JAMES HERBERT LA CASA MALEDETTA (The Magic Cottage, 1986) Piacevole immobile. Villino, posizione appartata, nel cuore de...
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JAMES HERBERT LA CASA MALEDETTA (The Magic Cottage, 1986) Piacevole immobile. Villino, posizione appartata, nel cuore della foresta, necessari restauri, ma ottima occasione. Due stanze da letto, soggiorno, cucina, bagno. Giardino. Accettansi offerte. Cantrip 612. 1. MAGIA Credete nella magia? Intendo la vera magia, quella con la M maiuscola. Non parlo di conigli che escono dai cappelli, ragazze vestite di lustrini che scompaiono o sfere d'argento che danzano nell'aria. Fatti reali, senza trucchi né illusioni. Incantesimi e stregoneria. Membra rotte che guariscono dalla sera al mattino, animali ammaestrati, quadri le cui figure si animano. Apparizioni che in realtà non esistono se non nella nostra immaginazione. E altro ancora, ma è troppo presto per dirlo. Molto probabilmente non ci credete. Forse ci credete a metà. O forse vorreste crederci. Un genere di magia che conobbi una volta, molto prima che prendessimo il villino, proveniva da polveri o pillole assunte con amici; ma gli effetti indotti erano soltanto allucinazioni e pericolose. Conobbi la vera magia solo quando andammo a «Gramarye». Quella fu una magia Buona. Tuttavia ogni medaglia ha il suo rovescio e io conobbi anche quello. Se volete, se siete disposti a mettere da parte la razionalità per un po' come fui costretto a fare io - vi racconterò. 2. L'INSERZIONE Fu Midge che vide l'annuncio economico per prima. Per settimane non aveva fatto altro che scorrere le inserzioni pubblicitarie sul Sunday Times cerchiando in rosso le offerte più interessanti, dato che il suo desiderio di lasciare la sudicia città era più forte del mio. Ogni settimana era venuta a presentarmi tutta una serie di annunci da esaminare, e li avevamo conside-
rati attentamente uno per uno, discutendo i prò e i contro. Ma finora nessuno aveva soddisfatto le nostre aspettative. Quella domenica vi era solo un cerchio rosso. Un villino. Presso una foresta, in una posizione appartata. Aveva bisogno di qualche restauro. Che cosa c'è di speciale? pensai. «Senti un po', Midge!» Lei era nella cucina dell'appartamento che avevamo in affitto a Baron's Court, a Londra - grande, con alti soffitti e una pigione non meno alta, e un insieme di stanze che permettevano a Midge di disegnare e a me di occuparmi della mia musica in perfetta tranquillità, senza doverci urtare a ogni passo. Ma noi volevamo qualche cosa di nostro. Avevano in mente entrambi un villino «rustico», sebbene, come ho detto, Midge lo desiderava più di me. Lei apparve sulla soglia coi capelli neri sciolti e gli occhi da folletto, un metro e cinquantacinque di attrattive sottilmente delineate (almeno per me, e io non sono un tipo facile da accontentare). lo indicai il giornale. «Uno solo?» Midge gettò il grembiule verso il lavandino - avevamo finito di fare colazione molto tardi - e si avvicinò a piedi nudi al divano su cui ero seduto. Vi si rannicchiò tirandosi pudicamente la leggera gonna estiva sulle ginocchia. Quando parlò, guardò direttamente l'avviso, e non me. «È l'unico interessante.» Ne fui stupito. «Non dice molto. Mi fa pensare solo a un villino in rovina. E poi dove diavolo è Cantrip?» «L'ho cercato. È vicino a Bunbury.» Non potei fare a meno di sorridere. «Ossia?» «Nell'Hampshire.» «Questo almeno è a suo favore. Sembrava che ti interessassero soltanto le zone più remote.» «Una zona remota dell'Hampshire.» Un mugolio da parte mia. «Possibile?» «Hai un'idea di quanto è grande la Nuova Foresta?» «Più grande di Hyde Park?» «Molto più grande. E immensa.» «E Cantrip è nel cuore della foresta?» «Non proprio, ma quasi.» Sorrise con i suoi occhi da folletto. «Non preoccuparti, potrai tornare a Londra a far musica quando vorrai. C'è l'autostrada che porta in città». Non vi ho ancora detto che io faccio il musicista, faccio parte di quella
gente tranquilla che se la cava benino dietro le scene del mondo pop, lavorando negli studi di registrazione e a volte accompagnando in tournée qualche cantante. Il mio strumento è la chitarra, la mia musica... è rock, pop, soul, ma anche punk, un po' di jazz e, quando posso, qualche classico senza pretese. Ma magari ve ne parlerò più a lungo in seguito. «Non mi hai ancora spiegato perché hai scelto proprio questo,» insistetti. Lei rimase zitta per un momento limitandosi a studiare il foglio come se cercasse di trovare una risposta. Poi si voltò verso di me. «Mi sembra che vada bene,» disse. Accidenti. Mi sembra che vada bene. Nient'altro. Sospirai. Sapevo che Midge aveva un grande intuito; ma non ero disposto ad accettarlo in quel momento. «Midge...» cominciai in tono di ammonimento. «Mike...» disse lei con la stessa gravita. «Andiamo, sii seria. Non ho alcuna intenzione di andare a finire a vivere nell'Hampshire per un capriccio.» Quel diavoletto mi prese una mano e la baciò sulle nocche. «Mi piacciono le foreste», ebbe il coraggio di dire «E il prezzo è ragionevole.» «Qui non si parla del prezzo.» «Si accettano offerte. Sarà un prezzo giusto, vedrai...» Un tantino esasperato, ribattei: «Probabilmente sarà tutto in rovina.» «Allora costerà meno.» «Pensa a tutti i lavori di restauro.» «Prima di andarci manderemo i muratori.» «Non correre troppo tesoro.» Una lieve ombra di incertezza le passò sul volto... o forse un'ansia improvvisa. «Non posso spiegarti, Mike. Lascia che telefoni domani per saperne di più. Può darsi che sia proprio quello che cerchiamo. Le sue ultime parole non erano molto convincenti, ma lasciai correre. Strano, ma quel villino cominciava a piacere anche a me. 3. GRAMARYE Tutti abbiamo visto il film o letto il libro, ce ne sono tanti, della giovane coppia che ha trovato la casa dei suoi sogni: la moglie è in estasi, il marito è felice ma più controllato; i bambini (di solito un maschio e una femmina)
vagano per le stanze vuote. Ma noi sappiamo che vi è qualche cosa di sinistro in quel luogo perché abbiamo comprato il libro e letto il risguardo di copertina. A poco a poco cominciano a succedere strane cose. Vi è qualche cosa di maligno nella stanza chiusa in cima alla vecchia scala scricchiolante; o qualcuno che sta in agguato nella cantina, che forse è l'anticamera dell'inferno. Conosciamo la storia. Dapprima Papà non bada alle fantasie della sua famiglia: non crede al soprannaturale né alle strane cose che appaiono di notte; non crede ai vampiri. Finché non succede qualcosa che gli fa cambiare idea. E allora si scatena l'inferno. Sapete già tutto come se lo aveste scritto voi. Be' la mia storia, è su questo genere, ma al tempo stesso diversa. Vedrete. Andammo in auto a Cantrip il martedì seguente (il nostro lavoro ci permette queste libertà). Midge aveva telefonato, il giorno prima, al numero indicato nell'avviso e aveva trovato che apparteneva a un agente immobiliare. Questi le aveva detto un po' di più sul villino, non molto, ma abbastanza per aumentare il suo entusiasmo. Il villino non era occupato perché la proprietaria era morta qualche mese prima; era stato necessario un po' di tempo per sistemare gli affari della defunta prima che la proprietà potesse essere messa in vendita. Midge non aveva fatto che parlare durante il viaggio continuando a dirmi che non si aspettava troppo, che probabilmente sarebbe stata una grossa delusione, ma che, dalla descrizione dell'agente, la cosa si presentava interessante e avrebbe anche potuto essere l'ideale... Il viaggio durò circa due ore, forse anche tre calcolando il tempo perso per aver sbagliato due o tre volte la strada. Tuttavia lo scenario, quando raggiungemmo la Nuova Foresta con i suoi boschi e le sue brughiere, si mostrò meritevole del lungo viaggio. Incontrammo anche delle mandrie di pony e, sebbene non vedessimo nemmeno un cervo, una quantità di indizi ci diedero la certezza che essi erano nelle vicinanze, e, per una persona di città, questo equivaleva quasi all'averli visti. Era una bella giornata di maggio, con l'aria frizzante e luminosa... Avevamo tenuto abbassati i vetri degli sportelli posteriori dopo aver lasciato l'ultima autostrada e, nonostante la sua apprensione appena dissimulata, Midge si era unita a me nel cantare Blue Suedes, Mean Woman e simili (quel mattino stavo attraversando il mio vecchio periodo rock, dato che il mio umore musicale cambia di giorno in giorno). L'aria fresca mi fece diventare rauco prima che vedessimo il villaggio davanti a noi. Devo ammetterlo, Cantrip fu un tantino deludente. Ci aspettavamo tetti
di paglia, vecchie osterie, e un villaggio primitivo con rugginose pompe a mano: qualche cosa da Protezione delle Antichità. Quello che vedevamo era una strada spaziosa ma del tutto simile a tante altre le cui case e negozi dovevano essere stati costruiti verso la fine degli anni venti e gli inizi degli anni trenta. Ma, a un esame più attento, non era poi tanto male: vi erano alcuni vecchi edifici scrostati fra le costruzioni più recenti, e l'impressione generale era piuttosto scialba. Sentii indebolirsi l'entusiasmo di Midge. Varcammo l'arcata di un ponticello ed entrammo nella strada principale cercando l'ufficio dell'agente e tenendo nascosto il nostro scontento. Trovammo l'agenzia fra un ufficio postale-drogheria e una macelleria, con una facciata così anonima che l'avrei oltrepassata se Midge non mi avesse battuto sulla spalla indicandomela. «Là!» gridò come se avesse scoperto l'anello mancante nell'evoluzione umana. Un ciclista sterzò guardandoci storto per la brusca frenata. Gli rivolsi un gesto amichevole di scusa indicando Midge come colpevole, ma non sentii la sua risposta stizzita, probabilmente meglio così, perché non sembrava una persona molto civile. Dopo una breve retromarcia, scendemmo dall'auto e ci avviammo verso l'agenzia. Midge era divenuta improvvisamente nervosa come una gattinà, cosa per me piuttosto nuova. Eravamo vissuti insieme per molto tempo ed ero abituato a certe sue ombrosità, specialmente quando accettava qualche nuovo incarico, dovrei avervi già detto che Midge è un'illustratrice molto brava specializzata in libri per bambini, ma non credevo che si innervosisse per un appuntamento con un agente immobiliare. Non tardai a capire che non si trattava dell'agente, ma dell'ansia di vedere il villino. Diavolo, quello stato d'animo durava da domenica, e non riuscivo a capire perché. La feci fermare un momento prima di aprire la porta e lei mi guardò distrattamente, facendo più attenzione a quello che c'era dietro il vetro. «Calmati,» le dissi piano. «Ce ne saranno chissà quanti in vendita, anche se questo non ci piace.» Lei tirò un rapido respiro, mi strinse la mano ed entrò davanti a me. All'interno l'ufficio era meno misero di quanto avrebbe potuto essere, perché, sebbene stretta, l'unica stanza si stendeva molto sul retro. Fotografìe e piantine di appartamenti coprivano tutta una parete come una carta da parati male incollata. Una segretaria corpulenta era vicino alla porta, mentre più avanti un uomo in abito grigio con grossi occhiali cerchiati di nero, seduto davanti a un tavolo in disordine, alzò lo sguardo.
Io mi sporsi sopra la spalla di Midge e chiesi: «Il signor Bickleshift?» (Naturalmente era lui). Mi sembrò che non mi avesse sentito. Parve non badare al suo nome; ma fece un largo sorriso. Credo che rimase colpito da Midge. «Sì,» disse alzandosi e invitandoci a venire avanti. Feci un cenno di saluto alla segretaria che ci squadrò da capo a piedi mentre passavamo, con l'espressione di una balena imbronciata: «Voi siete il signore e la signora Gudgeon?» chiese Bickleshift sporgendosi attraverso il tavolo per stringere la mano di Midge e poi la mia. Ci indicò due sedie davanti a lui. «No, Gudgeon è lei, io sono Stringer.» Ci sedemmo, e l'agente volse lo sguardo dall'uno all'altro di noi prima di proseguire. «Allora solo lei, signorina Gudgeon, è interessata alla casa.» Non ne sono sicuro, ma può avere detto «signorina» per mostrare di accettare la cosa. «Siamo interessati entrambi,» rispose Midge. «E vorremmo vedere il villino dell'annuncio sull'ultimo Sunday Times. Gliene ho parlato per telefono.» «Naturalmente. La casa rotonda di Flora Chaldean.» Entrambi inarcammo le sopracciglia e Bickleshift sorrise. «Capirete quando avrete visto il luogo,» disse. «E Flora Chaldean era la proprietaria del villino?» chiese Midge. «Esatto. Una vecchia signora piuttosto... eccentrica. Molto conosciuta da queste parti; un personaggio locale, anche se nessuno sapeva molto su di lei. Conduceva una vita molto ritirata.» «Ha detto che è morta...» intervenne Midge. «Sì, alcuni mesi fa. L'unico suo parente è una nipote che vive in Canada. A quanto sembra non si erano mai incontrate, ma l'avvocato della signora Chaldean è riuscito a rintracciarla e l'ha avvertita dell'eredità. Immagino che la Chaldean abbia lasciato anche una certa somma di denaro, ma non credo granché: so che conduceva un'esistenza molto sobria. La nipote ha detto all'avvocato di vendere il villino e di mandarle il ricavato.» «Non ha voluto vederlo prima?» chiesi. Bickleshift scrollò il capo. «Non le interessava. Comunque Flora Chaldean si preoccupava del destino della sua villetta perché ha inserito una clausola nel testamento che riguarda la vendita. Midge s'incuriosì. «Che tipo di clausola?»
Il sorriso dell'agente divenne ancora più largo. «Non credo che sia cosa di cui lei debba preoccuparsi.» Alzò le mani mettendole aperte sul piano del tavolo così che, per un momento, con i gomiti piegati ai due lati, parve una cavalletta con gli occhiali. «Adesso,» disse giovialmente, vi suggerisco di andare a dare un'occhiata al villino; discuteremo i particolari in seguito, se sarete ancora interessati.» «Lo siamo già,» rispose Midge, e io la urtai col piede: non c'era bisogno di apparire troppo entusiasti prima di cominciare a trattare la cosa. Bickleshift cercò in un cassetto e ne trasse un mazzo di chiavi, tre in tutto, vecchie e grandi, legate con un anello e ognuna con una cartellino. «Il villino è vuoto, naturalmente, così potrete esaminarlo a vostro agio. Io non vi accompagno, a meno che non lo desideriate. In genere i miei clienti preferiscono far la visita per conto loro e discutere liberamente.» Midge prese le chiavi e le strinse con tale reverenza da far credere che fossero le Chiavi del Regno. «D'accordo,» dissi a Bickleshift. «Ma come facciamo per arrivarci?» Ci porse una cartina abbastanza semplice, purché, come sottolineò, non sbagliassimo nelle svolte. E noi c'incamminammo. «Bene,» dissi mentre guidavo per un sentiero serpeggiante con un tetto di foglie sulla testa che attenuava la luce e rinfrescava l'aria. «Ancora non lo vedo.» Midge mi guardava con curiosità, ma sapeva - oh, se lo sapeva - quello che intendevo. «Sembra che tu sia già innamorata del posto.» Battei sul volante col dorso della mano. «Andiamo Midge, confessalo. Che cosa ne pensi?» Le punte delle sue dita affondarono nei miei capelli, sulla nuca, accarezzandomi leggermente; tuttavia la sua voce era ancora un poco distante. «Solo una sensazione, Mike. Sento che andrà tutto bene.» La lieve pausa non mi passò inosservata. «E allora perché non ho anch'io questa convinzione?» Gli occhi le scintillarono di stizza. «Probabilmente perché tutto ciò che non è a due passi da un bar, da un Big Mac o da un cinema non è abbastanza civile per te.» Mi sentii offeso. «Sai bene che desidero andarmene quanto te.» Lei ebbe un breve riso. «Forse non proprio quanto me, ma va bene, ammetto che i tuoi gusti sono cambiati negli ultimi tempi. Non sono sicura, tuttavia, che le lamentele dei nostri vicini non abbiamo qualche cosa a che fare con questo.»
«Sì, ammetto che ho bisogno di un posto dove poter suonare quando e come voglio. Ma non è solo questo. E in ogni caso anch'io sono disturbato dal loro fracasso.» «Non piace neppure a me. E nemmeno il traffico, la polvere... «Il trambusto...» «Il frastuono...» «Andiamocene da tutto questo!» gridammo insieme avvicinando le teste. Quando ebbe smesso di ridere, Midge disse: «E vero. A volte penso che l'intera città sta per andare a rotoli.» «Forse hai ragione.» Stavo cercando una svolta a sinistra, una di quelle che Bickleshift ci aveva avvertito di non lasciarci sfuggire. «E strano», continuò lei, prendendo i foglietti che l'agente ci aveva dato, «ma quando ho visto l'inserzione sul giornale di domenica, ho avuto la senzazione che l'annuncio mi ammiccasse. Non sono riuscita a concentrarmi su nessun altro, i miei occhi continuavano a tornare su questo. Tutto il resto mi sembrava sfocato.» Emisi un lungo mugolìo. «Midge, Midge, spero che tu non rimanga delusa.» Lei non rispose e guardò diritto davanti a sé. E improvvisamente sentii il desiderio di voltar la macchina e ripercorrere tutta la strada verso la città fumosa. Una premonizione? Credo proprio di sì. Ma queste cose, allora, erano per me inconsuete, e pensai che la sensazione dipendesse solo per il trambusto di un trasloco. Forse lei aveva ragione: non ero ancora pronto per la casetta in campagna. Naturalmente continuai ad andare avanti. Che razza di pazzo sarei sembrato se fossi tornato indietro? Che ragione avrei potuto addurre? Amavo Midge abbastanza per cambiare le mie abitudini, e sapevo che quello che andava bene per lei sarebbe infine andato bene anche per me. Avevo fatto troppe cose piacevoli e non abbastanza cose giuste. Le cose giuste le faceva lei. La svolta che tenevo d'occhio si materializzò improvvisamente: l'agente aveva ragione, era facile lasciarsela sfuggire. Rallentai fin quasi a fermarmi per svoltare alla curva a gomito. La nostra Volkswagen occupò quasi tutta la strada nel riprendere velocità, e ci trovammo ancora in un'area boscosa: gli alberi giungevano fino al margine del sentiero tortuoso che adesso era in discesa. Midge si entusiasmava a ogni metro che percorrevamo, con gli occhi che le brillavano mentre io stavo attento a prendere le curve giuste e gettando ogni tanto un'occhiata al suo volto felice.
«A quest'ora dovremmo essere arrivati.» Cominciavo a domandarmi se non avessi sbagliato a voltare. Midge consultò la cartina. «Non dovrebbe essere lontano...» Frenai bruscamente e allungai con gesto istintivo il braccio per sorreggerla sebbene avesse la cintura di sicurezza. Lei venne sbalzata in avanti e mi guardò sorpresa. «Guarda un po' la strafottenza di quel tipo.» E accennai alla strada davanti a noi. Uno scoiattolo se ne stava seduto con aria baldanzosa in mezzo al sentiero sgranocchiando una ghianda o qualche cosa di simile che teneva fra le zampette, con la coda rossiccia sollevata. Quel piccolo mascalzone ci aveva visti benissimo, perché continuava a voltare la testa arruffata verso di noi, ma non sembrava darsene alcun pensiero. «Oh, Mike, è magnifico!» Midge si chinò in avanti per quanto glielo permetteva la cintura di sicurezza, col naso a pochi centimetri dal parabrezza. «Che bel pelo rosso! Avevo sentito dire che ce ne sono molti, da queste parti. È stupendo!» «Certo, ma ci ingombra la strada.» Stavo per suonare il clacson; ma Midge dovette leggermi nel pensiero. «Lascialo star lì per un momento, se ne andrà subito.» Sospirai, sebbene divertito dalla vista di quel cosino impellicciato che faceva colazione. Midge si liberò della cintura e si sporse dal finestrino ridendo. Questo fu troppo per il nostro amico, che lasciò cadere la ghianda e se la diede a gambe. lo non riuscii a trattenere le risa. «Straordinario! Non ha battuto ciglio davanti a questo grande mostro d'acciaio rombante ed è rimasto sconvolto dalla tua faccia sorridente.» Ma dovetti subito rimangiarmi le parole. Lo scoiattolo tornò, riprese la sua merenda, ci guardò per un secondo e poi saltò verso la macchina dalla parte di Midge. «Ciao,» gli disse lei gentilmente. lo non potevo vedere, ma probabilmente l'animaletto rispose al suo sorriso. Mi sporsi e feci in tempo a scorgere uno sfrecciare nel sottobosco mentre lo scoiattolo fuggiva ancora. Mi aspettavo che Midge mi rivolgesse uno dei suoi sorrisi canzonatori, ma vi era solo un'immensa e innocente gioia dipinta sulla sua faccia. Le diedi un bacetto sulla guancia, divertito, e ripartii «Avanti.» dissi.
Midge tornò a sedersi osservando con attenzione i dintorni mentre ci allontanavamo. Presto uscimmo dal folto degli alberi; i margini erbosi ai due lati della strada si aprirono in distese di felci verde cupo e di ginestre gialle respingendo la densa boscaglia come per dire «il troppo è troppo». Adesso il sole era alto e il cielo era di un azzurro pallido. Avevamo scelto una giornata perfetta per un viaggio in campagna e il mio entusiasmo si risollevava nonostante la delusione di Cantrip. Midge mi strinse il braccio. «Forse è quello,» disse trattenendo l'eccitazione. Guardai, ma non vidi nulla. «Non lo vedo più,» disse Midge. Mi è sembrato che ci fosse una macchia bianca più avanti, ma adesso gli alberi la nascondono.» L'auto stava seguendo una lunga curva, e il bosco tornava ad avvicinarsi alla strada come per vendetta. In certi punti, bassi rami pieni di foglie sfioravano i finestrini. «Questa foresta avrebbe bisogno di una potatina,» brontolai; e allora vedemmo il villino, di là dalla strada, con un basso steccato in rovina, con molti pali sghembi o completamente abbattuti, che cingeva il giardino. Il cancelletto era chiuso, un vecchio cartello scrostato era fissato alle sbarre e una scritta in caratteri gotici diceva: GRAMARYE 4. IL VILLINO Dunque eccolo lì. E a prima vista era un villino incantevole. Avevo fermato l'auto sull'erba, presso il recinto diroccato, e adesso tutti e due stavamo contemplando Gramarye, la casa rotonda di Flora Chaldean. Midge sembrava in adorazione, e io... be', diciamo che ero piacevolmente sorpreso. Non so con precisione che cosa mi aspettassi ma questo era diverso. In realtà la costruzione era rotonda, sebbene la parte principale di fronte a noi fosse squadrata, con solo un'estremità curva ed era costruita su tre piani, compreso l'attico, così che "villino" non era la parola esatta. Tuttavia aveva l'aspetto di un villino perché sorgeva su di una collinetta che lo faceva sembrare più piccolo. La collinetta si stendeva ai lati, e dei gradini di pietra coperta di muschio scendevano il pendio a sinistra fino al livello del
giardino. Sul pendio vi erano degli alberi i cui rami toccavano a volte la bianca muratura. E più oltre vi era ancora bosco. Le finestre della facciata erano piccole, con molti pannelli, aggiungendo un ulteriore fascino all'insieme, e il tetto era di tegole rosse scolorite. Bene, questa fu la prima impressione, decisamente piacevole. «Mike, è meraviglioso,» disse Midge col respiro soffocato facendo vagare lo sguardo fra i colori violenti del giardino dove i fiori erano cresciuti spontaneamente. «Grazioso,» dovetti ammettere, «ma diamo prima un'occhiata da vicino.» Midge era già scesa dall'auto. Mi si mise a fianco e si fermò davanti al villino con gli occhi sempre più lucenti. Nessun disappunto, nessuna delusione. Si mordeva nervosamente il labbro inferiore, ma non cessava di sorridere. Io le misi un braccio attorno alla vita sottile, studiando la sua espressione e sorridendo a mia volta. Poi mi voltai per entrare in Gramarye. Avevo la sensazione di conoscere già quel luogo, ma era una sensazione sfuggevole. Ero già stato lì? No, assolutamente no. Non ricordavo nemmeno di aver mai visitato quella zona. Tuttavia vi era qualche cosa di familiare in... Respinsi quella sensazione considerandola una qualche forma di «déjà vu». Finora non c'era stato bisogno di chiedere a Midge le sue impressioni: gliele leggevo negli occhi brillanti. Si allontanò da me andando lentamente verso il cancello; dovetti chiamarla per ricordarle la mia esistenza. Lei si voltò e tutto parve congelarsi nella mia mente. Vedo ancora la scena, e la vedrò sempre, chiara e netta, quasi mistica: Midge, piccola e sottile, coi neri capelli che le cadevano lisci sulla nuca, le labbra appena socchiuse e, in quei suoi dolci occhi grigioazzurri, un po' inclinati agli angoli, un bagliore di meraviglia e di gioia, un'espressione che mi turbava e tuttavia mi rendeva felice. Indossava dei jeans e una camicetta con le maniche rimboccate; sandali ai piedi minuti. E dietro di lei si intravedeva... no, non si intravedeva, perché tutta la scena, con Midge in primo piano, si fondeva così bene, era così completa: dietro a lei c'era Gramarye, con le sue bianche mura ora visibilmente scrostate e macchiate, le finestre chiuse che sembravano occhi, il giardino dai colori abbaglianti e più in là tutt'attorno, la foresta. Si sarebbe detta una scena da romanzo, certo così singolare da imprimersi nella mente. Poi lei si voltò ancora, spezzando l'incanto, e si chinò sul saliscendi del cancello. Il battente cigolò nell'aprirsi e Midge entrò mentre io la raggiun-
gevo. Allungai una mano per prenderle il braccio, ma lei era già lontana, saltellando sul sentiero si avvicinò alla porta. Io la seguii a passo più moderato, notando che, visti da vicino, i fiori di fine maggio non erano così brillanti come apparivano da lontano. Avevano infatti quell'aspetto della tarda estate, quando la maggior parte dei fiori hanno perso la loro freschezza e volgono al declino, con i petali arricciati e secchi. Non perdervi un'eccessiva importanza, ma sembravano malati. Le erbacce spuntavano dappertutto, e quelle erano sane. Il sentiero era fatto di pietre piatte e alte erbe crescevano nelle giunture quasi ricoprendo le superfici scabre. Trovai Midge che spiava attraverso una sudicia finestra senza cortine facendosi ombra con le mani. Per quanto sudici, i vetri avevano un buono spessore all'antica, con leggere ondulazioni. Purtroppo le intelaiature erano consunte e scheggiate. «Non si può dire lussuoso,» arrischiai chinandomi per spiare con Midge. «E vuoto,» disse lei. «Che cosa ti aspettavi?» Credevo che ci fosse ancora un po' di mobilio.» «Probabilmente è stato venduto all'asta subito dopo la lettura del testamento. Potremo farci un'idea migliore del luogo senza il disordine lasciato dalla vecchia signora.» Midge mi diede uno sguardo di rimprovero. «Guardiamo l'esterno prima di entrare.» «Hum.» Io stavo ancora guardando l'interno del villino, pulendo il vetro con le dita per vedere meglio. Tutto quello che potei scorgere fu un grande fornello nero nel vano di un camino. «Ci sarà da cuocer molto, lì sopra.» «Sul fornello? Sarà divertente.» Il suo entusiasmo non era venuto meno. «Sembra piuttosto una forgia,» aggiunsi. «Penso che potremo avere una cucina elettrica al posto di questo mostro. Comunque, il legno per alimentarlo non ci mancherà certo.» Midge si aggrappò al mio braccio. «Ehi, al giorno d'oggi va di moda tornare alle origini. Vieni, diamo un'occhiata al retro.» Mi allontanai dalla finestra e lei mi sfiorò la guancia con le labbra; poi mi precedette ancora. Io la seguii esaminando la porta d'ingresso nel passare. Il legno sembrava abbastanza solido, sebbene vi fossero un paio di sottili fessure lungo i pannelli inferiori. Più in alto, sul bordo, vi erano due finestrelle di non più di una quindicina di centimetri, e un campanello a tirante di fianco alla porta, fissato al muro. L'ingresso era riparato da un pic-
colo portico aperto ai lati, che mi parve del tutto inutile. Una lampada da carrozza pendeva dall'altra parte del campanello, con l'interno pieno di ragnatele. Tirai il campanello nel passare e lo squillo fu sordo e distaccato, ma fece voltare Midge. Io mi ingobbii come un Quasimodo e le feci una smorfia. «Bada che il vento non cambi,» mi disse salendo i gradini che giravano attorno alla curva dell'edificio. Io la seguii raggiungendola sul quarto gradino coperto di muschio. Sotto braccio girammo la curva e cominciammo ad apprezzare meglio la struttura dell'edificio. La parte principale era circolare, con la cucina, dove c'era il fornello, e le stanze superiori diramavano. Il tutto, naturalmente, su piccola scala. La forma dava a Gramarye una sua originalità e indubbiamente vi aggiungeva uno strano fascino. Purtroppo le sue condizioni generali erano misere come i fiori malati del giardino. L'edificio, originariamente dipinto di bianco, ma adesso grigiastro e notevolmente macchiato, si sgretolava qua là e in certe parti l'intonaco era scomparso. Cocci di tegole coprivano il suolo sotto i nostri piedi per cui, immaginai che il tetto fosse pieno di buchi. I gradini ci avevano portato a un'altra porta, una volta dipinta di un triste verde oliva, ma che adesso era tutta scrostata rivelando il legno marcio al di sotto. La porta dava a sud e sui boschi che non erano a più di un centinaio di metri, oltre una distesa di erbe e di rovi, con pochi alberi sparsi qua e là come soldati di un esercito che stessero avanzando cautamente. Una zona più aperta, che doveva essere stata calpestata per anni si stendeva per dieci o dodici metri dall'edificio con alberi più piccoli, - susini e meli selvatici, pensai, sebbene allora fossi poco pratico - senza frutti e trascurati. Su questo lato, poiché Gramarye era costruita su di un terrapieno rialzato, il villino sembrava avere solo due piani ed era rotondo. Le finestre del piano terreno erano ad arco, e Midge mi aveva già lasciato per andare a schiacciare il naso contro i vetri. «Mike, vieni a vedere,» gridò. «L'interno è favoloso.» La raggiunsi e rimasi non meno impressionato di lei - sebbene «favoloso» fosse un tantino eccessivo - perché le mura curve comprendevano tre finestre che dovevano permettere alla stanza di avere sole per tutto il giorno. Sul lato opposto, attraverso un'arcata, potei vedere un corridoio con scale; presumibilmente un'altra porta faceva passare dalla sala alla sezione quadrata dell'edificio. Il sole splendeva dappertutto senza lasciare nemmeno un angolo in ombra, nemmeno il sudiciume delle finestre riusciva a offuscarne il fulgore. L'interno sembrava caldo e gioioso, nonostante fosse
spoglio, e decisamente invitante. «Sediamoci per un momento.» Avevo notato una vecchia panca nell'angolo in cui la parete piatta del villino si staccava dal circolo; quel sedile di legno sembrava cresciuto dal suolo. «Voglio entrare,» rispose Midge con impazienza. «Certo, fra un minuto. Riepiloghiamo quello che abbiamo visto finora.» Lei era riluttante, ma si avvicinò con me alla panca, dove ci sedemmo guardando i boschi vicini. Sembravano folti e impenetrabili, ma in quel tempo non avevano nulla di sinistro. «È meraviglioso,» sospirò Midge senza che glielo chiedessi. «Molto più di quanto mi aspettassi.» «Davvero? Detto fra noi, credevo che ti aspettassi molto di più.» Aggrottò le sopracciglia senza divenir per questo meno graziosa. «Io... io sapevo istintivamente che sarebbe andato bene.» Alzai una mano. «Aspetta, non siamo ancora entrati.» «Non ce n'è bisogno.» «Sicuro che ce n'è. Non fermiamoci qui. L'avviso diceva che occorrevano dei restauri, no? E i restauri possono bastare da soli a superare la nostra cifra. Solo l'esterno richiede un mucchio di riparazioni. E Dio sa l'interno.» «Potremo prenderlo in considerazione quando faremo l'offerta.» «Credo che l'agente lo abbia già fatto. Ti ha detto al telefono il prezzo a cui mirano in linea di massima e, se non lo diminuiamo, potremo avere delle difficoltà a trovare il denaro per rendere questa casa abitabile.» Stavo dicendo a Midge tutto il peggio, ma dovevo metterla di fronte alla realtà. Lei esaminava il terreno come se potesse trovar lì una risposta. Quando alzò lo sguardo, potei vedere l'ostinazione che si era radicata in lei... no, non esattamente ostinazione. Midge non era ostinata. Chiamiamola piuttosto una tranquilla decisione. In genere era molto dolce, perfino arrendevole, cosa che mi irritava spesso, quando il suo agente la spingeva ad accettare lavori che lei non desiderava sia per il tempo che richiedevano sia per il soggetto, ma sotto questo vi era una risolutezza che affiorava solo quando lei sapeva di avere assolutamente ragione su qualche argomento o di averne bisogno per superare un momento difficile. Sospettavo infatti che la sua tranquilla decisione fosse nata da momenti difficili della sua vita, e Midge ne aveva avuti parecchi. Le misi un braccio sulle spalle e la strinsi a me. «Solo non riporre le tue speranze troppo in alto, Folletto,» le dissi dolcemente chiamandola con il soprannome che di solito riservavo ai momenti di tenerezza. «Finora il vil-
lino piace anche a me, sebbene la località mi spaventi un poco.» «Potrai suonare come e quando vorrai laggiù, Mike,» rispose affettuosa. «È quello di cui hai bisogno, lontano da tutte quelle distrazioni, da quegli...» Indugiò un momento e io dissi la parola per lei: «Amici». «Cosiddetti amici. E Gramarye andrà bene anche per me. So che qui potrò lavorare.» «Non credi che ci sentiremo soli?» Scosse la testa con decisione. «Non è possibile. Insieme non saremo mai soli, Mike, lo sai. Hai già dimenticato quante volte abbiamo parlato di andarcene lontano da tutti, in qualche parte irraggiungibile, senza né agenti né musicisti fra i piedi? Starcene da soli sarà una benedizione. Comunque credo che da queste parti la compagnia sia piacevole. Ci faremo presto dei nuovi amici, amici di un altro genere e che potremo tenere a debita distanza.» «Potrebbero essere troppo diversi per i nostri gusti.» «Siamo nello Hampshire, non nella Mongolia. A due ore dalla città. Qui parlano la nostra stessa lingua.» «Forse non proprio la stessa.» Midge sollevò gli occhi al cielo. «Oh, voi sofisticati cittadini siete pieni di queste fisime. La imparerai presto.» «Va bene, ma non dimenticare che oggi c'è un sole splendido, il cielo è blu...» «E non c'è una nuvola lassù,» mi canzonò lei. «Ma quando piove, quando viene l'inverno e tutto gela, e saremo completamente tagliati fuori dalle neve...» «Brrr,» fece lei rannicchiandosi, «sarà piacevole. Probabilmente non potremo lasciare il villino per intere settimane e dovremo tenere acceso un gran fuoco per scaldarci, o starcene tutto il giorno sotto le coperte. Immagina le cose che dovremo inventare per tenerci allegri.» Mi diede una serie di colpetti sotto la cintura, il mio punto debole. «Ti prego,» supplicai. «Vedrai. La vita a Gramarye sarà così piacevole che diventerai un eremita.» «E proprio questo che temo.» «E ti costringerò a uscire quando soffierà un vento gelido per andare a comprare il pane.» «Non mi incoraggi.» Lei tornò seria, ma subito dopo rise dicendo: «Immaginati questo luogo, Mike. Chiudi gli occhi e immaginatelo davvero. Gramarye è fatta per noi.»
Non chiusi gli occhi, ma mi sentii pervadere da un particolare senso di benessere, un'eccitazione dolcissima e appagante. No, non quella che segue un buon pasto, qualche cosa di diverso, di più reale e permanente. Diciamo che fu il calore del sole, la piacevolezza della giornata e dell'ambiente. O la forza di convinzione di Midge che fluiva in me, una sensazione molto naturale fra innamorati. Un tempo avrei concluso che si trattava solo di sensazioni. Ma adesso no. Proprio no, adesso che conosco tante cose di più. «Andiamo a vedere l'interno,» dissi per evitare una conclusione. E il sorriso di Midge divenne più acuto. Si alzò e trasse dalla tasca dei suoi jeans le tre chiavi coi cartellini. Me le porse con un gesto che sembrava dire: «Bene, il destino è nelle tue mani, e lo troverai qui dentro.» Le presi e mi avviai verso la porta sul retro con Midge alle calcagna. Mi fermai davanti alla vecchia porta scrostata e guardai le lunghe chiavi domandandomi con quale tentare per prima. Due erano eguali e pensai che dovevano essere quelle dell'ingresso principale. Infilai la terza nella serratura che entrò facilmente. Ma non volle girare. E nemmeno le altre due. Brontolai: «Sembra che Bickleshift non ci abbia dato il mazzo giusto.» «Proviamo con la porta principale,» suggerì Midge. «Va bene, ma una di queste deve essere di questa porta, se sono le chiavi giuste.» Scendemmo i gradini, attenti a non scivolare sul muschio, e ci trovammo sotto il piccolo portico. Scelsi la chiave numero uno e la infilai nella serratura. Niente da fare. Sempre più scoraggiato, tentai con la seconda e con la terza, senza maggior fortuna. La porta non si aprì nemmeno quando feci forza sulla maniglia e la spinsi con le spalle. Il legno scricchiolò, ma non si mosse di un millimetro. «Lascia provare a me,» disse Midge infilandosi fra me e la porta. «Non serve. La serratura è arrugginita o Bickleshift ci ha dato le chiavi sbagliate.» Guardai il cartellino: c'era scritto chiaramente GRAMARYE. Lei mi prese il mazzo di mano senza parlare e guardò per un attimo una delle chiavi doppie prima di infilarla con fare deciso nella toppa. Girò il polso e mi parve di vederla tirare un breve respiro, come se la chiave fosse girata per conto suo. Ma forse mi sbagliavo. La porta si aprì facilmente, silenziosa, senza nemmeno lo scricchiolio di un film dell'orrore; l'aria che uscì dal villino era umida e stantia, e sembrava lieta di sentirsi libera.
5. LA STANZA ROTONDA Io ero pronto a entrare, per quanto stupito che Midge fosse riuscita ad aprire e io no; lei, invece, esitava. Ancora oggi non ne sono sicuro - qualche cosa non è ancora chiara nella mia memoria - ma, sembrava ci fosse una certa trepidanza nei suoi modi, sufficiente per lo meno a impedirle ogni espressione di esultanza. Forse non ne sono sicuro perché quell'esitazione svanì immediatamente: Midge scomparve all'interno prima ancora che potessi esprimere la mia apprensione. Mi avventurai dietro di lei stringendomi nelle spalle, ed ebbi un'improvvisa sensazione di freddo piuttosto sgradevole considerata l'aria calda all'esterno. Ci trovammo in una stanza piuttosto piccola, non più di tre metri e mezzo per quattro (la pianta della casa era rimasta nell'automobile), con una porta aperta davanti a noi e una scala che portava al piano superiore. Potemmo vedere la cucina attraverso un'apertura sulla nostra destra. Il pavimento, qui e nella stanza oltre la porta, era di piastrelle quadrate, e notai che la superficie era innaturalmente scura. Mi chinai e toccai la pietra. «È umida,» dissi, e guardai lo zoccolo. Una grande macchia d'umidità appariva sul muro opposto a pochi centimetri dal pavimento. «Il muro penetra nel terrapieno e, quando piove, l'acqua filtra nell'interno.» Midge non parve interessarsene, cosa che mi irritò un tantino; sapevo che questo genere di umidità può essere serio, e consideravo la cosa in termini di denaro. Lei era già entrata nella cucina. La seguii scuotendo la testa esasperato. «Midge, devi tener conto di queste cose,» dissi piagnucolando. «In base a queste dobbiamo decidere se comprare o no la casa. «Scusami, Mike.» Scivolò verso di me fingendosi pentita e mi tenne per un momento la testa sul petto. Poi andò a guardare il grande fornello nero che avevamo visto attraverso la finestra, si abbassò per aprire gli sportelli, guardandovi dentro con gridolini di piacere, e poi, si alzò con esclamazioni ancora più acute nel vedere la nicchia sopra il fornello piena di casseruole e di padelle dal lungo manico, appese ai ganci. A terra, davanti al fornello, vi era un bollitore di ferro su di un treppiede, che aumentava il fascino dell'insieme. «È come in un vecchio racconto di fate,» gridò Midge. «Vuoi dire un racconto in cui le streghe bollono rospi e gambe di bambini per fare i loro incantesimi?» chiesi avvicinandomi. Vidi che vi erano
pentole di metallo nero anche nel forno più grande. «Non intendevo niente di così disgustoso,» mi ammonì Midge. Si chinò verso la nicchia e sbirciò nel camino. Io mi affrettai a tirarla indietro nel notare una pericolosa spaccatura nell'architrave sopra il fornello. Lei mi guardò stupita e io le indicai la fenditura. «Potrebbe crollare tutto da un momento all'altro,» l'avvertii, e lei ebbe il buon senso di allontanarsi. «Stai esagerando.» «Forse, ma perché correre rischi? Questa è un'altra cosa di cui dobbiamo prendere nota.» Midge aggrottò le sopracciglia: non le piaceva l'elenco che stavo già compilando. «Dieci a uno che la cappa del camino è chiusa, e non la si potrà aprire senza prima aver sostituito questa pietra.» Non mi piaceva dover mettere in evidenza quelle cose, ma bisognava che uno di noi due fosse realistico. «Forse l'umidità e questo sono gli inconvenienti più gravi,» notò Midge speranzosa. Io mi strinsi nelle spalle. Finora avevamo visto solo il pianterreno. Sotto la finestra da cui avevamo spiato poco prima vi era un grande lavandino di pietra, io girai i rubinetti dell'acqua calda e fredda. Entrambi, dopo vari sbuffi e sussulti fecero correre un'acqua nerastra. Lasciai che scorresse per circa un minuto, e il colore non cambiò. «Il serbatoio dev'essere arrugginito,» commentai. «A meno che da queste parti non si beva che questa roba.» Cominciavo a sentirmi un po' pessimista. Intanto Midge stava aprendo gli armadi a muro e i cassetti. Le strutture di legno erano piuttosto primitive ma non in cattivo stato. Io aprii un'altra porta aspettandomi di trovare una dispensa o un ripostiglio per le scope, e invece trovai un gabinetto con uno sciacquone a catena. «Almeno non dobbiamo servirci di uno sgabuzzino in giardino.» Tirai la catena e vi fu un gran fracasso mentre veniva giù la solita acqua nerastra che impiegò un tempo lunghissimo ad andar via gorgogliando, sbuffando e singhiozzando. «Credo che l'avviso dicesse drenaggio del pozzo nero,» mormorai chiudendo la porta. «Mi domando quando è stato vuotato per l'ultima volta, se è stato mai vuotato.» Midge era in mezzo alla cucina, ed ero sicuro che nulla di tutto ciò che avevo detto l'aveva spaventata. «Possiamo andare di sopra, adesso?» chiese.
«Non è il caso di aspettare,» risposi. «Cerca di essere di vedute un po' più larghe, Mike.» «Se anche tu farai altrettanto». Non vi era irritazione nelle nostre parole; avevamo troppa fiducia l'uno nell'altro per badare a queste piccolezze. Potrei dire che avevamo entrambi un velo di apprensione; ognuno temeva che l'altro rimanesse deluso. Sapevo che Midge desiderava davvero che il posto mi piacesse, e io avrei fatto quasi qualsiasi cosa per compiacerla. Ma non stavamo parlando solo di una questione finanziaria: era anche una questione di vivere comune. Se la cosa doveva funzionare doveva essere giusta. Salimmo le scale del secondo piano tenendoci per mano: Midge guidava quasi tirandomi dietro di sé. Le scale voltarono in un piccolo vestibolo, la cui porta esterna avevo cercato di aprire, alla nostra destra e, a sinistra, l'arco che dava sulla stanza rotonda. I raggi del sole ci colpirono come una leggera esplosione e, per un incredibile istante, ebbi l'impressione di fluttuare nell'aria. Questa sensazione fu così forte che ebbi un capogiro, e solo Midge, stringendomi la mano e tenendomi saldamente, mi impedì di cadere all'indietro giù per le scale. Sbattei gli occhi, accecato dall'improvviso bagliore, e la dolce immagine di Midge mi si presentò a lampi come se stessi cadendo in un sognante, vago deliquio. Ricordo di essermi concentrato nei suoi occhi lucenti e caldi, con una fiducia che mi avvolgeva e mi rassicurava. La visione si chiari e io fui vagamente consapevole che, sebbene fossero passati solo un secondo o due, una grande estensione di tempo si era svolta dinanzi a me. Mi trovai nella stanza rotonda pur non ricordando di esservi entrato. Fuori il sole abbagliava, e la campagna, attraverso le grandi finestre, sembrava microcosmicamente chiara come se potessi vedere ogni singola foglia, ogni filo d'erba come un'entità distinta. Il cielo era del più puro azzurro che avessi mai visto. Mi illusi di capire questa improvvisa e innaturale lucentezza. Avevo sentito dire che gli effetti di certe droghe possono affiorare in noi quando meno ce lo aspettiamo, anche anni dopo averle usate, e io non trovavo alcun piacere in questo, solo una profonda vergogna. Supposi che l'improvviso cambiamento dall'ombra fredda alla luce fulgente fosse stato provocato da sostanze chimiche che permanevano nella mia mente - il bagliore di un lampo può avere talora lo stesso effetto - portandomi in un breve viaggio allucinato. Così pensai allora, e ancora oggi non escludo questa possibilità.
Presto i miei occhi si rimisero a fuoco (o forse sarebbe più esatto dire che si "sfuocarono") tornando alla normalità. Midge mi teneva il volto fra le mani e mi studiava con lo stesso interesse di poco prima. «Ti senti bene?» mi chiese accarezzandomi dolcemente. «Sì, credo di sì. Sì, sto bene.» E, quanto all'umore, stavo bene, l'improvviso venir meno della percezione era svanito lasciando solo un vago ricordo di quella sensazione. «Mi sono sentito mancare per un momento, deve essere stato il cambiamento di altezza dal primo al secondo piano,» scherzai. «Sei sicuro di star bene?» «Sì, tranquillizzati, sto benissimo.» Mi guardai attorno, adesso vedevo la stanza e non più la campagna. «Questa è diversa,» dissi con un breve fischio di approvazione. «Non è bella, Mike?» Midge sprizzava gioia da tutti i pori. Si allontanò da me, fece un rapido giro e si fermò davanti a un vecchio caminetto di rozzi mattoni. Posò un gomito sulla stretta mensola e mi sorrise con gli occhi scintillanti di gioia. «Da un altro aspetto alle cose, non è vero?» disse. Era certamente così. Vi era un calore, in questa stanza, dovuto ai raggi diretti del sole che si riflettevano sulle mura; ma vi era anche qualche cosa di più, una vivacità, una vitalità, qualche cosa di intangibile ma tuttavia reale. Devi essere aperto a questo, tuttavia, mi sussurrò una vocina dentro di me. Devi volerlo sentire. A volte sono un cinico, ma ho anche sentimenti più sottili, e l'atmosfera della stanza, unita all'entusiasmo di Midge, liberava in qualche modo questi sentimenti. E tuttavia un'altra parte di me stesso si chiedeva se sarebbe stato lo stesso d'inverno, quando nubi colme di pioggia avrebbero nascosto il sole. Questa energia interiore sarebbe rimasta? Quella magia: quella parola echeggiò nella mia mente per la prima volta, si sarebbe dissolta? Ma in quel momento non vi badai. Il presente e il desiderio improvviso di andare a vivere in quel posto erano tutto ciò che contava. Andai da Midge e la strinsi a me così forte da mozzarle il fiato. «Sai, comincia a operare anche su di me,» le dissi senza capire veramente quello che dicevo. Il resto della casa fu una delusione. Trovammo una lunga spaccatura ramificata, che andava dal pavimento al soffitto in una delle stanze, e della muffa sulle pareti in un'altra. Il piccolo bagno era funzionale, e la vasca da bagno aveva delle chiazze
giallastre. La scala portava a un semplice attico con stanze di strana forma ricavate nel tetto, poco rischiarate da piccole finestre. I soffitti, tuttavia, erano ben squadrati, e da una botola si poteva salire nella soffitta. Avrei avuto bisogno di una sedia o di una scala per andare a darvi un'occhiata, così lasciai correre; ma immaginai che nel tetto dovevano esserci molte aperture giudicando dalle numerose tegole rotte sparse sul terreno esterno. Ispezionammo il secondo e il terzo piano trovando telai di finestre rotti, armadi a muro in rovina, porte che non si chiudevano, chiazze d'umidità e altre crepe nei muri sebbene meno evidenti di quella che andava dal pavimento al soffitto. Anche le scale protestavano sotto il nostro peso e un'asse si piegò tanto che mi affrettai a saltar via temendo che si spezzasse. E naturalmente tutto era coperto da uno spesso strato di polvere. Non so perché ma evitammo di tornare nella stanza rotonda: forse sentivamo inconsciamente che la sua atmosfera aveva su di noi effetti troppo intensi per essere sperimentati due volte in un giorno, o forse desideravamo solo mantenere una certa obiettività dopo avere visitato il resto del villino. Non ebbi difficoltà nel girare la chiave quando chiusi dietro di noi la porta d'ingresso, e ripercorremmo il sentiero più lentamente che all'andata. Passato il cancello, Midge e io ci voltammo e ci appoggiammo al cofano dell'automobile, io con un braccio sulle spalle di lei, entrambi assorti per un momento nei nostri pensieri. Lo squallore del giardino e le misere condizioni di tutto l'edificio sembravano essersi impressi molto fortemente in me e, quando guardai Midge, ebbi la certezza di vedere un'ombra di dubbio anche nei suoi occhi. Ero turbato dallo svanire del mio entusiasmo e avrei voluto che lei dicesse qualcosa per farmelo ritrovare. La sua incertezza era l'ultima cosa che mi aspettavo. Diedi un'occhiata all'orologio e dissi: «Andiamo a discutere la cosa davanti a un bel bicchiere di birra e a un panino.» I suoi occhi non lasciarono Gramarye mentre salivamo in macchina e, quando avviai il motore, allungò il collo per dare un ultimo sguardo dal finestrino posteriore. Non invertii la marcia, ma proseguii nella stessa direzione seguita nel cercare il villino, ricordando che, nel viaggio di andata, non avevamo incontrato né un bar né un ristorante. Dopo una decina di minuti buona trovai quello che cercavo e fui molto soddisfatto. Un'osteria costruita con travi di solida quercia dipinte di un bianco smagliante con un irsuto tetto di paglia. Rozzi tavoli di legno e panche nel giardino senza ombrelloni con scritte pubblicitarie che sciupassero il fascino campestre.
L'Osteria della Foresta mi piacque a prima vista. Nemmeno l'interno fu una delusione: lampioni da carrozza, finimenti da cavallo di ottone e di cuoio fissati ai muri, un enorme camino nel quale si sarebbe potuto arrostire un maiale, il distributore delle sigarette discretamente nascosto in un angolo buio. Nessun juke-box, nessun gioco elettronico. Nemmeno il forno a microonde sul banco, sebbene un menù scritto su una lavagnetta avvertisse che si potevano avere spuntini caldi. L'osteria aveva parecchi clienti sebbene non si potesse dire affollata, e io ordinai una pinta di birra per me e un succo d'arancia per Midge al grosso barista con le guance venate di azzurro e con lunghi ciuffi di capelli incollati ai lati di un cranio peraltro calvo. Aveva il portamento autoritario di un signorotto di campagna. «Di passaggio?» chiese senza alcuna curiosità mentre riempiva di birra il boccale. lo stavo studiando la lista dei cibi e risposi distrattamente: «Più o meno.» Poi, rendendomi conto che avrebbe potuto darci qualche informazione sulla località, se non sul villino, aggiunsi: «Siamo andati a vedere una casa in vendita non lontano da qui.» Lui alzò le ciglia. «La casa della vecchia Flora Chaldean, vero?» Arrotava un po' la erre. Assentii: «Sì, Gramarye.» Lui ebbe un riso soffocato prima di voltarsi a prendere una bottiglia di succo d'arancia, e Midge e io ci scambiammo uno sguardo stupito. «Un bel posticino, quella villetta,» suggerii mentre lui versava il succo. Lui alzò lo sguardo, prima su di me e poi su Midge, sempre versando e sempre sorridendo, ma si limitò a dirci il prezzo delle consumazioni. Midge di solito è molto riservata, per non dire schiva, così che rimasi stupito quando disse fredda e a chiare lettere: «C'è qualche cosa di buffo in questo?» Il barista tornò a considerarla e notai che, come molti altri prima di lui, non era del tutto indifferente al suo aspetto. Quanto a me, mi sentivo un blocco di cemento nello stomaco. Come ho detto era grosso, e devo aggiungere che le sue braccia nude appoggiate sul banco, apparivano forti come quelle di un muratore. Mandai giù un sorso di birra mentre lui si sporgeva in avanti. «Mi scusi, signorina,» disse. «Non volevo essere maleducato.» E poi si affrettò verso l'altra estremità del banco per servire un altro cliente. Stacci attento un'altra volta, gli intimai, naturalmente fra me. «L'idea
Midge,» dissi pazientemente, «era quella di fare conoscenza con la gente del luogo. Non abbiamo ordinato niente da mangiare.» «Non ho più appetito. Possiamo sederci fuori?» Nel giardino solo pochi tavoli erano occupati, e noi ci sedemmo a uno un po' appartato. Posai i bicchieri sulla ruvida superficie e mi sedetti su di una panca di fronte a Midge (ci è sempre piaciuto guardarci direttamente). Mi accorsi che era sempre imbronciata con ^barista, così le accarezzai una mano sorridendo. «E il modo della gente del luogo per tenere i visitatori al loro posto facendogli capire che ne sanno più di loro» spiegai. «Che cosa? Quell'uomo? Oh, no, non ne faccio alcun conto. Flora Chaldean era probabilmente l'eccentrica del luogo, una di cui si poteva sorridere perché era diversa da loro. Doveva essere una vecchietta solitària, senza famiglia, che viveva per conto suo. No, io pensavo a Gramarye.» Prese un sorso di succo d'arancia. «Non sei più tanto entusiasta, adesso?» Parve colpita. «Oh, sono più che entusiasta. Ma sembra che in quel villino vi siano degli elementi in contrasto.» Questa volta fui io a rimanere colpito. «Di che diavolo stai parlando?» «Quel luogo così vuoto...» «È rimasto disabitato per molto tempo.» «Sì, ma non hai notato? Non c'erano ragni né ragnatele, né insetti di qualsiasi genere. Non vi erano nemmeno tracce di topi. Non vi erano uccelli annidati sui cornicioni, sebbene il villino sia circondato da un bosco. Gramarye è un guscio vuoto.» Non lo avevo notato, ma aveva ragione: avrebbe dovuto essere un paradiso per animali striscianti e uccelli nidificatori. «E tuttavia,» continuò lei, «la stanza rotonda aveva un'atmosfera così particolare. Tu l'hai sentito: là dentro ti è successo qualche cosa.» «Sì, ho avuto un capogiro, niente altro. Forse era la fame.» Diedi un'occhiata bramosa all'osteria. «Solo questo?» Non volevo entrare nell'argomento. «In che senso?» «Credo che il sole mi abbia accecato mentre salivo le scale. Il bagliore mi ha un po' annebbiato il cervello.» Mi studiò per un paio di secondi, poi disse: «Bene.» Solo questo. Nessuna obiezione, nessuna discussione. Aveva accettato il fatto che non desideravo aggiungere altro. Per questo era così facile vivere con Midge.
