RUTH RENDELL OLTRE IL CANCELLO (Kissing The Gunner's Daughter, 1992) In memoria di Eleanor Sullivan 1928-1991 Una grande...
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RUTH RENDELL OLTRE IL CANCELLO (Kissing The Gunner's Daughter, 1992) In memoria di Eleanor Sullivan 1928-1991 Una grande amica 1 Il tredici di maggio è il giorno più sfortunato dell'anno. Se poi capita di venerdì, le cose andranno infinitamente peggio. Quell'anno, tuttavia, era un lunedì e già abbastanza nero, sebbene Martin se la ridesse di certe superstizioni e in data 13 maggio si sarebbe impegnato in qualsiasi impresa importante o avrebbe preso un aereo senza alcun patema d'animo. Quel mattino, aveva trovato una pistola nella borsa che suo figlio si portava a scuola. Ai suoi tempi la chiamavano cartella, ora invece zainetto. La pistola stava tra una confusione di libri di testo, quaderni con le orecchie, fogli accartocciati e un paio di calzerotti da calciatore, e per un singolo, agghiacciante momento, Martin aveva pensato che fosse vera. Per una quindicina di secondi, aveva creduto che Kevin fosse in possesso del revolver più grande ch'egli avesse mai visto, sebbene di un tipo che non era assolutamente in grado di identificare. L'accorgersi che era una riproduzione non gli aveva impedito di confiscarla. — A questa puoi dire addio, mettitelo bene in mente — aveva detto al figlio. La scoperta era stata fatta nell'auto di Martin poco prima delle nove del mattino di quel lunedì 13 maggio, mentre erano diretti verso la scuola media di Kingsmarkham. Lo zainetto di Kevin, chiuso alla meglio, era scivolato giù dal sedile posteriore e parte del suo contenuto si era sparso sul pavimento. Kevin era rimasto a guardare muto e in silenzio mentre la riproduzione dell'arma spariva nella tasca dell'impermeabile del padre. Ai cancelli della scuola, aveva lasciato l'auto, borbottando un arrivederci, e si era allontanato senza mai voltarsi. Quello era stato il primo anello di una catena di eventi che doveva condurre a ben cinque morti. Se Martin avesse trovato l'oggetto prima che lui
e Kevin uscissero di casa, non sarebbe accaduto niente di quello che seguì. A meno che non crediate nella predestinazione e nel fato. A meno che non siate convinti che i nostri giorni siano numerati. Se riuscite a immaginare questo, se riuscite a percepirli numerati all'incontrario, dalla morte alla nascita, Martin era arrivato al Giorno Uno. Lunedì, 13 maggio. Era anche la sua giornata di libertà, quel Giorno Uno della sua vita, per il sergente investigativo Martin del dipartimento d'investigazione criminale di Kingsmarkham. Era uscito di casa presto, non soltanto per accompagnare il figlio a scuola - quello era un caso, un sottoprodotto dell'essere uscito di casa alle nove meno dieci - ma per far applicare un nuovo paio di tergicristallo alla sua vettura. La mattinata era bella, il sole splendeva in un cielo limpido e le previsioni erano buone, ma ugualmente lui non si sarebbe arrischiato ad accompagnare la moglie a Eastbourne e a passarvi la giornata, con i tergicristallo che non funzionavano più. Quelli del garage si comportarono alla maniera tipica. Martin aveva preso accordi per telefono il giorno innanzi ma questo non impedì all'impiegata di reagire come se non lo avesse mai sentito nominare, o all'unico meccanico disponibile di scuotere la testa e dire che era possibile, sì, si sarebbe potuto anche fare, ma Les era stato chiamato altrove inaspettatamente per un caso di emergenza e Martin avrebbe fatto meglio ad aspettare che gli telefonassero loro. Alla fine Martin riuscì a strappargli una specie di promessa che il lavoro sarebbe stato fatto per le dieci e mezzo. S'incamminò a piedi lungo Queen Street. La maggior parte dei negozi era ancora chiusa. Le persone che incontrava erano pendolari diretti alla stazione. Martin poteva sentire l'arma dentro la tasca, avvertirne il peso e la forma, la massa che lo appesantiva dal lato destro. Era un'arma grossa e pesante con una canna di dieci centimetri. Se un giorno avessero armato la polizia inglese, ecco quale sarebbe stata la sensazione. Ogni giorno, per tutto il giorno. Martin pensò che la cosa poteva avere i suoi inconvenienti, oltre che i suoi vantaggi, ma tutto sommato non riusciva a immaginare che il Parlamento approvasse una misura del genere. Si domandò se parlare alla moglie di quell'arnese e, seriamente, se fosse il caso di parlarne all'ispettore Wexford. Che cosa se ne fa un ragazzo di tredici anni della riproduzione di un'arma che probabilmente veniva data in dotazione agli agenti di Los Angeles? Kevin era troppo grande, ormai, per una pistola giocattolo, ma quale poteva essere lo scopo di una riproduzione
fedele se non quello di minacciare, di far credere agli altri che fosse vera? E perché farlo credere, se non con intenti criminali? Non c'era niente che Martin potesse fare, al momento. Quella sera, però, qualsiasi decisione avesse preso in proposito, doveva fare un discorso molto serio con Kevin. Svoltò nella High Street, da dove poteva vedere l'orologio azzurro e oro sul campanile della chiesa di St Peter, che ora segnava quasi le nove e mezzo. Era diretto in banca, con l'intenzione di prelevare quanto bastava per saldare il conto del garage, nonché pagare la benzina, il pranzo per due, eventuali spese a Eastbourne, e avere in tasca qualcosa per i prossimi due o tre giorni. Martin diffidava delle carte di credito e, sebbene ne possedesse una, raramente la usava. Aveva un identico atteggiamento rispetto al prelievo automatico. La banca era ancora chiusa, la solida porta d'entrata di quercia fermamente sbarrata, ma c'era il bancomat, installato per sua comodità nella facciata di granito. Il tesserino lo aveva nel portafoglio, e si spinse al punto di tirarlo fuori e guardarlo. Da qualche parte si era annotato il numero essenziale. Tentò di ricordarlo: cinque-cinque-tre? Cinque-tre-zero-cinque? Udì i chiavistelli scorrere, poi gli scatti della serratura. Il pesante portone prese ad aprirsi, rivelando la porta interna a vetri. Il capannello di clienti che Martin aveva trovato al suo arrivo entrò nella banca prima di lui. Martin si diresse verso uno dei banconi provvisti di cartelletta e di penna a sfera incatenata a un finto calamaio. Tirò fuori il libretto di assegni. Per incassare un assegno non gli serviva la carta di credito, lì dove tutti lo conoscevano, dove aveva il conto corrente; aveva già incontrato lo sguardo di uno dei cassieri e scambiato un saluto. Pochi, tuttavia, conoscevano il suo nome di battesimo. Tutti lo chiamavano Martin, ed era stato sempre così. Perfino sua moglie lo chiamava Martin. Wexford doveva saperlo come si chiamava, e anche quelli della contabilità del dipartimento, e chiunque si occupasse di cose del genere in quella banca. Quando si era sposato aveva dovuto pronunciarlo, e sua moglie aveva dovuto ripeterlo. Un gran numero di persone pensava che Martin fosse il suo primo nome. La verità era un segreto che lui teneva chiuso in se stesso per quanto gli era possibile, e ora, nel riempire l'assegno, firmò come sempre, "C. Martin". Dietro i loro schermi di vetro, due cassieri dispensavano contanti o ricevevano depositi: Sharon Fraser e Ram Gopal, ciascuno con la sua brava targhetta sul vetro e una luce, in alto, che lampeggiava per indicare quando erano liberi. Si era formata una coda nell'area destinata di recente a chi a-
spettava in fila: un corridoio delimitato da paletti cromati e cordoni color turchese. — Neanche fossimo bestiame al mercato — commentò indignata la donna davanti a lui. — Be', in fondo è giusto — disse Martin, che aveva un profondo rispetto per la giustizia e per l'ordine. — Serve a fare in modo che ciascuno osservi il suo turno. Fu allora, subito dopo aver detto quelle parole, che si rese conto di un vago trambusto. C'è qualcosa di molto calmo nell'atmosfera dell'interno di una banca. Il denaro è serio, il denaro è tranquillo. Frivolezza, divertimento, movimenti rapidi, fretta, non hanno posto in quella sede di consuetudine, di scambio pecuniario, e di conseguenza il minimo mutamento di umore viene avvertito all'istante. Qualsiasi lieve agitazione fa trasalire i clienti in attesa. Martin sentì una corrente d'aria provenire dalla porta a vetri aperta troppo bruscamente, avvertì il cadere di un'ombra mentre il portone, che non veniva chiuso mai durante il giorno, che rimaneva bloccato in permanenza durante l'orario di apertura, veniva chiuso con cura e quasi silenziosamente. Si girò. Tutto, a quel punto, accadde molto rapidamente. L'uomo che aveva chiuso il portone, e l'aveva sbarrato, ordinò in tono brusco: — Tutti contro la parete in fondo. Presto, per favore. Martin notò l'accento, che era inconfondibilmente di Birmingham. Quando l'uomo parlò, qualcuno mandò un grido. C'è sempre qualcuno che grida. L'uomo, che aveva in mano una pistola, aggiunse nel suoi toni piatti, nasali: — Non vi accadrà niente, se fate come vi viene ordinato. Il suo compagno, in realtà un ragazzo, il quale a sua volta aveva una pistola, avanzava ora lungo il passaggio tra paletti cromati e cordoni turchesi, dirigendosi verso i due cassieri. Uno, Sharon Fraser, era dietro lo sportello alla sua sinistra, l'altro, Ram Gopal, dietro lo sportello alla sua destra. Martin era indietreggiato contro la parete a sinistra insieme agli altri che erano in coda con lui. Erano tutti da quel lato, tenuti a bada con la pistola dall'uomo. Era quasi certo che l'arma nella mano guantata del ragazzo fosse un giocattolo. Non una riproduzione come quella che aveva in tasca lui, ma un giocattolo. Il ragazzo sembrava giovanissimo, sui diciassette o diciott'anni, ma Martin sapeva che, pur essendo egli stesso ancora giovane, era abba-
stanza adulto da saper distinguere un diciottenne da un ventiquattrenne. Si costrinse a imprimersi nella mente ogni particolare dell'aspetto del ragazzo, non sapendo, non potendo immaginare in quel momento, che ogni suo sforzo di registrare elementi veniva fatto invano. Notò con analoga cura l'aspetto dell'uomo. Il ragazzo aveva uno strano sfogo sulla faccia, o forse delle macchie. Martin non aveva mai visto niente di simile in vita sua. L'uomo era olivastro e aveva le mani tatuate. Non portava guanti. Anche l'arma in mano al più vecchio poteva essere finta, ma gli era impossibile dirlo. Nell'osservare il ragazzo, gli veniva alla mente suo figlio, solo di qualche anno più giovane. Kevin aveva forse contemplato qualcosa del genere? Martin toccò la riproduzione dentro la tasca, incontrò gli occhi dell'uomo fissi su di lui. Sollevò la mano e la strinse istintivamente contro l'altra. Il ragazzo aveva detto qualcosa a Sharon, la cassiera, ma Martin non ne aveva afferrato il senso. Dovevano pur avere qualche sistema d'allarme, nella banca. Confessò a se stesso di non sapere di che genere. Un pulsante da premere col piede, forse? Chissà se in quel preciso momento un segnale non stesse risuonando nel posto di polizia? Non gli venne in mente di imprimersi nella memoria qualche particolare sull'aspetto dei suoi compagni, quelli che come lui cercavano riparo contro la parete. Quand'anche, del resto, non avrebbe fatto alcuna differenza. Tutto quel che avrebbe potuto dire era che nessuno di essi era vecchio, sebbene tutti tranne uno fossero adulti. L'eccezione era il lattante che la madre si portava appeso sul petto per mezzo di un marsupio. Erano ombre, per lui, un pubblico anonimo e senza volto. Gli cresceva dentro l'impulso di fare qualcosa, di intraprendere un'azione qualsiasi. Provava un'indignazione enorme, come sempre di fronte a un crimine o a un tentato crimine. Come osavano? Chi credevano d'essere? Per quale supposto diritto entravano per appropriarsi di quel che non apparteneva a loro? Era lo stesso senso di rivolta che provava nell'apprendere che una nazione ne aveva invasa un'altra. Come osavano commettere un simile oltraggio? La cassiera stava consegnando il denaro. Martin non pensava che Ram Gopal avesse messo in funzione un allarme. Lo vedeva fissare, impietrito dal terrore o in preda a una calma imperscrutabile. Stava osservando Sharon Fraser premere, sul distributore di denaro alla sua sinistra, i tasti che avrebbero espulso banconote già legate in mazzette da cinquanta e da cento. I suoi occhi fissi guardavano una mazzetta dopo l'altra venire spinta al
di sotto della barriera di vetro e attraverso il piccolo avvallamento metallico, e sparire nell'avida mano guantata. Il ragazzo prendeva il denaro con la sinistra, afferrandolo, buttandolo dentro una sacca di canapa che portava legata alla vita. Teneva la pistola, l'arma giocattolo, puntata su Sharon Fraser. L'uomo aveva sotto tiro gli altri, compreso Ram Gopal. Gli era facile, dal punto dove stava. L'interno della banca era piccolo e loro erano assiepati tutti da un lato. Martin era consapevole del lamento smorzato di una donna che piangeva, cercando di soffocare i singhiozzi. La sua indignazione minacciava di esplodere. Ma non ancora, non era ancora il momento. Gli passò per la mente che se la polizia fosse stata autorizzata a portare armi lui ora sarebbe stato talmente abituato a maneggiarle da poter distinguere con certezza una pistola vera da una falsa. Il ragazzo si era spostato per portarsi davanti a Gopal. Sharon Fraser, una ragazza giovane e grassottella di cui Martin conosceva la famiglia, la cui madre era stata compagna di scuola di sua moglie, se ne stava immobile con i pugni contratti, le lunghe unghie rosse conficcate nella carne. Ram Gopal aveva cominciato a passare mazzette di banconote sotto la barriera di vetro. Si era quasi alla fine, ormai. Tra pochi istanti sarebbe finito tutto e lui, Martin, non aveva ancora fatto niente. Vide l'uomo olivastro e tozzo indietreggiare verso la porta, ma faceva ben poca differenza, erano tuttora sotto il tiro di quella pistola. Martin fece scivolare una mano in tasca e tastò l'enorme gingillo tolto a Kevin. L'uomo vide il gesto ma non fece niente. Doveva aprire quel portone, tirarne il chiavistello per poter fuggire insieme al compagno. Martin aveva capito subito che la pistola di Kevin non era vera. Per lo stesso processo di identificazione e di logica, se non per esperienza, sapeva che neppure quella del ragazzo era autentica. L'orologio sulla parete al di sopra delle casse, dietro la testa del ragazzo, segnava le nove e quarantadue. Con quanta rapidità si era svolto il tutto! Soltanto mezz'ora prima lui si trovava in quel garage. Soltanto quaranta minuti prima aveva trovato la riproduzione dell'arma nello zainetto e l'aveva confiscata. Sprofondò la mano nella tasca, estrasse velocemente la pistola di Kevin e gridò: — Giù le armi! L'uomo si era girato per una frazione di secondo, per togliere il chiavistello al portone. Ora indietreggiò contro di quello, reggendo l'arma con tutt'e due le mani, come un gangster in un film. Il ragazzo afferrò l'ultima mazzetta, la gettò dentro la sacca di tela.
— Giù le armi! — ripeté Martin. Il ragazzo girò lentamente la testa e lo guardò. Una donna mandò una sorta di miagolio soffocato. La piccola arma in mano al ragazzo parve tremolare. Martin udì il portone sbattere fragorosamente contro la parete. Non sentì l'uomo uscire, l'uomo con l'arma vera, ma capì che non c'era più. Una folata di vento spazzò l'interno della banca e la porta a vetri sbatté. Il ragazzo continuava a fissare Martin con uno strano sguardo impenetrabile, forse da drogato, reggendo l'arma come se da un momento all'altro potesse lasciarla cadere, come se stesse portando a termine una prova per vedere quanto mollemente poteva tenerla sospesa da un dito prima che cadesse. Qualcuno entrò nella banca. La porta a vetri venne spinta verso l'interno. Martin urlò: — Torni indietro! Chiami la polizia! Presto! C'è stata una rapina! Mosse un passo in avanti, verso il ragazzo. Sarebbe stato facile, era facile, il vero pericolo era passato. La sua pistola era puntata sul ragazzo e il ragazzo tremava. Martin pensò: ce l'avrò fatta, da solo, mio Dio! Il ragazzo premette il grilletto e gli sparò al cuore. Martin cadde. Non si piegò su se stesso, ma scivolò al suolo mentre le ginocchia, sotto di lui, cedevano. Gli sgorgò sangue dalla bocca. Non emise alcun suono, al di là di un lieve colpo di tosse. Si accasciò, come in un film al rallentatore, le mani afferrarono l'aria, ma con deboli gesti aggraziati, e a poco a poco scivolò nell'immobilità assoluta, gli occhi levati a fissare senza vederlo il soffitto a volta della banca. Per un attimo era regnato il silenzio, poi la gente esplose in urla e grida. Tutti si affollarono intorno al morente. Brian Prince, il direttore della banca, uscì dall'ufficio interno e altri del personale arrivarono con lui. Ram Gopal era già al telefono. Il bebè ruppe in un pianto disperato e straziante mentre la madre, gridando e farfugliando parole confuse, serrava le braccia intorno al corpicino. Sharon Fraser, che conosceva bene Martin, uscì nella sala e gli si inginocchiò accanto, piangendo e torcendosi le mani, invocando giustizia, vendetta. — Oh Dio, oh Dio, che cosa gli hanno fatto? Qualcuno mi aiuti, non lasciamolo morire... Ma Martin era già morto. 2 Il nome di battesimo di Martin apparve sui giornali. Venne pronunciato
ben chiaro durante il telegiornale del tardo pomeriggio e di nuovo in quello delle nove. Sergente investigativo Caleb Martin, di trentanove anni, sposato e padre di un ragazzino. — È strano — disse l'ispettore Burden — non ci crederai, ma non sapevo affatto che si chiamasse così. Pensavo che il nome fosse John, o Bill, o qualcosa del genere. Noi lo chiamavamo sempre Martin come se quello fosse il nome, non il cognome. Perché ha voluto fare quella fine? Che cosa lo avrà spinto, dico io. — Il coraggio — sentenziò Wexford. — Povero diavolo. — La temerarietà. — Burden lo disse con tristezza, senza alcun biasimo. — Immagino che il coraggio non abbia molto a che fare con l'intelligenza, vero? E neppure con il ragionamento o la logica. Non ha dato al pensiero la minima possibilità di lavorare. Era stato uno di loro, uno dei loro. Inoltre, per un poliziotto c'è qualcosa di particolarmente orribile nell'uccisione di un collega. È come se la colpa raddoppiasse e il peggiore dei crimini divenisse ancora più grave, perché la vita di un poliziotto, idealmente, è dedicata alla prevenzione di simili atti. L'ispettore Wexford non spendeva più sforzi nella ricerca dell'assassino di Martin di quanti ne avrebbe spesi nel dar la caccia a qualsiasi altro assassino, ma dal lato emotivo si sentiva più coinvolto del solito. Non aveva nemmeno avuto una particolare simpatia per Martin, che l'aveva anzi irritato per il suo zelo, il suo impegno privo di fantasia. "Testone" è un appellativo peggiorativo e quasi di scherno che viene applicato spesso ai poliziotti, ed era il primo che veniva alla mente, nel caso di Martin. C'è addirittura un termine di slang, "Il Cranio", in uso nelle forze di polizia. Ma tutto questo era dimenticato ora che Martin era morto. — Ho pensato spesso — disse Wexford a Burden — che pessima prova di psicologia abbia dato Shakespeare nel dire che il male fatto dagli uomini resta, il bene è spesso interrato con le loro ossa. Non che il povero Martin fosse malvagio, ma tu sai quello che voglio dire. Sono le cose buone che ricordiamo della gente, non le cattive. Ricordo com'era puntiglioso, pignolo e... be', caparbio. Penso a lui con vera tenerezza, ora, quando non sono fuori di me per la rabbia. Ma Dio, divento talmente furibondo che quasi non ci vedo, quando penso a quello sbarbatello con le macchie che gli ha sparato a sangue freddo. Avevano cominciato con l'interrogare a fondo e meticolosamente Brian Prince, il direttore, e Sharon Fraser e Ram Gopal, i cassieri. Subito dopo era toccato ai clienti che si erano trovati nella banca: o meglio, a quelli che
si erano fatti avanti, o che era stato possibile rintracciare. Nessuno era in grado di dire quante persone esattamente si trovassero in banca in quel momento. — Il povero Martin sarebbe stato in grado di dircelo, ne sono certo — commentò Burden. — Lui lo sapeva, ma è morto, e se non lo fosse niente di tutto questo avrebbe importanza. Brian Prince non aveva visto niente. Si era accorto di quel che accadeva soltanto nel sentire il colpo che aveva ucciso Martin. Ram Gopal, uno dei pochissimi immigrati indiani residenti a Kingsmarkham, appartenente alla casta bramina del Punjab, aveva dato a Wexford la descrizione migliore e più completa di entrambi i rapinatori. Con descrizioni così, si era detto in seguito Wexford, sarebbe un delitto non catturarli. — Li ho osservati molto attentamente. Me ne stavo immobile, conservando le mie energie, e mi concentravo su ogni particolare del loro aspetto. Sapevo di non poter far niente, ma questo potevo farlo, e l'ho fatto. Michelle Weaver, che a quell'ora stava andando al lavoro nell'agenzia di viaggi due porte più in là, descriveva il ragazzo come fra i ventidue e i venticinque anni, biondo, non molto alto, e con una grave forma d'acne. La mamma del bambino, signora Wendy Gould, diceva anche lei che il ragazzo era biondo, però alto, almeno uno e ottanta. Anche a Sharon Fraser era sembrato alto e biondo, ma lei aveva notato in particolare gli occhi, che erano di un celeste molto vivido. Tutti e tre i clienti maschi dicevano che il ragazzo era basso o di media statura, magro, forse sui ventidue, ventitré anni. Wendy Gould asseriva che aveva l'aspetto di un malato. L'ultima delle donne, la signora Margaret Watkin, lo descriveva basso e bruno, con gli occhi scuri. Tutti convenivano che avesse una faccia segnata, ma Margaret Watkin dubitava che la causa fosse l'acne. Secondo lei, era tutta una serie di piccole voglie. Il compagno del ragazzo veniva immancabilmente descritto come molto più anziano, di dieci anni più vecchio o, secondo la signora Watkin, almeno di una ventina. Era bruno, qualcuno diceva olivastro, e aveva mani pelose. Soltanto Michelle Weaver diceva che aveva un neo sulla guancia sinistra. Sharon Fraser era del parere che fosse molto alto ma uno degli uomini lo descriveva come "gracile" e un altro come "non più alto di un adolescente". La sicurezza e la concentrazione di Ram Gopal ispiravano fiducia a Wexford. Lui il ragazzo lo descriveva sul metro e settanta, molto magro, biondo, occhi azzurri e macchie da acne. Indosso aveva jeans di tela blu,
una maglietta scura e una giacca di pelle nera. Portava i guanti, particolare che nessun altro aveva menzionato. L'uomo non portava guanti. Le sue mani erano coperte di peli neri. Anche i capelli erano neri, o molto scuri, ma era molto stempiato, il che dava l'impressione che avesse una fronte altissima. Era almeno sui trentacinque e vestito più o meno come il ragazzo, tranne che i suoi jeans erano di un colore scuro, grigio o marrone, e indossava una specie di pullover marrone. Il ragazzo aveva parlato solo una volta, per dire a Sharon Fraser di consegnargli il denaro. Sharon Fraser non sapeva descriverne la voce. L'opinione di Ram Gopal era che non avesse un accento cockney ma neppure una voce da persona istruita: probabilmente, era della parte sud di Londra. Poteva essere l'accento del luogo, ormai "londinizzato" dall'estendersi della capitale e dalla televisione? Ram Gopal ammetteva che fosse possibile. Ma non era pratico di accenti inglesi, cosa che Wexford scoprì, mettendolo alla prova e trovando che definiva dello Yorkshire un accento di Devon. E quante persone c'erano nella banca? Ram Gopal diceva quindici includendo il personale, Sharon Fraser diceva sedici. Brian Prince non lo sapeva. Dei clienti, uno diceva dodici e l'altro diciotto. Era evidente che, pochi o tanti che fossero, non tutti si erano fatti avanti in risposta agli appelli della polizia. Nel tempo intercorso tra l'uscita dei rapinatori e l'arrivo degli agenti, forse almeno cinque persone avevano lasciato la banca alla chetichella, mentre gli altri si preoccupavano di Martin. Appena ne avevano visto la possibilità, se l'erano svignata. Chi poteva biasimarli, specie se non avevano visto niente di rilevante? Chi vuole venire coinvolto in un'indagine di polizia, se non ha niente con cui contribuire? O qualcosa sì, magari, ma piccola e insignificante, che altri testimoni, più attenti, possono sicuramente fornire. Quanto più semplice, per amore della propria tranquillità, sgattaiolar via e tornare al lavoro, o a far la spesa, o a casa propria. La polizia di Kingsmarkham doveva affrontare il fatto che quattro o cinque persone sapevano qualcosa, o forse niente, ma si tenevano ben nascoste. Tutto quello che la polizia sapeva era che nessuna di quelle persone, quattro, cinque, o forse tre, era nota sia pure di vista ai dipendenti della banca, almeno per quel che potevano ricordare. Né Brian Prince, né Ram Gopal, né Sharon Fraser rammentavano d'avere notato tra la gente in coda una faccia non nuova. A parte, s'intende, quelle dei clienti regolari, che dopo la morte di Martin erano rimasti tutti all'interno della banca.
Lo stesso Martin, naturalmente, era ben conosciuto, e così Michelle Weaver e Wendy Gould, tra gli altri. Sharon Fraser poteva dire una sola cosa: la sua impressione era che i clienti mancanti fossero tutti uomini. La dichiarazione più sensazionale rilasciata da qualcuno dei testimoni era stata quella di Michelle Weaver. Lei affermava d'avere visto il ragazzo con l'acne lasciar cadere la pistola un istante prima di andarsene dalla banca. L'aveva gettata a terra ed era fuggito. Da principio, Burden non riusciva a credere che lei si aspettasse di venire presa sul serio. Gli sembrava strano. Il gesto che la signora Weaver descriveva lui l'aveva letto da qualche parte, o gli era stato riferito, o ne avevano parlato in qualche conferenza. Era una classica tecnica mafiosa. Era arrivato perfino a dirle che dovevano avere letto lo stesso libro. Michelle Weaver insisteva. Aveva visto l'arma slittare attraverso il pavimento. Gli altri erano tutti assiepati intorno a Martin ma lei era stata l'ultima, nella fila di persone alle quali il rapinatore aveva ordinato di andare a mettersi contro la parete, e quindi la più lontana da Martin, che si trovava invece all'inizio. Caleb Martin aveva lasciato cadere l'arma con cui aveva fatto il suo coraggioso tentativo. Il figlio Kevin l'aveva in seguito identificata come sua proprietà personale, toltagli dal padre quel mattino in auto. Era un giocattolo, una rozza copia, con diverse inaccuratezze, di un revolver Smith & Wesson Modello 10, con canna da dieci centimetri, in dotazione all'esercito e alla polizia. Diversi testimoni avevano visto l'arma di Martin cadere. Un costruttore edile, certo Peter Kemp, si trovava proprio accanto a Martin, e diceva che questi aveva lasciato cadere il revolver nel momento stesso in cui era stato colpito. — Signora Weaver, non sarà stata quella del sergente Martin, l'arma che lei ha visto? — Come, scusi? — Il sergente Martin ha lasciato cadere l'arma che aveva in mano. È slittata sul pavimento, tra i piedi delle varie persone. Non si sarà sbagliata? Non poteva essere quella, l'arma che ha visto? — Io ho visto il ragazzo gettarla a terra. — Dice d'averla vista slittare attraverso il pavimento. Quella di Martin è slittata attraverso il pavimento. C'erano due pistole che slittavano, per caso?
— Non saprei. Io ne ho vista una sola. — Ha detto d'averla vista in mano al ragazzo e poi d'averla vista slittare attraverso il pavimento. L'ha proprio vista cadere dalla mano del ragazzo? Non ne era più così sicura. Le era sembrato d'averla vista. Di certo l'aveva vista in mano al ragazzo e poi aveva visto un'arma sul pavimento, che slittava sul marmo lucido e finiva tra i piedi delle persone. A un'idea improvvisa, la signora aveva taciuto per alcuni istanti, poi aveva guardato duramente Burden. — Non mi sentirei di giurarlo in tribunale — aveva concluso. Nei mesi successivi, la caccia agli uomini che avevano effettuato la rapina alla banca di Kingsmarkham continuò su scala nazionale. Un po' alla volta, molte delle banconote rubate ricomparvero. Uno dei due aveva acquistato un'auto in contanti prima che i numeri di serie venissero fatti circolare, e aveva versato seimila sterline a un ignaro commerciante di macchine usate. Si era trattato del più vecchio dei due. Il commerciante fornì una descrizione particolareggiata del cliente e, s'intende, il nome. O il nome che questi gli aveva dato: George Brown. Dopo di che, la polizia di Kingsmarkham cominciò a riferirsi al rapinatore come a George Brown. Del denaro restante, poco meno di duemila sterline vennero alla luce avvolte in carta da giornale dentro un cestino dei rifiuti della città. Le seimila che ancora mancavano non vennero ritrovate mai. Probabilmente, erano state usate per piccole spese. Non c'era molto rischio, in questo. Come diceva Wexford, se fai la spesa e paghi con un biglietto di grosso taglio, la cassiera non si affretta certo a controllare i numeri di serie. Non devi fare altro che essere prudente e non tornare in quel negozio. Poco prima di Natale Wexford andò al nord per interrogare un tale in custodia preventiva presso una prigione del Lancashire. La solita storia. Se avesse collaborato e offerto informazioni utili, al processo le cose sarebbero andate meglio. Così, invece, rischiava di rimanere dentro per sette anni. L'uomo si chiamava James Walley e disse a Wexford d'avere fatto un certo lavoretto con George Brown, un tale il cui vero nome era proprio George Brown. Si trattava di uno dei suoi reati del passato di cui intendeva chiedere che venisse preso in considerazione. Wexford parlò con il vero George Brown nella casa di questi, a Warrington. Era un uomo molto anziano, sebbene forse più giovane di quel che sembrava, ed era claudicante per essere caduto da un'impalcatura, tanti anni prima, nel tentativo di introdursi in alcuni appartamenti. Dopo di che, alla polizia di Kingsmarkham si cominciò a parlare del ra-
pinatore ricercato come di a.n.c. (altrimenti noto come) George Brown. Del ragazzo con l'acne, mai la minima traccia. Negli ambienti della malavita era sconosciuto, poteva perfino essere morto, per quel che se ne sapeva. A.n.c. George Brown riaffiorò di nuovo in gennaio. Era George Thomas Lee, arrestato nel corso di una rapina a Leeds. Stavolta fu Burden che andò a interrogarlo in carcere. Era un ometto strabico, con cortissimi capelli color carota. La favola che raccontò a Burden parlava di un ragazzo con l'acne da lui incontrato in un bar di Bradford, il quale si vantava d'avere ucciso un poliziotto giù al sud. Diede il nome del bar, poi se ne dimenticò e ne diede un altro, ma conosceva nome e indirizzo del ragazzo. Già sicuro che il motivo dietro tutto questo fosse la voglia di vendicarsi di qualche piccolo sgarro, Burden andò in cerca del ragazzo. Era un tecnico di laboratorio disoccupato, alto, bruno, e con una fedina penale tanto priva di macchie quanto la sua faccia. Il giovane non ricordava affatto d'avere conosciuto a.n.c. George Brown in un bar, ma ricordava d'avere chiamato la polizia quando aveva sorpreso un intruso nell'ultimo posto dove aveva lavorato. Martin era stato ucciso dal proiettile di un revolver Colt Magnum .357 o .38. Impossibile dire quale, perché sebbene la cartuccia fosse una .38, il .357 prende tanto le .357 che le .38. A volte Wexford era ossessionato da quell'arma e una volta sognò d'essere nella banca e di veder slittare due revolver sul pavimento di marmo mentre i clienti guardavano la scena come spettatori a teatro. Magnum on Ice. Andò perfino a parlare personalmente con Michelle Weaver. Lei si mostrò gentilissima, disposta a parlare senza dare alcun segno d'impazienza. Ma erano passati cinque mesi e il ricordo di quel che aveva visto il mattino in cui Caleb Martin era morto stava diventando per forza di cose molto più sbiadito. — Non posso averlo visto buttare l'arma a terra, vero? Sì, ecco, devo averlo immaginato. Se l'avesse gettata sarebbe stata lì e non c'era, c'era solo quella caduta di mano al poliziotto. — Di sicuro c'era un'arma sola, quando è arrivata la polizia. — Wexford le si rivolgeva in tono confidenziale, come fossero stati due esperti in possesso di informazioni riservate, e lei, lusingata, andava facendosi sempre più volonterosa e attenta. — Tutto quello che abbiamo trovato è stata la pistola giocattolo che il sergente Martin aveva sequestrato a suo figlio quel mattino. Non una copia, non una riproduzione, proprio un giocattolo. — Ed era un giocattolo, quella che ho visto io? — La cosa la meravi-
gliava. — Le fanno che sembrano vere! Un altro colloquio confidenziale, stavolta con Margaret Watkin, non rivelò altro che l'ostinazione di lei. La sua descrizione dell'aspetto del ragazzo non variava. — Sono pratica di acne, io. Il mio maggiore l'ha avuta, e in una forma tremenda. Quel ragazzo non l'aveva, macché! Glielo ripeto, sembravano semmai delle voglie. — Forse cicatrici dell'acne? — Non era niente del genere. Cerchi di figurarsi quelle voglie di fragola che hanno certi, solo che quelle erano violacee, e a decine, tante da formare tutta una chiazza. Wexford domandò al dottor Crocker, e Cracker disse che nessuno aveva voglie fatte in quel modo, per cui la cosa finì lì. Non c'era molto altro da dire, molto da domandare. Era la fine di febbraio quando lui parlò con Michelle Weaver, e l'inizio di marzo quando Sharon Fraser se ne venne fuori con qualcosa che aveva ricordato a proposito di uno dei clienti che si erano allontanati dalla banca. L'uomo aveva in mano un fascio di banconote, ed erano verdi. Non c'erano più state banconote verdi del Regno Unito da quando, diversi anni prima, il biglietto da una sterlina era stato sostituito da una moneta. Non ricordava altro di quella persona; poteva servire? Wexford non poteva certo dire che servisse a molto, ma non si scoraggia quella specie di spirito civico. Non accadde altro, praticamente, fino all'11 marzo, quando arrivò la chiamata del 999. 3 — Sono tutti morti. — Era una voce di donna, e giovane, molto giovane. Lo ripeté. — Sono tutti morti — e poi: — Io sto per morire dissanguata! La centralinista che aveva preso la chiamata, sebbene non nuova del mestiere, raccontò in seguito d'essersi sentita raggelare a quelle parole. Aveva già pronunciato la formula per sapere se chi chiamava voleva la polizia, i vigili del fuoco o un'ambulanza. — Da dove chiama? — domandò. — Mi aiuti. Sto per morire dissanguata. — Mi dica dov'è, l'indirizzo... La voce cominciò a dare un numero di telefono.
— L'indirizzo, per favore... — Tancred House, Cheriton. Mi aiuti, mi aiuti per favore... Dica che facciano presto... Erano le otto e ventidue. La foresta copre un'area di circa centotrenta chilometri quadrati. Sono in gran parte conifere, boschi creati dall'uomo di pini e larici scozzesi, abeti della Norvegia e ogni tanto un torreggiante abete americano. Ma al sud di quella piantagione resta ancora un residuo dell'antica foresta di Cheriton, una delle sette che esistevano nel Medio Evo nella Contea del Sussex. Le altre sono Arundel, St Leonard's, Worth, Ashdown, Waterdown e Dallington. Ad eccezione di quella di Arundel, formavano un tempo parte di un'unica immensa foresta che, secondo la Cronaca Anglosassone, si estendeva dal Kent aH'Hampshire. Vi vagavano i cervi e, nella parte più interna, i cinghiali. La piccola area che ne resta è un bosco di querce, frassini, ippocastani, castagni, betulle e lantane, che riveste i pendii meridionali nonché i confini di una proprietà privata. Lì, dov'era tutto parco fino all'inizio degli anni Trenta, zolla verde su cui crescevano abeti americani, cedri e la più rara sequoia, l'ultimo proprietario aveva piantato una nuova foresta. Le strade che portavano alla casa, una delle quali non più di uno stretto viottolo, si snodavano tra i boschi, in alcuni punti tra ripidi argini, in altri attraverso macchie di rododendri, oltre alberi ancora giovanissimi e qui e là ombreggiati da un antico gigante. A volte fra quegli alberi è possibile avvistare un daino e perfino uno scoiattolo rosso. Il fagiano di monte è una rarità, la capinera è comune e l'albanella reale ricompare a ogni inverno. Nella tarda primavera, quando fioriscono i rododendri, i lunghi scorci appaiono color rosa sotto la verde bruma delle foglie di faggio al loro primo schiudersi e si sente cantare l'usignolo. Prima, in marzo, i boschi sono brulli, ma già animati dalle prime gemme, e sul terreno si stende un tappeto d'oro rosso di ghiande di faggio. I tronchi delle betulle splendono come se la loro corteccia fosse ricamata in argento. Ma la sera c'è oscurità e silenzio, e nei boschi regna una quiete profonda, un'immobilità minacciosa. La proprietà non è recintata, ma ci sono cancelli nella siepe che la delimita e sono tutti di cedro rosso e a cinque sbarre. In genere danno accesso soltanto a sentieri, impraticabili se non a piedi, ma il cancello principale separa i boschi dalla strada che dalla Biventiquattroventotto piega verso
nord, collegando Kingsmarkham con Cambery Ashes. C'è un'insegna, collocata sulla sinistra, un semplice cartello fissato a un palo e recante le parole TANCRED HOUSE, STRADA PRIVATA, SI PREGA DI CHIUDERE IL CANCELLO. Si chiede che il cancello venga tenuto chiuso, sebbene per aprirlo non occorra né chiave né telecomando, né altro congegno. Quel martedì sera, alle otto e cinquantuno dell'11 marzo, il cancello era chiuso. Il sergente investigativo Vine scese dalla prima auto e lo aprì, sebbene fosse il più anziano rispetto alla maggior parte degli agenti delle due macchine. Era venuto a Kingsmarkham in sostituzione di Martin. Erano tre, i veicoli del convoglio, e l'ultimo era un'ambulanza. Vine aspettò che fossero passati tutti, poi richiuse il cancello. Non era possibile guidare molto velocemente ma, una volta all'interno, su quel terreno privato, Pemberton andò più rapidamente che poté. In seguito, usandola quotidianamente, avrebbero scoperto che quella strada era anche nota come il viale d'accesso principale. Era buio, il sole era tramontato già da un paio d'ore. L'ultimo lampione era un centinaio di metri più in là, lungo la Biventiquattroventotto, rispetto al cancello. Potevano fare assegnamento sui soli fari, nella cui luce la bruma che aleggiava attraverso i boschi si apriva in una serie di veli verdognoli. Se occhi li seguivano dal folto della foresta, i fari non permettevano di vederli. I tronchi degli alberi erano colonnati di grigi pilastri, avvolti da sciarpe di vapore. Il buio al di là di essi era impenetrabile. Tacevano tutti. L'ultimo a parlare era stato Barry Vine quando aveva detto che sarebbe sceso ad aprire il cancello. L'ispettore Burden non fiatava. Stava pensando a quello che avrebbero trovato a Tancred House e dicendo a se stesso di non anticipare niente, perché ogni speculazione era inutile. Pemberton non aveva niente da dire né avrebbe mai pensato che toccasse a lui dare inizio a una conversazione. Nel furgone che seguiva c'erano l'autista, Gerry Hinde, un esperto di nome Archbold con un fotografo, Milson, e una donna-poliziotto, l'agente investigativo Karen Malahyde. I paramedici nell'ambulanza erano un uomo e una donna, e la donna era al volante. Era stato deciso di non mettere in funzione né i lampeggiatori né le sirene. Il convoglio procedeva silenzioso, salvo il rombo prodotto dai motori dei tre veicoli. Si snodava attraverso percorsi tra gli alberi nei punti dove gli argini erano alti o dove la strada passava attraverso alture sabbiose. Perché mai la strada seguisse quel percorso sinuoso era un mistero, dato
che il pendio del colle non era ripido e che non vi erano ostacoli da evitare, salvo forse qualche isolato albero gigantesco, invisibile nel buio. Il capriccio di un piantatore di foreste, pensava Burden. Tentava di ricordare se avesse visto quei boschi, in passato, ma non conosceva bene la regione. Sapeva, naturalmente, a chi appartenevano, a Kingsmarkham lo sapevano tutti, questo. Si domandava se il messaggio lasciato per Wexford avesse già raggiunto l'ispettore capo, e se Wexford fosse in viaggio, in un'auto due o tre chilometri dietro di loro. Vine fissava fuori del finestrino, il naso premuto contro il vetro, come se vi fosse qualcosa da vedere là fuori oltre l'oscurità, la bruma e i margini della strada da percorrere, giallastri e fangosi d'aspetto nella luce dei fari. Non si vedevano, in quel buio profondo, luccicare occhi simili a punti gemelli verdi o dorati, né vi era movimento di uccelli o di animali. Nemmeno il cielo era possibile distinguere. I tronchi degli alberi sorgevano separati come colonne, ma i rami in alto formavano un soffitto ininterrotto. Burden aveva sentito dire che vi erano dei cottage su quella proprietà, case per alloggiare il personale che certo Davina Flory teneva alle sue dipendenze. Dovevano sorgere vicino a Tancred House, a non più di cinque minuti di cammino, eppure loro non avevano oltrepassato cancelli, né sentieri che si perdessero tra i boschi, né luci in distanza, più o meno vivide, su entrambi i lati. Si era a soli ottanta chilometri da Londra, lì, ma era come essere nel nord del Canada, o in Siberia. I boschi sembravano senza fine, file su file di alberi, alcuni alti fino a dieci, dodici metri, altri non del tutto cresciuti ma già alti abbastanza. Via via che s'imboccava una svolta e ti dicevi che oltre quella curva doveva esserci un'apertura, un'interruzione, e che finalmente sarebbe apparsa la casa, trovavi soltanto altri alberi, un ennesimo plotone di quell'esercito di tronchi, immobile, silenzioso, in attesa. Si protese in avanti per parlare con Pemberton, e la sua voce risuonò forte nel silenzio. — Quanta strada abbiamo fatto dal cancello? Pemberton controllò. — Tre chilometri e mezzo, ispettore. — È una bella distanza, no? — Sono cinque, stando alla mappa — disse Vine. Aveva una chiazza biancastra sul naso, per averlo premuto contro il vetro. — Sembra che ci vogliano ore. — Burden stava brontolando e scrutando, dal finestrino, quell'estendersi a perdita d'occhio di colonne uso cattedrale, quand'ecco che la casa apparve, come scaturita dal nulla. I boschi si dividevano, quasi venisse tirato un sipario, ed eccola là, vivi-
damente illuminata come uno scenario, immersa in un fiotto di chiaro di luna artificiale, verdastro e freddo. Tutto stranamente drammatico. La casa splendeva, riluceva in una conca di luce, messa in rilievo contro un pozzo di nera bruma. La facciata stessa era perforata da luci, ma di un colore aranciato: i riquadri e i rettangoli delle finestre illuminate. Burden non si era aspettato luce, bensì buia desolazione. La scena che gli stava davanti era come l'inquadratura iniziale di un film su personaggi di una storia di fate che vivessero in un palazzo remoto, un film sulla Bella Addormentata. Non c'era però la musica, una melodia sinistra, in sordina, con corni e tamburi. Il silenzio ti faceva sentire che qualcosa di essenziale mancava, qualcosa che era andato disastrosamente storto. Si era perso il suono senza che saltassero le lampade. Vide i boschi richiudersi mentre la strada seguiva un ennesimo tornante. L'impazienza lo colse. Avrebbe voluto scendere e correre verso la casa, irrompervi per trovare il peggio, quale che esso fosse, e lo stizziva dover starsene lì a sedere. Quel primo scorcio era stato un breve assaggio, un "prossimamente". Questa volta i boschi terminavano davvero, i fari illuminavano la strada che attraversava una spianata erbosa su cui si ergevano pochi grandi alberi. Gli occupanti delle auto si sentivano molto esposti mentre l'attraversavano, quasi fossero le avanguardie di un esercito invasore e rischiassero di cadere in un'imboscata. La casa, sull'altro lato della spianata, era adesso illuminata con assoluta chiarezza, bella dimora di campagna che poteva apparire georgiana, se non fosse stato per il tetto a punta e i comignoli lunghi e sottili. Si presentava molto vasta, alta e con un che di minaccioso. Un muro basso divideva gli immediati dintorni dal resto della proprietà. Questo tagliava a metà la spianata e presentava un varco poco prima del quale la strada piegava a sinistra. Era possibile procedere, oppure svoltare lungo quella diramazione che probabilmente portava sul lato e poi sul retro della casa. Il muro stesso nascondeva i riflettori. — Vai diritto — ordinò Burden. Oltrepassarono l'apertura, passando tra due pilastri con la parte superiore tondeggiante. Lì cominciava il lastricato, un vasto spazio pavimentato in pietra di Portland. Le pietre erano di un grigio dorato, piacevolmente irregolari, e così bene accostate tra loro che neppure il muschio poteva crescere negli interstizi. Al centro di quel cortile c'era una grande vasca circolare con, al centro, un'isola di pietra carica di fiori e piante a foglia larga in marmi diversi, verdi, rosa e grigio-bronzo e un gruppo statuario in marmo grigio formato da un uomo, un albero e una ragazza. Poteva anche essere
una fontana ma, se lo era, al momento non era in funzione. L'acqua appariva stagnante, immobile. A forma di E senza trattino centrale, o di rettangolo mancante di uno dei lati lunghi, al di là di quell'ampia distesa lastricata sorgeva disadorna la casa. Non un rampicante addolciva il suo liscio intonaco, non un cespuglio cresceva nei pressi a comprometterne le fasce in bugnato. Le lampade ad arco da quel lato del muro mostravano ogni sottilissima crepa e ogni minuscolo forellino della superficie. Le luci erano accese dappertutto, nelle due ali, nella parte centrale e nella galleria in alto. Splendevano dietro tendaggi chiusi, rosa, arancioni o verde a seconda del colore del tessuto, e qui e là dietro vetrate prive di tende. L'illuminazione delle lampade ad arco competeva con quei chiarori colorati e più tenui, senza tuttavia riuscire ad annullarli. Tutto era perfettamente immobile, senza un alito di vento, dando l'impressione che non solo l'aria ma il tempo stesso si fosse fermato. Del resto, si sarebbe domandato in seguito Burden, che cosa mai si sarebbe dovuto muovere? Foss'anche soffiato un vento fortissimo non c'era niente, lì, che potesse muoversi. Perfino gli alberi erano alle loro spalle, ormai, e migliaia d'altri al di là della casa, persi in quella caverna di oscurità. Il convoglio proseguì fino all'entrata, passando a sinistra della vasca. Burden e Vine spalancarono le portiere e Vine arrivò per primo alla porta d'ingresso, cui si accedeva per due ampi e bassi scalini di pietra. Se mai vi era stato un portico, ora non c'era più, e ai due lati dell'entrata rimanevano un paio di colonne rientranti e prive di scanalature. La porta era di un bianco abbagliante, che splendeva in quella luce come se la vernice fosse ancora umida. Il campanello, di quelli che si tirano, era in ferro battuto. Vine vi si attaccò. Il suono, a ogni suo strappo, doveva echeggiare in tutta la casa, poiché potevano udirlo perfino i paramedici, che stavano scendendo dall'ambulanza una ventina di metri più in là. Vine sonò una terza volta, poi picchiò con il battente di ottone, che in quella luce vivida brillava come oro. Memori della voce al telefono, della donna che aveva invocato aiuto, tendevano l'orecchio sperando di udire un suono. Niente. Non un lamento, non un bisbiglio. Silenzio. Burden usò di nuovo il battente, provò a scrutare oltre la buca per le lettere. Nessuno pensava a una porta sul retro, a quante numerose porte secondarie potevano esserci. Nessuno considerava la possibilità che ve ne fosse una aperta. — Dobbiamo sfondare una finestra — disse Burden.
Quale? Ve n'erano quattro molto ampie di fianco alla porta, due per lato. All'interno si poteva scorgere una specie di atrio, una orangery con piante di alloro e gigli in apposite vasche, sul pavimento di marmo bianco maculato. Il tutto era illuminato dall'alto da due lampadari. Quello che c'era oltre, al di là di un arco, non si riusciva a distinguere. Appariva caldo e tranquillo, l'interno, e raffinato, un luogo ben curato e signorile, dimora di gente ricca e amante del lusso. Nell'orangery, contro la parete, c'era una consolle in mogano con dorature, e una sedia collocata negligentemente accanto, una sedia dalla spalliera alta ed esile, con un cuscino di velluto rosso. Da un vaso cinese posato sulla consolle si riversavano i lunghi tralci di una pianta rampicante. Burden si allontanò dalla porta d'entrata e prese a camminare lungo lo spiazzo lastricato di quel vasto cortile. L'illuminazione era come chiaro di luna intensificato, come se la luna stesse riflettendo se stessa in uno specchio celeste. In seguito, Burden avrebbe detto a Wexford che tutta quella luce peggiorava le cose. L'oscurità sarebbe stata naturale, lo avrebbe fatto sentire molto più a suo agio. Si avvicinò all'ala est dove la finestra all'estremità, ad arco non molto profondo, aveva la base a trenta centimetri dal suolo. Le luci all'interno erano accese, ma ridotte, da dove stava lui, a un pallido chiarore verdognolo. Le tende erano chiuse, la fodera chiara rivolta verso il vetro, ma lui intuì che, dall'altro lato, dovevano essere di velluto verde. In seguito, si sarebbe domandato quale istinto lo avesse condotto proprio a quella finestra, a scartare quelle più vicine per avvicinarsi a quella. Aveva avuto come una premonizione: quel che c'era da vedere, da scoprire, era là dentro. Cercò di scrutare attraverso la sottilissima lama di luce vivida che corrispondeva all'apertura tra gli orli di quei tendaggi. Non riusciva a scorgere niente. Gli altri erano dietro di lui, in silenzio ma vicinissimi. A Pemberton ordinò: — Sfonda la finestra. Pemberton, freddo e calmo, preparato ad agire, ruppe il vetro di uno dei riquadri piuttosto ampi e rettangolari con una chiave inglese presa dall'auto. Sfondò uno di quelli piatti, al centro della finestra, infilò la mano attraverso l'apertura, spostò in là la tenda, sbloccò il telaio inferiore e lo sollevò. Chinatosi, Burden entrò per primo, poi Vine. Si ritrovarono avviluppati da un tessuto fitto e pesante che allontanarono dai loro volti, spingendo poi in là la tenda che si aprì con un sibilo, mentre gli anelli, slittando lungo l'asta, facevano udire un lieve tintinnio. Erano ormai avanzati di circa un metro nella stanza, sopra una folta mo-
quette, e vedevano quello che erano lì per constatare. Da Vine venne l'ansito istintivo di chi trattiene il respiro. Nessun altro emise un suono. Pemberton aveva scavalcato la finestra e Karen Malahyde con lui. Burden si fece da parte per far loro posto: da parte ma non in avanti, per il momento. Non si lasciò sfuggire esclamazioni. Guardava. Passarono quindici secondi, mentre lui guardava. I suoi occhi incontrarono lo sguardo attonito di Vine. Voltò perfino la testa e notò, ma come se altrove, su un altro piano, che i tendaggi erano effettivamente di velluto verde. Poi, fissò di nuovo il tavolo da pranzo. Era grande, lungo un po' meno di tre metri, apparecchiato con tovaglia, cristalleria e argenteria; vi era del cibo, sopra, e la tovaglia era rossa. Si presentava come se dovesse esserlo, il tessuto un damascato rosso vivo, salvo nel tratto più vicino alla finestra, che era bianco. La marea di rosso non era arrivata fin lì. Attraverso la parte di un rosso più intenso qualcuno giaceva accasciato in avanti: una donna, che si era trovata seduta o ritta presso la tavola. Di fronte, su una sedia, era riversa un'altra donna, la testa penzolante e i lunghi capelli neri sparsi, l'abito rosso come quella tovaglia, quasi fosse stato indossato per intonarlesi. Quelle due donne erano state sedute l'una di fronte all'altra proprio al centro della tavola. Dagli altri posti apparecchiati, era evidente che altre due persone avevano preso posto alle due estremità ma, vive o morte che fossero, ora non c'erano. Soltanto quei due cadaveri, c'erano, e la distesa scarlatta che li separava. Che le due donne fossero morte non vi era dubbio. La più anziana, il cui sangue aveva tinto di rosso la tovaglia, era stata colpita alla testa da un'arma da fuoco. Lo si capiva senza bisogno di toccarla, e nessuno la toccò. Metà della testa e un lato della faccia erano distrutti. All'altra avevano sparato al collo. La faccia, curiosamente indenne, era bianca come la cera. Gli occhi erano spalancati, fissi al soffitto dove uno spruzzo di punti scuri era forse fatto di macchioline di sangue. Il sangue era schizzato sulle pareti tappezzate di verde, sui paralumi verde e oro in cui le lampade rimanevano accese, aveva macchiato di nere chiazze la moquette verde scuro. Una goccia di sangue era finita su un quadro, era colata lungo il chiaro colore a olio e là si era disseccata. Sulla tavola erano tre i piatti contenenti del cibo. Su due di essi quel cibo, sebbene freddo e rappreso, era ancora riconoscibile. Nel terzo piatto era invece intriso di sangue, come se vi fosse stata versata salsa in abbon-
danza, come se un'intera bottiglia di salsa vi fosse stata vuotata sopra, per un pasto dell'orrore. C'era senza dubbio un quarto piatto. La donna il cui corpo era crollato in avanti, il cui sangue era sgorgato, infiltrandosi dappertutto, vi aveva affondato dentro la testa mutilata. I suoi capelli neri e striati di grigio, scioltisi da un nodo sulla nuca, si erano sparpagliati tra avanzi della cena, saliere, bicchieri capovolti, un tovagliolo spiegazzato. Un altro tovagliolo, sporco di sangue, era finito a terra. Un carrello con sopra altre cose era accostato al punto dove sedeva la più giovane, quella i cui capelli erano sparsi sulla spalliera della sedia. Il suo sangue era schizzato sul panno bianco che lo ricopriva e sui piatti bianchi, e alcuni spruzzi erano finiti sul cestello del pane. Le gocce di sangue erano disseminate sulle fette di pane francese come uva passa. C'era una specie di budino in un piatto da portata di vetro, ma Burden, che aveva osservato tutto senza battere ciglio, non se la sentiva di guardare quello che il sangue ne aveva fatto. Da un bel pezzo, un'eternità, non provava più un vero e proprio senso di nausea davanti a spettacoli del genere. D'altra parte, si era trovato mai di fronte a una scena simile? Si sentiva inebetito, ammutolito, avvertiva l'inutilità delle parole, e sebbene in quella casa facesse caldo, era come gelato da capo a piedi. Si prese le dita della sinistra con quelle della destra e le sentì di ghiaccio. Immaginò il rumore che doveva essevi stato, il fragore di un'arma da fuoco che si scarica: una doppietta, un fucile, forse qualcosa di più potente? Il fragore che lacerava il silenzio, la pace, il tepore. E quelle persone sedute là, intente a conversare, verso la metà del loro pasto, disturbate in quel modo terribile e inopportuno... Ma erano state quattro, quelle persone. Due ai lati e due a capotavola. Si girò a scambiare un'altra occhiata inebetita con Barry Vine. Ciascuno era consapevole che lo sguardo che rivolgeva all'altro era di disperazione, di malessere. Erano storditi da ciò che vedevano. Burden si accorse di muoversi rigidamente, quasi avesse dei pesi di piombo ai piedi e alle mani. La porta della stanza da pranzo era aperta e lui, con un senso di costrizione alla gola, la oltrepassò lentamente, per addentrarsi nel resto della casa. In seguito, diverse ore dopo, ricordò che allora, durante quei minuti, si era dimenticato della donna che aveva telefonato. La vista dei morti gli aveva fatto dimenticare chi era vivo, o poteva essere ancora in vita...
Si ritrovò non nell'orangery ma in un atrio maestoso, un vasto ambiente, il cui soffitto, illuminato da un lampadario lassù in alto, al centro del tetto della casa, era anche rischiarato da una serie di lumi, ma in modo meno vivido. C'erano lampade con la base d'argento e altre con basi di vetro o di ceramica, tutte con paralumi color albicocca o avorio. Il pavimento era di lucido legno, cosparso di tappeti che a Burden sembrarono orientali, tappeti dai disegni in lilla, rosso, marrone e oro. Una scalinata saliva da quell'atrio, dividendosi in due rampe a livello del primo piano dove la doppia serie di scalini partiva da una galleria con balaustrata a colonne ioniche. Ai piedi della scala, scompostamente disteso attraverso i gradini più bassi, giaceva cadavere un uomo. Anche a lui avevano sparato, al petto. Il tappeto della scala era rosso, e il sangue dell'uomo vi aveva formato delle macchie scure, come di vino. Burden trattenne il respiro e, accorgendosi d'avere alzato una mano a coprirsi la bocca, la riabbassò risolutamente. Girò attorno a sé lo sguardo con deliberata lentezza e scorse un movimento nell'angolo più remoto. Il fracasso improvviso che seguì ebbe l'effetto di sbloccargli la voce. Questa volta, si lasciò sfuggire un'esclamazione. — Mio Dio! — La voce gli uscì strozzata, come se qualcuno gli tenesse una mano sulla gola. Un telefono era caduto a terra, ed era stato trascinato sul pavimento da qualche improvviso e involontario movimento che aveva dato uno strattone al filo. Qualcosa strisciava ora verso di lui dal punto più buio, dove non c'erano lampade. Mandava una specie di lamento. Il filo del telefono gli si era avvolto attorno e l'apparecchio gli si trascinava dietro, sussultando e slittando sulla levigata superficie di quercia. Sobbalzava e tintinnava come un giocattolo tirato per una cordicella da un bambino. Lei non era una bambina, pur rivelandosi come poco di più: una ragazza giovanissima, che strisciava carponi verso di lui e che gli crollò ai piedi, emettendo i lamenti inarticolati e atterriti di un animale ferito. Il sangue la ricopriva dappertutto, ne erano intrisi i lunghi capelli, inzuppati gli abiti, sporche le braccia nude. Sollevò la faccia e l'aveva chiazzata di sangue, come se vi avesse intinto il dito per cospargersene la pelle. Burden poteva scorgere, con orrore, altro sangue sgorgarle da una ferita nella parte superiore del petto, a sinistra. Cadde in ginocchio davanti a lei. La ragazza parlò, in un rauco bisbiglio. — Mi aiuti, mi aiuti... 4
Due minuti dopo l'ambulanza partiva, diretta all'ospedale di Stowerton. Stavolta il lampeggiatore era acceso e la sirena emetteva il suo grido bitonale attraverso l'oscurità e l'immobilità dei boschi. La sua velocità era tale che l'autista dovette frenare di colpo e dare una brusca sterzata per evitare l'auto di Wexford che, alle nove e cinque, imboccava il cancello principale dalla Biventiquattroventotto. Il messaggio gli era arrivato mentre stava cenando con la moglie, la figlia e un amico di questa al Primavera, un nuovo ristorante italiano di Kingsmarkham. Erano a metà della portata principale quando il telefono aveva fatto udire il segnale, salvandolo in modo particolarmente drastico, com'egli si disse in seguito, dal fare qualcosa di cui si sarebbe forse pentito. Con una rapida spiegazione a Dora e un saluto piuttosto proforma agli altri due, aveva lasciato subito il ristorante, abbandonando intatto il suo vitello al Marsala. Tre volte aveva tentato di chiamare Tancred House e ogni volta aveva trovato la linea occupata. Mentre l'auto, guidata da Donaldson, affrontava la prima curva della stretta strada tra i boschi, tentò di nuovo, e questa volta la linea era libera e gli rispose Burden. — Il ricevitore era staccato. Era caduto a terra. Ci sono tre morti, qui, uccisi a colpi d'arma da fuoco. Devi avere incrociato l'ambulanza con dentro la ragazza. — Com'è, grave? — Non lo so. Era ancora in sé, ma piuttosto mal ridotta. — Le hai parlato? — Per forza — disse Burden. — Ho dovuto. In due, si erano introdotti in casa, ma lei ne ha visto uno solo. Ha detto che erano le otto quand'è accaduto, o poco più, un minuto o due dopo le otto. Altro non è riuscita a dire. Wexford si rimise in tasca il telefono. L'orologio sul cruscotto dell'auto gli diceva che erano le nove e dodici. Quando il messaggio gli era arrivato, lui non era tanto di cattivo umore quanto piuttosto turbato e sempre più avvilito. Già nel sedersi a tavola, al Primavera, aveva cominciato a lottare con sentimenti di antipatia, di autentica ripugnanza. E mentre tratteneva a stento, per la terza o quarta volta, il commento tagliente che gli veniva alle labbra, controllandosi per amore di Sheila, il suo telefono si era fatto sentire. Ora allontanò da sé il ricordo di un incontro penoso. Non vi sarebbe stato tempo per riflettervi: ormai tutto doveva cedere il posto al massacro
di Tancred House. La casa illuminata si mostrò tra gli alberi, venne inghiottita dall'oscurità, riapparve quando Donaldson arrivò in cima alla strada e s'inoltrò attraverso un'ampia spianata deserta. All'apertura nel basso muro di cinta l'autista esitò, poi accelerò, andando diritto e imboccando il cortile. Una statua che probabilmente rappresentava Diana inseguita da Apollo si rifletteva nelle acque scure di una vasca poco profonda. Donaldson l'aggirò da sinistra e s'inoltrò tra una mezza dozzina di auto. La porta d'ingresso era spalancata. Wexford vide che qualcuno aveva rotto uno dei vetri di un bovindo nell'ala sinistra o occidentale della casa. All'interno del portone, da un'orangery piena di gigli, con a ciascuna estremità uno schermo a colonne secondo uno stile che lui riteneva chiamarsi Adam, un arco dava accesso al grande atrio dove c'era sangue sul pavimento e sui tappeti. Il sangue sembrava formare una mappa di isole sulla quercia bionda. Mentre Barry Vine gli si faceva incontro, Wexford scorse il cadavere dell'uomo ai piedi della scalinata. Si avvicinò all'ucciso e lo guardò. Era un uomo sulla sessantina, alto, asciutto, con un bel volto dai lineamenti finemente scolpiti e del genere che viene di solito definito sensibile. Ora, però, appariva cereo e giallastro. Aveva la bocca aperta, gli occhi azzurri spalancati e fissi. Il sangue gli aveva tinto di rosso la camicia bianca e messo macchie ancor più scure sull'abito scuro. Era formalmente vestito con giacca e cravatta e gli avevano sparato due volte da una distanza ravvicinata, al petto e alla fronte. La testa era una massa sanguinolenta, la capigliatura candida intrisa di una sostanza bruna e viscosa. — Sa chi è questo? Vine fece segno di no. — Dovrei saperlo, signore? Presumibilmente il padrone di casa. — È Harvey Copeland, ex deputato dei Southern Boroughs e marito di Davina Flory. Naturalmente lei non è qui da molto, ma avrà sentito parlare di Davina Flory. — Sì, signore. Certo. Non si poteva mai dire se Vine sapesse veramente qualcosa oppure no. Quella faccia inespressiva, quei modi impassibili, di una calma imperturbabile. Wexford, preparandosi al peggio, entrò nella sala da pranzo, ma ugualmente ciò che vide gli fece trattenere il respiro. Nessuno, mai, diventa del tutto incallito. Lui non sarebbe mai arrivato al punto di poter guardare una
scena simile con indifferenza. Burden era nella stanza con il fotografo. Archbold, in qualità di esperto della scena del crimine, misurava e prendeva appunti, e due altri esperti erano arrivati dal laboratorio forense. Archbold si rialzò all'entrare di Wexford, che però gli fece cenno di continuare. Dopo avere permesso al suo sguardo di indugiare per alcuni istanti sui cadaveri delle due donne, Wexford si rivolse a Burden. — La ragazza... riferiscimi tutto quello che ha detto. — Che erano in due. Erano circa le otto. Ed erano arrivati in macchina. — In quale altro modo vorresti arrivare, quassù? — Si sentivano rumori provenire dall'alto. L'uomo che è morto sulle scale era andato a indagare. Wexford fece il giro del tavolo e si fermò accanto alla vittima la cui testa e i capelli fluenti penzolavano oltre la spalliera della sedia. Da lì poteva avere una diversa visione della donna di fronte. Guardava ora i resti di una faccia, posata con la guancia sinistra all'ingiù dentro un piatto pieno di sangue, sulla tovaglia rossa. — Quella è Davina Flory. — L'avevo intuito — rispose sommessamente Burden. — E senza dubbio l'uomo sulle scale è il marito. Wexford assentì. Era in preda a qualcosa di insolito per lui, una sorta di soggezione. — Questa chi è? Non c'era una figlia? L'altra donna poteva aver avuto circa quarantacinque anni. Occhi e capelli erano neri. La pelle, bianca ed esangue nella morte, probabilmente era stata pallidissima anche in vita. Era magra, vestita di panni zingareschi, cotoni a disegni, con perline e catenelle. Tra i colori aveva predominato il rosso, ma non tanto come ora. — Deve aver fatto un baccano infernale, tutto questo. — Probabilmente qualcuno avrà sentito — disse Wexford. — Dev'esserci altra gente, sulla proprietà. Qualcuno si occupava sicuramente di Davina Flory, del marito e della figlia. Sono sicuro d'avere sentito dire che c'è una governante, e magari anche un giardiniere vivrà nelle case quassù, nei cottage vicini alla villa. — Ci ho già pensato. Karen e Gerry sono andati a vedere se possono localizzarli. Avrai notato che non abbiamo oltrepassato neppure una casa, nel venire qui. Wexford riprese a spostarsi intorno al tavolo, esitò, si avvicinò più di quanto avesse fatto prima al cadavere di Davina Flory. I copiosi capelli ne-
ri con molti fili bianchi, sfuggiti da un lento nodo sulla nuca, erano sparsi in sottili ciocche insanguinate. L'abito, di una seta rossa che aderiva alla forma scarna di lei, mostrava sulle spalle un'enorme macchia nerastra. Le mani posavano sulla tovaglia inzuppata di sangue nella posizione di chi partecipa a una seduta spiritica. Erano mani sottili, eccezionalmente lunghe, come se ne vedono raramente se non a donne orientali. L'età le aveva danneggiate ben poco, o forse la morte aveva già ristretto le vene. Erano mani disadorne, a parte una semplice vera nuziale alla sinistra. La destra si era in parte chiusa nella morte, quasi le dita si fossero contratte ad afferrare una manciata di insanguinata fiandra. Wexford, sentendo aumentare il suo senso di sgomento, era indietreggiato di qualche passo per meglio contemplare quella scena di orrore e di distruzione, quand'ecco che la porta venne spalancata in malo modo e nella stanza entrò il patologo. Qualche momento prima Wexford aveva sentito una macchina fermarsi all'esterno, ma aveva pensato che fossero Gerry Hinde e Karen Malahyde ormai di ritorno. In realtà, ne era sceso il dottor Basil Sumner-Quist, un individuo che per Wexford era anatema. Avrebbe preferito di gran lunga che si trattasse di Sir Hilary Tremlett. — Oh, poveri noi — commentò Sumner-Quist — come sono caduti i potenti! Il cattivo gusto, no, peggio, una rivoltante, oltraggiosa mancanza di qualsiasi gusto, caratterizzava il patologo. Una volta, nel riferirsi a una ragazza strangolata, l'aveva definita "un bocconcino appetitoso". — Questa è lei, immagino? — Pungolava con il dito la spalla rivestita di seta rossa insanguinata. La proibizione di toccare i cadaveri valeva per tutti tranne che per lui. "Pensiamo di sì", disse Wexford, mantenendo al minimo, nel suo tono, la nota di disapprovazione. Senza dubbio di disapprovazione ne aveva mostrata già abbastanza, per quella sera. — Questa è molto probabilmente Davina Flory, l'uomo sulle scale è il marito Harvey Copeland e riteniamo che quella sia la figlia. Come si chiami, non lo sappiamo. — Ha finito, lei? — domandò Sumner-Quist ad Archbold. — Io posso tornare, signore. Il fotografo scattò un'ultima foto e seguì Archbold e gli altri esperti fuori della stanza. Sumner-Quist non perse tempo. Afferrata la massa di capelli neri striati di grigio, sollevò la testa, rivelando un nobile profilo, alta fronte maestosa, naso diritto, bocca larga e ricurva, il tutto segnato da una miriade di piccole rughe e da solchi più profondi. Il lato rovinato della faccia
rimaneva nascosto dalla persona del patologo. — Dondolava culle quando l'ha agganciato, vero? Doveva avere almeno quindici anni di più. Wexford si limitò a un cenno. — Ho appena letto il suo libro, la Prima Parte dell'autobiografia. Una vita zeppa di incidenti, possiamo ben dire. La Parte Seconda non verrà scritta più, ora. Ma già, di libri al mondo ce ne sono fin troppi, secondo il mio modesto parere. — Sumner-Quist lasciò prorompere la sua stridula, sguaiatissima risata. — Ho sentito dire che le donne, quando diventano vecchie, si trasformano in capre o in scimmie. Questa era una scimmia, direi, no? Non un solo muscolo afflosciato che si veda. Wexford uscì dalla stanza. Si rese conto che Burden stava seguendolo, ma non si voltò. La collera che già gli ribolliva dentro al ristorante, fermentando ora per un'altra causa, minacciava di esplodere. — Quando lo ucciderò — disse con voce fredda e sorda — se non altro sarà Tremlett a fare l'autopsia. — Jenny è una grande ammiratrice dei libri della Flory — assicurò Burden. — Di quelli di antropologia, o come vuoi chiamarla. Be', sono anche politici, se vogliamo. Era una donna notevole, la Flory. Ho regalato a Jenny l'autobiografia una settimana fa, per il suo compleanno. Karen Malahyde entrò nell'atrio. — Non ero ben certa sul da farsi, signore — spiegò. — Sapevo che lei voleva parlare con gli Harrison e con Gabbitas prima che si facesse troppo tardi, così ho riferito loro i fatti nudi e crudi. Direi che per loro sia stato un vero choc. — Hai fatto benissimo — approvò Wexford. — Ho detto che probabilmente sarebbe andato da loro tra una mezz'ora. Le case, sono un paio, una vicina all'altra, si trovano a circa cinque minuti di distanza lungo il sentiero che parte dal giardino sul retro. — Mostramelo. Lei lo guidò fino al lato dell'ala sinistra, oltre il bovindo rotto, e indicò verso il punto dove la strada rasentava il giardino e si perdeva nel buio. — Cinque minuti in macchina o cinque minuti a piedi? — Direi dieci minuti a piedi, ma posso spiegare a Donaldson dove sono, vuole? — Spiegalo a me, andrò a piedi. Donaldson lo avrebbe seguito con Barry Vine. Wexford s'incamminò lungo il sentiero che restava separato dal giardino da un'alta siepe. Sull'al-
tro lato, s'infittiva la foresta. C'era ben poca nebbia, lì, e si era levata la luna. Fuori della portata delle lampade ad arco, il chiarore lunare inondava il sentiero di una fosforescenza verdastra su cui le conifere stendevano nere ombre regolari o più lievi. Altrettanto nere contro il cielo terso e splendente erano le sagome di alberi meravigliosi, esemplari piantati sessant'anni prima, e perfino di sera discernibili come fantastici o strani per l'immensa altezza, o per le insolite formazioni del fogliame, o per i rami contorti. Le ombre che proiettavano erano come lettere in ebraico su un'antica pergamena macchiata. Wexford rifletteva sulla morte e sul contrasto. Rifletteva sulla più orrenda di tutte le cose e sul fatto che fosse accaduta proprio lì, in quel luogo meraviglioso. Il ricordo del sangue che chiazzava la stanza e la tavola come vernice versata lo faceva rabbrividire. Lì, a così breve distanza, c'era un altro mondo. Il sentiero aveva qualcosa di magico. Il bosco era un luogo incantato, non reale, forse un fondale per Il flauto magico o lo scenario per un racconto di fate; un'illustrazione, non un paesaggio vivente. Il silenzio era assoluto. Le sue suole calpestavano aghi di pino ma non facevano alcun rumore. Di continuo, via via che il sentiero si snodava, si aprivano nuove vedute, illuminate dalla luna, di larici spogli, di araucarie dai rami simili a rettili immobili, di cipressi che puntavano le loro guglie contro il cielo, di pini scozzesi le cui chiome si aprivano a fisarmonica, di ginepri snelli e frondosi, di abeti i cui rami ornati di ciuffi erano carichi di pigne dell'annata precedente. Il chiaro di luna, aumentando via via di forza, inondava il pineto, baluginava attraverso i suoi viottoli, veniva qui e là escluso da una densa barriera di rami rivestiti di aghi o di tronchi simili a grosse funi attorcigliate. La natura, che avrebbe dovuto ribellarsi e ululare, far ruggire un uragano tra quelle foreste, indurre gli animali selvatici a protestare, era invece tranquilla, dolce e placida. L'immobilità era quasi innaturale. Non un rametto si muoveva. Wexford aggirò una curva del sentiero, lo vide finire gradatamente, vide i boschi davanti a lui rarefarsi ed emergerne una radura. Da quella si dipartiva un viottolo più stretto, inoltrandosi tra conifere di un genere più comune. Al termine del sentiero, si vedevano brillare le luci delle case. Barry Vine e Karen Malahyde erano saliti al primo e al secondo piano per controllare che non vi fossero altre vittime. Curioso di sapere che cosa potesse esservi lassù, Burden era tuttavia restio a oltrepassare Harvey Co-
peland finché Archbold non avesse registrato la posizione del cadavere, il morto non fosse stato fotografato da tutte le angolazioni possibili e il patologo non avesse terminato il suo esame preliminare. Per oltrepassarlo, avrebbe dovuto scavalcare il braccio destro disteso in fuori e la mano. Vine e Karen l'avevano fatto, ma un'inibizione, il fatto d'essere schizzinoso e un senso di ciò che era opportuno, trattenevano Burden, che si diresse invece, attraverso l'atrio, verso quello che si rivelò per il salotto. Deliziosamente arredato, squisitamente ordinato, un vero museo di cose belle e objects d'art. Chissà perché, non avrebbe mai immaginato che Davina Flory vivesse così, semmai in modo più raffazzonato o più bohémien. Se la sarebbe figurata, in vestaglia o in calzoni, seduta con analogo spirito a un vecchio e sgangherato tavolo di refettorio, in una grande casa calda e disordinata, a bere vino e a chiacchierare fino a tarda notte. Una specie di sala per banchetti, questo la sua fantasia aveva evocato, in cui Davina Flory si aggirava vestita come una matriarca in una tragedia greca. Sorrise tra sé, vergognandosene, gettò un'ultima occhiata alle finestre ornate di festoni, ai ritratti in cornici dorate, alla jardinière di piante fiorite e felci, ai mobili ottocenteschi dalle gambe esili, e chiuse la porta sul tutto. Sul retro di quell'ala, la destra, e dietro l'atrio, c'erano due stanze, probabilmente lo studio di lei e quello di lui, più un'altra che si apriva su un grande ambiente a vetri, pieno di piante. Qualcuna di quelle vittime doveva essersi appassionata al giardinaggio. L'ambiente era saturo del profumo dolciastro di piante a bulbo in fiore, narcisi e giacinti, nonché di quel sentore di umidità tipico delle serre. Burden trovò una biblioteca dietro la sala da pranzo. Tutte quelle stanze erano altrettanto ordinate, altrettanto curate e impeccabili, della prima in cui si era introdotto. Sembrava d'essere in qualche lussuosa dimora del National Trust dove alcuni locali sono aperti al pubblico. Nella biblioteca, tutti i libri erano custoditi dietro portiere a ingraticciatura, in mogano e bei vetri lucenti. Un singolo volume stava aperto su un leggio e Burden, dal punto dove stava, poteva vedere che la stampa era antica. Un corridoio conduceva nelle regioni della cucina. Cucina che era vasta ma niente affatto cavernosa. Era stata modernamente arredata in uno stile pseudo-rustico, ma secondo lui gli armadietti erano di quercia e non di abete. Lì c'era il tavolo uso refettorio che lui aveva immaginato, di un lucore splendente e con al centro un piatto di legno lucidissimo colmo di frutta. Un colpo di tosse alle sue spalle lo fece voltare. Archbold era entrato
con Chepstow, l'esperto delle impronte. — Scusi, ispettore. Le impronte. Burden alzò la destra per mostrare che aveva i guanti. Chepstow assentì, si mise al lavoro sulla maniglia della porta, dal lato della cucina. La casa era troppo grande perché la cucina avesse un'uscita posteriore nota come "porta di servizio". Burden si avvicinò, esitante, alle altre porte aperte, una delle quali dava in una stanza con lavabiancheria e tutto l'occorrente per stirare, l'altra in una specie di dispensa con scaffali, stipi e un attaccapanni. Bisognava oltrepassare un'altra stanza ancora prima di arrivare a un'uscita verso l'esterno. Si girò, mentre Archbold lo raggiungeva. Archbold fece un mezzo cenno d'assenso. Quella porta aveva dei chiavistelli ma non erano chiusi. Nella serratura c'era una chiave. Burden, nonostante i guanti, preferiva non toccarla. — Pensa che siano entrati da qui? — È possibile, non le sembra? Tutte le altre porte esterne sono chiuse a chiave. — A meno che non siano stati ammessi in casa. A meno che non abbiano bussato alla porta principale e qualcuno non li abbia invitati a entrare. Chepstow venne avanti, per fare le sue prove sul pomolo dell'uscio e sullo stipite. Con la destra rivestita di un guanto di cotone, girò con cura il pomolo e la porta si aprì. Fuori c'era una fresca oscurità verdognola con un lieve chiarore lunare. Burden poté distinguere un'alta siepe, che cintava una corte pavimentata. — Qualcuno ha lasciato la porta aperta. Forse la governante, quando è andata via. Forse la lasciava sempre così, solo accostata, e loro la chiudevano a chiave prima di andare a letto. — Può darsi — disse Burden. — Che cosa terribile doversi chiudere dentro quando si vive in un posto isolato come questo. — Ma è evidente che non l'hanno fatto — scattò Burden, irritato. Attraversò la lavanderia che, da una porta al momento aperta, immetteva in una specie di anticamera posteriore tutta armadi. Una scala molto più stretta di quella principale saliva chiusa tra pareti. Quella, dunque, era la "scala di servizio", un elemento delle grandi dimore di cui Burden aveva spesso sentito parlare ma raramente, o mai, aveva visto. Salì, e si ritrovò in un corridoio con porte aperte su entrambi i lati. Le camere da letto sembravano innumerevoli. Rischiavi, vivendo in una
casa di quelle dimensioni, di perdere il conto di quante stanze avevi. Accendeva e spegneva luci, via via che procedeva. Il corridoio faceva una svolta a sinistra e lui comprese di trovarsi ora nell'ala ovest, sopra la sala da pranzo. L'unica porta, lì, era chiusa. L'aprì, premette l'interruttore che le sue dita trovarono sulla parete, a sinistra. La luce illuminò il genere di disordine in cui si era aspettato che vivesse Davina Flory, ma gli bastò un istante per rendersi conto che lì c'erano stati gli assassini. Il caos l'avevano creato loro. Come si era espressa Karen Malahyde? — La camera di lei l'hanno messa a soqquadro, cercavano qualcosa. Il letto non era stato disfatto completamente, ma le coperte erano state tirate indietro e i cuscini gettati da una parte. I cassetti dei due tavolini da notte erano aperti, e anche un paio di quelli della toilette. Una delle ante del guardaroba era spalancata, e una scarpa dall'interno era finita sul pavimento. Il coperchio della cassapanca ai piedi del letto era alzato e un po' di tessuto di seta a fiori, rosa e oro, si riversava in parte all'esterno. Era strana, la sensazione che provava Burden. L'immagine che si era fatta del modo di vivere di Davina Flory, del genere di persona che a parer suo lei doveva essere, gli tornava di continuo alla mente. Così se ne sarebbe figurato la camera: ben arredata, pulita e rimessa in ordine quotidianamente, ma soggetta dalla sua proprietaria a un continuo processo di sconvolgimento. Non per deliberato disprezzo delle fatiche di una domestica, ma per semplice indifferenza o incuria verso il bell'ordine dell'ambiente che la circondava. Ma non era stato così. Il caos era opera di un intruso. Perché, allora, lui trovava che vi fosse qualcosa di incongruo? Il portagioie, una scatola di pelle rossa, vuoto e capovolto sul pavimento, esprimeva in modo abbastanza chiaro quella verità. Burden scosse mestamente la testa, perché non si sarebbe mai aspettato che Davina Flory possedesse dei gioielli o un astuccio in cui riporli. Cinque persone trasformavano il piccolo soggiorno degli Harrison in un luogo affollato. John Gabbitas, il boscaiolo, era stato convocato lì dalla casa accanto. Non c'erano abbastanza sedie, tanto che se n'era dovuta portare una dal piano di sopra. Brenda Harrison aveva insistito per preparare il tè, che a detta di tutti nessuno voleva, ma di cui tutti, pensava ora Wexford, gradivano in realtà il sollievo e il conforto. La donna gli sembrava fredda, in complesso. D'accordo, aveva avuto una mezz'ora in cui assuefarsi allo choc, prima del suo arrivo, e tuttavia lui
trovava in quel fare sbrigativo qualcosa di sconcertante. Si sarebbe detto che Vine e la Malahyde l'avessero informata di qualche piccolo contrattempo capitato ai suoi datori di lavoro, una parte di tetto volata via, per esempio, o un'infiltrazione d'acqua in un soffitto. Si affaccendava per la stanza con le tazze del tè e una scatola di biscotti, mentre il marito se ne stata là inebetito, gli occhi fissi, muovendo a tratti la testa da parte a parte, come incredulo. Prima di affrettarsi di là per far bollire l'acqua e preparare il vassoio sembrava una persona irrequieta, iperattiva - gli aveva dato conferma dell'identificazione delle vittime. Il morto sulle scale era Harvey Copeland, la più anziana delle due donne a tavola Davina Flory. L'altra, l'aveva identificata come sicuramente la figlia di Davina, Naomi. Nonostante il prestigio sociale generalmente attribuito ai suoi datori di lavoro, sembrava che i rapporti fossero in termini di nomi propri, Davina, Harvey, Naomi e Brenda. Lei aveva dovuto perfino riflettere un istante prima di rammentare il cognome di Naomi. Ah, sì, Jones, Naomi era la signora Jones, ma la ragazza si faceva chiamare Flory. — La ragazza? — Daisy era figlia di Naomi e nipote di Davina. Anche il suo vero nome era Davina, era un po' una Davina Flory junior, se capisce quello che intendo dire, però la chiamavano Daisy. — È, non "era" — l'aveva corretta Wexford. — Lei non è morta. La donna aveva alzato un poco le spalle, e il suo tono gli era parso quasi indignato, forse solo perché si era fatta trovare in errore. — Ah. Mi era sembrato che la sua agente dicesse che erano morti tutti. Dopo di questo era andata a occuparsi del tè. Lui già prevedeva che, dei tre, sarebbe stata la sua principale fonte d'informazione. La sua apparente insensibilità, un'indifferenza che ispirava quasi ripugnanza, non contava poi molto. In virtù di quella, poteva rivelarsi la teste migliore. John Gabbitas, un giovane sui venticinque anni, pur abitando in una delle case di Tancred House e occupandosi dei boschi, lavorava anche per conto proprio, come boscaiolo ed esperto di alberi, e diceva d'essere tornato appena un'ora prima da un incarico dall'altro lato della contea. Ken Harrison a stento aveva pronunciato parola, da quando erano arrivati Wexford e Vine. — Quando li avete visti per l'ultima volta? — domandò Wexford. Rispose lei, e subito. Non era tipo da perdersi in riflessioni. — Alle sette e mezzo. Lo facevo tutte le sere, regolare come un orologio, a meno che
non avessero qualcuno a cena. Quand'erano solo loro quattro, io cucinavo la cena, scodellavo, mettevo tutto su un carrello riscaldato e lo spingevo nella sala da pranzo. Ci pensava Naomi a mettere in tavola, o almeno credo. Non ero mai lì a vedere, io. Davina ci teneva ad andare a tavola alle sette e mezzo in punto, e questo tutte le sere, quando lei era in casa. Era sempre così. — Ed è stato così anche stasera? — Sempre, certo. Ho spinto il carrello nella stanza alle sette e mezzo. C'era minestra, sogliole e albicocche con lo yoghurt. Mi sono affacciata dalla porta della serra, erano tutti là... — Della serra? — La serra, sì, dove tenevano tutte quelle piante. Ho detto che me ne andavo e sono uscita dalla porta di servizio, come faccio sempre. — L'aveva chiusa a chiave, quella porta? — No, macché. Non lo faccio mai. Tra l'altro, Bib era ancora là. — Bib? — Viene a dare una mano, lei. Vien su con la bicicletta. Di mattina ha un altro lavoro, quasi sempre, perciò viene su quasi sempre nel pomeriggio. L'ho lasciata che stava finendo di riordinare il freezer, e ha detto che ne aveva per cinque minuti e poi sarebbe andata via anche lei. — Un pensiero improvviso la colpì. Cambiò colore... per la prima volta. — La gatta — disse. — Sta bene la gatta? Oh Dio, non avranno ucciso anche Queenie! — No, che io sappia — disse Wexford. — Anzi, no, sicuramente no. Prima ch'egli potesse aggiungere, come stava per fare, sopprimendo un tono ironico, "Soltanto le persone", la donna esclamò: — Lei no, grazie a Dio! Wexford le concesse qualche istante, poi: — Verso le otto, ha sentito niente? Una macchina? Spari? Sapeva che sarebbe stato impossibile sentire gli spari da lì. Impossibile, dato che i colpi erano stati sparati all'interno della villa. Lei scosse la testa. — Una macchina non passerebbe mai di qui. Qui la strada finisce. C'è solo quella principale e l'altra, la secondaria. — La secondaria? Gli rispose quasi spazientita. Era una di quelle persone che si aspettano che tutti conoscano, e bene come loro, usanze, topografia e quant'altro del loro piccolo universo. — Quella che viene su da Pomfret Monachorum, no? — È quella che ho fatto io nel tornare a casa — disse Gabbitas.
