innumerevoli episodi. La conclusione di un episodio si diluiva nell'inizio di un altro, e tutto era immaginario. A questo aveva finito con il ridursi la sua vita. Ma attraverso quei capitoli interminabili aveva inseguito una donna che era risultata essere Questa donna, una donna soggiogata da un incantesimo come il suo, destinata ad avvolgerglisi attorno e a dargli tutto di sé. Quando i poveri arricchiscono, pensò Jules, precipitano nel torpore del lusso e i loro occhi sono velati da miracoli... così lui, povero per tutta la vita, ma ora impregnato dalla sontuosità dell'amore, non riusciva a scrollarsi del tutto di dosso una sensazione di irrealtà. La chiarezza della sua lussuria localizzava con precisione tutto ciò che era irreale. Nadine, la sua diletta, la sua amante, una donna che, chissà come, aveva sposato un altro uomo, lo trasse a sé e pose termine a tutti i suoi interrogativi, ma non allo stupore celato dietro a essi. «Ti amo, sono pazzo di te» le disse in preda al tormento, entrando in lei, smarrendo la forma delle sue parole. Aveva paura di quel che sentiva dentro di lei. Gli sembrava che l'anima sua potesse perdersi, strappatagli dall'amore di lei, dalla brama di lei. Non posso fermarla, non posso dominarla, pensò. Nadine si tendeva contro di lui. Era una tensione tremenda, la tensione delle sue gambe e delle sue braccia. Una forza simile alla forza del fulmine era contenuta nelle sue ossa aggraziate e le stava tendendo fino al punto di rottura, eppure non si spezzavano, nulla si spezzava, nulla si allentava in lei. Jules la baciò. Lottarono insieme, disperatamente avvinghiati. Disperata com'era, ella cominciò a graffiargli la schiena. La divinità in lui, così violentemente stimolata, le rimaneva distante, e Nadine non poteva fare altro che artigliarlo, volendola, in preda a una sofferenza infernale. «Ti amo, ti amo» gemeva, ma il suo corpo sembrava osteggiarlo e non contenere alcun amore per lui, ma soltanto una sorta di frustrato terrore. Jules rimase in lei, stringendola. Il momento era così strano che riuscì a trattenersi, sull'orlo dell'orgasmo, e, ciò nonostante, guidando quella donna, in grado di guidarli entrambi, nonostante la greve, rapida pulsazione della sua lussuria, che a questo punto ella sentì e volle. Nadine sembrava intuire in lui una forza ricca e violenta che le sarebbe dovuta appartenere, poiché proveniva dal suo corpo, ma che, in qualche modo, non le apparteneva... le era negata, misteriosamente. Affondò i denti con forza su un lato della sua faccia. «Jules, non lasciarmi!»
«Va bene.» I gridi di lei erano acuti, terrorizzati, come i gridi degli uccelli oceanici. La sentì tramutarsi in un uccello selvatico, crudele. La sentì affondare, e sollevarsi, e riaffondare nella frenesia della propria mente, incapace di portarsi al culmine, appesantita fino all'insensibilità. Avrebbe voluto distogliere la faccia da lei. Ma la baciò, invece, avidamente e selvaggiamente egli stesso, imitandone la passione e per una forma di cortesia, per nascondere a entrambi la verità. Se ella fosse stata in grado di sorridere, pensò Jules, un sorriso sottile, sinistro, le avrebbe illuminato il volto... come lo voleva, come aveva bisogno di ogni parte del suo corpo! Ciò che aveva creduto elegante in Nadine era soltanto la sua distanza da lui, una distanza femminile. Davvero erano intrappolati insieme, lottavano insieme. Erano nemici. Immaginò il corpo di lei, lacerato da profondi squarci rossi, dalle azzannate frenetiche, maniache, di un cane, e l'idea del suo sangue, della vista del suo sangue, lo eccitò. Sapeva che le stava facendo male, sebbene ella non potesse sentire alcun dolore. Sapeva che la faccia e il corpo di Nadine erano già stati scorticati da lui, ma non ebbe la forza di far questo, questa crudeltà. La compassionava. Non voleva farle realmente del male, sebbene ella volesse essere ferita da lui, sebbene volesse che il suo sangue, venisse fatto scorrere da lui, ma non poteva continuare, non voleva essere foggiato nell'aria dalla sua immaginazione violenta. Nadine disse, supplichevole: «Jules...» ed era già troppo tardi, egli le affondò dentro con un grido di piacere e di sconfitta. «Oh, non lasciarmi! Come puoi lasciarmi?» pianse Nadine. Gli parve che lo avesse colpito, con queste parole. Le era venuto meno, di nuovo. Esausto, quasi insensibile egli stesso, non poté dir nulla, non poté pensare affatto. Il suo stesso corpo si stava dissolvendo. Non riusciva a immaginare se stesso o Nadine. La frustrazione di Nadine, il desiderio che ella provava per lui, erano ormai al di là della sua immaginazione. Sentiva di essere vicino alla morte, mentre Nadine, viva e infelice,, continuava ad avvinghiarglisi e premeva la faccia umida e contorta contro la sua, accusandolo. «Tu non mi ami, non ti importa di me!» Si calmò. Jules non parlava. Man mano che i sensi gli tornavano, si rese conto della profondità del suo fallimento, si vergognò, davvero non riusciva a capirlo. Si vergognava ed era frustrato. Gli sarebbe piaciuto dirle: "Certo che ti amo. Che cosa dimostra questo? E con ciò? Avremo venti o trent'anni di vita insieme, dammi il tempo di amarti". Ma non disse nulla.
L'idea dei venti o trent'anni, del matrimonio di Jules e Nadine, gli parve adesso improbabile. Temeva di averla fraintesa. E ora, credendolo lontano da lei, senza amore, ella era preparata a respingerlo. Non riusciva a capire come avesse potuto venirle meno. Era stato il corpo stesso di Nadine a venirle meno, ma il corpo di Nadine era custodito da lui, affidato a lui. Era il suo amante, eppure non poteva fare l'amore con lei, non per davvero, in quanto tutto era segreto in lei, teso e celato. Non riusciva a capire. Ogni parte di Nadine, ogni cellula del suo cervello, era infatuata di lui e gli si era concessa; avrebbe potuto succhiare l'essenza stessa del suo dolce sangue, tanto tutto gli si era aperto, eppure tra loro v'era l'insuccesso. Il corpo di Nadine assumeva per lui una sorta di sinistra radiosità. Si apriva e si chiudeva su di lui, portandolo a un eccesso di lussuria, quasi di follia, eppure aveva fallito. Questo lo stordiva. Era spossato, greve. Persino la fioca luce proveniente dalla strada gli faceva male alla pelle. Volle baciare Nadine, tra le cosce, ma lei gli si sottrasse. Sembrava che sentisse la sua sofferenza; si era astratta; Jules apri gli occhi sulla fioca luce della strada che le rivestiva il corpo e gli parve, per un momento strano, di non conoscere neppure quella donna. Dopo un poco, ella si drizzò a sedere sul letto. Disse: «Non mi sento bene. Sarà meglio che faccia un bagno, o qualcosa». Jules si drizzò a sedere a sua volta e le accarezzò la nuca. Riuscì a dire soltanto: «Mi dispiace...». Nadine gli appoggiò, fuggevolmente, il capo sulla spalla, poi si voltò. Quando si fu alzata, Jules sentì per la prima volta un bruciore acuto sulla schiena, i segni delle unghie di lei. La seguì nel bagno. Nadine aprì i rubinetti per riempire la vasca con acqua calda, saturando l'aria di vapore. V'era una fosca, soddisfacente violenza nello scroscio di quell'acqua corrente. Jules accarezzò il corpo esile, snello, di Nadine, ed ella rimase ritta senza reagire, fissando l'acqua. Lui si inginocchiò per esaminarle un livido giallo sulla coscia. «Sono stato io a farti questo?» disse. «Mi dispiace.» Era sinceramente dispiaciuto. Nadine si voltò vagamente verso di lui, come se quelle parole le fossero riuscite appena percettibili. Jules si sentì stringere il cuore, ma disse allegramente, cingendola con le braccia: «Scusami. Non lo farò mai più». Ella non disse nulla. Un nervo guizzò in un occhio di Jules. Era innamorato e sapeva che Nadine lo amava. Eppure, stando lì in piedi, un po' accecato dal vapore nell'aria, sentiva accrescersi la distanza tra loro e non poteva farci niente. Nadine si sporse sulla vasca, lontano da lui. Jules le mise le
mani intorno alla vita. Evidentemente il suo corpo gli apparteneva; ella gli si era data, eppure questo non contava molto. Non riusciva a supporre a cosa stesse pensando. L'amore, questo gravitare verso l'unità, questo terribile fondersi... perché aveva tanta importanza? Si sentì sconcertato e spaventato, pensandoci. Perché aveva tanta importanza? Nadine entrò nella vasca, sostenendosi al suo braccio. Vi sedette goffamente, quasi avesse paura di cadere. Jules la contemplò come se stesse contemplando una bambina, una delle sue sorelle ridivenuta bambina. «Adesso ti sentirai meglio. Devo averti infiammato parecchio la pelle.» Lei si reclinò all'indietro. Il suo corpo era bianco sotto l'acqua. A Jules venne in mente a un tratto una statua della Vergine Maria contemplata da bambino, immaginando di vederla muoversi. Aveva tanto desiderato vederla muoversi... gli era necessario come segno di amicizia, di riconoscimento. Ora si inginocchiò accanto alla vasca e premette la fronte contro il bordo. Non disse niente. Nadine non disse niente. Rimasero così per qualche tempo. Non riusciva a capire perché i suoi sentimenti per questa donna fossero così violenti. Perché non voleva altro che l'amore di lei, ancora e ancora, mentre ella stessa si era scostata da lui, accusandolo di aver fallito? Non credeva davvero nell'insuccesso, in qualsiasi genere di insuccesso. E anche questo, pertanto, non aveva senso. Come poteva esserle venuto meno se ella era lui, se loro due erano una persona sola, nell'amore? Ma il corpo di Nadine doleva a causa sua. Ella aveva la pelle ammaccata. E a lui bruciava la schiena, graffiata dalle unghie di lei. Sentiva in Nadine una tensione crescente, non la tensione dell'amore, che l'allontanava da lui sebbene ella non distogliesse lo sguardo. La guardò. Giaceva del tutto immobile nell'acqua, che ne rendeva roseo il corpo. Jules tastò l'acqua con un dito e disse: «Gesù, ma è bollente». Nadine non lo degnò di uno sguardo. Sembrava narcotizzata, in trance. Egli ritenne che provasse quel che provava lui... che fosse chiusa in un desiderio di fusione, di unità, ma rudemente respinta, delusa. Non era riuscito affatto a credere nel terrore di lei, ma adesso propendeva a crederci. V'era terrore in quel bagno bianco, nel luccicante lavabo di porcellana bianca e nella vasca, veduti alle quattro del mattino, nella luce artificiale. Ci si sarebbe potuti aprire le vene, lì dentro, svuotati dall'alba. Doveva uccidere Nadine e poi se stesso, per eternare opportunamente il loro amore? Ma non poteva ucciderla senza farle del male; e non voleva farle del male.
«Tu non credi che io ti ami?» disse. V'era un che di tirannico nella tensione che ella creava tra loro, facendone di entrambi le vittime. Non erano liberi. Nadine giaceva come una vittima nell'acqua caldissima del bagno, una donna sui venticinque anni, snella, intensa, frustrata. Aveva i capelli scarmigliati. Le spiovevano ciocche sulla fronte e sulle gote. Gli occhi erano lividi, anch'essi un po' folli, ma con un'espressione dilatata, narcotizzata, tempestosa. Un esantema le era affiorato lungo il mento, arrossandosi, come se l'aria calda lo stesse formando. Jules immaginò altri esantemi causatile sulla pelle delicata dalle sue mani. Spossato egli stesso, sentiva la spossatezza di lei. L'aria umida gli annebbiava la mente. Non riusciva a capire che cosa volesse Nadine, né che cosa volesse lui. Ella alzò le mani su di sé, coprendosi i seni. Abbassò adagio lo sguardo su se stessa. «Stai pensando a me... stai pensando che sono una troia, vero?» «Nadine, come hai detto?» «Stai pensando che sono una troia? Per tutto questo? Una troia, una bagascia?» «Non parlare così. Sei superiore a queste cose.» Nadine tacque. Lo prese l'impulso di chinarsi improvvisamente per baciarla, ma v'era in lei qualcosa di immobile e di mortale. Ella dominava la tensione tra loro; quella tensione si trovava nel suo corpo. A Jules doleva il capo a causa dell'incanto dal quale era stato oppresso per tanti anni, e si rese conto, impotente, che per Nadine esso era passato e non poteva più essere ricuperato. La metamorfosi continuava. Il viso di lei, che gli era sembrato luminoso la settimana precedente, in casa sua, era adesso molto spento, interiorizzato. Ella sembrava assorbita dallo stupore. «Che cosa sta succedendo?» disse Jules. «Ti amo. Voglio che non cambi nulla.» «Stai pensando a come sono, a quanto sono disgustosa» disse lei adagio. «Come qualche tua piccola sgualdrinella. Qualche negra. Hai visto che cosa sono e ora non lo dimenticherai più.» «Non so che cosa tu voglia dire.» «Ti ho sempre desiderato» disse Nadine, con una voce lenta ed enfatica, come se stesse confessandosi. «Non riuscivo a pensare ad altro. Ti volevo, volevo soltanto te. Volevo che tu facessi l'amore con me, ma non che l'amore finisse. Soffrivo, desiderandoti. Mi aggiravo per la casa, laggiù, e soffrivo mentre tutto era così bello, tutte le cose che avevo e delle quali
non potevo godere. Non potevo far niente riguardo al mio amore per te, niente. Avevo il corpo indolenzito. Tutto in me era indolenzito. Volevo morire, ero malata d'amore. Pensavi che le donne potessero provare tutto questo? Era qualcosa di greve, che mi trascinava giù. Non potevo pensare ad altro, non potevo morire. Tutto mi appesantiva e mi trascinava in basso, il mio corpo, l'aria che premeva sul mio corpo, tutto. Pensavo soltanto a quello che avrei provato quando saresti entrato nel mio corpo, e il tempo si fermava per me, mi si fermava il cuore, soltanto a pensarci. Sicché ora sai come sono fatta.» Era per lui un oggetto piccolo e solido, una statua formata da qualche sostanza bianca, chiusa in se stessa furiosamente ed egocentricamente, completa. Le sue parole erano il completamento di qualcosa, una sorta di finale. Jules disse, disperato: «Ma con questo? Che diavolo importa? Che cosa significa?». «Sono una troia» disse Nadine, adagio. «Gesù Cristo, che cosa vuol dire questo? Una troia! Non ho mai conosciuto una troia, mai; questa espressione non significa niente per me. In tutta la mia vita non ho mai conosciuto una troia in forma umana, figuriamoci poi te, mai!» Ella sembrava quasi ascoltarlo; ma non alzò gli occhi. «Sei sfinita, non sai quello che ti dici» asserì Jules, con la voce tremante, «Ti ho sconvolta venendo qui e trattenendomi così a lungo.» «Sì, sono sconvolta.» «È naturale che tu ti senta così. Sono rimasto con te troppo a lungo, sarei dovuto essere più cauto, con te.» «Sì.» «E tuo marito, tu stai probabilmente pensando a lui. Vuoi che ti lasci sola per qualche tempo, per alcune ore? Poi tornerò e riparleremo di tutto questo.» «Vuoi lasciarmi?» disse Nadine. Per la prima volta in parecchi minuti si voltò a guardarlo. Aveva gli occhi opachi, sconcertati. Una nausea gli scaturì nel corpo, vedendola così strana. Ella disse: «Ti disgusto davvero, Jules? Che cosa stai pensando? Mi stai paragonando ad altre donne?». «No, naturalmente.» «Stai pensando: le ho fatto commettere adulterio?... Stai pensando questo?» Jules premette di nuovo la fronte contro l'orlo della vasca; incominciò a battervi contro la testa, come se avesse voluto fracassarsi il cranio.
Quello che accadeva in alto stava accadendo in basso... Jules pensò con stordimento ai propri lazzi e alla propria leggerezza, che saliva in alto, verso un cielo innocente, e alla propria passione e al sangue greve, nero, febbrile, che lo trascinava in basso. Era un criminale. Il suo segreto consisteva nel fatto che era un criminale nato. Il suo corpo apparteneva a qualcun altro che lui aveva saccheggiato, ma non riusciva a reggerlo; aveva la capacità di rovinarlo, ma non riusciva a fuggire con esso. Nella sua lussuria aveva fatto di Nadine una complice insozzata. Rimase inginocchiato sulle piastrelle del bagno, sforzandosi di pensare, battendo la testa contro l'orlo di porcellana. Infine disse, esasperato: «E va bene, hai commesso adulterio! E con questo?». «Non voglio pensarci.» «Non ci pensare, allora.» «Non sopporto di essere sveglia.» «Vuoi soltanto ammalarti. Stai portando te stessa a un tracollo. Perché fai così?» Erano stati insieme troppo a lungo. La loro intimità si era protratta troppo. Nadine giaceva del tutto immobile, ma non v'era alcuna distensione in lei, alcuna serenità. Jules sentiva la tensione di lei. Era come follia, giunta al di là delle parole o delle spiegazioni. Era stato lui a determinarla, ma ora non poteva toccarla, non poteva mutarla, come se non fosse stato più l'uomo che ella aveva desiderato un tempo. «Ho commesso adulterio. Sono venuta a letto con te. Ti ho telefonato, ti ho fatto venire qui, sapendo in ogni momento, esattamente, che cosa sarebbe accaduto» disse lei, adagio. «Non ho pensato a nessuno tranne che a te. Non sto pensando a mio marito. Che cosa c'è in te, perché sei così straordinario? Potresti essere ammogliato, non lo so. Potresti avere qualche malattia, tutto sommato. Non mi importa nemmeno di questo. Non mi importa di sapere dove abiti o dove lavori. Me ne infischio di te, voglio soltanto andare a letto con te. Ora puoi renderti conto di come sono. Dovrei morire.» Jules si sentì scombussolato, ascoltandola. Non disse niente. «Mi hai degradata, ma ho voluto io che accadesse. Tutto è osceno in me, dentro di me. La mia mente è oscena. Dovrei morire, non dovrei vivere...» Sconvolto, Jules si alzò e uscì. Rimase in piedi, perplesso e stordito, nell'altra stanza, senza ricordare... senza ricordare dove si trovava, che cos'era accaduto. Guardò fuori della finestra. V'era sempre una promessa nelle finestre, la possibilità di una sorpresa. Spuntava l'alba, era molto pre-
sto. Alcune automobili erano state parcheggiate nella strada durante la notte, la sua si trovava ancora parcheggiata all'angolo. Una via di scampo. Finché aveva un'automobile sua era un americano e non poteva morire. Ma la stanza lo tirava a strattoni... dovette voltarsi verso di essa, ammetterne l'esistenza. Le lenzuola sul letto erano un ammasso di pieghe, macchiate dal suo seme, terribili a vedersi. Si sentì stordito, ipnotizzato, dalla vista di quel letto. Quello che era accaduto tra loro non poteva essere annullato, e, ciò nonostante, ella stava tentando di respingerlo, stava cercando di porvi termine. Come avrebbe potuto respingerlo, il corpo di Nadine, dopo tanto amore? Sentì il letargo pesante, simile a uno stato di trance, del corpo di lei, ne sentì la possente lussuria, superiore a tutto ciò che lui potesse sentire, una lussuria che superava la sua. Era debole, stordito da quell'insuccesso. Annaspò qua e là cercando i vestiti. Era un po' cieco, gli occhi gli si andavano riempiendo di lacrime. Lo afferrò a un tratto il timore che Nadine potesse uccidersi. Bussò alla porta del bagno. «Nadine? Stai bene?» «Sì.» «Perché non esci, adesso?» «Ora esco.» Si vestì. Portò fino alla porta del bagno l'accappatoio di lei, socchiuse la porta timidamente e fece capolino. «Tieni» disse, porgendole l'accappatoio, ma, chissà come, lo lasciò cadere sul pavimento. Nadine lo ringraziò. Jules chiuse la porta. Aspettandola, iniziò un andirivieni nella camera da letto e nella stanza più grande, sconfortato da tutto quel vuoto. Il suo cervello non riusciva a funzionare in stanze così buie e vuote. Persino il pavimento lucido lo deprimeva. Era troppo solo senza Nadine. Pensò a quando l'aveva amata, pensò ai suoi occhi angosciati, dilatati, pensò a lei che diceva, Ora puoi renderti conto di come sono, ma non si rendeva conto, non capiva. Com'era Nadine? Di che cosa si era reso conto? Non riusciva a ricordare niente tranne il proprio amore, quel suo affondare in profondità nel corpo di lei, e quella sua necessità di rimanervi, morendo in quel portento noncurante, carico di attesa.... ma, pensando a lei, cominciò a volerla di nuovo e il desiderio era lesivo. La udì nella camera da letto, ma non entrò. Temeva di offenderla, di invadere la sua intimità. Dopo qualche minuto ella apparve alle sue spalle, vestita.
«Jules?» «Dimmi?» «Te ne vai, adesso?» «Non sarebbe la cosa più saggia che potrei fare? Tornerò più tardi, quando ti sentirai meglio. Quando avrai dormito. O non vuoi che me ne vada?» «Sì, credo che dovresti andartene.» Gli sorrise, un sorriso insignificante. «Posso rivederti più tardi, allora? Nel pomeriggio? «Non lo so.» Si avvicinò e gli toccò il braccio con dolcezza. Sorpreso, lieto, Jules si chinò a baciarla. Il suo corpo anelava a lei, ma non osò toccarla; sentiva che questo l'avrebbe distrutta. Ella restituì il bacio, sfiorandogli le labbra, freddamente, con le sue. Jules sentì l'anima diventargli cieca a quel contatto. «Nadine, ti amo tanto. Ti amo» disse. «Ti amo anch'io, Jules» ella rispose adagio. Ma fu come se avesse parlato contro la propria volontà. Per un momento, in piedi, si fissarono. Poi ella disse, a un tratto: «Ti accompagno fino alla macchina. Non sono uscita da questo appartamento per... per più di un giorno». «D'accordo. Bene.» «Mi piacerebbe camminare in pubblico con te, sul marciapiedi. Credo che mi piacerebbe» disse Nadine. Jules sentì che ella gli stava facendo fretta, che voleva farlo uscire da quella casa, adesso, e lo guidava. Ma quando le afferrò le spalle per baciarla, alzò subito il viso verso il suo, senza opporre resistenza. La baciò per qualche tempo, con dolcezza. Sentì quanto la rendevano cieca i suoi baci, ma al contempo quale scarso effetto avevano sull'anima ostinata, ipnotizzata, di lei. Le baciò le palpebre, per chiudergliele. Non voleva farle del male. L'astiosa morbosità delle sue parole lo aveva abbandonato, preferiva non ricordarle e contava sulla magia dell'amore perché consentisse loro di continuare... perché no, se ella si lasciava baciare così remissiva, consentendogli di baciarle le palpebre, di renderla cieca a furia di baci? Perché no? Quei baci dovevano sembrarle come falene leggere, come farfalle... Se era intervenuta in loro questa metamorfosi, legandoli insieme nell'amore, perché non sarebbe dovuto esservene un'altra? Perché vi sarebbe dovuto essere un termine al mutamento? Nadine lo aveva amato già una volta con
violenza ed egli era persuaso che lo avrebbe amato ancora, che l'amore di lei sarebbe stato più forte della, sua ripugnanza. «Per piacere, ricorda che ti amo, che penso sempre a te» le disse. «Sì.» «E che voglio sposarti. Che devo sposarti.» «Voglio sposarti anch'io, sì» disse lei. Jules si scostò, incerto. Nadine si forzò di sorridere. Poi andarono insieme verso la porta di casa, Jules con il braccio sulle sue spalle, tentando di dar luogo a una certa disinvolta intimità, a una noncuranza. Erano amanti. Ella gli camminava accanto, schiacciandosi dolcemente contro di lui; indossava un vestito scuro di stoffa ruvida, un vestito elegante, dal colletto alla marinara. Aveva le gambe nude. Calzava scarpette nere, dai tacchi arrotondati. Sapeva di sapone e Jules sentì un odor d'umido nei suoi capelli. Una sensazione d'amore scaturì in lui, sconvolgendolo con quel suo incalzare. Sulla porta lasciò che lo precedesse, infiacchito, sentendosi assurdo. «Tornerò nel pomeriggio, allora» si affrettò a dire. «Dovrei telefonarti, prima?» «Non ho il telefono.» «Già, è vero, me ne dimenticavo. Il telefono non funziona.» Si avvicinarono all'ascensore. Jules premette il pulsante; si illuminò, rosso. Discesa. Un pulsante per scendere, per condurli giù in strada. Sarebbe stato delizioso camminare con quella donna splendida sul marciapiedi, in pubblico, proprio sul marciapiedi. Perché questo gli sembrava pericoloso? Le baciò il collo. Le baciò i capelli. Perché la lasciava, precisamente? Non riusciva a ricordarlo con chiarezza. Avevano deciso qualcosa, parlando. Qualche parola era stata pronunciata da lui, ed ella aveva risposto. Se non avesse detto quelle particolari parole, non vi sarebbe stata, da parte di Nadine, la risposta che gli aveva dato, decidendo il loro destino. Ma la temeva meno, adesso. Strofinò la faccia contro la sua, infiacchito, innamorato. L'amava davvero. Fuori, in istrada, vide che la città si stava destando. Un signore dal vestito splendido attraversò il marciapiedi davanti a loro, diretto verso la sua automobile. In un'altra strada, un'automobile si scostò dal marciapiedi. L'aria delle prime ore del mattino era fresca, rinvigorente. Jules sbirciò con la coda dell'occhio Nadine e vide che lo stava fissando. Rabbrividiva; camminava con le braccia tenute rigidamente contro il corpo. «Ti saresti dovuta mettere un maglione, o un cappotto» disse Jules. «Che cos'hai?» Lo
stava fissando in un modo così strano. Si chinò verso di lei per prenderla sottobraccio, ma Nadine si scostò, sempre fissandolo. «Nadine, che diavolo c'è? Perché fai così?» Stavano camminando adagio lungo palazzi d'appartamenti, che si susseguivano l'uno dopo l'altro. Spazi di prati verdi, piante rare, cancellate di ferro battuto. Un uomo e una donna, in abito da viaggio, l'uomo con una valigia, attraversarono la strada diretti verso una grossa automobile nera. Piacevole. La loro intimità sembrava piacevole. Dappertutto c'erano macchine lussuose, e questo doveva pur significare qualcosa, qualcosa di piacevole, di sereno. Eppure Nadine continuava a fissarlo come se non lo riconoscesse. «Nadine?» Continuava a camminargli accanto, ma al lato opposto del marciapiedi. Poi, dalla tasca del vestito, tolse un oggetto... Jules guardò e gli parve a tutta prima di vedere una borsetta nera. Poi guardò meglio e vide una rivoltella. Nadine la puntò verso di lui, come se lo stesse invitando a gesti ad allontanarsi. «Che cosa stai facendo? Dio mio!» disse Jules, più allarmato per lei che per se stesso, temendo che qualcuno la vedesse. «Che cosa fai? Nadine? Mettila via, nascondila!» Ella gli camminava accanto, come se lo stesse costringendo a proseguire. Con la rivoltella lo teneva a distanza, valutandolo. Ma non v'era alcun indizio di riconoscimento sul suo viso. La bellezza di lei si era tramutata tutta in durezza, in vacuità. «Nadine, non vorrai sparare, non a me» disse Jules, attonito. «Tu mi ami, io ti amo... non mi ami?» Nadine premette il grilletto. La pallottola lo penetrò in qualche punto nel petto, un colpo terribile. Jules vacillò vedendo la luce del sole frantumarsi nei parabrezza di una distesa d'automobili grandi, lucenti, lussuose. Lo spirito del Signore si allontanò da Jules. III VIENI, ANIMA MIA, CHE A LUNGO HAI LANGUITO... 1
Aprile 1966. Una ragazza innamorata è in piedi davanti allo specchio, immobile. Tiene lo sguardo fisso su se stessa. Il nome Maureen Wendall è annesso a quell'immagine riflessa, il riflesso nebuloso, nello specchio di scadente qualità di un cassettone, ed ella contempla l'immagine perché è tutto quello che possiede. Amore, è innamorata, calata nell'amore... Fuori alcuni ragazzi stanno giocando alla pallabase per strada. È una strada di Highland Park, che si trova a Detroit, un quartiere circondato da Detroit e attraversato dalla Woodward Avenue, dalla Seconda Avenue, dalla Terza Avenue. Lei abita in un grande caseggiato di mattoni della Terza Avenue, in una sola stanza. Una ragazza sola in una sola stanza. Ha il viso a forma di cuore e molto puro, ignaro di tutto. Un viso cauto. È pallido come se fosse incipriato, con cipria da pochi soldi, anche la pelle sotto gli occhi curiosamente scialbi, come se ella non avesse veduto nulla, nulla. Non le è accaduto nulla. Preme il ventre piatto contro lo spigolo del cassettone; avvicina la faccia allo specchio. È condannata a essere Maureen per tutta la vita? Le sembra un mistero dover essere sempre se stessa, questa particolare persona; non c'è via d'uscita. Ma fuggirà nell'amore, affonderà nell'amore, cadrà all'indietro in un abisso d'amore tale da cancellare quasi tutto ciò che era Maureen. All'ospedale, dopo essere stata percossa da Furlong, aveva portato un sottile braccialetto di plastica sul quale figurava il suo nome: MAUREEN WENDALL. Non è possibile sottrarsi al proprio nome. Indossa una sottoveste bianca. Ha i capelli tagliati corti intorno al viso, capelli ricciuti che le danno un aspetto fanciullesco. Ormai sui venticinque anni, sembra molto più giovane. Si osserva attentamente, con cautela. Fuori, il cielo è passato dall'azzurro al grigio, un cielo del Middlewest, mutevole ma monotono. Maureen ha trascorso troppi anni sotto quel cielo. Ne indietreggia, le finestre la innervosiscono, lavorando ha pensato troppo spesso: E se cadessi da quella finestra? (Lavora al settimo piano di un palazzo d'uffici, in centro.) Qualcosa l'attrae verso la finestra e poi la stuzzica, E se tu cadessi da questa finestra? Il nome dell'uomo è Jim. Un nome troppo breve. Non le sembra sufficiente per potenvisi avvinghiare, perché possa impedirle di cadere da una finestra spalancata. Lui si chiama Jim Randolph. Randolph è anche il nome del fratellastro di Maureen; un marmocchio di dodici anni; cerca di non pensare al ragazzetto, la mente le si chiude contro di lui e la sua boccaccia. Pensa a lui soltanto quando Loretta ne parla, lagnandosi. Quando Maureen
va a trovare sua madre, Randolph di solito non c'è, sta scorazzando chissà dove. Troppi monelli per le strade. A dodici anni sono già adulti, eccezion fatta per l'energia tremenda che hanno nelle gambe. Maureen non ha che da sbirciare Randolph (i suoi compagni lo chiamano Ran) per rendersi conto che quel ragazzino saccentone, dalle gambe e dalle braccia sempre in movimento, sa tutto, tutto. Loretta si lamenta: «È proprio come era Betty, non riesco a ottenere niente da lui, nemmeno a parlargli, ma è peggio di Betty... ha più energia». Loretta, che ha ormai quarantasei anni, deve trascorrere ore sognando un'esistenza senza marmocchi che la trascinino giù come un peso. La malattia di Maureen è già stata una disgrazia sufficiente, tredici mesi di malattia, ma Randolph in perfetta salute è ancor peggio; sta facendo di lei un relitto, ella si lagna, facendo il broncio, molto seria con quel broncio. A che diavolo è servito tutto questo, tutti questi marmocchi? E Betty si caccia sempre nei guai. E Jules, guarda che cosa gli è successo a Jules... Jules è stato sul punto di morire. Ma non è morto. Una donna ha tentato di ucciderlo, sparandogli due colpi nel petto, e poi ha rivolto l'arma contro di sé, ma non è riuscita a uccidere nemmeno se stessa... l'importante è che Jules non sia morto, ma, in qualche modo, si direbbe che egli non sia sopravvissuto. Sembra non essere vivo; è scomparso in qualche posto a Detroit. Hanno sue notizie, ma di rado. Perché una donna ha tentato di ucciderlo? Perché qualcuno avrebbe dovuto voler uccidere Jules? Maureen lo ricorda come un giovane gentile, troppo gentile. Gli vuol bene, ma non vuole vederlo. Ha paura di quello che potrebbe vedere... Jules cambiato, Jules logorato. Ha quasi trent'anni, Jules. Per tutta una vita un ragazzo e ora... quasi trent'anni! Così Maureen cerca di non pensare a lui e pensa invece all'uomo che spera di sposare. Si guarda allo specchio, vedendosi come deve vederla lui. Lo ama. La sua vita è pronta per lui, per amarlo. Presume che il suo corpo sia preparato per amarlo. Sente di essere una statuetta di gesso da pochi soldi posta su un prato, la Vergine Maria o un cervo, qualcosa che ha l'aria di essere forte, ma che in realtà è fragile e può essere spezzato facilmente. Fuori della finestra può vedere fanciulli che stanno giocando. Si lanciano la palla l'un l'altro, e sembrano non riuscire mai ad afferrarla... la palla vola via fuori delle loro mani, facendole bruciare, e piomba contro la veranda di qualcuno... quanti tonfi, quanti rumori laceranti, quante vibrazioni... si insinua nei suoi sogni su Jim, questa sensazione di eterno allarme, di cautela. Come gli si concederà? Come lo abbraccerà, quando verrà il momento? Chiude
