IGNACIO GARCÍA-VALIÑO LE DUE MORTI DI SOCRATE (Las Dos Muertes De Sócrates, 2003) Per Nieves Uno speciale ringraziamento...
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IGNACIO GARCÍA-VALIÑO LE DUE MORTI DI SOCRATE (Las Dos Muertes De Sócrates, 2003) Per Nieves Uno speciale ringraziamento a José Solana Dueso, che mi ha aiutato con la sua originale visione della storia. Nella vita di un uomo, la sua epoca è solo un momento; il suo intelletto, il debole bagliore di una candela di sego. MARCO AURELIO Fervida e bionda, nubile e triste, Tu, mondatrice di prati ardenti, Resti in ascolto, con i tuoi passi Illanguiditi. Il flauto antico del dio che dura L'aria in crescendo sul vento lieve, E so che pensi a quella dea chiara... F. PESSOA (Le poesie di Ricardo Reis, Passigli, 2005) CRONOLOGIA* 469 a.C. Nascita di Socrate 465 a.C. Nascita di Aspasia di Mileto e di Prodico 449 a.C. Arrivo di Aspasia ad Atene 445 a.C. Matrimonio di Pericle con Aspasia 429 a.C. Morte di Pericle 417 a.C. Neobula entra alla Milesia 410 a.C. Neobula parte con Alcibiade 407 a.C. Ritorno di Neobula ad Atene 406 a.C. Disastro navale delle Arginuse e processo agli strateghi 399 a.C. Morte di Socrate * Le date che si riferiscono agli avvenimenti storici sono, in alcuni casi, approssimative.
PRIMA PARTE I La lezione più dura della sua vita Neobula l'apprese a dodici anni, quando ancora non sapeva niente di sesso. Era una snella adolescente, sfiorata dagli sguardi impudici degli uomini, appena uscita dalla casa in cui non avrebbe fatto ritorno. La peste aveva spedito la madre a concimare la terra e, due anni prima, il padre era scomparso nelle cave di Siracusa, dove era stato deportato dagli spartani che lo avevano fatto prigioniero nella grande guerra. Ai suoi due zii era toccata la stessa sorte: uno era morto nella battaglia di Amphipolis, l'altro in una località sconosciuta. Non essendoci chi si prendesse cura di lei, eccetto una lontana parente troppo anziana per occuparsene, fu venduta ad Aspasia per farne un'etèra di lusso. Neobula aveva sentito parlare della proprietaria del bordello, Aspasia di Mileto, vedova di Pericle, di cui si dicevano tante cose, spesso in contrasto tra loro: dell'influenza che esercitava su alcuni circoli maschili, della sua cultura, di una fama basata su torbidi artifici e, soprattutto, dell'attività che si celava sotto la banale apparenza di una casa di piacere: una scuola per donne. Aspasia aveva quarantotto anni quando accompagnò Neobula al tempio di Afrodite. Lì, dopo aver deposto una corona di fiori ai piedi della dea, la giovane si tolse la tunica. Aspasia la esaminò: il corpo era ancora acerbo, ma aveva tutta l'aria di diventare la ragazza più bella che avesse mai messo piede nel suo locale. Gli occhi le brillavano, duri come zaffiri. Quando si fosse sviluppato, quel corpo sarebbe diventato provocante, e per allora Aspasia contava di averle insegnato tutto ciò che serviva per destreggiarsi tra gli uomini e nel sesso. Le anticipò che quella dell'etèra era un'esistenza dura, che per sopravvivere era necessaria molta astuzia e una tempra di ferro. Per il momento doveva soltanto obbedire e portare rispetto. Lei l'avrebbe istruita a pensare, a farsi bella, a sviluppare la sensibilità coltivando la danza, la poesia, la musica, per poi iniziarla anche ai misteri della scrittura. Nella Milesia avrebbe sempre trovato un tetto, cibo e protezione, solo in cambio del suo lavoro. Neobula si limitò ad annuire. Aspasia proseguì: «Ora avrai il tuo primo cliente. Ha pagato molto perché sei vergine. Devi sapere che la tua prima esperienza sarà dolorosa. Ma ricorda: nel sesso è
buono tutto ciò che fa male». Neobula non aveva paura. Era convinta di essersi lasciata il peggio alle spalle, con la morte dei genitori, e aveva appena trovato una nuova famiglia che si sarebbe occupata di lei e le avrebbe insegnato a diventare donna. Era un'adolescente fragile, impettita nelle sue vesti trasparenti, lo sguardo perso, gli scuri capezzoli e il nero vello del pube che aderivano al bianco tessuto di lino, sotto l'attento sguardo del suo primo cliente. Nell'alcova della Milesia si spogliò con indifferenza, senza grazia, quasi seguendo un rituale privo di significato. Un fremito di pudore, tuttavia, la fece rabbrividire. Lui aveva una trentina d'anni, di bella presenza, la barba curata, un'elegante tunica di lino e robusti calzari. Le sue dita affusolate la indussero a pensare che fosse molto ricco. Neobula lo spogliò fissandolo negli occhi, senza mostrarsi troppo compiacente, senza prestare eccessiva attenzione al suo bellicoso membro. Sorrise timidamente, solo un istante, prima che una brusca espressione dell'altro raggelasse quella sua civetteria. Una volta nudi, lui la mise carponi sul triclinio e le si piazzò dietro. La ragazza intuì che doveva curvare la schiena e sollevare le natiche. Davanti a lei c'era uno specchio di rame brunito in cui vedeva riflessa una confusa immagine di se stessa e, alle sue spalle, la sagoma dell'uomo, la mano che risaliva lungo l'arco della spina dorsale, come una lingua secca, in direzione del capo. Sentì che le spalmava del grasso tiepido intorno alla vagina, attardandosi in ogni piega, e d'improvviso avvertì un dolore, non nel sesso ma tra le natiche, che si faceva strada nel suo corpo, che la lacerava provocandole un bruciore insopportabile e le scioglieva le pupille. Sentì che le ginocchia non la reggevano e che lui la afferrava per l'attaccatura delle cosce, che la stringeva e la teneva sollevata, infilandole il membro sempre più in profondità, con una tale pressione sul corpo che una guancia aderì al rame dello specchio, e a quel punto lui spinse, spinse, spinse... La squarciava come un otre di cuoio mentre il triclinio scricchiolava, quasi fosse il lamento delle sue povere ossa. Dopo averle infilato l'intero sesso cominciò a rigirarlo: la penetrava convulsamente, con forti colpi di bacino, spingendo, spingendo senza smettere di sostenerla, con le unghie infilzate nella carne, e il peso del corpo che la opprimeva. Le braccia di lei avevano ceduto, incapaci ormai di reggere il tronco. Bruciante di dolore e umiliata, si lasciò andare alla violenza per uno spazio
di tempo che le parve un'eterna agonia. Finalmente, lui estrasse il pene dalle sue natiche, si lasciò sfuggire un grugnito di piacere e mollò la presa sulle cosce. Neobula si rannicchiò, ma immediatamente fu sollevata dall'uomo, che la afferrò per le spalle e la fece girare. L'agguantò per i capelli, le mise davanti agli occhi il pene ancora ritto, coperto di sangue e di merda, e le ordinò di aprire la bocca: apri la bocca! gridò. La giovane chiuse gli occhi e sentì, duro, in gola, il sesso caldo e il sapore del sangue e degli escrementi. Poco dopo, a tiepide ondate, sentì anche il gusto del seme. «Nel sesso è buono tutto ciò che fa male.» L'uomo si ripuliva i residui di sperma, schiacciando con una mano il glande arrossato, ancora tumido. «Adesso sì che sei una vera puttana.» Quelle parole furono peggio di uno stupro. Perché le tolsero anche il conforto morale di essere stata violentata contro la propria volontà. Così, rimase a piangere accanto al muro scrostato mentre il cliente usciva soddisfatto, e su di lei si posava una luce d'infamia. Nei giorni che seguirono si concentrò su come sopravvivere, nonostante tutto. Si sentiva infinitamente disgraziata e vulnerabile e non aveva amiche né una famiglia presso cui cercare conforto. Ben presto, tuttavia, trovò un sostegno nell'orgoglio, un orgoglio ardente come la brace, dotato di una forza a lei sconosciuta. Dal momento che la verginità non si perde in un sol colpo, ma per un progressivo sedimentarsi di delusioni, Neobula decise di bandire ogni residuo di innocenza, di estirparlo come un'erbaccia, assieme alla sua infanzia. Possedeva il suo corpo per vendicarsi degli uomini, negli anni a venire; un corpo che la rendeva desiderabile, il corpo di un animale erotico. Da quel momento, La Milesia sarebbe diventata il suo rifugio notturno, la sua scuola nell'arte di sedurre, cogliere l'attimo propizio e ferire, ferire. Annullare qualsiasi desiderio che non scaturisse dai sensi, qualsiasi sentimento che la rendesse debole, dipendente. Non farsi attrarre da un solo uomo, ma imparare a manovrarli a partire dal bassoventre, renderli schiavi del piacere che dispensava loro. Farli ardere di desiderio. Umiliarli. Avvinghiarli nelle sue spire come un serpente. Un animale dall'intelligenza impudica.
Quell'esperienza le insegnò anche tre cose che non avrebbe mai dimenticato. La prima, che la vita è dominio, e lei non voleva essere dominata. La seconda, che le natiche erano la parte più attraente del suo corpo. La terza era una massima: «Non andare mai di corpo prima di metterti al lavoro». L'uomo che violò la sua innocenza si chiamava Anito, figlio di Antemione. Diciotto anni dopo avrebbe esalato l'ultimo respiro in quello stesso bordello. Lo avrebbero trovato una mattina, poco prima dell'alba, disteso bocconi con un pugnale conficcato nel cuore fino all'impugnatura. II Quando Neobula vi entrò come apprendista etèra, La Milesia funzionava già da ben ventinove anni ed era in decadenza. Aveva conosciuto un'epoca dorata, come la città, poetica e misteriosa; da lì erano passati gli uomini più in vista di Atene e di città lontane, attratti dalla fama delle sue donne che, a quanto si diceva, erano uniche. Negli anni di vacche grasse che seguirono la sua fondazione da parte di Aspasia, il navigatore straniero che giungeva ad Atene poteva rifarsi dalle privazioni patite durante la traversata approdando in una casa d'appuntamenti appena messo piede nel porto del Pireo. Per la somma di un obolo gli si dava il benvenuto, e per un altro ancora poteva giacere con una prostituta schiava. Alcuni ateniesi, scherzando, dicevano che se Ulisse fosse sbarcato ad Atene durante il suo viaggio in mare, e avesse trascorso la notte in un postribolo del porto, non sarebbe riuscito a sfuggire agli artigli di quelle donne con la stessa facilità con cui si era liberato di Circe, Nausicaa e le altre maliarde, poiché non v'era malattia venerea contraibile da Cartagine fino al Chersoneso che quelle prostitute non trasmettessero. Se il viaggiatore era di gusti un po' più raffinati e ci teneva alla salute avrebbe evitato quelle che gli si offrivano sui moli e le scogliere della baia per proseguire, attraverso le Lunghe Mura, fino alle porte di Atene, dove nel quartiere Ceramico avrebbe trovato locali che servivano del buon vino di Chio e donne disposte a fargli dimenticare per una notte le penose rinunce del mare. Lì, per quindici oboli poteva incontrare un'amante pulita, profumata e più esperta nelle arti erotiche delle rozze puttane del porto. Ma se si trattava di un visitatore colto e distinto, e ben informato, avrebbe senza indugio voluto appurare la veridicità di certe meraviglie che si narravano della Milesia, la casa di malaffare con la miglior reputazione di tutta
l'Eliade. Situata sulle falde della collina delle Ninfee e vicina all'Areopago, era stata fondata da Aspasia di Mileto quando aveva diciannove anni. Esisteva solo un'altra famosa scuola per donne, creata da Saffo a Lesbo un secolo prima e ancora in attività. Da lì era passata Aspasia giovinetta per imparare la poesia, la musica e le arti del piacere. In quel luogo aveva concepito il sogno di raggiungere la città della sapienza e fondare una casa in cui le donne potessero rendersi autosufficienti e affrancarsi dall'autorità dei mariti. A sedici anni Aspasia era giunta ad Atene, accompagnata dalla sorella, da due nipoti e dal cognato, un ateniese che rientrava in patria dopo aver scontato una condanna a dieci anni di ostracismo. Aspasia possedeva i tratti orientali propri della bellezza ionica: pelle scura, volto ovale e occhi ardenti come il carbone, oltre a un'educazione raffinata. Le ioniche però godevano anche fama di essere adultere, avare e scaltre. Tutto ciò, all'inizio, contribuì a renderle impervio il cammino. Gli uomini, quando la udivano parlare con proprietà di linguaggio e discernimento, intuivano di trovarsi davanti a una donna speciale, inquietante, di cui era meglio non fidarsi. All'epoca non cercava né un marito né un amante. Aveva tanto e così precocemente goduto del sesso che, sin da giovinetta, il sesso per lei non possedeva più segreti. E quanto all'amore... per il momento non rientrava nei suoi piani. Desiderava innanzitutto completare il processo di formazione intrapreso dal padre che, prima di morire, le aveva consentito di penetrare i misteri della lettura, della scrittura e dell'euritmia. Conosceva tutte le figure della danza, da quella di corteggiamento a quella religiosa. Esercitare la professione di etèra non giovava alla sua reputazione, ma che altro poteva fare? Solo come etèra poteva accedere al mondo maschile dell'arte e della cultura. Per tre anni si guadagnò agiatamente la vita facendo l'accompagnatrice di simposi, animando agapi maschili negli andron e banchetti di nozze, insieme con altre modelle o danzatrici meno appariscenti, le cui doti erano esaltate dalla sua presenza. Per il solo fatto di essere nata donna veniva considerata una persona la cui esistenza era subordinata alle necessità dell'uomo; nel suo caso, dal momento che non aspirava al matrimonio né a formare una famiglia, era uno strumento del piacere maschile. Aspasia di Mileto riteneva che quella dell'etèra fosse una professione dignitosa, oltre che redditizia, e soffriva quando la trattavano da cittadina di seconda categoria, senza diritti, perché non si sentiva affatto inferiore agli
uomini. Sapeva di essere abbastanza intelligente da poter conversare con loro da pari a pari, ma come dimostrarlo se non gliene fornivano l'opportunità? Quando si rivolgeva agli uomini con parole che suonavano insolite sulle labbra di una donna, ne suscitava l'ilarità, poiché essi scambiavano la cosa per un artificio erotico, la finezza esotica di un'etèra di classe formatasi alla scuola ionica. È per questo che nei primi anni trascorsi ad Atene la giovane di Mileto dipese dagli uomini molto più di quanto avrebbe desiderato, non potendo fare a meno della loro considerazione e del loro rispetto. Anche la stima in se stessa era dovuta alla sua capacità di ottenere la fiducia delle persone che giudicava importanti e di integrarsi all'universo maschile. Lei, che per amor proprio odiava la sottomissione, si sottometteva senza saperlo, ed era proprio quella smania di distinguersi come donna speciale a renderla, in un certo qual modo, un facile bersaglio degli estri maschili. Ben presto si trovò un protettore. Aristocratico, sessantenne e vedovo, Conno era un amante del vino e delle donne, usuraio e proprietario di un vasto patrimonio. Amava riunire nella sua dimora personaggi illustri e colti, sia ateniesi sia stranieri, e conversare con loro nell'andron, non fosse altro che per essere considerato un uomo influente e dai gusti eccentrici. In quelle riunioni Aspasia di Mileto non era un addobbo né una coppiera; era invece un membro ben integrato, l'originale apporto di Conno volto a compensarne gli scarsi lumi. Lui si prendeva cura di una bella donna che, se le si concedeva la facoltà, sapeva parlare ed esprimere giudizi intelligenti sui temi di conversazione senza che la cosa risultasse sconveniente. L'anfitrione mostrava così ai suoi eruditi ospiti che lui pure era uomo di idee avanzate, il fortunato possessore di una rarità venuta dalla Ionia, cui riservava un trattamento speciale. Se il breve intervento di Aspasia era gradito dagli invitati, questi si complimentavano con Conno. Tutto ciò feriva l'amor proprio della giovane, che però si consolava ascoltando i discorsi di uomini cosmopoliti sui saperi di altri popoli e sulle culture del Peloponneso. Una volta Conno invitò un famoso sofista, Protagora di Abdera, considerato il più dotto dell'Eliade. Questi giunse accompagnato dal suo discepolo, Prodico di Ceo, un bellissimo giovane dell'età di Aspasia. Lei lo notò immediatamente; e quando i loro sguardi si incontrarono, entrambi ne furono turbati. Dopo il banchetto, in cui abbondarono ostriche e alici, si passò a discutere di politica, nella fattispecie del governo di Pericle, all'epoca capo dell'ala democratica. Uno dei commensali era Anito. Tra gli ospiti figurava
anche un giovane che aveva appena rappresentato con grande successo una commedia in teatro: Aristofane. Prodico di Ceo ricordava bene quel simposio sulla democrazia, nel quale i partecipanti si scaldarono più del dovuto criticando Pericle; tutti tranne il suo maestro, che ne elogiò lo spirito pluralista e la capacità di dar vita, per la prima volta, a un regime rappresentativo della volontà popolare. Un ideale umanista: la fine di signori e sudditi. Reprimendo educatamente un rutto, Aristofane replicò: «Amici miei, chi di voi viene da fuori ammira la democrazia ateniese come un qualcosa di esotico e raffinato», disse rivolto a Protagora. «Quasi non facessimo altro che infilare barbe e fave nell'urna per decidere su questo e su quello, ed esclamare: guarda che Stato avanzato! Ogni cittadino esprime il proprio parere ed è partecipe delle decisioni, non vive sotto il giogo di un tiranno. Forse credete che per questa ragione siamo tutti istruiti nell'arte della politica e di governare; in realtà non abbiamo la più pallida idea di ciò su cui votiamo. È ridicolo pretendere che il popolo decida tante cose, quando quello che lo preoccupa davvero è se la cavalla è incinta o se le galline del vicino depongono più uova.» «Hai proprio ragione», lo elogiò Conno. «Non capisco», affermò Anito, «perché dicono che Pericle sia tanto intelligente. Un uomo accorto non delegherebbe mai le decisioni importanti al popolo. Nulla, infatti, è più pericoloso che consultare gli altri.» «È il prezzo della rappresentatività», obiettò Protagora. «La concordia cittadina e l'uguaglianza si fondano sulla partecipazione. In caso contrario, il popolo capirebbe che si governa senza prenderlo in considerazione.» «Il popolo è ignorante e primitivo», disse l'anfitrione, «e raramente sa cosa gli conviene.» «Allora», replicò Protagora, «bisognerà trovare un equilibrio nella rappresentatività: quanto può e deve partecipare il popolo alle decisioni dei suoi governanti? Un eccesso di partecipazione è forse nocivo tanto quanto il disprezzo dell'opinione cittadina da parte dei dirigenti.» Il ragionamento non piacque alla maggioranza dei presenti, più propensa ad appoggiare la tesi di Conno: bisognava depurare quel governo dagli intrusi e cedere il timone a uomini capaci di dirigerlo con polso ferreo. Ma a chi affidare la guida? I partecipanti propendevano per gli uomini ricchi e influenti della città, gli aristocratici. Protagora obiettò che l'unica aristocrazia in cui credeva era quella dell'ingegno. Conno sostenne la tesi secondo cui un buon governante doveva elevare
le ambizioni del popolo, subdolo e mosso da interessi meschini. Tale opinione era condivisa dai più. «È quel che sta facendo Pericle», disse Protagora. «La città è cambiata. L'ho vista mutare negli ultimi anni e non è mai stata fiorente come oggi. Possibile che non ve ne rendiate conto?» «Ha più monumenti», ammise Aristofane. «Hanno eretto un bellissimo tempio all'ingresso dell'Acropoli. Costato carissimo, a onor del vero. Ma bisogna dare atto che la statua di Atena ha due splendide tette. Ogni volta che ci passo davanti ammiro l'arte di Fidia.» «Tu metti in scena commedie perché c'è la democrazia», continuò Protagora. «E se siamo qui a criticare Pericle è proprio grazie a essa. Perché la democrazia porta con sé uguaglianza e libertà.» «Libertà, uguaglianza, bah!» Conno fece una smorfia. «Sono solo parole. Tanto per cominciare, perché le pronunciate sempre in coppia? L'una esclude l'altra. Se sei libero, non aspiri a diventare uguale agli altri. Aspiri a essere superiore.» «In quello consiste il difficile equilibrio», sorrise Protagora. «Sono libero di esprimere le mie opinioni qui, però non per questo mi arrogo il diritto di imporle.» Prodico di Ceo non parlava, ma ascoltava la conversazione senza lasciarsi sfuggire una virgola. Era troppo turbato dalla bellezza di Aspasia, più defilata, in secondo piano, pronta a servire il vino prima che le coppe si svuotassero. Prodico era certo che pure lei seguisse la discussione e capisse ogni parola. «Caro Protagora», diceva Conno, «tu che hai tanto viaggiato, consideri uguali uno schiavo e un meteco, un meteco e un uomo libero?» «Uguali per natura, diversi per condizione sociale, secondo le norme imperanti. Ma le norme cambiano. E un giorno lo schiavo si ribellerà al padrone. È un suo diritto naturale.» Quest'ultima osservazione riscaldò l'ambiente. Anito additò Protagora quale pericolosa incarnazione dell'ideale democratico: un uomo che spalancava le porte al caos. Lui, al contrario, si definì partigiano di un'oligarchia organizzata e autoritaria, sempre preferibile a una tirannia perché in grado di neutralizzare l'ambizione di un solo uomo. Prodico esemplificò questo concetto richiamando l'attenzione su ciò che accadeva quando si gettava un osso tenero a quattro cani affamati. «L'unica differenza tra una tirannia e una democrazia», disse Aristofane, «è che nella prima siamo governati e nella seconda burlati. Governati o
burlati, questa è la nostra libertà di scelta.» «Verso quale regime politico propendi, dunque?» gli chiese Anito. «Nessuno. È un tema che non mi interessa. Non parlo mai di politica. Almeno tra gente perbene.» Scoppiarono tutti a ridere. Aristofane proseguì, molto animato. «Immaginiamo di essere d'accordo nell'eliminare questo gran guazzabuglio della politica e di formare un gruppo, proprio qui, in questa bellissima casa, di dar vita a una piccola società giusta, egualitaria e soprattutto senza politica. Aboliamo ogni tipo di gerarchia, d'accordo? Nessuno comanda, nessuno obbedisce, comandiamo tutti insieme, ci responsabilizziamo reciprocamente. Sapete cosa accadrebbe?» Guardò i presenti. «In men che non si dica ci organizzeremmo di nuovo e voteremmo per chi debba pulire la casa, dar da mangiare ai cavalli, occuparsi degli acquisti, comandare o obbedire.» «La tua proposta mi piace», replicò Conno, «ma vorrei sapere che tipo di decisioni dovremmo prendere in questa piccola società.» «Se funziona come si deve», affermò Aristofane, «potremmo votare se entrare o meno in una guerra intricata.» «Bene. Io voterei a favore», disse Anito. «Potremmo votare», proseguì Aristofane, «se ammettere o meno nuovi membri nella nostra società, o anche solo più cavalli nelle scuderie. Alcuni sceglierebbero più uomini, altri più cavalli. Soluzione? Centauri.» In quel clima festoso, Aspasia non si trattenne dal dire la sua: «E le donne avrebbero una rappresentanza in questa piccola società o servirebbero solo a darvi dei figli?» Le risate cessarono d'un tratto. L'inatteso intervento fece sì che, all'unisono, gli ospiti si girassero verso di lei, come se avesse appena mandato in frantumi un prezioso cratere. Sugli astanti scese un imbarazzante silenzio. «Scusatela», si affrettò a dire Conno con un sorriso forzato, «è ancora molto inesperta, ma guardate come è bella.» «Cosa volevi dire?» chiese curioso Protagora. «Che la democrazia dovrebbe riguardare anche noi», ribadì lei. «Anche questo dovremmo metterlo ai voti», esclamò Aristofane per rompere il ghiaccio. Nessuno, però, era più interessato alle battute del commediografo. I due sofisti fissavano la giovane come se avessero appena udito una musica miracolosa. «Puoi anche fornirmi un valido perché?» domandò Conno irritato.
Guardando Prodico, Aspasia ribatté senza esitazioni: «Be', perché siamo la metà della popolazione. Ed è un errore credere che ci siano abbastanza uomini capaci». I sofisti rimasero piacevolmente impressionati dal commento. «Era da tempo che non udivo un'idea tanto originale», affermò sorridendo Prodico. «Ed è ancora più credibile perché l'ha espressa una donna», dichiarò Protagora. Conno non sapeva più che dire. In parte era compiaciuto perché la cosa lo riguardava, ma era anche convinto che Aspasia avesse esagerato, e riteneva offensive le sue parole. Chiese un parere ad Aristofane, e questi replicò che quella donna straordinaria gli aveva appena ispirato l'idea per una commedia. E la sua risposta, nient'affatto una battuta, fu accolta dalle risate di Conno e Anito. III Era la prima volta che Aspasia si sentiva trattata come si deve da quando era arrivata ad Atene, due anni prima. Il giorno dopo il banchetto nel salone di Conno ricevette, inaspettata, una visita di Prodico. Le portava in dono un manoscritto di Protagora. Secondo lei era un onore eccessivo e, naturalmente, immeritato. Prodico mostrava un insolito interesse per Aspasia, e non solo perché era molto bella: lo intrigava l'idea di un'intelligenza tanto sofistica incarnata in una donna. Le ripercussioni di questa scoperta comportavano l'estensione del concetto di uguaglianza. La formazione autodidatta di Aspasia dimostrava, in primo luogo, la fallacia della supremazia maschile e la conoscenza incompleta della natura umana e delle sue potenzialità. D'ora in poi - aveva scherzato Protagora - dovremo trovare anche delle alunne, se non vogliamo perpetuare l'errore. Non rimasero soli a lungo; il tempo necessario, tuttavia, perché nei due si accendesse una fiammella che non si sarebbe mai più spenta. Nello spiegarle come un uomo diventava sofista, Prodico le rivelò la tecnica che utilizzava il suo maestro per accettare un discepolo: verificava se era dotato di senso logico. Protagora gli consegnava un piccolo rotolo su cui aveva scritto: L'AFFERMAZIONE CONTENUTA SUL RETRO È FALSA
E sulla facciata opposta comparivano le parole: L'AFFERMAZIONE CONTENUTA SUL RETRO È VERA Era sufficiente osservare la reazione di chi leggeva. Prodico sottopose Aspasia alla prova, e lei, dopo aver letto entrambi i lati, scoppiò a ridere. «È una cosa assurda. È impossibile!» esclamò. Prodico ribatté ammirato che la considerava già una sofista. La prima donna sofista. L'esame, infatti, si proponeva di verificare se l'aspirante coglieva il controsenso insito in quelle frasi e, soprattutto, se si dilettava nell'affrontare bizzarrie di natura logica e paradossi. Aspasia si sentì assai lusingata, e vagamente imbarazzata, da un simile complimento. Per sviare la conversazione dalla sua persona gli chiese se anche lui, come Protagora, avesse scritto qualche testo. Prodico le rispose che, qualora lo avesse composto, la sua prima lettrice sarebbe stata lei. «Hai un ulteriore motivo per scriverlo, adesso, perché lo aspetterò con avidità», dichiarò Aspasia. E con queste parole i due giovani si accomiatarono. Prodico e Protagora dovevano infatti lasciare Atene quello stesso giorno, per incontrarsi a Leontini con un altro sofista. La loro visita aveva acuito in Aspasia il desiderio di cultura: voleva essere all'altezza di quegli uomini. La notte, alla luce della lampada a olio, leggeva di nascosto le principali opere della biblioteca di Conno, molte delle quali erano un dono degli autori stessi, come Anassagora o Sofocle, che lei ammirava fino alla devozione. Il suo spirito era come una spugna che assorbiva tutto e godeva dei minimi dettagli. E tanto più imparava tanto maggiore era la sua sete di conoscenza. Fu sempre durante un banchetto organizzato da Conno che Aspasia incontrò Fidia. Era un uomo introverso, concentrato sul proprio lavoro e poco socievole. Lei nutriva un'ammirazione reverenziale per il suo talento. Anche se fisicamente le pareva brutto e sproporzionato, essere toccata da quelle mani che scolpivano gli dei, rendendoli ancora più belli, la faceva sognare a occhi aperti. All'inizio, quando la conobbe, Fidia si mostrò assai più interessato all'aspetto di Aspasia che non alle sue parole e ai suoi modi. La invitò nella casa-studio ai piedi della collina dell'Areopago e, una volta lì, la spogliò per-
ché posasse come modella per una scultura che raffigurava Afrodite. Lei parlava senza sosta. Quel luogo immerso in uno strano e creativo disordine, pieno di opere incomplete, di figure divine che affioravano da blocchi di marmo o da bozzetti in argilla, le provocava un'eccitazione incontenibile. Aspasia gli rivelava le mille sensazioni suggeritele da quelle sculture, da quell'arte eccelsa che le inebriava lo spirito. Ma Fidia non partecipava all'entusiasmo dell'amica, e, di fatto, non provava il benché minimo interesse né attaccamento per le opere già terminate. Le considerava modelli per sculture a venire e se ne liberava appena poteva, concentrandosi piuttosto su come realizzare progetti futuri, sempre più complessi. Aveva licenziato la maggior parte degli apprendisti, compresi quelli dotati di grande talento, perché non aveva la pazienza di seguirli, di spiegare loro la differenza tra ciò che facevano e ciò che avrebbero dovuto fare. Tutto sommato, perdeva più tempo a correggere i loro errori che a occuparsi personalmente di tutte le commissioni. Aspasia e Fidia divennero intimi esclusivamente sul piano fisico. Lei sentiva di essere considerata solo una bella donna, che gli dava piacere a letto e che posava per lui. Fidia ascoltava con la massima attenzione tutto ciò che Aspasia diceva, purché non riguardasse le sue opere; ma non dialogava con lei. Aspasia si convinse che la riteneva troppo ignorante per discutere sul serio di un qualsiasi argomento. La cosa l'affliggeva, tuttavia accettava, docilmente, la sua superiorità e ci andava a letto quando glielo chiedeva. In fin dei conti, era un privilegio avere rapporti con un genio di quel calibro, anche se così brutto e taciturno. A volte le sembrava di parlare con un dio muto, in grado di far sgorgare dalle proprie mani la bellezza più pura, e insieme incapace di sostenere una normale conversazione. Un giorno si ribellò. «Ti sei accorto che non sono soltanto un'etèra?» gli disse. Fidia restò a bocca aperta e le confessò che la considerava molto più intelligente e brillante di lui, tanto da metterlo in soggezione e da impedirgli di esprimersi con scioltezza. «Allora perché mi cerchi soltanto per avventarti su di me?» gli domandò. «Che altro posso fare?» rispose lui, serissimo. Aspasia di Mileto non aveva origini patrizie e non godeva del diritto di cittadinanza. Era donna, ancora nubile a diciotto anni, forestiera e, oltretutto, ionica. Non aveva una famiglia alle spalle. Con queste credenziali le possibilità di prosperare erano scarse, e più ridotte ancora quelle di conqui-
starsi una certa rispettabilità come cittadina. Tuttavia aveva due assi nella manica: stava accumulando un bel gruzzoletto e custodiva il segreto che più intrigava la sensibilità ateniese. Il senso della bellezza. Negli anni in cui rimase sotto l'ala del suo mentore guadagnò quanto bastava per rendersi indipendente e avviare una propria attività, che le avrebbe permesso di abbandonare la professione di etèra e ottenere così un maggior riconoscimento sociale. La sua idea di creare una scuola per etère di lusso che insegnasse anche a leggere e scrivere, cosa rara per le donne, contrastava a tal punto con le usanze e le tradizioni della polis che da subito Aspasia incontrò ostacoli pressoché insormontabili per ottenere la licenza di apertura del locale. Scrisse una lettera a Protagora, e questi nel giro di una settimana si presentò accompagnato da Prodico per perorare la sua causa. I sofisti convocarono gli uomini più influenti della città, compresi Fidia e Pericle. Per l'occasione si attivarono anche Gorgia e Ippia, altri due sofisti, e fra tutti esercitarono la loro influenza sul Consiglio, dissipando i sospetti e dimostrando che il progetto di Aspasia conveniva agli interessi di Atene e alle casse dello Stato poiché avrebbe richiamato i più ricchi mercanti stranieri. Grazie a un tale appoggio, l'idea infine prese forma, e Aspasia fondò una casa che superava ogni più rosea aspettativa. Raggiante di felicità e infinitamente grata agli amici, che non avrebbe voluto deludere per nulla al mondo, si propose di dare al locale un aspetto ricercato, pulito e raffinato, che favorisse tanto lo svago dei sensi quanto la musica, la poesia, la conversazione e la buona compagnia; un luogo in cui le etère non fossero schiave ma vere e proprie compagne, amiche e dolci amanti, brave musiciste e ballerine, capaci di dispensare consigli per alleviare una pena, e anche di offrire una spalla su cui piangere o, semplicemente, una notte di folle piacere. Trasmise alle giovani alunne le sue ampie conoscenze in fatto di storia, astrologia, filosofia e geometria, la scienza fondata dal suo compatriota Talete. Ben presto il locale divenne tanto famoso che Aspasia dovette ingrandire la sua corte di donne per soddisfare le richieste di una crescente clientela. Molte giovani provenivano da Mileto, nelle cui scuole avevano ricevuto una prima formazione intellettuale. La stanza più celebrata della Milesia era il salone della poesia lirica, dove si combinavano in modo insolito poesia, musica, danza e sesso. E si diffuse un detto: Atene può vantasi dell'Acropoli, e la città bassa della Milesia.
Perfezionare lo stile delle cortigiane della sua casa fu per anni l'occupazione di Aspasia. In realtà aveva in mente qualcosa di ben più ambizioso che la creazione di un lupanare esotico o raffinato: voleva dichiarare guerra al gineceo, alla schiavitù della donna cosiddetta libera, voleva lanciare un messaggio di ribellione che squarciasse la penombra delle dimore raggiungendo gli angoli muti in cui le donne sfacchinavano anonime. Voleva rivolgere un appello alle persone che governavano le case e le famiglie vivendo a mo' di recluse, ignorate dagli uomini. Voleva anche dimostrare che le donne istruite potevano competere con gli uomini nelle arene dell'intelletto, da cui invece erano sempre state escluse perché considerate inferiori per natura e condizione, e spezzare il giogo che le sottometteva all'economia maschile. Intendeva rendere manifesto che le donne potevano essere più intelligenti, più colte, che potevano parlare meglio e avere opinioni più ponderate sui temi riguardanti la città e il governo. Il suo sogno non era solo quello di aprire una scuola per etère, ma anche una scuola femminile, che fosse frequentata da nubili e sposate, piantando così il primo seme di ribellione a partire dal sistema di trasmissione della cultura ideato dai sofisti. Questo era il progetto. E La Milesia sarebbe stata il primo posto in cui le donne avrebbero dominato gli uomini, sfruttandone i bassi istinti e le passioni ataviche, catturandone le confidenze e impadronendosi delle chiavi del potere. Oltre alle arti di Afrodite, Aspasia insegnava loro belle maniere, discrezione, retorica, poesia, musica, canto e danza, nonché i segreti della cosmetica e del trucco. La sola incombenza domestica di cui le discepole si occupavano era confezionare preservativi con budella bovine. Aspasia sceglieva soltanto donne libere e molto giovani, non intaccate dal lavoro o dalla malattia. Non chiedeva denaro per accoglierle, né per finanziare l'educazione che ricevevano: semplicemente la promessa che in un futuro le avrebbero versato l'intero guadagno del primo trimestre di lavoro. Era un investimento intelligente, e ben presto le etère godettero del privilegio di gestire un'attività redditizia senza ricorrere alla mediazione di un solo maschio. Già allora, grazie all'amicizia con Fidia, Aspasia aveva conosciuto Pericle, il capo del governo. Lo scultore era stato coinvolto nel più ambizioso dei suoi progetti: erigere sull'Acropoli un tempio consacrato ad Atena, che fosse al tempo stesso un simbolo della città e della saggezza. Era il Partenone il sogno vagheggiato da Pericle, l'opera che avrebbe completato il suo
grande progetto di riforma di Atene, per quanto non fosse che un abbozzo, un'idea ancora informe. Si confidò con Fidia, l'unico in grado di realizzarla (non importava a che prezzo), e con più entusiasmo che competenza riuscì a coinvolgere il riluttante scultore; che giorno dopo giorno fu contagiato dalla grandiosa visione del tempio, fin quando non la introiettò completamente. Aspasia trascorreva intere notti a casa di Fidia e vedeva i due discutere per ore e ore, esaltati, i progetti e i piani che man mano questi sottoponeva a Pericle. Per lei era un piacere ascoltarli. Il politico non capiva i termini tecnici utilizzati dall'artista ma, a forza di farseli spiegare con parole semplici, riusciva a interpretare i disegni, e, attraverso lui, anche Aspasia cominciava a immaginare quel tempio meraviglioso. Pericle era così preso dal lavoro che all'inizio si accorse a malapena della sua presenza. Solo il giorno in cui salirono sull'Acropoli a fare sopralluoghi e a tracciare le prime linee immaginarie sul terreno notò quella compagnia femminile, della quale sapeva soltanto che era l'amante dell'amico. «Che tipo di donna è?» chiese a Fidia in via confidenziale. «Descriverti Aspasia è più difficile che spiegarti i progetti del Partenone. In realtà, non la capisco proprio.» Quanto accadde non fu un atto premeditato, né lei coltivò mai, neppure per un istante, alcuna fantasia su Pericle. All'epoca Aspasia, ormai integrata e con un lavoro ben avviato, si abbandonava al corso degli eventi senza più rompersi il capo per voler interpretare il presente e tenere sotto controllo il futuro. Si lasciava andare. Tutto accadeva d'improvviso come se la Fortuna, generosa, avesse deciso di donarle un'infinità di sorprese, nuovi amici, giornate in gradevole compagnia. Insomma, era raggiante di felicità. Aveva raggiunto il più alto grado di libertà e autonomia cui potesse aspirare. Dunque, quasi senza accorgersene, sentì che Pericle l'amava. E che lei, nel suo cuore, lo corrispondeva. IV Il sofista Prodico di Ceo si dedicò per un intero anno alla stesura del suo primo libro, incentrato sul pensiero del maestro Protagora di Abdera. Aveva vent'anni e solo da poco, conquistata una sufficiente autonomia intellettuale, non ne era più il discepolo. L'impronta lasciatagli da Protagora, tuttavia, era così profonda che la sua più alta dimostrazione di gratitudine fu
scrivere su di lui. Dopo aver imparato tutto ciò che un discepolo può imparare dal migliore dei maestri, per assomigliare a questi gli mancava qualcosa che trascendeva ogni possibile magistero: quelle qualità interiori tipiche di un uomo riconciliato con la vita qual era Protagora, nonché una serena accettazione che si spingeva ben al di là della ragione e della conoscenza, caratteristica quest'ultima che Prodico non avrebbe mai ereditato da lui, per quanti sforzi facesse e indipendentemente dagli anni che avesse trascorso al suo fianco. Protagora era solito dirgli che possedeva un istinto tragico inespresso, una qualità, a parer suo, atta a cogliere il versante doloroso della natura umana e, al tempo stesso, un'incapacità ad agire con compassione. Forse il distacco scettico dal mondo, unito alla mancanza di una certezza capace di guidare il comportamento degli uomini lungo la retta via - e qui coincideva con Protagora -, non dotava Prodico della serena indifferenza del sofista di Abdera, quanto piuttosto di un desiderio di ribellione frustrato, di una mal digerita rassegnazione. Per tutto il tempo in cui si chiuse nella sua casa sull'isola, studiando e preparando i plichi, non smise mai di pensare alla donna straordinaria che aveva conosciuto ad Atene e a cui aveva promesso di consegnare il manoscritto una volta terminato. Era lei la fiamma che brillava nell'oscurità della sua mente quando soccombeva allo sconforto, o quando la lotta ingaggiata con le parole gli sembrava superiore alle proprie forze. Era convinto che l'esistenza di una simile donna fosse sufficiente a giustificare tale sforzo. E non voleva deluderla, pur pensando a volte che lei si fosse dimenticata della promessa. Allora, forse, non avrebbe scritto altro. Paradossalmente, allorché ebbe terminata la sua opera, cominciò a chiedersi se fosse una buona idea sottoporla all'attenzione di Aspasia. Lui stesso non era del tutto convinto del risultato o, in ogni caso, non era sicuro che aderisse ai suoi propositi iniziali, agli obiettivi che si era posto. Soprattutto, lo inquietava l'idea di deludere le aspettative dell'amica. Prodico correggeva senza sosta il testo, lo controllava, e quanto più lo analizzava più lo trovava pieno di difetti. Del resto, erano trascorsi anni dalla promessa fatta ad Aspasia. Su tutto questo meditava quando gli giunse la notizia che la giovinetta che un tempo animava i banchetti in casa di Conno era diventata la sposa dell'uomo più importante della città. Prodico sprofondò in un cupo sconforto.
Non riusciva a capire perché la notizia lo avesse colpito tanto, quali aspettative inespresse avesse deluso. D'un tratto, abbandonò il proposito di far conoscere il libro, e persino di scriverne altri. Rimproverava a se stesso di non essersi voluto accorgere dei propri sentimenti e di non aver agito di conseguenza, invece di ritirarsi sull'isola di Ceo a scrivere. La decisione di Pericle di convolare a seconde nozze con una donna tanto discussa sconcertò gli ateniesi. Senza contare che Aspasia non era una moglie come le altre. Rispettata e amata dal marito, godeva di una libertà e di un'autonomia impensabili per qualsiasi altra sposa. Invitava a casa gente colta e distinta, frequentava chi voleva, passeggiava per la città con le sue schiave, ostentando indipendenza e libertà. Partecipava a riunioni rigorosamente riservate agli uomini e si dedicava ad attività non appropriate alle femmine. E non solo Pericle sembrava considerare la moglie una sua pari, ma lei si comportava come se davvero lo fosse. In pubblico e in privato si salutavano con un bacio. Le opinioni su questo e altri aspetti della vita coniugale alimentavano le polemiche. In ogni caso, la libertà e la considerazione di cui godeva Aspasia da parte dell'autocrate era ritenuta una dimostrazione di debolezza, sconveniente per un capo dello Stato, nonché un'offesa alle tradizioni. Il settore più conservatore, fautore dell'oligarchia, approfittò dell'occasione per gettare discredito sulla democrazia e lanciò una campagna contro Pericle fondata sul suo rapporto con la milesia, soprannominata «la prostituta ionica». Era lei che, nell'ombra, governava Pericle, e dunque per estensione Atene, trascinandola in campagne militari contro il nemico lacedemone. Aspasia veniva descritta come una donna scaltra e ambiziosa, vorace nel sesso e in ogni altro aspetto della vita. Inoltre quel matrimonio era la prova della sfrenata lussuria di Pericle, della sua volontà malata, schiava dei piaceri della carne. Questa interpretazione filtrò a poco a poco nelle pieghe della società ateniese, e i poeti comici ne approfittarono per lanciare invettive sarcastiche e diventare famosi con battute in cui lo statista era dipinto come un fantoccio, strattonato per il membro eretto da una mano di donna dotata di unghie lunghe e ben curate. Gli era concesso, questo sì, l'onore di un pene ben ritto:
Con l'ispida scrofa si maritò Pericle più esperta in certe arti della perversa Circe, ella impugna il bastone del comando e un nodo ionico gli stringe con perizia somma. L'obiettivo era palese: collocare Pericle sul banco degli imputati per annientarlo politicamente. Non sarebbe stato facile senza prove dirette, considerando per giunta l'appoggio popolare di cui ancora godeva e la sua grande abilità di oratore. Invece, bastava qualche maldicenza per sottoporre a giudizio una donna. E se ad Aspasia non era permesso sostenere le proprie ragioni, chi avrebbe mai avuto l'ardire di pronunciare un discorso in sua difesa? Il marito, naturalmente. Concretamente, si accusava Aspasia di empietà, di corrompere il coniuge e di procurare donne libere - spose di altri ateniesi - a Pericle. Quel processo, orchestrato dai circoli più reazionari, aprì ferite politiche e scatenò una ridda di opinioni nei vari settori ideologici, allungando le prime ombre infamanti su un regime che l'autocrate aveva nobilitato col suo mandato. I nemici non si erano sbagliati. Giocandosi il tutto per tutto, Pericle si presentò in tribunale. Gli accusatori erano i poeti comici Ermippo e Stesicoro, due tra coloro che avevano tratto maggior profitto dagli avvenimenti. Pericle non era disposto a fare da comparsa: invece di abbassarsi a difendere il buon nome della moglie, dimostrò che quello era un processo contro la democrazia, un piano per minare la fiducia del popolo nel suo rappresentante; dal momento che non avevano trovato prove convincenti contro il suo modo di governare, utilizzavano argomenti pretestuosi, meschini e volgari, esponendosi loro stessi al ridicolo. Recitò in pubblico i versi più osceni dei suoi accusatori, che si ergevano ora a giudici del buon gusto e a censori della sfrenatezza sessuale. L'effetto fu devastante: Pericle aveva imparato a memoria interi poemi e la sua selezione fu impeccabile. Un amico gli aveva procurato alcuni manoscritti dei suoi accusatori che, per essere troppo licenziosi, non avevano mai visto la luce. Nell'arringa egli non trascurò alcuno stratagemma, alcuna volgarità. Dopo aver fatto appello allo sdegno e allo spirito patriottico degli ateniesi, terminò il discorso con il più persuasivo dei linguaggi: il riso. Ermippo e Stesicoro non si sarebbero mai sognati di suscitare una tale caterva di risate. Avevano toccato l'apice della fama. Aspasia fu assolta e Pericle riuscì a far breccia anche nei cuori più duri.
V Erano gli anni cupi della grande guerra. Giunse anche l'epidemia che flagellò Atene. La peste portava i topi, o i topi portavano la peste. Arrivavano a ondate, da ogni dove, entravano nei granai, fuggivano dalle fattorie incendiate, risalivano le mura della città, si disperdevano per le strade tra il fetore dei rifiuti, si riproducevano negli angoli bui, nei sotterranei e nelle cantine, sotto i letti dei malati, nelle stanze che puzzavano di piaghe e sudore; correvano sulle travi, infettando ogni cosa. Gli uomini partivano per il fronte a combattere contro i lacedemoni e tornavano per essere sepolti nei dintorni della città, oltre le mura. Vi furono incendi, saccheggi. Il commercio marittimo fu praticamente soffocato e, come fiumi in piena, le disgrazie si rovesciarono su Atene. Sfinita da una guerra interminabile, la città era sempre più incalzata dagli spartani e dai nemici interni. Bisognava trovare un colpevole. L'uomo che il popolo aveva amato e venerato, Pericle, morì senza gloria e senza onori, vittima della peste. Fu pianto in una sobria cerimonia funebre cui anni prima avrebbero assistito centinaia di persone: amici, famigliari della stirpe alcmeonide, compagni dell'ala democratica, magistrati... tutti coloro che erano stati al suo fianco, lavorando ai suoi progetti e apprezzandone le doti personali. Non sarebbero mancati, in quanto atto ufficiale, neppure il Collegio degli Strateghi e degli arconti e una rappresentanza della Bulè. Atene, tuttavia, aveva perso la memoria. E quell'indizio di sventura calò come una spessa nebbia sui sentimenti della cittadinanza. Si mormorava che l'ambizione e l'arroganza di Pericle avessero provocato le ire di Zeus, signore di tutte le pesti, tormente e calamità. Pochi ormai ricordavano l'uomo che aveva fondato uno Stato sulla ragione, il geniale oratore, il politico di idee liberali che aveva coltivato il sogno di una grande città abitata da individui padroni del proprio destino, emancipati dall'arbitrio degli dei. Aspasia cadde in uno stato di profonda afflizione. La nomina ad ambasciatore di Ceo aiutò enormemente Prodico a superare la profonda delusione sentimentale. La sua carriera diplomatica ebbe inizio nel preciso momento in cui l'Egeo era un brulichio di conflitti tra due fronti in guerra. Quell'isoletta dell'arcipelago delle Cicladi, appena un porto di transito, per via della sua appartenenza alla Lega di Delo e dell'alleanza con Atene, si era ritrovata negli ultimi decenni al centro dello scena-
rio della contesa navale. Inoltre, situata in mezzo al mare, occupava una posizione strategica nella lotta per il controllo delle rotte commerciali. E lì, pur insignificante, resisteva come una rocciosa Cariddi che emerge dalle acque per affrontare l'impeto dei flutti e dei venti furiosi. Da ambasciatore, Prodico scoprì che la politica era il miglior antidoto contro la nostalgia. Dimenticava le delusioni sentimentali quando era impegnato nelle missioni diplomatiche, intento a risolvere gli infiniti contrasti sulle frontiere emerse dai nuovi equilibri di potere. In quei casi, la sua unica preoccupazione era parlare come Protagora gli aveva insegnato, ricorrendo all'arte della persuasione per convincere gli uomini da cui dipendevano i destini dei popoli a stringere alleanze e a trattare accordi di sovranità. Aveva nostalgia di Atene, ma le allarmanti notizie sulla pestilenza lo dissuadevano dal proposito di recarvisi. Poi un giorno giunse nella tranquilla isola delle Cicladi la notizia della scomparsa di Pericle, e Prodico ricominciò a tormentarsi per Aspasia. Suppose che per lei quella morte fosse stata un duro colpo, visto tutto ciò che le sottraeva: l'amore del marito e il grande progetto cui consacrava il suo talento. Decise così che era giunto il momento di farle una visita di cortesia per presentarle le condoglianze, offrirle il suo appoggio e consegnarle un dono, mantenendo la vecchia promessa di quando si erano conosciuti. Progettata dall'architetto Ippodamo di Mileto, la villa di Aspasia era tra le più belle e ammirate della città. Sorgeva a ovest della via Panatenaica, nei pressi dell'agorà. Era orientata a mezzogiorno e vi si accedeva attraversando un giardino con un pozzo e numerosi capanni per gli schiavi, situati accanto alle scuderie. Da fuori sembrava formata da tre case unite tra loro, che poggiavano su altrettante colonne in muratura, con i tetti ad altezze diverse. All'interno si veniva accolti da una quiete marmorea. Le feritoie dei lucernari erano in marmo pario, così trasparente da setacciare la luce rifrangendola in mille bagliori rosati. I saloni erano decorati con mosaici e colonne ioniche e numerose erano le sale per i banchetti situate ai due estremi della casa. Aspasia di Mileto accolse il sofista con tale calore da riaccendere in lui le antiche speranze. Non solo non si era dimenticata della promessa, ma aspettava con ansia che lui la mantenesse. Prodico la vide ancora più bella di come la ricordava, circonfusa da un'aura di serenità, frutto dell'età più matura e dell'aver superato una terribile crisi. Lei aveva fatto appello a tut-
te le proprie forze per non soccombere, e in quel momento avvertiva il gran vuoto lasciato dagli amici. La visita di Prodico sortì dunque l'effetto di un raggio primaverile che squarcia le brume dell'inverno. Prodico di Ceo, che aveva pensato di fermarsi un solo giorno, si trattenne invece nell'accogliente villa tutto l'inverno di quell'anno. Il suo amore per Aspasia era una fiamma viva. Forse perché si sentiva attratto dalle persone che dedicano la vita, con impegno e coraggio, a progetti irrealizzabili. Fuori, la peste, sempre in agguato, scoccava i suoi invisibili dardi. La casa era quotidianamente disinfettata con secchi di acqua bollente, come aveva prescritto il medico di Aspasia; tende e tessuti erano stati bruciati, sacrificati i cavalli, pulite le scuderie, e gli schiavi che uscivano a fare acquisti si coprivano la bocca con bende; quando rientravano restavano alcuni giorni sotto osservazione, in uno spazio loro riservato. Nelle strade regnava la paura, la gente cercava di stare fuori il meno possibile, ma anche così l'epidemia decimava la popolazione senza concedere tregua. Molti si sentivano più sicuri a combattere in mare e si univano alle truppe che morivano affrontando i lacedemoni. Si facevano offerte agli dei per placarne le ire. Sul finire dell'inverno la peste si era allontanata, ma nessuno poteva prevedere quando sarebbe tornata. Aspasia volle instaurare con il suo ospite d'onore rapporti diversi da quelli che aveva intrattenuto con gli altri uomini. Avevano entrambi trentasei anni: si lasciavano alle spalle la stagione dell'eccitazione impellente. Lei desiderava che la loro intimità non trascendesse dal piano spirituale e che il piacere della conversazione non fosse adombrato dal piacere dei corpi. Si sentiva attratta da Prodico, ma sapeva che anche quello slancio, come molti altri, si sarebbe ben presto trasformato in banale abitudine se lo avesse trattato alla stregua degli altri uomini. Ignorava l'opinione di Prodico al riguardo e non ebbe mai il coraggio di chiedergliela. Nemmeno lui, del resto, mosse passi decisi in direzione di un avvicinamento fisico: non la disturbava quando sapeva che si stava spogliando o era immersa in un bagno ristoratore, e non bussò mai alla sua porta quando era certo di trovarla a letto. Eppure gli sguardi di entrambi tradivano la bramosia. Aspasia, poi, era ancora addolorata per la morte del compagno e si sentiva ferita dall'ingratitudine e dalla volubilità di un popolo passato dalla venerazione al disprezzo per Pericle, chiamato ora «emissario della disgrazia». Lesse con avidità il libro di Prodico, che trattava del pensiero di Protagora sulla relatività, ossia dell'impossibilità di ravvisare una qualsiasi certezza oltre l'apparenza: è il linguaggio a dar forma alla realtà, come l'acqua
all'otre. A lei piacque e fu prodiga di osservazioni. Grazie alle stimolanti conversazioni intrattenute nel corso dell'inverno e a una proficua immersione nel lavoro, Prodico riuscì a infondergli un nuovo stile riflessivo e «relativista», in cui nessuna ipotesi di Protagora si dava per assolutamente certa o falsa, ottenendo così una perfetta aderenza tra forma e contenuto. Quasi tutte le sere, dopo il banchetto, si tenevano riunioni nel salone della villa. Aspasia si vantava di ospitare sui suoi triclinii i migliori conversatori di Atene (quelli cui non importava affatto di essere invitati da una signora), cosicché Prodico poté conoscere e colloquiare con alcuni frequentatori assidui quali Aristofane, Euripide, Demostene, Socrate e altri che comparivano di tanto in tanto, come il sofista Gorgia. Questi incontri erano uno spettacolo eccitante, e quando la conversazione prendeva quota si discuteva con accanimento. Aristofane, col suo linguaggio grezzo e parodistico, ed Euripide, col suo stile raffinato e un po' affettato, erano perennemente in disaccordo e si scontravano. Demostene era il brio della parola pronunciata con la goffaggine del balbuziente; Gorgia non faceva che ridere, ma era in grado di cogliere al volo un'incongruenza. Aspasia moderava la discussione, a volte conveniva con Euripide, e Socrate faceva domande capziose e sconcertanti. Per Prodico, Socrate era un uomo strano, tra i più strani che avesse mai frequentato. Il sofista non riuscì mai a stabilire se i loro rapporti si basassero su dialoghi, monologhi o interrogatori. In ogni caso lo incuriosiva, perché non riusciva a capire lungo quali direttive si muovesse. Era solito fissare gli ospiti con espressione mite, affabile. Non scherzava su nulla, né prestava attenzione alle battute fatte su di lui dai presenti, specie da Aristofane. Era serio, del tutto sprovvisto di leggerezza. Rivolgeva tante, troppe domande, ed era molto interessato alle opinioni degli invitati. Era questo, forse, l'aspetto più sconcertante. Pareva ossessionato dal desiderio di conoscere le opinioni altrui, ma in fondo non gliene importava un fico secco. All'inizio, Prodico si era sentito attratto dal metodo utilizzato dal filosofo, basato sulle domande e teso alla ricerca di una certa purezza concettuale, e questo perché definire le parole e affinare i ragionamenti concordava con il suo carattere, il suo amore per l'esattezza linguistica e la chiarezza. Dopo un po', tuttavia, avvertì che le indagini di Socrate non si fondavano su una qualche logica o un minimo rigore, bensì su analogie apparenti, e ne rimase deluso. Ricorreva con eccessiva frequenza a esempi truffaldini (nel senso che erano inesatti) e, alla fine, si capiva che non era mosso da
alcuna volontà di conoscere: prevedeva infatti sempre in anticipo il tragitto del labirinto e il punto esatto in cui l'altro avrebbe completamente perso l'orientamento, e a quel punto si offriva come guida all'interlocutore. Il sofista aveva desiderato stringere con lui un rapporto di amicizia, data la sua vicinanza al circolo di Aspasia e l'eccellente reputazione di cui godeva, nonostante le poco raffinate maniere. La presenza di Socrate a un banchetto era considerata un grande onore. Lo si riteneva un uomo colto, con un tocco di mistero molto apprezzato da tutti, soprattutto dalla padrona di casa. Anche se non si pronunciava mai su nulla, tutti ritenevano che avesse un'opinione pregevole e azzeccata su qualsiasi argomento. Godeva di quel rispetto reverenziale che ispira chi si esprime usando metafore il cui significato rimane sempre nel vago. Non perdeva occasione per coinvolgere Prodico nei suoi dialoghi e mostrava un insistente interesse per sapere in cosa consisteva l'ideale del sofista. Questi cercò di spiegargli, in tutti i modi possibili, che si fondava sulla trasmissione del sapere. Il filosofo però non ammetteva che si potessero chiamare sapere la tecnica oratoria, la politica, l'arte dello scrivere o la cultura e la storia dei popoli. Le considerava abilità pratiche, mestierucoli molto lontani dal sapere fondamentale. E poiché capiva ancor meno che bisognasse pagare per insegnarle, sosteneva ironico che, forse, per ascoltare un discorso interessante da Prodico avrebbe dovuto sborsare, per la sua esposizione, cinquecento dracme. A forza di ripeterla, trasformò la frase in una battuta, ogni volta accolta da risa. Un giorno, Prodico sbottò: «Neppure se mi facessi pagare mille dracme riuscirei a insegnarti qualcosa di utile». A quel punto il filosofo passò al contrattacco con un'abile imboscata, domandandogli quali insegnamenti, secondo lui, fossero utili per gli uomini. Ma se Prodico optava per l'importanza dell'oratoria, Socrate la equiparava alla demagogia e all'arte d'ingannare nei tribunali; se difendeva la conoscenza della legge, Socrate contrapponeva legalità a giustizia; se propendeva per la scrittura, Socrate gli sbatteva in faccia alcune perle della peggior letteratura di moda, come una certa poesia buffa molto apprezzata dal popolo; se saltava fuori l'economia, il filosofo la denigrava assimilandola alla cupidigia e all'ansia di guadagno. Alla fine, sembrava dimostrare che nessuno di quelli elencati fosse un valore in sé e buono per tutti. Prodico era sfinito. «Tu non discuti, Socrate, tu competi. Calmati, sei il migliore.»
