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L'Antichità greca e romana rappre senta un capitolo della nostra storia tanto a lungo insegnato e studiato che la sua conoscenza ha fmito per rico prirsi, un po' per tutti noi, di una crosta di idee inesatte o del tutto sba gliate, ripetute pigramente e con poca critica, entrate nella tradizione dete riore dell'insegnamento scolastico e nell'erudizione corrente e superficia le. Il libro ne fa una piccola rassegna, attraverso esempi di carattere e rile vanza diversi: da semplici inesattezze verbali a concezioni del costume e della cultura degli Antichi che per essere tradizionali non sono meno erronee. In tutti i casi, però, la "cor rezione" è solo il punto di partenza per un discorso in positivo che mira a far conoscere e capire meglio qualche aspetto della vita e della cultura anti che, o del nostro rapporto con esse. Non solo, insomma, una raccolta di "leggende metropolitane" sui Greci e sui Romani, ma qualcosa di più.
In copertina: Circe e Ulisse in una raffigurazione caricaturale, Attica, IV secolo a.C.
Pietro J anni
Miti
e
falsi miti
Luoghi comuni, leggende, errori sui Greci e sui Romani
edizioni Dedalo
© 2004 Edizioni Dedalo srl, Bari www.edizionidedalo.it
Prefazione
Le 'leggende metropolitane' (come è stata resa in Italia la locuzione anglo-americana urban legends) sono un argomento che gode oggi di molto favore, interessa e diverte; il fatto di riconoscerle come tali e di smascherare come spiritosa (non sempre) invenzione ciò che altri continua convintamente a rac contare come verità, solletica quel tanto di saccenteria che è in ognuno di noi 1• Di solito si chiamano così storie e storielle dei nostri giorni, come quella degli alligatori albini nelle fogne di New York o quella del ristorante che serviva con molto suc cesso una specialità a base di cibo per cani, l'una falsa come l'altra. Ma il termine si può intendere anche in un senso più ampio di quello che gli danno gli studiosi di tradizioni popo lari; si può prendere come designazione di idee mal fondate, aneddoti apocrifi, immagini deformate che hanno lungamente tenuto il campo e che continuano a circolare. Fra questi idoli dell'erudizione approssimativa ce ne sono di vecchi, immeri tatamente fortunati, e relativi a fatti della storia vicina o remota. Quasi tutti ormai dovrebbero aver imparato che Galileo non pronunciò di certo, dopo la sua forzata ritratta zione, la troppo celebre frase non si sa se più comica o incauta: 'Eppur si muove', o che Colombo non si sognò mai di esibirsi con un uovo in una trovata che oggi sarebbe accolta con fischi anche a una tavolata di giochi di società in famiglia2. 5
Altre tradizioni non meno spurie continuano invece a vivere e a trovare diffusione, relative a singoli modesti episodi o a intere pagine di storia della cultura, di ben altra rilevanza. L'idea che ogni tanto valga la pena di mostrarne l'infonda tezza e di mettere qualche puntino sulle i, non è nuova. Volendo, potremmo risalire alla seicentesca Pseudodoxia epi demica dell'inglese Thomas Browne, in genere citata più sbri gativamente come Vulgar errors. Correggeva una quantità di 'false opinioni diffuse tra il volgo' e acquistò fama anche all'e stero, tanto da essere citata come modello dal giovanissimo Leopardi nell'introduzione al suo saggio Sopra gli errori popo lari degli Antichi, e da lui emulata con maniere da «ragazzo saccente» (Sapegno) . In tempi più recenti c'è stato in Italia e altrove chi ha messo insieme corposi libri che smentiscono aneddoti storici di dimostrabile falsità, demoliscono leggende bianche e nere, o rettificano quello che il vasto pubblico crede di sapere su ogni genere di cose, dalla Bibbia alla dietetica3. Qui ci siamo rivolti al mondo classico, all'Antichità greca e romana, un grande capitolo di storia studiato e insegnato tanto a lungo, per tante generazioni e tanti secoli, che la sua conoscenza si è coperta, più o meno per tutti noi, di una specie di crosta di nozioni imprecise o del tutto erronee, sofisticate o grossolane, idées reçues che è difficile estirpare. La nostra ras segna ne esamina un piccolo numero di rilevanza e di carattere molto diversi: vanno da semplici inesattezze verbali a conce zioni del costume o della cultura degli Antichi che per essere tradizionali non sono meno erronee, e che possono portare a fraintendimenti insidiosi. In tutti i casi, però, la 'correzione' più o meno pedantesca, la pars destruens, è il punto di partenza per un discorso in positivo che vorrebbe far conoscere e capire meglio qualche aspetto della vita e della cultura antiche o del nostro rapporto con esse. Non solo, insomma, una raccolta e rettifica di 'errori popolari sugli Antichi', di leggende metro politane sui Greci e sui Romani, ma qualcosa di più. Un'avvertenza è necessaria. Questo libro si rivolge al let tore non specialista e si sforza di usare un linguaggio intelli6
gibile, contro l'uso di molti odierni autori sull'Antichità (e fos sero solo loro ! ) di scegliere, fra due modi possibili per dire la stessa cosa, sempre il più complicato o almeno il più lontano dalla lingua comune, dall'uso italiano quale si è formato nella sua storia e quale ha servito benissimo a secoli di prosa scientifica, dalla fisica e biologia di Galileo e dei galileiani alla filologia di Giorgio Pasquali e Concetto Marchesi. Il libro non rinuncia però a un completo apparato di note, zeppo di rimandi agli autori antichi e alla relativa obbligata bibliografia moderna, internazionale e poliglotta. Questo un po' nella spe ranza, cui non vogliamo del tutto rinunciare, che qualcosa in esso possa servire anche allo specialista, e un po' per un'inve terata abitudine o deformazione professionale che dopo una vita di studioso diventa seconda natura. A chi ha sempre scru polosamente corredato delle debite note ogni suo scritto, spo gliarsene può causare un disagio simile a quello di chi uscisse in pubblico non decorosamente vestito, o non vestito affatto. E se a qualcuno il nostro apparato di note sembrerà una zavorra, gli ricorderemo che la zavorra serve a dare stabilità e sicurezza alle navi. Il tipo di lettore cui abbiamo soprattutto pensato, di rado andrà a guardarvi, ma neppure deve farsene spaventare4. L'Antichità classica è oggi ancora presente e vicina, nelle idee giuste o sbagliate che abbiamo per la mente, in tanta parte del nostro immaginario e perfino nelle espressioni verbali che incontriamo ogni giorno. A modo nostro, un modo un po' diverso dal solito, abbiamo voluto mostrarlo ancora una volta, confidando che ciò si possa fare senza annoiare troppo.
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Note
1 La relativa bibliografia, in parte seriamente scientifica, anche se in Italia meno diffusa che altrove.
è ormai enorme,
2 Per il carattere sicuramente apocrifo del detto di Galileo basti riman dare al classico Chi l'ha detto? di GIUSEPPE FUMAGALLI, Milano 1968 (lo• ediz.), p.
88 sg.; sull"uovo di Colombo', aneddoto di origine orientale già
attribuito a Filippo Brunelleschi (!), informa GEORG BOCHMANN nei suoi Gefliigelte Worte, vol. II p. 618 sg. dell'ediz. DTV 1967. Ma già GIROLAMO BENZONI, nella sua Historia del Mondo Nuovo, Venezia 1565, carta 12 sg., riferiva di aver sentito con le sue orecchie raccontare l'aneddoto in Spagna, ma sapeva che esso era più vecchio di Colombo. 3 «Nessuno ha deriso Colombo», annunciò provocatoriamente GERHARD PRAUSE col suo fortunato libro Niemand hat Kolumbus ausgelacht. Fiil schungen und Legenden der Geschichte richtiggestellt, Frankfurt (M.) 1966 (poi altre edizioni). In Italia hanno avuto buona accoglienza ROBERTO BERETTA ed ELISABETTA BROLI con Gli undici comandamenti. Equivocz; bugie e luoghi comuni sulla Bibbia e dintorni, Casale Monferrato 2002. 4 Inutile dire che a beneficio di questo lettore le parole greche sono sempre traslitterate, secondo le norme più ovvie e intuitive. Nel farlo abbiamo largheggiato con gli accenti segnati, come sarebbe augurabile si
facesse più spesso, e non solo col greco. All'avarizia di molti autori nel segnare la corretta accentazione si devono molte forme erronee (di nuovo, non solo greche) che circolano nel nostro e in altri paesi: particolarmente attuale mentre scriviamo è fslam invece di lsldm. Se ci si abituerà ad accol larsi più spesso la piccola fatica di segnare gli accenti eviteremo di dover scrivere un altro libro di 'correzioni agli errori (fonetici) del volgo'. Per ora questo basta o è d'avanzo.
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Capitolo primo «Eolo? Era il dio dei venti»
Qualche anno fa (forse qualcuno se ne ricorda ancora), passò sugli schermi della nostra televisione una serie di spot pubblici tari meno scemi della media, che si svolgevano sull'Olimpo, un Olimpo in verità un po' straccione e ridicolo, dove non si man giava ambrosia ma surgelati. Nel limite dei famosi trenta secondi, ognuna di queste storielle finiva con Zeus che, grazie ai surge lati, cucinava «da dio», secondo il giudizio di uno degli altri numi, e che si arrabbiava moltissimo per questa mediocre bat tuta. Ricorderemo ancora che in uno di essi compariva un per sonaggio dalle guance paffute che minacciava a un certo punto di mettersi a soffiare, con spavento degli dèi che supplicavano Eolo, com'era chiamato il personaggio, di non farlo. Non occorrono sondaggi per essere sicuri che su cento spet tatori interpellati almeno novantanove (ma c'è da credere cento), se richiesti di qualche notizia sul tipo dal soffio micidiale, avreb bero risposto senza esitare: 'È Eolo, il dio dei venti'. E con uguale probabilità, anche molti che dovrebbero essere meglio edotti non troverebbero nulla da ridire sull'erudita risposta (ricordiamo solo l'autore del primo manuale moderno di mitologia classica, nien temeno che Giovanni Boccaccio, il quale dà il cattivo esempio chiamando Eolo 'dio dei venti', anche se in maniera un po' inco stante e contraddittoria)!. E invece quella risposta era sbagliata, di nuovo almeno al novantanove per cento. ll caso è curioso, e merita di essere 9
messo accanto ad altri consimili, casi di fatti che stanno sotto i nostri occhi e che per distrazione o assuefazione finiamo per non vedere più. Anche se i nostri studi non cominciano con la lettura integrale e scrupolosa dei poemi omerici, come era di rigore per i bambini greci antichi, l'Odissea è pur sempre uno dei libri più famosi del mondo e bene o male, in greco o in italiano, l'abbiamo letta un po' tutti, almeno tutti quelli che hanno studiato in certi ordini di scuola. E se l'abbiamo letta con un po' d'attenzione, da bravi scolari, dovremmo ricordare che il custode dei venti non è affatto un dio. La prima qualifìca con cui viene presentato, all'inizio del decimo libro, è «caro agli dèi immortali», «amico degli dèi», quindi evidentemente non dio egli stesso, e quel che segue toglie qualsiasi dubbio residuo. Non è figlio del padre Zeus o di altri abitanti del l'Olimpo, ma di un certo Hipp6tes, 'cavaliere', nome del tutto umano. Omero lo rappresenta come una specie di principe o gran signore, residente nell'isola che prende nome da lui: Eolia, in greco Aiolie, detta ploté, cioè 'galleggiante', secondo ogni probabilità. Apprendiamo subito un particolare sconcertante: Eolo ha sei figlie, che dà in moglie ai suoi altrettanti figli: 'sei spose per sei fratelli', che però stavolta non sono tali soltanto tra loro come nel famoso musical, ma anche fratelli delle spose. Queste sei coppie, diciamo così, anomale restano ad abitare nel ricco palazzo dei genitori, una piccola comunità autosuf ficiente. Eolo ospita generosamente Ulisse per un mese intero, e si fa raccontare da lui la guerra di Troia e le sue successive avventure. Anche questo è un tratto umano, perché alla guerra di Troia gli dèi hanno tutti più o meno partecipato, addirit tura attivamente o almeno come 'tifosi', e non hanno certo bisogno di farsene raccontare la storia da un mortale. Lo status del personaggio si rivelerà al momento del con gedo e della partenza di Ulisse: come prezioso dono ospitale, Eolo gli regala il famoso otre in cui sono racchiusi tutti i venti, tranne il mite e propizio zefiro, che dovrebbe riportarlo a casa. E Omero spiega: «perché Zeus lo aveva fatto tamias dei venti»2• Questo tamias è una parola che molti alunni di liceo lO
classico hanno imparato in quarta ginnasiale, primo trimestre, dato che le grammatiche usavano darne il paradigma come esempio di declinazione dei maschili in al/a; quella vecchia e famosa di Bruno Lavagnini lo spiegava come 'dispensiere', e anche il vecchio Pindemonte traduceva correttamente «de' venti dispensier supremo». Secondo il più recente Giuseppe Aurelio Privitera, Eolo è «custode dei venti». Sappiamo come va a finire col prezioso otre: i compagni di Ulisse, che nel poema si prendono più volte del cretino, a cominciare dal proemio, lo aprono per curiosità e avidità sca tenando un'iradiddio che risospinge la piccola flotta al punto di partenza, all'isola Eolia. Molto afflitto e vergognoso, Ulisse si ripresenta al signore dei venti nell'atteggiamento rituale del supplice, sperando in una ripetizione dell'assistenza, ma invano. Eolo lo scaccia stavolta con male parole: «0 pessimo fra tutti i mortali, vattene in malora via dalla mia isola; io non ho il diritto (thémis) né di accogliere un uomo che sia tanto inviso agli dèi immortali, né di dargli aiuto per il viaggio»3• Eolo è spaventatissimo all'idea che gli dèi lo castighino per aver pre stato aiuto a un empio, altro che essere un dio egli stesso! Questo per quanto riguarda l'Odissea, che probabilmente è l'unica fonte di tutta la storia, qui come in altri casi simili. Come altrove, può darsi che tutta una tradizione mitografica discenda da un singolo luogo dell'Odissea, così come può darsi che nell'Odissea ci sia un bel po' di libera invenzione o almeno di libera rielaborazione di elementi tradizionali. Incoraggia a crederlo il patente contrasto con tutto quel che si legge nel resto dei poemi omerici. Nell'Iliade i venti sono impersonati da un augusto gruppo di dèi che siedono a banchetto nella casa di Zefiro e cui si presenta rispettosamente la divina mes saggera Iride; nessun tamfas li governa ed è impensabile che qualcuno li chiuda grottescamente in un otre4. E nella stessa Odissea, nel corso di poche centinaia di versi, il libro V mostra in successione tre personaggi divini che intervengono diretta mente sul governo dei venti, senza bisogno di Eolo né di otri. La prima è Calipso, che ferma tutti i venti sfavorevoli a Ulisse 11
per lasciar soffiare solo quello che lo riporterà in patria; poi Atena fa qualcosa di simile per mettere provvidenzialmente rimedio a una tempesta scatenata dall'ostile Posidone: imma gini di alta mitologia da una parte, superstizione popolaresca dall'altra5. Molto diverso è anche ciò che si legge presso Esiodo, l'altro antichissimo poeta che insieme con Omero diede ai Greci il loro repertorio mitologico più tradizionale: nella sua Teogonia i venti temibili, in particolare proprio quelli che suscitano tempeste e causano naufragi, provengono dal mostruoso Tifeo, il nemico degli dèi olimpici sopraffatto da Zeus, e di un tamias dei venti non si fa parola6• Nel resto della tradizione poetica antica non troviamo pra ticamente nessuna novità. Eolo è raffigurato nel solco di Omero, sempre più o meno con gli stessi attributi e con le stesse funzioni, da Virgilio, Ovidio, Valerio Fiacco e dal poeta epico greco Quinto di Smirnel. È sempre una specie di zelante funzionario, che comanda ai venti ma obbedisce scrupolosa mente agli dèi, e in particolare a Zeus che l'ha incaricato di tenerli a freno o liberarli al momento opportuno. Guardato con più attenzione, l'Eolo omerico ha perso così la sua presunta divinità, ma forse proprio per questo è diven tato tanto più interessante&. n personaggio ha caratteri che secondo le categorie moderne chiameremmo fiabeschi, e il ter mine di paragone più stretto lo fornisce un personaggio col lettivo dell'Odisseo, il popolo dei Feaci. Come i Feaci, Eolo vive nell'abbondanza e nel lusso, nella sua favolosa isola gal leggiante circondata da un muro di bronzo e da un'alta liscia roccia (le costruzioni di metallo prezioso o pregiato anziché di pietra e mattoni sono un tratto di leggenda o di fiaba, così come l'isola tutta circondata da un muro invalicabile)9• Come i Feaci, Eolo ascolta volentieri i racconti di Ulisse e, quando arriva il momento dell'addio, ha il potere di assicurargli il ritorno a casa con mezzi sovrumani: qui l'otre dei venti, là le navi velocissime che trovano la rotta giusta da sole. Infine, nel l'isola di Eolo, come a Scheria dove il re Alcinoo e la regina Arete sono fratello e sorella10, si pratica tranquillamente l'in12
cesto. È una trasgressione che mette i personaggi al di fuori della comune umanità tenuta a certe regole, 'al di là del bene e del male', per così dire, come al di là del bene e del male sono certe crudeltà commesse anche dai più innocenti perso naggi di fiaba per vendetta sui cattivi, senza battere ciglio. Ma tutto questo è contorno, obbligata cornice che dà al personaggio la sua dimensione sovrumana e magica. n vero nocciolo è il suo carattere di 'mago del vento', che lo affianca a tutti i 'maghi del tempo', della pioggia o d'altro, così ben conosciuti al folklore di tutti i tempi e di tutti i paesi. n tempo meteorologico è la cosa più incontrollabile e imprevedibile fra tutto ciò che condiziona la nostra esistenza, tanto più per un'u manità poco avanzata tecnicamente. Non è quindi sorpren dente che il sogno di dominare i fenomeni atmosferici sia fra quelli che più hanno stimolato la fantasia umana, sia come pra tiche magiche effettivamente esercitate, sia come storie imma ginate e raccontate. «Chi è costui cui obbediscono i venti?», si domanderanno in una celebre occasione anche i discepoli di Gesù Cristou. E di fatto, se molti episodi dell'Odissea hanno trovato riscontro e illustrazione in racconti tradizionali e credenze moderne, per pochi questo è accaduto in misura così abbon dante come per l'episodio di Eolo. Un grande bacino di rac colta di informazioni a questo proposito è il monumentale Ramo d'oro ( The Golden Bough), l'opera che l'inglese James George Frazer pubblicò fra il1890 e il 1915 e che si consulta ancora oggi utilmente per la sua sterminata raccolta di mate riali, anche se qualche volta essi sono affastellati alla maniera di un comparativismo un po' 'confusionario' e inadeguato alle esigenze odierne. Qui si trovano non meno di cinquanta metodi per comandare al vento; dall'Antichità ai giorni del l'autore, dalle Americhe fino alle Indie orientali. Alcuni di questi metodi sono estremamente fantasiosi e complicati, e non somigliano affatto all'otre di Eolo; altri però ci fanno drizzare le orecchie, perché appaiono fondati sullo stesso principio, e ci sono coincidenze sorprendentP2• Né Frazer restò solo: nei 13
decenni successivi, ricercatori di vari paesi arricchirono ulte riormente, partendo dall'Eolo omerico, il dossier mondiale della 'magia del vento', con esempi che andavano dalla Scan dinavia all'India, ma con un particolare addensamento nel l'Europa del nord, dalla Bretagna in su13. Dalla Grecia stessa, un autore inglese riferiva come testimone il caso di una vec chia donna che in fatto di religione si esprimeva in maniera stranamente paganeggiante e che 'vendeva' la pioggia, se non proprio il vento14• Nell'episodio omerico i venti sono concepiti come qualcosa da contenere, frenare, non da stimolare e suscitare come avviene in altri casi. È assai ben attestata, per esempio, la pra tica di suscitare il vento del quale si ha bisogno soprattutto nella navigazione a vela, attraverso il fischio. Se ne ha la più antica testimonianza in un carme di S. Paolino di Nola (V secolo), in versi che sono sembrati oscuri a qualche commen tatore, mentre sono chiarissimi alla luce di quanto sappiamo su questa forma di magia del vento. Qui il gubernator di una nave a vela carica di passeggeri, impegnata nella traversata del Tirreno fra la Gallia e la Campania, evoca il vento che scar seggia, fischiando, mentre veglia di notte al timone. li vento non arriva e si apre invece una falla che, in pochi minuti, manda la nave a fondo con gran parte dei passeggeri, primo fra tutti il pagano e superstizioso gubernator, come l'autore racconta in tono di edificazione. In molte marinerie moderne, l'uso di fischiare per far alzare il vento è ben testimoniato come pratica di magia 'simpatica', da usare però con cautela, perché il vento così invocato può diventare tempesta. Fischiare quando si sta al timone, in particolare, era cosa bandita da un severo tabù15• In Omero la cosa è diversa. Non si tratta di risvegliare un vento pigro e addormentato, ma di chiuderlo per impedirgli di fare danni: è un'azione magica negativa. Proprio quest'a zione negativa compare nella pratica ripetutamente testimo niata di 'legare' i venti in una corda annodata che qualche per sona dotata di particolari poteri cede ai marinai delle imbar14
cazioni a vela, dietro compenso o per qualche altro motivo. Può sembrare strano che questi riscontri al racconto di Omero vengano soprattutto dai mari nordici; ma non se ne meravi glierà troppo chi sa quanto sia internazionale il folklore mari naresco. E può darsi che in questi remoti riscontri si trovi il suggerimento buono per spiegare l'irrazionalità del racconto omerico: se Eolo voleva che per Ulisse spirasse solo il propizio zefiro, perché non ha messo lui stesso sotto chiave al sicuro gli altri venti, per esempio in una caverna-prigione come quella immaginata da Virgilio?16• E che cosa avrebbe dovuto fare Ulisse con l'otre una volta arrivato felicemente a ltaca, forse rispedirlo a Eolo in un solido imballaggio? Vedremo come altre credenze e pratiche facciano intravedere forme più logiche della medesima credenza, accolta nell'Odissea senza adattarla esattamente alla situazione. Ma le storie ben trovate e ben rac contate acquistano una loro speciale plausibilità, e innumere voli generazioni di lettori passano senza badarci davanti a par ticolari che alla fredda analisi sembrano irrazionalità incom prensibili. Prima però, senza uscire dalla Grecia antica, dobbiamo ricordare il caso del filosofo-stregone Empedocle di Agrigento, sul quale se ne raccontavano di curiose, tra lo scientifico e il ciarlatanesco. Fra le sue prodezze più clamorose ci fu quella di chiudere i venti etesii, che rischiavano di rovinare i raccolti soffiando troppo forte, in appositi otri di pelle d'asino. Questo prowidenziale intervento gli avrebbe guadagnato, come rac conta il biografo dei filosofi Diogene Laerzio, il soprannome di kolysanémas, 'colui che arresta, ferma i venti'17. Certo, chi ha tramandato la storia non poteva non ricordarsi di Eolo e del suo otre, sicché questa sembrerebbe una mera derivazione, un racconto di seconda mano che non aggiunge molto a quanto già ricaviamo dall'Odissea. Ma gli scarti rispetto alla versione omerica sono caratteristici e fanno pensare a un rac conto popolare e tradizionale18; e d'altra parte non è affatto strano che Omero, o chi per lui, abbia attinto a una credenza 15
o a un tema narrativo già circolante e attestato altrove in maniera indipendente, come di sicuro è avvenuto in altri casi. Quella curiosa parola, kolysanémas, ne ricorda una simile: anemokoitai, 'gli addormentatori dei venti', che sarebbe stato il nome di un génos, una famiglia o gruppo familiare presente a Corinto secondo quel che riferisce l'apposita voce della raf fazzonata ma preziosa enciclopedia tardo-antica che circolava sotto il nome del fantomatico Suida, o anonimamente come Suda. E a cercar bene si trovano in Grecia parecchie altre tracce di 'magia dei venti', cosa che non può meravigliare, se tutta l'umanità la conosce in una forma o nell'altra19• Molto, molto più tardi di Empedocle, al tempo di Costan tino, ritroviamo il rappresentante di una sapienza circondata di superstizioso timore, cui viene attribuito il potere di 'legare i venti', ma stavolta per fare danno alla comunità: è il 'sofista' Edesio (Aidésios), favorito dell'imperatore, che l'invidia dei suoi nemici accusò di aver impedito, con questa sua strego neria, l'arrivo al Bosforo delle navi granarie, riducendo così Costantinopoli alla fame. n malvagio emulo di Eolo fu con dannato a morte20. n confronto più stretto viene però dall'estremo nord del l'Europa. Nella sua celebre Historia de gentibus septentriona libus lo svedese Olao Magno, arcivescovo cattolico nominale di Uppsala, parla dei maghi finlandesi che 'vendevano il vento' ai marinai. Citiamo nell'italiano dell'anonimo traduttore cin quecentesco ('In Vinegia appresso i Giunti MDL:XV'), dal capitolo De li magi, e malefici de li Finni: Solevano a le volte li Finni, tra molti altri loro errori, che de la gen tilità avevano, quando li mercanti, e negociatori, erano ne i lor liti ritenuti, & impediti da li venti, vender loro il vento, & essendo loro offerta la mercede, dare in quel cambio a li medesimi tre gruppi [groppi, nodz1, fatti per arte magica in una fune, con questo ordine, e regola, che come essi scioglievano il primo, dovevano bavere venti tranquilli, e piacevoli, quando venivano al secondo, li sentivano piu gagliardi, e potenti: ma se mai allargavano il terzo, erano certi di dover patire sì crudeli tempeste, e fiere, che non dovevano pure
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bavere gli occhi liberi da poter guardare fuor de la prora, per schi fare li scogli, nè li piedi stabili, e fermi ne la nave, per poter abbas sare le vele, o per dirizzare il timone ne la poppa; di modo gli ave vano a esser tolte tutte le forze. E quelli fecero la pruova di questa cosa, con gran lor danno, e infelicità, li quali dispregiando tale arte, negarono in questi nodi tal potenza rinchiudersi21•
L'arcivescovo, come si vede, dipinge con qualche compia cimento l'ambascia dei malconsigliati naviganti, e ne trae una morale: il castigo se lo sono meritato perché ricorrere ai maghi non è mai cosa da buoni cristiani. La stessa identica storia rac conterà lo scrittore e commediografo francese François Regnard (165 5 -1709) nel suo Voyage de Laponie22• Fra i marinai delle isole Shetland, testimonia Frazer nelle pagine citate, c'è chi ancora 'vende il vento' , nella forma di fazzoletti annodati. Famosa è diventata una storia dello stesso genere registrata da J acob Grimm, che oltre a raccontare insieme col fratello le fiabe per i bambini, le studiava per scri verei dotti libri destinati agli adulti23• Ancora più simile alla nostra è un'altra storia raccolta nello Schleswig nel XIX secolo, dove compare anche il motivo della curiosità imprudente. Come nell'Odissea, i marinai sciolgono incautamente troppi nodi della corda magica, 'per vedere che cosa succede', e scam pano per un pelo al naufragio24• L'associazione dei due motivi, controllo dei venti magico o comunque sovrumano e curiosità inopportuna, compare anche in un racconto di tradizione marinaresca pubblicato dal folk lorista francese Sébillot che naturalmente non mancò di notarne la stretta affinità con 1'0dissea25: Un capitano fu mandato nel paese dei venti, con l'incarico di chiu derli in sacchi e di portarli nd nostro mondo. Ma un giorno, durante la navigazione, l'equipaggio sfaccendato ignorò il divieto di toccare i sacchi, e per la solita incauta curiosità di vedere che cosa c'era dentro, li aprì col risultato che i venti si sparsero per tutti i mari e da allora non hanno più finito di soffiare.
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La storia è del genere che usiamo chiamare 'eziologico'; sono i racconti che spiegano perché il mondo è fatto così e non in un altro modo, in seguito a qualche bizzarro avvenimento di un'epoca remota; è un genere immensamente fortunato, di dif fusione mondiale. Forse è una delle forme più antiche di nar rativa, risalente ai primordi dell'umanità. Nelle letterature moderne lo ha rinnovato genialmente Rudyard Kipling con le sue ]ust so Stories, fantasiose favole che spiegano l'origine di aspetti del mondo animale: come all'elefante crebbe la probo scide o come il gatto divenne un animale domestico. Il motivo del sacco, o in generale del contenitore in cui sono racchiusi i venti, e l'altro motivo della curiosità punita quando qualcuno lo apre troppo presto, tornano insistente mente26. Pur con qualche convinzione un po' troppo sicura sulla presunta origine nordica della credenza, l'inglese A.D. Fraser aggiungeva un nuovo significativo esempio dalla lon tana Scozia, la leggenda della strega Stine Veg, che donò ai pescatori un assortimento di venti chiusi in una giara. I soliti malconsigliati curiosi aprono inopportunamente la giara e sono respinti al punto di partenza. Lo specialista di folklore celtico John Rhys citava invece un manoscritto del XVI secolo, dove si parlava di maghi dell'isola di Man che 'facevano il vento' per i marinai, col sistema dei tre nodi sulla corda27• Queste localizzazioni prevalentemente nordiche e non medi terranee, attirarono più recentemente l'attenzione dello svedese Reinhold Stromberg, che partendo ancora una volta dall'epi sodio dell'Odissea scovava remoti paralleli fino in Australia e negava che al tipo di leggenda si possa attribuire con sicurezza una patria e un centro di diffusione. E qualcuno aveva già citato dal libro di un viaggiatore il caso di un Eolo hawaiano, che faceva soffiare il vento a volontà dal suo calabash28• Chi dopo questa rapida scorsa in cui sono comparsi tanti sacchi, corde e nodi, torna al decimo libro dell'Odissea, noterà qualcosa cui era forse passato davanti senza farci troppo caso. Ai versi 23-24 , dopo che si è detto del famoso otre, si legge che esso era precisamente legato con una corda, una corda 18
«splendida e d'argento» come si conviene ai lussi di Eolo e della sua dimora. Tutta l'espressione, a dire la verità, non è chiarissima, né come senso preciso né come sintassi, e anche questo potrebbe far pensare (con molta cautela) che la corda fosse un elemento tradizionale, più radicato nella tradizione che non lo stesso otre, e che sia stata messa qui un po' per forza, un po' maldestramente, perché non poteva mancare. Qualunque sia la sua origine, il nodo è l'espressione di uno dei due motivi su cui è costruita la storia e che abbiamo già notato: il fortunatissimo motivo della curiosità punita perché ha aperto e conosciuto qualcosa che doveva restare chiuso e ignoto, violando un divieto espresso o sottinteso. È notevole che questo motivo compaia, fra cento altri casi, in tutt'e due le grandi mitologie 'fondanti' della nostra cultura, la classica e la biblica. Da una parte c'è Pandora, il seducente e fatale dono degli dèi, che apre incautamente il famoso vaso scate nando per il mondo tutti i mali che vi erano rinchiusi; dal l'altra Eva col suo frutto proibito, ancora una curiosità fem minile che viola una proibizione e provoca lo stesso effetto, addirittura l'infelice condizione umana, che altrimenti sarebbe stata ben diversa. Aprendo la terribile stanza chiusa, la moglie di Barbablù rischiò invece solo la propria rovina . . . La sostanza vera della storia di Eolo è tutta qui. Possiamo dire con sicurezza che essa si fonda su temi tradizionali e popo lari come quelli presenti in larga misura nell'Odissea, soprat tutto nella sua parte più famosa, i racconti in prima persona delle avventure marine di Ulisse.
È probabile che sul vero Eolo, sull'autentico Eolo omerico,
non ci sia molto altro da aggiungere; si potrebbe solo inqua drare sempre più precisamente la storia di questo 'mago del tempo' nel novero delle storie consimili e apparentate, antiche e moderne. Invece, davanti alle grandissime opere della lette ratura e dell'arte gli uomini non si contentano quasi mai di quel che è ragionevole dirne, e danno briglia sciolta alle fan tasie interpretative. 19
Cominciamo dal nome del personaggio: si può credere che in esso non ci sia da scoprire nulla, come in generale si può credere che nell'Odùsea siano presenti dei nomi presi dalla realtà o da altre tradizioni leggendarie senza che l'autore volesse nasconderei nessun segreto perché lo svelassero i posteri; un nome per lui era buono come un altro. Altrimenti dovremmo stupirei molto che il mostruoso ciclope, l'orco can nibale, abbia un nome come Polifemo, 'il gloriosissimo', adatto a un nobile eroe guerriero dell'epica (e di fatto nel catalogo tradizionale degli Argonauti ce n'è uno che si chiama così; o forse in Omero c'è un intento di ironia)29. Ma il nome stesso dei ciclopi sembra tolto disinvoltamente dall'omonima cate goria di creature mitiche che coi bruti dell'Odissea hanno poco in comune, cioè dai fabbri divini che forgiano i fulmini di Zeus: come abili artigiani, questi non sono affatto un'immagine di bestiale primitività, non vivono in un'isola remota, e anche la loro genealogia è differente. È anche possibile che il nome di Cimmeri, dato nell' Odùsea a un popolo che vive ai confini favo losi del mondo, nome che è lo stesso di un popolo storico molto esotico per i Greci, sia arrivato più o meno casualmente all'o recchio del poeta, che l'ha impiegato senza porsi troppi pro blemi sul rapporto fra quell'immagine mitologica e la realtà, come facciamo invece noi30• Nell'Odùsea l'unico nome sicura mente 'parlante', suggerito dalla parte che il personaggio svolge nel racconto, è quello di Calipso, connesso col verbo kalypto, 'nascondo, celo'. Che sia da intendere come 'la nasconditrice' (colei che tiene presso di sé Ulisse sperduto) oppure come 'la nascosta' (nella sua isola remota) , non cambia molto: in ogni caso il nome vuole suggerire l'idea del celato e dell'arcano. Sembra però che non tutti la pensino e l'abbiano pensata così, nella storia della lettura di Omero e degli studi omerici, sicché molta attenzione si è appuntata sul nome del nostro per sonaggio. La forma greca è Aiolos, un bel dattilo che ben si lega metricamente col patronimico: Aiolos Hippotddes Il nome è di certo identico all'aggettivo ai6los, con uno sposta mento dell'accento che in greco è normale quando un agget. . .
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tivo diventa nome proprio. Questo ai6los è uno degli aggettivi più straordinari della lingua greca, uno di quelli che meno si prestano ad essere spiegati con una sola parola, italiana o di altre lingue moderne. Di prevalente uso poetico, esso si applica a cose estremamente diverse, a tutta una serie di animali dai vermi ai cavalli, così come a cose inanimate quali una nube di fumo, la notte stellata, o la menzogna. Ecco le spiegazioni sug gerite dal maggior vocabolario greco-italiano, che prende il nome dal direttore Franco Montanari: vivo, vivace, mobile, svelto, agile; cangiante, smagliante, variopinto, chiazzato; vario, mutevole, incostante; ingannevole, scaltro31. Insomma, è una delle parole che definiamo intraducibili; bisogna cercare solo di capirle, e tradurle poi caso per caso con la migliore approssimazione (è stato detto, non male, che si possiede davvero una lingua quando si è arrivati a capirne fino in fondo le parole intraducibili). Non è prudente andare oltre queste considerazioni; invece, nel nome di Eolo si è voluta vedere più volte una caratteriz zazione, appropriata al personaggio che lo porta ('nome par lante'). Se apriamo qualche commento che circola nelle nostre biblioteche, leggeremo in uno di essi che il nome Eolo è adatto al signore del vento, cosa notoriamente mutevole e veloce. Un altro insiste sulla velocità, che comparirebbe anche nel nome del padre Hipp6tes (i cavalli corrono). In realtà l'idea di velo cità non è affatto il tratto più essenziale dell'aggettivo ai6los; e questo è un motivo ulteriore per respingere quésto genere di congetture, anche se hanno la venerabilità della vecchiezza. Su questa strada ci si era messi già nell'Antichità, e si era andati lontano, partendo anche dai nomi dei personaggi per scoprire in Omero tesori di profonda saggezza, "sotto il velame de li versi strani". Esemplare è un piccolo libro greco che risale forse alla prima epoca dell'impero romano e che i manoscritti attribuiscono a un certo Eraclìde o Eraclìto, certo non il filosofo di questo nome, vissuto secoli prima. Qui si spiegano sistematicamente i poemi omerici con lo strumento dell'alle goria, e vi si scoprono significati reconditi, a vergogna dei 21
superficiali che leggono l'Iliade e l' Odissea come se fossero solo delle belle storie mentre sono molto di più. Quando tocca al nostro Eolo, il suo nome viene spiegato come poikilos ('vario pinto, variegato, mutevole', cosa sensata anche se approssima tiva), e vi si ravvisa una chiara allusione all'anno solare, che è cosa varia e mutevole nelle sue diverse stagioni. n nome del padre Hippòtes, come abbiamo già appreso dal moderno erede di Eracfito sopra citato, alluderebbe alla velocità; stavolta però non alla velocità del vento ma alla rapidità con cui passano gli anni e il tempo, che vanno al galoppo. I dodici figli rappre sentano i dodici mesi; le sei femmine i mesi della buona sta gione, fertili e produttivi, e i sei maschi la stagione cattiva, rigida e dura. Del loro strano matrimonio non c'è da scanda lizzarsi: Omero vuole solo significare che le stagioni si sosten gono, si 'sposano' le une con le altre in unità inscindibili. Coro namento di tutta la costruzione sarebbe l'appropriatezza di aver affidato, a un personaggio che simboleggia l'anno, l'am ministrazione dei venti, che cambiano secondo un ciclo per l'appunto annuale. Qualcun altro vedeva poi nello strano con nubio tra figli e figlie di Eolo una figurazione dei venti stessi, maschi o femmine secondo il loro effetto sulla natura32• Ma secondo i suoi interpreti antichi la saggezza, diciamo così, 'calendarica' di Omero non era tutta qui: altri scopriva un'al lusione alle stagioni nel numero delle quattro ancelle di Circe, o ai giorni dell'anno lunare nelle 350 vacche del Sole (questo un po' approssimativo)33• Secondo il celebre Fabio Planciade Fulgenzio (V-VI sec. d.C.?) - che fu campione dell'allegorismo, godette di grande credito per tutto il Medioevo e fu ascoltato ancora nel Sette cento - Eolo rappresenterebbe poi addirittura la fine del mondo, «saeculi interitus»; questo significato è dedotto dal nome del personaggio, interpretato secondo un greco, più che spropositato, addirittura immaginario34• Come tutti gli episodi dei viaggi favolosi di Ulisse, anche la sfortunata avventura con Eolo non sfuggì alla sorte di essere 22
ben presto localizzata nella geografia reale, precisamente nel l'area occidentale e tirrenica che doveva sembrare la più adatta e dove hanno continuato a metterlo (almeno secondo la pre sunta intenzione del poeta) certi moderni che rispetto agli antichi hanno compiuto pochi progressi in fatto di senso critico e che continuano a trattare la povera Odissea come una specie di romanzo geografico a chiave, o di guida turistica cifrata. Nel caso di Eolo questo è awenuto in maniera particolar mente fortunata e cospicua: su ogni nostra carta geografica spic cano oggi le ben note isole Eolie, che continuano il nome del l'Aiolie nésos di Omero. In alternativa ci sarebbe l'altro nome di isole Lipari, oggi però poco usato, forse per evitare equivoci dato che Lipari si chiama anche la singola isola dell'arcipelago su cui sorge il capoluogo, dallo stesso nome. È anche vero che al posto dell'unica isola di Omero abbiamo tutto un arcipelago, ma questo non sembra che sia di grave ostacolo per gli zelanti scopritori di realtà geografiche celate nelle leggende35. li caso ricorda la mitica isola di Antilia, ben nota alle fantasiose carte medievali dell'Atlantico, che egualmente si credette di aver ritro vato nel grande arcipelago o complesso di arcipelaghi scoperto da Colombo, così che quel nome da singolare divenne plurale: da Antilia alle Antille come da Aiolia, Eolia, alle Eolie36• Il vero motivo per cui si deve giudicare infelice fra tutte questa localizzazione, pur se fortunata, è però un altro. Grazie al favore di Eolo, Ulisse arriva in vista della natìa ltaca al decimo giorno di navigazione, sospinto dal favorevole Zefiro. Questo vento sarebbe effettivamente quello giusto per andare verso est dove ltaca si trova rispetto al creduto punto di par tenza, se non fosse che l'eroe avrebbe dovuto navigare sui monti della Sila, dato che fra le isole Eolie e T hiaki, come oggi si chiama ltaca, c'è la penisola italiana, o più esattamente la Calabria. Obiettare che la Calabria si può aggirare per lo stretto di Messina è inutile, perché questa rotta sarebbe pas sata nientemeno che fra Scilla e Cariddi (stando a una delle più concordi localizzazioni antiche), cosa su cui certo non si poteva sorvolare. Ulisse a suo tempo ci passerà, ma ricordiamo 23
come ce lo racconta Omero: come l'episodio più terrificante di tutta l'Odissea, anzi di tutta l'epica antica; c'è da sfidare un gorgo simile al Maelstrom di Poe e un mostro degno di Alien37• Con male impiegata ingegnosità, si trovarono conferme a questa localizzazione nella natura fisica dei luoghi, oppure si cercò fantasiosamente di ridurre tutto a verità storica. Il grande articolo di esportazione delle isole Eolie è stata fino a tempi recenti la pomice, un prodotto vulcanico che ha l'aspetto della pietra ma un peso specifico tanto basso da galleggiare. Di qui, secondo qualche autore antico ma, ahimè, anche secondo qualche commento moderno, sarebbe venuta l'idea dell'isola galleggiante. In realtà, di isole galleggianti nel mito greco non c'era solo questa, né ce ne sono solo nel mito greco. C'era per esempio anche la ben più illustre isola di Delo, che avrebbe cessato di galleggiare a zonzo sui mari solo dopo che Leto vi partorì Apollo e Artemide38• Là la pomice non c'è, e bisognerà escogitare qualche altra 'origine' della tradizione. Un'altra delle idee fallaci nella storia degli studi sul mito è quella che ha voluto ridurre il soprannaturale al naturale, cioè gli dèi e in genere i personaggi del mito a figure storiche trasfigurate, specificamente grandi uomini e benefattori del l'umanità, che sarebbero stati divinizzati nel ricordo delle genti, un po' per gratitudine un po' per confusione d'idee. Nell'Antichità la teoria si legò al nome di un certo Evemero di Messana, vissuto fra IV e III secolo, che la presentò in maniera immaginosa, introducendola con un racconto di viaggio, e da allora fu chiamata 'evemerismo'. Agli apologeti cristiani non dispiacque di citarla a prova della natura falsa e bugiarda degli dèi pagani, e un'ultima fortuna essa ebbe nel l'Illuminismo settecentesco accanto alla non meno vetusta inte pretazione allegorica, in una strana mescolanza di banalità e fantasia incontrollata39• Sotto i tanti travestimenti, le 'chiavi di lettura' del mito che sempre si ripresentano nel corso dei secoli si riconducono tutte agli stessi princìpi: esso sarebbe o verità storica trasfigurata, o riflesso immaginoso delle vicende natu rali, o saggezza morale in veste allegorica, o verità superiore 24
celata al volgo e riservata a chi sa capirla perché ne è degno. Aver pensato qualcosa di nuovo e più valido sulla natura del mito è uno dei veri e grandi progressi intellettuali dell'età con temporanea40. In questa vena, si fece di Eolo un saggio e dotto abitante di un'isola del Tirreno, che istruiva i naviganti sui venti di cui approfittare per andare a vela: una specie di istruzioni nau tiche o bollettino del mare, che gli valsero la gratitudine uni versale e una fama imperitura, trasfigurata nella leggenda41. Questo è evemerismo, in senso ristretto o allargato, che può andare d'accordo e incrociarsi con l'altro tipo di interpreta zione del mito come allegoria di fatti fisici, fenomeni naturali di vario genere. Così, si pretese di sapere che il pennacchio di fumo che sormonta il vulcano perennemente attivo di Strom boli era servito agli Eoliani da indicatore della direzione del vento, come un gigantesco anemometro o banderuola, e che di qui avesse avuto origine la storia di Eolo: «Si dice che dal fumo gli abitanti del luogo prevedano quali venti spireranno nei due giorni successivi, e da qui sarebbe nata la credenza che i venti obbedissero a Eolo». Così Plinio il Vecchio nella sua breve pagina sulle isole Eolie42. All'epoca di Augusto, lo storico-compilatore (e copiatore) Diodoro Siculo fa di Eolo nella sua Biblioteca storica un per sonaggio di grandi meriti morali, piissimo e ospitale, che avrebbe insegnato ai marinai ad andare a vela e li avrebbe anche forniti di attendibili previsioni del tempo, «attraverso l'osservazione del fuoco (vulcanico)», dice non molto precisa mente Diodoro43. Bizzarre fantasie degne di un'epoca remota e criticamente immatura? Niente affatto, se ancora in uno dei primi e più famosi monumenti della cultura contemporanea, l'Encyclopédie, si legge che Eolo sarebbe stato un principe-meteorologo che aveva previsto per Ulisse l'andamento dei venti e che a torto non fu ascoltato, con gravi conseguenze per l'incredulo eroe44• Tutta moderna, anzi relativamente modernissima, è invece l'idea di chi ha cercato dietro alle leggende non realtà fisiche 25
o storiche, né allegorie, ma altre leggende più antiche o piut tosto autentici miti, racconti carichi di significato religioso. Miti 'degradati' scoprivano volentieri, nelle fiabe popolari e nelle saghe tradizionali, i fratelli Grimm, trovando ampio seguito. In molti casi, la forma della storia a noi pervenuta sarebbe solo un riflesso appiattito e privo ormai del significato originario, invariabilmente più profondo e venerando, relativo alle grandi realtà dell'universo e della vita umana. Sotto la veste brillante e dilettosa della favola spunterebbero (per chi sa vedere) i colori austeri del vero mito sacrale. E molto spesso questo mito dimenticato avrebbe avuto a che fare con l'oltre tomba e col paese dei morti. L'isola di Eolo non sfuggì a questo genere di interpretazione, che alzò il velo della favola e in Aiolìa scoprì una mesta 'isola dei morti', così come cento altri personaggi, luoghi, eventi della mitologia dovevano avere a che fare con un aldilà mascherato o alterato dalla tradizione; non tanto però da sfuggire all'acuto interprete, anche se l'autore antico che ha trasmesso la storia non sapeva più di che cosa stesse veramente parlando. Nella guerra di Troia si riconobbe così l'assedio a una città d'oltretomba, come paese d'oltre tomba doveva essere Aia, meta del viaggio di Giasone, e come nella stessa Odissea i Feaci non dovevano essere altro che i barcaioli dei morti, una collettività di Caronti. Personaggi del l'aldilà dovevano essere in origine anche la remota e misteriosa Calipso, l'ingannevole Circe e perfino il temuto Polifemo, la cui caverna sarebbe stata figura dell'oltretomba45• L'ultimo disvelatore di Aiolla come isola dei morti è un epigono recente, mentre la massima voga della mitologia interpretata come cimi tero universale appartiene agli ultimi decenni dell'Ottocento, e di questo fascino del funerario si potrebbero trovare facil mente molti riflessi nelle arti dell'epoca: non per nulla questi sono gli anni in cui Arnold Bocklin dipinge e ridipinge con grande successo la sua Toteninsel. Ci sarebbe poi il problema posto agli antichi e ai moderni dall'esistenza di altri Eolo, fra cui il mitico progenitore di una 26
delle stirpi greche, gli Eoli, Aioléis. Tenere dietro a questi omo nimi, leggendari o pseudo-storici, di Oriente e di Occidente, di Lesbo, di Tessaglia, d'Italia, sarebbe impresa ardua e di poco frutto per l'argomento qui trattato. Poco frutto, perché c'è da credere fondatamente che l'Eolo america abbia in comune con le altre figure (due, tre, o forse una sola, variamente riflessa?) soltanto il nome, e appartenga a tutt'altro mondo, il mondo della favola, del folklore marinaresco, o come preferiamo dire. Peraltro, una contaminazione tra omonimi, anche se lontanis simi per carattere e origine, dovette esserci; non può essere un caso che il motivo dell'incesto tra fratelli torni più volte nel caso di diverse figliolanze 'eolidi', pur con sviluppi molto diversi. Se nell'Odissea esso è collettivo e apparentemente istituzionalizzato, per così dire, nel perduto Eolo di Euripide diventava invece individuale e colpevole, fino a una conclusione tragica46• Con l'epistola di Cànace a Macareo, nelle Heroides ovidiane (Xl della raccolta), la fama della storia sarà assicurata presso tutta la poste rità classicista. Un'altra eolide famosa, Alcione, sarà invece eter nata da Ovidio come esempio di amore coniugale finito tragi camente, ma stavolta senza incesto47• Personaggi assai diversi, quindi, che però l'Antichità volle qualche volta collegare per via di parentela, conforme alla sua tendenza di riunire tutte le tradizioni mitiche e leggendarie in un grande complesso dove tout se tient, molto spesso nella forma dell'albero genealogico48• Ma chi resta a Omero può permettersi di ignorare tutto questo. In conclusione: sbaglia proprio del tutto, senz'appello, chi chiama Eolo 'dio dei venti'? Di regola, certo, questo è un errore senza attenuanti; se si fa riferimento all'Odissea, dicendo che Ulisse incontra il dio dei venti commettiamo una grave sbada taggine, da correggere in ogni esame scolastico o universitario. Però. . . Chi prende in mano la più recente guida turistica delle isole Eolie, edita da De Agostini49, o meglio visita il grande Museo Eoliano di Lipari, impara qualcosa sul b6thros, la fossa sacrificale del dio Eolo cui a quanto pare si tributava un culto. Chi non vuole farsi raccontare niente senza andare a controllarlo coi 27
propri occhi, indagherà sul fondamento di questa storia del dio Eolo venerato a Lipari e troverà che essa riposa quasi solo su un passo del già citato Diodoro Siculo. Qui si racconta che nel304 a.C. il tiranno, poi re, Agatocle di Siracusa mosse una guerra di aggressione contro i pacifici Liparoti, e pretese da loro un for tissimo tributo. Siccome i vinti non riuscivano a mettere insieme l'ingente somma pretesa di cinquanta talenti d'argento, il tiranno si servì da solo e saccheggiò il tesoro sacro custodito nel pritaneo della città, consacrato «parte a Eolo, parte a Efesto». Poi male gliene incolse, perché il signore dei venti suscitò una tempesta che mandò a fondo le sue navi e quello del fuoco lo fece alla fine morire bruciato: in tutto questo, nota Diodoro, si vide un chiaro intervento divino50. Qui Eolo è affiancato a Efesto, dio con tutte le credenziali, in posizione di evidente parità51• C'è a tutto questo qualche 'riscontro oggettivo', come dicono i giu dici inquirenti? Un'attendibile fonte archeologica scrive che in realtà di questo culto non si è trovato a Lipari alcun docu mento iconografico, e parla solo di resti materiali molto incerti, fra cui un'epigrafe con le lettere AIO, integrabili in AIOLOY, 'di Eolo', riferito probabilmente a un oggetto consacrato52. Abbastanza poco, tutto sommato; al massimo se ne potrebbe dedurre una divinizzazione locale, quale si è avuta per diversi eroi e personaggi leggendari, in una cerchia ristretta ma parti colarmente interessata a quella determinata figura. Quanto a Eolo, è facile immaginare che i Liparoti tenessero molto ad avere un dio tutto loro, una figura divina potente e suggestiva che dominava gli elementi naturali più riottosi e puniva i sacrìlegi. A queste plausibili considerazioni se ne può aggiungere un'altra. La facilità con cui si è caduti e si continua a cadere nel l'errore ha una remota radice nell'idea, antica ma fallace, che la religione greca fosse strettamente legata alla natura. Oggi anche la più banale erudizione presume di saper collegare le principali figure dell'Olimpo con qualche elemento e aspetto della natura. Che Posidone fosse 'il dio del mare' lo sanno anche i più sprov veduti concorrenti dei quiz televisivi. Su uno scalino un po' più alto stanno quelli che sanno raccontare come Zeus fosse il dio 28
del cielo atmosferico, del fulmine e della pioggia. Qualcuno saprà anche che questa è un'eredità dei nostri antenati indo-europei, sempre occupati a parlare del tempo che fa o farà, secondo un'immagine ufficialmente ripudiata ma non cancellata del tutto. Chi all'erudizione unisce un animo incline al poetico saprà spie gare come gli antichi 'animassero la natura', empiendola di Driadi, Amadriadi, Fauni e compagnia. In chiave un po' più illu ministica e razionalistica, si pensa o si sottintende che il mito sia una specie di surrogato delle scienze naturali, buono per gente molto arretrata e un po' sempliciotta come gli antichi. ll fulmine di Zeus sarebbe stato inventato, in mancanza di meglio, da chi non sapeva nulla di elettricità statica; le frecce di Apollo che portano la pestilenza, da chi non sapeva nulla di batteri e con tagio, e così via. Tutte cose, abbiamo sentito dire tante volte, che avrebbero dovuto 'spiegare' fenomeni naturali altrimenti incomprensibili prima della scienza moderna, e in proposito ci sarebbe da chiedersi se con l'azione di esseri soprannaturali si 'spieghi' qualcosa, o piuttosto non si introduca qualcosa di altrettanto misterioso. O vogliamo credere che l'importante sia solo enunciare una proposizione causale qualunque, e che basti costruire un rapporto di causa ed effetto per sentire appagata la propria curiosità davanti a fenomeni non altrimenti com prensibili? Forse la categoria della 'spiegazione' non è la più giusta da introdurre qui. La più vasta fortuna di questi punti di vista, accettati magari poco consapevolmente e per inerzia, si riflette nella terminologia tradizionale, viva ancora in manuali e opere di consultazione, che classifìca come 'animiste', vale a dire 'animatrici dell'inanimato e della natura', tutte le religioni dei cosiddetti primitivi, al di fuori del novero delle religioni rispettabili, rivelate o tradizionali (scriviamo 'cosiddetti primitivi' non già per paura di non essere politically co"ect, ma semplicemente perché tutti gli uomini da noi conoscibili sono tutt'altro che primitivi, hanno alle spalle una storia umana molto più lunga di quella che separa noi da loro). In realtà ci sarebbe da porsi qualche problema su tutto ciò, perfino su Posidone dio del mare, col suo tridente e la sua con29
chiglia. Ci sarebbe da domandarsi, per esempio, perché Omero lo chiami costantemente enosichthon, 'scuotiterra', e non, che so io, 'scuotimare'. La verità è che gli dèi greci, almeno fin quando la religione olimpica era ancora religione vivente e non pretesto per elucubrazioni di vario genere, erano sì connessi (in parte) ad aspetti della natura, in essi risiedevano, nel mare, nei vulcani o nei boschi, ma non erano ad essi così strettamente legati come s'immagina, e tanto meno erano 'personificazione delle forze della natura' come si sente ancora dire a volte da un'erudizione superata o solo orecchiante. I casi di un vero legame essenziale fra divinità antiche e aspetti della natura sono di solito proba bili invenzioni letterarie (come i venti dell'Iliade già ricordati), leggende locali e secondarie, oppure si tratta di sviluppi tardi, più allegorie che vera religione, come quando si identificò Apollo col sole e Artemide con la luna. 'Divinizzazione della natura'? Non più che divinizzazione di ogni altro aspetto del mondo e dell'esistenza: dèi, e grandi dèi, erano Eros, Mrodite, Ares e Ade, rappresentanti di quello che tutti sappiamo. Se invece si dà per pacifico che la mitologia antica fosse una specie di trattato fisico-bio-meteorologico in forma allegorica e figurata53, un dio del vento non potrà mancare: e chi sarà se non il nostro Eolo dell'immaginazione e dell'iconografia popolare, con le sue guance paffute, bizzarro e capriccioso? Così un titolo divino abusivo è stato attribuito a questo singolare personaggio, sospeso tra la mitologia, la magia e la fiaba, e l'errore è scap pato di bocca qualche volta anche a chi avrebbe dovuto essere meglio informato. È un errore non senza significato, e neppure è senza significato il fatto che gli si possa accostare, come faremo nel capitolo che segue, il caso opposto e complementare: il caso di una dea degradata a 'maga'.
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Note 1 Nella Genealogia deorum gentilium, libro XIII, lo definisce dapprima 'rex ventorum', poi scrive però assai inesattamente che i poeti antichi lo avrebbero chiamato 'deus ventorum'; vedi anche la nota dello stesso Boc caccio alla sua Teseida, l. III stanza 28. Caso divertente: H.J. RosE, A hand book o/ Greek mythology, London/New York 1965, p. 244, parla nel testo correttamente di Eolo come «ruler of the winds»; l'indice dei nomi, redatto da qualcun altro (p. 342), porta <<Wind-god». E non è l'unico caso del genere. 2 Odissea X 2 1 . l Odissea X 72-75. 4 Iliade XXIII 198 sgg. 5 Odissea V 167; 291 sgg.; 3 82 sgg. 6 Teogonia 869-877. 7 Virgilio, Eneide I 51 sgg.; Ovidio, Metamorfosi I 262; XI 748, XIV 223 sgg., poco più che accenni; Valerio Flacco, Argonautiche I 574-617, qui c'è un ampio sviluppo a imitazione di Virgilio; Quinto Smirneo, Posthomerica XIV 475. 8 TI grande studioso della religione antica Hermann Usener, partendo dal presupposto abbastanza diffuso al suo tempo, che tutti i personaggi dell'epica debbano essere ritenuti originarie divinità fino a prova del contrario, faceva anche di Eolo un decaduto doppione di Zeus come dio del tempo atmosfe rico; v. «Rheinisches Museum» 53 (1898) pp. 329-379 ( Kleine Schri/ten, Leipzig/Berlin 1913, vol. IV, pp. 346-348). 9 Per la «walled island» nelle leggende del Medioevo irlandese v. THOMAS ]OHNSON WESTROPP, Brasi/ and the legendary islands o/ the North Atlantic: their history and /ab/e. A contribution to the "Atlantis" problem, in «Proceed. of the Royal lrish Acad.» 1912, VIII, p. 229. Un paio di isole con «ripam altissimam sicut murum» si trovano anche nella Navigatio sancti Brendani, capp. 6 e 24. Palefato, De incredibilibus 17 ( 1 8), interpretava alla sua maniera il muro di bronzo come il travestimento favoloso di un esercito di opliti! 1° Così si deduce chiaramente da Odissea VII 54-55; la genealogia che segue, dove i due diventano cugini, è ritenuta un'interpolazione moralistica. Su questa e altre 'espurgazioni' nel testo dei poemi omerici c'è la classica trattazione di GILBE.Kf MURRAY, The rise o/ the Greek epic, Oxford 1924, p. 125 sg. 11 Matteo 8,27, e cfr. gli altri sinottici. 12 ]. G . FRAZER, Il ramo d'oro. Studio della magia e della religione, Torino 1950, vol. l, pp. 153 - 157, 291 sg. u Citiamo qui WILHELM FIEDLER, Antiker Wetterzauber, Stuttgart 193 1 , «Wiirzburger Studien zur Altertumswissenschaft» l, p . 3 3 sg. 1 4 ]OHN CUTHBERT LAWSON, Modern Greek folk/ore and ancient Greek religion. A study on survivals, Cambridge 1910, p. 45. =
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15 Vedi P. }ANNI, Il naufragio di Martiniana, ovvero del chiamare il vento a fischi, in Curiositas. Studi di cultura classica e medievale in onore di Ubaldo Pizzani, Napoli 2002, pp. 3 1 1-314. Alle testimonianze moderne là citate si aggiunga quella di CHARLES DICKENS, American notes, cap. 16: il primo
ufficiale della nave a vela su cui era imbarcato lo scrittore «whistled zea lously» per far arrivare l'agognato vento durante la traversata dell'Atlantico, e nessuno sembrava meravigliarsene. Vedi anche A. MACDERMOIT Some old belie/s and superstition o/ seamen, in «1'he Mariner's Mirror» 42 ( 1 956), p. 254 sg. e S. THOMPSON, Moti/-index o/folk-literature, Copenhagen 1955 sgg., vol. II, p. 380 sg., D 2 142. 1 .6: 'Wind raised by whistling'. 16 Già l'antico annotatore si poneva il problema (scolio al v. 20), così come si stupiva del contrasto con l'Iliade (ibid.). 17 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 60. 18 FIEDLER, Antiker Wetterzauber, cit., p. 33, ricordava come in Colu mella, De agricultura X 344, la pelle asinina appaia legata, nelle pratiche etrusche, alla magia del tempo se non esattamente del vento; e cfr. il lessico di Esichio, voce anem6tas. Il mitologo italiano Natale Conti, meglio noto come Natalis Comes (t ca. 1582), accenna a un rapporto fra magia del vento e pelle di delfino: <
Essai sur les origines de certains thèmes odysséens et sur la genèse de l'Odyssée) . Vedi anche DIETRICH WACHSMUTH, Winddiimonen, -kult, in Der Kleine Pauly, Miinchen 1975, vol. V, col. 1380 sg., che sottolinea «quanto profon
damente le credenze relative ai venti fossero in ogni epoca radicate nella religione greca». 20 Eunapio, Vitae sophistarum VI 2,10- 1 1 . 21 0LAO MAGNO, Historia delle genti e della natura delle cose settentrionalt; Venezia 1565, libro m, cap. 16, carta 44. Segue un richiamo all'Antichità, ma non all'Eolo omerico bensì all'episodio in Erodoto, Storie VII 191,2: maghi persiani accompagnarono Serse nella sua spedizione contro la Grecia e placa rono a comando i venti che avevano inflitto un disastro alla flotta del re. 22 Citato in GERMAIN, Genèse de l'Odyssée cit. , p. 180 sg. lvi, un paio di altri esempi di tradizioni relative ai 'venti legati' non presenti in Frazer. 23 ]. GRIMM, Deutsche Mythologie, Gottingen 1844 (2' ediz.), vol. I, p. 606 sg. (cita fonti medievali), e vol. II, p. 1401 sg. 24 K.ARL MOLLENHOFF Sagen, Miirchen und Lieder der Henogthiimer Schles wig Holstein und Lauenburg, Kiel 1845, p. 222, n. CCCI. 25 Contes des marins XXIII, citato da LUDWIG RADERMACHER, Die Erzah lungen der Odyssee, in «Sitzungsberichte der Kais. Akad. der Wissenschaften in Wien. Philos.-hist. Kl.» 178/1 ( 1915), p. 2 1 . ,
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6 2 Nel citato Motifindex o//olk-literature di STITH THOMPSON sono pre senti i motivi 'Bag of winds' (vol. l, p. 513, C 322. 1 ) e 'Wind raised by loo sing certain knots' (vol. Il, p. 380 sg., D 2 142. 1 .2). 27 A.D. FRASER, The origin o/Aeolus, in <
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lana chiamata «Les énigmes de l'univers»; dall'etichetta si immagina il pro dotto. }6 Sulle isole fantastiche dell'Atlantico si è scritto ampiamente, fin dal classico studio di KONRAD KRETSCHMER, Die Entdeckung Amerika's in zhrer Bedeutung /ur die Geschichte des Weltbildes, Berlin/London/Paris 1 892, par ticolarmente attento alla questione di Antilia, p. 206 sgg. In seguito se ne occuparono autori come RAYMOND C. BEAZLEY, The dawn o/ modern geo graphy, London 190 1 , vol. II, p. 230 sgg. (sui contatti con la questione di Atlantide v. p. 239), WESTROPP, Brasi! and the legendary island cit., e G.R. CRONE, The 'mythical' islands o/ the Atlantic Ocean: a suggestion as to their origin, in Comptes rendues du congrès international de géographie. Amsterdam 1938, Leiden 1938, vol. Il, pp. 164-17 1 . La più completa rassegna di isole immaginarie nella cartografia del Medioevo è quella di A.E. NORDENSKIÒLD, Facsimile-Atlas to the early history o/ cartography, Stockholm 1 889. Per ironia della storia, tanto Antilia quanto l'altra leggendaria Isola delle Sette Città (qualche volta con essa identificata) sono segnate sul globo di Martin Behaim del 1492, proprio la data della scoperta dell'America. Il primo ad applicare il nome di Antilia alla nuova realtà geografica sarebbe stato Pietro Martire D' Anghiera, dopo una precedente identificazione con le Azzorre scoperte di fresco. Vedi CRONE, The "mythical" islands o/ the Atlantic Ocean, cit., p. 166. 37 Odissea XII 234 sgg. }S La più nota allusione a Delo come isola galleggiante è quella di Vir gilio, Eneide III 76 sg., citato da Seneca, Natura/es quaestiones VI 26,2. Su Eolia come isola galleggiante e su varie altre cose qui discusse, v. ALESSANDRA BUONAJUTO in «Quaderni dei Convegni delle Settimane culturali di Sper longa» 3 (settembre 2000), pp. 7 1 -84, con ulteriore bibliografia. }9 «Par-tout on voit dominer l'Evhémérisme», così NICOLAS FRÉRET, Observations sur les deux déluges ou inondations d'Ogygés et de Deucalion, in «Mémoirs de l' Acad. des inscriptions et belles-lettres» 23 0756), p. 18. 40 Ma è anche vero che evemerista era ancora Thomas Carlyle, col suo Odino esempio di «Hero as divinity>> (On heroes, hero-worship and the heroic in history, lecture 1), così come è vero che <J'exégèse allegorique n'est pas morte avec Proclus: elle fleurit en plein 20ème siècle» (FÉLIX BUFFIÈRE, Les mythes d'Homère et la pensée grecque, Paris 1956, p. 4). Una difesa di Eve mero, le cui idee sarebbero state appiattite e banalizzate dai suoi interpreti e seguaci, soprattutto dagli apologeti cristiani, e che non meriterebbe di essere chiamato 'evemerista' nel senso derogatorio che si dà di solito alla parola, è quella di KEES W. BOLLE, In de/ence o/ Euhemerus, in Myth and law among the Indo-Europeans. Studies in Indo-European comparative mytho logy, Berkeley/Los Angeles/London 1 970, pp. 19-38. 41 Vedi per esempio Palefato, De incredibilibus 17 (18), un libriccino pieno di cose del genere.
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42 Plinio, Natur. hist. III 14 (94). Lo stesso ripetono altre fonti latine; l'idea forse risale a Varrone. 43 Diodoro Siculo, Biblioteca storica V 7 . 4 4 Voce Fable (di D e Jaucourt). 45 Eolo: }ACK LINDSAY, The clashing rocks. A study o/ early Greek refi gian and culture and the origin o/ drama, London 1 965 (ma l'idea non era nuova: v. HANS VON GEISAU in Kleiner Pauly, 1964, vol. I col. 1 79 sg.); Troia: ancora Lindsay, p. 359; Aia: LUDWIG RADERMACHER, Das Jenseits im Mythos der Hellenen, Bonn 1903 , p. 6 1 , n. l ; Feaci: F. G. WELCKER in «Rheinisches Museum» l ( 1 833), pp. 2 1 9-283, poi nelle Kleine Schri/ten, Bonn 1 845, vol. l, pp. l sgg.; Calipso: G. HERMANN, !VJlypso, Halle 1919; Circe, v. presso L. RADERMACHER, Die En.iihlungen der Odyssee, cit., p. 7; Polifemo: ERN ST HowALD, Der Mythos als Dichtung, Ziirich!Leipzig, s. d., p. 72. Ma sono solo esempi, che si potrebbero moltiplicare. 46 All'incesto messo in scena da Euripide nell'Eolo si accenna con scan dalo nelle Nuvole di Aristofane, 1 3 7 1 sg. 47 La morte in naufragio dell'amatissimo marito Ceìce, e la trasforma zione di tutt'e due i coniugi in uccelli marini, sono raccontati nelle Meta morfosi XI 4 10 sgg. 48 Così ha fatto ancora Diodoro Siculo, Biblioteca storica IV 67. 49 FRANCO BARBAGALLO, Isole Eolie, «Guide idea», Milano 2002, p. 16. 5 0 Diodoro Siculo, Biblioteca storica XX 1 0 1 . 5 1 ANNA SIMONETTI AGOSTINETTI, nel commento alla sua edizione ita liana (Diodoro Siculo, Biblioteca stor.ica. Libri XVIII-XX, Milano 1988, p. 382) annota prontamente: «Rispettivamente dio dei venti e delle tempeste e dio del fuoco». 52 FILIPPO GIUDICE in Lexicon iconographicum mythologiae classicae, Ziirich/Miinchen 1981, vol. I/1 p. 398 sg., voce Aiolos. 53 Idee di questo genere hanno circolato dall'Antichità fino al nostro tempo; è noto a quali estremi esse furono portate nella Germania dell'Ot tocento, anche se in una particolare chiave. Una delle più franche formula zioni la diede (scegliamo fra mille) Charles François Dupuis, <
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Capitolo secondo «Circe, la maga del Circeo»
Camminarono per il bosco finché trovarono la casa dell'incantatrice, guardata da lupi e leoni mansueti che non fecero loro alcun male. Chiamata, la maga venne alla porta e fingendosi amica li invitò a entrare. Tutti si fidarono, meno uno che rimase nascosto ad atten dere. La maga diede loro da bere una bevanda stregata, poi li toccò con la bacchetta magica e li trasformò in maiali; li chiuse in un recinto e diede loro da mangiare le ghiande e gli altri frutti selva tici del bosco. Il compagno che non li aveva visti tornare andò a chiedere aiuto, piangendo spaventato, a un famoso principe che aveva affrontato giganti e orchi, e che col coraggio e l'astuzia aveva sempre la meglio. Armato della sua spada e del suo arco il principe si mise in cam mino. Stavolta però neppure lui sarebbe più tornato se un buon genio amico non gli si fosse fatto incontro e non gli avesse mostrato un fiore raro e strano che ha il potere di rendere vani gli incante simi. Così, quando la maga volle trasformare anche lui in maiale, il principe sfoderò la spada e la costrinse a promettere che non avrebbe più usato la sua stregoneria. Con un altro filtro la maga fece tornare uomini le sue vittime che piansero di gioia e di gratitudine per il principe astuto e senza paura.
Da dove abbiamo trascritto questa pagina? Forse dalle Fiabe per i bambini e per le famiglie di quei due famosi fratelli tedeschi, come tanti immaginerebbero? No, abbiamo riferito fedelmente, solo tralasciando i nomi propri e cambiando 37
appena qualche acconciatura dei personaggi, una pagina del l'Odùsea: l'anonimo principe è Ulisse stesso; il personaggio prudente è Euriloco, quasi l'unico compagno dell'eroe che nel poema esca dall'anonimato; il buon genio è il dio Hermes1• Testimonianza incredibile di certe costanti dell'immagina zione umana: a distanza di quasi tremila anni, ma probabil mente molti, molti di più, si raccontano e ascoltano delle storie uguali nella sostanza e molto simili anche in particolari for mali che si immaginerebbero casuali ed effimeri. Due raccolte narrative fra le più famose del mondo, le Mille e una notte e le fiabe dei Grimm cui abbiamo già alluso, ne contengono due molto vicine alla nostra, rispettivamente quella di Bedr Basim e della regina Lab, e quella di Jorinde e JoringeF. E l'anonima incantatrice? 'La maga Circe !', esclamerà a questo punto chi ha ricordato la famosa avventura di Ulisse, e il nome evocherà subito una quantità di immagini: il pro montorio della costa laziale dalla forma caratteristica , inconfondibile e visibile per vastissimo raggio, detto Circeo o in anni lontani 'Circello', con la cittadina di S. Felice, il parco nazionale, qualche cimelio della leggendaria vicenda mostrato ai forestieri ammiranti (accadeva già nell'Antichità)3, o più pro saicamente qualche rinomata trattoria intitolata alla 'maga'. Stavolta dove sta l'errore? A voler essere precisi, l'errore starebbe proprio in quella parola. Infatti, oltre a sopprimere i nomi propri nella nostra parafrasi, abbiamo anche alterato un nome comune: la Circe di Omero non è maga, strega o incan tatrice, è una dea, chiamata così più e più volte secondo la tec nica dell'epica antica col suo repertorio di ritornelli detti 'for mule', reimpiegati all'infinito senza che si sentisse il bisogno di cambiarli più dello stretto necessario, perché si usava così fin dai tempi in cui si doveva improvvisare a voce e non c'era da lamentarsi dei risultati. «Circe, Diva terribile dal crespo/crine e dal dolce canto» (Pindemonte), oppure «Circe dai riccioli belli, dea tremenda con voce umana» (Privitera); i traduttori possono discordare su tutto ma non su quella qualifica, che suona troppo chiara: the6s. I Greci avevano un'alta e una piccola aristocrazia 38
di dèi, divise abbastanza nettamente, e Circe appartiene certo alla seconda, ma dea è pur sempre e non meriterebbe di finire nella variopinta e dubbia compagnia dei 'maghi', parola cari cata di connotazioni non sempre favorevoli. Eppure . . . , l'errore sarebbe difendibile da chi rivendicasse di non essersi fermato a Omero, parlando di 'maga' Circe, ma di essere risalito al di là dell'Odissea, fino a quel mondo di rac conti popolari tradizionali cui il poema ha attinto a piene mani. Lo abbiamo sottolineato noi per primi con la nostra provoca toria parafrasi: se si toglie Circe dalla cornice epica, dimenti cando che il suo antagonista è un eroe reduce dalla guerra di Troia, e si ricolloca nella cornice che oggi chiameremmo fiabesca, la dea vi si inserisce senza una piega e ritorna maga, come la chiamiamo con una sbadataggine che nasce in realtà da una giusta intuizione, un 'errore' che stavolta ha qualche parte di ragione. Apriamo una parentesi: anche se Circe si comporta come una strega dei fratelli Grimm, Omero non afferma mai che le sue vittime siano destinate a finire in pentola come Hansel e Gretel. Ma il fatto che i malcapitati vengano trasformati pro prio in un animale appetitoso come il maiale e che Circe per prima cosa si preoccupi di nutrirli, può suscitare brutti sospetti. Qui potrebbe celarsi il frammento di una tradizione popolare 'purgata' degli aspetti più crudi, rifiutati dal gusto del poeta e del suo pubblico, ma non tanto da cancellarne ogni traccia4• Circe è una maga e non una dea, quando trasforma gli uomini in animali con pozione stregata e bacchetta magica, come è molto difficile immaginare che faccia un dio di qua lunque mitologia, tanto meno gli dèi dell'Olimpo (Atena nel l'Odissea usa due volte la bacchetta magica, ma alla pozione non ci arriva)5• Anche chi parlava di Circe ancora in piena Antichità poteva essere suggestionato da questi aspetti della sua figura, gli aspetti che più contano, ed esprimersi in con seguenza. Quando il cristiano Tertulliano la chiama 'venefica' e 'sacerdos' dei demoni e degli angeli (caduti), ha già fatto il 39
passo decisivo della sua degradazione da dea a maga: a un dio non si confà il mestiere di avvelenatore e, soprattutto, non può essere sacerdoté. Circe viene da una terra e da una famiglia dove gli incan tesimi sono di casa, viene da un ciclo leggendario che al pari del nostro episodio dell'Odùsea lascia trasparire assai chiara mente, sotto il panneggio epico, un genere di storie che non siamo abituati a considerare 'epiche'. Anche il suo nome, con nesso certamente con kirkos, 'sparviero' o 'falco', riporta a un mondo magico dove gli uomini si trasformano in animali e viceversa, fa pensare a una 'Lady Hawk' come l'eroina della moderna fiaba cinematografica. Tentiamo ancora una parafrasi, alla maniera di quella con cui abbiamo cominciato: Un eroe audace, per incarico di un re malvagio, va in cerca di un favoloso, aureo tesoro custodito da un dragone insonne nel paese estremo del sole levante e degli incantesimi; ci va scortato da una schiera di compagni che possiedono ognuno una diversa capacità sovrumana e che lo aiuteranno in maniera decisiva nei momenti più critici. Per arrivare alla meta, la compagnia temeraria dovrà passare il terribile varco delle due rocce che si serrano minacciando di stri tolare l'intruso, il varco attraversato dallo sciame delle colombe che volano al paese sito ai confini del mondo, per riportarne la magica acqua della vita. L'eroe supera le difficilissime prove che gli impone il re del paese, custode del tesoro, e fugge con sua figlia, la princi pessa maga innamorata che già lo ha aiutato coi suoi poteri. Quando gli uomini del re inseguono lei e il principe straniero, la principessa uccide il giovanissimo fratello e getta dietro di sé i frammenti del cadavere, che gli inseguitori non possono non fermarsi a raccogliere. n principe e la sua terribile sposa scampano in questo modo e arri vano salvi alla meta.