— A che ora? — Otto e venti, otto e mezzo. Non ho visto nessuno, se è questo che vuole sapere. Non ho né incrociato né superato una macchina, o altro del genere. Wexford si disse che quell'informazione era fin troppo spontanea. Poi Ken Harrison parlò. Le parole gli uscirono lentamente, come se avesse riportato un danno alla gola e stesse ancora imparando come mettere fuori la voce. — Non abbiamo sentito niente. Non il minimo rumore. — E in tono di stupore aggiunse un commento incomprensibile: — Mai, si sente qualcosa. — Poi spiegò: — Non si sente mai niente, da qui, di quello che succede nella villa. Gli altri sembrava che avessero ormai registrato e accettato quanto era accaduto. La signora Harrison ci si era assuefatta quasi subito. Il suo mondo risultava alterato, ma lei si batteva contro quella realtà. Il marito reagiva invece come se la notizia gli venisse data in quel momento. — Tutti morti? Ha detto che sono morti tutti? A Wexford sembrò quasi una battuta presa dal Macbeth, pur non essendo affatto sicuro che lo fosse. Gran parte di quella serata sembrava tolta di peso dal Macbeth. — La ragazza, la signorina Flory, Daisy, è viva. Ma lo è davvero? pensò. È ancora viva? Poi, Harrison lo lasciò scosso. Gli pareva impossibile, a questo punto, ma Harrison ci riuscì. — Strano che non abbiano finito anche lei, vero? Barry Vine tossì — La volete un'altra tazza di tè? — s'informò Brenda. — No, grazie. Si sta facendo tardi e dobbiamo andare. Voialtri vorrete andare a dormire. — Allora avete finito con noi, vero? Forse "finire" era un'espressione favorita di Harrison, che ora fissava Wexford con occhi ansiosi e al tempo stesso velati, quasi. — Finito? No, no, per niente. Dovremo parlare di nuovo, con tutti voi. Intanto potreste darmi l'indirizzo di Bib, se l'avete. Com'è il cognome? Pareva che nessuno lo sapesse. L'indirizzo, quello sì, ma non il cognome. Era solo Bib, per loro. — Grazie del tè — disse Vine. Wexford tornò alla villa in macchina. Sumner-Quist se n'era andato. Archbold e Milson erano al lavoro di sopra. Burden gli disse: — Ho dimenticato di parlarne, ma appena ci hanno avvertiti ho fatto mettere posti di
blocco a tutte le strade che partono da qui. — Come, prim'ancora di sapere di che cosa si trattava? — Be', sapevo che si trattava più o meno di... un massacro. La ragazza ha detto: "Sono morti tutti", quando ha fatto il nove, nove, nove. Pensi che sia stata una reazione eccessiva, la mia? — No — rispose pensieroso Wexford — no, tutt'altro. Penso che tu abbia fatto bene, sempre che sia possibile bloccare tutte le strade. Voglio dire, devono essercene a decine, che partono da lassù. — No, sai? Quella che chiamano la secondaria va a Pomfret Monachorum e a Cheriton. La principale sbocca direttamente sulla Biventiquattroventotto, e su quella, in direzione della città, c'era per combinazione una pattuglia a circa mezzo chilometro. Nell'altro senso la strada va a Cambery Ashes, come sai. Per noi era una fortuna, quella pattuglia, o così sembrava. I due a bordo erano già informati dopo soli tre minuti dalla telefonata della ragazza. Purtroppo gli assassini non sono passati di là, avranno seguito la secondaria, e quindi non c'era molto da sperare. Niente descrizione, niente numero di targa, nessuna idea di che cosa cercare. Nemmeno adesso lo sappiamo. D'altronde a lei non potevo chiedere altro, ti pare, Reg? Ero convinto che stesse morendo. — È chiaro che non potevi. Ma certo. — Spero tanto che non muoia. — Anch'io — disse Wexford. — Ha solo diciassette anni. — Be', naturalmente uno si augura per lei che se la cavi, ma io stavo pensando a quello che può dirci. Quasi tutto, praticamente, non credi? Wexford si limitò a fissarlo. 5 La ragazza era in grado di dire tutto. Davina Jones, detta Daisy Flory, poteva dire quando quegli uomini erano arrivati e con che mezzo, che aspetto avevano, forse perfino che cosa volevano e avevano preso. Li aveva visti e forse aveva parlato con loro. Poteva avere visto anche la loro auto. Wexford riteneva probabile che fosse intelligente e si augurava che fosse osservatrice. Soprattutto, si augurava che si salvasse. Rientrando a casa, a mezzanotte, pensò di telefonare all'ospedale per chiedere notizie. Ma a che cosa gli sarebbe servito sapere se era viva o morta? Se gli avessero detto che era morta non avrebbe chiuso occhio, perché
lei era ancora così giovane e con tutta la vita davanti a sé. E poi, per le ragioni di Burden, tanto valeva essere onesti. Sì, perché se lei era morta, il caso diventava tanto più difficile. Ma se gli avessero risposto che stava meglio, che dava segni di miglioramento, sarebbe stato troppo elettrizzato all'idea di poterle parlare per prendere sonno. A ogni modo, non gli avrebbero detto così, ma solo se era morta oppure "ancora in vita". In ogni caso, c'era con lei l'agente della polizia femminile Rosemary Mountjoy, che sarebbe rimasta di guardia fino al mattino per essere poi sostituita, alle otto, dalla collega Anne Lennox. Wexford salì in punta di piedi per vedere se Dora era ancora sveglia. La luce, dalla porta aperta, le batteva non sul viso ma sul braccio posato al di fuori delle coperte, sulla manica della camicia da notte, sulla mano piuttosto piccola, dalle rosee unghie arrotondate. Era immersa nel sonno, e il suo respiro era lento e regolare. Poteva dormire tranquilla, allora, nonostante quel che era accaduto al principio della serata, nonostante Sheila e il quarto elemento al loro tavolo, che lui già chiamava "quel deplorevole individuo". Quella calma, cosa irragionevole, lo esasperò. Ritiratosi, richiuse la porta, scese di nuovo e, nel soggiorno, cercò tra i giornali l'Independent on Sunday di due giorni prima. L'inserto-rivista era ancora lì, ficcato tra alcuni settimanali. Era l'intervista di Win Carver, quello che lui cercava, e il grande ritratto fotografico che occupava quasi l'intera pagina. Sedette in poltrona e trovò il tutto. Ora la faccia gli stava davanti: la stessa che aveva visto un'ora prima, nella morte, quando Sumner-Quist l'aveva sollevata dalla tavola per una manciata di capelli, come un boia che regga a mezz'aria una testa recisa. Il testo cominciava come una singola colonna, a sinistra. Wexford guardava la foto. Per sopportare di vedersi raffigurata in un ritratto così, una donna doveva avere avuto uno straordinario successo in campi ben distanti dal trionfo della gioventù e della bellezza. Non erano rughe, quelle, ma i solchi profondi del tempo e le pieghe della vecchiaia. Da una rete di grinze, il naso sporgeva simile a un becco e le labbra s'incurvavano in un mezzo sorriso che era a un tempo ironico e benevolo. Gli occhi erano ancora giovani, scuri, dalle iridi ardenti e dal bianco non segnato da venuzze, nel groviglio di piccole pieghe sovrapposte. La didascalia diceva: Davina Flory. Il primo volume della sua autobiografia, Otto fratelli più uno scricciolo, è pubblicato dalla St Giles Press. Girò la pagina, ed eccola di nuovo, da giovane: una bimbetta in abitino di velluto con colletto di pizzo, poi una ragazza alta, collo di cigno, sorriso
misterioso, capelli alla garçonne, vestita con uno di quegli abiti senza vita e con la cintura sui fianchi. La stampa prese a danzargli davanti agli occhi. Wexford diede in un poderoso sbadiglio. Era troppo stanco per leggere il pezzo subito. Lasciato il giornale sul tavolo, salì in camera. La serata trascorsa sembrava immensamente lunga, un corridoio di eventi con alla bocca del tunnel, distanti ma ben presenti ugualmente, Sheila e quel deplorevole individuo. Mentre il lettore era ricorso a una rivista, il non-lettore chiedeva invece aiuto a un libro. Burden rientrò in casa al suono del suo bambino che urlava. Nel tempo che impiegò ad arrivare di sopra, le grida erano cessate e Mark veniva confortato tra le braccia della madre. Burden poteva sentirla assicurargli, nel caratteristico modo didattico e fiducioso dall'immediato potere rassicurante, che il diplodoco non era più sulla terra da almeno due milioni di anni, e a ogni modo non si era mai sentito dire che abitasse negli armadietti dei giocattoli. Quando lei lo raggiunse in camera, Burden era già a letto, appoggiato ai cuscini e con la copia di Otto fratelli più uno scricciolo appoggiata alle ginocchia. Lo baciò, poi gli fece una particolareggiata descrizione del sogno di Mark, e per un poco lo distrasse dalla nota biografica che lui stava leggendo sul risguardo posteriore della copertina del libro. In quel momento, Burden decise di non dirle niente di quanto era accaduto. Meglio aspettare il mattino. Jenny aveva profondamente ammirato la Flory. Ne aveva seguito i viaggi e collezionato le opere. La sera innanzi, prima di dormire, avevano appunto parlato di quel libro: l'infanzia di Davina Flory e i primi influssi che avevano contribuito a formare il carattere di quella illustre antropologa e "geo-sociologa". — Non puoi prenderti il mio libro finché non l'avrò finito io — protestò Jenny assonnata, girandosi in là e affondando la testa nel cuscino. — Dì... non potremmo spegnere la luce? — Due minuti soli, amore. Giusto il tempo di rilassarmi un po'. Buonanotte. A differenza di molti scrittori in età già avanzata, Davina Flory non aveva avuto riserve sul fatto di vedere stampata la sua data di nascita. Aveva settantotto anni, era nata a Oxford, ultima di nove figli di un professore di greco. Educata al Lady Margaret Hall, laureatasi in seguito a Londra, nel
1935 aveva sposato uno studente non laureato di Oxford, Desmond Cathcart Flory. Insieme si erano dedicati alla sistemazione dei giardini della casa di lui, Tancred House, a Kingsmarkham, e avevano cominciato a piantare i famosi boschi. Burden lesse il resto, spense la luce e rimase a fissare nel buio, pensando a quel che aveva letto. Desmond Flory era rimasto ucciso in Francia nel 1944, otto mesi prima che sua figlia Naomi venisse al mondo. Due anni dopo Davina aveva cominciato i suoi viaggi in Europa e nel Medio Oriente, risposandosi poi nel 1951. Il resto - il nome del nuovo marito, i titoli di tutte le opere - lo aveva dimenticato. Niente di tutto questo sarebbe servito. Che Davina Flory fosse stata la donna che era, si sarebbe rivelato della stessa importanza che se fosse stata quello che Burden definiva "una persona qualsiasi". Niente di più facile che gli uomini che l'avevano uccisa non avessero alcuna idea della sua identità. Un buon numero di individui del genere in cui Burden si imbatteva nel suo lavoro erano, in ogni caso, analfabeti. Per l'assassino o gli assassini di Tancred House, era stata soltanto una donna che possedeva gioielli e viveva in un posto isolato. Lei, il marito, la figlia e la nipote erano vulnerabili e privi di protezione, e questo per loro era stato sufficiente. La prima cosa che Wexford vide al risveglio fu il telefono. Di solito, la prima che vedeva era la sveglietta, un orologio a semicerchio che a volte stava suonando, a volte era sul punto di suonare. Non riusciva a ricordare il numero di telefono dell'ospedale di Stowerton. Ma l'agente Mountjoy lo avrebbe chiamato, se fosse accaduto qualcosa. Tra la posta, sullo stuoino, c'era una cartolina di Sheila. Era stata impostata quattro giorni prima a Venezia, mentre lei era là con quell'individuo. Vi era raffigurato un tetro interno barocco, con un pulpito e dei drappi, probabilmente di marmo ma abilmente scolpiti in modo da sembrare stoffa. Sheila aveva scritto: "Siamo appena stati a visitare la chiesa-beffa preferita di Gus, dei Gesuiti, da non confondersi, dice lui, con i Gesuati. Qui si gela. Saluti affettuosi, Sheila". L'avrebbe resa pretenziosa quanto lui. Wexford si domandava che cosa volesse dire quella cartolina. Che cos'era una chiesa-beffa, e chi diavolo erano i Gesuati? Lui non li aveva mai sentiti nominare. Con l'inserto dell'Independent in tasca, andò in ufficio in macchina. Era già cominciato il trasferimento a Tancred House di mobili e altro materiale per allestire una sala d'emergenza. Le indagini sarebbero state condotte da
lì. L'agente Hinde, al suo arrivo, lo informò che una casa costruttrice di sistemi computerizzati di Kingsmarkham avrebbe noleggiato loro gratis, come gesto di buona volontà, computer, stampanti laser, programmi, fax, e ogni altra attrezzatura sussidiaria. — Il direttore generale è il presidente dei conservatori locali — spiegò Hinde. — Un certo Pagett, Graham Pagett. Ha telefonato lui. Dice che è il suo modo di assecondare la politica del governo, e cioè che la lotta contro il crimine dev'essere condotta anche dai privati. Wexford si limitò a un borbottio. — Ci fa comodo questo genere di sostegno, signore. — Sì, molto gentile da parte sua — commentò distrattamente Wexford. Per ora non sarebbe andato lassù; invece, senza perdere tempo, avrebbe preso Barry Vine con sé per cercare la donna di nome Bib. Doveva essere un caso abbastanza semplice, quello: omicidio per rapina oppure omicidio nel corso di una rapina. Due delinquenti in un'auto rubata, che miravano ai gioielli di Davina Flory. Forse avevano letto l'Independent on Sunday, salvo che quel giornale non aveva parlato di gioielli, a parte il commento di Win Carver che Davina portava una fede matrimoniale, e poi era più probabile che leggessero The People. Sempre che sapessero leggere. Due delinquenti, certo, ma non estranei al luogo. Uno che sapeva tutto in proposito, l'altro forse no, il complice, il compagno, conosciuto magari in carcere... Qualcuno in rapporto con quei domestici, gli Harrison? Con quella Bib? Stava a Pomfret Monachorum, lei, il che probabilmente voleva dire che era tornata a casa passando dalla strada secondaria. Wexford propendeva per quella strada, come via di fuga per il pistolero e il suo compagno. Quasi sicuramente erano passati di là, tanto più che uno dei due doveva essere pratico del posto. Gli pareva quasi di sentirlo dire all'altro che quella era la via per non incocciare nei piedipiatti. La foresta separava Pomfret Monachorum da Tancred, da Kingsmarkham e quasi dal resto del mondo. La strada al di là di quella andava verso Cheriton e verso Pomfret. Le mura in rovina di un'abbazia erano ancora in piedi, la chiesa graziosa all'esterno, dentro distrutta da Enrico VIII e in seguito da Cromwell, e il resto del luogo era formato dal vicariato, da un assembramento di cottage e da un piccolo municipio. Fuori, sulla strada per Pomfret, c'era una fila di tre cottage in legno e ardesia. Era in uno di quelli che Bib abitava, sebbene né Wexford né Vine sapes-
sero quale. Tutto quello che sapevano gli Harrison e Gabbitas era che faceva parte della fila chiamata Edith Cottages. Una targa recante quel nome e la data 1882 era fissata nel rivestimento in legno al di sopra delle finestre del piano superiore di quello di mezzo. Tutti e tre avevano bisogno di manutenzione, nessuno emanava aria di prosperità. Ciascuno aveva la sua brava antenna televisiva sul tetto e quello di sinistra aveva anche un riflettore parabolico. Una bicicletta era appoggiata contro il muro di fianco alla porta d'entrata del cottage di destra, e fuori del cancello, parcheggiato in parte sull'erba, c'era un camioncino Ford Transit. Nel giardino di quello di mezzo, sopra un riquadro di cemento con un chiusino, c'era un bidone della spazzatura. C'erano anche delle giunchiglie in fiore in quel giardino, ma niente fiori negli altri due, e quello con la bicicletta era incolto e pieno di erbacce. Poiché Brenda Harrison aveva detto che Bib usava la bicicletta, Wexford decise di provare in quello di destra. Venne ad aprire un giovanotto. Era piuttosto alto ma molto smilzo, vestito di blue jeans e di una felpa di college americano incredibilmente logora e scolorita, tanto che le lettere quasi non si leggevano più. Aveva una faccia piuttosto bella ma quasi da ragazza. I giovani che interpretavano parti femminili nei drammi del sedicesimo secolo dovevano essere proprio come lui. Disse — Salve — ma in modo trasognato e lento. Preso evidentemente alla sprovvista, guardò oltre Wexford l'auto ferma sulla strada, poi di nuovo il visitatore, con fare guardingo. — Polizia investigativa di Kingsmarkham. Cerchiamo una certa Bib. Abita qui? Lui stava studiando il tesserino di Wexford con grande interesse. Con ansia, perfino. Un pigro sorriso gli trasformò il volto, facendolo improvvisamente apparire più mascolino. Gettò indietro il lungo ciuffo di capelli neri che gli ricadeva sulla fronte. — Bib? No, no, non sta qui. La porta accanto. Quella nel mezzo. — Esitò, poi: — È per quel fattaccio da Davina Flory? — Lei come lo sa? — La TV del mattino — rispose, e aggiunse, quasi che a Wexford potesse interessare. — Abbiamo studiato uno dei suoi libri, a scuola. Portavo Letteratura Inglese come materia complementare. — Capisco. Bene, la ringrazio molto, e perdoni il disturbo. Se il giovane americano aveva l'aria di una ragazza vestita da maschio, Bib la si poteva scambiare per un uomo, tanto poche erano le concessioni
che la natura o lei stessa avevano fatto al suo genere. Perfino la sua età era un enigma. Poteva avere trentacinque anni come cinquantacinque. Capelli scuri, tagliati cortissimi, faccia rossastra e lucida come se strofinata col sapone, unghie tozze. A uno dei lobi, portava un anellino d'oro. Quando Vine le ebbe spiegato il perché della loro venuta, assentì e disse: — L'ho sentito alla tele. Non potevo crederci. — La voce era roca, incolore, stranamente inespressiva. — Possiamo entrare? Per lei la domanda, evidentemente, non era una semplice formalità. Parve considerarla da diversi punti di vista, prima di assentire lentamente. La bicicletta la teneva in anticamera, appoggiata alla parete tappezzata di una carta scolorita. Il soggiorno era arredato come la casa di una vecchia signora e aveva lo stesso odore, quel misto di canfora, panni conservati con cura ma non troppo puliti, finestre chiuse e verdura bollita. Wexford si aspettava di vedere una vecchia madre in poltrona, ma la stanza era deserta. — Intanto, vorremmo il suo nome completo, per favore — disse Vine. Se si fosse trovata in tribunale, accusata di omicidio e senza un avvocato a difenderla, Bib non si sarebbe comportata con maggiore cautela. Pesava bene ogni parola. Lo disse lentamente, con riluttanza. — Ehm, Beryl... ehm, Anges... ehm, Mew. — Beryl Anges Mew. Lei, mi risulta, fa del lavoro part-time a Tancred House. Ieri pomeriggio era là, vero, signorina Mew? — Signora Mew. — Guardò da Vine a Wexford e ripeté, in tono deliberato: — Signora Mew. — Scusi. Era là ieri pomeriggio? — Sì. — A fare che cosa? Forse era lo choc a farle quell'effetto, oppure era diffidente e sospettosa per natura. Sembrava sbigottita dalla domanda di Vine e lo fissò duramente prima di rispondere con un'alzata di spalle. — Che lavoro svolge là, signora Mew? Tornò a riflettere. Restava immobile, ma gli occhi si muovevano di continuo. Ora, poi, si muovevano più che mai. Disse, e Vine non capì: — Li chiamano pesanti. — Lei fa i lavori pesanti, signora Mew — interloquì Wexford. — Sì, capisco. Lavare pavimenti, porte e così via. — Assentiva, nel dirlo. — Ieri però stava pulendo il freezer, mi sembra.
— I freezer. Ne hanno tre. — Ecco che muoveva lentamente la testa da parte a parte. — L'ho visto alla tele. Non potevo crederci. Ieri stavano benissimo. Quasi che gli abitanti di Tancred House, pensò Wexford, fossero stati improvvisamente colpiti dalla peste. — A che ora è venuta via di là per tornare a casa? — le domandò. Se il dire il proprio nome le era costato una meditazione così lunga, c'era da aspettarsi che una domanda del genere la inducesse a riflettere per minuti interi, ma Bib rispose quasi subito: — Avevano già cominciato a mangiare. — Intende dire che i signori Copeland, la signora Jones e la figlia erano già in sala da pranzo? — Li ho sentiti chiacchierare e chiudere la porta. Io ho rimesso le cose nel freezer e l'ho riacceso. Avevo le mani gelate, così le ho tenute un momento sotto il rubinetto dell'acqua calda. — Lo sforzo di quel lungo discorso la tenne un momento in silenzio, quasi stesse recuperando le forze. — Ho infilato il soprabito, poi sono andata a prendere la bicicletta che era in quel tratto sul retro con le siepi intorno. Aveva una forte inflessione dialettale, e Wexford si domandava se l'americano della porta accanto, nel sentirla parlare così, riuscisse a capirla. — Ha chiuso la porta a chiave, nell'andar via? — Chi, io? No. Non è compito mio chiudere a chiave. — Perciò saranno state... le otto meno dieci? Lunga esitazione. — Credo. — Com'è andata a casa? — domandò Vine. — Con la bicicletta. — Sembrava indignata da tanta ignoranza. Ma come, non lo sapeva? Lo sapevano tutti. — Che percorso ha seguito, signora Mew? Che strada ha fatto? — La secondaria. — Voglio che rifletta molto bene prima di rispondermi. — Ma lei lo faceva sempre. Per questo impiegava tanto tempo. — Ha visto una macchina, nel tornare a casa? L'ha incontrata, o l'auto l'ha superata? Lungo la strada. — Era evidente che occorrevano ulteriori spiegazioni. — Una macchina o un furgoncino o... un veicolo come quello della porta accanto. Per un attimo Wexford temette d'averla indotta a pensare che il vicino americano fosse coinvolto nel crimine. Lei si alzò e andò a guardare dalla finestra in direzione del Ford Transit. Con espressione confusa, si addentò il labbro.
Alla fine, domandò: — Quello? — No, no, uno qualsiasi. Un veicolo. Ha incontrato qualche veicolo, ieri sera, nel tornare a casa? Ci pensò. Assentì, scosse la testa e alla fine disse: — No. — Ne è sicura? — Sì. — Quanto ci mette per tornare a casa? — È in discesa la strada, al ritorno. — Sì. Quanto tempo ha impiegato, ieri sera? — Circa venti minuti. — E non ha incontrato nessuno? Nemmeno John Gabbitas con la Land Rover? Per la prima volta, negli occhi inquieti passò quasi un lampo di animazione. — Lui dice che l'ho incontrato? — No, no. È improbabile, del resto, se è arrivata a casa verso, diciamo... le otto e un quarto. Tante grazie, signora Mew. Le spiace mostrarci la strada che va da qui alla secondaria? Una lunga pausa, poi: — No, certo. La via dove si trovavano i cottage scendeva ripida nella vallata, costeggiando un fiumiciattolo. Bib Mew indicò loro la direzione da prendere, dando alcune vaghe istruzioni, e i suoi occhi andavano di continuo al Ford Transit. Wexford temeva d'averle radicato nella mente il concetto che, la sera prima, lei avrebbe dovuto incontrare quel camioncino. Mentre imboccavano la discesa, poteva vederla spenzolata al di sopra del cancello, intenta a seguirli con quei mobilissimi occhi. Ai piedi della discesa, sul corso d'acqua non c'era un ponte ma un guado. Un ponticello di legno lo attraversava, ma solo per i pedoni e i ciclisti. Vine guidò attraverso l'acqua, che aveva una profondità di forse quindici centimetri e scorreva rapidissima sopra piatte pietre scure. Dall'altra parte, arrivarono a quello che lui si ostinava a chiamare un incrocio a T, sebbene l'estrema rusticità del luogo, ripidi argini, alberi sporgenti, prati in fondo ai quali s'intravedeva del bestiame, ne facesse un termine improprio. Le istruzioni di Bib, se così si potevano chiamare, erano di girare a sinistra e poi prendere la prima a destra. Quello era il percorso che da Pomfret Monachorum portava alla strada secondaria. D'improvviso, avvistarono una foresta. Gli alberi si diradarono, ed eccola là, una scura, bluastra tettoia sospesa ben in alto sopra di loro. Dopo circa un chilometro riapparve, fu ben presto tutt'intorno a loro, mentre il viot-
tolo che, come un profondo tunnel, correva tra due alti argini si immetteva nell'inizio della secondaria, dove un cartello diceva: SOLO PER TANCRED HOUSE. TRE CHILOMETRI. DIVIETO DI TRANSITO. — Quando saremo a circa un chilometro, voglio scendere e fare il resto della strada a piedi. — Bene, ispettore. Ma dovevano essere pratici del posto, se sono passati di qui. — Lo conoscevano, sì. Uno dei due, per lo meno. Wexford lasciò l'auto in un momento favorevole, perché stava spuntando il sole. Solo di lì a un mese i boschi si sarebbero cominciati a rinverdire. Non c'era neppure una nebbiolina verdastra a sfumare gli alberi che fiancheggiavano quel sentiero sabbioso. Era tutto di un bruno vivido, un colore lucente e vigoroso che dorava i rami e dava alle prime gemme una splendente sfumatura ramata. La sera innanzi sul tardi, quando il cielo si era fatto terso, era brinato tutto. Ora la brina si era sciolta, non ne restava neppure un'argentea traccia, ma l'aria immobile era ancora tagliente. Il cielo era di un azzurro delicatissimo, così pallido da sembrare quasi bianco. L'intervista di Win Carver parlava di quegli alberi: quando erano stati piantati, quali datavano dagli anni Trenta e quali erano più vecchi ma erano stati aumentati da nuove piante in quello stesso periodo. Antiche querce, e qua e là un ippocastano dai rami curvi e dalle gemme glutinose, torreggiavano al di sopra di alberi più piccoli, a forma di vasi, come per un naturale processo di arte topiaria. Wexford pensava che potesse trattarsi di carpini. Poi, notò un'etichetta metallica fissata al tronco di uno di essi. Sì, carpino comune, Carpinus betulus. Gli esemplari più alti e più aggraziati, un po' più avanti lungo il sentiero, erano, lesse, Sorbus aucuparia, ovvero sorbi. Identificare alberi quando erano spogli doveva essere una sorta di test per esperti. Cominciava, ora, una piantagione di aceri della Norvegia (Acer platanoides) con corteccia simile a pelle di coccodrillo. Niente conifere, lì, non un solo pino o abete a fornire un'ombra intensa e verde tra quei rami spogli. Era la parte più bella del bosco caducifoglio, quella, opera dell'uomo ma copiata dalla natura. I tronchi caduti erano stati lasciati là dov'erano crollati ed erano ricoperti da colorati funghi o da vegetazione selvatica. Alberi morti erano ancora in piedi, i tronchi marci inargentati dalle intemperie, dimore di gufi o fonte di alimentazione per i picchi. Wexford continuava a camminare, aspettandosi a ogni svolta della strada stretta di trovarsi in vista dell'ala orientale della casa. Ma ogni nuova curva
offriva soltanto un'altra visione di alberi eretti e caduti, di alberelli e di sottobosco. Uno scoiattolo di un marrone argenteo s'inerpicò su per il tronco di un albero, balzando di ramo in ramo, e spiccò poi un vero volo fino a un vicino faggio. La strada descrisse infine un'ellissi, si allargò, uscì allo scoperto, e ora di fronte a lui c'era la casa, avvolta in un velo di bruma. L'ala est si elevava maestosa. Da lì si vedevano la terrazza e i giardini sul retro. Al posto delle giunchiglie, che riempivano i giardini pubblici e le aiuole di Kingsmarkham, piccole scille simili ad azzurre gemme si raggruppavano sotto gli alberi. Ma i giardini di Tancred House non si erano ancora svegliati dal loro sonno invernale. Bordure erbose, piante di rose, vialetti, siepi, prati, tutto si presentava come potato, pettinato, curato e in alcuni casi impacchettato, e riposto per il periodo dell'ibernazione. Tassi e cipressi creavano veri e propri schermi verdi, abilmente piantati in modo da fornire un privilegiato isolamento e nascondere gli edifici esterni alla vista della casa. Si fermò a guardare per qualche istante, poi si diresse verso il punto dov'erano parcheggiati i veicoli della polizia. La sala d'emergenza era stata sistemata in quello che sembrava un isolato di stalle, sebbene quelle stalle non avessero più visto un cavallo da oltre mezzo secolo. Erano troppo lussuose, e avevano perfino le veneziane alle finestre. Un orologio dal quadrante turchino e dalle lancette dorate sotto un frontone centrale lo informò che erano le undici meno venti. La sua auto era parcheggiata nella zona lastricata, e così quella di Burden e due furgoni. All'interno di quell'isolato, un tecnico installava computer e Karen Malahyde stava sistemando una pedana, un leggio, un microfono e un semicerchio di sedie per la conferenza stampa, fissata per le undici. Wexford prese posto alla scrivania che gli era stata fornita. Era un po' commosso dalla cura che Karen si era presa: doveva sicuramente essere opera di Karen. C'erano tre penne a sfera nuove, un tagliacarte di ottone che probabilmente non gli sarebbe mai servito, due telefoni, come se lui non avesse già il suo Vodaphone, un computer e una stampante - Wexford non aveva idea di come funzionassero - e un cactus dal portavaso azzurro e marrone. Il cactus, grosso, sferico, grigio, peloso, assomigliava più a un animale che a una pianta, un animale che ispirava quasi tenerezza, salvo che, quando lui lo toccò, una spina gli si conficcò in un dito. Wexford scosse il dito, con una lieve imprecazione. Vedeva benissimo che gli era stato reso onore. Certe cose, evidentemente, si accordavano col
grado, e sebbene vi fosse un altro cactus sulla scrivania destinata sicuramente a Burden, non era però delle dimensioni del suo, né era così irsuto. A Barry Vine era toccata soltanto una violetta africana, e nemmeno in fiore. L'agente Lennox aveva telefonato subito dopo aver preso servizio in ospedale. Da riferire non c'era niente. Andava tutto bene. Questo che cosa voleva dire? E a lui che cosa poteva importare, se la ragazza viveva o moriva? Ragazze ne morivano in tutto il mondo, di fame, per guerre o insurrezioni, per pratiche crudeli e per trascuratezza dei medici. Perché quella era così importante? Formò, sul suo telefono, il numero di Anne Lennox. — Sembra che stia bene, signore. Doveva avere sentito male. — Che stia come? — Che stia bene... be', molto meglio. Vuole parlare con la dottoressa Leigh? Seguì un silenzio all'altro capo della linea. O almeno, non si udivano voci. Gli arrivavano solo rumori d'ospedale, passi, suoni metallici, fruscii. Poi, una donna in linea. — La polizia di Kingsmarkham, ho capito bene? — Sono l'ispettore capo Wexford. — Dottoressa Leigh. Come posso esserle utile? La voce gli suonava lugubre. Vi avvertiva una gravità che forse i sanitari imparavano ad assumere per un certo intervallo, dopo che era avvenuta una tragedia. Una morte del genere avrebbe fatto impressione a tutto l'ospedale. Si limitò a dare il nome, sapendo che sarebbe stato sufficiente. — La signorina Flory. Daisy Flory. D'incanto, il tono cupo scomparve. O forse lui lo aveva immaginato. — Daisy? Sì, sta bene, sta andando benissimo. — Cosa? Come ha detto? — Ho detto che sta migliorando, che sta bene. — Sta bene? Ma... parliamo della stessa persona? La ragazza che è stata ricoverata ieri sera, con ferite d'arma da fuoco? — Le sue condizioni sono più che soddisfacenti, ispettore. Uscirà oggi stesso dalla rianimazione. Immagino che vorrà vederla, vero? Non c'è motivo perché non possa parlarle, questo pomeriggio. Per un tempo breve soltanto, s'intende. Diciamo dieci minuti. — Alle quattro andrebbe bene? — Alle quattro, sì. Chieda prima di me, d'accordo? Dottoressa Leigh.
La stampa arrivò in anticipo. Wexford pensò che era più esatto dire "i media" perché, nell'avvicinarsi alla pedana, dalla finestra aveva visto che stava arrivando una troupe della televisione. 6 "Tenuta" faceva pensare a un centinaio di casette a schiera contenute entro pochi acri. "Terreni" esprimeva solo terra, non i fabbricati che vi stavano sopra. Burden, di solito così poco fantasioso, era del parere che "proprietà terriera" potesse essere l'unica definizione adatta. Quella era la proprietà terriera di Tancred, un piccolo mondo o, più realisticamente, un piccolo villaggio: la grande casa, le sue stalle, rimesse, dipendenze, abitazioni per domestici passati e presenti. I suoi giardini, i prati, le siepi, i pineti, le piantagioni e i boschi. Il tutto - i boschi forse no - doveva essere perquisito. Avevano bisogno di sapere con che cosa avevano a che fare, che cos'era quel luogo. Le stalle dov'era stato organizzato il centro rappresentavano solo una piccola parte dell'insieme. Da dove stava lui, sulla terrazza che correva lungo tutto il retro della villa, sì e no si scorgeva qualcosa di quegli edifici esterni. Un'accorta sistemazione delle siepi e degli alberi, in modo da celare ciò che era umile o utile, nascondeva tutto alla vista salvo la cima di un tetto d'ardesia e la punta di una banderuola. E sì che, in fondo, era ancora inverno. D'estate, il fogliame avrebbe fatto da scudo a quei giardini con compatti schermi di verde. Per ora, il lungo prato formale correva via tra bordure erbacee, era interrotto da un roseto, poi ricominciava per immergersi, al di sopra di uno steccato infisso in un fossato di cinta, nel prato naturale al di là. Le cose erano state disposte in modo da far sì che i giardini si fondessero dolcemente con il panorama circostante, con le zone a parco dagli occasionali alberi giganteschi e con la cornice azzurrognola dei boschi. Tutti i boschi apparivano bluastri nella luce morbida e velata del tardo inverno, salvo il pineto a ovest, con il suo miscuglio di colori fatto di giallo e nerofumo, di verde marmo e di verde rettile, di ardesia, di perla e di vivido rame. Perfino di giorno, perfino da lì, le due case in cui abitavano gli Harrison e Gabbitas erano invisibili. Burden scese i gradini, percorse il vialetto e oltrepassò un cancello nella siepe che immetteva nell'area delle stalle e delle rimesse, dove la ricerca era già cominciata. Arrivò a una fila di cottage, dilapidati e miseri ma non derelitti, che senza dubbio un tempo avevano o-
spitato alcuni dei molti servitori di cui i vittoriani avevano bisogno perché tutto, all'aperto, fosse confortevole e ordinato. La porta d'entrata di uno di quei cottage era aperta. Nell'interno, due agenti in uniforme stavano aprendo credenzini e indagando in un buchetto di retrocucina. A Burden venne in mente il problema degli alloggi, il fatto che non ve ne fossero mai a sufficienza, e tutte le persone senza casa, che ormai circolavano perfino per le strade di Kingsmarkham. Sua moglie, che aveva una coscienza sociale, gli aveva insegnato a pensare a queste cose. Prima di sposarla, non gli sarebbe mai passato per la testa. Si rendeva conto, tuttavia, che quel surplus di spazio abitativo a Tancred, e le centinaia e centinaia di dimore come quella che dovevano essere sparse per tutta l'Inghilterra, non risolvevano il problema. Proprio no. Non vedeva come si potessero indurre i Flory e i Copeland di questo mondo a concedere i loro inutilizzati cottage per la servitù alla mendicante che dormiva sotto il portico della chiesa di St Peter, ammesso poi che la mendicante lo desiderasse. Così, smise di pensarci e s'incamminò ancora una volta lungo la parte posteriore della villa, verso le regioni della cucina, dove doveva trovarsi con Brenda Harrison per un giro della casa. Lì, Archbold e Milson stavano esaminando le parti lastricate, cercando senza dubbio tracce di pneumatici. Al suo arrivo, quel mattino, li aveva trovati al lavoro sul vasto spiazzo antistante. Era stato un inizio di primavera molto secco, l'ultima pioggia vera risaliva a settimane prima. Un'auto poteva arrivare lassù senza lasciare alcuna traccia del suo passaggio. Nelle acque immobili della vasca, quando si era chinato a guardare, aveva visto un paio di grossi ciprini dorati, bianchi e con la testa di un rosso scarlatto, nuotare serenamente in lenti cerchi. Bianchi e rosso scarlatto... Il sangue era ancora là, sebbene la tovaglia, e insieme tutta una serie di altre cose, fossero partite dentro sacchi di plastica per il laboratorio della polizia scientifica di Myringham. Più tardi, sempre in serata, la stanza era stata riempita di sacchi di plastica sigillati, contenenti lampade e ornamenti, cuscini e tovaglioli, piatti e posateria. Senza preoccuparsi di quello che avrebbe potuto vedere nell'atrio, perché dei teli coprivano i gradini più bassi della scala e l'angolo dove c'era il telefono, Burden stava cercando di pilotare Brenda oltre la sala da pranzo, quand'ecco che lei si spostò da un lato e ne aprì la porta. Era talmente rapida nei suoi movimenti che non si poteva staccarle un attimo gli occhi di dosso.
Magra, minuta, aveva la figura scarna di un'adolescente. I calzoni quasi non segnavano la linea delle natiche e delle cosce. Il volto, però, era profondamente segnato da rughe che lo incidevano come tagli, e le labbra venivano sporte e risucchiate di continuo, nervosamente. I capelli rossicci erano già abbastanza radi da rendere probabile che, di lì a una decina d'anni, la signora Harrison avrebbe avuto bisogno di una parrucca. E non stava mai ferma. Probabilmente, anche di notte si rigirava e si agitava in un sonno inquieto. Fuori del bovindo, a guardar dentro a bocca aperta, c'era il marito. La sera prima il vetro rotto era stato sistemato alla meglio, ma nessuno aveva tirato le tende. Brenda lanciò al consorte una rapida occhiata, poi passò in rassegna la stanza, rotando la testa. I suoi occhi si posarono brevemente sul punto più macchiato della parete, un po' più a lungo sul tratto di tappeto vicino alla sedia dove era stata seduta Naomi Jones. Lì Archbold aveva raschiato via una sezione macchiata di sangue del vello, per mandarla in laboratorio con gli altri oggetti e con le quattro cartucce che aveva recuperato. Burden si aspettò di sentirla fare dei commenti, delle osservazioni sulla polizia, che distruggeva un buon tappeto quando sarebbe bastato lavarlo per farlo tornare come prima, ma lei non disse niente. Fu Ken Harrison a esprimere - o ad accennare con il movimento delle labbra, perché dall'interno della stanza era impossibile sentire - l'attesa rampogna. Burden aprì la finestra. — Non ho capito bene, signor Harrison. — Dicevo, che peccato rompere un vetro così. — Si potrà sempre sostituirlo. — Verrà a costare. Burden alzò le spalle. — E la porta di servizio non era nemmeno chiusa a chiave! — protestò Harrison, nel tono che un rispettabile padrone di casa usa per deplorare un atto di vandalismo. Brenda, lasciata a se stessa a esaminare la stanza, per la prima volta, si era fatta pallidissima. Quell'espressione fissa, quel crescente pallore, potevano preludere a uno svenimento. Gli occhi vitrei di lei incontrarono quelli di Burden. — Venga via, signora Harrison, non c'è scopo di rimanere qui. Si sente male? — Non sto per svenire, se è questo che intende. Ma il pericolo c'era stato, lui ne era certo, perché nell'atrio la donna si la-
sciò cadere su una sedia e rimase a testa china, tremando. Burden poteva avvertire l'odore del sangue, e si augurava che lei non capisse che cos'era quel tanfo, un misto di odori di pesce e di limatura di ferro, quand'ecco che lei balzò in piedi, assicurò di sentirsi benissimo e propose di andare di sopra. Poi, allegramente, superò d'un balzo il telo che copriva i gradini dove Harvey Copeland era spirato. Di sopra, gli mostrò l'ultimo piano, un posto tutto soffitte che forse non veniva mai usato. Al primo piano c'erano invece stanze che lui aveva già visto, quelle di Daisy e di Naomi Jones. A tre quarti del cammino lungo il corridoio che portava nell'ala ovest, lei aprì una porta e annunciò che quella era la camera dove dormiva Copeland. Burden rimase sorpreso. Aveva creduto che Davina Flory e il marito dividessero la stessa stanza. Non lo disse, ma Brenda glielo lesse nel pensiero. Gli rivolse uno strano sguardo in cui al moralismo si mescolava un che di lascivo. — C'erano sedici anni di differenza tra loro, sa. Lei era molto vecchia. Naturalmente nessuno l'avrebbe detto, non so se mi capisce, sembrava che non avesse niente a che fare con l'età, in un certo senso. Era lei e basta. Burden comprendeva benissimo, e tanta sensibilità gli riusciva inaspettata. Diede una rapida occhiata alla stanza. Nessuno era entrato là dentro, non c'era niente fuori posto. Il letto di Copeland era a una sola piazza. Il mobilio era di mogano ma, nonostante il suo colore così caldo, la stanza conservava un che di austero, con semplici tende color panna, moquette color panna e alle pareti solo stampe di mappe antiche. Lo stato della stanza di Davina Flory parve sconvolgere Brenda ancor più della sala da pranzo. Se non altro, la stimolò a sfogare i suoi sentimenti. — Che disastro! Guarda quel letto! E tutta quella roba fuori dai cassetti! Correva intorno, raccogliendo cose. Burden non fece alcun tentativo di impedirglielo. Le fotografie avrebbero fornito una testimonianza permanente di com'era stata la stanza. — Voglio che mi dica che cosa manca, signora Harrison. — Ma guardi, la sua scatola portagioie! — Si ricorda delle cose che aveva? Brenda, agile come una diciottenne e altrettanto snella, si era seduta per terra, e raccattava tutt'intorno a sé gli oggetti sparsi; una spilla, un paio di pinzette per le sopracciglia, la chiave di una valigia, una boccetta di profumo vuota.
— Quella spilla, per esempio... quella perché l'avranno lasciata? La breve risata di lei suonò di scherno. — Non valeva niente. Gliel'avevo data io. — Lei? — Come regalo di Natale. Ci scambiavamo sempre dei regali, perciò dovevo darle qualcosa. Ma cosa si può dare a una donna che ha tutto? La portava spesso, forse le piaceva, ma costava solo tre sterline. — Che cosa manca, signora Harrison? — Sa, non aveva molto. Io dico "una donna che ha tutto" ma ci sono cose che ti puoi permettere e che non sempre vuoi, capisce? Una pelliccia, per esempio, se anche puoi permettertela... be', è una cosa crudele, no? Avrebbe potuto ricoprirsi di diamanti, ma non era nel suo stile. — Si era alzata, ora, e stava frugando nei cassetti. — Direi che è sparito tutto, di quello che c'era. Aveva delle belle perle. C'erano gli anelli che le aveva dato il suo primo marito; non li metteva mai, ma erano qui. È scomparso il suo braccialetto d'oro. Uno degli anelli aveva dei brillanti enormi, Dio sa quanto valeva. Sarebbe stato logico che lo tenesse in banca, non crede? Ma a me aveva detto che pensava di darlo a Daisy, quando avrebbe compiuto diciotto anni. — Quando li avrebbe compiuti? — Presto. La settimana prossima o quella dopo. — Lo pensava soltanto, di darglielo? — Io le ripeto quello che aveva detto, e aveva detto così. — Pensa di potermi fare un elenco dei gioielli che secondo lei mancano, signora Harrison? Lei assentì, chiuse con rabbia il cassetto. — Incredibile, ieri a quest'ora ero qui che facevo la stanza di fino - le facevo sempre di martedì, le stanze da letto - e lei è entrata, Davina dico, e parlava tutta felice del fatto di dover andare in Francia con Harvey per fare un certo programma alla TV francese, un programma molto importante che riguardava il suo nuovo libro. Naturalmente parlava francese come una del posto. — Che cosa pensa che sia successo ieri sera? Lei stava precedendolo giù per la scala di servizio. — Io? Come faccio a saperlo? — Qualche idea deve pur averla. Conosce la casa e conosceva le persone. M'interesserebbe sapere quello che pensa. In fondo alla scala s'imbatterono in un grosso gatto di un colore noto a Burden come "azzurro aviazione", che era uscito dalla porta di faccia e
stava attraversando l'anticamera di servizio. Come li vide si arrestò di colpo, dilatò gli occhi, abbassò le orecchie all'indietro e cominciò a gonfiarsi fino a rizzare completamente il folto e soffice pelo. Il suo era l'atteggiamento di un animale coraggioso minacciato da cacciatori o da qualche pericoloso predatore. — Non fare la sciocca, Queenie — disse affettuosamente Brenda. — Non essere così stupidina. Lo sai che lui non ti farà niente, finché ci sono io. — Burden si sentì leggermente offeso. — Ci sono dei fegatini di pollo, per te, sul solito scalino. La gatta fece dietro-front e fuggì nella direzione dalla quale era venuta. Brenda Harrison la seguì al di là di una porta che Burden la sera innanzi non aveva varcato, e lungo un corridoio che immetteva nel soggiorno. Nella serra piena di sole faceva caldo come d'estate. Lui vi era entrato brevemente, la sera prima. Gli sembrava diversa, di giorno, e si rese conto che quello era l'edificio tutto vetri, di forma classica e dal tetto tondeggiante, che sporgeva nel centro del terrazzo dove lui si era fermato a contemplare i prati e i boschi in distanza. Il profumo dei giacinti era più intenso, più dolciastro, e il sole aveva schiuso i narcisi che ora mostravano le loro corolle arancione. L'atmosfera lì dentro era umida, calda e profumata, un po' come si pensa che debba essere una foresta, l'umidità dell'aria tangibile. — Non voleva che tenessi un animale — disse improvvisamente Brenda Harrison. — Come dice? — Davina. Ripeto, non si dava certo delle arie, tutti noi eravamo uguali o almeno, così diceva - ma non mi era permesso tenere una bestiola. Mi sarebbe tanto piaciuto un cane. Prenditi un criceto, Brenda, diceva lei, o un pappagallino. Ma a me l'idea non piaceva affatto. È crudele tenere degli uccelli in gabbia, non le sembra? — Neanch'io ci terrei — convenne Burden. — Dio sa che cosa ne sarà di noi ora, parlo di me e Ken. Non ce l'abbiamo un'altra casa. Con i prezzi che hanno oggi, non c'è da sperarlo... be', è un bello scherzo, no? Davina diceva che questa era casa nostra per sempre, ma a conti fatti è una casetta che il datore di lavoro concede come abitazione al dipendente, sì o no? — Si chinò a raccogliere una foglia da terra. La sua espressione divenne un po' assente e meditabonda. — Non è facile ricominciare da capo. So che non dimostro i miei anni, lo dicono tutti, ma a conti fatti non diventiamo certo più giovani, nessuno dei due.
— Stava per dirmi che cosa pensa sia accaduto ieri sera. Lei sospirò. — Cosa penso che sia successo? Be' che cosa succede in questi casi orribili, intendo dire che non sarà il primo, vero? Sono entrati e sono andati di sopra, avevano sentito parlare delle perle, degli anelli. C'è sempre qualcosa su Davina, sui giornali. Insomma, dovevano saperlo tutti che c'erano soldi, qui. Harvey li ha sentiti, voleva salire per inseguirli e loro sono venuti giù e gli hanno sparato. Poi hanno dovuto sparare anche alle altre per impedire che lo dicessero: sì, ecco, che dicessero a tutti che aspetto avevano. — È una possibilità. — Cos'altro, del resto? — disse lei, come se non vi fosse un dubbio al mondo. Poi, sbrigativa, lo lasciò di stucco: — Potrò tenere un cane, ora. Non so cosa ne sarà di noi, ma nessuno potrà impedirmi di tenere un cane, vero? Burden ritornò nell'atrio e contemplò la scalinata. Più ci rifletteva, meno riusciva ad accordare la meccanica con i fatti. I gioielli mancavano. Poteva anche darsi che fossero molto preziosi, che valessero fino a centomila sterline, ma uccidere tre persone per questo e intendere ucciderne una quarta? Burden alzò le spalle. Sapeva che uomini e donne sono stati assassinati per pochi centesimi, per il prezzo di una bibita. Sebbene ancora un po' turbato dal ricordo della ripresa televisiva, Wexford era però in grado di congratularsi con se stesso per la discrezione che aveva mantenuto riguardo a Daisy Flory. La televisione non era più un mezzo misterioso e paralizzante. Ci si stava abituando. Era la terza o la quarta volta che appariva di fronte a una telecamera e, se non proprio blasé, si sentiva però molto più disinvolto. Una sola domanda lo aveva irritato, domanda che sembrava avere poco a che fare con gli omicidi di Tancred House. C'era qualche probabilità che si trovassero i responsabili, o sarebbe finita come per la sparatoria alla banca? Aveva replicato, dicendosi certo che entrambi i crimini sarebbero stati risolti, e che l'assassino del sergente Martin sarebbe stato catturato proprio come quelli di Tancred House. Sulla faccia di quello che lo interrogava era apparso un sorrisetto, ma lui aveva cercato di ignorarlo e di mantenere la calma. La domanda non era stata fatta da qualcuno dei rappresentanti dei giornali nazionali, ma da un cronista del Kingsmarkham Courier, giovanissimo, bruno, piuttosto aitante e spavaldo, che parlava come chi ha frequenta-
to buone scuole, senza traccia di accento. — È passato quasi un anno dall'omicidio della banca, ispettore capo. — Dieci mesi — precisò Wexford. — Non è un fatto che, stando alle statistiche, più tempo passa, meno è probabile... Wexford si era girato verso un'altra persona con la mano alzata e le parole del reporter del Courier erano state coperte dalla domanda di lei. Come stava la signorina Flory? Davina o Daisy, non era così che la chiamavano? Wexford preferiva mantenersi nel vago, per il momento. Aveva risposto che era in sala di rianimazione - cosa forse ancora vera, a quell'ora - che le condizioni erano serie ma stabili e che aveva perso molto sangue. Questo nessuno gliel'aveva detto, ma sicuramente era così. La giornalista gli aveva domandato se Daisy fosse sulla "lista dei gravissimi" e Wexford era stato in grado di dirle che nessun ospedale teneva una lista del genere, né mai, che lui sapesse, l'aveva tenuta. Sarebbe andato da solo a trovarla. Non voleva nessuno ad accompagnarlo, per quel primo interrogatorio. L'agente investivativo Gerry Hinde, ora nel suo elemento, stava inserendo nel suo computer masse di informazioni riordinate e verificate dalle quali, come aveva misteriosamente annunciato, avrebbe ricavato una base dati da distribuire a ogni sistema nell'isolato delle stalle. Erano stati portati dei panini, procurati al supermarket di Cheriton High Road. Nell'aprire la propria confezione con il tagliacarte, comprendendo quanto utile gli sarebbe stato invece da quel momento, Wexford si domandava come avesse fatto il mondo prima dell'avvento degli involucri di plastica. Degni d'essere considerati tra le invenzioni benedette, pensò, con un'occhiata di fastidio a Gerry Hinde, così a suo agio tra quelle macchine. Mentre lui stava per uscire, arrivò Brenda Harrison con l'elenco dei gioielli mancanti di Davina Flory. Lui ebbe appena il tempo di dargli una rapida scorsa, prima di passarlo a Hinde. L'elenco era una vera chicca per la banca dati, qualcosa da trasmettere col mouse a tutti i sistemi. Con sua somma irritazione, nell'uscire dalle stalle trovò ad aspettarlo il reporter del Courier. Era seduto su un muretto, e faceva dondolare le gambe. Wexford aveva come regola di non discutere mai i "casi" con la stampa, se non alle conferenze organizzate. Quel tale doveva essere lì da circa un'ora, nella speranza di vederlo uscire, prima o poi. — No. Nient'altro da dire, per oggi.
— Ma non è giusto. Dovrebbe darci la priorità. Essere di sostegno allo sceriffo del luogo. — E quindi è lei che deve dare sostegno a me — ribatté Wexford, divertito suo malgrado — non io dare in pasto fatti a lei. Come si chiama? — Jason Sherwin Coram Sebright. — Riempie la bocca, vero? Non è un po' lunga, come firma? — Non ho ancora deciso, per ora, come chiamarmi a scopi professionali. Ho cominciato a lavorare al Courier da una settimana appena. Il fatto è che io sono nettamente avvantaggiato rispetto agli altri. Conosco Daisy, vede. Frequenta la mia stessa scuola, o quella che frequentavo. La conosco benissimo. Il tutto detto con una disinvoltura e un'impudenza davvero insolite, perfino al giorno d'oggi. Jason Sebright sembrava perfettamente a suo agio. — Se va a trovarla, spero che mi porterà con lei — aggiunse. — Ci terrei a farle un'intervista esclusiva. — Allora le sue speranze sono destinate a rimanere deluse, signor Sebright. Congedò il giovane e aspettò fino a che non lo vide salire nella propria auto. Donaldson si avviò lungo il viale principale, quello che avevano percorso la sera prima, e la piccola Fiat di Sebright li seguiva da presso. Circa mezzo chilometro più avanti, in un'area dove c'erano molti alberi caduti, oltrepassarono Gabbitas che stava azionando qualcosa: a Wexford sembrò una macchina per ricavare assi. L'uragano di tre anni prima aveva fatto danno in quel punto. Wexford notava tratti disboscati dove di recente erano stati piantati alberelli nuovi, rinforzati da paletti e protetti da apposite gabbie. Lì, inoltre, erano state costruite tettoie per la stagionatura e, protette da teloni, si vedevano accatastate assi di quercia, di sicomoro e di frassino. Arrivarono al cancello principale e Donaldson scese per aprirlo. Dal pilastro a sinistra penzolava un mazzo di fiori. Wexford abbassò il finestrino per vedere meglio. Non era una normale confezione da fiorista, bensì un cesto pieno di fiori, più basso da un lato per meglio consentire la vista delle corolle. Fresie color oro, scille azzurro cielo e candide stefanotidi si riversavano al di sopra dell'orlo dorato del cestello. Attaccato al manico c'era un biglietto. — Che cosa dice? Donaldson stentava a leggerlo, tanto che si schiarì la gola e ricominciò. — "Ora, vantati, morte, in tuo possesso giace, una giovane donna senza
pari." Poi lasciò aperto il cancello per Jason Sebright, il quale era sceso a sua volta per leggere le parole sul biglietto. Donaldson svoltò sulla Biventiquattroventotto in direzione di Cambery Ashes e Stowerton. Dieci minuti dopo erano a destinazione. La dottoressa Leigh, una donna molto giovane e dall'aria stanca, s'incontrò con Wexford nel corridoio fuori della corsia MacAllister. — Capisco benissimo che sia urgente parlarle, ma per oggi potrebbe limitarsi a una decina di minuti? Sa, per quanto mi riguarda, e se la ragazza è d'accordo, lei può tornare anche domani, ma come primo contatto penso sia meglio limitarlo a dieci minuti. Dovrebb'essere sufficiente per sapere l'essenziale, vero? — Se lo dice lei — rispose Wexford. — Ha perso molto sangue — spiegò la dottoressa, confermando quanto lui aveva detto alla stampa — ma il proiettile non le ha spezzato la clavicola. Cosa più importante, non le ha toccato il polmone. Un vero miracolo, direi. Non è che stia tanto male fisicamente. È ancora molto molto sconvolta. — Non mi fa meraviglia. — Vuole accomodarsi un momento in ufficio? Wexford la seguì in una stanzetta con scritto INFERMIERA DI GUARDIA sulla porta. Era deserta e piena di fumo. Come mai il personale ospedaliero, che in particolare doveva essere al corrente dei danni causati dalle sigarette, fumava più di tutti? Era un mistero che lo incuriosiva spesso. La dottoressa Leigh, brontolando, andò ad aprire la finestra. — È stato estratto un proiettile dal petto di Daisy. La scapola ne ha impedito l'uscita. Lo vuole? — Sì, certo. Le hanno sparato una sola volta? — Una sola. Nella parte superiore del petto, a sinistra. — Bene. — Lui avvolse il cilindro di piombo nel suo fazzoletto, poi se lo mise in tasca. Il fatto che fosse stato nel corpo della ragazza gli procurava un lieve, inaspettato senso di nausea. — Può entrare da lei, ora. È in una stanza laterale; la teniamo isolata perché è una creatura molto infelice. Non ha bisogno di compagnia, al momento. La dottoressa Leigh lo accompagnò nella corsia MacAllister. Le pareti del corridoio delle stanze singole erano a pannelli di vetro smerigliato e in
ciascuna porta c'era un riquadro di vetro trasparente. Fuori della stanza con un "2" stampigliato sull'uscio, Anne Lennox sedeva su uno scomodo sgabello, leggendo un tascabile di Danielle Steel. Balzò in piedi, nel vedere Wexford. — Ha bisogno di me, signore? — No, grazie, Anne. Resta pure dove sei. Un'infermiera uscì dalla stanza e tenne aperta la porta. La dottoressa Leigh disse che lo avrebbe atteso, appena lui avesse finito, e ripeté la raccomandazione sui limiti di tempo. Wexford entrò e la porta gli venne chiusa alle spalle. 7 Lei era distesa in un alto letto bianco, appoggiata contro una pila di cuscini. Aveva il braccio sinistro al collo e una spessa medicazione alla spalla sinistra. Faceva molto caldo, nella corsia, e invece di un camicione d'ospedale lei indossava qualcosa di bianco, senza maniche, che le lasciava scoperti spalla e braccio destri. All'avambraccio destro era attaccato il tubicino della flebo. Gli tornò in mente la fotografia dell'Independent on Sunday. Quella era Davina Flory fatta e finita, Davina Flory com'era stata a diciassette anni. Invece che alla maschietta, Daisy i capelli li portava lunghi. Erano copiosi e lisci, di un castano bellissimo e molto scuro, e ricadevano fino a coprire in parte la spalla ferita e quella sana. La fronte era alta come quella della nonna, gli occhi grandi e profondamente incassati, non castani ma di un vivido nocciola e con un cerchio nero intorno alle iridi. La pelle era bianca, per una donna così bruna, e le labbra piuttosto sottili molto pallide. Un naso più grazioso di quello a becco d'aquila della nonna s'inclinava lievemente alla punta. Wexford ricordava le mani di Davina Flory, così sottili e dalle dita lunghe, e vide che quelle di Daisy erano identiche, ma con la pelle ancora morbida e quasi infantile. La ragazza non portava anelli. Sui lobi di un rosa pallido, i fori per gli orecchini spiccavano come due minuscole, rosee ferite. Nel vederlo, lei non parlò ma cominciò a piangere. Le lacrime le rotolavano silenziosamente giù per le guance. Wexford tirò fuori una manciata di fazzolettini di carta dalla scatola sul tavolino accanto al letto, e gliela porse. Lei si asciugò la faccia, poi lasciò ricadere la testa in avanti, stringendo forte le palpebre, il corpo sussultante
di singhiozzi trattenuti. — Mi dispiace — disse lui. — Mi dispiace tanto. La ragazza assentì, stringendo i fazzolettini umidi nella sinistra. Era qualcosa su cui Wexford non aveva riflettuto molto il fatto che, nella violenza della sera prima, lei avesse perso la madre. Aveva perso anche una nonna, che poteva essere altrettanto amata, e un uomo che era stato come un nonno fin da quando lei aveva cinque anni. — Signorina Flory... La voce le uscì smorzata, a causa dei fazzoletti premuti di nuovo sulla faccia. — Mi chiami Daisy. — Si capiva che stava facendo uno sforzo, perché deglutì, poi rialzò la testa. — Mi chiami Daisy, la prego. Mi fa uno strano effetto essere la "signorina Flory" tra l'altro io in realtà mi chiamo Jones. Oh, devo smettere di piangere! Wexford lasciò passare qualche istante, pur consapevole dei pochi minuti che aveva. Capiva che lei stava cercando di espellere immagini dalla mente, di cancellarle, di forzarsi a tornare alla realtà. La sentì fare un lungo respiro. Aspettò un poco, ma non poteva permettersi di aspettare troppo a lungo. Un minuto soltanto, il tempo perché la ragazza potesse controllare meglio il respiro, asciugarsi le lacrime con le dita. — Daisy — riprese — tu sai chi sono, vero? Sono della polizia, l'ispettore capo Wexford. Lei assentì brevemente. — Mi concedono solo dieci minuti, per oggi, ma domani intendo tornare, se tu me lo permetti. Devi solo rispondere a un paio di domande, per ora, e cercherò di non toccare argomenti troppo penosi. Va bene così? Un lento assenso e un altro singulto. — Dobbiamo tornare a ieri sera. Non voglio sapere esattamente quello che è successo, non ancora. Soltanto quando li avete sentiti dentro casa e dove. La ragazza esitò talmente a lungo che lui non poté fare a meno di guardare l'orologio. — Se tu potessi dirmi soltanto a che ora li avete sentiti e da dove... Lei parlò d'improvviso e tutto d'un fiato. — Erano di sopra. Noi stavamo cenando. Mia madre li ha sentiti per prima. Ha detto: "Che cos'è questo rumore? Come se di sopra ci fosse qualcuno." — Sì. Poi? — Davina, mia nonna, ha detto che era la gatta. — La gatta?
— Una gatta grande e grossa, Queenie, una persiana azzurra. Certe volte, la sera, comincia a far la matta per tutta la casa. È incredibile il baccano che riesce a fare. Daisy Flory sorrise. Era un sorriso meraviglioso, il suo, un sorriso fanciullesco, e durò per qualche istante, prima di tremarle sulle labbra. Wexford avrebbe voluto prenderle la mano ma, naturalmente, non poteva farlo. — Avete sentito una macchina? Lei scosse la testa. — Io non ho sentito niente, salvo il rumore al piano di sopra. Una specie di tonfo e dei passi. Harvey, il marito di mia nonna, è uscito dalla stanza. Abbiamo sentito uno sparo e poi un altro. Un rumore terribile, proprio terribile. Mia madre ha mandato un urlo e tutt'e tre ci siamo alzate di scatto. No, io mi sono alzata, e anche mia madre e io... io ho fatto per andare a vedere ma mia madre ha urlato: "No, non andare..." e poi è entrato lui. È entrato nella stanza. — Lui? Ce n'era uno solo? — Io ne ho visto solo uno. L'altro l'ho sentito, non l'ho visto. Il ricordo la fece richiudere nel silenzio, e Wexford vide che le erano salite di nuovo le lacrime agli occhi. Se li strofinò con la sinistra. — Ne ho visto solo uno — ripeté con voce alterata. — È entrato, aveva un'arma. — Cerca di stare calma — raccomandò Wexford. — Sono domande che devo farti, ma tra poco avremo finito. Vedi di dire a te stessa, è qualcosa che deve essere. D'accordo? — D'accordo. È venuto dentro... — Ora la voce era tutta toni spenti, meccanici. — Davina era ancora seduta là. Non si è mai alzata, era ancora seduta ma con la testa girata verso la porta. Le ha sparato alla testa, credo. Ha sparato a mia madre. Io non lo so che cos'ho fatto. Era così terribile, non può immaginare com'era, follia, orrore, non era realtà, solo che... oh, non so... ho cercato di buttarmi per terra. Sentivo l'altro, fuori, che avviava un motore. Quello là dentro, quello con la pistola, ha sparato a me, e poi non so, non ricordo... — Daisy, sei bravissima. Proprio brava, sei. Non credo tu possa ricordare cos'è successo dopo che ti aveva colpita. Ma puoi ricordare almeno che aspetto aveva? Puoi descriverlo? Lei scosse la testa, si mise la mano destra sul viso. L'impressione di Wexford fu che la ragazza potesse, sì, descrivere il bandito con la pistola, ma fosse nell'impossibilità, per il momento, di indursi a farlo. — Non l'ho sen-
tito parlare — mormorò lei — non ha detto una parola. — E sebbene Wexford non gliel'avesse domandato, bisbigliò: — Erano circa le otto quando li abbiamo sentiti, e forse le otto e dieci quando se ne sono andati. Dieci minuti, non di più... La porta si aprì ed entrò un'infermiera. — I suoi dieci minuti sono passati. Mi spiace, ma per oggi è tutto. Wexford si alzò. Quand'anche non fossero stati interrotti, non si sarebbe certo arrischiato a continuare. Le possibilità di rispondere della ragazza erano quasi esaurite. Con voce che era poco più di un bisbiglio, lei disse: — Torni pure, domani. So che devo parlarne. Parlerò un po' di più, domani. Distolse lo sguardo da quello di lui e fissò duramente la finestra, sollevando lentamente le spalle, la ferita e la sana, sollevando poi la mano destra per coprirsi la bocca. Il pezzo su The Independent on Sunday era imbevuto di una sorta di velato sarcasmo. Ogni qualvolta era possibile essere caustici, Win Carver era caustica. Nessuna occasione di sogghigno era stata trascurata. Eppure, era un bell'articolo. "Migliore", confessò Wexford a se stesso, proprio per il suo tono ironico e leggermente malizioso, di come sarebbe stato un articolo più blando. Tale era purtroppo la natura umana. Un giornalista del Kingsmarkham Courier avrebbe adottato un tono adulatorio nel descrivere il rimboschimento di Davina Flory, i suoi studi di dendrologia, il suo giardinaggio e il suo collezionare rari esemplari di alberi. La Carver trattava l'intero argomento come se fosse lievemente comico, nonché esempio di vaga ipocrisia. "Piantare" un bosco, lasciava intendere, non era un modo accurato di descrivere qualcosa che altri facevano per te, mentre tu ti limitavi a scucire del denaro. Fare del giardinaggio poteva essere un modo molto piacevole di passare il tempo, quando si trattava di farlo soltanto come riempitivo e nelle belle giornate. A zappare provvedevano giovanotti robusti. Davina Flory, continuava la Carver più o meno nella stessa vena, era stata una donna acclamata e di immenso successo, ma in fondo non aveva dovuto lottare, vero? Andare a Oxford era stato un passo ovvio, data la sua intelligenza, il padre professore e la disponibilità di denaro. D'accordo, era anche stata una sorta di architetto paesaggista, ma i terreni e tutti gli annessi e connessi le erano piovuti in grembo quando aveva sposato Desmond Flory. Rimanere vedova quando la guerra stava ormai per finire era stata
una cosa triste, ma indubbiamente mitigata dall'ereditare dal marito un'enorme casa di campagna e un patrimonio ingente. Un po' critico era anche il riferimento al secondo matrimonio, di breve durata. Tuttavia, nel parlare dei viaggi, dei libri, dell'unicità di Davina Flory nel saper penetrare l'Europa Orientale e analizzarla dal lato politico e sociologico, e questo nei momenti più difficili e pericolosi, Win Carver non aveva che lodi da offrire. Con amabile nostalgia adulatoria, tornava al proprio passato di studentessa, una ventina d'anni prima, e alla sua lettura degli unici due romanzi scritti da Davina Flory. Infine, ma non in breve, passava a parlare del primo volume dell'autobiografia, Otto fratelli più uno scricciolo. Seguiva un riassunto dell'infanzia e della giovinezza di Davina Flory, così come venivano descritte in quelle memorie, un accenno all'incontro della scrittrice con Harvey Copeland, poi la Carver terminava con poche parole - pochissime - sulla figlia, Naomi Jones, che era comproprietaria di una galleria d'arte di Kingsmarkham, e sulla nipote e omonima. Nelle ultime righe dell'articolo Win Carver faceva ipotesi sulle probabilità che la Flory venisse insignita del DBE, e le giudicava altissime. Sarebbero passati soltanto un anno o due, lasciava intendere, prima che la Flory divenisse Dame Davina. In genere (scriveva la Carver) "aspettano che una abbia compiuto gli ottant'anni, così che non viva troppo a lungo". La vita di Davina Flory non si era protratta a sufficienza. La fine, per lei, era stata innaturale e della massima violenza. Wexford, che era ancora nella sala d'emergenza, mise da parte il giornale e studiò lo stampato che Gerry Hinde aveva prodotto per lui, con l'elenco dei gioielli mancanti. Non erano molti, ma tutti sicuramente di grande valore. Poi, si incamminò attraverso il cortile, diretto alla casa. L'atrio era stato ripulito. Puzzava di quel genere di disinfettante che sa di un insieme di lisolo e di limone. Brenda Harrison stava rimettendo a posto ninnoli che erano stati collocati fuori posto. La sua faccia prematuramente rugosa aveva un'espressione di concentrazione intensa, senza dubbio a causa delle rughe. Sulla scalinata, tre gradini più in su, dove il tappeto macchiato in modo forse indelebile era coperto da un telo di canapa, era accoccolata Queenie, la gatta persiana. — Le farà piacere sapere che Daisy si sta rimettendo rapidamente — disse Wexford. Lei lo sapeva già. — Me l'ha detto uno degli agenti — riferì senza entu-
siasmo. — Da quanto tempo lei e suo marito lavoravate qui, signora Harrison? — Quasi dieci anni, ormai. La risposta lo sorprese. Dieci anni sono tanti. Si sarebbe aspettato un maggiore coinvolgimento emotivo con la famiglia, dopo tutto quel tempo, più sentimento. — I signori Copeland erano dei bravi datori di lavoro, allora? La donna accennò un'alzata di spalle. Stava spolverando un gufo blu e rosso, un Crown Derby, e lo rimise a posto sulla superficie levigata, prima di rispondere. Poi parlò in tono pensoso, come se il pronunciarsi avesse richiesto una notevole riflessione. — Non si davano arie. — Esitò, poi aggiunse orgogliosamente: — Non con noi, a ogni modo. La gatta si alzò, si stirò e s'incamminò lentamente in direzione di Wexford. Si fermò davanti a lui, rizzò il pelo, soffiò, e in modo del tutto inaspettato schizzò su per le scale. Dopo qualche istante, cominciarono i rumori, come se un cavallino in miniatura stesse galoppando per i corridoi. Brenda Harrison accese una luce, poi un'altra. — Queenie fa sempre così, verso quest'ora. — Fa qualche danno? Un lieve sorriso le mosse i lineamenti, le allargò un poco le guance. Wexford comprese che era una di quelle persone che si divertono alle prodezze degli animali. Il loro senso dell'umorismo è confinato quasi esclusivamente alle scimmie che prendono il tè, ai cani che si tengono ritti sulle zampe, ai micini con la cuffietta. È grazie a loro che i circhi tirano avanti. — Se andasse di sopra tra una mezz'ora — disse — neppure si accorgerebbe che è stata lì. — E lo fa sempre a quest'ora? — Wexford guardò l'orologio: le sei meno dieci. — Più o meno, sì. — Lei gli lanciò un'occhiata di sotto in su, piuttosto divertita. — È intelligente come non so cosa, ma non sa leggere l'ora, vero? — Voglio sapere ancora una cosa, signora Harrison. Negli ultimi giorni, o anche settimane, ha visto qualche estraneo? Persone sconosciute? Qualcuno che non si sarebbe aspettata di vedere vicino alla villa o sulla proprietà? L'altra ci pensò. Scosse la testa. — Deve chiedere a Johnny. Johnny Gabbitas. Gira per i boschi, lui, è sempre fuori. — Da quanto Gabbitas è qui?
La risposta lo sorprese un poco. — Forse da un anno, non di più. Aspetti, credo che faccia un anno in maggio. — Se le viene in mente qualcosa, qualsiasi cosa strana o insolita che possa essere accaduta, certamente ce lo dirà, vero? Ormai cominciava a calare il buio. Mentre Wexford si accingeva a fare il giro dell'ala ovest, le luci a ridosso del muro, controllate da un interruttore a tempo, si accesero. Lui si fermò e si girò a contemplare i boschi e la strada che portava fuori da quelli. La sera prima, i due uomini dovevano essere arrivati da quella parte, o altrimenti dalla strada secondaria; non c'erano altri percorsi possibili. Come mai nessuna delle quattro persone dentro casa aveva sentito una macchina? Forse sì. Tre non erano più in vita per dirglielo. Daisy non l'aveva sentita, ed era tutto quello che gli era possibile sapere. Ma se uno degli altri l'aveva sentita arrivare, forse l'aveva detto mentre Daisy non ascoltava. Naturalmente, l'indomani avrebbe saputo molte più cose da Daisy. I due uomini in macchina dovevano avere visto davanti a loro la casa illuminata. Alle otto, le luci del muretto erano accese già da un paio d'ore e quelle dentro casa da molto più tempo. La strada arrivava fino al cortile, passava tra i pilastri di pietra ai lati dell'apertura nel muro. Ma forse l'auto non si era avvicinata alla casa, e aveva svoltato a sinistra prima di arrivare al muro. Svoltato a sinistra e poi a destra, lungo la strada dove lui si trovava ora, la strada che conduceva oltre l'ala ovest, a venti metri da quella, descriveva una curva oltre i locali di cucina e la porta di servizio, rasentava il giardino e la sua alta siepe e penetrava nel pineto, per condurre poi alla casa degli Harrison e a quella di John Gabbitas. Prendere quella direzione avrebbe presupposto la conoscenza di Tancred House e del suo circondario. Poteva presupporre anche l'essere a conoscenza che la porta di servizio non era mai chiusa nel corso della serata. Se l'auto con cui erano arrivati aveva fatto quel percorso ed era stata poi parcheggiata vicino alla porta di servizio, era possibile, e perfino probabile, che nessuno dalla sala da pranzo potesse sentirla. Ma Daisy aveva sentito l'uomo, che lei non aveva visto, mettere in moto una macchina, che lei non aveva visto, dopo che l'altro, quello che lei aveva visto, aveva sparato a lei e alla sua famiglia. Probabilmente, l'uomo aveva lasciato la casa dalla porta di servizio e aveva portato l'auto sul davanti. Era fuggito nell'udire dei rumori su in alto. L'uomo che aveva sparato a Daisy aveva sentito a sua volta rumori al piano di sopra, e proprio per questo non aveva sparato un secondo colpo, il
colpo che l'avrebbe uccisa. I rumori, naturalmente, venivano fatti dalla gatta Queenie, ma questo i due non potevano saperlo. Molto probabilmente, nessuno dei due era salito all'ultimo piano, ma sapevano che c'era un ultimo piano. Sapevano che lassù poteva esservi qualcun altro. Quella spiegazione era del tutto soddisfacente sotto ogni aspetto tranne uno. Wexford se ne stava fermo al margine della strada, guardando dietro di sé, meditando su quella singola eccezione, quando i fari accesi di un'auto sbucarono dal bosco sulla strada principale. Svoltarono a sinistra poco prima di arrivare al muro e, nella luce che veniva dalla villa, Wexford vide che si trattava della Land Rover di Gabbitas. Gabbitas si fermò, nel riconoscerlo. Abbassò il vetro del finestrino. — Cercava me? — Vorrei dirle una parola, signor Gabbitas. Può regalarmi una mezz'ora? In risposta, Gabbitas si protese ad aprire la portiera del passeggero. Wexford si chinò per parlargli. — Verrebbe con me alle stalle, per favore? — Mi sembra un po' tardi, no? — Tardi per che cosa, signor Gabbitas? Per indagare su un massacro? Sono state uccise tre persone, qui e una quarta è gravemente ferita. Ma, ripensandoci, penso sia meglio andare a casa sua. — Ah, benissimo. Se insiste. Quel breve scambio era servito a informare Wexford di cose che non aveva notato durante un primo incontro. Dall'accento e dai modi, il boscaiolo si rivelava notevolmente al di sopra degli Harrison. Era un gran bel giovane. Aveva l'aspetto di un attore scelto dal regista per interpretare la parte del protagonista in un film tratto da un romanzo di Hardy o di Lawrence. Un Byron rustico, in un certo senso. Occhi e capelli erano neri. Le mani, sul volante, erano brune e con neri peli sul dorso e sulle dita lunghe. Il mezzo sorriso che aveva rivolto a Wexford, alla richiesta di proseguire verso la strada secondaria, aveva mostrato una fila di denti candidi e regolari. Era uno spaccone e del tipo che pare più d'ogni altro esercitare attrazione sulle donne. Wexford prese posto sul sedile del passeggero. — A che ora ha detto d'essere rincasato, ieri sera? — Otto e venti, otto e venticinque, non posso essere più preciso di così. Non pensavo che avrei avuto motivo di specificare l'ora. — C'era una nota d'impazienza, nel tono. — So che ero già a casa quando il mio orologio ha battuto la mezza.
— Conosce la signora Bib Mew che lavora su alla villa? Gabbitas sembrava divertito. — So di chi parla. Non sapevo che si chiamasse così. — Ieri sera la signora Mew è venuta via di là in bicicletta alle otto meno dieci ed è arrivata a casa, a Pomfret Monachorum, verso le otto e dieci. Se lei è rincasato verso le otto e venti, è probabile che l'abbia incontrata lungo la strada. Anche la Mew è passata dalla strada secondaria. — Non l'ho incontrata — replicò sbrigativo Gabbitas. — Gliel'ho detto, non ho incontrato nessuno, non ho oltrepassato nessuno. Avevano ormai attraversato il pineto ed erano arrivati al cottage dove lui abitava. I modi di Gabbitas, nell'invitare Wexford ad accomodarsi, si erano fatti un po' più cortesi. Wexford gli domandò dove fosse stato il giorno precedente. — A tagliare un bosco ceduo vicino a Midhurst. Perché? Era una casa da scapolo, ordinata, funzionale, un po' misera. Il soggiorno in cui lui fece entrare Wexford era dominato da oggetti che lo trasformavano in un ufficio, una scrivania con computer portatile, un grigio schedario di metallo, pile di raccoglitori. Scaffali pieni di enciclopedie riempivano una mezza parete. Gabbitas liberò una sedia per Wexford, togliendone una bracciata di cartellette e quaderni. Wexford persisteva. — Ed è tornato a casa lungo la strada secondaria? — Gliel'ho già detto. — Signor Gabbitas — Wexford era piuttosto irritato — lei deve avere visto abbastanza telefilm, se non lo sa da nessun'altra fonte, per comprendere che lo scopo di un poliziotto nel farle due volte la stessa domanda è, francamente, di coglierla in contraddizione. — Scusi — rispose l'altro. — D'accordo, questo lo so. Solo che... be', a una persona in regola con la legge non fa piacere che si pensi che abbia fatto qualcosa per cui si vuol farla cadere in contraddizione. Si aspetta d'essere creduta. — Sì, certo. Ma è piuttosto idealistico, nel mondo in cui viviamo. Mi domando se ha avuto modo di meditare su questa faccenda, oggi. Mentre era nella solitudine dei boschi vicino a Midhurst, alle volte... Sarebbe più che naturale, averci pensato. — Ci ho pensato, sì — ammise Gabbitas. — Chi potrebbe fare a meno di pensarci? — La macchina con cui sono venuti quelli che hanno perpetrato questo... questo massacro, per esempio. Dov'era parcheggiata, mentre loro si trova-
vano nella villa? Dov'era, quando lei è arrivato a casa? Non stava fuggendo dalla via secondaria, o lei l'avrebbe incontrata. Daisy Flory ha chiamato il nove, nove, nove alle otto e ventidue, entro pochi minuti dalla loro partenza. Ha dovuto strisciare fino all'apparecchio per quanto rapidamente le è stato possibile, perché temeva di poter morire dissanguata. — Wexford osservava la faccia del giovane, nel dire questo. Rimaneva impassibile, ma le labbra si erano contratte leggermente. — Perciò l'auto non può essere passata dalla strada secondaria, o lei l'avrebbe vista. — È chiaro che è passata da quella principale. — Ma si dà il caso che vi fosse un'autopattuglia sulla Biventiquattroventotto, a quell'ora, e alle otto e venticinque era già stata avvertita di bloccare la strada e prendere nota di tutti i veicoli. Secondo gli agenti di quell'auto, nessun veicolo, di nessun genere, è passato fino alle otto e quarantotto, quando è arrivato il nostro convoglio con l'autoambulanza. Un altro posto di blocco sulla Biventiquattroventotto era stato messo nella direzione di Cambery Ashes. Forse quel secondo posto di blocco è stato messo troppo in ritardo. C'è una cosa che forse lei può dirmi: esiste qualche altra strada? — Attraverso i boschi, intende dire? Una jeep potrebbe forse farcela, se l'autista conoscesse bene i boschi. Se li conoscesse come il palmo della sua mano. — Gabbitas sembrava dubbioso. — Io non sono sicuro che potrei farcela. — Ma lei non è qui da molto tempo, vero? Come se pensasse che occorresse una spiegazione, più che una risposta, Gabbitas disse: — Insegno un giorno la settimana al College di Agraria di Sewingbury. Lavoro per i privati. Sono un chirurgo degli alberi, tra le altre cose. — Quando è arrivato qui? — Nel maggio scorso. — Gabbitas si portò una mano alla bocca, si strofinò le labbra. — Come sta Daisy? — Sta bene. Si rimetterà benissimo... fisicamente. Quanto allo stato psicologico, è un'altra cosa. Chi abitava qui prima del suo arrivo? — Certi Griffin. Una coppia col figlio. — E lavoravano solo per la proprietà, o avevano anche incarichi esterni, come lei? — Il figlio era adulto. Aveva un impiego, non so quale. A Pomfret o a Kingsmarkham, mi sembra. Lui, Griffin, credo che di nome si chiamasse Gerry o forse Terry, sì, Terry, si occupava dei boschi. Lei era soltanto la moglie di Griffin. Credo che qualche volta desse una mano su alla villa.
— Come mai se ne sono andati? Non si trattava di lasciare soltanto il lavoro, avevano anche una casa. — Lui cominciava ad avere i suoi anni. Non proprio sessantacinque, ma pressappoco. Il lavoro cominciava a pesargli, credo, voleva andare in pensione. Avevano una casa dove andare, un posto che avevano comperato. È tutto quello che so dei Griffin. Li ho visti una sola volta, quando sono stato assunto e loro mi hanno mostrato la casa. — Gli Harrison ne sapranno di più, immagino. Per la prima volta, Gabbitas sorrise davvero. La sua faccia era attraente e cordiale, quando sorrideva, e la dentatura era spettacolare. — Non si rivolgevano la parola. — Chi, gli Harrison e i Griffin? — Brenda Harrison mi disse che non si parlavano più da quando Griffin l'aveva insultata, mesi prima. Non so che cosa le avesse detto o fatto, lei questo non me lo disse. — Era quella la vera ragione per cui se ne andarono? — Non saprei. — Sa dov'è questa casa in cui si sono trasferiti? Hanno lasciato un indirizzo? — Non a me. Mi pare dicessero dalle parti di Myringham. Non molto lontano. Ho ben netto il ricordo di Myringham. Posso offrirle un caffè, un tè, o qualcosa? Wexford rifiutò. Rifiutò anche l'offerta di un passaggio fino alla sua auto, rimasta parcheggiata fuori della sala d'emergenza. — È buio. Sarà meglio che prenda una torcia elettrica. — Poi, a Wexford che si allontanava, Gabbitas gridò: — Era il posto di Daisy, quello. Le stalle, erano una specie di suo santuario privato. La nonna le aveva fatte sistemare per lei. — Aveva una specie di genio per far scoppiare piccole bombe, rivelazioni di poco conto. — Ci passava ore, là dentro, sola soletta. A fare qualcosa, ma non so cosa. Le avevano requisito il suo santuario senza domandare il permesso. O, se il permesso era stato chiesto e ottenuto, a darlo non era stata la padrona delle stalle. Wexford procedeva lungo il sentiero che si snodava attraverso il pineto, con l'aiuto della lanterna avuta in prestito da Gabbitas. Gli venne in mente, mentre l'ormai buia mole, la parte posteriore e non illuminata di Tancred House appariva alla sua vista, che tutto ora apparteneva probabilmente a Daisy Flory. A meno che non vi fossero altri eredi ma, se ve n'erano, negli articoli di giornale e nei necrologi non erano nominati.
Aveva ereditato tutto quel ben di Dio per un capello. Se la pallottola l'avesse colpita un paio di centimetri più in basso, la morte l'avrebbe privata dell'eredità. Wexford si domandò perché mai si sentisse così certo che l'eredità fosse un inconveniente per quella ragazza, e che una volta al corrente di quella che altri avrebbero definito la sua buona sorte, se ne sarebbe ritratta, inorridita. Hinde aveva confrontato l'elenco di oggetti fatto da Brenda Harrison con quello della compagnia di assicurazione di Davina Flory. Una collana di jais, un filo di perle che, sebbene Brenda insistesse, probabilmente non erano vere, un paio di anelli d'argento, un bracciale d'argento, una spilla di argento e onice, la scrittrice non si era preoccupata di assicurarli. Su entrambi gli elenchi figuravano un bracciale d'oro del valore di tremilacinquecento sterline, un anello di rubino con diamanti valutato cinquemila sterline, un altro con perle e zaffiri valutato duemila, e un anello descritto come un grappolo di diamanti - un pezzo di gioielleria eccezionale, questo - valutato diciannovemila sterline. L'insieme sembrava superare le trentamila sterline. I due avevano portato via anche le cose di minor valore, naturalmente, non sapendo. Forse erano stati anche più ignoranti e avevano supposto che il valore del loro bottino fosse maggiore di quello che era. Wexford sfiorò con l'indice l'argenteo cactus spinoso. Nell'insieme, gli ricordava Queenie, la gatta. Senza dubbio anche lei aveva spine nascoste dal serico pelo. Chiuse a chiave la porta e si diresse alla sua auto. 8 Negli omicidi di Tancred House erano state usate cinque cartucce. Secondo gli esperti di balistica, provenivano da un revolver Colt Magnum .38. Ogni canna d'arma da fuoco è segnata internamente da linee e solchi distinti che a loro volta lasciano la loro impronta sul proiettile quando questo esce dall'arma. I segni all'interno di ciascuna canna sono unici, individuali come impronte digitali. Quelli sulle cartucce .38 trovate a Tancred House - tutte erano passate attraverso i corpi di Davina Flory, Naomi Jones e Harvey Copeland - corrispondevano, e si poteva perciò concluderne che i proiettili provenissero dalla stessa pistola. — Se non altro — disse Wexford — sappiamo che è stata usata un'unica arma. Sappiamo che era una Colt Magnum trentotto. L'uomo visto da Daisy ha sparato lui tutti i colpi. Trovi strano che non si siano divisi i
compiti? Che abbia sparato solamente lui? — Avevano una sola arma — disse Burden. — O una sola arma vera. Sai, leggevo da qualche parte, giorni fa, che in una città degli Stati Uniti, in cui un pluriomicida era ancora libero, a tutti gli studenti del campus dell'università era stato concesso di andare a comperarsi un'arma per proteggersi. Ragazzi di diciannove o vent'anni, dovevano essere. Ma ci pensi? Qui da noi è ancora difficile procurarsi delle armi, grazie a Dio. — Lo stesso abbiamo detto quando spararono al povero Martin, ricordi? — Anche quella era una Colt trentotto, o una trecentocinquantasette. — L'avevo notato — replicò subito Wexford. — Ma le cartucce usate nei due casi, quello di Martin e questo, non corrispondono. — No, purtroppo. Altrimenti, qualche passo avanti lo avremmo fatto. Una cartuccia usata e cinque ancora nel caricatore? La storia di Michelle Weaver non sembrerebbe più tanto fantasiosa. — Ti è venuto in mente che era già strano in sé il fatto di usare un revolver? — Venuto in mente? Mi ha colpito subito. La maggior parte di loro usa un fucile a canne mozze. — Già. La grande risposta inglese a Dan Wesson. Ti dirò un'altra cosa strana, Mike. Mettiamo che il cilindro fosse pieno, con tutt'e sei le cartucce. Nella villa c'erano quattro persone ma il bandito non ha sparato quattro volte, ha sparato cinque volte. Harvey Copeland è stato il primo a essere ucciso, eppure, sapendo di avere soltanto sei colpi, l'uomo ha sparato a Copeland due volte. Perché? Forse non sapeva che c'erano altre tre persone in sala da pranzo, forse si è fatto prendere dal panico. Va in sala da pranzo e spara a Davina Flory, poi a Naomi Jones, un colpo a testa, infine a Daisy. Gli resta una cartuccia nel cilindro, ma lui non spara due volte a Daisy "per finirla", come direbbe Ken Harrison. Perché non lo fa? — Avvertire dei rumori dall'alto lo ha sorpreso. Li ha sentiti ed è scappato. — Sì. Può darsi. Oppure non c'erano sei cartucce nel cilindro, ce n'erano solo cinque. Una era già stata usata. — Non contro il povero Martin, però — escluse Burden, sbrigativo. — Ancora niente da Sumner-Quist? Wexford scosse la testa. — Dobbiamo aspettare, temo. Ho incaricato Barry di controllare dov'era John Gabbitas quel martedì, a che ora è venuto via, eccetera. Vorrei che tu, dopo, lo prendessi con te per andare a cercare i Griffin, un certo Terry
Griffin e la moglie che vivono nella zona di Myringham. Erano i predecessori di Gabbitas, a Tancred House. Cerchiamo qualcuno che conosca sia il posto, sia la gente che ci viveva. Qualcuno, possibilmente, che avesse del rancore contro di loro. — Un ex dipendente, quindi? — Forse. Uno che sapeva tutto di loro e di quello che possedevano, le loro abitudini e così via. Uno che rappresenti un'entità ignota. Andato via Burden, Wexford si mise a contemplare le fotografie della scena del crimine. Sembravano tratte da un film dell'orrore, il genere di foto che nessuno avrebbe mai visto tranne lui, i risultati di una violenza autentica, di un autentico crimine. Quegli schizzi, quelle grandi macchie scure, erano sangue vero. Era un privilegio, vederle, o una sfortuna? Sarebbe mai venuto il giorno in cui i giornali avrebbero mostrato foto del genere? Probabilmente sì. In fin dei conti, non era passato molto tempo da quando nessuna pubblicazione mostrava mai la foto di un morto. Fece l'assestamento mentale che da individuo sensibile, con sentimenti umani, lo trasformava in una macchina sbrigativa e funzionante, in un occhio che analizza, in una stampatrice di punti di domanda. In quella nuova veste, guardò le fotografie. Per quanto tragica, agghiacciante e mostruosa potesse essere la scena nella sala da pranzo, non presentava però niente di incongruo. Così le donne sarebbero cadute, se una di loro fosse stata seduta a tavola di fronte alla porta e l'altra, di faccia alla prima, in piedi, a fissare oltre lei. Il sangue sul pavimento, nell'angolo vuoto vicino ai piedi della tavola, era di Daisy. Rivedeva ciò che aveva visto quella sera. Il tovagliolo insanguinato sul pavimento e l'altro, macchiato di sangue, nella mano di Davina Flory, afferrato dalle dita contratte della moribonda. La faccia di lei immersa in un piatto di sangue, e la testa orrendamente rovinata. Naomi giaceva riversa sulla sedia come per uno svenimento, i lunghi capelli spioventi, quasi a toccare il suolo, al di là della spalliera. Goccioline di sangue sui paralumi, sulle pareti, nere chiazze sulla moquette, scuri spruzzi sul pane nel cestino, e la tovaglia scura dove il sangue l'aveva intrisa in una densa, lenta marea. Per la seconda volta in quel caso - e in seguito l'avrebbe sperimentato di nuovo, a più riprese - percepiva un senso di ordine prevalente distrutto, di bellezza oltraggiata, di ritorno del caos. Senza che niente glielo provasse, credeva di individuare in quel perpetratore il gusto satanico della distruzione. Ma non c'era niente di incongruo in quelle foto. Dati gli orribili eventi, erano come se le sarebbe aspettate. Al contrario, quelle di Harvey
Copeland, che lo mostravano supino ai piedi della scalinata, i piedi verso l'atrio e la porta d'ingresso, presentavano un problema. Chissà, forse la testimonianza di Daisy lo avrebbe risolto. Se quegli uomini erano scesi e avevano incontrato Copeland che saliva a investigare, perché lui, quando gli avevano sparato, non era caduto all'indietro giù per quegli scalini? Le quattro erano l'ora che aveva in mente, era stato alle quattro che si era recato da lei il pomeriggio precedente, sebbene quel giorno non avesse fissato un appuntamento preciso. Non c'era traffico, così arrivò all'ospedale piuttosto in anticipo. Erano le quattro meno dieci quando uscì dall'ascensore e si avviò lungo il corridoio verso la corsia MacAllister. Stavolta non c'era la dottoressa Leigh ad aspettarlo, e lui aveva dispensato Anne Lennox dal rimanere di guardia. Sembrava che in giro non ci fosse nessuno. Forse il personale stava concedendosi un momento di respiro (o una sigaretta) nella stanza delle infermiere. Si avvicinò silenziosamente alla cameretta di Daisy. Attraverso i pannelli di vetro smerigliato poteva vedere che c'era qualcuno da lei, un uomo seduto alla sinistra del letto. Un visitatore. Se non altro, non era Jason Sebright. Il riquadro trasparente nell'uscio gliene chiarì l'immagine. Era giovane, sui ventisei anni, piuttosto grande e massiccio, e tale era il suo aspetto che Wexford poté immediatamente collocarlo, o azzardare una buona ipotesi al riguardo. Il visitatore di Daisy apparteneva all'alta borghesia, aveva frequentato ottime scuole ma probabilmente non l'università, era "qualcosa nella city", dove lavorava tutto il giorno con un computer e un telefono. Per quell'attività sarebbe stato "finito" - come si sarebbe espresso Harrison - prima dei trent'anni, per cui stava accumulando quattrini al massimo, prima di quella data. I vestiti che indossava erano adatti per un uomo molto più anziano; blazer blu scuro, calzoni di flanella grigio scuro, camicia bianca e cravatta della scuola. La sola concessione che faceva a vaghe idee di moda e di opportunità erano i capelli, alquanto più lunghi di quanto il blazer e la camicia bianca avrebbero comportato. Erano biondi e rìcciuti, e dal modo com'erano pettinati e come gli si arricciolavano attorno ai lobi delle orecchie, Wexford intuì che doveva tenerci molto. Quanto a Daisy, sedeva in mezzo al letto, gli occhi sul visitatore, l'espressione imperscrutabile. Non sorrideva, ma non sembrava neppure particolarmente triste. Gli era impossibile capire se avesse cominciato a riprendersi dallo choc che aveva riportato. Il giovanotto aveva portato dei
fiori, una dozzina di rose rosse in boccio che erano posate sul copriletto, tra lui e lei. La destra della ragazza, la mano sana, posava sui loro gambi e sulla carta a disegni rosa e oro in cui erano avvolti. Wexford aspettò alcuni secondi, poi bussò alla porta, aprì ed entrò. Il giovane si girò, concedendo a Wexford proprio lo sguardo che lui si aspettava. In certe scuole, l'aveva constatato spesso, insegnano a guardare proprio in quel modo, con baldanza, disprezzo e un certo grado di indignazione, proprio come insegnano a parlare con una prugna in bocca. Daisy non sorrise. Riusciva, cosa rara, a essere gentile e cordiale senza sorridere. — Ah, è lei — disse. — Salve. — La voce quel giorno era sommessa ma misurata, la nota isterica era scomparsa. — Nicholas, questo è l'ispettore... no, l'ispettore capo Wexford. Signor Wexford, questo è Nicholas Virson, un amico di famiglia. L'aveva detto con calma, senza un attimo di esitazione, sebbene una famiglia non l'avesse più. I due uomini scambiarono un cenno. Wexford disse: "Buonasera." Virson si limitò a un nuovo cenno. Nel suo concetto di gerarchia, di grande Catena Umana, i poliziotti venivano piuttosto in basso. — Stai un po' meglio, spero. Daisy abbassò lo sguardo. — Sto bene. — Te la senti di parlare un po' con me? Di addentrarti un po' più a fondo nelle cose? — Devo — disse lei. Allungò il collo, sollevò il mento. — L'ha detto anche lei, ieri, che era necessario, che non avevamo altra scelta. Wexford la vide chiudere le dita attorno alla carta che avvolgeva le rose, la vide serrare con forza i gambi, ed ebbe la strana sensazione che lo facesse con l'intento di farsi sanguinare la mano. Ma forse erano senza spine. — Tu dovrai andare, Nicholas. — Gli uomini con quel nome vengono chiamati in genere con un diminutivo, Nick o Nicky, ma lei lo chiamava Nicholas. — Sei stato tanto caro a venire. Adoro i fiori — soggiunse, stringendone i gambi senza guardarli. Wexford prevedeva già quello che Virson avrebbe detto, prima o poi. E infatti: — Dico, spero non avrà intenzione di sottoporre Daisy a una specie di interrogatorio. Non vedo che cosa potrebbe dirle, tra l'altro. Cosa mai può ricordare? È terribilmente confusa, vero, cara? — Non sono confusa. — Lei parlava con voce monotona, calma e incolore, dando lo stesso peso a ogni parola. — Non sono affatto confusa. — Ora, me lo dice. — Virson si sforzò di ridere di cuore. Si alzò, rimase
incerto, sembrando improvvisamente non molto sicuro di sé. Voltando appena la testa, gettò là a Wexford: — Potrà farle al massimo una descrizione del bandito che ha visto, ma il veicolo non è riuscita a scorgerlo neppure per un attimo. Be', perché aveva detto questo, ora? Forse perché aveva semplicemente bisogno di dire qualcosa per prendere tempo, intanto che rifletteva se arrischiarsi a baciarla? Daisy, cosa che Wexford non aveva previsto, sollevò la faccia verso di lui, e Virson, chinandosi immediatamente, le sfiorò la guancia con le labbra. Il bacio lo stimolò a usare un appellativo affettuoso. — C'è niente che possa fare per te, tesoro? — C'è una cosa — rispose lei. — Nell'andartene, potresti procurare un vaso e metterci dentro questi fiori. Non era quello che Virson intendeva, evidentemente, ma dovette acconsentire, non avendo altra scelta. — Lo troverai in un posto che chiamano lo sgabuzzino. Non so dov'è, giù a sinistra, da qualche parte. Le infermiere sono sempre così indaffarate, poverette. Virson se ne andò, portando fuori le rose con cui era arrivato. Quel giorno Daisy indossava una camicia d'ospedale che si chiudeva con il velcro lungo il dorso. Le copriva anche il braccio sinistro, medicato e messo al collo. La flebo c'era ancora. La ragazza seguì lo sguardo di lui. — È comoda per cacciarti dei farmaci in corpo, per questo non me l'hanno ancora tolta. Ma oggi me la levano. Sto bene, ormai. — E non sei confusa? — Per niente. — Si espresse per qualche istante come una persona molto più adulta. — Ci ho pensato molto — disse. — Tutti mi dicono di non pensare ma io devo farlo. Cos'altro c'è? Sapevo di doverle dire tutto nel modo migliore possibile, così ci ho pensato, per riuscire a ricordare bene. Sbaglio, o uno scrittore ha detto che la morte violenta fa concentrare la mente in modo meraviglioso? Wexford era sorpreso ma non lo diede a vedere. — Samuel Johnson, ma si riferiva al sapere di venire impiccati il giorno dopo. La ragazza accennò un sorriso, ma proprio una parvenza di sorriso. — Lei non corrisponde all'idea che avevo di un poliziotto. — Non credo tu ne abbia conosciuti molti. — Improvvisamente gli venne da pensare: mi ricorda Sheila. È proprio uguale a mia figlia. Oh, lei era bruna e Sheila era bionda, ma non erano quelle, checché ne dicesse la gente, le cose che facevano assomigliare una persona all'altra. Era una simila-
rità di lineamenti, di forma del volto. Lo contrariava un po' sentir dire che Sheila assomigliava a lui perché avevano gli stessi capelli. O meglio, li avevano avuti, perché i suoi erano diventati grigi ed erano caduti in buona parte. Sheila era bella. Daisy era bella e i suoi lineamenti erano come quelli di Sheila. Ora lo stava guardando con una tristezza che rasentava la disperazione. — Hai detto d'averci pensato, Daisy. Dimmi quello che hai pensato. Lei assentì, l'espressione immutata. Si protese a prendere un bicchiere di qualcosa sul tavolino accanto al letto - limonata, forse - e bevve un sorso. — Le dirò quello che è successo, tutto quello che ricordo. È questo che vuole, vero? — Sì. Sì, brava. — Deve interrompermi se qualcosa non è chiaro. Lo farà, vero? Il suo tono, improvvisamente, era quello di chi è avvezzo a dire ai domestici, e non solo ai domestici, quello che desidera, e a vederli obbedire. Wexford pensò che era abituata a dire a qualcuno vieni e quello veniva, a un altro vai e quello andava, a un terzo fai questo e quello lo faceva. Trattenne un sorriso. — Ma certo. — È difficile sapere da dove cominciare. Davina lo diceva sempre, quando scriveva un libro. Da dove comincio? Puoi partire da quello che ti sembra l'inizio e poi renderti conto che tutto era cominciato molto tempo prima. Ma qui, in questo caso... devo iniziare dal pomeriggio? Lui assentì. — Ero stata a scuola. Studio da esterna alla Crelands. Per la verità, mi sarebbe piaciuto frequentarla da interna, ma Davina non me lo permetteva. — Parve rammentare qualcosa, forse soltanto che sua nonna era morta. De mortuis... — Be', in fondo sarebbe stato sciocco. La Crelands è solo dall'altra parte di Myfleet, come probabilmente lei sa. Wexford lo sapeva. A quanto sembrava, era anche l'alma mater di Sebright. Scuola privata non delle più importanti, godeva però di ottima fama alla stregua di Eton e di Harrow, e aveva tasse analoghe. Esclusivamente maschile da quando Alberto il Buono l'aveva fondata nel 1856, da sette, otto anni aveva aperto le porte anche alle ragazze. — La scuola finisce alle quattro. Alle quattro e mezzo ero a casa. — Qualcuno veniva a prenderti in macchina? Lei lo guardò, sinceramente meravigliata. — Guido io. Era al corrente della grande rivoluzione automobilistica, ma ricordava ancora perfettamente i tempi in cui una famiglia con tre o quattro macchi-
ne gli sembrava una sorta di anomalia americana, in cui ben poche donne sapevano guidare, in cui pochi possedevano l'auto prim'ancora di sposarsi. La sua stessa madre, se qualcuno le avesse domandato se sapeva guidare, lo avrebbe guardato stupita, sospettando che volesse prenderla in giro. La sua lieve sorpresa non sfuggì a Daisy. — Davina mi aveva regalato la macchina per il mio diciassettesimo compleanno. Il giorno dopo ho preso la patente. È stato un vero sollievo, gliel'assicuro, non dover dipendere da uno di loro o venire accompagnata da Ken. Bene, come dicevo, per le quattro e mezzo ero a casa e sono andata nel mio rifugio. Lei probabilmente l'ha visto, il mio rifugio. Io lo chiamo così. Un tempo erano le stalle. Ci tengo la mia macchina e poi c'è una stanza che è mia, proprietà privata. — Daisy, ho una confessione da farti. Stiamo usando il tuo rifugio come sala d'emergenza. Sembrava la cosa più comoda. Dobbiamo stare lì, ma qualcuno avrebbe dovuto chiederti il permesso, e mi dispiace molto che non sia stato fatto. — Intende dire che ci stanno un sacco di poliziotti, di computer, di scrivanie e... e una lavagna? — Doveva aver visto qualcosa del genere alla televisione. — Insomma, conducete le indagini da lì? — Temo di sì. — Oh, ma non si preoccupi. Non mi dispiace affatto. Perché dovrebbe dispiacermi? Fate come se foste a casa vostra. Io, ormai, non bado più a niente. — Fissò nel vuoto, storse un poco la faccia, commentò nello stesso tono distaccato: — Perché dovrei preoccuparmi di un'inezia del genere quando non ho più ragioni per vivere? — Daisy... — cominciò a dire lui. — No, non dica niente, la prego. Non dica che sono giovane, che ho tutta la vita davanti e che tutto questo passerà. Non mi dica che il tempo guarisce tutto e che l'anno prossimo a quest'epoca tutto apparterrà già al passato. Non lo faccia. Qualcuno gliele aveva dette, quelle cose. Un medico? Qualche psicologo del personale ospedaliero? Nicholas Virson? — D'accordo, non te lo dirò. Raccontami quello che è successo dopo che tu sei arrivata a casa. Lei aspettò qualche istante, fece un respiro. — Ho il mio telefono personale, forse se ne sarà accorto. Forse lo usa, anzi. Brenda mi ha telefonato per domandarmi se volevo il tè ed è venuta a portarmelo. Tè e biscotti. Io stavo leggendo, ho un sacco di roba da studiare. Ho un esame da ridare, in
maggio... o almeno, l'avevo. Wexford non fece commenti. — Non sono un'intellettuale. Davina lo pensava perché sono... be' piuttosto sveglia. Non sopportava il pensiero che avessi preso da mia madre. Scusi, sono cose che a lei non interessano. Non hanno più importanza, tra l'altro. "Davina voleva che ci cambiassimo per cena. Non che ci mettessimo in ghingheri, ma che ci cambiassimo. Mia... mia madre è tornata a casa con la sua auto. Lavora in una galleria d'artigianato - be' è socia in una galleria di artigianato - con una certa Joanne Garland. La galleria si chiama Garlands, un po' come il nome di quella donna. È tornata a casa con la sua macchina, dicevo. Penso che Davina e Harvey siano rimasti in casa per tutto il pomeriggio, ma non lo so. Brenda dovrebbe saperlo. "Sono andata in camera mia e mi sono messa un vestito. Davina diceva che i jeans erano un'uniforme e come tale andavano usati, per il lavoro. Gli altri erano tutti nella serre, a bere l'aperitivo." — Nella che? — La serre. La serra. L'hanno sempre chiamata così, in francese. Wexford trovava che suonasse un po' pretenzioso, ma non fece commenti. — Prendevamo sempre l'aperitivo là dentro o nel salotto. Aperitivo che poi era solo uno sherry, sa, o un succo d'arancia, o un'acqua brillante. Io bevevo sempre un'acqua brillante, e anche mia madre. Davina stava parlando di andare a Glyndebourne; è - era - socia, o amica, o come si dice, e ci andava sempre tre volte l'anno. Alle manifestazioni di quel genere lei puntualmente andava: Aldeburgh, Festival di Edinburgo, Salisburgo. A ogni modo, le erano arrivati i biglietti. Stava domandando a Harvey che cosa doveva ordinare per il pranzo. Bisogna ordinare il pranzo con mesi di anticipo, a meno di non fare un picnic. Noi non lo facevamo mai il picnic, sarebbe stato orribile se fosse piovuto. "Stavano ancora parlando di questo quando Brenda si è affacciata dalla porta per avvertire che la cena era in sala da pranzo e che lei se ne andava. Mi sono messa a parlare con Davina sul partire per la Francia tra una quindicina di giorni, lei doveva andare a Parigi per partecipare a un programma televisivo sui libri e voleva che andassi con lei e con Harvey. Per me sarebbero state le vacanze di Pasqua ma io non ci tenevo molto, ad andarci, e stavo appunto dicendole che non volevo e... ma lei non vuole ascoltare queste chiacchiere."