«Voi sofisti sapete parlare solo dal lato della bocca che più vi conviene.» Fu allora che Prodico si accorse di un fatto apparentemente banale: la bruttezza del filosofo. Che avesse un viso sgraziato lo si notava a prima vista, adesso però gli sembrava che assomigliasse a una capra. Nel salone della villa di Aspasia erano proibite le discussioni aspre, ma Socrate e Prodico si odiavano cordialmente. Prodico comprese tristemente che sulla barca di Socrate, quella della certezza, non c'era posto per lui. Naufrago e sballottato dalle onde, il sofista desiderava raggiungerla e l'altro gli tendeva la mano. Solo allora Prodico si accorgeva che quella barca salvatrice veniva, in realtà, trascinata da una corrente inesorabile, verso la sponda oscura da dove nulla fa più ritorno. VI Neobula, l'etèra più giovane della Milesia, imparava fin troppo in fretta. Compensava l'inesperienza con un temperamento focoso e impulsivo. Il suo aspetto fisico era quello di una pudica giovinetta, ma quando giaceva con un uomo estraeva unghie lunghe e affilate, dispensava più morsi che baci, più strette che abbracci, pizzichi al posto di carezze, e, invece di gemiti, emetteva roche urla. Aspasia cercò di mitigare tali eccessi fin quando non si rese conto che i clienti andavano in visibilio per questo suo fare da cucciolo di leonessa, per come si abbandonava al sesso mostrando tutta la sua ostilità verso gli uomini e il mondo. Non fingeva. Il sesso e i suoi postumi avevano offuscato il giudizio di Neobula a tal punto che la ragazza considerava i rapporti umani manifestazioni dietro cui si celavano, o che esaltavano, le pulsioni ataviche maschili. Si convinse che solo attraverso il sesso si sarebbe liberata dalle pastoie che frenavano la sua mente: i sogni e le fantasie della bambina di un tempo, il desiderio di amare e di essere amata da un uomo importante e di fare della propria vita qualcosa di bello e gradito alla casta Atena. In passato aveva creduto che la verginità della dea fosse un modello di virtù; ora, invece, era convinta che godesse di più negandosi, crudele, a chi la desiderava follemente piuttosto che concedersi all'abbraccio dei suoi amanti. La sensualità era un piacere effimero, infinitamente inferiore al potere conferitole dall'essere un oggetto impossibile del desiderio, incorruttibile e pertanto irraggiungibile. Lei non poteva seguire l'esempio di Atena perché era stata macchiata dal seme di uomini rozzi e volgari, specie nella sua prima e traumatica espe-
rienza da prostituta. Aveva però affinato l'astuzia, che le consentiva di farli soffrire infliggendo loro rinunce e privazioni; e chi aveva conosciuto il piacere con lei non poteva più prescindere dal suo erotismo. Vi sarebbe rimasto legato, esposto ai rischi di quel dolce veleno. La scoperta del sesso sfrenato condusse Neobula a perdersi lungo il cammino delle tenebre, inseguendo esperienze volte a placare ansie che neppure come prostituta poteva appagare. Si sdoppiò, rifugiandosi sull'altra sponda della coscienza, nel delirio. Cominciò a frequentare come etèra le orge che si tenevano al Pireo, aperte da un'orchestra di musici che animava gli incontri al suono di lire, cetre e flauti. Vi prendevano parte le più rinomate prostitute della casa di Aspasia, che danzavano nude per i ricchi e si davano poi ai più sfrenati piaceri. Bevevano finché non sentivano più neanche il ritmo, e allora i musici rientravano nelle loro case suonando allegramente lungo il viale delle Lunghe Mura, come fauni eccitati dalla luna. Lì, Neobula conobbe un uomo che la introdusse alle cerimonie della notte. Divenne sacerdotessa consacrata ai misteri eleusini. Passò quindi ai riti iniziatici e, poco dopo, conobbe la trance della follia divina nel Santuario, una radura nel ginepraio circondata da torce, le cui sabbie erano irrorate di sangue. Le danze eccitavano i sensi finché le stelle della volta celeste non annebbiavano lo sguardo degli iniziati, che passavano dall'angoscia all'estasi. In trance viaggiavano fino all'Ade, dove stabilivano un contatto con i morti. Il passo successivo verso il caos fu, dopo quelli di Eleusi, l'iniziazione ai riti di Dioniso. Le orge cannibalistiche, il parossismo di sangue e sperma furono l'approdo di un'incessante discesa a cui per anni Neobula si consacrò, scandagliando il limite della realtà. Osservò come lo spirito della follia si appropriava dei suoi amici e li dominava, fino a distruggerne la volontà: impazzivano, errando in una perenne notte selvaggia. La maggior parte delle menadi non viveva a lungo: erano destinate a vagabondare senza meta, incapaci di tornare alla vita precedente. Fu questo che la indusse a rientrare, almeno in apparenza, entro i confini della civiltà. Dopo aver assaggiato il nettare proibito, il delirio e l'attimo che precede la disperazione, Neobula tornò ad Atene. Sentiva, tuttavia, che la vita aveva ancora molto da offrirle, e che imboccando quel sentiero era giunta sull'orlo dell'abisso. Un giorno si recò nello studio di Fidia, e rimase abbagliata dal volto di una scultura. In un primo momento pensò raffigurasse Apollo, per la fierezza e la perfezione dei lineamenti, per le perfette proporzioni, e la luce che quel nobile viso emanava. L'osservò a lungo, estasiata, finché non
scorse un'arroganza tipicamente umana nella piega delle labbra, uno scaltro luccichio nello sguardo, poco adatto al pacato distacco proprio delle immagini divine. Quell'opera d'arte non era frutto dell'immaginazione: si ispirava a un modello esistente, mortale. Il discepolo di Fidia confermò i suoi sospetti spiegandole che la scultura raffigurava un uomo. Il giovane modello aveva posato per lui, in quello stesso studio, dieci anni prima, e il maestro ne aveva strappato l'effigie al marmo. «Era davvero così bello?» chiese l'etèra. «Non è che Fidia l'ha migliorato?» «Chi l'ha conosciuto sostiene sia un ritratto veritiero», replicò lo scultore. «E chi era quell'uomo?» «È Alcibiade l'Alcmeonide, nipote di Pericle.» «È ancora vivo?» «Certo. Sta combattendo valorosamente contro gli spartani.» «Dove posso trovarlo?» «Dove si trovano le nostre truppe, con la flotta all'ancora a Samo.» Neobula rimase accanto ad Alcibiade nelle successive campagne militari. Al comando della flotta, l'Alcmeonide combatté accanitamente gli spartani senza concedere loro un solo giorno di tregua. Ogni nave che incendiava attizzava il suo odio contro Sparta. Li inseguì per terra e per mare sino ai confini dell'impero. Il suo cuore era diviso tra l'amata e il furore della battaglia. Neobula vedeva partire i neri velieri, che uscivano dagli stretti per affrontare il nemico. Una parte di lei avrebbe voluto viaggiare con loro, assieme al suo uomo. La sola musica che Alcibiade udiva era il fruscio dei remi che fendevano i flutti per andare incontro al nemico; lo infiammava il clangore dei metalli che si urtavano con furia, il cozzare degli scudi al ritmo del martello sull'incudine, il sibilo delle frecce che descrivevano un lungo arco nel cielo. Il vento che gonfiava le vele era lo stesso che gli gonfiava il petto nell'ora della vittoria. Non c'era per lui vino più gradito del nettare puro che sgorgava dalla ferita aperta nel torso del nemico quando la lama gli trafiggeva il cuore. Il fragore degli eserciti che saltavano dalle navi era il tam-tam della vita, e lui poteva udire il rimbombo della terra sotto gli zoccoli dei cavalli nell'attraversare la prateria e sentire sul viso l'acre respiro degli incendi. Non conosceva disegno più perfetto della flotta allineata per
l'attacco, né scultura più bella dell'agile profilo dell'arciere. La sua mano era fatta per la spada fumante, per il sangue; i suoi piedi per trottare sulle asperità del terreno o per spronare il cavallo. Neobula lo amava alla follia per la sua voce libera, nata per gli spazi aperti, ventosi, salmastri. Lui era vivo come nessuno al mondo. Infaticabile, affrontava la vita come se ogni fiume guadato, ogni prato percorso, ogni giornata concessagli dal fato dovessero dedicarsi alla battaglia. La fulgida baldanza che lui irradiava, infondendo ardore in chi gli stava accanto, tratteneva il giorno fino all'ultimo bagliore. Alcibiade e Neobula viaggiarono insieme da un lato all'altro dell'Egeo, sotto il sole cocente e i temporali, di qua e di là, lasciando ovunque una scia di distruzione. Per Alcibiade lei era la misteriosa Sfinge, umana solo nella parte superiore del corpo, dove si annidavano, pressoché inaccessibili, conoscenza e ragione; dalla cintola in giù era invece un animale selvaggio, una predatrice dagli artigli affilati, una cacciatrice silenziosa e mortale. Il loro rapporto era un perenne corpo a corpo. Neobula visse con lui tre duri anni sui campi di battaglia, disseminati di cadaveri di amici e nemici ormai cibo per cani e uccelli rapaci, e con lui saccheggiò città guidando la marcia di scalpitanti destrieri. Ella apprese che tutto ciò che brulica, si agita, si afferra alla vita ed è umano è destinato a sparire, spazzato via dal vento che sibila tra le spighe. Chi rimane raccoglie i resti e torna a casa; gli uomini seppelliscono i loro simili, li piangono e poi, inesorabilmente, soccombono alla sete di vendetta ingaggiando altrove nuove battaglie, perché così è la natura umana. Neobula leniva le ferite di guerra dell'amante con i suoi baci e la resina dei pini, coprendo di abbracci il breve sonno di Alcibiade, ovunque crollassero le sue stanche membra. La disuguaglianza è propria della natura dell'uomo, le diceva Alcibiade, è la legge che domina l'universo. Chi ha mai visto il mare perfettamente calmo? Quale animale non è esposto ai predatori o alla fame? La lotta per la sopravvivenza aguzza i sensi e l'ingegno e ci spinge a progredire. Il forte schiaccia il debole, è sempre stato così, tra i mortali e tra gli dei dell'Olimpo. La democrazia è un imbroglio e presto cadrà. Nessuno desidera essere schiavo e abbassare la testa, ma è insito nella natura umana che ci siano servi e padroni, anche se un giorno dovesse scomparire la schiavitù. Mai nessuna società potrà fondarsi sull'uguaglianza, almeno fino a quando sarà una società di uomini, nati diversi tra loro per ambizione e doti naturali. Allo stesso modo, poiché è impossibile che ci siano pace e prosperità nell'impero, navi ben armate nei porti non devono mai mancare in
nessuna città che voglia conservarsi. Siamo frutto del moto perpetuo, come il fuoco, e tra le fiamme ci consumiamo. La passione fluisce, freme nelle viscere, e la vita è un'incessante lotta per sconfiggere il fato. Gli anni passano e affrontiamo le avversità. Povero, dunque, è chi arretra o si affida alla fortuna. Io ho armato a dovere le mie navi e ho ingrassato la cinghia del mio scudo per proteggermi il petto, ho levigato le lance di frassino e adornato di bronzo la spada, e di nessuno, neppure di mia madre, mi sono fidato affinché vegliasse il mio sonno turbato dal sinistro anelito di chi mi vuole morto. Per questo sono sopravvissuto a congiure e trame e ho per compagna la solitudine. Per questo fuggo da una terra che mi ha voltato le spalle verso un'altra, in cerca di rifugio, senza sosta, come una stella errante. Nessuno è mio signore e padrone. VII Neobula rimase accanto ad Alcibiade, e lontana dalla patria, fino all'età di ventidue anni. La grande guerra volgeva al termine. Atene stava compiendo sforzi titanici per recuperare parte del proprio impero marittimo, sensibilmente ridottosi negli ultimi quindici anni. Ma il suo declino si rivelò inarrestabile: le principali fonti di ricchezza - come le miniere di Decelea - caddero in mani nemiche, al pari delle isole strategiche; il grosso della flotta fu distrutto e migliaia di uomini perirono in combattimento. La situazione era disperata. Da quando era stato nominato stratega, Alcibiade aveva riconquistato brandelli di terra e si era reso protagonista di alcune vittoriose battaglie, alimentando l'illusione che non tutto fosse perduto. Commise, però, un errore fatale: la sua smisurata ambizione e la sua egolatria gli attirarono tali odi da spingerlo a diventare un traditore piuttosto che sottomettersi al comando di un altro generale. Volevano la sua testa. Atene non aveva più fiducia in lui. Ebbe così inizio l'ultima fase della sua vita. Alcibiade si rifiutava di tornare in patria offeso e umiliato. Ancora una volta decise di andarsene lontano, dove nessuno l'avrebbe mai cercato. Si imbarcò su una nave condotta dai suoi rematori schiavi, e con la sola compagnia di Neobula viaggiò verso il Chersoneso, al confine con la Tracia, dove possedeva una piccola fortezza. Obbligato a restare lontano dai campi di battaglia, divenne intrattabile, anche con l'amante. Non sopportava più nessuno, compreso se stesso. Parlava a malapena. Il suo unico interesse consisteva nel seguire da lontano il
corso della guerra. Compiva quarantasei anni e sentiva di aver vissuto troppo a lungo. Un lugubre futuro lo attendeva. Allontanò Neobula da sé, le disse che non l'amava più, di tornarsene ad Atene. Lei capì che non avrebbe mai potuto renderlo felice e si rassegnò a lasciarlo per sempre. Nel lungo viaggio di ritorno ad Atene, accompagnata da numerosi schiavi che fungevano da rematori e da scorta, Neobula rifletté sulla propria breve esistenza. Quasi inspiegabilmente, la sua infanzia giaceva sepolta in fondo al pozzo dei ricordi. Serbava solo un mormorio di voci famigliari in una casa alle falde della collina, un orto assolato dove gli uccelli cinguettavano sin dal primo mattino per strapparla al sonno, l'acre odore della pelle di capra che copriva il suo letto, la voce lontana dell'acquaiolo, lo stridore della fucina, uno scorpione nero che usciva dalla tana sulla sabbia pietrosa, un campo di spighe alte quanto lei, dove frinivano le cicale a mezzogiorno; la luce spessa delle stalle, i raggi che entravano dalla porta illuminando il pulviscolo, il gracchiare delle cornacchie quando sua zia morì per un calcio nel petto e i giorni in cui la casa dovette essere purificata dopo la scomparsa della madre. Da ultimo, la corona di fiori che aveva lasciato cadere ai piedi di Afrodite, prima di togliersi la tunica, l'abito della pubertà, e offrire il corpo nudo allo sguardo esperto di Aspasia. Era la morte ad aver ostruito con pesanti macigni il pozzo della sua infanzia, fino a oscurarlo. E quell'oblioso letto di pietre non poteva, da solo, risvegliare la bimba sopita in lei, se ancora viveva, né ricordarle cosa le doveva. Avvertiva la propria esistenza come un che di vago e remoto. Tornava ad Atene col pensiero fisso sull'uomo che si lasciava alle spalle, in un'ansa del proprio cammino, rimasto solo con le sue disgrazie, per sempre. Non voleva vederlo sprofondare in un cupo pessimismo, orbo della luce divina che tanto intensamente aveva brillato in lui. Nel ricordo di Neobula sarebbe rimasto colui che aveva teso l'arco della vita fino allo spasmo, il guerriero che aveva goduto assieme a lei di ogni istante di pienezza, bevendo avidamente da ogni coppa: quella della vendetta, dell'ambizione, del potere, della passione. Neppure lui voleva essere conosciuto in altro modo; per questo aveva scelto la solitudine dell'esilio. Neobula ritrovò un'Atene così cambiata da provare uno strano turbamento venato di tristezza. Mancava da soli tre anni, ma la guerra aveva mutato la fisionomia della città come se fosse trascorso molto più tempo. Tutto, a cominciare dal porto, era stato ricostruito. La sua dimora era stata incen-
diata e distrutta durante la guerra. Non aveva più casa, né famiglia, né amici. Sperava che Aspasia fosse ancora viva: in tal caso, l'avrebbe di sicuro accolta alla Milesia. Uno schiavo le aprì la porta, la riconobbe senza indugio e la invitò a entrare. Nel vestibolo Neobula inalò un soave aroma di sandalo, si lasciò togliere i calzari dal servo e attese che la padrona le andasse incontro. Ancora prima di vederla, udì la voce di Aspasia pronunciare gaia il suo nome. Si accorse che ogni ombra di rancore era ormai sparita non appena la vide comparire, le braccia al cielo, raggiante e agitata, con una tunica di seta color lavanda lunga fino alle caviglie e i capelli raccolti da nastri. Si abbracciarono e baciarono calorosamente. Aspasia intuì la sua situazione e si offrì di ospitarla nella villa finché non fosse riuscita a comprare una nuova casa. Neobula notò che Aspasia, dando per scontato che ben presto avrebbe guadagnato denaro in abbondanza, escludeva a priori che potesse esercitare un'attività diversa dalla prostituzione, e comunque le diede a intendere che qualsiasi progetto che non fosse lavorare alla Milesia era inconcepibile per una donna come lei. A Neobula, questo suo modo di offrirle lavoro non dispiacque, anzi accettò di buon grado. Quel tipo di vita le garantiva innumerevoli vantaggi e ormai non poteva più prescindere dal mantenere assidui rapporti con gli uomini. Era impaziente di stringerli ancora tra le cosce. «Avrai moltissime cose da raccontare», le disse Aspasia allegramente. «Anche tu dovrai aggiornarmi sugli ultimi avvenimenti.» «A partire da quando?» «Da quando ho lasciato Atene.» «Non c'è molto da raccontare. Un mucchio di guerre perse - anche se si dice che sia sempre la stessa guerra -, più povertà, e noi tiriamo avanti allietando la vita dei nostri cari ometti.» «E alla Milesia è tutto come sempre?» «È la sola cosa che non cambia. L'unica novità è l'arrivo di due ragazze molto giovani, che reggono bene fino all'alba: una si chiama Timareta e l'altra Eutila. Saranno felici di conoscerti. Come vedi, ho ripreso in mano la direzione della casa, dal momento che nessuno mi offre qualcosa di meglio. Ho tentato di aprire una piccola scuola clandestina per insegnare alle donne a leggere e a scrivere, ma era frequentata solo dalla vedova Perictione; le altre temevano anche solo ad affacciarsi. Inoltre, come ben sai, le donne sposate non ci hanno mai viste di buon occhio, dato che ogni notte
sottraiamo loro i mariti. Quanto a Perictione, ha imparato a leggere così bene che alla fine trascorrevamo la mattinata conversando. Quindi ho chiuso l'attività, e adesso impartisco lezioni solamente alle nuove alunne della Milesia.» Aspasia non si scomodò a chiederle degli anni trascorsi con Alcibiade, sul finire della guerra, perché Neobula non raccontava mai nulla di personale. Sapeva bene fin dove le era consentito spingersi. Tuttavia, seppur vagamente, riusciva a immaginare che razza di vita potesse aver condotto con un tipo come lui. Si notava che era più robusta, tonica, indurita dalle intemperie, più donna e più desiderabile. Sapeva che Neobula, benché ventiduenne, avrebbe richiamato più clienti delle sue giovani etère. Quando rideva, la bocca le si schiudeva come una sorgente d'acqua cristallina. Possedeva, insomma, tutto ciò che Aspasia aveva perduto: cosce sode che si spalancano come piante carnivore, una cute finissima che esala profumo di donna e di sesso, una volubile chioma corvina, il corpo sfolgorante di una musa e un'intelligenza acuta. Neobula era solita recarsi a passeggio poco prima dell'imbrunire per godersi gli ultimi sprazzi di luce, dopo aver dormito tutto il giorno e avendo a disposizione qualche ora di libertà. Girava col volto velato per evitare la molestia di essere riconosciuta, scortata da un corpulento schiavo fenicio che aveva lavorato in una cava. Una volta, camminando nei sobborghi meridionali della città, nel demo più lussuoso, lo Skambonidai, le capitò di ascoltare una violenta discussione tra padre e figlio proveniente dal patio di una casa. Lo scambio di invettive rivelava un odio tanto profondo e radicato che la fece trasalire. Udì il rumore di oggetti che andavano in frantumi, il pianto di una donna che doveva essere la madre, pugni sui mobili, di nuovo grida e minacce rabbiose. Poco dopo, un ragazzo uscì di casa emettendo un sordo ruggito. Passò davanti a Neobula, senza vederla, per poi allontanarsi a testa bassa e con i pugni serrati. Seguirono alcuni istanti di quiete, interrotti solo da un pianto femminile. Quindi, il padre uscì a chiamare il ragazzo con un tono che cercava di essere amichevole e conciliante ma appariva, invece, falso, forzato. E quando ormai il figlio non poteva più sentirlo, continuò a gridare il suo nome, ora sì con voce afflitta. Alla luce della luna Neobula riconobbe perfettamente il volto di quell'uomo. Era Anito, colui che dieci anni prima l'aveva violentata nella Milesia, facendo scempio della sua innocenza e lasciandole una cicatrice indelebile. Neobula, assieme al suo schiavo, seguì a distanza i passi del giovane figlio di Anito: era diretto verso i quartieri popolari, dove c'erano ancora lo-
cali aperti. Non sapeva perché lo faceva, cosa potesse ottenere da lui; obbediva soltanto a un impulso. Era stata turbata dalla foga della collera del ragazzo, dal suo carattere ribelle e determinato, dal desiderio, che trapelava dalle sue grida, di uccidere il padre e di fuggire lontano da lui per trovare conforto nella solitudine. Giunse, infine, a una baracca dove servivano vino speziato e di cui, a giudicare dai modi familiari con cui veniva trattato, doveva essere un cliente assiduo. Neobula preferì non entrare. Sapeva che, nonostante la presenza dello schiavo, gli uomini - molti dei quali erano suoi clienti - l'avrebbero importunata; ordinò al servo di recarsi dal giovane per dirgli che voleva parlare con lui altrove. Udito il messaggio, questi si girò verso la porta e fissò la sagoma scura della donna dal volto coperto. Trangugiò il vino, si alzò, pagò e uscì. Davanti al ragazzo Neobula sollevò il velo. Si scrutarono in silenzio, l'uno di fronte all'altra, per qualche istante, studiandosi. Una luce febbrile ardeva negli occhi di entrambi. Lui aveva circa diciassette anni, un certo coraggio e nessuna esperienza in fatto di donne. Qualche istante dopo, lei gli fece un cenno perché lo seguisse in un posto tranquillo. Camminavano vicini; lo schiavo si manteneva alle loro spalle, a prudenziale distanza, per non disturbare. «Sei un'etèra?» Neobula annuì. «Lo sospettavo», affermò il giovane con puerile solennità. «Troppo imprudente, troppo bella.» «Ti spiace?» «No. Non sono mai stato in un bordello, ma credo che ci andrò non appena ne avrò voglia. Sei in cerca di clienti?» Parlava come se fosse un uomo fatto, con una nota di superbia. «È così», mentì Neobula. «Sei giovane e bello. Come ti chiami?» «Antemione, nipote di Antemione.» «Perché dici il nome di tuo nonno e non quello di tuo padre?» «Non riconosco chi sostiene di essere mio padre.» Il ragazzo si rese conto di essere stato troppo brusco e inopportuno, e soggiunse: «Quanto chiedi?» «Dipende dal cliente e dai suoi desideri.» Lei si mostrava gaia e spigliata, per ispirargli fiducia. «Ai brutti chiedo di più.» «Davvero? Non mi sembra giusto.» «Ah, no?» Le sfuggì una risata che turbò Antemione. «Ad altri, invece, ridarei indietro i soldi dopo l'incontro, perché possano pagarmene un al-
tro.» Antemione la guardava sempre più incuriosito, vagheggiando forse l'oggetto del desiderio che si celava sotto le vesti di quella donna. Neobula si divertiva al solo pensiero delle cose che avrebbe potuto insegnargli in una sola notte. «Devi avere molti clienti.» «Non posso lamentarmi. Il lavoro non mi manca.» «Perché allora li cerchi per strada?» Neobula sorrise: l'aveva appena colta in fallo. Doveva stare più attenta. «In realtà stavo passeggiando. Sono le mie ore di libertà. Poco fa ti ho udito discutere con tuo padre e ho creduto che ti avrebbe fatto bene sfogarti. Volevo portarti un po' di allegria.» «Perché pensi di potermi rallegrare?» «Sono una donnina allegra, non dimenticarlo.» «Non lo dimentico!» esclamò lui ridendo. Raggiunsero un piccolo promontorio coltivato a orti terrazzati da cui si scorgevano una distesa di case illuminate dalla luna, le fiamme delle torce e il fumo di qualche abitazione. La brezza profumava di elleboro bianco. Si sedettero l'uno accanto all'altra, la schiena appoggiata a un muretto di confine, a godersi il calar della notte. La luna che nasceva all'orizzonte, velata dai rami di un albero vicino, era un'enorme sfera gialla. Neobula sentiva fremere il corpo del giovane. «Ho vissuto qualche anno fuori Atene», disse. «Ho perso i vecchi amici.» «Dove sei stata?» «In molti posti. Viaggiavo assieme a un uomo, un mercante. È morto.» «Anch'io vorrei lasciare Atene per conoscere altre città, altre culture. Non credo che questa sia la sola degna di ammirazione.» «Non sei andato a combattere?» «Sì, sono stato a Egospotami e in luoghi simili, ma non si è trattato propriamente di un viaggio di piacere.» «Hai il denaro che ti serve per viaggiare.» «Il denaro è di mio padre, non mio. Se l'avessi, me ne sarei già andato lontano da lui.» «Di cosa si occupa?» «Concia di pelli. È un'attività che ha ereditato dal nonno, anche se è stato lui a renderla florida. Pelli, cuoio, tinture... tutto quello che riesci a immaginare dotato di pelo e che puzzi d'animale. Vuole che lavori con lui,
perché possa prendere il suo posto quando sarà vecchio e vorrà ritirarsi, così da mantenere l'esercizio in famiglia.» «Be', non ci vedo nulla di male.» «Certo. E non è una brutta vita. Io non dovrei dedicarmi a tagliare le pelli, ma a trattare coi mercanti di bestiame. Conoscerei un mucchio di gente, sarei molto ricco e rispettato.» «Però l'idea non ti entusiasma», disse Neobula con un vago tono materno. «Il fatto è che non potrei più lasciarla, né programmare altro. Una volta accumulato sufficiente denaro non sarei libero di scegliere la mia strada, di viaggiare. Insomma, rimarrei legato a quell'attività per il resto della vita, per poi, un bel giorno, trasferirla a mio figlio, come ha fatto mio padre con me.» Il giovane sospirò con aria afflitta. Il tono di voce era ora più sincero e convincente. «Io però non possiedo l'istinto per gli affari di mio padre, non ci sono portato; la concia delle pelli non mi interessa e, soprattutto, mi terrorizza l'idea di ricevere ordini da lui.» «La maggior parte delle persone non ha questo tipo di problemi per mancanza di alternative.» Antemione parve non udirla. Aveva assunto un'aria vagamente tragica. «Se sapessi cosa fare della mia vita...» sospirò. «Se solo potessi trovare la strada giusta.» «Credo di sapere chi può aiutarti», disse Neobula. «Conosci Socrate?» «Certo. Chiunque pratichi sport nell'arena della palestra lo conosce. È un atleta tenace. A settant'anni non teme di affrontare il più giovane di noi. Ma non l'ho frequentato molto.» «È la persona di cui hai bisogno.» «Cosa te lo fa supporre?» «È specialista nel capire qual è la vita migliore per ognuno.» «Si dicono molte cose di lui, spesso opposte.» «Anche di noi. È forse un male?» Antemione annuì, fissando intensamente l'etèra. Il suo sguardo, adesso, era carico di desiderio. «Non ho mai conosciuto una donna come te», disse abbozzando un sorriso incerto. Neobula gradì quello slancio di sincerità. «È un complimento?» Antemione la cinse tra le braccia, senza avere il coraggio di baciarla. Lei lo aiutò nel resto. Ogni volta che si imbatteva in un giovinetto inesperto,
dal mento glabro, provava un brivido di soddisfazione, come se lo stesse pervertendo. Da lontano, dai cupi boschi di querce, riecheggiò il verso del barbagianni. VIII Nel primo pomeriggio il quartiere Ceramico era un formicaio. Lungo i viali alberati i venditori annunciavano prezzi e prodotti con voce incolore, monotona. La luce si rifletteva sui banchi del pesce, sugli orci umidi d'olio, e infondeva un riverbero porpora al bronzo delle botteghe. Aleggiava nell'aria un puzzo penetrante di frutta marcia, di folla sudata e piscio di cane. Un turbinio di gente oziosa girovagava indaffarata, curiosa, capace di discutere per ore il prezzo di una qualsiasi cianfrusaglia. Con indosso un semplice tribone di tela grezza, a mo' di corta tunica, Socrate ascoltava con grande interesse il ragazzo che camminava al suo fianco, intento a ragguagliarlo sulla sua breve vita, sugli scontri col padre e sui dubbi che lo arrovellavano, primo fra tutti se il genitore avesse o no il diritto di obbligarlo a entrare nell'attività famigliare. Il filosofo, compiacendosi della bellezza e dell'intelligenza del giovane, lo interruppe solo per dirgli: «Caro Antemione, sei talmente preso dalle tue parole che a malapena ti accorgi di quanto accade attorno a te, neanche camminassi per una landa desolata. Guardati intorno: questo posto è pieno di vita, di animazione, di persone con ansie e problemi. Osserva, ascolta ciò che succede e imparerai cose nuove e importanti». I due si fermarono in mezzo alla piazza e prestarono attenzione. Videro passare un acquaiolo con la botte sulla testa fissata su un cercine; si fecero strada tra campagnoli abbronzati, contadine con ceste di vimini che soppesavano, annusavano, tastavano - non toccarlo! È tutto di buona qualità, fresco! Tre dracme, una, tre, due... Nell'aria immobile aleggiava un puzzo organico e dolciastro, i pesci allineati sulle assi gocciolanti, tutto si cuoceva all'ombra screziata dei cannicci: pernici, aringhe, torte e pani. Si barattava estraendo una grassa gallina da una cesta, esaminando la dentatura di un asino, infilando il dito in una kylix d'olio d'oliva. La polvere delle strade sollevata dal quotidiano scalpiccio di tanti calzari si posava sui banchi esposti alle intemperie, sulle baracche di legno, sui teloni ricurvi, poveri ripari d'ombra. Un predicatore orfico coperto di stracci arringava, dall'alto di una cesta
da frutta, una dozzina di contadini intenti ad ascoltare un messaggio salvifico che imponeva purificazione e dieta vegetariana. Un gruppo di ragazzi gli lanciò delle pietre cacciandolo dalla piazza. La scena suscitò l'ilarità generale. Chi si imbatteva in lui lo celiava agitando una mano davanti al proprio naso. «Litteo!» gli urlavano. «Perché sei sempre circondato da mosche?» Girandosi verso costoro, l'uomo alzò il pugno e sbraitò rabbioso: «Le mosche sono attratte dalla carne morta!» Socrate e Antemione si diressero verso zone più tranquille per proseguire la conversazione. «Hai notato qualcosa di insolito?» gli chiese il filosofo. «Sembra l'arena di una palestra in cui la gente si azzuffa per quattro fichi secchi.» «Credi che questi uomini riflettano sul senso da dare alla propria esistenza?» «Non credo», replicò Antemione. «Sono troppo presi a sbarcare il lunario ogni giorno. Questo assorbe tutte le loro energie e li rende tanto chiassosi.» «È anche la tua preoccupazione?» «Se così fosse, dovrei solo compiacere mio padre; in tal caso, godrei dei beni che ci appartengono.» «In un certo senso sei dunque diverso da tutti costoro, che non esiterebbero a svolgere un mestiere redditizio come quello di tuo padre, godendo di grandi benefici. O non credi di essere diverso?» «Sì, mi sento diverso da loro. Il figlio del fabbro scopre i segreti della fucina vedendo lavorare il padre; il figlio del pastore accompagna il suo a pascolare il bestiame sul monte e, mentre imparano il mestiere dei propri avi, non si chiedono se quanto apprendono è ciò che davvero desiderano, ciò che li renderà felici, sanno solo che ne trarranno vantaggi. E in questo può darsi che non si sbaglino. A me non basta fare un mestiere utile. Aspiro a qualcosa di più, che però non so spiegare.» «È senza dubbio un problema importante», convenne il filosofo. «Ma prima è il caso di chiarirne uno un po' più semplice. Perché accade che, inspiegabilmente, un giovane non voglia seguire la strada tracciata dal padre se ha tutta l'aria di essere assai prospera?» «Può darsi che il giovane in questione abbia smarrito il senno.» «Il senno è la capacità di decidere. E non è proprio della capacità di decidere che si sta avvalendo il giovane in questione nel porsi tali doman-
de?» «Allora rettifico. Sta usando la ragione.» «Hai detto bene, abile Antemione. La ragione è la facoltà che ci differenzia dalle creature più volgari. Va però utilizzata con criterio, per non soccombere ai nostri stessi inganni e pretesti, se vogliamo agire con rettitudine.» «E se in questo caso la rettitudine consistesse nell'essere il figlio che mio padre voleva che fossi?» «Vediamo... La pietà filiale e l'obbedienza sono virtù importanti. Un buon figlio deve dunque fare sempre ciò che il padre vuole. Cosa ne pensi?» «Penso di sì, Socrate.» «Supponi che tuo padre sia un beccaio e che a te venga da vomitare ogniqualvolta metti piede nel macello, come capita ad alcuni. Sarebbe giusto che ti obbligasse a squartare e mondare vacche con lui?» «Penso di no, Socrate. Sarebbe una richiesta sbagliata.» «E che diresti se un padre obbligasse il figlio a sposarsi con una donna orribile?» «Direi che commette un'ingiustizia.» «Dunque, se questa regola non vale in più di un caso - e a me pare che i casi siano molti -, possiamo trarre una conclusione generale?» Antemione rispose a colpo sicuro: «Che non sempre i genitori devono decidere per i figli. Anzi, credo che non dovrebbero mai farlo, benché il più delle volte valga questa consuetudine». «Bene, caro Antemione. Sono d'accordo con te che la virtù della pietà e l'obbedienza filiale, quando ben interpretate, non consistono solo nel fatto che il figlio debba compiacere in tutto e per tutto il proprio padre. Chiarito questo dubbio, ora puoi forse scegliere liberamente.» «Mirabile Socrate, il tuo ragionamento è giusto», replicò il giovane, sempre più contento di come si mettevano le cose. «Le ansie e le perplessità legate al tuo futuro sono del tutto comprensibili, tuttavia dovresti scavare più a fondo. Per esempio, cosa hai in odio della concia: il tipo di mestiere o la prospettiva di lavorare con tuo padre?» Antemione rifletté per un attimo. Non aveva mai considerato le due cose l'una separata dall'altra. Il filosofo e il ragazzo camminarono per un po' in silenzio, lungo strette viuzze, lasciandosi il frastuono alle spalle. Socrate gli suggerì di immaginarsi al lavoro in una conceria simile a quella del pa-
dre, ma che non appartenesse a costui. Cosa provava? Lui sentiva ancora ripulsa, sì, ma molto meno. Comprese dunque che la presenza del padre, il fatto di dipendere da lui, era un elemento determinante. Lo rivelò a Socrate, con grande sincerità. Riconobbe che del genitore detestava il fare autoritario tipico di chi è convinto che un figlio non sappia ciò che vuole finché non è il padre a dirglielo. «Bene, fin qui è tutto chiaro», disse Socrate. «Adesso scordiamoci per un istante di tuo padre e concentriamoci su quello che vuoi fare.» «Ci ho pensato molto», ammise Antemione. «E non so cosa voglio, né come fare a scoprirlo.» «Potremmo iniziare da ciò che non desideri e dal perché non lo desideri. Forse troveremo una pista per capire cosa davvero vuoi. Parliamo del commercio del cuoio. Cosa ti dice?» «Immergere pelli in madie piene di resina fin quando le mani sono tutte raggrinzite, puzzare di vacca, raschiare peli d'animale fino a spellarsi le mani, inalare tinture nauseabonde, recarsi alle fiere del bestiame per annusare pelli e palparle... Tagliare, incidere, cimare, macerare, un anno dopo l'altro, senza sosta.» «Ci sarà pure qualche aspetto positivo.» «È un lavoro che ti permette di conoscere molta gente.» «Ti permette di conoscere molta gente», ripeté Socrate. «Ci sono tanti modi per conoscere gli altri e instaurare rapporti. Pensi, per esempio, che il rapporto tra di noi sia simile a quello che si stabilisce tra due commercianti interessati all'acquisto o alla vendita di una mercanzia? Chiariscimi questo punto.» «Ho accompagnato spesso mio padre a riunioni con mercanti di bestiame e conciatori. Avevano un solo obiettivo: commerciare.» «È normale sia così, dato che li accomuna l'interesse per il cuoio. Dunque, cosa significa per te commerciare?» «Ottenere vantaggi da un acquisto o da una vendita.» «Ossia, non è un rapporto disinteressato, poiché si ottiene una certa somma di denaro da questo tipo di scambio?» «L'arte della trattativa consiste nell'essere più furbo dell'altro. È una frase di mio padre.» Antemione rifletté un attimo. «Sai, è un uomo senza amici, anche se è sempre circondato da persone. Ho il sospetto che la gente sia solo interessata al suo denaro.» «Da quanto affermi deduco che ti piace avere rapporti con la gente, però diversi da quelli che ha tuo padre. È così o mi sbaglio?»
«È così, Socrate. Vorrei un lavoro che mi permettesse di stabilire relazioni sincere con gli altri.» «Con chiunque? Pensa a un rozzo pastore che non ha mai sentito parlare di Eschilo, o di Sofocle.» Il filosofo sorrise. «In tal caso mi parlerà delle sue capre», ribatté scherzoso Antemione. «Certo», ammise l'altro, «ma non di teatro. Forse, però, qualcosa di piacevole c'è anche nel mestiere che ti propone tuo padre.» «Non credo. Mi sono convinto che non dovrei lavorare con lui.» «D'accordo. Evitiamo di trarre conclusioni affrettate. Dobbiamo ancora sondare molti tuoi desideri per scoprire quali siano i più sinceri. O sei già in grado di affermare, con assoluta certezza, che non vuoi lavorare nel ramo della concia?» «No, non lo sono», replicò inquieto il giovane. «Se mi dico che ho deciso di non lavorare con mio padre, non mi sento sereno.» «Lo penso anch'io. Ed è importante scoprirne la ragione.» «Non mi sento colpevole perché deludo le sue aspettative», continuò Antemione. «Abbiamo già stabilito che non ha il diritto di pretendere che lavori con lui. Né mi sento debitore nei suoi confronti.» «Cosa ti preoccupa, allora?» «Non lo so proprio», borbottò Antemione. «Davvero? Hai appena scoperto che, nonostante i tuoi desideri non coincidano con quelli di tuo padre, in fondo in fondo non sei certo di voler prescindere dall'attività famigliare. Se capiamo la ragione che ti rende così inquieto, sarà più facile prendere una decisione.» «Credo di aver paura, ma non so di cosa.» L'ammissione parve avvilirlo. Per rincuorarlo, Socrate gli appoggiò una mano sulla spalla e gli sorrise tranquillo. «Caro Antemione, sei giovane, eppure coraggioso. So per esperienza che quando uno ha paura sa anche di cosa, benché non osi riconoscerlo. Credo, amico mio, che la risposta sia dentro di te, ma ti richieda un non comune sforzo di onestà.» «Aiutami, allora.» «Può darsi che, dopo tutto, tu intraveda qualche vantaggio nell'attività di famiglia. Magari riesci a chiarirmi questo dubbio.» «Ne abbiamo già parlato: nessuno.» Socrate lo scrutò con la coda dell'occhio. «Ti piace la casa in cui abiti?» La risposta di Antemione si fece attendere qualche istante.
«È una casa molto comoda», riconobbe. «Parlamene. Può chiarirci le idee.» «È grande, fresca, tranquilla. Abbiamo una scuderia con bei cavalli. E io adoro cavalcare nel bosco di querce. C'è un ampio patio dove pratico il tiro con l'arco. Spesso mangiamo cacciagione, di cui sono ghiotto, annaffiata con buon vino. Vi pratico gli sport che mi piacciono e mi faccio fare massaggi. È dotata anche di un pozzo, cosicché non dobbiamo trasportare l'acqua da lontano. Per queste e altre ragioni la casa mi piace, nonostante la presenza di mio padre.» «Pochi, ad Atene, godono delle comodità che mi hai descritto.» Lo so. «Come reagiresti se ne fossi privato? Ti dispiacerebbe?» «Sì, lo ammetto», sospirò il giovane sgranando gli occhi e arrossendo per la vergogna. «È forse un male condurre una vita modesta e senza tanti privilegi?» Antemione ebbe il sospetto che la domanda celasse una trappola. Ma non sapeva che tipo di risposta il filosofo si aspettasse. La cercò dunque dentro di sé. «Immagino di no, Socrate. Però non trovo nulla di male neppure nel vivere bene.» «La questione di fondo, cui ci stiamo avvicinando, è capire in cosa consiste vivere bene, per usare una tua espressione, e ciò che invece non è vivere bene. Concordi?» «È cosi, Socrate.» «Mi hai appena detto che per te vivere bene consiste nel non rinunciare ai piaceri e alle comodità della casa di famiglia, il che, forse, cozza col tuo desiderio di vivere bene potendo scegliere in tutta libertà il lavoro verso il quale provi una naturale inclinazione.» Antemione non seppe cosa ribattere. Socrate gli lasciò un po' di tempo per riflettere. L'ultima parte del tragitto la percorsero senza parlare, assordati dal raglio disperato di un asino che proveniva dal bel mezzo di un isolato. Poco dopo, il giovane dichiarò di vedere il problema con maggiore chiarezza. «Bene», disse il filosofo davanti a un crocicchio. «Siamo di fronte a un dilemma, complicato ma necessario. Per il momento fermiamoci qui, perché tu abbia il tempo di approfondire l'argomento. In futuro, se lo desideri, riprenderemo la conversazione.» Antemione presentì che Socrate lo aveva saggiato fin dal principio, conducendolo premeditatamente, già dalla prima domanda, verso la sua con-
traddizione interna. Era attratto dalla saggezza del filosofo, dalla somma prudenza e discrezione con cui lo aveva aiutato, senza fornirgli alcuna risposta né altro indizio che non fossero abili domande volte a sviscerare il problema. Si vergognava per aver fatto sfoggio di autonomia e onestà, nel tentativo di liberarsi dai vincoli famigliari, sbattendo poi il naso contro la dura realtà. Anche lui, in fondo, non era diverso da quei tizi volgari che sbraitavano al mercato pubblico: si preoccupava per la propria sopravvivenza. Aveva ricevuto una bella lezione che lo ridimensionava. Dinanzi alla serenità di Socrate, al suo sguardo profondo, si sentiva nudo, debole e privo di certezze. Da allora, Antemione coltivò l'amicizia di Socrate. I due passeggiavano per l'agorà immersi in conversazioni che esordivano sempre con la medesima domanda, posta dal filosofo, cui non seguiva mai una risposta soddisfacente: «Credi che sia buona questa vita?» Antemione non si era mai posto il problema se esistessero altri modi di vivere al mondo, una volta scelto un lavoro con cui guadagnarsi il pane. Grazie a quelle discussioni aveva compreso che la vera scelta non consisteva nel decidere se seguire o no i passi paterni. Un labirinto di intricati quesiti gli si schiudeva davanti. Si sentiva impotente e disorientato, ma lo consolava l'idea che Socrate non lo avrebbe abbandonato a se stesso né lasciato macerare nell'incertezza. Il filosofo sapeva come guidarlo. Nutriva in lui una cieca fiducia, come un bambino in un padre onnisciente. E desiderava diventarne discepolo. Sovente, Neobula li osservava da lontano, senza perderli di vista. Sapeva tutto dei loro progressi. IX Timareta aveva gli occhi a mandorla e una pelle di velluto che adornava con bracciali d'oro; Eutila ballava con la grazia di una cerbiatta e il ventre liscio fremeva a ogni dolce carezza. L'eburnea Thais, suonatrice di flauto, pareva non essere mai stata sfiorata dal divino sole. Ma la preferita di Aristofane era l'empia e perversa Neobula, che aveva l'ardire di chiedere l'esosa somma di trecento dracme per una prestazione, diventando cosi ancora più ambita e inaccessibile. L'etèra provava un piacere malevolo nel prosciugare le tasche dei suoi adoratori, come una dea che si compiace dei cruenti sacrifici compiuti ai suoi piedi. Aristofane sapeva che Neobula era anche il nome di una musa ispiratrice del poeta Archiloco di Paro, così,
quando giaceva con lei, le recitava questi versi: Se solo potessi toccare la mano di Neobula e cadere, pronto all'azione, sull'otre, e unire il ventre al ventre e le mie cosce alle sue cosce. Non appena un cliente varcava la soglia della Milesia passava per il lavatoio, dove le ragazze lo spogliavano e lo ripulivano per bene - non sempre con l'auspicata delicatezza -, strofinandolo con sparto caldo e cenere. Da quel locale gli uomini uscivano assai più puliti di quando erano entrati, tanto da rendere popolare il detto secondo cui se un ateniese era sempre lindo e profumato era anche soddisfatto dalla cintola in giù. Nella casa si beveva a giudizio della padrona, e, a un cenno di questa, non si serviva più vino al cliente, onde evitare comportamenti impropri e, soprattutto, risse. Né si accettavano avventori già ubriachi. All'ingresso, una donna muscolosa provava il tasso etilico annusando l'alito di chi voleva entrare: se risultava ebbro lo rispediva indietro o lo dirottava verso i postriboli del Ceramico. Tutto ciò era possibile perché alla Milesia la clientela abbondava. I vantaggi non erano pochi e andavano dalla conservazione del raffinato mobilio al mantenimento di un clima armonioso, che invogliava le donne a fidarsi dei propri clienti senza sentirsi obbligate. Nella casa regnava la buona educazione. Se, dopo che gli era stata impedita l'entrata, un avventore cercava di forzare la porta, un'etèra del primo piano gli versava sulla testa, dalla finestra, una bacinella piena di feci e orina. Le etère di Aspasia erano donne orgogliose che esercitavano la professione per denaro e per ansia di piacere. La loro dignità consisteva nel dimostrare che tenevano in pugno le redini del proprio destino; e ben sapendo che sfiancarsi per un salario abbassava uno spirito nobile, attribuivano alla loro professione l'incontestabile beneplacito della viziosa Afrodite. Avevano scoperto che, per natura, il maschio ateniese era propenso a ritenere le donne possedute da un'irrefrenabile lussuria. Diversamente, infatti, si sarebbe accorto quando un'etèra fingeva. Aspasia aveva insegnato alle allieve che gli uomini non distinguevano gli orgasmi falsi da quelli veri, neppure quando fingevano male, perché ciò costituiva una minaccia per la loro vanità e il loro illusorio potere erotico. Un altro segreto per avere successo consisteva nel far credere a ciascun cliente che fosse unico e insostituibile e che l'etèra provasse un piacere speciale quando faceva l'amore con lui. Benché non fosse difficile accorgersi che si trattava di una frottola co-
lossale - essendo così numerosi gli uomini e talmente tanti quelli che passavano dalla stessa etèra in un'unica notte -, ancora una volta prevaleva l'immodestia di una vanità appagata. I frequentatori abituali della Milesia si illudevano, pertanto, che le cortigiane li aspettassero ogni notte a gambe aperte, e queste godevano come matte nel constatare la sconfinata ingenuità di quegli ometti e quanto fosse facile ingannarli e renderli felici. Nel salone principale si giocava al cotabo erotico, come preludio di piaceri più intimi. Un avventore si divertiva con un'etèra, facendo ruotare il disco sul suo ventre nudo. In un angolo qualcuno danzava e suonava la cetra e il flauto alla tremula luce delle lampade. Aristofane giaceva con Neobula, entrambi adagiati su un ampio triclinio. Quando aveva bevuto un po', Aristofane tendeva al retorico... «Sei così bella, Neobula, che puoi darti il lusso di vendere la tua bellezza per denaro, e anche così sembra sia inesauribile. Più pago per goderne e più mi convinco che finirò in rovina ancora prima che compaia una ruga sul tuo volto.» «Preferirei, piuttosto, che scrivessi qualcosa di bello su di me.» «Sai bene, mia cara, che non so scrivere cose belle come Euripide, solo sciocche e volgari commedie per far ridere il popolo.» «Ho un amico, discepolo di Fidia, che darà le mie fattezze a una statua di Afrodite.» «Per suscitare l'invidia della dea?» «Per suscitare la lussuria di Aristofane.» «Mi chiedo come mai Zeus non sia sceso dall'Olimpo per dilettarsi con te assumendo le sembianze di un cliente della casa. Il sottoscritto, per esempio.» «Se Zeus si fosse dilettato con me, me ne sarei accorta», ribatté lei ridendo. «Avrei vissuto un'esperienza unica.» «Ti riferisci alle dimensioni?» «Certo. Il mio desiderio più grande è essere violentata da Zeus olimpico.» «Se davvero ce l'ha così grosso, allora Zeus prenderà le mie sembianze, ché sono colui che più gli somiglia.» Neobula tornò a sorridere maliziosa. «Osservandoti bene, più che Zeus incarnatosi in Aristofane, sembri piuttosto Pan, brutto e libertino, sempre pronto a inseguire graziose pastorelle.» «E tu non sei Neobula, ma Afrodite.»
«Quante cortesie, Aristofane!» «Con quel che spendo...» «Fa' dunque attenzione alle spese: tutto ciò che ricevi dalla mia padrona per le commedie su commissione, lo dilapidi con me.» «È denaro ben usato. C'è chi sperpera fortune in preoccupazioni meschine o per dar da mangiare ai porci.» «Non pensi al futuro? Prima o poi il padrone di casa ti sbatterà fuori perché non gli paghi l'affitto.» «Questa è la mia casa. Che mi importa del domani?» Neobula si separò appena da Aristofane per guardarlo bene in faccia. «Adoro sentire rimorso nel rovinarti.» «Mi rendi felice nel provocarlo. Basta parlare di cose serie, adesso... Parliamo di cose sciocche, come il matrimonio. Vuoi sposarmi?» «Oh, dei! Mi detesti a tal punto da volermi tua schiava e accaparrarti le mie ricchezze?» «Non mi fraintendere, Neobula. Le sole ricchezze cui aspiro sono le tue grazie. Le tue tette sono più dolci dell'ambrosia e il tuo culo più tenero della carne di piccione.» «Che razza di idee ti sei messo in testa, Aristofane? Perché te ne esci con una richiesta assurda a quest'ora della notte? Non ti sarai innamorato di me?» «Mi manchi durante il giorno, Neobula. Per me esiste solo la notte.» Il commediografo rovistò nella memoria alla ricerca di un'ispirazione poetica, e declamò: «Aborro la luce di Elio, e la mia anima sussulta in attesa dell'ora in cui Selene mostra il suo volto per...» «Lascia perdere», lo interruppe lei. «Non sei portato per la poesia. Sei sempre in fregola e aspetti soltanto che aprano questa casa.» «Non provi proprio niente per me, Neobula? Sei così indifferente al mio fascino?» «Sai bene, Aristofane, che sei il cliente per cui nutro l'affetto più sincero. Sei quello che più mi piace schiavizzare.» Lui assorbì quelle parole come un balsamo per l'anima. Neobula, però, non aveva ancora terminato: «Ma non intendo lasciare tutto per te. Ora sono una donna libera. Sposandomi, diventerei una cittadina di seconda classe e trascorrerei il resto della vita nel gineceo, partorendo Aristofanini». «Sei ingiusta con me! Non sarei un marito come gli altri. Inoltre, considera che il destino ci ha uniti. Ho le prove.»
«Le prove?» «Non ci troviamo qui tutte le notti?» Neobula sorrise e gli tirò le grandi orecchie pelose. «Non posso negarlo. Tuttavia non mi pare una valida ragione per congiungerci in matrimonio. Se mi amassi davvero non cercheresti di sposarmi per rendermi tua schiava.» «Ci verrà in mente qualcosa per essere liberi entrambi. Col mio talento e la tua bellezza faremo grandi cose.» «'Il mio talento e la tua bellezza'», ripeté Neobula in tono sarcastico. «Tu metti...» la voce le si arrochì, «il genio, oh, l'intelligenza. E io la bellezza: l'unico elogio cui possa aspirare una semplice donna. Metterai anche, oltre al genio, la tua suprema bruttezza. Mi riferisco a questo naso grosso come un tubero», si coprì la bocca per non ridere, «e alle tue grandi orecchie. Che sono nulla se paragonati alla tua prodigiosa pancia, che ballonzola quando mi cavalchi.» Aristofane sorrise e sollevò la coppa fino a sfiorarle i capelli. «Il veleno che sgorga dalla tua bocca mi è più dolce del vino di questa coppa.» Bevve un sorso e aggiunse: «Sposati con me e rendimi meravigliosamente infelice». «Voi uomini non sapete trattare le donne. Vi siete fatti un'idea sbagliata di noi.» Aristofane scoppiò a ridere, dimenando il grasso corpo per attirare l'attenzione del suo vicino, Cinesia, che si stava sottoponendo a uno stupendo massaggio orientale nelle mani di Clais. «Hai sentito, Cinesia? La mia adorata Neobula sostiene che ci siamo fatti un'idea sbagliata di loro.» L'amico si unì alla festosa risata. Neobula sentì il desiderio di schiaffeggiare Aristofane, ma sapeva che non avrebbe sortito l'effetto voluto. «Senza offesa per nessuno», disse Cinesia cercando di ridiventare serio. «Finché riuscirò mantenere la famiglia, mia moglie resterà nel gineceo. Non mi fido di lei: è volubile, chiunque la imbroglierebbe. Non voglio finire alla berlina, come molti uomini che tutti conosciamo», strizzò l'occhio ad Aristofane, che riprese a sbellicarsi dalle risa. «Consentimi di rivolgerti una domanda, Cinesia», intervenne Timareta. «Di cosa parli con tua moglie quando sei a casa?» «Di sciocchezze, che altro dovrei fare?» «Discutere con voi è del tutto inutile!» esclamò Neobula. «Non usate la ragione.»