Qui non c'è nulla, assolutamente nulla, che non trovi molti e stretti riscontri in tutte le grandi raccolte di fiabe, e che non risvegli cento echi nel ricordo di chiunque le abbia un po' sfo gliate7. Notiamo soltanto che la storia del fratello fatto a pezzi è una variante crudele e macabra della 'fuga magica' tanto nota 40
ai folkloristi dalle tradizioni di ogni paese: il fuggitivo getta alle proprie spalle oggetti che per qualche ragione hanno il potere di trattenere e rallentare gli inseguitori8. Qui il motivo si presenta in forma orripilante, ma sappiamo bene che i rac conti tradizionali tollerano questo e altro. La leggenda greca ne conosceva anche una variante 'sportiva', nella storia di Ata lanta, la virago arcade pugilatrice (le suonò a Peleo, il padre di Achille) e campionessa di corsa, che sfidava i suoi preten denti e li metteva a morte se non la battevano (una variante del ben noto 'motivo di Turandot'). Il vincitore e sopravvis suto fu quello che usò l'astuzia di gettare dietro di sé, in un momento in cui conduceva la gara, dei frutti d'oro alla cui ten tazione Atalanta non seppe resistere. Chinandosi a raccoglierli perse abbastanza tempo da arrivare seconda, per l'unica volta. Quel che non possiamo invece aggiungere, se guardiamo agli sviluppi successivi della storia, è il rituale 'e vissero felici e contenti', perché questa, se non ce ne siamo già accorti, è la saga degli Argonauti, la storia di Giasone e Medea, destinata a finire nel peggiore dei modi quando si concretò in forme di poesia prima epica poi tragica. Qui Circe compare nella fase in cui la storia assume la forma di epos eroico, ma restando nello sfondo. Come figlia del Sole e sorella del re Aietes, nella lontana Colchide, è zia di Medea, la maga per eccellenza della leggenda antica, coi caratteri sinistri che ne faranno per tutti i tempi l'incarnazione più classica della femminilità vendica tiva e crudele: la principessa innamorata che aveva ucciso il fratello ucciderà per vendetta i figli quando sarà moglie tra dita e furente9• La storia della nave Argo e del suo eroico equipaggio è molto antica, più antica dell'Odissea, come Omero ci fa capire con una preziosa allusione o citazione: Ulisse, così Circe annuncia nelle istruzioni che gli dà al momento del congedo, dovrà attraver sare le rupi fra cui già passarono con grande rischio gli Argo nauti sulla loro nave, «Argo che piace a tutti, che interessa tutti», un soggetto di racconti popolarissimi, il best-seller dell'epica fiabesca10• li poema omerico ha attinto a un più antico ciclo, e 41
Ulisse ricalca le orme di una celebre compagnia eroica. Ne trattò nella maniera più compiuta il folklorista svizzero Karl Meuli in un piccolo libro di suggestiva lettura, partendo da un'osserva zione che si potrebbe far risalire addirittura a Straboneu. La tra dizione antica implica questa priorità cronologica quando attri buisce all'Argo il primato di essere stata la prima nave in asso luto, o almeno la prima 'nave lunga', galera da guerra a remi, un oggetto che ai tempi di Ulisse era diventato il più comune del mondo. E alla spedizione degli Argonauti avrebbe parteci pato anche Eracle, che con Troia ebbe a che fare, ma varie generazioni prima della guerra famosa. I caratteri 'cosmici' della storia, come il paese del Sole per sonificato e gli aspetti fantastici della sua geografia con le rupi trappola, fanno pensare che essa fosse in origine immaginata in uno spazio ideale e che solo in seguito sia stata localizzata nella realtà, come è accaduto dimostrabilmente in tanti altri casi. Il paese ai confini del mondo fu riconosciuto in una loca lità che sembrava presentare dapprima caratteri di paurosa lon tananza e pericolosità, ma che diventò progressivamente meno esotica e raggiungibile senza difficoltà così terribili: la costa orientale del mar Nero, un mare che vide già in epoca molto antica la fondazione di colonie greche; il varco delle rupi bat tenti fu localizzato all'imboccatura dello stesso mare, in quelli che millenni dopo saranno ancora 'gli Stretti' per eccellenza. Molto più complicato fu invece il compito di tracciare sulla carta l'itinerario del fortunoso ritorno; col mutare e progre dire delle conoscenze geografiche, si cambiò idea tre o quattro volte. Dopo una forma iniziale della leggenda, in cui del ritorno forse non ci si preoccupava affatto o si faceva sempli cemente coincidere il suo percorso con l'andata, si cercò via via la soluzione più complicata, attraverso regioni ancora poco o per nulla note, dove si potessero allogare i portenti che il genere di racconto richiedeva. Gli Argonauti risalirono il fiume Fasi fino all'Oceano da cui si immaginava che esso scaturisse, e attraversarono poi l'Mrica a piedi con la nave sulle spalle (! ) 42
per tornare nel Mediterraneo, oppure penetrarono nella parte centrale e occidentale del continente europeo attraverso un sistema di fiumi in cui entravano Danubio, Reno e Rodano, fondato su un nocciolo di verità e adattato alle esigenze della storia12• n primato della complicazione, in fatto di geografia del ritorno, spetta poi alle cosiddette Argonautiche orfiche, lo strano poema anonimo, allegorico ed esoterico-iniziatico13• Anche i personaggi diventarono meno favolosi e più umani: la principessa-strega diventò partner in un difficile matrimonio misto, un incontro burrascoso fra culture troppo diverse, e l'eroe stesso si trasformò in un posato principe ateniese egoista e calcolatore, di sentimenti quasi borghesi. La storia venuta dal buio dei 'primordi', forse già raccontata intorno al fuoco serale dei cavernicoli, diventava un epos eroico secondo tutte le regole, poi soggetto di teatro con Euripide, poi poesia sempre più letterata, fino ad essere evocata nel frigido rilievo marmoreo di Vincenzo Monti: «Quando Giason dal Pelio l Spinse nel mar gli abeti . . . »14• Quanto a Circe, questo personaggio di casa nostra che gli abitanti di S. Felice Circeo trattano come una compaesana, viene da molto lontano. Attraverso le leggende dell'età più antica essa fece il più straordinario viaggio immaginabile, dal l' estremo oriente all'estremo occidente, dalla sua Colchide ai piedi del Caucaso fino al mare dell'Esperia, dal sol levante al paese della sera. In Omero la sua isola Aidie, Eea se vogliamo italianizzarne il nome, non può essere situata che nell'indeter minato occidente di tutte le navigazioni di Ulisse. A occidente stava Itaca la patria dell'eroe, e le conoscenze geografiche che " I'Odissea convenzionalmente ammette nel proprio orizzont� imponevano questa scelta: i mari sconosciuti, dove era lecito immaginare mostri e portenti, non potevano stare che a ovest15• Qualcuno ha dunque tolto Circe dal ciclo orientale per eccel lenza e l'ha trasferita senza troppi scrupoli sulla strada di Ulisse, l'eroe dell'occidente. Per fortuna, fortuna per la nostra curiosità di ricercatori, l'operazione è stata fatta in maniera abbastanza maldestra, 43
!asciandone una traccia chiarissima nell'incoerenza geografica che ne deriva. Al nome della residenza di Circe è rimasta attac cata una descrizione che andava bene prima, nel ciclo argo nautico, ma che va malissimo ora, nell'Odissea, dove il fram mento di oriente in un ciclo occidentale si tradisce come un evidente corpo estraneo: «l'isola di Eea, dove è la casa del l'Aurora che presto si leva, le danze e il sorgere di Helios»16• E ricordiamo, a confermare la confusione, che, appena lasciata l'isola di Circe, Ulisse incontra le Sirene, poi Scilla e Cariddi, tutte cose che la tradizione ha sempre localizzato con molta concordia nei mari italiani, rispettivamente dalle parti di Napoli e nello Stretto di Messina, quindi in pieno occidente (e almeno quanto all'orientamento generale la tradizione era giustificata): ora improvvisamente ci troviamo in estremo oriente, senza sapere come ci siamo arrivati né come ne verremo via. Per risolvere l'evidente aporia, c'è stato fin dall'Antichità chi ha avuto il coraggio di interpretare quei versi in un senso tutto diverso da quello che essi esprimono tanto chiaramente: o Omero avrebbe voluto dire che la dimora di Circe è illumi nata dal sole del primo mattino, perché il Circeo è alto, oppure che Ulisse e i suoi compagni sono sbarcati nella parte orien tale dell'isola ! 17• E qualche interprete moderno ha fatto anche di peggio18 (sembra una legge: più grande è l'opera letteraria, più gli interpreti si sentono autorizzati a spararle grosse). Anche se ugualmente poco plausibile, è meno irragionevole il tentativo di chi ha immaginato una navigazione di Ulisse attorno a tutto l'orbe delle terre, lungo il fiume Oceano che lo circonda e che pare fatto apposta per questo scopo, colle gare Circe e Calipso; quest'ultima avrebbe caratteri di auten tica 'occidentalità', probabilmente fin da quando fu concepita la sua figura. Il poeta avrebbe dunque sottinteso, !asciandolo indovinare, il viaggio di Ulisse che, almeno dal punto di vista nautico, sarebbe il più lungo e straordinario, cosa pochissimo credibile. Più sottile un'interpretazione recente secondo cui quei versi non avrebbero alcun significato geografico, ma vor rebbero solo ricordare che Circe era figlia del Sole19• 44
Ma la giusta via era stata indicata con grande chiarezza e con una felice immagine già in pieno XIX secolo dal grande storico inglese George Grote, che dava ragione a chi aveva riconosciuto il carattere puramente mitico del regno di Aietes ('Aia', non ancora Colchide), e aveva attribuito la localizza zione di Circe nel Tirreno agli 'impulsi fantastici' dei Greci di Cuma e della Magna Grecia. In questo modo l'Aia di Aietes e la Aiaie di Circe furono proiettate ai due limiti opposti del l'orizzonte geografico: «fratello e sorella divennero come per noi le Indie orientali e occidentali»20. Recentemente, è tornato sull'argomento 'Ulisse e l'Italia' lo storico israeliano lrad Malkin, inserendo tutta la problematica relativa a Circe nel più vasto quadro dei precoci contatti dei Greci con paesi e popoli dell'Occidente mediterraneo, prima esplorato poi coloniz zato21. Un'altra ipotesi più lambiccata che verosimile, anche se sostenuta da interpreti stimabilissimi, è stata avanzata da chi vedeva nell'isola galleggiante di Eolo un artifizio abilmente escogitato per rendere accettabile il drastico ci-orientamento del racconto, lo snodo fra la serie delle originarie avventure occidentali e quelle tolte di peso dalla storia degli Argonauti, che indicano nella direzione opposta: se l'isola galleggia e cambia posizione sui mari, Ulisse può averla lasciata da una parte e ritrovata dall'altra, perché si è mossa da quando lui parte munito del magico otre a quando si ripresenta a Eolo umiliato e vanamente supplice22. Infine, si è più volte voluto riconoscere negli enigmatici versi del libro decimo dove Ulisse dichiara stranamente di aver perduto ogni nozione dei punti cardinali nell'isola di Circe (quando lui e i compagni hanno appena visto sorgere il sole !), un deliberato intento di confon dere le carte, per mascherare in un disorientamento generale l'incoerenza che nasceva dalla contaminazione di due cicli distinti e geograficamente inconciliabili. Solo come curiosità sarà poi da ricordare l'altra idea di chi ha spiegato l'incerta posizione dell'isola di Eolo col fatto che essa è l'isola dei venti, e i venti vanno capricciosamente di qua e di là23. 45
Ma il pubblico originario, probabilmente, si curava poco di tutto ciò, in questo forse più saggio di noi, e sapeva d'istinto che nel mondo della fantasia ci sono diverse geografie tutte ugualmente legittime, anche una per cui l'estremo oriente può stare vicino all'estremo occidente. Oggi siamo tornati a questa semplice verità, e l'unico progresso intellettuale sta nel fatto che sappiamo spiegarcelo consapevolmente e in termini più sofisti cati. Riguardo alla precisa quanto assurda identificazione col promontorio Circeo, essa venne certamente più tardi, quando i Greci acquistarono confidenza con gli aspetti della costa tir renica italiana. Nella Teogonia di Esiodo si legge la curiosa notizia secondo cui Ulisse avrebbe avuto da Circe ben due figli, uno di nome Agrios (significa 'selvatico', e qui interessa poco), e l'altro Latinos, che invece ci fa drizzare le orecchie24• La storia, notiamo, si è divertita a far sì che il Circeo si tro vasse qualche millennio più tardi nella provincia di Latina, nome recentissimo ma con radici ovviamente remote, e in ogni modo nella regione Lazio, nome molto antico. L'identificazione di Eea col promontorio laziale resta però il massimo della p�r versione interpretativa e della noncuranza per l'intenzione espressa del poeta, se questo non è infierire troppo sulla gente semplice che ebbe per prima l'idea. Omero non si contenta di chiamare 'isola' (nesos) la residenza della dea. Se non fosse che per questo, si potrebbe salvare la situazione andando a sca vare nella storia della parola nesos, che in una fase più antica della lingua poteva anche significare 'promontorio', o più in generale 'paese ampiamente circondato dal mare'. Qualcuno più incline a cercare dappertutto sconvolgimenti geologici e cose simili (conosciamo questa specie) preferirebbe forse soste nere che il Circeo, in epoche remote, era davvero un'isola ne abbiamo sentite di ben altre; c'è perfino un sito Internet ad assicurarci che tremiladuecento anni fa (sic ! ) il paesaggio doveva essere molto simile a come lo descrive Omero (merce vecchissima in confezione modernissima)25• Ma il rimedio non basterebbe: subito dopo, per sottolineare l'insularità del posto, 46
il poeta aggiunge: «cinta da un mare sterminato, infinito (apéi ritos)». Il colpo di grazia arriva nel verso seguente: l'unico carattere fisico dell'isola di cui si viene a sapere, è che essa era 'bassa' (chthamale). Chi ha ammirato il vasto panorama dai 547 metri della vetta del Circeo o ha contemplato il suo carat teristico profilo all'orizzonte, saprà che giudizio dare di quella tradizione, anche se ad essa hanno fatto omaggio nientemeno che Virgilio e Dante, per nominare solo i maggiorF6. 'Spiegare Omero con Omero' , fu un principio enunciato dalla critica antica, che aveva perfettamente ragione, ma solo per certi aspetti. In qualche caso, restando nell'ambito delle avventure di Ulisse, ci vogliono invece spiegazioni attinte molto lontano, qualche volta incredibilmente lontano. Si è già visto con Circe ed è facile trovarne qualche altro esempio. Si sa che Ulisse incontra due volte la classica figura dell'orco: prima l'incarnazione più perfetta dell'inciviltà bestiale e feroce, il Ciclope dal nome curiosamente rispettabile e altisonante di Polifemo; poi un intero popolo di giganti cannibali, i Lestrigoni. La storia dei Lestrigoni, nome di etimologia non traspa rente, non ha alcuna diffusione al di fuori dell'Odissea, anche se probabilmente essa non è frutto di libera invenzione del poeta ma rappresenta una tradizione da lui scovata chissà dove, e poco nota ad altri. Gli scarsi cenni che se ne trovano nella letteratura successiva non nascondono di dipendere dall'O dissea e ad essa non aggiungono nulla. Ciò che più sembra aver interessato gli Antichi è la solita ricerca di una possibile identificazione del temibi:ie paese e del porto ingannevolmente sicuro, una sinistra trappola per navi che sarà fatale a tutta la piccola flotta tranne !"ammiraglia' di Ulisse. La scelta più fortunata, favorita dagli autori latini, cadde molto stranamente sull'amena (e piatta ! ) costa laziale, dove oggi sorge la pacifica cittadina di Formia. Ma c'era anche una più vecchia localizzazione concorrente in Sicilia, vicino al presunto paese dei Ciclopi, testimoniata per primo da Tuci dide27. I moderni hanno continuato sulla strada della fantasia 47
male impiegata. Fondandosi sull'aspetto del luogo da essi abi tato, che Omero dipinge come una specie di angusto fiordo, i Lestrigoni sono stati sballottati dalla Crimea (Balaclava) all'Al bania (le Bocche di Cattaro) alla Sardegna (Bonifacio) e curio samente al Marocco, per motivi poco chiari. Ma non è finita: certi oscurissimi versi in cui Omero sembra dire che nel paese dei Lestrigoni le notti sono molto brevi o quasi nulle28, hanno suggerito di cercare questa terra dalle notti bianche fra i veri fiordi, in Norvegia. Perlomeno, dalle alte lati tudini di Russia o Scandinavia sarebbe arrivata ai Greci, già in età molto antica, qualche incerta nozione dei fenomeni sor prendenti che là si verificavano, secoli prima che una scienza astronomica avanzata se ne desse perfettamente ragione29• Il primo a pensarlo fu il filosofo stoico Cratete di Mallo (Il secolo a.C.) , noto per altre costruzioni mitico-geografiche più fantasiose che plausibili. Di Norvegia e di fiordi non poteva ancora parlare perché non ne sapeva nulla, e si contentò di ipotizzare che Ulisse e compagni fossero arrivati ad alte lati tudini settentrionali, là dove passano allo zenit le stelle che for mano la testa della nordica costellazione del Dragone. , Un giorno di ventiquattro ore o poco meno (diceva Cratete) era un normale fenomeno stagionale di quelle regioni, come la scienza greca del suo tempo sapeva bene attraverso la teoria del globo terrestre, all'epoca già molto sviluppata30• Infine (per fare il breve passo che notoriamente separa il sublime dal ridicolo) , un recente libro italiano che ha avuto un lusinghiero successo di pubblico insegna che non solo i Lestrigoni, bensì tutta l'Odissea, anzi tutto il mondo omerico, anzi tutto il vero e originario mondo greco, è da cercare in Scandinavia, perché là sarebbe da ravvisare la culla primitiva della civiltà antica, trasferitasi solo successivamente nelle sue sedi mediterranee, in un gigantesco trasloco31 • Ritiriamoci da questi inameni territori, }asciandoli a chi inventa panzane che dovrebbero essere misteriose e affasci nanti mentre non sa vedere il mistero e il fascino che si nascon dono in tante realtà vicine, e guardiamo a ciò che interessa più strettamente il nostro tema. 48
Fra i due episodi, i Lestrigoni e Polifemo, c'è una serie di paralleli, un po' come quelli notati fra Eolo e i Feaci: in tutt'e due i casi compaiono la statura gigantesca dei personaggi, il loro cannibalismo, e il lancio di macigni contro le navi o la nave del protagonista. Dal nostro punto di vista interesserà notare anche un'altra circostanza: tutt'e due le volte l'incontro col terribile nemico non è immediato. Polifemo, si ricorderà, non è 'in casa' quando Ulisse e i suoi penetrano poco cauta mente nella sua caverna e hanno tutto il tempo di banchettare con le sue provviste di latte e latticini. I compagni veramente vorrebbero andarsene subito, non senza fare un po' di razzia, ma Ulisse si mostra stavolta eroe dell'intrepida conoscenza, come sarà per Dante, e li costringe a restare. Il poeta insiste sulla situazione e la sottolinea come ad assaporare la tensione che nasce fra l'immagine della caverna incustodita, piena di ghiotte tentazioni, e il sopraggiungere del temibile proprie tario: «Non lo trovammo in casa, stava a pascolare le sue greggi; noi, entrati nell'antro, guardavamo ogni cosa»; «lo attendevamo, standocene là dentro, finché arrivò»; e c'è una nota di amara ironia: «non sarebbe apparso amabile ai miei compagni, una volta arrivato»32• Nel caso dei Lestrigoni c'è di più: il terzetto composto da un araldo e da due accompagnatori, che Ulisse ha inviato a prendere contatto con gli ignoti abitanti del paese, si imbatte per prima cosa nella figlia del loro re Antìfate, andata a fare acqua alla fontana. Di lei si dice solo che indicò ai tre la strada per il palazzo del padre; e i malcapitati ambasciatori di nuovo non trovano in casa l'orco, che stavolta sarà lo stesso Antìfate. Trovano, badiamo, sua moglie, una gigantessa di aspetto terrificante che si affretta a chiamare dall'agora il regale e can nibalesco sposo (sono orchi, ma sembra che vivano in una nor male polis greca). Questi non indugia, afferra il primo dei tre che gli capita e «ci si preparò il pranzo», come dice asciutta mente il racconto (X, 1 05 - 1 16) . Segue l'accorrere di tutti i Lestrigoni, il massacro dei Greci e la distruzione di tutte le navi meno una. Era stabilito che Ulisse tornasse in patria come 49
unico scampato, e bisognava pur trovare il modo di far morire via via tutti gli altri reduci, naufraghi o in altra maniera. Il motivo dell'incontro preliminare con la regina è intro dotto senza vero bisogno, perché nel racconto cambierebbe ben poca cosa senza il trascurabile momento ritardante pro dotto dalla brevissima assenza di Antìfate, ma il tipo di storia è ben conosciuto: il protagonista arrivato alla casa dell'orco trova dapprima una donna, sua moglie o anche madre o figlia, in genere complice della sua ferocia, arca, ma qualche volta protettrice della potenziale vittima. Proprio questi motivi atrofizzati, sbrigati in due parole con poco o nessun frutto sul piano narrativo, sono l'indizio che questo è un racconto tra dizionale abbreviato e adattato imperfettamente; in una ver sione precedente il motivo avrà avuto il giusto sviluppo, mentre qui è ridotto a un inutile moncone33 • Il tema dell'orco sarà ripreso notoriamente dai nostri poemi cavallereschi, dai due grandi 'Orlandi' italiani (Innamorato e Furioso), nella storia di Lucina e Norandino raccontata in entrambi. Qui, dove l'influsso dell'Odtssea è evidente, trove remo un mostro già cieco di suo senza che a cavargli l'occhio debba pensare un nuovo Ulisse, ma non per questo meno temi bile, perché guidato alle sue prede da un olfatto più che canino. E rispetto al Baiardo, Ludovico Ariosto arricchirà l'e pisodio proprio con la figura tradizionale della 'moglie' del l'orco (o piuttosto sua prigioniera), che aiuta prowidenzial mente i malcapitati nella sua tana e suggerisce loro il modo di trovare scampo34• Nella storia di Polifemo manca la figura femminile di mediazione e si tratta di una diversa variante, il motivo della 'casa vuota', dove l'eroe o l'eroina entrano, trovano tutto pronto per mangiare e stare comodi, la fanno da padroni finché il vero padrone non torna minaccioso, e scampano poi mira colosamente. Ma Polifemo insegna molto di più, a dimostrazione di quale grado di internazionalità possa raggiungere una buona storia e come quasi illimitata sia la sua capacità di trasmigrare e 50
diffondersi, al di là di ogni barriera geografica e linguistica (il paragone sembra irriverente, ma lo stesso accade oggi noto riamente con le barzellette ben trovate, anche con quelle che per il loro carattere poco decente difficilmente vengono stam pate) . Wilhelm Grimm, ancora lui, raccolse già nel 1 857 un numero sorprendente di racconti tradizionali, dalla prove nienza diversissima, dove si ritrova l'orco cannibale e mono colo accecato con l'astuzia da un suo prigioniero, che scampa così alla morte e fugge perfino, in molti casi, con l'aiuto dei montoni e delle pecore che il mostro alleva. Nel 1 904 una monografia sullo stesso tema del finlandese Oskar Hackmann, che poteva mettere a frutto molte nuove ricerche, catalogava 22 1 varianti della storia, raccolte dalla Lapponia all'Asia cen trale, in un'area che ricopre praticamente tutta la parte cen trale e occidentale dell'Eurasia35• L'ipotesi più banale, e in un certo senso più deludente, che il nono libro dell'Odissea sia la fonte di tutti questi racconti identici nel nocciolo nonostante le infinite varianti piccole e grandi, sembra difficile da sostenere. Dopo aver definito «quasi illimitata» la capacità di viaggiare che un buon racconto pos siede, non possiamo negare la teorica possibilità che una storia inventata sulle rive dell'Egeo sia potuta arrivare fra gli Ogusi o altri popoli altrettanto esotici. Le considerazioni da fare sono altre e più interessanti. Awezzi a vedere nei poemi omerici la fonte per eccellenza, l'archetipo vicino o lontano di tanta letteratura europea antica e moderna, siamo facilmente vittime di un pregiudizio che solo una specie di 'rivoluzione copernicana' può sopprimere: dob biamo cioè persuaderei che l'eccellenza della rielaborazione poetica e la sua importanza per noi, per le nostre letterature, non danno affatto all'Odissea un posto di privilegio nella tra dizione di un racconto. In realtà non c'è nessuna probabilità a priori che il racconto omerico sia il modello piuttosto che una fra le tante varianti di una storia estremamente diffusa, che a un certo punto ebbe la fortuna di piacere a un grande poeta che la accolse e rielaborò da par suo. Gli innumerevoli 51
punti di contatto fra i miti e le leggende antiche, consacrate nella letteratura, e i racconti tradizionali moderni, non obbli gano a credere che le fonti greche e latine siano state sempre, o almeno di regola, il punto di irradiazione per mezzo mondo. In qualche caso ciò può naturalmente essere avvenuto, ma assegnare l'onere della prova a chi pensa il contrario sarebbe davvero etnocentrismo della peggiore specie. Per una storia ben trovata che si racconta e si ascolta volentieri, vale il modello di diffusione 'a rete': da tutti a tutti, non da uno a . tutti, e ben presto diventa impossibile riconoscere il punto di partenza36. Dopo questa premessa, osserviamo che piccoli ma signifi cativi indizi interni sembrano mostrare la non-originalità del rac conto omerico. Tutti i lettori hanno sempre immaginato Poli ferno con un solo occhio: così richiede l'andamento della vicenda e così hanno raffigurato il Ciclope l'arte greca e la poesia più tarda; ma se si rilegge con attenzione l' Odissea si scopre che questo particolare non è mai sottolineato espressamente (leg gendo un testo è spesso più difficile notare quel che non c'è, di quello che c'è! ). Ora, chi avesse inventato di suo la storia �on avrebbe mancato di segnalare subito un fatto essenziale e indi spensabile al seguito del racconto: un narratore che lo trascura dev'essere invece cosciente che una storia simile, fondata sugli stessi presupposti, è già nota al suo pubblico. Ancora: moltissime versioni della storia contengono un par ticolare importante, assente invece nell'Odùsea: l'orco acce cato getta al fuggiasco un anello magico che ha la proprietà di acquistare voce umana una volta che questi lo ha messo al dito, servendo così da guida all'inseguitore cieco. L'inseguito è costretto, per lo più, a tagliarsi il dito con l'anello per scam pare. Qualche volta getta l'anello in acqua, cosicché l'insegui tore, cieco, lo segue e affoga. Questo elemento del racconto si trova attestato assai lontano dalla Grecia, a oriente e a occi dente, fra l'altro in Italia (Abruzzo e Sicilia) , mentre manca nelle versioni neo-greche che più probabilmente derivano o sono state influenzate dall'Odissea. Un'aggiunta al racconto 52
originario si spiegherebbe quindi molto male, perché quando due aree estreme di una diffusione hanno in comune qualcosa che difficilmente possono aver inventato ognuna per suo conto, e il centro non ce l'ha, vuoi dire che il centro ha per duto quella cosa, non che esse l'hanno aggiunta. E pensiamo ai caratteri della narrativa omerica che rifugge da particolari magici del genere (chi con essa ha un po' di familiarità dirà che un anello parlante è impensabile in Omero) e che ripu gnerebbe certamente a un particolare come l'automutilazione. Non che i tratti raccapriccianti manchino nei due poemi; certe descrizioni di ferimento e morte nell'Iliade sono di gusto quasi splatter, ma il dito mozzato è qualcosa di diverso e, ripetiamo, impensabile: ricorda certe atrocità che le fiabe trattano con relativa indifferenza, come i talloni che le sorellastre di Cene rentola si tagliano per potersi infilare la fatale scarpetta, non le ferite degli eroi. Insomma, è senza paragone più probabile che il poeta abbia deliberatamente ignorato un elemento della storia che non si conciliava assolutamente col suo gusto e che la sua diffusione dimostra invece molto antico. Con la dovuta cautela, si può sperare di riconoscere anche in questo particolare dell"anello mancante' (in un senso tutto nostro: missing ring, non missing link! ) un 'moncone', come ne abbiamo già riconosciuti nell'episodio dei Lestrigoni e prima ancora in quello di Eolo. Dopo aver infuriato invano contro Ulisse che l'ha accecato, e che a questo punto si è rive lato orgogliosamente col suo vero nome, abbandonando la famosa trovata di 'Nessuno', Polifemo ricorre a un'astuzia grossolana e passa a illudere il fuggitivo promettendogli «doni ospitali». È facile immaginare che Ulisse non cade nella rozza trappola; ma non potrebbe qui essere rimasta una traccia della forma più popolare del racconto, così ben conosciuta da altre fonti, in cui l'orco tenta di adescare il fuggiasco col dono del l' anello?37• Altra traccia, sia pure esigua, di un possibile legame fra il Ciclope dell'Odissea e le figure del folklore internazionale: le storie tradizionali conoscono orchi dalla curiosa caratteristica 53
di tenere gli occhi aperti quando dormono, chiusi quando vegliano38. Che qualche prefigurazione di Polifemo facesse altrettanto, facilitando così l'accecamento durante il sonno che nell' Odissea è rimasto? Oggi si conviene generalmente che il racconto omerico non può essere la fonte prima di una diffusione così imponente, anche se è probabile che la sua grande popolarità reagì su una parte dei filoni anonimi dai quali le era venuta l'ispirazione; questo è sicuro nel caso delle versioni neo-greche e siciliane in cui il nome dell'orco ricorda in maniera evidente Kyklops o Polyphemos, pur se a trasmetterle furono persone che del l'Odissea ignoravano forse anche l'esistenza. Un influsso del poema di Omero, se non una totale dipendenza da esso, sembra certo anche per la prima fra le due versioni della storia finite nelle Mille e una notte, di cui è protagonista Sindbad nel suo terzo viaggio (più significative sono le differenze nella seconda versione, l'avventura di Saif al Muluk)39• Ma anche questi casi servono a far meglio comprendere le vie infinite e impensabili per cui si attua un processo millenario e capillare di trasmissione40• _
Cominciando con Circe e proseguendo coi Lestrigoni e Polifemo era fatale che ricorresse più e più volte la parola fiaba, che oggi sembra la più adatta a capirsi subito. Ma le parole possono servire anche a capirsi male, se si usano alla leggera, e su questa occorre soffermarsi un attimo. I paralleli del genere di quelli qui esaminati hanno riem pito libri interi e certamente non sono esauriti. Nell'entusiasmo per le scoperte dei Wilhelm Grimm e degli Hackmann, si era diffusa l'idea che si possa legittimamente parlare dell'Odissea come di un poema epico sì ma pervaso di 'motivi di fiaba' , o addirittura di epos fiabesco o fiaba epica. In generale, la parola fiaba fu usata da innumerevoli autori con spensierata prodiga lità, pari alla mancanza di chiarezza e consapevolezza concet tuale. Nella bibliografia relativa si allinearono i titoli del tipo 'Antiche fiabe greche nell'Odissea', 'Elementi fiabeschi nei poemi 54
omerici', e simili41 • A questo si è opposta di recente una consi derazione più cauta, quando ci si è domandati: è lecito qui l'uso del termine fiaba, o esso non rischia piuttosto di essere fuor viante? Se pure qualcosa di simile alle moderne fiabe esisteva nell'Antichità (simile come materia narrativa e come funzion� nella cultura e nella società)42, non è lecito supporre senz'altro che l'autore/gli autori dell'Odùsea vi abbiano semplicemente attinto, ispirandosi a un patrimonio già disposto nelle forme che noi individuiamo col nome di fiaba. Ed è un nome che ha pre cisi equivalenti in tutte le lingue europee: conte de /ées in fran cese; /airy-tale in inglese, e soprattutto la designazione tedesca, diventata parola internazionale: Marchen. Che proprio la parola tedesca sia stata adottata dagli studiosi non è un caso, dato che l'odierna immagine della fiaba si è formata soprattutto sull'opera dei due personaggi che inevitabilmente abbiamo già dovuto ricordare più volte, i fratelli Wilhelm e Jacob Grimm. Accanto a loro ci saranno da nominare forse solo il francese Perrault e l'italiano Gian Battista Basile, che però sono precedenti al moderno studio scientifico di questi temi. Questo riferimento a una precisa opera, a un preciso libro moderno43, mostra come il nostro concetto di fiaba sia inquadrato da precise coordinate storiche, letterarie e sociali. Fiaba è per noi un prodotto let terario tradizionale che ha certi caratteri, si trasmette in un certo modo, interessa un certo pubblico. Che tutte queste coordinate, per dirlo in immagine, si siano incontrate in un determinato punto, nella fiaba 'alla Grimm' , vale per un certo momento storico ma non necessariamente per altri, e non è certo prudente pensare che ciò rappresenti una costante di tutta la storia umana. Non è prudente immaginare, come ha fatto qualcuno, che Omero abbia tolto la materia del suo poema dai racconti di sua nonna (citiamo letteralmente ! )44• Quello che si tende a immaginare raccontato ai bambini nelle lunghe sere d'inverno, in un ambiente popolaresco e conta dino, può essere stato raccontato in altri tempi a rudi guer rieri attorno al fuoco da campo, nella forma della saga o della leggenda eroica: una cornice molto diversa e quindi qualcosa 55
di molto diverso. Non è opportuno e rischia di confondere le idee, parlare di 'motivi di fiaba' per un'epoca nella quale non siamo sicuri che la fiaba come la intendiamo oggi esistesse. Diremo più prudentemente che in Omero s'incontrano ele menti narrativi simili a quelli che ritroviamo tanti secoli più tardi nel tipo di racconto che oggi si chiama fiaba e che di essa sembrano oggi tanto caratteristici, non già che i racconti di Ulisse siano solo la trasfigurazione epica di materiali che ven gono direttamente da un preteso 'mondo della fiaba', eterno come le idee di Platone. Eterni sono per l'appunto solo certi elementi che nascono dall'intimo della psiche umana e su cui la psicologia del profondo ha molto da dire, li chiami arche tipi o come meglio crede. Non confondiamo però la psicologia con la storia delle forme letterarie, orali o scritte. La vicenda della 'maga Circe' può insegnare anche questo45.
Note 1 Odissea X 2 1 0-347. 2
Le mille e una notte, notte 5 10; Kinder- und Hausmiirchen, n. 69. In qualche caso la somiglianza è talmente stretta che è difficile non pensare a una dipendenza diretta, come in quello del racconto buddista del Maha vanso VII l , segnalato anche da ERWIN ROHDE, Der griechische Roman, Leipzig 1914 (3" ediz.), p. 184, n. 2 (= rist. Hildesheim 1960). l Racconta Strabone, Geografia V 6,1 (C 232), che sul Circeo si visitava un santuario di Circe e si ammirava la 'tazza di Ulisse', evidentemente quella in cui l'eroe avrebbe dovuto bere la bevanda stregata. 4 Su questo e simili casi, in cui c'è da sospettare una 'censura' da parte del poeta che ha adattato un tema folclorico al gusto e allo stile epico (ma non senza !asciarne qualche traccia riconoscibile) è da vedere FRANCESCO BARTOLINI, Dal folclore all'epica: esempi di trasformazione e adattamento, in
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Il meraviglioso e il verosimile tra Antichità e Medioevo, a cura di Diego Lanza e Ottone Longo, Firenze 1989, pp. 13 1 - 152. 5 Odissea XIII 429, XVI 456, nelle scene in cui Ulisse viene invecchiato e reso irriconoscibile dalla dea. Una specie di bacchetta magica ha anche Hermes (Iliade XXIV 343 ). 6 Tertulliano, De spectaculis 8. 7 Sulla leggenda degli Argonauti come racconto tradizionale ha scritto LUDWIG RADERMACHER, Mythos und Sage bei den Griechen, Briinn/Miin chen/Wien 1943 (2" ediz.), pp. 155-237. n primo a trattare dei 'motivi di fiaba' in essa contenuti sarebbe stato però lo svedese SVEN LD..JEBLAD, Argonauterna och sagorna om flykten /ran trollet, in Saga och sed, Uppsala 1935, pp. 29-48. Citato in }AN DE VRIES, Betrachtungen zum Marchen besonders in seinem Verhiiltnis zu Heldensage und Mythos, Helsinki 1954, «FF Communications» 150, pp. 84 sgg., che non ne accetta però l'impostazione metodica. 8 Questa forma della storia è in Ovidio, Tristia III 9,33 , e in altre fonti. Apollonia Rodio, che nelle sue Argonautiche ne diede la versione divenuta classica, parla solo di assassinio. Un esempio classico di 'fuga magica' si trova nel Pentamerone di G.B. Basile (1/5, "La pulce"), fonte preziosa che non si finirebbe mai di citare. Esempi da ogni parte del mondo e relativa bibliografia in S. THOMPSON, Motzfindex o//olk-literature cit., vol. Il, p. 77 sg. (D 670). Sulla sua presenza nella leggenda degli Argonauti v. ANTTI AARNE, Die magische Flucht. Bine Marchenstudie, Helsinki 1930, p. 16 sg. 9 n particolare e persistente interesse suscitato da Medea tra tutti i per sonaggi della . mitologia antica è testimoniato, fra l'altro, da pubblicazioni come quella di J.J. CLAUSS e S . I. }OHNSTON (edd.), Medea. Essays on Medea in myth, philosophy, literature and art, Princeton 1997, o come la serie di articoli di ANTONIO CAIAZZA, Medea: fortuna di un mito, sulla rivista «Dio niso» 59 (1989) pp. 9-89; 60 (1990), pp. 82- 1 18; 63 ( 1993 ), pp. 121-141; 64 (1994), pp. 155- 166. 10 Odissea XII 70. Da questa singolare 'citazione', prova di un'arte con sapevole e allusiva, Gabriel Germain traeva giustificati dubbi circa l'imma gine di Omero poeta spontaneo e ingenuo, come si converrebbe al compo sitore orale che oggi piace molto immaginare: «Le poète a déjà bien de caractères d'un auteur très conscient de son habileté et de son pouvoir sur !es auditeurs», in «Bull. de l'Assoc. Guillaume Budé» 1962, n. 3, p. 336 sg. Più recentemente, Uvo Hi:ilscher ha sostenuto con ·argomentazioni non tra scurabili che l'allusione non implica l'esistenza di un poema, ma potrebbe riferirsi a una storia circolante in forma preletteraria; v. Die Odyssee. Epos zwischen Marchen und Roman, Miinchen 1988, 2" ediz. 1989, p. 170 sgg. I l Odyssee und Argonautika, Berlin 1 92 1 ( Gesammelte Schrz/ten, BaseVStuttgart 1 975, vol. Il, pp. 593-676). Per Strabone, v. Geografia I 2,40 (C 46). Prima di Meuli, A. KIRCHHOFF, Die homerische Odyssee, Berlin 1879, pp. 287 sgg. Tutta la questione di Circe e della sua isola, dell'Oriente e del=
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l'Occidente, è trattata in maniera minuziosa e persuasiva da ALBIN LESKY,
Aia, in «Wiener Studien» 63 ( 1948), pp. 24-68 (
=
Gesammelte Schrz/ten,
Miinchen/Bern 1966, pp. 26-62), che corregge molte conclusioni frettolose e approssimative dei critici moderni. 12 Pindaro, Pitica IV 25 sgg. ; Apollonia Rodio, Argonautiche IV. Sul viaggio degli Argonauti e sull'evoluzione della sua geografia, v. E. DELAGE, La géographie dans !es Argonautiques d'Apollonios de Rhodes, Bordeaux/ Paris 1950, FRITZ WEHRLI, Die Riickfahrt der Argonauten, in «Museum Hel veticum» 12 (1955), pp. 154-157 e F. }AVIER G6MEZ EsPELOSfN, El descu brimiento del mundo. Geografia y viajeros en la antigua Grecia, Madrid 2000, pp. 4 1 -53. 13 Vedi l'introduzione di FRANCIS VIAN alla sua edizione: Les Argonau tiques orphiques, Paris 1987, pp. 28-45. 14 Sulle fortune dei personaggi di Circe e Medea nelle letterature antiche, dal punto di vista del folklore magico, si può vedere l'utile DANIEL 0GDEN, Magie, witchcra/t, and ghosts in the Greek and Roman worlds. A sourcebook,
Oxford 2002, pp. 78-101. 1 5 Che l'Odùsea simuli una conoscenza dell'Occidente assai più scarsa di quella che in realtà il mondo greco possedeva quando essa fu finita di com porre, è un'osservazione non nuova. Vedi ALAN BLAKEWAY, Prolegomena to the study o/ Greek commerce with Italy, Sicily and France in 8th and 7th century b.
C. , in «Annua! of the British School at Athens» 33 ( 1932/1933), pp. 170-208. 16 Odissea XII 3-4. 17 Così gli antichi scolii ad locum. 18 Citiamo solo ROGER DION, che sull'argomento è tornato due volte: in «Revue archéologique» 2 ( 1961), pp. 18-34 e in «Bull. de l'Assoc. G. Budé» 4.ème série ( 197 1), pp. 479-533. 19 Così T.P. WISEMAN, Remus: a Roman myth, Cambridge 1995, p. 45; trad. it., Remus: un mito di Roma, Roma 1999. Lo stesso autore fa varie con siderazioni sulle leggende di Circe, su Ulisse in Italia, sui loro figli e nipoti (molto più numerosi che in Esiodo ! ) come antenati mitici dei popoli ita liani. 20 G. GROTE, A hùtory o/ Greece, London 1 846, p. 342. 2 1 l. MALKIN , I ritorni di Odisseo. Colonizzazione e identità etnica nella Grecia antica, Roma 2004, pp. 215 sgg. (ediz. orig.: The returns o/ Odysseus. Colonization and ethnicity, Berkeley 1 998) . 22 Così MEULI, Argonautika u. Odyssee, cit., p. 57; ma qualcosa di simile aveva già detto WILAMOWITZ, Homerische Untersuchungen, Berlin 1884, p. 164. 23 Così KARL MùLLENHOFF nella sua famosa Deutsche Altertumskunde, Berlin 1890, vol. I p. 5 1 . 24 Esiodo, Teogonia 1013.; cfr. T.P. WISEMAN, Remus, cit. 25 Vedi già Teofrasto, Historia plantarum V 8,3 , poi altri. 58
26 Eneide VII 10: «Proxima Circaeae raduntur litora terrae» (siamo sulla costa del Lazio); Inferno XXVI 6 sg.: «Là presso a Gaeta . . . ». 27 I Lestrigoni a Formia: Orazio, Carmina III 17,1 sgg.; Ovidio, Meta morfosi XIV 233 sgg.; in Sicilia: Tucidide, Guerra del Peloponneso VI 2 , 1 ; Teopompo i n ]ACOBY, Die Fragmente der griechischen Historiker, 1 15 F 225 a; Polibio, Storie VIII 9,13; Strabone, Geografia I 2 ,9 (C 20); Silio Italico, Punica XIV 33, 125; Licofrone, Alessandra 662 sgg., con una singolare variante: i Lestrigoni sarebbero stati sterminati dalle frecce di Eracle, e quelli che Ulisse incontrò erano solo uno scarso resto. 28 Odissea X 84-86: «Là, un uomo che mai dormisse potrebbe guada gnare due salari: uno pascolando i buoi, l'altro le candide greggi; perché vicini sono i sentieri del giorno e della notte». 29 L'idea che Omero avesse una precoce conoscenza del giorno e della notte alle alte latitudini nordiche è stata ripresa modernamente già da Gru SEPPE SCALIGERO, nel suo commento a Manilio, Astronomica, III 346 (Parigi 1600, 2' ediz., p. 233 della seconda numerazione). Ma secondo l'autore del l'ultimo commento all'Odùsea pubblicato in Italia, il tedesco Alfred Heu beck, la vecchia ipotesi dei Lestrigoni nordici «implica difficoltà insupera bili» (così, testualmente, nell'Odissea della Fondazione Valla, Milano 1983 , vol. III, p. 226). 3° Così riferiscono gli scolii a Odissea X 86. La declinazione di � Dra conis, la più settentrionale delle stelle della testa della figura, è di 56° 52' oggi, ed era di 58° 14' nel 250 a.C.: press'a poco la latitudine di Gi:iteborg. Probabilmente è questo un altro esempio della tendenza degli antichi ad attribuire caratteri nordici estremi a latitudini in realtà non così alte. Secondo il poeta-astronomo Arato alla latitudine della testa del Dragone «si mesco lano i tramonti e le aurore» (Fenomeni 61 sg.). Jt È la tesi di FELICE VINCI, Homericus nuncius. Il mondo di Omero nel Baltico, Chieti 1993 ; recensione in «Geographia antiqua» 3/4 (1994/1995), pp. 248-252. L'idea, nel suo nocciolo, è vecchia almeno quanto Pierre Bailly (v. sotto p. 81 e n. 40), e la pretesa di riscoprire antichissimi e dimenticati collegamenti tra il Mediterraneo classico e le regioni dell'Europa del nord è stata avanzata cento volte, via via agghindata secondo le mode dei diversi tempi. Il successo di vendite e la vasta eco giornalistica hanno valso all'ul timo epigono di queste vecchie fole una seconda edizione del suo libro presso un editore più importante, sotto il titolo semplificato Omero nel Bal tico, Roma 2000. L'autore ne ha guadagnato il suo quarto d'ora di celebrità televisiva e qualche invito a tenere conferenze in licei classici ( ! ! ) . 32 Odissea IX 2 16 sg. ; 232 sg.; 230. 3 3 L'aria di riassunto in tutto l'episodio del Lestrigoni è rilevata da DENYS PAGE nel suo Folktales in Homer's Odyssey, Cambridge (M.) 1973, p. 3 1 ; trad. it., Racconti popolan· nell'Odùsea, Napoli 1983. 59
34 M.M. BOIARDO, Orlando innamorato,
l. III, c. III, ott. 27 sgg.; L. c. XVII, ott. 29 sgg. 35 W. GRIMM, Die Sage von Polyphem, «Abhandlungen der konigl. Aka demie der Wissenschaften zu Berlin» 1857, pp. 1 -30; OSKAR HACKMANN, Die Polyphemsage in der Volksiiberlieferung, Helsingfors 1904. Le successive aggiunte al lungo elenco furono molte; per esempio, ROHDE, Der gn'echische Roman cit., p. 184, n. 2. GERMAIN, Genèse de l'Odyssée, cit., cap. 2, aggiun geva alla raccolta di Hackmann alcune versioni nord-africane, da lui rac colte 'sul campo'. 36 Pietra miliare in questo genere di ricerche è la monumentale opera del tedesco ]OHANNES BOLTE e del cèco G EORG PoLfvKA, Anmerkungen zu den Kinder- und Hausmiirchen der Briider Grimm, 5 voli., Leipzig 1913-1932. 37 L'osservazione non è nuova: v. WILLIAM HAUSEN, Homer and the folk tale, in A new companion to Homer, Leiden/New York/Koln 1997, p. 450 e cfr. p. 462. 38 Vedi T. GEIDER, Oger, in Enzyklopiidie des Miirchens, Berlin/New York 2002, vol. X, col. 238. 39 Rispettivamente, notti 299-300 e 772-773 . 4° Con argomentazioni diverse da quelle qui esposte arriva a dimostrare l'esistenza di una tradizione indipendente da Omero il folklorista LUTZ RbH ARIOSTO, Orlando furioso,
RICH, Die mittelalterlichen Redaktionen des Polyphem-Mà'rchens und ihr
Verhiiltnis zur au;Jerhomerischen Tradition, in «Fabula» 5 (1969), pp. 48-7 1 ( Sage und Miirchen. Erzahl/orschung beute, Freiburg-Basei-Wien 1 976, pp. 234-252). Conclusioni meno sicure sono quelle di JUSTIN GLENN, Homer's "Kyklopeia", in «Transactions of the Arnerican Philological Association» 102 ( 197 1 ) , pp. 133-181, che fa un utile punto della questione. Più recentemente MARY KNOX ha approfondito il problema del possibile rapporto fra il rac conto omerico e tradizioni del vicino Oriente: Polyphemos and his Near Eastern relations, in <<]ournal of Hellenic Studies» 99 (1979), p. 1 64 sg., con ulteriore bibliografia. F. BARTOLINI, Dal folclore all'epica cit., pp. 149-151, riprende e sviluppa varie argomentazioni che fanno ritenere indipendenti daii'Odissea molte versioni medievali e moderne. La trattazione più recente, che discute moltissime interpretazioni e ipotesi attorno alla storia e alle sue varianti, è quella di J.A. CONRAD, Polyphem, in Enzyklopa'die des Miirchens, cit., vol. X, col. 1 174 sgg. 41 Vedi, ancora di recente, il titolo del già citato libro di Uvo HbLSCHER: Die Odyssee. Epos zwischen Miirchen und Roman. Una serie di paralleli fra storie tradizionali antiche e moderne, interpretati come presenza di Miir chenmotive e Ma'rchenziige in quelle antiche, si trova nell'eruditissimo (e utile) PAUL FRIEDLANDER, Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms, Leipzig 192 1 , vol. IV, pp. 89 sgg. Denys Page aveva usato il più neutro ter mine folktales, come si è visto (cfr. n. 33 ). =
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42 Friedlander, nelle pagine citate, raccoglie indizi che davvero fosse così. 43 La raccolta Kinder- und Hausmiirchen fu pubblicata a Berlino fra il 1812 e il 1815. Nel 1822 seguì un volume di note. 44 Secondo quella che resta dopo oltre mezzo secolo la più voluminosa monografia italiana sull'Odùsea (non diremmo la più attendibile) il motivo dei Lotofagi «è comune ai racconti di fiaba tramandati ab immemorabili da balia in balia e da nonna in nipote»; quanto alla storia di Eolo, Omero l'a veva appresa «dalla sua balia». Così GIOVANNI PATRONI, Commenti medi terranei all'Odissea di Omero, Milano 1950, pp. 287, 3 14 . 4 5 n merito d i aver aperto l a discussione va probabilmente all'austriaco FRANZ HAMPL, nel capitolo "Mythos" - "Sage" - "Mà"rchen" del suo libro Geschichte als kritùche Wissenscha/t, Darmstadt 1975, vol. Il, pp. 1-50, con critica molto battagliera mossa a vari predecessori: chi parla di 'motivi di fiaba' nella saga ragiona in circolo; prima decide che certi motivi sono tipici della fiaba, poi quando li incontra nella saga dice che sono motivi prove nienti dalla fiaba. Contra V. HòLSCHER, Die Odyssee, cit., pp. 25-34, che definisce la specificità del Miirchen e rivendica la liceità di impiegare questa categoria anche per la poesia omerica. Considerazioni consone alle nostre, con approfondimento metodico, fa W HAUSEN, Homer and the /olktale, cit.
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Capitolo terzo «Nel mito di Atlantide ci dev'essere un fondo di verità»
«Atlantide, tra leggenda e realtà», diceva il titolo di una trasmissione televisiva che prometteva seria divulgazione sto rica e archeologica senza mantenere sempre la promessa. Sta volta c'è qualcosa da ridire fin dal titolo, perché la storia del l'Atlantide (a parte la presunta realtà, di cui parleremo) non si può assolutamente chiamare 'leggenda', se prendiamo per buone queste definizioni che un dizionario italiano (il Gar zanti) dà della parola: « l ) narrazione di un fatto, per lo più di argomento religioso, eroico o cavalleresco, in cui entrano molti elementi fantastici . 2) (estens. ) avvenimento storico di cui si è impadronita la fantasia popolare trasfigurandolo e arrichen dolo di particolari inventati». Nessuna delle due definizioni si confà al caso nostro. Per parlare di Atlantide bisogna per prima cosa sgomberare il campo da un equivoco sempre rin novato, e non ci sono parole troppo forti per farlo; bisogna ribadire cento volte, metterselo bene in testa, che stando a quanto sappiamo è assolutamente improprio ed erroneo chia mare la storia dell'Atlantide 'leggenda' o 'mito'; essa è tra mandata in sostanza da un unico autore, Platone, che la rife risce come arrivatagli attraverso una vicenda romanzesca in cui compaiono poche persone, senza pretendere affatto che si tratti di una tradizione diffusa della quale si sia «impadronita la fantasia popolare» (questo accadrà semmai dopo - ma il caso Atlantide rimase sempre una faccenda erudita o pseudo-eru.
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dita, non diventò mai veramente popolare) . li filosofo mostra invece di attendersi che essa giunga ai suoi lettori come una stuzzicante novità, una circostanza che basterebbe da sola a proibire l'uso dei termini che abbiamo citato1• Un po' di atten zione e un po' di familiarità con forme e toni che apparten gono a tutte le letterature, antiche o moderne, dovrebbero bastare a convincere subito che questo non è il modo in cui si racconta una 'leggenda'. È invece il modo tipico di chi intro duce una fantasiosa, personale invenzione; non manca il clas sico espediente della 'fonte' , raccontata anch'essa con molti particolari più o meno avventurosi, tradizione orale come qui, o manoscritto come in tanti altri casi. Leggenda o mito sarà l'apertura dello stretto di Gibilterra a opera di Eracle, o dello stretto di Messina col distacco vio lento della Sicilia dal continente, o la sovrapposizione a opera dei Giganti di tre montagne della Tessaglia per dare l'assalto al cielo, tipici racconti di un genere ben noto, ripetuti cento volte con varianti e adattamenti di vario genere, senza che a nessuno sia mai venuto in mente di cercarne l'autore. La storia dell'Atlantide e del suo sprofondamento nell'oceano è invece, secondo ogni evidenza, una creazione individuale che porta scritto in fronte, coi caratteri più chiari possibili: 'invenzione letteraria e parabola filosofica'. Tutta la fiumana di chiacchiere, di fole e deliri che si lega al nome del cosiddetto 'continente perduto' deriva da poche pagine di un singolo autore, uno dei due o tre massimi filosofi dell'umanità. E sono pagine che appartengono alla letteratura e alla filosofia, sapientissima let teratura e profonda filosofia, non al folklore e tanto meno hanno a che fare con la tradizione storica. A chi è stato capace di scrivere che dell'Atlantide parla anche Platone, si deve rispondere che questo è come citare 'la leggenda di Gulliver, della quale parla anche Jonathan Swift', o 'la leggenda del Figliuol prodigo, della quale parlano anche i Vangeli'2• Proviamo a rievocare in breve la storia tanto sviscerata e strapazzata. Essa è introdotta in maniera molto elaborata nel 64
dialogo Timeo, testo di oscurità pari alla fama straordinaria di cui godette per secoli presso lettori che speravano di trovarvi la chiave dei più profondi segreti dell'universo. Uno dei par tecipanti al dialogo è un eminente Ateniese di nome Crizia e di non sicura identificazione storica. Crizia racconta che il suo bisnonno Dropide, amico e parente di Solone, avrebbe udito dalla bocca dell'antico legislatore-poeta uno straordinario rac conto che questi avrebbe appreso a sua volta da un sacerdote egiziano durante un viaggio in quel paese. Trasmesso di gene razione in generazione nella famiglia di Crizia, il racconto suo nava in breve così: novemila (!) anni fa esisteva nell'oceano, davanti alle Colonne d'Eracle, un'isola grande come Libia (Africa) e Asia messe insieme (intendi: Africa del nord più Asia Minore, secondo le conoscenze geografiche dell'epoca) . Belli coso e imperialista, il popolo che abitava la grande isola aveva condotto guerre di aggressione sottomettendo 'altre isole', poi l'Africa fino all'Egitto e l'Europa fino alla Tirrenia (Etruria) . L'unico osso duro che gli resistette vittoriosamente fu Atene, alla cui glorificazione tutta la storia sembra mirare. Sconfitti dagli Ateniesi, gli 'Atlantici' sparirono di lì a poco in un solo giorno e una sola notte con tutta la loro isola, distrutta dai ter remoti e sommersa dalle inondazioni. Fin qui il Timeo; nel suc cessivo dialogo Crizia, incompiuto, si torna sull'argomento nar rando ogni sorta di mirabilia sull'Atlantide: topografia, urba nistica, organizzazione militare e politica, religione, pubblica moralità. Dapprima ottima, questa decadde successivamente, fino ad attirare la severa attenzione di Zeus che si propose di intervenire - e a questo punto si interrompe il testo3• li singolo e grandissimo autore di questo racconto, oltre a essere un sommo filosofo, è una delle fantasie più potenti che siano mai apparse sulla terra, un visionario . che attinge a un pozzo di misteri e meraviglie che sembra senza fondo. Lo fa sfumando dalla serietà più profonda a un sorriso di bonaria superiorità o di maliziosa ironia, scherzando in mille modi sulla credibilità o non-credibilità delle sue storie, i suoi 'miti' per sonalissimi, come noi li chiamiamo seguendo il suo stesso 65
esempio (e nel seguito si parlerà anche qui di miti in questo specifico senso platonico, senza contraddizione con l'asserita inadeguatezza del termine, se usato nel senso più comune)4• Qualche volta i miti sono introdotti bruscamente e senz' altra validazione che quella data dallo stesso narratore; altre volte sono attribuiti a una fonte vicina o remota, o a una compli cata trasmissione come per l'Atlantide, secondo la legge di tutti i tempi e di tutte le letterature: quanto più lunga e particola reggiata è la pretesa catena attraverso cui è passato un rac conto, tanto più forte è l'illusione di verità che si crea nel let tore, o piuttosto la sua inclinazione ad abbandonarsi a una consapevole illusione di verità, a un 'credere' che non è lo stesso credere della vita pratica e quotidiana (se fossimo inglesi, sarebbe inevitabile a questo punto la citazione da Coleridge: «A willing suspension of disbelief>>). Sono invenzioni volta a volta grandiose, favolose o grotte sche, ma tutte precisamente indirizzate a illustrare un pensiero, l'unica cosa che conti, mentre le storie si possono anche met tere da parte una volta che abbiano raggiunto il loro scopo. Pla tone ha in mente un lettore che non prenderà abbagli sul vero significato dei suoi racconti sfrenatamente fantastici, e scrive solo per lui; il lettore reale avverte spesso la leggera paura di non essere all'altezza di un gioco così raffinato, e può sentirsene un po' frustrato e respinto. Ma anche questo fa parte del fascino senza pari che la penna di Platone ha saputo esercitare a distanza di millenni sugli uomini delle culture più diverse, attirando un seguito che a più riprese ha finito per somigliare più a una comu nità religiosa che a una scuola filosofica. E di che genere sono questi racconti di Platone? Come hanno potuto affascinare così profondamente innumerevoli generazioni di lettori e farle almanaccare per secoli? Lasciando per un attimo l'Atlantide, diamo ad essi una rapida occhiata che basti a farsene un'idea sufficiente per i nostri intenti. Platone racconta per bocca di Socrate, con la ricchezza di particolari che caratterizza le storie autentiche e garantendone la veridicità, l'avventura di un soldato panfilio, Er, figlio di 66
Armenios, che rimasto come morto sul campo di battaglia sarebbe tornato alla vita dopo dodici giorni, memore di quel che aveva visto nell'aldilà. Aveva conosciuto de visu la sorte delle anime dopo la morte, secondo i meriti guadagnati o le colpe di cui si erano macchiate in vita. Per limitarsi agli aspetti topografici, era stato in un luogo meraviglioso dove si aprivano due grandi fessure che portavano sotto terra e altrettante che portavano in cielo; attraverso di esse si svolgeva il traffico di andata e ritorno delle anime buone o colpevoli. Al centro, fra queste aperture, sedevano i giudici che ne decidevano la sorte. Per un privilegio unico, aveva visto dal di fuori e dal di dentro la struttura del mondo, attraversato da un raggio di luce che fungeva da asse della sua rotazione. Intorno a quest'asse il cosmo appariva come una gigantesca trottola suddivisa (qui la spiegazione non è molto chiara) in una serie di otto elementi multicolori, descritti ad uno ad uno; su ognuno di questi elementi rotanti sedeva una sirena ed emetteva una nota musicale che si fondeva con le altre in sublime armonia. Al di fuori della complicata trottola sedevano le tre Moire, Cloto, Lachesi e Atropo, e ne sorvegliavano la rota zione cantando accompagnate dalla musica delle sirene. Er aveva anche visto il fiume la cui acqua dà l'oblio di tutto quel che si è vissuto, ma era stato esentato dal berne proprio perché ricor dasse la sua esperienza e la raccontasse agli uominP. Platone racconta, stavolta per bocca di un altro perso naggio, che l'umanità ha conosciuto una serie di successive distruzioni da cui pochi si sono salvati, e che ogni volta la sua evoluzione civile e politica ha dovuto ricominciare daccapo, ripartendo da zero. Particolarmente disastrose sono state le inondazioni che hanno risparmiato solo le popolazioni di mon tagna, mentre niente è sopravvissuto nelle zone costiere. Questi cicli di successive distruzioni e faticose rinascite si estendono su molte e molte migliaia di anni, ma ciò non impedisce a Pla tone di conoscere precisi particolari su come i semi superstiti di ogni civiltà scomparsa siano rifioriti nella successiva6. Platone racconta per bocca di Aristofane (proprio il com mediografo) che gli uomini avevano in origine forma sferica, 67
si muovevano rotolando ed erano fomiti di entrambi i sessi, di doppi arti e doppie facce. Questo dava loro una temibile forza, tanto che Zeus temette una loro ribellione e incaricò Apollo di tagliarli per mezzo, riducendoli di regola al possesso di un solo sesso, maschile o femminile, cioè alla condizione dell'umanità attuale. Tralasciamo i particolari chirurgici e il modo in cui da questa operazione sarebbe nato l'istinto ses suale, coi suoi diversi 'orientamenti'7• Platone racconta che il sole e tutti gli altri astri hanno inver tito più di una volta il senso del loro moto diurno, e che hanno preso a sorgere dove prima tramontavano e viceversa. Questo sarebbe avvenuto in concomitanza con una grande crisi di tutto l'universo in cui mutò il rapporto fra questo e la divi nità, e si ebbero altri fatti portentosi fra cui il ringiovanire degli esseri viventi8• Platone fa raccontare a Socrate in procinto di morire che la terra è un'immensa sfera cosparsa di avvallamenti, dei quali la nostra ecumene, tutto il mondo conosciuto, è solo uno. All'interno di questi avvallamenti si raccolgono acqua e aria, e ogni cosa ha un aspetto guasto e corroso mentre al di fuori di essi tutto è più luminoso, colorito e splendido. Là vivono esseri superiori, uomini e animali, al cui confronto noi siamo i miseri abitanti di pozzanghere fangose e inquinate. Per buona misura apprendiamo varie notizie sul sistema idrografico mon diale, superficiale e sotterraneo, le cui arterie principali sono i fiumi Oceano, Acheronte, Piriflegetonte e Cocito9• Platone racconta ... la storia dell'Atlantide. Pochi riassunti di poche righe, che saranno però bastati a far capire come, per parlare sensatamente di Atlantide, non basti conoscere, magari attraverso traduzioni approssimative, le poche pagine del Timeo e del Crizia che i libri sull'argo mento di solito trascrivono ignorando tutto il resto, almeno i libri che rappresentano l'orientamento 'credente'. Ed è pro babile che da quelle poche pagine in traduzione si siano mossi molti credenti, e solo su di esse si siano fondati. Nessuno 68
dubita che per valutare una testimonianza sia bene avere qualche idea su carattere e abitudini del testimone, e ciò vale tanto più nel caso dell'unus testis (nullus testis, aggiunge il vec chio adagio giuridico, un po' troppo pessimistico per la ricerca storica) . Che cosa penserà dunque chi si sia fatto quell'idea, possibilmente più precisa di quanto abbiano consentito di far sela i nostri riassuntini? Si domanderà prima di tutto se sia lecito, davanti a racconti che non si possono certo accettare come riflesso di verità sto riche o fisiche, storie cui non si può attribuire nemmeno il famoso 'nocciolo' di verità attorno a cui la fantasia avrebbe tes suto i suoi leggiadri veli, ingannevoli ma penetrabili, se davanti a racconti simili sia lecito piluccare ciò che per caso mostra una teorica possibilità di risalire a ricordi autentici o di rispecchiare una realtà fisica, e proclamarlo 'tradizione', mirabolante sì ma non del tutto incredibile, veste fantasiosa di qualcosa che si situa 'tra leggenda e realtà', secondo la formula da cui siamo partiti per deprecarne l'impiego nel caso nostro. Non pare che ci siano molti dubbi su quale dev'essere la risposta. Se i 'miti' di Platone sono apparsi in nove casi come creazioni capricciose della fantasia, parabole escogitate all'e sclusivo servizio di un pensiero filosofico, è probabile che anche il decimo abbia questo carattere, pur se il suo contenuto mate riale potrebbe in sé rappresentare qualcosa di diverso10• Detto con diverse e più concrete parole: se Platone ha inventato, o di sana pianta o rielaborando idee altrui, l'uni verso-trottola multicolore e musicale, i cataclismi periodici e gli awallamenti-pozzanghera, solo per dare forma immaginosa a qualche aspetto della sua filosofia, è in prima istanza verosi mile che abbia fatto lo stesso col 'continente perduto'. Se poi la storia appare condotta con tecnica simile, quanto a fanta siosa e ironica validazione, e raccontata nello stesso tono, quello di chi non vuol essere preso troppo sul serio (quanto alla materialità dei fatti) , l'ipotesi diventa più che verosimile, diventa una fondata opinione cui converrà attenersi fino a che non sia smentita da argomenti di grande peso11. 69
Ma il peccato di parzialità si commette di solito non solo nei riguardi di tutta l'opera di Platone e dei suoi miti col loro specialissimo carattere, ma verso lo stesso racconto dell'A tlantide. Se si legge bene, spendendoci più tempo che sul nostro riassunto, si scopre che l'Atlantide non è sola, è accom pagnata invece da altre isole sconosciute su cui si estende l'u nico grande impero. Soprattutto il racconto accenna a un ignoto 'vero continente' che cingerebbe tutta la nostra ecu mene, al di là dei mari che la circondano. E il significato di questo 'vero continente', anche se nel seguito non se ne parla più, è facilmente immaginabile da chi abbia la minima fami liarità con la filosofia di Platone: è la solita realtà superiore, la 'vera' stabile realtà contrapposta alla nostra limitata ed effimera, secondo un'opposizione che rappresenta il nocciolo di tutto il suo pensiero. Il 'vero' continente nel mito di Atlan tide somiglia molto alla 'vera' superficie terrestre nel mito del Pedone, contrapposta alla nostra chiusa pozzanghera, e ha la stessa funzione, anche se solo potenzialmente12• E ancora: nello stesso Crizia, in cui si raccontano tante cose sull'Atlantide, Platone sa che l'acropoli di Atene era in tempi lontanissimi assai diversa e molto più grande che al suo tempo; una notte di pioggia accompagnata da terremoti bastò per cam biarne l'aspetto. Una specie di piccola Atlantide domestica, che però non sembra aver suscitato nessun interesse in tanti appassionati indagatori13. Anche all'interno della tradizione si è proceduto nella stessa illecita maniera: si abbandona ciò che è assolutamente incon ciliabile con la realtà accertata e si cerca una verità nella parte dove un controllo materiale non è altrettanto facile e sicuro. Argomenti di grande peso, abbiamo detto, potrebbero smentire ciò che si è sostenuto fin qui, ma in realtà gli argo menti decisivi sono venuti da gran tempo a precludere un'ac cettazione letterale del racconto platonico. In esso si legge che la zona di oceano dove l'Atlantide è sprofondata sarebbe 'tut tora' innavigabile, a differenza di prima del cataclisma, per i fondali poco profondi e fangosi; e questo proprio davanti allo 70
stretto di Gibilterra e a distanza non molto grande, come sembra di capire14• Oggi, da quando si è esplorato a palmo a palmo il fondo degli oceani, si sono diffusi fino nelle aule sco lastiche planisferi e carte di vario genere che ne mostrano il rilievo con la stessa chiarezza delle montagne terrestri, esclu dendo qualunque cosa che somigli lontanamente alle fantasti cherie di Platone. La lunga catena sottomarina che corre da nord a sud a metà strada fra Europa e America, detta 'Dorsale medio atlantica' e su cui già si appuntarono le speranze di vari 'atlan tisti' credenti, è quanto di più diverso si possa immaginare dal l'ampia estensione continentale richiesta dal racconto platonico. Jules Verne, narratore piacevole ma molto sopravvalutato come autore di fantasie scientifiche (basti pensare alle corbellerie di cui è pieno il Viaggio al centro della terra) , poteva immaginare ancora nel 1870 la passeggiata sottomarina del capitano Nemo e dei suoi involontari ospiti fra le rovine della 'leggendaria' civiltà scomparsa, a 16 o 17' di longitudine ovest (beninteso da Parigi! ) ,33° 22' di latitudine nord, non molto lontano da quella Madera in cui molti credenti sperarono di poter riconoscere una vetta delle sommerse montagne di Atlantide15• Oggi imitare Verne non sarebbe più lecito a nessuno, perché anche le fan tasie di quel genere non possono forzare la realtà conosciuta oltre un certo segno. Oggi si sa che Madera e le altre isole atlan tiche non sono affatto i resti di un'area sommersa, ma al con trario il risultato di progressive emersioni, che la geologia sa spie gare. Le più aggiornate e comprovate teorie sulla . formazione dell'attuale faccia del pianeta non lasciano assolutamente il posto per la scomparsa catastrofica di aree paragonabili all'Atlantide di Platone, che l'autore chiama isola ma che ha piuttosto dimen sioni da continente16• C'è stato chi l'ha spiegato ai non-geologi con molta pazienza (forse troppa) e con illuminante chiarezza, e qui ci limiteremo a rimandare alle pagine altrui, che per una volta si possono forse chiamare davvero definitive17• Verne, abbiamo ricordato, scriveva nel 1 870 e metteva la brillantezza della sua penna al servizio del grande miraggio, certamente coll'effetto di aumentarne la pericolosa seduzione. 71
Ma prima di lui se n'erano già sentite di curiose, anche se le più curiose dovevano ancora venire. Ci si domanderà intanto: primo, quali altre testimonianze sono arrivate dall'Antichità a proposito di Atlantide e che cosa si affianca al racconto platonico nel nostro patrimonio super stite di autori greci e latini; secondo, che cosa ne pensarono i lettori antichi, tanto più vicini di noi a Platone e alle sue storie. Alla prima domanda la risposta è semplice: nulla. Tutto quello (non molto) che si legge sull'Atlantide al di fuori del Timeo e del Crizia, è diretta derivazione dei due dialoghi pla tonici, parafrasi o commento in margine ad essi; al massimo compare qualche evidente flosculo aggiunto estemporanea mente, senza alcun peso18• Qualche parola di più merita la seconda domanda. Per prima cosa c'è da osservare come si sia formata ben presto un'opposizione fra scettici e credenti nella verità fattuale del racconto platonico. Dopo che il geografo Strabone aveva già dato qualche notizia in proposito (all'Atlantide credeva il famoso scienziato Posidonio, mentre scettici erano Aristotele ed Eratostene) l9, il commentatore bizantino Proclo, nel V secolo, faceva un bilancio, distinguendo non solo le due cate gorie più ovvie, ma tre: l ) chi leggeva quelle pagine come pura e autentica storia; 2) chi al contrario ne negava del tutto la storicità e ci vedeva solo una parabola sull'opposizione fra le realtà eterne e quelle sottoposte al divenire - e qui non si può non osservare come il parere di Aristotele, che di Platone fu scolaro, pesi più di diecimila congetture e argomentazioni dei posteri; 3 ) quelli che non negavano la storicità ma considera vano trascurabile la questione in confronto all'aspetto allego rico, il solo che doveva importare. Per ognuno dei tre gruppi Proclo può citare nomi illustri od oscuri, primi ingressi in un elenco sterminato che continua ad arricchirsi, ahimè soprat tutto nella prima categoria, oggi formata da dilettanti allo sba raglio, mentre alla seconda si ascrivono i pochi veri studiosi che hanno ancora voglia di rimettere le mani in una questione 72
così ingrata, e la terza non sembra da gran tempo trovare nuovi rappresentanti. Senza impegnarsi in un senso o nell'altro accennano all'ar gomento autori come Plinio il Vecchio («se crediamo a Pla tone . . . » ) o Eliano ('leggenda' sui re di Atlantide). li cristiano Tertulliano ricorda la catastrofe del continente sommerso tra fatti autenticamente storici, per confutare i pagani e dimostrare che i disastri naturali non sono il castigo degli dèi irati per l'avvento del cristianesimo, giacché ne avvenivano di terribili anche prima. Qualcosa di molto simile, scrive l'altro apologeta Arnobio, mentre Clemente di Alessandria propende per l'in terpretazione allegorica, allineando l'Atlantide fra altri miti platonici evidentemente fantastici e accanto a tradizioni pagane alla cui realtà storica il filosofo cristiano non può certo cre dere. Per diverse ragioni mostra di credere all'Atlantide il filosofo ebreo Filone di Alessandria, quando argomenta che gli sconvolgimenti geologici non compromettono l'eternità del creato. Diodoro Siculo, fatto particolarmente significativo, sfiora l'argomento quando parla a lungo degli Atlanti dell'A frica del nord-ovest, ma non sente il bisogno di nominare l'A tlantide come avrebbe certamente fatto se la questione fosse stata davvero sentita al suo tempo come è avvenuto più tardi20• Una curiosa forma di scetticismo che merita menzione fu espressa da uno scrittore cristiano del VI secolo, forse monaco, Cosma detto Indicopleuste perché autore di un 'periplo' del l'Oceano Indiano: qui la tradizione dell'Atlantide è respinta come fanfaluca di pagani. L'avrebbe escogitata proprio Timeo, il personaggio che dà titolo al dialogo platonico, degno rap presentante dei Greci ignoranti e presuntuosi; quando non seppe più come sostenere le sue frottole, inventò che l' Atlan tide era sprofondata nel mare21. Quel che soprattutto importa di notare . è quanto la que stione dell'Atlantide fosse dibattuta più tiepidamente nell'An tichità che nei tempi moderni; anzi non abbiamo testimonianza che fosse davvero dibattuta, cioè che un numero rilevante di autori avesse scritto con deliberato impegno polemico in un 73
senso o nell'altro. In ogni modo ci si mise assai minor calore che nella discussione sulla realtà dei viaggi di Ulisse, la disputa secolare in cui intervennero 'firme' del peso di Eratostene, Cra tere, Polibio e Strabone. Il motivo di questo scarso accanimento, almeno in con fronto a ciò che stiamo per vedere nell'età moderna, non sembra difficile da riconoscere. Gli Antichi possedevano un grande patrimonio di racconti tradizionali che erano abituati a prendere abbastanza sul serio se non proprio alla lettera, fra cui la storia mirabolante dell'Atlantide si perdeva. Chi aveva sempre sentito raccontare che Posidone aveva sepolto con una montagna il paese dei Feaci, o che la luna era comparsa in cielo quando l'Arcadia era già popolata, o cento altre storie consimili, non poteva provare grande sensazione per un'isola sommersa in più o in meno, anche se grande e piena di mera viglie. E la stessa situazione intellettuale continua dopo l'Anti chità: anche il Medioevo aveva la sua storia sacra, col fuoco del cielo che distrugge in una notte due intere città colpevoli, col Diluvio che cancella l'intera umanità, con la Torre di Babele che la disperde ecc. ecc., e anche qui l'Atlantide, se pur se ne sapeva qualche cosa, si perdeva fra tanti casi non meno sensazionali, per di più con lo svantaggio di essere atte stata solo da un autore pagano, niente di paragonabile ai por tatori della parola divina22• Può sembrare strano, ma è invece perfettamente logico, che l'Atlantide sia diventata terreno di accanito scontro fra scet tici e credenti proprio quando la linea di divisione fra mito da una parte, vera storia e vera scienza dall'altra, cominciò a essere tracciata con un rigore sempre crescente, quando l'umanità diventò maggiorenne dal punto di vista critico, nell'età moderna. La storia raccontata dal sapiente greco che ora si tornava a leggere e ad apprezzare sempre meglio nel testo ori ginale, aveva molti punti di vantaggio sulle tradizioni dello stesso genere; essa si collocava proprio nel punto in cui si incrociavano molti fattori di sorpresa e di interesse, e in con74
fronto alle logore storie bibliche non più accettate ciecamente aveva del fascino in più, quasi un 'mana' nuovo e intatto23• Non per nulla le tappe principali, le svolte nella lunga storia 'pro o contro l'Atlantide', coincidono con gli eventi capitali dei tempi moderni: le grandi scoperte geografiche che infran sero le barriere lungamente accettate del mondo medievale, e il trionfo dello scientismo ottocentesco con le nuove conce zioni sull'età e sulla storia della terra. Così, sembra segno di un giusto destino storico il fatto che la fase nuova e più clamorosa della ' questione Atlantide' cominci proprio in concomitanza col grande evento che del l'età moderna segna l'inizio, secondo la periodizzazione più comunemente accettata. Caduta proprio nell'epoca in cui si stava tornando all'ere dità letteraria e filosofica greca (ritorno di cui Platone fu uno dei principali beneficiari), la scoperta dell'America non poteva non far risorgere l'Atlantide agli occhi dell'Europa, nelle forme di quello che adesso si può chiamare a buon diritto un 'mito'. Non un mito tramandato dall'Antichità, salvo che nello spe ciale senso platonico, ma davvero un mito nato fra noi; una storia capace di sollecitare gli strati più profondi dell'animo umano, con le immagini di un mondo dai grandiosi splendori che tragicamente scompare soverchiato dall'indomabile natura, legato all'oggi dal filo di un ricordo incerto, passato miracolosamente attraverso i millenni, per vie avventurose. Chi tornava a leggere Platone nei manoscritti ignorati per secoli poteva credere di riscoprire una stupefacente verità traman data dal grande saggio antico. La scoperta dell'America cadde come un seme su un ter reno fecondo di nuove fantasie, anche se a rigore il continente perduto di Platone si sarebbe dovuto cercare in fondo al mare, poco lontano dallo stretto di Gibilterra e senza la fatica di andare fino nel Nuovo Mondo. Ma aspettarsi che ci si limi tasse a questo sarebbe pretendere troppo: sarebbe pretendere che la razionalità metta un freno al bisogno umano di 'risco perte' fantastiche. Così avvenne che nella grande novità si volle 75
vedere a tutti i costi una qualche conferma della tradizione veneranda, e che un'aura ' atlantica' , magari non ben definibile, si stendesse sulle terre appena rivelate. Dal sedicesimo fino al ventesimo secolo i nomi si allineano numerosi, vari per provenienza e inclinazioni: ci fu chi preferì l'America del nord, chi le Antille e chi il Brasile; ci fu chi disegnò carte dell'America settentrionale complete di province 'atlantiche', e chi perse addirittura la vita (P.H. Fawcett, 1 925) cercando nel cuore del Brasile i resti della 'civiltà atlantica'24• Nell 'elenco compaiono nomi famosi , come quello di Francis Bacon («the great Atlantis that you call America»), del filologo ( ? ) e occultista francese Fabre d'Olivet, e inaspettata mente quello di Arthur Schopenhauer, critico mordace di tutte le sciocchezze, salvo in questo caso delle proprie, che ritro vava il nome di Atlantide nella desinenza -atlan di alcuni topo nimi del Messico precolombiano25• Al confronto fa un effetto rinfrancante il buon senso di Mon taigne, che non escludeva del tutto la scomparsa di qualche grande isola ma non poteva credere che il cataclisma ne avesse allontanata una «de plus de douze cens lieues» dal luogo che Platone aveva indicato così chiaramente, vicinissimo alla Spagna. Anche Nicolas Fréret, uno dei capiscuola degli studi illumini stici sul mito, dimostrava almeno stavolta buon senso quando rivendicava il carattere di «fiction philosophique» del Timeo e del Cnzia e accusava di scarsa riflessione i moderni eh� avevano cercato l'Atlantide in America26• La ricerca del vecchio miraggio fantastico nel nuovo mondo è già abbastanza strana nella sua infedeltà al pur venerato rac conto di Platone, giacché l'America si adatta piuttosto male a questa identificazione: non sta nelle immediate vicinanze delle Colonne d'Ercole, e soprattutto sta sopra la superficie del mare, non sotto. Ma di queste facili obiezioni non si tenne conto, e molto meno se ne curarono quanti nei secoli seguenti risco prirono l'Atlantide nelle parti più disparate del mondo27. Qual cosa di paragonabile era avvenuto in altre epoche, quando il 76
