MARTIN CRUZ SMITH I DUE CUORI DI ROMAN GREY (Canto For A Gypsy, 1972) Per Bob e Dolly Se al mattino uno zingaro hai inco...
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MARTIN CRUZ SMITH I DUE CUORI DI ROMAN GREY (Canto For A Gypsy, 1972) Per Bob e Dolly Se al mattino uno zingaro hai incontrato, Tutto il tuo giorno sarà dolce e fortunato; Se invece è un prete vestito di nero, Sol di malocchio questi è messaggero. Antico proverbio dei Rom Avvertenza La Corona di Santo Stefano, nota anche come Sacra Corona d'Ungheria, esiste veramente. Tutti i personaggi e gli avvenimenti narrati in questo libro sono invece immaginari. LASSU 1 New York, 1974 St. Patrick si stendeva sotto di loro, con il presbiterio delimitato dalla balaustrata della comunione e i banchi che si susseguivano in un'infinita ripetizione, la fede sopraffatta dalla pietra. Il sacerdote, che aveva già visitato la sagrestia e tutte le venti cappelle, adesso era lieto di potersi rilassare nel fresco della galleria, alta sopra le preghiere. La sua guida, un sagrestano con una piccola bandiera americana all'occhiello, espresse il suo giudizio. «Le donne sono le peggiori.» Il prete inarcò le sopracciglia in un'espressione di sdegno divertito. «Proprio così» ribadì il sagrestano. «Entrano in chiesa, si siedono dietro una donna che prega e scambiano le borsette. Abbiamo dovuto assicurare i candelieri con delle catene, altrimenti si portavano via anche quelli.» «Un vero focolaio del crimine. Ma lei mi stava parlando del funerale del senatore Kennedy.»
«Giusto. C'erano uomini del servizio segreto dove siamo noi adesso, nelle altre gallerie e anche nella cantoria dell'organo. Si erano addirittura impadroniti della nostra saletta per trasformarla nel loro quartier generale» disse il sagrestano, ancora irritato dal ricordo. «Conoscevano questo posto da cima a fondo.» Il sacerdote rifletté, osservando un gruppo di turisti giapponesi armati di macchine fotografiche al seguito della loro guida. «Ma non potrebbe riuscirci anche un eventuale assassino?» domandò. «Procurandosi le planimetrie della chiesa?» «Nooo! Per ottenerne una copia dal catasto, bisogna presentare un permesso scritto rilasciato dall'amministratore della cattedrale.» «Ah.» Il sacerdote si raddrizzò. Sebbene di mezz'età, era in ottima forma e i suoi baffi suscitavano nel sagrestano il sospetto che la sua potesse essere una parrocchia hippie. Il prete poco prima aveva osservato che tutti gli uomini addetti alla manutenzione sembravano essere neri o ispanici. «Be', la ringrazio per la visita, signor Grimm. A proposito, avevano pistole o fucili?» Il sagrestano fu colto di sorpresa. «Quassù? Fucili. È stata una specie di operazione militare.» «Sì, naturalmente.» Il sacerdote si servì di una porta laterale per raggiungere l'adiacente edificio dell'amministrazione. L'amministratore non c'era e le impiegate del ricevimento lo informarono che avrebbe dovuto fissare un appuntamento per parlare con il monsignore. «L'ho appena incontrato» obiettò il sacerdote. «E mi ha detto di aspettarlo nel suo ufficio.» «Oh, monsignore è proprio un tipo impossibile. A cosa gli serve una segretaria?» «Posso?» Il prete entrò nell'ufficio dell'amministratore. La finestra della stanza era al di sopra del livello degli occhi dei pedoni di Madison Avenue. Nell'ufficio esterno, il carrello di una macchina per scrivere andò a capo con uno scatto esasperato. Il sacerdote aprì un cassetto della scrivania, da cui prese carta intestata, buste e un appunto manoscritto con un ottimo campione della firma di monsignore. 2
La prima, grande diaspora dei fuoricasta indiani chiamati Rom ebbe inizio all'incirca nell'anno mille dopo Cristo. Viaggiavano su carri, riparavano stoviglie e oggetti di metallo, parlavano un dialetto sanscrito e predicevano il futuro. Alcuni, dopo aver attraversato la Palestina, seguirono la costa africana per fondersi poi con i mori in Spagna. Diventarono noti come gitani. La migrazione verso nord, invece, passò per Bisanzio e raggiunse i Balcani. Nelle regioni della Moldavia e Valacchia, oggi Ungheria e Romania, i Rom vennero perseguitati e ridotti in schiavitù, ma nel Quattordicesimo secolo un numero sufficiente di loro riuscì a fuggire per infestare tutta l'Europa occidentale. Di solito avevano con sé false lettere di Sua Santità, il quale chiedeva ai principi cristiani di accogliere benevolmente quegli esotici stranieri. La lettera affermava che si trattava di pellegrini provenienti dalla Terrasanta, condannati a vagare per il mondo a causa di un loro peccato di fede. Poiché la lettera affermava che erano originari dell'Egitto, i Rom divennero noti come egiziani, in inglese Egyptians, da cui Gyptians e infine Gypsies, zingari. In Spagna erano i gitani. Nel resto del continente gli zingari Kalderasha innalzarono il mestiere di orafo e quello di armaiolo a uno status semiocculto. I Sinti, così chiamati perché provenienti dalle rive del Sind, si diffusero dai Paesi Bassi al Mar Nero, mentre una tribù di selvaggi tagliagole chiamati Tshurari si trasferì nel nord rendendo insicure le strade della Russia. I Lovari furono l'ultima tribù a fuggire dall'Ungheria ed è per questo che bande di zingari insediate in Francia e Spagna molto prima di loro continuano tuttora a chiamarli ungheresi. In ogni caso furono i Lovari a determinare il maggior impatto. Non solo erano orafi, musicisti e indovini, ma nei periodi di pace controllavano i mercati dei cavalli dell'intera Europa e, in tempo di guerra, formavano eserciti mercenari. La Regina Elisabetta ordinò che venissero uccisi fino all'ultimo uomo, ma ebbe maggior fortuna nel liberare la sua isola dal Papa che dai Rom. I primi zingari ad attraversare l'Atlantico furono gitani al seguito di Cortez e Pizarro. I più orgogliosi Lovari arrivarono in America solo in seguito, come criminali condannati alla deportazione: i Rom francesi vennero spediti a Biloxi nei territori della Louisiana e i Rom inglesi nel New England. Condannarli a vivere in quelle terre fu come regalare il cielo agli uccelli e
in poco tempo altre tribù sbarcarono volontariamente in America; alcuni presero a viaggiare con tale frequenza tra il vecchio mondo e il nuovo che i loro nomi presero il tipico trattino, come i turco-americani. Nel 1950 si stimava che negli Stati Uniti ci fossero 50.000 Rom, ma, come disse all'epoca un capitano di polizia incaricato di seguire gli zingari, lui non era in grado di valutare quanti ce ne fossero a New York in un dato giorno più di quanto potesse indovinare il numero di piccioni appollaiati su un dato albero. Come avevano fatto ovunque, i Rom americani aggiunsero nomi gaja, cioè non zingari, ai loro: Petulengro, fabbro, diventò Smith e Gry, cavallo o l'uomo che tratta cavalli, diventò Grey. Mentre l'acquazzone finiva e ritornava il caldo, uno zingaro di nome Romano Gry si stava serenamente sbarazzando di un antiquario di nome Roman Grey. Afferrò un coltello seghettato e lo conficcò in un blocco di polistirolo, tagliandolo poi in due parti uguali. Il sudore gli inumidiva la sigaretta tra le labbra e il fumo azzurro ammorbidiva i lineamenti spigolosi del viso. Posò il coltello e afferrò un corto stiletto a doppia lama con cui scavò una cavità nei due pezzi di polistirolo. Ottenne così due stampi, in grado di contenere una coppia di candelabri in similoro, lasciando spazio sufficiente per le pezze scamosciate che ne proteggevano il rivestimento d'oro e mercurio. Era un lavoro tedioso, ma lui non sapeva quanto sarebbe durato il viaggio e le casse avrebbero dovuto essere spostate di nuovo nel caso la polizia avesse cercato di sequestrarle. Stava ricomponendo i blocchi di polistirolo servendosi di nastro adesivo quando la porta d'ingresso si aprì e si sentì chiamare nel suo nome gaja. Roman si picchiettò il palmo della mano con il coltello in un gesto impaziente. Dal negozio il cliente non poteva vederlo: avrebbe semplicemente aspettato che se ne andasse. Il cliente intanto stava esaminando una bottega che sembrava un museo trasformato in mercato delle pulci. Poltroncine Regency se ne stavano appese alle pareti accanto a tappeti persiani arrotolati. Porcellane Meissen e Mennecy erano pericolosamente ammucchiate all'interno di casse tra stampe su seta e arazzi. In un negozio dell'East End uno qualsiasi di quei pezzi sarebbe stato esposto individualmente sotto una drammatica illuminazione. L'unico segno di vita era un gatto, che passò da un'ottomana a una commode e, da lì, alla sommità di un cassettone Chippendale parzialmente restaurato. Il cliente si accomodò soddisfatto nel posto che il gatto aveva lasciato libero sull'ottomana e il suo piacere fu completo quando si accorse
di non essere più solo. L'uomo sbucato dal retrobottega era alto per essere uno zingaro e sembrava più grosso di quanto effettivamente fosse a causa della struttura massiccia. Il sudore gli arricciava i capelli neri e dava una specie di aureola lucente alla carnagione marrone di un viso più interessante che realmente bello. A più di un cliente Roman aveva dato l'impressione non tanto di un antiquario quanto di un ambiguo barbaro. Ma se questa era la fantasia del cliente, un solo sguardo degli occhi dell'antiquario fu sufficiente a dirgli che si sbagliava. «Lei dev'essere il signor Grey.» «Almeno per un'altra settimana. Cosa posso fare per lei?» «Io mi chiamo John Killigan.» L'uomo guardò l'arnese che Roman aveva in mano. «Spero di non averla interrotta.» «Mi scusi.» Roman posò lo stiletto e riprese l'esame del suo visitatore. John Killigan, che sembrava avere circa sessantacinque anni, era sottile ed elegante, con i capelli bianchi pettinati all'indietro. L'abito che indossava era costoso e, a parte la camicia, era vestito completamente di nero, dalle scarpe al cappello che teneva tra le lunghe dita. «Le dispiace se mi siedo?» domandò dopo essersi risistemato sull'ottomana. «Le dico subito che, se desidera ordinare qualcosa di particolare, non sono in grado di aiutarla. Tra un paio di giorni chiudo il negozio.» Killigan non si scompose. «Per quanto tempo starà via?» «Non lo so.» «Un viaggio di piacere o di affari?» Roman quasi sorrise, a dispetto di se stesso. Il vecchio aveva una certa faccia tosta. «Dev'essere stupendo» continuò Killigan senza attendere una risposta «decidere di partire e viaggiare senza sapere neppure quando si torna. Sa, io ho sessantasei anni e non ho mai fatto un viaggio di piacere. Credo che questo sia dovuto al fatto di lavorare per un'istituzione. La tua vita non è mai veramente tua.» «No, forse no.» Roman era blandamente curioso, perché Killigan non gli sembrava affatto il tipo dedito alle chiacchiere inutili. Si mise a sedere e, quando estrasse un pacchetto di Gauloises, Killigan accettò una sigaretta. Un'altra sorpresa.
«Immagino che le sembri strano che uno non possa vivere la propria vita come vuole» continuò il visitatore. «Ma tenga presente che l'eccezione è lei.» «Sa, l'ultima persona che mi ha detto la stessa cosa è stata un detective molto comprensivo. Temo di non avere capito il nome dell'istituzione per la quale lei lavora.» «È molto più quello che io non capisco di lei, signor Grey, ma arriveremo senz'altro a conoscerci. Mi dicono che lei sia un esperto di ogni genere di antiquariato. Oggetti di oreficeria, per esempio.» Roman rimase in attesa di ulteriori spiegazioni, ma Killigan cambiò argomento. «Lei è mai stato in Ungheria?» «Sì.» «Sa parlare ungherese?» Roman annuì. «Lei è stato battezzato come cattolico?» domandò Killigan in ungherese. «Come cattolico e come qualche altra cosa» rispose Roman nella stessa lingua. Poi passò all'inglese. «Questo cos'ha a che vedere con l'oreficeria? Per caso lei è l'esecutore di un testamento nel quale si stabilisce che soltanto cattolici che parlano ungherese possono valutare l'eredità?» «No, no» disse Killigan ridendo. «Sto per entrare in possesso di alcuni pezzi. Desidero farli valutare e ho bisogno di qualcuno che me li custodisca per un paio di settimane.» «Se si tratta di un'esposizione per una casa d'aste, la Parke-Bernet può occuparsene molto meglio di me.» Roman indicò con un gesto il negozio. «Se cercassi di mettere in mostra qualcosa qui dentro, non la troverei più.» «Dispongo io dei locali per l'esposizione.» «I locali della sua istituzione?» «Sì.» Roman si piegò in avanti. «Ma non vuole dirmi il nome di questa misteriosa istituzione. Però magari può dirmi chi le ha fatto il mio nome, o di quali pezzi si tratta, o chi li ha fatti.» Lasciò passare il tempo sufficiente per una risposta, che non ottenne. «Signor Killigan, la sua non è l'offerta più irresistibile che io abbia mai ricevuto.» «E neppure la sua retribuzione sarebbe molto alta.» «Vede cosa intendevo dire? In ogni caso sto per partire e qui in città ci sono almeno cinquanta gioiellieri specializzati nel settore aste.»
«Questi gioielli sono differenti.» «Signor Killigan, posso chiederle quanto sa di oreficeria?» «Non molto. È per questo che sono qui.» «La maggior parte dei gioielli d'antiquariato in mani private è chincaglieria. I pezzi interessanti, bizantini, indiani o celtici, sono quasi tutti nei musei. Anche se non stessi per partire, non sarei comunque interessato a trattare robaccia.» «Quella di cui parlo non è certo robaccia.» «Lei mi stupisce.» Roman scosse la testa. «Continua a insistere. Credevo che neppure i banchieri avessero una tale fiducia in se stessi.» I divertiti occhi azzurri di Killigan contrastavano con l'abito funereo. «Vedo che lei ha i suoi principi, signor Grey.» Mentre si alzava per andarsene, il gatto si stirò e richiamò la sua attenzione. «A proposito, vedo che sta restaurando questo cassettone. In via del tutto ipotetica, come si potrebbe fare un falso di un pezzo di antiquariato come questo?» Roman si avvicinò al pezzo in questione e accarezzò distrattamente il gatto. «Non si potrebbe affatto.» «Ma io ho letto che c'è gente che ci riesce. Non prendono del legno antico mangiato dai tarli e lavorano con quello?» «Ci provano» ribatté Roman. «Ma appena tolgono la vecchia verniciatura, si accorgono che il legno è marcio e ancora più tarlato. Per quanto tu possa essere in gamba, non puoi mettere una faccia nuova su qualcosa che sta marcendo dentro.» Killigan tacque, riflettendo. «Allora non vuole accettare il mio incarico?» «Sto per partire.» «Questo è nelle mani di Dio.» «Be', sarebbe un bel cambiamento» osservò Roman mentre si stringevano la mano. Prima di uscire, il vecchio accarezzò la schiena nera del micio. «Che bel gatto. Come si chiama?» «Beng.» «Beng?» Killigan si mise il cappello mentre Roman gli apriva la porta. «È il nome del diavolo, giusto?» «Come fa a saperlo?» «Non viaggio molto per piacere, però per lavoro ho viaggiato. Arrivederci.»
Killigan uscì e Roman lo guardò allontanarsi in strada: un'alta, sottile figura in nero che camminava davanti alla fila di case con lunghi passi sciolti. Di nuovo solo, Roman lavorò finché cinque casse di candelabri e orologi furono allineate nel retrobottega. Stava legando il primo dei tappeti arrotolati quando arrivò Kore. Lovari come Roman, Kore era un gigante dai capelli rossi e ricciuti che spuntavano da sotto il cappello floscio macchiato. Tutti i suoi indumenti subivano lo stesso fato: all'ultimo grido della moda nel momento in cui erano stati acquistati, erano gualciti e stropicciati il giorno dopo e venivano indossati finché non cadevano a brandelli. Era un'abitudine costosa, ma aveva senso per lunghi viaggi e, unitamente alla conchiglia amuleto appesa al collo, gli conferiva una sorta di eleganza primitiva. Nel corso dell'ultima settimana Kore aveva trasferito le casse di Roman in un magazzino di Queens. Adesso si versò un bicchiere di tè fumante e, senza domandare permesso, si sedette su una sedia che gemette sotto il suo peso. «Aukko tu pios adrey Romanes» brindò a Roman, portandosi il forte tè alle labbra. Con una cordicella tra i denti, Roman era a cavalcioni su un tappeto arrotolato. Era un Broussa: di pesante seta intrecciata con fili di rame, era appena più flessibile di un'asse per pavimenti. Kore estrasse dalla tasca della giacca un dépliant lucido e lesse: «"Per l'uomo distinto, il decisivo gradino verso l'alto". Ah! Io ho avuto la mia prima Cadillac quando avevo quindici anni.» Aprì il dépliant e guardò il disegno di un'Eldorado sullo sfondo di un porticciolo pieno di yacht. «Ne voglio una con il frigobar. Cosa pensi che diranno quegli zingari spagnoli quando ce ne andremo in giro per Barcellona su una macchina con il frigobar? Quei gitani si taglieranno la gola. Potremo scegliere tutte le ragazze che vogliamo. Tu ti prendi una cantante, io una ballerina; così le due ragazze ci pagheranno tutto il resto del viaggio. Cosa ne pensi della mia idea, Romano?» Romano riuscì a stringere ancora di più il rotolo del tappeto. Gocce di sudore si congiungevano una all'altra sul viso e sul collo. «Persiano» dichiarò con autorità Kore, guardando il tappeto. «Turco» grugnì Roman, con la cordicella ancora in bocca. Kore sbuffò. Mise un po' di marmellata di fragole nella tazza di tè e mescolò con il dito, senza badare al liquido bollente.
«Non ti piace la mia idea delle donne spagnole? Sei sempre deciso a portare con te quella ragazza gaja?» Roman grugnì di nuovo. Il tappeto era diventato uno stretto cilindro. Gli passò intorno la corda che aveva in bocca. «Hai intenzione di insegnarle come si predice il futuro? O come si ruba in tasca alla gente? La vuoi trasformare in una vera Romani chi? Voglio proprio vedere!» Gli occhi di Kore si restrinsero. «Ah, che Rom eri una volta! Questo prima di diventare un mercante di tappeti, naturalmente. Guardati adesso: sei così debole che non riesci neppure ad arrotolarlo.» La corda sfuggì di mano a Roman e cadde sul pavimento. Kore si alzò in piedi e si piazzò alle spalle dell'amico, osservando con totale disinteresse i suoi sforzi per recuperare la cordicella con una mano sola. «Ti vedo già come sarai tra cinque anni» continuò Kore. «Non viaggerai più con i Rom. Per allora venderai televisori e sarai diventato un piccolo, debole gajo senza colore in faccia. Santo cielo, hai proprio dei problemi con quel tappeto, vero, fratellino?» «Ti andrebbe di aiutarmi?» domandò Roman con voce neutra. «Ci penso io.» Kore se la prese comoda per trovare un posto dove posare il bicchiere prima di tendere le mani massicce per impadronirsi del tappeto. Roman attese che Kore avesse una buona presa e poi lasciò il cilindro. Il pesante tappeto si srotolò di colpo con la forza di una molla di rame, facendo volare il cappello dalla testa di Kore. Un metro di tappeto splendente ondeggiò in aria, mentre Kore barcollava nella stanza cercando di impedire che si srotolasse di più. Roman si appoggiò a una cassa e sorseggiò il bicchiere di tè di Kore. «Allora, ignorante ladro di auto parcheggiate, cosa stavi dicendo?» «Aiutami!» «Un bel tappeto, vero? Quei cento nodi per centimetro quadrato e il rame gli danno una certa solidità. Ma perché dirlo a un esperto come te?» «Avata acai!» «Non credo che tu abbia bisogno di aiuto. Te la stai cavando benissimo.» Roman posò il bicchiere vuoto. «Ti auguro buona fortuna. Questo mercante di tappeti ha altre cose da fare.» «Romano, dove vai?» gridò Kore. «Romano, as Develesky!» Roman passò nel negozio per controllare cos'altro Kore poteva portare in magazzino. Ma la sua mente era per metà già lontana dal negozio e dalla città, su una strada dove la campagna scorreva lentamente lungo i bordi,
l'aria era soffusa del profumo della paprika rosa e gli unici accampamenti erano quelli di persone amiche. Il guaio era che Kore aveva ragione. Questa volta Dany rendeva tutto diverso. 3 In cambio della richiesta sulla carta intestata che aveva rubato, firmata con un semplice ricalco della firma dell'amministratore Burns, Odrich ricevette dagli archivi della città copia dei disegni delle fondamenta e degli impianti idraulici ed elettrici della cattedrale di St. Patrick. Studiò i disegni per tre giorni e l'ultimo giorno tornò alla cattedrale. La residenza del cardinale era un'immagine speculare dell'edificio amministrativo. Un agente stava informalmente di guardia sul marciapiede e Odrich era certo che porte e finestre fossero protette da un allarme collegato al locale distretto di polizia. Voltò l'angolo della Madison e si immise sulla Cinquantesima. All'incrocio tra la Cinquantesima e la Quinta Avenue vide un altro agente. Salì i gradini dell'ingresso al transetto sud e, nell'ombra del portale della chiesa, studiò la facciata posteriore della residenza del cardinale. L'edificio era a tre piani. Un passaggio coperto privato collegava il palazzo fin quasi alla chiesa. Il resto della facciata era un tipico esempio di architettura vittoriana, particolarmente per quanto riguardava le finestre e i relativi frontoni. Le finestre moresche gemelle del primo piano erano sormontate da un'unica finestra gotica e fiancheggiate entrambe da un finestrone sui due piani il cui frontone arrivava a toccare la linea del tetto. Odrich corse al passaggio di pietra. Si issò sulla sommità e rimase disteso sullo stomaco mentre un poliziotto proveniente dall'angolo arrivava fino al centro dell'isolato, si voltava e tornava indietro. C'era la luce accesa nella stanza con le finestre moresche. Odrich guardò all'interno e vide un uomo seduto alla scrivania. La sirena di un mezzo dei vigili del fuoco urlò risalendo la Madison, senza però disturbare la concentrazione dell'uomo intento a scrivere. Odrich si aggrappò alla grondaia di pietra sopra la finestra e si issò. Dovette solo risalire il lato del grande frontone per ritrovarsi sul tetto. Sul tetto c'era il gruppo per l'aria condizionata, un camino e un'uscita dall'ultimo piano. La porta non aveva maniglia esterna, ma Odrich fu felice di scoprire che la serratura non era niente di più di quella che lui avrebbe
messo nel proprio bagno. L'aprì servendosi di una carta di credito. L'ultimo piano era un'area di lavoro e biblioteca. Arrivato al primo piano, vide la luce filtrare dalla stanza davanti alla quale era passato salendo. Scese le scale fino agli uffici del piano terra. L'ufficio del cardinale era il più grande e il meno decorato. Un'immensa scrivania troneggiava tra due finestre, attraverso le quali Odrich vide il poliziotto di ronda. Il cassetto era chiuso e Odrich l'aprì immediatamente, servendosi di nuovo della carta di credito invece di prendersi il disturbo di scassinarlo. Quando tolse la carta plastificata, il cassetto si aprì con uno scatto rumoroso. Odrich aspettò, trattenendo il fiato. Non sentì nessuno scendere la scala. Percepì invece i rumori dell'impianto idraulico. La lista che cercava era sopra tutti gli altri documenti. C'era un nome evidenziato. Lasciò l'elenco nel cassetto. Impiegò venti minuti per ritornare sul tetto e ripercorrere in discesa la strada dell'andata. Sulla Quinta Avenue fermò un taxi e tornò al Plaza. Dopo avere preso dal minibar della suite una bottiglia di Würzburger fredda per festeggiare, Odrich telefonò al Commodore Hotel. Non c'era alcun segno che avesse scalato un edificio, non la minima piega nel suo abito estivo o una ciocca dei capelli argentei fuori posto. Portava l'orologio da polso, ma nessun anello che potesse creargli problemi quando si arrampicava. Il viso era abbronzato e deciso, con occhi grigi profondamente infossati e pazienti come quelli di una bambola. Al telefono risposero in italiano. «Le foto si stanno ancora asciugando in bagno.» «E i film?» domandò Odrich. «Domani: abbiamo dovuto portarli in un laboratorio. Nient'altro?» «Ho un nome.» Odrich lo scrisse con un dito sul velo di condensa del bicchiere. «Roman Grey. Bisogna scoprire dov'è il suo negozio, in modo che possiamo andare a trovarlo.» All'altra estremità della linea ci fu un'esitazione. «Non sarà difficile? Influenzarlo, voglio dire.» «Tutti gli antiquari sono degli imbroglioni: è nella natura stessa del loro mestiere, Jozsef. Penso che potremo offrirgli abbastanza soldi. E se non potremo, peggio per lui.» «Ho già trovato il ragazzo nero che volevi.» «Molto bene. Tienilo pronto, nel caso che dovesse servire.»
«È tutto?» «No» rispose Odrich dopo un momento di riflessione. «Il capo della sicurezza, Reggel... Ho deciso che è più saggio toglierlo di mezzo, se possibile. Dovrebbe sembrare un incidente o un delitto a sfondo politico.» Anche dopo avere riattaccato, la tensione non abbandonò Odrich. Camminò nella stanza e dalla finestra osservò Central Park, poi tornò al minibar per una seconda bottiglia di birra. Dal guardaroba estrasse una valigia che aprì sul letto. La valigia era piena di scatole che contenevano, come specificava la dichiarazione doganale, articoli di bigiotteria: collane, diademi e braccialetti di grossolane, finte gemme incastonate in bronzo dorato. Odrich prese una delle scatole più grandi. Bevve un altro sorso, non tanto per gustare il sapore della birra, quanto per prolungare il momento. Poi tolse il coperchio della scatola e lo posò accanto alla bottiglia. Sistemò i fogli di quotidiano che servivano da imballo interno accanto al cuscino. Fu solo quando ciò che restava nella bottiglia venne versato nel bicchiere che si concesse di guardare le bande d'oro rosso, il diadema d'oro verde, le gemme e gli smalti. E la caratteristica croce storta che contrassegnava inequivocabilmente la corona come quella di Santo Stefano, la Sacra Corona di Ungheria. 4 Avvolta in una vestaglia di Roman, Dany Murray lasciava cadere un indumento alla volta nella valigia. Aveva occhi nocciola ben distanziati, capelli castani lucidi come una pagina di "Vogue", labbra piene e imbronciate e lunghe gambe che si muovevano seguendo inconsciamente le pose di una modella professionista. Ogni suo movimento era distrattamente aggraziato come quello di un cigno e ogni movimento era una bugia per quanto riguardava la realtà interiore della ragazza. Tuttavia le abitudini erano difficili da abbandonare. Roman le consentiva di portare in auto una sola valigia piccola e lei l'aveva già rifatta almeno dieci volte. Dopo ogni operazione, guardava nell'armadio e la modella che c'era in lei rimaneva sconvolta nel vedere gli articoli assolutamente vitali che era costretta a lasciare a casa: gli stivali Bill Blass, i pantaloni di Valentino e il phon, tanto per citarne solo alcuni. «Perché sono antipatica a Kore?» domandò. «Pensa che io ti rallenterò?» La risposta le venne data in romeno. Dany si allontanò dalla piramide di
vestiti sul letto ed entrò in soggiorno. Roman era alla scrivania e stava redigendo l'inventario dei pezzi d'antiquariato rimasti nell'appartamento. «Puoi ripetere quello che hai detto, per favore?» gli domandò Dany. «Credevo che stessi cercando di imparare il romeno.» «Certe volte capisco tutto. Questa volta no.» «È semplice, Dany. L'uso del tu è come in francese.» «Sai benissimo che non parlo francese. Dove va a imparare il francese una ragazza di Detroit?» Roman sospirò. «Sei arrabbiato» osservò la ragazza. Faceva caldo e Roman era a torso nudo. Lei gli massaggiò le spalle. «Non sono arrabbiato. Mi chiedo soltanto, eccettuando me, con chi parlerai quando saremo là.» Dany rimase impassibile. A lei piaceva parlare con Roman. «Dimmi nuovamente dove andremo» gli domandò. «Barcellona. Sofia. Budapest.» Dany sentì una leggera sensazione di disagio nello stomaco, ma continuò a sorridere. «Sai, gli zingari potrebbero essere spie perfette.» Mise le mani sulla testa di Roman e guardò le proprie dita muoversi tra i riccioli neri. I capelli erano più neri del nero, pensò, più neri di quanto possa essere il colore. «Tu sei contento che io venga, vero?» Roman posò la matita e ruotò sulla poltroncina. Scostò i lembi della vestaglia e le baciò un seno. «Ti porto con me perché ti amo. È sufficiente? E adesso, perché non vai a finire di fare la valigia? E non preoccuparti dei reggiseni: quest'anno nessuno che sia qualcuno nelle kumpanias lo porta.» Le strinse una gamba. Dany rise e si allontanò. «Okay. Tanto mi sono dimenticata cos'ero venuta a chiederti.» Roman la guardò uscire dal soggiorno e continuò a fissare il vano vuoto della porta. Una modella d'alta moda non avrebbe resistito a lungo sulla strada con una kumpania di zingari. A New York Roman era per metà gaja ed era quell'uomo tra i due mondi che lei voleva sposare. Dany doveva imparare che la vita non veniva vissuta in un appartamento arredato con i preziosi surplus del negozio. La realtà era viaggiare in auto per tutta la notte da un confine all'altro per evitare la polizia, la realtà era fatta di impianti igienici
che consistevano nel fiume più vicino e di zingari che l'avrebbero vista come un'estranea e una pazza. La realtà era fatta di lingue strane, di pericoli sporchi e monotoni. Dany non si sarebbe arresa durante il primo mese, come prevedeva Kore, perché aveva determinazione. Ma la determinazione avrebbe potuto sostenerla solo fino a quel punto. La sua fascinazione per i Rom si sarebbe trasformata in disgusto. La loro auto avrebbe trasportato anche l'odore di sudore e di rabbia. Dany non avrebbe lottato: se ne sarebbe semplicemente tornata a casa. Roman lo sapeva, con la stessa certezza con cui sapeva che in quel momento lei era convinta che non sarebbe mai successo. Era per questo che la portava con sé, perché lei non gli credeva. E se lui non fosse andato, avrebbe perso molto più di Dany. «Non mi tradirò parlando» le sentì dire dalla camera da letto. «Me ne resterò seduta a covare sotto la cenere come le altre ragazze zingare.» Il campanello della porta suonò. Roman chiuse la porta della camera da letto e andò ad aprire. Era Kore, in compagnia di due ragazzini che entrarono eccitati nell'appartamento e spalancarono la bocca davanti alla spettacolare collezione di pezzi d'antiquariato. «Vogliono venire anche loro» annunciò Kore. «Sono i fratelli Petulengro, vero?» I ragazzini spalancarono gli occhi, meravigliati dal fatto che una persona così famosa nel loro piccolo mondo sapesse chi erano. Si guardarono di nuovo intorno nella stanza, con rispetto, perché un uomo solo era riuscito a rubare tanto. «Hanno risparmiato un po' di soldi attaccando manifesti» disse Kore. «Io guido la macchina» spiegò il ragazzino più piccolo. «John scende e va di corsa ad attaccare il manifesto. Riusciamo a farne trecento al giorno e non ci hanno mai beccati.» «Hanno soltanto una nonna, perciò sono anni che non vanno sulla strada. Non è così che devono crescere i ragazzi, restando fermi in un posto solo» sottolineò Kore. «Come possono conoscere altre famiglie, se non se ne vanno mai da casa?» «D'altra parte l'avvocato ci ha detto che, se ci prendono di nuovo, ci mandano in prigione senza badare a quanti anni abbiamo.» «Mi era sembrato di capire che non vi avessero mai presi» gli ricordò Roman. «Ci hanno presi solo per aver depredato delle macchine» spiegò il ragazzo più alto. «È per via di John: lui non corre veloce quanto me.»
«Li hanno pizzicati mentre lavoravano sulla trasmissione di un'auto ferma davanti a un'ambasciata.» Kore tese una mano. «Loro due hanno detto al tizio dell'ambasciata cosa doveva fare. Ci credi che quello parlava romeno? Ma il giudice non li avrebbe certo riconosciuti se fossero stati per strada.» Dany aveva ascoltato dalla camera da letto senza capire una sola parola della conversazione. Aprì la porta ed entrò in soggiorno, dopo aver indossato un completo pantaloni. Quando vide i ragazzi, sorrise. «Ho sentito parlare» spiegò a Roman. «Questo è John e questo è Racki Petulengro. Vengono con noi.» Racki si voltò e rivolse a Kore una domanda in romeno. Kore fece per rispondere con la maggior freddezza che osava esibire davanti a Roman. «Sì, vengo anch'io con voi» rispose Dany al posto suo. Kore e i ragazzini spalancarono la bocca per la sorpresa. Ripresero il controllo nel giro di un secondo, ma Dany aveva avuto il suo momento di gloria. «Dany è la mia chi» disse Roman. Odrich lavorava con uno strumento simile a un levatartaro da dentista. Impiegò non più di un minuto per aprire la serratura e né lui, né i quattro uomini in sua compagnia vennero disturbati da qualche passante mattiniero. Gli uomini seguirono Odrich dentro il negozio e lui fece scattare di nuovo la serratura dall'interno. Beng arrivò di corsa dal retrobottega, miagolando per reclamare la colazione. «Cosa ne facciamo del gatto?» «Non uccidetelo» disse Odrich. «Trovategli piuttosto qualcosa da mangiare: ha fame.» La disordinata confusione del negozio lo irritava. Passò nel retro, dove trovò delle casse pronte da spedire. La ciotola del gatto, notò, era un pezzo di ceramica Spode. «C'è della roba molto interessante qui dentro» osservò Jozsef. Come gli altri in compagnia di Odrich, era sui trentacinque anni e aveva la corporatura robusta e armoniosa di un atleta olimpico. «Sembra la bottega di un rigattiere. Non riesco a capire perché abbiano scelto un tipo come lui.» Odrich sentiva una crescente antipatia nei confronti dello sconosciuto Roman Grey. Sistemò una sedia accanto alla porta che dava nel negozio. «Possiamo aspettare qui.» «Cosa gli offrirai?»