Bevvi metà della birra mentre Midge mi guardava. Occhi inclinati, capelli neri e un delicato mento appuntito. Per questo, a volte, la chiamavo Folletto. «E adesso dove andiamo?» chiesi passandomi il dorso della mano sulle labbra. «Sono preoccupato di quanto ci costerà rimettere in sesto quel luogo.» «Ma a te piace, non è vero?» Si chinò sopra il tavolo con un sussurro di complicità fissandomi ancora con quel suo sorriso. «Non ti sembra che la posizione sia ideale? Immagina quanto lavoro potremo fare. I miei disegni, la tua musica. Mike, potrai far tanto, lo sai. E forse scriverai finalmente quelle storie per bambini che io illustrerò. Saremo una coppia formidabile!» lo meditai su tutto questo. A volte Midge fuggiva in un mondo tutto suo, lontanissimo dalle città soffocanti e dagli avidi mortali, e aveva l'abilità di attirarvi anche gli altri... se voleva. Io dovevo rimanere per lo più il pragmatista, sebbene non cessassi di stupirmi di quanto realista e terra terra potesse essere quando era necessario. «Senti, adesso ti dirò quello che faremo,» dissi. «Torniamo dall'agente e mettiamo le carte in tavola. Gli facciamo notare tutte le magagne che ci sono, grandi e piccole, e proponiamo un'offerta più bassa per coprire le spese. Se Bickleshift ci sta, bene; altrimenti... dovremo affrontare la realtà.» Lei non poté fare obiezioni, ma io non potei fare a meno di rimproverarmi per averla messa in ansia. E così facemmo. Finimmo di bere e tornammo a Cantrip, io con lo stomaco che brontolava e Midge in silenzio. Quando passammo davanti a Gramarye, voltò lo sguardo verso il villino e ancora una volta tenne il collo teso finché non lo perse di vista. Arrivammo al villaggio un bel po' dopo mezzogiorno e trovammo Bickleshift che si domandava come passare il resto della giornata. Gli spiegai la situazione dicendogli che il villino ci piaceva, che avremmo voluto acquistarlo, ma che vi erano degli inconvenienti gravi, degni di attenzione perché avrebbero inciso profondamente sulle nostre finanze. Che ne diceva di una diminuzione di quattromila sterline sul prezzo stabilito? Lui fu comprensivo e ci capì perfettamente, ma disse di no. L'avviso avvertiva che Gramarye richiedeva alcuni restauri, e probabilmente sarebbero costati cari. Ma lui non aveva l'autorità di accettare questo ribasso né, dovette ammetterlo, era professionalmente incline a farlo. Dopo
tutto era una «proprietà desiderabile» in un luogo altrettanto «desiderabile». Mi accorsi che Midge aveva perso il suo entusiasmo e la delusione assalì anche me. Sebbene avessi sentimenti contrastanti circa l'affare, l'apprendere che non potevamo farvi fronte in alcun modo mi lasciò più frustrato di quanto credessi. Tentai un ribasso di tremila sterline. Bickleshift rimase fermo spiegando che gli esecutori del testamento di Flora Chaldean avevano stabilito un prezzo minimo, senza contare che noi eravamo solo i primi di una lunga lista di altri possibili acquirenti. Ci disse questo in modo molto amichevole, ma gli agenti immobiliari non brillano per generosità. Il nostro problema era che non solo avremmo dovuto vivere a Gramarye, ma avremmo anche dovuto lavorarvi, così che le condizioni dovevano essere ragionevoli per entrambi. Inoltre avrei dovuto costruire un sia pur piccolissimo studio di registrazione; niente di straordinario, ma anche il minimo indispensabile avrebbe richiesto una certa quantità di denaro. E non era facile trovarlo, inutile cercare di illuderci. L'idea era buona ma non attuabile. Addio nido d'amore in campagna. Ce ne andammo col cuore pesante e con la promessa, da parte di Bickleshift, di tenersi in contatto con noi se vi fossero stati ulteriori sviluppi. Midge non pronunciò parola per tutto il viaggio di ritorno, e io non potei dir nulla per consolarla. Quella notte pianse durante il sonno. 6. TRE COLPI DI FORTUNA Un vecchio proverbio cinese che ho appena inventato dice: Quando la fortuna è dalla vostra parte, il denaro non serve. Il mattino dopo, il campanello ci svegliò verso le otto e mezzo: orario quasi impensabile per me e Midge che scese dal letto per rispondere. Con un occhio aperto vidi la sua faccia ancora gonfia e gli occhi arrossati dalle lacrime mentre lei si infilava la vestaglia e lasciava la stanza da letto. Mugolai e affondai la testa nel cuscino quando, dopo che lei ebbe aperto la porta d'entrata udii il familiare grugnito: «Buon giorno». Val Harradine, la sua agente, si annunciò nel primo mattino. Le voci passarono nella cucina, quella di Midge appena udibile e quella della grossa Val rauca come quella di un asmatico fumatore. Val era una
donna a posto, sebbene un tantino prepotente; quello che mi irritava era il modo in cui a volte costringeva Midge ad accettare un lavoro che non le piaceva. Quando seppi dello scopo della sua visita, quel mattino, avrei baciato la sua testona, baffi e tutto. Midge tornò volando nella stanza da letto e saltò sul letto mettendosi a cavalcioni sul mio stomaco e scuotendomi le spalle, lo gemetti e tentai di sottrarmi al suo peso. «Non te lo immagineresti mai,» gridò lei inchiodandomi lì e ridendo. «Andiamo, Midge, è troppo presto,» protestai. «Valerie, ieri, ha tentato di telefonarmi per tutto il giorno...» «Una notizia meravigliosa. Vuoi toglierti di lì?» «Non ha potuto avvisarci eravamo via, e ieri sera non ha potuto chiamarci perché era fuori casa lei.» «È fascino...» «Ascolta. Ieri mattina è andata all'agenzia d'arte Gross e Newby.» «L'agenzia che non ti piace.» «L'adoro. Fanno una grande mostra la settimana prossima, e il direttore vuole che mi occupi dei manifesti. Ne vogliono tre, Mike, e pagano bene.» A differenza degli editori di libri e di riviste, le agenzie pubblicitarie pagano bene le prestazioni artistiche - di solito paga il cliente - così che mi passarono per la testa fasci di assegni disperdendo le ultime ombre del sonno. «Cinquecento sterline al pezzo,» disse una voce rauca. Alzai gli occhi per vedere la grande faccia della Grossa Val che spiava dalla porta, una visione non proprio piacevole per uno stomaco vuoto, anche se oppresso dal peso di Midge. Tuttavia, in quel particolare momento, era la benvenuta e feci del mio meglio per essere gentile. «Meno il suo venti per cento,» dissi. «Naturalmente,» rispose lei senza sorridere. Le inviai comunque un bacio: non sarebbe stato decente, mezzo nudo com'ero, farlo fisicamente. Sempre con le mani sulle gambe di Midge, chiesi sospettoso: «Per quando li vuole?» «Per lunedì,» mi rispose lei. «Midge, dovrai sgobbare mica male.» «Andrà benissimo, lavorerò nel fine settimana. Se la mostra va bene l'agenzia raddoppierà il compenso.» «Tremila?» «Meno il mio venti per cento,» intervenne la Grossa Val.
«Naturalmente.» L'idea che Midge dovesse fare tre di queste illustrazioni mi preoccupava: lei non si risparmiava nel suo lavoro, né barava, e aveva uno stile particolarmente raffinato nei particolari. Anche con quei limiti di tempo, sapevo che ci avrebbe messo tutta se stessa in quei disegni. «Ti rendi conto di che cosa significa, Mike?» mi chiese con gli occhi sgranati scintillanti. «Potremo comprare il villino, potremo accettare la loro richiesta.» «Non proprio.» Le ricordai tutte le spese necessarie. «Ci mancheranno sempre un migliaio di sterline, anche se tu ottenessi l'intero importo per i manifesti.» Se pensavo che quella mia frase avrebbe gettato una nube sui progetti di Midge mi sbagliavo. Le mie parole non le fecero alcuna impressione. «So che sta andando tutto benissimo. Lo sapevo appena mi sono svegliata stamattina.» «Margaret, dobbiamo sbrigarci,» la interruppe "Venti per Cento". «Ho promesso che ti avrei accompagnato all'agenzia, per ricevere istruzioni, subito dopo le nove. Scendo a cercare una macchina; ti do cinque minuti per raggiungermi. Sette minuti dopo, Midge se n'era andata lasciandomi l'umida impronta di un bacio su una guancia e un po' confuso. Ero contento e preoccupato al tempo stesso. Il denaro poteva permetterci di impegnarci per i lavori che si dovevano fare a Gramarye, forse. In ogni caso promisi a Midge, prima che mi lasciasse, che avrei telefonato a Bickleshift per fargli una nuova proposta. Ma le cose andarono in modo diverso. Mi ero rasato, avevo fatto il bagno e stavo facendo colazione leggendo il Rolling Stone, quando il telefono squillò. Bickleshift era all'altro capo della linea. «Il signor Stringer?» «Sì.» Bevvi un sorso del caffè che avevo portato con me, e mi bruciai le labbra. «Sono Bickleshift.» Mi feci subito attento. «Oh, lei!» «Le ho detto che le avrei telefonato se vi fossero stati altri sviluppi. Ieri ho valutato la sua situazione e mi sono preso la libertà di prender contatto con gli esecutori della defunta Flora Chaldean.» Non dissi nulla della lunga lista di probabili clienti di cui ci aveva parlato. «Davvero? E stato molto gentile da parte sua.»
«Vede, non so come spiegarle, ma la vendita di Gramarye rappresenta per me qualcosa di diverso dalle vendite che ho trattato in precedenza. «Non capisco...» «Ecco, indipendentemente dal prezzo, vi sono altri aspetti relativi alla vendita. L'avvocato che si occupa della cosa, un certo signor Ogborn, della Ogborn, Puckridge & Quenby, mi ha pregato di fargli sapere qualche cosa sul... come dire?... sull'acquirente interessato al villino. Sembra che Flora Chaldean avesse delle idee precise su chi poteva comprarlo qualora sua nipote lo avesse messo in vendita.» «Capisco.» In realtà non avevo capito niente, ma cos'altro potevo dire? «Il signor Ogborn chiede se è possibile per lei e sua... e per la signorina Gudgeon, passare dai suoi uffici a Burbury, domani mattina o anche oggi.» «Hhm, è un po' difficile. Non credo che Midge possa oggi... è molto presa in questi giorni.» Non mi piaceva l'idea di essere sottoposto a una specie di esame. «Ah.» Vi fu un breve silenzio all'altro capo. «È importante che ci sia anche la sua amica. Il signor Ogborn è molto ansioso di conoscervi. Qualche volta io ho delle intuizioni, e qualche cosa mi diceva che per il signor Ogborn era Midge la parte importante della nostra coppia. «Al momento non è qui, e così non posso darle una risposta definitiva. Spero che ci riusciremo.» Povera Midge, stava per essere messa davvero sotto pressione. «Sarebbe un'ottima cosa. Le do il numero di telefono della Ogborn, Puckridge & Quenby, così potrete mettervi d'accordo per un appuntamento. Riguardo alla sua prima offerta, credo che troverà il signor Ogborn molto accomodante anche se non scenderà proprio alla cifra da lei suggerita. Comunque, buona fortuna.» Annotai il numero e ci salutammo. Forse ero rimasto un po' confuso da quella telefonata perché quando tornai in cucina, rimasi lì seduto per qualche tempo fissando la tazza di muesli e domandandomi che diavolo succedeva. Ma le sorprese del mattino non erano ancora finite. Un'oretta più tardi ricevetti un'altra telefonata. Midge non era ancora tornata e io stavo pensando se telefonare o no all'agenzia per avere sue notizie. Me n'ero rimasto seduto al tavolo della cucina, in jeans e maglietta, facendo calcoli su di un foglietto mentre, appoggiata a una bottiglia di latte davanti a me, c'era una lista degli inconvenienti di Gramarye che dovevano essere sistemati (come la crepa che andava dal pavimento al soffitto nella stanza da letto). Tornai al telefono sistemandomi la matita sull'orecchio e
mormorando numeri fra me. Il telefono squillò. «Mike? Sono Bob.» Bob è un impresario di tournée per complessi rock e simili, un mio amico di vecchia data. Eravamo sempre in coppia, ma io ero quello che era riuscito a conquistarsi la ragazza ambita da tutti. Fortunatamente Bob non è affatto un tipo geloso. «Oh, Bob, come va?» «Lascia perdere. Sei libero la settimana prossima?» «Posso trovare un momento.» «Intendo tutta la settimana. Gli Everly sono ancora in città.» «Un'altra tournée?» «A colpo sicuro. Albert sta mettendo insieme un nuovo complesso e vuole sapere se sei libero.» «Stai scherzando?» «L'ho mai fatto?» «Sì, sono libero. Posso liberarmi da tutti gli impegni.» «Conosci la loro routine?» «Sono un po' più vecchiotti di me; ma la routine la conosco, Albert mi metterà al corrente di tutto. «Magnifico. È un colpo di fortuna!» Terzo colpo di fortuna. Dopo esserci accordati sui particolari e aver promesso che ci saremmo visti per «un goccetto» nel prossimo futuro, riappesi e tornai in cucina scuotendo la testa pensando a quella strana giornata. Adesso non avevo più scuse per non comprare il villino, e non ero sicuro dei miei sentimenti al riguardo. Tuttavia sorridevo immaginandomi la faccia di Midge quando le avrei raccontato le novità. 7. OGBORN Il giorno dopo partimmo presto per Bunbury. La reazione di Midge quando era tornata dall'agenzia e io le ebbi detto delle due telefonate, mi aveva sorpreso: si limitò a sorridere come se tutto il succederei degli eventi fosse stato perfettamente previsto. Mi gettò le braccia al collo, mi baciò sul naso e mi disse enigmaticamente: «Sapevo che sarebbe andata così.» Lavorando sugli abbozzi di disegno che il direttore le aveva consegnato (il cliente era una catena di negozi d'abbigliamento per ragazzi, da 0 a 12
anni) aveva schizzato tutti e tre i manifesti quella notte stessa, lo avevo telefonato al procuratore Ogborn nelle prime ore del pomeriggio e fissato un appuntamento nel suo ufficio per il mattino seguente alle dieci e mezzo. Lui disse che era ansioso di incontrarci. Il viaggio implicava la perdita di un giorno intero per quel che riguardava l'impegno di Midge, ma lei era pronta a lavorare notte e giorno per il resto della settimana e a finire le illustrazioni per il lunedì. L'agenzia ne aveva bisogno per poterne fare delle copie fotografìche, con le iscrizioni aggiunte e presentarle al cliente entro la settimana. Come tutte le cose artistiche, i disegni potevano andare benissimo al primo colpo o in modo disastroso: per amor di Midge, pregavo il cielo che si avverasse il primo caso. Bunbury risultò essere una di quelle fiorenti città commerciali molto più piacevoli del villaggio di Cantrip: strade strette, case e osterie rivestite di legno, frontoni a timpano e negozi con le finestre ad arco: subito fuori dell'affollata piazza del mercato, vi era un viale moderno pieno di negozi, ma anche questo si fondeva armoniosamente con i più vecchi fabbricati attorno. Vi era un vivace trambusto che ci rianimava dopo la levata mattutina e il lungo viaggio. Trovammo gli uffici della Ogborn, Puckridge & Quenby in una strada senza uscita appartata, pavimentata a ciottoli, con vecchi edifici a terrazze, di mattoni rossi, protetti da ringhiere alte fino alla spalla e rampe di gradini che portavano a ogni portone. L'interno della O. P. & Q era piuttosto austero, funzionale senza ornamenti, dignitoso ma privo di carattere. Non vi erano ornamenti nemmeno nel signor Ogborn sebbene avesse indubbiamente una dignità vecchio stile e un aspetto che ricordava certi personaggi di Dickens. Non era facile dargli un'età, comunque doveva essere fra i sessanta e gli ottanta. Aveva modi pacati ma vivaci, il dorso un poco incurvato, la figura sottile. Gli occhiali cerchiati d'oro posavano su di un naso spudoratamente adunco, e i suoi occhi dalle lunghe ciglia erano del grigio più pallido che avessi mai visto; ma non erano duri. Mi tese una lunga mano ossuta e, quando la strinsi, fui sorpreso dalla solidità della sua stretta. Trattenne quella di Midge un poco più a lungo del necessario, o così mi parve, e la scrutò con un interesse che non aveva dimostrato per me. Forse non si è mai troppo vecchi. Ci aveva condotti nel suo ufficio una segretaria che non doveva essere molto più giovane di Ogborn e che lo trattava con la tranquilla reverenza che può essere dovuta a un cardinale o a un presentatore televisivo. Quando ci lasciò, chiudendo piano la porta dietro di sé, Ogborn ci indicò due sedie di fronte alla sua
scrivania rivestita di cuoio. Midge e io ci sedemmo. «Siete stati molto gentili a venire fino a qui» cominciò con voce secca e fragile probabilmente come le sue vecchie ossa. «Il signor Bickleshift mi ha informato del vostro interesse per Gramarye e ho pensato che sarebbe stato opportuno incontrarci. Credo che siate veramente interessati alla proprietà.» La risposta di Midge fu pronta. «Ci piacerebbe acquistare il villino.» Io mi accomodai sulla sedia approvando, quando il procuratore si rivolse a me. «Ma le esigenze finanziarie sembrano darvi qualche problema.» Questa volta fui più rapido di Midge. «Il luogo esige parecchi restauri. C'è una grande crepa...» «Sì, mi rendo conto che il villino si è deteriorato negli ultimi mesi,» mi interruppe. «Come esecutore di Flora Chaldean, ho l'autorità di considerare ogni offerta ragionevole e credo che quanto prima Gramarye sarà occupata, tanto meglio sarà per le sue condizioni generali.» «Bene, sarà necessaria una somma considerevole per prevenire ulteriori deterioramenti, signor Ogborn,» gli feci notare. «Certo. Denaro e buona volontà.» Buona volontà? Sorrise alla mia silenziosa sorpresa. «Sono convinto che le case vivano e respirino attraverso le persone che vi abitano, signor Stringer.» Io non volevo discutere questo punto, nel momento in cui i negoziati erano ancora in uno stadio «delicato». Ma Midge apparve pronta a convenirne. «E proprio questo di cui Gramarye ha tanto bisogno adesso, signor Ogborn: di vita nelle sue mura.» Non vidi alcun imbarazzo nello sguardo fermo del procuratore, ma mi affrettai ad aggiungere: «Tutte le case disabitate diventano alla fine dei mausolei, stantii e decrepiti. Basta un po' d'aria per ravvivarle. A volte...» «Posso farle una domanda personale, signorina Gudgeon?» chiese Ogborn. «Prego,» rispose Midge. «Lei ha un'attività, svolge una professione?» «Sono illustratrice.» «Ah.» Sembrò compiaciuto. «Illustro per lo più libri per bambini.» «Capisco.» La studiò per alcuni secondi e io cominciai a irritarmi un po-
co per la sua esagerata attenzione. «Io sono musicista,» dissi. «Capisco.» Il suo sorriso parve affievolirsi. «Può dirci qualche cosa su Flora Chalde.an?» chiese Midge. «Deve avere vissuto a Gramarye per molti anni.» «Sì,» rispose Ogborn raddrizzandosi sulla sedia per quanto glielo permetteva la curvatura della spina dorsale. «Mi risulta che era un'orfana adottata dai proprietari del villino, che erano senza figli, prima che scoppiasse la prima guerra mondiale e che è stata allevata come una figlia. Non vi fu un atto ufficiale di adozione, e sembra che nessuno sapesse con esattezza la sua età quando morì. Credo che gli anni non avessero un gran significato nemmeno per Flora stessa.» «Si è mai sposata?» chiese Midge. «Solo per un breve periodo. Suo marito rimase ucciso nell'ultima guerra dopo solo due o tre anni di matrimonio, credo. La nipote che ha ereditato la proprietà è sua, e posso aggiungere che rintracciarla non è stato facile. E sulla sessantina, e non ha alcun interesse per Gramarye cosa comprensibile, date le circostanze. «E di che cosa viveva la signora Chaldean?» Se il signor Ogborn trovò indiscreta la domanda di Midge, non lo diede a vedere. «Oh, i suoi genitori adottivi le avevano lasciato una piccola eredità, e credo che godesse anche della magra pensione di vedova di guerra. Ho il sospetto che praticasse anche una forma di baratto con le persone del luogo, una cosa consueta nelle parti più isolate del paese.» «Una forma di baratto?» Non capivo che cosa avesse a che fare tutto questo con l'acquisto di una casa, ma volevo approfondire. «Da queste parti si dice che Flora Chaldean era una guaritrice. Niente di eccezionale, intendiamoci, ma preparava delle pozioni per i malati del luogo, colpiti da raffreddori persistenti, mal di gola e simili, e in cambio loro le davano polli, conigli, verdure e altre cose. Piccole cose, niente di importante, niente che avesse a che fare col fisco. Preparava le sue pozioni in base a vecchi o addirittura antichi rimedi tradizionali. Sembra anche che avesse una straordinaria capacità di guarire animali malati o feriti.» Ogborn si guardò le mani che teneva intrecciate sul piano del tavolo, e aggiunse quasi tra sé: «Molto notevole.» lo quasi sorrisi pensando alle misture e agli incantesimi delle streghe e alle gambe di bambini bollite. Se avessi potuto farlo senza essere notato, avrei dato un colpo di gomito a Midge. Invece le rivolsi una rapida occhia-
ta e mi accorsi che stava riflettendo su ciò che Ogborn aveva detto. Schiarendomi la gola, cercai di riprendere l'argomento. «Quanto al prezzo...» I suoi modi divennero immediatamente più incisivi. «Be', dunque, so che siete preoccupati del costo. Riconosco che le condizioni della proprietà sono peggiorate durante i mesi invernali, dopo la morte del proprietario, e che forse la prima valutazione era troppo alta, sebbene ultimamente i prezzi delle case siano aumentati.» «Signor Ogborn, il prezzo non è...» cominciò Midge, ma io la interruppi: «Credo che potremmo incontrarci a metà strada.» «Lei ha chiesto al signor Bickleschift... una riduzione di tremila sterline.» «Veramente quattromila.» Ignorai l'occhiata fulminante che mi lanciò Midge. Ogborn consultò un taccuino sulla scrivania. «Ah! Avevo capito tremila,» disse. «Ebbene sì, si era accennato a questa cifra, ma più riusciremo a risparmiare sul prezzo e più potremo spendere per i restauri.» «Un'altra coppia è venuta da me ieri, e anche loro erano molto interessati...» «Ma penso che potremmo racimolare un altro migliaio di sterline.» «Io mi sono impegnato con la parente della defunta signora Chaldean a ottenere il miglior prezzo possibile. Comunque devo anche osservare i desideri espressi da Flora Chaldean nel suo testamento. Ossia di trovare una persona o persone adatte a vivere in Gramarye.» Questo discorso non mi piacque affatto e ancor meno la sensazione di non essere incluso in quel plurale. Lui continuava a rivolgersi direttamente a Midge. «Che cosa ne direste,» continuò Ogborn, «se vi proponessi una riduzione di 1500 sterline?» «Accetteremmo, signor Ogborn,» disse subito Midge. «Accettiamo,» confermai io più lentamente. «Allora affare fatto!» concluse Ogborn. Tirai segretamente un respiro, e Midge, meno introversa, balzò sulla sedia. «Magnifico!» esclamò e, senza vergogna, si chinò a baciarmi sulla guancia. «Naturalmente dovrò chiedere un deposito,» disse Ogborn, «e spero che il vostro avvocato si metterà in contatto con me al più presto. Immagino che facciate l'acquisto con i vostri nomi congiunti.»
Assentimmo mentre lui ci guardava inarcando le sopracciglia. Io mi sentivo in faccia uno sciocco sorriso per l'esuberanza di Midge. Ma non solo per quella: anch'io ero contento dell'affare. Improvvisamente ero convinto dell'acquisto. Sì, stavo per godere una vita in campagna. Sarebbe stato un ritorno alla natura. E Gramarye stava per diventare la nostra prima vera casa. Ma ancora una volta quella mia tormentosa meticolosità fece capolino. «Non capisco una cosa,» dissi a Ogborn. «Il signor Bickleshift aveva accennato che numerose persone erano interessate al villino.» «Vi sono state sei richieste da quando è apparso l'annuncio, come le ho detto; io stesso ho incontrato un'altra giovane coppia proprio ieri sera.» Mi sentivo indiscreto, ma non potei farne a meno. «E allora perché proprio noi? Non mi fraintenda: per quel che ci riguarda l'affare è fatto; ma mi domando se le offerte degli altri erano più basse delle nostra.» Ogborn fu visibilmente divertito. «Al contrario, signor Stringer. Quelli che erano interessati erano disposti a pagare il prezzo intero.» Ero sempre più curioso. Lui continuò: «Ma le ho già spiegato: Flora Chaldean insisteva perché Gramarye venisse acquistata dalle persone adatte. Alcuni degli altri acquirenti erano solo degli speculatori, gente che avrebbe rinnovato, modernizzato il villino e subito dopo lo avrebbe rivenduto a un prezzo esorbitante, mentre altri volevano usare il villino solo come seconda casa per il fine settimana. Era molto diverso da quello che la mia defunta cliente aveva in mente per Gramarye.» Fece una pausa. «E poi c'erano quelli che avevano programmi del tutto differenti.» Pronunciò queste ultime parole con voce tranquilla, quasi fra sé. «Mi scusi,» dissi. Rimase appoggiato contro lo schienale della sedia. «Non ha importanza, signor Stringer, non ha importanza. So che adesso avete davanti a voi un lungo viaggio, e non vi trattengo oltre. Avvertirò Bickleshift del nostro accordo, e forse lei potrà farmi avere quel deposito entro un paio di giorni: naturalmente il nostro ufficio provvedere a farle avere i documenti per il passaggio di proprietà.» «Mike...» Suggerì Midge. «Posso darle un assegno immediatamente.» E mi misi una mano in tasca. «Magnifico. Le consegnerò una ricevuta e l'affare sarà fatto. L'agente mi ha riferito che voi non avete problemi di vendita di un'altra casa, così non
ci saranno complicazioni.» «E esatto, attualmente abitiamo in una casa in affitto. Come faceva Bickleshift a saperlo?» «Gliel'ho detto io quando ho telefonato lunedì,» rispose Midge. «Ho pensato che il non dover dipendere da una vendita fosse a nostro favore.» Era proprio sicura che avremmo comprato quella casa. Concludemmo l'affare con Ogborn, gli stringemmo la mano e ce ne andammo. Midge era stranamente esausta quando fummo fuori, nonostante sapessi che era al settimo cielo; mi resi conto che era l'effetto della tensione degli ultimi due giorni. Avremmo voluto celebrare subito l'evento, ma purtroppo il lavoro non ce lo permetteva: doveva tornare a casa e cominciare le illustrazioni. D'altra parte io dovevo andare da Albert Lee e lavorare agli arrangiamenti per la breve tournée della prossima settimana. Sarebbe stato un lavoro duro e non vedevo l'ora di cominciare; era passato molto tempo da quando avevo lasciato quell'attività e avevo quasi dimenticato le difficoltà che comportava. Partimmo da Bunbury e chiacchierammo per tutto il viaggio, stupiti della nostra fortuna e facendo programmi. Midge e io avremmo dovuto fare una bella faticata, ma sapevamo che ne valeva la pena. Oh, se lo sapevamo! 8. TRASLOCO Le cinque o sei settimane che seguirono furono una specie di sogno confuso in un veloce susseguirsi di eventi. La tournée degli Everly registrò il tutto esaurito e io mi divertii un mondo. L'andare in giro per la campagna dando sei concerti consecutivi in varie città, non mi stancò affatto. Ero in uno stato di esaltazione che superava tutto. Prima di partire potei vedere il risultato del febbrile lavoro di Midge e nonostante il mio innato senso critico, lo trovai BRILLANTE. La campagna pubblicitaria era diretta particolarmente ai più piccoli, e il direttore aveva pensato a scene fiabesche, con castelli bianchi, cupe foreste, elfi danzanti e tutti i motivi tradizionali, a cui erano sovrapposti fotograficamente elementi moderni. L'abilità del fotografo avrebbe assicurato (si sperava) la giusta armonia. Non ricordo l'effetto finale ma so che era un po' grossolano. Non saprei dire se il messaggio era pacchiano o raffinato, ma sono sicuro che, se ebbero successo, il merito fu in gran parte del lavoro artistico di Midge.
Grazie alla fama di lei e alla mia capacità di avere un impiego regolare musicalmente parlando, non fu difficile ottenere un'ipoteca, anche se la chiedemmo con i nostri nomi congiunti pur essendo solo conviventi. Probabilmente il fatto che ognuno di noi avrebbe potuto far fronte da solo ai pagamenti influì sull'atteggiamento favorevole della società finanziaria. Non che chiedessimo molto: avevamo cominciato a depositare i nostri risparmi in quella società, in vista di questo acquisto, fin da quando eravamo andati a vivere insieme, e l'ammontare era notevole. Riuscimmo ad andare al villino solo un paio di volte, nelle settimane che seguirono, e tutte e due le volte furono giornate nuvolose così che l'impressione non fu la stessa. Il sole dà un senso di calore non soltanto fisico. Tuttavia fu anche più piacevole perché tutte e due le volte il luogo mi parve più bello. Mi accordai con una ditta edilizia del luogo perché cominciasse i lavori non appena fosse stato firmato il contratto definitivo, dando loro un elenco dei danni che richiedevano un immediato intervento, e un altro di quelli minori che avrebbero potuto essere riparati in seguito. Le pitture e le decorazioni avremmo potuto farle noi, ma tutto quello che richiedeva capacità tecnica era compito loro. Stabilimmo la data dell'inizio dei lavori, e quel mattino stesso giunse una strana telefonata. Midge era uscita con la pioggia per far compere, e io stavo accordando la mia chitarra, mi sentivo un po' colpevole per aver trascurato il mio strumento, quando O'Malley, il capomastro mi chiamò. Voleva sapere se non mi ero sbagliato nel fare l'elenco dei danni. Certo in cucina vi era dell'acqua, e il muro addossato al terrapieno doveva essere prosciugato, ma non aveva trovato traccia di umidità sulle pareti al piano superiore. E che cosa intendevo per frattura nell'architrave sopra il fornello? La pietra gli sembrava perfettamente sana. La crepa dal pavimento al soffitto nella stanza da letto non era così grave come avevo indicato; poteva essere riparata facilmente. Vi erano un paio di telai di finestre che dovevano essere sostituiti, ma non era riuscito a trovare alcun gradino pericoloso. Il tetto, certo, richiedeva un restauro, a meno che non volessi dormire sotto le stelle, ma il serbatoio dell'acqua non era troppo arrugginito; tuttavia consigliava di sostituirlo per evitare problemi più tardi. Non so se rimasi più stupito nel trovare un capomastro così onesto o per avere evidentemente esagerato i danni di Gramarye. Comunque erano buone notizie anche se sconcertanti. Dissi a O'Malley di fare tutto quello che credeva necessario e tornai alla mia chitarra, disorientato e rallegrato
in eguai misura. Quando Midge tornò dalle sue compere, bagnata fradicia e con i capelli incollati sul volto, le raccontai le novità. Lei rimase lì, gocciolante sul tappeto, guardandomi sbigottita. Avevamo scritto la lista insieme, in base ad appunti presi durante una delle nostre visite al villino, così che non si poteva pensare a eccessiva immaginazione da parte mia. Ricordo di aver notato allora che i danni non erano così gravi come mi erano parsi la prima volta, tuttavia erano bene evidenti. Discutemmo il mistero per tutto il pomeriggio e alla sera, poco prima di andare a letto, non eravamo ancora giunti a una conclusione soddisfacente. E ci addormentammo ancora perplessi. Il giorno dopo fummo troppo indaffarati per tornare sull'argomento: io ero impegnato in sedute di registrazione, soprattutto jingle pubblicitari, molto redditizi; e Midge doveva preparare una serie di illustrazioni per un nuovo libro, un genere insolito per lei perché si trattava di una raccolta di ricette culinarie. Dovevamo anche organizzarci per la nostra vita futura: inviare annunci di cambiamento di indirizzo, far installare l'impianto elettrico e il telefono nel villino, firmare assegni per tutti quei lavori e Dio sa che cos'altro ancora, acquistare nuovi mobili, un fornello elettrico e via di questo passo. Bob riuscì a trovarmi, per pochi soldi, un furgone Ford da tre tonnellate, generalmente usato per trasportare le attrezzature musicali, più un paio di «gobbi» che sarebbero venuti con esso (i «gobbi» sono quei facchini che portano grandi amplificatori e altre attrezzature da spettacolo a spettacolo), così che non era necessario un trasloco fatto da professionisti. Venne stabilito il giorno del trasloco, e Midge e io rinunciammo a qualsiasi impegno per un mese. Pensavamo che ci sarebbe voluto tutto questo tempo, anche facendo in fretta e, sebbene dopo tante spese non avessimo denaro da buttar via, ne avevamo certo abbastanza per superare il periodo: gli dèi erano stati benigni, con noi. I manifesti di Midge erano stati accettati dai negozianti di abiti per ragazzi e, date le clausole finanziarie stabilite dalla Grossa Val, del 2,25 per cento di interesse in caso di mancato pagamento due settimane dopo la consegna, l'onorario era già in banca. Il mio lavoro fu pagato sulla base di ogni tre ore lavorative, e l'importo fu ricevuto con gratitudine alla fine di ogni giornata o mezza giornata. Il trasloco avvenne in una bella mattina, e noi ci trovavamo nel nostro appartamento di città, adesso vuoto, dopo avere caricato il furgone che aspettava in strada. All'improvviso eravamo un po' amareggiati: avevamo
passato dei bei tempi in quella casa, pur desiderando qualche cosa di più, qualche cosa di nostro. E il nostro amore si era rafforzato lì. Ci abbracciammo e demmo un'ultima lunga occhiata in giro. Poi ce ne andammo. Ci avviammo verso lo Hampshire la Nuova Foresta e Gramarye coi "gobbi" nel furgone. 9. IN CASA NOSTRA Verso le sei di sera i "gobbi", con i biglietti da dieci sterline in tasca e un sorriso stanco sul volto, se ne andarono lasciando Midge e me soli in Gramarye. Dalla soglia di casa guardammo il furgone scomparire dietro la curva della strada, e restammo lì ancora un poco respirando l'aria che si stava rinfrescando. Io lasciavo vagare lo sguardo sulle distese erbose e i boschi davanti al villino, domandandomi se prima o poi anche quella strada sarebbe mai divenuta piena di traffico e se tutto quel silenzio non mi avrebbe fatto ammattire un poco. Da Baron's Court al deserto con un solo salto. Pauroso. Ma mi sentivo bene, veramente bene. Ero esausto, ma piacevolmente, non mi sentivo affatto dolere i muscoli. Tirai Midge verso di me, e lei mi mise un braccio attorno alla vita appoggiandomi la testa sulla spalla. «Sono così felice, Mike,» disse piano. «Non so dirti quanto. Gramarye significa tante cose per me.» Sorrisi e la baciai sulla fronte. «Anche per me, Folletto. Anche per me. Credo che abbiamo preso la decisione giusta. Guarda, anche i fiori si sono ravvivati per darci il benvenuto.» «Dev'essere stata tutta la pioggia di questi giorni; hanno dei colori bellissimi.» «Qui non c'è bisogno di guardar lontano per trovare l'ispirazione.» «Ho a portata di mano tutto quello che mi occorre.» «Davvero?» «Capisco, ma mi fa bene dirtelo.» 1 suoi occhi brillarono. «Le cose si stanno mettendo bene, non è vero, Mike?» «Sì, certo. Dio mio, ho voglia di cantare.» «Risparmiamelo!» «Non posso.» Aprii la bocca, ma lei mi assestò un colpo nelle costole. «Spaventerai gli
animali.» «Ah, sì. Scusami... Oh! potrei dormire per una settimana.» «Vuoi una birra?» «Vuoi dire che Igor e Mango non le hanno fatte fuori tutte?» «No, li ho tenuti troppo occupati a trasportare i mobili. Si sono concessi soltanto mezz'ora di riposo per una birra e un panino.» «Sai di che cosa ho voglia?» «Hai detto di essere stanco.» «Non mi riferivo a quello che pensi tu. No, vorrei un tè.» «Possibile che tu sia lo stesso tipo scatenato con cui ho condiviso un appartamento a Londra? Dev'essere l'effetto dell'aria pura della campagna. Nemmeno un caffè?» «No, ho voglia di te.» «Solo perché ti sono vicina.» «Strano, ma quando mi sei...» cominciai a cantarellare. Poi le dissi: «Vai a metter il bollitore sul fuoco» Lei saltellò in casa ridacchiando fra sé. Io mi diressi lentamente verso il cancello e sentii avvicinarsi un'automobile. Presto uscì da dietro la curva e io la guardai passare, pensando che i divertimenti erano ben pochi in questo angolo fra i boschi. I passeggeri della Citroen si voltarono a guardarmi e io feci loro un cenno amichevole. Uno di loro, una ragazza, mi sorrise e l'auto scomparve lasciando un leggero odore di benzina dietro a sé. Finito lo spettacolo, tornai tranquillamente su per il sentiero, guardando il quadretto da scatola di cioccolatini del villino sullo sfondo del bosco con i fiori selvatici che ravvivavano il primo piano. Mi sentii pervadere da una sensazione di contentezza. Questa nuova vita richiedeva una certa abitudine e c'era ancora molto da fare per rendere il luogo abitabile ma la buona atmosfera stavano già tessendo il suo incanto, mi calmava e mi divertiva al tempo stesso e risvegliava i miei sensi per tutto ciò che mi circondava. Sentivo forte la presenza di Midge entro quelle mura irregolari, come se fosse diventata all'istante una parte di Gramarye, un poco della sua essenza. Apparteneva all'insieme. Mi fermai di colpo. Attento, mi ammonii, non lasciarti traportare. Non vorrei dispiacervi, signora Chaldean, ma qui si parla semplicemente di una casa di mattoni e di calcina con una piacevole vista, non di un tempio. Ripresi a camminare scuotendo la testa. Mi fermai ancora quando vidi un fringuello sulla soglia della porta d'in-
gresso. L'uccellino mi volgeva il dorso guardando nell'interno scuro con bruschi movimenti, a volte tendendo la testa da un lato, come se ascoltasse qualcosa. Attesi, non volendo spaventarlo; questo fu il mio primo incontro ravvicinato con la razza piumata. Midge apparve sulla soglia muovendosi piano e fischiettandogli un gentile benvenuto. Si inginocchiò nell'avvicinarsi e io mi meravigliai che il fringuello non fuggisse. Osservai la scena con interesse. Midge aveva in mano alcune briciole di pane e gliele offerse, ma lui la guardò con sospetto. Io rimasi immobile godendomi lo spettacolo. Midge mise le briciole sul pavimento presso la soglia, a pochi centimetri dall'uccello. Il fringuello allungò ancora la testa e la guardò senza badare al cibo. Poi saltellò fino al margine del gradino e io credetti che volesse entrare. Ma non fu così: tornò ancora indietro, emise un alto cinguettìo che poteva essere un saluto e volò via. Ridemmo tutti e due mentre l'uccellino faceva alcuni rapidi voli sul giardino prima di scomparire nel bosco vicino, e credo che questo piccolo episodio sia stato per Midge il più importante della giornata. «Ecco, » dissi allegramente entrando. «Adesso che sanno che siamo qui si aspetteranno un caldo ricevimento.» «Gli abbiamo dato il benvenuto,» rispose Midge rossa in viso per la contentezza. Sempre ridendo attraversai la stanza e mi rannicchiai vicino alla parete passando le dita sulla superficie per sentire se c'era umidità. «Sembra che O'Malley e la sua gente abbiano fatto un buon lavoro,» dissi. «Hai dato un'occhiata a quella crepa sul muro al piano di sopra?» Midge era occupata nell'aprire una scatoletta di cibo pronto. «Sì,» disse continuando il suo lavoro. «E sparita. Tutta la stanza è stata ridipinta così non ci si accorge di niente. Hai ancora fame?» «Qualche cosa di leggero andrebbe bene.» «Non c'è molta scelta. Domani farò una corsa in paese per rifornirmi, ma per oggi pizza, hamburger o minestra di verdura.» «Oh, minestra di verdura. Però ci vorrà un'oretta prima che sia pronta.» «Bene.» Mi porse la teiera. «A proposito, l'acqua adesso è limpida.» «Sì, ho già controllato.» Le presi la teiera dalle mani. Eccoci qui, nella nostra nuova casa. Il mio sorriso adesso doveva tendere al patetico. Le misi la mano libera sulla nuca. I suoi occhi cominciarono a inumidirsi scintillando, e lei non ebbe bisogno di rispondere, proprio alcun bisogno.
Più tardi ci riposammo sulla vecchia panca inchiodata a terra dietro il villino, e rimanemmo a osservare il sole che tramontava nella foresta scura e a inzuppare gli ultimi tozzi di pane nella minestra bollente. La sera era ancora calda e noi eravamo avvolti in un dolce bagliore mentre le mura di Gramarye si soffondevano di un pallido rosa. Gli uomini di O'Malley avevano lavorato da esperti su quelle mura restaurando le scrostature e ricoprendole con due mani di pittura. Udivamo il cinguettare degli uccelli che si preparavano al sonno e, ogni tanto, il passaggio di un'automobile che girava l'angolo del villino. Le cose essenziali erano state tolte dall'imballo; la mia attrezzatura musicale, ancora nelle scatole o incartata, era in una delle stanze dell'attico che intendevo usare per scrivere o registrare; il tavolo da disegno e il necessario per il lavoro di Midge erano nella stanza rotonda, che ovviamente sarebbe stata il nostro soggiorno, ma nella quale lei aveva deciso di lavorare. Era una sistemazione sensata alla quale eravamo abituati dato che la sua attività non disturbava nessuno. Avevo sistemato il nostro letto vicino alla porta che dava sulla stanza dipinta di fresco, perché nessuno di noi voleva respirare gli effluvi della vernice durante la notte; poiché quella stanza era un poco più grande, avremmo portato là il letto non appena l'odore fosse scomparso. I quadri erano stati ammucchiati contro le pareti e i soprammobili erano sparsi qua e là a gruppi, come amici che si fossero raccolti in un ambiente a loro estraneo. Ma le sedie, i tavoli, le lampade e gli altri mobili erano più o meno al loro posto: avremmo finito di sistemare tutto nei giorni seguenti. La Grossa Val non tardò a telefonare per assicurarsi che tutto fosse andato bene; fortunatamente non era tipo da perdere tempo in chiacchiere, e la linea era disturbata, perciò Midge non rimase a lungo al telefono. Avevamo deciso di rientrare poco prima del tramonto. «È buona,» dissi leccandomi le labbra. «Sei sicuro di non avere bisogno d'altro.» «Basta così. Sono troppo stanco per aver fame.» «Mmm, anch'io. Non è affascinante la foresta con il sole che l'arrossa all'esterno mentre nell'intimo è così scura e misteriosa?» «Mi fa venire un po' la pelle d'oca.» Finii il resto della minestra e posai a terra la scodella vuota, accanto a me, tendendomi per prendere la birra. «Sale già la nebbia.» «Qui, quando piove, deve essere tutto impregnato d'acqua.» Aprii il barattolo di birra e bevvi a canna. «Credi che faccia molto freddo, di notte?» «Forse un po' più di quello a cui è abituata la gente di città ma non credo che avremo bisogno di stufette elettriche, ancora per un po'.»
«Il buio da queste parti dev'essere pesto. Nella strada non ci sono lampioni.» Midge tese le esili gambe appoggiando le spalle allo schienale della panca. «Ti ci abituerai, Mike.»Trasse un lungo e profondo respiro. «E bello stare a contatto con la natura.» «In fondo in fondo resti una ragazza di campagna, eh?» «Certo. Nove anni in città non possono sradicare tutta un'educazione , e non lo vorrei. » Il cambiamento d'umore fu improvviso, come spesso in Midge. Abbassò gli occhi. «Vorrei che "loro" avessero potuto vedere Gramarye, Mike. So che gli sarebbe piaciuta.» Posai la lattina e le presi una mano fra le mie. Lei disse piano: «Penso che sperassero che avrei finito con lo sposare un uomo di campagna o un parroco.» Sorrise, ma con un'espressione di tristezza. «A papà sarebbe piaciuto. Immagino le lunghe sere che avrebbero passato a parlare del negozio.» «Non avrebbe trovato molto in comune in me.» «Oh, Mike, non intendevo questo. Papà ti avrebbe voluto bene. Siete molto simili in tante cose.» «Da tutto quello che mi hai raccontato di lui credo che gli avrei voluto bene anch'io, Midge.» «La mamma ti avrebbe considerato un mascalzone. Avrebbe detto proprio così: un mascalzone. E ne sarebbe stata contenta.» Una lacrima le rigò la guancia. «È stato così crudele, Mike, così orribilmente crudele.» Le misi il braccio sulle spalle e avvicinai la testa alla sua. «Devi cercare di dimenticare questa parte della tua vita. Loro avrebbero voluto che ricordassi solo gli aspetti piacevoli.» «Mi è impossibile dimenticare quello che gli è successo.» «Allora accettalo. Accetta questa crudeltà insieme con tutti i bei ricordi di allora. E pensa a quanto sarebbero stati orgogliosi di te adesso.» «E questo che mi fa male. Loro non possono saperlo, non possono sapere del mio lavoro, di te, di... di questo posto. Avrebbe significato tanto per loro. E per me avrebbe significato tanto saperli orgogliosi di me.» Non potevo dir molto; mi limitai a tenerla stretta e a lasciarla piangere, sperando, come molte altre volte, che le lacrime fossero per lei uno sfogo. Non potevo sapere quanto dolore si tenesse ancora dentro; ma potevo essere paziente: lei se lo meritava. «Scusami, Mike,» disse dopo un poco. «Non volevo sciupare tutto.» Baciai le sue lacrime. «Non lo hai fatto. Per te è dolce piangere qui e in
quest'ora, vicino a me. Vorrei solo poter fare di più per consolarti.» «Mi sei sempre di aiuto, mi hai sempre capita. So che è sciocco, da parte mia, addolorarmi ancora dopo tanti anni...» «Non vi è un particolare limite di tempo per certi dolori, non è un orologio che si possa fermare quando si vuole. Deve continuare a scorrere naturalmente.» Le sollevai il mento con un dito. «Ricorda solo quello che ti ha detto il medico: non lasciare che il dolore dia la sua tinta a tutte le cose. Tu hai il diritto di essere felice, e questo è ciò che i tuoi genitori avrebbero voluto.» «Sono così cattiva?» «No, affatto. Anche se questi ricordi fanno capolino quando sei più felice.» «Cioè quando sento di più la loro mancanza.» Io sentii di non essere all'altezza, e tutto quello che potei offrirle fu il conforto delle mie braccia e la sincerità dei miei sentimenti. Adesso Midge non piangeva più e la sua tristezza si era attenuata tanto da permettere l'affiorare di altre emozioni. Il suo bacio divenne più tenero e i miei sentimenti affondarono nei suoi. Ero abituato all'intensità sensuale della nostra intimità, specialmente dopo che lei aveva pianto, ma adesso fui quasi sopraffatto. Quando finalmente ci staccammo, mi sentii letteralmente preso dalla vertigine e aspirai profondamente come un nuotatore dopo una lunga immersione. Anche Midge vacillava un poco. «Quest'aria di campagna ha uno strano effetto, » scherzai, ma fui incapace di controllare un tremito della voce. «Penso... penso che dovremmo rientrare,» disse lei col volto inondato dal caldo fulgore del sole al tramonto. Sebbene nel suo tono non vi fosse nemmeno un'ombra di sensualità, entrambi riconoscemmo il nostro reciproco impulso. Mi alzai portandola su con me. «E stata una giornata faticosa,» mormorai. «Una lunga giornata,» rispose lei. «Abbiamo bisogno di riposo.» Midge si limitò ad annuire. Mi prese la mano e mi condusse verso la porta sul retro, ma ci fermammo stupiti nel guardare attraverso una finestra. Sentii Midge sussultare e la sua mano si irrigidì nella mia. La stanza rotonda sembrava in fiamme, tanto vividi erano i riflessi del sole morente sulle sue mura ricurve.
Tuttavia in quel fenomeno non vi era nulla di pauroso perché quel fulgore era pacifico, stranamente calmante, senza alcuna violenza. Sostammo a osservare, e anche le nostre ombre erano soffuse di una dolce tinta rossastra. Mi voltai verso Midge e per un folle momento mi parve di vedere piccoli fuochi danzare nei suoi occhi, ma quando sbattè le ciglia scomparvero, lasciando solo il riflesso del calore che emanava da lei. Sembrava serena stando lì con le labbra curvate in un piccolo sorriso consapevole, i capelli colorati di un ricco biondo rame dal sole dietro di lei; e, per qualche ragione, sentii una sottile fitta di... non so: disagio, nervosismo? Non potrei definire quella sensazione. Questa volta fui io a portarla via. Entrammo e io chiusi e sprangai le porte. Eravamo più affaticati di quanto pensassimo; la stanchezza cadde su di noi come una calda e soffice coperta rendendo i nostri movimenti lenti, quasi indolenti. Ci spogliammo lasciando i vestiti là dove cadevano e ci lasciammo crollare sul letto. Dormimmo, ma non so quanto. Ci svegliammo insieme, come se ognuno avesse sentito il risveglio dell'altro, e l'oscurità era totale intorno a noi; anche adesso non vi fu alcuna paura di quel vuoto buio. Midge tese un braccio verso di me e io mi avvicinai a lei. E di nuovo cademmo in un sonno profondo. 10. RUMORI Un suono di battiti mi svegliò, rumori secchi, in vari ritmi, che penetravano nel mio sonno senza sogni. Gli occhi mi si aprirono senza la consueta riluttanza e io mi voltai verso Midge trovandola perfettamente sveglia con un sorriso felice sulle labbra. Guardava al di sopra di me verso la finestra, da cui proveniva quel battito. Voltai la testa dall'altra parte per seguire il suo sguardo, e scoprii i colpevoli. Tre o quattro uccellini erano sul davanzale della finestra e colpivano col becco i vetri come sdegnati che fossimo ancora a letto. «Oh, Gesù,» gemetti, «hai messo la sveglia?» «No, hanno preso loro l'iniziativa per svegliarci.» «Che ora è?» «Sono le sei e mezzo appena passate.» «Non mi dire! E credi che faranno sempre così?»
«Forse. Non sei contento?» Mi tirai il cuscino sulla testa, sebbene, in realtà, fossi completamente sveglio. «Preferirei il silenzio.» «La campagna è vita, Michael. E certo è migliore del frastuono delle ore di punta e dei martelli pneumatici.» «Giustissimo.» Spinse indietro le coperte e sgattaiolò sopra di me per raggiungere la finestra. Io mi rannicchiai nel caldo spazio che lei aveva lasciato. «Salutali per me,» dissi tirandomi le lenzuola fino al mento. Lei si chinò sul davanzale e io potei godermi la vista del suo piccolo didietro nudo. Sebbene Midge non avesse un filo di grasso in più del dovuto, il suo corpo era tutto curve sensuali che non mancavano mai di eccitarmi. Volevo che tornasse a letto. Lei cinguettò agli uccelli e iniziò una conversazione con loro. Anche quando battè sul vetro, non fuggirono. Alzarono invece la testa cinguettando ancora più forte mentre altri volavano sopra di loro battendo le ali contro i vetri. «Credo che chiedano la colazione,» disse Midge voltandosi verso di a me. «Scommetto che la signora Chaldean non faceva che dar loro da mangiare.» «Bene, digli che Gramarye ha una nuova direzione. Non più pranzi a sbafo.» Avevo chiuso gli occhi per alcuni momenti caso mai il sonno volesse tornare, e poco dopo sentii il peso di Midge sopra di me. «Tu fingi di essere così cattivo,» disse pizzicandomi forte il naso che spuntava da sopra le lenzuola «ma sotto questa scorza di rozzo brontolone batte un cuore di puro...» un altro pizzicotto, «... granito.» Mi voltai sul dorso e lei si mise a cavalcioni su di me, con gli occhi scintillanti di un maligno piacere. Era difficile protestare con le rosee punte di due seni piccoli ma bellissimi a pochi centimetri dalle mie labbra. «Stai mettendo alla prova la vita di campagna,» le dissi. Abbassò la testa per baciarmi: la sua lingua era una delicata sonda, la sua bocca umida e dolce. Feci scivolare le mani da sotto le coperte e le afferrai i fianchi. Tuttavia quella viperetta stava solo scherzando con me. «Abbiamo un mucchio di cose da fare,» mi sussurrò all'orecchio senza dimenticare di inumidirmelo con la lingua, giusto per assicurarsi che tutti i miei sensi fossero svegli. «Io scendo a preparare la colazione mentre tu ti fai la barba e
assumi un aspetto civile.» «E presto,» le dissi piano non volendo fare arrossire gli uccelli . «E in ogni caso ci siamo dati un mese di tempo per organizzarci. Questa è la nostra prima mattina nella nostra nuova casa e dobbiamo festeggiare.» La mia lingua cominciò a far opera di persuasione. Il falso riserbo non faceva parte del carattere di Midge: quello che voleva, abbracciava. E mi abbracciò. Alzate le lenzuola, la spinsi dentro, e il suo corpo, fresco per l'aria del mattino, fu delizioso contro il mio. Midge e io siamo sempre andati d'accordo nel senso più vero del termine: i nostri corpi, sembrano fatti l'uno per altra (lo intendo alla lettera) e i nostri amplessi sono sempre andati al di là dei confini celesti. Ma l'estasi che ci colse in questa prima mattina nella nostra nuova casa superò ogni altra. Non chiedetemi perché: chiamatela solo magia. Sì, chiamatela Magia. Più tardi, dopo aver indossato un vecchio maglione, dei jeans consunti e delle scarpe di tela (la mia consueta uniforme), raggiunsi Midge al pianterreno e la trovai in vestaglia rannicchiata sul gradino della cucina, intenta a nutrire la moltitudine. Gli uccelli - scriccioli, cince azzurre, passeri, fringuelli, una vera riunione multirazziale - non dimostravano alcun timore, alcuni di loro prendevano addirittura il cibo dalla sua mano, mentre altri si avvicinavano fino a toccarla. Notai che a dispetto delle loro dimensioni ridotte avevano un gran coraggio. Midge li incoraggiava gentilmente con parole che non potevo udire, e mi misi a ridere quando uno scricciolo le saltò sul polso e le beccò il palmo col piccolo becco appuntito. Attesi che l'ultima fetta di pane fosse stata sbriciolata e divorata prima di entrare nella stanza. Una fresca brezza tonificante fluiva nella cucina dalla porta aperta e, sebbene fosse ancora primo mattino, non faceva affatto freddo. «Ehi, che cosa è questo?» E indicai il tavolo. La colazione consisteva in una bottiglia di champagne e una caraffa di succo d'arancia. Midge si voltò sorridendomi. «Dobbiamo festeggiare. Ieri ho contrabbandato la bottiglia in una scatola da imballaggio». Si tolse le briciole dalle mani. Fuori gli uccelli continuavano il loro chiacchierìo, forse chiedevano una seconda portata. Io mi avvicinai a Midge e la strinsi così forte da toglierle il respiro. «Non c'è nient'altro?» chiesi con voce un po' rauca. «Gli uccelli si sono mangiati la tua colazione,» mi rispose.