«Le donne sono sempre state così: volubili, traditrici e libertine», affermò Cinesia sostenuto dall'amico. «Prendete i nostri antenati. Chi sono i grandi personaggi femminili? Deianira, che uccise il suo sposo, Eracle, per gelosia; la fattucchiera Medea, che tradì il padre e il fratello per aiutare Giasone...» «E uccise i suoi figli!» ridacchiò Aristofane. «Elena, la sposa di Menelao», continuò l'altro, «che fuggì con Paride e provocò la guerra di Troia; il fratello di Menelao, Agamennone, poi ucciso dalla moglie Clitennestra, amante di Egisto; e, sempre in questa prolifica famiglia, Elettra istigò Oreste ad assassinare la loro madre. Circe tentò di avvelenare Odisseo ma, non riuscendoci, se lo portò a letto. E Calipso lo trattenne addirittura per sei anni.» «Non scordarti delle simpatiche sirene e delle Arpie!» «E di altre orribili creature meno conosciute.» «E Penelope, la sposa di Odisseo?» osservò Timareta. «Non gli rimase fedele, a Itaca, mentre lui spargeva il suo seme a destra e a manca?» «Hai sentito?» il commediografo si rivolse sghignazzando all'amico, gli occhi colmi di lacrime. «Chiede... di... Penelope!» «Ah, quella dei cento... ventinove pretendenti!» Cinesia era piegato in due dalle risate. «Che succede ai centoventinove pretendenti?» sorrise Neobula. Aristofane, quasi soffocando: «Diglielo tu, Cinesia... Per Zeus! Dille come se li montava quei centoventinove pretendenti!» Neobula represse il disgusto e si unì al divertimento, senza smettere di accarezzare il sesso di Aristofane, come a lui piaceva. Appena tornò a sentirlo in erezione, il commediografo si dimenticò di Penelope e concentrò tutta la sua attenzione su Neobula. Lei gli sussurrò all'orecchio: «Oggi ti farò provare una cosa che apprezzerai molto». Aristofane inarcò le sopracciglia e sbarrò gli occhi sporgenti. Quindi, si lasciò condurre dall'etèra in una stanza del primo piano in cui non era mai stato. «Fai attenzione a quella mangiauomini!» lo ammonì Cinesia. «Gli dei mi riservano una gradevole morte!» si accomiatò pieno di aspettative lui. La camera era priva di mobili, con un grande tappeto di lana e numerosi cuscini sparsi sul pavimento. Da una parete pendevano quattro catene con dei ceppi, due corte per le mani e due lunghe per i piedi. Aristofane sapeva
che si trattava del luogo per cui i più ricchi sborsavano cifre da capogiro, vietato ai meno agiati i quali si vedevano negare l'accesso viste le loro misere sostanze. Ora, grazie alla generosità di Neobula, anche lui avrebbe potuto vivere l'esperienza più ambita della Milesia, un segreto per iniziati. Neobula intanto aveva assunto un'espressione seria, rituale, che lo eccitava vieppiù. Si lasciò spogliare e infilare nei ceppi polsi e caviglie. «La cosa si fa interessante», disse. Era carponi sul pavimento, con le catene che gli interdivano i movimenti, troppo corte e già tese al massimo. Posta dietro le sue natiche, Neobula gli carezzava i fianchi e il ventre. I seni di lei gli aderivano alla schiena e la sua mano scendeva sinuosa verso il suo membro. Aristofane rabbrividiva di piacere. Gli era passata la voglia di ridere e scherzare. Lei gli afferrò delicatamente i testicoli e li strinse. Lui respirò a fondo e trasalì. «Sei il mio schiavo sessuale.» «Sono il tuo schiavo, padrona.» Provò un certo sollievo quando la mano dell'etèra mollò la presa e strinse la base del pene, procurandogli un'ondata di piacere che lo fece gemere. Non desiderava altro che proseguisse, lei invece spostò la mano e, facendola scorrere tra le natiche, gli accarezzò con voluttà l'inguine. Lui si sentiva sguazzare in un pantano rovente. Poi, d'improvviso, Neobula si staccò. «Che succede?» «Ho bisogno del grasso di cavallo. Torno subito.» «Grasso di cavallo?» Neobula lo lasciò solo, a quattro zampe, sofferente. Aristofane si guardò le mani e i piedi incatenati e preferì non pensarci. Un attimo dopo entrò nella stanza qualcuno che non era Neobula. Udì una risata maschile che lo fece trasalire, prima di girare il collo quel tanto che bastava per scorgere Anito, suo implacabile creditore. Questi gli si sedette sulla schiena e lo strattonò per i capelli, sollevandogli il mento. «Sono felice di trovarti qui, così disponibile», disse Anito in tono sarcastico, «perché da un po' di tempo mi stai evitando.» «Ti stavo aspettando, non vedi?» «Magnifico. Mi ridai le tremilacento dracme che mi devi?» «Così tante? Pensavo fossero solo tremila.» «Erano tremila l'anno scorso. Sono trascorse molte lune nuove.» «Non preoccuparti. Questa settimana ti pago.» «Lo spero per te.» «Te lo garantisco. È tutto pronto.»
Anito gli lasciò andare i capelli, senza però smontare dalla sua schiena. Per qualche istante regnò un silenzio assoluto. Aristofane si chiedeva quale nuovo supplizio lo attendesse. Non tardò a scoprirlo: un rivolo di orina calda gli corse lungo la spina dorsale colando sul collo e sulla testa. Risuonò, stentorea, la risata del suo aguzzino. In quel momento si aprì la porta. Aristofane non girò la testa per paura che l'orina gli entrasse negli occhi. Nella stanza il silenzio si tagliava a fette. Anito si rimise in piedi e uscì senza dire una parola. Il commediografo era sbalordito dall'autorità che Neobula esercitava su di lui. Lei gli asciugò l'orina e gli chiese se stesse bene. «Preferirei che mi slegassi, cara, non ho più voglia di giocare.» «Non se ne parla proprio, Aristofane. Non lascio mai un lavoro a metà.» Nel frattempo, con l'altra mano, Neobula ungeva un fallo finto con il grasso di cavallo. E dopo averlo lubrificato a dovere, glielo infilò con violenza nell'ano. Aristofane urlò e si contorse, ma le catene gli limitavano i movimenti; l'etèra, pronta, schiacciò con il peso del suo corpo il lungo e grosso oggetto spingendoglielo sempre più in profondità mentre gli stringeva le cosce tra le sue, come nella lotta. Aristofane sentì un dolore lancinante ed emise un roco ululato, tentò di divincolarsi, si dimenò come un'anguilla e, per qualche istante, si udì solo un fragore di catene. Ben presto si diede per vinto e rimase immobile, piangendo, col pene ancora eretto e il fallo infilato nell'ano fino all'impugnatura. «Smettila! Non resisto più!» gemette. Lei si chinò per sussurrargli all'orecchio: «Nel sesso è buono tutto ciò che fa male». E subito dopo cominciò a muovere il fallo in su e in giù, dentro e fuori, imitando i movimenti pelvici di un uomo, mentre con l'altra mano gli stringeva il pene. Un rivoletto di sangue fluì tra il grasso lucente, lungo il solco delle natiche. I gemiti di entrambi si fusero; quelli di lei erano di piacere. Poi, poco prima di raggiungere l'orgasmo, Neobula estrasse il fallo e glielo mise davanti alla bocca. «Succhialo o ti uccido.» Prima di poter reagire, lui si ritrovò in gola l'oggetto. Un susseguirsi di conati gli scosse il ventre, in un accesso di nausea, ma non riuscì a vomitare. Sentì che le forze lo abbandonavano. Lei lo girò con la pressione delle gambe, lo fece sdraiare a pancia in su e lo cavalcò, inerpicandosi sul suo sesso; poi cominciò a dimenarsi sempre più in fretta, miagolando come una gatta in calore.
Pallido e scomposto, Aristofane si imbatté in Cinesia mentre usciva dalla casa e si sforzò di imprimere alla sua andatura una maggior dignità affinché non si notasse il tormento che gli straziava le natiche. «Come va?» chiese l'amico dandogli una pacca sulle spalle. «Una meraviglia. Non ho mai goduto così tanto», rispose il commediografo con una smorfia spettrale. «Fa tutto quel che vuoi.» «E anche quel che non vuoi!» Aristofane colse una punta di ironia. Si domandò se Cinesia sapesse quanto era successo. Comunque gli doleva troppo il culo per aver voglia di scoprirlo. Nel freddo della notte, i due finirono di sistemarsi le vesti umide del sudore proprio e altrui. Spalla contro spalla, un po' traballanti - Cinesia perché era ubriaco e Aristofane perché aveva le chiappe in fiamme -, si avviarono lungo la strada scoscesa affondando i calzari nel fango. La luna era pallida, ma conoscevano il cammino a menadito. Sempre dritto nel buio, fino a quando ti trovi un muro davanti. «Me ne vado a casa, Cinesia», sussurrò il commediografo. «Mi sento male. Sono rovinato.» «Com'è possibile?» «Non potresti prestarmi cinquecento dracme, amico mio?» «Cinquecento dracme!» trasalì l'altro, sdegnato. «Va bene, facciamo quattrocentonovantacinque.» «Sei conciato così male da fregare gli amici?» «Ho dei problemi. Ma tra poco recupererò il denaro. Presto consegnerò una commedia molto divertente e ti restituirò tutto, te lo giuro su Zeus.» Cinesia emise un profondo sospiro ed estrasse dalla borsa alcune monete d'argento. Erano cento dracme. «Faresti meglio a venire a puttane con me, invece che cacciarti nei guai.» Aristofane gli baciò la mano. «Sei il mio migliore amico.» Cinesia scosse il capo in segno di disapprovazione e i due se ne andarono, ciascuno per la sua strada. X La folla che attendeva ansiosa nel porto del Pireo il ritorno delle navi era
formata in gran parte da donne, anziani, bambini e schiavi non adatti alla guerra. Divisa in capannelli, per famiglie, non faceva che mormorare e lamentarsi di quanto era accaduto per alleviare la tensione. Dopo le tempeste degli ultimi giorni, il mare era calmo e sciabordava pigro tra gli scogli. La sera spiegava nel cielo un ampio velo color malva che si sfrangiava all'orizzonte dove si stagliavano le sagome delle navi. Tutti gli occhi erano fissi su di loro: la folla le contava e le ricontava inquieta, ma ne mancava sempre qualcuna. Ne tornavano molte meno di quante ne fossero partite. Alla fine, entrarono nella darsena centoventi triremi da guerra. Esibivano torce e grandi vele nere in segno di lutto, per le venticinque che erano state affondate in battaglia. Si approssimarono e attraccarono in silenzio. La folla proruppe in grida di disperazione e pianti. Abbattuti, i soldati sbarcarono trascinando armi e attrezzi, privi del decoro proprio dei guerrieri. Donne gementi si facevano largo tra i sopravvissuti urlando i nomi di mariti e figli, cercandoli nella confusione, disperate. Aspasia si sentì venir meno quando vide il figlio tra gli strateghi. Corse ad abbracciarlo con gli occhi pieni di lacrime. Pericle, a pezzi, quasi non reagì alle dimostrazioni d'affetto della madre. Il mattino seguente, gli otto generali responsabili del disastro navale delle Arginuse comparirono davanti all'Assemblea per rendere conto delle proprie azioni. Erano estenuati dalle molte giornate di navigazione senza viveri e col morale a terra. Il capo dell'ala del partito conservatore, che aveva preso parte alla battaglia come trierarca, negò qualsiasi responsabilità e scaricò tutte le colpe sugli strateghi, cui aveva ordinato di recuperare i naufraghi, avendoli dotati di imbarcazioni ben equipaggiate per compiere la missione. Li accusò di inadempienza, di essere arretrati davanti alla tempesta e di aver negato il proprio aiuto ai compagni, optando invece per salvarsi la vita. Gli imputati, nonostante il profondo scoramento, si difesero con foga davanti all'Assemblea tramite il loro portavoce. Gli spartani li avevano bloccati vicino a Lesbo ingaggiando una dura battaglia, che propendeva a loro favore fin quando era sopraggiunta la terribile tempesta. Alcune navi si erano incagliate sugli scogli della costa, altre erano state travolte dalle potenti ondate. Il vento flagellava gli alberi e le prue. Gli spartani avevano iniziato a ritirarsi, loro si erano prodigati per mettere al riparo parte della flotta destinando alcune navi al recupero dei naufraghi. Il compito spettava agli strateghi; ma pur tentando più volte di dirigersi verso il luogo in cui i vascelli erano incagliati e affondati, non erano riusciti a manovrare le im-
barcazioni. L'uragano li sferzava e dalle profondità del Tartaro era emersa una cortina di tenebre. Tutto era caos e oscurità. Gli uomini a bordo non si udivano tra loro neppure se gridavano a squarciagola; si afferravano a ogni sporgenza utile, sovrastati dall'acqua, in balia delle forze della natura che congiuravano per scagliarli tra i marosi. I timoni erano ingovernabili. L'unico modo per uscire vivi era procedere in direzione del vento, sottocosta, alla ricerca di un luogo riparato. Il numero degli scomparsi sarebbe stato di gran lunga maggiore se non avessero agito così. Questo dichiarò il portavoce degli otto strateghi. Uno degli accusatori, membro dell'ala conservatrice, prese la parola. Definì il comportamento dei generali codardo e indegno, invocando il delitto di Stato in quanto avevano tradito la fiducia del popolo per non essersi accollati le proprie responsabilità al comando della flotta. Avevano ricevuto il preciso ordine di salvare l'equipaggio più esposto, gli uomini caduti in mare. Invece, avevano scelto di salvare le proprie vite e di lasciarli morire. La riunione dell'Assemblea fu interrotta dagli schiamazzi della folla che chiedeva l'esecuzione degli imputati. Fu montato un picchetto di guardia per disperdere le masse inferocite e fu presa una pausa per deliberare. Di fronte alla piega drammatica assunta dagli eventi, Aspasia si affrettò a cercare aiuto. Si rivolse anzitutto all'ambasciatore Prodico, in nome della profonda amicizia che li univa. Lui ascoltò le sue suppliche, sinceramente commosso, e le promise di intercedere presso il Consiglio, di fare tutto quanto era in suo potere. Ben sapeva, tuttavia, che non aveva alcuna possibilità di influire sulle sorti del processo. Qualsiasi intervento a favore di Pericle contrastava con le sue funzioni, costituiva un'irregolarità e sarebbe stato percepito come un'ingerenza negli affari interni di Atene. Non solo non avrebbe ottenuto alcun beneficio per Pericle, ma avrebbe messo a repentaglio la sua stessa carica di ambasciatore. «Non mi interessa!» gridò Aspasia furente. «Fa' in modo che non giustizino mio figlio!» E lo colpì sul petto, ripetutamente, ormai sfinita, per scaricare su di lui tutta la rabbia e la frustrazione, finché le ginocchia non le cedettero. Prodico la sorresse, la tenne stretta tra le braccia, le unghie di lei infilzate nella carne, mentre a ogni sordo rantolo la sua disperazione si placava. Poi, recuperate le forze, Aspasia si staccò da lui, singhiozzando, e si appoggiò alla parete, gli occhi ostinatamente fissi sul pavimento. I due rimasero così per qualche istante, turbati, impotenti. Con un filo di voce Prodico le promise che avrebbe comunque parlato al Consiglio.
Invece, non riuscì neppure a entrare nel Bouleuterion dove i rappresentanti del Consiglio erano riuniti per stabilire il procedimento da seguire. Il picchetto di guardia posto all'entrata del tempio gli sbarrò il passo. Da dentro proveniva l'eco di accese discussioni. Prodico considerò freddamente ciò che si accingeva a fare: lo riteneva un passo falso e, oltretutto, inutile. In quella sede la sua presenza non era gradita. Gli animi erano turbati, e lui avrebbe solo peggiorato le cose. Si sedette sulla scalinata di marmo ad attendere e a riflettere, le sue tipiche forme di inazione. Vide avvicinarsi Aspasia a capo chino; senza neppure rivolgergli uno sguardo, la sua vecchia amica entrò. Era l'unica donna di Atene cui era permesso varcare la soglia di quel tribunale. Poco dopo uscì in compagnia di Socrate, all'epoca membro del Consiglio. Ma Aspasia e il filosofo ebbero poco tempo per parlare: il processo agli strateghi riprese subito, nel bel mezzo del trambusto popolare. Accadde allora un fatto strano. Si presentò un testimone che, sotto giuramento, affermò di essere sopravvissuto al naufragio trovando riparo su un barile di farina. Interrogato, dichiarò che era stato assieme alle vittime e che era mancato un serio tentativo di salvataggio. Lui stesso aveva visto con i propri occhi affogare, a uno a uno, i suoi amici durante la tempesta, fino a quando le onde non lo avevano sospinto verso la nave che lo aveva tratto in salvo. Qualcosa, nella deposizione dell'uomo, indusse Aspasia a sospettare che si trattasse di un impostore, pagato per avvalorare la tesi dell'accusa. Anche Prodico ebbe la medesima sensazione. Ma la testimonianza fu decisiva. Il popolo invocava giustizia. Gli imputati, incatenati, udirono la folla che a gran voce reclamava la loro condanna. E poiché erano incolpati di un reato contro Atene, la pena era la morte. Solo Socrate ebbe il coraggio di prendere la parola a favore degli strateghi tra l'ostilità generale. Denunciò le anomalie di quel processo sommario in cui gli imputati, trattati come rei, non avevano neppure il diritto di difendersi individualmente; anzi, erano messi alla gogna davanti al popolo inferocito e destinati alla pena capitale. Le accuse di illegalità furono tacitate dall'indignazione popolare. Socrate rimase solo al cospetto di un Consiglio privo di margini d'azione. Gli otto strateghi furono accusati dello stesso reato e condannati alla stessa pena. Sul far della sera furono gettati dalla rupe del Baratro. Prodico non avrebbe mai scordato il rimprovero di Aspasia, gelido, implacabile:
«Il silenzio può essere una civile atrocità». Il giorno dopo l'esecuzione degli ammiragli, Prodico si imbarcò su una piccola nave dell'ambasciata diretto a Ceo, nelle Cicladi. Lei non lo voleva più vicino. Fu un congedo sbrigativo e freddo, in cui nessuno dei due pronunciò le parole di cui avrebbero avuto più bisogno. Lui era straziato, disperato. Sapeva che sarebbero dovuti passare molti anni prima di poter tornare ad Atene, se mai un giorno vi fosse tornato. Lei lo aveva esiliato dal suo cuore. Pericle, il figlio, e Prodico, il sofista, furono gettati nello stesso momento dalla rupe. Il figlio di Aspasia vi lasciò la vita. Il sofista il cuore. Ma Aspasia si pentì all'istante di ciò che aveva fatto. XI Nel corso dell'anno successivo, il sofista si ostinò a voler riprendere in mano le redini della propria vita schivando le insidie tese dai brutti ricordi. La tristezza era una pessima compagnia. Si consacrò al lavoro di ambasciatore agli ordini di Anassandro, governatore di Ceo e donò a Protagora una copia del libro che verteva sul suo pensiero. L'omaggio regalò al maestro momenti di intensa felicità, il che stimolò Prodico a scrivere ancora. Nella casa di Ioulis, che l'aveva visto nascere, produsse altri due libri, uno intitolato Intorno alla natura dell'uomo e l'altro Le stagioni, nei quali più che del proprio pensiero fece sfoggio di un personale stile compositivo. Di tanto in tanto discuteva con l'amico Gorgia, che però preferiva i discorsi lunghi e ampollosi alle frasi vagamente epigrafiche di Prodico. Le loro divergenze affinarono la predisposizione del sofista di Ceo per l'uso rigoroso delle parole, spingendolo a concepire un'opera più completa e matura che riflettesse la sua attenzione verso il linguaggio. Il Saggio sulla sinonimia lo tenne occupato un lustro: Prodico lo aggiornava costantemente con originali riflessioni sull'uso indebito della lingua, così radicato anche in brillanti oratori come Democrito e Antistene. Il suo maestro ebbe il privilegio di leggere alcuni manoscritti, più abbozzi che testi finiti, e lo incitò a intraprendere, per la prima volta, una vera e propria analisi logica del linguaggio, che fissasse l'essenza delle parole dal significato simile ma non identico. Entrambi erano infatti convinti che nella ricchezza della lingua greca si celasse una vena di saperi ancora inesplorata, e anche che nei limiti di questa risiedessero i limiti della conoscenza.
Purtroppo per Prodico, Protagora di Abdera non vide mai il libro terminato: perì in un naufragio quando stava per inviarglielo. Prodico si sentiva un sofista per indole e vocazione, non per l'abituale esercizio di quella pratica filosofica. E il suo fallimento con la donna che tanto amava gli aveva cambiato il carattere. Sviluppò una certa misantropia che contrastava con la sua natura di educatore: era poco paziente e non sentiva un amore sincero per i discepoli; anzi, si infastidiva quando doveva adeguarsi al basso livello richiesto da costoro. Preferiva intrattenersi con persone di un certo spessore culturale e impartire lezioni a pagamento solo ai gradi più avanzati, il che - lo sapeva bene - contraddiceva lo spirito della sofistica. Ebbe la fortuna di annoverare tra i propri discepoli uomini di grande talento, come Tucidide ed Euripide. E avendo avuto alunni di tal fatta, non riuscì più ad adattarsi a quelli meno dotati, tant'è che ben presto abbandonò l'insegnamento. Al contrario, l'arte della politica, con tutti i suoi intrighi, gli procurava un piacere profondo, quasi perverso. Stabilì allora di dedicare il grosso dei suoi ben ripartiti sforzi alle missioni affidategli dal governatore dell'isola. Quando si soffermava a scandagliare il proprio cuore, sentiva che qualcosa di intimo e imprescindibile era rimasto sepolto, per sempre, sull'altra sponda del mare. Pertanto, a un anno di distanza dai tristi eventi, Prodico decise di tentare la sorte. Un certo difensore della Conoscenza Assoluta aveva manifestato tutto il disprezzo per la sofistica sostenendo in un'occasione che un sofista prima ti convince di una tesi e poi, subito dopo, passa a convincerti dell'opposto. Bene, era una massima di cui andare fieri. Perché si sentiva così abbattuto? Perché era caduto in disgrazia? Rifiutandosi di difendere il figlio di Aspasia davanti a quella corte di notabili, l'aveva indotta a non accordargli la sua stima. Ora si sentiva in dovere di convincerla che, proprio per il fatto di non essere intervenuto, era più che mai meritevole del suo amore. Del resto, se adducendo valide motivazione si può far credere a un uomo assennato che una tartaruga corre più veloce di una lepre, non si può forse convincere una madre a perdonare chi non ha impedito la morte del figlio? Il sofista di Ceo, votatosi a siffatto proposito, tracciò le linee guida del suo ragionamento: della morte di Pericle, figlio di Aspasia, non erano colpevoli né lui né l'Assemblea che lo aveva giudicato e condannato, bensì l'assurda guerra in cui Atene si era fatta invischiare, sacrificando ogni cosa. Trascorso un anno intero dalla partenza da Atene, prese una tela di cana-
pa per scrivere ad Aspasia, adducendo le seguenti ragioni: Cara Aspasia, sono profondamente dispiaciuto per la morte di tuo figlio e in un certo qual modo mi sento responsabile. Ma sono ancora più dolente perché la nostra amicizia si è guastata. Ho tentato di spiegarti ad Atene le ragioni per cui non sono intervenuto, ma non eri nello stato d'animo adeguato per ascoltarmi. Forse lo puoi fare adesso. Rappresento, come sai, un'isoletta dell'arcipelago delle Cicladi, siamo in posizione di debolezza e la nostra diplomazia si basa, da sempre, su un'alleanza neutrale. Secondo Atene non c'era neutralità possibile: o stavamo con loro, o con i nemici. Abbiamo detto, allora: va bene, siamo pure alleati, però alleati neutrali. La prudenza ci consigliava di non opporci a nessuna delle parti. E abbiamo firmato un trattato di amicizia con Atene che ci impediva di partecipare a questa guerra. Ma la nostra posizione è sempre stata alquanto delicata. La tua richiesta di aiuto mi ha creato un conflitto di interessi. Il mio desiderio personale era quello di appoggiarti ed esercitare pressioni su chi partecipava al processo, ma il bene collettivo mi imponeva di restare ai margini. E tu mi chiedevi di infilare la mano nella gabbia del leone. Credimi, la mia decisione è stata molto dolorosa e mi è dispiaciuto averla presa. Spero solo di ottenere il tuo perdono e di recuperare il tuo affetto, che mi è tanto caro. Tuo sempre, Prodico La risposta giunse nel giro di un mese. A Prodico, ambasciatore di Ceo, sofista. A poco ti servirà accampare ragioni, Prodico. Il tuo gioco di invertire i termini non funziona con me. Troppo freddo, intellettuale. Tuttavia, apprezzo l'onestà delle tue intenzioni e il coraggio di
scrivermi, nonostante tutto. Anch'io non ti ho dimenticato. Aspasia In Socrate Antemione trovò ben presto il suo vero padre. Sapeva, d'altra parte, che era un uomo povero, privo di beni materiali, che indossava un vecchio e sporco chitone, abitava in uno squallido tugurio di un umile quartiere, tra la spazzatura e il bestiame, e non possedeva schiavi. Era al corrente delle voci e delle battute che circolavano su di lui, soprattutto dopo essere stato oggetto della satira di Aristofane nella farsa Le nubi, una tra le più popolari del commediografo. Le cose non si mettevano bene per il figlio di Anito. Lui cercava una soluzione che conciliasse i suoi opposti interessi, senza compromettere troppo il modo di vivere cui era abituato, dove la pratica dello sport e la cura del corpo occupavano un ruolo importante. Del resto, rinunciare a tutti i privilegi di cui godeva fin dalla nascita gli pareva un sacrificio eccessivo. Semplicemente non se la sentiva di subire le conseguenze che sarebbero derivate da una rottura con il padre. Anito era stato esplicito: o lavorava con lui o non lo avrebbe mantenuto in casa sua. E non intendeva aiutarlo nella ricerca di un mestiere diverso da quello di famiglia, anche se vi entrava come semplice apprendista, rifiutando di assumersi le responsabilità che gli spettavano. Insomma, il solo modo di conservare i privilegi di cui godeva era accettare le condizioni poste da Anito, riguardo alle quali non gli era concesso alcun tipo di scappatoia. Se si fosse ostinato a cercare una propria strada, non avrebbe ricevuto alcun appoggio. Neppure Socrate alimentò in lui false speranze. Non gli disse ciò che voleva sentire: parole di conforto, giustificazioni o facili soluzioni. Si limitò a fare in modo che Antemione riconoscesse l'esistenza dei propri legami famigliari e, alla fine, accettasse di non poter vivere senza i piaceri e le ricchezze, comprendendo così di non essere molto diverso da Anito. Antemione si rese conto di essere tanto debole e dipendente e si sentì umiliato sia dal genitore sia da Socrate, anche se doveva ammettere che il filosofo aveva ragione. Socrate non prendeva partito né per l'uno né per l'altro, non cadeva nella trappola di difenderlo; lo aiutava solo ad affrontare la dura realtà, che il giovane si ostinava a eludere. Non aveva scuse. Doveva decidere. Antemione, tuttavia, temeva le conseguenze di una scelta irrevocabile, che gli impedisse di fare marcia indietro. Preferì allora adottare una nuova
strategia: discusse col padre per convincerlo che non aveva alcun diritto a esigere da lui che seguisse la sua stessa strada e utilizzò la dialettica socratica. Fu un grave errore. Quel nuovo modo di parlare del figlio gli suonava famigliare: gli ricordava un tale soprannominato «il tafano di Atene», senz'altra occupazione che quella di giudicare l'esistenza di chi, come lui, si guadagnava onestamente la vita col sudore della fronte. Ben presto ebbe conferma dei suoi sospetti: alcuni amici gli riferirono che negli ultimi tempi avevano spesso visto Antemione parlare con il filosofo. Anito lo andò a trovare di persona e lo avvertì che avrebbe adottato seri provvedimenti se avesse frequentato ancora il figlio. Socrate fu molto sorpreso da quella visita. Tuttavia non smise di parlare con Antemione, dando scarsa importanza alle minacce proferite da un uomo inferocito. Che si ripresentò infatti nei mesi successivi. Anito non arrivò ad aggredire fisicamente il filosofo - sarebbe stato controproducente picchiare un vecchio - né poté distruggere le proprietà personali di questi, visto che era povero. Però gli ronzava un'idea nella testa, e giurò che lo avrebbe rovinato. «È la fine che vuoi fare? Diventare un buono a nulla, un ozioso come Socrate?» urlava al figlio. «Un volgare mendicante? Sei il disonore della famiglia!» Incapace di sciogliere il dubbio che lo attanagliava e sempre più distante dal genitore, Antemione cercò riparo fuori casa, standosene lontano per buona parte della giornata. Osservava la gente lavorare, ma non trovava alcunché di interessante: in fondo si trattava di rozzi mestieri manuali, alla portata di qualsiasi bifolco. Girovagava senza meta, rimuginando tutto il giorno, entrava nelle taverne e beveva senza controllo, tornando a casa la sera ubriaco quanto bastava per sopportare le rappresaglie di Anito, o anche per convincerlo a desistere dal ricordargli il grande errore che stava commettendo. Vedendolo in quello stato pietoso, il padre lo obbligò a sgobbare nella conceria di famiglia, senza però riuscire a piegarne la volontà. Non appena poteva, Antemione scappava per bighellonare assieme agli amici o per frequentare taverne. Il giovane si era convinto di essere troppo intelligente per sporcarsi le mani come cuoiaio o commerciante. Fece timidi tentativi di dedicarsi alle arti delle Muse, ma queste sembravano fuggire spaventate non appena le invocava. Trovò anche conforto nel suo migliore amico, Aristocle, più conosciuto col soprannome di Platone. Costui abitava nel suo stesso quartiere ed era
membro di una delle famiglie aristocratiche più in vista di Atene, discendenti dal re attico Codro. La madre, Perictione, apparteneva alla stirpe di Dropide, parente di Solone, ed era intima amica della madre di Antemione. Era vedova del suo primo marito, Aristone, un democratico molto influente. La scomparsa del padre aveva segnato Platone fin dalla tenera infanzia, e fu forse questo sentimento di abbandono a far nascere l'amicizia con Antemione. Platone e Antemione si frequentavano sin da quando avevano dieci anni. All'epoca giocavano insieme nell'agorà, si inseguivano tra i mercanti, combattevano nell'arena della palestra, praticavano sport e coltivavano la poesia. Platone lo batteva nella lotta e nel lancio del disco; era un ragazzo robusto, orgoglioso, e si sentiva destinato a grandi cose. Quando ottenne le sue prime onorificenze aveva quindici anni e le spalle così larghe che gli amici gli affibbiarono il soprannome che avrebbe sempre usato. Poco dopo, Platone abbandonò gli sport per dedicarsi alla poesia. Crizia, lo zio, gli insegnò l'elegia e l'esametro, discipline per le quali mostrò un gran talento. All'epoca, Antemione aveva appena conosciuto Socrate, e ne era rimasto così colpito da confidarsi con Platone, contagiandolo con la sua fanatica ammirazione per il filosofo. Era il momento giusto: Platone stava superando il maestro Crizia ed era alla ricerca di un modello che lo soddisfacesse appieno. Lo trovò in Socrate. Platone aveva diciott'anni quando fu accolto nel suo circolo e ne divenne l'allievo prediletto. Mentre notava i progressi compiuti dall'amico, che cresceva in sapere e considerazione, Antenione cominciò a soffrire per il rifiuto di Socrate. Si sentiva scalzato, e iniziò a considerare Platone un rivale. L'invidia e il rancore accumulato sfociarono in un litigio, dal quale Antemione uscì con un braccio rotto e la determinazione di allontanarsi per sempre dal vecchio compagno di giochi. Cominciò a bere come una spugna. Senza amici, abbandonato da Socrate e dal proprio padre, si sentiva affondare. Ogni tanto, supplicante, bussava ancora alla porta del maestro, pregiudicando sempre più la sua già compromessa dignità. Si mise quindi a vagabondare, tra una sbronza e l'altra, quando il padre non lo rinchiudeva in casa, non tanto per il suo bene quanto per salvaguardare la reputazione della famiglia: aveva deciso di mantenerlo perché non diventasse un mendicante o un malfattore. Di lì a poco il ragazzo andò a combattere nella grande guerra, ma non si distinse quale soldato esemplare. Anito, invece, continuava a prosperare. Si era attorniato di capaci ammi-
nistratori e associato a persone influenti. Voleva essere più che un semplice commerciante; studiò l'oratoria e la politica e allacciò stretti rapporti con i settori ideologici che mantenevano viva la fiamma della democrazia. Ambiva alla carica di stratega. Quando Atene fu sconfitta nella grande guerra e si instaurò il regime dei Trenta Tiranni, cinquemila democratici presero la via dell'esilio; Antemione non volle seguire il padre. Un anno più tardi, i democratici esiliati avevano formato un esercito agli ordini di Trasibulo. Anito, che guidava il fronte per la riconquista di Atene, combatté valorosamente. Quegli avvenimenti segnarono l'inizio della sua inarrestabile ascesa verso i circoli più influenti, all'epoca in cui fu restaurata la democrazia. Godeva fama di aver rispettato la vita dei prigionieri e sostenuto l'amnistia per gli insorti; poteva, inoltre, fregiarsi del merito di essere tra gli ateniesi più colpiti dalle usurpazioni del Consiglio dei Trenta. Non scordò mai l'oltraggio di Socrate, ed era disposto a tutto pur di assecondare la sua brama di distruggerlo. Tempo prima, assieme ad altri compagni che si erano sentiti offesi o umiliati dal filosofo, aveva avviato una campagna diffamatoria nei suoi confronti. Cominciò a scavare in profondità nella sua vita non appena seppe che non aveva lasciato Atene assieme ai democratici durante il governo dei Trenta Tiranni. Era un chiaro indizio di arrendevolezza nei loro confronti. Scoprì che, anni prima, il filosofo era stato maestro di colui che sarebbe poi diventato l'esponente più in vista del regime, il più sanguinario tra tutti: Crizia. E quando ritenne di avere raccolto sufficienti prove per accusarlo di slealtà e tradimento, nonché di corrompere la gioventù con insegnamenti dannosi, lo citò in giudizio. Era giunto il momento di appagare il proprio desiderio di vendetta e di riscattare l'onore. Era certo di poter dimostrare la colpevolezza di Socrate e di farlo condannare a morte. Per questo si preparò meticolosamente a sostenere il processo, sicuro di vincerlo. Era la sua grande opportunità. XII Nelle ultime settimane non si parlava d'altro. La notizia era corsa di bocca in bocca per tutta la città, suscitando ogni genere di reazione: giubilo, sollievo, stupore, indignazione o tristezza, ma mai indifferenza. La persona più colpita fu, senza dubbio, Aspasia. In preda a una grande angoscia, la donna si recò da Socrate. Non aveva
dimenticato quanto, un tempo, il filosofo si era prodigato per salvare il figlio, e sentiva di avere un grosso debito verso di lui. Sapeva che la vita dell'amico era in pericolo, anche se questi non sembrava, o non voleva, accorgersene. Lo trovò steso al sole del patio mentre, nel tugurio, la sposa Santippe tentava di calmare un neonato. Il vecchio se ne stava tranquillo, come se nulla lo sfiorasse: né le urla del figlio, né l'irritazione della moglie, né il processo incombente. Aspasia gli chiese se aveva preparato l'arringa difensiva. «La mia difesa è la mia vita», rispose lui. Invano lei tentò di convincerlo che, in tribunale, quella dichiarazione non sarebbe servita a molto. Socrate non fece una piega: non aveva niente da nascondere ed era convinto che le ingiurie e le calunnie sarebbero crollate da sole, data la loro infondatezza. Aspasia, conoscendo Anito e i suoi propositi, considerava il problema da un punto di vista più pratico. «Non intendo ingannarti, Socrate. Hai dei nemici potenti. Sai di cosa ti accusano?» «Come faccio a saperlo?» La donna gli si sedette accanto. Rifletté bene, prima di parlare. Voleva trovare le parole giuste, perché sapeva che sarebbe stata un'impresa titanica convincerlo. Si era ben preparata ad affrontare la situazione. «Ascoltami, Socrate. So che la tua serenità è la prova della tua virtù. Noi, i tuoi amici, lo sappiamo, e spero anche che tu riesca a convincere la giuria. D'altro canto, so come funzionano questi processi... Ricorda che anch'io ho dovuto subirne uno. Rammenta cosa è accaduto a Protagora e a Euripide. È una trappola mortale. Ti vogliono incastrare. E si serviranno di argomenti meschini, non importa se falsi. A volte basta instillare nella giuria un lieve sospetto. Le accuse che ti rivolgono sono molto gravi, implicano una minaccia per la stabilità della polis. Benché non dispongano di prove attendibili, non avranno esitazioni. Tu sai come vanno le cose di questi tempi: la gente ha paura, non si fida più di nessuno, e vuole evitare disgrazie come quelle accadute di recente. Sono venuta a sapere qualcosa circa il tuo capo d'accusa, Socrate, ed è di natura politica. Sono intenzionati a distruggerti. Conoscono i tuoi punti deboli, insisteranno sui tuoi rapporti con Alcibiade e Crizia. Ed è sufficiente che in un tribunale risuonino questi due nomi perché scoppi un terremoto. Quell'Anito ha preparato le cose per bene e gode di notevoli appoggi. È un uomo potente, lo sai. Devi impegnarti a fondo nella tua difesa. Sono molto preoccupata.»
«Sono solo calunnie, cara Aspasia. Chi credono di impressionare?» «Socrate!» Aspasia non poté reprimere un singhiozzo. «Devi preparare la tua difesa!» Lui la fissò in silenzio, compatendola, senza sapere che fare. Aspasia, ripreso il controllo di se stessa, estrasse un rotolo di papiro che teneva in una borsa di tela sotto le vesti e glielo porse. Al filosofo bastò un'occhiata per capire che si trattava di un'orazione giudiziaria. «Leggilo attentamente. È di Lisia, il logografo.» «Non dovevi preoccuparti, Aspasia.» «Leggilo ora, ti scongiuro.» Socrate fece quel che l'amica gli chiedeva. La prima parte consisteva in una formale dichiarazione di patriottismo e fedeltà ad Atene; quindi, dopo aver negato con una certa enfasi le accuse rivoltegli, la perorazione chiudeva in tono vagamente patetico: E così, ateniesi, è falso che io abbia aizzato i giovani contro le nostre sacre usanze religiose e democratiche. È tempo, invece, di ritrovare la fiducia in noi stessi e di raccomandarci agli dei affinché veglino sulla pace e la concordia, recuperando lo spirito di Pericle e ricostruendo la città per restituirle l'antico splendore. Amo Atene, come tutti sapete, e mai mi sono allontanato dalla città se non quando fui chiamato in guerra per difenderla. Non sono reo di empietà, e nei dialoghi con i miei giovani amici non ho mai osato mettere in dubbio i principi della polis, guidandoli piuttosto lungo il cammino della virtù e della moderazione, per servire con rettitudine la nostra divina città. Per questo invoco comprensione e clemenza. Avete ascoltato le mie parole, illustri giurati. Non ho mai avuto segreti da nascondere e non li ho neppure in questo momento. Ma non parlo solo per me. Mia moglie e i miei figli soffrono per l'affronto rivoltomi ancor più di me, che sono anziano e mi avvio al termine della vita. Pensate che ho il dovere di occuparmi di una famiglia e soprattutto del più piccolo dei miei figli. Riflettete su tutto ciò e giudicate se merito o meno questo processo e tante dolorose ingiurie, dal momento che non vi è calunnia più abietta, per il mio onore, che veder messa in dubbio la mia fedeltà ad Atene, radiosa di saggezza e terribile nella sua ira contro i traditori. Atene, la più bella città che occhio umano abbia mai contemplato.
Socrate sollevò gli occhi e si imbatté nello sguardo indagatore dell'amica. La tensione di Aspasia tradiva il suo fervente desiderio che il filosofo accettasse di declamare in pubblico quel discorso. «Cosa ne pensi?» «È abile, efficace e commovente. Ti ringrazio sinceramente, ma so difendermi da solo, Aspasia.» Lei si rese conto che non lo aveva apprezzato affatto e che, con «efficace», intendeva dire artificioso, e con «commovente» truffaldino e adulatore. Come temeva. Lo affrontò guardandolo fisso negli occhi, il che, in un certo senso, era inutile: Socrate non era solito evitare gli sguardi. «Ascoltami bene, Socrate, non essere ostinato. Non basta che tu sia sicuro di essere innocente. Devi convincere la giuria di questo. E i giurati non li convinci adducendo la tua vita come esempio di virtù e fedeltà ad Atene. Dovrai dimostrarlo in quella sede, come se fosse la prima volta, come se dovessi ricominciare dall'inizio. Non pensare che conoscano i tuoi meriti; pensa piuttosto che gli uomini che ti ascolteranno e decideranno se sei innocente o colpevole non siano ben disposti verso di te, che nutrano sentimenti ostili. Dovrai convincerli che sei innocente con ogni parola proferita, ogni respiro emesso. Le tue argomentazioni devono essere più persuasive di quelle dell'accusa, più solide, e nello stesso tempo capaci di confutare le loro. E questo, Socrate, significa che devi ricorrere a una buona oratoria.» «Una buona oratoria non è quella che si propone di ingannare i giudici ricorrendo ad artifici, come farebbe Prodico.» «Artifici?» sospirò Aspasia sbalordita. Si alzò, camminò un po', meditando su quanto aveva appena sentito. Fece appello a tutte le sue forze per calmare i nervi. Perché era così testardo? Gli si risedette accanto, cercando di mostrarsi il più dolce possibile. «Socrate, per favore, tu non sai nulla di queste cose. Ascolta le mie ragioni e non disprezzare la mia offerta prima di aver riflettuto a dovere. Ricorda che è in gioco la tua vita, ma pensa anche ai tuoi figli. Non ti sto chiedendo di trasformare la tua difesa in un rozzo imbroglio, ti imploro di preparare l'arringa difensiva perché temo che il metodo che adotterai in tribunale ti servirà a poco. Sappiamo che Lisia ha uno spiccato talento per convincere e commuovere, e che, grazie a esso, ha sottratto alla morte molti suoi clienti. Ed è proprio quello di cui abbiamo bisogno.» «Se un buon discorso può convincere una giuria che un criminale è in-
nocente, o che un uomo giusto è colpevole, lo stesso criterio si deve applicare ai discorsi che difendono l'innocenza dell'innocente o la colpevolezza del colpevole: sono tutti fallaci, in quanto condanna e assoluzione sono frutto degli stratagemmi della retorica.» «Il tuo purismo non ti sarà di alcun aiuto, Socrate. I processi sono costellati di impurità. L'autenticità cui aspiri è una chimera, un'illusione. Sii realista, ti scongiuro!» «Per tutta la vita ho difeso ciò che ti sto dicendo, Aspasia. Non puoi chiedermi che adesso, per timore, contraddica i miei principi.» «Comprendo ciò che intendi. Conosco a menadito il tuo disprezzo per la retorica... ne abbiamo parlato a lungo con sofisti come Prodico o Protagora, nei saloni di casa mia. Ma ora siamo in una situazione di vita o di morte. E devo ricordarti che la retorica, ti piaccia o no, è il fondamento di ogni sistema legale, dal momento che non esiste un modo più efficace di difendere o di accusare. Non disporremo mai di prove materiali sufficienti a rendere le parole superflue. La verità ci sfuggirà sempre di mano come un pesce. Ci avvicineremo a essa con i nostri goffi ragionamenti, cercheremo di arpionarla con la ragione e scopriremo che il pesce non era laddove avevamo visto il suo riflesso.» «Può darsi tu abbia ragione, Aspasia, però sai bene che il sapere pratico non è mai stata una mia virtù.» Lei comprese che Socrate aveva desistito dall'idea di spiegarle la sua posizione perché non intendeva rinunciarvi e voleva solo mostrarsi gentile. Aspasia si sentì travolta da un'ondata di furia impotente; gli voleva troppo bene per permettergli di cadere nella trappola che gli avevano teso. Lui aveva difeso Pericle, suo figlio, in quel processo infame, e adesso si sentiva in obbligo di saldare il debito. Avrebbe fatto qualunque cosa per evitare il destino che, inesorabile, incombeva su di lui. Ma la forza del filosofo risiedeva appunto nella sua intransigenza. Non sarebbe mai riuscita a fargli cambiare idea. La battaglia era persa. SECONDA PARTE XIII Dall'alto del promontorio di Ceo si scorgevano le feluche ormeggiate sulla riva, tra i bassi scogli rossastri, e i pescatori intenti a preparare gli attrezzi. La bonaccia stemperava l'azzurro del mare in un grigio metallico.
La residenza del governatore dell'isola sorgeva nel luogo ideale per scrutare l'orizzonte, sovrastava la città di Ioulis, situata ai suoi piedi, ed era ben protetta dalla brezza grazie a una brulla collina dove crescevano gli ulivi. Vi si arrivava per un tortuoso sentiero che si inerpicava non lontano dalla falesia. A mezz'ora di cammino si ergeva la colossale scultura rupestre raffigurante un leone, ricordo di un'antica leggenda secondo cui le ninfee erano vissute felici a Ceo fino alla comparsa dell'enorme felino, a causa del quale fuggirono sulle coste dell'Eubea. In assenza di Muse che ispirassero grandi opere, l'isola sopravviveva senza problemi grazie alle miniere d'argento, di rame e di ossidiana. In cima al colle l'erba era secca e rada, per via delle capre che brucavano sul pendio, ma si trovava ancora qualche cespuglietto di oleandri e, qua e là, rari papaveri disseminati tra i rovi e i viticci. Prodico risaliva il sentiero zoppicando e asciugandosi il sudore della fronte con un panno. La luce esaltava il verde dei pini. Di tanto in tanto i suoi passi si facevano così brevi e lenti che sembrava stesse fermo. Aveva sessantasei anni e detestava compiere sforzi, anche se secondo il suo medico ogni passo gli avrebbe allungato di qualche attimo la vita. Il sole stava toccando lo zenit e l'aria era rovente. Si intravedeva qualche nuvola, ma al momento non sembravano disposte a dispensare un po' d'ombra; forse in seguito, chissà. Quanto più ci si accostava all'orlo del dirupo, tanto più cresceva il ritmico, sordo rumore del mare. L'aria salmastra odorava di alghe. Erano passati sette anni da quando il sofista aveva scoperto che il silenzio poteva essere una civile atrocità. Ci pensava ogni giorno. In quel momento però pensava solo al governatore di Ceo e, mentre passava sotto gli archi del patio, collaudò un sorriso. Sostò brevemente nella fresca penombra dell'atrio, appoggiando la schiena al muro di pietra per recuperare le forze prima di tornare ad affrontare il sole che, una volta all'esterno, lo abbagliò. Il giardino di caprifogli sonnecchiava nell'afa del mezzodì. Accanto al pozzo, la schiava Alcippe gettava secchi d'acqua per rinfrescare gli ambienti interni della villa. La salutò con un gesto affabile, un po' meccanico, frutto dell'abitudine. Leggermente turbata, la vecchia abbassò lo sguardo. Prodico ricordava bene l'epoca in cui le aveva accarezzato i seni e le natiche, quando era un allegro giovanotto e lei una timida pastorella di capre che profumava d'olivo. Entrambi si erano visti crescere e invecchiare, quali muti testimoni che si davano appuntamento in quel patio di pietra e caprifoglio sovrastato da un sole immoto. Anche lei, come lui, a-
desso era piena di rughe dovute all'età e alle intemperie. Il sofista attraversò il patio e cominciò a salire lentamente i gradini in penombra che conducevano al salone di ricevimento, preceduto da una guardia. Sapeva che, ancora una volta, il governatore avrebbe cercato di convincerlo a cambiare parere, facendo sfoggio di raffinate tecniche persuasive e allettandolo con offerte ancora più generose di quelle che lo avevano spinto a rimanere in carica altri cinque anni. Prodico immaginò, per contrastare tale eventualità, che avrebbe aperto un forziere dinanzi ai suoi occhi, e si preparò a un nuovo scintillio di gioielli e monete, bottini di guerra; o forse il governatore gli avrebbe messo dinanzi qualche fastoso regalo inviato dai loro potenti vicini, proprio in virtù della sua mediazione di diplomatico. Si rassegnò ad ascoltare il discorso di sempre sull'insostituibile vuoto che lasciava, in assenza di candidati degni di fiducia atti a rimpiazzarlo, sul delicato momento politico per Ceo, sull'importanza della missione che gli era stata affidata e su un'infinità di cose simili. Quel brandello di terra vulcanica era passato quasi indenne attraverso numerosi terremoti e svariati decenni di guerra, mantenendosi ai margini grazie a un'astuta politica fatta di accordi e trattative. Da Ceo erano transitati eserciti, popolazioni deportate, pirati, barbari; ora che finalmente era sopraggiunta la pace - la quiete che segue la tempesta - Prodico si sentiva troppo stanco per opporsi al corso degli eventi e intendeva dedicare il tempo che gli restava alla filosofia. Questa volta avrebbe rinunciato alla carica in modo irrevocabile. Piegando appena il capo per passare sotto l'arco della porta e calpestando il pavimento con la suola di canapa dei calzari, entrò nel vestibolo, si fece annunciare nella sala delle udienze e fu scortato fino all'entrata da due schiavi nubiani dal torso rilucente. Il governatore Anassandro stava avvolgendo dei rotoli dietro un tavolo affiancato da enormi vasi. Non appena vide entrare l'ospite licenziò gli schiavi con un cenno sbrigativo della mano e lo invitò a sedersi sgombrando un triclinio dai cuscini. Anche il governatore aveva i capelli bianchi; e benché fosse più giovane di Prodico di quindici anni, il tempo era stato assai più impietoso con lui. Una fine peluria bianca aleggiava sul suo spigoloso cranio. Indossava una veste di lino senza molti orpelli. «Mi hanno riferito che volevi vedermi», disse Prodico amabile. «Un messaggero con l'aria da eunuco ha portato questo da Atene.» Il governatore sollevò un grosso plico arrotolato come se fosse uno strano
oggetto. «Pensavo si trattasse di un libro, invece è una lettera. Una lunga lettera. Che delusione quando ho capito che non era diretta a me, ma a un certo ambasciatore di Ceo!» Anassandro preparò delle coppe d'argento per il vino. Dalla grata della finestra giungeva il monotono frinire delle cicale. «Una lettera?» il sofista aggrottò la fronte. «Scritta con una bella grafia.» Prodico prese la coppa che l'altro gli porgeva e bevve un sorso. Aveva la gola secca per la lunga camminata. «Dev'essere di qualcuno che ti stima molto», dichiarò il governatore con un sorriso infantile. Prodico non si scompose. Anassandro stava per consegnargli il grosso involucro, ma si fermò. Preferiva ritardare la sorpresa. «Cosicché, amico Prodico, eri in attesa di un messaggio importante.» «Non stavo aspettando nulla di rilevante», ribatté l'ospite scuotendo il capo. «Non sai di cosa si tratta? Pretendi forse di nascondermi i messaggi che arrivano dall'estero?» «Cosa dici! Se non so neppure cos'hai in mano, caro Anassandro.» «State forse tramando una qualche congiura alle mie spalle?» scherzò quello, allungandogli la pergamena. Il governatore - pensò il sofista - si sta inventando un qualche intrigo politico per sgranchirsi le membra e preoccuparsi un po', dato che mal si abitua alla nuova fase di stabilità. Prodico aprì il plico e si stupì alquanto nel leggere il mittente. Quel nome gli mosse qualcosa dentro: dapprima gli provocò un intimo sussulto, poi un delizioso brivido di piacere. Non si aspettava proprio una lettera dall'unica persona al mondo da cui desiderava riceverne una. Il suo sguardo tradì quell'intima agitazione. Anassandro, sempre più incuriosito, riusciva a stento a nascondere la sua brama di sapere. «Una persona importante?» Prodico sorrise dandogli le spalle. Era il suo turno di farlo soffrire un po'. «Una persona importante», ripeté. «Questioni politiche.» «Può darsi.» «Come... può darsi? Mi vuoi dire di chi si tratta o no?»
«Non credo.» «E si può sapere il perché?» «È una persona che conosci.» «Ah, sì? Poteva scrivere a me. Di dov'è?» «Ateniese.» «Vuoi giocare agli indovinelli?» «In politica è stata famosa quanto Pericle in persona.» Il governatore tacque per qualche istante battendo le palpebre, un tic che gli veniva quando si agitava. «Nessun politico è famoso come Pericle, almeno tra i viventi.» Il sofista sorrise per la puntualizzazione e aggiunse: «Pericle non sarebbe mai stato colui che è stato senza l'aiuto di questa persona». «Davvero?» Anassandro sorrise, scuotendo il capo incredulo. «Qualcuno vicino a Pericle? Guarda guarda... chi potrà mai essere?» L'ambasciatore fece schioccare le giunture dei polsi per distrarsi mentre stuzzicava la curiosità del governatore con gli indovinelli. «Di fatto scriveva i discorsi a Pericle.» «Sul serio? Un politico importante quanto lui e che gli scriveva i discorsi? Lo conosco? Che ci sto a fare in quest'isola, per Zeus?» «Allora?» lo incalzò Prodico. «Ti arrendi?» «Forza, dimmelo prima che finisca nell'Ade.» «È una donna.» Il governatore rimase un attimo perplesso. Poi sorrise e si portò la mano alla pelata. «Aspasia di Mileto! Che idiota! Come ho fatto a non pensarci prima?» Prodico gli si avvicinò e gli sfiorò la fronte con le nocche, come se bussasse lievemente a una porta. «Ti dirò perché, mio caro amico. Perché non hai neppure preso in considerazione l'ipotesi che poteva non essere un uomo.» «Certo. Come potevo immaginare una tale stranezza?» «Metà dell'umanità è formata da donne, sciocco.» Anassandro scoppiò a ridere come se avesse appena udito una geniale battuta e si servì un'altra coppa di vino pensando, cupo, alla moglie, che di certo stava lavorando al telaio. Prodico accarezzò le pergamene e le avvicinò al viso, quasi potesse cogliere in quelle lettere il profumo della mano che le aveva scritte. Anassandro indovinò i suoi pensieri.
«Non intenderai partire per Atene lasciando il tuo incarico, vero?» Il diplomatico si girò verso di lui e lo fissò con uno sguardo spento. «Non so ancora se andrò da qualche parte, ma mi spiace dirti, Anassandro, che i miei obblighi nei tuoi confronti sono giunti al termine.» «Cosa dici?» esclamò allarmato l'altro. «Rinuncio, definitivamente», dichiarò il sofista, e nel dirlo provò una gran gioia interiore, quasi un'infantile sensazione di libertà. Quindi, afferrando una manciata di chicchi d'uva da un cesto, se li portò alle labbra e sfidò lo sdegno dell'amico mostrandosi a bocca piena. «Non ti lascerò andare. La tua carica è vitalizia.» Prodico annuiva, prestando ascolto alla replica del governatore, una dissertazione sui doveri e sulle responsabilità, sull'obbligo della fedeltà, sulla missione riservata a ogni uomo. Pochi erano capaci di fingersi attenti come lui. Continuò a mangiare uva per un po' e alla fine, quando il governatore tacque, replicò che la politica lo annoiava, che lo aveva sempre annoiato e che sarebbe rimasto solo per piacere, non per obbligo. «Non ti diverti, qui con me?» lo incalzò Anassandro, scoraggiato. «Quale sarà il mio futuro se rimango, come un fedele ambasciatore? Passare le giornate con te ricordando i bei tempi andati, le nostre buone azioni, per confortarci e rattrappirci a poco a poco fino a quando non saremo due vecchi rimbambiti e degni di compassione? No, grazie, non voglio marcire qui, in quest'isola dove non succede niente da quando il vulcano ha eruttato per l'ultima volta.» Il governatore si alzò in piedi assumendo un'espressione offesa e contrariata che rese ancor più brutto il suo vecchio viso. Ora aveva la certezza che Prodico stava parlando sul serio. «Non ti sei chiesto come farò a risolvere i nostri problemi senza il tuo aiuto? Chi metto al tuo posto?» «Prima o poi questo momento arriva per tutti, Anassandro. Anche tu potresti ritirarti.» «E cosa faccio? Me ne sto a casa con mia moglie, affinché mi annusi l'alito ogni giorno per vedere se bevo? E chi si occuperebbe di governare l'isola?» Prodico fece un gesto vago, svogliato. «L'isola se ne sta tranquilla in mezzo al mare e sotto il sole. Non ha bisogno di noi.» L'altro lasciò cadere le braccia, sconfortato.