«Qualunque cosa chieda» rispose Odrich. «Non ha importanza.» Accanto alla sedia c'era un secchio che conteneva altri pezzi Spode immersi in acqua. Odrich ci tuffò un dito e lo assaggiò: bicarbonato di sodio. Accanto al secchio c'era una disordinata cassetta attrezzi da cui prese un lungo coltello seghettato, che però rimise a posto quando notò un corto stiletto. «Jozsef, se salta fuori che il nostro Grey è un santo, usa questo invece del tuo coltello. Sono sicuro che lui non è ancora stato informato. Penseranno tutti che si sia trattato di una rapina, o magari dell'opera di un collezionista che ha perso la testa davanti a tutto questo casino.» Si appoggiò allo schienale in modo da poter controllare la vetrina e la porta senza essere visto. Gli altri giocavano con il gatto. Erano passati cinque minuti quando di colpo Beng sfrecciò verso la vetrina. «Eccolo» sussurrò Odrich. Guardò un uomo scuro e bruno attraversare la strada puntando verso il negozio. «Dio mio, è uno zingaro!» esclamò Odrich. «Non poteva andarci meglio.» Beng premette il musetto contro la vetrina e fece le fusa. Roman picchiettò sul vetro e sorrise. Aprì la serratura e cominciò a ruotare il pomello della porta. «Ricordate: fatelo arrivare qui dietro.» Roman si voltò di lato e il suo sorriso si allargò. Un uomo basso in un abito che sembrava essere stato tolto dalla rastrelliera sbagliata gli si avvicinò. I due si strinsero la mano. «Niente aiuta gli affari più di un detective che incombe nei paraggi» disse Roman a voce alta. La faccia rotonda del detective passò da un'espressione neutra a una imbarazzata. «Sono venuto per salutarti e augurarti buona fortuna.» Roman gli diede una pacca sulla schiena. «Dai, vieni dentro a bere una tazza di tè. Puoi tenermi compagnia mentre faccio i bagagli.» «Maledizione» sussurrò Odrich. Jozsef mise via il coltello e, come gli altri, estrasse un'automatica calibro 22. «Un'altra volta» rispose il detective. «Okay. Però io devo cominciare a lavorare, se voglio andarmene di
qua.» Roman aprì la porta e la spalancò. «Dai, forza!» lo sollecitò Odrich a bassa voce. Una mano sul braccio fermò Roman. L'espressione cordiale dello zingaro si raffreddò. «Perché non mi hai detto subito che sei venuto per questioni di polizia?» domandò al detective. «Entra pure e controlla il registro delle vendite, se vuoi, però questa volta non troverai errori.» Nel retrobottega trattennero tutti il fiato. Beng balzò accanto alla porta e cercò di aprirla di più con la zampetta. «Non si tratta di niente del genere» cercò di spiegare il detective. «Però devi venire con me.» «Sono in arresto?» «No. Ho avuto l'incarico di venire a prenderti. Comunque avevo veramente intenzione di passare a salutarti. Senti, non dobbiamo andare alla centrale, perciò non preoccuparti.» «Sergente Isadore, io non mi muovo da qui finché non mi dici dove vuoi portarmi.» «Roman, ti porto in chiesa.» L'antiquario fissò il suo amico, poi finalmente richiuse la porta e la serratura. I due uomini si allontanarono insieme. Odrich si alzò dalla sua sedia. «Questo elimina Grey: lui parlerebbe e il detective lo ascolterebbe. Una strana coppia.» Rivolse la sua attenzione agli altri. «Pulite la ciotola del gatto e rimettetela dove l'avete trovata. Voglio vedere quel ragazzo che avete trovato. Adesso dovremo arrangiarci con lui.» Mentre stava per andarsene, la frustrazione per un attimo gli fece pensare di uccidere il gatto. «No» si corresse a voce alta. «Meglio lasciar perdere.» 5 Il cardinale John Killane percorse i pochi passi che separavano la cattedrale di St. Patrick dalla sua residenza, distanza che gli bastò per trasformarsi da confessore in principe della chiesa. Dal suo passaggio privato entrò in un atrio decorato con disegni di bambini che rappresentavano santi; uno che sembrava avere quattro gambe e nessuna testa lo fece sobbalzare. Avrebbe voluto chiedere al suo staff, il quale però era già abbastanza so-
spettoso. Il cardinale non poteva permettersi di non riconoscere i suoi santi senza testa. Sulla scrivania lo aspettavano un vassoio di grissini e una tazza di caffè, il premio per essere scivolato nel proprio ufficio evitando la sua segretaria o la segretaria della sua segretaria. Il cardinale Killane era un uomo alto. La fronte stretta era definita dalle tempie arrotondate e la carnagione rosea era appena segnata da macchie di fegato. Le lunghe mani erano ancora forti, e avrebbe potuto mettere facilmente al tappeto qualsiasi sacerdote della sua arcidiocesi. In un uomo meno complicato i suoi occhi azzurri sarebbero stati giudicati simpaticamente ammiccanti. Tuttavia, generalmente occhi così alla gente piacciono, mentre lui aveva notato che spesso molti distoglievano lo sguardo dal suo. Non le persone di cui gli importava realmente, però. Questo era un tipo di giudizio in cui non si sarebbe mai concesso di indulgere da giovane. O forse, si chiese, erano state le avversità a far emergere quel rigore aspro? La sua nomina a cardinale della diocesi di New York non era stata universalmente apprezzata. Killane aveva cominciato bene, da bravo ragazzo irlandese di Boston, del quartiere di Brighton. E non aveva avuto importanza che suo padre fosse stato un ateo convinto: molti onesti irlandesi lo erano. Iscritto alla Fordham University nel 1929, si era laureato con il massimo dei voti e dopo molte ricerche spirituali era stato ordinato sacerdote nella primavera del 1933. Killane avrebbe voluto restare nella sua città e lavorare per i poveri travolti dalla Depressione, ma i suoi superiori avevano intuito in lui l'inizio di un complesso messianico, e così l'avevano spedito nelle Indie Occidentali britanniche, le quali, per pratici motivi d'accesso, rientravano nella diocesi di New York. Lì Killane aveva aiutato i neri di Trinidad nella ribellione contro gli inglesi, sviluppando un complesso messianico di proporzioni veramente colossali. Padre Killane era diventato un problema e l'allora cardinale Hayes aveva optato per il rimedio tradizionale nei casi di sacerdoti eccessivamente brillanti e aggressivi: Roma. A Roma Killane era stato spedito al Collegio Americano del Vaticano con l'incarico di occuparsi di studi asiatici, regime pensato per stimolare la sua umiltà. Con perverso piacere, Killane si era appassionato alla materia, passando poi dal Collegio a una posizione di scarsa importanza negli Archivi Vaticani, dove organizzava e catalogava rapporti vecchi di centinaia di anni redatti da missionari defunti e dimenticati. Avrebbe potuto continuare così per tutto il resto della vita, trasformandosi in un autentico topo di biblioteca mentre l'Italia e il resto del
mondo esplodevano nella guerra, ma non era stato così. Mentre la guerra contro i giapponesi volgeva al termine, la Francia, che aveva cominciato a riorganizzare il suo impero in Indocina, aveva chiesto l'aiuto del Vaticano perché tutti gli archivi delle sue colonie erano andati distrutti. E così un sacerdote americano quarantenne, il quale non solo parlava francese e tutte le principali lingue dell'Indocina, ma aveva anche una superba memoria storica delle alleanze religiose e politiche della regione, era stato spedito a Hanoi sul primo aereo. Killane aveva passato due anni viaggiando in lungo e in largo in Vietnam, Laos e Cambogia e i rapporti che scriveva erano quasi tutti pessimistici. Per questo motivo, una volta rientrato in Vaticano, i suoi superiori erano stati sorpresi da una nuova richiesta di prestito dell'archivista presso il comando francese in Algeria. A quel punto la Segreteria di Stato vaticana aveva ritenuto di avere il diritto di usufruire dei talenti di Killane. Dopo un anno di training nella curia, infatti, era stato inviato come assistente del nunzio apostolico in Giappone, per trattare accordi clandestini intesi a proteggere i milioni di cattolici rimasti nella Cina comunista. Quando la guerra di Corea aveva vanificato tali accordi, Killane non era stato biasimato come sarebbe accaduto a un diplomatico secolare, ma era stato fatto monsignore e nominato assistente del nunzio in Germania. Da lì aveva avuto inizio la sua ascesa ai vari livelli della Segreteria: dopo essere stato consacrato vescovo titolare di Tagaste e in seguito di Zeugma, era infine diventato primo assistente del Segretario di Stato, il primo americano così vicino al controllo della politica della chiesa. La ragione, Killane lo sapeva, era che in realtà lui ormai era pochissimo americano. In trentacinque anni era tornato a casa solo sei volte. Né il cardinale Hayes, né nessun altro di quelli che lo avevano esiliato a Roma come un problema erano ancora vivi. Killane parlava cinque o sei lingue con maggiore frequenza di quanto parlasse inglese. Il suo lavoro e la sua vita erano in Vaticano. Tutto questo era finito con la sua improvvisa elevazione al Collegio dei cardinali. Appena superato lo shock, la mente agile di Killane aveva compreso rapidamente le motivazioni: i principali contendenti per la berretta rossa erano due vescovi di New York, i quali erano riusciti con tanta abilità a ottenere il sostegno di altri cardinali americani che la nomina di uno dei due avrebbe offeso metà della gerarchia statunitense. In Vaticano si erano guardati intorno alla ricerca di un vescovo americano di origine irlandese non coinvolto nel duello e avevano trovato John Killane. Perciò, unicamente in qualità di soluzione di compromesso, il nuovo cardinale era
tornato a casa. Killane prese un orologio da taschino dalla veste ed estrasse i due supporti d'oro dal retro della cassa e lo sistemò al centro della scrivania. L'impercettibile ticchettio gli rammentò che il suo segretario sarebbe comparso non prima di trenta secondi e non oltre cinquanta. Monsignor Burns, suo segretario nonché amministratore della cattedrale, era tra coloro che si riferivano a lui come all'Italiano e che non si lasciavano certo ingannare dal cognome. L'attuale porporato non assomigliava per niente agli onesti pastori passati di lì prima di lui. Lontano dagli Stati Uniti, il cardinale aveva dimenticato i fieri pregiudizi dei cattolici irlandesi nei confronti dei loro fratelli italiani, visti come una specie di pagani incapaci di prendere la religione seriamente. Su nove cardinali americani, otto erano di origine irlandese e nessuno di origine italiana. Se San Pietro fosse stato irlandese, ci sarebbero stati pochissimi italiani in paradiso. «Buon giorno, eminenza. Ha dormito bene?» domandò monsignor Burns, entrando con la posta del mattino. Roman e Isadore avanzavano lentamente nel traffico dell'ora di punta. Come al solito, a Roman le vetture in Park Avenue facevano pensare a formiche in fila in un cimitero e il fatto di essere dentro una di quelle auto non faceva che peggiorare il suo cattivo umore. «Il capitano ha preso il tuo dossier una settimana fa, ma lui lo fa sempre» disse Isadore. Voltò a destra alla Quarantanovesima e di nuovo alla Madison. Dietro il Rockefeller Center comparvero le guglie di St. Patrick. Isadore entrò nel cortile di un palazzo d'arenaria in stile rinascimentale. Le altre auto parcheggiate esibivano nei lunotti posteriori la targhetta CLERO, oppure adesivi sul paraurti con la scritta SOCIETÀ PER LA PROPAGAZIONE DELLA FEDE. Sulla facciata dell'edificio c'erano due stemmi dai colori vivaci e, in caratteri dorati, la scritta ARCIDIOCESI DI NEW YORK. «Giuro che non ne so più di te» ripeté per l'ennesima volta Isadore. Un pretino che non sembrava abbastanza adulto da aver finito il liceo emerse dall'edificio principale e corse verso l'auto. «Lei è il signor Grey?» domandò a Isadore, il quale gli indicò Roman. «Lei è il signor Grey? Io sono padre Young. Venga con me.» «Viene anche lui.» Roman a sua volta indicò Isadore. «Polizia?» Il sacerdote esaminò il detective con aria scettica. «Va bene, può venire anche lei. Però spicciamoci.»
Roman e Isadore scesero dall'auto e padre Young li guidò attraverso la Madison con aria agitatissima e indaffarata. «Dovete rivolgervi a lui chiamandolo eminenza» istruì il suo gregge. «Rivolgerci a chi?» domandò Roman. «Al cardinale Killane» rispose il prete, con una soddisfazione da adolescente. La cattedrale di St. Patrick occupa quasi l'intero isolato tra la Cinquantesima e la Cinquantunesima, ma ai due angoli sulla Madison ci sono palazzi di due piani che imitano la cattedrale col suo stesso marmo bianco, petits fours ai lati di una grande torta nuziale. Padre Young aprì la porta d'ingresso della casa sulla Cinquantesima per far entrare lo zingaro riluttante. Alle pareti dell'atrio erano appesi i ritratti di cardinali e vescovi del passato che, nelle loro vesti di seta rossa e pizzo bianco, fissavano dall'alto i visitatori. Young sollecitò Roman. «Vi siete rivolti al Grey sbagliato» disse Roman al sacerdote. «È quello che dicono tutti» sussurrò Isadore. Mentre attendevano davanti alla porta di un ufficio, Young lanciò un'ultima occhiata esaminatrice al detective e allo zingaro. Se quello non era il signor Grey giusto, ormai era troppo tardi. Tolse un peluzzo dal risvolto della giacca di Isadore. «Ricordate: eminenza.» La porta venne aperta da un prete e il gruppetto entrò in una sala dal soffitto alto, le cui uniche decorazioni consistevano in un crocifisso e in un ritratto del Santo Padre. Un uomo massiccio sedeva su una delle sedie dallo schienale alto. Quello dietro la scrivania era vestito di nero, con la corta mantellina rossa dei principi della chiesa. Padre Young fece le presentazioni: «Il signor Grey, eminenza.» «Ci conosciamo già» disse Roman. Young e Isadore rimasero alquanto sorpresi. Killane sorrise. «Grazie, padre. È tutto.» Mentre usciva dall'ufficio, Young lanciò un'occhiata feroce a Roman, che aveva ignorato la sua unica istruzione. «Ieri si trattava semplicemente di John Killigan» disse Roman, quando la porta si richiuse. «Sì, proprio così» si scusò Killane. «Questo è il mio segretario, monsignor Burns. E questo è il capitano Reggel.» Reggel, l'uomo grosso seduto sulla sedia, fece un cenno con il capo. Aveva piccoli occhi scuri, zigomi pronunciati e capelli biondi quasi bianchi.
L'abito che indossava rivelava un corpo che con il tempo si era fatto più massiccio senza tuttavia ingrassare. «E questo è il detective sergente Isadore» disse Roman. Isadore, che aveva sperato di passare inosservato, fece a sua volta un leggero inchino imbarazzato. «Volete accomodarvi?» domandò il cardinale. Il detective si mise a sedere. «Vedo che lei è irritato da tutto questo, signor Grey» proseguì Killane «e non posso certo biasimarla. Ma abbiamo deciso soltanto ieri sera.» «Sono certo che sua eminenza ha delle ottime ragioni, ma...» «La prego.» Il cardinale alzò una mano. «Prima che lei pensi di andarsene, mi dica cosa sa della Sacra Corona d'Ungheria.» Roman si mise a sedere. Isadore si accorse che osservava con maggiore interesse l'uomo di nome Reggel. Lo zingaro si sfiorò il mento con le dita, il primo segno di nervosismo che Isadore gli avesse mai visto fare. «Non l'ho mai vista» disse Roman. «La Sacra Corona è il più importante gioiello della corona del mondo» intervenne Burns con tono di rimprovero. «È anche una delle reliquie più preziose della Chiesa cattolica. Venne donata nell'anno Mille da papa Silvestro II a Santo Stefano quando divenne il primo re cristiano d'Ungheria. Fino a quel momento le tribù magiare di cui Stefano era il capo erano state pagane. Verso la fine della seconda guerra mondiale, mentre i russi si stavano avvicinando a Budapest, il governo filonazista tentò di mandare la corona in Svizzera. Fortunatamente i soldati ungheresi che prestavano servizio nella Wehrmacht la portarono invece a Salisburgo e la consegnarono all'esercito americano. Come per tutte le altre opere d'arte rubate dai nazisti, era intenzione degli Stati Uniti restituire la Sacra Corona al suo legittimo proprietario, nel caso specifico l'Ungheria. Il che sarebbe certamente avvenuto, se in Ungheria non fosse salito al potere un regime comunista. Per questa ragione abbiamo tenuto la corona in custodia per conto del popolo ungherese a Washington.» «È abbastanza esatto?» domandò Killane a Roman. «Mi sembra di sì.» «Al signor Grey piacciono le Gauloises. Le ha portate?» domandò il cardinale a Burns. «Sì, naturalmente.» Burns sistemò un portacenere a stelo accanto alla sedia di Roman ed estrasse dalla tasca della tonaca un pacchetto azzurro, che gli offrì.
«Grazie, ho le mie.» Killane aspettò che Roman si accendesse la sigaretta. «Finora la corona è sempre rimasta a Washington» continuò il cardinale. «Questo pomeriggio verrà annunciato...» prese il pacchetto del monsignore e si accese una sigaretta «verrà annunciato, contemporaneamente a Washington e a Budapest, che la Sacra Corona verrà restituita. Rientrerà in Ungheria in tempo per l'anniversario della morte di Santo Stefano, in autunno. Signor Grey, devo dire che non mi sembra tremendamente sorpreso.» "Non lo è" pensò Isadore, provando il primo istante di soddisfazione in una mattinata di confusione. «Be', eminenza» stava dicendo diplomaticamente Roman. «Dopo aver incontrato un cardinale come lei, è difficile che... qualcosa possa sorprendere.» «Probabilmente si starà chiedendo cos'ha a che vedere tutto questo con lei.» «Infatti.» «Come le dicevo, ieri è stato fatto il suo nome in qualità di consulente. A quanto pare, alcune oreficerie e certi collezionisti privati della nostra città tengono in gran conto la sua opinione per quanto riguarda i gioielli. Nonché vari altri articoli che le passano per le mani.» Il cardinale fece una pausa. «Per inciso, non è in questi termini che si esprime la polizia nei suoi confronti. Vorrà scusare le mie indagini su di lei, ma erano assolutamente necessarie.» «Io mi occupo per lo più di antiquariato.» «Naturalmente, però lei è qualificato.» «Per cosa?» «Vede, è stata un'idea del Dipartimento di Stato stimolare l'entusiasmo popolare per il ritorno della corona, prima che il Congresso si mettesse in testa che si tratta di una sconsiderata forma di concessione politica. E forse il Dipartimento ha lavorato fin troppo bene: un deputato di New York, l'onorevole Szemely, ha richiesto che gli americani di origine ungherese abbiano la possibilità di vedere questa famosa corona. Per loro è diventata una questione importantissima. Così, per far felice Szemely e il Congresso, è stato deciso di esporre la Sacra Corona prima del suo rimpatrio. «È anche vero che, una volta arrivata a Budapest, sarà difficile che gli americani la possano vedere di nuovo. L'esposizione era prevista inizialmente al Metropolitan Museum, perché ci sono più ungheresi qui a New
York che a Washington. Tuttavia i nostri amici di Budapest si sono inquietati, dato che l'esposizione in un museo avrebbe ridotto il loro simbolo nazionale a un semplice pezzo tra tanti altri. D'altra parte neppure la Chiesa era troppo entusiasta di una gestione secolare per una sacra reliquia del genere.» «Quindi St. Patrick» disse Isadore. «Esattamente.» Killane gli rivolse un cenno di approvazione. «L'esposizione si terrà nella nostra cattedrale di St. Patrick. La corona arriverà tra una settimana per essere esposta dal lunedì al venerdì nel presbiterio davanti all'altare maggiore. Di notte verrà portata sotto il presbiterio, nella cripta. Appena la corona arriverà, avremo bisogno di una persona che la esamini e, per il periodo che sarà in nostra custodia, la tenga d'occhio. Voglio che sia lei a farlo, signor Grey.» Avere intuito già da dieci minuti la richiesta che sarebbe arrivata non servì a molto. Roman rifiutava ancora di crederci. «Ci sono centinaia di orafi iscritti all'albo più adatti di me. Potrei farle subito almeno venti nomi.» «Conosco quei nomi. Ma ci sono altre caratteristiche di cui devo tenere conto, oltre alla specializzazione in monili medievali. Il nostro uomo deve essere cattolico, e questo restringe in maniera significativa il campo. Deve parlare fluentemente l'ungherese, dato che dovrà lavorare con un esperto ungherese e non possiamo permetterci equivoci: il campo si restringe ulteriormente. E il nostro uomo, infine, non deve poter essere identificato con alcuna associazione o gruppo realista o di emigrati. E questo, signor Grey, restringe il campo unicamente a lei. «Lei è ciò che si definisce una soluzione di compromesso e, se questo la può far sentire meglio, ha tutta la mia comprensione. Lei è la nostra unica scelta.» Roman scosse il capo. «Eminenza, non credo che lei abbia parlato a lungo con la polizia. Per dirla brutalmente, le avrebbero detto che mi prenderei la corona e scapperei via.» «La polizia in effetti ha espresso un certo numero di perplessità. Ma per essere altrettanto brutale, lei non avrà alcuna opportunità di fuggire con la corona, perché sarà sorvegliata dalla polizia. Inoltre, francamente, ho una certa fiducia nelle mie capacità di giudizio.» La stanza rimase in silenzio finché Roman si voltò verso l'unico uomo che non aveva ancora detto una parola.
«Reggel ur, lei cosa pensa del fatto che sia un cigany a occuparsi della Sacra Corona?» L'ungherese fece un ampio sorriso. Il suo inglese era appena accentato. «Zingari e magiari si riconoscono sempre subito a vicenda, vero?» «Come i tedeschi e gli ebrei» concordò Roman. Il sorriso di Reggel non vacillò. «Il cardinale ha spiegato la situazione. E io sono pronto ad accettare, dato che avrò il comando del servizio di sicurezza.» «Il capitano Reggel è il capo della sicurezza della delegazione ungherese alle Nazioni Unite» spiegò Killane. «Capisco. La ringrazio molto per il suo interesse, eminenza, ma come le ho già detto, devo assolutamente partire per un viaggio. Mi dispiace, ma dovrà scusarmi.» Fuori, nel cortile, Isadore domandò a Roman perché non poteva posticipare il suo viaggio di un paio di settimane. «Perché forse allora potrei non essere più in grado di partire. E in tal caso, dove sarei?» Isadore intuì che lo zingaro intendeva qualcosa di peggio di New York City. 6 Sebbene New York venga chiamata Rommeville dagli zingari americani, la città non ha mai avuto una comunità zingara fissa come altre città europee. Gli archivi della polizia di Parigi, per esempio, tracciano la storia di una famiglia Kalderasha per quattrocento anni, a partire dal suo arrivo alla Corte dei Miracoli. Oggi, circondati da algerini e vietnamiti sulla riva destra della Senna, i Kalderasha continuano le loro venerabili attività di ramai e ladri, e i fascicoli della polizia continuano a gonfiarsi come una Bibbia di famiglia. La polizia di Granada, in Spagna, ha un compito più semplice, dato che non ha alcuna intenzione di effettuare arresti. I suoi gitani hanno sempre vissuto sul Sacro Monte, sotto gli occhi dell'Alhambra. A meno che un turista non venga accoltellato o la Guardia Civil, che odia gli zingari, trovi un pretesto per prendere d'assalto la collina, i suoi abitanti vengono generalmente lasciati in pace. Il turismo di Granada si basa in gran parte sul flamenco dei suoi gitani. Rommeville è diversa. Crescendo, la sua forma nel tempo ha subito co-
stanti cambiamenti, spingendo i campi degli zingari dalle colline di Harlem alle fattorie di Brooklyn e di Queens. E quando Rommeville è diventata una megalopoli, nel suo cuore è comparsa una nuova specie di ambiente selvaggio e gli zingari, sempre opportunisti, si sono riversati in quel vuoto. Parte del vuoto era un palazzo di appartamenti abbandonato nei pressi di Houston Street, nella parte bassa di Manhattan. Abbandonato ma non disabitato, perché gli zingari ci si erano trasferiti. «O noi, o dei tossici pazzi» disse la pivli Petulengro a Roman. «Noi paghiamo i poliziotti e loro dicono di essere contenti che siamo qui.» «Abbiamo provato anche in alcuni palazzi da demolire nel Bronx» intervenne John Petulengro. «Ma erano in condizioni terribili.» «Non meglio che in Europa» concordò sua nonna. Era chiamata la pivli, la vedova, perché, nonostante la bocca piena di denti d'oro, era molto improbabile che si risposasse. Erano nell'atrio del palazzo, un ambiente pieno di correnti d'aria, di marmi rosa e di specchi rotti. Famiglie di Rom passavano accanto a loro con sporte piene di cibo e bevande. C'erano due ascensori che non funzionavano e, su un lato, una stanza dove un tempo gli inquilini ritiravano la posta e che adesso i fratelli Petulengro usavano come magazzino per le borchie d'automobile. «Sono molto contenta che i miei ragazzi vengano con te» disse la donna a Roman, mentre si spostavano per lasciar passare un gruppo di musicisti armati di violino. «Tu sei un Rom di grande rispetto.» «Grazie» disse Roman gravemente. Mostrare imbarazzo sarebbe stato di cattivo gusto: se uno zingaro non sapeva accettare un complimento, chi mai poteva accettarlo? «Impareranno molto da te.» «Lo spero.» Lanciò un'occhiata rassegnata alla collezione di borchie. «Vorrei poter venire anch'io.» La vedova sospirò come una ragazzina. L'atrio era dominato da una Cadillac piazzata al centro. All'interno dell'auto, i chals si arrampicavano sui sedili e giocavano con un nido di serpenti di fili. Uno dei ragazzini riuscì finalmente a collegare due cavi e fece suonare rumorosamente il clacson. Da sotto l'automobile spuntò Kore, con un vistoso segno rosso al centro della fronte sporca di grasso. «Voi avete dei vermi al posto delle dita!» gridò ai bambini. «Non vi avevo detto di aspettare? Adesso vi taglio le mani e le butto da mangiare ai pesci.» Kore si accorse di Roman e della pivli; si toccò la fronte e si esaminò il
dito in cerca di sangue, poi si strinse nelle spalle e, con un gesto noncurante, si pulì un orecchio con lo stesso dito. «Sono dei bravi bambini. Stavo soltanto scherzando.» I ragazzini non ne erano così sicuri. Chiusero a chiave le portiere. «Se non altro ti hanno fatto uscire. Ti ho cercato dappertutto» disse Roman. «Sono sempre stato qui.» Kore fece un gesto verso l'auto. «Cosa ne pensi?» Roman girò intorno alla Cadillac. Quando fu di nuovo davanti a Kore, gli strinse la mano. «Rom san tu! Come sei riuscito a fare entrare qui dentro quel mostro di mobile?» «Guidando. Come altrimenti? Però le assi che avevo sistemato sui gradini per salire si sono rotte e c'è stato un bel casino, te lo dico io. Adesso sto aggiustando l'assale, ma i chals...» Kore si voltò verso l'auto, che adesso era vuota. I bambini avevano colto l'opportunità per scappare. «Adesso è pronta?» «Ma cos'è questo, un atrio o un ristorante?» ringhiò Kore a un musicista di passaggio. «Per poco non infilavi il violino nel mio finestrino. Come si fa a lavorare qui dentro? Certo che è pronta» aggiunse, rivolto a Roman. L'auto era senza cofano e l'enorme motore scintillava di cromature lucenti. Kore collegò la batteria e il motore prese vita. «Ascolta.» Passò a Roman un tubo di plastica di cui sistemò un'estremità sopra un cilindro. Il ronfo di gola del motore diminuì fino a diventare un sussurro quando Kore abbassò la leva del carburatore: nessun pistone nuovo di fabbrica poteva cantare con la stessa dolcezza del risultato dell'abilità di Kore. Quando sollevò la leva, il rombo risuonò forte nell'atrio. «Bellissimo.» «Una macchina così non si compra» dichiarò Kore, compiaciuto dell'entusiasmo di Roman. Roman però non aveva finito. Esaminò il blocco motore finché non trovò il numero di matricola, poi aprì la portiera per controllare il numero sul cruscotto. Entrambi i numeri sembravano autentici, però non corrispondevano. «Be', quello non l'ho ancora fatto» protestò Kore. «Ho già sistemato i numeri sulla trasmissione e sul telaio. Non preoccuparti, quando si tratta di stampigliare numeri io sono un vero orafo Kalderasha. Ho già provveduto
a tutto. Guarda.» Si piegò all'interno dell'auto e dal vano portaoggetti estrasse un fascio di documenti, il primo dei quali venne riconosciuto da Roman come un modulo 50 dell'Ufficio della motorizzazione. «Racki e io siamo andati da un concessionario per vedere i nuovi modelli. Il direttore stava per buttarci fuori, ma io gli ho fatto vedere un bel po' di soldi e allora lui mi ha portato nel suo ufficio per vendermi subito una mobile. Be', l'avidità è una brutta cosa e quell'uomo non riusciva a pensare con chiarezza. L'ufficio aveva le pareti di vetro, così il direttore poteva vedere Racki che passava da un'auto all'altra e si sedeva al volante. A un certo punto si accorge che Racki continua a grattarsi come se avesse qualche problema. Vuole vendermi la macchina e così non dice niente, ma non riesce a staccare gli occhi dal chal, che continua a grattarsi come se fosse pieno di pulci. Alla fine il direttore si ricorda che dopo dovrà salire anche lui su quelle auto, così si alza di colpo e corre fuori urlando. Naturalmente io mi sento insultato e me ne vado, ma non prima di essere passato dalla sua scrivania e avergli fregato cinque di questi moduli di proprietà, uno per me e quattro per i miei amici. Ti prego di notare che non mi sono lasciato vincere dall'egoismo.» «Sicuramente no, visto che mi hai indicato qui come proprietario.» «Sul serio?» Kore sembrava sorpreso. «Lascia perdere. Cos'altro hai?» Kore mostrò rapidamente a Roman due passaporti canadesi. Sulla copertina di uno dei due era fissata con una graffetta una foto di John Petulengro. «Che nav-gajikanes gli hai dato?» «Guardaci da solo.» «Ovviamente» rise Roman. «John Smith.» Kore annuì con orgoglio e poi pilotò Roman in un angolo dell'atrio. Anche se non c'era nessuno vicino, per una volta tanto parlò a bassa voce. «Romano, c'è una cosa che devo dirti. Tu sai che per quanto mi riguarda è sempre stato Rom Romesa, Gajo Gajesa. Ma se tu sei proprio deciso a portare quella ragazza con te, per me va bene. Mi vergogno di come mi sono comportato a casa tua l'altra sera. Non ho scuse. Mi perdoni?» «Ma certo.» E con molta più facilità, Roman ne era sicuro, di quanto fosse stato per Kore infrangere una delle sue leggi più sacre. «E adesso andiamo alla festa, prima di cominciare a piangere tutti e due.» «Ron san tu, Romano!»
«Mi fa piacere che tu abbia capito l'idea.» Si avviarono verso il seminterrato tenendosi sottobraccio. «Romano, vieni qui!» Ferma nel vano della porta d'ingresso dell'atrio c'era Celie Miyeyeshti, accompagnata da una delle due ragazzine sempre ai suoi ordini. «Vieni alla festa con noi» la invitò Roman. «Non ho mai avuto più voglia di una festa di stasera.» «Lascia perdere la festa. Vieni qui.» Kore si fece da parte. Celie era una strega, se le streghe sono donne in grado di esercitare il potere senza servirsi del denaro o del sesso. In giro per il mondo ci sono matriarche che conoscono le leggi e la storia non scritta degli zingari meglio di qualsiasi altra persona, e Celie era una di loro. Il Re dei Gitani era una pallida invenzione a paragone dell'immensa realtà di Celie Miyeyeshti. «Va bene. Bevi qualcosa anche per me» disse Roman a Kore. Celie gli fece strada fino alla sua limousine Fleetwood nera. L'aria della sera sembrava profumata e tutti i martelli pneumatici, gli autobus e camion dell'immondizia della città sembravano essersi fermati un momento prima. Celie, enorme, con collane di monete d'oro e strati di sottovesti rosse, prese posto sul sedile posteriore, lasciando uno spazio appena sufficiente per le sue due piccole attendenti. Un uomo che Roman non conosceva sedette sul seggiolino ribaltabile. Non appena Roman si accomodò sull'altro, l'auto di Celie partì. «Cosa sai della Corona di Santo Stefano?» domandò la donna. Oltre a essere molto vecchia e molto grassa, Celie aveva un viso carico di energia e oscurava tutti all'interno dell'auto come un sole fa con le stelle. «Tutti mi fanno questa domanda» commentò Roman. «Io te la faccio adesso.» Essere evasivo poteva funzionare con i preti, ma con Celie non sarebbe servito a niente. Roman le raccontò della sua visita nell'ufficio del cardinale. «Perché proprio tu?» domandò lei. «Avevano alcune ragioni che non mi sono sembrate abbastanza buone. Comunque tra qualche giorno parto.» «Tu non parti» dichiarò Celie prima ancora che Roman finisse di parlare. Roman si sistemò come meglio poteva sul seggiolino ribaltabile. Quando l'auto voltò, tutti a bordo si inclinarono, ma gli occhi di Grey non la-
sciarono mai quelli della vecchia. «Questo ha qualcosa a che vedere con i gaji?» La luce di un faro attraversò il "Viso di Celie, ma Roman non vi lesse nulla, se non la rassegnazione. «Non ti conosco troppo bene per una cosa del genere?» La zingara allontanò con un gesto la domanda e toccò il ginocchio dell'altro Rom. «Questo è Punka Lovell. È arrivato stasera da Royal Town perché ha qualcosa da dirti.» Royal Town è Londra. Punka era basso perfino per un appartenente al clan dei Lovell e parlava nel dialetto arrotondato dei Rom inglesi. «Oggi abbiamo ricevuto una telefonata da certi amici di Vienna. Ci hanno detto che il Dipartimento delle Minoranze si prenderà tutti i chats.» «Dove? Quale Dipartimento delle Minoranze?» «In Ungheria. Metteranno tutti i bambini zingari in scuole speciali per risolvere il problema delle minoranze. Ieri sera i kapò dei Rom sono stati portati al Dipartimento, dove li hanno informati del progetto. Ma un capitano della sicurezza ha detto in privato al kapò anziano che l'ordine non sarebbe diventato definitivo se un Rom di qui avesse fatto loro un favore. Parlavano di te e della Sacra Corona. È una follia. Perché minacciare migliaia di persone solo per far sì che un Rom di qui badi a una corona? Solo un pazzo farebbe una cosa del genere. Cos'è che ti rende così importante?» «Romano è un uomo importante» affermò Celie rigidamente. «A volte ho i miei dubbi, ma un giorno o l'altro lo dimostrerà. Romano, cosa ne pensi?» «È un bluff. Il bluff di un pazzo.» «E tu conosci quel pazzo?» «Ci siamo incontrati dal cardinale. Si chiama Reggel.» L'auto intanto proseguiva verso nord sull'East River Drive. «Allora potresti spiegare la cosa al cardinale» suggerì Celie. Roman sapeva che quello non era il tipo di suggerimento che Celie gli avrebbe proposto se avesse pensato che lui l'avrebbe accettato. Roman non aveva maggior controllo sulla propria decisione più di quanto ne avesse sull'auto in marcia. «Gli dirò che mi prenderò cura della corona.» «Boona!» esclamò Punka. Gli occhi del Rom inglese traboccarono di lacrime di sollievo. Tutto ciò che Roman riusciva a vedere sul viso di Celie e su quello delle due ragazzine era soddisfazione.
L'auto si fermò per permettere a Roman di scendere. Ormai si era accorto che l'auto si stava dirigendo verso il Kennedy perché Punka potesse portare la sua risposta a casa. Come se ci fosse stata più di una risposta possibile. Punka salutò con la mano dal finestrino mentre la vettura si allontanava. Celie non si voltò. Il capitano Ferenc Reggel seguì la luce della torcia dell'onorevole Imre Szemely in un Campetto di basket tra la Settantasettesima e la Settantottesima. Il deputato passò il raggio della torcia sulle pareti e sui tabelloni dei canestri. La retina era strappata e sopra l'anello c'era scritto: LO SPORT È UNA FREGATURA. «Vede, perfino qui» disse Szemely. Attraversarono il Campetto per l'intera lunghezza fino alla porta posteriore di un negozio la cui facciata dava sulla First Avenue. Szemely aprì la serratura e i due uomini entrarono. Sopra tavoli smaltati si snodavano lucenti salsicce nere, sovrastate da prosciutti speziati appesi ai ganci. Una parete era macchiata di rosso dalle fritture alla paprika rosa. Seduto a un tavolo, c'era un uomo che li aspettava; la luce dall'alto metteva in rilievo la corta barba bianca sul mento e le guance scavate. Mentre Reggel e Szemely si avvicinavano, l'uomo si tolse gli occhiali dalla montatura d'acciaio, ma non si alzò in piedi. «Doktor Martinovics, Kapitany Reggel» li presentò Szemely. Nonostante l'incontro si svolgesse nel locale di sua proprietà, il deputato era nervoso. Frugò nei pensili cercando bicchieri e portacenere. Gli altri due uomini lo ignorarono. «Mi ricordo di lei» disse il dottore a Reggel. «Suo padre e io eravamo amici, lo sapeva? Questo quando lui era nelle guardie reali.» «È stato molto tempo fa» disse Reggel. «Io l'ho vista anche dopo. Me ne sono andato nel '56, ricorda?» Reggel non aveva bisogno che gli venisse ricordato che Martinovics era stato uno degli ultimi a fuggire da Budapest. A New York il dottore in filosofia era diventato il capo della più importante organizzazione di Combattenti per la Libertà. Esistevano anche altri gruppi di emigrati ungheresi, ma quello di Martinovics era l'unico che non avesse ceduto all'autocompatimento e alla paranoia. C'era riuscito mantenendo puro e intatto il suo odio nei confronti del regime comunista. Szemely era il rappresentante eletto del diciassettesimo distretto del Congresso, ma non era altro che il surrogato del dottore e l'influenza di Martinovics era altrettanto importante a
Chicago, St. Louis, Cleveland e Los Angeles. «Per quale ragione ha voluto vedermi?» chiese a Reggel. «La Sacra Corona.» «Ah, sì.» Martinovics prese la bottiglia che Szemely aveva trovato, versò due bicchieri di Tocai dorato e ne spinse uno verso Reggel. «Ne ho sentito parlare di recente.» «Perché ha voluto che Szemely esigesse l'esposizione della corona qui a New York?» gli domandò Reggel. «Lei avrebbe potuto impedirne la partenza, o semplicemente lasciarla andare. Allora perché?» «Questa è democrazia» spiegò Martinovics a Reggel. «Il deputato Szemely può fare quello che vuole.» Il proprietario del negozio annuì in servile atteggiamento. «Voglio sapere cosa intende fare quando la corona sarà in mostra. Una manifestazione per mettere tutti in imbarazzo? O magari pensa addirittura di rubarla? Se avete voglia di protestare, di camminare su e giù con i vostri cartelli, fate pure. Solo l'avverto che se dovessi mai vedere la corona in pericolo, la proteggerò in qualunque modo riterrò più opportuno.» «Figlio del mio amico, non appena la corona sarà nelle vostre mani, sarà già in pericolo. Noi saremo quelli che la salvano, non voi. In giro si dice che abbiate in mente di fonderla.» «E lei ci crede, dottore?» Martinovics fece una smorfia disgustata. «L'esilio ha strani effetti sugli amici. A volte sembra di parlare della Cina invece che dell'Ungheria. In ogni caso, perché mai dovrei raccontare i nostri piani a un poliziotto comunista? Non riesco a capire il motivo per cui lei si presenta qui nel cuore della notte con le sue minacce.» «Non minacce, dottore: io sono venuto con un appello. Non mostriamo al mondo ungheresi che lottano tra loro come animali a causa della Sacra Corona. Qualsiasi cosa, ma non questo. Io sono un funzionario socialista e lei è un emigrato: va bene, ma prima di tutto siamo entrambi magiari. Il suo primo dovere è proteggere la Corona di Santo Stefano quale simbolo dell'Ungheria, e non metterla in pericolo o umiliarla per motivi politici. Se lei ama il suo paese, non lo farà.» «Io non amo il governo al quale lei vuole consegnare la corona.» «Il governo non ha importanza: è sempre l'Ungheria» ribatté Reggel, quasi urlando. «La corona non sarà più un ostaggio in terra straniera, ma tornerà nella sua patria. E con il tempo i governi cambiano.» Interruppe con un gesto della mano Martinovics, che stava per obiettare. «Come cam-
bierà non lo so e non mi importa. Marxista, fascista... e allora?» «A me importa.» Il dottore spinse indietro la sedia e si alzò in piedi. «A me importa cosa succede. Agli uomini che sono morti a Budapest importava. È ai traditori come te che non importa. Vi siete impadroniti del paese e adesso volete la corona in modo che il regime se la possa stringere al petto e dire: "Ecco, questo prova al di là di ogni dubbio che noi siamo i veri, legittimi eredi dell'Ungheria". Be', Reggel ur, forse noi non contiamo molto in Ungheria, ma finché la Sacra Corona è qui, possiamo impedire quest'ultima farsa.» Il bianco degli occhi di Martinovics era giallastro e segnato da venuzze. Il vestito che indossava, fatto molto tempo prima su misura, si afflosciava su un corpo rinsecchito dall'età. Reggel intuì la disperazione di un uomo il cui corpo aveva cominciato a tradirlo e archiviò l'informazione per servirsene al momento opportuno. «Vedi, io mi ricordo molto bene di te, capitano» proseguì Martinovics. «Mi ricordo perfino del bambino davanti alla processione diretta alla basilica il giorno di Santo Stefano, tu con il tuo libro di preghiere e le bambine con i mazzi di fiori. Quanto tempo è passato da quel momento a quando andavi in cerca di puttane per la Wehrmacht? E adesso uccidi per i russi, mentre uomini migliori di te devono morire qui, a migliaia di chilometri da casa.» Szemely voltò il viso e posò le mani su una spirale lucida di salsicce. Reggel ascoltava impassibile. Non si era aspettato da Martinovics niente di meno che la più violenta delle denunce. Szemely era a disagio perché era americanizzato. La sfuriata del dottore durò dieci interi minuti; alla fine il vecchio si rimise a sedere e bevve un sorso. «Ma lascerà in pace la corona?» gli domandò Reggel. Martinovics sollevò lo sguardo verso l'impassibile funzionario della sicurezza. Un sorriso amaro si aprì nella sua barba lunga. «Potrei far arrivare qui in un minuto uomini che non ti lascerebbero certo in pace» disse a Reggel. «La Corona.» Martinovics sospirò in una specie di stupore ammirato. «Tu osi fare a me una richiesta.» «Allora glielo dirò in un altro modo: è un ordine.» Reggel parlò a voce così bassa che dovette ripetere la frase. «E come può il capitano Reggel darmi degli ordini?»