mito biblico aveva maggior presa sulle immaginazioni oltre che sulle coscienze: anche il Paradiso terrestre e la favolosa Ophir di Salomone erano stati ritrovati quasi in ogni angolo del mondo conosciuto, ma almeno non in così totale divario con la fonte su cui tutto si fondava28• È questo che fa del caso Atlantide un'assoluta singolarità a paragone di altri 'miti' della stessa specie, pseudo-storici e pseudo-archeologici: si continua a invocare l'autorità di Pla tone (né si potrebbe fare diversamente, perché non ce ne sono altre) , ma ci si infischia tranquillamente della sua asserzione prima e principale: l'Atlantide porta nel nome (aggettivo deri vato ! ) la sua localizzazione geografica; Atlantìs nesos è l"isola dell'Oceano Atlantico', e non potrebbe essere altrimenti. Ma è come se dal racconto platonico si estraesse o astraesse un solo elemento, l'immagine del continente sparito patria di una civiltà superiore e misteriosa, mentre tutto il resto non conta nulla, si può stravolgere a piacimento o semplicemente igno rare. Alla lunga processione di autori che sfila in questo incre dibile capitolo di storia delle idee (e delle follie) , viene ben presto voglia di domandare: 'Ma perché la chiamate ancora Atlantide? perché chiamate con un nome indissolubilmente legato all ' Oceano Atlantico le vostre fantasie proiettate nel nord dell'Europa, in Africa o in Terrasanta (e ci fermiamo qui) ? ' Questa noncuranza per l a fonte d a cui tutto deriva fa pensare all'atto di chi sega il ramo su cui sta seduto, ma ciò non sembra impressionare molto la categoria di 'atlantisti' cui stiamo pen sando, in barba a chi ha scritto risolutamente e sensatamente: 'O l'Atlantide sta nell'Oceano Atlantico, o non è Atlantide'. E non è solo la geografia a opporsi a queste connessioni e all'uso di questo nome: il paese descritto da Platone non era un'an tica culla della civiltà, come a tanti è piaciuto immaginare le loro Atlantidi, era un nemico minaccioso che per fortuna fu battuto e respinto dai valorosi Ateniesi; né era un modello di cultura raccomandabile, visto l'andazzo che prese e che le costò la punizione degli dèi e la rovina estrema. Ma è come se Platone avesse fornito una parola d'ordine, un nome che 77
suscita risonanze profonde e irresistibili, e avesse delineato soprattutto i 'tratti significanti' di un archetipo in cui tutto il resto è zavorra che si può gettare a piacimento. Parlare di Atlantide non significa più ricostruire un presunto, remoto capitolo di protostoria semidimenticata, legato a precise coor dinate spaziali e cronologiche, bensì praticare un genere eso terico-letterario sotto un trasparente travestimento storico: quel nome resta come un'etichetta sotto la quale si possono trovare cose apparentemente diversissime ma accomunate da uno spirito che tutti sanno riconoscere anche se non sapreb bero darne una precisa definizione. Una delle prime e più celebri 'Atlantidi non atlantiche' fu quella del dotto, anzi dottissimo svedese Olaf Rudbeck ( 1 63 01702) che faceva del continente perduto la culla della civiltà mondiale, mentre tutti i miti paradisiaci classici, Campi Elisi, Iperborei e giardino delle Esperidi, non sarebbero stati altro che sue confuse reminiscenze. Solo che la sua Atlantide era la natia Svezia, tesi accolta con grande soddisfazione da un paese allora all'apice della sua potenza politica, e che diede alimento al suo orgoglio nazionalé9. n 'rudbeckianismo' diventò addi rittura «una dottrina ufficiale che era pericoloso combatter�> e che solo i lumi del razionalismo misero in fuga (così Vittorio Santoli)30• L'autorevole germanista è però un po' troppo otti mista: il razionalismo settecentesco scacciò il rudbeckianismo ma inventò nuove 'teorie' non meno assurde, e i due secoli · successivi hanno continuato a inventarne di assurdissime, come si vedrà, con l'aggravante che ora si disponeva di ben altri stru menti di indagine e certe ingenuità divenivano imperdonabili. In anni recenti abbiamo visto rinnovare le cervellotiche identificazioni di Rudbeck e le sue barocche etimologie nel l' opera di un italiano ( ! ) che faceva derivare dalla Scandinavia tutta la civiltà classica, e che ha ottenuto notorietà e applausP 1• Qui una considerazione s'impone: al tempo di Rudbeck erano attivissimi altri eruditi della stessa risma, come il fran cese Samuel Bochart ( 1599- 1 667) che spiegava gran parte del 78
mondo esplorato e della storia conosciuta anziché col pan atlantismo dello Svedese con un pan-fenicismo non meno fan tastico (roba che piace immaginare nella biblioteca di Don Fer rante)32; e questi autori erano contemporanei di Galileo e di Newton, i loro libri portano le stesse date dei monumenti della nuova scienza che ancora ammiriamo e leggiamo con godimento intellettuale per il loro rigore logico e metodico33• Nebbia sta gnante e allucinazioni da una parte, aria nuova e aurora lumi nosa dall'altra. Una sconcertante disparità che non si può non additare, anche da chi non si sente chiamato a spiegarla. La monumentale opera di Rudbeck non è solo un esempio di bizzarra erudizione barocca, ma si inserisce nel lungo sfrut tamento dell'Atlantide a fini nazionali o nazionalistici di varia specie, uno dei capitoli più stupefacenti in tutta questa stupe facente storia. Va dalla scoperta dell'America fino al ventesimo secolo, dalle pretese dei re di Spagna e di Portogallo sul Nuovo Mondo ai miti nordici che il nazismo esoterico fabbricò o rima neggiò a proprio uso. In mezzo c'è di tutto: intrecci con la Bibbia e col mito delle dieci perdute tribù di Israele (l'avrebbe mai immaginato Platone, che di Bibbia e di Ebrei non sapeva nulla ! ) , ma soprattutto intrecci con le origini mitiche di gran parte dei popoli europei, Galli, Iberi, Etruschi e Germani. In piena età moderna, il tema dell'Atlantide viene a rinnovare le più inverosimili costruzioni genealogiche erette nel più credulo Medioevo ! Con figure come Gian Rinaldo Carli o Angelo Maz zoldi compaiono in questa tradizione anche nomi italiani. Anche il nostro paese, abituato a considerarsi una roccaforte del buon senso e della moderazione, ha avuto i suoi miti delle origini in chiave 'aborigena' o etrusca, non meno fantasiosi di tanti altri, e anche da noi ci si è serviti dell'Atlantide per riven dicare primati etnici e storicP4• Nella pars destruens del suo libro sulle 'origini italiche' ( 1 840) Mazzoldi faceva dell'ottima critica, dimostrando quante <
filosofica del racconto platonico. Senonché la parabola sarebbe fondata sul confuso ricordo di un awenimento storico: la venuta da occidente di un popolo portatore di una civiltà altissima e superiore, della quale aveva sparso i semi in tutto il Mediter raneo orientale (v. il titolo)35. E questo popolo non veniva da così lontano come pretendeva la tradizione echeggiata e ingi gantita da Platone, ma solo dall'Italia, la patria dell'autore che così diventa ancora una volta la vera e autentica Atlantide! Nelle sue pretese, Mazzoldi è solo un po' più moderato di Rudbeck, ma si inserisce anche lui in un filone di nazionalismo, accanto ai Gioberti e ai Cuoco con le loro rivendicazioni di primati ita liani. Un secolo più tardi sarà l'ideologo nazista Alfred Rosen berg a meritare il titolo di 'nuovo Rudbeck'36• Ed è curioso notare come queste fantasie di grandiose, antichissime e dimen ticate migrazioni che avrebbero determinato l'odierna faccia del mondo si alleino volentieri ai razzismi di ogni colore: l'opera fondamentale di Gobineau ne è piena. E qui si inserisce, anche se un po' indirettamente, un caso assai particolare, più vicino a noi e di qualche interesse per il lettore italiano di oggi. L'Atlantide si affaccia anche nell'opera del mistagogo e ierofante dell'ultradestra esoterica italiana e non solo italiana, Julius Evola, anche per il quale pare c� si debba usare ora la curiosa immagine dello 'sdoganamento' . Nel suo libro fondamentale il cui titolo rappresenta il pro gramma, Rivolta contro il mondo moderno, si accenna all'A tlantide in termini un po' fumosi, tali almeno per il non-ini ziato, in connessione con un altro 'tema' (parola usata dal l' autore) della stessa specie, non occidentale ma nordico e artico, 'iperboreo' , a proposito di grandi mutamenti climatici che avrebbero cambiato la faccia del mondo preistorico37. Anche qui siamo alle solite: l e solite migrazioni e diffusioni antichissime, le solite civiltà preistoriche avanzatissime, dimen ticate e poi riscoperte, tutto il repertorio sempre uguale e sempre riproposto in nuova confezione. La storia dell"Atlantide delle nazioni', come Pierre Vidal Naquet l'ha felicemente chiamata, è stata da lui scritta con 80
grande erudizione, e al suo studio possiamo qui soltanto riman dare: molti e molti autori vollero riscoprire a tutti i costi (così rievoca lo studioso francese) un'Atlantide vicina il più possi bile al loro paese o identica ad esso, culla della civiltà, pri meggiante nel mondo di allora e maestra ai posteri, pur dimen tichP8. E un elemento nazionalistico è presente anche nelle più recenti teorie sull'Atlantide, non solo in quelle di stampo nazista (e questo non sorprende) ma anche in quella greca di Tera-Santorino di cui diremo più avanti, e forse in altre ancora. L'elenco dei 'siti alternativi' , come s'intitola un capitolo di uno degli ultimi libri sull'argomento, quello della canadese Phyllis Young Forsyth, è lunghissimo e vario anche se con addensamenti in particolari aree, per motivi non sempre spie gabilP9. In parte, soprattutto nella sua parte più vecchia, esso coincide coll'elenco delle Atlantidi 'nazionali' ben illustrate da Vidal-Naquet, lo stravagante fenomeno che viene a complicare la nostra storia. C'è un'Atlantide iberica riconosciuta nell'antico e prospero regno di Tartesso, di favolosa fama tra i G reci, che secondo altri sarebbe identico alla misteriosa Tarshish della Bibbia. C'è un intero repertorio di Atlantidi nordiche, il filone aperto da Rudbeck che non possiamo seguire perché porterebbe troppo lontano, geograficamente fino al polo (già con Pierre Bailly nel 1779, poi con molti altri)40 e ideologicamente fino ai più biz zarri e arcaici nazionalismi. Merita però un cenno il pastore protestante tedesco Ji.irgen Spanuth, che nel 1 953 suscitò grande sensazione con la sua Atlantide situata vicino all'isola di Helgoland e da lui individuata grazie a certi pretesi resti. In particolare merita menzione la sua brillante trovata per superare lo scoglio degli inverosimili novemila anni su cui erano naufragate tante ipotesi: Spanuth leggeva nel testo di Platone 'novemila mesi' anziché anni, collocando così la distru zione di Atlantide intorno al 1253 a. C., data assai meglio 'gesti bile' . Ciò gli permetteva di connettere questo evento con la comparsa nelle acque egiziane dei famosi 'popoli del mare' che 81
minacciarono il Nuovo Regno più o meno in quel periodo (nella pseudo-erudizione di questa specie l'antico Egitto ci sta sempre bene, come paese dei miraggi storici e delle più strambe fantasie, da Erodoto alle moderne decifrazioni esote riche della Grande Piramide)41• Un accurato esame delle raffìgurazioni egiziane permetteva a Spanuth di affermare l'o rigine nordica e germanica dei pirateschi invasori - e qui sarà il caso di fermarsi perché stiamo sfiorando l'area che abbiamo detto di voler evitare42• Quanto all"atlantismo' italiano di questo genere, il suo con tributo più recente l'ha dato chi ha ritrovato l'Atlantide in Sar degna, spostando opportunamente le Colonne d'Ercole dallo stretto di Gibilterra a quello di Messina. Questo hanno potuto apprendere gli spettatori della televisione di stato nell'anno 2002, se per caso fosse loro sfuggito il libro dove la tesi è ampiamente illustrata fra moltissime altre cose43. Una delle 'aree di addensamento' delle Atlantidi non atlan tiche è l'Africa del nord, forse per una suggestione puramente verbale: nel Magreb si estende la catena dell'Atlante, e le fonti antiche conoscono nella regione un popolo di Atlanti. Il primum è probabilmente l'antichissima concezione mitologica della montagna cosmica che sostiene il cielo, con la $riante della sua personificazione in un gigante che fa la stessa cosa, concezione localizzata già da epoca assai antica nel nord-ovest dell' Mrica. Chi si volgeva a questi ' siti alternativi' sacrificava davvero molto della storia di Platone: ci si contentava di risco prire una qualche grande potenza imperiale nell'estremo occi dente del mondo antico, tramontata a causa di un disastro naturale (ma neppure sempre) e il cui confuso ricordo si rispecchierebbe nella pretesa tradizione arrivata fino all'Atene del V e IV secolo. Così faceva per esempio il geografo francese Félix Berlioux, quando ricostruiva la storia di un grande impero africano col suo centro nell'enigmatica Ce me, che secondo lui era una loca lità sul continente, in Marocco, non un'isola come sembre rebbe invece secondo le fonti antiche. Quest'impero, cui 82
restava ben poco di 'atlantico', sarebbe stato abbattuto da una coalizione di Egiziani, Fenici e Berberi nel XIII secolo a.C. I novemila anni di Platone sono evidentemente la cosa più difficile da salvare: anche i più spreconi di fantasia e più avari di critica devono ammettere che una tradizione storica con servatasi oralmente per novemila anni è cosa inaudita o piut tosto impensabile. Si potrebbe continuare lungo il Magreb, passando in rassegna l� localizzazioni libiche e tunisine, tutte contrastanti allo stesso modo col racconto di Platone, con la critica storica o col sem plice buon senso. Si distingue la proposta dell'altro francese, Victor Bérard ( 1929), noto per il suo improbabile sistema sto rico-geografico costruito attorno all'Odirsea, cui sembrava che all'Atlantide somigliasse molto Cartagine. A questo punto il gioco ha perduto del tutto il senso originario o meglio ogni senso: al posto del continente abbiamo una città e del cataclisma non resta più niente, giacché Cartagine al tempo di Platone esisteva ancora ed era anzi fiorentissima, tanto che alla sua costituzione si inte resserà vivamente Aristotele. Spostandoci per gioco di contrasto da una prospera città del l'Occidente a una in rovina dell'Oriente, sarà da ricordare qui l'ipotesi inaspettata, ma in fondo deludente per chi cerca eso tiche meraviglie e astrusi misteri, dello svizzero Eberhard Zangger che nella storia narrata da Platone riconosceva sempli cemente il racconto della guerra di Troia (fatto, s'intende, sto rico anzi storicissimo) . Salone l'avrebbe raccolto dalla bocca dei sacerdoti egiziani da lui visitati, senza capire che si trattava della stessa tradizione ben nota ai Greci, solo da un altro punto di vista. Le innegabili discrepanze fra le due versioni si spiegano con gli inevitabili malintesi linguistici; i pretesi novemila anni sono anche qui novemila mesi, e tutto va a posto come meglio non si potrebbe desiderare una volta ricostruiti i qui pro quo occorsi fra l'Ateniese e gli Egizi44• Molto strano è anche il nesso che si è creduto di ritrovare, in maniera ancor più romanzesca, fra Atlantide e Africa interna, soprattutto Sahara: un paese di marineria e di grandi flotte poi 83
sprofondato nelle acque, cercato in luoghi lontanissimi dal mare e fra i più aridi della terra ! Eppure il ritrovamento di un'Atlan tide sepolta dalle sabbie del deserto o nascosta nella foresta equa toriale fu annunciato da qualcuno e perfino convalidato con la prova dei soliti ritrovamenti archeologici interpretati arbitraria mente, falsati o inventati di sana pianta. La tesi sahariana sarebbe stata rilanciata, stando alla stampa quotidiana, dall'archeologa inglese Carla Sage ancora nel 2003 . Sulla qualifica del perso naggio non garantiamo nulla, sapendo che niente è più facile che passare per archeologi, senza averne alcun diritto, nelle notizie della stampa quotidiana. Notiamo soltanto che la fantasia degli atlantisti sta ormai 'raschiando il fondo del barile', se è ridotta a riscaldare una minestra così stantia. Qui emerge il nome del celebre esploratore ed etnografo tedesco Leo Frobenius, figura contraddittoria di scienziato-pro feta, che ritrovava la 'cultura atlantica' nelle civiltà dell'Mrica nera, prima criminalmente distrutte da colonizzatori e negrieri poi ingiustamente ignorate. Questo si traduceva nella pretesa sto deità dell'Atlantide, da lui riscoperta e salutata in termini di acceso lirismo45. Non a caso è apparso qui l'aggettivo 'romanzesco', sugge rito dal ricordo di una delle opere letterarie più famose fra le molte ispirate dalla storia del continente perduto, il rorru(n zo del francese Pierre Benoit, intitolato semplicemente I.:Atlan tide, pubblicato nel 1 9 1 9 con grande successo, portato sullo schermo cinematografico almeno due volte e plagiato in una fiction televisiva italiana di molti anni fa. Opera di un narra tore dal facile talento che di romanzi ne scrisse pilì di qua ranta, il libro merita due parole, se non altro perché è un ristoro trattare di un'opera di fantasia che si presenta come tale dopo tanta fantasia di cattiva lega travestita da scienza (ciò che non impediva a un quotidiano italiano, nel dicembre 2003 , di parlare della «teoria» di Benoit, senza accennare minima mente al fatto che si trattava di pura invenzione letteraria) . Qui la forzatura alla storia di Platone, per fortuna non al servizio di una falsa erudizione, diventa fondamento di un'idea 84
che non pretende di essere altro che fantasia di romanziere: Atlantide non è stata ingoiata dal ·mare, al contrario ha per duto il suo mare quando il sollevamento del suolo ha pro sciugato la regione trasformando in circonvallazioni di sabbia i canali che circondavano la rocca centrale dei sovrani nella descrizione del Crizia. È sopravvissuta solo la rocca stessa con al suo interno un piccolo mare residuo, un lago salato al centro di una miracolosa oasi verdeggiante in pieno deserto. Qui regna la bellissima e crudele Antinea, ultima discendente della dinastia 'nettuniana' di Atlantide, e qui arrivano avventurosa mente due galanti ufficiali francesi cui tutta la situazione viene spiegata da un connazionale, uno strano professore di storia là installato, variante dello 'scienziato pazzo' della science fiction e padrone di un sapere esclusivo grazie al possesso della biblioteca di Cartagine, piena di opere antiche sconosciute al resto del mondo odierno e salvatasi perché gli ignorantissimi Romani non se ne curarono quando distrussero la città; in par ticolare, la vera storia di Atlantide è raccontata nell'immagi naria opera di un autore greco, conservatasi in un unico esem plare. Un'illusione di realtà è data dalla citazione di quel Félix Berlioux che abbiamo già incontrato come personaggio sto rico fra gli autori delle speculazioni sull'Atlantide africana, e che qui s'immagina amico di gioventù del professore e mae stro di uno dei due personaggi centrali46• Ci sono tutti i motivi del caso, gli eterni motivi mitici e favolosi: c'è il mondo chiuso e quasi paradisiaco in mezzo a una desolazione, che rivelerà in seguito aspetti molto inquie tanti, qualcosa tra Shangri-La e il Venusberg di Tannhauser; c'è il sapere riservato a pochissimi, arrivato fortunosamente da un'e poca remota attraverso il solito manoscritto salvato per mira colo. I personaggi giunti tra varie peripezie nel luogo incantato ne vengono messi a parte (si vorrebbe dire 'iniziati') da una figura di sapiente volta a volta severo o benevolo; e c'è la solu zione sorprendente di un antico enigma che aveva affaticato vanamente tanti, con la rivincita sugli increduli che l'avevano negato. L'ipotesi africana ha prodotto così almeno un frutto non spiacevole: l'Atlantide di Benoit è una lettura divertente. 85
E qui sarà il caso di introdurre una fondamentale conside razione di metodo: accontentarsi di connettere con un filo così esile e fragile il racconto platonico a una realtà qualsiasi è cosa veramente insensata, perché se ci si contenta di quella esilità e fragilità, fili della stessa specie possiamo stenderne quanti vogliamo e di nessuno si potrà sostenere che è preferibile agli altri. Tutte le speculazioni di chi ha rinunciato a prestare una fede letterale al racconto di Platone e ha cercato delle Atlan tidi 'alternative' per salvare così la veridicità della storia, somi gliano molto al caso di chi volesse rivendicare la storicità della figura di Romolo sostenendo: che non si chiamava Romolo ma Olomor; che non visse nell'Italia centrale ma nella Gallia del nord o forse nell'Iberia del sud; che era figlio unico e che fu allevato con latte di capra; che non fondò né Roma né alcuna città; che non era un re bellicoso, anzi a pensarci meglio non era affatto un re ma un privato e pacifico cittadino - e questo sarebbe il vero Romolo. Ma accanto alle Atlantidi 'alternative' che usurpavano un nome di significato così chiaro, c'erano quelle di chi restava almeno fedele al testimone unico, e operava bene o mal�con l'ipotesi di un continente sommerso là dove indicava Platone, in Atlantico. Il nome dell'americano lgnatius Donnelly è oggi ricordato quasi solo da chi fa la storia del ciarlatanismo di alto bordo, ma a suo tempo il suo libro su Atlantide e il mondo antidiluviano (Atlantis: the Antediluvian World, 1 882 , «la Bibbia dei credenti in Atlantide») guadagnò all'autore quasi il rango di profeta di una nuova fede e divenne un successo edi toriale gigantesco cento volte ripubblicato, almeno nel suo paese (nella lista dei best-seller gli sarebbero succeduti altri capolavori della stessa specie, le opere degli Erich Von Daniken e dei Peter Kolosimo) . Donnelly era un convinto adepto del diffusionismo, l'orientamento nello studio delle più antiche civiltà umane che tende a postulare un'unica origine delle innovazioni culturali, si tratti della ruota, dell'addome86
sticamento degli animali o del culto degli astri, origine dalla quale esse si sarebbero successivamente di/fuse agli altri popoli e paesi che ne appaiono in possesso. Opposta è la tendenza ('evoluzionistica') di chi ammette che tutte le tecniche e tutte le novità, di ogni genere, possano essere state escogitate da diversi gruppi umani e, indipendentemente, in luoghi diversi. Detto in questi termini, sembra una legittima varietà di metodi davanti a problemi della preistoria da valutare caso per caso, ma purtroppo non è così: il diffusionismo ha spesso favorito le ipotesi più strampalate e ha contrabbandato, sotto un nome che suona scientificamente rispettabile, delle fantasie che con la scienza non avevano nulla a che fare. Per dirlo senza mezzi termini: non c'è stata, letteralmente, assurdità tanto assurda che qualche diffusionista non abbia sostenuto; ciò che si è riu sciti a scrivere sugli Egizi e sulla loro civiltà, arrivata per via di diffusione fino in Cina, nell'Europa del nord e naturalmente nelle Americhe, insegna47• Rappresentante fra i più estremi del diffusionismo, Don nelly faceva dell'Atlantide, immaginata più o meno come la racconta Platone, la culla e il centro universale di tutta la civiltà umana che da lì si sarebbe sparsa a est come a ovest, nel Vec chio Mondo come nelle Americhe. Da lì sarebbero venuti tanto la lavorazione del ferro quanto l'alfabeto destinato a così grande fortuna, e molte altre cose conservate con particolare fedeltà nell'antico Egitto. Atlantico sarebbe il culto del sole praticato fra l'altro proprio in Egitto e nel Perù incaico, uno dei segni della stretta vicinanza culturale fra questi due paesi. Eredità atlantica sarebbero infine tutte o quasi le mitologie conosciute; confuso ricordo di quel lontano mondo di mera viglie sarebbero l'Eden biblico come i Campi Elisi e gli altri paradisi del mito classico, e come l' Asgard germanico; altret tanto dicasi dei vari miti diluviali (come già fa immaginare il titolo del libro) , tutti reminiscenze del cataclisma che som merse l'Atlantide. Anche gli antichi dèi dalla Scandinavia all'India, assicurava Donnelly sulle orme di Evemero di Mes sana, non erano altro che i re e le regine di Atlantide il cui 87
ricordo si era trasfigurato nella memoria collettiva dei popoli che ne avevano ereditato la cultura. Chi ne avesse voglia potrebbe inquadrare più precisamente tutto ciò nel novero delle numerose fantasie e pazzie appa rentate, e tentare una morfologia di questi prodotti dell'intel letto umano dissestato (o dell'astuzia affaristica; in molti casi è difficile dire se gli autori di questa specie credano davvero in quello che scrivono, o soltanto nella possibilità di fare quat trini; in molti altri non è affatto difficile). Qui ci limiteremo a ricordare che Donnelly scrisse anche un libro dal promettente titolo The Great Cryptogram, nel quale si sosteneva, presumi bilmente con la stessa fondatezza, che i drammi di Shakespeare erano opera di Francis Bacon, proprio l'autore della New Atlantis per cui vedi sopra48• Abbiamo scritto 'escogitare' ma dobbiamo introdurre una limitazione, perché tutto ciò non è veramente nuovo: un secolo giusto prima di Donnelly, l'illuminista italiano Gian Rinaldo Carli, aveva già spiegato la somiglianza di certi aspetti nelle civiltà del Vecchio e del Nuovo Mondo ipotizzando una loro comune origine dalla scomparsa Atlantide. ll caso dimostra ancora una volta quanto sia difficile inventare qualcosa di davvero originale, anche quando si lascia briglia sciolta alla fantasia apparentem�te più fervida. Nel libro di Carli sono presenti già quasi tutti gli ingredienti che ritroveremo innumerevoli volte ricucinati con mille variazioni ma senza che la sostanza cambi, quelli che abbiamo già dovuto elencare: gigantesche migrazioni di conti nente in continente, catastrofi apocalittiche dimenticate o ricor date sotto il velo dei miti diffusi nel mondo, prodigiose civiltà scomparse lasciando poche tracce; il tutto rivestito della solita finta scientificità con spreco di calcoli cronologici e astronomici49• Non sarà certo il caso di seguire tutto ciò che succede all'o pera di Donnelly, da esso deriva o ad esso variamente si col lega. È una storia a prima vista curiosa ma presto stucchevole e in fondo soprattutto monotona, perché sempre uguale è lo spirito di cui sono figlie tutte queste fantasie, solo in appa renza disparate. 88
In questa storia compare fra altri dubbi personaggi il truf fatore Paul Schliemann, nipote (?) del più famoso Heinrich (personaggio anche lui di onestà non sempre specchiata, ma almeno ricco di innegabili meriti), che nel 1 9 12 fece parlare di sé rivelando come nel retaggio del celebre nonno esistesse un vaso ritrovato a Troia, omaggio a Priamo del 're Kronos di Atlantide'50• Il miraggio di Atlantide si alleò all'occultismo nell'opera di 'Madame' Helena Petrovna Blavatsky, a suo tempo famosa fon datrice della moderna teosofia. Solo che qui la storia torna a complicarsi, perché nelle visioni della Blavatsky non compa riva solo l'Atlantide, ma anche un altro continente perduto detto Lemuria. Ancora una volta l'idea non era nuovissima: 'Lemuria' era stata chiamata un'ipotetica 'Atlantide dell'O ceano Indiano' da uno zoologo dell'Ottocento che l'aveva postulata per spiegare la diffusione intercontinentale della famiglia di proscimmie dette 'lemuri' . Il nome richiamava però inevitabilmente i lemures latini, gli spettri dei defunti, aggiun gendo alla trovata un felice tocco di arcano e pauroso. Siccome le sciocchezze fortunate si attraggono e si accop piano, non mancò in anni più recenti un autore americano di nome Charles Berlitz, che affiancò nei titoli di due suoi libri Atlantide e triangolo delle Bermude (The Mystery o/ Atlantis, 1 969, e The Bermuda Triangle, 1 974), rivelando come tutto quel che di sospetto avviene nella nota e famigerata area del l' Atlantico, tanto cara agli autori di 'B-movies', sia dovuto al fatto che lì sotto c'è l'Atlantide. Dimenticavamo che scrisse anche un libro sull'arca di Noè ritrovata, e che tutte queste opere trovarono accoglienza nell'editoria italiana in volumi arricchiti dal solito corredo di fotografie scelte e commentate come si converrebbe a documenti scientifici, esca e mezzo di persuasione per i gonzi. L'altro americano, lmmanuel Velikovski, cucinò un diverso piatto altrettanto indigesto, unendo all'ingrediente Atlantide quello dei 'mondi in collisione', un tema che ha ripreso attua lità in anni recenti attraverso pubblicazioni scientifiche di vario 89
livello e sugli schermi cinematografici, nella forma dell'aste roide micidiale che rischia di distruggere il nostro pianeta. Nel libro Worlds in Collision ( 1 950), si raccontava come la terra abbia in tempi lontani sfiorato una cometa, con disastrose con seguenze fra cui la sommersione dell'Atlantide per effetto di una smisurata marea. Con la stessa anomala marea si spiega vano gli eventi miracolosi dell'Esodo biblico, la divisione del Mar Rosso al passaggio degli Ebrei in fuga e varie altre cose ancora. Siamo infatti intorno al 1500 a.C.: qualcosa del rac conto di Platone bisogna pur sacrificare, e -Velikovski sacri ficava appunto i novemila anni di antichità per salvare il resto. Questo cumulo di fantasie fu purtroppo accolto dal diffusis simo mensile «Reader's Digest» e nella relativa edizione ita liana come 'libro condensato' (un condensato di assurdità) , e avrà confuso le idee a chissà quanti51 • E il bello è che neppure stavolta s i batteva una strada del tutto nuova: lo stesso settecentista Gian Rinaldo Cadi che per un verso precorreva Donnelly, per l'altro precorreva anche Velikovski, quando ipotizzava che il mitico diluvio di Ogige (uno dei due 'diluvi universali' della mitologia pagana) fosse stato causato dall'attrazione di una cometa, forse quella di Halley!52 • -------
Qualcosa di nuovo, nuovo almeno nei materiali impiegati per queste discutibili costruzioni, apparve nell'isola di Creta con le nuove e sensazionali scoperte archeologiche che segnarono i primi decenni del secolo scorso. La vitalità del moderno mito di Atlantide ('mito' nel senso che si è cercato di definire) è dimo strata fra l'altro da questo suo continuo 'aggiornarsi', adattarsi alle nuove conoscenze. Si scoprono cose nuove e si va lontano ma il miraggio è sempre là, irraggiungibile ma mai impallidito. Gli scavi condotti a Cnosso e in altre località dell'isola mediterranea ottennero, com'è noto, dei risultati clamorosi e tali da colpire anche l'immaginazione del grande pubblico: essi non rivelarono solo qualche opera d'arte sia pure egregia, ma riportarono alla luce un'intera civiltà del secondo millennio 90
a.C. praticamente del tutto sepolta e dimenticata, con carat teri di avanzamento, originalità e brillantezza che davano la sensazione della riscoperta, della rivelazione, della luce che si accende dove prima c'era il buio. In questi casi è psicologica mente inevitabile che dall'autentica rivelazione se ne vogliano ricavare altre, anche se dubbie o del tutto fittizie, nella spe ranza che il nuovo e luminoso patrimonio di conoscenze getti a sua volta nuova luce su vecchi problemi. La nuova civiltà, subito chiamata convenzionalmente 'minoica' dal leggendario re Minosse di Creta, aveva qualche parallelo formale con l'Atlantide: era fiorita in mezzo al mare, ciò che le fece frettolosamente attribuire un carattere molto marinaro - la famosa e indimostrata talassocrazia cretese'3; la sua arte testimoniava lusso e raffinati splendori; infine appa riva tramontata bruscamente fra indizi di terremoti e distru zioni. Ce n'era abbastanza per richiamare certe attenzioni; e stavolta troviamo in dubbia compagnia anche il nome di un vero studioso, il linguista austriaco Wilhelm Brandenstein che in un suo libriccino del 1 95 1 volle identificare (qualunque cosa ciò significhi esattamente) l'Atlantide con la Creta minoica54• Ostavano però l'insufficiente antichità della civiltà cretese, le dimensioni relativamente modeste dell'isola e soprattutto la sua posizione geografica ben addentro alle Colonne e molto lontano dall'Atlantico. Data la prevalenza degli argomenti negativi, l'idea di Creta-Atlantide sarebbe rimasta ai margini di tutta la questione, persa tra la folla delle tante stravaganze implausibili, se non fosse venuta in suo soccorso una nuova scoperta archeologica, di portata molto minore ma non meno affascinante e adatta a 'fare notizia', come si dice sotto l'o dierna tirannia dei mass-media. Ben nota ormai al turismo internazionale, l'isola egea di Santorino rappresenta certamente una delle maggiori attrazioni di tutto il Mediterraneo, dal punto di vista geologico, come presto si scoprì, e anche da quello archeologico, come oggi sappiamo55• Già in pieno XIX secolo gli scienziati riconobbero 91
che l'isola, o piuttosto il piccolo arcipelago, rappresentava l'a vanzo eloquente di un antico evento geologico di rara gran diosità: la colossale eruzione esplosiva di un vulcano in mezzo al mare che aveva completamente trasformato l'aspetto dell'i sola su cui sorgeva; al cataclisma erano sopravvissuti solo i resti di una terra già ospitale e prospera, nella forma di una grande caldera semisommersa: un paesaggio affascinante per il visita tore e una mecca per geologi e vulcanologi. L'interesse archeo logico si aggiunse presto a quello naturalistico, ma restò secon dario per tutto il XIX secolo, che vide solo scavi saltuari con modesti risultati: Santorino era un sito greco fra mille altri, senza particolare fisionomia e importanza. Le cose cambiarono col nuovo secolo, che doveva vedere la resurrezione della civiltà minoica con le straordinarie sco perte archeologiche di cui abbiamo già detto. Gli scavi inglesi a Cnosso e quelli italiani a Festa aggiunsero un intero e grande capitolo all'archeologia classica, e suscitarono nella cultura europea degli echi che avrebbero influito profondamente sulla stessa immagine del mondo antico, già rinnovata dalla rivela zione della civiltà micenea sul continente. Quando negli anni Sessanta del XX secolo gli scavi furono ripresi a Santorino con nuova energia, i risultati non tardarono e stavolta si poté subito inquadrarli nella cultura riscoperta da mezzo secolo. La pic cola isola apparve come una scheggia, isolata ma brillante, della civiltà artistica minoica, e come il luogo di un insediamento tutt'altro che trascurabile, mantenutosi vivacissimo fino alla vigilia del"'cataclisma, intorno alla metà del II millennio. Il pic colo centro di Akrotfri, dove si erano fatte le scoperte più sen sazionali, diventò la 'Pompei dell'Egeo' o la 'Pompei dell'età del bronzo'. Bello, anzi bellissimo; ma anche una conferma della legge che abbiamo cercato di enunciare: ogni sensazionale scoperta porta con sé la tentazione irresistibile di farne la chiave per nuove scoperte, a tutti i costi e spesso dimenticando ogni buona regola di metodo e di prudenza. Dai rinnovati studi geologici e dalle scoperte archeologiche nel sottosuolo di San92
torino, sono sorte due di queste tentazioni. La prima: l'evi dente legame culturale tra la piccola isola dell'Egeo e la Creta minoica, accanto ad alcuni rilevamenti geologici fatti in que st'ultima, suggerì l'ipotesi di un diretto legame storico o meglio fisico-storico. Si suppose, dapprima timidamente poi con sempre maggior insistenza, che il tramonto della civiltà minoica (assai brusco, almeno secondo certi indizi) fosse stato causato dalle ripercussioni del cataclisma di Santorino, l'antica Tera. Il primo a proporre l'idea fu lo stesso Spyridon Mari natos, l'archeologo greco che fu il grande animatore degli scavi, colui che li condusse con straordinaria dedizione fino a morirvi in un vero incidente sul lavoro nel 1 974 (sulla sua morte, e perfino sulle vicende della salma, il giornalismo sensazionalista costruì una complicata storia in cui oltre all'Atlantide entra vano il regime dei colonnelli greci, un misterioso incontro tra Marinatos e Wernher von Braun, l'invasione tedesca della Grecia nella Seconda guerra mondiale, e tutto il repertorio di poteri occulti e meno occulti nemici della verità, evocati immancabilmente in questi casi; innumerevoli siti Internet sono pieni di questo trash, per il fastidio di chi cerca qualche notizia seria). Avanzata nel 1 93 9, la proposta non aveva susci tato dapprima quasi nessuna eco, anche per il sopravvenire della guerra mondiale, mentre grandissimo fu l 'interesse quando essa tornò alla ribalta negli anni Sessanta in coinci denza con le nuove scoperte archeologiche. Molto caratteri stico: il giustificato entusiasmo per le recenti scoperte fa da 'propellente' a un'idea di diverso genere che affidata solo a se stessa era apparsa debole. Dopo d'allora è stato un vero diluvio di indagini e calcoli: si sono setacciati gli strati superficiali del suolo di Creta in cerca della fatale cenere vulcanica portata dai venti; ci si è chiesti quanti centimetri dovessero caderne per rendere incoltivabili i terreni e causare una crisi agricola capace di rovinare l'economia dell'isola; si è ricostruito quanto sia stata formidabile l'eruzione di Tera, se paragonabile al Krakatoa, al Tambora o a qualche altro disastro del genere, e se ci sia stato uno tsunami ad accompagnarla, tale da distrug93
gere le famose flotte di Minosse; perfino in che raggio si sia sentito il botto, se per tutto l'Egeo o fino all' Africa'6. A tutt'oggi, nonostante qualche voce che si è levata a consigliare prudenza con ponderati argomenti, la teoria della civiltà minoica uccisa, o almeno ferita mortalmente dal vulcano, gode di una voga paragonabile a quella dei dinosauri estinti in con seguenza della caduta sulla terra di un gigantesco meteorite (chi scrive ha poca competenza nella prima questione e nes suna nella seconda, ma certi parallelismi non si possono non notare; si direbbe che su certe questioni insolute, storiche o scientifiche che siano, ci si divida secondo il temperamento o la moda; qualcuno penserebbe alla lunga contrapposizione fra nettuniani e vulcanisti nella geologia di due secoli fa) . Seconda tentazione, che qui interessa più direttamente: Tera/Santorino era una prospera isola dove si viveva nell'ele ganza e nel lusso; il suo suolo, tanto emerso quanto sottoma rino, presenta delle curiose formazioni che potrebbero risalire a grandi opere umane; tutto il suo splendore finì improvvisa mente in un disastro naturale di straordinarie proporzioni. Conclusione: Tera è il modello dell'Atlantide di Platone, anzi diciamo senz' altro che è l'Atlantide di Platone! '7• l Di questa seconda forma dell'affermazione si fece sosteni tore il geologo greco A.G. Galanopoulos, in un libro che recava già in copertina il sobrio annuncio: Atlantis: The Truth behind the Legend, titolo per il quale non si può che riman dare a quanto detto in principio'8• Galanopoulos arrivava a ritrovare i grandi canali della capitale di Atlantide in certe fosse sommerse, e a confrontarne le esatte misure con la descrizione platonica, rinnegando così anche quel minimo di ragionevo lezza (non necessariamente di ragione) che si potrebbe rico noscere alla prima forma dell'affermazione, che attribuisse al cataclisma di Tera una funzione di remoto modello, di ispira zione del mito platonico. La concorrenza non mancava: nello stesso anno 1 969 usci rono tre (dicesi tre) libri che collegavano in un modo o nel l'altro l'eruzione del vulcano di Tera con Creta, tornata a nuova 94
fortuna 'atlantica', e con l'Atlantide stessa, mentre i media face vano a gara nel proclamare che l'antico mistero era stato final mente risolto59. Le conseguenze di tanta superficialità e di tanto sragionamento continuano a tutt'oggi: nel luglio del 2002 un apprezzato divulgatore di scienza, storia e archeologia, di televisiva fama, poteva scrivere che l'Atlantide «secondo la leg genda» aveva a che fare con l'isola di Santorino, e purtroppo per 'leggenda' non intendeva, come sarebbe stato caso mai appropriato, una malfondata opinione diffusasi nella seconda metà del XX secolo, una leggenda dei nostri media. Malfondata o assai debolmente fondata: anche ammettendo che il ricordo della catastrofe si sia conservato nell'antica Grecia per più di mille anni, contro il probabile giudizio di quanti si sono occupati seriamente di tradizioni orali, è troppo strano che ne faccia parola un unico autore, in maniera �elata e fuorviante e solo al servizio di una personale utopia. E qui non può non venire alla mente un altro argomento di grande peso contro il carattere di leggenda che si pretende di attribuire alla tradizione dell'Atlantide, ancora un argo mento che sarebbe decisivo anche da solo: nel 3 80 a. C., pro prio negli anni della piena attività di Platone, il grande ora tore ateniese Isocrate scrisse il più ammirato dei suoi famosi discorsi, il Panegirico, un titolo che per i Greci significava sem plicemente 'discorso pronunciato in una panégyris, una riu nione popolare di vario carattere', e che per noi ha finito col significare una solenne ed elaborata celebrazione. Tale è di fatto il Panegirico di Isocrate, una solenne ed elaborata cele brazione di Atene passata e presente, di tutte le sue beneme renze e le sue glorie, in pace e in guerra, quelle che per noi sono mito come quelle che sono indubbiamente storia. In questo repertorio, che ritroviamo anche in meno famose com posizioni dello stesso genere, non manca l'esaltazione degli immortali meriti che Atene si è guadagnata difendendo la Grecia da ogni specie di invasioni e minacce barbariche, non solo le inevitabili guerre persiane, ma anche quelle più antiche contro Amazzoni, Sciti e Traci - e sull'eroica guerra contro gli 95
Atlantici, la più grande e gloriosa di tutte, non c'è neanche una parola. TI verboso retore (e non solo lui ! ) si sarebbe lasciato inspiegabilmente sfuggire un tema così splendido che pro metteva sviluppi del più grande affetto? Forse perché rifug giva da un'antichità così remota e perciò incerta, poco adatta a convincere i suoi lettori o ascoltatori? Questa cautela, di per sé poco plausibile, è esclusa dallo stesso Isocrate, quando sostiene (con quella che per noi è una vera perversione critica, ma tant'è) che proprio la grande antichità dà maggior peso alle tradizioni da lui riferite: «Il fatto stesso che si siano con servate per tanto tempo dimostra la grandezza degli eventi»60. Che bazza, se è così, i novemila anni della guerra atlantica ! Ancora una volta dobbiamo concludere: Isocrate non ha fatto parola della leggenda di Atlantide semplicemente perché la presunta leggenda non esisteva, era una fantasia ancora chiusa nella mente, o forse ancora da concepire, dell'ex-scolaro di Socrate, l'autore delle più sorprendenti invenzioni, il grande filosofo e grande scrittore Platone. Non ci sarà poi da perdere tempo a discutere l'opinione di chi è disposto a credere che la tradizione si sia c nservata dav vero in Egitto come vuole il racconto platonico, dove l'avrebbe raccolta Solone dalla bocca di quei venerabili sacerdoti che ave vano miglior memoria dei Greci. Soprattutto non c'è da per dere tempo coi mille autori di panzane giornalistiche, coloro che amano tanto denunciare, o almeno insinuare, una congiura del silenzio da parte della chiusa e ottusa scienza ufficiale, già dimo stratasi capace di simili malefatte e sempre terrorizzata (chissà perché) all'idea che spunti qualcosa di così sensazionale e nuovo. Un atteggiamento molto simile al noioso vittimismo degli 'ufo logi', quando denunciano il colpevole silenzio di tutti i governi della terra circa le prove sicurissime o addirittura circa i resti materiali delle visite dagli altri mondi. Ma se dietro a tutto questo c'è qualcosa di inconfessato da scoprire, è la motivazione 'editoriale': con un po' di fortuna i libri di questo genere si ven dono bene, come mostra la carriera commerciale di molti di loro, le edizioni ripetute, rinnovate e ampliate.
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Cerchiamo di tirare le somme dopo questo sabba infernale, questa notte di Valpurga delle pazze fantasie. Oggi chi vuole rivendicare la verità del racconto di Platone nel maggior numero possibile di particolari (certo non tutti, in nessun caso, anzi distaccandosene in punti importanti) , cade nelle fole dei Don nelly, degli Spanuth, dei Galanopoulos; chi si contenta di sug gerire qualche realtà che avrebbe suggerito al filosofo qualche linea e qualche colore del suo fantastico quadro, cade invece nel generico o nell'ovvio, e al lettore viene da dire volgarmente 'bella scoperta! '. Non grande scoperta è che anche la fantasia più potente non può creare ex nihilo e deve nutrirsi della realtà. Chi arriva a concludere, pur dopo aver scritto cose sensate e anche istruttive, che «Plato's Atlantis is essentially a conflation of many different elements», cade in una banalità61 • Come se lo stesso non si potesse dire di ogni creazione della fantasia umana, dal� l'aldilà di Dante alla Heliopolis di Ernst }tinger! È affascinante, se ci si riesce, rintracciare le esperienze e le letture confluite e fuse nella fantasia di uno scrittore, venute a portare il loro con tributo di elementi preesistenti anche alla più fantastica storia o visione, anche al più sorprendente dei voyages extraordinaires; ma per Platone questo si può fare in maniera molto limitata e incerta. Si può solo ripetere che per inventare un disastro natu rale bisogna pur ispirarsi a quelli veri, visti o sentiti raccontare, e che per raffigurare un'immaginaria grande città marinara si prenderà qualche cosa da una che si è visitata davvero. Jiinger stesso dichiarò che per la sua Heliopolis si era ispirato molto vagamente alla posizione di Genova, e Platone avrebbe forse potuto dire qualcosa di simile per Siracusa, come è stato sugge rito, ma questo non interessa poi molto: al massimo merita una nota in un'edizione commentata del Crizia, non certo un libro. In questo senso, molti accostamenti che sono stati sugge riti fra elementi del racconto platonico e aspetti della realtà storica e geografica sono più o meno validi, ma di una validità che lascia il tempo che trova. L'eroica e vittoriosa resistenza di Atene contro l'invasione del grande impero atlantico d'Oc cidente, dovrà senz'altro qualcosa alla reminiscenza di ciò che 97
era avvenuto nelle guerre contro un grande impero d'Oriente, la Persia; i porti di Atlantide somigliano forse a quelli di Sira cusa (ma anche a Cartagine o al Pireo, un'ipotesi di questo genere vale l'altra) ; la catastrofe naturale descritta nel Timeo avrà preso qualche colore dai terribili terremoti e maremoti che avevano ingoiato le città greche di Elice e Bura non molto tempo prima (373 a C.; una catastrofe aveva distrutto anche l'isola di nome Atalante - nelle vie della fantasia operano anche queste vicinanze verbali): non c'è bisogno di arrivare al vul cano di Tera, la cui pertinenza resta improbabile perché mille anni di distanza sono troppi per un ricordo preciso62. Più gene ralmente tutta la tradizione antica è piena di 'geologia cata strofica', di terre che si aprono al mare con immense fratture, opera della natura o degli dèi, di città e paesi sommersi, qualche volta con gradualità ma più spesso bruscamente. In queste credenze le ere geologiche sono 'compresse' all'ordine di grandezza della storia umana o ricondotte addirittura alla portata della memoria. Se ne potrebbe fare una rassegna ster minata e documentare così il bisogno insaziabile di magi nare fulminee catastrofi nella storia della terra, che nella realtà è ·troppo lenta e troppo fuori della nostra misura. Può anche darsi benissimo che la fantasia di Platone sia stata stimolata dalle leggende (queste sì vere leggende) che cir colavano su isole favolose dell'Atlantico, vivissime ancora in età medievale, o da nozioni vere o false sulla geografia dell'e stremo occidente. E si potrebbe continuare per pagine e pagine, ma che cosa ne guadagneremmo? Tutta la rete di rapporti bilaterali scoperta dai critici che hanno rilevato volta a volta la coincidenza in molti tratti tra Atlantide e Creta minoica, Atlantide e Scheria dei Feaci, Scheria e Creta minoica, Santorino e Atlantide, Scheria e San torino63, per trame chissà quali conclusioni, mostra la sua debolezza proprio nella facilità di questi confronti, variabili ed estendibili come si vuole: storia, leggenda o letteratura che sia, si tratta sempre di immagini che rientrano in una certa morfo logia e sulle cui somiglianze si può giocare quanto si vuole,
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senza altro frutto che di precisare quella morfologia. n mito della città ricca e fastosa che si rende colpevole di hybris, come avrebbero detto i Greci, e che finisce punita dagli dèi o da Dio con un cataclisma, non ha mai abbandonato le menti umane. L'Europa del nord conosce la leggenda della baltica Vineta, e la Bretagna ha Ys e la meno nota Herbange64• Né è necessario andare così lontano: una serie di piccole 'atlantidi' c'è anche in Italia, con la Cutilia del Viterbese, con la Marsia del Fucino e altré5• Su un nome bisogna insistere, il nome che abbiamo citato tante volte: Platone e ancora Platone; non è lecito parlare di Atlantide altro che in stretta connessione con lui, con la sua filosofia e la sua letteratura. Che filosofia e letteratura fossero il terreno giusto su cui misurarsi con l'Atlantide lo sapeva benissimo lo storico Teopompo, vissuto circa una generazione dopo Platone e rappresentante di un nuovo modo di fare sto riografia. La sua opera è perduta, ma di alcune pagine ha lasciato il riassunto uno scrittorello italiano del II secolo d.C., Eliano, autore di alcuni libri di varia curiosità redatti in greco66• Da lui sappiamo che anche Teopompo aveva voluto il suo con tinente perduto, e aveva inventato la Meropide, un po' imi tando Platone un po' cercando di superarlo con la comples sità dell'invenzione e con la sapienza dell'allegoria. Già il modo in cui la storia sarebbe stata tramandata è molto più favoloso che in Platone: invece di Salone e del sacerdote egiziano c'è un dialogo fra il re Mida e un essere semidivino, un sileno. La Meropide non è un'isola come Platone definisce ripetutamente l'Atlantide; isole circondate dall'oceano son� piuttosto, nel mito di Teopompo, quelle che noi chiamiamo continenti, Europa, Asia e Africa; il vero continente è la Meropide, immensamente superiore per ogni aspetto ai nostri paesi, un concentrato di tutti i motivi utopici che oggi appaiono risa puti e che non erano troppo nuovi neanche nel IV secolo a.C.: c'è la longevità prodigiosa di una parte dei suoi abitanti pii e pacifici, contrapposta alla vita bellicosa e breve di altri; c'è il loro disprezzo per l'oro di cui noi siamo tanto avidi, motivo 99
che tornerà nell'utopia propriamente detta, la creazione di Tommaso Moro; ci sono i fiumi incantati che provocano effetti diversi in chi mangia i frutti cresciuti sulle loro rive, dolore inconsolabile oppure gioia e ringiovanimento, etc. L'assennato Eliano giudica il narratore di tutto questo un deinòs mythol6gos, tradotto alla buona 'un grandissimo contafrottole', e nessuno vorrà giudicare diversamente. Eppure, la sua poco originale invenzione ha qualche titolo per essere ricordata con favore: Teopompo voleva essere il nuovo Platone e almeno sapeva qual era la strada da battere; suggerisce così quale sia il modo giusto di interpretare il suo grande predecessore e può servire da anti doto, per chi lo vuoi capire, alle follie che qui si sono dovute passare in rassegna67• E non scopriamo nulla di nuovo, se già il diciassettenne Leopar.di accostava l'Atlantide di Platone e la Meropide di Teopompo per trame un ulteriore sostegno alla sua conclusione scettica: «l più avveduti hanno riguardato il rac conto di Platone come una favola»68• Da un punto di vista quantitativo, ogni storia dell'Atlan tide e degli atlantisti dovrebbe finire parafrasando l'iperbole con cui si conclude il vangelo di Giovanni: «a sarebbero molte altre cose da raccontare che se fossero scritte una per una, penso che il mondo non basterebbe a contenere tutti i libri che si dovrebbero scrivere». Ognuna delle rassegne che di questa storia si sono fatte è facilissima da ampliare e inte grare, e in ognuna il lettore con qualche esperienza può ram maricarsi di non trovare qualcosa che gli sarebbe parso degno di attenzioné9• È stato detto ad altro proposito ma si può adat tare al caso nostro: «Chi vuole farsi un'idea passabilmente completa della questione Atlantide deve mettersi al lavoro in giovane età e augurarsi una lunga vita» (che sarebbe spesa assai male, aggiungiamo). Anche qui ci siamo limitati a scegliere fior da fiore, mirando a un'esemplificazione e non ad un'impossi bile e inutile completezza. Volendo, era facile continuare. Avremmo potuto insistere sui legami che si vollero scorgere fra tradizione atlantica e racconti biblici, ipotizzando per esempio che la fine del peccaminoso continente non fosse altro 1 00
che un aspetto del diluvio universale di Noè; e qui avremmo potuto introdurre la singolare figura del gesuita seicentesco Athanasius Kircher, il tipico rappresentante dell'erudizione barocca coi suoi barlumi di valide intuizioni, misti alle più stra vaganti curiosità e alle più sfacciate frodi. Avremmo potuto ricordare che l'Atlantide fu associata, oltre che alla Lemuria, ad un altro continente perduto, 'Mu', per opera del fiammingo Charles-Etienne Brasseur de Bourbourg, che leggeva a modo suo uno dei pochissimi testi Maya sopravvissuti e ne ricavava le logore storie di antichissimi cataclismi, migrazioni e colo nizzazioni; anche lui trovò i suoi seguaci, aprendo un altro filone di fantasie non ancora esaurito70. Oppure, dire qualcosa di più sulla vastissima fortuna del tema Atlantide nella lette ratura di consumo e nello spettacolo, per grandi e piccini, dal racconto di Arthur Conan Doyle The Maracot Deep ( 1 929), dove l'Atlantide serve da spunto per un'originale costruzione fantastica, a romanzi come quello del dimenticato Augusto Pic cioni (nome de plume 'Momus') che faceva scoprire la «terra sommersa» a un ardimentoso scienziato italiano, fino alla recentissima Atlantis della ditta Disney71 • Avremmo potuto evocare una figura che raccoglie ancora interesse e rispetto, il fondatore dell'antroposofia Rudolf Steiner, che scrivendo su 'Atlantide e Lemuria' nel 1 9 1 3 ammetteva la realtà del conti nente scomparso e conosceva un" era atlantica', quarta fra le sette in cui egli divideva il passato dell'umanità; oppure l'altra figura del russo Dmitrij Merezkovskij, autore di famosi e ben documentati romanzi storici, che sull'Atlantide intessé strane fantasie misticheggianti. Avremmo potuto illustrare più ampia mente l'intreccio fra l'Atlantide e le ideologie del XX secolo, parlare ancora delle varie Atlantidi nordiche di nazisti e affini, arrivando fino alla teoria del Welteis, del 'ghiaccio universale' di Hanns Horbiger e alla para-Atlantide (non sappiamo tro vare termine migliore) dell'ideologo ufficiale del Terzo Reich Alfred Rosenberg. E all'Atlantide nazista avremmo potuto affiancare un'Atlantide sovietica, alla cui ricerca in fondo all'A tlantico, stando alle solite notizie di stampa, era impegnata nei 101
primi anni Ottanta la nave oceanografica Accademico Kurcatov ma la nostra voglia si è esaurita, e probabilmente anche la pazienza di chi legge. Chi fosse tentato dal richiamo di quelle sirene, chi credesse di trovare nell'ultimo sensazionale libro sull'Atlantide qualcosa che meriti attenzione e credito, sappia che quello è il cente simo, il duecentesimo, il millesimo titolo in un elenco inesau ribile, in un repertorio sterminato di 'soluzioni' , tutte diverse (anche se classificabili in un limitato numero di categorie, ormai ben note) e tutte ugualmente insostenibili davanti a un po' di riflessione e un po' di scienza vera72•
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Più sopra abbiamo fatto qualche considerazione sulla strana 'sfasatura' fra la maturità critica, che l'umanità europea moder na ha presto raggiunto nel campo della fisica e delle scienze naturali, e le puerili fantasie che contemporaneamente circo lavano nel campo delle scienze storiche. In sede di ricapitola zione della nostra rassegna, s 'impone ora una considerazione su quella che sembra un'altra faccia dello stesso contrasto, non di allora ma di oggi. Supponiamo: se su un argomento di scienza, fisica, astro nomia o biologia, fosse offerto nelle nostre librerie un reper torio di opere divulgative paragonabili per fondatezza e atten dibilità ai tanti libri sull'Atlantide, in sostegno di tesi che schiaffeggiassero ogni conoscenza conquistata e accertata dalle lunghe fatiche di grandi studiosi (per esempio, la tesi che le orbite dei pianeti non sono ellittiche ma quadrate, o che gli ante nati dell'uomo non erano primati ma serpenti con le ali); se alcuni di questi libri avessero l'onore delle terze pagine dei quo tidiani e di 'prime serate' televisive, in cui brillanti firme e TV star senza alcuna qualifica ma famosi presso il grosso pubblico e da esso seguiti, presentassero questi libri come pregevoli e degni di credito; se per sostenerli (con una vera bestemmia contro lo spirito santo della scienza, purtroppo sempre ripetuta) si invocasse il precedente, qualche volta vero ma più spesso immaginario, di valide teorie innovatrici proposte da 'irregolari' 102
che si affermarono con difficoltà contro le idee fino ad allora accettate; se avvenisse tutto questo, i rappresentanti della scienza ufficiale non si farebbero forse obbligo di denunciare la cosa alla pubblica opinione e ai responsabili dei media, come un grave pericolo per l'educazione culturale della nazione e per la semplice assennatezza dei cittadini? Sull'Atlantide invece si può scrivere quel che si vuole, e anche le più palmari confutazioni, anche quelle che smentiscono facilmente i peggiori deliri, restano voci poco ascoltate di aridi pedanti senza una scintilla di fantasia, rappresentanti dell'antipatica e pavida scienza ufficiale, tacciati di miope ostilità contro ogni audacia intellet tuale e spaventatissimi davanti a ogni novità73• Su questo pensiero, che qualcuno saprà forse sviluppare e portare lontano, spiegando questa disparità, è tempo di chiu dere una storia ormai troppo lunga.
Note
1 Caso significativo: il libro di LYON SPRAGUE DE CAMP, Lost continents. The Atlantis theme in history and literature (prima ediz. New York 1954), ben informato e acutamente critico, diventò Il mito di Atlantide e i conti nenti scomparsi (Roma 1980, sottolineature nostre), in una tendenziosa edi zione italiana su cui ci sarebbero da fare istruttive considerazioni. 2 Un quotidiano nazionale (2004), nel quadro del solito articolo che pro mette rivelazioni sensazionali sull'Atlantide, è stato capace di stampare questo monumento di incompetenza e insipienza: «Tracce della "città per duta" [Atlantide] sono state trovate in alcuni scritti del filosofo Platone». 3 Timeo 21 a-25 b; le poche pagine del Crizia sono interamente occu pate dal racconto sull'Atlantide. 4 Sui diversi valori che poteva avere la parola mythos, e sull'uso che del mito così variamente inteso si poteva fare secondo la concezione antica, è sempre utile l'opuscolo dell'imperatore Giuliano, Contro il cinico Eraclio. 5 Repubblica X 614-62 1 . 6 Leggi I V 676 sgg. 1 03
7 Simposio
189 c-191 d. 269 a sgg. 9 Pedone 108 c-113 c. 1 0 Sulla 'storia dell'Atlantide come mito platonico' scrisse egregiamente il tedesco HANS DILLER, mostrando come tutta la storia sia una parabola su misura, giusto quella che ci si può aspettare date le premesse e il compito che essa ha di illustrare il pensiero platonico: v. le sue Kleine Schrz/ten zur antiken Literatur, Miinchen 197 1 , pp. 220-225. Lo scritto era già apparso nel volume miscellaneo Atlantis entriitselt? Wissenscha/tler nehmen Stellung zu ]iirgen Spanuths Atlantis-Hypothese, Kiel 1953, pp. 7-12. In Germania, l'enorme successo del ciarlatano Spanuth aveva costretto seri studiosi di varie materie a dire la loro sulla sua ipotesi, che ritrovava l'Atlantide di Platone nei pressi dell'isola di Helgoland (v. sotto). Anche più esteso e ricco è l'ar ticolo di PIERRE VIDAL-NAQUET, Athènes et l'Atlantide. Structure et signification d'un mythe platonicien, in «Revue cles études grecques» 77 ( 1 964) , pp. 420-444, poi rimaneggiato nel volume Le chasseur noir. Formes de pensée et /ormes de société dans le monde grec, Paris 1981 , pp. 335-360. Accanto a una ricca documentazione vi si trova un'analisi approfondita di ciò che l'Atlantide rappresenta nel pensiero platonico, come regno dell'al terità e del 'dispiegamento' contrapposto a quello del vero essere immuta bile. n mito si inserisce nella maniera platonica di trasformare in quadri con creti, ma non storici né scientificamente autentici, le sue teorie politiche e anche fisiche (il Tt'meo ! ) . L'autore tornò con fortuna sul tema dell'Atlantide nello scritto citato sotto, p. 107 n. 38. Fa considerazioni sensate e utili, su un livello più divulgativo, PAUL ]ORDAN, The Atlantz's syndrome, Thrupp/ Strou 2001, pp. 3 1 -50, cap. 2, Plato's purpose. 1 1 Un esame approfondito di come la storia di Atlantide è introdotta nei dialoghi e come viene condotta, è quello di Ci-IRISTOPHER G!LL, The genre o/ the Atlantis story, in «Classica! Philology» 72 ( 1 977), pp. 287-304; l'au tore ne trattò poi nel saggio Plato on /alsehood - not fiction, in Lies and fiction in the ancient world. Edited by Christopher Gill and T.P. Wiseman, Exeter 1993, pp. 38-87. 12 Cfr. sopra, p. 68. Questa considerazione non è nuova, e anche il famoso 'mito della caverna' è stato citato in questo contesto. Vedi JAMES S. ROMM, The edges o/ the earth in ancient thought, Princeton 1992, pp. 124- 126, che rimanda a ulteriore bibliografia. 1 3 Timeo 1 1 1 e sgg. 14 Timeo 25 d. Delle secche fangose fuori delle Colonne d'Ercole par lerà ancora Aristotele, Meteorologia II l (354 a), e la strana idea, accompa gnata da altre anche più strane, si trascinerà ancora in testi tardo-antichi. Per J.S. ROMM, The edges o/ the earth, cit., p. 125; anche questo fango ha un significato metafisico, quello di insuperabile barriera fra il nostro mondo e quello 'vero'. 8 Politico
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15 Alludiamo naturalmente al romanzo Vingt mille lieues sous !es mers, capitolo Un continent disparu. Quanto al meridiano di Greenwich, esso fu accettato come meridiano zero dalle ventisei più importanti nazioni solo nel 1 884. La Francia si adeguò non prima del 191 1, molto di malavoglia. 16 Atlantide, Atlantis, è propriamente un aggettivo che si accompagna al sostantivo femminile nesos, 'isola'. Un calcolo molto cauto delle sue dimen sioni quali si ricavano dalle pagine di Platone è quello di PHYLLIS YOUNG FORSYTH, Atlantis. The making o/ myth, Montreal-London 1980, p. 80: l'A tlantide sarebbe appena più piccola della Groenlandia o dell'Arabia Sau dita. 17 Vedi FORSYTH, Atlantis, cit., pp. 86-96, poi soprattutto BRUNO MAR TINIS, Atlantide: mito o realtà, Bari 1989; l'autore è un geologo di profes sione e il suo libro è carente dal punto di vista letterario (a cominciare dal titolo) ma assai utile dal punto di vista scientifico e anche come rassegna storica. 1 8 Plutarco, Vita di Solo ne 31 ,6, vuole addirittura correggere Platone, quando afferma che il legislatore-poeta rinunciò al suo progettato poema sull'Atlantide non per mancanza di tempo libero ma per la sua tarda età: niente di più inattendibile. 19 Strabone, Geografia II 3 ,6 (C 102), XIII 1,36 (C 598). 20 Plinio, Naturalis historia II 92 (205); Eliano, Gli animali XV 2; Ter tulliano, Apologetico 40,4 (cfr. De pallio 2,3 ) ; Arnobio, Adversus nationes I 5,1; Clemente, Stromata V 9 (58,6); Filone, De aeternitate mundi 26,14 1 ; Diodoro Siculo, Biblioteca storica III 54, 56. 21 Cosma, Topografia cristiana XII 456 c-d. 22 Nel Medioevo si poteva sapere qualcosa sull'Atlantide attraverso il Timeo, conosciuto nella traduzione latina di Calcidio, accompagnata da un commento che sull'Atlantide però non si diffondeva. 23 L'umanista Marsilio Ficino tradusse e commentò il Crizia già nel 1485, ma attribuì all'Atlantide una realtà puramente ideale. 24 Vedi SPRAGUE DE CAMP, Il mito di Atlantide, cit. p. 92. 25 FABRE D'OLIVET, De l'état social de l'homme, ou vues philosophiques sur l'histoire du genre humain (1822); SCHOPENHAUER, Parerga und Parali pomena, Bd. l, Halbbd. 2, § 3 03 . Veramente, il filosofo non si pronuncia su esistenza o non-esistenza dell'Atlantide, ma fa questa osservazione fra molte altre di carattere linguistico, quasi tutte fallaci. Confrontava anche il nome della montagna peruviana Sorata con quello del 'Sorate' (sic) italiano. 26 MrCHEL DE MONTAIGNE, Essais I 33 , Des cannzbales; N. FRÉRET, Obser vations sur !es deux déluges ou inondations d'Ogygés et de Deucalion, in «Mémoirs de l'Acad. des inscriptions et belles-lettres» 23 (1756), p. 135. 27 B. MA!mNIS, Atlantzde, cit., pp. 46-47, offre un elenco delle localizza zioni extra-atlantiche: due pagine fittamente stampate dove non manca quasi nessuna parte del mondo. Vedi anche, per un repertorio analogo, EDWIN S.
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RAMAGE nel volume miscellaneo da lui curato: Atlantis. Fact or fiction?, Bloo mington-London 1978, pp. l sgg. 28 Alle localizzazioni del Paradiso terrestre dedicò un ampio capitolo ARTURO GRAF nel suo famoso Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Torino 1892/1893 : «non vi fu parte della terra dove non si ponesse il Para diso». Su Ophir in America, o più precisamente nel Perù, v. }URGIS BAL TRU�AITIS, La quhe d'lsis. lntroduction à l'égyptomanie, s. l. 1967, pp. 235 sgg.; le vicende della quhe di Ophir si intrecciarono (è facile immaginarlo) con quelle dell'Atlantide. Ne parla Rl:CHARD HENNIG nel suo Terrae inco gnitae, Leiden 1936, vol. I pp. 28 sgg. 29 Il libro ha un frontespizio bilingue svedese e latino, pur essendo poi redatto solo in q uesta seconda lingua: Olaf Rudbeks A tland eller Manheim . . . !Olavi Rudbeckii Atlantica sive Manheim. . . , Uppsala 1675 . Segue, nello stile dei frontespizi barocchi, un elenco interminabile e mira bolante di tutte le dinastie e di tutti popoli usciti dalla Scandinavia/Atlan tide. L'identificazione è nel cap. VII, condotta minutamente con argomenti di ogni genere. 30 Nel Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi, vol. I p. 348. Sembra alludere alla «illuministica penna di O. Dalin», che lo ridicolizzò. Su Rudbeck e sul rudbeckianismo c'è il fondamentale studio di }ASPER SVENBRO, L'idéologie 'gothisante' et l'Atlantica d'Olof Rudbeck. Le mythe pla tonicien de l'Atlantide au service de l'Empire suédois du XVIIe siècle, in «Qua
derni di storia» 11 ( 1 980), pp. 12 1- 156. Conferma che in Svezia, all'inizio del XVIII secolo, era «plutòt risqué» mettere in dubbio le 'verità' di Rud beck. n libro di due studiosi che ne smascherava le «folies et fables» fu cen surato. 31 Vedi sopra, p. 48 e n. 3 1 . 3 2 La sua Geographia sacra, seu Phaleg et Chanaan uscì a Caen nel 1646, poi a Francoforte nel 168 1 . H M a anche Newton, quando volle applicare l e conquiste della nuova scienza a problemi storici, le disse non meno grosse dei Rudbeck e dei Bochart. La sua incredibile Chronology o/ ancient Kingdoms amended uscì a Londra nel 1728, ma già nel 1725 ne era apparsa a Parigi un'edizione non autorizzata in traduzione francese. 34 Un vero rappresentante del buon senso e del buon giudizio è però il piemontese G. BARTOLI, nel suo Essai sur l'explication historique que Platon a donné de sa "République" et de son Atlantzde et qu'on n'a pas considérée jusqu'à maintenant, Stockholm-Paris 1779. 35 Delle origini italiche e della diffusione dell'incivilimento italiano all'E gitto, alla Fenicia, alla Grecia e a tutte le nazioni asiatiche poste sul Mediter raneo, Milano 1840. 36 Vedi presso J. SVENBRO, J}zdéologie 'gothisante' et l'Atlantica d'Olof Rudbeck, cit., p. 156.
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37 Rivolta contro il mondo moderno, pp. 234-236 (l'edizione originale è del 1936). >8 P. VIDAL-NAQUET, L'Atlantide et les nations, nel volume La démocratie grecque vue d'ailleurs. Essais d'historiographie ancienne et moderne, Paris 1990, pp. 139-159, con ricca documentazione e qualche segnalazione scelta opportunamente nell'immane (non c'è altra parola) bibliografia sull'argo mento. J9 FORSYTii, Atlantis, cit. sopra, n. 16. 40 Lettres sur l'Atlantide de Platon et sur l'ancienne histoire de l'Asie, pour servir de suite aux lettres sur l'origine des Sciences, adressées à M. de Voltaire par M. Bailly, Londres-Paris 1779: seguendo Buffon e la sua ipotesi sul gra
duale raffreddamento della terra, Bailly localizzava l'Atlantide (oltre a una quantità di altre cose dell'Antichità) in area artica, precisamente alle isole Spitzbergen. Anche per lui l'Atlantide è la culla della civiltà. 41 Sui 'piramidologi', si può vedere per cominciare MARTIN GARDNER, Fads and Fallacies, in the Name o/ Science, New York 1957, pp. 173 - 1 85 ; trad. it., Nel nome della scienza. Ron Hubbard e Wilhelm Reich: camere orga niche e teorie sessuali eccentnche, omeopatia, Ancona 1998. 42 Das entrà'tselte Atlantis, Stuttgart 1953. Vidal-Naquet lo definisce sbri gativamente «un pasteur nazi» (I.:Atlantide et les nations, cit., p. 158) e cita il suo secondo libro, dal titolo più compromettente: Atlantis. Heimat, Reich und Schicksal der Germanen, pubblicato nel 1965 a Tubinga presso «un édi teur ouvertement nazi». 4J SERGIO FRAU, Le colonne d'Ercole. Un'inchiesta, Roma 2002. La tra smissione andò in onda su Rai Tre il 9 . 1 1 .2002. Ennesima riprova di quanto sia ormai difficile inventare qualcosa di nuovo: l'idea che le Colonne d'Ercole nella 'tradizione' dell'Atlantide non fossero in origine lo Stretto di Gibilterra ma qualcosa di diverso, per esempio i Dardanelli, era già più che secolare. 44 Fra le varie pubblicazioni in cui è esposta la bizzarra idea citiamo sola mente Die Zukunft der Vergangenheit. Archà'ologie im 2 1 . ]ahrhundert, Miin chen 1998, pp. 205-248, libro dove si trovano molte considerazioni ragio nevoli, purtroppo applicate solo alla critica delle teorie altrui. 4' «Felice il nostro tempo, che ha potuto fare questa monumentale espe rienza interiore! Atlantide, antica Atlantide, ti saluto ! »: così si legge in Die Atlantische Gotterlehre, Jena 1926, vol. X della serie Atlantis, p. XIX. Fro benius rivendica di aver proposto la sua ipotesi già nel 1910. 46 Divertente la confessione di P. Vidal-Naquet: in tutta questa confusione di realtà e fantasia, credette a lungo che il geografo Berlioux fosse un perso naggio immaginario, fino a quando non si imbatté in una sua serissima memoria accademica del 1884! Vedi Athènes et l'Atlantide, cit., p. 339, n. 2 1 . 47 Sul tema è classica l a rassegna del già citato J. BALTRUSAITIS, La quete d'Isis. lntroduction à l'égyptomanie. 48 The Great Cryptogram. Francis Bacon's cypher in the so called Shake speare plays, London 1888, 2 voli.
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49 G.R. CARLI, Lettere americane, V e seguenti; la prima edizione è quella anonima con il luogo fittizio di Cosmopoli, 1780. La teoria fu schernita, con probabile allusione a Carli e al naturalista Buffon, da quella strana figura di poligrafo che fu CORNELIUS DE PAUW, nelle sue Recherches sur les Grecs ( 1788), per cui v. ANTONELLO GERBI, La disputa del Nuovo Mondo. Storia di una polemica 1 750-1 900, Milano-Napoli 1955, p. 3 84. 50 S u Paul Schliemann v. SPRAGUE D E CAMP, Il mito di Atlantide cit., p. 61 sg. Del presunto nonno Heinrich tratteremo espressamente nel nostro capitolo 7. 51 Edizione italiana integrale: Mondi in collisione, Milano 1955. 52 Ma neppure lui era il padre dell'idea, che risaliva all'inglese William Whiston ed ebbe notevole fortuna. Carli stesso gliene riconosce il merito a p. 249, vol. II dell'edizione citata. Su Whiston e sulla sua New theory o/ the earth (London 1 696), v. PAOLO Rossi, I segni del tempo, Milano 1979, pp. 89 sgg. 5l Polemico contro il 'miraggio' della talassocrazia cretese era CHESTER G. STARR, The myth o/ the Minoan thalassocracy, in «Historia» 3 (1955) , pp. 282-29 1 . 5 4 n piccolo libro ebbe l'onore di un'ampia recensione, sviluppatasi in autonoma discussione del problema, a opera dell'insigne etruscologo MAS SIMO PALLOTTINO, in «Archeologia classica» 4 ( 1952), pp. 229-240. Qui a Brandenstein si tributa ogni possibile riconoscimento, fatta salva una serie di importanti riserve. Le conclusioni di Pallottino, che il lettore si aspetta sensazionali, si riducono però a non molto, dopo le prime pagine. La «saga di Atlimtide» rappresenterebbe la «fusione di almeno tre tradizioni distinte»: una mediterranea di Scheria, il paese dei Feaci archetipo di una certa imma gine di terra utopica; una attica, sui conflitti fra Creta e Atene; una orien tale (egiziana) che conservava il ricordo di grandi invasioni dall'occidente. La 'fusione' di questi elementi, cioè la nascita della 'leggenda' di Atlantide, sarebbe sicuramente pre-platonica, risalendo probabilmente all'VIII o VII secolo o forse anche più addietro. La prima affermazione, che la concezione di Atlantide nasca da elementi preesistenti di origine storica o leggendaria, è abbastanza ovvia (v. qui sotto p. 97) ; l'asserzione sulla cronologia resta indimostrata e a parer nostro indimostrabile. È doveroso ricordare che per un'origine pre-platonica della 'leggenda' di Atlantide si pronunciò anche ALEXANDER VON HUMBOLDT, nel suo Examen critique de l'histoire de fa géo graphie du Nouveau Continent, Paris 1836/1837, vol. l, p. 1 14; trad. it., L'in venzione del Nuovo Mondo, Firenze 1992. 55 Santorino è il tradizionale nome italiano, a quanto pare corruzione di 'Sant'Irene'. n nome greco antico è Théra, normalmente italianizzato in Tera, e quello greco moderno è Santorini, che suona pressappoco Sa(n)dorini, con la nasale appena avvertibile. 'Santorint' pronunciato con la t e la i finale, come sembra di moda oggi fra tour operators e cinematografari, non è né carne né pesce, né greco né italiano.
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56 Fra i tanti ci contentiamo di citare D. L. PAGE, che almeno non arriva alle fantasie incontrollate di altri rappresentanti della stessa teoria: The San torini volcano and the desolation on Minoan Crete, «Soc. for the promotion of Hellenic studies. Supplementary paper n. 12», London 1970. 57 ll primo a cercare un nesso fra Santorino e Atlantide sarebbe stato A. Nicaise già nel 1885 , stando a quel che scrive CHRISTOS G. DOUMAS, Thera. Pompeii o/ the ancient Aegean. Excavations at Akrotiri 1967-79, London 1983. All'argomento è dedicato il cap. Thera and the legend o/ Atlantis, pp. 15 1 - 158, che conclude scetticamente. Su Santorini e il mito di Atlanttde ha scritto con buon senso anche l'archeologo SERGIO RrNALDI TUFI, nel volu metto allegato come inserto redazionale alla rivista «Storia e dossier», n. 1 18 (luglio-agosto 1997). Al rapporto con Atlantide dedicava in realtà poche pagine di conclusione, in senso parimenti scettico. Fornisce utili indicazioni bibliografiche. Negativamente si espresse a più riprese anche il semitista e archeologo SABATINO MOSCATI, prima sulla stampa quotidiana e periodica, poi nel suo libro Segreti del passato. Alla scoperta del mondo sepolto, Milano 1978, pp. 155 - 1 6 1 . 58 Il libro è scritto con E . Bacon, London 1969. 59 Gli altri due sono: J.V. LUCE, The End o/ Atlantis. New Light on an Old Legend, London 1969; trad. it. , La fine di Atlantide. Nuova luce su un'an tica leggenda, Roma 1976, e }AMES MAVOR }r., Voyage to Atlantis, New York 1969; trad. it., Atlantide: il continente ritrovato, 1998). Per il primo è da vedere la recensione di ].M. CooK nella «Classica! RevieW>> 20 ( 1 970), p. 224 sg. Dimostra bonariamente che sono sciocchezze, poi conclude molto all'inglese: «lt is, however, good reading; and there is always a sporting chance of its being right». 60 Così FORSYTH, Atlantis, cit., p. 168. Bisogna però concedere che era necessario riaffermarlo, a correzione di tante assurde fantasie. 6 1 Panegirico, paragrafo 69. 62 Un accostamento fra i porti dell'Atlantide, dei quali si dà una nuova ricostruzione, e il kothon di Cartagine, ha suggerito FRANçOIS SALVIAT in AA.Vv., Vivre, produire et échanger. . . (Mélanges Bernard Lou), Mergoil Mon tagnac 2002, pp. 79-84. I disastri di Elice e Bura sono ricordati da molti autori fra cui Strabone, Geografia VIII 7,3 (C 384) e ibid. 7 ,5 (C 3 86), e Ovidio, Metamorfosi XV 293 sgg. (la fine di Elice ha in particolare diversi punti di contatto con quella di Atlantide, come si è notato più volte; v. HOLGER SONNABEND, Naturkatastrophen in der Antike, Stuttgart!Weimar 1999, pp. 1 -9; 102-104); Atalante: Tucidide (Guerra del Peloponneso III 89,3) parla di una specie di tsunami, mentre Seneca (Quaestiones natura/es VI 24,6) evoca una sommersione totale o quasi: «aut totam aut certe maxima ex parte suppressam». E ci sarebbe da ricordare la leggenda dei successori del re Atlante, che un'inondazione scacciò dall'Arcadia: ancora punti di con tatto e assonanze (v. Dionisio di Alicarnasso, Antiquitates Romanae I 6 1 ,2).