Daisy si portò una mano alle labbra. Stava fissandolo, ma come se non lo vedesse. Lui disse: — Ti è molto difficile rendertene conto, lo capisco, anche se eri presente, anche se hai visto. Ti ci vorrà del tempo per accettare quanto è accaduto. — No — rispose lei, assente — non è difficile da accettare. Non sono affatto nel dubbio. Quando mi sono svegliata, stamattina, non ho perso neppure un istante prima di ricordare. Sa bene... — lo fissò, con una stretta di spalle — ...che c'è sempre un momento di vuoto, e poi tutto torna alla mente. Per me no, invece. È tutto presente, di continuo. E sarà sempre così. Quello che dice Nicholas, che sarei confusa, non è assolutamente vero. OK, lasciamo perdere, andrò avanti, sto parlando troppo. "Era mia madre, di solito, a servire in tavola. Brenda ci lasciava tutto pronto sul carrello. Vino non ne bevevamo, se non nei weekend. C'era una bottiglia di Badoit e una brocca di succo di mela. Abbiamo mangiato - mi faccia pensare - zuppa, con patate e porri, una specie di vichyssoise, ma ben calda. L'abbiamo mangiata col pane, naturalmente, poi mia madre ha tolto le fondine e ha servito la portata principale. Pesce, c'era, sogliola non so che cosa. Si chiama sogliola bonne femme quando è in salsa, con purea di patate attorno?" — Non lo so — confessò Wexford, divertito suo malgrado. — Non ha importanza. Mi sono fatto l'idea. — Bene, quello, era, con contorno di carote e piselli. Ha servito tutti, poi si è seduta e abbiamo cominciato a mangiare. Mia madre non aveva neppure incominciato. Ha detto: "Cos'è questo rumore? Come se ci fosse qualcuno di sopra." — E non avevate sentito una macchina? Nessuno aveva sentito una macchina? — L'avrebbero detto. Vede, stavamo aspettandola, una macchina. Be', non subito, non prima delle otto e un quarto, solo che lei arrivava sempre troppo presto. È una di quelle persone che sono peggio di quelle che mancano di puntualità, sempre in anticipo di almeno cinque minuti. — Chi è? Di chi stai parlando, Daisy? — Di Joanne Garland. Doveva venire da Mamma. Era martedì, e il martedì Joanne e Mamma aggiornavano sempre i registri della galleria. Joanne non riusciva a farlo da sola, non se la cavava a fare i conti, nemmeno con la calcolatrice. Portava i registri da noi e lei e Mamma ci lavoravano, per l'IVA e per tutto il resto. — Bene, capisco. Continua, vuoi?
— Mamma ha detto di sentire rumori di sopra e Davina ha risposto che doveva essere la gatta. Poi i rumori si sono sentiti molto più forti, più di quelli che fa Queenie di solito. Era come se qualcosa fosse caduto di peso sul pavimento. Ci ho pensato parecchio e ho concluso che forse era un cassetto tirato fuori dalla toilette di Davina. Harvey si è alzato e ha detto che andava a vedere. "Noi abbiamo continuato a mangiare. Non eravamo preoccupate: non ancora. Ricordo che mia madre ha guardato l'orologio e ha detto qualcosa sull'augurarsi che Joanne venisse una mezz'ora più tardi, il martedì, perché così le toccava mangiare in fretta e furia. In quella abbiamo sentito uno sparo e poi un altro, un secondo colpo. Il rumore è stato tremendo. "Ci siamo alzate di scatto. Mia madre e io, perché Davina ha continuato a rimanere seduta dov'era. Mia madre ha mandato un grido, Davina non si è mossa e non ha detto niente. Be'... le sue mani si sono come chiuse intorno al tovagliolo. Sì, ha stretto il tovagliolo. Mamma in piedi fissava l'uscio e io ho spinto indietro la testa e ho fatto per andare verso la porta - o credo di averlo fatto, ne avevo l'intenzione - ma forse in realtà non mi sono mossa. Mamma ha detto, 'No, no' o 'No, non andare' o qualcosa del genere. Mi sono arrestata e stavo lì, ero come impietrita sul posto. Davina ha voltato la testa verso la porta. E in quella è entrato lui. "Harvey aveva lasciato la porta semiaperta... insomma, appena accostata. L'uomo l'ha spalancata con un calcio ed è entrato. Ho cercato di ricordare se qualcuna di noi ha gridato, ma non riesco a ricordare, non lo so. Probabilmente sì. Lui... lui ha sparato a Davina, alla testa. Teneva la pistola con tutt'e due le mani, come fanno sempre. Come si vede fare alla televisione, voglio dire. Poi ha sparato a Mamma. "Non ho un ricordo chiaro di quello che è successo dopo. Ho cercato in tutti i modi di ricordare, ma c'è come un blocco, immagino che sia normale quando ti è successa una cosa del genere, ma vorrei tanto poter ricordare. "Ho come l'impressione di essermi gettata a terra. D'essermi accucciata sul pavimento. So che ho sentito un'auto mettersi in moto. Quello, l'altro, era stato di sopra, credo, era lui quello che avevamo sentito. Lui, quello che ha sparato a me, era rimasto da basso, e quando ci ha sparato l'altro dev'essere uscito di corsa per avviare il motore. È quello che penso, almeno." — Quello che ti ha sparato, puoi descriverlo? Wexford tratteneva il respiro, aspettandosi, temendo, che lei dicesse di non riuscire a ricordare, che anche questo era stato assorbito e cancellato
dallo choc. Aveva il volto contorto, quasi distorto, dallo sforzo di concentrarsi, di rivivere eventi intollerabilmente penosi. Poi, parve quasi rasserenarsi, come se stesse concedendosi un attimo di riposo. L'alleviarsi della tensione la calmava, come un sospiro di sollievo. — Posso descriverlo. Posso farlo, questo. Mi sono imposta di farlo. Quello che ho visto, per lo meno. Era... be', non molto alto ma robusto, piuttosto massiccio, molto biondo. I capelli erano biondi, voglio dire. La faccia non potevo vederla, aveva una maschera sulla faccia. — Una maschera? Vuoi dire un cappuccio? Una calza sopra la testa? — Non so. Proprio non lo so. Ho cercato di ricordare perché sapevo che lei me l'avrebbe chiesto, ma non lo so. Potevo vedergli i capelli. So che aveva i capelli biondi, piuttosto corti e folti, dei foltissimi capelli chiari. Ma non sarei stata in grado di vedergli i capelli se avesse avuto un cappuccio, le pare? Sa qual è l'impressione che mi torna di continuo? Lui scosse la testa. — Che fosse una maschera come quelle che la gente porta quando c'è lo smog, l'inquinamento. O anche una di quelle che mettono i boscaioli quando usano una sega a catena. Potevo vedergli i capelli e il mento. Le orecchie, anche ...ma erano orecchie normali, non grandi o a sventola o altro. E il mento era normale... be', forse aveva una fessura nel mezzo, una specie di sottile rientranza. — Daisy, sei stata bravissima. Sei stata di una bravura eccezionale nel notare tutto questo prima che ti sparasse. A quelle parole lei chiuse gli occhi e il viso le si contrasse. La sparatoria, l'attacco alla sua persona, erano evidentemente ancora troppo, per lei, perché potesse discuterne. Wexford comprendeva il terrore che dovevano evocarle, il pensiero che anche lei sarebbe potuta morire facilmente in quella stanza di morte. Un'infermiera si affacciò all'uscio. — Sto benissimo — assicurò Daisy. — Non sono stanca, non mi sto affaticando troppo, davvero. La testa si ritirò. Daisy prese un altro sorso dal bicchiere accanto al letto. — Faremo fare un ritratto dell'uomo — disse Wexford — basato su quello che sei stata in grado di dirci. E quando starai meglio, e sarai fuori di qui, dovrò chiederti di ripetere da capo tutto questo in forma di dichiarazione. Inoltre, con il tuo permesso, verrà fatta una registrazione. So che sarà duro per te ma non dire di no subito, pensaci. — Non devo pensarci — rispose lei. — Farò una dichiarazione, certo
che la farò. — Nel frattempo, vorrei tornare, domani, e parlare di nuovo con te. Prima, però, vorrei che mi dicessi ancora una cosa. È poi venuta, in realtà, Joanne Garland? Lei parve riflettere. Stava perfettamente immobile. — Non lo so — disse alla fine. — Voglio dire, non l'ho sentita suonare il campanello o altro. Ma potrebb'essere successo di tutto dopo... dopo che lui mi ha sparato. Perdevo sangue, stavo pensando di arrivare al telefono, ero concentrata sul trascinarmi fino al telefono e chiamare voi, la polizia, un'ambulanza, prima di morire dissanguata. Temevo davvero che sarei morta dissanguata. — Sì — disse lui — certo. — Potrebb'essere venuta dopo che loro, quegli uomini, dopo che se n'erano andati. Non lo so, è inutile domandarmelo, proprio non lo so. — Esitò, poi con un filo di voce: — Signor Wexford? — Sì? Per qualche istante lei non parlò. Stava a testa china e la copiosa capigliatura castano scuro era scivolata in avanti, nascondendole come un velo la faccia, il collo e le spalle. La mano destra si alzò, quella mano sottile dalle lunghe dita bianche, e si infilò tra i capelli, ne afferrò una manciata e la gettò indietro. Poi lei guardò in su e lo fissò, l'espressione tesa, intensa, il labbro superiore rialzato come a esprimere dolore, o incredulità. — Che cosa ne sarà di me? — gli domandò. — Dove andrò? Che cosa farò? Ho perduto tutto, è scomparso tutto, tutto quello che conta. Non era quello il momento di rammentarle che sarebbe stata ricca, che non tutto era perduto. Che ciò che per molti rende la vita degna d'essere vissuta le rimaneva in abbondanza. Lui non era mai stato uomo da credere ciecamente al vecchio adagio secondo il quale il denaro non fa la felicità. Ma rimase in silenzio. — Avrei dovuto morire anch'io. Sarebbe stato meglio per me se fossi morta. Ero atterrita al pensiero di morire. Ho creduto di stare per morire mentre il sangue mi usciva a fiotti, e ne ero atterrita... oh, ero talmente terrorizzata! Lo strano era che non sentivo alcun male. Mi fa molto più male ora, la ferita. Crederesti che se qualcosa ti entra nella carne debba farti un male tremendo, ma non sentivo alcun dolore. Però sarebbe stato meglio fossi morta, ora me ne rendo conto. — So — disse lui — di correre il rischio d'essere considerato uno di quelli che ti ripetono i soliti luoghi comuni. Ma non continuerai a sentirti così. Passerà.
Lei lo fissò, disse in tono quasi imperioso: — Ci rivedremo domani, allora. — Sì. Gli porse la mano, e lui gliela strinse. Le dita erano fredde e molto asciutte. 9 Wexford rincasò presto. Aveva la sensazione che, per un bel pezzo, quella potesse essere l'ultima volta che tornava a casa per le sei. Dora era in anticamera, quando lui entrò, stava mettendo giù il ricevitore del telefono. Disse: — Era Sheila. Se fossi arrivato un istante prima, avresti potuto parlarle. Una risposta sardonica gli salì alle labbra, ma la trattenne. Non aveva motivo d'essere scortese con sua moglie. Lei non aveva nessuna colpa. Anzi, a quella cena di martedì, aveva fatto del suo meglio per facilitare le cose, per smussare quel che c'era di tagliente e addolcire il sarcasmo. — Sono in arrivo — disse Dora, e il tono era neutro. — Chi è in arrivo? — Sheila e... e Gus. Per il fine settimana. Sai che Sheila l'aveva dato per probabile, martedì. — Sono successe un sacco di cose, da martedì. A ogni modo, probabilmente non avrebbe passato molto tempo a casa, durante il weekend. Ma era 1 indomani il weekend, l'indomani era venerdì, e loro sarebbero arrivati in serata. Versò per sé una birra, una Adnam che un negozio di vini locale vantava da un certo tempo, e per Dora uno sherry secco. Lei gli posò una mano sul braccio, la spostò fino a coprire il dorso di quella di lui. Gli tornò in mente il tocco gelido di Daisy. Ma quello di Dora era caldo. Non seppe più trattenersi. — Mi tocca avere qui quel miscredente per un intero weekend! — Reg, non fare così. Non cominciare a far così. Lo abbiamo visto due sole volte. — La prima volta che lei lo ha portato qui — disse Wexford — si è fermato davanti ai miei libri, in questa stanza, e li ha tirati fuori uno per uno. Li guardava di volta in volta con una specie di sorrisetto piuttosto sprezzante. Ha tirato fuori il Trollope e l'ha guardato in quel modo. Ha tirato fuori i racconti di M.R. James e ha scosso la testa. Mi sembra di vederlo,
starsene lì con James in mano e scuotere lentamente la testa in qua e in là. M'aspettavo di vederlo fare pollice verso, come al tempo dei gladiatori nell'arena. Uccidi! Ecco il verdetto del giudice supremo: a morte! — Ha diritto a una sua opinione. — Ma non ha diritto a disprezzare la mia e a far capire che la disprezza. E poi, Dora, non si tratta solo di questo e tu lo sai. Hai mai incontrato un essere con dei modi più arroganti? Ti sei mai - be', parlo di persone nella cerchia della tua stessa famiglia, o che conosci bene - ti sei mai imbattuta in qualcuno che altrettanto apertamente ti abbia fatto sentire che ti disprezza? Te e me. Ogni cosa che diceva mirava a mostrare la sua alterigia, la sua superiorità, il suo acume. Che cosa ci trova Sheila in lui? Che cosa ci trova? È piccolo e striminzito, è brutto, è miope, non vede più in là del suo maledetto naso... — Sai una cosa, caro? Alle donne piacciono gli uomini piccoli. Li trovano attraenti. So che quelli grandi e grossi come te non ci credono, ma è vero. — Burke diceva... — So cosa diceva Burke. Me l'hai già detto. La bellezza di un uomo risiede interamente nella sua statura, o qualcosa del genere. Burke non era una donna. A ogni modo, penso che Sheila lo valuti per la sua mente. È un uomo molto intelligente, sai, Reg. Forse è un genio. — Dio ci aiuti se hai intenzione di chiamare genio chiunque sia nella rosa dei candidati per un premio letterario. — Io credo che si debba tener conto dell'orgoglio di un giovane per i risultati che ha conseguito. Augustine Casey ha appena trent'anni ed è già considerato uno dei romanzieri nazionali più illustri. O così ho letto sui giornali. I suoi libri ottengono recensioni di mezza pagina nella sezione letteraria del Times. Il suo primo romanzo ha vinto il Premio Somerset Maugham. — Il successo dovrebbe rendere la gente umile, modesta e gentile, come diceva non so dove chi ha istituito quel premio. — Raramente è così. Cerca di essere indulgente verso di lui, Reg. Cerca di ascoltare con... con la saggezza di un uomo più anziano, quando lui sbandiera le sue opinioni. — E puoi parlare così dopo quello che ha detto a te sulle perle? Sei davvero magnanima, Dora. — Wexford mandò una specie di mugolio. — Se almeno lei non ci tenesse tanto. Se almeno riuscisse a vedere quello che vedo io. — Sorseggiò la sua birra, fece una smorfia come se il sapore, tutto
sommato, non gli fosse congeniale. — Pensi che... — si girò verso la moglie, sgomento — ...pensi che intenda sposarlo? — Penso che possa andare a vivere con lui, stabilire con lui una - come posso chiamarla? - una relazione a lungo termine. Lo penso davvero, Reg, te l'assicuro. Devi rassegnarti. A me ha detto... oh, Reg, non guardarmi in quel modo. Devo dirtelo. — Dirmi che cosa? — Che è innamorata di lui, e che pensa di non essersi mai innamorata prima d'ora. — Oh, Dio. — Dirmi una cosa simile, proprio lei che non mi dice mai niente... be', è significativo, credo. Wexford le rispose in modo melodrammatico. Che fossero parole melodrammatiche lo capì prim'ancora d'averle pronunciate, ma non seppe trattenersi. L'istrionismo gli procurava una piccola consolazione. — Mi porterà via mia figlia. Se lui e lei stanno insieme, per me e per Sheila sarà la fine. Cesserà d'essere mia figlia. È così. Lo vedo. A che serve fingere il contrario, a che scopo mai fingere? Aveva allontanato dalla mente quella cena di martedì sera, o forse gli eventi di Tancred House e le loro conseguenze l'avevano allontanata per lui. Ma ora tornava a riviverla, la seconda birra che si era versato gliela riportava alla memoria, e rivedeva quell'individuo entrare nel piccolo ristorante di provincia, scrutare l'ambiente, bisbigliare qualcosa a Sheila. Lei aveva chiesto al padre, di cui erano ospiti, come preferiva che si disponessero al tavolo loro riservato, ma Augustine Casey, prima che Wexford avesse la possibilità di parlare, aveva già scelto il proprio posto. Era la sedia che dava le spalle a un angolo del locale. — Siederò qui da dove posso vedere il circo — aveva detto, accennando un sorriso: ma era un sorriso tra sé e sé, che escludeva perfino Sheila. Wexford aveva compreso che intendesse dire di voler osservare il comportamento degli altri clienti. Era forse una prerogativa di romanziere, sebbene difficilmente quella di un post-post-modernista estremo qual era Casey. Aveva già scritto almeno un'opera di narrativa senza personaggi. Wexford, a quel punto, stava ancora cercando di parlargli, di indurlo a conversare di qualcosa, sia pure del soggetto preferito, ovvero se stesso. Mentre erano ancora a casa aveva parlato, aveva pronunciato alcune oscure teorie sulla poesia nell'Europa orientale, ogni frase che usava volutamente complessa, ma una volta nel ristorante si era fatto silenzioso, come se si
annoiasse, limitandosi a rispondere brevemente a richieste che per forza andavano fatte. Una delle cose che più irritavano Wexford era il suo rifiuto a usare una qualche frase normale o a indulgere nell'uso delle buone maniere. A un banalissimo "Come va?", aveva risposto che non andava affatto bene ma che era inutile domandarglielo perché ben di rado andava diversamente. Interrogato su quel che voleva bere, aveva richiesto un insolito tipo di acqua minerale gallese distribuita in bottiglie blu scuro. In mancanza di quella, beveva brandy. Il primo piatto lo aveva lasciato dopo un solo boccone. Verso la metà del pasto aveva rotto il suo silenzio per parlare di perle. Il "panorama" da dove sedeva lui gli aveva offerto la vista di non meno di otto donne che portavano perle al collo o alle orecchie. Dopo avere usato la parola una sola volta, non l'aveva più ripetuta per riferirsi invece a "concrezioni" o a "formazioni chitinose". Aveva citato Plinio il Vecchio il quale parlava delle perle come del "bene sovrano in assoluto del mondo intero", aveva citato la letteratura indiana vedica e aveva descritto la gioielleria etrusca, aveva profuso almeno un migliaio di parole sulle perle dell'Oman e del Qatar che vengono da acque profonde trecentosessanta metri. Sheila pendeva dalle sue labbra. A che scopo ingannare se stesso? Lei ascoltava Casey senza mai staccargli gli occhi di dosso, in adorazione. Casey aveva speso eloquenza a proposito della perla barocca di Hope che pesava undici once e su La Reine des Perles che era fra i gioielli della corona di Francia rubati nel 1792. Poi aveva parlato delle superstizioni associate alle "concrezioni" e, con gli occhi sul modesto filo attorno al collo di Dora, aveva alluso alla follia delle donne anziane che un tempo credevano, e senza dubbio credevano ancora, che tali collane potessero restituire loro la perduta giovinezza. Wexford a questo punto era deciso a intervenire, a rintuzzarlo, ma il suo telefono aveva fatto sentire il suo segnale e così aveva dovuto allontanarsi senza una parola. O senza una parola di biasimo. Naturalmente, aveva salutato tutti. Sheila lo aveva baciato e Casey aveva buttato là un: "Ci si rivede." Si era avventurato per quei boschi bui e freddi con la rabbia che gli ribolliva dentro. La spaventosa tragedia aveva poi neutralizzato quella collera. Ma la tragedia di Tancred non era sua, questa invece lo era, o poteva anche esserlo. Le immagini continuavano a formarsi, la fantasia si figurava futuri scenari, la loro casa. Wexford pensava a quello che sarebbe stato per
lui telefonare alla figlia e sentirsi rispondere da quell'individuo. E quali messaggi di arcana arguzia quell'essere avrebbe registrato sulla segreteria telefonica sua e di Sheila? Come sarebbe andata quando, trovandosi a Londra per qualche necessità, lui avrebbe fatto una capatina dalla figlia, cosa che tanto amava fare, e si sarebbe trovato davanti quell'uomo? La sua mente ci si arrovellava al punto che, quando andò a coricarsi, già si aspettava di sognare Casey, come naturale conseguenza. Ma l'incubo che patì, verso l'alba, riguardava invece il massacro di Tancred. Sognò d'essere in quella stanza, presso quella tavola, con Daisy, Naomi Jones e Davina Flory, dopo che Copeland era già andato a indagare sui rumori al piano di sopra. Lui rumori non ne udiva, stava esaminando la tovaglia scarlatta e domandando a Davina Flory perché fosse di un rosso così vivido. E lei, ridendo, gli rispondeva che era in errore, forse era daltonico, molti uomini lo erano. La tovaglia era candida, candida come la neve. Come mai ricorreva a un'espressione così trita? le domandava. E lei sorridendo, e sfiorandogli una mano con la sua, rispondeva che a volte quei luoghi comuni erano il modo migliore di descrivere qualcosa. C'era il rischio di voler apparire troppo ricercati, altrimenti. Si udiva lo sparo e l'uomo armato entrava nella stanza. Wexford se la svignava, scivolava fuori inosservato, la finestra con tutti i suoi bei vetri ricurvi si fondeva per permettergli di passare, così che lui arrivava in tempo per vedere l'auto della fuga venire a fermarsi in cortile, guidata dall'altro uomo. L'altro uomo era Ken Harrison. Alle stalle, in mattinata - aveva smesso di chiamarle sala d'emergenza, erano le stalle - gli mostrarono l'identikit ricavato dalla descrizione di Daisy. Sarebbe apparso nei telegiornali della sera, su tutte le reti. Era stata in grado di dirgli così poco! La faccia disegnata era più vaga e più amorfa di come possa mai essere qualsiasi faccia reale. I pochi particolari che era stata in grado di descrivere, l'artista li aveva accentuati, forse inconsciamente. In fin dei conti, non avevano altro su cui basarsi. Così l'uomo che guardava dal giornale di Wexford aveva occhi distanti e inespressivi e naso diritto, labbra né turgide né sottili, ma mento volitivo e con un solco al centro, orecchie piuttosto grandi, in risalto, e una folta capigliatura chiara. Wexford diede una scorsa sommaria ai rapporti sulle autopsie di Sumner-Quist, poi si recò in macchina a Kingsmarkham per fare la sua comparsa all'inchiesta. Come lui già si aspettava, venne aperta, ci fu la deposi-
zione del patologo, poi l'udienza venne aggiornata. Wexford attraversò a piedi High Street, percorse York Street e si addentrò nel Kingsbrook Centre, per cercare la Garlands, la galleria d'artigianato. Sebbene un cartello all'interno della porta a vétri informasse gli eventuali compratori che la galleria sarebbe rimasta aperta per cinque giorni la settimana dalle 10 alle 17,30, il mercoledì dalle 10 alle 13 e chiusa la domenica, al momento era chiusa. Le vetrine ai due lati della porta d'entrata contenevano un familiare assortimento di vasellame, composizioni di fiori secchi, cestelli in vimini, cornici per fotografie in marmo, casette di ceramica, gioielleria d'argento, scatole di legno intarsiato, bolle di vetro, animali in miniatura intagliati, intessuti, fatti a maglia, di pezza e di vetro soffiato, nonché una gran quantità di biancheria per la casa, stampata a uccelli, a pesci, a fiori e ad alberi. Ma non c'era nessuna luce a illuminare quella pletora di cianfrusaglie. Una penombra, che diventava oscurità nelle profondità della galleria, a stento permetteva a Wexford di distinguere oggetti più grandi che pendevano da finte travature antiche: abiti forse, scialli, un registratore di cassa sistemato tra una piramide di grotteschi animali di feltro, che certo non ispiravano tenerezza, e una vetrinetta in cui s'intravedevano, in mostra, maschere di terracotta e vasi di porcellana. Era venerdì e la Garlands era chiusa. Non gli sfuggì la possibilità che la signora Garland avesse chiuso la galleria per il resto della settimana, in segno di lutto per la tragica scomparsa della socia, Naomi Jones. Oppure, forse non aveva aperto perché troppo sconvolta dall'accaduto. Il grado di amicizia con la madre di Daisy gli era ancora ignoto. Ma il suo scopo era di scoprire se la Garland era o non era andata a Tancred House, il martedì sera. Se c'era andata, perché non era venuta a dirlo? La pubblicità data all'accaduto era stata enorme. Si era fatto appello a chiunque avesse una pur minima conoscenza degli eventi, a chiunque avesse anche il più piccolo rapporto con Tancred House. Se la Garland non c'era andata, come mai non si era fatta avanti, a spiegarne il perché? Dove abitava? Daisy non l'aveva detto, ma scoprirlo era facile. Sopra la galleria no, a ogni modo. I tre piani del centro erano interamente riservati a ditte di dettaglianti, boutique, parrucchieri, un grande supermarket, due ristoranti fast-food, un centro di giardinaggio e una palestra. Poteva telefonare alla sala d'emergenza e avere l'indirizzo in pochi minuti, ma il principale Ufficio Postale di Kingsmarkham era sull'altro lato della strada. We-
xford vi andò e, evitando la coda per francobolli, pensioni e riscossioni di vaglia, coda che si snodava serpeggiante lungo un vialetto delimitato da cordoni, chiese di vedere il registro elettorale. Era quello che avrebbe fatto in passato, prima dell'avvento di tutta quella tecnologia. A volte, decisamente, gli piaceva fare le cose all'antica. L'elenco dei votanti era ordinato per strade, non per cognomi. Era un compito per subordinati, quello, ma ormai era lì, aveva cominciato. E poi, desiderava sapere, ci teneva molto a sapere, perché Joanne Garland avesse chiuso il negozio, e l'avesse chiuso presumibilmente per tre giorni. La trovò, alla fine, e a un paio di strade soltanto da dove abitava lui. L'abitazione di Joanne Garland era in Broom Vale, un edificio alquanto più spazioso e un indirizzo un po' più elegante del suo. Viveva sola, questo il registro glielo diceva. Non poteva dirgli, naturalmente, se con lei vivesse qualcuno di età inferiore ai diciotto anni, ma questo era improbabile. Wexford tornò verso il cortile nel quale aveva parcheggiato l'auto. Parcheggiare in centro non era cosa da farsi alla leggera, ormai. Poteva figurarselo, il pezzo sul Kingsmarkham Courier, se qualche giovane cronista - magari lo stesso Jason Sebright - si fosse accorto che era la macchina dell'ispettore capo Wexford, quella sulla doppia riga gialla, con le ruote bloccate dalle ganasce. In casa non c'era nessuno. Alla porta accanto, tanto da un lato che dall'altro, nessuna risposta alla sua bussata. Quando lui era giovane, di solito una donna in casa c'era sempre. Le cose erano cambiate. Chissà perché, questo gli ricordò Sheila, e ne scacciò severamente il pensiero. Diede un'occhiata alla casa, che non si era mai preoccupato di studiare in precedenza, pur essendovi passato davanti centinaia di volte. Niente di speciale: circondata da un giardino, ben tenuta, tinteggiata di recente, probabilmente con quattro stanze da letto e due bagni, e con un'antenna parabolica per la televisione che sporgeva da una finestra del piano di sopra. Nel giardino antistante, un mandorlo stava mettendo i suoi primi fiori. Rifletté per un attimo, poi provò a portarsi sul retro. La casa sembrava chiusa. Ma in quel periodo dell'anno, inizio di primavera, era logico che sembrasse chiusa, che non ci fossero finestre aperte. Sbirciò attraverso quella della cucina. Dentro tutto era in ordine, sebbene nel lavello si vedessero dei piatti lavati e lasciati ad asciugare. Tornato sul davanti, scrutò nel garage attraverso il buco della serratura. Dentro c'era una macchina, ma non riusciva a stabilire di che tipo. Uno
sguardo attraverso la finestrella sulla destra della porta d'ingresso gli mostrò dei giornali, sul pavimento, e alcune lettere. Forse giornali di quel mattino? Ma no, poteva vedere la testata di un Daily Mail contro l'orlo dello stuoino e un'altra seminascosta da una grossa busta. Wexford torceva il collo, sforzandosi di distinguere il nome del terzo giornale di cui riusciva a scorgere soltanto un angolo e una sezione di fotografia. La fotografia mostrava a figura intera la Principessa di Galles. Nel tornare a Tancred House, si fermò davanti a un'edicola. Come si era aspettato, la fotografia della principessa era sul Mail di quel mattino. Di conseguenza, tre giornali erano arrivati per Joanne Garland dall'ultima volta che lei era uscita di casa e, sempre di conseguenza, non vi era più tornata dalla sera di martedì. Barry Vine disse nel suo solito modo lento e contorto: — Gabbitas potrebb'essere stato in quel bosco il martedì pomeriggio, signore, oppure no. I testimoni scarseggiano, diremo così, là dove lui era, o dove dice che era. Il bosco fa parte della proprietà di un tale che possiede ben cinquecento acri. Chiama coltivazione organica quello che fa su una parte di quel terreno: il bestiame ci vaga libero, se capisce che cosa intendo. Ha piantato una parte a bosco e una parte la tiene accantonata, dato che il Governo ti paga purché non ci coltivi niente. "Il bosco dove Gabbitas dice d'essere stato è lontanissimo da ogni altro posto. Cammini per tre chilometri lungo quel sentiero, ed è come la fine del mondo: non vedi un tetto, non vedi neppure un fienile. Bene, sono vissuto in campagna per tutta la vita ma non avrei mai creduto che ci fosse niente del genere, nelle nostre contee. "La chiamano ceduazione, quello che Gabbitas stava facendo. Ne aveva fatta parecchia, questo è certo, e si vedeva che era stato là: sul terreno i segni dei battistrada erano quelli della sua Land Rover. Ma la sua ipotesi vale la mia, ispettore, per sapere se davvero era là martedì." Wexford assentì. — Barry, torni giù a Kingsmarkham e mi cerchi una certa signora Garland. Se non la trovasse - e non credo che la troverà - veda se può scoprire dov'è andata, anzi, veda di ricostruirne i movimenti da martedì pomeriggio. Prenda qualcuno con sé, prenda Karen. La Garland abita al numero quindici di Broom Vale, e ha uno di quei negozi kitsch del Centro. Veda se la macchina c'è, parli con i vicini. — Signore? Wexford inarcò le sopracciglia.
— Che cos'è un negozio kitsch? — Vine pronunciava la parola a fatica. — Di certo l'ho già sentito, ma m'è sfuggito di mente. Chissà perché, a Wexford tornarono in mente giorni lontani e ricordò suo nonno, commerciante di ferramenta a Stowerton, mentre diceva a un fattorino pigro di andare a comprare mezzo chilo di olio di gomito e il ragazzo, ubbidiente, si avviava. Ma Vine non era né pigro né stupido, Vine nonostante il de mortuis - era decisamente superiore al povero Martin. Invece di raccontargli quell'aneddoto, Wexford gli spiegò la parola che aveva usato. Trovò poi Burden che faceva colazione seduto alla scrivania. Questa era al di là di un paravento, nell'angolo dove i mobili di Daisy - librerie, poltrone, cuscini - erano stati ricoperti con cura da foderine. Burden stava mangiando pizza e insalata di cavolo, cibi che non erano tra quelli che Wexford preferiva, né separati né insieme, ma ugualmente lui ne domandò la provenienza. — Vengono dal furgone dei nostri approvvigionatori. È fuori, e sarà lì ogni giorno dalle dodici e mezzo alle due. Non sei stato tu a ordinarlo? — È la prima volta che ne sento parlare — disse Wexford. — Dì a Karen di uscire a prenderti qualcosa. C'è un'ottima scelta, te l'assicuro. Wexford disse che Karen era andata a Kingsmarkham con Vine, ma che avrebbe chiesto a Davidson di portargli qualcosa. Davidson conosceva i suoi gusti. Poi sedette di fronte a Burden, con del caffè color fango preso dalla macchina. — E allora, questi Griffin? — Il figlio è disoccupato, ha un sussidio e abita in casa con i suoi. Si chiama Andrew, o Andy. I genitori sono Terry e Margaret, da tarda mezz'età ad anziani. — Come me — disse Wexford. — Che espressioni rivelatrici usi a volte, Mike. Burden lo ignorò. — Sono pensionati con ben poco da fare. E m'hanno dato l'impressione di non sapere che pesci pigliare. E d'essere un po' paranoici, anche. Non c'è niente che vada bene e tutti ce l'hanno con loro. Quando siamo arrivati stavano aspettando quelli del telefono perché era guasto, hanno creduto che fossimo noi e ci hanno fatto una testa così prima di darci il modo di spiegare. Poi, appena è stato fatto il nome Tancred, hanno attaccato una solfa sui migliori anni della loro vita che avevano speso là e, come puoi ben immaginare, sulle iniquità di Davina Flory come datrice di lavoro. Lo strano era che sebbene dovessero sapere, anzi, era
chiaro che sapevano tutto quello che era accaduto martedì sera - c'era perfino il giornale di ieri posato là, con tutte le fotografie - si sono ben guardati dal parlarne finché non l'abbiamo fatto noi. Capisci? neppure un commento su com'era stato terribile. Solo uno scambio di occhiate, quando ho detto di ritenere che avessero lavorato a Tancred House. Griffin ha confermato con aria truce che ci avevano lavorato, sì, e come potevano dimenticarselo? e poi via a recriminare, tutti e due, finché abbiamo dovuto... be', arginare la marea. — "È accaduto un evento" — citò Wexford — "del quale è difficile parlare e impossibile tacere." — Ne ricevette in cambio un'occhiata sospettosa. — È poi venuto l'operaio dei telefoni? — Sì, alla fine è venuto. Non ne potevo più, con lei che ogni cinque minuti andava fino alla porta per guardare su e giù lungo la strada a vedere se arrivava. A proposito, Andy Griffin non c'era, è venuto dopo. Sua madre diceva che era fuori a fare jogging. Vennero interrotti da Davidson, che aggirava il paravento con un vassoio di cartone cerato contenente pollo arrosto, riso pilaf e salsa indiana di mango per Wexford. — Perché non l'ho ordinato anch'io — deplorò Burden. — Troppo tardi. Scambi non ne faccio, detesto la pizza, io. Hai scoperto per quale ragione avevano litigato con gli Harrison? Burden lo guardò sorpreso. — Non gliel'ho chiesto. — No, ma se sono così paranoici poteva darsi che l'avessero detto spontaneamente. — Non li hanno mai nominati, gli Harrison. Chissà, forse è significativo. Margaret Griffin insisteva sullo stato immacolato in cui avevano lasciato il cottage e sul fatto che quando avevano conosciuto Gabbitas lui aveva del catrame sotto le suole e gliel'aveva lasciato sul tappeto. In poco tempo avrebbe trasformato la casa in un porcile, di questo era sicura. "Poi è entrato Andy Griffin. Immagino che tornasse dal fare jogging, che ne so. Sovrappeso lo è, per non dire grasso. La tuta ce l'aveva, ma non tutti quelli che indossano una tuta vanno a correre. Ha l'aria di non poter rincorrere neppure un autobus che vada a passo d'uomo. È piuttosto basso e biondo, ma la descrizione di Daisy Flory, comunque si voglia stiracchiarla, non gli si adatta." — Non lo avrebbe descritto. Lo avrebbe riconosciuto — disse Wexford. — Lo riconoscerebbe anche dietro una maschera. — Giusto. Era fuori martedì sera, lui dice con dei compagni, e i genitori
confermano che era uscito verso le sei. Sto controllando presso i compagni. Pare siano andati a fare il giro dei pub di Myringham e poi in un ristorante cinese chiamato Panda Cottage. — Che nomi! Fa pensare a un ritrovo per specie gay a rischio. Ha un sussidio, dicevi? — Sì, non so bene quale, cambiano i nomi di continuo. C'è qualcosa di strano in lui, Reg, sebbene non possa dirti che cosa. So che non serve a molto ma... quello che intendo realmente è: dobbiamo tenere d'occhio Andy Griffin. I suoi danno l'impressione di avercela con tutti e covano un grande risentimento, per qualche ragione - o forse senza ragione - contro Harvey Copeland e Davina Flory; ma Andy, lui, li odia. Cambia addirittura voce e modo di fare, quando li nomina. Ha perfino detto d'essere contento che fossero morti: "troia" e "merda" sono le parole che usa nei loro confronti. — Che finezza d'individuo. — Ne sapremo un po' di più quando avremo stabilito se davvero era in giro per i pub e a quel Panda Cottage, martedì. Wexford guardò l'orologio. — È tempo che mi avvii verso l'ospedale. Ti va di accompagnarmi? Potresti fare tu stesso qualche domanda a Daisy sui Griffin. Un istante dopo avere pronunciato quelle parole, se ne pentì. Daisy si era abituata a lui, ormai, quasi sicuramente non avrebbe gradito la presenza, tra l'altro inaspettata, di un altro poliziotto. Ma non aveva motivo di preoccuparsi: Burden non aveva nessuna intenzione di andare con lui, perché aveva già appuntamento con Brenda Harrison per un nuovo colloquio. — C'è tempo — disse di Daisy. — Parlerà molto più a suo agio, una volta fuori di là. A proposito, dove andrà una volta che sia fuori di là? — Non lo so — rispose lentamente Wexford. — Proprio non lo so. Non ci avevo ancora pensato. — Be', non può tornare a casa, ti pare? Se è casa sua, e suppongo di sì. Non può tornare subito dov'è accaduto il fatto. Un giorno, forse, ma per ora non credo. — Tornerò in tempo — disse Wexford nell'avviarsi — per vedere che cosa sanno fare per noi le reti televisive. Ce la farò per il notiziario della ITN, alle cinque e quaranta. Ancora una volta, all'ospedale, non avvertì della sua presenza ma entrò quatto quatto, quasi in segreto. In giro non c'erano né la dottoressa Leigh
né le infermiere. Bussò alla porta della stanza di Daisy, nell'impossibilità di vedere molto, attraverso il vetro smerigliato: soltanto la forma del letto, sufficiente a dirgli che nessun visitatore sedeva al capezzale di lei. Nessuno gli rispose di entrare. Naturalmente, era un po' in anticipo rispetto alle occasioni precedenti. Da solo, senza una scorta, preferiva non aprire l'uscio. Bussò di nuovo, ormai certo, pur senza averne la prova, che la stanza era vuota. Doveva esserci un salottino, e forse lei era là. Fece per allontanarsi e si ritrovò a faccia a faccia con un uomo in corta vestaglia bianca. L'infermiere di turno? — Cerco la signorina Flory. — Oggi Daisy è andata a casa. — A casa? — È l'ispettore capo Wexford, lei? Le ha lasciato detto che le avrebbe telefonato. Sono venuti i suoi amici a prenderla, posso darle il nome, ce l'ho da qualche parte. Daisy era andata a Myfleet, da Nicholas Virson e madre. Quella, dunque, era la risposta alla domanda di Burden. Era andata a stare presso amici, forse gli amici più intimi. Si domandò perché non gliel'avesse detto il giorno innanzi, ma forse neanche lei lo sapeva. Senza dubbio, si erano messi in contatto con lei, l'avevano invitata e lei aveva acconsentito pur di svignarsela. Non c'è paziente, quasi, che non brami di andarsene dall'ospedale. — Ma la terremo in osservazione — disse l'infermiere. — Lunedì deve appunto tornare, per un controllo. Di ritorno alle stalle, Wexford si mise a guardare la televisione, un telegiornale dopo l'altro. La ricostruzione dell'artista, di quello che poteva essere l'aspetto dell'assassino di Tancred, apparve sullo schermo. Vedendolo così, ingrandito, e in certo senso più convincente di come poteva apparire un disegno sulla carta, Wexford comprese chi gli ricordava. Nicholas Virson. La faccia sullo schermo corrispondeva esattamente alla faccia di Virson, come lui la rivedeva al capezzale di Daisy. Coincidenza, caso, qualcosa di fortuito da parte dell'artista? O qualche inconscia sostituzione da parte di Daisy? E questo rendeva inutile l'immagine, ora scomparsa dallo schermo per lasciar posto al matrimonio di una pop star? La maschera che l'omicida si era messo era servita allo scopo, se il risultato era stato di farlo apparire somigliante all'innamorato della testimone! Wexford sedeva davanti al televisore, senza vederlo. Si avvicinavano le
sei e mezzo, ora in cui era probabile che arrivassero Sheila e Augustine Casey. Non sentiva alcuna urgenza di tornare a casa. Se ne tornò alla sua scrivania, dove l'aspettavano una decina di messaggi. Quello in cima gli diceva quel che sapeva già, ossia che ora Daisy Flory era reperibile presso la signora Joyce Virson a Le Stoppie, Castle Lane, Myfleet. Gli dava anche qualcosa che lui non aveva, un numero di telefono. Wexford si tolse il proprio telefonino di tasca e ne schiacciò i tasti. Rispose una voce di donna, altera, sbrigativa, imperiosa. — Pronto? Wexford disse chi era e spiegò che avrebbe desiderato parlare con la signorina Flory il giorno seguente, nel pomeriggio verso le quattro. — Ma è sabato! Ne convenne. Non c'era modo di negarlo. — Be', penso di sì. Se proprio è necessario. Sa trovare questo cottage? Come intende venirci? Sul servizio d'autobus non c'è da fare molto affidamento... Disse che sarebbe stato là alle quattro e interruppe il contatto. Gran bella invenzione, quel telefonino. La porta si aprì, una forte ventata d'aria gelida della sera investì la stanza e Burden apparve con Barry Vine nella sua scia. — Da dove saltate fuori, voi? — domandò Wexford, un po' brusco. — Sembra assurdo, ma è sparita. La signora Garland. Joanne Garland. È scomparsa. — In che senso, scomparsa? Non c'è, vorrai dire. Non è proprio la stessa cosa. — È scomparsa. Non ha detto a nessuno che andava via, non ha lasciato né messaggi né istruzioni a nessuno. Non si sa che fine abbia fatto. Da martedì sera, non se ne sa più niente. 10 I vecchi stavano guardando la televisione. L'ultimo pasto della giornata era stato servito alle cinque, e per loro ormai era sera, dato che l'ora di coricarsi era fissata per le otto e trenta, alle quali ormai non mancava molto. Poltrone e sedie a rotelle erano disposte a semicerchio davanti al televisore. Gli anziani spettatori si trovavano a contemplare una faccia da bruto, l'idea che l'autore dell'identikit si era fatto dell'omicida di Tancred House. Era il genere di volto che in passato, tanto tempo prima, veniva definito dall'espressione "un mostro biondo". E fu appunto quella che una di loro usò per descriverlo, sussurrando in un bisbiglio un po' teatrale all'uomo
che le sedeva accanto: — Guardalo, un vero mostro biondo! Sembrava una delle ospiti più vivaci della Casa di Riposo di Caenbrook, e Burden provò un senso di sollievo nel venire accompagnato proprio verso di lei dalla ragazza magrolina e impacciata che li aveva fatti entrare, lui e il sergente Vine. E lei, nel guardarsi intorno, passò rapidamente dalla sorpresa a un'autentica gioia, scoprendo che i visitatori, chiunque essi fossero, erano per lei. — Edie, questi signori la cercano. Sono della polizia. Il sorriso rimase, si allargò. — Ehi, Edie — disse il vecchio al quale lei aveva rivolto il bisbiglio — che cos'hai combinato? — Io? Di sicuro qualcosa di bello. — Signora Chowney, sono l'ispettore Burden, e questo è il sergente Vine, dell'Ufficio Investigativo. Potremmo scambiare qualche parola con lei? Siamo ansiosi di metterci in contatto con sua figlia. — Quale? Ne ho sei. Come riferì in seguito a Wexford, Burden rimase talmente sbalordito che, per un attimo, non seppe che cosa dire. Edie Chowney gli venne in aiuto con l'annunciare orgogliosamente - a un pubblico che, evidentemente, l'aveva già sentito molte volte - d'avere anche cinque maschi. Tutti vivi, tutti ben sistemati, tutti in patria. Al che, Burden trovò che fosse orribile, e forse addirittura incomprensibile, il fatto che di undici figli nessuno si fosse preso in casa la madre, per farla vivere sotto la sua ala protettrice. Pur di evitarlo, invece, avevano preferito mettere insieme, probabilmente fra tutti, il denaro che potesse tenerla in quel mortorio, anche se di lusso, per vecchi messi da parte. Mentre percorrevano il corridoio diretti alla stanza della signora Chowney, misura che, suggerita dalla scarna inserviente, aveva suscitato nuovi commenti da parte del vecchietto, Burden rifletteva che forse uno dei dieci fratelli di Joanne Garland sarebbe stato una fonte migliore per le informazioni che gli servivano. Ma si sbagliava perché Edie Chowney, nell'incamminarsi verso la sua stanza senza alcun bisogno d'aiuto, nel farli accomodare e nel lamentarsi con l'inserviente perché il riscaldamento lasciava a desiderare, stava rivelandosi padrona della sua mente e del suo eloquio quanto una persona di trent'anni più giovane. Doveva essere poco al di sotto dell'ottantina, una donnetta vivacissima, asciutta ma piuttosto ampia e un po' sformata. Un fisico solido, che aveva messo al mondo molti figli. I capelli a ciuffi erano tinti di un castano scu-
ro. Soltanto le mani, simili a radici d'albero e con le nocche deformate, rivelavano che doveva essere stata l'artrite a relegarla a Caenbrook. Nella stanza c'erano l'arredo fondamentale e gli oggetti personali di Edie Chowney, soprattutto fotografie in cornice. Si affollavano sul davanzale della finestra e sui ripiani dei tavolini, sulla piccola libreria e sul comodino, quelle persone ritratte tutte tra i quaranta e i cinquantacinque anni, con la loro personale posterità, i loro coniugi, i loro cani, le loro case sullo sfondo. Una era molto probabilmente Joanne Garland, ma non c'era modo di sapere quale. — Ho ventuno nipoti — disse la signora Chowney, accorgendosi che lui guardava. — Ho quattro pronipoti e, con un po' di fortuna, se la nipote di Maureen porta a termine la gravidanza, uno di questi giorni diventerò trisavola. Che cosa vogliono sapere di Joanne? — Vorremmo sapere dov'è andata, signora Chowney — disse Barry Vine. — Vorremmo l'indirizzo di dove si trova. I vicini non lo sanno. — Joanne non ha mai avuto figli. Sposata due volte, ma niente figli. Non ci sono donne sterili nella nostra famiglia, perciò penso sia stata una scelta. Non avevamo molto da scegliere, in passato, ma i tempi cambiano. Joanne è troppo egoista, difficilmente avrebbe sopportato il baccano e tutto il resto. Per un verso o per l'altro, chi ha bambini non può mai stare tranquillo. Io posso dirlo, visto che ne ho avuti undici. Lei era la maggiore delle ragazze, capite, perciò lo sapeva. — E andata via, signora Chowney. Lei può dirci dove? — Il suo primo marito era un lavoratore ma non aveva proprio fortuna. Lei divorziò, io non ero contenta, lo dissi, sei la prima persona della nostra famiglia, Joanne, che va davanti a un tribunale per divorziare. Pam divorziò in seguito, e anche Trev, ma all'epoca Joanne era la prima. A ogni modo, conobbe quel riccone. Sapete cosa diceva sempre, lui? Diceva, sono solo un povero milionario, Edie. Oh, se la passavano bene, ve l'assicuro, spendevano, spendevano, spendevano, ma poi finì in una delusione, come la volta prima. Lui dovette pagare... ooh, lei lo fece pagare profumatamente. Così si è comperata la casa, ha avviato quell'attività, si è presa quel bel macchinone e tutto il resto. È lei che mi mantiene qui, sapete: star qui costa molto, quasi come in un albergo di lusso di Londra, il che è un mistero, se uno si guarda attorno. Ma lei paga, gli altri non potrebbero permetterselo. Burden doveva arginare quella marea. Edie Chowney si era fermata solo per riprendere fiato. Lui aveva già sentito parlare della verbosità delle per-
sone molto sole quando finalmente avevano compagnia, ma questo era assurdo. — Signora Chowney... — Lo so — disse lei, in tono più brusco. — So che parlo troppo. Non è l'età, è proprio la mia natura. Sono sempre stata una chiacchierona, mio marito mi sgridava, ricordo. Che cosa volevate sapere di Joanne? — Dov'è? — A casa, naturalmente, o in negozio. Dove volete che sia? — Quando l'ha vista l'ultima volta, signora Chowney? Lei fece una cosa strana, proprio come se stesse rammentando a se stessa su quale delle figlie in particolare stessero informandosi. Passò in rassegna la collezione di fotografie accanto al letto, si soffermò come per fare un calcolo, poi ne scelse una a colori, in cornice d'argento, e la guardò, assentendo. — Dev'essere stato martedì pomeriggio. Martedì, sì, perché è il giorno in cui veniva il pedicure e lei viene sempre di martedì. Joanne è arrivata mentre stavamo cenando. Verso le cinque... forse le cinque e un quarto. Ho detto, sei in anticipo, come hai fatto per il negozio? e lei, galleria, Mamma, dici sempre così, la galleria è a posto, c'è Naomi fino alle cinque e mezzo. Sapete, vero, chi intendeva per Naomi? Naomi è una di quelli che sono stati assassinati, anzi, massacrati, come dicono alla televisione, massacrati a Tancred House. Che cosa terribile, vero? Immagino che l'avrete saputo... be', certo, visto che siete della polizia. — Mentre sua figlia era con lei, ha detto qualcosa a proposito dell'andare a Tancred House, quella sera? La signora Chowney porse a Burden la fotografia. — Ci andava sempre, il martedì sera. Lei e la povera Naomi, quella che è stata massacrata, facevano i conti del negozio. Questa è lei, è Joanne, la foto è di cinque anni fa, ma non è cambiata molto. La donna appariva fin troppo agghindata in un abito di un rosa acceso con i bottoni dorati. Una gran quantità di bigiotteria le si avvolgeva intorno al collo e le pendeva dalle orecchie. Era alta e ben fatta. I capelli biondi erano pettinati in modo fin troppo rigido ed elaborato, e sembrava pesantemente truccata, sebbene questo fosse difficile stabilirlo. — Non le ha detto che sarebbe andata via in vacanza? — Ma no — disse in tono deciso Edie Chowney. — Non stava andando da nessuna parte. Me l'avrebbe detto. Che cosa vi fa pensare che sia partita?
Era una domanda alla quale Burden non desiderava rispondere. — Quando pensa che venga a trovarla di nuovo? Trasparì amarezza dalla voce di lei. — Fra tre settimane. Tre settimane buone, prima no di certo. Joanne viene al massimo una volta ogni tre settimane, a volte aspetta un mese. Lei paga e pensa d'avere fatto il suo dovere. Viene una volta ogni tre settimane, si ferma dieci minuti e crede di essere una buona figlia. — E gli altri suoi figli? — Era Vine a porre la domanda. Burden aveva deciso di non farne. — Pam viene spesso. Sfido, abita a un paio di strade da qui, perciò non morirebbe certo se anche venisse tutti i giorni. Non che venga tutti i giorni, intendiamoci. Maureen sta a Bristol, perciò non si può pretendere, e Trev è al lavoro su uno di quei pozzi di petrolio. Doug è a Telford, che non so bene dove sia. Shirley ha quattro figli, e questa è la sua scusa, sebbene Dio sa se sono tutti grandi, ormai. John passa di qui quando gli accomoda, il che non succede tanto spesso, e gli altri si fanno vivi verso Natale. Oh, a Natale arrivano qui tutti insieme, un vero battaglione. A che cosa mi serve, ho detto quest'ultimo Natale, a cosa mi serve che veniate tutti insieme? Erano in sette, la Vigilia di Natale, in un'unica infornata, Trev e Doug e Janet e Audrey e... — Signora Chowney — la interruppe Burden — potrebbe darmi l'indirizzo di... — esitò, non sapendo bene come esprimersi — ...di uno o due dei suoi figli che abitano nelle vicinanze? Che vivono nei dintorni, e potrebbero sapere dov'è andata sua figlia Joanne? Erano le otto quando finalmente Wexford si decise ad andare a casa. Quando l'auto arrivò al cancello principale e Donaldson scese per aprirlo, lui notò che c'era qualcosa legato a ciascun pilastro. L'oscurità, sotto gli alberi, era troppo fonda perché si potesse distinguere qualcosa di più che dei fagotti informi. Wexford accese gli abbaglianti, scese dalla macchina e andò a guardare. Altri bouquet, altri tributi ai morti. Due questa volta, uno per parte. Erano mazzi semplici ma squisitamente composti, uno un mazzolino vittoriano di violette e primule, l'altro un fascio di narcisi bianchi ed edera verde. Wexford lesse su un biglietto: "Con dolore per la grande tragedia dell'll marzo." L'altro diceva: "Queste morti violente hanno una fine violenta e nel loro trionfo muoiono." Ritornò alla macchina e Donaldson rimise in moto, oltrepassando il cancello. Il messaggio sul primo mazzo di fiori lasciato sul
cancello gli era sembrato innocuo, una citazione piuttosto adatta, dall'Antonio e Cleopatra: be', adatta per chi avesse incondizionatamente ammirato Davina Flory. L'altra suonava invece stranamente sinistra. Ancora Shakespeare, probabilmente, ma non gli riusciva di ricordarne l'origine. Aveva cose più importanti cui pensare. Da telefonate fatte a John Chowney e a Pamela Burns nata Chowney, si era saputo soltanto che non avevano idea di dove fosse la sorella, né erano al corrente che dovesse partire. A nessun vicino era stato detto che si sarebbe assentata. Il giornalaio non era stato avvertito. Joanne Garland non aveva l'abitudine di farsi portare a casa il latte. Il gestore della cartoleria accanto alla Garlands, nel Kingsbrook Centre, si era meravigliato che lei non avesse aperto la galleria il giovedì mattina, dopo aver osservato un giorno di chiusura per rispetto a Naomi Jones. John Chowney aveva nominato due donne, definendole grandi amiche della sorella, ma nessuna delle due era stata in grado di rispondere alle domande di Burden ed entrambe si erano dette sorprese di quell'assenza. Lei non era stata più vista dalle cinque e quaranta di martedì sera, quando aveva lasciato la Casa di Riposo di Caenbrook e il custode di turno l'aveva vista salire sull'auto, parcheggiata là davanti. Joanne Garland era scomparsa. In altre circostanze, difficilmente la polizia se ne sarebbe accorta. Una donna che si allontana per qualche giorno senza avvertire i parenti e gli amici non è una persona scomparsa. Era l'accordo di recarsi a Tancred House per le otto e un quarto a cambiare le cose. Wexford era pronto a scommettere che vi era andata, tenendo fede all'appuntamento. La scomparsa era dovuta a quello che lei aveva visto a Tancred House, o a quello che aveva fatto? Entrò in casa e immediatamente udì la risata di Sheila provenire dalla stanza da pranzo. C'era il mantello di lei appeso in anticamera, di certo era il suo: chi altri avrebbe indossato un capo di leopardo sintetico con collo di finta volpe color petrolio? In sala da pranzo avevano già finito la minestra ed erano ormai al secondo piatto. Pollo arrosto, non sogliola bonne femme. Perché quel pensiero, ora? Era una casa del tutto diversa, che tutta intera sarebbe sparita dentro Tancred House, e anche loro erano persone diverse. Si scusò con Dora per il ritardo, la baciò, baciò Sheila e porse la mano ad Augustine Casey per vedersela ignorare. — Papà, Gus ci stava parlando di Davina Flory — disse Sheila.
— La conosceva? — I miei editori — rispose Casey — non sono di quelli la cui politica è di fingere con ogni autore di non averne altri sull'elenco. Wexford non immaginava che lui e la donna uccisa avessero lo stesso editore. Non disse niente e andò a lasciare cappello e soprabito in anticamera. Si lavò le mani, raccomandando a se stesso di essere tollerante, di essere magnanimo, di fare concessioni, di mostrarsi gentile. Quando lui tornò di là e si mise a tavola, Sheila fece ripetere a Casey tutto quello che aveva detto fino a quel momento sui libri di Davina Flory - in gran parte ben poco edificante, a giudizio di Wexford - e ripetere, inoltre, una storia che aveva dell'incredibile, e cioè che l'editore aveva mandato il manoscritto dell'autobiografia di lei a Casey, per averne un parere prima di farle un'offerta. — In genere non sono un ottuso — disse Casey. — Non lo sono, vero, amore? Wexford, che si domandava cos'altro sarebbe seguito, a quell'amore" sussultò. Sheila, chiamata in causa, reagì in un modo che lo fece quasi raggricciare, tanto si mostrò adorante e al tempo stesso sgomenta che qualcuno, perfino Casey stesso, potesse suggerire in tono di disapprovazione che lui fosse qualcosa di meno di un genio. — Non sono un ottuso, in genere — ripeté Casey, presumibilmente aspettandosi un ulteriore coro di incredulo diniego. — Ma proprio non avevo idea che tutto fosse avvenuto proprio qui e che lei... — rivolse i piccoli occhi slavati su Wexford — ...voglio dire, il padre di Sheila, fosse - qual è il termine, deve esserci un termine - ah, sì, fosse incaricato del caso. Io non so niente di queste cose, meno che niente, ma Scotland Yard esiste ancora, vero? Intendo dire, non c'è una Squadra Omicidi? Perché lei? — Sentiamo le sue impressioni su Davina Flory — disse serenamente Wexford, inghiottendo la rabbia che gli riempiva la bocca di acidità e metteva rossi schermi davanti ai suoi occhi. — M'interesserebbe ascoltare il parere di qualcuno che l'ha conosciuta professionalmente. — Professionalmente? Io non sono un antropologo. Non sono un esploratore. L'ho incontrata a un party della casa editrice. E no, grazie tante, mi guarderò bene dal dirle le mie impressioni. Penso che non sarebbe saggio, meglio starmene abbottonato. Mi ricorderebbe solo la volta in cui mi hanno arrestato per guida spericolata e quel ridicolo piedipiatti ha riletto in tribunale tutto quello che io avevo detto, il tutto ineluttabilmente distorto dal suo filtro di semianalfabeta.
— Assaggia un po' di vino, caro — disse Dora in tono conciliante. — Ti piacerà. Sheila l'ha portato apposta per te. — Non li avrai messi nella stessa stanza, spero. — Reg, questo è il genere di osservazione che dovrei fare io, non tu. Di noi due, sei tu quello che dice d'essere il più liberale. Naturale che li ho messi nella stessa stanza. Non dirigo un asilo vittoriano, io. Wexford dovette sorridere suo malgrado. — Questa è irrazionalità tipica, vero? Non m'importa che mia figlia dorma sotto il mio stesso tetto con un uomo, ma l'idea mi ripugna quando si tratta di uno stronzo come lui. — Non ti avevo mai sentito usare quella parola! — Dev'esserci una prima volta per tutto. Io che butto fuori qualcuno da casa mia, per esempio. — Ma non lo farai. — No, sono sicuro di no. Il mattino dopo Sheila disse che lei e Gus desideravano invitarli a cena, quella sera, al Cheriton Forest Hotel, che di recente aveva cambiato gestione e si era fatto una nuova fama per la cucina ottima e i prezzi alti. Lei aveva prenotato un tavolo per quattro. Augustine Casey osservò che sarebbe stato divertente constatare un fatto del genere di prima mano. Aveva un amico che scriveva su locali come quello per un giornale della domenica, anzi, sulle manifestazioni del gusto negli anni Novanta. La rubrica s'intitolava Più denaro che buon senso, titolo che era una trovata di lui, Casey. Si sarebbe interessato non solo al cibo e all'ambiente, ma anche al genere di clientela che frequentava il locale. Incapace di resistere, Wexford commentò: — Se non sbaglio ieri sera aveva detto di non essere un antropologo. Casey abbozzò uno dei suoi sorrisi misteriosi. — Che cosa c'è scritto sul suo passaporto? Funzionario di polizia, immagino. Io ci ho sempre lasciato studente. Sono dieci anni che mi sono laureato, ormai, ma sul passaporto c'è sempre scritto studente, e penso che sarà così in eterno. Wexford stava per uscire: aveva appuntamento con Burden per andare a bere qualcosa. Una regola, fatta per essere infranta, era che non lo facessero mai di sabato, ma lui doveva uscire di casa ogni tanto, anche se sapeva che non era giusto da parte sua. Sheila lo raggiunse in anticamera. — Papà, caro, va tutto bene? Stai bene? — Benissimo. Questo caso Flory è un po' stressante. E tu che cosa farai di bello, oggi?
— Gus e io pensavamo di andare a Brighton. Lui ha degli amici, là. Torneremo più che in tempo per la cena. Tu ce la farai a liberarti, vero? Lui assentì. — Farò del mio meglio. Sheila sembrava un tantino depressa. — Gus è meraviglioso, vero? Non ho mai conosciuto nessuno come lui. — Si illuminò in volto. Era un viso così bello, perfetto come quello della Garbo, dolce come quello di Marilyn Monroe, di una bellezza trascendentale come quello di Heddy Lamarr. Ai suoi occhi, per lo meno. Da dov'erano venuti i geni necessari per crearlo? — È così intelligente — riprese lei. — Il più delle volte non riesco a tenergli dietro. L'ultima novità è che farà dell'attività accademica presso un'università del Nevada. Là stanno addirittura mettendo assieme una biblioteca con tutti i suoi manoscritti, si chiamerà l'Archivio Augustine Casey. Lo apprezzano davvero molto. Wexford non aveva praticamente sentito la conclusione. Era rimasto bloccato - e in estasi - verso la metà dei commenti di lei. — E andrà a stare nel Nevada? — Sì., be', per un anno. In un posto che si chiama Heights. — Negli Stati Uniti? — Intende scrivere il suo prossimo romanzo, intanto che è là — disse Sheila. — Sarà il suo capolavoro. Il padre le diede un bacio e lei gli gettò le braccia al collo. Nell'incamminarsi lungo la strada, Wexford per poco non si mise a cantare a gola piena. Andava bene, andava tutto benissimo, loro due sarebbero andati a Brighton per passarvi la giornata e Augustine Casey sarebbe andato in America per un anno: praticamente emigrava, l'odioso essere. Oh, perché Sheila non glielo aveva detto la sera prima, regalandogli così una buona notte di sonno? Ma era inutile recriminare, ormai. Era contento d'avere deciso d'andare a piedi fino all'Olive, adesso poteva farsela davvero una bevuta, e festeggiare. Burden c'era già. Disse di provenire da Broom Vale dove, con un mandato ottenuto un paio d'ore prima, stavano perquisendo la casa di Joanne Garland. L'auto, una BMW grigio scuro, era nel garage. Non c'erano bestiole da accudire o da portare a spasso. Non c'erano piante da bagnare, né fiori lasciati a seccare nei vasi. La spina del televisore era stata staccata, ma questo tanta gente lo faceva ogni sera prima di andare a letto. Tutto faceva pensare che la donna si fosse allontanata da casa di sua spontanea volontà. Da un'agenda, con gli impegni meticolosamente annotati, era risultato
soltanto che Joanne Garland era stata a un party il sabato precedente, e a colazione, la domenica, da sua sorella Pamela. La visita alla madre era segnata per martedì 11 marzo: e tutto finiva lì. Gli spazi seguenti erano rimasti intonsi. Lei aveva una grafia minuta e ordinata, ed era riuscita a inserire un sacco di informazioni nei due centimetri e mezzo per sette riservati per ciascuna giornata. — Cose del genere ce ne sono già capitate — disse Wexford — qualcuno in apparenza scompare e poi si scopre che se n'era andato in vacanza. Ma in nessuno di quei casi la persona scomparsa aveva un mucchio di parenti e di amici, tutta gente, bada bene, che in passato era sempre stata informata quando la persona in questione si allontanava. I fatti sono che Joanne doveva andare a Tancred House alle otto e un quarto di martedì sera. Era una donna arcipuntuale. Sappiamo da Daisy Flory, in altre parole, che di norma arrivava agli appuntamenti fin troppo in anticipo, per cui dobbiamo dedurne che sia arrivata alla villa poco dopo le otto. — Se c'è andata. Tu cosa prendi? Wexford non intendeva certo parlare a Burden di festeggiamenti. — Stavo pensando a uno Scotch, ma sarà meglio che cambi idea. Il solito mezzo amaro allungato. Nel far ritorno con le bibite, Burden osservò: — Non abbiamo motivo di credere che ci sia andata. — Solo il fatto che il martedì lo faceva sempre — replicò Wexford. — Solo il fatto che era aspettata. Se non intendeva più andarci, non ti pare che avrebbe telefonato? Non c'è stata nessuna telefonata a Tancred House, quella sera. — Ma scusa, Reg, dove vogliamo arrivare? Non ha senso. Siamo di fronte a normali rapinatori, sì o no? Banditi dal grilletto facile, che mirano ai gioielli. Uno di loro è un estraneo, l'altro ha forse una particolare conoscenza della casa e dei suoi occupanti. Ed è presumibilmente per questo che soltanto il mostro biondo, come lo chiama la signora Chowney, si lascia vedere dai tre che uccide e da quella che tenta di uccidere. L'altro, la faccia conosciuta, si tiene in disparte. — Ma sono malfattori tipici, non del genere che si porta via una possibile testimone per poi disfarsene altrove, giusto? Capisci perché dico che non ha senso? Se la Garland ha bussato a quella porta, perché non hanno sparato anche a lei? — Perché il caricatore della Magnum trecinquesette era vuoto — rispose
subito Wexford. — D'accordo. Se lo era. Ci sono altri modi di uccidere. Aveva già fatto fuori tre persone, non si sarebbe certo fatto scrupolo di eliminarne una quarta. Ma no, lui e il suo complice se la portano via. Non come una specie di ostaggio, non per le informazioni che lei potrebbe avere, solo per sbarazzarsene altrove. Perché? Non ha senso. — D'accordo. L'hai detto già tre volte, quel che volevi stabilire lo hai dimostrato. Se l'hanno uccisa a Tancred House, che cosa ne hanno fatto della sua auto? L'hanno riportata a casa e chiusa ordinatamente in garage? — Suppongo che potrebb'essere coinvolta. Potrebbe essere lei, la complice. Noi possiamo solo presumere che fosse un uomo. Ma, Reg, vale la pena di prendere in considerazione quest'ipotesi? Joanne Garland è una donna oltre la cinquantina, una donna d'affari di successo. Sì, perché, Dio sa come e perché, quella galleria funziona, rende. Lei è abbastanza in quattrini da poter essere indipendente, in ogni caso. La sua auto è una BMW ultimo modello, ha un guardaroba di tizi di cui io non so niente, ma Karen mi dice che sono grandi stilisti, Valentino, Krizia e Donna Karan. Li hai mai sentiti nominare? Wexford assentì. — Io li leggo, i giornali. — Ha ogni genere di cose possibili e immaginabili. Una delle stanze è una palestra piena di attrezzi ginnici. È chiaro che è ricca. Perché avrebbe dovuto desiderare il genere di denaro che qualche ricettatore le avrebbe dato per le perle di Davina Flory? — Mike, mi è venuta in mente una cosa. C'è una segreteria telefonica? Che numero ha di telefono la Garland? Potrebb'esserci registrato un messaggio. — Non lo so, il numero — disse Burden. — Non puoi informarti, con quel tuo trappolino? — Certo. — Wexford chiese il numero, che subito gli venne fornito. Al loro tavolo, in un angolo tranquillo della sala-bar dell'Olive, formò il numero di Joanne Garland. Sentì tre squilli, poi un leggero clic, e una voce che non era affatto come se l'aspettavano parlò. Non una voce forte e decisa, non sicura di sé e stridula, ma dolce, diffidente perfino. — Qui Joanne Garland. In questo momento non posso rispondere ma, se volete lasciare un messaggio, vi richiamerò il più presto possibile. Prego parlate dopo il segnale. La solita dichiarazione di identità e di disponibilità raccomandata dagli opuscoli di quasi tutte le segreterie telefoniche.
— Controlleremo se sono stati lasciati dei messaggi, e quali. Ora provo a rifare il numero, e spero che stavolta se ne rendano conto e vengano a rispondere. C'è Gerry, là? — L'agente investigativo Hinde — rispose Burden, fingendo un tono molto serio — è occupatissimo, ma altrove. Ha costruito quella che chiama una fantastica base di dati su tutti i crimini commessi in quest'area negli ultimi dodici mesi, e sta lavorando di mouse - chissà la mia terminologia che disastro! - per cercare delle coincidenze. Dalla Garland ci sono Karen, Archbold e Davidson. C'è da sperare che uno di loro abbia il buon senso di rispondere. Wexford rifece il numero. Tre squilli, poi il messaggio cominciò a ripetersi. La volta successiva, Karen Malahyde sollevò il ricevitore dopo il secondo squillo. — Era tempo — disse Wexford. — Sai chi parla? Sì? Bene. Ascolta i messaggi, per favore. Se non sei pratica di segreterie telefoniche, devi cercare un tasto con la scritta PLAY. Fallo una sola volta, prendi nota di quello che dice e tira fuori la cassetta. Probabilmente, è di quelle che ripetono i messaggi due sole volte. D'accordo? Richiamami al mio numero personale. — Poi a Burden: — Non credo che la Garland sia implicata negli omicidi di martedì sera, questo no, ma penso che abbia visto quei due. Mike, comincio a domandarmi se invece di perquisire la sua casa non faremmo meglio a cercare il suo cadavere su a Tancred. — Non è nelle vicinanze della casa e nemmeno negli edifici esterni. Sai che abbiamo già guardato. — Ma non abbiamo cercato nei boschi. Burden mandò una specie di gemito. — Vuoi l'altro mezzo? — Lascia, vado io. Wexford andò al bar, portando con sé i bicchieri vuoti. Sheila e Augustine Casey dovevano essere in viaggio per Brighton, ora. Con soddisfazione - perché ben presto sarebbe cessata, ben presto sarebbe echeggiata soltanto all'ombra della Sierra Nevada - immaginò la conversazione nella macchina, o meglio il monologo, mentre Casey profondeva fiumi di arguzia, di aneddoti maligni, esoterici, caustici, e di favole che lo ingigantivano, mentre Sheila ascoltava rapita. Burden lo fissò. — Potrebbero averla portata via con loro perché li aveva visti o era stata testimone degli omicidi. Ma portata dove e uccisa come? E in che modo la sua auto è ritornata in garage? Il telefono di Wexford emetteva il suo segnale. — Karen?
— Ho tolto la cassetta come ha detto lei, signore. Che cosa vuole che ne faccia? — Falla copiare, telefonami e fammi ascoltare la copia, poi portamela. A casa mia. Il nastro originale e la copia. C'erano messaggi? — Sono tre. Il primo è di una certa Pam e credo sia la sorella di Joanne. L'ho scritto. Dice di telefonarle domenica. Il secondo è di un uomo, si direbbe un rappresentante. Si presenta come Steve, niente cognome. Dice d'aver provato al negozio ma di non averla trovata, così ha pensato di telefonarle a casa. È per le decorazioni pasquali, dice, e di richiamarlo a casa sua. Il terzo è di Naomi Jones. — Sì? — Riferisco parola per parola, signore: "Jo, sono Naomi. Vorrei che rispondessi tu, qualche volta, non sempre quella macchina. Puoi venire per le otto e trenta, stasera, e non prima? Mamma detesta dover interrompere la cena. Scusa, sai, ma tu capisci. A più tardi." Colazione a casa, loro due soli. — Sta per andare come scrittore-ospite nel Selvaggio Ovest — disse Wexford. — Non dovresti rallegrartene, visto che la rende così infelice. — Davvero? Non ho visto segni di infelicità. È più probabile che le cadano le fette di salame dagli occhi e veda come si sta meglio senza di lui. Quello che Dora avrebbe potuto rispondere a quelle osservazioni andò perduto nello squillo del telefono. Era Karen. — Ecco, signore. Lei mi aveva chiesto di fargliela sentire. Come il mormorio di un fantasma, si udì la voce dell'uccisa. "...Mamma detesta dover interrompere la cena. Scusa, sai, ma tu capisci. A più tardi." Wexford rabbrividì. La cena di mamma era stata interrotta. Un'ora o due dopo che era stato lasciato quel messaggio, la sua vita era stata interrotta per sempre. Rivide la tovaglia rossa, la macchia che si allargava via via, la testa abbandonata sulla tavola, l'altra testa riversa oltre la spalliera della sedia. Rivide Harvey Copeland lungo disteso sui gradini e Daisy che strisciava oltre i cadaveri dei suoi cari, che si trascinava verso il telefono, per salvare la propria vita. — Non occorre che me la porti, grazie, Karen. C'è tempo. Alle tre e mezzo, si mise in viaggio per Myfleet e la casa dove Daisy Flory aveva trovato rifugio.
11 La prima cosa che gli venne in mente fu che lei era nello stesso atteggiamento della nonna morta. Daisy non lo aveva sentito entrare, non aveva sentito niente, ed era accasciata attraverso il tavolo con la testa abbandonata sopra e un braccio steso in fuori. Così Davina Flory era crollata attraverso un tavolo, quando l'arma aveva colpito il bersaglio. Daisy si abbandonava al suo dolore, il corpo scosso da silenziosi singulti. Wexford rimase a osservarla. Dalla madre di Nicholas Virson, gli era stato detto dove l'avrebbe trovata, ma la signora Virson non lo aveva accompagnato fino alla porta. Richiuso l'uscio dietro di sé, lui mosse alcuni passi in quello che Joyce Virson aveva definito "lo studiolo". Che nomi usava certa gente per parti della casa che altri avrebbero definito "la serra" o "il salotto"! Era una casa dal tetto di stoppie, una specie di rarità nel vicinato, come il nome stesso indicava. Una forma di snobismo poteva anche indurre i proprietari a definirla un cottage ma, in realtà, era una casa di notevoli dimensioni, dalla costruzione pittoresca nella sua irregolarità e dalle decorazioni a stucco. Le finestre erano grandi, di misura media o piccolissime, e diverse sembravano sbirciare da sotto la palpebra di un timpano proprio al di sotto del tetto. Tetto che era una formidabile costruzione di canne e stoppie, molto ornato e con un motivo a intreccio tutt'intorno alla base dei comignoli. Anche il tetto del garage era costituito da un analogo, spesso strato di canne e stoppie. La popolarità acquistata sui calendari aveva reso le case dal tetto di stoppie lievemente assurde, oggetto di un certo genere di ironia. Ma se si sgomberava la mente da immagini da scatole di cioccolatini, ecco che la casa poteva apparire per quello che era, un bell'esempio di antichità inglese, con il giardino aggraziato da fiori primaverili e i prati di un verde brillante grazie all'umidità del clima. All'interno, una certa trascuratezza, un'aria di aggiusta-e-tira-a-campare, lo aveva fatto dubitare dei successi londinesi che in un primo momento aveva attribuito a Nicholas Virson. Lo studiolo dove Daisy se ne stava abbandonata sul tavolo aveva un tappeto logoro e foderine di nylon elasticizzato sulle poltrone. Una pianta in vaso ammosciata, sul davanzale della finestra, aveva dei fiori artificiali conficcati nella terra tutt'intorno, per tenerla su. Daisy mandò un suono lieve, quasi un miagolio, come a fargli capire
d'essere consapevole della sua presenza. — Daisy — disse Wexford. La spalla che non era bendata si mosse un pochino. Per il resto, lei non diede segno d'avere udito. — Daisy, da brava, smetti di piangere. Lentamente, la ragazza sollevò la testa. Stavolta non vi furono né scuse né spiegazioni. La faccia era gonfia di pianto, come quella di una bambina. Lui prese posto sulla sedia di fronte. C'era un piccolo tavolo tra loro, di quelli che, in una stanza del genere, possono servire per scrivere, per giocare a carte, o per cenare in due. Lei lo fissò, disperata. — Preferisci che torni domani? Devo parlarti, ma non è detto che debba farlo subito. Il pianto l'aveva resa rauca. Con voce che lui stentava a riconoscere, gli rispose: — Ora o in un altro momento, è lo stesso. — Come va la spalla? — Oh, meglio. Non mi fa molto male, è solo un po' indolenzita. — Disse qualcosa, poi, che in bocca a una persona più adulta, o semplicemente a un'altra, sarebbe suonato ridicolo. — È il cuore che mi duole. Fu come se avesse udito le sue stesse parole, le avesse digerite e avesse compreso come suonavano, perché diede in una specie di risata innaturale. — Chissà come le sembro stupida! Ma è vero: perché dire quello che è vero suona così falso? — Forse — osservò gentilmente lui — perché non è la realtà. L'hai solo letto da qualche parte. Il cuore non fa mai male, a meno che non si tratti di una crisi cardiaca, e in quel caso credo che il dolore si avverta nel braccio. — Vorrei essere vecchia. Vorrei essere vecchia e saggia come lei. Non erano parole da prendersi troppo sul serio. — Rimarrai qui per qualche tempo, Daisy? — s'informò Wexford. — Non lo so. Penso di sì. Ormai sono qui, e un posto vale l'altro. Sono riuscita a farmi dimettere dall'ospedale. Stavo male, là. È brutto essere soli, ma è anche peggio stare con degli estranei. — Daisy accennò una stretta di spalle. — I Virson sono molto gentili. Da un lato vorrei essere sola, ma anche stare sola mi fa paura: capisce che cosa intendo dire? — Penso di sì. È la cosa migliore, per te, stare con degli amici, persone che ti lasciano in pace quando desideri startene per conto tuo. — Sì. — Te la senti di rispondere a qualche domanda sulla signora Garland? — Joanne?
Non era quello che si sarebbe aspettata, in ogni caso. Si asciugò gli occhi con le dita, lo guardò, battendo le palpebre. Lui aveva deciso di non parlarle dei loro timori. Le si poteva dire che Joanne Garland era partita per qualche ignota destinazione ma non che era una "persona scomparsa", non che la davano già per morta. Censurando le sue stesse parole, le spiegò che non si riusciva a trovarla. — Io non la conoscevo molto bene — disse Daisy. — A Davina non piaceva molto. Pensava che non fosse alla nostra altezza. Wexford, nel ripensare a cose che Brenda Harrison aveva detto, rimase sorpreso, e lo stupore doveva leggersi sulla sua faccia, perché Daisy aggiunse: — Oh, non per ragioni di snobismo. Davina non ne faceva mai una questione di classe. Voglio dire... — abbassò la voce — ...di simpatia non ne aveva molta... — accennò col pollice verso la porta — ...neppure per loro. Diceva di non avere tempo da perdere con gente ottusa o ordinaria. Le persone dovevano avere carattere, vitalità, qualcosa di individuale. Vede, persone qualsiasi non ne conosceva - be', a parte quelle che lavoravano per lei - e voleva che neanch'io le frequentassi. Diceva sempre di volere che fossi circondata da quanto c'era di meglio. Riguardo a Mamma aveva rinunciato, ma ugualmente non sopportava Joanne, non le era mai piaciuta. Ricordo una frase che usava, diceva che Joanne faceva affondare Mamma in un "pantano di banalità". — Ma tua madre non se ne curava? — Wexford aveva notato che Daisy non poteva parlare della madre o della nonna senza che le si alterasse la voce, senza scivolare nella disperazione. Il suo dolore si riaccendeva, quando parlava del passato. — Non le dava ascolto? — Deve capire che la Mamma, poverina, era proprio una di quelle persone comuni che a Davina non piacevano. Non lo so il perché, qualcosa a che fare con i geni, forse. — La voce di Daisy andava rafforzandosi, la raucedine vinta dall'interesse che lei poteva ancora prendere all'argomento. — Era proprio come se fosse figlia di gente qualsiasi, non di una donna come Davina. Ma la cosa strana è che anche Harvey era un po' così. Davina parlava in continuazione degli altri suoi mariti, il numero uno e il numero due, dicendo quanto erano divertenti e interessanti, ma chissà se poi era vero. Harvey non aveva mai molto da dire, era un uomo quanto mai tranquillo. No, più che tranquillo, passivo. Accomodante, diceva lui. Faceva quello che diceva Davina. — A Wexford sembrò di vederle ardere una scintilla nello sguardo. — O tentava di farlo. Era privo di luce, penso d'averlo sempre saputo, questo.
— E tua madre continuava a essere amica di Joanne Garland nonostante la disapprovazione di tua nonna? — Oh, Mamma aveva avuto la disapprovazione di Davina per tutta la vita e in un certo senso ne rideva. Sapeva che niente di quello che lei poteva fare sarebbe mai andato bene, così aveva finito per fare quello che voleva. Aveva perfino smesso di prendersela, quando Davina la prendeva in giro. Lavorare in quel negozio le piaceva. Lei probabilmente non lo sa - come potrebbe saperlo? - ma Mamma aveva tentato per anni e anni di fare la pittrice. Quando ero piccola, mi ricordo, lei dipingeva, e Davina entrava nello studio che avevano fatto fare apposta per lei e... be', la criticava. Ricordo una frase che disse, e che allora per me non significava niente. Disse: "Be', Naomi, non so a quale scuola appartieni, ma penso che potremmo chiamarti una cubista preraffaellita." "Davina voleva che fossi tutto quello che Mamma non era. Forse, voleva che fossi tutto quello che anche lei non era. Ma non è questo che vuole sapere, vero? Mamma amava quella galleria e guadagnare denaro tutto suo ed essere... be', lei diceva 'padrona di me stessa'." Per il momento, le lacrime di Daisy venivano tenute a bada. Parlare le faceva bene. C'era da dubitare che avesse ragione quando diceva che la cosa migliore, per lei, era d'essere lasciata in pace. — Da quanto tempo lavoravano insieme? — Mamma e Joanne? Da circa quattro anni. Ma erano amiche da sempre, da prim'ancora che io nascessi. Joanne aveva un negozio, ed è là che Mamma cominciò con lei, poi Joanne trovò quel locale per la galleria, quando costruirono il Centro. È andata via, ha detto? Ma non aveva in programma di partire. Ricordo che Mamma diceva - be', quel giorno, ecco come lo penso, come quel giorno - Mamma diceva che avrebbe voluto prendersi il venerdì di libertà per qualcosa ma Joanne non glielo permetteva perché aspettavano la visita di un ispettore dell'IVA e lei avrebbe dovuto mostrargli i registri, lei Joanne, intendo dire. La cosa prendeva ore e ore e Mamma si sarebbe dovuta occupare dei clienti. — La tua mamma le telefonò e le lasciò un messaggio sulla segreteria, dicendole di non arrivare prima delle otto e mezzo. — L'avrà fatto, sì — disse Daisy con indifferenza. — Lo faceva spesso, ma non serviva mai a molto. — Joanne non telefonò durante la serata? — Non telefonò nessuno. Joanne non avrebbe chiamato per confermare che sarebbe arrivata più tardi. Credo che non sarebbe riuscita ad arrivare
un po' più tardi nemmeno se avesse tentato. Quando uno è arcipuntuale non ci riesce, non può farci proprio niente. Lui la osservava. Le era salito un po' di colore alle guance. Era perspicace, aveva interesse verso le persone, le loro manie, il loro modo di comportarsi. Si domandava di che cosa parlassero, lei e quei Virson, quand'erano insieme ai pasti, durante le serate. Che cos'aveva in comune lei con loro? Quasi gli avesse letto nel pensiero, Daisy disse: — Joyce - la signora Virson - si sta occupando del funerale. Oggi sono venuti degli impresari funebri. Gliene parlerà, immagino. Voglio dire, possiamo fare un funerale, vero? — Sì, sì. Certo. — Non ne ero sicura. Pensavo che potesse essere diverso, per degli assassinati. Io non ci avevo pensato affatto finché non ne ha parlato Joyce. Così mi ha dato qualcosa di cui discorrere. Non è facile conversare quando c'è una sola cosa, nella tua vita, di cui parleresti, ed è proprio quella che devi evitare. — È una fortuna che tu possa parlarne con me. — Sì. — Lei tentò di sorridere. — Vede, non c'è rimasto più nessuno di famiglia. Harvey non aveva parenti, solo un fratello che è morto quattro anni fa. Davina era "lo scricciolo" ultimo di nove fratelli, e gli altri sono quasi tutti morti. Qualcuno deve pur organizzare le cose e io da sola non saprei come fare. Ma dirò come voglio che sia il servizio funebre e andrò al funerale. Questo lo farò. — Nessuno si aspetta che tu lo faccia. — Forse su questo si sbaglia — osservò pensosamente lei, e poi: — Ha trovato nessuno, ancora? Voglio dire, ha qualche indizio su chi... su chi è stato? — Volevo appunto domandarti se sei ben sicura della descrizione che hai dato dell'uomo che hai visto. L'indignazione le fece corrugare la fronte, accostare le scure sopracciglia. — Perché me lo domanda? Certo che sono sicura. Posso ripetergliela, se vuole. — No, non sarà necessario, Daisy. Ora ti lascio, ma temo che questa non sarà l'ultima volta che avrò bisogno di parlare con te. Lei si girò in là, torcendo il busto come una bambina che volti le spalle per timidezza. — Vorrei — disse — che ci fosse qualcuno, una sola persona, con cui potermi confidare. Sono così sola. Oh, se soltanto potessi aprire il mio cuore a qualcuno...