gli occhi e immagina. Ma il corpo le si irrigidisce di paura, di panico. Forse ha scelto un uomo sposato perché v'è la speranza di venirgli meno? È il suo insegnante di un corso serale all'Highland Park Junior College. Questo college si trova nello stesso edificio di una scuola media. Maureen prende l'autobus della Terza Avenue e il suo itinerario è abbastanza semplice; vi sono lampioni in gran numero e moltissime persone che salgono sugli autobus e ne scendono; un traffico intenso. Un giorno ha veduto una turba di marmocchi negri circondare due ragazzi che si battevano. Tutti urlavano e applaudivano. Forza! Forza! I ragazzi che si stavano battendo giravano l'uno intorno all'altro con una terribile cautela da adulti. L'uno aveva un coltello, e l'altro la giacca, per lanciarla in faccia all'avversario. Un coltello! Una giacca di tela verde! Maureen li fissò, e quel giorno non discese dall'autobus, era come paralizzata e non riusciva a scendere... l'odio per i negri la paralizzava. Li odia violentemente, in modo ossessivo. Odia i ragazzi adolescenti, quei teppisti dalle boccacce volgari, odia le ragazze adolescenti, i ragazzetti più piccoli che corrono e strillano sempre, gli uomini, le donne, tutti loro. Ma il giorno dopo si costrinse a tornare. E tornò. Niente avrebbe potuto impedirle di arrivare in quell'aula, non gli uomini che percorrevano il vicinato su automobili vistose, dalla linea bassa e filante, gli uomini bianchi e negri che si sporgevano dai finestrini delle automobili per domandarle se gradisse un giro, non i poliziotti che l'adocchiavano dalle macchine di pattuglia, non i sudici e squallidi vecchi che viaggiavano eternamente sugli autobus cittadini, fissandola, fissandola vagamente, e nemmeno tutti i giornali che un mulinello blando le lanciava in faccia, nemmeno l'aria greve, il cielo mutevole, la malinconica spossatezza degli altri studenti nella sua classe... niente avrebbe potuto fermarla. Ora si sta vestendo per andare al corso. Il solo prepararsi la eccita. La sua mente è ossessionata adesso dall'idea di attrarre quest'uomo, di piacere ai suoi occhi, di attirarlo a sé. Lei, Maureen, è una finestra che lo attirerà a sé, che lo lascerà stupefatto. Si innamorerà di lei e abbandonerà la sua vita attuale. Abbandonerà la famiglia. Lo desidera tanto che l'uomo stesso le si dissolve nella mente e riesce a pensare soltanto di volere una cosa, di volere il matrimonio. Vuole amarlo, con il cuore e con il corpo, ma non c'è tempo perché l'amore emerga in lei; non sa come crearlo, come coltivarlo, ha sentito parlare troppo dell'amore da sua madre, dalle altre ragazze, dai film, ed esso le è stato alitato nelle orecchie troppo spesso, da uomini che non l'amavano, ma supponevano di amarla. Così Maureen suppone che
amerà quest'uomo, quando saranno sposati. Si guarda desiderosa allo specchio, come se stesse contemplando il futuro. La sua faccia è la via per arrivare al futuro. Nulla può riportarla alla vita, al mondo, tranne quella faccia. Jules è in ospedale, con la faccia pallida e smunta, gli occhi scuri e la malinconia nelle orbite. Che cos'è una faccia, qualche osso, e pelle e cartilagine? In che cosa consiste la sostanza misteriosa dell'occhio, quale magia ne emerge? Maureen non capisce. Questa magia è una crudeltà terribile, perché si logora. In America si logora rapidamente. Ella è presa da una sensazione di allarme, di panico, contemplando il proprio viso e sapendo che non durerà, e che la perdita di quel viso è più tremenda della perdita della carne e delle ossa, imputridite nella terra. Un gioco guardingo, cauto, con quest'uomo. È il suo insegnante e deve mantenere le distanze. Ella è pronta ad amarlo, e forse lui capisce? Sposta fogli qua e là, è nervoso, è cortese e gentile; sempre e sempre più Maureen si rende conto che è un uomo da sposare, il marito perfetto. Vuole sposarlo e toglierlo a sua moglie e ai suoi tre figli... la moglie e i tre figli sono un segno che ha subito attratto Maureen, perché egli è un uomo sistemato, un brav'uomo, ha preparato il proprio avvenire e sembra esserne soddisfatto, è un marito perfetto. Se abbandonerà la sua famiglia per lei le avrà provato il suo amore, decidendosi a questo cambiamento, e mai, mai oserebbe cambiare ancora. Ha trentaquattro anni e lei ne ha ventisei. Bene. La differenza d'età è proprio quella giusta, e la famiglia che deve abbandonare per lei è per l'appunto la... prova adeguata di quello che lei può fare, del suo potere, la prova dell'amore di lui se finirà per amarla, un modo di isolarlo dal passato e di assicurarne l'avvenire. Diventa nervosa e avida, pensando a questo. Nell'autunno precedente si era recata a fare una passeggiata intorno alla chiesa del Gesù, che si trova un isolato più avanti di Six Mile Road, a un isolato dall'Università di Detroit, in un quartiere di grandi dimore di mattoni. Quelle grandi dimore! Quei prati! E in ogni casa abitava gente, abitavano famiglie, madri e padri e figli, i quali vivevano come se un'esistenza simile, in quelle dimore, non fosse per nulla straordinaria. Maureen rimaneva stupefatta rendendosi conto che quelle persone non capivano la loro vita. Non avevano idea della distanza esistente tra loro e lei, che stava attraversando il quartiere fingendo di non avere una meta. Ella era avida di vedere gente, di ascoltarla. Di quando in quando una donna stava lavorando all'aperto nel suo prato, di quando in quando bambini giocavano sul marciapiedi, e il cuore di Maureen aveva un balzo, avido di sapere come
fossero quelle persone. Avrebbe voluto avvicinarsi e salutarle. Due donne, due giovani madri, stavano parlando eccitate di qualcosa, e lei sarebbe voluta essere un'altra giovane donna intenta a conversare con loro, una giovane madre che chiacchierava sul marciapiedi, noncurante, senza essere conscia di alcunché di straordinario nel proprio comportamento. Fissava quelle donne. La sua invidia non era odio, ma qualcosa di simile all'amore: le amava. Non si sarebbe potuta avvicinare all'amore più di così. Nei confronti degli uomini non poteva provare in realtà alcun amore, non realmente. Avrebbe avuto un bambino con suo marito, che la compensasse di quell'assenza di amore, che individuasse l'amore, che la fissasse in un certo luogo, ma non sarebbe stata capace di amare davvero il suo compagno. Eppure esisteva la possibilità che, quando egli fosse divenuto suo marito, riuscisse a imparare il modo di amarlo. Non poteva essere come sua madre, sempre preparata al domani, sempre curiosa, allegra, sempre ansiosa, anche quando si lagnava, di vedere che cosa sarebbe accaduto dopo... non poteva essere come Loretta, pronta a ricominciare tutto daccapo. Loretta era sempre disposta a ricominciare. Lei non era la figlia di sua madre. Provava una ripugnanza quasi fisica per quel tipo di donna, per le donne della specie di Loretta, con i capelli avvolti nei bigodini e le facce scimmiesche pronte a farsi una bella risata. Mi innamorerò, pensa Maureen, farò in modo che egli mi ami. 2 Quel mattino qualcosa lo turbò prima che si destasse, non proprio un pensiero, ma l'apprensione di un pensiero, la dissolventesi conclusione di un sogno. Quando dormiva, quando era al massimo se stesso, lo allarmava la vasta gamma dei suoi desideri, e destarsi era sempre un sollievo per lui. Destandosi, capiva chi era e che cos'era. Si spostava per abbracciare la donna addormentata accanto a lui, sua moglie, trovando conforto nel calore di lei. A quel tempo erano sposati da nove anni. La profondità del sonno di sua moglie gli sembrava un grande investimento, un tesoro. Ella dormiva tranquilla tra le sue braccia. Lo stordiva pensare che per nove anni avevano dormito insieme, lui e quella donna, che le loro esistenze erano divenute inestricabilmente legate, che non riusciva a ricordare con chiarezza un tempo in cui non l'aveva conosciuta. Quel periodo apparteneva a un altro essere, più giovane, più indifeso. Non
gli dava alcun piacere pensarvi. Sua moglie era una donna di trentadue anni. Aveva avuto tre figli e i bambini dormivano più in là nel corridoio del piccolo appartamento, due in una stanza, sereni e miracolosi per lui nel loro sonno, un'eterna sorpresa, perché riusciva a ricordare un periodo della sua vita nel quale non erano esistiti, nel quale egli stesso non era stato più di un bambino e diffidente in modo innaturale delle trappole della definitività che gli adulti così placidamente accettavano. Era sempre stato una creatura diffidente, sotto la sua bontà e il sorriso dolce e paziente. Prima di destarsi, andando alla deriva in un grigio intrico di sonno che era come l'intrico dei capelli di una donna, sentiva la circospezione emergere in lui e diventare una sorta di male. Che cosa sta aspettando? Che cosa accadrà? Farà qualcosa alla sua vita, qualcosa di irreparabile? Sì sorprese a destarsi di nuovo, dalla confusione di un sogno, qualcosa che concerneva un treno lanciato attraverso un continente gelido. La giornata si estese dinanzi a lui, a un tratto, come un continente, piena di pericoli e di scherzi volgari e di umiliazioni, qualcosa che doveva essere attraversato. Sua moglie era desta. Premette il viso contro il suo senza dir niente. Pensò al treno traballante che partiva per attraversare un deserto di ghiaccio e una sensazione di paura gli salì dentro inspiegabilmente; cominciò a sudare. «Non voglio arrivare in ritardo» disse, scostandosi da lei. Si alzò. Si alzò anch'ella, dalla sua parte del letto. Le veneziane nella piccola stanza erano abbassate, ma lui capì che la giornata sarebbe stata di nuovo nuvolosa, un altro giorno monotono. Aveva trentaquattro anni e il cielo di Detroit gli era entrato bruciando nel cervello, disseccandolo con tetraggine e fuliggine e qualcosa di implacabile, di monotono e potente. Sua moglie gli stava parlando. Aveva una positura solida, muscolosa, mentre si abbottonava la vestaglia. V'era un che di efficiente in tutti i suoi movimenti, persino nei suoi gesti; ella sapeva come attraversare la giornata. Erano sposati da nove anni. Lui tentò di ascoltarla, ma qualcosa fallì e la sua faccia intervenne, sorridendo il sorriso della prima mattina, tradendo tensione, affetto. Ella stava dicendo che quel pomeriggio sarebbe andata a fare acquisti. Parlava di denaro. Accigliandosi, con un'aria di scusa, gli parlava di denaro. In cucina, sedette al tavolo con il capo tra le mani, finché sua moglie bisbigliò: «Che cosa c'è? Hai mal di testa?». Le disse di no, che non aveva nulla. Mentre ella preparava la colazione - lui prendeva soltanto un caffè rimase seduto e pensò, sentendosi colpevole, a quel suo sogno, a se stesso
circospetto e scaltro, in un grigio, selvaggio intrico di sonno. Quello non era il suo vero Io, eppure lo preferiva a se stesso. L'Io nel quale viveva era familiare e trattato con familiarità, da sua moglie, dai suoi figli, dagli amici, dai suoi superiori e da tutti quanti, perché gli altri vedevano in lui un uomo le cui rughe sulla faccia erano causate dalla bontà. Sua moglie disse, bisbigliando, non volendo ancora svegliare i bambini: «Posso pregare Brenda di scendere e di sorvegliare i bambini. A che ora torni a casa stasera?». «Pensavo di andare direttamente dalla scuola al college e di saltare la cena.» «Credi che dovresti saltare la cena?» «Non mi va mai molto di mangiare, prima di quel corso.» «Non vuoi tornare prima a casa?» «Sarebbe più comodo fare come ho detto io. Il lungo tragitto...» Era innamorato di questa donna, situato nella condizione dell'amore, intrecciato nelle vicissitudini che avevano vissuto insieme, e responsabile di esse; poteva vedere se stesso da breve distanza, forse attraverso la finestra di quell'ingombra e angusta cucina, un uomo seduto a un comunissimo tavolo della colazione, intento a osservare attentamente sua moglie. Che cosa si può dire di un uomo simile? Fissava disperatamente se stesso, sperando in qualche riconoscimento, in qualche certezza. Sicché era Jim Randolph. Aveva un fratello maggiore, Tony, del quale era stato geloso per tutta la vita. Sua madre aveva parecchie sorelle, tutte accasate, e pertanto v'erano molti cugini, alcuni dei quali gli erano piaciuti, mentre aveva odiato gli altri, e due dei suoi nonni vivevano ancora, tutte persone che potevano testimoniare sulla sua identità, qualora ciò si fosse reso necessario. E poi, naturalmente, sua madre e suo padre. Lo conoscevano tutti. Si premette le mani sugli occhi, fantasticando. Sulla credenza in cucina v'era una rivista femminile. In copertina la smagliante fotografia a colori di una torta, una torta di compleanno. Che colori, che spessore, che singolare, offensiva autorevolezza in quella torta. Titoli: La primavera entra in casa vostra, Ricevimento per la persona cara. Un medico esamina i problemi intimi del matrimonio. Sua moglie comprava di tanto in tanto quelle riviste ed erano passati anni da quando aveva smesso di scusarsene. La rivista lo incuriosì e si domandò che cosa potesse avere da dire sui problemi del matrimonio, ma non si sarebbe mai dato la pena di sfogliarla... era troppo intelligente e fermo nelle sue idee, derideva troppo quelle cose. Sua moglie stava di nuovo bisbigliando, a
proposito di vestiti per Terry. Terry era la loro bambina di cinque anni. Lui sorrise a sua moglie e concordò. A volte la sua amabilità era come una mano che le schioccasse sulla faccia ed ella diventava taciturna, offesa, e Jim era costretto a domandarle che cosa fosse accaduto, perché fosse tanto irritata. Lei rispondeva, gelida: Perché non mi ascolti sul serio! Il legame del loro amore era per Jim un enigma, un dolce enigma. Decideva la sua esistenza; si trovava ancorato in esso. Non era uno di quei cattolici persuasi che il divorzio fosse impossibile, e non era uno di quei cattolici che prendono la religione molto sul serio, ma sentiva che il legame tra lui e sua moglie era irreparabile, una condizione definitiva, definitiva quanto il suo nome. Eppure, una volta, era accaduto qualcosa che lo aveva allarmato. Stava tornando a casa, quando abitavano negli alloggi per studenti coniugati, in un'altra università, anni prima, e aveva notato numerose giovani mogli intente a conversare accanto alle cassette postali, in una strada fangosa. La sua immaginazione le aveva sfiorate abbastanza lievemente, desiderosa di ammirarle, notandone le gambe snelle e le risatine nervose, quella nota trillante nelle loro voci che dimostrava quanto fosse vicino alla superficie dei loro corpi giovanili l'isterismo. Da una certa distanza gli erano sembrate abbastanza desiderabili, ma, mentre si avvicinava, e una di loro faceva un gesto stanco, cinico, un sospingere l'aria all'esterno con la mano, pensò a un tratto che era tutto una perdita, un errore, quel combinarsi di vite e di corpi, quel misero, scherzoso cameratismo dell'essere poveri e dell'essere in preda a una perpetua incertezza; era preferibile che la gente stesse lontana. Poi la donna si voltò ed era proprio sua moglie, che lo scorse. Un piccolo episodio consueto, eppure lo allarmò, proprio perché era così banale, così comune. Si era sposato per adagiarsi in una certa esistenza, per situarsi in un certo rapporto con la propria famiglia e con la famiglia di lei, che gli era abbastanza simpatica. Tutti gli erano abbastanza simpatici. Aveva voluto giungere al termine dell'incertezza. Aveva voluto far cessare la confusione emotiva dalla quale era stata resa infelice la sua adolescenza, e lo spaventava pensare che, a trentaquattro anni, in realtà non aveva risolto nulla. Non riusciva a dominare le proprie emozioni. Esplodevano e dilagavano intorno a lui, dispettose. Eppure non accadeva niente. Sua moglie andò a occuparsi della piccola e lui prese la rivista. La sfogliò frettolosamente. Date una festa di gala per la vostra bambina. Saltò questo articolo. Come creare la felicità. Sorseggiando il caffè, diede una
rapida scorsa a un altro articolo, I cinque "non' fondamentali'." Non crucciatevi inutilmente. Non aspettatevi troppo, in particolare da vostro marito. Non paragonatevi alle amiche. Non prendete niente per dimostrato. Non sognate a occhi aperti". Questo lo irritò: perché non sognare a occhi aperti? Voltò pagina e capitò su un altro articolo, no, su un racconto concernente un matrimonio... il disegno, morbido e malinconico, di una ragazza dai grandi occhi, con la veste nuziale... Il primo paragrafo diceva: "Elinor era certa che il telefono avesse squillato, ma ora non udiva più nulla. Lacrime amare le riempirono gli occhi...". Nella pagina successiva l'articolo di un medico, Problemi intimi del matrimonio: "La difficoltà più distruttiva del matrimonio è l'assenza di comunicazione, particolarmente per quanto concerne l'amore, il sesso e il denaro...". Poi pagine di acconciature primaverili, di ragazze dalle chiome lustre e sane che gli sorridevano, ragazzebambine, nessuna minaccia, con nastri, con piccoli boccioli tra i capelli, con sorrisi bianchi, scintillanti, igienici, che non minacciavano né lui né alcun altro uomo, e che stavano per prorompere in un coro: Amateci, dovete soltanto amarci! Dietro ogni cosa si celava l'amore, una brama e un mistero. Era innamorato egli stesso, amava la sua famiglia e amava se stesso, in un certo senso, come uomo in quella famiglia; amava quella parte. A se stesso, al di fuori di quella parte, non pensava, in quanto quell'Io non esisteva, né v'era la possibilità che potesse esistere. Una riflessione improvvisa: perché non andarsene da Detroit? Voleva vedere un altro paesaggio. In Europa? Un viaggio in Europa? Voleva vedere la propria famiglia accanto a un fiume straniero, a un oceano, li voleva felici di libertà e della consapevolezza di essere totalmente, definitivamente amati. Voleva fuggire con loro da Detroit. E adesso, sarebbe partita la sua automobile? Andò fuori a vedere. Era sempre una sorpresa, e provava al contempo una sensazione esasperante di impotenza e una sorta di distaccato, divertito disprezzo, domandandosi se sarebbe partita. Non aveva in pugno il proprio fato. Quel mattino avrebbero studiato le cause complesse del decadimento europeo nel secolo diciottesimo. Il decadimento aveva sempre cause complesse, mentre la questione della salute era semplice: si celava un enigma, in ciò, o si trattava di una menzogna? Il suo amico Max aveva dimenticato un libro sulla macchina, davanti; un'edizione non rilegata di Re Lear. Max stava preparando una tesi in inglese per la laurea in lettere ed era un uomo tormentato, solitario, taciturno... perdeva sempre qualcosa. Era piacevole avere un amico come
lui, invitarlo a cena, discutere con lui le proprie difficoltà. Tutto questo era familiare, familiare. Per abitudine, Jim sfogliò il volume. I libri lo attraevano. Vi trovò molte note a piè di pagina, molti appunti marginali in inchiostro blu. Sentì una vaga apprensione, sbirciando i versi della tragedia. Diffidava di Shakespeare. La tragedia lo aveva sempre terrorizzato con le sue brusche, rudi interruzioni e i suoi avvii, con quel linguaggio elegante e i finali sanguinosi e le placide riprese, un senso di apocalisse seguito da una comune mattinata. Orazio e Fortebraccio che giocavano a scacchi in una stanza percorsa da correnti d'aria, con tendaggi di velluto, sbadiglianti e pazienti, bravi uomini rimasti a battersi in una buona battaglia, ignoranti abbastanza per sopravvivere. E rimaneva sempre Cassio, ammaccato ma energico, e Kent, stordito dal passato ma sufficientemente ottimista per affrontare il futuro, la lunga ascesa della storia. Sfogliò il libro, senza consentire al proprio sguardo di indugiare troppo a lungo su nulla. "Eppure tu sei la mia carne, il mio sangue, mia figlia; "O piuttosto una malattia che è nella mia carne...", "Impiccatelo seduta stante, cavategli gli occhi...", "Il mio male cresce su di me...". Far tanto caso alla morte! Tanto caso alla vita! Si sentì un po' sconvolto, chiudendo il libro. No, era inutile. Era inutile pensare alla morte, alla vita. Vivere alla giornata... La giornata era una parte dell'enorme, indecifrabile blocco di granito della sua vita, che egli doveva scheggiare, rosicchiare, stuzzicare e supplicare, non disponendo di strumenti taglienti o forti abbastanza per fare ciò che un altro sarebbe riuscito a ottenere con un colpo solo; amore, sesso, denaro... Il sogno dell'Europa era divenuto lievemente stantio. Lui e sua moglie ne avevano parlato troppe volte, avevano recitato con troppo entusiasmo i reciproci ruoli; ecco perché. Il futuro. Ma per lo meno l'automobile funzionava, il motore si avviò, per lo meno... non era questo un buon presagio? Un frammento, della dimensione d'una scheggia, di quel blocco di granito, un blocco simile a una pietra tombale, con il suo nome scolpito sopra: l'automobile il cui motore quel mattino si era avviato. Se di nuovo fosse arrivato in ritardo alla lezione e gli studenti fossero andati a protestare in massa, che cosa sarebbe potuto accadere il semestre successivo? Aveva debiti, e tre figli. Gettò la copia di Re Lear sul sedile posteriore. Era male sfogliare libri come quello nelle prime ore del mattino. Sentì di essere troppo sensibile. Debole. Che cosa aveva da dare a chiunque, anche a sua moglie? Era più vicino a sua moglie che a chiunque altro al mondo, eppure che cosa aveva da darle di unicamente suo? Il suo incessante amore, il suo intelligente,
serio, incessante amore? La giornata passò. Discese la sera. Nella scuola di Highland Park, prima della lezione, la ragazza stava aspettando di parlargli. Le aveva chiesto lui di venire prima. Era nervoso, nell'avvicinarla, dapprima ansioso di vedere se sarebbe stata là, poi blandamente compiaciuto nel constatare che c'era... in piedi nel corridoio buio, molto sola, ad aspettarlo. Avrebbe voluto passarsi le mani, ruvidamente, sugli occhi, ma conservò un'espressione seria e sorrise un sorriso serio. Si salutarono. Lei era tranquilla, fantomatica. Jim sedette alla scrivania (condivisa con un professore che insegnava durante il giorno e che non vedeva mai) e la ragazza gli sedette di fronte, dolce, molto placida. Egli divenne allegro e chiassoso, imitando un suo zio. Che tempo! Che aria! Doveva dire qualcosa, alcune stupide cose. Poi tolse i compiti della ragazza dalla borsa di cuoio e diede una scorsa ai fogli, sebbene li conoscesse benissimo. La ragazza, seduta,!o guardava. Dopo qualche minuto le disse, sorridendo per consolare se stesso e lei: «Temo che lei incontri difficoltà nello scrivere, Miss Wendall». «Mi dispiace.» «No, non si dispiaccia, per questo è una studentessa.» Un sorriso amichevole, un sorriso da manifesto pubblicitario. Mettila a suo agio; è un'allieva. «Per questo sta seguendo il corso, ma prevedo già qualche difficoltà quando dovrà svolgere il prossimo tema. Sembra che le riesca decisamente difficile scrivere... esprimersi con le parole, sulla carta.» Sorrise, sentendo i propri occhi incresparsi, sentendo le rughe approfondirglisi sulla faccia. Era al contempo baldanzoso e vecchio, quella sera, baldanzoso alla presenza della ragazza, ma vecchio dopo una lunga giornata di lavoro, di frettolosi andirivieni, e un po' sconcertato dalla gioventù di lei. Non dimostrava molto più di vent'anni. Questo lo eccitava e al contempo lo irritava. Incominciò ad avere mal di capo. Disse: «Vorrei poter notare qualche miglioramento da un compito all'altro, ma lei sembra commettere sempre gli stessi errori. Non sono veri e propri errori...». «Presumo che sia il mio modo di pensare» ella disse. «Potrebbe trattarsi di questo, non lo so. No, non voglio dir questo» si affrettò a soggiungere, allarmato. Evitò il suo sguardo fisso e triste, e sfogliò di nuovo i compiti. Era un uomo troppo goffo per affrontare quella situazione. Esaminò i compiti, indifeso. Seguì il silenzio. La ragazza non si muoveva, ubbidiente, rispettosa. Mentre ne esaminava i compiti, fissando la scrittura che in quel momento
non aveva alcun senso per lui, senza dir niente, provò la sensazione improvvisa che ella stesse reprimendo un impulso di venirgli vicino, di invocarlo. Ma no, niente. Alzò gli occhi e tutto era normale. Si schiarì la voce. «Capisce i miei commenti sui suoi compiti? Ritiene che siano giusti? Che cosa pensa delle mie critiche?» Era una sua astuzia, un espediente familiare: fingere di essere alla mercé di uno studente. Ma in realtà era lui a dominare la situazione. La ragazza non lo assecondò. Sembrava confusa. Disse: «Sono troppo ignorante per poter pensare qualcosa». Lui rise. «Miss Wendall, questo non è vero. Assolutamente. Per esempio, lei capisce che cosa intendo con... mancanza di coerenza?» E poi, quasi rinunciando a un tratto, vide che era una bella ragazza, seduta di fronte a una logora scrivania, indifesa. Ma la sua bellezza non aveva nulla a che vedere con i capelli, la pelle, gli occhi... sembrava più profonda, una sorta di ferita, uno smarrimento. Non riuscì a capirne nulla... si sentì soltanto indifeso dinanzi ad essa, proprio lui. Nessuno l'avrebbe mai fotografata per una rivista, non era chiara, non sarebbe potuta riuscire a fuoco, era una minaccia. La sua espressione sembrava irreale. In aula, mentre lui cantilenava per un'ora e mezzo, sbirciando furtivo l'orologio, gli studenti lo ascoltavano silenziosi e tra essi ascoltava anche la ragazza, guardandolo, con l'aria di volerglisi aprire continuamente, isolata dagli altri. Ma era vero che si distingueva dagli altri? Non esisteva in lei qualcosa di inconsistente e di non concreto, qualcosa che si sarebbe potuto cancellare sotto il pollice? Il silenzio di lei lo innervosì. «Bene, lasciamo stare. Mi dica qualcosa sul suo conto» la invitò. Ella si mosse, emergendo ubbidiente alla vita. Sorrise, quasi. «Non c'è molto da dire.» «Non c'è nulla nel suo ambiente che spieghi questo? Voglio dire, questa difficoltà, la ragione per la quale le sue frasi non hanno un senso... non seguono logicamente l'una all'altra, cioè» soggiunse imbarazzato, timoroso di sembrarle brutale. «Voglio dire, c'è qualcosa nel suo passato che possa forse spiegare questa confusione? Si sente incerta a causa di qualcosa?» «Non lo so.» «Qualcuno l'ha mai scoraggiata dall'esprimere le sue idee? Non so, un insegnante, o qualcuno della sua famiglia? Ha discusso con lei? Ha respinto le sue idee?» «Non credo.»
«Sembra così esitante.» «Mi dispiace.» «No, non si dispiaccia» disse lui, ridendo un po' rumorosamente. «Dio mio, mi domando soltanto che cosa la tenga giù. Ovviamente lei ha qualcosa da dire. È intelligente. Ma questi... questi...» e batté la mano sui compiti con un gesto cordiale «questi non lo dimostrano.» «Mi dispiace» disse la ragazza. «Vorrei poterla aiutare di più. Vorrei poter fare qualcosa.» «Non ho mai avuto difficoltà...» «Continui, non si interrompa. Non ha mai avuto difficoltà?» «Non ho avuto difficoltà se non dopo che mio padre se ne andò.» «Suo padre se ne andò?» «Abbandonò mia madre.» Si esprimeva timidamente, eppure sembrava esservi una strana voluttà nella sua confessione. Era la prima verità intima sul suo conto che egli venisse a sapere, e fece provare una sensazione di piacere anche a lui. La ragazza aveva ancora il cappotto sbottonato, un cappotto giallo a buon mercato, che in quella luce sembrava color limone. Jim si protese in avanti con dolcezza. «Sicché suo padre abbandonò la famiglia?» «Sì. Avevo quindici anni, allora.» E quanti anni ha adesso? avrebbe voluto domandarle. La sua giovinezza lo irritava. Ma disse: «Mi spiace di saperlo». Risultò anche dalla sua voce che gli dispiaceva. Ella lo sbirciò stupita. Il momento gravò stranamente su di loro, e Jim sentì che la faccia avrebbe potuto increspargli in uno stupido sorriso. «Ma lei... è ben sistemata, adesso? Vive in casa?» «Adesso no. Afe ne sono andata.» «Vive sola?» Una domanda strana. Non avrebbe dovuto porgliela... Nella sfera cortese, paziente, generosa della sua vita molte persone erano passate, studenti e amici, e sempre egli si era aperto a tutti: era un brav'uomo. Sembrava un brav'uomo. Suo padre, che aveva mandato avanti una lavatoria a secco, era stato anche lui un brav'uomo per cinquanta o sessant'anni, e quella caratteristica si trovava nei geni della stirpe, predestinata. I noncuranti e i solitari venivano attratti dal suo aspetto sciatto, simpatico, rassicurati dai capelli non tagliati, dal leggero strabismo, dal fatto che cercava brancolando le parole, dalla sua voce morbida e incerta, e anche dal frequente tremito delle dita nelle prime ore della mattinata. Aveva gli occhi azzurri, un po'
sporgenti, e sentiva che gli si iniettavano di sangue man mano che la lunga e spossante giornata passava, minuscoli filamenti di sangue che affioravano alla superficie della cornea. Il dorso delle sue dita larghe, quadrate, che a volte tremavano, era rivestito da fini peli castano-dorati. Gli parve a un tratto che sua moglie si trovasse con lui in quell'ufficio. Si stava protendendo in avanti per scrutarlo in viso, osservando e giudicando. «Ha detto che abita sola?» «Sì, sola.» Aveva l'aspetto di un certo tipo di studentessa... corsi serali, corsi stiracchiati per un certo numero di anni, inutilmente. Perduta e pensierosa. Aveva occhi limpidi, sorprendenti, molto consapevoli. Che fare? Per qualche secondo si erano guardati. Tra loro, sulla superficie intagliata della scrivania, si trovava l'ultimo compito di lei, con le correzioni in rosso. Egli si allarmò vedendo quanto sembravano crudeli le sue correzioni... rosse, irose esclamazioni che sbraitavano contro le righe minute, regolari, mediocri, della sua scrittura. «Non ci sono speranze nel mio modo di scrivere?» ella domandò. «No, non direi questo. No, naturalmente no.» «È... è il modo di scrivere di una persona malata di mente?» «No di certo!» esclamò lui, scandalizzato. Scivolò nel silenzio, meravigliandosi della sua percettività. Il modo di scrivere di una persona malata di mente? Sì, questo era vero, abbastanza vero. Eppure la ragazza non era pazza. Ne aveva la certezza. Evitava la sua espressione turbata, così come evitava lo sguardo di lei, in classe... gli si apriva troppo, lo turbava. Timida e ingenua, ma stranamente esperta. Un enigma. Che cosa pensava di lui? Intelligenza. Tenerezza. A sua moglie sarebbe bastato sbirciarlo per vedere tutto quel che c'era da vedere, avendo udito già anni prima tutto quello che c'era da udire, incapace ella stessa di modificare questa realtà, una realtà storica. Gli leggeva dentro... perché no? Lo aveva costruito lei, in parte. Lo aveva aiutato a immaginare se stesso. Non poteva fare a meno di vedere attraverso il suo tentativo di pervenire a un modo di esprimersi calmo, elegante (imitando un suo professore prediletto), attraverso il suo panico, il suo sfinimento, le condizioni malconce della giacca di tweed che indossava, il debole esotismo della cravatta a scimitarre rosse e verdi o a becchi di pappagallo, quelle cravatte pazzesche, portate per troppi anni. I suoi studenti notavano quei vestiti sciatti, o lui? Insegnava lì composizione inglese due sere alla settimana, dalle otto alle nove e mezzo, e i quindici adulti iscritti al corso lo osservavano, du-
rante quelle lunghe serate, come se fosse stato una figura nei loro sogni irrequieti, incomprensibile con la sua sorridente ironia e la sua verbosità e forse degna di essere ascoltata, di un certo valore, se soltanto avessero potuto tenersi svegli. In quelle sere, l'aria era greve di stanchezza e di futilità. Lo avevano tutti in gran simpatia, lo sapeva. Faceva parte della loro stanchezza e della loro futilità. Parecchie massaie, un tassista dalla faccia bisbetica, un tale che consegnava le bottiglie del latte, tre operai che lavoravano alla Ford nel turno diurno, tutti logorati fino all'osso da altre vite, altre identità, per cui avevano le spalle eternamente curve. Gli sarebbe piaciuto gettare il libro da una parte e dire, Oh, all'inferno!, e accarezzare le loro spalle indolenzite, passare una mano fresca su quegli occhi malinconici, brucianti. Per salvarli! Per cambiare le loro esistenze! «C'è qualche speranza per me?» domandò la ragazza, a un tratto. Si riscosse. Per un momento aveva creduto che ella si riferisse alla propria vita, che domandasse se v'era qualche speranza per la sua vita. Ma stavano parlando del suo modo di scrivere, era una sua allieva. Nervosamente, rispose: «Naturale che c'è speranza. Certo, dovrà continuare a leggere e a scrivere, ed esercitarsi a scrivere. Le darò alcuni libri che forse le piacerà leggere. Migliorerà, la prego, non stia a preoccuparsi». Colse nell'espressione sveglia, sognante della ragazza un tipo singolare di intelligenza... non molte cose la sorprendevano. Una improvvisa fitta di desiderio di lei lo attraversò. Si sporse in avanti e appoggiò le braccia sulla cattedra, dinanzi a sé. «Perché... che cosa l'ha indotta a dire una cosa simile del suo modo di scrivere? Se scrive come una persona malata di mente? Perché ha detto proprio questo?» «Mi è venuto in mente, ecco tutto.» «È turbata per qualche ragione?» «Le solite cose.» «Quali?» «Come vivere, che cosa fare, come superare certi giorni» ella disse. Gli sorrise debolmente. «Trova un passaggio per tornare a casa dopo la lezione, o prende l'autobus?» «Prendo l'autobus.» «Non è pericoloso?» «Ancora non mi è capitato niente.» «Ma potrebbe essere pericoloso, una ragazza come lei...»