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6' Quest'ultimo accostamento è di ].P. DROOP, Scheria-Santorini in Studies presented to D.M. Robinson I, Saint Louis (Missouri) 195 1 , p. 52 sg.: il castigo inflitto da Posidone ai Feaci (Odissea XIII 159 sgg.) sarebbe ispirato da un lontano ricordo della catastrofe di Santorino, awenuta verso il 1700 a.C. 64 Ampie notizie in }AMES DOAN, The legend o/ the sunken city in Welsh and Breton tradition, in «Folklore» 92 ( 1981 ), pp. 77 sgg. 65 Vedi GIOVANNI PANSA, Mitz; leggende e superstizioni dell'Abruzzo (Studi comparati), Sulmona 1 924/1927, vol. Il, p. 4 1 sgg.: Le tradizioni mitiche dei grandi cataclismi in relazione alla storia delle origini abruzzesi. 66 Varia historia III 1 8 }ACOBY, Die Fragmente der griechischen Histo riker, 1 15 F 75. 67 Verne, nella pagina citata, ha conflato stranamente Atlantide e Mero pide quasi fossero la stessa cosa sotto diversi nomi. Ma non c'è da stupir sene, considerando altre prove della sua informazione approssimativa e fret tolosa. 68 Saggio sopra gli e"ori popolari degli Antichi, cap. XII, Della te"a. Anche Leopardi fa una piccola rassegna di opinioni vecchie e nuove sul l'Atlantide, comprese le localizzazioni in Scandinavia e in Palestina, ma soprattutto in America, al cui proposito cita G.R. Carli. 69 Questo vale anche per la più ampia di tutte le rassegne, quella del più volte citato Sprague de Camp, e per quella recentissima di P. }ORDAN, The Atlantis syndrome, cit. 70 Su Brasseur de Bourbourg v. }ORDAN, The Atlantis syndrome cit., pp. 56 sgg. n colonnello inglese J ames Churchward scrisse un'intera serie di libri su Mu, fra il 1926 e il 1 934. 71 [A. PICCIONI], Atlantide. Le meraviglie d'una terra sommersa. Avven ture straordinarie d'uno scienziato italiano. Testo e pupazzetti di Momus, Firenze 1922. 72 n numero dei libri sull'Atlantide è stato stimato fino a ventimila, mentre impossibile è una valutazione del numero degli articoli. Secondo il sito 'Alice', nel marzo 2003 i libri disponibili sull'argomento nell'editoria ita liana, fra originali e tradotti, erano trentadue. Salvo pochi di carattere sto rico e critico, tutti si presentavano con titoli che erano variazioni sul tema 'la soluzione dell'antico mistero del continente scomparso'; uno prometteva un'Atlantide sotto ghiaccio. 7' Ma ci sono anche studiosi qualificati che, forse per paura di apparire appunto aridi pedanti, concedono liberalmente il loro avallo a certi geniali dilettanti: 'sorprendente, stimolante, costringe a ripensare cose che crede vamo assodate' (così pressappoco suona il frasario di prammatica). =
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Capitolo quarto «Gli antichi non navigavano in mare aperto e temevano le Colonne d'Ercole»
La marineria antica aveva abbastanza limitazioni vere, senza bisogno che gliene attribuiamo di immaginarie; questo si vor rebbe rispondere quando sentiamo dire da qualcuno che si dà l'aria di saperla lunga, autentico velista o mondano yachtsman: «l navigatori antichi non si allontanavano mai troppo dalla costa»1 • Prima di tutto, un po' d'ordine nelle idee. Il periodo sto rico che noi chiamiamo convenzionalmente Antichità classica greco-romana, è durato grosso modo un migliaio d'anni; e seb bene quelle lontane epoche abbiano, com'è noto, progredito nella tecnica in mille anni molto meno di noi negli ultimi due cento (o forse addirittura negli ultimi cento, o cinquanta, dipende dai punti di vista) , è pur necessario introdurre un po' di prospettiva storica e ricordare che i progressi nelle costru zioni navali e nelle tecniche di navigazione sono stati durante !"Antichità' abbastanza notevoli da costringere a parlarne con qualche distinzione. Circola, è vero, l'idea che la marineria sia un settore dell'attività umana molto conservatore e refrattario alle innovazioni, anche alle più evidentemente vantaggiose, ma essa è stata più volte autorevolmente corretta. Valutare le capacità nautiche degli antichi non è compito da prendere alla leggera, perché la risposta è gravida di conse guenze circa l'idea che ci facciamo di tanti aspetti della storia antica. È facile capirlo se si considera in quale misura la civiltà 111
greco-romana si sia sviluppata attorno a un mare, anzi nel caso dei Greci in mezzo ad esso, su isole e penisole, in un ambiente geografico dove la costa non è mai più lontana di poche decine di chilometri; e anche per i Romani la padronanza del mare si fece vitale appena il loro impero da italiano-continentale diventò mediterraneo, cioè già con la conquista della Sicilia nella prima guerra punica. Inoltre, chi discute di nautica antica finisce assai vicino a un dibattito che si è acceso negli ultimi decenni con particolare calore. Dalla valutazione che si fa della capacità di trasporto per mare dipende in parte notevole quel che si pensa del commercio e quindi di tutta l'economia antica, tema oggi più controverso che in altri periodi degli studi storici. A una valutazione degli scambi commerciali nel mondo antico fortemente riduttiva, che ha dominato a lungo il campo, se ne contrappone oggi una più generosa, più disposta a vedere efficienza e avanzamento dove prima si vedevano solo primi tività e stagnazione. La concezione delle 'aree chiuse' con scambi solo interni, che avrebbe caratterizzato l'Antichità, è stata attaccata ripetutamente anche con l'introduzione di nuovi punti di vista; e gli argomenti pro o contro passano proprio per la valutazione delle capacità e dei progressi tecnici, non da ultimo, anzi soprattutto, in fatto di trasporti2 • Una distinzione preliminare è indispensabile: a differenza della marineria moderna, quella antica conobbe sempre, salvo forse nelle età più remote, una netta opposizione fra costru zioni militari e mercantili. Per gran parte dell'età antica la guerra navale fece grande affidamento sullo sperone come mezzo di offesa; data la relativa scarsezza e irregolarità dei venti nel Mediterraneo, questo fece sì che la nave da battaglia fosse sempre una nave a remi, perché lo speronamento a vela sembra proprio sconosciuto a tutta la storia della guerra navale, e più in generale perché le esigenze della strategia non si potevano subordinare ai capricci del vento. Il tipo più clas sico era dunque una snella galera che puntava soprattutto o quasi esclusivamente su velocità e agilità; a queste caratteri stiche mirava tutto il tipo di costruzione, con le conseguenze 1 12
che si possono immaginare per l'efficienza propriamente nau tica, per la capacità di affrontare anche un mare non facile. Nel caso della nave mercantile, i fattori determinanti erano ben diversi e il risultato non poteva essere che opposto. Qui contavano la capacità di trasporto e l'economicità. Mentre la nave da guerra era costruita in modo da inzeppare il massimo numero di vogatori in un sottile scafo, qui si mirava invece a una stiva il più possibile capace, quindi a forme tondeggianti; e se una marina da guerra poteva permettersi di assoldare schiere numerosissime di vogatori (non schiavi ! questo sarebbe un altro 'errore popolare' da correggere) , chi per vivere trasportava merci non poteva permettersi di utilizzare, salvo che in piccola misura, l'energia muscolare umana, pro dotto della trasformazione di calorie e proteine, roba che costa3• Doveva rivolgersi al mezzo di propulsione più econo mico disponibile, cioè al vento: le navi mercantili antiche andavano di regola a vela. Quel tale che si mostrava scettico sulla capacità degli antichi di affrontare il mare aperto non aveva tutti i torti se si riferiva alle navi da guerra, soprattutto alle trieri ateniesi dell'epoca di Salamina, ancora un po' improvvisate e primitive; in misura poco inferiore era giustificato se pensava alle grosse unità del periodo ellenistico e romano, esaltate da tanta letteratura poe tica e prosaica come veri mostri di potenza bellica ma sempre minate dallo stesso difetto: quello di stare a galla un po' pre cariamente. Ma le esigenze della strategia obbligavano ad accettare un margine di rischio più alto di quello che si poteva considerare ragionevole nella navigazione mercantile; in con seguenza, la storia delle guerre navali antiche è costellata da giganteschi naufragi collettivi, senza differenze riconoscibili fra le varie epoche. Ogni flotta che partiva per una crociera di guerra aveva considerevoli probabilità di finire in fondo al mare, o piuttosto di fracassarsi su una costa sottovento, prima di incontrare il nemico. In tutte le guerre navali dell'Antichità il mare fu con ogni probabilità un maggior fattore di distru zione che non le azioni belliche. Lo osservava già un famoso 1 13
scrittore antico di cose militari, Renato Vegezio: «Spesso si sono perdute più navi da guerra per le onde e le tempeste che per opera dei nemici» (ma questo è vero anche per altre epoche)4• Anche col tempo più propizio le antiche navi da guerra non potevano stare troppo a lungo in mare aperto, quindi non potevano allontanarsi troppo da terra anche per la loro scar sissima capacità di carico che non consentiva di imbarcare approvvigionamenti necessari per una lunga navigazione, come in un viaggio per mare quale lo concepisce la marineria moderna. Se pure c'era un cuoco e del vasellame da cucina, i pasti non venivano preparati a bordo: per farlo si sbarcava, come dicono tante testimonianze. I luoghi di storici o di altri scrittori che mostrano le flotte da guerra sempre alle prese col problema dei rifornimenti alimentari, e di far mangiare e ripo sare a terra gli uomini per mantenerli in condizione di com battere, sono innumerevoli. Più urgente di tutto era il problema dell'acqua, data l'e norme quantità richiesta dal numeroso equipaggio composto in gran parte di vogatori che sudavano nel caldo dell'estate mediterranea. La classica triere ne portava centosettanta e le navi più grosse, in proporzione ! In innumerevoli occasioni sen tiamo raccontare che la prima preoccupazione quando si andava a terra era proprio l'acquata. Al problema di caricare l'acqua a bordo si aggiungeva la difficoltà di conservarla bevi bile, cosa difficile anche per le navi mercantili. Una soluzione definitiva non si trovò per tutta l'Antichità (ma neppure nel Medioevo, dobbiamo aggiungere ancora una volta) . Le conseguenze che tutto questo aveva sul modo di com battere, sulla strategia navale e in generale sulle grandi guerre dell'Antichità, che di rado furono puramente terrestri, sono state già analizzate e le conclusioni circa certe gravi limitazioni restano valide nonostante qualche recente tentativo revisionista5• Ben diverso è il caso della marineria mercantile, delle navi da trasporto. Ragionando a priori, non si può immaginare una navigazione troppo timida, neanche secondo le ipotesi più pri1 14
mitiviste circa l'economia antica, perché il movimento delle merci e dei viaggi di ogni genere appare vivace già nell'età più remota, tale da implicare lunghe traversate in mare aperto. 'L'età più remota' significa esclusivamente mondo greco, perché i Romani, che grandi marinai non furono mai, compa riranno nella storia della marineria (almeno per quel che se ne sa) molto più tardi, non prima dell'età ellenistica che aveva già visto grandi perfezionamenti. E il mondo greco quale noi lo conosciamo si costituì attraverso un movimento di colonizza zione a vasto raggio e attuato interamente per via mare, ciò che presuppone una confidenza con esso non proprio da prin cipianti, anche su rotte difficili. È vero che la sponda asiatica dell'Egeo è raggiungibile con relativa facilità, quasi senza mai perdere di vista qualcuna delle isole che costellano quel mare e lungo percorsi certamente conosciuti e frequentati da chissà quando, forse da molto prima che esistesse un popolo greco nelle sue sedi storiche; colonie greche furono però stabilite già in epoca molto antica dall'Iberia e dalla Gallia alla Cirenaica, e per tutto il lontano Mar Nero fino alle sue sponde più remote, settentrionali e orientali6. Se si combina la carta degli insediamenti greci con quella del regime dei venti e delle cor renti nel Mediterraneo, non si può dubitare che il vantaggio o la necessità di almeno alcune traversate in mare aperto si siano imposti ben presto. Le capacità nautiche documentate nei poemi omerici non sono veramente molto grandi, nemmeno nell'Odissea che forse siamo abituati a immaginare 'poema del mare' più di quel che in realtà non sia7• Bisogna però tener conto della stilizzazione letteraria: agli eroi della guerra di Troia non era consentito di apparire marinai troppo esperti, sotto pena di uno scadimento secondo il canone degli ideali epici che pregiavano solo le virtù guerriere di terra, il combattimento a lancia e spada o magari a sassate, ma coi piedi ben piantati sul terreno del campo di battaglia. Col suo aspetto da uomo di mare, reduce da cento navigazioni, Ulisse sarà disprezzato fra i giovani aristocratici Feaci e per riabilitarsi dovrà fare mostra di capacità di 1 15
tutt'altro genere, da gentleman sportivo. È una scala di valori che sopravviverà a lungo nella Grecia storica8• Che la sensazione dell'alto mare non fosse affatto ignota né al poeta né ai suoi ascoltatori lo mostrano due versi di grande respiro che nell'Odissea ricorrono due volte, per descrivere una situazione non frequente ma neppure inaudita e tanto meno disperata: «Ma quando lasciammo l'isola [oppure: Creta], e non si vide più altra terra, ma solo cielo e mare . . . »9• 'Cielo e mare' , un'espressione che Virgilio imitò fedelmente e che è diventata frase fatta anche per noi, nello stesso ordine dei due termini10• Come accade anche in altre tradizioni, i poeti epici cono scono più cose di quelle che hanno diritto di ingresso nel loro mondo arcaico e convenzionale, e qualche volta si tradiscono nelle metafore e similitudini. Esempio ben noto: le armi degli eroi sono di bronzo, ma il poeta conosceva il metallo più moderno, come dimostra quando chiama 'ferreo' un cuore duro. Come appare in cento luoghi dei poemi, la nave ome dca è sempre e soltanto una galera a remi sospinta da decine di muscolosi guerrieri-vogatori, che usa la vela solo quando il vento soffia proprio dalla parte giusta e teme moltissimo il tempo appena si fa un po' duro; ma per due volte l'Odissea fa balenare qualcosa di molto diverso, la prima quando Ulisse costruisce con le sue mani l'imbarcazione che lo porterà via da Ogigia, l'isola di Calipso: «Come è grande il fondo di un'ampia nave da carico che un uomo esperto dell'arte fab brichi cavo . . . » E ancora, quando l'eroe progetta di accecare Polifemo col tronco d'ulivo che il bruto tiene da parte a sec care per farsene un bastone: « . . . grande quanto l'albero d'una nave con venti remi, larga, da carico, che varca il grande abisso»1 1 . Ecco, caratterizzato nei suoi due aspetti più importanti, un oggetto poco eroico ma essenziale per la vita economica, per i trasporti necessari anche in un mondo epico nel quale esso non ha diritto di figurare alla ribalta: un'ampia e panciuta nave da carico con solo venti remi che fanno da 'motore ausiliario', 1 16
contro i cinquanta o addirittura centoventi delle galere dei guerrieri, e un forte, massiccio albero ben diverso da quello gracile e smontabile delle navi a remi: è un veliero concepito per le lunghe traversate - ma quali? È probabile per molti motivi che una delle prime rotte di alto mare, una traversata che i Greci praticarono fin dalle più antiche epoche della loro storia, sia stata quella per l'Egitto, il paese della civiltà più avanzata e prestigiosa che essi cono scessero e uno dei più importanti per le relazioni economiche12. Intorno al 560 a.C. il Faraone Amasi concedette ai Greci il permesso di costituire una base commerciale a Naucrati, sul Delta, e viaggi in Egitto furono attribuiti, anche se probabil mente a torto, a tutti i semi-leggendari sapienti della Grecia antichissima e anche di epoche più tarde. In pieno quinto secolo, l'Egitto sarà l'unico paese fra i molti descritti da Ero doto a meritare che lo storico gli dedicasse un intero libro fra i nove della sua opera, una vera monografia a sé, piena di mera viglie13. Dal punto di vista nautico l'andata in Egitto si presentava meno difficile di altri percorsi. Durante la stagione estiva il regime dei venti nel Mediterraneo è favorevole al viaggio da Creta alla regione del Delta, con una rotta per sud-est. In tutta l'Antichità tale rotta fu praticata per traffici importanti e rego lari; al ritorno si seguiva la costa siriana e anatolica, in modo da sfruttare le correnti e le brezze diurne. Non è certamente un caso che nell' Odissea si raccontino due andate proprio da Creta all'Egitto, unico esempio di rotta fuori dall'Egeo precisamente descritta nel poema. Una volta è Menelao a fare il viaggio; anche se lo fa non per scelta ma perché trascinato dal maltempo il significato della testimo nianza non cambia: si conosceva quella rotta perché c'era chi realmente la percorreva14• Nell'altro episodio si tratta di Ulisse stesso, e stavolta dobbiamo osservare subito che il caso non è meno probante anche se si tratta del viaggio inventato da un bugiardo: una razzia piratesca sulla costa egiziana, partendo da Creta e arrivando alla meta «al quinto giorno»15, ciò che in 1 17
termini moderni si direbbe piuttosto 'in quattro giorni di navi gazione'. Fatti i conti, è una media generale di poco più di tre nodi; non è un tempo molto brillante neppure per l'Antichità, ma l'importante è che la traversata per l'Egitto venga raccon tata come una cosa abbastanza normale. Quando tutta l'area del Mediterraneo sarà unificata nel l'impero romano, le traversate fra le grandi isole, come fra Gallia, Iberia e Africa, saranno evidentemente imposte dalla situazione politica ed economica. Particolarmente importante e frequentata appare la rotta fra i porti mediterranei della Gallia, Marsiglia o Narbona, e l'Africa. Lo dimostra il fatto stesso che circolassero varie stime, non sempre concordi, circa la sua lunghezza e i tempi di percorrenza16• Scambi commer ciali, spostamenti di truppe e viaggi di funzionari dovevano poter contare su collegamenti efficienti e regolari; alla gran diosa rete di strade, che fu forse il frutto più caratteristico del l' amministrazione romana, non poteva non corrispondere per mare un adeguato numero di rotte regolarmente frequentate. Fra di esse la rotta egiziana fu a lungo la più importante e meglio documentata. Non si trattava più di imprese isolate e singole occasioni, ma di quello che fu per secoli interi uno dei più importanti compiti di trasporto per l'economia dell'im pero: i rifornimenti di grano dall'Egitto alla capitale, necessari alla sussistenza di una popolazione urbana che, per il metro dell'epoca era enorme, e tanto più indispensabili da quando la diffusione del latifondo adibito a pascolo di pecore aveva ridotto a poca cosa la produzione italiana. La rotta da Ales sandria ai porti del Tirreno, Pozzuoli e Ostia, diventò l'arteria più vitale di tutta l'economia del tempo, cui si dedicarono i maggiori sforzi organizzativi e tecnici. Con le debite cautele, si calcola oggi che fra il primo secolo a.C. e l'inizio del terzo d.C. Roma avesse tra 750.000 e un milione di abitanti. Valutando il fabbisogno giornaliero di calorie in 1 .750, tre quarti delle quali erano fornite dai cereali, il minimo annuo per ciascuno di questi abitanti era di trenta 118
modii, ovvero 200 chilogrammi, che significano per tutta la città fra le 150.000 e le 200.000 tonnellate17• Rinunciando a moltiplicazioni e divisioni con altre cifre aleatorie, contentia moci di concludere che centinaia di viaggi per mare erano necessari a saziare la grande fame della capitale, che significano a loro volta centinaia di navi impiegate nel grande compito del trasporto. La 'nave alessandrina', addetta al trasporto del grano sulla rotta per Roma, si sviluppò come un tipo di mercantile particolarmente capace e perfezionato18• Ma solo in circostanze favorevoli un mercantile granario poteva fare più di un viaggio utile nel breve periodo del 'mare aperto', i mesi della buona stagione che l'antica marineria mediterranea considerava i soli atti alla navigazione, secondo una regola codificata già ai tempi di Esiodo e destinata a durare in molti casi fino alle soglie del l' età moderna. I racconti antichi di viaggi per mare, quelli almeno che non sono frutto di un'immaginazione troppo lontana dalla realtà né troppo segnati dalle convenzioni letterarie, sono purtroppo assai pochi, si contano letteralmente sulle dita. Fra di essi ce ne sono però due di diversa estensione e valore, che concor dano nel dare un'immagine attendibile della navigazione dal l'Oriente egiziano e palestinese al cuore dell'impero, ai porti italiani di Roma. Sono il viaggio di S. Paolo prigioniero nar rato negli Atti degli Apostoli, e quello del gigantesco mercan tile granario Isis narrato da Luciano in uno dei suoi brillanti saggi di filosofia spicciola19• In tutti i tempi si sono raccontati più i viaggi fortunosi che quelli felici, e anche stavolta si tratta in entrambi i casi di navi gazioni tribolate: Paolo finì com'è noto naufrago a Malta, e l'lsis trovò riparo al Pireo dopo gravi difficoltà. In entrambi i casi vediamo le navi affaticarsi lungamente sul percorso cui abbiamo già accennato, lungo la costa siriana e anatolica, fino a che una delle due scampa in Attica dopo la traversata del l'Egeo mentre l'altra finisce a sud di Creta, poi viene trasci nata a ovest in completo smarrimento. Sono viaggi dal sud-est al nord-ovest, quindi contro il regime prevalente dei venti, e 1 19
non c'è da meravigliarsi che comportassero tante difficoltà per velieri poco perfezionati, con poca capacità di stringere il vento. Di viaggi nel senso opposto, con l'Egitto per meta, non abbiamo alcuna relazione; questo dice quanto dolorosamente scarsa sia la nostra documentazione ma si accorda bene con la legge già osservata: non si raccontano i viaggi facili, 'senza storia', come dovevano essere per lo più quelli su una rotta che godeva di venti complessivamente molto favorevoli, tagliando per l'alto mare-2°. «Quando arrivi in Egitto e sei lontano da terra ancora un giorno di navigazione, se getti lo scandaglio porterai su del fango e saprai di avere un fondale di undici braccia»: questo linguaggio da portolano, da manuale pratico del navigante, si legge nelle pagine del patriarca di tutti i viaggiatori antichi (oltre che padre della storia) , all'inizio del già citato libro di Erodoto dedicato all'Egitto21• Esso mostra in atto, da vicino, il marinaio greco che sta arrivando nel paese all'ultimo dei suoi quattro, cinque o sei giorni di navigazione. Lo scandaglio che porta alla superficie un campione del fondo, fango, sabbia o altro, è un mezzo usato in tutti i tempi per fare il punto, approssimativo ma efficace quando si ha una sicura pratica del mare che si sta navigando, in questo caso il mare aperto davanti alla costa egiziana, precisamente davanti al Delta: e secondo Erodoto questo fango sarebbe la prova dell'azione erosiva e alluvionale del Nilo che avrebbe già prodotto, e ancora pro durrà, una forte trasformazione del paese. Due secoli dopo Erodoto sorgerà su quello stesso Delta la più spettacolare e leggendaria realizzazione architettonica del mondo greco-romano, degna di essere annoverata fra le sette meraviglie del mondo: il faro di Alessandria, il Faro per anto nomasia, con la maiuscola. Visibile a decine di miglia, la sua luce era evidentemente destinata a guidare verso la metropoli i naviganti che arrivavano dal largo; il gigantesco sforzo costruttivo prodigato per erigere una torre dall'altezza mai vista, di oltre cento metri, sarebbe stato sprecato se essa doveva servire solo da punto di riferimento per un pavido cabotaggio. 120
Da tutto traspare un netto contrasto: rotta in gran parte lungo costa ma faticosa, aiutata da 'espedienti' come le cor renti e le brezze costiere, per il percorso dal sud-est al nord ovest (caso particolare ma importantissimo in età imperiale: la rotta del grano dall'Egitto a Roma) ; rotta attraverso il mare aperto con venti in poppa o di gran largo per il percorso opposto (casi particolari ma altrettanto importanti: Grecia Egitto fin da età molto antica, poi Roma-Egitto). Un esempio in piccola scala di questo contrasto è negli stessi Atti degli Apostoli che raccontano con tanta ricchezza di notizie e particolari il difficile viaggio di Paolo da Cesarea Marittima a Malta, e assai brevemente un altro suo viaggio da Patara, sulla costa sud-occidentale dell'Anatolia, a Tiro: non si parla di scali e si nota espressamente che Cipro fu lasciata sulla sinistra. Una traversata in mare aperto di oltre 350 miglia marine, ma stavolta col favore del vento, perciò sbrigata in poche righe22• L'esplicita notizia riguardo a Cipro conferma che la nave attraversò l'alto mare, cosa nient'affatto temuta quando si trattava di sfruttare un vento favorevole. In conclusione: meno timorosi di come li avevamo forse immaginati, i naviganti antichi impararono molto presto ad attraversare il Mediterraneo orientale nella sua maggior lar ghezza, affrontando come minimo le 285-290 miglia marine che dividono l'estremo promontorio del sud-est di Creta dai porti egiziani. La rotta diretta Rodi-Alessandria, due punti che erroneamente si ritenevano situati sullo stesso meridiano, ebbe poi una straordinaria importanza per la geografia ellenistica: valutarne la lunghezza attraverso l'esperienza dei naviganti significava predisporre una base su cui costruire la carta del Mediterraneo orientale, alla maniera della cartografia antica che sempre si fondò quasi esclusivamente sulla valutazione a stima di percorsi e distanze23• Dopo averli lavati in buona parte dalla reputazione di timidi costeggiatori, tanto diffusa quanto immeritata, ci domande remo che cosa seppero fare i navigatori antichi al di fuori del loro Mediterraneo, il mare che rappresentanti o celebratori 121
delle marinerie nordiche hanno spesso guardato dall'alto in basso come una troppo facile palestra che non poteva formare forti tempre di lupi di mare24• Quando si parla di Mediterraneo e dell'ardimento neces sario per uscire dal suo chiuso àmbito alla vastità dell'oceano, un nome e un'immagine vengono subito alla mente: le Colonne d'Ercole ! Per la nostra erudizione media niente evoca con altrettanta efficacia l'idea del limite fatale posto all'intrapren denza umana da una tradizione rispettata e temuta, circondata dai terrori superstiziosi più radicati. Formidabile è senza dubbio la tradizione poetica che sembra suffragare quest'idea, una tradizione estesa da Pindaro a Dante, con formulazioni solenni e memorabili, che diventano espressione di profonde realtà esistenziali, figura dei limiti imposti all'uomo da un ordi namento superiore25. Tutto grandioso, tutto bello, ma per l'appunto quasi solo tra dizione poetica e topos letterario; la storia conosciuta non mostra mai, neppure nelle epoche più antiche, lo stretto di Gibilterra come limite decisivo tra due mondi, uno conosciuto e frequen tato l'altro misterioso e inviolabile. La stessa forma originaria della leggenda di Eracle non aveva questo significato; le colonne avevano in origine il senso di un monumento commemorativo, volevano solo ricordare ai posteri che l'eroe era arrivato fin laggiù, così come i famosi altari che Alessandro lasciò in India, veri o leggendari che siano26. Oltre le Colonne d'Ercole navigarono Greci di Focea, Fenici di Cartagine e sudditi dell'impero romano, per tutta l'età antica fin dal settimo secolo a.C., epoca in cui la tradi zione conosce il nome di Coleo di Samo, che fu spinto dal maltempo fino al paese del re Argantonio di Tartesso nella regione di Cadice, città fondata dai Fenici già secoli prima27. Nel secolo successivo navigò nell'Atlantico Eutimene di Mas salia, vale a dire un Greco di Marsiglia, che esplorò la costa africana e ne lasciò una descrizione, perduta ma ben testimo niata. I Cartaginesi, dal canto loro, ricordavano i famosi capi tani Imilcone e Annone che avevano esplorato rispettivamente 122
le coste europee nord-occidentali e africane, forse già alla fine del VI secolo28• Da Marsiglia veniva anche l'altro greco Pitea, che arrivò fino alle Isole Britanniche e forse a terre ancora più lontane, lasciando ai posteri un affascinante terreno di discus sione: qualche suo entusiasta connazionale lo fa arrivare fino alla Scandinavia o all'Islanda, mentre altri sono più prudenti29• C'è la tradizione sull'isola meravigliosa scoperta dai Cartagi nesi in pieno Atlantico e tenuta da loro segreta per poterla sfruttare da soli. Qui le opinioni dei moderni hanno oscillato fra l'identificazione con le Canarie, Madera o le Azzorre, ma è difficile negare un fondamento reale della storia30• E ci sono infine i navigatori di età imperiale: già Plinio il Vecchio pro clamava con compiacimento che «tutto l'Occidente» fuori delle Colonne era ormai navigato ed esplorato31 , e il giovane Giuliano non ancora apostata, nella sua orazione sulla regalità (insincero omaggio all'imperatore Costanzo) , parlava del mondo dell'Oceano come assai più grandioso del nostro Medi terraneo ma soggetto del pari al dominio romano32• Ben difficilmente gli antichi avrebbero concepito un'in segna araldica, anche se di insegne araldiche ne avessero avute, come quella di Carlo V con le due colonne e il cartiglio recante la scritta 'Plus ultra'33. Quell'insegna voleva annunciare l' ar dito superamento di un presunto tabù, che in realtà per gli antichi non era mai stato così terribile. Lo stesso motto 'Non (o nec) plus ultra' non è antico, come il latino approssimativo dovrebbe già suggerire, in barba all'erudizione frettolosa che lo spaccia per tale. Piuttosto che un confine tra il mondo con sentito e il mondo proibito, Àbila e Calpe rappresentavano per gli antichi il confine fra nord e sud, fra Europa e Africa, o semplicemente lo sbocco del Mediterraneo. Lo stesso mito di Eracle e delle sue colonne voleva significare, molto più che uno sbarramento, un'apertura fra Mediterraneo e Atlantico, con buona pace di Dante34• Secoli e secoli più tardi, Luigi Pulci tornava a constatare a modo suo che il fatale varco non era affatto inviolabile come pretendeva la lunga tradizione, quando faceva dire al veridico 123
diavolo Astarotte con - parole che possiamo applicare anche all'Antichità: «Sappi che questa oppinlone è vana/perché più oltre navicar si puote . . . »35• Sulle pretese circumnavigazioni dell'Mrica tramandate da Erodoto e Strabone, ci prendiamo l'arbitrio di limitarci a pochi cenni, perché vogliamo raccontare qualcosa su ciò che la mari neria antica fece davvero, senza rimestare in quelli che a nostro modesto avviso sono solo esempi di un ben noto tipo di fan tasie: i racconti su antichi, straordinari e semidimenticati viaggi e scoperte. n tipo si divide a sua volta in due sottotipi: o si sognano temerarie spedizioni che avrebbero rivelato ignote lontananze su percorsi mirabolanti non facili da rifare, imprese irripetibili (sottotipo prevalente nell'Antichità e possibile solo nelle epoche che hanno ancora molte 'macchie bianche' sulle loro carte geografiche); oppure si riscoprono remoti e audaci precorrimenti di conquiste molto più tarde, viaggi di audaci pionieri che avrebbero lasciato memorie incerte ma ravvisabili con un po' di acume e con l'aiuto di qualche oscuro docu mento, meglio se ritrovato in circostanze avventurose (sotto tipo prevalente nel nostro tempo, per ovvie ragioni) . n primo sottotipo è ben rappresentato dalle circumnaviga zioni dell'Mrica, riuscite o rimaste a metà, che Erodoto attri buisce agli anonimi Fenici al servizio del Faraone Neco fra VII e VI secolo (riuscita) , e al principe persiano Sataspe (fallita e finita anzi assai male)36. Più tardi, Strabone dedica lunghe pagine al periplo intrapreso con esito incerto da Eudosso di Cizico, curiosa figura di avventuriero-speculatore e improba bile precursore di Vasco da Gama vissuto in Egitto al tempo del secondo Tolomeo Evergete, che regnò dal 146 al 1 17 a.C.37• n secondo sottotipo è ben rappresentato dall'interminabile serie dei tanti pretesi viaggi in America prima di Colombo, compiuti dai Fenici (gli onnipresenti Fenici ! ) , dai Cinesi o da chissacchì, di cui sono piene intere biblioteche fondate sul nulla e che ancora danno lo spunto a qualche trasmissione tele visiva in cerca di shart?8• 124
In tutt'e due i casi si tratta di una tipologia ben nota, che va da Erodoto a una certa letteratura odierna spesso fortunata e che ha mantenuto con straordinaria costanza alcuni tratti caratterizzanti, anche se con diversa dignità letteraria. Fra questi motivi quasi immancabili c'è il modo casuale e arri schiato in cui si sarebbero salvate le notizie relative alla pre sunta, straordinaria impresa, e c'è l'indizio a conferma, il 'riscontro oggettivo' che salta fuori clamorosamente per costringere tutti ad ammettere una verità già rifiutata o addi rittura irrisa. I marinai che sono stati in America prima di Colombo muoiono appena tornati, dopo aver avuto giusto il tempo di raccontare la loro avventura39; relitti o reperti archeo logici confermano il racconto dapprima ingius tamente respinto40• Nei riguardi di queste tradizioni, o pseudo-tradi zioni, è buona norma capovolgere il principio giuridico della presunta innocenza, cioè ritenerle nient'altro che fandonie fino a che non siano confermate da prove saldissime41 • Nel caso di molte tradizioni antiche le prove saldissime non potranno mai venire, perciò è meglio restare della prima opinione. Niente di inverosimile o di leggendario è invece in ciò che si sa sulle navigazioni degli antichi in India, queste sì merite voli di essere maggiormente raccontate e conosciute, perché l'informazione corrente ne sa troppo poco42• Nei primi tempi dell'impero romano, le allusioni all'India e a cose indiane sono frequenti nella letteratura sia greca sia latina, anche se un Marco Polo dell'Antichità non ci fu mai: non conosciamo con certezza neppure un nome di Romano che abbia visitato l'India; innominato resta anche l'enigmatico liberto di Annio Plocamo, il cui avventuroso viaggio a Ceylon è raccontato da Plinio il Vecchio con molte frange romanze sche e utopiche43 • Eppure è cosa ben documentata e testimo niata che gli scambi commerciali via mare fra l'India e l'Egitto romano furono vivaci per almeno due secoli, come attestano molti autori e confermano i ritrovamenti archeologici, soprat tutto le molte monete romane restituite dagli scavi in vane 125
località della costa del Dekkan44• Ambascerie indiane e singa lesi raggiunsero Roma sotto Augusto e Claudio, e i traffici com merciali furono abbastanza intensi da suscitare il malumore del severo moralista Plinio il Vecchio, che denuncia le impor tazioni dall'India di oggetti inutili e costosi, tanto richiesti da gravare pesantemente sulla bilancia commerciale dell'impero romano45• Costituite da prodotti di consumo oppure di pro venienza non sempre identificabile, come le gemme, queste importazioni non hanno però lasciato tracce appariscenti. Per il suo carattere quasi unico, è famoso il caso della statuetta di avorio rinvenuta a Pompei, rappresentante Lakshmi, la dea indiana della fortuna e della prosperità46. Gli aspetti nautici del commercio fra Roma e il subconti nente indiano (o addirittura l'estremo oriente, come vedremo) , hanno grande interesse nella storia della marineria antica e meritano qualche parola47• In realtà non siamo sicuri se questi 'aspetti nautici' riguardino direttamente i marinai del Medi terraneo, o se non si tratti piuttosto di un'attività puramente mercantile che si inserì con varia fortuna in una realtà di navi gazioni molto più antiche, affidate all'esperienza di una mari neria locale. Un testo greco, conosciuto come Periplo del Mare Eritreo, anonimo e di datazione molto incerta ma con ogni probabilità risalente ai primi secoli dell'impero romano, è soprattutto una descrizione dei porti e dei commerci in quella che è per noi la parte occidentale dell'Oceano Indiano, fra l'A frica e il Malabar. Significativamente, a differenza di quel che accade in altri testi del genere, qui passano in seconda linea gli aspetti nautici e il punto di vista è molto più quello del mercante che del marinaio. La tradizione conosce peraltro assai bene i nomi di almeno due Greci che esplorarono le coste settentrionali dell'Oceano indiano: il capitano Scìlace di Carianda, per incarico del re di Persia Dario, alla fine del VI secolo a.C., e soprattutto il cre tese Nearco, che navigò per incarico di Alessandro Magno dalla regione dove oggi è Karachi fino all'estremità settentrio nale del Golfo Persico, a quello che oggi chiamiamo Shatt El126
Arab: circa mille miglia di mare percorse fra pericoli e stenti infiniti, raccontati dal comandante stesso della spedizione in uno scritto perduto ma noto attraverso l'estratto che ne fece Arriano di Apamea secoli più tardi, al tempo dell'imperatore Traiano, e che noi citiamo come Indiké48• La vera apertura della rotta per l'India doveva venire però molto più tardi, forse nel I secolo a.C., quando un altro Greco di nome Ippalo avrebbe scoperto (ma la notizia è molto dubbia) la regolarità dei venti monsonici e il loro ciclo sta gionale, che permetteva una spedizione annuale fra il Golfo di Aden e la costa del Malabar coi suoi porti diventati presto luogo di scambi attivissimi49. Quando l'Egitto fu annesso all'impero romano, cadde ogni barriera al traffico fra Mediterraneo, Mar Rosso, Africa orien tale e Oceano Indiano, e non è forse esagerato dire che dopo lo iato medievale l'Europa tornò a disporre di questa possibi lità, ma sulla rotta molto più lunga e difficile del Capo di Buona Speranza, solo all'inizio dell'età moderna. La facilità della comunicazione inaugurata dal leggendario Ippalo fu superata solo con l'apertura del canale di Suez50• Se non la marineria, il commercio dell'impero romano si spinse anche più in là, oltre la grande isola che gli antichi chia mavano Taprobane, con uno dei tanti nomi che le furono via via dati: Serendipa, Ceylon, Sri Lanka . . . , e oltre il Capo Comorin, il vertice del triangolo del Dekkan. Ad Arikamedu, sulla costa del Coromandel non lontano da Pondicherry, è stata scavata una vera stazione commerciale che a qualcuno sembrò addirittura una cittadina romana trapiantata sul Golfo del Bengala51• Si andò anche più lontano?52• Nel II secolo d.C. Tolomeo sa qualcosa sulla penisola di Malacca, Giava e Sumatra, e un nudo nome, Alessandro, compare nella sua Geografia a pro posito di una spedizione che sarebbe arrivata fino alla costa cinese, alla favolosa Cattigara, nome ben ricordato ancora nel Medioevo, ma impossibile da localizzare sulla carta per l'in certezza e anche la contraddittorietà delle indicazioni che ne dà il geografo53• I tentativi moderni di identificarla hanno pro127
posto ogni possibile città portuale fra Singapore, Manila e Canton. Dei Cinesi si conosceva e apprezzava il prodotto nazionale, la seta, che arrivava in Occidente attraverso molti intermediari, ma per via di terra; dei produttori si conosceva solo il nome, e incertamente'4• Questo è un rapidissimo e parziale schizzo di ciò che l'an tica marineria mediterranea seppe fare, prima nel suo mare, che essa contrappose sempre molto nettamente al 'mare di fuori' , all'Oceano, poi nelle altre acque del vecchio mondo. È vero che le capacità nautiche degli antichi non superarono mai certi limiti imposti anche da fatti tecnici come l'attrezzatura primitiva dei loro velieri, il fatto di non conoscere la bussola, e forse il tipo di timone; ed è anche vero che essi conobbero in scarsa misura lo spirito di illimitata intraprendenza e l'ansia 'faustiana' della scoperta che caratterizzerà epoche più tarde della storia occidentale; perlomeno le letterature antiche non lo hanno rispecchiato. Non è giusto invece disconoscere la loro audacia e dimenticare come essi si siano affacciati con successo sui mari e sulle regioni da cui sarebbe venuta la grande storia di secoli ancora lontani, gettando un filo di continuità fra pas sato e futuro e facendoci sentire anche per questa via quanto l'Antichità sia ancora vicina.
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Note
1 «En dépit du témoignage formd des textes et de beaucoup d'argumen tations probantes dévdoppées à leur suite, l'idée que les Anciens ne prati quaient pas, ou pratiquaient peu et à contrecceur, la navigation hauturière, et a fortiori la navigation plurijoumalière, demeure fortement ancrée dans les esprits», così PASCAL ARNAUD, La navigation hauturière en Méditerranée ancienne: quelques exemples, in E. Rrnrn (ed.), Méditerranée antique. Peche, naviga/ton, commerce, Paris 1998, pp. 75-87, un articolo che smentisce efficace mente il luogo comune denunciato nell inczpit. I pessimisti potrebbero in realtà richiamarsi nientemeno che a Eratostene, che dice proprio la stessa cosa (fr. I B 8 Berger, ap. Strabone, Geografia I 3 , 2, C 48). Ma per una volta le obie zioni di Strabone al grande rivale, a lui tanto superiore, sono valide: per comin ciare, che cosa significa palai6i, 'antichi'? Se si risale abbastanza nd tempo si troverà prima o poi una nautica così primitiva da non osare di affrontare il mare aperto; ma fin dalle più antiche epoche conosciute i navigatori greci non erano così timidi. Cose che possiamo sottoscrivere, anche se Strabone adduce come storiche le imprese di personaggi mitici. 2 Una prima introduzione al dibattito può darla l'opera collettiva curata da PETER GARN SEY, KEITH HOPKINS e C.R. WHITTAKER, Trade in the ancient economy, London 1983; v. particolarmente i contributi di A.M. SNODGRASS, Heavy /reight tn archaic Greece, pp. 16-26, di PETER GARNSEY , Grain /or Rome, pp. 1 18-130, e di C.R. WHITTAKER, Late Roman trade and traders, pp. 163 - 1 80. Sul rapporto fra sviluppo dell'economia e capacità nautiche dice qualcosa anche MICHEL GRAS, Il Mediterraneo nell'età arcaica, Paestum 1 997 (tit. orig.: La Méditerranée archai'que, Paris 1995). Sulle origini e sulle potenzialità del commercio per via di mare in Grecia scrive giudiziosamente il recente C.M. REED, Mart'time traders in the ancient Greek world, Cam bridge 2003 . 3 L''errore popolare' degli schiavi incatenati al remo è stato propagato con grande efficacia dal cinema (Ben Hur etc.), a sua volta succubo di una narra tiva storica approssimativa, che ha esteso abusivamente all'Antichità quello che è vero per le flotte di galere dell'età moderna. Per un primo orientamento sulla realtà delle galere antiche, v. P. }ANNI, Il mare degli Antichi, Bari 1996, pp. 227 sgg., e da ultimo PETER HUNT, The slaves and the generals of Argi nusae, in «American Journal of Philology» 122 (200 1 ), pp. 359-380. 4 Vegezio, Epitoma rei militaris IV 3 8 . Per altre epoche: secondo EKKEHARD ErCKHOFF, Seekrieg und Seepolittk zwischen Islam und Abend land, Berlin 1 966, p. 155 , nel periodo da lui studiato (650- 1040) le flotte musulmane nel Mediterraneo perdettero «a essere cauti» quattro volte più galere per le tempeste che per le azioni nemiche. '
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5 Sulle capacità nautiche delle navi da guerra antiche v. A.W. GOMME, A forgotten factor in Greek naval strategy, in «Journal of Hellenic Studies» 53 ( 1 933) pp. 16-24 ( Essays in Greek history and literature, Oxford 1937, pp. 190-203 ) ; JANNI, Il mare degli Antichi, cit., pp. 155 sgg. 6 Sull'espansione coloniale greca nei suoi aspetti geografici, v. JoHN BoARDMAN, I Greci sui mari. Traffici e colonie, Firenze 1986 (tit. orig.: The Greeks overseas, Harmondsworth 1964). 7 GERMAIN, Genèse de l'Odyssée cit. , pp. 601 sgg., fa giuste considerazioni su questo punto, e nota che paradossalmente l'Odissea è poco 'poema del mare' proprio negli ap6logoi, i racconti di Ulisse ad Alcinoo dove di mare dovrebbe essercene di più. Per Germain questa era un'ulteriore prova che la materia del poema deriva dal folklore di popoli continentali, poco familiari col mare. 6 Odissea VIII 159 sgg. Cfr. }ANNI, Il mare degli Antichi cit., p. 93 sg. 9 Odissea XII 403 sg. XIV 301 sg. 10 Anche Virgilio usò l'espressione più d'una volta: Eneide III 1 92 sg. V 8- 1 1 (con variazioni). 1 1 Odissea V 249-250; IX 322-323 . 12 Sull'argomento c'è l'ampio studio di PASCAL ARNAUD, Naviguer entre Égypte et Grèce: les principales lignes de navigation d'après les données numé riques des géographes anciens, in «Cahiers de la Villa " Kérylos"» no 5 , Paris 1995, pp. 93 -106, che documenta le rotte d'alto mare praticate fra Grecia ed Egitto dall'epoca classica in poi. 0 È il secondo, citato dagli antichi come 'Euterpe', e dai moderni anche come 'logos egiziano'. 14 Odissea III 286 sgg. 15 Odissea XIV 257. 1 6 Vedi Strabone, Geografia II 4,3 (C 106) e cfr. P. ARNAUD, La naviga tion hauturière, cit., pp. 82 sgg. 17 Cfr. il già citato PETER GARNSEY , Grain /or Rome, sopra n. 2. 16 Seneca descrive in una pagina famosa, Epistole 77,1-2, l'arrivo a Poz zuoli delle navi granarie da Alessandria, ben riconoscibili per il siparum, una specie di rudimentale vela di gabbia che rappresentava peraltro un perfe zionamento rispetto all'unica vela per albero usata normalmente dai mer cantili antichi. A questa novità allude probabilmente Plinio il Vecchio, Natur. hist. XIX l (5): nella sua violenta tirata moralistica contro la navigazione, l'autore (comandante della flotta imperiale di Miseno ! ) se la prende anche con le innovazioni in fatto di attrezzatura velica; si aggiungono vele a prua e a poppa, e così si accrescono solo le probabilità di morire. 19 Atti degli Apostoli 27; Luciano, Navigium 5-9. 20 Vedi P. }ANNI, Il mare degli antichi: tecniche e strumenti di navigazione, in Archeologia subacquea. Come opera l'archeologo. Storie dalle acque, Firenze 1998, pp. 449-475. =
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2 1 Erodoto, Storie II 5 ,2. 22 Atti degli Apostoli 2 1 ,3 .
23 Importante, su questo punto, P. ARNAUD, Naviguer entre Égypte et Grèce cit., pp. 1 0 1 sgg. 24 Un esempio ne è il tedesco HEINRICH NISSEN, nella sua celebre Itali sche Landeskunde, Berlin 1 883, vol. I, pp. 129 sgg.: qui si confronta quasi con indignazione la prudenza dei navigatori mediterranei antichi (e anche moderni) che si avventuravano in mare per pochi mesi all'anno e temevano di staccarsi dalla costa ( ! ), coll'intrepidità dei Normanni. 25 Pindaro, Olimpica III 44 sg., Nemea III 20 sg., Nemea IV 69; e cfr. il mitografo Apollodoro, I miti greci II 5 , 10; Dante, In/ XXVI 1 07- 109 (il canto di Ulisse). 26 Apollodoro, I miti greci II 5 , 1 0 ( 107): « . . . giunse in Libia e poi a Tar tesso, dove collocò, a memoria del suo passaggio, due colonne, una di fronte all'altra, ai confini dell'Europa e della Libia» (trad. M.G. Ciani). Sull'evolu zione del mito, v. FRANZ DORNSEIFF, Gibraltar und Herakles, in Kleine Schri/ ten, Leipzig 1956, vol. I, pp. 170-175. 27 Erodoto, Storie IV 152,2 e I 163 . Le tradizioni su Gadir (gr. Gddeira, lat. Gades, oggi Cddiz) fondata dai Fenici già intorno al 1 100 a. C. non sono confermate dall'archeologia. 28 Stando a Eliano, che cita Aristotele, prima che a Eracle le colonne sarebbero state intitolate al mostruoso Briareo, che aiutò Zeus nella titano machia, e che ha tratti di creatura marina; v. Varia historia V 3 . 29 I frammenti sono raccolti in Pitea di Massalia, I..:Oceano. Introduzione, testo, traduzione e commento di Serena Bianchetti, Pisa-Roma 1998. Non con ' nazionale di Pitea, ma anche lui un po troppo incline all'entusiasmo è R HENNIG nel citato Te"ae incognitae, vol. I p. 124, un libro per il quale il clas sico avvettimento 'da usare con cautela' suona eufemistico. Un bilancio equi librato, contro varie esagerazioni, è quello di ROGER DION, I..:esplorazione di Pitea nei mari del Nord, in Aa. vv., Geografia e geografi nel monclo antico. Guida storica e critica a cura di F. Prontera, Roma-Bari 1990, pp. 201-225 (già in «Revue de philologie, de littérature et d'histoire ancienne» 40, 1966, pp. 2002 16); infine: S. MAGNANI, Il viaggio di Pitea sull'Oceano, Bologna 2002. JO n testo relativo più famoso è quello dello Pseudo-Aristotele, De mirabi libus auscultationibus 84. Sulla semileggendaria isola atlantica dei Cartaginesi si è discusso e favoleggiato fino ai nostri giorni. Nella sua polemica contro 1'0viedo, se ne occupava anche Fernando Colombo, per negare l'identificazione subito proposta (inevitabilmente!) con qualche isola americana, ciò che avrebbe sminuito la gloria del suo illustre padre (Historie della vita e dei /atti di Crz� sto/oro Colombo, cap. X). Sull'argomento è utile il piccolo libro di (VALERIO) MAsSIMO MANFREDI, Le Isole Fortunate. Topografia di un mito, Roma 1993 . Jl Natur. hist. II 67 ( 167). 12 Della regalità 2 (51 d).
13 1
33 Vedi EARL RosENTHAL, Plus ultra, non plus ultra, and the columnar device o/ Emperor Charles V, in <<Journal of Warburg and Courtauld Insti tute» 34 ( 197 1 ) , pp. 2 1 0 sgg. 34 Biblioteca storica IV 18,4-5; ma secondo un'altra tradizione (v. ibid. ) le
avrebbe invece accostate, ciò che in ogni caso non significa una chiusura totale. n
Morgante, cantare XXV, stanza 229. Su questo passo è utile il com
mento di MANLIO PASTORE STOCCHI, La cultura geografica dell'umanesimo, in AA.Vv., Optima hereditas. Sapienza giuridica romana e conoscenza dell'e cumene, Milano 1992, p. 564 sg. J 6 Convintissimo della realtà del periplo fenicio è HENNIG, Te"ae inco
gnitae, cit., vol. l, pp. 49 sgg., anche se respinge per fortuna i soliti falsi por
tati a conferma della storia, come un preteso documento egiziano e l'imman cabile scoperta dei resti di una nave fenicia al Capo di Buona Speranza. Cau tamente possibilisti erano RrcHARD DELBRUECK, Siidasiatische See/ahrt im Altertum in «Bonner Jahrbiicher» 155-156 (1955-1956), pp. 1 1 e 23 sg., e YVES }ANVIER, Pour une meilleure lecture d'Hérodote, in «Les études classiques» 46 ( 1978), pp. 97-1 1 1 , con molte considerazioni utili anche per chi non è d'ac cordo. Più scettico }ANNI, Il sole a destra: estrapolazione nella letteratura geografica e nei resoconti di viaggio, in «Studi classici ed orientali» 28 ( 1978), pp. 87- 1 15 ; poi (in versione riveduta) in AA.Vv., Temi e discussioni di geografia antica, a cura di Silvana Fasce, Genova 1994, pp. 97 - 124; cfr. anche Il mare degli Antichi cit., p. 456 sgg. E ci sarebbero da citare molti nomi, pro e contro. n Strabone, Geografia II 3 ,4-5 (C 98- 100) Posidonio, in }ACOBY, Die Fragmente der griechischen Historiker 1 08 F 28. Traduzione e ampio com mento di queste pagine in }ANNI, Il mare degli Antichi cit., pp. 453 sgg. JB Ne faceva un bilancio il geografo GIUSEPPE CARACI nel 1932, nella rivista «La bibliofilia» 34, pp. 3 15-335, con un articolo che non pretendeva certo di esaurire lo sterminato dossier. I Cinesi tornarono in auge in tempi =
non lontani grazie a un libro del solito coraggioso e rivoluzionario storico antiaccadernico, in questo caso un ufficiale inglese dei sommergibili, che ricostruiva
fin nei particolari la circumnavigazione del globo a opera di una
flotta cinese nei primi anni del Quattrocento. L'audace periplo comprendeva naturalmente una vasta esplorazione del Nuovo Mondo; i Cinesi avrebbero fatto tutto in una volta quello che agli Europei riuscì con grandi stenti e fatiche nel corso di generazioni.
n libro trovò purtroppo un editore italiano,
che pure sembrava aver inaugurato la sua attività con intenti di massima serietà scientifica, e fu recensito con favore da un quotidiano nazionale del gennaio 2003 . Le tesi dell'autore erano presentate come molto plausibili nel testo, e come cosa certa e assodata nel titolo e nei diversi 'sommari', di cui i giornali italiani abbondano a beneficio del lettore medio, cioè di media disattenzione e superficialità. J9 Su questa «storiella» messa in giro dall'Oviedo (che peraltro non ci credeva) , e sulla sua immeritata fortuna, v. le assennate considerazioni di
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CESARE DE LOLLIS, Cristo/oro Colombo nella leggenda e nella storia, pp. 140 sgg. dell'edizione definitiva, Lanciano 193 1 . Tutto il libro ha pagine istrut tive su formazione e morfologia delle leggende di questo tipo. Vedi anche quello che scrive un conoscitore dell'opera di Oviedo: ANTONELLO GERBI, La natura delle Indie Nove, Milano-Napoli 1975, pp. 203 sgg. Amena varia zione: il gesuita francese }OSEPH FRANçOIS LAFITAU raccolse una tradizione del tutto analoga, salvo che stavolta invece dello sfortunato equipaggio spa gnolo ce n'è uno, manco a dirlo, francese. Vedi la sua Histoire des découvertes et conquestes des Portugais dans le nouveau monde, Paris 1733, vol. I p. 66. 40 Le storie di ritrovamenti archeologici sul tipo delle iscrizioni fenicie in Brasile, storie che rispuntano periodicamente e sono raccolte volentieri dai media, hanno un precorrimento antico: Eudosso di Cizico, il navigatore in acque africane di cui racconta Strabone, Geografia II 3 ,4-5 (C 98-102), avrebbe trovato sulla costa a sud dell'Etiopia una polena di legno, avanzo di un naufragio, che apparve sicuro indizio di una circumnavigazione del continente compiuta dai pescatori di Cadice. L'avventuroso ritrovamento dimostra la realtà della straordinaria impresa: il tipo di leggenda è nato. Di relitti che vengono a confermare la realtà di antichi peripli e di «Prétendus voyages des Anciens dans l'Amérique du Sud» parlava già il vecchio e clas sico ARMAND RAINAUD, Le continent austral. Hypothèses et découvertes, Paris 1893 , pp. 78 sgg. e 89 sgg. Per i reperti fenici in America, v. ancora HENNIG, Terrae incognitae, cit., vol. IV, pp. 404-406 e 428, con numerose citazioni da riviste scientifiche (?) e dalla stampa quotidiana, che vanno dal 1869 al 1937. Dal seguito della storia citeremo solo il libro di LIENHARD DELEKAT, Pho nizier in Amerika, Bonn 1969, dove si rivendica l'autenticità di una pretesa iscrizione trovata a Parahyba (Brasile) nel 1873, in realtà conosciuta solo in trascrizione e smascherata come falso già nel 1898. Una precedente attar data rivendicazione era stata confutata dalla studiosa italiana M. GIULIA AMADA SI, in «Oriente Antico» 7 ( 1 968), pp. 245-26 1 . Quanto a Delekat, v. la recensione di }. FRIEDRICH in «Deutsche Literatur-Zeitung» 67 (1972), p. 457 sg., che deplora vivamente l'aberrazione in cui era caduto uno studioso solitamente serio. Un'ampia storia di tutta la vicenda ha scritto il brasiliano GERALDO IRENto JOFF1LY, Z.:inscription phénicienne de Parahyba, in «Zeit schrift der Deutschen Morgenlandischen Gesellschaft» 122 ( 1972), pp. 2236, che ritiene anche di aver identificato il falsario. Succinta e divulgativa l'esposizione che ne fa SABATINO MoSCATI nel suo già citato I segreti del pas sato, pp. 265-269. Enrico Acquaro ha rievocato opportunamente un curioso precedente cinquecentesco sulla questione dei Fenici in America: la disputa era stata già allora accesissima fra Spagnoli e Portoghesi, perché attraverso il possesso dell'enigmatica isola atlantica scoperta dai Cartaginesi secondo il De mirabilibus auscultationibus pseudo-aristotelico (v. sopra n. 30), e identificata con Madera, anche questa pretesa scoperta veniva ad avere importanza per le rivendicazioni territoriali delle due potenze iberiche rivali.
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Vedi Cartaginesi in Amenca: una disputa del XVI secolo, in I.:homme médi terranéen et la mer. Actes du Troisième Congrès International d'études des eu/tures de la Méditerranée occidentale, }erba, Avril 198 1 , s. l. 1985, pp. 99103 . Regolari frequentatori dell'America erano i Fenici secondo il vescovo Huet nella sua Démonstration évangélique (1679) , p. 102. 41 Forse (chi scrive non ha competenza al riguardo) questo è il caso dei Vichinghi in America, anche se qualche avvocato ha compromesso la buona causa con cattivi argomenti, come lo smaccato falso della carta di Vinland, o prima ancora quello ancor più smaccato della pietra runica di Kensington, nel Minnesota, per cui vedi HENNIG Terrae incognitae, cit. vol. III, pp. 3243 73 , che ne difende l'autenticità a spada tratta. Sul primo caso citiamo ancora G. CARACI, Il falso del secolo: la "Vinland Map", in «Boli. della Soc. Geografica Italiana», 104 ( 1 967), pp. 178-2 14. Vedi anche G . PRAUSE nel già citato libro Niemand hat Kolumbus ausgelacht, pp. 325 sgg. dell'edizione Frankfurt (M.) 1976. 42 Utile ricapitolazione di tutto l'argomento è quella di FEDERICO DE RoMANIS, Viaggi ed esplorazioni oltre i confini dell'Impero /ra l'età di Plinio e quella di Tolemeo, in AA.Vv., Optima hereditas, cit., pp. 223-274. Per un aggiornamento bibliografico sul tema, v. la rassegna di ALBRECHT DIHLE, Indien und die hellenistisch-romische Welt in der neueren Forschung, in «Geo graphia antiqua» l ( 1 992), pp. 1 5 1 - 159. 43 Natur. hist. VI 22 (84 sg.): la storicità del personaggio è probabile, quella della sua avventura non altrettanto. Vedi CHESTER G. STARR, The Roman emperor and the king o/ Ceylon, in «Classical Philology>> 5 1 ( 1 956), pp. 27 -90; F. DE ROMA NIS, Viaggi ed esplorazioni oltre i confini dell'Impero, cit., p. 267 sg. L'esistenza di Annio Plocamo sembr� dimostrata da un ritro vamento epigrafico, per cui v. DAVID MEREDITH, Annius Plocamus: two inscriptions /rom the Berenice road, in «}ournal of Roman Studies» 43 (1953 ), pp. 38-40. 44 Una cartina con la distribuzione delle monete romane ritrovate in India è nel classico libro di MORTIMER WHEELER, Rome beyond the imperia! /ron tiers, London 1954, p. 188, fig. 16, riprodotta in DE ROMANIS , Vzaggi ed esplorazioni oltre i confini dell'Impero, cit., p. 265 . 45 Augusto, Res gestae 3 1 ; Plinio, Natur. hist. XVI 4 1 (22 1 ) ; v. anche VI 26 ( 101) e XII 41 (84). Sul commercio fra l'impero romano e l'India cite remo soltanto: E.H. WARMINGTON, The commerce between the Roman empire and India, Cambridge 1928, rist. London-New York 1 974; }EAN FILLIOZAT, Les échanges de l'Inde et de l'empire romain aux premiers sièdes de l'ère chré tienne, in Les relations extérieures de l'Inde, cap. l, Pondichéry 1950; MARTIN P. CHARLESWORTH Roman trade with India: a resurvey, in R.R. COLEMAN NoRTON (ed.), Studies in Roman economica! and soczal history in honour o/ A. Ch. ]ohnson, Princeton 195 1 , pp. 13 1 - 143 . ,
,
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46 Due sue fotografie sono in DE ROMANIS, Viaggi ed esplorazioni oltre i confini dell'Impero, cit., p. 253. Se ne occupò AMEDEO MAIURI, Statuetta eburnea di arte indiana a Pompei, in «Le Arti» l ( 1938), III 5. 47 Vedi in generale R. DELBRUECK, Siidasiatische See/ahrt im Altertum, cit., pp. 8-58, 229-306. 48 Una sintetica e utile introduzione all'argomento, nel quadro dell'e spansione delle conoscenze etnografiche dei Greci è il libro di ALBRECHT DIHLE, I Greci e il mondo antico, Firenze 1997 (tit. orig. : Die Griechen und die Fremden, Mi.inchen 1994), cap. IV. I frammenti di Scilace sono raccolti in }ACOBY, Die Fragmente der griechischen Historiker III c, Leiden 1958, n. 709; sul periplo a lui attribuito disponiamo dello studio amplissimo e ric chissimo di AURELIO PERETTI, Il Periplo di Scilace. Studio sul primo porto fano del Mediterraneo, Pisa 1979. L'autore tornò sull'argomento col saggio I peripli arcaici e Scilace di Carianda, in AA.Vv., Geografia e geografi nel mondo antico, cit., pp. 69- 1 14. 49 Su Ippalo non si sa nulla; anche la forma del nome non è sicura. Tolomeo, Geografia IV 7,12, chiama Hippalos il mare che si stende fra le isole prospicienti l'Etiopia e il mare indiano; Plinio, Natur. hist. VI 26 ( 1 00) chiama invece hippalus il vento che porta dall'Arabia all'India, cioè il monsone che egli identifica col favonio del Mediterraneo. Per l'ipotesi che il personaggio debba la sua esistenza solo a un malinteso linguistico, sul tipo di quello che creò l'im maginaria 'Santa Veronica', v. DIHLE, Indien und die hellenistisch-romische Welt, cit., p. 152. D calendario del viaggio annuale è descritto precisamente da Plinio, Natur. hist. VI 26 (101-106), che informa anche sui successivi perfezionamenti apportati alla rotta indiana, e dà la cifra dell'enorme spesa per l'importazione di merci indiane che gravava sulle finanze romane. La stessa tecnica è stata seguita fino ai giorni nostri dai grandi sambuchi arabi, che trafficavano fra il Golfo Persico e Zanzibar: anch'essi andavano coi monsoni e facevano un solo viaggio all'anno. Tolomeo, Geografia I 7 ,6, parla dei metodi di navigazione astronomica usati sulla rotta indiana. Vedi ROBERT B6KER, Monsunschiffahrt nach Indien, in Real-Enzyclopiidie, Supplbd. IX (1962), coli. 403-4 1 1 . l O Strabone, Geografia XVII 1 , 13 (C 798): prima che i Romani riorganiz· zassero l'Egitto, era tanto se una ventina di navi all'anno si azzardavano a per correre il Mar Rosso e ad affacciarsi allo stretto; ora grandi flotte arrivano fino all'India e ne riportano merci preziose che dall'Egitto vengono riesportate in ogni paese; egli stesso ha visto coi suoi occhi centoventi navi partire per l'India (Geografia II 5,12, C 1 18; qui però ammette che un traffico con l'India, anche se assai sporadico, esisteva già al tempo dei Tolomei; in Plutarco, Vita diAntonio 81,4, leggiamo che Cleopatra, dopo la sconfitta, aveva mandato suo figlio Cesa rione in India con grandi tesori, contando di rifugiarvisi). La decadenza dovette cominciare già in piena età antica: ALBRECHT DIHLE, Buddha u. Hieronymus, in Anttke und Orient. Gesammelte Au/siitze, Heidelberg 1984, p. 101, nota come al tempo di S. Gerolamo il viaggio per mare in India col favore del mon135
sane fosse diventato un'impresa arrischiata che richiedeva coraggio. Platino, per incontrare i filosofi indiani, dovette scegliere la via di terra, aggregandosi all'esercito di Gordiano. Già due degli effimeri imperatori del m secolo, che risiedevano in Egitto, avevano cercato di rianimare il commercio con l'India. 5 1 Su Arikamedu, scavata a partire dal 1944, v. WHEELER, Rome beyond the imperia! /rontiers, cit., pp. 145- 153 . Una 'frenata' intesa a mettere in guardia contro eccessivi entusiasmi è quella di WARWICK BALL, Rome in the East, London-New York 2000, pp. 123 - 133: ritrovamenti di monete o anche di oggetti non provano necessariamente una presenza di appartenenti al paese di provenienza. Quanto alle capacità nautiche, le navi del Mediter raneo non erano all'altezza di una navigazione nell'Oceano Indiano, ed è più facile pensare che commercianti occidentali viaggiassero su navi indiane e soprattutto arabe, più adatte al difficile ambiente. 52 Strabone, Geografia XV 1 ,4 (C 686), accenna come a cosa ben nota ai navigatori che arrivano lino al Gange, ma aggiunge subito che sono pochi (spdnioi). È però vero che l'orizzonte geografico del Periplo del Mare Eri treo arriva sino alla costa orientale del Golfo del Bengala; v. ALBRECHT DIHLE, Der Seeweg nach Indien, Innsbruck 1974, p. 574 ( Antike und Orient, cit., pp. 1 09- 1 17). n Tolomeo, Geografia I 14,1 sgg. Un altro nome di scopritore che com pare in Tolomeo è quello del marinaio greco Diodoro, altrimenti ignoto, che avrebbe 'scoperto' l'India del sud (Limyrike), forse nel II secolo a.C. =
(Geografia I 7 ,6; 5 , 1 ) . 54 Sul commercio della seta fra la Cina e Roma, che aweniva per via di terra, e sulle incerte nozioni che si possedevano in Occidente circa i suoi produttori, v. }EAN-MICHEL POINSOTTE, Les Romains et la Chine: réalités et mythes, in «Mélanges de l'École Française de Rome. Antiquités» 91 ( 1 979/1 ) , pp. 43 1 -479.