Ci volle un'ora perché Reggel lo spiegasse al dottore e provasse la sua tesi vincendo la disperata incredulità del vecchio. Era l'unica carta del capitano, ma era un atout e, una volta giocato, assicurava il successo. Alle due di notte, Reggel uscì dalla porta sul retro che dava sul Campetto. «Ancora una cosa» lo fermò Martinovics. Reggel si voltò. Il dottore era incorniciato nel vano della porta, una silhouette scura a eccezione della luce che si rifletteva sulla montatura d'acciaio degli occhiali. Reggel, avendo già vinto, lo ascoltò con blando interesse. «Se mai ritornerai da me, magiaro, considerati morto.» Quando il vecchio rientrò nella luce della stanza, il suo viso sembrò più scavato di prima e la mano sullo stipite parve tracciata con il gesso. Poi la porta si chiuse. 7 Roman mise le mani sul davanzale e si sporse a guardare il fiume. Sulla riva opposta una centrale elettrica mandava sbuffi di fumo ingannevolmente bianco verso il cielo. Quando era tornato a casa, Dany stava dormendo, e quando si era svegliato, lei se n'era già andata, per cui non le aveva ancora detto che per il momento non sarebbero partiti. Il vento strappava gli sbuffi di fumo dai giganteschi camini e li portava lontano, come orfani verso il mare. Preparò una colazione a base di carne fritta con aglio e cipolla, si portò padella e forchetta alla finestra e mangiò guardando fuori. Il sapore del dentifricio inacidì quello dell'aglio e Roman si tagliò facendosi la barba. Nonostante avesse un corpo quasi completamente privo di peli, la barba rovinava una lametta di rasoio al giorno. Dopo essersi vestito, si guardò allo specchio e diede un'ultima occhiata al taglietto, evitando però di incontrare il proprio sguardo. Prima di uscire, si tolse la cravatta e sostituì la giacca dell'abito con una in pelle. In strada nulla era cambiato. Al solito angolo c'era la solita vicina con i soliti barboncini bianchi al guinzaglio. La donna gli sorrise perché Roman sembrava sempre lieto di vederla. Trovò Kore in un garage. Mentre una decina di zingari stava a guardare, due lavoravano su auto rubate con la fiamma ossidrica. Kore sedeva sconsolato su un bidone d'olio. «Vedo che hai saputo.»
Kore annuì. I suoi vestiti sembravano più malconci del solito. «È solo una settimana in più» sottolineò Roman, a beneficio proprio, oltre che di Kore. La fiamma ossidrica bianco-azzurra staccò il parafango di una Jaguar e il pezzo cadde sopra la coperta che l'aspettava. Sul pavimento c'erano gli attrezzi del mestiere: un trapano per serrature chiamato slapper, ganci per sollevare le serrature delle finestre e mazzi di chiavi. Un commerciante d'automobili gaja entrò nel garage e si mise ad aspettare da un parte senza che nessuno lo salutasse. Fissò Roman che, a paragone degli altri zingari, aveva un aspetto immacolato. «Romano, tu hai davvero troppe complicazioni» disse dopo un po' Kore. «A ogni alba, un nuovo colore.» La lingua romena è una lingua di metafore e Kore era molto serio. «Un uomo può tenere i piedi in due staffe solo per un po'. Ogni giorno che passa, vedo che sei più con loro che con noi. Prima quella ragazza e adesso la polizia. Non è che vuoi essere il primo zingaro che entra nel loro paradiso?» Roman osservava con invidia gli uomini che stavano smontando la Jaguar. Nonostante le maschere da saldatore, loro seguivano la tradizione. Per centinaia di anni i nobili avevano dato incarico agli zingari di "acquistare" cavalli per loro, chiedendo poi in quale direzione non sarebbe stato saggio cavalcare. Non c'erano mai stati molti zingari antiquari. «Dammi solo un'altra settimana, Kore. Poi sarò libero.» Nonostante lo sguardo rimanesse scettico, Kore sembrò ammorbidirsi. «Ho saputo che devi lavorare con gli ungheresi. Posso trovarti una pistola.» Indicò con un gesto il commerciante di automobili. «No, grazie.» «Dimenticavo: tu non porti con te neppure un coltello come si deve.» Kore alzò le mani: non c'era nient'altro che potesse dire. «Cos'hai intenzione di fare?» gli domandò uno degli zingari dopo che Roman se ne fu andato. Frustrato, Kore sollevò di nuovo le mani. «Aspetterò.» L'auto che Odrich aveva preso a noleggio era una Chrysler Charger. A bordo della Chrysler, entrò nel garage affittato da uno dei suoi uomini, un biondo alto di nome Karl che adesso lo stava aspettando in tuta da meccanico. Quando la porta del garage si chiuse dietro di lui, Odrich accese i fari.
Ai due lati della mascherina dell'auto, si aprirono due piccoli pannelli che misero in mostra i fari. Odrich spense il motore. «È meglio togliere completamente la molla. Possiamo fissare la corona con il nastro adesivo.» Le viti si accumularono nella mano di Karl mentre lavorava sul faro sinistro. Quando il faro fu libero, Karl lo tolse dalla sua sede e lo posò sul parafango, appeso ai fili. «E dall'auto alla chiesa?» domandò. «Hai già risolto il problema?» «Sì. La soluzione mi è venuta in mente mentre continuavo a pensare all'antiquario, che quindi, tutto sommato, ci è stato utile lo stesso. Useremo un metodo assolutamente semplice. La corona va sott'acqua.» «Avresti dovuto dirmi subito del cardinale: sono molto orgogliosa.» «Bene. Spero di non averti fatto perdere dei lavori, questa settimana.» «I fotografi si stanno stancando di me. Dicono che sono troppo sexy per Henri Bendel. Ma fino a che età puoi continuare a indossare Mary Janes?» «Vorrei proprio saperlo.» Metà dell'arredamento dell'appartamento era in magazzino e nella camera non restava altro che il letto su cui era disteso Roman e la toilette davanti alla quale sedeva Dany. La ragazza era nuda e si spazzolava i capelli appena lavati davanti allo specchio. «Ti piacerebbe se avessi un neo di bellezza? Le chis hanno nei?» Roman si sedette a guardarla e ammirò le curve del corpo, seminascoste dalla lunga cascata di capelli castani. Ogni colpo di spazzola era lentissimo. Si alzò dal letto e si avvicinò alla toilette, dove rimase in piedi alle spalle di Dany. «Vuoi farti un neo?» «Se tu pensi che dovrei.» Roman guardò il riflesso della ragazza nello specchio. Il suo viso si era fatto più pieno e più bello da quando l'aveva conosciuta, tanto che la modella infantile dei primi tempi era quasi del tutto scomparsa. Due o tre ciocche di capelli le ricadevano sul seno e lei le scostò. «Le chis non hanno nei. Se vuoi, puoi disegnarti un puntino blu agli angoli interni ed esterni degli occhi. Serve a tenere lontano il malocchio.» Dany si piegò verso lo specchio e considerò l'idea. Gli occhi erano blu e marrone, colori mescolati come frammenti di vetro. «I puntini metterebbero in risalto l'azzurro dei miei occhi» commentò.
«Cos'altro portano i Rom per evitare il malocchio?» «Un orecchino.» «Ma tu non lo porti.» «Non lo portava neppure mio padre. Forse avrebbe dovuto.» Dany posò la spazzola e poi guardò Roman nello specchio. «Raccontami di tuo padre. Non mi hai mai parlato di lui.» «Ti dirò una cosa. Mio padre era solito spazzolare i capelli della mamma. Io mi sedevo in un angolo della roulotte per guardarli e ascoltarli parlare.» Prese in mano la spazzola. «Mia madre aveva i capelli lunghi e così neri che splendevano.» Cominciò a passare la spazzola tra i capelli di Dany, che rimase immobile, assaporando la morbida, decisa carezza delle setole. «Ti dirò un'altra cosa di mio padre» continuò Roman. «Una cosa successa prima di quell'ultimo viaggio in Romania. Eravamo in Inghilterra ed era veramente un brutto periodo. La nostra kumpania aveva perso alcune roulotte a causa di una tormenta di neve e non potevamo fermarci a riposare perché la polizia continuava a spostarci da un campo nomadi all'altro. C'era troppa neve perché qualche gaja venisse a farsi leggere il futuro. Non avevamo soldi e non avevamo niente da mangiare, così mio padre e io siamo andati nei boschi per cacciare qualcosa. La polizia naturalmente ci stava aspettando e, appena abbiamo messo piede nel bosco, ci ha bloccato e ha sequestrato il fucile di mio padre. Di conseguenza non abbiamo potuto cacciare neanche un esemplare della selvaggina che il proprietario voleva conservare per la sua stagione di caccia.» Dany lo osservava mentre parlava e continuava a spazzolarle ritmicamente i capelli. C'era qualcosa di ridicolo nel modo in cui i muscoli di Roman si trattenevano per agire con la maggior delicatezza possibile, ma la ragazza non disse niente perché temeva di spezzare l'incantesimo. «Ero così arrabbiato che mi misi a piangere. Noi avevamo bisogno di mangiare e i poliziotti ce lo impedivano perché il proprietario potesse fare sport. Ma mio padre consegnò il fucile e ci allontanammo come se la cosa non avesse avuto importanza. Ricominciò a nevicare forte. Mio padre strappò a metà il suo fazzoletto da collo e mi imbottì il fondo delle scarpe. Tornammo nel bosco. Io sapevo che non saremmo rientrati al campo finché non avessimo trovato qualcosa da mangiare. La neve mi arrivava alle ginocchia e mio padre mi chiese se volevo tornare indietro. Io dissi di no, e così proseguimmo.» Dany immaginò Roman a cinque anni che si rifiutava di tornare indietro.
La spazzola sibilava leggera tra i capelli. «Alla fine arrivammo davanti a un prato. La neve era alta e sembrava luminosa. Mio padre andò per primo e io lo seguii, facendo del mio meglio per camminare sulle sue impronte. Arrivati quasi al centro del prato, ci fermammo e ci mettemmo a sedere. Mio padre si sedette per primo in modo che potessi sistemarmi in braccio a lui. Dobbiamo essere rimasti così almeno per un'ora, senza parlare, guardando la neve che cadeva, prima di vedere il coniglio. Aveva la livrea invernale bianca e, se non si muoveva, non riuscivi a vederlo. Io almeno non ci riuscivo, ma mio padre sicuramente sì. "Kamas shooshi?" mi domandò. "Sì" risposi. "Mi piace il coniglio."» Fece una pausa, come se stesse cercando di ricordare. «Ci alzammo in piedi e lo stesso fece il coniglio appena si accorse di noi, immobilizzandosi per un attimo come fanno i conigli prima di scappare. Tutti e tre rimanemmo immobili, come aspettando che si muovesse l'altro, poi mio padre cominciò a fischiare. Era una semplice czardas e lui continuò a fischiarla, ancora e ancora. Ogni tanto mi sembrava che il coniglio fosse scappato via perché non riuscivo più a vederlo nella neve, e invece era ancora lì. A un certo punto, molto lentamente, mio padre si tolse la giacca e la tese verso l'animale, poi la posò sulla neve e si allontanò, continuando a fischiettare. E il coniglio, invece di correre via, rimase dov'era a fissare la giacca. Mio padre cominciò a camminare intorno a lui, tracciando un grande cerchio e mai, neppure una volta, il coniglio distolse lo sguardo dalla giacca. La stava ancora fissando quando mio padre lo afferrò da dietro e lo uccise. Quella fu un'ottima cena.» La spazzola, che si era fermata, riprese a scivolare tra i capelli. «Tuo padre ti ha mai insegnato come si fa?» «I nazisti l'uccisero in primavera» rispose Roman in tono neutro. «Comunque immagino che in città non ti sarebbe servito a molto.» Roman non rispose finché non fu soddisfatto del suo lavoro, e allora posò la spazzola sul tavolo. «Forse serve, invece. Hai mai sentito fischiare una corona?» Dany scosse la testa. «È un altro trucco romeno?» «Non romeno. Non so di dov'è.» Dany avrebbe voluto chiedergli di sua madre, ma sapeva che per quella sera Roman non avrebbe rivelato altro sui suoi genitori. Si alzò in piedi, si avvicinò a lui e gli passò le braccia intorno al collo. «Ti amo.» «Mande cam tute.»
Poi andarono a letto. FRISS 8 Una cattedrale gotica è studiata per miniaturizzare l'uomo ed elevarne l'anima. L'effetto che produsse su Isadore quando varcò i portali di St. Patrick fu di vertigine. Gli era già capitato in passato di entrare in piccole chiese per questioni di polizia, ma non era mai entrato in una cattedrale e comunque in niente che assomigliasse a St. Patrick. Non era un critico puntiglioso e rimase stupefatto. Una sinagoga ha linee logiche e diritte e Dio si accontenta di restare l'Onnipotente. Qui i soffitti a volta si libravano alti e le sottili nervature si moltiplicavano, intersecandosi come le linee di un universo ricurvo. Tra le colonne di pietra, Dio si divideva e sottodivideva in una giostra di martiri e santi. L'aria stessa era animata dai colori proiettati dalle vetrate istoriate. La Quinta Avenue era molto più lontana di quanto fosse la distanza fino ai portali. Isadore si ricompose quando vide il capo del dipartimento di polizia e due detective in piedi nel presbiterio. Jack Lynch aspettava con aria cupa. Irlandese, basso e aggressivo, era poliziotto da trent'anni e solo da cinque mesi capo del dipartimento di polizia di New York. Il giorno dopo la sua nomina, i giornalisti gli avevano chiesto se aveva intenzione di ripulire la città e lui aveva risposto che sarebbe stato come cercare di eliminare le malattie veneree cambiando le lenzuola. Da quel momento il sindaco l'aveva tenuto sotto stretto controllo. «Signore, devo protestare» furono le prime parole di Isadore. «Ho due casi che stanno per essere giudicati in tribunale.» «Sergente, io ho duecentomila casi in tribunale. Ho mille omicidi, diecimila stupri e dieci volte tanto di crimini violenti. Secondo lei ho tempo di preoccuparmi per i suoi problemi?» «È solo che non credo di essere l'uomo giusto.» Lynch prese a camminare sul pavimento a lastre grigie e verdi. «Certo che non lo è. Nessuno ha detto che lei è l'uomo giusto. Ma grazie ai suoi archivi abbiamo trovato un esperto con la fedina penale sporca e l'esperto dice che non accetterà il lavoro a meno che non sia lei a gestire la parte di competenza della polizia. Non sa che è più facile cambiare detective che esperti?» Isadore non disse nulla. Un sì o un no non sembravano essere la risposta
giusta. «Oggi ho dovuto richiamare un ottimo poliziotto, il tenente Donnelly, e mettere lei al suo posto. Il che significa che, con una città infestata dal crimine, io sono dovuto venire qui a parlare con il cardinale a proposito di una corona della quale non mi fre...» Pestò il piede sul pavimento e non terminò la frase. «Ho detto al sindaco che lei è una persona competente.» «Grazie.» «Perché, cos'altro potevo dire? Che ho messo l'uomo del mistero a dirigere questo circo politico? Che lei può anche essere ancora sergente a quarantanove anni, però tiene delle bellissime conferenze sugli zingari al City College?» «Non c'è niente di strano in questo» mormorò Isadore. Lynch gli lanciò un'altra occhiata e riprese a camminare. «Non voglio incidenti con quei combattenti per la libertà. Quelli della BOSSI la metteranno al corrente delle loro organizzazioni. Non si preoccupi del trasferimento dall'aeroporto: se ne occuperà Donnelly. Lei dovrà gestire solo la chiesa. Le do dieci uomini. St. Patrick può accoglierne cinquemila. Pensa di riuscire a controllarli? Non cominci a scuotere la testa prima che io abbia finito di parlare, per favore. Il capitano ungherese porterà altri dieci uomini.» Isadore venne colpito da un'idea. «Forse all'ungherese non piacerà l'idea che io entri in gioco a questo punto.» «E perché no? Prima avrebbe dovuto dividere il comando con un tenente, adesso può dare ordini a un sergente. C'è qualcosa di male in questo?» «No» si sentì rispondere Isadore. «Bene. Immagino che lei sappia come dovrà comportarsi con lui: collaborativo, ma non ossequioso.» Lynch lanciò a Isadore un'occhiata triste. «Se succede qualcosa, parli con me personalmente. Buona fortuna.» Isadore pensò che il capo gli avrebbe stretto la mano, invece Lynch si voltò verso l'altare, si fece il segno della croce e se ne andò. Il sergente conosceva i due detective che fino a quel momento erano rimasti in silenzio. Uno era presidente dell'Emerald Society, l'associazione che comprendeva il quaranta per cento della forza di polizia d'origine irlandese. L'altro era il capo dei detective e presidente della Shinrom, l'associazione ebraica del dipartimento. «Harry, l'hai combinata bella» disse quest'ultimo. «Immagino che dobbiamo essere contenti che in questa storia non sia coinvolta la Jewish Defense League.»
«Al...» cominciò Isadore, ma il collega si stava già allontanando per unirsi a Lynch. L'altro detective diede qualche colpetto sulla spalla di Isadore. «Non prendertela, sergente. Tu conosci il capo Meyer: si preoccupa sempre di qualcosa. E Jack... be', renditi conto che per un buon poliziotto è difficile fare il capo del dipartimento. Vedrò di calmarli tutti e due, e se qualche collega della squadra ti crea dei problemi, digli che sei amico del capitano Gleason. Okay?» «La ringrazio.» I due uomini si strinsero la mano, poi il capitano si fece il segno della croce e scese gli scalini del presbiterio. Arrivato alla balaustrata della comunione, si fermò. «Però, Gesù...» Fece una smorfia. «Uno zingaro e un ebreo a guardia della cattedrale di St. Patrick!» Dall'alto di una trifora della galleria Reggel osservava Isadore. Quel sergente grassoccio non avrebbe presentato difficoltà. Forse era intelligente, ma sicuramente non era furbo: tanto per cominciare, si fidava di Grey. Per quanto riguardava il cardinale, Killane aveva troppi altri problemi di cui preoccuparsi per pensare alla custodia della corona. L'arcidiocesi aveva un deficit di due milioni di dollari solo per le proprie scuole e Killane doveva darsi da fare per cercare di ottenere fondi dai vari Rockefeller e Tishman. Reggel aveva svolto bene i suoi compiti. Mentre Isadore andava alla ricerca di un sagrestano, il capitano completò l'ispezione della galleria. In tutto le gallerie erano quattro. Le due che fiancheggiavano il presbiterio erano lunghe circa quindici metri e ampie uno e mezzo, con tre recessi rivolti all'altare maggiore e relativo ciborio. Accanto ai recessi c'erano due prese d'aria e contro la parete si vedevano le manovelle per alzare e abbassare i candelabri che scendevano dal soffitto e passavano davanti alle finestre della parete sovrastante la galleria per abbassarsi sul presbiterio. Era lì che gli americani avevano piazzato i loro agenti in occasione del funerale Kennedy. Lì e nelle altre gallerie. Reggel approvò. Forse si sbagliava, forse non c'era alcun pericolo. Ogni giorno leggeva i quotidiani europei in cerca di notizie su Odrich. Sapendo quanto amasse vivere nel lusso, aveva esaminato gli elenchi degli ospiti di tutti gli hotel più costosi a partire dal momento in cui era stato annunciato il ritorno della corona. L'unico vantaggio di cui poteva essere certo era che lui conosceva la chiesa e Odrich no. C'erano solo due posti dov'era possibile ottenere co-
pie delle planimetrie della cattedrale, il municipio e la Columbia University, e per i prossimi dieci giorni quei documenti sarebbero stati proprietà esclusiva della delegazione ungherese. E se poi fosse successo qualcosa, era per questo che aveva Grey. Sicuro almeno di questo, Reggel scese dalla galleria servendosi di una scala a chiocciola e andò in cerca dell'ebreo errante. Roman cercava la sopravvivenza a Staten Island. All'attracco del traghetto salì su un taxi, a bordo del quale attraversò boschi e piccole cittadine anacronistiche lungo una strada chiamata Victory Boulevard. Scese dal taxi al centro dell'isola, in una zona di piccole industrie e lotti vuoti delimitati da tigli. Nell'angolo di un appezzamento vicino a un parco c'era una malconcia roulotte d'alluminio in uno stile di moda vent'anni prima. Roman entrò senza bussare, perché solo i poliziotti o gli sconosciuti bussano. Pulika Wells sedeva al tavolo. A eccezione del cappello e di un vivace fazzoletto rosso al collo, era nudo fino alla vita. La pelle si ripiegava come cuoio consunto sopra lo stomaco. In un angolo sedeva un ragazzino, intento a riparare un mantice. «Sarishan.» «Sarishan, Romano» rispose Pulika. «Mettiti a sedere. Mi chiedevo proprio quando saresti venuto a trovarmi.» Si voltò verso il ragazzino. «Tè per il Rom.» Il ragazzino mise il bollitore su una piastra elettrica e ci si fermò davanti. Roman pensò che non dovesse avere più di sette anni. Aveva capelli neri e occhi azzurri, caratteristiche tipiche del clan dei Wells ereditate dal loro omonimo, un figlio bastardo di Carlo II d'Inghilterra. «Il mio bisnipote» disse Pulika a Roman. «Bel bambino.» «È un artista. Per lui non sarà facile essere bello ed essere un artista. Cercherò di tenerlo lontano dalla città quanto più possibile.» Roman sapeva che i figli di Pulika volevano che il vecchio si trasferisse in città con loro. Sua moglie era morta e i genitori del bambino erano rimasti uccisi in un incidente stradale. Il piccolo andava in città solo quando le scuole di Staten Island lo scovavano e, anche allora, solo per un giorno. Come molti dei vecchi Rom, Pulika non aveva mai passato volontariamente una notte in una casa e il bambino viveva con lui. Il chal servì due bicchieri di tè su un vassoio di rame decorato con inci-
sioni intricate. «Questo l'ha fatto lui» annunciò il vecchio con più orgoglio di quanto intendesse mostrare. «Sarà ancora più bravo quando le mani gli diventeranno più forti. Se potesse cavalcare, avrebbe già mani più forti. Certo, dovrebbe essere un cavallo docile, ma quanti sono i Rom qui che conoscono i cavalli?» «Forse un giorno ne avrà uno» disse Roman. Gli occhi azzurri del ragazzino brillarono eccitati. Roman brindò: «Aukko tu gry, prala.» Al tuo cavallo, fratello. Dopo l'obbligatorio rituale fatto di conversazioni ellittiche, Roman spinse il bicchiere da parte, dichiarando così di non volere altro tè. «Zio, una volta mi hai detto qualcosa dei magiari. Avrei qualche domanda.» «Lo so. Vieni con me, possiamo parlare mentre lavoro.» Dietro la roulotte c'era una specie di capanno in lamiera ondulata, con il tetto arrotondato come quello dei vecchi carri usati dagli zingari prima delle automobili. Un cane alto e sottile uscì di corsa dalla capanna e cominciò a saltellare gioioso intorno a Pulika. Era un "cane lungo", una razza di levriero meticcio che è possibile trovare solo in un accampamento di zingari. «Non farti incastrare dall'American Kennel Club» gli disse Roman mentre gli grattava la testa. Con la base appuntita conficcata nel terreno, la piccola incudine portatile di Pulika era già pronta sotto la tettoia. Il nipote si occupava della forgia, in pratica un semplice buco in terra. Gettava carbone sulle braci che poi attizzava con il mantice riparato, il quale consisteva in una pelle di capra capovolta, con un taglio per fare entrare l'aria e un tubo in una delle gambe per farla uscire in un getto potente. Quando il fuoco fu ben avviato, Pulika e Roman calarono nel buco una tinozza di rame, che nel giro di pochi minuti diventò rosso porpora. Pulika, con i vecchi muscoli che risaltavano come corde sotto la pelle scura, estrasse dalla sua cassa degli attrezzi un tubo di ferro e lo lasciò cadere accanto alla tinozza, poi tracciò con il dito una S nella terra. «È per una distilleria. O aspettano un mese che glielo faccia una fabbrica, oppure vengono da me, dal calderaio zingaro.» Pulika si strinse nelle spalle. «Non è il tipo di lavoro artistico che facevo una volta, però mi pagano. Non ho più una donna che legga il futuro.» Il bambino sedeva accanto al fuoco a gambe incrociate. Adesso che il fuoco ardeva bene, poteva azionare il mantice con il piede e allo stesso
tempo giocare con il cane. I due uomini si misero a sedere e Roman offrì al vecchio le sue sigarette. «Ho saputo che hai a che fare con un pezzo di sonakey magiaro» disse Pulika, stringendo le palpebre per proteggere gli occhi dal fumo. «Il pezzo d'oro magiaro: la Corona di Santo Stefano. Ho bisogno di sapere quello che sai.» «Perché no, Romano? Così magari può imparare qualcosa anche il ragazzo.» La voce di Pulika si fece meno rauca e scivolò nel ritmo dell'affabulatore. Il cane se ne stava disteso sotto la mano del bimbo. Da purpurea la tinozza diventò rossa. Pulika cominciò dichiarando che, quando la guerra era cominciata, lui faceva il sonakeyengro, l'orafo. A quei tempi era giovane, non aveva più di quarant'anni e aveva un accampamento tutto suo. All'inizio le cose non erano andate poi così male, perché i magiari erano schierati al fianco dei tedeschi e lui poteva viaggiare liberamente purché in possesso di ciò che le autorità chiamavano Ausweis, un permesso speciale rilasciato da un Kommandant, che era un guero tedesco. «Ma se il torrente si inquina, anche il pesce più veloce muore. Un giorno, durante il quinto anno di guerra, venimmo fermati da dei gueri in uniforme nera. Ci dissero che non eravamo più considerati ariani, qualunque cosa significasse. Comunque, se non eravamo ariani, quello era un crimine. Così ci presero e ci portarono in un campo circondato da filo spinato a Hopfgarten, vicino a Salisburgo, in Austria. Era un campo speciale per i Rom, uno Zigeunersammelplatze, come lo chiamavano loro. Sai, per un certo periodo ci avevano uccisi insieme agli ebrei, ma poi loro si erano lamentati. Gli ebrei andavano incontro alla morte con pianti e lamenti. Noi cantavamo. Dopo tutto la morte è inevitabile e averne paura è solo una perdita di tempo. La gente affronta la morte in modi diversi e chi può dire qual è il migliore? In ogni caso era tipico da parte dei nostri assassini rispettare quell'unica rimostranza degli ebrei e non altre... Mi andrebbe un'altra sigaretta.» Roman ne accese una e la passò a Pulika. «Una mattina trovammo i cancelli aperti: tutte le guardie erano scappate durante la notte. Venimmo a sapere che stavano arrivando gli americani, così cominciammo tutti a darci da fare per lasciare il campo. Noi trovammo un carro, facemmo salire le donne a bordo e lo trainammo noi stessi, passando per i campi ed evitando le strade. Non avevamo fatto molta stra-
da quando, il secondo giorno, incontrammo i magiari. Erano in sei, tutti ufficiali, e la loro auto si era coricata su un fianco. Ci puntarono le pistole addosso, ma credimi, erano più spaventati di noi, perché il paese era ormai in pugno agli americani e tutti i tedeschi si stavano arrendendo.» Pulika contemplò la punta rossastra della sigaretta. «Ci ordinarono di aiutarli a rimettere in piedi l'auto. Una volta fatto, naturalmente diventarono più cordiali e ci chiesero dove stavamo andando. «"Lontano dalla rondine morta" risposi. Loro si misero a ridere e dissero che era una tipica sciocchezza da zingaro, ma non era così. Ero triste per tutti i bravi Rom morti. "E cosa facevi prima della guerra?" mi chiesero. Allora ero arrogante. Adesso che tutto ciò che ho per lavorare sono tubi di ferro, non lo sono più, ma a quell'epoca lo ero.» La tinozza arrivò al massimo del calore, prendendo un'opaca tonalità verde luccicante. Il vecchio guardò il bambino. «"Facevo l'orafo" risposi. E allora i magiari tirarono di nuovo fuori le pistole e mi portarono alla Sacra Corona.» In una camera dell'hotel Commodore sei uomini sedevano a un tavolo e prendevano appunti nel corso di una seduta con diapositive. La prima diapositiva mostrava la porta laterale di cui Killane si serviva per entrare in chiesa dalla sua residenza. Le successive erano riprese ravvicinate della serratura e dei cardini. «Non c'è allarme.» «No. Né su questa, né sulle altre porte» confermò Odrich. «Il cardinale è molto fermo su questo punto, dato che si tratta della casa di Dio. Come potete vedere, le serrature sono molto semplici, anche perché ci sono sempre sagrestani e operai della manutenzione al lavoro.» Premette un pulsante e il caricatore fece uno scatto. Comparve la diapositiva della porta laterale che dava all'edificio amministrativo. Era praticamente identica alla porta della prima serie. «Invece della sagrestia privata del cardinale, qui c'è una camera riservata ai sagrestani. Senza dubbio verrà occupata dagli ungheresi.» Fu la volta della diapositiva del muro bugnato che circondava il modesto rilievo su cui sorgeva la cattedrale. Nel muro di cinta c'era una porta. «In base alle planimetrie, questa porta dà nel locale caldaie. Come vedete è di ferro.» L'immagine successiva mostrò la serratura esterna. «Un semplice meccanismo a scatto. Nessuna sbarra.»