La mia stretta si indebolì. «Dimmi che non è vero.» Lei confermò gravemente con un cenno della testa, ma non smise di sorridere. «Volevo darti il Buck's Fizz con tartine, ma il pane avanzato dalla cena di ieri sera se lo sono mangiato i nostri amici pennuti. Erano tanti che è finito tutto. Spiacente.» «Ah, sei spiacente.» «Andrò al negozio non appena aprirà, te lo prometto.» «La credenza è davvero vuota?» «E rimasto qualche biscotto stantio.» «Magnifico» dissi con voce irritata, ma fingevo, e lei lo sapeva. Si alzò sulla punta dei piedi per baciarmi. «Stappa lo spumante mentre vado a prendere i biscotti.» «Sei sicura che i tuoi amici non vogliano anche lo champagne? Forse potrebbero farci il bagno.» Mi diede un altro pizzicotto sul naso e corse nella stanza vicina dove presumibilmente i biscotti stavano andando a male. La colazione risultò invece eccellente. Anche Midge, che di norma non beve mai, volle un poco di champagne col succo d'arancia e brindammo alla nostra salute, alla nostra felicità e al nostro vigore sessuale e, fra un brindisi e l'altro, sgranocchiammo i biscotti che non erano cattivi. Il nostro terzo o quarto brindisi fu per Gramarye, e le nostre tazze - non avevamo ancora tolto dai pacchi i bicchieri - si scontrarono allegramente. Gli uccelli rimasti osservarono dalla porta aperta, sicuramente domandandosi che cosa stavamo facendo. Dopo la colazione ci fu un gran da fare. Midge fece il bagno e si vestì mentre io lavavo le tazze e rimettevo il tappo allo champagne avanzato: non si fa, lo so, ma non volevo buttarlo via. Diedi un'altra occhiata all'architrave sopra il vecchio fornello, ancora perplesso per il fatto che la spaccatura si era apparentemente aggiustata da sola. È strano come il ricordo possa adattarsi alla mente quando le cose sono illogiche; suppongo che sia istintivo perché noi abbiamo bisogno di un certo ordine mentale per non impazzire. Cominciai a pensare che quello che avevamo realmente visto fosse una ragnatela accartocciata sul piano della pietra, e che ci era sembrata una spaccatura per via della scarsa luce. Parzialmente soddisfatto dalla mia teoria, cominciai a spacchettare quello che era rimasto negli scatoloni di cartone, e fui contento di trovare la radio. L'accesi subito, e sobbalzai nel sentire una scarica di staticità. Abbassai subito il volume e cercai una stazione più chiara; quando trovai della
musica, sollevai l'antenna. La ricezione era ancora disturbata. Pensando che le batterie fossero scariche rovistai nella scatola e trovai l'attacco con l'impianto elettrico della casa. Lo innestai, ma i disturbi continuarono. Spensi l'apparecchio brontolando, mentre sentivo provenire un rumore di passi dalle scale. «Problemi?» chiese Midge entrando nella stanza. «Dobbiamo essere in una zona di cattiva ricezione,» le dissi «ma non capisco perché sia così cattiva. Forse dovremo mettere un'antenna sul tetto.» Lei non parve preoccupata. «Bene, io vado. Hai bisogno di qualche cosa in paese?» «Hum, forse me ne ricorderò appena sarai tornata. Guardati dalla gente del luogo, specialmente da quelli con gli occhi piccoli e la testa calva.» Mi lanciò un'occhiata di rimprovero, poi mi mandò un bacio e uscì. Io indugiai sulla porta e la vidi affrettarsi giù per il sentiero e di tanto in tanto fermarsi per annusare i fiori. Mi salutò ancora dal cancello e poi salì in macchina e avviò il motore. Dopo aver guidato l'auto fuori dalla zona erbosa con una decisa voltata a sinistra, Midge mi diede un ultimo saluto. La macchina scomparve dietro la curva e io rimasi solo nel villino. Sostai un poco sulla porta godendomi la chiara freschezza della giornata, un po' eccitato dallo champagne. Finora tutto bene, pensai. Il resto del mattino fui impegnato a disimballare, spostare i mobili, raccogliere le varie cose, metter tasselli, cercare oggetti smarriti : tutto ciò che avviene quando si cambia casa e cominciamo a domandarci se riusciremo mai a riorganizzare la nostra vita. Fortunatamente, pur venendo da un appartamento più grande, non avevamo molti mobili, sufficienti per Gramarye. Infine mi trovai in cima alle scale, in una stanza dell'attico dove, lo confesso, era tutto il mattino che desideravo andare. Era quella in cui era stata messa tutta la mia attrezzatura musicale, ed era destinata a essere il mio modesto studio di registrazione. Mi accoccolai su uno dei diffusori e considerai i vari problemi. Il principale era il rumore. Non intendo il rumore che avrei fatto io: a chi avrei potuto dar noia? Ma i suoni che provenivano dall'esterno avrebbero potuto essere un guaio. Non volevo che ogni nastro che incidevo avesse un coro di uccelli. Pannelli di lana di vetro alternati con un eguai numero di
imbottiture insonorizzanti avrebbero dovuto risolvere questo problema, e due strati di gesso sarebbero stati necessari per il soffitto. Le due piccole finestre avrebbero dovuto avere i doppi vetri e rimanere chiuse. Immaginai già al loro posto un tavolo di missaggio e un master, dimenticando per il momento l'alto costo di queste attrezzature e felice di abbandonarmi al sogno. Quello che mi piaceva era che l'atmosfera dell'attico era ottima. Certo c'era odore di muffa, ma si poteva eliminare lasciando le finestre aperte per alcuni giorni e installando un sistema di riscaldamento per i periodi più freddi. Non sapevo ancora come era l'acustica, e immediatamente andai a prendere la mia chitarra, una Martin 28. Quando tolsi lo strumento dal suo fodero, fui stupito nel constatare che, anche dopo il trambusto del trasloco, non aveva bisogno di essere accordato. Pizzicai una corda e il suono fu ricco e piano, pastoso ma con quel tocco di durezza che può essere ammorbidito o esagerato a seconda di come si tocchino le corde. Feci alcune progressioni, alcune sequenze complesse, qualche scivolata, tentai alcune settime in crescendo e in diminuendo, amando i suoni, toccando note basse, portando rapidamente le dita fino alle note più alte, riempiendo di musica la stanza, le mie orecchie e la mia mente, gustando una di quelle rare e felici occasioni in cui mi sento totalmente padrone dello strumento. Ma d'un tratto dei rumori nella soffitta fecero arrestare bruscamente la mia esibizione e riportarono la mia attenzione all'attico. Guardai in su e rimasi a bocca aperta. Adesso non sentivo più alcun rumore. Li avevo forse immaginati? Esaminai palmo a palmo il soffitto terminando la mia ricerca alla piccola botola quadrata che portava in soffitta. Rialzatemi lentamente, col desiderio di non aver visto tanti film dell'orrore in gioventù, mi feci avanti direttamente sotto la botola. Rovesciai la testa ed esaminai il portello, che si trovava solo a una sessantina di centimetri sopra di me. Il mio cuore sobbalzò quando i suoni si ripeterono. Mi sentii trascinato indietro, quasi urtai contro la chitarra appoggiata a un amplificatore. Afferrai il manico per impedire allo strumento di cadere, e le sue corde vibrarono. Le strinsi ancor più forte per soffocare il suono. Ma non potei controllare così gli altri rumori. Essi tornarono come una sorta di rapidi raschiamenti, forse non proprio così: era difficile definirli. «Avanti, dissi fra me iniziando uno di quei monologhi che servivano a farmi coraggio quando mi trovavo in una situazione difficile. Ti comporti
come una vecchia zitella! La prima volta che ti trovi solo nella tua nuova casa, te la fai sotto per un paio di rumori sospetti. Dunque lassù ci sono dei topi. Che cosa possono fare? Ammazzarti a morsi? È una casa vecchia e avrà un mucchio di animaletti girovaghi qua e là. Accidenti, siamo in campagna, un luogo popolato da "inquilini" che non pagano l'affitto. Uccelli, topi, ragni... Ma prima la casa era vuota... No, solo che quel giorno non hai trovato nulla. Adesso va di sopra a dare un'occhiata. Presi l'unica sedia della stanza e la misi sotto la botola. I rumori erano cessati, ma questo non era un incoraggiamento. Ignoravo perché mi sentissi così nervoso - qualche cosa che aveva a che fare con la «paura dell'ignoto», pensai - ma le mie ginocchia non erano affatto sicure quando salii sulla sedia. Adesso avevo la faccia a pochi centimetri dalla botola e ascoltai attentamente. Nulla. Uuh! Nessun pazzo incatenato, dai capelli grigi, le unghie come artigli, vestito di stracci, che la vecchia signora Chaldean avesse tenuto sotto chiave per mezzo secolo perché sciagurato prodotto di incroci familiari. Oh, no. Nessun rumore di catene, né folli ululati, solo... ... oh, Gesù, solo quel rapido raschiare. Adesso riprendeva, dall'altro lato. Tesi una mano che non era affatto ferma. Le dita aderirono alla superficie. Spinsi. La botola cedette subito; ma riuscii a sollevarla solo di tre centimetri, non di più. Il buio dell'interno avvolgeva il suo segreto. Allungai lentamente il braccio e l'apertura si ingrandì come una scura bocca senza denti... «Mike!» Quasi ruzzolai dalla sedia e mentre la botola si richiudeva di colpo sentii grattare ancora. Esitai con la mano tesa per provare di nuovo, ma la voce di Midge mi chiamò di nuovo dalle scale. «Mike, sono tornata. Dove sei? Vieni, ho portato qualche cosa di caldo per il pranzo ma ho paura che durante il viaggio si sia raffreddato. Mike, mi senti?» «Sono qui,» risposi. Guardai ancora la botola chiusa e mi strinsi nelle spalle. Non avevo fretta di vedere di che cosa si trattava. Probabilmente topi sopra le travi. Avevo tutto il tempo per guardare. Inoltre non avevo quasi fatto colazione e
avevo fame. Comunque fu questa la mia scusa. Saltai dalla sedia e scesi per il pranzo. 11. LA CASA GRIGIA I pasticci caldi che Midge aveva comprato al villaggio potevano essersi raffreddati quando li mangiammo, ma erano deliziosi e nutrienti. Io ne divorai il doppio di lei e poi cercai nel cartoccio delle mele che aveva portato. «Stasera cucinerò una vera cena,» disse lei. «Ottima idea,» le risposi fra un morso e l'altro. «Com'era Cantrip?» «Tutto bene. La gente dei negozi è stata molto cordiale quando ha saputo dove abitavo. «Glielo hai detto?» «Il fruttivendolo e il panettiere mi hanno chiesto se ero di passaggio. Mi è sembrato che fossero un po' riservati finché non gli ho detto che sarei diventata una cliente abituale; ma anche allora mi sono parsi un po' sospettosi finché non gli ho detto che ci eravano stabiliti a Gramarye. Allora sono diventati socievoli.» «Ti hanno detto qualche cosa della vecchia Chaldean?» «Mike, non chiamarla così.» Alzai gli occhi al soffitto. «Ti hanno detto qualcosa di Flora, non volevo offenderla. È un modo di dire.» «Non hanno parlato molto di lei, ma ho capito che era una specie di leggenda locale; una comunque che viveva molto per conto suo.» «La cosa non mi sorprende, dato che non si allontanava mai di qui.» «Non è cosi lontano dalla città.» «Per una vecchia signora poteva esserlo. Non sappiamo nemmeno di che cosa sia morta.» «Di vecchiaia, immagino,» rispose Midge, e nella sua voce v'era un tono di tristezza. «Spero che non abbia sofferto, tutta sola qui.» «Non credo. Avrà potuto telefonare a dei vicini, a degli amici. Probabilmente la previdenza sociale di queste parti la teneva d'occhio. Tuttavia la vita non doveva essere molto allegra per lei, vivendo da sola, senza parenti, senza vedere gente.» Midge si agitò sulla sedia così da poter vedere fuori della finestra aperta
della cucina. «Forse no. Non credo che sia mai stata veramente sola a Gramarye.» Adesso fissava fuori, ma a grande distanza, verso un altro pianeta. «Sei strana, Midge,» l'avvertii. Lei rise tornando immediatamente nel tempo e nello spazio. «Bizzarra io? Chi era quello che si sdraiava sui binari della ferrovia e mi faceva giurare eterno amore? Chi mangiava le uova sode con guscio e tutto? Chi, una mattina di Capodanno è tornato a casa con un elmetto da poliziotto in testa e senza calzoni? Chi...» Alzai una mano. «Le uova sono state una scommessa. E in ogni caso si tratta di fatti della mia giovinezza.» «La faccenda dell'elmetto risale a due anni fa.» «Hai visto come sono maturato in fretta. Vieni, abbiamo tante cose da fare.» Il mio sistema, quando mi trovo sul terreno insicuro, è di cambiare argomento. Mi alzai da tavola facendo strisciare la sedia sulle mattonelle. Midge mi toccò il braccio. «Hai lavorato sodo tutto il giorno, perché non ti prendi un momento di riposo. Non c'è urgenza di finire tutto in fretta e furia.» «Ci sono un mucchio di cose da pulire, da dipingere...» «Non ci siamo ancora guardati attorno. Andiamo a fare una passeggiata, a prendere un po' d'aria fresca, a esplorare il luogo in cui viviamo.» «Non so...» dissi riflettendo. «Non fìngere. Non vedi l'ora di levarti di torno questi lavori.» Sorrisi. «E vero. Ma possono aspettare fino a domani mattina. Vuoi andare da qualche parte in macchina?» «No, niente macchina. Voglio osservare i dintorni. Voglio andare nella foresta.» «Laggiù? Vuoi dire che esiste davvero? Io pensavo che fosse solo uno scenario.» «Su, su,» disse lei scuotendo la testa. Fuori l'aria calda alitò su di me come se avessi aperto lo sportello di un forno e me la sentii penetrare fin nelle ossa. Un'ape gironzolava ronzando sui fiori. Uno svolazzare sopra le nostre teste mi fece alzare lo sguardo. Vidi che gli uccelli avevano fatto il nido sul cornicione del tetto. «Allora erano loro,» dissi ad alta voce. Midge mi guardò incuriosita. «Erano chi?» seguì il mio sguardo. «Credevo che ci fossero dei topi in soffitta. Stavo giusto per andare a vedere quando mi hai chiamato. Devono esserci degli uccelli che gironzo-
lano lassù.» «Dentro casa?» «Non ne sono sicuro. Possono esservi entrati attraverso il cornicione. Controllerò più tardi.» «Oh, che uomo,» sospirò, e scostò le mie dita che la stringevano. Risalimmo il terrapieno sul lato dritto invece di prendere gli scalini su quello curvo; io mi tirai dietro Midge aggrappandomi, per aiutarmi, a un ramo d'albero che pendeva dal sommo pendìo. Attraversammo lo spazio di erbe, cespugli e alberi e, tenendoci per mano come due bambini, entrammo nel bosco. Non fu facile come sembrava perché anzitutto dovemmo trovare una via attraverso l'intrico di felci e i cespugli di more che formavano una densa barriera lungo il margine della foresta. Vi erano varie aperture, ma non tutte erano riconoscibili a prima vista e alcune portavano solo a una seconda linea di sbarramento. Tuttavia riuscimmo infine a scoprire una strada e in breve perdemmo di vista il villino dietro di noi e l'aria si fece umida e scura. I nostri piedi affondavano in quello che sembrava un alto tappeto elastico, e Midge mi informò che il primo strato del terreno era formato da foglie morte, piante e animali in decomposizione. Questi ultimi mi misero a disagio, e le cose non migliorarono quando lei aggiunse che ciò su cui camminavamo era pieno anche di organismi viventi che provvedevano alla decomposizione di quelli morti. Così la foresta prosperava, invece di essere ingombra di rifiuti, anno per anno: nulla era inutile, ogni cosa morta, pianta o animale, contribuiva alla vita di qualche altro essere. Interessante, le dissi; e lo era davvero. Lei mi indicava felice, alberi e cose, non nel tentativo di arricchire la cultura di un cittadino come me ma per interessarmi al mio nuovo ambiente e coinvolgermi. Querce, frassini, sicomori, aceri: cominciai ad apprezzare le varie forme e caratteristiche (non che fossi così ignorante come fingevo di essere). Lei mi spiegò che in una foresta vi erano vari strati : il sottosuolo, lo strato superficiale e il terreno fertile che alimentava le piante erbacee e legnose, gli alberelli, le felci e così via. Poi vi erano i cespugli dove fiorivano il biancospino, il corniolo, il sambuco ecc. Tutto questo era coperto dal tetto della foresta o canopia, come la chiamava Midge; lassù si annidavano i grandi uccelli predatori come il gufo bruno e lo sparviero, insieme con altri come l'avvoltoio e la gazza. Ricordo tutto questo non per tenere una lezione di scienze naturali, ma per dimostrare come Midge fosse zelante nell'indottrinarmi - o meglio i-
struirmi - sulla vita di campagna. Voleva che facessi parte di tutto questo al pari di lei, sapendo, nella sua nativa saggezza, che dovevo avere nuovi interessi ora che ero lontano dal trambusto della nostra vecchia vita. E io l'accontentavo non solo per farle piacere ma perché sinceramente volevo abbracciare questo nuovo mondo. Potrei dire che ne ero un poco deluso; ma non sarebbe del tutto esatto; penso che cercassi solo qualche cosa di più, qualche cosa di meglio di quanto avessi visto fino allora. Suppongo che questo avvenga nella maggior parte di noi, ma non molti hanno l'opportunità di cambiare. Forse, se avessi saputo quello che stavo per incontrare, non sarei stato così impaziente. Ci fermammo presso un albero caduto; il tronco era marcio e si sgretolava formando mucchietti di polvere scura e quel che rimaneva era coperto da muschio verde scuro. Le felci nascondevano quasi il tronco, ma l'albero morto dominava la tranquilla radura come un fantasma sopra una tomba. Delle vivaci macchie rosse richiamarono la mia attenzione e io mi avvicinai per vedere meglio. Chinatomi, mi voltai verso Midge e dissi: «Da' un'occhiata qui e poi nega che esistono elfi e folletti.» «Non l'ho mai negato.» Si inginocchiò vicino a me. «Oh, Mike se fossi in te mi limiterei ad amare queste cose.» Toccai con un dito quei funghi rossi. Sembravano venuti fuori da un libro di fate o da un disegno di Midge, tanto sembravano felici con il gambo sottile e la cappella scarlatta punteggiata di bianco. «Sono velenosi?» chiesi affascinato. «Ti procurerebbero un forte mal di pancia per un paio di giorni. Sono funghi agarici, non commestibili.» «Sono molto graziosi. Credi che ci abitino degli elfi?» E battei su una capocchia. «Gli elfi non vengono fuori quando ci sono esseri umani nei dintorni. Lasciali in pace o si arrabbieranno.» Facendo forza con le mani sulle ginocchia mi alzai. «Giusto. Non voglio rimanere vittima di qualche incantesimo.» La guardai serio e aggiunsi: «Mi domando se vi sono...» «Oh, Mike: i funghi "magici", a quanto ne so, si trovano solo in alcune parti del Galles. Dubito molto che crescano nello Hampshire.» Non mi sembrava divertita dalla mia curiosità e la tirai più vicino a me. «Sta tranquilla: non toccherei nulla di simile.» Midge si appoggiò contro di me. «La sola idea mi fa paura Mike Se ti
capitasse qualche cosa come quella volta..» S'interruppe, ma Midge si riferiva a un mio brutto periodo nel quale avevo sgarrato un poco, nulla di grave, solo una cosa che era difficile evitare nel mio particolare ambiente. Una sera, a una riunione, qualcuno mi diede della cocaina. Io persi conoscenza, a quanto mi dissero, e rimasi così per tre giorni. Midge non mi lasciò per tutto il tempo in cui rimasi in quello stato, appeso a un filo, e mi curò nella convalescenza, senza mai rimproverarmi, trattandomi come un bambino malato. Ebbi la fortuna di cavarmela senza lesioni al cervello e senza noie da parte della polizia: credo che mi considerassero già abbastanza punito e, d'altra parte, la cocaina non l'avevo io. Per quel che riguarda la droga, tutto finì lì. Non ci provai più. Non avevo preso ancora l'abitudine, così che il lasciarla fu facile. Ma forse adesso capirete perché rimasi così colpito quando il primo giorno ebbi quella singolare esperienza nella stanza rotonda. È difficile dimenticare certi errori. Abbracciai Midge e le accarezzai i capelli. «Credi ancora in me, Midge?» La sua risposta fu senza riserve. «Certo. Non voglio aver sempre paura, tutto qui.» Sembrava così piccola e indifesa che non potei fare a meno di sorridere. «Mi taglierei una gamba piuttosto di addolorarti,» dissi. Lei fece un gesto di disapprovazione, ma un leggero sorriso le apparve agli angoli delle labbra. «Dove potrei tenere una gamba di ricambio?» «Troverai un ripostiglio da qualche parte.» Diede un grido così forte che un uccello fuggì da un cespuglio. «Che cosa orribile da dire.» Raccolse un mucchio di foglie secche e me le lanciò. «Davvero orribile!» Fuggii togliendomi le foglie dai capelli. Lei mi inseguì con le mani piene di detriti di bosco, ma inciampò in un ramo nascosto e finì con il sedere sopra un mucchio di foglie secche. Lei imprecò ed io agitai un dito verso di lei. «Che cosa penserebbero i tuoi piccoli ammiratori se ti sentissero parlare così? Christofer Robin ha mai detto cose simili a Winnie the Pooh?» Mi abbassai per schivare il tronco su cui era inciampata e che lanciò contro di me. «Ma bene,» dissi, «il tuo editore sa che ti comporti come un ragazzaccio?» «Ti prenderò, Stringer. Aspetta e ti prenderò.» Dopo di che cominciò a
descrivere quello che intendeva fare di me non appena mi avesse messo le mani addosso. Io mi tenevo fuori portata. «Non posso credere alle mie orecchie. Gretel ha mai fatto cose simili a Hansel? Jill si è mai comportata così con Jack? La principessa ha mai trattato con tanto sadismo il bel tritone?» «Rospo.» «Cosa?» «Era un rospo, non un tritone.» «Tutto quello che vuoi, tesoro.» Midge si era alzata da terra e stava venendo verso di me, così io fuggii ridendo delle grida di rabbia che udivo dietro di me. Il tronco mi colpì alla schiena mentre correvo fra gli alberi, ma distanziai Midge facilmente. Ci eravamo già addentrati parecchio nella foresta seguendo quello che sembrava un sentiero con molte diramazioni e, prima di accorgermene, camminando in quella che sembrava una linea di confine tra la notte e il giorno, mi trovai all'aperto. Il sole mi abbagliò per un momento, ma, dopo aver battuto rapidamente le ciglia ed essermi portato una mano al riparo degli occhi, mi trovai a guardare una vasta prateria in pendenza. Al termine, quasi addossata alla foresta che continuava, vi era una grande casa grigia, un vero e proprio palazzo. L'edificio aveva due piani principali con abbaini e camini allineati sul tetto. Dovevano esserci otto o nove lunghe finestre al piano terreno e altrettante, più piccole, al piano superiore. Scorsi una larga fila di gradini che portava a un ingresso imponente; non c'era portico, ma pilastri squadrati che sporgevano dalle mura per incorniciare la porta. La prateria scendeva direttamente verso un'area rettangolare, senza prati di separazione, e la strada d'ingresso girava attorno all'angolo dell'edificio, adorno di pietre angolari, portando presumibilmente a una strada che attraversava la foresta. Il luogo era isolato, e il grigio delle mura gli dava un aspetto cupo nonostante il sole. Sebbene l'insieme fosse bello, non potei fare a meno di sentire che vi era qualche cosa di molto poco invitante in quella casa. Passi leggeri mi si avvicinarono alle spalle, due braccia mi attanagliarono la vita mentre due mani cercavano di raggiungere quelle parti delicate che avevo protetto con tanta fatica. Afferrai il polso di Midge prima che mi facesse danni e lei diede un gemito di frustrazione. Voltatomi e stringendola a me così che non potesse muoversi, le diedi un piccolo morso al naset-
to. Lei gettò indietro la testa ridendo e ansimando; i suoi sforzi per liberarsi cessarono quando si accorse che erano inutili. «Prepotente!» disse imbronciata; ma assaporando la parola. «Starai buona?» «Uff!» «Che cosa? Non ho capito.» «Maledetto!» «D'accordo, ma non hai risposto alla mia domanda.» Sentii la sua testa annuire contro il mio petto. «Vuoi dire di sì?» Un mormorto soffocato e ancora un movimento della testa. «Va bene.» La lasciai andare, sempre con cautela. Lei saltò via assestandomi un calcio negli stinchi. «Brutta vacca!» gridai massaggiandomi la gamba. «Mio padre mi ha insegnato come comportarmi con i serpenti come te quando avevo ancora i riccioli,» mi disse con sarcasmo saltando fuori portata. Io mi gettai avanti mirando alle sue caviglie, cercando di afferrarne una e di far cadere Midge sopra di me. Rotolammo per un po' giù dalla collinetta mentre io cercavo di trattenerla godendomi la sensazione dei nostri corpi stretti l'uno all'altro. Ci fermammo ansanti, io sdraiato sul dorso e Midge sopra di me. Quando vide la casa sgranò gli occhi. «Che strano posto,» disse senza fiato. Si alzò a sedere e io mi puntellai su un gomito per guardare con lei la prateria. «Sembra triste, no?» Una brezza risalì la collinetta facendo ondeggiare l'erba; ci sfiorò e passò via. Rabbrividii sebbene avessi caldo. «Mi domando chi ci vive,» disse Midge. «Qualcuno che ha molti più soldi di noi, e che ovviamente, ama la solitudine. Anche l'ingresso è lontano dalla strada.» «Sembra... sembra disabitata.» «Forse i proprietari sono via, o forse è una di quelle vecchie proprietà familiari che nessuno può più permettersi di abitare. Gli ultimi decenni sono stati duri per molti di loro.» «Non intendo vuoto perché disabitato.» Aggrottò le sopracciglia cercando le parole. «Sembra morto,» disse infine. «Il luogo è bello, e tuttavia la casa ha un aspetto... squallido.» Abbassò lo sguardo su di me. «Poco invi-
tante.» «Oh, non esagerare. Però è possibile che siamo entrati in una proprietà privata. Qualcuno qui potrebbe non gradire la nostra presenza.» Saltò subito in piedi. «Sta' tranquilla,» dissi rimanendo dov'ero. «Scherzavo. Non abbiamo visto alcuna indicazione di proprietà privata.» Si guardò attorno come se cercasse dei guardiani col fucile spianato. «Non mi piace. Mi sembra di essere osservata.» Mi alzai togliendomi alcuni fili d'erba dai jeans. «Sei unica, siamo in un posto che non potrebbe essere più tranquillo di così, e tu tremi di paura.» «Mi sento a disagio. Andiamocene, Mike; vuoi?» La guardai con una certa apprensione; c'era nel suo tono, un'ansia non giustificata dalla situazione. «D'accordo, Midge,» dissi. «Torniamo sulla nostra strada.» Ci voltammo ancora verso gli alberi e io diedi un'ultima occhiata alla casa grigia prima di addentrarmi nella riserva ombreggiata. A quella distanza Casa Triste sembrava del tutto innocua. Trovammo il tordo ferito qualche tempo dopo, quando eravamo quasi in mezzo al bosco tornando per la stessa strada che avevamo percorso all'andata (almeno Midge mi assicurava che era la stessa). Lei mi guidava con sicurezza mentre io la seguivo con le mani nelle tasche dei jeans, fischiettando ogni tanto la canzoncina dei nani di Biancaneve. Midge mi fece sobbalzare quando si fermò bruscamente mettendomi una mano contro il petto. Mi irrigidii con le labbra ancora atteggiate al fischio. «Che succede?» mormorai; ma lei mi fece solo un cenno e si rannicchiò a terra. Udii un agitarsi frenetico e mi abbassai anch'io. Midge scostò il fogliame davanti al sentiero, e un sottile acuto cip la raggiunse. L'uccello ci guardava con neri occhietti impauriti e torceva la testa con movimenti di terrore. «Oh, povero piccolo,» gridò Midge commossa. «Guarda, Mike, ha un'ala rotta.» Io mi feci più vicino, camminando rannicchiato e l'uccello ferito sbattè l'ala sana cercando disperatamente di fuggire. Midge tese delicatamente la mano e lui si calmò subito, pur continuando a guardarmi con sospetto. Lei gli cinguettò piano e con mio stupore l'uccelletto si lasciò toccare. «E un tordo,» mi disse piano Midge. «Dev'essere andato a sbattere contro un albero o essersi impigliato in un cespuglio. Non sembra che sia stato attaccato da qualche animale, non è sporco di sangue e non ha nessuna fe-
rita.» Esaminai per qualche istante l'uccelletto grigiobruno notando come le carezze di Midge avessero un effetto quasi ipnotico su di lui; gli occhietti neri erano quasi coperti dalle palpebre come se volesse dormire. «Che cosa vuoi farne?» le chiesi piano. «Non possiamo lasciarlo qui. Non sopravviverebbe alla notte, con tutti i predatori della foresta.» «Non possiamo portarlo a casa.» «Perché no? Potremo tenerlo al sicuro e al caldo per questa notte, e domattina lo porterò a Cantrip o a Bunbury, dovunque ci sia un veterinario.» «Midge, l'ala di quest'uccello è rotta, vedi anche tu com'è ridotta. Anche se lo choc non lo uccide, l'ala non tornerà mai a posto.» «Sarai sorpreso di come questi cosini sono robusti; può essere curato, vedrai.» Raccolse le mani attorno al tordo e lo sollevò lentamente mentre l'uccelletto protestava debolmente. Midge se lo posò sul seno e credo che il tordo ne sentì il conforto, perché chiuse completamente le palpebre e parve addormentarsi. Midge abbassò lo sguardo sul piccolo corpicino piumato rannicchiato contro il suo seno con tale tenerezza che sentii qualche cosa sciogliersi in me. Per quanto le volessi bene, c'era sempre in me questa capacità di volerle più bene fino a sentire un nodo alla gola. Chiamatemi pure un sentimentale. Ci alzammo e io le misi una mano sulle spalle mentre lei mi conduceva lungo il sentiero; i suoi movimenti si fecero ancor più delicati affinchè il tordo ferito fosse disturbato il meno possibile. Presto vidi davanti a me un piccolo bagliore bianco e capii che eravamo giunti al margine della foresta e a Gramarye. Ma vidi anche qualcos'altro. Almeno mi parve di vederlo, perché quando cercai di metterla a fuoco era scomparsa. Credetti di aver scorto una figura in piedi, fra gli alberi. L'attenzione di Midge era tutta rivolta all'uccellino così non poteva aver notato nulla. Diedi ancora un'occhiata domandandomi se avessi visto solo un cespuglio in ombra agitato dalla brezza, ed esaminai attentamente quel punto del bosco. No, non c'era nessuno. Tuttavia non riuscii a liberarmi dall'impressione che ci fosse qualcuno fra gli alberi. Una figura vestita di nero, immobile, che ci guardava. 12. UN VISITATORE
Quella sera ci riposammo nella stanza rotonda; Midge sdraiata sul tappeto con la testa appoggiata sui cuscini, io sul divano con una chitarra - uno strumento spagnolo da concerto - sul ventre una bottiglia di vino e un bicchiere su di un tavolino che avevo avvicinato a me. Il tordo era in cucina, in una scatola di cartone rivestita di morbida stoffa; era molto tranquillo, sebbene un po' abbattuto. Midge, era riuscita con mille moine a mettergli nel becco un po' di pane inzuppato nel latte, e aveva messo l'ala spezzata nel modo più comodo possibile. Adesso l'uccellino doveva cavarsela per conto suo. Il sole era quasi sceso dietro gli alberi e la stanza era inondata dalla solita luce calda ma, questa volta, più piena, più riposante. Pizzicai le corde basse della chitarra e le note risuonarono fra le mura curve riempiendo la stanza di dolci suoni. Mentre iniziavo un pezzo che per molto tempo mi era rimasto difficile, la grande Sonata in la di Paganini (non sono solo un suonatore di rock and roll), Midge non parve solo impressionata ma addirittura affascinata. Come lo ero anch'io. Non ebbi alcuna esitazione, le dita si mossero senza alcun inciampo. Ero felice della mia abilità, mi sentivo le mani fiduciose e forti, la difficoltà e la lunghezza della composizione non mi crearono problemi (come accadeva di solito). Naturalmente commisi degli errori, ma si persero nel fluire della musica e, quando ebbi finito, credo che anche il vecchio Segovia mi avrebbe approvato. Allo stato delle cose, mi bastò il volto meravigliato di Midge. Mi si avvicinò carponi e mi posò un braccio sulle ginocchia. «Sei stato...» scosse la testa «...fantastico.» Alzai le mani con le palme rivolte verso di me e le guardai come se fossero quelle di un altro. «Sì», ammisi con un filo di voce. «E stato bello, non è vero? Accidenti, è incredibile.» «Ancora,» mi incitò. «Suona ancora». Ma io posai la chitarra. «Non posso, Midge. E strano ma non posso; è come se avessi esaurito tutte le mie energie. O forse non voglio rovinare tutto... è meglio che mi fermi visto che ho raggiunto il massimo, non credi?» In parte era vero: non volevo non riuscire in qualche cosa d'altro; e poi ero esausto. Il suonare mi aveva prosciugato ogni energia, fisica e mentale. Mi abbandonai sul divano con gli occhi chiusi sorridendo. Midge saltò su vicino a me e mi posò la testa sul petto. «Mike, c'è una magia a Gramarye e ha degli effetti benefici su di noi.» Aveva detto quelle parole con molta tranquillità, e io non ero sicuro di
averle udite bene. Presi il bicchiere di vino e lo sorseggiai, contento di starmene lì con Midge e il resto del mondo - se c'era davvero un mondo fuori di lì - in pace. Nel frattempo avevo eliminato dalla mia mente la figura nascosta nel bosco considerandola immaginaria e smorzandone il ricordo con la mia razionalità: perché qualcuno avrebbe dovuto nasconderei dopo che l'avevo visto? E comunque, come aveva potuto scomparire così in fretta? Inoltre, un altro evento aveva distratto la mia mente poco dopo, appena entrati nel villino: la finestra della cucina era rimasta aperta, e scoprimmo che Gramarye aveva un visitatore. Lo scoiattolo rosso era sul tavolo e stava finendo le briciole dei pasticci rimasti nei piatti dopo pranzo. Io avevo spalancato la porta perché Midge potesse entrare portando il tordo ferito, e lo scoiattolo aveva allungato il collo guardando nella nostra direzione. Io lo vidi subito e, se gli animali possono sorridere, questo certamente sorrise. Non vi era alcuna paura in quel piccolo mendicante, né parve avere alcuna fretta di lasciarci. Riprese tranquillamente a mangiucchiare briciole. Solo quando mi avvicinai alla tavola, lo scoiattolo diede segni di inquietudine. Mi lanciò un'occhiata e saltò nella credenza vicina facendo sbattere i bicchieri e le caraffe fra loro. Io alzai una mano in gesto di pace, ma questo segno universale non significava nulla per lui: saltò sul davanzale della finestra e, dopo un'ultima occhiata qua e là, fece un balzo nel giardino e scomparve. Midge ed io ridemmo, molto divertiti, e lei disse: «Credi che gli scoiattoli rossi siano tutti così coraggiosi da queste partì?» Io ricordai quello che avevamo incontrato sulla strada durante la nostra prima visita al villino. «Può darsi,» risposi. «A meno che non fosse lo stesso di allora.» Spalancò la bocca come se considerasse realmente questa possibilità. «Siamo stati fortunati a vederne. Alcuni anni fa sono stati quasi sterminati da un'epidemia; non ne sono sopravvissuti molti in questa zona. Quelli grigi hanno occupato il loro territorio.» «La prossima volta faremo meglio ad assicurarci che le finestre siano chiuse, altrimenti un giorno o l'altro, ci ritroveremo la casa invasa.» «Sarebbe piacevole.» «Non tanto, se si trattasse di ratti o di topi.» «Non essere sempre così pessimista.» Rimasi serio per un momento. «Almeno uno di noi deve considerare la
realtà.» Mi guardò con aria interrogativa; poi ci accorgemmo che lei aveva ancora il tordo nelle mani. Io trovai una scatola di cartone e vi misi dentro un mio vecchio maglione e una sciarpa di Midge; lei vi adagiò l'animaletto e mise la scatola in un angolo vicino alla credenza. Dopo di che tentò di dar da mangiare al tordo rinunciandovi dopo un poco per tentare ancora, più tardi, questa volta con maggior successo. Il resto del pomeriggio, ma ormai era già tardi, fummo impegnati a mettere a posto gli abiti e i soprammobili, a trovare una sistemazione definitiva agli utensili, le attrezzature e i vari oggetti casalinghi, ad appendere i quadri, a scopare, pulire e mettere in ordine. O' Malley e i suoi uomini avevano fatto un buon lavoro aggiustando, dipingendo, assestando tutto. Anche gli armadi a muro erano in ordine e credo che fossero stati raschiati prima di essere ridipinti. Gli assiti dei pavimenti scricchiolavano ancora un poco qua e là, ma non cedevano e non vi erano fessure nel legno. Dopo aver cenato a base di "stroganoff", Midge lo aveva preparato con molta cura perché quella era la nostra prima vera cena a Gramarye - salimmo nella stanza rotonda. Io accesi il televisore, ma poiché l'immagine era tutta offuscata e nessuno di noi vi prestava un vero interesse, lo spensi subito. Decisi che il giorno dopo avrei messo un'antenna per la TV e la radio. Ci ristorammo con un po' di Schmilson di annata, e tirai un respiro quando accesi lo stereo e sentii che non era disturbato da interferenze. Eravamo sereni quella sera; Midge non venne turbata da tristi ricordi e io non mi lasciai assillare dalle preoccupazioni sul trasloco. Finito l'album dei dischi, lei mi aveva pregato di suonare, cosa che facevo spesso le sere in cui Midge doveva lavorare al suo tavolo da disegno o quando eravamo entrambi dell'umore adatto. Io ero andato a prendere la chitarra e Midge aveva aperto una bottiglia di vino per me. Adesso mi ero abbandonato sul divano con i polpastrelli delle mani ancora formicolanti per il contatto con le corde e con i tasti della chitarra, mentre la testa di Midge era posata sul mio petto, e presto il calore si mutò in desiderio. Diversamente dall'amplesso gloriosamente frenetico del mattino, questa volta fu languido e squisito; ogni movimento e ogni momento fu assaporato e prolungato, ogni fervore indugiò nella sua pienezza. Mentre la nostra sensualità prendeva forma nei nostri corpi, la stanza sembrava girare intorno a noi e gli ultimi raggi del sole si frangevano in uno spettro di colori pur
sempre influenzati dal sanguigno fluire che macchiava le mura. A poco a poco l'atto amoroso fra noi divenne qualche cosa di più. Divenne un grande espandersi di emozioni che trascendevano il puro piacere fisico, che non esplose nei nostri spiriti quanto eruppe in un pacato rovescio di energie. Immaginate un film al rallentatore di vetri che si frantumano in milioni di frammenti ognuno colpito dalla luce, ciascuno che sprigiona i suoi riflessi: questo può rappresentare un equivalente fisico alla risposta sensoria risvegliata in noi, sebbene il paragone non sia esatto perché questo fragile frantumarsi è in realtà l'opposto della dolce esplosione astrale da noi sperimentata. Ci unimmo fondendoci non solo l'uno con l'altro, ma con l'aria intorno a noi, con le mura, con ogni particella vivente contenuta in esse. In qualche modo avevamo raggiunto un altro livello, un livello che forse tutti raggiungiamo ogni tanto, ma di cui rimaniamo sempre alla periferia, sempre sul margine, profondamente consci della sua esistenza, ma mai capaci di percepirla chiaramente. Una faccenda complessa, vero? Ma nel mio modo goffo, sto cercando di farvi capire ciò che accadde in noi quella sera a Gramarye. E anche di chiarire le idee a me stesso. Ci fu di più. Sentimmo lo spirito di Gramarye, qualcosa che non aveva niente a che fare con Flora Chaldean né con tutti quelli che avevano occupato il villino prima di lei, ma era l'essenza del luogo stesso. La sua natura, se volete. Nella struttura del villino, nel terreno, nell'atmosfera attorno vi era un'immensa bontà, un traboccare di purezza terrena. E come ogni positivo ha il suo negativo, vi era anche un oscuro male nascosto. Ma era nelle frange, un'ombra che non poteva essere definita, un potere assopito che aveva poca energia. E tuttavia esisteva. Noi sperimentavamo queste cose, ma non erano nette nella nostra mente e presto la percezione fuggì svanendo rapida con il persistere del nostro piacere fisico, delle sensazioni, del bisogno primario che ci avevano condotti a quel riconoscimento portandone poi via la consapevolezza nel suo stesso deflusso. Solo adesso dopo che tante cose hanno avuto luogo, posso ricordare e in parte spiegare quello che accadde quella sera. E anche così, tutto è solo la mia interpretazione, molto tempo dopo l'evento. Fui il primo a parlare: Midge era ancora sconvolta, o esausta o entrambe le cose. «Hai condito lo stroganoff con qualche cosa di particolare?» Volevo solo scherzare, una frase qualsiasi mentre cercavo di tornare in me, ma lei non rise. «Midge stai bene?» Lei si voltò verso di me; ma non mi vide; c'era ancora un sonnolento
stupore nei suoi occhi. «Midge?» Trasse un lungo e profondo respiro sollevando le spalle e il petto, e poi emise l'aria con eguale lentezza. Poi finalmente disse: «Che cosa è successo?» Come se stesse parlando con se stessa. Sorrisi. «Abbiamo fatto l'amore.» Quelle strane sensazioni stavano già lasciandomi mentre la realtà prendeva il sopravvento piano piano come quando ci si sveglia da un sogno. Midge si mise le mani sugli occhi e quando tornò a guardare lo stupore di poco prima non aveva lasciato traccia sul suo volto. Poi sbadigliò facendo sbadigliare anche me. L'aiutai a vestirsi perché non riusciva a infilare i bottoni, come un bambino stanco: sembrava distratta e non riusciva a coordinare i movimenti. «Non capisco,» mormorò. «Non riesco a pensare, Mike...» Anche i miei movimenti erano lenti e più goffi di quanto volessi, ma ero pieno di calore e mi sentivo i sensi piacevolmente assopiti. E non potevo smettere di sorridere. «Credo, Midge, che abbiamo oltrepassato la barriera dell'estasi. Mi sembra che per un attimo il tempo si sia fermato. Gesù, non credevo che fosse possibile provare sensazioni così forti.» Vedete come funziona il cervello umano e cerca di razionalizzare l'irrazionale per la sua salvezza? Stavo riducendo tutto a romanzo. Tuttavia Midge non fu del tutto persuasa. «No, Mike, è stato qualcosa cosa di più...» Le impedii di continuare con un bacio: «Siamo tutti e due stanchi, Folletto. Come dicevi, l'aria di campagna ha un effetto benefico su di noi. Perché non vai a letto mentre io vado a chiudere?» «Ho bisogno di fare un bagno...» «No, non serve.» «E di lavarmi i denti...» «È cosa di un minuto. Ti raggiungerò prima che tu metta la testa sul cuscino.» «Va bene, Mike. Mike...?» «Sì?» «Tu mi ami vero?» «Lo sai che ti amo.» La tirai in piedi e lei si appoggiò contro di me. «Dio mio,» mormorò.«Sono stravolta. Mi sento come ubriaca.» «Vieni, ti accompagno a letto.»
Feci di più. La presi in braccio e la portai nella stanza da letto: sentii appena il suo peso. La adagiai sul letto e rimasi chinato su di lei. «Penso che tu possa fare il resto da te mentre io vado a chiudere le porte e le finestre.» Assentì. Poi mi stuzzicò: «Ti dà sempre ai nervi la campagna, Mike?» «Sono tutti i lupi e gli orsi che circolano da queste parti.» «E i demoni dei boschi. Non dimenticare i demoni dei boschi.» Le sue parole erano quasi indistinte mentre il sonno la sopraffaceva. «Sarebbe stato meglio se non avessi menzionato i demoni dei boschi.» Mi chinai per darle un bacio sulla fronte, poi mi rialzai. Un attimo dopo aveva già chiuso gli occhi. Uscii in silenzio dalla camera da letto, mi diressi nel piccolo corridoio in fondo alle scale, chiusi col catenaccio la porta sul retro e scesi in cucina. Mi ero innervosito un po' parlando di lupi e di orsi, non che credessi davvero che da quelle parti esistessero tali animali, ma adesso che il sole era tramontato e fuori era buio pesto, avevo cominciato a rendermi conto di quanto il villino fosse isolato. E l'accenno ai demoni del bosco non aveva migliorato la situazione. Misi il catenaccio alla porta d'ingresso, poi mi avvicinai alla finestra aperta della cucina, misi fuori la testa e sentii la brezza fresca sulla pelle. Non vedevo niente oltre le vaghe forme degli alberi più vicini. Le nubi avevano coperto in fretta le stelle che erano spuntate dopo il tramonto, e non vi era la luna a mettere in evidenza gli inquietanti contorni della foresta. Sempre più a disagio, ritirai là testa e chiusi la finestra abbassando il saliscendi. Rimasi per un poco a guardare la mia immagine riflessa nei vetri e rabbrividii. «Scemo,» mi dissi e tornai al piano di sopra fischiettando. Mi svegliai improvvisamente come avevo fatto la notte prima. Solo che questa volta mi sentii immediatamente vigile e ansioso. Sentivo Midge respirare profondamente accanto a me. Ero tutto teso mentre me ne stavo sdraiato domandandomi che cosa mi fosse successo. Solo le cifre luminose della sveglia e gli scuri profili dei mobili davano rilievo all'opprimente oscurità. Pensai di svegliare Midge, ma sarebbe stato scortese e codardo. Quando ero tornato nella stanza da letto qualche tempo prima, i suoi vestiti erano ammucchiati sul pavimento e lei era sotto le coperte profondamente ad-
dormentata. Non sentii odore di dentifricio quando la baciai sulle labbra. Il trasloco e le settimane frenetiche che lo avevano preceduto si erano vendicati. Dei rumori provenivano dall'alto ed erano familiari. Scossi appena Midge, ma lei non si mosse. Guardai la buia superficie del soffitto. Qualcuno grattava lassù. Sempre allungando il collo, mi alzai sui gomiti domandandomi se la stanza era fredda o se la pelle d'oca che mi sentivo era causata da qualche altra cosa. I rumori erano soffocati e mi resi conto che non venivano dalla stanza sopra la nostra, ma dalla soffitta. Un sospiro di sollievo si arrestò a mezza strada. Di certo gli uccelli non svolazzavano nel cuore della notte. E allora chi diavolo c'era lassù? La mente impaurita mi suggerì immediatamente che c'erano dei topi, e io ricaddi sul letto tirandomi le coperte fin sotto il mento. Potevano essere dei topi? Volevo convincermene, ma dei topi non avrebbero mai fatto tanto rumore. Dimenticai l'eroe che si alza dal letto a notte alta per investigare su rumori misteriosi; questo personaggio che sale su scale scricchiolanti fino alle soffitte, facendosi luce con una torcia o una candela e, se è una stella del cinema, fischiettando per farsi compagnia, è frutto della fantasia di qualche idiota. Non ci pensavo nemmeno a lasciare il mio comodo letto per andare a guardare in soffitta. Non ci pensavo nemmeno. Potevamo aspettare sino al mattino. Lo strano è che non rimasi sveglio per molto tempo. Ascoltai per un poco, con il cuore che sussultava a ogni nuovo rumore, e mi resi conto di molti altri scricchiolii o strepitii pur dicendomi che si trattava solo di assestamenti di vecchi assiti dopo una giornata calda; ma presto la stanchezza sopraffece anche la paura. Mi addormentai con le dita incrociate perché l'uomo nero non mi portasse via. 13. SECONDA VISITA «Vieni, Mike, svegliati!» Non so quanto incivile sia stata la mia risposta, ma non arrestò la mano che mi scuoteva la spalla. Aprii gli occhi e vidi la luce del giorno. «Mike, vieni a vedere,» insistè Midge.
Il suo volto era vicino al mio e appariva molto più acceso della sera prima. In realtà la sua vivacità e il suo tocco devono essere stati per me una scossa elettrica perché mi svegliai all'istante. Fu questo il secondo mattino in cui mi svegliai pieno di vitalità e rinfrescato, cosa che non era affatto consueta per me. Stavo diventando mattiniero. La tirai a me e lei mi resistè ridendo. «No, voglio che tu scenda a vedere! ». Si tirò indietro e prese la mia vestaglia appesa alla sedia, me la lanciò e mi scoprì. Gettai le gambe giù dal letto e mi infilai la vestaglia. «Vuoi dirmi che cos'è tutta questa eccitazione?» brontolai fìngendomi irritato. «Vedrai.» Rideva e mi dava degli strattoni spingendomi verso la porta. La bianca camicia da notte che indossava, una mia vecchia camicia senza colletto con le maniche arrotolate le lasciava scoperte le gambe nude, piacevole visione di primo mattino. «Anche oggi è una bella giornata, » osservai passando davanti alla finestra .Gli uccelli, i nostri simpatici vicini, si facevano sentire con il loro cinguettio. «Qui ogni giorno è bello.» Non vidi alcuna utilità nel farle notare che eravamo lì solo da due giorni, e mi lasciai trascinare fino alle scale. «Buona, buona, signorina Gudgeon.» Il tappeto delle scale, che avevamo fatto mettere prima del trasloco era morbido ed elastico sotto i miei piedi nudi, ma il legno sotto di esso era solido. O'Malley non aveva dimenticato niente. Raggiungemmo la cucina e Midge si fece da parte per farmi entrare. Rimasi lì, con le mani nelle tasche della vestaglia, aspettando. La stanza mi sembrava esattamente la stessa. Mi voltai per dire qualche cosa a Midge quando un battito d'ali mi fece sussultare. L'uccello attraversò volando la stanza e si fermò in cima alla credenza. Cinguettò un saluto o una minaccia, non so. «Come ha fatto a entrare?» Avevo notato che la finestra era ancora chiusa. «E il tordo, stupido. E quello che ieri aveva un'ala rotta.» La guardai e poi guardai l'uccello che saltellava vivacemente in cima alla credenza. Si librò nuovamente nell'aria per cercare un altro appoggio sopra la finestra. «È impossibile, Midge, non può essere lo stesso.»
Midge rise, divertita dalla mia incredulità. «Guarda nella scatola. Vedrai che il tordo non c'è più.» «Ma non è possibile,» ripetei andando verso la scatola di cartone che era sempre nel suo angolo. Il tordo sulla finestra cambiò posto volando sulla tavola dove c'era un mucchietto di briciole di pane, forse messo lì da Midge. L'uccello cominciò a beccare con un appetito robusto come la sua ala. «Midge, mi stai prendendo in giro?» chiesi. «Hai fatto entrare un altro dei tuoi amici?» «Ti assicuro, Mike, che è lo stesso di ieri! Non è fantastico?» «Non ci credo.» Scuotevo la testa e guardavo il tordo sempre sospettando di essere imbrogliato. «Non è possibile, Midge, non è possibile che la sua ala sia guarita in una notte. La frattura era così grave che pensavo di trovarlo morto stamattina.» «Sbagliavi.» Midge si avvicinò alla tavola e il nostro robusto amico smise di beccare per guardarla. Lei prese una briciola e la offrì al tordo che, con mia meraviglia, la prese dalla sua mano senza mostrare alcuna paura. Un uccello è così simile ad un altro, quando sono della stessa razza che non potevo dire se era realmente il nostro paziente. Ma rimaneva un problema: se era un altro tordo, dov'era quello ferito? In quel momento notai che un'ala era stata offesa; mancavano alcune penne. Ed ebbi un senso di freddo. Adesso ero convinto. Era il nostro tordo senz'altro, ma la sua guarigione era incomprensibile. Non avevamo potuto ingannarci fino a questo punto sulle sue condizioni, il giorno prima. Suppongo che fosse questo il punto in cui il mio oscuro disagio per vari aspetti di Gramarye cominciò a muoversi a un livello più consapevole. Niente di definito, solo un vago senso di inquietudine circa strani avvenimenti di nessuno dei quali potevo dire: «Ecco, questo è totalmente bizzarro.» Se alcuni di essi fossero stati malefici o almeno completamente inespicabili, mi sarei sentito un tantino ansioso. Ma in realtà era possibile che l'ala dell'uccello si fosse fissata in una posizione contorta il giorno prima riuscendo poi a liberarsi durante la notte (di nuovo il vecchio ragionamento cerebrale non molto razionale). E quanto al resto... be', che cos'era il resto? Della buona musica, un magnifico amplesso; ma il ricordo dell'esperienza della sera prima si era già offuscato: una crepa in una pietra, che si era dimostrata inesistente. Certo in quel luogo c'era anche una buona atmosfera, particolarmente nella stanza rotonda, ma che cosa significava questo? Noi eravamo innamorati e ci'jtrovavamo nella prima casa tutta nostra. Le mura curve della stanza rotonda raccoglievano i raggi del sole così che
un piacevole calore trasudava letteralmente da esse. In realtà non vi era nient'altro che questo. Eppure... eppure... Adesso il tordo era appollaiato sulla mano di Midge e cantava allegramente. I dubbi erano facilmente messi da parte via via che la gioia di Midge mi coinvolgeva. I suoi occhi esprimevano un'eccitazione trattenuta, e lei parlava dolcemente alla piccola creatura che rispondeva nel suo linguaggio. Midge alzò lentamente la mano così che il tordo si trovò al livello della sua faccia, poi gli soffiò leggermente addosso scompigliandogli un poco le penne e facendogli chiudere le palpebre. Affascinato vidi Midge avvicinarsi piano alla porta, a piedi nudi sulle mattonelle. Si voltò verso di me e mormorò: «Mike...» Con molta cautela andai alla porta e tirai il catenaccio facendo il minor rumore possibile. L'uccello sembrava non badare a me. Girata la chiave nella serratura, aprii silenziosamente la porta e Midge uscì fermandosi sul gradino. Alzando la mano disse: «Va'. Ritrova la tua famiglia e salutala per me.» Il tordo parve riluttante a lasciarci, ma Midge abbassò la mano così che le sue ali si aprirono e lui si trovò sospeso in aria. Volò in alto sopra il giardino cinguettando fiero, poi si abbassò fin sopra la testa di Midge. Sfiorò le aiuole fiorite, si librò ancora nell'aria e si diresse verso i boschi da cui si era allontanato. Midge battè le mani per la gioia, e io mi fermai vicino a lei sul gradino, con una mano sulle sue spalle, sorridendo e salutando l'uccellino. Quando se ne fu andato abbracciai Midge e le accarezzai i capelli. «Hai fatto davvero questo?» le chiesi. «E stata sua l'idea di salirmi sulla mano.» «Mi riferivo alla sua ala...» Scosse la testa con gli occhi che brillavano. «Ha fatto tutto da solo: è stata una magia.» Ancora la parola «magia», era la seconda volta che Midge la usava inconsciamente dopo il nostro trasloco. Aprii la bocca per parlare quando improvvisamente i gradini di casa furono assediati da altri uccelli che reclamavano con un gran cinguettare la colazione. Rientrammo in fretta allontanandoci da quel fracasso, mentre Midge prendeva il pane ancora incartato sulla tavola ricavandone una manciata di briciole. «Su,» disse tornando sulla soglia. «Qui ce n'è per tutti, avanti i più piccoli.» Loro rifiutarono di mettersi in fila, ma nemmeno il più piccolo dei pas-
seri si lasciò intimidire dai più grossi: si affollarono insieme in una confusione di penne e di grida, mentre i più abili abbandonavano la calca con la loro razione nel becco. Io lasciai Midge a nutrire quella moltitudine e salii al piano di sopra per farmi la barba, ripensando alla «miracolosa» guarigione del tordo. L'ala doveva essere guarita da sola, non vi era altra spiegazione. Dopo dieci minuti tornai dabbasso: il muesli e il pane tostato col caffè forte erano lì sulla tavola ad aspettarmi; una sola rosa appena colta nel giardino, in un piccolo vaso di porcellana, illuminava la colazione preparata. Ma il volto raggiante di Midge illuminava la stanza ancora di più. Vi erano un paio di uccelli che gironzolavano presso i gradini della porta incitandosi reciprocamente a entrare, ma la maggioranza si era disciolta ed era volata via. Mentre imburravo il pane dissi: «Non riesco ancora a capire. Quel tordo, ieri, mi sembrava in pessime condizioni.» Midge sorseggiò il caffè prima di rispondere. «Che importa? L'ala è guarita, questo è importante. Perché preoccuparci di come ha fatto a guarire?» E lo diceva sul serio. Ebbi infatti l'impressione che non volesse discutere quella guarigione né tornare sull'argomento. Mi strinsi nelle spalle adattandomi a lasciar correre, avendo ormai quasi accettato la mia teoria dell'«osso magicamente guarito.» Era vaga ma poteva bastare. «Hai programmi per oggi?» chiese Midge senza pensare più a quell'argomento. Sembrava piccola e infantile nella mia camicia troppo grande per lei. «Sì, ho intenzione di fare delle indagini,» risposi, e lei alzò gli occhi su di me. «Questa notte ho sentito dei rumori in soffitta.» «Hai detto che erano gli uccelli annidati sotto il cornicione.» «Sì, ieri pomeriggio. Ma questo era qualche cosa che si muoveva nel cuore della notte, quando tutti gli uccelli dormono.» Mi guardò un po' preoccupata. «Hai idea di che cosa possa essere?» «Non proprio, ma sono sicuro che la troverò stamattina, alla luce del giorno. Non voglio starmene ancora lì al buio con la fantasia che galoppa per conto suo.» «Avresti dovuto svegliarmi.» «Non volevo disturbarti,» risposi sgranocchiando il toast. Midge passò dall'altra parte del tavolo e mi si accoccolò sulle ginocchia costringendomi a spingere indietro la sedia per farle posto. Mi diede un bacetto sulla fronte.