La tentazione di dire — Aprilo con me — venne subito scacciata. Non era il caso, e lui lo sapeva benissimo. Lei lo aveva definito vecchio e aveva lasciato intendere che era saggio. Forse con troppa leggerezza, commentò invece: — Stai parlando molto di cuori oggi, Daisy. — Perché lui — si girò per fissarlo — ha cercato di colpirmi al cuore. Al cuore aveva mirato, vero? — Non devi pensarci. Hai bisogno che qualcuno ti aiuti a non farlo. Non sta a me darti consigli, non sono competente in materia, ma non pensi d'avere bisogno di uno psicologo? Saresti contraria all'idea? — Non ne ho affatto bisogno! — Era una dichiarazione sprezzante, un diniego adamantino. Gli fece ricordare uno psicoterapeuta che aveva conosciuto nel corso di un'inchiesta, il quale gli aveva detto che l'affermare di non avere bisogno di guida è un modo sicuro di ritenere che il bisogno l'avresti. — Ho bisogno di qualcuno che... che mi ami, e non c'è nessuno. — Arrivederci. — Lui le porse la mano. C'era Virson che l'amava. Wexford di questo era certo, ma era un pensiero alquanto scoraggiante. Lei gliela strinse, e la stretta era forte, come quella di un uomo. Wexford vi sentì tutta la forza della disperazione di lei, quasi un grido d'aiuto. — A presto, per il momento. — Mi dispiace d'essere una noia tale — mormorò la ragazza. Joyce Virson non stava proprio gironzolando nel corridoio ma probabilmente fino a qualche istante prima lo aveva fatto. Emerse da quello che certo era un salotto, nel quale lui non venne invitato a entrare. Era alta e imponente, sulla sessantina o forse neppure. La sua caratteristica era di sembrare tutta su scala più grande rispetto alla maggior parte delle donne: più alta, più larga, con una faccia più grossa, naso e bocca più grandi, una massa di capelli grigi spessi e ricci, mani da uomo e piedi enormi. Il tutto accompagnato da una voce stridula, volutamente raffinata. — Volevo soltanto domandarle, chiedo scusa ma la questione è piuttosto delicata... Possiamo procedere per... be', per il funerale? — Certo. Per questo non c'è nessuna difficoltà. — Ah, bene. Sono cose che vanno affrontate, vero? Nel bel mezzo della vita ci ritroviamo nella morte. La povera Daisy vorrebbe far tutto lei ma non può far niente, poverina, né qualcuno si aspetta che lo faccia. Mi sono messa in contatto con quella governante di Tancred House, la Harrison, a questo proposito. M'è sembrato corretto includerla, non le pare? Pensavo a mercoledì prossimo, o a giovedì. Wexford disse che gli sembrava la cosa più sensata. Si domandava quale
sarebbe stata la situazione di Daisy. Avrebbe avuto bisogno di tutela fino ai diciott'anni? Quando li avrebbe compiuti, i diciott'anni? La signora Virson gli chiuse la porta alle spalle piuttosto bruscamente, come si conveniva a chi, nella sua stima, e in tempi migliori, sarebbe entrato e uscito dall'ingresso dei fornitori. Mentre lui si dirigeva alla sua auto, una MG vecchia ma sempre di classe imboccò rapidamente il cancello aperto e Nicholas Virson ne scese. Disse un "Buonasera" il che indusse Wexford a guardare allarmato l'orologio, ma erano appena le sei meno venti. Nicholas entrò in casa, aprendo con la sua chiave, e senza più dare neppure un'occhiata dietro di sé. Augustine Casey venne giù in smoking. Semmai avesse avuto qualche timore sul modo in cui l'amico di Sheila si sarebbe vestito per cenare al Cheriton Forest, Wexford avrebbe pensato a jeans e camiciola. Non che gli sarebbe importato molto. Sarebbero stati affari di Casey, doversi mettere la cravatta di rigore offerta dall'hotel o rifiutarla, con conseguente ritorno a casa di tutti e quattro. A Wexford non sarebbe importata né una soluzione né l'altra. Ma lo smoking sembrava invitare un commento, non fosse che un confronto con il proprio abito grigio, non molto elegante. Ma non gli venne in mente niente da dire, al di là dell'offrire a Casey un drink. Sheila apparve in minigonna blu pavone e top di lustrini blu pavone e verde smeraldo. A Wexford non piacque il modo in cui Casey la occhieggiava da capo a piedi mentre lei gli diceva quanto gli donasse lo smoking. La cosa inquietante fu che tutto filò a meraviglia per metà della serata: la prima metà. Casey parlava. Wexford stava imparando che le cose di solito andavano bene finché Casey parlava, ossia, mentre si dilungava su un argomento scelto da lui, soffermandosi per consentire domande intelligenti e appropriate da parte del suo uditorio. Sheila, notò Wexford, era un'esperta di quelle domande, sembrava conoscere i punti precisi in cui interporle. Aveva tentato di informarli su una nuova parte che le era stata offerta, un'occasione meravigliosa per lei, quella di protagonista in Miss Julie di Strindberg, ma Casey non aveva avuto la pazienza di ascoltare. Nel salone d'ingresso, si mise a parlare di post-modernismo. Sheila, umilmente rassegnata a non riscuotere alcun interesse verso la sua carriera, disse: — Per favore, Gus, potresti darci qualche esempio? — e Casey ne diede un gran numero. Passarono poi in una delle numerose sale da pranzo che ora l'hotel vantava. Era piena, e non uno dei signori seduti ai tavoli
portava lo smoking. Casey, che aveva già bevuto due brandy abbondanti, ne ordinò un altro e immediatamente andò alla toilette. Sheila era sempre sembrata al padre una giovane donna intelligente. Lui odiava dover cambiare opinione, ma cos'altro poteva fare nel sentirle dire certe cose? — Gus è così brillante, e io mi domando che cosa veda mai in una come me. Mi sento davvero inferiore, quando sono con lui. — Che base maledettamente orribile per un rapporto — proruppe lui, al che Dora gli diede un calcio sotto la tavola e Sheila rimase malissimo. Casey tornò ridendo, cosa che Wexford raramente gli aveva visto fare. Un cliente lo aveva preso per un cameriere, gli aveva chiesto due Martini dry, e Casey aveva risposto con accento italiano che sarebbero arrivati subito, signore. Questo fece ridere Sheila in modo eccessivo. Casey bevve il suo brandy, poi fece il gran gesto di ordinare un vino speciale. Si mostrava quanto mai gioviale e cominciò a parlare di Davina Flory. Tutte le chiacchiere sullo "starsene abbottonato" e sui "ridicoli piedipiatti" erano state evidentemente dimenticate. Casey aveva incontrato Davina in diverse occasioni, la prima volta a un party per il lancio del libro di un altro, poi quando lei era venuta negli uffici della sua casa editrice e si erano incontrati nell'atrio, e qui era subentrata una disquisizione sulla radice latina della parola. L'interruzione di Wexford era stata accolta come tempestiva. — Non sapeva che venissi pubblicato dalla St Giles Press? E in effetti, lei ha perfettamente ragione. Ma siamo tutti sotto lo stesso ombrello, ormai; o sotto lo stesso parasole, sarebbe forse la parola più appropriata. Carlyon, St Giles Press, Sheridan e Quick, siamo tutti della Carlyon Quick, ora. Wexford pensò al cognato di Burden, Amyas Ireland, redattore della Carlyon-Brent. Era ancora là, per quanto ne sapeva lui. La fusione non lo aveva estromesso. Poteva valere la pena di telefonare ad Amyas per avere informazioni su Davina Flory? Le reminiscenze personali di Casey, infatti, non assommavano a molto. Il suo terzo incontro con Davina era avvenuto a un party offerto dalla Carlyon Quick nella nuova sede di Battersea: "la giungla", come la chiamava Casey. C'era il marito con lei, un vecchio "papavero" un po' troppo manierato e compito che un tempo era stato membro del collegio elettorale in cui abitavano i genitori di Casey. Un amico di Casey era stato suo allievo una quindicina d'anni prima alla LSE. Casey lo chiamava "ammaliatore di car-
tapesta". Parte di quella malia era stata esercitata sulle orde di segretarie e di ragazze della pubblicità sempre presenti a quelle feste, mentre la povera Davina doveva parlare con noiosi redattori-capo e dirigenti del marketing. Non che avesse dato consigli non richiesti, ma aveva buttato là le sue opinioni con quella voce Oxford anni Venti, annoiando tutti con la politica est-europea e con particolari su un certo viaggio alla Mecca che lei e uno dei suoi mariti avevano fatto negli anni Cinquanta. Wexford sorrideva internamente a quell'esempio di proiezione. A Casey non era piaciuto nessuno dei libri della Flory, a eccezione, forse, di uno dei due romanzi, The Hosts of Midian (quello che, secondo Win Carver, aveva riscosso minor successo di pubblico e di critica). Personalmente, la definiva una Rebecca West per lettori di bocca buona. Che cosa mai le faceva credere di poter scrivere romanzi? Era troppo autoritaria e didattica. Era priva di fantasia. Lui, Casey, era pronto a scommettere che fosse la sola, a quel party, a non avere letto il suo romanzo in lizza per il premio, o in ogni caso l'unica che non si sarebbe presa nemmeno il disturbo di fingere d'averlo letto. Casey rise come chi si sottovaluta, dopo quell'ultima osservazione. Assaggiò il vino, e fu da quel momento che le cose cominciarono ad andar male. Lo assaggiò, trasalì e usò il suo secondo bicchiere come sputacchiera in cui liberarsi dell'ignobile sorso. Poi, porse entrambi i bicchieri al cameriere. — Questo vinaccio è disgustoso. Porti via e veda di trovare un'altra bottiglia. Parlandone in seguito con Dora, Wexford disse di trovare strano che non fosse accaduto niente del genere il martedì precedente, al Primavera. Casey non era l'anfitrione, in quel caso, gli fece osservare Dora. E, in fin dei conti, se assaggiavi del vino ed era davvero imbevibile, dove mai potevi sputarlo? Sulla tovaglia? Ma in realtà cercava solo delle scuse per Casey, sebbene stavolta le riuscisse difficilissimo. Per esempio, niente avrebbe trovato da dire in difesa di Casey quando questi, dopo che gli antipasti erano stati rimandati indietro, davanti a tre camerieri e al direttore del ristorante raggruppati intorno al tavolo, aveva accusato il capo-cameriere di non avere la più pallida idea di che cosa si intendesse per nouvelle cuisine. Wexford e Dora erano semplici invitati, ma il ristorante era nelle loro vicinanze, cosa di cui in un certo senso si sentivano responsabili. Inoltre Wexford sentiva che Casey non era sincero in quello che stava facendo, lo scopo era unicamente di fare effetto. Il pasto procedette in un silenzio cari-
co d'imbarazzo, silenzio che Casey ruppe, dopo avere spinto da parte la portata principale, dicendo a voce ben forte che lui, già, non si sarebbe lasciato deprimere da quei bastardi. Ritornò all'argomento Davina Flory e cominciò a fare commenti scurrili sulla storia sessuale di lei. Tra questi, c'era l'insinuazione che Davina fosse stata ancora vergine otto anni dopo il suo primo matrimonio. Desmond, asserì Casey con voce rauca e forte, non era mai stato in grado "di rizzarlo", o non con lei, e chi poteva meravigliarsene? Naomi, naturalmente, non era figlia sua. Casey aggiunse di non voler azzardare ipotesi su chi potesse essere il padre, e subito ne azzardò parecchie. Aveva scorto un signore anziano seduto a un tavolo distante, un signore che assomigliava in modo straordinario, pur non essendolo, a un noto scienziato e docente di un college di Oxford. Casey si mise a speculare sulla possibilità che il doppelganger di quell'uomo fosse stato il primo amante di Davina. Wexford si alzò e disse che lui se ne andava. Pregò Dora di venir via con lui e disse agli altri di fare pure come volevano. "Per favore, Papà" disse Sheila, e Casey domandò che Cristo stesse succedendo. Sheila riuscì a convincere Wexford a restare, cosa che lui fece a malincuore, e di cui ebbe modo di pentirsi quando venne il momento di pagare il conto. Casey rifiutava di pagarlo. Seguì una scena spaventosa. Casey aveva consumato un bel po' di brandy e, pur non essendo ubriaco, era diventato intrattabile. Gridava e insultava il personale del ristorante. Wexford aveva preso la decisione che, a costo di qualunque cosa, quand'anche fosse stata chiamata la polizia, lui quel conto non lo avrebbe pagato. Alla fine, lo pagò Sheila. Imperturbabile, Wexford non mosse un dito e la lasciò fare. A Dora, in seguito, disse che sicuramente c'erano stati nella sua vita momenti in cui si era sentito più infelice, ma che non riusciva a ricordarli. Quella notte, non chiuse occhio. Il pannello di vetro mancante nella finestra della sala da pranzo era stato sostituito con un foglio di compensato. Se non altro, serviva allo scopo di tener fuori il freddo. — Mi sono preso l'incombenza di ordinare un vetro uguale a quello — disse in tono lugubre Ken Harrison a Burden. — Non so quanto ci vorrà, prima che vengano a metterlo. Mesi, probabilmente. Questi criminali, i maledetti che fanno cose del genere, non pensano alle grane che procurano alla povera gente come lei e me.
Burden non ci teneva molto ad essere enumerato tra la "povera gente", lo faceva sentire un barbone (come osservò poi con Wexford), ma non disse niente. Stavano andando lentamente verso i giardini sul retro, verso il pineto. Era una bella mattinata di sole, fredda e frizzante, l'erba e le siepi ancora inargentate di brina e nei boschi, tra gli alberi scuri e spogli, il prugnolo cominciava già a fiorire, il bianco sparpagliato sull'intrico di rametti scuri simile a una spruzzata di neve. Harrison aveva potato le rose durante il weekend, accorciando le piante quasi radicalmente. — Potrebb'essere finita, qui, per quanto ne so — disse — ma bisogna continuare come sempre, vero? Comportarsi come se tutto fosse normale, perché così è la vita. — E per quei Griffin, signor Harrison? Che cosa può dirmi di loro? — Una cosa le dirò. Il figlio, Andy, si servì di un giovane cedro, qui, per farne un albero di Natale. Un paio d'anni fa, questo. Lo sorpresi mentre lo stava sradicando. Nessuno ne sentirà la mancanza, mi disse. Ma io mi feci un dovere di dirlo a Harvey: al signor Copeland, voglio dire. — Fu quella, allora, la ragione della fine dei vostri rapporti con i Griffin? Harrison gli lanciò un'occhiata di sotto in su, truculenta e sospettosa. — Non seppero mai che li avevo denunciati. Harvey, ben deciso a non coinvolgere me, disse d'averlo scoperto lui stesso. Da mezzo agli alberi passarono nel pineto, dove il sole penetrava soltanto in aste e strisce di luce tra i rami bassi delle conifere. Faceva freddo. Sotto le suole il terreno era secco e piuttosto scivoloso, un tappeto d'aghi di pino. Burden raccattò da terra una pigna di forma strana, levigata e lustra come se fosse stata intagliata nel legno da mano esperta. — Sa se John Gabbitas è a casa, o se è nei boschi, da qualche parte? — Verso le otto ci va, ma ora è laggiù, a due o trecento metri da qui, che abbatte un larice morto. Non sente la sega? Il rumore lamentoso, che arrivava proprio in quel momento, Burden lo udiva per la prima volta. Dagli alberi più avanti veniva l'aspro verso di una ghiandaia. — Allora per che cosa avete litigato voi e i Griffin, signor Harrison? — Cose private — rispose scontroso Harrison. — Una faccenda privata tra Brenda e me. Lei non si darebbe pace se si sapesse, perciò non dirò altro. — In un caso di omicidio — spiegò Burden con la bonarietà ingannevo-
le che aveva imparato da Wexford — come ho già detto a sua moglie, non esistono faccende private per chi è coinvolto nelle indagini. — Noi non siamo coinvolti in nessuna indagine! — Temo di sì, invece. Vorrei che riflettesse su questa faccenda, signor Harrison, e ci dicesse se preferisce parlarcene lei, o se vuol farlo sua moglie, o tutti e due insieme. Se preferite dirlo a me, o al sergente Vine, e se volete farlo qui o al posto di polizia, perché è chiaro che ce lo direte, su questo non c'è possibilità di scelta. Ci vediamo dopo. Si allontanò lungo il sentiero attraverso il pineto, lasciando Harrison fermo là a fissarlo. Harrison gli gridò dietro qualcosa ma lui non capì e non si voltò. Faceva rotolare la pigna tra le mani, traendone una sensazione piacevole. Nello scorgere la Land Rover poco più avanti e Gabbitas che azionava la motosega, si mise la pigna in tasca. John Gabbitas indossava gli indumenti protettivi, calzoni a prova di lama, guanti e scarponi, maschera e occhiali, che i boscaioli di buon senso mettevano prima di usare una motosega. Burden ricordava che, dopo l'uragano del 1987, le corsie degli ospedali locali si erano riempite di taglialegna dilettanti che si erano auto-amputati un piede o una mano. La descrizione che Daisy aveva dato dell'assassino, ora registrata su nastro, gli tornò alla mente. Della maschera aveva detto "come quella di un boscaiolo". Gabbitas, nel vedere Burden, spense la sega e gli andò incontro, spingendo in su la maschera e gli occhiali. — Siamo ancora interessati a chiunque lei possa avere visto mentre rincasava, martedì scorso. — L'ho già detto, non ho visto nessuno. Burden si mise a sedere su un tronco, batté sul tratto di corteccia liscia e asciutta accanto a lui. Gabbitas vi prese posto, suo malgrado. Ascoltò, con espressione lievemente indignata, mentre Burden gli parlava della visita di Joanne Garland. — Non l'ho vista, non la conosco. Ripeto, non ho incrociato né visto nessuna macchina. Perché non lo chiedete a lei? — Non riusciamo a trovarla. È scomparsa. Anzi — aggiunse, sebbene fosse insolito per lui annunciare mosse a possibili sospetti — oggi cominciamo a perquisire i boschi. — Fissò duramente Gabbitas. — Per cercare il suo cadavere. — Io sono tornato a casa verso le otto e venti — ripeté con ostinazione Gabbitas. — Non posso provarlo perché ero solo, e non ho visto nessuno. Sono venuto dalla strada di Pomfret Monachorum e non ho né sorpassato
né incrociato altre macchine. Non c'erano auto fuori di Tancred House e nemmeno di fianco o dalla parte delle cucine. Questo so, e sto dicendo la verità. Mi riesce difficile, pensava Burden, credere che rincasando a quell'ora tu non abbia visto entrambe le auto. Che tu non ne abbia vista neanche una, lo ritengo addirittura impossibile. È chiaro che menti, e se menti devi avere un motivo molto grave. Però l'auto di Joanne Garland era in garage. Che fosse venuta con qualche altro veicolo, e in tal caso quale? Possibile che sia venuta in taxi? — Lei cosa faceva, prima di venire qui? Gabbitas parve meravigliarsi della domanda. — Perché vuole saperlo? — È il genere di domanda che si fa normalmente, quando si indaga su un omicidio — spiegò pazientemente Burden. — Per esempio, come mai l'hanno assunto per questo impiego? Gabbitas, dopo avere riflettuto per un lungo istante in silenzio, ritornò addirittura alla prima domanda di Burden. — Sono diplomato in selvicoltura, io. Le ho detto che tengo anche dei corsi. L'uragano, come lo chiamano, la tempesta del millenovecentottantasette, per me fu una vera fortuna, perché in seguito a quella ci fu infatti più lavoro di quanto potessero sbrigarne tutti i boscaioli della nazione. Guadagnai perfino un po' di soldi, per cambiare. Lavoravo dalle parti di Midhurst. — Guardò in su con un'occhiata che a Burden sembrò un po' sorniona. — Anzi, proprio nel posto dove mi trovavo la sera in cui avvenne il fattaccio. — Dove stava occupandosi di ceduazione e nessuno l'ha vista. Gabbitas ebbe uno scatto d'impazienza. Gesticolava parecchio, nell'esprimere i suoi stati d'animo. — Gliel'ho detto, il mio è un lavoro solitario. Non c'è gente intorno che ti tenga d'occhio di continuo. L'inverno scorso, non questo, quello precedente, gran parte del lavoro era ormai stata fatta, e mi è capitato di leggere quell'offerta d'impiego. — Dove, su una rivista? Sul giornale locale? — Sul Times — disse Gabbitas, con un sorrisetto. — Davina Flory mi ha assunto personalmente. Mi ha dato anche una copia del suo libro sugli alberi, ma non posso dire d'averlo proprio letto. — Mosse di nuovo le mani. — È stata la casa, ad attirarmi. Lo precisò immediatamente, quasi per evitare, pensò Burden, di sentirsi domandare se ad attirarlo fosse stata la ragazza. — E ora, se vuole scusarmi, vorrei finire di abbattere quell'albero prima
che cada e faccia un sacco di inutile danno. Burden si accinse a ritornare attraverso i boschi e il pineto, stavolta passando dal giardino e dirigendosi verso l'ampio spiazzo a ghiaia al di là del quale c'erano le stalle. Oltre la sua auto, vi erano parcheggiate quella di Wexford, i due furgoni della polizia e la Vauxhall di Vine. Entrò. Trovò Wexford in un atteggiamento ben poco caratteristico, ossia intento a fissare lo schermo di un computer. L'ispettore capo guardò in su e Burden rimase colpito nel guardarlo in volto, un volto grigiastro, con rughe di vecchiaia che prima non c'erano e un'espressione di infelicità nello sguardo. Fu come se Wexford, in quel breve istante, non avesse avuto il controllo della sua faccia, ma ecco che già faceva qualche intimo assestamento e che la sua espressione ritornava normale, o quasi. Alla tastiera del computer sedeva Hinde, che aveva chiamato sul video un lungo e, per Burden, incomprensibile elenco. Wexford, proprio come Daisy Flory, avrebbe tanto voluto potersi confidare liberamente con qualcuno. Dora, in quella faccenda, non lo comprendeva. Gli sarebbe piaciuto poter parlare con qualcuno del giorno innanzi, la Domenica Nera, e della dichiarazione di Sheila che lui, suo padre, aveva dei pregiudizi contro Augustine Casey ed era ben deciso a odiarlo. E che lei era così innamorata di Casey da poter affermare, per quanto potesse sembrare strano, d'avere scoperto per la prima volta che cosa significasse realmente. E infine che, se avesse dovuto scegliere - e quella era stata la cosa peggiore - sarebbe "rimasta fedele" (strana espressione biblica, aveva usato) a Casey e avrebbe voltato le spalle ai suoi. Tutto questo, espresso a quattr'occhi nel corso di una mesta passeggiata, mentre Casey era a letto a rimettersi dal brandy, lo aveva ferito al cuore, proprio come avrebbe detto Daisy. Se un conforto gli restava, era il sapere che a Sheila era stata offerta una parte che non poteva rifiutare e che Casey sarebbe partito per il Nevada. Tanta infelicità gli si leggeva in faccia, lo sapeva, e fece del suo meglio per cancellarla. Burden si accorse dello sforzo che gli costava. — Hanno cominciato a cercare nei boschi, Reg. Wexford si allontanò di qualche passo. — È un'area vastissima. Non possiamo assicurarci l'aiuto di un po' di gente del posto? — S'interessano solo quando si tratta di bambini scomparsi. Per i cadaveri degli adulti non muoverebbero un dito, né per amore né per denaro. — E noi — disse Wexford — non offriamo né una cosa né l'altra.
12 — È via — disse Margaret Griffin. — Via dove? — È un uomo, no? Non gli domando dove va e a che ora torna. D'accordo, vive con noi, ma è un uomo, ormai, può fare quello che gli pare e piace. A metà mattinata, i Griffin stavano bevendo caffè e guardando la televisione. A Burden e a Barry Vine, il caffè non venne offerto. Barry disse a Burden, in seguito, che Terry e Margaret Griffin sembravano molto più vecchi di quello che erano, già anziani, già sprofondati in una routine, apparente se non esplicita, fatta di televisione, spesa, pasti piccoli e regolari, solidarietà nella solitudine e andare a letto con i polli. Rispondevano alle domande di Burden con una truculenza rassegnata che minacciava, da un momento all'altro, di cedere alla paranoia. — Va via spesso, Andy? Lei era una donna piccola e grassa, con occhi azzurri e sporgenti. — Non c'è niente che lo trattenga qui, no? Sì, dico, non riuscirà certo a trovare lavoro, qui. Ora poi che la Myringham Electrics ne ha lasciati a casa altri duecento, la settimana scorsa. — È un elettricista? — Andy sa fare di tutto — interloquì Terry Griffin — se gliene danno la possibilità. Non è uno dei soliti operai generici. È stato uomo di fiducia di un importantissimo uomo d'affari, il nostro Andy. — Un signore americano, che ne aveva la massima stima. Viaggiava avanti e indietro all'estero, e lasciava tutto nelle mani di Andy. — Andy aveva la direzione della casa, aveva le chiavi, il permesso di usare l'auto, tutto. Prendendo quelle dichiarazioni con il beneficio dell'inventario, Burden domandò: — Insomma, va via per cercare lavoro? — Gliel'ho detto, non lo so e non faccio domande. Intervenne Barry: — Penso lei debba sapere, signor Griffin, che sebbene ci abbiate detto che Andy era fuori, alle sei di martedì scorso, a sentire gli amici con i quali diceva d'essere stato, quella sera nessuno lo ha visto. Non ha fatto il giro dei bar con loro e non si è incontrato con loro nel ristorante cinese. — Con quali amici diceva d'essere stato? A noi non ha mai detto con chi andava. Sarà andato in qualche altro bar.
— Resta da vedere, signor Griffin — disse Burden. — Andy deve conoscere molto bene la tenuta Tancred. Ci ha passato l'infanzia, vero? — Io non so niente di "tenute" — dichiarò la signora Griffin. — Tenuta è un posto con un sacco di case, credo. Là di case ce ne sono solo due, più la grande villa dove vivono loro. Vivevano, dovrei dire. Proprietà fondiaria, pensò Burden. Come sarebbe andata se lui invece si fosse espresso così? L'esperienza fatta nella polizia gli aveva insegnato a non dare mai spiegazioni quando poteva evitarlo. — I boschi, i terreni, Andy li conosce bene? — Certo che li conosce. Era un bambino di sette anni la prima volta che ci mise piede, e quella ragazza, la nipote, ne aveva tre. Ora, penserà che sarebbe stato normale che giocassero insieme, no? A Andy sarebbe piaciuto, diceva sempre: "Perché non posso avere una sorellina, Mamma?" e io dovevo dirgli: "Dio non intende mandarci altri bambini, caro." Ma lasciarla giocare con lui? Oh, no, lui non ne era degno, non era adatto per Madamigella Preziosa. C'erano solo due bambini, là, e non avevano il permesso di giocare insieme. — E pensare che lui si faceva chiamare Onorevole del Partito Laburista — disse Terry Griffin. Diede in una risata roca. — Sfido che lo hanno estromesso, alle ultime elezioni. — Insomma, Andy non era mai entrato in quella casa? — Be', non direi. — Margaret Griffin si era fatta improvvisamente scorbutica. — Questo non lo direi proprio. Perché dice così? Ci veniva con me, qualche volta, quando andavo a dare una mano. Avevano una governante che viveva da sola nella casa accanto, prima che venissero quegli Harrison, ma non poteva fare tutto da sola, specie quando avevano gente. Andy veniva con me, in quei casi, girava tutta la casa con me, checché ne dicessero loro. Badi, credo non ci sia venuto più da quando aveva... mah, dieci anni, forse. Era il primo accenno che faceva a Ken e Brenda Harrison, la prima indicazione che uno dei due Griffin avesse dato dell'esistenza dei loro vicini di un tempo. — Signora Griffin — interloquì a questo punto Barry — per quanto tempo suo figlio resta assente, di solito? — A volte un paio di giorni, a volte una settimana. — So che, all'epoca in cui siete venuti via, non vi rivolgevate più la parola con gli Harrison... Burden venne interrotto da una risata di trionfo di Margaret Griffin. Più
che altro, era come il commento senza parole di un disturbatore a una riunione. O come la sghignazzata di un bambino all'indirizzo di un compagno di giochi che ha sbagliato. Un reiterato: — Haa, haa, haa! — Lo sapevo! Tu lo dicevi, vero, Terry? che ci si sarebbero attaccati subito. Ora verrà fuori, dicevi, in barba a tutte le promesse dell'Onorevole Harvey Copeland. Se ne serviranno, dicevi, per insozzare il povero Andy dopo tutto questo tempo. Nella sua saggezza, Burden non tradì né col movimento di un muscolo né col battito di una palpebra il fatto di non avere la più pallida idea di che cosa la donna intendesse dire. Mantenne un'espressione onniscente e piuttosto severa, mentre i due glielo spiegavano. La valutazione dei gioielli di Davina Flory andò a unirsi al resto dei dati inseriti da Gerry Hinde nel computer. Barry Vine ne discusse con Wexford. — Per molti delinquenti, signore, vale la pena far fuori tre persone, per trentamila sterline. — Sapendo che ne ricaverebbero forse la metà nel genere di mercato che usano. Be', sì, forse. Altri moventi non ne abbiamo. — La vendetta è un movente. Qualche offesa reale o immaginaria arrecata da Davina o da Harvey Copeland. Daisy Flory aveva un movente. Per quanto ne sappiamo, è l'erede, ed è la sola. È l'unica che sia rimasta, ormai. So bene che è un'idea un po' campata in aria, signore, ma se parliamo di moventi... — Avrebbe sparato all'intera famiglia e si sarebbe ferita da sé? O l'avrebbe fatto un complice? Forse il suo innamorato Andy Griffin? — Certo, certo, signore. Lo so. — Non credo che la proprietà le stia molto a cuore, Barry. Non si è ancora resa conto di che specie di patrimonio è entrata in possesso. Vine si girò dal suo schermo. — Ho parlato con Brenda Harrison, signore. Dice che lei e i Griffin litigarono perché lei non voleva che la Griffin stendesse il bucato in giardino, la domenica. — E tu ci credi? — Dimostra che Brenda ha più fantasia di quanto la credessi capace. Wexford rise, poi tornò immediatamente serio. — Di una cosa possiamo essere certi, Barry. Questo crimine è stato commesso da qualcuno che non conosceva affatto questo posto e queste persone, e da qualcun altro che invece conosceva tutto e tutti benissimo. — Uno al corrente e l'altro che prendeva istruzioni?
— Io stesso non avrei saputo esprimermi meglio — disse Wexford. Era contento del sergente Burden. Quando qualcuno ha fatto una fine eroica, o in qualunque caso una triste fine, non bisognerebbe ammettere neppure con se stessi che il sostituirlo ha comportato un miglioramento, o che dalla tragedia tutto sommato è nato un bene. Ma la sensazione c'era, o per lo meno l'innegabile sollievo che il successore di Martin fosse così promettente. Barry Vine era un uomo forte e muscoloso di media statura. Se avesse avuto un portamento meno eretto, lo si sarebbe potuto definire basso. Non proprio in segreto ma certamente in privato, praticava il sollevamento pesi. Aveva capelli rossicci, corti e folti, di quelli che tendono a stempiarsi ma mai a lasciarti calvo, e un paio di baffetti che tendevano al castano, non al rosso. Ci sono persone che hanno sempre lo stesso aspetto e sono immediatamente riconoscibili. Possiamo evocare le loro facce a memoria e proiettarle sul nostro occhio interno. Barry non era così. C'era qualcosa di proteiforme, in lui, così che sotto certe luci o da certe angolazioni lo avresti definito un tipo dai lineamenti marcati e dalla mascella dura, mentre in altri momenti naso e bocca avevano quasi un che di femmineo. Gli occhi, però, non variavano mai. Erano piuttosto piccoli, di un azzurro molto intenso e assolutamente limpido, e fissavano allo stesso modo amici e persone sospette, sempre con lo stesso sguardo fermo, immutabile. Wexford, che la moglie definiva un liberale, cercava d'essere tollerante e paziente, e spesso riusciva a essere (o così s'illudeva) puramente irascibile. A Burden, prima del suo secondo matrimonio, non era mai passato per la mente - o non aveva ascoltato quando gli era stato fatto notare - che potesse esservi qualche saggezza o virtù nell'avere opinioni diverse da quelle di un conservatore inflessibile. Non avrebbe trovato niente da eccepire nel concetto che la destra aveva delle forze di polizia, con elmetto e manganello. Barry Vine poco si curava della politica. Era essenzialmente un inglese, più inglese in un certo strano senso di entrambi i suoi superiori. Votava per il partito che nel passato recente aveva fatto di più per lui e per la sua immediata cerchia. Poco gli importava che si autodefinissero destra o sinistra. Nel suo contesto, "di più per lui" voleva dire di più nell'area finanziaria, facendogli risparmiare denaro, riducendo i prezzi e le tasse, e rendendogli la vita più comoda.
Mentre Burden era convinto che il mondo sarebbe stato un posto migliore se altri si fossero comportati come lui, e Wexford che le cose sarebbero migliorate se la gente avesse imparato a pensare, Vine non faceva incursioni nemmeno in una metafisica così elementare. Per lui esistevano una vasta (ma non abbastanza) popolazione di persone per bene e osservanti delle leggi, che lavoravano, possedevano case e allevavano figli in svariati gradi di prosperità, e uno sciame d'altri individui, da lui riconoscibili a colpo d'occhio anche se, per il momento, non avevano commesso reati. La cosa interessante era che questo non riguardava la classe, come sarebbe forse stato nel caso di Burden. Vine asseriva di poter fiutare un potenziale "cattivo" anche se quella persona aveva un titolo, una Porsche e diversi milioni in banca, un accento da docente di storia dell'arte a Cambridge o l'intonazione dell'uomo che fa lavori di sterro. Vine non era uno snob e non era mai prevenuto nei confronti dello sterratore. Il suo fiuto per i malvagi si basava su indici del tutto diversi: forse era una sorta di intuito, sebbene Vine lo definisse buon senso. Di conseguenza, quando si ritrovò nel pub di Myringham chiamato lo Slug-and-Lettuce, poiché aveva appurato che lì gli amici di Andy Griffin si riunivano quasi tutte le sere, le sue antenne entrarono immediatamente in funzione per valutare il potenziale criminale dei quattro uomini ai quali aveva offerto una birra. Due di essi erano disoccupati. Questo non impediva loro di frequentare regolarmente quel locale, cosa che Wexford avrebbe scusato in base al fatto che gli esseri umani hanno bisogno di circhi, oltre che di pane, che Burden avrebbe definito incoscienza, ma che Vine catalogava come caratteristico di chi è alla ricerca di modi rimunerativi di infrangere la legge. Degli altri due, uno era un elettricista, che si lagnava di un calo nel lavoro provocato dalla recessione, e il quarto era fattorino di una società di spedizioni e consegne il quale si autodefiniva un "corriere viaggiante". Una frase particolarmente offensiva per le orecchie di Vine era quella che spesso si sente pronunciare in tribunale da difensori o da testimoni: "Sarò forse stato." Che cosa significava? Niente. Meno di niente. Chiunque, in fin dei conti, poteva forse essere stato ovunque o avere forse fatto qualsiasi cosa. Così, quando il disoccupato Tony Smith disse che Andy Griffin "era forse venuto" lì allo Slug-and-Lettuce la sera dell'11 marzo, Vine lo ignorò. Gli altri gli avevano già detto, giorni prima, di non averlo visto quella sera. Kevin Lewis, Roy Walker e Leslie Sedar erano categorici nel dire che non
era stato con loro, né li aveva raggiunti al Panda Cottage. Meno sicuri si mostravano su dove si trovasse al momento. Tony Smith disse che Andy "era forse capitato lì allo Slug" la domenica sera. Gli altri non potevano pronunciarsi. Quella era una sera in cui tralasciavano di andare al pub. — Andy va su al nord — suggerì Leslie Sedar. — È quello che vi dice, o lo sapete con certezza? Era una distinzione difficile, per ciascuno di loro. Tony Smith insisteva nel dire di saperlo. — Va su al nord con il camion. Ci va regolarmente, no? — Non ha più un impiego — precisò Vine. — È senza lavoro da un anno, ormai. — Quando faceva il camionista, ci andava regolarmente. — E ora? Diceva di andare al nord, e quindi ci andava. Loro gli credevano. La verità era che non si interessavano molto a dove andasse Andy. Perché se ne sarebbero dovuti interessare? Vine domandò a Kevin Lewis, che gli sembrava il più sensato e probabilmente il più onesto, dove pensava che si trovasse Andy, al momento. — È partito con la moto — disse Lewis. — Per andar dove? A Manchester? A Liverpool? Sì e no sapevano dove si trovassero, quei posti. A Kevin Lewis, Liverpool faceva tornare in mente ricordi del "suo vecchio", quando parlava di qualcosa chiamato Mersey Sound, molto in voga nella sua gioventù. — Va su al nord, allora. Supponiamo che non ci sia andato: ronza intorno a qualche donna, quand'è qui? Roy Walker scosse la testa. — Andy? No, lui no. Andy sarebbe qui allo Slug. Vine lo capiva quand'era sconfitto. — Il denaro che ha, da dove viene? — Ha il sussidio, credo — rispose Lewis. — Ed è tutto? Tutto lì? — Meglio usare frasi semplici. Inutile far domande su "fonti supplementari di reddito". — Non gli arriva denaro da nessun'altra parte? Fu Tony Smith a rispondere. — Potrebbe anche arrivargli. Non parlavano più. Non avevano altro da suggerire. La loro immaginazione era stata sottoposta a uno sforzo enorme, cosa che li aveva sfiniti. Dell'altra birra sarebbe forse stata utile - "sarebbe forse stata!" - ma Vine era del parere che il gioco non valesse la candela.
La signora Virson aveva una voce alta, espansiva, prodotto di un costoso college femminile frequentato circa quarantacinque anni prima. Gli aprì la porta d'entrata di Le Stoppie e lo accolse con una sorta di altera benevolenza. L'abito a fiori che indossava la tappezzava come la fodera di una voluminosa poltrona. Era appena stata dal parrucchiere: rotoli e ondulazioni erano rigidi al punto da sembrare scolpiti. Era poco probabile che il tutto fosse in suo onore, ma qualcosa era venuto a cambiare l'atteggiamento di lei dalla sera precedente: forse l'insistenza di Daisy di volerlo vedere e parlargli? — Daisy dorme, signor Wexford. È ancora sotto choc, vede, e io insisto perché riposi molto. Lui assentì, non avendo commenti da fare. — Si sveglierà in tempo per il tè. Queste creature giovani conservano un sano appetito, ho notato, per quante possano averne passate. Vogliamo accomodarci qui, per aspettarla? Immagino ci siano cose di cui voglia chiacchierare con me, vero? Non era uomo da farsi sfuggire un'occasione del genere. Se Joyce Virson aveva qualcosa da dirgli, perché questo doveva intendersi per "chiacchierare", avrebbe ascoltato, sperando per il meglio. Ma quando furono nel salotto della signora Virson, installati nelle poltrone ricoperte di chintz sbiadito e a fissarsi attraverso un tavolino da tè, lei mostrò di non essere affatto incline ad avviare una conversazione. Non che fosse imbarazzata, o a disagio, e neppure diffidente: era semplicemente pensierosa e forse non sapeva da dove cominciare. Dal canto suo, era restio ad aiutarla. Nella sua posizione, qualsiasi aiuto poteva sembrare un interrogatorio. D'improvviso, lei disse: — Naturalmente quanto è accaduto su a Tancred House è terribile. Dopo averlo saputo, non ho chiuso occhio per due notti. Era semplicemente la cosa più sconvolgente che avessi mai sentito in tutta la mia vita. Lui aspettava ora il "ma". Chi esordiva così, ammettendo d'avere valutato appieno una tragedia o un'estrema sciagura, di solito passava poi a qualificarla. L'empatia iniziale era un pretesto per far seguire delle critiche. Non vi fu alcun "ma". Lei lo sorprese con la sua franchezza. — Mio figlio vuole che Daisy si fidanzi con lui. — Ah, sì? — La signora Copeland era contraria all'idea. Immagino che dovrei
chiamarla Davina Flory o Miss Flory o che so io, ma le antiche abitudini sono dure a morire, vero? Sarò antiquata, mi spiace, ma per me una donna sposata sarà sempre la "signora" Tal dei Tali, ossia con il cognome del marito. — Aspettò che Wexford dicesse qualcosa e, siccome lui taceva, continuò: — No, lei non ci teneva. Naturalmente, non dico che avesse qualcosa contro Nicholas. Era solo per la sciocca idea - mi spiace, ma io la trovavo sciocca - che Daisy dovesse vivere la sua vita, prima di sistemarsi. Le avrei risposto volentieri che quando lei aveva l'età di Daisy le ragazze si sposavano il più presto possibile. — Lo ha fatto? — Fatto cosa? — Ha detto che le avrebbe risposto volentieri in quel modo. Lo ha poi fatto? Una ruga di stanchezza attraversò la fronte della signora Virson, ma passò e lei sorrise. — Non era affar mio interferire. — Che cosa ne pensava la madre di Daisy? — Oh, francamente, quello che Naomi pensava non avrebbe avuto importanza. Naomi non aveva opinioni. Vede, la signora Copeland era molto più una mamma che una nonna, per Daisy. Prendeva lei tutte le decisioni per la ragazza: sa, dove andare a scuola e così via. Oh, aveva grandi progetti per Daisy, o Davina, come insisteva nel chiamarla, creando una gran confusione. Le aveva già tracciato tutto il futuro: prima l'università, Oxford, naturalmente, e poi la povera Daisy doveva avere un anno per viaggiare. Non come piacerebbe a una ragazza giovane, voglio dire niente Bermude, o il sud della Francia o qualche altro posto piacevole, ma città dell'Europa con gallerie d'arte e storia, Roma, Firenze e altri posti del genere. E poi avrebbe dovuto continuare a far qualcosa in un'altra università, capisce? un'altra specializzazione o come altro la chiamano. Spiacente, ma non vedo lo scopo di tutta quest'istruzione per una bella ragazza. La signora Copeland voleva che Daisy si seppellisse in qualche università, voleva che diventasse una... mi sfugge la parola... — Un'accademica? — Sì, esatto. Quella povera Daisy doveva arrivarci sui venticinque anni e poi era tenuta a scrivere il suo primo libro. Scusi, sa, ma a me tutto questo sembra ridicolo. — E Daisy, lei, come la pensava? — Che cosa vuole che sappia una ragazza di quell'età? Non sa niente della vita, le pare? Certo, se si continua a parlarle di Oxford e a farlo sem-
brare un posto pieno di fascino e poi si continua a dire quanto è meravigliosa l'Italia e poter vedere quel quadro e quella statua, e quanto si possono apprezzare di più le cose se si è stati educati in quel modo e che... be', le fa un certo effetto, è naturale. A quell'età si è molto impressionabili, si è ancora bambine. — Sposarsi — disse Wexford — avrebbe per forza messo fine a tutto questo. — La signora Copeland si sarà anche sposata tre volte ma non credo che fosse molto entusiasta del matrimonio. — La donna si protese confidenzialmente verso di lui, abbassando la voce e gettando una rapida occhiata dietro di sé, come se ci fosse qualcun altro nell'angolo opposto della stanza. — Io questo non lo so, voglio dire non posso provarlo, è una pura supposizione ma, credo, molto fondata: sono certa che la signora Copeland non avrebbe battuto ciglio, se Nicholas e Daisy avessero deciso di vivere insieme senza sposarsi. Era ossessionata dal sesso, sa. Alla sua età! Probabilmente avrebbe visto con favore una relazione, ci teneva, lei, che Daisy facesse esperienza. — Che specie di esperienza? — domandò incuriosito lui. — Oh, non deve prendere alla lettera tutto quello che dico, signor Wexford. Ecco, soleva dire che avrebbe voluto che Daisy vivesse. Lei aveva realmente vissuto, ripeteva sempre, e immagino di sì, con tutti quei mariti e tutti quei viaggi. Ma il matrimonio, no, non era affatto entusiasta dell'idea. — Lei sarebbe contenta se suo figlio sposasse Daisy? — Oh, sì, molto. È tanto una cara ragazza. E intelligente, per di più, e bella. Spiacente, ma non vorrei che mio figlio sposasse una ragazza bruttina. So che forse non approverà quello che dico ma... mi sembrerebbe uno spreco tale, un bell'uomo con una moglie insignificante! — Joyce Virson parve pavoneggiarsi un tantino. Non c'era altro modo di descrivere quel lieve allungarsi del collo, quel fare scorrere un grosso dito lungo la mandibola. — Noi siamo persone di bell'aspetto, anche da parte di mio marito. — Il sorriso che rivolse a Wexford era malizioso, era quasi civettuolo. — Naturalmente la poverina è innamorata pazza di lui. Basta vedere il modo come lo segue con gli occhi. Lo adora. Wexford pensò che stesse per preludere ai suoi successivi commenti con la solita espressione di rammarico per un'opinione che, in realtà, non deplorava affatto, ma lei si limitò a elaborare le qualifiche di Daisy per un'unione con un membro della famiglia Virson. Daisy voleva così bene a lei,
aveva maniere così fini, era così equilibrata e gaia. — E così ricca — disse Wexford. La signora Virson ebbe un vero e proprio sussulto. Trasalì violentemente, come colta da una crisi improvvisa. La sua voce salì di venti o trenta decibel. — Questo non ha proprio niente a che fare. Se solo lei guarda le dimensioni di questa casa e il prestigio che godiamo nella comunità, non può certo pensare che il denaro ci manchi, che diamine! Mio figlio ha un ottimo reddito, è perfettamente in grado di mantenere una moglie nel... Wexford pensò che stesse per aggiungere qualcosa sullo stile al quale Daisy era abituata, ma lei si controllò e lo guardò inferocita. Stanco di tanta ipocrisia e affettazione, lui aveva deciso che fosse maturo il momento per un colpo basso. Era andato a segno meglio di quanto avesse sperato. Sorrise tra sé. — Non la preoccupa che possa essere troppo giovane? — domandò. Ora il sorriso era esteso anche a lei, largo e disarmante. — Un momento fa l'ha definita una bambina. Joyce Virson venne salvata dal dover rispondere dall'entrata di Daisy nella stanza. Lui ne aveva udito i passi nel corridoio, mentre pronunciava la parola "bambina". Daisy gli rivolse un pallido sorriso. Il braccio era ancora bendato ma in modo meno voluminoso, ancora al collo ma in modo più leggero. Era la prima volta, Wexford se ne rese conto, che la vedeva in piedi e in movimento. Era più magra di quanto si sarebbe aspettato, tutta più fragile. — Per che cosa sono troppo giovane? — disse lei. — Sono una diciottenne, oggi. È il mio compleanno. La signora Virson mandò un'esclamazione stridula. — Daisy, figliola terribile, perché non ce l'hai detto? Non ne avevo la minima idea, non hai detto una parola di questo. Tentò una risata sbalordita, ma Wexford vedeva benissimo che era molto dispiaciuta. Era contrariata. La rivelazione di Daisy smentiva le sue affermazioni di intima conoscenza della giovane donna ospite in casa sua. — Scommetto che con Nicholas un accenno l'avrai fatto, perché potesse preparare una sorpresa. — Per quanto ne so io, anche lui ne è all'oscuro. Non se lo ricorda. Non ho nessuno al mondo, ormai, che si ricordi del mio compleanno. — Daisy guardò Wexford, disse in tono leggero, un po' teatrale: — Dio, che tristezza!
— Cento di questi giorni. — Wexford usò la formula un po' antiquata. — Ah, lei ha tatto, è prudente. Non poteva dire: "Felice compleanno" vero? Non a me. Sarebbe stato orribile, un vero insulto. Pensa che si ricorderà del mio compleanno, l'anno prossimo? Dirà a se stesso la vigilia: "Domani è il compleanno di Daisy"? Forse lei sarà il solo che lo farà. — Che sciocchezza, cara. Nicholas se ne ricorderà di certo. Sarà compito tuo, fare in modo che se ne ricordi. Purtroppo, gli uomini hanno bisogno di allusioni, sai, per non dire di una piccola spinta. — L'espressione di Joyce Virson era ferocemente maliziosa. Daisy permise ai suoi occhi di incontrare per un attimo quelli di Wexford, e subito li distolse. Senza guardarlo, disse: — Vogliamo andare nell'altra stanza, allora? — Oh, perché non rimani qui, cara? Qui c'è un bel calduccio e io non ascolterò quello che direte. Sarò troppo immersa nel mio libro. Non sentirò una parola. Deciso a non parlare con Daisy in presenza della Virson, Wexford, prima di renderlo noto, volle sentire che cosa avrebbe detto la ragazza. Si aspettava un'acquiescenza apatica, tanto gli sembrava assente e chiusa nel suo dolore, e invece lei reagì con fermezza. — No, meglio parlare a quattr'occhi. Non la cacceremo dalla sua stanza, Joyce. Lui la seguì nello "studiolo", dove si erano visti la domenica. Là, Daisy commentò: — È piena di buone intenzioni. — Wexford si meravigliò di quanto poteva essere giovane... e quanto matura. — Sì, oggi ho diciott'anni. Dopo il funerale penso che me ne tornerò a casa. Subito dopo. Posso fare quello che voglio ora che ho diciotto anni, vero? Assolutamente tutto? — Per quanto è lecito a ognuno di noi, sì. A parte infrangere impunemente la legge, puoi fare quel che ti piace. Lei mandò un gran sospiro. — Non voglio infrangere la legge. Non lo so quello che voglio, ma sono convinta che a casa starò meglio. Lui l'avvertì: — Forse non ti rendi conto di come ti sentirai nel rivedere la tua casa, dopo quello che è successo. Ti farà rivivere quella serata in modo molto penoso. — Quella serata è sempre con me — disse lei. — Là non sarà certo più forte di com'è tutte le volte che chiudo gli occhi. È allora che rivivo la scena: quando chiudo gli occhi. Vedo quella tavola... prima e dopo. Mi domando se sarò mai più in grado di sedere di nuovo a un tavolo da pranzo. Qui mi servono i pasti su un vassoio. L'ho chiesto io. — Tacque un poco, poi improvvisamente sorrise e lo guardò. Lui le vide una strana luce negli
occhi neri. — Parliamo sempre di me. Mi dica di lei. Dove abita? È sposato? Ha figli? Ha intorno persone che si ricordano del suo compleanno? Le disse dove abitava, che era sposato, che aveva due figlie e tre nipotini. Sì, del compleanno se ne ricordavano, più o meno. — Vorrei avere un padre. Perché aveva trascurato di farle domande in proposito? — Ma sicuramente lo avrai. Lo vedi, qualche volta? — Non l'ho mai visto. Non che io ricordi. Mamma e lui divorziarono quando io ero piccolissima. Vive a Londra ma non ha mai dato segno di desiderare di vedermi. Non dico che vorrei avere lui, dico che vorrei avere un padre. — Sì, immagino che tuo... che il marito di tua nonna riempisse il posto di un padre, nella tua vita. Era inconfondibile, l'incredulità nello sguardo che lei gli rivolse, facendo poi udire un suono gutturale, qualcosa di mezzo tra un verso sdegnoso e un colpo di tosse. — È poi tornata Joanne? — No, Daisy. Siamo preoccupati per lei. — Oh, non le sarà successo niente. Cosa poteva capitarle? La serena innocenza della ragazza servì soltanto a esacerbare l'ansia di lui. — Quando il martedì veniva a trovare tua madre — domandò — veniva sempre in macchina? — Certo. — Sembrava sorpresa. — Ah, se veniva a piedi, vuol sapere? Sarebbero stati qualcosa come otto chilometri. A ogni modo, Joanne non andava a piedi da nessuna parte. Non so perché vivesse qui, odiava la campagna, tutto quello che aveva a che fare con la campagna. Immagino fosse a causa della sua vecchia mamma. Una cosa posso dirle, certe volte veniva in taxi. Non perché fosse fuori uso l'auto, ma perché le piaceva bere, sì, e in quei casi non si fidava di guidare. — Sai dirmi qualcosa su certi Griffin? — Lavoravano per noi, tempo fa. — Il figlio, Andy, l'hai più rivisto da quando se ne sono andati? Lei gli rivolse un'occhiata strana, come se si meravigliasse che fosse andato a toccare qualcosa di così inaspettato o segreto. — Una volta, sì. Curioso che lei me lo domandi. È successo nei boschi. Stavo camminando per i boschi e lo vidi. Probabilmente lei non li conosce affatto i nostri boschi, ma era in un punto vicino alla strada secondaria, quella stradina che si diparte verso est, proprio dove ci sono i noci. Mi avrà visto anche lui, non lo so, e avrei dovuto dirgli qualcosa, domandargli che cosa stava facendo, ma
non lo feci. Non lo so il perché. Mi fece paura, vederlo lì così. Non lo dissi a nessuno. Stava sconfinando, e Davina non gliel'avrebbe perdonata, ma non le dissi niente. — Quando è successo? — Oh, in autunno. In ottobre, direi. — In che modo poteva esserci arrivato? — Aveva una motocicletta. Ce l'avrà ancora, penso. — Il padre dice che lavorava per un uomo d'affari americano. Mi era passato per la mente - ma era solo una mia idea - che fossero entrati in contatto attraverso la tua famiglia. Lei rifletté. — Davina non l'avrebbe mai raccomandato. Immagino debba trattarsi di Preston Littlebury. Ma se Andy lavorava per lui, poteva essere al massimo come... mah... — Come autista, forse? — Nemmeno. Tutt'al più come lava-macchina. — Va bene. Probabilmente non ha importanza. Un'ultima domanda. L'altro uomo, quello che non hai visto ma hai sentito scendere, uscire dalla casa e avviare il motore... potrebb'essere stato Andy Griffin? Pensaci, prima di rispondermi. Considerala una possibilità e poi pensa se qualcosa, una cosa qualsiasi, potrebbe anche identificarlo come Andy Griffin. Lei taceva. Non sembrava né colpita né scettica. Era evidente che stava obbedendo alle istruzioni di lui e meditando sulla questione. Alla fine disse: — Potrebbe anche darsi. Posso dire che non c'era niente a darmi la certezza che non fosse lui? È tutto quello che posso rispondere. Wexford la lasciò, poi, dicendole che il giovedì mattina sarebbe andato al funerale. — Ti dirò la mia idea di com'è andata, se vuoi — disse Burden. Erano a casa sua, il piccolo Mark in pigiamino sulle sue ginocchia, Jenny ancora fuori, al corso serale di tedesco. — Vado a prenderti un'altra birra e poi te lo dico. No, prendila tu la birra, così non devo spostare Mark. Wexford tornò con due barattoli da versare nei boccali. — Questi boccali, come vedi, sono identici. Ce n'è un terzo sulla mensola. Costituiscono un'interessante lezione di economia. Quello che hai tu fammelo vedere meglio - sì, quello che hai tu l'abbiamo comperato Jenny e io mentre eravamo in viaggio di nozze a Innsbruck, per cinque scellini. Prima che si adottasse il sistema decimale, molto prima. Quello che ho io, che è appena un pochino più piccolo, l'ho comperato io dieci anni fa,
quando ci siamo tornati. Stesso articolo ed è costato quattro sterline. Quello sulla mensola è parecchio più piccolo, e a parer mio non è altrettanto bello. Jenny e io lo abbiamo comperato a Kitzbuhel mentre eravamo là in vacanza l'estate scorsa. Dieci sterline e mezzo. Che cosa ti dice, questo? — Che il costo della vita è aumentato. Non occorrevano tre boccali da birra, per dirmelo. Potremmo parlare di Tancred, invece di disquisire sulle ceramiche? Burden rise. Disse al figlio in tono piuttosto sentenzioso: — No, Mark, non puoi bere la birra di Papà, proprio come Papà non può bere il tuo sciroppino. — Povero Papà. Scommetto che è un vero sacrificio. Cos'è successo quel martedì sera, allora? Sentiamo. — Il pistolero della banca, quello con l'acne, lo chiamerò X. — Molto originale, Mike. Burden ignorò l'interruzione. — L'altro uomo era Andy Griffin. Andy era l'uomo che conosceva la situazione, X aveva la pistola. — Pittola — ripeté Mark. Burden lo posò a terra. Il piccolo pescò un fischietto di plastica dal mucchio dei giocattoli, lo puntò contro Wexford e disse: — Bang, bang. — Oh, poveri noi, Jenny non vuole che abbia delle armi. Infatti non ce l'ha una pistola. — Ora ce l'ha. — Pensi che sia ben fatto lasciargli vedere una mezz'ora di televisione, prima che lo metta a letto? — Per amor del cielo, Mike, hai più figli tu di me, dovresti saperlo. — E siccome Burden sembrava ancora in dubbio, aggiunse con impazienza: — Purché non sia uno spettacolo più sanguinario di quello che stai per ricostruire tu, ed è difficile che lo sia. Burden accese il televisore. — X e Andy si mettono in viaggio per Tancred House con la jeep di X. — Con che? — Dev'essere un veicolo in grado di viaggiare su strada accidentata. — Dove si sono conosciuti questi due, X e Andy? — In un pub. Forse allo Slug-and-Lettuce. Andy parla a X dei gioielli di Davina e fanno il loro piano. Andy conosce le abitudini di Brenda Harrison. Sa che annuncia la cena ogni sera alle sette e mezzo e se ne va a casa, lasciando la porta di servizio chiusa ma non a chiave. Wexford assentì. — Un buon punto in favore del coinvolgimento di
Griffin. Compiaciuto, Burden continuò: — Vanno su dalla strada principale, imboccando il cancello dalla Biventiquattroventotto, ma poi svoltano a sinistra prima di arrivare al muretto e al cortile. Brenda è andata a casa, Davina, Harvey Copeland, Naomi Jones e Daisy Flory sono tutti nella serra. Perciò nessuno sente un veicolo arrivare o vede i fari, cosa che Andy ha calcolato. L'ora è... diciamo venticinque alle otto. — Proprio al pelo. Metti che Brenda se ne fosse andata cinque minuti dopo o che gli altri fossero andati cinque minuti prima in sala da pranzo? — Ma non è successo — disse tranquillamente Burden. E continuò: — X e Andy entrano in casa dalla porta sul retro e salgono dalla scala di servizio. — Impossibile. C'era là Bib Mew. — Si può arrivare alla scala di servizio senza passare dàlia cucina principale, e lei era là, a occuparsi del freezer. Nella stanza di Davina, cercano e trovano i gioielli, e frugano anche nelle stanze delle altre donne. — Per forza dovevano farlo, per metterci ben venticinque minuti. Tra parentesi, se hanno cercato in tutte, perché hanno lasciato le stanze delle altre in ordine e quella di Davina sottosopra? — Ora ci arrivo. Sono tornati nella stanza di Davina perché Andy era convinto che ci fossero altri gioielli di valore che non avevano visto. È stato mentre erano là a buttare roba per aria che, da basso, li hanno sentiti e Harvey Copeland è salito a indagare. Devono avere pensato che stesse venendo su dalla scala principale, così sono scesi da quella di servizio... — E sono usciti dalla porta sul retro con l'intenzione di svignarsela senza danno per nessuno, salvo la perdita, per Davina, di qualche gioiello del resto assicurato e a cui lei teneva relativamente. — Sappiamo che non è andata così — disse Burden, serio serio. — Hanno attraversato la casa e sono sbucati nella hall. Non lo so il perché. Forse avevano qualche motivo per temere un ritorno di Brenda, o forse credevano che Harvey fosse di sopra, deciso a percorrere la galleria in tutta la sua lunghezza e a tornar giù per la scala di servizio. Sia come sia, sono entrati nella hall e si sono imbattuti in Harvey, che stava salendo le scale. Lui si volta, li vede, riconosce immediatamente Andy Griffin. Scende un paio di scalini, grida una minaccia a Andy, o grida alle donne di telefonare alla polizia... — Daisy non lo ha sentito, se l'ha fatto. — L'ha dimenticato. Lei stessa ha ammesso di non poter ricordare i par-
ticolari di quello che è successo. Sul nastro che abbiamo registrato, dice: "Ho tentato in tutti i modi di ricordare, ma c'è come un blocco." Harvey ha minacciato Andy e X gli ha spa rato. Lui è precipitato all'indietro, finendo sui primi scalini. Andy ora è terrorizzato, è chiaro, più che terrorizzato, di venire riconosciuto. Sente una donna urlare dalla sala da pranzo. Mentre X spalanca la porta della sala da pranzo con un calcio, Andy corre alla porta d'entrata e scappa. — X spara alle due donne, spara a Daisy. Dal piano di sopra sente qualcuno che fa fracasso. Era la gatta ma lui non poteva saperlo, questo. Daisy è a terra, lui la crede morta, segue Andy fuori della porta principale mentre la jeep, nel frattempo, è stata portata sul davanti della casa. Andy è andato a prenderla da dov'era parcheggiata, sul retro... — Non ci siamo, Mike. Quella era l'ora in cui Bib Mew se ne stava andando, e lei lasciava sempre la bicicletta sul retro della casa. Daisy ha sentito una macchina mettersi in moto, non "fare il giro". — È un piccolo particolare. Sarebbe disposta a giurarlo, Reg? La madre e la nonna erano state uccise sotto i suoi occhi, lei era stata colpita, era a terra ferita e sanguinante - te lo figuri il fragore che deve avere fatto quella Magnum, tanto per cominciare - e ti pare che possa distinguere tra una macchina che viene messa in moto e una che viene guidata? Distogliendo lo sguardo da un documentario sui leoni che uccidevano e sventravano gazzelle, Mark ripeté allegramente: Feehita e scianguinante. — Assentì e puntò il fischietto contro il padre. — Oh, Dio, devo metterlo a letto. Un attimo solo che finisco, Mark. Mentre Andy è sul retro a riprendere la fuoristrada e X sta facendo un massacro in sala da pranzo, arriva Joanne Garland in taxi. Ancora una volta ha avuto paura di guidare perché si è scolata un paio di bicchieri... — Dove? Con chi? — Resta da vedere. Resta da scoprire. Paga l'autista e lui se ne va. È sua intenzione chiamare un altro taxi, una volta finito di rivedere i conti con Naomi. Sono adesso le otto e dieci. Lei non doveva arrivare prima delle otto e mezzo ma sappiamo che era una di quelle persone ultrapuntuali, sempre in anticipo. — La porta d'entrata è aperta. Lei entra, forse chiama per avvertire che è arrivata. Vede il cadavere di Harvey riverso sui gradini, forse sente l'ultimo sparo. Si volta e scappa? Può darsi. Andy è apparso intanto con la jeep. Salta a terra e agguanta la donna. X esce, uccide Joanne, con la sesta e ultima pallottola, e i due caricano il cadavere nel retro dell'auto.
— Per timore di incontrare qualcuno lungo la strada - Gabbitas, noi, qualche visitatore - tagliano attraverso i boschi, usando sentieri affrontagli con una jeep ma non con una delle nostre normali berline. — Burden, preso in braccio il piccolo, spense il televisore. Il bambino stava ancora impugnando il fischietto. — Salvo qualche ritocco, penso che possa essere andata soltanto così. — Per quale ragione avevano litigato gli Harrison e i Griffin? — domandò Wexford. Per un attimo, la faccia di Burden si era contratta per l'indignazione. Tutto lì? Era quella, la sola accoglienza che la sua analisi riceveva? Alzò le spalle. — Andy aveva cercato di violentarla. — Cosa? — Così sostiene lei. I Griffin dicono che era stata lei a fare approcci col ragazzo. A quanto sembra, lui con questa scusa tentò una specie di ricatto, e Brenda lo disse a Davina Flory. Di conseguenza, se volevano tenere fuori noi dalla faccenda, i Griffin dovevano andarsene. — Faremo bene a fermarlo, Mike. — D'accordo — disse Burden, e si avviò di sopra con il bambino per metterlo a letto, mentre il piccolo Mark sparava col fischietto da sopra la spalla del padre, gridando: — Feehita e scianguinante, feehita e scianguinante — lungo tutta la scala. 13 Non aveva altri amici che i Virson e Joanne Garland, quella famiglia ricca e distinta il cui nucleo era formato da una famosa scrittrice e da un economista ed ex membro del Parlamento? Dov'erano le compagne di scuola di Daisy? Le conoscenze del luogo? Quegli interrogativi avevano incuriosito Wexford fin dal principio. Ma la natura del crimine era tale da precludere il coinvolgimento di persone fino a quel momento rispettose delle leggi, e il procedimento normale in caso di omicidio, che consisteva nell'indagare su chiunque conoscesse le vittime, non era stato messo in atto. Gli era solo passato per la mente, mentre parlava con Daisy e, in misura minore, con Gabbitas e con gli Harrison, che la Flory e i suoi, a quanto sembrava, non avevano molte amicizie. Il funerale gli dimostrò quanto avesse avuto ragione... e al tempo stesso torto. Nonostante la fama di uno di quei defunti e l'importanza, per associazione con lei, degli altri due, l'ispettore capo aveva supposto che molti,
per dare l'ultimo addio a Davina Flory e ai suoi familiari, avrebbero aspettato di presenziare al servizio di commemorazione. Anche Daisy, e non solo Joyce Virson, gli aveva assicurato che tale servizio si sarebbe tenuto di certo. In St James, a Piccadilly, di lì a due mesi, così era stato suggerito. Alle esequie nella chiesa parrocchiale di Kingsmarkham avrebbe preso parte solo una piccola congregazione, e soltanto poche persone avrebbero accompagnato le bare fino al distante cimitero. All'atto pratico, la fila andava via via ingrossandosi. Quando lui arrivò, Jason Sebright, del Kingsmarkham Courier, stava prendendo i nomi al cancello della chiesa. Wexford indovinò subito che quella fila era formata dalla stampa e si spinse oltre, mostrando la sua tessera. St Peter era grandissima, una di quelle chiese che altrove sarebbero state chiamate cattedrali, con una navata enorme, dieci cappelle laterali e un coro grande come una chiesa di villaggio. Ed era quasi piena. Soltanto i banchi anteriori di destra aspettavano gli occupanti, e c'era qualche vuoto qua e là tra le sedie. Wexford si diresse verso una di quelle, libera, proprio lungo la navata, sulla sinistra. L'ultima volta, c'era venuto per accompagnare Sheila all'altare quando lei aveva sposato Andrew Thorverton, e in precedenza si era seduto lì, nella chiesa gremita, per ascoltare le pubblicazioni di quelle nozze. Un matrimonio naufragato, una o due relazioni successive, e ora Augustine Casey... Allontanò quei pensieri dalla mente e si guardò attorno. Un volontario stava suonando l'organo: Bach, probabilmente. La prima persona che riconobbe fu un tale che aveva conosciuto al lancio di un libro, accompagnato là da Amyas Ireland. Il libro, ricordava, era una saga familiare con un poliziotto in ogni generazione fin dall'epoca vittoriana, e il redattore che lo aveva curato era appunto quel signore seduto tre file più avanti. Tutti gli altri, nel banco, avevano l'aria di editori, ma non avrebbe saputo dire perché. Nella bionda grassoccia dal largo cappello nero, identificò (sempre senza molto su cui basarsi) l'agente letteraria di Davina Flory. Una preponderanza di donne anziane, alcune piuttosto professorali, in gruppo o da sole, lo portò a credere che fossero antiche compagne di Davina, forse addirittura dei tempi di Oxford. Da fotografie che aveva visto sui giornali, riconobbe una famosa romanziera, ormai sulla settantina e più. Quello accanto a lei, non era il Ministro della Cultura? Il nome al momento gli sfuggiva, ma era lui di certo. Un altro signore con una rosa rossa all'occhiello - discutibile, come gusto - lui l'aveva visto alla TV, sui
banchi dell'Opposizione. Forse un vecchio parlamentare amico di Harvey Copeland? Joyce Virson si era assicurata un posto quasi in prima fila. Di suo figlio, nessuna traccia. Ragazze, poi, non se ne vedevano. Proprio mentre si stava domandando chi avrebbe occupato il posto vuoto accanto al suo, Jason Sebright entrò frettolosamente e venne a sedervisi. — Orde di letterati, qui — disse allegramente, a stento in grado di nascondere il suo entusiasmo. — Farò un pezzo intitolato Gli amici di una Gran Donna. Anche se riceverò nove rifiuti su dieci, almeno quattro interviste esclusive dovrei ottenerle. — Non cambierei il mio mestiere con il suo — commentò Wexford. — Ho imparato la mia tecnica dalla TV americana. Sono mezzo americano, passo là le vacanze, andando a trovare mia madre. — Lo disse con un'orribile parodia dell'accento del midwest. — Abbiamo molto da imparare, in questo paese. Al Courier hanno sempre una paura matta di schiacciare i calli a qualcuno, tutti devono essere trattati con i guanti e... — Sstt, sta per cominciare. La musica era cessata e si era fatto un gran silenzio. Non si sentiva un bisiglio, sembrava quasi che la gente avesse smesso di respirare. Sebright, con una stretta di spalle, si mise a sua volta un dito sulle labbra. Il silenzio era del genere che prevale solo in una chiesa, opprimente, gelido, ma per alcuni trascendente. Erano tutti in attesa, come sospesi e gradualmente assaliti da un senso di soggezione. I primi accordi dell'organo ruppero il silenzio con una pesante e terribile moltiplicazione di decibel. Wexford non credeva alle sue orecchie. Possibile, Dead March in Saul? Nessuno lo faceva più eseguire, ormai. Eppure, era proprio quello, il pezzo. Le tre bare venivano trasportate lungo la navata con ineffabile lentezza, a tempo con quella meravigliosa e insieme spaventosa musica. Gli uomini che le reggevano a spalle si muovevano col passo di una solenne pavana. A dare quelle disposizioni era stato qualcuno che aveva il senso del dramma, una persona giovane, vibrante e immersa nella tragedia. Daisy. Lei seguiva i tre feretri, ed era sola. O meglio, a Wexford sembrò che fosse sola finché non vide Nicholas Virson, che doveva averla scortata fino alla soglia, cercare un posto libero. Lei era in lutto stretto, o forse soltanto in abiti che ogni ragazza della sua età aveva in abbondanza nel suo guardaroba, indumenti funerei abitualmente indossati in discoteca e alle feste. Il vestito di Daisy era un lungo tubino nero, che le arrivava alle caviglie cal-
zate da neri stivaletti. Indefinibili drappi neri la coprivano, tra i quali qualcosa che poteva quasi sembrare una giacca ma di foggia insolita. In faccia era bianca come la cera, aveva la bocca dipinta di scarlatto, e fissava davanti a sé, prendendo infine posto, da sola, in quel primo banco vuoto. — Io sono la resurrezione e la vita, dice il Signore... Il suo senso del drammatico - e di ciò che era appropriato? - l'aveva indotta ad assicurarsi che venisse usato il Libro delle Preghiere del 1962. Stava forse attribuendo troppo a Daisy, mentre era invece opera della signora Virson, o forse del buon gusto del parroco? Certo, era una ragazza notevole. Wexford era consapevole di un senso di premonizione, di allarme, di cui non riusciva a individuare la fonte. — Signore, fa' che io conosca la mia fine e il numero dei miei giorni, ch'io possa avere la certezza di quanto avrò da vivere... Il vento non si era avvertito, in città. Forse, si era levato soltanto in quell'ultima mezz'ora. Wexford ricordava un accenno a una perturbazione, nelle previsioni del tempo della sera innanzi. Era un vento tagliente, quello che fischiava attraverso quel luogo di sepoltura che fino a pochi anni prima era stato un prato su una collina. Perché sepoltura e non cremazione? Altre idee drammatiche di Daisy, forse, oppure un desiderio espresso nei testamenti. Non vi sarebbe stata lettura di testamenti, subito dopo, gli aveva detto il legale, né altro; nessun riunirsi per uno sherry e un dolcetto. "Date le circostanze", aveva detto il legale "sarebbe quanto mai inappropriato." Niente fiori. Daisy, sembrava, aveva chiesto invece donazioni per un certo numero di cause, nessuna delle quali fatta per incontrare una reazione positiva da parte di molte di quelle persone: oboli per il Bangladesh, un fondo per alleviare la carestia in Etiopia, versamenti al Partito Laburista e alla Lega per la Protezione dei Gatti. Per la coppia di coniugi era stata preparata una singola fossa. Quella accanto era per Naomi Jones. Ciascuna era foderata da fogli di zolla artificiale di un verde che contrastava con quello dell'erba. Le bare vennero calate e una delle anziane studiose si fece avanti per gettare una manciata di terra su quella di Davina Flory. — Venite, figli diletti del mio Padre, a ricevere il regno preparato per voi dal principio del mondo... Era finita, il dramma si era concluso. Ora la cosa più significativa per tutti era il morso del vento. I baveri venivano rialzati, le braccia serravano
corpi tremanti dentro inadeguati panni. Imperterrito Jason Sebright andava da una persona all'altra, avanzando audacemente la sua richiesta. Invece del taccuino d'altri tempi, aveva un microfono e un registratore. Wexford non era affatto sorpreso di vedere quante persone reagissero favorevolmente. Alcuni, molto probabilmente, pensavano che l'intervista sarebbe stata trasmessa per radio. Lui non aveva ancora parlato con Daisy. Osservava i dolenti avvicinarsi l'uno dopo l'altro alla ragazza e vedeva le labbra di lei muoversi in risposte fatte di monosillabi. Una vecchia le diede un bacio sulla guancia bianca. — Oh, mia cara, pensare che la povera Davina non era neppure credente, vero? Un'altra disse: — Che servizio commovente, proprio da far venire i brividi. Un uomo anziano, con una voce dal tono molto manierato, l'abbracciò e, quasi a esprimere una commozione improvvisa, si premette la testa di lei contro il collo. Quando Daisy la risollevò, Wexford vide che gli aveva lasciato sul colletto candido l'impronta scarlatta delle labbra. L'uomo era molto alto, magrissimo, con sottili baffetti grigi e cravattino a farfalla. Preston Littlebury, l'ex datore di lavoro di Andy Griffin? — Hai la mia più profonda comprensione, mia cara, e lo sai. Wexford scoprì di essersi sbagliato sulle ragazze. Una almeno aveva sfidato l'atmosfera cupa della giornata e il cattivo tempo, un'adolescente pallida e magra, in calzoni neri e impermeabile. La signora anziana che era con lei stava dicendo: — Sono Ishbel Macsamphire, cara. L'anno scorso a Edinburgo, ricordi? Con la povera Davina. E poi ho conosciuto te con il tuo giovanotto. Questa è mia nipote... Daisy si comportava degnamente con tutti. La tristezza le dava una grande dignità. Riusciva nel difficile intento che lui le aveva visto conseguire altre volte, di rispondere con cortesia eppure senza sorridere. Uno alla volta, si allontanarono da lei, e per qualche istante rimase sola. Immobile, passava ora in rassegna le persone che si dirigevano verso le rispettive auto, come se cercasse qualcuno, gli occhi dilatati, le labbra leggermente schiuse. Era come se sperasse di vedere qualcuno di cui si aspettava la presenza ma che non era venuto, che l'aveva tradita. Il vento le afferrava la lunga sciarpa nera, tirandola in fuori e facendola svolazzare. Lei rabbrividiva, e per un attimo abbracciò se stessa, prima di avanzare verso Wexford. — È finita, grazie al cielo. Temevo di scoppiare in lacrime o di svenire,
ma non l'ho fatto, vero? — No. Cercavi qualcuno che non è venuto? — Oh, no. Come le è venuta quest'idea? Stava avvicinandosi Nicholas Virson. Nonostante il diniego, probabilmente era lui che Daisy stava cercando, il "suo giovanotto", perché fece un leggero cenno con la testa, come rassegnandosi a una sorta di necessità. Gli prese il braccio e lasciò che lui la conducesse verso la propria auto. La madre era già installata all'interno, e scrutava attraverso il finestrino appannato. Wexford, come già gli era accaduto anni prima per Sheila, e con accurata preveggenza, pensò: Che attrice sarebbe! Be', Sheila era diventata un'attrice, ma Daisy non stava recitando, Daisy era sincera. Semplicemente, era una di quelle persone che non possono fare a meno di dare un taglio drammatico alle loro tragedie personali. Non era stato Graham Green a dire che ogni romanziere ha una scheggia di ghiaccio nel cuore? Forse, anche in questo Daisy avrebbe seguito i passi della nonna. I passi della nonna. Wexford sorrise tra sé, ripensando a un gioco infantile: quello di avvicinarsi in punta di piedi alla persona che dava loro le spalle, per vedere fino a che punto riuscivano ad accostarlesi prima che si voltasse, e poi scappar via, gridando... — Dentro abbiamo trovato due mazzi di chiavi — riferì Karen. — Anche il libretto d'assegni abbiamo trovato, ma né contanti né carte di credito. La casa era sontuosamente arredata, la cucina lussuosamente corredata. Nel bagno, che era "en suite" con la camera della signora Garland, c'era perfino l'idromassaggio, e un asciugacapelli fissato alla parete. — Come nei migliori alberghi — commentò Karen con una risatina. — Già, ma pensavo che fossero a parete solo per impedire agli ospiti di portarseli via. Questa è una casa privata. Karen sembrava in dubbio. — Be', ma così è impossibile perderlo, le pare? Non devi domandarti dove l'hai cacciato l'ultima volta che ti sei lavata i capelli. A Wexford sembrava piuttosto che Joanne Garland avesse speso soldi per il gusto di spenderli. Era evidente che non sapeva come sperperarli, i suoi guadagni. Uno stira-calzoni elettrico? Perché no, anche se gli armadi rivelavano un unico paio di calzoni. Un'estensione telefonica nel bagno? Niente più corse in camera, gocciolante e avvolta in un lenzuolino di spugna. La "palestra" conteneva una cyclette, un vogatore, un altro attrezzo
che ricordava a Wexford certe foto che aveva visto della Vergine di Norimberga, e infine qualcosa che faceva pensare a uno di quei mulini azionati da una ruota a gradini. — Un tempo usavano i galeotti per farli funzionare, quegli arnesi — disse Wexford. — Lei ce l'ha per divertirsi. — Be', è per mantenersi in forma, signore. — E tutta questa roba, anche questa è per mantenersi in forma? Erano tornati in camera, dove lui stava contemplando la più ricca collezione di cosmetici e di prodotti di bellezza che avesse mai visto fuori di una profumeria. I singoli pezzi non stavano nei cassetti di una toeletta o su una mensola, bensì in un capace stipo, che serviva esclusivamente per contenerli. — Ce n'è un'altra serie nel bagno — disse Karen. — Questo fa pensare a qualcosa da mettere nel naso — osservò Wexford, prendendo in mano una boccetta marrone con tappo dorato a contagocce. Poi svitò il coperchio di un barattolo e annusò il contenuto, una densa crema gialla dal profumo dolciastro. — Viene quasi voglia di mangiarla. Tutta roba inutile, vero? — Serve più che altro a dare speranza alle vecchie carampane — disse Karen con l'arrogante indifferenza di una ventiduenne. — Si crede a quello che si legge, le pare, signore? Si crede a quello che c'è scritto sull'etichetta. La maggior parte della gente ci crede. — Penso di sì. La cosa che soprattutto lo colpiva era l'ordine che regnava dappertutto, come se la proprietaria fosse partita, sapendo in anticipo di doversi assentare. Ma nessuno si allontana da casa senza dirlo a qualcuno. Una donna con una famiglia numerosa, com'era la Garland, non se ne va senza una parola alla madre, ai fratelli e alle sorelle. Wexford riandò con la mente alla ricostruzione di Burden. Non era del tutto soddisfacente, ma aveva i suoi lati buoni. — A che punto siamo con il controllo di tutte le società di taxi del distretto? — Sono molte, ispettore, ma stiamo lavorandoci. Lui tentava di pensare a possibili ragioni per le quali una donna di mezz'età, ricca, indipendente, potesse partire per un viaggio, in marzo, senza dirlo alla famiglia, ai vicini e alla socia. Qualche amante del passato che, fattosi vivo all'improvviso, le aveva fatto scordare tutto e tutti? Poco probabile, nel caso di una concreta donna d'affari di cinquantaquattro anni. La
chiamata di qualche parente stretto che, all'altro capo del mondo, stava morendo? In tal caso, ne avrebbe parlato alla famiglia. — Karen, il suo passaporto c'è? — No, signore, ma non è detto che l'abbia. Potremmo domandare alle sorelle se è mai stata all'estero. — Certo. Lo faremo. Di ritorno alle stalle di Tancred House, gli venne passata una chiamata. Era da parte di uno che non conosceva né aveva mai sentito nominare: il vice-direttore della Royal Oak Prison di Crewe, nel Cheshire. Naturalmente sapeva tutto della Royal Oak, la famosa prigione di massima sicurezza, Categoria B, che veniva gestita come una comunità terapeutica e si atteneva ancora al principio, anni dopo che questo era ormai passato di moda, che i criminali si potessero "curare" con la terapia. Pur avendo lo stesso quoziente di recidività di ogni altro carcere inglese, sembrava se non altro che non rendesse anche peggiori i suoi ospiti. Il vice-direttore disse d'avere un detenuto che voleva vedere Wexford, che aveva chiesto proprio di lui. L'uomo stava scontando una lunga condanna per tentato omicidio e furto con violenza, e al momento si trovava nell'ospedale del carcere. — Pensa di stare per morire. — Ed è così? — Non lo so. Si chiama James Hocking. È noto come Jem Hocking. — Mai sentito nominare. — Lui però la conosce. Di Kingsmarkham, vero? Lui conosce Kingsmarkham. Circa un anno fa, da voi, non è stato ucciso un agente di polizia? — Ah, sì — disse Wexford. — Sì, certo. Altrimenti noto come George Brown. Era Jem Hocking, l'uomo che aveva acquistato una macchina col nome di George Brown? La signora Griffin disse che Andy non era ancora tornato. — Ma abbiamo avuto una telefonata, vero, Terry? Ci ha chiamato ieri sera da qualche posto su al nord. Dove ha detto che era, Terry? Manchester, vero? — Ha telefonato da Manchester — confermò Terry Griffin. — Non voleva che stessimo in pensiero, voleva farci sapere che stava bene. — Eravate preoccupati? — Non c'entra se lo eravamo oppure no. C'entra che Andy pensava che potessimo stare in pensiero. Non sono molti, i figli che telefonano a mam-
ma e papà per dire che stanno bene, dopo che sono via da appena due giorni. Uno si preoccupa, quando è via con quella moto. Non gliel'avrei mai consigliata, la moto, ma cosa deve fare un ragazzo, con i prezzi che hanno le auto? È stato molto premuroso e sollecito, a telefonarci. — Tipico di Andy — fece eco compiaciuta la madre. — È sempre stato un figliolo pieno di riguardi. — Ha detto quando sarebbe tornato? — Non gliel'ho chiesto. Non pretendo certo che ci riferisca ogni sua mossa. — E non conosce il suo indirizzo di Manchester? Ma il signor Griffin aveva troppa sensibilità, e il rapporto era troppo armonioso, per arrischiarsi a turbarlo con domande inopportune di quel genere. La donna di nome Bib fece entrare Wexford in casa. Indossava una tuta da ginnastica rossa con sopra un grembiule. Quando Wexford le disse che la signora Harrison lo aspettava, assentì con una specie di grugnito ma non disse una parola. Lo precedette, con l'andatura dondolante di chi è vissuto troppo a lungo a bordo di una nave. Brenda Harrison era nella serra, che era molto calda, lievemente umida e pervasa da un profumo dolciastro. Il profumo veniva da un paio di piante di limoni in vasche di ceramica bianca e blu di Faenza. Erano simultaneamente cariche di fiori e di frutti, i fiori di un bianco cereo. Lei stava affaccendandosi con innaffiatoio, concime in polvere e fazzoletti di carta per lucidare le foglie. — Anche se, per chi lo faccio, proprio non lo so. Le tende bianche e azzurre erano tirate su fino al soffitto di vetro. Queenie, la gatta persiana, sedeva su uno dei davanzali, gli occhi color giacinto fissavano un uccellino su un ramo. L'uccelletto cantava sotto la pioggia e le sue cadenze mettevano più che mai in tensione la gatta. Brenda si rialzò, si pulì le mani sul grembiule e si lasciò cadere su una sedia di vimini. — Ci terrei a sentire la loro versione, parlo dei Griffin. Vorrei proprio sentire che cosa le hanno detto. Ma Wexford si rifiutò di accontentarla. Rimase in silenzio. — Naturalmente avevo deciso che non avrei detto una parola. A voialtri, intendo. Non era giusto verso Ken. Be', così almeno la vedo io: non è piacevole per Ken, mi sono detta. E se lei ci pensa, che quell'Andy Griffin si
sia incapricciato di me per qualche motivo e abbia tentato tutte quelle stramberie, be', cos'ha a che fare con il massacro criminale di Davina, Harvey e Naomi? Proprio niente, dico bene? — Me ne parli, vuole, signora Harrison? — Dovrò farlo, certo, ma molto malvolentieri. So che sembro molto più giovane di quel che sono — be', gli altri non fanno che dirmelo — perciò forse non avrei dovuto sorprendermi quando Andy si mise a fare il vagheggino. Era un'espressione che Wexford non sentiva più da anni. Si meravigliava della vanità della signora Harrison, dell'illusione che induceva quella donna rugosa e rinsecchita a credere di sembrare molto più giovane dei suoi cinquanta e passa anni. E che ragione c'era, in fin dei conti, di sentirsi così compiaciuti e orgogliosi nel sembrare più giovani? Non era mai riuscito a spiegarselo. Come se vi fosse una particolare virtù nel dimostrare quarantacinque anni, avendone cinquanta. E qual era, l'aspetto di una persona cinquantenne? Lei lo fissava, cercando le parole con cui rivelare i fatti, o forse offuscarli. — Mi toccò. Per poco non balzai sotto il soffitto. — Come anticipando la domanda, si mise una mano sul seno e distolse lo sguardo. — Ero in casa mia. Andy era entrato in cucina. Stavo bevendo una tazza di tè, così naturalmente ne offersi una anche a lui. Non che mi fosse simpatico, badi. "È malvagio. Oh, sì, non sto esagerando. Non è solo un tipo strano, è cattivo. Basta guardargli gli occhi. Era un bambino, quando arrivò qui, ma non era come gli altri, non era normale. Sua madre avrebbe voluto che gli permettessero di giocare con Daisy... be', se la immagina una cosa del genere? Perfino Naomi disse di no, non solo Davina. Gli venivano certe crisi di rabbia che lo si sentiva urlare attraverso le pareti, e gli duravano ore. Non potevano far niente, in quei casi. "Avrà avuto al massimo quattordici anni quando lo sorpresi a sbirciarmi attraverso la finestra del bagno. Ero vestita, per fortuna, ma lui mica lo sapeva quando aveva cominciato a guardare, le sembra? Era quello lo scopo, vedermi senza niente addosso." — Il bagno? — disse Wexford. — Come aveva fatto, si era arrampicato su un albero? — I bagni sono al pian terreno, in queste case. Non mi domandi perché. Erano state costruite così, con i bagni al piano terra. Lui doveva solo passare dal giardinetto di casa sua, attraverso la siepe, e gironzolare all'esterno. Poco tempo dopo sua madre mi disse che una signora di Pomfret si era
lamentata di lui per la stessa ragione. Guardone, l'aveva chiamato. Naturalmente, a sentir lei era solo una cattiveria e quella donna ce l'aveva col suo povero Andy, ma io sapevo quello che sapevo. — E in cucina che cos'accadde? — Quando mi toccò, intende dire? Be', non voglio entrare nei particolari e non lo farò. Ma dopo, e quando lui ormai se n'era andato, pensai tra me, è solo perché è follemente attirato da te e non sa controllarsi. Ma sapeva controllarsi quando è tornato il giorno dopo a chiedere soldi, vero? Queenie diede un colpetto con la zampa sul vetro. L'uccellino volò via. La pioggia d'improvviso prese a scrosciare con violenza, e l'acqua ora batteva contro le vetrate. La gatta scese e prese ad avviarsi verso la porta. Invece di alzarsi per aiutarla, come Wexford si sarebbe aspettato da una che, come lei, era pazza per gli animali, Brenda se ne rimase dov'era, a osservare. Ben presto divenne chiaro che cosa aspettasse. Queenie si alzò sulle zampe posteriori, mise la zampa destra sulla maniglia e l'abbassò. La porta si aprì e lei la varcò, con la coda eretta. — Non mi dica che non sono più intelligenti degli esseri umani — commentò affettuosamente Brenda. — Vorrei saperne di più su quel tentato stupro, signora Harrison. La parola non le piacque, e la faccia subito le si colorò di un rossore intenso. — Proprio non so perché sia così interessato a certi particolari. — Poi, avendo insinuato che l'interesse di Wexford era di natura morbosa, abbassò gli occhi, torse il collo e si mise a giocherellare con un angolo del grembiule. — Mi toccò, come ripeto. No, fermo, dissi, e lui: Perché no? Non ti piaccio? Non si tratta di piacere o non piacere, gli risposi, sono una donna sposata. Lui allora mi afferrò per le spalle, mi spinse contro il lavello e cominciò a strofinarsi contro di me. Bene, diceva di volere i particolari. A me non fa per niente piacere parlarne. "Mi dibattevo, ma era più forte di me, è chiaro. Gli dissi di lasciarmi andare o sarei corsa subito a dirlo a suo padre. Mi domandò se avevo niente sotto la gonna, e cercò di sollevarmela. Gli mollai un calcio, allora. C'era un coltello posato sullo scolapiatti, era solo un coltellino che usavo per la verdura, ma lo minacciai di piantarglielo in corpo se non m'avesse lasciata andare. Bene, mi lasciò, allora, e mi lanciò un insulto. Mi diede della... sì, insomma, e disse che la colpa era mia perché portavo le gonne strette." — Lo disse al padre? Lo disse a qualcuno? — Pensai che se fossi stata zitta la cosa si sarebbe sgonfiata da sé. Ken è un uomo molto geloso, com'è naturale, del resto. Sa, l'ho visto fare una
scena per un tizio che mi aveva soltanto guardata, su un autobus. A ogni modo, il giorno dopo Andy tornò. Bussò alla porta e io aspettavo l'operaio che doveva aggiustare la lavabiancheria, così andai ad aprire, è logico. Entrò a viva forza. Gli dissi, ora è troppo, stavolta hai passato la misura, Andy Griffin. Lo dirò a tuo padre e al signor Copeland. "Non mi toccò. Si limitò a ridere. Disse che dovevo dargli cinque sterline o avrebbe detto a Ken che ero stata io a chiedergli di... be', di andare con lui. L'avrebbe detto a papà e mamma e l'avrebbe detto a Ken. E tutti gli avrebbero creduto, aggiunse, dato che io ero più vecchia di lui. 'Tanto più vecchia', disse per l'esattezza, se proprio vuole saperlo." — E lei gli diede il denaro? — Io? Mi crede scema? Non sono mica nata ieri. — L'ironia di quell'ultimo commento andò completamente perduta per Brenda Harrison, che continuò serenamente: — Io dissi, pubblicalo e va' all'inferno! L'avevo letto in un libro e m'era rimasto in mente, non so perché. Pubblicalo e va' all'inferno, dissi. Avanti, mascalzone che sei. Voleva cinque sterline subito e cinque sterline la settimana fino a nuovo ordine. Proprio così disse, "fino a nuovo ordine". "Nell'attimo stesso in cui Ken entrò dalla porta, gli raccontai tutto. Lui disse, vieni con me, ragazza mia, andiamo nella casa accanto e vuotiamo il sacco con quei Griffin. Sarà finita anche con Davina, per loro. Lo so che è spiacevole per te, disse, ma ti passerà presto e dopo ti sentirai meglio, sapendo d'avere fatto la cosa giusta. Così andammo da loro e io raccontai tutto. Tranquillamente, senza agitarmi, spiegai per filo e per segno quello che Andy aveva fatto e anche l'altra faccenda, quella del guardone. Naturalmente madama Griffin reagì da isterica, urlando che il suo prezioso Andy non l'avrebbe mai fatto, lui così puro e candido, che non sapeva neppure com'era fatta una ragazza e via discorrendo. Ken disse, ora vado dai signori Copeland - non li chiamavamo mai per nome, parlando con i Griffin, non sarebbe stato il caso - vado dai signori Copeland, disse, e ci andò, e io con lui. "Bene, il risultato fu che Davina disse che Andy doveva andarsene. L'alternativa - così disse, l'alternativa - era di chiamare la polizia, e lei non voleva farlo, se lo si poteva evitare. La Griffin non volle saperne, non intendeva separarsi dal suo Andy, perciò sarebbero andati via tutti, e il marito si sarebbe messo in pensione prima del tempo, sebbene cosa intendesse per "prima del tempo", non lo so. A me sembra che lui sia sui settanta, almeno. "Naturalmente ci toccò sopportarli nella casa accanto per diverse setti-
mane, anzi per mesi. Badi bene, Andy aveva un lavoro, allora, un posto di uomo di fatica per un amico americano di Harvey, che lo aveva raccomandato per bontà di cuore, così non lo vedevamo molto. Io dicevo con Ken: venga quel che venga, dicevo, non rivolgerò più la parola a nessuno di loro. Farò finta di non vederli, se per caso li incontro fuori, e così facevo, infatti, e alla fine se ne andarono e arrivò John Gabbitas." Wexford rimase in silenzio per qualche istante. Contemplava la pioggia. I crochi mettevano macchie purpuree attraverso il verde del prato. La forsizia, già in fiore, era di un giallo vivido contro il grigiore della giornata. — Quando ha visto per l'ultima volta la signora Garland? — domandò a Brenda Harrison. Lei parve sorpresa da quel suo cambiare, in apparenza, discorso. Wexford aveva il sospetto che, ormai che la faccenda era venuta a galla, lei non sarebbe stata contraria a parlare della gelosia del marito e delle proprie irresistibili attrattive. Gli rispose piuttosto delusa. — Da mesi, se non da anni. So che veniva qui quasi tutti i martedì sera ma io non la vedevo mai. Ero già a casa, a quell'ora. — Glielo diceva la signora Jones che sarebbe venuta? — Non ricordo che ne abbia mai parlato — replicò con indifferenza Brenda. — A che scopo, poi? — Ma allora... — Come lo sapevo? Ah, capisco quello che vuole dire. Usava l'auto del fratello di Ken, no? — L'evidente disorientamento di Wexford la indusse a spiegarsi meglio. — Detto tra noi, non disdegnava un bicchiere, la Garland, e magari due o tre. Be', si può anche comprenderla, no? Dopo una giornata in quel negozio. Non ho mai capito come riuscissero a vendere qualcosa. Proprio non so come tirino avanti, quei negozi lì. A ogni modo, quando ne aveva bevuto uno di troppo, intendo dire quando le sembrava d'avere passato i limiti, non si fidava a guidare la macchina, telefonava al fratello di Ken perché andasse a prenderla con una delle sue. Per accompagnarla qui, prima di tutto, o per portarla dove altro doveva andare. È piena di soldi, naturalmente, non ci pensa due volte a telefonare per un taxi. — Suo cognato gestisce un servizio di taxi? La signora Harrison assunse un fare raffinato, rarefatto, lievemente altero. — Io non la metterei così. Lui non si fa nessuna pubblicità, ha una clientela privata, pochi clienti speciali, selezionati. — Poi si allarmò. — È tutto regolare, non mi guardi in quel modo. Le dirò come si chiama, non abbiamo niente da nascondere, noi, le darò tutti i particolari che vuole, stia
tranquillo. Di tanto in tanto in passato, dopo avere pubblicato un libro che pensava potesse interessare all'amico, Amyas Ireland ne mandava una copia a Wexford in omaggio. Era sempre un piacere, nel ritornare a casa la sera, trovare il pacchetto indirizzato a lui, la busta imbottita con il nome e il logo dell'editore sull'etichetta. Da quando la Carlyon-Brent era stata assorbita, però, lui non aveva ricevuto più niente, così fu una vera sorpresa trovare a casa un pacchetto più grande del solito. Stavolta il logo era il leone della St Giles Press ma nell'interno, infilata tra i libri, c'era una lettera sulla familiare carta intestata e una spiegazione da parte di Amyas. Nelle particolari circostanze, aveva pensato che a Wexford potessero interessare i tre libri di Davina Flory che loro stavano ripubblicando in un nuovo formato: The Holy City, The Other Side of the Wall e The Hosts of Midian. Se Reg desiderava una copia del primo - e ormai unico, purtroppo - volume dell'autobiografia, doveva solo chiederla. Si scusava del lungo silenzio. Reg sicuramente sapeva che erano stati incorporati, ma forse ignorava il conseguente scrollone e il timore di Amyas per il destino della propria sigla editoriale. Tuttavia, sembrava che ora le cose andassero bene, la Carlyon Quick, come adesso si chiamavano, aveva in vista un meraviglioso elenco autunnale. In particolare erano felici d'essersi assicurati i diritti del nuovo romanzo di Augustine Casey, The Lash. La conclusione fu quasi sufficiente a sciupare il piacere di Wexford per l'omaggio dei libri di Davina Flory. Il telefono squillò mentre lui stava sfogliando distrattamente il primo. Era Sheila. Telefonava sempre, il martedì sera. Wexford ascoltò Dora parlare con la figlia, cercando di indovinare - uno dei suoi passatempi preferiti - che cosa Sheila stesse dicendo dalle risposte meravigliate, entusiastiche o semplicemente piene d'interesse della moglie. Le parole di Dora, quella sera, non rientravano in nessuna di quelle categorie. La sentì esprimere disappunto, "Oh, peccato," e un più intenso rammarico: "È una buona idea? Sei sicura di sapere quello che fai?" Ascoltò con una sensazione di peso al cuore, di tensione nel petto. Si alzò in parte dalla sedia, tornò a sedersi, ascoltò ancora. Dora disse nel tono rigido e freddo che Wexford detestava, quando era diretto a lui: — Vorrai parlare con tuo padre, immagino. Wexford prese il ricevitore. Prim'ancora che la figlia parlasse, si ritrovò a pensare: ha la voce più bella che abbia mai sentito dalla bocca di una
donna. La bella voce disse: — Mamma è arrabbiata con me. Lo sarai anche tu, scommetto. Ho rifiutato quella parte. Un meraviglioso senso di leggerezza, di straordinario sollievo. Tutto lì, era? — In Miss Julie? Spero tu sappia quello che stai facendo. — Lo sa il cielo se è così oppure no. Il fatto è che vado nel Nevada con Gus. L'ho rifiutata per andare nel Nevada con Gus. 14 Alla stazione di Kingsmarkham, una scritta luminosa annunciava che era in atto un sistema sperimentale per fare la fila. In altre parole, invece di aspettare comodamente, due o tre per sportello, ti mettevi in coda tra due cordoni. Peggio che a Euston. Nell'atrio della stazione Vittoria, in corrispondenza della piattaforma da cui sarebbe partito il treno per Manchester, una scritta istruiva i viaggiatori: FORMARE LA FILA DA QUI. Niente che riguardasse il treno, niente che precisasse quando sarebbe partito, soltanto il presupposto che vi sarebbe stata una coda. Peggio che in tempo di guerra. Wexford aveva dei ricordi del tempo di guerra, e a quell'epoca, pur prendendo una lunga fila per scontata, se non altro non vi mettevano sopra tanto di timbro ufficiale. Forse sarebbe stato meglio farsi accompagnare in macchina da Donaldson, ma aveva preferito il treno perché aveva l'incubo delle autostrade e della loro congestione. I treni oggigiorno erano veloci, non s'imbottigliavano insieme ad altri treni, e inoltre i binari non venivano costantemente scavati e riparati come le strade. I treni, a meno che non vi fosse una tormenta o un uragano, viaggiavano. A Kingsmarkham si era comperato un giornale e l'aveva letto durante il tragitto fino alla stazione Vittoria. Poteva sempre comprarsene un altro, lì, qualcosa che gli distraesse la mente da Sheila e da quanto era avvenuto la sera innanzi. D'altra parte, se il Times non gli aveva impedito di pensarci, perché mai doveva riuscirci l'Independent? La fila si snodava molto elegantemente attorno al vasto salone. Nessuno protestava, tutti si limitavano a mettersi in fila senza lamentarsi. Stava ormai formandosi un cerchio completo, quasi che quei viaggiatori stessero per prendersi per mano e cominciare a cantare Auld Lang Syne. Poi, il cancello venne aperto e ognuno poté entrare, non proprio precipitandosi oltre, ma spingendo un po', per l'impazienza di arrivare al treno.