«Non posso evitarlo.» «No, presumo che non possa evitarlo» disse lui, adagio. Sapeva che avrebbe dovuto congedarla. Era tempo di smettere. Fuori, nel corridoio, qualcuno stava aspettando, un'altra allieva. Diede di nuovo un'occhiata ai compiti, accigliandosi, sebbene fosse stanco di quella finzione, e stanco, davvero, di questa ragazza, alla quale aveva pensato per troppo tempo. Non aveva bisogno di lei nella sua vita. Non aveva nemmeno tempo per lei. E, essendo quello che era, non aveva idea del modo di avvicinarla se per caso avesse voluto qualcosa da lei... era sposato da troppo tempo. «Qualcuno sta aspettando di parlarle, credo la signora Thibodeau» ella disse. «Va bene.» Ella uscì. Aveva superato la prova: non le aveva offerto un passaggio fino a casa. Un po' sollevato, si preparò per la signora Thibodeau, una delle allieve più loquaci della classe, nervosa e difensiva. Ella si avvicinò con una necessità vigorosa, imponente, scivolando sulla sedia lasciata libera da Maureen. Le disse, molto cordiale: «Come sta, la signora Thibodeau?». Soltanto pochi minuti prima della lezione. Quella sera, dopo la lezione, si trattenne a parlare con alcuni studenti e non guardò la ragazza che usciva. Andando verso la sua automobile, non si voltò a sbirciare la piccola folla che aspettava l'autobus. Ella era protetta da quella folla. Poteva badare a se stessa. Tornò a casa in macchina e sentì diminuire l'attrazione che provava per lei, come se fosse più tesa e sottile. Aveva moglie, era il padre di tre bambini, era un uomo con una determinata identità. Questa identità lo riportava a casa. Sapeva dove andare. Era la voce della ragazza a colpirlo più di ogni altra cosa, forse, una voce lievemente strascicata, sognante, con una certa autorevolezza e aspettativa. Gli ricordava qualcosa? Che cosa gli ricordava? Quando leggeva i suoi compiti, gli sembrava quasi di udirla parlare con quella voce esile e riflessiva. È l'elaborazione della giustizia fuori del controllo dell'uomo, è nelle mani di Dio. In questo modo ella scriveva. Dove andava a pescarle quelle parole, quelle assurdità? Era pazzesco, e, ciò nonostante, lui capiva. Ed era commovente, pensò, che credesse in Dio. Il buio era fitto, adesso, il tragitto lungo. I carrelli di un supermarket fuori sulla strada. Pericoloso. Alcuni ragazzi negri stavano oziando a un angolo. Avevano lunghi capelli cespugliosi e arruffati, come se le loro teste
fossero state sformate da qualche rito esotico, dando loro poteri segreti. Caotici terreni da costruzione... un materasso abbandonato accanto al marciapiedi... un'aria di scompigliato, scompigliato disordine... un isolato di palazzi d'abitazione. Maureen Wendall abitava forse in uno di quei brutti edifici? Come si poteva fare aderire a lei lo squallore della sua vita, trascinarla in basso con esso? Si domandò se ella vedesse quelle stesse cose, una dopo l'altra, mentre andava avanti e indietro sull'autobus, tra quel branco di persone stanche e impotenti. Era capitato per caso nelle vite di quelle persone, i suoi studenti. Studiava alla Wayne State University per laurearsi in sociologia, avendo rinunciato alla facoltà di storia perché si era spazientito dei morti, avido di un contatto con la vita, con i vivi. Si era sposato molto giovane, aveva avuto tre figli, cosa che lo stupiva e a causa loro - a causa dei bambini - aveva accettato, per il tramite della facoltà d'inglese dell'università, di insegnare al corso serale, dignitoso e disperato con la vecchia giacca di tweed e la corta barba castana ben curata, un giovane raffinato, una cortese vittima. Ai suoi superiori dava l'impressione di essere una vittima che non si autocompativa, ma si limitava a essere cortese: in breve, proprio il tipo di uomo che volevano. E così si era aggirato nei corridoi della facoltà di inglese chiedendo lavoro, qualsiasi lavoro. Era autorizzato a insegnare in ogni squallida scuola facoltativa, o ai corsi dei primi due anni di università perché sei anni prima si era diplomato in lettere inglesi, quando aveva avuto altri progetti per la vita... a tutti questi "altri progetti" cercava di non pensare. Gli anni trascorsi studiando lettere erano il suo periodo peggiore, meglio dimenticarlo. In quel semestre stava seguendo tre corsi all'università: un corso sugli aspetti socio-psicologici della teoria organizzativa; un seminario sull'ecologia umana, e un altro seminario sulla metodologia sociologica. Era assistente alle ricerche di uno dei suoi professori, un uomo severo, indaffarato, e passava molte ore del proprio tempo prezioso in biblioteca, tracciando diagrammi statistici. Pranzava sugli scaffali della biblioteca. Nel pomeriggio, attraversava di corsa i giardini dell'università per andare a tenere lezione ad un corso per adulti, "Introduzione alla sociologia", che aveva luogo tre volte alla settimana, dalle quattro e mezzo alle cinque e venti, in un edificio decrepito dell'università destinato a essere demolito, dominante la Lodge Expressway. Poi tornava di corsa in biblioteca e nel suo cubicolo, per prendere appunti sulla sua lezione, scribacchiando su schede con inchiostri di colore diverso - rosso, blu, verde - e scrivendo molto rapida-
mente. Ogni colore stava a indicare nozioni di tipo diverso. La cena consisteva in quello che gli era avanzato del pranzo, magari una mela. Non aveva il tempo di soffrire la fame. A volte, tra le cinque e mezzo e le sette, spendeva dieci centesimi di dollaro per telefonare a sua moglie, che si sentiva sola nell'appartamento. Parlavano in fretta, scambiandosi notizie. Uno dei bambini aveva il raffreddore. Era arrivata una lettera di sua madre e lei aveva paura di aprirla. Come si sentiva, lui? La gola gli doleva ancora? Non poteva permettersi di fare una ricaduta. A che ora sarebbe tornato a casa quella sera? Spesso sull'orlo delle lacrime, tediata e spossata ella stessa, sua moglie lo supplicava con quella voce ragionevole: perché continuava a correre qua e là? Perché erano così poveri? E per favore, per favore, non doveva farsi prestare altri soldi da Fred, era vergognoso, lei non poteva sopportarlo... Perché la vita era un tale disastro? Sotto tensione, la voce di lei assumeva un suono caparbio, melodioso; egli immaginava la sua pelle accendersi di rossore. Amava la vita, gli piaceva vivere. Ma senz'altro la vita sembrava un disastro. Era troppo zeppa, imbottigliata, impossibile. Tutti i martedì e i giovedì doveva arrivare in macchina fino a quel college che aveva sede in una scuola media, attraverso un'ingombra desolazione di edifici dagli occhi malinconici; quando l'automobile si guastava, come accadeva spesso, doveva prendere anche lui l'autobus. Per lo meno, poteva preparare la lezione sull'autobus e rimandava sempre fino a quel momento, quando riusciva a scorrerla febbrilmente. Percepiva duecentocinquanta dollari al semestre, per quel corso. «Che cosa c'è di sbagliato in questa frase? Qualcuno è in grado di spiegare che cosa c'è di sbagliato in questa frase?» domandava alle sue massaie e ai suoi camionisti dagli occhi infossati, guardandone le facce rugose e oneste mentre si scervellavano su un esercizio ciclostilato che egli si era fatto prestare all'ultimo momento da qualcuno della facoltà di lettere. I suoi allievi si concentravano sui fogli ciclostilati come se avessero potuto spiegare tutto quello che esisteva di sbagliato, come se fossero stati la chiave per arrivare all'enorme errore ultimo dell'universo. Maureen Wendall si trovava tra loro, in attesa. Forse tutto stava per esserle spiegato? Era forse vicina una rivelazione? Gli sembrava commovente, la sua fede in Dio. Era anch'egli cristiano, sebbene non volesse spingere troppo oltre la cosa; non spingeva mai troppo oltre nessuna delle sue convinzioni. Quando infine arrivò a casa, quella sera, entrò subito nella camera da letto e si distese. Si sarebbe detto che avesse avuto un collasso. Sua moglie si
chinò su di lui, spaventata. Egli udì se stesso mormorare, sull'orlo del pianto: «Non ce la faccio. Non posso continuare con questo ritmo maledetto, questa vita mi sta ammazzando. Non ce la faccio più a continuare...». Follemente, pensava che sua moglie fosse in grado di cambiare ogni cosa dicendogli di smettere. Sarebbero potuti andar via tutti, in qualche posto, fuggire intorno al mondo! Perché no? Ma lei disse invece, non più tanto sicura di sé, adesso, a un tratto impaurita da lui e dalla sua debolezza: «Che cosa puoi fare? Che altro?». Così, la mattina dopo, fu pronto a ricominciare. Era un uomo di trentaquattro anni che dimostrava parecchi anni di meno, forse perché non aveva scelta. Era continuamente in moto. 3 Aspettava, eternamente, che accadesse qualcosa - reso ansioso dalla possibilità che accadesse e da quella che non accadesse. Non aveva idea di che cosa si sarebbe potuto trattare. Aveva cominciato ad aspettare quel qualcosa molto presto nella vita. Per qualche tempo il qualcosa aveva avuto a che fare con il sacerdozio, poi con il matrimonio, adesso era collegato, vagamente, al mistero dei sogni, a quei sogni inquietanti che sembravano appartenere a un altro uomo, ma dovevano essere suoi. Durante il giorno, desto, non aveva il tempo di sognare. Correva qua e là, da un enorme edificio di cristallo e cemento ad un altro, prendendo scorciatoie attraverso i prati dell'università, passando accanto ai bianchi viali di cemento, ai piazzali e alle panchine, senza avere il tempo di vedere niente, attraversando le strade ingombre di traffico con il rosso, sorpreso dalla pioggia di novembre senza l'ombrello e comicamente, orribilmente solo tra migliaia di studenti frettolosi... un uomo in attesa che accadesse qualcosa, nonostante la fretta. Dietro i suoi pensieri v'era un presentimento di vuoto, una delusione ultima... di non essere l'uomo fuori dal comune come aveva tentato sempre di essere e che il suo destino sarebbe stato comune. L'automobile funzionava. Di nuovo martedì sera, un altro martedì sera. Si recò in macchina a Highland Park e sentì la tensione crescergli dentro... non preoccupazione per il noioso corso, ma preoccupazione per la ragazza, il cui volto aveva tentato disperatamente di ricordare per tutto il weekend. E se non fosse venuta?... Nelle numerose sere in cui ella era stata assente aveva provato una innaturale irritazione... un dolore che lo rodeva, una sensazione di imbarazzo. Troppo sensibile. Sua moglie si lagnava a volte
perché era debole, diceva che il suo essere cortese era soltanto un aspetto della debolezza di carattere, e lui capiva che questo rispondeva alla verità. Tutto era vero. Ma lo irritava il fatto che quella ragazza, per quanto sprovveduta, avesse una vita sua e potesse, in realtà, fare a meno di lui. Non poteva influenzarla. I suoi sentimenti venivano in qualche modo dominati da lei, ma ella stessa gli rimaneva irraggiungibile. E sentiva che non era giusta questa apprensione irragionevole a causa della ragazza e lo invadeva un senso di disordine, di pericolo, avente qualcosa a che fare con lo spazio attraverso il quale guidava... lungo la Terza Avenue, oltre il Fisher Center e il Ford Hospital e nella minacciosa congestione delle vie residenziali di Detroit. Troppe sagome negli angoli dei suoi occhi... troppi palazzi, distributori di benzina, ragazzi in bicicletta. C'era la pressione di troppa gente. Pressione. Una pressione sugli occhi e sul cervello. Dove poteva essere diretto, in quel paesaggio pericoloso? Non sembrava giusto che lui, il figlio di suo padre, dovesse essere nato per una qualsiasi destinazione di questo genere. Diceva a se stesso: Voglio... voglio... ma non riusciva a pensare le parole conclusive, non poteva completare il proprio pensiero. Era troppo sfinito, non riusciva a pensare con chiarezza. La sua vita era una burla. La varietà di forme e colori lungo quella strada era una burla. Illusioni gli danzavano davanti agli occhi come le implacabili strisce di carta che decoravano i distributori di benzina. Stava andando da una donna, da sua moglie, a un'altra donna che non conosceva. Eppure il cuore gli martellava per la necessità di arrivare a lei. Era sempre stato un uomo attratto dall'avventura... dall'aspirazione all'avventura. La sua mente era colma di film e di libri. Gli piacevano le cose più banali, i film alla televisione, i film in terza visione nei cinematografi del quartiere, non soltanto perché la sua vita di studioso era assorbita così selvaggiamente dal non comune, dall'intellettuale, ma perché il suo corpo sentiva una gravitazione naturale verso l'eccitazione del banale. Era un uomo intelligente, ma era altresì assolutamente comune, e ansioso di restare tale. Aveva un comune bell'aspetto. Si sentiva a volte squallido di normalità, lieto di essere comune ma al contempo angosciato, e avrebbe voluto gridare alla gente per la strada: "Sì, questo sono io, ma non proprio io. Guardate ancora, guardate meglio!". E se la ragazza non fosse venuta, quella sera? Quando entrò frettolosamente nell'aula, già con cinque minuti di ritardo, ella non c'era. Non sarebbe venuta. Prese una matita rosicchiata rimasta sulla cattedra, la esaminò con inconsueto interesse e la rimise dove l'aveva
trovata. Era il momento di cominciare. Tutti gli altri si trovavano in aula e stavano aspettando. No, non proprio tutti... mancava Hendrix, il tassista. Si schiarì la voce. Poi la ragazza entrò e tutto andò bene: tutto divenne perfetto. Parlò. Maureen sedeva con il cappotto sbottonato, l'aria stanca: cercò di non guardarla. In alto le lampade fluorescenti a buon mercato baluginavano. Facevano male agli occhi e stancavano la mente. Gli oggetti sembravano perdere i loro contorni esatti e la sostanza le sue dimensioni, in quella luce. Sentiva in sé una forza estranea, inquietante, una sensazione di forza che gli dava quasi il capogiro. Parlava come un automa, era una lezione familiare... conosceva l'argomento così bene, lo conosceva da anni; dominava la situazione e parlava agli allievi, parlava, esercitava il proprio potere su quegli estranei. Ma al contempo stava all'erta, in attesa. Gli piaceva insegnare. Insegnare era la sua passione. Amava sentire i loro occhi su di sé, amava l'ascendente della sua voce su di loro. Sembrava trasformarsi nell'idea che essi avevano di lui, perdere il proprio familiare e sciatto contorno nella luce delle lampade fluorescenti. Quando la lunga lezione terminò, si sentì pervaso da un senso di eccitazione, ma anche di perdita. E questo lo sconcertò, la sua eccessiva stanchezza. Dava tanto ai suoi studenti, anche al più sprovveduto dei suoi studenti, ma essi, a loro volta, non gli davano nulla. Nulla, in realtà. La sua esistenza stava scorrendo veloce, i giorni gli venivano strappati a manciate, aveva quasi trentacinque anni... Maureen si alzò ad abbottonarsi il cappotto. Ogni movimento delle sue dita era un movimento segreto, con un significato: egli credeva disperatamente nei segni e nei simboli. Quella ragazza non aveva tentato per settimane di comunicare con lui? O aveva frainteso? Aveva immaginato tutto? Doveva fermarla prima che fuggisse. Le disse: «Permetta che l'accompagni a casa in macchina, questa sera». Maureen lo guardò soltanto blandamente sorpresa. Molto soddisfatta. Sorrise e disse: «Grazie». E così questo era accaduto. Lui prese i suoi libri, le sue carte e le mise nella borsa di cuoio. Non aveva idea di quello che stava facendo. Quasi tutte quelle cose erano una messa in scena... non gli occorrevano, sentiva che gli studenti si aspettavano di vedere libri e carte sulla cattedra del professore, era più persuasiva. Sotto l'attento esame della ragazza, abbassò gli occhi a guardare se stesso e vide, o intravide, che non era vestito meglio di uno qualsiasi dei suoi allievi. La stessa cravatta verde e rossa che aveva
portato l'altro giorno, una camicia a righine azzurre sottili, una smorta giacca a scacchi, calzoni grigio-scuri, e le scarpe erano marrone, scamosciate, logore. Ma trovò una consolazione nell'essere così mal vestito; la cosa aveva un che di innocente. La condusse in un ristorante a prendere il caffè. Le domandò se desiderasse qualche altra cosa e lei rispose no, niente altro. Quanto a lui, prese una fetta di torta; era improvvisamente affamato, in preda a una fame violenta. La ragazza lo guardò mentre mangiava. Era molto snella, magra. Perché viveva sola? Viveva davvero sola? Tentò di dominare la propria eccitazione. Ecco che erano insieme. Maureen con un singolare portamento da uccello, in attesa. Il viso sottile, lievemente spigoloso, la pelle translucida. «Mi parli ancora di lei» egli disse. «Dove lavora?» «Non faccio niente di speciale.» «La settimana scorsa mi stava dicendo di suo padre...» «Soltanto per spiegarle perché sono così stupida.» «Ma lei non è stupida.» «Sono lenta a capire. Mi riesce difficile.» «Ha detto che suo padre se ne andò di casa?» La faccia le si colorò lievemente. «Si, ci abbandonò.» «Perché?» «Per risposarsi.» «Se ne... se ne andò, semplicemente?» «Uscì di casa. Si stancò e se ne andò... succede continuamente.» «E la sua famiglia?» «Oh, tiriamo avanti. Ma' non ha mai stentato a tirare avanti se vi era costretta.» «Non ha più rivisto suo padre?» «Oh, certo. Si è risposato. Li vedo, di quando in quando.» «Non le dispiace vederli, dopo quello che ha fatto?» «Non lo odio né altro, perché dovrebbe dispiacermi vederlo?» «Non lo odia?» «No» rispose Maureen. Ebbe un lieve sorriso. «Si innamorò di una donna e lasciò mia madre... disse che non poteva farne a meno. Cercò di spiegare la cosa a mio fratello e a me, come si era innamorato, ma noi lo sapevamo già. Lo sapevamo.» «Lei e suo fratello... non lo odiaste?» «Perché avremmo dovuto odiarlo?»
Incrociò le braccia, timidamente. Le maniche del maglione giallo erano tirate indietro e tese, la lana da pochi soldi attillata. A lui accadde di pensare che ragazze come quella, con lo stesso rossetto di un rosa vivido sulle labbra e lo stesso maglione, venivano trovate spesso cadaveri in qualche località remota e solitaria... v'era una sorta di condanna definitiva nel ciondolo a forma di cuore che ella portava al collo, appeso a una catenina sottile. Forse era appartenuto a troppe ragazze, per poi passare a questa. Riusciva a immaginare i titoli in una pagina interna del giornale e riusciva a immaginare le fotografie sensazionali in una rivista poliziesca: ecco la capanna nella quale è stato scoperto il cadavere, ecco i "capi di vestiario" rinvenuti a duecento metri di distanza... Maureen stava dicendo: «Voglio bene a mio padre, nonostante tutto questo. È un brav'uomo. Era tutto finito tra loro, tra mio padre e mia madre, e lui era ancora giovane, e si innamorò di un'altra, ecco tutto. Questo posso capirlo. Così me ne andai a stare per mio conto e cominciai a studiare. Mi riuscì molto penoso continuare. Più di ogni altra cosa al mondo, voglio terminare gli studi e trovare un buon impiego, sa, non mi va di battere a macchina per tutta la vita, voglio fare qualcosa di me stessa. Dovetti farmi forza per entrare in aula, quella prima sera, ma ci riuscii. Si trattava del suo corso. Fu molto importante nella mia vita, cambiò la mia vita». Non riuscì a seguirla in tutto quel che diceva, ma udì le ultime parole. «Perché cambiò la sua vita?» «Lei. Il suo modo di insegnare.» «Io... sono lieto di sentirglielo dire. Ma adesso non ha più paura, vero?» Lei fece un gesto fluttuante con le dita, per mostrare disgusto. «Oh, certo. Non posso farne a meno. Comincio a pensare che fallirò, che tutti gli altri ne sanno più di me, oppure penso che qualcuno potrebbe seguirmi fino a casa. Vivo sola, e mi impaurisco.» «Mi dispiace.» «Non posso farci niente. Non so come potrei fare.» «Non potrebbe abitare insieme a qualcun altro? Un'altra ragazza?» «Non conosco nessuno abbastanza bene.» Abbassò gli occhi, come se fosse stata consapevole del proprio fascino. Era così ovvio? Maureen continuò: «Non dovrei dirle questo, perché potrebbe pensare che sono pazza. A volte sento... sento che potrei morire, tanto la mia vita è solitaria. Ma non voglio nessuno accanto a me. Credo che niente cambierà mai, che la mia vita continuerà in questo modo per sempre. Penso che
qualcuno potrebbe aspettarmi nell'ingresso, quando torno a casa. È pazzesco. So bene che non accadrà. Ma mi sembra di non poter continuare in questo modo senza la speranza di qualcosa di meglio, di una nuova vita. Dovrà esserci qualcosa di più di questo per me, ma dovrò ottenerlo da sola. Farò io stessa in modo che accada». La fissò. «Molti la pensano così.» «Lei non la pensa così, vero?» domandò Maureen, timidamente. «A volte.» «Ma non è sposato, non ha una famiglia?» «Questo non fa alcuna differenza.» «No?» «Non conosco alcuna soluzione.» «Io sono sicura di sì, invece.» «No. Non io. Nessuna soluzione» fece lui, con un sorriso. L'accompagnò a casa. La ragazza disse nervosamente, senza appoggiarsi alla spalliera del sedile: «Non pensa che sia male, accompagnarmi a casa così?». «Male? Perché?» «Se gli altri studenti venissero a saperlo?» «Non lo sapranno.» Maureen lo guardò. Lui stirò la bocca in un sorriso cortese, rassicurante, ma era molto agitato. Parcheggiarono davanti al caseggiato ove ella abitava. Era poco più grande di una grande casa. Poco promettente, un po' squallido. Proprio quello che aveva immaginato per lei. «Le farebbe piacere se l'accompagnassi di sopra?» Temeva che aprisse la portiera, a un tratto, e se ne andasse. «Non è necessario.» «Ci tengo.» «Non corro nessun pericolo.» «Esce con qualcuno in particolare? Con qualche uomo?» «No.» «Perché no?» «Non c'è nessuno che mi piaccia. Nessuno che conosca.» «Nessuno?» «Non sono uscita con nessuno, in questo modo, da quando avevo sedici anni. Mi crede?» Lo sbirciò in tralice; poteva darsi che gli avesse rivelato qualcosa di biz-
zarro. Non capiva. «Io... io le credo. Ma perché no?» «Ho paura.» «Di che cosa?» «Degli uomini.» Si sentì stranamente commosso da queste parole. Non riusciva a capire. «Non vuole sposarsi?» «No.» «Perché?» «Non voglio, e basta.» «C'è qualcosa... che non va? Cosa c'è che non va?» «A volte penso che mi piacerebbe essere come le altre: mi piacerebbe frequentare uomini, a volte, andare in qualche posto, fare tutto quello che fanno gli altri. Ma poi non ci riesco. L'idea di essere troppo vicina alla gente mi impaurisce, non voglio che mi facciano del male.» «Perché qualcuno dovrebbe volerle fare del male?» «La gente fa del male agli altri. Succede. Succede» ella disse, sbirciandolo. «È così strano che lei abbia paura. Non abbia paura!» si espresse nervosamente e scherzosamente, come se volesse stuzzicarla. Maureen lo fissava in silenzio. Lui si sporse in avanti e le massaggiò le mani gelide. Il gesto non richiese alcuna preparazione, alcun particolare coraggio. Tra loro due scaturì un'improvvisa agitazione, un affanno che era quasi doloroso. Egli ricordò la prima volta che aveva toccato sua moglie, ricordò la prima notte di nozze, la nascita del primo bambino: agitazione, questo genere di agitazione. «Lasci che salga» le disse, supplichevole. «Voglio vedere dove vive. Non mi tratterrò a lungo.» «Io…» «La prego. Non le farò del male.» Maureen sembrava molto confusa. Egli si sporse oltre di lei e aprì la portiera. «D'accordo?» disse. «Ma sono...» «D'accordo. Soltanto per pochi minuti.» Nel buio ingresso della casa c'erano due brevi file di cassette per la posta, identiche a quelle nel suo palazzo. Questo gli piacque. Cassette per la posta andanti, di finto ottone. Erano ammaccate e opache, con finestrelle a raggi di sole per mostrare se contenevano corrispondenza. Lo sguardo di lui balzò sul cognome Wendall, ed egli vide che quella cassetta era vuota. Niente.
Di sopra, la ragazza annaspò, cercando la chiave, come in sogno e lui le rimase accanto, la mente in tumulto, pensando: Che cosa accadrà adesso? Era buffo e al contempo tutt'altro che buffo. Avrebbe potuto sorridere, ma non sorrise... essere soli in quel modo, sempre soli! Una fatica per il cuore! La timidezza della ragazza e l'aggressività eccitata del suo corpo lo trascinavano avanti; sentiva di non dover più pensare, progettare, tutto era deciso. La ragazza aprì la porta e lo fece entrare. Accese la luce e si voltò a guardarlo ansiosamente, per vedere se quella stanza gli sembrasse brutta... «Sicché abita qui» le disse. Aveva avuto l'intenzione di esprimersi in un tono cordiale, ma la sua voce suonò fioca e tesa. Si mise a sedere. La stanzetta gli si rivelò a settori... un divano marrone, una sedia, un tavolo da pochi soldi con il piano lucido sul quale si trovavano alcuni piatti e alcune tazze. Ella non aveva aspettato ospiti. Il tavolo per la colazione? Quella stanza era anche una cucina? Sì, vide un piccolo frigorifero in un angolo, e un acquaio... e il divano ovviamente si trasformava in letto mediante strenue magic... le pareti della stanza vibrarono e perdettero ogni forma dinanzi ai suoi occhi. Sentì un profumo o un odore di cibi. Tornò a ripetere, intorpidito: «Sicché, abita qui». «Sì, passo qui le notti.» «E le vacanze di fine settimana?» «Anche le vacanze di fine settimana.» «Non posso crederlo.» «Perché non può crederlo?» E a questo punto gli parve che un uomo nuovo stesse prendendo il suo posto, sostituendolo. Quella scena sarebbe potuta essere tolta da una rivista di racconti o da un film. Un film, si. Lui era un investigatore che stava cercando qualcuno, e lei era la ragazza che in qualche modo si interponeva, in quanto conosceva informazioni cruciali, quella ragazza spaventata, adorabile, con il cappotto color limone e il rossetto rosa per le labbra. Oppure lui era un uomo qualsiasi deciso a vendicarsi di qualcuno, di un assassino, e la ragazza era l'amichetta dell'assassino, o magari sua sorella; questo sembrava meglio. Casta e spaventata, non poteva appartenere a nessuno. O forse egli si stava limitando a inseguire la ragazza, per suo conto, dopo averne seguito le tracce spietatamente in quella città, controllando alberghi, palazzi d'abitazione, capolinea degli autobus, attenendosi a una sua fantastica logica personale, prevedendo tutto. L'aveva seguita fino a quella casa particolare che si trovava in un luogo inesistente. Metaforicamente simboleggiava il nulla. La sua essenza era l'inesistenza, il nulla. Non
esisteva. Si stavano incontrando ora su una X che non era situata in alcun punto particolare dell'universo, e sembravano in preda al terrore di potersi riconoscere... Si sporse goffamente per prenderle le mani e rovesciò una tazzina da caffè sul tavolo. «No, la prego, non si alzi» ella si affrettò a dire. Lui ricadde sul divano, allarmato. Con il cappotto, abbottonata entro il cappotto, ella si mise a sedere e lo fissò. Jim si costrinse ad appoggiarsi alla spalliera del divano, a rilassarsi. Si sforzò di costringere anche la propria faccia a rilassarsi. Ma sentì pungere la pelle della faccia, la sentì raggrumarsi in minuscoli terrificanti puntini. Erano gli occhi della ragazza sulla sua faccia a far questo. Sentiva di avere la testa e il corpo molto pesanti, ma, ciò nonostante, i suoi pensieri correvano avanti febbrilmente. Si rese conto che stava commettendo adulterio e che stava osando tutto, rischiando tutto ciò che la sua vita aveva accumulato. Poneva a repentaglio se stesso. Stava andando verso un atto ultimo, come l'assassinio, che non sarebbe mai potuto essere negato. Era un atto da compiere senza alcun particolare riferimento a sua moglie, che del resto non riusciva a ricordare affatto. Era un atto da compiere tra le braccia di quella ragazza, tra le braccia di un'estranea, e se non si fosse fermato in tempo sarebbe rimasto inestricabilmente legato a lei, avrebbe legato la sua vita a quella di lei, la vita di un'estranea. La bocca gli si prosciugò. Fissò il viso pallido della ragazza, poi, scendendo con lo sguardo sotto il cappotto, le gambe snelle - le calze facevano sì che le sue gambe splendessero lievemente, supplichevoli - e le strette scarpe nere. Scorse la lieve linea di bagnato lasciata dalla pioggia su quelle scarpe. Si sentì commosso da questo, dal silenzio di lei e dalla sua sofferenza e dalla sua bellezza, che era rivolta verso di lui e al contempo rivolta lontano da lui, aperta e timida al contempo, meravigliata come egli stesso era meravigliato, sconcertata. Ella gli aveva fissato addosso lo sguardo come se si fosse auto-ipnotizzata con la paura. Dopo qualche minuto, le disse, rauco: «Mi parli di lei, la prego». Maureen tacque. «Non le piacciono gli uomini?» «Io... io non posso parlarne, non so come parlarne.» «Mi dica, la prego, mi parli.» «Ho paura.» «Di che cosa?»
«Che cosa posso dire? Non sono intelligente, non so spiegarmi come lei e le persone che lei conosce. Ho paura della vita, di quanto è confusa, ho paura... di Detroit, ma anche di andarmene da Detroit perché non conosco nessun altro posto. Mio zio Brock era moribondo all'ospedale, o almeno lo credevamo tutti. Stava malissimo. Era dimagrito forse di quindici chili, e aveva una gran brutta cera, e noi pensavamo che stesse morendo, ma accadde qualcosa e se ne andò... un giorno discese dal letto, trovò qualche vestito da indossare e uscì dall'ospedale, per suo conto; se ne andò... e... e nessuno sa dove sia andato, si limitò ad andarsene. Le infermiere, il dottore, tutti, rimasero stupefatti, lui non fece altro... non fece altro che andarsene mentre sarebbe dovuto essere moribondo. Credo che si fosse stancato dell'ospedale. Ma io non posso far questo, non so come si faccia. Come potrei andarmene da Detroit? Mio zio Brock era moribondo, ma cambiò idea e uscì dall'ospedale, uscì, semplicemente. Come ci riuscì? voglio sapere come ci riuscì, come fu che si destò e disse a se stesso che se ne sarebbe andato, che avrebbe preso i suoi vestiti per poi scendere con l'ascensore e fuggire, così, semplicemente, senza nemmeno dire a nessuno dove fosse diretto. Anche a mia madre, non lo disse nemmeno a lei, non lo disse a nessuno. Se n'è andato. Ma io, come posso far questo? Per tutta la vita ho desiderato essere una persona, una persona di successo, qualcosa di saldo e di stabile» disse Maureen, adagio. «Non disorientata dai sogni. Non una nullità. Mia madre è così... sembra completamente desta, sta andando sempre in qualche posto, è sempre disposta a farsi una risata, ma in realtà la sua esistenza è tutta un sonno. Ed è così anche l'esistenza di mia zia Connie. Tutti i loro amici, sia gli uomini sia le donne, dormono tutti, ma non so spiegare la cosa. Anche mio padre e il mio patrigno, dormono tutti, uomini che sono addormentati. Io voglio essere Maureen Wendall, ma voglio che questo significhi qualcosa. Voglio essere desta. Ma nei momenti peggiori so che quello che a me sembra essere me stessa, una certa persona, non è affatto una persona, ma una confusione di cose... quello che riesco a ricordare, quello che vedo, quello che sto pensando. Non posso farci niente. Tutto fermenta e ribolle, e ne ho paura.» La fissò, sorpreso come se fosse stato colpito fisicamente. Ella parlava adagio e, ciò nonostante, aveva gli occhi grevi di una passione quasi sepolcrale, aveva un'aria narcotizzata, occulta. In tutta la sua vita, non aveva mai sentito parlare nessuno in quel modo. Avrebbe voluto respingere le sue parole, respingere quello sguardo greve, come sul punto di annegare, intenso, ma si limitò a fissarla, incapace di parlare. Questa era la follia che
aveva temuto in lei, ma anche la follia dalla quale era stato attratto; eppure non si trattava di follia, non proprio. Capì facilmente le sue parole, mentre lo attraversavano. «Non voglio che mi creda pazza, ma non posso farci niente» disse lei, calma, osservandolo. «Voglio dirle una cosa. A volte siedo accanto a quella finestra e guardo il sole. Lo guardo tramontare. Sembra impiegarci molto tempo, ma succede ogni giorno, scende al di là dell'orizzonte ed è finita, è così. Non può tornare indietro. Ho molto tempo per guardare il sole al tramonto. Ho tempo per leggere e continuo a leggere, libri della biblioteca, opere alle quali lei accenna in classe. Sto cercando in essi qualcosa e quindi continuo a leggere. Una persona che vive sola dispone di molto tempo. E questo tempo dev'essere riempito. Così, guardo fuori della finestra. Continuo ad aspettarmi di vedere qualcosa, là, tenuto conto di come la luce cambia, voglio vedere qualche... qualche legge.» «Cosa?» «Una legge. Qualcosa che torni ancora e ancora, che possa capire.» Lui annuì rapidamente, debolmente. «Ora forse dovrebbe andare» ella disse. Si passò la mano sul viso, come se lo sguardo di lui l'avesse allarmata. «Andarmene? Dovrei? Dovrei tornare a casa, adesso?» disse Jim. «Non dovrebbe tornare a casa?» Si alzò. Stava passando oltre, gli parve, la scena di un mistero terribile senza vedere affatto il mistero, senza riuscire a toccarlo. Si avvicinò a Maureen e l'abbracciò. Ansimante, indifeso, le afferrò le spalle e si chinò su di lei. Gli sembrava così piccola, una bambina. Eccitato, agitato, la mise in piedi. «No, la prego, no... no!» gridò lei. «Non mi costringa ad andarmene» egli disse. «A meno che mi ami, no... non lo sopporto...» La lasciò. «Dovrebbe andarsene» disse Maureen. «La prego. A meno che mi ami, dovrebbe tornare a casa. La prego, non mi faccia del male.» «Mi scusi» disse. Incespicò all'indietro, cercando con la mano la maniglia della porta. Dov'era la porta? I suoi sensi si avventavano avanti e indietro, cercando di dirigerlo. Non riusciva a ricordare come tutto questo fosse accaduto, dove si trovasse, come avesse potuto sentirsi così violentemente attratto da quella ragazza. La sensazione in lui era turbolenta e greve al contempo, e lo trascinava verso la ragazza. Non si mosse. «Dovrei
proprio andarmene? Vuole che me ne vada?» Maureen si portò le mani al viso. «Non voglio lasciarla qui sola» egli disse. Lei tacque. «Perché dovrei lasciarla?» disse Jim con frenesia. «Non mi costringa ad andarmene!» Maureen gli voltò le spalle. Vide che era spaventata, esattamente come una ragazza in un libro giallo, come una ragazza nel più comune dei sogni. Ma lei disse, stridula: «Mi farà del male! Se non mi ama, mi farà del male! Come posso sopportarlo? Sono rimasta sola per troppo tempo! Ho avuto troppa paura, e adesso lei, lei mi spaventa, come tutti gli altri, e come è possibile che mi fidi di lei? Se mi facesse del male? Se domattina non potessi alzarmi e andare al lavoro, sentendomi troppo disfatta, un relitto, se lei mi facesse questo... che cosa accadrebbe, allora? Che cosa mi rimarrebbe? Non avvicino un uomo da dieci anni! Sono dieci anni! Tutto è accaduto in un'altra esistenza, non riesco neppure a ricordarmene! Se lei mi avvicinerà, farà ricominciare tutto daccapo e io... non sono forte abbastanza, non posso reggere. Quando si soffre come ho sofferto io, non si impara niente dalla sofferenza, la sofferenza non ti insegna niente, né fa di te una persona migliore, ti stronca semplicemente... perché vuole farmi del male?». «Non voglio farti del male» egli disse. «Vuole farmi del male!» «Voglio amarti...» Maureen non si voltò verso di lui. Jim si avvicinò in silenzio, l'allacciò con le braccia e la strinse. E adesso che cosa accadrà?, pensò. Era tremendamente impaurito. Ma non poteva fermarsi e la ragazza non lo fermò, e la paura di lui non servì a nulla, e il battito affrettato, sonoro, del cuore di Maureen non servì a nulla, non lo allontanò ammonendolo, lo attrasse a lei. 4 Verso la fine di maggio, Maureen andò a trovare sua madre. Loretta si trovava in compagnia di un'amica; il televisore era acceso. L'amica, Bridget, ebbe per Maureen un sorriso luminoso, curioso. «Guarda chi si vede» disse Loretta. «Che cosa fai di bello? Che cosa c'è di nuovo?»