«Vuoi che venga in soffitta con te?» chiese. Non mi sfuggì la traccia di canzonatura nella sua voce. «Magari poi vedi un topo e ti lasci prendere dall'isterismo.» Scossi la testa e aggiunsi risolutamente: «Andrò da solo, grazie.» Alla luce del giorno le cose non sembrano tanto minacciose. «Sai bene che i topi non mi fanno paura. Va be', tanto ho un mucchio di cose da riordinare e prima comincio meglio è. Credo che O'Malley abbia fatto più confusione che altro.» «Oh, tutto considerato hanno lavorato bene. Ha rimesso in sesto il villino, anche se dovremo fare da noi un bel po' d'opere di restauro, meno di quanto mi fosse parso a prima vista, però. Hai idea di come sistemare la stanza rotonda? Questo è importante. » Aggrottò le sopracciglia. «Mi piace così com'è. Credo che non dobbiamo cambiare nulla.» «Come vuoi. È in buone condizioni, lo ammetto. Forse Flora l'aveva fatta rimettere a posto prima di andarsene.» «Ci vogliono delle tende, bianche o color avorio. Hai notato come cambiano di colore le pareti durante il giorno?» «Sì al mattino, sono bianche e luminose, al tramonto sono color oro e poi verso sera si tingono di rosso. Sono come quella grande roccia in Australia che cambia sempre colore.» «Si chiama Ayers Rock. Dicono che ha virtù mistiche...» «Chi lo dice?» «Gli aborigeni.» «Gli aborigeni hanno visto la stanza rotonda?» Il mio naso si beccò il solito pizzicotto (giurerei che aveva un'altra forma prima che incontrassi Midge). «Quando riuscirò a fare una conversazione seria con te?» disse lei mettendo il broncio. «Parli di me?» dissi massaggiandomi il naso. «Rompiscatole,» mugolò. La mia mano si infilò sotto la sua camicia e le dita la strinsero sotto le costole prima che potesse muoversi. «Rompiscatole?» chiesi. «No, Mike, lo sai che non lo sopporto!» Strinsi più forte cercando le zone più sensibili al solletico fra le costole. Con un grido si scostò di alcuni centimetri, ma la trattenni con l'altra mano. «Rompiscatole?» ripetei sorridendo. «Mike, ti prego, lo sai...»
Strinsi le dita senza pietà, e lei si rannicchiò a terra contorcendosi con un singulto di risa. «Mike, noooo!» «Hai detto rompiscatole?» «No, no! Scherzavo! Ho detto che scherzavo! Sei... il più... adorabile... la persona... più affascinante... che abbia... Fermati, Mike, ti prego basta...» Riuscivo appena a trattenerla tanto si dimenava e ridevo quasi quanto lei. Le sue gambe batterono l'aria e lei scivolò a terra con la camicia sollevata. Lanciò un grido nell'atterrare sulle piastrelle fredde col sedere nudo. «Brrr! Oh, bastar...» il resto fu reso inintelligibile dalle risa nervose. Affondai il viso nei suoi capelli, mentre le accarezzavo il corpo soffermandomi sui suoi seni. Mi tornò in mente l'amplesso notturno mentre le mordicchiavo l'orecchio e le baciavo il collo. «Oh, ben tornato,» disse lei allegramente. Non era la risposta che mi aspettavo. Alzai lo sguardo e capii che stava salutando un altro ospite apparso sulla soglia. Il nostro amico scoiattolo ci stava osservando dall'ingresso aperto. «Entra,» lo invitai mentre Midge si riassestava pudicamente la camicia. «Questa casa è aperta a tutti, non c'è bisogno del biglietto d'ingresso.» Lo scoiattolo sembrava titubante. «Zitto, Mike, lo spaventerai. Vieni piccolo, non badare a questo brutto dietro di me. Mostragli i denti e lui andrà a nasconderei sotto la tavola. Feci un salto indietro allontanandomi da Midge che continua ad agitarsi. Spalancai gli occhi per la meraviglia. Midge e lo scoiattolo stavano «chiacchierando». «Sì, lo so, sembra un orso col mal di denti, ma è molto simpatico, quando lo si conosce,» diceva lei a quel cosino. Lui mi guardò, poi guardò lei e poi ancora me. Gli sfoderai il mio migliore sorriso, lo scoiattolo agitò la coda. «Ehi, io abito qui, lo sai?» dissi meravigliandomi di quello che facevo: parlare con uno scoiattolo! I ragazzi del complesso lo dicevano che ultimamente ero cambiato! L'animaletto muoveva la testa arruffata a piccoli scatti, curvando la schiena, e sembrava che ridacchiasse. «Questo tipo non ha nessun rispetto,» dissi a Midge. «È lo stesso scoiattolo che è venuto ieri,» rispose lei meditabonda. «Quello non somigliava di più a un ebreo?» Lei mi assestò un piccolo calcio.
«Andiamo, Midge, come puoi dirlo? Sono tutti uguali. Come puoi sapere che è lui? «Lo so. Questo ha una personalità tutta sua.» Mi mise le mani sulle ginocchia e si alzò. «Adesso ti troviamo qualche cosa da mangiare, eh?» disse allo scoiattolo, che parve contento dell'idea; senz'altro invito saltò sulla tavola e continuò a chiacchierare. Midge prese un pezzo del mio sandwich e lo offrì al nostro ospite. Con fare ardito lui si fece avanti e prese il boccone fra le zampette, leccò prima tutto il burro e poi cominciò a rosicchiarlo alacremente. «Non riesco a crederci,» dissi appoggiando un gomito sulla tavola e sostenendomi il mento col palmo. «Nemmeno io. Di solito gli scoiattoli rossi sono selvatici, al contrario di quelli grigi.» «Ma Midge, nessun animale allo stato naturale è domestico. Forse negli zoo, ma non qui in un bosco.» «Forse si erano abituati con Flora. Scommetto che ha nutrito intere generazioni di animali da queste parti. Ti ricordi quanti uccelli c'erano davanti alla finestra il primo mattino che siamo venuti qui. È come se il villino fosse il loro habitat naturale, una parte della loro foresta.» «Vuoi dire il loro "ristorantino?". Capisco che questo posto sia diventato popolare. Il problema è: quanto tempo passerà prima che comincino a invadere la nostra intima tranquillità campestre? Potrebbero fare dei danni.» «Oh, Mike, gli uccelli, gli scoiattoli e qualsiasi altro animale fa parte di Gramarye quanto noi. Non dimenticare che erano qui prima di noi.» Si acquattò con le mani sulle mie ginocchia. «Dobbiamo trattarli come amici.» «Mi rifiuto di diventare amico di lucertole e di serpenti.» Sorrise. «Ti permetto di chiudere la porta anche ai topi.» Questo mi ricordò che dovevo fare una certa indagine. Mi chinai in avanti baciandole le labbra, rendendomi conto che lo scoiattolo ci osservava mentre mangiava. «Guardone!» gli gridai quando Midge e io ci separammo. «Bene. Folletto, tutte le creature grandi e piccole sono le benvenute qui, purché non siano né troppo grandi né troppo piccole da far buchi nelle strutture di legno. D'accordo?» «Non so che cosa ti aspetti: finora abbiamo ospitato soltanto un uccello e uno scoiattolo; comunque va bene, siamo d'accordo. Gli elefanti e i tarli sono esclusi.» Ammiccai allo scoiattolo. «Bene, Rumbo, tu sei compreso. Ma non far-
mi né ingelosire né arrabbiare.» Midge rise. «Perché Rumbo?» «Non so. Ma Rumbo gli sta bene, no? In ogni caso è meglio Rumbo di Rambo.» Lo scoiattolo scosse la testa in modo convulso facendo vibrare le piccole spalle; i rumori che emetteva sembravano risate, cosa che divertì Midge fino all'isterismo. «Credo che approvi,» disse fra le risa. «Sì, è un vero pagliaccio,» osservai. Mi alzai lentamente per non impaurire il nostro ospite. «Adesso, quest'uomo deve andare a lavorare.» «Anche questa donna.» «Pensi che gli piaccia mangiare da solo?» Adesso che aveva un nome, Rumbo mi sembrava un essere umano. «Ho accettato di farci amici gli animali, non di viziarli. Si intratterrà da solo.» Così lo lasciammo mangiare tranquillamente; Midge se ne andò verso il lavandino e io, dopo aver preso una torcia dalla credenza, mi diressi in soffitta. Nel salire le scale mi sentivo soddisfatto, felice di essere al mondo e di essere innamorato, e riflettevo sul fatto che un vero amore ha sempre momenti di assoluta freschezza, come se ci si fosse appena innamorati e la consapevolezza di ciò è sempre eccitante e coinvolgente. Midge e io ci conoscevamo ormai bene; ma non ci eravamo ancora abituati l'uno all'altro, non eravamo ancora tranquillamente soddisfatti, non fraintendetemi: la nostra relazione non è stata sempre rosea come l'ho dipinta fin qui; in realtà abbiamo avuto momenti burrascosi in cui siamo stati vicini a una rottura. Fortunatamente siamo sempre riusciti a mantenere il buon senso e a capire gli errori dell'altro (o i suoi punti di vista, come diceva Midge). Non è il caso di fare qui della falsa modestia: entrambi abbiamo del talento; io per la musica e lei nell'arte, e avete mai conosciuto una persona di talento priva di un forte temperamento? Non parlo di arroganza o di ego, ma di quella determinazione nel fare le cose giuste (secondo la propria mentalità) e dello stato di abbattimento in cui si cade quando le cose non vanno come vorremmo. Vi sono momenti in cui la persona a noi più vicina ci urta e deve imparare a piegarsi e a cedere o a parlare con semplice buon senso. Io e Midge abbiamo imparato a farlo con gli anni. Abbiamo anche imparato a non prenderci troppo sul serio. Resistendo alla tentazione di prendere una chitarra, sicuro com'ero che avrei perso tutto il mattino se lo avessi fatto, mi avvicinai alla sedia che
avevo messo sotto la botola della soffitta il giorno prima. La torcia funzionava, la sedia era sicura e la botola mi aspettava: era il momento opportuno per portare a termine la mia impresa. E allora perché esitavo? Forse avrei dovuto portare con me la scala; sarebbe stato più facile arrampicarmi. Ma il soffitto non era alto e la sedia sarebbe bastata. Adesso da lassù non provenivano rumori; ma non era una buona ragione per non dare un'occhiata. Stavo diventando pauroso e lo sapevo. Tuttavia qualche cosa mi diceva che non dovevo guardare in quella soffitta. Forse nella mente di tutti vi è un piccolo compartimento in cui il futuro esiste qui e adesso, dove sono contenuti gli archivi degli eventi che devono accadere, dove l'archivista (che in fin dei conti siamo noi) fa scivolare un avvertimento sotto la porta chiusa. Forse. Queste cose sono un mistero per me come per voi; quello che so è che la tentazione di tornare indietro, di rifar le scale e inventare una qualche scusa per non andare in soffitta era forte. Andiamo, Stringer, mi incoraggiai, vai su e scaccia qualche topo se non vuoi esporti al pubblico scherno. Tuttavia esitavo, con gli occhi fissi alla botola: cosa me ne importava del pubblico scherno. Infine prevalse il buon senso e il pragmatista che è in me vinse la battaglia: salii sulla sedia e accesi la torcia. Con una mano sollevai la botola... solo di qualche centimetro. Nessuno sguardo minaccioso mi fissò attraverso la fessura: nessun rumore, nemmeno uno spiffero. Tutto era fermo e tranquillo. Sentendomi un tantino più ardito sollevai la botola ancora di qualche centimetro e vi feci passare la torcia in punta di piedi cercando di vedere qualcosa. Mi accorsi di uno spiraglio di luce che veniva dal basso. Spensi la torcia ed ebbi la conferma che la luce diurna filtrava attraverso il cornicione. Ecco di cosa si trattava : qualche uccello doveva essere entrato e aveva trasformato la soffitta in un nido ben riparato. Forse la notte scorsa avevano voluto fare un'allegra festicciola. Riaccesi la torcia e sollevai del tutto lo sportello della botola. Posai la torcia per terra, mi puntai con le braccia e mi tirai su; quel che mi mancava in fatto di stile atletico fu compensato dalle maledizioni che mi lasciai sfuggire issandomi, mentre le mie scarpe di tela bianca scalciavano nel vuoto come colombe impazzite. Sedutomi sul margine, con le gambe penzoloni, trassi un lungo respiro e immediatamente me ne pentii. L'aria, là dentro, era mefitica, un odore rancido mi fece arricciare il naso.
«Gesù!» esclamai a voce alta e mi parve di sentire un movimento non lontano da me. La luce della torcia puntava in un'unica direzione, ma potei tuttavia distinguere le scure forme delle travi del tetto. Nel tetto non vi erano buchi perché i muratori avevano lavorato bene, ma potei vedere sulle travi qualche altra cosa, oggetti neri e indistinti nel buio. Sembravano pendere agli assiti, e con un brivido notai che ve ne erano di più, molti di più, sulle travi inclinate del tetto. Li riconobbi ma afferrai la torcia e la puntai nella loro direzione. Ebbi un fremito di repulsione quando vidi una quantità di corpicini pelosi appesi a testa in giù simili a frutti appassiti, erano tutti ammassati nella soffitta infestandola con il loro tanfo. Mentre li osservavo, un'ala si contrasse, si tese con un tremito e poi tornò a piegarsi sul corpo scuro. «Oh Dio,» esclamai restando lì impietrito. Nel silenzio immaginai di udire il battito dei loro piccoli cuori come uno solo in un ritmo regolare che unificava quelle creature in un'unica massa. Scesi in silenzio dalla soffitta, scosso dai brividi e temendo che il più piccolo rumore potesse scatenare strida e frenetici batter d'ali da parte dei pipistrelli. 14. L'OSSERVATORE Nel bagno mi sciacquai la faccia imperlata di sudore, e mi strofinai vigorosamente le mani come se fossero rimaste contaminate da ciò che c'era in soffitta. Mi sentivo male, con la nausea che mi restava chiusa e agglutinata nel petto. Pipistrelli! Mostri ripugnanti e sinistri. E, da quel che avevo visto, ce n'era un'invasione. O'Malley doveva essersene accorto: perché diavolo non mi aveva detto nulla. Adesso rimpiangevo di non aver accolto il saggio consiglio di mandare al villino un sorvegliante, pensando che una spesa di meno ci avrebbe permesso di fare maggiori restauri; un sorvegliante si sarebbe accorto dei pipistrelli e ci avrebbe avvertiti. Avevo paura di dirlo a Midge poiché non volevo guastare il suo idillio; ma lei doveva saperlo: non c'era modo di nasconderglielo. Piccoli bastardi! Dovevano esserci dei disinfestatori nella zona, o forse il Comune si occupava di queste cose. I pipistrelli erano un pericolo per la
salute? Certo lo erano per la tranquillità mentale. Mi asciugai la faccia e le mani mentre nella mia testa, c'era un turbinio di pensieri raccapriccianti. Suppongo di avere avuto una reazione eccessiva, ma le sensazioni sgradevoli provate prima di aver aperto la soffitta, unite allo choc di essermi trovato di fronte a tutti quei neri corpi appesi, avevano avuto un forte effetto su di me. Mi chiesi da quanto tempo Gramarye fosse la residenza a quelle ributtanti creature; erano arrivate dopo la morte di Flora Chaldean, o si erano stabilite lì quando lei era ancora viva? Quest'ultima ipotesi era più improbabile, ma io e Midge sapevamo che Flora era una donna eccentrica, e quindi era possibile che li avesse accolti con piacere. Ebbene, i nuovi proprietari della casa avevano il diritto di non accettare certe compagnie: elefanti, tarli e pipistrelli erano quindi esclusi. Passai nella stanza da letto vicina e andai alla finestra con l'intenzione di aprirla e prendere una profonda boccata d'aria fresca; stavo per farlo quando vidi un gruppo di persone vicino al cancello del giardino. Midge, era al di qua del cancello, mi volgeva le spalle, e parlava con altre tre persone, due uomini e una ragazza. I tre erano vestiti alla buona: camicie col collo aperto e calzoni sportivi, e la ragazza in gonna lunga e camicetta. Aveva lunghi capelli biondi e, anche da quella distanza, il suo viso mi sembrava vagamente familiare. Una Citroen era parcheggiata sull'erba dietro a loro (noi avevamo trovato uno spazio libero di fianco al giardino, abbastanza grande per parcheggiarci la nostra Passat). Le loro voci mi giungevano dirette dal giardino, ma non riuscivo a capire quello che dicevano. Sentendomi, in quel momento, particolarmente disposto ai contatti umani, lasciai la stanza e scesi. Se si trattava di gente del luogo, forse sapeva come risolvere il problema dei pipistrelli. Mi riempii i polmoni del puro profumo dei fiori mentre nel naso sentivo ancora il tanfo della soffitta. I tre mi guardarono mentre mi avvicinavo e Midge si voltò per salutarmi. «Mike, ti presento i nostri primi visitatori,» disse lei chiaramente contenta di quell'incontro. «I nostri primi visitarori "umani",» la corressi io sorridendo dello stupore dei tre giovani. Per un po' riuscii a scacciare dalla mente il pensiero dei piccoli esseri alati e ripugnanti. «Mike si riferisce a certi animali che sono venuti a trovarci dopo il nostro trasloco,» spiegò Midge, e tutti risero. «Immagino che vorrete sapere chi sono gli esseri umani che sono venuti a cacciarsi in questo angolo della foresta.» Quello che parlava era biondo
come la ragazza, sebbene con i capelli più corti, stile militare. Era alto più o meno come me - un metro e ottanta- e aveva gli occhi azzurri come quelli di Paul Newman. Mi ricordava un campione di surf californiano degli anni Sessanta, e il suo accento americano rafforzò l'immagine, sebbene avvertissi una forza in lui che contrastava con i suoi modi disinvolti. Sorrise scoprendo denti bianchissimi da attore hollywoodiano. «Sono Hub Kinsella, » disse tendendo la mano oltre il cancello «e questi...» indico i suoi amici «... sono Gillie Slade e Neil Joby.» Strinsi la mano a tutti e tre mentre Midge mi presentava. «Ti abbiamo incontrato quando siamo passati di qui l'altro giorno,» disse la ragazza stringendomi appena la mano. «Oh certo, mi sembrava di averti già vista,» risposi. «Lei mi ha salutato dalla macchina, vero?» «Mi hai salutato tu per primo.» Ridemmo come fanno le persone insicure che non si conoscono al minimo accenno di umorismo. Lei era sicuramente inglese e molto graziosa, anche se in modo non appariscente. Era truccata e aveva il naso e le guance tempestati di lentiggini; vi era in lei una certa volubilità che poteva essere attraente o irritante, non sapevo decidere. L'altro ragazzo, Joby, era basso ed esile e, guardandolo meglio, mi accorsi che era vestito meno alla buona degli altri: portava la cravatta sulla camicia dalle maniche corte, pantaloni stirati con cura e scarpe lucidissime. Le braccia glabre erano scarne e lattee e la sua stretta era un po' troppo forte come se voluta piuttosto che naturale. Aveva una voce un po' nasale tipica della gente dei Midlands. «Spero che la vostra nuova casa le piaccia.» «Sì,»dissi, «ma ci vorrà un po' di tempo per metterla a posto.» «Siete tutte e due di Londra?» chiese Kinsella con educato interesse. «Come ha fatto a capirlo?» Sorrise in modo disarmante. «Ve lo si legge in viso.» «Che siamo dei pesci fuor d'acqua?» «Oh, no! Non volevo dire questo, ma ho capito subito che non eravate di queste parti.» «Midge però è cresciuta in campagna. Io invece sono un novellino.» «Vi innamorerete presto di questo luogo,» disse la ragazza, Gillie. «Come me.» Midge richiamò la mia attenzione toccandomi il braccio. «Ricordi, Mike, quella casa grande che abbiamo visto ieri?»
«Ma certo, la casa grigia!» Lei annuì. «Hub, Gillie e Neil abitano lì.» «Davvero! Abitate lì? Tutti e tre?» «Più di tre, Mike,» rispose Kinsella. «Che cosa? Un albergo, una fattoria della salute?» «Niente di tutto questo. Perché non venite a farci una visita, quando vi sarete sistemati? Ve la faremo vedere.» «Sì venite,» disse Gillie e con nostra sorpresa ci diede un amichevole colpetto sulla spalla. «La casa è bella all'interno, e noi saremo lieti di accogliervi. Diteci che verrete, vi prego.» Fui sorpreso dal suo entusiasmo, ma Midge parve apprezzare l'idea. «Ci piacerebbe molto,» disse alla ragazza. «Ieri abbiamo pensato che fosse disabitata la vostra casa, non è vero Mike?» «Sì, non capivamo...» sentii la mano di Midge che mi stringeva il braccio. «Nel frattempo ci si è presentato un piccolo problema che sarebbe meglio risolvere al più presto. Penso che forse avete qualche idea su come si vive da queste parti.» La loro espressione non avrebbe potuto mostrare un maggior desiderio di aiutarci. Midge era curiosa. «I pipistrelli hanno invaso la nostra soffitta,» spiegai indicando col pollice il villino dietro di me. E voltandomi verso Midge: «Erano loro che facevano rumori stanotte. Adesso stanno dormendo.» «Pipistrelli?» «Pipistrelli.» «Oh, non sono un grosso problema, Mike,» mi assicurò l'americano. «Non danno alcun disturbo.» «Forse no, ma mi fanno sentire a disagio. Non mi piacerebbe svegliarmi una notte e scoprire che brindano alla salute con il nostro sangue.» Risero, ma Gillie parve un po' disgustata. «Niente paura,» disse Joby incrociando sul petto le lunghe braccia da insetto. «Per lo più vanno in giro al tramonto e all'alba, e comunque non credo che troverete altri vampiri nell'Hampshire. Se li lasciate in pace non vi disturberanno.» «Mi stanno già disturbando.» «Oh, andiamo, Mike,» disse Midge. «Sono solo dei criceti con le ali.» La sua reazione - o forse dovrei dire la sua indifferenza - mi sorprese. Sapevo che adorava gli animali, ma proprio tutti gli animali? «Purtroppo non è possibile prendere provvedimenti drastici contro i pi-
pistrelli,» intervenne Joby. «Sono una specie protetta. In questa regione molti sono già stati sterminati per lo più dagli insetticidi e dall'ignoranza; la gente li uccide senza motivo. Gli ecologisti si sono fatti avanti appena in tempo per indurre il governo a prendere provvedimenti.» «Vuoi dire che non posso toccare quei cosi?» chiesi incredulo. Lui annuì con fare greve. «Quei cosi sono mammiferi. Vi sono i pipistrelli comuni e i pipistrelli dalle orecchie lunghe, a seconda delle dimensioni: il pipistrello comune è il più piccolo.» «Non ho potuto vederli da vicino.» «Il pipistrello comune preferisce i boschi, ma si è abituato alle zone residenziali, mentre il pipistrello dalle orecchie lunghe preferisce dormire nelle caverne, nelle cantine o nelle soffitte.» «Allora quelli che ci sono in soffitta sarebbero pipistrelli dalle orecchie lunghe?» «Ma ve l'assicuro, non avete niente da temere. Si cibano di insetti e falene e quindi potrebbero esservi utili.» Io ero dubbioso, ma lui sembrava sapere quello che diceva. Scrollai il capo e mormorai: «Allora sembra che siamo destinati a tenerceli.» Kinsella intervenne con un tono da cospiratore: «Ascolti, Mike, se davvero divenisse un problema serio, forse potremmo aiutarvi a scacciarli con suffumigi o qualche cosa del genere. Non c'è bisogno che nessuno lo sappia.» «Be', vedremo come si mettono le cose.» Lui mi tentò ancora. «Se avete bisogno di aiuto, sapete dove trovarci, saremo lieti di vedervi in qualsiasi momento.» «Devo andare a prendere il regalo?» La ragazza lo guardò come un cagnolino guarda il suo padrone. «Oh, certo, quasi lo dimenticavo.» Gillie si infilò in macchina e quando ne uscì aveva in mano una scatola di latta quadrata. La porse a Midge al di là del cancello. «Una delle nostre sorelle è una cuoca meravigliosa, così quando abbiamo saputo che vi eravate stabiliti a Gramarye, l'abbiamo pregata di farvi un dolce di benvenuto. Niente di straordinario, ma spero che vi piacerà.» «E il nostro modesto modo di darvi il benvenuto da buoni vicini,» disse Kinsella togliendosi le mani dai fianchi come per abbracciarci. «Che pensiero gentile,» esclamò Midge accettando il dono raggiante. «Vi inviteremo qui non appena avremo messo tutto in ordine; siete stati molto gentili, non è vero, Mike?»
Kinsella parlò prima che potessi rispondere. «Potete essere sicuri che verremo a salutarvi ogni tanto. Quando ci si è fatti degli amici non bisogna perderli.» Lo disse con grande spontaneità, così che mi chiesi perché le sue parole mi mettessero a disagio. «Per il momento,» proseguì, «vi lasciamo. Sono sicuro che avrete una quantità di cose da fare nel villino. La proprietaria era un po' troppo vecchia per mantenere in ordine la casa.» «Conoscevate Flora Chaldean?» chiese Midge. «Oh, tutti, da queste parti, sapevano di lei,» disse Gillie. «Ma nessuno la conosceva nel vero senso della parola» aggiunse Kinsella. Le abbiamo parlato un paio di volte, tutto qui. Ricordate quello che vi ho detto: di qualunque cosa abbiate bisogno, non dovete far altro che telefonare.» «Lo ricorderemo, Hub,» dissi. E poi: "E un soprannome?" «È un'abbreviazione di Hubris. I miei genitori sono tipi spiritosi.» Non eccessivamente, pensai. «Bene, arrivederci e grazie per le informazioni sui pipistrelli. Almeno adesso so come stanno le cose.» Ci stringemmo la mano piuttosto formalmente e poi il gruppo salì in macchina; Kinsella al volante. Quando la Citroen passò, ci salutarono con la mano, noi ricambiammo il saluto e li seguimmo con lo sguardo finché scomparvero. «Non trovi che siano gentilissimi?» esclamò Midge tendendomi la scatola con il dolce per farmelo vedere. «Sì. Un tantino troppo amichevoli, forse.» «Oh, Mike, sei così cinico, a volte. Volevano essere solo dei buoni vicini. Vorrei che anche qualcun altro si comportasse come loro.» «Sì, ma chi sono, Midge? Come mai un gruppo vario come questo vive insieme in un maniero? Hai notato che Gillie ha chiamato sorella quella che ha fatto questo dolce?» «Ebbene? Forse appartengono a una qualche organizzazione religiosa. Che importanza ha, se sono persone simpatiche?» Mi strinsi nelle spalle. «Sì, hai ragione. Mi sono sentito un po' aggredito, ecco, come se fossero troppo ansiosi di conoscerei.» «Quante volte devo dirtelo? In campagna le cose sono diverse, la gente è più amichevole. Non devi essere così sospettoso.» «Scusami, Midge, non volevo esserlo. Quei pipistrelli mi hanno turbato.»
Il suo tono si addolcì. «Ti capisco ma è vero, sai, i pipistrelli sono davvero innocui.» «Finché non invadono il mio territorio.» Una leggera brezza fece ondeggiare gli alberi e mosse i fiori. Midge si mise la scatola sotto un braccio e infilò l'altro sotto il mio. Tornammo verso il villino col sole caldo che ci illuminava la faccia. «Andiamo a dare un'occhiata a questi mostri che ti hanno spaventato tanto,» disse lei persuasiva. «Vuoi andare lassù?» Lei quasi si sdegnò. «Naturalmente. Non vedo l'ora di vederli.» «Sei imprevedibile.» «lo studio la vita di campagna, non ricordi? Sono un'illustratrice e disegno anche animali. Mi piace osservarli. Inoltre questi mostriciattoli mi possono suggerire un'idea per un libro che forse scriverò in futuro. Meglio ancora se lo scriverai tu per me. È tempo che tu faccia buon uso di questo tuo particolare talento.» «Un libro dell'orrore per bambini? Puoi trovare là qualche cosa di simile.» «No, niente del genere. In ogni caso non vi è niente di disgustoso nei pipistrelli.» «Aspetta di vederli.» Lei lasciò il dolce sulla tavola della cucina e salì di sopra mentre io le facevo strada brontolando fra i denti qualche cosa sulle sgradevoli conseguenze del fare amicizia con i parenti di Dracula, e Midge mi punzecchiava le natiche dicendomi di non essere così fifone. Nell'attico, mio futuro studio musicale, presi la torcia che era rimasta sulla sedia e me la battei sulla palma della mano guardando Midge seria in volto. «Vuoi proprio andare a fondo di questa faccenda...» chiesi cupo, «...pur sapendo che cosa è successo a Pandora?» «Spostati di lì,» mi rispose dandomi una spinta e mettendo un piede sulla sedia. «Va bene, va bene. Adesso, Midge, parlo sul serio: onestamente non mi sento di tornare lassù.» «Non c'è bisogno che tu lo faccia... basta che mi aiuti. Non lo racconterò ai nostri amici.» Si portò una mano sul fianco e assestò il piede sulla sedia. Aveva sulle labbra un ghigno di sfida. Mugugnando la spinsi da parte e salii sulla sedia. Poco prima, quando
ero sceso, avevo chiuso la botola, forse immaginando che i pipistrelli potessero inseguirmi: così dissi: «Adesso aprirò e poi ti spingerò su, a meno che tu non preferisca che vada a prendere la scala.» «Basterai tu.» Incrociò le braccia aspettando. «Va bene.» Spinsi lo sportello che si aprì facilmente. «Non spaventatevi, ragazzi,» dissi piano. «È solo il padrone di casa che viene a controllare l'aria condizionata.» Sebbene non fossi nervoso come la prima volta, adesso ne sapevo un po' di più sui nostri sonnolenti ospiti, il mio tentativo di far dello spirito era un po' forzato. Lo sportello cadde all'indietro contro l'asse verticale, come prima, e io chinai la testa nel sentire quel colpo secco. Vidi Midge che si metteva la mano sulla bocca per nascondere una risatina. «Non dire che non ti ho avvertita,» dissi di cattivo umore scendendo e porgendole la torcia. Unii le mani a staffa. «Aggrappati ai bordi dell'apertura con una mano e metti dentro la torcia, poi ti tirerò su.» «Mio eroe,» disse lei mettendomi un piede nelle mani. La sollevai e lei salì facilmente, accendendo la torcia e facendola passare nell'apertura con un movimento aggraziato; era molto leggera. Midge si sedette con le gambe penzoloni nel vuoto come avevo fatto io. lo mi arrampicai dopo di lei, servendomi della sedia e cercando di farlo con disinvoltura, adesso che avevo un pubblico. Lei si spostò svelta di lato per farmi posto. Una volta in soffitta dissi piano: «Li vedi?» Il tanfo mi fece arricciare ancora il naso. Lei diede uno sguardo attorno illuminando la soffitta con la torcia e io rabbrividii nel vedere le nere forme pendenti. «Oh, Mike, non sono poi così tanti,» disse lei con aria canzonatoria. lo sbattei gli occhi, seguendo il fascio di luce della torcia. In realtà i pipistrelli non sembravano tanti come prima, «lo, hum... sono sicuro che erano di più.» «Secondo me eri così spaventato che ne hai visti più di quanti ce n'erano. Però sono almeno una quarantina sparsi qua e là.» «Quando li ho visti io erano tutti ammassati. Molti devono essersene andati.» «In pieno giorno? No, il raggio della torcia deve aver provocato delle ombre così da dar l'illusione che fossero di più.» Mi battè la mano sulla gamba per rassicurarmi. «Quando si è spaventati, si vede tutto sotto una cattiva luce.» Si portò la torcia sotto il mento illuminando il suo volto sor-
ridente. «Tutto questo è strano, molto strano. Dammi un po' la torcia, per piacere.» Le presi la torcia di mano e camminando carponi mi addentrai nella soffitta tenendomi ai travicelli e attento a non mettere un ginocchio nell'apertura. Cercai di dirigere il fascio di luce in tutti i recessi, pur non potendo vedere dietro il serbatoio dell'acqua; ma non scoprii altri pipistrelli. Midge si unì a me, camminando eretta e non carponi facendomi sentire ancora più sciocco. Mi alzai aggrappandomi a una trave, attento a non toccare qualche pipistrello addormentato. Mi aspettavo di vedere Midge sorridermi con aria canzonatoria ma era troppo assorta nell'esaminare uno dei corpi appesi. Tese una mano e accarezzò delicatamente un'ala piegata. «Ehi,» dissi piano, «che stai facendo?» «Fammi un po' di luce, Mike, voglio vedere bene questo tipo.» «Smettila di piagnucolare. Non c'è la rabbia da queste parti. Ricordi quello che ti ho detto: non sono che dei criceti con le ali. Vieni, fammi luce.» Maledetto pipistrello, pensai obbedendole e appoggiandomi alle travi. «Non dare la colpa a me se ti morde.» Il pipistrello si contorse tentando di ritirare l'ala che Midge gli aveva aperto, ma lei la tenne ferma. L'animale aprì la bocca orribile, irritato, mostrando gli aguzzi denti da vampiro sebbene sembrasse ancora addormentato. Io mi tenni a distanza continuando a fare luce a Midge. «Vedi le dita?» La sua voce era sommessa. «Vedi come sono lunghe le ultime tre? L'ala è formata dalla pelle tesa fra loro. Guarda, arriva fino alla zampa e alla coda.» «E interessante. Non credi che potremmo lasciarlo dormire in pace?» «E guarda il suo corpicino peloso. E proprio grazioso.» «Grazioso? E brutto come il peccato.» Mi pentii subito di aver alzato la voce perché le palpebre sottili che coprivano gli occhi del pipistrello si aprirono per un secondo. «Si è offeso,» osservò Midge. «Dovrà rassegnarsi. Guarda che orribile naso schiacciato e che orecchie a punta,» emisi un mugolìo di disgusto. «Quello che ha attorno al naso è il suo radar.» «Possiamo scendere, adesso, Midge? Potremo coabitare con queste specie di susine, ma non siamo obbligati a fraternizzare con loro.»
Lasciò che l'ala si ripiegasse, poi mi strinse il fianco. «Non sapevo che fossi così allergico.» «Per essere onesto, non lo sono mai stato. Mi fanno solo una strana sensazione: non riesco a dominarmi.» «Per lo meno adesso sai che non sono tanti come credevi.» «Avrei giurato che... Non importa; ero così sorpreso che probabilmente ho visto doppio.» «O triplo. Scendiamo dove l'aria è più pura.» Ci sostenemmo alle travi, e io mi misi a gambe aperte sulla botola per calare Midge sulla sedia sottostante. Dopo aver dato un ultimo sguardo intorno, diedi la torcia a Midge e mi calai, tenendomi poi in equilibrio sulla sedia per afferrare il lato dello sportello e chiuderlo dietro di me. Questa volta lo rimisi a posto con l'animo più tranquillo. Saltai giù e mi pulii le mani sporche di polvere, felice di essere uscito dalla soffitta. Intanto Midge si era avvicinata a una della finestrelle dell'attico e cercava di aprirla. «Volevo far circolare un po' d'aria, » disse voltandosi un poco verso di me, «ma la finestra è bloccata.» Io la raggiunsi. Può essere colpa della vernice. Avrebbero dovuto lasciare le finestre aperte finché non fossero asciutte. Fammi provare.» Prima che potessi dare un buon colpo a una delle due ante, Midge mi prese il braccio. «Quei pipistrelli ti disturbano davvero tanto, Mike? Perché in tal caso potremmo fare come ha suggerito Hub e trovare il modo di sbarazzarcene senza che nessuno lo sappia.» Io la fissai: «Ma l'idea non ti piace affatto, vero?» «Non voglio che quei pipistrelli rovinino tutto. Per me è più importante che ti senta felice qui; così, se devo scegliere fra la tua serenità e i pipistrelli, preferisco la tua serenità.» Avvicinai la mia testa alla sua. «Probabilmente hai ragione tu,» dissi. «Non ci daranno noia.» Tornai alla finestra. «Ma se continuano a fare orge ogni notte, li facciamo fuori: il rumore di quello sbatter d'ali frenetico mi fa impazzire.» Diedi un colpo al telaio e poi un altro, mordendomi il labbro per il dolore. Al terzo tentativo la finestra si aprì di qualche centimetro dopodiché fu facile spalancarla. Mentre cercavo di fissare le ante ai ferri esterni, diedi un'occhiata al bosco di fronte aspirando profondamente l'aria scaldata dal sole. Mi irrigidii prima di averla espirata.
Avevo visto una figura in piedi che stava nell'ombra dietro la prima fila di alberi o la vista mi ingannava? Qualcuno ci stava ancora osservando? «Midge,» dissi con voce tesa perché avevo ancora i polmoni pieni d'aria, che esalai mentre lei si avvicinava. «Qualcuno laggiù sta osservando la casa.» Non la guardavo, ma sapevo che stava scrutando nella foresta. «Dove Mike? Non vedo nessuno.» Distolsi per un momento gli occhi dalla figura immobile e misi un braccio sulle spalle di Midge avvicinandola a me. «Là,» mormorai indicando. «Là fra gli alberi. Una figura scura che osserva il villino.» Ma quando tornai a guardare, la figura era scomparsa. «Non la vedo, Mike,» disse Midge, e io mi voltai verso di lei senza parlare, poi guardai ancora gli alberi. Decisamente non c'era nessuno. Cominciai a domandarmi se l'aria di campagna fosse così fresca da provocare allucinazioni. 15. PROGRESSI Le due settimane che seguirono passarono velocemente tenendoci occupati senza che io avessi altre «allucinazioni». Passammo le giornate (e spesso anche le notti) togliendo la vecchia tappezzeria e sostituendola con quella nuova e dipingendo le pareti e i rivestimenti di legno che non avevamo fatto toccare agli operai. Un paio di sere furono particolamente fredde e presto scoprimmo correnti d'aria che ci facevano rabbrividire; feci del mio meglio per scoprire da dove provenivano e mi affrettai a chiudere. Lavammo, strofinammo, pulimmo e lustrammo. Misi a posto il campanello d'ingresso, in modo che squillasse anziché gracchiare. Pulimmo i camini in previsione degli intimi inverni accanto al fuoco, e facemmo vuotare il pozzo nero (il puzzo fu terribile e dovemmo tener chiuse porte e finestre durante l'operazione). Venne un idraulico a far alcuni lavoretti compresa la revisione della lavatrice e l'assicurarci acqua calda invece che tiepida (cosa che richiese un nuovo e più grande riscaldatore a immersione, che pesò molto sul nostro bilancio). L'acqua, adesso, era limpida, grazie al nuovo serbatoio che O'Malley aveva installato nella soffitta, e anche la TV e la radio funzionarono meglio dopo la prima settimana. Le immagini della televisione non erano ancora molto nitide, ma del resto e-
ravamo situati in una zona fuori mano. lo misi a posto il mio studio musicale, sempre sognando il costoso equipaggiamento che avrei avuto (speravo) in un futuro non troppo lontano, mentre Midge preparò il suo piccolo studio artistico sotto una delle grandi finestre della stanza rotonda. Aveva una gran voglia di rimettersi a pitturare - pitturare in senso artistico, non le pareti - così come io non vedevo l'ora di tornare alla musica seria. Preso com'ero dal lavoro manuale, avevo la testa piena di idee per canzoni e musiche rock. Tutte queste idee erano tentativi, ma in genere molto stimolanti; mi domandavo se mi sarebbero parse così buone quando le avessi scritte, o così grandiose quando le avessi registrate. Nonostante questa urgenza creativa in entrambi, resistevamo alla tentazione e insistevamo nel lavoro in corso per preparare Gramarye a un futuro piacevole e felice. Facemmo del nostro meglio con il giardino - o dovrei dire che lo fece Midge, specialmente per quel che riguardava le aiuole - ma, cosa strana, sembrava prosperasse per conto suo. Anche i conigli selvatici, numerosi da quelle parti, rispettarono i nostri fiori. Ripulimmo le aiuole, e trovammo che molte erbacce erano scomparse, evidentemente eliminate dalla cattiva salute dei fiori e costrette a rinunciare alla lotta (io ero abbastanza ingenuo, in fatto di giardinaggio, da crederlo possibile, e Midge, che ne sapeva di più, non fece commenti). Acquistai nel negozio di ferramenta del paese una falciatrice a mano per il margine erboso oltre il recinto e l'area attorno al retro del villino, e fui felice di lavorare al sole, a torso nudo, abbronzandomi. Rafforzai il recinto sostituendo i pali mancanti o danneggiati, inchiodando gli altri e dipingendo allegramente di bianco il legno annerito dal tempo. Facemmo parecchie gite a Bunbury per comprare qualche mobile di seconda mano e un paio di ninnoli. Rumbo diventò un visitatore regolare e spesso gli chiesi perché non si trasferisse da noi definitivamente. Era un gran conservatore ma, sebbene a volte sembrasse capirci, le sue chiacchiere fra i denti non significavano molto per Midge e me. Supponevamo comunque che ci fosse nella foresta una «signora» Rumbo e forse anche dei Rumbini, una famiglia che lui era felice di ritrovare dopo ogni avventura giornaliera. Gli piaceva giocare: correre diero le palle da tennis, saltarci sulle spalle quando meno ce lo aspettavamo, mordere furiosamente libri e riviste facendole a pezzi mentre noi lo inseguivamo attorno al villino in una specie di frenetico rimpiattino. In quello scoiattolo c'era qualche cosa del cane, una specie di rozza intelli-
genza mischiata a cenni di astuzia che trovavamo divertenti e spesso anche esasperanti. Ci faceva buona compagnia. Molte telefonate ci giunsero da amici o compagni di lavoro: molti di questi ultimi ci facevano allettanti offerte a cui resistevamo. Avevamo stabilito che ci saremmo presi un intero mese di libertà da ogni impegno professionale e ci attenevamo a questa decisione. Da principio la linea telefonica era disturbata, come se i fili si fossero arrugginiti a furia di non essere usati, ma più telefonate ricevevamo e più nitide si facevano le voci. Il nostro amico tordo, la cui ala avevamo creduta spezzata, tornò (le penne dell'ala non gli erano ancora ricresciute, così che era facile riconoscevo) e non aveva scrupoli nel volar dritto in cucina e appollaiarsi sulla tavola o sullo schienale di una sedia. Altri seguirono presto il suo esempio, dapprima con diffidenza, poi con cautela e infine con fiducia. Tuttavia gli uccelli e lo scoiattolo non erano i soli visitatori: seguirono topi, api, una volpe e un giorno perfino un ermellino fece la sua apparizione. Ci abituammo a trovare ragni o chiocciole: queste ultime venivano catturate, accartocciate in un foglio di giornale e portate in giardino. I nostri tre nuovi amici della casa grigia mantennero la parola venendo a trovarci di tanto in tanto e portandoci ogni volta un piccolo regalo: cibo, una bottiglia di vino fatto in casa, un gingillo da poco; niente di straordinario, solo per dimostrarsi cortesi. Noi eravamo troppo occupati per intrattenerli in lunghe conversazioni, e loro non ci imposero mai la loro presenza. Erano piacevoli sempre al corrente di notizie locali, utili con le loro informazioni sulla vita di campagna. Bravi ragazzi. Dopo poche notti, i rumori nella soffitta cessarono di disturbarmi; anzi cominciò a piacermi starmene seduto verso sera sulla panca e vedere i pipistrelli spiccare il volo da sotto il cornicione verso la foresta vicina, uno spettacolo che diveniva sempre meno pauroso ogni volta che lo si vedeva. Come ci era stato detto, non erano affatto pericolosi: erano creature poco socievoli (grazie a Dio) che vivevano appartate. Procedemmo faticosamente nel lavoro, decisi a non riposarci finché non avessimo sistemato le cose tanto da poter vivere a nostro agio. Vi furono solo pochi giorni di cattivo tempo; gli altri furono pieni di sole, con l'aria tersa e frizzante al mattino e piacevolmente calda nel pomeriggio. Facevamo progressi. La vita era buona con noi. 16. VIOLENZE
Dopo aver parcheggiato la macchina nel piccolo ma sufficiente parcheggio dietro la strada principale andai al negozio di ferramenta, al paese, per comprare i chiodi, l'olio per la falciatrice, le spine elettriche, della vernice bianca e altre cosette. Alcuni volti mi erano divenuti familiari in seguito alle mie frequenti gite a Cantrip durante le ultime due settimane e qualche abitante del paese mi salutava addirittura quando entravo nei negozi. Suppongo che, come avviene nelle piccole comunità, si fosse diffusa la voce che Midge e io eravamo i nuovi abitanti di Gramarye. Io mi ero abituato alle occhiate curiose e così, adesso, era piacevole essere riconosciuto. Era metà mattino e nel negozio c'era poca gente. Preso un cestino di metallo dal mucchio presso la porta, girai per le brevi corsie del negozio tra i vari scaffali prendendo quello che mi occorreva e, naturalmente, anche altri articoli che pensavo mi sarebbero stati utili prima o poi (è strano come raramente lo siano). Stavo esaminando alcune «super» colle contenute in bozzoli di plastica e appese come crisalidi a ganci di metallo, domandandomi se le pupe ne sarebbero uscite mettendo le ali, quando una voce burbera interruppe le mie fantasticherie. La cassa era dietro lo scaffale vicino al quale mi trovavo, e io girai incuriosito attorno allo scaffale accingendomi a pagare il conto. La voce burbera era quella del negoziante, un omaccione di nome Hoggs che io avevo trovato sempre gioviale (ero diventato suo cliente abituale per i miei non troppo ambiziosi lavori), così che rimasi molto sorpreso che fosse così sgarbato. Una ragazza era davanti alla cassa voltandomi il dorso, coi capelli a treccia, una camicetta scollata e una gonna lunga. Le cinghie dei sandali le cingevano le gambe oltre le caviglie allacciandosi sotto l'orlo della gonna. Un cestino di metallo era sulla cassa davanti a lei e il negoziante stava frugando in esso con mosse brusche, scrivendo il costo di ogni articolo sul registro di cassa. La ragazza gli stava mostrando due oggetti (non potevo vedere quello che c'era nel cestino) chiedendo, credo, quale andasse meglio per il lavoro che doveva fare. La risposta del negoziante era stata qualche cosa come «Deve capirlo da sé, non le sembra?» e ne fui meravigliato poiché con me era sempre stato gentile. La ragazza si limitò a prenderne uno rimettendo l'altro in uno scaffale vicino. Hoggs colse il mio sguardo e sollevò rapidamente gli occhi al cielo per
mostrarmi la sua irritazione. Quando la ragazza tornò dallo scaffale, vidi che era pallida, quasi giallastra, con un'espressione vuota che mascherava il suo disappunto o era il vero riflesso del suo intimo. Cercò in una borsa di tela che portava a tracolla e ne trasse un sacchetto, mentre il negoziante toglieva dal cestino gli articoli gettandoli alla rinfusa sul piano della cassa con evidente malumore. Mi sentii mortificato per la ragazza quando il negoziante le grugnì 1'ammontare del conto e lei gli porse il denaro, mite mise gli acquisti in un sacchetto di plastica e si affrettò a uscire dandomi un'occhiata di sfuggita. Posando il mio cestino sul banco, guardai il negoziante con una certa trepidazione. «Buon giorno, signor Stringer», mi disse, e io mi sentii rincuorato nel vedergli rimprendere il tono amichevole. Accennai con la testa alla porta che si era richiusa, «problemi nel pagamento?» «Eh? Oh, no, nulla di simile,» mi assicurò, con ancora una traccia di irritazione nella voce. «E una di quella congrega, tutto qui.» «Ah, sì? Quale congrega?» Smise di togliere gli articoli dal mio cestino per darmi uno sguardo interrogativo. Aveva la faccia larga e rosea, come se non avesse avuto il tempo di prendere il sole. «Probabilmente non ha ancora saputo nulla di loro, non è vero?» Scosse la testa e rimase con un dito fermo su una riga del vecchio registro. «È una del Tempio, una di quei... Sinergisti.» Alzò lo sguardo verso di me. «Che nome scemo!» Feci un cenno che poteva essere considerato di approvazione. «Che cosa significa esattamente?» «Significa? Significa che sono tutti matti, ecco che cosa significa.» Si chinò verso di me con un fare da cospiratore. «Non ci piacciono affatto, signor Stringer. Vogliono portar qui le loro abitudini e le loro idee balorde. Non li vogliamo.» «Appartengono a una qualche setta religiosa?» Stavo già facendo dei collegamenti: la ragazza sarebbe stata bene con Hub.Gillie e Neil. «Qualche cosa di simile, ma non so bene. Ma non vogliamo che vengano qui a mendicare denaro.» «Mendicare?» «Be', quasi. Vendono delle cose... delle cose di cui nessuno ha bisogno, cestini di vimini, tovagliette di paglia e simili. E poi cercano di convertire i nostri giovani, di trascinarli al loro cosiddetto Tempio. C'è qualche cosa
che non va, in quella gente, glielo dico io.» «E vivono in quella casa isolata nella foresta?» «Un tempo era chiamata Croughton Hall, ma ora non più. Ne hanno fatto una specie di chiesa, il loro maledetto Tempio Sinergista.» Cercai il portafogli. «Ma mi sembrano abbastanza innocui.» Il modo in cui Hoggs mi guardò mi fece sentire la persona più scema del mondo. Mi disse quanto gli dovevo, prese il denaro e si allontanò. «Le cerco una scatola per tutta questa roba,» disse andando all'estremità del banco e cercando qualche cosa sotto di esso. Con i miei acquisti così raccolti, lo salutai e lasciai il negozio, tenendo goffamente la scatola sottobraccio. Dunque la mia sensazione di leggero disagio per quel che riguardava i tre nuovi amici non era del tutto ingiustificata. Ma anche così, mi sembravano abbastanza innocui e forse solo la scarsa considerazione in cui sono tenuti questi culti mi rendeva cauto. La ragazza del negozio di ferramenta era stata un modello di sopportazione pur avendo delle ragioni per risentirsi della rudezza di Hoggs. Pensavo che fossero necessari degli anni perché degli estranei venissero accettati e in un villaggio tranquillo e remoto come Cantrip, un'organizzazione che sembrava imbevuta di una strana religione, poteva avere dei problemi. Comunque, che diavolo significava sinergista? C'era una quantità di altre religioni bizzarre un po' dappertutto, ma questa non la conoscevo. Era genuina o folle? O genuinamente folle? Kinsella e i suoi compagni sembravano abbastanza sani di mente e assai poco zelanti come religiosi (sebbene la loro grande sincerità fosse un poco sconcertante). Ebbene, Midge e io non eravamo più dei giovani impressionabili. Così, che cosa importava se venivano a fare una capatina ogni tanto? Non aveva proprio alcuna importanza. Avevo voltato lo stretto angolo che portava al parcheggio avviandomi alla Volkswagen parcheggiata all'altra estremità, quando vidi ancora la ragazza. Era vicino alla solita Citroen e non era sola. Lo sportello posteriore della macchina era aperto e lei e Gillie Slade stavano caricando. Entrambe parvero spaventate quando tre giovani rivolsero loro un'attenzione non richiesta. Nell'avvicinarmi vidi che i ragazzi - potevano avere non più di quindici o sedici anni - erano dei veri giovinastri: capelli ispidi, jeans consunti e macchiati, stivali stringati. Anche se faceva caldo, uno indossava un giubbetto di pelle con le borchie, mentre i suoi due amici portavano lacere ma-
gliette a maniche corte. La vita in campagna è cambiata, pensai. Giacca-di-pelle saltellava attorno alla ragazza che avevo visto nel negozio tirandole la treccia e ghignando verso i suoi compagni da vero bullo. Uno degli altri allungava le mani verso il sacchetto di plastica che Gillie tentava di mettere nell'auto, mentre il terzo punk era in disparte e aveva le dita nel naso. Quanto a me, mi tengo lontano dai guai, e le signore in difficoltà mi fanno poco effetto. Mi domandavo se non fossero troppo preoccupate per accorgersi di me, o se avessi dimenticato di comprare qualche cosa per avere una scusa per tornare indietro. Ma questo, anche per me, sarebbe stato un poco troppo codardo. Proseguii fingendo di non avere visto niente. Il secondo giovinastro guastò le cose gettando a terra il contenuto del sacchetto di Gillie e cercando fra i vari oggetti sparsi qualche cosa che colpisse la sua fantasia. Gillie lo respinse e lui reagì dandole una spinta più forte che la fece cadere sul cofano. La ragazza si fece rossa ed era sul punto di scoppiare a piangere. Sfortunatamente in quel momento mi vide e un senso di sollievo arrestò le sue lacrime. Io gemetti dentro di me. Preso. Non c'era via d'uscita. Mi feci avanti con gran disinvoltura e le ginocchia tremanti. A voce bassa le dissi: «Sta bene, Gillie?» I giovinastri mi guardarono; Giacca-di-pelle sempre col suo sorriso idiota sul volto deturpato dai brufoli. Oh Dio, pensai, questa è una scena presa da un film di ragazzacci. Mentre Gillie si rialzava, l'altra ragazza mi guardava con interesse. «Sì, sto bene, Mike,» rispose chinandosi per raccogliere gli oggetti che erano caduti dal sacchetto. Il secondo giovinastro gliene fece volar via uno con un calcio mentre stava per prenderlo, dando un grido di allegria. Io andai verso di lui, felice che fosse più basso di me. «Credo che faresti meglio a filar via,» gli dissi. «Basta così.» Il suo riso arrogante si smorzò e lui guardò i suoi compagni per avere un aiuto. Giacca-di-pelle si avvicinò e il terzo continuò a perlustrarsi il naso. «Che c'entra lei?» chiese Giacca-di-pelle soffiandomi sul collo (questo era più alto). «Non è cosa che ti riguardi,» risposi, rammaricandomi che la voce mi fosse un po' venuta meno a metà della frase. Guardando meglio mi ero accorto che erano solo dei ragazzi che posavano a duri, ma non ne erano convinti nemmeno loro. Questo mi diede coraggio.