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Capitolo quinto «La s/ericità della terra fu dimostrata da Cristo/oro Colombo»
C'è ancora qualcuno che non ci crede, che si riunisce in associazione per combattere una dottrina ritenuta fallace e che accusa di contraffazione le fotografie dallo spazio che ormai dovrebbero confermarla in maniera palmare1 • Di che par liamo? Il titolo di questo capitolo l'ha già detto: della sfericità della terra. Oggi questa negazione sembra solo un'innocente strava ganza, come certe idee dei credenti negli 'Ufo', anche se questi riescono più spesso, malauguratamente, a farsi prendere sul serio da molta gente e dai media a corto di notizie; ma anche un contrasto diventato così marginale e assurdo, quello intorno alla realtà della terra sferica, può servire a riflettere sulle vicende di una conquista intellettuale che rappresenta nella storia umana forse la rivoluzione scientifica più grande di tutte, anche più grande del sistema copernicano, della chimica moderna o della batteriologia. Ed è una conquista che pos siamo rivendicare interamente alla nostra civiltà occidentale, ai Greci suoi primi fondatori: tutte le altre culture conosciute, anche se avanzate come l'indiana e la cinese, ne restarono lon tanissime. Le cosmologie di quasi tutte le civiltà arcaiche hanno dei fondamenti comuni, abbastanza semplici e non molto difficili da immaginare: la vera grande realtà è per esse la terra, ovvia mente piatta e ben salda nella sua immobilità, mentre il cielo 137
è una volta o un manto e gli astri una specie di ornamento o
di ricamo, o magari esseri divini. Il linguaggio che ancora usiamo ne conserva tracce cospicue, per esempio nei nomi dei pianeti ereditati dall'Antichità, o quando chiamiamo il cielo 'firmamento' con una parola che traduce in latino (da firmus, 'stabile e forte') il greco steréoma ('cosa salda') e risale al ter mine ebraico che nella Bibbia designa il cielo, perpetuando così senza saperlo la concezione molto arcaica di una solida volta poggiata sulla terra2• Arrivare a concepire questa come sfera sospesa nel mezzo di un cosmo che, inevitabilmente, prenderà a poco a poco il sopravvento su di essa per gran dezza e importanza, è il primo grande passo verso tutte le rivo luzioni cosmologiche, quelle per cui la terra perderà sempre più la sua centralità e il senso stesso che l'uomo ha di sé e della sua esistenza cambierà profondamente. Questo grande passo lo fecero i Greci, dopo aver lottato a lungo coi residui di una tipica concezione arcaica, l?resenti ancora cospicuamente nei primordi della loro scienza. E incre dibile, oltre che deplorevole, che non tutti abbiano ben chiaro in mente questo fatto fondamentale nella storia della nostra civiltà, anzi della civiltà umana. Questa poca chiarezza di idee si rivela appunto quando si associa il nome di Cristoforo Colombo alla dottrina del globo terrestre, come se il naviga tore ne fosse un pioniere e un audace assertore, mentre questo legame è del tutto indiretto e secondario3• Ancor più incredibile è che al fallace legame fra Colombo e la terra sferica presti orecchio qualcuno che ha pur letto, almeno a scuola, il suo Dante, dove la teoria del globo è rispec chiata in cento immagini, qualche volta laboriose ma di solito limpidissime. Basti ricordare il canto di Ulisse e della sua navi gazione verso l'emisfero australe, dove gli effetti sensibili della sfericità della terra diventano matrice di grandiosa ispirazione poetica: «Tutte le stelle già dell'altro polo/vedea la notte e 'l nostro tanto basso/che non surgeva fuor del marin suolo»; che significherà?4• Ma tutta la cosmologia dantesca, almeno nelle due prime cantiche, tutta la costruzione di inferno e purga138
torio, è fondata sulla sfericità della terra, e forse in fondo alla nostra edizione scolastica c'era anche un chiaro disegno sche matico che illustrava la cosa. Ma sentiamo ancora lui stesso: «e vidi questo globo/tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante». Dante sa benissimo che cosa sono i fusi orari, anche se non li chiama così («qui è da man, quando di là è sera . . . »), e tra sforma in viva immagine, con la sua solita potenza visionaria, anche gli effetti della gravitazione terrestre e la relatività del sotto e del sopra, quando arriva dall'inferno al centro della terra e il corpo di Lucifero, lungo il quale lui e Virgilio erano discesi, gli appare ora capovolto5 • Questo si scriveva quasi due secoli prima della scoperta del l'America; e prima ancora? Se si risale proprio all'origine, si trova il buio. L'Antichità, che cercava sempre di collegare ogni nuova idea o cosa a un preciso nome di scopritore, inventandolo quando non lo sapeva, stavolta è muta o parla confusamente. Sappiamo con sicurezza che Archimede scoprì le leggi dell'idrostatica nel III sec. a.C., e Ipparco la precessione degli equinozi nel Il, mentre la prima concezione del globo terrestre, forse la più grande intuizione cosmologica della storia umana, è per noi anonima. Le tradizioni relative all'età arcaica e alla prima età classica sono tutte confuse e inattendibili, e il primo testo dove si parli di terra sferica è il Pedone di Platone, che risale forse agli anni Ottanta del IV secolo e si presenta come la cronaca di un dia logo svoltosi nel 3 996. Non sono utilizzabili storicamente le notizie relative a Pitagora (VI secolo) , perché si tratta di una figura semileggendaria e perché la tradizione pitagorica è infida, attribuendo al fondatore idee concepite molto più tardi. Maggior credito, ma tutt'altro che concordemente, ha ottenuto una notizia risalente a Teofrasto che attribuisce la grande idea a Parmenide, nella prima metà del V secolo7• Il testo di Pla tone è parso, ma non a tutti, conciliabile con questa datazione. Testimonianze precise e sicure deduzioni da testi conser vati dicono qualcosa di più positivo sulla fase precedente, quando si immaginava una terra piatta, concezione che non 139
dovette essere facile da estirpare. Certamente essa si riflette nei poemi omerici, anche se su molti altri punti della 'cosmologia omerica' bisogna essere cauti, più cauti di tanti che ne hanno scritto come se si trattasse di un sistema coerente e verificabile. Più d'un autore antico, prigioniero della sciagurata convin zione che in Omero dovessero nascondersi i princìpi di tutte le scienze e tutte le arti, gli ha attribuito anche la terra sferica, ma questo è solo un curioso reperto nell'ideale museo delle idee storte, come non meno storta è l'attribuzione a Esiodo8. I fisiologi ionici del VI secolo, che la nostra tradizione manualistica (figlia di quella antica) mette all'origine della filosofia occidentale, con ogni probabilità non ebbero la grande intuizione9• Un'isolata notizia su Talete di Mileto (VII-VI sec. ) come primo assertore della terra sferica è sicuramente da respingere al pari di quella analoga su Anassimandro10• Questi, che di Talete era concittadino e sodale, avrebbe fatto però il primo importante passo nella giusta direzione concependo un cielo sferico, cosa a cui babilonesi ed egiziani non erano arri vati11 . Ma la sua terra è ancora piatta, cilindrica come un roe chio di colonna del quale noi occupiamo evidentemente la faccia superiore12• Una fonte riferisce più precisamente che il 'cilindro terracqueo' di Anassimandro aveva una profondità pari a un terzo della larghezza. Per l'altro celebre sapiente milesio, Anassimene, la terra era paragonabile a una specie di coperchio che chiude sotto di sé un cuscino d'aria da cui è sostenuta13• Per Senofane di Colofone, ancora un rappresen tante della grecità d'Asia Minore e pensatore per altri aspetti di indubbia audacia intellettuale, la terra si estendeva sotto la superficie fino a profondità infinita. Tutte cose che conosciamo quasi solo da testimonianze tarde, riassunti e riassuntini qualche volta fatti peggio dei nostri 'bignami' , mentre saremmo · disperatamente curiosi di saperne di più. n dissenso su molti punti, anche fra studiosi autorevoli, dimostra quanto siano oscuri i primi capitoli di questa storia. Evidente è che questi cosiddetti 'presocratici' erigevano costruzioni cosmologiche 140
grandiose su un numero estremamente esiguo di fatti assodati e su basi di osservazione del tutto insufficienti. Ma il loro incomparabile merito consiste nell'aver intrapreso una spiega zione di tutto il cosmo in termini puramente fisici e nell'averlo concepito come retto da leggi deducibili e valide in ogni caso. Cose diventate tanto banali che dimentichiamo di esserne debi tori a un piccolo numero di intelletti che segnarono una delle stagioni più prodigiose del pensiero umano. Ancora nel V secolo, il filosofo Anassagora concepiva una terra piatta (forse con la stessa forma di tamburo), anche se gli si attribuiscono concezioni cosmologiche nuove e audaci che gli costarono una condanna per empietà, sembra addirit tura a morte, alla quale dovette sottrarsi con la fuga: sostenere, come faceva lui, che il sole non ha nulla di divino ma è solo una massa infocata di grandezza misurabile non era permesso neppure nell'Atene di Pericle che immaginiamo volentieri tanto 'illuminata'14• È il lontano annuncio di un processo ben più famoso , oggetto inesauribile della nostra indignazione, e insegna che la scienza non è stata perseguitata solo dall'In quisizione (se questo è poi vero nel caso di Galileo) , ma qualche volta anche in un'epoca apparentemente così poco dogmatica come l'antichità classica. In pieno V secolo, e questo delude un po', restava fedele alla terra-tamburo il filosofo Leucippo, tante volte nominato d'un fiato con Democrito e insieme con lui ammiratissimo per aver intuito nientemeno che la struttura atomica della materia; perlomeno il nome di atomo ('indivisibile' , peccato che non sia vero) risale a loro15• Piatta è certamente anche la terra di Erodoto, morto forse intorno al 430, se il grande viaggiatore riferisce che il sole sor gerebbe vicinissimo all'estremo orientale delle terre emerse, all'India, causando mattinate insopportabilmente torride nello sfortunato paese16• L'immagine della terra piatta portava la conseguenza, per chi appena ci rifletteva, di un variare della distanza del sole dai diversi paesi nei diversi momenti della giornata, e ne discendevano le molte speculazioni, pittoresche 141
quanto fallaci, che è facile immaginare17• Nel caso di Erodoto, varie sue discussioni di fenomeni naturali si conciliano solo con una terra piatta. Tornando a Platone, la sua testimonianza è di importanza capitale, ma diversa da tutte le altre, e ha un carattere un po' speciale (quasi tutto ciò che si trova in Platone è un po' spe ciale e bisogna discuterlo con grande cura, applicando il metro appropriato)18• Nel Pedone, come sappiamo, non si discute di cosmologia, ma si racconta la morte di Socrate e si afferma l'immortalità dell'anima. In questo contesto, di forma della terra si parla solo per incidens nel quadro di un 'mito', uno di quei personalissimi miti platonici dei quali abbiamo dovuto già dire qualche cosa a proposito dell'Atlantide. Anche stavolta il mito è una costruzione molto vasta, opera della stupefacente fantasia che fa di Platone uno dei grandi visionari di tutti i tempi. Dovrebbe descrivere nientemeno che la struttura di una parte considerevole dell'universo e il destino delle anime, buone o cattive, nell'oltretomba. Siamo qui nella linea di una tradizione che era cominciata con l'Odissea, sarà ripresa ancora da Platone nel mito di Er della Repubblica, con tinuerà con Virgilio e toccherà il suo più alto vertice con Dante, diciassette secoli più tardi. Alla domanda di uno dei discepoli partecipanti al dialogo, che afferma di «averne sentite molte» sulla forma della terra, ma evidentemente contrastanti, Socrate risponde esponendo la teoria che lo ha convinto, o piuttosto la visione suggeritagli da una saggezza che a chi legge sembra più frutto di ispirazione mistica che di riflessione scientifica. L'esordio sembra contenere una valida intuizione, anzi un sorprendente precorrimento di concezioni moderne. La terra, dice Socrate, non ha bisogno né di aria né di altro che la sostenga per non farla sprofondare. Essa sta nel mezzo del cielo (intendi la volta stellata, concepita come una sfera) , è peripherés, rotonda, e si sostiene immobile grazie all ' isorrhopia, l'equivalenza degli impulsi. Quest'ultimo termine, spiegato chiaramente subito dopo, esprime assai bene il concetto di un equilibrio tra le forze che potrebbero muovere la terra, in 142
sostanza la gravità: essendo la spinta uguale da ogni parte, la terra non ha motivo di andare giù piuttosto che su e riposa immobile nel centro (anzi, un giù e un su assoluti non esi stono) . È la concezione, traducibile in termini di scienza moderna, che ritroveremo in Aristotele e che Dante esprimerà con la sua solita stringatezza definendo il centro della terra come il luogo «al qual si traggon d'ogni parte i pesi»19• E non c'è dubbio che questa simmetria raggiata può concretarsi solo nella figura geometrica della sfera, concezione della quale Pla tone diventa testimone, pur senza molta intenzione2°. Segue la descrizione visionaria e immaginosa, di tono ben poco scientifico. La terra di Platone sembra essere molto grande, probabilmente molto più grande del vero, se doves simo tradurre in presumibili termini numerici quel che si legge qui. La sua superficie sferica è cosparsa di 'avvallamenti', dei quali il nostro, la nostra ecumene, è solo uno fra i tanti. Va dal fiume Fasi in Colchide, dall'estremità orientale del mondo conosciuto, alle Colonne d'Eracle, l'estremità occidentale, e suo centro è il nostro mare, il Mediterraneo, attorno al quale noi stiamo «come formiche o rane attorno a uno stagno». In questi avvallamenti si raccolgono infatti acqua e aria, e tutto in essi è logoro e corroso, mentre al di sol?ra c'è il vero cielo con la vera luce, limpido e incorruttibile. E una parabola che porta al cuore della filosofia platonica, al genere di pensieri che in innumerevoli variazioni lasceranno il loro segno su tutta la futura spiritualità occidentale: la nostra condizione è quella di chi sta al di sotto di una realtà superiore, e questa vera realtà è percepita da noi in maniera imperfetta21• A Platone, come è evidente a chi lo legge nella chiave giusta, importa poco della scientificità di tutto questo. Gli interessa la parabola, perciò attinge dove gli torna meglio il materiale utile a costruirla, magari per contraddirsi la prossima volta. Da come è introdotta la conversazione si deduce che la teoria della terra sferica non era a quel tempo del tutto nuova, ma nep pure accettata senza contrasti: Socrate accenna al dilemma fra terra piatta o sferica, davanti al quale egli si era trovato, cer143
cando una teoria cosmologica da seguire fra quelle che tene vano il campo nella scienza dell'epoca22• La teoria prescelta non viene poi discussa, ma usata in maniera totalmente libera e quasi scanzonata. A Socrate, alla sfuggente figura che nei dia loghi è portavoce di Platone, interessa moltissimo l'uomo, il suo destino e quella che sarebbe la 'vera' realtà; ben poco invece la scienza della natura, la 'fisiologia', come si diceva allora. Tutto è all'esclusivo servizio del pensiero che domina l'autore e della necessità di render!o intelligibile. Sono pagine di un carattere unico, che bisogna educarsi a intendere attra verso una familiarità non superficiale e che fanno misurare ancora una volta l'ingenuità di chi pretende di leggere il mito di Atlantide come riflesso, sia pur remoto quanto si voglia, di una realtà storica e geografica23• Ma un riflesso di realtà resta, perché quando si tratta di fatti intellettuali anche uno specchio deformante può essere rivelatore: realtà è che nei primi decenni del IV secolo a.C. la sfericità della terra era ormai cosa ammessa da alcuni di questi lontani predecessori della nostra scienza; pur tra annebbia menti e parziali eclissi, essa non sarebbe più sparita dall' oriz zonte intellettuale dell'Occidente. È una conquista grandiosa, ma potrebbe anche apparire sorprendente il fatto che ci sia voluto tanto per intuire una cosa che col senno di poi sembra suggerita da molti indizi. Anche più sorprendente è che solo una piccola parte dell'u manità ci sia arrivata per insegnarla poi al resto; bisogna con cludere che fu psicologicamente difficile attribuire l'instabile rotondità anziché la tranquillizzante saldezza dell'orizzontale, cioè del piatto, a quella terra che appariva come la ferma base di ogni cosa umana o naturale. Vi ostavano evidentemente dei sentimenti esistenziali dalle radici molto profonde, che l'intel letto fatica ad estirpare con le sue astrazioni e le sue deduzioni mediate. Oggi anche una passeggiata sul lungomare in una bella gior nata senza foschia sembra suggerire inevitabilmente che quella grande distesa è una superficie convessa: un mare piatto sfu144
merebbe indistintamente nella lontananza, anche con l'aria più limpida; oppure, in caso di estrema trasparenza dell'aria ed estrema acutezza visiva, la sponda opposta sarebbe visibile anche da grandissima distanza, la Sardegna da Ostia o la Dal mazia da Ancona. li mare non sarebbe limitato da un oriz zonte come quello che effettivamente vediamo e che in con dizioni favorevoli si staglia sullo sfondo del cielo con tutta la nitidezza possibile; né, con mare agitato in un limpido giorno di tramontana, le onde potrebbero disegnare su quello sfondo le loro creste ben osservabili anche a occhio nudo. Anzi, un semplice ragionamento geometrico mostra che non ci sarebbe affatto uno 'sfondo del cielo' (retrostante ! ) e l'orizzonte, lo horizon, il 'divisore', meriterebbe poco questo nome, pur molto antico, quando fosse divisore di cielo e mare. È vero che con vessità non significa ancora sfera, ma l'esperienza dell'alto mare e del suo orizzonte uguale da ogni parte, sempre 'finito', doveva suggerire almeno l'idea della calotta sferica e non del disco piatto come si è detto troppe volte. Siccome poi la calotta resta iden tica dovunque si vada, anche alle più grandi distanze, non sembra di pretendere troppo immaginando che almeno qualche cervello più coraggioso, uno sui tanti, potesse concepire l'idea della sfera prima di quanto non sia avvenuto. Ma è facile fare i bravi col senno di poi, da 'nani sulle spalle di giganti' . . . Platone muore intorno al 347 e Aristotele nel 322, solo un quarto di secolo più tardi, ma il suo discorso sulla sfericità della terra è del tutto diverso, di tutt'altro genere. Se Platone l'aveva solo affermata, neppure molto direttamente, Aristotele è il primo autore conosciuto che si propone di dimostrarla (senza rivendicare la paternità della concezione) , confutando l'opinione di chi ancora voleva la terra piatta e si domandava come essa si sostenesse, sull'aria, sull'acqua, o in altro modo. La sua dimostrazione ha ancora qualcosa di aprioristico e deduttivo, sul genere dei ragionamenti che un giorno ostaco leranno la nascita della scienza moderna e che saranno tolti di mezzo solo dalla polemica di Galileo. In Aristotele è ancora viva la concezione, più mistica che scientifica, di un primato 145
'qualitativo' della sfera sulle altre figure geometriche, e quindi della convenienza di attribuire questa forma alle grandi e auguste realtà dell'universo. Anche l'Essere di Parmenide era 'sferico', qualunque cosa ciò dovesse significare, come il dio di Senofane ! 24. In altri punti però, con curiosa convivenza di vecchio e nuovo, il ragionamento è perfettamente valido. Essendosi nel frattempo capita la vera causa delle eclissi, Ari stotele può trarre un argomento per la sfericità della terra dalla forma sempre circolare dell'ombra che essa proietta sulla luna. Ripetuto volentieri fino al nostro tempo, l'argomento non è in realtà così probante come sembra a prima vista, perché con un po' di fantasia ammette soluzioni diverse da quella giusta. Più elegante e fecondo di perfezionamenti e progressi è invece l' ar gomento tratto dagli aspetti del cielo stellato. Se la visibilità delle costellazioni cambia sensibilmente quando ci spostiamo sulla superficie della terra, argomenta Aristotele, e cambia proprio nel senso che ci si attende dall'ipotesi della sfera, vuol dire che questa superficie è davvero quella di una sfera, e neppure di raggio troppo smisurato, perché il cambiamento è rapido, molto notevole già quando si va da Cipro all'Egitto e compaiono sopra l'orizzonte meridionale stelle dapprima invisibili25 (stranamente, prestava poi fede a una stima molto esagerata della circonfe renza terrestre, come vedremo presto) . La superficie del mare suggerirà più tardi l'altra popolaris sima prova, anch'essa sopravvissuta fino ai nostri libri di scuola: la nave che si avvicina alla terra dal largo e l'osserva tore che dalla riva ne vede sorgere sopra l'orizzonte prima l'al beratura poi lo scafo; o viceversa, chi sta sulla nave avvista prima la cima di un colle o di una torre e solo in un secondo tempo la base26• li passo avanti era grandioso, tale che per una volta possiamo spendere l'abusato aggettivo 'epocale'. Per la prima volta nella storia umana, cielo e terra erano ora due realtà inquadrate in una stessa rete di rapporti geometrici e matematici. Quando la sfera celeste, con poli, equatore, tropici e circoli massimi sarà proiettata sulla superficie terrestre, nascerà la vera teoria 146
del globo e sarà aperta la strada alla geografia scientifica. Anche se i Greci non ne trassero le possibili applicazioni pra tiche altro che in piccolissima misura, per l'estrema scarsezza di rilevazioni attendibili e la mancanza di un'adeguata orga nizzazione della scienza, la loro teoria arrivò a un alto grado di maturità. Nel II secolo d.C. Tolomeo formulerà il problema della proiezione cartografica, della raffigurazione in piano di una superficie sferica, suggerendone due diverse soluzioni. La riscoperta nel XV secolo della sua Geografia darà l'impulso decisivo alla cartografia moderna, anche se la sua immagine dell'ecumene aveva aspetti molto fallaci e anche se la scoperta dell'America la fece ben presto apparire superata. Una conquista definitiva, dunque, destinata a diventare sta bile patrimonio di una cultura? Non proprio. Le conquiste della scienza antica appaiono tutte più o meno segnate da un carattere di precarietà, che è difficile immaginare in un tempo come il nostro, abituato da secoli a vedere ogni nuovo pen siero e ogni nuova scoperta messi subito al sicuro, introdotti nel circolo dell'insegnamento internazionale e consacrati in pubblicazioni a stampa sparse nel mondo in migliaia di esem plari. Questa condizione non c'era nell'Antichità; a parte la stampa, anche nei migliori momenti della civiltà greca e romana mancò una vera organizzazione internazionale della scienza. Era molto se Eratostene e Archimede si scambiavano qualche lettera fra Alessandria e la Sicilia. Stando così le cose, i passi indietro non erano impossibili, anche (e questo sor prende) in epoche cui non si può certo attribuire un regresso nella cultura materiale né nella diffusione dell'istruzione. In altre parole, non è affatto sicuro che un autore del quarto, o anche del primo secolo dopo Cristo, disponesse con sicurezza del sapere conquistato luminosamente dai Greci del terzo avanti, il secolo che vide l'apogeo della scienza antica27• Proprio nell'epoca ellenistica che segnò questo apogeo erano sorte le nuove filosofie con interessi assai prevalente mente morali e poca inclinazione alla speculazione fisica. Piut tosto tendevano ad allearsi qualche volta con l'atteggiamento 147
popolare più comune nell'Antichità: uno scett1c1smo alla buona verso le teorie delle scienze naturali ('elucubrazioni di filosofi, sempre discordi fra loro'). Qualcosa di ben diverso da quel che accade nel nostro tempo, in cui il termine vago di 'scienziato' basta a ispirare fiducia cieca e rispetto quasi super stizioso. Se Cicerone, nel famoso frammento della Repubblica noto come Somnium Scipionis, si mostra diligente scolaro della scienza greca e conosce anche la teoria delle zone climatiche come conseguenza della terra sferica, già col suo contempo raneo Lucrezio c'è da sospettare un grave passo indietro. Il celebratissimo poeta-scienziato era notoriamente fervido adepto della filosofia di Epicuro, seguace a sua volta degli ato misti Leucippo e Democrito che (forse) avevano avuto un'in tuizione profonda circa la struttura della materia, ma che in fatto di astronomia erano rimasti molto indietro, alla terra piatta. Nel suo solito tono arcigno e pesantemente sarcastico, Lucrezio mette in guardia Lucio Memmio, il dedicatario del suo De rerum natura e suo ideale interlocutore, dal credere alle fantasie sulla 'gravitazione universale', che per Aristotele era il primo fondamento della sfericità della terra, e alle frot tole sugli antipodi, i presunti uomini a testa in giù. E altrove espone una teoria sulla terra composta di materia che diventa più tenue e leggera 'nella parte di sotto' , teoria ancor più radi calmente inconciliabile con una forma sferica28• Questo perché il suo venerato maestro Epicuro non poteva rinunciare al con cetto di alto e basso in assoluto, uno dei fondamenti della sua cervellotica fisica. Nemmeno poteva ammettere un centro del mondo, dato che questo per lui doveva essere infinito. Poco più tardi, il Greco di Sicilia Diodoro scrive una cosa che lascia sorpresi e un po' insospettiti, quando riconosce una certa plausibilità alla terra come concepita dai Babilonesi, con cava o a forma di barca (skaphoeidés): «Ne danno molte con vincenti dimostrazioni» ( ! )29• Altre conferme di questo regresso non tardano ad arrivare, e una delle più notevoli la dà nientemeno che Cornelio Tacito, 148
grandissimo scrittore di cose storiche, ma purtroppo anche esempio della refrattarietà romana a ogni scienza che non avesse un'applicazione pratica immediata, mappe catastali o acquedotti: scolari dei Greci in tante cose, nella scienza pura i Romani furono scolari testoni. Scrivendo il suo famoso opuscolo in gloria del suocero Agricola, che si era illustrato come valente condottiero nella lontana Britannia, Tacito dà alcune notizie di carattere etnografico delle quali dobbiamo fare tesoro; quando però passa a parlare delle brevissime notti a quelle alte latitudini, la sua spiegazione astronomica ha un sapore arcaico che stu pisce, come se sulla luminosa Roma all'acme dell'impero scen desse un'inaspettata ombra di primitività degna di epoche ben diverse. In Britannia, spiega Tacito, la lunghezza del giorno è differente che da noi; nelle parti estreme del paese, cioè nelle più settentrionali, a malapena si può dire che faccia notte. Citiamo secondo tre diversi traduttori: «Dicono persino che, se le nubi non fanno velo, si veda durante la notte il fulgore del sole; e che questo passi lungo l'orizzonte, senza tramon tare né sorgere. Certo, nelle estreme pianure della terra, le tenebre non salgono alte, tanto bassa vi è l'ombra; e la notte non raggiunge la regione degli astri». Oppure: «Naturalmente le parti estreme e pianeggianti di queste terre, proiettando un'ombra troppo bassa, non provocano il levarsi delle tenebre, e la notte (cioè l'ombra proiettata dalla terra) cade inferior mente al cielo e alle stelle (senza quindi raggiungerli)». Oppure ancora: «Naturalmente, avviene che le parti estreme di quelle terre pianeggianti, proiettando un'ombra troppo bassa, non provocano il levarsi delle tenebre, in modo che la notte cade fra il cielo e le stelle»30• È lecito chiedersi se uno che si esprime in termini così lon tani da quelli che useremmo noi, così intraducibili nel lin guaggio della vera scienza, uno che non sente il bisogno di specificare che tutto ciò potrebbe eventualmente riferirsi solo al periodo intorno al solstizio d'estate (cosa che gli scienziati greci sapevano benissimo da secoli), se uno così, msomma, 149
abbia le idee chiare sulla sfericità della terra e non sia invece più vicino alle cosmologie mitiche di qualche cultura esotica che a Eratostene e Tolomeo, quell'Eratostene che più di tre secoli prima aveva misurato il meridiano terrestre andando molto vicino alla misura giusta, e quel Tolomeo che mezzo secolo più tardi avrebbe definito le latitudini sul globo pro prio secondo la durata del giorno più lungo, con rigorosa teoria e assoluta esattezza matematica. Una generazione prima, Seneca aveva ragionato con sicu rezza sulle conseguenze della sfericità della terra ma non aveva dato per scontato in partenza che essa fosse nota a tutti e da tutti accettata. Nel secondo libro delle sue Natura/es quae stiones aveva esordito proprio con la questione se la terra fosse piatta o «a forma di palla» e aveva citato anche alternative di sapore arcaico. E anche in uno scritto pieno di straordinarie intuizioni, il dialogo di Plutarco sulla luna, che anticipa più di una conquista della scienza moderna, compare un interlocu tore che respinge la dottrina della terra sferica coi soliti argo menti del buon senso primitivo: come si possono immaginare gli antipodi attaccati a un mondo capovolto come insetti o tarantole? e come può dirsi sferica la terra con la sua superficie tanto ineguale, con rilievi e avvallamenti? (Giuseppe Gioac chino Belli farà ripetere il vecchio argomento scettico a uno dei suoi incolti personaggi: come può la terra essere una palla se «pe tutto o se salisce o se va a fonno:/de qui a Civitavec chia solamente/ce sò sette salite e sette scente»?)31• Tutto questo dimostra ancora una volta il carattere della scienza antica o più esattamente delle cognizioni scientifiche antiche: la loro insicurezza. Ciò che per gli uni era possesso acquisito, per gli altri, magari contemporanei o quasi, tornava in forse o era capito solo a metà32. Nel caso della sfericità della terra, si aggiunge una circostanza apparentemente secondaria ma forse non priva di importanza: il fatto che il classico map pamondo-globo, tanto familiare a tutti gli Europei dal Rinasci mento in poi, fosse nell'Antichità un oggetto praticamente sco nosciuto. Strabone ne parla al condizionale come di una cosa 150
poco pratica che per avere qualche serietà scientifica dovrebbe essere realizzata in dimensioni enormi. È quindi ragionevol mente sicuro che quasi nessuno in tutta l'Antichità ebbe occa sione di vedere un globo, e che l'azione di suggestione e richiamo che esso avrebbe potuto esercitare mancò del tutto33. Tacito era un esempio cospicuo, m a ci sarebbe da citare allo stesso titolo altri nomi illustri e meno illustri. Un divul gatore di astronomia come Giulio Igino sembra parlare in certi momenti di globo terracqueo, ma in altri sembra dimenticar sene per ricadere in concezioni di sapore arcaico, come l'idea della terra 'inclinata' da nord a sud (nota anche a Virgilio) e perfino l'immagine dell'Oceano che 'circonda' la sfera (?)34• Cita come se fosse degna di considerazione, anche se finisce per respingerla, l'ipotesi che il sole si nasconda di notte dietro qualche gigantesca montagna. Ma molti sono i luoghi che suscitano un vago disagio; anche se la concezione della terra sferica non è apertamente contraddetta, il lettore moderno avverte una sottile disarmonia, una stonatura che egli non prova quando legge gli autori greci che in proposito avevano idee più chiare35• Secoli più tardi, fra VI e VII, il santo cri stiano Isidoro di Siviglia scrive uno smilzo libriccino, niente meno, De mundo, in cui attinge largamente a Igino ma scarta proprio le parti che potrebbero implicare la sfericità della terra, anche se con poca sicurezza, come si è detto36• Convinto assertore della terra sferica sarà invece, all'inizio dell'VIII secolo, un altro eminente autore cristiano, il venerabile Beda, che attinge agli antichi, come tutti gli autori medievali che trat tano di geografia, ma si esprime con linguaggio personale e chiaro37• Per lunghi secoli sono molti gli autori che sulla forma della terra si pronunciano in una maniera insicura che nasce evi dentemente da idee poco precise in proposito. C'è da una parte la malaugurata ambiguità dei più usuali aggettivi greci e latini che come il nostro (ro)tondo possono significare una rotondità a tre ma anche a due dimensioni, indicare qualcosa di 'sferico' o soltanto 'circolare', un globo o un disco - ma ciò 15 1
accade probabilmente in ogni linguaggio corrente e non tec nico, in ogni testo non redatto secondo una nomendatura pre cisamente convenuta38• Bisogna poi guardarsi dall'inconscia tendenza a leggere alla luce delle nostre conoscenze ogni scritto non concepito in termini scientifici rigorosi, attribuendogli le concezioni che noi sappiamo più conformi alla realtà finché non le troviamo chiaramente contraddette, quasi secondo il principio che sarà validissimo in tribunale, ma certo non nel l'interpretazione e nella critica: 'in dubio pro reo'. Se si ricorda poi quella che abbiamo chiamato la 'precarietà' delle conquiste scientifiche antiche, c'è motivo di essere pessimisti sulla sal dezza e permanenza di una concezione pur già raggiunta così splendidamente dai Greci: la sfericità della terra con tutte le sue conseguenze, in terra e in cielo39• Fra III e IV secolo, l'apologeta cristiano Lattanzio poteva così lanciarsi in una polemica di violenza pari alla povertà di argomenti contro la sfericità della terra, non tanto perché dot trina empia in sé, quanto perché apriva la strada all'ipotesi degli antipodi che fu a lungo una spina nel fianco per il pen siero cristiano. Come si poteva conciliare l'unità del genere umano, la discendenza dall'unica coppia di progenitori, con l'esistenza di popoli sull'altra faccia del globo, in terre che distanze e ostacoli insuperabili separano dalle nostre? La que stione occupò anche S. Agostino e si mantenne viva per tutto il Medioevo, ma va tenuta ben distinta dall'altra (anche se qualche autore sembra fare un po' di confusione): negando gli Antipodi non si respingeva necessariamente la sfericità della terra, che fu tranquillamente ammessa da autori di ineccepi bile ortodossia40• Il caso di Lattanzio con la sua negazione teo logica rimase quasi isolato: «Il Medioevo cristiano, come si ricava dalla gran parte dei suoi maggiori esponenti, ha ritenuto la terra sferica», ricapitolava recentemente un illustre geografo italiano , storico della sua scienza41• «Salvo eccezioni come Cosma», prosegue poi, alludendo al massimo monumento di una geografia dimentica delle sue grandi conquiste, imbarba rita e tornata alle sue origini primitive e mitiche, la Topografia 152
cristiana del monaco viaggiatore Cosma Indicopleuste che scri veva in greco nel VI secolo d.C. Fra molte maledizioni e minacce di dannazione eterna a chi non è d'accordo con lui e si ostina a professare la 'pagana' dottrina della sfericità della terra, Cosma costruisce il suo sistema interpretando alla let tera un passo della Bibbia (oggi si direbbe da fondamentalista o integralista . . . ). Ne nasce un mondo a forma di tabernacolo o piuttosto di baule, con la terra piatta e il sole che si nasconde di notte dietro un'altissima montagna sita nel nord dell'ecu mene. Con questo egli portava all'estremo l'indifferenza o l'o stilità alla scienza già manifestata da certi settori della cultura cristiana42 • L'altra faccia della medaglia è rappresentata infatti da quei Padri della Chiesa che fanno a gara nell'esprimere la poca considerazione in cui tengono le vane curiosità della scienza pagana, intenta a indagare cose che non servono affatto alla salvezza dell'anima e su cui gli scienziati neppure riusci vano a mettersi d'accordo, in grande contrasto con la salda certezza delle verità cristiane, non intaccate dagli eretici subito riconosciuti e messi al bando. Giovanni Crisostomo, in un'o melia tutta pervasa di entusiasmo estatico per la bellezza della natura e per l'ordine provvidenziale che vi regna, parla di terra fondata sulle acque e di firmamento che sostiene altre acque, come nella più primitiva cosmologia greca o biblica43. E spi golando nella patrologia si farebbe una discreta raccolta di espressioni di scetticismo, diffidenza o fastidio per la dottrina più avanzata. Guardata con indifferenza, mal capita o mal vista, la dot trina della sfericità della terra restava peraltro ben viva44• Vero è che essa sembra ignorata o contraddetta da chi disegnò le grandi e famose mappae mundi medievali, quella di Fra Mauro come quelle di Ebstorf, di Hereford e molte altre, dove tutto suggerisce una terra in forma di disco piatto; ma ci sono anche molte illustrazioni di codici che presuppongono una sfera. Attorno al 400 operò lo scrittore africano Marziano Capella, autore di una bizzarra allegoria dal più bizzarro titolo: Le nozze di Mercurio con la Filologia, che fu letta anche nei secoli più 153
'bui' e dove chi voleva poteva imparare che la terra era sfe rica45 . Popolare nel Medioevo era anche il commento di Macrobio al cosiddetto Somnium Scipionis, unico frammento superstite (allora) del De republica di Cicerone, dove si espone con grande efficacia di immagini la stessa concezione. Nel Tre cento di Dante essa era perfettamente conosciuta e al tempo di Colombo non c'era in Europa alcuno studioso serio che ne dubitasse; attribuire allo scopritor� dell'America una parte importante in tutta questa storia è un grave errore che ci si stupisce di sentir ripetere tanto spesso46. Ci si domanderà a questo punto: il più grande viaggio di scoperta di tutti i tempi, quello che volle cercare l'oriente pas sando per l'occidente, non ha dunque nessun posto nella storia della dottrina della terra sferica? Si deve rispondere: un posto di rilievo lo ha semmai la circumnavigazione di Magellano che ne diede la prova più immediata e materiale di ogni altra; il viaggio di Colombo non ne ha quasi nessuno, mentre esso rap presenta una pagina importante nella storia della misura del globo terrestre, che di tutta questa vicenda è un aspetto secon dario ma affascinante. La prima stima tramandata delle dimensioni della terra (non sappiamo sulla fede di quale autorità) si legge in Aristo tele, come la prima dimostrazione della sua sfericità. Il valore da lui attribuito alla circonferenza terrestre è molto esagerato, anzi spropositato: 400.000 stadi, pari a cimi 70.000 chilometri, una cifra che si avvicina al doppio del vero e che contrasta significativamente con le stime di distanze astronomiche ten tate dagli antichi, rimaste sempre non solo molto al di sotto della realtà, ma molto inferiori al vero ordine di grandezza47. Persuadersi di quanto sia piccola la terra e di quanto sia grande l'universo è stato sempre difficile: solo in tempi relativamente recenti si è abbandonata l'ultima illusione, che almeno la nostra galassia fosse particolarmente grande fra le altre ! Ari stotele, dobbiamo però riconoscerglielo, si riscattò con un'in tuizione straordinariamente moderna quando opinò che certe 154
stelle fossero molto più grandi della terra, mentre la luna era più piccola48• Un secolo dopo Aristotele venne Archimede che ridusse la stima da 400 a 300.000 stadi, poi Eratostene di Cirene che gli antichi soprannominarono un po' beffardamente 'Beta', perché eterno secondo in tutti i numerosi campi della scienza e della letteratura che coltivò49• I posteri lo hanno invece celebrato come autore di una delle più audaci imprese dell'intelletto umano: la prima vera misurazione della terra, fondata su un metodo di impeccabile scientificità. Nell'Egitto dove operava, Eratostene scelse due città site sullo stesso meridiano di cui si conosceva la distanza sul terreno, Alessandria e Syene (oggi Asswan) , e ne misurò la distanza in gradi di longitudine con frontando nelle due località l'altezza del sole nello stesso istante. Arrivò così al valore di 250.000 stadi per la circonferenza ter restre, molto più ragionevole dei 400.000 di Aristotele e accla mato nell'età moderna per la sua precisione sbalorditiva che si awicina molto ai 40.000 chilometri della realtà50• Tributata la debita ammirazione alla genialità di 'Beta', bisogna aggiungere, per amor di verità, che il grado di esat tezza del suo risultato non è ben valutabile. La lacuna più grave è che non si conosce il preciso valore dello stadio in questo particolare caso, perché le indicazioni antiche sono incerte e contraddittorie. Probabilmente lo stadio non era una misura intesa come il nostro chilometro, ma piuttosto una misura con sapevolmente imprecisa, si potrebbe dire esagerando un po', un 'accenno' di misura che poteva variare fra i 177 e i 1 92 metri se non di più. Molte città e stati si diedero ognuno il proprio stadio senza badare molto in che rapporto stesse con gli altri: né storici né, peggio, geografi antichi specificano mai di quale stadio si servano nelle loro indicazioni. Questo carat tere era condizionato dalla situazione tecnologica del mondo antico, che nelle misure a grande scala doveva accontentarsi di un grado di approssimazione molto basso. E in fondo questo accontentarsi era saggio perché l'alternativa sarebbe stata qual cosa di peggio dell'imprecisione, cioè una precisione illusoria. 155
Eratostene doveva sapere che tutte le sue misure, di gradi in cielo ma soprattutto di stadi in terra, erano esposte a un mar gine di errore e che l'errore si sarebbe moltiplicato nel risul tato finale. Lo dice già il comparire nei suoi dati di cifre che rappresentano degli evidenti arrotondamenti operati su un materiale incerto. La cifra alternativa di 252.000 stadi che com pare in una fonte potrebbe perfino essere stata suggerita dal desiderio di avere un numero divisibile per 3 60 (o per 60, in ogni caso compatibile senza resti col sistema sessagesimale) , così che un grado corrispondesse esattamente a 700 stadi: si sarebbe addirittura sacrificata alla comodità dei conti una pre cisione della quale si aveva evidentemente ben poca stima51 . E bisogna notare ancora che Eratostene fu fortunato quando commise due errori che si compensavano l'un l'altro quasi esattamente, uno nella misura dell'arco di meridiano fra le due città prese per base, l'altro nel valutare la loro distanza. Se al contrario si fossero sommati, il merito scientifico sarebbe rimasto lo stesso ma gli applausi sarebbero stati più tiepidi52• Per capire la rilevanza che queste misurazioni e stime hanno nella lunga strada che portò alla scoperta dell'America, occorre tener presente un'altra serie di fatti. Nell'Antichità ci sono due storie che corrono parallele: una è quella della misurazione del globo terrestre, che per gli antichi significava circonferenza e nient' altro, dato che dello schiacciamento polare non si aveva idea; l'altra è la storia della misurazione dell'ecumene, delle terre abitate e conosciute, nei due assi dimensionali. Dai due termini greci relativi, pldtos ('larghezza') e mékos ('lunghezza') , derivano attraverso i corrispondenti latini i nostri latitudine e longitudine, latinismi che significano la stessa cosa: per lar ghezza delle terre si intese sempre la loro estensione da nord a sud e per lunghezza quella da ovest a est, ritenuta maggiore. Il primo di questi due compiti, la misurazione del globo terrestre, resta senz' altro comprensibile e in fondo ancora attuale, dato che essa si perfeziona tuttora con metodi sempre più raffinati. Il secondo genere di misurazioni, dell'ecumene, 156
appare invece meno rilevante perché se ne è perduto il con cetto antico. Sulla superficie terrestre conosciamo oggi una pluralità di continenti, tutti esplorati e popolati, senza che il nostro abbia fisicamente una posizione di particolare privi legio. Quindi, conoscere le misure esatte dell'Eurasia, sapere quanti chilometri corrano dal Capo San Vincenzo al Mare del Giappone o allo Stretto di Bering, è qualcosa che non attrae molto la nostra curiosità, mentre per gli antichi la cosa era diversa. ll Vecchio Mondo, come si sarebbe detto un giorno, appariva allora come un'isola più o meno conosciuta, circon data su ogni lato dal mare dell'ignoto. Su altri possibili mondi al di là dell'Oceano si potevano fare solo ipotesi; non si sapeva se esistessero e tanto meno se fossero abitati. La condizione intellettuale era paragonabile a quella di chi più tardi farà ipo tesi sugli abitanti di altri pianeti, e la situazione non cambiò molto per tutto il Medioevo. Francesco Petrarca la espresse mirabilmente nel celebre verso sul sole che tramontando al nostro orizzonte «vola/a gente che di là forse l'aspetta>y53 . L'ecumene conosciuta era quindi 'il mondo', in certo senso tutto il mondo, e misurarla non era meno importante che misu rare le dimensioni del globo terrestre; la tradizione conosce infatti molte cifre relative alle dimensioni delle terre emerse. Fra valutare le dimensioni in latitudine di un paese o di tutta l'ecumene e valutare quelle in longitudine c'è però una differenza fondamentale. Rilevare la latitudine è notoriamente un'impresa abbastanza facile, se si possiede qualche concetto elementare di geometria e si dispone di un minimo di stru mentazione. La latitudine di un luogo è pari all'altezza del polo celeste sull'orizzonte, owero (per indicare solo un altro fra i tanti modi di misurarla) è pari all'angolo complementare del l' altezza del sole a mezzogiorno il giorno dell'equinozio - e se si calcolano delle semplici tabelle non occorre nemmeno aspet tare il giorno dell'equinozio. Trovare la longitudine è immen samente più difficile. Se ci spostiamo in latitudine, cambia subito l'aspetto visibile del cielo; se ci spostiamo in longitu dine, non cambia invece nulla di materialmente percepibile ma 157
solo il fuso orario, ossia l'ora rispetto al luogo che abbiamo lasciato. Per rilevare i mutamenti nel cielo conseguenti allo spostamento in latitudine bastavano e avanzavano gli strumenti disponibili in un mondo che con Ipparco aveva scoperto la precessione degli equinozi, misurando nelle coordinate di alcune stelle mutamenti secolari dell'ordine di un grado, mentre per rilevare la differenza nell'ora occorre un confronto molto più difficile. O si trova un sistema per comunicare in tempo reale e confrontare così due rilevamenti fatti nello stesso istante in luoghi lontani, oppure si dispone del modo di tra sportare su lunghe distanze l'ora esatta di un luogo determi nato, leggi orologi meccanici perfezionati. La vera soluzione del problema delle longitudini, dopo innumerevoli tentativi per altre vie, si ebbe infatti solo nel XVIII secolo con la rea lizzazione del cronometro da marina; poi sarebbero venuti il telegrafo e la radio, per non dire di quel che si fa oggi coi satelliti artificiali e con gli apparecchi GPS, acquistabili ormai da tutti a vile prezzo54. Com'era fatale, l'errore di longitudine in cartografia rimase sempre molto più forte dell'errore di latitudine, dall'Antichità fino ai tempi moderni. In particolare fu sopravvalutata in misura gravissima l'estensione in longitudine del Mediterraneo: Tolomeo la fa pari a 62° contro i 42° della realtà ! Anche questo, come tanti errori antichi, fu corretto solo progressivamente dalla geografia moderna e solo molto tardi ne sparirono le ultime tracce dalle nostre carte geografiche. Così accadde per tutta l'ecumene: Tolomeo, come prima di lui Posidonio, attribuiva alla sua estensione in longitudine non meno di 1 80 gradi, mentre in realtà ce ne sono 130 dal Capo S. Vincenzo in Portogallo, il Promontorio Sacro degli antichi, fino a Pechino, e 150 fino a Tokio. Prima di Tolomeo c'era stato Marino di Tiro; la sua opera è perduta ma sappiamo che la sua sopravvalutazione era ancora più grave, arrivando a 225 o 228 gradi55• Molto più tardi sarebbe arrivato Marco Polo, altra autorità tenuta in gran conto da Colombo, che aveva aggiunto sul fon158
damento di calcoli molto approssimativi 28 gradi per la Cina e 30 per il Giappone. n famoso globo fabbricato da Martin Behaim a Norimberga nello stesso anno della scoperta dell'A merica ( 1492) aggiunge ben 60 gradi di longitudine all'ecu mene di Tolomeo56• In questo modo, combinando questa esa gerazione con la misura tolemaica della circonferenza terre stre, inferiore al vero, si metteva Yokohama al posto di Cuba, ovvero la costa cinese alla distanza di Terranova ! Sappiamo che in tutto questo problema Colombo scelse sistematicamente la soluzione più favorevole alla sua tesi, alla tesi della fattibilità del suo viaggio, incoraggiato in questo anche da un personaggio sui cui rapporti col navigatore sap piamo malauguratamente troppo poco, il fiorentino Paolo Dal Pozzo Toscanelli57• Spirito più incline alla passionalità e al rnisticismo che alla scienza, egli traeva ulteriore conforto alla grande impresa da un gruppo di 'profezie' antiche che raccolse con grande cura in un apposito Libro de las pro/edas. Queste profezie, a parte quelle pescate nella Bibbia e altrove, erano in realtà considerazioni scientifiche di autori greci e latini sulle conseguenze pratiche della riconosciuta sfericità della terra, in particolare sulla possibilità di arrivare alle remote Indie navigando per ponente. n primo era stato addirittura Aristotele, che riteneva plausibile l'ipotesi secondo cui l'estremo occidente dell'ecumene, la penisola ibe rica, era assai vicino all'India, ad essa quasi 'connesso'58• L'au dace e ammirato paradosso di 'buscar el levante por el poniente' non era quindi affatto nuovo al tempo di Colombo né era stato concepito da lui, ma era quasi due volte millenario ! Cose molto simili avevano scritto Strabone, all'epoca di Augusto, e Seneca a quella di Nerone, sempre con straordi nario ottimismo sulla brevità e facilità del percorso59• Ancora · Seneca si era poi espresso da poeta in un famoso coro della sua tragedia Medea, vaticinando l'avvento di un 'nuovo Tifi' emulo del leggendario timoniere degli Argonauti, che in tempi ancora lontani avrebbe rivelato audacemente nuovi mondi al di là del mare60• 159
Nutrito di profezie e poesia, Colombo fu tendenzioso anche nella soluzione data all'altro problema ereditato dal l'Antichità. Una volta stabilita l'estensione in longitudine del l'ecumene, quindi una misura angolare, in gradi, c'era da tra durla in misura lineare espressa in unità di lunghezza. C'era da attribuire una misura in miglia al grado di meridiano, cosa equivalente ancora una volta a valutare la circonferenza della terra. Qui Colombo si affidò all'autorità dell' astronomo arabo Alfragano, del IX secolo, erede di una tradizione sulla cir conferenza terrestre che aveva dimenticato la valutazione buona di Eratostene e aveva preferito la cattiva di Tolomeo, molto inferiore al vero6 1 (non occorre ricordare che la geografia araba del Medioevo è figlia di quella greca) . Per fare breve una lunga storia, basti dire che Colombo arrivò a una valutazione del grado di meridiano in 45 miglia marine, dal suo punto di vista la più favorevole disponibile sul mercato, per così dire. Oggi il grado di latitudine corrisponde a 60 delle nostre miglia marine standardizzate, dato che il miglio si definisce come un minuto di meridiano. In conclusione, il viaggio dalle Canarie al Giappone o ciò che Colombo imma ginava al suo posto, che nella realtà sarebbe stato di oltre 10.000 miglia, si riduceva a 2 .400. Con questa mal riposta fiducia, «in sul fondamento di una semplice opinione speculativa» (per dirla col Pedro Gutiérrez di Leopardi)62, egli sarebbe andato incontro al disastro, se un caso provvidenziale non avesse collocato la sconosciuta Ame rica proprio là dove egli si aspettava di trovare l'Asia orientale. Così l'impresa che segna ufficialmente, e con buona ragione, l'inizio dell'età moderna, ha avuto come ideali numi tutelari degli autori antichi, nel giusto e nello sbagliato. È un segno del destino, del nostro destino, questo non poterei liberare dagli antichi nemmeno quando ci avventuriamo nel nuovo e nel nuo vissimo. E quando si dice 'nuovissimo' in questo contesto viene in mente il Mondo Nuovissimo, l'Australia. Anche su quest'ul tima fra le grandi scoperte geografiche cade l'ombra dell'Anti chità. L'Australia fu infatti battezzata così perché apparve come 160
la materializzazione dell'ipotizzata terra australis incognita che occupava tanto spazio sulle carte geografiche dell'età precedente e la cui immagine aveva le sue radici in concezioni molto remote della geografia antica, tante volte preoccupata di ipotizzare un'e cumene meridionale simmetrica alla nostra63 • Ma questa sarebbe davvero un'altra storia.
Note
1 Sui moderni negatori della sfericità della terra, per lo più in quanto adepti di un intransigente integralismo religioso, orienta M. GARDNER, Fads and Fallacies, ci t., pp. 16-27, che però è lungi dall'esaurire il soggetto. 2 I nomi dei pianeti scoperti nell'età moderna hanno proseguito la tra dizione 'mitologica', con Urano, Nettuno, Plutone, e satelliti. > Ne abbiamo sentite di grosse. C'è stato perfino chi è riuscito ad asse rire che gli inquisitori avevano costretto Galileo a riconoscere che la terra era piatta (storico). Questi casi estremi sono probabilmente un ultimo riflesso dell'immagine volgata di un Medioevo (e di una Controriforma) dove trionfa ogni possibile oscurantismo e fanatismo religioso, con inquisizione e caccia alle streghe. Vedi AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI, La s/ericità della terra nel medioevo, in AA.Vv. , Cristo/oro Colombo e l'apertura degli spazi. Mostra sto rico-cartografica, Roma 1992, vol. l, pp. 65-79, che documenta bene l'infon datezza di questo inestirpabile 'errore popolare'. 4 Inferno XXVI 127-129. 5 Paradiso XX134 sg.; Inferno XXXIV 1 18; ibid. 100 sgg. 6 Platone, Fedone 108 e-109 b; cfr. 1 10 b. 7 Le testimonianze relative nei Vorsokratiker di Diels-Kranz, 28 A 7, 23 , 3 1 (presso Diogene Laerzio). Fra quelli che hanno preso più sul serio la notizia teofrastea vanno citati Rodolfo Mondolfo, in ZELLERIMONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, parte l, vol. 2, Firenze 1938, p. 340 sg. (rimanda a un suo precedente lavoro del 1934) e WALTER BURKERT,
Weisheit und Wissenscha/t. Studien zu Pythagoras, Philolaos und Platon,
Niirnberg 1962, pp. 282 sgg. Entrambi pensano però a una dottrina con cepita su basi filosofiche e aprioristiche ('eccellenza' qualitativa della sfera, etc.) piuttosto che a una vera intuizione scientifica. Più scettico era HANS 161
METTE, Sphairopoiia. Untersuchungen zur Kosmologie des Krates von Pergamon, Miinchen 1936, p. XI n. 2, da vedere per l'ampia discussione su tutto il problema. Vedi anche ABEL REY, La jeunesse de la science grecque,
}OACHIM
Paris 1933, pp. 425-436 (critica delle fonti e considerazioni sul complesso intreccio di mito, filosofia e scienza). Da ultimo: THEODOR EBERT in Platon, Phazdon. Obersetzung und Kommentar, Gottingen 2002, pp. 445-454, che nega l'origine teofrastea della notizia in Diogene Laerzio e preferisce pen sare (come culla della nuova rivoluzionaria concezione) ad ambienti pitago rici della Magna Grecia, forse alla cerchia di Archita di Taranto. 8 Per Omero: Cratete di Mallo, presso Gemino, Isagoge XVI 27, che si indigna dell'anacronismo e descrive come meglio non si potrebbe la conce zione arcaica della terra piatta; per Esiodo: Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, VIII 48. Strabone, Geografia I 1,20 (C 1 1 - 12) era possibilista, conforme mente alla sua idea di Omero come sommo filosofo e scienziato, e una posi zione poco diversa era quella di Quintiliano, Institutio oratoria XII 1 1 ,2 1 . D i quest'idea si faceva gioco già Seneca, Epistole 88,5, e ancora s e ne farà gioco, con illuministica ironia, Fontenelle nei suoi Nouveaux dialogues des morts, precisamente in quello di Omero ed Esopo. Ma essa era quasi ine stirpabile, come mostra con ampie citazioni da autori dell'età moderna ERNST ROBERT CURTIUS nel capitolo su Omero e l'allegoria del suo classico Letteratura europea e Medioevo latino, Firenze 1992, pp. 227-23 1 (ediz. orig.: Europiiische Literatur und latein. Mittelalter, Bern 1947). Di tutto il tema tratta GERMAINE AUJAC, L'immagine della te"a nella scienza greca, in AA.Vv., Optima hereditas. Sapienza giuridica romana e conoscenza dell'ecumene,
Milano 1992, pp. 158-169. 9 Una rassegna molto critica e cauta di tutto ciò che si sa sulla scoperta della sfericità della terra è quella di WILLIAM AR:nruR HEIDEL, The frame o/ the ancient Greek maps. With a discussion o/ the discovery o/ the sphericity o/ the earth, New York 1937, pp. 63 -91. Conclude in senso molto scettico
circa tutto ciò che viene prima di Platone; in particolare sarebbero stati lon tani dalla concezione di una terra sferica i fisiologi ionici, e anche i pensa tori della madrepatria. Anche lui pensava che il nuovo e grande pensiero fosse stato probabilmente concepito in ambiente pitagorico, in Magna Grecia, fra il 425 e il 375. 1 0 Rispettivamente in Aezio, Placita III 10, l e Diogene Laerzio, Vite dei filosofi II 1-2. 1 1 HE IDEL, The /rame o/ the ancient Greek maps, cit., p. 68 sg. è scettico anche su questo punto, e preferisce pensare a una serie di dischi concentrici. 12 Frr. A 10, 1 1 , B 5 nei Vorsokratiker di Diels-Kranz. 13 Frr. A 7 (4), 20, ibidem. 14 La terra piatta: così racconta Simplicio, il commentatore di Aristotele, annotando il De caelo, p. 520,30. Al processo accenna Platone, Apologia 26 d, e ne parla più precisamente Diogene Laerzio, Vite dei filosofi II 12, 13. 162
15 Così ancora Diogene Laerzio, ibidem IX 30-3 3 , che stavolta si rifà a Teofrasto. 1 6 Erodoto, Storie III 104. 17 La poesia antica continuerà arcaizzando a parlare di paesi più o meno 'vicini' al sole anche quando da un pezzo se ne sapeva di più. 18 Sulle concezioni cosmologiche di Platone e sul loro carattere, restano utili le classiche pagine di GIOVANNI SCHIAPARELLI, I precursori di Copernico nell'Antichità, già conferenza del 1873 , poi in Scritti sulla storia della astro nomia antica, Bologna 1925, pp. 3 7 1 -458. Sulla sfericità della terra nel Fedone, v. ROBERT LORIAUX, Le Phédon de Platon. Commentaire et traduc tion, Nainour-Gembloux 1969, vol. II p. 80 sg., con ulteriore bibliografia. 19 Inferno XXXIV 1 1 1 . 20 Platone esporrà bene la relatività del su e del giù che deriva come necessaria conseguenza da queste concezioni 'gravitazionali' (virgolette di prudenza), nel Timeo 62 e-63 a. 2 1 Cfr. sopra, p. 70 n. 12. 22 Platone, Fedone 97 d. 23 n carattere tutto @osofìco e 'mitico' (nel senso platonico) della parte cosmologica del Fedone ha consentito di sollevare qualche dubbio sulla reale presenza in esso della dottrina della terra sferica, con argomentazioni che meritano almeno qualche attenzione: aprì la discussione, da negatore, THOMAS G. ROSENMEYER nella «Classica! Quarterly» NS 6 ( 1 956), pp. 193197; attaccato da WILLIAM M. CALDER III in «Phronesis» 3 ( 1 958), pp. 121125 , Rosenmeyer replicò nella stessa rivista 4 ( 1 959), pp. 7 1 -72; intervenne poi nel dibattito J.S. MORRISON, ibid. , pp. 101-1 19, dichiarandosi d'accordo con la tesi di Rosenmeyer, ma non coi suoi argomenti. 24 Aristotele, Fisica III 6 (207 a 16); Diogene Laerzio, Vite dei filosofi IX 19. Cfr. sopra la n. 7. 25 Aristotele, De caelo II 14 (297 b). 26 Si legge in Strabone, Geografia I 1,20 (C 1 1- 12), in Cleomede, De motu circulari corporum caelestium I 8,6 (84) e in Tolomeo, Almagesto I 4; questi cita il caso della montagna che diventa visibile dal mare progressivamente solo come prova ausiliaria; la prova principale restano per lui le osservazioni astronomiche, il diverso sorgere e la diversa visibilità degli astri. 27 Su questo primato del III secolo a.C., più avanzato nella scienza di quello che generalmente si pensi, e quasi isola di luce fra molte tenebre, insiste LUCIO Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Milano 2001 (2" ediz.). 28 Lucrezio, De rerum natura I 1052 sgg.; V 534 sgg: 29 Diodoro Siculo, Biblioteca storica II 3 1 ,7. 30 Tacito, Agricola 12,3-4. n testo suona: «Scilicet extrema et plana ter rarum humili umbra non erigunt tenebras, infraque caelum et sidera nox cadit». I tre traduttori sono Azelia Arici, Giovanni Forni e Bianca Ceva. Sul
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passo si sono espressi moltissimi studiosi di varia provenienza, chi per attri buire a Tacito la concezione della terra sferica, chi per negargliela. Una loro rassegna, con discussione della bibliografia più recente, si trova in FLORIAN MITIENHUBER, Die Naturphiinomene des hohen Nordens in den kleinen Schnf ten des Tacitus, in «Museum Helveticum» 60 (2003 ) , pp. 44-59. 31 Seneca, Nat. quaest. II 1 ,4: «Utrum lata sit . . . an tota in formam pilae spectet»; cfr. IV 1 1 ,2; Plutarco, De facie in orbe lunae 7 (923 f sg.); Belli, sonetto n. 1821 del 23.9. 1836. 32 Gemino e Strabone (vissuti rispettivamente nel I secolo a.C. e all'epoca di Augusto) danno per scontata la sfericità della terra e non si soffermano sulla questione, mentre Cleomede e Tolomeo si daranno più tardi molta pena a dimostrarla: la scienza vera è ora costretta sulla difensiva. Così osserva GER MAINE AUJAC , L'immagine del/4 terra nel/4 scienza greca, cit., p. 169. 3 ; Strabone, Geografia II 5 , 1 0 (C 1 1 6); l'osservazione è di CLAUDE NICOLET, L'inventario del mondo. Geografia e politica alle origini dell'Impero romano, Bari-Roma 1989, pp. 5 1 sgg. (tit. orig.: L'inventaire du monde. Géo graphie et politique aux origines de l'Empire romain, Paris 1988). Frequente doveva essere invece la sfera celeste col cielo stellato o la sfera armillare, riprodotta anche in qualche famosa scultura. 34 Giulio Igino è forse il bibliotecario di Augusto, ma su questo non tutti sono d'accordo; Virgilio, Georgiche I 240 sgg. 35 Gli Astronomica di Igino sono leggibili nell'edizione di André Le Breuffle (Paris 1983, 'Collection Budé'). Un esempio di autore greco che tratta con perfetta chiarezza di sfericità della terra è il Cleomede che citiamo sotto, n. 50. Purtroppo l'epoca è sconosciuta (l'incertezza oscilla addirittura fra I e V secolo d.C.), ma il contrasto con Igino resta significativo. 36 Il libro è citato anche come De natura rerum, e sotto altri titoli. Il cap. 10, De quinque circulis mundi, deriva dall'antica teoria delle zone climatiche, ma dimostra idee incerte sulla forma stessa della terra, anzi sembra proprio immaginarla piatta. Lo stesso vale per le Etymologiae III 44, che riportano più o meno lo stesso materiale. Questo è il giudizio anche di ]OHN KIRT LAND WRIGHT, The geographical lore o/ the time o/ the Crusades, American geographical society, New York 1 925, p. 54. 3 7 De natura rerum, cap. 46, 'Te"am globo similem'. 3 8 Sull'ambiguità del latino orbis, e sulle molte incertezze che ne nascono per l'interprete, è fondamentale}OSEPH VOGT, Orbis Romanus, in Vom Reichs gedanken der Romer, Leipzig 1942, pp. 170 sgg. 39 Anche su questo punto sono da vedere le pagine di Vogt sopra citate, con chiare formulazioni: l'immagine della terra piatta non è stata mai abban donata del tutto nella cultura romana; dalla sfericità della terra non sono state tratte tutte le conseguenze, e certe concezioni pre-scientifiche non sono mai state superate. 40 S. Agostino era disposto ad ammettere la terra sferica, anche se questa 1 64
restava per lui solo una plausibile ipotesi, ma non gli antipodi (De civitate dei XVI 9). La questione, che aveva già occupato i pagani, acquistò col cri
stianesimo questo nuovo aspetto che la rese più scottante. n libro di GABRIELLA MORETTI, Gli antipodi. Avventure letterarie di un mito scientifico, Parma 1994, è ricco di notizie su questa singolare storia. Aggiungiamo che nel 748 San Bonifacio denunciò per eresia San Virgilio di Salisburgo, in quanto assertore degli antipodi, come ricorda ironicamente Pascal nella XVIII Provinciale. Vedi l'epistola XI del papa Zaccaria in Migne, Patrologia graeca vol. 89, coli. 741-752. 41 La severa condanna pronunciata da Lattanzio si legge nelle Divinae institutiones III 24. n geografo italiano è 0SVALDO BALDACCI, La cultura geografica nel Medioevo, in AA.Vv., Optima hereditas cit . , pp. 489 sgg.; Bal dacci cita Tommaso d'Aquino e osserva che anche l'arte cristiana simbo leggiò quasi sempre la terra come una sfera. E più volte si è negato con buon fondamento che Lattanzio sia un tipico rappresentante dell'atteggia mento cristiano in materia. Vedi WRIGHT, The geographical lore o/ the lime o/ the Crusades cit . , p. 383, n. 47. 42 Sul significato di Cosma nella storia della geografia tardo-antica, e sul rapporto fra scienza e fede nella patristica, v. WANDA WOLSKA, La topo
graphie chrétienne de Cosmas Indicopleustes. Théologie et science au VIe siècle,
Paris 1962; trad. it., Topografia cristiana: libri 1-5 l Cosma Indicopleusta, Napoli 1992. Un moderno erede di Lattanzio e di Cosma era il leader dei Boeri, il leggendario 'Ohm' Kruger, ancora alla fine del XIX secolo. Quando nel 1898 ricevette la visita del capitano americano Joshua Slocum, primo cir cumnavigatore del globo in solitaria, lo statista sudafricano si rifiutò di trarre dall'esperienza dell'ardimentoso veleggiatore la conseguenza più ovvia : «If you respect the Word of God, you must admit that the world is flat». Vedi J. SLOCUM, Sailing alone around the world, cap. 17; trad. it., Solo intorno al mondo con lo Spray, Novara 1979. 43 Homilia IX de statuis 3. Una buona esposizione di tutto questo è nella classica opera di PIERRE DUHEM, Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic, Paris 1914, vol. II, pp. 393 sgg. 44 WRIGHT, The geographical lore o/ the time o/ the Crusades cit., p. 54: «On the other hand, the theory that the earth is a globe never, perhaps, suf fered complete eclipse.» 45 Libro VI De geometria 590 sgg. (pp. 199 sgg. dell'edizione Eys senhardt, Lipsiae 1866): «Formam totius terrae non planam, ut aestimant positioni qui eam disci diffusioris assimilant, neque concavam, ut alii qui descendere imbrem dixere telluris in gremium, sed rotundam, globosam . . . » 46 Magra consolazione è apprendere che l'asinata non è solo italiana, ,
41 1976, citando un libro scolastico ( ! ) tedesco
come racconta G. PRAUSE, Niemand hat Kolumbus ausgelacht, cit., pp. sgg. dell'ediz. Frankfurt (M.)
dove si ripete che Colombo fu deriso dalla famigerata giunta di Salamanca per aver affermato la sfericità della terra.
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47 La stima dei mathematzk6i riferita da Aristotele è in De caelo II 14 (298 a) . Un accenno alla misura della terra destinato a restare per noi enig matico (misura dell'ecumene o del globo terrestre?) è in Aristofane, Nuvole 202-204. 48 Aristotele, De caelo II 14 (298 a) e Meteorologica I 3 (339 b 7 -9). 49 Archimede, Arenario II 246,15 Heib. L'interpretazione malevola è quella di Strabone che di Eratostene non era amico, in Geografia II l (C 94). Ce n'erano anche altre, per cui v. GIORGIO DRAGONI, Eratostene e l'a pogeo della scienza greca, Bologna 1979, p. 49 sg. 50 L'esposizione più chiara del metodo di Eratostene è nel trattatello astronomico di Cleomede, consultabile comodamente nell'edizione a cura di RICHARD GOULET, Cléomède, Théorie élémentaire («De motu circulari cor porum caelestium»), Paris 1980 (traduz. francese) . La misura di Eratostene non fu dimenticata. n Medioevo la conosceva attraverso opere popolaris sime come il già citato commento di Macrobio al Somnium Scipionis (I 20,20) o Marziano Capella. John Holywood Oatinamente 'De Sacrobosco') la inse gnava nel XIII sec. alla Sorbona. Sulla diffusione nel Medioevo di questa e di altre misure, v. WRIGHT The geographical lore o/ the time o/ the Crusades, cit., p. 155. Nel 1617, proprio sul nascere della scienza moderna, l'olandese Willebrord Snell van Roijen (Snellius) pubblicò il suo Eratosthenes Batavus, in cui proponeva una nuova misurazione, fondata sulla triangolazione, a par tire da una base misurata tra Alkmar e Bergen-op-Zoom. n risultato di 3 8.640 km è deludente perché si era adottata una base troppo corta e usato uno strumento impreciso. Poco dopo però il Musschenbrook, usando la stessa rete di triangolazione, arrivò a un risultato quasi perfetto. n metodo fu perfezionato da Riccioli e Grimaldi, finché il Picard ( 1 670) arrivò alla sua celebre misura dell'arco di meridiano fra Villejuif e Juvisy. Questa fu l'ul tima misura fatta presupponendo una terra sferica e non sferoide. Lo schiac ciamento polare fu scoperto da Newton. 5 1 Su tutto l'argomento, v. G. DRAGONI, Eratostene, cit., pp. 161-232. Altre trattazioni sono quelle di G ERMAINE AUJAC, Ératosthène de Cyrène, le pionnier de la géographie. Sa mesure de la circon/érence terrestre, Paris 200 1 , e d i KLAUS GEUS, Eratosthenes von Kyrene. Studien zur hellenistischen Kultur- und Wissenscha/tsgeschichte, Miinchen 2002, pp. 223-259. 52 Sul merito o non-merito di Eratostene si è discusso nell'Antichità come nei tempi moderni. Un recente convinto difensore è il già cit,to G. Dra goni. 53 Petrarca, Canzoniere 50,2-3 ; cfr. anche 22,13 sg.: «Quando la sera scaccia il chiaro giorno/e le tenebre nostre altrui fanno alba . ». 54 Sulla lunga storia, che trovò il suo primo punto d'arrivo nell'inven zione del cronometro marino, opera dell'inglese John Harrison nel 1770, informa chiaramente il libro di DAVA SOBEL, Longitudine, Milano 1996 (tit. orig.: Longitude, New York 1995 ) . ,
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55 Su Marino informano le 'correzioni' apportate da Tolomeo alla sua carta, in Geografia I 6-20. Leggibile in traduzione francese commentata presso GERMAINE AUJAC, Claude Ptolémée astronome, astrologue, géographe. Connaissance et représentation du monde habité, Paris 1 993 , pp. 336 sgg. 56 È tuttora conservato nel Germanisches Museum della città. 57 La parte svolta dal Toscanelli per gli aspetti cosmologici e geografici della vicenda è giudicata decisiva dal DE LOLLIS, Cristoforo Colombo, cit. , cap. VIII, Il vero precursore di Colombo: il dotto fiorentino avrebbe conce pito e proposto l'impresa prima dello scopritore. Diversi documenti atte stano l'esistenza di una carta disegnata dal Toscanelli, che visualizzava la concezione geografica cui si ispirò Colombo, purtroppo non pervenutaci. 58 Aristotele, De caelo II 14 (298). 59 Strabone, Geografia II 3 ,6 (C 1 02); Seneca, Natura/es quaestiones I 1 3 . 60 Seneca, Medea 374-379. I luoghi di autori qui citati sono elencati già da Fernando Colombo nel cap. VII delle sue Historie della vita e dei /atti di Cristo/oro Colombo, accanto ad altri medievali. 61 Alfragano aveva espresso la sua valutazione della lunghezza del grado di meridiano in cubiti, misura che poteva avere due diversi valori, e Colombo scelse il minore, con un risultato che si allontanava ulteriormente dalla realtà, rispetto a quello già errato di Tolomeo. Vedi GEORGE H.T. KrMBLE, Geo graphy in the Middle Ages, London 1938, p. 49. 62 Operette morali, Dialogo di Cristo/oro Colombo e di Pietro Gutie"ez. 63 Sull'argomento è sempre utile il già citato RAINAUD, Le continent austral, ricco di informazione e metodicamente ben impostato.
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Capitolo sesto «I:antica Grecia era il paradiso dei gay»
Divieto di prendere la parola in qualsiasi assemblea citta dina, di rivestire qualsiasi carica pubblica dalla più alta alla più modesta, civile o religiosa, in patria o all'estero, elettiva o tirata a sorte; divieto perfino di entrare nell'area della pubblica piazza dove si tenevano le riunioni popolari, insomma morte civile e infamia morale, condita di scherni feroci; il tutto sotto la minaccia di pena capitale per i trasgressori di queste dispo sizioni draconiane, veri tabù religiosi oltre che leggi dello stato, contro chi abbia abusato del proprio corpo e abdicato alla pro pria virilità. Non stiamo descrivendo le norme con cui qualche stato islamico integralista condanna e reprime l ' omosessualità maschile e neppure ciò che si prescriveva in qualche paese cri stiano del più buio medioevo: sono leggi vigenti nell'Atene del IV secolo a.C., l'Atene di Platone e di Demostene, di Aristo tele, Menandro e Lisippo. Ce n'è abbastanza per smentire bru scamente tanti sogni a occhi aperti sui ginnasi di Atene o sugli idilli di Arcadia, sui Fedone e Liside, Coridone e Menalca, sui bellissimi efèbi e sui languidi pastori dediti in beata innocenza agli amori senza donne1 • A testimoniarlo con ampiezza, anzi con minuzia e insi stenza, è l'oratore e uomo politico ateniese Eschine nella sua orazione contro un certo Timarco (345 a.C.), personaggio altri menti ignoto, del quale rimane solo questo ritratto nero come 169
la pece, una fra le più furibonde requisitorie morali che ci siano pervenute dall'Antichità. Le cose erano andate così: Eschine era stato accusato da Timarco, e dietro le quinte da Demostene, di corruzione e tra dimento per come si era comportato da membro di un'amba sceria presso Filippo di Macedonia, il grande nemico di Atene e della libertà greca. Invece di respingere l'accusa, Eschine scelse di respingere l'accusatore, rinfacciandogli i comporta menti sessuali che costavano la perdita dei diritti politici e impedivano perfino di prendere la parola in tribunale, tanto più di accusare qualcuno. Se crediamo al veemente contrat tacco, la vita di Timarco era stata fino ad allora un'unica suc cessione di infamie sessuali, cominciata molto presto, appena acquistata la relativa capacità fisica. Chi conosce il rispetto che si aveva per la verità nella polemica politica e giudiziaria ate niese sa bene che sarebbe incauto fidarsi troppo di questa arringa contro un mortale nemico; la testimonianza resta però ugualmente attendibile e preziosa, perché Eschine avrà sì esa gerato le malefatte del personaggio, ma si è certamente tenuto stretto alle idee correnti fra i suoi uditori e al comune senso morale, oltre a citare verbatim le leggi in materia. Sulla fanciullezza dell'accusato l'accusatore ostenta di voler stendere un pudico velo, o un voluto oblio, come quello che Atene aveva deciso di esercitare a proposito dei fatti avvenuti sotto la famigerata dittatura dei Trenta Tiranni (i 'colpi di spugna' non sono un'invenzione del nostro tempo ! ) . Da ado lescente Timarco si era stabilito al Pireo presso l'ambulatorio del medico Eutidico, ufficialmente come scolaro ma in realtà per prostituirsi. Dapprima era stato al soldo di un certo Misgolas, persona per ogni aspetto assai rispettabile ma molto dedito a 'quella cosa', cioè alla pederastia, l'amore dell'adulto per i bei ragazzi (Eschine ostenta un grande pudore di lin guaggio, arriva a dire che morirebbe piuttosto che parlare troppo chiaramente di certe faccende scabrose; poi ricorre però a ipocrite allusioni e a pesanti giochi di parole, con grande successo di ilarità a quanto traspare dal testo rielaborato del170
l'orazione) . A proposito dei gusti sessuali di Misgolas usa l'av verbio daimonios, ciò che in un più aperto italiano si potrebbe tradurre: «era un pederaste indiavolato». I soldi così mal guadagnati servivano a Timarco per fare la bella vita dopo aver dissipato il cospicuo patrimonio paterno, circostanza cui sarà dedicata una parte considerevole dell'ora zione, con buona ragione perché anche la riconosciuta qualità di sperperatore e fallito comportava la perdita dei diritti poli tici e civili. Fra i tanti, ecco un episodio scandaloso: in occa sione della grande festa delle Dionisie cittadine, Timarco disertò un appuntamento che aveva con Misgolas e col suo amico Fedro, altro pederaste non sappiamo quanto indiavo lato, e andò a fare bisboccia con un gruppo di forestieri che, colti poi sul fatto, si diedero a fuga precipitosa rinunciando alla tavola imbandita, per paura di essere incriminati come cor ruttori (corruttori di un minorenne libero e non schiavo, bisogna precisare, perché la legge del tempo era tutt'altro che uguale per tutti). Qui Es chine chiama a testimoniare Misgolas stesso, avvertendo l'uditorio che la sua età è di quarantacinque anni suonati nonostante l'aspetto giovanile. «Perché ve ne avviso?», domanda Eschine in una parentesi rivelatrice, «perché non pensiate che i due siano quasi coetanei. Misgolas conviveva con Timarco che era meirtikion», quindi non più che diciottenne; la differenza d'età metteva il rapporto fra i due nella luce della non disonorevole (almeno per Misgolas) pederastia, non in quella dell'omosessualità fra adulti. Questo è il punto centrale di tutta la questione: Eschine doveva tran quillizzare il suo testimone, e un onorato cittadino di Atene non temeva di presentarsi a un vasto pubblico nelle vesti di amante di un giovinetto attraente mentre ben difficilmente avrebbe sfidato il sospetto di effemminatezza. Eschine ripercorre una dopo l'altra le tappe di una carriera d'infamia: Timarco non si vergognò neppure di farsi mante nere da uno schiavo pubblico, proprietà di stato, un certo Pittàlaco, almeno fino a quando non comparve un altro figuro della peggior specie, Egesandro, che aveva rivestito una carica 171
militare-amministrativa, scappando poi con la cassa del reggi mento, come diremmo oggi, e causando così la disgrazia del suo superiore. Costui conobbe Pittàlaco attraverso il gioco dei dadi, passatempo poco commendevole, ma si avvicinò presto a Timarco 'per affinità di carattere', come insinua Eschine. Alle proteste di Pittàlaco quando si vide tradito dal suo mignon, i due risposero devastandogli la casa insieme con una masnada di ubriachi, e picchiandolo ferocemente. Malconcio com'era, Pittàlaco ricorse il giorno dopo alla pratica rituale del farsi pub blicamente 'supplice' presso l'altare della Madre degli dèi, chie dendo giustizia alla città. La degna coppia si spaventò dello scan dalo clamoroso e corse a rabbonirlo; Timarco («che all'epoca era ancora attraente») gli promise di tornare alle sue voglie. Rientrata la pubblica protesta di Pittàlaco, i due non si cura rono più di lui, e l'ingannato li portò infine in tribunale. Segue la rievocazione di una lunga vicenda giudiziaria con intervento di nuovi personaggi uno peggiore dell'altro, e nuovi amori tutti rigorosamente maschili. n lettore si fa un'idea ben poco favorevole della civiltà giuridica ateniese che accettava un'arringa accusatoria fondata su ciò 'che tutti sanno', fatti tanto noti in città che non c'è bisogno di prove, del resto impossibili a attenersi (si giustifica l'accusatore) dato il carattere dei reati su cui nessuno vorrebbe testimoniare. Si citano precedenti di condanne a morte per corruzione, pronunciate in assenza di prove e testimonianze e solo sulla base di ciò che 'tutti sape vano', perché anche in questo caso non ci si può aspettare una testimonianza da chi rendendola sarebbe coinvolto nell'incri minazione e passibile a sua volta della pena capitale. Qualche ragionamento appare oggi esempio di estrema perversione giu ridica anche a chi è ignaro di procedura penale: sarebbe ben strano, argomenta Eschine, se ciò che era noto e ammesso da tutti quando non si parlava di processo fosse disconosciuto ora che il processo si celebra ( ! ). Eschine ricorre alla diffamazione dei testimoni avversi e getta preventivamente il discredito su ciò che stanno per deporre; la posizione in cui si trovano, egli avverte, li costringerà allo spergiuro. Infine invoca la suprema 172
veridicità, il carattere sacro e infallibile della Fama (ossia la diceria popolare, il gossip divinizzato) , cui gli Ateniesi eressero altari e che fu celebrata da poeti come Omero ed Euripide. A parziale sollievo anticipiamo subito che Eschine perse la causa, anche se per pochi voti, e altrettanto male gli andò anni più tardi quando attaccò direttamente il suo vero antagonista, Demostene in persona, che gli rispose con la più famosa delle sue orazioni, una delle più ammirate di tutta l'Antichità, quella
Per la corona. Ma vediamo che cosa insegna ancora l'orazione Contro Timarco circa i costumi e l'etica sessuale dell'epoca, tralasciando le innumerevoli malefatte di altro genere che Eschine attribuisce all'accusato: corruzione, concussione, ricatti a danno di colpe voli e innocenti, malversazione e semplici furti. Fra lui ed Ege sandro sembra che si fosse formato un rapporto durevole, ciò che non impedì al secondo di sposare un'ereditiera le cui sostanze egli sperperò con l'amico del cuore. Coi soldi finì anche l'attraente giovinezza di Timarco dopo essere stata (sembra di capire) fonte di entrate per i due, che si diedero allora a sven dere ciò che restava delle proprietà lasciate in eredità dal padre del cinedo. Questi ricoprì varie cariche pubbliche sempre nel modo più indegno e disonesto possibile, ma appare per una volta in una diversa luce quando si comporta da spudorato con le mogli di 'uomini liberi', approfittando della sua posizione. Apprendiamo il nome di Panfilo l'Acherdusio che denunciò uno dei tanti furti di pubblico denaro commessi dalla turpe coppia, attribuendolo davanti all'assemblea popolare a 'un uomo e una donna'. Subito dopo spiegò che cosa intendeva e accennò ai ben noti trascorsi di Egesandro, che era stato a sua volta 'donna', 'moglie' del cittadino Leodamante. n più bello, la cosa più sorprendente per il lettore moderno, deve però ancora venire. Con la sua solita tecnica del discredito preventivo Eschine annuncia l'arrivo di un testimone della difesa, uno stratego molto presuntuoso, educato nei ginnasi e nelle scuole filosofiche, che accuserà di ignoranza e rozzezza chi si scandalizza degli amori maschili dimenticando gli esempi di 173
coppie nobilissime come Achille e Patroclo o i gloriosi tiranni cicli, gli eroi nazionali ateniesi Armodio e Aristogìtone che libe rarono la patria dall'oppressore per una vicenda di gelosia tutta fra uomini. Sarebbe contraddittorio (così, prevede Eschine, argomenterà la parte awersa) se gli Ateniesi chiedessero agli dèi il dono della bellezza per i figli, per poi calunniare e infamare i belli come fa Eschine. Ma l'oratore non si fa dare lezioni perché queste cose le sa benissimo. Spunta l'arma polemica dell' awersario raccontando per primo di aver praticato anche lui, anzi di praticare ancora, sebbene ormai quarantacinquenne, quel genere di amori. Quanto alle sue poesie che qualcuno gli rinfaccerà, non ripudia affatto quelle pederastiche, negando però che altre abbiano lo stesso carattere. n lettore moderno che fin qui ha creduto di poter seguire l'arringa valutando i fatti esposti secondo un metro che sarebbe ancora in sostanza il nostro, deve ora adot tarne improwisamente un altro. Eschine tiene moltissimo a mostrarsi consapevole del fatto che esiste pederastia e pederastia. Quando l'incontro avviene fra un adulto savio e temperante, e un ragazzo d'animo elevato, chiamato a grandi cose, ne nasce un rapporto nobilissimo che può richiamarsi a esempi illustri del mito e della storia, come sanno tutti i giurati e tutti gli Ateniesi, non solo gli awersari con la loro spocchia intellettuale. Lo sanno benissimo, nella loro saggezza, anche le leggi dello stato quando proibiscono allo schiavo sotto pena di cinquanta frustate di amare o anche solo corteggiare un ragazzo di con dizione libera, mentre agli adulti liberi non comminano alcun castigo, con un silenzio che è assenso se non incoraggiamento. Proibito è per gli schiavi anche l'ingresso nei ginnasi, gli impianti sportivi che erano insieme palestre e luoghi di ritrovo, di 'socia lizzazione': qui se ne ricava come nell'Atene dell'epoca si desse per scontato che ginnasio era sinonimo di amori maschili, cosa largamente confermata da altre fontF. n sentimento che legava i due giovani eroi Armodio e Ari stogìtone si può chiamare eros, o in qualche altro modo, se si 174
vuole. Eschine sembra pensare a una specie di amitti amoureuse, e anche questo è indicativo. Quanto al rapporto fra Achille e Patroclo, il suo carattere erotico non è dichiarato apertamente da Omero ma è evidente per ogni lettore aweduto. E qui il lettore moderno non può reprimere un dubbio, uno dei tanti dubbi che nascono davanti alle contraddizioni insolute che costellano la storia dell'amore greco: è difficile immaginare i due eroi di Omero, così come i due eroi della storia ateniese, nelle sembianze di una coppia disuguale di adulto e adolescente come voleva il codice della pederastia onorevole. n poeta, almeno, non suggerisce affatto quest'im magine; Achille avrà forse qualche anno meno di Patroclo (che sarebbe stato il paiderastés della situazione), ma l'uccisore di Ettore, il più formidabile combattente in campo, non può essere un giovinetto imberbe3• E se vogliamo fare sulla poesia qualche prosaico conto, al tempo dell'Iliade la guerra di Troia dura da parecchi anni se non proprio i dieci che diventarono più tardi canonici: a che età dovrebbe essere stato arruolato Achille? Questi ragionamenti li avrà fatti anche Eschine, eppure ciò non gli impedisce di considerare onorevoli i pre sunti amori dei due compagni d'armi. Quanto ad Armodio e Aristogìtone, il famoso gruppo scultoreo dei tirannicidi attri buisce la barba solo a uno dei due personaggi (unica conces sione al canone della pederastia legittima) , ma la nudità di entrambi è quella di uomini formati, del tutto virile e indi stinguibile fra l'uno e l'altro. Dissonanze tra lo schema ideale che trionfa nella letteratura grazie a una connivenza un po' ipocrita e la realtà che fatalmente si scopre? Di queste 'disso nanze' il lettore attento ne troverà probabilmente anche altre, nelle nostre paginette; ma lo preghiamo di credere che sono nella cosa esposta e non nella nostra esposizione. Ma torniamo a Eschine e al suo moraleggiare. n concedersi per grossolana sensualità o peggio per denaro, rappresenta per un adolescente la peggiore di tutte le turpi tudini, e bene fanno le leggi che tutelano con estremo rigore i giovanissimi, ancora incapaci di distinguere fra l'amatore ono175
revole che eserciterà un'influenza benefica e del quale ci si potrà vantare, e quello bassamente libidinoso, causa di ver gogna e disonore. Con una mossa oratoria che oggi gli procurerebbe un diluvio di querele, Eschine passa poi a evocare due diversi gruppi di cittadini: da una parte uomini stimati e rispettati che in gioventù attrassero molti sinceri amatori e alcuni ne con servano ancora; e qui segue un elenco di nomi che l'oratore interrompe per non essere accusato di voler troppo lusingare e adulare i concittadini eminenti ( ! ) ; dall'altra i vergognosi 'marchettari', disonore della città, anche questi esemplificati con nomi e cognomi. La trionfante conclusione è: 'In quale dei due gruppi mettereste Trmarco?'. n principale bersaglio dell'orazione ne ha a questo punto buscate abbastanza e ora tocca a Demostene, altro esempio di depravazione sessuale, mezzo uomo, cinedo notorio e cam pione di ogni vizio. Dopo aver dissipato i beni di famiglia, cir cuiva ereditieri minorenni dei quali si fingeva amante solo per depredarli. Un esempio fra tanti: al giovane Aristarco di Mosco frodò la grossa somma di tre talenti e lo istigò all'assassinio politico, ai danni di Nicodemo di Afidna, amico di certi suoi awersari. E qui caleremo il sipario su questa triste pagina di pole mica giudiziaria e politica all'ombra dell'Acropoli, la sacra roccia faro di civiltà per tutti i secoli. Moralismo, alta filosofia e alate citazioni poetiche si mescolano qui con le storture di un'argomentazione giuridica in mala fede e con una diffama zione di infimo livello che non teme di rimestare nel fango più lurido, come quando evoca la biancheria unisex di Demostene, tanto leziosa che un ignaro non saprebbe se attribuirla a un uomo o a una donna4• È un drastico correttivo alla visione idealizzante di tutto ciò che facevano e dicevano 'gli Antichi' , esempio vagheggiato di ogni grandezza e ogni decoro per tante generazioni di moderni. Ma l'orazione di Eschine ha almeno il merito di rappresentare come in un microcosmo un po' tutto 176
Fig.
l. 'I maghi finlandesi vendono il vento ai marinai'. Sciogliendo via via il vento soffi>�va con maggiore o minore forza, secondo la necessità dei n<�viganti a vela (ma scioglierlì tutti e tte era sconsigliabi.le). La tradizione relativa a questi 'Eolo del nord' è testimoniata presso diversi i tre oodì de.lla corda,
auto1i, dal Medioevo fin quasi ai nostri giorni. La popolaresca raffigunuione è rratta dalla monumentale opera dell'arcivescovo cattolico di Uppsala. Ol
Magno, Venezia
De gentibus septentrìonalibus, nella traduzione italiana edit11 a nel 1565.
Fig. 2. L'episodio di Ulisse e Circe godette di grande popolarità nella pit tura vascolare greca. Sopra, un raro esempio eli vera e propria caricatura: l'incantatrice porge all'eroe, che reagisce sguainando la spada, la pozione stregata che dovrebbe trasforrnarlo in maiale come i suoi sfortunati com pagni. Sotto, Circe in fuga lascia cadere l'inutile tazza; alla scena assiste una delle vittime della dea-strega, che di suino ha però solo la testa, in contrasto col testo omerico.
Fig. 3. L'inconfondibile sky line dd Circeo (provincia di Latina), come la vede oggi un bagnante da Sperlonga, a circa 30 chilometri di distanza. Nono stante la prima apparenza non è un'isola, tanto meno sta in mare aperto, e non è affatto 'bassa' come la descrive Omero. La localizzazione di Circe al promontorio che porta ancora il suo nome è forse la menb plausibile di tutte le ipotesi dello stesso genere che sono state suggerite nel corso dei secoli, ma proprio per questo dimostra più che mai la forza irresistibile dell'im pulso irrazionale che spinge a cercare nella realtà i luoghi della fantasia (foto dell'autore).
Fig. 4. Un'elegante dama di Atlantide? Le abitazioni parzialmente integre e le raffinate pitture murali ivi scoperte hanno guadagnato all'isola di Santo riDo, devastata da un'antichissima eruzione vulcanica, il soprannome di 'Pompei dell'Egeo' o 'Pompei dell'età del bronzo'. n suo preteso rapporto con la tradizione dell'Atlantide di Platone ha suscitato una ridda di 'rivela zioni' giornalistiche e di inverosimili congetture. n disegno riproduce la cosiddetta 'raccoglitrice di croco'.
Fig. 5.
TI capitano Nemo, il fosco eroe di Ventimila legbe sotto i mari, con il
templa in posa statuaria le rovine dell'Adantide di cui egli ha svelato
mistero. Grazie al suo prodigioso sottomarino Nautilus il fondo degli oceani non ha segreti per lui. Presso alle rovine dall'aspetto vagamente greco è ancora attivo il vulcano che insieme con l'inondazione avrebbe causato la fine del 'continente perduto'. L'illustrazione è quella della famosa serie 'Les voyages extraordioaires' deU'edltore parigino Hetzel.
Fig.
6. Come in una tavola didattica, questo vaso greco mostra bene la dif
ferenza fra le due tradizioni costruttive che nell'Antichità rimasero sempre distinte: da una parte la nave da guerra, sottile e veloce galera a remi, dal l altra il mercantile a vela dalle forme panciute, miranti alla capacità di carico '
e alle migliori
qualità nautiche, che consentivano di tenere il mare a lungo
e di compiere lunghe traversate.
Fig. 7. Modello abbastanza attendibile del classico mercantile antico, fon dato su molte raffigurazioni.
È un tipo che si mantenne sostanzialmente inal
terato durante i secoli che videro il fiorire dell'impero romano e l'acme della marineria e del commercio nel Mediterraneo. L'insieme appare ai nostri occhi goffo e primitivo, eppure le prestazioni di questa marineria non sfigurano troppo se paragonate con quelle di epoche più recenti.
Fig. 8. S. Agostino, in solenne apparato eli vescovo, discute con un gruppo eli filosofi che le vesti asiatiche denunciano per non cristiani. Argomento del dibat tito è l'esistenza degli antipodi, i presunti uomini a testa in giù che la minia tura del manoscritto quattrocentesco raffigura in ombra. ll santo ammetteva senza difficoltà la sfericità della terra, ma non gli antipodi che creavano gravi problemi teologici: come si conciliava la loro esistenza in terre inaccessibili con la discendenza eli tutta l'umanità dall'unica coppia eli progenitori?
Fig. 9. La pittura vascolare greca illustra con straordinaria abbondanza e varietà la vicenda dell'amore pederastico, dai primi approcci (sopra) al con senso da parte del fanciullo corteggiato (sotto) e n i molti casi fino alla con sumazione dell'atto sessuale, raffigurato nella maniera più esplicita e cruda.
D vaso attico a figure nere risale al VI sec. a.C.
Figg. 10-11. La Saffo del Rinascimento e la Saffo del decadentismo. Sopra: la monumentale figura della poetessa nel Parnaso delle
Stanze di Raffaello,
accanto ai grandi di ogni tempo. A fianco: dopo le numerosissime raffigu razioni romanùche in cui essa appariva come amante disperata e suicida del l'ingrato Faone (così anche nella letteratura: Leopardi!), questa rara imma gine dell'inglese Simeon Salomon (1865) la mostra mentre n i dulge alle incli nazioni sessuali testimoniate dai frammenù della sua opera, che hanno legato all'omosessualità femminile
il suo nome e quello della sua patria Lesbo.
Fig. 12. La flotta greca, il campo fortificato, la piana di Troia con la città nello sfondo, i fiumi Scamandro e Simoente: tutto fantasia, rutto immagi nario in questa veduta disegnata per illustrare la traduzione inglese dell'[. Liade di Alexander Pope (1714). La 'riscoperta' di Troia è ancora lontana.
Fig. 13. Madame 'Sophie' Schliemann (nata Sophia Engastr6menos, di Atene), la giovanissima seconda moglie del famoso comrnerciant�-archeologo, adorna dei gioielli rinvenuti a Troia!Hisarlik dal marito e da lui presentati antistorica mente (ma con grande effetto pubblicitario) come 'tesoro di Priamo'. Le cir costanze romanzesche del ritrovamento, in cui la giovane signora secondo il racconto di Schliemann stesso avrebbe avuto parte, sono state smascherate dalla ricerca biografica più recente come frutto di invenzione.
Fig. 14. TI bellissimo teatro di Epidauro (IV sec. a.C.), visita obbligata per ogni turista, rappresenta
il tipo classico del teatro greco nella sua forma più
originaria e inalterata, con l'orchestra perfettamente circolare e non tagliata a metà dalla scena come si usò in età romana. Anche
il ben più antico teatro
ateniese di Dioniso, quello che vide le 'prime' di tutte le grandi tragedie e commedie greche, subì questa modi6.ca (foto 1st. Archeologico Germanico).
Fig. 15. I:Antigone di Sofode è una delle opere teatrali antiche più fre quentemente rappresentate nei tempi moderni. La vicenda dell'eroina che sfida un crudele potere politico in nome dei legami familiari si è prestata a innumerevoli riprese e rielaborazioni, soprattutto nel Novecento, il secolo dei totalitarismi che pretendevano di dettare norme prevalenti su ogni altra fonte di etica. La fotografia mostra l'attore Turi Ferro nella parte di Creonte, al teatro greco di Siracusa, 1986 (foto Ist. Naz. del Dramma Antico).
l:MAGO · ERASMÌ·ROTERODA
M i · AB· ALBJ!.R1'0 DVREJ.'I..O·AD V lVAM.· EFFlGÌEM· DEÙNIA'I'A ·
'THN,KPEI'I"I'.O.·TA·'E.YrrPAM.. .M.ATA·Lfi ZEl
·
.M. D X X. V I
Fig. 16. Erasmo da Rotterdam,
·
il grande umanista, effigiato 'dal vivo', come
assicura l'iscrizione latina, a opera di Albrecht Durer, l'artista da lui gran demente apprezzato e portato alle stelle in una delle tante digressioni del celebre Dialogus sulla retta pronuncia del greco e del latino. Si tratta di un piccolo capolavoro letterario oltre che della magistrale opera di un filologo, pur nei limiti della linguistica del tempo. «Un'immagine migliore la daranno i suoi scritti», dice l'iscrizione greca.
l'atteggiamento dei Greci verso la particolare forma di ero tismo che qui interessa. Alla radice di tutto c'è la forte attrazione che sull'uomo fatto esercitava il ragazzo imberbe, l'adolescente non ancora virile o dalla virilità ancora in boccio. Anche quando non si arriva a un'aperta espressione di erotismo, questa attrazione è avvertibile in mille pagine della letteratura greca come più tardi di quella latina, tanto più quanto più dipende dalla greca e ne è emula. Come per noi quando parliamo di giovani donne l' ap prezzamento estetico (più precisamente: l'apprezzamento del sex appeal) anche se inespresso è sempre nell'aria, sottinteso, sulla punta della lingua, così era per i Greci ogni volta che si nominava un giovinetto, un efèbo. Le pagine introduttive del Liside e del Carmide di Platone ne danno un quadro perfetto. Né questo suscitava il senso di colpa che è tanto difficile da cancellare per gli eredi della civiltà cristiana. Al ripudio della pederastia arrivò anche la riflessione pagana, e non sappiamo fino a che punto essa rispecchiasse e razionalizzasse così il sen timento prevalente in parti del mondo greco, in determinate epoche e classi sociali. Ma certo mai questo sentimento avrebbe potuto ispirare a un Greco qualcosa di simile all'im mortale pagina della Morte a Venezia dove il protagonista prende coscienza dell'enormità che è maturata in lui, nella sua anima fino ad allora intemerata: . . . sopraffatto, percorso e ripercorso da brividi, mormorò la formula eterna del desiderio - impossibile qui, assurda, abietta, ridicola eppur santa, augusta nonostante tutto: 'Ti amo! '5•
Questa tragica tensione morale è per noi ancora oggi com prensibile a un secolo di distanza dal dramma di Gustav Aschen bach, pur dopo tante rivoluzioni sessuali e tanti 'gay pride'; qual cosa ne resta anche in chi proclama ai quattro venti la propria totale tolleranza e mancanza di pregiudizi, e in nessuno di noi le due specie di amori suscitano proprio la stessa eco quando sono raccontate e commentate: la novella di Thomas Mann o le 1 93
confessioni di André Gide hanno pur sempre qualcosa di diverso, un 'pepe' in più; 'diversità' e 'pepe' che per i Greci non c'erano affatto o c'erano solo in piccola misura, secondo epoche e ambienti. Anzi, nella poesia ellenistica e romana la pederastia poté diventare un obbligato e risaputo motivo letterario che spesso non rispecchiava affatto esperienze vissute: tanto poco il tema poteva servire a suscitare sensazione e scandalo, e tanto grande è la distanza fra la sensibilità antica e quella che oggi è ancora la sensibilità dei più6• Non sono passati invano i secoli e secoli in cui questo era per tutti il 'peccato che grida vendetta al cospetto di Dio': parole e concetti di cui l'Antichità precristiana non sapeva nulla. Questo si deve ricordare sempre, se il nostro giudizio non dev'essere fondamentalmente distorto. Pederastia, paiderastia: qui si intende il termine nel senso proprio e originario, per designare qualcosa che in realtà si è allontanato non solo dal nostro costume ma anche dalla nostra immaginazione, tanto che la parola stessa è rimasta 'libera' e ha potuto essere usata impropriamente nel senso generico di omosessualità, senza guardare tanto per il sottilel. Guardava invece molto per il sottile il poeta Stratone di Sardi (Il secolo d.C.), autore di numerosi epigrammi pederastici di media qua lità, fra il sentimentale e l'osceno. Fra i tanti ce n'è uno che merita di essere riportato per intero: Godo di quello che è arrivato a dodici anni, ma molto più deside rabile di lui è il tredicenne. Quando ne ha due volte sette è il dolce fiore di Eros, ma più desiderabile è quello all'inizio del terzo lustro. Sedici anni sono l'età degli dèi; a diciassette non lo inseguo più, perché è di Zeus. Ma se qualcuno ha brama di uno più grande, non c'è più da scherzare; ormai va in cerca di 'e a lui rispondendo . . . ' 8 .