Maureen sedette sull'orlo della sedia di sua madre e guardò senza vederlo lo schermo del televisore. «Alcune cose» disse. «Hai una bella cera, Maureen» disse Bridget. «Grazie.» Sullo schermo del televisore si vedeva l'immagine sfarfallante di una folla bloccata di quando in quando da un cordone della polizia. La polizia spingeva indietro la gente. «Che cos'è?» domandò Maureen «Oh, figli di puttana che provocano disordini» rispose Loretta. «Fanno il picchettaggio contro la guerra.» «Vent'anni fa li avrebbero messi tutti al fresco» disse Bridget. «Li avrebbero impiccati» esclamò Loretta, irosamente. «Si tratta di questo?» disse Maureen, guardando lo schermo. «Mi è parso di aver visto un sacerdote, tra quella gente.» «Tesoro, che cosa ti è successo? Entri in casa, ti metti a sedere e non dai nessuna spiegazione... quante settimane sono passate dall'ultima volta che ti ho visto, tre o quattro? Hai un gran bell'aspetto. Ti va tutto bene? Come procede il tuo lavoro?» «Okay.» «Che cosa ne pensi tu della guerra, Reeny?» domandò Bridget. «La gente come quella non dovrebbe causare disordini. Marciare così, confonde le cose e basta» rispose Maureen, adagio. «Hai perfettamente ragione, non dovrebbero provocare disordini. Di guai ne abbiamo già abbastanza» disse Bridget. «Non mi va che si confondano le cose» disse Maureen. Si sentiva indolente, eppure una grave certezza la rendeva energica; sapeva di avere ragione. «Guardate quel giovincello» disse Loretta, ridendo. «È un ragazzo, quello? Con tutti quei capelli? Se fosse mio figlio, lo farei mettere a sedere e ci darei dentro con le forbici. Gesù!» «Hanno un aspetto ridicolo, non c'è che dire» approvò Bridget. Il telegiornale passò a un uomo seduto a una scrivania. «Oh, all'inferno quello lì, spegni. Tutte queste cose le ho già viste a mezzogiorno» disse Loretta. Maureen si protese in avanti e spense il televisore. «Sicché, quali notizie ci dai di te, bambina? Non sei mica nei guai?» «No» rispose Maureen, facendo una smorfia. «E allora che c'è?»
«Non posso essere venuta soltanto a parlare?» ella disse. «Perché no? Puoi fare a meno di guardarmi con quell'aria così strana.» «Sicuro, parla. Di' qualcosa.» «Randolph come sta?» «Si è slogato una caviglia.» «Quando è successo?» «Un paio di settimane fa. Quel dannato non vuole guarire. Continua a correrci sopra. E la nostra Bridget, gliene è capitata una brutta, suo marito è tornato e si aggira nel vicinato.» «Oh» fece Maureen. Guardò educatamente l'amica di sua madre, una donna sulla cinquantina, tarchiata e simpatica. «Com'è successo?» «È uno schifo. Lo hanno assegnato a non so quale programma speciale, Gesù Cristo,» disse Bridget, facendo roteare gli occhi, «come se fosse guarito perfettamente e non più matto. Hanno detto che poteva tornare a casa per un periodo di prova, o che so io, come diavolo lo chiamano, e io ne ho parlato con l'ispettrice, le ho detto che era matto da legare, che non ci si poteva fidare di lui e che se si fosse messo a bere ci sarebbero stati danni a non finire da pagare. Le ho detto: "Dovrei nascondermi da lui per tutto il resto della vita?". Ma sembra che gli abbiano trovato un lavoro, e così è fuori e gironzola da queste parti. Non so se lavori sul serio o se lo abbiano già licenziato o se se ne sia andato. Ha detto a un tale che mi avrebbe tagliato la gola. Ecco come stanno le cose a casa mia. E per giunta si è fatta viva anche mia suocera! Deve avere ottant'anni, ma è scaltra come il demonio. Bisogna nascondere il borsellino in un posto sicuro, quando arriva lei.» «Ma davvero? Si fa ancora viva? Come sta?» domandò Loretta. «Bene, credo. Tira avanti.» «La madre di Howard, quella era una vecchia in gamba. Non è così, Reeny? Grossa e forte, sapeva il fatto suo. Non si lasciava rimbeccare da nessuno.» «Sì, ma questa, quanto a lei, non parla. Si siede e ti guarda. Ecco come stanno le cose a casa mia, Reeny. Ma tu, il tuo lavoro?» «Me ne vado.» «Perché?» «Sto per sposarmi.» Tacquero tutte. Poi Loretta strillò: «Cosa? Dio mio, Reeny! Sposarti! Stai scherzando?». «No.»
«Ma chi è?» «Il mio insegnante al corso serale.» «Gesù, un professore universitario? Tu scherzi!» Maureen distolse lo sguardo dallo schermo spento del televisore. Abbassò gli occhi sui piedi nudi e sudici di sua madre e sui grossi piedi di Bridget, comodi nei mocassini indiani. «Perché continui a dire così? È tanto sorprendente che qualcuno voglia sposarmi?» «Ti sposi sul serio?» «Sì.» «Tesoro, sei una bella ragazza, non mi stupisce. Ma io... credevo che tu non andassi in giro con nessuno. Non mi hai mai detto una parola!» «Questo è il primo, il primo uomo.» «Com'è?» «È molto per bene, intelligente, mi ama molto e vuole sposarmi.» «È cattolico?» «Sì, cattolico.» Loretta rise stupita. Gettò le braccia al collo di Maureen. «Dio, questa non me l'aspettavo! Gesù! Non mi hai mai detto una parola, ed ecco che vai a spasso con un professore, un professore universitario! Avevo sempre pensato, non so perché, che tu non volessi maritarti, che avessi le tue buone ragioni, o che so io...» «Lo credevo anch'io» disse Bridget, lieta. «Però sono proprio contenta, è davvero una bella notizia, ma perché tanti segreti? Perché non lo hai portato qui?» «Non lo so.» «Portalo a cena domenica, allora. Okay?» «Non saprei.» «Domenica preparerò qualche buon manicaretto, portalo qui. Soltanto noi tre. Potremo fare conoscenza. Dio mio, che sorpresa!» «Di che nazionalità è?» domandò Bridget. «Niente. Americano.» «Sei sicura che non sia polacco?» disse Loretta, dando di gomito a Maureen. «Sì.» «Che cosa c'è che non va in lui, allora?» domandò Loretta. «Che cos'ha?» «È sposato.» Loretta balzò in piedi. Ancora sorridente, ancora stupita, fissò Maureen e
parve che non capisse. «Sposato?» Maureen annuì. Loretta sbarrò gli occhi. Poi, a un tratto, schiaffeggiò Maureen. «Ma'!» gridò la ragazza. «Un uomo sposato... tu e un uomo sposato!» «Gara, lasciala stare» disse Bridget, balzando in piedi a sua volta. «Perché vuoi fare storie? Lasciala stare...» «È una sgualdrina! Una piccola sgualdrina!» «Non dovresti dir questo, sai forse come stanno le cose?» «Sei una sgualdrina o no, Reeny?» domandò Loretta. Maureen sedeva con la mano sulla gota, sforzandosi di non piangere. Loretta si espresse con una curiosa ironia, greve e arcigna, eppure anche un pochino affettuosa. «Sei o no una sgualdrina?» «Ho parlato con sua moglie l'altro giorno. È venuta da me.» Maureen cominciò a piangere, silenziosamente. La sua espressione era composta, come se si fosse trovata ancora alla presenza di quella donna. Parlando, seguitò a scoccare occhiatine a sua madre. «Mi ha detto di lasciarlo in pace, perché non avrebbe ottenuto il divorzio e non avrebbe potuto sposarmi, quindi dovevo lasciarlo in pace, e si è messa a piangere, e mi ha detto cose dei bambini, e ho potuto rendermi conto... ho potuto rendermi conto che lui forse l'amava, un tempo, ma ora amava di più me, e non poteva farne a meno, e io neppure. Allora lei ha cominciato ad alzare la voce con me, una donna per bene come quella, pronta a gridarmi tutti gli insulti che aveva sempre pensato. A questo punto le ho spiegato che l'avrei sposato e che poteva andare all'inferno, me ne infischiavo se era colta o no, e se ha tre figli che sono di lui e se ha avuto due aborti, anch'io avrei avuto figli da lui, e non mi sarei lasciata dissuadere dalle sue chiacchiere! Udivo me stessa dire tutte queste cose, e la cosa mi sorprendeva, ma era tutto vero... anche lei aveva detto cose a me che dovevano esserle sembrate sorprendenti... e il colloquio è finito quando io ho detto che non avrei mai rinunciato a lui, mai, che lo amavo, e basta, ero innamorata di lui, lo avrei sposato, e lei poteva fare tutto quello che voleva, ma non sarebbe riuscita a impedirmelo.» Loretta spalancò gli occhi. «Gesù, hai detto tutte queste cose? Tu? A sua moglie?» «Gliele ho dette in faccia.» «La mia dolce, piccola Maureen?» mormorò Loretta, ironica e sorpresa.
«Ho trovato le parole. Mi sono venute da non so dove.» Tacquero. Loretta si rimise a sedere, adagio. Sbuffò e sedette impettita, lo sguardo scintillante e ironico fisso su Maureen. «Be', sembra che tu abbia fatto quello che dovevi fare, tesoro» disse Bridget. «Sicché... sposerai il marito di un'altra?» «Sì.» «E hai sempre saputo che era ammogliato? È così?» «Sì.» «Sin dal principio?» «Sì.» «Ma questo non ti ha fermata, eh?» «No.» «A quando le nozze?» «Quando lui avrà ottenuto il divorzio.» «Ma sentila, che te ne pare?» disse Loretta in tono scherzoso a Bridget «quando avrà ottenuto il divorzio! Parli così, eh? Dovrei trascinarti da Padre Burney, per sentire che cosa ne pensa. Quando avrà ottenuto il divorzio!» «Queste cose moderne sono molto complicate» osservò Bridget. «No, è una sgualdrina, non si tratta di niente di moderno, è soltanto una sgualdrina. Ha deciso di diventarlo e ci è riuscita» disse Loretta. Batté le mani l'una contro l'altra, poi le strofinò energicamente. «Ah, così. Sicché sei proprio decisa. Quando avrà ottenuto il divorzio... e quanti figli hanno, tre, hai detto?» «Sì, tre.» «E che ne sarà di loro?» «Come posso saperlo che ne sarà di loro?» «Restano con la madre, eh? E lui paga il mantenimento?» «Sì.» «E non te ne importerà niente? Il mantenimento dei bambini e gli alimenti alla moglie?» «No.» «Sicché hai rabberciato ogni cosa. Come ci sei riuscita?» Maureen si asciugò le lacrime. Disse: «Non abbiamo altro di cui parlare, questa sera. Volevo soltanto dirti questo». «Ma non credi di essere una sgualdrina?»
«Adesso no.» «Cosa vorrebbe dire questo: adesso no? Sei una sfacciata anche tu?» Maureen guardò timidamente sua madre. La intimoriva un poco quel che avrebbe potuto vedere, ma la faccia di Loretta era accesa, indignata, e al contempo rassicurante... esisteva un legame tra loro, in fin dei conti. Maureen si alzò. «Bene, grazie» disse. «Grazie di che? Ricominci a fare la sfacciata?» «Non sono mai stata una sfacciata. Lo era qualcun altro, Betty o Jules» disse Maureen. «Gesù, non li nominare!» «Io non lo sono mai stata. Io no! Ero diversa, io.» Loretta emise un suono sbuffante. Bridget, imbarazzata, accompagnò Maureen fino alle scale. «Sei proprio una bella ragazza, proprio graziosa» disse; non capiva l'ira di Loretta, e ne era imbarazzata. «Non stare a crucciarti per tua madre. Cambierà idea. In un certo qual modo l'hai sorpresa, ecco tutto. Non vuole che tu faccia sbagli, come quelli che commise lei. Capisci? Ma ti vuole tanto bene, capisci? Giusto?» «Lo so» disse Maureen. «Anch'io le voglio bene.» 5 Un pomeriggio di giugno del 1967, un giovanotto vide se stesso nella vetrina di un negozio vuoto... per un momento credette di contemplare un estraneo, forse un nemico, poi si riconobbe. Proseguì adagio. Camminava sempre adagio. Era uscito da una stanza in un caseggiato di mattoni, lontano un isolato, ma già aveva dimenticato tanto la stanza quanto la casa; era diretto verso un cinematografo nella Woodward, che cambiava programma tutti i mercoledì, eppure il cinematografo non si trovava ancora nella sua mente. Tutto rimaneva in uno stato di piacevole, fluida sospensione. All'angolo v'era un piccolo e buio bar-farmacia... alcuni ragazzetti negri attraversarono la strada davanti a lui, una turba chiassosa... due ragazze bianche, dai lunghi capelli, vennero dalla sua parte... erano in pantaloni. Egli lasciò che la sua visuale divenisse vaga e le ragazze scivolarono via sfuocate, come se lo stessero stuzzicando, i lunghi capelli luminosi al sole, e le mani, gesticolanti, precise in qualche loro linguaggio melodioso, sul punto di rivelargli un segreto, destinato ad attrarlo. Ma non riuscì a riportarle a fuoco. Passò accanto a loro indifferente. Nel momento stesso in cui avrebbe dovuto posare gli occhi sui loro volti, osservandole e valutandole,
dando prova di una certa agile esperienza, le aveva dimenticate ed era passato oltre. Il marciapiedi era ardente. Appena la metà di giugno e già l'aria aveva un sapore sfruttato, svanito. Sicché era riuscito a sopravvivere per un'altra estate, avrebbe vissuto un'altra estate! Nell'autunno precedente per poco non era morto, trasportato nel pronto soccorso di un ospedale, perdendo sangue, ma la morte non lo aveva raggiunto ed era sopravvissuto per un'altra estate. L'estate gli sembrava interminabile, sebbene fosse appena cominciata. Era appena cominciata? Non riusciva a ricordare alcun'altra estate, in realtà, eppure questa gli sembrava interminabile. L'energia di un ragazzo, su una motocicletta che gli saettò accanto, fece trasalire Jules - strepito, energia, il lampo della luce sulle cromature! Non era mai stato così giovane. Per molti mesi aveva dimorato in un corpo... cucito, tamponato, magari imbottito con ovatta insanguinata. Erano riusciti a rimetterlo in condizione di funzionare. Ma la gratitudine? Doveva provare gratitudine? La mente gli si offuscò. Era riuscito a sopravvivere a se stesso, un corpo. Era diventato un peso, Jules, un oggetto, che proiettava dinanzi a sé un'ombra incerta, ma non occupava spazio... non molto spazio, in ogni modo. Davanti a lui c'era un vecchio o forse una vecchia... con i calzoni, i capelli grigi, un essere arruffato, cencioso, che camminava nel sonno e proiettava un'ombra sul marciapiedi. Fissò lo sguardo su quella sagoma. Le gambe si muovevano come se cinquanta o sessant'anni di pratica avessero reso tutto semplice, una sagoma avente un certo peso e capace di spostare una certa quantità d'acqua, qualora avesse dovuto cadere nell'acqua. Camminare era un'abitudine... vivere era un'abitudine, meccanica. Forme, pesi! Jules sentiva le une e gli altri nei globi stessi degli occhi, irritanti. Una pressione sugli occhi come la pressione di quella grossa e fredda macchina, trasportata a rotelle sin davanti agli occhi per fare un esame. Che cosa avevano esaminato quei medici guardando nel cervello di Jules attraverso i suoi occhi iniettati di sangue? Ogni giorno passava davanti al bar-farmacia. Ora se ne ricordò. Il negozio aveva una finta facciata, molto pulita e splendente. All'interno, una piccola folla: negri e bianchi. E ogni giorno egli si dirigeva o a sinistra, il che lo conduceva alla maleodorante drogheria greca e ai tre negozi di un isolato distrutto dall'incendio, uno dei quali evidentemente una lavanderia, quella che era stata una lavanderia; oppure proseguiva a destra e ciò lo conduceva al di là di grandi palazzi d'abitazione ove alloggiavano studenti
della Wayne University, pigiati e rumorosi, e nel bel mezzo di un ingombro di bidoni per le immondizie e di scatole di cartone che gli spazzini municipali non si davano la pena di togliere. Passava davanti al bar Crater, dove oziavano studenti, ai margini della vita studentesca e quasi nel suo genere di vita, quasi ai margini del vivere stesso. Alcuni altri edifici incendiati, misteri. Manifesti, VOTATE PER... VOTATE PER... VOTATE... Vota e cambia la tua vita, pensò Jules. Uno dei candidati era stato sfigurato, privato della faccia. Gli avevano tolto gli occhi con l'inchiostro, tolto i denti con l'inchiostro. Il cielo doveva sembrargli come se stesse guardandolo attraverso un frutto marcio. Alcuni ragazzi negri ciondolavano lì attorno... color cedro e uva... e uno di essi muoveva passi strascicati, faceva schioccare le dita, cantava con una voce soffiante, ansiosa... «Dimmi dove stai andando non ho il diritto di saperlo?» Una blanda riflessione per Jules: nessuno gli domandava dove stesse andando, nessuno aveva il diritto di saperlo, né se ne curava. Anche lui era un uomo all'interno di un frutto marcio... continuava a entrargliene il sapore nella bocca. Il cielo aveva un colore arancionebrunastro, da melone troppo maturo, un colore putrido, inequivocabile. Le voci dei ragazzi negri sembravano mollicce, putride, sbucciate, marcescenti, soffianti ed effeminate. Meglio non ascoltare. Jules proseguì. Era come il bambino invisibile che aveva tentato di immaginarsi anni prima. Ma adesso era diventato davvero invisibile. Nei suoi vestiti un po' insudiciati e frusti, non aveva niente da invidiare a nessuno; la sua andatura placida ma non pigra, con un lieve trascinarsi dei calcagni, lasciava intravedere una certa distrazione; forse era un tossicomane e poteva essere pericoloso... questo allontanava la gente e attraeva su di lui soltanto gli sguardi delle ragazze avventate. La sua faccia non era né stupida né scaltra, non conteneva niente, non prometteva niente, gli occhi li aveva fissi e scuri e senza luce. Impressioni gli scorrevano dentro, ma non una faceva presa. Era al sicuro dal proprio passato, si era liberato con un calcio del proprio passato, come suo zio che aveva deciso di andarsene dall'ospedale, di scomparire. Anche Jules era scomparso. Possedere un vuoto nel bel mezzo di quella città... tenerlo per sé, ma senza egocentrismo... questo era divenuto il desiderio di Jules. Sarebbe stato bello uscire in quel modo ogni giorno, per tutto il resto della sua esi-
stenza, senza fretta ma senza una vera pigrizia, con una certa destinazione. I piedi gli venivano trascinati avanti. La promessa di qualche buia sala cinematografica e di alcune ore di film. In seguito avrebbe comprato qualcosa da mangiare al Food Fair o non avrebbe comprato niente. Mangiare o non mangiare. Se entrava nel negozio, vi passeggiava come se stesse attraversando un giardino pubblico, lentamente lungo i passaggi, vedendo pacchi ben confezionati di cibi e montagne di barattoli, barattoli nelle loro etichette colorate: era piacevole per lui sapere che non gli occorreva niente. Sul davanti del negozio, appoggiato al banco granuloso, c'era un poliziotto negro che condivideva con Jules una certa calma pungente, piacevole. La pistola del poliziotto si trovava nella fondina, e la fondina era chiusa. Il poliziotto, un giovanotto con i baffi, sbirciava Jules come sbirciava tutti gli uomini che si aggiravano soli, ma una certa fiducia nel passo di Jules lo rassicurava. Lì i bianchi erano più sospetti dei negri. Che cosa facevano in quel quartiere? Proprio li? Avevano deciso di vivere laggiù? Jules attraversò la strada. Un edificio in rovina che ospitava la Rivolta degli Studenti contro la Guerra nel Vietnam. Irose lettere bianche. Davanti all'edificio, ragazzetti che bighellonavano. Facevano parte della Rivolta degli Studenti o si limitavano a oziare lì attorno? Avevano gli occhi vitrei e curiosi e li volsero con insistenza su Jules, come su un mistero, poi lo ignorarono. Nel loro soggiorno, pochi giorni prima, uno di loro era stato ammazzato, un organizzatore fulminato con un colpo di rivoltella. Un tassista infuriato era entrato di corsa, sparandogli al petto. Il tassista aveva detto ai giornalisti che suo figlio si trovava nel Vietnam e che lui era fiero. Una delle ragazze gridò qualcosa, forse a Jules. Parte di una canzone. Quelle ragazze cantavano sempre, parlavano musicalmente con voce strascicata. Jules non si voltò. Anzi, sì, si voltò a guardare. La ragazza era a piedi nudi e lui le guardò soltanto un piede... un anello rosso di plastica intorno al dito piccolo. La ragazza disse qualcosa, ma lui non rispose. In realtà non la udì. La voce di lei galleggiava musicalmente nell'aria, lieve; non sembrava una voce umana. Soltanto suono. Un cartello inchiodato in alto: Ehi Amico Sorridi Subito Al Tuo Fratello Fatemi Vedere Che Vi Amate A Vicenda SUBITO! Agenti su una macchina di pattuglia lì accanto. Jules cercò di non guardarli. Una certa pressione sugli occhi gli giungeva da loro, dalle loro sagome... dal loro peso. Le lettere della parola Polizia gli danzavano biancastre negli occhi. Qualcuno lo stava guardando. Jules non seppe resistere; si voltò e guardò a sua volta... un blando e freddo sguardo scambiato con un
poliziotto, uno sguardo meravigliato. V'era un che di massiccio e di poderoso nella faccia dell'uomo, una sollecitudine che mise a disagio Jules. Calvizie incipiente, robusto. O, piuttosto, là ove Jules avrebbe potuto un tempo sentirsi a disagio, si agitò un ottuso smarrimento; non era del tutto un'emozione. Egli sorrise. Il poliziotto non rispose. Un altro poliziotto, quasi intuendo un pericolo, si girò a guardare Jules che passava. Voltando loro le spalle, lui si sentì più vulnerabile. Al centro della strada, nell'attraversare, sentì qualcuno afferrargli il braccio. Non uno dei poliziotti, però, qualcun altro. Un giovanotto. «Ehi, Jules! Mi era parso che fossi tu! Non mi hai sentito chiamarti?» La faccia era sorridente, eccitata. Troppo cordiale. Jules si sentì riluttante a fermarsi, ma non poteva strapparsi alla stretta. Disse qualcosa. Attraversarono la strada insieme. Il giovanotto parlava. Jules provava una sorda ansia. Non voleva che la gente lo chiamasse Jules! Aveva distribuito così generosamente il suo nome? Sentiva un peso accanto a sé, il peso di quel giovane il cui nome era Mort. Attivo e incantevole, Mort, le cui mani zigzagavano insieme alle parole. «Cammini intontito o qualcosa di simile, ma non hai preso la droga!» Afferrò Jules, scherzosamente, per la collottola. «Non rispondi quando ti chiamano!» Jules lo scostò da sé. «Ho fretta.» «Ma... ma voglio parlarti» disse Mort, offeso. «Vogliamo parlarti, io e alcuni amici miei, amici di Marcia. Ti ho visto per la strada, ieri, diretto su per Cass Street, ma poi sei scomparso. Sei entrato in un negozio o che altro?» «Non ricordo.» «Dove vai così in fretta?» Jules non disse niente. «Amico mio,» disse Mort, chinandosi francamente verso di lui, «il fatto è che non sai dove andare, come me, ed è precisamente quello che tutti noi vogliamo cambiare... il non avere nessun posto in cui andare. Oh, non mi riferisco all'amore né ad altre cose del genere perché siamo tutti innamorati, più o meno. Credo che anche tu abbia una donna e sia "innamorato". Mi riferisco invece a qualcosa di più permanente, a qualcosa che trascenda...» «Non toccarmi» disse Jules. «Scusami. Mi sono lasciato trascinare» disse Mort. Aveva la pelle color oliva e malaticcia sotto quella sua energia; cercò di sorridere a Jules. Mentre camminavano, il suo braccio dondolante passava vicino a quello di Ju-
les. Un prurito. Un'irritazione. Il contatto di altra gente, la vista improvvisa dei denti nei sorrisi, denti lievemente cariati, marci... Mort parlava. Parlava della popolazione negra. La Comune Africana. Poneva domande imbarazzanti, veniva da un comizio tenuto all'università dagli Studenti per la Pace. L'AUCP. Che cos'era l'AUCP? Mort disse, con la voce sommessa e seria: «Sarà quasi certamente per questa fine settimana. L'ho saputo da Coleman, è il presidente dell'AUCP, sai, e quando il momento verrà tutto sarà pronto, abbiamo certi piani, soltanto ho una paura matta che il controllo della situazione ci sfuggirà di mano e lui non sembra rendersi conto della portata... dei possibili danni. Sembra che non riusciamo a organizzarci. La gente va e viene. In fin dei conti, quanta pratica ha ognuno di noi? Questo li spaventa. Che cosa ne sappiamo di combattimenti per le strade?». Jules lo fissò. «Che cosa c'è?» «Che cosa vuoi dire, combattimenti per le strade?» «Quando scoppieranno i disordini, fermeremo la città. Ma io mi cruccio continuamente, la notte non riesco a dormire... prendo sonniferi e non mi fanno nessun effetto... continuo a pensare, e se il controllo ci sfuggisse di mano?» «Quali disordini?» domandò Jules. «I disordini sono previsti per la fine di questa settimana, siamo quasi certi. Sabato sera. A meno che non piova, o qualcos'altro.» «Disordini?» «Sì, disordini... sai.» Jules rise. «Non ci sarà nessun disordine» disse. Erano in piedi davanti a un negozio d'antiquariato, un negozio di vecchiumi, e i mobili silenziosi e polverosi dietro la polverosa vetrina dimostravano quanto fossero giuste le sue parole. Come poteva, qualsiasi cosa, accadere a questo mondo? Come poteva, qualsiasi cosa, cominciare a muoversi? Tutto era stazionario, appesantito. Mort era un oggetto di un determinato peso. Aveva una faccia... sì, una faccia... di comuni proporzioni, dalla pelle opaca olivastra, insoddisfatta ed eccitata, con una barba nera tagliata corta che le dava un contorno, una fissità. La via sembrava a Jules molto piatta e aperta, eppure niente poteva muovervisi senza un grande sforzo. «Jules, vieni con me e potremo parlare! Ci tengo tanto a parlare con te... e anche certi miei amici vogliono parlarti... dove ti nascondi? Marcia dice che ti fai vivo, ma non sa mai quando aspettarti. Sta lavorando, adesso?»
«Sì, è al lavoro.» «Una donna meravigliosa! Sei molto fortunato, ma... non voglio offenderti... non faccio che offendere la gente con questa mia boccaccia. Vieni con me, Jules?» Jules esitò. Poi disse: «Potresti prestarmi venti dollari?». «Venti? Perché hai bisogno di tanto?» «Venti dollari.» «Ma non te ne ho prestati cinquanta la settimana scorsa? Eri tu o era qualcun altro?» Parve realmente interdetto, come se non riuscisse a ricordare. «Non ricordo» disse Jules. «Be', se proprio ti servono. Ho incassato l'assegno paga stamane e quindi penso...» Imbarazzato, si tolse di tasca il portafoglio e contò venti dollari per Jules. Jules li prese, li arrotolò e se li mise in tasca. Non aveva più il portafoglio da un pezzo, probabilmente gli era stato rubato. Proseguirono e Mort lo precedette. «Ammiro te e ammiro Marcia - non che vi conosca, nessuno dei due, certamente non vi conosco - ma voglio che ci troviamo, che abbiamo un dialogo, che ci aiutiamo a vicenda. Tutti noi vorremmo aiutarti. E sento che tu vorresti aiutare noi e sei a conoscenza di cose che a noi occorre sapere. Dobbiamo parlare! Organizzarci! Il tempo sta fuggendo via in fretta per quanto concerne questa città e se il controllo non lo assumeremo noi, saranno altri ad assumerlo. Gli africani si stanno frantumando... non vogliono comunicare, tranne il presidente, che è un giovane intelligentissimo ma emotivo, e anche gli altri sono emotivi... dobbiamo prendere decisioni, organizzare, assegnare incarichi...» Jules pensò a Marcia. Andava a trovarla di tanto in tanto; ed era rimasto sorpreso udendo accomunare i loro nomi. Perché Mort aveva accomunato i loro nomi? Pensando a Marcia, cominciò a pensare a Faye... fredda e argentea, una bionda il cui volto egli aveva veduto sin dal mese d'aprile sulla pagina mondana del giornale... Faye metamorfizzatasi nella moglie di un tizio di Blomfield Hills... arrivata al Meadowbrook Theater con il marito e con un'altra coppia... era finita come una faccia sul giornale, eppure non meno reale di Marcia. V'era qualcosa di Faye in Marcia, qualcosa che lui non aveva avuto il tempo di approfondire, una qualità di bionda pungente, schiva, fiduciosa in se stessa, inesplicabile. Mort stava parlando eccitato, e con il gomito seguitava a urtare il braccio di Jules. «Si scatenerà l'inferno!» gridò.
Aria pesante. Che cosa sarebbe saltato fuori da quell'aria pesante? La temperatura stava salendo a trentacinque gradi. L'umidità era elevata, densa. Quella pesantezza, quella piatta, ardente, opprimente pesantezza, come se l'anima stessa della strada si stesse fondendo in vapore, perdendo ogni forza, scomparendo. Com'era possibile distinguere tra neri e bianchi in una simile nebbia? «Tutto si screpolerà, si aprirà. Tutto ha bisogno di essere sventrato e scavato... e il nocciolo va sputato fuori! Perché tutto quanto dovrebbe restare immutato? Ci troviamo sulle montagne russe e il vagoncino sta sobbalzando. Un po' di vento è la sola cosa che ci occorre. Jules... com'è che ti chiami di cognome, a proposito? Lo hai mai detto?» «No.» «Jules, voglio conoscerti bene, non respingermi. Senti, so di parlare troppo e di essere soltanto un dilettante. Sono uno che non ha mai viaggiato, un pigro bastardo, ma nutro speranze, ho i miei sogni... per tutti, bianchi e negri, per i ragazzi nel Vietnam, per i vietnamiti... credo in questi sogni, non riesco a dormire la notte a furia di pensare a quello che potrebbe accadere se soltanto riuscissimo a realizzarli! Non voglio vivere tutta la mia esistenza tirando avanti alla meglio. Denaro da una università, denaro dal governo... tirando avanti alla meglio, vivacchiando; cioè, dico, non voglio pensare a me stesso mentre tutto, intorno a me, sta imputridendo, sta andando alla malora. Voglio liberarmi di tutto questo, come il serpente che si spoglia della pelle. Voglio davvero vedere questa città rasa al suolo da un incendio e ricostruita. Gesù, quasi non posso aspettare!» Si interruppe, respirando in fretta. «Jules, non prendi mai la droga? Hai detto prima che non prendi mai la droga, eh?» «Mai.» «Questo, forse, è il tuo guaio. Non ti liberi mai da te stesso. Non spicchi mai un volo, non vedi uno scenario nuovo... lo scenario cambia con la stessa rapidità con la quale fai schioccare le dita! Come puoi vivere senza liberarti da te stesso, di quando in quando?» «Sono sempre libero» disse Jules. La sua voce suonò cavernosa, echeggiando in qualcosa di vuoto. Gli venne di nuovo in mente che si trovava in un gigantesco frutto putrido... ne respirava il putridume, ne aveva la pelle ammorbidita... una cavità entro il marciume, scavata e brunastra. Mentre Mort parlava, la macchina di pattuglia della polizia passò, ma lui non se ne accorse. Entrarono in un bar sulla Canfield. L'odore di putridume era più vicino, più scuro. Mort presentò Jules a numerose persone, tre uo-
mini e una giovane donna. Quest'ultima scivolò più avanti in un séparé per far posto a Jules. «Che cosa prendi, Jules? Una birra? Prendi qualcosa, ti prego, bevi con noi» lo esortò Mort. Jules scosse la testa. No. Niente. Bere lo sconvolgeva. Ogni perdita del controllo, anche la perdita dell'equilibrio per un attimo, lo sconvolgeva. Gli ricordava i colpi di pistola vicini alla sua testa... un'eco nella testa. Gli faceva ricordare quando era stramazzato a terra. Disse no. Mort si mise a sedere goffamente, bruscamente. «Non ti fidi di noi! Non vuoi bere con noi perché non ti fidi di noi! Jules, lo so che sembriamo molto diversi da te, ma siamo tutti tuoi fratelli...» Jules fece un cenno con la mano a Mort, per azzittirlo. Mort rise. «Bene,» disse ai suoi amici «ha una certa aria oppressa. Non dico abbattuta, o malsana, o brutta, né niente altro del genere... direi anzi che in effetti è un bell'uomo... la cosa non è affatto così semplice, ma ha l'aria di trovarsi permanentemente fuori della luce del sole, un figlio della crisi economica...» «Gesù, non è così vecchio!» disse, sprezzante, la donna. Indossava un paio di calzoni e una camicia da uomo, aveva le spalle tonde, ma non era priva di attrattive. Jules ricordò che insegnava alla Wayne. L'aveva conosciuta in casa di qualcuno. «Direi che non ha ancora trentacinque anni. Hai trentacinque anni, Jules?» «No, non ancora.» «Allora non sei un figlio della crisi.» «Non necessariamente la crisi storica» disse Mort. «Io mi riferisco a un altro genere di crisi. Una crisi permanente dello spirito.» La donna sbuffò. Jules accese una sigaretta e cominciò a concentrarsi sul sapore del fumo dentro di sé. Gli penetrava davvero nei polmoni, delineando i suoi carnosi, sanguinosi, deboli polmoni? Le parti del suo corpo potevano essere delineate... radiografate... fotografate... maleodoranti. Non potevano rompergli le scatole costringendolo a collegare insieme quelle parti; che respirassero all'unisono, che pulsassero. Di quando in quando il suo corpo gli dava piacere, ma il momento di piacere non durava e il suo ricordo era misterioso. Che cos'era il piacere del corpo, se non un mistero? Non si poteva nemmeno fotografarlo, come sarebbe potuto essere fotografato il suo cuore pulsante. Un tempo era stato una fontana, una splendente fontana, e la luce del sole si era rifratta mirabilmente su un pavimento lucidato... ma adesso anche il ricordo di quel piacere era un enigma. «Questa società ovviamente ti ha maltrattato... non entreremo in alcun
particolare,» stava dicendo Mort, bruscamente, un po' intimorito dall'espressione di Jules, «ma gli altri di noi... gli altri di noi sono stati, francamente, figli benedetti della luce del sole...» «Che fesserie! Parla per te!» disse qualcuno. Il ricordo del piacere non giovava a nulla! I ricordi del corpo erano inutili, non essendo albergati in nessun posto, nemmeno nella carne. Le fotografie delle parti del corpo di Jules, messe insieme, avrebbero formato un corpo, ma non Jules. Meglio starsene seduto in un bar buio, maleodorante, e fingere di ascoltare quella gente. Individui sciatti, zelanti. Le parole li animavano. La carne tendeva a staccarsi dai loro pomi d'Adamo, dai pomi d'Adamo di quegli uomini incalzanti. Le parole sembravano stuzzicarli, indurli ad alzarsi dai loro posti, preparandoli alla lotta. «Dico sul serio a questo proposito! Sono serio!» esclamò Mort, la barba nerissima contro la faccia pallida. «Sono stufo di essere pugnalato alla schiena, e parlo sul serio, se non è così possa Dio fulminarmi!» «Merda, a te piace soltanto parlare, a tutti noi piace parlare» disse un uomo. Jules lo aveva già conosciuto... era un professore di qualcosa, forse di inglese. Scuro di pelle, ebreo e irritabile, vestito come un bambino, con una maglietta sudicia accollata e un paio di blue-jeans, aveva una faccia prematuramente invecchiata, rugosa, amareggiata. «Ti sei venduto, Mort, e così cerchi di mascherarlo con le parole! Chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere! Tutta merda!» «Non è colpa di Mort se tu sei stato licenziato» disse la donna. «Nessuno ha colpa se sono stato licenziato, sono un uomo libero e voglio restar libero dall'influenza di chicchessia, grazie, ma potrebbe benissimo essere la colpa di qualcun altro se lui non è stato licenziato, se ha studiato così bene le sue azioni che non esiste nemmeno una sua fotografia negli archivi dell'università... che mi dite del libero arbitrio in tale direzione, che me ne dite?» «... e io non approvo» continuò la donna energicamente «il fatto che tu dessi il voto massimo a tutti gli allievi dei tuoi corsi... sarebbe potuto benissimo essere un atteggiamento di principio, per distruggere il sistema delle votazioni...» «Naturale!» «Ma avresti anche potuto farlo per motivi più personali.» «Come per esempio?» «Come il tuo attaccamento a... be'...» «L'attaccamento ai tuoi ragazzi!» disse Mort. «Tutti quei ragazzi che ri-
cevi in casa tua!» La scura luminosità di un sorriso apparve sulla faccia dell'uomo, e poi scomparve. «State dicendo merdate» esclamò gelido. «Non approfondiremo i tuoi moventi. All'inferno la vita privata» disse Mort. «E quindi, per piacere, evita di aprire e chiudere quella boccaccia sul mio conto, e sugli altri di noi, che abbiamo o meno il posto... ancora non mi hanno firmato un contratto, e potrei perdere tutto, come tu sai benissimo. Se buttassero fuori a calci anche me? Lo sai bene che impedimento sarebbe. Dobbiamo restare, conservare i posti di potere, non rinunciare. E non impiccarmi con la tua idea dell'onore, tipica della classe media, per piacere; amico mio, l'onore non possiamo permettercelo. Sì, mi dispiace che tu sia stato licenziato, e noi tutti abbiamo fatto il possibile, ma ti avevano fregato, e fregato ben bene, non c'era niente da fare. L'onore è troppo astratto! All'inferno l'onore, all'inferno le chiacchiere... sono stufo quanto te delle chiacchiere. Quel che dobbiamo fare è entrare in questa comunità... voglio dire penetrarla davvero. Dobbiamo arrivare dove la gente vive, dove sta cercando di vivere, in tutta questa merda! Dobbiamo imparare il modo di odiare, di odiare con energia, e non il modo di parlare; il modo di prepararci alla rivoluzione nelle nostre viscere, non nella testa...» «Prendendo soldi dal governo per il tramite dell'AUCP» disse un altro degli uomini, ridacchiando. «Potresti averlo tu, quel posto?» gridò Mort. «Riusciresti a essere dichiarato idoneo?» «Sei fiero di essere stato dichiarato idoneo dalla CIA?» «Sì, sono fiero, sono fiero di essere stato dichiarato idoneo dalla CIA, perché significa che non mi sono abbandonato all'impulso, all'emotività, perché io rimarrò in un posto di potere, dove potrò essere qualcosa, mentre tu rimarrai fuori, a piagnucolare e a lagnarti...» «Basta, per piacere. Per piacere» disse la donna, tenendosi la testa. «Dove sarebbe la comunità senza quel denaro? Dove?» gridò Mort. Batté il pugno sul tavolo. «Il denaro è denaro! Un giuramento di fedeltà è il mezzo per arrivare al denaro, alle munizioni, alle armi e ai volantini... non guardarmi con quei tuoi occhi risentiti da borghese, con il tuo senso dell'onore da Boy Scout tradito, perché io non ho consentito a me stesso di finire nella miseria più nera come te...» «Davvero, dico sul serio. Finitela, per favore» disse la donna, irosamente.