Tuttavia loro erano in tre e io ero solo. Giacca-di-pelle avrebbe voluto rispondermi, ma sembrava non riuscire a trovare le parole, e forse nemmeno le idee. Io lo tolsi dall'imbarazzo. «Lasciate stare queste ragazze o vi stendo.» Feci del mio meglio per sembrare un tipo in gamba. Con mio spavento, questo parve avere l'effetto opposto su di lui: mi afferrò la camicia e cercò di darmi una testata. Io mi abbassai istintivamente e lui andò a sbattere con la faccia contro la mia testa. Il suo grido di dolore mi rianimò notevolmente sebbene tutta una zona del mio cranio restasse intorpidita. Quando mi rialzai, lui si era portato le mani alla bocca e il sangue gli gocciolava dalle dita. «Se non stai attento ti riduco anche peggio di così,» lo avvertii sbuffando e facendo di tutto per non strofinarmi la testa. Uno degli altri due ragazzacci, forse un po' più sveglio, probabilmente capì che la ferita di Giacca-di-pelle era stata più casuale che intenzionale; e mi caricò lanciando una sorta di grido di guerra che risuonò come un «luuuucuuuhhh.» Quando si tratta di evitare un dolore, posso essere piuttosto svelto: schivai il ragazzaccio e gli assestai un pugno nello stomaco. Si fece male più per colpa sua che per la mia forza e si piegò in due senza fiato. Gli diedi una spinta e lo feci crollare sul cofano della macchina più vicina e credo che il metallo, riscaldato dal sole, gli bruciò la guancia, perché lanciò un guaito e saltò su. lo però non gli diedi tregua, mi avventai su di lui e lo spinsi sul cofano facendogli premere la guancia sul cofano bollente. Il terzo punk aveva finito di perlustrarsi il naso e si era messo a grattarsi un'ascella con un'espressione perplessa che gli conferiva una parvenza di intelligenza. Giacca-di-pelle stava emettendo ancora rumori soffocati mentre si teneva il mento con le dita sanguinanti. Io ero senza fiato, ma riuscii a controllarmi così da sorridere laconicamente. «Non dite che non vi avevo avvertito,» dissi con una certa fierezza abbassando un po' la voce. Con mio orrore i due cominciarono a riprendersi, quello ferito balbettò una sfilza di imprecazioni e quello che avevo inchiodato al cofano della macchina scalciò per rialzarsi. «Ragazzi, ragazzi che cosa sta succedendo?» La voce era quella di un ometto che faceva capolino dal finestrino di un'automobile che si era fermata. Avrei baciato quella testolina che spuntava da un bianco colletto rotondo. Il vicario della parrocchia sembrava sdegnato come se si fosse imbattuto in una banda di teppisti della categoria più infima.
«Miles Carver, sei tu?» Stava guardando direttamente Giacca-di-pelle. Miles? Sorrisi; adesso mi sarei divertito un po'. «Che cosa stai facendo, ragazzo?» Il prete spense il motore e uscì dalla macchina guardandoci tutti, stupefatto. Era un uomo basso, con una di quelle facce giovanili e senza rughe che lo facevano sembrare senza età; l'unico indizio che lasciava supporre che fosse sulla cinquantina erano i capelli bianchi incollati al cranio come i fili di un ordito, fra i quali appariva la rosea cute. Portava una giacca di tweed sopra la casacca nera col colletto bianco e i suoi calzoni marroni erano arrotolati alle caviglie, come se avesse indossato quelli di suo fratello maggiore. «Qualcuno vuol dirmi che cos'è successo?» chiese. Miles borbottò qualche cosa che nessuno capì. Il secondo giovinastro aveva smesso di contorcersi sotto la mia stretta pur tentando di allontanare la faccia dal cofano, mentre il terzo aveva affondato le mani nelle tasche dei calzoni deciso a tenerle lontane dal naso e dalle ascelle. Gillie parlò per prima : «Questi giovani hanno cercato di derubarci per fortuna il signor Stringer è intervenuto e li ha fermati.» Io la guardai sorpreso. «Derubarci» era un po' esagerato. «Bontà divina!» esclamò il vicario. «È vero, Miles?» Non badò alle proteste dei giovinastri probabilmente abituato a questi dinieghi. «Non imparerai mai? Ultimamente solo perché sono intervenuto io, sei in libertà condizionata, e adesso ci sei ricascato.» Miles impallidì visibilmente. «Non è successo niente,» intervenni io. «Le cose sono andate un po' fuori controllo, tutto qui.» Il vicario rivolse la sua attenzione a me mostrandomi una certa freddezza. «Direi che sarebbe bene lasciare andare quel ragazzo, adesso,» disse indicando il mio sorvegliato. «Certo». Io allentai la presa e il ragazzo scattò via guardandomi con ira e massaggiandosi il collo. «Thomas Bradley, anche tu!» Il curato scosse la testa tristemente rassegnato. Il terzo giovinastro chinò la testa con aria vergognosa: probabilmente il curato conosceva suo padre. «Posso solo chiedervi di perdonare questi ragazzi,» disse il prete rivolgendosi alle ragazze e a me. «Hanno lasciato la scuola l'anno scorso e, con le difficoltà a trovar lavoro da queste parti...» Non portò a termine la sua spiegazione lasciando dedurre a noi le ragioni della loro condotta. Mi sforzai di trovare delle plausibili giustificazioni, ma poi lasciai perdere felice
di esserne uscito indenne e di aver fatto una discreta figura. «1 ragazzi sono spiacenti di avervi dato fastidio, signorine...» (non mi sembravano affatto così costernati) «.. .e sono sicuro che queste cose non avverranno più.» Il curato diede uno sguardo accorato ai tre e ordinò loro di andarsene e presto. Quelli si allontanarono lentamente, con Miles che si lasciava dietro gocce di sangue. Mi divertì vedere un omettino come il curato avere un tal dominio su di loro, e, mi resi conto ancora una volta che la vita di campagna era molto diversa da quella di città. Gillie e la sua amica raccolsero i loro acquisti e li misero nel bagagliaio dell'automobile, e notai che il prete le stava osservando con un disprezzo appena celato. «Grazie per l'aiuto,» gli dissi. Si voltò verso di me e con manifesta ostilità nella voce e nell'espressione disse: «Sì, questi incidenti sono spiacevoli. Comunque desidero che voi...» Per la seconda volta la sua frase rimase sospesa. Gillie, sistemò la sua roba in macchina e poi venne verso di me mentre la sua amica chiudeva il bagagliaio. «Oh, Mike, come posso ringraziarla? Sandy e io eravamo così spaventate.» «Erano solo ragazzi,» dissi modestamente. «Energumeni,» corresse lei, e io mi strinsi nelle spalle. L'altra ragazza, Sandy, ci raggiunse e devo dire che era visibilmente sconvolta. «Lei è Mike?» chiese. «Gli altri mi hanno parlato di lei e di Midge. Spero che siate riusciti a sistemare Gramarye.» Improvvisamente mi parve che il curato mi guardasse con uno sguardo diverso. «Lei è la coppia che si è stabilita nel villino di Flora Chaldean?» «Una metà della coppia,» ammisi. Si fece immediatamente avanti con la mano tesa. «Allora lasci che le dia il benvenuto nella parrocchia e che mi scusi se non sono ancora venuto a trovare lei e la sua gentile signora. Avevo saputo del vostro arrivo, naturalmente, ma in questi giorni i miei doveri pastorali mi hanno tenuto piuttosto occupato. Intendevo...» Gli strinsi la mano, ormai abituato alle sue frasi lasciate a mezz'aria. «Benissimo, anche noi siamo stati un po' occupati. Io sono Mike Stringer.» «Peter Sixsmythe.» Mi strinse la mano con vigore. «Il reverendo Sixsmythe.» «Noi dobbiamo andare, Mike,» interruppe Gillie. «È stato molto gentile: spero che ci permetterà di ripagare il debito.»
«Nessun problema,» dissi, sentendomi un tantino imbarazzato, ma soddisfatto. «Nessun debito da ripagare. Sono lieto di essere passato di qui. Ci rivedremo presto, eh?» «Senz'altro.» Non era mia intenzione estendere un invito alle due ragazze. Con mia sorpresa, prima di risalire in macchina loro mi baciarono sulla guancia. Il vicario e io ci facemmo da parte mentre Gillie girava la Citroen per lasciare il parcheggio e ci salutava con la mano dal finestrino. «Signor Stringer,» disse il reverendo Sixsmythe con un'espressione grave nel suo volto da ragazzine, «lei è, ehm, molto in amicizia con quella gente?» Aggrottai la fronte. «Non esattamente. Gillie e un paio dei suoi amici passano ogni tanto dal villino. Sono buoni vicini.» «Sì, sì,» disse in fretta come se stesse considerando le possibili conseguenze di quell'amicizia. «Scusi, le dispiacerebbe se venissi a trovarvi domani? So che avrei dovuto farlo prima, ma come le ho spiegato...» Esitai. La religione non era il mio forte, per lo meno la religione ufficiale, e non mi vedevo assistere alla funzione domenicale in modo regolare; Midge forse, ma non certo io. Non che sia un miscredente, tutt'altro, ma la religione è per me un fatto personale e privato, e il condividerla con altri mi mette a disagio. Le chiese mi rendono nervoso. Tuttavia, che cosa potevo rispondere a questo prete zelante? «Certo, con piacere. Avvertirò Midge della sua venuta.» «La signora Midge è sua moglie?» «La mia compagna.» «Ah.» Fu un semplice «ah», senza alcun giudizio implicito del tipo "peccatori senza fede". «Sono impaziente di conoscervi meglio. Va bene nel mattino?» Assentii. «Buone cose. E spero che il piccolo incidente di oggi non le abbia lasciato una cattiva impressione del nostro paese, signor Stringer. Questi episodi sono molti rari, glielo assicuro.» Aprì lo sportello della sua macchina, ma non salì immediatamente; invece mi chiese: «Sapeva che questi suoi nuovi amici appartengono a una setta chiamata Sinergista?» «L'ho saputo stamattina.» «Capisco. Loro non glielo avevano detto?» «No. In realtà me l'ha detto il signor Hoggs del negozio di ferramenta.» «Non le hanno accennato a niente circa Gramarye?»
Strana domanda, pensai. «Ci hanno chiesto come ci trovavamo, ma niente di più. Perché?» Guardò l'orologio. «Sono in ritardo per un appuntamento: devo parcheggiare e andarmene subito. Potremo discutere la cosa domani.» Salì in macchina, poi sporse la sua testa dal finestrino aperto e aggiunse: «Nel frattempo un avvertimento: stia attento a quella gente, signor Stringer. Stia molto attento.» Lasciai che voltasse nello spazio lasciato libero dalla Citroen di Gillie e andai alla macchina non sapendo se dovevo prenderlo sul serio. Forse non amava le religioni non ufficiali. O vi era davvero qualche cosa di sinistro in quel gruppo? Ero sicuro che in un modo o nell'altro lo avrei saputo presto. 17. I SINERGISTI Kinsella arrivò quella sera stessa sul tardi; era solo, o meglio in compagnia di due bottiglie di vino fatto in casa. Ero seduto davanti alla porta d'ingresso e gettavo delle briciole di pane a Rumbo, che le ammucchiava sul lato del sentiero squittendo come un matto per tener lontani gli uccelli. Midge era in casa e preparava la cena. Questa volta Kinsella arrivò con un'altra macchina, una Escort rossa, e io la guardai con curiosità quando si fermò presso il cancello. Quando mi resi conto di chi si trattava, inspiegabilmente mi irrigidii: gli avvertimenti del curato avevano ovviamente rinforzato le mie riserve circa il visitatore biondo e i suoi compagni. Mi salutò con la mano dall'altra parte del cancello e rimase lì come aspettando un invito a entrare. Mi ricordai che né lui né i suoi amici avevano mai messo piede a Gramarye e che le nostre conversazioni erano sempre avvenute oltre il cancello. Semplice educazione, pensai, vecchie buone maniere da parte loro. Mi alzai e percorsi il sentiero verso di lui, mentre Rumbo mostrava la sua irritazione per l'interruzione del gioco lanciando rauche strida. Feci cadere l'ultima briciola mentre passavo vicino a lui e questo lo calmò un poco, sebbene lo sentissi ancora brontolare mentre metteva in ordine il suo "tesoro". «Salve, Mike,» gridò Kinsella mentre mi avvicinavo; aveva una bottiglia di vino sottobraccio e mi sorrideva con i suoi grandi denti bianchi che sembravano ancora più bianchi sul volto abbronzato. «Ho portato una co-
setta per mostrarti la mia gratitudine per quanto hai fatto oggi.» «Oh, parli di quella baruffa in paese?» dissi modestamente fingendo sorpresa. «Quelli erano solo degli aspiranti teppisti.» «Non proprio aspiranti, a quanto ho sentito. Gillie mi ha detto che gli hai dato una lezione. Sandy mi ha mandato a ringraziarti; ti ho portato un po' di vino.» «Non era affatto necessario.» «Invece sì. Senti, perché non apriamo subito la bottiglia? Ti assicuro che è eccellente.» Restava lì, tenendo le due bottiglie per il collo e porgendomele al di sopra del cancello e sarebbe stato villano da parte mia non invitarlo. Aprii il cancello e gli feci cenno d'entrare. «Splendida idea,» dissi. Mi aspettavo che entrasse subito; ma non lo fece; rimase dov'era come una novella sposa nervosa. Lo fissai, e solo quando tornò ad accorgersi di me, riprese i suoi modi disinvolti. «Scusa,» disse in fretta. «Mi stavo chiedendo se non ero troppo indiscreto. Avrete molte cose da fare qui». «In questo momento no. Ti dirò che un bicchierino me lo berrei volentieri.» Varcò il cancello e mi parve, ho detto mi parve, di vederlo rabbrividire. «Accidenti avete lavorato un bel po',» osservò mentre gli facevo strada. «Midge è stata bravissima. Mi sono meravigliato di come ha saputo cavarsela con tutte le varietà di fiori. Credo che l'esser venuta qui abbia risvegliato in lei la sua passione per il giardinaggio.» Rumbo, che nel frattempo doveva aver meditato su come portarsi le briciole nella sua tana, scosse la testa mentre ci avvicinavamo mostrando allarmato i piccoli denti aguzzi. Mi divertii nel vederlo così timoroso degli estranei quando saltò via come un razzo balzando sul terrapieno a fianco del villino scomparendo fra il fogliame. «Molto grazioso,» disse Kinsella con una risata. «Non è domestico, è un visitatore abituale. Di solito è più amichevole.» Raggiungemmo la porta d'ingresso e io entrai direttamente mentre Kinsella indugiava sulla soglia per ammirare ancora il giardino. «Che colori fantastici,» esclamò. «Incredibile.» «Midge!» chiamai. «Abbiamo un ospite.» Lei uscì tutta sorridente dalla cucina asciugandosi le mani sul grembiule. Io le feci un cenno e lei guardò oltre la porta. «Hub, che bella sorpresa.»
«Oh, Midge, sono venuto a ringraziare questo eroe.» «Eroe. Ah, alludi alle sue prestazioni di questa mattina.» (Le avevo parlato dell'incidente, ma non le avevo detto nulla degli avvertimenti del reverendo Sixsmythe circa i sinergisti; volevo lasciare a lui questo compito per il mattino dopo, quando avrebbe potuto spiegarsi meglio.) «Certo hai salvato le nostre sorelle da guai seri. Sono tornate sconvolte, ma piene di ammirazione per Mike.» «Non restare lì,» dissi sentendomi avvampare. «Entra.» Lui accettò l'invito, ma mi parve ancora un po' esitante. Forse dovrei dire cauto perché entrò con movimenti lenti e studiati. Si stava avvicinando il crepuscolo, la cucina quasi immersa nel buio era in ombra, e lui sbattè gli occhi per abituarsi all'oscurità. «Abbiamo pensato di aprire una bottiglia subito,» dissi a Midge che accettò l'idea di buon grado. «Vado a prendere dei bicchieri,» disse lei avvicinandosi alla credenza. Prima aprì un cassetto e mi porse il cavatappi, poi aprì un'anta della credenza e prese due bicchieri. «Non bevi con noi, Midge?» chiese Kinsella strofinandosi le braccia nude come se avesse freddo. «Non bevo mai vino. Vi farò compagnia con una coca-cola.» Ci sedemmo tutti e tre attorno alla tavola della cucina, e io versai il vino per l'americano e per me, mentre Midge bevve direttamente dalla bottiglietta. «Ancora grazie, Mike,» disse Kinsella alzando il bicchiere. «Oh, conoscete quei tipi: tanto fumo e niente arrosto. Hanno visto due ragazze sole e hanno creduto di potersi divertire. Non avrebbero dato alcun disturbo se tu fossi stato con loro.» «Non lo so. Sembra che non siamo molto ben visti nella zona.» «Davvero?» chiesi come se lo sentissi per la prima volta. Lui confermò con un'espressione seria. «Sì tutti pensano che siamo una setta religiosa di ciarlatani o qualche cosa del genere. Voi sapete com'è in queste piccole comunità isolate: si sospetta di tutti i forestieri, specialmente se si occupano di qualche cosa che quelli del luogo non capiscono.» «Il Tempio Sinergista? Devo ammettere che non lo capisco nemmeno io. Che cosa è? Una nuova religione?» Lui sorrise e Midge inarcò le sopracciglia. «Sinergista?» chiese.
«Qualcuno in paese le ha già parlato di noi,» disse Kinsella. «Sì, il proprietario del negozio di ferramenta.» «Dunque sa che non siamo ben visti.» Mi sentii colto a mentire, ma Kinsella, mi sorrideva. «Sinergista?» ripetè Midge battendo la bottiglia di coca-cola sulla tavola per richiamare l'attenzione. Kinsella si voltò verso di lei. «E il nome del nostro ordine.» «Strano nome, mai sentito. Che cosa significa esattamente?» Kinsella si mise a sedere sulla punta della sedia. «Prima di tutto non siamo una setta di fanatici come ce ne sono in giro oggi. Non siamo un'istituzione di carità, né siamo una congrega religiosa nel vero senso della parola.» Continuava a sorridere, ma adesso ci guardava in modo rassicurante, faccia a faccia. «Lasciatemi dunque spiegare il Sinergismo. Fondamentalmente è la credenza che la volontà umana e lo Spirito Divino sono i due elementi che possono cooperare nella rigenerazione.» Né io né Midge capimmo subito cosa intendeva. Lo guardammo stupiti e il suo sorriso diventò quasi un sogghigno. Nonostante i suoi modi disinvolti, lessi nei suoi occhi una certa serietà. «Come varie sostanze chimiche agiscono l'una sull'altra,» continuò, «così crediamo che i processi del pensiero umano, che sono, come sapete, una serie complessa di reazioni chimiche possano combinarsi con lo Spirito Divino, o di tutti noi, se preferite, per dar origine a un unico potere.» Io colpii il piede di Midge sotto la tavola, ma lei non se ne accorse. «Di che tipo di potere stai parlando?» chiese a Kinsella. «Oh, e di vari generi. Il potere di curare, di influenzare, il potere di creare... può manifestarsi in tanti modi.» «Tu hai parlato di rigenerazione...» «Rigenerazione è una parola che usiamo per riferirci a tutti gli aspetti della nostra dottrina. Significa la rigenerazione dei nostri spiriti e quella di...» Si interruppe scusandosi con un sorriso. «Probabilmente penserete che tutto questo è pazzesco, no?» Era esattamente quello che pensavo; ma rimasi zitto. «Tutti i seguaci di una religione pregano la loro particolare divinità: cristiani, musulmani, ebrei... Per lo più pregano per un Intervento Divino, perché certe cose avvengano o non avvengano. Possono pregare per se stessi, per i loro cari o anche per il mondo in generale. Comunque cercano di dirigere il naturale corso degli eventi e il loro dio è l'intermediario, il ca-
talizzatore o addirittura il creatore di questi eventi. La nostra dottrina non è molto diversa dalla loro.» Si addossò alla sedia aspettando che assorbissimo la rivelazione. «Ma c'è una differenza,» osservai. «Solo in quanto noi, con l'aiuto del nostro fondatore e della nostra guida, impariamo a combinare e dirigere le nostre energie in un senso più fisico e, naturalmente, agendo in unione con lo Spirito Divino.» «Scusa,» insistetti, «Ma non sono ancora d'accordo con te. Questo, ehm, Spirito Divino, che cos'è?» «Tu, io, i nostri pensieri.» Fece un gesto comprensivo con le braccia. «L'aria intorno a noi. La terra stessa, il potere che questa genera.» La sua voce era divenuta soffocata e mi accorsi che anch'io trattenevo il respiro. Il suo entusiasmo aveva in qualche modo caricato l'atmosfera. Per un poco nessuno di noi parve voler rompere il silenzio e io notai che la cucina era ormai completamente buia. La sera si era anche rinfrescata. Midge prese la bottiglia della coca-cola senza distogliere lo sguardo da Kinsella. «E siete... siete in molti nella casa grigia?» chiese prima di portare la bottiglia alle labbra. «Quaranta o cinquanta, credo. Noi chiamiamo quel luogo il nostro santuario: è la nostra abitazione e insieme il nostro tempio. E diventiamo sempre più numerosi.» Mise i gomiti sulla tavola, allungando la testa verso di noi. «Dovreste venire tutti e due a trovarci, credo che sarebbe un'esperienza interessante per voi.» Risposi prima che Midge potesse aprir bocca. «Dobbiamo fare ancora parecchie cose qui nel villino...» Lui rise e si chinò in avanti per toccarmi il braccio. «Non essere nervoso, Mike, non vogliamo cercare di convertirti. No, non è nel nostro modo di fare.» Mi ricordai che Hoggs, avevano detto il contrario quel mattino. «Incontrereste alcune persone molto interessanti,» continuò Kinsella cordialmente, «e di varie parti del mondo. Potreste conoscere Mycroft.» Presi il mio bicchiere di vino con tanta foga che ne versai un po' sul tavolo. «Mycroft?» «Sì, Eldrich P. Mycroft, il nostro fondatore, un uomo davvero unico.» Kinsella che non aveva ancora toccato il vino, ne mandò giù un lungo sorso. «E buono, eh? Noi guadagnamo un po' di denaro vendendolo. Non chiediamo delle donazioni: noi vendiamo le cose che facciamo.» «E guadagnate abbastanza da mandare avanti l'organizzazione?» chiese
Midge. «Il Tempio, Midge, noi lo chiamiamo il Tempio. No, no certo. Ma abbiamo dei fondi privati. Fa un po' freddo adesso, no?» Si strofinò forte le braccia. Stranamente aveva la fronte sudata. «Sì, sì fa proprio freddo.» Bevve ancora del vino facendo vagare lo sguardo in giro per la stanza. «Forse dovrei chiudere la porta,» suggerì Midge accennando ad alzarsi. «No, va bene così,» si affrettò a rispondere guardando la porta aperta. «E un piacere sentire tutti questi meravigliosi profumi del giardino. Questi fiori favolosi, Midge. Sì, Mike, sei stato proprio di grande aiuto alle ragazze, oggi. Tutto bene nel villino? Nessun altro problema? A parte i pipistrelli. Sei sempre preoccupato per i pipistrelli? Mike?» Midge e io ci scambiammo un'occhiata. Quel tipo si stava ubriacando con un solo bicchiere di vino? «Non ci hanno ancora dato noia,» risposi. Assaggiai ancora il vino, che non mi parve molto forte. «Comunque potrete contare su di noi in caso di bisogno, lo sapete.» Strinse il bicchiere fra le mani. «Fa buio presto in quest'angolo della foresta,» e rise con un suono acuto nella pace della sera. «Sembra che si prepari un temporale,» notai. «Un temporale? Sì, è vero, si avvicina un temporale. » Kinsella aveva ancora sul volto quel sorriso vacuo, ma sembrava a disagio, quasi preso in trappola. Cominciava a innervosirmi. Credo che Midge tentasse di calmarlo quando chiese: «Tutti quelli del tempio hanno la tua età, Hub?» «Oh, no, ci sono gruppi di tutte le età. Un paio degli adottivi sono sulla sessantina. Chiamiamo così i discepoli semplici: adottivi.» Però, pensai. «E tu sei un adottivo?» «No, Mike, io sono primo ufficiale.» «Sembra una carica importante.» «Be', nel Tempio è piuttosto importante e comporta un mucchio di responsabilità. Spero che non stia per scoppiare un grosso temporale. Sentite i tuoni?» Eccome se li sentivo. Avevo la sensazione che se avessi fatto schiocchiare le dita avrebbero sprizzato scintille. Kinsella mandò giù l'ultimo sorso di vino e io gli porsi la bottiglia, ma lui la respinse con un gesto. «Devo andare: si sta facendo tardi.» «Un altro bicchierino prima del viaggio?» dissi. «Grazie, ma devo andare prima che scoppi il temporale.»
Si alzò, facendo stridere la sedia sulle mattonelle. Midge e io ci alzammo con lui, ma lui era già alla porta prima ancora che noi fossimo in piedi. «Ricordatevi quello che vi ho detto.» Il suo sorriso, sul lato sinistro, si contrasse ancora di più. «Venite in qualsiasi momento, sarete sempre i benvenuti.» Uscì mentre noi ci avvicinavamo. «Restate lì,» disse in fretta. «Non uscite, potreste prendere la pioggia.» Sebbene fosse buio, potei vedere che la sua pelle era tutta sudata; e tuttavia rabbrividì come se gli fosse passata una ventata gelida sulla schiena. Poi si allontanò affrettandosi per il sentiero quasi avesse un appuntamento urgente. Midge e io ci guardammo stupiti. «Credi che si senta bene?» chiese Midge sinceramente preoccupata. «Me lo domando anch'io. Forse è stato qualche cosa che abbiamo detto.» Rabbrividì anche lei. «Era strano, Mike. Molto strano. Avremmo fatto meglio ad accompagnarlo per assicurarci che fosse in condizioni di guidare.» Mi feci avanti e uscii appena in tempo per vedere il nostro frettoloso ospite salire a bordo della Escort lasciando aperto il cancello del giardino. «Ehi, Hub!» gridai, ma lui non poté sentirmi. L'auto lasciò due profondi solchi nell'erba tanto si avviò velocemente. Io percorsi il sentiero, ma prima che fossi giunto al cancello la Escort era scomparsa. «Buona sera,» dissi alla strada vuota. Chiuso il cancello, tornai verso Gramarye e mi accorsi che le nubi nere erano sparite. Allora mi fermai. C'erano nubi cupe all'orizzonte che coprivano gli ultimi raggi del sole al tramonto, ma sopra di esse il cielo era relativamente libero da ogni nube. Una leggera brezza increspò l'erbetta delle aiuole e i colori smorzati dal crepuscolo ondeggiarono lievemente. Una piccola ombra nera fuggì dal tetto del villino: un pipistrello in cerca di cibo serale, e io rimasi in giardino a riflettere sul perché mai tutti e tre avessimo pensato che stava per scoppiare un temporale. E allora quella corrente fredda colse anche me. Rabbrividii curvando le spalle. Qualche cosa oltre il giardino richiamò la mia attenzione. Silenzio. Ma ecco di nuovo quella sagoma, che adesso era lì al limitare della foresta: il volto era solo una macchia scura. Ma sapevo che mi guardava e sapevo che mi aspettava. La sagoma si mosse: un solo passo avanti. E io fuggii nel villino. 18.
SlXSMYTHE A questo punto avrete capito che non sono un eroe. A volte mi capita di essere particolarmente coraggioso. Solo che la sera della visita di Kinsella non era una di quelle volte. Non parlai a Midge di quello che avevo visto non volendo allarmarla, e provando una certa vergogna per non essere andato a investigare. Appena entrato nel villino corsi su per le scale e guardai da una finestra della stanza rotonda. Anche con la poca luce, riuscii a vedere che la sagoma non c'era più. Certo non aveva avuto il tempo di attraversare la radura verso il villino, così poteva solo essere tornata nel folto degli alberi. Quando Midge mi chiese che cosa ero andato a vedere, risposi che credevo di aver visto uno dei famosi daini della Nuova Foresta, e fu un errore perché lei si esaltò e io dovetti dissuaderla dall'uscire per cercarlo. E troppo scuro, le dissi, e ormai si sarà addentrato nella foresta. Lei si lasciò convincere con riluttanza, ma continuò a osservare attentamente la radura finché non fu notte completa (io la osservavo pieno di apprensione). Quando ci ritirammo, più tardi, io ero molto teso, anche se avevo fatto del mio meglio per razionalizzare per tutta la serata. La lite durante il giorno, il cambiamento di Kinsella mentre bevevamo il vino, l'atteso temporale che si era allontanato: tutte queste cose mi avevano messo fuori sesto rendendomi un po' euforico. Non dubitavo di aver visto qualcuno che mi osservava dal bosco, ma i fatti precedenti mi avevano innervosito e questo nervosismo era aumentato nel vedere ancora una volta il misterioso osservatore. Chiunque, nelle stesse circostanze, avrebbe avuto queste sensazioni. Dormii male, mi svegliai più volte per ascoltare i rumori notturni, immaginando scassinatori che cercavano di forzare le finestre al piano terra e andando a controllare le porte. Ogni scricchiolio era un rumore di passi e ogni leggero colpetto lo scambiavo per qualcuno che bussava ai vetri delle finestre. Fu un sollievo quando venne mattino. Avevo appena finito di tagliare l'erba dietro casa e stavo ripulendo le lame della falciatrice quando arrivò il reverendo Sixsmythe. Midge, in calzoncini e maglietta a maniche corte, stava lavorando in giardino quando il vicario la salutò. Sebbene colta alla sprovvista (io mi ero dimenticato di informarla della sua visita) lei rispose gentilmente al saluto. Lo condusse
dalla parte del giardino dove io lavoravo e mi fece un cenno mentre lui non guardava. «Buon giorno, signor Stringer,» disse giovialmente avvicinandosi con la mano tesa. Oggi portava un cappello floscio di feltro che lo faceva sembrare un ragazzino vestito con gli abiti del padre perché era troppo grande per lui. «Felice di vederla al lavoro. Spero che lo farà solo un paio di volte la settimana.» «Tre volte. L'erba qui cresce presto.» Si guardò attorno. «Ah, sì, le piante e gli animali non mancano in questa zona. Credo che Flora Chaldean avesse il suo da fare per tenere tutto in ordine. Sono capitato in un momento poco opportuno? Ieri ci eravamo messi d'accordo.» «Tutt'altro. Stavo facendo una pausa,» risposi. «Anch'io,» disse Midge. «Gradirebbe un tè, un caffè, una limonata?» «Una limonata andrebbe benissimo, signora... signorina...» «Gudgeon.» «Gudgeon,» ripetè lui. «Questo nome mi ricorda...» «Margaret Gudgeon,» dissi io. «Libri per bambini?» «Sicuro, proprio così!» Era fuori di sé per la sorpresa. «Benvenuta nella nostra parrocchia, signorina Gudgeon. Bontà divina ! Conosco benissimo le sue opere perché ho tre figli giovani. La più grande comincia a occuparsi di altre cose, ma ha ancora una collezione dei suoi libri. E straordinario che sia venuta a stabilirsi qui. E proprio in questo villino! Lo sa, vero, cosa significa Gramarye?» «Sì», rispose lei. «Significa Magia.» La guardai stupito. Non me lo aveva mai detto. «E com'è appropriato,» proseguì Sixsmythe. «Veramente appropriato. Le sue storie non parlano forse di magia?» «Io illustro solo i libri.» «Sì, ma i disegni fanno la storia, no? Le parole sono solo al servizio, delle illustrazioni vero signorina Gudgeon? Posso chiamarla Margaret? E questo è Mike, no? I cognomi sono così formali e qui siamo tutti amici.» Mi domandai se potevo chiamarlo Pete. «Limonata anche per te, Mike?» Midge mi sorrise lanciandomi uno sguardo che voleva dire chi è questo tipo? «Magnifico,» risposi contraccambiando il sorriso. Avevamo comprato in paese un tavolino da giardino e due sedie di legno e li avevamo sistemati vicino alla vecchia panca. Feci cenno al curato di
accomodarsi e lui si sedette su una sedia togliendosi il cappello e posandolo sul tavolino. Io presi posto di fronte a lui sulla panca. Di lì potevo vedere la foresta alle sue spalle e, per la seconda volta quel mattino, la scrutai attentamente cercando chi sapete voi. «Devo scusarmi per quello che è avvenuto ieri in paese», disse Sixsmythe asciugandosi la fronte con un fazzoletto rosso. «In ogni comunità c'è sempre qualche elemento indisciplinato, e lei si è imbattuto proprio nel peggiore. In realtà non sono ragazzi malvagi, ma sono sempre in lotta con il mondo intero.» «Non si preoccupi; mi ero quasi già dimenticato dell'incidente» mentii. È strano come si tenda a mentire soprattutto con la gente di chiesa assumendo un tono di falsa benevolenza. «Comunque non hanno fatto nulla di grave.» «Sono contento che la prenda così. La nostra è una comunità pacifica, Mike, e forse conduciamo uno stile di vita fin troppo tranquillo per i tempi che corrono. Comunque vanno bene per la gente di qui e non credo che avverranno cambiamenti drastici ancora per una decina d'anni. A meno che non decidano di costruire un'autostrada che passa attraverso la foresta, ma non credo accadrà.» Ridacchiò, ma io avevo la sgradevole sensazione che mi stesse valutando attentamente. Speravo proprio che non avesse un piccolo attacco isterico come il nostro amico Kinsella il giorno prima. Parlammo del tempo, della campagna, accennammo alla situazione del nostro paese, e io avevo l'impressione che aspettasse il ritorno di Midge per affrontare argomenti più personali. Lei tornò dopo un periodo che mi parve lungo un'infinità, portando un vassoio di bicchieri e una caraffa di limonata ghiacciata. Io considerai con piacere le sue gambe sottili abbronzate e vellutate. Mi accorsi che Sixsmythe le lanciava sguardi furtivi, era un uomo anche lui nonostante la tonaca nera e il colletto bianco. Midge si sedette accanto a me sulla panca e versò la limonata dalla caraffa. Era un'altra magnifica giornata, quell'estate sarebbe passata alla storia per il bel tempo, e la bellezza dell'ambiente calmava il mio nervosismo per la notte insonne. Sentivo sempre quel senso di disagio dentro me, un'inquietudine che non riuscivo a spiegarmi. Sorseggiai la limonata e tentai di fissare lo sguardo sul prete e non sul bosco dietro di lui. «Allora, Margaret,» disse Sixsmythe dopo avere inghiottito metà della sua limonata in un solo sorso, «sta lavorando a qualche nuovo libro in que-
sto momento?» «Oh, no. Mike e io abbiamo deciso di non accettare nessun lavoro per almeno un mese, finché non ci saremo messi a posto a Gramarye. E un periodo di assestamento.» «Molto saggio. E lei di che cosa si occupa, Mike? È anche lei un artista?» Era sinceramente interessato, con i suoi occhi chiari da ragazzino attenti e brillanti. «Io suono la chitarra e scrivo canzoni quando posso.» Parve deluso. «Capisco, quindi lei non lavora regolarmente.» Midge e io ridemmo. «Come no!» rispose Midge, divertita ma anche sdegnata. «Mike suona soprattutto in sala di registrazione, e ogni tanto all'estero.» «All'estero?» «Suono in un complesso e di tanto in tanto facciamo qualche tournée,» spiegai. «Ah.» «E quando non è in tournée, lavora sodo; scrive canzoni. Adesso sta scrivendo delle canzoni per un musical. «Midge...» l'avvertii bonariamente. «Scusa.» Mi premette la gamba, poi, rivolgendosi a Sixsmythe spiegò: «Preferiamo non parlare mai dei nostri progetti futuri. Mike e io pensiamo che non porti fortuna.» «Sì, vi capisco. Forse il parlarne può bloccare la creatività». «Proprio così, » dissi. «A volte hai una buona idea, ne parli con qualcuno, e subito dopo l'idea è morta prima ancora di vedere la luce.» «Perbacco, che vita intensa dovete avere.» Sorridemmo. «Quando viene pubblicato un nuovo libro, o il lavoro va bene, tutto è molto entusiasmante,» disse Midge. «Per il resto bisogna imporsi una ferrea autodisciplina...» «Comunque immagino che conoscerete persone molto interessanti,» insistè lui. «Spero che non vi annoierete troppo con gente semplice come noi.» «Mi creda, una delle ragioni che ci hanno indotto a venire qui è stata quella di allontanarci da certe persone cosiddette "interessanti". Troviamo la vita di campagna rigenerante.» «Sì, forse sono stato un po' duro con me stesso e nei confronti dei miei parrocchiani. Vi accorgerete che molti di noi non sono così sciocchi come
possono sembrare a prima vista». Annuì come per confermare ciò che aveva appena detto. Poi guardò pensoso le mura del villino. «In realtà vi sono alcuni personaggi interessanti, da queste parti. Per esempio credo che avreste trovato affascinante Flora Chaldean. Una donna davvero straordinaria.» Midge appoggiò i gomiti sul tavolino e intrecciò le mani davanti a sé. «La conosceva bene?» chiese. «Flora? No, credo che nessuno l'abbia conosciuta bene. Era troppo introversa. Ma la gente del luogo si rivolgeva a lei quando si trovava in difficoltà. » Sorrise con aria pensosa. «Molti di coloro che io non riuscivo ad aiutare andavano da lei. Flora era per loro di grande conforto, molto più di quanto lo fossi io. Loro non mi parlavano mai di queste visite le tenevano segrete. Ma io lo sapevo. Conoscevo le loro abitudini.» Mi sistemai meglio sulla panca e vidi che Midge era incuriosita. «Che genere di aiuto dava la signora Chaldean?» chiesi. «Era una di quelle persone a cui la gente ama confidare i suoi guai?» «Era molto più di questo» aggrottò le sopracciglia. «Era una grande guaritrice: una guaritrice dello spirito e della carne. Purtroppo io non posso guarire i malati e solo raramente riesco a guarire lo spirito. Sembra che Flora avesse un dono antico.» Gli uccelli ci volavano attorno e ogni tanto qualcuno atterrava ai nostri piedi. Se Sixsmythe non fosse stato lì, sarebbero volati addirittura sul tavolino a chiedere cibo. «L'avvocato di Flora ci aveva accennato al fatto che era una guaritrice,» disse Midge. «Adesso lei ci sta dicendo che era una guaritrice dell'anima?» «Non esattamente. Oh, sono sicuro che molti dei suoi successi erano dovuti alla fiducia che tutti avevano nei suoi poteri. Ma questo non spiega tutto. Preparava pozioni di quelle che si trovano nei libri di antichi rimedi, passate di generazione in generazione, ma aveva anche la capacità di curare senza questi farmaci, solo parlando o usando le mani. Non che accogliesse tutti ! Bontà divina, no! V'erano alcuni a cui non avrebbe permesso di metter piede nel suo giardino!» Scosse la testa e sorrise come il fantoccio di un ventriloquo. «E poi aveva uno straordinario modo di trattare gli animali. Li poteva guarire quasi dalla sera al mattino, a quanto mi hanno detto.» Midge mi lanciò un rapido sguardo. «Spesso qui si vedevano vacche o cavallini malati, impastoiati, per un giorno o due, poi quando il padrone veniva a riprenderli erano guariti. Cani, gatti, a volte veri serragli. Ora, non si può dire che anche gli animali
avevano fede nei suoi poteri, quindi è difficile capire in che modo guarissero. Sì, sì, Flora aveva un meraviglioso dono. Peccato che io l'abbia conosciuta solo poco prima che se ne andasse. Potrei avere un altro bicchiere di limonata, Margaret? È molto rinfrescante in giornate come questa.» Lei gliela versò, tutta assorta nella storia dell'ex-proprietaria di Gramarye. «È strano che la sua fama, non fosse più diffusa.» «Cielo, no! Sono tutti molto chiusi, da queste parti. Sì, svolgeva tutto in gran segreto. Flora faceva promettere il massimo riserbo a coloro che andavano da lei. Tuttavia, come sempre, correvano delle voci, una confidenza qui, un accenno là. Credo che la gente pensasse che ammettere apertamente queste cose avrebbe infranto in qualche modo i poteri magici della vecchia signora.» «Una strana parola per un curato,» osservai. Mi guardò vergognandosi un po'. «Sì, lo ammetto, la parola «poteri magici» ha un sapore di idolatria; ma riferisco solo quello che passava per la mente della gente. Credo che sia molto affascinante, no?» «Be',... sì, suppongo di sì. Sono solo sorpreso di sentire un curato parlare così.» Rise. «E vero! Posso capire la sua sorpresa. Ma in un certo senso la magia ha molto a che fare con il mio lavoro, non le pare? Quando noi preti preghiamo l'onnipotenza e la divina bontà del Signore, dopo tutto chiediamo che si avveri una magia.» «Io... non consideravo la cosa in questi termini,» ammisi. «Naturalmente no. E io devo rimproverarla. Per quanto Flora Chaldean avesse poteri notevoli, temo che questa magia sia passata di moda da qualche secolo. Lo studio dei microchip è la nuova magia, non le sembra?» mandò giù un sorso di limonata, doveva essere assetato. (Seppi poi da Midge che Sixsmythe era venuto dal villaggio in bicicletta pensando che un po' di moto, in una giornata così bella, gli avrebbe fatto bene. Il suo cappello floscio troppo largo aveva mantenuto in ordine i suoi capelli, ma non aveva fatto molto per mantenere giovane il suo corpo). «Mike,» disse ponendo il bicchiere sul tavolino e dandomi un'occhiata da levriero. «Questi sinergisti... ieri mi ha detto che sono venuti a trovarvi varie volte.» Assentii domandandomi che cosa stesse per dirmi. «Erano soliti anche far visita a Flora Chaldean.» Non avevo particolari commenti da fare: mi sembrava una cosa molto naturale. «Il fatto è che non erano affatto benvenuti. Flora detestava cordialmente
questo gruppo pseudoreligioso. Tanto che se ne lamentò con il capo della polizia del villaggio. Ma lui poteva fare ben poco per impedire loro di venire qui.» Accennò al paesaggio dietro di sé. «Questi boschi sono di tutti e così pure i sentieri attorno al villino; loro avevano il diritto di passare o soffermarsi quando volevano.» «Un momento. Vuol dire che molestavano la vecchia signora?» «Da quanto sono stato indotto a credere, sì, decisamente.» «Ma perché avrebbero dovuto farlo?» intervenne Midge. «I tre che abbiamo incontrato non potevano essere più amichevoli né più innocui. Perché avrebbero dovuto disturbare Flora?» Alzò lentamente le mani lasciandole cadere sul tavolino. «Chi può dirlo? Flora era una persona molto riservata, nonostante, o, per meglio dire, proprio a causa dei discreti servigi che offriva a coloro che ne avevano bisogno. Era un'eccentrica, per non dire un tantino bisbetica in certe occasioni, così che può averli presi in antipatia per diverse ragioni personali.» «Ieri ho avuto l'impressione che ben pochi, qui, li abbiano in simpatia, così che, da questo punto di vista, non era la sola,» dissi. «Tuttavia non riesco a capire perché siano così impopolari. Che cosa hanno fatto per provocare un tale risentimento» «È gente strana e vive in uno strano modo.» Sospirai. «Questa non è una ragione...» «E un'organizzazione sospetta, Mike, non diversa da tante altre molto diffuse al giorno d'oggi. Sono arrivati qui cinque anni fa, con un certo Mycroft. Dapprima erano pochi e si stabilirono a Croughton Hall vivendo per conto loro. Poi però se ne sono aggregati altri da varie parti del mondo, riunendosi nella tenuta di Croughton come se fosse il punto focale della loro religione. E non molto tempo dopo cominciarono a reclutare altri seguaci, molti da questa regione, soprattutto giovani, allontanandoli dalle loro famiglie, facendo loro un vero e proprio lavaggio del cervello perché accettassero i loro sistemi di vita, gli insegnamenti di Mycroft, così che essi non hanno più voluto lasciarli per quanto le loro famiglie o i loro cari cercassero di persuaderli a tornare nel mondo reale.» «Certo le autorità sarebbero intervenute se la situazione fosse così preoccupante come lei dice.» Lo sguardo di Midge si era fatto acuto per l'interesse. «Poiché non erano coinvolti dei minorenni e nessuna legge veniva offesa, le autorità giudicarono di non avere ragioni per fare delle indagini. Culti e religioni antichi non sono rari, in questi giorni, dopotutto. I sinergisti
non sono registrati come associazione di carità, così che nemmeno la loro posizione finanziaria può essere messa in questione finché mantengono in ordine i loro registri.» «Non vi sono leggi contro le sette segrete?» chiesi. «Il Tempio Sinergista non si può considerare una setta segreta. Vivono molto appartati, ma non si possono considerare una setta segreta.» «Non ha mai conosciuto questo Mycroft?» Midge guardò il vicario sopra l'orlo del suo bicchiere mentre beveva. «No, mai. Ma sono andato alla loro sede più di una volta. Dovrei chiamare quel luogo il tempio, ma è molto difficile per me considerarlo tale. No, ogni volta che vi sono andato questo Mycroft era indisposto o in viaggio per affari. Credo che nessuno l'abbia mai visto.» «Non ci ha spiegato perché si interessassero a Flora Chaldean,» dissi. «Era piuttosto anziana per diventare un'adottiva, non le sembra?» Sixsmythe inarcò le sopracciglia. «Lei sa come chiamano i loro seguaci?» «Uno dei ragazzi della congrega è passato di qui ieri sera per ringraziarmi dell'aiuto che ho dato alle ragazze in paese. E ci ha parlato un po' dei sinergisti.» «Capisco.» Sorrisi. «Non si preoccupi, non cercava di convertirci. Eravamo interessati e abbiamo fatto alcune domande, tutto qui.» Sixsmythe rimase in silenzio per un momento. Poi disse: «Credo che voi due dovreste essere molto cauti con questa gente. Sì, mi rendo perfettamente conto che sembrano molto affabili e innocui, e tuttavia non posso fare a meno di pensare che nascondano qualcosa. «Tutto questo è molto misterioso.» «Già.» «Oh, andiamo, lei avrà certo da dirci qualche cosa di più,» esclamò Midge in leggero tono canzonatorio. «No, purtroppo. Lo chiami pure presentimento il mio, condiviso, del resto, da molti miei parrocchiani. Se ne sapessimo qualche cosa di più se riuscissimo a scoprire qualche loro brutta azione il nostro consiglio locale potrebbe esercitare la sua autorità e opporsi in qualche modo alla loro presenza in questa zona. Ma per il momento vivono per conto loro e non hanno commesso nulla di male almeno pubblicamente.» «E allora perché tutto questo chiasso?» Adesso Midge era realmente irritata. «Il solo fatto che non si conformino al modello di vita locale non è
una ragione per metterli al bando.» «Figlia mia, se fosse così semplice. Come ho detto, lo chiami pure presentimento, come vuole, ma la gente del luogo è molto sospettosa, e, come uomo di Dio, lo sono anch'io. Vi è intorno a loro un'atmosfera di segretezza che troviamo molto sconcertante» Midge soffocò una risatina e Sixsmythe si accigliò. «Non intendevo divertirla,» disse con una certa irritazione. «Forse viviamo un po' tagliati fuori dal mondo in questa zona, ma le assicuro che non siamo degli zotici campagnoli superstiziosi. Io vi ho dato il mio parere, e non posso fare molto di più.» Prese il suo cappello e si preparò a prender congedo. «Secondo la mia opinione, questa setta sinergista non è meritevole di fiducia; comunque lascio a voi il giudizio.» Io fui preso alla sprovvista dalla sua irritazione. «No, badi, non stiamo canzonandola e apprezziamo che sia venuto per parlarci di loro. Li conosciamo appena, ma sembrano buoni vicini, così che è difficile per noi accettare ciecamente quello che ci ha riferito. Lei ci ha detto il suo parere, ma non ci ha dato alcuna prova.» Mitigò la sua espressione imbronciata, ma comunque si alzò. «Sì, capisco come deve apparirle la situazione,» disse. «Immagino che le sembrerò molto strano, ma le chiedo solo di tenere conto delle mie parole. E se doveste avere qualche preoccupazione di qualsiasi genere, mi prometta di telefonarmi, mi dia retta almeno in questo.» «Senz'altro,» risposi alzandomi assieme a lui. Midge fu meno cortese e sapevo il perché: il curato aveva scoccato una prima freccia contro la sua montagna incantata. Midge non voleva sentir parlare male di persone che le erano simpatiche. Tuttavia si alzò anche lei educatamente e insieme accompagnammo il curato alla bicicletta. Sixsmythe si rese conto del cattivo umore di Midge e probabilmente si sentì un po' mortificato perché fece del suo meglio per portare la conversazione su argomenti più piacevoli: la bella posizione di Gramarye, il magnifico giardino, la piacevolezza della foresta (ancora più bella secondo lui nei mesi d'autunno quando le chiome degli alberi assumono colori oro rossiccio). Poi ci chiese se ci avrebbe visto in chiesa alla funzione della domenica (sapevo che sarebbe arrivato a questo). Dei sinergisti non fece più parola. Aprii il cancello e lui passò, si rimboccò i calzoni alle caviglie e poi tirò su la bicicletta dal recinto dove l'aveva appoggiata. «Signor Sixsmythe...» disse Midge mentre lui stava per montare in sella.
Lui si voltò guardandola con aria interrogativa. «Può dirmi una cosa?» «Naturalmente.» «Ebbene, noi... io... io vorrei sapere come è morta Flora Chaldean.» Rimase per un momento interdetto. «Oh, figlia mia, spero di non averla turbata con i miei racconti. Mi perdoni se è così.» «No, sinceramente non mi ha turbata. Era da un po' che volevo saperlo.» «Flora era molto vecchia, cara Margaret. Nessuno sapeva con esattezza quanti anni avesse, ma suppongo che avesse raggiunto l'ottantina e forse fosse vicina ai novanta.» Le sorrise cordialmente. «Credo si possa dire che Flora sia morta di vecchiaia. Il suo cuore era stanco e lei è passata a miglior vita nella sua amata Gramarye. Purtroppo, vivendo sola, nessuno se n'è accorto prima che fossero passate alcune settimane, sebbene alcuni assicurino di essere passati dal villino e di averla vista in giardino solo pochi giorni prima che il suo corpo fosse rinvenuto. Ma la gente fa spesso confusione sulle date; è difficile essere assolutamente sicuri su certe cose.» «Perché avrebbe dovuto esserci confusione?» chiese Midge. «Ah,» rispose il curato come se la domanda di Midge fosse pertinente. «Si da il caso che io sia proprio quello che scoprì il suo corpo. Andavo ogni tanto a vedere come stava, come parte di quelli che considero i miei doveri, sebbene non ricordi di avere mai visto Flora nella mia chiesa. Mi faccio un dovere di visitare gli anziani della parrocchia non appena ho tempo, specialmente durante i mesi invernali.» Si aggiustò il cappello calandoselo bene in testa così che il vento non glielo portasse via. «La vidi attraverso la finestra della cucina, seduta a tavola, con la tazza e la teiera davanti a sé come se stesse prendendo un buon tè caldo. Era una giornata nuvolosa e la cucina era in ombra, così che non potevo vedere chiaramente. Ricordo di aver notato quanto fossero sudici i vetri, perché mi impedivano di vedere bene. Ma quando battei sul vetro senza avere risposta, cominciai a insospettirmi. Avevo già cercato di aprire la porta e l'avevo trovata chiusa a chiave, cosa strana perché Flora non chiudeva mai né le porte né le finestre. Impensierito corsi a chiamare Mr. Farnes il capo della polizia.» Scosse tristemente la testa, come se il ricordo fosse ancora chiarissimo nella sua mente. «Lo aspettai al villino, scoprendo nel frattempo che anche la porta del retro era chiusa a chiave. Quando Farnes arrivò, ruppe un vetro della finesta della cucina. Sollevò il saliscendi ed entrò in casa. Midge mi si avvicinò. Passò un'automobile e un cagnolino di peluche,
appeso al finestrino posteriore, fece sì con la testa come se conoscesse già il resto della storia. «Era molto pallido quando aprì la porta e mi invitò a entrare. Considerando l'espressione sul suo volto e il fetore che proveniva dalla cucina, entrai trepidante.» Sixsmythe stava guardando il villino, non noi. «Come vi ho detto, Flora Chaldean era al tavolo, come se si fosse appena seduta a prendere il tè. Ma la tazza era piena di una liquida muffa verde. E il corpo di Flora era ormai putrefatto e brulicante di larve. Era morta da parecchie settimane.» Il mio stomaco fece una capriola e il volto abbronzato di Midge perse il suo colore. Mi si avvicinò e io la sostenni. Sixsmythe era assorto: tutta la sua attenzione era concentrata sull'enigma che lui stesso aveva posto. «1 passanti non avevano dunque potuto vederla in giardino solo qualche giorno prima. Il coroner confermò poi quello che io già sapevo: le condizioni del corpo di Flora indicavano che era morta da almeno due o tre settimane, e nessuno se n'era accorto fino al momento del mio arrivo. Piuttosto triste, non è vero? Sì, piuttosto triste.» Così dicendo spinse la bicicletta sulla strada erbosa e si avviò pedalando lungo la strada salutandoci con la mano senza voltarsi indietro. E fu un bene perché 1'espressione del mio volto avrebbe potuto turbarlo causando un incidente. Come potete immaginare, tutto il resto della giornata fu rovinato. La cucina di Gramarye perdette buona parte del suo rustico fascino all'idea del corpo putrefatto della povera vecchia Flora seduto lì al tavolo davanti a una tazza di tè ammuffito, e Midge cadde in un silenzio desolato fino a sera. Rimase per lungo tempo da sola nella stanza rotonda e io non la disturbai. Mi sentivo a disagio, per non dire nauseato, e avrei volentieri strangolato il curato per la sua insensibilità. Più di una volta mi domandai se la sua minuziosa descrizione non fosse stata intenzionale, forse come piccola vendetta alla nostra bonaria derisione dei suoi consigli... ma gli uomini di chiesa non sono vendicativi, no? O forse sbaglio? Tuttavia la giornata non fu tutta cattiva. Nel tardo pomeriggio telefonò Bob con notizie straordinarie. Phil Collins apprezzava molto una delle canzoni che avevo scritto con Bob, e voleva registrarla per un album la settimana successiva: sarei andato alla registrazione? Bob prese il mio sconnesso balbettìo per un «sì».