«Allora impiegheremo solo pochi minuti per entrare. I poliziotti davanti alla chiesa non possono vedere quella porta.» «Sì, ma dimentichi che sulla Quinta Avenue ci sono i negozi di Cartier e di Tiffany. Ci sono sempre pattuglie di sorveglianza. Quando entreremo, o avremo una chiave, oppure dovrà esserci qualcuno che ci fa entrare. Comunque esiste un'altra via di accesso.» Comparve la foto delle finestre direttamente sovrastanti l'altare della Lady Chapel. Seguì una seconda diapositiva di una delle finestre laterali della cappella, poi una terza che riprendeva la stessa trifora dall'esterno. «Il vetro inferiore si apre per consentire la ventilazione. Qui Reggel ha persuaso il cardinale a sistemare un allarme elettrico tra questo pannello di vetro e quello sopra.» «Così noi tagliamo il vetro, colleghiamo qualche filo di rame ai contatti e poi apriamo la finestra, giusto?» «C'è sempre il problema del vetro. Non solo si tratta di vecchie finestre a piombo con vetrate istoriate e giunture metalliche, ma gli stessi pigmenti bruciati sulla superficie del vetro implicano un taglio difficile.» Seguì una discussione di carattere tecnico: il nastro isolante non era affidabile su superfici irregolari e le ventose si usano solo nei film. Se il vetro era permeato di pigmenti metallici, perfino una sega a diamante avrebbe provocato troppo rumore. E poi la luce esterna avrebbe proiettato un'ombra attraverso la finestra? Madison Avenue non era la tipica strada poco illuminata lungo la quale sorge la maggior parte delle chiese europee. La discussione si fece accesa e gradualmente passò dall'inglese all'italiano. Quando sentì ripetere le stesse argomentazioni per la seconda volta, Odrich suggerì che era arrivato il momento di una pausa per mandare giù qualcosa. C'era un buffet di prosciutto e melone e gli uomini si rilassarono mangiando e guardando il notiziario delle undici. A metà circa del telegiornale, lo schermo si riempì del disegno della Sacra Corona, poi fu la volta di un filmato di St. Patrick e di una sua sala sotterranea, lungo le cui pareti c'erano tavoli con paramenti. «Sarà nella sagrestia» dichiarò uno degli uomini di Odrich. La camera dell'albergo era stata riservata dagli assistenti di Odrich con una carta di credito intestata alla rivista italiana "Oggi". Odrich aveva scoperto che gli impiegati tendono a ricordare meno i visi quando hanno a che fare con enti, istituzioni o società. E se la carta di credito di "Oggi" era rubata, questo era in carattere con l'intera operazione. Chi aveva presentato
quella carta aveva perso la sua identità molto tempo prima. Alla fine della Seconda guerra mondiale, si erano riversati in Italia bambini provenienti dall'Ungheria, dalla Cecoslovacchia, dalla Jugoslavia e dalla Polonia. Erano stati raccolti in un campo profughi chiamato Padriciano, nei pressi di Trieste, e lì Odrich era andato a cercare i più brillanti, i più forti e i meno desiderati di una popolazione dispersa. Aveva offerto denaro, istruzione e identità, e questo era stato più che sufficiente. Era questo che Frederick Morton voleva ed era questa la ragione per cui si trovava in quella stanza. Harlem era la Padriciano di New York. All'inizio, quando quegli uomini l'avevano avvicinato, Morton era stato molto sospettoso. Era abbastanza strano che dei bianchi perdessero tempo in una piscina di Harlem, andando in giro a fare domande, ma dopotutto Harlem era terra d'eroina, una terra di fantasie. Il mitico dito aveva indicato proprio lui. E se era un dito bianco, a lui non importava. La diffidenza del ragazzo nero si era dissolta nella valutazione pratica di un futuro prima impossibile. E Odrich gli aveva reso le cose facili. Morton non era neppure dovuto tornare alla sua mezza camera sulla Centoventesima Strada. Aveva occupato la stanza d'hotel che Odrich gli aveva riservato e aveva indossato gli abiti che Odrich gli aveva comprato. Il fatto che tutte le etichette degli indumenti fossero state rimosse non lo preoccupava: lui voleva rimuovere un intero passato e la prova che poteva riuscirci era proprio il gruppo di uomini adesso intorno a lui. Venne preparato un proiettore. Frederick Morton sentì la birra premergli nella vescica e chiese il permesso di andare in bagno. «Non hai bisogno di chiederlo» gli disse Odrich. «Adesso sei uno di noi.» In bagno erano appesi negativi umidi; nella vasca galleggiavano stampe. Mentre orinava, Morton le guardò con maggiore attenzione. Non assomigliavano affatto alle diapositive che aveva visto nell'altra stanza: niente porte o finestre, serrature o allarmi. Queste erano foto di preti, altari e balaustrate della comunione. Il ragazzo si incuriosì. Aprì l'armadietto della biancheria. Sui ripiani c'erano delle macchine fotografiche Minox che gli avevano insegnato a usare. Sul fondo c'era una custodia quadrata in pelle che Odrich aveva acquistato nel pomeriggio. Se la sua intuizione era esatta, la scatola conteneva un calice d'argento. La custodia aveva una serratura a combinazione. Morton toccò il coperchio e quasi sobbalzò per la sorpresa trovandolo aperto. Sollevò di nuovo
il coperchio con entrambe le mani, poi si alzò in piedi e rimase a fissare il contenuto. Come Odrich aveva capito subito, Morton era un ragazzo in gamba. Sapeva che in quel momento stava guardando la stessa corona che aveva visto in televisione pochi minuti prima. 9 Il corteo di vetture si immise nella Cinquantesima Strada chiusa al traffico e procedette lungo il lato sud di St. Patrick, mentre le sirene delle auto della polizia annunciavano l'arrivo ai giornalisti e ai fotografi in attesa sui gradini della cattedrale. Dietro le barriere della polizia, i Combattenti per la Libertà, fino a quel momento pazienti e silenziosi, cominciarono a gridare e ad agitare i loro cartelli. Isadore rinunciò a capire qualcosa del funzionamento del suo walkie-talkie e lo mise da parte con aria disgustata. D'altro canto non era certo in grado di tradurre quello che i dimostranti stavano gridando, e di questo si sentiva grato. Non appena le auto si fermarono davanti alla chiesa, da una delle vetture emerse il sindaco, accompagnato dalla sua guardia del corpo, che corse in cima alla scalinata, mentre il sindaco aiutava il cardinale a scendere dalla propria auto. L'ambasciatore Nagy, capo della delegazione ungherese, si erse sulle sue corte gambe in compagnia degli addetti culturali. Senza seguire alcun preciso protocollo, diplomatici, funzionari e agenti di polizia si disposero in due file. Solo allora Reggel aprì la portiera di una limousine al centro del corteo di auto e ordinò ai suoi uomini di uscire. Scesero in due, camminando all'indietro e tenendo due aste dai manici d'ottone, poi altri due, che reggevano le estremità opposte delle aste, le quali sostenevano al centro un forziere di metallo. Roman attendeva all'interno della chiesa, nella cantoria dell'organo, in compagnia del vice di Reggel, il tenente Csonka. Nelle gallerie il resto della squadra di Reggel si ritrasse nell'ombra. Il vestibolo della cattedrale si riempì di tensione e, mentre i portali si aprivano, i banchi sul fondo della chiesa vennero illuminati di colpo dalla luce bianca dei fari della televisione. Entrarono i quattro uomini con il forziere, poi gli altri. Una volta all'interno, tutti i dignitari si allargarono in modo che fosse possibile scattare altre foto al forziere che, nei lampi dei flash, sembrava diventare sempre più piccolo. La processione avanzò lungo la corsia centrale fino alla balaustrata della
comunione. Qui Killane disse poche parole, imitato poi da un sacerdote ungherese. Non appena completata questa breve cerimonia, la maggior parte degli ospiti cominciò ad andarsene; solo pochi seguirono il forziere nell'ambulacro e fin dietro il presbiterio, dove scesero i gradini della sagrestia dietro l'altare maggiore. Come da istruzioni ricevute, prima di lasciare la cantoria, Roman aspettò che Isadore fosse entrato in chiesa. Il forziere era stato posato sopra un tavolo coperto da velluto rosso. Dopo che Isadore ebbe fatto passare Roman, il cancello della sagrestia venne chiuso e sbarrato. A parte qualche occhiata nervosa, nessuno sembrò prestare particolare attenzione all'ingresso dei due uomini. Reggel era chino sul forziere antico. Sul davanti c'erano angeli in rilievo che sostenevano lo stemma dell'Ungheria. Sopra, tre lucchetti assicuravano la barra che chiudeva il coperchio, sul bordo del quale c'era un sigillo di ceralacca con la scritta DEPARTMENT OF THE ARMY - ARCHIVES DIVISION. Il dottor Gyulos Andos, un ometto in formale abito da pomeriggio, stringeva nella mano una chiave annerita. «Il dottor Andos è stato l'ultimo studioso ungherese a vedere la corona prima della guerra» annunciò l'ambasciatore Nagy. «Aprirà lui il primo lucchetto.» Le mani tremanti del dottore tradivano l'ansia, ma finalmente Andos riuscì a inserire la chiave e la serratura si aprì con uno scatto. La seconda chiave venne offerta a un uomo di nome Szemely, che l'infilò con energia nella toppa. «Non con tanta forza, per favore» l'ammonì il dottore in ungherese. La serratura si aprì e Reggel raccolse la prima e la seconda chiave. L'ultima venne offerta prima a Killane e poi al sindaco, ma entrambi declinarono. «Be', se proprio insistete...» disse l'ambasciatore ungherese. Molto compiaciuto, inserì la chiave e la girò nella toppa. Reggel tolse l'ultimo lucchetto dal forziere, fece scivolare fuori le aste e diede uno strattone al coperchio per rompere il sigillo di ceralacca. Poi sollevò di nuovo il coperchio, questa volta completamente, mettendo così in mostra il tesoro di stato ungherese, disposto in tre diversi scomparti foderati di velluto. A destra c'era lo scettro reale. Nello scomparto quadrato a sinistra c'era il Globo Sacro, una sfera d'oro sormontata da una croce. E nel profondo
scomparto centrale, sopra un cuscino di velluto, c'era la Corona di Santo Stefano. «È strana» si lasciò sfuggire il sindaco. Nessuno si offese perché in effetti era quello che tutti stavano pensando. «Non c'è niente di simile al mondo» dichiarò Andos con orgoglio. «Negli archivi vaticani viene definita come sanctissima corona. Se le sembra strana, è perché la corona è come il suo popolo: metà occidentale e metà orientale. Capitano, vuole sollevarla, per favore?» Reggel estrasse dal forziere la corona posata sul cuscino. Era leggermente più grande di una testa umana. Il diadema inferiore era d'oro verde, le due bande della calotta superiore d'oro rosso, sormontate da una piccola croce massiccia, inclinata verso destra. Fissate al diadema c'erano sottili catenelle d'oro che adesso si arricciavano sul cuscino. «È stato papa Silvestro II a donarla a Re Stefano, primo re cristiano d'Ungheria.» Andos indicò le bande d'oro rosso della calotta. «La nazione ungherese in quanto tale ha avuto inizio quasi mille anni fa con la consacrazione di Re Stefano sul cui capo venne deposta questa corona. Le due bande sono decorate con inserti a smalto incorniciati da filigrane tempestate di gemme e perle. Le bande presentano incrinature dovute al tempo, anche perché la corona venne sepolta in molti nascondigli diversi durante l'occupazione dell'Ungheria da parte dei turchi, durata centinaia di anni.» Indicò il diadema inferiore. «Si ritiene che questo sia stato aggiunto settant'anni dopo, dono dell'imperatore bizantino Michele Ducas al nostro re Géza per l'aiuto dell'Ungheria in tempo di guerra. Anche il diadema inferiore è decorato con inserti a smalto che rappresentano re e apostoli. Le pietre sono dell'epoca, a eccezione del grosso zaffiro sfaccettato sul retro, una sostituzione del diciassettesimo secolo. Il bordo superiore e quello inferiore della fascia del diadema sono arricchiti da file di perle su oro e anche sopra questa fascia ci sono smalti traslucidi verdi-azzurri in un motivo che alterna forme ad arco a forme a timpano di dimensioni decrescenti a partire dal davanti. Nella metà posteriore del diadema ci sono solo perle montate su oro. Le nove catenelle d'oro alle cui estremità sono appese pietre semipreziose completano la forma a stemma del diadema. Si tratta del più perfetto esempio della forma a stemma greca pervenuta fino ai nostri giorni. Quindi potete capire cosa intendo dire. Per l'Ungheria, crocevia tra Oriente e Occidente, la Sacra Corona è un simbolo composto da due doni, uno proveniente da Roma e l'altro da Costantinopoli. E adesso torna a casa.»
Un fotografo del quotidiano comunista "Nepsyabadsog" si fece avanti e scattò una foto; il lampo del flash sembrò riflettersi un po' più a lungo sull'oro e sulle gemme che su qualsiasi altro punto del locale, ma quando gli occhi di tutti si riadattarono alla luce normale, Reggel aveva già riposto la corona nel forziere. Dopo un'ultima benedizione di Killane, il forziere venne richiuso e furono rimessi i lucchetti. Il cancello della sagrestia fu riaperto per permettere ai dignitari di andarsene e recarsi al ricevimento offerto dalla delegazione ungherese sulla Settantacinquesima Strada. Mentre le voci si allontanavano e svanivano, Roman si meravigliò udendo il sindaco che stava già chiacchierando a proposito di una settimana bianca in Cile. Intanto Andos si era sufficientemente ripreso dall'emozione per rendersi conto che lo zingaro era la sua controparte americana. «La delegazione ungherese è al corrente dello zingaro?» domandò a Reggel. «Le credenziali del signor Grey sono state controllate con la massima attenzione.» Andos fece un passo indietro sotto lo sguardo severo e deciso di Reggel. Csonka comparve al cancello per informare il suo capitano che la chiesa era sgombra. Reggel e Roman infilarono le aste per il trasporto nelle relative asole sui fianchi del forziere, che poi sollevarono dal tavolo. Trasportandolo, varcarono il cancello e salirono la scala della sagrestia. Nell'area dietro l'altare, un'altra scala scendeva direttamente sotto il pavimento del presbiterio, dove c'erano due portali di bronzo con l'iscrizione REQUIESCANT IN PACE. Reggel aprì le serrature e spalancò i portali della cripta. Trasportarono il forziere in un locale dalle pareti di marmo illuminato da luci fluorescenti. In fondo alla sala, direttamente sotto all'altare maggiore, c'era una volta profonda due metri e ampia tre e mezzo. Sulla parete più lunga c'erano quindici lastre di marmo disposte su tre file. Tutti le lapidi della fila superiore portavano incisi in oro i nomi degli uomini che riposavano nei loculi. C'erano anche preghiere in latino e in inglese e, su quattro lapidi, comparivano anche incisioni del cappello cardinalizio, con la sua tesa ampia e i vistosi fiocchetti. Isadore seguì Reggel e Grey nella cripta con il tavolino rivestito di velluto su cui venne posato il forziere. Reggel si guardò intorno con soddisfazione. «La sagrestia non poteva assolutamente andare: finestre, preti che vanno
e vengono... Poteva capitare un incendio, o qualunque altra cosa. Ma qui dentro? Nessuno. Tranne...» Inclinò la testa verso la parete dei loculi. «Non c'è alcun accesso, a parte la scala e il foro per l'aria. Sopra c'è l'altare e sotto la pietra. È una cassaforte perfetta.» «Già, questo dovrebbe davvero cementare la mia popolarità» commentò amaramente Isadore. «Scusatemi.» La sensazione di claustrofobia che provava trovandosi dentro una tomba lo costrinse a risalire le scale. Una volta fuori, respirò con gratitudine l'aria fresca, piegando inconsciamente la testa indietro e guardando il soffitto lontano, dove riuscì a distinguere una stella formata da costoloni, al centro della quale c'era una colomba della pace. Una calda sensazione di nausea prese il posto dei brividi quando, sotto la colomba, gli sembrò di vedere una brillante goccia di sangue. «Il cappello del defunto cardinale» disse Killane in tono salottiero di fianco a Isadore, facendolo sobbalzare. Il detective, che non l'aveva visto ritornare, rialzò lo sguardo verso la macchia rossa sospesa nell'aria. «Deve aver visto le lapidi nella cripta» proseguì il cardinale. «Nessuno li nota perché sono appesi così in alto, ma lassù ci sono i cappelli di tutti i cardinali morti. Quello è l'unico ancora rosso.» Killane lesse la domanda nella mente di Isadore. «Non ho idea di cosa faranno per me. Il sinodo del Vaticano II ha deciso che quei cappelli sono un tantino troppo stravaganti, con tutti i fiocchetti e il resto, perciò non li portiamo più. I giovani sacerdoti non portano più nemmeno il collarino. Così sostituiamo le mode vecchie con altre nuove.» Reggel e Grey uscirono dalla cripta. Roman non fu sorpreso nel vedere Killane. Il cardinale aveva dato segni d'impazienza per tutta la durata della cerimonia nella sagrestia. Reggel chiuse a chiave le porte di bronzo. «Venite con me, per favore» ordinò Killane. Si fece il segno della croce, unico dei tre uomini, e li guidò attraverso l'ambulacro fino a una porta laterale tra una cappella e una Pietà. Chiuse la porta dietro di loro. «Questa è la mia sagrestia privata. So che lei era ansioso di vederla, capitano. Una foto di Sua Santità, di me e della mia famiglia il giorno in cui sono stato ordinato, un crocifisso di Nostro Signore, l'inno di St. Patrick davanti a Tara. Qualche sedia, un tavolo e un armadio.» Gli occhi freddi del cardinale passarono sui tre uomini e si fermarono su Reggel. «Adesso voglio che lei mi mostri qualcosa, amico mio. In cambio dell'u-
so della cripta per custodire la corona, mi aveva promesso che non ci sarebbero state armi in chiesa. E invece adesso ne ha una addosso.» «L'avevo all'aeroporto. Mi sono semplicemente dimenticato di toglierla, eminenza.» Era la prima volta che Roman sentiva Reggel usare quel titolo. Sulle sue labbra aveva un suono sibilante. «Anche i suoi uomini in sagrestia si sono dimenticati?» «Come fa a saperlo?» Furono interrotti da qualcuno che bussò alla porta. Monsignor Burns domandò al cardinale se era pronto ad andare al ricevimento. «Tra un minuto, monsignore. Dica all'organista che adesso può salire in cantoria. E faccia aprire le porte dai sagrestani.» Il cardinale riportò l'attenzione sugli uomini nella stanza. «Sa, capitano, quando mi hanno nominato cardinale avevo dei dubbi. La verità è che hanno ragione uomini come il monsignore: a me manca una certa comprensione umana e la mia fede potrebbe essere forse meno intellettuale e più istintiva. Però adesso vedo un senso nell'aver preso un cinico assistente del segretario di Stato e averne fatto un cardinale. Perché io sono stato in Ungheria e ho visto al lavoro altri capitani della polizia segreta, seduti negli ultimi banchi della chiesa per annotare i nomi dei fedeli o per cancellare quelli di certi sacerdoti dalla loro lista approvata. So chi è lei e so quello che fa, e non permetterò che questo tanfo ammorbi la mia chiesa. Se vedo solo un'altra giacca rigonfia a causa di una pistola, la corona uscirà dalla cripta e a quel punto saranno affari suoi.» L'ungherese rimase impassibile, limitandosi a soppesare le sue opzioni. «Molto bene. Eseguiremo senza dubbio i suoi ordini.» Killane andò verso la porta. «Che Dio vi benedica» aggiunse quasi in un ripensamento, poi uscì. Reggel si tastò la fondina sotto il braccio e ritornò nell'ambulacro. Una mano sul braccio lo fermò: Roman l'aveva seguito. «C'è un'altra cosa» gli disse Roman. «Il vostro dottor Andos ha tenuto un'ottima conferenza.» «E allora?» «Pensavo che non parlasse inglese. È stata una delle ragioni per cui sono stato scelto.» «Non ti ci mettere anche tu.» La rabbia di Reggel emerse in superficie: «Non crearmi dei problemi, zingaro. Ne ho più che abbastanza con quell'ipocrita in tonaca. Da lui me ne aspettavo, ma da te no.»
«E cosa ti aspetti da me?» «Se succede qualcosa, non date la colpa a me. Prendetevela con i preti e i traditori che hanno portato la corona qui.» Il viso dell'ungherese non era più la maschera impassibile esibita fino a quel momento. Reggel fece un gesto in direzione del presbiterio e della cripta sottostante. «Mi limito a proteggere la corona. Non ho organizzato io lo spettacolo.» La musica dell'organo sembrò gonfiarsi nell'aria mentre i portali venivano aperti al pubblico. «Sai, zingaro» riprese Reggel «in Ungheria abbiamo un poeta di nome Juhasz. Un giorno un suo amico venne sepolto contro la sua volontà in una chiesa come questa e Juhasz scrisse: "Qui giace in questa meschina tomba proletaria, in questo sudiciume capitalista di pietra, di bronzo e di granito, in questo abominio, in questo delirante paradiso del denaro tra preti di marmo con rose di marmo, cappelli di bronzo e baffi che si piegano sotto gli escrementi dei piccioni". E qui giace la nostra corona nella loro cripta perché è circondata da nemici e dall'egoismo dei rinnegati e perché non c'è un altro posto sicuro in questa cattedrale. Ci sono solo io a proteggere la Sacra Corona e lo farò in qualsiasi modo mi sarà possibile.» Reggel si interruppe e si allontanò tra la folla crescente di turisti e fedeli. Roman rimase qualche altro secondo dove si trovava poi, lentamente, raggiunse il vestibolo dove Isadore l'aspettava accanto alla porta. «Di cos'avete parlato?» domandò il detective. «Abbiamo chiarito le nostre posizioni.» Entrando, due donne anziane urtarono Roman. «E quali sono?» «Noi, per dirla con una vecchia espressione ungherese, siamo gli idioti che non capiscono niente.» 10 Durante le funzioni della sera, sopra la città era passato un temporale estivo e adesso dietro le barriere della polizia c'era un unico, solitario uomo in impermeabile che inalberava un cartello con la scritta LIBERTÀ PER L'UNGHERIA. Reggel e Isadore sistemavano i cavi che arrivavano alle cellule fotoelettriche fissate con nastro adesivo agli scanni del coro. «Lei non dovrebbe dare retta a quello che dice lo zingaro. Quando li si conosce meglio, si sa che da loro non bisogna certamente aspettarsi la veri-
tà, giusto?» «Ci sono cose peggiori al mondo» ribatté Isadore. «Lui è quello che è.» Isadore inserì la spina tripolare nel pannello comandi posto dietro l'altare. Nel presbiterio si accesero otto deboli spie. Csonka si piazzò tra due di quelle luci e dagli altoparlanti sistemati sopra il pulpito urlò una sirena. Isadore staccò la spina. «La gente sfilerà lungo l'ambulacro» disse Reggel. «È improbabile che qualcuno possa sfuggire alla nostra attenzione, ma nel caso che venga organizzato un diversivo, questo allarme ci avvertirà comunque.» Vennero testate anche le altre fotocellule. Solo due dovettero essere regolate. «Cosa intendeva quando ha detto che lui è quello che è?» Reggel riavvolse il cavo mentre Csonka fissava meglio le fotocellule con l'adesivo. «Sergente, so che lei è una specie di esperto, ma conosce davvero gli zingari?» «È possibile conoscerli davvero?» «Noi li conosciamo» dichiarò Reggel con decisione. «Di loro sappiamo cose che al cardinale non piacerebbe sentir dire nella sua chiesa.» Csonka indicò la galleria sul lato nord della navata. Da un'asta pendeva una bandiera americana e da un'altra quella con la mitra e le chiavi del Vaticano. Due uomini di Reggel stavano sistemando una terza bandiera con i colori dell'Ungheria accanto alle prime due. A Isadore piacque il fatto che tutte e tre le bandiere venissero messe in ombra dal rosone, i cui vetri colorati sembravano bruciare a causa della luce dei fari all'esterno. «Lei è un tipo schizzinoso, sergente?» «No, non molto.» «Be', vedremo. Ha mai sentito parlare del Siebengebirge?» «È una catena montuosa in Germania.» «No. Quella di cui parlo è una catena di monti tra la Repubblica Popolare d'Ungheria e la Repubblica Popolare di Romania. Credo che qui da voi la regione sia più conosciuta come Transilvania. Il Siebengebirge è abitato da una tribù di zingari chiamati Netotsi. Mi dica, qual è la sua opinione sul cannibalismo e su chi lo pratica? È un'usanza interessante, non le pare?» Dalla galleria venne acceso un faro brillante puntato sul presbiterio. «Forse c'era una ragione.»
«Lei mi dica una ragione per cui gli zingari devono preferire mangiare carogne invece che animali appena macellati. Lei sa che in Ungheria dobbiamo versare acido fenico sulle carcasse che gettiamo nelle fosse per evitare che loro vadano a dissotterrarle? Oppure mi spieghi perché, quando uno zingaro si prende il disturbo di comprare un pollo invece di rubarlo, chiede al contadino di lasciarlo marcire al sole per tre giorni.» Isadore sentì un brivido corrergli lungo la spina dorsale. Quelle parole erano fin troppo simili ad altre che aveva sentito a proposito di un altro gruppo etnico. «Non creda a quella gente» continuò Reggel. «Uno zingaro nasce con la menzogna in bocca e il suo zingaro non è diverso dagli altri. Comunque qui abbiamo finito. Adesso festeggiamo.» Isadore se ne andò per primo. La sua partenza venne notata da un solitario manifestante sul lato opposto della Quinta Avenue. Un minibus grigio con targa diplomatica si fermò davanti alla porta del transetto. Una squadra di agenti della polizia segreta ungherese entrò nella chiesa, da cui poco dopo uscì Reggel con altri quattro uomini. Grazie all'illuminazione della cattedrale, Odrich lo vide chiaramente. Reggel era un po' più alto e molto più pesante dell'atleta slanciato che Odrich ricordava. I capelli, sempre color biondo grano, contrastavano con il viso quasi asiatico. Una sensazione di brusca autorità e forza fisica aveva sostituito la spavalderia da adolescente che Odrich ricordava da una guerra di trent'anni prima. Nessun dubbio che gli ungheresi avessero scelto l'uomo giusto. Le portiere del minibus si richiusero sbattendo e il veicolo ripartì in direzione di Madison Avenue. Cinque ungheresi all'interno, diciassette tra agenti in divisa e in borghese all'esterno, più alcune auto di sorveglianza. Odrich sapeva già che Reggel aveva deciso di fare a meno del turno di notte di sagrestani e addetti alle pulizie. Odrich gettò cartello e impermeabile in un vicolo e risalì a piedi la Quinta Avenue. Incrociò Killane di ritorno dal ricevimento degli ungheresi, ma non se ne accorse perché era concentrato sulle vetrine delle gallerie d'arte. Per lui rappresentavano la cronaca del declino dell'arte, iniziato con il tramonto dei colori a olio a favore della tempera, un'innovazione tecnologica che aveva dato libero sfogo agli impressionisti e condannato chiunque altro a un futuro di plastica e pittura a spray. Non c'era da meravigliarsi che New York fosse il nuovo centro dell'arte mondiale; Odrich ricordava che
una volta qualcuno aveva detto che il miglior esempio di forma adattata alla funzione era il portacenere. Forse, in futuro, famiglie che mangiavano pollo fritto in contenitori di cartone sarebbero passate davanti a discariche con montagne di vecchie, arrugginite sculture metalliche di Calder. Arrivato alla Settantacinquesima, lasciò la Quinta Avenue e si diresse verso la piramide capovolta del Whitney Museum sulla Madison. A metà dell'isolato, il minibus Volkswagen era fermo davanti alla casa leggermente fatiscente che gli ungheresi avevano affittato per la delegazione. Dall'interno filtravano rumori di una festa. Odrich si fermò al Whitney accanto a una Lincoln decappottabile. Al volante c'era Karl, in compagnia di uno degli altri del Commodore. «Se attraversa la strada, mettetelo sotto» ordinò in tono casuale Odrich, studiando l'architettura del museo. «Poi gettate vernice sui muri della delegazione. Non mi importa molto se sembrerà o no un fatto politico: basta che Reggel sia morto. Vedrete che è l'unico tipo di politica che tutti capiscono.» Dalla Settantasettesima all'Ottantottesima Strada, la Seconda Avenue comprende in pratica tutta l'Europa Centrale in linea retta, dai ristoranti cecoslovacchi alle Brauhäuser tedesche e dal gulasch agli sformati di patate. Roman e Dany si fermarono a metà strada, davanti a un ristorante ungherese che, con un cartello di velluto nero e lustrini, prometteva AUTENTICI VIOLINISTI ZIGANI. «Pensavo che tu odiassi questi posti» osservò Dany entrando. «Voglio solo curiosare nei bassifondi.» Un emaciato maître in smoking, rigido come una scopa, li guidò a un tavolo sul davanti, ma Roman ne indicò uno sul fondo della sala. Seguirono un murale ingiallito di Budapest e il Danubio lungo come l'intera parete fino al nuovo tavolo il quale, come il bar e tutte le decorazioni di legno, era verniciato in un verde malevolo. Dany sentì le occhiate degli altri clienti mentre si metteva a sedere e accettava un menù dal maître. «Non è che capisci anche l'ungherese, vero?» le domandò Roman, che si era accorto della reazione della ragazza agli altri commensali, la maggior parte dei quali indossava seri abiti scuri e camicia bianca abbottonata fino al collo, senza cravatta. «Grazie al cielo, no. Adesso capisco perché non siamo mai venuti qui. Però il maître voleva che ci sedessimo davanti. Perché?» «È una lunga storia. Ci sta ascoltando. Vuoi bere qualcosa?»
Ordinarono gli aperitivi. «Il maître mi ricorda qualcuno. Di dov'era Bela Lugosi?» «Per favore, non avere anche tu dei pregiudizi. Comunque, visto che me lo chiedi, era ungherese. Cos'altro?» Il maître ricomparve con una bottiglia di vino al posto degli aperitivi. Parlò a Roman in ungherese e versò un po' di vino, sufficiente appena a coprire il fondo del bicchiere. Roman l'assaggiò e poi annuì. Un uomo seduto al tavolo vicino sollevò il proprio bicchiere in un brindisi allo zingaro. Dany sentì che improvvisamente la tensione si allentava. «Cosa mi sono persa?» domandò, non appena il maître si fu allontanato con un sorriso un po' più umano in viso. «Mi ha chiesto se per caso non preferivo un vino ungherese e io gli ho detto che quello che ci ha portato è dolce e ricco come la provincia in cui lui è nato. Parlano con uno strano accento, a Badacsony. Il suo amico seduto al tavolo ha apprezzato la cosa. In altre parole, sono riuscito a entrare nelle loro grazie.» «Io non ho sentito niente.» «È uno strano accento ungherese.» Dany assaggiò il vino. Era bianco e forte. Si guardò di nuovo intorno. Roman era riuscito a creare l'effetto desiderato: ciò che prima era sembrato un po' sinistro adesso era piacevolmente straniero. Dal bar, il proprietario del ristorante e il maître li salutarono con un cenno del capo. «Non sono poi così male.» Dany guardò il menù. «Sto morendo di fame.» «Ecco un progresso del pensiero.» Quando Roman cercò di ordinare la cena, il maître si dimostrò assolutamente inflessibile per quanto riguardava la propria proposta. A Dany sembrò che parlasse di un pasto di quattro portate. Quando Roman accettò il suggerimento l'uomo si allontanò con un'aria di soddisfazione personale. «Hai ragione: ha uno strano accento» commentò. «E più bevi, più diventa marcato.» Dalle porte della cucina spuntò un uomo che aveva la forma, e in parte il colore, di un avocado. Aveva piccoli baffetti sotto il naso, un gilet ricamato, una fascia di seta rossa in cintura e un violino in mano. Dopo una sola occhiata a Roman, sparì di nuovo in cucina per ricomparire subito dopo senza lo strumento. «Romano, cosa ci fai qui?» domandò, scivolando a sedere al loro tavolo. Visto più da vicino, Dany notò che il musicista sembrava meno ridicolo e
che aveva occhi vivaci e intelligenti. Era anche a disagio. Roman chiese un altro bicchiere. «Romano, hai voglia di ridere alle mie spalle? Perché sei venuto a vedermi così?» «Tomo è un grande musicista» spiegò Roman a Dany in inglese. La ragazza capì: lei non doveva conoscere il romeno in presenza dello zingaro indignato. Ma ciò che importava era la certezza di Roman che lei parlasse quella lingua. Tomo Tomeshti costrinse la sua faccia rotonda a un sorriso educato. Aveva sentito parlare della gaji di Roman. Al momento, tuttavia, era furioso come un uomo sorpreso con addosso un tutù. «Per un grande musicista come Tomo, il problema è che non vuole che i suoi amici lo sentano suonare musica da ristorante. Se Tomo in questo posto suonasse come sa, nessuno mangerebbe e lui perderebbe il lavoro. Vuole che tu capisca bene questo.» «Il fatto è che vestito così sembro un idiota. Perché sei qui?» ripeté Tomo in romeno. «Per via di un cavallo» rispose Roman nella stessa lingua. Tomo sbatté le palpebre e bevve il primo sorso di vino. «Tuo fratello è ancora a Belmont, vero?» gli chiese Roman. «Sì.» «Mi serve un cavallo docile che abbia ancora qualche anno di vita davanti a sé, e naturalmente ho pensato ai Tomeshti. Al giorno d'oggi non ci si può fidare di chiunque.» «Giustissimo.» La collera di Tomo si era quietata: un cavallo era una questione completamente diversa. Tomo era costretto a vestirsi in quel modo e a suonare nei ristoranti per poter seguire le corse dei cavalli. Purtroppo la sua conoscenza ippica superava di gran lunga la sua fortuna. Domandò una sigaretta. «Sono contento che tu abbia chiarito la cosa. Altrimenti, Romano...» «Naturalmente» disse docilmente Roman. I clienti ai tavoli vicini continuavano a conversare, orecchiando però anche quello che dicevano i due zingari. Il viso color mogano di Tomo sembrò risplendere nella serena contemplazione dei cavalli. «Tu capisci che i purosangue non sono a buon mercato.» «No» lo corresse Roman. «Un cavallo docile. Non voglio un purosangue pazzo. Lo voglio bello e di buon carattere, un cavallo che possa essere
montato da un ragazzino e del quale lui possa essere orgoglioso.» «Un ragazzino? Romano, noi da bambini cavalcavamo stalloni senza sella. Che genere di ragazzino?» «Un chal che non ha mai montato in vita sua.» Tomo fece una smorfia. A New York era possibile. Costrinse la propria immaginazione a un livello più basso. «Immagino che si possa fare. Mio fratello è molto in gamba in questo genere di cose. Comunque non sarà lo stesso a buon mercato: trasportare il cavallo, fornire il foraggio, una cosa e l'altra...» «Certamente. Lascio fare a te. E quando il cavallo sta per arrivare, fammelo sapere. Non vorrei che un qualche malintenzionato cercasse di rovinare il tuo buon nome con un vecchio ronzino, svegliato per l'occasione con lo zenzero.» «Intesi. E io porterò un banchiere per controllare i tuoi soldi e un medico per verificare il tuo sesso.» Dany era riuscita a cogliere abbastanza della conversazione da capire che i due avevano concluso un affare con eloquente brutalità. Raggiunto l'accordo, gli uomini brindarono. Arrivò la cena. Invece del pasto di quattro portate che Dany si era aspettata, si trattava di un unico piatto preparato espressamente dallo chef: ciganypecsenye hideg koritessel, carne di maiale con verdure fredde al modo zingaro. Tomo tornò in cucina e rientrò nella sala con un accordo drammatico del suo violino. Un minibus grigio si fermò davanti all'idrante fuori del ristorante. L'autista aiutò il dottor Andos a uscire dal retro, mentre altri uomini scendevano sul marciapiede. Reggel parcheggiò la vecchia Chrysler limousine dietro al minibus. Una terza auto si fermò tra due lampioni, un isolato più giù. Il maître stese una tovaglia pulita e apparecchiò per il nuovo gruppo. C'erano bottiglie sul tavolo e gli ungheresi cominciarono a brindare uno alla salute dell'altro. Andos riusciva a malapena a tenere su la testa. Tomo si sistemò il violino sotto il mento e aumentò il volume. Reggel batteva il piede e teneva il tempo con la sigaretta nella mano. Roman e Dany avevano quasi finito e Roman chiese il conto. Ma il maître si chinò sulla tavola dell'ungherese e gli indicò il fondo della sala. «Ciganyi!» Reggel si alzò in piedi e con la mano fece segno a Roman di unirsi al gruppo seduto al tavolo più grande. Quando Roman rifiutò l'invito scuo-
tendo il capo, Reggel zigzagò tra i tavoli e andò da lui. «Se lo zingaro non va al magiaro, il magiaro va allo zingaro» declamò, mettendosi a sedere e posando sul tavolo la bottiglia che aveva portato con sé. Dany imitò Roman, che aveva ricambiato il sorriso di Reggel. Per un momento pensò che Reggel stesse per dire qualcosa di volgare a proposito di lei con Roman, ma improvvisamente l'ungherese riempì i bicchieri, versando dalla sua bottiglia. «Questo è Tocai Eszencia, cinquecento dollari la bottiglia. Un vino così dolce e maturo che non c'è bisogno di pigiare l'uva, perché cola direttamente dai grappoli. Così come lei emana grazia e bellezza» disse a Dany con sincerità. «Sapevo già che il nostro esperto ha un ottimo gusto.» Gli alti zigomi di Reggel erano arrossati dal vino e i movimenti avevano un goffo formalismo. Il Tocai era dolcissimo. Dany era stupita: aveva capito dall'occhiata di Roman che Reggel non aveva mentito a proposito del prezzo. L'ungherese le riempì di nuovo il bicchiere. «Molto buono.» «Ci farà l'abitudine» promise Reggel. «Il ricevimento è finito?» gli domandò Roman. «Sì. I più deboli hanno perso i sensi e così noi siamo venuti qui per continuare. Questa non è una notte in cui un ungherese può dormire.» «Non ha avuto paura di venire qui?» volle sapere Dany. «Perché siamo comunisti?» Reggel sorrise. «Noi siamo ungheresi e nessun vero ungherese può avercela con noi perché stiamo riportando a casa la Sacra Corona. D'altra parte, cosa ci può essere di più perfetto che passare questa splendida serata in compagnia del mio zingaro e della sua adorabile signora? Questa non è una notte per rancori e risentimenti.» Reggel possedeva un'energia animale quasi da zingaro. Raccontò come il Tocai Eszencia avesse periodicamente resuscitato re ungheresi in punto di morte. Ciò che intrigava maggiormente Dany era la ricerca di intimità dell'ungherese nei confronti di Roman. Tutti i suoi sforzi seduttivi erano mirati a ottenere l'amicizia di Roman, più che la sua. Perfino gli insulti possedevano una sorta di feroce amabilità. Quando uno dei suoi amici gli domandò di tornare al loro tavolo, Reggel lo allontanò bruscamente. «Sa, gli zingari e io abbiamo una lunga, lunga storia in comune» disse a Dany, inarcando le sopracciglia. Tomo aveva gli occhi chiusi, ma si muoveva tra i tavoli senza sfiorare neppure una sedia. Aveva abbandonato il suo solito repertorio da ristorante
e i clienti adesso l'ascoltavano ignorando le forchette e i coltelli accanto ai piatti. L'archetto di Tomo scivolava lentamente sulle corde basse. «Non avevo mai sentito parlare dei Netotsi, prima d'ora» osservò Dany, dopo che Reggel ebbe raccontato il suo aneddoto preferito. Fissando Roman, l'ungherese si piegò sul tavolo. «Un vero peccato. Ma forse è meglio che vengano dimenticati.» «Può darsi invece che a Dany interessi» obiettò Roman. «Io credo che la schiavitù degli zingari durata trecento anni sia un fatto interessante. Gli schiavi che riuscirono a fuggire vennero chiamati Netotsi. I soldati ne catturarono di nuovo alcuni e li torturarono finché loro non confessarono qualunque cosa gli venisse detta. Fu grazie a questo che i vescovi ungheresi poterono approvare un generale massacro di cannibali, e non il massacro di famiglie che fuggivano per salvarsi la vita.» La presenza di un altro zingaro nel ristorante aveva risvegliato Tomo. Nella sua mente galoppavano cavalli purosangue. Dio aveva detto che gli zingari potevano mangiare qualunque cosa, a eccezione della carne di cavallo. Non esisteva ricchezza, a parte l'oro e i cavalli. Dal suo violino a sei corde, trasse il lamento del Khassiyem: «Padre, fratello, sono perduto. La mia cavalla preferita è scappata via. Sì, la notte scorsa non ho potuto dormire: io l'amavo.» «Eppure tu sei diverso da tutti gli altri ciganyi» riprese Reggel. «Uno zingaro commerciante d'arte, che fa colpo sui cardinali e sulle belle donne... Fai colpo perfino su di me. Capisci quando ti faccio un complimento?» «Una volta ci fu una regina, consacrata con la corona di Santo Stefano» disse Roman. «Anche lei amava gli zingari. E per dimostrare il suo amore, cercò di trasformarli in ungheresi. Sequestrò i loro carri e i cavalli perché non potessero più andarsene in giro e dichiarò fuorilegge la lingua romena, in modo che non potessero cospirare senza che nessuno li capisse. Il suo più grande atto fu quello di allontanare dalle famiglie tutti i bambini zingari per sottrarli all'influenza dei genitori. Si formò una grande carovana di bimbi e ragazzini. Aggrappati alle ruote dei carri, gli zingari si uccisero mentre potevano ancora vedere i figli e i figli potevano vedere loro. Ma il progettò di questa virtuosa regina fallì: crescendo, i bambini diventarono ugualmente zingari. Si decise che la ragione era che si trattava di criminali nati e nessuno poteva aiutarli. Naturalmente la regina fu una santa a provarci.» Tomo pizzicò il suo violino come una chitarra. Il proprietario del risto-
rante ascoltava impietrito il suo zingaro cantare come non aveva mai fatto prima. «Staccate dall'albero del cielo, vedi, io ho due foglie! Una dice: "Tu sei povero". L'altra dice: "Tu sei libero".» «C'è un vecchio adagio in Ungheria» disse Reggel a Dany, riempendole di nuovo il bicchiere. «Dai a un magiaro un bicchiere d'acqua e uno zingaro e lui si ubriaca. Abbiamo perfino un termine apposito per questa cosa: mulatni. Vuol dire divertirsi in compagnia di uno zingaro. Lei sa sicuramente cosa significa.» Tomo era pronto. Gli uomini ai tavoli si passavano le sigarette senza parlare, una cospirazione del silenzio per sollecitare lo zingaro a continuare. La prima parte di una rapsodia si basa sull'amore ungherese per la malinconia, per la tragedia infinita e ripetitiva. È un lassu, un ricordo di cose perdute, con le note che finiscono così bruscamente che le pause diventano echi. La voce sottile di Tomo si fece rauca per un'amarezza che era improvvisata e autentica. «"I giorni sono più corti, le notti più lunghe. Perché rabbrividisco? Perché dicono che gli zingari sono cambiati? Io non capisco."» La canzone, una variazione su un unico tono, vibrava inquieta come per un dolore, ripetendosi poi alla quinta superiore. «Adesso guardi» sussurrò Reggel a Dany. Il grido arrivò, ancora e ancora. Roman calò rumorosamente le mani sul tavolo ed emise un urlo rivolto a Tomo. L'archetto saltò e sembrò tagliare le corde del violino in una trasformazione istantanea, improvvisamente libera dal rimpianto. Adesso Tomo era Reményi, il violinista zigano che, suonando, guidava gli eserciti ungheresi in battaglia durante le guerre di liberazione. Reggel e gli altri si unirono al friss, cantando e battendo le mani sui tavoli, mentre le bottiglie di vino tintinnavano in un tempo di 4/8 e i visi si arrossavano per l'emozione. Tomo si avvicinò al tavolo di Roman. La voce di Reggel rimbombò in parole che Dany non riuscì a capire. Anche Roman cantò quelle parole, ma sul suo viso e su quello di Tomo c'era una sottile differenza, una vena insopprimibile d'ironia che addolciva le loro voci e rendeva ancora più irreale la canzone. Poi cominciò la terza parte della rapsodia, la czardas. Dany trovava difficile credere che ci fosse ancora energia a cui attingere, ma il canto di guerra precedente le sembrò debole e fiacco a paragone dell'eruzione orgiastica della czardas. Era lo sfogo totale e definitivo delle sensazioni, l'inno dei cavalieri magiari spinti alla frenesia dai loro schiavi zingari. Il
canto era illogico: non aveva inizio e non aveva fine, né seguiva alcuna linea logica di sviluppo. Durò fino a che l'archetto di Tomo riuscì a muoversi e finché ci fu abbastanza voce da accompagnarlo. Alla fine rimasero solo le voci di Roman e di Reggel, poi quella di Roman soltanto e le parole passarono bruscamente dall'ungherese al romeno, cosicché Dany poté capire l'ultima stanza di un vecchio canto Lovari. "Quando una rondine morta ci seguirà volando al di là del fiume, oh, allora noi dimenticheremo i torti subiti. Ma fino a quel momento no, non li scorderemo mai. Di questo, fratello, sii certo." Non ci furono applausi, così come non ci possono essere applausi davanti a una morte o a un amplesso d'amore. Ancora attoniti, i clienti del ristorante infilarono banconote nel gilet di Tomo e uscirono dal locale quasi barcollando. Tomo, con cinque chili di sudore in meno, crollò a sedere. Dany si rese conto con sorpresa che dall'inizio della rapsodia era passata un'ora, durante la quale nessuno aveva ordinato da bere o da mangiare. Solo Roman ebbe pietà del proprietario e ordinò una cena. «Ma lei ha già mangiato» gli disse il maître. «Questa è per il violino.» Gli uomini a bordo della decappottabile osservarono Reggel che aiutava Andos a salire sul minibus e lo sgridava come avrebbe potuto fare un padre con un ragazzino cattivo. L'ungherese parlò a voce alta con l'autista, ma le parole si persero nel rumore del traffico. Il minibus si allontanò, lasciando Reggel solo sotto il tendone del ristorante. La decappottabile cominciò a staccarsi dal marciapiede. Dal ristorante uscì una coppia; la ragazza era tipicamente americana, l'uomo, pensarono all'inizio, di colore o ispanico. «È l'antiquario.» «Lo zingaro? Con quella ragazza?» L'altro uomo si piegò in avanti. «Aspettiamo che se ne vada.» Reggel non si staccò dai due. Tutti e tre salirono sulla vecchia Chrysler. «Il futuro?» Roman non poteva fare a meno di essere divertito. «Vuoi farti predire il futuro?» «Quale sera migliore di questa? Sono pieno di czardas e di mulatni. È proprio il momento giusto per farmi leggere il destino da uno zingaro.» «Non da questo zingaro.» «No, no, mai. Ho sentito come hai concluso quella canzone. Tu sei pericoloso, non ti chiederei mai di leggermi il futuro.» «Da chi allora?» gli domandò Dany.