«Molti di noi hanno accettato impieghi nel programma contro la povertà... perché no? Io sono laureato in sociologia. Ho tutti i numeri per vendere il mio cervello, maledizione, e per escogitare il modo di bruciare tutto quanto... quanto denaro credi che ci abbiano promesso? Eh? Il denaro di cui dispongo mi è stato dato abbastanza liberamente, questo dovresti saperlo... quindi finiscila di prendertela con me!» Tacquero per qualche momento. Poi qualcuno domandò: «Perché tutto procede così lentamente?». «Be', la popolazione negra ha aspettato per più di cent'anni, pazientemente, da brava gente... o sono trecento anni?» «Siamo tutti bravi ad aspettare. Troppo bravi.» «Seguito a vedere il personaggio di un racconto, credo che sia un racconto di Poe... a un tale capita qualcosa di tremendo, un'esperienza grottesca, se non sbaglio cade in un gorgo, o qualcosa di simile, e al centro del gorgo vede una grande figura bianca, un essere gigantesco, tutto bianco...» «E con ciò?» «In questo modo noi dobbiamo vedere i negri, in questo modo. Tutti nebbia.» «Ma questo è misticismo, i negri non vogliono cadere in una simile trappola; ciò che noi chiamiamo bianco è soltanto l'ego, l'ego schifoso, egocentrico, e dobbiamo liberarcene... tanto i bianchi quanto i negri. Potere Nero è soltanto altro potere, noi non vogliamo il potere, siamo stufi del potere e del popolo, del popolo e del potere, come se l'anima umana non potesse agire senza di esso...» «L'anima può, forse, ma il corpo no!» «Mort, il guaio con te è che tu non ascolti! Non possiedi affatto il senso delle allusioni, delle sfumature. Quella laurea in sociologia ti è costata l'anima...» «Al diavolo! Al diavolo la nebbia e il paradiso e noi tutti proni a terra insieme, al diavolo!» gridò Mort. «Quando gli sbirri verranno a cercarti, dillo a loro, non a me! Io non voglio nebbia e non voglio balle sull'onore! Voglio azione, voglio denaro e armi, voglio un'organizzazione nella quale la gente si presenti puntuale e abbia il senso della responsabilità e non pensi eternamente al suo dannato, spregevole ego, al suo ego, al suo ego!» Jules notò una ragazza che si avvicinava. Non appena la vide, qualcosa in lui parve muoversi, salire e tramutarsi quasi in un gemito, ma poi constatò che non era quella che credeva, che non la conosceva... una ragazza sui vent'anni, vestita nel modo trasandato e familiare del quartiere, con un
abitino informe e le gambe nude e i sandali. Ma, come gli altri studenti che recitavano la parte della povertà, aveva bei denti sani; l'essere poveri si fermava ai denti. Mort balzò in piedi. «Vera, vieni qui! Mia colomba!» Le afferrò la mano e goffamente la presentò a tutti. «Vera è la mia migliore allieva, la mia allieva più promettente... siedi, cara... cara, permetti che ti offra qualcosa! Ti sei trasferita qui, adesso? Dove alloggi?» «No, sto ancora a casa mia.» «Dove?» «Sulla West Side, verso Six Mile. Sono ospite qui di una mia amica, per il weekend.» «Lo sai che i disordini sono previsti per questo weekend?» «L'ho saputo! Ero così eccitata che sono venuta subito a cercarti!» Sedette, sfrontata, di fronte a Jules. Aveva una faccia graziosa, dall'aria umida, piuttosto fanciullesca e audace. I capelli le spiovevano sulla faccia. Sorrise un ampio sorriso a tutti, sentendosi al contempo gradita e sgradita, compiaciuta di se stessa. «Sicché, che cosa farete? Quali sono i vostri piani?» domandò. «Non abbiamo ancora studiato i piani» disse Mort. «Sarà un segreto?» «Tesoro, non per te... tu sei dei nostri.» Mort si stropicciò le mani, in preda all'entusiasmo. Era più basso di statura di Jules, con una faccia solida e tonda, labbra indaffarate, e un'aria di robusto nervosismo che inteneriva. Jules socchiuse gli occhi, e Mort divenne una chiazza offuscata che parlava all'aria. Accanto a lui, la ragazza dai lunghi capelli spioventi divenne una chiazza offuscata, in ascolto. Jules cercò di concentrarsi su di lei. Attraverso le voci che lo assediavano riusciva a udire di quando in quando la sua voce, una voce rauca, timida... sembrava qualcuno a una festa in costume, mascherato, imbarazzato e compiaciuto al contempo del proprio mascheramento... ma che cosa gliene importava? Mentre qualcosa dentro di lui si stava indebolendo, sedette lievemente proteso in avanti, sforzandosi di interessarsi alla ragazza. La lussuria era in lui delicata, delicata come le ali di una farfalla. Gli occorreva aria, la luce del sole, un vento gentile; non poteva emergere attraverso la crosta dell'aria comune. Sentiva la ragazza come un oggetto. Esile, soffice. Un oggetto delicato, dal peso delicato. La voce di quell'oggetto era bassa. La pelle di quell'oggetto era umida. I capelli di Jules erano diventati lunghi e folti, ed egli riu-
scì a immaginare le dita di quella mano infantile accarezzargli i capelli, come altre dita glieli avevano accarezzati, a volte oziosamente, a volte nella passione... Qualcuno le porse un bicchiere di birra; le dita si chiusero intorno a esso. Jules aprì gli occhi e le guardò. «Sì, credo che la cosa lo attirerà qui. Credo che farà un viaggio apposta, molto sorvegliato, su un aereo speciale, sì, ne sono convinto, ho motivi ben precisi per crederlo!» disse Mort, respirando affannosamente. «Il Presidente in persona, quello schifoso, fottuto figlio di puttana, quel bastardo fascista, e sarei disposto... dico sul serio... sarei disposto a dare la vita contro la sua, proprio così, se soltanto non fosse uno sperpero, se riuscissi a sopportare di non vedere da che parte andrà la storia...» «Una pallottola. Una sola pallottola» disse qualcuno, fiocamente. «Una dannata pallottola!» «Non possono sorvegliarli in modo così massiccio. Non continuamente. Ma se non venisse?» «Non credo che il bastardo verrà.» «Johnson? Non verrà! Per nessun disordine, nemmeno per una guerra!» «Ho motivo di ritenere che verrà... per i voti! Politica! Vorrà far passare per un somaro il governatore!» «Come potrebbe far sembrare Romney peggio di quello che è?» «Ma chi gli sparerà?» «Credi di essere un buon tiratore, come Oswald? Credi di potercela fare, un colpo in pieno, e senza farti prendere?» «Forse non io, forse non io,» disse Mort, con una voce furente, bassa, «ma può darsi che certi miei giovani amici ne siano capaci.» «E li sacrificheresti?» «Perché no?» «Senti, potremmo preparare altri piani, cinque o sei piani. Potremmo tener pronti un mucchio di edifici, gente sui tetti, agli ultimi piani, tutti pronti con fucili. Ascolta, posso procurarmi fucili in qualsiasi momento» disse l'altro uomo, infervorandosi. «Non sto scherzando, ho contatti in confronto ai quali i tuoi sono merda... e questo non significa che sia in grado di maneggiare un fucile io stesso, ma potrei imparare, e alcuni di quei fucili hanno mirini telescopici notturni, un mirino telescopico che funziona anche al buio.» «Gesù, hanno cose di questo genere? È mai possibile?» «Credo che sia possibile.» «No, davvero, è possibile?»
«Non lo è?...» «Potrei maneggiarlo io stessa un fucile! Voglio farlo!» gridò la ragazza. In preda all'entusiasmo, per poco non rovesciò il bicchiere di birra. Jules lo afferrò. «Non mi importa di quello che potrà accadermi... sono stufa di vivere a casa mia! Sentite, sarei disposta a bruciarmi viva davanti a quel bastardo, come una monaca vietnamita, oppure sarei disposta ad annaffiarlo di benzina io stessa e a dargli fuoco... lo si vedrebbe alla televisione, e su tutti i giornali!» «Ma se lo uccidessimo... supponendo che si possa farlo... se lo uccidessimo,» disse l'altra donna, acidamente, «come potremo mettere a fuoco le nostre intenzioni? Pensate a Oswald... in realtà non ha ottenuto un bel niente! Non aveva niente da dire! Ha fatto fuori Kennedy - e, a proposito, Kennedy meritava di essere ammazzato, ma molto prima - lo ha fatto fuori e il suo gesto è stato circondato soltanto da un vuoto, uno dei gesti più eroici del ventesimo secolo, ma non aveva niente da dire! Uno sperpero! Niente da dire!» «Sarebbe per il Vietnam o per la rivoluzione nera?» «Il Vietnam è più importante.» «Come potremmo fargli sapere perché starebbe morendo? Non sarebbe meglio dirglielo, spiegarlo?» «Potremmo scrivere una lettera a... al giornale, dopo» disse Mort. «Potremmo spedire la lettera dopo l'assassinio, così tutti saprebbero che sarebbe giustificata, una lettera giustificata... e... e dire che si è trattato di una protesta formale contro la situazione nel Vietnam.» «Al diavolo il Vietnam, e quello che succede qui? A Detroit, dico! Proprio qui, a Detroit, in questo immondezzaio, il cui fetore si alza fino al cielo, e se facessimo saltare in aria Detroit? Credete che ammazzare un figlio di puttana sia come incendiare una grande città? Lui verrebbe semplicemente sostituito da Humphrey... guardatelo! quell'imbecille! Allora dovreste ammazzare anche Humphrey, e chi rimarrebbe? Gesù, nemmeno lo so... Everett Dirksen? E poi?» «Non credo che sarebbe necessariamente Everett Dirksen...» «Mi piacerebbe far fuori lui.» «Mi piacerebbe far fuori uno qualsiasi di loro! Sarebbe così facile, una volta che la cosa fosse stata preparata. Io mi domando perché non ci provi un maggior numero di persone! Lo sapevate che l'assassinio come metodo politico era onorato nel Medio Oriente, ai tempi biblici? Sì! Un monarca governava per tutta la vita e il solo modo per sbarazzarsi di lui consisteva
nel farlo fuori. Così venivano tutti ammazzati.» «E poi chi li sostituiva?» «Qualcun altro.» «Ma noi non vogliamo ammazzare troppa gente» disse Mort, sudando, e tuttavia molto soddisfatto. «Sentite, non vorrete che questa faccenda diventi banale! Io ho in orrore la banalità... è il mio temperamento drammatico... dobbiamo mantenere la morte sacra, davvero terribile! Allora se Johnson verrà fatto fuori, questo significherà qualcosa!» «Come può essere sacra la morte? E poi accusi gli altri di appartenere alla classe media!» disse la donna, irosamente. «Non li hai letti i giornali? Laggiù stanno morendo migliaia di persone, migliaia di persone! Bombe, napalm, benzina in fiamme... benzina fiammeggiante, scorre come un fiume... e se i contadini si riparano in un fossato, scorre nel fossato come acqua, come acqua in fiamme, e li brucia vivi! Come puoi dire che la morte è sacra? La morte di un bastardo come Johnson sacra? Dovrebbe essere messo in un tritacarne e dato in pasto ai cani! Dovrebbe essere seminato sottoterra con un aratro e adoperato come fertilizzante!» «Non parlare così forte, per piacere...» «Me ne frego di chi mi sente!» «Ma se qualcuno sta ascoltando...» «Chi vuoi che ascolti, ci siamo soltanto noi, qui!» «Torniamo al problema iniziale. Non ci eccitiamo. Il problema è l'assassinio... Si tratta di un metodo politico rispettabile o no? Lo è?» «Sì.» «Sì, come distruggere tutto con le fiamme.» «Non voglio che i miei libri vengano bruciati!» «Io me ne infischio se i miei libri bruceranno. Ci rinuncerò!» «Ma se Johnson non venisse, che cosa faremmo, allora?» «Allora toccherebbe a Romney. Ammazzeremo il governatore dello Stato.» «Ma questo non farebbe di lui un martire?» «E con ciò?» «Di che cosa sarebbe il martire?» «Non credo che Romney sia abbastanza importante per farlo fuori. State a sentire. Be', sì, vale la pena di ammazzarlo, parlando in termini politici generali... come un modo per abbattere la struttura esistente... e sebbene mi sia odioso, credo...» «A dire il vero, preferirei far fuori Gavanaugh.»
«Perché?» «Perché è più avvicinabile, è il sindaco.» «Ma lavori per lui!» «Prendo i suoi soldi, in realtà lo disprezzo. Ha alcune idee buone, ma non agisce abbastanza rapidamente. Nessuno di loro agisce abbastanza in fretta per tenere il passo della storia...» «È diventato troppo grasso. È un brutto simbolo.» «Be', possiamo sempre far fuori lui. Sarà in città per qualche tempo.» «Ma se Johnson non venisse - e dubito che quel bastardo sia così stupido da venire qui, dopo i disordini, sia pure per i voti - non credo che dovremmo prendercela con Romney, questo significherebbe soltanto far cosa grata ai repubblicani. Secondo me dovremmo far fuori un personaggio significativo come Keast...» Risero tutti. «Keast! Far fuori Keast! Come, nessuno ne ha mai sentito parlare! Chi se ne frega del rettore dell'università del Wayne? Dio mio!» «Ha più importanza di quanto la gente sappia... è un simbolo. E la rivoluzione nera e la rivoluzione giovanile dovrebbero convergere sull'università, dovrebbero trovarsi insieme nell'università. L'università sarà il campo di battaglia, non i quartieri poveri...» «E secondo te un'università è tanto importante? Conta più un rettore che un senatore?» «Quale senatore?» «Dopo i disordini verranno tutti e due, tutti entreranno in scena, senza, dubbio Hart si farà vedere...» «È un brav'uomo.» «Merda! Non ci sono bravi uomini nel governo. Dobbiamo distruggerlo tutto.» «Credi che Hart sia abbastanza importante sul piano nazionale?» «Chi ha mai sentito parlare di lui fuori del Michigan?» «E se facessimo fuori un leader negro, se eliminassimo King?» «Sì, potrebbe farsi vivo se i disordini fossero gravi.» «Se sparassimo a King...» «King è un bastardo insignificante, ha tradito ogni negro del paese, merita di essere ammazzato» disse Mort, irosamente. «In realtà i ragazzi della comunità... i Canfield Babes con i quali lavoravamo, quella gang... sarebbero tutti felici di starci se si tratta di sparare a King. Se ne fregano di Johnson, e nemmeno sanno chi sia...»
«Che c'entra questo con il Vietnam? King è contro il Vietnam.» «Potremmo modificare il messaggio, dal Vietnam al problema razziale, semplicemente, o all'eliminazione dei capi esistenti...» «Perché proprio Martin Luther King?» «Perché siete contrari? Non è importante quanto Johnson? Soltanto perché è nero non è importante? Sarebbe molto drammatico ucciderlo, e sarebbe la destra a essere incolpata.» «Allora non manovriamo più l'assassinio! Non gli diamo alcun significato!» «Sì, lo manovriamo, ma molto abilmente.» «Il messaggio andrà perduto!» «Non andrà perduto! Continueremo a manovrare la cosa, scriveremo una lettera!» «Incolpando la destra? O la National Rifle Association?» «Ma sarebbe più logico uccidere Stokely Carmichael, se voleste incolpare l'altra parte» disse qualcuno, spazientito. «Gesù, noi non riusciamo a capire di che cosa stiate parlando! Tutti sanno che King lavora per la destra, perché diavolo dovrebbero sparargli proprio loro? Parole, parole, parole. L'uomo è Carmichael... è un santo... non avrà paura di mostrarsi qui, e la sua morte varrebbe qualcosa!» «Scusatemi, passare da Johnson a Carmichael... voglio dire, non siamo discesi un po' in basso? Non moralmente, dico, ma sul piano della pubblicità? Francamente, nessuno si infischierà di Carmichael, tranne le persone che sono già disposte a bruciare questo paese.» «Che cosa c'è di male in questo?» «I titoli faranno l'effetto contrario, no? O forse sarà meglio? L'assassinio dimostrerebbe alle altre nazioni quanto è razzista l'America, come quando la CIA uccise Malcolm X.» «Le altre nazioni lo sanno già e se ne fottono! Perché dovrebbero curarsene? Vengono pagate!» «Ho un'idea. Potremmo farli fuori tutti, tutti quelli che abbiamo nominato! Potremmo ammazzare tutti i bastardi che verranno a Detroit a fare discorsi! Perché no? Imparerebbero a rispettare i disordini, a stare alla larga dalle zone dei disordini...» «Quanto a effetto drammatico...» «No, non avrebbe nessun effetto drammatico, avrebbe l'effetto opposto! Vi manca completamente il senso dell'equilibrio! Supponiamo che Robert Kennedy venga qui e che noi gli spariamo, e anche agli altri... di chi crede-
te che si occuperebbero i titoli dei giornali? Di lui e di Johnson! Gli altri rimarrebbero confinati nelle pagine interne. Sarebbe soltanto uno sperpero! State dicendo fesserie. Vorrei che voialtri aveste un lieve senso del teatro, della storia!» «Questo mi tormenta!» disse Mort. «Il modo come rigirate le cose! Io ci metto i soldi, ho il know-how, dispongo dei ragazzi ansiosi di premere qualche grilletto, ma voi non mi consentite di organizzare un bel niente! Vi mettete contro di me, ve la prendete sempre con me!» «Nessuno se la sta prendendo con te, Mort» disse la donna. «Gesù, questo mi deprime. A volte mi sento su, a volte giù; ora mi libro, ora piombo in basso; il povero Mort è piombato fino al fondo stesso del mare. Sono smarrito in un miserabile canale gelato, vicino al Polo Nord. Le stelle sono molto piccole. Come posso ritrovare la strada verso terra? Jules, sei stato ad ascoltarle tutte queste balle?» Jules aveva appena notato il Bhagaval Gita, in edizione economica, sotto il gomito irrequieto di qualcuno. «Qual è il tuo parere, Jules?» «Non ne ho alcuno.» «Chi faresti fuori, Jules? Se avessi il dito sul grilletto, chi faresti fuori?» «Nessuno.» «Perché nessuno?» «Perché? Perché uccidere qualcuno? La gente muore in ogni caso, prima o poi» disse Jules. Guardò la copertina colorata del libro, ricordando qualcosa di urgente al riguardo... doveva averlo voluto leggere, a un certo momento. «Non cambierebbe niente.» «Non cambierebbe niente! Cosa? Tutto può cambiare!» esclamò Mort. «Tutto può essere cambiato con le persone adatte al comando! Dovresti conoscere i ragazzi della mia gang... stiamo cercando di trovar loro un lavoro... ragazzi che hanno lavorato tutta la vita piazzando i numeri della lotteria e facendo i mezzani, facendo i mezzani all'età di dieci anni, e spacciando droga... cerchiamo di trovargli un lavoro! Ce n'è uno la cui vita è stata tremenda, qualcuno della sua famiglia gli diede da mangiare vetro macinato quando aveva quattro anni, ed è cresciuto, ora ne ha tredici ed è un piccolo ruffiano di prim'ordine... ha appena comprato una pelliccia a sua madre. Credi che le loro esistenze non dovrebbero essere cambiate? Secondo te tutto dovrebbe continuare come è sempre stato per secoli?» «Sembra un dannato cattolico o qualcosa del genere, questo tuo Jules» disse la donna, scuotendo la testa e guardando Mort. «La futilità della sto-
ria... che castroneria! Gli ingranaggi della storia devono essere lubrificati con il sangue, altrimenti non si muovono. La storia non è una sequenza naturale, è fatta dall'uomo. Siamo noi a crearla. L'uomo fa e disfà ogni cosa. Potrei modificare una piccola parte della storia umana semplicemente lanciando una bomba entro la finestra di qualcuno, credi a me. Secondo Fanon...» La ragazza seduta al tavolo di fronte a Jules ridacchiò a un tratto, coprendosi la faccia. «Di che cosa stai ridendo?» domandò la donna. «Che cosa c'è di tanto buffo?» Lei sbirciò di tra le dita. «Ho paura.» «Oh, Cristo!» Tutti cominciarono a parlare contemporaneamente. Mort picchiò il pugno sul tavolo. Aveva la fronte unta di sudore, e così il naso, mentre muoveva indaffarato e avidamente le labbra... la donna seduta accanto a Jules puzzava molto di sudore, molto femminile nell'eccitazione, rauca e femminile... gli altri si massaggiavano il mento, le labbra, il naso, quasi odiassero le loro facce, nervosi e irritati e impazienti, sconcertati, mentre Jules coglieva lo sguardo della ragazza e si rendeva conto che era molto graziosa e che non c'era alcun futuro sulla sua faccia, niente. Era come la stessa afosa, umida estate quasi non ancor cominciata - si trovavano appena a metà giugno - ma che sembrava si protraesse già da mesi e aveva cancellato ogni ricordo di un clima più fresco. Il pavimento era molto piatto, come il marciapiedi e la strada. L'estate sembrava a Jules piatta, e piatto il suo orizzonte. Si protese adagio e mise la mano su quella di Vera. Gli occhi della ragazza scattarono sulla sua faccia. «Non aver paura, perché hai paura?» le disse lui, sommessamente. Ella tirò via la mano. Mort, che li aveva osservati nervosamente, finse di non aver visto e interruppe il ragionamento di qualcuno con una risata esplosiva, quasi un singulto. «Distruggiamo tutto con le fiamme! Offro per giunta i miei libri... libri del valore di un paio di migliaia di dollari! E la dimora dei miei genitori a Grosse Pointe! Bene, bene! Tutto alle fiamme! Bruciamo tutto, e che al fondo, che la fine, bianca polvere d'ossa proprio al fondo, non sia di Johnson, o di Romney, o di uno qualsiasi di quei bastardi, ma di un individuo comunissimo, un ragazzo negro, vittima e martire dell'intero establishment che chiamiamo civiltà... non è così che stanno le cose? Simbolicamente e letteralmente? L'intero establishment poggiante sulle ossa polverizzate di un ragazzo?»
«Hai rubato tutto questo a Thomas Mann! Da La montagna incantata!» «Non ho mai letto Thomas Mann» disse Mort, offeso. «Dove stai andando?» domandò, mentre la ragazza si alzava. Ella stava uscendo. «Addio» disse. «Dove vai?» Vera lo ignorò con un gesto. Jules si alzò per seguirla. Mort, deluso, rimase seduto, e li seguì con lo sguardo muovendo silenziosamente le labbra. «Ehi, amica,» disse Jules, con una voce cantilenante affrettandosi dietro la ragazza, «perché non sorridi a tuo fratello? Ehi, aspetta.» Ella non si voltò a guardarlo. «Dove stai andando con tanta fretta, tesoro?» Sul marciapiedi, alla luce del sole, la ragazza si fermò a guardarlo. «Ho avuto paura, là dentro, tutto a un tratto. Non so perché.» «Non c'è niente di cui aver paura.» «Le cose che dicevano... mi sono messa a tremare, ecco tutto.» «Dov'è che stai tremando? Ti tremano le ginocchia?» «Sì, le ginocchia. Ho appena diciotto anni. Lui è stato il mio professore di Introduzione alla sociologia, capisci, il signor Piercy... Mort, voglio dire. In un certo qual modo, nell'ultimo semestre, mi innamorai di lui, ma adesso non so, non so che cosa pensare. Ci fece leggere The Wretched of the Earth e quel libro cambiò la mia vita.» «Tremi ancora?» domandò Jules. «Un po'.» «Perché non vieni da questa parte, in questa direzione» disse Jules. La sua voce non era cavernosa, adesso, ma cortese; sembrava cortese. «Cammina in questa direzione» disse, premendole con le nocche la salda colonna della spina dorsale e incitandola a proseguire. Negozi vuoti, vecchi manifesti elettorali, la sua passeggiata quotidiana. La stava facendo all'indietro, adesso. «Parlami di te, cara. Parla.» «Non so che cosa pensare. Sono venuta qui con una valigia e alcune cose, pochi dollari. C'è stato un violento litigio, in casa. Sono stufa di loro, si tratta di casi disperati, e pensavo che forse avrei... be'... avrei abitato qui, definitivamente. Ma non ho denaro. Ti chiami Jules? Ti conosco, ti ho già incontrato. Vai in giro con una donna a nome Marcia? Ha un bimbetto? Chissà perché non riesco a smettere di tremare, mi sento così strana.» «Ti sentirai meglio tra pochi minuti. Il sole ti riscalderà.» Vera rabbrividì. Le battevano i denti.
«Tesoro, perché hai tanta paura? Non avrai paura di me, vero?» «Tu... ti ho osservato continuamente, là dentro. Li sentivo parlare, ma tu stavi guardando me. Dove abita quella donna? È una donna simpatica, la tua amica, vivi con lei? Con lei e il bambino? Vivete insieme?» «Saltuariamente» rispose Jules. «Parlami di te.» Stavano camminando adagio al sole. Jules osservò le loro ombre. Le gambe della ragazza proiettavano ombre lunghe, esili, ombre molto leggiadre. «Non so che cosa dire. Jules, io ti ho già incontrato. Non so perché sto andando da questa parte, dovrei andare nella direzione opposta. Forse dovrei prendere l'autobus fino a Six Mile, o telefonare a mio padre. Ho dovuto interrompere gli studi perché ero confusa... sono stata respinta all'esame di composizione inglese, non riuscivo a coordinare i miei pensieri. Che razza di fortuna dev'essere nascere intelligenti, come Mort, e quella comesi-chiama, e gli altri. Li ammiro tutti quanti, e anche te. Non vi impaurite mai.» «Questo è vero. Non mi impaurisco mai.» Le toccò la spina dorsale, di nuovo, più dolcemente. Le fissò la schiena e vi fece scorrere su le dita. «Che cosa stai facendo?» domandò lei, scostandosi. «Sei così strano, a comportarti così. Non so che cosa pensare. Ti ho incontrato un'altra volta, ma tu non ti ricordavi di me...» «Sto pensando a te adesso. Non so pensare a niente altro.» «Non dovresti toccarmi in questo modo! Che cosa stai facendo?» disse lei, debolmente, scostandosi. La mano di Jules cadde nel vuoto. «Che cosa posso dire di me? Mi ascolti? Voglio sentirmi viva, essere una persona vera, voglio amare... voglio amare in un modo forte, permanente, voglio darmi completamente all'amore, ma deve essere degno di me, e ho paura, ho paura che non riuscirò a capirlo, che non saprò come riconoscerlo... potrei essere rinchiusa in una bara senza mai uscirne. Non conosco le parole giuste. So di essere carina, ma gli uomini come Mort se ne infischiano di questo, vogliono le parole giuste, e io non le ho. Mi sento completamente chiusa in una bara.» «Da questa parte. Volta da questa parte» disse Jules, mentre giungevano a un angolo. «Io non voglio andare da questa parte.» «Sì, da questa parte» disse lui, prendendole il braccio. Ella si incamminò con lui lungo la strada, incespicando un po'. «Non ho più mangiato da ieri sera. Da ieri sera a cena. Sono corsa via di casa sta-
mane senza mangiare. Mi sento così debole...» Alcuni ragazzi negri passarono correndo accanto a loro, e gridarono. La ragazza si gettò contro Jules, in preda al panico. Jules le toccò la nuca e l'accarezzò, sotto i caldi, grevi capelli. «So come la pensa Mort,» disse Vera, scuotendo la testa per liberarsi dalla mano di Jules, «so che cosa vuol dire quando parla di distruggere tutto con le fiamme. Non può esserci alcun'altra soluzione. Un grosso bulldozer per spianare ogni cosa, per spianare tutto, gente, e alberi, e case, e tutto quello che rimarrà dopo l'incendio, mucchi di macerie, nere e bianche. A volte mi drizzo a sedere sul letto, completamente desta, e faccio un sogno, sogno, quando ho preso la droga, un palazzo in fiamme che cade a pezzi, ogni mattone si stacca dagli altri e cade per suo conto giù in istrada, molto più in basso, rotolando e poi sfasciandosi... è tutto così bello... e i pompieri, schiacciati sotto l'incendio... e in ogni stanza gente che si sveglia e cerca di fuggire giù per le scale che avvampano sotto i loro piedi e crollano, e tutto frana, bruciando, anche la gente brucia...» Jules le accarezzava la schiena, conducendola con sé. «Ma io voglio essere tra quella gente? Non lo so che cosa voglio, non riesco a pensare con chiarezza, credo di non sentirmi bene. La mia mente è tutta una confusione. Faccio sogni nei quali vedo sangue e persone sventrate, un ricordo delle lezioni di biologia, alle medie, quando dovemmo dissezionare una rana e io non lo potei sopportare, lo odiai... Dio mio, Jules, per piacere non fare questo!» Lui le passò all'altro fianco, cambiando mano. «Lascia che ti protegga dalla strada, tesoro. C'è troppa gente.» «Sento le automobili, ma non riesco a vederle. Ne sento anche l'odore.» «Ci sono troppe automobili sulla strada.» «Non voglio tornare a casa.» «Parlami di te, di qualsiasi cosa che ti riguardi» disse Jules. Dentro di lui, lontano dentro di lui, qualcosa si stava dissolvendo, qualcosa stava cadendo. Ma non lasciò che cadesse. Disse: «Ti piace dormire? Sogni di notte? Che cosa sogni?». «Un tempo mi piaceva dormire, ma ora il sonno mi fa paura. Potrei sognare qualunque cosa, sono libera di sognare qualunque cosa...» «Non vuoi essere libera?» «Sì, voglio esserlo, non c'è niente che desideri di più, ma... ho paura del genere di sogni che faccio, non riesco a dominarli. Faccio sogni nei quali sono armata con una cinghia, ho con me una cinghia! Perché ho una cin-
ghia? Oh, è tutto così pazzesco!» Le battevano i denti. Scoccò a Jules uno sguardo spaventato in tralice, stranamente civettuolo. «Attraversiamo la strada qui. Aspetta che sia passata quella macchina» disse Jules. Le mise il braccio sulle spalle per guidarla. Ella alzò gli occhi su di lui, fissandolo, poi li distolse con uno sforzo, guardandosi attorno. Inciampò contro la cordonatura del marciapiedi. Confusa, rimase sul marciapiedi, guardandosi attorno. «Dove siamo, qui? A Detroit? È sempre Detroit?» «Sì, cara. Sempre Detroit.» «Partecipi anche tu a quel loro programma... com'è che si chiama... l'azione contro la povertà? Azione Unita Contro la Povertà? Lavori con loro a quel piano, incassando denaro e falsando rapporti, acquistando armi? O sei uno dei poveri?» «Sono uno dei poveri.» «Ma non sei negro. Sei molto povero?» «Non si può essere molto più poveri di così.» «Allora come vivi?» «Mi arrangio.» «Ma, per essere povero, parli come se... come se la cosa non avesse importanza. Credevo che i poveri fossero diversi, credevo che fossero principalmente negri...» Lui le prese la mano come se le sue parole lo avessero incantato, e cercò di portarsela alle labbra, ma la ragazza la tirò via. Poi, confusa e imbarazzata, si protese verso di lui e gli consentì di riprenderle la mano. Jules le mordicchiò con dolcezza le nocche. La ragazza rise. «Smettila. Vattene» disse. «Ma vivo qui, non posso andarmene.» «Qui? Vivi qui? C'è gente che vive qui?» Si guardò attorno, sbarrando gli occhi. «Oh, scusami» soggiunse. «Non so quello che mi dico. Sembra che stiano facendo demolizioni, qui, che demoliscano le case. Ma ce ne sono alcune ancora in piedi, la gente può abitarci. Mi sento strana sin da sabato sera. Non ho potuto mangiare molto...» Per un momento rimase immobile. Poi, a un tratto, si gettò oltre Jules e riattraversò di corsa la strada, nella direzione dalla quale erano venuti. Un negro che stava guidando un autocarro le urlò qualcosa. «Ehi,» gridò Jules «dove stai andando?»