«E a cosa vorresti dedicarti, Prodico? A scrivere un altro di quei libri che nessuno capisce?» «Qualcosa farò. C'è una bella differenza tra essere vecchio ed essere un vecchio.» La stanza si oscurò improvvisamente, poiché il sole era stato coperto dalle nubi. Alle loro spalle, il patio era immerso nell'ombra. Anassandro gli si avvicinò mentre cercava di fare appello a un argomento convincente. Gli puntò contro il petto un dito ammonitore. «Ti conosco troppo bene, amico mio. Appartieni a quella specie di rapaci migratori che non riescono a stare troppo tempo lontani dal nido. Ma non sei più giovane e tornerai prima che ricomincino le piogge. Che farai, allora? Rimarrai in casa ad aspettare la morte?» Anassandro era astuto. Sapeva che il solo accenno alla morte era in grado di turbarlo. Prodico schivò la trappola. «L'attenderemo sereni», sospirò alzando una mano in segno di saluto. Gli girò le spalle e si diresse verso l'uscita. Forse, per accettare l'idea - quella della morte -, aborrita dal più profondo del suo essere, il primo passo era nominarla, farla risuonare qui e là nei meandri della mente affinché essa stessa, in virtù di un magico effetto, riuscisse a convincerlo dell'inevitabile verità che racchiudeva. Sarebbe stato un comune abitante dell'isola, avrebbe passeggiato lungo la falesia fin quando le ossa glielo avrebbero permesso. A quel punto si sarebbe chiuso in casa e nel giro di qualche mese avrebbe dimenticato a una velocità impressionante tutte le parole che aveva scritto, le idee che aveva concepito e le missioni che aveva compiuto. Cosi immaginava l'ultima parte della sua vita, una detestabile e angosciante esperienza. «Ingrato traditore!» Udì Anassandro arrancare con fatica alle sue spalle. «Mi supplicherai di ridarti l'incarico.» XIV Da Aspasia a Prodico di Ceo. Salute e allegria. Sette anni senza tue notizie, Prodico. Non ti serbo rancore per questo, ma ne sono addolorata. Non dimentico neppure di averti scritto una lettera quando ancora non era trascorso un anno dal momento in cui lasciasti la mia casa e tornasti alla tua isola e il mio messaggero mi assicurò di averla depositata nelle tue mani. Capisco che tu non mi abbia voluta onorare di
una tua visita ma, conoscendoti, non comprendo come tu sia potuto restare tanto tempo lontano da Atene. Spero di non esserne io la causa, se mi perdoni l'immodestia. In ogni caso, mi auguro che tu goda di buona salute. Come sempre, io mi affido alle cure di Erodico, l'eccellente medico consigliatomi dal nostro comune amico Gorgia, in primo luogo perché è suo fratello, e poi perché sa trattare le donne, una virtù che, a onor del vero, scarseggia tra gli uomini, anche in questa città così amante dell'eleganza e della bellezza. Erodico mi ha prescritto riposo assoluto, un rimedio esagerato per un comune malessere e qualche scricchiolio d'ossa. Quel genere di fastidi, insomma, che si vanno accumulando nel corso della vita e sembrano darsi appuntamento nell'età senile, per manifestarsi tutti assieme, con un confuso chiacchiericcio che tanto affatica; ma non intendo contrariare Erodico e suscitare le sue ire, cosicché non esco molto di casa e, per non sprecare tempo, ho ripreso l'antico proposito di scriverti, rispondendo al tuo eloquente silenzio, e di aggiornarti sugli ultimi avvenimenti importanti che ci hanno dato ben pochi motivi d'allegria. Come sai, sono stati anni duri. La dimostrazione di quanto male ci ha fatto la grande guerra è che, nonostante siano trascorsi molti anni da quando l'abbiamo persa, continuiamo a lamentarci. Non è tanto per le centinaia di barche affondate, le miniere di cui ci hanno privato, le mura in rovina, i forzieri saccheggiati, le rotte commerciali perse o le fattorie bruciate; la cosa peggiore è lo sconforto del popolo, la mancanza di fiducia nella democrazia e la paura che si annida dentro ognuno di noi. Prima eravamo convinti che il nemico fosse sempre al di là delle mura, si trattasse di persiani, di lacedemoni o di barbari provenienti da ogni dove. Ci sentivamo sicuri tra di noi chiamandoci ateniesi, una grande comunità resa salda dalla democrazia e dalla cultura. Non potevamo immaginare che il peggio si stesse forgiando al nostro interno quando, persa la guerra e sprofondati nella disperazione, si imposero i tiranni, i traditori, per fare di Atene una nuova Sparta, demolendo l'unica ricchezza che ci restava: la forza della polis. Ebbe allora inizio una nuova epoca di esecuzioni, purghe, l'esilio e, alla fine, recuperammo una democrazia malconcia e traballante; ma questo popolo non sarà più capace di avere la fiducia che nutriva nel progetto di Pericle. Ormai nessuno lo ricorda più. Come dei convalescenti, siamo tornati alla democrazia. Ci resta una città più povera, più dolente, più marcatamente disuguale. Abbiamo perso la guerra e adesso dobbiamo vincere la pace.
Conosci, Prodico, i pericoli che minacciano questo Stato, privo di un capo capace di incarnare un progetto politico coerente e di imprimere una svolta. Questa democrazia è una conseguenza della tirannia, fin troppo sensibile ai ricordi ancora freschi impressi nella nostra memoria. È il frutto di uno stato di allerta contro possibili insurrezioni. Tutti gli sforzi sono mirati a difenderci da ipotetici nemici, piuttosto che a fondare qualcosa di nuovo. Siamo diffidenti. Non abbiamo fiducia nel governo. Le stesse fondamenta della polis sono messe in discussione. L'irritazione dei cittadini riaccende il timore di rivolte. Alcibiade è stato sotterrato. Finalmente è stata data sepoltura all'unico uomo capace di riattizzare la rabbiosa ambizione dei settori oligarchici e aristocratici, di tutti i nemici dell'uguaglianza, dei nobili risentiti a causa delle loro perdite, che speravano nel ritorno del vecchio generale per porre fine alla democrazia. Era l'unico uomo in grado di far credere al popolo che Atene poteva ancora sperare in un futuro glorioso. La sua morte ha portato agli ateniesi una sana rassegnazione: non esistono più comandanti semidivini, sono finiti i sogni di grandezza. Ma nessuno è tranquillo. Sussiste un regime basato su delatori (delatori d'ombre), sicofanti, calunniatori, impostori, sospetti di cospirazione, sospetti di sospettare e, soprattutto, individui che prosperano intentando e vincendo cause. L'ultima vittima di questo grande affronto è Socrate. Spero di non essere la prima persona a darti questa brutta notizia. L'anziano sapiente è stato condannato a bere la cicuta nel processo più incredibile e iniquo dei tanti che abbiamo dovuto subire. Peggiore di quello istruito contro Sofocle. Peggiore di quello di Fidia, di quello di Euripide. Peggiore di quello di Protagora. Siamo tutti scossi e a stento riusciamo a farcene una ragione. Come saprai, è stata decretata un'amnistia che proibisce di processare per ragioni politiche qualunque cittadino ateniese. Era una misura necessaria per garantire la pace e la stabilità. Si doveva voltare la pagina di questo fosco capitolo della nostra storia. Atene aveva l'obbligo di lasciarsi alle spalle gli errori del passato e di recuperare la dignità. Paradossalmente, è stata violata l'amnistia per condannare un uomo che ha dedicato la propria esistenza alla pubblica ricerca della conoscenza. Ma ancora più strano e sconcertante è stato il modo in cui si è svolto il processo. Mi riferisco alla difesa che Socrate ha fatto di se stesso. Questo discusso processo è la prova tangibile della discordia che divide gli ateniesi. È un gravissimo errore che, immagino, peserà a lungo sulle
nostre coscienze e su quelle delle generazioni future. Sono ancora molto turbata e non mi sento nell'animo di purificare la città in occasione delle feste Delie. La nave sacra è partita alla volta di Delo per le offerte ad Apollo e Socrate attende in prigione di bere la cicuta. Quando la nave farà ritorno, la sentenza verrà eseguita. Il problema che Atene ha preteso di risolvere condannando a morte Socrate si trasformerà nella testa di un'Idra: nel tagliarla si riprodurrà, moltiplicandosi al di fuori di ogni controllo. Le conseguenze del verdetto trascendono quelle del processo a un solo uomo. Atene ha posto sul banco degli imputati la democrazia. Mi azzardo a dire (e mi interessa la tua opinione, Prodico) che l'avversione personale nei confronti di Socrate scaturisce dal sentimento più radicato negli ateniesi: l'orgoglio. Socrate semina il dubbio, poi la confusione e, infine, la vergogna, quella di riconoscersi deboli e disonesti, troppo attaccati ai piaceri, a preoccupazioni sciocche o sterili. Per qualcuno tutto ciò risulta oltremodo irritante. Come oratore, Socrate viola la regola d'oro della persuasione: non far sentire indegno l'interlocutore. Al di là della grave offesa rappresentata dal processo contro di lui, mi stupisce alquanto l'atteggiamento adottato da questi, sin dall'inizio, di rinunciare a una seria autodifesa. Da subito si è rifiutato di utilizzare un'efficace orazione scritta per lui da Lisia, su mia commissione, affermando di volersi difendere da solo poiché si sentiva dalla parte della ragione e sicuro di se stesso. Nel corso del processo ha adottato una linea difensiva sterile e arrogante che il pubblico non ha apprezzato, dato che, sebbene fosse vagamente spettacolare, non dimostrava affatto la sua innocenza né le sue buone intenzioni. Ma la cosa più sorprendente doveva ancora accadere. Dopo che il tribunale aveva espresso un verdetto di colpevolezza, gli è stata concessa la facoltà di scegliere il proprio castigo per poter sostituire la morte con una pena minore, come l'esilio perpetuo. Socrate ha sostenuto allora che la «condanna» più giusta per lui era quella di essere ospitato e mantenuto a spese dello Stato nel Pritaneo, dimora dei trionfatori olimpici, fino alla fine dei suoi giorni. L'atteggiamento di Socrate rimane un enigma per me. C'è chi sostiene che la sua risposta sia stata una provocazione, un gesto di spregio nei confronti dei giudici; la cosa però non mi convince, conoscendolo. Scartando, dunque, l'ipotesi che si tratti di una beffa, si può solo pensare che abbia parlato seriamente; allora la domanda è: con quale proposito? Ha forse pronunciato quelle parole pur sapendo che sarebbero state interpretate co-
me una dimostrazione di estrema arroganza e che potevano costargli la vita? Se sì, allora si è proprio trattato di un atto suicida. Forse preferiva la morte all'esilio, poiché non riusciva nemmeno a concepire l'idea di vivere lontano da Atene, o forse, sentendosi ormai vecchio, disdegnava il poco tempo che gli restava da vivere e ha scelto di sputare in faccia al boia piuttosto che invocare clemenza. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi tu. Da ultimo, ti riferisco un nuovo fatto che corrobora i precedenti: sono venuta a sapere che i suoi amici avevano ideato un piano per farlo evadere dalla prigione in cui è recluso. A causa delle feste Delie, infatti, dovrà aspettare in carcere venticinque giorni prima di bere la cicuta. Gli amici, pertanto, hanno avuto tutto il tempo per preparare un piano di fuga e corrompere diversi carcerieri. Socrate però si è rifiutato di collaborare. Sostiene che, se diventasse un fuggiasco, indurrebbe a credere che sono fondate le accuse rivoltegli, di avversare cioè le leggi di Atene. E ha scartato, una dopo l'altra, tutte le possibilità di uscire vivo da quel frangente critico. Le persone a lui più vicine, che lo visitano ogni giorno, mi dicono che è molto sereno, che compone strofe musicali per distrarsi quando è solo e che ha accettato pienamente il suo destino. Fra tre giorni morirà. Morirà senza onori, a eccezione di quelli che gli tributeranno gli amici, che saranno molto umili, e sarà sepolto in una tomba modesta. Ho pensato di commissionare, per la sua lapide, un epitaffio che ne celebri la dignità e la sapienza, ma non riesco a trovare la frase giusta. Può darsi che tu mi possa aiutare. Non voglio terminare questa lettera senza riferirti un altro tragico fatto collegato, forse, all'imminente morte di Socrate. Tre giorni fa Anito è stato trovato pugnalato in un'alcova della Milesia, poco prima dell'alba. Devi sapere che Anito, oltre a essere il principale accusatore di Socrate e l'istruttore del processo, era un uomo molto influente in città, aveva ottimi rapporti con i circoli più autorevoli ed era di pubblico dominio che fosse candidato alla carica di stratega, per la quale aveva accumulato non pochi meriti, soprattutto all'epoca delle lotte intestine per abbattere il regime dei Trenta Tiranni e per restaurare la democrazia. Come puoi immaginare, questo misterioso delitto ha scatenato le ire del governo unite al timore che stia circolando - ancora una volta! - il germe di una congiura politica ordita dalla fazione oligarchica. Tutte le etère, e anch'io, siamo state convocate a deporre presso il tribunale dell'Areopago e abbiamo dovuto sopportare ingiurie e accuse di ogni risma. Hanno messo in dubbio il mio onore. Gli anziani areopagiti non hanno mai visto di buon
occhio il mio locale, e finalmente hanno trovato un buon pretesto per chiuderlo. Lo faranno se non consegno loro il colpevole, dal momento che le indagini non hanno dato alcun risultato. Ho tempo per fornire il nome del colpevole fino alla prima luna del mese di Pyanepsion. Sono così ingenui da credere che alla Milesia non circoli nemmeno un topo se anch'io non ne sono al corrente. Suppongo che scaricandomi addosso il problema sperino di liberarsi dalle loro responsabilità e di evitare il ridicolo per via delle loro sterili indagini. Quanti affronti! Se chiudono La Milesia, forse non si presenteranno altre opportunità. Dobbiamo salvare gli sforzi di tanti anni. Termino qui questa lettera che mi ha tenuto compagnia nei giorni della convalescenza. La mia salute è migliorata. Ciò che più mi affligge è vedere il salone di casa vuoto e triste per l'assenza dei buoni amici. Atene ha perso i suoi uomini più significativi. E io sono qui per ricordarli. Vieni presto. L'amica che ti pensa sempre. Aspasia. XV Situato su un colle a ovest dell'Acropoli, il tribunale criminale dell'Areopago era un piccolo Consiglio formato da undici nobili anziani che giudicavano per lo più casi di omicidio colposo. In passato aveva esercitato funzioni di governo, ma era stato privato delle sue prerogative politiche dai primi capi democratici, specie da Pericle, a vantaggio del Consiglio dei Cinquecento e dell'Assemblea popolare. Erano ora gli accusati di reati di sangue a percorrere in catene il serpeggiante sentiero costeggiato di cardi che portava in cima alla collina, scortati da guardie, per assistere al loro ultimo processo. Dopo il ritrovamento del cadavere di Anito tornò a circolare la voce di una cospirazione politica ordita dai settori reazionari. Sul collegio degli strateghi, al quale Anito apparteneva, quel crimine non risolto ebbe un notevole impatto. Pertanto, gli areopagiti del tribunale furono oggetto di forti pressioni: da una parte, quella esercitata dagli influenti amici della vittima, che pretendevano giustizia; dall'altra, nutrivano il timore che non si trattasse di un evento isolato, ma del tassello di un piano volto a decapitare i vertici della democrazia. L'Areopago fu celere nell'avviare la fase istruttoria, le indagini si disper-
sero però in un tale rivolo di interrogatori - dato che i possibili colpevoli erano troppi, ossia l'intera clientela del bordello, e nessuno particolarmente sospetto - da non dare alcun risultato, a eccezione delle furiose proteste degli indagati per le molestie e il disonore loro arrecati, in quanto si era data l'impressione che fossero colpevoli solo perché andavano a puttane. Il malessere alimentò i dubbi sull'efficacia di quel tribunale di arconti che molti consideravano troppo vecchi per deliberare con criterio. In più circolavano maliziosi commenti sulle cortigiane della Milesia, capaci di confondere gli anziani magistrati con le loro malie, e altri secondo i quali certi gruppi ribelli tenevano riunioni segrete nel locale di Aspasia. Tali voci sortirono l'effetto di accrescere ancora di più la clientela, attratta da qualsiasi complotto ruotasse attorno alle perfide e intriganti bellezze e disposta addirittura a subire in prima persona le conseguenze di quel furore cospirativo. Poiché si ventilava la chiusura della Milesia, così come si erano levate le voci dei detrattori proliferarono anche quelle dei difensori, assai più schiamazzanti. C'erano tutte le premesse per trasformare l'evento in un campo di battaglia dove ogni discorso - più o meno patriottico, più o meno democratico - aveva in realtà un solo obiettivo: difendere il diritto al piacere. In effetti, su un muro esterno della Milesia comparve una scritta, attribuita ad Aristofane (ma non confermata): GLI UNDICI VECCHI DAL PENE SECCO VOGLIONO PRIVARCI DEL DILETTO Prodico era ben cosciente di ciò che la chiusura avrebbe comportato. Le etère di lusso costituivano un gruppo minoritario, per nulla rappresentativo della condizione femminile ad Atene; il loro ruolo era quello di assicurare agli uomini svago e piacere, e la loro influenza sulla società maschile si esercitava mediante canali informali e rapporti privati. L'influsso della Milesia era meramente notturno; al mattino, i suoi effetti evaporavano come neve al sole. Ciononostante era il primo germe di qualcosa che doveva ancora nascere, una timida ma innegabile dimostrazione dell'esistenza di un mondo intelligente al di là dell'uomo libero. Durante la grande guerra, quando la maggior parte degli uomini era lontana da Atene, le etère tentarono di stabilire contatti con le donne libere per renderle consapevoli della necessità di un cambiamento; finita la guerra e
rientrati i mariti, tuttavia, esse tornarono a seppellirsi in casa, e senza alcuna possibilità di sottrarsi alla loro sorveglianza senza rischiare severi castighi. Nelle sue notti insonni per cercare una soluzione al problema, Aspasia si era ricordata di Prodico ed era giunta alla conclusione che si trattava dell'investigatore ideale per risolvere il caso. Non si sbagliava: era anziano, astuto, rigoroso, era stato disprezzato dalla donna che amava ed era colmo di risentimento interiore. Era un buon osservatore, era codardo e non poteva fare a meno di praticare l'arte della ricerca della verità. Lo appassionavano gli enigmi, era pigro e, come tutti gli amanti della logica, solitario. In quanto sofista, sapeva smascherare tutti i pretesti che gli uomini accampavano celandosi dietro le parole; in quanto ambasciatore, aveva familiarità con i segreti politici di Atene. E ormai era solo un vecchio melanconico, che aveva bisogno di una missione importante per dare un senso ai suoi ultimi giorni. In gioventù Prodico aveva seguito le orme dei sapienti, convinto che un giorno o l'altro avrebbe trovato, se non la felicità, almeno la pace interiore: la piena accettazione dell'incertezza, guardare con distacco la vita. Il suo principale obiettivo, mai raggiunto, era quello di accettare che un giorno sarebbe morto. Ma neppure ora, da anziano, si sentiva pronto. Tutte le ricchezze che aveva accumulato non gli bastavano a pagare un obolo al lugubre barcaiolo. Da qualche tempo sospettava che non si sarebbe mai rassegnato a morire. Ad Atene sperava di trovare le forze per affrontare la propria dipartita. Subito dopo aver letto la lettera di Aspasia, parti per Atene con pochi schiavi che fungevano da rematori. Si sentiva di nuovo vivo, pieno di aspettative. La piccola comitiva navigava lungo una costa rocciosa, doppiando Capo Sounion, d'estate un'oasi di pace, in autunno e in inverno un varco quasi intransitabile a causa delle correnti che vi confluivano da una parte e dall'altra del promontorio. Molte imbarcazioni erano state trascinate in quel punto dai flutti procellosi e si erano infrante sulla scogliera situata ai piedi del tempio di Poseidone che lì sorgeva. D'estate i venti del nord facilitavano il passaggio del capo e l'unico vero rischio era rappresentato dai pirati, ma quella di Prodico era una misera imbarcazione che issava lo stendardo dell'ambasciata e non trasportava tesori, tant'è che non era scortata.
Il sofista aveva anche previsto di visitare la tomba di Socrate, di cui molti dicevano, compresa Aspasia, che fosse morto con coraggio. Un coraggio che a lui mancava. Inorridiva all'idea di vivere in balia di una corrente che sospinge verso un mare lontano, prossimo al fato. Della sua paura di morire aveva a lungo discusso con Protagora, il quale alla fine gli aveva detto: «Troverai pace solo se accetterai il tuo destino. Allora capirai che la morte ti è sorella, potrai baciarla, accarezzarle i capelli e prenderla per mano prima di partire, perché lei ha stretto un patto con te nel momento stesso in cui sei nato». A Prodico piacque la metafora, ma non gli fu di alcuna utilità. Ufficialmente era stato ambasciatore di Ceo ad Atene, nel cuore però si era sempre sentito ambasciatore di Atene a Ceo. La sua legazione era nella casa di Aspasia, nei saloni da cui, molti anni prima, dopo l'infausto processo agli strateghi e la loro morte nel precipizio del Baratro, si era autoesiliato. Lì aveva tenuto le udienze che più soddisfazioni gli avevano dato: le conversazioni con gli amici Euripide, Fidia, Filolao di Crotone, il matematico Teodoro, Erodoto di Alicarnasso, Gorgia... Quando era lontano da Atene si sentiva un esule, perché in qualsiasi altra città era sospinto a rifugiarsi nella propria immaginazione dove finiva per ricreare un'Atene di fantasia, idealizzata, l'incarnazione del ricordo di Aspasia. E nel suo esilio interiore trovava solo vecchie cianfrusaglie ricoperte dalla polvere della nostalgia. Ovunque andasse, finiva sempre per ricordare la terra di Pallade, la terra di Aspasia. Oltre la bruma, torme di gabbiani luccicanti sorvolavano i pescherecci al lavoro presso i cantieri della costa. Le loro grida parevano gioiosi strilli di bambini. Ciò che da lontano il riflesso del sole rendeva bello, da vicino era solo un viavai di ratti nauseabondi. Il sole vespertino era parzialmente oscurato dalle nubi, ma quando brillava nel cielo, il mare, come per miracolo, si tingeva d'argento. La sua vita, pensò, era strana, lo aveva condotto di qui e di là, senza mai fermarsi, quando lui, per vocazione, era uno spirito pigro e sedentario. L'esistenza di Aspasia e la sua avevano preso direzioni diverse, si erano ritrovate in qualche crocevia ed erano tornate a separarsi. Era la vecchiaia, questa madre disgraziata, che ora li riavvicinava. La lettera di Aspasia gli aveva trasmesso una sana agitazione levandogli di dosso, tutto d'un tratto, il velo di indolenza che lo avvolgeva, lo aveva indotto a reagire e a misurarsi con nuovi problemi e interessi che lo distra-
evano dalla tediosa attività di contemplare il rachitico fluire di una senile esistenza. Senza dubbio, la morte di Socrate costituiva la fine di un'epoca e l'inizio di una nuova. Era indispensabile trovarsi lì, ad Atene, per essere testimoni di un cambiamento importante. Ma soprattutto era ansioso di rivederla; man mano che si avvicinava il momento dell'incontro, gli aumentava la sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco. La lettera era una prova della lucidità di Aspasia, tuttavia la donna che avrebbe rivisto non sarebbe stata la stessa che ricordava. Era passato troppo tempo dal loro ultimo incontro, e troppi eventi erano accaduti. Anche Protagora era morto, affogato in mare durante una tempesta, o almeno così si diceva. Un'altra zampata del destino. Il gran maestro aveva lasciato orfani i suoi seguaci, ma aveva rinsaldato i vincoli esistenti tra loro. I sofisti Ippia e Gorgia lo tenevano vagamente informato su Aspasia. Gorgia gli aveva riferito in una lettera di averla trovata delusa dalla vita, dalla politica, da tutto ciò che era stato sepolto. Dopo aver perso il figlio e, in seguito, il secondo marito, a poco a poco si era eclissata dalla scena rifugiandosi in una fosca intimità fatta di penombra e lampade a olio, in una muta e risentita rinuncia a tutti i progetti in cui credeva. Aveva spezzato gli antichi legami con la classe politica, di cui diffidava profondamente. Secondo Gorgia si stava affezionando troppo all'erba di Circe, che preparava lei stessa schiacciando la corteccia della radice della mandragora. A volte la mescolava con vino e papavero e trascorreva intere giornate sommersa in una torbida sonnolenza. Ma non era questo a inquietarlo, e neppure la convinzione che Aspasia non sarebbe mai più stata colei che si annidava nella sua immaginazione. Era piuttosto il timore di ritrovarsi di nuovo insieme, unito al sospetto di nutrire ancora l'assurda speranza di poter recuperare il tempo perduto, quando invece la vita gli aveva insegnato che tali aspettative venivano sempre disattese. Su tutto ciò rifletteva seduto a prora, mentre le onde danzavano contro la chiglia. Borea gli era favorevole, gonfiava le vele, aiutando così i rematori schiavi. Lo rilassava osservare la ritmica cadenza con cui l'incavo dei remi sfiorava l'azzurra distesa del mare, per poi tuffarsi a pelo dell'acqua, tracciare il breve percorso di una carezza e riemergere lasciandosi dietro una spumosa ferita che si rimarginava all'istante. La sua ombra si rifletteva sulla superficie increspata, ma non la riconosceva come propria. Poteva essere quella di un qualsiasi uomo che si sporgeva dalla coperta. Lui stesso poteva essere una qualsiasi ombra riflessa nel mare.
XVI Il sofista ricordava bene l'ultima volta che era arrivato al porto di Atene: un'immensa flotta di triremi dalle fiere prore era schierata lungo tutta la baia. La squadra navale, orgoglio dell'Attica, bastione dell'impero. Scesi sulla terraferma, era difficile non rimanere colpiti dal sontuoso mercato dell'Emporio, che offriva i migliori prodotti delle più diverse regioni: tappeti di Babilonia, pietre preziose della Persia e della Scizia, lino di Amorgos, gemme indiane, profumi di Corinto, spezie orientali di canapa, tuberosa, cannella, pece, mirra, prodotti delle terre iperboree in ceste di giunco, seta di Kos, anfore di vino, leggeri tessuti, avorio intagliato, ambra, lapislazzuli, ornamenti d'argento, finissime tele profumate bordate di porpora... Si parlavano decine di lingue, ma si comprava tutto usando la moneta con la civetta di Atena. Quello spettacolo era per Prodico la vivida immagine dell'impero sottomesso ad Atene. Ora, invece, la guerra persa aveva lasciato un panorama desolante. Nel porto trovò pescatori che riparavano le reti, una modesta flotta di navi da guerra e, sui moli, si scaricavano solo sacchi di grano. I gabbiani si spartivano un misero bottino: pesci putrefatti, frutta marcia, chicchi di avena, il triste dono offerto dalla mareggiata che si frangeva contro il molo e i contrafforti. Il centro del commercio marittimo si era spostato a Delo. Prodico disse ai suoi schiavi di aspettarlo a bordo. Preferiva compiere da solo il resto del tragitto, ricordando il vecchio filosofo dal viso di capra. Indossava una tunica nera e un copricapo di feltro a larghe tese. Si stavano ricostruendo le lunghe mura che partivano dal Pireo e se ne scorgeva già un buon tratto dietro le impalcature di legno e bambù. Vide sfilare una processione di carri trainati da buoi che trasportavano pesci e sacchi di grano. Era Ecatombeon, il mese della mietitura. I bastioni della città erano stati distrutti e i giardini trasformati in tanti cimiteri. Non rimaneva che pietra su pietra. Come aveva fatto a ridursi in quello stato la più grande civiltà mai esistita? Il sofista camminava lentamente, strascicando un po' i sandali, attento a ogni dettaglio. Molte tombe erano senza una lapide o una stele; solo un tumulo di terra ne segnalava la presenza. Il cimitero di Ceramico si era ampliato e aveva invaso i campi vicini abbattendo gli steccati in legno; una distesa di urne di terracotta si perdeva a vista d'occhio. Alcune fattorie bruciate erano state abbandonate e sostituite da capanne con tetti di pelle
sostenuti da pali, altre erano in avanzata fase di ricostruzione e ferveva un'intensa attività nei boschi di leccio vicini alla città: gente che caricava pietre e mattoni crudi, sosteneva travi, nel tentativo di tirar su una casa alla bell'e meglio. Entrò in città dalla porta di Dypilon, alquanto abbattuto per via del panorama circostante. Ai piedi dell'Acropoli attraversò i campi incolti disseminati di pietre appartenute un tempo al forte dei tiranni. Passeggiò per il mercato e il quartiere dei vasai, sempre vivace e chiassoso. A un acquaiolo che girava con una pelle di capra a tracolla chiese dove si trovasse la tomba di Socrate. Gli rispose che non lo sapeva. Un po' più avanti rivolse la stessa domanda a un giovane che tirava un asino con due fascine di legna sulla groppa. Neanche costui seppe dirgli nulla. Chiese a un vecchio che sembrava confondersi con lo scranno di pietra grigia di un patio, e questi, per tutta risposta, gli lanciò un'occhiata diffidente che lo fece sentire uno straniero. Insisté domandando un po' in giro, a un conciapelli con il chitone macchiato di tintura, a un fabbro... Nessuno lo sapeva. Lo liquidavano con vaghi cenni di diniego, fissandolo con una certa antipatia, come chiedendosi chi fosse quello straniero che li importunava con simili domande. Il sofista era sbalordito. Com'era possibile che nessun ateniese volesse dirgli dove avevano seppellito l'uomo più famoso della città? Si erano forse messi tutti d'accordo per mantenere il segreto? La notizia della morte di Socrate aveva attraversato il mare ma, a quanto pareva, non un solo ateniese si era degnato di partecipare al funerale. Con questi pensieri in testa raggiunse il lupanare situato nel centro della città. Accanto alla porta vide l'iscrizione incisa su una lastra di marmo. Ogni volta che si recava alla Milesia la rileggeva, sollevando appena le stanche palpebre, con un lieve moto di orgoglio, per quella sua opera sfrontata che aveva sfidato il corso del tempo: SII BENVENUTO, QUESTA È LA TUA CASA MA LA TUA CASA NON È QUESTA CASA: CI SONO ALCUNE REGOLE CHE DOVRAI RISPETTARE. È VIETATO ENTRARE UBRIACHI E ANCHE USCIRE SOBRI. VIETATO SCATENARE RISSE. VIETATI I RAPPORTI TRA CLIENTI. VIETATO MANCARE DI RISPETTO ALLE DONNE.
VIETATO ANDARSENE SENZA PAGARE. RISPETTA QUESTE REGOLE E TI FAREMO FELICE. Il portone cedette a una lieve pressione della mano. All'interno, la penombra era satura di effluvi umani e l'ambiente odorava di chiuso misto a profumi afrodisiaci; sul tutto fluttuava un greve olezzo di sudore acre e sego bruciato. Prodico avanzò sul pavimento a mosaico, tra i triclinii capovolti; sin dal vestibolo aveva scorto coppe rovesciate a terra, crateri di vino, tuniche sgualcite e calpestate, candele di sego ridotte a un mozzicone accanto ai cuscini, cotabo sparsi... Le stoffe pendevano dai sofà disposti lungo la parete e si udiva solo il russare di alcuni uomini che dormivano, da qualche parte, nella pace della semioscurità. C'era un tipo grasso che, messo di traverso, occupava quasi tutta l'antisala, ostruendo la porta. Era seminudo. Per aprirla dovette spostarlo un po', tirandolo per i piedi. L'uomo si svegliò, si rialzò traballante senza prestargli attenzione e, barcollando, andò a raccogliere il suo chitone, arrotolato sotto un triclinio. Mentre lo indossava saltellava da un piede all'altro per l'urgenza di orinare. Anche la sala dei banchetti presentava lo stesso panorama da dopo battaglia. Dallo scenario il flauto e la cetra dominavano su una stanza di satolli dormienti. Alcuni dei superstiti si rigiravano su grandi e piccoli cuscini sparsi sul pavimento decorato con mosaici a tessere bianche e nere. Il sofista indugiò qualche istante, sorridendo ironico alla vista degli insignificanti cambiamenti avvenuti nella Milesia negli ultimi anni. Stava per andarsene quando sentì entrare qualcuno. La incrociò sulla soglia. Era una donna di circa trent'anni, di una bellezza dura come uno zaffiro, scortata da un muscoloso schiavo dalla pelle giallognola. Si capiva che era un'etèra di Aspasia per via dei preziosi gioielli, una catena d'oro con uno smeraldo che pendeva dal collo sottile e pallido, bracciali alle caviglie e pendenti di rubini ai lobi delle orecchie scoperte da un'acconciatura raccolta sulla nuca. Era Neobula. Passando davanti a lui gli disse: «Benvenuto ad Atene, sofista». XVII Il corpo di Socrate venne sepolto di notte per non imbrattare con la morte i raggi di Elio. Dalla casa mortuaria fu trasportato su un carro trainato da buoi. Apriva il corteo funebre Santippe, che piangeva e parlava da sola, seguita dagli amici. Nessun suonatore di flauto ebbe il coraggio di offrire i
propri servigi per timore dell'impopolarità. Il corteo uscì dalle mura cittadine reggendo delle torce che squarciavano la spessa oscurità della notte. Erano presenti, oltre alla moglie e ai figli, Aspasia, Gorgia, Apollodoro, Eschine e Antistene. Altri amici del defunto, come Fedonda, Euclide e il giovane Platone, erano fuggiti a Megara dopo il fallito tentativo di liberarlo essendo stato emanato un ordine di cattura nei loro confronti. Il regime oligarchico di Megara concedeva di buon grado asilo politico agli ateniesi che disertavano dalla democrazia. La cerimonia funebre fu triste e sobria. Senza prefiche, né flauti, senza neppure la forza d'animo per offrire libagioni in suo onore, gli amici rivolsero l'estremo saluto al maestro accompagnati dai gemiti di Santippe, che non smise mai di piangere durante l'intera veglia. I discorsi furono brevi. Con voce rotta, Antistene disse: «Visse per la verità e morì per la verità». Anche Eschine pronunciò solo poche parole: «Qui giace il più lungimirante dei greci». Apollodoro pianse sconsolato per tutta la cerimonia e, alla fine, bisbigliò tra i singhiozzi: «Visse meglio di chiunque altro; morì con semplicità e gloria. La sua scomparsa ne esalta appieno l'esistenza». Terminato il commovente rito, gli amici affranti si ritirarono a poco a poco finché davanti alla tomba rimase solo la vedova. Fu lì che Prodico la trovò quando sopraggiunse. Prima ancora di notarla, gli arrivò un fragoroso e ipnotico lamento, una sorta di vibrazione sonora che saliva e scendeva dal profondo del suo petto al ritmo della respirazione, simile al pianto disperato dei bambini esausti per le troppe lacrime versate e coscienti di non essere più ascoltati da nessuno. Il sofista fu colpito da quel dolore solitario, il dolore di una donna grossa e grassa, di circa quarant'anni, a onor del vero piuttosto brutta. Ma la sua pietà si dileguò non appena avvertì il tremendo odore acido, ferino, sprigionato dalle ascelle di Santippe. Lei lo fissava con gli occhi sporgenti, umidi e arrossati. «Riposa, ora, buona donna», disse Prodico, «e torna a casa per purificarla.» Santippe non rispose. I due se ne stettero lì, da soli, senza guardarsi, come perfetti sconosciuti uniti soltanto dal cadavere sopra il quale erano seduti, davanti a un campo aperto lambito da una lieve brezza (per la disperazione di Prodico) e screziato dal rosso intenso di qualche papavero, dai cocci di qualche recipiente rotto e dall'ombra delle acacie. In lontananza stonava un gallo. Lui si accomodò sullo scranno appoggiando il copricapo sulle ginocchia.
«Gli uomini nascono e muoiono soli», sussurrò. Santippe interruppe un singhiozzo e lo scrutò torva, increspando il viso solcato di lacrime. «Non sarai un politico?» Pronunciò la parola «politico» come se fosse il peggiore degli insulti. «Cosa te lo fa credere, buona donna?» «Il tuo modo di parlare, così solenne.» «Solenne?» Prodico trovò il commento assai gustoso. «Sì, solenne e magniloquente, come quello dei politici.» L'ambasciatore era incerto sulla risposta da dare: non sapeva bene se considerarsi un politico - almeno un politico magniloquente - e, in tal caso, se giustificarsi al cospetto di lei per quella colpa. «Bisognerebbe appenderli dagli occhi, come le anfore per l'olio.» «Chi?» chiese Prodico stupito. «I politici.» Il sofista le chiese se si riferiva a qualcuno in particolare. La donna parve non udire. «Ha fatto questa fine perché era uno stupido», affermò la vedova tra i singulti, leccandosi rumorosamente il moccio. «Era uno scriteriato! Gli dicevo sempre: 'Chiudi il becco, sennò ti cacci nei guai, smettila di confondere le idee con delle assurdità che nemmeno tu capisci... Ti porterà solo disgrazia'.» «Quali assurdità?» «Tutto quel parlare e parlare, quel voler perfezionare le proprie conoscenze, e alla fine non è neanche riuscito a difendersi. Non ha mai imparato a dire niente di utile, niente che non fossero parole astratte. Razza di stupido!» Santippe emise un profondo sospiro prima di tornare a borbottare: «Ah, Socrate! Perché quella maledetta mania? Eri un uomo così buono! Perché non facevi altro che stuzzicare i giovani ateniesi rivolgendo loro domande impertinenti che ti accattivavano solo le antipatie della gente? Che t'importava se gli altri vivevano bene o male? Sempre alla ricerca di quale fosse la vita buona. La vita buona era quella che facevi tu, brutto fannullone, trascurando la casa e la famiglia, sempre ospite a casa dei ricchi! Tu lo sapevi bene qual era la buona vita, perché allora ti ostinavi a chiederlo in giro?» Il sofista sorrise. Muoveva distrattamente la terra col bastone aspettando il passaggio di un'ordinata colonna di bruchi che si avvicinava, molto lentamente, arricciando i minuscoli e pelosi dorsi.
«Idee e astrusità! Sempre a zonzo per palestre e ginnasi a guardare i ragazzini che poi si portava dietro confondendo loro le idee con grandi discorsi. E noi, nel frattempo, eravamo costretti a cavarcela da soli, a darci da fare e a sgobbare come ciuchi per trovare qualcosa da mettere sotto i denti. La vita non mi ha dato soddisfazioni! Sempre sola, a occuparmi dei figli e della casa, con un marito che non mi capiva e di cui ho dovuto prendermi cura, e adesso me lo portano via in questo modo.» La vedova si alzò traballante, ritrasse il mento, sbuffò, fiutò l'aria del mattino e raccolse le forze per intraprendere il cammino di ritorno. Poi, dimenando il grasso corpo, si mise in marcia accomiatandosi da Prodico con un brusco cenno di saluto. Questi provò pietà e sollievo mentre si domandava se avesse udito un discorso formidabile o una formidabile sequela di sciocchezze, se Santippe fosse una donna saggia o una grandissima ignorante. Forse entrambe le cose. Con tali pensieri in testa indugiò a osservare il donnone che si allontanava a passi incerti. Il corteo di bruchi avanzava lentamente verso la tomba. Muovendosi appena, con la punta del bastone separò l'insetto capofila, quello che guidava, dagli altri. Sconvolto l'ordine, il secondo, disorientato, iniziò a girare senza meta imitato dai bruchi che lo seguivano, confusi e smarriti anch'essi. Ben presto l'intera fila si scompose, in preda a una totale confusione, e gli insetti si mescolarono gli uni agli altri. Prodico non dovette far altro che sollevare i sandali e schiacciarli senza fatica. XVIII Della bellezza di un tempo l'etèra conservava inalterate la grazia e l'intensità dello sguardo. Gli altri incanti si erano stemperati sul fine ordito della sua cute. I due si riconobbero e si strinsero in un commosso abbraccio. La mano di Prodico scivolò lungo la tunica di lino e sentì le ossa sporgenti della schiena, la crepitante leggerezza di una foglia secca e delicata. O era il suo cuore a crepitare? Poco dopo, le ruote del carro risalivano lentamente l'erta di argilla e pietra ombreggiata da bassi pini neri e si fermavano di fronte alla scalinata che conduceva ai Propilei, l'accesso all'area sacra dell'Acropoli. Una volta scesi, i due vecchi amici diedero istruzioni agli schiavi di attenderli ai piedi del muro che confinava col piccolo tempio di Atena Nike. Si avviarono pian piano su per le scale, lei con una mano appoggiata al bastone e l'altra al braccio di Prodico. Aspasia, i bianchi capelli trattenuti da un panno di
seta, era allegra e ben disposta, attenta a ogni dettaglio. Dapprima si scambiarono parole affettuose, manifestando il gran piacere di ritrovarsi. Avevano talmente tante cose da raccontarsi che non sapevano da dove cominciare. Ma non c'era fretta. Il sofista si lasciò guidare dai sensi. Era lei e non era lei, Aspasia. I suoi capelli erano diventati color avorio, privi dei bei ricci di un tempo, eppure non appena l'aveva stretta tra le braccia ne aveva riconosciuta la fragranza, e d'un tratto sentì bruciare all'unisono le vecchie ferite, come in un avido risveglio, prima di ricacciare la sensazione sotto la dura scorza delle cicatrici. Gli occhi, invece, gli dicevano altro. Conoscevano bene quel frutto inaccessibile che il sole dorava sul ramo più alto. Si lasciava alle spalle, tuttavia, le fertili stagioni, i campi di spighe ondeggianti: ogni estate è sempre il preludio dell'inverno. Sentiva pietà per lei, ma ancora di più per se stesso. Tra le virtù di Prodico non vi era quella di essere un gran camminatore; anzi, se solo poteva evitarlo, non andava a piedi. Era così sin da giovane, e a maggior ragione adesso che le ossa gli dolevano. Alcune nubi pietose avevano oscurato il sole mitigando la temperatura. La brezza profumava di resina e lavanda. Dei lunghi anni di lontananza i due amici ricordarono solo gli episodi più importanti. Aspasia si stupì del fatto che Prodico non avesse trovato moglie. Lui fu evasivo e accennò al gran numero di donne graziose di cui la vista consente di godere se non si hanno vincoli matrimoniali. Lei accettò per buona quella risposta sfuggente e cambiò argomento. «Credi che nella vecchiaia ci sia qualcosa di buono?» chiese. «Il fatto che non sei ancora morto, suppongo», rispose sorridendo lui. «E che i nostri ricordi aumentano.» «Dei nostri ricordi non importa niente a nessuno.» «Pericle e io venivamo spesso da queste parti», disse lei. «Era il luogo dove più amavamo passeggiare. Secondo Pericle, col passare del tempo altre coppie ci avrebbero imitati, cessando di pensare che due coniugi perbene non vanno a spasso per l'Acropoli.» «In tal caso avete dato loro una ragione in più per non farlo», replicò il sofista. «Visto che sull'Acropoli saliva una coppia immorale.» Entrambi sorrisero. Aspasia gli stringeva affettuosamente il braccio. Procedevano a passi lenti, con estiva indolenza. «Come hai trovato la città?»
«A essere onesti, non c'è di che stare allegri.» «Stiamo ricominciando da capo. Anche Atene ha smarrito la gioventù. È diventata irascibile e diffidente. Ha serrato le fila, ha condannato Socrate e lo ha sepolto lontano e senza onori.» Il sofista abbassò la falda del copricapo per schermarsi dai raggi obliqui del sole. Anche il vento secco del crepuscolo soffiava di sghembo. Prodico coprì con la sua la mano di Aspasia, come per proteggere un passerotto bagnato. Avrebbe voluto trovarsi con lei su una barca solitaria, ancorata in mezzo al mare, entrambi sdraiati in coperta, sotto un sole che li ringiovaniva. Possedeva l'imbarcazione, il mare non era distante e il sole splendeva nel cielo. «Da anni mi annoio a Ceo. Non avresti qualche incarico da affidarmi? Se non sbaglio nella lettera accennavi a qualcosa del genere.» «Ho un paio di incarichi difficili.» Fu contento di saperlo. Lei proseguì: «Voglio commissionare una lapide per onorare la memoria di Socrate. Ma, benché mi sia scervellata, non mi è venuta in mente un'iscrizione appropriata. Non sono più lucida come un tempo. Insomma, ho pensato a te». «Non credo di essere la persona più adatta. Non ci frequentavamo da anni e non sono aggiornato sulle sue ultime malefatte.» «L'avevo previsto. Per questo vorrei metterti in contatto con il migliore dei nostri storici: Senofonte. Era un buon amico di Socrate, e al momento sta raccontando la storia della grande guerra dal punto in cui Tucidide l'ha interrotta, prima di lasciarci. Un'enorme responsabilità.» «Ne ho sentito parlare. Perché allora non affidi a lui l'incarico di scrivere l'epitaffio? Ne farebbe un elogio sincero.» Si accorse che, pur senza volerlo, si era espresso con un tono vagamente astioso. Aspasia preferì lasciar correre. «Lo so. Per questo preferisco rischiare e affidare a te l'incarico.» «Non capisco.» «Una volta, quando componevi il libro su Protagora, che ancora conservo con amore nella mia biblioteca, hai affermato che nessun testo scritto è mai prezioso quanto il suo processo di elaborazione e di composizione.» Prodico annuì. Ora comprendeva le sue intenzioni. «E quale miglior riconoscimento», proseguì lei, «che l'epitaffio di un sofista, essendo ben note le vostre 'divergenze'? Le garbate ragioni di Aspasia non riuscirono tuttavia a persuaderlo. Prodico declinò l'offerta, e non per risparmiarsi una fatica, bensì perché non se
la sentiva di tributare lodi al filosofo. Non a caso, la miglior iscrizione funeraria che gli fosse venuta in mente - lo rivelò alla donna - era: QUI GIACE IL CORPO DI SOCRATE: ALLA FINE TROVÒ LA VERITÀ Dopo un attimo di riflessione, Aspasia replicò che quella frase non rispecchiava il pensiero del filosofo, ma quello del sofista. «Te ne approfitti perché non può più risponderti», lo rimproverò. «Sarebbe capacissimo di tornare dall'Ade per farlo.» Lei non apprezzò la battuta. Prodico ammise che aveva ragione. Perché complicare ulteriormente le cose? «Tuttavia, la frase non è brutta. Forse la userò per la mia tomba: 'Qui giace il corpo di Prodico. Alla fine trovò la verità'.» «Hai sempre parlato di Socrate con astio. Anche adesso.» Prodico intuiva che erano in procinto di arrivare al cuore del problema. Aspasia stava usando l'accetta con l'energia di un macellaio. Troppi conti in sospeso tra loro: quanto prima si saldavano, tanto meglio era. «Che la vecchiaia ti conservi la memoria», sospirò lui. «Non parliamo di quello.» «No, meglio non parlarne», assentì Prodico. «Certo. Non nominiamolo neppure.» «Ti propongo un gioco: in questo momento non devi pensare a un elefante blu in una pozzanghera di fango.» «D'accordo.» Lei chiuse gli occhi. «Non sto pensando a un elefante blu in una pozzanghera di fango.» «Falso: ci stavi pensando.» La sua risata fu un lieve sussurro. «Va bene! Dal momento che stiamo parlando di questo da un bel po', perché non continuiamo? Era mio figlio, non te lo scordare. Forse sono stata troppo dura con te, lo riconosco.» «Sì, lo sei stata.» «Ma tu hai commesso un errore. Mi hai delusa.» «Non credo all'errore originario», obiettò lui calmo. «Quel tipo di errore che ti conduce sulla strada sbagliata.» Aspasia non replicò, lo sguardo assente. «Inoltre», riprese Prodico, girandosi verso di lei, «non ero l'uomo per te, Aspasia. Non ti avrei resa felice.»
«Tu però mi amavi. Non hai mai osato dichiararti.» «Come fai a essere tanto sicura che ti amavo?» Lei avvertì una fitta di nostalgia. Le si serrò la gola per l'emozione e non riuscì a rispondere. Prodico sapeva bene che una volta data la stura era impossibile fermarsi. Meglio così. Aspasia si coprì il volto con le mani e si allontanò. Il sole tramontava all'orizzonte, screziando il cielo con bagliori malva. Aspasia di Mileto si sedette di fronte al Partenone, una sorta di balsamo per il suo animo inquieto. Analizzò il proprio orgoglio ferito, come estraendolo da se stessa, e si accorse che era rimasto intatto col passare degli anni. Era lo stesso amor proprio della gioventù. Ogni volta che osservava i fregi del Partenone ricordava con rimpianto Fidia e i giorni in cui Pericle e lei si erano conosciuti. Pericle aveva detto: «Ti rendi conto, Fidia, che questo tempio eguaglierà per bellezza e perfezione la divina Atena?» «Amico mio», era stata la replica dello scultore, «dimentichi che non credo negli dei.» «Nemmeno io, ma che importa? Per Atene sarà la solenne conferma della divinità. Per noi, la dimostrazione che l'uomo è artefice del proprio destino e non sottoposto alla tutela dei numi.» Fidia, l'eterno solitario. Nel fregio c'era il suo ritratto: vecchio, calvo e malinconico. La osservava dalla pietra con sguardo burlone. Aspasia fu assalita dal repentino timore che la visione si dissolvesse. Cercò Prodico con la coda dell'occhio, ma non lo vide. Sentiva un piacevole fremito nel ventre, un'allegria al pensiero che lui, finalmente, era tornato, e che le incomprensioni del passato si sarebbero dissipate. Desiderava stargli accanto ed era certa che anche lui provava la medesima sensazione. Mentre l'etèra ammirava il tempio, lui guardava la città ai suoi piedi. In netto contrasto con l'armonia dell'Acropoli, Atene appariva un caotico alternarsi di case e tuguri, un'informe massa di costruzioni color fango che si mimetizzavano con le strade, dove pullulava una moltitudine indaffarata. Quel dedalo di viuzze si era espanso senza alcun criterio, mosso solo dal bisogno di nuovi alloggi, a eccezione della strada principale, la via Panatenaica, che percorreva la città in diagonale dalla porta del Dipylon fino all'Acropoli, dividendo altari e Bouleuterion, su un lato, da botteghe artigiane e negozi, sull'altro. Oltre il centro abitato si estendevano i terreni coltivati: campi d'orzo appena mietuti e file di olivi centenari dalle foglie argentate. Il sofista di Ceo raggiunse Aspasia e le prese la mano; lei la ritrasse, più
per ripicca che per rifiutarlo. «Sarò buono. Ti prometto che penserò a un'iscrizione per la lapide.» «Ho cambiato idea. Preferisco affidare l'incarico a qualcun altro.» «Cercavo solo di essere onesto con te.» «Be', mi hai convinta», sorrise lei con una venatura di tristezza. Poi si lasciò prendere a braccetto e passeggiarono ancora un po', dirigendosi verso il luogo in cui li attendevano gli schiavi con il carro. L'esordio non era stato incoraggiante e Prodico ne era davvero dispiaciuto, ma si consolava al pensiero che se si fosse comportato diversamente non sarebbe stato credibile. Bene, ancora una volta erano insieme. Montarono sul carro e diedero l'ordine di partire. Aspasia si ravvivò l'acconciatura e lo fissò brevemente con un'espressione non troppo scostante, l'aria di chi dà per conclusa una discussione. Gli teneva in serbo un secondo incarico, e il sofista lo sapeva. Un omicidio da risolvere: quello di Anito, l'uomo che aveva sconfitto Socrate in tribunale e avvicinato alle labbra del filosofo i vapori della cicuta. Prodico era impaziente di iniziare le indagini. Sentiva il bisogno di un rompicapo reale, un enigma tangibile che gli tenesse occupata la mente distogliendola dall'assillante pensiero della morte. XIX Il mattino seguente fece colazione con Aspasia in una stanza arredata con triclinii e silenziosa come il fondo di una grotta. Appena sveglio il sofista amava la quiete e la tranquillità. Gli piaceva iniziare la giornata lentamente, e a volte, quando era solo, oziava per l'intera mattinata. Quelle abitudini da pigro riflessivo, diceva, gli avevano permesso di vivere più a lungo. Aspasia, invece, era sempre stata inquieta e attiva. Due caratteri diversi. Avrebbero potuto convivere? Non lo avrebbe mai saputo. Lei indossava un'ampia veste cimberica di colore nero e si era leggermente truccata il viso per nascondere le occhiaie. Prodico si mostrò docile e gentile. Si sentiva di ottimo umore - cosa insolita - e riusciva a celarlo a stento. Fu sincero nel lodare il buon gusto di Aspasia per la scelta dei nastri che le adornavano la tunica. Lodò i mobili, lodò quanto trovò meritevole di lode attorno a sé, anche se al centro dei suoi pensieri c'era solo lei. Gli schiavi gli portarono latte, formaggio, fichi, datteri, uva e torte di sesamo, quindi si ritirarono come formichine, in perfetto silenzio. Erano entrambi sereni e Prodico desiderava riconciliarsi, ora che si erano sfogati e avevano saldato quei piccoli conti in sospeso, vendicandosi delle ferite
all'amor proprio che si erano inflitti a vicenda. Il sofista di Ceo era impaziente di sapere dell'omicidio di Anito. Voleva conoscere ogni dettaglio. «Hanno fissato una scadenza», disse Aspasia. «La prima luna di Pianepsion. Se per quella data non avrò consegnato il nome del colpevole, chiuderanno La Milesia.» Prodico terminò la ciotola di latte e valutò con calma la questione. Chiudere La Milesia non gli pareva un'impresa facile. Si sarebbero levate molte proteste. Aspasia ribatté che si trattava di un provvedimento di natura politica, e che quando le decisioni vengono dall'alto il popolo tace. «È solo un pretesto per tappare la bocca a chi può ancora parlare», aggiunse. «Si vede che diamo fastidio.» Lui annuì, consenziente. Ora però la cosa importante era conoscere tutti i particolari del delitto... Quando e dove era avvenuto, chi si trovava sul posto, chi aveva testimoniato, cosa era stato detto, quando e dove Anito era stato visto vivo per l'ultima volta, quanto tempo era trascorso da allora fino al momento in cui avevano rinvenuto il cadavere e in che stato lo avevano trovato. «È stato orribile», esordì Aspasia. «È accaduto venti giorni fa. All'alba, una guardia cittadina si è presentata a casa con l'ordine che lo seguissimo alla Milesia. Filippo, il custode che sorveglia l'entrata, aveva dato l'allarme dopo aver trovato il cadavere di Anito in una delle stanze. Quando siamo arrivati lì non lo avevano ancora rimosso. Giaceva supino su un letto, con un pugnale conficcato nel petto fino all'impugnatura. La lama gli aveva trafitto il cuore. Le mani erano ancora strette attorno al manico, come se se lo fosse infilzato da solo.» «Non poteva trattarsi di un suicidio?» «Anito era mancino, e proprio grazie a questo particolare si è dedotto che era stato assassinato. La mano che afferrava l'impugnatura era la destra; la sinistra vi era appoggiata sopra. Essendo mancino, sarebbe stato logico che a impugnare l'arma fosse la sinistra. Si è quindi dedotto che l'assassino volesse far credere che si fosse suicidato, ma si è sbagliato di mano.» «E ignorava che Anito era mancino.» «Inoltre, suicidarsi in una casa di piacere, dove sei sempre in compagnia... suona piuttosto contraddittorio.» «Bene, possiamo scartare l'ipotesi del suicidio. E abbiamo anche scoperto il primo errore dell'assassino. E chi ha commesso un errore di solito ne
commette altri.» «In tal caso non li abbiamo individuati.» Insieme ricostruirono la scena del crimine. Anito era sempre uno degli ultimi a lasciare la Milesia, poco prima della chiusura. La notte in cui era morto lo avevano visto tracannare coppe di vino, già brillo, nel salone vuoto. Era quasi l'alba, stavano per spuntare le prime luci del giorno, la maggior parte dei clienti se n'era andata, rimanevano solo gli irriducibili. Quasi tutte le etère, conclusa la nottata, erano rientrate nelle proprie case a riposare. All'ora in cui Anito era stato visto ancora vivo c'erano altri quattro avventori: Aristofane, Diodoro, Cinesia e Antemione, figlio di Anito, oltre alla stessa Aspasia e a tre donne, e cioè Neobula, Timareta e Clais; e anche la mescitrice Eutila e il custode Filippo. «Non potrebbe essere entrato qualcun altro alla Milesia senza che nessuno se ne accorgesse?» «La Milesia è un locale chiuso», replicò Aspasia. «Come sai, ha solo un accesso, proprio per evitare che qualcuno entri senza pagare. Per questo siamo partiti dalle testimonianze di chi si trovava all'interno quando è stato compiuto il delitto.» «Il che va bene, se avete prestato attenzione a chi è uscito in seguito.» «Il nostro Filippo ricorda tutti quelli che entrano e non si allontana mai dalla porta. L'ultima volta che Anito è stato visto vivo si era ritirato in una stanza con Neobula. A quel punto, nel locale rimanevano solo Aristofane, Diodoro, Cinesia e il figlio di Anito. Io sono uscita poco dopo Cinesia e poco prima di Aristofane. Filippo ricorda quando i primi tre se ne sono andati e, mentre si preparava a chiudere, sapeva che dentro c'erano ancora Anito e suo figlio, quest'ultimo con ogni probabilità disteso da qualche parte a smaltire la sbornia, come al solito. Lo aveva dovuto svegliare parecchie altre volte.» «E se qualcun altro fosse entrato in precedenza e si fosse nascosto all'interno?» «Mi fido della buona memoria di Filippo. Sono anni che lavora per noi, e non gli sfugge nulla. Memorizza tutti quelli che varcano la soglia, riscuote l'entrata, toglie loro le calzature e si assicura che non siano ubriachi. Queste sono le regole, e lui le rispetta scrupolosamente. Non ha avuto un attimo di esitazione nell'assicurarmi che nel locale c'erano solo i quattro di cui ti ho detto, oltre alla vittima. Anche se qualcuno si fosse nascosto, lo avrebbe visto entrare; quindi avrebbe saputo che si trovava ancora lì.» «Non è difficile nascondersi nella Milesia, vista la quantità di angoli ap-
partati. In tal caso, l'assassino sarebbe potuto sgattaiolare fuori all'alba, mentre Filippo correva ad avvisare gli Undici.» «Filippo ricorda i nomi di ogni singolo avventore di quella sera. E, se la sua testimonianza non bastasse, abbiamo raccolto le dichiarazioni dei presenti su chi hanno visto entrare e uscire dalla Milesia. Dalle loro affermazioni emerge che i clienti di quella notte, a eccezione degli ultimi quattro, hanno tutti un testimone che li ha visti andarsene. Dei presenti al momento del delitto abbiamo scartato Cinesia: Eutila, Filippo e io possiamo giurare che si è ritirato con Timareta. Ha un solido alibi. Per gli altri tre non posso dire niente perché sono uscita di lì a poco.» «Bene. Cosa mi dici delle etère?» «Le conosco da molto tempo. Le ragazze da quando erano adolescenti e Filippo da vent'anni. Sarebbero incapaci di fare una cosa del genere. Neobula invece è indecifrabile... Non siamo amiche, però ci troviamo bene sul lavoro e finora la sua presenza è stata insostituibile. Esercita uno strano potere sugli uomini. È il pilastro della Milesia e sa di esserlo.» «Suppongo sia stata interrogata...» «Più volte, ma non abbiamo trovato un solo, valido indizio che la renda sospetta. Ci basiamo sul fatto che, nel momento in cui Anito potrebbe essere stato pugnalato, lei non era mai sola. Abbiamo ricostruito con precisione quei frangenti. Dopo aver giaciuto con Anito, Neobula si è recata al lavatoio, dove ha incontrato Clais. Sappiamo che allora Anito era ancora vivo perché ha bevuto il vino portatogli da Eutila. E proprio Eutila ha visto Neobula lasciare il lavatoio diretta verso l'uscita, dove è stata notata anche da Filippo. Neobula se ne è andata a casa, dato che era molto tardi, mentre Anito è rimasto a bere da solo nell'alcova in cui si era dilettato con lei.» «Passiamo ai sospettati.» «Quanto ad Aristofane, Diodoro e Antemione, il figlio di Anito, nessuno di loro è dotato di un temperamento violento. Aristofane doveva ad Anito una notevole somma di denaro, più di tremila dracme a causa di un vecchio prestito, e ultimamente questi gli stava col fiato sul collo. Di Antemione sappiamo che da parecchi anni era in rotta con il padre; non si parlavano neppure. Antemione è un bevitore incallito e riesce a malapena ad avere rapporti con le etère. È come un otre che reclama in continuazione del vino, fino a non poterne più. A quel punto si addormenta. Per Anito il figlio era il disonore della famiglia. Lo aveva rinnegato.» «Ecco un sospetto.» «L'abbiamo pensato tutti. Però pare che a quell'ora della notte Antemio-
ne fosse talmente ebbro da non reggersi neanche in piedi. Pertanto, è difficile ritenerlo responsabile di un crimine così elaborato.» «E di Diodoro cosa puoi dirmi?» «Diodoro è un cavadenti. Ha un ambulatorio vicino alla piazza pubblica e il lavoro non gli manca. È assai intelligente, colto. Timareta lo conosce bene. A quanto pare è stato alunno del nostro caro Protagora ma, alla fine, non ha voluto seguirne le orme. Gli è rimasto il gusto per la conversazione raffinata. Va pazzo per le donne. In passato, con la scusa che un'infezione in bocca può causare irritazioni alla pelle, ha cercato di spogliarmi per estrarmi un dente. Gli sono scoppiata a ridere in faccia. Ricorrendo allo stesso pretesto, ha tolto le vesti alla maggior parte delle signore di Atene, e non perché siano cadute nella trappola, ma perché faceva loro piacere. È un bell'uomo, scapolo, e sa essere galante assai più di qualsiasi marito. Inoltre, sai bene come si ci invaghisce dei medici.» Aspasia sorrise maliziosa. «Il fatto è che gli è passata la voglia di spogliare donne sposate il giorno in cui un marito ha cavato i denti a lui. Non abbiamo alcuna prova di un suo legame con Anito, però non possiamo neppure escluderlo. È un cliente abituale della Milesia, tuttavia non è tra quelli che se ne vanno a tarda ora. Quel giorno ha fatto un'eccezione. Anche lui si è dichiarato innocente, come Aristofane e, naturalmente, come il suo amico Cinesia.» «A quanto pare l'assassino ha dovuto attendere fin quasi all'alba per trovare Anito solo e indifeso, dato che la morte non sembra essere frutto di un alterco, nel qual caso si sarebbe udito. Tutto fa supporre che sia stato perpetrato in silenzio e con premeditazione. L'assassino doveva conoscere le abitudini di Anito nel bordello. Forse lo ha visto assopito per effetto del vino.» «L'omicida, di chiunque si tratti, ha calcolato che La Milesia era il luogo ideale per ucciderlo: la vittima giaceva sul letto, a pancia in su. Persino una donna poco esperta può conficcare un coltello affilato nel petto di un uomo addormentato. Più difficile era agire in silenzio, senza testimoni, in un luogo come La Milesia. Ancora più difficile, però, sarebbe stato ammazzarlo a casa sua, introducendovisi nel cuore della notte... La dimora di famiglia è una splendida villa con un solido portone d'ingresso che non si può abbattere senza fare un gran chiasso. Il rumore avrebbe svegliato tutti. E poi era difficile trovarlo per strada da solo. Anito amava circondarsi di persone influenti.» «Insomma», disse Prodico, «non era un uomo che si potesse ammazzare facilmente.»