Un bel treno, piuttosto nuovo, aerodinamico, moderno. Wexford aveva il posto riservato. Lo trovò, sedette, guardò la prima pagina del suo giornale e pensò a Sheila, riudì la voce di Sheila. Sentirsela echeggiare nella mente, lo fece trasalire. — Avevi deciso di odiarlo prim'ancora di conoscerlo! Come sapeva inveire! Peggio che nella Bisbetica domata, parte in cui, stranamente, non aveva avuto un gran successo. — Non essere ridicola, Sheila. Non ho mai deciso di odiare qualcuno prima di conoscerlo. — C'è sempre una prima volta. Oh, lo so il perché. Eri geloso, sapevi d'averne motivo. Sapevi che nessuno degli altri significava davvero qualcosa, per me, nemmeno Andrew. Mi ero innamorata per la prima volta in vita mia e tu hai visto il pericolo, eri ben deciso a odiare chiunque avessi amato sul serio. E perché? Per la paura che potessi volergli più bene che a te. Spesso avevano litigato, prima. Erano entrambi di quelli che si inalberano, prendono fuoco, creano e dimenticano la causa della baruffa nel giro di pochi minuti. Stavolta era diverso. — Non stiamo parlando d'amore — aveva replicato lui. — Stiamo parlando di buon senso e di comportamento ragionevole. Stai per buttar via la parte migliore che tu abbia mai avuto e seppellirti in un posto fuori del mondo, unicamente per stare con quel... — Non dirlo! Non insultarlo! — Non potrei mai insultarlo! Come lo insulti, un miscredente come lui? Un pagliaccio ubriacone e sboccato? Il peggior insulto che potessi trovare lo lusingherebbe. — Mio Dio, qualsiasi cosa abbia ereditato da te, sono contenta che non sia la tua linguaccia. Stammi a sentire, padre... Era scoppiato a ridere. — Padre? Da quando mi chiami padre? — Giusto, non ti chiamerò in nessun modo. Ascolta bene: io lo amo con tutto il cuore. Non lo lascerò mai. — Non sei su un palcoscenico, ora — aveva detto Wexford con perfidia, e l'aveva sentita trattenere il respiro. — E se vai avanti così, dubito sinceramente che ci salirai mai più. — Mi domando — aveva detto lei, con distacco (oh, aveva ereditato molto da lui!) mi domando se ti sei mai soffermato a riflettere su quanto sia insolito che una figlia sia così affettuosa con i suoi genitori quanto lo sono stata io con mamma e con te, telefonandovi un paio di volte la setti-
mana, venendo sempre a trovarvi. Ti sei mai domandato perché? — No. Lo so il perché. È perché siamo sempre stati cari, dolci e amorosi con te, ti abbiamo viziata in tutti i modi e ti abbiamo permesso di metterci sotto i piedi, ma ora che ho trovato il fegato di tenerti testa e di dirti alcune verità su te e su quel brutto pseudo... Non aveva potuto terminare la frase. Quanto stava per dichiarare grazie a quel "fegato", non era arrivato a dirlo, e ora aveva dimenticato che cosa fosse. Prima che lui potesse aggiungere un'altra parola, Sheila aveva scaraventato giù il ricevitore. Sapeva che non avrebbe dovuto parlarle in quel modo. Sua madre, tanto tempo prima, aveva spesso usato una frase forse ricorrente quando era giovane lei: "Parola detta, torna indietro!" Se soltanto fosse stato possibile far tornare indietro tutto quello che uno aveva detto! Cancellare, ripetendo la formula di sua madre, l'insolenza e il sarcasmo, far sparire cinque minuti buoni. Ma non era possibile, e nessuno sapeva meglio di lui che nessuna parola, una volta pronunciata, poteva mai andare perduta; tutt'al più, un giorno, poteva venire dimenticata, come tutte le cose che capitano nel corso di un'esistenza umana. In tasca aveva il telefonino. Sul treno c'era molta gente che usava telefoni come il suo, quasi tutti uomini che facevano chiamate d'affari. Fino a poco tempo prima si era trattato di una novità, mentre ormai era diffusissimo. Poteva telefonarle, forse l'avrebbe trovata a casa. Ma c'era il rischio che abbassasse il ricevitore, nel sentire che era lui. Wexford, che di solito se ne infischiava dell'opinione altrui, non sopportava l'idea che i suoi compagni di viaggio assistessero all'effetto che questo gli avrebbe fatto. Passava un carrello con caffè e con quegli onnipresenti panini, rivestiti di plastica, che tanto gli piacevano. A questo mondo ci sono due generi di persone - tra i pasciuti, s'intende - quelle che quando hanno una preoccupazione mangiano per consolarsi e quelle alle quali l'ansia toglie l'appetito. Wexford apparteneva alla prima categoria. Aveva fatto la prima colazione e presumibilmente avrebbe pranzato, ma ugualmente si comprò un panino con prosciutto e uovo sodo. Nel divorarlo con gusto, si ritrovò a sperare che quel che lo aspettava alla Royal Oak allontanasse in qualche modo Sheila dalla sua mente. A Crewe prese un taxi. L'autista sapeva tutto sulla prigione, dov'era e che specie di istituzione era. Wexford si domandava chi fossero i passeggeri che vi accompagnava di solito. Visitatori, forse, mogli e fidanzate. C'era stato un tentativo, circa un paio d'anni prima, di autorizzare "visite
coniugali in privato", ma alla proposta era stato messo subito il veto. Evidentemente il sesso veniva ai primi posti tra le piacevolezze da non approvare. Risultò che la prigione era in aperta campagna: nella vallata del Fiume Wheelock, a detta dell'autista, il quale, col tono della guida esperta, spiegò poi a Wexford che il nome Royal Oak, quercia regale, veniva da un antico albero, da lungo tempo scomparso, che aveva dato ricetto a Re Carlo, permettendogli di sfuggire ai suoi nemici. Non precisò di che Carlo si trattasse, e Wexford si domandò quanti alberi del genere proliferassero in Inghilterra, senza dubbio numerosi quanto lo erano i letti in cui aveva dormito Elisabetta I. Sicuramente ce n'era uno nella Foresta di Cheriton, luogo favorito per i picnic. Carlo doveva avere passato anni della sua vita ad arrampicarsi sugli alberi. Enorme, spampanato, bruttissimo: sicuramente il muraglione di cinta più alto e più lungo delle Midland. Niente alberi, lì. Anzi, era talmente spoglia, la spianata sulla quale sorgeva il gruppo di fabbricati in mattoni rossi, da rendere il nome Royal Oak veramente assurdo. Wexford era arrivato. Il taxi sarebbe tornato a prenderlo? Wexford si vide consegnare il biglietto della società di vetture a nolo. Poteva telefonare. Il taxi disparve piuttosto velocemente come se, a meno di non svignarsela al più presto, potessero sorgere problemi sul riuscire a venir via. Uno dei direttori, certo David Cairns, gli offrì una tazza di caffè in una stanza piuttosto accogliente, con tanto di moquette e di poster incorniciati alle pareti. Per il resto, il luogo era simile a tutti gli altri del genere, ma non vi stagnavano cattivi odori. Mentre Wexford beveva il caffè, Cairns disse di supporre che sapesse tutto su Royal Oak e la sua sopravvivenza, in barba alla sfiducia e alle critiche del Ministero degli Interni. Wexford pensava di sì, ma Cairns, un idealista dagli occhi lucenti, passò ugualmente a descrivergli il sistema. Ne era fiero, evidentemente. Poteva sembrare un paradosso, ma a Royal Oak venivano avviati proprio i detenuti più violenti e più recalcitranti. Naturalmente, a loro volta dovevano essere disposti ad andarci. Ed erano in tanti, a volerlo, che al momento ce n'erano un centinaio in lista d'attesa. Personale e ospiti si davano del tu e si chiamavano per nome. Terapia di gruppo e dibattiti erano all'ordine del giorno. I detenuti si mischiavano poiché, caso unico, lì non vigeva alcuna segregazione né alcuna gerarchia in base alla quale i criminali e i violenti venivano in testa all'elenco e i colpevoli di reati sessuali alla fine. Tutti gli ospiti venivano a Royal Oak per raccomandazione, in genere, di
un medico addetto alle carceri. Il che fece ricordare a Cairns che il loro medico, Sam Rosenberg, desiderava vedere Wexford prima che si recasse a parlare con Jem Hocking. Come già lui aveva detto, lì ci si chiamava solo per nome: niente "signor" Tizio o "dottor" Caio. Un inserviente condusse Wexford nell'ospedale, che era in un'altra ala. Oltrepassarono uomini che si aggiravano liberamente - fino a un certo punto, liberamente - vestiti in tuta o in calzoni e maglione. Lui non seppe astenersi dal gettare un'occhiata attraverso una finestra interna: era in atto una seduta di terapia di gruppo. I detenuti sedevano in cerchio. Stavano aprendo i loro cuori e mettendo a nudo le loro anime, spiegò l'accompagnatore di Wexford, e imparando come portare alla superficie tutte le loro confusioni interne. A Wexford sembrò che avessero l'aria abbattuta e avvilita come la maggior parte dei carcerati. Nell'ospedale c'era lo stesso odore che regnava nell'infermeria di Stowerton. Lo stesso che si avverte in tutti gli ospedali, del resto, salvo che nelle cliniche private, che sanno soprattutto di quattrini. Il dottor Rosenberg era in una stanza che ricordava quella delle infermiere, a Stowerton: mancava solo il fumo di sigaretta. Dalla finestra si dominava la vasta pianura verde e una fila di piloni dell'elettricità. La colazione, sufficiente per due, era appena arrivata. Mucchietti di una melma scura sopra guanciali di riso bollito: curry di pollo, probabilmente. Per seguire, tortine di frutta "individuali" e un cartone di latte scremato. Ma Wexford mangiava per consolarsi e accettò subito l'invito di Rosenberg, a fargli compagnia mentre parlavano di Jem Hocking. Il medico era un uomo basso e grassoccio sulla quarantina, con una faccia rotonda e infantile e una massa di capelli prematuramente grigi. Vestiva in tuta anche lui, proprio come i detenuti. — Che cosa ne pensa? — domandò, accennando con la mano verso la porta e il soffitto. — Di questo posto, voglio dire. Un po' diverso dal "Sistema", eh? Wexford comprese che, per "Sistema", intendeva riferirsi al resto del servizio carcerario, e si disse d'accordo. — Pare che non funzioni, naturalmente. Se per "funzionare" intendiamo l'impedire loro di rifarlo. D'altra parte, è un po' difficile giudicare, perché la maggior parte di loro non ha la possibilità di far molto. Sono ergastolani. — Sam Rosenberg ripulì il piatto dai resti del curry con un pezzo di pane. Il pranzo gli piaceva molto, a quanto sembrava. — Jem Hocking ha chiesto di venire qui. È stato condannato in settembre, lo hanno mandato a
Wandsworth, mi pare, e ha cominciato a fare il diavolo a quattro. L'hanno trasferito qui poco prima di Natale e si è adattato a quello che facciamo qui, più o meno una "analisi" dei fatti, come se... come se l'avessimo invitato a nozze. — Che cos'aveva fatto? — Per che cosa era stato condannato? Era entrato in una casa dove si supponeva che la proprietaria tenesse con sé, durante il weekend, gli incassi del suo negozio, aveva trovato cinquecento sterline circa dentro una borsetta e aveva quasi ammazzato la poveretta, una donna di settantadue anni, colpendola a martellate. — Niente armi da fuoco? — Nessuna, per quanto ne so. Prenda una di queste tortine, vuole? Sono ai lamponi e ai mirtilli, niente male. Il latte è scremato perché io sono un po' fissato col colesterolo. Ne ho un po' paura, voglio dire, e quindi cerco di tenerlo a bada. Jem è malato, al momento. Pensa d'essere in punto di morte ma non è così. Non ancora. Wexford inarcò un sopracciglio. — Non sarà un problema di colesterolo, immagino. — Be', no. Anzi, per la verità non gliel'ho mai misurato, il colesterolo. — Rosenberg esitò. — In genere i piedipiat... — scusi, non intendevo offenderla — nella polizia, dicevo, hanno ancora molti pregiudizi contro i gay. Voglio dire, capita di sentirli parlare di finocchi e di checche, con battute e sberleffi. È uno di quelli, lei? No, vedo bene che non lo è, ma forse è ancora dell'idea che gli omosessuali siano tutti ballerini e parrucchieri per signora. Non uomini veri. Ha mai letto niente di Genet? — Qualcosa, ma tanto tempo fa. — Wexford cercò di rammentare dei titoli e ne ricordò uno. Our Lady of the Flowers. — Querelle of Brest, era quello che avevo in mente io. Genet, più di ogni altro, ti fa capire che i gay possono essere duri e spietati quanto gli eterosessuali. Di più, anzi. Possono essere ladri, assassini e capaci di crimini brutali, oltre che di disegnare vestiti da donna. — Sta dicendo che Jem Hocking è uno di loro? — Vede, una delle ragioni per le quali Jem ha voluto venire qui era per parlare apertamente della sua omosessualità con altri uomini. Parlarne di continuo, a ruota libera, in gruppi. Il mondo in cui ha vissuto è forse quello che ha il maggior numero di pregiudizi. E poi si è ammalato. — Intende dire che ha l'AIDS, vero? Sam Rosenberg lo fissò attraverso le palpebre socchiuse. — Vede, anche
lei lo associa con la comunità dei gay. Mi creda, tra un anno o due sarà altrettanto comune tra gli eterosessuali. Non è la malattia dei gay. Capito? — Ma Jem Hocking ce l'ha? — Jem Hocking è sieropositivo. Ha avuto un gran brutto attacco di influenza. Abbiamo avuto un'epidemia di influenza, qui alla Royal Oak, e lui l'ha presa in forma un po' più grave degli altri, abbastanza grave da dover essere ricoverato per una settimana. Se tutto va bene, tra qualche giorno sarà di nuovo in comunità, ma lui insiste nel dire che la sua è polmonite da AIDS e pensa che io tergiversi per non dirgli la verità. Ecco perché, convinto d'essere in punto di morte, vuole vederla. — Perché vuole vedermi? — Non gliel'ho domandato e, quand'anche lo avessi fatto, non me l'avrebbe detto. Vuole dirlo a lei. Caffè? Era un uomo suppergiù dell'età del dottore ma bruno e olivastro, con la barba di una settimana sulle guance e sul mento. Wexford, pratico del moderno andazzo degli ospedali, si aspettava di trovarlo in vestaglia e seduto in poltrona, ma Jem Hocking era a letto. Appariva ben più sofferente di quanto fosse mai parsa Daisy. Le mani che riposavano sulla coperta erano azzurrognole di tatuaggi. — Come va? — disse Wexford. Hocking non rispose subito. Si portò un dito arabescato di blu sulle labbra e se le sfregò. Poi disse: — Non bene. — Vuoi parlarmi di quando eri a Kingsmarkham? Di questo si tratta? — Nel maggio scorso. Le ricorda qualcosa, vero? Ma scommetto che ha già mangiato la foglia. Wexford assentì. — In buona parte. — Sto morendo. Lo sapeva? — Non è vero, a sentire il dottore. La derisione alterò il volto di Jem Hocking, che sogghignò. — Non te la dicono, la verità. Nemmeno qui dentro. Nessuno dice mai la verità, né qui, né altrove. Non possono, non è possibile. Dovresti addentrarti in troppi particolari, dovresti frugarti l'anima. Insulteresti tutti e ogni parola ti farebbe conoscere per quel bastardo che sei. Ha mai pensato a questo? — Sì — disse Wexford. Hocking si sarebbe aspettato tutto tranne un sì così esplicito. Fece una pausa, poi: — Per buona parte del tempo non faresti che ripetere: "Vi odio, vi odio" e quella, sì, sarebbe la verità. E "Voglio morire ma ho una paura
pazza della morte". — Fece un lungo respiro. — Lo so che sto per morire. Mi verrà un altro attacco come quello che ho avuto ma sarà un po' peggio, e poi un terzo, e quello mi porterà via. Potrebbe succedere anche più presto di così. La fine è stata maledettamente rapida, per Dane. — Chi è Dane? — Ho pensato di dirglielo, prima di morire. Tanto valeva. Che cosa ci rimetto? Ho perso tutto tranne la vita e anche quella sta per andarsene. — Hocking contrasse il volto, gli occhi parvero farsi più vicini. D'improvviso, apparve a Wexford come uno dei peggiori soggetti in cui si fosse mai imbattuto. — Vuole sapere una cosa? È il solo piacere che mi rimane, dire agli altri che sto morendo. Li mette in imbarazzo, capisce, non sanno che cosa dire, e io me la godo. — Io non mi sento affatto in imbarazzo. — Be', cosa vuoi aspettarti da un piedipiatti fottuto? Entrò un infermiere, in jeans e corto camice bianco. Udì le ultime parole di Hocking e gli disse di non essere scortese, non ce n'era motivo, gettare fango non serviva a niente, ed era ora di prendere l'antibiotico. — Porcherie inutili — replicò Hocking. — Quello della polmonite è un virus, vero? Tutte teste di cavolo, qui dentro. Wexford aspettò pazientemente che Hocking, fra deboli proteste, mandasse giù le sue pillole. Sembrava veramente molto malato, e si poteva benissimo pensare che fosse a un passo dalla morte. Hocking aspettò che l'infermiere uscisse, sollevò la testa e si contemplò i disegni sulle mani tatuate. — Chi è Dane?, dice lei. Glielo spiego subito. Dane era il mio compagno. Dane Bishop. Dane Gavin David Bishop, se vuole l'intera serie di nomi. Aveva solo ventiquattro anni. — Un "Lo amavo", inespresso, era come sospeso nell'aria. Wexford poteva leggerlo sulla faccia di Hocking, ma non era un sentimentale, specie poi con gli assassini, specie con chi prendeva a martellate donne anziane. Lo amava, e con ciò? Forse che l'amare qualcuno redime un uomo? — Quel lavoro a Kingsmarkham lo abbiamo fatto insieme. Lei lo sapeva già prim'ancora di venire qui, o non sarebbe venuto. — Più o meno — disse Wexford. — Dane voleva denaro per comperare quel farmaco. È americano ma lo si trova anche qui. Ha un nome fatto di iniziali, ma non ha importanza. — AZT. — No, piedipiatti sapientone. Si chiama DDI, che sta per Di-deossi-
inosina. La fottuta mutua non lo passa, è inutile dirlo. "Non tirar fuori le tue scuse con me" obiettò tra sé Wexford, dovresti sapere che non attacca. Pensava al sergente Martin, sciocco e avventato ma a volte anche in gamba, un brav'uomo, un brav'uomo serio e ben intenzionato, il sale della terra. — Questo Dane Bishop, è morto, vero? Jem Hocking si limitò a fissarlo. Era uno sguardo carico di odio e di dolore. Wexford pensò che l'odio fosse dovuto al fatto di non essere riuscito a mettere lui in imbarazzo. Forse il solo scopo di quella "confessione" era di provocare un imbarazzo del quale Hocking si era illuso di poter gongolare. — Morto di AIDS, immagino — aggiunse — e non molto tempo dopo. — Morto prima che potessimo procurare il farmaco. Il male se l'è preso in fretta, alla fine. Avevamo visto la descrizione che avevate fatto circolare, macchie sulla faccia, eccetera. Non era acne, quello, era il Sarcoma di Kaposi. — Ha usato una pistola — disse Wexford. — Dove l'aveva presa? Un'alzata di spalle indifferente, da parte di Hocking. — A me lo domanda? Lo sa meglio di me, è facile procurarsi un'arma, se uno la vuole. Non me l'aveva detto: l'aveva e basta. Una Magnum, era. — Di nuovo l'occhiata subdola, di sotto in su. — Se ne è liberato, l'ha buttata a terra, nell'uscire dalla banca. — Ah — disse Wexford quasi silenziosamente, quasi tra sé. — Aveva il terrore che gliela trovassero. Era malato, allora, e la malattia ti rende debole, debole come un vecchio. Ecco perché ha sparato a quel fesso, perché era troppo debole per reggere alla tensione. L'ho portato via di là, e non ero nemmeno dentro la banca, quando lui ha sparato. — Eri preoccupato per lui. Sapevi che aveva una pistola. — L'ho forse negato? — Hai comperato tu una macchina col nome di George Brown? Hocking assentì. — Abbiamo comprato un'auto, un sacco di cose con il denaro liquido, calcolavamo che l'auto potevamo rivenderla, dato che non osavamo tenerci quelle banconote. Le altre le ho avvolte in un giornale e le ho ficcate in mezzo ai rifiuti. La macchina l'abbiamo venduta: mica male come modo di cavarsela, vero? — Si chiama riciclaggio di denaro sporco — commentò Wexford, gelido. — Quand'è fatto su larga scala, per lo meno. — Lui è morto prima di poter avere il farmaco.
— L'hai già detto. Jem Hocking si sollevò a sedere in mezzo al letto. — Sei un bastardo di ghiaccio, sbirro, ecco cosa sei. Se invece che qui fossimo in uno degli altri posti dove sono stato carcerato, non ti avrebbero lasciato solo con me. Wexford si alzò. — Che cosa potresti farmi, Jem? Sono grande tre volte te. Non mi sento in imbarazzo e non mi lascio impressionare. — Sei solo nella più fottuta impotenza. Il mondo è impotente contro un moribondo. — Non direi. Non è scritto da nessuna parte, nella legge, che un moribondo non possa essere accusato di omicidio e rapina. — Non oserai! — Certo che lo farò — ribatté Wexford, e lasciò la stanza. Il treno lo riportò a Euston sotto una pioggia battente. Piovve per tutto il percorso anche dalla stazione Victoria a Kingsmarkham. Appena rientrato in casa, tentò di telefonare a Sheila ma sentì la voce di lady Macbeth, quella che diceva, "Datemi i pugnali", chiedere a chi chiamava di lasciare un messaggio. 15 Avrebbe potuto mandare Barry Vine, o anche Karen Malahyde, ma aveva preferito andare personalmente. Il suo grado atterriva Fred Harrison, un tipo nervoso che assomigliava al fratello in versione più minuta e più anziana. Wexford voleva sapere quando aveva accompagnato per l'ultima volta Joanne Garland a Tancred House e lui, consultata l'agenda, disse una data di quattro martedì prima. — Non l'avrei toccata nemmeno con una pertica, se avessi immaginato che voleva dire guai — dichiarò Fred Harrison. Wexford era divertito suo malgrado. — Dubito che saranno guai per lei, signor Harrison. Ha visto la signora Garland o l'ha sentita, martedì 11 marzo? — Niente, più niente dalla data che le ho detto, il ventisei febbraio. — E quella sera, che cosa è accaduto? Le ha telefonato e le ha chiesto di accompagnarla a Tancred House alle... a che ora, le otto, le otto e un quarto? — Non l'avrei accompagnata da nessuna parte se avessi immaginato che c'era da mettersi nei guai. Deve credermi. Mi ha telefonato come faceva sempre verso le sette, dicendo che doveva essere a Tancred House alle otto
e mezzo. Ho risposto, come sempre, che sarei passato a prenderla qualche minuto dopo le otto, più che in tempo, ma lei ha detto che no, non voleva arrivare in ritardo, e di andarci per le otto meno dieci. Bene, siamo arrivati a Tancred House per le otto e dieci, otto e un quarto. Facendo la strada più breve, per forza si arrivava a quell'ora, ma lei non mi dava mai retta, era terrorizzata all'idea di arrivare in ritardo. Ed era sempre così. Qualche volta mi chiedeva di aspettarla, si sarebbe sbrigata in un'ora, e io ne approfittavo per fare un salto da mio fratello. Questo a Wexford non interessava. — È sicuro — tornò a insistere — che l'undici di marzo non le ha telefonato? — Mi creda, glielo direi. L'ultima cosa che voglio è mettermi nei pasticci. — Non avrà usato un altro servizio di taxi? — E per quale ragione? Non aveva da lamentarsi di me. Non so quante volte mi aveva ripetuto: come farei, Fred, se non avessi te che mi vieni in soccorso. E poi aggiungeva che ero l'unico, qui intorno, di cui si fidasse come autista. Sembrava che non vi fosse altro da cavare dal nervoso Fred Harrison. Wexford se ne tornò a Tancred. Guidava lui stesso e prese la strada di Pomfret Monachorum. Era soltanto la seconda volta che la percorreva. Dopo la pioggia del giorno innanzi il tempo era bello e mite e i boschi erano pieni di vita, la quieta, fresca vita della primavera al suo risveglio. La strada si snodava attorno alla bassa collina boscosa di Tancred. Era troppo presto perché gli alberi mostrassero delle foglie, salvo il biancospino, che era già tutto velato di verde. Sui prugni selvatici la fioritura in boccio pendeva come un bianco velo maculato. Guidava lentamente. Non appena la sua mente si vuotò di Fred Harrison e delle sue paure, Sheila tornò a riempirla. Aveva quasi voglia di gemere. Ogni parola rabbiosa pronunciata durante quell'orribile scontro era fresca nella sua memoria, e non faceva che ripetersi. "...eri deciso a odiare chiunque avessi amato. Perché? Per la paura che potessi volergli più bene che a te." Nell'attraversare i boschi dove l'aconito cresceva in gialli anelli simili a chiazze di vivido sole, aprì il finestrino dell'auto per sentire sulla faccia l'aria dolce, l'aria equinoziale del primo o forse del secondo giorno di primavera. La sera innanzi, con la pioggia che batteva contro le finestre, aveva tentato di telefonare a Sheila, e aveva tentato anche Dora. Voleva scusarsi con lei e chiederle di perdonarlo.
Ma il telefono squillava a vuoto, e quando aveva provato di nuovo, disperato, alle nove e poi alle nove e mezzo, aveva udito la voce della segreteria. Non uno dei messaggi caratteristici: "Se è qualcuno che vuole offrirmi la parte della protagonista in un dramma o vuole portarmi a cena a Le Caprice..." "Tesoro" - l'universale tesoro dell'attrice, che serviva per lui, per Casey o per la donna delle pulizie - "Tesoro, Sheila è dovuta uscire..." No, nessuno di quelli, ma: "Sheila Wexford. Sono assente. Lasciate un messaggio, c'è la probabilità che vi richiami." Lui non aveva lasciato un messaggio ma alla fine era andato a coricarsi, col cuore gonfio. "L'ho perduta", pensava. Non dipendeva dal fatto che si sarebbe trasferita a quasi diecimila chilometri di distanza. Casey gliel'avrebbe portata via nello stesso modo quand'anche avessero deciso di comperare una casa a Pomfret Monachorum e stabilirvisi. L'aveva perduta, e le cose, tra loro, non sarebbero tornate mai più come un tempo. La stradina descrisse un'ultima svolta, procedendo poi diritta su terreno pianeggiante. Sui due lati si stendevano acri di alberi giovani, piantati forse vent'anni prima, dai rami snelli che si protendevano verso la luce di un vivido color rossiccio, il biancospino e il prugnolo in mezzo a loro simili a bouquet di un verde tenero e di un bianco candido. Il terreno tra l'uno e l'altro, disseminato di foglie secche, era chiazzato di macchie di sole. In distanza avvertì un movimento: qualcuno avanzava verso di lui lungo il sentiero, molto più avanti, e sembrava una figuretta giovane, una ragazza. Si rivelava sempre meglio, via via che la distanza si accorciava. Era Daisy. Per quanto fosse improbabile che si trovasse lì, in quel luogo e a quell'ora, era indubbiamente Daisy. Si fermò, nel vedere la macchina. Da quella distanza, non poteva vedere chi fosse l'autista, naturalmente. Indossava jeans e una giacca, la manica sinistra vuota, una sciarpa rosso vivo girata due volte intorno al collo. Dal modo come sgranò gli occhi, Wexford capì che in quell'istante lo aveva visto. Ma non gli sorrideva. Lui frenò e abbassò il vetro del finestrino. La ragazza non aspettò neppure la domanda. — Sono tornata a casa. Sapevo che avrebbero cercato di impedirmelo, così ho aspettato che Nicholas se ne andasse al lavoro, poi ho detto, ora vado a casa, Joyce, grazie dell'ospitalità e arrivederci. Lei ha detto che non potevo, non da sola. Sa come parla, no? "Mi spiace, cara, ma non puoi far questo. E come farai per i bagagli? Chi si occuperà di te?" Ho risposto che avevo già telefonato per chiamare un taxi e che ero in grado di badare a me
stessa. A Wexford passò per la mente che, in realtà, questo non l'aveva mai fatto e che, come in passato, a occuparsi di Tei ci sarebbe stata Brenda Harrison. Ma le piaceva illudersi, come a tutti i giovani. — E ora stai facendo un giro delle tue proprietà? — Sono stata fuori abbastanza. Stavo rientrando, mi stanco presto. — Sulla sua faccia, nei suoi occhi addolorati, era tornata l'espressione depressa. — Mi dà un passaggio? Lui si protese ad aprire la portiera dal lato del passeggero. — Ora che ho diciott'anni — riprese lei, ma senza entusiasmo — posso fare come mi pare e piace. Come faccio per la cintura di sicurezza? Con questo braccio al collo, è un problema. — Non occorre che tu la metta, se non vuoi, visto che siamo su suolo privato. — Davvero? Non lo sapevo. Lei però ce l'ha. — Forza dell'abitudine. Daisy, hai in mente di rimanere qui, da sola? Di vivere qui? — È casa mia. — La voce, già truce al massimo, divenne anche amara. — È tutto mio. Perché non dovrei vivere su ciò che è mio? Wexford non le rispose. Non c'era scopo di farle notare cose che già sapeva - che era giovane, donna e indifesa - e cose di cui forse non si era resa conto, e cioè che poteva essere nell'interesse di qualcuno portare a termine l'operazione cominciata due settimane prima. Se lui intendeva fare sul serio, doveva mettere agenti di guardia a Tancred notte e giorno, non allarmare Daisy con le sue paure. Tornò, invece, all'argomento di cui avevano discusso l'ultima volta che l'aveva vista dai Virson. — Nessun segno di vita da parte di tuo padre? — Mio padre? — È tuo padre, Daisy. Dev'essere al corrente di quanto è successo. Non può essere sfuggito a nessuno che viva in questo Paese, tra la televisione e i giornali. E a meno che io non mi sbagli di grosso, oggi tutti i quotidiani ne riparleranno, visto che c'è stato il funerale. Penso tu debba aspettarti che lui si metta in contatto con te. — Se davvero lo voleva, non le pare che l'avrebbe già fatto? — Non poteva indovinare dov'eri. Per quello che ne sappiamo, potrebbe aver telefonato a Tancred House tutti i giorni. D'improvviso si domandò se non fosse il padre, la persona che lei aveva cercato invano al funerale. Quel padre misterioso di cui nessuno parlava,
ma che doveva pur esistere. Parcheggiò l'auto accanto alla fontana. Daisy scese e rimase a fissare l'acqua. Forse perché splendeva il sole, diversi pesci erano saliti quasi in superficie, bianchi, o piuttosto incolori, e con la testa rossa. Poi lei sollevò la testa verso la statua, la ragazza trasformata in albero, gli arti già racchiusi in un fodero di corteccia, l'uomo sul punto di afferrarla, l'espressione bramosa e le braccia tese. — Daphne e Apollo — disse. — È una copia del Bernini. Una buona copia, immagino. Non lo so, non m'intendo di queste cose. — Fece una smorfia. — A Davina piaceva molto. Figuriamoci! Suppongo che il dio stesse per stuprare Daphne, non crede? Voglio dire, si esprimono con belle parole, fanno sembrare tutto romantico, ma in sostanza era questo che stava per fare. Wexford, senza fare commenti, si domandava quale evento nel passato di lei sollecitasse quella brutalità inaspettata. — Non intendeva corteggiarla, vero? Portarla fuori a cena o comperarle un anello di fidanzamento... Quanto è idiota la gente! — Cambiò discorso, voltando le spalle alla fontana con un lieve scatto del capo. — Quand'ero piccola facevo ogni tanto a Mamma domande su mio padre. Sa come sono i bambini, vogliono sapere tutto. Ma era fatta a modo suo, mia madre; quando c'era qualcosa di cui non voleva parlare, mi diceva di domandare a Davina. Sempre così: "Domandalo alla nonna, te lo spiegherà lei." Così domandavo a Davina e lei diceva, non lo crederà, ma diceva proprio così: "Tua madre se la faceva con i giocatori di pallone, tesoro, e andava sempre a vederlo giocare a football. Ecco come si sono conosciuti." E poi aggiungeva: "Tanto per dire pane al pane, era un mezzo delinquente. Dimenticalo, cara", diceva. "Immagina d'essere nata per partenogenesi, come le alghe", e poi mi spiegava che cos'era la partenogenesi. Era tipico, da parte sua, trasformare tutto in una lezione. Ma questo non mi faceva certo provare amore o rispetto per mio padre. — Sai dove vive? — Più o meno nella zona nord di Londra. Si è risposato. Venga in casa, vuole? Forse riusciamo a scoprire dove abita. Il portone e la porta interna non erano chiusi a chiave. Wexford la seguì nell'interno. Il richiudersi della porta alle loro spalle fece tremare e tintinnare i lampadari. I gigli nella serra avevano un profumo artificiale, come il reparto profumeria di un grande magazzino. Lì nella hall, lei era strisciata fino al telefono, lasciando una traccia di sangue attraverso quel pavimento lucente, era strisciata oltre il cadavere di Harvey Copeland, riverso sugli
scalini. Wexford la vide gettare un'occhiata verso la scalinata, dove un vasto tratto di tappeto era stato tagliato via, scoprendo il nudo legno al di sotto. Daisy si diresse poi alla porta sul retro, che dava nello studio di Davina. Lì, Wexford non era mai entrato. Le pareti erano tutte tappezzate di libri. La singola finestra dava sulla terrazza, di cui la serre formava una parete. Questo lui se l'era aspettato, ma non il bel globo terrestre di vetro verde scuro sul tavolo, non il giardino bonsai nella vaschetta di terracotta sotto la finestra, e neppure l'assenza di un computer, di una macchina per scrivere, di attrezzature elettroniche di qualche genere. Sulla scrivania, accanto a una cartelletta di cuoio, c'era una stilografica d'oro Mont Blanc. In un vasetto, forse di malachite, c'erano penne a sfera, matite, e un tagliacarte dal manico d'osso. — Scriveva tutto a mano — disse Daisy. — Non sapeva battere a macchina, non voleva nemmeno imparare. — Stava frugando nel cassetto di sopra della scrivania. — Eccola. È questa. La chiamava la sua agenda "non amica". La teneva per gente che non le era simpatica o che non... be', che non c'era vantaggio a conoscere. C'era un numero di nomi davvero preoccupante, nell'agenda. Wexford andò subito alla lettera J. L'unico Jones aveva le iniziali G.G. e un indirizzo di Londra N 5. Niente numero di telefono. — Non capisco, Daisy. Perché era tua nonna ad avere l'indirizzo di tuo padre e non la tua mamma? O l'aveva anche lei? E perché G.G.? Perché non il nome per esteso? In fin dei conti, era stato suo genero. — Lei proprio non capisce. — Daisy accennò un sorriso fuggevole. — A Davina piaceva tenere d'occhio la gente. Voleva sapere lui dov'era e che cosa stava facendo, anche se non lo avrebbe più rivisto in vita sua. — Al che si addentò le labbra, ma continuò. — Sa, era molto furba, molto organizzata. Avrebbe sempre saputo con esattezza lui dov'era, se anche si fosse trasferito un'infinità di volte. Stia pur certo che quello è l'indirizzo giusto. Probabilmente si aspettava che lui si ripresentasse, una volta o l'altra e... be', chiedesse denaro. Diceva sempre che la gente del suo passato presto o tardi si rifaceva viva, "usciva dal bosco", per usare una sua espressione. Quanto a Mamma, credo che neppure l'avesse, un'agenda con gli indirizzi. — Daisy, sto cercando un modo per porre questa domanda con tatto, ma non credo che ci sia. Riguarda tua madre. — Wexford esitò. — Le amicizie di tua madre... — Vuol dire, se aveva corteggiatori? Amanti? Ancora una volta, si meravigliò di quanto fosse intuitiva. Assentì. —
Forse a te non sembrava molto giovane, ma aveva solo quarantacinque anni. E poi, non credo che l'età abbia molta importanza, in questo campo, checché ne dica la gente. Le persone hanno amicizie dell'altro sesso, amicizie in senso romantico, a qualsiasi età. — Come le avrebbe avute Davina — improvvisamente Daisy rise — se Harvey fosse caduto dal suo trespolo. — Si rese conto dell'enormità di quello che si era lasciata sfuggire. Trattenne il respiro e si portò istintivamente una mano alla bocca. — Oh, Dio! Mi perdoni per quello che ho detto. Non l'ho detto. Perché diciamo certe cose? Invece di rispondere, poiché non poteva farlo ("Parola detta torna indietro"), lui le ricordò gentilmente che stava parlandogli di sua madre. La ragazza sospirò. — Non ho mai saputo che uscisse con qualcuno. Non l'ho mai sentita nominare un uomo. Penso che proprio non le interessasse. Davina le ripeteva sempre di trovarsi un uomo, che la "tirasse fuori da se stessa", e perfino Harvey provò a cercarglielo. Mi ricordo che Harvey aveva invitato a casa un tale, uno che faceva politica, e che Davina domandava se non sarebbe andato bene per Mamma. Loro credevano che io non capissi in che senso lo dicevano, ma io capivo. — Quando eravamo tutti a Edinburgo, l'anno scorso, sa che c'eravamo andati per il Festival, Davina doveva fare qualcosa al Festival del Libro, Mamma si prese l'influenza, passò a letto tutt'e due le settimane, e Davina si lamentava che era un vero peccato, perché aveva incontrato il figlio di un'amica sua che sarebbe andato proprio bene per Mamma. — Mamma stava benissimo come stava. A lei piaceva vivere così, le piaceva trafficare in quella galleria, guardare la televisione e non avere responsabilità, dipingere un po', farsi i vestiti da sé e cose del genere. Non le importava niente degli uomini. — Un'espressione di estremo sconforto calò all'improvviso sul volto di Daisy, sfociò in un dolore sconsolato, infantile. Piegata in avanti attraverso il tavolo sul quale stava il mappamondo verde, si premette il pugno contro la fronte, poi si passò le dita tra i capelli. Lui si aspettava un improvviso scoppio di rabbia contro la vita e il modo come andavano le cose, un grido di protesta per quello che era accaduto alla sua semplice, innocente, soddisfatta madre, ma lei sollevò invece la testa e disse con grande distacco: — Joanne è uguale, per quanto ne so. Joanne spende un mare di soldi in vestiti e per farsi fare la faccia, i capelli, i massaggi e che so io, ma non lo fa per un uomo. Non so perché lo fa. Per se stessa, forse. Davina non faceva che parlare d'amore e di uomini, lo chiamava avere una vita piena, credeva d'essere così moderna, espressione sua,
ma in realtà alle donne non importa più molto, vero? Sono altrettanto compiaciute di farsi vedere in giro con le amiche. Non occorre avere un uomo per essere una vera donna, non più. Sembrava che stesse giustificando qualcosa nella sua stessa esistenza, cercando di convincersi che andava bene così. Wexford osservò: — La signora Virson dice che tua nonna voleva che tu fossi come lei, che facessi le stesse cose. — Ma senza i suoi errori, sì. Gliel'ho detto, tendeva a organizzare se stessa e gli altri. A dirigerli. Non mi veniva domandato se volessi andare all'università, viaggiare, scrivere libri e... e far l'amore con un sacco di persone diverse. — Daisy distolse lo sguardo da Wexford. — Veniva dato per scontato che l'avrei fatto. In realtà, non ci tengo affatto. Non voglio nemmeno andare a Oxford e... e, be', se non prendo tutti voti alti, non posso. Voglio essere me stessa, non la creazione di qualcun altro. "E così il tempo ha cominciato a fare la sua opera" pensò Wexford. È al lavoro. Ma lei aggiunse qualcosa che lo indusse a ricredersi. — Ammesso che io voglia fare qualcosa. Ammesso che m'importi un corno di quello che succede. Lui non fece commenti. — C'è una cosa che forse vorresti fare. Vuoi venire a vedere come abbiamo trasformato il tuo rifugio in un posto di polizia? — Non ora. Vorrei starmene da sola, adesso. Solo io e Queenie. Era così contenta di vedermi, mi è saltata sulla spalla dal corrimano, come faceva sempre, con delle fusa come se ruggisse. Voglio girare per tutta la casa e guardarla, rifarne la conoscenza. È cambiata per me, capisce? È la stessa ma è completamente diversa. Non andrò in sala da pranzo. Ho già chiesto a Ken di sigillare la porta, almeno per un po' di tempo. La chiuderà in modo che io non possa aprirla per... per distrazione. È raro vedere una persona rabbrividire. Wexford, guardando Daisy, non vide il movimento galvanico del corpo, vide solo i segni esterni dell'intimo brivido, il sangue che defluiva dal volto, la pelle d'oca che si formava sul collo. Era tentato di spiegarle quello che aveva in mente per proteggerla, ma ci ripensò. Sarebbe stato decisamente più sensato metterla di fronte al fait accompli. Lei aveva chiuso gli occhi. Quando li riaprì, Wexford si accorse che aveva fatto uno sforzo per non piangere. Le palpebre erano gonfie. Pensò che, andato via lui, si sarebbe concessa uno sfogo, ma mentre egli usciva il telefono squillò.
Daisy esitò, sollevò il ricevitore e Wexford la sentì dire: — Oh, Joyce. Sei gentile a telefonarmi ma è tutto a posto. Starò benissimo... Karen Malahyde avrebbe passato la notte a Tancred House con Daisy, Anne Lennox la notte successiva, Rosemary Mountjoy quella dopo ancora e così via. Lui avrebbe voluto montare un'ulteriore guardia dalle stalle, due uomini in servizio per tutte le ventiquattr'ore, ma gli tremava il cuore al pensiero di come avrebbe reagito il Vice-Capo di Polizia. Tra l'altro erano a corto di personale, come sempre. La decisione di lasciare che fosse Karen a informare Daisy la prese lì per lì. Oltre a proteggerla, intendeva proteggere se stesso. Evitare, se possibile, di vederla. Credeva, in poche parole, di comprendere il significato di quel senso di premonizione e di allarme che aveva provato in St Peter, e ne inorridiva. Per dieci minuti buoni, seduto alla sua scrivania, nelle stalle, a fissare il cactus che sembrava un gatto persiano ma senza vederlo, senza vedere niente, temette seriamente d'essersi innamorato di lei. Vedeva la cosa come una malattia terminale sulla quale il dottor Crocker avrebbe potuto illuminarlo, come un'orribile maledizione, la vedeva come Jem Hocking vedeva il destino che sicuramente lo avrebbe sopraffatto. Naturalmente c'erano stati esempi, in passato. Lui e Dora erano sposati da più di trent'anni, e quindi era normale che ve ne fossero stati. Quella ragazza olandese, la graziosa Nancy Lake, altre che non c'entravano col suo lavoro. Ma lui amava Dora, il suo era un matrimonio felice. E inoltre era ridicolo, lui e quella bambina. Ma come l'intera giornata gli si illuminava, nel vederla, nel vedere quel visetto triste! Com'era felice, quando lei gli parlava, quando sedevano insieme a chiacchierare! E com'era bella, lei, e intelligente, e brava! Mise quel suo timore alla prova, l'unica prova. Cercò di immaginare di fare l'amore con lei, di averla lì, nuda, e di desiderare di possederla, e l'intero concetto era grottesco. Non era vero che la desiderasse, non era vero affatto. L'idea gli ripugnava al punto da farlo trasalire. Neppure nelle sue fantasie più segrete avrebbe potuto contemplare la possibilità di sfiorarla, nemmeno con la punta di un dito. No. Capiva, ora, quello che provava. Invece di gemere, come avrebbe voluto fare dieci minuti prima, ruppe in una risata omerica, irrefrenabile. Barry Vine, fino a quel momento incollato a un rapporto che stava leggendo, si girò a fissarlo. Wexford smise immediatamente di ridere e prese un'espressione truce. Credeva che Vine stesse per dire qualcosa, porgli
qualche domanda sciocca come avrebbe fatto un tempo il povero Martin, ma ancora una volta aveva sottovalutato Vine, il quale era di nuovo immerso nella sua lettura. Wexford ora si rendeva conto con gioia di ciò che veramente era successo. Non c'entrava il sesso, non si era "innamorato", grazie al cielo. La sua mente aveva semplicemente sostituito la perduta Sheila con Daisy. Aveva perso una figlia e ne aveva trovata un'altra. Che strana cosa era mai la psiche umana! Riflettendoci, capiva che proprio questo era avvenuto in lui. Vedeva in Daisy una figlia, perché era un uomo che aveva bisogno di figlie. Provò un lieve senso di colpa per non essersi rivolto invece all'altra, a Sylvia, la figlia maggiore. Perché adorare divinità estranee, avendone una tutta sua a portata di mano? Perché i sentimenti e le necessità esplodono dove vogliono, pensò, senza riguardo per ciò che è adatto o appropriato. Ma si ripromise di vedere presto Sylvia, magari di portarle un regalo. Lei stava per cambiar casa e trasferirsi in qualche antico rettorato in piena campagna. Sarebbe andato a trovarla, si sarebbe informato sul trasloco e su come poterle essere utile. E nel frattempo la risoluzione di vedere meno spesso Daisy era meglio mantenerla, per l'eventualità che quell'amore meno pericoloso divenisse divorante quanto l'altro, di un genere ben più temibile. Sospirò e questa volta Barry Vine non si girò a guardarlo. Gli elenchi telefonici di Londra erano stati portati lì quando vi si erano trasferiti e Wexford andò a consultare il volume che un tempo era rosa, l'E-K, e sulla cui copertina illustrata il rosa continuava a predominare. I Jones erano a centinaia, naturalmente, ma i G.G. Jones non erano molti. Daisy aveva avuto ragione nel dire che Davina avrebbe avuto l'indirizzo esatto del genero. Eccolo lì, Jones, G.G., 11 Nineveh Road, N 5, e c'era anche un numero di telefono. Ma Wexford non allungò la mano verso l'apparecchio e rimase invece a meditare sul vero significato di quelle iniziali, e a domandarsi perché mai tra Jones e la figlia fosse stato stabilito un vuoto così assoluto. Pensava anche all'eredità e agli svariati, diversi sbocchi che vi sarebbero stati qualora a salvarsi fosse stata Davina, per esempio, oppure Naomi. E quale significato, se mai ve n'era uno, si poteva annettere al fatto che né Naomi né Joanne si fossero interessate agli uomini, preferendo, apparentemente, la compagnia reciproca? Un rapporto sul suo tavolo esprimeva l'opinione di un esperto in armi da fuoco. Con la mente ormai sgombra, lo rilesse con maggiore attenzione. La prima volta, quando era angosciato dal timore d'essere preda della più obnubilante delle ossessioni, non ne aveva compreso bene il senso. L'esperto
diceva che, sebbene le cartucce usate per uccidere Martin apparissero diverse da quelle usate a Tancred House, in realtà potevano anche non esserlo. Era possibile, a chi se ne intendeva, manomettere la canna di una pistola, per incidervi segni che a loro volta si sarebbero impressi su una cartuccia che l'avesse attraversata. A parer suo, poteva essere avvenuto benissimo, nel caso in questione... — Harry — disse Wexford — era vero quello che diceva Michelle Weaver. Bishop gettò a terra l'arma, che slittò attraverso il pavimento della banca. Per strano che possa sembrare, erano due le armi che scivolarono via su quel pavimento, dopo che Martin era stato colpito. Vine si alzò, venne ad appollaiarsi sull'orlo della scrivania. — Hocking mi ha detto che Bishop gettò a terra la pistola, la Colt Magnum. Era una Colt Magnum trecentocinquantasette o trentotto, impossibile stabilirlo. Qualcuno, nella banca, raccolse quell'arma: sicuramente una delle persone che non si trattennero fino al nostro arrivo. Uno degli uomini. Sharon Fraser ebbe l'impressione che quelli che si erano allontanati fossero tutti uomini. — Una pistola la si raccoglie solo con premeditazione. — Sì, ma forse non con intenti criminali. Con una semplice, generalizzata tendenza a violare la legge. — Per l'eventualità che un giorno l'arma possa tornare utile, signore? — Qualcosa del genere. Proprio come mio padre, quando vedeva un chiodo per terra, lo raccoglieva. Chissà, poteva sempre far comodo. Il suo telefonino stava emettendo segnali. Dora, o il posto di polizia. Chiunque volesse parlare con loro in riferimento al massacro di Tancred avrebbe presumibilmente chiamato il numero verde che appariva ogni giorno sugli schermi televisivi. Era Burden, che quel giorno non era venuto su alle stalle. — Reg, è appena arrivata una chiamata. Non un nove, nove, nove. Un uomo con un accento americano. Telefonava per conto di Bib Mew. Lei abita nella casa accanto, non ha il telefono, e dice d'avere trovato un cadavere nei boschi. — So di chi si tratta. Ho anche parlato con lui. — La Mew ha visto un cadavere — ripeté Burden — appeso a un albero. 16 Li fece entrare ma senza dire niente. Guardava Wexford con lo stesso
sguardo inespressivo e impotente che avrebbe potuto rivolgere a un ufficiale giudiziario venuto a inventariare i suoi beni, e questo caratterizzò il suo atteggiamento fin dall'inizio. Era inebetita, disperata, incapace di lottare contro le acque che si erano chiuse al di sopra della sua testa. Cosa strana, sembrava più mascolina che mai in calzoni di velluto a coste, camicetta scozzese e pullover scollato a V. Quel giorno non aveva neppure l'orecchino. "Quasi quasi mi metterei a piangere io, a disdoro del fatto che porto i calzoni", pensava Wexford. Ma Bib Mew non piangeva, e del resto non era un luogo comune che le donne piangessero e gli uomini no? — Ci dica che cos'è successo, signora Mew — stava dicendo Burden. Li aveva condotti nell'ingombro salottino alla cui romantica autenticità mancava soltanto una vecchietta avvolta nello scialle seduta su una delle poltrone. Là, sempre senza dire una parola, si era lasciata cadere sul vecchio sofà di crine. Non distoglieva mai gli occhi dalla faccia di Wexford, il quale pensava: avrei dovuto portare una delle agenti, con me, perché siamo di fronte a qualcosa che finora non avevo compreso. Bib Mew non è semplicemente eccentrica, lenta, stupida, se il termine non è troppo duro. È ritardata, mentalmente handicappata. Lo assalì un senso di compassione. Per le persone come lei uno choc era anche più grave, penetrava in loro e in un certo senso sconvolgeva la loro innocenza. Burden aveva ripetuto la domanda. — Signora Mew — disse Wexford — penso che lei dovrebbe bere qualcosa di caldo. Possiamo procurarglielo noi? Oh, avere lì Karen, o Anne! Ma la sua offerta aveva sbloccato la voce di Bib. — Me l'ha già dato lui. Quello qui accanto. Era inutile sperare in quello che Burden si aspettava. Quella donna non sarebbe stata in grado di dar loro alcun resoconto concreto di ciò che aveva scoperto. — Lei era nei boschi — cominciò a dire Wexford. — Stava andando al lavoro? Il cenno d'assenso della donna era più che impaurito. Era il movimento terrorizzato di un essere ridotto con le spalle al muro. Burden lasciò la stanza in silenzio, in cerca, Wexford lo intuì, della cucina. Ora veniva la parte peggiore, quella che poteva scatenare in Bib urla isteriche. — Ha visto qualcosa, qualcuno? Ha visto qualcosa penzolare da un albero? Di nuovo un cenno d'assenso. Bib aveva cominciato a torcersi le mani con una serie di rapidi movimenti, come per asciugarsele. Sentirla parlare
lo sorprese. Con grande diffidenza, lei disse: — Una persona morta. "Oh, Dio" pensò Wexford "a meno che questa poveretta non farnetichi, e non credo, si tratta certo di Joanne Garland." — Uomo o donna, signora Mew? Lei ripeté quel che aveva già detto. — Una persona morta — e poi — appesa su. — Sì. Poteva vederla dalla strada secondaria? Un'energica scrollata del capo e poi Burden tornò con il tè dentro un boccale su cui erano stampate le facce del Duca e della Duchessa di York. Un cucchiaio ne sporgeva, e Wexford intuì che Burden aveva messo zucchero in quantità tale da farlo stare ritto. — Ho telefonato in sede — annunciò Burden. — Ho detto ad Anne di venire qui. — Poi aggiunse: — E a Barry. Bib Mew si accostò il boccale al petto, serrandovi le mani intorno. Chissà perché a Wexford venne in mente che un tale gli aveva spiegato come, nel Kashmir, la gente mettesse recipienti di carbone rovente sotto i panni, per riscaldarsi. Se loro due non fossero stati presenti, forse Bib avrebbe infilato il boccale sotto il maglione. Sembrava trarre conforto dal tè come fonte di calore, più che come bevanda. — Sono andata tra gli alberi — disse lei. — Dovevo andarci. Wexford impiegò un istante o due per capire a che cosa alludesse. In tribunale dicevano ancora "per scopi di natura". Burden sembrava disorientato. La donna doveva essere a soli dieci minuti da casa sua, ma naturalmente era possibile anche in quel caso, si poteva venire "colti di sorpresa", che avesse avuto problemi del genere. O forse, che non osasse servirsi dei bagni di Tancred House. — Ha lasciato lì la bicicletta — riprese gentilmente — si è addentrata fra gli alberi... e poi l'ha visto? Lei cominciò a tremare. Gli toccava insistere. — Non ha proseguito per Tancred, è tornata indietro? — Terrorizzata, terrorizzata, terrorizzata. Ero terrorizzata. — Ora puntava un dito verso la parete. — L'ho detto a lui. — Sì — disse Burden. — Potrebbe... potrebbe dirci dove? Lei non urlò. Il suono che emise era una specie di borbottio incomprensibile, tremando in tutto il corpo. Il tè prese a oscillare nella tazza e debordò da un lato. Wexford le tolse gentilmente la tazza dalle mani e disse nel tono più calmo e più suadente che poté: — Non importa. Non si
preoccupi. Lo ha detto al signor Hogarth? — Vide che lo guardava senza comprendere, e gli sembrò che avesse cominciato anche a battere i denti. — A quello che sta qui accanto? Cenno di assenso. Le mani di lei tornarono a chiudersi intorno alla tazza, serrandola. Wexford sentì arrivare la macchina, fece cenno a Burden di far entrare gli altri. Barry Vine e Anne Lennox avevano impiegato undici minuti esatti per arrivare. Wexford li lasciò con Bib Mew e andò fino alla porta accanto. La bicicletta del giovanotto americano era appoggiata contro il muro. Non c'era né campanello né battente, così provò a muovere su e giù il coperchio della cassetta delle lettere. Il giovane all'interno ci mise un bel pezzo a rispondere, e quando aprì non sembrò molto compiaciuto di vedere Wexford. Senza dubbio era seccato di venire coinvolto. — Oh, buongiorno — disse piuttosto freddamente, e poi, con rassegnazione: — Ci siamo già conosciuti. Si accomodi. La voce era gradevole. Da persona istruita, sebbene non raffinata quanto quella del signor Littlebury. Il giovanotto lo fece accomodare in un sudicio soggiorno, cosa che del resto lui si aspettava, trattandosi di un ragazzo di quell'età, ventitré, ventiquattro anni, che viveva solo. C'erano molti libri in scaffali di fortuna fatti con assi che poggiavano su pile di mattoni, un buon televisore, un vecchio e sgangherato divanetto verde, un tavolo con le gambe pieghevoli appesantito da libri, carte, macchina per scrivere, strumenti di metallo indefinibili tipo pinze e chiavi inglesi, piatti, tazze e un bicchiere mezzo vuoto di qualcosa di rosso. I giornali occupavano la sola altra cosa utile per sedersi, una scomoda sedia Windsor. L'americano li spazzò via, facendoli cadere a terra e togliendo inoltre dallo schienale, dov'erano appesi, una maglietta bianca sporca e un paio di calzini infangati. — Posso sapere il suo nome per intero? — Perché no? — Però non lo disse. — Ma potrei sapere a quale scopo? Voglio dire, io non sono coinvolto in questa storia. — Routine. Niente di cui debba preoccuparsi. Allora, gradirei saperlo. — OK, se proprio ci tiene. Jonathan Steel Hogarth. — I suoi modi cambiarono, divenne espansivo. — Mi chiamano Thanny. Be', io ho deciso per Thanny, e ora mi chiamano tutti così. Non possono chiamarsi tutti Jon, le pare? Così mi sono detto che se una Patricia poteva diventare Tricia, io potevo diventare Thanny. — È cittadino americano?
— Sì. Debbo far intervenire il mio console? Wexford sorrise. — Non sarà necessario, penso. È qui da molto? — Sono in Europa dall'estate scorsa. Dalla fine di maggio. Sto facendo più o meno quello che chiamano il Grand Tour. Abito qui da un mese, circa. Sono uno studente. O almeno, lo sono stato e ho speranze di poter esserlo di nuovo. All'usivi, in autunno. Così ho trovato questo posto, come possiamo chiamarlo? Una capanna? No, un cottage, e non ho fatto in tempo a installarmici che c'è stato un massacro in quella villa lassù e ora la donna qui accanto trova un poveraccio appeso a un albero. — Un poveraccio. Era un uomo? — Che strano, non lo so. Ho immaginato che lo fosse. Rivolse a Wexford un sorriso afflitto. Aveva un volto delicato, sensibile più che bello, con i lineamenti fini, quasi femminei, grandi occhi di un azzurro intenso con lunghe ciglia folte, naso breve e diritto, pelle rosea... e la barba ispida di chi non si rade da un paio di giorni. Il contrasto era davvero singolare. — Vuole che le racconti che cos'è successo? Credo sia stata una fortuna che io ero qui. Ero appena tornato dall'USM... Wexford lo interruppe. — L'ha detto anche prima, USM. Che cos'è l'USM? Hogarth lo guardò come si guarda un povero demente, e Wexford comprese subito il perché. — Andrò a scuola là, dico bene? Università del Sud, Miringham, USM. Lei come la chiamerebbe? Tengono un corso di specializzazione per aspiranti scrittori e mi sono iscritto. Al college avevo seguito anche Letteratura Inglese, ma come prima materia portavo Storia Militare, così mi sono detto che se volevo scrivere romanzi mi occorreva una migliore preparazione. Ho riempito la mia brava domanda d'iscrizione e l'ho consegnata personalmente. — Sorrise. — Non che non mi fidi delle poste inglesi, ma volevo farmi un'idea del campus. Bene, come dicevo, sono andato a consegnare la domanda d'iscrizione, sono tornato a casa... a che ora? Saranno state suppergiù le due, le due e dieci. Ecco che sento picchiare disperatamente sulla porta e il resto, immagino, lo sa già. — Non proprio, signor Hogarth. Thanny Hogarth inarcò le delicate sopracciglia scure. Aveva ritrovato una perfetta padronanza di sé, una padronanza notevole in un ragazzo così giovane. — Non può dirglielo lei stessa? — No — disse pensosamente Wexford — sembra di no, che non possa. A lei che cos'ha detto, esattamente? — Gli era nata l'idea, non troppo cam-
pata in aria, che Bib avesse avuto le traveggole, che magari le fosse capitato altre volte. Forse non c'era nessun cadavere, forse quello che pendeva da un ramo era un foglio di plastica, un sacco gonfiato dall'aria. Dopo il vento e la pioggia, la campagna inglese era spesso festonata da stracci di politene grigiastro... — Cosa le ha detto, di preciso? — Le sue parole esatte? Non è facile ricordare. Ha detto che c'era un cadavere, penzolante... Mi ha detto dove, e poi ha cominciato come a ridere e a piangere. — Un'idea lo colpì, parve piacergli. Improvvisamente era disposto a dare una mano. — Potrei mostrarle il posto. Credo di poterlo trovare, da quello che ha detto, e mostrarglielo. Il vento era caduto e nei boschi c'era grande calma e silenzio, rotto appena da qualche cinguettio smorzato. Ma è raro che gli uccelli canori vivano nelle foreste e un suono ben più usuale era il verso di una ghiandaia o il perforare in lontananza di un picchio. Scesero dall'auto nel punto dove la strada secondaria piegava verso sud. Era una parte antica dei boschi di Tancred, quella, con annosi alberi ancora in piedi e molto altri caduti. Gabbitas o il suo predecessore avevano segato un po' di tronchi, là in mezzo, ma alcuni li avevano lasciati sul posto, ora ricoperti dai rovi, come habitat per la vita selvatica. La luce che penetrava era tanta che intere aeree della foresta erano rallegrate da tenera erba primaverile, ma nell'interno, dove i tronchi erano più fitti, un denso strato di fogliame marcito copriva il terreno. Lo strato superficiale, formato da foglie di quercia secche, scricchiolava sotto i passi. Lì si era addentrata Bib Mew, secondo Thanny Hogarth, che mostrò loro dove calcolava che lei avesse lasciato la bicicletta. La modesta, inibita Bib, doveva essersi inoltrata a lungo tra gli alberi prima d'essere soddisfatta d'avere trovato la privacy. Così a lungo, anzi, che Wexford tornava quasi ad essere del suo primo parere, vale a dire che non avrebbero trovato niente... o nient'altro che un involucro di plastica impigliatosi per il vento in un ramo. Il silenzio che tutti mantenevano, un silenzio truce, sarebbe parso follia, reazione eccessiva e senza scopo, nel momento in cui avrebbero rinvenuto l'oggetto penzolante, lo straccio svolazzante, il sacco vuoto. Wexford andava così almanaccando, e già dava la cosa per conclusa, la visione di Bib riconosciuta per quello che era, l'intera faccenda liquidata con un'esclamazione esasperata... quando lo vide. Tutti lo videro. Erano alberi di agrifoglio, un'intera parete. Schermavano una radura, e
nella radura, da uno dei rami più bassi di un albero enorme, un acero o forse un tiglio, dondolava appeso per il collo. Un fagotto in apparenza, ma non un sacco o uno straccio. C'era peso, il peso della carne e delle ossa, a farlo pendere a piombo dal ramo. Quel fagotto era stato un essere umano, in precedenza. I tre poliziotti non emisero alcun suono. Thanny Hogarth si lasciò sfuggire un oh! C'era sole nella radura, un sole che illuminava il cadavere penzolante di un lieve chiarore dorato. Più che oscillare come un pendolo, il morto ruotava di circa un quarto di cerchio, come un peso metallico all'estremità di un filo a piombo. Il luogo era bello, una valletta silvana con rami coperti di boccioli tutt'attorno e un praticello tutto fiorellini bianchi e gialli. La vista del cadavere, in quello scenario, era oscena. Un altro precedente pensiero tornò alla mente di Wexford, e cioè che colui o coloro che avevano fatto questo traessero piacere dalla distruzione, diletto dalla profanazione. Dopo essere rimasti qualche istante a fissarla, si avvicinarono alla cosa che pendeva. Thanny Hogarth, che si teneva un po' indietro, in faccia era rimasto immutato, ma stava a occhi bassi. In effetti, pensava Wexford, non era quella scoperta emozionante che il giovanotto, spavaldo e ansioso di rendersi utile, si era figurato là al cottage. Se non altro, non minacciava di dare di stomaco. Erano a un metro dal cadavere: un corpo rivestito da una tuta, che un tempo era stato grasso, con il collo orribilmente stiracchiato dal cappio. Wexford si rese conto d'essersi sbagliato, sbagliato di grosso. — Quello — disse Burden — è Andy Griffin. — Non è possibile. I genitori avevano ricevuto una sua telefonata, mercoledì sera. Era in qualche parte nel nord dell'Inghilterra, e mercoledì sera ha telefonato ai suoi. Sumner-Quist restava imperturbabile. — Quest'uomo è morto almeno da martedì pomeriggio o anche da prima, probabilmente. Per ulteriori informazioni dovevano aspettare il suo rapporto. Burden era indignato. Non puoi rimproverare apertamente due genitori disperati per avere mentito sul conto del figlio morto. Per quanto desiderasse regolare i conti con loro, doveva per forza astenersene. Freeborn ci teneva molto che i suoi funzionari mantenessero rapporti che definiva "civili e di sensibilità" con il pubblico. In ogni caso, Burden poteva fare un'intelligente ipotesi su quanto era ac-
caduto. Terry e Margaret Griffin volevano rinviare un eventuale interrogatorio di Andy il più a lungo possibile. Se fossero riusciti a sostenere la commedia dell'assenza, e fino a che punto era una commedia, in fin dei conti?, se avessero potuto, al suo ritorno, convincerlo a darsi nuovamente alla macchia, di lì a quando la sua ricomparsa sarebbe stata inevitabile il caso poteva anche essere concluso e l'intera faccenda essersi sgonfiata. — Dov'era in quei tre giorni, Reg? La scusa del "su al nord" è solo una frottola, vero? Dov'era tra domenica mattina e martedì pomeriggio? Stava presso qualcuno? — Meglio rimandare Barry nel suo pub preferito, lo Slug-and-Lettuce, e sentire cos'hanno da suggerire gli amici di Andy. — Wexford rifletté. — È un modo orribile di uccidere qualcuno — disse — ma non esistono modi "piacevoli". L'omicidio è orribile. Se possiamo parlarne spassionatamente, l'impiccagione offre un sacco di vantaggi all'assassino. Niente sangue, per cominciare. Costa poco. È sicura. Sempre che si riesca a immobilizzare la vittima, è facile. — Andy com'è stato immobilizzato? — Lo scopriremo quando sentiremo qualcosa di definitivo da SumnerQuist. Potrebbe darsi che chi l'ha ucciso gli avesse somministrato prima un sonnifero, ma anche questo avrebbe presentato dei problemi. Era il secondo uomo, Andy? Quello che Daisy non ha visto? — Ah, io penso di sì, tu no? Wexford non rispose. — Hogarth era decisamente seccato quando ho bussato alla sua porta. Potrebb'essere più che naturale, non voler venire coinvolto. Si era fatto più trattabile dopo essersi auto-nominato nostra guida, però. Probabilmente, gli piace essere il centro dell'attenzione. Dimostra diciassette anni, ma come minimo ne ha ventitré. Vanno all'università per quattro anni, negli Stati Uniti. Dice d'essere arrivato qui alla fine del maggio scorso, perciò la laurea doveva averla già presa, cosa che là avviene in maggio, e lui di anni doveva averne almeno ventidue. Sta facendo il Grand Tour, ha detto. Deve avere un padre molto ricco, penso. — Abbiamo fatto controlli sul conto suo? — Io l'ho ritenuto saggio — disse in tono alquanto austero Wexford. E raccontò a Burden di una telefonata che aveva fatto privatamente a un suo vecchio amico, il dottor Perkins, vicerettore dell'Università di Miringham, e della lettura che, altrettanto privatamente, questi aveva fatto della domanda di iscrizione registrata sul computer. — Mi domando a che gioco stesse giocando Andy.
— Già, anch'io — disse Wexford. Andò a trovare Sylvia. Era troppo occupato per trovare tempo da dedicarle, e quella era una ragione di più per andarci. Lungo la strada, fece qualcosa che non aveva mai fatto per lei, le comperò dei fiori. Dal fiorista, si sorprese a desiderare una di quelle splendide confezioni mandate alla defunta Davina: un cesto di gigli, per esempio. Ma non c'era niente del genere, lì, e dovette accontentarsi di un mazzo di fresie e narcisi. Il loro profumo, più forte di quello di un'essenza in boccetta, riempiva la macchina fino a stordirlo. Lei ne rimase stranamente commossa, tanto da dargli quasi l'impressione che stesse per piangere. Ma sorrise, invece, e affondò la faccia tra quelle corolle bianche e gialle. — Sono splendidi. Grazie, Papà. Era al corrente della lite? Dora gliel'aveva detto? — Come ti senti al pensiero di lasciare questa casa? — Era una bella casa, a pochi passi dalla prestigiosa Ploughman's Lane. Sapeva perché lei continuava a trasferirsi, perché lei e Neil erano gli eterni insoddisfatti, e questo non lo rendeva certo più felice. — Nessun rimpianto? — Aspetta di vedere il Rettorato. Tralasciò di dirle d'esservi passato davanti, più volte, insieme a Dora. Non le spiegò che erano rimasti sgomenti nel vederne le dimensioni e lo stato di sfacelo. Lei preparò il tè e lui mangiò la torta di frutta che gli veniva offerta, sebbene non la desiderasse e non gli facesse bene. — Tu e la Mamma non dovete assolutamente mancare alla festa di inaugurazione. — Perché mai dovremmo mancare? — Sentitelo! Sei famoso, tu, per non andare mai ai ricevimenti. — Questa sarà l'eccezione che confermerà la regola. Erano passati tre giorni da quando aveva visto Daisy. Il suo unico contatto con lei era stato per assicurarsi che la guardia a Tancred House venisse mantenuta. A tale scopo le aveva parlato per telefono. Lei era indignata ma non in collera. — Karen voleva rispondere lei al telefono! Non posso adattarmi. Le ho spiegato che non avevo paura di sentire un respiro ansante all'altro capo della linea. Tra l'altro, non c'è stata nessuna telefonata del genere. Non mi va di avere sempre intorno Karen, o Anne. Insomma, sono simpaticissime, ma perché non posso starmene per conto mio?
— Il perché lo sai, Daisy. — Non posso proprio credere che uno dei due voglia tornare qui e finirmi. — Nemmeno io, ma è meglio non correre rischi. Aveva tentato diverse volte di telefonare al padre di lei ma non c'era stata risposta da parte di G.G. Jones, in Nineveh Road. Quella sera, avendo terminato The Hosts of Midian, il romanzo di Davina Flory, quello che Casey preferiva, cominciò il primo libro di lei sull'Europa dell'Est e scoprì che Davina Flory non gli era molto simpatica. Era una snob pretenziosa, dal lato sociale e intellettuale; era autoritaria, si riteneva superiore alla maggior parte delle persone; era scortese verso la figlia e feudale verso i domestici. Sebbene si dichiarasse di sinistra, non parlava di classe "lavoratrice" ma di classe "inferiore". I suoi libri la rivelavano per quell'essere sospetto che è un socialista ricco. Un misto di superbia e di marxismo imbeveva quelle pagine, che mancavano invece di semplice umanità. Mancavano anche di humour, salvo in una singola area. Sembrava che la Flory fosse una di quelle persone propense all'idea di sesso sbrigliato per tutti, che trovano delizioso, in modo ghiotto e lubrico, il concetto stesso di sesso, sola fonte di divertimento prontamente disponibile per vecchi (quelli intelligenti e attraenti) e per giovani. Ma nel caso dei giovani indispensabile e da praticarsi con straordinaria frequenza, necessario quanto il cibo e altrettanto nutriente. Come risultato della sua richiesta riguardante Hogarth, lui e Dora erano stati invitati dai Perkins. Il vice-rettore dell'Università di Miringham lo aveva sorpreso, confessandogli la sua passata amicizia con Harvey Copeland. Harvey, anni prima, era stato professore ospite di economia presso un'università americana nello stesso periodo in cui lui, Stephen Perkins, vi aveva tenuto un corso di storia intanto che lavorava alla sua specializzazione. A sentire il dottor Perkins, Harvey a quell'epoca, gli anni Sessanta, era un uomo di eccezionale prestanza fisica. C'era stato un piccolo scandalo a proposito di una studentessa incinta del terzo anno, e un altro, un po' più grosso, a proposito di una sua relazione con la moglie di un preside di facoltà. — Una gravidanza non era un fatto comune tra le studentesse, all'epoca, specie nel Midwest. Lui non fu costretto ad andarsene, questo no, rimase fino al termine dei due anni. Ma furono in molti, quando se ne andò, a tirare un sospiro di sollievo. — Com'era, a parte questo?
— Gradevole, banale, piuttosto ottuso. Solo l'aspetto era eccezionale. Dicono che un uomo non possa giudicare un altro uomo ma non si poteva certo negarla la bellezza del povero Harvey. Sai a chi assomigliava? A Paul Newman. Ma sapeva proprio di poco. Andammo a cena là una volta, vero Rosie? A Tancred, intendo dire. Harvey era lo stesso di venticinque anni fa, un tremendo seccatore. Assomigliava ancora a Paul Newman, questo sì. A Paul Newman com'è ora, s'intende. — Era splendido, povero Harvey — aveva confermato Rosie Perkins. — E Davina? — Ricordate, qualche anno fa, quei graffiti che i ragazzini scrivevano dappertutto, "Rambo regna" e cose del genere? Be', quella era Davina. C'era da scrivere, "Davina regna". Lei c'era, presiedeva. Non tanto come vita e anima della festa quanto come capo. In modo ragionevolmente sottile, s'intende. — Perché lo aveva sposato? — Amore. Sesso. — So che parlava di lui in modo molto imbarazzante. Oh, forse non dovrei dirlo, vero, caro? — Come posso risponderti se non so di che si tratta? — Be', non faceva che raccontare in modo molto confidenziale, sapete, che amante meraviglioso era lui. Prendeva un'aria maliziosa, piegava la testa da un lato - una cosa davvero imbarazzante - quando eri sola con lei, s'intende, quando non c'erano uomini presenti, e cominciava a raccontare in modo piuttosto elaborato che amante meraviglioso era Harvey. Non mi ci vedo a raccontare a qualcuno cose simili di mio marito. — Tante grazie, Rosie — aveva detto Perkins, ridendo. — Anzi, una volta lo disse mentre c'ero anch'io. — Ma aveva poco meno di settant'anni, quando lo ha sposato. — L'età ha forse a che fare con l'amore? — aveva commentato il vicerettore, e dal tono Wexford aveva pensato che fosse una citazione, pur non sapendo riconoscerla. — Badate, non gli faceva nessun altro complimento. Diciamo pure che, quanto a intelletto, lui non godeva certo della sua considerazione. Ma a lei piaceva circondarsi di nullità. È tipico delle persone come lei. Le acquistano, come nel caso di Harvey, o le creano, come nel caso della figlia Naomi, e poi passano il resto della loro vita a rampognarle perché non sono argute e brillanti. — Questo faceva Davina? — Non lo so. Sono ipotesi. La povera donna è morta, e per di più in mo-
do orrendo. I quattro a tavola, due nullità, come li definiva Perkins, due personalità spiccate, e poi i banditi si introducevano in casa e tutto era finito, le rampogne e l'arguzia, l'ottusità e l'amore, il passato e la speranza. Spesso Wexford ci pensava, pensava alla mise-en-scène più di quanto gli fosse mai accaduto in altri casi di omicidio. La tovaglia rossa e bianca, rossa e bianca come quei pesci nella vasca, era un'immagine ricorrente. Nessuno avrebbe mai creduto che un poliziotto stagionato come lui potesse continuare a vederla. Nel leggere il resoconto di Davina sui suoi viaggi in Sassonia e in Turingia, non faceva che pensare a quella tovaglia, tinta del sangue di lei. — È un modo orribile di assassinare qualcuno — aveva detto a Burden a proposito dell'uccisione di Andy Griffin. — L'omicidio è orribile. — Ma era stato davvero un omicidio così abile? O era solo indecifrabile grazie a una concatenazione di circostanze imprevedibili? Davvero bisognava credere che l'autore del massacro fosse stato tanto accorto da incidere segni nella canna di una .38 o di una .357? Qualcuno dei compagni di Andy Griffin era stato così astuto da farlo? Rosemary Mountjoy restò a Tancred House con Daisy il lunedì, Karen Malahyde il martedì e Anne Lennox il mercoledì. Il giovedì il dottor Sumner-Quist fornì a Wexford un rapporto completo sull'autopsia e un giornale scandalistico a diffusione nazionale pubblicò in prima pagina un articolo in cui ci si domandava perché la polizia non facesse alcun passo avanti nella ricerca dei responsabili del massacro di Tancred House. Il Vice-capo della Polizia aveva convocato Wexford a casa sua, per farsi dire come avesse potuto permettere che venisse ucciso anche Andy Griffin. O a questo ammontava, presentato con parole diverse. L'inchiesta su Andy Griffin venne aperta e aggiornata. Wexford studiò un'analisi particolareggiata fornitagli dalla scientifica sullo stato degli abiti di Andy. Particelle di sabbia, terriccio, gesso e fibre di foglie marcite erano state trovate nelle cuciture e nelle tasche della tuta da ginnastica. Un piccolissimo quantitativo di fibre di juta usata nella fabbricazione di funi aderivano al colletto della tuta. Sumner-Quist non aveva trovato traccia di sedativi o di stupefacenti nello stomaco o negli intestini. Prima della morte, un colpo era stato assestato da un lato della testa. Era opinione di Sumner-Quist che quel colpo fosse stato vibrato con uno strumento pesante, probabilmente metallico, avvolto in un panno. Il colpo non era stato fortissimo ma sufficiente a stordire Griffin, e a fargli perdere i sensi per qualche minuto. Per un tempo suffi-
ciente. Wexford non rabbrividì, pur avendone l'impressione. Era un quadro orribile quello che gli si presentava, in un certo senso non di un mondo moderno, così come lui lo conosceva, ma di un tempo passato, arcano, brutale e crudelmente rustico. Gli pareva di vedere il giovane ignaro, il grasso, stupido e scioccamente fiducioso giovanotto forse convinto d'avere un bandito in suo potere, e l'altro che gli arrivava silenziosamente alle spalle con la sua arma preconfezionata, la sua arma imbottita. Il colpo alla testa, rapido ed esperto. Poi, senza sprecare un solo istante, il cappio già preparato, la fune gettata al di sopra del solido ramo di un acero... Da dov'era venuta la fune? Erano finiti i tempi dei piccoli negozi di ferramenta, proprietà trasmesse in famiglia di generazione in generazione. Ora una fune la potevi comperare in un emporio o nel reparto casalinghi di un immenso supermercato generale. Questo complicava le cose, poiché un commesso di negozio ricorda d'avere servito un cliente individuale assai più di quanto facciano la ragazza o il ragazzo alle casse. Loro guardano il prezzo più che la natura dell'oggetto che viene estratto dal carrello, a volte lo passano perfino, senza degnarlo di uno sguardo, all'esame di un occhio elettronico, e magari non guardano neppure in faccia il cliente. Era riuscito ad andare a letto presto. Dora aveva il raffreddore e dormiva nella stan2a degli ospiti. Questo non aveva niente a che fare, o quasi niente, con lo scambio di parole irate che c'era stato in precedenza tra loro a causa di Sheila. Diverse volte Dora aveva parlato per telefono con Sheila, ma sempre di giorno, quando Wexford era al lavoro. Lei era amareggiata contro il padre, aveva riferito Dora a Wexford, ma disposta a "sviscerare la questione". A quella terminologia Wexford aveva sbuffato sprezzante. Un gergo del genere poteva andar bene alla Royal Oak, ma stonava maledettamente sulle labbra di una figlia. Dora era dell'idea che Sheila dovesse venire a passare un altro weekend da loro. Naturalmente, doveva venire anche Casey, erano una coppia ormai, una di quelle coppie non sposate in cui lui e lei vanno sempre insieme dappertutto e firmano con i due nomi affiancati gli auguri di Natale. Casey sarebbe venuto con lei proprio come Neil sarebbe venuto con Sylvia. Sul mio cadavere, era stata la risposta di Wexford. Così, Dora aveva sbuffato e si era portata il suo raffreddore nella stanza degli ospiti. Con lei era andato anche il fascio di dépliant che Sheila - indirizzandoli soltanto alla madre - aveva mandato sulla piccola città di
Heights, alle pendici della Sierra Nevada, dov'era il campus dell'università. Vi era incluso anche un prospetto dell'Università di Heights con particolari sui corsi che offriva e fotografie dei punti ameni. Una guida della città presentava vedute panoramiche dello scenario in cui sorgeva e pagine su pagine di inserzioni pubblicitarie da parte dei commercianti del luogo, senza dubbio per bilanciare il costo di quella pubblicazione in carta patinata. Wexford vi aveva gettato appena un'occhiata avvilita, prima di restituire il tutto a Dora senza commenti. Ora sedeva in mezzo al letto con una nuova pila di libri mandati da Amyas Ireland. Aveva letto tutto quanto vi era scritto sulla copertina del primo dei volumi, e quanto bastava dell'introduzione per sapere che Lovely as a Tree parlava degli sforzi fatti da Davina Flory insieme al primo marito per ripiantare gli antichi boschi di Tancred, prima che un attacco di sonno gli appesantisse le palpebre, scuotendolo poi con un violento sussulto galvanico. Spense la luce. Il telefonino fece udire il suo segnale. Lo cercò a tentoni, facendo cadere a terra tre libri. Karen disse: — Signore, parla l'agente Malahyde, da Tancred House. Ho telefonato in sede. — Era il termine che tutti usavano per dire d'essersi messi in contatto con la stazione di polizia per cercare aiuto. — Sono già per la strada. Ma ho pensato che lei volesse essere informato. C'è qualcuno qui fuori, un uomo, credo. Lo abbiamo sentito e poi lo abbiamo... be', poi Daisy lo ha visto. — Vengo subito anch'io — disse Wexford. 17 Era una di quelle rare notti in cui la luna splende al punto che quasi si potrebbe leggere. Su nei boschi i fari dell'auto di Wexford annullavano il chiarore lunare, ma non appena l'auto emerse dagli alberi e avanzò nel cortile, tutto si presentò chiaro come in pieno giorno. Non c'era un alito di vento. Sulla sinistra e dietro la grande mole della casa, il bianco chiarore mostrava le cime dei pini, degli abeti e dei cedri, nere sagome serrate, aguzze, a pinnacolo o frondose contro il grigio-perlaceo lucente del cielo. Una singola stella brillava vivida e verdastra. La luna era una sfera bianca, splendente e come d'alabastro, al punto che si capiva perché gli antichi pensavano che una luce vi ardesse all'interno. Le lampade ad arco al di sotto del muro di cinta erano spente, forse da
un congegno che scattava a ora fissa. Sul selciato erano parcheggiate due auto della polizia, una delle quali era la Vauxhall di Barry Vine. Wexford fermò la sua di fianco a quella di Barry. Nell'acqua scura della vasca si rifletteva il bianco globo della luna. La porta d'entrata era aperta, quella interna, di vetro, chiusa ma non a chiave. Karen l'aprì mentre lui si avvicinava. Gli riferì, prima ch'egli potesse aprire bocca, che quattro agenti in uniforme stavano frugando i boschi vicino alla casa. Vine era di sopra. Lui assentì, le passò accanto per entrare nel salotto. Daisy stava andando su e giù, serrando e riaprendo i pugni. Per un istante lui pensò che stesse per gettarglisi tra le braccia, ma lei gli si avvicinò soltanto, fermandosi a circa un metro di distanza, portandosi i pugni alla faccia e tenendoli accostati alla bocca come se volesse addentarsi le nocche. Gli occhi erano enormi. Wexford comprese subito che si era spaventata in maniera quasi insopportabile, che era isterica per il terrore. — Daisy — disse gentilmente, e poi: — Non vuoi sederti? Vieni a sederti. Non ti succederà niente. Sei al sicuro. Lei scosse la testa. Karen le andò vicino, azzardò una carezza sulla spalla e, come quella venne respinta, le prese il braccio e la pilotò verso una sedia. Invece di sedersi, Daisy si girò verso di lei. La ferita doveva essersi quasi rimarginata, ormai, e soltanto una leggera imbottitura sulla spalla si notava attraverso il golfino. — Tienimi stretta — le disse. — Per favore, tienimi stretta un momento. Karen la circondò con le braccia e la strinse a sé. Wexford notò che Karen era una di quelle rare persone che possono abbracciarne un'altra senza batterle sulle scapole. Si stringeva al petto Daisy come una madre cui la propria creatura in pericolo sia appena stata restituita, poi si staccò da lei con bel garbo e la spinse sulla sedia, ve la collocò letteralmente. — È così da quando lo ha visto. Vero, Daisy? — Col fare di un'infermiera, Karen continuò: — Non so quante volte ti ho coccolato, ma sembra che non serva a molto. La vuoi un'altra tazza di tè? — Non volevo nemmeno la prima tazza! — Wexford non aveva mai sentito Daisy suonare così, la voce echeggiante, stridula, come preludio a un urlo. — Perché dovrei volere del tè? Vorrei qualcosa per stordirmi, vorrei qualcosa che mi facesse dormire per sempre! — Falla per tutti noi una tazza di tè, vuoi, Karen? — Gli seccava fare quella richiesta alle sue agenti, sapeva troppo di tempi passati, ma disse a se stesso che avrebbe chiesto di fare un po' di tè anche se là ci fosse stato Archbold o Davidson. — Per te, per me, per il sergente Vine e per chiun-
que altro ci sia. E porteresti a Daisy un po' di brandy? Penso che lo troverai dentro l'armadietto della... - per nessuna ragione intendeva chiamarla la serre - ...serra. Daisy si guardava intorno atterrita, fissava le finestre, la porta. Quando l'uscio venne spinto in modo lento e silenzioso verso l'interno, lei trattenne il respiro in un lungo ansito tremante, ma era soltanto la gatta, la grossa e maestosa gatta grigia, che entrava con grande dignità. La bestiola rivolse a Wexford una di quelle occhiate di disprezzo di cui soltanto gli animali domestici molto viziati sono capaci, poi si avvicinò a Daisy e le balzò con leggerezza in grembo. — Queenie, oh Queenie! — Daisy si chinò tutta in avanti, affondando il viso nel folto manto azzurrognolo. — Dimmi cos'è successo, Daisy. Lei continuò a coccolare la gatta, mormorando frasi febbrili. Le fusa di Queenie erano un brontolio greve e profondo. — Andiamo — disse Wexford un po' più bruscamente — cerca di dominarti. — Così parlava a Sheila quando lei metteva a dura prova la sua pazienza. Le aveva parlato un tempo in quel modo. Daisy sollevò la testa. Deglutì. Lui vide il delicato movimento del torace tra le lunghe frange dei lucidi capelli scuri. — Devi dirmi che cos'è successo. — È stato così orribile. — Ancora la voce aspra, roca, stravolta. — Terribile, è stato. Karen entrò con il brandy in un bicchiere da vino. Lo accostò alle labbra di Daisy, come una medicina. Daisy prese un sorso e le andò di traverso. — Lascia che beva da sé — disse Wexford. — Non è una malata. Non è né una bambina né una vecchia, santo cielo! Ha solo preso uno spavento. Questo la scosse. Gli occhi le lampeggiarono. Tolse il bicchiere di mano a Karen proprio mentre Vine entrava con quattro tazze di tè su un vassoio, e si versò il brandy in gola con un audace gesto di sfida. Seguì un violento attacco di tosse. Karen le batté sulla schiena e a Daisy le lacrime salirono agli occhi, debordarono e presero a scorrere giù per le guance. Vine, dopo aver assistito impassibile a quella scena per alcuni secondi, disse: — Buongiorno, signore. — Suppongo infatti che sia giorno, Barry. Eh, sì, ormai! Allora, Daisy, asciugati gli occhi. Stai meglio, ora. Vedrai, ora ti sentirai meglio. Lei si strofinò la faccia con il fazzolettino di carta che Karen le porgeva. Fissò Wexford con fare ancora piuttosto ribelle ma parlò con voce tornata
perfettamente normale. — Non avevo mai bevuto del brandy prima d'ora. Gli ricordò qualcosa: anni e anni prima, Sheila aveva pronunciato quelle stesse parole e il giovane idiota che era con lei aveva commentato: — Un'altra verginità che se n'è andata, ahimè! — Senza volerlo, sospirò. — Bene, dov'eravate, tu e Karen? A letto? — Erano appena le undici e mezzo, signore! Si era dimenticato che per la gioventù le undici e mezzo erano la metà della serata. — L'ho chiesto a Daisy — disse in tono brusco. — Io ero qui, guardavo la televisione. Non so dove fosse Karen, in cucina o da qualche parte, a prepararsi qualcosa da bere. Saremmo andate a letto una volta finito il programma. Ho sentito qualcuno, fuori, ma ho pensato che fosse Karen... — In che senso, hai sentito qualcuno? — Dei passi, sul davanti della casa. Le luci esterne si erano appena spente. Sono regolate sulle undici e mezzo. I passi venivano verso la casa, così mi sono alzata per guardare. C'era una luna splendida, non occorrevano le luci. L'ho visto, l'ho visto là fuori nel chiaro di luna, vicino come lei ora è vicino a me. — Fece una pausa, respirando più affannosamente. — E ho cominciato a urlare, urlare, urlare, finché non è arrivata Karen. — Io l'avevo già sentito, signore. L'avevo sentito anche prima di Daisy, credo. I passi fuori della porta di cucina che andavano poi sul retro della casa, lungo la terrazza. Di corsa ho attraversato le stanze e sono andata nella... nella serra, e l'ho sentito di nuovo ma non l'ho visto. È stato allora che ho telefonato in sede. Ho telefonato prima di sentire gli urli di Daisy. Sono corsa qui e ho trovato Daisy alla finestra che gridava e picchiava sui vetri e allora io... ho telefonato a lei. Wexford si rivolse di nuovo a Daisy. Appariva calma, ora, il brandy evidentemente aveva agito da stupefacente, proprio come lei desiderava. — Che cos'hai visto esattamente, Daisy? — Aveva una cosa sulla testa, una specie di casco lanoso con i buchi per gli occhi. Faceva pensare a quelle foto che si vedono dei terroristi. Addosso aveva, non lo so, forse una tuta da ginnastica, scura, poteva essere nera o blu scuro. — Era quello stesso individuo che l'undici marzo uccise la tua famiglia e cercò di uccidere te? Già mentre lo diceva Wexford pensò che era una domanda tremenda da fare a una diciottenne, una ragazza vissuta nella bambagia, una dolce ra-
gazza terrorizzata. Lei non poteva rispondergli, naturalmente. L'uomo della volta scorsa portava una maschera. Daisy ricambiò il suo sguardo con un'occhiata carica di disperazione. — Non lo so, non lo so. Come posso dirlo? Può darsi. Non potrei dirle niente di preciso, poteva essere giovane o anche non giovanissimo, certo non era vecchio. Sembrava grande e forte. Sembrava... sembrava che conoscesse questo posto, anche se non so da che cosa lo capivo. Ma... sembrava che sapesse quello che stava facendo e dove stava andando. Oh, che ne sarà di me, che cosa mi succederà! Wexford venne salvato dal cercar di trovare una risposta dall'entrata nella stanza degli Harrison. Mentre Ken Harrison era completamente vestito, la moglie aveva il genere di indumento che Wexford aveva sentito definire, tempo addietro, una "veste da camera", di velluto rosso con una bordura più chiara intorno al collo, il davanti aperto dalla vita in giù a mostrare le gambe del pigiama a bolli blu. In ossequio alle migliori tradizioni, lei brandiva un attizzatoio. — Che succede? — s'informò Ken Harison. — Ci sono uomini dappertutto. Il posto è invaso dagli agenti. Ho detto a Brenda, sai cosa potrebbe darsi? Potrebbe darsi che quei banditi fossero tornati per far fuori anche Daisy. — Così ci siamo messi addosso qualcosa e siamo corsi subito qui. Io non volevo venire a piedi, ho detto a Ken di tirar fuori la macchina. Non si è al sicuro, qui, io non mi sento tranquilla neppure dentro l'auto. — Badate, avremmo dovuto essere già qui. Io l'avevo detto fin dal principio, quando avevo sentito che delle donne poliziotto si sarebbero fermate qui nella casa. Ma perché non hanno chiamato noi? Cosa può fare una ragazza, poliziotta o non poliziotta che sia? Johnny e noi due, dovevamo venire a star qui, Dio sa se di stanze ce ne sono a sufficienza, ma oh no, nessuno l'ha suggerito, così io non ho detto niente. Se Johnny e noi due fossimo stati qui e si fosse sparsa la voce che c'eravamo, credete che tutto questo sarebbe successo? Credete che quel bandito avrebbe avuto il coraggio di tornare qui con l'idea di far fuori anche lei? Ma neanche... Daisy, senza lasciarlo finire, fece qualcosa che lasciò strabiliato Wexford. Balzò in piedi e disse con gelida chiarezza. — Vi do gli otto giorni. Forse non saranno più otto i giorni di preavviso, non so quanti siano, forse un mese. Ma vi voglio fuori di qui e, più presto ve ne andate, tanto di guadagnato. Se potessi fare a modo mio, ve ne andreste domani stesso. Era la nipote di sua nonna, eccome! Eretta, con la testa gettata all'indie-
tro, li affrontava sprezzante. Poi, la voce le si ruppe e divenne un biascicare. Il brandy aveva fatto l'opera sua e ora stava facendone un'altra, di tutt'altro genere. — Non avete nessun sentimento? Non avete nessun riguardo per me? Parlare di farmi fuori... ma io vi odio! Vi odio, tutti e due! Vi voglio fuori di casa mia, lontano dalla mia terra, io vi toglierò il vostro cottage... Il suo grido si disintegrò in un piagnucolio, in un singhiozzare isterico. Gli Harrison erano ammutoliti, Brenda era realmente a bocca aperta. Karen si avvicinò a Daisy e per un attimo Wexford pensò che stesse per somministrarle uno di quegli schiaffi che pare siano il rimedio migliore per l'isterismo. Ma lei prese invece Daisy tra le braccia e, messa una mano sulla testa bruna, la portò a riposare contro la sua spalla. — Vieni, Daisy, ora ti porto a letto. Sarai perfettamente al sicuro, ora. Davvero? Wexford avrebbe voluto poterle fornire una rassicurazione altrettanto fiduciosa. Gli occhi di Vine incontrarono i suoi e il pacato sergente compì l'azione per lui più vicina possibile al levare gli occhi al cielo. Li roteò appena di un paio di millimetri verso nord. Ken Harrison disse, agitatissimo: — Ha i nervi a pezzi, è in uno stato pietoso, non intendeva dire quello che ha detto, non diceva sul serio, vero? — Ma certo che non diceva sul serio, Ken, siamo tutta una famiglia, qui, facciamo parte della famiglia, noi. È chiaro che non diceva sul serio, no? — Penso fareste meglio ad andare a casa, signora Harrison — disse Wexford. — Andate, tutti e due. — Si astenne dal dire che le cose sarebbero apparse diverse, il mattino dopo, anche se indubbiamente sarebbe stato così. — Tornate a casa e cercate di dormire un po'. — Dov'è Johnny? — disse Brenda. — Ecco quel che mi piacerebbe sapere. Se noi quegli uomini li abbiamo sentiti, e facevano un chiasso da svegliare i morti, com'è che non li ha sentiti anche lui? Perché se ne sta alla larga? È questo che vorrei sapere io. — E continuò, in tono velenoso: — Non si prende nemmeno il disturbo di venire qui a sentire che cosa succede. Se volete il mio parere, se qualcuno andrebbe messo alla porta è proprio lui, lazzarone maledetto. Che motivo ha di tenersi alla larga? — Starà dormendo come un sasso — disse Wexford, e non seppe trattenersi dall'aggiungere: — È giovane, lui. Karen Malahyde, ventisette anni, lungi dal corrispondere all'immagine di "donna poliziotto" che ne dava Ken Harrison, termine sprezzante e ormai del tutto in disuso, era cintura nera e teneva un corso di judo. Wexford sa-
peva che se avesse incontrato l'intruso di Tancred, la sera prima, e quell'uomo fosse stato disarmato o lento a estrarre, sarebbe stata in grado di renderlo immediatamente innocuo. Una volta aveva descritto come andasse da sola dappertutto, di sera, senza alcuna paura, avendo dimostrato a se stessa di saper scaraventare un rapinatore da un lato all'altro della strada. Ma, da sola, era una guardia del corpo adeguata per Daisy? Lo erano Anne e Rosemary? Doveva convincere Daisy a lasciare quella casa. Non proprio a nascondersi ma certo ad allontanarsi il più possibile e rifugiarsi presso amici. Tuttavia, confessò a se stesso, e più tardi a Burden, che uno sviluppo del genere lui proprio non lo aveva previsto. Aveva fornito una "sorveglianza" per Daisy, ma solo come misura di precauzione. Che uno di quei banditi — per forza di cose l'assassino se davvero l'altro, quello non visto, era Andy Griffin — potesse realmente tornare per "far fuori lei", era un'ipotesi da romanzo giallo, da film dell'orrore. Qualcosa che non accadeva, nella realtà. — Ma è accaduto — disse Burden. — Lei qui non è al sicuro e dovrebbe andarsene. Non vedo che differenza possa fare se anche trasferiamo gli Harrison e Gabbitas dentro casa. Erano in quattro in casa quella prima volta, ricordi? Questo non ha fermato l'assassino. La bianca tovaglia con sopra cristalleria e argenteria. Il cibo in caldo sul carrello. Le tende chiuse contro la fredda serata di marzo. Il primo piatto, la zuppa, terminato, Naomi Jones che serve il pesce, sogliola bonne femme, e quando ognuno ha il suo piatto e tutti cominciano a mangiare, i rumori dall'alto, rumori che Davina Flory attribuisce alla gatta Queenie, che impazza al piano superiore. Ma Harvey Copeland va a vedere, il bell'Harvey che assomigliava a Paul Newman e al campus faceva furore, che l'anziana moglie aveva sposato per amore e sesso. Silenzio all'esterno, non una macchina, niente passi, soltanto lontani rumori al piano di sopra. Harvey era andato di sopra ed era sceso di nuovo o non era mai arrivato di sopra, ma si era girato sui primi scalini proprio mentre dal corridoio sbucava l'uomo armato... Quanto tempo aveva preso tutto questo? Trenta secondi? Due minuti? E in quei due minuti che cosa succedeva in sala da pranzo? Stavano tranquillamente mangiando pesce in assenza di Harvey? O semplicemente aspettandolo, parlando della gatta e di come ogni sera correva di sopra per la scala di servizio e tornava giù per la principale? Poi lo sparo e Naomi che si alzava in piedi, Daisy che si alzava a sua volta, avviandosi verso la por-
ta. Davina rimaneva al suo posto, seduta a tavola. Perché? Perché era rimasta dov'era? Per paura? Semplice paura, che l'aveva tenuta inchiodata sulla sedia? La porta si spalanca, entra l'uomo con la pistola, vengono sparati i colpi e la tovaglia non è più bianca ma rossa, tinta da una densa macchia destinata poi a spargersi quasi attraverso l'intera superficie... — Le parlerò tra un istante — disse Wexford. — Naturalmente non posso costringerla ad andarsene, se non vuole. Vieni con me, vuoi? Dobbiamo andarci insieme. — Potrebbe anche essere ansiosa di andarsene, ora. Il mattino fa molta differenza. "Sì, ma non quel genere di differenza" pensò Wexford. La luce del giorno ti rende meno timoroso, non di più. Il sole e la luce ti fanno sembrare esagerati i terrori della sera innanzi. La luce è realistica, il buio è occulto. Si portarono all'esterno, attraversarono il cortile e fecero lentamente il giro della casa intorno all'ala ovest. Le parole che aveva detto tra sé lui non le aveva usate in senso metaforico. Il sole splendeva di una luce nitida e intensa dove la luna aveva diffuso solo un chiarore pallido. Il cielo era di un azzurro vivido e senza una nuvola. Sembrava d'essere in giugno, perché l'aria era mite come se il gelo se ne fosse andato per un ciclo di mesi ormai certo. — Si è portato qui sul retro, allora — disse Burden. — Che cosa stava cercando di fare, trovare una via per introdursi in casa? Una finestra aperta al pian terreno? Non era una notte fredda. — Non c'erano finestre aperte al pian terreno. Le porte erano tutte chiuse a chiave, diversamente dalla prima volta. — Un po' strano, no? Aggirarsi intorno alla casa così che ben due persone all'interno possano benissimo sentirti? Con tutte le finestre chiuse, potevano sentire ugualmente? Ti mascheri con un cappuccio, ma non ti preoccupi di fare un baccano infernale intanto che cerchi un modo per entrare. Wexford pensosamente osservò: — Non sarà che non gli importava affatto d'essere visto o sentito? Se era convinto che Daisy fosse sola in casa ed era sua intenzione ucciderla, che cosa importava che lei lo vedesse? — In tal caso, perché portare una maschera? — Già. Un'auto non delle solite era parcheggiata a pochi metri dalla porta d'ingresso. Quella porta si aprì mentre loro si avvicinavano alla macchina, e ne uscì Joyce Virson seguita da Daisy. La signora Virson era in pelliccia, il
genere di indumento né approvato né di moda, confezionato inconfondibilmente con il manto di numerose volpi. Mai Wexford aveva visto Daisy con un aspetto così punk. C'era una specie di sfida nel suo abbigliamento, i neri calzoni aderenti e gli stivaletti allacciati, il maglione nero con qualcosa di bianco stampigliato sopra, la giacca di pelle nera da motociclista. Il volto era una maschera d'infelicità ma i capelli, fortemente intrisi di gommina, sporgevano in una serie di aculei tutt'intorno alla testa, come una foresta di tronchi d'albero bruciati. Sembrava che stesse facendo una dichiarazione: forse soltanto per dire che quella era Daisy contra mundum. Lei lo guardò, poi guardò Burden, sempre in silenzio. A Joyce Virson occorse qualche istante per riconoscerlo, poi un sorrisone tutto denti la trasfigurò mentre avanzava verso di lui con le mani tese. — Oh, signor Wexford, come sta? Mi fa tanto piacere vederla. Lei è proprio la persona che può convincere questa bambina a ritornare da me. Non può rimanere qui da sola, le pare? Sono rimasta talmente inorridita nel sentire cos'era successo ieri sera, sono corsa subito qui. Non dovevamo mai permetterle di lasciarci. Wexford si domandava come l'avesse saputo. Non da Daisy, ne era certo. — Mi spiace, ma non capisco le cose che al giorno d'oggi si permette che accadano. Quando io avevo diciott'anni non mi avrebbero certo permesso di starmene per conto mio, meno che mai in una grande casa isolata come questa. E non ditemi che le cose sono cambiate per il meglio. Spiacente, ma per quanto mi riguarda i vecchi tempi erano migliori. Imperturbabile, Daisy la lasciò arrivare circa a metà del suo discorso, poi si girò e fissò gli occhi sulla gatta che, forse raramente autorizzata ad allontanarsi da casa, era seduta sul bordo di pietra della vasca, a osservare i pesci bianchi e rossi. I pesci nuotavano in cerchi concentrici, e la gatta guardava. — Le dica qualcosa lei, signor Wexford. La persuada. Usi la sua autorità. Non mi dirà che non c'è modo di fare pressioni su una bambina. — La signora Virson stava rapidamente dimenticando che la persuasione deve necessariamente includere elementi di gentilezza e forse di lusinga, per avere successo. La sua voce si levò più acuta. — È talmente stupido, è semplicemente folle! A che gioco crede di giocare! La gatta tuffò una zampa nella vasca, trovò un elemento diverso da quello che si aspettava e scosse via l'acqua dalla zampetta. Daisy si chinò e la
prese in braccio. — Arrivederci, Joyce — disse con una nota di ironia che non sfuggì a Wexford. — Grazie d'essere venuta. — Si avviò in casa con il suo soffice carico, ma lasciò la porta aperta. Burden la seguì. Senza la minima idea di che cosa dire, Wexford borbottò qualcosa sull'avere tutto in mano, sulla polizia che aveva la situazione sotto controllo. Joyce Virson lo incenerì con un'occhiata. — Spiacente, ma questo non basta. Staremo a vedere che cos'ha da dire mio figlio in proposito. Detto da lei, suonava come una minaccia. Wexford la osservò arrabattarsi con la piccola vettura e manovrare in maniera, nell'andarsene, da non raschiare una portiera - proprio per un pelo - contro uno dei pilastri ai lati del cancello. Daisy era nella hall con Burden, seduta su una poltrona rigida dall'alto schienale e dai cuscini di velluto, con Queenie in grembo. — Perché mi preoccupo tanto se anche mi uccide? — stava dicendo. — Io stessa non mi capisco. In fin dei conti, io voglio morire. Non ho niente per cui vivere. Perché ho urlato e ho fatto tante scene, ieri sera? Avrei fatto meglio a uscire là fuori, andare da lui e dirgli: Uccidimi, forza, uccidimi. Fammi fuori, come dice quell'orribile Ken. Wexford si strinse nelle spalle. Aggrondato e conciso, disse: — Non pensare a me, sai? Se ti uccidono, io dovrò dare le dimissioni. Lei non sorrise ma storse un poco la faccia. — A proposito di dimissioni, lei cosa pensa? È stata Brenda a telefonarle? A Joyce, dico. Le ha telefonato per prima cosa, stamattina, per dirle che li avevo licenziati e di farmi cambiare idea. Bello, eh? Neanche fossi una bambina o un caso psichiatrico. Ecco come Joyce ha saputo di ieri sera. Per nessuna ragione gliel'avrei detto, a quella vecchia befana impicciona. — Devi pur avere altri amici, Daisy. Non c'è qualcun altro con cui potresti stare, per un po'? Per un paio di settimane? — Lo avrete preso, entro un paio di settimane? — È più che probabile — affermò risolutamente Burden. — Per me non fa nessuna differenza, in ogni caso. Io resto qui. Karen o Anne possono venire, se vogliono. Be', se lei lo vuole, immagino. Ma è una perdita di tempo, non serve che si disturbino. Non avrò più paura di niente, io. Voglio che lui mi uccida. Sarà la via d'uscita migliore, morire. Lasciò ciondolare il capo in avanti e affondò la faccia nella pelliccia della gatta. Rintracciare i movimenti di Andy Griffin dal momento in cui si era al-
lontanato dalla casa dei suoi si rivelò impossibile. I suoi soliti compagni di bevute dello Slug-and-Lettuce non erano al corrente di nessun altro indirizzo ch'egli potesse avere, anche se Tony Smith parlava di una ragazza "su al nord". Quell'espressione vuota riaffiorava sempre, in una conversazione riguardante Andy. Ora c'era una ragazza in quella regione indefinibile, in quella terra-di-nessuno. — Kylie, si chiamava — aveva detto Tony. — Scommetto che se l'è inventata — aveva commentato Leslie Sedar con un sorriso sornione. — L'ha presa pari pari dalla TV. Finché non aveva perso il posto più di un anno prima, Andy era stato camionista per una ditta di produttori di birra. Il suo solito percorso lo aveva portato da Miringham ai dintorni di Londra e a Carlisle e Whitehaven. I produttori di birra non avevano certo un buon ricordo di Andy. Nel corso di quei due o tre anni erano stati illuminati sulla realtà della molestia sessuale. Andy passava poco tempo in ufficio ma, nelle poche occasioni in cui vi era stato, aveva rivolto commenti offensivi a una dirigente del marketing e una volta aveva aggredito una segretaria alle spalle, serrandole il collo col braccio in una morsa. Andy Griffin non si lasciava scoraggiare dal grado, a lui bastava evidentemente che la sua preda fosse femmina. La ragazza "su al nord" sembrava un mito. Niente provava che ci fosse e i Griffin ne negavano l'esistenza. Terry Griffin diede a malincuore il permesso per una perquisizione nella stanza di Andy, a Miringnam. Lui e la moglie erano come intontiti dalla morte del figlio e sembravano entrambi invecchiati di dieci anni. Cercavano rimedio nella televisione come altri, in una situazione analoga, avrebbero potuto cercarlo nei sedativi o nell'alcol. Colori e movimento, facce e azione violenta, passavano sullo schermo per fornire un conforto che aveva bisogno solo di esserci, non d'essere assorbito o compreso. Difendere la reputazione del figlio era adesso il solo scopo di Margaret Griffin. Si sarebbe quasi detto che fosse l'ultima cosa buona che potesse fare per lui. Di conseguenza, sempre fissando il fluire delle immagini, negava ogni conoscenza di un'eventuale ragazza, non c'era mai stata una ragazza nella vita di Andy. Afferrata la mano del marito e stringendola forte, ripeté quell'ultima frase. Riusciva, nel modo in cui ripudiava l'insinuazione di Burden, a far sembrare un'amichetta quasi una malattia venerea, tanto vergognosa, agli occhi di una madre, quanto irresponsabilmente contratta, e altrettanto potenzialmente dannosa. — E lo ha visto per l'ultima volta la domenica mattina, signor Griffin?