Midge, naturalmente, fu contenta per me quando glielo dissi: il periodo di ozio professionale che ci eravamo imposti sarebbe finito la settimana prossima, e una registrazione con una celebrità non era un cattivo modo per ricominciare. Fece del suo meglio per superare il suo stato di depressione, sebbene fosse ancora un po' abbattuta, e passò il resto del pomeriggio e della sera entusiasmandosi con me. Quella sera andammo a letto presto e concludemmo la giornata in bellezza. Ma poi quando mi addormentai ebbi un incubo: ero in cucina e prendevo il tè con Flora Chaldean mentre larve bianche che si contorcevano cadevano nel tè dalla mano che mi porgeva la tazza. Grazie a Dio mi svegliai prima di bere, perché l'ultima immagine fu quella di un dito putrefatto, quasi senza carne, immerso nella verde muffa del tè. 19. MYCROFT La domenica seguente andammo in macchina all'Osteria della Foresta per uno spuntino e una meritata bevuta. Con l'avvicinarsi della registrazione, stabilita per il mercoledì seguente, e la maggior parte dei lavori nel villino ormai fatti, eravamo dell'umore adatto per dei festeggiamenti. Bevvi due bitter prima di pranzare mentre Midge ordinò il solito succo d'arancia; forse per la mancanza d'abitudine, mi sentii la testa un po' leggera dopo il secondo bitter e pronto per un terzo. Midge, però, ne aveva abbastanza di quell'osteria, e non potevo biasimarla: dopo la tranquillità di Gramarye, la folla e il rumore - il luogo era un noto ritrovo domenicale per i turisti e la gente del posto - erano un po' difficili da sopportare. Il trambusto e l'aria piena di fumo erano in deciso contrasto con la pacifica esistenza a cui ci eravamo abituati. Ce ne andammo senza troppe proteste da parte mia e ci avviammo a braccetto verso la macchina. Su proposta di Midge decidemmo di fare un giro per esplorare la zona. In precedenza non avevamo avuto molte occasioni, eccettuata qualche passeggiata nella foresta attorno a Gramarye e alcune gite per acquisti a Cantrip e a Bunbury; così non era stata una cattiva idea purché ci tenessimo lontani dalla strada principale affollata di turisti. Uscii con la macchina dal parcheggio e mi allontanai dall'osteria mettendomi a cantare forte appena imboccata la strada. Presto voltammo in un sentiero tranquillo dentro la densa foresta, tra
svolte brusche che richiedevano tutta la mia concentrazione. Gli alberi formavano una galleria di fogliame che ci riparava piacevolmente dal calore del sole. A dire il vero, credo che tutti e due avessimo un'idea di dove potesse condurci quella strada ma nessuno di noi aprì bocca: eravamo curiosi sui sinergisti; il nostro interesse era stato alimentato piuttosto che placato dagli avvertimenti di Sixsmythe. Non che volessimo avere a che fare con loro - in realtà ero stato contento che né Kinsella né gli altri ci avessero fatto visita dopo la partenza del visitatore biondo la settimana prima. Volevamo solo vedere più da vicino la casa grigia: il Tempio. Nessun fervore, nessuna motivazione profonda - solo una meta per una gita pomeridiana. Certo avevamo parlato dei sinergisti ed eravamo giunti alla conclusione che non costituivano alcun pericolo per persone mature e sensate come noi. Sixsmythe non si era certo attirato la nostra simpatia con l'assurda descrizione della macabra scena del ritrovamento del cadavere di Flora Chaldean, e così noi non eravamo disposti a prendere molto sul serio le sue opinioni. Midge si era lasciata impressionare da Sixsmythe ma infine aveva accantonato i brutti pensieri rilassandosi ancora nel caldo ambiente di Gramarye. Sono sicuro che la continua presenza degli uccelli e di vari animali attorno a quel luogo ci era stata d'aiuto sotto questo aspetto; ci aveva rinvigorito e aveva bandito le ombre spettrali. Il villino non sarebbe stato più lo stesso, ma la nostra pace mentale era stata solo leggermente scalfita e non danneggiata per sempre. Come avrete già capito, avevamo avuto un'estate eccezionalmente bella ed era giusto che pagassimo un piccolo scotto. E 1'«esattore» stava per abbattersi sul parabrezza mentre percorrevamo quel sentiero solitario. La Volkswagen era rimasta per settimane sotto il sole cocente, regolarmente usata e, per mia colpa, raramente controllata. Quando vidi il fumo alzarsi dal cofano, cercai di ricordare quando avevo controllato il radiatore per l'ultima volta. L'indicatore della temperatura era salito pericolosamente e una lucetta rossa lampeggiava in modo minaccioso. «Accidenti,» brontolai rannuvolandomi. Midge che non se ne intendeva di macchine chiese: «Che cosa c'è che non va, Mike?» Io devo averle lanciato un'occhiata minacciosa quanto quella maledetta luce rossa, e Midge tornò a guardare davanti a sé. «Scusami,» disse. Fermai la macchina e rimasi lì, fumando non meno del motore. «Puoi aggiustarlo?» si arrischiò a chiedermi Midge dopo un poco, guar-
dando a bocca aperta il fumo che saliva dal cofano. Sforzandomi di restare calmo, risposi: «Sì, sputando nel radiatore.» Guardai il fumo con sguardo torvo. «Non credi che dovresti tentare di fare qualche cosa?» Sospirai. «Sì, hai ragione. Forse si è rotta solo la cinghia del ventilatore. Hai i collant indosso?» Mi diede un'occhiata che fece svanire le mie speranze. Mugolando aprii lo sportello. «Tira su quell'affare, Midge,» e indicai una leva dalla parte del passeggero. Lei obbedì e il cofano si aprì di qualche centimetro. Uscii dalla macchina e passai sul davanti brontolando fra me mentre infilavo le dita nell'apertura e liberavo il fermo del cofano. Alzai il cofano completamente, voltai la faccia per evitare il fumo, e lo fissai con la sbarra d'arresto; poi guardai nella bocca del drago. La cinghia del ventilatore era in buono stato. Forse il demone dell'alcool aveva intorpidito i miei sensi o ho avuto un momento di cedimento mentale, perché allora feci qualcosa di veramente stupido, qualcosa che gli istruttori dicono di non fare ai guidatori novelli: presi il fazzoletto, lo avvolsi attorno al tappo del radiatore e girai. La mia idea era di lasciar libero sfogo alla pressione, ma naturalmente, appena svitato il tappo, l'acqua bollente esplose come un geyser. La mia mano sinistra scattò istintivamente a proteggermi gli occhi mentre io indietreggiavo urlando anzi sbraitando nel sentirmi bruciare la pelle dal getto infuocato. Caddi tenendomi il braccio e contorcendomi di dolore sulla strada. Vidi Midge inginocchiata accanto a me che cercava di tenermi fermo per stabilire la gravita delle bruciature. Parte della faccia e del collo era rimasta scottata, ma provavo un dolore lancinante sulla mano e sull'avambraccio sinistro. La camicia era bagnata, ma aveva costituito per il petto una sia pur leggera barriera contro l'acqua bollente. Riuscii a mettermi a sedere, mentre Midge mi sosteneva. La mia vista era troppo oscurata dalle lacrime di dolore perché potessi vedere la scottatura riportata sulla mano, ma il dolore era superiore a qualunque altro che avessi provato in vita mia. Improvvisamente Midge scattò in piedi agitando freneticamente le braccia. Intravidi una macchina rossa che si fermava e due figure che ne uscivano correndo verso di me, una delle quali vagamente familiare. Si inginocchiarono sulla strada e l'uomo - l'altra era una ragazza - mi prese delicatamente la mano ferita.
«Oh, diamine,» lo sentii mormorare. Poi passò dietro di me e mi aiutò ad alzarmi. «Sarà meglio che venga con noi, devi farti medicare al più presto.» Guardai la mano ferita, asciugandomi le lacrime, e vidi che la pelle stava già coprendosi di vesciche. Stringendo i denti lasciai che mi conducessero alla loro auto. Mi accorsi che Midge era ancora più sconvolta di me, e così superato il primo momento di paura feci del mio meglio per rassicurarla con un sorriso. Deve essermi venuta fuori una smorfia di dolore perché la sua bocca si piegò agli angoli come quella di un bambino. Mi fecero sedere sul sedile posteriore dell'auto, tenendomi il braccio come se fosse un'aragosta appena bollita, e quando la ragazza si mise al posto del guidatore, riconobbi la sua treccia di capelli e poi anche la sua faccia quando si voltò ansiosa a guardarmi: era Sandy, la ragazza che avevo salvato dai teppisti al paese la settimana prima. Disse: «Mike, ti portiamo a farti medicare le bruciature. Il Tempio è a meno di un minuto di strada». «Ha bisogno di un ospedale,» obiettò Midge che mi sedeva accanto. L'uomo aveva appena aperto la portiera anteriore e si chinò per salire a bordo. Era di mezza età, quasi calvo e molto magro, con le guance così incavate che gli zigomi vi gettavano l'ombra. «L'ospedale più vicino è a parecchi chilometri da qui e lui deve essere medicato al più presto. Potrà portarlo a un ospedale più tardi, se lo crederà necessario.» Si sedette e non parlò più per tutto il breve tragitto. Sandy girò la macchina sulla strada stretta e tornò nella direzione da cui erano venuti. Mentre Midge mi asciugava la faccia con un fazzolettino, mi resi conto di trovarmi nella stessa Escort rossa con cui Kinsella era arrivato al villino alcune sere prima. Midge non toccò la mano e l'avambraccio la cui pelle era chiazzata di un intenso rosso scarlatto e la carne già cominciava a gonfiarsi. L'auto si fermò e Sandy saltò fuori. Ci trovavamo dinanzi a un alto cancello di ferro battuto, affiancato da due solidi pilastri grigi. Di là dal cancello potevamo vedere la grande casa, quella di cui avevamo visto solo l'altro lato nella.nostra passeggiata attraverso la foresta, circondata da un alto muro di vecchi mattoni: Casa tetra, come l'avevo soprannominata fra me. La ragazza aprì il cancello mentre il suo compagno la guardava impassibile dal finestrino. Sandy tornò subito, con un'espressione ansiosa come quella di Midge, e avviò di nuovo la Escort.
Sebbene molto preoccupato per i miei guai, notai che la casa si profilava più grande. Sembrava strano che l'edificio fosse rovesciato, con il retro al termine del lungo viale; comunque, Croughton Hall, alias il Tempio Sinergista, infondeva tristezza da qualsiasi parte lo si guardasse. Girammo attorno al lato del fabbricato passando nell'area rettangolare. Di lì il prato si stendeva verso la foresta. In quel momento cominciai a tremare, forse per uno choc ritardato, pensai. L'uomo davanti a me scese e mi aprì la portiera; proteggendomi cautamente il braccio, riuscii a uscire e guardai la casa. Non domandatemi perché, ma anche in quel momento in cui potevo appena pensare ad altro che non fosse il mio intenso bruciore, ero riluttante a entrare. Midge, tuttavia, non sembrava avere questi scrupoli. «Andiamo, Mike, quanto prima potrai mettere il braccio nell'acqua fredda, tanto meglio sarà per te,» disse tirandomi per il gomito. Sandy si mise all'altro mio fianco mentre l'uomo ossuto ci precedeva lungo l'ampia scalinata che portava all'ingresso. Prima che avessimo raggiunto l'ultimo gradino il grande portale si aprì e Kinsella ci comparve davanti guardandoci con la fronte aggrottata. «Mike, che diavolo ti è successo?» chiese. «Un litigio con il radiatore dell'automobile,» dissi sarcasticamente senza in realtà voler fare dello spirito. Avevo voglia di vomitare. Impallidì nel vedere la mia mano ustionata. «Oh, mio Dio, entra subito.» Spalancò il portone a due battenti per farci entrare tutti insieme. Adesso stavo tremando davvero, per quanto cercassi di controllarmi. Midge si strinse a me come se temesse che stessi per svenire. Eravamo in un vasto atrio; una scalinata portava a una galleria. Il dolore era più intenso così che badavo poco all'ambiente, ma tuttavia mi resi conto dell'improvviso freddo che c'era nella casa. Sentii Midge implorare: «Non potremmo portarlo in cucina o in bagno per mettergli il braccio nell'acqua fredda?» «Possiamo fare molto di più,» rispose Kinsella. Si voltò verso la ragazza e disse con voce appena udibile. «Di' a Mycroft chi c'è e raccontagli quello che è successo. Presto.» Sandy corse via. Poi si rivolse a Tutt'ossa e solo più tardi mi accorsi con meraviglia dell'autorità di Kinsella. Disse solo: «Avverti gli altri,» e l'uomo si allontanò immediatamente. «Bene, Mike, adesso vedremo di medicarti.» L'americano aprì una porta dell'atrio e ci fece entrare.
Ci trovammo in un vasto salotto con le pareti piene di libri. L'opprimente odore di stantio era poco piacevole, mi fece pensare che la maggior parte dei volumi fossero antiche edizioni; comunque non ero certo in condizione di curiosare nelle librerie. Kinsella mi fece sedere a un grande tavolo ovale dalla superficie lucidissima. Strie sghembe di luce filtravano nella stanza in raggi chiari e netti come quelli dei riflettori, e lui andò a ogni finestra per tirare le tende lasciandole aperte solo per un breve tratto così che la luce si ridusse solo a un fascio di raggi sottili. La porta dalla quale eravamo entrati era rimasta aperta, e io potei sentire dei movimenti all'esterno come se della gente si radunasse. Ero fradicio di sudore, quasi febbricitante, e sentivo il bisogno di gridare per lo spasimo sempre più intenso. Era come se i nervi, intorpiditi dalla scottatura, si risvegliassero facendo sentire con più acutezza il dolore. «Dobbiamo fare qualcosa,» insistè Midge mentre io stringevo i denti per soffocare i gemiti. «Abbi pazienza ancora un momento,» rispose calmo Kinsella, cosa che per lui era facile a dirsi. Si sedette al tavolo accanto a me, e mi allungò il braccio sulla superficie lucente, attento a toccarmi solo sul gomito. Midge rimase in piedi vicino a me con le mani sulle mie spalle. «È scoppiato il radiatore, eh?» disse Kinsella. «No, » risposi a denti stretti. «Sono stato così scemo da svitare il tappo.» «Per fortuna il braccio ha ricevuto direttamente il getto. Se avessi avuto la faccia...» «Sì, lo so. Sono stato scemo e fortunato al tempo stesso.» Stava esaminando le scottature tumefatte che avevo in faccia quando la porta si spalancò. Un uomo entrò e Kinsella disse: «Mycroft.» Non so bene che cosa mi aspettassi, ma il suo nome, unito ai sinistri avvertimenti del curato sui sinergisti, aveva evocato immagini di un uomo alto e potente, con la pelle giallognola e rugosa, e pallidi occhi penetranti, capaci di dominare le anime. Una via di mezzo fra un Vincent Price e un George C. Scott, forse, o anche un fratello maggiore di Basii Rathbone. Questo era di media statura e panciuto, con i capelli bianchi e la pelle levigata e perfetta; quasi anonimo. Indossava calzoni sportivi grigi e una giacca di lana marrone sulla candida camicia; una cravatta beige dava una certa formalità a un insieme che altrimenti avrebbe potuto apparire un po' trasandato. 1 suoi occhi erano penetranti, ma vi era in essi anche una certa delicatezza. Mi dispiace di non poter descrivere quell'uomo come un essere
più insidioso, dico questo pensando agli eventi successivi, ma così mi si presentò allora. Avrebbe potuto essere lo zio preferito di chiunque. Kinsella si alzò, mentre Mycroft si avvicinava, facendosi da parte e tirando indietro la sedia così che il nuovo venuto potesse avvicinarsi a me. Mycroft si chinò appoggiando una mano al piano del tavolo, e io sentii il suo alito un po' aromatico. Mi guardò prima la faccia e poi il braccio e la mano. «Deve soffrire molto,» osservò. La sua voce era pacata e stranamente asciutta, e il suo accento americano sembrava del New England. Il suo atteggiamento era solidale, quasi che condividesse il mio dolore. «Se devo dire la verità, non va affatto meglio,» confessai cominciando a stancarmi di quelle visite a cui non seguiva alcuna azione. La carne viva del mio braccio cominciava a gonfiarsi in modo allarmante. Mi guardò direttamente negli occhi ancora una volta e poi guardò Midge «Non perderemo altro tempo,» disse più a lei che a me. Fece un gesto con la mano e la porta si spalancò: entrarono Sandy e la nostra amica Gillie; insieme portavano un recipiente rettangolare contenente un liquido verdastro, che posarono sul tavolo davanti a Mycroft e a me. «Falli entrare,» disse Mycroft a Kinsella che subito andò alla porta e diede l'ordine, lo mi guardai attorno nervoso; Gillie mi sorrise in modo rassicurante, ma non disse nulla. Mi accorsi che anche Midge era preoccupata. Entrarono tutti in fila nella stanza, muti e con lo sguardo rivolto verso di me. C'era anche Neil Joby fra loro, ma, sebbene mi guardasse, non diede segno di riconoscermi. Cercai di alzarmi. «Un momento...» Mycroft mi pose una mano sulla spalla, con fermezza ma senza far forza. «Prego, si sieda e non abbia paura. Fra pochi minuti non sentirà più dolore.» «Non ci credo...» cominciai a dire, ma Midge intervenne. «Mike, aspetta.» La guardai. Lei scosse appena la testa. «Voglio che abbia Fiducia in me, Mike.» La voce di Mycroft era cambiata un po': era insieme pacata e imperiosa, ed era molto difficile non lasciarsi influenzare dal suo tono. Tornai a sedermi e lui prese una sedia per potermi stare vicino. «Abbiate fiducia,» disse rivolgendosi a tutti e rimboccandosi le maniche fino al gomito. Mi asciugai il sudore dalla fronte, ansioso per quello che stava succedendo e dubbioso su quanto fossi pronto a subire.
Mycroft mi sorrise come se si rendesse conto che io lo credevo pazzo e fosse pronto a divertirsi con me. Il suo sorriso era accorto e incoraggiante. Poi fece ciò che non mi aspettavo: immerse le mani nel liquido. Le persone intorno alla stanza - erano di varie età e nazionalità - unirono le mani e chiusero gli occhi. Anche Mycroft aveva chiuso gli occhi e le sue labbra si muovevano leggermente come se intonasse una preghiera silenziosa. Io pensai che da un momento all'altro cominciassero a ripetere: «Ommmmm». Evidentemente avevo un'espressione disperata perché Midge mi tratteneva come per impedirmi di scappare. «Midge...» C'era nei suoi occhi una specie di eccitazione trattenuta, una luce interiore che mostrava come cominciasse a credere in quelle storie. Io sentii ancora più forte il bruciore al braccio e mi allontanai da Mycroft, pronto a fuggire. Ma il suo sorriso scoraggiò reazioni di questo genere e io mi lasciai immergere il braccio nel liquido verdastro. Ero pronto a gridare, ma non cercai di porre resistenza: avevo capito che quest'uomo dallo sguardo così mite aveva una grande forza di persuasione. Mi immerse prima la mano, poi il resto del braccio fino al gomito e, mi accorsi che il liquido che era più denso dell'acqua, sembrava oleoso. Immediatamente il terribile dolore al braccio cessò, lenito dal liquido freddo; ebbi la sensazione che il braccio fosse stato congelato nel ghiaccio. Mycroft mi accarezzò la bruciatura mentre chiudeva gli occhi e muoveva le labbra impercettibilmente. Il sollievo fu tale che io quasi gridai di gioia; ma mi limitai a trarre un profondo respiro. Sentivo Midge che mi premeva le dita sulle spalle e, quando tirai su la testa per guardarla vidi che anche lei aveva gli occhi chiusi e la fronte corrugata per la concentrazione. «Midge, il dolore è scomparso,» dissi. Lei aprì gli occhi, guardò prima me, poi il mio braccio immerso nel liquido e sembrò sollevata quanto me quando mi accarezzò il collo. Mycroft mi continuò a strofinare delicatamente la bruciatura; i suoi polpastrelli delicati mi procuravano una sorta di piacevole formicolio. Mi guardai attorno e vidi che anche gli altri avevano gli occhi chiusi: due o tre donne vacillavano come se stessero per svenire: tutti si stringevano le mani, e io ebbi la sensazione che da ogni individuo fluisse una forte energia che si propagava nella stanza. Pazzo, gridai a me stesso, pur non potendo negare di non sentire più dolore. E che cosa succederà quando toglierò il braccio dall'acqua ? Ovviamente il liquido è un anestetico; come mi sentirò senza di esso? Volevo
provare subito. Mycroft aprì gli occhi e mi sollevò il braccio grondante di liquido, poi si voltò verso di me, e mi sembrò di scorgere una traccia di canzonatura nel suo sorriso. Il gonfiore si era bloccato, sebbene le dita fossero ancora tumefatte e violacee. Però non sentivo più dolore, solo una torpida rigidità. «Non posso crederci,» mormorai. «Non ce n'è bisogno,» rispose lui. «Lo accetti, non deve fare altro.» Mycroft si alzò e uno a uno gli altri aprirono gli occhi. Si lasciarono le mani per scoppiare in un applauso e io mi aspettavo che Mycroft facesse un inchino, invece alzò una mano e gli applausi cessarono. «Siate riconoscenti che il nostro giovane amico non soffre più,» disse loro. «Avete assistito a quello che può fare la nostra forza interiore; adesso riflettete un po' su ciò che è accaduto.» Era disinvolto aveva un tono pacato e amichevole, e non solenne e teatrale come ci si sarebbe potuti aspettare da una specie di guru che aveva appena compiuto una magia. I suoi seguaci lasciarono la stanza, molti di loro sorridevano felici, altri erano pensosi. C'erano persone di tutte le età e di diverse nazionalità, come ho già detto, ma anche di vario aspetto, dal bizzarro (capelli arruffati e occhi spiritati) al mondano (abiti eleganti e faccia seria). Gillie si fece avanti e mi avvolse il braccio in un asciugamano di lino bianco per asciugarmelo, poi fu la volta di Sandy che portò bende e garze e cominciò a fasciarmi il braccio facendo molta attenzione a non toccarmi le bruciature. «Forse dovrei andare all'ospedale a farmi fasciare il braccio,» pensai incerto. Kinsella esibì un sorriso che gli illuminò la faccia americana. «Non ce n'è bisogno, Mike. Presto starai benissimo, vedrai.» «Le bende sono sterilizzate,» mi rassicurò Mycroft, «e un'infermiera non potrebbe far più di Sandy.» «Potrebbero farmi un'iniezione, o darmi delle pillole o cose del genere.» «Non è necessario, ma naturalmente può fare come crede. Le suggerisco di stare a riposo per quest'oggi e di farsi vedere da un medico domani, se non starà ancora bene. Ma non sentirà più dolore.» Trovai il tutto un tantino ridicolo - accidenti! Mi ero scottato sul serio ma non volli apparire irritabile dopo quello che aveva fatto. «Sì, aspettiamo domani.» Riuscii a sorridere.
Mycroft, apparentemente, aveva già perso ogni interesse per me, e stava studiando Midge ancora con quel suo leggero sorriso sul volto; ero sicuro che era leggermente canzonatorio. «Lei, naturalmente è Midge,» disse. Il suo sguardo fu un tantino troppo penetrante per i miei gusti, ricordandomi stranamente l'appena dissimilato interesse del legale Ogborn per lei, tante settimane prima. Non ho mai avuto simpatia per i vecchi sporcaccioni. «Non so come possiamo mostrarle la nostra gratitudine,» rispose lei che adesso era più calma. Nonostante l'oscurità della stanza riuscivo a vedere che era stanchissima. «Non pensi alla gratitudine. Ho sentito parlare molto di voi e sono felice che abbiate finalmente avuto il modo, anche se in circostanze disgraziate, di visitare il nostro Tempio.» Gillie e Sandy erano andate alle finestre e avevano tirato le tende. La luce si diffuse e riportò una certa allegria nella stanza. «Hub ci ha invitato più volte,» disse Midge, «ma con tutto quel lavoro nel villino...» «Ah, sì, Gramarye.» Il nome gli piaceva e il suo sorriso diventò più caldo. «Conosce la nostra casa?» chiesi. Non mi guardò nemmeno. «Mi è stata descritta. Mi dica, signorina, si trova bene, qui?» Se Midge fu meravigliata dalla domanda, non lo dimostrò. «Sì, molto. Ci troviamo bene tutti e due. È una casa meravigliosa. » «In che senso meravigliosa?» Adesso era stata colta di sorpresa. «E... è così tranquilla, così serena. E tuttavia piena di vita. Molti animali ne sono attratti, e c'è tanta...» Non riusciva a trovare le parole giuste. Mycroft ne trovò una per lei: «Vitalità.» Non lo disse nemmeno in tono interrogativo. «Sì,» approvò Midge. «Vitalità è la parola giusta.» Mycroft parve soddisfatto. Si asciugò le mani e si tirò giù le maniche. «Sarei lieto di parlare ancora con voi,» disse infine. Midge si limitò ad assentire e si voltò verso di me. «Come ti senti, Mike?» «Io? Bene. Ma non potrò suonare il piano per un po'...» Mi interruppi con un gemito: all'improvviso mi resi conto delle conseguenze dell'inci-
dente. «La registrazione di mercoledì: non potrò suonare.» «Oh, Mike, l'avevo dimenticata!» Si morse il labbro inferiore e si inginocchiò accanto me mettendomi un braccio attorno alla vita per consolarmi. Ma io ero troppo incavolato con me stesso per accettare di essere consolato. «Non sono sicuro di aver capito, » intervenne Mycroft. «Lei ha un impegno professionale a cui teme di dover rinunciare?» «Sono un musicista,» spiegai. «Avrei dovuto incidere un album questa settimana ma a quanto sembra, non potrò parteciparvi.» Mi guardai la mano bendata ed ebbi la tentazione di batterla sul tavolo. Naturalmente non lo feci. Mycroft mi guardò ancora e mi mise una mano sulla spalla. «Torni a casa e non esca fino a domani.» Si chinò con aria confidenziale verso di me e continuò: «La sua mano sarà completamente guarita per mercoledì.» Per quanto gli fossi grato, dovetti trattenermi per non urlargli in faccia. «Certo,» dissi più calmo. «Andrò a casa e vi resterò. Grazie infìnite.» Mi alzai. «Faremmo meglio ad andare, Midge.» Il mio sguardo diceva: basta con le chiacchiere e i ringraziamenti; andiamocene di qui. Lei capì perfettamente. Ma fu Mycroft a lasciare la stanza per primo. «Adesso vi saluto,» disse e il suo tono di voce non lasciava trapelare risentimento per i miei modi improvvisamente bruschi. «Vi prego di non dimenticare il mio invito.» «Non lo dimenticherò,» rispose Midge e gli tese la mano, ma lui parve non accorgersene. Si voltò rapido e uscì dalla stanza. Adesso, alla luce di quello che seguì, sono sicuro che per un attimo guardò la mano di Midge, ma poi si tirò indietro come se la sua mente stesse già pensando ad altro. «Hai ancora un problema da risolvere, Mike.» Kinsella mi sorrideva, con le mani infilate nelle tasche dei calzoni aderenti. Lo guardai con aria interrogativa. «Un radiatore senz'acqua,» mi ricordò. Quasi mi battei la fronte con la mano ustionata. Lui rise. «Bene, ti faccio preparare una tanica d'acqua e vi accompagno all'auto. Speriamo che il motore non si sia rotto.» «Sì, speriamo.» Lasciammo la casa e io fui lieto di esserne fuori, felice di sentirmi ancora il sole sulla faccia. È strano, ma l'unica preoccupazione che avevo adesso riguardava la mia faccia e il collo colpiti dagli spruzzi d'acqua bollente.
Comunque il dolore era passato. Oddio, la pelle del petto mi bruciacchiava un po'; ma la stoffa abbastanza sostenuta della camicia mi aveva salvato scottature gravi. Il braccio e la mano bendati erano ancora informicolati ma non era una sensazione spiacevole. «Che cosa incredibile,» dissi a Kinsella mentre tutti e tre ci avviavamo verso la Escort rossa. «Quale cosa?» chiese lui stringendo gli occhi per ripararsi dal sole. «Quel liquido verde che avete usato per il mio braccio.» «Oh, non era nulla di speciale. Un disinfettante mescolato con un antisettico, tutto qui.» «Ma ha calmato il dolore.» «Mycroft ti ha guarito, amico mio.» «Non è possibile.» «Lo è. Lo sappiamo tutti e due.» «E allora perché...» Mi abbagliò con quei suoi denti perfetti da fare rabbia. «Mycroft è un uomo meraviglioso.» Credeva che fosse una spiegazione sufficiente? Raggiungemmo 1'auto e Kinsella ci aprì la portiera posteriore. Midge entrò per prima e io la seguii, attento a non battere la mano contro qualche cosa. Lui si mise alla guida e aspettammo che qualcuno arrivasse con la tanica dell'acqua. Midge si sporse in avanti. «Stai meglio, Hub?» chiese. Lui si voltò sorpreso. «In che senso?» «L'altra sera te ne sei andato piuttosto in fretta. Abbiamo pensato che ti sentissi male.» Si mosse a disagio sul sedile e indicò la casa. «Ecco Neil che arriva con l'acqua.» Si schiarì la gola, poi spiegò: «Forse non mi sono sentito bene. Scusatemi, è stato scortese da parte mia andarmene così. Qualcosa che avevo mangiato a colazione mi era rimasta sullo stomaco.» La portiera anteriore si aprì e Neil Joby salì in macchina ponendo il contenitore di plastica ai suoi piedi. «Bene, andiamo,» disse Kinsella avviando il motore. «Sarete a casa in un attimo.» Girammo attorno alla casa e Midge e io ci voltammo mentre percorrevamo il viale. La casa grigia - il Tempio Sinergista - era molto più grande di quanto avessimo immaginato quando l'avevamo visto la prima volta dal margine della foresta.
A me sembrava persino più sinistra. Mentre Midge la guardava con la traccia di un sorriso sulle labbra. 20. LA GUARIGIONE Il mio primo pensiero, quando mi svegliai il giorno dopo, fu per la mia mano: e se avessi provato a togliere la fasciatura? La sera precedente avevamo deciso di andare per prima cosa all'ospedale di Bunbury per farmi medicare le ferite da un medico nonostante Mycroft mi avesse assicurato un po' presuntuosamente che non sarebbe stato necessario. Mi ero aspettato di passare una nottataccia, ma in realtà avevo dormito come un bambino sognando Gramarye e un mucchio di cose piacevoli: fiori che sbocciavano, animali socievoli, sole e cieli tersi. Non avevo sentito il minimo dolore. Avrei voluto telefonare a Bob appena tornati al villino per dargli la cattiva notizia, ma Midge mi aveva persuaso a non farlo. Aspettiamo e vediamo, aveva detto. Midge mi aveva coccolato per tutto il resto della sera baciandomi perfino le punte delle dita malconce, che spuntavano dalla bendatura, per farle star meglio; io ne ero stato felice pur temendo il momento in cui il potente anestetico che evidentemente era stato mischiato a quel liquido verde (non credevo all'affermazione di Kinsella che si trattava solo di un antisettico) avrebbe smesso di agire. Grazie a Dio questo non avvenne. Midge era ancora addormentata accanto a me e sembrava invecchiata di dieci anni, cosa che mi mandò fuori di me; ma subito tornai alla mia preoccupazione principale, il mio braccio sinistro era coperto dalle lenzuola e avevo quasi paura a guardarlo. Provavo una sensazione sgradevole perché la benda mi stringeva, ma nessun vero dolore. Forse il mio cervello era ancora intorpidito dal sonno; strinsi i denti aspettando che il male tornasse. Ma non tornò e io raccolsi tutto il mio coraggio per guardare. Sollevato il lenzuolo alzai lentamente il braccio ferito. Le bende si erano piuttosto allentate durante la notte: la sensazione sgradevole era dovuta al nastro adesivo che le teneva a posto, piuttosto che alla pressione della carne gonfia. Le dita erano solo un po' arrossate. Le piegai: non erano più rigide. Piegai il polso e la mano si mosse liberamente, trattenuta solo dalla fasciatura. Sollevai il braccio potevo muoverlo senza dolore, una cosa incredibile!
«Midge!» Lei si svegliò di scatto saltando su e accovacciandosi sul letto, con gli occhi spalancati per l'apprensione. «Midge! Il braccio! Non mi fa più male!» Lei guardò prima me, poi il braccio e lanciò un grido. Unì le mani e si trattenne appena dallo stringermi il braccio che tenevo sollevato. «Mike, ne sei sicuro?» «Se ne sono sicuro? Gesù, dovrei saperlo se mi fa male o no. Guarda, posso anche muovere le dita.» E le feci vedere. «Lo sapevo, Mike, lo sapevo. Ero sicura che saresti guarito.» «Dunque credevi nell'acqua miracolosa di Mycroft?» «No, mi sono sentita sicura quando siamo tornati qui. Non so spiegarmi...» Mi abbracciò e ricademmo insieme sul materasso. «Ehi, ehi, fa' piano!» gridai tenendo alta la mano bendata. «Non roviniamo tutto lasciandoci prendere dall'esaltazione.» Lei mi coprì il volto di baci. «Lo sapevo, lo sapevo,» ripetè. «Perché non guardiamo bene prima di lasciarci trasportare dall'entusiasmo? Sai, mi sembra un po' impossibile di essere guarito. Hai visto anche tu che sono stato investito da un getto d'acqua bollente.» «Hai ragione,» disse lei tra il serio e il faceto, «stiamo solo sognando, non è avvenuta nessuna magia.» Scherzava, non aveva voluto fare quest' ultima osservazione. Alzai il braccio. «Ebbene, Folletto, toglimi la fasciatura e se comincia a farmi male ti avvertirò con un grido. Forse allora capirò che stavo solo sognando.» Con cura lei tolse il nastro adesivo e cominciò a disfare la fasciatura lasciando libera via via la garza. In meno di quindici secondi l'avambraccio e la mano furono messi a nudo. «Guaaaarda!...» esalai. La carne era tenera e macchiata di rosso, ma non vi erano vesciche, né spellature, né segni di bruciature. Era il più bel braccio del mondo. 21. COME IN UN FILM Tornai a Gramarye il giovedì nel tardo pomeriggio. La registrazione era andata a meraviglia: Collins era uno dei musicisti-cantanti migliori e uno
di coloro con cui era facile lavorare (se si faceva bene il proprio lavoro), e rese la mia canzone e quella di Bob cento volte migliore. Rimasi lì tutto il giorno (mercoledì), invitato a lavorare per altri due pezzi dell'album, e mi godetti ogni momento di riposo e di chiacchiere. Fin allora non mi ero reso conto di quanto a lungo fossi rimasto lontano dalla scena e fu bellissimo, più tardi, ascoltare le novità che Bob aveva da raccontarmi Cominciai ad andarci un po' forte con il bere, ma ero pieno di entusiasmo e ressi bene. Ero sollevato dal fatto che avevo riguadagnato l'uso della mano (avevo trascorso gli ultimi due giorni a suonare la chitarra e così quella leggera rigidità della mano sinistra, che forse era dovuta alla mancanza di esercizio, era scomparsa. Bob non credette affatto alla gravita del mio incidente, insistendo che ero guarito più presto di quanto credessi, dopo essermi bruciato un po', ma non seriamente. Diceva che esageravo i fatti come al solito. Certo il braccio e la mano erano più rossi del normale e anche in faccia avevo qualche chiazza violacea; ma lui sosteneva che non era niente di grave. Gli raccontai dei sinergisti e della magia che Mycroft aveva praticato con la sua acqua verdastra. Fesserie, fu il commento di Bob. Mi suggerì di passare la notte da lui: l'idea di guidare fino allo Hampshire, pieno d'alcool com'ero, non mi attirava affatto così trovai un telefono e chiamai Midge. Lei convenne che sarebbe stato pericoloso mettersi in viaggio così tardi e mi disse di restare da Bob e di divertirmi. Aggiunse di fare attenzione, e io sapevo quello che intendeva: Bob, a volte, alzava un po' troppo il gomito. Midge mi disse che, dopo essere stata preoccupata per me, aveva passato il tempo dipingendo, godendosi la solitudine, ma naturalmente sentendo molto la mia mancanza. Quanto? Quanto sono alte le montagne, quanto è profondo il mare...? Le dissi che le avrei fatto pagare le sue prese in giro al mio ritorno, e poi diventammo sdolcinatamente seri e ci confessammo che detestavamo non stare insieme anche per un solo giorno, che essere separati non era naturale, che l'amore era una cosa penosa e via di questo passo. Frasi fatte, forse, ma eravamo sinceri. Quando tornai da Bob e dagli altri, avevo le lacrime agli occhi... Tuttavia feci in modo di divertirmi. Di lì andammo a cena poi tornammo a Fulham, nell'appartamento di Bob, una casa vittoriana con terrazza, verso l'una del mattino. Lì non avemmo noie. La sua ultima amica, Bob si era
sposato due volte ed era separato legalmente dalla sua seconda moglie, era a letto e rifiutò di unirsi alla compagnia. Suonammo musica rock sullo stereo finché dei colpi sulle pareti ci avvertirono che nemmeno i vicini erano in vena di far festa. I nostri amici ci lasciarono poco dopo, e Bob e io continuammo a rievocare i bei vecchi tempi - musica, guai, scherzi e donne aprendo lattine di birra e abbandonandoci a fragorose risate. Fu una bella nottata di chiacchiere, e grazie al cielo il mio amico non aveva bisogno di altri «stimolanti» oltre alla birra. Non ho idea di che ora fosse quando andammo a dormire. Mi svegliai verso mezzogiorno, sdraiato sul divano senza scarpe e con una vestaglia gettata su di me. Bob, cosa sorprendente, si era alzato prima delle dieci ed era uscito per «sistemare delle cose», mi informò la sua amica, Kiwi (non so ancora quale fosse il suo vero nome né perché si chiamasse Kiwi) mentre mi porgeva una tazzona di caffè forte. Me ne rimasi lì come un morto resuscitato, bevendo caffè e cercando di schiarirmi la mente, e dopo un po'(quando lei cominciò a far funzionare 1'aspirapolvere a mezzo metro da me), pensai che era tempo di andarmene. Kiwi fu abbastanza contenta della mia partenza da spegnere per un momento l'aspirapolvere e sorridermi graziosamente. «Aspetto con ansia sabato,» mi disse. «Sabato?» chiesi. «Bob, prima di uscire, mi ha detto che ci hai invitato a cena,» trillò lei. «Ah, sì,» dissi ricordando vagamente. «Arnvederci, dunque,» aggiunsi. «Non vedo l'ora.» ripetè lei. Il frastuono dell'aspirapolvere affrettò la mia partenza. Mi fermai sulla via del ritorno per fare una colazione leggera, e colsi l'occasione per telefonare a Midge e informarla del ritorno del suo eroe. Ma a Gramarye nessuno rispose, così supposi che fosse andata a fare una passeggiata anche se il tempo non era bello: non pioveva ma il cielo era coperto. Non poteva essere andata a far spese perché la macchina l'avevo io. Mi rimisi subito in viaggio, e il battito che sentivo alle tempie si calmò. Quando raggiunsi i confini dello Hampshire mi sentivo benissimo sebbene non vedessi l'ora di andare a letto per smaltire gli ultimi postumi della bevuta della sera precedente. Quando raggiunsi Cantrip incontrai sulla strada principale il reverendo Sixsmythe in sella alla sua bicicletta. Ancora adirato con lui per avere sconvolto Midge e me con il suo raccapricciante racconto sulla morte della signora Chaldean, ebbi la tentazione di dare un colpo di clacson per spaventarlo, ma resistetti.
Uscito dal paese mi ritrovai nel cuore della foresta. Piccole gocce di pioggia punteggiarono il parabrezza. Ancora un paio di curve e sarei arrivato a casa. Avevo un sorriso che mi andava da un orecchio all'altro quando raggiunsi il giardino di Gramarye; suonai il clacson per avvertire Midge del mio ritorno. Aprii il bagagliaio e tirai fuori le due chitarre e le posai a terra per richiuderlo. Scavalcai il recinto invece di costeggiarlo fino al cancello e calpestai le aiuole per raggiungere il sentiero, aspettandomi a ogni momento di vedere il felice volto da folletto di Midge affacciarsi all'entrata. Ma rimasi deluso. Midge non aveva sentito il mio arrivo oppure non era ancora tornata dalla sua passeggiata. Ma certo non poteva essere stata fuori per tutto questo tempo, specialmente col cielo coperto. Forse dormiva, o era in bagno: in ogni caso le avrei fatto una sorpresa. Guardai le finestre del primo piano: nessun segno di vita. Un piccolo scricchiolio, e la mia attenzione si volse ancora all'ingresso. Era Rumbo, che rosicchiava la vernice. Si voltò e la sua espressione parve dire: «Dove diavolo sei stato?» Risi e lui mi seguì. Bob mi aveva canzonato quando, un po' brilli tutti e due, gli avevo parlato del villino, degli animali e degli uccelli che venivano ogni giorno, del rigoglio dei fiori selvatici e mi aveva chiesto che genere di erbe avevo piantato e se poteva ordinarne una cassa. Non avevo reagito perché sapevo che le sue erano soltanto le vane parole di un abitante di quei mondi di cinici disabituati a sognare che non potevano capire il fascino di Gramarye. «Andiamo, Rumbo, lasciami entrare in casa,» dissi allo scoiattolo scostandolo delicatamente con un piede e lui cominciò a giocherellare con i lacci della mia scarpa. Presi la chiave, ma prima volli provare la porta. Come mi aspettavo, Midge non l'aveva chiusa a chiave nonostante i miei avvertimenti. Non eravamo più nella grande città tentacolare, mi rispondeva regolarmente. Aprii la porta e Rumbo saltò dentro prima di me. L'interno era buio, e io ebbi la disgustosa visione di un corpo putrefatto seduto alla tavola della cucina, che si voltava per salutarmi con un sorriso sdentato. Oh, Stringer, dimentica il racconto del vicario! mi dissi. «Midge, sei qui?» Posai a terra le chitarre e andai ai piedi delle scale. «Midge! sono tornato!» Doveva essere uscita. In casa regnava un silenzio sepolcrale. Deluso tornai in cucina e riempii il bollitore. Rumbo mi aveva preceduto e stava saltellando avanti e indietro sul vecchio fornello di ferro.
«Non salire su quel camino,» lo avvisai. «Tornerai giù così nero che i tuoi non ti riconosceranno. E ho sentito dire che voi scoiattoli rossi avete avuto già abbastanza guai con quelli grigi: Immagina quello che succederebbe se uno scoiattolo nero facesse la sua comparsa da queste parti.» Rumbo mi guardò e accettò il mio consiglio lasciando il fornello e saltando sul frigorifero, mostrandomi i suoi dentini aguzzi. «Bene, amico, capisco quello che vuoi.» Mi voltai e presi dalla credenza dietro a me, una scatola di biscotti e sollevai il coperchio. «Uno per te e uno per me.» Gliene gettai uno che prese agilmente fra le zampe e immediatamente cominciò a sgranocchiarlo. Il mio se ne andò in due morsi, ma il suo durò molto di più; si mise a roderlo tutt'attorno tenendolo fra le zampette e dandomi ogni tanto un'occhiata come per chiedere se ce n'erano ancora. Era un affascinante birbantello, un grazioso sfacciato - una volta l'avevamo trovato tranquillamente addormentato nel nostro letto, rannicchiato sotto le coperte - e anche un po' irascibile. Un mese prima non avrei mai creduto che un animale potesse diventare così domestico, o essere così intelligente specialmente uno scoiattolo selvatico. Sapeva sempre quando venivano serviti la colazione o la cena e raramente mancava di fare la sua comparsa in quelle ore: i nostri avanzi gli piacevano più che agli altri scoiattoli. Il bollitore cominciò a fumare e io misi in una tazza un cucchiaino di caffè solubile e uno di zucchero, aggiungendovi, questa volta, del latte. Il versare l'acqua bollente mi rese nervoso. «Sei stato molto fortunato,» dissi fra me. «Hai avuto la fortuna di immergere il braccio nel liquido magico dei sinergisti subito dopo l'incidente. Avrebbero potuto vendere la formula per un milione, anzi per parecchi milioni. Ma dovevano rinunciare a quel cerimoniale stile rito voodoo, se volevano essere presi sul serio. Un semplice antisettico? Chi credeva di prendere in giro, Kinsella? Sorseggiai il caffè scottandomi le labbra. Forse avevano già messo sul mercato quel liquido verde, ma solo in piccole quantità e sotto banco. Questo avrebbe spiegato come potevano permettersi una grande sede come Croughton Hall. La loro segretezza non aveva molto senso e, se erano una sorta di setta religiosa, non era necessaria. Lasciai la cucina portando la tazza con me, mentre Rumbo mi precedeva sulle scale, divorando in fretta il resto del biscotto. L'ambiente era insolitamente triste e scuro, la mancanza di sole dava un'impressione decisamente contrastante con l'atmosfera del luogo. Lunghi giorni piovosi stavano ovviamente permetterci alla prova. Tuttavia non ci sarebbero forse sempre
stati, in qualsiasi parte ci trovassimo? Passai direttamente dall'atrio alla stanza da letto - ho detto che, frattanto ero entrato nella sala più grande, quella in cui vi era la crepa nel muro, adesso riparata e ridipinta? - solo per assicurarmi che Midge non si fosse addormentata lì. Ordinai a Rumbo di allontanarsi dal letto vuoto di Midge, dove se l'era spassata tutto raggomitolato sotto le coperte, e andai nella stanza rotonda. Anche qui, nonostante le tre grandi finestre, era tutto immerso nel buio. C'era nell'aria un odore di pittura che era familiare e gradevole al tempo stesso. Il suo tavolo da disegno era inclinato ad angolo acuto e mi ricordai che lei mi aveva detto di aver passato la giornata di ieri dipingendo. Ogni nuova illustrazione di Midge era un piacere per me (senza parlare di tutti i suoi ammiratori giovani e vecchi), e io mi affrettai ad attraversare la stanza per andare a vedere il lavoro che aveva in corso. Tuttavia, prima di curiosare, posai il caffè sul tavolino presso il piano girevole su cui teneva i colori, i pennelli, le matite e altri oggettini. Il nostro accordo era che né io né nessun altro poteva avvicinarsi al suo lavoro con sostanze che potessero danneggiarlo. Io avevo sbagliato una volta, quando cominciavamo appena a conoscerei, aprendo una lattina di birra mentre stavo ammirando, da vicino, un suo lavoro; immaginate un po' dove andò a finire lo spruzzo. Midge aveva preso bene la cosa, ma io decisi che il fatto non si sarebbe più ripetuto. Solo dopo aver posato la tazza mi avvicinai al tavolo da disegno e rimasi a bocca aperta. Il disegno rappresentava Gramarye. Doveva aver lavorato sul prato appena fuori del cancello del giardino, usando il piccolo cavalietto per sostenere il disegno perché il villino era visto di lì, col giardino e i suoi intensi colori in primo piano. La foresta retrostante offriva uno sfondo stranamente meditativo sebbene insignificante a confronto di Gramarye con le sue mura di un bianco brillante ma anche macchiate e consunte. I colori erano un po' esagerati - i tetti non avevano quelle sfumature rosso ruggine, mentre l'erba e gli alberi erano d'un verde troppo brillante - tuttavia rendevano la vera immagine della nostra casa e dei suoi dintorni, la cui forza rinvigorente avevamo avvertito entrambi quando vi eravamo giunti la prima volta, ma che solo Midge, con la sua ineguagliabile arte spontanea, poteva esprimere. Le ginocchia mi si piegarono letteralmente mentre osservavo il disegno. Ma questo fu nulla in confronto con quello che doveva accadere. Fuori, il sole ruppe le nubi inondando la stanza di un improvviso calore
brillante, colpendo quei colori vivaci che avevo davanti così da farli divenire abbaglianti e farli sollevare, sì, sollevare, con scintillante energia, mentre quella luce mi colpiva nell'intimo, riproducendo - non solo duplicando -1'immagine nella mia mente, come se si fosse solidificata, reale come l'originale. Ricordate il primo giorno in cui Midge e io eravamo venuti a vedere il villino, e io avevo avuto l'impressione di essere sotto l'effetto di qualche droga assunta anni prima? Ebbene, la cosa si ripetè. Io cominciai a vacillare oppure fu il tavolo da disegno che cominciò a muoversi, perché il disegno prese a danzare e ora lo vedevo a fuoco ora sfocato. Il sole dietro di me mi bruciava le spalle, e la testa diventò così ardente che mi domandai se non avesse preso fuoco. Mi sentivo venire meno, le ginocchia mi cedevano, il disegno catturato nell'intimo della mia testa che si espandeva, divenendo troppo grande per esserne contenuto e minacciando di esplodere fuori del cervello premendo contro le pareti del mio cranio. La pressione era quasi insopportabile. In qualche modo fantastico e pauroso, divenni parte del dipinto di Midge, vivendo e respirando in esso come se mi trovassi fuori, davanti al cancello del giardino; solo non riuscivo a capire se ero veramente dentro il dipinto o se il dipinto era dentro di me. L'odore della pittura fresca era leggero, ma quello dei fiori, dell'erba, del recinto, della strada - era inebriante. Ero allucinato e perfettamente consapevole di esserlo. Ma nulla, nessuno sforzo di volontà poteva portarmi via di lì. Sono sicuro di aver gridato perché ero spaventatissimo! Ogni cosa era una copia cromatica, un'illustrazione, ma tutto era reale: il cielo era reale, reale la foresta, e Gramarye, stilizzata, pur con i colori troppo vivaci, troppo sinteticamente artefatta, troppo maledettamente fiabesca, era reale. E i colori si muovevano, vi erano uccelli pigramente librati nel cielo. Tutto era vivo ed esisteva. Ma era solo un dipinto! Un dipinto che si muoveva e respirava. E io ne facevo parte. Ed ecco lì il sentiero con i fiori che ondeggiavano al vento. E naturalmente il sentiero conduceva alla porta del villino. Che era aperta. E la fredda oscurità dell'interno mi invitava a entrare: un vuoto invitante che forse non era un vuoto perché, sebbene non potessi vedere nell'oscurità, avvertivo la presenza di qualcosa o di qualcuno. Qualcuno seduto al tavolo della cucina. Qualcuno che in realtà era qualche cosa. E questo qualche cosa cominciava a muoversi, cominciava ad alzarsi dalla tavola sulla quale c'era una tazza piena di tè marcio e infestato da schifosi insetti formico-
lanti. E quel qualcuno adesso era solo un'ombra più cupa che si muoveva in mezzo ad altre ombre, strisciando. Veniva verso la porta aperta, mi salutava, mi invitava a entrare alzando una mano; io vedevo quella mano alzata, vedevo le dita che erano solo ossa dalle quali pendevano brandelli di carne putrescente. E quel qualcuno era sulla porta, appena illuminato dalla luce. Ma indugiava perché temeva la luce come qualcosa di innaturale. Quel che restava del dito si curvava in dentro, mi chiamava con un cenno, mi diceva di avvicinarmi, mi voleva. E mi trovai ad aprire il cancello mettendo il piede sul sentiero, camminando confuso e domandandomi perché non facevo resistenza; i fiori, adesso, cominciavano ad avvizzire, i petali diventavano prima bruni, poi morivano, e la porta era aperta davanti a me, l'oscurità mi aspettava e qualcosa aspettava nell'oscurità. La luce del giorno si affievoliva, le mura del villino erano grigie, le finestre nere, e il tetto era diventato di un colore fangoso con neri buchi nei punti in cui le tegole erano cadute, e, mentre la luce si oscurava, il sole veniva inghiottito da banchi di nubi color ebano e piccoli esseri uscivano da quei buchi volteggiando nell'atmosfera plumbea e mi salutavano con grida stridenti, scendendo in picchiata, ma senza avvicinarsi a me, contenti di aspettare che entrassi. lo ero davanti al portone e continuavo ad avanzare, attratto da ciò che sapevo esserci lì dentro che mi osservava e aspettava pazientemente. Misi un piede sul gradino e vidi l'ombra venirmi incontro. E anche nel buio riuscii a scorgere che era quasi senza volto. E quando le sue due mani putrefatte si tesero verso di me, aprii la bocca in un grido silenzioso... E una voce mi rispose... 22. ACCUSATO Dapprima la sua voce, e poi lei, Midge, in piedi sul pianerottolo; la porta sul retro era spalancata, il verde di fuori era mutato per la pioggia fitta e sottile. Mi osservava come se fossi un estraneo, un ladro penetrato nel suo amato villino; e anch'io mi sentivo tale. La scena che era stata più nella mia mente che nel dipinto, mi fu strappa-
ta via come da un vortice la cui radice era il dipinto stesso. Le visioni di ossa che si tendevano verso di me mi lasciarono, in parte dissolvendosi, ma per lo più inghiottite, succhiate via. Barcollai all'indietro, improvvisamente liberato dalla spirale delle immagini vorticose e andai a finire contro la finestra alle mie spalle. Il leggero dolore mi scosse i sensi e la vista mi tornò a fuoco. Il disegno di Midge era lì davanti a me, una chiara, assolata campagna che corrispondeva in sostanza all'originale, ma era anche idealizzata. Un grazioso villino in un grazioso ambiente. Ma io avevo visto qualche cosa di oscuro. «Mike, Mike! Cosa ti è successo?» Mi voltai verso di lei, ancora appoggiato alla finestra. Ero troppo confuso per parlare. Midge entrò nella stanza con i capelli e il volto umidi di pioggia, la giacca a vento lucida di gocce d'acqua. Si avvicinò a me e io caddi fra le sue braccia. «Sembri spaventato,» disse. «Sei pallido, E i tuoi occhi... oh Dio, i tuoi occhi!» «Lascia... lascia che mi sieda.» Capivo appena le sue parole tanto erano confuse, ma lei si accorse da sola che riuscivo appena a stare in piedi. Mi aiutò a raggiungere il divano e a stendermi. Riconoscente mi abbandonai sui cuscini. Guardai ancora il disegno di Midge che però non vedevo più bene da quell'angolazione, mentre lei mi accarezzava le guance con la mano umida e fredda. Poi mi lasciò e tornò subito dopo con un bicchiere. «Brandy,» disse avvicinandomelo alle labbra. Bevvi mentre lei teneva il bicchiere poiché a me tremavano le mani. Il brandy aveva un gusto sgradevole, ma il suo forte calore mi fece bene. «Oh, Midge, non hai idea...» «Hai gli occhi iniettati di sangue, Mike. Quanto hai bevuto ieri notte?» «Il tuo disegno...» «Può darsi che non ti piaccia, ma mi sembra una reazione eccessiva.» «No, Midge, non scherzare...» Bevvi ancora del brandy. Mi tenne la mano tremante. «Dimmi che cosa è successo,» disse a voce bassa. «Gesù, è questo posto, Midge. C'è qualcosa di misterioso qui.» «Oh, Mike, come puoi dire questo? Qui tutto è perfetto e lo sai.» «Il tuo disegno si muoveva. Lo guardavo e si muoveva, dannazione!»
Mi fissò come se fossi pazzo. «È vero, Midge! E animato! Ho visto avvenirci delle cose, ho potuto odorare i fiori, ho potuto sentire la brezza. E nel villino c'era qualcuno, ne sono sicuro, so che c'era...» Mi aspettavo stupore, incomprensione. Mi aspettavo preoccupazione o addirittura allarme per il mio stato mentale. Quello che non mi aspettavo era la sua furia. «Che diavolo avete fatto, tu e Bob, questa notte? Me lo avevi promesso, Mike, lo avevi promesso a te stesso! Basta con quella roba, niente più droga!» Scoppiò in lacrime di rabbia. «No, nulla di questo, Midge! Te lo assicuro, abbiamo bevuto e basta. Tu sai che non avrei...» «Bugiardo!» Per poco non lasciai cadere il bicchiere. Mi aveva gridato l'accusa con gli occhi ardenti dietro un velo di lacrime. «Abbiamo solo bevuto...» «I medici ti avevano avvertito l'ultima volta! Ti avevano detto che eri stato fortunato a essertela cavata! Dio mio, Mike, non ti è servita la lezione? La ragione principale per cui siamo venuti qui era di allontanarti da quel gruppo. È bastato lasciarti solo una notte...» «Non è successo niente. Cosa ti succede, Midge?» «Cosa mi succede? Sei tu che farnetichi, che vedi muoversi i disegni! Che cosa hai preso, stanotte? Ancora cocaina? Che altro? Non ricordi quanto mi disgustava vederti prendere anche le droghe più blande? Non significa nulla per te?» In quel momento, naturalmente, non mi resi conto che la sua veemenza era più una difesa contro qualche cosa che lei stessa non voleva riconoscere, che una rabbia diretta contro di me. Solo più tardi mi accorsi che Midge aveva cominciato a capire molto prima di me, ma non aveva voluto che l'irrealtà fosse messa in discussione, non aveva voluto che la logica distruggesse ciò che stava maturando in lei e si risvegliava in Gramarye. In quel momento, tuttavia, nessuno di noi capiva nulla di quello che stava succedendo. «Midge, puoi chiederlo a Bob. L'ho invitato a passare qui il fine settimana.» «Oh, magnifico, proprio la persona che desideravo vedere qui.» «Ti comporti in modo irragionevole. Perché, non mi ascolti?» «Ascoltare la storia delle tue allucinazioni? Credi che mi divertano?»