«No davvero. Forse il solo posto possibile era proprio il mio locale.» «In ogni caso è sempre un'azione temeraria, se consideriamo che è quasi impossibile aggirarsi per la Milesia senza che qualcuno sostenga, quanto meno, di averti visto.» «Doveva avere una ragione più che valida per ucciderlo se ha corso tutti quei rischi», commentò Aspasia. «Può essersi trattato di una vendetta. Mi risulta che...» Gli amici di Socrate sono un branco di fanatici, pensò. «Che?» «Che Socrate avesse amici disposti a correre dei rischi per lui.» «Non credo sia stato un amico di Socrate. Ma è solo un'intuizione.» «Forse l'assassino aveva qualche legame con il filosofo. Partiremo da lì, dall'amicizia di Socrate con qualcuno dei cinque sospettati. Magari troviamo degli indizi lungo la strada.» Terminata la colazione, Prodico fissò su un papiro l'enigma attorno al quale ruotavano le indagini: la domanda cui bisognava rispondere. La canapa imbevuta d'inchiostro scorreva diligente sulla rugosa superficie del foglio. ENIGMA PRINCIPALE Chi ha ucciso Anito? QUATTRO IPOTESI Aristofane. Diodoro. Antemione. Neobula. Fin qui gli sembrava chiaro che il metodo da seguire era quello di vagliare ciascuna delle ipotesi; in altre parole, doveva interrogare i quattro indiziati fino a smascherare il colpevole. Come spremerli a dovere e scoprire la verità che si nascondeva dietro una falsa testimonianza era tutt'altra faccenda, e l'avrebbe presa in considerazione in un secondo momento. Riflettendo sull'obiettivo che si era dato, se contenesse o meno tutti gli elementi essenziali, giunse alla conclusione che era incompleto. Non gli bastava sapere chi aveva commesso il delitto. Doveva scoprire anche il movente. Cosicché aggiunse: PRIMO ENIGMA SECONDARIO Perché hanno ucciso Anito?
CINQUE IPOTESI Vendicare Socrate Movente politico (screditare la democrazia) L'ira di un'etèra (passionale) Odio figliale Economico: saldare un debito Rilesse quanto aveva scritto e gli piacque. Si chiese se fosse tutto quello che desiderava sapere o se ci fosse dell'altro. Quindi riprese in mano la canapa e aggiunse: SECONDO ENIGMA SECONDARIO Fu giusto il processo a Socrate? DUE IPOTESI Colpevole Anito (accusa falsa, condanna ingiusta) Colpevole Socrate (accusa vera, condanna ingiusta) Decise di iniziare dal secondo enigma secondario. La risposta lo avrebbe aiutato a scoprire il movente del delitto (primo enigma secondario), grazie al quale sperava di dare un volto all'assassino. XX Le prime luci dell'alba spuntavano dietro le montagne dell'Imetto. I cittadini di Atene si diedero appuntamento sulla pubblica piazza per formare il gruppo di uomini che avrebbe deciso dell'innocenza o della colpevolezza di un solo uomo. Il sorteggio avvenne con grande celerità e senza incidenti. Non vi furono proteste. Quando i primi raggi del sole illuminarono la piazza erano già stati scelti i millecinquecento membri del tribunale. «Proteste? Di che tipo?» chiese Prodico. Senofonte annuì e rispose: «Essere scelti per far parte di una giuria non è sempre cosa gradita, come sai, ecco perché è parso strano che non vi fossero state proteste o rinunce, come avviene di solito. Essere un giudice del processo a Socrate è stato considerato da molti un privilegio. In fin dei conti, non sarebbe stato pos-
sibile formare un tribunale popolare del tutto imparziale». «L'antipatia per l'accusato pesava fin troppo sulla bilancia.» «Dici bene: antipatia», ribadì lo storico. «Né odio né sete di vendetta. Si decideva su una vita, non dimentichiamolo.» La folla si dispose sulle gradinate tra confusi mormorii e tardò a calare il silenzio affinché l'araldo potesse eseguire il rito sacrificale e la supplica, rivolta all'arconte re, in piedi sulla scalinata d'onore. Una nuova ondata di brusii salutò l'ingresso dei tre accusatori, Anito, Meleto e Licone, e crebbe alla comparsa di Socrate, scortato da due guardie, sereno e quasi superbo, la bianca barba ben scolpita e il solito vecchio tribone pulito e in ordine. Si sedette sul banco degli imputati dopo aver tolto la stuoia di soffice lana. «Questo particolare ha fatto sorridere più di qualcuno», ricordò Senofonte. «Era da lui disdegnare le piccole comodità, per non perdere la tensione.» «Insomma, eravamo davanti al Socrate più autentico», sorrise Prodico. «Il più autentico in assoluto.» L'arconte re diede inizio al processo dichiarando che erano lì riuniti per giudicare Socrate, figlio di Sofronisco, accusato di empietà e di altri reati contro la città. Chiedeva al pubblico di mantenere la calma e di far regnare il silenzio sulle gradinate. Al più lieve incidente, i sediziosi sarebbero stati allontanati immediatamente dal tribunale. Sui giurati ricadeva il peso della decisione che dovevano prendere con la massima obiettività e imparzialità possibile, e ingiungeva loro di emettere una sentenza equa. Nel contempo, ricordò il giuramento di deliberare secondo le leggi laddove queste esistevano e, in loro assenza, di deliberare il più possibile secondo giustizia. L'arconte diede la parola all'accusa. Anito salì sulla tribuna degli oratori e lanciò uno sguardo grave verso le gradinate della giuria. Parlò con voce pacata ma ferma. Dopo aver brevemente inquadrato il problema, precisò le accuse rivolte contro l'imputato. Definì Socrate un pensatore e un abile oratore, la cui sola occupazione era quella di ragionare coi più giovani sulla virtù. Alcuni lo consideravano un sapiente, altri un semplice ciarlatano. Tutto questo però non riguardava il processo, ma era volto ad appurare se effettivamente l'accusato impartisse insegnamenti tali da cor-
rompere i suoi discepoli con idee e valori contrari ai principi dello Stato. Anito e Meleto spiegarono ai giudici come erano giunti alla conclusione che l'accusato fosse un impostore. A parer loro, sotto le spoglie di un'innocua conversazione erratica, si celava un diabolico metodo di persuasione. Riusciva a portare gli interlocutori dove voleva. Dapprima li confondeva, poi li catturava, li seduceva, li istruiva nella sua dottrina, li trasformava in fanatici e li corrompeva. Con queste parole si concluse il primo discorso di Anito dalla tribuna dell'accusa. Era giunto il momento della replica. Socrate si diresse senza fretta verso la pedana. Non sembrava sfiorato dalle gravi accuse che gli avevano appena rivolto. Il tono di voce era controllato, ma non indifferente. «Non so, o ateniesi, se mi conoscete e amate la verità, come abbiate potuto tollerare le parole del mio accusatore. Dal momento che in esse non mi riconosco, in realtà non so di chi stiano parlando, anche se ho udito pronunciare il mio nome più di una volta. Mi sento fuori luogo. Non sono mai stato convocato davanti ai giudici, non comprendo i reati di cui mi si accusa e non riconosco alcuna onestà né nel contenuto né nel modo di dissertare di Anito, abile politico. Immagino vi aspettiate da me un discorso di difesa che confuti il precedente. A quanto pare, così si fa in questi casi. Mi si accusa di essere una serpe e mi vedo nella strana situazione di dover dimostrare a parole che non sono ricoperto da squame, che non striscio per terra e che non stillo veleno dalla bocca. «Non mi sono mai trovato a dover fare un discorso tanto assurdo su un tema a me così estraneo, pertanto non so cosa dire. Inoltre, io non so fare discorsi magniloquenti a uso dei tribunali, so solo dialogare, e a questo proposito Anito non si sbaglia. Mi piace parlare con tutti, con chiunque mi si avvicini. Uso parole semplici, come quelle che impiego nell'agorà. Non ho nulla da nascondere. Mi faccio vedere ovunque: nel ginnasio, per strada, nella pubblica piazza, dove c'è gente. Sapete bene di cosa vi sto parlando. «Molti dei presenti hanno conversato con me. Vi siete sentiti minacciati e corrotti dal sottoscritto? Vi ho forse indotti a disprezzare i nostri valori e le nostre istituzioni?» Vece una pausa prima di proseguire. «So di essere stato oggetto di calunnie, e so anche che si tratta di un rischio a cui si espone chiunque parli liberamente in questa città; è impossibile evitare che un qualche sciocco stravolga le tue parole o ti metta in ridicolo. Così agisce Anito, calunniandomi. Infatti, a differenza di coloro
che insegnano per corrompere e trarne benefici, io non mi propongo di insegnare nulla, ma solo di indagare sulla virtù e sulla conoscenza, su come possiamo essere migliori, più liberi e felici. Da queste posizioni sfido il probo e patriottico Anito a dimostrarmi che ho corrotto anche un solo giovane, e chiedo al venerabile arconte che mi permetta di sostenere un dialogo con chi mi accusa, invece che pronunciare un lungo discorso.» L'arconte re convocò i tre accusatori per udire il loro parere. Dopo un breve conciliabolo essi accolsero quella variante alla procedura. Socrate ricambiò la cortesia cedendo la parola ad Anito. «Ti sei espresso con abilità, Socrate», disse Anito, «e mi complimento per il tuo discorso. Ancora una volta ti atteggi a ignorante facendo sfoggio di grande sapienza. La potremmo definire una dotta ignoranza, o un'ignoranza socratica. Quello che hai appena concluso è infatti un magistrale discorso sulla tua incapacità di fare discorsi. Ammiriamo la tua persuasiva umiltà. Ci convince e ci emoziona.» Rivolse uno sguardo eloquente al pubblico suscitando un'ondata di soffocate risa. «Ma il nostro Socrate non è l'umile ignorante che finge di essere. Lui cammina tra la folla portando la fiaccola della verità. Il problema è che si lascia alle spalle una sfilza di barbe bruciate!» Questa volta le risate si mischiarono al brusio. L'arconte re chiese silenzio. Refrattario alle burle, Socrate prese la parola e si dichiarò annoiato dai vani sforzi compiuti da Anito per convincere il pubblico del suo talento come attore di teatro. Quella commedia l'aveva già rappresentata Aristofane con migliori risultati. E aggiunse: «Le tue ragioni, Anito, sono degne dei tuoi meriti personali. Da tempo ti sei allontanato dalla virtù, e dovrai squalificarmi non poco agli occhi della giuria per collocarmi più in basso di te». Anito replicò che non era necessario dimostrare in quella sede l'arroganza dell'imputato, in quanto questi gli stava risparmiando il lavoro. L'arroganza del filosofo era quella di chi si crede talmente dotto da decidere persino chi ci deve governare. Socrate replicò così: «Mi stupisce, Anito, vedermi attribuire interessi politici di tal fatta. Proprio tu che, non contento dei guadagni ottenuti con il commercio delle pelli, aspiri ora a diventare stratega e frequenti uomini importanti. Da che possiedi l'uso della ragione non hai fatto altro che arricchirti a qualsiasi prezzo, prima negli affari e adesso in politica. Vanti ottime relazioni, appartieni al circolo degli strateghi e non perdi occasione per attribuirti un
qualche merito, anche a costo di ricorrere alle menzogne. Ti conosciamo bene, Anito: non sei credibile dinanzi a questa giuria. Le tue motivazioni sono deplorevoli. Mi presenti in questa sede come un uomo che corrompe la politica della polis quando sono solo un modesto cittadino che fa il proprio dovere. Ho mai concorso a una sola carica o cercato di stringere amicizie influenti? La mia vita è l'esempio lampante del fatto che vivo al margine di tutto ciò. E spero che, data la mancanza di argomenti validi, si metta fine alla discussione prima di esaurire la pazienza di questo tribunale». «Niente affatto», ribatté Anito rivolgendosi ai giudici e dando le spalle all'accusato. «C'è ancora molto da dire. Ammettiamo pure che Socrate non abbia mai direttamente aspirato al potere. Per una serie di valide ragioni, tra cui la scarsa simpatia che riscuote tra noi, ha preferito rimanere nell'ombra. E nell'ombra ha agito, mosso dal proposito di formare il successore più adatto, l'uomo che, previamente indottrinato da lui, prendesse in mano le redini del governo ricorrendo alla forza. Per l'esattezza, mi riferisco all'insegnamento impartito in passato a giovani colti e di buona famiglia, quali il tiranno Crizia e il più spietato e indegno degli uomini di questa città: Alcibiade.» Si girò verso Socrate, aumentando nel frattempo il tono di voce fino a renderlo roboante. «Entrambi furono discepoli tuoi, Socrate. Perciò esigo che ti pronunci al rispetto!» «Ho dialogato a lungo con loro, è vero, e loro hanno imparato a pensare con intelligenza, ma non secondo virtù e prudenza. In realtà, non hanno mai abbandonato l'ignoranza. Sono colpevole per questo? Se non ho capito male, sostieni che alcuni giovani poi divenuti dei traditori hanno imparato da me a comportarsi in questo modo, basandoti sul principio che si impara ciò che ci viene insegnato.» «Non è dunque vero che impariamo ciò che ci insegnano?» intervenne Licone. «Interessante questione, Licone. Credi davvero che l'insegnamento produca apprendimento?» La domanda sollevò un'ondata di mormorii ironici. «E cosa dovrebbe produrre, fave, per caso?» si burlò di lui Meleto. La risposta ravvivò il brusio. Socrate attese che si facesse silenzio prima di rispondere. «È un esempio molto pertinente, Meleto. L'insegnamento può essere paragonato alla semina. Ma è vero quel che si dice, ossia che la semina produce fave così come, per esempio, le galline depongono uova? Dimmi solo
questo, Meleto.» «Per Zeus! Dove vuoi condurmi?» Meleto fece un gesto d'impazienza. «Credi che non sappia che le galline depongono uova? Mi prendi per scemo?» Sulle gradinate il pubblico riprese a fare chiasso e l'arconte dovette imporre il silenzio. «Siamo dunque d'accordo che le galline depongono uova» , proseguì Socrate in tono pacato e fiducioso, «ma non del tutto sul fatto che la semina produca fave e altri ortaggi, come hai appena sostenuto. Uno può seminare e non ottenere nulla. Perché a far sì che una pianta cresca non è l'uomo, bensì il seme fertile, la buona terra, il sole e la pioggia; allo stesso modo non possiamo affermare che colui che insegna o dice di insegnare produca apprendimento. Proprio così: non fa imparare l'altro, perché è il ricevente che impara, quando è capace di pensare con la propria testa. L'apprendimento è un processo interiore, al pari del ricordo. Chi insegna si limita a fornire un aiuto affinché questo apprendimento venga alla luce.» Anito, irritato, si portò le mani alla fronte per manifestare tutto il suo scherno. Era evidente tuttavia che le spiegazioni dell'imputato piacevano ai giudici, perché ne mostravano il volto più conosciuto, quello di un artista della parola, con un grande talento per ingarbugliare le cose e attribuire loro un significato originale e curioso. E poi perché avevano fatto uscire dai gangheri Anito. Il filosofo concluse: «Smentisco di aver insegnato a qualcuno, perché sono convinto che la conoscenza non si trasmette, ma che è insita in ognuno di noi. E chi afferma di aver imparato da me qualcosa di nuovo mente». Gli accusatori si resero conto che Socrate li aveva trascinati su un terreno a lui favorevole e che godeva di un certo vantaggio. Meleto fece notare la strategia dell' imputato mirante a sviarli dal tema principale e a invischiarli in argomenti banali. Non rispondeva mai alle domande. Rifuggiva dai fatti. Ed erano i fatti l'unica cosa importante. Anito raccolse il testimone. «Tutti sappiamo che hai insegnato l'arte della politica ai tiranni e ai nemici di Atene. Sappiamo che non condividi i princìpi della democrazia.» Socrate chiese a quali principi si riferisse. Anito sottolineò che l'accusato aveva più volte criticato il sistema della giuria popolare, sostenendo che non tutti sono autorizzati a distinguere ciò che è giusto da ciò che non
lo è. Inoltre, aveva parlato della democrazia come del rumore prodotto da un corteo di musici che non avevano mai imparato a suonare i propri strumenti. Socrate non lo ammise né lo negò. «Ti abbiamo anche sentito affermare che sei l'unico ateniese che conosce a dovere l'arte della politica», disse Anito. Da qualche tempo Socrate aveva assunto un'espressione assente, quasi non fosse interessato ad ascoltare le accuse di cui veniva fatto bersaglio. Quando riprese la parola si rivolse direttamente ai giurati e la sua voce era più severa: «Questa città si ostina a cancellare la ragione quando si esprime liberamente. Oggi ci si rammarica di processi come quelli istruiti contro Fidia ed Euripide, e anche di quello che ha portato all' esecuzione degli strateghi dopo il disastro delle Arginuse. Mi si accusa di agire contro la legge del nostro Stato. Voglio pertanto ricordare in questa sede che sono stato l'unico membro del Consiglio a criticare l'illegalità del procedimento sommario e inquinato con cui furono giudicati gli strateghi. In seguito Atene si pentì di ciò che aveva fatto, ma allora nessuno volle ascoltarmi. Mi si accusa ora nello stesso modo, senza prove né verità». «Abbiamo ben altro che una semplice testimonianza», replicò Anito, «qualcosa di assai più eloquente della prova che hai istruito personalmente Crizia. C'è un fatto che possono confermare molti dei presenti a questo processo. Durante la sanguinosa tirannia dei Trenta Tiranni sei rimasto ad Atene mentre i democratici venivano perseguitati e sgozzati e il solo modo di salvarsi era fuggire dalla città. Perché sei rimasto ad Atene? Evidentemente eri amico di Crizia, il capo dei tiranni.» Al che Socrate ribatté: «È vero che rimasi ad Atene. C'è molta gente qui che può testimoniare come Crizia, nella sua breve permanenza al potere, mi proibì di tenere dialoghi con gli amici. Anche lui riteneva che la mia influenza sui giovani fosse pericolosa e fomentasse la sedizione. E ora, nel nome della democrazia, mi si accusa di indottrinare tiranni. Perché mai tutti credono che io faccia sempre il contrario di quel che faccio? Guardami bene. C'è qualcosa nel mio aspetto che incute timore, tanto da attribuirmi oscure congiure politiche, prima contro la tirannia e adesso a suo favore?» Il filosofo si rivolse all'intera Assemblea passeggiando lentamente e fissando ogni volto. La sua resistenza fisica pareva risentire della tensione del processo e del tempo trascorso a discutere. «Il tuo aspetto non ci spaventa.» Anito si alzò in piedi. «Ti neppure le
tue parole. La tua presenza ad Atene durante il regime dei Trenta non è stata per nulla chiarita. Lasciamo da parte il fatto che Crizia ti proibisse di indottrinare, poiché è cosa non provata. Ciò che è strano in sé è la tua permanenza in città all'epoca dei massacri.» Fissò i giurati. «È triste per noi richiamare alla mente quel periodo, soprattutto perché ne conserviamo un ricordo così fresco. Millecinquecento furono gli ateniesi giustiziati! E cinquemila, tra cui il sottoscritto, quelli che dovettero lasciare Atene per mettersi in salvo dalla furia dei tiranni! Perché tu non eri tra i cinquemila esuli, se ti consideri tanto democratico?» «Non mi piace fuggire. Io non temevo Crizia e i suoi.» «Ora sì che hai parlato chiaro, Socrate. Avevi buone ragioni per non temere il tuo amico Crizia, vero? Non ho altro da aggiungere.» Anito tornò a sedersi e per qualche istante vi furono solo mormorii, bisbigli, facce che si giravano da una parte all'altra e facevano smorfie al vicino di posto. La situazione stava cambiando per l'accusato, che infine si decise a parlare. «Non mi intimidite, Anito, Meleto, Licone. Mi svolazzate intorno come uccelli necrofagi aspettando il momento giusto per scagliarvi su di me. Ma le vostre accuse non sono che calunnie. La mia vita è stata sufficiente esempio della mia virtù. Sulla virtù e sulla giustizia ho a lungo indagato con gli amici, non ho mai smesso di ricercare e morirò facendolo. Parlo della virtù dell'uomo comune, dell'artigiano, dell'artista e anche della virtù del governante che regge i destini della città. Parlo della giustizia del pescatore, del commerciante e della grandezza della città, che sono le sue leggi e il suo funzionamento. Su questo vertono i miei dialoghi che voi chiamate politici. «Non c'è nulla da cui io debba difendermi, ma dal momento che vi ostinate ad accusarmi, vi avverto che state commettendo una nuova ingiustizia, poiché non è condannando un uomo innocente che si contribuisce a creare un clima di concordia. Se chi mi accusa con argomenti fallaci è in grado di trasformare davanti a una giuria l'innocenza in colpevolezza, ci attende un futuro incerto. Infatti, non ci sarà bontà che non potrà passare per perfidia, vizio per virtù e verità per menzogna. Mi trattate come un colpevole dinanzi al tribunale della morte, desiderosi di vedermi cadere in disgrazia, ma la vera ragione di questo processo è l'ansia di vendetta di Anito, il suo risentimento perché ho esercitato una certa influenza sul figlio. «Tutto questo, infatti, cela un'altra accusa che non ha l'ardire di rendere
pubblica: quella di aver corrotto il figlio perché non ha voluto seguire il cammino tracciatogli dal padre. A questo allude quando mi incolpa di corrompere e indottrinare la gioventù. Siatene coscienti: non c'è nulla di pulito in questo processo. Se mi condannate a morte non farete del danno a me ma a voi stessi. Perché è molto più grave commettere un'ingiustizia che esserne la vittima.» Socrate se ne stava lì, ritto in piedi, incredulo davanti alla clessidra che aveva terminato di svuotarsi. Aveva affermato che una sentenza di morte contro di lui sarebbe stata una condanna per tutti gli ateniesi. Sembrava quasi che conoscesse il verdetto finale, o che non gliene importasse affatto. Anito si rivolse ai giurati e alzò lo sguardo verso l'arconte. «Ho udito bene? Ora risulta che non è più l'accusato bensì l'accusatore? Vuole evitarci di commettere il reato di condannarlo! È il peggiore sfoggio di demagogia che abbia mai udito. Si proclama paladino della virtù, esempio per tutti gli ateniesi, nella sua insondabile umiltà, ma le parole che ha pronunciato trasudano veleno e superbia. Neppure durante la sua arringa difensiva ha potuto evitare di attaccarci, ridicolizzarci, farci sentire degli ignoranti al suo cospetto. Il comportamento di Socrate dinanzi a questo tribunale è un esempio della sua insolenza, della sua falsità. Non è riuscito a confutare l'accusa di aver istruito i tiranni e svolto un magistero contrario al nostro Stato. Si è limitato a confonderci le idee con discorsi vuoti e truffaldini. Chiedo alla giuria che in base ai fatti decida se quest'uomo è innocente o colpevole.» Il tribunale e il pubblico erano di nuovo in subbuglio. L'arconte re dovette imporre il silenzio. Neppure Socrate aveva altro da dire e lo fece sapere ai giurati. Pertanto, si passò alla votazione. Gli accusatori ottennero oltre la metà e un quinto dei voti contro Socrate: duecentottanta voti neri contro duecentoventi bianchi. Altri trenta voti a suo favore e sarebbe stato assolto. Il processo si sarebbe comunque prolungato fino a notte, bisognava decidere la pena. La clessidra era stata girata senza sosta, fino all'esasperazione. Lo stesso Socrate, sprofondato sul banco degli imputati, mostrava evidenti segni di stanchezza. Si udirono le argomentazioni dell'una e dell'altra parte. Chi non aveva prestato ascolto alle ragioni dell'imputato non l'avrebbe fatto ora, qualunque cosa dicesse. Gli accusatori - soprattutto Anito - lo avevano sottoposto a un vero e proprio linciaggio morale durante l'ultima parte del processo.
Per tutta risposta, Socrate aveva cessato di difendersi e dopo aver ripetuto che la sua vita costituiva un sufficiente esempio di virtù, aveva chiesto non solo l'assoluzione, ma anche... una pensione vitalizia. Quanto alla pena, propose di essere ospitato e mantenuto nel Pritaneo a spese dello Stato, come gli eroi olimpici. Intendeva così dimostrare che non si sviliva a chiedere la benché minima forma di clemenza. Tutto ciò fu interpretato come una palese manifestazione di arroganza e disprezzo. «Bisogna riconoscere che si è trattato di un gesto sconcertante», ammise Prodico. «Non so dire se una mostra di coraggio o di follia, senza dubbio degno di un maestro.» «Ci ha indotti a lunghe riflessioni. Qualsiasi altra pena avesse proposto, gli avrebbero risparmiato la vita. È evidente che nel corso del processo ha cambiato atteggiamento e che all'ultimo momento ha preferito rinunciare a salvarsi. Si è sacrificato. Il perché di questa scelta è la grande incognita.» I giudici, pertanto, tracciarono ostili un lungo solco sulla tavoletta di cera: non accettavano la pena proposta dall'imputato. Fu decretata la pena di morte. Ormai era tutto deciso. A Socrate restava solo il diritto di pronunciare le ultime parole. Sulle gradinate regnava ora un impressionante silenzio. Tutti gli sguardi convergevano su di lui. Tira tornato a sedersi per la fatica. Ti parlò senza alzarsi. «Vedo che intendete restaurare la democrazia sulla repressione e la condanna», disse, «imponendo il suicidio a chi pensa in modo diverso. Siete dominati dal dubbio e dalla paura e immaginate che chi non mangia al vostro desco sia un nemico. Erroneamente, credete che con la mia morte potrete risolvere i problemi di Atene, che sono i vostri problemi. Se davvero aveste avuto a cuore la giustizia, mi avreste interrogato con maggiore onestà e minor risentimento, senza tanto timore di udire la verità. Siete accorsi qui con la speranza che dalla mia bocca uscissero suppliche e lamenti e in questo senso vi ho forse deluso, poiché non mi sono umiliato dinanzi a voi chiedendo perdono per reati che non ho commesso. «Sono anziano e non mi importa di morire, ma mi duole essere vilipeso da questo tribunale e dalla città che amo e a cui tanto ho dato. Di questi tempi mi si attacca come fossi un traditore, ma... chi può sapere cosa decreterà il futuro?» «Il tuo resoconto del processo è molto interessante», lo elogiò Prodico,
«e ben depone a favore delle tue qualità di storico. Tuttavia, nutro ancora un dubbio e ti sarei grato se mi aiutassi a chiarirlo. Credi davvero che sul finire del processo abbia rinunciato a difendersi?» «Ho avuto quest'impressione. Deve aver realizzato che le calunnie avevano avuto il sopravvento sui fatti, sulla sua vita. Difendersi da accuse così meschine gli pareva indegno. Lo avevano giudicato colpevole? Perché allora invocare una pena meno dura? Era come ammettere un qualche grado di colpevolezza.» «A mio parere», disse il sofista, «è dovere basilare di un uomo intelligente salvaguardare la propria esistenza. Ancor prima della dignità o di qualsiasi altro valore.» Lo storico soprassedette, pur sentendosi offeso. Si abbandonò sullo scranno e replicò amabile: «Ma lui scelse di essere coerente sino alla fine». «Cosa intendi per coerente?» «Accettare e scontare la pena, benché ingiusta.» «Ho sentito dire che i suoi amici gli avevano organizzato una fuga.» «È vero, lui però si rifiutò di evadere.» «Che sciocchezza!» Senofonte gli rivolse uno sguardo severo e alquanto contrariato. «Forse non potrai mai capire il suo concetto d'integrità.» «Lo capisco, ma non lo condivido. E non credo neppure che quell'atteggiamento di passiva accettazione della condanna fosse coerente con i suoi principi. Per Socrate le leggi non venivano mai prima degli individui. Il suo ideale di sapiente era quello di un uomo che cerca la verità dentro di sé. Su questo si fondava la sua superiorità morale. Se lui si considerava innocente, che bisogno aveva di attaccare la morale del popolo?» «È stato il rispetto della giustizia di Atene a spingerlo a bere la cicuta senza opporsi.» «Di' piuttosto il rispetto delle leggi anziché della giustizia», lo corresse Prodico. «Socrate sapeva distinguere tra diritto e giustizia.» Senofonte conteneva a stento l'irritazione. Continuava a muovere una gamba. Domandò: «Allora, a parer tuo, perché si è rifiutato di fuggire?» «Forse Socrate sperava che Atene si pentisse del proprio crimine e che, bevendo la cicuta, l'avrebbero bevuta simbolicamente anche tutti gli ateniesi. Forse ha voluto essere come Antigone, un estremo difensore della giustizia, un eroe che sfida il suo tragico destino fino al solenne finale.
Suicidarsi è la prova che, in fin dei conti, fai sul serio.» «Lui era contrario al suicidio.» «D'accordo, farsi suicidare, se preferisci. Ma avrebbe potuto evitarlo. Forse è stato il suo insuccesso personale a spingerlo a bere la cicuta.» Lo storico trafisse il sofista con uno sguardo d'odio. «Aveva ragione a parlare della stupidità dei sofisti.» «Forse sì e forse no, come avrebbe detto Protagora», replicò sorridendo Prodico. «Bene, a questo punto tu e io non abbiamo più nulla di cui parlare», disse Senofonte. Arrotolò il suo manoscritto e uscì infuriato dal salone. XXI Un'ottima ragione per rimanere accanto ad Aspasia era ovviamente anche la sua casa. Ampia, luminosa, sempre linda, ti accoglieva coi suoi soffici tappeti e le sue fresche stanze rivestite di marmo pentelico. Custodiva una delle più fornite biblioteche che Prodico avesse mai visto. I rotoli, avvolti in panni di lino per proteggerli dalla polvere e dall'umidità, si conservavano in perfetto stato. Lei li aveva letti tutti. Il patio era il luogo ideale per trascorrere le ore più calde, alla placida ombra della vite che si diramava dal portico, dove si sprigionava il gustoso aroma del mosto proveniente dalla cantina e, al mattino presto, la fragranza del pane appena sfornato. Gli schiavi, istruiti a svolgere alla perfezione i loro compiti, erano impeccabili. Senza apparire troppo servili, tagliavano con cura la barba, i mescitori mescolavano ad arte il vino, restando nelle stanze senza farsi notare e ritirandosi con altrettanta discrezione. Prodico aveva a disposizione un tale numero di servi che, quando chiamava, se ne presentava quasi sempre uno diverso. Il che stuzzicava la sua curiosità. Non appena gli portavano qualcosa in camera, su sua richiesta, gli veniva la tentazione di richiamare immediatamente solo per constatare se sarebbe comparso un altro muscoloso nubiano o magari una graziosa schiava straniera, bottino di qualche guerra. Si aggiravano per la proprietà di Aspasia come silenziose formichine ed erano rumorosi solo in cucina, situata sul lato opposto del patio; quindi nelle stanze padronali il chiasso si udiva appena. Gli aiutanti e i rematori che erano partiti con lui da Ceo e alloggiavano nell'edificio annesso con il resto della servitù, vicino alle scuderie, parevano assai soddisfatti del modo in cui erano trattati. A poco a poco Prodico riuscì a calcolare il numero degli schiavi presenti
in casa e stese mentalmente un interessante elenco. Vi erano due cardatori, due cameriere pettinavano e vestivano Aspasia, tre giovani coppieri, il guardiano all'entrata, colui che le forniva l'inchiostro, il calamo e il papiro per scrivere, il custode della biblioteca, quattro palafrenieri che si occupavano delle scuderie, tre mescitrici, tre suonatrici di liuto, quella che profumava l'atrio con lavanda e maggiorana, tre cuoche, quattro che porgevano brocca e bacinella agli ospiti, quella che curava le piante del peristilio, due tessitrici di lino, tre sorveglianti della casa, due schiavi addetti alle compere, altri due alla pulizia degli alloggi, un'addetta alla cura del vasellame d'argento, un emissario che consegnava messaggi in città e soleva accompagnare la padrona quando usciva... In totale quaranta, per lo più sciti, che nelle aste erano i più cari, ma anche beoti, traci, frigi, carii, armeni e italici, e tutti parlavano perfettamente il greco. In precedenza, i tre sorveglianti avevano prestato servizio in qualità di guardie cittadine ed erano stati catturati in guerra. Nessuno di loro era pigro o scortese; erano rispettosi, formali e discreti. Aspasia li trattava tutti con una delicatezza poco comune e in casa godevano di certi diritti, essendo dotati di spazi per la loro vita intima e sociale. Non ricevevano castighi né facevano nulla per meritarli; non si verificavano fughe né ribellioni. Erano felici di dipendere da una così distinta signora che a volte si intratteneva a conversare un po' con loro. Le erano fedeli perché la servivano da molti anni e lei si preoccupava tanto per loro, al punto che se uno degli schiavi si ammalava lo affidava alle cure del suo medico personale. Tutto questo - e soprattutto la pace, il silenzio e l'indipendenza che gli concedeva la padrona di casa - faceva sì che Prodico si sentisse perfettamente a proprio agio. Il letto della sua stanza, quella destinata agli ospiti, era un giaciglio di piume foderato di lana. C'era sempre dell'acqua fresca nelle brocche di terracotta e nel bacile del lavamani, e vino speziato e torte di sesamo a sua disposizione. Insomma, quel vasto spazio immerso nel silenzio era una sorta di tranquillo rifugio dal mondo, e la sua presenza in quanto ospite d'onore non solo era gradita bensì fortemente desiderata. Stavano facendo colazione nel patio principale. Aspasia pose la mano su quella di Prodico. «Ieri Senofonte è uscito piuttosto adirato.» «Sì», ammise lui, «mi dispiace. Si è irritato perché ho messo in dubbio la virtù di Socrate.» «E tu hai provato un gran piacere nel farlo arrabbiare, vero?»
«Be', sai come sono fatto.» «Incorreggibile.» Aspasia gli lanciò uno sguardo materno, di affettuoso rimprovero. Celava il pallore del volto sotto un trucco pesante. I capelli erano raccolti in una crocchia appariscente e una fibbia d'oro col simbolo della civetta reggeva la tunica color avorio. «È un grande storico», disse. «Ha imparato molto da Tucidide.» «Lo so, e lo rispetto sinceramente. Il suo resoconto del processo mi è parso molto interessante, anche se avrei preferito essere presente in tribunale per poter giudicare con più autonomia. Lo svolgimento del dibattimento è stato appassionante. Davvero atipico.» «Direi piuttosto che si è trattato di un processo tragico.» «Certo, per l'importanza che rivestiva per voi. Tuttavia, se considerato con maggiore obiettività, da un punto di vista più imparziale, se così si può dire, siamo in presenza di cosa? Di un inquietante enigma. Si prenda un processo con tre accusatori e un imputato: gli accusatori affermano che l'imputato mente, e l'imputato accusa gli accusatori di essere degli impostori. Chi dice la verità? Chi è il colpevole?» «Be'», disse lei, «sappiamo cos'hanno deliberato i giurati, il che non dimostra l'esattezza della decisione, dato che non erano in possesso di tutte le informazioni.» «Può darsi che l'imputato credesse di dire la verità e invece mentisse, visto che in realtà le sue affermazioni erano false, o magari le affermazioni dell'accusatore erano corrette, ma non erano vere, in quanto ispirate dal desiderio di ottenere vantaggi politici e di vendetta personale.» «Quest'ultima eventualità è quasi certa, conoscendo Anito.» «Forse entrambi mentivano od occultavano qualcosa, mostrando solo la versione dei fatti a loro più conveniente e trascurando l'altra», osservò Prodico. «A mio parere c'è stato solo un grande manipolatore, che ha testimoniato il falso, in totale malafede.» «Può darsi. Ma è anche evidente che l'imputato non è riuscito a dimostrarlo; mi riferisco alla colpevolezza del suo accusatore.» La conversazione fu interrotta dall'arrivo di Erodico, il medico che ogni mattina controllava lo stato di salute di Aspasia. Lei si alzò da tavola scusandosi, quindi sorrise, quasi volesse minimizzare l'importanza della cosa. «Non preoccuparti», disse a Prodico, «è una visita di prammatica.» In realtà, Aspasia era molto più malata di quanto Prodico aveva immagi-
nato all'inizio. A dar retta a lei, si trattava solo di acciacchi propri dell'età, nulla che potesse seriamente compromettere la sua salute. Scherzava col sofista sulle prescrizioni del medico, diceva che l'aveva sottoposta a una dieta rigorosa, a base di vino d'orzo e latte fermentato di cavalla. E per dimostrare la sua vitalità non stava mai ferma, andava continuamente da una parte all'altra, o si recava a passeggio con gli schiavi o con le amiche etère quando Prodico non poteva accompagnarla. La malattia di Aspasia era un segreto mal custodito, che prima o poi sarebbe venuto alla luce. Il sofista lo sapeva tanto quanto Erodico. A volte, gli infusi di erbe e i lenitivi per calmare il dolore aromatizzavano tutta la casa. C'erano mattine in cui la gentildonna, alzatasi con un'espressione sofferente sul volto, era schiva e sfuggente fin quando i cosmetici non riuscivano a coprire gli effetti della brutta nottata. Nel frattempo, Prodico lavorava sul caso senza fretta. Si propose di verificare di persona la descrizione dei fatti fornitagli da Aspasia. Voleva delineare con una certa precisione gli ultimi istanti di vita di Anito, fino al momento - se mai fosse stato possibile - in cui qualcuno gli si era avvicinato in silenzio, impugnando un coltello, mentre lui giaceva ebbro su un letto della Milesia. Se fosse riuscito a sapere cos'era baluginato nel fondo degli occhi di Anito, vi avrebbe forse visto riflessa la sagoma impressasi nelle sue pupille, quel che avevano colto prima di chiudersi per sempre. Trascorse l'intero pomeriggio nel patio a interrogare Filippo, il custode. Il suo corpo abbronzato e muscoloso tradiva lunghi allenamenti nel gioco della lotta. Aveva spesso occasione di dimostrare la propria abilità quando scoppiava qualche lite tra due o più clienti; in un battibaleno si imponeva sui disturbatori e li scaraventava fuori. Lo spettacolo mandava in sollucchero i frequentatori della Milesia. Pertanto, uno degli scherzi più assidui all'interno del locale era gridare: «Attenti, sta arrivando Filippo!» quando qualcuno era più esuberante del dovuto. Anzi, la beffarda aspettativa suscitata dallo straordinario intervento di Filippo spingeva spesso gli avventori a inscenare false zuffe per assistere all'arrivo di quel ragazzone che, scansati drappi e cortine, si gettava nel mucchio. A quel punto tutti scoppiavano a ridere. Invece di arrabbiarsi, Filippo si univa all'ilarità generale. Era un'anima semplice, ma non tanto da non accorgersi quando la rissa era fasulla. Tuttavia non smetteva di fissare accigliato i commedianti, quasi volesse avvertirli che se continuavano a fare i pagliacci si sarebbe arrabbiato per davvero e li avrebbe sbattuti fuori. Allora, chi si sollazzava cominciava a sghignazzare ed esclamava: «Attenti, sta arrivando Filippo!»
Era un gigante buono, incapace di impiegare la forza a scopi egoistici o distruttivi. Le etère lo coccolavano, gli dicevano che era il loro maschio preferito, e Filippo si sentiva felice. Prodico notò che utilizzava una tavoletta di cera su cui, con uno stilo, annotava meticolosamente i nomi di tutti i clienti che entravano. Aspasia gli aveva insegnato a scrivere. La sua testimonianza fu decisiva per sgombrare il campo da eventuali dubbi su chi si trovava nella Milesia al momento dell'omicidio. Nei giorni seguenti il sofista ascoltò anche le testimonianze di Timareta, Clais ed Eutila, nessuna delle quali compariva sulla lista dei sospetti. Le domande erano mirate ad accertare i movimenti delle etère e dei clienti sul finire della notte. Prodico poté così ricostruire con precisione dove si trovava ciascuno di loro e in compagnia di chi. L'ultima donna con cui Anito era giaciuto era stata Neobula, in una stanza sita sul fondo del locale, che Prodico denominò l'«alcova del crimine». Dopo aver terminato con lui, Neobula era uscita dalla stanza e si era avviata verso il lavatoio delle donne. Il fatto fu confermato da Eutila, la mescitrice, in cui Neobula si era imbattuta sulla porta della stanza e a cui aveva ordinato di portare del vino ad Anito. Aspasia però non l'aveva notata. Eutila, che era andata a prendere un'anfora di vino nei pressi del lavatoio, aveva poi visto Neobula entrarvi. Fino ad allora tutti i movimenti di Neobula erano sotto controllo. Il lavatoio disponeva di una sola porta di accesso che non comunicava con l'alcova del crimine. La mescitrice aveva servito un Anito ubriaco e assonnato e, subito dopo, si era ritirata. Giusto allora Clais, finito con Diodoro, il cavadenti, si era diretta a sua volta al lavatoio, dove si era imbattuta in Neobula. Le due avevano chiacchierato un po' finché Neobula, terminate le abluzioni, se ne era andata per prima. Eutila l'aveva vista raccogliere le sue cose e dirigersi verso l'uscita, dove aveva scambiato qualche parola con Filippo prima di lasciare la Milesia. Insomma, dopo che Neobula aveva lasciato Anito nell'alcova del crimine - vivo, come aveva potuto constatare la mescitrice -, non si era più avvicinata a lui né avrebbe potuto minimamente farlo senza essere vista. Questo la escludeva da ogni sospetto? L'interrogativo induceva Prodico a porsi altre due domande: era possibile che Eutila coprisse Neobula, essendo le due etère? Conveniva ad Aspasia che le sue ragazze fossero al centro dei sospetti? Per rispondere alla prima avrebbe dovuto indagare sul rapporto esistente tra le due donne sentendo il parere di qualcuno che non lavorava alla Milesia, magari un cliente assiduo.
Congetture a parte, al momento dell'omicidio nella Milesia rimanevano quattro uomini: Diodoro, Aristofane, Cinesia e Antemione, figlio di Anito, che dormiva profondamente nel salone principale. Tra tutti loro, Cinesia era l'unico ad avere un alibi (per questo non l'aveva inserito tra i quattro sospetti della sua lista): Eutila lo aveva visto uscire da una stanza con Timareta e andare via assieme a lui. L'etèra lo aveva accompagnato per un tratto, finché le loro strade non si erano divise. Al contrario, né Diodoro né Aristofane avevano un alibi. C'era un buco nero in cui entrambi si trovavano soli, senza testimoni, e sarebbero potuti entrare nell'alcova del crimine. Diodoro sosteneva di essere uscito dalla stanza per andare al lavatoio degli uomini (senza però incontrare nessuno). Qualcosa di simile affermava anche Aristofane, che nel corso degli interrogatori aveva dichiarato di essere così ubriaco da non rammentare dove si trovava in ogni preciso momento e che era stato fin troppo bravo a orientarsi in quel labirinto senza l'aiuto di nessuno per raggiungere l'uscita. Diodoro se ne era andato poco dopo Aristofane. Filippo gli aveva aperto la porta. Era sereno e affabile, come sempre. A quel punto era andato a svegliare Antemione, e questi era sembrato destarsi da un sonno profondo, come accadeva ogni volta. Non poteva tuttavia scartare l'ipotesi che avesse finto di dormire, e nemmeno che avesse simulato di essere ubriaco fradicio come al solito. Antemione, comunque, aveva grugnito qualcosa, si era alzato traballante ed era uscito per strada. Quindi, Filippo era passato a svegliare Anito e lo aveva trovato morto. Allora, era corso a dare l'allarme. Stava spuntando l'alba. La ricostruzione dei fatti consentì a Prodico di farsi un quadro della situazione e di definire un piano per proseguire le indagini. Prese dunque la lista che aveva compilato per chiarire gli enigmi principali e secondari e cancellò Neobula dalla sezione «ipotesi» dell'enigma principale, che restò così: TRE IPOTESI Aristofane. Diodoro. Antemione. D'altra parte, era evidente che esisteva un rapporto tra la morte di Anito e quella di Socrate. Erano entrambi i bandoli di una matassa politica: Anito rappresentava la linea ortodossa, Socrate la dissidente. Quest'ultimo era contrario all'idea di un governo popolare, sostenuta da Anito; non credeva nel sistema assembleare di prendere decisioni né nel dilettantismo politico
del popolo, non credeva nei tribunali popolari né nei pubblici comizi. Era fautore di una classe politica qualificata che contrastasse l'ingerenza del volgo, educata nella filosofia e conoscitrice dello spirito delle leggi. Le sue idee marcavano una netta rottura con la polis. Poiché Anito era stato il principale accusatore di Socrate, Prodico supponeva che dietro il movente del delitto si celassero ragioni di natura politica (destabilizzare il regime democratico) o sentimentale (vendicare Socrate). Insomma, il profilo dell'assassino cominciava a stagliarsi con una certa chiarezza: una persona dalle idee politiche molto affini a quelle del filosofo. Il ritratto ideologico della vittima avrebbe permesso di risalire al ritratto dell'assassino, dal momento che ciò che un uomo rappresenta è proprio quel che l'assassino odia e vuole eliminare, al di là di un semplice corpo umano nato dal ventre di una donna cui è stato dato un nome come a chiunque altro. In un certo senso, Anito incarnava la restaurazione della democrazia costruita sul cadavere di uomini come Socrate. Non c'erano prove di un'avversione personale tra Anito e Aristofane o Diodoro; pur tuttavia, in assenza di tale inimicizia, una sorta - questo sì - di generica antipatia di natura ideologica avrebbe potuto indurli a impedire l'elezione di Anito a stratega di Atene, o a colpire il Collegio degli Strateghi. D'altro canto, la presenza di un movente era lampante, nel caso di Antemione, e non si poteva affatto scartare l'ipotesi che avesse finto di dormire profondamente dopo aver commesso il parricidio, mascherandosi dietro la dipendenza dall'alcool. Prodico ignorava cosa pensassero Aristofane e Diodoro della democrazia rappresentata da Anito. Pertanto, decise di iniziare le ricerche da questi due sospetti, indagando sul loro modo di pensare e sulle loro opinioni politiche per trovare qualche attinenza con le tesi di Socrate. Inoltre, nel caso di Aristofane non bisognava trascurare l'esistenza dell'ingente debito contratto con Anito e la gravità della sua situazione pecuniaria. Era necessario agire con cautela e naturalezza, senza forzare le cose, senza dare l'impressione di sospettare di loro per non spingerli sulla difensiva. Bisognava sondarli lanciando qualche frase qua e là. Anche farsi passare per un amico di Socrate poteva essere un buon sistema per non attirare sospetti e favorire le confidenze. Il fatto di essere straniero gli facilitava le cose: nessuno, infatti, poteva temere che svolgesse indagini per conto del governo. Voleva partire da Aristofane, convinto com'era di poterlo scartare perché lo conosceva e lo stimava sinceramente.
XXII Nessun potente era riuscito a chiudergli la bocca. Come un'invasione di locuste aveva flagellato la città, lanciando le sue invettive dapprima contro la democrazia, poi contro la guerra e infine contro la tirannia. Ed era ancora sulla breccia, l'irascibile commediografo, invitto cinquantenne, un vero e proprio sopravvissuto alle purghe politiche, un colosso dall'aspetto selvaggio, più temuto che venerato. Le sue beffe insolenti mandavano in sollucchero il popolo, e il solo fatto che fosse ancora vivo costituiva forse la prova più concreta della sopravvivenza della democrazia, benché lui pensasse che i democratici gli avessero ipocritamente risparmiato la vita proprio per far credere al popolo che ci fosse ancora libertà d'espressione. Diventare un personaggio delle sue commedie era quanto di peggio potesse capitare a un ateniese. Ma era anche il meglio, visto da una diversa prospettiva, poiché era la prova inconfutabile di una fama imperitura. Il commediografo possedeva la divina facoltà di dispensare gloria eterna a chi aspirava a entrare nel nutrito Olimpo degli idioti. Prodico aveva sempre creduto che Socrate e Aristofane fossero amici; gli sfuggiva pertanto come mai il commediografo si fosse accanito contro di lui nell'opera Le nuvole, messa in scena anni prima. Un'unanime risata aveva scosso le gradinate del teatro alla comparsa di un attore - lo stesso Aristofane - truccato in modo tale da sembrare il filosofo: il suo nasone, la barba trascurata e l'aria stralunata. Era comparso sospeso per aria, sopra il palcoscenico (sulla nube abitata dal filosofo), infilato in un'enorme cesta fissata con una fune a una puleggia. Si era detto in seguito che quella era stata l'unica volta in cui gli ateniesi avevano visto ridere Socrate (presente tra il pubblico). Nella commedia era citato anche Prodico, laddove un personaggio afferma: «A nessuno dei celesti filosofi saremmo disposti a ubbidire, a eccezione di Prodico». Ciononostante, Aristofane non aveva mai nascosto di stimare il filosofo. La casa del commediografo - che non era sua, ma in affitto - sorgeva sulla collina di Pnyx, circondata da un bosco di querce. Era una dimora signorile, tra le più eleganti di Atene. L'uscio era stato divelto e sostituito da una specie di asse malferma. Prodico preferì non bussare per paura che crollasse. «Aristofane!» gridò. Il commediografo sedeva al tavolo da lavoro davanti a uno scritto pieno di cancellature, macchie d'unto e saliva, che gli colava dalle labbra quando
si appisolava, e con qualche mosca spiaccicata qua e là. Da ore, giorni, settimane, viveva nella più cupa disperazione. Disse a Gianto, il suo schiavo, di controllare chi fosse il visitatore. Questi corse alla porta, diede una sbirciatina e riferì al padrone di non averlo mai visto prima, ma che gli sembrava inoffensivo. Aristofane, a scanso di equivoci, afferrò il randello e si diresse all'entrata. Da dietro l'asse che fungeva da uscio, Prodico scorse un uomo con un'ispida e bianca criniera e un enorme randello appoggiato sulla spalla. Sotto un paio di sopracciglia irsute, gli occhi erano arrossati. Il suo aspetto leonino non lasciava presagire l'amichevole accoglienza sperata dal sofista. «Prodico di Ceo, l'insigne sofista!» Il volto di Aristofane mutò espressione. Si scambiarono un forte abbraccio. Il sofista notò che l'alito gli puzzava di vino. «Qual buon vento ti porta? Sei in visita ufficiale? Non ti vedo da anni. Cos'è successo ai tuoi capelli? Li hai tinti di bianco come me?» Scoppiarono entrambi a ridere. La risata di Aristofane era rumorosa e un po' sguaiata, ma contagiosa. Il commediografo gli diede una pacca sulle spalle talmente vigorosa che l'anziano Prodico sentì le ossa scricchiolare. Per un attimo temette che andassero in frantumi. «Mi dicono che hai scritto un libro stupendo di cui non so il titolo e neppure di cosa tratta», affermò Aristofane. «Non l'ho letto, ma trovo favoloso che tu scriva perché la gente non capisca. Non come me, che mi scervello per farmi capire cosicché anche il più idiota degli uomini possa esprimere un parere sulle mie opere.» «Spero di non avere interrotto il tuo lavoro», ribatté il sofista, cortese. Lo schiavo, con ingenui occhi da cucciolo e un'espressione dolce, tolse i calzari a Prodico nell'ingresso: lì, l'aria era fresca e pulita, nonostante il caos imperante. Percorsero un breve corridoio e raggiunsero il patio interno, sul quale si affacciavano diverse stanze prive di mobili per via delle continue confische. «Interrompere il mio lavoro? Ero a metà di una frase quando mi hai chiamato! Ma non importa; l'ho iniziata due mesi fa e non so come finirla. Sto aspettando che le Muse mi sussurrino all'orecchio qualche parola che non sia un'oscenità.» Nello studio rotoli e manoscritti in quantità erano sparsi per terra. Aristofane aveva imparato a camminare senza pestarli, come se dovesse attraversare a balzi un fiume limaccioso. Di fatto, l'aria stagnante, la viscosità dell'ambiente, l'abbandono degli oggetti domestici, la colatura delle candele di sego sul pavimento e sulle pareti, le ragnatele negli angoli del soffit-
to... Insomma, tutto quel complesso di circostanze rendeva così opprimente la stanza da infastidire il sofista. In un certo senso, quei segnali gli erano famigliari e non aveva difficoltà a interpretarli: si trattava del luogo in cui un uomo si era impantanato. «Il padrone di casa mi vuole sfrattare», gli rivelò il commediografo. «È anche il proprietario dell'armeria. Sono mesi che non riesco a pagargli l'affitto e vuole cacciarmi con la forza, visto che con le buone maniere non ci riesce. Ho pensato fossi uno dei suoi scagnozzi. Meno male che non ti ho colpito! Non sono mai stato propenso a picchiare i sofisti. Devi sapere che quella canaglia si presenta di notte per sabotarmi. Si è portato via l'uscio, ha chiuso la bocca del pozzo per lasciarmi senz'acqua e viene a togliere le tegole del tetto. Pur di cacciarmi quell'idiota è disposto a demolire casa sua!» «Mi spiace tu te la stia passando male. Comunque, esistono case con affitti molto più bassi.» «Sì, sì, lo so. Ma devo farmi rispettare dal mio pubblico. Ho una reputazione da difendere!» E scoppiò a ridere per la parodia di se stesso. «È triste», disse Prodico, «che un celebre autore di commedie finisca sul lastrico.» «Mi hanno rovinato a forza di multe e delazioni perché non ho pagato le tasse, e adesso mi accusano di aver ucciso un uomo alla Milesia! Accusano me, che non ho certo bisogno di coltelli per annientare il mio peggior nemico. È tutta colpa di un governo meschino e corrotto che chiamano democrazia, quando invece non è altro che un'anarchia collettiva dove imperversano delatori, sicofanti, codardi e ladroni.» Prodico la pensava come Aspasia: Aristofane era finito sul lastrico per la sua inveterata abitudine di trascorrere le notti alla Milesia. «Sono appena arrivato ad Atene, dopo una lunga assenza. E so solo che hanno giustiziato Socrate», mentì. «Si è trattato di un processo infame, credimi. Socrate era tra i pochi uomini di valore che ci restavano. Ora rimangono solo inetti e demagoghi.» Il sofista osservava lo studio di Aristofane: un intrico di rotoli di pergamena, calami infranti contro la superficie del tavolo in un accesso d'ira, candele e ciotole con resti di cibo secco. Sorrise nel notare un lutroforo su cui l'Olimpo era raffigurato come una casa di malaffare governata da Zeus con la sua sadica saetta. «E questo?» chiese.