«Guardatevi intorno» Reggel agitò un braccio. «Sono in questa città da sei anni e ormai ci sono zingare dappertutto, un'indovina in ogni strada.» Si portò un dito accanto all'occhio. «E questo è sempre un segno di crisi economica, ricordatevi le mie parole.» Rise e diede una pacca sulla schiena di Roman. «Ho ragione o no? Se vuoi sapere come sta andando l'economia di un paese, conta i suoi indovini.» Avviò il motore e l'auto si immise nella strada. «Cosa vuoi sapere?» gli chiese Roman. «Tu stai ridendo di me, zingaro.» «Sì, è vero. È uno dei miei privilegi, magiaro. Ma dimmi cosa stai cercando.» Reggel si picchiettò il petto. «Questa notte cerco la verità. Questa notte sono alla ricerca di qualcosa e uno zingaro mi guiderà.» «Hai bevuto troppo vino, sei ubriaco.» «Con gli zingari... Tu sei la mia buona fortuna, Romano Gry, lo sapevi? Tu sei la buona fortuna della nostra Sacra Corona.» «Ti sbagli di nuovo. Io non voglio sapere niente della corona. Alla fine di questa settimana, me ne andrò e mi dimenticherò sia di lei sia di te.» «Va bene, te ne andrai. Ma adesso portami al mio futuro.» 11 L'ofisa dell'indovina Vera Pulneshti era in Canal Street, nel punto in cui la strada divide Chinatown da Little Italy. Vera aprì la porta in vestaglia con dragone e con uno spicchio di pizza in mano. «Romano, cosa ci fai qui? Sono le due di notte e domattina devo fare il giro di quattro uffici dell'assistenza sociale.» La sua sala da tè era decorata con tutti gli appropriati simboli yin e yang e con amuleti siciliani contro il malocchio. Nell'altra stanza Dany vide dei bambini che guardavano la televisione e sembravano ascoltare contemporaneamente anche la radio e un giradischi. «È indispensabile che qualcuno gli legga il futuro questa notte» disse Roman. «Romano, devo mandare a letto i bambini. Il tuo amico si sposa domattina o cosa? Come mai ha così fretta?» «Non dovresti sapermelo dire tu?» le domandò Reggel. Vera lo fissò con uno sguardo neutro, poi posò la fetta di pizza sul tavo-
lo, si pulì la bocca e le mani, si tolse una forcina dallo chignon e i capelli le ricaddero a cascata lungo la schiena. Da abito da casa, la vestaglia cinese si trasformò di colpo in veste regale. La donna sollevò la saracinesca avvolgibile della scrivania. I cubicoli dell'alzata erano pieni degli attrezzi del mestiere. «Tarocchi, tarocchi gitani, i Ching, bastoncini, lettura della mano, della carta del sole e delle foglie di tè: scegli tu.» «Ho portato le mie carte» rispose Reggel. Vera annuì con l'altezzosità di una regina accusata di avere sputato in pubblico. Dal mazzo di Reggel estrasse con gesti esperti gli assi e le figure e restituì il resto. Restando in piedi, e senza distogliere lo sguardo da quello di Reggel, mescolò le carte che aveva trattenuto. «Scegline quattro e mettile in fila sul tavolo.» Reggel fece quello che gli era stato detto. «Volta l'ultima a sinistra.» Era l'asso di spade, capovolto. «Una fine violenta» declamò Vera. In tono più informale aggiunse: «Possiamo lasciar perdere le altre carte.» Reggel scosse la testa con disappunto. «Sai, speravo in qualcosa di più. Quanto ti devo per questo?» Vera lo fissò. «Niente.» Reggel si strinse nelle spalle e si rimise il portafoglio nella tasca. Roman e Dany erano in attesa accanto alla porta. Vera riprese il suo spicchio di pizza. «D'altra parte...» cominciò in tono casuale. «...tu hai un amuleto che io potrei comprare» terminò Reggel in romeno. Vera si accigliò e il suo sguardo passò da Reggel a Roman. «Chi è quest'uomo, Romano? Io voglio parlare con te.» «Non adesso, Vera.» La donna si avvicinò alla porta, agitando la fetta di pizza. «Vuoi che ti legga le carte? Adesso ti faccio vedere io le carte!» Roman spinse Dany e Reggel fuori dell'appartamento. Arrivati in fondo alla scala, guardarono in alto. Vera e cinque bambini di varie età si sporgevano dalla ringhiera, tutti urlavano improperi e qualcuno scagliava pezzi di cibo. «Penso che tu le sia piaciuto» disse Roman a Reggel, quando tutti e tre furono in salvo in strada.
Adesso in Canal Street c'era ancor meno traffico di prima e la maggior parte delle auto era diretta verso il ponte di Manhattan. Sul lato cinese c'erano ancora due o tre neon accesi, caratteri in colori pastello sullo sfondo scuro della notte. «È tardi» osservò riluttante Reggel. L'aria era fresca e l'ungherese batté le mani. «Forza» gli disse Roman. «Non possiamo perderci la prima messa.» Sulla via del ritorno, Dany si addormentò sul sedile posteriore con la testa appoggiata alla spalla di Roman; Reggel guidava, solo là davanti. Il traffico era scarso e la Chrysler procedeva mantenendosi sui novanta chilometri l'ora. Roman guardava rilassato le luci delle chiatte sul fiume. «La ragazza sta già dormendo» fece osservare Reggel. Roman fissò gli occhi dell'ungherese nello specchietto retrovisore. «Non è un peccato? Se tu avessi saputo di lei, non avresti avuto bisogno di minacciare i Rom in Ungheria.» Reggel salì sulla rampa dell'East River Drive e non rispose. Il finestrino era socchiuso e il vento gli scompigliava i capelli, che lui portava lunghi come si usava in Ungheria e non per seguire una qualche moda. La carne che l'età aveva aggiunto al suo viso non gli aveva addolcito gli zigomi massicci. Se Vera aveva scosso la sua autostima, Reggel non lo lasciava vedere. «Non sottovalutarmi» disse finalmente. Il Manhattan Bridge si allontanò sulla destra, mentre davanti si avvicinava il Williamsburg Bridge, distante tre chilometri. Le poche auto che procedevano con la Chrysler si spostarono sulla destra per uscire. Reggel premette il piede sull'acceleratore e prese velocità sulla strada ormai vuota. L'unica altra vettura ancora con loro, una decappottabile, fece lo stesso. La decappottabile scomparve dallo specchietto retrovisore di Reggel per comparire in quello laterale e iniziare il sorpasso. Reggel si spostò di lato di circa trenta centimetri per lasciare più spazio all'altra auto. Si stava avvicinando l'uscita della Trentaduesima, dove la strada avrebbe fatto un curva a destra per puntare verso il Midtown Tunnel. Reggel lanciò un'occhiata alla decappottabile che aveva di fianco. C'erano due uomini a bordo e quello sul lato del passeggero lo stava fissando. La decappottabile si fece un po' più avanti, fino ad allineare la propria portiera al parafango della Chrysler. Reggel aspettò, poi vide che la vettura si avvicinava e non effettuava il sorpasso. Afferrò la pistola. «Buttatevi giù!» gridò a Roman e a Dany.
L'uomo sul sedile del passeggero si voltò completamente verso Reggel; tra le mani aveva quello che sembrava un cuscino di plastica rosso. Gridò qualcosa al compagno al volante e lasciò andare il cuscino, che non volò via nel vento come avrebbe fatto un cuscino, ma roteò in aria, gonfio e rosso, e si schiantò direttamente sul parabrezza della Chrysler. Il sacchetto esplose in raggi di vernice rossa, vernice che coprì non solo il parabrezza, ma anche i finestrini laterali della limousine, mentre il vento la spandeva fino a rivestire ogni centimetro di vetro. La Chrysler si trovava nella corsia centrale quando era stata colpita dal sacchetto. Passarono due secondi prima che Reggel trovasse la manovella del finestrino, abbassasse completamente il vetro e si sporgesse all'esterno con la testa e la spalla. Ma era già troppo tardi per controllare la forza d'inerzia dell'auto. Il parafango colpì il guard-rail metallico che separava il traffico in direzione nord da quello in direzione sud e la coda della limousine sventagliò sull'asfalto. Scintille volarono intorno al viso di Reggel, mentre con una mano lottava per costringere il volante verso destra. La pesante auto sembrò rabbrividire, prossima a un testa-coda. Proprio mentre la strada si raddrizzava, il volante sfuggì dalle mani di Reggel. La vettura sbandò e andò a colpire il guard-rail con la fiancata, sprigionando una scia di scintille. L'ungherese riprese il controllo e si staccò dal guard-rail. Con la testa fuori del finestrino riusciva a vedere solo la propria corsia di marcia e il traffico in direzione sud. «Sono trenta metri davanti a noi, sulla corsia destra.» A quella voce, Reggel guardò verso l'interno della macchina. Roman era passato davanti e aveva abbassato il finestrino di destra. Il vento faceva scorrere rivoli rossi sul parabrezza. Anche i capelli dell'ungherese erano rossi e per un attimo Roman pensò che Reggel fosse stato colpito, poi capì che si trattava della vernice del sacchetto. «Dove sono adesso?» domandò Reggel. «Stanno tornando indietro.» L'ungherese ruotò il volante da un lato all'altro per accertarsi che le estremità del parafango non si fossero piegate fino a bloccare parzialmente le ruote. Non era così. Sporse quanto più possibile la testa all'esterno e vide che la decappottabile si stava avvicinando. Con delicatezza, riportò la Chrysler sulla corsia centrale. Le luci di stop della decappottabile si illuminarono. Per evitare lo scontro, Reggel si infilò tra due corsie; quando tornò su quella centrale, la de-
cappottabile era sparita. Roman gli diede un colpetto sulla spalla. «Sono dietro di noi.» Il lunotto era rigato di vernice, ma nello specchietto esterno Reggel riuscì a distinguere il parafango anteriore della decappottabile, adesso vicinissimo. Tamponata a cento chilometri l'ora, la Chrysler sbandò di nuovo verso il guard-rail. Reggel spinse sull'acceleratore e sterzò con una mano. La decappottabile colpì ancora e il faro anteriore sinistro della Chrysler esplose contro la barriera metallica prima che l'ungherese riuscisse a riportare l'auto al centro della superstrada. Fino all'altezza della Centoventicinquesima, l'East River Drive è relativamente diritto e le due auto erano a circa un terzo del percorso quando superarono il Midtown Tunnel. Le luci ad arco sembrarono esplodere come pallottole al fosforo sul parabrezza cieco. Reggel tolse le mani dal volante il tempo sufficiente per gettare la sua pistola in grembo a Roman. Sul calcio dell'arma, leggermente più piccola di una quarantacinque, c'era la scritta WALTHER. «Non sono in grado di fare tutte e due le cose» disse Reggel. «Non prenderla, Roman!» disse Dany. Reggel ritrasse la testa per il tempo necessario a lanciare un'occhiata furiosa alla ragazza nello specchietto retrovisore. «Non fare la stupida: deve farlo.» «Non è vero, non deve. Potresti semplicemente fermarti.» Come spiegazione pratica, Reggel sollevò il piede dall'acceleratore. La decappottabile cozzò immediatamente contro il retro della Chrysler, scagliandola verso il basso cordolo di cemento sul bordo esterno della strada. L'impatto fece cadere Dany sul pavimento. Cercò di rialzarsi, ma i sobbalzi dell'auto la fecero ricadere. «Adesso ti decidi a fare qualcosa, zingaro?» Roman si sporse dal finestrino, stringendo la pistola nella sinistra. Le urla di Dany si perdevano nei rumori stridenti del metallo contro metallo. Il vento copriva con i capelli gli occhi di Roman, mentre la decappottabile svaniva e ricompariva alla vista. L'automatica di Reggel che stringeva nella mano gli sembrava strana e inutile, ma nonostante le spinte violente, si arrampicò quasi per metà sul tettuccio finché non fu sicuro che in nessun modo avrebbe potuto colpire la grossa sagoma della limousine. La Chrysler sbatté ancora una volta contro il cordolo prima che Reggel portasse il tachimetro ai centoquaranta e si staccasse dalla morsa della decappottabile. Il rettilineo si stava avvicinando alla curva di un cavalcavia,
al di là del quale incombeva il traffico del Triborough Bridge. Fino a quel momento Reggel aveva sorpreso se stesso riuscendo a rimanere in strada per tutto quel tempo, ma non avrebbe avuto una sola possibilità di cavarsela una volta arrivati sul cavalcavia o in mezzo ad altre auto. La decappottabile colpì la Chrysler con un'ultima spinta e Reggel si aggrappò al volante, correggendo la traiettoria. Lo zingaro era rientrato nell'abitacolo. L'ungherese strinse le mani sul volante, mentre le luci di posizione delle vetture dopo la curva diventavano nette e distinte. Roman fece fuoco. Dal sedile anteriore, il proiettile sfrecciò per cinquanta centimetri prima di esplodere al centro del parabrezza, dove lasciò un piccolo foro, ma anche un ampio disegno a nido d'ape di vetro frantumato. Sparò di nuovo al lato sinistro del parabrezza, davanti a Reggel, ed esplose un terzo colpo a destra. Poi, servendosi del calcio della pistola, fece cadere i frammenti all'esterno, disintegrando sempre di più il vetro a ogni colpo, ma contemporaneamente facendo comparire la strada. Infine cominciò a far saltare via i pezzi al di sopra del cruscotto, mentre il vento soffiava all'interno lunghe bave di vernice rossa. «Sì!» gridò Reggel, e aiutò Roman a staccare dalla cornice ciò che restava del parabrezza. Poi riportò entrambe le mani sul volante. Roman scavalcò il sedile e andò accanto a Dany. La ragazza si copriva le orecchie con le mani. Lo zingaro fece fuoco per due volte attraverso il lunotto, mirando alto per non colpire l'auto dietro di loro. Spaccò il vetro del lunotto e vide la decappottabile perdere rapidamente terreno, dagli spari e seguita, un chilometro più indietro, dalla sirena e dalle luci rotanti gialle e rosse di un'autopattuglia. Reggel sterzò e portò aggressivamente la Chrysler sulla traiettoria della decappottabile, la quale però, all'ultimo momento, approfittò della rampa d'accesso del ponte e uscì dalla superstrada. La Chrysler si trovò nel traffico in uscita dal ponte e andò a fermarsi nella prima area d'emergenza lungo la strada per aspettare la polizia. «Cigany, cigany!» disse Reggel, baciando Roman sulle guance. Nella luce delle lampade ad arco che entrava dal parabrezza rimasto senza vetro, le tre persone a bordo dell'auto sembravano sedute su letti di diamanti rosa. 12
La Sacra Corona troneggiava al centro del presbiterio. Quando era stata estratta dal suo forziere di ferro, era sembrata semplicemente bella. Adesso, nella luce del giorno colorata dalle vetrate istoriate, era diventata viva. Guardandola dai banchi, contro lo sfondo dorato dell'altare e l'azzurro cobalto delle finestre della Lady Chapel, gli smalti color mare scintillavano, animando i santi bizantini intorno alla fascia d'oro verde. Le persone che sfilavano nell'ambulacro e che osservavano invece la corona nella luce rossastra delle finestre sovrastanti vedevano innanzitutto una cupola romana d'oro rosso, le cui due bande erano tempestate dal fuoco dei granati e delle ametiste, pietre preziose montate su lamine d'oro per riflettere maggiormente la luce. Il sostegno della corona era fissato all'interno della calotta per permettere alle catenelle d'oro di distendersi per l'intera lunghezza, dando così alla corona stessa una sensazione di levitazione, amplificata dalla piccola croce inclinata, in equilibrio sulla sommità. Reggel guardava in basso dalla galleria. Un passo dietro di lui, Csonka teneva il fucile fuori vista. C'era un altro tiratore scelto nella galleria di fronte e altri due nelle gallerie sopra la navata. Gli uomini seduti nei primi banchi erano di Reggel. I raggi delle cellule fotoelettriche sezionavano il santuario. Nessuno poteva unirsi alla fila di visitatori senza prima passare davanti ad altri uomini della squadra di Reggel e superare un metal detector. Nonostante tutto, i nervi dell'ungherese erano quasi a fior di pelle. La folla si ingrossò ancora di più all'ora di pranzo e Isadore dovette mandare altri agenti davanti alla chiesa per regolarne il flusso. Verso le 14.30 la maggior parte dei visitatori se n'era già andata e Isadore e Reggel passarono nel palazzo dell'amministrazione per mangiare qualcosa. Vennero raggiunti da un sergente della BOSSI. Il fatto che per il pubblico la BOSSI non dovrebbe neppure esistere spiega i diversi nomi che ha assunto nel tempo: Bureau of Special Services and Investigations, Neutrality Squad, Public Relations Squad e Special Investigation Section. Ma spesso i poliziotti, con affettuosa semplicità, la chiamano semplicemente la Squadra Rossa. «Lei è qui per aiutarmi?» domandò Reggel al sergente con un sorriso acido. «Noi teniamo sotto stretta sorveglianza tutti i gruppi politici, sia di sinistra sia di destra» disse l'uomo della BOSSI. «Siamo interessati quanto lei a identificare gli uomini dell'auto di ieri notte. Se erano Combattenti per la Libertà, è possibile che il nostro ufficio Europa Centrale abbia le loro foto
in archivio.» Reggel piazzò una fetta di bacon sul pane e notò che il sergente aveva con sé una valigetta nera. Isadore stava mangiando un sandwich di pastrami con mostarda. «Lei crede che un capitano della sicurezza di stato non riconosca un Combattente per la Libertà, quando lo vede?» «Capitano, noi effettuiamo centomila controlli all'anno. Riusciamo a tenere d'occhio voi, il Partito Nazista Americano e ottantamila immigrati illegali. Di sicuro non ho intenzione di aprirle i nostri archivi, ma lei ha bisogno del nostro aiuto. Qui deve vedersela con la nostra città, non con le disposizioni di sicurezza per una piccola delegazione.» Reggel annuì. «La vernice rossa è un forte indicatore del fatto che si è trattato di un gesto politico» dichiarò il sergente. «Parla del colore della vernice?» «Sì.» «Sergente, guardi il soffitto e adesso mi dica: di che colore ho gli occhi? Se me lo sa dire, le permetterò di aiutarmi.» «Be', sono castani.» «No, no, sergente. Me lo dica in ungherese.» Il sergente riabbassò lo sguardo. «Non dirà sul serio. Ha intenzione di rifiutare il mio aiuto per una ragione così stupida? Cosa vuol dire se non parlo ungherese? Io lavoro per l'ufficio Europa Centrale, vale a dire ben nove diversi paesi.» «Ce ne sono otto di troppo. No, ma la ringrazio comunque, sergente.» Reggel si pulì la mano prima di stringere quella del poliziotto. Quando questi arrivò alla porta, gli disse: «A proposito, i miei occhi sono barna.» Isadore mise ciò che restava del suo sandwich in un sacchetto di carta. «Lei è una persona piena di fascino, capitano.» «E perché mai dovrei cercare di affascinare una spia? D'altro canto gli uomini su quell'auto potevano essere chiunque. Qui da voi la gente uccide persone mai viste prima. Uno sconosciuto entra a casa tua e ti ammazza. Incrocia per caso la tua auto e tenta di mandarti fuori strada.» «Se si tratta di una questione così semplice, come mai ha ordinato che i sacerdoti vengano perquisiti prima di uscire dalla chiesa?» «Perché i preti non mi piacciono.» Mentre attraversavano la strada per ritornare nella cattedrale, videro la prima, grossa dimostrazione sulla Quinta Avenue. I manifestanti intonava-
no libertà per l'Ungheria in inglese e in ungherese. Nonostante tutta la dichiarata indifferenza di Reggel, Isadore si accorse che gli occhi del capitano ungherese scrutavano attenti i visi delle persone dietro le transenne. Dopo aver ascoltato per qualche minuto le proteste, i due rientrarono nella cattedrale. Con il trascorrere delle ore, la luce che entrava dalle finestre ruotava intorno alla corona, mettendo in rilievo una banda dorata e oscurando l'altra in una penombra ambrata. Ogni tanto sembrava infiammarsi al lampo improvviso di un flash che qualcuno tra i visitatori era riuscito a portare dentro di nascosto e a questo faceva immediatamente seguito una breve agitazione non appena gli uomini di Reggel individuavano il fotografo. La folla aumentò di nuovo dopo le diciassette e, per la messa della sera, tutti i banchi erano occupati. I sagrestani chiusero a chiave le porte del transetto. I cordoni rossi che erano serviti per incanalare la processione dei visitatori intorno all'ambulacro vennero usati per riservare i primi tre banchi agli ospiti di riguardo. Il sindaco era partito per la sua vacanza, ma erano presenti ambasciatori, il governatore, rappresentanti del museo e un nunzio papale. Dany sedeva con Roman in fondo alla cattedrale. Comparve una nuova processione, uomini in bianco preceduti da chierici che spargevano piume d'incenso nell'aria. C'erano due mitrie da cardinale, Killane e il primate di Budapest, e dietro di loro, con l'abito del suo ordine, l'abate dei benedettini, gli evangelizzatori dei magiari. Reggel spense le cellule fotoelettriche quando la processione superò la balaustrata della comunione e salì gli scalini del presbiterio. Dalla cantoria sotto il rosone, l'organista gonfiò le note di Brahms, mentre il tiratore scelto accanto a lui studiava la folla, attento al minimo movimento sospetto. 13 Il secondo giorno dell'esposizione della corona, un giovane operaio nero addetto alle pulizie e alla manutenzione emerse dall'uscita del locale caldaie nel muro lungo il marciapiede della Cinquantunesima Strada. In una mano aveva uno spazzolone e nell'altra un secchio. L'agente di polizia che stazionava all'angolo fece per andargli incontro, poi notò l'uniforme verde e gli fece cenno di procedere. Morton si chinò tra due auto e versò nella cunetta l'acqua sporca del secchio. Restando chinato, sollevò il coperchio del faro dell'auto alla sua de-
stra. Invece del faro, il vano conteneva un sacchetto di plastica grigio a tenuta stagna. Morton mise il sacchetto nel secchio e richiuse il coprifaro. Tornato all'interno di St. Patrick, riempì il secchio e ci versò abbastanza detersivo da rendere l'acqua lattiginosa, poi, con secchio e spazzolone, andò nel presbiterio, dove un altro addetto alle pulizie stava lucidando le porte di bronzo della cripta sotto lo sguardo di una delle guardie ungheresi. Morton si avvicinò ai due e chiese le chiavi della sagrestia. L'operaio più anziano aveva appena finito di lavare i pavimenti della sagrestia, però era ispanico e non voleva far sentire alla guardia il suo pessimo inglese. Diede le chiavi a Morton. Il ragazzo nero aprì il cancello della sagrestia e andò direttamente nella stanza sulla destra dell'atrio. Era quella meno usata, arredata soltanto con sedie, un priedieu e un alto armadio. Morton aprì lo sportello dell'armadio e sistemò all'interno il sacchetto gocciolante. Quando uscì, chiese al collega perché non gli aveva detto che i pavimenti della sagrestia erano già stati lavati. L'ungherese ignorò la conversazione, che comunque non capiva, e continuò a fissare la corona. Al Commodore, Odrich si lavò le dita sporche di crema abbronzante prima di mettersi il collarino ecclesiastico. Piegò il capo verso lo specchio, sistemando il finto bottoncino del collare sulla nuca. La testa era stata appena rasata e abbronzata artificialmente. Davanti ai diversi specchi della suite, gli altri indossarono i loro abiti neri e relativi collarini. Uscendo, sostituirono le pistole con dei breviari. CZARDAS 14 Era il terzo giorno d'esposizione della corona, e quando Isadore passò a prendere Roman era ancora buio. Il detective aveva gli occhi arrossati ed era irritabile. «Non è un po' presto per la messa?» gli chiese Roman. «Lascia perdere i tuoi ungheresi. Si tratta di roba di casa nostra.» Il sole si stava alzando sull'East Side e i palazzi di appartamenti facevano pensare a una necropoli che si stagliasse netta sullo sfondo di un cielo ancora pulito. L'East River Drive scivolava tra ombre su trampoli. Roman sbadigliò e si stirò mentre l'alba si allargava su Queens.
Proseguirono sull'East River Drive seguendo il fiume Harlem. Più il giorno si faceva chiaro, più sembrava diventare sporco. All'altezza della Centosettantottesima attraversarono l'Harlem ed entrarono nel Bronx. C'erano cartelli che indicavano le direzioni per la Major Deegan Expressway e lo Yankee Stadium, ma Isadore voltò di nuovo verso il fiume. Si fermò in una stradina piena di buche che portava a moli fatiscenti sotto le arcate alte trenta metri di un ponte in disuso. «L'acquedotto di Highbridge» annunciò Isadore. «Proprietà privata di qualsiasi tossico abbia voglia di salire lassù.» Lungo il marciapiede c'erano due auto della polizia prive di contrassegni e un furgone dell'Omicidi. Due agenti neri in uniforme e un detective nero erano in piedi sul basamento di cemento di un'arcata che finiva in acqua. Il detective agitò la torcia verso Isadore. «Sei tornato» gli disse. L'atteggiamento del detective nei confronti di Roman fu improntato più a mancanza di sonno che di curiosità. «Come va?» «È un casino. Pensavamo che sarebbe stato più facile con la luce del giorno, ma l'acqua è sempre troppo scura.» Da una pila di vecchie carcasse d'auto, ragazzini in abiti sporchi osservarono Roman seguire i due detective sulla base in cemento del pilastro di fondazione. Sull'altro lato del pilastro, un detective bianco e uno nero guardavano l'acqua. Isadore si tolse un chewingum di bocca e lo scagliò nel fiume, il più lontano possibile. Ormai Roman si era reso conto che il sergente era in servizio già da moltissime ore. «Quando venne costruito, questo era il ponte più grande d'America» borbottò Isadore. I piloni di pietra al centro erano stati sostituiti da un unico, lungo arco d'acciaio. Tra i due detective, a terra, c'erano un sacco grigio di canapa con la lampo e una serie di strumenti di medicina legale. Altri ragazzini si aggiunsero a quelli sulla montagnola di auto arrugginite. I poliziotti continuavano a fissare l'acqua sporca del fiume sulla quale il sole nascente creava un luccichio marrone che venne frantumato d'improvviso dall'emersione di un sommozzatore in muta. L'uomo si avvicinò a nuoto, trascinando con una mano ciò che aveva trovato. Sputò il boccaglio. «Aprite quel sacco» ordinò. Quello che trascinava era il cadavere di un nero. La pellicola di sporcizia che lo ricopriva rendeva impossibile capirne l'età. «L'abbiamo trovato» gridò Isadore verso l'alto, e Roman si accorse per la
prima volta dei poliziotti sul ponte. Il viso del cadavere venne ripulito e lo zingaro vide che si trattava di un ragazzo. Il detective nero imprecò sottovoce. «È proprio Morton» disse. «Allora abbiamo le impronte digitali» osservò Isadore. «Dicci quale può essere la causa della morte.» La schiuma rosa che colava dalle narici indicava che il ragazzo era morto per annegamento. Il detective dettò il rapporto in situ con composta professionalità. «Lacerazioni sul polso e sulla fronte.» Il dito del detective saggiò i tessuti sotto la corta capigliatura afro del ragazzo morto. «Almeno una lacerazione sulla tempia sinistra.» Aprì la bocca. «La lingua è tagliata, forse una ferita autoinflitta.» Ci fu una pausa mentre allargava le narici del cadavere. «Maledizione, maledizione! Questa schiuma... potrebbe essere droga.» Controllò il braccio del ragazzo ed esaminò l'interno del gomito. «Merda, ci è ricascato: overdose. Dite al laboratorio di cercare morfina nella bile.» Il detective lasciò ricadere il sottile braccio nero. «Non ha senso.» Isadore si inginocchiò accanto al cadavere. Il sommozzatore sedeva dondolando le pinne nell'acqua e fumava una sigaretta. «Guardate qui.» Isadore girò la testa del ragazzo di lato, esponendo il collo. C'era un piccolo foro, a mala pena visibile. «Un'overdose a forza» commentò il detective nero. «Un qualche bastardo l'ha colto di sorpresa e gliel'ha iniettata nel collo.» «E poi gli hanno fatto l'iniezione nel braccio.» Isadore annuì. Si rialzò in piedi facendo leva su entrambe le mani e andò accanto a Roman. «Andiamocene di qui.» Servendosi dei gradini malconci e vandalizzati, Isadore e Roman salirono sul vecchio ponte. Le due estremità del ponte erano bloccate da transenne di lamiera ondulata e filo spinato, particolarmente brutte. Gli altri ponti sull'Harlem e le strade lungo il fiume erano già intasati dal traffico del mattino. «Gesù, non si riesce a respirare una boccata d'aria pura in questa città.» Isadore si fregò gli occhi iniettati di sangue. «Avevi mai visto prima quel ragazzo, Roman?» «No, mai.» «Si chiamava Frederick Morton. È cresciuto per strada, però è stato nei
boy-scout: diplomi di merito eccetera. Un ragazzino in gamba. Il sergente Jack l'aveva conosciuto in un centro sociale per giovani. Ma poi Morton ha cominciato a bucarsi e a rubare auto. Quando l'hanno fatto uscire da Riker's Island, Jack gli ha trovato lavoro come bagnino alla piscina. Il ragazzo è svanito due settimane fa. Scomparso. Niente di strano in questo, vero?» «Non saprei.» «Ah, certo. Cose del genere non succedono mai agli zingari.» L'amarezza era qualcosa di strano in Isadore. Due detective cercavano lungo il ponte eventuali macchie di sangue con carta e benzidina. Se la carta diventava verde o azzurra, ne grattavano via la macchia. «Qualcuno che conosceva Morton ieri sera l'ha visto scendere da un'auto e scappare di corsa da tre bianchi. È successo sul lato di Manhattan del ponte, dove c'è la piscina. Di notte là è un deserto, a parte i tossici. Quando Morton ha cominciato a correre, probabilmente gli avevano già iniettato la roba nel collo e nel braccio: è incredibile che sia arrivato così lontano. Ha dovuto arrampicarsi sopra il filo spinato che blocca quell'estremità del ponte, correre più veloce degli inseguitori e scavalcare quest'ultima barriera. Immagino che a quel punto abbia optato per il fiume perché non riusciva più a correre in salita.» Ma gli uomini l'hanno raggiunto e l'hanno gettato in acqua. Nello stato in cui era dev'essere andato giù come una pietra. «La famiglia del ragazzo non si è accorta della sua scomparsa?» «Sua sorella ha troppo da fare con il lavoro e suo fratello si è buttato giù proprio da questo ponte esattamente un anno fa. Qui in giro non ci sono fiabeschi castelli ungheresi.» Il piccolo cadavere venne chiuso nel sacco con la lampo e poi iniziò il suo breve viaggio verso il furgone. Isadore si dondolò avanti e indietro contro il parapetto masticandosi il labbro, poi estrasse un nuovo chewingum dalla tasca. «Sai, io ho la buffa reputazione di essere uno che legge.» Isadore fu interrotto dalle urla dei ragazzini eccitati che sciamavano tutt'intorno al furgone della polizia. «Per esempio, sono uno che legge libri sugli zingari invece di arrestarli» riprese il sergente. «E così quando il mio capo, grazie a te, mi ha incastrato con la corona, sono andato in biblioteca per leggere qualcosa in merito. Solo che le pagine più interessanti degli archivi dell'esercito che ho trovato in biblioteca erano già state strappate via.»
Estrasse una busta dall'interno della giacca. Mentre sfogliava i documenti, Roman notò alcuni ordinati appunti che riguardavano la fotografia. Il detective trovò quello che cercava: pagine strappate da un libro. Tenendole per gli angoli, le tese verso Roman perché le leggesse. Rapporto Centro Interrogatori VII Armata: in data 7 maggio 1946 il colonnello P. dell'esercito ungherese, accompagnato da dodici guardie dell'esercito ungherese, ha consegnato una cassa apparentemente antica al maggiore K. del Centro Intelligence della VII Armata. Il colonnello P. ha dichiarato che la cassa conteneva la Sacra Corona di Santo Stefano, aggiungendo di dover restare accanto a tale corona essendone ufficialmente il custode. P. affermò inoltre che le chiavi della cassa erano state originariamente consegnate a tre diverse persone, ma che tali chiavi erano al momento tutte in possesso del Primo Ministro Szollosi. Venne quindi dato ordine di cominciare le ricerche delle chiavi in questione. In data 24 luglio il tenente G. dell'Intelligence si presentò a rapporto con le chiavi di cui sopra; si procedette quindi ad aprire la cassa, che risultò essere vuota. Isadore voltò la pagina. P. venne condotto al Centro e qui sottoposto a interrogatorio. P. dichiarò che la corona, lo scettro e il globo erano stati trasferiti e sepolti in luogo sicuro. P. in seguito si offrì di andare a recuperare la corona con il tenente A. dell'Intelligence. Il maggiore K. rifiutò tale proposta, in attesa di ottenere il permesso dell'operazione dal quartier generale dell'Intelligence. Il giorno seguente, tuttavia, il colonnello P. e il tenente A. si ripresentarono al maggiore K. riferendo che nel corso della notte avevano provveduto a recuperare la corona. Venne portato in ufficio un vecchio bidone di benzina sporco di fango e il colonnello P. ne rimosse il coperchio. Dal bidone vennero quindi estratte tre scatole di pelle molto deteriorate e infangate. La corona, lo scettro e il globo vennero portati in bagno, dove il colonnello P. e il maggiore K. provvidero a lavarli, posandoli poi ad asciugare sul pavimento e rimettendoli infine nella cassa originale. In data 3 agosto tale cassa venne riaperta; gli oggetti furono avvolti in asciugamani, poi riposti nuovamente nel-
la cassa, la quale venne sigillata con ceralacca, imprimendo il sigillo di un tenente americano in quel momento presente nell'ufficio. Il maggiore K. dichiara di non essere mai riuscito a scoprire dove fosse stata sepolta la corona all'interno del bidone di benzina. Roman tese la mano per avere i fogli. Isadore si strinse nelle spalle e glieli diede. «Queste pagine vengono dal libro che ho letto in biblioteca. Boyle le ha trovate sparse sul ponte. Abbiamo già effettuato i test sulla carta, per cui sappiamo che le impronte digitali corrispondono a quelle di Morton. Ora, che interesse poteva avere un diciassettenne nero di Harlem a strappare le pagine relative alla corona? E perché è stato ucciso?» «Non ne ho idea» rispose Roman. 15 Arrivato alla Centesima Strada, Isadore azionò la sirena. L'auto della polizia zigzagava nel traffico che, con riluttanza, le apriva un varco. Il detective, normalmente cauto e prudente, spingeva al massimo, sfiorando i taxi ogni volta che a un semaforo balzava in avanti. Voltò sulla Seconda Avenue e si tuffò nel suo traffico di camion. Quando girò nella Cinquantatreesima, spense la sirena, ma non diminuì la velocità finché non furono a un isolato dalla cattedrale. Parcheggiò in una zona di carico e corse con Roman verso St. Patrick. L'agente in divisa davanti al transetto nord li salutò con indifferenza; dentro, la guardia ungherese li fece passare con un gesto noncurante di fianco al metal detector. «Uno zingaro che corre in chiesa?» scherzò. I passi di Isadore e Roman echeggiarono nella cattedrale deserta. Reggel era nel presbiterio. «Ormai non ti aspettavo più» gridò, facendo dondolare le chiavi alla luce del faretto. «C'è anche Isadore? Che zelo. E ha la faccia rossa come un irlandese. Questa chiesa vi sta condizionando.» Reggel diede una pacca sulla schiena di Roman. «Quando questa storia sarà finita, vi inviterò tutti e due a Budapest. Sarete degli eroi.» Aprì le doppie porte e scesero tutti e tre nella cripta. Csonka si alzò dalla sua sedia accanto al forziere e salì di guardia di sopra.