— Di buon'ora. Andy si alzava sempre con l'allodola. Le otto, saranno state. Mi aveva preparato una tazza di tè. — Andy era morto ed era stato un delinquente, un maniaco sessuale, ozioso e stupido, ma il padre avrebbe continuato a fare per lui quella commovente e splendida opera di pubbliche relazioni. Perfino dopo la morte la madre avrebbe continuato a magnificarne la condotta purissima e il padre a elogiarne la puntualità, le premure e l'altruismo. — Diceva di dover andare su al nord. Burden si sforzò di trattenere un sospiro. — Su quella moto — aggiunse la madre del morto. — L'avevo sempre odiata, quella moto, e avevo ragione. Per chissà quale strano bisogno emotivo, stava cominciando a trasformare l'uccisione del figlio in morte per incidente stradale. — Disse che ci avrebbe telefonato. Lo diceva sempre, non avevamo bisogno di chiederglielo. — Ma in realtà non telefonò, vero? — suggerì gentilmente Burden. — No, infatti. E per questo ero in pensiero, sapendo che viaggiava su quella moto. Margaret Griffin era ancora aggrappata alla mano del marito, che si era tirata in grembo. Burden percorse il corridoio fino alla stanza da letto che Davidson e Rosemary Mountjoy stavano perquisendo. La pila di materiale pornografico che un'esplorazione dell'armadio dei vestiti di Andy aveva rivelato, non lo meravigliò. Andy doveva sapere che la discrezione materna nei suoi confronti avrebbe tenuto onorevolmente lontani lei e il suo aspirapolvere da quel particolare scomparto dell'armadio. Andy Griffin non aveva mai tenuto una corrispondenza, né era mai stato attratto da un testo stampato. Quelle riviste basavano il loro effetto unicamente sulle fotografie e su didascalie brevissime ma rozzamente titillanti. La ragazza, se esisteva, non gli aveva mai scritto, e se gli aveva dato una sua foto lui non l'aveva conservata. La sola scoperta che fecero di vero interesse era dentro un sacchetto di carta, nel cassetto di sotto di un comò. Si trattava di novantasei dollari americani in vari tagli, da dieci, da cinque e da un dollaro. I Griffin insistettero nel dire di non sapere niente di quel danaro. Margaret Griffin guardava le banconote come fossero state qualcosa di fenomenale, valuta di qualche remota cultura, forse, il ritrovamento di uno scavo archeologico. Le rigirava, le scrutava, il suo dolore momentaneamente dimenticato. Fu Terry a porre la domanda che lei forse non osava fare per timore di
apparire sciocca. — È denaro? Si potrebbe usare per comperare cose? — Negli Stati Uniti di certo — disse Burden. Poi si corresse. — Si potrebbe usare quasi dappertutto, credo. Qui da noi e in Europa. Nei negozi lo accetterebbero. A ogni modo, basterebbe portarlo in banca e farlo cambiare in sterline. — Perché Andy non lo ha speso, allora? Burden esitava al pensiero di interrogarli a proposito della fune, ma doveva farlo. Alla fine, con suo sollievo, nessuno dei due parve arrivare all'orribile nesso. Sapevano in che modo era stato ucciso il figlio ma la parola "fune" non evocò immediatamente per loro il concetto di impiccagione. No, non possedevano alcuna fune ed erano certi che neppure Andy l'avesse. Terry Griffin tornò al denaro, il mucchietto di dollari. Una volta entratagli in mente, sembrava che quell'idea avesse preso la precedenza su tutto il resto. — Quelle banconote che secondo lei si possono cambiare in sterline, appartenevano a Andy? — Erano nella sua stanza. — Allora diventeranno nostre, vero? A titolo di compensazione. — Oh, Terry — disse la moglie. Lui la ignorò. — Quanto pensa che valgano? — Circa cinquanta sterline. Terry Griffin rifletté un istante. — Quando possiamo averle? — domandò. 18 Rispose lui stesso al telefono. — Gunner Jones. O così sembrò a Burden che avesse detto. Ma forse aveva detto "Gunnar Jones". Gunnar era un nome svedese, ma niente di strano che lo portasse un inglese di madre svedese, per esempio. A scuola Burden aveva avuto un compagno di nome Lars che sembrava più inglese di lui, e quindi perché non Gunnar? Oppure aveva detto "Gunner", ma si trattava di un soprannome che gli avevano dato per essere stato in Artiglieria? — Vorrei venire a parlarle, signor Jones. Le farebbe comodo quest'oggi sul tardi? Verso le sei? — Venga quando vuole. Ci sarò. Non domandava perché e neppure accennava a Tancred o a sua figlia.
Piuttosto sconcertante. Burden non ci teneva a fare un viaggio a vuoto. — Lei è il padre della signorina Davina Jones? — Così mi assicurò la madre. Dobbiamo credere alle signore in queste faccende, non le pare? Burden non ci teneva a lasciarsi coinvolgere da un tipo simile. Disse che sarebbe stato là per le sei. "Gunner"... D'impulso, cercò nel dizionario dal quale Wexford non si separava quasi mai e scoprì che "gunner", cannoniere, poteva essere anche sinonimo di armaiolo. Un armaiolo? Wexford la sua telefonata la fece a Edinburgo. Macsamphire era un cognome molto strano, sebbene inconfondibilmente scozzese, e nell'elenco telefonico di Edinburgo ce n'era uno solo. Aveva sperato che potesse trattarsi dell'amica di Davina Flory, e infatti era così. — La polizia di Kingsmarkham? In che cosa posso mai esserle utile? — Signora Macsamphire, ritengo che Flory e Harvey Jones, con Naomi Jones e Daisy, siano stati tutti ospiti suoi nell'agosto scorso, quando vennero a Edinburgo per il Festival. — Oh, no, come ha potuto pensare una cosa del genere? Davina non voleva saperne di essere ospite in una casa privata. Alloggiavano tutti in albergo. Quando poi Naomi si ammalò, si prese un'influenza gravissima, io suggerii che la trasportassero qui. È talmente orribile ammalarsi in albergo, non crede? Perfino in un grande albergo come il Caledonian. Ma Naomi non volle, per paura di attaccarmela, immagino. Davina e Harvey andavano e venivano, naturalmente, e a molti degli spettacoli andavamo insieme. Purtroppo non vidi affatto la povera Naomi, invece. — Sbaglio, o Miss Flory prese parte lei stessa alla Fiera del Libro? — Sì, è così. Tenne una conferenza sulle difficoltà che sorgono nello scrivere un'autobiografia e prese anche parte a una tavola rotonda di scrittori. L'argomento verteva sulla versatilità degli autori, ossia, scrivere romanzi oltre che libri di viaggi, saggistica e così via. Io assistetti tanto alla conferenza che alla tavola rotonda e furono entrambe molto interessanti... Wexford trovò il modo di interromperla. — C'era anche Daisy con voi? La risata musicale di lei sembrava quella di una ragazza. — Oh, non credo che Daisy fosse molto interessata a queste cose. In verità, aveva promesso alla nonna che sarebbe venuta alla conferenza, ma non penso che l'abbia fatto. È una ragazza talmente dolce e spontanea, però, che le si perdonerebbe qualsiasi cosa. Era proprio il genere di frase che Wexford voleva sentire da lei... o con-
vincersi di volerla udire. — Naturalmente, c'era quel suo giovanotto con lei. Io lo vidi solo una volta e proprio l'ultimo giorno, il sabato. Ci salutammo con un cenno, da un marciapiede all'altro. — Nicholas Virson — disse Wexford. — Esatto. Davina in effetti fece proprio il nome Nicholas. — Era al funerale. — Ah, sì? Ero piuttosto sconvolta al funerale. Non ricordo. Era tutto qui quello che voleva da me? — Signora Macsamphire, non ho neppure cominciato a chiederle quello che realmente voglio. Da lei avrei bisogno un favore. — Lo era, un favore? O invece era per lui un sacrificio? — Daisy dovrebbe allontanarsi da qui per varie ragioni in cui non starò ad addentrarmi. Lei sarebbe disposta a invitarla a casa sua? Solo per una settimana... — esitò — ...o due. La inviterebbe? — Ma non vorrà venire! — Perché no? Sono certo che ha simpatia per lei. Sono sicuro che le farebbe piacere poter stare con qualcuno con cui poter parlare di sua nonna. Edinburgo è una città bella e interessante. Vediamo, com'è il tempo lì da voi? Di nuovo quella risata argentina. — Piove a dirotto, veramente. Ma inviterò Daisy, s'intende; mi farebbe piacere averla qui, solo che non mi era mai venuto in mente di invitarla. Gli svantaggi del sistema sembravano a volte superare i punti in favore del creare una sala operativa sul luogo. Tra i vantaggi, c'era quello di poter vedere con i tuoi occhi chi veniva in visita. Non era un'auto dei Virson, quel mattino, la vettura parcheggiata tra la vasca e la porta d'entrata, e nemmeno una di quelle di Tancred, bensì una piccola Fiat che Wexford lì per lì non sapeva a chi attribuire. L'aveva già vista, ma di chi era? Stavolta non poteva sperare nel tempestivo aprirsi della porta e relativa uscita del visitatore. Niente, naturalmente, gli impediva di bussare, ottenere accesso e partecipare al tête-à-tête in atto. Ma preferiva non farlo. Non doveva invadere la vita di Daisy, privarla di qualsiasi intimità, del suo diritto a essere libera e senza testimoni. Queenie, la gatta persiana, sedeva sul bordo della vasca, fissando la superficie immobile dell'acqua. Una delle zampette distrasse per un attimo la sua attenzione: ne contemplò un poco i grassi cuscinetti grigiastri, quasi a
valutarne la validità come arnese da pesca, poi la gatta le ripiegò entrambe al di sotto del petto, assunse la posizione della sfinge e riprese a fissare l'acqua e i pesci che vi nuotavano in tondo. Wexford si avviò oltre le stalle, poi attorno alla casa e sulla terrazza. Aveva la vaga sensazione d'essere un intruso, ma Daisy sapeva che loro erano lì, li voleva sul posto. Finché lui era lì poteva sentirsi protetta, al sicuro. Levò gli occhi alla facciata posteriore della casa e notò per la prima volta che il tentativo di renderla georgiana non era arrivato fin lì. Dietro, la casa era rimasta più o meno com'era nel diciassettesimo secolo, la parte in legno e muratura mezzo esposta, le finestre del piano superiore divise con montanti. L'aveva costruita Davina, la serra? Prima che occorresse l'autorizzazione della Sovrintendenza? Pur non intendendosene abbastanza di architettura per avere un'opinione precisa, sentiva di disapprovare quegli interventi. Daisy era là dentro. La scorse nell'atto di alzarsi dal posto dov'era seduta. Gli voltava le spalle, e lui si affrettò a lasciare la terrazza prima che la ragazza potesse vederlo. Il compagno di lei non era visibile. Il caso concesse a Wexford di incontrarlo un'ora dopo. Stava per uscire con la sua auto e disse a Donaldson di aspettare, perché aveva visto qualcuno prendere posto sulla Fiat. — Signor Sebright. Jason gli rivolse un gran sorriso. — Ha letto il mio pezzo sulle esequie? Il vice l'ha sforbiciato tutto e gli ha cambiato il titolo. "Un addio alla grandezza", l'hanno intitolato. Quello che non mi va del giornalismo locale è il fatto che bisogna dire bene di tutti. Non puoi mai essere acerbo. Il Courier, per esempio, ha una rubrica mondana, ma mai che ci sia dentro una riga di malignità. Il pubblico vuole cose come una speculazione su chi si porta a letto la Sindachessa o in che modo il Capo di Polizia ha rimediato un po' di ferie a Tobago. Ma sarebbe anatema per un giornale locale. — Non si preoccupi — disse Wexford — non ci rimarrà a lungo. — Suona un po' a doppio taglio. Ho avuto una straordinaria intervista con Daisy. "L'intruso mascherato." — È stata lei a parlarne? — Mi ha detto tutto. — Jason rivolse a Wexford un'occhiata di sotto in su e un sorrisetto incerto. — Non ho potuto fare a meno di pensare... potrebbe farlo chiunque, no? Venire quassù mascherato e spaventare le ragazze? — L'idea le sorride, vero?
— Solo come materiale per un articolo — rispose Jason. — Bene, me ne andrò a casa. — Dove, a casa? — A Cheriton. Le racconterò un aneddoto. L'ho letto soltanto l'altro giorno e lo trovo delizioso. Lord Halifax disse a John Wilkes, "Parola mia, signore, non so se perirete prima sulla forca oppure di lue," e Wilkes di rimando, prontissimo, "Bisognerà vedere, mylord, se abbraccerò prima i principi di Vostra Signoria o l'amante di Vostra Signoria". — Sì, l'avevo già sentita. Calza con qualcosa? — Mi ricorda me — disse Jason Sebright. Con un cenno di saluto a Wexford, salì in macchina e si allontanò un po' troppo velocemente lungo la strada secondaria. Gunther, o Gunnar, appare nella saga dei Nibelunghi. Gunnar è la forma norvegese, Gunther la tedesca o borgognona. Gunther decideva di attraversare le fiamme che circondavano il castello di Brunilde e conquistare così la sua sposa. Falliva ed era Sigfrido a riuscirci nelle sembianze di Gunther, rimanendo con Brunilde per tre notti, giacendole accanto ma con una spada nel mezzo. Wagner aveva composto un'opera in proposito. Tutto questo Burden l'aveva saputo dalla moglie prima di mettersi in viaggio per Londra. A volte pensava che sua moglie sapesse tutto. Be', tutto in cose di quel genere. Non se ne risentiva affatto, anzi: la cosa gli era molto utile e suscitava la sua incondizionata ammirazione. Era meglio lei del dizionario di Wexford e, come le aveva assicurato, molto più carina. — Come facevano, secondo te? Per la spada, dico. Non doveva essere di grande ostacolo se la posavano bella piatta. Bastava tirarci il lenzuolo sopra e nemmeno ti accorgevi che ci fosse. — Credo — aveva risposto seria seria Jenny — che la mettessero con il lato tagliente all'insù e l'elsa appoggiata sulla testiera del letto. Riesci a immaginarlo? Ma scommetto che in realtà non lo facevano mai. Ne scrivevano soltanto. Guidava Barry Vine. Era di quelli che si divertono a guidare, che non permettono mai alla moglie di farlo, che restano al volante a lungo, coprendo distanze enormi, e non per questo si stancano. Barry una volta aveva raccontato a Burden d'avere guidato per tutto il tragitto dall'Irlanda dell'ovest fino a casa, senza mai un'interruzione salvo durante la breve traversata fino a Fishguard. Stavolta, doveva fare soltanto un'ottantina di chilometri.
— Conosce quell'espressione, signore, "baciare la figlia del cannoniere"? — No, non la conosco. — Burden cominciava a sentirsi un ignorante. Possibile che Vine stesse per raccontargli altre avventure di quei personaggi wagneriani che dalle saghe norvegesi s'intrufolavano nell'opera lirica tedesca e viceversa? — È un detto, piuttosto strano. Significa qualcosa di completamente diverso, solo che non ricordo che cosa. — È in qualche opera lirica? — No, ch'io sappia — disse Barry. La casa del padre di Daisy era vicino al campo sportivo dell'Arsenal: una piccola casa vittoriana in mattoni grigi, lungo una strada di villette a schiera. Non c'erano divieti di sosta e Vine poté parcheggiare lungo il marciapiede di Nineveh Road. — Domani a quest'ora sarà ancora chiaro — disse Barry Vine, armeggiando per aprire il cancello. — Stanotte scatta l'ora solare. — L'orologio va messo avanti, vero? Non mi ricordo mai se va messo avanti o indietro. — Primavera in avanti, autunno indietro — disse Barry. Burden, stanco d'essere quello che le riceveva, le istruzioni, stava per ribattere qualcosa, quando un vivido fiotto di luce proveniente dalla porta d'entrata improvvisamente li investì, abbagliandoli. Un uomo uscì sugli scalini esterni. Porse la mano all'uno e all'altro, come fossero ospiti invitati o addirittura vecchi amici. — La strada l'avete trovata facilmente, allora? Era una di quelle osservazioni oziose che la gente, chissà perché, continua a fare. G.G. Jones ne fece perfino un'altra. — L'auto l'avete parcheggiata, sì? Il tono era cordiale, lui era più giovane di quel che Burden si sarebbe aspettato, o lo sembrava. Nell'interno, con la luce addosso invece che alle spalle, si rivelò per poco più che quarantenne. Burden si era aspettato anche una somiglianza con Daisy e invece non c'era, o non era tale che a una prima occhiata superficiale si potesse cogliere. Jones era biondo, aveva un volto colorito. L'aspetto giovanile era in parte dovuto a quel volto rotondo e infantile, col naso all'insù e gli zigomi larghi. Daisy non gli assomigliava, come non assomigliava alla madre. Era il ritratto di sua nonna, lei. Jones era anche sovrappeso, troppo, perfino per la sua solida struttura.
Un principio di pancia già gli gonfiava il maglione. Sembrava perfettamente a suo agio, senza niente da nascondere, e l'impressione d'essere stati invitati, d'essere addirittura ospiti d'onore, venne accresciuta dal suo produrre una bottiglia di whisky, tre barattoli di birra e tre bicchieri. Entrambi i poliziotti rifiutarono. Erano stati introdotti in un soggiorno piuttosto accogliente e che tuttavia mancava di quello che Burden definiva "il tocco femminile". Si rendeva conto che quella frase (misteriosamente per lui, che la riteneva anzi lusinghiera per le donne) corrispondeva a una teoria sessista. La moglie chissà quante gliene avrebbe dette, se lui vi avesse accennato. Ma in segreto vi aderiva, era un fatto. Quella stanza, per esempio, era accogliente e ben arredata, con quadri alle pareti, un calendario, un orologio sulla mensola del caminetto vittoriano, perfino una pianta che si sforzava di vivere nel suo angolo buio. Ma non vi era traccia di cura o di gusto, niente di interessante nel modo come l'ambiente si presentava, nessuna simmetria, nessun accostamento, nessuna atmosfera intima. In quella casa non viveva nessuna donna. Si rese conto d'essere rimasto in silenzio troppo a lungo, anche se Jones aveva riempito l'intervallo con l'andare a prendere la Diet Coke che aveva convinto Barry ad accettare e col versarsi una birra per sé. — Le dispiace dirci il suo nome, signor Jones? A che cosa corrispondono le iniziali? — Il mio primo nome è George, ma tutti mi chiamano Gunner. — Con la "e" o con la "a"? — Come, scusi? — Gunner o Gunnar? — Gunner. Cannoniere. Per il fatto che un tempo giocavo nell'Arsenal. Non lo sapevate? No, non lo sapevano. A Barry tremolarono le labbra, e si affrettò a mandar giù un sorso della sua coca dietetica. Così Jones un tempo, forse vent'anni prima, giocava nell'Arsenal, nei Gunners, i Cannonieri, e Naomi, "che se la faceva con i calciatori", aveva tifato dalla tribuna... — George Godwin Jones, questo è il mio nome completo. — Gunner Jones aveva un'espressione compiaciuta. — Mi sono risposato, in seguito — raccontò inaspettatamente — ma nemmeno quel matrimonio è stato felice. Cinque anni fa lei ha fatto le valigie e io non ho intenzione, per ora, di fare un altro salto nel buio. Proprio no, quanto è vero quello che dice la canzone, che puoi ottenere tutto senza farti agganciare. — Qual è la sua occupazione, signor Jones?
— Vendo attrezzature sportive. Ho un negozio in Holloway Road, e non venite a parlarmi di recessione. Per quanto mi riguarda, gli affari vanno a gonfie vele. — Si cancellò il largo sorriso soddisfatto dalla faccia proprio come se avesse un interruttore interno. — Brutto affare, quello di Tancred — disse, calando la voce di un ottavo. — Per questo siete qui, vero? O meglio, diciamo che non sareste qui se non fosse accaduto? — Sbaglio, o lei non ha avuto molti contatti con sua figlia? — Non ne ho avuto nessuno, amico mio. Non l'ho mai vista né sentita per ben diciassette anni. Quanti ne ha, adesso? Diciotto? Non la vedo da quando aveva sei mesi. E la risposta alla sua prossima domanda è, no, per niente. Non me ne importa, no. La cosa non mi fa né caldo né freddo. Forse un uomo si affeziona ai suoi figli quando sono un po' più grandi, ma un bebè? Non significa niente, dico bene? Mi sono lavato le mani di tutta la famiglia, io, e non l'ho rimpianto neppure per un istante. Era incredibile con quanta rapidità la sua bonomia potesse trasformarsi in belligeranza. La sua voce saliva di tono e ricadeva via via che l'argomento cambiava: un crescendo quando parlava di cose che lo riguardavano, un basso mormorio quando fingeva di prendere sul serio le esigenze della società. — Non ha pensato — domandò Barry Vine — di mettersi in contatto con sua figlia, quando ha sentito che era stata ferita? — No, per niente. — Un breve istante di esitazione, poi Gunner Jones passò ad aprire una seconda birra. — No, non ci ho pensato e non l'ho fatto. Di mettermi in contatto, dicevo. Visto che me lo domanda, ero via quando è accaduto. Ero andato a pescare, passatempo non insolito per me, lo definirei anzi il mio hobby se a qualcuno interessasse sapere qual è il mio hobby. Nell'ovest, stavolta: soggiornavo in un cottage sul Fiume Dart, un bel posticino dove vado spesso a passare qualche giorno in questo periodo dell'anno. — Era aggressivo e sicuro di sé. O forse si mostrava così pugnace proprio perché mancava di sicurezza? — Ci vado per allontanarmi da tutto, e quindi l'ultima cosa che faccio è di seguire il telegiornale. Quel che era successo l'ho saputo il quindici, quando sono tornato. — Leggera alterazione nel tono. — Intendiamoci, non sto dicendo che non sarei rimasto colpito se la ragazza avesse fatto la stessa fine degli altri, ma è un sentimento che si prova per qualsiasi figliolo, non c'è bisogno che sia tuo. — Non ho difficoltà a dirvi anche un'altra cosa. Forse penserete che sto incriminando me stesso ma lo dirò ugualmente. Naomi non era nessuno,
nessuno. Credetemi, uno zero assoluto. Un bel faccino e quella che potremmo chiamare una natura affettuosa. Mano nella mano e coccole. Solo che le coccole cessavano del tutto al momento di andare a letto. Quanto a cervello, be', io non sono istruito e in vita mia non credo d'avere letto più di sei libri, ma ero un genio a paragone di lei, ero la personalità dell'anno... — Signor Jones... — Sì, caro, potrà dire la sua tra un istante. Non m'interrompa sul più bello, in casa mia. Non ho ancora detto quello che volevo dire. Naomi non era nessuno e non ho mai avuto il piacere di fare la conoscenza dell'onorevole Copeland, ma vi dirò una cosa, vi dirò la cosa alla quale intendevo arrivare: qualsiasi individuo che intendesse tenere testa a Davina Flory, qualsiasi individuo, dico, doveva essere un soldato, signori miei, un combattente. Doveva avere un coraggio da leone, la forza di un cavallo e la pelle di un rinoceronte. Sì, perché quella signora era una strega fatta e finita e per di più instancabile. Non potevi stancarla, le bastavano quattro ore di sonno e poi era pronta a ricominciare... anzi, ad aggredire. Io dovevo viverci, là. Be', loro lo chiamavano "rimanere là intanto che trovavamo un posto", ma era chiaro che Davina non ci avrebbe mollati mai, specie dopo che era nata la bambina. — Si rivolse a Burden con una specie di latrato: — Lo sa che cos'è un goto? "Ci risiamo con Gunnar e i Nibelunghi", pensò Burden. — Me lo dica. — L'ho cercato nel dizionario. — Evidentemente, aveva anche imparato la definizione a memoria. — "Uno che si comporta come un barbaro, una persona rude, incivile o ignorante." Ecco come mi chiamava lei, "il goto", o semplicemente "Goto". Sì, lo usava come un nome di battesimo. "Oggi Goto a quali saccheggi intende darsi?" oppure, "Goto, sei andato di nuovo ad abbattere le porte della città?" "Era decisa a mandare a monte il matrimonio. Una volta mi disse chiaro e tondo come mi vedeva, e cioè come qualcuno che aveva dato una figlia a Naomi, e che una volta fatto questo la mia utilità era cessata. Soltanto un toro da monta, ecco chi ero io. Un goto campione. Un giorno ebbi la faccia tosta di lamentarmi, dissi che ero stufo di vivere lì, che volevamo una casa nostra, e tutto quello che mi rispose fu: 'Perché non vai a cercartela da qualche parte, Goto? Puoi tornare tra una ventina d'anni a dirci come te la sei cavata.' "Così me ne andai davvero ma non tornai più. Leggevo le recensioni nei giornali, quando usciva un libro suo, le cose che dicevano. 'Saggezza e arguzia, compassione unita a comprensione degna di uno statista, umanità e
profonda empatia con gli umili e gli oppressi...' Cristo, le risate che mi facevo. E che voglia di scrivere a quel giornale per dire, non la conoscete, non avete capito niente. Bene, ora mi sono levato il peso dallo stomaco e chissà che non sia riuscito a darvi un'idea del perché nessuna forza al mondo avrebbe potuto costringermi a mettermi in contatto con la figlia di Davina Flory e con la nipote di Davina Flory." Burden si sentiva lievemente allibito da quello sfogo. Era come se un torrente di odio e di amaro risentimento si fosse rovesciato nel piccolo soggiorno, lasciando lui e Vine a riaversi lentamente dall'esserne stati investiti. Gunner Jones aveva l'aria d'essere passato attraverso una catarsi: appariva liberato da un peso e compiaciuto di sé. — La vuole un'altra Diet Coke? Vine scosse la testa. — È tempo di bere qualcosa di forte. — Jones si versò una generosa dose di whisky nel terzo bicchiere. Ora stava scrivendo qualcosa sul retro di una busta che aveva preso da dietro l'orologio sulla mensola del caminetto. — Ecco qua. L'indirizzo del posto dove mi trovavo, sul Dart, e il nome delle persone del pub proprio lì accanto, il Rainbow Trout. — D'improvviso, si era fatto di ottimo umore. — Mi daranno un alibi. Controllate fin che volete, padronissimi. "Cari signori, non ho difficoltà ad ammettere liberamente un particolare. L'avrei uccisa volentieri io, Davina Flory, se avessi sperato di riuscirci e di farla franca. Ma è lì che casca l'asino, vero? Farla franca. E sto parlando di diciotto anni fa. Il tempo guarisce tutto, o così dicono, e io non sono più una testa matta, non sono più il goto che ero a quei tempi, quando almeno un paio di volte fui tentato di torcere il collo a Davina e al diavolo i quindici anni di carcere che mi sarebbe costato." Burden aveva le sue riserve, ma non fece commenti. Si domandava se Gunner Jones fosse quello stupido che Davina Flory lo aveva creduto, o se fosse invece molto molto abile. Si domandava se stesse recitando o se fosse tutto vero, e non riusciva a stabilirlo. Che ne avrebbe fatto Daisy di un padre così, se mai lo avesse incontrato? — Per la verità, d'accordo che mi chiamano Gunner, ma non so affatto maneggiare un'arma da fuoco. Non ho mai sparato neppure con una di quelle ad aria compressa. Mi domando se sarei in grado perfino di trovare la strada per arrivare fin là, a Tancred House, dopo tutto questo tempo, e non lo so, sinceramente non lo so. Immagino che alcuni alberi saranno cresciuti e altri saranno caduti. C'era della gente, là - Davina li chiamava "aiu-
tanti", scommetto che le sembrava un tantino più democratico che "servitori" - abitavano in un cottage, certi Triffid, Griffith, qualcosa del genere. Avevano un bambino, un po' ritardato, poveraccio. Che fine hanno fatto? La casa andrà a mia figlia, immagino. Fortunata la ragazzina, eh? Non credo che avrà pianto fino a consumarsi gli occhi, checché possa dire lei. Mi assomiglia? — Neanche un po' — rispose Burden, sebbene nel frattempo avesse visto Daisy nel taglio degli occhi di Gunner Jones, nella forma del cranio, in qualcosa agli angoli delle labbra. — Tanto meglio per lei, eh, amici miei? Non credo di poter leggere quello che passa in quei vostri sguardi indecifrabili. Se avete finito, visto che è sabato sera, vi darei un caldo addio e me ne andrei a farmi un goccetto nel mio solito locale. — Aprì la porta di strada e li avviò all'esterno. — Se state pensando di rimanere nei pressi, e di tenermi d'occhio, lascerò il mio macinino là fuori dov'è parcheggiato e userò quello che un tempo chiamavano il cavallo di San Francesco. — Neanche fossero stati agenti del traffico. — Mi dispiacerebbe molto darvi la soddisfazione di trovarmi un po' al di sopra del limite, come ormai sicuramente sono. — Vuoi che guidi io? — domandò Burden quando stavano per salire in macchina, sapendo già che l'offerta sarebbe stata rifiutata. — No, grazie, a me piace guidare. Vine accese il motore. — Barry, c'è una luce in quest'auto? — Sotto la mensola del cruscotto. Deve solo tirare a sé quella specie di tubo flessibile. Era impossibile svoltare lì. Barry continuò per un altro centinaio di metri lungo la strada, fece manovra, approfittando di una laterale, ripartì nella direzione dalla quale erano arrivati. Non pratico del posto, preferiva non arrischiarsi a ritornare sui suoi passi col fare il giro dell'isolato. Gunner Jones stava attraversando proprio in quel momento a un passaggio pedonale. Non c'erano altri pedoni e la loro era l'unica macchina. Jones alzò la mano in un gesto imperioso per fermarli, ma non guardò dentro la vettura né diede alcun segno d'avere riconosciuto conducente e passeggero. — Che strano uomo — disse Barry. — Questa è una cosa molto strana. — Burden teneva la lampadina per leggere le mappe stradali puntata sulla busta che Gunner Jones gli aveva dato e sulla quale aveva scritto l'indirizzo. Ma era l'altro lato, quello usato in precedenza, col francobollo, che lui stava osservando. — L'ho notato
appena l'ha presa dalla mensola. È indirizzata a lui, qui in Nineveh Road, e in questo niente di strano. La grafia, invece, è molto particolare. L'avevo già vista in un'agenda, e la riconoscerei ovunque. Questa è la scrittura di Joanne Garland. 19 Ora alle sei era pieno giorno. Niente avrebbe potuto dare meglio la sensazione della primavera dei tramonti a ora tarda e dell'allungarsi delle serate. Meno piacevole, secondo il Vice-Capo di Polizia, Sir James Freeborn, era l'allungarsi del tempo da quando la squadra di Wexford si era installata a Tancred House, e senza alcun risultato. E i conti che si andavano ammucchiando! La spesa! Un giorno e una notte di guardia alla signorina Davina Jones? Ma quanto sarebbe venuto a costare? La ragazza non avrebbe dovuto stare là. Si era mai sentita una cosa simile? Una ragazza di diciott'anni che imperiosamente insisteva per rimanere sola in quel casermone di casa. Wexford uscì dalle stalle poco prima delle sei. Il sole splendeva e nell'aria della sera ancora non si era insinuato il gelo. Udì un suono, davanti a sé, che sembrava prodotto da un forte acquazzone, ma la pioggia non poteva certo cadere da un cielo così terso. Come arrivò sul davanti della casa, vide che la fontana stava zampillando. Fino a quel momento quasi non si era reso conto che fosse una fontana. L'acqua sgorgava da un tubo che sbucava da un punto tra le gambe di Apollo e il tronco dell'albero, e ricadeva attraverso i raggi ormai obliqui del sole, formando tanti arcobaleno. Nelle piccole onde della vasca, i pesci erano come travolti. La fontana in piena funzione trasformava il luogo, per cui la casa non sembrava più austera, né il cortile spoglio, né la vasca stagnante. Il silenzio a volte opprimente aveva ceduto il posto a un delicato e musicale gorgoglio. Tirò il cordone del campanello. Di chi era la macchina sul viale alle sue spalle? Una vettura sportiva e dall'aria scomoda, senza dubbio una nuova MG. Daisy venne ad aprirgli. Il suo aspetto aveva subito una nuova alterazione ed era di nuovo molto femminile. In nero, naturalmente, ma un nero aderente, che la valorizzava, con la gonna invece dei calzoni, le scarpette invece delle scarpe quasi da uomo, i capelli sciolti dietro e raccolti ai lati, come una ragazza edoardiana. E c'era qualcos'altro di diverso in lei. Lì per lì non gli riusciva di dire co-
sa fosse, ma emanava da tutta la persona, dal passo, dal portamento, dal modo di fare, dagli occhi. Era come se da lei emanasse una luce. — Hai aperto la porta — le disse in tono di rimprovero — senza sapere chi era. Ò mi avevi visto dalla finestra? — No, noi eravamo nella serre. Ho aperto la fontana. — Si. — Bella, vero? Guardi com'è iridescente. Con l'acqua che ricade non si vede quel brutto sogghigno sulla faccia di Apollo. Si può quasi credere che lui l'ami, che voglia solo baciarla... Oh, la prego, non sia arrabbiato con me. Sapevo di poter aprire, avevo intuito che si trattava di una persona amica. Con minor fede di lei in quell'intuizione, Wexford la seguì attraverso la hall, domandandosi chi fosse l'altra metà di quel "noi". La porta della sala da pranzo era sempre sigillata. Lei lo precedette con passo elastico, una ragazza diversa, completamente cambiata. — Si ricorda di Nicholas? — gli disse, fermandosi sulla soglia della serra, e all'uomo all'interno: — C'è l'ispettore capo Wexford, Nicholas, che tu hai conosciuto in ospedale. Nicholas Virson era seduto in una delle profonde poltrone di vimini e non si alzò. Perché avrebbe dovuto alzarsi? Non porse neppure la mano, ma fece un cenno e disse: — Ah, buonasera — come un uomo molto più anziano. Wexford si guardò intorno. Guardava la leggiadria del luogo, le piante verdi, un'azalea in fiore, i limoni nei loro vasi di porcellana bianca e azzurra, un ciclamino rosa sovraccarico di boccioli dentro una ciotola sul tavolo di vetro. Guardava Daisy di nuovo seduta al posto da cui doveva essersi alzata qualche istante prima, vicino alla poltrona di Virson. Le loro due bibite, gin o vodka, o semplice acqua di fonte, erano l'una accanto all'altra, vicinissime e a poca distanza dai ciclamini. Comprese all'improvviso che cosa avesse provocato quel cambiamento in lei, riportandole il colorito alle guance e allontanando il dolore dai suoi occhi ansiosi. Se non fosse stato impossibile in quelle circostanze, dopo quello che era accaduto e che lei aveva passato, avrebbe quasi detto che fosse felice. — Posso offrirle qualcosa? — disse Daisy. — Meglio di no. Se quella è acqua minerale allora sì, ne accetterò un bicchiere. — Lascia, faccio io. Virson aveva parlato come se la richiesta di Wexford comportasse qual-
che compito faticosissimo, come l'attingere l'acqua da un pozzo, o portarla su dalla cantina per una pericolosa scala a pioli. A Daisy bisognava risparmiare uno sforzo che Wexford non aveva il diritto di imporle. Il gesto di porgere il bicchiere venne accompagnato da un'occhiata di rimprovero. — Grazie. Daisy, sono venuto a sentire se non vuoi riflettere sulla tua decisione di rimanere qui. — Che strano. Anche Nicholas. Voglio dire, è venuto appunto per sapere questo. — Daisy rivolse al giovanotto un gran sorriso luminoso. Gli prese la mano e gliela tenne. — Nicholas è così buono con me. Be', tutti lo siete. Tutti così gentili. Ma Nicholas farebbe qualsiasi cosa per me. Vero, Nicholas? Era una frase strana. Ma parlava sul serio, lei? Forse, la nota ironica Wexford se l'era solo immaginata. Virson sembrava leggermente disorientato, ed era comprensibile. Un sorriso incerto gli tremolava sulle labbra. — Qualsiasi cosa in mio potere, cara — disse. Sembrava riluttante ad avere a che fare con Wexford, se poteva evitarlo, ma a questo punto dimenticò i pregiudizi e quello che forse era snobismo e, quasi d'impulso, disse: — Voglio che Daisy torni con me a Myfleet. Non avrebbe mai dovuto lasciarci. Ma è così assurdamente ostinata... Non può fare qualcosa lei, per farle capire che è in pericolo? Mi preoccupo per Daisy giorno e notte, non ho difficoltà ad ammetterlo. Non posso dormire. Mi fermerei qui io stesso, solo... mi sembra che non sarebbe molto corretto. Al che, Daisy rise. Wexford non l'aveva mai sentita ridere, prima di quel momento. Né credeva d'avere mai sentito un giovane fare un'osservazione del genere, nemmeno ai tempi in cui era giovane lui e la gente trovava ancora qualcosa di sconveniente nel fatto che persone non sposate di sesso opposto dormissero sotto lo stesso tetto — Non ti ci vedrei proprio, Nicholas — disse lei. — Tutte le tue cose le hai a casa. E ci vuole un'eternità per arrivare alla stazione da qui, non ne hai idea se non provi. — Parlava affettuosamente, sempre tenendogli la mano. Per un attimo, il volto le si accese di felicità mentre lo guardava. — E poi, non sei della polizia, tu. — Prese un fare gentilmente canzonatorio. — Pensi che sapresti difendermi? — Sono un ottimo tiratore — disse Virson, col tono di un vecchio colonnello. — Non desideriamo avere altre armi qui, signor Virson — disse seccamente Wexford.
E Daisy istintivamente rabbrividì. Il volto le si oscurò, come quando una nuvola passa davanti al sole. — Una vecchia amica di mia nonna ha telefonato da Edinburgo per invitarmi ad andare a stare da lei. Ishbel Macsamphire. Ricordi che te la indicai, Nicholas? Ha detto d'avere invitato anche la nipote, e la cosa, secondo lei, avrebbe dovuto attrarmi! Roba da rabbrividire. Naturalmente ho detto di no. Magari più avanti nel corso dell'anno, ma non ora. — Mi dispiace molto — disse Wexford. — Sì, molto. — Non è la sola. Preston Littlebury mi ha invitata a casa sua, a Forby. "Resta quanto vuoi, mia cara. Sarai la benvenuta." Due ragazze della scuola mi hanno invitata. Sono davvero popolare, una specie di celebrità. — Hai detto di no a tutte quelle persone? — Signor Wexford, ho intenzione di restarmene qui in casa mia. So d'essere al sicuro, qui. Non capisce che se ora scappassi potrei non tornarci più? — Noi quegli uomini li prenderemo — dichiarò con fermezza lui. — È solo questione di tempo. — Un tempo estremamente lungo. — Virson beveva la sua acqua, o quello che era, a piccoli sorsi. — È quasi un mese, ormai. — Tre settimane in tutto, signor Virson. Un'altra idea che mi è venuta, Daisy, è che appena ricomincerà la scuola, a Crelands - tra due o tre settimane, credo - potresti frequentarlo da interna, l'ultimo trimestre. Lei gli rispose come se il suggerimento le sembrasse quanto mai strano, quasi assurdo. Immediatamente, la diversità di gusti e di temperamento ch'egli aveva sempre avvertito tra lei e Virson si annullò. D'improvviso, eccoli diventati due giovani del tutto compatibili, con gli stessi valori e allevati in una identica cultura. — Oh, io non ci torno a scuola! A che scopo dovrei tornarci? Dopo tutto quello che è successo? Non è certo di una media alta che avrò bisogno nella mia vita futura. — Ma non ti occorre, una media alta, per l'università che dovrai frequentare? Virson lanciò a Wexford un'occhiata in cui era implicito che considerava impertinente da parte sua dar credito a cose del genere. — All'università — disse Daisy — non è certo obbligatorio iscriversi. — Il tono era strano. — L'avrei fatto solo per far piacere a Davina e ora... ora non dovrò più preoccuparmene. — Daisy ha lasciato la scuola — intervenne Virson. — Quello è un argomento chiuso, ormai.
Wexford ebbe l'improvvisa certezza che stesse per seguire una rivelazione, o un annuncio. Daisy ha appena promesso che diventerà mia moglie... o qualcosa di altrettanto antiquato o pomposo, ma ciò nonostante una bomba. Ma non seguì nessuna dichiarazione del genere. Virson sorseggiò la sua acqua, poi disse: — Mi tratterrò ancora un poco, cara, se me lo permetti. Puoi offrirmi qualcosa di cena, o vogliamo andar fuori? — Oh, in casa c'è da mangiare per un esercito — disse allegramente lei. — Brenda ha cucinato per tutta la mattina, non sa più come occupare il tempo, ora... ora che ci sono solamente io. — Ti senti meglio? — fu tutto quello che disse Wexford mentre lei lo accompagnava alla porta. — Comincio a riavermi, certo. — Ma bastava guardarla per capire che le cose erano andate molto più in là di così. Di tanto in tanto Wexford aveva l'impressione che lei tentasse di ritornare all'antica infelicità, tanto per la forma, per la decenza. Ma l'essere infelice non le riusciva più naturale. Al contrario, era felice. E tuttavia disse, come ripresa da un senso di colpa: — In un certo senso non mi riavrò mai del tutto, non dimenticherò mai. — Per qualche tempo, se non altro. — Altrove sarebbe anche peggio. — Ma vorrei tanto che ci ripensassi. Sull'andar via da qui e sull'università. Per l'università, naturalmente... be', non è affar mio. Lei fece una cosa stupefacente. Erano sulla soglia, la porta era aperta e Wexford stava per andarsene. Daisy gli gettò le braccia al collo e lo baciò. I baci gli atterrarono — caldi e fermi — su tutt'e due le guance. Sentì contro di sé un corpo vibrante di delizia, di gioia. Con fermezza, si sciolse dall'abbraccio, — Accontentami — disse, come aveva detto talvolta alle sue figlie, e di solito senza risultato — facendo quello che ti chiedo. L'acqua continuava a scrosciare dentro la vasca e i pesci a guizzare tra le minuscole onde. — Stiamo affermando — disse Burden — che il veicolo usato da loro ripartì, e forse arrivò, attraverso i boschi stessi? Era una jeep o una Land Rover, allora, o qualcosa di adatto per un terreno accidentato, e il conducente conosceva i boschi come il palmo della sua mano. — Andy Griffin li conosceva di certo — rispose Wexford. — E anche suo padre, forse meglio di chiunque altro. Gabbitas li conosce, e lo stesso vale, forse in misura minore, per Ken Harrison. Senza dubbio le tre perso-
ne uccise li conoscevano e, per quel che ne sappiamo, anche la stessa Joanne Garland e qualche membro della sua famiglia. — Gunner Jones dice che oggi, probabilmente, non saprebbe ritrovare la strada attraverso quei boschi. Perché dirmelo, se non fosse praticamente certo di riuscirci? Io non gliel'avevo domandato, era un'informazione gratuita. E stiamo parlando di guidare attraverso i boschi, non di percorrerli a piedi: il che, andando a naso o con l'aiuto di una bussola, prima o poi ti riporterebbe su una strada. Invece si trattava di guidare attraverso i boschi un ingombrante veicolo a quattro ruote motrici, nel buio e osando accendere, al massimo, le luci di posizione, e forse nemmeno quelle. — L'altro lo precedeva con una lanterna — disse seccamente Wexford — come nei primi tempi della motorizzazione. — Be', può darsi. Non riesco a figurarmelo, Reg, ma che alternativa c'è? In nessun modo avrebbero potuto evitare di incontrare Bib Mew o Gabbitas, se fossero stati lungo la strada di Pomfret Monachorum... a meno che Gabbitas non fosse uno di loro, a meno che non fosse il secondo uomo. — E una motocicletta? Metti che avessero attraversato il bosco nel buio sulla moto di Andy Griffin? — Non credi che Daisy avrebbe saputo distinguere tra il rumore di una moto che si avvia e quello di un'auto? Non so perché ma non ce lo vedo, Gabbitas, viaggiare sul sellino posteriore della moto di Andy. Gabbitas, non occorre che te lo ricordi, non ha un alibi per il pomeriggio e la prima serata dell'undici marzo. — Sai, Mike, è successo qualcosa di strano agli alibi, in questi ultimi anni: sta diventando sempre più difficile stabilire un alibi di ferro. Questo va contro i malfattori, naturalmente, ma anche in loro favore. C'entra in qualche modo il fatto che la gente conduce un'esistenza sempre più isolata. Cresciamo continuamente di numero ma le esistenze individuali sono molto più solitarie. Sulla faccia di Burden era apparsa quell'espressione vitrea che spesso subentrava quando Wexford cominciava a "fare della filosofia", come diceva lui. Wexford stava diventando ultra-sensibile a quel mutamento di espressione e, poiché al momento non aveva nient'altro di importante da dire, tagliò corto e diede a Burden la buonanotte. Ma continuò a rimuginare quelle considerazioni sugli alibi, mentre guidava verso casa, e sul fatto che i sospetti potevano contare sempre meno sul vedere corroborate le loro affermazioni. Gli uomini, in tempi di recessione e di grande disoccupazione, andavano
al pub con minore frequenza che in passato. I cinema erano vuoti poiché la televisione attirava a sé il loro pubblico. Il cinema di Kingsmarkham aveva chiuso i battenti, cinque anni prima, ed era stato trasformato in un emporio. Più gente viveva sola, rispetto al passato, e sempre meno erano i figli adulti che vivevano con i genitori. Di sera e di notte, le strade di Kingsmarkham, di Stowerton, di Pomfret, erano deserte, non una macchina in sosta, non un passante, soltanto un passaggio di veicoli commerciali, ciascun camion con un autista solitario. A casa, in stanze singoli, o in mini-appartamenti, un uomo solo o una donna sola guardavano la televisione. Questo spiegava, in qualche misura, la difficoltà di stabilire con certezza dove si trovassero tutte quelle persone quella particolare sera di marzo. Chi poteva sostenere le affermazioni di John Gabbitas e di Gunner Jones, o addirittura di Bib Mew? Chi poteva confermare dov'era Ken Harrison, o John Chowney, o Andy Griffin, se non le mogli, nel caso di due di loro, mogli la cui testimonianza era inutile? Erano tutti a casa, o diretti a casa, soli o con le rispettive consorti. Dire che Gunner Jones era scomparso sarebbe stata un'esagerazione. Una telefonata al negozio di attrezzi sportivi in Holoway Road accertò che era andato a farsi qualche giorno di vacanza, non aveva detto dove, e che si assentava spesso. Wexford non poteva non vedere una coincidenza, se di coincidenza si trattava. Joanne Garland aveva un negozio ed era assente. Gunner Jones, che la conosceva, che corrispondeva con lei, aveva un negozio e "si assentava spesso". Un'altra cosa lo aveva colpito: poteva essere campata in aria e lui era disposto ad ammetterlo. Gunner Jones vendeva attrezzi sportivi, Joanne Garland aveva trasformato una stanza di casa sua in una palestra, riempiendola di attrezzi sportivi. Erano insieme e, se sì, perché? I proprietari del Rainbow Trout Inn di Pluxham, sul Dart, erano dispostissimi a dire al sergente investigativo Vine tutto quello che sapevano di G.G. Jones. Era un cliente regolare, quando si trovava lì. Loro affittavano alcune stanze e una volta Jones aveva soggiornato presso di loro, ma solo quella volta. In seguito aveva sempre affittato un cottage lì accanto. Non era proprio accanto, agli occhi di Vine, ma una cinquantina di metri più in là lungo il sentiero che portava al fiume. L'undici marzo? Il proprietario del Rainbow Trout sapeva perfettamente
di che cosa Vine stesse parlando e non aveva bisogno di spiegazioni. Gli occhi gli luccicavano, tanta era la curiosità. Il signor Jones era sicuramente stato lì dal dieci al quindici. Lo sapeva, perché il signor Jones pagava il conto soltanto al momento di partire ed erano documentate le spese che aveva fatto in quei giorni. A Vine sembrava una somma enorme per una sola persona. Quanto al giorno undici, il proprietario non sapeva dire di preciso, non poteva dimostrare che Jones fosse stato lì quella particolare sera, non segnava la data sulla sua "lavagna". Da allora non aveva rivisto Gunner Jones, né si era aspettato di vederlo. Al momento non c'era nessuno, nel cottage. Il padrone della casetta disse a Vine di non avere altre prenotazioni per Gunner Jones nell'anno in corso. Jones aveva affittato il cottage quattro volte ed era venuto sempre da solo. O meglio, non lo aveva mai occupato insieme ad altri. Lui, però, lo aveva visto una volta bere qualcosa al Rainbow Trout in compagnia di una donna. Mah, una donna. Non era in grado di descriverla, poteva al massimo dire che non gli aveva fatto l'impressione d'essere troppo giovane per Gunner, né troppo vecchia, d'altronde. Era probabile che al momento fosse andato a pescare in qualche altra località. Ma che cosa aveva contenuto la busta sulla mensola del caminetto di Nineveh Road? Una lettera d'amore? O gli elementi di un piano di qualche genere? E perché Gunner Jones aveva conservato la busta, quando era evidente che aveva gettato via la lettera? Perché, soprattutto, vi aveva scritto sopra quegli indirizzi e l'aveva porta a Burden con tanta noncuranza? Wexford, durante la cena, parlò con Dora dell'andar via durante il weekend. Lei poteva andare, se lo desiderava. Lui non sperava affatto di potersi muovere. Dora stava leggendo qualcosa su una rivista, e quand'egli le domandò che cosa la interessasse tanto, rispose che era un profilo di Augustine Casey. Wexford si limitò a fare un verso sprezzante. — Reg, se hai finito The Hosts of Midian, posso leggerlo io? Lui le porse il romanzo e aprì Lovely as a Tree, nella cui lettura non aveva fatto molti progressi. A capo chino, senza guardarla, domandò: — Le hai parlato? — Oh, andiamo, Reg, se è a Sheila che alludi, perché non lo dici? Le ho parlato, come sempre, solo che non c'eri tu a strapparmi di mano il ricevitore. — Quando parte per il Nevada? — Fra tre settimane circa.
Preston Littlebury aveva una villetta georgiana nel centro di Forby. Forby è stato definito il quinto tra i villaggi più graziosi d'Inghilterra, cosa che lui spiegava come la ragione per essersi fatto lì la casa per il fine settimana. Se il cosiddetto villaggio più grazioso d'Inghilterra fosse stato altrettanto vicino a Londra, avrebbe scelto quello. Purtroppo, era nel Wiltshire. Non era una casa riservata esclusivamente ai weekend, o lui non vi sarebbe stato di giovedì. Sorrideva nel fare quelle osservazioni da pedante, e teneva le mani al di sotto del mento, i polsi distanti e i polpastrelli a contatto. Il suo sorriso, a labbra serrate, era di ammiccante condiscendenza. Viveva solo, a quel che sembrava. Le stanze della sua casa rammentavano a Barry Vine le aree divise da tramezzi di una mostra d'antiquariato. Tutto, compreso il signor Littlebury dall'argentea chioma, dall'abito grigio argento con camicia rosa finissima e cravatta a farfalla tra il rosa e l'argento, aveva l'aspetto di un pezzo antico amorosamente e accuratamente preservato. Lui era più vecchio di quel che sembrava a prima vista, come del resto molti antichi oggetti d'arte. Barry era del parere che i settanta li avesse passati da un pezzo. Quando parlava, faceva pensare al povero Henry Fonda nella parte di un professore. Il suo circumlocutorio modo di esprimersi lasciò Vine più all'oscuro di prima, su quello che realmente lui faceva per vivere, di quando aveva cominciato a descrivere la sua occupazione. Era americano, nato a Filadelfia, ed era vissuto a Cincinnati, nell'Ohio, al tempo in cui Harvey Copeland aveva insegnato in una università del luogo. Così si erano conosciuti. Preston Littlebury conosceva anche il vice-rettore dell'Università del Sud. Lui stesso era stato una specie di accademico, aveva lavorato al Victoria and Albert Museum, aveva fama d'esperto d'arte e in passato aveva tenuto una rubrica di antichità su un giornale a diffusione nazionale. Sembrava che ora commerciasse in porcellane e argenteria antiche. Questo Vine era riuscito a estrarre dalle oscurità e dalle digressioni di Littlebury. L'altro parlava, e lui non faceva che assentire, come un mandarino cinese. — Sa, viaggio parecchio, avanti e indietro. Passo una quantità considerevole di tempo nell'Europa dell'Est, un mercato fecondo dalla cessazione della Guerra Fredda. Lasci che le racconti un fatterello piuttosto divertente accadutomi mentre attraversavo la frontiera tra la Bulgaria e la Iugoslavia...
C'era la minaccia di un altro aneddoto sul perenne tema delle goffaggini burocratiche. Vine ne aveva sopportati già tre e si affrettò a interrompere. — Riguardo ad Andy Griffin, signor Littlebury. Lo ha avuto alle sue dipendenze, in passato? Ci interessa stabilire dove si trovava nei giorni precedenti la sua uccisione. Come molti che hanno la mania di raccontare, Littlebury non amava essere interrotto. — Sì, be' venivo appunto a questo. Sarà almeno un anno che non lo vedo. Lo sapeva, questo? Vine non lo sapeva, ma assentì. Correva il rischio, se avesse obiettato qualcosa, di dover ascoltare ulteriori avventure accadute a Preston Littlebury nei Balcani nel corso di quell'anno. — Ma era stato impiegato presso di lei? — Per così dire. — Littlebury parlava con grande cautela, pesando ogni parola. — Dipende da quello che lei intende per "impiegare". Se intende sapere se lo avevo su quello che comunemente, ritengo, si chiama "foglio paga", la risposta dev'essere un enfatico no. Non si trattava affatto, per esempio, di versare contributi a suo nome o di denunciarlo nella mia dichiarazione fiscale. Se, d'altro canto, lei si riferisce al lavoro occasionale, a un ruolo di uomo tuttofare, devo rispondere che ha ragione. Per un breve tempo Andrew Griffin ha ricevuto da me quello che definirei un emolumento elementare. Littlebury tornò a riunire le punte delle dita e, al di sopra di quelle, ammiccò a Vine. — Eseguiva lavori di concetto come lavarmi la macchina e spazzare il cortile. Portava a spasso il mio cagnolino - ora, ahimè, passato nel paradiso dei cani - e una volta, ricordo, mi cambiò una ruota perché avevo forato. — Lo aveva mai pagato in dollari? Se qualcuno avesse detto a Vine che quell'uomo, quell'epitome di raffinatezza e di pedanteria o, come lui stesso si sarebbe sicuramente espresso, di civiltà, sarebbe ricorso alla ben nota espressione ambigua, non ci avrebbe creduto. Ma proprio questo fece Preston Littlebury. — Può anche darsi che l'abbia fatto — rispose. Pronunciata, poi, in un modo così sfuggente quale Vine non aveva udito mai. Sta a vedere, pensò, che ora si metterà a usare altre espressioni vaghe, tipiche di chi ha la coda di paglia: "Per essere perfettamente onesto con lei..." era una; e un'altra: "Per dire la pura verità..." Poi c'era la frottola più grande di tutte: "Giuro sulla vita di mia moglie e dei miei figli..." ma quella Littlebury non avrebbe avuto certo occasione di usarla, anche perché
sembrava che non avesse né moglie né figli, e perfino il suo cane era morto. — L'ha fatto, signor Littlebury, o non l'ha fatto? O forse non se ne ricorda? — È passato tanto tempo. Di che cosa aveva paura? Non vedo di che, pensò Vine. Del Fisco, tutt'al più, che metta il naso nelle sue misteriose transazioni? Molto probabilmente trattava sempre in dollari. I Paesi dell'Europa dell'Est li preferivano di gran lunga alle sterline, e ancor di più alle loro valute nazionali. — Abbiamo trovato un certo numero di dollari in possesso di Griffin. — È una valuta universale, sergente. — Sì. Perciò è possibile che lei qualche volta l'abbia pagato in dollari, ma che non se ne ricordi? — L'avrò anche fatto. Una o due volte, forse. Non più tentato a illustrare ogni sua risposta con un fatterello divertente, Littlebury sembrava improvvisamente a disagio. Era a corto di parole, non ammiccava più e si tormentava le mani abbandonate in grembo. Vine seguì un'ispirazione improvvisa. — Lei ha un conto in banca a Kingsmarkham, per caso? — No, non ce l'ho. — Detto di scatto. Vine ricordò che Littlebury viveva a Londra, che quello era solo un rifugio occasionale. Senza dubbio, però, talvolta si fermava anche il lunedì e aveva bisogno di contante... — C'è altro che vuole domandarmi? Avevo l'impressione che quest'indagine riguardasse Andrew Griffin, non i miei personali affari pecuniari. — Riguarda gli ultimi giorni della sua vita, signor Littlebury. Francamente, non sappiamo come li ha passati. — Vine lo informò sui fatti rilevanti. — Dalla domenica mattina fino al martedì pomeriggio. — Non li ha passati certo con me. Io ero a Lipsia. La polizia di Manchester confermò la morte di Dane Bishop. Il certificato di morte dava come causa un collasso cardiaco e come concausa una polmonite. Aveva ventiquattro anni e viveva a un indirizzo di Oldham. Il motivo per cui a Wexford non era mai stato segnalato stava nel fatto che Bishop non aveva precedenti penali. C'era un solo reato ascrittogli, e quello aveva avuto luogo tre mesi dopo la morte di Caleb Martin: un'effrazione in un negozio di Manchester. — Farò accusare quel Jem Hocking di omicidio — disse Wexford. — È già in galera — obbiettò Burden.
— Non in galera come la intendo io. Non in un vero carcere. — Non è da te, questo — commentò Burden. 20 — Se Miss Jones fosse morta, Miss Davina Jones, cioè — disse Wilson Barrowby, il legale — non c'è dubbio che suo padre, il signor George Godwin Jones, avrebbe ereditato la proprietà, avrebbe ereditato tutto. "Non esistono altri eredi. Miss Flory era la più giovane dei suoi fratelli." Accennò un mesto sorriso. "Sappiamo, infatti, che dopo gli altri otto lei era 'lo scricciolo'. Aveva infatti cinque anni meno del più giovane e almeno venti meno della sorella maggiore." "Non c'erano cugini primi. Il professor Flory e la moglie erano entrambi figli unici. Non fu una famiglia prolifica. Il professor Flory poteva aspettarsi d'avere almeno una ventina di nipoti. In realtà, ne ebbe sei, uno dei quali era Naomi Jones. Uno soltanto dei fratelli di Miss Flory ebbe più di un figlio, ma il maggiore di quei due morì nella prima infanzia. Tra i quattro nipoti di Miss Flory ancora in vita dieci anni fa, tre erano più vecchi di lei e la quarta era più giovane di appena due anni. Quella nipote, la signora Louise Merritt, è morta nel Sud della Francia in febbraio." — E i loro figli? — domandò Wexford. — I pronipoti e le pronipoti? — I pronipoti e le pronipoti non ereditano se chi muore è intestato, oppure, se testamento c'è, solo nel caso in cui siano nominati specificamente. Ce ne sono solo quattro: i figli della signora Merritt, che vivono entrambi in Francia, e un figlio e una figlia di un fratello e di una sorella più anziani. Ma, come le ho detto, che ereditino è assolutamente da escludere. Come forse lei sa, in base al testamento veniva lasciato tutto a Miss Davina Jones, con la clausola che il signor Copeland aveva diritti a vita su Tancred House, compreso quello di abitarvi. Lo stesso valeva per la signora Naomi Jones. Credo lei sappia, anche, che oltre alla casa, ai terreni, ai mobili di grande valore, e ai gioielli ahimè perduti, era stato accumulato un patrimonio di quasi un milione di sterline, somma purtroppo nemmeno così ingente, al giorno d'oggi. Ci sono poi i diritti d'autore di Miss Flory, che ammontano a circa quindicimila sterline l'anno. A Wexford sembrava molto. Giustificava il suo avere definito Daisy "ricca", parlando con Joyce Virson. Stava facendo quella tardiva visita ai legali di Davina Flory perché soltanto adesso era pervenuto alla piena convinziotie che il massacro di Tancred fosse in un certo senso un "lavoro dal-
l'interno". A poco a poco, era arrivato a concludere che il furto, per lo meno un furto di gioielli deciso lì per lì, poco aveva a che fare con quelle morti. Il movente andava cercato vicino casa. Andava cercato in quella rete di parentele, e tuttavia dove? C'era, da qualche parte, un parente sfuggito in qualche modo alle maglie della rete di Barrowby? — Se un consanguineo di Davina Flory non poteva ereditare — obiettò — e parlo di un pronipote o di una pronipote, non vedo perché doveva poterlo fare George Jones. A quanto mi risulta, Miss Flory lo odiava, Jones odiava lei, e lui non è nominato nel testamento. — Diciamo che questo non aveva niente a che fare con Miss Flory — spiegò Barrowby — e tutto a che fare, invece, con Miss Jones. Sicuramente lei sa come, quando diverse persone imparentate tra loro vengono uccise, si presuma l'ordine in cui sono avvenuti i decessi. Si parte dal principio che i più giovani siano sopravvissuti più a lungo. — Sì, questo lo so. — Di conseguenza, in questo caso, sebbene non sia andata così, il presupposto sarebbe che a morire per prima fosse stata Davina Flory, poi suo marito, infine la signora Jones. Anzi, sappiamo che non è andata così dalla testimonianza di Miss Jones. Sappiamo che a morire per primo fu il signor Copeland. Ma poniamo che l'assassino fosse riuscito nel suo intento e anche Miss Jones fosse morta. Bisognerebbe partire da presupposti del genere, dato che non vi sarebbero testimoni sopravvissuti a soccorrerci. Daremmo per scontato, in assenza di precise indicazioni mediche sull'ora della morte, in questo caso ovviamente impossibili ad aversi, che a morire per prima sia stata Davina Flory, per cui la nipote sarebbe l'immediata erede, in base al testamento, fatte salve le clausole di un interesse a vita sulla casa del signor Copeland e della signora Jones. — Poi, in ordine di età, sarebbero morti Copeland e Naomi Jones, venendo privati con la morte del loro interesse a vita. La proprietà, in quei pochi momenti essenziali, sia pure di pochi secondi, sarebbe interamente della sola Miss Jones. Di conseguenza, se e quando lei dovesse morire, in mancanza di testamento la erediterebbero i suoi eredi naturali, indipendentemente dall'essere consanguinei di Miss Flory o di chiunque altro. E il solo erede naturale di Davina Jones, dopo la morte della madre, è suo padre George Godwin Jones. — Se fosse morta, come poteva benissimo succedere, l'intera proprietà sarebbe passata al signor Jones. Non vedo come si possa impugnare un fatto del genere. Chi mai potrebbe opporsi?
— Non l'ha mai vista da quando era una poppante — disse Wexford. — Non l'ha mai né vista né cercata per più di diciassette anni. — Non ha importanza. È suo padre. O meglio, molto probabilmente è lui il padre, e certo lo è per legge. Era sposato con la madre all'epoca della sua nascita e la sua paternità non è mai stata contestata. È il suo erede naturale proprio come, in caso di sua morte, e se morisse senza lasciare disposizioni testamentarie, la ragazza lo sarebbe di lui. Wexford era ormai convinto che il fidanzamento stesse per essere annunciato da un momento all'altro. Nicholas, unico figlio della signora Joyce Virson e del defunto Vattelappesca Virson, e Davina, unica figlia di George Godwin Jones e della defunta signora Naomi Jones... L'auto di Virson era davanti a Tancred House anche più presto, il giorno dopo, poco dopo le tre. Probabilmente Virson chiedeva permessi in ufficio, e forse, con molto opportunismo, sacrificava parte delle sue ferie. Ma in realtà Wexford era convinto che non occorressero né opportunismo, né fortuna. Daisy era stata convinta, ormai: Daisy sarebbe diventata la signora Virson. Si sorprendeva a detestare fortemente l'idea. Non solo Virson era un imbecille pomposo con concetti assurdi sulla propria importanza e sul proprio stato sociale, ma Daisy era troppo giovane. Daisy aveva soltanto diciotto anni. Sua figlia Sylvia si era sposata a quell'età. Lui e Dora si erano detti contrari, all'epoca, ma lei non aveva voluto ascoltare il loro parere e il matrimonio aveva avuto luogo ugualmente. Lei e Neil erano ancora insieme ma, Wexford a volte ne aveva il sospetto, soltanto per amore dei figli. Era un matrimonio inquieto, pieno di tensioni e di incompatibilità. Naturalmente Daisy si era rivolta a Nicholas Virson perché la consolasse nel suo dolore, e lui l'aveva consolata. Il cambiamento in lei era stato notevole, adesso era felice per quanto era possibile esserlo a una persona nella sua situazione. La sola spiegazione di quella felicità bisognava cercarla in una dichiarazione d'amore da parte di Virson e di accettazione da parte sua. Nicholas era una delle poche persone giovani che Daisy conoscesse, a parte quelle compagne di studi che forse l'avevano anche invitata ma che brillavano indubbiamente per la loro assenza da Tancred House. Be', c'era Jason Sebright, ammesso che si potesse contarlo. Nicholas Virson aveva avuto l'approvazione della famiglia di lei. O almeno, gli avevano permesso di accompagnarli a Edinburgo, l'anno prima, per fare da cavaliere a Daisy. Non era forse da escludere che Davina Flory avrebbe visto con maggiore simpatia un progetto di convivenza da parte loro, più che di matrimonio,
ma già in sé quella era approvazione. Lui era un bel giovane, di età adatta, con un impiego soddisfacente, e sarebbe stato di certo un buon marito, noioso ma molto probabilmente fedele. Ma... per Daisy, a diciotto anni? Gli sembrava un vero spreco. Il genere di vita che Davina Flory aveva tracciato per lei, anche se imperiosamente concepito, era sicuramente quello che più le sarebbe convenuto, con il suo potenziale di avventura, di studio, di incontri, di viaggi. Invece si sarebbe sposata, avrebbe portato il marito a vivere a Tancred House e, Wexford ne era praticamente certo, avrebbe divorziato di lì a qualche anno, quando era ormai troppo tardi per gli studi e per andare alla scoperta di se stessa. Su tutto questo rifletteva mentre, in macchina, si spostava dallo studio legale alla Casa di Riposo di Caenbrook. Ancora non aveva conosciuto la signora Chowney, pur avendo passato una mezz'ora improduttiva con la figlia Shirley. La signora Shirley Rodgers era madre di quattro adolescenti, scusa che le serviva per fare raramente visita alla madre. Andava di rado anche a trovare la sorella Joanne, e sembrava sapere ben poco sulla vita di questa. Alla sua età? era stata l'immediata risposta quando Wexford le aveva domandato se Joanne avesse amicizie maschili. Ma lui non poteva dimenticare quel guardaroba fornitissimo, quei cosmetici, quella palestra piena di attrezzi per tenersi in forma. Edie Chowney era in camera sua ma non era sola. Una donna del personale, impiegata o infermiera, lo accompagnò fino alla stanza e bussò. L'uscio venne appena schiuso da una donna che sembrava la gemella di Shirley Rodgers. Lo fecero entrare, era atteso, e la signora Chowney, in un vestito di lana rossa, le gambe storte inguainate di calze rosse a coste e ai piedi pantofole rosa, era tutta sorrisi. — È il capo, lei? Gli sembrò di poter ragionevolmente dire di sì. — Esatto, signora Chowney. — Hanno mandato il capo, questa volta — disse lei all'inserviente, e passò poi a presentare sua figlia Pamela, la figlia buona che veniva a trovarla spesso, anche se questo lei non lo disse. — Mia figlia Pam. Signora Pamela Burns. — Mi fa piacere che lei sia qui, signora Burns — disse lui con diplomazia — perché penso che a sua volta possa esserci d'aiuto. Sono ormai più di tre settimane che la signora Garland è partita. Una di voi ha avuto sue notizie? — Non è partita. L'ho detto anche agli altri: non gliel'hanno riferito?
Non è partita, non sarebbe andata via senza dirmi niente. Non l'ha mai fatto. Wexford non osava dire a quella vecchietta che erano ormai seriamente preoccupati, e non solo perché non sapevano dove fosse la signora Garland ma perché temevano che fosse morta. Lui si aspettava da un momento all'altro una di quelle telefonate che annunciano una macabra scoperta. Nello stesso tempo, si domandava se la signora Chowney non fosse più che in grado di incassare il colpo. Che vita doveva essere stata la sua! Undici figli e tutte le relative preoccupazioni, tensioni e perfino tragedie. Matrimoni mal visti, divorzi anche meno accettabili, separazioni, morti. E tuttavia, esitava. — Non si sarebbe aspettata che venisse a trovarla, a questo punto, signora Chowney? — Quello che io mi aspetto — replicò lei bruscamente — e quello che loro fanno, sono due cose completamente diverse. È già stata via per tre settimane senza farsi proprio vedere. Pam è l'unica sulla quale si possa contare. L'unica, tra tutti quanti, a non pensare solo e soltanto a sé, mattina, pomeriggio e sera. Pamela Burns assunse un'aria vagamente tronfia e sulle labbra le apparve un sorrisetto modesto. Con aria saputa la signora Chowney riprese: — Tutto questo ha a che fare con quella Naomi, vero? Ha a che fare con quanto è accaduto lassù. Joanne era preoccupata per lei. Me ne parlava, quando non parlava di se stessa. — Preoccupata in che senso, signora Chowney? — Diceva che la sua non era vita, che avrebbe dovuto trovarsi un uomo. Diceva che aveva un'esistenza vuota. Vuota, pensavo io: vive in quella casa, senza mai avere avuto preoccupazioni di denaro, giocando a vendere animali di porcellana e non dovendo lottare dalla mattina alla sera. Non è una vita vuota, mi dicevo, è una vita protetta. D'altronde, ora non c'è più, ed è tutta acqua passata. — Sua figlia, un uomo nella sua vita l'aveva, vero? — Joanne? — disse la signora Chowney. Troppo tardi lui si ricordò che, con tanti figli, era necessario specificare. — Mia figlia Joanne. Ne ha avuti due, sa, due mariti. — Parlava come se, in quel campo, esistesse una sorta di razionamento e sua figlia avesse già usato la parte migliore della sua quota. — Qualcuno potrebbe esserci, lei a me non lo direbbe, a meno che non fosse pieno di soldi. In quel caso, mi mostrerebbe sicuramente le cose che le ha dato, e invece non c'è mai stato niente di questo, vero, Pam?
— Non lo so, Mamma. Niente mi è stato detto e io non faccio domande. Wexford venne al punto che era poi lo scopo della sua visita. Quasi non osava esprimerlo. Molto dipendeva da una reazione indignata, o difensiva, o colpevole. — Sua figlia conosceva l'ex marito di Naomi, George Godwin Jones? Lo guardarono entrambe come se una così sublime ignoranza fosse soltanto da compatire. Pamela Burns si protese perfino un poco verso di lui, come per incoraggiarlo a ripetere quello che aveva detto, come se dubitasse di avere sentito bene. — Gunner? — disse alla fine la signora Chowney. — Be', sì, Gunner Jones. Lo conosceva? — Ma certo che lo conosceva — disse Pamela Burns. — Ma si capisce! — Fece il gesto di allacciare i due indici. — Erano così, legati a filo doppio, lei, Brian, Naomi e Gunner, vero? Facevano sempre tutto insieme. — Joanne si era appena sposata per la seconda volta — disse la signora Chowney — parlo di... una ventina d'anni fa. Sembravano ancora incredule che tutto questo non fosse più che noto. Parlavano come se stessero rammentandogli con indignazione dei fatti, non informandolo per la prima volta. — Fu attraverso Brian che Joanne conobbe Naomi. Lui e Gunner erano grandi amici. Lei, ricordo, parlava di quanto era strana la coincidenza che Gunner sposasse una ragazza di queste parti, e io pensavo, non è solo una ragazza di queste parti, via! È una ragazza di quell'ambiente! Ma già, anche Joanne non se la passava male. Brian diceva sempre d'essere solo un povero milionario, ma era il suo modo di fare dello spirito. — Erano talmente intimi — aggiunse la signora Chowney — che dicevo con Pam: non mi meraviglierei se Gunner e Naomi si portassero gli altri due anche in viaggio di nozze. — E tanta amicizia continuò anche dopo i due divorzi? — Come, scusi? — Dicevo, quelle quattro persone continuarono a frequentarsi anche dopo che i matrimoni si erano sciolti? So, naturalmente, che la signora Garland e il signor Jones rimasero amici. — Brian andò in Australia, no? — La signora Chowney fece quella domanda col tono che avrebbe potuto usare per domandare a Wexford se il sole si era levato a oriente, quel mattino. — Con lui non potevano più frequentarsi neppure se lo avessero voluto. A ogni modo, Gunner e Naomi si erano già divisi molto prima. Quello era un matrimonio condannato fin
dall'inizio. — Joanne prese le parti di Naomi — continuò Pamela Burns con zelo. — Be', normale, no? Un'amica cara come quella. Si schierò dalla parte di Naomi, sì. Lei e Brian erano ancora insieme, all'epoca, e perfino Brian era contro Gunner. — In tono sentenzioso, aggiunse: — Non si manda a monte un matrimonio solo perché non si va d'accordo con la suocera, specie poi quando si ha una bambina. E la bambina aveva appena sei mesi. Il furgone dei fornitori di pasti caldi, com'era sua abitudine quotidiana, era venuto a fermarsi fra Tancred House e le stalle. Diffondeva una fragranza di curry e di spezie messicane. — Freeborn avrebbe qualcosa da dire in proposito, se soltanto lo sapesse — osservò Wexford, rivolto a Burden. — Dobbiamo pur mangiare. — Già, ma è un tantino al di sopra dello spaccio del posto di polizia o di qualsiasi posticino dove andiamo di solito. — Wexford stava mangiando pollo con riso pilaf e Burden una quiche di prosciutto e funghi. — Strano pensare a quella ragazza, a pochi metri da noi, in fin dei conti, che viene servita a tavola da una domestica, ha chi le cucina i pasti, e considera tutto questo la cosa più naturale del mondo. — È un tenore di vita, Mike, al quale si dà il caso che noi non siamo abituati. Dubito che contribuisca molto alla felicità di una persona o che possa rendere meno felici. Quando lo aspettano di ritorno Gunner Jones, in quel suo negozio? — Non prima di lunedì. Ma questo non significa che non sia già a casa venerdì o sabato. A meno che non abbia tagliato la corda, andandosene all'estero. Non mi farebbe nessuna meraviglia. — Che sia andato a raggiungerla, dici? — Non lo so. Avrei giurato che fosse morta, ma ora non so più che dire. Mi piacerebbe poter imbastire per quei due un altro di quelli che tu chiami i miei scenari, ma quando provo non mi riesce. Gunner Jones ha il migliore dei motivi per ciascuna di quelle uccisioni... sempre che Daisy fosse morta, e senza dubbio chi le ha sparato era convinto che morisse. In quel caso, avrebbe ereditato tutto. Ma come c'entra la Garland? Era l'amante, pronta a dividere con lui il bottino? O era una visitatrice innocente, venuta a interrompere lui e... e chi altri? Non abbiamo stabilito alcun legame tra Jones e Andy Griffin, se non che Gunner l'aveva visto un paio di volte da bambino. Poi c'è il mezzo col quale sono arrivati. Non era l'auto di Joanne
Garland. I ragazzi del laboratorio l'hanno passata al setaccio, e non era la BMW. Niente indica la presenza di qualcuno, nella vettura, che non fosse la stessa Joanne. — E come c'entra Andy? Bib Mew era tornata a lavorare a Tancred House, dove tanto Wexford che Vine avevano fatto ulteriori tentativi di parlare con lei. Ogni accenno al cadavere appeso all'albero, per quanto espresso con accorte perifrasi, provocava nuove crisi di tremito, e una volta addirittura una specie di attacco che si era manifestato in una serie di grida brevi e acute. — Non vuole più passare di là — li aveva informati non richiesta Brenda Harrison, con gusto sadico. — Fa tutto il giro fino a Pomfret, lungo la strada principale e poi su a Cheriton. Ore, ci vogliono, e quando piove non è uno scherzo. Daisy... — e qui un verso sprezzante — ...dice a Ken di andarla a prendere con l'auto. È il meno che possiamo fare, dice. Ci vada lei, se proprio ci tiene tanto, ho detto. Siamo stati licenziati, ho detto, non vedo perché dovremmo sprecarci tanto. Spero che stia ancora infornandolo tu il nostro pane, Brenda, dice lei; stasera ho una persona a cena, Brenda... Ma intanto noi stiamo per essere messi in mezzo a una strada. Davina si rivolterebbe nella tomba, se lo sapesse. Quando Wexford aveva tentato nuovamente di parlarle, Bib era andata a nascondersi nella stanza al di là della cucina, dove c'erano i freezer, e si era chiusa a chiave. — Non so proprio cos'abbiate fatto per spaventarla — aveva commentato Brenda. — Vede, è un po' scema — si toccava la tempia con due dita. — Lo sapeva? — Poi, muovendo appena le labbra: — Danno al cervello, alla nascita. Erano molte le cose che a Wexford sarebbe piaciuto sapere. Se Bib avesse visto qualcuno vicino a quell'albero. Se quel pomeriggio avesse visto qualcuno nei boschi. Thanny Hogarth era il suo solo legame con quello che poteva essere accaduto; Thanny Hogarth doveva farle da interprete. — Di conseguenza — disse Wexford, finendo il suo riso pilaf — gli ho detto di venire quassù questo pomeriggio, per fare una deposizione su quanto accadde quando Bib bussò alla sua porta e gli disse d'avere trovato il cadavere di Andy Griffin. Ma non credo che possa fornirci rivelazioni speciali. Thanny Hogarth arrivò in bicicletta. Wexford lo vide dalla finestra. Stava attraversando il cortile in direzione delle stalle, pedalando allegramente senza mani, a braccia conserte e con l'espressione rapita mentre ascoltava
la radiolina in cuffia. La cuffia l'aveva ancora intorno al collo quando entrò calmo calmo. Karen lo intercettò e lo accompagnò da Wexford. Thanny portava i capelli legati dietro, quel giorno, forse con un laccio da scarpe, in quella foggia che Wexford detestava in un maschio, pur riconoscendo che il suo era un pregiudizio. Come l'ultima volta che si erano visti, non si era rasato, vale a dire che aveva due o tre giorni di barba. Era sempre così? Wexford non poté non domandarsi come ci riuscisse. Se la regolava a quel livello con le forbici? Con un paio di scarponcini marroni tutti impunturati e borchiati, e con un fazzoletto rosso legato al collo, aveva l'aria di un giovane e bel pirata. — Prima di cominciare, signor Hogarth — disse Wexford — vorrei che soddisfacesse la mia curiosità su un punto. Se il suo corso di composizione creativa non comincia prima dell'autunno, perché lei è qui con sei mesi di anticipo? — La scuola estiva. C'è un corso preliminare per studenti che prendono l'MA. — Capisco. Avrebbe chiesto conferma al dottor Perkins ma non dubitava di trovare che tutto era in regola. Karen, armata di blocco, si preparava a stenografare la deposizione di Hogarth, che sarebbe stata anche registrata su nastro. — Per quello che può valere — commentò allegramente lui, e Wexford era incline a dargli ragione. Che cosa poteva valere, quel breve resoconto di poche parole farfugliate in preda al terrore? "Lei ha detto: 'Una persona morta. Appesa su. Appesa a un albero.' Penso di non averle creduto. Ho detto, 'Ma andiamo!' o qualcosa di simile. Forse ho detto, 'Aspetti un momento,' e le ho chiesto di ripetermelo. Avevo appena fatto il caffè e gliene ho fatto bere un po', sebbene avessi l'impressione che non le piacesse. Era troppo forte. Se lo versò tutto addosso, tanto stava tremando. "Ho detto: 'Perché non mi accompagna fin là e me lo fa vedere?' E lei ha ricominciato ad agitarsi, 'OK, allora,' ho detto, 'bisogna chiamare la polizia, giusto?' È stato così che lei ha detto di non avere il telefono. Incredibile, no? Le ho detto di usare il mio ma non voleva. Voglio dire, ho capito, naturalmente, che non le andava di farlo, così ho detto, 'Va bene, lo farò io,' e l'ho fatto." — Non le ha detto, per caso, se aveva visto qualcuno nei boschi? Allora, o in una precedente occasione, vicino al punto dove c'era il cadavere?