Passando dai versi greci alla nostra prosa italiana l'epi gramma ha perso tutta la grazia e la malizia, che bisogna spie gare: le ultime parole sono la citazione di una ben nota for mula america impiegata nel raccontare dialoghi, e una striz zata d'occhio al colto lettore che saprà capire. Per i Greci come 1 94
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per noi, i diciotto anni erano l'età canonica che segna la fine dell'adolescenza; quando il ragazzo c'è arrivato e 'la cosa' si fa vicendevole, l'amatore non è più un virile e dominante paide rastés ma un effemminato degno di scherno e disprezzo9. Cento volte, in tutta la letteratura greca, sentiamo qualificare come aischr6n, 'turpe, vergognoso' , il concedersi da parte di un adulto, il farsi succubo sessuale, l'atto di chi disonora senza rimedio la propria virilità. Si direbbe che le antiche coppie di omosessuali apparentemente simili alle o dierne fossero ammesse e accettate, e non sempre, solo quando rappresenta vano la prosecuzione in età adulta di un rapporto instauratosi a suo tempo come rispettabilmente pederastico e nobilitato dall'idealità. Tanto sembra implicare un passo di Aristotele nel suo maggiore trattato di etica10• Qui è da cercare forse la solu zione ai casi di coppie della leggenda o della storia, eroi ome rici o ateniesi, celebrate come esemplari anche se composte di due adulti: abbiamo già visto come Eschine evocasse il modello di Achille e Patroclo, e non temesse di citare con rispetto, e additare perfino all'ammirazione, i cittadini ateniesi che in età matura conservavano gli amanti conquistati da ragazzi grazie alle loro doti non solo fisiche. Presto vedremo anche come Socrate e Alcibiade parlino apertamente del sentimento che li lega quando entrambi sono ormai uomini fatti ma che cominciò quando uno dei due era giovinetto1 1 • Oggi l'opposizione è un'altra: l e figure che conosciamo sono da una parte la coppia di gay composta di due uguali, coe tanei o no, nella cui intimità non andiamo a curiosare; dal l' altra il corruttore di bambini (che al paiderastés greco non interessavano), l'esecrato pedofilo tendenzialmente criminale, chiamato così, anche se la cosa esisteva già molto prima, con una parola di conio poco felice le cui vastissime fortune sono cominciate in Italia non prima degli anni '90 del XX secolo12• Il vero paiderastés alla greca, l'amante nobilmente appassio nato o soltanto libidinoso del bel quindicenne, che forma con lui una coppia disuguale dove i ruoli sono ripartiti senza pos sibilità di dubbio, la figura immortalata da tanta letteratura 1 95
antica (ma anche da tante raffigurazioni artistiche, poco ripro dotte sui nostri libri) , ha al massimo un posto marginale nella nostra realtà, vissuta o solo immaginata 13• Una coppia disuguale: nell'omosessualità antica è sempre evidente, sempre indubbio, non solo chi fra i due sia il più e chi il meno virile, ma proprio chi desidera e chi è desiderato, in una gamma di situazioni che va dall'attrazione colorita di idealità del filosofo per il giovinetto di grandi speranze, nel ginnasio frequentato dall'élite cittadina (situazione più greca) , alla brutale concupiscenza del comandante militare per il gio vane soldato, nella rude cornice dell'accampamento (situazione più romana) . Si dirà che nelle culture antiche questo vale in una certa misura per tutta la sessualità, sempre vissuta come possesso da parte del maschio (o del più maschio) , quindi sempre 'orientata' e non simmetrica; eppure l'eros fra i sessi arrivò col tempo, senza uscire dai limiti cronologici dell'Anti chità, ad assomigliare molto di più a un innamoramento pari tetico e vicendevole, quello delle coppie romantiche o già medievali, Chopin e George Sand o già Abelardo ed Eloisa. La pederastia antica, canonica o impropria, restò sempre l'in contro fra un desiderare da una parte, un accondiscendere o respingere dall'altra, non un sentimento reciproco, e la subli mazione dell'eros platonico riguardava l'animo dell'amatore, non dell'amato. Una differenza, un divario del quale la riflessione più recente sull'argomento, che accanto e al di sopra del concetto di sesso conosce quello di 'genere' (gender) , ha fatto la sua breccia per penetrare in quella che essa ritiene l'essenza più autentica dell'amore greco. L'omosessualità moderna e quella antica (se pure per essa si può usare la stessa parola - c'è chi non è del tutto d'accordo nemmeno su questo) sarebbero mondi incommensurabili cui non si possono applicare le stesse categorie, anzi neppure la stessa terminologia. La nettissima opposizione di etero- e omosessuale che vige oggi è un pro dotto neppure tanto antico della nostra cultura. L'antropologia ci ha insegnato che altrove vigono linee di demarcazione assai 1 96
diverse: età, stato sociale, posizione rituale, relazione di potere, tutte cose che intersecano o addirittura ignorano la categoria di 'sesso'. Per gli antichi, tanto Greci che Romani, valevano le categorie di attivo (superiore e dominante) e passivo (inferiore perché 'femminile' ) , e l'omosessuale passivo era respinto non perché 'omosessuale' ma perché passivo. «Al di fuori della nostra cultura», si è riassunto in una formula pregnante, «omo sessuali sono solo gli atti, non le persone. Omosessuale è un aggettivo, non un sostantivo»14• Un gioco brutale di dominanza e sottomissione, che può interessare l'etologo non meno dello storico della cultura (e cose simili si sono notoriamente osservate nel comportamento animale) . Ma nemmeno questa chiave interpretativa, come nes sun'altra, bisogna aggiungere subito, apre tutte le porte15• A quel gioco sembra difficile adattare tradizioni come quella, vera o leggendaria che sia, della morte di Pindaro nelle braccia di Teòs seno, il giovinetto amato per cui il sommo poeta, il maestro di aristocratica morale, aveva scritto versi davvero belli, come avrebbe voluto scriverli un Gustav Aschenbach senza sconvol gimenti di coscienza: «A causa di Mrodite mi struggo come la cera delle sacre api si strugge al sole . . . »16• Niente di 'assurdo, abietto, ridicolo' come nelle parole di Thomas Mann, ma neanche una 'dominanza' dell'amatore adulto sul giovanissimo amato: qui e altrove i termini usati sono intercambiabili con quelli della poesia cortese e cavalleresca di altre epoche, che metteva la donna su un piedistallo venerandola come signora, come oggetto di Minnedienst. I pochi versi di Teognide che citeremo più avanti basterebbero a mostrarlo. Dalla sostanziale animalità di una mera dominanza fallica sembra lontanissimo anche Platone quando scrive col Simposio il più famoso dialogo, anzi la più famosa trattazione sull'amore di tutti i tempi. Letterariamente una delle più magistrali fra tutte le sue, quest'opera colpisce il lettore odierno prima di tutto come quadro delle maniere conviviali e sociali di un mondo remoto dal nostro, condite di un'intellettualità raffina197
tissima nella sua sprezzatura sempre un po' ironica, qualche volta fino al sospetto di un manierismo oggi difficilmente valu tabile. Nel discorso di Socrate, vero portavoce dell'autore anche se qualcosa di platonico c'è un po' in tutti gli altri inter venti, il concetto di amore, eros, si estende fino alle altezze metafisiche e teologiche che avrebbero entusiasmato e ispirato tante future generazioni. E tutte queste profondità, celate sotto una veste di ironia e di sorridente leggerezza, partono dalla considerazione dell'amore sessuale nella sua forma pederastica, l'unica che per questa società ha la valenza esemplificativa necessaria all'autore per illustrare le sue concezioni. L'ascesa al bello ideale, al buono e al vero, tutte le possibili sublima zioni, muovono da qualcosa che era sempre presente all'im maginazione di questa élite sociale e culturale ateniese: l'am mirazione e il corteggiamento del bell'adolescente da parte del l' adulto, una vicenda che si ripeteva ogni giorno con tutto il suo seguito di ansie, trepidazioni e gelosie, e col giubilo della conquista. Dopo l'irruzione sulla scena di Alcibiade e dei suoi compagni di baldoria il Simposio finisce col racconto che Alcibiade stesso fa in prima persona del suo incontro con Socrate e della scher maglia con cui il filosofo si sottrasse dapprima alle sue avances, quando il più giovane si era convinto di aver trovato in lui un degno amatore, uno che lo avrebbe guidato a grandi altezze spi rituali. Notiamo bene: l'evocazione più viva, più psicologica mente credibile e più letterariamente pregevole degli esordi di un amore, in tutte le letterature antiche, è il racconto di una vicenda pederastica, un racconto che soverchia e schiaccia in un impossibile confronto i convenzionali e retorici romanzi d'amore greci con le loro sbiadite coppie 'etero'. La compagnia che si raduna a festeggiare la vittoria del gio vane talento Agatone in un concorso drammatico è intera mente maschile, e questo è già significativo: quando Pietro Bembo vorrà da buon umanista cinquecentesco emulare Pla tone, comporrà il suo trattato d'amore, gli Asolani, come dia logo in cui dame e gentiluomini sono rappresentati paritetica198
mente, tre e tre. Nel Simposio l'unica donna è una presenza 'vir tuale', è l'ignota Diotìma di Mantinea che Socrate evoca come sua maestra della vera scienza d'amore, una figura tra il filosofico e il sacerdotale che parla in termini di iniziazione, un po' miste riosa e asessuata. Qui, si guardi come si vuole, l'amore pedera stico trionfa incontrastato; anche quando Socrate sfiora nel suo discorso quella che oggi sembra una verità scientifica, asserendo che l'istinto sessuale è istinto di procreazione, di perpetuazione della specie, subito affianca all'amore per le donne e mette al di sopra di esso, mirante alla vile generazione fisica, l'amore per i giovinetti di belle speranze, dalle promettenti doti intellettuali: in essi il nobile amatore avrà modo di generare cose alte e grandi, non nel corpo ma nello spirito. Non paragonabile al Simposio platonico per originalità di pensiero e maestria letteraria, l'opera di Senofonte dallo stesso titolo è altrettanto eloquente come testimonianza. Anche qui si dà per accettato che all'appagamento dell'istinto servono le donne e l'atto animale che in greco si chiama aphrodisidzein, mentre l'eros pederastico è qualcosa di ben più ricco e com plesso, che investe tutta la persona e sul quale si possono scri vere pagine di letteratura anche nei registri più elevati. Il dia logo si apre con la descrizione dell'amore di Callia per il fan ciullo Autolico e dell'attonita ammirazione dei commensali davanti alla bellezza del giovanissimo atleta: i loro sentimenti e gli stessi atteggiamenti esteriori sono improntati ora a una grande nobiltà, perché li possiede il dio dell'amore ideale, l'eros s6phron («Tanto gentile e tanto onesto pare . . . »). Quando prenderà la parola il commensale Antistene, che vanta come suprema saggezza filosofica il contentarsi dell'indispensabile nel mangiare, bere, proteggersi dal freddo, finalmente si par lerà anche delle donne, buone per accontentare le esigenze della carne senza troppe complicazioni. Nella scena conclusiva verrà poi messo in scena per i commensali un piccolo spetta colo hard ('etero'), e tutti si affretteranno alle proprie case per sfogare nel letto coniugale le voglie risvegliate: la donna serve per il sesso vissuto come 'bicchiere d'acqua'. 199
In maniera non casuale le due divinità, madre e figlio, Mro dite ed Eros, una femmina e un giovinetto, sembrano spartirsi l'ambito dell'amore. Lasciamo la parola a due autori che lo hanno detto in maniera a nostro avviso sintetica e felice: «La sfera d'azione di Mrodite non potrebbe essere più evidente e immediata: è la gioiosa realizzazione della vita sessuale. Aphro disia (come verbo aphrodisidzein) e, già nell'Odissea, il nome stesso della dea, designano l'atto sessuale». Per contro: «Pro prio considerando che Eros presiede allo slancio e all'impulso all'amore, prescindendo dall'espressione fisica dell'amore stesso, si comprende come il dio abbia potuto essere esaltato più spesso quale protettore del rapporto omoerotico» (corsivo nostro)l7. Sulla pederastia si torna poi più volte e a lungo nel minore fra i due Simposii, per farne una celebrazione entusiastica in un tono piattamente moralistico e magistrale tipico dello spi rito non eccelso che fu Senofonte. Questo però solo a condi zione che l'amore per i bei ragazzi rappresenti un incontro fra spiriti eletti più che l'attrazione per un corpo. È un eros che diventa profonda amicizia, philia, e che può sopravvivere allo sfiorire della giovinezza dell'amato a differenza delle unioni fondate sulla bassa libidine. Pur tanto diversi per statura intel lettuale, i due allievi di Socrate sono concordi nell'erigere un monumento all'eros pederastico idealizzato. A modo loro, un modo poco comprensibile per i moderni e per una civiltà cri stiana, anche questi Ateniesi adornavano Amore di un velo candidissimo, senza aspettare Petrarca e con buona pace di Ugo Foscolo. E potremmo continuare a riferire ancora, ma tornando a Senofonte preferiamo confessare sinceramente (come non tutti gli interpreti hanno sempre fatto) che qui non riusciamo a capire sino in fondo. Non sapremmo dire come egli immagini concretamente questa specie di amori, se li voglia totalmente casti, con un esercizio di temperanza degno di grandi virtuosi dell'ascetismo, o fino a che punto possa spingersi l'intimità fisica dei suoi ideali amanti: 'eros' significa pur sempre ses200
sualità, e l'ammirazione estetica quando è colorata di sessua lità sta all'inizio di un piano inclinato, fortemente inclinato, al cui termine c'è qualcosa di molto diverso. Di qui cominciano i dubbi, gli scetticismi, le ironie antiche e moderne: una pederastia puramente ideale, lontana dalla vol gare libidine, ignara e sdegnosa di ogni manifestazione fisica, fu davvero praticata in Grecia? O forse ciò accadde solo in taluni ambienti, in alcune parti del mondo greco, nel quadro di certe specialissime e irripetibili istituzioni? Le testimonianze antiche vanno dalla convinta risposta affermativa all'incredu lità e alla condanna di un costume che doveva fatalmente cul minare in un atto contro natura. Di contrasti e contraddizioni è pieno il materiale stesso che dovrebbe servire a ricostruire la realtà dell" amore greco'; e ogni teoria, ogni ricostruzione sistematica di questo aspetto della vita antica, rischia di essere invalidata da qualche testimonianza che sembra smentirla. Platone, è noto, passò dal Simposio alle Leggi, dall'esalta zione di una pederastia tutta spirituale alla condanna senza appello degli amori 'contro natura'18• Senofonte loda altamente la legislazione di Licurgo che aveva dato a Sparta l'istituzione di una pederastia educativa nobilissima e castissima, la forma più alta di pedagogia, ma subito si dichiara consapevole che questo incontrerà lo scetticismo dei lettori, non ignari di come vanno a finire questi amori in altre città greche19• Plutarco darà nuove e interessanti notizie sulle organizzazioni giovanili di Sparta e sulla parte che in esse aveva il rapporto tra amatore e fanciullo amato, un rapporto di severa responsabilità morale del primo verso il secondo20• Ma le voci che si levano in un senso o nell'altro, che credono o no a un possibile valore civico e morale della pederastia, sono innumerevoli, empiono volumi. A noi conviene nutrire 'igienici dubbi' su questi amori ideali che i loro lodatori tendono evidentemente a proiettare nell'u topia o in un passato vagheggiato ma di realtà più che incerta. Chi come noi è lontano dalle epoche e dagli ambienti dove la nobile pederastia era decantata senza fine da una letteratura grande o piccola, sentirà più vicina l'avvertibile ironia di Cice201
rone quando rievoca i pretesi casti amori dei giovani spartani, che dormivano insieme ma separati da una barriera di tessuto («palliis interiectis») , barriera, si aggiunge subito, invero pre caria («tenui sane muro»)21 • «Forse era ver ma non però cre dibile . . . », avrebbe malignato Ludovico Ariosto sulla asserita purezza di questi amori se fosse vissuto al tempo di Cicerone. E la pittura vascolare, oggetto di largo consumo che doveva riflettere la realtà come tutti la conoscevano o potevano imma ginare, parla un diverso linguaggio quando accompagna la vicenda pederastica in tutte le successive fasi: dai primi approcci del corteggiamento, abbastanza spicci a giudicare dalle immagini dove l'amatore mette senz' altro la mano sui genitali dell'adolescente, fino all'atto che gli autori moderni sono costretti a descrivere con espressioni crude come 'pene trazione intercrurale' o 'anale' , rappresentata senza remo re innumerevoli volte. Questa ceramica viene quasi soltanto dal l' Attica del periodo classico, ma è anche vero che sempre da Atene viene la letteratura che idealizza la pederastia casta, ideale che si pretendeva realizzato a Sparta, la Sparta tanto ammirata (e sognata) dagli Ateniesi aristocratici e reazionari. La commedia di Aristofane, sempre pronto a scherzare pesan temente e in ogni registro possibile sull'omosessualità vera o presunta di tutti coloro che gli sono invisi, che colpisce con le beffe più feroci gli effemminati come farebbe il più macho dei mediterranei di oggi, o forse di ieri, non contiene un solo passo che presupponga un carattere biasimevole della pederastia in sé, che faccia oggetto di beffarda condanna un ' sano' instinto pederastico nel maschio adulto. Insieme però la commedia vede la passione del pederaste come inseparabile dal puro aspetto fisico, immaginato nelle sue forme più estreme e crude, cui non verrebbe in mente a nessuno di rinunciare. Non saremo troppo cinici se preferiremo anche noi constatare che il sesso è una bestia difficile da tenere a freno con qualunque faccia si presenti, della donna o del bell'adolescente, e crede remo che i Greci, Spartani o Ateniesi, di età arcaica, classica o ellenistica, non fossero uomini diversi da tutti gli altri. 202
Greci di tutti i generi: ma con Eschine e Demostene, Ari stofane e Platone siamo finora rimasti in sostanza ad Atene, e sarà il momento di sentire qualche altra testimonianza su questa specie di costumi in altre parti del mondo greco, tanto frazionato e vario pur nella sua limitata estensione. Secoli più tardi, al tempo di Augusto, il Greco d'Anatolia Strabone redigerà una monumentale Geografia, di poco pregio scientifico ma di straordinario interesse storico e umano, un grandioso inventario del mondo antico alla sua acme. Qui trova posto anche una celebre pagina sui 'singolari' (idioi) costumi sessuali della gioventù maschile di Creta, descritti da Strabone senza commenti che vadano oltre quell'aggettivo e senza dare la sicurezza se questi usi fossero ancora in vigore al suo tempo, o se come in altri casi egli racconti qui anacronisticamente al presente cose che appartenevano ormai al passato (fonte di questa pagina è lo storico Eforo, vissuto tre secoli prima) . A Creta, scrive colui che gli Antichi chiamavano 'il Geo grafo' per eccellenza, gli amatori non portano alle loro voglie i ragazzi con la persuasione, ciò che per i Greci sarebbe stato banale, ma col rapimento. Con un preavviso minimo di tre giorni l'amante annuncia «agli amici» la sua intenzione di pro cedere al ratto, ne informa cioè la compagnia maschile della quale faceva parte il suo prescelto, fra le tante in cui si divi deva la gioventù di Creta. Questi si radunano a consiglio e deci dono se il connubio sia da approvare o no. Sottrarre il ragazzo al rapimento, o respingere il pretendente, sarebbe oltraggioso per qualcuno, perché vorrebbe dire che si giudica uno dei due indegno dell'altro per rango sociale o carattere morale. Se il nulla-osta è concesso si passa al rapimento cui segue un rituale, finto inseguimento da parte dei compagni del rapito, in realtà contenti e orgogliosi per lui. Desiderabile è considerato infatti (non si manca di osservare moralisticamente) non il più bello ma chi si distingue per coraggio e assennatezza. L'amatore intro duce l'amato nel suo gruppo, lo accoglie con doni e lo porta con sé in un luogo di sua scelta dove trascorrere una luna di miele non più lunga di due mesi (la legge era categorica su 203
questo punto), non in solitudine ma coi soliti compagni, ban chettando e cacciando. n ragazzo torna poi alla vita precedente, carico di doni tanto ricchi e costosi che tutta la compagnia deve quotarsi per sostenere l'amante nell'ingente spesa. Fra questi doni sono di rigore: un completo equipaggiamento militare, una coppa e un bue da sacrificare a Zeus. Ma la storia non è finita: tornato fra i suoi, il ragazzo è tenuto a fare pubblica relazione dei suoi amori, dichiarando la sua sod disfazione o il suo scontento se ha subìto delle violenze; in questo caso ha diritto a chiedere riparazione. Per un adolescente di bell'aspetto e di onorata famiglia, prosegue Eforo/Strabone, è vergogna non trovare spasimanti, mentre chi ne ha avuti gode del titolo di parastathéis (parola di non chiaro significato), ha diritto a un posto d'onore nelle pubbliche cerimonie e allo stadio, e può pararsi della veste di gala che l'amante gli ha donato. Non solo: anche da adulto porterà un abito speciale dal quale si riconoscerà la sua qualità di klein6s, 'glorioso'. Così si chiamano a Creta gli amati, mentre gli amanti portano il titolo di philétor (semplicemente, 'amatore') . «E questi sono i loro costumi d'amore», conclude asciut tamente il geografo senza far molto trapelare, purtroppo, quale effetto producesse questa esposizione sui comuni lettori sud diti dell'impero romano, poco prima della nascita di Cristo. Nel nostro tempo vi si sono gettati avidamente gli indagatori di ogni specie, etnologi, antropologi e storici delle religioni, per scoprirvi le forme del classico rito di passaggio o dell'ini ziazione alla confraternita guerriera cementata dagli amori maschili, tutte cose per cui non mancano i termini di confronto nelle società tradizionali in ogni parte del mondo (e qui ci sarebbe da ricordare la famosa, forse troppo famosa, legione sacra tebana) . C'è stato chi ha trovato tutto ciò ripugnante e grottesco, e chi invece se ne è esaltato riconoscendovi uno sfondo di valori tradizionali, cavallereschi ed eroici. Certa mente l'istituzione sa di altamente arcaico, ed è lecito il sospetto che al tempo di Strabone, o già a quello di Eforo, 204
tutto ciò rappresentasse ormai solo un survival culturale in forme probabilmente fossilizzate e degenerate, raccolto con spirito di etnografo. Non a caso la dorica Creta è strettamente apparentata alla metropoli della stirpe, quella Sparta di cui si è potuto dire che rappresentava in età classica un vero museo di sopravvivenze, gioia dell'antropologia culturale. A Sparta il sistema di classi d'età con relativi riti di iniziazione e di pas saggio, bande giovanili, fraternità di guerrieri (Mtinnerbund, dicono gli antropologi) , era rigidamente istituzionalizzato. Vi si praticava anche il matrimonio per ratto (stavolta 'misto', fra un giovane e una ragazza) che coesisteva con gli amori maschili, anch'essi istituzionalizzati e dotati di una speciale ter minologia ignota al resto della Grecia22• Non c'è dubbio che in questa generale inclinazione greca alla pederastia, poco condivisa dagli Europei d'oggi e ben diversa dalla imperversante pedofilia, sia da riconoscere un dato culturale oltre che naturale e un esempio straordinario di come l'ambiente possa influenzare anche fatti che sembrereb bero strettamente individuali, fisici o psicologici. I Greci stessi sembravano rendersene conto quando attribuivano a vari per sonaggi come il mitico Laio (proprio lo sfortunato padre di Èdipo) l'averla 'inventata', e quando apparivano ben consape voli del fatto che molti popoli barbari ne erano ignari oppure l'avevano 'imparata' dai Greci23 • La pederastia vista e vissuta come fatto culturale, istituzione che si può introdurre, accogliere o respingere come tante altre istituzioni della società. Fatti culturali, all'incrocio di precise coordinate storiche e sociali, oppure fatti universalmente umani, a-storici; fatti per la cui indagine non si può rinunciare alle categorie della socio logia, oppure di pura pertinenza di una psicologia perenne. Questa è forse la pjù importante linea che divide oggi gli stu diosi di questa materia. Substantialists contro social-construc tionists, secondo la prevalente terminologia anglo-americana. In altre parole: possiamo parlare di omosessualità antica come se ' sostanzialmente' niente fosse cambiato dai tempi di Teo gnide a quelli di Oscar Wilde, anzi dell'Arcigay, o dobbiamo 205
prima di tutto inquadrare questi vari momenti nell"edifìcio sociale' che li ha ospitati, sotto pena di vedere l'oggetto del nostro studio svanire nel generico, !asciarci con in mano delle parole inutili e vuote? Certo è che anche all'interno della cultura greca ci sareb bero da fare importanti distinzioni di tempi e luoghi. Un passo famoso del Simposio platonico allude a forti differenze in varie parti del mondo greco, quanto ad atteggiamento verso la pede rastia, volta a volta biasimata o vista con favore. Qualcosa nel testo è oscuro e controverso, mentre chiaramente è espressa un'idea che a noi sembra strana, ma che si inquadra bene in un complesso di convinzioni testimoniato anche da altri autori: i paesi greci meno inclini alla pederastia sarebbero quelli che più sono stati sottomessi ai barbari; questi, per cui la tirannide è la forma istituzionale più connaturata, non tollerano né la pederastia, né la filosofia, né la ginnastica, cose che educano animi grandi e intolleranti del giogo come ha mostrato l'e sempio dell'eroica coppia di Armodio e Aristogìtone24 (perlo meno, così fa dire Platone al commensale Pausania) . A parte questa teoria, non sappiamo se intesa del tutto seriamente, molti autori moderni si sono convinti che la pede rastia come istituzione fosse caratteristica dei Greci di stirpe dorica e da loro praticata più largamente che dagli altri. n passo di Platone appena citato non sembra confermarlo, e di sicuro ci sono solo le testimonianze già viste sui costumi e sulle istituzioni di Creta e Laconia, le due terre di doricità più schietta, le più conservatrici e immuni da mescolanze. Ci si è posti anche il problema se questi costumi appaiano radicati nella cultura greca sin dal suo primo entrare nella luce della storia o se siano il prodotto di condizioni createsi gra datamente. La risposta si è cercata nei primi documenti lette rari e artistici, soprattutto Omero e i resti della lirica arcaica. I poemi omerici celebrano l'amore coniugale e conoscono perfino, nell'incontro del maturo Ulisse con la giovanissima Nausicaa, una delicata storia di innamoramento inespresso, fuggevole e impossibile, degna di un romanziere moderno, 206
mentre alla pederastia fanno . a malapena un cenno evocando la figura di Ganimede. Con buona pace di Eschine, l'idea di Achille e Patroclo come coppia di amanti venne in mente a qualcuno che non era ' Omero' , qualunque cosa significhi questo nome, e trovò consacrazione poetica, sembra, solo coi perduti Mirmìdoni di Eschilo dei quali resta un frammento molto esplicito25• li poeta epico ha invece cura di raccontare, in un punto importante dell'Iliade, che i due fraterni amici si coricarono a sera ciascuno con una schiava al fianco: Achille con Diomede dalle belle guance (non fraintendiamo: in greco Dioméde è femminile, mentre il celebre eroe si chiama Diomédes) ; Patroclo con Ifide dalla bella cintura, la prigioniera di guerra regalatagli dall'amico ( ! ) 26• Tutto il più antico e originario fondo del mito e della leg genda greca conosce in forte prevalenza amori e drammi fra maschi e femmine, dall'adulterio di Afrodite e Ares alla gelosia di Clitennestra per Cassandra. Il venire così prepotentemente alla ribalta dell'eros pederastico sembra cosa di un'epoca suc cessiva e probabilmente riguardò in diversa misura i diversi ambienti culturali e sociali. Da Eschine abbiamo già ricavato che la pederastia poteva accompagnarsi a forme di snobismo intellettuale, secondo l'immagine che ne aveva il comune pub blico ateniese27• Espressioni non dubbie di questa specie di erotismo com paiono nella lirica del secolo VI, quasi tutta frammentaria. Del reggino Ibico, nato in Magna Grecia e migrato a Samo, in piena lonia, restano poche decine di versi, ma ricchi di inten sissima espressione e di grande significato per il nostro tema. Del megarese Teognide (di Megara della madrepatria, non la città siciliana) resta un vero piccolo corpus di elegie pedera stiche, il cosiddetto libro II della sua opera; è in realtà una sezione a parte, un piccolo en/er dove il puritanesimo di qualche editore bizantino relegò i versi di chiaro significato e anche quelli che pur in sé ambigui si collegavano ai primi, e si rivelavano così ispirati alla stessa materia28• 207
Fra questi circa ottanta distici se ne leggono di particolar mente espliciti, come questi:
È piacevole amare i ragazzi: una volta anche il Cronide re degli immortali amò Ganimede, lo rapì, lo portò sull'Olimpo e lo fece dio nel fiore amabile degli anni. Non ti stupire, dunque, Simonide se appaio anch'io domato dall'amore di un bel ragazzo (vv. 1345 - 1350). La schermaglia d'amore, coi suoi rispetti umani e i suoi pet tegolezzi, non si distingue da quella che si potrebbe condurre con una donna - e questo resterà caratteristico di tutta la poesia pederastica greca: Ahimè! Amo un tenero ragazzo che mi rivela a tutti gli amici, ed io non voglio. Sopporterò senza nascondere tante imposizioni violente. Del resto non è indegno il ragazzo che mi doma (vv. 1 3 4 1 - 1344).
E già nel VII secolo la poesia di Alcmane sembra rivelare nella sua Sparta una sottintesa omosessualità femminile che si spiega solo come pendant di quella maschile, anche se ne manca la testimonianza diretta29• Dopo la grande stagione socratica, platonica, ateniese, ancora alla vigilia del trionfo del cristianesimo un anonimo imi tatore di Luciano fa pronunciare a un personaggio nel dialogo degli Amori un'appassionata lode della pederastia, che viene proclamata vincitrice nel confronto con l'encomio dell'amore fra i sessi pronunciato con altrettanto calore dall'antagonista30. Niente di quel che si legge qui è veramente nuovo, e tutto si inserisce in una secolare tradizione, vecchia almeno quanto il Crisippo di Euripide dove il confronto fra le due specie di amore era già oggetto di ag6n, di discussione. L'amore per le donne è celebrato come superiore in quanto conforme a natura e a ciò che avviene nel sano mondo animale, e necessario alla perpetuazione dell'umanità, mentre quello fra maschi è inna turale e sterile. L'avvocato dell'opposta causa prevale innal zando la pederastia come raffinamento di cultura che ha supe rato le animalesche necessità della sopravvivenza e come segno 208
di superiorità intellettuale e spirituale. Entrambi gli antagonisti non disdegnano poi di scendere anche agli aspetti sensuali delle due facce dell'amore, ognuno per rivendicare la supe riorità dei piaceri cui è dedito. Anche questo aveva dietro di sé una lunga tradizione di analoghe discussioni sui pro e contro dei due differenti 'orientamenti' , testimoniata da opere per dute ma che molte citazioni e richiami di autori conservati per mettono di intravvedere. Conservato integralmente è l'Erotico di Plutarco, altro dialogo dove la disputa era finita in modo opposto, con la vittoria attribuita all'amore coniugale pur dopo molti riconoscimenti tributati alla pederastia 'angelicata', nella scia di Platone31• Probabilmente all'epoca imperiale, forse al I o I I secolo d.C., appartengono i pochi romanzi greci sopravvissuti, storie sentimentali ricche di retorica e povere di psicologia, destinate a un pubblico di gusti facili. Qui i protagonisti sono sempre coppie di sposi o fidanzati legati da amore appassionato, anche se vi compaiono marginali storie di pederastia. Uno contiene l'ennesima disputa a proposito della superiorità dell'una o del l' altra specie di amori, fra contendenti che non temono di evo care precisi e imbarazzanti particolari32• Anche in questi pro dotti di letteratura semi-popolare è netta la distinzione fra la pederastia per bene che può partecipare allo happy ending pro prio come l'amore 'etero' dei protagonisti, e la bassa libidine rappresentata da personaggi più o meno spregevoli che vor rebbero usare violenza a più o meno casti giovinetti33 • Quello che più tardi s i sarebbe chiamato 'amore greco doveva apparire come costume di Grecia già alle culture che vennero variamente a contatto con essa. A Roma e in Italia non ci sorÌo tracce di pederastia istituzionalizzata come a Sparta e a Creta, né essa appare radicata nel costume come ad Atene. L'atteggiamento comune verso di essa doveva essere fondamentalmente diverso, salvo che negli strati sociali di cul tura più ellenizzata, meglio rappresentati nella letteratura, o quasi esclusivamente da essa conosciuti34• Non è certo un caso 209
che il verbo paedicari>5 venga dal greco, la lingua in cui il fan ciullo amato dal paiderastés si chiamava curiosamente con un neutro plurale, tà paidikd; né sarà un caso che il più famoso rappresentante di questa categoria, il bellissimo Antinoo, fosse legato al più filellèno e grecizzante di tutti gli imperatori, Elio Adriano. E c'è la diretta testimonianza di Cicerone e Cornelio Nepote a prova di come la pederastia fosse considerata a Roma un tipico costume greco36• Quanto all'omosessuale adulto e passivo, la deprecazione e lo scherno riversati su di lui non erano certo minori che in Grecia o in tante altre società. Nella licenza carnevalesca del trionfo i legionari beffarono Cesare per la sua avventura col re Nicomede in rozzi ed espliciti versi, raccolti con gioia dalla malalingua Svetonio e ricordati da Dante: « . . ciò per che già Cesar triunfando, l regina contra sé chiamar s'intese»37 ('Regina': i soldati romani e in seguito Dante anticipavano senza saperlo l'odierno uso gergale del l'inglese queen ! ) . L a più ricca e divertente storia di amori pederastici scritta in latino si legge poi nel Satyricon di Petronio, dove tutti i per sonaggi hanno nomi greci e si aggirano in un'Italia meridio nale che è ancora Magna Grecia, in un seguito di vicende che accentuano il grottesco della situazione. Altrove c'era chi non ci trovava niente da ridere, come il popolo nel cui mito ardevano ancora ammonitrici le fiamme di Sodoma distrutta dall'ira divina. La rivolta nazionale dei Mac cabei, la vera pagina eroica nella storia di Israele, fu scatenata dai molti abominii che il cento volte maledetto re ellenistico di Siria Antìoco Epìfane impose nella città santa: accanto ai culti pagani anche palestre e ginnasi, focolai di quel che sappiamo (e a Gerusalemme nessuno sarà stato disposto a distinguere fra pederastia buona e cattiva, vera pederastia ed effemminatezza)38. Non faceva molte distinzioni neppure il filosofo ebreo alessan drino Filone che condannava allo stesso modo il paiderastés e 1'andr6gynon, sia chi 'fa' sia chi 'subisce', e invocava punizioni spietate: l'uno fa cosa contro natura seminando in un terreno sterile; l'altro fa lo stesso alterando in femminile la sua natura .
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maschile. Quanto ai due famosi 'banchetti' della letteratura greca conditi di discussioni sull'amore, quello di Senofonte gli sembrava più vicino alla vita e relativamente innocuo con le buffonerie di cui è disseminato, mentre quello di Platone era grandemente pemicioso39• Paolo di Tarso, l'Ebreo ellenizzato, l'apostolo che più di tutti doveva allontanare il nascente cristianesimo dalla matrice giudaica, accolse dall'etica dei suoi padri l'orrore per ogni forma di omosessualità e la segnò a fuoco per i secoli (i nostri secoli! ) con parole fra le più roventi delle sue roventi lettere, facendone il più terribile capo d'accusa contro i pagani: «Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cam biato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s'addiceva al loro traviamento»40• Le donne: proprio l'apostolo cristiano viene a ricordarci che esiste anche l'altra faccia della medaglia, in una storia dove finora omosessualità è stato sinonimo di omosessualità maschile. Su quest'altra faccia le fonti antiche sono piuttosto reticenti, in grande contrasto con la loro estrema ricchezza di testimo nianze sugli amori maschili, e in apparente contrasto anche col fatto che in tutte le lingue europee odierne l'omosessualità femminile prende il nome da un'isola greca famosa nell'Anti chità come terra di poesia, l'isola «where burning Sappho loved and sung»: Lesbo4 1• La moderna coniazione verbale sembra appropriata; le poesie di Saffo nominano giovani amiche e compagne, o sono ad esse rivolte, ed esprimono un caldo erotismo, qualche volta di ardore impareggiabile come nella famosa ode della gelosia, che Catullo fece da greca latina e trasformò da orno- in eterosessuale. La nostra epoca, che nello studio della storia ricorre tanto volentieri alla categoria del sociale, da tempo si domanda quale 211
fosse il quadro in cui nasceva questo tipo di rapporti e che posto essi occupassero nella società e nella cultura del tempo. Oggi molti risponderebbero convintamente che tutto quel che sappiamo a proposito dei gruppi di giovani maschi, delle 'leghe' chiuse e dei rapporti che nascono al loro interno, si può in una certa misura applicare all'altro sesso, anche se qui le testimonianze dall'Antichità sono infinitamente più scarse e se il grado di istituzionalizzazione doveva essere inferiore. Tracce significative, come si è accennato, ne sopravvivono nella poesia di Alcmane (VII sec. a.C . ) , in composizioni destinate a cori di ragazze che è stato facile leggere in questa chiave, una volta che si disponeva degli strumenti conoscitivi adatti; e con Alcmane e i suoi 'partenii' siamo a Sparta, proprio nella città dove si conservava meglio che altrove quel tipo di arcaiche strutture42• In un gruppo di questo genere, cementato anche dal culto religioso, Saffo rivestì forse una posizione eminente di maestra e iniziatrice delle giovani allieve alla vita sociale, e anche all'erotismo, nel quadro di una vera istituzione didat tico-educativa. In diverse varianti (istituzione più o meno pub blica, accademia puramente musicale e poetica oppure thiasos, congregazione religiosa) , è questa un'ipotesi che ha avuto una straordinaria fortuna tra i filologi, ma che ipotesi resta43 • Non sempre quel che sembra pacifico al lettore 'innocente' è tale anche per la critica erudita, armata di sottigliezze e distinzioni. Anche su di un fatto apparentemente così palmare come il genere di erotismo rispecchiantesi nella poesia di Saffo si accese una discussione durata secoli e cui dobbiamo fare almeno un cenno. L'omosessualità della poetessa è ben nota a parecchie testi monianze antiche, anche se tutte tarde e prevalentemente latine. Forse la più famosa, ma anche la più discussa, è quella di Orazio, che le dà l'epiteto di 'mascula' in un contesto sto rico-letterario dove si valuta la sua posizione nella storia della lirica greca, più precisamente dei suoi metri44• Già l'antico commentatore Porfirione preferiva non pronunciarsi sulla que stione se qui si volesse dire soltanto che la grande poetessa 2 12
meritava di essere chiamata 'maschia' in quanto rivaleggiava da pari a pari coi poeti uomini, o se . . ll dubbio continuò fino a tempi recenti, e ci fu perfino chi si pentì e dolse di aver inter pretato l'innocente Orazio nel senso malizioso - senza pensare che interpretandolo nel senso puramente storico-letterario gli si attribuiva un'estrema maldestrezza, quando aveva scelto una parola che si prestava tanto facilmente a suscitare certi pen sieri ! 45. Leopardi, quando fa vantare la sua Saffo 'etero' delle proprie «virili imprese», «dotta lira o canto», dovette ricor darsi di Orazio interpretato nel senso 'innocente', scegliendo come portavoce ai propri fini poetici la degna rivale dei col leghi maschi, non l'amante di ragazze. Orazio a parte, ciò che suscitava perplessità era semmai il presunto innamoramento di Saffo oltre che per le varie Anat toria, Agàllide e compagnia anche per il bellissimo e ingrato Faone. Oggi il termine e il concetto di bisessuale sono noti a tutti, ma sembra che per qualcuno non fosse sempre così, se una fonte biografica credette di dover risolvere con un taglio il nodo gordiano del dubbio e di una Saffo ne fece due: la poetessa che conosciamo, con la sua cerchia di ragazze, e un'o monima, sempre di Lesbo, suicida per amore di Faone46. Ma voci levatesi a difendere la 'vera' Saffo dalla taccia di omoses suale o tribds (' sfregatrice' ) , come dicevano crudamente i Greci47, non ne sono arrivate dall'Antichità: sarebbe toccato a certi moderni assumersi questa causa. Dopo la lunga parentesi medievale in cui essa fu poco più che un nome leggendario, una figura non più storica di Orfeo o della musa Erato, la discussione su Saffo si aprì con la risco perta umanistica della XV Eroide di Ovidio, la lettera a Faone dapprima ritenuta semplice traduzione latina di un originale risalente alla poetessa in persona (così pensava per esempio l'umanista italiano Domizio Calderini, nel 1475 ) . Nella com posizione ovidiana Saffo non fa misteri delle sue esperienze e parla come una 'convertita' ai nuovi gusti dalla bellezza e dal fascino di Faone; di qui si diffuse la sua reputazione. .
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Ma anche le tracce dei dubbi e delle controversie, dei vari 'negazionismi', spuntano un po' dappertutto. Già la tradizione manoscritta dell'Eroide di Ovidio conosce due varianti testuali in punti decisivi, che oggi nessun editore accetta più e che mira vano palesemente a spuntare quella che per lungo tempo fu la testimonianza più famosa o l'unica conosciuta degli amori par ticolari di Saffo: il verso 1 9 «quas non sine crimine amavi» (le ragazze di Lesbo) diventò in alcuni codici «quas iam sine cri mine amavi», variante in sé accettabile, forse congettura umani stica, o «quas hic sine crimine amavi», variante scadente48• Insomma, pare che più d'uno fra quanti hanno trasmesso l'epi stola abbia voluto togliere il fatale non dall'ammissione auto biografica 'non senza colpa' (naturalmente quella colpa)49• Seguire tutte le oscillazioni del giudizio attraverso i secoli, tutti i pro e i contro che vennero messi in campo nella discus sione su Saffo, sarebbe naturalmente impossibile qui. Vogliamo solo ricordare che la disputa conobbe uno dei suoi punti cul minanti nella Francia del grand siècle e si collegò alla tanto celebre querelle des anciens et des modernes attraverso un per sonaggio che fu tra i suoi protagonisti. Se ne trova un riflesso eloquente, e perfino gustoso, in una delle opere più famose del tempo, il Dictionnaire historique et critique di Pierre Bayle5°. ll caustico illuminista non ha paura delle parole chiare e comincia col dare per assodato che Saffo fu «une insigne Tribade>>, e che per questo meritò il soprannome di hommesse (come egli rende bizzarramente il mascula di Orazio)51. Si passa poi alla polemica contro gli 'innocentisti', fra cui primeggia colei che Bayle chiama ancora 'mademoiselle le Fevre' (riproduciamo la sua ortografia) e che la posterità ricorda piuttosto sotto il cognome da 'madame', quello dell'insigne umanista André Dacier da lei in seguito sposata-52• Con malinteso zelo apologetico Anne le Fevre voleva difendere Saffo dall' accusa di costumi infami, ma secondo Bayle non poteva convincere nessuno. Alla fine del XVIII secolo la questione si riaffaccia in uno dei libri più celebri del tempo, il romanzo storico-didattico Voyage dujeune Anacharsis di J.J. Barthélemy, in forma di cauta 2 14
difesa espressa nel dialogo fra l'immaginario viaggiatore e un anonimo cittadino di Lesbo: i Greci, nella loro estrema sensi bilità (questo se ne ricava), esprimevano anche i sentimenti più innocenti in un linguaggio che a noi sembra erotico, perciò bisogna rinunciare a un giudizio risolutivo e limitarsi ad ammi rare la grandezza della poetessa53• Infine si mettono a con fronto il rapporto di Saffo con le sue scolare e quello di Socrate coi vari Alcibiade etc. (come aveva già fatto nel II secolo d.C. il sofista Massimo di Tiro), per il quale varrebbero le stesse considerazioni54• li XIX secolo conobbe poi un negazionismo colorito un po' di esaltazione romantica un po' di pruderie vittoriana; espo nenti ne furono anche alcuni grandi degli studi classici come Friedrich Gottlieb Welcker e Ulrich von Wilamowitz55• Si cominciò a sospettare che certe testimonianze antiche non fos sero di buona lega ma risalissero agli scherzi maliziosi dei comici, presi sul serio da successivi autori e autorucoli che non li capivano più (questo delle battute comiche prese da qual cuno per oro colato è un argomento ricorrente nella filologia classica, quando si sono volute invalidare certe testimonianze biografiche: non si è fatto evidentemente molto affidamento sul senso dell'umorismo degli Antichi, soprattutto quelli di epoca tarda, sempre immaginabili come non troppo svegli)56. Secondo Wilamowitz gli sporcaccioni saremmo noi, capaci solo di vedere perversione erotica dove si esprime invece la condivisione fra amiche del cuore di un culto acceso ed entu siastico della bellezza e della poesia, una condizione senti mentale e spirituale di grande nobiltà e purezza57• Nel secolo scorso, il crocianesimo produsse poi una forma di 'indifferentismo', prevedibile da chi sa come ogni indagine biografica fosse considerata da molti seguaci di quell'indirizzo poco meglio che pettegolezzo di portineria, paragonabile all'o pera di chi intorbida un'acqua limpida e pura rimestando la feccia posatasi sul fondo del recipiente (l 'acqua limpida sarebbe la poesia, e la feccia l"umano, troppo umano' del poeta) . Per Gennaro Perrotta, pur non cieco ai fatti docu215
mentati, la luce della poesia di Saffo era talmente abbagliante da eclissare ogni altro aspetto, qualcosa di tanto sublime da far scadere nell'irrilevanza qualsiasi circostanza biografica e personale: la sua poesia è 'pura' «perché poesia, e altissima poesia». Manara Valgimigli stendeva invece su tutto la coltre del suo 'buonismo' storico-critico: tutto in Saffo dev'essere purezza, nobiltà, elevatezza, e per il tribadismo proprio non c'è posto58• Più recentemente la figura storica della grande e contro versa poetessa è diventata oggetto di molta attenzione anche al di fuori della cerchia degli specialisti, per il sorgere di una vastissima letteratura che va dai neutrali 'gender studies' agli scritti militanti che possiamo chiamare per capirci 'lesbico femministici' , fino ai più arrabbiati dove il nome di Saffo diventa parola d'ordine e insegna di combattimento59• L'insi curezza delle nostre conoscenze, fondate su un patrimonio di frammenti malauguratamente scarso, consente di arruolare l'antica poetessa nei moderni movimenti di liberazione o di orgogliosa rivendicazione, in campo sessuale. Con ciò si regre disce rispetto alla visione più differenziata cui l'indagine antropologica era arrivata attraverso il confronto con ciò che avviene nelle società tradizionali sopravvissute fino al nostro tempo o conosciute dalla letteratura etnografica del passato. Quasi un rovesciamento del moralismo vittoriano, altrettanto antistorico60• Dopo che la 'questione saffica' era stata aperta, anche le letterature creative dell'età moderna non si dimenticarono più della leggendaria poetessa, forse più leggendaria di qualsiasi autore antico tranne Omero, colei che già nelle Eroidi di Ovidio compariva come unico personaggio storico fra le eroine del mito. Accenni a lei si trovano un po' dappertutto, in ogni tempo. Petrarca la ricorda come «docta puella» e Ariosto la celebra ancora come «dotta» accanto all'altra poetessa greca Corinna, mentre Raffaello le dà un posto nel suo Parnaso accanto ai sommi poeti di ogni tempo. Fra le più antiche opere 2 16
letterarie a lei dedicate c'è la commedia Saffo e Faone dell'e lisabettiano John Lily ( 1583 ) . Solo col tardo Settecento e con l'Ottocento si ha però una vera fioritura di produzioni origi nali dove Saffo sta al centro, in un modo o nell'altro. C'è da ricordare uno scadentissimo romanzo di Alessandro Verri, un'assai pregevole tragedia di Franz Grillparzer, diverse opere in musica (Pacini, Gounod), ma soprattutto, com'è naturale, molta poesia lirica che evoca la sua figura o la fa parlare con le parole del poeta moderno. In questo vastissimo panorama, che soltanto recentemente è stato esplorato con la dovuta attenzione, il leopardiano Ultimo canto di Saffo è solo una delle vette emi nenti (e non è neppure l'unico a portare quel preciso titolo ! )61. È una letteratura che nella sua quasi totalità sceglie di igno rare la questione dell'omosessualità e conosce esclusivamente la Saffo 'etero', folle amante di Faone e suicida perché non ricambiata. Solo col decadentismo di fine secolo e col Nove cento le cose cambiano anche sul terreno letterario, parallela mente al farsi più esplicito del discorso storico su Saffo e al mutamento di tono in esso avvertibile, quando si tocca l' ar gomento dei suoi costumi. Ma di Lesbo si era cominciato a parlare in maniera nuova già con Baudelaire e con le sue Fleurs du mal, che originariamente avrebbero dovuto intitolarsi addi rittura Les Lesbiennes. Per tutti, citiamo il caso della poetessa 'maudite' Renée Vivien, inglese di nascita e francese di adozione, morta a Parigi nel 1909, traduttrice ed emula di Saffo. Nella sua opera la tra dizione relativa a Faone è messa da parte come estranea e ingombrante, mentre l'omosessualità della poetessa antica è rivissuta con profonda adesione. 'Amore greco' , pederasti greci: nobili educatori, immondi corruttori, o semplicemente omosessuali quali se ne trovano in ogni tempo e ogni paese in una ricorrente gamma di tipi e varietà; come dobbiamo considerarli? Dopo tanti pudichi silenzi e tante parole discordi, una risposta sicura non c'è, tanto meno una risposta che valga per tutti, per l'età classica come 2 17
per l'ellenismo e la tarda Antichità, per Atene come per Creta e Sparta. Possiamo dire solo che la Grecia precristiana non mandava all'inferno gli amanti dei bei ragazzi, ma neanche concedeva loro un facile paradiso. Sapeva che l'istinto del maschio può ravvisare nell'adolescente del proprio sesso i 'tratti pertinenti' che secondo la logica della natura dovreb bero essere quelli della femmina, stimolatori della risposta intesa alla perpetuazione della specie. Aveva in larga misura accettato la cosa, l'aveva resa socialmente innocua o perfino utile, e regolata con una morale, una sua diversa morale62• Il lato femminile della storia, che si concentra quasi del tutto attorno alla figura di una grande poetessa e alla sua esperienza personalissima, presenta problemi in parte simili in parte molto diversi, cui abbiamo potuto solo accennare.
Note
l n tema 'omosessualità greca' non è stato mai del tutto tabù, ma è vero che la relativa bibliografia si è enormemente arricchita ed è venuta molto più allo scoperto negli ultimi decenni del Novecento. Prima, si devono ricor dare anche scritti semiclandestini, pubblicati quasi alla macchia e con circo lazione limitata, come gli opuscoli della singolare figura che
fu il tedesco Karl
Heinrich Ulrichs, per cui vedi HUBERf C. KENNEDY, in S.J. LICATAIROBERf P. PETERSEN (edd.), Historical perspectives on homosexuality, New York 1981, pp.
l 03 - 1 1 1 , oppure lo scritto del famoso critico inglese JOHN ADDINGTON SYMONDS, A problem in modern ethics, uscito nel 1883 e protagonista di com
plicate vicende bibliografiche
(fin qui siamo nella letteratura omosessuale mili il tema si considera pietra miliare
tante). Per la nuova franchezza con cui tratta l'articolo di ERICH
BETHE sulla pederastia dorica, Die dorische Knabenliebe, thre Ethik, thre Idee, in «Rheinisches Museum» 62 (1907), pp. 438-475, che
fece scalpore in un'Europa ancora vittoriana. Qui le valide osservazioni di carat tere etnografico si affiancano a un tono apologetico, se non di esaltazione, che rimanda all'altra faccia della medaglia: quella era anche l'Europa del circolo di Stefan George etc. Apertamente di parte (favorevole) era il grosso libro di J.Z. EGLINTON, Greek love, New York 1967. Per un orientamento generale fra gli
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autori che si propongono solo l'obiettività scientifica citiamo: KENNETH J. DoVER, Greek homosexuality, London 1978, considerato opera pionieristica e tradotto anche in italiano: I.:omosessualità nel/4 Grecia antica, Torino 1984; FÉLIX BUFFIÈRE, Éros adolescent. La pédérastie dans 14 Grèce antique, Paris 1980, più meramente descrittivo e aneddotico; HARALD PA!lER, Die griechische Kna benliebe, Wiesbaden 1982, in «Sitzungsber. d. wiss. Gesellschaft der J.W. Goethe-Univ. Frankfurt a.M.» XIX l , riprende la concezione di Bethe met tendo a frutto le esperienze di un secolo che ha visto ogni specie di 'rivolu zione sessuale'. Una buona introduzione, ricca di punti di vista, è il volume miscellaneo curato da CLAUDE CALAME, I.:amore in Grecia, Roma-Bari 1983 . Notevole successo ha avuto EvA CANTARELLA, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Milano 1988 (poi altre edizioni e traduzioni); titolo e sotto titolo suggeriscono già molto: opera di una giurista, insiste sull'opposizione fra ruolo sessuale attivo o passivo, opposizione molto più importante per gli antichi della nostra fra orno- ed eterosessuale, concetto accolto da molti rappresen tanti della ricerca più aggiornata; anche DAVID M. HALPERIN, One hundred years o/homosexuality and other essays on Greek love, New York-London 1990, è polemico contro l'applicazione all'erotismo greco della categoria di omoses sualità intesa troppo modernamente. Utile è la raccolta di testi greci e latini (in traduzione inglese) curata da THOMAS K. HUBBARD, Homosexuality in Greece and Rome. A sourcebook o/ basic documents, Berkeley-Los Angeles-London 2003, introdotta da un'equilibrata rassegna degli odierni studi sull'argomento. 2 Vedi sotto, sul Carmide e sul Liside di Platone. 3 Chi leggeva queste allusioni erotiche nel testo omerico riteneva in genere che Patroclo fosse il più anziano dei due. Senofonte sembra presupporre il contrario nel Simposio VIII 3 1 . 4 La storia del vestire effemminato d i Demostene, e in generale dei suoi pessimi costumi, divenne un topos della tradizione biografica. Vedi Ps.-Plu tarco, Vite dei dieci oratori 847 e Tzetzes, Chiliadi VI (37), 86-88, 139 sgg. 5 Conclusione del cap. 4. 6 Sulla pederastia come motivo letterario vedi già WILHELM FRIEDRICH, Zu Achilles Tatius, in «Rheinisches Museum» 57 (1902) p. 59 n. 3 . 7 Uso che a chi scrive sembra peraltro in decadenza, a partire dalla metà del secolo scorso. Per la lingua francese, l'improprietà di usare pédéraste nel senso generico di 'omosessuale' è notata da FÉLIX BUFFIÈRE, Eros adolescent cit., p. 11. 8 Antologia Pawtina XII 4. 9 Negli Amores dello Pseudo-Luciano (cap. 26), uno dei personaggi del dialogo fissa a venti anni l'età critica, oltre la quale non si tratta più di fan ciullo amato ma di partner in una vera relazione omosessuale. 10 All udiamo all'Etica a Nicomaco: «Finita la bellezza giovanile, qualche volta resta l'amicizia>> (VIII 4,1-2). 11 Detto esplicitamente da un altro interlocutore nei citati Amores dello Pseudo-Luciano, cap. 48: quando un amore pederastico 'serio' arriva all'età
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virile, non si distingue più chi è l'amato e chi l'amante, ma il rapporto può restare spiritualmene elevato, tanto che merita di essere illustrato con una gen tile similitudine: l'amore è come l'immagine riflessa in uno specchio, che dal l' amato torna all'amante. 12 In realtà, stando alle statistiche, i pedofili che si macchiano di violenza criminale sarebbero un'infima minoranza. Formata sul modello pseudogreco di cinofilo o bocciofilo, la parola sembrerebbe significare alla lettera 'amico dei bambini'. Non siamo i primi a osservame la poca opportunità. Quanto alla cronologia della sua diffusione in Italia, chi scrive non trovò motivo di par lame nella prima edizione del suo libro Il nostro greco quottdiano. I grecismi dei mass-media, Roma-Bari 1986, mentre gli fu impossibile ignorarlo nella seconda del 1994, p. 78. Sulle distinzioni fra pédophile e éphébophile, homo sexuel e homophile (quest'ultimo avrebbe un colorito più ideale, secondo gli interessati), v. ancora BUFFIÈRE, Eros adolescent, cit., ibtd. 13 Una vera, ampia galleria di figure dà K.]. DoVER nel suo Greek homo sexuality, cit. 14 Così l'americano HOLT N. PARKER, in Roman sexualities. Edited by ].P. Hallett and M.B. Skinner, Princeton 1997, p. 60. 15 Sono da considerare le obiezioni di T.K. HUBBARD, Homosexuality in Greece and Rome, cit., pp. 10-14, che si fonda sulle testimonianze figurative accanto a quelle letterarie: le numerosissime pitture vascolari con scene di «same-gender love and/or sexual activity>> (per usare la sua definizione più neutra possibile, p. l) mostrano una sostanziale 'parità' dei due partner impe gnati nell'atto sessuale, già nell'atteggiamento fisico. 16 Frammento 123 (88). 17 Così rispettivamente WALTER BURKERT e SILVANA FASCE in I.:amore in Grecia, cit., pp. 135 e 125. Per la contrapposizione di Eros come sinonimo di nobile passione contrapposto ad Afrodite come sinonimo di pura sessualità e libidine, sarà da vedere l'Amatorio di Plutarco, cap. 16 sgg. 18 La dura condanna della pederastia, piacere innaturale e sterile a diffe renza di quello naturale e fecondo degli amori fra uomini e donne, è in Leggi I 636 b-e.
19 Respublica Laced. 2,12-14. Vita di Licurgo 17-18. 21 De republica IV 4. 22 Fonte principale è qui il già citato Plutarco (v. sopra n. 20). 20
23 Così asserisce Erodoto, poco credibilmente, a proposito dei Persiani
(Storie I 135). Di altri si sapeva invece che erano dediti alla vera e propria omo sessualità, e che non consideravano aischr6n il concedersi, come i Celti; un autore che in una famosa pagina descrive i loro usi e costumi si meraviglia un po' ingenuamente della cosa, perché, dice, «hanno bellissime donne» (Dro DORO SICULO, Bzblioteca storica V 32,7; cfr. Ateneo, Deipnosofisti Xlll 79, 603 a). All'omosessualità dei 'Celti' (che all'epoca significava genericamente 'europei del nord') accenna Aristotele, Politica II 9,7.
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24 Simposio, 182 a sgg. L'inconciliabilità tra pederastia e tirannide è riai fermata nei Deipnoso./isti di Ateneo, XIII 78 (602 a sgg.). 25 È il fr. 135 nei Tragicorum Graecorum fragmenta curati dal Radt, vol. ITI, Gottingen 1985. A un sottinteso carattere erotico dell'amicizia fra Achille e Patroclo (e anche di quella fra Telemaco e Pisistrato, nell'OdZ:Ssea) crede E. CANTARELLA , Secondo natura, cit., pp. 24 sgg., seguendo B. SERGENT, l}homo sexualité dans 14 mythologie grecque, Paris 1983 (l}omosessualità nel/4 mitologia greca, Roma-Bari 1986), pp. 283 sgg. della traduzione italiana. 26 Iliade IX 664-668. 27 Vedi sopra, p. 174. 28 Per questa pane dell'opera di Teognide si dispone dell'edizione critica ampiamente introdotta e commentata a cura di MAsSIMO VETTA: Teognide, Libro secondo, Roma 1980, dalla quale sono tratte le traduzioni che seguono. 29 Qui saranno da vedere BRUNO GENilll , Il «Partenio» di Alcmane e l'a
more omoerotico femminile nei tiasi spartani, in «Quaderni urbinati» 22 (1976), pp. 59-67; poi Le vie di Eros nel/4 poesia dei tiasi femminili e dei simposi in Poesia e pubblico nel/4 Grecia antica, Roma-Bari 1984, pp. 101-139, e CLAUDE CALAME, l}amore omosessuale nei cori di fanciulle, in l}amore in Grecia, cit. ,
73-85 (saggio già pubblicato nel 1977). 30 Gli Amores pseudo-lucianei sono datati generalmente all'inizio del IV secolo d.C. 3 1 Molto si può imparare su questi temi nel XIII libro dei Deipnosofisti di Ateneo, una miniera inesauribile di notizie, considerazioni varie e pettegolezzi sull'erotismo greco e sulle preferenze sessuali di illustri personaggi come Sofocle (accesissimo pederaste) o Euripide, misogino solo nella sua opera letteraria. 32 Vedi Senofonte Efesio, Abrocome e Anzia m 2, V 13,6; Achille Tazio, Leucippe e Clitofonte II 36-38. Sulle fonti di Achille Tazio e sulla tradizione in cui egli si inserisce, v. WILHELM FRIEDRICH, Zu Achilles Tatius, cit., pp. 55-75. Non è l'unico esempio di discussione su questo tema nella letteratura greca, né il tema è limitato alla Grecia: v. gli Amores dello Pseudo-Luciano, e cfr. Le mille e una notte, la disputa fra Al-Salhani e Zahia (notti 390-393), che non ha niente da invidiare ai dibattiti greci. Per un esempio medievale, quello di 'Gani mede ed Elena', v. il testo edito e commentato da W WATTENBACH in «Zeit schrift f. deutsches Alterthurn» 18 ( 1875), pp. 125-136: è un 'contrasto' in versi latini, forse del XIII secolo, in cui lo scabroso tema è discusso in maniera sor prendentemente esplicita. 33 Cfr. il finale di Leucippe e Clitofonte con un'altra pagina dello stesso romanzo, I 14,7, e Da/ni e Cloe IV 1 1 sg. 34 Al mondo romano dedica tutta la seconda parte del suo libro E. CAN TARELLA, Secondo natura, cit., rilevando forti differenze di mentalità e atteg giamento fra Grecia e Roma. 35 «Usar pederastia, sodomia su di uno» (così il dizionario Georges pp.
Calonghi). 36 Cicerone, Tuscul4nae disputationes V
20 (58); un punto di vista severa22 1
mente moralistico circa gli amori 'greci' 7 1 ); Cornelio Nepote, Alcibiade 2,2.
è espresso anche in ibid. IV 33 (70-
37 Purgatorio XXVI 77-78. Js
La condanna dell'omosessualità, nei termini più terribili, in Levitico 18,22
sgg. e 20,13 (pena di morte). 39 De specialibus legibus ill 37-39; De vita contemplativa 57-63 40 Lettera ai Romani 1 ,26-27 (traduzione della Bibbia di Gerusalemme, Bologna 1989, p. 2417). Cfr. Corinzi I 6,10. Paolo non fa nomi, mentre pro prio contro Saffo come esempio di costumi infami, cui
il corrotto mondo
pagano aveva tributato grandi onori, si scaglierà nel II sec. d. C. l'apologeta cristiano Taziano nel suo Discorso ai Greci 3 3 . 41 L o stretto legame fra l'omosessualità femminile e il nome della patria di
Saffo, Lesbo, è cosa relativamente recente. Sulla parola lesbica, v. P }ANNI, Il nostro greco quotidiano, cit. , pp. 89-92. Per un precoce esempio presso il bizan tino Areta
(lX-X secolo), v. ALBIO CESARE CASSIO in <
( 1 983) p. 296 sg., e cfr. JuAN
amor: Homosexualidad /emenina en la antiguedad, Madrid 1 996, p. 49. 42 Vedi CALAME, !}amore in Grecia, cit. , pp. 135 sgg.
43 L'immagine di Saffo come direttrice, preside e/o sacerdotessa è già per fettamente delineata nella storia della letteratura greca di KARL OTFRIED MùLLER (184 1 ) , che citiamo nella versione italiana: !storia della letteratura greca di Carlo Ottofredo Miiller, Firenze, Le Monnier 1858, vol.
più nota e quasi provocatoria formulazione
I, pp. 287 sgg. La fu quella di Wùamowitz: <
ha paura del colorito moderno dell'espressione potrebbe parlare di un inter nato femminile (Miidch enpensionat)»,
in AA.Vv. , Die griechische und lateinische Literatur und Sprache, Berlin-Leipzig 1905, p. 26. Su Saffo come centro di una consorteria religiosa, riunita attorno al culto di Afrodite, ha scritto BRUNO GEN TILI, La veneranda Saffo, in Poesia e pubblico nella Grecia antica, cit. , pp. 285294 (già articolo del 1966). DENYS PAGE, Sappho and Alcaeus. An introduction
to the study o/ ancient Lesbian poetry, Oxford 1955, p. 139 sg., fa invece pun genti ironie su questa Saffo presunta sacerdotessa, presidente di un'associa zione cultu(r)ale, preside di un'accademia. Anche HoLT N. PARKER, Sappho schoolmistress, in «Transactions and Proceedings of the Philological Associa tion» 123 ( 1 993) pp. 309-35 1 , si propone di mostrare l'infondatezza di ogni ipotesi su Saffo come 'maestra di scuola', educatrice attraverso l'eros; que st'immagine sarebbe stata costruita attraverso una falsa analogia con
la pede
rastia maschile (per collocare giustamente questo contributo alla discussione, sarà da tener presente che esso fu dapprima presentato come conferenza presso un 'Lesbian!Gay Caucus'). Sulla stessa rivista si pronunciarono successivamente LARDINOIS e CURTIS BENNETT (ibid. 124, 1994, pp. 58-84 e 345-347).