Reggel cominciò ad aprire le serrature. Per Roman e Isadore le sue chiacchiere scherzose erano poco più del rumore di un rubinetto aperto. L'ungherese armeggiò intorno all'ultimo lucchetto e sollevò il coperchio. Globo, scettro e corona riflessero la luce fluorescente della cripta. «Come mai sembrate sorpresi?» rise Reggel. «Ecco qua.» Sollevò il cuscino su cui era posata la Sacra Corona e lo passò a Roman. Roman restituì il cuscino al capitano ungherese e avvicinò la corona alla luce. Lo sguardo passò sui re dai visi ingenui e gli sguardi fissi, sulle minuscole montature individuali delle perle, impossibili da imitare, e infine sulla caratteristica croce storta. L'ungherese stringeva il cuscino in una mano e con l'altra scuoteva impazientemente le chiavi. Roman capovolse la corona per esaminarne l'interno. «Immagino che tu abbia diritto a un'occhiata più ravvicinata» concesse Reggel. Roman terminò l'esame. «È la corona sbagliata.» Reggel avvampò. Ciò che restava della saliva di Isadore si prosciugò immediatamente. «Non scherzare, zingaro.» «Non sto scherzando. È la corona sbagliata: questa è un falso.» Restituì la corona a Reggel. «Tu sei pazzo, non c'è modo che qualcuno possa entrare qua dentro.» Reggel sferrò un colpo su una lapide. «Qui dentro ci sono soltanto ossa e marmo. E Csonka è sempre rimasto qui.» «Non sto parlando di com'è stato fatto. Sto solo dicendo che questa è una copia. Per quello che ne so, la vera Sacra Corona è nella sede della vostra delegazione.» Reggel rimise la corona nel forziere e si precipitò di corsa fuori della cripta. «Dove sta andando?» domandò Isadore. «A chiamare il dottor Andos, immagino» rispose Roman. «Reggel non vuole credermi.» «È un razzista.» «No. È spaventato.» Tutto il peso della chiesa sembrò scendere su Isadore. «Non è l'unico. Sarà meglio che allerti i sagrestani e che chiami il capo.» «Prima avverti il cardinale» gli suggerì Roman. «È stato lui a cacciarci in questa storia.»
«Questa è la corona autentica» dichiarò Andos, appena arrivato nella cripta. C'era anche Killane e la cripta era affollata. «Questa è la stessa corona che ho esaminato ieri sera e che poi ho riposto nel forziere," la stessa corona donata a Santo Stefano mille anni fa. Alla parola di chi avete intenzione di credere?» «A quella di uno zingaro, che però non sono io.» Roman prese la corona e la tenne in mano come un oggetto di bigiotteria. «La vera corona è stata consegnata all'esercito americano da un gruppo di ufficiali ungheresi a Maltsee, una località di villeggiatura nei pressi di Salisburgo. Ho ragione, capitano? Alcuni aspetti di questa transazione non sono mai stati chiariti, per esempio come mai la corona non era nella cassa quando venne consegnata.» «Questo non è mai stato un segreto» disse Reggel. «Però è un segreto il motivo per cui la corona era stata nascosta in un bidone di benzina vicino a un campo di concentramento di zingari. Un giovane ufficiale ungherese che parlava romeno prese uno degli zingari e lo portò con sé perché la corona aveva subito grossi danni e doveva essere riparata prima di essere consegnata al nemico.» «Io devo chiamare il capo» intervenne Isadore. «Vai al punto.» «Lasciatelo parlare» disse Csonka dal suo angolo. Erano le prime parole che gli sentivano dire. L'uomo fissava Reggel. «Quello zingaro era un orafo. La corona era rotta, le bande superiori erano staccate dal diadema. Gli ufficiali avevano le graffette per riattaccarle, ma non se la sentivano di lavorare sull'oro antico. Così lo fece lo zingaro per loro, riscaldando l'oro e riattaccando le due metà. Ma sul lato sinistro mancava una graffetta, così lo zingaro dovette accontentarsi di mettercene solo una. La Sacra Corona, quando è arrivata qui, ne aveva una soltanto. Come potete vedere, questa ne ha due.» La corona tremò nelle mani di Andos, che la stava esaminando di nuovo. «In seguito all'ufficiale che parlava romeno venne ordinato di uccidere lo zingaro, in modo che nessuno venisse mai a sapere che la corona era stata contaminata dalle sue mani. Per una qualche ragione l'ufficiale non se la sentì: si limitò a sparargli in un braccio, dicendogli di rimanere immobile finché non se ne fossero andati.» «Sta mentendo. Si è inventato tutto!» protestò Andos. Roman riprese la corona dalle mani del dottore. Prima che chiunque potesse fermarlo, aveva staccato una scheggia d'oro con il suo temperino.
«Tieni.» Passò la scheggia a Isadore. «Falla esaminare dal tuo laboratorio. All'epoca in cui si suppone che questa corona sia stata fatta, gli orafi usavano crogioli d'argilla bianca. Un falsario moderno è sicuramente in grado di fondere vecchie monete d'oro, però si servirà di un crogiolo di grafite. In questa scheggia troverete tracce di grafite.» Andos si coprì il viso con le mani. Killane gli passò un braccio intorno alle spalle, più per sostenerlo che per confortarlo. «Dirò a monsignor Burns di accompagnare il dottore alla mia residenza.» Il cardinale si voltò verso Roman. «Sono sorpreso da quanto lei possa essere crudele.» «Scoprirà che non lo sono.» Killane lo guardò con espressione scettica, poi accompagnò Andos fuori della cripta. «Ormai la corona vera sarà fuori città, a meno che i Combattenti per la Libertà non l'abbiano nascosta da qualche parte a Yorkville. Se è così, abbiamo ancora una possibilità» Isadore rassicurò Reggel. «È un quartiere parecchio difficile, ma se la corona è là, possiamo trovarla.» Reggel sembrava divertito. «Molto bene, sergente. Perquisisca pure i suoi Combattenti, nel frattempo il mio amico e io dobbiamo prendere un aereo per Budapest. Può anche dire ai suoi agenti di aprire le porte: noi togliamo il disturbo.» «Non possiamo aprire finché i tecnici non avranno terminato di esaminare tutte le impronte, comprese quelle di Csonka. Lui è l'unico sospetto che abbiamo.» «Non necessariamente.» Nessuno si era aspettato che Killane tornasse. Il cardinale si chinò per rientrare nella cripta. Con il mantello nero e la berretta rossa in testa sembrava un antico uccello da preda. «Se il dottor Andos non sa distinguere una corona dall'altra, è possibile che ieri sera abbia riportato qui quella falsa. Il che significa che la corona autentica può essere stata rubata in un momento qualsiasi della giornata.» «Eminenza, la corona è rimasta per tutto il giorno in piena vista davanti a migliaia di persone. E nessuno si è mai avvicinato» disse Isadore. «Capitano Reggel, qualcuno ieri si è avvicinato alla corona?» domandò Killane. Lo sguardo di Reggel vagò sulle decorazioni incise nell'oro. «Naturalmente» rispose con un sorriso. «Lei e i suoi preti. Durante la messa eravate tutti intorno alla corona.»
«Dove possiamo trovare quei sacerdoti?» domandò Isadore. «Ho già chiesto informazioni in proposito» disse il cardinale. «Ho anche già ordinato a monsignor Burns di dire ai suoi poliziotti che c'è stato un corto circuito nel sistema di illuminazione, ma che le porte della chiesa verranno aperte tra poco. Signor Grey, quando lo desidera, porti pure la corona all'esposizione.» «Esporre un falso? E perché?» «Perché, anche se sono stati i sacerdoti a rubare la corona, non hanno potuto portarsela via. In conformità agli ordini del capitano Reggel, sono stati controllati tutti con il metal detector. La Sacra Corona è ancora qui con noi, probabilmente nascosta in sagrestia o dietro una porta. E chiunque abbia effettuato lo scambio dovrà tornare a prendersela. Mi corregga se sbaglio, sergente, ma non è forse vero che se la corona è uscita da St. Patrick, lei non la troverà certo con blocchi stradali e controlli agli aeroporti, ma grazie a informazioni, a soffiate? In altre parole, ritengo che, se la corona è uscita da qui, sollevare clamore servirebbe a poco e non servirebbe affatto, se vogliamo che i ladri ritornino a St. Patrick e ci portino fino a dov'è nascosta. Bisogna tenere conto del fattore tempo, no?» «Eminenza, lei riuscirebbe a convincermi a mangiare pesce al venerdì» si congratulò Isadore. «Però... preti che rubano la corona e la lasciano qui, a St. Patrick? Lei quanto crede che durerei al dipartimento di polizia, se andassi a raccontare una storia del genere?» «E quanto durerebbe, se dicesse che la corona non è più qui in chiesa? Se non sono stati gli ungheresi a sottrarla, e se è uscita di qui, c'è solo un uomo che potrebbe averla presa senza essere poi perquisito: io.» Fu Reggel a rompere il silenzio che seguì. «C'è una certa logica nel discorso.» Dopo che Killane se ne fu andato, Isadore e Reggel perquisirono l'ambulacro, la sagrestia e ogni locale in cui poteva essere stata nascosta la corona. Vennero raggiunti da un molto affannato monsignor Burns. «Avete presente i sacerdoti venuti da Chicago per la messa della sera? Mi sono messo in contatto con loro, a Chicago: non sono mai partiti e non sono mai stati qui. Hanno detto che io li ho chiamati tre giorni fa, dicendo di non venire. C'è anche un'altra cosa, una piccola cosa che probabilmente non significa niente. Non ne parlerei neppure, se la situazione non fosse così...» «La prego» l'interruppe Isadore. «Ne parli.» «Uno degli uomini delle pulizie non si è presentato al lavoro, questa
mattina. Non che sia un fatto insolito...» Isadore interrogò il capo della squadra manutenzione, il quale non ebbe difficoltà a identificare la fotografia di Morton. «Mi dica» domandò Isadore a Burns «quel ragazzo che lavorava qui... avrebbe potuto scoprire i nomi dei sacerdoti di Chicago e come mettersi in contatto con loro?» «L'elenco era affisso in sagrestia: nomi e relative chiese.» Il monsignore spalancò la bocca. Davanti all'altare maggiore, Roman stava sistemando la corona sul suo supporto. «Pensavo che la Sacra Corona fosse stata rubata.» La mano di Reggel strinse il braccio di Burns in una morsa. «La Sacra Corona non è stata rubata. Ha capito bene? La corona è qui.» 16 «Non erano previste visite speciali.» «Capitano Reggel...» Nagy ruotò tra le dita un grosso sigaro cubano spento e si accarezzò lo stomaco con la mano paffuta al cui mignolo spiccava un anello d'ambra e oro. «Capitano, possiamo permetterci di essere generosi, adesso. Non voglio obiezioni: lasciamo che gli studiosi americani diano un'occhiata alla Sacra Corona. Sarà la loro ultima occasione per farlo.» Arrivato alla porta si fermò. «Un'altra cosa, capitano: quello zingaro che il cardinale ha assunto... quando verranno gli americani, lo tenga lontano dalla corona: fa una brutta impressione.» «Le cose stanno così» riferì Reggel quando tornò da Roman. «E se l'uomo del Metropolitan Museum è in gamba come dici, si accorgerà che è un falso anche guardando dall'ultimo banco.» La messa della sera era terminata. Poliziotti in uniforme e agenti segreti ungheresi sorvegliavano una chiesa vuota a eccezione dei tre uomini e del falso. Isadore guidò il gruppo alla radio, sistemata in quella che veniva chiamata "la stanza della sposa". Sollevò il ricevitore, ma lo rimise subito giù. «Non ha detto altro?» domandò a Reggel. «Nagy non ha ricevuto una telefonata a proposito della corona?» «Noi non riusciamo a trovarla: che importanza può avere una telefonata?» «Quanto potrebbero chiedere per la Sacra Corona? Un milione di dolla-
ri? Dieci milioni? Non te ne stai a sedere su una cosa del genere: se ce l'hai in mano, telefoni per il riscatto. Gesù, vi immaginate quanto saremmo disposti a pagare? E non parliamo degli ungheresi.» «Telefona al capo» lo sollecitò Roman. «Tu pensi troppo» aggiunse senza ironia. «Sì, lo so. I sergenti non dovrebbero mai pensare» mormorò Isadore. «Si salvi chi può: l'ebreo si è fatto soffiare la Sacra Corona.» Afferrò il ricevitore. «Detective Harry Isadore, dalla cattedrale di St. Patrick. Mandatemi immediatamente cinque uomini della squadra artificieri e due tecnici. Mandatemeli subito, e senza far chiasso.» Lasciò ricadere il ricevitore sulla forcella. «La squadra artificieri è in grado di scoprire qualsiasi cosa» spiegò Isadore. «Se per caso dovessero trovare una corona, immagino che direbbero qualcosa.» Roman scosse la testa. «Non credo ne valga la pena, Harry.» Isadore si appoggiò allo schienale dorato della sedia della sposa. Era la prima volta che lo zingaro lo chiamava per nome. «Sei stato tu a trascinarmi in questo caso, Roman. Adesso dimmi cosa puoi fare per la corona.» Roman e il falso se n'erano già andati, quando arrivò la squadra artificieri. Isadore mise immediatamente al lavoro i tecnici, che cominciarono a spruzzare la polvere per le impronte digitali sull'altare. Quando li vide immersi nel lavoro, Isadore rubò un martelletto dal loro kit. Arrivò il nuovo turno di poliziotti e di guardie ungheresi. Reggel raggiunse Isadore in compagnia di due dei suoi uomini. Entrambi avevano le orecchie rosse e i visi pallidissimi. «C'è una novità» cominciò Reggel. «Queste due teste di cavolo mi hanno appena informato che ieri sera, mentre erano in servizio, circa un'ora dopo la messa i preti sono rientrati in chiesa e si sono trattenuti qui per circa mezz'ora. Questo è successo prima del turno di Csonka. Questi due dicono di averli perquisiti a fondo prima di lasciarli uscire.» Poi fu la volta di Reggel stare a guardare Isadore che dava una ripassata agli agenti di turno dopo la messa della sera prima. Isadore li trovò fuori della porta del transetto. La conversazione non arrivò a Reggel fino al momento in cui Isadore cominciò ad arrabbiarsi seriamente. «Perché no?»
«Perché erano preti!» rispose sulla difensiva uno dei poliziotti. «È un vero casino» ammise Isadore, di nuovo con Reggel. I due uomini sedevano in un banco della cattedrale. Simili a scuri topi corazzati, gli artificieri scivolavano silenziosi dentro e fuori le cappelle. «Cinque sacerdoti sono tornati in chiesa dicendo di aver dimenticato qualcosa in sagrestia. Hanno presentato un permesso firmato da Burns, ma ultimamente la sua carta intestata sembra essere dappertutto.» «Il mio uomo sugli scalini della sagrestia non ha mai visto quei preti.» «Una volta dentro, non li ha più visti nessuno. Fino a quando non se ne sono andati.» «Sono venuti per la corona e poi non l'hanno presa?» «Il metal detector l'avevano i tuoi uomini» ribatté Isadore. «Vuoi che mi tagli la gola perché hanno lavorato male?» «No. Se è così, la taglio io a loro.» La frase, in bocca a Reggel, non era retorica. «Okay. Visto che sono tornati, per lo meno adesso sappiamo che la corona era ancora qui. I preti devono averla semplicemente nascosta da qualche parte qui intorno.» Isadore estrasse dalla tasca della giacca un pieghevole della chiesa e lo aprì sulla pianta di St. Patrick. Tracciò delle X nei punti in cui gli ungheresi erano stati di guardia e, dalle X, i relativi campi visivi. «Csonka e il tuo uomo sugli scalini della sagrestia potevano vedere soltanto il loro recesso. Quelli davanti alle porte del transetto potevano vedere l'area del transetto stesso, la balaustrata della comunione e i primissimi banchi davanti: le colonne nascondono tutto il resto. I preti avevano più che un po' di carta intestata rubata: dovevano avere le chiavi di Morton. Di conseguenza disponevano di nove decimi della cattedrale di St. Patrick dove nascondere la corona.» La squadra artificieri procedeva con metodo avanzando verso l'altare maggiore. Fino a quel momento nessuno aveva perquisito le gallerie, il locale caldaie, la foresta di canne nella cantoria dell'organo e le guglie. «Se Quasimodo avesse dovuto nascondere qualcosa» si chiese Isadore «dove l'avrebbe messa?» «Sergente Isadore!» Non era Quasimodo, ma Jack Lynch che entrava a grandi passi nella cattedrale. Al suono della sua voce gli artificieri si immobilizzarono di colpo, come se un regista avesse ordinato lo stop su un set cinematografico. «Vedo che ci sono gli artificieri. Qui dentro c'è una bomba e lei non mi
ha avvertito?» «La faccenda è un po' più complicata. Isadore e Lynch si appartarono accanto a un confessionale.» «Può mostrarmi la corona che avete qui?» sussurrò Lynch tra i denti. I due uomini marciarono lungo la balaustrata per andare a raggiungere lo zingaro. «Cosa accidenti sta facendo?» furono le prime parole che Lynch rivolse a Roman. La piccola stanza di servizio in cui Roman stava lavorando era un buco di fronte alla sagrestia privata di Killane. C'erano barattoli di stucco sparsi sul pavimento, intorno a un acquaio e a un forno che normalmente veniva usato per sciogliere le vecchie candele votive e riciclarne la cera. Sulla superficie di scolo dell'acquaio c'era una scatola di vetriolo verde e un'altra di sale. Roman stava usando il martelletto rubato da Isadore per dare piccoli colpi all'interno della corona. «Questo è il capo del dipartimento di polizia di New York» spiegò Isadore, sperando che Roman avesse una risposta. «Sto cercando di...» cominciò Roman, ma Lynch lo interruppe, togliendogli il martelletto di mano. «Splendido lavoro, sergente. Mi perde una corona e, quando lo vengo a sapere, ne sta facendo a pezzi un'altra. È pazzo? Mi dia subito quell'oggetto» ordinò a Roman. «Vuole starlo a sentire, signore?» «L'unica persona con cui adesso voglio parlare è il cardinale, e lo farò appena avrò sgombrato il suo zoo. Dov'è quell'ungherese?» Quando Reggel entrò nella stanzetta, Lynch gli passò la corona e gli spiegò cos'aveva scoperto. Reggel la restituì a Roman. «È pazzo anche lei?» Con un gesto Reggel invitò Roman a parlare. «Sto cercando di guadagnare un po' di tempo prima che si venga a sapere che la Sacra Corona è stata rubata. Il sergente Isadore ritiene che più a lungo la falsa corona passa come vera, prima i ladri si sentiranno sicuri e torneranno a prendersi quella autentica. Domani qui arriveranno persone che non sarà facile prendere in giro. Di conseguenza sto effettuando qualche piccolo lavoro di restauro sul falso.» «Con un martello?» «Non so quanto sia buona la sua vista, ma se lei avesse una lente d'ingrandimento noterebbe segni di martello su tutti i gioielli della corona. Il
guaio è che a ogni secolo gli attrezzi degli orafi cambiano, martelli compresi. Le impronte su questa sono sbagliate di otto secoli. Ho modificato il massello del martelletto che lei ha in mano in modo che produca le impronte corrette.» «In altre parole lei sta migliorando il falso.» «Il concetto è quello.» Uno a zero per lo zingaro, si rallegrò Isadore dal pozzo della sua anima. «Cos'altro ha in mente?» domandò Lynch indicando la stufa che andava scaldandosi. «Il colore è un po' approssimativo, bisogna togliere una delle graffette e inoltre tutta la corona dovrebbe essere lucidata. Può darsi che funzioni.» Lynch gettò il martelletto sull'acquaio. «Qui dentro non vedo nessun laboratorio ben attrezzato per operazioni del genere, ma il vero problema è che ormai quella autentica probabilmente è a mille miglia da qui. Non è l'ipotesi più probabile, sergente?» «È possibile.» «Possibile? Ho visto la sua mossa con la falsa bomba, là fuori. Sapremo fin troppo presto se la corona è qui dentro.» Lynch si torse le mani, riprendendo il controllo. «Sergente, adesso vado a parlare con il cardinale; lei resti qui. Se quell'antiquario tocca un'altra volta la corona, gli spari. E poi può sparare a se stesso.» Appena Lynch se ne fu andato, Roman prese di nuovo il martello e ricominciò a lavorare. «Siediti» disse a Isadore. «Sarà una lunga notte.» Il detective chiuse gli occhi. «Forse avrei dovuto avvertirlo prima.» Roman continuò a dare colpetti sull'oro. «Killane ha sempre voluto che la corona fosse nelle mani di Dio. Adesso è accontentato.» Stancamente, attraverso le palpebre socchiuse, Isadore osservò Roman rimodellare il falso. Una grande mano scura tratteneva le bande d'oro, l'altra martellava con regolarità in gesti esperti e casuali, colpendo il metallo in modo da creare impronte appena percettibili. Tutta la tensione dello zingaro era nelle dita, che continuavano a far girare la corona sovradimensionata e palmi che lucidavano le pietre con il sudore della concentrazione. Isadore andò a dare un'occhiata al vetriolo che poco prima Roman aveva messo nel forno: i cristalli liquefatti stavano cominciando a indurirsi. Lo zingaro si avvicinò per controllare. «Sta venendo benissimo. Tira fuori quella roba e mettila sopra un vasso-
io con dei grani d'incenso. Ne troverai qualcuno nella tasca della mia giacca.» «Hai in programma di dormire qui?» Isadore sollevò lo spazzolino da denti che aveva trovato nella tasca con l'incenso. «Se tu non farai la spia su di me, io non la farò su di te.» Nella residenza del cardinale, Lynch non ricordava certo che il secondo nome del palazzo era la Casa del Potere. E il Potere sedeva dietro la scrivania, impeccabile e impassibile. «Allora ha deciso, signor Lynch? I preti, gli ungheresi o io?» «Il fatto che lei accusi se stesso non mi aiuta sicuramente a trovare la Sacra Corona. Mi blocca soltanto.» «Allora dica chiaramente che accusa gli ungheresi, cosa che dovrà fare, se la corona è sparita e non sono stato io a portarla fuori da St. Patrick. Posso già dirle cosa succederebbe. Le relazioni diplomatiche tra i due paesi verranno interrotte e gli scambi culturali termineranno. In Ungheria e negli altri paesi dell'Europa dell'est i turisti americani verranno arrestati con false accuse. Ci sarà una mozione di condanna alle Nazioni Unite. Il Vaticano, che ha sponsorizzato il ritorno in patria della corona, verrà a trovarsi in una situazione di estremo imbarazzo. Alla fine gli Stati Uniti saranno costretti a pagare milioni di dollari per danni. E tutto questo non impedirà ai nostri amici preti di ritornare con comodo a St. Patrick a riprendersi la corona.» Lynch decise di tentare un altro approccio. «Noi dovremmo lavorare insieme, non minacciarci a vicenda. Ci pensi: i capi delle due maggiori organizzazioni cattoliche del paese, chiesa e polizia, che litigano. Lei, eminenza, dovrebbe collaborare. Io non cerco di sembrare più in gamba di lei per quanto riguarda le questioni spirituali e lei non dovrebbe intervenire nelle indagini di polizia. Le dispiace se le dico che in questo momento lei si sta servendo del ricatto?» «Non mi dispiace affatto.» «Me lo immaginavo. Mi faccia almeno un favore: se riesco a trovare qualche indizio concreto in questa storia dei preti che hanno nascosto la corona, lei mi consentirà di emettere un comunicato ufficiale? Bene. Adesso mi dica: cinque uomini se ne vanno a spasso per St. Patrick sotto il naso di sei agenti di Reggel.» Lynch si piegò sulla scrivania. «I pavimenti della chiesa sono di pietra e quegli uomini ai piedi avevano scarpe, non pantofole: come è possibile che gli ungheresi non abbiano sentito i passi?»
Killane premette un pulsante sul citofono e chiese che gli venisse portato un bricco di caffè. «Un caffè le farà bene» disse a Lynch. «Si sono tolti le scarpe, naturalmente.» Roman sparse i carboni ardenti sopra il vetriolo e affidò a Isadore il compito di fare vento per mantenerli incandescenti. «Stai facendo uno splendido lavoro» si complimentò Roman. «Avevi già avuto esperienze simili?» «Pensi che mi serviranno, là dove mi manderanno?» Il vetriolo bruciò fino ad assumere una tonalità rosata. Roman lo lasciò raffreddare, poi, servendosi del martello, lo ridusse in polvere, aggiungendo sale nel corso dell'operazione. «Posso fare qualcos'altro per te?» domandò educatamente Isadore prima di riprendere il suo sonnellino. «Del vino e una piuma.» Il detective si fregò le borse sotto gli occhi. «Il vino so che ce l'hanno, ma la piuma?» Tornò poco dopo con una coppa di vino per la messa e un pennellino di peli di cammello. «Con i complimenti dei tecnici del laboratorio.» Roman versò il vino goccia a goccia finché la polvere di vetriolo non divenne liquida. Passò con estrema attenzione il preparato intorno al diadema d'oro rosso della corona. Isadore sedeva sopra un secchio capovolto e rifletteva su quanta pratica lo zingaro avesse fatto in operazioni del genere nel retrobottega del suo negozio di antichità. «Dimmi la verità, Roman: come fai a produrre qualunque cosa i tuoi clienti ti chiedano?» «La verità, sergente, viene detta solo nella lingua degli zingari.» In qualche modo, doveva ammettere Isadore, la risposta aveva senso. Guardò Roman mettere la corona inumidita nel forno; sentiva le palpebre appesantite dal sonno, così infilò una mano nella tasca della giacca per prendere un'altra pillola stimolante. La mano uscì impiastriccita del cioccolato di una barretta sciolta. All'esterno della giacca cominciava ad allargarsi una macchia marrone. Una scia di fumo seguì la corona ormai asciutta quando Roman l'estrasse dal forno. Lo zingaro la sciacquò, la pulì con lo spazzolino da denti e poi la rimise in forno. Dopo un minuto la tirò fuori di nuovo e l'avvolse in una tovaglia di lino della chiesa per raffreddarla.
Qualcuno bussò alla porta. Isadore si pulì le mani e si abbottonò la camicia. Scivolò fuori della stanzetta piena di vapore e si trovò di fronte il capo della squadra artificieri. «Chiodi, monete, una tronchesina per unghie. Nessuna bomba. Ci pensa lei a informare il commissario?» «Esistono bombe non metalliche?» prese tempo Isadore. «Certo, gelatina. Ma se ci fosse stata l'avremmo trovata. Abbiamo guardato addirittura dentro le macchine fotografiche nel battistero.» «Le macchine fotografiche?» «Sì, quelle confiscate al pubblico dagli ungheresi.» Isadore stava già correndo lungo la navata. 17 Il piccolo orologio troneggiava vistoso al centro della scrivania di Killane. Erano le due di notte. «Se la corona è stata rubata dalla cripta, questo significa che ormai è scomparsa da ventiquattrore» sottolineò il cardinale. «Ventiquattrore per arrivare ovunque. E se non è nella cattedrale, non la troverete né stanotte, né tra una settimana e neppure tra un mese.» «È così?» domandò il vicesindaco a Lynch. Il vicesindaco aveva lasciato la sua agenzia pubblicitaria per occuparsi della campagna elettorale del sindaco. In pratica i suoi compiti consistevano nell'aiutare il suo datore di lavoro a sopravvivere in modo da ricandidarsi. Dato che era arrivato nel giro di pochi minuti dopo che Lynch gli aveva telefonato, aveva ancora il viso gonfio di sonno e i capelli schiacciati su un lato della testa. «Certo che è così. La corona è stata rubata come minimo ventiquattrore fa. Gli unici controlli che abbiamo sui viaggiatori sono quelli negli aeroporti e i dirottatori dilettanti riescono di continuo a superarli senza problemi.» «Avete messo al lavoro l'Unità protezione beni culturali?» «No, perché non esiste. Dieci anni fa era stata messa insieme una squadra in borghese per lavorare sul furto della Stella d'India, ma poi il gruppo è stato smembrato nel corso di una riorganizzazione.» Il vicesindaco si versò un altro po' di caffè e si concesse una rara sigaretta. «Jack, qual è esattamente la nostra responsabilità in questa vicenda?» «Gli ungheresi erano responsabili di qualunque cosa potesse succedere
all'interno di St. Patrick, ma la responsabilità generale è comunque nostra.» «E quel capitano ungherese vorrebbe che stessimo al suo gioco, fingendo che la corona non sia scomparsa.» «Perché questa storia lo fa impazzire, me ne accorgo perfino io.» «Il punto non è questo.» Il vicesindaco pensò al suo capo che dormiva serenamente nelle montagne cilene. «Il punto è che gli ungheresi avevano la responsabilità della Sacra Corona, quando è stata rubata. Una volta che rifiutiamo la richiesta del capitano, la responsabilità passa a noi. Però lei non crede che le nostre possibilità di ritrovarla siano molte.» «Perché io credo che quella storia dei preti sia una sciocchezza. Non mi importa se ognuno di loro aveva quattro braccia: non è possibile rubare una corona davanti a cinquemila persone.» «Allora o sono stati gli ungheresi, o sono stato io» concluse Killane. Il vicesindaco schiacciò il mozzicone nel portacenere e continuò a premerlo anche dopo che si era spento. «Mi avete detto che il sergente ha trovato delle pellicole nelle macchine fotografiche sequestrate. Quanto tempo ci vorrà per svilupparle?» «Almeno un'ora, prima che ce le portino.» «Un'ora» ripeté il vicesindaco, passandosi una mano all'interno del colletto. Non aveva avuto il tempo di mettere la cravatta. «Preferirei lasciar fare agli ungheresi; sembrerà che gli facciamo un favore non facendo nulla. Però lei ha ragione, Jack: se la corona non è qui, dobbiamo cominciare a cercare da qualche altra parte. Quest'amministrazione non ha assolutamente intenzione di interferire con il lavoro della polizia. Possiamo aspettare un'ora. Se per allora non l'avrà trovata qui, proceda pure. Nel frattempo sarà meglio che me ne vada, prima che i giornalisti si accorgano che sono qui e comincino a chiedermi perché il sindaco sia dovuto andare in vacanza proprio in un paese comunista. Io gliel'avevo detto di non farlo.» Nell'improvvisato laboratorio di Roman, la corona falsa, adesso asciutta, era posata su una tovaglia di lino. Lo zingaro lavorava all'acquaio, dove stava riducendo del carbone in una polvere fine con cui avrebbe dato un'ultima pulitura al monile. Sentì la porta aprirsi e poi richiudersi; dal passo capì che Isadore era tornato. Il detective fissò pensoso la corona. «Io non vedo nessuna differenza» disse il poliziotto. «Ma naturalmente non sono un esperto» aggiunse in fretta. Si appoggiò alla parete, sostenendosi la testa con la mano. Roman setac-
ciò la polvere nera attraverso un pezzo di stoffa umido, che poi strizzò, ripiegò e cominciò a passare sulla corona. «Sai, Roman, mi è venuta in mente un'altra teoria. Supponiamo che un criminale venga assunto per dare una mano con una certa corona, dato che lui è un esperto di questo tipo di gioielli reali. Nel corso dell'esposizione, a un certo punto dichiara che la vera corona non c'è più e che al suo posto adesso c'è un falso. Arriva perfino a scheggiare un frammento dalla corona e in effetti nell'oro c'è qualcosa che non dovrebbe esserci. Solo che il criminale non preleva davvero il campione dalla corona: finge solo di farlo e mostra ai presenti un frammento che aveva già in mano. Una volta che tutti si sono convinti, lo lasciano lavorare su questa corona. Pensano che stia cercando di fare in modo che il falso assomigli di più al pezzo autentico, mentre in realtà sta facendo in modo che la corona vera sembri un falso.» Roman lavò via il carbone dalla corona, che poi asciugò. «E perché mai dovrebbe fare una cosa del genere?» «Perché i falsi non vengono sorvegliati come le corone vere. Le prove di reato scompaiono continuamente e nessuno se ne preoccupa troppo. Poi, se la nostra corona ritorna all'uomo con le mani magiche, lui non deve fare altro che un piccolo restauro e, voilà, ecco ricomparire la Sacra Corona. Autentica. Occorrono solo buone mani e un po' di pazienza. Cosa ne pensi della mia idea?» Lo zingaro frantumò con il martello alcuni gessetti per ricavarne un po' di polvere bianca. «È buona quanto le altre che ho già sentito.» «È tutto quello che hai da dire?» «Vuoi sapere cosa c'è di veramente buffo nella tua idea?» Continuando a parlare, Roman tolse la polvere di gesso dalla corona, dandole così uno splendore quasi abbagliante. Reggel depose il falso sulla scrivania di Killane. Erano ormai le tre e le pellicole non erano ancora arrivate. «Temo di aver fallito» disse Killane. «Capitano, vuole per favore telefonare all'ambasciatore e informarlo della situazione?» «Non aspettiamo neppure le pellicole?» domandò Isadore. «Perché no?» Lynch non rispose e Isadore bloccò il telefono con una mano. «Si sposti, sergente.» «Potete perdere due minuti per ascoltare? Forza, Roman: di' a tutti quello che hai detto a me.»
«Ho detto soltanto che, una volta che avrete cominciato la vostra spettacolare retata, non ci sarà più alcuna Corona di Santo Stefano, nessuna sanctissima corona, neppure se la ritroverete senza un graffio.» «Si spieghi meglio» ordinò Killane. «Lei ha pensato che fossi crudele nei confronti di Andos. E il sergente Isadore ha pensato che mi fossi confuso, quando ho detto che i segni di martello su quest'oggetto erano sbagliati di otto secoli invece che di dieci. Non mi ero confuso. La Sacra Corona d'Ungheria è un falso.» Roman sorrise. «No, non parlo di quella che vedete sulla scrivania. Parlo della Sacra Corona per la quale tutti sono così ansiosi di farsi ammazzare. Guardate.» Reggel cercò di proteggere la corona sulla scrivania, ma Roman riuscì ad afferrarla. «Questo falso è abbastanza buono per farvi capire. Andos ha detto che la parte superiore proviene dalla corona originale e che quella inferiore apparteneva a re Géza. Adesso, signori, fate buon uso dei vostri occhi.» Roman andò alle spalle di Lynch e gli posò sulla testa la corona, che scese fino ad arrivare alla bocca del funzionario. «Non è che lei abbia una testa troppo piccola» disse. «È che la corona non è stata fatta per Géza, né per qualsiasi altro uomo: era stata fatta per una donna e doveva essere abbastanza grande da contenere l'acconciatura. Anche le pietre sono da donna: lo zaffiro per la castità e le perle per la modestia. La ringrazio.» Gliela tolse dalla testa. «Una normale corona da donna, creata nel reale laboratorio artigiano di Regensburg. Probabilmente ne sono state fatte almeno cinquanta come questa, nel dodicesimo secolo, cent'anni dopo la morte di Géza.» «Però la parte superiore proviene da quella di Santo Stefano, signor Grey» sottolineò il cardinale. «È questo che conta.» «Questa è la parte più affascinante, eminenza. Le due bande d'oro rosso non provengono dalla corona di un santo, né da quella di nessun altro. Chi può sapere cos'è successo alla vera corona di Santo Stefano, o che aspetto aveva? Si sa che scomparve dopo la morte di Stefano, ma circa trecento anni più tardi, per motivi politici o religiosi, qualcuno decise di crearne una nuova. Vi renderete certamente conto che chiunque avesse potuto dichiarare di essere in possesso della corona di Santo Stefano avrebbe avuto una leva formidabile per arrivare al trono. Il problema era che non poteva fabbricare il suo falso servendosi di un esemplare esistente, che chiunque avrebbe riconosciuto, e non poteva neppure farsene fare una nuova a Regensburg.