«È bene avere come modello gli dei», disse Aristofane. «Per sapere ciò che si deve o non si deve fare?» «La tua domanda riassume l'intera questione morale», replicò il commediografo sorridendo. Prodico vide anche una statuetta di Talia, la Musa protettrice della commedia, a gambe aperte. Accanto al tavolo da lavoro c'era un triclinio su cui Aristofane scriveva quando si stancava di stare seduto e un tavolino con un mortaio di legno per diluire l'inchiostro solido vicino a un'asse su cui poggiavano diverse penne di canna intagliata. La luce proveniva dal patio interno e una scaletta conduceva al piano di sopra, dove avrebbero dovuto alloggiare le schiave (in realtà, c'era un solo servo in tutta la casa). Prodico indugiò a sbirciare un papiro, ma non gli riuscì di decifrare il testo, costellato com'era di cancellature. «Una nuova satira politica?» «Bah! Un lavoro su commissione.» «Scrivi su commissione?» chiese stupito il sofista. «È una richiesta di quelle pazze di Aspasia. Mi hanno suggerito l'argomento su cui lavorare: le donne prendono il potere ed estromettono gli uomini dal governo. Hai mai sentito un'idea più strampalata?» «Da non credere. Conosco un posto in cui vige la ginecocrazia.» «Ah, sì?» Aristofane si grattò la barba con una certa apprensione. «Dev'essere un posto orribile.» «Be', lo frequenti tutte le sere.» L'altro se ne uscì con una risata stentorea: «Per me l'uguaglianza tra i sessi arriverà solo quando saranno gli uomini a pulire il culo degli anziani padri», aggiunse il sofista. «Spero proprio che quel giorno non arrivi mai!» Prodico lanciò uno sguardo veloce ad alcuni rotoli, ma i testi erano scarabocchi incomprensibili. Dopo averli riavvolti, tirò affettuosamente la barba al commediografo. «Non ti vergogni a scrivere su commissione, brutto zuccone?» Aristofane gli tolse un rotolo dalle mani e lo strappò senza neppure guardarlo per dimostrargli la scarsa importanza che attribuiva alla cosa. Borbottò: «Sono tempi duri, ma non avranno la meglio su di me. Sono più resistente di Filippide. Una coppa?» alzò il recipiente che teneva in mano. Prodico rifiutò con un cenno. «Guarda che l'astinenza da vino è deleteria per la salute. Questo nettare è di Chio, senza aromi né sofisticazioni.»
Il sofista allora accettò l'offerta, si portò la coppa alle labbra e fece schioccare la lingua dopo averlo assaggiato. «Questo vino non è stato diluito!» «Diluire il vino...! Che abominevole abitudine! Come possiamo mitigare la nostra tristezza, caro Prodico, se diluiamo il vino?» Prodico fu ben felice di uscire sul patio, dove poteva finalmente respirare a pieni polmoni. C'erano diverse sedie: ne scelse una e vi si lasciò cadere. Subito dopo comparve Gianto con un vassoio pieno di fichi, olive e cipolle sottaceto. Prima di servirli, si inginocchiò a terra e si lavò le mani con una brocca di terracotta. «Raccontami, Prodico, che progetti hai per le mani?» «Sto scrivendo su Socrate. Ma non dirlo a nessuno.» «Puoi contare su di me. Lo sanno tutti che sono la discrezione in persona.» Scoppiarono a ridere. «Eravate davvero amici?» chiese il sofista. «Perché ne dubiti?» «Per via di quella carognata in una delle tue opere.» «Si è trattato di uno scherzo», minimizzò Aristofane. «Gli amici sono fatti apposta per approfittarsene. In realtà lo ammiravo molto. Si sono messi il cuore in pace solo dopo averlo ammazzato. Insomma», fece un sonoro rutto, «nell'Ade ci sarà posto per tutti. Alla salute di Ade.» Levarono le coppe e bevvero, anche se Prodico non gradì affatto la menzione dell'Ade. Osservava affascinato una delle pelose orecchie di Aristofane, che era di profilo, e immaginò l'Ade come qualcosa di simile: una cavità ispida e sierosa attraverso cui giungevano, incomprensibili, i suoni dell'esterno. Ben presto Aristofane dirottò la conversazione verso i propri interessi, che coincidevano con quelli di Prodico. Gli consigliò di andare alla Milesia, senza perdere tempo, perché correva voce che stesse per chiudere. «Come sai che non ci sono già stato?» «Ti avrei visto», ribatté Aristofane, «se anche fossi andato una sola volta in cinque anni.» «Mi trovo al cospetto della persona più indicata a consigliarmi l'etèra migliore.» Compiaciuto, il commediografo fece mostra delle sue rosse e brillanti gengive, simili a quelle di un cavallo che scoppia di salute. «È certo Neobula! Non è più giovane come le altre, ma ti assicuro che
vivresti un'esperienza unica.» «Adesso che la nomini, credo di averne sentito parlare. Dev'essere stata la sua amica, la mescitrice, come si chiama?» «Eutila? Se è stata lei non te ne ha certo parlato bene.» «Infatti, è così.» «Non vanno d'accordo. Be', in realtà Neobula non è in buoni rapporti con nessuna delle ragazze... Sono tutte invidiose di lei. Guadagna molto più delle altre perché è molto più brava.» «Non va d'accordo con nessuna? Neanche con Clais?» «Solo Aspasia le è affezionata, per i vantaggi che le procura. Ma non credo sentano un particolare affetto l'una per l'altra. È un locale interessante, La Milesia, un fantastico soggetto per una commedia. Te le vedi a strapparsi i capelli tra loro, tutte nude? E cosa mi dici del momento in cui i clienti rientrano a casa e trovano le mogli furiose ad aspettarli? Avrebbe un grande successo. Ora però sto lavorando per Aspasia, per cui è bene non contrariarla.» La conversazione fu interrotta da un rimbombo di passi accelerati. Subito dopo, Gianto irruppe nel patio visibilmente alterato. «Stanno arrivando, padrone!» gridò. «Chi sta arrivando?» «Il proprietario! Il proprietario e alcuni uomini armati di bastoni. Non sembrano ben intenzionati.» «Li accoglierò come meritano!» sbraitò Aristofane. E dopo aver afferrato il randello si precipitò verso l'uscita. Lo schiavo gli trottò dietro, facendo delle smorfie: «No, padrone, non fare così. Stai attento!» Prodico tardò qualche istante a reagire. Riuscì a bloccare l'amico prima che uscisse e gli intimò di essere prudente. Non era meglio trattare, prima? «Trattare?» chiese il commediografo sbigottito. In quel preciso istante il viso di un uomo si sporse dal vuoto occupato un tempo dalla porta. Fece appena in tempo ad aprire bocca. Con la punta del randello Aristofane gli spinse indietro la faccia, senza arrivare a colpirlo; tuttavia, bastò quel semplice gesto per fargli uscire del sangue dal naso. L'uomo andò su tutte le furie e indietreggiò per mostrare ai compari alle sue spalle che bisognava entrare con la forza. «Nessuna pietà per il nemico!» esclamò il commediografo colpendo l'asse di legno che sostituiva l'uscio, affinché gli altri lo udissero. Il filosofo decise che la cosa più saggia era prendere subito il largo, onde
evitare di essere coinvolto nella rissa. Ma, ancora prima di salvare la pelle, doveva salvare gli scritti di Aristofane, nel caso il padrone di casa gli impedisse di portarsi via le sue cose, o le bruciasse per rappresaglia. Cominciò a raccogliere alla rinfusa i rotoli di papiro sparsi ovunque e a ficcarli in un sacco di tela che aveva svuotato in precedenza. Ne trovava sotto i mobili, mischiati a ogni tipo di oggetto, spiegazzati o accartocciati. Incapace di stabilire quali fossero importanti e quali no, li salvava a uno a uno, muovendosi carponi sul pavimento, sbuffando spossato e imprecando. Da fuori giungevano le grida di Aristofane e del proprietario. Dapprima i due si scambiarono insulti; il commediografo si era piazzato all'entrata e sembrava disposto a difendere il territorio con le unghie e con i denti, sordo alle furiose minacce. Si sentirono dei colpi contro il pannello che sostituiva l'uscio, che si schiantò con grande fragore. Subito dopo, udì un urlo selvaggio dell'amico e il grido acutissimo e quasi contemporaneo di Gianto. Prodico aveva riempito il sacco. Percorse il corridoio mentre fuori era calato un inquietante silenzio. Raggiunse finalmente il vano della porta nel momento in cui i contendenti ricominciavano a darsele di santa ragione e fu costretto a retrocedere. La zuffa proseguiva proprio davanti a casa. Aristofane ruzzolò all'indietro: il suo corpaccione finì contro uno degli stipiti e provocò il crollo di parte dell'intonaco dell'architrave. Allarmato, Prodico reagì d'istinto e si scansò. Il commediografo si rialzò pieno di vigore, ma sanguinava copiosamente dal viso; il suo sguardo era folle di rabbia. Raccolse il randello e ripartì alla carica. Si era levata una nuvola di polvere che avvolgeva le sagome dei contendenti. Uno di loro finì a terra e un altro gli si gettò addosso, poi entrambi rotolarono sul terreno sabbioso. Lo schiavo saltellava inquieto, piagnucolando e accostandosi al luogo della zuffa senza avere il coraggio di intervenire. Si udirono dei colpi secchi. Prodico capì chi aveva avuto la peggio solo dopo aver udito lo strillo di Gianto. Due uomini sollevarono il corpo che si dimenava tra scomposti grugniti e spasmi. Il padrone di casa ordinò loro di legarlo e di gettarlo sul retro del veicolo. La nube di polvere alzata dalla lotta si dissolse e il sofista vide il suo povero amico, tutto pesto, che veniva legato con funi di sparto prima di essere scaraventato sul carro come un sacco di grano: atterrò con un rumore sordo e subito dopo smise di agitarsi, forse perché si era arreso o forse perché aveva perso i sensi. Il padrone di casa fissava Prodico con un'espressione attonita, chiedendosi chi fosse mai e se per caso intendesse opporre resistenza. Il sofista al-
zò una mano con gesto conciliante, e cominciò ad arretrare. Gli scagnozzi montarono a cassetta e spronarono gli asini, portandosi via Aristofane. Lo schiavo saltellava dietro di loro come un fedele cagnolino, mugolando e manifestando tutto il suo dolore. XXIII Un grande cartello fissato sul portone dell'ambulatorio informava: TARIFFA PER L'ESTRAZIONE DI UN DENTE: SENZA DOLORE: 20 DRACME CON DOLORE: 200 DRACME Prodico sorrise della facezia e spinse la porta. Discepolo di Protagora, come Prodico, nonché cavadenti, Diodoro era impegnato a estrarre una radice davvero profonda dalla bocca di un vecchio inabissato in uno scomodo sedile di vimini, la testa piegata all'indietro e gli occhi sporgenti che si spostavano inquieti da una parte all'altra del soffitto. Il vecchio strillò di dolore, il cavadenti interruppe il lavoro e lo riprese seccato: «Bada! Se ti lamenti ti faccio pagare duecento dracme». Il paziente scosse la testa farfugliando qualcosa di simile a «non mi fa male». «Se non senti male, allora smetti di lamentarti.» Gli infilò di nuovo le mani in bocca mentre l'altro si contorceva, senza emettere però alcun suono. Nella stanza c'era anche il figlio del vecchio che soffriva in silenzio. Dall'elegante clamide porpora e dalle calzature in cuoio lavorato Prodico dedusse che si trattava di un aristocratico. Discuteva di politica con il cavadenti, ma lo scambio di idee era sfociato in un aspro monologo. «Cospirazione contro la democrazia?» diceva a Diodoro. «È piuttosto lo Stato democratico a cospirare contro di noi! Ci confiscano ricchezze e proprietà per riempire i forzieri svuotati dalla guerra. Ci hanno scambiati per una miniera da cui puoi estrarre quel che ti pare. Chi credi che abbia pagato questa guerra? La legge non ci tutela più. Non possiamo avere fiducia nella democrazia se ci sfruttano in questo modo.» «La guerra l'abbiamo pagata tutti, caro Santippo», replicò Diodoro senza
interrompere il lavoro, «soprattutto chi come me l'ha combattuta.» «Anch'io ho combattuto, e guarda a cosa è servito. Adesso vogliono impoverire chi ancora possiede qualche bene, a forza di tasse destinate a mantenere quei fannulloni che dicono di essere poveri perché non hanno voglia di lavorare. Lo chiamano salario pubblico, vedi un po' tu, un salario per non fare niente. Ma, ah!, si tratta di uguaglianza. Distribuire ai meno abbienti il maltolto dello Stato. Dimmi come può risorgere questa città. Ci prendono in giro o credono davvero che il denaro piova dal cielo? È questo quello che pensano di ottenere con l'uguaglianza! E se protesti minacciano di trascinarti in tribunale!» «Si prendono anche il mio denaro, quello che guadagno col sudore della fronte, però io non protesto. Ah!» Diodoro osservò estasiato il molare sanguinante che aveva appena estratto con la punta delle tenaglie, l'ultimo rimasto attaccato alle gengive del vecchio, il quale emise un soffocato gemito canino. Il suo boia gli diede un paio di pacche sulle spalle. «Sei stato bravo», affermò il cavadenti. «Ti farò pagare la tariffa senza dolore.» Anche il nobile si alzò per guardare da vicino il dente. Diodoro lo pulì in una bacinella piena d'acqua. «Guarda. Era tutto cariato, il maledetto. È di quelli che ti fanno dannare.» Questi si convinse che il lavoro meritava di essere ricompensato, e sborsò le venti dracme. Nel frattempo, il vecchio si sciacquava la bocca. Mentre gli disinfettava la gengiva con qualche goccia di vino molto fermentato, Diodoro li ammonì: «Vi rompete i denti con la stupida abitudine di nascondervi i soldi in bocca. Ma ogni volta che ci infilate una di quelle sporche monete mi procurate del lavoro, e così il vostro denaro finisce nelle mie tasche». L'altro annuì, prese il padre a braccetto e lo accompagnò fuori dalla stanza. Diodoro ne approfittò per lavarsi le mani vicino a un tavolo su cui era disposto il materiale per fare gli impasti e modellare i ponti dentali. Si sfogò con Prodico: «Se la gente fosse più pulita e non si infilasse il denaro in bocca non ci sarebbero tanti problemi. Ma siamo fatti così: ammiriamo i bei corpi degli atleti nei giochi e poi andiamo in giro cenciosi e pieni di pulci. Abbiamo realizzato il nostro ideale di bellezza nella città alta, dove sorgono i sacri templi, però qui, dove abitiamo e lavoriamo, le case e le strade sono sudi-
ce, i banchi del mercato maleodoranti, ci sono escrementi dappertutto e percorriamo le stesse vie per cui passano i porci. Non mi stupisce davvero che ci becchiamo contagi e malattie». Terminò di lavarsi le mani e guardò il nuovo arrivato. «Siediti qui. Non ti ho mai visto prima. Sei straniero?» Il sofista si accomodò rassegnato sul sedile di vimini. «Vengo da Ceo, nelle Cicladi.» «Da Ceo! È arrivata tanto lontano la mia cattiva fama?» «Mi sei stato raccomandato da Aristofane.» «Ah, è così. Bene, vediamo cosa si può fare per te.» Gli aprì la bocca e diede un'occhiata all'interno «Caspita! C'è del materiale per un lavoretto.» «Cosa vuoi dire?» sussultò il sofista. L'altro gli infilò la mano in bocca e scosse un molare che spesso gli doleva, per cui masticava dal lato opposto, anche se aveva sempre preferito far finta di niente. «È nero. Bisogna toglierlo. Ti fa male?» Diodoro fece pressione sul dente e Prodico fletté bruscamente la testa all'indietro. «Certo che ti fa male. Inoltre, hai la gola infiammata e piena di placche. Prendi, bevi questo.» Gli porse uno strano beveraggio, dall'aspetto terroso, che il sofista annusò con sospetto. Aveva un odore letale. Per accertarsi che non intendeva avvelenarlo, gli chiese se avesse pronunciato il giuramento ippocratico, al che l'altro scoppiò a ridere e gli disse: «È succo di senape, ottimo per espettorare il muco e curare l'infiammazione delle tonsille. Non va inghiottito. Fai degli sciacqui poi sputalo qui». Controvoglia, Prodico lo introdusse in bocca e lo passò da una parte all'altra gonfiando le guance, prima di sputarlo nella bacinella che conteneva ancora resti del sangue di chi l'aveva preceduto. «In ogni caso», disse poi, «aspetterò qualche giorno prima di toglierlo.» «Perché? Già che sei qui ti risolvo il problema in un attimo.» «A dire il vero sono venuto solo per un controllo. Ora mi serve qualche giorno per abituarmi all'idea di farmi cavare un dente. Voglio essere preparato, capisci?» Diodoro lo guardò perplesso mentre si grattava la nuca. «Sei uno strano paziente. Come ti chiami?» «Prodico.» «Prodico il sofista?» «In persona.» Diodoro fece un passo indietro e lo esaminò dalla punta dei piedi fino alla punta dei capelli.
«Oh, dei! Questa sì che è una sorpresa!» Sorrise ammirato. «Ho sentito parlare molto di te. Sono stato un buon amico di Protagora. Amico e discepolo. Il grande Protagora! Colui che Euripide chiamò 'l'usignolo delle Muse'», e recitò, facendo tintinnare le pinze: «Avete ucciso, o Danai il gran sapiente, l'usignolo delle Muse». «L'usignolo delle Muse», assentì l'altro. «È meraviglioso.» Diodoro era contento di poter evocare piacevoli ricordi. «Sissignore, Protagora, un grande sapiente. Io sognavo di diventare come lui, di esprimermi con parole che ammaliavano come la musica di Orfeo. È stato il maestro sofista per eccellenza, senza alcun dubbio. Chi l'ha udito parlare non l'ha più dimenticato. Anch'io ho ceduto al suo fascino. Gli ho chiesto di insegnarmi la giurisprudenza, anche se non avevo il denaro per pagargli l'onorario. 'Non importa', mi disse, 'mi pagherai dopo aver vinto la tua prima causa.' Gli promisi di farlo. E mi ha insegnato tutto quel che si poteva imparare sulle leggi, la retorica e l'arte della persuasione.» «Perché allora non ti sei dedicato alla sofistica? Hai sprecato i suoi insegnamenti.» «Forse. Ma mio zio è morto e mi ha lasciato questo ambulatorio. Allora ho cominciato a maneggiare questi ferri e ho lasciato perdere la giurisprudenza.» «Avrai dato una grande delusione a Protagora.» «Certo, dal momento che aveva investito un bel po' di tempo a dirozzarmi. Eppure, in un certo senso, ho ricompensato i suoi sforzi il giorno in cui lo sconfissi in un processo che ci vedeva parti in causa. Il giudice diede ragione a me.» «Ammirevole. E com'è che ti sei ritrovato a sfidare Protagora in tribunale?» «Semplice: mi aveva querelato per non avergli pagato l'onorario che secondo lui gli dovevo. Visto che avevo deciso di esercitare la professione di cavadenti, un bel giorno passò di qui e mi disse: 'Mi devi dei soldi, amico mio'. Replicai che non avevo alcun debito con lui perché l'accordo era quello di pagarlo quando avessi vinto la mia prima causa, il che non era ancora successo. Mi disse che mi avrebbe citato in giudizio e che avrei dovuto pagarlo sia se vincevo la causa sia se la perdevo. Io gli chiesi come fosse possibile e lui mi rispose: 'Se perdi la causa, dovrai pagarmi per mandato giudiziario, se la vinci dovrai pagarmi perché me l'hai promesso'.» Entrambi scoppiarono a ridere per via del paradosso.
«Non avevi via di scampo», disse Prodico. «Ascolta prima quel che gli risposi. Quando Protagora affermò che avrebbe recuperato il denaro sia se vincevo sia se perdevo il processo, io ribattei: 'Niente affatto, maestro. Non ti pagherò se lo vinco, per mandato giudiziario, e non dovrò pagarti neppure se lo perdo, in quanto non avrei ancora vinto la mia prima causa'.» «Fantastico!» esclamò ammirato Prodico. «Anche il tuo ragionamento è impeccabile. Siamo di fronte a un interessante problema di logica. Due affermazioni corrette che, al tempo stesso, si escludono a vicenda.» «Come lo risolveresti?» lo sfidò Diodoro. «Consideriamo la cosa dal punto di vista del giudice. Se si fosse attenuto ai termini della tua promessa non saresti stato tenuto a pagare Protagora, quindi avrebbe dovuto deliberare a tuo favore. Ma se avesse deliberato a tuo favore, cioè secondo giustizia, avrebbe commesso seduta stante un'ingiustizia, dato che avresti vinto la tua prima causa e non avresti pagato Protagora. Tuttavia, a rigor di logica, doveva darti ragione.» Diodoro lo ascoltava attentamente, ridacchiando sotto i baffi mentre preparava gli strumenti che tintinnavano con suono metallico. Prodico si girò e vide che stava disinfettando il bisturi su un fiammella. «Certo», disse il cavadenti. «Il processo lo vinsi io e così non pagai Protagora. All'inizio mi sentivo orgoglioso per averlo battuto sul suo stesso terreno, ma la mia contentezza ebbe vita breve. Infatti, riflettendo meglio, mi resi conto di essere in debito con il maestro e cominciai a pensare che, forse, il giudice si era sbagliato e che avrebbe dovuto dargli ragione. Mi recai allora da Protagora per sentire il suo parere sull'intricata questione. Lui non mi serbava alcun rancore e mi spiegò che tutto è vero e falso al tempo stesso, a seconda del punto di vista. È possibile esprimere pareri diversi su ciò che è vero, e tutti sono legittimi, poiché qualsiasi affermazione si basa su criteri arbitrari. Io volevo dimostrare a Protagora che una cosa non può essere vera e falsa al tempo stesso e che uno dei due aveva torto. 'Come farai?' mi chiese. 'Querelami di nuovo', gli suggerii, 'per non averti pagato ora che ho vinto la mia prima causa.' Protagora riconobbe che dopo il primo processo la situazione era mutata e mi disse: 'Adesso mi devi pagare sia se vinci la causa sia se la perdi: se la vinci, perché anche se il giudice ti dà ragione, manterresti la tua promessa; se la perdi, perché hai già vinto un processo - il precedente -, oltre che per mandato giudiziario'. Mi citò in giudizio e stavolta vinse lui. In questo modo risolvemmo il problema. Saldai il mio debito e gli dimostrai che vi sono cose vere e cose false,
anche se il maestro continuò a sostenere che erano vere o false per me. Che te ne pare?» «Oh, dei!» Prodico sorrise entusiasta. «Dopo una tale esperienza non riesco proprio a capire come tu non sia diventato sofista e abbia preferito cavare denti.» Mentre parlava, calcolava i passi che lo separavano dall'uscita. Nel caso all'altro fosse venuto in mente di attaccarlo armato di bisturi e tenaglie. Diodoro comprese che l'anziano apparteneva a quella categoria di pazienti cui era possibile estrarre un dente solo se li coglievi di sorpresa. Per questo continuò a parlare come niente fosse. «Voi sofisti vi definite democratici e affermate di credere nell'uguaglianza, ma solo chi è ricco può permettersi le vostre lezioni e studiare giurisprudenza, politica, oratoria... insomma, tutto quel che serve per arrivare al potere. Dietro una democrazia si nasconde una plutocrazia.» «Sono d'accordo», ammise Prodico. «Siamo abbastanza elitari. Anche Socrate ci criticava perché chiediamo denaro per le nostre lezioni.» «È vero. Socrate non si faceva pagare dai suoi alunni.» Diodoro abbozzò un sorriso astuto. «Però faceva di peggio: li sceglieva. E la sua scelta ricadeva sempre su dei puledri di razza.» Prodico rimase in silenzio; si limitò a fissare i piccoli e astuti occhi di Diodoro, mentre questi riprendeva il discorso: «Lui era, diciamo così, l'addestratore dei futuri aurighi di Atene. E il suo palcoscenico era l'arena politica. Quella era la sua missione e la ragione per cui è stato processato e condannato». «Sarà il caso che me lo spieghi con maggiore dovizia di particolari.» Diodoro gli ficcò i ferri in bocca. La sensazione del metallo freddo sulle gengive gli fece dimenticare Socrate seduta stante e lo spinse a concentrarsi sulla propria sopravvivenza. All'inizio non provò dolore, solo la sensazione della saliva che gli montava in bocca. Poi avvertì qualcosa di duro che premeva sulla gengiva, e quando il suo carnefice cominciò a muovergli il dente fu travolto da spasmi sempre più intensi, finché la radice del molare cedette e la carne si lacerò in profondità. Un dolore lancinante gli perforò il cervello, gli velò lo sguardo e gli offuscò la mente. La saliva, mischiata al gusto salato del sangue, gli tracimò dalle labbra. Istintivamente Prodico alzò le mani per fermare Diodoro; ma questi tirava e tirava, spaccandogli le mandibole, e smise solo quando gli estrasse il molare, tra fiotti di sangue che gli macchiarono le vesti.
Emise un gemito inarticolato, gutturale. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Sputò il sangue nella bacinella e guardò, ancora tremante, il dente che l'altro teneva stretto tra le ganasce delle pinze, compiaciuto per l'impresa compiuta, come fosse una pepita d'oro. Diodoro gli fermò l'emorragia facendogli mordere un panno, quindi gli spalmò un intruglio a base di aceto, limone e miele per disinfettare la ferita. A Prodico sembrava che gli avessero cavato due o tre denti contemporaneamente. Era frastornato, stordito, appena in grado di muoversi e reagire. Pensava che non sarebbe più stato capace di rialzarsi da quel sedile. Diodoro gli passò un impiastro di puleggio con menta per lenire l'infiammazione. «Ti farà male fino a domani, ma la ferita si rimarginerà. Tra poco starai già meglio. È solo paura.» Aveva pagato cara la decisione di recarsi nell'ambulatorio del cavadenti. In questa maledetta città si filosofeggia in ogni luogo e momento, pensò. «Adesso ti dirò il mio parere sul processo a Socrate, approfittando del fatto che non puoi ribattere. Il vecchio è stato trascinato in tribunale con l'accusa di corrompere la democrazia e di minare le basi dello Stato. Di tale natura erano le accuse rivoltegli da Anito. Io ho conosciuto bene Socrate e posso assicurarti che non solo era contrario alla democrazia, come molti cittadini dei ceti aristocratici, ma che ha fatto quanto era in suo potere per corroderla e abbatterla. Non è mai intervenuto direttamente nelle questioni politiche, né ha mai aspirato a cariche, è vero, ma ha inculcato idee nocive nella testa di giovani che, per il fatto di appartenere a nobili famiglie, avevano ottime probabilità di trasformarsi in futuri governanti. Questo intendevo quando ho affermato che sceglieva solo cavalli di razza, purosangue. Questo fece con Alcibiade e con Crizia, tipici prodotti della democrazia ateniese, che tanto male avrebbero arrecato alla città. Gli insegnamenti di Socrate vertevano sulla virtù, è vero, però la sua arena era la politica. Un filospartano dalla testa ai piedi: il suo ideale era una repubblica governata da un tipo come lui, fondata sulla disciplina militare unita a una strana forma di partecipazione collettiva. Avrebbe potuto accontentarsi delle idee, invece è passato all'azione. Quindi, per me era un traditore. L'errore, a mio parere, è consistito nell'infliggergli una pena eccessiva. Se mi chiedi che condanna avrebbe meritato Socrate, ti risponderò l'esilio. Ma lui, a quanto pare, ha preferito la morte. «Non lo stimavo», concluse Diodoro, «ma non per questo desideravo che finisse così. Con lui Atene ha perso qualcosa. Assai peggio della morte
di un uomo è la morte delle idee.» XXIV Trascorsero alcuni giorni prima che Aristofane si rimettesse dalle percosse ricevute dal padrone di casa. Si risvegliò in un uliveto del Sunio, un promontorio situato a ovest di Atene, col viso gonfio come un fico maturo. La prima cosa che vide fu il ridicolo berretto di pelo del suo schiavo Gianto, poi la pelata su cui poggiava, più in là il cielo azzurro di sempre, e infine si rammaricò di non essere precipitato nell'Ade puzzolente. Il fedele servo cercava di svegliarlo con sconnesse parole di conforto. Per fortuna non aveva niente di rotto, anche se gli dolevano tutte le membra, e poté recarsi sulle proprie gambe - zoppicando vistosamente e appoggiandosi alla spalla dello schiavo - a casa dell'amico. Cinesia si prese un gran spavento nel vedere il commediografo in quello stato, e si offrì di ospitarlo mentre cercava una soluzione ai suoi problemi. In casa di Cinesia si sistemò anche Gianto, che non intendeva separarsi dal padrone. Un medico devoto ad Asclepio gli fece bere un'infusione di elleboro, gli disinfettò le ferite, gli ridusse il gonfiore con delle frizioni e gli prescrisse una settimana di riposo. Dopo essersi ripreso, la prima cosa che Aristofane fece fu sporgere denuncia all'Areopago per percosse e lesioni. Gli anziani magistrati si burlarono di lui: «Con che coraggio ti presenti in questa sede, spudorato, se hai sempre preso in giro gli ateniesi perché non fanno altro che intentare cause e di noi hai detto in una commedia che possediamo meno giudizio di una coniglia?» «Non ho detto coniglia. Ho detto cornacchia», li corresse lui. Pertanto, tutto ciò che ottenne fu di vedersi appioppare una multa di cinquecento dracme per morosità e un'altra di seicento per aver perso la causa con il proprietario. Aristofane era completamente rovinato. Gli restava solo lo schiavo. Gli disse che se ne poteva andare, che si cercasse un altro padrone, poiché gli accordava la condizione di schiavo libero; libero almeno di scegliersi il padrone. Ma Gianto gli rispose che se era libero di scegliere a quale signore appartenere, allora sarebbe rimasto con lui, e che, se gli ordinava di andarsene, non gli avrebbe ubbidito. «In tal caso dovrò frustarti perché ti ribelli ai miei ordini.» Gianto sollevò la tunica per ricevere la punizione. Scoprì due flosce na-
tiche che non istigarono la sete di vendetta del commediografo. «E dove la trovo una frusta, che oltretutto mi costa ben venti dracme al mercato?» sbuffò Aristofane. «Non ho neanche i soldi per punirti. Forza, copriti le chiappe e prenditi a sberle da solo, così non spendo niente.» Gianto si scosse un po' di polvere dalla barba e tutto finì lì: rimase accanto al commediografo. Aristofane cominciò col chiedere aiuto agli amici, ma riuscì a raggranellare appena il denaro sufficiente a pagare la multa e un affitto precario in una stamberga con finestra nel Ceramico esterno, dove proliferavano malfamati locali notturni e postriboli da due soldi che si guardava bene dal frequentare. La strada in cui abitava puzzava di fogna, e nei campi vicini le tombe, semplici tumuli di terra, spuntavano tra lappole e ortiche. Un panorama davvero deprimente. Prodico fu informato da Aspasia che il commediografo era stato nuovamente soccorso dai suoi amici facoltosi. Essi sapevano bene che lui li frequentava soprattutto per farsi prestare ogni tanto del denaro, denaro che non avrebbe mai restituito, ma lo stimavano a prescindere da questi dettagli irrilevanti. Aristofane, tuttavia, aveva bisogno di ben altre somme: quelle pietose elemosine non gli bastavano. Per affittare una nuova casa che desse lustro alla sua reputazione si vide dunque costretto a rivolgersi a qualche prestatore di denaro di cui ancora non aveva richiesto i servigi. Il fatto è che nelle sue opere satiriche se l'era presa anche con gli strozzini, chiamandoli, tra l'altro, «ricchi indolenti con anelli d'onice». Aveva ovunque conti in sospeso. Purtroppo per lui, tra i prestatori di denaro e gli usurai della città si era sparsa la voce della sua insolvenza e di come era stato sbattuto fuori dalla casa di Pnyx; lo aspettavano pertanto a braccia aperte e coi coltelli affilati. Gli offrivano da bere e da mangiare, ridevano assieme ricordando le battute più riuscite delle sue commedie e, subito dopo, si mettevano a sua totale disposizione, dichiarandosi disposti a soddisfare ogni sua esigenza. In realtà - constatava Aristofane -, avevano solo una gran voglia di ascoltare i guai altrui, guai seri, per dimenticare le loro preoccupazioni personali e sentirsi importanti in virtù del denaro che possedevano e della conseguente facoltà di concedere o negare favori. Ogni giorno prestavano ascolto a un'infinità di problemi, non solo pecuniari, ma di rado avevano vissuto una sensazione così appagante come quella di veder bussare disperatamente alla loro porta il celebre autore.
Lui detestava chiedere denaro in prestito, specie se sapeva di doverlo rendere; lo trovava umiliante, anche se non era certo un favore quello che gli facevano. Cosicché prendeva le cose alla larga. Parlava senza sosta della sua ultima commedia, ormai finita, quasi pronta per andare in scena, un sicuro trionfo che gli avrebbe procurato grandi benefici economici. Fioccavano allora complimenti e auguri, fin quando Aristofane realizzava che, nonostante tutti i suoi sproloqui, non aveva ancora chiesto un solo obolo e l'usuraio cominciava a spazientirsi. Per non perdere il vantaggio di cui godeva, chiedeva dell'altro vino e gli sottraeva dell'altro tempo. Descriveva con dovizia di particolari la casa che pensava di comprare. Ne aveva viste di molto belle nel demo di Skambonide. Erano dimore aristocratiche, ben costruite, dai muri solidi, dotate di portico, peristilio, grandi saloni, locali luminosi, alti soffitti e patii interni; erano fornite di bagno, cucina, cantina e laboratorio, oltre che di dipendenze per gli schiavi. La zona, linda e silenziosa, era il luogo ideale per lui che aveva bisogno di molta tranquillità per scrivere. Nel quartiere c'era una fonte che approvvigionava d'acqua tutte le case e delle condutture per smaltire l'accumulo di rifiuti liquidi. Insomma, si trattava di abitazioni care ma degne di un uomo del suo stampo. Dopo quel lungo preambolo, lasciava che l'usuraio gli desse ragione e lodasse il suo buon gusto. Aristofane passava allora a descrivere una casa che gli era piaciuta molto, orientata a sud, col sole del mattino che illuminava l'androne. Aveva già deciso i colori degli arazzi con cui avrebbe decorato le stanze. Ci teneva a dimostrare che era anche un arredatore provetto. Mentre parlava a ruota libera, lo strozzino seduto davanti a lui faceva dei calcoli mentali. Alla fine, Aristofane sparava la cifra, ovviamente esorbitante, e attendeva in silenzio la risposta dell'altro, come chi aspetta il tuono che segue la saetta di Zeus. Il prestatore di denaro annuiva sornione: certo, certo che era possibile. Riusciva così a illudere il commediografo, a fargli credere che il suo obiettivo fosse a portata di mano, per poi ferirlo a morte sparando l'interesse che avrebbe dovuto sborsare a ogni luna nuova. A quel punto il postulante cercava di trattare, all'inizio gentilmente, per ridurre il tasso a un livello accettabile, ma l'altro ribadiva le condizioni iniziali, senza sconti di sorta: una moneta per ogni nove prestate. Se Aristofane insisteva - accusando lo strozzino di non avere a cuore il futuro della commedia attica -, veniva invitato con malcelato garbo a trovarsi un alloggio meno caro, più adatto alle sue condizioni economiche. Che tipo di alloggio? domandava stizzito Aristofane. E l'altro gli nominava
quelle casette in mattoni della via dei Tripodi o dei quartieri popolari del Ceramico, di Colito o di Melite, non lontani dal chiasso dell'agorà, pieni di botteghe artigiane e mercati che saturavano l'aria di tanfo di pesce, di pelli conciate, di sudore, mosconi e acque nere. Aristofane rispondeva che per nulla al mondo sarebbe finito in uno di quei tuguri maleodoranti e ritornava alla carica, insistendo per ottenere un prestito a condizioni più favorevoli. Il sangue gli andava progressivamente alla testa finché, accecato dall'ira, esplodeva proferendo insulti di ogni genere. Lo si prendeva forse per un idiota? Pensava che si sarebbe fatto ingannare da un fottuto usuraio, una sanguisuga, un bastardo come lui? E se ne andava urlando altre ingiurie, giurando di vendicarsi sulla scena. Aristofane tornò dunque alla Milesia con la coda tra le gambe, per chiedere un anticipo sulla commedia che gli avevano commissionato, e fu costretto a sorbirsi l'affettuosa ramanzina di Aspasia per aver dilapidato il primo anticipo senza consegnar loro un solo atto. Lei non si faceva illusioni: Aristofane era un totale irresponsabile, ma, grazie a lui, erano stati lanciati precisi messaggi al patriarcato ateniese circa l'oppressiva schiavitù della donna, che avevano ricevuto una buona accoglienza in certi settori e - cosa più importante ancora - ne avevano scandalizzato altri. Aspasia, insomma, riponeva una qualche speranza in quella commedia su un'Assemblea di donne che conquistano il potere, mettendo in ridicolo gli uomini; e lui le aveva assicurato di essere ormai a buon punto. Sfortunatamente, il giorno prima Aspasia aveva ricevuto il sacco coi manoscritti di Aristofane da Prodico, che cercava un luogo sicuro in cui custodirli mentre il commediografo occupava provvisoriamente un alloggio economico, in attesa di una sistemazione più consona alle sue esigenze. Aspasia aveva dedicato l'intero pomeriggio all'improbo compito di decifrare quegli scarabocchi prima di arrendersi all'evidenza: di quella commedia esistevano solo... degli appunti! Semplici appunti! E per scriverli l'autore aveva impiegato tre mesi. Consapevole della tormenta che stava per abbattersi su di lui, Aristofane aveva composto, in extremis, alcuni scambi di battute, a suo dire essenziali per lo sviluppo dell'opera. Per accontentarla li aveva impregnati di sdegno femminista. Pensava di metterli in bocca alla protagonista, una donna acuta e combattiva che ricordava Aspasia da giovane. Glieli lesse ad alta voce: Donne, non è il desiderio di apparire che mi spinge ad alzarmi e
a prendere la parola, ma il fatto di essere stata per molto tempo una donna vessata e infelice. Siamo stanche del fatto che gli uomini mettano chiavistelli e serrature alle nostre stanze, per custodirci, e persino dei cani molossi che sono il terrore dei nostri amanti. Aspasia ascoltò con attenzione questo breve passaggio. Apprezzò il disinteresse della protagonista e l'efficacia degli aggettivi vessata e infelice. Il riferimento a chiavistelli e serrature era simpatico e veritiero, ma... i cani molossi che sono il terrore degli amanti? Che faccia tosta! Come aveva potuto scrivere una tale sciocchezza? Era oltremodo irritata: una simile affermazione contribuiva a rafforzare lo stereotipo della sposa volubile, in grado di essere fedele solo se messa sotto chiave. Aristofane si lasciò sfuggire un ambiguo risolino e sostenne che i dialoghi non rendevano, senza una scintilla di umorismo. «Umorismo?» sbraitò lei. «Ti sembra una cosa divertente, questa?» «Dai...» Aristofane spalancò le braccia, conciliante. «Non hai mai sentito parlare della 'torsione paradossale'? Si tratta di una trovata a effetto. Niente cane molosso, niente scintilla. I chiavistelli da soli non bastano, sono banali, ma se gli piazzi accanto un cane molosso...» «Basta! Togli immediatamente il riferimento al cane molosso e all'amante!» «E se dico un cane beota o un cane corinzio?» «Non voglio assolutamente che si associno le donne sposate ad amanti nascosti. Non ti sembra un battuta poco originale?» «Forse. Però funziona sempre.» A quel punto Neobula, che aveva ascoltato la conversazione, si avvicinò ai due. Ad Aristofane bastò vederla per scordare momentaneamente la faccenda del cane molosso. L'etèra non gli aveva ancora perdonato la lasciva allusione a Penelope. «Rammenti come ci ha tradite nella Lisistrata?» Neobula gli puntò contro un dito accusatore. «Tradire? Chi avrei tradito, tesoro mio?» «Ti ricordo che in quell'opera, che ti abbiamo profumatamente pagato affinché ci dessi una mano, hai descritto le donne come delle stupide che passano il tempo a blaterare di depilazione del pube.» «Be', anche voi attribuite una certa importanza alla depilazione del pube e siete donne colte», ribatté lui in propria difesa.
Aspasia alzò gli occhi al cielo. «E poi», proseguì Neobula, «si dicono incapaci di attuare il piano di Lisistrata, perché non potrebbero vivere senza il pene del marito.» Ad Aspasia sfuggì un sorriso. «È vero», disse. «Ricordo quell'odioso passaggio. L'avevamo già redarguito per questo, e ci aveva promesso che non si sarebbe più burlato di noi.» Aristofane, ormai con le spalle al muro, si sentiva la vittima sacrificale di una cerimonia officiata da menadi invasate. «E in un altro passaggio», ribadì Neobula, «hai fatto dire a una donna che sarebbe una vana illusione sperare che le femmine votino in assemblea alzando le mani, poiché sono abituate piuttosto ad alzare le gambe!» «D'accordo, d'accordo.» Aristofane alzò le braccia in segno di resa. «Sono stato un discolo. Manterrò la mia promessa e vi raffigurerò belle, intelligenti, ricche e con un linguaggio forbito, come i personaggi di Euripide.» «Voglio una commedia che abbia del mordente», disse Aspasia. «Niente battute grossolane come quella dell'amante e del cane molosso.» «E che non ti venga in mente di imitare Euripide, quel misogino!» lo strapazzò Neobula. «Lascialo tranquillo, cara», disse Aristofane. «In questo momento starà piacevolmente passeggiando nell'Ade.» «Ricordo ancora quei versi: Le donne spuntano sempre nelle avversità per la perdizione degli uomini. E li recitava un coro femminile! Euripide ci maltrattava e insultava. Ci chiamava viziose, ubriacone, traditrici, pettegole, vili e calamità degli uomini. Voglio che tu mostri tutto questo e che ci vendichi di tante umiliazioni.» Aspasia estrasse del denaro da un cofanetto, lo infilò in una piccola sacca di cuoio e glielo porse. Aristofane le baciò il dorso macchiato della mano. «Se lo sperperi non ne riceverai dell'altro. Lo giuro su Atena», dichiarò l'anziana etèra tirandogli affettuosamente la barba. Aristofane provò una certa delusione quando la sua musa si ritirò in un angolo della stanza senza fargli caso. «Non mi castighi un po', Neobula?» XXV Il sofista di Ceo escluse Aristofane e Diodoro dall'elenco dei sospetti. Il
primo era indebitato con troppe persone: uccidendone una sola non avrebbe granché migliorato la propria situazione, pertanto gli mancava un movente. Quanto al cavadenti, era un uomo di pace, un democratico convinto, poco affine a Socrate, e condivideva il verdetto che lo aveva portato a bere la cicuta. L'unica lama di cui sapeva servirsi era quella del linguaggio, e l'aveva affilata a una buona scuola. Inoltre, gli aveva fornito un'interessante versione del processo e chiarito il pensiero politico di Socrate: nemico della democrazia, sognava per Atene una dittatura, quella di un uomo dotto (a sua immagine e somiglianza), un aristocratico che avrebbe governato il popolo dall'alto dei suoi sommi ideali. Per questo era entrato in rotta di collisione con la polis. Ciò che meno convinceva Prodico era l'ipotesi che fosse un traditore, un cospiratore in piena regola. Lo vedeva piuttosto come un teorico della cospirazione. Il successivo nome sulla lista - e anche il più sospetto - era quello di Antemione, figlio di Anito. L'ipotesi del parricidio era tutt'altro che infondata: da ragazzo, infatti, costui aveva abbandonato il tetto paterno a causa di profonde divergenze col genitore. Quel contrasto lo aveva spinto a bere; tuttavia, circa la natura dei suoi rapporti col padre in tempi più recenti, Prodico non sapeva nulla. Secondo Aspasia, quest'uomo che si aggirava ubriaco per le taverne della periferia non era una cattiva persona. Era colto, buon conversatore, con una gran parlantina, ma non un ciarlatano; così, almeno, gli era sembrato durante gli interrogatori. Gli avevano detto dove poteva trovarlo a quell'ora del pomeriggio, perché, come tutti i bevitori incalliti, aveva abitudini fisse. Un gregge di pecore bloccava la strada principale. Per evitarlo il sofista prese le viuzze laterali, anche a rischio di imbrattarsi i sandali di fango rossiccio. Passò davanti a una fonte dove un gruppo di donne lavava i panni, senza smettere di ridere e cianciare, per poi stenderli ad asciugare su qualche gronda o su un arbusto. Tra loro vi era Santippe, e Prodico affrettò il passo. La taverna si trovava nel Ceramico esterno, uscendo dalla porta di Dipylon, lasciando il fiume Eridano sulla destra e attraversando un campo incolto tra le cui pietre spuntavano ciuffi d'erba secca, oltre ad alcune catapecchie esposte al sole cocente e a miseri orticelli concimati con gli escrementi dei maiali che passavano di lì per rientrare nei porcili. Era un sudicio capanno che annoverava tra i propri clienti un variegato campionario umano. Tutti i pomeriggi il figlio di Anito vi si recava per avvelenarsi a poco a poco, senza fretta, seduto a uno dei tavoli all'ombra di un canniccio, attorniato da clienti avvinazzati come lui.
Prodico vi fece un salto nel primo pomeriggio, col copricapo calato sugli occhi, a un orario in cui presupponeva che Antemione sarebbe stato ancora abbastanza lucido da ragionare ed ebbro a sufficienza da non mentire in modo spudorato. La sua comparsa in quel capanno saturo di mosche attirò l'attenzione degli avventori, che lo esaminarono da capo a piedi per poi concludere che si trattava di un forestiero. Il vecchio sofista si sedette a un tavolo sgangherato situato di fronte a quello di Antemione e ordinò da bere. L'oste gli servì un piccolo otre di vino annacquato. Il figlio di Anito era pulito, rassettato, e indossava un lungo chitone di buona qualità, con qualche macchia di vino. Calcolò che avesse meno di trent'anni. Doveva essersi impegnato - pensò - per diventare, alla sua età, un bevitore incallito. Era di bell'aspetto, a parte la barba e i capelli trascurati. Un lampo d'intelligenza ardeva nei suoi occhi, che ora fissavano Prodico con l'inquietante immobilità degli alcolisti. «Cosa sei venuto a fare, vecchio?» domandò in tono inquisitorio. «Mi chiamo Prodico e vengo da Ceo, nelle Cicladi. Sono qui per parlare con te, Antemione, figlio di Anito.» «Che tu sia il benvenuto. Chiunque voglia parlare con me sarà accolto come un amico. Mi piace parlare con tutti, giovani e vecchi, ateniesi e stranieri, uomini e donne...» Rifletté per qualche istante su come completare l'elenco e aggiunse, in tono un po' brillo ma cordiale: «Conosciuti e sconosciuti. Anzi, meglio se sconosciuti. E dimmi, amico sconosciuto che vieni da così lontano, perché desideri parlarmi?» «Sto seguendo le tracce di un morto chiamato Socrate.» «Ah, Socrate!» Antemione diede un pugno sul tavolo che fece traboccare il vino dagli otri, senza che peraltro nessun cliente protestasse, perché erano tutti troppo presi a chiacchierare coi rispettivi vicini. «Adoro parlare di Socrate. Straordinario personaggio. C'è chi, come me, tarda degli anni per uccidersi e chi, come lui, ci riesce bevendo una sola coppa.» Si udirono delle risate soffocate. «Pochi, in questa città, possono affermare di averlo conosciuto bene come il sottoscritto. A proposito... conosci la storiella?» «Che storiella?» domandò il sofista. «C'era una volta un tale che, giunto a un crocevia, s'imbatte in Socrate, il quale sta passeggiando da quelle parti. Gli chiede: 'Sapresti dirmi, buon uomo, come arrivare alle sorgenti dell'Eridano?' 'Intendi dire per quale di queste due strade?' risponde Socrate. 'Esattamente.' 'Cosicché vuoi raggiungere le sorgenti dell'Eridano. Sei sicuro che una, solo una di queste
due strade conduca alle sorgenti dell'Eridano?' «L'uomo comincia a spazientirsi, com'è naturale che sia. 'Non so se una, l'altra, entrambe o nessuna delle due', gli risponde. 'Dici bene', ribatte Socrate, 'perché solo imboccando la strada giusta arriverai alle sorgenti dell'Eridano. Ma se scegli quella sbagliata non arriverai alle sorgenti.' L'uomo, già molto confuso, guarda Socrate con l'aria di chi si chiede: da dove spunta questo strano tipo? 'E dal momento che tu non sai qual è la strada giusta', prosegue il filosofo, 'vuoi che te la indichi io.' «Alla fine l'uomo, dato che si è fatto tardi e teme che la notte lo sorprenda in quel crocicchio, in compagnia di quello strambo vecchio, imbocca una strada a casaccio, quella che gli consente di allontanarsi da Socrate il più in fretta possibile. Fine della storiella.» «Molto istruttiva», commentò Prodico sorridendo. Poi gli si sedette di fronte, posando il cappello in un punto del tavolo apparentemente asciutto. L'oste servì un nuovo giro di liquido vinoso. Dopo averlo provato, il sofista contenne a stento il desiderio di sputare. Era puro aceto. Un leggero soffio di brezza portò un acre odore di spazzatura. Vicino al capanno i corvi gracchiavano in cerca di rifiuti, tra le casse in cui marciva il pesce da settimane, circondate da un nugolo di mosche. «Suppongo», disse Antemione, «che tu non ti sia seduto qui davanti a me per bere questo orrido vino, né per deliziarti dei miei vizi.» «Sto indagando sulla morte di Socrate», replicò pacato l'anziano. «Mi rallegra che tu voglia sapere del mio rapporto con Socrate, così posso raccontarti come sono diventato un bevitore. È la sola cosa che sappiamo raccontare noi ubriachi, la nostra specialità. Nessuno la racconta meglio di noi, perché si tratta di una storia vera, su cui abbiamo rimuginato a lungo davanti a una coppa di vino.» «Ho voglia di sentire una bella storia», lo incoraggiò Prodico. «Sono tutto tuo.» «Ti accontento subito.» Antemione tracannò qualche sorso, si pulì le labbra col dorso della mano e attaccò con una frase che, a forza di ripeterla, conosceva a memoria. «Sono il figlio bastardo, il disonore della famiglia. Mio padre voleva fare di me una persona utile e si è ritrovato il rudere che vedi.» «Mi dicono che appartieni a un'ottima famiglia.» «Certo: tra le più ricche della città. Mio padre era una potenza nel settore del cuoio e delle pelli. Io ero un giovane aristocratico, ozioso e presuntuoso, in rotta con lui perché non intendevo lavorare nel campo del pellame.
Ho conosciuto Socrate quando ero ancora troppo giovane per sapere ciò che volevo. Ero confuso, con un mucchio di grilli per la testa e colmo di risentimento verso mio padre. In Socrate avevo trovato una nuova guida e un maestro, il mio vero padre, che mi capiva al di là di ogni aspettativa. Accanto a lui mi sentivo piccolo, debole e insignificante. Lo ammiravo come fosse un dio. Il dio più brutto e sporco dell'Olimpo. I suoi consigli e le sue parole erano la mia unica consolazione. Mi aveva stordito con le sue domande, minando ogni fiducia in me stesso, e io allora avevo riposto in lui ogni speranza. Avrei fatto di tutto per accontentarlo, persino gettarmi in un burrone. Ma l'ho deluso. Ho deluso il maestro della virtù! Ho esaurito la sua divina pazienza! Lui mi indirizzava verso una vita virtuosa, che comportava però la rinuncia ai beni della mia famiglia; in realtà, non ho mai rinunciato a nulla. Non sono stato capace di seguirlo, né di abbandonarlo. Non sono riuscito a decidere. Per anni mi sono macerato nell'incertezza, finché Socrate non si è stancato di me. Mi ha ripudiato.» A Prodico la cosa parve triste e divertente al tempo stesso. Annuì, accondiscendente, senza però abbassare la guardia. «Mi è costato accettare il fatto che Socrate non voleva più saperne di me, che era giunto a detestarmi perché ero il figlio che dice sempre 'sì, padre, hai perfettamente ragione', e poi fa quel che gli pare. All'epoca, pensavo che mi evitasse perché era stato minacciato da Anito. Il malinteso contribuì a peggiorare i rapporti con mio padre. Lui credeva che io fossi diventato un ribelle per colpa di Socrate. Io attribuivo a lui la colpa del fatto che Socrate mi aveva respinto. Così me ne sono andato di casa. Ho vissuto per qualche tempo con un amico soprannominato Platone, ma le cose non hanno funzionato neanche con lui, sempre per via di Socrate.» L'espressione di Antemione era ancora più eloquente delle sue parole. Il viso era una maschera di dolore, il collo rigido, i muscoli della mandibola contratti, la fronte aggrottata e gli occhi, umidi, rivolti a terra. Prodico sentì una gran pena per lui. «D'accordo», lo interruppe. «Socrate ti ha voltato le spalle e tu sei crollato. Insomma, è diventato lui la causa di tutti i tuoi problemi.» Antemione alzò lo sguardo e schioccò le dita. «Hai centrato il bersaglio, amico!» «In cosa consisteva il cammino verso la virtù?» «In pratica, che il discepolo sostituisse le opinioni false con le...» «Vere?» Le sue. «Dunque, se non sbaglio, in un primo momento Socrate si è interessato a
te perché eri giovane, ricco e di buona famiglia, e avevi bisogno di una guida spirituale.» Antemione rese onore alle parole di Prodico tracannando un'altra coppa di vino. «E Platone?» «L'ho presentato io a Socrate, per poi pentirmene subito dopo. Come me, anche Platone aveva bisogno di un padre. Era rimasto orfano a sei anni e odiava a tal punto la madre e il suo secondo marito che un giorno ha cercato di incendiare il letto in cui dormivano. Suo zio altri non era che Crizia, di nefasta memoria. Questi gli aveva insegnato l'elegia e l'esametro e l'aveva educato all'odio per la democrazia, cosicché quando Socrate gli era subentrato Platone era già un terreno fecondo.» «L'anima è sangue, e sangue che avvolge il suo cuore è il pensiero degli uomini», recitò Prodico compiaciuto. «Cos'è?» «Un verso di Crizia il sanguinario. Possedeva un indubbio talento per la poesia.» «Socrate e Crizia», proseguì il figlio di Anito, «erano vecchi amici. Prima di essere esiliato da Atene e di trovare rifugio in Tessaglia, Crizia aveva affidato il nipote al filosofo. La mia amicizia con Platone ha cominciato a guastarsi allora. Non sopportavo l'idea che avesse occupato il posto che mi spettava di diritto. Trasformatosi nel discepolo prediletto di Socrate, era diventato schivo e arrogante e ancora più ribelle con la madre e il patrigno, col quale ingaggiava accese discussioni politiche, essendo questi ambasciatore di Persia e un convinto sostenitore della democrazia. Il vecchio faccia di capra lo aveva divinizzato. In fin dei conti, Socrate stava esaudendo un sogno: quello di educare il discepolo perfetto, il fedele interprete della sua dottrina, l'uomo che avrebbe potuto reggere le sorti di Atene. Un governante che fosse la voce e l'ombra del maestro. Io, che non ero preparato ad accettare una simile disfatta, sono sprofondato nella disperazione più cupa. Desideravo solo morire. Ero cosi dipendente da lui da non trovare pace. Questa è la storia di come Socrate mi ha ridotto il relitto che vedi. Prima mi ha usato e poi distrutto.» «E adesso non lo idolatri più.» «Il vino aguzza l'ingegno e i ricordi. Ascoltami bene, amico: io ho aiutato mio padre a scrivere l'arringa contro Socrate.» Prodico rifletté per qualche istante, soppesando l'importanza della notizia.