ANDRÉ
EvA CANTARELLA, Secondo natura cit. , pp. 107 sgg.,
è tornata ad ammettere un
<
222
la definizione del circolo di Saffo come 'collegio per ragazze bene' non è sba gliata.» 44 Epistole I 19,28. 45 Così si racconta del filologo Philipp Buttmann (sul letto di morte, 1829! ), secondo il curiosissimo aneddoto raccontato fra gli altri da EDUARD FRAENKEL, Horace, Oxford 1956, p. 346 n. 3. 46 Lessico Suda, voce Sapph6. 47 La parola non è però attestata prima dell'età imperiale. 48 A meno che (anche questo ha immaginato la sottigliezza degli interpreti) hic non dovesse significare 'qui a Lesbo, dove gli amori femminili sono nor mali e considerati incolpevoli'. 49 Questo è il convinto giudizio di HEINRICH DORRIE, P Ovzdius Naso. Der Brief der Sappho an Phaon mit literarischem und kritischem Kommentar im &hmen einer motivgeschichtlichen Studie, Miinchen 1975, ad loc. 50 Citiamo dalla quinta edizione, Amsterdam-Leide-La Haye-Utrecht 1740. 51 A proposito di questa cruda parola, dobbiamo ricordare che la sessuo logia distingue il lesbismo dal sa/fismo, e questo a sua volta dal tribadismo, secondo criteri che rinunciamo volentieri a illustrare. 52 Tutto sotto la voce Sappho, vol. IV (Q-Z), pp. 139-142. 53 Citiamo dall'edizione Aux Deux-Ponts 1791, tomo secondo, pp. 59-66. L'idea della «confusione de' sentimenti» nell'espressione poetica dei Greci, a causa del loro temperamento acceso ed esaltato, è ancora tal quale in MùLLER, [storia della letteratura greca, cit., vol. I p. 289. 54 Orazione XVlli 9: «Quello che per lui [Socrate] erano Alcibiade, Car mide e Fedro, per la Lesbia erano Girinna, Attide e Anattoria». 55 FG. WELCKER, Sappho von einem herrschenden Vorurtheil be/reit, in Kleine Schriften zur griechischen Litteraturgeschichte, Bonn 1 845, vol. II pp. 80144 (già Gottingen 18 16); U. VON Wn...AMOWITZ-MOLLENOORFF, Sappho und Simomdes. Untersuchungen uber griechische Lyriker, Berlin 1913, soprattutto le pp. 63-78. 56 Sulla reputazione di Saffo nell'Antichità e sulla formazione della 'leg genda' (così s'intitola un capitolo), v. la messa a punto recente di MARGARET Wn...LIAMSON, Sappho's immortal daughters, Cambridge (M.)-London 1995. 57 La 'difesa' welckeriana e wilamowitziana di Saffo è ampiamente discussa, nel suo contesto storico e culturale, da Wn...LIAM M. CALDER III, F G. Welcker's Sapphobild and its reception in Wilamowitz, in AA.Vv., Friedrich Gottlieb Welcker. Werke und Wirkung. Vortrage, gehalten au/ der Welcker-Tagung . . . in Bad Homburg vom 5.-7. November 1984, Stuttgart 1986, pp. 1 3 1 - 156 («Hermes Einzelschriften» 49). 58 G. PERROTTA, Saffo e Pindaro. Due saggi critici, Bari 1935, pp. 27 sgg.; M. VALGIMIGLI, Poeti e filosofi di Grecia. II. Interpretazioni, Firenze 1964, pp. 7-25 (già saggio del 1933). 59 Questo genere di letteratura ha beneficiato della «crescita quasi espo nenziale» della produzione libraria sulla donna nell'Antichità, come ha scritto
223
].F. MAirros MONTIEL, Desde Lesbos con amor, cit., p. 4, in una rassegna di esempi significativi di questo rinnovato interesse. 6° Ci contentiamo di segnalarne un buon esempio in ]ANE MciNTOSH SNYDER, Lesbian derive in the lyrics o/Sappho, New York 1997 (collana «Lesbian and gay studies»). A un'equiparazione a-storica fra il mondo sentimentale di Saffo e il moderno lesbismo si oppone per esempio ANDRÉ LARDINOIS, Lesbian Sappho and Sappho o/ Lesbos, in JAN BREMMER (ed.), From Sappho to De Sade. Moments in the history o/ sexuality, London-New York, 1989, pp. 15-35. 61 A. VERRI, Avventure di Sa/fo, poetessa di Mitzlene; uscì dapprima ano nimo nel 1780, poi ebbe varie vicende bibliografiche; F. GRILLPARZER, Sappho, tragedia in cinque atti, rappresentata a Vienna nel 1818. Ci fu chi ne riconobbe subito la grandezza; non per nulla la tomba del poeta, nel cimitero di Vienna, è adorna di un rilievo scultoreo raffigurante proprio Saffo. E ci sarebbero da ricordare curiosità dimenticate come il 'dramma lirico' Sappho dell'inglese WIL LIAM MASON, tradotto in italiano da T. ]. Mathias e pubblicato in edizione bilingue a Londra nel 1809. A Saffo nelle letterature dell'Europa moderna aveva dedicato una monografia il tedesco HoRST RODIGER, che si limitava quasi solo al proprio paese (5appho. Ihr Ru/ bei der Nachwelt, Leipzig 1933). Alcune pagine di GENNARO PERRorrA, Sa/fo e Pindaro, cit., pp. 1 1 sgg., ben informate ma molto succinte, guardavano invece un po' a tutta la cultura europea. Fra l'altro, Perrotta ridicolizzava con buona ragione le incredibili ingenuità di DAVID M. RoBINSON, Sappho and her in/luence, Boston 1924, altro maldestro 'difensore' della moralità di Saffo. In seguito sono apparse rassegne molto più vaste, in buona parte opera di autrici di lingua inglese. Esempi: ÉDITH MORA, Sappho. Histoire d'un poète et traduction integrale de l'reuvre, Paris 1966; ]OAN DE]EAN, Fiction o/ Sappho 1546-1937, Chicago-London 1 989; YOPIE PRINS, Victorian Sappho, Princeton 1999. Saffo è molto presente anche nel l' antologia curata da ANGELA LEIGHTON e MARGARET REYNOLDS, Victorian women poets, Oxford, UK-Cambridge, Usa 1995. Qui si può leggere The last song o/ Sappho, di Felicia Hemans, contemporanea di Leopardi. Non è necessario ipotizzare un rapporto di dipendenza fra i due: quella dell"ultimo canto di . . . ' era una moda poetica del tempo. Un vero manuale o enciclo pedia saffìca è poi The Sappho companion. Edited and introduced by MARY ROBINSON, London 2000, con moltissime notizie sulla presenza di Saffo nelle letterature e anche nell'arte moderna. 62 CALAME, L'amore in Grecia, cit., p. XVI, cita con approvazione lo psi canalista e studioso del mondo antico G. Devereux: «l Greci hanno sem plicemente sviluppato ed utilizzato culturalmente un tratto caratteristico del l'adolescenza: l'ambiguità sessuale». Per questo si è potuto parlare moder namente di 'pseudo-omosessualità' dei Greci, mentre per l'Antichità è significativo il detto che si legge in Ateneo (Deipnoso/i.sti XIII 84, 605 d), anche se è attribuito a una fonte non disinteressata, un'etera: «l ragazzi piac ciono solo finché somigliano alle donne». 224
Capitolo settimo «Heinrich Schliemann rz'scoprì la Troia di Omero»
Schliemann e Troia: non c'è probabilmente in tutta la scienza dell'Antichità binomio più famoso, più popolare, più adatto a suscitare un generale moto di interesse; quasi come Colombo e America nella storia delle scoperte geografiche. È questo uno di quei temi su cui chiunque abbia fatto un po' di buone letture è fiducioso di sapere qualcosa, e insieme disposto a imparare qualcosa di più. Costanza di destini attraverso i millenni: la città più celebre nelle leggende eroiche del mondo antico è tornata alla ribalta attraverso la più celebre fra tutte le leggende archeologiche moderne; e delle gesta del suo riscopritore è quasi impossibile che qualcuno parli senza che prima o poi arrivi l'aggettivo oggi tanto abusato: mitico. Ancora: chi dice Troia dice guerra, e il destino dell'antica città sembra quello di non trovare pace neanche nei tempi moderni. La contesa intorno alla sua pre sunta o pretesa riscoperta cominciò già all'epoca dei primi scavi, non si sopì mai e negli ultimi trent'anni è ripresa furi bonda, prima attorno alla persona stessa di Schliemann, poi su problemi più specificamente archeologici e storici, condotta da una parte e dall'altra da campioni armati fino ai denti, a modo loro non meno aggressivi degli eroi achei e troiani. Mentre altri giudicheranno meglio se davvero gli scavi di Schliemann segnino la nascita dell'archeologia moderna, di una cosa anche noi possiamo dirci sicuri: molto prima della 225
tomba di Tutanchamon, che ad ogni modo non suscitò gli stessi clamori e la stessa mole di letteratura, la presunta riscoperta di Troia rappresentò il primo avvenimento archeologico accompagnato da una fanfara per cui è obbligatorio il deforme aggettivo che oggi si applica a tante cose prevalentemente spia cevoli; 'mediatica'. Le scoperte di Schliemann furono divul gate per prima cosa su un quotidiano, quasi in 'tempo reale' e con abile dosaggio; due convegni scientifici organizzati con grande dovizia di mezzi dal ricchissimo scopritore, non già in ammuffite aule universitarie come altri avrebbero fatto, ma sul luogo stesso degli scavi in un ambiente turistico-esotico, si tra sformarono da incontro fra studiosi in un 'evento' (chi vuole può aggiungere quel tale aggettivo) ; infine anche le circostanze romanzesche dei ritrovamenti più clamorosi, per una parte dimostrabilmente inventate, per un'altra di dubbia autenticità, fecero dello scopritore la prima e insuperata star dell' archeo logia. ll nome di Heinrich Schliemann è per molti di noi il primo che viene alla mente quando si parla di sensazionali sco perte sottoterra, di avventurosi picconi e pale che rivelano le 'civiltà sepolte' (come ama dire la divulgazione sensazionale) , e per molti è certamente l'unico conosciuto. Non si sbaglia affermando che la bibliografia su di lui è molto superiore a quella su tutti gli altri protagonisti dei moderni studi sull'An tichità greca messi insieme, forse è tre o quattro volte più ampia. Su quale studioso dell'Antichità si sono scritte tante biografie per il grande pubblico e veri romanzi, trasmesse serie televisive e perfino messo in scena un dramma teatrale da cui fu tratta un'opera in musica? 1 • Il paragone con Cristoforo Colombo, primo fra i grandi navigatori-scopritori, torna a imporsi. Tanto Schliemann che Colombo intrapresero in età matura la realizzazione di un ardito sogno a lungo vagheggiato, nutriti di concezioni che si possono giudicare ingenue o fan tasiose e sfidando il vero o presunto scetticismo beffardo del sapere ufficiale. In tutt'e due, gli aspetti ideali erano accom pagnati da un acutissimo senso degli affari e dalla capacità di guadagnare l'attenzione generale e la celebrità ( anche se 226
Colombo conobbe la prigione e Schliemann la scampò - ma sarebbe potuto benissimo finire nelle carceri turche perché le molte illegalità da lui commesse portando all'estero i suoi reperti sono documentate, anzi confessate) . Tutt'e due trova rono qualcosa di diverso da ciò che cercavano: uno cercava le meraviglie di una remota regione del mondo vecchio e ne trovò uno tutto nuovo; l'altro cercava la città dell'Iliade e trovò un anonimo insediamento di molte epoche e strati (troppa grazia, Sant'Antonio ! ) , una scoperta che aprì la via all'archeologia del l'età del bronzo egea e mediterranea, anche questo un mondo ignoto e nuovo, lontano nel tempo anziché nello spazio; e ScWie mann, come Colombo, morì senza aver corretto del tutto le proprie idee sbagliate sulla grande scoperta di cui era egli stesso autore. Tutt'e due ebbero e hanno caldi ammiratori e violenti detrattori: in entrambi quel che ' per gli uni è geniale intuito ed eroica perseveranza è per gli altri solo sfacciata for tuna unita all'incapacità di intendere il significato delle stesse proprie scoperte e accompagnata magari da una disonesta appropriazione dei meriti altrui; la stessa integrità personale dell'uno come dell'altro è stata attaccata duramente o difesa con indignazione. Ciò che li distingue è la loro storia profes sionale: Colombo era indubbiamente un esperto navigatore cresciuto nel mestiere, mentre Schliemann si fece archeologo a cinquant'anni e, nonostante i suoi lodevoli sforzi di rime diare alla mancanza di una solida formazione, non perse mai quel tanto di dilettantesco e improvvisato da cui anche gli intel letti più brillanti non riescono a liberarsi del tutto se non si sono messi al lavoro nell'età giusta: il più presto possibile. Per valutare l'opera di un innovatore o scopritore occorre sempre partire dalla situazione che la precedette, così da acco stare e correttamente paragonare il 'prima' e il 'dopo'; in questo caso occorre domandarsi che cosa rappresentasse il nome di Troia nella cultura europea fino ai primi anni Settanta del XIX secolo, fino alla vigilia degli scavi di Schliemann coi loro rapidi e clamorosi risultati2• 227
La descrizione omerica della città di Priamo, non sistema tica ma fatta di accenni sparsi nell'Iliade, non è esauriente né molto minuta, ma sufficiente per una localizzazione relativa mente precisa: il poeta la immagina sita nell'estremità nord occidentale della penisola anatolica, a qualche distanza dal mare sulla pianura che si affaccia all'Egeo e all'Ellesponto, lo stretto che divide Europa e Asia. I due fiumi Scamandro e Simoente nominati più volte nel poema si possono ritrovare bene o male nella realtà (facendo parte ai sicuri mutamenti intervenuti in tremila anni), e una zona di colline alle spalle della pianura culmina nei 1750 metri del monte Ida, anch'esso ben noto ai lettori di Omero. L'Antichità conobbe qualche controversia circa la localiz zazione precisa ma di massima non ebbe dubbi su dove biso gnasse cercare Troia, come ne ebbe pochi sulla realtà storica della guerra; anche l'epica successiva che riprende il ciclo troiano, come l'Eneide di Virgilio, si muove nel quadro di una topografia universalmente accettata. Sul luogo dove si imma ginava la Troia leggendaria sorse già nell'età arcaica, forse dal l'VIII secolo, la città chiamata poi la 'Nuova Ilio', che soprav visse sino alla fine del mondo antico e godette di una celebrità fuori di ogni proporzione con la sua importanza, dovuta sol tanto alla supposta identità con la città consacrata dalla leg genda e dalla poesia. Alessandro Magno, appassionato lettore di Omero e 'nuovo Achille' nella sua coscienza di condottiero della Grecia unita contro una potenza asiatica, visitò il luogo e le presunte tombe degli eroi con la devozione di un pelle grino. I Romani favorirono la città come culla della loro nazione, al punto che si poté favoleggiare dell'intenzione di Cesare di trasferirvi la capitale dell'impero. Più verosimile è l'attribuzione della stessa idea a Costantino, che la capitale finì per trasferirla davvero e in un'area non lontanissima3 • E si rac conta anche di un paio di visite venute dalla direzione opposta: quella di Serse alla vigilia della guerra contro la Grecia (480 a. C.), attestata da Erodoto e da accettare con cautela, e quella più sicuramente storica di Maometto II dopo la presa di 228
Costantinopoli ( 1462 ) , dal sapore di una rivincita: stavolta aveva vinto l'Asia4• Per lunghi secoli il nome di Troia ebbe per gli europei occi dentali la stessa concretezza geografica di tante altre località dell'Antichità greca, cioè nessuna, e solo isolati visitatori ebbero modo di soffermarsi nella piana fatale rievocando quanto sapevano di una storia che non aveva mai cessato di occupare e affascinare le nuove letterature d'Occidente5. Fra di loro saranno da ricordare alcuni italiani: Ciriaco d'Ancona, pellegrino a Troia nel 1444, mercante e viaggiatore in tutto il Levante con grandi interessi per ogni cosa antica, 'antiquario' e copiatore di epigrafi, per certi aspetti lontano precursore di Schliemann come notiamo qui non per primi; poi il romano Pietro Della Valle, il celebre 'Pellegrino' , grande viaggiatore · nell'Oriente musulmano, che descrive a vivissimi colori l'esal tazione provata quando si trovò sul luogo «degli antichi padri nostri» ( 1 616)6. Relazioni più precise, coi primi accenni ai problemi di loca lizzazione che affaticheranno le generazioni successive , appaiono già nel XVII secolo; poi, coi viaggi in Grecia dei viaggiatori preromantici e romantici, anche il sito di Troia riaffiora all'orizzonte della cultura europea sotto le specie di una desolata e malsana pianura cosparsa di qualche miserabile villaggio turco; vi si innalzava una serie di collinette prive di qualunque resto significativo che potesse evocare le formida bili mura difese da Ettore e l'eccelsa rocca di Pergamo coi suoi splendori: un luogo adatto a malinconiche riflessioni sulla tran sitorietà di ogni cosa umana, proprio quel che ci voleva per la sensibilità dell'epoca. Si poteva pensare come l'inglese Robert Wood, quello del Genio originale di Omero ( 1769) , che il tempo avesse cancel lato del tutto la città dell'Iliade senza !asciarne alcuna traccia («etiam periere ruinae», aveva già scritto Lucano)7; oppure si poteva confidare come il francese Jean-Baptiste Le Chevalier di averne riconosciuto il luogo esatto, confermato da precisi indizi fra cui le celebri portentose sorgenti, una calda e una 229
fredda, citate nel poema e oggetto di discussioni, in tutta serietà, ancora in pieno Ottocento. Le Chevalier visitò la Troade nel 1785 e pubblicò nel 1791, a Edinburgo e in inglese, il suo libro che identificava il sito di Troia con la collina diven tata famosa come Bunarbashi (più esatto sarebbe Balli Dagh, mentre Bunarbashi è il nome di un vicino villaggio) , guada gnandosi la convinta adesione del grande filologo Christian Gottlieb Welcker8. Questa localizzazione avrebbe avuto una parte importante nella 'questione troiana', quando intorno ad essa si raccolse uno dei due 'partiti' contrapposti, sconfitto definitivamente dal 'partito Hisarlik' solo con le scoperte di Schliemann. Trattandosi del teatro di avvenimenti bellici, nella storia del 'partito Bunarbashi' compare appropriatamente anche un famoso uomo di guerra, il feldmaresciallo tedesco Helmut von Moltke (quello di Sedan) che, in una sua visita ai luoghi troiani, ebbe a sentenziare essere il Balli Dagh ben più adatto a una difesa prolungata contro soverchianti forze d'in vasione che non Hisarlik, troppo esposta perché troppo vicina al mare, e quindi da escludere come sito di Troia. I tipi di rea lismo che si possono applicare dissennatamente all'interpreta zione di un poema epico sono tanti9• 'Troia fra storia e leggenda' , si potrebbe intitolare oggi, banalmente, un articolo di terza pagina, un libro divulgativo o una trasmissione televisiva. Ma finché le scienze storiche non diventarono davvero maggiorenni, veramente critiche e vera mente armate degli adeguati strumenti, concettuali, metodici e materiali, nel corso del XIX secolo europeo (fatto unico nella storia di tutte le culture umane) , dubitare della sostanziale sto deità della guerra di Troia era difficile per chiunque. La più celebre, e di gran lunga, fra le tradizioni antiche aveva messo soggezione a tutti, al Medioevo che ne conosceva solo i riflessi infedeli e deformati come all'Umanesimo con le sue devote let ture degli Antichi ritrovati. E forse c'era anche un altro fattore ad agire nello stesso senso: per lunghi secoli l'Europa fu edu cata ad accettare senza discutere la storicità letterale dell'Antico 230
Testamento; e dall'accettazione dogmatica della 'storia sacra derivava un rispetto timoroso anche per la parte di 'storia pro fana' che appariva più vicina ai tempi e alle terre bibliche. Fin dai primi secoli cristiani, la cronologia della storia universale comunemente accettata (e sanzionata dall'autorità di un grande Padre della Chiesa, Gerolamo) stabiliva precisi sincronismi fra le vicende del popolo eletto e dei grandi imperi orientali, a somi glianza di quel che già aveva fatto Erodoto combinando nel tempo storia greca e storie d'Asia e d'Egitto; e in questa mac chinosa e fragile costruzione la guerra di Troia, o più esatta mente 'Troia capta', occupava un posto specialissimo, costituiva una data assiale cui si appoggiavano direttamente o indiretta mente un po' tutte le altre. Una costruzione dove tout se tient, e dove era meglio non andare a toccare troppo10• Nell'Ottocento, abbiamo già detto, le cose cambiano. Il secolo che negò la storicità dei re di Roma poteva a fortiori negarla anche a Priamo e Agamennone, come naturalmente avvenne. E l'Ottocento è il secolo che vide il primato degli studi storici e filologici tedeschi, di una cultura profondamente incline a respingere le origini dei miti e delle leggende nei cieli della fantasia piuttosto che a cercarle sulla terra dei fatti sto rici. Così si poté arrivare a riconoscere nella tradizione della guerra di Troia solo una vasta allegoria di vicende celesti, meteorologiche o astronomiche, risalente addirittura alla mito logia dei progenitori indo-europei, volentieri immaginati come attentissimi a tutto ciò che avviene in cielo11• Chi pensava così non si lasciava turbare neppure dai più sensazionali ritrova menti archeologici, ma ne deduceva soltanto che l'antichissima allegoria era stata rivestita di apparenza storica dalle genera zioni successive e localizzata intorno a un complesso di rovine adatte a colpire le fantasie dei posteri, finché si arrivò stordi tamente a crederla realtà. Idee molto tedesche; e forse non è un caso che a far scen dere Troia dalle nuvole in terra fosse sì un Tedesco, ma il più cosmopolita (e poliglotta) fra tutti i suoi connazionali dell'e poca, formatosi ad Amsterdam, a Pietroburgo, a Parigi e in 23 1
California, dappertutto meno che in Germania, cittadino degli Stati Uniti e membro della camera di commercio di Pietro burgo; né è certamente un caso che Schliemann sia stato meno profeta in patria che altrove. Per il mondo di lingua inglese diventò 'Schliemann of Troy' , come 'Lawrence of Arabia', con una specie di predicato nobiliare guadagnato sul campo e un'aura di gloriosa avventura, mentre la scienza ufficiale tedesca, la cultura universitaria, fu la più prodiga di critiche per il grande figlio del paese e di scetticismo sul significato delle sue scoperte12• A lui e alle sue scoperte vogliamo ora dare un'occhiata più da vicino. Nel 182 1 il grande fìlellèno Byron dichiarava la sua indif ferenza per il carattere storico o fantastico del racconto ome rico, perché la sua venerazione andava solo al testo poetico, e di altri problemi non si curava. Vicino a morire, non poteva sapere che solo un anno dopo, in un'oscura località del lon tano Mecclemburgo chiamata Neubukow, sarebbe nato al pastore protestante Ernst Schliemann e a sua moglie Luise Biirger un figlio battezzato coi nomi di Johann Ludwig Hein rich Julius, che della storicità di Troia sarebbe stato fermo assertore e che sarebbe morto convinto di averla dimostrata, dopo aver messo il mondo a rumore. Nacque il giorno del l'Epifania, e chi ci vuol vedere un segno del destino dirà che oro e incenso non gli sarebbero mancati. Raccontare la vita di Schliemann, anche nella brevità senza p retese che qui ci proponiamo, equivale a muoversi su un ter reno minato. Di indiscusso non c'è molto di più che le date di nascita e di morte ( 1 890 a Napoli, il 26 dicembre - ancora in periodo natalizio ! ) ; non si discute il fatto che, da una con dizione modesta e da un'infanzia poco felice, arrivò ad essere uno degli uomini più ricchi del suo tempo attraverso abili e fortunate speculazioni commerciali (ma sul come già c'è qualche discussione)13; che ebbe una scarsissima formazione scolastica e che fu sostanzialmente un volonteroso autodidatta (ma anche qui non si è tutti d'accordo in quale misura questo 232
sia vero) ; che si sposò due volte, la prima con una russa che gli diede diversi figli, e la seconda con una greca più giovane di trent'anni, 'ordinata su misura' e subito trovata grazie ai buoni uffici di un vescovo ortodosso suo conoscente. Il primo matrimonio, questo è sicuro, fu un fallimento e finì col divorzio, ottenuto secondo alcuni biografi con mezzi poco scrupolosi; sul secondo c'è qualche dubbio. Quasi tutto il resto è oggetto di discussione, è divenuto tale ben presto e tanto più negli ultimi decenni dopo le ricerche biografiche condotte con straordinaria acribia e accanimento soprattutto da alcuni studiosi americani. L'autobiografia che Schliemann premise alla prima grande pubblicazione sui propri scavi (un po' stranamente ma in carat tere col personaggio) , si apre con lunghe pagine relative all'in fanzia che dal puro punto di vista letterario costituiscono una preparazione molto abile a tutto quel che di avventuroso e sen sazionale seguirà14• Il piccolo Heinrich sarebbe cresciuto in una terra piena di saghe e tradizioni semi-leggendarie, dove ogni collinetta nascondeva, secondo la memoria popolare, tombe di eroi del passato e forse tesori. n futuro scopritore di Troia avrebbe vissuto intensamente tutto questo, in un contorno di compagni di giochi dove non manca un poetico amore infan tile mai dimenticato anche se inappagato, che almeno al lettore italiano ricorda inevitabilmente il fanciullo Dante e la sua Bea trice. Sono pagine ben note a chiunque si sia accostato alla figura di Schliemann e ancora più noti sono due episodi da lui pre sentati come altamente significativi. Primo, il dono natalizio di una 'Storia universale per i bambini'; un'illustrazione raffi gurante l'incendio di Troia avrebbe profondamente impressio nato il settenne Heinrich che, in una discussione col padre (prefigurazione domestica dei futuri scettici), avrebbe affermato la sua fede nell'esistenza delle rovine di Troia e il suo proposito di dedicarsi un giorno alla loro ricerca15• Secondo, l'incontro da adolescente con un garzone mugnaio ubriaco, personaggio poco raccomandabile che aveva disceso i gradini della scala sociale ma che dalla frequentazione della scuola classica ricordava a 233
memoria un centinaio di versi omerici. Li recitò in presenza del giovane Schliemann anche lui escluso, ma senza colpa, dall'i struzione superiore e ignaro del greco. Questi restò tanto affa scinato dalla lingua melodiosa pur se incomprensibile (<
l'hobby dei vecchi cocci, dai risultati insignificanti. A Troia Schlie mann arriva meno da pioniere di quel che tanti hanno immagi nato e di quel che egli stesso tende a suggerire. La questione 'Bunarbashi o Hisarlik' aveva attirato l'attenzione di molti, e soprattutto ad essa aveva dato risposta (Hisarlik) un personaggio che nella storia successiva era destinato a una parte importante, l'inglese Frank Calvert, console degli Stati Uniti, già insediatosi nella Troade con una sua proprietà terriera, esperto più di chiunque altro di topografia 'troiana' e promotore di saggi di scavo che lo avevano convinto della giusta localizzazione. Cal vert, se le cose fossero andate un po' diversamente, se i respon sabili del Museo Britannico fossero stati un po' più lungimiranti e avessero aperto i cordoni della borsa come richiesto, avrebbe potuto legare per sempre il proprio nome alla scoperta di Troia, anziché !asciarne la gloria al rivale più ricco e fortunato - e avrebbe potuto consegnare i favolosi reperti alle ben custodite sale londinesi. Qualche autore inglese non manca di farlo notare, con rammarico espresso o intuibile, magari gettando insieme qualche ombra sull'onestà intellettuale del celebrato scopritore. Se vogliamo continuare il gioco del parallelo di Schliemann con Colombo, Calvert sarebbe un po' il suo Pinz6n, con quei tali autori inglesi al posto di certi autori spagnoli17• Ma veniamo ai fatti. Dopo una prima ispezione nel 1 868 e un primo saggio nel 1 870, Schliemann intraprese le sue vere campagne di scavo nel 1 87 1 , proseguendole nei due anni suc cessivi. Ciò che trovò è noto: più di quanto promettessero le più accese speranze. Per prima cosa, Hisarlik era il posto giusto dove cercare e di Bunarbashi non si parlò più18• Poi, dopo qualche difficoltà e delusione iniziale, l'archeologo neofita si trovò in un vero embarras de richesse: cercava una città e ne aveva trovate nove sovrapposte, secondo la stratigrafia ben presto stabilita e accettata, numerate con cifre romane par tendo dal basso cioè dalla più antica. Le suddivisioni succes sive arrivarono a distinguere quarantasei 'fasi', costruzioni, distruzioni e ricostruzioni distribuite irregolarmente ma con poca soluzione di continuità fra il 3000 avanti e il 400 dopo 235
Cristo, dalla prima età del bronzo alla fine del mondo antico. Il più sonoro colpo di grancassa in questa prima e decisiva marcia trionfale fu rappresentato dal ritrovamento di un depo sito di artistici oggetti d'oro, d'argento e di altri materiali pre giati, subito conosciuto sotto il nome, completamente fuor viante dal punto di vista storico ma di grandissima efficacia pubblicitaria, di 'tesoro di Priamo'. Dopo la prima fase di entusiasmi e novità assolute gli scavi furono ripresi nel 1878 e 1 879, e ancora fino all'anno della morte, dallo stesso Schliemann ormai non più pioniere e auto didatta, armato quasi solo del suo entusiasmo, ma organizza tore e finanziatore assistito da consulenti più cauti e preparati; poi, con nuova maturità tecnica e professionale, da una spe dizione tedesco-americana negli anni Trenta del Novecento, arrivando ai risultati e alle conclusioni che sembrarono più o meno definitivi fino a una ventina di anni fa (sull'ultima fase della storia vedremo qualcosa più avanti). 'Schliemann' non significa solo Troia, tutt'altro. Fin dal set tembre 1876 l'instancabile scavatore aveva affondato il suo for tunatissimo piccone in terra greca, a Micene, anche stavolta guidato da una fede letterale nei testi antichi, confidando nelle pagine di Pausania, il 'Baedeker dell'Antichità', il 'periegeta' che al tempo dell'imperatore Adriano aveva descritto tutto il paese alla maniera di una guida turistica19. Stavolta la situazione era molto diversa perché la città degli Atridi non era né dimenticata, né del tutto sepolta come Troia, anche se abbandonata fin dall'Antichità. Ma anche qui le cose più sensazionali, come le tombe coi loro favolosi corredi fune rari che diedero davvero l'illusione di aver ritrovato le spoglie di Agamennone e compagnia, stavano ancora sottoterra. Schlie mann le ritrovò colpo su colpo, dopo che tanti le avevano sfiorate invano. Toccò poi a Tirinto, ancora nell' Argolide vicino a Micene, dove si trovò molto, e a Orcomeno in Beozia dove i frutti furono per una volta deludenti. Ma le novità acquisite furono nel loro complesso così cospicue che alla civiltà protostorica tornata alla luce fu dato ben presto e 236
definitivamente il nome di 'micenea', un po' per la posizione preminente della città nelle leggende eroiche ma più per ciò che la tenace ricerca di Schliemann aveva rivelato nel suo sot tosuolo. I successi strepitosi non assicurarono a Schliemann una considerazione universale e indiscussa; attorno alla sua figura si formò invece un ventaglio di opinioni, o piuttosto una tem pesta, una ridda discorde di giudizi, in una gamma che va dal l' eroizzazione e dall'agiografia fino al biasimo e alla depreca zione e, in certi casi recentissimi, a qualcosa che somiglia a una diagnosi psichiatrica. È una contesa che comincia subito, fin dai suoi primi trionfi, che conosce alti e bassi di intensità e che è ripresa con nuova virulenza in anni recenti. I capi d' ac cusa sono numerosi, ma quasi tutti incontrano una difesa che spesso rovescia gli stessi argomenti della parte ostile. La sua tecnica di scavo è stata definita irresponsabile e distruttiva, opera di un incompetente dominato da un'osses sione antistorica e inseguitore di miraggi, barbaramente incu rante di tutto ciò che non si poteva far passare per scoperta sensazionale a confusione degli increduli e a soddisfazione del l'orgoglio personale. L'improvvisato scavatore non avrebbe meritato il nome di archeologo, ma solo di 'cercatore d'oro', senza alcuna dignità scientifica. Intorno ai suoi reperti avrebbe costruito delle favole date a bere a un pubblico ignaro, solo per mettersi sotto i riflettori; e sull'autenticità delle stesse sco perte non tardò a cadere l'ombra del sospetto. Schliemann avrebbe non solo mentito sulle circostanze della sua più cla morosa scoperta, quella del 'tesoro di Priamo', al fine di una maggiore efficacia pubblicitaria, ma anche commesso dei veri falsi, simulando il ritrovamento di oggetti da lui stesso sotter rati e di varia provenienza, con danno irreparabile per la scienza archeologica, o addirittura commissionati a orafi. La difesa è sostenuta con pari calore: ogni scavo archeolo gico, su questo non si illude chi ne sa qualcosa, è fatalmente distruttivo («un terreno di scavo è un libro che si sfoglia una 237
volta sola»); se quelli di Schliemann lo furono più di quanto si accetti oggi non si può fargliene carico data l'arretratezza al suo tempo delle tecniche tanto perfezionate nei decenni suc cessivi; il 'dilettante' si era preparato con ammirevole impegno alla sua impresa facendosi con umiltà studente a Parigi negli anni ad essa immediatamente precedenti; mostrò una capacità di imparare sorprendente in un uomo di età matura, reduce da successi che avrebbero riempito chiunque di un orgoglio pericoloso per la necessaria autocritica; seppe circondarsi di consulenti ben scelti e al loro parere si inchinò sempre; infine, pur attraverso gli inevitabili errori, alla sua energia e alla sua dedizione si debbono i progressi decisivi proprio della scienza archeologica moderna, la cui storia non è esagerato dividere in 'prima' e 'dopo Schliemann' . Resta indifendibile una sincerità non del tutto scrupolosa, fino a vere e proprie bugie; e restano i molti peccati veniali dello scavatore, e forse qualche peccato mortale. Ma contro il successo si argomenta male, e la storia di Schliemann è l'e sempio di un successo strepitoso, uno dei più grandi dei tempi moderni. Anche la critica più severa deve concedere che le sue scoperte si collocano luminosamente in un quadro di grandiosi progressi delle conoscenze, nell'allargamento senza precedenti dell'orizzonte storico verificatosi durante l'Ottocento, accanto alla lettura dei documenti del Vicino Oriente (geroglifici egi ziani e scrittura cuneiforme) che fece storia dove fino ad allora c'erano state letteralmente solo favole. Gli scavi di Troia, e ancor più quelli di Micene e Tirinto, rappresentano fra tutte queste novità il lato egeo, ossia greco, ossia europeo, il capi tolo che ci riguarda più da vicino. Nel turbine delle polemiche questi restano punti fermi incrollabili. Dopo tanti pro e contro, due autori come John Chadwick e Michael Ventris potevano dedicare nel 1956 alla memoria di Schliemann, «padre del l'archeologia micenea», il libro in cui annunciavano una nuova e grande scoperta relativa all'età del bronzo greca: il decifra mento della scrittura lineare B, che prolungava all'indietro di sei o sette secoli le nostre conoscenze della lingua e della civiltà greca rischiarandone insperatamente la protostoria20• 238
Nel 1969 la biografia molto apologetica di Emst Meyer, che si presentava come la prima veramente documentata e scientifica, poteva apparire come un punto d'arrivo, l'espressione di un'o pinione maggioritaria ormai affermatasi, in un equilibrato bilancio di alti riconoscimenti e di riserve, numerose ma non gra vissime21. Più agrodolce era il giudizio del noto archeologo italiano Antonio Giuliano in un'importante opera di consultazione del 1966: riconosceva a Schliemann meriti di pioniere, accanto però a un carattere di invasato e «freddamente maniaco», che lo portò a un'attività «caotica» e mal fondata scientificamente22 • Al grande pubblico arrivava intanto l'immagine tutta positiva e luminosa che di Schliemann gli offriva il best-seller di C.W Ceram, Civiltà sepolte, dove si dava per buona l'aneddotica più romanzesca e rifritta sul geniale dilettante, trionfatore dei pedanti che l'avevano ingiustamente irriso23• Pochi anni più tardi, proprio nel quadro delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario della nascita, compariva sulla scena l'americano William M. Calder III (con l'ordinale dinastico qualche volta usato nel suo paese anche dai borghesi) che in una conferenza, poi prontamente pubblicata, documen tava punto per punto non solo varie millanterie e inesattezze, ma alcune vere e proprie menzogne negli scritti autobiografici di Schliemann, con una chiara inclinazione a presentarlo come qualcosa tra il mitomane e il ciarlatano: incontri immaginari con importanti personaggi, due presidenti degli Stati Uniti e un governatore di Panama, raccontati con notevole abilità di bugiardo, e un'altra falsità sulle circostanze in cui era diventato cittadino americano. Conclusione: il grande scopritore era affetto da «pathological mendacity>> e questa mendacità «è supe rata soltanto dalla credulità dei suoi biografi»24• Sappiamo, purtroppo, che la parola lie in bocca a un anglo sassone ha un peso assai maggiore che bugia in bocca a un ita liano, e non ci meravigliamo se la risonanza di questa prima requisitoria fu grande, nella patria dell'autore e poi altrove. Da allora, quello che potremmo chiamare il fascicolo accusatorio 239
contro Schliemann si è molto accresciuto, soprattutto a opera di studiosi americani ma non solo. La gragnuola delle accuse continuò a lungo. Si tornò a bat tere con particolare insistenza su un altro 'abbellimento' nei testi autobiografici dello scavatore, sul racconto avventuroso e roman tico di come egli avrebbe ritrovato il 'tesoro di Priamo': Schlie mann stesso che avvista il luccichio dell'oro nella polvere, manda a riposo con un pretesto tutti gli operai del cantiere e scava da solo con le mani nude sotto un muro pericolante, «con gravis simo rischio della vita», mentre la giovane e bella moglie Sofia raccoglie i preziosi reperti nello scialle e li porta al nascondiglio. Ne sarebbe poi stata ricompensata col permesso di adornarsene tutta e di essere così eternata in una fotografia che fece il giro del mondo e che ancora oggi non manca in nessuna pubblica zione illustrata che racconti la nuova epopea di Troia. Stavolta l'intera storia è libera invenzione, dato che la signora non si trovava in quei giorni (fine maggio-inizio giugno 1 873 ) né a Troia né in Turchia ma ad Atene, dove era accorsa per motivi familiari. Con grande fiuto pubblicitario, Schliemann ha costruito una scena degna della migliore (o peggiore) archeo logia romanzesca e cinematografica. Peggio ancora: il cospicuo 'tesoro' non sarebbe stato ritrovato in una sola volta, ma in tempi e circostanze diverse, poi spacciato per scoperta unica, perché un grande fuoco d'artificio tutto insieme fa più effetto che una serie di tante piccole girandole a intervalli irregolari. Stavolta all'archeologo si imputava uno dei peccati mortali del suo mestiere: portare via dei reperti senza registrare scrupolosa mente il luogo, le circostanze e tutto il contesto del ritrovamento li priva di gran parte del loro valore ed è veramente un atto distruttivo. Se poi vi si aggiunge la malafede, il peccato è di quelli che non trovano perdono. Ben ventuno fra articoli e recensioni dell'altro americano David A. Traill, pubblicati fra il 1 975 e il 1 992 , poterono essere raccolti sotto il titolo Excavating Schliemann e lo 'scavo' fra i documenti non era sempre animato dalla venerazione dovuta a una grande figura25. Le pubblicazioni, miscellanee o di sin-
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goli autori, si succedettero: una raccolta curata ancora da Calder e Traill va sotto il titolo abbastanza eloquente di Myth, Scandal and Historf6 e la biografia scritta dallo studioso clas sico tedesco J ustus Cobet reca il sottotitolo poco benevolo 'Archeologo e avventuriero' ( 'Abenteurer')27• In una collana di grande diffusione ne è apparsa poi una recentissima, opera del l' altro tedesco Manfred Fli.igge, con un sottotitolo che è una definizione: 'La storia di un mitomane' ('Die Geschichte eines Mythomanen')28• La parola è usata consapevolmente come un'arma a doppio taglio: essa si può teoricamente intendere in senso favorevole, come ' appassionato di mitologia', ma anche il lettore tedesco, come l'italiano, ne avverte per prima cosa uno assai diverso. Oltreoceano si è tornati a gettare un'ombra di sospetto perfino sull'autenticità della famose maschere d'oro funerarie di Micene, forse il suo ritrovamento più sensazionale e spettacolare, perlomeno il più singolare, perché tutta l'archeologia classica non conosce nulla di para gonabile. L'ombra non si è in seguito né infittita né dileguata. li Museo Nazionale di Atene dove le maschere sono custodite non ha acconsentito agli esami fisici e chimici che potrebbero accertare se la fusione dell'oro abbia tremila o centotrenta anni (sembra che le maschere siano più sacre della Sacra Sindone che è stata sottoposta all'esame del carbonio 14 col benestare della Chiesa). li 'nuovo' Schliemann, anche se non era poi nuovissimo, veniva intanto portato a conoscenza di un pubblico più vasto. In Europa, la BBC trasmetteva nel 1982 una serie televisiva su di lui sotto il titolo ancora una volta poco beneannunciante
The man behind the masJe29• La difesa contro questi nuovi o meno nuovi attacchi si manifestò, forse per la prima volta, con la biografia del tedesco Hartmuth Dohl ( 198 1 ) , dove l'apologia è fondata su argomenti validi, un po' meno validi o tendenziosP0• Altri avvocati segui rono e altre testimonianze a discarico furono riesumate, ma ormai è ben difficile che affiorino nuovi elementi su cui fon dare un giudizio, dopo che il vastissimo materiale auto24 1
biografico e di altro genere è stato setacciato con tanto acca nimento da una parte e dall'altra. La figura di Schliemann è stata disegnata, di fronte, di dietro e da ogni lato, con tutte le sue contraddizioni che dobbiamo accettare: un uomo che poteva essere volta a volta candido o bugiardo, modesto od orgoglioso, paziente o suscettibile, ribelle contro la scienza ufficiale o ad essa timidamente ossequioso. E del pari dob biamo accettare i diversi giudizi che nascono dalle diverse incli nazioni e predisposizioni di chi alla sua figura si accosta. Forse per il tedesco Schliemann possiamo contentarci di ripetere anche noi quel detto che i suoi compatrioti citano volentieri: 'Dove c'è molta luce ci sono anche molte ombre'. Dall'uomo all'opera e ai problemi che essa suscitò. Formu liamo, ridotta all'essenziale e nella forma più neutra possibile, la domanda cui il nostro capitolo è espressamente dedicato: che
cosa dobbiamo pensare del rapporto che deve pur esserci fra la città di cui si racconta nell'Iliade e i resti scavati da Heinrich Schlie mann e dai suoi successori sul colle di Hisarlik? È una questione che richiede una buona dose di pazienza e perfino di coraggio, per affrontarla ancora una volta, la centesima o millesima3 1. li coraggio ce lo darà il fatto stesso che se ne siano dette tante e di così svariate, da fare posto anche alle nostre modeste con siderazioni. Due sono le realtà sode e palpabili da cui tutto il discorso deve muovere: da una parte il poema che racconta tante cose e dall'altra le rovine perfettamente mute. Le mura di Troia tor nate alla luce non dicono una sola parola articolata, in nes suna lingua, né sulle pietre né sull'argilla, ma parlano solo il linguaggio sempre ambiguo degli oggetti, troppo spesso inde cifrabile32. C'è solo il fatto che una parte di quelle rovine, uno dei loro 'orizzonti temporali', appare connesso con la cultura che in Grecia chiamiamo 'micenea', fiorita nell'età del bronzo, poi sepolta e semidimenticata, e alla cui riscoperta diedero l'impulso decisivo proprio gli scavi dello stesso Schliemann in terra greca; ma si deve anche aggiungere che il legame non è 242
molto stretto né precisamente definibile; tolte le congetture resta ben poco. Infine è certo che l'Iliade, qualunque cosa si pensi della sua formazione e origine, è stata composta secoli dopo l'epoca in cui dovrebbero essersi svolte le vicende in essa narrate, come il poeta stesso sa benissimo, consapevole di rac contare gesta remote e favolose. Le prime ingenuità, professate da uno Schliemann ancora dilettante, furono ben presto abbandonate per non ricompa rire più. Aveva cominciato, orologio alla mano, misurando il tempo necessario a correre tutt'attorno alla collina di Bunar bashi, per escludere che Ettore, in fuga davanti ad Achille, avesse potuto coprire la distanza nella maniera che racconta Omero (tre volte ! ) , e quindi per escludere Bunarbashi come località in cui cercare Troia: quel tempo era troppo lungo. Negli anni seguenti, dopo la prima ebbrezza della scoperta, lasciò progressivamente cadere anche il nome di Priamo quando parlava del tesoro trovato a Hisarlik, e cominciò a con cedere una parte sempre più larga al carattere poetico dell'I liade e a quelle che egli chiamava genericamente le possibili 'esagerazioni' di Omero. Imbarazzante, come abbiamo già notato, doveva essere paradossalmente l'eccessivo successo degli scavi di Hisarlik: tante Troie non possono essere tutte quella giusta; anche togliendo la numero VIII e la IX, rispettivamente di età elle nistica e romana, ne restano almeno sette fra cui operare una difficile scelta. Schliemann stesso, partito dall'idea che la Troia 'buona' fosse da cercarsi negli strati più profondi e antichi, cominciò preferendo la numero Il. Chi lo affiancò nella con duzione degli scavi o gli succedette, doveva però convincersi che la cronologia dell'antichissimo strato non andava d' ac cordo con la data della guerra stabilita dagli Antichi (e fin qui poco male, dirà qualcuno, se conosce le pure fantasie genea logiche su cui essi fondavano quella cronologia)33, ma neppure si adattava a quanto sappiamo sui tempi della civiltà micenea, la cui relazione con Troia non si può sacrificare senza rinun ciare a qualsiasi storicità della famosa guerra. Così Wilhelm 243
Dorpfeld, l'architetto-archeologo che assisté Schliemann nelle fasi più mature della sua ricerca, optò per Troia VI come can didata alla parte di città omerica, in quanto sembrava la più imponente e cronologicamente più o meno qualificata alla desi gnazione. L'americano Cari Blegen, direttore degli scavi nove centeschi, si sarebbe invece convinto che lo strato giusto era il VII a. Troia VI appariva distrutta da un terremoto più che da un'azione bellica, mentre proprio un'azione bellica sem brava aver annientato la successiva ricostruzione, purtroppo molto più modesta, perfino misera (questo succedersi di ipo tesi era una volta noto anche nelle scuole italiane, perché aveva trovato la strada dei nostri manuali che in genere parlavano di Troia VII a come della candidata soddisfacente, l'ultima parola della scienza archeologica ) . Risultato: i due caratteri che insieme avrebbero permesso di riconoscere con fiducia la città di Priamo, la monumentalità e la distruzione tra il saccheggio e le fiamme, apparivano divisi fra due strati ben distinti e l'in soddisfazione restava ! In questa situazione, il ventaglio delle opinioni è stato molto ampio, andando dal partito di una critica che negava ogni sto ricità della tradizione al partito del presunto 'nocciolo storico' (come suona l'espressione di prammatica) , nocciolo che poteva anche essere abbastanza sostanzioso, arrivando a comprendere anche qualche personaggio, qualcosa che si poteva chiamare il 'vero Agamennone' o il 'vero Achille'. Ancora nel 1 962 lo studioso austriaco Franz Hampl sentiva il bisogno di ricordare in un articolo rimasto famoso che 'l'Iliade non è un libro di storia'34• Potrebbe sembrare uno spreco di scienza per dimo strare una cosa cui arriva il semplice buon senso; ma non è così, perché i tentativi di ricavare storia dall'epica non sono mai cessati, in una gamma che va dal dilettantismo più disar mante fino alle argomentazioni dotte e sofisticate. Epica e storia: qualcuno si domanderà per prima cosa quanto sappiamo in genere su questo rapporto, fin dove pos sono aiutarci i casi analoghi ma meglio illuminati, i casi in cui la tradizione epica si affianca alla storia documentata e si pos244
sono fare i confronti che nel caso dell'Iliade sono così dolo rosamente impossibili o limitatissimi. Due casi molto illustri nella nostra storia poetica e cultu rale si presentano come esemplari: la Chanson de Roland e il Nibelungenlied, due poemi nazionali di un Medioevo piena mente storico. In entrambi il 'nocciolo storico' c'è ed è anche abbastanza consistente, ma in tutt'e due c'è anche una tale distorsione dei fatti documentati, una distorsione così capric ciosa e imprevedibile da scoraggiare circa la possibilità di risa lire per via ipotetica, che significa a tentoni nel buio, alla 'verità' che potrebbe nascondersi dietro il racconto di Omero. Un 'vero Orlando', conte di Bretagna, è esistito, come rac conta Eginardo l'attendibile biografo di Carlo Magno, ed è anche morto in battaglia nei Pirenei al ritorno da una spedi zione in Spagna; ma l'episodio fu molto limitato, non ebbe quel carattere di scontro decisivo e memorabile che il poema gli attri buisce; soprattutto, i nemici contro cui cadde combattendo 'Hruodlandus, Brittannici limitis praefectus' erano Baschi, pre doni di montagna che coi Mori musulmani nemici dell'Occi dente e della cristianità non avevano nulla a che fare ! Una tra dizione epica può conservare anche dei minuti particolari auten tici ma lasciare il posto alla fantasia sul punto principale3'. Peggio vanno le cose nell'epos tedesco, che capovolge i rap porti storici, fa invadere il regno di Attila dai Burgundi e conosce un re unno mite e pacifico che ospita alla sua corte un Teodo rico rovesciato dal trono a opera di Odoacre ! E qui la tradizione è tanto plurima, ramificata e discorde, da rappresentare il miglior documento della libertà con cui la poesia opera su un materiale storico nel succedersi delle generazioni36• Si vorrebbe aggiungere un caso che in genere viene dimen ticato, forse per insufficiente familiarità degli studiosi stranieri con le nostre lettere, pur riguardando un sommo poema delle letterature europee, e pur suggerendosi come parallelo abba stanza ovvio quando si parla della guerra di Troia: vogliamo dire l'assedio di Parigi a opera dei Mori che costituisce gran parte dello sfondo 'storico' dell'Orlando ariostesco come di 245
quello del Boiardo, assedio completamente immaginario e al tempo di Carlo Magno neppure pensabile, dopo che l'espan sione musulmana era stata definitivamente fermata a Poitiers nel 732 da suo nonno Carlo Martello, come sa ogni scolaretto. Tutto ciò che rimane di storico è lo scontro fra un regno cri stiano e un califfato arabo di Spagna. Nel caso della guerra di Troia, se potessimo del pari toglierne tutto ciò che è frutto di fantasia, restebbero forse i rapporti ostili, probabilmente una lunga serie di scontri bellici, fra l'espansione greca nell'Egeo e qualche popolazione dell'Anatolia insediata in un prospero regno con città fortificate, cosa perfettamente verosimile anzi probabile perché si accorda con sviluppi storici documentati. Sarebbe questa la 'storicità della guerra di Troia'?37• È stato poi già osservato che il ciclo troiano raduna perso naggi appartenenti a luoghi diversissimi del mondo greco e racconta scontri che fanno pensare a teatri di battaglia ben lontani dalla Troade. Esemplare è il caso del duello mortale fra Tlepolemo di Rodi e Sarpedone di Licia nel V libro del l'Iliade38, il duello fra un greco e un asiatico che sarebbe per fettamente al suo posto nel sud della costa egeo-anatolica, dove si fronteggiavano i loro rispettivi paesi, ma che troviamo qui stranamente trasposto nel suo estremo nord. Quel famoso assedio (singolare assedio in cui assedianti e assediati si misurano in battaglie campali) sarebbe diventato così un bacino di raccolta di tradizioni eroiche, concentrate in una limitata regione e ristrette nel giro di pochi anni, proprio secondo il procedere della poesia epica. L'arte del narrare con centra e 'condensa' secondo leggi che sono le stesse in ogni tempo perché radicate in fatti universalmente umani. Conforme a questo procedere sarebbe anche la localizzazione arbitraria, a opera di un rappresentante eminente di quella poesia, in un teatro paesistico che sembrava adatto a ospitare il grande rac conto, un paesaggio dominato da imponenti rovine, l'elemento visuale ed emotivo intorno a cui si sono sempre concentrate le leggende e le saghe di ogni specie, il loro maggior 'nucleo di condensazione'. Lo insegna la minima familiarità con le rac246
colte del genere di ogni tempo e ogni paese: «La saga pre suppone delle rovine», ha scritto Albin Lesky, l'autore di una storia della letteratura greca molto fortunata nel nostro inse gnamento medio e universitario, uno studioso incline al genere di risposta che anche qui suggeriremmo, senza volerla spacciare come altro che come un'opinione fra le tante. E di opinioni disparate non c'è scarsità. Fra tutte quelle che si sono accumulate nell'ultimo secolo e mezzo ce ne sono di ogni specie, verosimili o inverosimili, estreme o medianti, ingegnose o francamente balorde. Tutte, se si riesce a guardarle con un occhio un po' distac cato, si scontrano allo stesso modo con una circostanza fatale, una beffa del destino: i poemi omerici, con tutta la loro sapienza e perfezione, appaiono all'aurora della nostra storia, eredi secondo ogni evidenza di una tradizione illustre sia sul piano della forma poetica, sia della materia leggendaria; ma di questa tradizione non sappiamo nulla di sicuro, un nulla mai abbastanza ribadito e sottolineato contro tutte le illusioni e le fantasie. Alle spalle dell'Iliade come dell'Odissea c'è un buio quasi impenetrabile, e impenetrabile senza 'quasi' proprio per gli aspetti che più interesserebbero a chi ne vuole fare la storia. Non sappiamo se la tradizione da essi ereditata risalga fino all'età del bronzo e ne rechi ancora la fedele impronta, dive nendone testimone, oppure se essa si sia formata non prima dei cosiddetti 'secoli bui', fra il tramonto della civiltà micenea e la comparsa della cultura greca arcaica che si sarebbe evo luta nell'epoca classica senza soluzione di continuità. Nel primo caso sarebbe lecito attendersi dall'epica una sostanziale fedeltà a eventi storici già fissati in forma poetica nel secondo millennio e trasmessi con la tenace memoria di cui si riten gono capaci le culture orali. Diventerebbe credibile, anzi pro babile, che davvero il mondo greco d'allora si sia coalizzato contro una città d'Asia che dominava una posizione strategica, salita a un grado di prosperità e potenza che dava ombra ai principi micenei; e niente impedirebbe di pensare che il con dottiero supremo della coalizione venisse davvero da quella 247
Micene i cui imponenti resti ne testimoniano il potere emi nente: il 'vero' Agamennone, come potevano esserci un 'vero' Achille e un 'vero' Aiace. E molto verosimile diventerebbe anche la lunghezza dell'assedio, in un'epoca ignara delle mac chine poliorcetiche che compariranno nell'età classica ma soprattutto ellenistica, un'epoca che in Grecia e altrove vedeva indubbiamente, in termini moderni, la prevalenza della corazza sul cannone. Le battaglie campali di cui l'assedio sembra stra namente disseminato rispondono a un'esigenza epica ed eroica che si doveva soddisfare anche contro la verosimiglianza mili tare: nella realtà gli assediati se ne saranno stati ben chiusi nelle mura, intenti a rafforzarle e a predisporre i mezzi di difesa opportuni. Nel secondo caso, se la tradizione si è invece formata poche generazioni prima dell'ottavo e settimo secolo in cui si colloca concordemente la composizione dei poemi, tutto è possibile e dall'Iliade non ci si può attendere miglior fondamento storico che da un romanzo ambientato capricciosamente in un'epoca lontana, della quale il romanziere sapesse poco o nulla39• Un dilemma alla cui soluzione mancano argomenti di peso decisivo; chi cerca di farsi un'opinione, orientandosi nella selva dei pro e dei contro, può sentirsene frustrato e alla fine respinto, come dalle elucubrazioni sugli extraterrestri, tanto insistenti quanto prive di una soluzione remotamente spera bile. E forse il paragone ci aiuta a trarre una conclusione nostra: forse possiamo dedurre che la vera divisione corre fra coloro per cui una sottostante realtà storica o geografica (1'0dinea ! ) aumenta l'interesse e il fascino di un'opera poetica, e chi invece della realtà non si cura affatto, chi la 'vera' Troia la trova nel poema quale lo leggiamo, sulle pagine della nostra Iliade e non nel tormentato sottosuolo di Hisarlik. Quando la partita scientifica si impatta, si prende posizione secondo incli nazioni personali che di scientifico non hanno nulla. Al di sotto di un'opposizione che dovrebbe fondarsi sui freddi fatti razio nali corre quest'altra e determina gli schieramenti di credenti e scettici più del diverso peso che ognuno dà a un reperto o 248
a una ricostruzione linguistica. Per capire la moderna 'guerra di Troia', archeologica, storica e filologica, bisogna scavare anche negli animi umani, oltre che sottoterra. La nostra storia si sarebbe potuta considerare passabil mente completa fino a dieci o quindici anni fa. Da allora sono intervenuti però fatti nuovi, vicende che hanno suscitato pole mica e sconcerto vastissimi almeno nella cultura tedesca in cui si sono svolte e che i media italiani sembrano invece aver quasi ignorato. Come si usa generalmente, anche noi abbiamo parlato di 'città' a proposito degli insediamenti sovrapposti scavati a Hisarlik, ma così facendo abbiamo solo perpetuato un uso improprio e fuorviante. Come ammetteva il coscienzioso sca vatore Cari Blegen, di vera città non si può parlare prima di Troia VIII, l'abitato ellenistico che si estese largamente ai piedi della collina, mentre per tutta l'età del bronzo il sito fu occu pato solo da una vasta fortezza con poche abitazioni, uno 'stronghold' come diceva l'archeologo americano, o poco più di un'acropoli come avrebbe detto un antico greco. Questa disonestà, o almeno tendenziosità verbale, risale a Schliemann stesso, come ricordava ancora Blegen fornendo in pari tempo (lui che nella guerra di Troia credeva fermamente) un argo mento di peso ai negatori: la Troia di Omero sembra avere sì un'acropoli, sul modello delle città greche, ma si deve anche immaginare estesa e popolosa, con «ampie strade» (eurydgyia), non si può identificare con una 'rocca'. Le parole di Blegen, allora incontestabili, si leggevano nel manuale inglese A companion to Homer, edito nel 1 96240• Ma poco più di vent'anni dopo, all'inizio degli anni Ottanta, si cominciò a parlare di una grande novità: guidata dal professar Manfred Korfmann dell'università di Tubinga, una spedizione tedesca stava rivelando, con nuovi scavi e tecniche modernis sime, un abitato molto più vasto della rocca collinare, una vera e grande città distesa nella pianura sottostante, risalente all'età del bronzo, contemporanea dei Micenei e candidata con buon 249
diritto, ora sì, alla parte di rivale della Grecia di Agamennone e meta di una grande spedizione di guerra. Una celebratissima esposizione tenutasi nel 1 99 1192 a Stoc carda, a Braunschweig e a Bonn, e illustrata da un imponente 'volume di accompagnamento' (Begleitband) sontuosamente illustrato, quasi un'enciclopedia omerica piena di firme famose, provvide a divulgare con molto clamore i nuovi risultati41 • Non ci si contentava di aver conferito a Troia una fisionomia urba nistica tutta nuova e sensazionale, ma le si attribuiva un'im portanza nel mondo d'allora quale nessuno aveva potuto immaginare, forse neppure gli aedi omerici. Collocata a un incrocio unico di vie terrestri e di rotte marittime, fra Europa e Asia, Mediterraneo e Mar Nero, la metropoli avrebbe domi nato le comunicazioni commerciali per un raggio vastissimo. Una cartina più volte riprodotta la mostrava al centro di una rete di linee e frecce raffigurante un traffico di import ed export, fino al Golfo Persico e a quelle che oggi sono Europa occidentale e Russia; un traffico quale sarebbe stato superato, seppure, solo dalla Roma imperiale42• Una nuova Troia, ma anche una nuova guerra per Troia, che scoppiò quando tutte queste novità, tanto l'interpretazione dei risultati di scavo quanto la costruzione storica su di essi fondata, vennero duramente contestate da un collega dell' ar cheologo Korfmann, il professar Frank Kolb, docente di storia antica nella stessa Tubinga e già noto come autore di un testo molto citato sull'urbanistica antica. Kolb non salvava nulla delle pretese novità: una fossa che per Korfmann e i suoi com pagni di scavo era la fondazione delle mura cittadine, si ridu ceva per lui a un canale di scolo delle acque; il grande pla stico della nuova Troia ricostruita che era stato al centro della celebre esposizione era opera di fantasia fondata sul nulla, e così via43. La polemica perse il carattere puramente accade mico delle dispute fra studiosi e diventò vera zuffa verbale quando il combattivo storico mise in dubbio, anzi negò aper tamente la buona fede dell'équipe archeologica. Dietro alla tur lupinatura, si lasciava immaginare, c'erano gl'interessi degli 250
sponsor e addirittura la politica internazionale: tradizional mente vicina alla Germania fin dai tempi dell'impero gugliel mina, la Turchia stava facendo anticamera per il suo contro verso ingresso nell'Unione Europea e avrebbe visto volentieri la nascita di un nuovo 'mito' storico, una grande Troia risorta sotto il patronato turco-tedesco, ponte fra Oriente e Occi dente44. Anche se qualcuno ne sorrideva come di una commedia di provincia recitata nell'appartata Tubinga, sede universitaria delle più insigni ma città molto secondaria, i media e il grande pubblico presero ben presto a seguire l'accanita contesa45. Legata soprattutto a un nome tedesco, anche se di un tedesco che era diventato cittadino del mondo, l'archeologia troiana era ed è sentita in Germania come in gran parte cosa propria. Dopo qualche incertezza il tesoro di Priamo era stato accolto con tutti gli onori a Berlino nel 1880, al tempo dell'Impero in orgogliosa ascesa, e da Berlino erano cominciate nel 1945 le sue nuove vicissitudini che riaccesero e moltiplicarono l'inte resse attorno ad esso e a tutto ciò che esso rappresentava. Un congresso tenutosi nel febbraio 2002 presso l'università dei due contendenti, che ne furono i principali relatori, vide un afflusso non comune di semplici uditori interessati che pote rono erudirsi su tutti i pro e contro della nuova Troia, e ascol tare uno scambio di battute polemiche che sfioravano il limite dell'offesa personale e qualche volta lo oltrepassavano. n coté filologico nel vasto scontro era poi rappresentato dal grecista }oa chim Latacz, fierissimo assettare della validità dei nuovi risultati e autore di un libro su 'Troia e Omero' che annunciava fin dal titolo la soluzione dell'antico enigma46. La nuova ed ennesima contesa attorno a Troia non ha tro vato ancora chi ne tenti un bilancio con occhio libero da par zialità. Certo è soltanto che prima o poi vedremo i nuovi scavi riconosciuti come uno dei siri archeologici più importanti del l' area egea, oppure assisteremo allo sgonfiarsi della 'bolla', una delle più grosse dell'archeologia moderna. Tertium non datur, dopo che gli scavatori si sono compromessi in questa misura47. 25 1
Dopo aver accennato alle ultime vicissitudini del tesoro di Priamo è necessario aggiungere due parole su quello che per mezzo secolo è stato per la Germania uno dei suoi 'enigmi nazionali', le vicende misteriose di varia importanza che sem brano destinate a costellare la storia di quel paese e a fornire alimento infinito a ogni specie di congetture e rivelazioni, dalla vera identità di Kaspar Hauser alla fine del re Ludovico II di Baviera, dall'incendio del Reichstag all'ultimo volo di Rudolf Hess, fino alla sorte della 'sala d'ambra', il celebrato Bern steinzimmer, prodigio dell'artigianato rococò scomparso nella catastrofe del 1945. Esposto a Berlino fino alla Seconda guerra mondiale, il tesoro di Priamo era stato messo per tempo al riparo dai bom bardamenti, da ultimo nel cosiddetto Flakturm, la postazione della contraerea presso il Tiergarten, in realtà una formidabile, quasi indistruttibile fortificazione, il posto più sicuro di Ber lino. In circostanze mai del tutto chiarite, il responsabile della custodia lo consegnò agli ufficiali sovietici espressamente inca ricati di 'interessarsi' ai beni culturali del paese sconfitto, subito dopo la capitolazione, e da allora se ne perse ogni traccia. Sentita come il furto di una specie di Palladio nazio nale, la scomparsa degli insigni reperti suscitò grande coster nazione e una serie infinita di congetture cervellotiche e rive lazioni sensazionali, nella cui rassegna si potrebbe trovare vera mente di tutto. Uno studioso di tradizioni popolari arrivò a trattarne in un erudito saggio, riconducendo ai motivi ben noti del folklore, agli eterni temi della fiaba e della leggenda, tutte le versioni della storia che erano circolate per decenni, fino nei rotocalchi: il tesoro aureo, l'eroe che lo conquista, l'insidioso nemico che lo ruba, il potere oscuro e temibile che lo custo disce: l'oro di Priamo come un moderno oro del Reno ! 48• Ma non mancavano neppure i molti convinti che il tesoro fosse andato perduto senza rimedio, distrutto o barbaramente fuso a fini di lucro, trasformato in vere nuziali e capsule dentarie49• Alle fantasie mise fine l'ammissione del possesso da parte della Russia ( 199 1 ) , che, con la sua tenuta stagna, col silenzio 252
quasi perfetto mantenuto per mezzo secolo, confermò le sue tra dizioni di segretezza a tutta prova. Seg\.Ù la sensazionale espo sizione al museo Puskin di Mosca ( 1 996/97)50, poi il sipario scese di nuovo e si riaprirono le incertezze, stavolta sulla futura desti nazione del tesoro: resterà definitivamente nella nuova sede a titolo di riparazione di guerra, o sarà benevolmente restituito, magari come mossa diplomatica in qualche momento di rap porti delicati fra la nuova Russia e la Germania? Chi sa qual cosa dei complessi rapporti politico-culturali fra i due paesi, almeno da Pietro il Grande in poi, non se ne meraviglierebbe. Ma mentre scriviamo (2004) la soluzione sembra lontana. Come puro sito archeologico, Hisarlik-Troia non è tra i più importanti del mondo antico, e anche gli oggetti che ha resti tuito sono meno rilevanti di tanti altri, meno di quelli rinve nuti a Micene dallo stesso Schliemann. In tutta la storia che abbiamo rievocato, la vera grande sensazione non è la scoperta di un'antica città dell'Anatolia, ma il ritorno alla luce di una civiltà fiorita su suolo greco e quasi del tutto dimenticata per millenni, che con la presunta Troia ha solo un rapporto molto indiretto. Le lunghissime dispute sette- e ottocentesche sulla localizzazione della vera Troia, come più tardi i dibattiti sul l'identificazione dello strato 'omerico' fra i tanti scavati, appaiono come sforzi del tutto sproporzionati alla possibilità di arrivare ad una soluzione, se non addirittura come vani giochi attorno a un enigma senza oggetto. L'estensione della relativa bibliografia, tutta la sensazione suscitata dagli scavi di Hisarlik si deve a un unico ed esclusivo fattore: il loro legame vero o presunto, probabilmente non molto stretto, con la gran dissima poesia che va sotto il nome di Omero. Forse la migliore lezione che possiamo trarre da tutta la storia riguarda un'in clinazione irresistibile della mente umana che qui ha potuto manifestarsi come in pochi altri casi: davanti alle grandi opere di poesia non ci si contenta di quella che sembra la superficie e che invece è la sostanza; si cerca una 'verità' sottostante, sto rica, geografica, filosofica, magari occulta e iniziatica, tutto ciò 253
che una fantasia male impiegata può escogitare. Niente di più illusorio, anzi aberrante, come tutte le storie di questo genere dovrebbero dimostrare. Se le moderne vicende troiane servi ranno a insegnarcelo, avremo trovato anche noi un tesoro, più prezioso dell'oro di Priamo.
Note 1
Schliemann, di Betsy Jolas, rappresentata a Lione nel 1995.
2
Su 'Troia prima di Schliemann' orienta il libro di MICHAEL Wooo,
Alla ricerca della guerra di Troia, Milano 1988 (tit. orig.: In search o/ the Trojan war, London 1985). Amplissima e diligente rassegna del tema, con bibliografia, è quella di E. BucHHOLZ, Homerische Kosmographie und Geo graphie, Wìesbaden 1871 (rist. 1970), pp. 3 16-354, un libro sfortunatamente
uscito alla vigilia delle scoperte di Schliemann e destinato per questa parte a essere subito superato. Schliemann vi è nominato come uno fra gli altri cento che fecero ipotesi sulla localizzazione di Troia e come autore di saggi di scavo, non decisivi. 3 La visita di Alessandro è raccontata da Arriano, Anabasi I 1 1 ,7, quella di Cesare da Svetonio, Cesare 79. L'intento di Costantino, di trasferire nella Troade la capitale è testimoniato da Zosimo, Storia nuova II 30, 1 , e altri. ll legame fra i destini di Troia e quelli di Roma è espresso nella poesia augustea in luoghi come Orazio, Odi ID 3. 4 Su Serse: Erodoto, Storie vn 43; su Maometto Il: K. KREISER in AA.Vv., Troia. Traum und Wirklichkeit, s. l. 2001, p. 282, che cita il cronista di corte Critobùlo. Una completa rassegna di tutte le celebri visite a Troia, da Serse a Maometto II, è quella di FABRIZIO BRENA nel volume miscellaneo Troia. Von Homer bis beute. Herausgegeben von Heinz Hofmann, Tiibingen 2004, pp. 101- 1 17. 5 1n travestimento medievale e cavalleresco, il 'ciclo troiano' vide una lunga fioritura di poemi e romanzi almeno fino al XIII secolo, mentre si erigevano fantastiche costruzioni genealogiche che finirono per collegare gran parte delle nazioni e delle case regnanti europee in una rete di parentele leggendarie risa lenti agli eroi troiani. 6 Un'altra figura di italiano poco noto nel proprio paese, paragonabile per certi aspetti a Schliemann, è Luigi Palma di Cesnola, console degli Stati Uniti a Cipro, anche lui cosmopolita e archeologo dilettante. Vedi il libro di A.G. MARANGOU, The consul Luigi Palma di Cesnola (1832-1904): Li/e and deeds, 254
Nicosia 2000, e il saggio di EDMUND F. BLOEOOW, H. Schliemann und Luigi di Cesnola, in Mauerschau. Festschrift fiir Manfred Korfmann, Remshalden-Grun bach 2002, vol. I pp. 57-76. Per PIETRO DELLA VALLE vedi la sua Lettera prima d4 Costantinopoli, par. V. 7 Pharsalia IX 969. E Lufs de Camòes: « . . . agora de Troia triunfante/nao ve mais que a memoria o navegante>> (Os Lusiadas III 7). 8 Ober die Lage des homenschen Ilions, in Kleine Schriften zur griech. Lit teratur, Bonn 1845, vol. II, pp. I-CI (già saggio del 1843 ) . 9 Sulla memoria d i Troia che s i conservava nel Medioevo e nell'età moderna fino a Schliemann, e sulle visite alla Troade di viaggiatori europei, v. l'infor mato saggio di DoNALD F. EASTON, Troy be/ore Schliemann, in «Studia Troica» l (1991 ), pp. 1 1 1- 129. Ibid. , pp. 101-109, una vasta bibliografia delle opere di viaggiatori nella Troade fino alle scoperte archeologiche decisive, redatta da Justus Cobet, Emre Madran, Nimet Ozgoniil. 10 Interessanti considerazioni storiche e metodiche fa a questo proposito }usrus COBET, Troia, Jericho u. die historische Kritik, in J. COBET-B. PATZEK (edd.), Archàowgie u. historzsche Erinnerung. Nach 100 Jahren H. Schliemann, Essen 1992, pp. 1 17-135. 11 Cose del genere sosteneva fra gli altri il famoso 'Tedesco d'Inghilterra' Max Miiller, apostolo della mitologia naturale indo-europea. HERMANN USENER spiegava la guerra di Troia come proiezione epica del mitologhema del rapi mento del tesoro celeste, in «Sitzungsber. der Kaiserl. Akad. der Wissenschaften in Wien, Philos. -hist. Cl.» 1 3 7 ( 1 897 ) , pp. 1 -63 ( Kleine Schri/ten , Leipzig/Berlin 1913 , vol. IV pp. 199-259). 12 L'elenco delle onorificenze straniere che gli furono conferite è intermi nabile, mentre dalla patria non gli venne che la cittadinanza onoraria di Ber lino e la nomina a socio di un paio di istituzioni erudite. 13 Heinrich perse la madre a soli nove anni, mentre il padre era un eccle siastico molto indegno, suscitatore di scandali che costrinsero i suoi superiori a trasferirlo. n bisogno fortissimo di riconoscimento e considerazione, che spiega molti aspetti nel carattere dell'adulto, ha una probabile origine nella pre coce esperienza di dequalificazione e quasi bando sociale che la famiglia conobbe in conseguenza. Le interpretazioni psicanalitiche, come si può imma ginare, non sono mancate. 14 Una versione italiana (non l'unica) è l'Autobiografia di un archeowgo alla ricerca del mondo omerico. Presentazione di A. Maiuri, Milano 1962. Altri scritti in versione italiana sono: I.;oro di Troia, Milano 1960; La scoperta di Troia, a cura di W Schmied, Milano 1962 (2" ediz.). 15 n libro era la Weltgeschichte/iir Kinder di GEORG LUDWIG }ERRER, Ni.im berg 182 1 . Anche sull'esemplare ritrovato nella biblioteca di Schliemann, con la sua firma, si è appuntata l'attenzione diffidente dei nuovi indagatori. Mentre a un biografo più benevolo quella firma era parsa «tracciata dalla mano incerta di un bambino», una successiva perizia calligrafica la attribuì sicuramente a un =
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adulto. Schliemann avrebbe tentato di convalidare la leggenda con uno dei suoi molti falsi, spacciando per cosa della sua infanzia un libro di cui era venuto in possesso molto più tardi. 16 La Chine et le Japon au temps présent, Paris 1869. 17 Sulla famiglia Calvert e sui primi saggi di scavo condotti da Frank, prima di Schliemann, v. D.F. EASTON, Troy be/ore Schliemann, cit., pp. 129 sgg. 1 8 Ma c'è almeno un'eccezione da ricordare. L'americano RHYs CARPENTER tornò molto più tardi a favorire Bunarbashi, ma non per riconoscervi il sito di una realtà storica, bensì solo come teatro scdto dal poeta per fissarvi un rac conto tradizionale che avrebbe avuto anche localizzazioni concorrenti. Vedi Folktale, fiction and saga in the Homeric epics, Berkeley-Los Angeles 1956 ( l• ediz. 1946), pp. 45 sgg. 19 La pagina rdativa a Micene e alle tombe di Agamennone «e di quanti tornando da Troia furono uccisi da Egisto» si legge nella Descrizione della Grecia, II 16,6. 20 J. CHADWICK-M. VENTRIS, Documents in Mycenaean Greek, Cambridge
1956. 21
ERNST MEYER, Heinrich Schliemann, Kau/mann und Forscher, Gottingen
1969.
22 A. GIULIANO, voce Schliemann, Heinrich, in Enciclopedia dell'arte antica classica e orientale, VII, p. 107. Qui si leggono anche interessanti considera zioni sul personaggio come figlio dd suo tempo e rappresentante della cultura e della società tedesche dell'epoca. 23 La fortuna del libro, primo best-seller tedesco del dopoguerra, fu immensa. Alla morte dell'autore ( 1972) esso era stato tradotto in ventisei lingue, e solo nell'originale: Gotter, Grà'ber und Gelehrte. Roman der Archà'ologie, Ham burg 1949, era arrivato vicino ai due milioni di copie attraverso innumerevoli edizioni. La prima edizione italiana è del 1952 (Torino) , col titolo citato nel testo e con lo stesso sottotitolo Il romanzo dell'archeologia. 24 W.M. CALDER m, 5chliemann on Schliemann: A study in the use o/sources, in «Greek, Roman and Byzantine Studies» 13 (1972), pp. 335-353. 2� DAVID A. TRAILL, Excavating Schliemann. Collected papers on Schliemann, Atlanta (Georgia) 1993. 26 W .M. CALDER-D.A. TlwLL (edd.), Myth, scandal and history, Detroit
1986.
27 Jusrus COBET, Heinrich Schliemann. Archaologe und Abenteurer, Miin chen 1997. 28 MANFRED FLOGGE, Heinrich Schliemanns Weg nach Troia. Die Geschich
te eines Mythomanen, Miinchen 2003.
29 Sull'altro film-TV schliemanniano del Norddeutscher Rundfunk (NDR, 1980/8 1) vedi I. STONE, in Troia. Traum und Wirklichkeit, cit., p. 458. 30 H. D6HL, Heinrich Schliemann. Mythos und Argernis, Miinchen-Luzern 198 1 . Esempio della prima specie di argomenti: ogni autobiografia, ricorda
Dohl, comporta elementi di stilizzazione o addirittura di fantasia, e molti esempi
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del genere non reggerebbero meglio a una critica minuziosa. Esempio dell'ul tima specie: il libro comincia raccontando la polemica di Schliemann col fami gerato Emst Botticher, il capitano di artiglieria che lo assillò sino alla fine dei suoi giorni con fascicoli e libercoli dove si sosteneva che la Troia da lui sca vata non era una città ma una necropoli. Introdurre per primo un avversario così risibile sembra un facile e logoro espediente per creare una presunzione a favore della parte opposta. È intervenuto ripetutamente a difesa di Schlie mann anche il già citato americano DoNALO F. EASTON; vedi p. es. Was Schlie mann a liar? in Grundlagen und Ergebnisse moderner ArchiiokJgie 100 Jahre nach Schliemanns Tod. Herausgegeben von Joachim Herrmann, Berlin 1992, pp. 191-198. JI Un primo orientamento, anche se aggiornato solo fino al 1967, lo dà la voce Homeros di ALBIN LESKY, nel IX volume di supplemento della Rea lencycwpadie di Pauly e Wissowa, sez. VII 1: Historischer Hintergrund. 32 n problema era impostato con chiarezza ed equilibrio già da R C. }EBB, I. The ruins at Hissarlik. II. Their relation to the lliad, in <<Joumal of Hellenic Studies» 3 (1883 ), pp. 185-217. Sulla difficoltà di correlare tradizione leggen daria e reperti archeologici, e di trarre dall'archeologia un contributo alla que stione della storicità della guerra di Troia, scriveva in senso molto scettico ROLF HACHMANN, in Vorderasiatische Studien (Festschrift A. Moortgat), Berlin 1964, pp. 95- 1 13 . J J Sui fondamenti della datazione tradizionale della guerra di Troia v. HUBERT CANCIK, in Troia. Von Homer bis heute cit., pp. 53-75. 34 Die Ilias ist kein Geschichtsbuch, in «Serta philologica Aenipontana. Inn sbrucker Beitrage zur Altertumswissenschaft», Bd. 7-8, lnnsbruck 1962, pp. 37-63 . 35 n parallelo fra Iliade, Nibelungenlied e Chanson de Roland fu suggerito già da Claude-Charles Fauriel nel 1830, come ricorda il grande filologo fran cese JoSEPH BÉDIER, in un saggio molto illuminante sul precario rapporto fra storia e poesia epica (Les légendes épiques, Paris 1908- 1913, vol. III pp. 300 sgg.). A conclusioni scettiche era arrivato anche un altro insigne studioso della materia, GASTON PARIS (Légendes du Mayen Age, Paris 1903 , cap. Roncevaux). 36 Naturalmente comparaison n'est pas raison, e anche la validità di questi confronti fu contestata con svariati argomenti in un piccolo forum ospitato dall'inglese <<Joumal of Hellenic Studies» 84 (1964), pp. 1 -20, fra lo storico M. I. FINLEY che li aveva proposti (non per primo, v. sopra) e tre altri emi nenti studiosi: l'archeologo J.L. CASKEY, l'esperto di tradizioni epiche G .S. KIRK e il filologo D.L. PAGE, che già si era pronunciato in senso favorevole al 'nocciolo storico' deli'Ilzade, fondandosi sui documenti ittiti che già altri avevano confrontato con la tradizione omerica. Finley tornò a ribadire i suoi argomenti contro la storicità con l'articolo Schliemann's Troy - one hundred years a/ter, in «Proceed. of the British Acad.» 60 ( 1974) , pubblicato anche separatamente come «The fourth annual Mortimer Wheeler archaeological lecture», London 1974. .
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37 È questa in sostanza la tesi di Dieter Hertel, annunciata già nel titolo del suo contributo in Heinrich Schliemann. Grundlagen und Ergebnisse, cit., pp. 177-182. n grosso volume, che raccoglie gli atti di un congresso tenutosi a Ber lino nel dicembre 1992, contiene molte relazioni su ogni aspetto della figura e dell'opera. 38 V. 657 sgg. 39 Dalla vastissima bibliografia citiamo qualcuno dei più importanti autori pro e contro l'ipotesi di una tradizione già formatasi in epoca micenea e per venuta all'epica arcaica con un considerevole contenuto di verità storica. Pro: MARTIN P. Nn..ssoN, in «Scientia>> 48 ( 1 930), pp. 3 1 9-328; poi Homer and Mycenae, London 1933 (rist. New York 1968); D.L. PAGE, History and the Homenc Iliad, Berkeley 1959. Contro: R CARPENTER, Folktale, fiction and saga, cit., soprattutto pp. 23 sgg.; ALFRED HEUBECK, Geschichte bei Homer, in «Studi rnicenei ed egeo-anatolici» 20 (1979), pp. 227-250 ( Kleine Schri/ten zur griech. Sprache u. Literatur, Erlangen 1984, pp. 39-62), che insiste sulle differenze nella cultura materiale fra Omero e tutto quel che sappiamo dell'epoca micenea. Rassegne critiche di assertori e negatori della storicità sono quelle di HEINZ GEISS, Troia - Streit ohne Ende, in «Klio» 57 (1975), pp. 261 sgg., e di MICHAEL SIEBLER, Troia - Homer - Schliemann. Mythos u. Wahrheit, Mainz 1990, pp. 175-194. Fra gli esempi di assurde fantasie primeggia purtroppo un italiano: P.E. SANTANGELO, Omero senza veli, Milano 1 950. Qui si legge che il racconto di Omero sarebbe storicamente attendibile perché opera di testimoni oculari della guerra di Troia, e altre cose ancora più pazze. Come eredi dell'insegna mento italiano di J ulius Beloch, erano molto scettici sulla possibilità di risilire dalle tradizioni leggendarie alla storia LUIGI PARETI, L'Iliade e la questione topogra/ica di Troia, in «Atene e Roma>> 1 1 (1939), pp. 1-24 e ALBERTO GITTI, Mythos. La tradizione pre-storiogra/ica della Grecia. Prolegomeni allo studio delle ongini greche, Bari 1949. 40 ALAN ].B. WACE-FRANK H STUBBINGS (edd.), A companion to Homer, London 1962, p. 366. 41 n già citato Troia. Traum und Wirkltchkeit. È probabilmente la più gran diosa singola opera che sia stata dedicata a Troia negli ultimi tremila anni. L'ef fetto di tanto sciorinamento di dottrina e di tanto lusso tipografico è certo soverchiante per il lettore disarmato, ma può perfino insospettire e rendere più scettico quello disposto criticamente. 42 Korfmann espose le sue novità anche in un congresso tenutosi a Genova nel luglio 2000, i cui atti portano il titolo Omero tremila anni dopo, Roma 2002, pp. 209-227. 43 Una vera requisitoria di F. KOLB, che smonta una dopo l'altra tutte le conclusioni degli scavatori, si può leggere nel volume miscellaneo (da non confondere con quello sopra citato: uno è Begleitband, l'altro TagungsbandJ Troia. Traum und Wirklichkeit . . . Tagungsband zum Symposion im Braun schweigischen Landesmuseum am 8. und 9. }uni 2001, Braunschweig 2003 , pp. 8-39. =
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L'espressione non è nostra ma è già nel titolo della pubblicazione che
raccoglie le relazioni di un congresso tenutosi a Tubinga nel 1990, centenario
INGRID GAMER-WALLERT (ed.), Troia. Briicke zwz� schen Orient und Okzident, Tiibingen 1992. E sarà da ricordare che la già citata mega-miscellanea Troia. Traum und Wirklichkeit si apre con le parole di saluto della morte di Schliemann:
dei due supremi patroni dell'impresa, i capi dello stato tedesco e turco. L'e lenco degli sponsor è poi un vero gotha di politica, industria e finanza tede sche. Altri esempi della straordinaria attività editoriale attorno alla 'nuova' Troia sono il libro di DIETER HERTEL , Troia. Geschichte. Archiiologie. Mythos, Miin
chen 200 1 , per cui vedi la polemica risposta di PETER }ABLONKA in Mauer schau. Festschrift fiir M. Korfmann, cit., vol. l, pp. 259-273, e il volume miscel laneo Troia and the Troad. Scienti/ic approach, Berlin etc. 2003 (atti di un sim posio tenutosi a Heidelberg nel 2001), dove c'è un po' di tutto, geologia, eco
logia, uso del suolo attraverso i secoli e simili. 4' Un'eco ne arrivò anche al «Times» di Londra, nella forma di un articolo sulla nuova 'Battle of Troy', il 25.2.2002. 46
Troia und Homer. Der Weg zur Losung eines alten Riitsels, Miinchen
Berlin 200 1 .
4 7 Un sintetico bilancio della questione di Troia, dalla riscoperta moderna fino al 2003 , offre l'articolo Troia di }USTUS COBET e BARBARA PATZEK, nel les
il volume CHRISTOPH ULF, Der neue Streit um Troia. Eine Bilanz,
sico Der Neue Pauly, vol. 15/3, Stuttgart-Weimar 2003, coli. 549-615. miscellaneo a cura di
Miinchen 2003, porta non del tutto giustificatamente il suo sottotitolo, per essersi rifiutati di collaborarvi (pur <>) gli esponenti del 'partito Korfrnann'. 48 Vedi
GoTTFRIED KoRFF, in Troia. Briicke zwischen Orient und Okzident,
cit., pp. 152-182. L'autore fece in tempo ad aggiungere all'articolo una breve appendice sulla 'riscoperta' del tesoro a Mosca, annunciata durante la stampa del volume. Tornò poi sull'argomento in Troia. Traum und Wirklichkeit, cit., pp. 455-46 1 . 4 9 Sui destini del 'tesoro di Priamo' una succinta m a ben documentata infor
mazione dà, nei due capitoli finali, il libro di CAROLINE MooRHEAD, The lost treasures o/ Troy, London 1 994. n caso dei reperti di Schliemann è collocato
nel quadro generale del gigantesco saccheggio di opere d'arte compiuto dal l'URSS (o meglio dalla Russia, che ne
fu l'unica beneficiaria - saccheggiata fu
anche l'Ucraina 'collaborazionista') ai danni della Germania vinta. Questa, bisogna ricordare, era stata colpevole a sua volta di saccheggi e distruzioni vandaliche nell'Europa orientale invasa. '0 n ricco catalogo è stato pubblicato anche in edizione italiana:
Il tesoro di Troia. Gli scavi di Heinrich Schliemann, Milano 1996, con una completa documentazione fotografica finalmente all'altezza dei tempi. Ulteriori infor mazioni sulle vicende del tesoro fornisce il contributo di MIKHAIL TREISTER, pp. 197-232.
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Capitolo ottavo «Gli eroi della tragedia greca lottavano contro il Fato»
Molti anni fa, quando chi scrive cominciava a interessarsi di queste cose da studente liceale, circolava un'edizione ita liana delle tragedie di Sofocle la cui fascetta editoriale diceva letteralmente: «L'eterna lotta degli eroi greci col destino» (la casa editrice era importante e il curatore godeva di buona reputazione). Crediamo che ben pochi lettori, e ben pochi fra quanti videro il volume sui banchi delle librerie, ne siano rimasti meravigliati e incuriositi; piuttosto molti avranno per cepito quella presentazione come qualcosa di ovvio e risaputo. Ma c'è qualcosa che possiamo definire ovvio e risaputo quando si parla di tragedia greca? Se in tutta la storia del teatro europeo, anzi probabilmente del teatro mondiale, non ci sono due parole che messe insieme incutano tanto rispetto ed evo chino tanta grandezza come queste due: tragedia greca, nep pure c'è nulla che sia stato oggetto di interpretazioni tanto disparate e che abbia suscitato una tale ridda di controversie. La tragedia greca è stata oggetto di discussione e polemica almeno fin dal tempo di Aristofane, quando essa era ancora ben viva, anche se aveva già passato la sua acme'. Una teoria approfondita e sofisticata della sua essenza fu espressa già da Aristotele. Questi ha lasciato il tema in eredità alla riflessione moderna che intorno ad esso si è lungamente esercitata, con fecondità inesauribile. I temi e i personaggi della tragedia greca sono entrati fra i nostri grandi miti collettivi, ancor più dei 261
temi e dei personaggi di Omero tanto celebrato come padre e maestro della nostra civiltà letteraria. Pensiamo a ciò che hanno rappresentato le figure di Prometeo e di Edipo per la poesia e per il pensiero moderni; oppure ricordiamo come l'U lisse astuto e malvagio ingannatore, che il Medioevo ricordava anche dopo aver dimenticato il greco e che Dante mise all'in ferno, sia l'Ulisse dei tragici, non quello di Omero. Davanti a una creazione così straordinaria, che tanto s'im pone all'attenzione, è inevitabile che gli uomini non si con tentino di ammirare ma vogliano capire. Capire significa sta bilire delle categorie concettuali in cui far rientrare un certo fenomeno, definirne la specificità e distinguere la sua vera essenza da ciò che è eventualmente improprio e marginale. Le discussioni sull'essenza della tragedia, o più astrattamente sul concetto di 'tragico' , sono state infinite e certamente non sono ancora alla fine. Ma non si va lontano se si accetta acritica mente l'idea più convenzionale di tutte, riflessa in quella tale fascetta editoriale: l'idea che vede ostinatamente nella tragedia greca una 'tragedia del destino', anzi del fato come spesso si preferisce dire, o Fato come si preferisce scrivere. Tutti sap piamo che per la cultura media o mediocre, giornalistica, il solo nome della tragedia greca basta a evocare questo concetto di destino, un destino cieco e capriccioso cui l'uomo si illude di sfuggire senza riuscirei mai. Aristotele, che qualcosa ne avrà capito e che alla tragedia dedica in sostanza la sua Poetica, di destino o fato, maiuscolo o minuscolo, non parla assolutamente. La sua trattazione è dedicata in gran parte a fatti tecnici, prendendo il termine nel senso più ampio e a tutti i possibili livelli, dal linguaggio alla costruzione della trama. A quella che modernamente chiame remmo l'essenza del tragico sono dedicate relativamente poche ma preziose annotazioni2• Per Aristotele la tragedia deve rap presentare prima di tutto personaggi 'elevati' , a differenza della commedia; poi questi personaggi devono essere protagonisti di vicende che rispondano a certi caratteri: non tutte le vicende sventurate e luttuose sono tragiche. Aristotele ha un suo con262
cetto del tragico, dell'essenza della tragedia, se arriva a impie gare l'aggettivo atrdgodos (probabilmente di suo conio) , 'non tragico, non proprio della tragedia'. Che cos'è invece adatto alla tragedia, veramente tragik6s? La definizione del filosofo è abbastanza chiara e sintetica, intendendo definizione nel senso più preciso: egli delimita l'ambito tipologico di una vicenda veramente 'tragica'. n buon mythos tragico, si legge qui, è per prima cosa una storia sostanzialmente disgraziata, la storia del passaggio da una condizione di prosperità a una di sventura; secondo, questa storia deve avere un protagonista singolo piuttosto che una coppia o un intero gruppo, e un protagonista che non sia moralmente né troppo eccellente né troppo riprovevole; terzo e importantissimo, la disgrazia di questo personaggio non dev'essere causata da un atto di vera malvagità, da una sua grande colpa morale, ma da un 'errore', una hamartia, sia pure di grande rilevanza, come si legge in uno dei due passi in cui compare la parola, ma sempre errore e non colpa morale che sia espressione di una natura perversa3• Se non fossero rispettate queste condizioni la tragedia non raggiungerebbe il suo scopo specifico che, per Aristotele, è quello di suscitare nell'animo dello spettatore quei famosi 'compassione e terrore', éleos e ph6bos, su cui si è tanto discusso e su cui certamente si discuterà ancora. Aristotele aggiunge che la storia meno tragica di tutte sarebbe proprio quella di uno scellerato che passasse dalla sventura alla pro sperità, perché non susciterebbe in noi alcuna solidarietà (in quanto il personaggio è malvagio) né paura o compassione (in quanto la vicenda è fortunata) . Morale: la tragedia deve mettere sotto gli occhi, per farla avvertire in maniera intensa e immediata, la sorte dell'uomo, la fragilità e precarietà della sua condizione che peraltro fa parte di un ordine universale intelligibile e sensato, anche se duro da accettare, non sottostà al dominio di un fato cieco. È in fondo un'altra faccia dell'eterno problema che da un diverso punto di vista si chiama problema della teodicea, il problema 263
di Giobbe, della sventura immeritata che offende una nostra aspirazione profonda, quella di chi vorrebbe sempre trovare nelle vicende umane una giusta remunerazione. La sventura tragica non è il meritato castigo di una colpa, altrimenti man cherebbe l'elemento della compassione che Aristotele consi dera essenziale. È invece frutto di un errore che non suscita nello spettatore una grave condanna morale, ma che viene scontato con un castigo al di là di ogni proporzione, un castigo che viene avvertito come profondamente ingiusto. Con ciò si apre un conflitto non destinato a trovare soluzione, come sap piamo bene e come tutta l'umanità ha sempre saputo. 'Se ci fosse giustizia a questo mondo' , abbiamo sospirato tutti tante volte sapendo più o meno chiaramente che questa giustizia non l'avremmo mai trovata. Avendo astratto il principio del tragico, la quintessenza della tragicità, dalla realtà della manifestazione letteraria quale si presentava concretamente, Aristotele deve constatare che questa realtà non risponde sempre alla teoria e riconosce che non tutti i miti tradizionali vanno ugualmente bene come sog getto di tragedia, così come non tutte le tragedie sono impo state ugualmente bene ai fini · di quello che dovrebbe essere il loro scopo specifico. Ricordiamo che c'erano infatti anche tra gedie a lieto fine, come alcune di Euripide, e perfino tragedie non prive di elementi comici. Anche se non tutti gli spettatori delle rappresentazioni moderne riusciranno a coglierli, di questi elementi ce ne sono perfino nelle Baccanti di Euripide, pur ispirate dalla realtà meno comica di tutte: il divino nel suo aspetto più numinoso e temibile4• La maggior parte di esse dà peraltro ragione ad Aristotele e alla sua teoria. Eroi tragici col pevoli solo di un errore o di una colpa veniale e puniti con una catastrofe immeritata, sono alcuni dei più classici e celebri, come Aiace o Eracle. Per il primo e più illustre teorico della tragedia, qualsiasi forma di fatalismo è ad essa completamente estraneo. Se di ' destino' si vuole parlare, si tratterà di destino dell'uomo nel senso più generale, nel senso della sua condizione, del rap264
porto fra l'umano e il divino e cose simili, non di fato inelut tabile e immotivato del quale l'uomo sarebbe lo zimbello. Né ci si può attendere niente di diverso, se si sa qualcosa sul pensiero e sulla religiosità, su tutta la vita spirituale dei Greci dell'età classica, almeno di quell'Atene dove la tragedia nacque ed ebbe la sua fioritura. Per venire al quesito più preciso: è mai concepibile qualche forma di fatalismo, che troverebbe espressione poetica nella tragedia, in un clima intellettuale come quello dell'Atene del V secolo? La filosofia di quest'epoca è per noi rappresentata soprattutto dal nome di Socrate, incentrata da una parte sui modi della conoscenza e dall'altra sul problema di criticare e rifondare il sistema dei valori morali accettati. Fatalismo significa limite posto alla libera volontà umana (e il contrasto di fatalismo e libero arbitrio occupò moltissimo la riflessione più tarda, dall'Ellenismo in poi) ; c'è qualcosa di anche solo lontanamente simile nei dialoghi di Platone? La filosofia socra tico-platonica fa dipendere la scelta morale da fatti intellet tuali, per cui riconoscere il bene significherebbe seguirlo neces sariamente, fuggendo il male; questo può essere lontano dalle idee moderne, cristiane e post-cristiane, ma non mette in discussione la libertà della volontà umana. Ad ogni forma di fatalismo si contrappone invincibilmente il detto sprezzante del Socrate platonico: è cosa «da donnicciole» credere a un destino (heimarméne) cui non si può sfuggir2. Questa è la voce della più alta e autentica cultura ateniese del tempo. Una forma di rassegnazione ai capricci del caso si potrebbe cercare semmai nella grecità più tarda: proprio l'epoca che vide il declino della tragedia! Un genere di 'fatalismo' destinato a particolare fortuna perché ammantato di nobiltà morale e a suo modo religiosa fu propagato dalla filosofia stoica. Ma neppure per il dram maturgo- stoico Seneca il /atum sarà quello che la cattiva inter pretazione moderna vorrebbe vedere già nella classica tragedia ateniese. Il 'destino' degli Stoici non è che un altro aspetto della divina pr6noia, della provvidenza che governa il mondo 265
in onnipervadente armonia e cui il saggio sa piegarsi e condi scendere, nella buona e soprattutto nella cattiva sorté. Intorno a questa concezione si accese una lunga polemica, rappresen tata per noi dai trattati de /ato di Alessandro d' Afrodisia, di Cicerone e dello pseudo-Plutarco. Il primo dei tre ha una discussione contro il concetto stoico di fato, illustrata proprio col caso del personaggio tragico Edipo e delle sue sfortune previste dal dio oracolare; qui compare perfino un'espressione, tò tes heimarménes drdma, che si potrebbe essere tentati di tra durre parola per parola 'la tragedia del destino'. Ma chi lo facesse peccherebbe di superficialità, e anche queste pagine dimostrano in realtà come l'idea di un destino del tutto arbi trario e cieco fosse lontana dalla speculazione degli Antichi o piuttosto dal loro senso della vita. Che poi la poesia tragica di Seneca, lo stoico per eccellenza, non offra sempre un riflesso preciso e coerente della severa dottrina professata dalla sua scuola, è cosa che richiederebbe un diverso discorso di cui altri ha già dato un saggio7• Una parola meritano certe apparenti difficoltà sul piano ver bale. Un po' in tutta la letteratura greca, anche nella tragedia, si incontrano espressioni che celebrano il potere schiacciante e ineluttabile di un'entità designata con parole che difficil mente si potrebbero rendere altro che con destino, /ato, o per lomeno sorte8• Ma che cosa c'è dietro locuzioni che si presu mono equivalenti in lingue diverse e che si corrispondono nelle scelte di coscienziosi traduttori? Non bisogna piuttosto eser citare una comprensione che vada oltre le parole, ricordando che elementi di sistemi linguistici diversi sono necessariamente sempre più o meno diversi fra loro, soprattutto quando fra i due sistemi corrono molti secoli? Si possono dire cose dav vero equivalenti su temi come questo, a ventiquattro secoli di distanza, quando tanto mutati sono i fondamenti accettati e il senso stesso che si dà all'esistenza? Destino appartiene alle parole delle quali non può darsi una definizione in astratto, buona per tutti i tempi e per tutte le civiltà. Ciò che va sotto questo nome e sotto i suoi presunti equivalenti nelle varie 266
lingue, è uno degli elementi nella visione che si ha del mondo e dell'esistenza umana, comprensibile solo nel quadro di tutta la vita intellettuale e spirituale di una cultura. Un Greco del V secolo che diceva aisa, moira o peproméne non poteva sentire nelle parole che la sua lingua gli forniva lo stesso che sentiamo noi in sorte, fato o destino. Fra gli agget tivi che accompagnano questi nostri sostantivi nell'odierna retorica spicciola, primeggia certamente cieco, cioè insensato, cosa ben comprensibile per l'uomo di oggi che avverte come insensata tutta la propria condizione e tutto l'esistere, anche se non lo confessa neppure a se stesso. Per l'epoca dei grandi tragici le cose erano diverse: 'destino' era ancora la manife stazione di un ordine né cieco né insensato, bensì fondamento divino di ogni cosa e di ogni esistenza; qualcosa che si accetta piamente anche quando ci colpisce con dolori acerbi, non che si maledice e in fondo si disprezza se si è di animo grande, come hanno espresso tanti poeti moderni («erta la fronte, armato,/e renitente al fato . . »). Ma il 'fato' della tragedia (se proprio vogliamo usare la parola) era tanto diverso dalla nostra 'fatalità' quanto l'Edipo re è diverso dalla moderna, manierata 'tragedia fatalistica' di cui diremo subito. Apriamo a caso un'edizione annotata di Eschilo, e troviamo che le Moire sono definite 'personi:ficazione del destino'; né si può pretendere di più perché sarebbe difficile far entrare in una breve nota un discorso più differenziato. Ma moira è etimologicamente la 'parte assegnata', è ciò che 'tocca' a cia scuno nel quadro di un'imperscrutabile spartizione, riflesso di un ordine universale sanzionato da un potere che si accetta e si venera, un ordine che infinitamente ci sovrasta e davanti a cui si china la testa. Ancora Virgilio, echeggiando Omero, par lerà di «fata lovis» e «fata deum», di un destino sanzionato e assegnato agli uomini dalla divinità, non arbitrario e 'irre sponsabile'9. Per Pindaro, la Tyche personificata non è il dèmone di un fato cieco ma per lo più ostile e minaccioso, come sarà più tardi e come noi per lo più intendiamo, è invece la figlia di .