«La soluzione fu ingegnosa. Nessuno avrebbe riconosciuto le due bande ornamentali d'oro ricavate dalla copertina di una Bibbia, dopo che fossero state curvate ad arco. Non era la soluzione perfetta, perché originariamente le bande erano piatte e avevano inserti di smalto perciò, quando vennero curvate, gli smalti subirono danni e il metallo si incrinò. Ma se sopra ci mettete una croce e sotto ci attaccate un diadema da donna, cosa ottenete? La corona di Santo Stefano, il più grande falso della storia. Il falsario a cui era stato affidato il lavoro non fu molto felice, dato che venne ucciso non appena ebbe portato a termine l'incarico. Quando gli zingari se ne andarono dall'Ungheria per disperdersi nel resto d'Europa portarono con loro la leggenda che erano condannati a viaggiare perché era stato un fabbro Rom a fabbricare i chiodi della croce di Gesù. Ma c'era anche un'altra storia, secondo la quale era stato un Rom a ricavare una corona da una Bibbia. Perciò dia pure inizio alla sua caccia, ma farà meglio a sperare di fallire, perché la vera corona, se e quando verrà ritrovata, dovrà vedersela con qualcosa di molto più severo degli occhi degli esperti: ci saranno test con spettrografi ed esami con il carbonio 14 e i risultati diranno la stessa cosa che dico io. Allora scoprirà che una cosa è perdere la Sacra Corona d'Ungheria e un'altra dire agli ungheresi che il loro più prezioso simbolo nazionale è un falso medievale, il quale non vale molto più del nostro: diecimila dollari in oro e pietre di modesta qualità.» L'antiquario, il viso annerito dalla barba già lunga e la camicia appiccicata al corpo dal sudore, posò con un gesto elegante la corona al centro della scrivania di Killane. Il cardinale e tutti gli altri studiarono con nuovi occhi le bande incrinate e la croce storta della copia. Qualcuno bussò alla porta. Isadore andò ad aprire e tornò davanti alla scrivania con le foto appena consegnate. Il bottino di Isadore consisteva in varie fotografie in bianco e nero, parecchie diapositive e due film otto millimetri, il tutto sequestrato nel corso del secondo giorno dell'esposizione. Il materiale era suddiviso in buste diverse, corrispondenti ai relativi proprietari. C'erano foto di sconosciuti davanti alle Nazioni Unite, a Radio City, al Rockefeller Center e alla facciata di St. Patrick. Gente che salutava con la mano. Che rideva. Un'unica foto riprendeva la corona nel presbiterio, ma era sfuocata. Le diapositive mostravano altre facce anonime. Interni di camere d'albergo, una ripresa lunga che trasformava Madison Avenue in un serpente e
poi, improvvisamente, un primo piano dell'ingresso principale di St. Patrick, con Lily of the Mohawks nel suo estatico bassorilievo. La Sacra Corona in mezzo a un mare di teste. Un campo lungo, con la corona luminosa come in un dipinto di Caravaggio. Una diapositiva del presbiterio, pieno di sacerdoti. «È la messa della sera, quella giusta» esclamò Isadore. «E quelli sono i falsi preti.» «Con qualche migliaio di persone che li osserva.» La voce di Lynch risuonò nel buio con ben maggior interesse di quanto Isadore avesse osato sperare. Poi la diapositiva di un prete semicalvo che saliva sul pulpito. Quella seguente era nera, e così tutte le rimanenti. «Dev'essere stato quando gli hanno portato via la macchina fotografica.» Isadore posò il proiettore di diapositive sul pavimento e lo sostituì con quello per film. Le luci si spensero di nuovo. La scena era una stanza d'albergo e gli attori due giovani coppie. La tonalità predominante era il color carne. Una delle due ragazze era una bionda naturale. L'azione era non stop. Seduti sulle loro sedie, gli spettatori nell'ufficio del cardinale si agitarono, pur senza la fantasia dimostrata dai protagonisti del film. «Immagino che questo spieghi come mai il proprietario non si è ripresentato a ritirare la sua cinepresa» osservò Linch. «Sergente, può fare andare quel film un po' più veloce?» Isadore aumentò la velocità, passando ai sedici millimetri. «La cinepresa è stata sequestrata in chiesa: deve pur esserci qualcosa» disse con cupa speranza. Nel film i corpi si separavano e collidevano come due, tre, quattro mani che schioccassero in un applauso. In silenzio, all'infinito. Non c'era una sola ripresa della chiesa. «Eminenza, la prego di scusarmi per questo» disse Lynch, che poi aggiunse di ritenere che doveva sicuramente trattarsi di gente proveniente da fuori città. Roman lanciò un'occhiata a Isadore: possibile che quell'uomo nascondesse un certo senso dell'umorismo? Isadore inserì la seconda bobina. Improvvisamente tutti stavano guardando l'esterno di St. Patrick. La cinepresa si soffermò su ogni tiglio e su ogni olmo lungo il marciapiede, poi sulle isole d'erba accanto alle fondamenta della cattedrale. Le riprese proseguivano all'interno, mostrando i sacerdoti che entravano nel presbiterio. Il film era di qualità sorprendente-
mente buona, considerando che era stato girato utilizzando solo la luce disponibile. Corona e sacerdoti risaltavano chiarissimi. «Non spostare quell'obbiettivo» implorò Isadore. A quanto pareva, il proprietario della cinepresa aveva deciso di comprimere l'intera funzione in un'unica bobina, offrendo al futuro spettatore selezionati momenti d'interesse. Isadore conosceva il tipo: era quello che metteva veri titoli di testa nei suoi filmini casalinghi. La messa procedette con sbalzi bruschi e la predica venne tagliata nel momento stesso in cui il sacerdote aprì la bocca. Fedeli allineati lungo la balaustrata per la comunione. Un sacerdote che solleva l'ostia. Un calice che passa indietro. Un altro prete che ne porta uno pieno. «Ecco! Torni indietro.» Lynch era in piedi. Isadore riavvolse la pellicola e ricominciò dal punto in cui il calice del ciborio veniva fatto passare lungo la balaustrata. Poi, mentre il primo sacerdote riportava il suo calice vuoto verso l'altare, un secondo prete si fece avanti con un calice pieno. D'improvviso la cinepresa ebbe uno scarto di lato, poi tornò sul presbiterio. «Cos'è successo in quel momento?» «Qualcuno gli ha urtato il braccio» suggerì Isadore. «No» intervenne Reggel. «Adesso ricordo: c'è stata una discussione al banco dei dépliant. È durata soltanto pochi secondi poi l'uomo è stato cacciato fuori.» «È vero» concordò Isadore. «L'uomo diceva che gli era stato dato un resto sbagliato, ma una volta fuori ha ammesso di essersi confuso.» Una terza volta, inquadratura per inquadratura. Un sacerdote che si allontana dalla balaustrata e un altro che arriva dall'altare. La corona nascosta alla vista da due schiene decorate dalla croce. L'inquadratura che si sposta di lato. Gli scanni vuoti del coro. Il transetto. Di nuovo gli scanni del coro. Il prete che si avvicina. La corona in mezzo ai due sacerdoti, ognuno su un fianco dell'oggetto, entrambi un passo più avanti. «Un'altra volta. Si può ingrandire?» Isadore spostò il proiettore contro una parete e lo schermo contro quella opposta. Il film ripartì dalla stessa inquadratura del passaggio dei preti. I gomiti erano quelli del sacerdote che tornava verso l'altare, le dita della mano sinistra sopra il calice.
«Cosa sta facendo?» «Copre il calice con un fazzoletto di lino» rispose Killane. «Quanto ci hanno messo?» «Nel film è un po' più veloce» rispose Isadore. «È bastato un diversivo di circa due secondi. Se negli scanni del coro ci fosse stato qualcuno, avrebbe visto tutto.» «E le persone alla balaustrata della comunione?» domandò Roman. «Come mai non si sono accorte di niente?» «Non ha mai visto la gente quando fa la comunione?» gli domandò il cardinale. «Tengono tutti la testa china, oppure guardano verso l'alto. Nessuno guarda davanti a sé.» Il filmato ripartì ancora una volta. Ormai potevano quasi sentire le urla oltraggiate sul fondo della cattedrale, vedere il calice nella mano destra che si muoveva verso la corona, coprendola alla vista, la mano sinistra che seguiva con il falso, lo schermo della rigida pianeta ricamata che subito dopo si spostava, mostrando a tutti una nuova corona e rassicurando un eventuale sguardo appena insospettito. Quando le luci si riaccesero, Reggel continuò a fissare il vuoto. «C'è voluto coraggio» ammise Isadore. «Programmazione.» In Jack Lynch il poliziotto aveva sostituito l'amministratore. «Gesù, immaginatevi la programmazione.» Si avvicinò alla scrivania del cardinale e guardò l'orologio: erano le quattro di mattina. «Di cos'ha avuto bisogno? La pianta della chiesa, le chiavi, l'elenco dei sacerdoti in visita...» «E un ragazzino morto» aggiunse Isadore. «Recitazione e un semplice diversivo» concluse Lynch. «Il tutto studiato probabilmente prima ancora che la corona arrivasse qui. E la corona non ha potuto lasciare la chiesa, ma noi non riusciamo a trovarla. Non si può essere più precisi di così.» «Non poi così precisi: non è riuscito a buttare Reggel e me fuori strada» osservò Roman. Lynch si strinse nelle spalle. «Nel grande schema delle cose, un piccolo fallimento.» «No. Significa che il capitano Reggel, tra tutte le persone coinvolte, era quello che doveva essere tolto di mezzo. Mi chiedo il perché. E poi c'è l'errore della copia, non perché sia fatta male, ma proprio per il fatto che c'è.» L'ungherese si voltò dallo schermo.
«La copia, Reggel» Roman scosse tristemente la testa. «Nessuno può fabbricarne una basandosi sulle foto: bisogna lavorare partendo dall'oggetto autentico. Ma com'è stato possibile, se la Sacra Corona è stata tenuta sotto chiave per cent'anni? Vedi, questa è la domanda che avresti dovuto fare, e invece non l'hai mai fatta.» Reggel si sedette di fronte a Roman. Tese una mano e lo zingaro gli passò la sua sigaretta. Il capitano aspirò profondamente. «Allora pensi che sia arrivato il momento?» domandò. «Arrivato e andato.» Reggel restituì la sigaretta a Roman. «È incredibile. Ho aspettato, ho aspettato per tutto questo tempo e non l'ho riconosciuto.» Reggel stava quasi per mettersi a ridere. «Il prete nel film, quello che ha rubato la corona, si chiama Odrich.» Isadore fu il primo a reagire. «Come si scrive?» 18 «Cosa volete che vi dica? Che sono stato un eroe di guerra dei nazisti? Che naturalmente io sapevo che esisteva una copia? Che sono stato io a farla fare da ebrei condannati? Come si può spiegare agli americani che l'Ungheria a loro non deve e non ha mai dovuto niente? Dopo la Prima guerra mondiale ci avete portato via tre quarti del nostro territorio e poi vi chiedete come abbiamo potuto accettare di riavere quelle terre da Hitler. Avete presente lo stupro della Cecoslovacchia e della Romania? Era la nostra terra! I tedeschi ci hanno chiesto soltanto tredici divisioni per il fronte orientale. E io mi sono offerto volontario, un bravo tenentino di diciotto anni. Ho visto la seconda armata ungherese disintegrarsi tra Voronezh e Stalingrado. Tedeschi, ungheresi, italiani, spagnoli... tutti scomparsi. Io sono riuscito a sopravvivere, i nazisti mi hanno dato qualche medaglia e poi mi hanno spedito in una compagnia tedesca. È stato lì che ho conosciuto Eric Odrich.» «Che cos'era Odrich all'epoca?» «Il comandante della compagnia, capitano a ventuno anni. Un aristocratico come me, che ci crediate o no. Ma lui aveva studiato in Inghilterra e, cosa più importante, nei castelli dell'Ordine. Sapete di cosa si trattava?» La risposta fu una serie di visi inespressivi. «I castelli dell'Ordine erano la versione di Hitler dei cavalieri teutonici.
Si tirava di scherma, si scalavano montagne e, soprattutto, si studiava il diritto della razza tedesca a sottomettere gli slavi. Un corso di sei anni, che Odrich aveva completato diplomandosi in quattro. Vedete, lui era un leader nato.» Reggel si interruppe per prendere un'altra sigaretta da Roman. Isadore lo fissava con freddezza. «Durante i disastri di quella prima ritirata, Odrich e io siamo diventati molto amici. Era una persona affascinante. E quando l'hanno richiamato dalla prima linea per mandarlo a godersi l'aria fresca di montagna con gli Alpine Koxps, mi ha preso con sé. Sono rimasto un anno con lui, finché Budapest non ha cominciato a richiamare ogni ufficiale che riusciva a trovare per fronteggiare i russi. Ci siamo reincontrati a Budapest soltanto nell'estate del '43. Dall'uniforme ho pensato che fosse nelle ss, in realtà era colonnello dell'Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg. Il gruppo di Rosenberg si occupava della salvaguardia del patrimonio artistico in Europa. In paesi occupati come la Francia, questo significava la confisca, ma per un alleato come l'Ungheria, mi assicurò Odrich, si trattava solo di catalogare e copiare le opere d'arte. «Io ero capitano della guardia speciale a protezione della Sacra Corona. Odrich mi ha persuaso a convincere il resto delle guardie speciali a lasciargli fare una copia. Gli ho perfino trovato dei prigionieri ebrei in grado di farla e lui li ha fatti passare come artisti speciali dell'istituto d'arte Kuntschutz. Proprio come altri artisti del Kuntschutz avevano fatto copie degli arazzi Bayeux del Louvre praticamente indistinguibili dagli originali, gli ebrei si sarebbero guadagnati la libertà ricreando il simbolo della nazione ungherese. E così, mentre ci si dava da fare per perdere la guerra, il nostro lavoro proseguiva.» «E poi?» chiese Lynch. «E poi, quando i russi circondarono Budapest, c'è stata la ritirata. Venti vagoni di grandi opere d'arte ungherese vennero inviati a Monaco. Odrich avrebbe personalmente accompagnato noi e la Sacra Corona verso la sicurezza della Svizzera. Chi poteva accorgersi, in tutta quella confusione, che aveva fatto uccidere gli ebrei? Quella stessa notte lasciammo il palazzo a bordo degli ultimi tre blindati dell'esercito ungherese e di due auto delle ss al comando di Odrich. Non andammo lontano. Il giorno dopo i vostri aerei bombardarono la strada e una delle due auto tedesche andò distrutta. Nei rottami c'erano cinquantamila dollari americani. Vedete, il mio buon amico stava vendendo la Sacra Corona: la copia Kuntschutz sarebbe venuta con
noi a Rosenberg, la corona autentica l'avrebbe consegnata a un acquirente. Quando lo capimmo, circondammo la sua auto. Lui cercò di comprarci e riuscì a convincere un membro della guardia, un tale di nome Martinovics, fratello minore di un notissimo esule nella vostra città. A quel punto tornarono i vostri aerei. Odrich, a bordo dell'auto e con entrambe le corone, si aprì un varco in mezzo a noi. Io fui il primo a salire su un'altra macchina e a mettermi all'inseguimento. Non so se fui io a colpirlo o se furono gli aerei, ma l'auto di Odrich finì fuori strada e si capovolse. Recuperammo la Sacra Corona, con la calotta staccata dal diadema, e poi uccidemmo Martinovics e tutti i tedeschi. Tutti tranne Odrich. Lui e la copia della corona erano scomparsi. Però, nella fretta si era confuso: aveva preso la corona sbagliata.» Erano quasi le sei. Una falsa alba sfiorava le finestre, lasciando entrare un residuo di azzurro. La voce di Reggel era rauca per le troppe sigarette. «Bene, tutto questo può esservi utile?» domandò. «Avrebbe dovuto dircelo prima, ci sarebbe servito» disse Isadore. «E come? Odrich ha declamato un intero sermone in chiesa e io non l'ho riconosciuto.» «Allora come mai l'ha riconosciuto adesso?» insistette Isadore. «Quando lei ha ingrandito l'inquadratura» confessò Reggel «ho visto quel sorriso trionfante.» «Odrich si è tenuto quella copia per trent'anni in modo da poter rubare quella vera?» domandò Lynch. «E che cos'ha fatto nel frattempo?» «Ognuno segue la propria vocazione. Io sono diventato una specie di poliziotto. Odrich ha studiato in Inghilterra, ha buon gusto, è stato addestrato dai nazisti: è diventato un ladro d'arte.» «Non l'avevo mai sentito nominare prima d'ora.» «Qui da voi si rubano solo buoni del tesoro» osservò Reggel con condiscendenza. Il telefono squillò. Rispose Killane e passò il ricevitore a Lynch, che parlò per qualche secondo e poi riattaccò. «A quanto pare questa volta ha tagliato la corda con la corona vera» disse a Reggel. «La squadra artificieri giura che a St. Patrick non ci sono né bombe, né qualsiasi altra cosa fuori dell'ordinario.» La mano di Lynch era appoggiata sul ricevitore, pronta a sollevarlo. Non c'erano state telefonate al vicesindaco o alla delegazione e adesso non c'era più alcun motivo per non chiamare. L'alba vera e propria colpì le finestre con una luminosità che fece lacrimare gli occhi.
«Allora, capitano?» Lynch spinse il telefono verso l'ungherese. «Falsi.» Isadore fissava il pulviscolo che galleggiava in un raggio di sole. «Tutto è falso: le corone, i preti, il modo in cui il ragazzo è stato ucciso. Perché dobbiamo cominciare a credere proprio adesso?» Lynch aspettò, la mano sul telefono. «Tutto quello che fanno è falso» continuò Isadore. «Un diversivo. E funziona: dimentichiamo che ciò che sappiamo è reale. Odrich era presente alla messa e ha effettuato lo scambio. Ritorna qualche ora più tardi per un'unica ragione: prima non era riuscito a portare fuori la corona. Lui e i suoi amici rimangono in chiesa per mezz'ora e poi se ne vanno di nuovo. Il giorno seguente noi perquisiamo St. Patrick da cima a fondo e non troviamo la corona. Ma perché pensiamo che non sia più qui? Odrich è dovuto uscire dalla chiesa superando lo stesso metal detector davanti al quale era passato un paio d'ore prima e io sono sicuro che, se fosse stato in grado di far passare la corona, l'avrebbe fatto la prima volta. La corona non se n'è andata da qui: semplicemente non riusciamo a trovarla.» Lynch si fregò gli occhi. Finalmente tolse la mano dal telefono. «È la sua corona, Reggel. Cosa vuole fare?» «Lo zingaro ingannerà gli esperti. Mettiamo in mostra il falso e tutto sembrerà normale e come da programma.» «Il capo del dipartimento di polizia nel mio ufficio per tutta la notte non è proprio come da programma» obiettò Killane. «Sicuramente Odrich tiene d'occhio la chiesa.» «Lo so, lo so.» Lynch prese in mano la falsa corona e contemplò i santi. «Può fabbricare qualcosa che sembri una bomba?» domandò a Roman. «E lei può trovare la corona?» domandò a Isadore. 19 Sulla terrazza panoramica del palazzo dell'RCA, i ragazzini si davano da fare con i pesanti telescopi a pagamento che sembravano cannoni, spaziando con lo sguardo da Jersey City a Wall Street, mentre i genitori contavano gli spiccioli. Roman se ne stava appartato. Le porte dell'ascensore si aprirono e altri turisti si riversarono sulla terrazza. Tra loro c'era un sorridente Isadore. «Ce l'hai fatta. Si sono bevuti il falso.» «Ma guarda.» «Be', uno o due esperti hanno detto che la corona sembrava persino
troppo autentica. Forse è una fortuna che tu non fossi presente. Accidenti, avresti dovuto vedere la scena. Io mi sono sentito abbastanza orgoglioso. Hai intenzione di scendere, adesso?» «Perché dovrei? Finalmente ho trovato il nascondiglio perfetto.» «Per nasconderti da chi?» «Da te, fino a un secondo fa. E da Reggel e dal cardinale. Non posso andare a casa perché Dany e Kore mi stanno aspettando e io sono stanco di raccontare bugie.» Un gabbiano si lasciava trasportare dalla corrente ascensionale che saliva dalla strada, cento piani più sotto. Le ali erano sporche e la testa saettava da un lato all'altro in cerca di eventuale cibo in caduta dalla terrazza.; «Sergente, lo sapevi che l'Ungheria ha il più alto tasso di suicidi al mondo? È ciò che Reggel sta facendo in questo momento, e tu e Killane lo state aiutando. Io non voglio entrarci.» «Suicidio? Guarda che noi abbiamo a che fare con un assassino. Ecco, leggi.» Passò a Roman un foglio dattiloscritto. Erich Odrich, alias Eric Wilhelm von Odrich. Età: anni 54. Razza: bianca. Nazionalità: tedesca. Altezza: m 1,80 circa. Peso: kg 80 circa. Capelli: grigi (?). Occhi: azzurri (ma può portare lenti a contatto colorate). Parla inglese senza alcun accento. Parla inoltre: tedesco, ungherese, italiano, forse altre lingue. Carriera militare: Wehrmacht, Einstatzstab Reichsleiter Rosenberg (ERR). Durante la Seconda guerra mondiale l'ERR fu responsabile del furto di opere d'arte in seguito rinvenute a Thuringia (unitamente a lingotti d'oro), Werfen (treno opere d'arte ungheresi), Neuschwanstein e altre località. Tuttora irreperibili: 8740 quadri, 423 arazzi, 634 sculture in marmo, 1096 bronzi (Repertoire des Biens spoliés pendant la guerre 1939-45). Odrich risulta ufficialmente disperso in guerra, ma si ritiene che attualmente risieda in Italia sotto falso nome. Le perdite del patrimonio artistico italiano vengono oggi valutate in dieci milioni di dollari l'anno. La maggior parte dei furti avviene in chiese. Allegate al rapporto, fissate con una graffetta, c'erano alcune foto, tutte tratte dal filmato della comunione. La più grande era quella di un uomo di mezz'età semicalvo, con l'aspetto timido e dimesso di un prete di provincia e un viso che sembrava d'arenaria, privo di qualsiasi particolarità. Le foto
più piccole erano degli altri preti, tutti più giovani. Isadore ruotò uno dei telescopi verso la Quinta Avenue e mise a fuoco la cattedrale di St. Patrick. L'architetto che l'aveva progettata aveva omesso una caratteristica tipica delle cattedrali gotiche, gli archi rampanti, ed era per questo che St. Patrick sembrava una fortezza. Perfino lungo la linea di displuvio del tetto si alzava una specie di cresta protettiva di metallo dorato. «Interessante.» Roman restituì il foglio. «Ho preparato rapporti più brevi per le squadre di sorveglianza. Vieni a dare un'occhiata.» Anche se di malavoglia, Roman prese il posto di Isadore dietro il telescopio e seguì il dito puntato del detective. «Ci sono quattro squadre per ogni lato. Una al secondo piano della sede dell'arcidiocesi.» Roman puntò le lenti sulla residenza in arenaria. «Una sopra il ristorante francese nella Cinquantunesima Strada.» Il telescopio ingrandì un uomo che leggeva il giornale alla finestra indicata. Quando voltò pagina, Roman colse il luccichio della canna di un fucile. «Uno sulla Quinta Avenue, nel palazzo dell'Associated Press e l'ultimo da Saks, nella Cinquantesima. Il tempo concesso dalla moneta da dieci cent terminò e il telescopio si oscurò.» «Vedi, Roman, devono tornare per forza questa sera o domani. Lunedì a St. Patrick verranno fatte le pulizie annuali e ci saranno operai dappertutto. Morton deve averlo detto a Odrich, il quale non può certo correre il rischio che gli addetti alle pulizie trovino la corona.» «Hai pensato a tutto.» «Ci saranno le squadre di sorveglianza e quattro auto di supporto. Reggel e i suoi uomini sorveglieranno tutti gli accessi dall'interno.» Qualcuno aveva lasciato accanto al telescopio una mezza merendina. Roman ne staccò un pezzo e lo gettò nel vuoto. Il gabbiano si tuffò in picchiata e lo afferrò. «Non mi sembri molto eccitato. Per essere uno zingaro, certe volte sei davvero un deprimente guastafeste» si lamentò Isadore. La risata di Roman rovinò il lancio successivo e il gabbiano emise un grido quando il pezzetto di dolce gli sfrecciò di fianco, fuori portata. «Okay, tu hai preparato questa trappola con un'esca che non riesci a trovare per un uomo che esiste solo sulla carta. Il problema è che la corona falsa parte per Budapest questa sera e il fatto che Reggel non sia su quell'aereo sembrerà parecchio sospetto. Il perché lo scopriranno entro
mezzogiorno di domani. Da noi sarà mattina. Reggel verrà arrestato nella sede della delegazione e tu dovrai spiegare la tua storia della corona invisibile a qualche guastafeste peggiore di me.» «Ma se riusciamo a trovare la corona...» «Al diavolo la corona.» Roman fece un centro perfetto con un pezzo di merendina direttamente nel becco del gabbiano. «Io devo tenere vivo Reggel. Pensi che abbia accettato l'incarico a causa della Sacra Corona? Mi dispiace soltanto aver coinvolto anche te.» Isadore si strinse nelle spalle. «Sai, Roman, questo caso comincia a interessarmi.» Il detective se ne andò. Roman decise di rimanere. Davanti a St. Patrick si radunò una folla che voleva vedere la partenza della corona dentro il suo forziere di ferro. L'ambasciatore Nagy in persona era al comando delle guardie di sicurezza arrivate in auto dalla delegazione ungherese. Roman entrò nel negozio di souvenir, prese una tazza di caffè e se la portò sul lato sud della terrazza. Inserì una moneta da dieci cent nel telescopio, che prese vita con il ronzio di una bomba a tempo. Bevve un sorso di caffè e posò il bicchierino sulla balaustrata. Le lenti del telescopio salirono lungo le finestre azzurrate del palazzo della Pan American e si fermarono sul tetto. All'interno del terminal in vetro, Nagy si fece largo tra gli agenti. Le porte del terminal si aprirono e il forziere venne trasportato verso l'elicottero in attesa. Roman osservò gli ungheresi ammassarsi all'interno dell'elicottero mentre le pale cominciavano a ruotare. I poliziotti trattennero i berretti con la mano e l'elicottero fece un balzo in avanti, quasi stesse per cadere piuttosto che prendere il volo. Roman seguì con lo sguardo il velivolo finché non scomparve verso Flushing. Quando entrò in casa, trovò ad aspettarlo Kore e Dany. Sul tavolo c'era un articolo di giornale sul ritorno della corona in Ungheria e tre biglietti per una nave. «Romano, partiamo domani. A meno che tu non abbia deciso di farti prete. In questo caso non avrai bisogno di nessuno di noi due.» «Partiamo, vero?» domandò Dany. «È un mercantile jugoslavo. Cinquemila tacchini congelati e noi. I fratelli Petulengro hanno rubato un'auto appena riverniciata.» Roman deviò la conversazione, complimentandosi con Dany per la cena:
un piatto di "caviale del povero", melanzane fredde e aglio. «Dovresti assaggiarne un po', Kore.» Dany versò della birra a Kore. «Allora non partiamo» disse. «Oggi mi hanno telefonato dei fotografi per chiedermi se potevo accettare alcuni lavori. Cosa devo rispondere? Che abbiamo deciso di restare?» «Non ho detto questo.» «Partiamo domani oppure no?» domandò Kore. «La corona ungherese torna a casa, quale altro motivo hai per restare? Non ci dai neppure una spiegazione. Noi non siamo uccelli, sai? Non voliamo da qualche parte solo perché tu voli o restiamo perché tu rimani.» «E allora vai!» Roman scostò il piatto e si alzò in piedi, un gesto più sorprendente della tirata di Kore, perché non perdeva mai il controllo. «Tu vai pure a fare le tue foto e tu parti. Io non sono il re degli zingari.» Uscì dalla stanza. Rimasti soli, Dany e Kore si guardarono. La ragazza spinse il piatto di Roman verso il gigante dai capelli rossi. «Mangia, è ancora caldo.» Dopo aver osservato un adeguato periodo di virtù offesa, Kore afferrò la forchetta. Dany trovò le sigarette di Roman e fumò in silenzio. Roman camminava in Central Park verso sud. Le foglie frusciavano, mentre il vento prendeva forza e rinfrescava la popolazione notturna del parco fatta di vagabondi e di ladri. Lo zingaro continuò a camminare indisturbato. Una pioggia leggera lavava l'aria. Aveva pensato di camminare fino a calmare la collera, ma si ritrovò davanti a St. Patrick, sotto la pioggia che adesso era più forte. Provò uno dei portali della cattedrale, che si aprì, lasciandolo entrare. Non c'era traccia né di addetti alle pulizie, né delle guardie di Reggel. Roman pensò che sarebbe stato tipico degli ungheresi piazzare gli uomini nei confessionali. Accanto alla cappella delle sante reliquie, la porta che dava alla scala di una delle gallerie era aperta. Cominciò a salire senza che nessuno lo fermasse. Il rumore della pioggia attutiva quello dei suoi passi. La luce intermittente dei lampi illuminava la navata; le colonne emergevano per un attimo dal buio per poi ripiombare nell'oscurità. I tuoni facevano tintinnare i candelabri sospesi e ondeggiare leggermente i cappelli dei cardinali, alti sopra l'altare. Roman si diresse verso la cantoria dell'organo. La luce dei lampi arrivava fin dentro i confessionali e lo zingaro vide che erano vuoti. La testa gli si piegò indietro di scatto, mentre un braccio gli passò intor-
no al collo e un altro gli premette nella schiena. Colpì la balaustrata della galleria all'altezza della cintura e si aggrappò alla pietra con la punta delle dita, piegato in avanti. Un braccio poderoso come una trappola antiuomo gli piegò la testa ancora più all'indietro. Mentre sentiva le dita scivolare dalla balaustrata, Roman allungò una gamba di lato e con un piede riuscì ad agganciare una delle sottili colonne della galleria. Il braccio intorno al collo lo costrinse a staccarsi dall'appiglio e il pavimento della chiesa, venti metri più in basso, sembrò improvvisamente più vicino. Agitò le braccia senza trovare niente a cui aggrapparsi. «No!» cercò di dire, ma il braccio lo soffocava. Sentì qualcosa di freddo e duro sul collo. Il cane di una pistola scattò con un rumore secco vicino all'orecchio. Mentre la canna premeva sempre di più sotto la mascella, il braccio si staccò lentamente dal collo. «Sono io» mormorò Roman. «Sono io.» Percepì l'indecisione dell'altro, il cui peso tuttavia continuava a tenerlo piegato in avanti, verso il vuoto. «Tirami indietro, Reggel. Tu non vuoi uccidermi, vero?» Il cane della pistola ritornò nella propria sede. L'altro braccio sollevò di peso Roman all'interno della balaustrata e poi lo lasciò andare. Lo zingaro si lasciò cadere sul pavimento e rotolò sulla schiena. La prima cosa che vide fu la pistola ancora puntata su di lui. Reggel sembrava l'angelo della notte. Dopo avere strisciato nei recessi più inaccessibili della cattedrale, capelli e abiti erano neri. Gli zigomi erano mezzelune sporche sotto gli occhi arrossati. «Cosa stai facendo?» gli domandò Roman. «Aspetto di ucciderlo.» «In chiesa?» Un lampo colpì Madison Avenue al di là delle finestre azzurre della Lady Chapel. La pistola di Reggel sobbalzò nella mano, ma poi tornò subito su Roman. «Quello che hai detto a proposito della Sacra Corona... che è un falso essa stessa... era la verità o una bugia?» Roman fissò la pistola, aspettò la fiammata, ma dopo un poco, l'arma si abbassò e Reggel si appoggiò alla parete. «Ho deciso che hai mentito» disse Reggel. Roman si rialzò. Sentì affluire nelle mani il sangue che si era raggelato all'immediata prospettiva della morte. «Diciamo che era una teoria, se preferisci.»
Reggel si ritirò ancora di più nell'ombra. «All'inizio ho pensato che tu fossi Odrich.» «Poi ti sei reso conto che ti sarebbe piaciuto uccidere anche me. Lo so. Il magiaro riemerge allo scoperto.» Un lampo attraversò la Quinta Avenue e il tuono soffocò le parole di Roman. In quella brevissima pausa vide in Reggel un animale che raccoglieva le proprie forze. «Perché sei solo?» «Perché no? Un tempo in Ungheria, quando costruivano un castello, lasciavano sempre un uomo imprigionato nei suoi muri. Questa chiesa mi reclama. Fino a quando la Sacra Corona sarà qui dentro, io devo restare. Solo che non riesco a trovarla. Ho cercato dappertutto. E se la corona non è qui, la chiesa mi reclama comunque.» «Potrebbe reclamare di meglio.» «Ah.» Nella voce di Reggel filtrò una nota di razionalità. «Tu, tanto per cominciare, dovresti essere esonerato.» «Le chiese non reclamano gli zingari.» Qualcun altro entrò in chiesa. Era un uomo senza impermeabile, che si appoggiò all'acquasantiera e tossì violentemente finché non si liberò i polmoni. Dall'acquasantiera si spostò alle candele votive accese, davanti alle quali si scaldò le mani. Le candele brillavano intorno a lui come una pira e la luce si rifletteva sulle statue della cappella. Reggel si sporgeva dalla balaustrata come se avesse voluto buttarsi giù. «Quand'è stata l'ultima volta che hai dormito?» gli chiese Roman. «Tu vedi cose che non esistono.» «Odrich lo vedrò di sicuro.» «Solo se in quel momento ti capiterà per caso di delirare davanti alla porta giusta. Odrich ha tutte le chiavi che hai tu, ha quattro uomini e sa dove deve andare. Tu invece sarai l'unico protettore della Sacra Corona e loro ti passeranno sopra. Schiacciandoti, se dovranno. Visto come ti stai comportando, tra un po' comincerai a sparare ai fantasmi.» «Non sono pazzo come credi. La chiesa dev'essere vuota, in modo che loro mi portino alla corona. Ucciderò Odrich e gli altri scapperanno.» Roman si sedette sulla balaustrata, assicurandosi che la schiena fosse saldamente appoggiata a una colonna. «Reggel, tu sei un romantico.» L'uomo in basso, per niente romantico, scosse la cassetta delle elemosine. Roman non sentì il rumore a causa della pioggia, ma il ladro non sem-
brò scoraggiato. Si avvicinò all'espositore dei dépliant e cominciò ad afferrarli con lo zelo di un neoconvertito. Quando ne ebbe raccolto un bel po', trasportò il suo bottino fino a un banco, si sedette e si tirò su le gambe dei pantaloni. Due dépliant vennero infilati all'interno di ciascun calzino, cinque o sei dentro i pantaloni e il resto venne strategicamente distribuito sotto la camicia. «Per stare un po' più caldo» spiegò Reggel. «In Russia facevamo esattamente la stessa cosa con i libri religiosi, ma per altri motivi. Una buona bibbia può fermare una pallottola.» Tenendosi ferma con le mani la sua armatura di dépliant, il visitatore corse verso l'uscita di St. Patrick. Reggel e Roman sentirono i suoi passi nel vestibolo, il portale che si apriva e uno scroscio di pioggia che entrava. «Visto che sei qui, rimani pure. Tienimi sveglio, come i ciganyi che suonavano per incoraggiare i soldati in battaglia.» Roman inclinò la testa di lato. «Sei sicuro di non parlare dei cannibali?» Comunque rimase. I due uomini passarono il resto della notte chiacchierando a proposito del prossimo viaggio dello zingaro. A poco a poco Reggel si entusiasmò, quasi avesse dovuto partire anche lui. «Sarai mio ospite a Budapest, rimarremo sul lato del fiume di Buda.» Il viso gli si addolcì nel ricordo della città. Mentre parlava, dal Rockefeller Center i lampi risalivano danzando la Cinquantesima Strada. Roman non poteva fare a meno di guardare lo spettacolo sons et lumière delle vetrate istoriate. Sulla veste di rose di Santa Elisabetta, la sagoma nera di una foglia di tiglio capovolta, simile a un seme di picche, premette di colpo contro il vetro e sparì nel successivo rovescio di pioggia. «Cosa c'è, Romano?» «Niente. Cosa stavi dicendo?» Prima che Reggel potesse rispondere, la porta della cattedrale si aprì di nuovo. Kore si avvicinò agli ultimi banchi sul fondo, scuotendo la pioggia dal cappello. Dany lo seguiva. «Io vado, Reggel» disse Roman pacatamente. «Allora, dimmi: cos'hai intenzione di fare a proposito della tua minaccia? Cosa succederà ai Rom in Ungheria?» «Non c'è niente che io possa fare. Gli ordini vanno eseguiti. Certo, se avessi la corona sarebbe diverso.» «Io ti darò la Sacra Corona per i Rom.» Dany e Kore si guardarono intorno, ma non riuscirono a individuare gli uomini nella galleria.
«Stai bluffando, zingaro. Tu non hai la corona.» «Ma so dov'è. Tra poco arriveranno i sagrestani. Tu puoi andartene adesso e chiamare Budapest dalla delegazione. Ci vorrà ancora un'ora circa prima che in Ungheria gli esperti capiscano di avere un falso. Ritira l'ordine e lascia il resto a me.» «Come potrai sapere che avrò fatto quello che chiedi?» «Lo saprò. E se mi sbaglio a proposito della corona, tu potrai sempre mettere in pratica la tua minaccia.» Dany era accanto alla porta. Esasperato, Kore borbottò qualche imprecazione e la raggiunse. «Zingaro, dimmi la verità. Io voglio crederti. Quando hai scoperto dov'è la corona?» «Me l'hai fatti vedere tu, capitano. Quando hai cercato di uccidermi.» 20 All'aeroporto Kennedy, Csonka non voleva correre alcun rischio per quanto riguardava la consegna a Budapest del suo ex capo. Fino a quando non fosse partito il loro volo, avrebbe costretto Regge] a starsene seduto sopra un water nel bagno degli uomini, tenendolo sotto mira dai lavandini di fronte. Un'altra guardia di sicurezza alla porta allontanava gli intrusi. Tuttavia due ragazzi riuscirono a entrare. Erano troppo occupati a lottare tra loro per prestare attenzione agli ungheresi e alle loro pistole. I ragazzini erano scuri e somiglianti come fratelli, ma uno dei due era più alto e riuscì subito a costringere l'altro a terra. Quello sul pavimento cominciò a urlare come se fosse stato in pericolo di vita, anche se nessuna delle ex guardie di Reggel capiva cosa gridava. Con uno sforzo sovrumano, il ragazzo più piccolo riuscì a liberarsi. Avvinghiati l'uno all'altro, urtarono violentemente la guardia alla porta e gli fecero cadere accidentalmente la pistola di mano. Un piede calciò l'arma al di là della porta, mandandola nella sala. La guardia si tuffò sulle mani e le ginocchia per riafferrarla, ma ricomparve lentamente nel bagno, strisciando carponi all'indietro, mentre Roman entrava con la pistola in pugno. Reggel disarmò Csonka. «Ci spetta una pistola?» domandò Racki Petulengro. «Vi spetta guidare l'auto del magiaro» rispose Roman. «Il quale questa volta non avrà nulla da obiettare.»