Le corse dietro e la fece deviare, guidandola verso un portone. Vera correva con le mani premute sulla faccia. «Non vorrai essere arrestata dalla polizia, tesoro. Devi essere prudente» disse Jules. Sapeva che doveva parlarle, dirle un certo numero di parole. Una ruota familiare era in moto, una ruota di logica fisica, e lui se ne sentiva trascinato. La ragazza si fece piccola sulla soglia, nascondendo la faccia. Jules l'afferrò per le spalle stando dietro di lei. «Faresti meglio a lasciarmi andare» ella disse. «Voglio telefonare a mio padre.» «Ti troverò un telefono, allora.» Vera si voltò. Cercò di passare accanto a Jules, ma lui la bloccò. «Quella è la direzione sbagliata» disse. «Non ci sono telefoni, là.» Ella cercò di sfuggirgli, ma Jules l'afferrò per i capelli, ne afferrò una manciata e se li avvolse intorno al pugno. La ragazza rimase immobile. Chiuse gli occhi, la faccia corrugata in un'espressione di sofferenza e di concentrazione. Gli prese il pugno e cercò di aprirglielo. Freneticamente tentò di far leva sulle dita. «Chiamerò la polizia» disse. «Tesoro, la polizia farà peggio di così. Ti porteranno nell'autorimessa del comando e, quando avranno finito, tutti si infischieranno di te, anche tuo padre.» «Questo non è vero!» «È tutto vero. Tutto quello che dico è vero.» Lo guardò. Una risata salì in lei, irrefrenabile. Jules sorrise. Sentiva il proprio sorriso come una striscia di magnesio sulla faccia. «Dov'è un telefono? C'è un negozio qui vicino, o qualche altro posto con il telefono?» «Te ne troverò uno io.» «Non lo troverai! Non mi aiuterai!» Riuscì ad allentargli le dita e gli respinse la mano. «Credo di trovarmi qui, smarrita, da molto tempo. Ho la sensazione di essere stata qui, con te, o con qualcuno come te, e con loro.» Guardò in tralice, con odio, la gente nella strada, negri soprattutto, che stavano passando accanto a lei e a Jules senza far loro molto caso. «Non ricordo più il numero di telefono di casa mia. Numeri di ogni genere mi sfrecciano deliberatamente nella testa, per confondermi.» «Se sull'elenco telefonico c'è il nome di tuo padre, potresti cercarlo» disse Jules. «Non ho una monetina da dieci centesimi di dollaro.» A un tratto stanca, con quel singolare sorriso tirato, ella indietreggiò al
di là della soglia. Un'ombra obliqua le cadde sul corpo. Jules la seguì. Le passò il braccio intorno al collo e la baciò. Si schiacciò contro di lei, sentendo la propria agitazione come da lontano, vaga e sorda, nonostante il respiro caldo, spaventato, della ragazza e la sua calda bocca. Le baciò le palpebre. Le accarezzò la nuca, sotto i capelli, e rigirò il bottone più in alto del vestito di lei; si staccò subito e cadde. Tanto lui quanto la ragazza si raddrizzarono con un sussulto, come se qualcuno avesse urlato loro qualcosa. Jules indietreggiò per lasciarla andare. «Posso trovarlo da sola un telefono» ella disse. Tornò a incamminarsi, ma lui le afferrò il braccio per farla voltare nell'altra direzione. Ella cedette. Si diresse in fretta da quella parte e Jules si chinò a raccattare il bottone da pochi soldi che si era staccato dal vestito. La segui, meravigliato dall'energia isterica delle gambe e delle cosce di lei. I capelli le fluttuavano nel vento. Riuscì a immaginarne gli occhi scaltri terrorizzati, la faccia immota. All'angolo successivo la ragazza aspettò, guardando da una parte e dall'altra. Sembrava una puledra spaventata, furtivamente spaventata. Il quartiere era in parte bruciato, in parte demolito. Jules le giunse alle spalle e le accarezzò la testa, come se davvero fosse stata una puledra spaventata. «Ho qualcosa per te» disse. Cercò di ficcare il bottone nell'asola. Lei lo respinse, ridendo. Il bottone passò attraverso l'asola, ricadde e rotolò sul marciapiedi. «Non lo sopporto tutto questo» disse la ragazza. Aveva l'aria di essere sul punto di gettarsi ciecamente in mezzo alla strada, nel traffico. Jules l'allacciò con le braccia. Ella non si mosse. Sul suo capo la luce del sole sembrava nebulosa, come fotografata. In una direzione la strada era chiusa da transenne nere e gialle. Avevano demolito la pavimentazione. Grossi bidoni di rifiuti giacevano rovesciati; vi stavano giocando bambini. Un ragazzo dai lunghi capelli, in motocicletta, si insinuò oltre le transenne, sobbalzando, sul terreno disuguale, allontanandosi. Jules abbracciava la ragazza, standole alle spalle, sentendole battere il cuore e domandandosi perché la cosa non avesse un po' più di importanza per lui. Il cuore le batteva. Era viva. «Se vieni da questa parte, posso trovarti un telefono, tutto quello che vuoi» disse. La condusse lungo la strada verso la casa nella quale abitava. Un vecchio, un bianco, sedeva sul primo gradino, ma non si diede la pena di alzare gli occhi. Jules e la ragazza gli girarono intorno, educatamente. Jules la condusse fino al primo pianerottolo, dove lei si fermò. Incespicò come se fosse debole. Jules le accarezzò la testa e le spalle, abbassando gli
occhi su di lei, accigliato; aspettava che qualcosa gli cominciasse dentro. Un secondo ancora, e la cosa sarebbe cominciata. Gli tornò alla mente la visione della strada sconvolta, nebulosa di luce solare, sbarre e transenne a righe nere e gialle e una grande segnalazione a forma di esagono che diceva STRADA CHIUSA. Afferrò con i denti l'orecchio della ragazza. Fece scorrere la lingua intorno alle circonvoluzioni di quell'orecchio, domandandosi se la forma e il sapore gli sembrassero familiari. «Non lo sopporto, per piacere...» bisbigliò la ragazza. Si appoggiava all'indietro, contro la ringhiera, e si voltò goffamente verso di lui. Jules l'abbracciò senza stringere. Si sorrisero a vicenda. «Da che parte eri diretta, qui? Quando ti ho incontrata?» disse Jules. «Stavi salendo o scendendo?» L'aiutò a salire sul gradino successivo. Con la mano sul suo gomito salì insieme a lei fino al terzo piano, poi la guidò con dolcezza verso destra. «Che cos'è questo posto? Dove mi trovo?» domandò la ragazza. Con un buffetto gettò in fuori le punte dei capelli, proiettando in fuori, al contempo, le punte delle dita. Egli vide che non aveva una borsetta. Il vestito, dietro, era molto spiegazzato. I muscoli delle gambe risaltavano bianchi e pericolosi e, dietro le ginocchia, minuscole vene azzurre divenivano più nette, e poi indistinte, mentre camminava. Avrebbe voluto chinarsi per baciarla dietro le ginocchia. «Potrei andarmene adesso» disse Vera. «Arriverei a casa in tempo per la cena.» Jules spalancò la porta della sua stanza. Non era chiusa a chiave. La stanza aveva una sola finestra, senza tenda. Gli occhi di Jules furono attratti da una piccola sagoma scura sulla sponda del letto disfatto - forse uno scarafaggio? - e l'istinto lo indusse a far voltare la ragazza in modo che non vedesse, mentre, curvandosi rapidamente, come per un burlesco inchino, gettava la cosa sul pavimento. Uno scarafaggio morto. La ragazza chiuse gli occhi. Jules l'afferrò. Si inginocchiò davanti a lei e strofinò la faccia contro di lei. A poco a poco fu sopraffatto da una violenza insensata, sognante, che era diventata il suo istinto migliore, l'istinto delle situazioni di emergenza. La visione dei lavori stradali tornò a balenargli ancora e ancora nel cervello. Vide quasi perfettamente il motociclista sobbalzare sul cemento rotto, riaggiustare la presa sul manubrio, per passare al margine della strada; si pentì di non averlo osservato meglio, prima... La ragazza cominciò a respingerlo, ma non con energia, le dita di lei non coordinate e frenetiche quanto la passione crescente di Jules. Stava
dicendo qualcosa, gli diceva qualcosa di importante. Un ammonimento! Doveva fermarsi! Ma Jules sapeva di non doversi fermare. Non doveva fare niente. La gettò sul letto e giacque con il palmo duro contro la base del cranio di lei, tenendola, sudata e ipnotizzata, e sentì di essere una forza impersonale che la teneva saldamente per la collottola, non particolarmente Jules né nessun altro, quasi nemmeno un uomo, ma la forma di un uomo. Pensò a Mort, a Mort che diceva, Ora mi libro, ora piombo in basso... e l'incalzante fantasiosità di quelle parole fu pari alla sua passione, che lo sorprese con la propria violenza, e un attimo dopo aver finito si sollevò dalla ragazza e si distese accanto a lei. Una pellicola di sudore si era formata sul suo corpo, come un miracolo. La ragazza stava piagnucolando. «Non ci volevo venire qui... Non so che posto sia questo... Non so chi sei tu... Non ti amo... Non so nemmeno chi sei...» Cominciò a singhiozzare. A Jules dolevano gli occhi. Giacque immobile e aspettò che il cuore gli sì calmasse. La ragazza disse: «Se potessi amarti, sarebbe diverso...». «Va tutto bene.» «Ma non so nemmeno dove mi trovo...» Dopo qualche tempo egli si alzò cercando le sigarette. Gli erano cadute di tasca e si trovavano sul pavimento, tra le pieghe di un lenzuolo. Disse: «Un tempo credevo che non fosse possibile vivere senza amore, ma è possibile, si continua a vivere. Si continua sempre a vivere». «Si continua cosa?... Come?» «Si continua sempre a vivere.» 6 «Così hai steso quella stupida ragazzetta? Dove la stai nascondendo?» «Non sto nascondendo nessuno.» «È bianca, almeno? È almeno bianca?» «Non toccherei mai una negra» disse Jules. «Bastardo, lo so che non la toccheresti. Lo so.» Jules guardò fuori della finestra. Un'automobile stava passando pigramente nella strada; concentrò l'attenzione su di essa. Chi c'era, sull'automobile? Dove erano diretti? Si trattava di una destinazione che valeva la pena di raggiungere? Quando l'automobile fu scomparsa, l'attenzione di
Jules si fissò su uno spazio neutro, vuoto, innocuo. «Che cosa hai fatto oggi, Jules? Per tutto il pomeriggio?» Jules era affascinato da quello spazio vuoto. «Sei andato a vedere un altro film, o che cosa? Jules?» «Sono andato a vedere un film.» «Quale? Dove?» Lui alzò le spalle. «C'è qualcosa che non va, Jules?» Non disse niente. Il silenzio cominciò a riempirlo, dentro. Voltò le spalle alla finestra. Il caldo, in quell'appartamento, era opprimente; fuori, fumigante, intorno ai trentadue gradi. Avevano superato il mese di giugno e ora si trovavano nel luglio di un'estate interminabile. Jules continuava ad asciugarsi la faccia, ma era inutile, una nuova pellicola di sudore si formava subito; gli pungevano gli occhi. Sedette sulla sponda del letto di Marcia. Nel bagno, Tommy, il bimbetto di lei, di quattro anni, si sporgeva oltre il bordo della vasca, giocando. Jules rimase impotente dinanzi all'immagine di quel bambino che cadeva e si spaccava la testa nella vasca. Vide il sangue. Poi la scena si tramutò nell'immagine di una donna che si adagiava in una vasca bianca splendente, entro acqua caldissima. L'acqua le baluginava intorno al corpo. Il corpo era chiaro e cominciava ad arrossarsi a causa del calore dell'acqua... Jules si sentì sconvolto e la sua immaginazione cedette. Marcia gli stava accarezzando i capelli. «Ti andrebbe qualcosa da mangiare?» «Non particolarmente.» «Sto per preparare a Tommy e a me qualche panino imbottito, soltanto panini imbottiti. Ne vuoi uno?» «No.» «Qualche patatina fritta?» «No.» Marcia tacque per qualche tempo. Il suo silenzio non era tranquillo; Jules sentiva il nervosismo di lei. Poi ella disse, irosamente: «Che cosa fai tutto il giorno? Non voglio credere che tu ti stia sfinendo con quella sgualdrinella... è imbottita di droga, lo dicono tutti. Dove la nascondi? Hai fatto un patto con la polizia? Non che io me ne infischi, ma devo pur guardare in faccia la gente. Mort continua a fermarmi e a domandarmi dove sei». Jules chiuse gli occhi. Sentiva che lei gli stava accarezzando la testa, ma non provava alcun piacere; Marcia continuava, rabbiosamente, come se
avesse avuto paura di fermarsi. Lui si stava logorando, esaurendo. L'aria stessa era deformata; gli oggetti avrebbero potuto fondervisi,. Il suo corpo si sarebbe potuto trasformare in grasso, sciogliersi, mentre la capocchia di spillo di energia al centro stesso del corpo - Jules Wendall - diventava dura e amara e inutile, come un granello di sabbia o di arenaria. «Ci conosciamo da cinque mesi» disse Marcia. «Ti rendi conto che è la metà di luglio? Diggià? Non significa niente per te... questo, me stessa?» Jules si sforzò di connettere le parole di lei. «Non significa niente?» «Sì.» Ella rimase in piedi, per un momento, china su di lui. La udì sospirare. Marcia disse: «Bene, bisogna che prepari qualcosa da mangiare. Vieni in cucina, parla con me». Jules non la seguì. Rimase seduto sulla sponda del letto. Sul davanzale della finestra si trovava una pianticella entro un vaso di ceramica marrone, lucido; le foglie erano un po' avvizzite. La terra nel vaso, disseccata, aveva formato minuscole, vivide sferette dall'aspetto duro. Come ciottoli. Jules andò in bagno, prese la tazza di plastica di Marcia, la riempì a mezzo d'acqua, poi andò a versare l'acqua nel vaso. Marcia si sporse oltre la soglia della cucina, sbirciandolo. «Oh, grazie per aver fatto questo, continuo a dimenticarmene» disse. Jules lasciò la tazza sul davanzale della finestra e tornò a sedersi sul letto. «Jules, ti senti bene? Stai prendendo qualche stupefacente? Dimmelo, ti prego.» Non disse niente. «Stai prendendo qualcosa?» «No.» «Avrei paura per Tommy, se fosse così. Per favore, dimmelo...» «No.» «Cos'è questa storia di una ragazza? C'è una ragazza? Si chiama Vera?» «Potrebbe esserci.» «E che cosa mi dici di lei?» «Niente.» «L'ami?» Jules ebbe una non chiara, improvvisa allucinazione di bestie... bestie trasparenti nello spazio tra se stesso e la soglia della cucina. «Ma che cosa significa per te?» domandò Marcia. «Che cosa significa cosa?»
«Tutto.» «Non lo so.» Gli animali entro le loro forme trasparenti tornarono a sciogliersi nell'aria umida. Jules provò una lieve sensazione di sollievo. «Sono sicura che si metteranno in sciopero» disse Marcia «quei maledetti camionisti, sciopereranno di nuovo, e in questo caso lui mi licenzierà. Lo so. Sarò la prima ad andarmene. In giro a cercar lavoro in piena estate, Gesù Cristo! Vorrei potermene andare da qui!» Jules non disse niente. «Qualunque altro posto sarebbe meglio di questo, qualsiasi cosa. Non so come diavolo sia finita in questa sozza città...» Tommy scivolò sul pavimento bagnato, ma non si fracassò il cranio. Si rimise in piedi. Jules vide che era dolorante e sentì l'impulso di andare a soccorrerlo, ma non si mosse. Il bambino cominciò a strillare. «Oh, Dio!» gridò Marcia. «Che cosa ha combinato, adesso?» Gli corse accanto e si chinò per abbracciarlo. E ora Jules la guardò. Era una donna di ossatura robusta, sui ventotto o ventinove anni, con i capelli biondi tanto chiari da non sembrare veri: erano tagliati corti, così da lasciare scoperti i lobi delle orecchie. Per la strada, camminando, ella aveva un aspetto ciondolante, aperto, sano; in casa, sembrava lievemente tormentata, impaziente. Abbracciò Tommy e fece una smorfia a Jules oltre la spalla del bambino. «Oh, non fai altro che cadere! Stupidino! Non sei uno stupidino? Be', adesso il bibi ti è passato, non ti sei fatto proprio niente. Non un taglio, un graffio, niente! Va bene?» Si rialzò. Tommy si rimise a giocare. «Perché è sempre così caldo? Deve avere la febbre. Non so che diavolo gli dia da mangiare ai bambini, quella donna, all'asilo. Dovrei toglierlo di là, ma se mi licenziano avrò bisogno di lei. Potrò starmene sdraiata qui e rifarmi le unghie. Potrò andare al cinema con te.» Jules notò quanto erano forti le ossa del suo viso, anche in quell'aria calda. Quanto a lui, sentiva di non possedere alcuna forza. Gli sembrava che tutte le energie lo avessero abbandonato, dissipate nell'aria di quella stanza e di altre stanze, andando ad aggiungersi al suo passato. Marcia, più disperata e più scaltra di lui, non aveva perduto un briciolo di energia sebbene il marito l'avesse abbandonata due anni prima, andandosene, dicendo che partiva per il Canada. La cosa sembrava a Jules familiare, ma non avrebbe saputo dire perché. Furlong aveva forse accennato al Canada? Era strano
per Jules che tutto gli sembrasse cosi familiare, come se, nell'andare e venire dalla sua stanza, il mondo intero si riducesse ad alcune scene e ad alcuni suoni già ripetutamente utilizzati. Con Marcia, giacendo a letto insieme a lei, sentiva la propria anima pascolare pigramente tra le lenzuola in disordine e i guanciali, divenuta cieca, anche le sue dita erano cieche al corpo di quella donna, che sarebbe potuta essere una donna qualsiasi. Il desiderio che provava per lei era il desiderio di qualsiasi donna. Vi si smarriva, ma non seriamente. Poteva tornare indietro. Ricordava di aver fatto un gioco con certi ragazzi molti anni prima, egli stesso un ragazzo, guidandoli, con spade di legno, attraverso gli scantinati di un magazzino, e a quei tempi lo Jules che era in lui, lo Jules essenziale, era stato attivo e impaziente, già formato. Ora, a trent'anni, lo stesso Jules giaceva addormentato o morente, svuotato di se stesso. Sarebbe potuto rimanere seduto in eterno sulla sponda di quel letto, che apparteneva a Marcia, Ella gli stava parlando, in quel momento. Tornava a casa dopo aver lavorato tutto il giorno, battendo a macchina moduli di commesse per una società di autotrasporti, battendo a macchina tutto il giorno, prendendo l'autobus per andare avanti e indietro, e adesso si trovava in casa con suo figlio e il suo amante, che era Jules, la faccia lievemente accesa da... da che cosa?... preoccupazione per la caduta del bambino, o amore e ansia per Jules, per la propria "famiglia"? «Be', forse, tutto sommato, sarà meglio se quei bastardi scioperano. Forse potremo andarcene da qui» ella disse. Jules non rispose. Non la guardò. «Potremmo andare, forse, in un'altra città. Jules? Dio mio, che razza di uomo sei... voglio dire, in che razza di stato ti trovi? Non ci sono speranze, con te... te ne stai soltanto seduto là. Devo essere pazza a tentar di ottenere qualcosa da te, qualsiasi cosa.» Si portò entrambe le mani alla fronte, con un gesto spazientito, maschile, massaggiandosi le tempie con il palmo delle mani. Jules pensò quanto era impossibile amarla, amare qualunque donna che si massaggiasse la fronte in quel modo, strofinandone via il sudore. «A che cosa stai pensando, Jules? Perché non mi guardi?» «Devo uscire tra pochi minuti.» Ella parve ferita. Lui distolse lo sguardo. «Uscire per andare dove?» «A parlare con qualcuno.» «Qualcuno, chi? Chi è?»
«Tornerò subito.» «Con chi ti devi incontrare? Devo accompagnarti?» «No, tornerò subito.» Tuttavia non trovò la forza di alzarsi, di scendere, di riaffrontare la strada. L'aria tra lui e la porta era opaca e pericolosa, come se fosse stata gremita di forme invisibili. «Non so perché me la prendo sempre con te» disse Marcia; «ti amo, non ho l'intenzione di rimproverarti...» Stava ascoltando, adesso, la sua voce monotona e ansiosa, la seconda e la meno attraente delle sue voci. «Non importa» disse Jules. «Continuo soltanto a pensare che se tu trovassi un lavoro altrove potrei trovarne uno anch'io, e forse riusciremmo ad andarcene. Sento dire dappertutto che ci saranno disordini, ogni settimana stanno per scoppiare disordini. Mort e quei suoi stupidi amici, quei bastardi blateranti, credono che sarà un carnevale. L'ho incontrato mentre tornavo a casa e quasi non sono riuscita a staccarmelo di dosso; credo che stia impazzendo con tutte queste storie. Lui e quegli imbecilli saranno qualcosa di simile a generali, dirigeranno tutto... incendi e bombardamenti... si propongono di far saltare il ponte e la galleria e l'incrocio della strada a scorrimento rapido, e lui ha detto qualcosa anche a proposito dell'acqua potabile. Gesù, è mal conciato anche lui. Dev'essere quasi sul punto di crollare.» Jules annuì. «Dice che stai lavorando per lui. È vero? A quella faccenda della comunità? Che cosa fai?» «Niente.» «Che cosa dovresti fare?» «Non lo so. Niente.» «Ma sei sul ruolino paga? Per quanto?» «Non molto. Ancora non sono stato pagato.» «Ma quanto, approssimativamente? Poche centinaia di dollari al mese?» «Non ricordo.» Marcia rise. «Cento dollari al mese? Cinquanta? Non dureranno a lungo, lui e i suoi soldi. Oppure uno dei suoi uomini gli farà la pelle. Non lo sanno che i negri schifosi se ne fregano di loro? Non si fidano e non riescono a capire i loro paroloni. Un negro è un negro. Non che ce l'abbia con i negri, ma non sono la stessa cosa dei bianchi e non vogliono essere la stessa cosa dei bianchi. Mort è sempre così nervoso, ridacchiante. Un tempo non era ridotto così.»
Jules si alzò. «Tornerò tra pochi minuti.» Tommy uscì di corsa dal bagno. «Vengo anch'io» disse. «No, tesoro. Rimarrà fuori soltanto per pochi minuti. Sta' buono. Adesso preparo la cena.» «Non la voglio la cena.» Tommy aveva i capelli biondi e ricciuti; gli occhi erano azzurri. Dopo tante ore trascorse nell'uno o nell'altro asilo infantile, aveva preso l'abitudine di stare rannicchiato su se stesso, come se si aspettasse di essere picchiato o rimproverato. A Jules non veniva mai in mente niente da dirgli, sebbene il bambino gli piacesse. Ma forse non sapeva affatto come voler bene ai bambini... la sua immaginazione si spegneva per quanto li riguardava. Marcia lo seguì fuori nel corridoio. «Sei arrabbiato con me?» «No.» «Non vuoi niente da mangiare?» «No.» «Perché non mi guardi? Perché non possiamo parlare? Non pretendo poi molto da te. Mi piacerebbe che di tanto in tanto parlassimo insieme, ecco tutto. Voglio solo qualcuno con cui parlare, qualcuno, intelligente o no... ma non pazzo, sai. Jules, perché non sta funzionando?» «Sta funzionando benissimo.» «Non pensi all'anno prossimo?» «Che cosa dovrei pensare dell'anno prossimo?» «Mi riferisco all'avvenire. Voglio dire andarcene di qui, trovare un lavoro altrove, sposarci.» «No, non ci penso.» Mentre camminava lungo l'isolato, si imbatté in un gruppetto di negri sul marciapiedi. Parecchi di quegli uomini portavano fazzoletti avvolti intorno alla testa. Un negro in abiti da lavoro, molto ubriaco, veniva arrestato da un poliziotto di colore. C'era un'atmosfera festosa, di mormorante, ilare silenzio. Il negro ubriaco barcollava da una parte e dall'altra e il poliziotto stava cercando di tenerlo diritto. A un tratto si udirono urli, lamenti, uno scalpiccio di passi. Jules girò intorno al gruppo, educatamente. Il negro ubriaco stava tentando di opporre resistenza al poliziotto, che somigliava a lui... era sorprendente quanto si somigliavano, entrambi sulla trentina, con la faccia nerissima e gli occhi cattivi. Il poliziotto scaraventò il suo uomo contro il muro di un edificio e la testa dell'ubriaco ciondolò stupidamente; il poliziotto impugnò il man-
ganello e cominciò a colpirlo. Un colpo, un altro colpo! Jules proseguì. Voleva frapporre distanza tra loro e se stesso. Vi era stata una rissa al pianterreno nella casa dove abitava lui, qualche tempo prima, e per curiosità Jules era andato a dare un'occhiata, una volta calmatesi le acque. Qualche macchia di sangue sul pavimento. Gli era stato detto da un tale che il padrone di casa aveva percosso qualcuno con una mazza da pallabase. Il padrone di casa non era in realtà un padrone di casa, ma l'amministratore, un negro robusto, dalla pelle chiara, che portava sempre il cappello; si diceva che il padrone di casa fosse un altro negro, il quale abitava a Palmer Woods, in una lussuosa dimora. Correvano molte voci. Dietro un negro ce n'era un altro, più fortunato nella vita, e dietro di lui un altro ancor più fortunato: tutti ne erano fieri. Jules non credeva a queste storie, o ne diffidava. I suoi furti erano così insignificanti, così poco immaginosi, che non poteva invidiare, né interessarsi, e non era capace di rallegrarsi, quando gli parlavano delle imprese di ladri favolosi. Tutti si davano da fare e riuscivano ad affermarsi, ma Jules se ne stava seduto da una parte, in preda allo stordimento, felice, infelice, senza aspettare. A riposo. Aveva veduto la fotografia di Faye in un giornale, dopo tanti anni, e non ne era stato turbato. L'aveva avuta come amante per breve tempo. Che cosa significava, essere l'amante di una donna? Che differenza faceva? Ella era adesso la moglie di qualcuno, e certo non pensava mai a Jules, non poteva nemmeno ricordarlo. Lui aveva visto, una volta, sua sorella Betty per la strada, in compagnia di loschi sconosciuti. Betty vestita con un attillatissimo, elegante completo scamosciato, pantaloni e giacca e una sciarpa di seta, con un aspetto al contempo conservatore e bizzarro, il viso bruttino truccato in modo da fargli assumere un'espressione di cruda e sprezzante sicumera... quella bocca crudele era il suo tratto più bello. E Jules, improvvisamente timoroso di lei, le aveva voltato le spalle. Un addio alla fanciullezza. A sua sorella Maureen non pensava più. Aveva sposato qualcuno, finalmente: si era salvata. Né pensava a Loretta, tranne quando qualche donna tarchiata e chiassosa, per la strada, gliela ricordava... e non v'era alcun mistero nel suo oblio, niente. Era come le erbacce che crescono alte anche un metro o un metro e venti nelle crepe dei marciapiedi, sforzandosi di salire sempre più in alto, ma senza alcuna crudeltà né alcuna intenzione, ignare e soddisfatte. O come quelle erbacce nei terreni da costruzione, che crescono tra i rifiuti, schiacciate tra i rifiuti. Sono permanenti, anche se non se ne rendono conto. Dappertutto intorno ad esse vi sono cose o parti di cose che
un tempo furono costruite dall'uomo e ancora portano le tracce della consapevolezza di qualcuno, ma le erbacce sono più definitive, non avendo alcuno scopo. Jules diede un'occhiata in alcuni bar. Al Lucky Horseshoe ebbe fortuna; Vera si affrettò verso di lui. Disse: «Ti aspettavo qui. C'è qualche guaio?». «No. E per te?» «Be', forse. Non lo so. Non riesco a capire.» «Vieni.» Era così seducente e patetica, con quei lunghi capelli che lo tediavano e gli occhi fuligginosi troppo grandi, con quella faccia irrimediabilmente giovane, che egli poté soltanto metterle un braccio sulle spalle. Gli si appoggiò contro con gratitudine. «È proprio un inferno...» Jules non disse nulla. La ricondusse nella sua stanza. Ella non si reggeva bene in piedi, o fingeva di non potersi reggere, e si appoggiava a lui. «Mi sento così a pezzi,» disse «così giù. Ti ho aspettato per ore, e quel locale è schifoso. Non mi sento bene.» «Dove?» «Ho dolori alla testa; al collo.» «Come te la sei cavata?» «Non ti arrabbierai?» «No, tesoro, come te la sei cavata?» «Ho guadagnato qualcosa, ma non mi sentivo bene, e così sono andata da Sheila dove c'erano alcuni giovanotti. Non so di che diavolo stessero parlando, erano tutte fantasie pazzesche, sai. Quella ghenga è proprio matta.» Jules emise un suono per far capire che la stava ascoltando. «C'è quel Benny, è pazzo da legare! È andato alla Wayne, oggi, si è aggirato intorno all'ufficio di un professore e ha rubato una macchina per scrivere elettrica, una di quelle grosse, pesanti, e l'ha portata via come se niente fosse. Ha preso l'ascensore dei professori, per scendere! E l'ha venduta, ci ha fatto cinquanta dollari. È sempre drogato, non si riesce nemmeno a parlargli. È ridotto da far paura. Preferirei morire piuttosto che essere ridotta così, tesoro. Non sono ancora tanto malconcia, vero? Sono carina?» «Sì.» «Non ti arrabbierai con me, allora? Perché, davvero, non mi sentivo bene, e siccome Sheila aveva qualche provvista, mi son detta che avrei anche potuto mangiare da lei.» Nella stanza di Jules si distese sul letto e si coprì il viso con le braccia.