— Niente. Vorrei farle capire che non parlava molto, non in modo comprensibile. Faceva tutta una serie di versi, ma parole vere, poche. In aggiunta agli altri mezzi per registrare quella deposizione, Wexford stava annotandone alcuni punti, quando la sua penna a sfera cessò di lavorare. La punta cominciò a fare solchi sulla pagina, invece di segni. Lui rialzò lo sguardo, fece per prenderne un'altra dal portapenne accanto al cactus e vide che Daisy era venuta alle stalle e si teneva proprio sulla soglia, guardandosi intorno un po' incerta. Una frazione di secondo dopo anche lei lo vide e immediatamente gli si avvicinò, sorridendogli e tendendogli le mani. Sembrava che stesse facendo una visita da tempo promessa. Che quello fosse, in tutto e per tutto, un posto di polizia, che quelli fossero funzionari di polizia intenti a indagare su una serie di omicidi, non l'aveva minimamente scoraggiata. Era all'oscuro delle implicazioni e ignara di regole che avrebbero inibito altri al posto suo. — Mi ha invitata a venire, l'altro giorno, e ho detto di no, che ero stanca o volevo rimanere sola o qualcosa del genere, e da quel momento non ho fatto che pensare a quanto ero stata scortese. Così mi sono detta, oggi ci vado, ed eccomi qui. Karen aveva l'aria scandalizzata e Barry Vine altrettanto. Quella sistemazione a spazio-aperto delle stalle aveva i suoi svantaggi. — Tra dieci minuti sarò felicissimo di accompagnarti in un giro turistico — disse Wexford. — Nel frattempo, il sergente Vine ti mostrerà il nostro sistema di computer e come funziona. Lei stava guardando Thanny Hogarth, lanciandogli appena un'occhiata e subito distogliendo lo sguardo; ma un'occhiata piena di curiosità e di congetture. Barry Vine stava dicendole di seguirlo, prego, così le avrebbe spiegato il collegamento telefonico tramite computer con la sede di polizia. Wexford ebbe l'impressione che lei non volesse allontanarsi ma si rendesse conto di non poter fare diversamente. — Chi era? — domandò Thanny. — Davina Jones, detta Daisy, che vive nella villa. — Vuol dire la ragazza alla quale hanno sparato? — Sì. Vorrei che leggesse questa deposizione, per favore, e, se tutto è soddisfacente per lei, che la firmasse. A metà della lettura, Thanny sollevò gli occhi dal foglio per dare un'altra occhiata a Daisy, che in quel momento veniva istruita da Vine sulla formattazione del software. Un verso si presentò alla mente di Wexford:
"Quale dama è mai, quella che così arricchisce la mano del suo cavaliere?" Giulietta e Romeo... be', perché no? — Grazie mille. Non ho bisogno di disturbarla oltre. Thanny non sembrava affatto ansioso di andarsene. Chiese se anche lui poteva farsi mostrare il sistema computerizzato. La cosa lo interessava perché stava pensando di cambiare la sua macchina per scrivere. Wexford, che non sarebbe arrivato dov'era se non fosse stato in grado di cavarsela in cose del genere, rispose no, spiacente, erano troppo occupati. Con una stretta di spalle, Thanny si avviò verso la porta. Là si trattenne per qualche istante, come immerso in un suo pensiero. Vi sarebbe forse rimasto fino a che Daisy stessa non avesse preso congedo, se l'agente Pemberton non gli avese aperto la porta e, con fermezza, non l'avesse invitato a uscire. — Chi era? — s'informò Daisy. — Uno studente americano di nome Jonathan Hogarth. — Che bel nome. Mi piacciono, i nomi con il suono th. — Per un momento, uno sconcertante momento, si era espressa esattamente come sua nonna. O come Wexford intuiva che si sarebbe espressa la nonna. — Dove abita? — In un cottage a Pomfret Monachorum. È qui per seguire un corso di specializzazione all'Università del Sud. Wexford aveva l'impressione che la ragazza fosse interessata. Se ti piace come si presenta e come parla, aveva voglia di dirle, vai all'università e ne conoscerai tanti come lui. La voglia l'aveva, ma non lo fece. Non era suo padre, per quanto paterno potesse sentirsi, mentre lo era Gunner Jones. Gunner Jones al quale non faceva né caldo né fresco che lei andasse a Oxford o finisse a battere il marciapiede. — Ho idea che non lo userò mai più questo posto — disse lei. — Be', non come luogo privato speciale tutto mio. Non ne avrò bisogno. Sarebbe ridicolo, ora che ho l'intera casa. Ma mi ricorderà sempre momenti felici. — Parlava come una settantenne che riandasse col pensiero alla sua lontana gioventù. — Era proprio bello, tornare da scuola e potersi rifugiare qui. Sa, potevo portarci tutti i miei amici, e nessuno sarebbe venuto a disturbarci. Eppure non lo apprezzavo quando avrei dovuto, quando l'avevo. — Guardò fuori della finestra. — Era venuto su in bicicletta, quel ragazzo? Ho visto una bicicletta appoggiata contro il muro esterno. — In bicicletta, sì. Non è molto distante. — No, se si conosce la strada attraverso i boschi, anche se non credo che
lui la conosca. Non per farla in bicicletta, per lo meno. Dopo che lei se n'era tornata nella villa, Wexford si concesse una piccola fantasia. E se davvero si fossero attratti a vicenda, quei due? Thanny poteva anche telefonarle, si sarebbero forse incontrati e poi... chi poteva dirlo? Non un matrimonio o una relazione seria, lui non se lo augurava per Daisy, a quell'età. Ma per mettere fuori gioco Nicholas Virson, per cambiare il ripudio di Oxford da parte di Daisy in accettazione entusiastica, l'ipotesi gli sembrava quanto mai desiderabile. Gunner Jones ritornò a casa più presto del previsto. Era stato a York, ospite di amici. Burden, al telefono, gli aveva chiesto nome e indirizzo degli amici e lui si era rifiutato di darli. Nel frattempo, Burden aveva saputo dalla Polizia Metropolitana che, lungi dall'essere incapace di maneggiare un'arma da fuoco, Jones era socio del North London Gun Club, e che gli erano stati rilasciati certificati per il possesso di una carabina e di una pistola, rispetto alle quali era soggetto a ispezioni periodiche da parte della polizia. La pistola non era una Colt ma una Smith & Wesson modello 31. Ciò nonostante, tutto questo aveva indotto Burden a chiedergli, senza mezzi termini, di presentarsi al posto di polizia di Kingsmarkham. Al principio Jones aveva rifiutato ma qualcosa, nel tono di Burden, gli aveva certo fatto capire di non avere scelta. Al vero posto di polizia, non a Tancred House. Wexford gli avrebbe parlato nell'austerità di una stanza per colloqui, non su a Tancred, con la figlia a un tiro di schioppo. Wexford non avrebbe saputo dire come fosse arrivato alla decisione di tornare a casa per la strada che passava da Pomfret Monachorum. Era un giro lungo, una distanza ben maggiore. Forse per la bellezza del tramonto o, motivo più pratico, per evitare, guidando in direzione est, di avere di fronte quel fiammeggiante globo rosso la cui luce accecava nel penetrare nel bosco in aste abbaglianti. O semplicemente, per vedere come la primavera avesse cominciato a velare di verde gli alberi più giovani. Dopo circa un chilometro, li vide. Non la Land Rover: quella era nascosta tra gli alberi o non in uso, quel giorno, e John Gabbitas non aveva la tuta protettiva, né c'erano in vista la sega a motore o gli altri attrezzi. Era in jeans e giaccone Barbour, e anche Daisy indossava jeans e un pesante maglione. Erano fermi sull'orlo di una piantagione recente di alberelli, molto distante, visibile solo perché c'era una specie di corridoio, in quel punto,
che si apriva attraverso il folto. Stavano parlando, erano vicinissimi e non avevano udito il rumore della sua auto. Il sole li inondava di una patina d'oro rosso, dando loro l'aspetto di due figure aggiunte dal pennello in un paesaggio dipinto. Le loro ombre, più scure, si estendevano sull'erba rossa di sole. Wexford vide lei posare la mano sul braccio di Gabbitas, vide l'ombra copiare il gesto, e subito dopo passò oltre. 21 Un boscaiolo si serve di funi. Burden si ricordava di un "intervento" eseguito su un albero nel giardino del vicino. Era stato durante il suo primo matrimonio, quando i suoi figli erano ancora bambini. L'avevano seguito tutti da una finestra del piano di sopra. Il chirurgo degli alberi si era legato a uno dei grandi rami del salice, prima di cominciare l'operazione di segare via quello secco. Non sapeva se John Gabbitas lavorasse o meno il sabato, ma si fece un dovere di arrivare al cottage di buon mattino, tanto per precauzione. Erano le otto e mezzo, minuto più, minuto meno. Ripetute bussate di campanello non ottennero risposta. O Gabbitas dormiva ancora, oppure era già uscito. Burden si portò sul retro e guardò i vari edifici esterni, un capanno per la legna, uno per le attrezzature e una struttura per tenere all'asciutto la legna intanto che stagionava. Tutto era stato perquisito, all'inizio delle indagini. Ma che cosa cercavano di preciso, quando era stata fatta la perquisizione? Gabbitas apparve mentre Burden tornava sul davanti della casa. Sembrava che stesse arrivando non dal sentiero attraverso il pineto ma dal folto degli alberi stessi, da quell'area di bosco che si trovava a sud dei giardini. Invece degli scarponi da lavoro calzava scarpe sportive e, al posto dei soliti indumenti protettivi o del Barbour, i jeans e un maglione pesante. Se sotto c'era una camicia, non si vedeva. — Posso sapere dov'è stato, signor Gabbitas? — Ho fatto una passeggiata — rispose l'altro in tono breve e brusco. Sembrava indignato. — Una bella mattinata per passeggiare — commentò con fare mite Burden. — Volevo solo farle una domanda: fa uso di funi, lei, nel suo lavoro? — Qualche volta. — Gabbitas lo guardò insospettito, parve sul punto di domandare perché, poi dovette ripensarci... o ricordare com'era morto Andy Griffin. — Non me ne sono servito, ultimamente, ma l'ho sempre a
portata di mano. — Come Burden si aspettava, anche Gabbitas aveva l'abitudine di legarsi a un albero, se il lavoro che doveva fare era al di sopra di una certa altezza o comunque rischioso. — Sarà nel capanno dei miei attrezzi. So esattamente dove. Sarei in grado di trovarla anche al buio. Ma non poté, né al buio né in pieno giorno. La fune era scomparsa. Wexford, che si era domandato da chi provenissero i lineamenti di Daisy che non erano stati trasmessi da Davina Flory, ora li vedeva incredibilmente presenti nell'uomo che gli stava davanti. Ma poi, che cosa c'era di incredibile? Gunner Jones era il padre, un fatto manifesto a chiunque, salvo a coloro che vedevano la somiglianza soltanto nelle dimensioni fisiche e nel colore degli occhi e dei capelli. Lui aveva il medesimo modo - o meglio, era Daisy ad averlo preso da lui - di guardare di sotto in su con una lieve inclinazione dell'occhio e della bocca; simili erano la curva delle narici, il labbro superiore piuttosto corto, le sopracciglia diritte che s'incurvavano soltanto alle tempie. Il suo peso oscurava altre possibili rassomiglianze. Era un pezzo d'omone dall'aria truculenta. Quando lo avevano introdotto nella stanza dove Wexford lo aspettava per un colloquio, si era comportato come se fosse lì in visita, o addirittura per indagare a sua volta. Guardando verso la finestra (che dava su una corte con relativi bidoni per la spazzatura), aveva commentato con disinvoltura che la vecchia sede era cambiata al punto da sembrare irriconoscibile, dall'ultima volta che lui c'era stato. Wexford si disse che c'era quasi una sfida insolente nel modo in cui quell'uomo parlava, e ignorò la mano che gli veniva tesa con falsa cordialità, fingendosi immerso nell'esame di un incartamento che stava sul tavolo in mezzo a loro. — Segga, prego, signor Jones. La stanza era un gradino più su di quelle usate in genere per quei colloqui, vale a dire che le pareti non erano imbiancate a calce, la finestra aveva una veneziana e non una griglia di ferro, il pavimento non era di cemento ma a piastrelle e le sedie che i due uomini occupavano avevano sedile e schienale imbottiti. Ma non c'era niente che la elevasse al livello di "ufficio", e presso la porta c'era un poliziotto in uniforme, l'agente Waterman, che si sforzava di apparire indifferente, come se lo starsene a sedere nell'angolo di una squallida stanza della sede di polizia fosse il suo modo pre-
ferito di passare la mattinata del sabato. Wexford aggiunse un appunto alle note che aveva davanti, lo rilesse, rialzò lo sguardo e cominciò a parlare di Joanne Garland. Gli sembrò che Jones si sorprendesse, che fosse perfino sconcertato. Non era certo questo, che si aspettava. — Eravamo amici una volta, sì — disse. — Lei era sposata con il mio amico Brian. Uscivamo spesso insieme, le due coppie, voglio dire. Io e Naomi, lei e Brian. In pratica io lavoravo per Brian mentre stavo qui, avevo un impiego come suo rappresentante. Mi ero rovinato una gamba, come forse saprà, e il mondo dello sport si era chiuso per me alla tenera età di ventitré anni. Dura, non crede? Wexford, considerando retorica la domanda, s'informò: — Quando ha visto per l'ultima volta la signora Garland? Jones diede in una risata omerica. — Vista? Che non la vedo saranno... quanto? Diciassette, diciotto anni? Quando Naomi e io ci separammo lei prese le parti di Naomi, per una forma di lealtà, come si usa dire. Anche Brian prese le sue parti e quella fu la fine del mio impiego. Come lo definirebbe lei, amico mio, non lo so, ma io lo chiamerei tradimento. Non c'era cattiveria che quei due non dicessero, sul conto mio... e io che cosa avevo fatto? Ben poco, per essere sincero. L'avevo picchiata? Ero andato con altre donne? Bevevo? Nossignore, niente di tutto questo. Tutto quello che avevo fatto era stato di lasciarmi tormentare da quella vecchia strega fino a che non avevo potuto resistere un solo maledetto giorno di più. — Non ha più visto la signora Garland da allora? — Gliel'ho detto. Non l'ho vista né ho più parlato con lei. E a che scopo, poi? Cos'era Joanne per me? Non m'era mai piaciuta molto, tanto per cominciare. Come avrà forse intuito, ormai, le impiccione autoritarie non sono certo il mio tipo, a parte il fatto che lei aveva almeno dieci anni più di me. Da quel giorno, non ho rivisto Joanne né ho più rimesso piede da queste parti. — Forse non l'avrà vista e non le avrà parlato, ma ha comunicato con lei — disse Wexford. — Ha ricevuto una lettera da lei, recentemente. — Gliel'ha detto lei? Avrebbe dovuto avere il buon senso di non farla, quella domanda. I suoi modi spavaldi, le sue immediate proteste, Wexford non li avrebbe definiti certo una buona recitazione. Ma forse non erano affatto una commedia. — Joanne Garland è scomparsa, signor Jones. Non sappiamo assolutamente che fine abbia fatto.
L'espressione di Jones era di estrema incredulità, proprio da personaggio da film dell'orrore sull'orlo del disastro. — Oh, ma via! — È scomparsa fin dalla sera della strage di Tancred House. Gunner Jones sporse le labbra, sollevò le spalle in un lento scrollone. Non appariva più sorpreso. Semmai, appariva colpevole, anche se Wexford sapeva che questo non voleva dir niente. Era puramente il fare di chi, per abitudine, non è mai né sincero né schietto. I suoi occhi si fissarono su Wexford ma ben presto lo sguardo vacillò e si abbassò. — Io ero nel Devon — disse. — Questo forse non l'ha saputo, lei. Ero a pescare in un posto che si chiama Pluxham sul Dart. — Non abbiamo trovato nessuno disposto a sostenere che lei fosse là durante l'undici e il dodici marzo. Vorrei che mi fornisse il nome di qualcuno in grado di darne conferma. Ha anche detto di non saper maneggiare un'arma da fuoco, eppure è socio del North London Gun Club e detiene certificati riguardo a ben due armi. — Era uno scherzo — si difese Gunner Jones. — Ma sì, via, lo comprende anche lei: non è divertente, chiamarsi Gunner e non avere mai maneggiato una pistola? — Temo d'avere un senso dell'umorismo un po' diverso dal suo, signor Jones. Mi parli della lettera che ha ricevuto dalla signora Garland. — Quale? — disse Gunner Jones. Poi continuò come se non avesse posto la domanda. — Non ha importanza, perché dicevano tutt'e due la stessa cosa. Mi scrisse tre anni fa - quando divorziai dalla mia seconda moglie per dire che Naomi e io avremmo dovuto rimetterci insieme. Non so come avesse saputo del divorzio, qualcuno deve averglielo detto, abbiamo ancora delle conoscenze comuni. Scriveva per dire che adesso ero "libero", parola sua, e non c'era niente che impedisse a Naomi e a me di "ricostruire il nostro matrimonio". Sa cosa le dico? Che oggi la gente scrive lettere soltanto quando ha paura di parlare per telefono. Sapeva come le avrei risposto, se m'avesse telefonato. — Ha risposto alla lettera? — No, caro, per niente. L'ho buttata nel cestino. — Una luce di ineffabile scaltrezza dominava ora il volto di Jones. Era un'espressione pantomimica e, probabilmente, del tutto inconscia. Quell'uomo non aveva idea di quanto apparisse ambiguo, quando mentiva. — Ne ho ricevuta un'altra simile circa un mese fa, di più forse. Era sullo stesso tono della prima. Wexford cominciò a interrogarlo sulle sue vacanze di pesca e sulla sua
abilità di tiratore. Riportò Gunner Jones sullo stesso terreno di quando lo aveva interrogato sulla lettera, e ottenne risposte analogamente evasive. Per un bel pezzo Jones rifiutò di dire dov'era stato, a York, ma alla fine cedette e ammise a malincuore d'avere là una ragazza. Fornì nome e indirizzo. — A ogni modo, non ho intenzione di fare un altro salto nel buio. — Prima d'oggi, non era più tornato a Kingsmarkham per quasi diciotto anni? — Esatto. — Nemmeno un lunedì, 13 maggio, dell'anno scorso, per esempio? — Né quel giorno, per esempio, né nessun altro giorno. Era la metà del pomeriggio, ed erano passate due ore da che lo spaccio aveva fornito una colazione a base di panini, quando Wexford chiese a Jones di rilasciare una dichiarazione e, sia pure con riluttanza, si disse che doveva lasciarlo andare. Non aveva alcun vero indizio in base al quale trattenerlo. Jones stava già parlando di "far venire giù un avvocato", dal che Wexford arguiva che, in materia criminale, ne sapesse di più grazie ai telefilm americani che per esperienza diretta. Ma poteva sempre darsi che stesse recitando. — Visto che sono qui potrei anche andar su con un taxi a conoscere mia figlia. Che gliene pare? Wexford, mantenendosi neutrale, disse che spettava a lui deciderlo. L'idea non gli piaceva, ma era certo che Daisy non avesse niente da temere. La villa pullulava di funzionari e di agenti di polizia, il personale delle stalle era ancora al completo. Prima di recarvisi a sua volta, telefonò a Vine, per avvertirlo dell'intenzione di Jones. All'atto pratico Gunner Jones, che era venuto in treno, se ne tornò a Londra con lo stesso mezzo, accettando di buon grado l'offerta di venire accompagnato alla stazione di Kingsmarkham da un'auto della polizia. Wexford ancora non sapeva stabilire se Jones fosse di un'abilità diabolica o profondamente stupido. Finì per concludere che era una di quelle persone per le quali una bugia è un'opzione ragionevole quanto la verità. La scelta cade su ciò che rende la vita più facile. Si stava facendo tardi ed era sabato, ma ugualmente lui si fece accompagnare a Tancred. Un'altra offerta floreale era stata appesa a un pilastro del cancello principale. Wexford si domandò chi potesse mai essere il donatore di quei fiori, stavolta un cuore composto di boccioli di rosa rosso scuro, e se fosse una serie di persone o sempre la stessa. Scese dalla macchina per
dare un'occhiata, mentre Donaldson apriva il cancello, ma sul biglietto c'era scritto soltanto BUONANOTTE, DOLCE SIGNORA senza né nome, né firma. A mezza via su per i boschi, una volpe attraversò proprio di fronte a loro, ma a distanza sufficiente perché Donaldson non dovesse nemmeno frenare. Lungo gli argini, tra l'erba già si schiudevano le primule. Il finestrino dell'auto era aperto e Wexford poteva aspirare l'aria fresca e mite d'aprile, che sapeva di primavera. Stava pensando a Daisy, cosa che il timore della visita a sorpresa del padre l'aveva indotto a fare. Ma pensava a lei - se ne rese conto con un'attenta autoanalisi - senza alcuna ansia eccessiva, senza appassionati timori, senza vero amore, tanto per dirla con franchezza. Si sentiva leggermente scosso. Non aveva un gran desiderio di vedere Daisy, né alcun bisogno di starle vicino, di collocarla nella posizione di figlia, d'esserle padre e sentire che lei gli riconosceva quel ruolo. Gli si erano aperti gli occhi, e forse era dipeso dal non essersi sentito né inorridito né infuriato dall'intenzione dichiarata da Jones di salire su a Tancred. Tutt'al più la cosa lo aveva irritato e messo in guardia, perché a Daisy era affezionato, sì, ma non l'amava. Era una rivelazione di sé, che quell'esperienza gli aveva portato. Gli era stata insegnata la differenza, l'enorme divisione, tra l'amare e l'essere affezionato a una persona. Daisy era stata lì quando Sheila, per la prima volta in vita sua, aveva disertato. Senza dubbio qualsiasi giovane donna graziosa che fosse stata gentile con lui sarebbe servita allo scopo. La sua parte d'amore, per moglie, figlie e nipoti, gli era già stata concessa, e quella bastava, non ve ne sarebbe stato altro. Né lui lo voleva. Quello che provava per Daisy era un tenero riguardo e la speranza che tutto le andasse bene. Quella riflessione finale stava prendendo forma nella sua mente quando, dal finestrino dell'auto, scorse una figura che, in distanza, correva in mezzo agli alberi. La giornata era bella e dappertutto la luce del sole penetrava di sbieco nei boschi in raggi velati e qua e là quasi opachi. Gli ostacolavano la vista, più che aiutarlo a distinguere di chi potesse trattarsi. Qualcuno correva, sembrava in modo gioioso e quasi con abbandono, attraverso le radure e dentro quelle aste di luce intensa, poi di nuovo tra l'una e l'altra. Impossibile dire se fosse uomo o donna, giovane o di mezz'età. Wexford poteva solo arguire che non si trattasse di un vecchio. Ed ecco che ora spariva, più o meno nella direzione dell'albero dell'impiccagione.
Quando il telefono squillò, Gerry Hinde stava parlando con Burden, domandandogli se avesse visto i fiori sul cancello. Fiori così non ne vedevi mai da un fioraio. Se, per esempio, volevi portare dei fiori a tua moglie, te li davano tutti ammassati in modo che non facevano bella figura, e poi toccava a lei disporli. Sua moglie diceva che in realtà non le faceva piacere quando qualcuno glieli portava, perché la prima cosa che doveva fare, di qualsiasi altra stesse occupandosi, era metterli nell'acqua. E poteva volerci un'eternità, quando il più delle volte lei stava cucinando o mettendo a letto uno dei bambini. — Sarebbe utile saperlo. Sapere, dico, dove se li procura quei fiori, quel tale. Aggiustati in quel modo. Burden non osava dire che, molto probabilmente, sarebbero stati al di là dei mezzi dell'agente Hinde. Si salvò col rispondere al telefono. L'etica puritana aveva ancora una parte di primo piano tra le forze che regolavano il suo modo di ragionare. Gli diceva di non usare una macchina se potevi percorrere a piedi la distanza, e che telefonare a chi abitava nella casa accanto era quasi un peccato. Di conseguenza, quando Gabbitas disse d'essere a casa, nel suo cottage, Burden fu sul punto di domandargli bruscamente perché non fosse venuto di persona, se aveva qualcosa da dire. Una nota di gravità e forse di choc nella voce del boscaiolo lo trattenne. — Potrebbe venire qui, per favore? Potrebbe venire e portare qualcun altro con sé? Burden non disse quello che gli urgeva in gola, e cioè che Gabbitas, quel mattino, si era mostrato ben poco entusiasta della sua compagnia. — Mi dia almeno un'idea di che si tratta, no? — Preferisco aspettare che lei sia qui. Non ha niente a che fare con la fune. — La voce tremolò un poco, aggiunse goffamente: — Non ho trovato un cadavere o cose del genere. — Oh, santo cielo — brontolò Burden tra sé, nel rimettere giù il ricevitore. Uscì nel cortile e si portò sul davanti della casa. Sul lastricato era parcheggiata la macchina di Nicholas Virson. La luce era ancora molto forte ma il sole era ormai basso nel cielo. I suoi raggi obliqui trasformavano l'auto che avanzava dal viale principale, sbucando dai boschi, in un accecante globo incandescente. Burden non era in grado di fissarla, per cui si era già arrestata a poca distanza da lui e Wexford stava già scendendone, prima ch'egli potesse vedere di chi era. — Vengo con te.
— Ha raccomandato, infatti, di portare con me qualcuno. Mi sono detto che ha una bella faccia tosta. Seguirono la stradina attraverso il pineto. Ai due lati, la luce morbida della prima sera mostrava gli svariati colori delle conifere, le guglie levigate, i coni serrati, gli abeti e i cedri, verdi, azzurrognoli, argentei, dorati o quasi neri. La luce formava pilastri o restava come sospesa a strisce tra l'una e l'altra di quelle forme simmetriche. C'era un intenso, aromatico odore di resina. Sotto le suole il terreno era secco e piuttosto scivoloso, perché gli aghi bruni coprivano il manto della stradina oltre che gli interstizi fra gli alberi. Il cielo sopra di loro era un vasto bagliore bianco-azzurro. Wexford rifletteva tra sé quanto fossero fortunati, quegli Harrison e John Gabbitas, a vivere in un luogo simile, e quanto dovessero temere di perderlo. Con un senso di inquietudine, ripensò al suo ritorno verso casa della sera innanzi, al boscaiolo e a Daisy fermi l'uno accanto all'altro, nel corridoio tra gli alberi inondato di sole. Una ragazza poteva posare la mano sul braccio di un giovanotto e guardarlo in faccia in quel modo confidenziale senza che questo significasse qualcosa. Lui li aveva visti molto da distante. Daisy aveva la tendenza a toccare la persona con cui parlava, a metterle un dito sul polso, a sfiorarle il braccio in un gesto che poteva sembrare una carezza... John Gabbitas era ad aspettarli in giardino, la sua mano destra batteva il tempo con frenetica impazienza, quasi che ogni indugio gli riuscisse intollerabile. Ancora una volta Wexford rimase colpito dall'aspetto del giovane, di un'avvenenza spettacolosa che, se fosse appartenuta a una donna, sarebbe stata davvero sprecata, nascosta in un posto come quello. Trattandosi di un uomo, un commento del genere non veniva mai in mente. D'improvviso gli tornarono alla mente quelli del dottor Perkins sull'avvenenza di Harvey Copeland, ma già Gabbitas stava avviandosi verso l'interno della casetta, in soggiorno, e indicando, con lo stesso dito fremente che aveva battuto il tempo, un oggetto posato sopra uno sgabello dal sedile di rafia intrecciata, al centro della stanza. — Che cos'è, signor Gabbitas? — domandò Burden. — Che sta succedendo? — L'ho trovata. Ho trovato quella. — Dove? Dove l'ha trovata? — In un cassetto. Di quel mobile. Era una pistola, anzi un grosso revolver, di un color piombo scuro, il
metallo della canna di una sfumatura lievemente più chiara. Rimasero a fissarla, e seguì un silenzio. Wexford domandò: — L'ha tirata fuori e l'ha messa lì? Gabbitas fece un cenno d'assenso. — Sa, vero, che non avrebbe dovuto toccarla? — Certo, ora lo so. È stato lo choc. Ho aperto il cassetto, dentro ci tengo carta e buste, ed è stata la prima cosa che ho visto. Era posata sopra quei fogli di carta da macchina. Lo so che non avrei dovuto toccarla, ma è stato istintivo. — Possiamo sederci, signor Gabbitas? Gabbitas levò gli occhi al cielo, poi assentì furiosamente. Erano i gesti di chi si meraviglia della banalità di una richiesta come quella in un momento simile. — È l'arma con cui sono stati uccisi tutti, vero? — Può darsi — disse Burden — come può darsi di no. Resta da stabilire. — Vi ho telefonato appena l'ho trovata. — Appena l'ha tolta da dove stava, già. Saranno state le sei meno dieci. Quando aveva guardato in quel cassetto l'ultima volta, prima delle sei meno dieci di stasera? — Ieri — rispose Gabbitas dopo una lieve esitazione. — Ieri sera verso le nove. Dovevo scrivere una lettera ai miei, a Norfolk. — E l'arma non c'era, allora? — No, non c'era! — La voce di Gabbitas era improvvisamente carica di esasperazione. — Vi avrei telefonato allora, se ci fosse stata. Non c'era niente nel cassetto, tranne quello che c'è sempre: carta, blocchi per appunti, buste, biglietti, quelle cose lì. L'essenziale è che la pistola non c'era. Non lo capite? Non l'avevo mai vista in vita mia. — Va bene, signor Gabbitas. Al posto suo, cercherei di non perdere la calma. Ha poi scritto ai suoi? Gabbitas rispose con impazienza. — Ho impostato la lettera a Pomfret questa mattina. Ho passato la giornata ad abbattere un sicomoro morto nel centro di Pomfret e mi sono fatto aiutare da due ragazzi che fanno il servizio civile. Abbiamo finito per le quattro e mezzo e alle cinque ero qui di ritorno. — E cinquanta minuti dopo ha aperto il cassetto perché voleva scrivere un'altra lettera? Pare che lei sia un patito della corrispondenza. Fu in preda a un furore a stento represso che Gabbitas si girò verso Burden. — Senta, io non avevo nessun bisogno di dirvelo. Potevo buttarla nella spazzatura e chi s'è visto, s'è visto. Non ha niente a che fare con me, io
l'ho semplicemente trovata, l'ho trovata in quel cassetto dove qualcun altro deve averla messa. Ho aperto il cassetto, se vuole saperlo, per prendere un foglio di carta su cui scrivere una fattura per il lavoro che ho fatto oggi. Per il dipartimento ambiente del comune. È così che lavoro. Devo presentare il conto, non posso aspettare per settimane e settimane. I soldi mi servono. — D'accordo, signor Gabbitas — disse Wexford. — Ma è un vero peccato che abbia maneggiato quell'arma. L'avrà fatto a mani nude, immagino? Sì. Ora chiamerò subito Archbold perché venga qui a occuparsene. È più saggio che nessun'altra persona non autorizzata la tocchi. Gabbitas sedeva proteso in avanti, i gomiti sui braccioli, l'espressione truculenta e stizzita. Era l'espressione di chi è rimasto deluso nel suo desiderio di venire ringraziato dalle autorità per i suoi servigi. Wexford stava considerando che le possibilità erano due. Una era che Gabbitas fosse colpevole, magari soltanto di possedere quell'arma ma pur sempre colpevole, e quindi timoroso di andarci di mezzo. L'altra era che proprio non si rendesse conto della gravità della faccenda o non comprendesse che cosa poteva voler dire, se il revolver sullo sgabello era davvero l'arma del massacro. Fece la telefonata, poi domandò a Gabbitas: — È rimasto fuori tutto il giorno? — Gliel'ho detto. E posso darle i nomi di decine di testimoni perché lo confermino. — È un peccato che non possa darci quello di almeno uno, disposto a confermare dov'era lei l'undici marzo. — Wexford sospirò. — Sta bene. Non ci sono segni di effrazione, vero? Chi altri ha la chiave di questa casa? — Nessuno, ch'io sappia. — Gabbitas esitò, poi rapidamente si corresse. — Ma la serratura non è stata cambiata, quando mi sono trasferito qui. I Griffin potrebbero ancora averla, una chiave. Non è mia la casa, non mi appartiene. Immagino che Miss Flory o Copeland l'avessero, una chiave. — Sempre più nomi sembravano venirgli alla mente. — Gli Harrison l'avevano, tra la partenza dei Griffin e il mio arrivo. Non so che fine abbia fatto. Io non vado mai via senza chiudere a chiave, sto molto attento a queste cose. — Tanto varrebbe che lasciasse aperto, signor Gabbitas — osservò seccamente Burden. — A quanto pare, non fa molta differenza. Hai perso una fune e hai trovato una pistola, rifletteva Wexford, una vol-
ta rimasto solo con Gabbitas. A voce alta disse: — Immagino che la stessa cosa valga per il capanno dove tiene i suoi attrezzi. Sono in molti ad averne le chiavi? — Non c'è serratura, sulla porta. — Questo almeno è assodato, allora. Lei è arrivato qui nel maggio scorso, signor Gabbitas? — Al principio di maggio, sì. — Senza dubbio avrà un conto in banca. Gabbitas gli disse dove, senza un attimo di esitazione. — E, quando è arrivato, ha trasferito immediatamente il suo conto alla filiale di Kingsmarkham? Sì? È stato prima o dopo l'uccisione di quell'agente di polizia? Se lo ricorda? È stato prima o dopo che l'agente Martin venisse assassinato in quella filiale? — Prima. Wexford ebbe l'impressione che Gabbitas fosse a disagio, ma era abituato a immaginare cose del genere. — L'arma che lei ha appena trovato è quasi certamente la stessa usata per quell'omicidio. — Osservava la faccia di Gabbitas, ma non vi leggeva altro che una specie di ricettività passiva. — Delle persone presenti in banca quel mattino, il tredici maggio, non tutte si fecero avanti per rilasciare una testimonianza alla polizia. Alcune se ne andarono prima dell'arrivo degli agenti. Una si portò via quell'arma. — Io non so niente di questa storia. Non ero nella banca, quel giorno. — Ma era già arrivato a Tancred? — Sono arrivato il quattro maggio — rispose Gabbitas, scorbutico. Wexford tacque, poi riprese come per fare conversazione. — Le piace la signorina Jones, signor Gabbitas? Daisy Jones? Il cambio d'argomento prese il boscaiolo alla sprovvista. — Cosa c'entra questo? — proruppe. — Lei è giovane e a quanto pare senza legami. Anche Daisy è giovane e carina. Molto affascinante, anzi. E, in seguito a quant'è successo, è anche in possesso di una considerevole proprietà. — È solo una persona per cui lavoro. D'accordo, è una bella ragazza, qualsiasi uomo la troverebbe attraente. Ma è soltanto una persona per cui lavoro, per quanto mi riguarda. E per cui forse non lavorerò ancora per molto. — Sta per lasciare questo impiego? — Non si tratta di lasciare un impiego. Io non sono impiegato qui, ricorda? Gliel'ho detto. Lavoro in proprio, io. C'è altro che vuole sapere? Una
cosa posso dirle: la prossima volta che trovo una pistola, non chiamo la polizia. La butto nel fiume. — Al posto suo non lo farei, signor Gabbitas — disse bonariamente Wexford. Nella sezione letteraria del Sunday Times c'era un articolo di un noto critico sul materiale da lui raccolto per una biografia di Davina Flory, materiale formato in gran parte da corrispondenza. Wexford gli diede un'occhiata, poi cominciò a leggere con crescente interesse. Molte delle lettere erano state in possesso della nipote di Mentone, ora defunta. Erano di Davina alla sorella, la madre della nipote, e indicavano che il primo matrimonio di Davina, con Desmond Cathcart Flory, non era mai stato consumato. Venivano citati lunghi brani, esempi di infelicità e di amara delusione, tutti scritti nell'inconfondibile stile di Davina, che alternava espressioni semplici ad altre barocche. L'autore della lettera, basandosi su indizi in lettere successive, speculava su chi potesse essere stato il padre di Naomi Flory. Questo spiegava qualcosa che già aveva incuriosito Wexford. Sebbene Desmond e Davina si fossero sposati nel 1935, l'unica figlia di Davina era nata soltanto dopo dieci anni. Gli tornava anche alla mente, in modo doloroso, quell'orribile scena al Cheriton Forest Hotel, quando Casey aveva a gran voce asserito che Davina fosse stata ancora vergine otto anni dopo il suo matrimonio. Con un sospiro, finì l'articolo e passò al paginone dedicato al Banchetto Letterario del giornale, tenutosi il lunedì precedente a Grosvenor House. Wexford vi gettò uno sguardo, solo con la speranza di vedere una fotografia di Amyas Ireland, che era stato al banchetto dell'anno prima e forse c'era andato di nuovo. La prima faccia che vide, che gli balzò incontro dalla pagina tutta fotografie, fu quella di Augustine Casey. Era seduto a tavola con altre quattro persone. Per lo meno, nella foto se ne vedevano altre quattro. Wexford, domandandosi se Casey avesse sputato dentro il bicchiere da vino, lesse la didascalia. Da sinistra a destra: Dan Kavanagh, Penelope Casey, Augustine Casey, Frances Hegarty, Jane Somers. Sorridevano tutti amabilmente tranne Casey, la cui faccia mostrava un sogghigno sardonico. Le donne erano in abito da gran sera. Wexford guardò la foto e rilesse la didascalia, guardò le altre foto su tutt'e due le pagine, tornò a guardare la prima. Avvertì, dietro di sé, la presen-
za silenziosa di Dora. Stava certo aspettando una sua domanda, ma lui esitava, non sapendo come impostare quello che voleva dire. La domanda gli uscì, cauta. — Chi è questa signora con l'abito lucente? — Penelope Casey. — Sì, lo so, questo lo vedo anch'io. Che cos'è per lui? — È la moglie, Reg. Pare che sia tornato con sua moglie, o che lei sia tornata con lui. — Tu lo sapevi? — No, caro. Non lo sapevo. Ignoravo che avesse una moglie, fino all'altro ieri. Sheila non aveva telefonato questa settimana, così l'ho chiamata io. Sembrava molto sconvolta, ma mi ha detto soltanto che la moglie di Gus era tornata nel loro appartamento e che lui era tornato là "per sviscerare la questione". Di nuovo quell'espressione... Wexford si portò una mano agli occhi, forse per non dover vedere quella foto. — Come dev'essere infelice — mormorò, e poi: — Oh, povera piccola... 22 — Non posso dirle se questa è la stessa arma usata nella sparatoria alla banca del maggio dell'anno scorso — spiegò l'esperto a Wexford. — È sicuramente quella che è stata usata l'undici marzo a Tancred House. — Allora perché non può dirci se è la stessa? — Probabilmente lo è. L'indizio in favore di quella teoria è che nella camera di scoppio c'è posto per sei cartucce — è una "sei-colpi" classica — e una di queste venne usata nella banca, mentre a Tancred House ne vennero usate cinque: molto probabilmente, le cinque rimaste nella camera di scoppio. In una società in cui le pistole sono sempre di scena come arma del delitto, nessuno si azzarderebbe ad affermare una cosa del genere. Nel caso in questione, tuttavia, la trovo un'ipotesi valida. — Non può affermare con certezza, tuttavia, che l'arma sia la stessa. — Come ripeto, con certezza, no. — E perché? — La canna è stata cambiata — rispose laconicamente l'esperto. — Vede, non è poi un'impresa così ardua, questa. Prendiamo, per esempio, la linea di revolver Dan Wesson: la lunghezza della canna varia moltissimo, e a qualsiasi dilettante è possibile eseguire uno scambio. Nel caso della Colt
Magnum potrebb'essere più difficile. Chiunque si sia provato a farlo doveva avere gli arnesi necessari. Be', doveva averli perché questa decisamente non è la canna con cui quest'arma è nata. — Un armaiolo li avrebbe? — Mah, dipende da che genere di armaiolo. I più si specializzano in fucili da caccia. — Ed è questo che rende le cinque cartucce sparate a Tancred House diverse da quella che aveva ucciso Martin? Un cambio di canna? — Esatto. Ecco perché posso dire soltanto che è probabile, non che sia andata sicuramente così. Qui siamo a Kingsmarkham, in fin dei conti, non nel Bronx. Non saltano fuori armi dai nascondigli più impensati. È il numero di colpi, che soprattutto ce lo fa pensare. Quello sparato al povero diavolo che era uno di voi, e i cinque di Tancred. E il calibro, naturalmente. E l'intento di ingannare di chi l'ha manomessa. Le sembra? Non era per divertimento che cambiava le canne alle pistole, non era certo il suo hobby. Wexford era furente. Il sollievo provato al pensiero che Sheila fosse stata separata da quell'individuo, che non sarebbe andata più nel Nevada, era stato assorbito dalla rabbia. Per Casey lei aveva rifiutato di interpretare Miss Julie, per Casey aveva cambiato la sua vita e, gli sembrava, la sua stessa personalità. E Casey se n'era tornato dalla moglie. Non aveva ancora parlato con lei. Gli aveva risposto soltanto la segreteria telefonica, quando aveva provato a chiamarla, e non con qualche frase scherzosa ma soltanto con il nome e la richiesta di lasciare un messaggio. Glielo aveva lasciato, il messaggio, pregandola di richiamarlo. Poi, visto che lei non l'aveva fatto, gliene aveva lasciato un altro, per dirle che era addolorato per lei, per quanto era accaduto e per tutte le cose che le aveva detto. Nel recarsi al lavoro, passò dalla banca. Era l'agenzia dove Martin era stato ucciso, non la sua banca, ma anche la più vicina al percorso che seguiva Donaldson e inoltre aveva il suo piccolo parcheggio sul retro. Wexford aveva una Trascend Card, che lo metteva in grado di prelevare denaro in tutte le banche e in tutte le filiali del Regno Unito. Era un tesserino quanto mai utile, anche se il nome gli faceva digrignare i denti. Sharon Fraser era ancora là. Ram Gopal aveva ottenuto il trasferimento a un'altra succursale. Alla seconda cassa, quel mattino, c'era un'eurasiana molto giovane e graziosa. Wexford, che si era ripromesso di non farlo, non
riusciva a impedirsi di fissare il punto dove Martin era stato colpito. Ci sarebbe voluto un segno, una targa, qualcosa che lo ricordasse. Quasi si aspettava di vedere ancora qualche traccia del sangue di Martin, mentre se la prendeva con se stesso per quelle idee così assurde. In coda davanti a lui c'erano quattro persone. Pensò a Dane Bishop, malato e terrorizzato, forse ormai non più sano di mente, che sparava a Martin più o meno da quel punto e poi fuggiva via, gettando a terra l'arma durante la corsa. Alle persone atterrite, agli urli, e agli uomini che invece di fermarsi se l'erano svignata alla chetichella. Uno di essi, fermo forse dove si trovava lui in quel momento, aveva in mano, a sentire Sharon Fraser, un fascio di banconote verdi. Wexford si guardò attorno per vedere la lunghezza della fila alle sue spalle e vide Jason Sebright. Sebright stava cercando di riempire un assegno lì in coda, invece di servirsi di uno degli appositi tavoli e relativa penna a sfera incatenata. La donna che gli stava davanti si girò e Wexford lo sento chiedere: — Le spiace se appoggio il libretto d'assegni alla sua schiena, signora? La richiesta suscitò risatine incerte. La luce sopra Sharon Fraser si accese e Wexford si avvicinò allo sportello di lei con la sua Trascend. Riconobbe l'espressione con cui lo guardava: di apprensione, non di cordialità. L'espressione di chi preferirebbe servire chiunque tranne te perché, con la tua professione, le tue domande indagatrici, metti a repentaglio la sua pace e forse la sua stessa esistenza. Dopo la morte di Martin, persone erano entrate nella banca e avevano deposto fiori nel punto dov'era spirato, donatori anonimi come chi aveva portato quei mazzolini da appendere ai cancelli di Tancred. Anche gli ultimi erano morti, ormai. Il gelo notturno li aveva anneriti fino a farli sembrare un nido messo su da un uccello sciattone. Wexford aveva detto a Pemberton di toglierli e di gettarli sul mucchio di foglie secche di Ken Harrison. Senza dubbio ben presto sarebbero stati sostituiti da altri. Forse perché la sua mente aveva preso a soffermarsi in modo anormale sull'amore, sulle pene e i rischi dell'amore, Wexford aveva preso ad arzigogolare sul donatore di quegli omaggi floreali. Chi poteva essere, un fan? Un silenzioso - e ricco - ammiratore? O qualcosa di più? La vista di quelle rose appassite lo aveva fatto pensare alle antiche lettere di Davina e ai suoi anni senz'amore, fino a che Desmond Flory non era partito per la guerra. Mentre si avvicinava alla villa, vide un operaio presso la finestra dell'ala occidentale, intento a sostituire il vetro sfondato. Era una giornata pesante
e poco luminosa. La lieve nebbia diffusa nell'aria era visibile solo in distanza, dove l'orizzonte non era nitido e i boschi apparivano di un azzurrognolo fumoso. Wexford guardò attraverso la finestra della sala da pranzo. La porta verso l'atrio era spalancata. I sigilli erano stati tolti e la stanza aperta. Sul soffitto e sulle pareti le macchie di sangue si vedevano ancora, ma il tappeto era stato tolto. — Domani cominceremo i lavori all'interno — gli spiegò l'operaio. Così Daisy cominciava a venire a patti con la perdita subita, con l'orrore di quella stanza. Erano iniziati i lavori di restauro. S'incamminò attraverso il cortile lastricato, oltre il davanti della casa, verso l'ala est e le stalle sul retro. Poi, vide qualcosa che, arrivando, non aveva notato. La bicicletta di Thanny Hogarth era appoggiata contro il muro, a sinistra della porta d'entrata. "Svelto, il ragazzo!", pensò Wexford, e si sentì meglio, un po' più su di morale. Gli venne perfino da domandarsi che cosa sarebbe accaduto se fosse arrivato Nicholas Virson... o Daisy era un'amministratrice troppo abile, in faccende del genere, per permettere che questo accadesse? — Credo che Andy Griffin abbia passato qui quelle due notti — gli disse Burden appena lui entrò nelle stalle. — Cosa? — In uno degli edifici esterni. Li avevamo esaminati, s'intende, durante la perquisizione generale della casa dopo il fattaccio, ma poi non ce n'eravamo occupati più. — Di quali edifici esterni stai parlando, Mike? Seguì Burden lungo il sentiero in terra battuta al di là dell'alta siepe. Una breve fila di casette a schiera, non in rovina ma nemmeno in buono stato di manutenzione, sorgeva parallelo a quella siepe, la strada un sentiero polveroso. Si poteva restare acquartierati lì per un mese, come nel caso loro, senza venire a conoscere l'esistenza di quei cottage. — Karen è venuta fin qui ieri sera — spiegò Burden. — Stava facendo la solita ronda. Daisy diceva d'avere sentito qualcosa. Non c'era nessuno, in realtà, ma Karen è arrivata fin qui e ha guardato attraverso quella finestra. — Ha illuminato l'interno con una torcia elettrica, vuoi dire? — Penso di sì. Non c'è elettricità in questi cottage, non c'è acqua corrente, nessuna comodità. A sentire Brenda, non ci abita nessuno da una cinquantina d'anni, ormai, da prima della guerra. Karen ha visto qualcosa che l'ha indotta a ritornarci questa mattina.
— Che vuol dire, "visto qualcosa"? Non siamo in tribunale, Mike. Stai parlando con me, te lo ricordi? Burden fece un gesto d'impazienza. — Sì, certo. Scusa. Stracci, una coperta, avanzi di cibo. Entriamo. È tutto ancora là. La porta del cottage si apriva con un paletto. Della varietà di odori che li investì, il più potente era quello di urina vecchia. Sul pavimento di mattoni era stato messo insieme un letto per mezzo di cuscini sudici, due vecchi pastrani, stracci non bene identificabili, una buona coperta pesante e abbastanza pulita. Due barattoli di Coca Cola vuoti stavano nella grata davanti al caminetto. Un braciere di ferro conteneva della cenere e, sopra la cenere, gettatovi forse dopo che le braci si erano raffreddate, un pezzo di carta bisunto e appallottolato, servito a incartare pesce fritto e patatine. L'odore di rancido che emanava era quasi più sgradevole del sentore d'ammoniaca dell'urina. — Pensi che Andy abbia dormito qui? — Possiamo verificare le impronte su quei barattoli — disse Burden. — È probabile che sia così. Doveva conoscerli, questi cottage. E se era qui in quelle due notti, ventiquattro e venticinque maggio, non c'era che lui. — D'accordo. Com'era arrivato fin qui? Burden gli fece cenno di seguirlo attraverso la maleolente stamberga. Gli toccò procedere a testa china, tanto erano basse le travature. Al di là di un buchetto di cucina e della porta sul retro, chiusa in alto e in basso da paletti ma senza chiave, c'era un pezzetto di giardino incolto cintato di rete metallica e una piccola area murata che poteva essere stata una carbonaia o uno stabbiolo per i maiali. Nell'interno, coperta da un pezzo d'incerata, c'era una motocicletta. — Nessuno l'avrebbe sentito arrivare — osservò Wexford. — Gli Harrison e Gabbitas erano troppo distanti, Daisy non era ancora tornata a casa. È arrivata solo il mattino del ventisei. Lui aveva il posto tutto per sé. Ma, Mike, perché lo avrà voluto tutto per sé? S'incamminarono lentamente lungo il sentiero al margine del bosco. In lontananza, a sud della strada secondaria, si poteva sentire il verso della sega a motore di Gabbitas. I pensieri di Wexford tornarono all'arma, alla cosa straordinaria che era stata fatta a quell'arma. Gabbitas poteva avere i mezzi e le cognizioni per cambiare la canna a un revolver? Disponeva degli attrezzi? D'altra parte, chi poteva averli? — Mike, perché Andy Griffin avrebbe voluto dormire qui? — Non lo so. Comincio a domandarmi se questo posto non avesse per
lui un fascino particolare. — Non era il nostro secondo uomo, vero? Non era quello che Daisy ha sentito ma non ha visto. — Non lo vedo in quella parte. Sarebbe stato troppo per lui, al di là della sua classe. La sua specialità era il ricatto, un ricatto di piccolo cabotaggio. Wexford assentiva. — Ecco perché l'hanno ucciso. Ha cominciato in piccolo e per pochi soldi, come sappiamo dal suo libretto di risparmio postale. Può darsi che da qui abbia operato per un pezzo, mentre ci viveva con i suoi. Non credo che abbia cominciato da Brenda Harrison. Probabilmente avrà tentato con altre, riuscendoci. Non doveva fare altro che prendere di mira una donna matura e minacciarla di dire al marito o agli amici o a qualche parente che aveva tentato approcci con lui. A volte avrà funzionato e a volte no. — Pensi che abbia tentato anche con le donne, qui, con la stessa Davina o con Naomi? Sento ancora il veleno che aveva nella voce mentre me ne parlava. Il linguaggio violento che usava. — Avrebbe osato? Può darsi, però non lo sapremo mai. Chi stava ricattando, quando si allontanò da casa quella domenica per accamparsi qui? L'uomo che aveva sparato, o quello che Daisy non aveva visto? — È possibile. — E perché mai doveva stare qui per farlo? — Suonerà più come una teoria delle tue che delle mie, Reg, ma ti ripeto, secondo me era affascinato da questo posto. Era la casa, per lui. Si sarà amaramente risentito di venirne allontanato, l'anno scorso. Chissà, forse scopriremo che passava molto più tempo qui e nei boschi, sempre a spiare questa terra, di quanto gli altri immaginassero. Tutte le volte in cui si allontanava da casa e nessuno sapeva dov'era, scommetto che si rifugiava qui. Chi conosceva questo luogo e questi boschi? Lui. Chi avrebbe potuto attraversarli in macchina senza impantanarsi o finire contro un albero? Lui. — Ma abbiamo detto di non vederlo nei panni del secondo uomo — obiettò Wexford. — D'accordo, dimentica la sua abilità nel guidare attraverso i boschi, dimentica ogni suo coinvolgimento in quegli omicidi. Supponi che fosse accampato qui, l'undici marzo? Mettiamo che intendesse rimanerci per un paio di notti, per motivi che ancora non conosciamo. Partì da casa in moto alle sei e portò la sua roba quassù. Era nel cottage quando alle otto i due sono arrivati... o magari non era nel cottage ma ad aggirarsi all'esterno. Li vide e riconobbe uno dei due. Che te ne pare?
— Non c'è male — disse Wexford. — Chi poteva riconoscere? Gabbitas, di sicuro. Perfino sotto una maschera da taglialegna. Avrebbe riconosciuto Gunner Jones? La bicicletta era ancora là. Anche l'operaio era ancora là, a dare gli ultimi ritocchi alla finestra riparata. Cominciava a cadere una pioggerella insistente, la prima dopo molti giorni. Già l'acqua rigava i vetri delle finestre delle stalle e creava il buio all'interno. Gerry Hinde aveva acceso una lampada al di sopra del computer sul quale stava creando una nuova base dati: ogni soggetto o sospetto che avevano interrogato, con relativo alibi e testimoni che ne davano conferma. Wexford cominciava ormai a domandarsi se vi fosse uno scopo nel rimanere così vicini alla scena degli omicidi. Scadeva un mese, quel giorno, da quello che i giornali avevano chiamato "il massacro di Tancred" e il Vice-Capo della Polizia aveva preso appuntamento con lui per un colloquio. Wexford doveva recarsi a casa sua. Sarebbe sembrato un impegno sociale, la scusa per bere insieme un bicchiere di sherry, ma il vero scopo, lui ne era certo, era di lamentarsi della mancanza di progressi e del costo di tutta l'operazione; di consigliargli, o meglio ordinargli, di ritrasferirsi a Kingsmarkham, alla sede di polizia, e di domandargli ancora una volta come poteva giustificare quella guardia notturna a Daisy. Ma, a se stesso, come avrebbe potuto giustificare l'abolizione di quella guardia? Telefonò a casa per sentire da Dora se Sheila avesse dato segno di vita, ottenne una risposta preoccupata e negativa e uscì all'esterno, nella pioggia. Il luogo aveva un aspetto tetro, col cattivo tempo. Strano come la pioggia e il grigiore cambiassero la presenza di Tancred House, così da farlo apparire un edificio di una di quelle incisioni vittoriane piuttosto sinistre: austero, perfino arcigno, le finestre simili a occhi spenti e i muri scolorati da macchie d'umidità. I boschi, sotto un cielo torbido, perdevano il loro colore azzurrognolo per diventare del grigio della pietra. Bib Mew stava sbucando dal retro, spingendo la bicicletta a mano. Vestiva come un uomo, camminava come un uomo, si poteva tranquillamente prenderla per un uomo da lì o anche da più vicino. Nel passare davanti a Wexford, finse di non vederlo, girando goffamente la testa e guardando verso l'alto, come a studiare il fenomeno della pioggia. Lui rammentò a se stesso che era una ritardata. Eppure, viveva sola. Che cosa doveva essere la sua vita? Che cosa era stata? Eppure, era stata sposata, un tempo. Trovava la cosa grottesca. Lei montò in bicicletta come un
uomo, gettando una gamba al di sopra della sella, prese a spingere con forza sui pedali e sfrecciò via lungo il viale principale. Era evidente che stava ancora evitando la strada secondaria e le vicinanze dell'albero dell'impiccato, e quel pensiero gli causò un lieve brivido. Il mattino dopo arrivarono altri operai. Il loro furgone era parcheggiato presso la fontana, quando arrivò Wexford. Venivano da Brighton e si definivano "Decoratori d'interni". Lui riesaminò attentamente gli appunti sul caso, che ormai formavano un voluminoso incartamento. Gerry glieli aveva messi tutti su un dischetto, del tutto inutile per lui. Si vedeva il caso scivolar via tra le dita, ora che era passato tutto quel tempo. Gli interrogativi inconciliabili erano sempre gli stessi. Dov'era Joanne Garland? Era viva o morta? Che nesso c'era tra lei e quegli omicidi? Come si erano allontanati da Tancred gli assassini? Chi aveva messo l'arma in casa di Gabbitas? O quello era un espediente dello stesso Gabbitas? Wexford rilesse la deposizione di Daisy. La riascoltò su nastro. Sapeva di doverle parlare di nuovo, perché lì gli interrogativi inconciliabili erano più evidenti. Doveva cercare di spiegargli com'era possibile che Harvey Copeland avesse salito quegli scalini e tuttavia gli avessero sparato come se si trovasse ancora ai piedi della scala e girato verso la porta d'entrata; rendere conto del lungo intervallo - un tempo lungo, misurato in secondi tra il suo lasciare la sala da pranzo e il venire colpito. Poteva inoltre spiegargli un particolare che avrebbe fatto ridere Freeborn di disprezzo, se ne avesse sentito parlare? Se la gatta Queenie di norma, anzi, invariabilmente, galoppava per il piano superiore alle sei di sera, sempre alle sei, perché Davina Flory nel sentire quei rumori dall'alto, alle otto, li aveva attribuiti a Queenie? E perché l'uomo con la pistola era stato messo in fuga da rumori provenienti dall'alto, che in realtà non erano niente di più minaccioso delle corse di una gatta? C'era un'altra domanda che voleva farle, sebbene fosse quasi certo che il tempo ne avesse cancellato in lei il ricordo preciso, proprio come il trauma aveva cominciato a fare subito dopo l'evento. Nell'auto parcheggiata sul lastricato, tanto lontana dal furgone dei "Decoratori d'interni" quanto era possibile senza montare addirittura sul prato, gli sembrò di riconoscere quella di Joyce Virson. Forse non aveva torto di supporre che Daisy avrebbe accolto con gioia una tregua dalla presenza della Virson, se non addirittura una scusa per sbarazzarsene del tutto. Suonò il campanello e gli aprì Brenda.
Avevano appeso un telo sopra la porta della sala da pranzo. Da dietro arrivavano suoni smorzati, non martellanti né raschianti, ma tenui e liquidi, come di lavaggi eseguiti sbattendo pennelli. Li accompagnava l'invariabile sine qua non degli operai, ma a volume bassissimo: l'irrazionale sottofondo di musica pop. Impossibile sentirlo dal salottino o dalla serra dove loro sedevano, e non in due ma in tre: Daisy, Joyce Virson e suo figlio. Wexford, nell'augurare un austero buon giorno, pensò che Nicholas Virson si prendeva del tempo libero tutte le volte che ne aveva voglia. Qualsiasi cosa facesse, andavano così male gli affari, in quei tempi di recessione, che l'andare o non andare in ufficio aveva ben poca importanza? Stavano parlando, quando Brenda lo aveva introdotto, e la sua impressione era che stessero accalorandosi. Daisy appariva determinata, un po' accesa in volto. L'espressione della signora Virson era più stizzosa del solito e Nicholas sembrava contrariato, deluso in qualche suo sforzo. Erano lì per pranzo? Wexford non si era accorto, in precedenza, che fosse ormai mezzogiorno passato. Daisy si alzò al suo entrare, stringendo a sé la gatta che aveva tenuto in grembo. Il pelo della micia era quasi dello stesso colore della tela che lei indossava: giubbetto corto e jeans attillati. Il giubbetto era ricamato e tra i ricami di vario colore c'era una molteplicità di borchie dorate e argentate. Sotto il giubbetto, una maglietta a scacchi blu e neri e la cintura alla vita dei jeans era di metallo, oro e argento intrecciati e borchie di vetro perlaceo o trasparente. Non si sfuggiva alla sensazione che fosse una specie di sfida da parte della ragazza. A quelle persone bisognava mostrare la vera Daisy, quella che lei voleva essere, uno spirito libero, trasgressivo perfino, una che si vestiva come le pareva e che faceva quello che le piaceva. Il contrasto tra quello che indossava lei e gli abiti della signora Virson — anche tenendo conto della grande differenza d'età — era così marcato da apparire quasi ridicolo. Una vera uniforme da suocera: abito di lana amaranto con giacca in tinta, al collo un ciondolo d'argento appeso a un laccio di cuoio, di moda negli anni Sessanta, unici anelli un grosso diamante e la fede matrimoniale. Daisy portava un enorme anello alla sinistra, una tartaruga d'argento lunga cinque centimetri, dal guscio tempestato di pietre colorate, che sembrava strisciarle lungo la mano dalla giuntura dell'indice alle nocche. Wexford chiese scusa del disturbo, ma non aveva intenzione di andarsene per tornare più tardi, e lasciò intendere d'essere certo che Daisy non si aspettava che lo facesse. Fu la signora Virson a rispondere per lei.
— Ora che è qui, signor Wexford, forse verrà in nostro aiuto. So come la pensa sul fatto che Daisy viva qui da sola. Be', non è sola, lei mette qui delle ragazze a proteggerla, per quanto, che cosa possano fare in caso di emergenza, spiacente ma non riesco proprio a immaginarlo. Siamo qui per chiedere a Daisy di ritornare a stare con noi. Oh, non è la prima volta, lo sa meglio di me. Ma abbiamo pensato che valesse la pena fare un altro tentativo, tanto più che le circostanze sono cambiate rispetto a... be', a Nicholas e a Daisy. Wexford vide un tremendo rossore soffondere la faccia di Nicholas Virson. Non era un rossore di piacere o di gratificazione bensì di intenso imbarazzo, a giudicare dal sussulto che lo aveva accompagnato. Era quasi certo che le circostanze non fossero affatto cambiate, se non nella mente della signora Virson. — È di un'assurdità evidente, che lei rimanga qui. — La signora Virson rifletté, poi le parole le uscirono tutte d'un fiato. — Come se fosse un'adulta. Come se fosse in grado di prendere da sé le sue decisioni. — Bene, lo sono — osservò con calma Daisy. — Sono adulta. Prendo decisioni, in effetti. —Non sembrava affatto turbata dalla discussione. Semmai, un po' annoiata. Nicholas fece un tentativo. Era ancora un po' rosso in faccia. Improvvisamente Wexford rammentò la descrizione del bandito mascherato fattagli da Daisy, i capelli biondi, la fossetta nel mento, le orecchie grandi. Era quasi come se stesse pensando a Virson, mentre lo descriveva. E perché l'avrebbe fatto? Perché, sia pure inconsciamente? — Pensavamo — disse Nicholas — che Daisy potesse venire a cena da noi e fermarsi per la notte o almeno vedere se se la sentiva. Avevamo in mente di darle un salotto tutto per sé, una specie di appartamentino privato, capisce? Non sarebbe stata costretta a vivere con noi, se comprende quello che voglio dire. Sarebbe stata assolutamente padrona di sé, visto che è questo che vuole. Daisy rise. Se per l'idea nel suo complesso o per il modo come Nicholas si esprimeva, Wexford non avrebbe saputo dirlo. Gli era sembrato di leggere del turbamento negli occhi di lei, e quell'ansia, quel turbamento restavano; però rideva, e la risata era quanto mai divertita. — Te l'ho già detto, vado fuori a cena, stasera. So già che rientrerò molto tardi e verrò sicuramente riaccompagnata a casa. — Oh, Daisy... — Il giovane non sapeva dominarsi. La sua infelicità traspariva nonostante i modi pomposi. — Daisy, potresti almeno dirmi con
chi vai a cena. È una persona che conosciamo? Se è un'amica, non puoi portare anche lei da noi? — Davina — disse Daisy — diceva sempre che, se una donna parla di una "persona" per la quale lavora o che conosce, gli altri tenderanno sempre a pensare che si tratti di un'altra donna. Sempre. E questo perché, diceva, nel loro intimo non vogliono che le donne abbiano rapporti con l'altro sesso. — Non ho la più pallida idea di che cosa stai dicendo — replicò Nicholas, e Wexford si rese conto che era vero. Non l'aveva. — Bene — interloquì Joyce Virson — sono spiacente, ma tutto questo va al di là della mia comprensione. Avrei pensato che, se una ragazza ha un'intesa con un giovanotto, dovrebbe desiderare di passare del tempo con lui. — Stava perdendo la pazienza e con quella l'auto-controllo. — La verità è che, quando si acquistano insieme la libertà e un mucchio di denaro, si finisce col montarsi la testa, come si suol dire. È il potere, capite, ci si ubriaca di potere. Per certe donne è il piacere più grande della vita, quello di esercitare il potere su un pover'uomo la cui sola colpa è di voler bene. Mi spiace, ma io detesto questo genere di cose. — Diventava via via più agitata, la voce al limite del controllo. — Se questa sarebbe la liberazione della donna, o come diavolo chiamano questa orribile idiozia, puoi tenertela e buon pro ti faccia. Non ti procurerà un buon marito, questo te lo posso assicurare. — Mamma — la richiamò Nicholas, con un guizzo di energia. Si rivolse a Daisy. — Stavamo andando a colazione con... — nominò degli amici del luogo — e speravamo che venissi anche tu. Tra poco dobbiamo andare. — Non posso venire, ti pare? Il signor Wexford è qui per parlarmi. È importante. Devo collaborare con la polizia. Non avrai dimenticato quello che è successo qui quattro settimane fa, vero? O sì? — No, naturalmente. Come potrei dimenticarlo? Mamma non intendeva dire le cose che ha detto, Daisy. — Joyce Virson aveva la testa voltata in là e si premeva un fazzoletto sul viso mentre in apparenza fissava con grande concentrazione i tulipani appena schiusi nei vasi della terrazza. — Aveva messo il cuore sulla tua venuta e così... be', anch'io del resto. Pensavamo proprio di riuscire a convincerti. Possiamo tornare più tardi, al ritorno da questa colazione, per cercare di spiegarti che cos'avevamo in mente? — Certo. Gli amici possono farsi visita quando vogliono, no? Tu sei mio amico, Nicholas, questo lo sai, vero? — Grazie, Daisy.
— Spero che sarai sempre amico mio. Era come se Wexford e Joyce Virson non ci fossero. Per un momento i due giovani furono soli, chiusi entro i loro rapporti, quali che fossero o fossero stati, entro segreti di stati d'animo o di eventi condivisi. Nicholas si alzò e Daisy gli diede un bacio sulla guancia. Poi, fece una cosa strana. Andò rapidamente alla porta della serra e la spalancò, rivelando dall'altro lato Bib che istintivamente indietreggiava, serrandosi al petto uno straccio per spolverare. Daisy non disse niente. Richiuse la porta e si rivolse a Wexford. — È sempre a origliare fuori dell'uscio. È una passione, per lei, una specie di droga. Io so sempre quando c'è, posso sentirla cominciare a respirare con affanno. Strano, vero? Che gusto ci proverà? Ritornò al tema di Bib e dell'ascoltare alle porte non appena i Virson se ne furono andati. — Non posso licenziarla. Come farei senza nessuno? — Parlava come una persona molto più matura, una casalinga agguerrita. — Brenda mi ha detto che loro se ne vanno. Le ho spiegato che li avevo licenziati in un momento di rabbia e che non dicevo sul serio, ma se ne vanno ugualmente. Lo sa che il fratello di Ken gestisce quell'auto-noleggio? Ken lavorerà con lui, hanno intenzione di espandersi e possono avere l'altro appartamento sopra l'ufficio di Fred. John Gabbitas stava cercando di comperare una casa a Sewingbury fin dall'agosto scorso, e ha appena saputo che gli hanno concesso il mutuo. Continuerà a occuparsi dei boschi, penso, ma non abiterà più qui. — Diede in una secca risatina. — Rimarrò con Bib. Crede che mi ucciderà? — Non avrai motivo di pensare...? — cominciò a dire in tono serio lui. — Per niente. Ha solo l'aspetto di un maschio, non parla mai e origlia alle porte. È anche un po' ritardata mentalmente. Come assassina, è un'ottima donna delle pulizie. Scusi, non era felice, come battuta. Oh Dio, parlo come quell'orribile Joyce! È d'accordo che io non debba andar là, vero? Quella Joyce mi perseguita. — Ugualmente non faresti quello che dico io, vero? — Lei scosse la testa. — E quindi è inutile ch'io sprechi il fiato. Ci sono un paio di cose, come giustamente avevi intuito, di cui vorrei parlarti. — Sì, certo. Ma devo dirle una cosa io, prima. Volevo farlo subito, ma quelli non la smettevano più. — Sorrise, un po' afflitta. — Ha telefonato Joanne Garland. — Cosa? — Perché si meraviglia così? Non sapeva niente. Non sapeva niente di
quello che è successo. È tornata ieri sera, stamattina è andata alla galleria e ha trovato tutto chiuso, così ha telefonato a me. Wexford si rese conto che Daisy non era al corrente dei loro timori per Joanne Garland, che non sapeva niente, al di là del fatto che fosse andata da qualche parte. Perché mai doveva sapere? — Credeva di telefonare a Mammina. Terribile, mi creda. Ho dovuto dirglielo. È stata la cosa peggiore, doverle spiegare quello che era successo. Non voleva crederci, da principio. Pensava che fosse solo un macabro scherzo. È stato solo... be' una mezz'ora fa. Poco prima che arrivassero i Virson. 23 Era in lacrime. Proprio perché stava piangendo al telefono, resa incoerente dalle lacrime e dai singhiozzi, Wexford si era intenerito e, invece di chiederle di venire al posto di polizia, aveva detto che sarebbero andati loro da lei. Ora, nella casa di Broom Vale, lui sedeva in una poltrona e Barry Vine in un'altra mentre Joanne Garland, nell'impossibilità di rispondere fin dalla prima domanda, singhiozzava contro il bracciolo del sofà. La prima cosa che Wexford aveva notato appena entrato in quella casa era stata la faccia di lei, come tumefatta. Erano segni ormai in via di guarigione, ma le tracce restavano, verdognole, giallastre, con escoriazioni attorno alle labbra e al naso, e abrasioni più scure, specie intorno agli occhi e lungo l'attaccatura dei capelli. Non dipendevano dalle lacrime, e queste a loro volta non riuscivano a nasconderle. Dov'era stata? Wexford glielo aveva domandato prima di sedersi, e la domanda aveva provocato altre lacrime. "In America, in California", aveva risposto lei, e si era gettata sul sofà in preda a una nuova crisi di pianto. — Signora Garland — disse lui dopo un po' — cerchi di calmarsi. Vado a prenderle un bicchier d'acqua. Lei si tirò su di scatto, la faccia escoriata inondata di lacrime. — Non voglio acqua. — Si rivolse a Vine. — Potrebbe versarmi un whisky? In quell'armadietto, e là ci sono i bicchieri. Bevetelo anche voi. — Un tremendo singhiozzo si portò via in parte l'ultima parola. Da una capace borsetta di pelle rossa posata sul pavimento lei estrasse una manciata di fazzolettini di carta colorata e si asciugò la faccia. — Chiedo scusa, ora mi passa. Appena avrò bevuto qualcosa. Mio Dio, lo choc!
Barry le mostrò la bottiglia di soda che aveva trovato, Lei scosse energicamente la testa e mandò giù una sorsata di whisky liscio. Sembrava che avesse dimenticato del tutto l'offerta fatta loro, che in ogni caso sarebbe stata rifiutata. Il whisky era evidentemente un toccasana, per lei. L'effetto che le faceva era ben diverso da quello che si nota su persone non avezze a bere alcolici. Più che di bere qualcosa di forte, lei aveva bisogno di estinguere la sete, una sete tutta particolare che il whisky ora le placava, diffondendole un senso di sollievo in tutta la persona. Di nuovo spuntarono i fazzoletti di carta e ancora una volta lei si asciugò la faccia, ma in questo caso con cura. Wexford stava pensando che sembrava particolarmente giovane per i suoi cinquantaquattro anni o, se non proprio giovane, notevolmente liscia in volto. Poteva passare per una trentacinquenne stanca e un po' logora. Le mani, tuttavia, erano quelle di una donna molto più anziana, con reti di tendini e cordoni di vene. Indossava un abito di jersey verde marcio e una gran quantità di bigiotteria. I capelli erano biondi e lucidi, la figura non proprio snella ma ben formata, le gambe splendide. Agli occhi di chiunque, era una donna attraente. Respirando a fondo, ora, e sorseggiando whisky, prese dalla borsa della cipria compatta e un rossetto e si restaurò la faccia. Wexford la vide arrestare lo sguardo, specchiandosi, sulla peggiore delle lividure, quella sotto l'occhio sinistro. Se la sfiorò con il polpastrello prima di applicarvi altra cipria nel tentativo di nasconderla. — Sono tante le cose che vorremmo domandarle, signora Garland. — Sì. Immagino. — Esitò. — Non sapevo niente, capite? Non avevo la più pallida idea. I giornali americani non riportano notizie riguardanti i paesi stranieri, a meno che non si tratti di una guerra o che so io. L'ho sentito per la prima volta parlando al telefono con quella ragazza, la figlia di Naomi. — Le tremarono le labbra nel pronunciare quel nome. Deglutì. — Povera figliola, è per lei che dovrei addolorarmi, avrei dovuto dirle una parola di conforto, ma sono rimasta di sasso, distrutta. Quasi non riuscivo più a parlare. — Lei non aveva detto a nessuno che sarebbe partita. Nemmeno a sua madre o alle sue sorelle. — Naomi lo sapeva. — Può darsi. — Wexford non disse quello che pensava, ossia che, se anche era vero, non l'avrebbero saputo mai, perché Naomi era morta. L'ultima cosa che voleva era un nuovo scoppio di pianto. — Le dispiacerebbe
dirci quando è andata e perché? Lei domandò, come fanno i bambini: — Devo proprio dirlo? — Sì, temo proprio di sì, presto o tardi. Forse preferirebbe riflettere sulla sua risposta. Devo dirle, signora Garland, che quel suo svanire nel nulla in quel modo ci ha procurato non pochi fastidi. — Mi versa un altro po' di Scotch, per favore? — Lei tendeva il bicchiere vuoto a Vine. — Sì, non mi guardi in quel modo, non sono un'alcolizzata, anche se un goccio lo bevo volentieri. Ne sento il bisogno, specialmente nei momenti di stress. C'è qualcosa di male, in questo? — Non tocca a me rispondere alle sue domande, signora Garland — disse Wexford. — Sono qui perché lei possa rispondere alle mie. Le sto facendo una cortesia nel venire io qui. E la voglio in condizioni di poter rispondere. Chiaro? — Scosse la testa in direzione di Vine, che era rimasto col bicchiere in mano e con l'aria di chi domanda: quand'è-morto-il-suoultimo-domestico? Joanne Garland ora appariva scioccata e truculenta. — Bene, questa è una faccenda molto seria. Intanto vorrei che mi dicesse quando è tornata a casa e che cos'ha fatto. Accigliata, lei disse: — È stato ieri sera. Be', l'aereo da Los Angeles atterra a Gatwick alle due e mezzo, solo che era in ritardo. Siamo passati attraverso la dogana che erano già le quattro. Volevo prendere il treno ma ero troppo stanca, proprio completamente fusa, così ho preso una macchina. Verso le cinque ero a casa. — Lo fissò, dura. — Ho bevuto qualcosa: anzi, diciamo due o tre dosi. Ne avevo bisogno, gliel'assicuro. Poi sono andata a dormire, e ho dormito dodici ore filate. — E stamattina è andata al negozio, lo ha trovato chiuso e con l'aria d'essere chiuso da un bel pezzo. — Esatto. Ero furente contro Naomi... Dio mi perdoni. Oh, so bene che avrei potuto domandare a qualcuno, telefonare a una delle mie sorelle. Non mi è neppure passato per la mente. Pensavo solo, Naomi ha mandato di nuovo tutto in malora... be' ripeto, che Dio mi perdoni. Non avevo con me le chiavi del negozio, ero convinta di trovarlo aperto, così sono tornata a casa di corsa e ho telefonato a Daisy. Cioè, ero convinta di telefonare a Naomi per dirgliene quattro. Daisy mi ha informata. Quella povera piccola, chissà che inferno per lei dovermelo raccontare, rivivere tutto da capo, in un certo senso. — Prima della sua partenza, l'undici marzo, lei era andata a trovare sua madre nella Casa di Riposo di Caenbrook, tra le cinque e le cinque e mezzo. Vuole dirci che cosa fece dopo?
Lei sospirò, gettò uno sguardo al bicchiere vuoto che Vine aveva posato sul tavolo e si passò la lingua sulle labbra appena ritoccate. — Finii di fare i bagagli. Era il giorno dopo che dovevo partire, il dodici. Il volo era per le undici, e io dovevo trovarmi all'aeroporto alle nove e mezzo, ma ugualmente pensai, be', io quasi vado stasera. Metti che i treni facciano ritardo, in mattinata? Era una decisione presa lì per lì, veramente. Mentre finivo di far le valigie, pensai, quasi telefono a un albergo di Gatwick e sento se c'è posto, e in effetti telefonai e l'avevano. Avevo promesso di fare una scappata su da Naomi, sebbene avessimo preso tutti gli accordi durante la giornata. E non ci saremmo occupate dei registri. Naomi aveva assicurato d'avere tenuto l'IVA al corrente. Ma avevo promesso che sarei andata tanto per mostrare la mia buona volontà, capisce... — A Joanne Garland la voce tremò. — Be', insomma, pensai, vado su a Tancred, sto una mezz'ora con Naomi, poi torno a casa e mi avvio verso la stazione. Da qui alla stazione ci sono cinque minuti, a piedi. Il fatto era ben noto a Wexford, che non fece commenti. Fu Vine a insistere: — Non vedo perché dovesse andarci quella sera, visto che l'aereo partiva solo alle undici. Dice che doveva presentarsi in aeroporto alle nove e mezzo, ma in fondo c'è solo una mezz'ora di treno, da qui. Lei gli scoccò un'occhiata offesa. Era evidente che Joanne Garland aveva preso in antipatia il sergente di Wexford. — Se proprio vuole saperlo, non volevo correre il rischio di vedere qualcuno, in mattinata. — Vine non si mostrava affatto illuminato in proposito. — E va bene, non si sforzi di comprendere, sa? Non volevo che la gente mi vedesse con le valigie, non volevo domande, il rischio che mi telefonasse una delle mie sorelle... giusto? — Lasciamo stare per il momento il suo misterioso viaggio, signora Garland — disse Wexford. — A che ora è poi andata a Tancred House? — Alle otto meno dieci — disse subito lei. — So sempre a che ora faccio le cose. Tengo molto alla puntualità, e infatti non sono mai in ritardo. Naomi tentava sempre di convincermi ad arrivare un po' più tardi, ma era solo una fissazione di sua madre. Mi lasciava messaggi sulla mia segreteria, ma io c'ero abituata, non li ascoltavo mai i messaggi, il martedì. Voglio dire, perché avrei dovuto essere considerata da meno di Lady Davina? Oh, Dio, è morta, non dovrei dirlo. Bene, come dicevo, sono uscita di casa alle otto meno dieci e alle otto e dieci ero lassù. Alle otto e undici, anzi. Guardai l'orologio, mentre suonavo il campanello. — Lei suonò il campanello?
— Un sacco di volte. Sapevo che mi sentivano. Sapevo che c'erano. Dio, intendo dire, credevo di saperlo. — Il sangue le era defluito dal viso, lasciandolo bianco come la carta. — Erano morti, vero? Era appena accaduto. Mio Dio. — Wexford la osservò mentre lei chiudeva per un attimo gli occhi, deglutiva. Le diede tempo. Lei riprese, con voce diversa, più roca. — C'erano le luci accese in sala da pranzo. Dio mi perdoni, pensai: Naomi avrà raccontato a Davina che abbiamo sbrigato tutto quello che c'era da fare e Davina avrà detto, in questo caso è tempo che quella donna impari a non disturbarmi mentre sto cenando. Era così, lei, così avrebbe detto. — Di nuovo si riaffacciò vivido il ricordo di quello che era accaduto a Davina Flory, e Joanne Garland si portò una mano alla bocca. Per frustrare ulteriori richieste del perdono divino, Wexford si affrettò a domandare: — Bussò di nuovo? — Suonai almeno tre o quattro volte. Mi avvicinai anche alla finestra della sala da pranzo ma non potevo vedere all'interno. Le tende erano chiuse. Senta, ero un po' seccata, anche se sembra terribile dirlo ora. Pensai: be', non starò certo qui a gironzolare, io. Me ne torno a casa. E così feci. — Ma come! Era andata fin lassù ma, siccome tardavano ad aprire, se ne tornò a casa? Barry Vine ricevette un'occhiata molto stizzita. — Cosa si aspettava che facessi? Che buttassi giù la porta? — Signora Garland, la prego di riflettere molto attentamente. Oltrepassò qualche altro veicolo o incrociò qualche altro veicolo, lungo il percorso per Tancred House? — No, decisamente no. — Da dove era arrivata? — Da dove? Ma dal cancello principale, naturalmente. È la strada che faccio sempre. So che ce n'è un'altra, ma non l'ho mai usata. È un sentiero strettissimo. — E non ha visto nessun altro veicolo? — No, gliel'ho detto. Non mi capitava mai, del resto. Solo una volta ho incontrato quel John come-si-chiama, quel Gabbitas. Ma è stato mesi fa. Non ho incontrato assolutamente nessuno, quell'undici marzo. — E nel ritorno? Lei scosse la testa. — Non ho incrociato né sorpassato altri veicoli, né all'andata né al ritorno. — Mentre lei era a Tancred, c'era qualche altra macchina, o furgone, o veicolo di qualsiasi altro genere parcheggiato davanti alla casa?
— No, naturalmente. Le mettevano sempre in garage, le loro auto. Ah, capisco che cosa intende dire, oh Dio... — Non si è portata sull'altro lato della casa? — Al di là del tratto oltre la sala da pranzo, vuol dire? No, no, non l'ho fatto. — Non ha sentito niente? — Non capisco in che senso. Che cosa c'era da sentire? Oh... oh, sì, spari. Povera me, no. — Quando è venuta via di là saranno state... le otto e un quarto? Con voce sommessa lei rispose: — Gliel'ho detto, so sempre l'ora esatta. Erano le otto e sedici. — Se lo desidera, può bere un altro whisky, ora, signora Garland. Lei sperava che Barry glielo servisse, ma aspettò invano. Con un sospiro, si alzò e andò fino all'armadietto dei liquori. — Davvero non posso offrire niente? Era evidente che la domanda era solo per Wexford. Lui scosse la testa. — Come si è procurata quei lividi sulla faccia, signora Garland? La mano col bicchiere appoggiata in grembo, lei ora sedeva eretta sul sofà, le ginocchia serrate. Wexford cercava di leggerle in volto. Era riservatezza quella che scorgeva? O imbarazzo? In ogni caso, non era il ricordo di qualche violenza subita. — Sono quasi scomparsi, ormai — disse alla fine lei. — Sì e no si vedono. Non volevo tornare a casa finché non fossi stata sicura che fossero sbiaditi. — Io li vedo — dichiarò senza cerimonie Wexford. — Sicuramente mi sbaglio, ma la mia impressione è che qualcuno l'abbia picchiata selvaggiamente, circa tre settimane fa. — La data è giusta — disse lei. — Deve dircelo, signora Garland. Ci sono tante altre cose che dovrà dirci, ma cominceremo da quello che è successo alla sua faccia. Venne fuori quasi d'un fiato. — Ho fatto un intervento di chirurgia plastica. In California. Ero ospite di un'amica. È normale, là, lo fanno tutte... be', non proprio tutte. La mia amica l'aveva fatto e aveva detto che potevo stare da lei e farlo in quella clinica... Wexford la interruppe con l'unico termine per lui familiare. — Insomma, si è fatta tirar su la faccia? — Quello — confermò scontrosa lei — e togliere l'eccesso di pelle dalle
palpebre, sistemare il labbro superiore, quelle cose lì. Vede, non avrei potuto farmelo fare qui. L'avrebbero saputo tutti. Volevo farlo lontano da casa, in un luogo caldo e dove... insomma, se proprio vuole saperlo, non sopportavo più l'aspetto della mia faccia. Un tempo quello che vedevo nello specchio mi piaceva e all'improvviso non... capisce? Le cose cominciavano a chiarirsi molto rapidamente. Lui si domandava se sarebbe venuto il giorno in cui anche Sheila avrebbe desiderato fare qualcosa del genere e l'avrebbe fatto, probabilmente. Del resto si poteva forse farsi beffe di Joanne Garland, o rimproverarla, o sghignazzare? Poteva permetterselo e aveva probabilmente raggiunto il suo scopo. Lui capiva benissimo come potesse desiderare che i suoi, così aggressivi e pettegoli, non lo sapessero, o che i vicini non se ne accorgessero, e che preferisse metterli davanti al fatto compiuto. Avrebbero forse reagito attribuendo il suo nuovo aspetto alla buona salute, o a una benevolenza senza precedenti del tempo. Alla vaga Naomi, così fuori dal mondo, si poteva anche dirlo. Di qualcuno bisognava pur fidarsi, affinché tenesse il forte e mandasse avanti il negozio. Chi meglio di Naomi, che conosceva l'attività in ogni suo aspetto e la cui reazione a un lifting sarebbe stata quella che un'altra donna potrebbe avere di fronte a una tintura ai capelli o a un orlo accorciato? — Non credo che abbia parlato con mia madre — riprese Joanne Garland. — Be', perché mai l'avrebbe fatto? Ma se avesse parlato con lei, ora si renderebbe conto del perché non vorrei che venisse a sapere una cosa del genere. Wexford non fece commenti. — Posso considerarmi libera, ora? Lui assentì. — Per il momento. Il sergente Vine e io andiamo a far colazione, e lei probabilmente vorrà riposare, signora Garland. Ma vorrei risentirla, più tardi. Abbiamo una sede d'emergenza su a Tancred House. L'aspetto lì per... facciamo le quattro e mezzo? — Oggi? — Oggi alle quattro e mezzo, per favore. E se fossi in lei mi farei accompagnare da Fred Harrison. Non vorrà guidare dopo avere bevuto al di là del limite consentito, immagino. Ancora fiori sul cancello. Tulipani rossi, stavolta, una quarantina, calcolò Wexford, gli steli nascosti dalle corolle di quelli più sotto, l'intera massa posata su un cuscino di rami verdi a forma di losanga. Barry Vine gli lesse le parole sul biglietto.
"Quivi le pietre più dure si vedean sanguinare." — Sempre più strano — commentò Wexford. — Barry, appena avrò finito con la signora Garland, noi due dobbiamo tentare un esperimento. Mentre procedevano attraverso i boschi, lui telefonò a casa e parlò con Dora. Rischiava di far tardi. Oh, no, Reg, stasera non devi tardare, Sylvia inaugura la casa, l'hai dimenticato? A che ora dovevano essere là? Le otto e mezzo, al massimo. — Se non ce la faccio ad arrivare prima, sarò a casa per le otto. — Andrò a comprarle qualcosa. Champagne, se tu non hai in mente qualcosa di più interessante. — Solo un cuscino di quaranta tulipani rossi, ma sono certo che preferirà lo champagne. Non ha telefonato Sheila, vero? — Te l'avrei detto. I boschi risplendevano di verde, risvegliati alla vita dalla primavera. Nei lunghi corridoi tra gli alberi, fiori bianchi e gialli stellavano l'erba. Nell'aria c'era l'effluvio dell'aglio selvatico, con le sue rigide foglie verde-giada e i suoi fiori simili a gigli. Una ghiandaia, rosea e picchiettata di azzurro, volava bassa sotto i rami delle querce, mandando il suo stridulo verso. La pioggia, col suo picchiettio, riempiva i boschi di fruscii e sussurri. Emersero nello spiazzo aperto, oltrepassarono l'apertura nel muretto. La pioggia aumentò d'improvviso d'intensità, trasformandosi in un violento acquazzone. L'acqua scrosciava sulle pietre, scendeva in rivoli giù per il parabrezza e i lati dell'auto. Attraverso il grigiore tremolante e vitreo, Wexford vide che l'auto di Joyce Virson era di nuovo in sosta davanti all'entrata. Venne colto dall'improvvisa premonizione che vi fosse qualcosa di importante nell'aria, ma la liquidò come assurda. Non volevano dir niente, quelle sensazioni. Andò nella sala d'emergenza, pensando alla persona che inviava i fiori, a Gabbitas, il quale non aveva mai accennato al suo progetto di comperare una casa, alla defezione degli Harrison, alla strana donna ritardata che origliava agli usci. Qualcuna di quelle anomalie aveva forse un significato, nel caso? Quando arrivò Joanne Garland, Wexford la portò nell'angolo dov'erano state spinte le due poltrone di Daisy. Dal loro incontro del mattino, lei si era truccata di più con fondo-tinta e cipria. Il fatto che lui conoscesse la ragione del suo viaggio l'aveva resa impacciata; lo guardava ansiosa, sistemata in una delle poltrone, una mano sulla guancia così da nascondere il segno violaceo più vistoso.
— George Jones — disse lui. — Gunner Jones. Lo conosce? Stava diventando ingenuo. Che cosa si era aspettato? Un profondo rossore? Un altro scoppio di pianto? Lo guardava con la stessa espressione che avrebbe avuto lui nel sentirsi domandare se conosceva il dottor Perkins. — Non lo vedo da anni. Lo conoscevo, sì, eravamo amici, lui e Naomi e io e Brian. Come dicevo, non l'ho più visto da quando lui e Naomi si separarono. Gli ho scritto un paio di volte... è a questo che vuole arrivare? — Gli scrisse per suggerire che lui e Naomi si rimettessero insieme? — Glielo ha detto lui? — Non è vero? Lei tacque per riflettere. Con l'unghia laccata di rosso si grattò l'attaccatura dei capelli. Forse la sutura invisibile le dava prurito. — Sì e no. La prima volta che gli scrissi, era per questo. Naomi era un po'... be', avvilita, giù di corda. Un paio di volte mi aveva detto che forse non si era battuta abbastanza, per Gunner. Qualsiasi cosa è preferibile alla solitudine. Così gli scrissi. Non mi rispose. Che caro, pensai. D'altronde, nel frattempo avevo capito anch'io che non era stata una buona idea. Povera Naomi, non era fatta per il matrimonio, lei. Be', questo vale per i rapporti in generale. Non dico che le piacessero le donne. Stava benissimo da sola, a trafficare con le sue carabattole, i suoi dipinti e tutto il resto. — Ma lei gli scrisse di nuovo, alla fine dell'estate scorsa. — Sì, ma non per questo. — E per che cosa, signora Garland? Quante volte aveva udito le parole che lei stava per pronunciare? Poteva già prevederla, l'esatta forma dell'obiezione: — Niente che abbia a che fare con questa faccenda. Le rispose come sempre. — Lasci giudicare a me. D'improvviso lei s'inalberò. — Non voglio dirlo. È imbarazzante. Non capisce? Sono morti, non ha più importanza. In ogni caso, non c'era nessun - come dire? - abuso, nessuna violenza. Insomma, una cosa ridicola, quei due vecchi... Oh, Dio, è tutto così stupido, io sono stanca, e poi non ha niente a che vedere con quanto è successo. — Vorrei che mi dicesse che cosa c'era in quella lettera, signora Garland. — Voglio vedere Daisy — disse lei. — Devo andare a parlare con Daisy per dirle quanto sono addolorata. Santo cielo, ero la migliore amica di sua madre.
— Sua madre non era amica sua? — Non cambi il significato delle mie parole. Sa bene quello che voglio dire. Lo sapeva, infatti. — Ho tutto il tempo che voglio, signora Garland. — Non era vero, doveva andare alla festa di Sylvia. Cascasse il mondo, a quella festa doveva andarci. — Ce ne staremo qui in queste due comode poltrone finché non si deciderà a dirmelo. A questo punto, tra l'altro, a parte la rilevanza per il caso, moriva dalla voglia di sapere. Con le sue prevaricazioni, lei non si era limitata a risvegliare la sua curiosità, l'aveva addirittura strappata dal sonno. — Se ho ben capito non è niente di personale — aggiunse. — Non è una cosa che riguarda lei. Non vedo perché debba sentirsi in imbarazzo. — E va bene, vuoterò il sacco. Ma capirà quello che intendo dire, quando l'avrò messa al corrente. Gunner non rispose neppure a quella lettera, tra parentesi. Bel padre che è! Bah, avrei dovuto immaginarlo, visto che non s'era più interessato di quella povera piccola dal momento che aveva tagliato la corda. — La cosa riguardava Daisy? — domandò Wexford, con un'ispirazione. — Sì. Sì, è così. — Me lo disse Naomi — riferì Joanne Garland. — Vede, avrebbe dovuto conoscerla, Naomi, per capire com'era. Ingenua non è la parola adatta, anche se ingenua lo era. Non credo di riuscire a spiegarmi bene. Non agiva come gli altri, perciò penso che in realtà non sapesse come agivano gli altri, specie quando facevano cose che erano... be', sbagliate o inconcepibili o letteralmente disgustose. E non capiva nemmeno quando stavano facendo qualcosa di... di valido, o di speciale. Ha un senso quello che dico? — Sì, credo di sì. — Cominciò a parlarmi di quella faccenda mentre eravamo in negozio, un giorno. Intendo dire, a parlarmene come se stesse dicendomi che Daisy aveva un nuovo amichetto o che sarebbe andata in gita all'estero con la scuola. Ecco come venne fuori a raccontarmelo. Disse - sto cercando di ricordare le sue parole esatte - sì, disse: "Davina pensa che sarebbe carino se Harvey facesse l'amore con Daisy. Tanto per svegliarla. Per iniziarla." Così, disse. "Perché Harvey è un amante meraviglioso, e lei non vuole che Daisy debba passare attraverso un'esperienza come la sua." Capisce perché dicevo che è imbarazzante? Wexford non era scandalizzato ma si rendeva conto che la cosa era
scioccante. — Qual è stata la sua risposta? — Aspetti. Non ho finito. Naomi aggiunse che la verità era che Davina era troppo vecchia ormai per... be', non occorre che metta il puntino sull'i, vero? In senso fisico, non so se mi spiego. E questo la preoccupava perché Harvey - così assicurava Davina - era un uomo ancora giovane e vigoroso. Eh, già, pensavo io. Figuriamoci. In realtà Davina pensava, evidentemente, che sarebbe stato fantastico per tutti e due, e lei e Harvey lo avevano praticamente già proposto alla ragazza. O meglio, lei lo aveva detto alla ragazza e quello stesso, orribile giorno, Harvey aveva tentato una specie di approccio. — Daisy come reagì? — Lo mandò a quel paese, probabilmente. Questo è ciò che mi disse Naomi. Lei non era indignata o altro. Diceva solo che Davina era fissata per il sesso, lo era sempre stata, ma avrebbe dovuto rendersi conto che non tutti la pensavano come lei. Non reagiva, Naomi, come avrei reagito io se Daisy fosse stata mia figlia, se avessi avuto una figlia. Ne parlava così come se si fosse trattato di una differenza di opinione tra noi, non so, sull'esporre anche abiti nella galleria oppure no, e dicendo che toccava a Daisy decidere. Io ero fuori di me. Le dissi un sacco di cose su Daisy che era moralmente in pericolo e così via, ma era tutto inutile. Allora andai a parlare con Daisy. L'aspettai all'uscita della scuola, le dissi che mi si era rotta la macchina e se voleva darmi lei un passaggio. — Discusse della cosa con la ragazza? — Daisy rideva, ma si capiva che era... be', disgustata. Non le era mai piaciuto molto Harvey e avevo l'impressione che anche della nonna ormai fosse delusa. Continuava a ripetere che non se lo sarebbe mai aspettato, da Davina. Non le dispiaceva affatto che io lo sapessi, fu molto carina con me, è una cara ragazza, in effetti. E questo peggiorava ulteriormente la cosa. — Dovevano partire tutti in vacanza. Ero veramente preoccupata, non sapevo cos'altro potessi fare. Avevo sempre davanti agli occhi l'immagine del vecchio Harvey che... be', che la violentava. Era sciocco, lo so, perché non credo che ne sarebbe stato capace e, a ogni modo, qualsiasi cosa fossero, non erano persone di quel genere. Wexford non aveva ben chiaro a quale genere lei alludesse ma preferì non interromperla. Tutta l'iniziale vergogna e reticenza di Joanne Garland era scomparsa e lei ora si addentrava con entusiasmo nel suo racconto. — Stavano quasi per tornare quando m'imbattei in quel Nicholas — Vir-
son si chiama, vero? — Sapevo che era una specie di innamorato di Daisy, quanto di più vicino lei avesse a un innamorato, e fui quasi tentata di dirglielo. L'avevo sulla punta della lingua, ma è un tale idiota pomposo che già me lo figuravo diventare rosso rosso e balbettare, squagliandosela. Così lasciai perdere. Lo dissi a Gunner. Gli scrissi una lettera. — È il padre, in fin dei conti. Pensavo che perfino quel maledetto Gunner si sarebbe indignato per una cosa del genere. Ma mi sbagliavo, capisce? Non gliene importava un bel niente. Potevo fare assegnamento soltanto su Daisy... be', sul suo buon senso. E non era proprio una bambina, in fondo, aveva diciassette anni. Ma quel Gunner... che razza di padre è, quello? Sette armaioli nelle Pagine Gialle di Kingsmarkham, cinque a Stowerton, tre nella sola Pomfret, un'altra decina nella campagna circostante. — È incredibile che esistano ancora degli animali selvatici — commentò Karen Malahyde. — Che cosa stiamo cercando, esattamente? — Qualcuno che abbia avuto Ken Harrison alle sue dipendenze a mezzo tempo, che gli abbia insegnato come cambiare la canna a una pistola e che gli abbia prestato gli arnesi per farlo. — Sta scherzando, vero, ispettore? — Temo di sì — rispose Burden. 24 Fred Harrison lo incrociò con il suo taxi mentre stava per imboccare il cancello principale. Sta andando a prendere Joanne Garland che ha fatto la sua visita di condoglianze a Daisy, pensò nel ricambiare il saluto dell'uomo. Condoglianze? Sì... perché no? Era stupefacente, a quali affronti potesse sopravvivere l'amore. Bastava guardare le mogli picchiate, i bambini maltrattati. Daisy aveva probabilmente conservato l'antica e ammirata soggezione nei confronti della nonna, soggezione temperata da vero affetto e, quanto ad Harvey, era chiaro che non se n'era mai curata. Per quel che riguardava la madre, le persone come Naomi Jones, eccentriche nel loro distacco dalle cose di questo mondo, nella loro blanda e soddisfatta passività, erano spesso molto amabili. Wexford era a conoscenza, mentre Joanne Garland probabilmente le ignorava, delle rivelazioni contenute nelle lettere citate dall'inserto del Sunday Times. Il primo matrimonio non consumato con Desmond Flory, que-
gli anni vissuti "come fratello e sorella" secondo l'eufemismo dell'epoca, l'impossibilità a quei tempi e in quell'ambiente di cercare aiuto. Gli anni migliori della vita sessuale, dai ventitré ai trentatré secondo l'opinione generale, sprecati, perduti, per non essere forse mai più compensati adeguatamente in seguito. E verso la fine della guerra, negli ultimi giorni, quelli in cui Desmond Flory sarebbe caduto, l'incontro con un amante, con l'uomo che sarebbe stato il padre di Naomi. L'energia non usata di quegli anni lei l'aveva messa nel ridare vita a dei boschi. Chissà se quei boschi vi sarebbero stati, ora, qualora Flory non fosse stato un marito impotente? Speculazione interessante, quella. Wexford si domandava se la smodata mania di sesso di Davina Flory non fosse proprio dovuta a dieci anni di frustrazione, se quegli anni di astinenza non avessero poi pesato per sempre sul suo passato di donna consapevole che, qualsiasi cosa riservasse il futuro, più niente avrebbe potuto riempirli, colmare quel vuoto. Da qualcosa del genere avrebbe voluto salvare Daisy. Era un modo caritatevole, quello, di vedere la cosa. Wexford poteva però pensare a tali e tante disastrose conseguenze di un rapporto tra Daisy e il marito di sua nonna, che la visione caritatevole finiva per apparire quello che era: una scusa bella e buona. Che mancanza di buon senso, disse a se stesso. Di buon gusto, anche, e della più normale decenza. Non solo, ma di qualcosa di cui tanto proclamava l'importanza: un comportamento da persona civile. Chi era stato l'amante? Chi era l'uomo che, come il principe della favola, era arrivato a liberare la prigioniera del bosco addormentato? Qualche altro scrittore, forse, o un accademico. Ma non era difficile immaginare Davina nella parte di Lady Chatterley e il padre di Naomi in un domestico della tenuta. La pioggia era cessata. C'era nebbia e umidità nei boschi ma, quando lui lasciò la strada nella foresta per dirigersi verso Kingsmarkham, era spuntato un po' di sole ormai al tramonto. La sera era adesso bella e tiepida, le nuvole si erano ritirate in dense masse rigonfie verso l'orizzonte. L'auto sollevava schizzi dalle pozzanghere, nel percorrere il viale che portava al garage. Dora era al telefono e subito gli nacque dentro una speranza, che venne però dispersa dalla scrollata di capo di lei. Era soltanto il padre di Neil, voleva sapere se le servisse un passaggio. — E io? Non potrei volerlo anch'io, un passaggio? — Era convinto che non ci saresti andato. Gli altri prendono per scontato, caro, che tu non vai mai da nessuna parte.