Era pomeriggio e i ragazzi stavano già confluendo armati di coperte a Central Park in vista del concerto all'aperto. In attesa dell'inizio, ascoltavano musica rock alla radio. I notiziari non fecero alcun cenno alla corona. La giornata calda si trasformò gradualmente in una sera limpida, e quando il concerto cominciò, nel parco erano circa in ventimila tra hippie e quelle che le riviste illustrate definivano "coppie in carriera". A Times Square esponenti di un'altra generazione diretti a teatro cercavano di evitare le prostitute e di nascosto lanciavano occhiate alle locandine degli spettacoli a luci rosse. Di fronte a St. Patrick, in un ufficio del Saks Building, il telefono squillò. Il detective seduto alla scrivania abbassò il volume della radio che trasmetteva il secondo inning della partita dei Mets contro i Phillies e sollevò il ricevitore. Dopo un secondo spense del tutto la radio. Il suo collega, armato di fucile e binocolo e seduto al buio nell'ufficio adiacente, aspettava con impazienza che la partita di baseball riprendesse. Il poliziotto alla scrivania riattaccò. «Pensa un po': era la delegazione ungherese. Ci hanno chiesto di arrestare il loro capo della sicurezza.» «Perché?» domandò l'altro dall'ufficio buio. «Comunque gode dell'immunità diplomatica.» «Pare che si sia rifiutato di tornare in Ungheria o roba del genere. I suoi uomini hanno paura di effettuare l'arresto e così vogliono che ci pensiamo noi. È un accidente di situazione.» Il collega finalmente comparve nel vano della porta con il fucile in mano e un'espressione neutra in viso. «Dicono che sia là dentro» continuò il detective alla scrivania, indicando St. Patrick al di là delle veneziane abbassate. «Con Isadore. Il quale Isadore ci ha detto di non mettere piede in chiesa a meno che non succeda qualcosa. Noi da chi dobbiamo prendere ordini? Dall'ufficiale incaricato del caso o dagli ungheresi?» «Telefona al capo e scoprilo.» Erano le ventidue, sei ore dopo che Roman aveva liberato Reggel. Lynch era a Long Island per il matrimonio di sua figlia; approfittando dell'assenza del sindaco, ancora in Sudamerica, aveva utilizzato il suo cottage estivo per il ricevimento. La cameriera che rispose al telefono disse che la festa era già terminata e che i Lynch erano andati al ristorante con alcuni amici. I detective presero nota del numero di telefono del locale. Era procedura standard che il capo del dipartimento potesse essere sempre rag-
giunto telefonicamente, tuttavia Lynch non era al ristorante indicato. Alvan Meyer, capo dei detective, rispose immediatamente al telefono che squillava sul comodino. Era un uomo grande e grosso, a cui le preoccupazioni avevano dato occhiaie che lo facevano sembrare un panda. Ordinò ai detective nel Saks Building di restare dove si trovavano finché lui non li avesse raggiunti. Sua moglie l'aiutò a vestirsi, ma Meyer abitava a Staten Island e arrivò al Saks solo verso mezzanotte. Con lui c'era il comandante del diciassettesimo distretto. Nessuno era ancora riuscito a rintracciare Lynch. «Ha scelto un bel momento per sparire» commentò Meyer. Tutti sapevano che Lynch lo aveva scavalcato nella nomina al dipartimento. Meyer si avvicinò alla pianta della città sul pannello di sughero nell'ufficio. Otto puntine da disegno rosse e blu circondavano l'isolato occupato da St. Patrick. «Ero convinto che la corona fosse tornata in Ungheria.» «Infatti, ma Isadore giura che quella banda di tedeschi colpirà questa notte.» «Colpirà che cosa?» Meyer prese in mano il rapporto su Odrich e lo lesse attentamente. «Le puntine azzurre rappresentano la sorveglianza intorno alla chiesa e le rosse sono le automobili senza contrassegni con agenti in borghese a bordo.» Nervosamente e per forza dell'abitudine, il detective spiegò il significato delle puntine sulla pianta. Meyer posò il foglio sulla scrivania. «Isadore pensa di essere un maledetto storico. Una banda ha intenzione di fare un colpo in una chiesa vuota? E perché non è qui, se questo è il posto di comando?» «Non lo so. Non ha voluto prendere con sé neppure una radio.» «Sedici detective intorno a una chiesa vuota.» Meyer si mise le mani in tasca. «E l'ungherese. Che razza di trappola è questa?» Meyer passò nell'ufficio buio e guardò dalla finestra. Il suo istinto era quello di entrare nella cattedrale, arrestare l'ungherese e dare una buona ripassata a Harry Isadore. Non che avesse nulla di particolare contro di lui, ma quella era la prima volta che aveva la possibilità di mettere Lynch in una situazione imbarazzante. Ciò che lo trattenne fu l'edificio che vedeva con la coda dell'occhio, il piccolo palazzo bianco del cardinale. Killane poteva essere l'unica ragione per cui Lynch aveva assegnato tanti uomini a un'inutile sorveglianza e c'e-
ra una profonda differenza tra mettere in imbarazzo Lynch stesso e attaccare apertamente un cardinale. La soluzione era assumere il comando, assicurarsi che l'ungherese non scappasse e far sapere al "Times" quanti detective erano stati malamente impiegati senza che il loro stesso capo, cioè lui, ne sapesse nulla. «Non dovremmo per lo meno cercare di metterci in contatto con il vice?» domandò il capo del distretto quando Meyer rientrò nell'ufficio. La catena di comando andava da Lynch al suo vice e nessuno ne era più consapevole di Meyer. «Questa è un'operazione con agenti in borghese, non importa chi l'ha organizzata» dichiarò Meyer. «Se vuole dare una mano, può far setacciare l'intera area.» Alle due di notte l'unico personaggio sospetto fermato nel corso dei controlli risultò essere un agente della BOSSI. Il Bureau of Special Services and Investigations continuava a seguire Reggel autonomamente per aggiornare la propria pratica ungherese. «Senta» si lamentò Meyer «la delegazione ungherese ci telefona ogni dieci minuti perché facciamo irruzione là dentro e fermiamo quel loro capitano che oggi non ha voluto salire sull'aereo. Voi cosa ne sapete?» L'uomo della BOSSI chiese di poter telefonare al suo quartier generale, prima di rispondere. Ci vollero due minuti. «Okay. Abbiamo seguito Reggel fino all'aeroporto. Aveva una prenotazione su un volo delle Czechoslovak Airlines con coincidenza per Budapest. Immagino che abbia cambiato idea, perché è tornato in città in compagnia di alcuni zingari e si è rintanato in un palazzo di appartamenti abbandonato in Houston Street. Ma perché lo chiedete a me? È stato il detective Isadore quello che è passato a prendere Reggel in Houston Street e l'ha accompagnato in chiesa. Domandate a lui.» «Isadore!» esplose Meyer. «Ecco perché non ha voluto una radio: perché non potessimo fargli domande.» «Vogliamo chiamare il vice adesso?» suggerì il comandante. «No» rispose Meyer. «Adesso entriamo in quella chiesa. Chiamatemi il cardinale.» Nel frattempo, come un planetario meccanico difettoso, la città continuava ad agitarsi. Un treno della metropolitana ebbe un guasto e lasciò appiedati alla stazione di Columbus Circle centinaia di amanti della musica, che dopo il concerto, cercavano di andarsene. La polizia a cavallo, ignara del proble-
ma, cercò di incanalare i ragazzi di nuovo verso la stazione. Un accurato lancio di bottiglie fece cadere un poliziotto da cavallo e, prima ancora che qualcuno se ne rendesse pienamente conto, ebbe inizio una piccola rivolta. Problemi analoghi si stavano sviluppando ad Harlem. Un negozio di liquori subì una rapina a mano armata e, mentre i ladri scappavano, il proprietario li inseguì impugnando la sua pistola, per la quale non aveva il porto d'armi. Ne uccise uno, solo che quelli presenti in Lenox Avenue non erano per niente sicuri che il negoziante bianco avesse sparato al nero giusto. L'uomo corse di nuovo nel proprio negozio e chiuse tutte e tre le serrature della porta. Porta e vetrine erano protette da una robusta rete metallica, perciò si sentì ragionevolmente al sicuro finché i vetri non esplosero verso l'interno per un colpo di fucile. Le auto della polizia cercarono di convergere sulla scena del fatto, ma gli abitanti del quartiere glielo impedirono con barricate di rifiuti incendiati. A quel punto avrebbero già dato fuoco anche al negozio, ma stavano cercando un sistema per salvare i liquori. I detective nel Saks Building avevano appena posato il ricevitore sulla forcella quando il telefono squillò di nuovo: il vice voleva sapere dov'era Lynch e perché Meyer si trovava lì. Il ventiduesimo distretto richiedeva altri agenti neri in borghese per Lenox Avenue. Il comando di Central Park voleva tutti gli uomini disponibili a Columbus Circle. E gli ungheresi domandavano notizie di Reggel. Quando Killane entrò nell'ufficio, il capo Meyer stava uscendo. «Volevo solo avvertirla che stiamo per entrare in St. Patrick per prendere in custodia un uomo. È un funzionario della sicurezza ungherese, il quale non ha alcun motivo di trovarsi là dentro. L'operazione è su richiesta della sua stessa delegazione.» Killane si era concesso di indossare la cappa di principe della Chiesa. La sistemò con cura sui braccioli della poltrona, in modo da non spiegazzarla sedendosi. Meyer si agitava ansioso accanto alla porta. «Adesso procedo» sottolineò. «Con quale autorità?» domandò Killane. Monsignor Burns accese la sigaretta del cardinale, vuotò un portacenere, lo sistemò accanto a Killane e informò Meyer che al cardinale bisognava rivolgersi con il titolo di eminenza. «Eminenza, abbiamo un paio di rivolte, questa sera. Devo richiamare alcuni degli uomini di sorveglianza qui, per cui sono costretto a procedere immediatamente al fermo dell'ungherese. Adesso non ho tempo per discu-
terne.» «Cos'ha fatto quell'uomo?» Con un gesto enfatico, Meyer controllò l'ora al suo orologio da polso. Il cardinale aveva impiegato trenta minuti per attraversare la strada dalla sua residenza. «Cardinale... eminenza, abbiamo una denuncia. Adesso vado ad arrestare quell'uomo, mi occupo del detective che è là dentro con lui e poi vado a fare il lavoro per il quale la città mi paga.» Killane rimase impassibile come un ragno nella sua tela. «Mi faccia vedere la denuncia, capo Meyer.» Meyer ebbe un attimo di incertezza. Sentir pronunciare il proprio nome da Killane gli ricordava di essere un ebreo alle prese con un cardinale cattolico e che dei detective cattolici stavano ascoltando la conversazione. «Vede, eminenza, in questo momento nella cattedrale è in corso un'operazione di sorveglianza. Non ho bisogno di una denuncia scritta per occuparmi di persone non autorizzate che ostacolano il lavoro della polizia.» «Quell'uomo è là dentro su mia autorizzazione.» «E su quella di Lynch» ribatté immediatamente Meyer. «Perfetto.» Killane si sistemò meglio in vista di una lunga attesa. «Allora aspettiamo il signor Lynch.» Per il momento Meyer era in angolo e lo sapeva. «Va bene, eminenza, non entrerò subito là dentro perché ci sono cose più importanti da fare. E per farle ho bisogno di ogni detective assegnato alla chiesa. Con un po' di collaborazione avremmo potuto concordare qualcosa. Così come stanno le cose... mi dispiace molto.» Killane ascoltò Meyer dare ordine al detective seduto alla scrivania di richiamare tutte le auto e tutte le squadre. «Purtroppo non riusciamo a contattare il sergente Isadore» disse Meyer. «Continuerà lui la sorveglianza.» I detective, con radio e fucili, seguirono l'uscita del loro capo. I due ecclesiastici rimasero soli. «Sua eminenza è stata davvero grande» applaudì Bums. «Sì, così grande che St. Patrick adesso è priva di protezione.» «Cos'ha intenzione di fare ora?» Killane guardò Burns con blanda sorpresa. Per una volta, il monsignore pensava che il suo cardinale avesse una risposta. 21
Alle quattro di mattina le strade intorno alla cattedrale di St. Patrick erano deserte, così come le postazioni di sorveglianza. Gli unici veicoli parcheggiati erano i camion di proprietà dell'impresa di pulizie che avrebbe cominciato a lavorare all'interno della chiesa nelle prime ore di lunedì. Le auto della polizia che di solito pattugliavano regolarmente la Quinta Avenue erano in servizio speciale sulla Centoventicinquesima Strada e in Lenox Avenue. Con loro c'era finalmente anche Lynch. Dal Cile il sindaco aveva telegrafato un messaggio preoccupato. Le portiere del camion al centro della fila si aprirono. Dal veicolo scivolò fuori un uomo che attraversò la strada, si avvicinò alla porta nel muro bugnato e l'aprì con una chiave di gomma durissima che non avrebbe fatto scattare l'allarme elettrico. Dal camion scesero altri quattro uomini. Odrich, i capelli bianchi che davanti cominciavano a ricrescergli, richiuse la portiera. Anche se la squadra di sorveglianza fosse rimasta nella sua postazione sopra il ristorante, era improbabile che riuscisse a vederlo. La parte posteriore del camion era ad angolo rispetto al ristorante e la fila di veicoli bloccava la vista della porta del locale caldaie. Fu Odrich a guidare il gruppo all'interno del locale. I cinque uomini indossavano tutti pullover neri, pantaloni e scarpe da tennis dello stesso colore; due di loro avevano rotoli di corde di nylon. In fondo alla stanza, il primo punto in cui il locale si trovava direttamente sotto la chiesa, Odrich aprì la serratura della porta che conduceva a una scala a chiocciola di metallo. Isadore diede un'occhiata all'orologio: le quattro e dieci. Erano passate nove ore da quando era entrato nel confessionale e si era seduto nel posto riservato al sacerdote; Roman gli aveva detto che quello era il punto migliore da dove tenere d'occhio la Sacra Corona. Non che potesse vederla. Però doveva essere là, pensava il detective, perché non c'era alcun altro posto dove poteva trovarsi. Nessun altro posto altrettanto ovvio e perfettamente nascosto. Inoltre doveva per forza essere là, perché in caso contrario poteva considerarsi disoccupato. Attraverso la grata del confessionale, lanciò un'occhiata a Roman, il quale dormiva sul sedile del penitente. Tipico, si disse Isadore. Spostò la sua stanca attenzione sul pannello ai suoi piedi. Ogni accesso a St. Patrick era collegato a quel pannello e se solo qualcuno avesse inserito una chiave nella serratura, si sarebbe accesa una spia
rossa. Il pannello era spento. Isadore si fregò le gambe indolenzite. Il confessionale di fronte al suo, sull'altro lato della navata, era semiaperto. Era la postazione di Reggel. Dopo la prima ora l'ungherese era scivolato nel familiare ipnotismo delle candele tremolanti. Dopo otto ore quell'incerta illuminazione arancione creava sorrisi sui visi delle statue di marmo che lo fissavano dalle loro cappelle, sorrisi di distaccato umorismo o, da parte delle statue con la corona in testa, di aperta presa in giro. Le pupille di Reggel si allargavano nel buio. Isadore sentì picchiettare sulla grata: Roman era sveglio e puntava un dito verso l'alto. Isadore ascoltò, non sentì nulla e inarcò interrogativamente le sopracciglia. Lo zingaro indicò di nuovo verso l'alto. Il detective guardò il pannello: nessuna spia accesa. Scosse la testa. Oltre a indicare l'alto, Roman aveva sollevato due dita. A quel punto sentì entrare in circolo sudore e adrenalina. Il silenzio non era d'aiuto. Aprì la tendina abbastanza da poter vedere Reggel. L'ungherese era immobile come una statua. Isadore si aprì la giacca, tastò il revolver infilato in cintura, poi guardò di nuovo attraverso la grata. Questa volta Roman indicò l'altro lato del presbiterio. Isadore diede un'ultima occhiata al pannello elettrico: ancora spento. Be', al diavolo il pannello, pensò, ed estrasse la pistola. Non era più possibile fraintendere i gesti di Roman. Facendo attenzione, aprì la tendina e guardò direttamente la galleria sul lato sud del presbiterio. All'inizio non vide altro che le colonne della galleria stessa e, quando gli sembrò di cogliere un movimento, gli parve così impercettibile da pensare che si fosse trattato della sua immaginazione. Ma il movimento si avvicinò e lui riuscì a distinguere una testa. Sicuro di sé, Odrich si sporse dalla balaustrata per controllare la chiesa deserta. Roman non rimase deluso. Il viso nella galleria era sottile, con lineamenti forti, e la testa parzialmente rasata accentuava la fronte alta. L'uomo non dava alcun segno di preoccupazione e gli occhi chiari erano tranquilli. Era il volto di un uomo pienamente consapevole del fatto che, nella mezza età, era fisicamente e intellettualmente più pericoloso di quanto fosse mai stato. Un viso che sembrava inciso nell'argento. Due facce più giovani si avvicinarono a quella di Odrich. Gli altri preti, pensò Roman. Uno di loro salì sulla balaustrata. Rimase un attimo in equilibrio, poi piegò le ginocchia e si buttò. A un metro e mezzo nell'aria, afferrò la cate-
na di un candelabro. Quando la catena oscillò verso la galleria, l'altro assistente di Odrich l'afferrò e la tenne ferma. L'intera operazione non aveva prodotto più rumore di un alito di vento che avesse sfiorato le finestre. L'uomo che tratteneva la catena la tirò ancora di più verso la parete. Con la velocità di un ginnasta, l'altro si arrampicò velocemente lungo la catena stessa fino a raggiungerne l'estremità, fissata nel vano di una finestra nella parete sovrastante la galleria, a trenta metri dal pavimento. Si arrotolò il fondo del maglione, rivelando un alto cinturone munito di cinghie da roccia. Alpine Korps, ricordò Isadore. Dalla galleria la catena del candelabro venne spostata prima verso destra e poi verso sinistra, in modo che lo scalatore potesse fissare le cinghie ai due lati della cornice di piombo della finestra. L'uomo lasciò andare la catena e cadde nel vuoto per non più di trenta centimetri, trattenuto dalle cinghie davanti alla finestra, nel punto in cui i pannelli colorati si congiungevano in trifogli di pietra. Sul loro lato del presbiterio, Roman e Isadore udirono di nuovo il medesimo, debolissimo suono di un corpo appeso alla catena del candelabro e, quando la catena venne afferrata, una specie di sussurro. Lo scalatore sulla finestra sud sciolse il rotolo di fune fissato alla spalla. Isadore guardò verso il confessionale di Reggel, che non aveva visto né sentito nulla. Labbra di pietra gli sorridevano in silenzio. Sospesi a un'altezza di dieci piani dal pavimento ai due lati del presbiterio, gli scalatori sembravano possedere la facoltà del volo. Le loro teste sfioravano la sommità delle finestre e, quasi a portata di braccio, c'erano i grandi costoloni del soffitto che si incontravano a formare tre soli di granito. Entrambi si trovavano ben oltre il raggio della ricerca effettuata dalla polizia e Roman poteva capirne il motivo: tra le decorazioni, i medaglioni e i costoloni della visione gotica del paradiso non c'era un solo posto in cui nascondere la Sacra Corona. La fune volò attraverso il soffitto e venne afferrata. Roman guardò l'uomo sulla finestra sud passare la sua estremità della corda attraverso i moschettoni fissati alla finestra e ritenne che la stessa operazione stesse avvenendo sul lato nord. Odrich si arrampicò lungo la catena del candelabro. Era più veloce e agile dell'uomo più giovane di lui che l'aveva preceduto. Raggiunse il posatoio rappresentato dalla finestra come un uccello riluttante ad atterrare. In un unico movimento, si voltò verso la corda tesa at-
traverso il presbiterio e si lanciò. Sul pannello di Isadore si accese una spia rossa, ma il detective ormai non ci badava più. Spostando una mano dopo l'altra, Odrich avanzava lungo la fune tesa orizzontalmente, mentre la sua ombra lo seguiva nuotando sul soffitto verde. Lo zingaro aveva ragione, adesso Isadore lo sapeva con certezza. Odrich si fermò al centro della fune, con i piedi che dondolavano sopra il ciborio dell'altare. Sopra di lui, nell'ultima stella del soffitto, c'era una colomba. Dalla colomba pendeva un cappello da cardinale. Erano quattro i cappelli appesi al soffitto e adesso erano tutti immobili, ma durante il temporale tre di essi avevano ondeggiato leggeri mentre uno era rimasto fermo. Roman li aveva visti benissimo quando Reggel aveva tentato di buttarlo giù dalla galleria. Odrich allungò una mano tra i cavi fissati all'ampia tesa del cappello. Quando sollevò la falsa copertura del copricapo, nel buio scintillò un bagliore dorato. Con estrema cautela, il tedesco prese la Sacra Corona, afferrandola per la croce. Roman e Isadore scostarono le tendine del confessionale. Nessun segno di Reggel. Odrich intrecciò le gambe intorno alla fune, dopo aver assicurato la corona alla cintura. Aveva appena iniziato il percorso di ritorno quando improvvisamente si accesero tutte le luci della cattedrale. Killane era in piedi di fianco all'altare, accanto al pannello che controllava l'illuminazione. Aveva indossato la casula. «In nome di Dio, ti ordino di fermarti!» Isadore, adesso fuori del confessionale, fece freneticamente segno al cardinale di allontanarsi. L'uomo sulla finestra sud puntò l'automatica calibro 22 allo stomaco del detective. L'arma era stata scelta per la sua compattezza e la relativa silenziosità anche senza silenziatore e per colpire da vicino, piuttosto che per potenza di fuoco o bersagli lontani. Roman emerse dal confessionale mentre l'arma faceva fuoco. La calibro 22 produsse meno rumore di una porta che sbatteva, ma Isadore crollò a terra nella corsia. Roman lo trascinò dietro un banco. Isadore si ribellò. «Maledizione, non mi ha colpito!» Le luci e i rumori avevano scosso Reggel, che adesso si trovava nella navata sud. Ignorò gli uomini sulle finestre e nelle gallerie e mirò direttamente a Odrich. A gambe aperte, stringeva la pistola con entrambe le ma-
ni. «Colonnello, di' ai tuoi uomini di non sparare, altrimenti ti uccido.» Odrich oscillava sulla fune con la corona che gli pendeva sul fianco. Dalle finestre due calibro 22 puntarono su Reggel. Odrich pensò che almeno un proiettile avrebbe centrato il bersaglio, ma a meno che non avesse colpito un occhio o il cuore, non sarebbe stato sufficiente a fermare l'ungherese, che avrebbe avuto la possibilità di sparare. «Capitano, rifletti: se mi spari, cosa succederà alla corona?» gridò dall'alto. «Si è già rotta in passato. Di' ai tuoi uomini di gettare le armi.» Mentre Odrich rifletteva, il poliziotto grasso che lui riteneva morto si rialzò in piedi. Isadore puntò il revolver su Odrich. «No, Reggel. Uno scambio: la Sacra Corona per il cardinale. Tu non muoverti!» gridò a Isadore, che aveva fatto un passo avanti. «Altrimenti, invece di discutere, cominceremo tutti a sparare. Dopo tutto, noi abbiamo quattro pistole contro le vostre due, e il cardinale è un uomo anziano.» Reggel piantò i piedi sul pavimento e trattenne il fiato. Odrich capì solo all'ultimo momento la decisione dell'ungherese. Alzò la testa verso il soffitto quanto più gli fu possibile. Il rumore prodotto dalla pistola di Reggel fu un'esplosione, a paragone della calibro 22. La corda si spezzò. Odrich rimase aggrappato alla fune e, oscillando a testa in giù, andò a sbattere contro la finestra istoriata. Rimbalzò e prese a ruotare su se stesso, ma continuò a stringere la corona. Il vetro non si era rotto perché l'impatto della caduta di Odrich era stato in parte assorbito dall'uomo appeso sulla finestra sud. Era ancora sulla finestra, ma non più appeso. La sua cintura rotta penzolava fuori portata lungo un lato della finestra. Perfino Reggel abbassò la pistola. L'uomo aveva braccia e gambe spalancate come le punte di un compasso contro le decorazioni trilobate della finestra. Tutto ciò che gli impediva di cadere era la tensione delle mani e dei talloni premuti nella pietra scolpita. Dal basso, tutti potevano vedere il suo corpo inarcato sopra il presbiterio e, con le luci accese, il bianco degli occhi mentre l'uomo guardava l'amico sulla finestra di fronte. Il collega nella galleria sottostante cercò di avvicinargli la catena del candelabro, ma la manovra era impedita da Odrich. «Jozsef» gridò Odrich appeso alla corda. «La cintura!» La testa si voltò lentamente, rifiutando di lasciarsi prendere dalle vertigini. Un piede scivolò e la caviglia colpì la pietra. L'uomo tese la mano si-
nistra. La cintura era distante più di un metro, tra la finestra e un pilastro che si innalzava verso il soffitto. «Salta!» gli ordinò Odrich. Mentre anche l'altro piede stava scivolando, l'uomo saltò. La figura si capovolse agilmente nell'aria, pilotando la caduta verso i costoloni che si curvavano al centro della chiesa e ai quali si aggrappò per un secondo. L'uomo tese un braccio verso Odrich e gli lanciò uno sguardo implorante prima che la presa disperata cedesse, ma il tedesco rimase aggrappato alla corda con una mano e continuò a stringere la corona con l'altra. L'uomo di nome Jozsef atterrò dietro il coro. L'altro scalatore guardò affascinato una delle scarpe del morto rotolare attraverso tutto il presbiterio e fermarsi sotto la balaustrata della comunione. Distolse a fatica lo sguardo per fissare incredulo Odrich. La catena venne fatta ondeggiare fino a raggiungere le mani dello scalatore. Gli argani che azionavano le catene vennero aperti e uomini e candelabri cominciarono a scendere verso il pavimento. Roman e Isadore scattarono lungo la navata centrale verso il portale sulla facciata, mentre i tre che avevano abbandonato Odrich correvano lungo una navata laterale. Roman sentì il detective dietro di lui urlargli di togliersi dai piedi, ma le navate erano l'equivalente di uno sprint di cinquanta metri. Si accorse che Isadore perdeva terreno. Quando i cinque uomini arrivarono nel vestibolo, Isadore soffiava come una locomotiva a vapore. Il primo a varcare la porta fu uno sprinter alto e biondo; Roman ricordava di averlo visto a bordo della decappottabile. Lo zingaro fu il secondo. Poi fu la volta di due degli uomini di Odrich. Uno si voltò e puntò la pistola contro Isadore, ma il detective colse l'occasione per gettarsi sul pavimento in una specie di placcaggio. L'uomo con la pistola crollò a terra, facendo cadere anche il suo amico. All'esterno Roman e lo sprinter rotolarono lungo la scalinata verso il marciapiede. Lo sprinter fu il primo a rialzarsi e fece per afferrare la sua pistola, ma si immobilizzò immediatamente quando la vide nella mano di Roman. Odrich intanto era sceso lungo un tratto della catena ed era saltato nella galleria. Reggel, che aveva ignorato gli uomini scesi nel presbiterio, corse verso la scala. Arrivò nella galleria, ma la trovò vuota. La porta in fondo era aperta. Si
fermò dove si trovava ed esplose un proiettile 7.65 che perforò entrambi i lati della vicina presa d'aria. Poi mirò all'altra. Odrich schizzò dalla seconda presa d'aria, sparando. Varcò la porta aperta prima che lui potesse rialzarsi da terra. Reggel si chiese dov'erano tutti i detective che si supponeva dovessero trovarsi lì. Al di là della porta c'era un'area in cui l'ungherese era stato soltanto una volta, un buio passaggio di legno che collegava la galleria sud a quella nord nello spazio tra il soffitto a cupola della Lady Chapel e il tetto di rame della cattedrale. Là, come un verme in un teschio, Odrich avrebbe aspettato di vedere la sua figura stagliarsi nella luce del vano della porta. Si appiattì contro la parete di fianco alla porta. Sotto, nel presbiterio, Killane si inginocchiò accanto alla scarpa e al calzino che spuntavano da dietro lo scanno del coro. «È morto, cardinale. Si fidi di me.» Reggel puntò all'altare. Con il primo colpo, le luci dell'ambulacro si abbassarono. Con il secondo, il pannello dell'illuminazione esplose e la cattedrale sprofondò nel buio. Reggel si tuffò al di là della porta. La prima cosa in cui inciampò fu un barattolo di vernice piazzato al centro del passaggio. L'ungherese cadde, ma continuò ad avanzare sulle mani e le ginocchia finché non riuscì a rimettersi in piedi. La calibro 22 del tedesco schioccò due volte. Reggel sentì il sangue scorrergli lungo una guancia; se a causa di una pallottola o della precedente caduta, non lo sapeva. In fondo alla cappella il passaggio si piegava in un angolo a novanta gradi. Reggel rimbalzò sulla ringhiera: Odrich stava di nuovo facendo fuoco e l'ungherese avvertì un proiettile che gli perforava la gamba. Cadde su un ginocchio e si voltò verso sinistra. Il rumore della sua automatica coprì quello della ventidue di Odrich ed echeggiò sul tetto come un batacchio di campana. Pezzi della porta alle spalle di Odrich schizzarono nella galleria nord. All'ultimo sparo di Reggel, la porta si spalancò. Ancora acquattato, l'ungherese percepì, più che sentire, l'altro che risaliva sul passaggio e correva fuori, nella galleria. Il vantaggio di Odrich non superava sei metri, ma era già sparito quando Reggel arrivò in fondo alla galleria. Correndo, ripercorse la via da cui era venuto. Di fianco alla porta distrutta c'era una breve rampa di scale. Salì di corsa gli scalini e si ritrovò sul tetto.
Una selva di pinnacoli lo circondava su tre lati. Sul quarto c'era la Cinquantunesima Strada. Reggel stava per rientrare in chiesa quando colse un lampo d'oro sfrecciare sul tetto sovrastante. Era come se Odrich avesse fatto un unico balzo di quindici metri. L'ungherese trovò la fune che cercava appesa di fianco a una finestra dell'abside. Vide anche perché Odrich era salito invece di scendere: le strade si stavano riempiendo di auto e di poliziotti. Afferrò la fune e prese ad arrampicarsi rabbiosamente. Il tedesco aveva annullato un certo vantaggio su di lui. La pesante corona comunque lo rallentava e Reggel stava già salendo a sua volta quando Odrich arrivò in cima. Ignaro della presenza dell'ungherese avanzò lungo la cresta d'ottone dorato alta un metro e settanta che correva per l'intera lunghezza della linea di displuvio. Il tetto aveva una configurazione a croce. Quando raggiunse il braccio della croce, vide le auto della polizia sulla Quinta Avenue e, per la prima volta, si accorse di essere stanco. Reggel riusciva a tenere d'occhio Odrich grazie alla corona che ora teneva in mano. La corona si fermò d'improvviso quando Odrich sembrò arrestarsi per riflettere sulla prossima mossa. Reggel si avvicinò lentamente, con cautela, nascosto dietro la cresta che lo separava dal tedesco. La corona tornò indietro, verso di lui, e Reggel si rannicchiò in un arco della cresta. Dalla strada salivano grida, prive di significato come le luci dei grattacieli. Odrich si fermò per riposarsi a tre metri da lui e sistemò la Sacra Corona su una punta della cresta. Reggel aveva appena iniziato a farsi avanti quando Odrich ruotò su se stesso e fece fuoco. Sebbene il proiettile attraversasse il torace di Reggel, furono le gambe a cedere. Una mano aggrappata al fondo della cresta gli impedì di cadere del tutto, ma il cuore gli batteva forte, come se avesse voluto strapparsi dalle arterie. Il viso si fece caldissimo contro l'ardesia fredda e un ruggito assordante gli riempì le orecchie. Si accorse, come di un fatto secondario, del sangue che gli riempiva la bocca. «Funziona sempre» disse Odrich, come se avesse appena dimostrato una sua teoria. «Basta farti vedere la Sacra Corona e tu perdi completamente la testa. Sei affidabile solo in questo senso.» Chinandosi in avanti, gli premette la canna della pistola contro la tempia. Prima che facesse fuoco, le campane della torre nord cominciarono a
suonare nel buio. Il tedesco sembrò divertito. «Pensi che sia il cardinale che chiama aiuto?» Non fu altrettanto divertito nello scoprire che la mano libera di Reggel gli si era stretta intorno alla caviglia. Cercò di staccarla con un piede, ma la scarpa da ginnastica rendeva impossibile esercitare la forza necessaria. «Non fare l'idiota. Lasciami andare e io non ti sparo.» Reggel lasciò la presa sulla cresta e strinse la caviglia di Odrich con entrambe le mani. Non stava cercando di issarsi verso l'alto: stava tirando verso il basso. «Reggel, in questo modo ci ammazzerai tutti e due!» L'ungherese puntellò i piedi nel tetto inclinato, si alzò e, barcollante, cercò con tutte le forze di tirare Odrich verso il basso. La camicia e i pantaloni erano rossi di sangue. «Tu sei pazzo!» Odrich fece fuoco finché il cane non scattò a vuoto. Lasciò cadere la pistola e si voltò contorcendosi per aggrapparsi alla cresta con tutte e due le mani, ma non ci arrivò. Le dita della mano che aveva già sulla cresta cominciarono ad allargarsi. Reggel aveva afferrato entrambi i piedi di Odrich e sembrava scendere camminando dal tetto. «Magiaro!» Il grido arrivò dalla strada soltanto una volta. Poi non ci fu più nessuno accanto alla cresta o sul tetto che potesse sentirne un secondo. La corsa generale verso i corpi che precipitavano guidò Isadore e Lynch al contrafforte sulla Cinquantesima. Seguirono i paramedici con le lettighe e gli operatori con le telecamere. Una delle auto delle polizia utilizzò il faro in dotazione per individuare la Sacra Corona sulla cresta. Roman si aprì un varco tra la folla e si avviò nella direzione opposta. 22 Il cavallo era alto e color latte. Cavalcando intorno al perimetro del campo di Pulika, il ragazzino si teneva aggrappato alla cintura di Roman. «Non si vedono molti cavalli così, qui in città» osservò Isadore. Lui e Dany guardavano dal parco confinante con il lotto dello zingaro. «È per questo che vogliamo partire, sempre che tu ci lasci andare» disse Dany. «Sai quante diverse indagini sono state avviate sulla corona? E tutti vo-
gliono mettere le mani su Roman.» Sentirono il bambino gridare eccitato mentre Roman spingeva il cavallo al galoppo. Un cane correva dietro di loro abbaiando entusiasta. «Come mai sei così decisa ad andare?» domandò Isadore. «È la zingara che c'è dentro di me.» Isadore le rivolse un sorriso triste. «Cominci a parlare come Roman, stai con lui da troppo tempo.» «Ed è quello che continuerò a fare, se posso.» Roman sapeva che la sua ora era terminata. Il cavallo uscì al galoppo dall'appezzamento, entrò nel parco e salì sulla collinetta dove Dany e Isadore aspettavano. «Eccomi qua, di nuovo in custodia protettiva» annunciò Roman, lasciandosi scivolare giù della sella. Gli occhi azzurri del bambino meravigliarono Dany. «Sarishan.» «Sarishan» rispose al saluto il ragazzino. Roman diede qualche colpetto sul naso dell'animale e poi lo fece voltare in direzione del campo. «Vacci leggero» disse al bambino. «È di buon carattere, lascia che ti porti lui a casa.» Il ragazzo premette i piedi nudi nei fianchi del cavallo, che cominciò a scendere la collina al passo. A giudicare dall'espressione del ragazzino, era come se stessero galoppando veloci come il vento. «Non sapevo che tu parlassi romeno» disse Isadore a Dany. «Sto imparando.» La Ford di Isadore era parcheggiata fuori dal campo di Pulika. Si avviarono in silenzio verso l'auto. Prima di aprire la portiera, il detective si frugò nelle tasche finché trovò un chewingum. «Il cardinale verrà interrogato questa mattina» disse. «Appena torniamo, cominceranno con te. Cosa succederebbe, se ti perdessi prima?» Dany aprì la borsetta ed estrasse due passaporti. «E le tue valigie?» le domandò Roman. «Non possiamo tornare a casa a prenderle.» «Da quando in qua una chi ha bisogno di valigie?» «Be', è proprio vero» commentò Isadore. «Dany sta imparando.» Si salutarono sul lato di Staten Island dei Narrows. Roman e Dany fermarono un taxi per andare all'aeroporto. «È così che vivono gli zingari? Penso che mi piacerà.»
Roman la baciò mentre il taxi li portava sopra la baia di New York. «Dimmi se ti piace anche questa. "Lascia che il tuo sangue rosso e il mio sangue rosso scorrano insieme in un unico torrente, e fa' che quel torrente muova un mulino. E quel mulino dovrà avere tre macine: la prima darà perle bianche, la seconda, monete, e la terza amore."» «Mi piace moltissimo» disse Dany. «È una poesia degli zingari?» «No. In verità è ungherese.» Prima che il ponte scendesse verso Long Island, diedero un ultimo sguardo a Manhattan. «Te l'ha insegnata Reggel?» «Sì» mentì Roman, perché sapeva che nessun altro avrebbe dato a Reggel un epitaffio. FINE