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Zeus che si può invocare come protettrice, a tutela dei meri tevoli: l'immagine di un grande poeta illumina da sola tutta la situazione spirituale di un'epoca10• Vero è che le forme della religione tradizionale olimpica erano già all'epoca classica ina deguate a diventare espressione, anche solo simbolica, di un soddisfacente senso dell'esistenza e che da questo contrasto nasceva anche nel tradizionalista Sofocle un grido tragico di ribellione. Ma ci si condanna a non capire nulla di tutto questo quando si comincia a parlare di destino e di Fato degli Antichi senza porsi il problema di ciò che si nasconde dietro alle fami liari parole1 1 • Ma com'è dunque nata quest'idea della tragedia greca come 'tragedia del fato'? L'idea è con tutta evidenza di origine roman tica, figlia di un'epoca ricchissima di fermenti intellettuali e appassionatamente sensibile alla storia in tanti suoi aspetti, ma anche soggetta a prendere grandi cantonate, come sappiamo bene. n Romanticismo, o almeno il pre-Romanticismo, è fra l'altro responsabile dell'idealizzazione di Omero come campione di spontaneità primitiva, mentre ogni approfondimento dei suoi poemi rivela un'elaborazione e una capacità di composizione raffinatissime, tutt'altro che 'primitive'. n primo a parlare di tragedia greca come di 'lotta dell'uomo col destino', lotta sempre perdente, fu infatti l'idealista Fried rich Schelling in un'opera giovanile pervasa di accesa elo quenza12. Al giovanissimo filosofo riusciva poi l'acrobazia dia lettica di intendere questa presunta essenza della tragedia non già come un deprezzamento pessimistico dell'uomo e della sua condizione, ma come un omaggio reso dall'arte alla sua libertà (l'idealismo tedesco era capace di questo e altro). Con la sua interpretazione Schelling non faceva opera di storico e critico, ma di pensatore originale che si serviva della tragedia greca come di un paradigma esemplare atto a illustrare pensieri tutti moderni, una strada su cui vari suoi connazionali lo segui ranno. Tedesca rimase infatti, almeno in grande prevalenza, la 'filosofia del tragico', che nell'immagine corrente scendeva 268
dalle altezze degli Schelling, Holderlin e Schiller alla banalità e alla caricatura13. Ma si deve anche ricordare la nobile inter pretazione che della tragedia greca dava un altro grande del tempo, Johann Gottfried Herder. Anche lui parlava di destino, Schicksal, che determina le vicende tragiche, spiegando però subito che con la parola non intendeva un fato capriccioso e insensato, una specie di Poltergeist «stupido e ottuso», ma il 'destino' che ogni uomo porta in sé, nel proprio carattere e nelle proprie più intime inclinazioni, negli strati reconditi del nostro essere da cui scaturiscono fatalmente le nostre azionil4• È una lettura della tragedia della quale la moderna psicologia del profondo può mostrare la fecondità. Più di un secolo fa, il più autorevole grecista dell'epoca, Ulrich von Wilamowitz-Mollendorff, nella sua magistrale introduzione all'Eracle di Euripide, dedicava alcune pagine alla confutazione dei peggiori luoghi comuni. Nell'erudizione vol gare e orecchiante (egli scriveva) , e nell'ultima classe dei licei femminili, si considera cosa assodata e risaputa che Sofocle e Miillner hanno scritto 'tragedie del destino' 15. Per capire questo sarcasmo (a parte la 'scorrettissima' frecciata ai licei femminili) bisogna ricordare che il Romanticismo tedesco conobbe la voga di questa cosiddetta 'tragedia del destino' o 'tragedia fatalistica', come le storie letterarie la chiamano con un termine divenuto quasi tecnico (in tedesco Schicksals tragodie). Il suo primo modello e prototipo viene generalmente riconosciuto nella Fidanzata di Messina (Die Braut von Mes sina, 1 803 ) di Friedrich Schiller, che peraltro trascende la superficiale meccanicità in cui cadranno le imitazioni dete riori16. Un rappresentante ne era appunto questo Amandus Gottfried Adolf Miillner ( 1 744- 1 829), autore della tragedia La colpa (Die Schuld, 1 816), mentre l'esempio più classico restava il famoso Ventiquattro febbraio di Zacharias Werner ( 1 8 1 0) : qui terribili disgrazie e atroci delitti si susseguono tra padri, figli e nipoti, sempre attorno alla data fatale, in un crescendo senza luce e senza senso. Nelle persone di questi suoi mediocri rappresentanti, la cultura del Romanticismo europeo si sarebbe 269
così finta dei Greci a propria immagine e somiglianza, essendo incapace di vedere nella tragedia altro che quel gioco di un destino insensato dal quale essa traeva il motivo ispiratore per un filone del proprio teatro . . Critici di cultura anglosassone concordano significativa mente con l'arcitedesco Wilamowitz. L'inglese Kitto ( 1 954) parla con la stessa franchezza della «vecchia sciocchezza (non sense) del Fato nella tragedia greca», e Bernard Knox comincia il suo libro su 'Edipo a Tebe' avvertendo fin dalle primissime parole che non capirà mai nulla della tragedia sofoclea chi segue «il giudizio vastamente accettato e spesso ripetuto», che essa sia una 'tragedy of fate'17• Anche l'altro famoso inglese Eric R. Dodds, tenne nel 1 964 un'arguta conferenza Su «come si può fraintendere l'Edipo re», basata su una sua esperienza di commissario d'esame, che gli aveva dato modo di consta tare come la vecchia idea della Schicksalstragodie fosse dura da estirpare dalle teste dei giovani studentF8• Ma la disanima più approfondita e più negativa di questo giudizio l'aveva già fatta il nostro Gennaro Perrotta nel suo So/ode ( 1 934), libro forse datato per certi aspetti 'estetici', ma ricchissimo nelle pagine dedicate all ' Edipo re di interpretazioni che non fanno certamente torto alla storia, né della società né delle idee religiose e morali19• Di questa parte attribuita a un 'destino' , inteso alla vecchia e volgare maniera, non fanno nem meno parola i più recenti interpreti della tragedia, che insi stono invece sugli aspetti morali e religiosi, in una chiave ben diversa. Naturalmente anche una concezione fallace deve avere qualche parvenza di fondamento; e questo presunto fonda mento essa lo trovava in due fra le più famose opere in tutto il nostro patrimonio superstite di tragedie greche: l'Orestea di Eschilo e il già citato Edipo re di Sofocle2°. Sappiamo di che si tratta: nel primo caso c'è una famiglia davvero maledetta, quella dei Pelopidi, dove a ogni genera zione compaiono puntuali il delitto, il tradimento e l'assassinio, 270
conditi variamente con l'adulterio o l'incesto. Un'aria di male dizione incombente, cui sembra che nessuno possa sfuggire; solo con la finale assoluzione di Oreste compare alla fine la luce del riscatto, se così si può dire dopo un matricidio. Sap piamo anche quale seguito ha avuto tutto questo tra i moderni. La saga di Micene ha fornito nuova ispirazione a poeti e dram maturghi, a volte con alti risultati; al livello della cultura più dozzinale, dei critici improvvisati, abbiamo sentito invece tutte le possibili variazioni sul tema del destino che perseguita la stirpe maledetta e cui nessuno può sfuggire, la concatenazione ineluttabile di delitto che genera altro delitto: il fatalismo della colpa accanto a quello della sventura. Tutto questo, beninteso, può reggersi solo se si legge Eschilo molto superficialmente o meglio se non si legge affatto. n poeta è invece pervaso di un senso fortissimo della responsabilità morale che grava sugli uomini, espresso con un calore che non troverà forse più riscontri in tutta la letteratura greca successiva. Ciò che può colpire noi figli della civiltà moderna, ed eventualmente fuor viarci, è il senso della solidarietà familiare nella colpa, molto lontano dal rigore con cui oggi si considera ogni responsabi lità morale come un fatto strettamente individuale. Oggi non si capisce più come la comunità di sangue, la famiglia, possa essere sentita come un più vasto individuo, carico di una colpa che si estende a tutti i suoi membri, anche ai successori secondo una legge del mondo e dell'esistenza umana, per cui non c'è da scandalizzarsi, secondo questa remota mentalità; non più di quanto ci sia da scandalizzarsi del fatto che a qual cuno capiti di dover pagare il fio di vecchie colpe personali. Tutto questo non è semplice primitività e rozzezza, inca pacità da parte dei Greci di distinguere una realtà che sarebbe toccato a noi di riconoscere meglio. Se nella specie umana, come in ogni altra, c'è una visibile continuità biologica e tante cose si trasmettono nella generazione fisica, è concepibile che altre epoche e altre culture abbiano sentito come trasmissibili anche fatti relativi all'etica, la cosa che noi pensiamo di avere tanto perfezionato introducendovi certe distinzioni che ci sem27 1
brano vincolanti per tutti e che invece esistono solo per una piccola parte delle culture umane. Veniamo all'altro caso che abbiamo citato, la vicenda del povero Edipo. Qui è stato ancora più facile vedere in tutta la storia solo un caso veramente memorabile di nera sfortuna, un atroce scherzo della fatalità. A suggerire questo punto di vista è stata anche la parte svolta dall'oracolo che pronostica a Edipo la sua terribile sorte e che mette in moto tutta la vicenda. li dio oracolare, Apollo, sarebbe così una specie di divino jet tatore, solo una voce che comunica agli uomini quel che si può leggere in una specie di formidabile libro del destino, scritto da qualche potenza anonima e superiore a ogni altra, un libro in cui il dio-profeta può leggere mentre i mortali non possono. Qui starebbe tutta la superiorità di questi poveri dèi pagani, a parte il potere che essi hanno poi di castigare l'infelice città di Tebe colpendola con una pestilenza che sarebbe il colmo dell'ingiustizia, secondo i nostri concetti morali: i Tebani non sono responsabili delle malefatte del loro re, e questi a sua volta non è a rigore nemmeno colpevole, perché ignaro di ciò che faceva. Secondo il catechismo cattolico i terribili delitti di Edipo, che hanno fatto rabbrividire tante generazioni, non sono neppure peccati mortali, perché mancano delle condi zioni di 'piena vertenza' e di 'deliberato consenso' ! C'è, è vero, l'uccisione di Laio per una questione di precedenza stradale, quindi con la classica aggravante dei 'futili motivi', ma ciò che ne faceva una colpa così grave agli occhi dei Greci non era l'omicidio in sé, configurabile come legittima difesa, ma la cir costanza che la vittima fosse il padre dell'omicida, pur non riconosciuto. Anche qui occorre riportarsi, per non giudicare le cose in maniera distorta, a una morale e a una religiosità molto lon tane dalle nostre. Due punti hanno importanza essenziale per questa morale e questa religiosità: l ) Le colpe di Edipo sono veramente smisurate, perché vanno contro un ordinamento dell'esistenza umana che ha un valore assoluto e oggettivo e un fondamento divino, indipen272
dentemente dalla volontà e dalla consapevolezza di chi lo viola. Questo non vale solo per i Greci dell'età classica ma più o meno per tutte le culture tradizionali. L'ordine consacrato dalla sanzione divina reagisce contro la colpa umana con lo stesso cieco automatismo di un cavo ad alta tensione che fulmina chi lo tocca, inavvertitamente o no. È una similitudine che viene in mente leggendo nella Bibbia come l'arca dell'alleanza ful minasse, letteralmente, chi la toccava appena anche senza volere ed era considerato sacrilego allo stesso modo di chi l'a vesse profanata con intenzione21. Sono concezioni difficili da accettare per chi ha alle spalle secoli e secoli di un cristiane simo affinato dalla filosofia. Per noi religione ed etica sem brano andare di pari passo, e la nostra etica è tutta fondata sulla volontà consapevole, buona o cattiva. Per un Greco del l' età in cui fu concepito il mito di Edipo uccidere il proprio padre e sposare la propria madre erano infrazioni che mac chiavano di per sé chi le commetteva, ne facevano un impuro, un reietto, uno al di fuori del sacro ordine delle cose e conse guentemente di ogni comunità umana che quest'ordine doveva rispecchiare (e la società greca arcaica era fortemente patriar cale, sensibilissima a ogni violazione dell'ordine familiare ! ) . Più generalmente, ogni omicidio faceva dell'autore un impuro nel preciso senso rituale della parola, uno che doveva sottoporsi alle prescritte cerimonie di espiazione, anche se aveva ucciso senza colpa morale, per giustificata vendetta o simili. 'L'età in cui fu concepito il mito', abbiamo detto; al tempo di Sofocle la comune coscienza morale non poteva più accet tare tranquillamente l'arcaica concezione della colpa oggettiva, quando il diritto penale aveva riconosciuto da un pezzo la distinzione fra delitto volontario o solo colposo, distinzione che Aristotele teorizzerà con precisione22• Questo si riflette nelle pro teste del protagonista che costellano l'Edipo a Colono: 'Ho fatto quel che ho fatto senza sapere', e il nuovo contrasto diventa matrice di nuova tragicità23• Eppure, bisogna aggiungere, il vec chio modo di sentire sopravvisse all'Antichità classica; soprav visse tenacemente il senso di impurità, di lebbra morale in chi si 273
era macchiato di colpe 'oggettivamente' così gravi (e un resto non ne sopravvive forse in ognuno di noi? chi è stato causa della morte di una persona cara, anche senza alcuna responsabilità, si sentirà inevitabilmente colpevole oltre che sfortunato ). Il Medioevo cristiano conosceva almeno un paio di leggende di santi dove il motivo di Edipo rivive, è portato anzi a un estremo quasi caricaturale nel caso di S. Gregorio, il figlio di un incesto tra fratelli che commette poi un incesto ancora più grave spo sando la propria madre-zia24 (non si osa immaginare l'albero genealogico ! ) . Anche qui i protagonisti fanno durissima peni tenza, pur con la prospettiva del perdono, per una colpa com messa inconsapevolmente. 2) Questo è il primo fondamento della storia culminante nella tragedia di Edipo. In Sofocle c'è poi qualcosa di nuovo, uno spo stamento del baricentro dell'interesse morale e poetico. n suo Edipo appare macchiato di un'altra colpa, una colpa che pesava gravissimamente sulla coscienza greca, ma anche una colpa più 'moderna' per cui sarebbe più difficile invocare a scusa la pro pria inconsapevolezza. È la colpa di chi si è voluto sentire troppo sicuro di sé e si è troppo imbaldanzito per i propri successi e la propria ascesa. Edipo, ricordiamolo, ha salvato la città di Tebe dal flagello della Sfinge grazie alla superiorità della propria intel ligenza, quando ha risolto il famoso enigma. Questo era un indo vinello abbastanza puerile, che dovrebbe farci sorridere quando pensiamo ai termini solenni in cui Sofocle lo rievoca quasi si trat tasse di chissà quale mistero esistenziale. Naturalmente questo è un residuo dell'antica forma della leggenda, popolare e ingenua, che la poesia di un'età più avanzata ha dovuto ereditare. La tra gedia era legata alla forma tradizionale della storia, e non c'è da scandalizzarsene troppo. Fuggiasco proprio per sottrarsi alla sorte assegnatagli dalla terribile profezia, Edipo era poi diven tato re della potente città, sposando la regina vedova per opera sua. Così aveva finito per sentirsi come una specie di padre e sal vatore della patria, diventato tale grazie al suo superiore intuito che gli aveva permesso (notiamo bene) di vedere la luce della soluzione dove gli altri avevano visto solo tenebre. Aggraverà la 274
sua colpa disprezzando gli ammonimenti dell'indovino Tiresia che gli vuole cautamente aprire gli occhi (notiamo ancora l'e spressione, che viene spontanea). Tutto questo rappresentava per i Greci una forma del loro vero e massimo 'peccato mortale' con dannato senza remissione dalla loro etica e dalla loro religiosità: la temutissima colpa che andava sotto il nome di hybris. Pecca di hybris chi dimentica i limiti della natura umana e la precarietà della propria condizione, soprattutto a confronto con la natura e la condizione degli dèi. Certo, molte culture tradizionali, o piuttosto tutte, hanno più o meno vivamente sentito come colpa ed empietà un atteggiamento del genere, ma nessuna ha espresso questo sentimento con la vivezza e l'insistenza dei Greci. Più si sta in loro compagnia, più ci si convince che questo è il tratto più caratterizzante della cultura greca arcaica e classica; il senso vivissimo, quasi l'ossessione, della limitatezza e della precarietà inerenti alla condizione umana. Una delle più famose similitu dini omeriche paragona la sorte degli uomini a quella delle foglie che nascono, crescono e appassiscono, generazione dopo gene razione25, e un 'antico proverbio' evocato da Sofocle nei primi versi delle Trachinie diceva che nessuno può considerarsi fortu nato prima della fine dei suoi giorni, perché la sventura è, per gli uomini, sempre in agguato. Anzi, proprio alla troppa fortuna che acceca seguono le cadute più rovinose. Qui si vede come al concetto di hybris si apparenti anche la famosa 'invidia degli dèi', della quale gli alunni di liceo classico ricorderanno di aver sen tito parlare quando hanno letto in Erodoto la strana storia del l' anello di Policrate26. Anche là si tratta di un eccesso, un 'troppo' per la condizione umana, una fortuna eccessiva cui segue un trau matico rientro nei limiti che l'uomo non può superare. n famoso 'conosci te stesso' del più autorevole oracolo della Grecia, che un'epoca arcaica aveva scritto sul frontone del tempio di Delfi, è stato interpretato da epoche più tarde e più mature come un'e sortazione all'indagine filosofica o psicologica della natura umana, fonte di ogni saggezza. Oggi sappiamo invece che era stato concepito con un altro senso, più preciso e insieme più reli gioso. Esso doveva significare: 'Conosci i tuoi limiti, ricordati 275
che sei solo un uomo'27. Edipo, che credeva di vedere più degli altri, si è lasciato accecare dalla sorte prospera ed è caduto nelle più terribili colpe, terribili anche se involontarie28. Alla fine della tragedia l'autoaccecamento ha il sapore di un con trappasso volontariamente inflitto, non è una pena scelta sol tanto per la sua atrocità. Con questo si sarebbe fatta giustizia, se la parola non è troppo grossa, del più diffuso ma certo non più raccomandabile modo di intendere la tragedia greca. Ma ce n'è anche un altro cui dare una rapida occhiata, perché capita ancora di trovame almeno le tracce in varie trattazioni e perché le sue vicende servono a mostrare l'interesse inesauribile e l'attualità sempre nuova della tragedia greca. Questa interpretazione è legata strettamente a un nome ben noto, quello del filosofo Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che si pose il compito di determinare quale fosse l'essenza della tra gedia, il 'tragico' in astratto, alla luce della sua dialettica. In diverse sue opere egli diede questa risposta: vera tragicità è lo scontro di due princìpi egualmente giusti e validi, che però pre tendono tutt'e due una validità assoluta senza fare posto ai diritti dell'altro. Scontrandosi nella pratica applicazione, i rappresen tanti dei due princìpi si trovano ad avere tutt'e due torto e ragione al tempo stesso, perché ognuno dei due vuole prevalere incondizionatamente; ne nasce un conflitto insolubile, una con traddizione che porta alla rovina di entrambi. Esempio perfetto per questa interpretazione (ce lo immaginiamo facilmente anche se non lo sappiamo) era un'altra tragedia, anche questa di So fode: l'Antigone29• Qui abbiamo com'è noto due antagonisti, l'uno assertore della ragione dello stato e della sua legge, l'altro rappresen tante di una 'legge non scritta' ma non meno vincolante: sono rispettivamente il governante Creonte, che nega la sepoltura a Polinice perché morto da nemico della città, combattendo contro il proprio paese, e la sorella Antigone che al contrario vuole dargliela in nome della solidarietà familiare (natura!276
mente, per capire la gravità del conflitto, occorre ricordare che cosa rappresentasse per gli antichi la sepoltura dei morti, qual cosa di infinitamente più importante che per noi, per le cul ture laiche di oggi). Sono due avversari del pari ostinati nel l' asserire il loro punto di vista, e ne nasceranno conseguenze davvero 'tragiche'. Per Hegel questa è la tragedia ideale, tragicità allo stato puro, in quanto, beninteso, egli riconosceva una parte di ragione a tutt'e due gli antagonisti, anche a Creonte che come rappresentante di un'etica dello Stato (la maiuscola ci vuole) non poteva dispiacergli troppo. È un'idea che in sé merita attenzione, che ha improntato molte interpretazioni dell'Antigone e della tragedia greca in generale e che si accorda anche col pi'ù preciso significato della moderna parola tragico, in italiano o in altre lingue. È vero che a volte se ne fa un uso banalizzato, per cui diventa 'tragico' anche un incidente stradale o qualunque fatto di cronaca in cui sia morto qualcuno; ma nell'uso più consapevole il termine tragico ha effettivamente la connotazione del conflitto non riso lubile con una semplice scelta tra il bene e il male, pur se difficile. Anche nel linguaggio comune è 'tragico' il conflitto tra due doveri; oppure la scelta tra due affetti del pari legit timi e forti, quando dobbiamo sacrificarne uno. In questo senso si può dire che Hegel ha colto qualcosa di vero e di perennemente valido, ispirato dall'Ant(gone di Sofocle. Con le parole di uno dei suoi più acuti critici, possiamo riconoscere che la sua teoria sull'essenza del tragico «è in realtà una teoria metafisica su certi aspetti dell'esistenza umana nel suo rap porto con lo 'spirito', teoria sorta in parte sotto l'influsso di talune tragedie greche»30. Pensieri apparentati ai suoi sono tornati a ripresentarsi recentemente, anche se rivestiti di una terminologia più aggior nata e relativizzati storicamente. Soprattutto, ciò che per Hegel doveva toccare la più profonda realtà delle cose si applica oggi a qualcosa di più esteriore, alla ' retorica' intesa nel senso allar277
gato del termine, oggi usuale. In questo senso retorico si parla di ambiguità o ambivalenza della tragedia, ambivalenza irri ducibile in cui si rispecchiano 'contraddizioni insolubili' e 'do mande a cui non c'è risposta'31• La fortuna dell'interpretazione hegeliana nella sua forma più concreta, nella sua più precisa applicazione, è invece tra montata, per due motivi. n motivo più generale è che si è impa rato da un pezzo a diffidare di ogni formula interpretativa che voglia forzare la tragedia greca, o qualunque altra manifesta zione letteraria, in un ideale letto di Procruste, come si farebbe seguendo Hegel col suo conflitto dei due princìpi ugualmente fondati. Se è lecito astrarre un concetto di 'tragico' dalle vicende umane, non è invece lecito cercarne ad ogni costo la materializzazione in un prodotto concreto della creatività arti stica come la tragedia greca. La ricerca di una formula inter pretativa valida in ogni caso, ottenuta isolando la presenza di certi contenuti, appare oggi come qualcosa di molto datato, molto ottocentesco, soprattutto caratteristico dell'Ottocento tedesco32• Il secondo motivo è più specifico e deriva dall'esperienza storica dell'ultimo secolo, l'esperienza dei totalitarismi che ha rivelato più che mai il carattere distruttivo del potere politico quando vuole dettare norme morali assolute (e sappiamo quale responsabilità ne porti proprio il pensiero di Hegel) . Se già l'umanesimo di Goethe si era espresso, a proposito dell'Anti gone, in maniera ben lontana dalla teoria dei 'due princìpi egualmente giusti e validi'33, oggi il giudizio sulle 'ragioni' di Creonte si è fatto molto più cauto, quando non si dà per scon tato che si tratti semplicemente di un tiranno sanguinario34. Anche qui bisogna ricordare che il nostro Gennaro Perrotta non si accodò mai a quella concezione e mostrò invece, con grande finezza di interprete, da che parte stesse il poeta quando disegnò il contrasto dei due antagonisti35• E dobbiamo anche ricordare che per una specie di ironia della storia, il paese da cui sono venute alcune fra le più decise ripulse della concezione hegeliana è proprio la Germania, dove si era spe278
rimentata la ferocia di uno stato che pretenda di cancellare ogni altro legame umano e ogni altra fonte di moralità. Un critico tedesco noto anche al di fuori dell'ambito acca demico, Walter Jens, in un saggio del 1 95 1 , si dimostrava molto lontano dall'interpretazione hegeliana, trattando Creante costantemente come accecato e in torto, e spostando il vero dissidio tragico, semmai, al contrasto tra le due sorelle Anti gone e lsmene36• Un altro studioso di quel paese, Karl Reinhardt, da uomo attento a tutti gli eventi storici e a tutti gli sviluppi intellettuali del nostro tempo, lo espresse chiaramente in una conferenza radiofonica del 1956. L'Antigone, egli diceva, «non è lo scontro di due princìpi ugualmente giustificati. n potere politico che non conosce i propri limiti diventa sempre più cieco proprio laddove dovrebbe vedere»37• Sofocle non ha rappresentato lo scontro di due ragioni, ma il male che si verifica quando la politica vuole diventare metro assoluto, contro il fondamento divino dell'esistenza umana e contro l'ordine morale che ne è l'espressione. E bisogna insistere ancora sul posto che in questo ordine avevano i doveri verso i propri morti secondo la concezione greca e in genere delle culture tradizionali; non si trattava solo di esteriori 'onoranze funebri' come le inten diamo noi, ma di un dovere primario della solidarietà umana e familiare. La figura di Antigone, fra tutti i personaggi della lettera tura greca, è una di quelle che hanno avuto maggior fortuna nell'età moderna, particolarmente nel nostro secolo; e non solo nella critica, ma anche nella letteratura creativa, in cui il 'tema di Antigone' è stato ripreso e rivissuto almeno dal tempo del tragediografo francese Robert Garnier ( 1580), in una lunghis sima serie fra cui si distingue Vittorio AlfìerP8• Antigone è spesso presente anche sul palcoscenico dell'opera, pur se in produzioni quasi del tutto dimenticate; dal Novecento si ricor dano i nomi di Karl Orff e Arthur Honegger39• La più famosa delle Antigoni contemporanee l'ha fatta rivivere Jean Anhouil; ma di nuovo non è un caso che il maggior numero delle più 279
recenti reincamazioni dell'eroina greca sia apparso nella lette ratura tedesca. ll dramma pacifista di Walter Hasenclever a lei intitolato fu rappresentato nel 1 9 1 7 , nell'infuriare della guerra mondiale che ispira la sua amara aggressività, e un altro nome famoso è quello di Bertolt Brecht con la sua Antigone des Sophokles ( 1 948), rielaborazione in prosa della traduzione di Friedrich Holderlin, piena di richiami alla recente attualità. Nessuna di queste nuove Antigeni, è facile immaginare, si conforma all 'interpretazione hegeliana; pur nella problemati cità che sempre segna una letteratura degna di questo nome, la protagonista è di regola fondamentalmente un'eroina della ribellione contro un potere politico degenerato e odioso40• In almeno due casi, fanno da sfondo storico a queste moderne trasposizioni del mito il Terzo Reich e la Seconda guerra mon diale, e la parte di Creonte tocca agli esponenti del potere poli tico o militare della Germania di Hitler - altro che 'scontro di due princìpi egualmente giusti e validi' ! E un'Antigone sudafricana, di Athol Fugard, fronteggia l'apartheid. Notiamo per incidens che non si tratta sempre di opere teatrali, ma in qualche caso narrative. Una novella su un'Antigone berlinese, come suona il titolo, fu pubblicata nel 1 963 da quel Rolf Hochhuth che proprio negli stessi anni suscitò il ben noto, enorme scalpore col suo dramma Il Vicario, che denunciava una presunta connivenza del papa Pio XII verso la persecu zione degli Ebrei. La sua Antigone è una giovanissima stu dentessa che rivive punto per punto la storia dell'eroina greca nella tragica Berlino del 1943 , fra bombardamenti aerei ed ese cuzioni capitali41. Ma anche l'Antigone di Anhouil era stata rappresentata nel 1944 , quindi nella Francia occupata e mar toriata dalla guerra, e recava inevitabilmente l'impronta delle circostanze storiche fra cui era nata, nel senso che è facile . . rmmagmare. Tutto questo è prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, della perenne vitalità e attualità della tragedia greca. La sua pre senza è ancora abbastanza incombente nella nostra cultura per giustificare ogni tentativo di correggere, quando le incon280
triamo, le distorsioni dell'immagine che se ne ha oggi. Conce pirla come 'tragedia del destino', in un senso tutto esteriore e profondamente irreligioso, è una di queste distorsioni, forse la peggiore e certo la più diffusa.
Note
1 Alludiamo naturalmente alle discussioni messe in scena nelle Rane, fra Eschilo ed Euripide, dove il primo è portavoce degli ideali dell'autore, il secondo un avversario detestato. 2 Soprattutto nel capitolo 13 . 3 Su Colpa e responsabilità nella tragedia greca ha scritto H.·J. NEWIGER, in «Belfagor» 41 ( 1 986), pp. 485-499, mettendo l'accento sugli aspetti pro priamente morali della 'colpa tragica': l'eroe della tragedia deve diventare colpevole moralmente; quanto ha teorizzato Aristotele non si confà a tutte le tragedie. 4 La scena in cui i due vecchi, Tiresia e Cadmo, si incontrano faccia a faccia entrambi agghindati e mascherati da donna per partecipare di nascosto ai riti delle baccanti (v. 170 sgg.), suscitava certamente il riso degli spettatori. 5 Platone, Gorgia 5 12 e. 6 Un'espressione compiuta di questi pensieri si può leggere in Seneca, De providentia 5,7 sgg. 7 MICHELE BANDINI nella sua edizione di Gregorio di Nissa, Contro il fato, Bologna 2003 , pp. 15-28, dà un primo orientamento sul dibattito antico pro e contro il fatalismo, pagano e cristiano, cita i testi antichi e i principali studi moderni. Sul fato inteso stoicamente nelle tragedie di Seneca sono sempre valide le considerazioni nel vasto saggio di KURT VON FRITZ, Tragi sche Schuld und poetische Gerechtigkeit in der griechischen Tragodie, in Antike und moderne Tragodie, Berlin 1962, pp. 23 sgg. (già in «Studium generale» 8, 1955, pp. 195-227, 229-232). Il passo del trattato di Alessandro di Afro· disia cui si allude è il cap. 3 1 , ora leggibile nell'edizione, corredata di ampia introduzione, di PIERRE THILLET: Alexandre d'Aphrodise, Traité du destin, Paris 1984 ("Collection Budé"). Sono sempre da vedere le pagine di UGO BIANCHI, DIOS AISA. Destino, uomini e divinità nell'epos, nelle teogonie e nel culto dei Greci, Roma 1 95 3 .
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8 Così è per esempio nello stasimo dell'Antigone, 944 sgg., e nel finale della stessa tragedia, 1337 sg. 9 Enetde IV 614, e cfr. III 375; 395 . 10 Vedi l'esordio della XII Olimpica. 11 Una ricerca in questo senso è quella di E. VALGIGLIO, Il fato nel pen siero classico, in «Riv. di studi classici» 15 (1967), pp. 305-330; fondamen tale H. O. SCHRÒDER, voce Fatum (Heimarmene), in Reallexikon fur Antike und Christentum, vol. 7 (1969), coli. 524-636. 12 È il numero 10 dei Philosophische Brie/e uber Dogmatismus und Kri ticismus, del 1795. 1 3 Una rassegna di esponenti tedeschi della 'filosofia del tragico' è quella di PETER SzONDI, Saggio sul tragico, Torino 1999 (nuova ediz.; orig. ted.: Versuch uber das Tragische, Frankfurt (M.) 1961). 1 4 Nella sua «Adrastea», vol. Il (1801/2). 15 ULRICH VON WILAMOWITZ-MòLLENDORFF, Euripzdes Herakles. Erster Band: Einleitung in die griechische Tragodie, pp. 1 16 sgg. dell'edizione Darm stadt 1959. 16 Un altro autore di grande statura drammaturgica che si cimentò nel genere fu FRANZ GRILLPARZER con la sua Avola (Die Ahnfrau, 1817). 17 H.D.F. KITTO , Greek tragedy. A literary study, London 1954, p. 47; BERNARD M.W. KNOX, Oedipus at Thebes, New Haven/London 1957, p. 3 . Knox h a un'ampia citazione dalla notissima pagina della Traumdeutung di Freud, che chiama sì l'Edipo re una 'Schicksalstragodie', ma lo separa da quel moderno genere di letteratura e ne risolve l'interpretazione in maniera diversa e tutta nuova, con la prima individuazione del 'complesso di Edipo'. 1 8 La conferenza fu pubblicata nella rivista «Greece and Rome» 13 (1966), pp. 37-49, poi raccolta in The ancient concept o/ progress and other essays on Greek literature and belie/, Oxford 1973, pp. 64-77. 19 GENNARO PERROTTA, Sofocle, Messina-Firenze 1934, 2• ediz. 1965, pp. 184 sgg. Qui e nel seguito gli siamo molto debitori. 2° Fra le vittime di quella che al più vasto e autorevole consenso odierno sembra una concezione sbagliata si trovano un filologo della statura di Erwin Rohde e un grande scrittore come Theodor Fontane (citato in PERROTTA, So/ocle, cit., p. 208, n. l); anche Giacomo Leopardi parlò una volta dei Sette contro Tebe di Eschilo come esempio di «guerra feroce e mortale al destino», ma in una pagina molto più leopardiana che greca (e sulla pericolosa paro letta destino occorre sempre intendersi). 21 L'episodio della morte di Uzzà, che ha toccato l'Arca senza cattiva intenzione, è in 2 Samuele 6,7. 22 Vedi l'Etica nicomachea V 8 ( 1 135 b), dove si propone anche una distinzione lessicale: il male inflitto consapevolmente è da chiamare adikema, quello involontario hamartema. 23 Anche qui sono da vedere le pagine di Perrotta in Sofocle, cit., pp. 190 282
sgg., e del recente MARKus ALTMEYER, Unzeitgemiifles Denken bei Sophokles, Stuttgart 2001, pp. 137 sgg., che fa ampie considerazioni sul contrasto, vivis simo all'epoca di Sofocle e riflettentesi nella tragedia, fra la concezione arcaica della 'contaminazione' e quella della più moderna 'etica della colpa'. Chi poi cerca qualcosa di diverso può vedere la nuova e originalissima interpretazione di FRANCO MAiul.LARI, L'interpretazione anamorfica dell'Edipo re. Una nuova lettura delLJ tragedia so/oclea, Roma-Pisa 1999. Qui si sostiene (l'autore è uno psicanalista) che Edipo sa in realtà benissimo quello che fa, e che il poeta lascia intendere quale sia la vera situazione con abile linguaggio ambiguo. 24 Thomas Mann ha tolto da questa leggenda il tema dd suo breve romanzo I.:eletto (Der Erwiihlte, 1951), che introduce significative varianti nella storia tradizionale. Un confronto fra Edipo e Gregorio, collocati nella storia della cul tura e della letteratura, è quello di GÙNTHER ZUNTZ, Odipus und Gregorius. Tragodie und Legende, in «Antike und Abendland» 4 (1954), pp. 191 -203 ( AA.Vv., Sophokles. Herausgegeben von Hans Diller, Darmstadt 1967, pp. 348369). 25 Iliade VI 146-149. 26 Erodoto, Storie lli 40-42. Al tema della hybris dedicò il suo ampio studio CARLO DEL GRANDE, Hybris. Colpa e castigo nell'espressione letteraria degli scrittori delLJ Grecia antica. Da Omero a Cleante, Napoli 1947; qui il concetto di hybns diventa il filo conduttore in una vastissima rassegna della cultura greca, dall'arcaismo alle soglie dell'età ellenistica. 27 Lo dice chiaramente Seneca nella ConsoLltio ad Marciam 1 1 ,3: il 'nosce te' di Delfì vuole significare «che cos'è l'uomo? un vaso fragile che si rompe alla minima scossa». 28 Dell'Edipo re come tragedia dello gn6thi seaut6n parlerà U. V. WILA MOW1TZ, nella sua introduzione: Griechische Tragodien iibersetzt von U. v. Wila mowìtz-Mollendorff, vol. I, Berlin 1907, p. 18. 29 Nelle Vorlesungen iiber die Philosophie der Religion, parte 2", Il: Die Relz� gion der geistigen Indivzdualitiit, p. 133 sg. dell'ediz. Stuttgart, Fromman 1928. Cfr. le Vorlesungen iiber die Aesthetik, parte 3", lli: Die Poesie, ibzd. 1930, p. 556. 30 Così KuRT VON FRITZ nel già citato Tragische Schuld und poetische Gerech tigkeit, p. 98. 31 Vedi per esempio il saggio di RicHARD SEAFORD in History, tragedy, theory. Dialogues on Athenian drama. Edited wìth an introduction by Barbara Goff, Austin 1995 , pp. 202-221 . 32 Un'ampia analisi dell'interpretazione hegdiana è quella di P. Szondi nel già citato Saggio sul tragico, che ne ricerca le radici nel cuore della filosofia dd l'autore. La discute criticamente, accanto ad altre successive (Jaspers, Hei degger), KuRT VON FRITZ, Tragt"sche Schuld und poetische Gerechtigkeit, cit., pp. 92 sgg. Fanno la storia delle sue fortune, con esempi di avversari e sostenitori, GERHARD MOLLER nell'introduzione alla sua edizione commentata: Sophokles, =
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Antigone, Heidelberg 1967, pp. 9 sgg., poi D.A. HESTER in «Mnemosyne» IV
24 (197 1 ) , pp. 1 1 -59; EcKART LEFÈVRE, in «Wiirzburger Jahrb. fiir die Altertumswissenschaft» NF 18 ( 1 992), pp. 89-123 fa una sintetica ma suc cosa rassegna delle interpretazioni dell'Antigone da A.W Schlegel a oggi. n Vedi la testimonianza di JOHANN PETER EcKERMANN, Conversazioni con Goethe negli ultimi anni della sua vita, 28 marzo 1827: il comportamento di Creante non sarebbe l'espressione di una 'virtù di stato', ma rappresenta un 'crimine di stato'. 34 WOLFGANG ScHADEWALDT tornava a riconoscere a Creonte una parte di ragione, ma finiva per condannarlo in quanto avrebbe esteso oltre il dovuto la sfera della politica, misurando coi suoi scopi i doveri verso i defunti che ad essa si sottraggono (Die griechische Tragodie, Frankfurt a.M. 1991, vol. IV, pp. 239-24 1). 35 GENNARO PERROTTA, So/ocle, cit., pp. 86 sgg. La condanna del com portamento di Creonte è «evidente» anche nel più recente saggio di GIOVANNI CERRI, che sottrae la tragedia alle tante «antinomie astratte» applicate alla sua interpretazione, per riportarla sul concreto terreno storico della legislazione contemporanea relativa alle sepolture: Legislazione orale e tragedia greca. Studi sulf Antigone di So/ocle e sulle Supplici di Eun'pide, Napoli 1979. 36 Antigone-lnterpretationen, in Satura. Friichte aus der antiken Welt Otto Weinrich zum 13. Miirz 1951 dargebracht, Baden-Baden 1952, pp. 43-58 AA.Vv., Sophokles, cit., pp. 294-3 10. 37 Vedi: Sophokles, Antigone. Ùhersetzt u. eingeleitet von K. REINHARDT, Gottingen 1961, p. 9 sg. Ma cose simili si leggevano già nel suo Sophokles, Frankfurt a. M. 1943 (2' ediz.), pp. 73 sg., 92 sg. 38 La sua Antigone, concepita nel 1776, ma pubblicata solo nel 1783, fa seguito al Polinice, ispirato allo stesso ciclo tebano. In Italia, la traduzione di Luigi Alamanni (1533) aveva già diffuso la conoscenza del personaggio sofo deo. 39 Il famoso critico GEORGE STEINER, nel suo pur ben informato Antigones (Oxford 1984, successivamente apparso anche in traduzione francese e tedesca), dichiara di dover rinunciare a un panorama completo di tutte le moderne 'Antigoni', per l'estensione troppo smisurata del tema (p. 107). Prima della sua c'erano state le rassegne storiche di SIMONE FRAISSE, Le mythe d'An tigone (Paris 1974) e CESARE MOLINARI, Storia di Antigone (Bari 1977). 40 Ad Antigone si è potuta così intitolare un'associazione politica di ispi razione libertaria. 41 Hochhuth si richiamò, più lepidamente, anche alla figura aristofanesca di Lisistrata nella commedia Lisistrata e la Nato, dove un gruppo di donne greche si oppone alla costruzione di una base militare nella loro isola. Sul rac conto di Hochhuth e su varie altre Antigoni, fra cui quella sudafricana, v. BERNHARD KYTZLER, Antigone im Jahrhundert der Wol/e. Metamorphosen eines alten Mythos im XX. Jahrhundert, in «Gymnasium» 100 (1993 ), pp. 97-108. =
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Capitolo nono «l
Greci d)oggi pronunciano il greco antico in modo strano»
Fra i molti turisti che ogni estate affollano i siti monu mentali e le spiagge della Grecia, non ultimi gli Italiani, ce ne sono di quelli che affrontano il viaggio armati delle remini scenze del greco scolastico, anche se c'è da credere che il loro numero sia in rapida diminuzione e anche se quelle remini scenze sono di regola abbastanza pallide. I più volonterosi fra loro, i più disposti a confrontare il loro bagaglio di liceali con la realtà linguistica del paese, sono desti nati a ricevere due shock, uno visuale e uno acustico. Quello visuale è di origine recente e riguarda l'ortografia della lingua, che dal 1982 non è più la stessa che impariamo a scuola, non è più quella che era passata quasi intatta attraverso una storia plurimillenaria con una vicenda interessante ed esemplare per vari aspetti. I Greci di un'epoca molto antica, probabilmente l'VIII secolo a.C., svilupparono un sistema di scrittura semplice e versatile, il più semplice che fosse mai stato escogitato e tanto versatile che sarebbe diventato patrimonio di tutto il mondo, applicato a innumerevoli e svariatissime lingue. Il suo prin cipio fondamentale è rimasto invariato fino a oggi e non si è mai sentito il bisogno di apportarvi altro che i ritocchi e gli arricchimenti via via necessari, quando veniva usato per lingue nuove e diversissime dal greco, antico o moderno. Il sistema consiste nel rappresentare, con un segno semplice e facile da 285
tracciare, ogni vocale e consonante, cioè non ogni suono, ma ogni fonema, il suono in quanto unità minima della comuni cazione, il segnale che serve veramente a capirsi, a distinguere una parola dall'altra, trascurando le mille variazioni che nasco no dal contesto sonoro e dai tratti di pronuncia individuali. Sono concetti che possono sembrare l'oggetto di una scienza un po' astrusa ma che in realtà il nostro istinto di parlanti capisce e applica benissimo, anche se non abbiamo mai sen tito la parola /onema o se la usiamo a sproposito (il primo caso è improbabile, il secondo frequente) . I Greci crearono questo elementare ma grandioso stru mento, probabilmente l'invenzione di maggior conseguenza in tutta la storia umana, adattando genialmente un tipo di scrit tura più vecchio conosciuto attraverso i Fenici, come racconta la tradizione antica in questo caso non priva di riscontfil. Sfor nito dei segni per le vocali, che una lingua semitica poteva tra scurare senza compromettere troppo l'intelligibilità dello scritto, il vecchio alfabeto era però inadatto a una lingua indo europea come il greco, con la sua struttura lessicale e morto logica in cui le vocali avevano invece parte essenzialel. li colpo di genio consisté nel dare valore di vocale a un piccolo numero di segni, in parte ancora i nostri, che nel modello semitico rap presentavano suoni consonantici ignoti al greco anzi ostici alla bocca greca. Come mai era avvenuto prima, il nuovo strumento analizzava e notava tutti i fonemi della lingua, uno per uno, superando le scritture sillabiche usate altrove (e secoli prima nella stessa Grecia) , che moltiplicavano il numero dei segni e si dovevano contentare di una larga approssimazione. Preciso e facile per tutti, il vero alfabeto era nato, pronto a intra prendere la sua prodigiosa carriera: anche il nostro alfabeto latino, il mezzo universale di comunicazione scritta del pianeta Terra, più che un derivato di quello greco, come forse abbiamo imparato a dire, è la prosecuzione in sostanza fedele di una delle sue varietà, conosciuta dai Romani attraverso la trafila etrusca, non la varietà ionica che prevalse sulle altre e che si insegna nelle nostre scuole ma sempre greca, anzi su certi punti 286
più vicina alla forma primitiva. Ciò che differisce è la forma di alcune lettere, ma questo è un fatto esteriore e secondario che non compromette la loro identità: basta pensare a quanto differiscono nella forma molte delle nostre lettere tra scrittura corsiva, stampatello e maiuscolo. Membri di coppie come R e r, G e g, che accettiamo tranquillamente come forme della stessa lettera, differiscono tra loro più di quanto differiscano le lettere latine dai corrispondenti greci. Lo strumento, a dire il vero, era imperfetto, e la sua quasi immutabilità attraverso i secoli (salvo gl'interventi più drastici decisi per adattarlo a certe lingue) documenta quanto le abi tudini tradizionali pesino qualche volta incredibilmente di più che non ogni considerazione di comodità. Restando al greco, la scrittura più antica aveva fra l'altro il difetto di non segnare gli accenti, difetto assai grave in una lingua ricca di parole lunghe e lunghissime con accenti molto vari e imprevedibili per posizione e natura. Ma si confidava che chi parlava il greco come lingua materna non ne avesse bisogno e così si andò avanti per secoli (in fondo noi italiani non ci comportiamo diversamente, anche se i problemi del nostro accento sono molto, molto più limitati; ma anche la nostra fiducia non è del tutto ben riposta, come dimostrano molte incertezze e gli stra falcioni che i media acustici fanno sentire spesso, gli èdile, i bàule, i Nuòro, i Friuli etc.). A cominciare dal IV secolo a.C., e poi via via nel terzo, accadde però qualcosa di nuovo. Per effetto delle novità sto riche, soprattutto dell'egemonia di Atene prima e delle con quiste di Alessandro poi, un'unica forma di greco, in sostanza quella che si parlava nell'Attica, cominciò a prevalere sulle tante varietà e sottovarietà dialettali, diventando il greco 'giusto'; tranne l'impiego tradizionale in certi generi poetici, tutte le altre forme di greco presero il colorito del provinciale e dell'incolto. Più tardi questa lingua di un piccolo popolo si espanse sull'immensa area dei nuovi regni ellenistici, e diventò mezzo di comunicazione internazionale affiancandosi a lingue diversissime o soppiantandole. Ci si dovette allora porre il pro287
blema di rimediare a una carenza che lasciava gli inesperti all'o scuro su uno dei caratteri decisivi nella fisionomia sonora delle parole greche: la posizione dell'accento. Si introdusse così quel segnetto sopra la vocale della sillaba tonica, la sillaba 'speciale' nella parola, che in italiano si distingue soprattutto perché è pronunciata con più energia, e in greco antico soprattutto perché era pronunciata su una nota più elevata. Il greco era una lingua che 'cantava' , in una maniera della quale possono darci oggi un'idea il serbo-croato o lo svedese, se li ascoltiamo con attenzione e soprattutto facendo attenzione alla cosa giusta. Inoltre, per segnalare un po' superfluamente che l'ac cento finale di una parola s'indeboliva (in greco, si abbassava) quando nel flusso ininterrotto del discorso ne seguiva un'altra, si aggiunse un segnetto diverso, inclinato alla rovescia. E fu così che dopo lunghe vicende finimmo per ereditare anche noi gli accenti, rispettivamente acuto e grave, , ', oggi impiegati in modo assai diverso nelle varie lingue e chiamati così con una terminologia che sarebbe perfettamente ingiustificata e incom prensibile se non potessimo risalire alle origini greche, e alla nota, appunto acuta o grave su cui si pronunciavano secondo i casi le vocali dell'antica lingua. Per complicare ancora le cose c'era poi l'accento circonflesso, che prima saliva e poi scen deva, e che non bisognava trascurare sotto pena di confusioni e malintesi. Ma non bastava: l'alfabeto che si era imposto a tutta la Grecia era quello di una varietà dialettale che faceva poco o punto caso all'aspirazione iniziale di molte parole, che gli altri Greci indicavano col segno H, passato ai Latini, e vigorosa mente sopravvissuto fino a oggi in molte lingue con lo stesso significato. Chi leggeva quest'alfabeto senza segno d'aspira zione, se il suo greco non era sicurissimo, rischiava di confon dere il 'monte' , l'6ros, col 'confine', lo h6ros, o il numerale 'sei', hex, con una delle forme della preposizione 'da', ex. Anche a questo si dovette porre rimedio scrivendo sopra la vocale iniziale aspirata quel segnetto dalla complicata genesi e dal curioso nome, lo 'spirito aspro': '. Non contenti di questo, '
A'
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invece di non scrivere nulla dove l'aspirazione non c'era si inventò lo 'spirito dolce', ', che doveva significare 'non c'è aspi razione' (pare proprio un caso da manuale di quella che i moderni semiologi chiamano 'ridondanza', una comunicazione superflua: chi introdusse lo spirito dolce non aveva capito che c'è anche il 'segnale zero', chiaro come tutti gli altri. Ma i Greci non furono gli unici a non capirlo: per eliminare dall'ortografia russa un caso analogo di segno usato nove volte su dieci senza bisogno, il tverdyj znak, il 'segno duro', e !asciarlo solo dove veramente serviva, ci volle la rivoluzione) . Così si andò avanti per altri secoli, anche se i nuovi segni non erano sempre impiegati con la costanza e col rigore che immagineremmo oggi, in epoche di scuola obbligatoria, pro grammi ministeriali e libri stampati; ma almeno la scrittura greca era diventata meno equivoca: chi scriveva faticava un po' di più, ma chi leggeva correva meno rischio di spropositate anche se era nato e cresciuto lontano da Atene. Intanto la lingua camminava e cambiava. L'accento diven tava uniformemente dinamico e non ci sarebbe stato più bisogno di indicarlo con quella varietà di segni degna di una notazione musicale (come un po' era), mentre l'aspirazione, trascurata sempre più, spariva in greco come in latino. Tutto l'apparato di segni diventava in gran parte inutile, e già all'i nizio dell'età bizantina possiamo dire con sicurezza che i cimieri e pennacchi di cui le vocali greche andavano adorne erano quasi tutti superflui; l'unica cosa necessaria sarebbe stata a questo punto l'indicazione della sillaba tonica nelle parole che di sillabe ne avevano più di una. Ma lo spirito di conservazione è in questo genere di cose quasi illimitato. Lo 'scrivere giusto e corretto', cioè l'orto-grafia, può diventare quasi fine a se stesso in ogni cultura che pos sieda una tradizione letteraria saldamente costituita, e le com plicazioni possono essere perfino bene accette piuttosto che sentite come un peso inutile. Perché si trovasse il coraggio di romperla con la tradizione millenaria e di ripulire, Ietterai289
mente, la scrittura greca da quel vetusto pulviscolo, è stato necessario arrivare al 1982, non a caso sotto un governo di sinistra. Si è fatto allora ciò che il più elementare senso pra tico suggeriva e si sono aboliti gli spiriti e tutti gli accenti inu tili, cioè forse tre quarti, conservando solo l'acuto per indicare la posizione dell'accento nei plurisillabi. Dietro alla lunghissima resistenza a una riforma così semplice e apparentemente così salutare dobbiamo immaginare la coscienza, espressa o inespressa, del fatto che ogni riforma ortografica rischia di invecchiare l'enorme patrimonio librario che ogni antica cultura custodisce e di farlo apparire più lon tano, se non ostico, alle nuove generazioni. Ai ragazzi che impa rassero a leggere su una scrittura fortemente riformata, tutti i libri precedenti apparirebbero come un vecchiume scostante. Un altro movente, meno condivisibile ma forse non da condannare senz' altro come mero oscurantismo, è l'intento di conservare qualche difficoltà di accesso in più al mondo del sapere e della scrittura: la padronanza perfetta di una difficile ortografia è sen tita come un mezzo di distinzione culturale e sociale che non si vuole sopprimere o mettere alla portata di troppP. Nella demo craticissima Francia si tengono ancora oggi dei 'campionati nazionali di ortografia' i cui vincitori raccolgono molta ammi razione, e non sarebbe del tutto giusto commentare che ammi razione meriterebbe piuttosto chi riformasse l'assurda ortogra fia francese. Comunque si voglia giudicare tutto questo, oggi una pagina di greco moderno non somiglia più tanto, già otticamente, alla pagina di un libro scolastico di greco antico, e questo è il primo shock per il nostro turista-classicista. Il secondo è lo shock acustico o se vogliamo acustico visuale. Se il nostro amico nota sul menu della trattoria o in un'insegna di negozio la coincidenza tra qualche parola del l'uso odierno e quelle imparate a scuola, può darsi che provi poi sorpresa e delusione nel sentirla proferire, perché la vec chia parola suona diversa in bocca al cameriere o alla com messa, qualche volta è irriconoscibile. E anche se, fresco di 290
buoni studi scolastici (parliamo di altri tempi), è arrivato a scambiare qualche citazione di nomi classici nella forma ori ginale, ha trovato che l'intesa con l'interlocutore greco era spesso precaria. Forse è tornato in patria raccontando con una specie di amarezza che il greco non era più lo stesso, nel tono allarmato di chi annunciasse che per incuria o per arbitrio i Greci moderni hanno guastato qualche monumento antico. Che cos'è successo? C'è stata davvero tanta innovazione, riforma o rivoluzione? Certo che c'è stata, solo che i 'rivolu zionari' siamo stati noi europei occidentali che, pur fra dis sensi e reazioni, abbiamo finito gli uni dopo gli altri per seguire alcuni ben identificati maestri di rivoluzione e i loro sovver sivi insegnamenti, legati nel nome al maestro più famoso fra tutti, Desiderio Erasmo da Rotterdam. Facciamo un po' di storia. Abbiamo già accennato al fatto che per i novecento e più anni della storia bizantina la lingua della letteratura elevata rimase vicinissima a quella classica, distaccandosi sempre più dal parlare vivo e popolare che si evolveva quasi come le lingue romanze rispetto al latino; l'or tografia poi, cioè il modo di scrivere le parole, rimase addirit tura identica all'antica. Ciò che invece non poteva restare iden tico era il modo di pronunciare le parole che a quello scritto corrispondevano, in bocca ai dotti come agli ignoranti, perché lo scritto era un'immobile registrazione, mentre per il suono non c'era ancora nulla di simile e non si poteva restare fedeli alla forma sonora dell'epoca classica neanche a volere. In questo modo, con la lingua che camminava e la scrittura che stava ferma, la veste grafica del greco, che in origine doveva essere più o meno aderente alla realtà della lingua come un abito fatto su misura, anche se senza molta perizia, era diven tata inadatta su molti punti, troppo stretta o troppo larga, mascherando e sfigurando il corpo che rivestiva. Fuori di metafora, era diventata un esempio delle grafie fortemente sto riche, come usano oggi il francese o l'inglese, che rispecchiano bene o male la lingua di qualche secolo fa, ma malissimo quella di oggi (qualche volta, poi, rispecchiano solo le elucubrazioni 291
di una linguistica pre-scientifica, i malvezzi dei tipografi o i capricci del caso) . Quando gli studi di greco tornarono in Occidente dopo il lungo oscuramento medievale, l'Europa imparò dapprima a leggere i testi greci antichi alla maniera dei suoi maestri bizan tini che li leggevano come se fossero stati scrùti al loro tempo, applicando ad essi quel sistema di rispondenze fra scritto e pronunciato, che valeva per il loro greco scritto in maniera estremamente storica. n risultato era a dir poco strano, di una stranezza che non poteva sfuggire ai nuovi osservatori, i discepoli occidentali non succubi come i maestri greci della reverenza cieca per una tra dizione idolatrata in cui si è cresciuti. Era troppo strano che la semplice vocale i si scrivesse, secondo i casi, con almeno sei segni o gruppi di segni differenti, come se i Greci che per primi misero per iscritto la loro lingua avessero voluto com plicarsi la vita senza motivo; e in generale era strana la preva lenza ossessiva e ben poco gradevole della vocale i, prevalenza che non c'era nella lingua popolare parlata, ma che si creava leggendo a quella maniera la lingua classica o classicheggiante. Strano è anche il comparire di forme che sembrano esigere dal parlante delle vere acrobazie vocali. Anche ammettendo che il concetto di 'pronunciabilità' è molto relativo, è pur vero che nella distribuzione di vocali e consonanti c'è sempre, nel lin guaggio umano, un minimo di equilibrio che pone certi limiti a tutti. Sembra difficile immaginare che il nome della dea della salute, Hygiéia, suonasse dawero tjiia, dove la j è beninteso la semivocale di ieri (nella forma ionica addirittura zjiii; al dativo poi, almeno in età classica, si dovrebbe aggiungere un'altra i! ) . Soprattutto, era troppo strano che nella lettura dei testi antichi si generasse una quantità di omofoni assolutamente intollera bile per una lingua che debba servire da mezzo di comunica zione orale, come se i Greci antichi avessero dovuto ricorrere in ogni caso alla scrittura per intendersi senza equivoci. E infine c'era una quantità di indizi di varia natura che punta vano tutti nella stessa direzione, indicavano tutti l'inadegua292
tezza di quel modo di leggere gli antichi. Per esempio certe onomatopee che appaiono troppo inverosimili, pur con tutte le cautele del caso. Famoso è il caso delle pecore che dovreb bero fare 'vi vi' secondo due commediografi del V secolo a.C. , s e leggiamo il testo antico alla maniera bizantina, mentre la pronuncia ricostruita secondo indizi e prove di tutt'altro ordine restituisce il più plausibile 'bè bè'4• La prima cattedra di greco in Occidente fu istituita a Firenze nel 1396, prima ancora che finisse il secolo di Dante, celebratore di Omero ma del tutto ignaro della sua lingua, e affidata al bizantino Emanuele Crisolora (Chrysoloriìs) che ovviamente insegnava a leggere i classici alla sua maniera, come tutti i suoi primi colleghi e successori. Perché si arrivasse a un'esposizione sistematica e ben fondata delle cause che impe divano di accettare quel modo di lettura bisogna arrivare al 1528, quando Erasmo pubblicò il suo De recta Latini Grae cique sermonis pronuntiatione dialogus, dove a discutere sono due personaggi · chiamati curiosamente Leo e Ursus, che si rifanno a precedenti colloqui fra diversi dotti. Sotto l'impo nente titolo si nasconde uno scritto di attraente lettura, nel l' agile latino di Erasmo che sa essere brillante come il francese di Voltaire, introdotto da un lungo prologo o piuttosto vera 'prima parte', sulla riforma e organizzazione degli studi, e ric chissimo di ghiotte notizie sulla pronuncia delle lingue europee al suo tempo (perfino su dialetti italiani! ) . Erasmo interviene soprattutto sul sistema delle vocali, vocali semplici o dittonghi, l'àmbito in cui erano avvenuti i mutamenti più appariscenti. In particolare restituisce i dittonghi del greco antico, spariti nella lettura moderna perché tutti si sono chiusi in vocali sem plici o hanno visto il secondo elemento trasformarsi in conso nante: così, la particella affermativa ndi, 'sì', è diventata né, mentre il pronome aut6s, 'proprio lui', o simili, è diventato a/t6s e l'isola detta anticamente Éuboia (Eubèa) oggi si chiama Évvia. Ristabilisce poi il valore antico di due intere serie di consonanti, le occlusive sonore e aspirate. Qui il 'restauro' che colpisce di più il nostro orecchio italiano è la lettura del beta 293
come b e non come v alla maniera bizantina (vedi sopra, il verso delle pecore e il nome dell'isola) . Insomma getta le basi del moderno modo occidentale di leggere il greco antico, anche se su queste basi si è costruito poi in maniera imper fetta, peccando di incoerenza su molti punti e creando discor danze tra i diversi paesi europei. Noi gli riconosciamo oggi il primato dell'importanza, chia mando 'erasmiana' la pronuncia oggi praticata nelle nostre scuole e università, anche se molti dei suoi princìpi erano già stati enunciati da altri, soprattutto dallo spagnolo Antonio de Lebrixa ('Antonius Lebrissensis', 1486) ma anche dai nostri Girolamo Aleandro e Aldo Mannucci, quest'ultimo meglio noto sotto il cognome latinizzato alla maniera umanistica in Manutius, poi ri-italianizzato in Manuzio ( 1508 ) . Erasmo stesso, attraverso le ripetute allusioni ad altri imprecisati dotti cui sarebbe stato debitore di suggerimenti, evita onestamente di dare per sue idee che già circolavano. Siccome però ogni innovazione, anche la più giustificata, trova sempre chi la avversa in nome della buona, vecchia tra dizione, anche le argomentazioni più convincenti non si tra dussero subito in pratica, tutt'altro. Erasmo stesso che le aveva proposte non ne trasse affatto le conseguenze pratiche o lo fece timidamente, com'è ben testimoniato e come si immagina dalla lettura stessa del Dialogus (e sarà da ricordare che la sua opera-manifesto fu da lui scritta a sessantatré anni, solo otto prima della morte: difficile abbandonare la pratica di tutta una vita che per di più era la pratica g�nerale ! ) . Molti annuncia rono che si sarebbero accontentati di indicare ai loro scolari quale fosse la realtà ricostruibile per l'età classica, ma che nel leggere i testi se ne sarebbero rimasti alla pronuncia tradizio nale, che finì per chiamarsi 'reuchliniana' dal nome dell'uma nista tedesco Johannes Reuchlin ( 1455- 1522) . Questi non fu mai un dichiarato avversario di Erasmo, né sarebbe potuto esserlo dato che morì anni prima della pubblicazione del Dialogus, ma ebbe grande parte nell'introduzione degli studi di greco in Ger mania e insegnò, come tutti gli altri, una sostanziale fedeltà alla 294
pronuncia dei maestri bizantini; così quel modo di pronunciare il greco prese nome da lui, senza una specifica giustificazione. La pronuncia reuchliniana si chiama poi anche 'itacistica', con trapposta a quella 'etacistica' erasmiana, dal valore che si dà alla lettera H, nel primo caso letta come i e chiamata 'ita', nel secondo letta come e e chiamata 'eta'. La contrastatissima applicazione pratica dei princìpi della riforma fu opera dapprima di alcuni docenti dell'università di Cambridge, nella seconda metà del XVI secolo, e da lì si diffuse progressivamente sul continente fra molte e lunghe resistenze'. Una lunga guerra europea: non ci fu un argomento, fra tutti quelli su cui si fondavano Erasmo, i suoi precursori e i suoi seguaci (e che abbiamo cercato di compendiare qui), che non venisse negato, contestato, qualche volta rovesciato contro chi l'aveva addotto, per secoli interi e a opera di studiosi della più diversa statura intellettuale, conservatori ottusi o sottili sofisti. In qualche caso notevoli doti di acume e competenza vennero messi al servizio di un evidente animus misoneista, nutrito del solito risentimento contro ogni novità che viene a disturbare le abitudini in cui siamo cresciuti e che rischia (questo è il peggio) di farci sentire vecchi e superati. La battaglia contro la 'nuova' pronuncia si intrecciò curio samente coi contrasti confessionali dell'Europa moderna. Per gli imprevedibili casi della storia culturale che qui non staremo ad illustrare, i paesi cattolici come quelli luterani restarono più a lungo fedeli all'uso tradizionale, mentre la riforma erasmiana si fece strada più rapidamente laddove si era affermato il cal vinismo. L'eccezione è rappresentata dalla cattolica Francia che già verso la fine del XVII secolo si era adeguata alla novità, seguita dalla Germania solo molto più tardi (più tardi ancora arrivò l'Italia, come spiegheremo meglio sotto). Oggi il trionfo di Erasmo, se vogliamo dire così, è totale, anche se guastato dalle molte infedeltà ai suoi suggerimenti. Alla pronuncia bizantina e moderna resta fedele solo la scuola greca, come sa chi ha sentito leggere Omero o Tucidide dagli 295
studenti di quel paese che frequentano le nostre facoltà di let tere. In questo entrano dei motivi di ordine ben poco scientifico: la pronuncia tradizionale è usata naturalmente nella liturgia greco-ortodossa, e in Grecia i fatti confessionali e reli giosi sono sentiti come parte dell'identità nazionale, con una gelosia sospettosa comprensibile a chi conosca un po' la storia del paese, la sua mai sopita rivalità verso l'Occidente latino e 'franco' , e la secolare oppressione musulmana dei Turchi. Ricordiamo però che anche la chiesa cattolica latina pronuncia allo stesso modo le poche parole di greco che compaiono nei suoi riti: kyrie eleison è pronuncia bizantina, non erasmiana, che suonerebbe kurie eléeson. In conclusione: questa pronuncia moderna che meravigliava o deludeva il nostro turista memore del suo liceo classico è insostenibile sul piano scientifico ma non è altrettanto indi fendibile nella pratica. Se qualcuno ha voglia di usarla lascia molo fare, tanto la vera fisionomia sonora delle lingue clas siche è sparita per sempre, e ogni loro studioso è destinato a portarsi nella tomba il rimpianto di non sapere come suonas sero davvero l'esametro di Omero e l'oratoria di Demostene o Cicerone. Erasmo o non Erasmo, il fatto di pronunciare un dittongo piuttosto che una vocale semplice dov'è scritto ai cambia ben poco, o non cambia affatto, questa realtà. Rico struire il suono di una lingua in assenza dell'unico mezzo per farsene l'idea, cioè la registrazione meccanica, disco o nastro magnetico, è come descrivere a parole uno stile pittorico a chi non ne avesse mai visto un esempio: può servire a qualche cosa ma certo non a trasmettere una vera conoscenza. L'unica cosa certa è che la nostra pronuncia suonerebbe mal comprensibile alle orecchie di un Greco antico, e le nostre discussioni fra barbari gli sembrerebbero piuttosto ridicole. La 'strana' pronuncia dei Greci d'oggi rappresenta almeno il punto d'arrivo di un'evoluzione ininterrotta cominciata nel l' Antichità, è vecchia di molti secoli (o di millenni, su alcuni punti), ed è anche quella dei nostri primi precursori occiden tali nello studio del greco, in qualche caso praticata fino a 296
pochissime generazioni fa. Ciò vale specialmente per l'Italia, dove la pronuncia erasmiana trovò particolari difficoltà a pene trare per motivi di vario ordine: l ) Nel sud del paese si manteneva una grecità vivente, forse erede di una continuità ininterrotta dall'Antichità, ma in ogni caso in costante collegamento con la gredtà di Grecia, quindi abituata alla pronuncia moderna; con l'abbazia basiliana di Grottaferrata questa grecità arrivava fino alle porte di Roma. 2) A nord c'era la Repubblica veneta, con la sua lunga tra dizione di rapporti con l'Impero bizantino e in genere con il Levante, dove si parlava greco, naturalmente non con la pro nuncia erasmiana. 3 ) C'erano i rapporti del Papato con le chiese cattoliche orientali, la cui liturgia era greca ed era parimenti pronunciata alla maniera tradizionale. 4) Infine non si deve dimenticare che l'ortodossia religiosa di Erasmo era dubbia agli occhi della Chiesa cattolica, ciò che rendeva sospetta, nell'Italia della Controriforma e dell'Indice, ogni cosa uscita dalla sua penna, compreso il dialogo tra Leo e Ursus, non avaro di frecciate contro i vizi del clero e contro i metodi di insegnamento dell'epoca in cui esso aveva larga parte. Questi fattori frenarono la temibile novità almeno per tutto il XVIII secolo e le cose cambiarono veramente solo dopo l'U nità, quando nella scuola italiana, organizzata e diretta cen tralmente, si introdussero delle moderne grammatiche stra niere, soprattutto tedesche (la cultura classica dell'Italia unita fu dapprima fortemente dipendente da quella tedesca allora al suo culmine). Ancora per gli anni Cinquanta del XIX secolo è ben testimoniato che nei licei della Roma pontificia si prati cava un'approssimativa pronuncia reuchliniana, e altrettanto vale per il Regno delle Due Sicilie. Soprattutto, come ha mostrato bene Sebastiano Timpanaro, la situazione non era unitaria, e in varie parti del paese vigevano sistemi 'misti' che seguivano su punti diversi Reuchlin o Erasmo, un po' casual menté. La pronuncia erasmiana, detta da noi 'tedesca', pre valse del tutto solo nel XX secolo. 297
Uno dei precetti su cui Erasmo aveva più insistito trovò però in Italia orecchie sorde (letteralmente e non solo metafo ricamente ! ): l'attenzione alla 'quantità', cioè alla durata delle vocali, che in greco ha valore distintivo. Le vocali del greco antico erano molte, anche se i segni sono solo sette e, pro nunciare un alfa o uno iota lungo come il corrispondente bre ve, portava a confondere parole del tutto diverse. All'olandese Erasmo, parlante una lingua materna che distingue bene la durata delle vocali e la nota anche nella scrittura con la doppia (Haarlem o Hoorn ! ), la distinzione non riusciva difficile, e gli appariva giustificato il pretenderla dall'ideale e riformato sco laro di greco cui egli pensava. Oggi lo accontentano in qualche misura i parlanti lingue come il tedesco, simile in questo all'o landese, mentre altri non si sognano di farlo. Non che 'le lunghe e le brevi', come si dice a scuola, non ci siano anche in italiano: è chiaro anche a chi non abbia un orecchio parti colarmente esercitato che la a è lunga in mare, più breve in marino e più breve ancora in marinaresco; o che la prin1a o di topo è lunga e quella di sorcio breve. Ma questa diversa durata è condizionata dalla posizione dell'accento o dalla struttura della sillaba, aperta o chiusa; viene da sé al parlante italiano e non serve a distinguere nulla, perché ciò che è automatico e inevitabile non può avere valore di segnale. In italiano sono più o meno lunghe le vocali accentate in sillaba aperta, più o meno brevi le altre, anche se accentate, quando la sillaba finisce in consonante come la prima di sor-cio; in ciò andiamo d' ac cordo col greco moderno, che anche per questo aspetto della fonetica è un erede che ha tralignato. Ma insegnare ai nostri scolari a distinguere légoo, 'dico', da léegoo, 'smetto', o h6raa, 'guarda ! ', da h6oraa, 'stagione', sarebbe un compito impossi bile, anche se ad esso dedicassimo metà delle ore settimanali destinate al greco. La nostra storia non sarebbe finita se non dicessimo qualcosa sull'altra lingua classica, ossia sulla pronuncia del latino che ha una storia in parte parallela a quella del greco, in parte diversa. 298
Qui la situazione si capovolge: se là si potevano accusare i Greci d'oggi di gretto attaccamento a una tradizione facilmente smentita dalla scienza linguistica, stavolta siamo noi Italiani che potremmo essere accusati di conservatorismo miope, anche se, diciamo subito, con attenuanti ancora più forti. Erasmo, non dimentichiamolo, aveva trattato non solo di pronuncia del greco ma anche del latino, ed era arrivato a con clusioni analoghe: la pronuncia che noi pratichiamo tradizio nalmente non può essere la stessa di Cicerone, e anche noi (tutti noi europei) pecchiamo applicando ai testi certe corri spondenze fra scritto e pronunciato che si sono sviluppate gra dualmente solo dopo l'epoca classica, per non dire dei vezzi fonetici nazionali che ognuno porta nel 'suo' latino, ancora oggi, ma molto più al tempo di Erasmo7• Il Dialogus lo denuncia minutamente, fornendo un'infinità di informazioni interessantissime sull'Europa linguistica del Cinquecento. Anche qui il ragionamento parte dalla logica: i fondatori della scrittura latina non possono aver commesso le irraziona lità, nel senso dello spreco, che dovremmo ad essi attribuire se la loro pronuncia fosse stata quella moderna. Così è owio che i dittonghi ae e oe fossero in origine veri dittonghi, come fanno pensare tanti fatti di altro ordine, ma per prima cosa una logica a priori: perché mai avrebbero dovuto scrivere rosae se la parola finiva in vocale semplice come bene? o proelium se la parola cominciava come premo? E perché viceversa la strana avarizia di scrivere con la stessa lettera t due suoni così diversi come nella parola iustitia, o con la stessa c quelli in caecus, letti alla moderna? Beninteso, questi sono soltanto i primi approcci al problema, che potrebbero essere smentiti da considerazioni successive; invece vengono tanto più confermati quanto più si va avanti. Questo, quanto alle origini; ci sono poi indizi fortissimi, prove certe o esplicite testimonianze in testi grammaticali che, almeno per tutta l'età classica e almeno nell'uso colto, il latino 'si leggeva com'era scritto' , ossia secondo l'approssimativo principio: 'un segno per ogni fonema, un fonema per ogni 299
segno', ciò che cambia un bel po' di cose rispetto alla lettura del latino che abbiamo imparato a scuola, se ci si riflette un attimo. Le illogicità e gli apparenti arbitrii di un'ortografia storica possono formarsi solo dopo lunghi sviluppi; dopo che la lingua si è evoluta rispetto allo stadio primitivo rispecchiato nell'im mobile scrittura, non si possono attribuire agli inventori di una scrittura, sia latina, greca o russa. Sarà da aggiungere qualcosa di più specifico su una que stione che per qualche oscuro motivo suscita più di altre, pur non meno importanti, la curiosità, la sorpresa, o addirittura lo scandalo: il fatto che secondo il parere concorde degli storici della lingua latina (diciamolo prima con parole difficili) 'nel latino classico le occlusive velari restavano tali anche quando erano seguite da vocali anteriori'; cioè, in parole povere, che al tempo di Cicerone si dicesse Kikero e ghens anziché Cicero e gens come certamente abbiamo imparato a dire, se abbiamo frequentato la scuola in Italia. A quelli, forse ce ne sono ancora, che vedono minacciato da questa pronuncia un sacro patrimonio nazionale, è inutile rispondere. Lo fece tanti anni fa Giorgio Pasquali, certamente senza alcun effetto, e noi non presumiamo di saper fare meglio di lui8• Una risposta merita semmai chi domanda scetticamente 'come si fa a sapere?', se non fosse che qui non ci siamo posti questo compito e neppure ci sentiremmo i più adatti ad assol verlo. Ce la caveremo con una parabola: chi è incredulo davanti a una cosa strasicura come questa, suffragata da cento prove, dovrebbe per coerenza di scettico negare fede anche agli astro nomi quando gli insegnano che, contro ogni apparenza, la terra si muove e il sole sta fermo - e anche in questo caso potrebbe invocare qualche buona vecchia tradizione. A chi non sta con tento al quia ed è sinceramente curioso, possiamo solo sugge rire un buon libro sull'argomento come quello di Alfonso Traina, I.:alfabeto e la pronunzia del latino, chiaro e convincente9. Può sembrare paradossale che la situazione sia rovesciata fra le due lingue classiche: per il greco, impariamo a scuola 300
una pronuncia 'restituta' , ricostruita dai filologi, e ci stupiamo un po' spiacevolmente quando scopriamo quella tradizionale dei Greci odierni; per il latino seguiamo invece la tradizione e sbalordiamo di chi dice Ka-esar o skienti-a invece di Caesar e scientia, con una pronuncia che ha esattamente gli stessi titoli di legittimità di quella erasmiana per il greco (anzi, non dimen tichiamo che 'erasmiana' è anche questa ! ) . Ciò è tanto più vero in Italia, dove la pronuncia restituta ha fatto nella pratica poca breccia nelle università e nessuna nelle scuole. In altri paesi europei è stata invece adottata largamente, tanto che gli stu diosi italiani sentono spesso il bisogno di adeguarvisi quando fanno citazioni latine davanti a colleghi stranieri. Eppure qualche giustificazione alla posizione dei conserva tori c'è, perché lo studio del latino ha nel nostro sistema di istruzione radici ben più profonde che non quello del greco. Il latino, anche se guasto e imbarbarito, non ha cessato mai di risuonare in bocca agli europei occidentali fino a pochi secoli o decenni fa, in chiesa, in tribunale, e ogni volta che essi affron tavano studi superiori; è stato la loro comune 'lingua madre' , in senso genetico per l'Europa latina e in senso di adozione culturale anche per quella germanica. Mentre per il greco abbiamo fatto bene a non imitare gli eredi di Bisanzio, cioè a respingere una tradizione che ci era estranea, per il latino abbiamo più di una giustificazione quando ci atteniamo alla pratica ininterrotta dei nostri antenati. E infine, lasciamo che ognuno faccia come meglio crede: una disputa intorno al modo di pronunciare le lingue morte somiglierebbe troppo, come disse ancora Giorgio Pasquali, alla mischia intorno al cadavere di Patroclo, magari eroica ma anche un po' comica.
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Note
1 L'alfabeto fu portato in Grecia dal fenicio Cadmo secondo Erodoto, Storie V 58-59. C'è perfino un'iscrizione, del V secolo a.C., dove l'aggettivo phoinikéi'a ('fenici') significa da solo 'lettere', senza l'aggiunta di un sostan
tivo. Naturalmente non mancavano altre tradizioni, del tipo dell"eroe cul turale', che attribuivano l'invenzione dell'alfabeto a vari personaggi mitici. Su epoca e luogo dell'adozione dell'alfabeto fenicio da parte dei Greci (secondo lui Cipro) scrive ROGER D. WOODARD, Greek writing /rom Knossos to Homer, New York-Oxford 1997, con molte informazioni sull'argomento. 2 Un'approfondita riflessione sulla scrittura in genere e sul rapporto fra scrittura semitica settentrionale (fenicia) e greca, è quella di BARRY B. POWELL, Homer and writing, in A new companion to Homer, cit., pp. 3 sgg. J Su 'alfabeto e democrazia', proprio in relazione al rapporto tra scrit tura fenicia e greca, scrive RODIGER HAUDE in «Saeculum» 50 (1999), pp. l sgg. 4 I due commediografi sono Cratino, fr. 45 Kassel-Austin ( 43 Kock) e Aristofane fr. 648 K.-A. ( 642 K.). l Vedi W. SIDNEY ALLEN, Vox Graeca, Cambridge 1973 (2" ediz.), pp. 128 sgg. Anche sulla storia della pronuncia scolastica del greco c'è l'im mancabile mastodontica opera tedesca: ENGELBEIIT DRERUP, Die Schulaus sprache des Griechischen von der Renaissance bis zur Gegenwart, 2 voli., Paderbom 1930-1932. Sulla lunga e accanita battaglia a Cambridge fra asser tori e avversari della nuova pronuncia, vedi vol. I, pp. 93-139. Per l'Italia, che Drerup tratta un po' scarsamente, un'utile integrazione sono le pagine di SEBASTIANO TIMPANARO, La filologia di Giacomo Leopardi, Roma-Bari 1997 (3" ediz.), pp. 193 -199 (già in «Atene e Roma» 9-10, 1953 , pp. 100104). 6 Vedi di Timpanaro lo scritto sopra citato. 7 Solo nel XIX secolo i Tedeschi smisero di leggere come f la v latina (jinum per vinum ! ) , malvezzo denunciato già da Erasmo. 8 Vedi gli articoli Latino francese, latino italiano e latino-latino e La pro nuncia de/ latino, ristampati da ultimo in Pagine stravaganti, Firenze 1968, vol. I, pp. 134-146. 9 Bologna, Pàtron; nel 1973 era arrivato alla quarta edizione. Lo stesso argomento è trattato in forma più succinta nel libro dello stesso TRAINA (con GIORGIO BERNARDI PERINI), Propedeutica al latino universitario, Bologna 1977 (2" ediz. aggiornata), pp. 2 1-43 . lvi, p. 42 sg., ulteriore bibliografia ita liana e straniera e un rapido 'punto della situazione', circa le discussioni sulla pronuncia da adottare nell'insegnamento scolastico. Se ne ricava che in Italia prevale un atteggiamento conservatore. =
=
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Indice
Prefazione
5
Capitolo primo
«Eolo? Era il dio dei venti»
9
Capitolo secondo
«Circe, la maga del Circeo»
37
Capitolo terzo
«Nel mito di Atlantide ci dev'essere un fondo di verità»
63
Capitolo quarto
«Gli antichi non navigavano in mare aperto e temevano le Colonne d'Ercole»
111
Capitolo quinto
«La s/ericità della terra fu dimostrata da Cristo/oro Colombo»
137
Capitolo sesto
«L'antica Grecia era il paradiso dei gay»
169
Capitolo settimo
«Heinrich Schliemann riscoprì la Troia di Omero»
225
Capitolo ottavo
«Gli eroi della tragedia greca lottavano contro il Fato»
261
Capitolo nono
«l Greci d'oggi pronunciano il greco antico in modo strano»
285
Volume di pagine 3 12 con 16 illustrazioni in bianco-nero carta Ox/ord Library, gr. 80 e Symbol Ivory, gr. 1 15 Finito di stampare nell'ottobre 2004 dalla Dedalo litostampa sr/, Bari
Pietro J anni è ordinario di Lettera tura greca. La sua produzione scienti fica è segnata da un'ampia varietà di temi e interessi: dalla storia della cul tura e della società antica (La cultura di Sparta arcaica, 1965-1970) alla geografia e al mito, indagato nel suo rapporto con la realtà in un caso esemplare (Etnografia e mito. La sto ria dei Pigmei, 1978). La sua mono grafia sulla cartografia antica (La mappa e il periplo, 1984) ha avuto ampia risonanza e ha esercitato un notevole influsso sulla ricerca succes siva, mentre il libro sui grecismi nella lingua dei mass-media (Il nostro greco quotidiano, 19942) è stato accolto favorevolmente da un vasto pubblico. Per i nostri tipi ha pubblicato Il mare degli Antichi (1996), l'unica opera ita liana di carattere generale sulla mari neria greca e romana, vincitrice-fma lista al Premio S. Felice Circeo dello stesso anno.