— Ma è chiaro che vado all'inaugurazione della casa di mia figlia. Era irragionevole irritarsi per una cosa del genere. Wexford era sufficientemente psicologo per capire che, se era sconcertato, questo dipendeva da un senso di colpa. Rimorso di prendere Sylvia per scontata, di volerle un bene d'ordinaria amministrazione, di preferirle la sorella, di doversi imporre di pensare a lei per tema di arrivare quasi a dimenticarne l'esistenza. Salì a cambiarsi. L'intenzione era stata di mettersi una giacca sportiva e calzoni di velluto a coste, ma optò invece per il suo vestito migliore, il suo unico abito buono, in realtà. Perché si preoccupava tanto per quella stupida ragazza, quella Sheila così ridicolmente affettata, così teatrale? Usare quegli orribili aggettivi per definirla, sia pure in cuor suo, per poco non lo fece gemere. Solo in anticamera, si attaccò al telefonò e formò il numero di lei. Chissà mai che... Dopo il terzo squillo, non sentendo la segreteria, visse qualche altro istante di speranza. Ma non rispondeva nessuno. Lasciò squillare una ventina di volte, poi mise giù il ricevitore. — Sei elegantissimo — disse Dora, e: — Non commetterà sciocchezze, stai tranquillo. — Non lo avevo neppure pensato — rispose lui, ma non era vero. La casa che Sylvia e suo marito avevano acquistato era dall'altra parte di Myfleet, a una ventina di chilometri di distanza. Era stata un rettorato ai tempi in cui la Chiesa d'Inghilterra trovava logicissimo mettere il titolare di un beneficio ecclesiastico in una dimora umida e non riscaldata, con dieci camere da letto, da mantenere con cinquecento sterline l'anno. Sylvia e Neil l'avevano desiderata, con il disprezzo per i sobborghi tipico della fine del ventesimo secolo, impazienti di potersi permettere di lasciare il loro appartamento di cinque stanze. Quel bramare "una vera casa" era una delle poche questioni sulle quali si trovavano d'accordo, come Wexford e Dora avevano osservato durante una discussione recente. Ma non c'era coppia incompatibile che più di quei due si sforzasse con maggiore impegno di rimanere insieme, accumulando sempre più beni in comune, studiando il modo di dipendere sempre più dai servigi e dal sostegno l'uno dell'altro. Sylvia aveva ora un impiego piuttosto buono al Dipartimento Istruzione della Contea, ma sembrava trovar gusto nel creare sempre maggiori impedimenti sul suo cammino in modo da dover contare sulla presenza e sulle promesse di Neil. Wexford, però, era del parere che, acquistando quella casa assai più distante dal posto di lavoro e nella direzione opposta rispetto alla scuola dei figli, fosse andata veramente troppo oltre. Lo fece osservare
a Dora, mentre guidava con prudenza lungo le tortuose stradine che portavano a Myfleet. — La vita è già abbastanza difficile anche senza trasformarla in una corsa a ostacoli. — Sì. Ti è venuto in mente che potrebbe esserci anche Sheila, stasera? È invitata anche lei. — Ma non ci sarà. Non c'era. Sylvia lo informò che la sorella non sarebbe venuta - già da una settimana lei lo sapeva, del resto - prim'ancora che lui potesse domandarglielo. Né gliel'avrebbe domandato, del resto. Da scenate e dimostrazioni di amaro risentimento avvenute in passato, conosceva le conseguenze di una domanda del genere. — Sei elegantissimo, Papà. Lui la baciò, disse che la casa era bellissima, sebbene gli sembrasse anche più immensa e più disadorna dell'unica occasione in cui l'aveva vista dall'esterno. Non si poteva negare, però, che fosse l'ideale per dare un ricevimento. Entrò nel salotto che era già affollato. L'intero ambiente aveva bisogno di essere rimodernato, invocava con lacrime di ghiaccio il riscaldamento centrale. Un grande fuoco di legna nel caminetto vittoriano faceva un bell'effetto e i corpi di una cinquantina di persone avrebbero fornito il tepore. Wexford salutò il genero e accettò un bicchiere di Highland Spring, molto abbellito da ghiaccio, fettine di limone e foglioline di menta. Tutti sapevano chi era. Non era proprio disagio, quello che egli poteva avvertire mentre si muoveva tra gli ospiti, quanto cautela, un ritirarsi in se stessi, una frettolosa auto-analisi. Questo era ancora più vero di un tempo, con l'attuale campagna in corso contro il guidare dopo avere bevuto. Vedeva che gli uomini guardavano istintivamente il bicchiere, contenente un'evidentissima dose di whisky, con l'aria di domandarsi se potessero farlo passare per succo di mela o se convenisse ripiegare sulla solita giustificazione: guida mia moglie. Poi, scorse Burden. Parte di un gruppo che includeva Jenny e alcune delle insegnanti colleghe di Sylvia, l'ispettore se ne stava in silenzio, in mano un capace bicchiere che conteneva davvero del succo di mela. A meno che Mike, improvvisamente impazzito, non avesse chiesto una tripla dose di Scotch. Si diresse a quella volta, avendo trovato una compagnia a lui congeniale con cui riempire almeno parte della serata. — Sei elegantissimo. — E tu sei la terza persona che trova opportuno fare commenti sul mio
aspetto. Con quelle stesse parole. Sono un tale straccione, di solito? Cosa sembro, il principe dei barboni? Burden non rispose ma rivolse a Wexford uno dei suoi mezzi sorrisi accompagnati da un lieve inarcarsi del sopracciglio. Vestito di maglioncino di cashmere antracite sopra un dolcevita bianco, giubbetto antracite e jeans firmati, non aveva forse ottenuto del tutto l'effetto desiderato. Per lo meno, non agli occhi di Wexford. — Visto che siamo in vena di apprezzamenti personali, quell'insieme ti dà l'aria di un vicario alla moda. L'inquilino adatto per questa casa. Colpa di quel collare bianco. — Oh, storie — protestò Burden impermalito. — Dici sempre cose del genere, solo perché non ho invariabilmente la parola "piedipiatti" stampata un po' dappertutto. Vieni di qua. Portati il bicchiere. Questa casa è un vero alveare, vero? Si ritrovarono in un locale che forse un tempo era stato uno studiolo, o un salottino intimo. In un angolo ardeva una stufetta a petrolio, che mandava odore ma non molto calore. — Guarda queste palline nel mio bicchiere — disse Wexford. — Sembrano biglie. Tu come le chiameresti? Cubetti di ghiaccio no, perché sono rotonde. Sferette di ghiaccio? — Nessuno capirebbe di che cosa stai parlando. Io direi, "cubetti" di ghiaccio rotondi. — Sì, ma sarebbe una contraddizione in termini, dovresti... Burden lo interruppe con fermezza. — Ha telefonato il Vice-Capo della Polizia, mentre tu eri con quella Joanne. Si è sfogato con me. Dice che è una farsa parlare di "sala omicidi" quattro settimane dopo il fatto, e che ci vuole via da Tancred per la fine della settimana. — Lo so. Ho un appuntamento con lui. Chi la chiama sala omicidi, a proposito? — Karen, e anche Gerry, quando rispondono al telefono. Peggio! Ho sentito Gerry dire: "Qui sala massacro." — Non ha molta importanza. Non abbiamo bisogno di star lì. Sento d'avere la soluzione a portata di mano, Mike, non posso dire di più. Ho bisogno che uno o due tessere del mosaico vadano a posto, ho bisogno una scintilla che mi illumini... Burden lo guardava insospettito. — Io ho bisogno di ben più di questo, te l'assicuro. Ti rendi conto che non siamo andati neppure oltre il primo ostacolo, vale a dire come si siano allontanati da Tancred senza che nessuno
li vedesse? — Sì. Daisy ha chiamato il 999 alle otto e ventidue, il che, dice, accadeva da cinque a dieci minuti dopo che se n'erano andati. Ma non lo sa e, come stima, direi che è parecchio approssimativa. Se erano almeno dieci minuti, il tempo massimo, penso, devono essersene andati alle otto e dodici, ossia quattro minuti prima che se ne andasse la Garland. Io credo a quella donna, Mike. Secondo me l'ora la sapeva, com'è tipico di questi patiti della puntualità. Se dice d'essersene andata alle otto e sedici, è sicuramente così. — Ma se loro se ne sono andati alle otto e dodici, lei deve averli visti. Era proprio il momento in cui stava camminando sul davanti della casa, per cercar di guardare al di là della finestra della sala da pranzo. Perciò se ne sono andati più tardi, e Daisy ha impiegato cinque minuti e non dieci per arrivare al telefono. Diciamo che se ne siano andati alle otto e diciassette, o diciotto. In tal caso devono avere seguito la Garland e si potrebbe a ragione supporre che viaggiassero molto più veloci di lei... — A meno che non abbiano preso la secondaria. — Allora Gabbitas li avrebbe visti. Se Gabbitas è in qualche modo coinvolto in questa storia, Mike, avrebbe tutto l'interesse a dire d'averli visti. Ma non lo dice. Se è innocente e dice di non averli visti, non erano là. Ma torniamo a Joanne Garland. — Arrivata al cancello principale, doveva scendere dalla macchina e aprirlo. Poi doveva oltrepassarlo, scendere e tornare a chiuderlo. È mai possibile che, con l'auto degli assassini che la seguiva a brevissima distanza, possa avere fatto tutto questo senza essere raggiunta dall'altra macchina? — Potremmo fare una prova — disse Burden. — L'ho fatta. Ho provato questo pomeriggio. Solo che abbiamo lasciato tre minuti, non due, tra la partenza della macchina A e quella della macchina B. Io guidavo la A, fra i cinquanta e i sessanta all'ora, e Barry era nella B, guidando alla massima velocità di sicurezza su quella strada, fra i settanta e gli ottanta e sfiorando a volte i novanta. Mi ha raggiunto mentre scendevo la seconda volta, per richiudere il cancello. — Non potrebbe la loro auto essere partita prima che arrivasse Joanne Garland? — Difficile. Lei è arrivata alle otto e undici. Ora, Daisy dice di avere sentito gli assassini dentro casa non prima di uno o due minuti dopo le otto. Per andarsene alle otto e dieci, avrebbero avuto nove minuti al massimo per salire di sopra e mettere la stanza a soqquadro, scendere di nuovo, uc-
cidere tre persone, ferirne una quarta e darsi alla fuga. È possibile... di stretta misura. Ma se sono fuggiti per la strada principale attraverso i boschi devono avere incontrato Joanne che arrivava. E se hanno preso la secondaria alle, diciamo, otto e sette minuti, devono avere superato Bib Mew sulla sua bicicletta, dato che da Tancred lei se ne è andata alle otto meno dieci. Pensosamente, Burden osservò: — Lo dici in modo da farlo sembrare impossibile. — È impossibile. A meno che non ci sia una congiura tra Bib, Gabbitas, Joanne Garland e gli assassini, il che è decisamente da escludere, è impossibile. È impossibile che se ne siano andati in qualsiasi momento compreso fra le otto e cinque e le otto e venti, e tuttavia sappiamo che devono averlo fatto. In tutto questo tempo, Mike, abbiamo lavorato su un presupposto basato su un indizio quanto mai labile, e cioè che siano venuti e se ne siano andati con una macchina. Dentro o sopra qualche veicolo a motore. Abbiamo dato per scontato che vi fosse la presenza di un veicolo. Ma metti che non ci fosse? Burden lo fissava. In quel momento la porta si aprì e una folla di persone venne dentro, reggendo piatti di cibarie. Erano tutte alla ricerca di un posto dove sedersi. Invece di rispondere alla sua stessa domanda, Wexford disse: — Si cena. Vogliamo andare a prenderci qualcosa da mangiare? — Non dovremmo restarcene chiusi qui dentro, tra l'altro. Non è gentile verso Sylvia. — Vuoi dire che, a una festa, l'ospite dovrebbe circolare e così guadagnarsi l'acqua brillante e le tartine? — Qualcosa del genere. — Burden sorrise divertito, poi guardò l'orologio. — Sono le dieci passate. La baby-sitter l'abbiamo solo fino alle undici. — Giusto il tempo per un panino — disse Wexford, il quale era praticamente certo che i suoi preferiti non ci fossero. Mentre consumava salmone con maionese, chiacchierò con due delle colleghe di Sylvia, poi con un paio di vecchi compagni di scuola. C'era del vero in quello che Burden aveva detto sul fare la propria parte come ospite. Vedeva Dora immersa in un'amabile discussione con il padre di Neil. Nel frattempo non perdeva mai d'occhio Burden, e prese a spostarsi nella sua direzione non appena i compagni di scuola si allontanarono per servirsi di altra insalata di pollo. Burden riprese la discussione dal punto preciso in cui l'avevano interrotta. — Un veicolo doveva pur esserci.
— Be', sai che cosa dice Holmes. Quando tutto il resto è impossibile, quello che resta, per quanto improbabile, dev'essere vero. — Come sarebbero arrivati là senza un mezzo di trasporto? È a chilometri da qualsiasi altro posto. — Attraverso i boschi. A piedi. È il solo modo, Mike. Pensaci. Le strade erano letteralmente intasate dal traffico. Joanne Garland che va su e giù per la strada principale. Prima Bib, poi Gabbitas, sulla secondaria. Ma la cosa non li preoccupa perché se ne stanno andando in perfetta sicurezza... a piedi. Perché no? Che cos'avevano da trasportare? Una pistola e qualche gioiello. — Daisy ha sentito un motore avviarsi. — Certo che lo ha sentito. Ha sentito Joanne Garland mettere in moto e ripartire. Più tardi di quello che dice, ma non si può certo pretendere che sia precisa sull'ora. Ha sentito l'auto partire dopo che entrambi i rapinatori se n'erano andati e lei stava strisciando verso il telefono. — Credo che tu abbia ragione. E quei due se la sarebbero svignata senza che nessuno li vedesse? — Non ho detto questo. Qualcuno li aveva visti: Andy Griffin. Era lassù quella sera, accampato nel suo nascondiglio, e li vide. Abbastanza da vicino, immagino, per riconoscerli. Il risultato del suo tentativo di ricattarli, o di ricattare uno dei due, è che l'hanno impiccato. Dopo la partenza di Burden e di Jenny, Wexford cominciò a pensare di andarsene a sua volta. I Burden avevano fatto tardi, la loro baby-sitter sarebbe stata costretta a fermarsi un altro quarto d'ora. Erano quasi le undici. Dora era andata insieme a una folla di altre signore, sotto la guida di Sylvia, a visitare il resto della casa. Avevano promesso di farlo zitte zitte, per non svegliare i bambini. Wexford non voleva domandare a Sylvia se avesse avuto notizie della sorella, perché una domanda del genere poteva provocare una scenata di gelosia e di risentimento. Se Sylvia era soddisfatta della sua nuova casa e del suo attuale stile di vita, avrebbe risposto come una persona razionale alla sua richiesta. Se però non lo era - e lui non riusciva a indovinare in che stato d'animo fosse, quella sera - gli si sarebbe rivoltata contro, rinnovando l'accusa d'avere una preferenza per la sorella minore. Wexford trovò il modo di avvicinarsi a Neil per domandarlo a lui. Naturalmente Neil non sapeva affatto se Sylvia avesse parlato di recente con Sheila oppure no, sapeva solo vagamente che Sheila aveva una relazione con un romanziere da lui mai sentito nominare, e ignorava del tutto
che quella relazione fosse finita. Si disse sicuro che tutto sarebbe andato bene e poi si scusò, ma doveva servire il caffè. Dora tornò, disse che se lui voleva bere qualcosa di forte, ora, al ritorno avrebbe guidato lei. Wexford rispose no, grazie, aveva scoperto che, una volta bevuti due di quei bicchieroni d'acqua minerale, ogni desiderio d'alcol spariva. Potevano andarsene, ora? Erano diventati entrambi così delicatamente prudenti verso quella figlia problematica, che non sapevano come farsi in quattro per non offenderla. Ma altre persone se ne stavano andando, e soltanto un piccolo nucleo di nottambuli si sarebbe trattenuto oltre la mezzanotte. Aspettarono pazientemente che venissero portati i cappotti ad altri ospiti, e che coloro che stavano andandosene si attardassero a scambiare gli ultimi convenevoli. Finalmente Wexford si ritrovò a baciare la figlia e a dirle buonanotte, grazie, una bellissima festa. Lei lo baciò a sua volta, dandogli una stretta affettuosa, calda, priva di qualsiasi rancore. Gli sembrò che Dora volesse strafare un po' nell'augurare "Felice casa" che razza d'espressione! Ma tutto andava bene purché servisse a compiacere Sylvia. Strade da fare al ritorno ve n'erano diverse. Attraverso la stessa Myfleet, seguendo, con una leggera deviazione verso nord, la circonvallazione per evitare Myfleet, o andando a sud per la via più lunga che passava attraverso Pomfret Monachorum. Scelse la circonvallazione, sebbene il nome facesse pensare a una ben illuminata strada a carreggiata doppia e non, come in realtà era, a un dedalo di stradine di cui bisognava essere pratici per imbroccare la svolta giusta. L'oscurità era fitta. Non c'era luna e le stelle erano nascoste da una spessa coltre di nuvole. In quei villaggi, gli abitanti avevano votato contro l'illuminazione stradale, per cui a quell'ora i luoghi apparivano disabitati, ogni casa immersa nel buio salvo qualche occasionale riquadro di luce velata dalle tende, dietro il quale un insonne era ancora alzato. Dora udì il lamento delle sirene un istante prima di lui. "Hanno proprio bisogno, i tuoi, di usare la sirena?" osservò. "A mezzanotte passata?" Erano su uno dei lunghi tratti di stradina alberata tra un abitato e l'altro. Gli argini ai due lati si elevavano come bastioni difensivi, e in quel buio canyon i fari dell'auto diffondevano una radiosità verdognola. — Non sono i nostri — disse lui. — Sono i vigili del fuoco. — Come fai a dirlo? — È diversa la sirena. Il volume di suono aumentava e per un attimo lui pensò che l'autopompa
stesse venendo in quella direzione, e che se la sarebbero trovata di fronte. Aveva già cominciato a frenare e stava portandosi il più possibile vicino al margine, quando la sirena calò di nuovo ed egli comprese che l'autopompa viaggiava su un'altra strada, più avanti. Riprese velocità per portarsi fuori da quel solco di argini a bastione, di densi cespugli e di alberi a tettoia. Gli argini terminarono, la strada si allargò, uscendo alla fine da quel pozzo di tenebre, e dinanzi a loro si aprì una distesa di terreno piatto e sgombro. Più avanti, il cielo era rosso. All'orizzonte, e attraverso la massa di nuvole, si vedeva un rosseggiare fumoso quale potrebbe esservi al di sopra di una grande città. Ma non c'era nessuna città. Ecco che si faceva udire una nuova sirena. Dora osservò: — Non è a Myfleet, è al di qua di Myfleet. Che abbia preso fuoco una casa? — Tra poco lo sapremo. Ma lo intuì prim'ancora di arrivarvi. Era l'unica casa col tetto di stoppie dei dintorni. Il rosseggiare era sempre più intenso. Da un ruggine opaco e fumoso aumentava via via, fino a che il chiarore nel cielo divenne come quello delle braci, come i vividi spazi tra un tizzone ardente e l'altro. E ora potevano sentirlo, il fragore ritmico, tutto crepitii. Già la strada veniva isolata con cordoni, e dall'altro lato della barriera erano parcheggiate le due autopompe. I vigili del fuoco stavano lanciando getti di qualcosa che sembrava acqua ma probabilmente non lo era. Il rumore che veniva dalla casa in fiamme ricordava quello delle onde del mare che si abbattono su un pontile durante una burrasca, del violento risucchio della marea. Assordava, rendeva ogni discorso impossibile, riduceva al silenzio ogni commento sull'impetuoso propagarsi delle fiamme. Wexford scese dalla macchina. Si avvicinò allo sbarramento. Un pompiere stava già per dirgli di tornare indietro, di prendere la strada per Myfleet, e poi lo riconobbe. Wexford scosse la testa. Inutile tentare di farsi udire al di sopra di quel fragore. Il calore dell'incendio si spandeva, sottraendo all'aria il freddo e l'umidità, ardendo come da un vasto focolare domestico di una dimora di giganti. Wexford guardava la scena, abbastanza da vicino da immaginare di potersi scottare la faccia. Nonostante la pioggia recente, pioggia caduta in modo troppo discontinuo, la stoppia aveva preso fuoco come carta e legna di fascina. Dove in precedenza era stata, dove ancora qualche traccia ne restava, le travature annerite si profilavano attraverso il fiero ruggire delle fiamme. La casa si era trasformata in una torcia, ma il fuoco era più vivo
della fiamma di una torcia, simile a un animale nella sua avidità e determinazione, nella sua passione di bruciare e distruggere. Le scintille salivano a spirale nel cielo, ricadendo e danzando. Un grande tizzone ardente, staccatosi dalla stoppia incendiata, volò via improvvisamente dal tetto e venne verso di loro come un razzo. Wexford si scansò e indietreggiò. Mentre il blocco di macerie incandescenti si spegneva ormai ai loro piedi, lui si rivolse al pompiere chiedendo se c'era qualcuno, là dentro. L'arrivo dell'ambulanza salvò l'uomo dal rispondere. Wexford vide Dora far manovra con l'auto per lasciare spazio. Il pompiere tolse il cordone e l'ambulanza entrò. — È stato inutile ogni tentativo — disse ora il pompiere. Una macchina seguiva l'ambulanza. Era l'MG di Nicholas Virson. Rallentò e si fermò, ma non come ci si ferma normalmente, non come se il conducente avesse frenato, messo in folle e tirato il freno a mano. Si arrestò rabbrividendo e si bloccò con un sobbalzo. Virson scese e rimase a fissare il fuoco. Poi si coprì la faccia con le mani. Wexford tornò da Dora. Puoi andare a casa, se vuoi. Qualcuno penserà ad accompagnarmi. — Reg, cos'è successo? — Non lo so. Non riesco a credere che sia scoppiato per caso. — Ti aspetto qui. I barellieri stavano trasportando qualcuno su una lettiga. Lui si aspettava che fosse una donna, ma era un uomo: il vigile del fuoco che aveva fatto un tentativo disperato. Nicholas Virson girò la faccia sconvolta verso Wexford. Dagli occhi sgorgavano lacrime. 25 La casa era in parte molto antica e in quel lontano passato era stata costruita su una struttura di tronchi. Due dei sostegni principali erano ancora in piedi. Di quercia, e praticamente indistruttibili, si ergevano tra le ceneri come alberi carbonizzati. Non c'erano fondamenta e, proprio come alberi, quei grandi montanti erano stati piantati in profondità nel terreno. Più che a una casa bruciata, il sito carbonizzato faceva pensare ai resti di una foresta distrutta dal fuoco. Wexford, nel contemplare le rovine dalla sua auto, ripensava alla prima volta che aveva visto la casa dei Virson e aveva pensato che era molto graziosa. Un cottage da scatola di cioccolatini, con le rose attorno alla porta e un giardino adatto per illustrare un ca-
lendario. L'uomo che aveva fatto questo provava piacere nel distruggere la bellezza, godeva del disfacimento in sé e per sé. Poiché Wexford, ormai, era certo che si fosse trattato di incendio doloso. Provocare morte era stato probabilmente il movente primario, ma anche la brama di spoliazione c'era. Costituiva la ciliegina sulla torta. Il garage di Le Stoppie aveva contenuto venti taniche di benzina da dieci litri e una decina di contenitori da cinque litri di paraffina. Tutti quei recipienti erano stati allineati lungo i due lati del garage, per la maggior parte contro la parete in comune con la casa. Il tetto di stoppie si estendeva attraverso il garage, oltre che sulla casa stessa. Nicholas Virson una spiegazione l'aveva. Un periodo di disordini nel Medio Oriente aveva indotto sua madre a fare un po' di scorta. Quale periodo in particolare, non se ne ricordava, ma quella benzina era là da anni, in previsione di "un giorno di pioggia". Le giornate, pensava Wexford, non erano state abbastanza piovose. Una lunga e grave siccità aveva preceduto le pioggerelle degli ultimi giorni. Gli investigatori avevano trovato ben pochi indizi nel garage, di cui era rimasto ben poco. Qualcosa aveva dato fuoco a quelle taniche, una semplice miccia. Il ritrovamento del mozzicone di una comunissima candela, quasi miracolosamente rotolata via e finita sotto la porta, li aveva indotti a ritenere d'avere scoperto un elemento d'importanza vitale nell'incendio doloso. Non sempre quello che un investigatore aveva in mente funzionava ma, in quel caso, sì. Bastava immergere un pezzo di corda non nella benzina, bensì nella paraffina, e inserirne un'estremità dentro un contenitore di paraffina, appunto. Quel singolo contenitore sarebbe stato circondato da taniche di benzina. L'altra estremità della corda veniva legata intorno a una mezza candela, la candela veniva accesa e due, tre, quattro ore dopo... Il vigile del fuoco era rimasto ustionato piuttosto gravemente ma si sarebbe rimesso. Joyce Virson era morta. Wexford aveva detto alla stampa che stavano trattando il caso come omicidio. — Chi sapeva di quella benzina, signor Virson? — La nostra donna delle pulizie. L'uomo che viene a occuparsi del giardino. Immagino che mia madre l'avesse detto ad altri, ad amici. L'avrò detto a qualcuno anch'io. Ecco, per esempio, ricordo che un caro amico mio era venuto a trovarmi e aveva il serbatoio quasi a secco. Gliene versai dentro abbastanza da permettergli di arrivare a casa. Poi c'erano gli operai che
venivano per la manutenzione del tetto, entravano nel garage, di solito era là che mangiavano i loro panini all'ora di colazione... E si facevano una fumatina, pensò Wexford. — Sarà bene che ci faccia avere i nomi. Mentre Anne Lennox annotava i vari nomi, Wexford ripensava al colloquio che aveva appena avuto con James Freeborn, il Vice-Capo di Polizia. Quanti altri omicidi bisognava aspettarsi prima che il perpetratore venisse scoperto? Cinque persone erano morte finora. Era più che un massacro, era un'ecatombe. Wexford si era guardato bene dal correggere il superiore, dal dire qualcosa di sarcastico come, per esempio, augurarsi che non vi fossero altre novantacinque morti. Invece, aveva chiesto che la sala d'emergenza a Tancred House venisse mantenuta almeno fino alla fine della settimana, e il permesso era stato accordato, sia pure con riluttanza. Ma niente più agenti di guardia alla'ragazza. Wexford aveva dovuto assicurargli di non averne messi, quella settimana. — Una cosa del genere potrebbe andare avanti per anni. — Spero di no, signore. Nicholas Virson voleva sapere se avevano finito con lui, se poteva andarsene. — Non ancora, signor Virson. Ieri le ho domandato, prima che avessimo qualche idea sulle cause dell'incendio, dov'era lei martedì sera. Ma era distrutto e così non ho voluto insistere. Torno a domandarglielo adesso. Dov'era? Virson esitò. Alla fine diede una risposta che non è mai la verità, ma ugualmente viene data spesso in simili circostanze. — Per essere perfettamente sincero con lei, stavo guidando così, senza meta. Ben due di quelle frasi vaghe, in congiunzione. Lo fa mai, qualcuno, di "guidare così, senza meta"? Solo, di sera, ai primi di aprile? Nella propria campagna, dove non c'è niente di nuovo da vedere e nessun posto panoramico da scoprire per poi tornare a vederlo di giorno? Se uno è in vacanza, forse, ma nel suo stesso circondario? — Dove, per esempio? — domandò pazientemente Wexford. Qui Virson non valeva molto. — Non ricordo. Lungo stradine, a caso. — Poi, speranzoso. — Era una bella serata. — D'accordo, signor Virson, a che ora ha lasciato sua madre ed è uscito? — Questo posso dirglielo. Alle nove e mezzo. In punto. — E aggiunse: — Sto dicendo la verità. — Dov'era la sua auto?
— Fuori sulla ghiaia, e quella di mia... di mia madre, accanto. Non le mettevamo mai in garage. No, sfido io. Non c'era posto. Il garage era zeppo di taniche di combustibile, in attesa di saltare in aria non appena una fiammella le avesse raggiunte, viaggiando lungo un pezzo di corda. — E dov'è andato? — Gliel'ho detto, non lo so. Giravo. A che ora sono tornato, lei lo sa... Tre ore dopo. Tutto molto tempestivo. "Ha guidato per la campagna per tre ore? Avrebbe fatto in tempo ad arrivare a Heathrow e tornare. Un tentativo di sorriso mesto. — Non sono andato a Heathrow. — No, non lo penso neanch'io. — Se Virson non voleva dirglielo, non gli restava che azzardare ipotesi. Guardò il foglio di carta sul quale Anne aveva annotato i nomi e gli indirizzi di quelli che sapevano delle taniche: le amicizie personali di Joyce Virson, l'amico di Nicholas Virson che era rimasto "a secco", il giardiniere, la donna delle pulizie. — Qui credo che abbia fatto un errore, signor Virson. La Mew lavora a Tancred House. — Oh, sì, ma lavora per noi... per me, anche. Due mattine la settimana. — Sembrava contento di poter cambiare discorso. — Così è stata poi assunta a Tancred. L'aveva raccomandata mia madre. — Capisco. — Giuro sulla mia vita e su quanto ho di più sacro — dichiarò appassionatamente Virson — che non ho avuto niente a che fare con quanto è successo. — Non so che cos'abbia di più sacro, signor Virson — replicò bonariamente Wexford — ma dubito che sia rilevante, in questo caso. — Aveva udito spesso dichiarazioni analoghe, uomini rispettabili così come delinquenti giurare sulla testa dei loro figli e come sperassero nel paradiso in una vita a venire. — Mi faccia sapere dove posso trovarla, intesi? Burden venne da lui dopo che Virson se n'era andato. — Anch'io sono tornato a casa per quella strada, Reg. Alle undici e un quarto, il posto era immerso nel buio più totale. — Nessun chiarore di candela che filtrasse attraverso le fessure della porta del garage? — Lo scopo non era di uccidere la signora Virson, vero? Voglio dire, il nostro perpetratore è assolutamente spietato, niente gli sarebbe importato di ucciderla o meno, ma lei è stata una vittima accidentale, non era certo la sua preda primaria. Sbaglio? — No. Sono d'accordo anch'io.
— Io vado a prendere la colazione. Oggi c'è Thai, oppure bistecca e pasticcio di rognone. — Sembri un comunicato commerciale da quattro soldi. Wexford uscì con Burden e si unì alla breve coda. Da lì soltanto l'estremità della casa era visibile, l'alta facciata e le finestre dell'ala est, dietro una delle quali si poteva scorgere Brenda Harrison intenta a strofinare il vetro con un panno. Wexford tese il suo piatto per farsi dare una fetta di pasticcio con purea di patate. Quando tornò a guardare in su, Brenda era scomparsa e Daisy ne aveva preso il posto. Daisy non stava pulendo il vetro, naturalmente, ma rimaneva là, con le braccia lungo i fianchi. Sembrava che fissasse in lontananza, verso i boschi, le foreste e l'orizzonte limpido, con un'espressione che a lui, per quel che gli era possibile vedere, sembrava ineffabilmente triste. Ritta là, era il ritratto della solitudine, e non gli provocò alcuna sorpresa vederla coprirsi il volto con le mani prima di allontanarsi. Con la testa alzata, anche Burden aveva visto. Lì per lì non disse niente e si limitò a ricevere il piatto di cibarie aromatiche e piuttosto colorate e una lattina di Coca Cola con un bicchiere rovesciato e appoggiato sopra. Tornati alle stalle, Burden osservò, laconico. — Mirava a lei, vero? — A Daisy? — Ha sempre avuto di mira lei, fin dal principio. Quando ha provocato quell'incendio era Daisy che voleva eliminare, non Joyce Virson. Credeva che Daisy fosse là. Non mi hai detto che i Virson erano stati qui per convincerla ad andare da loro martedì sera, per cenare e passare la notte? — Sì, ma lei ha rifiutato. È stata adamantina. — Lo so. E sappiamo che non c'è andata. Ma il nostro assassino non lo sapeva. Sapeva che i Virson avevano tentato di convincerla e sapeva anche che tornarono nel pomeriggio per rinnovare il tentativo. Dev'essere accaduto qualcosa da cui ha tratto la certezza che Daisy avrebbe passato la notte a Le Stoppie. — Non Virson, allora? Lui sapeva che non sarebbe stata là. Tu continui a parlarne al maschile, Mike. Dev'essere per forza un uomo? — Che sia un uomo lo si prende per scontato. E forse è un sbaglio. — Forse non bisognerebbe prendere mai niente per scontato. — Bib Mew lavorava per i Virson, oltre che qui. Sapeva di quel combustibile nel garage. — Origlia alle porte — aggiunse Wexford — e forse sente solo in modo imperfetto quello che si dice dall'altra parte. Era qui la sera dell'undici
marzo. Gran parte delle... vogliamo chiamarle manovre?... di quella sera dipendono dalla sua testimonianza. Non è molto intelligente ma è abbastanza sveglia per vivere sola e lavorare in ben due case. — Sembra un uomo. Sharon Fraser ha detto che quelli che lasciarono la banca erano tutti uomini, ma se tra quelli ci fosse stata Bib Mew, lei si sarebbe forse accorta che non era un maschio? — Uno degli uomini, in quella banca, stava in fila con una manciata di banconote verdi. Noi non abbiamo banconote verdi in questo Paese. In quale le hanno? Esclusivamente banconote verdi? — Negli Stati Uniti? — disse Burden. — Già. Quelle banconote erano dollari. Martin è stato ucciso il 13 maggio. Thanny Hogarth è americano, e poteva benissimo avere dei dollari quando è venuto qui, ma è arrivato soltanto in giugno. E Preston Littlebury? Vine dice che tratta la maggior parte delle sue transazioni in dollari. — Hai già visto il rapporto di Barry? Littlebury commercia in antichità, d'accordo, e le importa dall'Europa orientale. Ma al momento la sua principale fonte di guadagno è costituita dalla vendita di uniformi dell'esercito della Germania Est. Era un po' reticente ad ammetterlo ma Barry gliel'ha cavato di bocca. A quanto pare, c'è un mercato incredibile di cose memorabili di quel genere, qui da noi, elmetti, cinture e via dicendo. — Armi no? — Armi no, almeno per quanto ne sappiamo. Barry dice anche che Littlebury non ha un conto in banca, qui. Non è cliente di quella banca. — Neanch'io — ribatté Wexford — ma ho la mia famosa Trascend Card. Posso usarla in qualsiasi filiale di qualsiasi banca. Inoltre, l'uomo in fila con le banconote era là semplicemente per cambiarle in sterline, sì o no? — Io quel Littlebury non l'ho mai visto ma, da quello che ho sentito, non è tipo da raccattare una pistola e svignarsela. Credi a me, Reg, era Andy Griffin là in coda, con i dollari avuti in pagamento da Littlebury. — Allora perché non li ha cambiati? Perché li abbiamo trovati nella casa dei suoi? — Perché non arrivò mai a capo di quella fila. Hocking e Bishop entrarono e Martin venne ucciso. Andy raccolse la pistola e tagliò la corda. L'aveva presa per venderla, e infatti l'ha venduta. Ecco perché ricattava il compratore, per possesso dell'arma incriminata. — Non li cambiò mai, quei dollari. Li portò a casa e li nascose in quel cassetto, forse perché aveva... mah, una sorta di timore superstizioso di
farsi vedere con quelli dopo quanto era successo. Un giorno forse li avrebbe cambiati, ma non subito, non ancora. Doveva avere preso ben più di novantasei dollari per quell'arma, tra l'altro. Lentamente, Wexford ammise: — Credo che tu abbia ragione. Il gesto gentile, ospitale, sarebbe stato un'offerta per dare un tetto a Nicholas Virson. Forse Daisy l'aveva fatta, e l'offerta era stata declinata. Per lo stesso motivo, forse, per cui Virson già una volta aveva rifiutato di fermarsi per la notte? Ma le cose erano cambiate, ora. Il poveretto non aveva dove andare. Nel cielo di Daisy, però, quella stella stava calando, per quanto vividamente avesse brillato un tempo, quando aveva provocato quello sguardo adorante. Thanny Hogarth l'aveva sloggiata. Che cosa sei, tu, quando sorge la luna? Era un comportamento normale, per una persona di quell'età: Daisy aveva solo diciotto anni. Ma era accaduta una tragedia, la madre di Nicholas era morta, la casa era stata distrutta dalle fiamme. Daisy doveva avergli offerto ospitalità e la sua offerta, semplicemente a causa dell'esistenza di Thanny Hogarth, era stata respinta. Finché non avesse trovato qualcosa di più permanente, Virson aveva preso alloggio all'Olive and Dove. Wexford lo trovò al bar. Dove avesse acquistato l'abito scuro che indossava, Wexford non riusciva a immaginarlo. Sembrava lugubre, solitario e molto più vecchio di quando lo aveva visto la prima volta in ospedale: un individuo triste che aveva perso tutto. All'avvicinarsi di Wexford, stava accendendosi una sigaretta, e fu a quel gesto che subito fece riferimento. — Avevo smesso otto mesi fa. Ero in vacanza con mia madre a Corfù. Il momento sembrava indicato, niente stress e via dicendo. È strano, ma quando dicevo che niente m'avrebbe fatto rico minciare, non potevo certo prevedere tutto questo. Oggi ne avrò già fumate venti. — Vorrei parlare di nuovo con lei di martedì sera, signor Virson. — Per amor del cielo, ma è proprio necessario? — Non le farò domande, le dirò io qualcosa. Lei dovrà solo confermare o negare, e non credo che negherà. Lei era a Tancred House. Lo sguardo dei tristi occhi azzurri vacillò. Virson aspirò una lunga boccata dalla sigaretta, come un fumatore che abbia arrotolato qualcosa di più forte del tabacco. Dopo un'esitazione, diede la classica risposta di coloro che Wexford avrebbe definito come possibili criminali. — E quand'anche?
Se non altro non era: — Potrei anche esserci andato. — Lungi dal "gironzolare in macchina", lei si è diretto subito là. La casa era deserta. Daisy era uscita e non c'erano agenti di polizia. Ma lei questo lo sapeva, sapeva già quello che avrebbe trovato. Dove abbia parcheggiato l'auto, non lo so: sono tanti, i punti dove sarebbe rimasta nascosta a chi arrivava dal viale principale o dalla secondaria. — Ha aspettato. Sicuramente aveva freddo e si annoiava, ma aspettava. Non so quando siano rientrati, Daisy e quel giovanotto, Hogarth, o come siano tornati. Se nel furgone di lui o nell'auto di lei: una delle auto. Ma sono tornati, alla fine, e lei li ha visti. — Poco prima di mezzanotte — mormorò Virson nel suo bicchiere. — Ah. Borbottava ora, aggrondato. — Lei è tornata poco prima di mezzanotte. Alla guida c'era un tizio giovane, con i capelli lunghi. — Virson sollevò la testa. — Guidava l'auto di Davina. — È di Daisy, ora — gli fece notare Wexford. — Non è giusto! — Virson calò un pugno sul tavolo e il barman si voltò. — Cosa? Che usi l'auto di sua nonna? Ma la nonna è morta. — No. Non alludevo a questo. Dicevo, lei è mia. Eravamo fidanzati, praticamente. Diceva che mi avrebbe sposato, "un giorno". Lo disse il giorno che uscì dall'ospedale e venne a stare da noi. — Queste cose capitano, signor Virson. Daisy è molto giovane. — Sono entrati in casa insieme. Lui le teneva un braccio intorno, maledetto. Un tipo con i capelli lunghi fin sulle spalle e con la barba di due giorni. Sapevo che non sarebbe uscito di là per quella notte: come, non lo so, ma lo sapevo. Non c'era scopo di continuare ad aspettare. — Forse è stato un bene, per lui, non uscire di là. Virson gli lanciò un'occhiata di sfida. — Forse. Wexford credeva almeno a una parte, e pensava di poter facilmente credere a tutto. Credere ma non provare. Era quasi in porto, a ogni modo, molto vicino a sapere che cos'era successo l'11 marzo, conosceva il movente e il nome di uno dei due che avevano agito. Appena tornato a casa, avrebbe telefonato a Ishbel Macsamphire. La posta era arrivata tardi, dopo che lui era uscito per andare al lavoro. Tra le altre cose c'era un pacchetto da parte di Amyas Ireland. Conteneva il nuovo romanzo di Augustine Casey, La sferza, ancora in bozze. Amyas scriveva che quella copia in bozze era una delle cinquecento che la Car-
lyon Quick stava pubblicando, quella di Wexford era la numero 350, e gli consigliava di tenerla da conto, perché un giorno poteva avere un valore. Specialmente se lui fosse riuscito a farvi apporre la firma da Casey. Amyas aveva ragione, vero, di ritenere che Casey fosse amico della figlia di Wexford? Wexford soffocò l'istinto di scagliarla nel fuoco che Dora aveva acceso. Che motivi aveva di prendersela con Casey? Nessuno. Una volta che Sheila avesse superato il peggio, quell'individuo aveva fatto un favore a tutti loro. Provò a fare il numero di Edinburgo, ma non rispondeva nessuno. La signora era fuori e forse non sarebbe tornata prima delle dieci, o delle dieci e mezzo. Se una persona era fuori alle otto, si poteva dare quasi per certo che prima delle dieci passate non sarebbe rientrata. Avrebbe ingannato il tempo con il libro di Casey. Quand'anche la signora Macsamphire avesse risposto sì a tutte le sue domande, era un particolare talmente piccolo cui aggrapparsi, talmente fragile in sé... Lesse La sferza, o almeno tentò. Dopo un po' si rese conto che non aveva capito niente, e non perché la sua attenzione fosse altrove: semplicemente, perché lo trovava incomprensibile. Per buona parte era in versi e il resto sembrava una conversazione tra due persone senza nome, probabilmente ma non sicuramente uomini, i quali erano tremendamente preoccupati per la scomparsa di un armadillo. Provò a leggere la fine, non venne a capo di niente, e nello scorrere all'indietro le pagine vide che i versi alternati a discorsi sull'armadillo persistevano in tutto il libro, salvo una pagina coperta di equazioni algebriche e un'altra che conteneva la singola parola "merda" ripetuta cinquantasette volte. Dopo un'ora rinunciò e salì a cercare il libro di Davina sugli alberi, che stava sul suo tavolino da notte. Come segnalibro, si accorse d'avere usato la guida della città di Heights, nel Nevada, che gli aveva dato Sheila, la città in cui Casey doveva fare, e sicuramente già faceva, ormai, il conferenziere-ospite presso l'università. Se non altro, Sheila non doveva più andarci. Strana faccenda, l'amore. Lui l'amava, e di conseguenza avrebbe dovuto desiderare tutto ciò che lei desiderava per sé: stare con Casey, seguirlo anche in capo al mondo. E invece no. Era sopraffatto dalla contentezza perché quello che lei desiderava le era stato negato. Sospirò e sfoglio il dépliant, guardando le vedute a colori di foresta e montagna, un lago, una cascata, il centro cittadino con un campidoglio dalla cupola dorata.
La pubblicità era più divertente. C'era, per esempio, una ditta che faceva scarpe su ordinazione "in tutti i colori radiosi dell'arcobaleno". Coram Clark, Inc, era un armaiolo di Reno, Carson City e Heights. Vendeva armi d'ogni genere, tanto che Wexford leggeva, sgranando gli occhi. Fucili, doppiette, pistole, fucili ad aria compressa, munizioni, silenziatori, mirini, polvere da sparo. L'intero campionario Browning, Winchester, Luger, Beretta, Remington e Speer. Comprava a prezzi ottimi armi usate. Comprava, vendeva, smerciava, riparava. In alcuni stati americani, non occorreva il porto d'armi, potevi portarti una pistola in macchina, purché la tenessi bene in mostra sul sedile. Wexford si ricordò quello che Burden aveva detto sugli studenti, ai quali era stato dato il permesso senza limiti di procurarsi un'arma per auto-difesa, quando era corsa voce che in un campus si aggirasse un pluriomicida... C'era la pubblicità per il miglior popcorn dell'Ovest e un'altra per targhe d'auto personalizzate, in colori iridescenti. Wexford tornò a infilare l'opuscoletto tra le pagine del libro e lesse per una mezz'ora. Verso le dieci, provò a rifare il numero di Ishbel Macsamphire. Naturalmente, non poteva telefonarle oltre le dieci di sera. Era una regola alla quale cercava di attenersi, quella di non telefonare dopo le dieci di sera. Mancavano due minuti alle dieci e qualcuno stava suonando il campanello. La regola di non telefonare dopo le dieci si applicava anche al non fare visita, secondo Wexford. Bah, alle dieci mancavano ancora un paio di minuti. Dora andò ad aprire prima che lui potesse impedirglielo. Non gli sembrava saggio che una donna andasse da sola ad aprire la porta, di sera. Non era un atteggiamento sessista, era prudenza, almeno fino al giorno in cui tutte le donne si fossero prese il disturbo, come Karen, di imparare una delle arti marziali. Si alzò e andò fin sulla porta del soggiorno. Una voce di donna, molto sommessa. Tutto a posto, allora. Una donna, probabilmente per una colletta. Tornò a sedersi, aprì il volume alla pagina del dépliant e lo sguardo gli cadde ancora una volta sulla pubblicità dell'armaiolo. Coram Clark, Inc... Uno di quei nomi lo aveva udito di recente in qualche altro contesto. Clark era un nome comune. Ma Coram che nome era mai? Coram, lo ricordava dai tempi andati della scuola, quando il latino era obbligatorio, voleva dire "a causa di" ...no, "in presenza di". C'era un aiuto mnemonico che s'imparava, formato di preposizioni che reggevano l'ablativo:
a, ab, absque, coram, de, Palam, clam, cum ex e e... Incredibile, ricordarsene ancora dopo tutti quegli anni. E ricordava anche il resto. Sine, tenus, pro e prae... Dora venne dentro seguita da un'altra donna. Era Sheila. La figlia lo guardò, Wexford guardò lei e disse: — Come sono felice di vederti. Sheila corse da lui e gli gettò le braccia al collo. — Sto da Sylvia. Ho capito male la sera della festa e sono arrivata ieri. Ma, papà, che casa stupenda! E cosa gli è preso, a tutti e due, di abbandonare finalmente i sobborghi? Io l'adoro ma ho pensato di strapparmi via di là e di venire a farvi una sorpresa. Alle dieci di sera. Tipico di Sheila. — Stai bene? — le domandò. — Be', no. Non sto bene affatto. Sono un rottame. Ma mi passerà. Lui poteva vedere il libro di Casey abbandonato su uno dei cuscini del sofà. Il nome di Casey non era in lettere vistose come sarebbe forse stato sulla copia rilegata, ma l'insieme si leggeva ugualmente. La Sferza di Augustine Casey, bozze da correggere, probabile prezzo nel Regno Unito L. 14,95. — Scusami, Papà, per tutte le cose orribili che ho detto. — Io ne ho dette di peggiori, e me ne dispiace. — Vedo che hai lì il libro di Gus. — C'era una luce, negli occhi di Sheila, a ricordargli l'adorazione che lui tanto aveva detestato leggervi, la devozione affascinata, servile. — Ti è piaciuto? Che importanza aveva, ormai? Quell'individuo se n'era andato. Avrebbe mentito per essere gentile. — Sì, ottimo. Molto bello. — Per conto mio, non ho capito una parola — disse Sheila. Dora scoppiò a ridere. — Per amor del cielo, beviamo qualcosa. — Se beve dovrà fermarsi qui, stanotte — disse Wexford il poliziotto. Sheila rimase anche per la prima colazione, poi se ne tornò al Vecchio Rettorato. Era passata da un pezzo l'ora in cui Wexford soleva recarsi al lavoro, ma voleva parlare con la signora Macsamphire prima di uscire di casa. Per qualche ragione che lui stesso non sapeva spiegarsi, voleva parlarle da lì, non dalle stalle o dalla macchina, col suo telefonino. Se più tardi delle dieci di sera non stava bene telefonare, non stava bene neppure prima delle nove del mattino. Aspettò che Sheila se ne andasse,
fece il numero e parlò con una giovane donna dal marcato accento scozzese, la quale disse che Ishbel Macsamphire era in giardino e se poteva farlo richiamare. Wexford questo non lo voleva. La signora poteva essere di quelli che deplorano ogni centesimo speso per telefonate interurbane, o che sono costretti a deplorarlo. — Le spiacerebbe domandarle se può dedicarmi qualche momento subito? Mentre aspettava, accadde qualcosa di strano. Rammentò con assoluta chiarezza chi aveva lo stesso nome di un armaiolo del Nevada, chi si chiamava Coram di secondo nome. 26 Ci mise tutta la giornata, perché non poté cominciare fino a pomeriggio avanzato. Tutta la giornata e metà della notte perché, quando era mezzanotte a Kingsmarkham, nella parte più occidentale degli Stati Uniti erano solo le quattro del pomeriggio. Il giorno seguente, dopo quattro ore appena di sonno e abbastanza telefonate transatlantiche da far venire un infarto a Freeborn, stava guidando lungo la Biventiquattroventotto verso il cancello principale di Tancred. Di notte aveva fatto molto freddo, sul muro e sui pilastri si era formato come un velo argenteo e un biancastro luccichio di brina delineava il fogliame e i rami che ancora erano spogli. Ma il gelo se n'era andato, ormai, dissolto dal tepore primaverile, e il sole splendeva alto nel cielo limpido. Più o meno come nel Nevada. Di giorno in giorno gli alberi si facevano più rigogliosi. La patina di verde si era fatta più intensa, era diventata come un velo, e il velo era adesso un manto vivido. Tutta la tristezza dell'inverno veniva coperta dal verde, sudiciume e danni venivano nascosti via via che la crescita del fogliame faceva sparire i detriti che si erano accumulati. Un quadro cupo e lugubre, una grigia litografia, vedeva riempire a poco a poco i suoi spazi da un pennello intinto in un tenero verde. La foresta alla sua destra e i boschi alla sua sinistra non erano più masse scure ma un variegato fremere di verzura che il vento agitava, sollevando rami e facendoli oscillare tra fiotti di luce. Una macchina era parcheggiata più avanti, vicino al cancello. Non una macchina, un furgone. Wexford riusciva a distinguere la figura di un uomo, che sembrava intento a legare qualcosa al pilastro del cancello. Si avvicinarono lentamente. Donaldson fermò l'auto e scese per andare ad aprir-
lo, il cancello, fermandosi nel farlo a esaminare la confezione di fiori azzurri, verdi e viola di cui quell'ultima offerta era composta. L'uomo era tornato al suo furgone. Wexford scese dalla macchina e si avvicinò, passando per forza di cose dietro il furgone allo scopo di parlare con l'uomo che ora sedeva al volante. Questo gli permise di vedere il mazzo di fiori dipinto sulla fiancata del veicolo. Il conducente era un giovane, poco più che trentenne. Abbassò il finestrino. — Posso esserle utile? — Sono l'ispettorecapo Wexford. Posso sapere se tutti i fiori sul cancello sono stati portati da lei? — Per quel che ne so. Altri, forse, avranno portato tributi floreali, però non mi risulta. — È un ammiratore dei libri di Davina Floris, lei? — Mia moglie lo è. Io non ho tempo di leggere. Wexford si domandò quante altre volte avesse sentito fare asserzioni del genere. Specialmente in campagna, un certo tipo d'uomo trovava molto mascolino negare certi interessi. Meglio dare la colpa alla moglie. Leggere, specie romanzi, era un'occupazione da donne. — Perciò quei fiori sono stati tutti tributi da parte di sua moglie? — Eh? Vorrà scherzare! Sono la mia campagna pubblicitaria, no? Mia moglie scriveva le frasi da mettere sui biglietti. Sembrava un posto adatto, con quel continuo andirivieni. Fagli gola e, quando cominciano a incuriosirsi ben bene, digli dove possono ordinare qualcosa di simile per sé. Dico bene? E adesso, se vuole scusarmi, devo fare una consegna al crematorio. Wexford lesse l'etichetta sul bouquet a ventaglio formato da iris, astri, viole e non-ti-scordar-di-me, una vera coda di pavone. Niente citazioni da poeti, stavolta, né versi di Shakespeare, ma: Anther Florets, Primo piano, Kingsbrook Centre, Kingsmarkham e un numero di telefono. Burden, quando Wexford glielo disse, commentò: — Questo si chiama spirito d'iniziativa, eh? Un po' costosa, come iniziativa. Darà mai i suoi frutti? — Li ha già dati, Mike. Ho visto Donaldson annotarsi l'indirizzo di nascosto. E ricorderai sicuramente quanti hanno detto di desiderare di poter offrire fiori come quelli. Hinde, per dirne un altro. Tu stesso. Li volevi per il tuo anniversario di matrimonio o qualcosa del genere. Alla faccia delle mie speculazioni sentimentali. — Quali speculazioni sentimentali?
— Ero arrivato perfino a immaginare che venissero da qualche nonnino che era stato amante di Davina nel lontano passato. Poteva essere perfino il padre di Naomi. — Si rivolse a Karen che passava in quel momento. — Oggi possiamo imballare tutta questa roba e prepararci a levare le tende. Il signor Graham Pagett può riprendersi tutta la sua tecnologia con vivi ringraziamenti da parte della Polizia Investigativa di Kingsmarkham. Ah, e una gentile lettera per ringraziarlo d'avere fatto la sua parte nella lotta contro il crimine. — Hai trovato la soluzione — disse Burden. Era una constatazione, non una domanda. — Sì. Finalmente. Burden lo guardò accigliato. — Non la dici a me? — È una bella giornata. Vorrei andar fuori da qualche parte, a godermi il sole. Può accompagnarci Barry. Andremo con la macchina in qualche punto in mezzo ai boschi... ma molto lontano dall'albero dell'impiccagione. Quello mi dà i brividi. Il suo telefonino cominciò a mandare i suoi bip. La scarsa pioggia caduta aveva fatto ben poco per ammorbidire il terreno. Una pista scavata dalle ruote della Land Rover di Gabbitas si perdeva nel folto, mostrando segni di pneumatici lasciati forse lo scorso autunno. Vine avviò l'auto lungo quel sentiero, procedendo con cautela. Quella era la parte nord-orientale dei boschi di Tancred, la pista andava verso nord, allontanandosi dalla strada secondaria, poco distante dal punto dove Wexford aveva visto Gabbitas e Daisy fermi l'uno accanto all'altra, la mano di lei sul braccio del giovane. E mentre la macchina seguiva quella pista a zigzag attraverso un'interruzione fra l'ammasso dei carpini, davanti a loro si aprì la grande distesa di un prato verde. Quella strada erbosa, aperta tra il bosco centrale e quello orientale, offriva una lunga veduta, un canyon o un tunnel scoperchiato tra il verde, al termine del quale c'era solo l'azzurro abbagliante del cielo. A quell'estremità e per tutta la distanza tra due mura di alberi, il sole inondava le zolle vellutate, le ombre essendo quasi inesistenti poiché era ormai mezzogiorno. Wexford, che ricordava le figure intraviste quella sera, l'aria di qualcosa di romantico che aveva pervaso la scena, disse: "Fermiamoci qui. È una bella vista." Vine mise il freno a mano e il motore si spense. Il silenzio era rotto dal
cinguettio metallico e poco musicale degli uccelli fra i tigli giganteschi, antichi superstiti dell'uragano. Wexford abbassò il finestrino. — Ora sappiamo che gli assassini che sono venuti qui l'11 marzo non sono arrivati in macchina. Sarebbe stato impossibile, in tal caso, che passassero inosservati. Non vennero né in macchina, né con un furgone e neppure in motocicletta. Noi abbiamo ritenuto il contrario, e l'abbiamo ritenuto basandoci su un buon indizio. Penso di poter dire che chiunque, al posto nostro, sarebbe partito da quel presupposto. E tuttavia, ci sbagliavamo. Vennero a piedi. Uno dei due, per lo meno. Burden gli rivolse un'occhiata penetrante. — No, Mike, le persone coinvolte erano due. E non venne usato alcun veicolo a motore né altro genere di mezzo di trasporto. Anche l'ora, l'abbiamo saputa fin dall'inizio. Ad Harvey Copeland spararono qualche minuto dopo le otto, diciamo due o tre, alle due donne e a Daisy forse alle otto e sette. La fuga avvenne alle otto e dieci o forse un minuto prima, ora in cui Joanne Garland era ancora lungo la strada di Tancred. — Lei arrivò alla villa alle otto e undici. Quando l'assassino si dileguò, lei probabilmente stava per imboccare il viale d'accesso. Mentre lei suonava e picchiava sull'uscio, mentre cercava di guardar dentro dalla finestra della sala da pranzo e faceva tutte quelle cose, tre persone erano già morte. E Daisy stava strisciando sul pavimento della sala da pranzo e dell'anticamera per arrivare al telefono. — Non sentì il campanello? — Era convinta di stare per morire, ispettore — disse Vine. — Credeva di morire dissanguata. Forse lo sentì, forse non se lo ricorda. — Sarebbe sbagliato — obiettò Wexford — dare molto credito a quello che Daisy disse sull'accaduto. Per esempio, è inverosimile che qualcuno attribuisse alla gatta i rumori che venivano dall'alto quando, di norma, la gatta si scatenava verso le sei, non alle otto. È da escludere, perciò, che sua nonna suggerisse che a far rumore era la gatta. Dovremmo anche ignorare tutto quello che Daisy disse sull'auto della fuga. — Ma lasciamo per un attimo questi elementi circostanziali e addentriamoci in un'area più speculativa. Il movente dell'uccisione di Andy Griffin fu certo quello di ridurlo al silenzio dopo che aveva fatto un tentativo di ricatto. Qual era il movente per assassinare Joyce Virson? — L'esecutore pensava che Daisy sarebbe stata nella casa quella notte. — E tu ci credi, Mike? — Be', Joyce Virson non lo stava certo ricattando — disse Burden con
un sorriso, che si affrettò a cambiare in un cipiglio avendo deciso che fosse fuori luogo. — Abbiamo convenuto che mirasse a Daisy. Doveva mirare a Daisy. — Sembra un modo un po' tortuoso di fare le cose — osservò Wexford. — Perché prendersi il disturbo di organizzare un incendio a scoppio ritardato, a rischio di uccidere altri, quando Daisy per la maggior parte del tempo era totalmente sola, a Tancred, e facilmente raggiungibile? Per ordine di Freebee non era più protetta, di notte, e le stalle erano deserte. Io non ho mai creduto che l'incendio di Le Stoppie fosse destinato a uccidere Daisy. — Era destinato a uccidere qualcuno, ma non Daisy. — Wexford tacque e guardò dall'uno all'altro con aria meditabonda. — Ditemi, che cos'hanno in comune Nicholas Virson, John Gabbitas, Jason Sebright e Jonathan Hogarth? — Sono tutti maschi, tutti giovani — prese a elencare Burden — parlano tutti la stessa lingua... — Vivono tutti nei dintorni. Due sono americani, o in parte americani. — Tutti bianchi, tutti della borghesia, tutti bei ragazzi o gran bei ragazzi... — Sono tutti ammiratori di Daisy — disse Vine. — Esatto, Barry. Ci sei. Virson è innamorato di lei, Hogarth è interessatissimo e Gabbitas e Sebright, credo, sono considerevolmente attratti. È una ragazza attraente, una bella ragazza, niente di strano che abbia tanti ammiratori. Un altro era Harvey Copeland, piuttosto vecchio per lei, anzi, abbastanza per essere suo nonno, ma sempre un bell'uomo per la sua età, che un tempo faceva strage tra le studentesse. Ed era un vero asso a letto, a sentire Davina. Burden stava facendo la faccia da puritano, bocca abbassata agli angoli e sopracciglia aggrottate. L'espressione impenetrabile di Vine non cambiava. — Sì, so che l'idea del vecchio Harvey che iniziava sessualmente Daisy è disgustosa. Disgustosa e anche un po' scherzosa, se vogliamo. Non vi fu alcuna coercizione, probabilmente nemmeno molta persuasione. Solo un suggerimento, diciamo. Sembra di sentirla, Davina, che diceva: "Era solo un'idea, mia cara." Soltanto un monomaniaco con idee di vendetta molto diverse da quelle della maggior parte della gente avrebbe deciso di regolare i conti con Harvey Copeland. E chi, a ogni modo, poteva esserne a conoscenza? — Il padre lo sapeva — disse Burden. — Joanne Garland glielo aveva
scritto. — Sì. E senza dubbio Daisy con qualcuno ne aveva parlato. All'uomo che l'amava, lo avrebbe detto. A me, tuttavia, non lo disse. Ho dovuto apprenderlo dalla migliore amica di sua madre. Trasferiamoci a Edinburgo, ora, d'accordo? — L'involontario sguardo che Burden lanciò oltre il finestrino fece ridere Wexford. — Non alla lettera, Mike. Vi ho portato già abbastanza distante, per una mattinata. Immaginiamo di trovarci a Edinburgo, al Festival, durante l'ultima settimana di agosto e la prima di settembre. "Davina andava sempre al Festival di Edinburgo. Proprio come andava a Salisburgo e a Bayreuth, a Glyndebourne e a Snape. Ma l'anno scorso c'era il Festival del Libro, come avviene ogni due anni, e lei doveva parlare sull'argomento degli autobiografi e inoltre prendere parte a una riunione letteraria. Naturalmente, Harvey l'accompagnava, e lei si portò dietro anche Daisy e Naomi. "Stavolta si portarono anche Nicholas Virson. Lui certo non era un fanatico delle arti ma non era quella, naturalmente, la sua ragione per andarci. Voleva soltanto stare con Daisy. Ne era innamorato e coglieva tutte le occasioni per starle vicino. "Non soggiornarono da Ishbel Macsamphire, un'antica compagna di studi di Davina, però andarono a trovarla, o ci andarono Davina e Harvey. Naomi era in albergo malata e Daisy aveva le sue occupazioni personali. Senza dubbio Davina parlò a Ishbel delle sue speranze per Daisy, accennando, non sappiamo in che termini ma possiamo immaginarlo, al fatto che la nipote aveva ora un ragazzo, Nicholas. "Poi, un giorno la signora Macsamphire vide Daisy dall'altro lato della strada, insieme al ragazzo. Non erano abbastanza vicine perché vi fossero delle presentazioni, ma sicuramente la signora fece un cenno di saluto e Daisy lo ricambiò. Soltanto al funerale ebbero occasione di incontrarsi di nuovo. Per caso udii la signora Macsamphire dire a Daisy che non si erano più riviste dal Festival, 'quando ti vidi insieme al tuo giovanotto'. Naturalmente, pensai che alludesse a Nicholas. Ho sempre creduto che parlasse di Nicholas." — Invece no? — Joanne Garland mi disse d'avere incontrato Nicholas Virson per la strada, alla fine di agosto, e d'essere stata tentata di parlargli della faccenda dell'iniziazione sessuale con Copeland. In realtà non lo fece, ma questo adesso non ha importanza. In seguito, Virson mi disse che lui e sua madre erano a Corfù verso la fine di agosto. Ora, niente di tutto questo voleva dir
molto. Lui poteva trovarsi a Kingsmarkham e il giorno dopo essere già a Corfù, ma era del tutto inverosimile che contemporaneamente fosse anche a Edinburgo. — Gliel'hai domandato? — s'informò Burden. — No, ho domandato alla Macsamphire. Le ho domandato se era un giovanotto biondo, quello che aveva visto quel mattino con Daisy, e lei ha risposto di no, che era bruno, e un gran bel ragazzo. Wexford fece una pausa, poi disse: — Vogliamo scendere a fare due passi? Ho voglia di arrivare fino in fondo a questa specie di viale e vedere che cosa c'è al termine. Fa parte della natura umana, vero?, voler sempre sapere che cosa c'è al termine. Lo scenario sul quale aveva fantasticato assunse una nuova forma. Vide la sequenza riformarsi all'atto in cui scese dall'auto e cominciò a camminare lungo l'ampio sentiero erboso. I conigli avevano mangiato l'erba raso terra, tanto che il prato sembrava falciato di fresco. L'aria era dolcissima e mite, profumata da qualcosa di fresco e di vagamente dolce. Sui ciliegi, tra le foglioline color rame ancora accartocciate, spuntavano i primi boccioli. Si rivide davanti la tavola apparecchiata, la donna che vi giaceva sopra con la testa in un piatto di sangue, la figlia di fronte, riversa, la ragazza che strisciava al suolo, sanguinante. Qualcosa di simile a una ribobinatrice lo riportò indietro di un minuto, due, tre, fino ai primi rumori nella casa, i rumori creati deliberatamente mentre venivano rovesciati oggetti nella camera di Davina, dove i gioielli erano già stati portati via durante il giorno... Burden e Vine gli camminavano accanto in silenzio. La fine del canyon nel verde andava via via avvicinandosi ma senza che si aprissero ulteriori vedute di boschi o di ampi sentieri di prato. Era come se al di là potesse esservi il mare, o l'orlo di una rupe, da cui poter solo precipitare nel vuoto. — Erano in due — riprese — ma uno soltanto s'introdusse nella villa. Arrivò a piedi ed entrò dalla porta di servizio verso le otto meno cinque, ben informato. Conosceva la strada e sapeva perfettamente quello che avrebbe trovato. Portava i guanti e aveva con sé l'arma che aveva acquistato da Andy Griffin, il quale l'aveva raccattata nella banca dopo che Martin era stato ucciso. "Forse, senza quell'arma non avrebbe mai pensato di fare una cosa del genere. Ma aveva la pistola e perciò doveva usarla. Fu quella pistola a dargli l'idea. La canna l'aveva già cambiata, sapeva tutto in proposito, sapeva come fare, avendolo fatto fin da ragazzino. "Armato della pistola contenente le cinque cartucce rimaste, si introdus-
se nella villa e salì, dalla scala di servizio, per mettere in atto il piano di buttare all'aria la camera di Davina. Da basso lo sentirono e Harvey Copeland andò a vedere, ma nel frattempo l'uomo con la pistola era sceso dalla scala di servizio e stava avvicinandosi all'atrio dal corridoio che portava fin lì dalle cucine. Harvey, ai piedi della scala, si girò nell'udire dei passi e l'altro gli sparò, per cui lui cadde all'indietro su quei primi gradini." — Perché gli sparò due colpi? — domandò Vine. — Secondo l'autopsia fu il primo colpo a ucciderlo. — Ho detto qualcosa, poco fa, su un monomaniaco con idee di vendetta tutte particolari. L'uomo sapeva che cosa era stato proposto per Harvey Copeland e Daisy. Sparò due volte al marito di Davina per odio dettato dalla gelosia, volendo vendicarsi di tanta temerarietà. "Proseguì poi verso la sala da pranzo dove sparò a Davina e a Naomi. Infine, sparò a Daisy. Non per ucciderla, soltanto per ferirla." — Perché? — disse Burden. — Perché ferirla soltanto? Che cosa era sopravvenuto a disturbarlo? Sappiamo che non era il rumore fatto dalla gatta al piano di sopra. Hai detto che la fuga è avvenuta alle otto e dieci o poco meno, mentre Joanne Garland stava ancora venendo su dalla strada principale, ma in un certo senso fu una fuga per modo di dire. Qualcuno si allontanò a piedi. Non fu Joanne che bussava alla porta d'entrata a farlo scappar via dalla porta di servizio? — Se fosse stata lei — osservò Vine — avrebbe anche sentito gli spari. L'ultimo, per lo meno. L'uomo se ne andò perché non aveva più cartucce nell'arma. Non poteva sparare di nuovo alla ragazza, dopo averla mancata la prima volta. Il verde percorso era arrivato al termine, che in un certo senso era una rupe, un precipizio. I margini della foresta, i prati al di là, le basse colline in distanza, digradavano via sotto di loro. Un enorme banco di cumuli si levava dall'orizzonte, ma ancora molto distante dal sole, troppo per diminuirne l'intensità. Si fermarono a contemplare un poco il panorama. — Daisy strisciò fino al telefono e formò il 999 — disse Wexford. — Era sofferente e in preda al terrore, temeva per la sua vita, ma era anche in uno stato di angoscia mentale. In quei minuti avrà forse temuto di morire, ma l'avrà anche desiderato. Per lungo tempo, in seguito, giorni, settimane, desiderò di morire, non avendo niente per cui vivere. — Aveva perso tutta la sua famiglia — disse Burden. — Oh, Mike, questo non aveva niente a che vedere — disse Wexford con un improvviso scatto d'impazienza. — Che cosa gliene importava del-
la famiglia? Niente. Per la madre provava lo stesso disprezzo che nutriva Davina, una povera creatura pallida che aveva fatto un matrimonio insulso, non si era creata una carriera, aveva continuato a dipendere dalla madre per tutta la vita. Per Davina credo che avesse un vero odio, detestava quel volerla dominare, quei piani per l'università e i viaggi, quel decidere lei che cosa Daisy dovesse studiare, quel volerle organizzare perfino la vita sessuale. Harvey Copeland doveva considerarlo con un misto di ridicolo e di ripugnanza. No, disprezzava tutti i suoi parenti prossimi e non provava alcun dolore per loro, ormai che erano morti. — Eppure soffriva. Tu me lo dicevi, che raramente avevi visto un dolore come il suo. Non faceva che piangere, sospirare e desiderare di morire. L'hai appena detto. Wexford assentì. — Ma non per avere assistito al brutale assassinio di tutta la sua famiglia. Soffriva perché l'uomo che amava e dal quale si credeva amata aveva sparato anche a lei. L'uomo che lei amava, la sola persona al mondo che amasse, e che, ne era convinta, avrebbe rischiato qualsiasi cosa per amor suo, aveva tentato di ucciderla. Ecco quel che credeva lei. "Mentre si trascinava verso il telefono, in quei minuti, il mondo intero era andato all'aria, per lei, perché l'uomo di cui era appassionatamente innamorata aveva tentato di fare a lei quello che aveva fatto agli altri. E continuò a disperarsi... per questo. Era sola, abbandonata, prima in ospedale, poi con i Virson, infine sola nella casa che ormai le apparteneva, e lui non si metteva mai in contatto, non tentava neppure, non tornava più da lei. Non l'aveva mai amata, aveva desiderato di ucciderla. Sfido che disse a me, in tono melodrammatico: 'Il dolore è nel mio cuore.'" Mentre le nuvole salivano a coprire il sole e, subito, l'atmosfera cambiava, s'incamminarono per tornare verso la macchina. Il freddo subentrò immediato, una gelida brezza d'aprile che rendeva l'aria tagliente. Arrivati all'auto vi salirono e tornarono indietro dalla strada secondaria, passando poi sul davanti della villa. Molto lentamente, Vine andò a fermarsi sul tratto lastricato. La gatta era sul bordo di pietra della vasca, con uno dei pesci tra le zampe. Il pesce dalla testa rossa si agitava e sbatteva, torcendo il corpo da un lato e dall'altro. Queenie si divertiva a dargli colpetti con la zampa che non era impegnata a tenerlo fermo. Vine stava già per uscire dalla macchina ma la gatta era troppo veloce per lui. Non per niente era gatta, e lui soltanto un uomo. Afferrò in bocca il pesce che si dimenava e corse verso la porta d'entrata che era soltanto socchiusa.
Qualcuno, dall'interno, la chiuse dietro di lei. 27 Gran parte della tecnologia se n'era andata. Erano spariti la lavagna e i telefoni. I due uomini mandati da Graham Pagett stavano portando via il computer e la stampante a laser di Hinde. Qualcun altro stava trasportando un vassoio con sopra delle piante grasse in vaso. Un'estremità delle stalle era già ritornata quello che era un tempo: il rifugio privato di una ragazza. Wexford non l'aveva mai visto così. Non aveva mai visto quello che Daisy aveva, lì, il gusto che aveva presieduto all'arredamento, il genere di quadri che lei aveva alle pareti. Un poster di Klimt, con vetro e cornice, mostrava un nudo in drappeggi dorati e trasparenti; un altro era di gatti, una famigliola di micini persiani riuniti dentro un cesto foderato di raso. I mobili erano di vimini, verniciati in bianco e corredati di graziosi cuscini di cotone a quadretti bianchi e azzurri. Gusto suo, o scelti da Davina per lei? Una pianta, che nessuno aveva pensato a bagnare, se ne stava ammosciata dentro un vaso cinese bianco e blu. I libri erano tutti romanzi vittoriani, le copertine intatte, sicuramente mai letti, e saggi su una varietà di soggetti dall'archeologia all'attuale politica europea, dalla filologia ai lepidotteri inglesi. Tutti scelti da Davina, pensò Wexford. L'unico che aveva l'aria d'essere stato tolto qualche volta dallo scaffale era un album: Fotografie dei gatti più belli del mondo. Fece segno a Burden e a Vine di accomodarsi nella piccola area-salotto che era stata creata dal trasloco in corso. Per l'ultima volta era arrivato il furgone dei pasti, all'esterno, ma quello poteva aspettare. Wexford, furente con se stesso, stava di nuovo ripensando a quel che Vine aveva intuito e detto soltanto un paio di giorni dopo gli omicidi. — Erano in due — disse Burden. — Non hai fatto che ripetere che erano in due, ma ne hai nominato uno solo. Il che lascia un'unica conclusione, per quello che posso vedere io. Wexford gli scoccò un'occhiata penetrante. — Sì? — L'altro era Daisy. — Ma certo che era lei — confermò Wexford, con un sospiro. — Erano in due, Daisy e l'uomo che lei amava — continuò Wexford. — Me lo dicesti tu, Barry. Fin dal principio, lo dicesti, e io non ti diedi retta. — Forse non ne ero proprio convinto — disse Vine.
— Avevi ragione! — È stato fatto per la proprietà, allora? — domandò Burden. — Lei non lo avrebbe mai pensato, se lui non le avesse messo quell'idea in testa. E lui non lo avrebbe fatto se lei non lo avesse spalleggiato. Daisy voleva la libertà, anche. La libertà, la proprietà della casa, il denaro, e poter fare quello che voleva lei, libera da costrizioni. Solo, non sapeva che cosa sarebbe stato, che cosa è l'omicidio, come si presentano le persone una volta uccise. Non sapeva del sangue. Si ricordò improvvisamente le parole di Lady Macbeth. Nessuno le aveva superate, in quattrocento anni, nessuno aveva detto niente di più psicologicamente profondo. Chi penserebbe mai che in un essere umano ci sia tanto sangue? — A me, di bugie ne disse pochissime. Non ne aveva bisogno, come non aveva bisogno di recitare. La sua infelicità era autentica. Non è difficile immaginare che cosa dev'essere, fidarsi completamente di qualcuno, il tuo innamorato, il tuo complice, sapere esattamente che cosa farà lui e quale sarà la tua parte. E poi, ecco che tutto va storto e lui spara anche a te. Non è più lo stesso individuo. Per una frazione di secondo prima che ti colpisca, gli leggi negli occhi non amore ma odio, capisci d'essere stata ingannata fin dal primo momento. "Perciò la sua disperazione era reale - niente di strano che continuasse a ripetere di voler morire e che cosa ne sarebbe stato di lei - finché una sera, mentre era sola qui con Karen, lui tornò. Non sapeva di Karen, e colse la prima occasione per dirle che l'amava, che l'aveva ferita soltanto perché tutto apparisse reale, perché non si potesse sospettare di lei. Aveva sempre avuto intenzione di farlo e sapeva di poterlo fare senza rischi, era un tiratore infallibile, non sbagliava mai. Infatti le aveva sparato alla spalla, per ridurre il rischio al minimo. Ma non avrebbe certo potuto avvertirla, vero? Non poteva comunicarglielo in anticipo, dirle: 'Sparerò anche a te, ma fidati.' "Ma dei rischi lui doveva correrli, vero? Per la proprietà di Tancred, il denaro, i diritti d'autore, perché tutto fosse di loro due e di nessun altro. Telefonarle non poteva, non osava. Alla prima occasione, convinto che fosse sola, venne su a Tancred per vederla. Karen lo udì ma non lo vide. Daisy lo vide. Non era mascherato, quella fu una delle invenzioni di Daisy. Lo vide e senza dubbio, ricordando come l'avesse tradita, come avesse sparato anche a lei, pensò che fosse tornato per ucciderla." Burden obiettò: — Ma il solo fatto di sparare a lei era un rischio tremen-
do. La ragazza poteva rivoltarglisi contro e confessare tutto. — Calcolava che fosse troppo immischiata a sua volta per farlo. Sarebbe bastato che Daisy ci fornisse un indizio affinché potessimo arrestarlo, e lui avrebbe vuotato il sacco anche sul conto di lei. Inoltre contava sul fatto che fosse troppo innamorata per tradirlo. E aveva ragione, no? "Il giorno dopo essere salito quassù col buio, tornò, mentre lei era veramente sola. Le spiegò perché le aveva sparato, le assicurò che l'amava, e lei naturalmente perdonò. Quell'uomo era tutto quel che le rimanesse al mondo, in fin dei conti. E da quel momento diventò una ragazza diversa, felice. Non avevo mai assistito a una simile trasformazione. Nonostante tutto, era radiosa, l'amato le era stato restituito, tutto sarebbe andato bene. Da quell'idiota che sono, io pensai a Virson. Non era così, naturalmente. Lei aveva rimesso in funzione la fontana: riaprirla era stato un modo di festeggiare la ritrovata felicità. "Per un giorno o due l'euforia durò... finché il ricordo di quella sera non ricominciò ad assalirla. La tovaglia arrossata e la faccia di Davina in un piatto di sangue, la sciocca, innocua madre morta, quel povero vecchio di Harvey riverso sui gradini., e quel trascinarsi verso il telefono. "Non era questo, capite, quel che lei aveva inteso. Non poteva immaginare che sarebbe stato così. Durante il piano e le prove, tutto era stato una specie di gioco. Ma la realtà, il sangue, la sofferenza, i cadaveri... lei questo non lo aveva previsto affatto. "Non sto trovandole delle scusanti. Non ce ne sono. Può darsi che non sapesse che cosa stava per fare ma sapeva che tre persone sarebbero state assassinate. Ed era un caso di folie à deux. Non avrebbe potuto farlo senza di lui, ma lui non avrebbe potuto farlo senza di lei. Si erano istigati a vicenda. Guai a chi si arrischia a baciare la figlia del cannoniere." — Quell'espressione — domandò Burden — cosa diavolo significa? L'altro giorno l'ho sentita da qualcuno, non ricordo chi... — Da me — disse Vine. — Che cosa significa? Significa venire frustati. Quando stavano per frustare qualcuno, nella Marina Inglese, prima lo legavano a uno dei cannoni sul ponte. Ecco perché "baciare la figlia del cannoniere" era un'impresa pericolosa. "Non credo lei sapesse che anche Andy Griffin doveva essere eliminato. O, diciamo meglio, che sarebbe stato eliminato perché quel suo amante vedeva nell'uccidere la sola via d'uscita da qualsiasi difficoltà. Qualcuno ti dà fastidio? Uccidilo. Qualcuno guarda la tua ragazza? Uccidilo.
"Non era a Daisy che lui mirava, quando preparò quel marchingegno con la candela e la corda per dare fuoco a Le Stoppie. Mirava a Nicholas Virson. Nicholas osava aspirare a Daisy, osava addirittura pensare che lei potesse realmente sposarlo. Chi avrebbe mai immaginato che Virson, il quale aveva chiesto a Daisy di stare con lui e con sua madre, in realtà quella sera non sarebbe rimasto a casa ma sarebbe andato a Tancred a spiare le mosse di lei? "Daisy assomiglia a sua nonna più di quanto non pensi. Avete notato che non ha amicizie? Non una sola ragazza è salita alla villa in tutto questo tempo... a parte quelle che noi abbiamo messo là. C'era una sola sua coetanea al funerale: una nipote della signora Macsamphire. "Davina aveva qualche amica del suo lontano passato, ma gli amici loro erano tutti di Copeland. Naomi aveva amiche. Daisy non ha una ragazza come lei con cui confidarsi, che possa farle compagnia. Ma uomini? Ci sa fare e come, con gli uomini." Wexford lo disse quasi con mestizia. Per un attimo, si era ricordato di com'era stata abile con lui. — Gli uomini diventano subito suoi schiavi. È interessante notare quanto poco lungimirante fosse Davina Flory, nel pensare di dover fornire a Daisy un amante, come se Daisy non fosse più che in grado di trovarselo da sé. Ma erano entrambe assorte in se stesse, nonna e nipote, e di conseguenza incapaci di vedere al di là del loro naso. "Daisy il suo innamorato lo conobbe a Edinburgo, al Festival. Scopriremo come, alla fine. Forse a qualche spettacolo d'avanguardia, o a un concerto pop. La madre era ammalata e lei senza dubbio sfuggiva a sua nonna tutte le volte che poteva. Ce l'aveva a morte, all'epoca. Il suggerimento di Davina riguardante Harvey doveva bruciarle, e non perché fosse scioccata o scandalizzata, credo, ma perché stava cominciando a odiare sempre più tutta quell'interferenza nella sua vita, quella manipolazione. Sarebbe durato in eterno, quel voler disporre del suo destino? La cosa, invece di migliorare, peggiorava. "Ma ecco che c'era un giovane il quale non aveva alcun riguardo per la famiglia di lei, alcun rispetto per nessuno di loro, qualcuno che doveva esserle apparso come uno spirito libero, indipendente, tutto audacia e grinta. Uno come lei, o come sarebbe stata se fosse stata libera a sua volta. "Di chi fu l'idea? Di lui o di lei? Di lui, credo. Ma forse non sarebbe mai decollata se lui non avesse baciato la figlia del cannoniere. E in seguito le disse: tutto questo potrebb'essere nostro. La villa, i terreni, il denaro. "Era un piano abbastanza semplice e sarebbe stato abbastanza semplice
mandarlo a effetto, sempre che lui fosse stato un buon tiratore. E lo era, un ottimo tiratore. Non aveva un'arma, e quello era un intoppo. Per lui, essere senza un'arma era sempre un ostacolo, un po' come se il suo braccio fosse stato incompleto senza un'arma da stringere nella mano. Discussero, forse, la possibilità che a Tancred ci fosse una doppietta o un fucile? Harvey aveva mai sparato agli uccelli? Davina lo avrebbe permesso?" Burden aspettò prima di parlare. Poi, quando vide Wexford rialzare lo sguardo, domandò: — Cos'accadde, quando tornarono qui? — Non credo che tornassero qui insieme. Daisy tornò, con la sua famiglia. Ricominciò la scuola e forse tutto le sembrò soltanto un sogno, un perverso sogno a occhi aperti che non si sarebbe mai avverato. Ma un giorno lui si rifece vivo. Si mise in contatto con lei e combinarono di vedersi, qui, nelle stalle, dove lei aveva un suo posto privato. Nessuno lo vide, qui non veniva nessuno, a parte Daisy. E allora, erano sempre dell'idea? Quando l'avrebbero messa in pratica? "Non credo che Daisy sapesse se sua nonna avesse fatto testamento oppure no. Se il testamento c'era e anche Harvey e Naomi fossero morti, lei sarebbe stata l'unica beneficiaria. Se il testamento non c'era, Louise Merritt, la nipote di Davina, avrebbe forse ereditato qualcosa. Louise Merritt è morta in febbraio e non credo sia stata una coincidenza l'avere aspettato che fosse morta, prima di mandare il piano a effetto. "Prima, però, alcuni mesi prima, probabilmente in autunno, lui si imbatté in Andy Griffin nei boschi. Come sia andata non lo so, né quanti incontri ebbero prima che venisse fatta la proposta, ma Andy si offrì di vendergli la pistola e l'offerta venne accettata. "Lui cambiò la canna, sapeva tutto in proposito. Gli arnesi li aveva portati con sé." Wexford spiegò come avesse trovato l'inserzione pubblicitaria nella guida di Heights. — L'armaiolo si chiamava Coram Clark. Sapevo di avere già sentito quel nome, ma non riuscivo a ricordare dove. Sapevo solo che era il nome di qualcuno e di qualcuno collegato con il caso. Mi tornò in mente, alla fine. L'avevo sentito all'inizio, il giorno dopo il massacro, quando venne quassù la stampa. "Il reporter di un giornale locale aveva fatto una domanda, durante la conferenza stampa. Rimase fuori ad aspettarmi, dopo. Era un ragazzo giovanissimo, bruno, un gran bel figliolo, molto spavaldo e molto sicuro di sé. Era stato compagno di scuola di Daisy, lui stesso me lo disse, e poi mi disse come si chiamava. Stava parlando di come intendeva farsi chiamare professionalmente, ancora non aveva deciso.
"Lo ha fatto, ora. Ho visto la firma sul Courìer. Si firma Jason Coram, ma il suo vero nome è Jason Sherwin Coram Sebright." — Sebright mi aveva anche detto, parlando del più e del meno, che sua madre era americana, e che lui andava a trovarla spesso negli Stati Uniti. Ma era tutto molto campato in aria, per il momento. "Tutto questo me l'aveva detto al funerale. Sedeva proprio accanto a me. Subito dopo, andò in giro a intervistare gli intervenuti, secondo una tecnica che, come orgogliosamente mi spiegò, aveva imparato dalla TV americana. Venne qui per ottenere un'intervista esclusiva da Daisy il giorno seguente a quello in cui qualcuno si era aggirato col buio intorno alla villa. Lo incontrai che usciva dal colloquio e mi raccontò tutto. Avrebbe intitolato il suo pezzo 'L'intruso mascherato', e lo avrà anche fatto, per quello che ne so. "Il giovanotto che Ishbel Macsamphire aveva visto con Daisy a Edinburgo era un bel ragazzo bruno. La descrizione poteva ugualmente adattarsi a John Gabbitas, ma Gabbitas è un inglese e i suoi stanno nel Norfolk. "Jason Sebright aveva da poco lasciato gli studi. Aveva diciotto anni, quasi diciannove. In settembre era entrato nel programma di addestramento giornalistico con un impiego nel Courier. Niente di più facile che fosse andato a Edinburgo nel periodo in cui Daisy era là. Aspettai che nel Nevada fossero le dieci del mattino per chiamare al telefono l'armaiolo Coram Clark, a Heights. Lui personalmente, ossia Coram Clark Junior, non c'era, ma mi dissero che l'avrei trovato nel loro negozio, nel centro di Carson City. Alla fine riuscii a parlargli. Si mostrò dispostissimo ad aiutarmi. È un piacere avere a che fare con gli americani, sono così pieni di entusiasmo. Non senti tutti quei 'potrebbe anche darsi', come qui da noi. Aveva un parente giovane di nome Jason Sebright qui in Inghilterra? "Mi spiegò che conosceva bene la tecnica per cambiare la canna a una pistola, che gli arnesi per eseguire un'operazione del genere erano tutt'altro che voluminosi e che sarebbe stato facilissimo portarli nel nostro paese. Alla dogana non avrebbero capito a che cosa servissero. Ma non aveva parenti giovani di nome Jason, né nel Regno Unito, né altrove. Le sue figlie, nate Clark, erano sposate. Maschi non ne aveva. Era figlio unico e non aveva nipoti. Non aveva mai sentito nominare quel Jason Sherwin Coram Sebright." — Non mi sorprende — commentò Burden, in tono non troppo gradevo-
le. — Più campata in aria di così, come idea! — Già. Eppure, ha dato i suoi frutti. Coram Clark non aveva parenti giovani né qui da noi né altrove, ma mi aveva dato un sacco di informazioni utili. Tra l'altro, mi aveva detto che dirigeva un corso di precisione di tiro in un poligono locale. Inoltre, a volte c'erano studenti dell'Università di Heights che lavoravano per lui, facendo consegne, lavorando in magazzino, ed eseguendo perfino lavori di riparazione. Spesso gli studenti delle università americane lavorano, per mantenersi al college. "Appena chiuso il telefono, mi tornò in mente un particolare: una maglia di un'università americana con stampigliate lettere quasi sbiadite, forse a causa dei continui lavaggi. Ma ero certo d'avere intravisto un ST in maiuscole oltre che un'U maiuscola. "Il mio amico Stephen Perkins dell'Università di Miringham è stato in grado di dirmi che cosa significavano quelle lettere, grazie al semplice espediente di esaminare il curriculum nelle domande degli studenti che si erano iscritti al corso di composizione creativa. Stylus University, California. Laggiù chiamano città qualsiasi cosa e Stylus è piccolissima, per essere una città, ma ha una forza di polizia e un capo di polizia. Ha anche otto armaioli. Il Capo Peacock mi ha richiamato ed è stato perfino più servizievole di Coram Clark. Mi ha detto per prima cosa che l'Università di Stylus aveva un corso di Storia Militare nel suo piano di studi, e in secondo luogo che uno degli armaioli impiegava frequentemente degli studenti perché dessero una mano in negozio la sera e durante il weekend. Ho chiamato gli armaioli, uno dopo l'altro. Il quarto al quale ho telefonato si ricordava benissimo di Thanny Hogarth. Aveva lavorato per lui fino alla fine del suo ultimo semestre, l'anno scorso. Non perché avesse bisogno di denaro, no. Suo padre era ricco e gli dava un assegno molto generoso. Ma perché amava le armi, era affascinato dalle armi. "Il Capo Peacock mi aveva detto anche un'altra cosa. Due anni fa, avevano sparato a due studenti, nel campus della Stylus, entrambi maschi e con una cosa in comune. L'uno dopo l'altro, erano 'usciti' con la stessa ragazza. Il loro assassino non era mai stato trovato." La bicicletta era appoggiata contro il muro esterno della villa. Quelli della "Decorazione d'interni" erano dentro casa, sempre al lavoro nella sala da pranzo. Il loro furgone era parcheggiato quasi contro la finestra che Pemberton aveva infranto. Quel giorno la fontana non era in funzione. Nell'acqua limpida, il pesce rosso superstite nuotava tranquillo.
I tre poliziotti sostarono presso la vasca. — La seconda volta che andai a casa sua — disse Wexford — vidi degli arnesi su un tavolo, in mezzo a un sacco d'altra roba. Non sapevo che cosa fossero. Forse vidi perfino la canna di una pistola, ma chi sa riconoscere un oggetto del genere, quando non fa parte di un'arma? — Perché non l'ha sposata? — domandò all'improvviso Burden. — Come? — Prima della sparatoria, voglio dire. Se lei avesse cambiato idea, lui non ne avrebbe ricavato più niente. Le bastava soltanto dire che non lo voleva più dopo quello che aveva fatto, e lui si sarebbe ritrovato in braghe di tela, come si suol dire. — Era minorenne — disse Wexford. — Le sarebbe occorso il consenso dei genitori. Te la immagini, Davina che permetteva a Naomi di acconsentire? A parte questo, sei un anacronismo, Mike, sei fuori del tuo tempo. Sono ragazzi d'oggi e oserei dire che il matrimonio non gli passa neppure per la mente. Matrimonio? Roba per i vecchi e per i Virson di questo mondo. "Inoltre, una cosa del genere, un massacro, ti isola. Forse, qualcosa comprendevano, sentivano d'essere segnati, e che nessuno era adatto per loro, che potevano contare solo l'uno sull'altro." Si avviò verso la casa, e stava per suonare il campanello quando vide che la porta era soltanto accostata, senza dubbio lasciata così dai "Decoratori d'interni". Esitò, poi entrò, seguito da Burden e da Vine. Erano nella serra, i due, così intenti a quello che stavano facendo che lì per lì non li sentirono entrare. Le due teste brune erano vicinissme. Sul tavolo di vetro c'erano una collana di per le, un braccialetto d'oro e un paio di anelli, uno con un rubino circondato di brillanti, l'altro con perle e zaffiri. Daisy stava contemplando la propria mano sinistra, dove all'anulare Thanny Hogarth le aveva forse appena infilato l'anello di fidanzamento: un enorme grappolo di brillanti, del valore di diciannovemila sterline. Lei si voltò. Si alzò di scatto nel vedere chi c'era e, con un gesto involontario della mano inanellata, spazzò tutta la gioielleria al suolo. FINE