«Tu e tuo padre vi eravate dunque riappacificati, negli ultimi tempi?» L'altro annuì. Con la voce sempre più impastata, gli confidò che erano stati proprio i preparativi del processo a riavvicinarli. Li univa il proposito di annientare il nemico comune. Erano tornati così a essere padre e figlio. Era la sola, seppur tardiva, consolazione rimastagli: essersi riconciliato con lui prima che Ade lo portasse con sé sottoterra. Antemione alzò nuovamente la coppa, stavolta con mano tremante. Prodico notò che, di tanto in tanto, si estraniava per frugare tra le vecchie ferite. Nel suo sguardo, che si spingeva ben oltre il capanno e i cumuli di spazzatura, il sofista ravvisò i resti di un'ira mal domata. Conosceva bene quel sentimento. «Chi ha ucciso tuo padre?» La domanda lo ridestò dai suoi pensieri, dai vapori del vino, dalle nebbie dello sconforto. «Se lo sapessi, quell'uomo non sarebbe ancora vivo.» «Hai nominato Platone.» Antemione scosse il capo. «Platone è forte, esaltato, ma non è un assassino.» «Come fai a esserne sicuro?» «Non è tipo da impugnare un coltello, ma piuttosto un calamo. Attualmente si trova a Megara, tutto preso a immortalare le imprese del maestro.» «Può aver pagato qualcuno perché lo facesse.» «Forse, però ne dubito. Hai conosciuto qualche altro idealista, a parte Socrate? Io lo ero, e anche Platone lo è. Chi vive cibandosi di idee non ordisce vendette. È prerogativa degli uomini d'azione.» «Potresti aver ragione», ammise Prodico. «Vuoi la mia opinione?» «Certo, sono venuto apposta.» Antemione si accertò che nessuno lo potesse udire. Poi disse a bassa voce: «Sospetto che l'abbiano ucciso perché sapeva qualcosa di importante sul tentativo di evasione di Socrate». «Cosa sapeva di preciso?» «Non lo so. Non me l'ha confidato perché voleva agire con la maggiore discrezione possibile, mettendo la faccenda nelle mani del giudice prima che trapelassero indiscrezioni.» Antemione emise un sospiro e cercò di concentrarsi. A tratti, pareva as-
sente. Lucido ma confuso. Proseguì: «Si dice che gli amici di Socrate avessero organizzato un piano per farlo fuggire di prigione. Bene, posso confermarti che è vero. E so anche che lui si era rifiutato di evadere, per assurgere a vittima sacrificale di un tragico errore. Aveva seminato così un terribile dubbio: ci siamo forse sbagliati a condannare quest'uomo? Era davvero un uomo giusto? Bevendo la cicuta, Socrate intendeva alimentare proprio questo genere di dubbi. Nutriva infatti la speranza che gli uomini, deplorando la sua morte negli anni e nei secoli a venire, avrebbero mantenuto viva la sua fama di sapiente, integerrimo fino alla fine». «Il suo delirio di immortalità», assentì Prodico. «Mio padre e io, che sospettavamo si stesse ordendo un piano d'evasione, avremmo preferito che scappasse, dimostrando così di essere colpevole. Sarebbe stato meglio per tutti, credo. Eravamo addirittura disposti a favorire quel piano, se i suoi amici ci avessero interpellati.» Sorrise. «Socrate è stato più intelligente di noi e ha deciso di aspettare in prigione il momento di bere la cicuta. Tutto questo è ormai di dominio pubblico, però c'è un seguito che nessuno conosce. Mio padre, invece, ne era al corrente, ma me ne aveva accennato solo di sfuggita. Insomma, so che aveva scoperto l'esistenza di un secondo piano di fuga, un piano così perfetto che neppure Socrate aveva potuto rifiutare. Quale fosse questo piano, per quanto mi scervelli, non riesco a immaginarlo. Ma aveva il vantaggio di mantenere i dubbi circa la sua innocenza.» «Vuoi dire che poteva essere considerato innocente anche dopo l'evasione?» domandò sorpreso Prodico. «Esatto. Incredibile, vero? Non mi chiedere però come fosse possibile combinare la condizione di fuggiasco che si sottrae alla giustizia perché accusato di un reato contro lo Stato con quella di innocente dello stesso reato. Comunque le cose stavano così. Mio padre era entrato in possesso di quell'informazione; questo secondo piano prevedeva che Socrate fuggisse a Megara coi suoi sostenitori, e se non c'è riuscito è stato solo per un intoppo sorto all'ultimo momento. In caso contrario, sarebbe ancora vivo. Fatto sta che mio padre era certo di poterlo provare. Per questo, dopo la morte di Socrate, intendeva informare i magistrati e dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che il filosofo e il suo circolo di amici operavano ai margini della legge. Era tutto pronto per presentare il caso dinanzi all'Areopago, ma gli mancava la prova decisiva. L'aveva avuta a portata di mano, però gli era sfuggita. O gliel'avevano sottratta. Ciononostante riteneva
che la prova, o la persona che la possedeva, non avesse lasciato Atene e fosse ancora possibile recuperarla. E sospettava che si trovasse alla Milesia o in qualche altro luogo collegato al locale.» «Sei sicuro?» chiese stupito il sofista. «Di fatto, nei giorni precedenti alla sua morte, frequentava con assiduità il bordello. Stava cercando di scoprire dov'era nascosta questa prova decisiva. Che è rimasta lì.» «Stai dicendo che qualcun altro era a conoscenza del nascondiglio?» «Dico che qualcuno la stava nascondendo.» «Costui potrebbe dunque essere l'assassino», rifletté il sofista. «Il quale ha ucciso per non far trapelare un'informazione che avrebbe macchiato la reputazione di Socrate e per impedire che Anito trovasse la prova della sua colpevolezza.» «Esatto, è la cosa più logica. Di chiunque si tratti, l'assassino era in possesso di questa prova e sapeva che mio padre era sulle sue tracce.» «È accaduto tutto all'interno della Milesia», assentì Prodico, meditabondo. «Adesso, puoi immaginare su chi ricadono i miei sospetti. Caratteristiche: unito a Socrate da una salda amicizia, ma non un suo seguace; deciso a difendere l'onore del filosofo anche dopo la sua morte; intelligente, influente, con capacità di attuare un piano di evasione, strettamente vincolato alla Milesia,» «Aspasia di Mileto», sospirò Prodico. La mano tremante lasciò cadere a terra la coppa. Si chinò per raccoglierla e scorse, in un lampo d'orrore, il volto di un vecchio riflesso sul bronzo ammaccato. XXVI Tra i vapori del vino e il crepitare del sego delle lucerne, era tutto un viavai di pepli svolazzanti, di vesti trasparenti, un tripudio di femmine flessuose, ondeggianti, spesso discinte; una densa fragranza di oli, un mormorio di voci e di risate che sembravano affiorare da abissi irreali. Mollemente abbandonati sui cuscini o distesi sul pavimento, gonfi di vino, gli uomini contemplavano ipnotizzati il corpo sinuoso di una ballerina che inaugurava le esibizioni notturne emergendo dalla fitta oscurità, in un tintinnio di braccialetti e cavigliere, agitando la folta chioma e inscenando una serpeggiante danza in controluce. Le mescitrici servivano il vino inginocchiandosi davanti ai clienti e sor-
ridendo premurose, invitanti e profumate. Le etère entravano e uscivano dalle alcove, tenendo gli uomini per mano, docili come cagnolini; li seducevano l'uno dopo l'altro fra veli e drappi, fra danze e accordi di cetra, fra sussurri, grugniti e risa, nella prossimità dei corpi, nel contatto delle epidermidi sudate, spensierate e felici per la notte ancora giovane. Vedendole così, scalze come dee, dimenare in modo provocante le natiche, o inclinarsi per porgere una coppa, sussurrando all'orecchio un motto mordace, mostrando gioiose i seni, era impossibile non desiderarle fino al delirio. Il segreto della Milesia consisteva nell'essere un luogo ideato per esaltare i sensi in quanto riusciva a ingannarli. Nei giochi di luce e di specchi di rame levigato che riflettevano il sinuoso guizzare delle fiamme, nelle pareti rivestite di mosaici argentei come squame di pesce, che rifulgevano all'incessante viavai di ombre, nel liquore che ubriacava e nell'evanescenza dei profumi era racchiuso un profondo inganno, uno scambio di apparenze. Ecco perché si aveva l'illusione di poter appagare quell'agognata brama dei sensi. Steso bocconi su una sorta di lungo, confortevole triclinio, mentre Neobula gli praticava un memorabile massaggio, Prodico osservava un arazzo appeso al muro che raffigurava Odisseo legato all'albero maestro della sua imbarcazione. Sulla testa dell'eroe svolazzavano, tentatrici, le sirene, perfidi uccelli dal volto di donna. Dalla posizione di Odisseo si intuiva l'immane sforzo che stava compiendo per liberarsi dalle funi e farsi inghiottire dalle tenebrose acque del Ponto. Vagamente stordito dal languore e dal penetrante aroma dell'unguento di Cipro di cui gli aveva cosparso il corpo, il sofista immaginava che quelle arti da sirena fossero le stesse impiegate da Neobula per annichilirgli i sensi. Si sentiva viscido e inerte come un pesce esposto sui banchi del mercato, pronto per essere trinciato. Le dita della donna manipolavano esperte il suo corpo, rimuovendo le tensioni e rilassandogli le membra, per poi cingersi attorno al collo, letali e precise, in una carezza liberatoria. Un sottile tramezzo li separava dalla confusione del bordello, garantendo loro una certa intimità. Prodico sarebbe voluto restare così, in quella posizione, all'infinito. Ogni tanto, quando lei gli si piazzava davanti, intravedeva alla luce della lampada a olio le sue gambe snelle e levigate, perfettamente depilate con la cera. Non provava il desiderio di allungare la mano per toccarle. La sensazione di voluttuosa indolenza sovrastava tutte le altre. Da anni, ormai, si era accomiatato dal sesso, ma si sarebbe fatto tagliare una mano e un pezzo dell'altra pur di recuperare l'antico vigore.
«Devi aver condotto una vita molto interessante, in quanto ambasciatore sofista», esordì Neobula. «Avrai certo amato molte donne e scritto dei bei libri.» L'etèra portava i capelli castani raccolti in un panno di seta violetta, il suo colore preferito. Lo prediligeva in tutte le sue sfumature, alcune più tendenti al rosso e altre al blu, come il colore del mare all'imbrunire, anche per l'imation e il peplo dorico. «Poche veramente belle e molti brutti libri.» «Non ho mai giaciuto con un sofista. Sono pochi e hanno strani gusti. In ogni caso, mi attrae ogni tipo di perversione.» Gli stava massaggiando le spalle, premendo con il palmo della mano verso l'esterno. Queste cedevano, quasi le ossa di Prodico fossero diventate elastiche. «Non ti sei persa niente», ribatté lui pacato. «Voi uomini dotti non credete alla passione», disse Neobula in tono canzonatorio e seducente. «Cosa c'è di più serio della passione? È causa di guerre e massacri e genera gli esseri umani.» «Credo di conoscere il tuo lato debole», sorrise l'etèra. «Riponi un'eccessiva fiducia nella ragione. Sei convinto di poter mantenere la mente fredda.» «Molto meno di quanto io desideri.» Neobula gli indicò l'arazzo di Odisseo legato all'albero maestro. Prodico sollevò appena gli occhi per guardarlo. «Ecco un uomo astuto», sostenne lei. «Si è salvato perché temeva che la ragione non riuscisse ad arginare l'impeto della passione. Per questo si è fatto incatenare. Ha rinunciato alla libertà di scegliere.» Prodico rimase colpito dalle parole di Neobula. Un commento degno di Aspasia! Ma notò anche che, dietro le apparenze di quella conversazione erudita, si stavano studiando a vicenda, per capire com'erano fatti e fino a che punto l'uno costituisse un pericolo per l'altra e viceversa. «È interessante quanto affermi, Neobula. Non v'è dubbio che sei una donna molto colta. Tuttavia, non sono d'accordo con te. Credo, al contrario, che quella di Odisseo sia stata proprio una scelta razionale. Infatti, ha previsto che la passione avrebbe avuto il sopravvento. Ha saputo anticipare l'errore.» Come una pioggerella, le dita dell'etèra gli picchiettavano la colonna vertebrale.
«Sai, alcuni uomini mi hanno chiamata sirena.» «Ti ritieni davvero una donna di facili costumi?» «Perché non dovrei?» «Perché godi di molte libertà, ma hai anche molti obblighi.» Le mani calde scivolavano lungo i fianchi, tendendogli con forza la pelle. «Noi etère viviamo in mezzo agli uomini, conosciamo ogni filo della ragnatela del potere. Da tempo immemore frequentiamo le dimore dei potenti, udiamo le loro conversazioni, siamo testimoni di quanto avviene oltre le porte, nell'ombra delle alcove. Siamo noi a condurli di notte negli anfratti dove diventano vulnerabili, e lì li mettiamo a nudo. Sappiamo tutto di loro... dei loro vizi, delle loro malattie, debolezze, meschinità e, in generale, ciò che nascondono è assai poco interessante. Arrivano pieni di segreti ed escono dopo averci fatto giurare silenzio. Gli uomini cercano conforto, sentono un gran desiderio di confidarsi. E lo fanno, credimi. Hanno bisogno di consigli, di un aiuto. Con noi sfogano le loro paure.» «Capisco.» «Questa casa è un'Atene in miniatura. Vi convergono molte energie, molte tensioni. Il potere della politica è sottomesso al potere del sesso. Il corpo è la polis, la politica è l'attrazione erotica.» «Potresti dedicarti alla sofistica», sorrise Prodico. «Saresti ben accetta nella nostra piccola società. Inoltre, sono sicuro che ci insegneresti qualche trucco interessante.» «Non sarebbe un disonore per voi accogliere una donna?» Ora Neobula gli stava davanti. Aveva le guance arrossate per lo sforzo. «Non credere», rispose. «Siamo aperti alle stravaganze.» «Bene, lo terrò presente quando dovrò lasciare questo mestiere. L'età non perdona.» «Uno dei vantaggi della sofistica è che la puoi praticare anche se sei un vecchio decrepito.» «A te cosa piace insegnare?» «Ho insegnato un po' di retorica, un po' di questo, un po' di quello... ci siamo capiti.» «E adesso ti dedichi a risolvere delitti?» Per sua fortuna, in quel momento Prodico le dava le spalle e poté celare la sorpresa. «Lo so perché sono al corrente dei tuoi rapporti con Aspasia», aggiunse l'etèra.
Lui ribatté, girandosi e fissandola negli occhi: «In realtà, non mi interessa tanto scoprire l'assassino quanto impedire che chiudano La Milesia. È evidente che le due cose sono collegate». «È quel che ci auguriamo anche tutte noi.» «Allora potresti darmi una mano.» Neobula lo guardava con simpatia. Si accomodò su alcuni cuscini disseminati sul tappeto, accanto alla lampada, e immerse le mani in una bacinella per togliersi i residui dell'unguento. Prodico si rialzò senza fretta. Si sentiva sereno e rilassato, ma il suo cervello era vigile e non perdeva una sola parola dell'etèra. «A mio parere», esordì Neobula, «si è trattato di un omicidio politico. Ecco perché, per analizzare l'accaduto, bisogna considerare i rapporti con il potere. In questa città ogni persona importante tiene atteggiamenti diversi verso il potere costituito. Ciò che la definisce è come si colloca in questo gioco. In generale, prevalgono i conformisti, che rispettano le leggi e l'autorità. Costoro accettano le regole del gioco senza creare problemi. Qualcun altro, invece, si colloca su una linea di confine, o addirittura la oltrepassa.» «È inevitabile, nonché positivo, che si eserciti la critica, anche in un sistema progredito come quello della polis», affermò Prodico. «Colui che critica mette in evidenza le debolezze del sistema, ma non vi si contrappone frontalmente. Aristofane, per esempio, pur servendosi dell'umorismo come un ariete, è un cittadino ligio e non costituisce una reale minaccia.» «Diodoro, il cavadenti.» «Anche lui è un critico, ma non un trasgressore.» «Chi è dunque il trasgressore?» «Colui che rappresenta una vera minaccia, perché sostenitore di un cambiamento così radicale da potersi ottenere solo abolendo l'ordine esistente. Il trasgressore, inoltre, si è preparato a vincere ed è disposto a buttare tutto all'aria.» «È la persona che sto cercando. Quella davvero pericolosa.» «Può darsi.» «Anche Socrate era un trasgressore. Non è stato condannato per questo?» «Lo era davvero?» domandò lei. Prodico si limitò a scuotere il capo. «Sarebbe potuto esserlo», disse Neobula, «perché i suoi valori e principi
si scontravano con quelli di Atene. Tuttavia non ha avuto il coraggio di trascendere il suo ristretto circolo di discepoli. Non ha sciolto l'incertezza. Non ha saputo risolvere il suo conflitto interno, vivendo così in un perenne stato di frustrazione.» «Ma si dice che sia morto per difendere la verità. Cosa ne pensi tu, Neobula?» «A quanto pare, Socrate ne era convinto.» «In ogni caso, l'importante è che abbia deciso di difenderla fino alla morte.» «E la cosa ti stupisce?» gli domandò lei con una smorfia ironica. «Sì», ammise lui. «Voglio comprendere le motivazioni che spingono un uomo a difendere le proprie idee con la vita. E mi interessa anche capire chi è convinto che esista una ragione per la quale valga la pena di morire. Vorrei scoprire cosa può indurre un uomo a brindare con una coppa di veleno, alla salute del boia, senza sentirsi un folle né un derelitto.» «È confortante sapere che almeno qualcuno sa perché muore.» «Certo, lo è.» «E lui ti ha spiegato la ragione?» chiese l'etèra. «Non direttamente, però ho scoperto delle cose. Per esempio, so che durante il processo ha anteposto l'onore alla vita e, proprio per questo, ha rifiutato ogni sorta di condanna, per quanto lieve potesse essere. E so anche che ha bevuto la cicuta con animo sereno. Forse si è comportato in modo stupido, ma non banale.» «Un finale drammatico e a effetto. Un lasciapassare per la posterità, capace di procurargli la fama che non ha mai avuto da vivo, nonostante si sia dato un gran daffare per ottenerla. Al contrario, se fosse morto di vecchiaia, chi si sarebbe preso la briga di resuscitarlo?» A Prodico sfuggì una risata sommessa. «Se Socrate non è stato un trasgressore, chi lo è, dunque?» domandò. «Una donna che ha creato un locale per istruire altre donne, per dotarle di autonomia di pensiero e renderle indipendenti dagli uomini, fautrice di una forma di democrazia che include la partecipazione femminile e che sogna una ribellione delle sue simili.» «Aspasia? Insinui forse che...?» «Io non insinuo un bel niente», tagliò corto l'etèra. «Ma come credi che reagirebbero gli ateniesi se dovessero chiudere questo posto? Scoppierebbe una rivolta che provocherebbe cambiamenti importanti. Credo che a noi converrebbe.»
«In che senso?» «Dipende dalle trattative. Tanto per cominciare, faremmo sentire la nostra voce e le nostre richieste.» «Ma tu non la credi capace di uccidere un uomo da sola.» Il silenzio di Neobula fu piuttosto eloquente. «Ci vuole della forza.» «Conosco una pozione che può stordire un uomo e precipitarlo in un sonno profondo. E un coltello ben affilato, dalla punta aguzza, penetra senza difficoltà nelle carni di un maiale, o di un uomo, fino al cuore. Non è necessario essere forti: basta appoggiare il peso del corpo sull'arma.» Dopo una breve riflessione, Prodico riconobbe che le parole di Neobula erano sensate. «Che droga può ridurre un uomo in quello stato di incoscienza?» chiese. «Aspasia è un'esperta nel preparare beveraggi a base di papavero ed erba di Circe.» Prodico ammise di averla vista lui stesso farsi le pozioni in casa. Era dotata di una buona provvista di queste erbe, per lenire i suoi dolori. «È solo una questione di dosaggio», precisò Nebula sorridendo. Prodico aveva il morale a terra. Non gli piaceva affatto la piega presa dal discorso, ma doveva andare fino in fondo. Era costretto ad ammettere, suo malgrado, che per Aspasia non sarebbe stato difficile mischiare la pozione col vino di Anito. Aveva avuto a disposizione tutta la notte per drogarlo a poco a poco. Inoltre, non si poteva escludere che una donna anziana e debole come Aspasia riuscisse a piantare quel coltello affilato nel petto di un uomo incosciente. «Il fatto è...»sbuffò sconfortato, «che non riesco a credere che Aspasia abbia potuto commettere una simile atrocità.» Neobula lo guardò con dolcezza e gli accarezzò i capelli. «È logico. Del resto, tu stesso ammetti che a volte i sentimenti intensi ti impediscono di vedere le cose con chiarezza.» Prodico annuì. «Aspasia era nel locale quando lui è morto», aggiunse l'etèra. «Si, lo ha ammesso lei stessa.» «Tuttavia, non è stata interrogata. Però era presente al mio colloquio. Non mi hanno mai chiesto se l'ho vista entrare nell'alcova di Anito.» «L'hai vista?» chiese il sofista allarmato. «No. Ma non l'ho neanche vista in giro. Non so dire dove si trovasse in quel momento... So per certo che non era in uno dei saloni comuni. Chiedi
a Timareta, a Eutila o a Clais. Aspasia è l'unica di noi che non ha un alibi.» Prodico rifletteva in silenzio. «E la cosa più strana», proseguì lei, «è che, pur essendo presenti così poche persone nel locale quando Anito è stato assassinato, non abbiano ancora trovato il colpevole. Com'è possibile? Trai tu stesso le conclusioni.» Il sofista lodò l'acuto argomentare dell'etèra e ammise che quell'informazione imprimeva una svolta alle indagini. Lei ne fu molto soddisfatta. Gli accarezzò una guancia e lo fece accomodare tra i cuscini. Prodico la pregò di rimanergli accanto perché gradiva il contatto con il suo corpo caldo. Neobula andò oltre. Lo fece distendere e si sdraiò al suo fianco. Lui si sentiva appagato così, tuttavia lei iniziò ad accarezzargli il ventre e il sesso. Il sofista tentò di impedirglielo con un timido movimento del braccio, senza molta convinzione. Lei proseguì, ignorando le deboli proteste. Prodico, allora, fece per girarsi sull'altro fianco, dal momento che era troppo intorpidito per opporsi con maggiore decisione o per alzarsi. Dolce ma risoluta, la donna lo trattenne per le spalle e lo rimise nella posizione iniziale, gli scostò le braccia e lo rabbonì con soavi parole per calmarlo e convincerlo a lasciarla fare, promettendogli piacere. «Questa nave è troppo vecchia», replicò Prodico, «e ha perso l'albero in qualche naufragio.» Il sorriso di Neobula era calcolatamente ammaliatore. Lui le sfiorò le labbra carnose con un dito e lei glielo succhiò. Il dito scomparve nell'umido antro della bocca di lei trasmettendo al vecchio sensazioni intense, ricordi. Sentendolo fremere, Neobula si inginocchiò e gli sussurrò all'orecchio una serie di parole inarticolate con la punta della lingua, le parole più adatte e convincenti, che un sofista non sarebbe mai stato capace di trovare, per riattizzare le braci di un desiderio sopito. Il suo sospiro gli solleticava i sensi, gli richiamava un passato di viaggi, immagini confuse, donne, sensazioni. Vagheggiò un'esistenza semplice e spontanea, senza metafore, colma di languore e abbandono, di fragranza di tuberosa, di aromi, vino ed ebbrezza, calde vicinanze, sguardi umidi nell'oscurità delle alcove; le lusinghe di una voce ardente cui rispondono all'unisono tutti i pori della pelle. False verità, amate menzogne. Non voleva perdersi del tutto in quel bozzolo di crisalide. Come poteva prescindere dalla consapevolezza della propria senescenza, dalla pelle flaccida e grinzosa che rivestiva il suo scheletro rattrappito? La sua bruttezza era sempre stata per lui un motivo di scontento, ma negli ultimi tem-
pi era arrivato addirittura a detestarla. Non riusciva a concentrarsi solo sulla mano sinuosa della donna: la materialità del suo corpo e le sensazioni che immaginava ispirasse la sua epidermide avvizzita glielo impedivano. Lei lo baciò infilandogli in bocca la lingua serpeggiante e continuò ad accarezzarlo fino a quando il sesso dell'uomo, se non eretto, divenne almeno turgido. Seduta a cavalcioni sull'addome di lui, poggiò le ginocchia sulle braccia del vecchio, si tolse le vesti trasparenti e cominciò a strofinare il suo sesso, senza alcun pudore, contro quello del sofista, inclinandosi su di lui fino a sfiorargli il petto con i capezzoli. Prodico, il volto paonazzo, sempre più debole e affaticato, si dibatteva invano. L'etèra si dimenava sinuosa: dapprima con lentezza, cercando un'aderenza, un semplice contatto, il tocco che riuscì a strapparle un breve gemito, che le fece distogliere lo sguardo e cambiare posizione, per poi accovacciarsi nuovamente, col sesso umido e dischiuso, riprovare un brivido di piacere e risalire, ansimando, in superficie, prima di rituffarsi sul membro esanime di Prodico; e accelerare, dimenandosi, su e giù, su e giù, come se lui fosse un cadavere, una spoglia umana, un ammasso di carne flaccida utile solo a procurarle piacere. Lui si impose di respirare nonostante il peso della donna gli comprimesse il torace; benché immobile, ansimava come se stesse compiendo uno sforzo titanico. Non ricordava di aver mai vissuto un'esperienza tanto umiliante, sessuale o no. Se almeno gli avesse chiesto di farla godere toccandola... sarebbe stato diverso, si sarebbe sentito parte attiva. Così, invece, lo riduceva a una sorta di oggetto inanimato, a un cadavere ancora caldo. Poco dopo capì che Neobula era davvero eccitata e che la sua brama scaturiva dall'umiliazione di Prodico, da quello strusciarsi sulla sua perduta virilità, dalla sua vergogna, dalla sua vecchiaia mal digerita. Insomma, dallo scoparsi il cadavere di un vinto. XXVII Prodico ritenne molto utili le dichiarazioni di Neobula; sperava lo aiutassero a fare qualche passo avanti nella soluzione del caso. Naturalmente non aveva preso in considerazione, neppure per un istante, l'ipotesi che Aspasia potesse essere l'assassina, comunque fu molto colpito dall'algida testimonianza dell'etèra. Ogni ingranaggio del suo ragionamento, se preso isolato, funzionava, e tutti insieme si combinavano alla perfezione, a riprova del fatto che Neobula era una donna dall'intelligenza acuta. Insomma, la sofistica non era
cosa solo per uomini! Proprio per questo, un sofista deve sempre diffidare dei colleghi. Neobula non si sbagliava neppure circa l'intensità dei sentimenti che univano Prodico ad Aspasia, almeno quanto bastava per offuscargli la mente. Benché cosciente del suo limite, era totalmente convinto dell'innocenza dell'amica. La questione di fondo, a suo parere, era scoprire perché l'etèra avesse voluto infondergli quel sospetto, perché lo stesse manipolando. Era forse la prova della colpevolezza di Neobula? No, provava solo che desiderava la morte di Aspasia. Prodico riscrisse il nome dell'etèra nell'elenco dei principali sospetti. Gli altri erano stati cancellati. Il suo orgoglio, ferito per essere stato respinto dall'unica donna che avesse mai amato, era una scusa che non reggeva più; si era disseccato come un debole arbusto in un cambio di stagione, per quanto le sue radici si abbarbicassero con tenacia alla terra che l'aveva generato. Nella quiete del mezzogiorno, tra sciami d'api e profumo di resina, si sentiva sicuro di poter rinunciare alla passione, gli si fosse anche presentata, sensuale e tentatrice, Afrodite in persona. Aspasia dormiva per poter lavorare la notte. Ma nel patio notturno sovrastato da una luna dorata, pervaso dall'aroma del gelsomino e dalla frescura dell'edera che cresceva accanto al pozzo, gli appariva come un fantasma d'altri tempi e la sua voce lo turbava ancora. Parlavano allora dei vecchi amici, riesumavano ricordi, e lui si sforzava di farla ridere. Lei cercava il suo sguardo e per qualche istante le loro dita si intrecciavano. Questo piacere intenso era la sensazione più vicina alla felicità che avesse mai provato, e desiderava che durasse all'infinito. Forse Aspasia conosceva i sentimenti di Prodico più di quanto li conoscesse lui stesso. Il sofista viveva solo da sempre, per espressa rinuncia a ogni tipo di legame che potesse limitare la sua libertà. Nulla di strano, dunque, se da anziano era diventato un po' misantropo. Ma nessun uomo era mai riuscito a nasconderle ciò che provava per lei, e Prodico, per quanto chiuso e abituato a occultare i propri sentimenti dietro un fiume di parole, era un uomo. Un giorno Aspasia si fece condurre dagli schiavi a Delfi per consultare l'oracolo di Apollo. Non vi andava da dieci anni. Trascorse fuori due giorni e Prodico dovette mangiare da solo.
Al suo ritorno, la gentildonna era piuttosto triste. Indossò la cimberica nera e si sedette accanto all'amico per raccontargli l'esperienza vissuta. Gli parlò delle difficoltà incontrate lungo il serpeggiante cammino tra i dirupi, di come era giunta, stremata per i continui scossoni del carro, ai domini di Apollo, e del suo turbamento quando aveva varcato la soglia del tempio al calar del sole. E svelò al sofista la ragione che l'aveva spinta a consultare l'oracolo: sapere quando sarebbe morta. Prodico non si rallegrò della notizia. «Non capisco il tuo stupore, mio caro», ribatté Aspasia. «Se c'è un argomento che interessa tutti noi è proprio questo.» «Tutti?» «Nessuno escluso, nemmeno tu.» «D'accordo», riconobbe lui. «So già come finisce questa storia. Ho ascoltato fin troppo.» «È bene essere previdenti, anche quando si tratta della morte», affermò lei sorridendo. «È un viaggio che voglio affrontare preparata. E prepararsi significa accettare.» «Non chiedere anche a me di farlo.» «Certo che te lo chiedo.» Aspasia gli prese la mano. Prodico, a disagio, le voltò le spalle. Disse: «Ammesso che vi sia un destino per ognuno di noi, e un oracolo che lo conosca, non riesco a capire che guadagno ci sia nel conoscerlo». «Mi ricordi quel pensatore che, incredulo, si recò a consultare l'oracolo. Accadde circa un secolo fa. Conosci la storia?» «Sono tutto orecchi.» «Dunque, questo pensatore si recò a Delfi per consultare l'oracolo e divertirsi un po', dal momento che non credeva affatto nei responsi divini né nella magia di Apollo. Cosicché chiese scherzando all'oracolo: 'Troverò il mio cavallo?' In realtà, egli non possedeva nessun cavallo. Il dio gli rispose, mediante la voce cavernosa della pizia in trance: 'Troverai il cavallo, ma cadrai e morirai'. Il pensatore lasciò Delfi soddisfatto, burlandosi nell'intimo dell'autorità dei sacri oracoli. Sulla strada del ritorno s'imbatté nel re, che, in più occasioni, mentre era assente dal regno, aveva fatto bersaglio delle sue spietate critiche. Il sovrano, che non aveva ancora incontrato il pensatore di persona, non vedeva l'ora di dargli una bella lezione. Ed eccolo lì, davanti a lui, sulla strada per Delfi, che si snoda tra i dirupi. Il re, allora, lo fece catturare dalla sua guardia e, subito dopo, ordinò di gettarlo da una rupe chiamata Il Cavallo.»
«Una leggenda molto interessante e istruttiva», convenne Prodico. «Sembra volerci dire che nessuno sfugge al proprio destino. In realtà conoscevo questa storia, ma non è come l'hai raccontata.» «Ah, no?» «La vera storia, quella di come sono andate effettivamente le cose, narra che quel tal pensatore non chiese all'oracolo se poteva trovare il suo cavallo, ma quando sarebbe morto, che in fin dei conti è quanto noi tutti vogliamo sapere. L'oracolo gli rispose che sarebbe morto cadendo da cavallo. Lui trovò la cosa divertente perché non sapeva cavalcare né aveva intenzione di imparare a settant'anni suonati. Sulla via del ritorno, lungo il sentiero che si snoda tra i precipizi, fece una sosta davanti alla rupe che chiamano Il Cavallo. Sentì allora un tuffo al cuore, perché le parole dell'oracolo assumevano un senso. In breve cedette al panico: attratto dall'orrido, da cui non riusciva a distogliere gli occhi, fu incapace di resistere al richiamo del vuoto, alla vertigine, alla morte annunciata, poiché il dio aveva stabilito che la sua vita doveva terminare in quel punto. Allora fu lui stesso a gettarsi dalla rupe. Un vero idiota, il poveretto. Perché si convinse di non poter sfuggire al proprio destino.» Aspasia scoppiò in una sonora risata, intuendo che Prodico si era inventato la storia di sana pianta. «Non ti si può raccontare niente...» protestò la gentildonna. Quella notte Prodico rifletté a lungo sull'oracolo, sul destino e sull'eventualità che tutto fosse davvero prestabilito. In tal caso, si trattava della scusa ideale cui ciascun uomo poteva ricorrere per giustificare i propri errori, delegando al fato ogni responsabilità. Protagora credeva solamente nel caso, pur riconoscendo alla Fortuna il rischio di vedersi attribuiti errori altrimenti imputabili ai singoli individui. A tal proposito, il maestro era solito affermare che chi sceglie con criterio è sempre fortunato. Una volta, mentre i due sofisti discutevano sul tema, si erano imbattuti in un uomo di cui si diceva che fosse perseguitato dalla sventura fin dalla nascita. Oltre a essere cieco, gli erano piovute addosso disgrazie di ogni tipo, come perdere accidentalmente un piede e una mano. Prodico aveva fatto notare al suo maestro che chi cammina senza poter vedere dove mette i piedi è più esposto, nel corso della vita, ai pericoli e alle avversità. Gli aveva anche fatto l'esempio del fulmine che uccide un uomo. La ragione si rifiuta di ammettere che una simile disgrazia possa dipendere solo dal caso e che, quindi, non sia spiegabile. Si preferisce attribuirla all'ira di
Zeus: «Avrà fatto qualcosa di male per meritarsi un simile castigo». E se non si riesce a risalire a un qualche errore o a un qualche atto di empietà del povero mortale, be', si sa che al dio, per via del suo caratteraccio, scappa ogni tanto qualche saetta in una delle frequenti baruffe amorose con la gelosa Era. Insomma, l'uomo preferisce sentirsi vittima delle triviali passioni degli dei piuttosto che considerarsi schiavo di un'entità anodina come il caso. «Tuttavia», meditava Prodico, «i fulmini continuano a cadere durante i temporali e la stragrande maggioranza di loro non uccide nessuno. Errori di Zeus? Ah, di quei fulmini non importa niente a nessuno.» A Prodico non sfuggiva certo l'importanza di attribuire alla morte un senso che la rendesse più accettabile, anche per via dell'inspiegabile scomparsa di sua madre, la quale un pomeriggio si era seduta per fare un sonnellino nel patio di casa e non si era più risvegliata. Nessun sintomo, nessun segnale allarmante. Semplicemente, il suo cuore aveva smesso di battere. Da allora, il giovane Prodico si era inabissato in una sorta di sogno, uno stato di trance da cui aveva spesso l'impressione di non essersi mai ridestato del tutto. «L'unica legge è il nostro istinto di bellezza», aveva affermato Protagora, «la fantasia con cui interpretiamo il caso. Molti fatti inspiegabili sono inconsciamente elaborati dalla nostra volontà che li concerta in un modello armonico e intelligibile.» Il sofista si rigirava nel letto riflettendo e pensando alle sue conversazioni con Protagora, l'unico amico di cui avesse pianto la morte, avvenuta molti anni prima in un naufragio. Prodico era angosciato dall'idea di sapere le cose in anticipo, dal dolore che può causare un evento atteso, poiché tutto si ripete fino alla noia. Questa sensazione del già vissuto, dell'avvertire l'effetto prima della causa, di scoprire in anticipo come finirà lo spettacolo, era aborrita dal suo spirito perché banalizzava l'esistenza, privandola di qualsiasi interesse e sorpresa. La forza che trainava la vita era, per lui, la curiosità; il fatto di sapere prima uccideva la speranza. La gente si recava dagli oracoli per essere informata sul proprio futuro, per conoscere in anticipo le proprie disgrazie, il che gli sembrava una vera e propria aberrazione. Non riusciva a spiegarsi come Aspasia avesse potuto commettere un errore tanto grave. E mentre meditava sul senso dell'anticipazione, temendo si trattasse dell'unica facoltà mentale che si va affinando con l'età, ebbe modo di stupirsi, in quanto si verificò un fatto del tutto inatteso, che lo persuase ad a-
spettarsi ancora dalla vita inquietanti sorprese: Aspasia entrò silenziosa nella stanza e si sdraiò accanto a lui. Di lei, ormai, non gli importava più la carne, ma la luce. Non le sue membra stanche, ma il profumo che emanavano, la concordia e la pace, e la densa oscurità che avvolgeva entrambi, non importava che avessero o meno delle cose da dirsi: finalmente avevano esiliato le parole. Nel silenzio si trovavano e si amavano. XXVIII La salute di Aspasia peggiorava a vista d'occhio e le visite di Erodico si erano fatte sempre più frequenti. Lei evitava di parlarne, anche quando Prodico le chiedeva cosa avesse detto il medico. Non appena questi usciva di casa, a testa bassa e preoccupato, Aspasia tornava a sorridere e a comportarsi come se nulla fosse. Non si trattava di una fuga dalla realtà, poiché era ben cosciente del male che l'affliggeva, ma della sua naturale tendenza a lasciare per ultime le brutte notizie, fin quando c'era tempo per gioire delle buone. Questo atteggiamento meravigliava il sofista, il quale invece si lagnava appena poteva, tranne che con Aspasia. Il suo comportamento lo sentiva - dipendeva dal fatto che l'amica era un tale modello di virtù da far emergere il suo lato migliore. Nelle ultime settimane la salute della gentildonna andava di male in peggio. Tossiva in continuazione, benché cercasse di nasconderlo, e vi erano giorni in cui non riusciva neppure ad alzarsi dal letto. Nei momenti in cui stava un po' meglio, fluttuava fra i vapori delle pozioni anestetizzanti papavero, erba di Circe e vino - con cui cercava di alleviare il dolore che le perforava le viscere. A volte l'aveva udita piangere nell'anticamera. Oltremodo solleciti, i suoi schiavi erano sempre pronti ad aiutarla nel momento del bisogno. In presenza di Prodico faceva a meno di loro, fingendo di godere di una salute decorosa, o almeno bastevole a occuparsi di se stessa e dei suoi doveri, anche se ormai c'era poco da nascondere. Fino ad allora, il sofista si era trattenuto dal mostrarsi seriamente preoccupato per lo stato di salute dell'amica che, le rare volte in cui le aveva chiesto come stava, si era finta ottimista, minimizzando il problema e cambiando subito discorso, col solo risultato di renderlo ancora più inquieto. Spesso Aspasia parlava da sola, in un sommesso e sconfortato soliloquio con se stessa. In quei momenti, Prodico preferiva uscire a fare una passeggiata. Non sopportava di vederla in quello stato.
Avvolta nella nera ed elegante cimberica, era l'abitante più silenzioso della casa. Ecco perché, quando si materializzò una notte, molto tardi, in cui il sofista rifletteva, disteso su una poltrona di vimini della biblioteca, sull'omicidio di Anito, e in particolare su come fosse possibile avvicinarsi a un uomo impugnando un lungo e affilato coltello mentre questi riposa ignaro del pericolo che incombe su di lui, ebbe un sussulto ritrovandosela alle spalle. «Non ti ho sentita arrivare», si scusò Prodico. «Le civette cacciano di notte guidate dall'udito.» Subito dopo, Aspasia gli chiese di aggiornarla sugli sviluppi dell'indagine. Lui dovette riconoscere che al momento le ricerche si erano arenate. A suo parere, né Aristofane, né Diodoro, né Antemione avevano commesso il crimine. Tuttavia alcuni elementi emersi dalle loro testimonianze lo avevano indotto a battere una nuova pista, anche se disponeva di informazioni incomplete. Aspasia volle subito sapere di che informazioni si trattava. «C'entrano, a quanto pare, col tentativo di fuga di Socrate.» «È cosa nota. È stato lo stesso Socrate a farlo fallire.» «Sì, ma sembra che ne esistesse un secondo, meglio organizzato. Si trattava di un segreto assai ben custodito da chi si proponeva di liberare Socrate. Un'altra persona venne però a conoscenza del segreto: Anito. Antemione è convinto che il padre possedesse le prove di questo piano d'evasione, un elemento che avrebbe dimostrato in modo inequivocabile che Socrate era un traditore e che aveva semplicemente finto di accettare la condanna inflittagli.» Aspasia tossi più volte sul dorso della mano prima di chiedere: «Se era già stato condannato a morte, perché aveva bisogno di altre prove?» «Credo che Anito si sia reso conto di avere esaudito, alla fin fine, il sogno incompiuto di Socrate: morire vittima di una grande ingiustizia, così da rendere imperitura la propria fama.» «Adesso capisco. Allora, il movente dell'assassinio di Anito è stato salvaguardare la reputazione del filosofo, evitando che si scoprisse il secondo piano di fuga, ammesso che tale piano sia mai esistito.» «Proprio così. Purtroppo per noi possediamo solo qualche vaga informazione. Anche Antemione non sa nulla del piano, né tanto meno quale fosse la preziosa informazione decantata dal padre. Secondo lui, però, si tratta di un testimone chiave.» «Interessante. Forse ci stiamo avvicinando al movente del delitto.»
«Sì, ma il nuovo movente non conduce a nessuno degli indiziati. D'altra parte io sospetto di una persona, benché non sia in possesso di elementi probanti e che oltretutto ha un alibi perfetto.» «Neobula.» Prodico annui. «Perché sospetti di lei?» «Facile. Mi ha detto che sei stata tu a uccidere Anito. E non è che lo sostenesse versando lacrime di dolore.» Aspasia rimase a bocca aperta; batté più volte le palpebre e si portò una mano al petto. «Non posso credere che lo pensi davvero.» «Quella donna vuole solo manipolarmi... ma per quale ragione?» Lei rifletté qualche istante. «È tipico di Neobula ingarbugliare le cose, confonderle. È una persona ambigua. È perversa! Ha deciso che c'è bisogno di sacrificare qualcuno per evitare che chiudano La Milesia, e le importa ben poco chi. Da tempo scalpita per prendere il mio posto.» «Il tuo ragionamento non fa una piega.» «D'altra parte, è la persona più adatta a gestire il locale, e, soprattutto, quella più disposta a lottare per il progetto di emancipazione della donna. È orgogliosa e non arretra davanti alle difficoltà.» «Ma lei non lo merita», disse Prodico. «Vuole la tua morte.» «La mia morte è molto più vicina di quanto lei non immagini.» Prodico rimproverò Aspasia per aver pronunciato queste parole. «Caro Prodico», gli adisse lei accarezzandogli la guancia, «accanto a te sto vivendo i miei giorni più felici da molti anni a questa parte.» «Vale anche per me.» Si guardarono teneramente negli occhi, le mani intrecciate, finché Aspasia non esclamò: «Me ne stavo scordando! Ci sono delle novità. Ho scoperto una cosa interessante nel mio locale. Dobbiamo andarci subito». Una dozzina di schiave erano intente a pulire e rassettare il bordello per la notte. Si mesceva il vino nei crateri e si colmavano d'olio le lampade, si accordavano gli strumenti e si sistemava l'arredamento. Aspasia mostrò al sofista un arazzo appeso al muro in cui erano raffigurate delle scene erotiche tra uomini e donne. Guardandolo da vicino, Prodico notò che aveva i bordi bruciacchiati.
«Me ne sono accorta ieri mentre ispezionavo il locale», gli spiegò Aspasia. A qualche passo di distanza svettava un solido candeliere dai piedi ferini su cui poggiavano cinque ceri. Lei annuì, seguendo la traiettoria del suo sguardo. «Anch'io ho pensato la stessa cosa. Ho convocato Filippo per chiedergli cosa fosse accaduto. Mi ha risposto che qualche tempo fa il candeliere era caduto e uno dei ceri era finito contro l'arazzo. 'E quando è successo, Filippo?' gli ho domandato. Dopo aver meditato a lungo, si è ricordato che era stato proprio la notte in cui avevano ucciso Anito, ma qualche ora prima. Per questo non aveva collegato i due fatti. A quanto pare il candeliere si era rovesciato e tre ceri erano caduti a terra: uno aveva bruciacchiato gli orli dell'arazzo, un altro era finito su un cliente procurandogli una leggera ustione.» «Come mai un oggetto del genere è caduto? Ha una base piuttosto stabile.» «Un'etèra è inciampata in un uomo seduto sul pavimento e si è aggrappata al candeliere. Guarda caso era Neobula.» «Che coincidenza!» «Proprio così.» Aspasia sorrise. «Di quelle coincidenze che ti fanno riflettere. Filippo mi ha raccontato per filo e per segno come sono andate le cose: quando la cera calda è colata sul cliente, questi ha emesso un grido acuto e per qualche istante c'è stata un po' di confusione. In un battibaleno è sopraggiunto Filippo, che ha versato un secchio d'acqua addosso al cliente e poi un altro sull'arazzo. Insomma, è finito tutto tra grandi risate.» «Però Filippo ha lasciato incustodita l'entrata per pochi minuti.» «Esatto.» Prodico osservò con attenzione il candeliere. Poggiava su una base di ferro con quattro piccoli piedi. Il corpo era in bronzo pesante e irregolare. Era difficile che potesse cadere. «È sempre stato qui dov'è ora, a questa distanza dalla parete?» «Prima stava più vicino all'arazzo. Adesso, come puoi vedere, lo abbiamo spostato per precauzione.» «Supponiamo che Neobula abbia finto di inciampare per rovesciarlo e causare quegli attimi di confusione. Questo ci permette di considerare l'ipotesi che un'altra persona, finora non inclusa tra i sospetti, fosse presente sulla scena del crimine.» «Un uomo che sarebbe potuto entrare nel locale senza che Filippo se ne
accorgesse.» Prodico annuì e si mise a ragionare ad alta voce: «Potrebbe essersi intrufolato con agilità felina senza che nessuno lo vedesse, con il volto coperto, per esempio, e un coltello affilato sotto la tunica, ed essersi confuso nella baraonda generale per poi aggirarsi indisturbato nel locale e trovare un nascondiglio da cui saltar fuori solo dopo che la mescitrice Eutila aveva servito il vino ad Anito, l'ultima volta che questi è stato visto vivo». «Chi può essere quell'uomo?» «Neobula non ce lo dirà mai. Ma sapere che lei lo sa ci aiuta.» XXIX Il rancore per quella donna che, così sfacciatamente, aveva tentato di manipolarlo lo aiutò a concentrarsi sull'indagine, risvegliò in lui energie sopite e rese più acuti i suoi ragionamenti. L'odio lo scosse dall'abituale stato di indolenza, instillandogli un furore produttivo. Se era lei l'assassina, un duro castigo si sarebbe abbattuto su quel corpo perfetto, una tale delizia per gli occhi da risultare offensivo. Ma non doveva farsi guidare dal desiderio di vendetta. La prima regola era non perdere l'obiettività. «Il potere della politica è sottomesso al potere del sesso», aveva detto l'etèra. Si recò a casa di Neobula per perquisirla, a un orario in cui lei stava lavorando. In linea di massima, non cercava niente di preciso, non aveva le idee chiare su come muoversi; il che costituiva un vantaggio, in quanto gli permetteva di non escludere alcuna ipotesi, o uno svantaggio, poiché disponeva di poco tempo per le ricerche. L'abitazione dell'etèra era la tana di un animale lezioso e disordinato, vasta, sfarzosa, ma molto caotica. Appena entrato, la sua attenzione fu attratta dal busto che campeggiava nella stanza principale, quello del defunto Alcibiade da giovane, scolpito dal grande Fidia, per il quale aveva di certo sborsato un bel gruzzolo. Controllò uno per uno tutti gli ambienti, soffermandosi in camera da letto. Sul morbido materasso di piuma giacevano, sparsi alla rinfusa, un mucchio di strani arnesi per il trucco e ampolle piene di unguenti colorati; accanto al letto c'erano diversi bauli stracolmi di indumenti e una custodia piena di veli violetti, piegati con cura. Non poté fare a meno di odorarli. Ai piedi del letto, una panchetta con una bacinella per l'igiene intima. C'erano pepli e impalpabili tuniche appesi qua e là e
una toilette con specchi in bronzo levigato, racchiusi entro cornici di sandalo. Sul piano del mobile trovò forbici, nastri, pettini d'osso, lame per manicure, pinze per depilarsi, una reticella per i capelli e altri oggetti di cui ignorava del tutto la funzione, come una nappa che somigliava alla coda di un coniglio e un minuscolo spazzolino della grandezza di un'unghia. La civetteria femminile - pensò - si è evoluta assai più in fretta della medicina o dell'astronomia. In leziosi cofanetti conservava collane, diademi, braccialetti e orecchini di pietre preziose. Moltissimo oro, nell'insieme. Una vetrina conteneva attrezzi per riscaldare la cera, mortai per miscelare la biacca con i balsami, fini ampolle di profumo. Prodico non poté fare a meno di specchiarsi in una lastra di bronzo levigato, pentendosene all'istante. D'un tratto, un oggetto attirò la sua attenzione: una rozza scala a pioli appoggiata contro la parete d'ingresso. Si chiese a cosa potesse servire, dal momento che in casa non aveva notato né soffitte, né armadi, né mensole che non fossero facilmente raggiungibili. Guardò di nuovo in tutte le stanze e appurò che non si era sbagliato. Dopo aver riflettuto qualche istante sulla palese incongruenza, concluse: ho guardato in su, ma una scala non si usa solo per salire. Anche per scendere. Ripassò la casa al setaccio, questa volta con lo sguardo fisso a terra, alla ricerca di una botola che conducesse a un rifugio segreto. La trovò sotto un tappeto. Si inginocchiò e tirò con forza l'anello metallico: un tanfo di secrezioni umane emerse dalla spessa oscurità. Prese una delle lampade a olio che aveva usato per perlustrare in ogni angolo e, in ginocchio sull'orlo della botola, la calò per esaminare l'interno. Rattrappito in un angolo vide un vecchio emaciato, seminudo. A passi incerti, questi si avvicinò al fascio di luce. Prodico poté allora vederlo in volto: fu scosso da un brivido di orrore quando riconobbe Socrate. XXX «Mi chiamo Lycinos, ho settant'anni e sono ilota. Fino a poco tempo fa non ero mai uscito da Sparta. Mio padre mi abbandonò in fasce e fui trovato da un uomo ricco, il quale mi accolse come schiavo in una enorme casa che alloggiava trecento iloti al suo servizio. Il mio padrone era un patrizio colto e raffinato, istruito a Megara, di nome Filippo, che ereditò grandi proprietà a Sparta, dove si stabilì con la moglie e un seguito di servi per occuparsi delle sue terre e del bestiame. Quest'uomo saggio si prese la bri-
ga di ripulire la mia rozza natura e i miei modi per affidarmi l'incarico di servire i nobili ospiti. Era appena iniziata la grande guerra, avevo cinquant'anni ed ero vissuto meglio di qualsiasi altro schiavo della città: avevo ricevuto una buona educazione, acquisito i rudimenti della lettura nella casa del padrone, imparato a badare ai cavalli e a strigliarli, ad approvvigionare le stalle, a preparare i ferri e a non lasciare mai una lampada senz'olio. «Divenni il caposquadra della servitù addetta a ricevere gli invitati. Mi preoccupavo che agli ospiti del mio signore non mancasse nulla e che il servizio nei saloni fosse impeccabile. Il padrone era assai soddisfatto delle mie premure. Quando morì fu sepolto con tutti gli onori, lasciando un solo figlio maschio, che ben presto mostrò di avere un carattere opposto a quello del padre: era dispotico, crudele e vendicativo ed estremamente autoritario con i sottoposti, soprattutto con schiavi e schiave. Aveva molti debitori - che forse si erano illusi di poter ricevere un aiuto da lui -, che finì col taglieggiare, esigendo la restituzione dei prestiti a tassi di usura. Era di costumi dissoluti e talmente brutale da scoraggiare chiunque, uomo o donna, a riproporsi per accontentare una seconda volta le sue voglie; anzi, gli schiavi passati dal suo letto erano quelli che più lo temevano. Avevo servito il padre per tutta la vita e volevo onorarne la memoria, cosicché, fedele ai miei obblighi, continuai a servire il figlio, che trattai sempre da padrone, benché il mio cuore non riconoscesse altro signore che colui che mi aveva salvato dall'abbandono. «Con una certa frequenza ero vittima dell'inflessibile rigore del mio nuovo padrone, che mi umiliava fino all'inverosimile. Divenni insensibile come una pietra. Mi muovevo come un pupazzo e non provavo più alcuna emozione, o, se ne conservavo una, era la speranza di vederlo morire prematuramente. A causa della ripresa delle ostilità e della guerra contro Atene, egli si assentò per brevi periodi; furono quelli gli unici momenti di tranquillità, anche se in casa non si batteva certo la fiacca perché il signore poteva comparire da un momento all'altro. Tornò dalla guerra illeso e felice. Festeggiò il rientro con numerosi banchetti che terminavano in orge cruente. Io ero invecchiato nelle stanze di quella ricca dimora e non mi aspettavo molto dalla vita. Non ho mai avuto nemici, non sono mai stato coinvolto in risse, né ho mai fornito a chicchessia motivo per lamentarsi... Al contrario, sono sempre stato uno schiavo laborioso e discreto. Non ho mai chiesto favori, non devo niente a nessuno. Mi sono sempre accontentato di un tetto sotto cui ripararmi e un pavimento su cui dormire. Così ho vissuto
- e che possa l'ira degli dei abbattersi su di me se quanto affermo è una menzogna -fino al giorno in cui, sballottato dal destino, non fui condotto in questa città. Mi accorgo che è la parte del mio racconto che più vi interessa. Pertanto, cercherò di compiacervi, anche se non sono in grado di fornirvi alcuna spiegazione in merito agli avvenimenti. «Un bel giorno si presentarono due uomini a casa del mio padrone e trattarono a lungo con lui. Erano ateniesi, giovani e di buon lignaggio. Fu più volte pronunciato il mio nome prima che il padrone mi mandasse a chiamare. Non appena mi videro, essi mostrarono una gran meraviglia, quindi, visibilmente euforici, cominciarono a tastarmi il viso, quasi non potessero credere ai loro occhi, e le carni, per capire quanto pesavo. Il padrone, confuso quanto me, chiese ai due ateniesi perché avessero intrapreso un viaggio così lungo per acquistare uno schiavo ormai vecchio e quasi inservibile come il sottoscritto. Ricevette solo delle risposte vaghe e poco credibili. Intuendo che si trattava di una questione piuttosto importante, soprattutto per lo strano modo in cui mi guardavano, pretese un prezzo molto alto, l'equivalente di venti schiavi giovani e aggraziati. I due estrassero con tale celerità la sacca del denaro che il mio padrone si pentì amaramente di non aver chiesto due o tre volte tanto. «Partii così in compagnia della coppia di ateniesi, solo con gli abiti che portavo indosso, conscio del fatto che il vecchio Lycinos non avrebbe più fatto ritorno in quella ricca dimora. Perché i due stranieri mi volevano? Fui condotto in una casa di campagna, dove mi legarono le caviglie con delle catene, come fossi un cane. E mi lasciarono solo accanto a un secchio d'acqua. Ben presto cominciai ad avvertire i morsi della fame. Per tre giorni non venne nessuno, il quarto si presentò uno sconosciuto, ateniese anch'egli a giudicare dalla foggia delle vesti, che mi fissò sbigottito ed esclamò che la cosa era ancora più straordinaria di quanto avesse immaginato, senza specificare di quale cosa straordinaria si trattasse. L'uomo mi ripulì, mi pesò, mi diede due fichi e versò nuova acqua nel secchio perché non restassi senza. Poi, così come era arrivato, se ne andò. Nel frattempo, io continuavo ad avere una fame tremenda, dato che i fichi, invece di saziarla, l'avevano stimolata. «Digiunai per altri cinque giorni. Capii che volevano lasciarmi morire di fame e decisi di togliermi la vita. Provai dapprima a trattenere il fiato; tuttavia, una volta incosciente, il corpo riprendeva spontaneamente a respirare. Non riuscii neppure a strangolarmi con le catene, perché erano troppo corte. Se avessi gridato, facendo appello alle poche forze che mi restavano,
nessuno mi avrebbe sentito né sarebbe accorso in mio aiuto. Non mi restava che sbattere la testa sul pavimento, ma, essendo questo di terra battuta, persi i sensi solo per qualche minuto. «Quando si ripresentò l'uomo della volta precedente per portarmi dell'altra acqua io lo implorai di uccidermi, lui però si limitò a pizzicarmi le carni per poi esclamare compiaciuto che ero molto dimagrito. Non potete immaginare il tormento! Ero così debole che dormivo quasi tutto il giorno e sognavo di mangiare. Persi anche la nozione del tempo, ma non dovettero trascorrere più di tre giorni prima che i due acquirenti, varcata la soglia del casolare, si compiacessero di vedermi tanto deperito. Uno di loro aveva delle forbici e mi spuntò barba e capelli. Poi mi lavarono e mi tolsero i ceppi. L'altro, il più giovane, mi promise che se mi fossi lasciato condurre senza opporre resistenza nel luogo in cui dovevano portarmi, una volta giunti a destinazione mi avrebbero dato una morte così dolce da non sentirla neppure arrivare. Quelle parole furono un balsamo per il mio cuore. Chiesi dove e quando avrei ricevuto quella morte, e loro mi risposero: 'Tra qualche giorno, nella prigione di Atene'. «Mi infilarono in un sacco di lino, mi legarono con delle funi e subito dopo le mie povere ossa sobbalzavano per gli scossoni di un carro. Viaggiai tutta la notte. Un contrattempo fermò la marcia per oltre un'ora. Credo che una ruota fosse uscita dal perno. L'aggiustarono e ripresero il cammino più in fretta. Io sobbalzavo sulle assi di legno, ma non vi era modo di cadere dal carro. Era quasi l'aurora quando mi scaricarono e mi condussero, su un carretto, in un luogo dove finalmente mi estrassero dal sacco. La mia testa era un alveare di macabri pensieri e diffidavo ormai della promessa fattami da quegli uomini di darmi una morte veloce. Mi gettai nuovamente ai loro piedi e li supplicai di uccidermi subito con la spada. Mi rialzarono da terra minacciando di rinchiudermi di nuovo se mi fossi lamentato ancora. Erano molto nervosi perché stava per spuntare l'alba, mentre loro avevano calcolato di arrivare verso mezzanotte. Mi infilarono in testa un sacco nero e me lo strinsero bene attorno al collo, aprendo solo un orifizio all'altezza della bocca per farmi respirare. Io non riuscivo a capire la ragione di tutto questo, dato che avevo le mani legate e non potevo fuggire, ma credo temessero che qualcuno potesse vedermi in volto. Mi condussero dunque lungo un sentiero che, sentii dire, portava alla prigione. A quel punto accadde qualcosa che mi spaventò molto. Dapprima udii gridare: 'Prendeteli!' quindi il passo accelerato di alcuni uomini. Chi mi tratteneva dovette allarmarsi, perché lasciò la presa. Sentii sguainare le spade e il sordo fragore
di un cozzar di metalli... un combattimento. Non appena capii che ero libero, ancora con le mani legate cominciai a correre come un disperato, alla cieca per via del cappuccio, inciampando in tutto quel che mi stava davanti, cadendo a terra e risollevandomi. «Continuavo a correre senza sapere che stavo andando proprio dove quegli uomini volevano portarmi. La mia fuga, infatti, finì contro il muro della prigione. L'impatto fu violento e caddi a terra, rimanendovi per qualche istante, mezzo svenuto, sperando di morire. Poi, qualcuno prese a strattonarmi brutalmente, mi tolse il cappuccio e mi schiaffeggiò per farmi rinvenire. Notai che mi colava del sangue dalla bocca, perché mi aveva rotto i pochi denti che mi restavano. Anche quel tizio, non appena mi vide in volto, mostrò una gran sorpresa, mi sollevò il mento con una mano e mi osservò più da vicino. Io ancora non sapevo dov'ero, né che quell'uomo era una guardia della prigione di Atene. Esclamò: 'E così sei tu!' quasi mi stesse aspettando, anche se non ci eravamo mai visti prima. Era molto nervoso e non faceva che chiedermi dove fossero finiti gli altri, i miei complici, e come avevo fatto ad arrivare da solo fin lì. Non potevo parlare, a malapena riuscivo a respirare. La guardia, furiosa, prese una torcia e fece qualche passo in direzione del buio, ma non vide nulla. Tornato da me, pensai che volesse picchiarmi, invece mi afferrò per le spalle e mi scosse energicamente, ripetendo le solite domande: dov'erano gli altri e cos'era successo. Io non dicevo una parola, tanto per me non cambiava nulla. L'uomo non sapeva più cosa fare, smise allora di interrogarmi e, a furia di spintoni, mi gettò in una cella che richiuse con una grata, imprecando contro il destino che lo aveva cacciato in quel guaio. Quindi uscì con la torcia, suppongo ad aspettare chi mi aveva condotto fin lì. «Ed ecco che, d'un tratto, mi ritrovavo prigioniero in una buia e umida cella; era successo tutto talmente in fretta e in modo così confuso che mi sembrava di essere un fantoccio manovrato da qualche dio crudele per il proprio sollazzo. Ero fuggito dai miei carcerieri per finire in prigione! Ero scoraggiato, abbattuto e spossato, la testa mi girava, il cuore batteva all'impazzata e mi tremavano le ginocchia. Mi lasciai cadere sul freddo pavimento della cella, sperando alfine di morire. Rimasi in quella posizione finché non recuperai un po' di fiato. Dopo qualche sussulto, mi calmai e me ne stetti tranquillo, come se il mio corpo non mi appartenesse più, come se fosse diventato insensibile. «Proprio allora udii una voce sommessa. Era un compagno di prigione? Si trovava nella cella accanto? Vi interessa che vi parli di quell'uomo?