«Mi duole la testa. Ho la nuca irrigidita. Credi che potrebbe venirmi la polio?» domandò. «Dove sono i soldi?» disse Jules. «Qui dentro.» Si drizzò a sedere. Tolse un borsellino dalla tasca del vestito e glielo porse. «Credo che ci siano quaranta o cinquanta dollari. Per piacere, non arrabbiarti con me...» Jules contò sessantacinque dollari, sessantasei... Ne prese cinquanta e le restituì il borsellino. «Tesoro, non sei arrabbiato?» domandò lei. «No, non sono arrabbiato.» «Mi avevi detto di procurartene cento...» Lo guardò con gli occhi ansiosi cerchiati di nero. Jules sedette sull'orlo del davanzale della finestra e si sforzò di sorriderle. «Sicché non ce l'hai con me, in fin dei conti.» «No, mai.» Aveva il ricordo vago di aver percosso quella ragazza con una gruccia per abiti. Era stato attento a percuoterla soltanto sulla schiena. Questo era accaduto poche settimane prima. La schiena le aveva sanguinato un po' e si era coperta di lividi. Ma non ce l'aveva avuta con lei. Era stato per un'altra ragione, per farle capire qualcosa; eppure, era stato davvero lui, Jules, a picchiare la ragazza? «Posso dirti alcune cose? Vuoi ascoltare?» ella domandò. «No, non particolarmente.» «Una cosa davvero incredibile. Quel tizio voleva...» «No.» Gli sorrise, smarrita. Vide quanto era giovane, e questo non lo commosse, ma lo respinse ancora più indietro, lo portò ancora più in basso. Il suo corpo pesava duecento chili, quattrocento chili. Non sarebbe mai riuscito a muoverlo. Il corpo delicato della ragazza, dimagrito dal mese di giugno, pesava forse quarantatré chili ed era tanto esile che lui stentava quasi a crederlo vero. Era mai possibile che ella sentisse dolore? Che sentisse qualcosa? Gli disse: «Rimani qui, stanotte?». «Non lo so.» «Continui a trovarti con lei?» Non riuscì affatto a trovare un senso nella domanda, sebbene le parole fossero abbastanza chiare. Si sentì diventare molto pesante, molto caldo. La bocca della ragazza sorrideva. Gli occhi peroravano qualcosa di com-
plicato e di fastidioso. Se ricominci con gli isterismi, pensò Jules dovrò gettarti giù dalla finestra. Ma anche in quel caso, non era stata la sua immaginazione ad agire; una settimana prima, in quell'isolato, una prostituta negra era stata gettata giù dalla finestra dal suo mezzano, e l'episodio aveva suggerito l'idea a Jules. Si sentì molto affaticato. «Jules, vuoi venire qui? Vieni qui?» Le si distese accanto, ma non riuscì a chiudere gli occhi. Vera cominciò a baciarlo. Si mise a piangere. «Jules, ti amo» stava dicendo qualcuno. «Jules, ti amo!» Amore, c'era tanto di quell'amore! Sentì le sue braccia intorno a sé, sentì le proprie braccia scivolarle attorno. Fragili costole. Il cuore che batteva. Era ridotta alla demenza da troppo amore, da troppo isterismo. E se Marcia avesse perduto il posto, che cosa sarebbe stato di loro? Sarebbero rimasti senza un soldo, niente; avrebbero potuto tirare avanti tutti quanti, allora, sfruttando Vera, sfruttando la stessa Marcia, perché no? Pensò a Tommy che si faceva piccolo giocando, solo. Tommy strabuzzava sempre gli occhi, come se stesse misurando minacce. Adulti invisibili dovevano perseguitarlo continuamente. Era assennato e agile per la sua età, con aerei capelli biondi e un'espressione paziente, il bambino di un uomo che se n'era andato, un bambino perduto... Jules non poteva aiutarlo e pertanto smise di pensare a lui. Cercò di concentrarsi su Vera. Nel tono esile, seducente dell'amore, ella gli parlava, chiamandolo con un nome irrevocabile, chiamandolo Jules perché non aveva pensato a cambiar nome, una volta dimesso dall'ospedale? - e gemendo: «Jules, soffro, per te, ti amo, e ho bisogno di te dentro di me. Jules, tu solo, per favore, Jules...». Dopo qualche minuto, Jules disse: «Mi dispiace, non posso». Le vene gli ardevano di desiderio, ma non sapeva a che cosa quel desiderio anelasse. A una donna? Non ne era certo, non più. Vera gli singhiozzava tra le braccia. Aveva le ginocchia flesse, come per proteggere se stessa, essendo stata ferita. Il sangue di Jules pulsava, smanioso di una conoscenza, di una qualche intensificazione di se stesso. La notte prima, una donna gli aveva fatto un'iniezione di qualche sostanza, chinandosi amorosamente su di lui e, con maliziosa, crudele passione affondandogli un ago nella vena che passa al centro del braccio, e Jules aveva rasentato l'amore nei suoi confronti a causa del piacere procuratogli dalla puntura, un piacere focalizzatosi in alto nella spina dorsale e irradiatosi poi perifericamente, sopraffacendolo. Ecco com'era stato... ecco che cosa aveva provato! Ma il
ricordo di quell'iniezione lo lasciava alla deriva rispetto a se stesso, stranamente leggero, non impegnato. Vera piangeva. Era una delle sue bestie trasparenti, indifesa. Molto calda. Luccicante di sudore, sotto la vita una bestia indifesa; la compassionò. E anche Marcia si era messa a piangere tra le sue braccia. Aveva svuotato il proprio corpo nei loro corpi e la violenza stessa del suo amore era riuscita a scuoterlo liberandolo dalle due donne. L'ago, nell'affondare, lo aveva scosso fuori di se stesso, ma non era questo, non era questo che voleva. Voleva soltanto se stesso, e niente di falso. Non capiva che cosa volesse. Si avvinghiò a Vera, dimenticandola, e, nella sua afflizione, ella parve dimenticarsi di lui, affondare in se stessa. Perché lui non riusciva ancora a pensare a quell'altra donna che aveva amato per così lungo tempo? Non pensava a Nadine. Intorno a Nadine v'era una bruma mortale, una nebbia che non osava penetrare. Il piacere non possiede la memoria, ma l'amore gli sembrava tutto memoria, una fatalità della mente, peggiore adesso di quando aveva avuto quella donna tra le braccia... e ora giaceva con un'altra donna, entrambi sudati e avviliti. Si sentì a un tratto molto assonnato. I singhiozzi di Vera erano soffocati, ella si stava addormentando. Le volle subito bene per questo, perché si addormentava e lo lasciava. Sicché, hai steso quella stupida ragazzetta?, aveva domandato Marcia, savia e ironica, informata di tutto. Be', sì. Dormì. 7 Jules, che aveva perduto il conto delle notti e dei giorni, si destò a un tratto con il cuore martellante. «Chi è là?» gridò. Per un momento non riuscì a ricordare dove fosse, che ore fossero, né se avesse diciotto anni o trenta. C'era qualcosa di vuoto dentro di lui e fuori di lui... un moto lento. Giacque del tutto immobile, mettendo alla prova se stesso. Vedeva oggetti nella stanza, anche se fiocamente, e pertanto non era cieco. Ci vedeva. I polmoni non gli dolevano molto. Era la pelle a dolergli, come se si fosse ustionato. Si grattò e squame di pelle si staccarono sotto le unghie. Si scrutò: era bruciato dal sole a chiazze. Come poteva essere accaduto? Sonnacchiosamente ricordò un giardino pubblico, un prato d'erba falciata, e ricordò se stesso che vi passeggiava. Un moto lento... si stava muovendo. Doveva essersi addormentato sul prato - in un giardino pubblico della città - e il sole lo aveva scottato. Oppure questo era accaduto anni
prima? Si massaggiò le chiazze dolenti sulla pelle e cercò di capire che cosa fossero, poi se ne dimenticò. Era importante per lui ricordare che cosa fosse accaduto il giorno prima. Aveva lasciato Marcia, ma questo poteva essere stato parecchi giorni prima; non gli giovava ricordarlo adesso. Il viso di lei, iroso, striato di lacrime, i suoi occhi arrossati... aveva un collo muscoloso. Una brava donna. Troppo per lui, era stato costretto a riconoscerlo e a farlo riconoscere a lei, era rimasto sveglio abbastanza a lungo per dirlo. Non sono io quello che fa per te! Non io!, aveva gridato. Un tiro di sbarramento di bottiglie di bibita... lentamente, quasi sognasse, ricordò un tiro di sbarramento di bottiglie di bibita. Era capitato in una rissa tra monellacci? O Marcia gli aveva lanciato contro qualcosa? La fine del mondo sarebbe venuta al rallentatore, spuntando oltre l'orizzonte come una vela. Si sentì sereno nella propria certezza. Anche il dolore nel suo corpo era sereno. Le bottiglie che volavano in aria erano venute dal giardino pubblico: ragazzi che si battevano gli uni contro gli altri. Poi, chissà per quale motivo, si erano scatenati tutti contro Jules. E lui non aveva avuto la forza di fuggire. Era rimasto sdraiato sull'erba tagliata. I ragazzi urlavano gli uni contro gli altri, non ce l'avevano con lui, lanciavano bottiglie, bastoni, sassi, tutti ragazzi negri e non molto grandicelli, che correvano qua e là in preda a una violenza incantata. Soltanto una bottiglia di bibita, una sola, aveva colpito Jules sul lato della testa. Una bottiglia di Coca Cola, di quelle che possono essere rese. Il colpo lo aveva fatto cadere sull'erba falciata, nella calura. «Adesso lo avete ammazzato!» gridava qualcuno. Jules sull'erba falciata, fragrante e selvatica, disteso al sole, senza nessuno che potesse vederlo... Sì, questo era accaduto alcuni giorni prima. Discese dal letto. Si alzò, fletté la schiena. Aveva la spina dorsale irrigidita. La veneziana della finestra era rimasta impigliata in alto, come se fosse scattata all'insù, perfidamente, per suo conto. Era il crepuscolo o l'alba? Si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Soltanto allora udì il suono che lo aveva destato... una sirena. Il suono della sirena sembrava arricciolarsi nell'aria, un ricciolo rosso, un metallico ricciolo rosso, che lo colpiva. Si portò le mani alle orecchie. «Gesù Cristo!» Pensò, chissà per quale motivo, alla sua fanciullezza. Aveva udito troppe sirene. Giù nella strada passò di corsa una macchina dell'Unità Tattica Mobile. Carica di agenti. Jules si sporse dalla finestra, stordito, vuoto, aspettando di essere colmato da notizie. Ma non riponeva fiducia nelle notizie. Appe-
na la sera prima, appena la sera di venerdì, doveva essersi messo a sedere sulla soglia di un portone, in qualche posto, e un uomo gli si era avvicinato lemme lemme per dirgli: «La sua ragazzetta è finita dentro. Le interessa farla uscire?». Jules non aveva veduto Vera per due giorni. Credeva che fosse tornata a casa. Ma in realtà non aveva pensato affatto a lei. Nel suo portafoglio c'erano cinque dollari, cinque dollari rimasti... da qualcosa... un prestito di Mort, o denaro datogli da Vera o da Marcia, non riusciva a ricordare. Sicché, non aveva pensato a Vera. «La sua ragazzetta è finita dentro, ho detto, figliolo» aveva ripetuto il baldanzoso negro, atteggiandosi a suo amico. «Non c'è nessuno che la tenga informata? Com'è che agisce lei, figliolo? Per prostituzione l'hanno arrestata, se vuole saperlo. Conosco tutti, io, da un capo all'altro della strada.» Jules si era alzato in piedi e aveva cominciato ad allontanarsi barcollante, confuso. Gli spiaceva per Vera, in carcere, ma poiché si trovava in carcere già da due giorni, davvero era troppo tardi per pensare a lei. Il negro lo aveva raggiunto. La sua voce era un po' spazientita. «Eh, dico, figliolo, senta un po'... vuole toglierla di là o no? Me lo dica, eh? Di quanto denaro dispone?» «Cinque dollari.» «Cinque dollari? Merda. Ha cinque dollari, tutto qui?» «Cinque dollari.» «Come può farla uscire con cinque dollari? Maledetta testa di cavolo!» Jules a gesti gli aveva imposto di andarsene. Il pensiero stesso di Vera lo affaticava. La immaginava in piedi su una finestra, vacillare, barcollare, cadere... meglio morire, farla finita. I sogni di Vera erano stati troppo violenti. In qualche posto una finestra aspettava anche lui. O lo aspettava una pistola. Ma avrebbe dovuto farsela prestare da qualcuno, la pistola. Vera in carcere, il capo appoggiato a un muro umido, in attesa... «Si sta domandando se ormai non si sia disintossicata?» aveva detto il negro, stizzosamente. «Aveva il vizio, figliolo? Vuole che si disintossichi fino in fondo, è così?» «Non ho denaro.» «Gesù, se disponesse di cento dollari tanto per cominciare, e il resto a rate...» «No. Niente da fare. Mi lasci in pace.» E ora ricordò con quale lentezza si era allontanato. È duro allontanarsi da un negro che ti fissa sprezzante. Si era allontanato. Il collo gli doleva, gli doleva la pelle del collo. Scottata dal sole. Non
c'era uno specchio in quella stanza. Si massaggiò il collo. Era strano che potesse ancora sentire dolore, così lontano alla superficie del suo essere, quando nel profondo dentro di lui non c'era niente. Un'altra macchina della polizia passò velocissima. Jules in attesa, pallido e non sbarbato, vestito come un vagabondo... in attesa alla finestra. Fuori, in istrada, decise che era quasi l'alba. L'aria aveva un sapore bizzarro. Sapeva di fumo. Uomini formavano un capannello all'angolo, con le camicie sbottonate. Un odore strano nell'aria. Jules, debolissimo, interdetto, camminava nell'alba. Alcuni giovani negri litigavano a causa di un'automobile. Uno di loro urlava. Un altro picchiò il pugno con violenza sul parabrezza... uno zampillo di sangue. Andò oltre e di nuovo sentì quella strana, sinistra lentezza, quel movimento al rallentatore. Nessuno lo vedeva. Poi, voltato l'angolo, vide che la strada brulicava di gente. Perché tutta quella gente? Perché si erano svegliati così presto? Non mancava ancora qualche tempo all'alba? C'erano negri, uomini e donne, e alcuni bianchi. Turbinavano, avanti e indietro, e in circolo, parlando eccitati. Si stavano riunendo in mezzo alla strada. Qualcuno salì sul cofano di un'automobile per sbraitare loro qualcosa. Jules non riuscì a distinguere le parole. In alto, molto in alto, il cielo si stava preparando a un'altra calda, nebulosa giornata; Jules lo capiva. Si domandò se avesse potuto sbagliarsi e se in realtà quello fosse il crepuscolo. Il tramonto. Il suo cervello era come un gorgo. Qualcuno gli afferrò il braccio, gli urlò parole in faccia, poi indietreggiò con sorpresa compitezza, dicendo: «Non è lui!». Jules scosse la testa, no, non lo era. Proseguì lungo la strada. La strada stessa era in movimento. Teste dondolanti. Un isolato più avanti alberi si inarcavano sopra la strada. Lì niente ombra. Qualcuno rovesciò un bidone delle immondizie, che rotolò rabbiosamente oltre Jules. Lui si scostò. La sua agilità fu una sorpresa. I pezzi di carta nell'immondizia avvamparono. Un miracolo. Qualcosa si frantumò, Jules non sapeva dove. Si stropicciò la fronte. Perché era così lento? Gli sarebbe piaciuto correre davanti alla vetrina di un negozio per guardare se stesso, la propria immagine riflessa, ma la folla era diventata troppo compatta. Forse stava incominciando un corteo, in qualche posto, e si allineavano lungo le strade. Una sirena gemette vicina. La folla cominciò a fuggire per allontanarsene. Jules vide se stesso inciampare contro il bidone delle immondizie in fiamme, sebbene fosse ovvio che si sarebbe bruciato. Gridò di dolore. Le gambe dei calzoni stavano bruciando senza
fiamma. Una macchina di pattuglia apparve all'incrocio più avanti, ma non avanzò. La luce rossa ruotava. Poi, adagio, con la stessa lentezza di Jules, la macchina si allontanò e scomparve. La folla lanciò un urlo di gioia. Con un sol impeto lo trascinò sul marciapiedi, e là egli vide una vetrina frantumata. Il DOTTOR PALMER RALSTON, OTTICO, era stato il proprietario di quella vetrina. Le lastre di cristallo cadevano adagio. Un ragazzo negro si tolse di mezzo. Il cristallo piombò sul marciapiedi e andò in pezzi, qualcuno urlò, un bidone delle immondizie venne scaraventato nella vetrina e proiettò in tutte le direzioni occhiali scuri cerchiati in plastica. Fu un'esplosione di occhiali. Uomini robusti, energici, con camicette sportive, galopparono verso un negozio di liquori e afferrarono la griglia di ferro, facendo forza su di essa, dando strattoni, torcendola. Qualcuno stava applaudendo, con una nenia ritmata. Dai! Dai! Il cristallo si spezzò dietro la griglia. Gli uomini staccarono la griglia da un lato e la piegarono in basso, i muscoli turgidi. Poi, abbassatala, la disposero sopra i pezzi di vetro e tutti si gettarono dentro. Dai! Dai! Hanno fifa! Jules si sostenne a un lampione. Non riusciva a ricordare dove fosse la sua stanza. Era meglio per lui strisciare di nuovo là dentro, star male o morire là dentro, dove almeno non avrebbe vagabondato così adagio qua e là, intontito. Già uomini stavano uscendo dalla vetrina sfasciata con bottiglie di liquore! Diggià! Nell'intervallo di tempo occorso a Jules per capire che cosa stesse accadendo, tutto era già accaduto, si era completato, e continuava frenetico più avanti. Un ragazzetto di dieci anni strisciò fuori attraverso un dedalo di cristalli spezzati stringendo nella mano una bottiglia. Jules lo afferrò mentre scivolava. Il ragazzetto ritrovò l'equilibrio e fuggì via. Era in piedi accanto a un cartello che diceva LASCIARE SGOMBRA LA TRASVERSALE. Era un punto fermo. Di là poteva vedere in tre direzioni, anche se non bene. Altra gente si stava riversando nella strada. Qualcuno rimaneva in mezzo alla strada, guardando. Altri si agitavano sul marciapiedi. Un secondo bidone delle immondizie rotolò sulla strada, in fiamme. Qualcuno urlò. Jules rimase avvinghiato al lampione. La vetrina di un negozio di calzature era stata sfondata. Volavano scarpe, con giubilo. Un bimbetto negro stava chino sotto il braccio di una donna grassa che reggeva un mazzo di scarpe. «Le porterai tutte, ragazzo?» gridò qualcuno, deliziato. Jules voltò all'angolo. Altre plebaglie attaccavano negozi, face-
vano vibrare la strada. Una festa. La pavimentazione stessa sussultava a causa dell'energia del loro giubilo... che gente! Jules raccattò una scarpa dispersa e la lanciò nella vetrina sfasciata di un negozio... un bar-farmacia. Ragazzetti si gettavano là dentro, rovesciando gli stinti cartelli pubblicitari degli shampo e dei dentifrici. L'aria era colma di grida, come musica. Vibrava della loro musica. Jules scorse un altro bianco, all'incirca della sua età, e cercò di rimanere a pochi metri da lui. Il bianco stava urlando, aveva la camicia aperta, il petto gli sanguinava come se lo avessero graffiato le unghie d'una donna infuriata... stringeva nella mano una bottiglia di whisky. Jules sentiva la propria lentezza nel bel mezzo di tutta quella fretta incalzante, Jules che procedeva centimetro per centimetro, un bianco, mezzo addormentato. Dormendo. Davvero non riusciva a credere a quel che vedeva. Probabilmente stava dormendo, sognava. Ogni cosa vibrava. Era reale, questo? Altre sirene. Un odore di fumo acre, denso, gli urli festosi dei saccheggiatori... Lungo una strada trasversale scorreva una gran folla, e davanti alla folla qualcosa stava volando... molte cose... sassi, bottiglie? All'estremità opposta della strada, il bersaglio, c'era una macchina della polizia parcheggiata di sbieco, come se avesse slittato in quella posizione. La sirena squillava impotente. Il tiro di sbarramento di sassi e bottiglie cadeva su di essa, l'automobile indietreggiò sul marciapiedi con la rapidità scattante di un giocattolo, qualcuno sparò un colpo, la macchina filò via... un diluvio di sassi e di bottiglie la seguì. Tutti assumevano precipitosamente due posizioni: si chinavano per raccattare qualcosa, vibravano un braccio circolarmente per lanciare il qualcosa. Si chinavano... lanciavano... La strada stava andando in pezzi. Jules venne a essere trascinato in una direzione. Il quartiere intorno a lui gli sembrava familiare, ma aveva la stessa familiarità di un'istantanea... gli sembrava di non esservi affatto, di non camminarvi. Facce da ogni parte intorno a lui condividevano questa sensazione. Dietro le facce v'era incredulità, ma alla superficie delle facce un'immensa esaltazione. Sotto con questo! Da questa parte! giungeva il grido ripetuto, e il muscoloso margine esterno della turba correva avanti, ragazzi e uomini luccicanti di sudore, con le camicie sventolanti, nella frenesia di lanciare qualcosa attraverso qualcos'altro. Jules pensò ai fuochi artificiali. Pensò allo squillo del telefono, uno squillare incessante, snervante. Arrivavano chiamate per tutti. Era il compleanno di tutti. Sul vicino orizzonte, a pochi isolati di distanza, il cielo era illuminato. Jules veniva sbalestrato da una parte e dall'altra, a
volte afferrato, poi lasciato andare, e sentiva in quelle dita frettolose un allarme che stava risultando essere il suo. Dalla vetrina sfondata di una drogheria donne uscivano con cautela, le braccia già cariche. Qualcuno lasciò cadere un melone, che si spaccò sul marciapiedi. Un ragazzo con troppi vasetti di conserva e troppe scatole lasciò cadere tutto sulla cordonatura e pianse di delusione. Una donna con un bambino in braccio entrò aggraziata nel negozio e si guardò attorno. Aveva i capelli acconciati in fiammeggianti riccioli rossi e l'espressione querula, insoddisfatta, di una cliente normale. Jules aspettò che la porta d'ingresso fosse stata abbattuta per poter entrare da quella parte, correttamente. «È il direttore, o che altro?» disse una donna, ridendo di lui. Andò a prendere una stecca di sigarette e si riempì le tasche di pacchetti. Non aveva alcuna fretta, sebbene tutti gli altri fossero frenetici. Sirene ululavano dappertutto intorno a loro. Luci rosse lampeggiarono all'interno del negozio, alcune persone si acquattarono, non accadde niente. «Hanno fifa! Questa è bella, hanno fifa!» urlò un uomo. Jules prese un vasetto di noccioline e tentò di aprirlo, ma il coperchio resisteva troppo. Lo sbatté contro il banco, fracassandolo, poi scelse alcune noccioline tra i pezzi di vetro, prendendole con cautela. Non doveva aver mangiato da qualche tempo, era indebolito dall'inedia. Una bianca, la cui camicia da notte spuntava sciattamente sotto l'impermeabile, si spinse oltre Jules per arraffare alcuni barattoli... gamberetti. La donna gli ricordò sua madre, sebbene fosse alquanto brutta, forse pazza. Rimaneva lì a piedi piatti, arraffando i barattoli di gamberetti sulle mensole e ficcandoli in una borsa per la spesa. Nemmeno i turbolenti ragazzetti negri riuscivano a scalzarla; lei li respingeva con un movimento cieco del braccio. In un sogno scintillante - scintille stavano ormai volando dappertutto Jules tornò sulla strada. La folla, lì, si era diradata. C'era gente in piedi sui tetti, e alle finestre, a guardare. Alcune negre gridavano, facendosi da portavoce con le mani. Dense spirali di fumo salivano in fondo alla strada, più indietro in qualche posto, e Jules udì altre sirene. Una bottiglia di latte gli volò accanto e andò a frantumarsi sul marciapiedi, ma lui non ritenne affatto che la cosa fosse personale, affatto. Era un bianco, ma uno di quei bianchi che non contavano. «Hai la macchina fotografica?» urlò qualcuno. Jules alzò le mani per mostrare che non aveva niente. «Non è uno sbirro!» gridò qualcun altro. Jules sedette sugli scalini di una veranda, aveva uno scalino tutto per sé, e rimase a guardare. Alcuni incendi stavano infuriando
più avanti nell'isolato. A una certa distanza un'autopompa si era fermata, e i pompieri, tutti bianchi, si agitavano intorno a essa. Un gruppetto di negri li guardava. L'aria stessa, abbellita dalle scintille, era melodiosa e luminosa; Jules quasi non riusciva ad abituarsi a una simile festosità. Sicché tutto questo stava accadendo davvero? Era la fine in corso? Si sarebbe detto che benzina in fiamme venisse riversata su una superficie piatta, libera di scorrere in ogni direzione, in tutte le direzioni, incalzante e inarrestabile. Jules fumò sigarette e guardò. Gli incendi si stavano diffondendo. Gente correva lungo la strada, le braccia piene di vestiti, di biancheria da letto, di marmocchi. Una coppia gli corse accanto tenendosi sottobraccio. Correndo, correndo! All'estremità opposta della strada altri incendi aspettavano. Alcuni giovinastri rovesciarono un'automobile e l'incendiarono. Avevano i capelli lunghi e crespi, le spalle muscolose sotto camicie sudice e calzavano scarpe dalle punte crudeli. Vociavano tra loro in un linguaggio di stridi, come uccellacci pericolosi. La coppia si soffermò a guardarli, sempre tenendosi sottobraccio. Jules riuscì a scorgere la felicità dei due. Se ne sentì commosso, attratto. Che brucino tutto! Perché no? La città si stava animando nel fuoco, e lui, Jules, vi sedeva dentro, riscaldandosi ad esso, le fiamme gli danzavano lungo le arterie e dietro gli occhi bruciacchiati. Non aveva sempre saputo che tutto questo sarebbe successo? Qualche isolato più in là, verso Woodward, la polizia era già penetrata nella zona, schierata di fronte ai negozi. Ma i negozi venivano bombardati ugualmente. Un giovane agente, le braccia conserte e la mano lontana dalla pistola, guardò bieco Jules mentre si avvicinava. Intorno all'agente, alle sue spalle, ragazzetti di sei e sette anni stavano fracassando la vetrina di un negozio a prezzi fissi. «Che cosa stai aspettando, tu?» gridò il poliziotto a Jules. «Vieni e arraffa, non durerà.» «Perché dovrei?» disse Jules. «È tutto gratis! Forza! Non durerà, niente di tutto questo, non ti capiterà un'altra occasione!» «Non mi serve niente.» «Il sindaco dice di dar via tutto! Regali di Natale, è Natale! Crede di essere Babbo Natale! Tutto gratis!» Una pioggia di pezzi di vetro investì il poliziotto e Jules. Per un attimo Jules temette che una scheggia gli fosse entrata in un occhio, ma era illeso. Qualcuno strillò. Era un ragazzetto, la cui faccia sanguinava. Barcollò sul marciapiedi, gli occhi chiusi, coperto di sangue. Urtò contro le gambe del
poliziotto, che gli diede una spinta. L'agente vicino a lui, un uomo tarchiato, si teneva ritto a braccia conserte e a gambe larghe, sorvegliando un negozio che era stato appena incendiato. Aveva i capelli arruffati. Era di età matura, con una pancia alta e sporgente. Fissò lo sguardo su Jules e disse qualcosa muovendo le labbra. Jules si portò la mano a coppa all'orecchio, educatamente. «Va' a servirti, negro schifoso!» disse il poliziotto, fissando Jules. «Non appena arriverà l'ordine, falceremo tutti, e dunque serviti, finché si può arraffare!» Si esprimeva in un modo rauco, furtivo e furente al contempo, stranamente confidenziale, Jules lo ringraziò, ma non rimase lì. Per alcune ore vagabondò nelle strade, fumando sigarette, fiutando il fumo degli incendi. Avranno tutti i polmoni rivestiti di fuliggine, pensò. Era ormai una mattinata afosa, domenica mattina. Sentiva nel fondo degli occhi la necessità di dormire, ma il suo corpo non avrebbe potuto addormentarsi. Vibrava, sentendo sussultare la strada. Le ginocchia e le dita gli formicolavano. In certe strade non stava succedendo niente. La gente aspettava, con carrozzine per bambini e parasoli. In altre strade incendi divampavano rumorosamente. Le autopompe erano all'opera. I pompieri sembravano indolenti, appesantiti dall'equipaggiamento e dalla loro pelle bianca. Persino l'acqua che usciva dagli idranti, sollevandosi potentemente in aria, poteva poco contro quattro piani in fiamme. Jules sentì qualcosa saettargli accanto al piede e vide un grosso topo. Si allontanò di corsa da lui. In un'altra strada, tra le rovine di una drogheria, parecchi topi enormi banchettavano, nonostante le macerie fumiganti e tutta l'agitazione intorno ad essi. Topi! Gente! Sirene! Spari! Jules si sentì a un tratto ubriaco. Qualcuno lo toccò e l'ebbrezza divenne completa: si rese conto che lo Jules di un tempo non era morto, in realtà, ma aveva soltanto dormito profondamente, immerso in un sonno incantato; lo spirito del Signore non lo aveva disertato per davvero. Una ragazza gli stava dando strattoni. La riconobbe. «Da questa parte! Vieni!» gli gridò. Indossava un paio di blue-jeans tagliati e una camicia da uomo. Aveva i capelli raccolti in treccine. Corsero lungo la strada, curvandosi nel fumo, attenti a girare intorno ai punti nei quali erano sparsi pezzi di vetro. Tutti avevano sgombrato, lì, e adesso gli edifici bruciavano. Jules tenne la ragazza per mano, accarezzandole le dita. Lei lo condusse di sopra, in un caseggiato non ancora in fiamme. «Jules, dove sei stato? A saccheggiare? A perdere tempo saccheggiando?» gridò qualcuno. Era un amico di Mort, il cui nome Jules non riuscì a
ricordare. Sul tetto dell'edificio alcuni bianchi stavano bevendo birra; uno di loro era ubriaco fradicio; proprio mentre Jules saliva le scale, lasciò cadere oltre l'orlo del tetto un pesante binocolo. «Dove è diretto costui? Siete sicuri che questo qui non sia segnato?» gridò qualcuno. Era un ometto rosso di capelli, in camicia e cravatta, che stava tirando un tizio per il braccio. Aveva la faccia stravolta, gocce di sudore gli rotolavano giù per le gote. Una radiolina a transistor stava dando le notizie. «C'è un posto in cui possa dormire? Voglio dormire» disse Jules. «Dormire, sei impazzito? Questa è una rivoluzione!» Raggiunse la ragazza che lo aveva portato lì. Stava rimproverando un giovanotto dalla faccia sfigurata che si era messo a piangere. «Accompagnami giù. Indicami la strada» disse. La camicia che ella indossava era troppo grande per lei, con il colletto di gran lunga troppo largo. Jules vi infilò una mano e le toccò la clavicola, che era sporgente e nervosa. Che ragazza ben fatta! Una bella ragazza! Lei lo respinse, indifferente, sbraitando al suo amico: «Oh, Gesù Cristo! Mi dai la nausea!». Sembrava un luogo di villeggiatura. Il cielo era arancione, ardente, orribile e bello al contempo. Qualcuno salì di corsa le scale, urlando. Qualcuno si gettò contro di lui. Jules cercò di scendere, perché voleva tornare giù, ma le scale erano troppo gremite. Un tale il cui nome, ricordò Jules, era Fritz, lo artigliò facendosi largo per passare. «Stanno venendo! Sono qui!» gridò. Jules si fece da parte. Il tetto vibrava sotto i passi. La polizia seguì Fritz sul tetto colpendolo a manganellate. Grida. Corse precipitose. La ragazza dalle treccine prese a strillare contro un giovane poliziotto, che la colpì in faccia con il manganello. Il sangue le sgorgò dal naso. Il poliziotto, a gambe aperte, continuò a colpirla. Due poliziotti misero Fritz spalle al muro contro il parapetto e lo lavorarono vibrando colpi di manganello. Jules ne vide il sangue volare in alto a spruzzi sottili, come una fontana. Quando l'uomo cadde i poliziotti lo appoggiarono di nuovo al parapetto e lo colpirono ancora, in pieno viso, sulle gote, sul naso, sulla testa, sulla nuca, e qualcuno tentò di fermarli e loro si voltarono, impersonali, e vibrarono colpi a lui... Jules vide che l'uomo aveva il naso spezzato. Uno zampillo di sangue, un rivolo di sangue... Un altro poliziotto si precipitò sul tetto, scostando la gente a urtoni, frenetico. Il giovanotto dalla faccia deturpata corse verso di lui. Il poliziotto non gli
badò e lo scostò sbraitando. Gli altri poliziotti lo udirono e smisero. Indietreggiarono. Corsero giù per le scale. Jules, pensando che avrebbero potuto aprirgli un varco, li seguì. Non gli badarono affatto. Discese a precipizio fino allo scantinato. Il cuore gli martellava. Si era spaventato molto. Una cassa cadde. L'aria era bruciante, lì sotto. Scintille e pezzi di carta anneriti volavano dappertutto. A Jules piaceva il sapore della cenere e non riusciva a ricordare un momento in cui non lo avesse sentito, galleggiante ovunque nell'aria. Urtò un chiodo che gli graffiò la coscia. Dopo qualche tempo si arrampicò fuori dello scantinato. Una massa compatta di fiamme al lato opposto della strada... pompieri che scivolavano nelle strade bagnate. Qualcuno sparò un colpo in aria. Si udirono altri spari. Un topo gli sgattaiolò accanto, frettoloso, sapendo dove voleva andare. Topi. Non si curava dei topi ed essi non si curavano di lui; i topi spaventati non ti infastidivano mai. Le scintille nell'aria dovevano averli abbagliati, come abbagliavano Jules. Il movimento stesso dell'aria, le vibranti chiazze di calore causate dal sole, gli dissero che tutto andava bene. Non sarebbe morto. In un isolato incendiato trovò qualcosa da mangiare, commestibili dimenticati su mensole fracassate. Dovette precipitarsi dentro e strapparli ai topi. Ce n'erano dappertutto, ormai. Un elicottero passò in alto, a una certa distanza. Jules lo fissò socchiudendo gli occhi. Desiderò di trovarsi su quell'elicottero, che sorvolava con tanta fierezza e facilità gli incendi, innalzandosi nel cielo. Il sole era quasi tramontato. Jules non riuscì a ricordare se avesse trascorso un'intera giornata per le strade, o se si fosse destato soltanto in quel momento, dopo aver vissuto ore di sogni fiammeggianti. Attraversò e si portò in un vicolo... molto solo in tutto quel frastuono... Jules sempre solo. Una macchina di pattuglia della polizia lo scorse ma non si fermò. Stava andando alla deriva con la libertà, inebriato dalla libertà. Ecco di che cosa aveva sentito il sapore nell'aria... della libertà. Gli edifici senza tetti, già bruciati, contemplavano il cielo in uno sfacciato, disperato parossismo di libertà. Non lontano da casa sua, passò davanti a un supermarket che ancora veniva saccheggiato. Le donne adoperavano i carrelli e procedevano con calma. Era ancora domenica, domenica sera. E l'indomani, sarebbe cominciata a Detroit una lunga settimana di lavoro? Jules si soffermò a osservare le donne che si rifornivano, andando avanti e indietro a gran passi attraverso le ampie vetrine sfondate. Un ragazzo reggeva sotto il braccio una di-
stributrice automatica di palline di gomma da masticare. La base di metallo seguitava a urtare la gente che si sporgeva per dare un urtone al ragazzetto. Jules si trovava lì in piedi quando un ragazzo gli si avvicinò di corsa; correva in un modo strano, barcollando e zoppicando; aveva sulle braccia un fucile. L'aria vibrava di grida e di risate. Sirene in lontananza, remote. L'orizzonte era livido di luce. La corrente elettrica andava e veniva. Un'automobile giaceva rovesciata e bruciava in mezzo alla strada; l'odore di gomma bruciata era soffocante. Troppo vicino. Il ragazzo con il fucile si avvicinava, barcollante. Stava forse per sparare a lui, Jules? Aveva già provato l'impatto incredibile delle pallottole, e sperimentato lo sconvolgente, immediato diniego: Questo non è accaduto! Pertanto osservò il ragazzo con rispetto. Era quasi un ragazzo ma non aveva più la faccia di un ragazzo. Era stato rapato e camminava a piedi nudi. Il fucile era lucente e nuovo e gli occhi di lui coglievano una parte del fulgore della canna. Piombò tra le braccia di Jules e parve consegnargli il fucile. Si avvinghiò alla vita di Jules e alle sue cosce, cadendo, e soltanto in quel momento Jules vide che sanguinava da una ferita alla schiena. Il ragazzo stramazzò. Jules sollevò il fucile. Il ragazzo artigliò le caviglie di Jules e Jules gridò: «Dove ti hanno colpito? Qualcuno chiami un'autoambulanza!». Il ragazzo giacque immobile. Jules si scostò abbassando gli occhi su di lui. Accorsero donne. «Come ha fatto a farsi sparare alla schiena questo ragazzetto?» urlò una donna. Jules si scostò pian piano da loro. Il ragazzo non si muoveva. Piacque a Jules sentirsi il fucile tra le mani, quel dono. «Qualcuno chiami un'ambulanza, un'ambulanza» gridarono le donne, echeggiando il grido di Jules, scostando Jules. Lui fuggì. Da qualche tempo aveva udito spari di fucile senza sapere che cosa fossero, e ora li stava udendo dappertutto. Scendeva l'oscurità. Qualcuno aveva sparato ai lampioni stradali. Un'automobile lo avvicinò con i fari accesi e Jules si gettò in un portone, tenendo stretta l'arma. Non era una macchina di pattuglia della polizia, ma una comune automobile. I fari lo sciabolarono e qualcuno gridò: «È un bianco! Ehi! Vuoi un passaggio?». «Mi farebbe comodo, splendido» disse Jules. «Sali, allora. Sali!» Era un'automobile piena di giovani del Kentucky, ubriachi e molto amichevoli. Avevano tutti fucili come quello di Jules. Una ragazza, sul sedile posteriore, si lagnava di qualcosa. «Prendete la John Lodge, bastardi! Voglio andare nella Quinta Avenue!» gridò. Jules si compresse sul sedile po-
steriore; gli fecero posto. Sedette accanto a un ragazzo sui diciannove anni, dalla bella faccia scavata. Sapeva di whisky. «Come ci si arriva?» gridò quello al volante. «Prendi la prossima strada a destra» disse Jules, lieto di potersi rendere utile e approfittandone per inserirsi tra loro. Erano tutti soddisfatti. Gli passarono una bottiglia. «Prima ci fermiamo da Saks, poi andiamo subito allo Hudson!» «Un corno, stiamo andando al Metro. Dobbiamo impadronirci di un aereo!» «Impadronirvi di che? Ma se non lo avete mai pilotato, un aereo!» «Li si fa pilotare dai piloti, stupida! Impadronirsi di un aereo significa impossessarsi di tutto, piloti, passeggeri e così via.» «E che diavolo te ne fai?» «Ho i miei piani.» Stavano filando verso la strada a scorrimento rapido... le vie erano buie... i lampioni stradali infranti... sull'asfalto pezzi di vetro. I ragazzi sparavano a caso contro le case. Le case, un isolato dopo l'altro, erano buie. Le luci di una casa rimanevano accese e tre dei ragazzi fracassarono le finestre. «Così quel furbone imparerà!» gridarono. C'era un posto di blocco della polizia vicino all'ospedale, e così fecero una pazzesca inversione a U nella strada, dirigendosi in qualche altro posto, adesso, altrettanto veloci. Jules udì il tiro delle mitragliatrici. Fino a quel momento lo aveva sentito soltanto nei film e non gli parve molto reale o pericoloso. La ragazza schiaffeggiò il collo del ragazzo al volante, gridandogli qualcosa. Era giovanissima, con una faccia striata, gonfia e senza rossetto; il rossetto le era stato sfregato sulla faccia. Era molto ubriaca. Qualcosa colpì uno dei finestrini dell'automobile e una scheggia di cristallo si conficcò nella gota di Jules. Sorpreso, lui la tolse subito, strappandola via. La gettò fuori del finestrino. Il giovane accanto a lui rise. Jules si succhiò la guancia, quasi tentasse di risucchiare dentro il sangue che scorreva, di fermarlo. L'automobile procedeva troppo veloce. Cominciò a oscillare. Avevano uno dei fari spento, colpito o fracassato contro un ostacolo. Jules alzò il fucile e lo puntò contro le finestre lungo la strada. E se il fucile gli fosse venuto meno? Dove se ne sarebbe procurato un altro per quella notte? Se il fucile non avesse funzionato, lui sarebbe ricaduto nel suo letargo di molti mesi, di un'intera esistenza. I ragazzi sull'automobile erano chiassosi ed eccitati. Jules si sentiva attratto da loro; le oscillazioni e gli scossoni del-
l'automobile lo gettavano, in effetti, contro di loro. La ragazza strillò. «Guardate là! Guardate! Dei soldati!» gridò. «Che diavolo!» Un autocarro per trasporto truppe stava attraversando un incrocio più avanti, a fari spenti. Jules vide soldati con le baionette inastate sui fucili, in piedi sull'autocarro, intenti a guardare la strada nella direzione della loro automobile. «Faresti meglio a spegnere i fari» disse. Il ragazzo al volante li spense. «Gesù! Hanno fatto intervenire l'esercito! Ci vado anch'io nell'esercito!» gridò uno dei giovani. Il ragazzo al volante non rallentò. Curioso e scatenato, filò verso l'incrocio, e Jules, stordito dalle loro battute scherzose, non pensò nemmeno ad abbassarsi. Ma l'autocarro proseguì lungo la strada. Si stavano avvicinando adesso ad alcuni incendi... sirene, colpi di fucile e piccole esplosioni soffocate. «È il quattro luglio!» esclamò la ragazza. Uno dei giovani sparò contro un edificio in fiamme. Più avanti in quell'isolato, poliziotti e soldati formavano un cerchio intorno a un'autopompa. «Noel, faresti meglio a non metterli sotto tutti quanti!» disse qualcuno. Il ragazzo al volante si voltò. «Sto cercando soltanto di trovare al buio quella maledetta strada a scorrimento rapido, ecco quello che cerco di fare, con tutti i dannati lampioni della città fracassati» disse. Una serie di pallottole colpi l'automobile, come pioggia. Nessun danno serio. «Sono i negri o è la polizia a sparare?» domandò qualcuno. I ragazzi spararono contro edifici in fiamme e contro edifici che non bruciavano, ma erano ovviamente deserti. Un negro si gettò in un vicolo. Spararono tutti. «Questo lo abbiamo beccato!» gridarono. Ma era già troppo tardi per accertarsene, la macchina filava troppo veloce. Passò sopra a qualcosa in mezzo alla strada e il sobbalzo fece partire quasi tutto il finestrino accanto a Jules. Rimase una striscia di cristallo frastagliata. Jules continuava a esservi lanciato contro, vi urtava contro con il gomito. Sentiva un dolore tagliente, pungente, che scompariva e ricominciava, ancora e ancora. I sobbalzi dell'automobile gli restituirono il buon umore. I ragazzi stavano parlando adesso di un amico che si trovava in carcere a Dehoco. Parlavano di liberarlo, le loro voci erano esplosive, squillanti, ebbre. Jules sentì sangue scorrergli sulla faccia. Sangue. Pensò al sangue. Pensò alle due bambine, nella sua fanciullezza, alle gemelle uccise a pugnalate in un isolato della città, l'una colpita di fronte a casa sua, e l'altra inseguita
e poi pugnalata, per cui il sangue aveva formato rivoletti sottili sul marciapiedi, e la mattina dopo tutti erano andati a guardarlo... le gemelle Hecht... sangue. Il sangue di Jules, pulsante nelle orecchie. Dal frenetico pulsare del suo sangue sentì emergere qualcosa di greve, una solida, violenta certezza. Se ne sentì cancellato. L'automobile si avventava in una ardente, fumosa oscurità, lanciata verso altre tenebre e Jules sentiva adesso solo una certezza simile a roccia in quei movimenti dondolanti, nelle urla dei ragazzi e nella propria maturità. «Gesù! Attento!» Sterzarono per evitare qualcosa sulla strada... un uomo disteso supino, un cadavere. Gli giaceva accanto un violoncello. Voltarono in un'altra strada: davanti a loro un gruppo di pompieri e di poliziotti... una barricata eretta sulla strada... «Gesù, non volto più, ne ho avuto abbastanza per questa notte!» esclamò il ragazzo al volante. Gli urlarono: «Noel! Tonto bastardo! Volta qui!». Ma lui non sterzò, scosse la testa irosamente e filò dritto verso la barricata, sobbalzando su una gomma che andava sgonfiandosi. Jules vide un poliziotto alzare il fucile. Si abbassò. Qualcuno sull'automobile sparò... una serie di spari... Jules fu accecato da pezzi di vetro che volavano. «Noel, bastardo! Attento, adesso!» gridò qualcuno. L'automobile balzò di lato. I freni stridettero. Si trovavano sul marciapiedi, adesso... adesso avevano cozzato contro qualcosa. Uno schianto tremendo. Jules con le mani di piatto sulla testa, il corpo non più dominato. Venne scaraventato contro il sedile anteriore. Il torace parve infossarglisi. Poi, respirando di nuovo, piombò contro la portiera, che si spalancò... Jules fuori, adesso, salvo sul marciapiedi?... il fucile cadde con lui. Un fucile. Mentre ancora cadeva, si raddrizzò, fece funzionare le gambe, agguantò il fucile e fuggì come un fulmine. Udì spari. La corsa spericolata sull'automobile gli aveva ridato forza. Fuggì quasi piegato in due, le mani alzate, il fucile alzato dinanzi a sé. Si trovava in un vicolo... poi in una strada, da qualche parte... una strada mai vista... luci di incendi balenavano sui muri... Correva, non riusciva a smettere di correre. Era Jules, tutto sommato, costui che correva in quel modo, saltato giù da una macchina fracassata e abbandonato a se stesso, come un soldato con il suo fucile? Una pallottola gli uggiolò accanto. Balzò di lato, poi fracassò quel che restava della vetrina di un negozio e vi si gettò dentro, incespicando. «Dio mio!» gridò forte.