«Gli animali che vengono qui, l'uccello con l'ala rotta, il modo con cui i fiori che stavano morendo si sono ripresi... tutto questo non è naturale.» «Come puoi saperlo? Che cosa ne sai di tutto ciò che oltre le mura della città, al di là dei bassifondi?» La guardai stupefatto e lei evitò il mio sguardo. Midge era inginocchiata davanti a me e il suo petto si sollevava con un movimento esagerato come se la sua rabbia non potesse essere trattenuta. Poi si controllò e disse a voce bassa: «Non volevo dire questo. Scusami.» Si interruppe e si allontanò da me dando libero sfogo alle lacrime. Fuggì via sbattendo la porta della stanza da letto. E poi sentii i suoi singhiozzi soffocati in lontananza. Rimasi lì stordito e confuso. Che diavolo era successo? A me e a Midge. Che accidenti era successo? Mi scolai il resto del brandy quasi soffocando per il suo aspro calore, e posai il bicchiere sul pavimento. Mi asciugai gli occhi e le guance. Mentre cominciavo a riprendermi e mi rendevo conto che non potevo lasciare Midge in quello stato, avvertii un fruscìo provenire da sotto il divano. Restai fermo, timoroso, perché ero ancora disorientato e vulnerabile; quel pomeriggio non avrei potuto sopportare altri momenti di tensione. Il rumore si ripetè. Mi avvicinai al divano e guardai in quella fessura buia fra lo schienale e il muro ricurvo. E mi sentii sollevato nello scoprire quello che vi era nascosto. Scostai il divano dalla parete mettendo allo scoperto il piccolo e fremente Rumbo con la coda arruffata e le zampette puntate sul tappeto. Mi lanciò una rapida occhiata, saltò fuori dal suo nascondiglio, attraversò la stanza, uscì dalla porta ancora aperta e svanì rapido nel fogliame. Mi domandai perché avevo la sensazione che lo scoiattolo avesse abbandonato una nave che stava affondando. 23. PIÙ DA VICINO Ripensandoci, decisi di non andare subito da Midge: sarebbe stato più facile parlarle quando si fosse calmata. Inoltre ero troppo sconvolto; pensai che un altro brandy avrebbe potuto aiutarmi. Ripresi il bicchiere e scesi in cucina. I liquori erano tutti riposti nella credenza, ma la bottiglia del brandy era ancora sulla tavola dove Midge l'aveva lasciata. Feci strisciare la sedia sulle mattonelle e presi la bottiglia prima ancora
di sedermi. Il brandy non mi servì a molto ma per lo meno ebbi qualche cosa da fare mentre i miei nervi si calmavano. Penserete che fui un tantino lento nel rendermi conto che le cose, lì in campagna, non erano normali, ma nulla di ciò che ho raccontato, eccetto quest'ultimo incidente, sembrava particolarmente strano nel momento in cui avvenne. Inconsueto, sì, ma non in modo fuori del normale. È bene ripeterlo: la mente tende a rendere naturale l'innaturale. Anche il disegno in movimento poteva essere spiegato come una allucinazione non affatto dovuta a droghe prese la notte prima come aveva supposto Midge. Io ero convinto che era l'atmosfera del luogo che esercitava la sua magia e che acuiva i nostri sensi così che la capacità artistica di Midge si era elevata e la mia tecnica musicale era migliorata. Credo che certi ambienti possano avere di questi influssi benefici sulle persone e Gramarye aveva fatto proprio questo con me e con Midge. Forse il cambiamento di tempo aveva influito sul nostro umore e un aspetto negativo del nostro animo era affiorato in superficie; non avevo mai visto Midge comportarsi così, questo è certo. Sorseggiavo e meditavo lì in cucina, dove Flora Chaldean era morta, sperando di non aver spaventato troppo il povero Rumbo. Dio solo sa come gli ero apparso, brancolando davanti al disegno: nessuna meraviglia se si era nascosto dietro il divano. Lo sguardo che mi aveva dato prima di sgattaiolarmi fra le gambe era come se pensasse che volessi fare di lui polpette. Il bicchiere fu presto vuoto e dovetti farmi forza per non riempirlo di nuovo. Ero ancora disorientato dalla mia crisi e dalle parole di Midge, ma il restar lì a rimuginare al buio non aiutava a sistemare le cose. Era tempo di parlarle e tornare amici. Salii le scale chiudendo la porta del corridoio perché non entrasse la pioggia. Lo zerbino era fradicio. La giacca a vento di Midge era stata gettata in un mucchio sul pavimento della stanza da letto, e lei era rannicchiata sul letto, le gambe ripiegate, le spalle curve, con un'apparenza desolata. Rimasi sulla sogliai quasi esitando a entrare. Mi sentivo colpevole senza sapere perché. «Midge...» arrischiai. Dapprima nessuna risposta. Poi si alzò su di un gomito per guardarmi. Allungò la mano verso di me e io mi affrettai a sdraiarmi al suo fianco. Le abbracciai la vita e il dorso e la strinsi a me; lei si abbandonò tremante e tirando su con il naso. Le accarezzavo la fronte con la guancia; l'odore della pioggia e dell'aria fresca era ancora nei suoi capelli. «Midge, voglio che tu mi creda: ieri ho
soltanto bevuto. Ammetto di avere alzato un po' troppo il gomito, ma non ho preso altro, né pillole né droghe.» Lei si irrigidì contro di me, arrestando per un momento il suo tremito. Poi sentii il suo corpo rilassarsi. «E allora che cosa è successo, Mike?» mormorò. «Perché avevi quell'aspetto? Perché mi hai detto che il mio disegno era vivo?» «Vorrei saperlo anch'io,» sospirai. «Mi sembrava così reale, come se stessi vivendo in esso, camminando sul sentiero, sentendo il profumo dei fiori e tutto quello che mi era attorno.» Sorrisi. «Ricordi quel vecchio film in cui Gene Kelly ballava assieme a un topolino dei cartoni animati? Bene, era quasi così, come se la vita reale e il disegno animato si fossero fusi alla perfezione. Così erano ancora più reali, nulla che avesse a che fare con la fantasia. Che paura. Gesù, non ho mai avuto tanta paura.» Spinsi indietro la testa per guardarla in viso e i suoi occhi erano tristemente vuoti. «Devi credermi, Midge,» insistetti. «Credo di sì,» rispose, e una dolcezza familiare tornò nella sua espressione. «Hanno detto che gli effetti di certe droghe possono farsi sentire anche a distanza di anni e che nessuno sa con precisione per quanto tempo le tracce di droga possono restare nell'organismo. Ma dopo tutti questi anni...» «Sembra impossibile, no? Tuttavia deve esserci una risposta. A meno che non stia diventando matto.» «Vuoi dire che di solito sei sano?» Una battuta fiacca e pronunciata sotto tono, ma per lo meno era un tentativo di umorismo. Le presi la testa fra le mani. «Dovresti controllarti, Mike. Potrebbe essere pericoloso per te.» «Non è accaduto niente di grave. Ci siamo spaventati per niente.» «Non è vero che ci siamo spaventati per niente. E se succede di nuovo; ma questa volta con cattive conseguenze?» Non chiesi quali avrebbero potuto essere queste conseguenze. «Sono stanco,» dissi, «sono rimasto alzato quasi tutta la notte a parlare dei vecchi tempi e a bere con Bob. Ieri abbiamo lavorato molto. Forse sono più stanco di quel che credevo. La combinazione di stanchezza e alcool può avere risvegliato qualche cosa che era ancora sopita in me.» Avrei voluto dire: Ma potrebbe essere il villino, Midge. Forse sta accadendo qualche cosa che esula dalla nostra comprensione, qualche cosa che crea illusioni (non ho forse visto un centinaio di pipistrelli mentre nella soffitta ce n 'erano a malapena una cinquantina ?Non ho forse visto qualcuno che ci osservava
dalla foresta? Non mi sono perso in un disegno tanto da diventare una parte di esso, un elemento umano in un quadro vivente? Non c'è forse una magia che guarisce gli animali malati e anche le persone se le storie che si raccontano su Flora Chaldean sono vere? E che dire del mio braccio? Le scottature sono guarite per merito dei sinergisti o Gramarye ha esercitato i suoi poteri su di me durante la notte, mentre dormivo? Il loro liquido verde può avere arrestato il dolore, ma ha davvero fatto scomparire le bruciature?. Questo avrei voluto dire, ma mi sembrava ridicolo. Midge avrebbe pensato che ero impazzito e così tacqui mentre avrei dovuto vuotare il sacco e dirle quello che avevo dentro. In questo modo, almeno, Midge avrebbe potuto prendere coscienza di certe sue sensazioni riguardo a Gramarye, sensazioni che lei non riusciva ad accettare. Questo tuttavia non doveva avvenire in quel momento. «Promettimi che andrai all'ospedale, Mike; quello dove sei già stato. Là conoscono la tua storia, potranno farti tutti gli esami e accertarsi se sei guarito davvero.» «Parli come se fossi un drogato. Lo sai che non è così.» «Ma una volta ci sei cascato.» «Una volta, e solo con una droga leggera, per l'amor di Dio. E non più da allora.» «Va bene, Mike. Ti prego non arrabbiarti, non voglio più litigare.» «Nemmeno io. Ma non esagerare: la droga, per me, non è mai stata un'abitudine. Sì, lo so, dicono tutti così; ma tu sai che, per quel che mi riguarda, è la verità. Ho visto troppe vite rovinate per ricascarci.» Mi abbracciò e mi baciò dolcemente. «Mi perdoni per essermi comportata così stupidamente?» «Non posso rimproverarti: Dio solo sa che effetto devo averti fatto.» Le restituii il bacio, felice che il muro fra di noi si fosse infranto anche se avevo ancora vaghi e sinistri presagi. Per cambiare argomento e non andare troppo a fondo su quello, dissi: «Stamattina, durante il viaggio, ho tentato di telefonarti ma non c'eri. Sei stata fuori tutto il giorno?» «Ho fatto una lunga passeggiata.» «Sotto la pioggia?» «Un po' di pioggia non fa male. Sentivo il bisogno di stare all'aperto, fra gli alberi, di sentire l'erba sotto i piedi. Ieri ho lavorato tutto il giorno al mio disegno e stamattina volevo schiarirmi le idee.» «Così sei andata nella foresta?» «Sì. Forse non ci crederai, ma ho perso la bussola e mi sono trovata an-
cora davanti a Croughton Hall.» La sua voce si era nuovamente abbassata, come se non desiderasse continuare questo genere di conversazione. Naturalmente insistetti. «Vuoi dire il Tempio Sinergista: non si chiama più Croughton Hall. Che cosa hai fatto? Sei tornata da quella gente?» «Ho pensato che dovevo passare a dare un saluto: sono stati così gentili con te, la settimana scorsa. Ho anche pensato che volessero sapere come stavi.» «Chi hai visto. Kinsella, Gillie?» «Ho visto Mycroft.» «Sai è considerato un uomo pressoché inaccessibile, eppure si lascia avvicinare molto facilmente da te.» «L'ho visto solo due volte, Mike.» «Due volte più del curato.» «Chi non vorrebbe evitarlo, quello lì?» «Non credo che il nostro curato abbia voluto turbarti con la sua macabra storiella. Probabilmente pensava di renderci Gramarye più interessante, più caratteristica e misteriosa.» «C'è riuscito, ma in modo sgradevole. Il suo racconto mi ha innervosita, quando scendo in cucina al mattino ho sempre paura di trovarci qualcuno seduto al tavolo.» Non le rivelai che avevo anch'io la stessa paura. «Dimenticati quella storia. E poi tu non credi ai fantasmi.» «In genere no. Comunque non credo che la morte sia la fine di tutto: deve esserci qualche cosa dopo che dà un senso a tutto questo. Non possiamo esistere qui su questa terra e poi sparire, altrimenti tutto quello che facciamo o cerchiamo di ottenere non avrebbe senso.» «Bene, è una cosa che non sapremo mai finché non ci chiuderanno dentro una bara, non è vero? E devo dire che in questo momento non sono eccessivamente curioso di saperlo.» «Mycroft mi ha detto che possiamo farci un'idea di quella che sarà la nostra condizione dopo la morte.» «Oh, Midge, non crederai a queste sciocchezze, eh? " Qui c'è qualcuno, sono lo zio Giorgio, mi sentite? C'è qualcuno qui che aveva una nonna dai capelli grigi, che è trapassata una ventina di anni fa?" Ti stai illudendo.» «No, non questo genere di stupidaggini; lo spiritismo ciarlatanesco non mi interessa. Non è meglio di certe religioni che sfruttano solo la creduloneria della gente.» Fece una pausa come se non sapesse se continuare o no poi disse : «Mycroft insegna che quando la volontà è in sintonia con lo
Spirito Divino, 1'anima può vivere esperienze mai sperimentate prima. Crede che la nostra forza spirituale può unirsi con la perpetua essenza di coloro che una volta erano in vita.» Un mio piccolo mugolìo annoiato l'arrestò per un momento. «No, Mike, non con i metodi semplicisti e ciarlataneschi dei cosiddetti medium, ma mediante la coscienza. Forse in un modo di minor effetto delle voci o dei movimenti di oggetti, o anche delle visioni, ma, appunto per questo, pura e genuina. Niente imbrogli, né illusioni; solo un reciproco contatto fra forze psichiche, con Mycroft come guida o, se vuoi, come interprete. Le parole non possono spiegare tutto questo, certo non le mie: devi solo credere.» «Scommetto che ci credi. Scommetto che tutto il suo culto è fondato su questo tipo di fede cieca. Come puoi prendere sul serio quello che ti dice?» «Non ho mai detto di farlo,» rispose con voce tesa. «Ma le sue idee, i suoi concetti, sono interessanti e, se hai una mente aperta, hanno un senso. Ma devi ascoltare, Mike, ascoltare lui, non me. Capirai subito che è un uomo notevole.» «No, grazie, preferisco rimanere quell'ignorante che sono.» «Avrei dovuto sapere che è tutto quello che ci si può aspettare da te. Il solito cinico sempre immerso nel tuo scetticismo. Dovresti uscire, qualche volta, dal tuo piccolo mondo ristretto, Mike, dovresti tentare di guardare al di là del tuo naso.» «Gesù, ti ha proprio accalappiato.» Midge si allontanò da me con un movimento brusco e disgustato, e immediatamente mi pentii di aver scherzato; anche se credevo in quello che avevo detto. Le misi una mano sulla spalla e sentii la scossa di un singhiozzo. «Midge, scusami, non credevo di turbarti così. Forse oggi i nostri bioritmi non sono in sintonia, eh?» Lascia perdere le battute, mi dissi e la abbracciai. Quanto avrei voluto riuscire a trovare un accordo con Midge quel giorno. «Dovrei averlo imparato ormai che sei pronta ad ascoltare nuove idee e filosofie pur non accettandole. È sempre stata una tua dote quella di fare tuoi nuovi metodi di pensiero.» Mi aspettavo di sentirmi dire «vile adulatore», la sua solita reazione alle mie lusinghe per calmarla, ma in realtà era troppo turbata. «Forse non ho preso per il verso giusto Mycroft e la sua gente. Sono sicuro che lui crede fermamente in quello che fa, ma tu non puoi aspettarti che un cinico incallito gli vada dietro, ti sembra?» Midge tirò su col naso senza rispondere.
«Parliamone un po',» continuai. «Prova a convincermi, a farmi vedere la cosa da un altro punto di vista. In passato questo metodo ha sempre funzionato, no?» Mi rispose, ma senza voltarsi. «Mycroft dice che può aiutarmi a mettermi in contatto con i miei genitori.» Ero troppo sbalordito per dire qualche cosa, e probabilmente fu un bene. Infine dissi: «Oh, bambina...» e immediatamente la sentii irrigidirsi. Ma io rimasi fermo e la feci voltare verso di me. Dovevamo discutere. Più tardi quando mi svegliai era buio. Mi voltai verso Midge; dormiva profondamente. Avevo fatto uno sforzo per controllarmi, trattenendo una quantità di cose che avrei voluto dire su Mycroft e le sue pazze idee. So di aver scelto la strada della codardia, ma ero ansioso che le cose tornassero come prima fra noi; il guaio fu che Midge prese il mio silenzio per consenso e si intestardì ancor di più sull'idea di mettersi in contatto con i suoi genitori attraverso quelI'illuso sinergista. Cercai di tirare delicatamente le redini, ma lei si era lasciata subito trasportare, tutta presa dall'idea di poter effettivamente «parlare» con i suoi, di potere in qualche modo misterioso dar pace ai loro spiriti. La loro morte era stata violenta, e lei pensava malauguratamente che le traumatiche circostanze in cui erano morti non avrebbero concesso loro la pace nell'altra vita. Rabbrividii e mi tirai le coperte fino al collo; la pioggia caduta durante il giorno aveva rinfrescato l'aria. E adesso la camera da letto era più umida di prima. L'orologio digitale sul comodino rotondo vicino al letto segnava le 22,26. Avevamo dormito dal pomeriggio alla sera. Mentre me ne stavo lì, un'ombra passò rapida davanti alla finestra: un pipistrello o un gufo nel suo vagabondaggio notturno. Il battito delle ali venne ingigantito dal silenzio sepolcrale. Mi sentivo la gola secca e fui tentato di svegliare Midge e chiederle di scendere in cucina con me, prendere un caffè o un latte caldo, magari anche una tartina, e parlare ancora. Sentivo che dovevamo approfondire la nostra conversazione del pomeriggio e cercare di capirci meglio. Avrei dovuto essere cauto perché non l'avevo mai vista così convinta su cose di questo genere, ma ero sicuro che con un paziente ragionamento sarei riuscito prima o poi a farle tornare il lume della ragione. Mi chinai su di lei e le baciai la spalla scoperta. Lei si mosse e mormorò qualche cosa di incomprensibile, che probabilmente aveva un senso in re-
lazione al sogno che stava facendo, poi si voltò a pancia in giù e non disse più niente. Le accarezzai la nuca, ma non si mosse: era nel mondo dei sogni. Appoggiato sui gomiti, guardai la finestra, oltre la quale il cielo era di un blu lucente; ricordai con amarezza l'amore che aveva preceduto il nostro sonno; l'amplesso che avrebbbe dovuto esser addolcito dalla riconciliazione dopo il litigio, non era stato bello. Non era stato affatto bello. Credo che il nostro sforzo di fare la pace contribuì notevolmente alla nostra stanchezza; perché subito dopo mi addormentai. Mi scusai mentalmente con Midge, più per essermi addormentato così presto che per la mia misera «performance» (eravamo entrambi adulti e abbastanza saggi da saper che a volte queste cose avvengono anche nelle relazioni migliori). Gettai indietro le lenzuola, quasi sperando che quel movimento l'avrebbe svegliata, ma non fu così. Mi infilai la vestaglia e scivolai verso la porta senza fare rumore poiché non volevo svegliarla. Nell'avvicinarmi alla porta toccavo la parete con la mano per avere una guida e fui sorpreso quando mi accorsi di avere il palmo bagnato. Passai la mano sulla parete e le mie dita scivolarono sulla superfice umida. Una perdita? Impossibile. Una condensa di umidità? In estate? E tuttavia doveva essere così: aveva piovuto gran parte del giorno. Mi domandai che cosa sarebbe successo d'inverno. Ovviamente c'erano altri lavori da fare, ma avremmo saputo quali solo quando il tempo fosse peggiorato. Percorsi il corridoio fino alle scale. Accesi la luce, ma non fu sufficiente a illuminare tutte le scale. Se devo essere sincero non mi attirava granché l'idea di scendere in cucina e credo che sappiate perché: mi convinsi di essere un adulto e di non credere a queste cose. Cominciai a scendere ma mi fermai a mezza strada: la cavità nera della cucina nel fondo, non era affatto invitante. L'allucinazione del dipinto mi aveva evidentemente snervato più di quanto pensassi. Strinsi i denti eroicamente, ripresi a scendere con la mano tesa per trovare 1'interruttore che era vicino alla porta. L'immagine - la sensazione - di invisibili dita fredde e ossute che mi stringevano il polso era insopportabilmente intensa nella mia mente, quasi tanto da costringermi a risalire di corsa, ma resistetti a quell'impulso. La luce si accese e fu un sollievo trovare che la stanza era vuota. Passai oltre in cucina andando dritto al frigorifero (lo stesso interruttore accendeva la luce delle due parti della cucina) e presi un cartone di latte. C'era un grande bicchiere ad asciugare sullo scolapiatti; lo riempii di latte fino all'orlo e ne bevvi subito metà, poi lo riempii di nuovo. Cercando ancora nel
frigorifero trovai del prosciutto, e proprio mentre imburravo una fetta di pane ebbi la sensazione di non essere solo. Mi guardai attorno: la finestra sopra l'acquaio mi restituì solo un pallido riflesso di me stesso. Da dove ero non potevo vedere sulla superficie lucida la tavola e le sedie oltre l'arco della porta che divideva le due parti. Ma la mia mente vide qualcuno seduto là. Mi voltai lentamente per guardare la parte anteriore, ma in realtà non volevo vedere. Volevo solo battere il soffitto con il mio manico della scopa perché Midge venisse giù al più presto a farmi compagnia. Naturalmente non potevo farlo, e naturalmente dovevo spingere la testa oltre l'arco della porta se non volevo restare lì fino al mattino. Avanzai cautamente verso la porta come la macchina da ripresa in un film di Hitchcock; l'angolo visivo cambiava via via che mi avvicinavo rivelando sempre più spazio; un angolo della tavola, la saliera, l'estremità di una sedia... Il mio stesso movimento lento e deciso mi faceva venire la pelle d'oca, e la sensazione che qualcuno fosse seduto lì aspettando che io guardassi oltre l'angolo della porta, e sogghignasse, dinanzi a una tazza di tè ammuffito, quasi mi sopraffaceva. Così feci d'un balzo gli ultimi due passi. Lei non era lì. La vecchia Flora giaceva nel cimitero del villaggio, non era seduta al tavolo della cucina di Gramarye. Grazie a Dio. Mi appoggiai allo stipite della porta per riprendere fiato. Lei non era lì, ma oh, c'era un'atmosfera in quella stanza. Forse la mia immaginazione stava ancora correndo, ma ero sicuro di sentire una presenza, qualche cosa che era quasi tangibile nell'aria. Vi era nella stanza l'odore di una persona vecchia, capite quello che intendo! Un odore dolciastro, di muffa e di vecchio nello stesso tempo. Una volta ho letto da qualche parte che certi parapsicologi considerano i fantasmi semplici residui dell'aura di una persona defunta, e adesso pensavo che questa teoria poteva facilmente applicarsi all'interno del villino: i residui psichici di Flora Chaldean permeavano 1'ambiente, la sua vitalità impregnava il mobilio e le pareti stesse. Sentivo che lei se n'era andata ma che parte della sua personalità era rimasta chiusa in Gramarye, forse per svanire nel nulla col tempo. Rabbrividii a quell'idea, ma per lo meno eliminava ogni ipotesi romantica di fantasmi e di infestazioni. Tornai al lavoro cominciato e rapidamente finii di prepararmi un sandwich; poi, con quello e il bicchiere di latte mi avviai alle scale senza potermi impedire di lanciare un'occhiata alla tavola nel passare. Avevo
1'impressione di potere raggiungere e toccare l'apparizione, tanto forte era l'immagine eidetica. Dovetti fare un certo sforzo per spegnere la luce. Salii le scale più rapidamente di quando le avevo scese lasciando accesa la luce quando entrai nella stanza rotonda. Nonostante il mio nervosismo non accesi la luce lì, e non lo feci per una semplice ragione: per non disturbare la mia compagna addormentata andavo a mangiare il mio spuntino fuori della stanza da letto, ma non volevo vedere ancora il disegno in piena luce, caso mai quei colori vibranti mi facessero di nuovo qualche scherzo. La luce del corridoio e il riflesso lunare che proveniva dalle finestre mi permetteva di intravedere appena il disegno. Mi abbandonai sul divano, mi riempii la bocca di pane e prosciutto e mi posai il bicchiere di latte su una coscia. Seduto lì, pensai a Mycroft il quale diceva di poter mettere Midge in contatto con i suoi defunti genitori, e al fatto che lei ne fosse convinta credendo davvero che quel buffone fosse una specie di mistico, capace di conversare con le anime degli scomparsi. Mentre potevo accettare la possibilità di una vita dopo la morte, non potevo credere all'idea folle di avere un contatto diretto con l'altra sfera. Tuttavia soffrivo per Midge, perché una parte di lei era ancora straziata per la morte dei suoi genitori. Credo che in qualche modo cercasse la pace mentale; non riusciva ad accettare l'idea della privazione. Un dato momento Midge aveva una famiglia, poco dopo era completamente sola. Certo era trascorso un breve periodo tra la morte dell'uno e quella dell'altro, ma non sufficiente a impedire il trauma. Sua madre era morta a cinquantacinque anni dopo aver sofferto per diverso tempo del morbo di Parkinson, e Midge e suo padre l'avevano curata amorosamente durante tutta la malattia. Purtroppo molti farmaci avevano su di lei gravi effetti collaterali così da non potere essere tollerati; Midge diceva che sua madre aveva sofferto enormemente. Tuttavia la donna malata si preoccupava ugualmente del benessere del marito e della figlia. Pensava di essere un grave fardello impedendo loro di vivere una vita normale, specialmente alla giovane figlia che non poteva dedicare maggior tempo allo sviluppo del suo notevole talento artistico. Ma Midge e suo padre erano pronti a fare qualsiasi sacrificio per assicurarle il maggior conforto possibile e vi riuscivano bene. Finché il padre di Midge non rimase vittima di un pauroso incidente stradale. Riportò una gravissima frattura al cranio e soffrì le pene dell'inferno per cinque giorni prima di morire. E, nei brevi momenti di lucidità, prima della
morte, le sue preoccupazioni furono tutte per Midge e per sua madre. La sua morte distrusse le ultime forze della moglie, e con esse il coraggio che l'aveva aiutata a resistere alla malattia. Il suo deperimento fu così rapido nei due giorni che seguirono alla scomparsa del marito che lei non poté assistere al funerale. Quando Midge tornò a casa dopo il funerale trovò la madre fuori dal letto, completamente vestita, immobile su di una poltrona, con la fotografia del defunto marito sulle ginocchia. Ai suoi piedi vi erano un tubetto di pastiglie vuoto e un bicchier d'acqua rovesciato. Un sacchetto di plastica trasparente, chiuso stretto da un nastro attorno al collo, le copriva la testa. Aveva lasciato un biglietto in cui chiedeva perdono alla figlia pregandola di capire. La vita era divenuta troppo dura per lei, la morte del marito, si era aggiunta alle sue pene fìsiche e mentali e, restando in vita, non avrebbe fatto altro che rovinare l'esistenza della giovane figlia tenendola legata a sé e privandola della sua libertà. Midge soffriva del fatto che i suoi genitori non potevano partecipare ai successi artistici dell'amata figlia. È facile capire perché Midge era stata così sensibile alle false promesse di Mycroft. Il suo tavolo da disegno si intravedeva nella semioscurità, con la superficie inclinata e il disegno fissato su di essa. Senza vederlo, sapevo che il chiaro di luna lo illuminava misteriosamente creando una diversa struttura, forse un'altra dimensione spettrale. Ma non ero abbastanza curioso da darvi un'occhiata. Ombre nere passarono sul pavimento facendomi sussultare, ma presto mi resi conto che si trattava soltanto di alcuni dei nostri amici notturni della soffitta i quali stavano lasciando il loro rifugio e i loro corpi alati svolazzavano nel chiarore lunare gettando le loro ombre nella stanza. Finito il sandwich, mi alzai dal divano portando il latte con me e mi avvicinai a una delle grandi finestre rasentando il tavolo da disegno ed evitando con cura di guardare il dipinto. Fuori, la campagna era inondata da quella particolare luminosità che non si associa con il calore ma evoca solo gelo e desolazione. L'erba era così priva di colore che la distesa appariva gelata, e così profonde erano le ombre fra i cespugli e gli alberi da apparire come dei vuoti neri. Sorseggiai il latte e quel liquido freddo mi penetrò nell'intimo. I miei occhi fissavano lo scuro margine della foresta cercando qualche cosa che non volevo trovare. Discernere una figura nascosta sarebbe stato comunque impossibile tanto fitta era 1'oscurità, ma questo non mi impediva di cerca-
re, e il saperlo non impediva nemmeno un sospiro di sollievo quando non trovavo niente. Tuttavia quel sollievo fu prematuro. Perché la mia attenzione venne attratta da qualche cosa che stava a metà strada tra la foresta e il villino. Qualche cosa che non ricordavo di avere visto in precedenza. Era così immobile che forse si trattava solo di un cespuglio. Ma una macchia pallida che faceva capolino fra gli arbusti mi incuriosì. Quella che vedevo era una faccia. Poi vidi qualche cosa di bianco che si alzava lentamente e che poteva essere solo una mano. E quella mano mi fece un cenno. 24. NESSUNO Ebbi paura. O meglio, fui maledettamente atterrito. Ma avevo avuto abbastanza guai per un giorno solo. Ero stato umiliato, accusato di essermi drogato, confuso dall'allucinazione del pomeriggio e infastidito perché mi lasciavo intimidire da questo misterioso osservatore che non aveva il coraggio di battere alla porta e presentarsi, uomo o donna che fosse. Tutto questo si combinava con una rabbia intima che rapidamente cominciò a traboccare. Mi rovesciai il bicchiere di latte sui piedi e questa fu la goccia che fece traboccare il vaso. Con un grido di rabbia, corsi alla porta saltando i primi gradini per l'esasperazione. Tirati i catenacci facendo il maggior rumore possibile (Midge continuò a dormire), spalancai la porta e uscii nella notte girando attorno al villino verso il punto in cui la figura mi attendeva, scivolando sull'erba ancora umida di pioggia, con la vestaglia aperta e svolazzante così che l'aria sferzava il mio corpo nudo. Ma non ci badai: il troppo era troppo. Stavo per affrontare quella dannata spia dei boschi una volta per tutte. Mi dimenticai degli esseri disincarnati, delle donne in nero, delle apparizioni avvolte in sudari e dei fenomeni paranormali, dei presagi sinistri, degli esorcismi e dei morti - mi sarei battuto con la bestia che non era una bestia bensì qualcuno che si divertiva stupidamente e maledettamente alle mie spalle. Il mio sdegno feroce mi fece superare tutte le paure. Mi lanciai nel buio senza badare ai sassi aguzzi e ai rami che mi sferza-
vano dolorosamente i piedi, così infuriato da trascurare ogni precauzione. Ma correvo verso il niente. Cercai il punto preciso in cui la figura era apparsa, orientandomi considerando la linea della finestra da cui avevo guardato e un mucchio di cespugli bassi sulla sinistra. Mi guardai attorno senza fermarmi, rallentando solo quando raggiunsi il punto in cui ero certo che la figura mi aveva fatto cenno. Lui, lei, o chiunque fosse, non aveva potuto avere il tempo di fuggire nella foresta o di correre dall'altro lato del villino. Ma dove diavolo era? Non poteva essere scomparso nel nulla. Mi rimisi a correre, forse più per dimostrare a me stesso quanto ero coraggioso che per altro. Schizzai fra gli alberi, battendo i cespugli per scovare qualunque cosa vi fosse nascosta. A dire il vero qualcosa uscì da una massa di fogliame spaventandomi quasi a morte, ma era piccola e velocissima, un animale più atterrito di me. Questo piccolo choc mi raffreddò un tantino, e io rimasi lì guardando a destra e a sinistra, davanti e dietro me, ansante, con le spalle curve e il sudore che già cominciava a raffreddarsi sul mio corpo quasi nudo. Mi strinsi la vestaglia in vita e mi lasciai cadere a terra. E accovacciato lì scoppiai a piangere alla luna. 25. IN COMPAGNIA Bob e io eravamo seduti fianco a fianco sulla panca dietro il villino, con alcune lattine di birra fra noi, mentre il sole cominciava a tingere tutto di rosso. La sera era calda e i calabroni ronzavano ancora prima di concedersi il riposo. Le nostre ragazze erano in cucina, affaccendate a preparare l'insalata, ad affettare il prosciutto e probabilmente dandosi un gran da fare per preparare una buona cenetta. Bob si versò un'altra birra guardando la foresta che si oscurava. Scosse la testa: «Detesto la campagna!» Sorrisi per quel che aveva detto. «Domattina ti porterò a fare una passeggiata nei boschi.» «Nemmeno se mi ci porti al guinzaglio!» Bevette e si lasciò andare contro lo schienale della panca stringendo gli occhi contro il sole e distogliendo poi rapidamente lo sguardo. «Non trovi opprimente tutta questa pace e questo silenzio? Voglio dire, sarà anche bello, ma non ti stanca dopo un
po'?» «Ci si abitua,» risposi. «Sì, ma non senti la mancanza di...» cercò la parola giusta «... di vita?» «Ce n'è un mucchio da queste parti, se guardi bene.» «No, non questo genere di vita, non la natura. Voglio dire la vita, qualche cosa da fare.» «È strano ma non è un problema per me. Certo, ogni tanto divento inquieto - per questo mi è piaciuta tanto la nostra seduta in sala di registrazione della settimana scorsa. Ma siamo abbastanza vicini a Londra per saltare in automobile e andare a passar la sera lì.» «E quante volte lo hai fatto, da quando sei qui?» «Mi sono appena sistemato, Bob. Non abbiamo ancora avuto il tempo di sentire il desiderio di mondanità.» Si asciugò il mento bagnato di birra. «Sì, forse hai ragione. Può darsi che sia il modo ideale di passare la giornata ascoltare il rumore dell'erba che cresce e guardare gli uccelli che fanno il nido. E metterti a intrecciare cestini per arrotondare le entrate.» Risi di questa conclusione. «Se credi che voglia passare un intero fine settimana così...» Mi battè una mano sulla coscia, divertito. «Scherzavo, Mike, sul serio. Per dirti il vero, credo che tu abbia fatto un ottimo cambiamento. Forse un giorno lo farò anch'io. Aspetto però di avere qualche capello grigio. Oh, guarda, eccolo ancora qui quel maledetto scoiattolo! Non ha paura, eh?» Rumbo aveva fatto la sua comparsa all'improvviso, incuriosito dei nostri ospiti. Era sulla soglia di casa quando Bob e la sua ragazza erano arrivati un'oretta prima, ed era scappato via mantenendo le distanze, ma senza scomparire del tutto. Ero contento che avesse superato presto lo choc. Tuttavia io non mi ero ancora rimesso dal mio. Avevo avuto 1'idea di confidare a Bob quello che era successo il giovedì precedente, ma non riuscivo ad immaginare il mio vecchio amico beone che mi prendeva sul serio. Sapevo fin troppo bene che mi avrebbe riso in faccia. Perché non avevo detto a Midge della mia escursione notturna per affrontare quell'essere sinistro che mi aveva fatto cenno? Perché lei era troppo occupata a pensare alle promesse di Mycroft. L'episodio del suo disegno che si muoveva le era già passato di mente, e i nostri rapporti erano ancora un tantino tesi. Se proprio me lo chiedete, vi dirò che adesso avevo qualche dubbio sulla mia salute. Non ero più sicuro di non soffrire qualche forma di allucinazione: chiamatela pure nevrosi da
cambiamento d'ambiente; tutto questo sembrava così irreale e fantasioso nella fredda luce del giorno. A dir la verità avevo deciso di prender tempo e vedere quello che sarebbe avvenuto. Comunque c'era poco da scegliere. Rumbo si avvicinò a noi con lo sguardo fisso su Bob il quale fece schioccare la lingua come per richiamare l'attenzione di un cane o di un bambino piccolo, e lo scoiattolo tirò su la testa; guardò per un poco Bob con una certa curiosità e poi saltò audacemente sul tavolino dove erano rimaste due lattine vuote. Guardò nella fessura triangolare di una di queste facendola quasi cadere e, tenendola con le zampette, succhiò il residuo di birra con grande divertimento di Bob. «Bellissimo, bellissimo,» gridò. «Uno scoiattolo che si dà all'alcool! Vedo che hai fatto del tuo meglio per far fronte a questa infestazione: farli diventare alcolizzati e lasciarli bere fino a crepare.» «Rumbo non è un'infestazione: fa parte della famiglia.» Bob mi diede uno dei suoi soliti sguardi e rise senza fare altri commenti. Io avevo aspettato con ansia la sua visita, pregustandola ogni giorno: una sensazione buona, potrei dire. Bob e Kiwi, e la Grossa Val, erano i nostri primi invitati a Gramayre, e Midge e io (nonostante le sue prime riserve circa Bob) ne eravamo molto lieti. Adesso cominciavo a rilassarmi: la seconda birra e la piacevole compagnia del mio amico mi aiutavano a ritrovare l'equilibrio. I conigli selvatici erano riapparsi a giocherellare un po' prima di andare a letto, sebbene questa sera si tenessero lontani dal villino come se sentissero che vi erano degli estranei, e pochi uccelli svolazzarono attorno come clienti serali. La brezza era lieve e calda. Io bevevo birra e mi godevo l'atmosfera. Bevemmo ancora nella stanza rotonda prima di cenare, questa volta tutti insieme: Midge si attenne alla limonata con soda mentre il resto della compagnia preferì qualche cosa di forte. L'agente di Midge era arrivata venti minuti prima chiedendomi un gin-tonic che l'aiutasse a rimettersi dal viaggio. La Grossa Val e Bob si erano incontrati un paio di volte e le loro reciproche canzonature erano sempre rimaste sulla base di una gioviale ostilità. Bob voleva che le donne fossero più femminili e non aggressive, infatti Kiwi era un modello di femminilità, e quindi lui non riusciva a capire Val. Cominciò a complimentarsi con lei, per i suoi scarponi da campagna, «adattissimi per camminare in un porcile», come disse. Lei ricambiò il complimento ammirando la sua cravatta di cuoio rosso, «l'ideale per strangolarsi.» Scambiati questi «complimenti» Midge e io brindammo alla salute dei
nostri primi ospiti ed essi ricambiarono brindando alla nostra futura felicità a Gramayre. Chiacchierammo per un po' ma ovviamente Val era impaziente di vedere l'ultimo lavoro di Midge; gli occhi le si erano illuminati quando entrando aveva visto il cavalietto in fondo alla stanza, e non tardò a fare un giretto da quella parte. Il disegno del villino era ancora fissato al tavolo, protetto dalla polvere con un foglio di carta velina. Io non l'avevo guardato dal giovedì, ma osservai l'agente mentre alzava la velina, curioso della sua reazione. Non so che cosa mi aspettassi, ma non certo che aggrottasse le sopracciglia. Notai quell'espressione perché la osservavo da vicino; ma il cipiglio passò subito e Val sorrise. «Splendido,» disse, «assolutamente splendido.» Per lei, abituata a opere di prim'ordine, quel giudizio era il massimo, e Midge era raggiante. «Non è in vendita,» si affrettò a dire. «E una cosa per Mike e per me, un ricordo delle nostre prime settimane passate qui. Il primo incontro di Gramarye con noi, prima che ci fossimo abituati a tutto. Sapete bene come è facile finire col diventare insensibili anche alle cose più belle che ci circondano.» Val continuò a studiare il dipinto mentre Bob e Kiwi se ne stavano l'uno vicino all'altra dietro di lei. «Oh, questo sì che è qualche cosa di diverso!» Esclamò Bob con entusiasmo. «Guarda, cara. Questa è quella che si chiama arte. Non quella robaccia astratta che va di moda adesso.» «Evidentemente hai le idee chiare in fatto d'arte, Bob,» disse Val secca. Lui assentì. «Mi piace capire l'opera che guardo», rispose fissando Val in modo significativo. «Come andavano i manifesti che ha fatto Midge per quell'agenzia?» chiesi per cambiare argomento. Val si allontanò dal tavolo da disegno. «Ho lasciato in macchina i primi bozzetti con i colori corretti. Ho pensato che potremo vederli domattina, Midge, e tu potrai apportare i cambiamenti.» «Bene,» convenne Midge. «Sono ansiosa di vederli.» «Ricordati che sono solo dei bozzetti. Abbiamo tutto il tempo di perfezionarli.» «Sembra di cattivo augurio.» «So quanto sei scrupolosa. Il direttore artistico è contento. Ha in programma altro lavoro per te, ma anche di questo parleremo domattina. A
proposito, Hamlyn vuole discutere con te un nuovo libro.» «Sembra che dovrai lavorare sodo,» osservai. «È il periodo di maggior lavoro. 1 clienti vogliono avviare il lavoro prima di andare in vacanza.» «Non sono ancora pronta ad assumerne troppo,» avvertì Midge. «Non intendiamo lasciarti godere troppo a lungo la vita di campagna,» disse Val abbandonandosi sul divano. «Un mucchio di gente ne sarebbe molto scontenta, specialmente i tuoi piccoli fan.» «Per non parlare del suo direttore di banca, Dio lo benedica,» commentò Bob sedendosi accanto a Val cosi che lei dovette scostare il suo voluminoso sedere. «Suppongo che stiamo per andare a cena, no! O dobbiamo avviare un'altra registrazione del Band Aid? E vedo che l'alcool fila via come acqua.» Mi mostrò il suo bicchiere quasi vuoto. Con amici invadenti come Bob, i contrasti dovevano essere sempre attenuati. Ma io ci avevo fatto l'abitudine; faceva sempre così e certe abitudini sono dure a morire. Inoltre sapevo che il suo comportamento era rivolto a Val: lui cercava sempre di irritare coloro che non sapeva come prendere. Kiwi lo rimproverò disgustata, mettendosi una ciocca bionda dietro a un orecchio. «A volte i tuoi modi sono proprio imbarazzanti,» disse rannichiandosi vicino a lui sul pavimento. «E proprio la mia maleducazione che mi rende così simpatico, non è vero, Mike?» Gli presi il bicchiere dicendo: «Sì, sei davvero adorabile. Sempre lo stesso?» «Con un po' più di vodka, questa volta. Stanotte non devo guidare.» «Fa differenza?» Mise un braccio attorno alla sua ragazza e sorrise soddisfatto come un gatto che ha avuto del pesce e sa che gliene spetta dell'altro. Gli inviai un messaggio mentale: Controllati, amico, e non mettermi nei guai. In realtà non lo fece. Quello che avvenne poi fu solo in parte colpa sua. La cena fu un successo. Più vino si consumava, più la conversazione si faceva accesa. Bob e Val cominciarono a capirsi: le loro frecciate diventarono più spiritose e meno polemiche a mano a mano che le ore passavano. Le insalate non erano mai state il mio piatto preferito, ma, poiché l'agente di Midge era vegetariana, tutti dovettero accontentarsi del menù; inoltre vi era molta carne fredda per
noi «carnivori.» Kiwi risultò essere molto più brillante di quanto sembrasse. Rifiutò di dirci come le era stato appioppato quel soprannome, ma Bob fece capire pesantemente e un po' lascivamente che aveva a che fare in qualche modo con quel lucido da scarpe e poi Kiwi non ebbe alcuna inibizione nel rivelarci che in passato aveva fatto parte di un complesso rock. Più di una volta, durante la cena, mi trovai ad osservare Midge, con il suo volto sottile trasformato da folletto in principessa, gli occhi a mandorla scintillanti e dolci, e una bellezza che veniva dall'intimo. Il vino abbondante può avere influito in un certo modo sul mio giudizio, ma la sensazione non era nuova; avevo visto in lei le stesse qualità già molte altre volte e in momenti in cui ero perfettamente sobrio. Così la misi forse su una sorta di piedistallo (e non fui il solo a farlo), ma la conoscevo da troppo tempo perché ora apparissero crepe in quel piedistallo. Non prendetemi per un idiota: conoscevo i suoi errori e le sue debolezze, ma per me la rendevano solo più vulnerabile e più umana. Diciamo che portavano la realtà nel sogno e la rendevano più accessibile a me. E una delle cose che mi legavano così forte a lei era il fatto che lei vedesse in me qualche cosa di buono: questo mi rendeva in certo modo più libero, mi permetteva di esporre i miei sentimenti più facilmente. Chiamatemi pure un folle romantico. Fui folle anche sotto un altro aspetto, quella sera, perché Bob, con la sua vescica d'acciaio, era corso su per le scale al bagno un paio di volte, durante la cena, e solo la seconda volta notai che stava masticando qualche cosa quando era tornato. Mi venne in mente solo più tardi, nel sentirlo farsi grandi risate alle battute più sciocche, che era scomparso solo per prendere piccole dosi di cannabis non volendo farlo davanti alla sua ospite, la cui avversione alle droghe era nota. Evidentemente sentiva il bisogno di uno stimolante oltre all'alcool, quindi non c'era da meravigliarsi del suo buon umore. Lasciai correre, ansioso che Midge non scoprisse quello che lui stava facendo: avevo avuto abbastanza noie con le droghe, in quella settimana e non per colpa mia. Fortunatamente lei non ci fece caso, presumibilmente attribuendo la giovialità di Bob al buon cibo, al vino e alla compagnia. Era tardi quando finalmente chiudemmo la porta della cucina per non far passare l'aria della notte, divenuta più fredda, e salimmo al piano di sopra, mentre Midge restava giù a preparare il caffè. Quel giorno avevo comprato del buon brandy in paese e lo versai a Bob, a Val e a me. Non riuscii a procurare un Malibu a Kiwi, che dovette accontentarsi di vodka con molta
limonata. Resistetti alla tentazione di portar giù le chitarre, sapendo che una volta Bob e io avessimo cominciato, avremmo suonato per tutta la notte finché tutti gli altri non fossero caduti nel più completo stordimento. Misi, invece, una cassetta tenendo basso il volume per poter udire le nostre voci sopra la musica. Perfino Val sembrava addolcita e più graziosa di quanto l'avessi mai vista, e iniziammo un'allegra discussione sul tema: «Agente: fornitore di lavoro o parassita?» Credo che lei ne sia uscita a testa alta, e non ne fui scontento. I primi sbadigli cominciarono verso l'una, e la colpa venne attribuita all'aria tersa della campagna. Bob era pronto a chiacchierare per tutta la notte, ma Midge, sempre lucida, informò i nostri ospiti delle disposizioni prese per la notte suggerendo un turno per l'uso del bagno. Bob e Kiwi avrebbero dormito nella stanza rotonda, sul divano, che era di quelli che si possono trasformare a letto, mentre Val sarebbe andata nella stanza accanto alla nostra, su di un letto pieghevole. Midge ed io scendemmo in cucina per lavare i piatti mentre gli altri si preparavano per andare a letto. Risi fra me quando sentii Bob rintanato nella sua camera imitare Michael Jackson. Midge e io indugiammo sulla soglia dell'ingresso per guardare le stelle che sembravano più irreali e più numerose viste attraverso l'aria tersa. Indugiammo anche in baci e carezze come adolescenti al loro primo appuntamento. Io ero felice però di non dover prendere l'ultimo treno. Quando tornammo a guardare il cielo, le stelle erano scomparse dietro nere nubi. Non ho idea di che ora fosse quando le grida ci svegliarono. Balzammo entrambi a sedere sul letto come spinti dalla stessa molla. C'era solo una luce sufficiente per farmi vedere il profilo scuro di Midge, e sentii le sue mani che si stringevano a me impaurite. «Dio mio, Mike, che cos'è?» «Non lo so...» Le grida si ripeterono alte e terribili: impossibile stabilire se erano di un uomo o di una donna. Tesi il braccio verso la lampada a fianco del letto facendola quasi cadere nel cercare l'interruttore. Eravamo entrambi nudi; Midge si infilò in fretta la camicia da notte e io la vestaglia, tutti e due ci dirigemmo verso la porta. Devo ammettere tuttavia che esitai un attimo prima di aprire quella por-
ta. Le grida mi avevano messo addosso un gelo che sembrava attraversarmi tutto. Girai la maniglia tremando. Senza più ostacoli, le grida furono ancora più intense e paurose. Nella stanza rotonda vi era una lampada e Kiwi era inginocchiata a terra presso di essa: guardava inorridita una figura raggomitolata in fondo alla stanza. Quella figura era Bob, con la faccia ancora inorridita, brutta e sfigurata come uno di quei mostri di pietra che si vedono sporgere dalle cattedrali gotiche. Quello che rendeva il suo aspetto ancora più pauroso era il fatto che era mostruosamente pallido. Guardava verso la porta spalancata che dava sulle scale con gli occhi sbarrati. La mascella gli pendeva fin quasi sulla gola, la sua bocca era un grande buco, e le sue grida, adesso, erano solo un suono rauco. Corsi da Bob gridando il suo nome come se questo potesse trarlo dalla follia che era evidente nel suo sguardo, cadendo in ginocchio davanti a lui. Le sue mani, come rigidi artigli, gli coprivano la faccia quasi per impedirgli di vedere una visione di incubo; ma i suoi occhi continuavano a sbirciare fra le dita. Tremava, con un movimento rigido e spasmodico che gli scuoteva il corpo divenuto improvvisamente fragile. «Bob, che è successo? Calmati e dimmi cosa è accaduto.» Non sentiva: si rannicchiò contro il muro puntandosi sul tappeto coi piedi nudi. Lo presi per i polsi che erano come sbarre d'acciaio vibrante. Da qualche parte, in fondo alla stanza, sentii un forte singhiozzo e sperai che Midge si prendesse cura della ragazza di Bob: io ero troppo sconvolto per poter confortare altri oltre a Bob. «Bob, per l'amor di Dio, calmati!» Gli scossi le spalle, sebbene avessi quasi paura a toccarlo: ma lui si ritrasse. Cercai di calmarlo opponendomi a lui con la forza. Questa volta gli afferrai le mani e gliele strinsi avvicinandomi a lui così da costringerlo a guardarmi. Forse avrei dovuto capire subito qual era il problema perché, nonostante la luce smorzata della stanza, le sue pupille erano piccole, contratte come se colpite dal sole. E il suo sguardo era vitreo e terrorizzato; avevo visto quello stesso sguardo in parecchie mie conoscenze sotto l'azione della cannabis. Ma l'atmosfera era troppo carica perché io potessi rendermi conto di questo. Mantenni la voce calma e controllata come se ragionassi con lui. «Non ti è successo niente, Bob, va tutto bene. Hai fatto un brutto sogno, tutto qui. O forse hai sentito qualche cosa che ti ha spaventato. Erano i pi-
pistrelli? Non ti abbiamo detto che abbiamo dei pipistrelli nella soffitta. A volte spaventano maledettamente anche me, che ci sono abituato. Su, Bob, siamo tutti qui non aver paura.» Mi sentivo un po' sciocco nel «coccolarlo» così, ma era come se avessi davanti a me un bambino atterrito. Per un momento i suoi occhi sembrarono mettersi a fuoco su di me, e questo parve aiutarlo un poco. Smise di dibattersi e tentò di parlare ma dalla sua bocca uscì soltanto un suono rauco. Non riusciva a chiudere la bocca per formulare le parole. Voltai gli occhi per un secondo per vedere che cosa facevano gli altri, e avrei voluto non averlo fatto. La stanza rotonda non era più la stessa. Era tutto al suo posto, i mobili erano gli stessi, il tappeto era dello stesso colore e così pure le tende : ma mi trovavo in un altro luogo; e dappertutto c'erano delle ombre minacciose. Ed ecco ancora nell'aria quell'umido odore di muffa. Mi parve di veder crescere i funghi sulle pareti, ma le ombre erano troppo scure perché potessi essere certo di quel che vedevo. E la stanza stava diventando più piccola, le mura si restringevano, ma così lentamente che non potevo averne la certezza, anche quando ebbi sbattuto più volte le palpebre non capii se era frutto della mia immaginazione o realtà. No, doveva essere la mia immaginazione! L'odore di muffa mi chiudeva la gola impedendomi di respirare. Kiwi gemeva e Midge, inginocchiata accanto a lei, con un braccio attorno alle spalle della biondina, faceva del suo meglio per calmarla; ma ottenne quasi lo stesso successo che ottenni io con Bob. Kiwi stava tentando di dirci qualche cosa, ma riuscii a udire solo qualche frase soffocata. «... Aveva sete... è sceso... Oh, mio Dio, ho sentito il suo grido... ha visto qualcuno... laggiù...» Per me furono più che sufficienti per capire il significato, e mi sembrò di sentirmi camminare dei millepiedi lungo la spina dorsale. Capii che cosa aveva visto Bob in cucina. Delle unghie che mi grattavano il petto richiamarono la mia attenzione sul mio amico che stava lì contro il muro, e afferrai il suo polso per porre termine a quel doloroso raspare. La sua testa penzolava come quella di un paralitico e l'altra sua mano era puntata per lo più verso la finestra aperta. Ma seguii il suo sguardo piuttosto che il suo dito puntato, ipnotizzato dal suo sguardo folle. Il corridoio era immerso nel buio; ma un pallido bagliore proveniva da in fondo alle scale, dalla cucina forse. Bob doveva aver lasciato la luce ac-
cesa. La stanza si stava rimpicciolendo e le ombre si facevano più scure, come se cospirassero a schiacciarci. Il mio subconscio mi diceva che si trattava solo della mia immaginazione, della mia paura; ma questa spiegazione non era molto confortante. Stringevo ancora il polso di Bob e adesso tremavo come lui. La mia bocca rimase aperta, quasi inchiodata mentre osservavo la porta spalancata. Un'ombra saliva dalle scale. Una grande ombra confusa, nera come inchiostro: veniva dalla cucina. Saliva, appena illuminata dalla luce della cucina. Era quasi in completa oscurità mentre saliva ancora e girava la curva delle scale. Lentamente emerse nella fioca luce della stanza rotonda. 26. UNA BRUTTA ESPERIENZA Quasi venni meno dal sollievo quando Val varcò la porta. «Cristo, Val, mi ha fatto quasi morire di paura!» Battei esasperato il pugno sul pavimento. Lei era stupefatta. «Buon Dio, perché? Sono scesa per scoprire la causa di tutto quel trambusto che ha fatto il nostro amico.» Raggiunse l'interruttore presso la porta e accese la luce centrale. Le pareti tornarono immediatamente al loro posto e le ombre scomparvero. Val entrò nella stanza con indosso la sua ampia camicia da notte di flanella, nonostante la stagione. Non era mai apparsa così eccezionale né così rassicurante. «Giù non c'è niente, Bob, assolutamente niente,» disse avvicinandosi a noi. «Che cosa sono tutte queste assurdità?» Mi strinsi addosso la vestaglia, sentendomi poco vestito, e mi alzai. Guardammo insieme Bob e fui felice di notare che un po' di colore gli stava tornando sulle guance. Tuttavia non aveva affatto un bell'aspetto. «Aiutami a tirarlo su, » dissi a Val e insieme, lo prendemmo per le braccia e lo rimettemmo in piedi. Bob non oppose resistenza era un corpo morto; non potemmo fare altro che portarlo sul divano letto. «Quando sono uscita, lui strisciava attraverso la stanza,» spiegò Val mentre lo adagiavamo delicatamente. «Urlava come un pazzo indicando le scale. Ho pensato che ci fossero dei ladri e mi sono precipitata.» Avevo sempre saputo che era una donna in gamba, ma non credevo fino
a questo punto. «In cucina non ho trovato nessuno. La porta e le finestre non sono state forzate. Penso che Bob abbia avuto un incubo.» Kiwi singhiozzava ancora, ma riuscì a dire: «No, no, era sveglio. Voleva un bicchiere d'acqua ed è sceso.» Io ero ancora troppo scosso per fare eccessiva attenzione alle sue cosce tornite che la leggera camicia da notte le lasciava scoperte. «Hai acceso la luce in cucina?» chiesi a Val. «No, era già accesa. Bene, allora è andato fin laggiù, ma non riesco a immaginare che cosa abbia provocato tutto questo casino.» Midge e io aiutammo Kiwi a sedersi sul divano letto: Bob era sdraiato con gli occhi fissi sul soffitto e mormorava qualcosa frase. Sollevai il mento a Kiwi per poterla vedere in faccia. «Che cosa ha preso, Bob, stanotte? Durante la serata si è fatto della cannabis, ma quando ci siamo lasciati ha preso qualche cosa di più forte?» Sentii gli occhi di Midge su di me e mi arrischiai a rivolgerle uno sguardo. Scossi appena la testa come per scusarmi con lei. «Su, Kiwi, dobbiamo saperlo,» insistei. «Ha... preso un po' di "cinese".» Chiusi gli occhi imprecando silenziosamente. Cocaina, eroina e brown sugar da quattro soldi mischiate con altre schifezze il più delle volte stricnina. Maledetto idiota! «Non... non molto,» si affrettò ad aggiungere. «Ne ha sniffata solo un po'. Voleva che lo facessi anch'io ma quella roba non fa bene alla mia sinusite.» Bob cominciò a gemere forte e a contorcersi sul letto. Poi si mise a sedere con uno scatto e si guardò attorno. Era ancora pallido, ma non aveva più quel colore spettrale, si agitava meno spasmodicamente di prima, quasi con un tremito regolare. «Quel... p-posto...» balbettò. Midge si fece avanti e gli mise delicatamente una mano sul collo. «Bob, qui sei al sicuro» gli disse con una voce bassa e gentile come il suo tocco. Ci volle un po' di tempo prima che i suoi occhi la mettessero a fuoco, e quando vi riuscirono Bob si lasciò crollare esausto sul divano. Poi parlò con voce lacrimosa: «Quel fottuto posto... Sono riuscito a scappare!» «Zitto, adesso,» disse lei, e vidi la sua mano farsi più ferma su di lui per rassicurarlo. «Qui non c'è nulla di cui si debba aver paura.»