D'accordo, lo farò, dato che lo desiderate. Il prigioniero mi chiamò più volte 'buon uomo', io però ero indeciso se rispondere o meno. Tuttavia fu così insistente e la sua voce era così gentile, nel chiamarmi buon uomo, che decisi di dargli retta. In fin dei conti non avevo nulla da perdere, si trattava solo di un altro poveretto, probabilmente in cerca di un po' di compagnia. A fatica mi trascinai nell'oscurità fino alle sbarre che ci separavano. Intravedevo a malapena la sua sagoma. 'Chi sei, amico mio?' mi chiese. Feci appello a quel poco di voce che mi restava per dirgli da dove venivo. Si stupì del fatto che fossi spartano, poiché tra la sua città e la mia regnava ora la pace, e mi domandò se ero un prigioniero di guerra. Gli risposi di sì, anche se in realtà non avevo ben chiaro che razza di prigioniero fossi e perché lo ero. Sembrava molto preoccupato per me e desideroso di recarmi un po' di sollievo. Mi disse di essere uscito una sola volta da Atene, per combattere la guerra, e che, pur non avendo mai visitato Sparta, nutriva una grande ammirazione per l'ordinamento della nostra città e per la nostra rigorosa disciplina. Mi disse che ogni popolo poteva imparare qualcosa dagli altri popoli, e che anche Atene, la più sapiente delle città, aveva molto da imparare da Sparta e dal modo di vivere dei suoi cittadini, dal suo sistema educativo e dalle virtù del suo governo, che li aveva trasformati in valorosi soldati. Mi sorprese che parlasse così di noi, essendo di Atene, e pensai che si sarebbe potuta evitare una guerra disastrosa se molti altri ateniesi avessero condiviso quelle opinioni. Il mio sconosciuto compagno mi domandò se sarei stato in carcere a lungo, al che risposi che con un po' di fortuna vi sarei rimasto poco perché avrei bevuto un veleno che ti traghettava sull'altra sponda in modo rapido e indolore. Mi chiese se poteva fare qualcosa per me. Era la prima persona gentile che incontravo dal giorno in cui mi avevano comprato e sequestrato. Gli risposi di sciogliermi le corde che mi legavano i polsi, se aveva le mani libere. Lui mi accontentò con piacere, infilando le sue dita tra le sbarre. Sbrogliò paziente il nodo della fune di sparto e mi liberò. Poi toccò il mio viso per tastarne i lineamenti e, nel farlo, gli sfuggì un urlo, come se mi avesse riconosciuto, e la cosa lo spaventasse. «La nostra conversazione fu improvvisamente interrotta dalla guardia che irruppe, agitata, nella mia cella. La luce della torcia illuminò la stanza e fui testimone di un prodigio scorgendo, dall'altra parte delle sbarre, nella penombra e per un breve istante, un uomo preciso identico a me. Dopo avermi afferrato, il carceriere mi scaraventò fuori dalla cella, gridando: 'E così puoi parlare! Dimmi! Perché sei venuto solo? Dove sono i tuoi com-
plici? Parla o ti sgozzo seduta stante!' Farfugliando, gli raccontai come potei dell'imboscata in cui erano caduti e di come io fossi arrivato fin lì cercando di fuggire. L'uomo, che aveva già intuito qualcosa, decise che era più conveniente rilasciarmi. Ma mi avvertì: 'Ascoltami bene: se dici a qualcuno che sei stato qui, ti ucciderò. Mi hai capito? Giuro su Zeus che lo farò. E adesso vattene, sparisci, lascia questa città senza farti vedere e non rimetterci mai più i tuoi sozzi piedi'. Gli giurai di farlo e subito dopo mi allontanai di corsa, almeno quanto me lo permettevano le mie povere gambe. «All'inizio non riuscivo a crederci. Ero libero! Per quanto ancora? Chi sarebbe stato il prossimo a catturarmi e torturarmi? La notte era placida e buia e non c'era nessuno nei paraggi. Mi addentrai in un boschetto. A ogni passo mi sentivo sempre più stanco e, alla fine, crollai sotto una macchia di olivi, sperando solo di poter dormire fino alle prime luci dell'alba. «Il mattino seguente non avevo la più pallida idea di dove fossi. Fui svegliato da una donna con un sacco, cosicché mi alzai e ripresi a correre. Uscii dal bosco e, poco dopo, mi ritrovai in un quartiere della città. Non so dire cosa avesse la mia faccia, si dà il caso che, come sempre da quando ero stato venduto, chiunque mi incontrasse mostrava una gran meraviglia, urlava inorridito o, semplicemente, se la dava a gambe levate. «Alla fine fui catturato di nuovo e portato in una casa, una ricca dimora, quasi quanto la vostra, il cui proprietario mi rivolse un mucchio di domande e a cui raccontai questa stessa storia. Se ricordo il nome del ricco proprietario? Certo, Anito, un uomo di una cinquantina d'anni, di bella presenza, colto. Anche lui mi trattò bene, lo riconosco: mi offrì da mangiare, da bere, e mi fece riposare. Era molto contento di ospitarmi e mi disse anche che aveva bisogno di me per testimoniare davanti a un tribunale circa alcuni avvenimenti di cui ero stato protagonista, poiché, a suo parere, ero la prova vivente del fatto che era stata ordita una cospirazione per liberare un prigioniero dal carcere. Immaginai si riferisse all'individuo che mi assomigliava tanto. Mi avrebbe condotto il giorno successivo al tribunale che, a sentir lui, sorgeva sulla cima di un colle, affinché, al cospetto dei magistrati, ripetessi la mia storia. Ma quel giorno non è mai arrivato, perché all'alba si presentò un uomo, che io già conoscevo in quanto, durante la mia reclusione a Sparta, era colui che mi riforniva d'acqua. Quando gli chiesi se lo mandava Anito, mi rispose che Anito era morto. «Come? Sì, si chiamava Alcibiade. Così almeno lo chiamava la donna che abitava nell'ultima casa in cui sono stato prigioniero. Di nuovo la stessa follia. Solo che, adesso, questo Alcibiade voleva che ingrassassi e smet-
tessi di somigliare al tipo della prigione, anche se, a quanto pareva, era già stato giustiziato, poiché il piano per liberarlo era fallito. La mia presenza, però, era considerata ancora una minaccia... e non chiedetemi il perché. La bella donna che mi teneva rinchiuso in casa sua mi spuntò la barba e mi diede questi abiti. Mi promise che, una volta riacquistato peso, mi avrebbero ricondotto a Sparta e lasciato libero. Questa è la mia storia fino al momento in cui mi hai fatto uscire da là sotto. E adesso cosa mi succederà?» «Oggi stesso partirai per Sparta con una quantità d'oro sufficiente a non farti più vivere come uno schiavo», disse Prodico. XXXI Il sofista di Ceo apprezzava oltremodo l'iscrizione incisa da Alcibiade, di proprio pugno, sulla lastra di marmo che anni dopo sarebbe diventata la sua stele funeraria, e che i suoi sostenitori avevano portato dalla lontana Tracia, assieme al suo cadavere, per dargli sepoltura ad Atene: PATRIA MIA, SE COMINCIASSI DA CAPO TI TRADIREI DI NUOVO Era bella e onesta come una dichiarazione d'amore. Tre anni erano trascorsi dalla cerimonia funebre, la più insolita che fosse mai stata celebrata in città. Ora, col senno di poi, a Prodico sembrava ancora più paradossale, dal momento che la bara chiusa in cui riposavano le ossa del condottiero conteneva tutt'altro. Quando si era sparsa la voce della morte di Alcibiade, l'Assemblea dei cittadini, a grande maggioranza, si era opposta fermamente al rientro in Attica della salma di quel traditore senza scrupoli. Ma un altro settore, nostalgico del passato, aveva chiesto a gran voce che si permettesse di tenere la cerimonia funebre ad Atene, come atto di pietà verso i suoi antenati e in ossequio alla stirpe alcmeonide, cui apparteneva anche Pericle. Alla fine, per timore di una rivolta, si era autorizzato a seppellirlo in patria, pur negandogli qualsiasi genere di onore come essere tumulato in un'area sacra, all'interno delle mura cittadine, o dignità d'eroe. Il cadavere rientrava dalla Tracia - la terra del suo esilio -, scortato da un pugno di seguaci, al termine di una lunga traversata. Sin dal suo sbarco al Pireo era stato sorvegliato da un picchetto di soldati per evitare tentativi di sabotaggio. Le guardie erano schierate lungo il
corridoio fortificato che collegava il porto alla città. Lì, sulle Lunghe Mura, si era ammassato il popolo ateniese, come quando l'esercito spartano aveva invaso l'Attica, per assistere al passaggio del feretro. Vi era una tale tensione nell'aria da lasciar supporre che non sarebbe mai giunto in città. Tutti si chiedevano chi lo avrebbe impedito e in che modo; se sottraendo la bara o semplicemente respingendola fino al mare; se i soldati si sarebbero ribellati, anteponendo il rancore personale agli ordini ricevuti, o se invece avrebbero compiuto il loro dovere contrastando gli insorti al minimo tentativo di sabotaggio. I cavalli che trainavano il carro avanzavano lentamente, scalpitando e scrollando la testa, nervosi per la vicinanza della folla. Davanti, il picchetto che guidava la comitiva, in stato di allerta, si apriva il passo tra la moltitudine. Contrariamente alle previsioni, il corteo funebre, formato da pochi amici e dai seguaci ancora in vita del defunto, era stato solo bersaglio di qualche fischio, insufficiente a sobillare l'animo dei più violenti. Il carro con la salma sfilava davanti alla folla intimorita, senza che nessuno osasse alzare la mano contro il morto. I ragazzi seguivano le esequie arrampicati sui rami delle querce o seduti a cavalcioni del muro di cinta della necropoli, ansiosi di udire l'interminabile leggenda dell'eroe più ammirato e odiato di tutta Atene. Uomini e donne attendevano immobili, madidi di sudore, nella canicola, colti di sorpresa dall'estremo colpo di scena di Alcibiade, il suo epitaffio. Quando il feretro era stato calato nella fossa, Neobula aveva pronunciato poche parole di commiato: «Qui giace un uomo libero, che fu fedele solo a se stesso. Volle sfiorare le più alte vette. Tutto il suo essere emanava luce. Visse con avidità e pienezza poiché odiava la mediocrità. Atene fu il suo unico grande amore». Subito dopo aveva letto il discorso rivolto da Alcibiade al suo popolo anni prima, quando lei viveva al suo fianco. Era un ultimo addio: Ateniesi! La tormenta mi rende ebbro. Galoppo per le praterie, tra le scogliere, sotto le bianche ali dei gabbiani. Questa terra è ancora vergine e il mare infinito. Di nuovo, il fato mi obbliga a lasciare Atene, l'unica città che ho mai amato, questa volta per sempre, poiché non vi farò più ritorno. L'abbandonai per fare rotta, con una sola nave, verso la
Tracia. Non esiste per me più alcun rifugio sulla terra. Mi avete reso uno straniero. Erro da un paese all'altro, senza orizzonti. Da questa malinconica fortezza del Chersoneso contemplo il mare pensando che in qualche lido lontano le sue acque bagnano il porto dell'ineffabile Atene. Ho vissuto per me stesso, senza accettare altro governo che non fosse il mio libero arbitrio, indiscusso sovrano delle mie scelte: la mia vita, prima ancora di ogni dovere e fedeltà. A lungo mi avete offeso con ingiurie; la calunnia segue i miei passi ovunque io vada. Sono bersaglio dell'invidia degli sciocchi, e spiriti meschini mi hanno tolto il comando delle truppe quando potevo coprire la città di gloria. Da questi colli estranei odo le grida dei gabbiani e il mio ricordo vaga per le scogliere contro cui si frangevano le onde sovrastando le nostre navi incagliate, piegate dalla forza del vento. È sufficiente il valore di un solo soldato per infondere coraggio a un esercito che arretra impaurito. Con dolci parole di conforto si scalda il cuore afflitto dei combattenti. Non v'è scoramento che resista a una seconda alba: con la luce e la rugiada tornano le speranze, e il corpo, ieri abbattuto, si rialza, tendendo ogni sua fibra come le corde dell'arco in battaglia. Ho lasciato alle mie spalle quell'idolatrato efebo cresciuto nel lusso della corte di Pericle, le donne e i molli cuscini. La mia pelle è una dura scorza di salnitro e arena, da queste spine è stata temprata. Mi sento ancora giovane e nel pieno delle forze. Ma la mia vita è stata crudelmente mozzata. Sono stato privato di ogni illusione e stimolo. Guardarsi indietro è atto da codardi, inutile come voler trattenere il volo di Crono, ma impugnare la verità pur sapendo che nessuno vorrà udirla è ancora tanto bello quanto inutile. So cosa dicono di me, mossi dall'ignoranza o dalla malafede: non devo soccombere alla menzogna della storia né sperare che altri mondino il mio onore da tante infamie. Al di là degli errori e dei tradimenti, la mia sola aspirazione fu portare ad Atene l'egida dei vincitori. Oggi vi lamentate delle vostre disgrazie e attribuite a me le vostre colpe, ma io non posso farmi carico degli errori che avete commesso. Ho sognato una donna che copriva con un drappo il mio cada-
vere e so che la mia fine è prossima, ecco perché vi invio questo messaggio. Prego gli dei di non essere sepolto qui, nel Chersoneso, così distante dalla mia unica patria. E non sarà un Lisandro al comando delle sue truppe, né un Nicia, né un re, né un Ipparco, né un oplita a uccidermi sul campo di battaglia, né un ricco satrapo persiano. In quest'ultima tappa del mio viaggio, da cui vi parlo, so di non poter scagliare l'ultimo dardo alla morte, come avrei desiderato, né di poter godere della voluttuosa sensazione del mio sangue che scorre sul campo di battaglia, disseminato dalle fetide carni dei cadaveri. Sarà, invece, come annunciavano i versi di Callino di Efeso: La morte verrà nel momento stabilito dalle Moire poiché al destino dell'uomo non è dato di sfuggirla, neppure se la sua stirpe discendesse dagli dei. XXXII Era semplice appurare se Alcibiade fosse ancora vivo: bastava scoperchiarne il sepolcro. Non c'era fretta, era quasi certo di trovarsi davanti un cenotafio. Ad Atene solo Neobula e lui sapevano che Alcibiade non era morto. Prodico si dava grandi manate sulla fronte per non avere considerato la possibilità che fosse Alcibiade l'assassino di Anito. Come aveva fatto a non pensarci? Evidentemente aveva scartato l'ipotesi perché aveva saputo del suo funerale; quell'uomo era morto. Troppo spesso si accetta una versione ufficiale in modo acritico: ecco l'origine del suo errore. Eppure il profilo di Alcibiade - a prescindere dal fatto che fosse cadavere - corrispondeva alla perfezione con quello dell'assassino di Anito. Antidemocratico, fautore di una dittatura - la sua -, era un avversario politico del morto e un amico personale di Socrate. Astuto e coraggioso, non avrebbe avuto difficoltà a uccidere un uomo in un bordello senza lasciare traccia; inoltre, era l'amante di Neobula, pertanto non doveva stupire che lei fosse sua complice. Alcibiade non poteva tornare ad Atene che da morto, in quanto, per aver tradito la patria durante la guerra, era diventato il nemico numero uno del popolo. Scomparso l'ultimo capo in grado di mobilitare le forze oligarchi-
che, la democrazia poteva tirare un sospiro di sollievo. Organizzare un falso funerale si era dunque rivelata una brillante trovata, poiché gli garantiva il vantaggio di un rimpatrio clandestino. E spiegava anche perché il suo rientro fosse avvenuto nella più totale segretezza, affidandosi solo alla complicità dei suoi sostenitori. Tuttavia... su chi poteva contare l'Alcmeonide, dopo tutti quegli anni trascorsi in esilio? Forse, solo su una donna legata a lui da un antico amore. Una cosa però non gli era chiara: se il delitto fosse stato concepito da Alcibiade come una vendetta personale, o se invece lui fosse solo l'esecutore di un piano ideato da Neobula. Questa seconda ipotesi, a suo parere, era la più atta a giustificare la presenza di Alcibiade ad Atene: era tornato per lei. Proprio allora, però, Prodico dovette sospendere le indagini per un motivo di tale importanza e gravità da rendere insignificante qualsiasi altra occupazione. La fine di Aspasia era prossima. Dalla porta della camera da letto non filtrava alcun rumore, nulla di quanto accadeva all'interno, non un suono che spezzasse il silenzio. Prodico, che evitava di entrare nella stanza per non disturbare la visita del medico, passeggiava nel patio, girava attorno al pozzo, parlava con gli schiavi anch'essi inquieti per la malattia della padrona -, si sedeva un attimo a riposare. Insomma, cercava di non pensarci, ma le più cupe previsioni si affastellavano nella sua mente. Di tanto in tanto tornava nel vestibolo ad aspettare l'uscita del medico. Aveva piena fiducia in Erodico, non solo per il prestigio di cui godeva, ma soprattutto perché era fratello di Gorgia, analitico e meticoloso come lui, benché più riservato. Il consulto stava durando molto più del solito, il che era un brutto indizio. Quando finalmente sentì cigolare la porta, gli andò incontro contenendo a stento l'agitazione. Prima ancora di rivolgergli la fatidica domanda, lesse la risposta negli occhi del medico. Erodico lo condusse lontano dall'uscio, laddove Aspasia non potesse udirli, e gli comunicò che ormai era questione di giorni, forse addirittura di ore. «Lei non lo sa», precisò Erodico, «ed è meglio che tu non glielo dica. So per esperienza che, a volte, la speranza ritarda l'arrivo della morte e aiuta ad accettare l'agonia.» Prodico assentì con un nodo alla gola. Il medico proseguì: «Il polso è molto debole, ha la febbre alta, respira con difficoltà. È già molto anziana e l'organismo è esausto, nonostante la sua vitalità». Il sofista accompagnò Erodico all'uscita e, per qualche istante, rimase lì
in piedi, immobile, esitante, mentre lo guardava allontanarsi. Gli tremavano le ginocchia. Emise un profondo respiro. Fuori, spirava una leggera brezza. Una mattina come qualsiasi altra, senza presagi. Nel cielo solcato da sporadiche nubi che annunciavano l'approssimarsi dell'autunno sfrecciavano i rondoni dalle ali lunghe e appuntite. Quindi, come anestetizzato dal proprio turbamento, ripercorse il vestibolo ed entrò, inutilmente silenzioso, nella stanza di Aspasia. L'amica giaceva bocconi, sotto le coperte, i folti capelli cinerini sparsi sul guanciale. Gli rivolse uno sguardo tenero, sereno. Con un filo di voce mormorò: «Erodico non sa proprio fingere. Cosa ti ha detto?» Non aveva scordato i consigli del medico. Tuttavia, trovandosela di fronte, si accorgeva di quanto fosse inutile e assurdo cercare di ingannarla. La voce gli si strozzò in gola per lo strazio: «Che stai per morire, Aspasia». Lei emise un sospiro e batté le palpebre. «Bene», disse in un sussurro. Prodico le si sedette accanto. Si sforzava di dominare le proprie emozioni per non scoppiare a piangere, poiché, se nel corso della sua esistenza aveva avvertito l'impulso di farlo, se si era sentito una volta invadere dalle lacrime, era proprio in quel frangente. «Dimmi cosa posso fare per te.» La mano tremula di Aspasia si fece strada sulla tela in cerca della sua. Lui la strinse con delicatezza. Era rovente. «Non permetterai che incidano sulla mia lapide un epitaffio di quelli destinati alle donne, tipo 'Allevò i figli e tessé al telaio', vero?» Gli occhi di Prodico sorrisero alla battuta. «Neanche morto lo permetterei.» «Ti sei sempre ingegnato per starmi accanto nei momenti critici, caro.» «Non ti libererai facilmente di me.» La risata dell'anziana si tramutò in una sequela di cavernosi colpi di tosse. Prodico non sapeva che fare. Accese una lampada a olio e le asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto. «Quelli buoni», mormorò Aspasia, «si ritirano in tempo, quando ancora sono nel pieno delle forze.» Lui le strinse nuovamente la mano esangue e la portò alle labbra. Lei socchiuse gli occhi. «La vita è stata generosa con me», aggiunse la gentildonna.
«Perché sei stata più furba di me. C'è chi cerca di interpretare la vita; tu, invece, hai deciso di goderla. Ecco la differenza tra noi.» «Caro Prodico, l'avrei goduta molto di più se non fossi stata cosi cocciuta. Quanti errori ho commesso a causa del mio orgoglio e della mia testardaggine! Ho sbagliato con te e abbiamo pagato entrambi. Tuttavia, non mi pento di nulla, neppure dei miei difetti, che sono stati molti, e che non sono riuscita a eliminare, nemmeno uno, lo ammetto. E se è vero che sono stata felice, molto di più lo sarei stata al tuo fianco.» Prodico appoggiò il capo sul petto di lei, con dolcezza, e lasciò che il pianto affiorasse dai suoi occhi. «Gli amori non consumati durano tutta la vita.» Quel pomeriggio, Aspasia ricevette una visita molto speciale: quella di Neobula. Prodico origliò dal corridoio, tendendo l'orecchio, e ne fu nauseato. Sopra ogni cosa, egli detestava l'ipocrisia, ma tanto Neobula quanto l'inferma si attennero con scrupolo al rituale, a tal punto da indurlo a sospettare che l'amica credesse davvero alle dimostrazioni di dolore della sua pupilla. E a chiedersi se quella non parlasse sul serio. Neobula pianse, stringendo le mani di Aspasia tra le sue, e la chiamò benefattrice. Era la persona a cui più doveva: lei l'aveva istruita, le aveva dato una casa, una nuova famiglia e la possibilità di essere una donna libera e indipendente. Le rivelò di averla sempre invidiata per i suoi successi, per l'influenza che aveva esercitato sugli uomini importanti, negli anni dorati di Atene, quando aveva conosciuto il suo apice accanto a Pericle. Sostenne, infine, che l'avrebbe sempre considerata il modello cui ispirarsi. «Vogliamo che La Milesia conservi lo spirito con cui l'hai creata», le diceva Neobula. «Ma temiamo di non essere capaci di farlo secondo i tuoi desideri.» «La gestirete benissimo anche senza di me; anzi, meglio ancora di come l'ho fatto io», la rassicurò Aspasia. «Avete già deciso chi prenderà il mio posto?» «Ne abbiamo discusso... e nessuna di noi si ritiene all'altezza.» «Non credo sia il tuo caso, Neobula.» L'etèra le baciò la mano. «Mi lusinga quanto dici, ma non posso...» «Tu e io abbiamo avuto delle divergenze, Neobula. Voglio confessarti, prima che sia troppo tardi, che sono cosciente, lo sono sempre stata, di aver commesso un errore con te, quando eri giovinetta. Non ho saputo iniziarti come si conviene alla professione, il che ti ha causato un grande do-
lore. In seguito mi sono pentita, anche se non ho mai avuto il coraggio di confessartelo. Adesso ascoltami bene, Neobula.» Afferrandole il mento e avvicinando il viso della donna al suo, mormorò: «Ritengo che tu sia la sola in grado di prendere in mano le redini della Milesia. Sei dotata di coraggio e talento. Conto su di te perché tu prenda il mio posto». Neobula abbassò, umile, lo sguardo. «Impara a gestire il tuo orgoglio», proseguì Aspasia, «che è un'arma a doppio taglio. Usalo per combattere. Questo è l'inizio di una lunga battaglia. Sei forte, hai un temperamento dominante. Non sarai forse la più virtuosa, ma sei la più intelligente.» «Lo farò, Aspasia, te lo prometto.» «Mi tranquillizza sapere che lascio la Milesia nelle tue mani.» A queste parole, Prodico scosse compiaciuto il capo. Provò una grande ammirazione per l'astuzia di Aspasia e pensò che non aveva mai posseduto un pizzico di virtù socratica: era una sofista fatta e finita. XXXIII Quella stessa notte galleggiava sulle nere acque del Falero una pallida luna che illuminava il pesce, putrido e puzzolente, ammassato sul molo, nei pressi della rustica recinzione dove ogni giorno si montavano e smontavano i banchi dei venditori, che a quell'umida ora erano solo un cumulo di casse e una fila di nudi tavolacci. Le barche ormeggiate al pontile dormivano cullate dagli scricchiolii del legno. Approdati in terraferma si udiva l'eco della musica e la gazzarra proveniente dai postriboli. Ogniqualvolta si spalancava l'uscio di un lupanare, gli schiamazzi della festosa marmaglia squarciavano il silenzio della notte, per poi tornare ad attutirsi. Neobula ascoltava l'uomo che le stava di fronte e le parlava, nella tetra oscurità di un arco, sotto le scale che conducevano al Falero. Più che alle sue parole appassionate, prestava attenzione all'espressione del viso, ai gesti delle mani, al messaggio che lanciavano; temeva di essere visto, e c'era in lui un'ansia sconosciuta. Il volto dell'uomo si stagliava su un mare cupo, su uno sfondo di tenebre. L'etèra annuiva, mentre cercava nell'interlocutore qualche traccia dell'antica superbia che lo aveva reso degno di essere amato, senza però riuscire a trovarla, ben sapendo tuttavia che, se anche ne avesse rinvenuto un resto, non sarebbe più stata capace di sedurla. Dopo tanto tempo, non era neppure la pallida ombra dell'uomo che era stato. Le parlava di terre lontane che lei già conosceva, di foreste vergini e frondose,
dei canneti d'estate, della passione sotto la luna di Persia. Evocava l'antica libertà, quando la presenza dell'altro riempiva di sé la vastità del mondo. Nulla di tutto ciò aveva più senso; adesso suonavano come un'offesa le sue parole, quel vano appello ai deliri della gioventù: non erano più giovani, ora, anche se l'uomo pareva non rendersene conto. Neobula giunse a pensare che chi le stava davanti aveva perso la nozione della realtà: troppo tempo lontano, isolato, relegato nei propri pensieri, a nutrirsi di vecchie leggende, di una fama ormai oscurata tranne che nella sua fantasia. Era invecchiato nel risentimento, parlava come se la guerra non fosse finita da anni, come se Atene fosse ancora un terreno fecondo per congiure e rivolte; parlava dalla desolata solitudine in cui per anni aveva rimestato il passato e che gli aveva offuscato la mente. Non poteva crederci, era morto davvero. Alcibiade, l'uomo che le stava di fronte, era un cadavere vivente. Per qualche tempo ancora lui l'assediò con parole vane, privo ormai della capacità di interpretare i sentimenti di lei, che guardava la sua bocca muoversi veloce; quella bocca un tempo affascinante, dall'espressione maliziosa e femminea anche quando, a labbra chiuse, era serio. Una bocca che ora si muoveva inutilmente, come un pesce fuor d'acqua che si dibatte prigioniero in una pozza. L'attrasse a sé inseguendo qualche segno di cedimento, di affetto, ma lei era algida, insensibile, più distante che mai, e profondamente amareggiata di dover vivere quell'esperienza che insozzava i suoi ricordi più belli. Per di più, cercò di baciarla. Lei scostò il viso. Gli disse che stavolta non lo avrebbe seguito, che sarebbe rimasta ad Atene, perché quello era il suo posto e aveva un compito da assolvere. Fattene una ragione, gli disse, nulla più ci unisce. Vattene. Alcibiade commise l'imprudenza di rammentare a Neobula le parole da lei pronunciate anni prima, quando lui l'aveva costretta a lasciarlo e a tornare ad Atene, le ricordò che l'aveva supplicato di tenerla al suo fianco, di lasciarle condividere il suo esilio, giurandogli amore eterno. Fu la goccia che fece traboccare il vaso, e lei si alzò per andarsene. L'uomo, allora, l'afferrò per un braccio e la strattonò con forza, attraendola nuovamente a sé. Un rigurgito dell'antica furia balenò nei suoi occhi e, finalmente, lei lo riconobbe. Lui avvertì quel moto di piacere e le chiese di accompagnarlo alla nave, dove sarebbero stati al sicuro. Benché intimorita, l'etèra abbozzò un sorriso e accettò l'invito; avrebbero continuato a parlare sull'imbarcazione. Per fortuna di Neobula, i rematori non si trovavano a bordo - probabil-
mente se la stavano spassando nei bordelli -, poiché in tal caso l'avrebbe costretta a prendere il largo con lui, come una schiava prigioniera. Meditò sul da farsi, mentre gli dava le spalle, a poppa, lo sguardo fisso su un fioco bagliore in lontananza, quello di una barca che pescava in mezzo al mare, simile a un'isola cui le luci della costa dovevano apparire vaghi isolotti. Era ancora in tempo per gettarsi in acqua e fuggire a nuoto. Stava calcolando quante probabilità di successo aveva, quando avvertì l'odiosa vicinanza di lui, il suo fiato sul collo, le braccia che la cingevano, le mani che scivolavano lungo il suo corpo. La chiamò come faceva un giorno lontano, col nome del fiore il cui profumo stordisce gli uomini. Per la prima volta la mente di lei concepì, nitida, precisa, l'idea di ucciderlo. Chiuse gli occhi e strinse i denti, mentre la sua lingua le esplorava la pelle e una mano furtiva liberava il fermaglio che sosteneva il peplo, scoprendole il busto. Solo quell'odore familiare la confondeva un po', ma era l'odore di un ricordo. Ben presto si ritrovò all'interno di una piccola tenda in tessuto, nuda, bocconi, imprigionata sotto le ginocchia dell'uomo. Non oppose resistenza. Si lasciò leccare, come se stesse accontentando un cliente sgradevole, divaricò le gambe e scivolò verso il membro eretto, sospirò, e prese a oscillare ritmicamente il bacino, finché la tensione scomparve e lui cominciò a sentire intensi brividi di piacere, dimenticandosi di tutto. Si lasciò girare, affinché potesse penetrarla da dietro, gli afferrò le mani mentre la montava con furia, odiandolo dal profondo delle sue viscere. Lo ucciderò, pensava muovendo il bacino, avanti e indietro, lo ucciderò questa notte stessa, qui, dove lo troveranno i suoi uomini. Aveva già individuato il coltello, che spuntava dalle pieghe dall'imation abbandonato sul pavimento, a portata di mano. Gemette e gli si abbandonò del tutto, divaricando ancor più le gambe. Lui la rimise bocconi e la penetrò in profondità; si strofinò sul suo corpo sudato, ansando frenetico, delirante, la bocca schiusa da cui colava un filo di saliva, il volto contratto, lo sguardo opaco come quarzo, proteso verso il culmine del piacere, fino all'urlo selvaggio, fino a sentire il sangue che risale la gola trionfante e irrora gli occhi nell'estremo spasmo prima di accasciarsi, sfinito, accanto a lei. Prima che la punta del coltello gli squarciasse il petto e il suo sangue intiepidisse la lama, Neobula scorse negli occhi sbarrati di Alcibiade la volontaria accettazione di chi si affida alla mano assassina di colei che ama. XXXIV
Tre anni dopo il falso funerale Prodico era lì, ai piedi della tomba, per dare un'occhiata al cadavere e riconoscere qualche oggetto o indumento che potesse identificarlo. Prima ancora che gli schiavi estraessero la bara, allo spuntar dell'alba, al sofista parve di sentire un vago tanfo di putrefazione, di terra fermentata. Indietreggiò di qualche passo per non assistere al deplorevole spettacolo dell'apertura del feretro. Gli schiavi, tuttavia, non riuscirono a far saltare il coperchio della cassa con la leva di ferro e, dopo una serie di vani tentativi, decisero di fracassare a colpi il legno di pino. Non appena volarono le prime schegge, il sofista si allontanò. Una volta aperto un varco, fu tutto più semplice. A poco a poco apparve l'interno. Tre sacchi pieni di terra. Prodico sentì un tuffo al cuore, un'eccitazione incontenibile, il sapore del trionfo. Quell'attimo di soddisfazione lo ricompensava di tutti i suoi sforzi. Ed eccole lì, le spoglie inermi di Alcibiade accolte dall'amata patria: terra che cadde sulla terra. Gli sembrava di udire le risate di quella vecchia volpe che, ancora una volta, era riuscito a ingannare Atene. C'era da inchinarsi dinanzi all'ennesima levata di ingegno di un uomo che aveva fatto della propria esistenza un curioso capolavoro. Ordinò agli schiavi di richiudere la bara, di ricoprirla di terra e di rimettere a posto la lapide, come se quel segreto non fosse mai stato profanato. Era agitato ed ebbro di soddisfazione per aver battuto il rivale in astuzia. Mentre gli schiavi si davano da fare per riseppellire la bara, Prodico si mise a passeggiare tra le statue e i pini della necropoli, riflettendo sulla recente scoperta. L'aria si stava riempiendo dei garriti dei rondoni. Avanzando tra le tombe, assorto nei suoi pensieri, immaginò che Alcibiade fosse giunto ad Atene prima della morte di Socrate per farlo fuggire di prigione. Forse, però, non era riuscito ad arrivare in tempo, tenendo conto che il viaggio per mare dalla Tracia ad Atene era molto lungo. Sulla scia delle proprie supposizioni, Prodico calcolò i giorni trascorsi dal momento in cui Socrate era stato condannato a morte fino a quando aveva bevuto la cicuta; quel lasso di tempo consentiva a un emissario di raggiungere la Tracia per comunicare la notizia ad Alcibiade, ma non era tale da permettere a quest'ultimo di arrivare ad Atene in tempo per impedire l'esecuzione del suo mentore. Sempre sulla base delle proprie congetture, era dunque possibile che il filosofo avesse accettato la condanna, quasi senza difendersi, poiché sperava di convincere l'Alcmeonide a non ritardare ulteriormente il suo rientro ad Atene e a instaurare la Repubblica ideale di cui Alcibiade
sarebbe stato il capo indiscusso. Tutti questi pensieri si affastellavano nella mente agitata del sofista, accanto ai dubbi sulle conseguenze di quella scoperta. E infatti, se era ancora vivo e si trovava nella terra di Pallade, quali erano i suoi piani? Stava forse organizzando una rivolta con l'aiuto dei suoi sostenitori? Rifletté su quest'ultima ipotesi e la trovò impraticabile. Alcibiade avrebbe potuto contare sull'aiuto di ben pochi uomini. Quasi tutti gli antichi seguaci erano morti qualche anno prima, durante le sommosse che avevano abbattuto il regime dei Trenta. Era molto probabile che si fosse ritrovato solo e impotente. Qualcosa lo spinse ad alzare gli occhi e ad abbandonare quelle precipitate riflessioni. A uno stadio di distanza stavano seppellendo un uomo. Si diresse verso i cinque stranieri abbronzati e robusti, dall'aspetto di schiavi rematori. Questi si girarono appena, torvi in volto, e continuarono a scavare. Prodico li raggiunse e li salutò. Essi non risposero. Gettò allora un'occhiata al cadavere insanguinato che giaceva ai loro piedi e gli si gelò il sangue nelle vene. Era Alcibiade. Lo riconobbe senza alcuna esitazione. Nel petto aveva una ferita fresca inferta da una lama. Disse «amico» in varie lingue, e infine provò con il persiano. Dal modo in cui lo guardarono, comprese che l'avevano capito. «Chi lo ha ucciso?» Gli uomini si scambiarono una breve occhiata, facendo trapelare un sentimento che lui non seppe se definire di disprezzo, indifferenza o sospetto. Non gli risposero. Accanto al cadavere, in un improvvisato sudario, Prodico scorse un velo di seta violetta. Gli uomini terminarono di scavare, due di loro presero il corpo e lo gettarono in fondo alla fossa: atterrò con un rumore sordo sollevando ancora un po' di polvere. Rapidi ed efficienti, senza far trapelare alcuna emozione, senza pianti né cerimonie, ricoprirono la salma di terra e se ne andarono portandosi via gli attrezzi. Prodico ordinò agli schiavi di incitare i cavalli che trainavano il carro per arrivare al più presto a casa di Aspasia. Era impaziente di comunicarle le buone notizie. Giunto a destinazione, si precipitò nella stanza dell'amica, ma non appena ebbe varcato la soglia fu bloccato da una strana sensazione. Avvertì nell'aria un'infausta presenza, il passo felpato della Morte. Accostò la mano a quella dell'anziana e avvertì un freddo più freddo del freddo, un soffio gelido, il morso di un metallo, simile a un pezzo di
ghiaccio nella mano inerte, e guardò sconcertato il volto immobile, lontano e inespressivo, bagnato dalla luce del mattino; vide gli occhi vuoti di una statua, estranea e opaca, irriconoscibile. Non era Aspasia, solo un mucchio di molli viscere, un corpo inanimato, inutile, sbiadito. Ah, se potesse vedersi in questo momento, pensò col cuore trafitto, se potesse vedersi come io la vedo! XXXV Be', gliene importava ancora di meno. La sua missione, ormai, volgeva al termine. La salma di Aspasia, cremata in presenza degli amici più cari sulla cima del monte Licabetto, esalò un fumo bluastro che si innalzò verso le impavide stelle. In piedi, alla luce delle torce, duecento ombre addolorate recitarono una sommessa preghiera agli dei. Erano presenti molte donne e, dei pochi uomini, alcuni tra i più importanti di Atene. Prodico apprezzò soprattutto l'assenza di musica e di prefiche; Aspasia detestava l'esibizionismo rituale dei funerali. Fu una cerimonia discreta e silenziosa, come piaceva a lei. Si gettarono petali di anemoni al vento che spargeva le ceneri e poco di più. Le brevi parole pronunciate dal logografo Lisia furono, per fortuna, ben presto dimenticate. Poi, ciascuno dei presenti si rifugiò nel proprio dolore incamminandosi sulla via del ritorno, che scendeva sinuosa per la montagna. Non esitò a servirsi della sua vecchia carica di ambasciatore - della cui rinuncia erano al corrente solo il governatore di Ceo, Aspasia e Prodico stesso - per ottenere un'udienza speciale presso l'illustre tribunale dell'Areopago; come motivo addusse il chiarimento dell'assassinio di Anito. La risposta del tribunale non si fece attendere e fu convocato per l'ultimo giorno del mese di Boedromion, al termine della vendemmia. Era una giornata ventosa che preannunciava l'autunno. L'agonia e la morte di Aspasia avevano comportato lunghe notti d'insonnia e Prodico, quella mattina, si sentiva esplodere la testa. Gli dolevano gli occhi e provava una rivoltante compassione per se stesso, mista a un sentimento di vergogna e a scorie di amarezza; una sensazione indefinibile, nutrita da anni di sedimenti e corrosioni, come fosse un'ancora arrugginita abbandonata sul fondo del mare. Facendo di necessità virtù, aveva indossato i suoi migliori indumenti per presentarsi degnamente abbigliato dinanzi all'Areopago; aveva inoltre tentato, senza successo, di prepararsi un discorso, per
poi accorgersi che anche i pensieri gli procuravano dolore. Alla fine decise di improvvisare, ricordandosi che in altri momenti difficili, quando tutto sembrava perduto, era stato soccorso da un'inattesa lucidità. Giunto sulla cima del colle di Ares, scese dal carro e percorse a piedi l'ultimo tratto di strada fino alle bianche gradinate del tribunale, sperando che il vento lo risvegliasse o almeno mitigasse la sua forte emicrania. Gli anziani lo attendevano, immobili come statue, sulle gradinate in pietra. Lui piegò il capo al loro cospetto. Sedevano su un podio, un braccio al di sopra della sua testa, un ingenuo stratagemma - pensò Prodico - per imporre la loro autorità. Una nausea improvvisa gli fece credere che avrebbe vomitato sul sacro suolo, alla presenza degli augusti magistrati, imbrattando il nome di Ares e dei suoi sfrontati colleghi dell'Olimpo. Si contenne pensando ad Aspasia e al proprio desiderio di onorarne la memoria. Deglutì e si cinse il ventre con le braccia, quasi volesse trattenere le viscere. La cerimonia sacrificale in onore del dio partì col piede sbagliato, distraendo il sofista dai suoi tumulti interni. Il colle, quella mattina, era spazzato da un vento gelido: in un primo momento una nube di cenere investì gli anziani, che tossirono e lacrimarono, poi l'acciarino non voleva saperne di accendere il fuoco. Il mortificante spettacolo mise a tal punto di buon umore il sofista da fargli dimenticare per un po' i fastidi, nonostante l'incessante martellare alle tempie. Gli officianti che assistevano gli arconti si affrettarono a portare l'incensiere al riparo dell'altare dell'Implacabilità, dietro le cui colonne di marmo riuscirono ad accendere il fuoco, che si spense altre due volte prima che le fiamme acquisissero un certo vigore. Gli anziani, mortificati a causa dei contrattempi, non facevano che tossicchiare e bisbigliare goffe scuse, suscitando in Prodico quel genere di simpatia che nasce dalla compassione, anche se teneva lo sguardo fisso a terra per non sembrare insolente. Finalmente furono compiuti i sacrifici rituali al dio sanguinario. Era il momento di prendere la parola. Il sofista si avvicinò al podio degli arconti e, temendo che tra loro ve ne fosse qualcuno duro d'orecchi, parlò a voce alta, dando le spalle al vento. «Venerabili magistrati. Mi trovo qui perché a me, Prodico, ambasciatore di Ceo, è stato affidato da Aspasia l'incarico di chiarire i fatti relativi all'abominevole delitto di Anito affinché questo tribunale faccia giustizia. Vi parlo a nome dell'amica che, con nostra grande costernazione, ha attraversato il fiume senza ritorno. Ho accettato di condurre quest'indagine quando già era gravemente ammalata, ma fermamente intenzionata a mantenere la promessa fatta al cospetto dell'altare di Ares per lavare il proprio onore e
quello della Milesia da ogni sospetto e ignominia.» Fece una pausa e osservò i volti severi e grinzosi dei magistrati, che attendevano impazienti fasciati nelle morbide tuniche. Dai loro sguardi ansiosi Prodico capì che stavano divorando ogni sua parola, per poterlo cogliere in fallo. «È dunque mio proposito mantenere la promessa e informarvi dei risultati delle indagini. Sono stati ripresi e ripetuti gli interrogatori, volti a individuare nuovi indizi o a cogliere eventuali contraddizioni, ma tutte le dichiarazioni dei sospetti sono risultate veritiere e non sono emersi elementi che inducano a contraddirne la veridicità o ad alimentare sospetti di reticenza, di occultamento di dati o fabbricazione di alibi. Nessuna prova incriminante è emersa dalle case perquisite, né alcun indizio che possa indurci a pensare che qualcuno dei presenti quella notte alla Milesia nutrisse una personale avversione per Anito o avesse motivo di volergli arrecare danno. D'altra parte, ho vagliato anche le dichiarazioni relative al ritrovamento del cadavere, più concretamente alla posizione delle mani del morto sul coltello. Come sapete, la mano destra impugnava il manico e la sinistra posava su di essa, mentre entrambe giacevano inerti sul petto dell'uomo poiché la lama del coltello era penetrata fino all'impugnatura. Il fatto di averlo considerato un delitto si fonda sulla convinzione che, essendo Anito mancino, non avrebbe impugnato il coltello con la destra per sferrare il colpo, bensì avrebbe usato la sinistra, accompagnandosi anche con l'altra mano. Fin qui sono d'accordo con i giudici. Credo tuttavia che, erroneamente, sia stato dato per scontato che quella disposizione delle mani fosse la stessa assunta al momento di conficcarsi la lama nel petto, nel caso fosse stato Anito stesso a togliersi la vita. Detto in altre parole, non possediamo sufficienti prove per scartare l'ipotesi del suicidio. Consideriamo ora quest'ultima possibilità. Il fatto che la mano destra fosse a diretto contatto con l'impugnatura quando l'uomo è spirato dimostra forse che si sia ucciso usando quella mano? Chi può assicurarci che abbia mantenuto la stessa posizione, senza mai cambiarla, dal momento in cui impugnò l'arma fino a quello in cui fu trovato cadavere? Mi limito a esplicitare tale dubbio dinanzi a questo tribunale, la possibilità, cioè, per niente improbabile, che lo stesso Anito possa aver mosso le mani dopo un primo tentativo di uccidersi, ossia involontariamente, durante la sua breve agonia. Il fatto è che noi non sappiamo se sia morto all'istante o se, invece, si sia agitato per far penetrare più in profondità il coltello, se abbia sferrato una seconda pugnalata, o se, mentre attendeva la morte, abbia allentato le mani, muovendole.»
Prodico fece una pausa per riprendere fiato. Percepì appena un leggero sollievo dall'emicrania. Guardò le sinuose fiamme dell'incensiere e desiderò che Aspasia fosse presente per ascoltare il suo discorso. Proseguì: «Immaginiamo adesso, venerabili magistrati, che Anito si sia tolto la vita in questo modo. Siamo forse in grado di stabilire perché lo ha fatto? La ragione che lo ha spinto a compiere questo gesto trascende la nostra comprensione, e possiamo solo azzardare alcune ipotesi per tranquillizzare la nostra coscienza, anche se nessuna di esse potrà mai essere provata. D'altra parte, il nostro compito è amministrare la giustizia e, se c'è un colpevole, infliggergli il giusto castigo. Ma essendo la vittima anche l'autore del gesto e quindi il colpevole, ha commesso l'unico delitto che comporta la sua stessa esecuzione. Giudicate ora se la mia fondata opinione è meritevole della fiducia di questo nobile tribunale. In tal caso, è giunto il momento di porre fine a un conflitto foriero di tanta discordia e proteste, che non solo macchia l'onore delle etère, ma mina anche la fiducia di molti cittadini nelle leggi della città, che dovrebbero applicarsi a loro beneficio piuttosto che a loro detrimento. Nel corso delle mie indagini ho potuto constatare che La Milesia adempie con scrupolo ai suoi obblighi religiosi verso Afrodite Pandemos e Atena, che vi esercitano la professione donne oneste, fedeli ad Atene e rispettose delle leggi; donne che, innegabilmente, svolgono una funzione molto apprezzata da un gran numero di cittadini. La chiusura del locale non sarebbe affatto un vantaggio per la città; anzi, tale decisione potrebbe prendersi solo in un clima di discordia e malcontento. Venerabili magistrati! Dobbiamo onorare la memoria di colei che fu la sposa del divino Pericle, purtroppo scomparsa, una persona che come nessun'altra ci ha rischiarato il cammino verso la democrazia e la virtù civica dalla meridiana luminosità di Atena, protettrice di questa città. Vi chiedo pertanto un gesto di comprensione e benevolenza». Il supremo magistrato degli areopagiti, visibilmente confuso dall'alambiccata esposizione del sofista, prese la parola. «Illustre sofista, retore e ambasciatore», disse. «Con grande piacere ascoltiamo le tue parole e i tuoi prudenti consigli, che mirano al bene di questa città e dimostrano la tua fedeltà alla venerabile Aspasia, della cui morte siamo tutti profondamente dispiaciuti. Pertanto, questo tribunale riconsidererà la propria decisione, se così lo riterrà conveniente. Delibereremo con l'aiuto di Zeus e, tra breve verrà comunicato il nostro verdetto.» Prodico non credeva nella verità, credeva però nel senso dell'opportuni-
tà. Condivideva l'idea di Protagora secondo cui la rettitudine consiste nella scelta appropriata, che a volte è la scelta più astuta, altre invece è tacere, lasciar correre le cose, agire di nascosto. Mentire, se necessario. In questo, la sua distanza da Socrate, difensore a oltranza della natura intrinseca del bene e della verità, era siderale. Come spiegare al tribunale che, in realtà, l'assassino era un uomo il cui cadavere era stato sepolto ad Atene anni prima, niente meno che Alcibiade, e che la sua complice era un'etèra innamorata di lui? La menzogna che aveva avallato in quella sede era una verità più semplice, convincente. E, coprendo Neobula, difendeva anche l'ultima volontà di Aspasia. Prodico si interrogava sul suo futuro. Era ben cosciente di essere venuto ad Atene per Aspasia, e adesso la città gli sembrava insignificante; peggio ancora, vuota, morta. La civetta dagli occhi sagaci era volata altrove. Tutto lo induceva ad andarsene al più presto, dato che nulla più lo tratteneva. La Milesia - ne era certo - avrebbe seguito la sua strada sotto la ferrea direzione di Neobula, la cui guida il sofista non contestava affatto. All'inizio aveva carezzato l'idea di affrontare l'etèra a tu per tu, di chiederle una confessione, per poi decidere che era meglio lasciare le cose come stavano. Avrebbe desiderato sciogliere qualche piccolo dubbio residuo, senza molta importanza. In particolare il movente del delitto. Dubitava che Alcibiade fosse a tal punto affezionato a Socrate da vendicarsi, accecato dal dolore per la morte del suo maestro, su Anito. Era più incline a pensare che la vendetta avesse nome di donna e che Alcibiade, in questo caso, fosse semplicemente stato il fedele esecutore della brama di vendetta di Neobula. Ma si trattava di dubbi marginali, insufficienti anche a distrarlo dai suoi cupi pensieri e a dissipare la funerea bruma calata sul suo cuore. Avrebbe atteso la decisione dell'Areopago, quindi sarebbe tornato a Ceo. XXXVI Il verdetto degli anziani areopagiti decretò l'innocenza delle etère della Milesia. Le donne avevano il permesso della città di continuare a svolgere la loro professione notturna. La notizia venne accolta con giubilo. La sera successiva vi fu libera entrata al bordello, dove si festeggiò e danzò fino allo spuntare dell'alba. Prodico aveva terminato il suo lavoro. Non poteva accadere più nulla, ormai, né ad Atene né nel suo cuore, se non un continuo imbattersi in fantasmi. Non scorgeva alcun futuro tra quelle pietre, per quanto non fossero
così vecchie e numerose come quelle della sua memoria. Aveva trovato la pace del cuore, ma non era che un'anticamera della morte. Non voleva accomiatarsi dai pochi vivi che ancora conosceva ad Atene. E se il caso o gli dei gli tenevano in serbo una qualche sorpresa, non voleva saperlo. Diede avvio ai preparativi per imbarcarsi sulla nave dell'ambasciata che lo aveva condotto nella terra di Pallade, stavolta per fare rotta su Ceo, verso il sole delle Esperidi. Si sarebbe lasciato alle spalle, per l'ultima volta, l'amata città di Atene. Si sentiva vecchio, corroso dal tempo e dalla nostalgia. Il suo disinteresse per il presente e il futuro era un chiaro sintomo di senescenza. Il suo mondo era un amalgama di antichi ricordi dove, per fortuna, solo i bei momenti sopravvivevano nella memoria, lampi di bellezza, il viso ovale di sua madre all'ombra dei tigli del patio, le passeggiate con Aspasia, da giovani, nei campi di giunchi di Salamina, quando al crepuscolo videro passare un branco di oche in una formazione che imitava una punta di freccia, e lei lo baciò. Ricordava bene anche molte conversazioni con Protagora, quando smise di esserne il discepolo per diventarne semplicemente un amico, da pari a pari, e una certa volta in cui, mentre camminavano lungo il sentiero che costeggia il fiume Ilisso, arrivati alla fonte Calliore si imbatterono in un tale che apparteneva alla setta pitagorica e si faceva chiamare geometra. Stava tracciando delle linee e dei numeri sul terreno con un ramoscello. Quell'uomo insegnò loro un teorema di assoluta bellezza, limpido e perfetto come un cristallo di quarzo, pregno di una verità immutabile destinata a durare in eterno: davanti a loro, alfine, stava la meravigliosa grammatica del pensiero fondata sulle leggi della logica. Prima di imbarcarsi volle però esaudire l'ultimo desiderio dell'amica: comporre un epitaffio per la tomba di Socrate. Si scervellò un'intera mattina per trovare una massima che ne riflettesse la vera essenza; una missione estremamente ardua. Lo ricordava come un morto in vita, che passeggiava cadavere sotto il sole, convinto di essere un perfetto modello di verità e virtù. Alla fine, lui stesso aveva ingerito la cicuta della sua dottrina, e nel seppellirlo Atene aveva trovato requie. Diede dunque incarico allo studio di Fidia di realizzare un'ara funeraria in marmo sormontata da un timpano, con la seguente iscrizione: QUI GIACE SOCRATE, FIGLIO DI SOFRONISCO: SPOGLIA ESEMPLARE
Nella lapide del suo cuore, Prodico serbava un altro epitaffio, inciso con uno stiletto rovente, segreto e indelebile, fino alla fine dei suoi giorni: QUI GIACE ASPASIA DI MILETO MORTA A 66 ANNI, SAPIENTE COME PALLADE ATENA, COME PALLADE BELLA, COLEI CHE TANTO CI INSEGNÒ E CHE TANTO ABBIAMO AMATO. FINE