Un negozio di fioraio. Scivolò su frantumi di vetro, Jules con il fucile. Fiori schiacciati, un impianto di refrigerazione fracassato, che faceva puzzare i fiori, tutto sfasciato, tutto macinato sotto i piedi dei saccheggiatori. Il registratore di cassa era stato rovesciato. Jules si acquattò e dietro di lui, attraverso la vetrina sfondata, entrò l'uomo che gli aveva sparato. Era un poliziotto, uno sconosciuto, e sbraitava con Jules. Perché urlava? Perché quella strana rabbia scatenata contro di lui, quel faccione stravolto da una passionalità che Jules non riusciva a capire?... Era un uomo di età media, comune, uno sconosciuto che se la prendeva così personalmente con Jules, alzando il calcio del fucile per vibrarglielo sulla testa. Jules balzò di lato. Fece ruotare il fucile intorno a sé e colpì l'uomo alla spalla, un colpo di striscio, poi riuscì a colpirlo ancora, in piena faccia. Urlando, il poliziotto parve piombargli addosso, avvinghiarsi a lui, e Jules indietreggiò sui pezzi di vetro e gridò: «Dio mio, mi lasci una via di scampo... lasci che esca dalla porta di servizio, eh?». Il fucile del poliziotto gli si era infilato tra le gambe; con un calcio lui se ne liberò, poi, sentendo esplodere in sé una forza improvvisa, agguantò l'uomo per il collo e gli diede uno strattone; l'uomo scivolò sui pezzi di vetro e cadde pesantemente. Jules riafferrò il suo fucile. L'uomo non voleva smetterla di urlare e adesso si stava lanciando verso le gambe di Jules e a Jules non rimase altra scelta che fracassargli la faccia... questa volta sentì lo scricchiolio del naso frantumato. Avendo fatto questo, aveva fatto tutto. Era finita. Il sangue gli scorreva tumultuoso nelle vene, non era sua la colpa di niente, perché avrebbe dovuto fermarsi? Puntò il fucile contro la faccia dell'uomo e premette il grilletto. 8 Al secondo giorno di saccheggi, dopo aver guardato la televisione in casa di un'amica - il suo televisore si era guastato da un pezzo - Loretta osò l'inosabile e uscì. Aveva guardato la televisione fino a non poterne più. La relazione del sindaco, la relazione del governatore, la relazione del Presidente, i telegiornali, il pulsare costante, eccitato, delle notizie, le immagini, le parole... tutto questo era stato eccessivo per lei. Non resisteva più. Proseguì per alcuni isolati fino a un negozio devastato e si guardò attorno, poi, tra i rottami in fondo al negozio, trovò un televisore portatile. Alcuni negri stavano gironzolando da quelle parti. Un negro le domandò, compito, se voleva che l'aiutasse a portare il televisore fino alla sua macchina, ma lei
gli disse che non aveva l'automobile. Abitava in quei pressi. Non appena ebbe portato il televisore a casa, cominciò a crucciarsi. Non funzionava. Lesse un cartoncino lucido, sagomato a sprazzo di sole; c'era scritto GARANZIA, ma non diceva come eliminare le linee che zigzagavano con violenza sullo schermo. Pertanto ella sedette fissando l'inutile schermo e si sentì sconvolta. Quella notte, anche la sua casa prese fuoco. Qualcuno lanciò una bomba incendiaria nell'ingresso. Nel parapiglia, Loretta fu gettata a terra; aveva una gamba contusa, ma riuscì a uscire. Il televisore bruciò con tutto quello che possedeva. Insieme a una turba indebolita e piangente di persone, venne condotta all'Associazione dei giovani cristiani. Le diedero da mangiare ed ebbe anche una coperta. Per qualche tempo sedette silenziosa, pensando al televisore e al castigo che le era stato inflitto per averlo rubato. Poi il ricordo di quanto era accaduto svanì, man mano che cominciava a interessarsi al posto in cui si trovava. Attaccò discorso con una negra grassa; erano ansiose entrambe di dar prova di cordialità, di dimostrare qualcosa. La donna piangeva e gemeva a causa dei suoi sette figli. Dov'erano finiti, in tutto quel trambusto? Quei marmocchi... non facevano che andare in giro, si cacciavano sempre nei guai! «E a che cosa ci serve una coperta, con questo tempo? Gesù santo, saremo di nuovo sui trentadue gradi, sui trentacinque!» La donna piangeva. Loretta attaccò discorso con un uomo cortese, calvo, sgomento, il quale disse che lavorava all'ufficio postale, smistando la corrispondenza. Si chiamava Harold. La sua casa era stata incendiata sin dal primo giorno, la prima casa dell'isolato a bruciare. Perché avevano scelto proprio lui? Era stata una cosa premeditata? «Sono sempre stato gentile con la gente di colore. Molti ragazzi di colore lavoravano all'ufficio postale, e io sono sempre stato affabile con loro» disse a Loretta in un tono convinto di sincerità. Era riuscito a diventare il proprietario della casa appena tre anni prima, disse; per quindici anni aveva pagato un'ipoteca. Sua moglie era morta in quella casa. Nella camera da letto sul retro. Loretta gli domandò con dolcezza se avesse figli. «Sì, quattro figli, dispersi da tutte le parti» rispose lui, lugubremente. Questo la commosse in un modo strano. «E lei? Ha figli anche lei?» domandò l'uomo. «Anche loro si sono dispersi da tutte le parti» ella disse. Persino Randolph, non aveva idea di dove potesse trovarsi. Ma poteva badare a se stesso. Loretta sì riappoggiò alla spalliera della sedia e stette a guardare. Osser-
vò, penetrante, che certe persone non si abbattevano; sembrava invece che si limitassero ad aspettare; come se si fossero trovate in una stazione ferroviaria, sicure della loro destinazione. Alcuni bianchi, e anche alcuni negri, erano capaci di tale dignità. Decise che avrebbe dato prova a sua volta di dignità: era stufa della propria vita. Parlò con allegra dignità ad Harold, l'impiegato dell'ufficio postale. «L'importante è che lei non sia stato ucciso o ferito. Guardi la cosa in questo modo» gli disse. Lui meditò su quelle parole, come se fossero state profonde. Man mano che il tempo passava, Loretta cominciò a sentirsi rinvigorita, curiosa. Si pentì di non aver indossato un vestito migliore quando avevano lanciato la bomba incendiaria nell'ingresso. Il posto in cui si trovava aveva l'aria di un carnevale che si fosse inceppato. Che cosa facevano tanti estranei tutti insieme, così pazientemente insieme? Loretta aiutò una giovane bianca che aveva un bambino a cambiargli i pannolini sporchi. Seguì una delle infermiere e le diede una mano. Magari sarebbe diventata infermiera anche lei... perché non frequentare una scuola in qualche posto, impratichirsi e diventare infermiera? Le infermiere erano rispettate, avevano una loro dignità e valevano qualcosa. Aiutò a tenere a bada alcuni dei bambini più piccoli, sebbene i loro strilli la infastidissero. I bambini erano molto eccitati, lì dentro; alcuni di loro isterici addirittura; non si riusciva a calmarli, e piangevano fino a non poterne più. Poi dormivano, sfiniti. Ricordarono a Loretta i suoi figli quando erano stati bambini. Pensò con un empito di tenerezza a Jules e a Maureen, a Betty e a Ran ancora piccini, fantolini indifesi. Li aveva amati più che in ogni altro momento in quel periodo della loro vita. Allora, era stato possibile amarli profondamente. Ora, dispersi in tutte le direzioni, caparbi e perduti, sembravano non essere più davvero i suoi figli. Era una cosa strana avere figli, quasi un enigma. Forse lei aveva sbagliato, nel senso che non era riuscita ad avere i figli giusti. Forse, tra Jules e Maureen, vi sarebbe dovuto essere un figlio meraviglioso, con l'intelligenza di Jules e la dolcezza di Maureen, ma non era riuscita ad averlo, non era nato. Oppure la lunga attesa tra Betty e Ran, forse era stato questo il suo sbaglio, forse il figlio ideale le era stato destinato in quel periodo, e lei non lo aveva avuto, era venuta meno a se stessa, e ormai la sua stagione era passata e non avrebbe mai più avuto un altro figlio in vita sua. «I bambini sono un inferno, ma ci si rattrista pensando che non se ne potranno più avere» disse ad Harold. Lui annuì, dolorosamente.
«Mi sento più sola pensando che avevo figli e che se ne sono andati» disse Loretta. Si espresse con dignità, adagio, vagliando le parole. Le trasmissioni televisive l'avevano resa consapevole delle parole; avrebbe potuto parlare alla televisione. «Ma io credo, diavolo, che tutti siano soli. Questo è il segreto, tutti sono soli e non possono farne a meno, come qui, adesso, in questo posto, tutti si sentono soli, e si alzerebbero e se ne andrebbero, tutti quanti, se potessero, e non si rivedrebbero mai più. Siamo tutti così.» «Ma è proprio vero?» domandò l'uomo, in preda all'angoscia. Alzò la testa per fissarla. Dietro gli occhiali, gli occhi erano lagrimosi e perplessi, privi di dignità. Aveva striature di sporcizia sul collo. Li mandarono entrambi nella stessa casa, all'estrema periferia nordest della città. Una famiglia aveva offerto ospitalità a cinque "vittime dei disordini". Loretta si comportò con timidezza e con grazia, sentendosi prescelta, un'ospite. Aiutò a servire a tavola e a sparecchiare, dopo. Nessuno riusciva a credere che fosse quasi nonna... ma era vero, era vero, tra poco sarebbe stata nonna. «Non manca molto a mia figlia, ormai» disse. Poi, prevenendo la loro domanda, soggiunse: «No, è al sicuro a Dearborn. Meglio per lei». Per conseguenza non poteva lagnarsi se aveva perduto l'appartamento e tutta la sua roba; le sembrava molto essere ancora viva e poter vedere quel nipotino; ringraziava Iddio che le aveva consentito di vivere per questo. La casa nella quale abitarono per tre giorni era una grande casa di mattoni con un vestibolo e due caminetti. Loretta l'ammirava furtivamente. Riteneva che la padrona di casa - una donna spigolosa, magra, nervosa, dedita alle opere religiose - fosse elegantissima anche quando indossava i calzoni, sempre una gran signora, mai condiscendente. Portava ai dito un grosso brillante. In realtà, la signora sembrava timida e fiduciosa quando conversava con i suoi "ospiti", specie gli ospiti di colore, quasi volesse aprirsi per esserne giudicata. Accennava ripetutamente allo "spirito dei tempi". Parlava della tragedia del ghetto, delle colpe dei proprietari di caseggiati popolari; aveva i capelli tagliati corti e li scuoteva spesso, assentendo o dissentendo, facendosi ascoltare. Suo marito portava gli occhiali e si diceva che fosse un dentista chirurgo. Loretta non aveva mai sentito parlare prima di allora di dentisti chirurghi. Pensava che quei due fossero una coppia meravigliosa, vivendo in una dimora così splendida e sempre disposti a preparare la pastella per trenta frittelle, con un minuto di preavviso, e inoltre generosissimi per quanto concerneva gli asciugamani.
In quel quartiere periferico non c'era pericolo a far passeggiate. Loretta e Harold passeggiavano spesso, senza fretta, ammirando i panorami. Sulla Seven Mile Road non facevano che passare macchine della polizia. Autocarri carichi di truppe erano parcheggiati lungo il marciapiedi e gli uomini della Guardia Nazionale, quasi dei ragazzi, guardavano passare Loretta e Harold solenni e malinconici... pensavano forse ai loro genitori, in altre parti dello Stato? Alcuni della Guardia avevano il compito di sorvegliare gli edifici. Dovevano rimanere in piedi per ore, reggendo il fucile, e Loretta li compassionava molto. Ovunque guardasse c'erano poliziotti, macchine della polizia, soldati, ma i loro andirivieni avevano un che di lento, di placido. Il trambusto si trovava in un'altra parte della città. Giovedì sera tutti stavano guardando la televisione, uno spettacolo locale della rete WDET-TV, trasmesso dalla Wayne State University. Sedevano in una stanza adiacente al soggiorno, con le pareti rivestite a pannelli. Loretta non aveva mai veduto pareti simili. Il programma concerneva i disordini. Loretta sedeva accanto al suo amico dell'ufficio postale, che sempre gravitava verso di lei, con la sua espressione dolce, sgomenta e cortese, e la padrona di casa sedeva sul pavimento, i polsi ossuti incrociati sulle ginocchia, indossando un paio di calzoni. Loretta era molto felice soltanto perché si trovava lì, in quella stanza, in quella bella stanza, con tutte quelle persone! Si sforzavano tanto tutti quanti di essere gentili. Le due donne negre del gruppo cercavano in modo particolare di essere gentili e compite; parlavano di rado e quando parlavano si esprimevano a voce bassa, in tono di scusa. Loretta era tanto contenta della sua nuova vita che per qualche minuto non prestò molta attenzione al programma. In realtà non la interessava... riprese cinematografiche dei disordini, le strade piene di fumo, i negozi devastati, gli autocarri carichi di soldati e le monotone inquadrature dei carri armati e dei paracadutisti dell'esercito, tutte queste cose erano già state viste e riviste, senza posa, e l'avevano stancata; ma la stancavano ancora di più i programmi soltanto parlati. Vi erano stati molti programmi di commenti e discussioni dopo l'inizio dei disordini, non appena le autorità avevano deciso che si trattava di "disordini". E un sacerdote, un bell'uomo dai capelli brizzolati, amico di famiglia, aveva diretto altre discussioni lì in casa, dopo cena, con la tazzina di caffè in mano, molto eloquente e coscienzioso. Quel programma televisivo era tutto chiacchiere, improvvisate e alquanto stentate. Un tizio domandava ad altre persone il loro parere. E i pareri si susseguivano, uno dopo l'altro! Un momento grave e tragico per l'America bianca... le colpe
dei padri... oppressione... perfidia... discriminazione... «E ora, rivolgiamoci al dottor Piercy» disse il moderatore. «Dottor Piercy, molti di noi conoscono il suo punto di vista sui rapporti razziali qui a Detroit, ma le spiacerebbe esporli una volta di più al nostro pubblico? Il dottor Piercy è il nuovo direttore del programma di Azione Unita Contro la Povertà, qui a Detroit, un'appendice molto dinamica e assai ben finanziata del Programma Federale contro la Povertà, ed è professore assistente di sociologia alla Wayne State University...» Il dottor Piercy aveva l'aria di un uomo dalla cui faccia fossero stati strappati gli occhiali. Gli occhi erano scialbi e infossati; la sua espressione era irrigidita, con gli occhi socchiusi. «Tutto dovrà essere raso al suolo» disse con foga ma, ciò nonostante, educatamente, e il moderatore sorrise blando a lui e al pubblico televisivo. «Sono spiacente di dovermi esprimere così, ma la verità va detta.» Loretta capì, sebbene non stesse prestando molta attenzione alle sue parole, che era di buona famiglia. Continuava ad alzare una mano per raddrizzare gli occhiali, anche se non li portava. Loretta si domandò se non glieli avessero rotti durante i disordini. «Sono stato in caseggiati infestati dai topi; in luride stanze ove abitano e dormono quindici o più persone, e so,» disse, scoccando occhiate qua e là, «so che la nostra società deve essere rasa al suolo prima che si possa costruire una società nuova, giusta e pacifica. Questo significa la fine del mondo quale noi lo conosciamo, noi bianchi della classe media, ma è necessario rendersene conto, è necessario riconoscerlo, e noi stessi dobbiamo adoperarci per conseguire questo scopo... altrimenti passeremo alla storia dalla parte degli Hitler e degli Stalin, come gli oppressori del genere umano, impegnati in questo momento in una guerra sanguinosa per soffocare la rivoluzione nel Vietnam...» «Mi scusi, dottor Piercy, i suoi collaboratori la pensano nello stesso modo? Possiamo ascoltarli?» La telecamera si spostò inquadrando un giovane negro ben vestito, ma doveva esserci stato un errore... il negro scosse la testa, spaventato, per far capire che non era uno dei collaboratori. La telecamera inquadrò allora un altro uomo, un bianco, bruno di capelli e pallido, più magro e più affilato del dottor Piercy. Loretta lo fissò con gli occhi spalancati. Quell'uomo era suo figlio Jules. «Dio mio» bisbigliò. Jules indossava una camicia scura, senza cravatta e senza giacca. Non avrebbe potuto farsi prestare una giacca? Loretta si imporporò in viso, ver-
gognandosi. Si conficcò le unghie nella carne. «Sì, sono nuovo in questo comitato» disse Jules, rispondendo a una domanda, schiarendosi la voce e parlando troppo forte. «Il dottor Piercy mi ha appena nominato...» Perché stava parlando così forte? E aveva qualcosa su un lato della faccia... un lungo graffio. Sembrava assurdo. Loretta avrebbe voluto balzare in piedi e spegnere il televisore. «Signor Wendall, il suo punto di vista sull'immediato futuro? Che cosa significa, quanto è accaduto, per l'America?» «Tutto in America sta emergendo alla vita. Spezza le catene ed emerge alla vita» disse Jules, con ardore. Aveva una faccia piacevole, un bel viso, anche se ammaccato, ma v'era in essa qualcosa di sfuocato. La sua voce rapida, rauca continuava incalzante, come la voce di qualcuno che parli contro un vento impetuoso. Loretta chiuse gli occhi. Il cuore le stava martellando tanto era infelice. «Vorrei spiegare a tutti quanto sono necessari gli incendi e i rivoltosi nelle strade; non, come dice Mort, qui... il dottor Piercy... affinché tutto possa essere ricostruito, e neri e bianchi vivano insieme, no, né perché i neri vivano per loro conto... no, questo non ha alcuna importanza, questo va bene per i giornali o per le società di assicurazione. La sola cosa necessaria da capire è che gli incendi distruggono e fanno il loro dovere, eternamente, e che gli incendi non saranno mai spenti...» «Mi scusi, signor Wentwell, lei sta dicendo... ha detto... gli incendi distruggono e fanno il loro dovere?» Loretta riaprì gli occhi, non poté farne a meno. Suo figlio si protendeva verso la telecamera. Accanto a lui il dottor Piercy sedeva, a disagio, asciugandosi la faccia nervosamente e scoccando a Jules occhiate in tralice. «La violenza non può essere isolata da un giorno qualsiasi!» gridò Jules. «Tutti devono vivere ancora e ancora nella violenza, essa non ha fine, non ha una terra cui approdare, né spazi nel bel mezzo delle città... chi li vuole i parchi al centro delle città?... I parchi non bruciano!» «Grazie, signor Wentwell» disse il moderatore «e ora...» Sebbene la telecamera si fosse spostata, Jules continuò a parlare. «Non farà alcun male» stava dicendo la sua voce, con ardore. «Lo stupratore e la sua vittima si alzano dalle rovine, in ultimo, all'alba, e si rassettano, e vanno in una tavola calda. Mi creda, la passione non può durare! Tornerà a farsi sentire, ancora e ancora, ma non può durare!» La telecamera si spostò a sussulti. Il moderatore scelse un altro uomo, un
uomo più anziano, dal colletto clericale. Loretta sedeva in preda a un ardente stordimento, incapace di muoversi. Dov'era suo figlio? Anche la voce di lui era stata interrotta, qualcun altro stava parlando, adesso, qualcun altro ne aveva preso il posto. Che cosa era capitato a Jules? Perché aveva detto cose tanto pazzesche? Si vergognava di lui. Ricordò quando aveva bruciato una stalla, da bambino. Ricordò quando si era aperto un varco nella folla per andare a guardare un aeroplano che bruciava. Ma è un assassino!, pensò con chiarezza. È un assassino, e lei aveva generato un assassino. Un uomo dal colletto clericale, un ecclesiastico anglicano, stava parlando con voce solenne e limpida: «... non dobbiamo cedere alle sventure della storia, né dobbiamo cedere alla disperazione. Non posso concordare con il nostro giovane amico, secondo il quale la violenza è in cammino e ci cambierà tutti, o comunque egli dica. Devo ammettere che non riesco a capirlo. Appartengo a una generazione precedente. Tutto il mio impegno è per l'educazione, fondi enormemente accresciuti stanziati per l'educazione e per il risanamento dei quartieri poveri, allo scopo di creare un'America nuova per tutti i nostri figli...». Loretta si mise a piangere. Si voltarono tutti verso di lei, stupiti. Ella si coprì la faccia con le mani, piangendo. La padrona di casa si mise in piedi e gridò: «Che cos'ha? Non pianga, la prego, che cosa è accaduto? Lasci che l'aiutiamo...». Loretta si alzò. Piangeva, ma con dignità; era consapevole di essere osservata, fissata. Perché stava piangendo? A che cosa giovava? Gesù Cristo, questo è uno sperpero, pensò. Perché dovrei piangere a causa sua? La signora l'accompagnò fuori della stanza e nel bagno. Ma lei non riuscì ugualmente a smettere di piangere. 9 Maureen andò ad aprire la porta al suono del campanello una sera, nei primi giorni d'agosto, e sulla soglia c'era lui, Jules in persona. Ella teneva in mano una rivista che aveva letto; cercò di metterla in qualche posto, ma non gliene venne in mente nessuno. Fissò Jules e non le venne in mente niente da dire. «Be', che cosa c'è? Ti stupisce che abbia saputo il tuo indirizzo?» disse lui. «Jules, Dio mio...» «Non posso entrare? Soltanto per un minuto?»
Lo fissò. Adesso che era sposata e abitava fuori città, in un palazzo di appartamenti, pensava di rado ai suoi familiari e non si aspettava mai di vederli. Nemmeno Jules. Suo marito, veduto il nome Jules Wendall sul giornale, le aveva domandato se si trattasse di suo fratello Jules e lei si era affrettata a rispondere di no, che non era suo fratello, che non era lui. E ora, vedendolo, si sentiva un po' sconvolta. «Tuo marito è in casa?» «No, insegna a un corso serale.» «Perché mi stai guardando in quel modo?» «È una tale sorpresa vederti!» «Ho una brutta cera?» «No, non hai una brutta cera.» Ma, si sentiva davvero sconvolta, non per la sua faccia, ma per la sua presenza, così vicina, la sua esistenza così strettamente legata a quella di lei; uscì nel corridoio delle scale e chiuse la porta alle proprie spalle. «Possiamo parlare qui fuori. Ti prego. Cosa... cosa volevi?» «Non posso restare e conoscere tuo marito?» «Rientrerà molto tardi.» «Maureen, sei così pallida, hai una faccia terribile. È a causa mia? Non vuoi vedermi? Perché no?» «Io... io... voglio vederti...» balbettò, poi tacque. Jules si sporse per guardare la copertina della rivista, come se avesse potuto spiegare il suo silenzio: vide la lucida fotografia di una torta coperta di panna montata. «Che cos'hai?» domandò. «Niente.» «Il tuo matrimonio è molto segreto, eh? Sono passato a salutare Ma' parto - e lei si è lagnata di te, dice che non ti fai viva, è crucciata a causa tua, e via dicendo. Perché non vai a trovarla, Maureen? Ne ha passate di tutti i colori, dopo che le hanno bruciato la casa. Anche Betty ha smesso di andare a vedere se potrebbe esserle utile. Ma' alloggia con una sua amica, una certa Ethel, e se la passa benissimo... può anche darsi che si rimariti, te lo aveva detto?» «Ho saputo qualcosa al riguardo» disse Maureen, con disgusto. «Non ti interessa?» Ella sbirciò in tralice suo fratello. Indossava una maglietta scura a collo aperto e un paio di pantaloni scuri. Aveva l'aria di un ladro fortunato. Il fatto stesso che esistesse, e le fosse così vicino, era un fardello tremendo.
«Non ti interessa?» tornò a domandarle Jules. «Voglio bene a Ma' e a tutti, lo sai, Jules, ma adesso ho la mia vita da vivere e devo... devo viverla...» «Persino Betty è andata da lei e le ha dato qualche dollaro! È il meno che tu potresti fare, darle un po' di soldi, o telefonarle...» «Ho la mia vita da vivere.» «Che cosa c'è di tanto difficile nel vivere?» «Non parlarmi così! Lo sai! Sai tutto quello che so io! Jules, per piacere, non potresti andartene, adesso? Non mi sento bene. Sono sconvolta. Non abbiamo denaro, lui deve pagare il mantenimento dei figli e... e così via. Il denaro che abbiamo non basta nemmeno per noi...» «Va bene.» «Stiamo per avere un bambino, non possiamo permetterci di dar via soldi...» «Va bene, me ne vado.» Jules si sporse e le accarezzò il capo. Come una gatta, imbronciata e lenta, Maureen inclinò la testa verso di lui. Per qualche secondo rimasero così, tacendo. Poi Jules disse: «Mort è stato trasferito a Los Angeles e mi conduce con sé. Abbiamo un bilancio di centomila dollari da amministrare. Fuori c'è la mia automobile... ho già acquistato un'automobile per il viaggio, con l'aria condizionata. E quando mi sarò sistemato laggiù, mi metterò negli affari, affari di qualche genere. Potrei essere bene introdotto, per il tramite del governo. Chissà che non mi dedichi alla compravendita di immobili, un lavoro redditizio». «Leggendo il giornale sembrava che tu fossi comunista. Qualcuno non disse che tu eri comunista e dovevi essere licenziato?» «Comunista! Figuriamoci. Non so nemmeno che cosa sia un comunista!» Jules rise. «Non sono niente. Sto cercando soltanto di sbarcare il lunario. Il mio principale, Mort, il dottor Piercy, è davvero picchiato, matto da legare. Martedì scorso certi giovinastri negri lo hanno pestato... era in giro con una pattuglia della polizia a fare domande, e la polizia non ha mosso un dito per difenderlo. Ma la cosa più buffa, più comica... gli si sono rotti gli occhiali per la seconda volta e ha ottenuto il posto soltanto perché il capo del comitato aveva l'esaurimento nervoso. Quanto a me, mi ha preso nel comitato perché gli sono simpatico. Si è messo in mente certe idee sul mio conto, sulla mia vita. Dice che gli piacerebbe scrivere la mia vita, come una specie di caso clinico. Ma che diavolo? dico io. Tutto quello che mi è accaduto prima non è niente... non esiste! La mia vita sta cominciando appena adesso. Insomma, sto per andare in California e non
voglio turbarti, sono venuto soltanto a dirti arrivederci. Può non farti piacere che tuo marito mi conosca, lo capisco bene, anche se in realtà, piccola, non sono un cattivo soggetto come qualcun altro della nostra famiglia.» «Jules, non volevo dir questo!» esclamò Maureen. «Sei un uomo meraviglioso, sei stato per me un meraviglioso fratello, e ti voglio bene. Ti ricorderò sempre... quando avevi cura di me, le tue lettere quando ero malata, tutte queste cose, e quello che abbiamo dovuto patire insieme, ma... ma voglio farla finita, sono stanca di tutto questo, in me del passato non deve restare che qualche incubo di quando in quando. I brutti sogni posso sopportarli. Se questo è il peggio che mi aspetta, posso sopportarlo.» «Capisco.» «E i soldi che abbiamo non bastano nemmeno per noi. Io... darei del denaro a Ma', se ne avessimo, ma... Jules, non voglio ricordare più niente del passato! Qualche incubo, ecco tutto, niente di più... ti prego. Mi desto di soprassalto, sudata, e accanto a quest'uomo, un uomo che non conosco, voglio dire, non ricordo se si tratta di mio marito o no, o di qualcun altro, qualcuno che mi ha dato un passaggio. Non posso più ricordare queste cose, Jules, voglio farla finita. Dimenticherò tutto e tutti. Avrò un bambino. Sono un'altra persona.» «Ami tuo marito?» «Sto per avere un bambino, sono un'altra donna.» «E Ma' e gli altri?» «Quali altri?» «Oh, lo sai, tutti quanti... Ma' e suo fratello, se per caso dovesse rifarsi vivo, e Betty, e Connie, e le matte amiche di Ma'...» «Credo che non rivedrò più nessuno di loro.» Jules le pizzicò affettuosamente la nuca. Sembrava davvero pieno d'allegria, lo Jules che ella ricordava di aver conosciuto tanti anni prima, agile e traboccante di sorprese. «Ma, cara, non sei anche tu una di loro?» Maureen non gli rispose. Lo aveva accompagnato fino alle scale, di nuovo indietro fino alle scale. Perché non se ne andava? Con una mano egli toccò la ringhiera... era di plastica... e Maureen vide come traballava, sarebbe caduta di certo se qualcuno vi avesse urtato contro. Pensieroso, Jules tolse la mano. In un mormorio sommesso, con una voce quasi ardente, disse: «Tesoro, capisco. Ti voglio bene anch'io. Penserò sempre a te, e forse, quando avrò fatto strada, quando mi sarò rimpannucciato, quando tornerò qui e mi sposerò - voglio
sposare lei, comunque, quella donna, quella che tentò di uccidermi, l'amo ancora e farò soldi e tornerò e la sposerò, aspetta e vedrai - quando tornerò, sistemato un po' meglio, potremo vederci. D'accordo? Ti voglio bene perché sei una così cara sorellina e hai sofferto tanto e sei riuscita a uscirne adoperando il cervello, ma non dimenticarti che anche questo posto può essere distrutto dalle fiamme. Gli uomini possono tornare nella tua vita, possono pestarti di nuovo e allargarti a forza le gambe, perché no? Ce n'è una tale abbondanza, al mondo, una tale abbondanza di seme, e tanti di quegli uomini! Non potrebbe accadere? Non accadrà? Davvero non vorresti che accadesse?». «No!» «Maureen, davvero? Dimmelo.» «No, mai! Mai.» Jules rimase immobile a guardarla. Maureen si premette le mani sulle orecchie. Stava per avere un bambino, la gravidanza l'appesantiva, ma era sicura di sé, graziosa, pulita, sposata. Non lo guardò. «Bene, non voglio rendere la vita più difficile di quello che dovrebbe essere» disse Jules. Prese la mano di sua sorella, la baciò e salutò, con un ironico, affettuoso cenno del capo sopra di lei: era lo Jules che ella aveva sempre amato, e adesso gli voleva bene perché se ne andava, perché la salutava, perché la lasciava per sempre. FINE