Quanto a me, ero arrabbiato con lui e avrei quasi voluto prenderlo a pugni. Non aveva il diritto di portare quella roba in casa nostra, nessun diritto, tanto più sapendo come la pensava Midge sulle droghe, leggere o forti che fossero. Dovetti trattenermi per non strangolarlo. «Torna in te, Bob,» gli dissi severamente. «Hai annusato qualche merda di droga e queste sono le conseguenze.» Ma ricordai la minaccia che io stesso avevo sperimentato. Lui sembrava più controllato, e credo che Midge avesse fatto molto per questo con la sua delicatezza. Lei continuò a parlargli con il suo tono pacato massaggiandogli il collo teso e le spalle. Quando riprese a parlare, non era più così isterico. «C'era qualche cosa giù in cucina...» «Non c'è nessun altro, nel villino,» lo informai. «Non qualcuno, qualche cosa. Mi aspettava nell'oscurità, seduta là... Cristo che odore! Lo sento ancora. Non lo sentite? Sta succedendo qualcosa di terribile!» disse alzando di nuovo la voce. «No, Bob,» rispose Midge con calma. «Gramarye è un posto delizioso, non c'è nulla di cattivo, qua.» «Ti sbagli. Qualche cosa... qualche cosa...» aprì la bocca senza trovare le parole. Kiwi singhiozzò ancora e Bob si voltò verso di lei, poi verso di me e disse: «Mike, io non resto qui, non posso restare qui...» «Calmati,» dissi. «È una brutta esperienza. Passerà. Cerca solo di calmarti.» «No, è impossibile... Questa stanza... le pareti...» Sapevo quello che voleva dire. Non avevo avuto anch'io la certezza che le pareti si restringessero? Che si formasse della muffa su di esse? O la sua allucinazione, il suo isterismo, si erano insinuati nella mia mente? «Non puoi andartene nel cuore della notte,» gli dissi con una gentilezza forzata. «Prima di tutto non puoi guidare nelle tue condizioni, e poi devi calmarti e dormirci sopra.» «Dormire? Sei pazzo se credi che possa dormire in questo posto.» Tornò a guardarsi intorno con fare agitato. «Sono quasi le tre del mattino,» intervenne Val, che, in piedi, ci dominava tutti, «Troppo tardi per mettersi in viaggio. Staremo qui con te fino al mattino, e allora, se vorrai andartene, potrai farlo.» Sobbalzammo tutti quando Bob urlò: «Ora! Devo andarmene subito!»
Si dibattè nel letto come un bambino viziato che non ottiene quello che vuole, lo lo afferrai e lo tirai indietro mentre tentava di alzarsi e lo trattenni con tutte le mie forze. Mi spaventai quando gli vidi luccicare la bava agli angoli della bocca. «Lasciatelo stare!» gridò Kiwi tirandomi per un braccio. «Guiderò io, lo porterò a casa!» «Non è in condizioni...» «Credo che sarà meglio così, Mike.» Mi volsi stupito verso Midge che era dietro alle mie spalle. «Può essere pericoloso per entrambi, con Bob in questo stato.» «Starà meglio quando sarà via di qui,» rispose lei. «Forse no.» «È più pericoloso per lui restare.» Sconcertato, mi voltai verso Bob; adesso le lacrime scorrevano sul suo volto e cadevano sul cuscino. «Forse Kiwi ha ragione,» disse Val. «lo lo lascerei andare, Mike.» Incerto, allentai la stretta, ma non lo lasciai. «Bob, ascoltami.» Gli tenni il mento perché mi guardasse. «Adesso puoi vestirti e poi ti condurremo giù alla tua auto. Guiderà Kiwi, va bene? Mi senti?» «Certo che ti sento, dannazione! Solo lascia che mi alzi. Oh, diavolo, ho...» Ancora una volta non riuscì a finire la frase. Lo lasciai e mi alzai dal divano letto. Lui si mise a sedere e Kiwi, spinta da me, gli mise le braccia attorno alle spalle. «Aiutalo a vestirsi,» le dissi. «Noi aspetteremo giù.» Tutti e tre indugiammo ancora un poco per vedere se Bob si riprendeva ancora un po' e, sebbene i suoi movimenti fossero ancora incerti e lui tremasse come se avesse freddo, parve essere un tantino più padrone di sé. Ma evidentemente era ancora impaurito. «Vado a fare del caffè,» disse piano Midge, e si avviò con Val verso le scale, lo colsi l'occasione per tornare nella nostra stanza e infilarmi i jeans e le scarpe, ma non mi tolsi la vestaglia. Prima di scendere feci un'altra capatina da Bob e trovai Kiwi già vestita che preparava la valigia mentre Bob si abbottonava lentamente la camicia lasciando vagare per la stanza lo sguardo impaurito per assicurarsi che le pareti non si muovessero più. Ero dispiaciuto e preoccupato per lui, ma ero anche arrabbiato. E cominciavo anche ad avere molta paura per Midge e per me. Kiwi aiutò Bob a infilarsi la giacca mentre io me ne stavo lì pronto ad afferrarlo in caso gli fosse esplosa di nuovo la paura: avevo la sensazione
che potesse dare in escandescenze da un momento all'altro. «Bob, avrei preferito che restassi...» dissi. Lui mi guardò come se fossi io quello che doveva essere curato, con un'espressione agitata; diversa da quella di un uomo sotto l'effetto dell'eroina: un'espressione da incubo. Improvvisamente mi afferrò le braccia, parlando con parole forzate e indistinte. «Che cosa è... questo posto?» E fu tutto quello che disse. Mi lasciò e in modo non meno brusco afferrò Kiwi spingendola verso la porta. Si fermò prima del corridoio e la sua amica dovette sostenerlo perché barcollò. Continuava a scuotere la testa e per un momento credetti che stesse per svenire. «Non vuole tornare giù,» disse Kiwi voltandosi verso di me. «Facci uscire da questa parte, Mike, presto, ti prego.» Li oltrepassai e andai ad aprire la porta del corridoio, sopra le scale. Uscirono prima che potessi fermarli. «Ehi! È buio, lì. Lasciate che vi faccia strada: questi gradini sono pericolosi.» L'unica risposta che ebbi fu quella di un gufo in qualche parte della foresta. Loro erano già sul primo gradino: Kiwi si sforzava per tenersi il braccio di Bob attorno alle spalle, mentre col braccio libero si appoggiava al muro per sorreggersi. Barcollavano pericolosamente e io mi affrettai e raggiungerli prima che cadessero. Allontanato Bob da lei, mi feci passare il suo braccio attorno al collo stringendogli forte il polso con una mano e mettendogli l'altro braccio attorno alla vita. Cominciammo una goffa discesa e io pensai che era un bene che avessi tolto il muschio dai gradini. Ma anche così la pietra era scivolosa. Quando passai le dita sulla parete di mattoni, sentii che anche quella era umida e liscia. Due volte scivolai sui gradini, ma riuscii sempre a tenermi in piedi spingendo Bob contro il muro per sostenerci entrambi. Tirai un sospiro di sollievo quando mettemmo piede in giardino. La porta d'ingresso si aprì mentre passavamo, proiettando un po' di luce, e Val apparve all'altro lato di Bob. Mi aiutò a guidarlo lungo il sentiero, mentre Kiwi ci precedeva per aprire lo sportello dell'automobile. Sul cancello mi voltai brevemente e diedi uno sguardo al villino. Vidi il nero profilo di Midge sulla soglia di casa, così perfettamente im-
mobile che avrebbe potuto far parte della struttura di Gramarye. Fu uno strano, fuggevole momento. Sistemammo Bob in macchina; Kiwi si mise rapidamente alla guida e Bob aveva gli occhi chiusi, lo gli piegai le gambe e prima che mi raddrizzassi, mentre avevo la testa vicina alla sua, lui riaprì gli occhi e li fissò ancora nei miei. Rabbrividisco ancora quando ricordo quello sguardo (anche se dovevano seguire eventi peggiori e più memorabili), perché scorsi non solo la sua paura ma un'intensa e misera disperazione in lui. Guardare in quegli occhi era come spiare in un pozzo profondo e buio in fondo al quale qualche cosa di indefinibile si muoveva, si contorceva, si tendeva verso l'alto in un gesto supplichevole. Le droghe che aveva preso quella notte avevano chiuso certe porte della sua mente, - avevano aperto un passaggio diretto verso altri più oscuri meandri. Qualunque cosa avesse visto, qualunque cosa avesse immaginato di vedere nella cucina di Gramarye, era nata dai suoi più oscuri pensieri. Mi scostai, chiusi la portiera e mi voltai per non incontrare il suo sguardo. Udii Val che consigliava a Kiwi di guidare con grande cautela, e poi la macchina si allontanò dal prato aumentando rapidamente la velocità. Non mi dispiacque vedere le luci rosse dei fanali di coda scomparire dietro la curva della strada. 27. LA FESSURA Credo che nessuno di noi quella notte abbia dormito. Indugiammo per un po' a bere caffè, ma credo che fossimo troppo scossi per parlare dell'isterismo di Bob e forse ne provavamo un certo imbarazzo. Midge era rimasta tranquilla quando Val aveva portato il discorso sui guai e gli imprevedibili effetti della droga. Io non aggiunsi molto alla conversazione: la mia testa era frastornata da altri pensieri. Ci ritirammo per il resto della notte, e quando Midge e io fummo a letto, la tenni stretta a me; ma lei non ricambiò il mio abbraccio come se il comportamento di Bob fosse in parte colpa mia e dentro di me mi sentivo uno sciocco per non aver trovato un modo discreto per impedirgli di drogarsi. Midge, per lo meno, diversamente da me, non si era spaventata. Dovevo riordinarmi le idee prima di dire a Midge quello che credevo che Bob avesse visto in cucina, e volevo che lei fosse nel giusto stato d'a-
nimo. Adesso mi rendevo conto che Midge non voleva assolutamente che si parlasse male di Gramarye. Era penoso stare sdraiato nel buio senza riuscire a dormire; devo essermi addormentato poco prima dell'alba, pur svegliandomi un paio di volte nelle ore che seguirono, ma non del tutto finché non sentii un movimento accanto a me. Midge si stava alzando e io fui lieto di vedere la luce del mattino. Scendemmo insieme in cucina. Val arrivò subito dopo, vestita e pronta a parlare di affari trascurando per il momento gli eventi della notte. Fu lei a preparare la colazione, io avevo molta fame mentre Midge toccò appena qualche cosa. La colazione fu triste anche se Val, Dio la benedica, fece del suo meglio per tener viva la conversazione con una quantità di argomenti, nessuno dei quali aveva a che fare con l'episodio che era nelle nostre menti. Midge si rischiarò solo quando Rumbo apparve sulla soglia mentre gli uccelli avevano già cominciato a radunarsi dietro di lui trillando la loro impaziente richiesta di cibo. Il loro arrivo fu in qualche modo rassicurante per lei. Val li guardò con un sorriso stupito mentre Midge spezzava il pane e ne spargeva le briciole fuori della porta, ma l'innocente sfacciataggine di Rumbo la fece scoppiare in una fragorosa risata. Lo scoiattolo saltò sulla tavola e mi portò via dal piatto le cotenne di pancetta. Si mise a rosicchiarle fermandosi solo ogni tanto per "chiacchierare" con noi, forse spiegandoci i suoi progetti per la giornata. Gli diedi un colpetto col dito. «Non ti sei presentato alla nostra ospite, ieri sera,» dissi. «Rumbo, questa è Val; Val, questo è Rumbo. Gli piace mangiare.» «Non riesco a credere che questo coso sia così domestico,» esclamò Val. «Ssst,» l'avvertii. «Non parlare di Rumbo come di questo coso: si offende facilmente.» La sua presenza rianimò il mio spirito depresso. «Come diavolo hai fatto a diventare suo amico?» Val era in piedi con le mani sui fianchi, scuotendo la testa. «Non abbiamo avuto bisogno di far nulla,» spiegò Midge dalla porta. «Ha avuto fiducia in noi fin dal principio. Tutti gli animali, qui, ci sono amici. Flora Chaldean, la proprietaria di Gramarye prima di noi, si era conquistata la loro fiducia.» «Deve essere stata una vera signora.» «Lo era.» Midge lo disse con una tale convinzione che mi voltai verso di lei. «Parlatemi di questa Flora Chaldean,» disse Val raccogliendo le tazze e i
piatti sporchi. Rumbo saltellò sulla tavola stringendosi al petto le cotenne mezzo rosicchiate come per proteggerle. «Non ne sappiamo molto» dissi finendo il caffè. «Solo che era molto vecchia quando morì, che aveva vissuto quasi sempre a Gramarye e che tutti qui la consideravano una guaritrice. Ci hanno detto che sapeva curare gli animali e le persone.» «Curare?» «Be', credo solo le piccole malattie. Sembra che si servisse di pozioni e della fede. Non penso che si trattasse di altra medicina.» «E viveva qui da sola?» Assentii. «Suo marito morì poco dopo che si erano sposati, ucciso nell'ultima guerra mondiale.» Val portò le stoviglie nella stanza vicina e le mise nel lavandino. Io la seguii con la tazza vuota. «Le lavo io,» disse Midge correndoci dietro e aprendo il rubinetto dell'acqua calda. «Bene, io le asciugherò.» Val le si avvicinò. Poi si voltò verso di me: «Non dovresti telefonare a Bob per sentire come sta?» Guardai l'orologio. «Sono le nove appena passate: starà ancora dormendo.» Sorrisi malvagio. «Ma mi piacerebbe molto svegliarlo.» Solo nel salire le scale per andare al telefono, nel corridoio, mi venne in mente che forse Val voleva restare un po' sola con Midge. Midge non aveva contribuito molto alla nostra conversazione sulla vecchia Flora e forse Val pensava che sarebbe stata più loquace in privato. Composi il numero di Bob con una certa ansia: volevo sapere se stava bene. Il telefono squillò diverse volte prima che mi rispondesse Kiwi. «Chi parla?» chiese con palese irritazione. «Sono Mike. Tutto bene? Com'è andato il viaggio?» «Più o meno. Il mio ufficiale di rotta ha dormito per quasi tutto il tempo, e così ho sbagliato strada un paio di volte.» «Come sta?» «Te lo passo.» Bob fu quasi subito all'altro capo del telefono. «Scusami, amico,» disse umilmente. «Combina guai.» «Sì, lo so. Però non riesco a capire, Mike, non ne avevo presa molta.» «Ma avevi anche bevuto. Comunque adesso mi sembri già a posto!»
«Sono stato così male, stanotte?» «Sì. Non te lo ha detto, Kiwi?» Diedi quasi un pugno sul muro. «Mi ha detto che ho fatto un po' l'isterico.» «Chiamalo un poco! Eri fuori di te.» «Devo aver avuto un incubo.» «Non hai avuto nessun fottutissimo incubo. Non ricordi nulla?» «Non molto. Ho avuto paura, eh?» «Hai visto qualcosa in cucina, ricordi?» Ci fu una pausa. Poi: «Mike, ho dimenticato tutto... non so che cosa ho immaginato di vedere, e nemmeno se sono veramente andato in cucina.» «Kiwi ha detto che ci sei andato.» «D'accordo, d'accordo, forse ci sono andato. Ho ancora la mente un po' annebbiata capisci? Mi dispiace proprio di avervi procurato dei grattacapi. Come... come l'ha presa, Midge?» «Ha trovato il tutto maledettamente ridicolo.» «Falle le mie scuse, ti prego.» «Non preoccuparti» Scossi la testa deluso. «Prova a ricordare, Bob. Quando eri rannicchiato sul pavimento, contro il muro, e io mi sono avvicinato a te... non ricordi cos'è accaduto? Qualcosa di strano... misterioso?» «Sei matto? No, non è successo niente. Ho fatto un terribile viaggio, tutto qui, non ingigantire le cose. Sto già abbastanza male.» «È stato qualche cosa di più di una brutta esperienza. Hai visto qualche cosa che ti ha spaventato a morte in cucina e, quando sei risalito, hai visto le mura che si restringevano.» «Non c'è nulla di insolito, in tutto questo, non ti sembra? Cose che escono dai muri, mostri che si nascondono nell'oscurità, sono visioni provocate dalla droga.» «Hai detto tu stesso di non averne presa molta.» «Abbastanza per avere delle allucinazioni.» «Che cosa?» Dall'altro capo del telefono ci fu una pausa, questo volta più lunga. «Devo tornare a letto,» disse poi. «Non mi sento tanto bene come potrebbe sembrare. Ti telefonerò in settimana, Mike, così potrò scusarmi personalmente con Midge. Stammi bene.» «Aspetta un attimo...» Bob aveva riagganciato. Pensai di richiamarlo, ma poi decisi di no: preferivo non tormentarlo. Tornai in cucina. Val e Midge erano sedute sul primo gradino dell'ingresso, Midge con il
mento appoggiato sulle ginocchia, Val addossata allo stipite, con le grosse gambe distese davanti a lei. Gli uccelli beccavano le briciole indisturbati. Le due donne smisero di parlare quando udirono i miei passi e si voltarono verso di me. «Coma sta?» chiese Midge ansiosa. «Non ricorda nulla.» «Ci credo,» commentò Val. «Era proprio partito, stanotte.» «Forse non vuole ricordare,» dissi. Mi guardò con aria interrogativa, ma non aggiunse altro. Midge si alzò. «Vado a vestirmi.» «Ti aiuto a portare su le tue cose,» dissi. «No, resta qui a chiacchierare con Val. Farò in fretta.» Le presi il braccio prima che si allontanasse. «Bob ti fa le sue scuse.» Midge si sforzò di sorridere. «Sono contenta che stia bene, Mike, ma preferirei che non venisse più qui. Tu sai perché.» La abbracciai per nulla imbarazzato dalla presenza del suo agente. «Ti chiedo scusa anch'io,» mormorai. Mi abbracciò anche lei, ma poi si allontanò subito da me. «Tu non potevi saperlo,» disse. «Non ho nulla da rimproverarti, Mike.» Ma i suoi occhi non avevano la luce di sempre. Si voltò e scomparve su per le scale lasciandomi lì come un ebete. «Qualche problema, Mike?» Val era sulla soglia coprendo la luce del sole e scuotendosi la polvere dal dietro della camicia. Alzai le ciglia domandandomi che cosa Midge le avesse detto. Lei entrò battendo gli scarponi sulle mattonelle. «La porta accanto,» disse indicando con la testa. «Che cosa?» «Non te ne sei accorto? L'ho notato quando il vostro amico scoiattolo è saltato sul fornello. Adesso è soltanto una fessura sottile; ma può diventare pericolosa in seguito.» «Ma di che cosa parli?...» «Della fessura sull'architrave sopra il fornello. Non è facile vederla a prima vista, lo so.» Io entrai senza badare a Rumbo, che era fra le pentole e le padelle della credenza lasciata aperta per distrazione da qualcuno, e mi diressi al fornello. La fessura era lì, bene in evidenza e attraversava tutta la pietra. Toccai
cautamente l'architrave e mi parve abbastanza solido. Stavo scrollando il capo incredulo, quando una voce alle mie spalle disse: «Dovresti farla riparare il più presto possibile.» Era Val. «In realtà mi sorprende che non l'abbiate fatto prima, quando siete venuti qui; se crollasse potrebbe ammazzare qualcuno. Mi fa paura pensare a cosa potrebbe succedere quando la pietra sarà scaldata dal fuoco, d'inverno. Santo cielo, ti senti male? Sei diventato pallido. L'architrave non cadrà da un momento all'altro, lo sai; d'altra parte ha tenuto duro a lungo, a quanto pare.» Mi ripresi e guardai quel donnone che sapevo mi aveva sempre considerato con un po' di disprezzo, anche se non le ero del tutto antipatico - non c'era mai stato del vero astio fra noi - ma Val non era entusiasta di me. Tuttavia il mio comportamento doveva averla allarmata, perché vi era una genuina preoccupazione nella sua voce quando mi disse: «Credo che tu ti tenga qualcosa dentro, Mike.» Era vero. Ci sedemmo e le raccontai tutto, dalla prima visita a Gramarye ai bizzarri eventi della notte precedente. Poi proseguii aggiungendo particolari, esponendo le mie supposizioni, mi sentivo sciocco, ma continuai a raccontare tutto. Solo la ricomparsa di Midge, ai piedi delle scale, mise fine alle mie divagazioni. Il suo volto era alterato da un'intima pena e bagnato di lacrime; una mano nascosta fra i capelli. Pensai che avesse sentito tutto quello che avevo detto. Ma l'altra mano indicava la scala dietro di sé. 28. UN'OPERA D'ARTE ROVINATA Non riuscii a farle dire nulla che avesse senso. Tenevo le braccia di Midge e tentavo di calmarla, ma lei non faceva che scuotere la testa dicendo poche parole incoerenti fra i singhiozzi. Così la tirai da parte, il più delicatamente possibile, e feci gli scalini a due a due finché non fui nella stanza rotonda, guardando a destra e a sinistra, guardandomi in giro più volte, cercando che cosa avesse potuto sconvolgerla così. La stanza era in ordine adesso, il letto era tornato un divano e restavano poche tracce della notte precedente; i raggi del sole sfavillavano attraverso le finestre illuminando le pareti e i mobili. Potevo vedere la foresta al di fuori, come un complesso mosaico, attraverso i vetri, verde e lussureggiante, senza alcun segno di minaccia.
Non trovai nulla fuori posto, nulla che avesse potuto causare la disperazione di Midge. Corsi nella nostra stanza da letto. Vuota. Nel bagno. Vuoto. Nella stanza degli ospiti. Vuota. E ancora nella stanza rotonda. Midge era lì; Val la sorreggeva. Midge indicava una finestra, o meglio il tavolo da disegno davanti alla finestra. Sembrava riluttante ad avvicinarsi. Val lasciò Midge, attraversò la stanza, e io la seguii rapidamente, così che giungemmo insieme al tavolo da disegno. E insieme guardammo il dipinto di Gramarye, da cui era stato già tolto il foglio che lo copriva. Sentii Val tirare un sospiro. Il disegno era ridotto a una confusione di macchie di colore, tutte le forme erano distorte e confuse, la bellezza del disegno originale era svanita e quello che avevamo davanti era un'accozzaglia di colori che creavano per di più un'atmosfera tetra. Nemmeno la luce del sole, riflessa sulla sua superficie, riusciva a infondere al disegno un po' di calore. 29. ADESCAMENTO Pochi giorni dopo, giusto per aumentare i nostri problemi, Kinsella battè alla nostra porta. Non ricordo con precisione l'ora, ma so che si stava avvicinando la notte e Midge e io avevamo finito un'altra malinconica cena solo alcuni minuti prima. Ho detto un'altra perché vi era stata ben poca allegria a Gramarye dopo quel fine di settimana, e potete capire perché. Dio solo sa 1'idea che Val Harradine doveva essersi fatta di noi durante quel week-end: prima le stramberie da camicia di forza di Bob, poi il mio racconto crepuscolare della vita di campagna e infine il crollo drammatico di Midge, rannicchiata a piangere sul pavimento della stanza rotonda. Deve aver pensato che a Gramarye doveva esserci qualche cosa che provocava attacchi di pazzia e di paranoia; e chi poteva darle torto?
Sorvolerò le recriminazioni e le lacrime che Midge e io dovemmo affrontare nei giorni seguenti perché vi annoierebbero come depressero me; basti dire che riuscimmo appena a superare tutto questo mantenendo la nostra relazione ancora intatta. Io tentai disperatamente di farle accettare il fatto che a Gramarye c'erano inesplicabili misteri, e credo che, intimamente, anche lei ne fosse convinta; ma, stranamente, non volle ammetterlo in modo esplicito, come se il farlo significasse accettare che il villino non era quel sogno che lei aveva creduto di aver trovato. Naturalmente accusava Bob di avere distrutto il suo disegno; ma quando io gli telefonai, lui negò, lo gli credetti, Midge no. Esaminai tutto ciò che era accaduto fin dal nostro arrivo al villino, specialmente la rapida guarigione del mio braccio che lei insisteva ad attribuire ai magici poteri di Mycroft lo feci infinite volte, ma lei... be', come ho detto vi annoierei. Il risultato fu che, per il momento, giungemmo a una non facile tregua, dato che nessuno di noi era disposto a discutere (o ragionare) più a lungo. Così eravamo lì, l'uno di fronte all'altro al tavolo di cucina, in un momento di calma prima che calasse la notte, quando sentimmo bussare alla porta; avevamo cominciato a tenere la porta chiusa non appena cominciava a farsi buio. Ci guardammo sorpresi e io mi alzai per andare ad aprire. Mi trovai davanti Kinsella; aveva le mani ficcate nelle tasche posteriori dei jeans sbiaditi e un sorriso sereno su una faccia maledettamente bella. «Felice di rivedervi. » Diede uno sguardo a Midge dietro di me. «Spero di non disturbarvi.» Midge parve lieta di vederlo. «Niente affatto, abbiamo finito da pochi minuti.» Ci raggiunse sulla porta. «Come va il braccio, Mike?» Io glielo porsi con riluttanza perché lo esaminasse. «Eh, sembra bene. Non è rimasto nemmeno il segno.» Esibì un sorriso da un orecchio all'altro. «Nessun dolore?». Scossi la testa. «Davvero straordinario, amico.» Diede un'occhiata al cancello, poi si voltò verso di noi. «Non vorremmo imporci, ma c'è qualcuno qui che vorrebbe vedervi. Sapete di chi parlo?» Maledizione pensai fra me mentre Midge esclamava: «Mycroft!» Si alzò in punta di piedi per vedere oltre la spalla di Kinsella. «È venuto qui?» chiese.
«Sì. Voi due gli piacete. Passavamo di qui e ha pensato che sarebbe stato bello venire a salutarvi e a vedere come stavate. Credo che voglia visitarti il braccio, Mike.» «Uhm... «cominciai. «Oh, saremo felicissimi di vederlo» disse Midge. «Vallo a chiamare, ti prego.» Kinsella rimase imbarazzato per un momento. «Mycroft è un po' all'antica, sapete? Rispetta molto l'intimità altrui e non vuole imporsi. Sarebbe gentile se lo invitaste personalmente, se non vi dispiace.» «Certo che non ci dispiace,» rispose Midge al settimo cielo. «È in macchina?» «Sì, è seduto sul sedile posteriore. Sarà felice di vederti.» Kinsella si fece da parte perché Midge potesse correre lungo il sentiero, quando arrivò in fondo aprì il cancello. «Tua moglie è una vera signora,» disse l'americano, e non so se l'ammirazione che era nei suoi occhi fosse per me o per lei. Poi si appoggiò allo stipite, sempre con le mani in tasca. «Allora, come vanno le cose a Gramarye?» chiese, e io mi domandai se la domanda era casuale. «Magnificamente,» risposi. «Non potrebbero andar meglio.» «Perfetto.» Si prendeva gioco di me? Oppure ero io che cominciavo a diventare paranoico? Puntò un dito. «Dovresti strappare quelle erbacce in giardino. Se attecchiscono invaderanno tutto.» Seguii la direzione del suo dito e imprecai dentro di me. Non li avevo notati prima, ma adesso mi accorsi che una quantità di sottili virgulti verdi si era diffusa nelle aiuole, una confusa rete di invasori, e più guardavo più ne trovavo. «Se non la controlliamo la natura può soffocarci,» mi confidò Kinsella mentre io approvavo la sua filosofia casalinga. «Potrei venir qui quando vuoi con un paio di aiutanti e darti una mano, Mike. Puliremo tutto in un momento.» «Grazie. Comincerò domattina. Almeno avrò qualcosa da fare.» «Non stai componendo?» «Uhm, ho avuto altre cose per la testa, ultimamente.» Midge stava tornando per il sentiero seguita da Mycroft e da altri due. lo ebbi la sensazione che non si trattasse tanto di una visita amichevole quanto di quella di una delegazione. Mycroft agitò una mano nella mia direzio-
ne mentre si avvicinava e io vidi che gli altri due erano Gillie e Neil Joby. Mentre avanzava verso di me il capo dei sinergisti esaminava il villino: attentamente, pensai, come un capomastro che cerchi dei difetti. E quando fu a pochi passi ebbi la sensazione che dentro si sé non fosse così placido come voleva apparire. V'era qualche cosa di strano nei suoi occhi: erano troppo vivi, non si fermavano mai a lungo su un oggetto. Anche quando ci stringemmo la mano, non poté impedirsi di guardare il villino dietro di me. Poi senza proferire parola mi sollevò la mano sinistra e mi esaminò bene le dita e l'avambraccio. Il resto di questo piacevole gruppo mi si radunò attorno emettendo un'esclamazione di sorpresa. Mi stavano rendendo così consapevole del debito che avevo verso Mycroft, che mi stavo domandando se non dovessi pagarlo. Mycroft fissò il suo sguardo su di me. «La volontà umana unita allo Spirito Divino, Mike» disse come spiegazione del mio braccio guarito. «Forse è servito anche quel liquido in cui lo ha immerso?» suggerii io. «Un semplice sterilizzante. Spero che la nostra intrusione non vi abbia disturbati.» Scossi la testa per educazione. «Non volete entrare?» chiese Midge. «È da diversi giorni che non vediamo nessuno e un po' di conversazione ci farebbe bene.» Fui sbalordito da quell'osservazione pungente nei miei confronti appena dissimulata: non era da lei. «Sarebbe molto piacevole,» rispose Mycroft che non aveva nessun bisogno di essere incoraggiato. «È stata una cosa improvvisata, altrimenti avremmo portato del vino.» «Abbiamo ancora quella bottiglia che ci ha portato Hub l'ultima volta che è venuto qui,» disse Midge. «Possiamo bere quella, a meno che il vostro vino non vi piaccia.» Il gruppo apprezzò la sua battuta e risero tutti insieme. Io sorrisi fiacco. Midge passò fra Kinsella e me invitando Mycroft a seguirla, e lui si preparò a farlo. Ma esitò e poi si fermò bruscamente sul primo gradino. Sebbene la luce fosse scarsa, sono sicuro che impallidì per un attimo. «Mi piacerebbe fare un giro attorno al villino prima di entrare,» disse in fretta, troppo in fretta. «Questi gradini sono affascinanti.» Affascinanti? Dei gradini di pietra? «Non si può entrare dal dietro?» chiese e guardò le mura bianche con aria d'apprezzamento. Suonò per scherzo il campanello, e il gruppo scoppiò di nuovo a ridere.
Midge uscì di casa e, a giudicare dal suo sorriso, tutte le contrarietà della settimana erano scomparse, lo cominciai a desiderare di avere un po' del carisma di Mycroft. «Sono felice che Gramarye le piaccia tanto,» disse arrossendo. Lui le toccò la spalla per un momento. «È una casa che infonde grande gioia». Midge mi rivolse uno sguardo incerto e io tenni la bocca chiusa. «I gradini sono un po' scivolosi, faccia attenzione,» lo avvertì. Subito Mycroft prese Midge sotto braccio. «Ci sosterremo a vicenda,» disse allegramente, ma i suoi occhi erano seri. «Io prenderò la strada meno suggestiva,» dissi mentre salivano. «Porterò su il vino e i bicchieri, va bene?» Non mi badarono; Midge era tutta occupata nel mostrare a Mycroft le bellezze di Gramarye. Togliti dai piedi, brontolai fra me. «Salve, Mike.» Gillie non aveva seguito gli altri. Era rimasta sul sentiero con la sua lunga gonna e il suo scialle zingaresco. Portava sandali che lasciavano scoperte le dita, allacciati alla caviglia da cinghie sottili. Quando mi fu più vicina notai che era appena truccata, tanto da ravvivare il suo grazioso visino. «Posso aiutarti a portare il vino?» mi chiese. «Certo, se ti va di fare quattro passi.» «Credo di conoscere già abbastanza bene Gramarye. È il luogo più tranquillo che abbia mai visitato...» «Non ultimamente.» Le parole mi sfuggirono prima che potessi controllarle. Lei si accigliò e io le sorrisi. «Problemi domestici,» le spiegai debolmente. «Oh, allora attraversi un brutto periodo.» Sospirai, sempre sorridendo. «No, forse abbiamo bisogno di un po' di compagnia, in questo momento.» Non aggiunsi che avrei preferito altri amici al posto di Mycroft e del suo gruppo. Comunque Gillie era un po' diversa dagli altri: mi piaceva la sua semplice gentilezza. Era un tipo che avrei visto bene all'epoca dei figli dei fiori. «Vogliamo occuparci del vino?» dissi voltandomi ed entrando in casa. Gillie mi seguì ma rimase sulla soglia esitante per via del buio della cucina, ora che la notte era così vicina. «Accenderò la luce,» dissi attraversando la stanza per raggiungere l'interruttore. Rabbividii; una sensazione di freddo accompagnava l'oscurità. Indicando la credenza, le dissi che i bicchieri erano nello scomparto in-
feriore. Poi andai alla credenza vicino la porta e presi una bottiglia di vino. Quando tornai, Gillie stava mettendo i bicchieri sulla tavola. «La stapperò qui,» dissi aprendo un cassetto e prendendo il cavatappi. «Il vino non è molto freddo, ma credo che non ci baderanno. Ne producete molto, al Tempio?» «Abbastanza per noi, ma non per venderlo. Non abbiamo nemmeno la licenza.» Mi diedi da fare col turacciolo. «Scusa se te lo chiedo, ma come guadagnate il denaro per la vostra organizzazione? I cestini e le altre cose che fate non possono rendervi molto.» Rispose con disinvoltura, mentre estraevo il tappo. «Mycroft è molto ricco. Una volta possedeva una grande fabbrica negli Stati Uniti, che aveva filiali in altri paesi.» «Sì? Che cosa fabbricava?» «Giocattoli.» «Mi prendi in giro?» Scosse la testa godendosi la mia sorpresa. «La sua compagnia produceva bambole, puzzle, costruzioni, tutte cose per bambini.» «Ah, per questo si è interessato a Midge.» Mi guardò senza capire. «È illustratrice di libri per bambini,» spiegai. «In un certo senso operano nello stesso campo.» Abbozzò un sorriso. «Oh, capisco. Ma Mycroft ha rinunciato a ogni interesse commerciale quando ha fondato il Tempio Sinergista. Gli piace molto raccontarci come i bambini di tutto il mondo lo abbiano aiutato a mettersi in contatto con i suoi Figli Prediletti, con i Figli Adottivi, fornendogli una base finanziaria.» «Ma il Tempio deve guadagnare denaro per sopravvivere, no? Continuate a fare gingilli per poi venderli?» Questo la divertì. «Non sarebbero sufficienti per vivere, Mike. Ci danno un piccolo reddito, ma in realtà ci serviamo di queste vendite per avvicinare le persone e far conoscere il movimento.» «E allora come...?» «Te l'ho detto: Mycroft è ricco e la vendita della fabbrica e delle filiali ha assicurato tutto. E naturalmente, come Mycroft ha donato al Tempio tutto quello che aveva, così hanno fatto i suoi seguaci. Tutto quello che riceviamo è ben accetto e utilizzato, anche se si tratta di poche sterline. I Figli Adottivi offrono tutti i loro beni per purificarsi dinanzi al nostro Tem-
pio.» Questo ha l'aria di essere un buon affare per Mycroft, pensai, annusando il vino per nascondere ogni espressione di cinismo. Tuttavia sembrava che avesse dato le sue stesse ricchezze alla setta. Era molto strano. «E tu che cosa hai ceduto, Gillie?» «Oh, poche sterline, quasi niente. E sono stata accolta come tutti gli altri.» «No, volevo chiedere a che cosa hai rinunciato? La tua casa? La tua famiglia?» «Le influenze estranee devono essere respinte, se un Adottivo vuole abbracciare la dottrina.» Una bella frase fatta, pensai. «Un Adottivo?» «Veniamo chiamati così al momento dell'iniziazione.» Il suo dito girò attorno all'orlo di un bicchiere sul tavolo. Sentii dei passi e delle voci soffocate sopra di noi: gli altri, ovviamente erano entrati in Gramarye dalla porta del primo piano. «Non vedi più la tua famiglia?» insistetti. «Non ce n'è bisogno. Ho lasciato l'università per unirmi ai sinergisti e credo di non essere mai stata perdonata. Hanno fatto di tutto per impedirmelo, Mike, e quello che sono riusciti a ottenere è stato di tagliare completamente i miei legami familiari.» «Come puoi parlare così dei tuoi genitori? Gesù, devono avere sofferto molto e probabilmente soffrono ancora.» Lei parve a disagio, come se la conversazione non avesse preso la piega che voleva. Questo non mi scoraggiò. «E Kinsella?» chiesi. «Come è diventato sinergista lui e a cosa ha rinunciato?» «Non la metterei in questi termini. Noi non rinunciamo a nulla: offriamo per ricevere in cambio.» Una frase fatta ancora migliore. «E allora che cosa ha offerto Kinsella?» «Non sappiamo quello che gli altri portano al Tempio. Solo Mycroft e i suoi consiglieri lo sanno.» «I suoi consiglieri finanziari? Ha dei contabili.» «Sì, come le altre Chiese. Come qualsiasi altra organizzazione grande o piccola.» Se la risposta era stata data come un rimprovero, era molto blando. Mi si avvicinò e le sue dita mi toccarono il polso. «Ti interessa il nostro
Tempio, Mike? Per questo mi rivolgi tutte queste domande?» Sembrava sperarlo, le sue dita erano calde. «Non abbastanza interessato per unirmi a voi,» risposi. La sua mano scivolò via, ma i suoi occhi fissavano intensamente i miei. «Noi siamo molto felici,» disse. «Quando si diventa sinergisti si imparano a capire delle cose che gli altri non hanno il privilegio di capire.» «Che genere di cose?» Distolse lo sguardo. «Io sono soltanto un Adottivo. Solo gli Eletti hanno l'autorità e il diritto di istruire.» «Kinsella?» «Lui e altri. Tuttavia posso aiutarti, Mike. Ogni Adottivo può avere un compagno spirituale.» Le sue dita mi toccarono ancora il polso, ma questa volta con una pressione più decisa. «Potremmo vederci per parlare di argomenti che non riguardano la dottrina essenziale. Perché non ci vediamo...» Non crediate che non fossi tentato. Era una ragazza attraente, e ultimamente mi ero sentito una sorta di esiliato con Midge. E la solida ma dolce fermezza della sua stretta implicava che vi fosse inclusa qualche cosa di più di una semplice conversazione, e che essere un "compagno spirituale" significasse che altri aspetti erano compresi in questa particolare relazione. O era solo una mia immaginazione? «Tu sei graziosa, Gillie,» dissi dopo una pausa «ma io posso avere solo una compagna spirituale per volta, e la mia in questo momento è di sopra. Vuoi prendere un paio di bicchieri?» Presi la bottiglia e tenni tre bicchieri per lo stelo. Se si sentì respinta non lo diede a vedere, e ancora una volta mi domandai se non fosse tutta immaginazione. «Capisco quello che dici,» rispose prendendo un bicchiere in ogni mano, «ma se mai sentissi il bisogno...» Lasciò deliberatamente sospesa la frase, e naturalmente la mia immaginazione seguì il suo corso. Lei si voltò, ma non prima di avermi sorriso con gli occhi, non in modo canzonatorio e nemmeno seducente, ma come se capisse molte più cose di me. E probabilmente aveva ragione. «Dimmi un'altra cosa,» dissi fermandola. «Perché siete qui?» Mi guardò senza capire. «Perché Mycroft ha fondato qui il suo Tempio? Lui è americano, e, a quanto ho capito quando sono venuto al Tempio, lo sono anche alcuni dei suoi seguaci; e allora perché portare la sua organizzazione in Inghilterra?»
«Perché questo è il...» «Gillie.» La voce era calma, tuttavia la ragazza si voltò come se fosse stata frustata. Kinsella apparve sulle scale, con le mani immancabilmente ficcate in tasca. Il suo sorriso era gentile, ma io notai un'ombra di irritazione nella sua espressione. «Ci stavamo domandando che cosa vi fosse successo,» disse amabilmente. «Stavamo venendo,» risposi mostrando il vino e i bicchieri. «Gillie stava appunto finendo di darmi alcune notizie sui sinergisti, ma purtroppo non sono divenuto molto più saggio.» «Bene, l'uomo che può farlo è sotto il suo tetto, Mike. Mycroft potrà spiegarti meglio di noi. Ma, come sai, non abbiamo mai cercato di imporvi queste cose, non è nel nostro stile.» «Non sono eccessivamente curioso. Solo per fare conversazione.» «Certo. Lascia che ti aiuti con questi bicchieri.» «Posso arrangiarmi. Vai pure avanti.» Kinsella diede un'occhiata alla stanza come cercando qualche cosa prima di risalire le scale. Ancora una volta mi domandai che cosa ci fosse in Gramarye che lo rendeva così nervoso. «I limiti della mente umana li poniamo noi.» Mycroft guardò tutti in faccia osservando gli effetti della sua affermazione sugli iniziati e su Midge e me. Era seduto sull'unica poltrona della stanza rotonda, mente Midge e Gillie sedevano sul divano, io sul bracciolo e Kinsella e Joby allungati sul pavimento sorseggiavano vino e guardavano il loro capo spirituale. Una lampada illuminava la stanza mentre fuori regnava il buio. «La civiltà non ha fatto che intorpidire le nostre facoltà mentali,» continuò, «le conoscenze materiali e scientìfiche hanno diminuito sempre più la conoscenza di noi stessi. Non a caso i bambini hanno una capacità psichica superiore a quella degli adulti.» «Capisco quello che intende,» dissi, «e non è del tutto una teoria originale.» (Non volevo essere scortese: eravamo lì da circa venti minuti ad ascoltare il proselitismo di Mycroft e io cominciavo a essere stanco). «Ma la mia conoscenza mi dice che non posso volare: il non crederlo o l'ignorarlo
non altera i fatti.» «No, Mike,» rispose lui pazientemente. «La conoscenza di sé le dice che non può volare. Ma anche in questo lei ha imparato a pensare solo in termini del suo corpo fisico e non della sua coscienza. In definitiva non c'è nulla che possa limitare la sua psiche. La forza che è in tutti noi -1'energia psichica, se vuole - non può essere costretta dall'aspetto fisico della nostra vita. A meno che noi non si voglia altrimenti.» In qualche modo non appariva più così posato. Forse le ombre proiettate dalla lampada davano ai suoi lineamenti una profondità che non appariva prima; o forse era l'intensità dei suoi occhi. Midge prese a parlare e notai che si stringeva le braccia come se avesse freddo. «Se questa energia è in ognuno di noi, perché non possiamo raggiungerla? Perché non possiamo farne uso?» «Anzitutto dobbiamo scoprire la capacità in noi stessi. Dobbiamo diventare pienamente consapevoli della sua fonte, dobbiamo renderci conto della sua presenza e accettarla. E dobbiamo imparare a controllare e tenere a freno ogni conoscenza che non sia rilevante per il nostro io. Per questo abbiamo bisogno di una guida.» Sorrise con indulgenza a Midge, mentre a me rivolse solo il sorriso che un ragno può rivolgere a una mosca. Perché più guardavo quella gente meno mi piaceva? Forse, pensai, avevo un'innata ripugnanza per tutto ciò che sapeva di fanatismo. E nonostante i loro modi tranquilli e amichevoli, i sinergisti erano dei fanatici. «Il Tempio Sinergista,» continuò Mycroft con un linguaggio che diveniva meno pratico e più elevato, «non è altro che una fondazione in cui cerchiamo la nostra verità, in cui conscio e subconscio imparano a combinarsi con lo spirito supremo che ci dirige tutti, lo spirito che esiste in noi e tuttavia ne è separato, che è individuale e tuttavia è più grande dell'individuo.» I miei occhi cominciavano a diventare vitrei. Questo era peggio di un sermone domenicale. Diedi uno sguardo a Midge; il suo volto era serio e i suoi occhi erano fissi su Mycroft. «Come si raggiunge questo?» chiese, e io scivolai goffamente sul bracciolo del divano. «Come si fa per imparare a combinarci con questo spirito?» Mycroft lasciò vagare il suo sorriso fra i suoi seguaci e loro gli sorrisero come se condividessero con lui il segreto. «È necessario del tempo,» disse rivolgendo ancora lo sguardo a Midge, «e richiede molta umiltà. Gli adottivi devono abbandonare i loro pensieri, la loro volontà. Devono lasciare
che il Fondatore abbia la responsabilità di tutto quello che fanno.» Perfino Midge, nel suo stato attuale di cieca adulazione, impallidì a quelle parole. «Mi sembra chiedere molto, no?» notai. «Le ricompense sono enormi,» rispose lui con calma. «Quali sarebbero?» «L'unità dello spirito.» «Che parolona!» Il suo guizzo di irritazione fu appena percepibile. «Una rigenerazione dei poteri della mente.» Assentii come se controllassi un elenco. «Un dominio del potere taumaturgico terreno.» Questo sembrava importante, ma che diavolo significava? Mi sentii in diritto di chiederlo. «Se non si assoggetta a ogni stadio dello sviluppo sinergista,» disse come risposta, «non può sperare di capire. Può riconoscere adesso, per esempio, che vaste fonti di potere stanno sotto i nostri piedi?» Colsi qualche espressione di ansia rivoltagli dagli altri che erano nella stanza, ma Mycroft rimase impassibile. «Naturalmente,» risposi. «Tutti accettano che vi siano grandi risorse di energia nella terra. Non vi è nulla di straordinario in questo.» " «Mi riferisco a un potere molto meno tangibile, Mike, ma egualmente reale. Qualche cosa di incorporeo, ma di vaste riserve. E noi, genere umano, abbiamo quasi dimenticato come valerci di questa forza.» Conoscenza di se stessi, unità, rigenerazione, potere taumaturgico intangibile, incorporeo e adesso, naturalmente, genere umano: tutte queste parole profonde (e convenzionali) si trovano nei libri di religione e di occultismo: sembrano grandi ma ci lasciano a romperci la testa domandandoci che cosa significhino. «Non la seguo più» dissi. Sorrise ancora e credo che la mia ottusa incomprensione sia stata per lui quasi un sollievo, come se la mia provocazione lo avesse costretto a dar troppo e adesso potesse ritirarsi. Ovviamente la sua filosofia doveva essere somministrata a più piccole dosi. Ma Midge fu più insistente. «Ed e così che ha curato il braccio di Mike, combinando la sua volontà con questa forza particolare? E questo potere lo spirito, lo Spirito Divino, a cui ha accennato poco fa?» Mandò giù un lungo sorso di vino.
«Così giovane e così acuta, » disse con condiscendenza. «Ma non del tutto esatto. La volontà umana può essere estremamente potente da sola.» Lei parve confusa e io sentii di dovermi avvicinare a lei. Mi domandai come avrebbe reagito se avessi invitato il nostro ospite ad andare a fare un giro in campagna. Qualche cosa colpì una finestra dal di fuori - probabilmente un uccello o forse un pipistrello disorientato - e Kinsella si versò del vino. Lui e i suoi amici si voltarono verso la finestra, mal'attenzione di Midge rimase fissa al capo sinergista. «Quando noi... quando noi abbiamo parlato al Tempio, la settimana scorsa, lei mi disse che il nostro spirito individuale non perde mai il suo potenziale anche se il corpo muore e anche se lo spirito è stato trascurato durante la vita corporea.» Lui assentì lentamente. «E mi disse che noi stessi potremmo raggiungere gli spiriti dei defunti.» «Con una guida,» disse Mycroft. «Ma perché così cauta? Perché ha tanta paura di esprimere le sue speranze? Parlammo dei suoi genitori e io la assicurai che le anime che esistettero in essi possono essere toccate e udite ancora una volta. Questa parte di noi non muore mai.» «E allora non vorrebbe aiutarmi...?» «Midge!» Non volevo che proseguisse. «No, Mike. Se questo può avvenire, è quello che voglio. Più di ogni altra cosa.» Si voltò ancora verso Mycroft. «A che cosa servirà!» chiesi. «Ti prepari solo ad altre sofferenze, non te ne accorgi?» «Mi rendo conto che lei si preoccupi per Midge,» mi interruppe Mycroft. «E proprio per l'amore che le porta dovrebbe sostenerla in questo. So che lei si rende conto che ha un profondo bisogno di riconciliarsi con i suoi genitori.» «Riconciliarsi?» La fissai stupito e lei abbassò il volto. Anche Mycroft la osservava. Aprì la bocca in un silenzioso «ah» di comprensione e poi tornò ad accomodarsi sulla poltrona. «Di che cosa sta parlando?» Mi chinai e le presi il mento nella mano obbligandola a guardarmi. «Mike, io...» Scostò la testa. «Sarebbe più facile se rispondessi io per lei?» chiese Mycroft. «Non so
quanto si sia confidata con Mike, ma adesso capisco. A volte è più facile confidarsi con un estraneo comprensivo che con una persona amata.» «Midge, se c'è qualche cosa che dovrei sapere preferirei saperla da te,» insistetti. «E preferirei che fossimo soli quando me lo dirai.» Gillie mise la mano su Midge, e fu Kinsella che parlò. «Sembra più drammatico di quanto non sia, Mike. A nostro parere la colpa di Midge non ha fondamento, ma deve essere capita e rimossa prima che provochi qualche danno. Noi possiamo aiutarla.» «Colpa? Di che diavolo state parlando?» Li guardai sbigottito ed esasperato. Midge si voltò bruscamente verso di me afferrandomi la gamba. «Il giorno del funerale di mio padre, quando lasciai mia madre sola in casa... sapevo, Mike, sapevo che si sarebbe tolta la vita! Ne aveva parlato tante volte, anche prima della morte di lui; diceva che era un peso per noi. Quando lui morì, l'idea del suicidio entrò sempre più nella sua mente, ne parlava ogni giorno. Ma con calma, mai istericamente. Era così triste, Mike, ma non indulgeva mai a commiserarsi. Tutto quello che sperava era che la sua malattia non rovinasse la mia vita. E quando la lasciai, quella mattina, sentivo che sarebbe successo qualcosa, ma non tornai indietro. Non ho tentato di fermarla.!» Scossi la testa disperato. «Midge, non potevi sapere che si sarebbe uccisa. Ammetto, potevi temerlo perché era così infelice e soffriva tanto, ma non le hai dato tu quelle pillole, non le hai infilato quel sacchetto in testa! Non sapevo che tu avessi provato rimorso per tutti questi anni.» «M'ero resa conto che, se le fosse offerta l'opportunità, mia madre avrebbe potuto...» «Avrebbe potuto! Questo non significa averne la certezza. È stata una sua scelta, non ti rendi conto? E che cosa c'era di così brutto, in questo, per amor di Dio? Non credi che tua madre abbia sofferto abbastanza? Tutto quello che ha fatto è stato di mostrare un po' di pietà per se stessa.» «Non è così semplice.» «Nulla è semplice. Ma anche se ti sentivi così colpevole, perché andare da queste persone? Perché confidarti con loro? Gesù, Midge, che c'era di male nel dirlo a me?» «L'avevo tenuto... l'avevo tenuto nascosto per tanto tempo.» Mi strinse ancor più la gamba. «Quest'idea non mi è mai pesata tanto come negli ultimi tempi, Mike. Solo quando ho parlato con Mycroft ho capito il senso di
colpa che avevo portato con me così a lungo.» L'amico Mycroft. Lo guardai freddamente. Ed ebbi qualche soddisfazione nell'osservare che anche lui, adesso, sembrava a disagio. Supposi, a torto, che cominciasse a diffidare della mia rabbia. Tuttavia non rimase a corto di parole. «Io ho cercato solo di capire la natura del dolore radicato in Midge, e possibilmente di chiarire i suoi dubbi. Non si accorge che ha bisogno di una guida?» «Mi accorgo che lei le ha fatto credere questo. Ogni aiuto di cui ha bisogno può averlo da me.» «Non nel modo in cui possiamo aiutarla noi.» Era turbato, non faceva che guardarsi in giro. «Che cosa potete fare?» ribattei. «Tenere una seduta? È così che volete aiutarla?» «Midge ha un dono unico...» La sua voce si incrinò quando qualcuno emise un gemito. A terra, Neil Joby si tirava il colletto della camicia come se l'atmosfera lo soffocasse. L'atmosfera nella stanza era soffocante, ma non fino a questo punto. «Mike, tu non li hai capiti.» Midge mi fissava con occhi intenti. «Il Sinergismo è una risposta, se viene usato nel modo esatto. Se...» «Cristo, credi realmente in queste stupidaggini?» Sussultò come se l'avessi colpita. Mi affrettai a modificare il mio tono. «Ascoltami: se hai una colpa per la morte di tua madre, è minima. Gesù, io ti conosco meglio di chiunque altro, e tu non avresti mai potuto nascondermi un tale rimorso. E tutta opera di questo signore...» puntai un dito contro Mycroft «...ti ha fatto esagerare la colpa nella tua mente. Non vedi come fa? Non c'è niente di nuovo: la maggior parte dei fanatici religiosi agisce facendo nascere rimorsi nella gente.» Lei continuò a scuotere la testa rifiutandosi di ascoltare le mie parole. «Hai torto,» disse, «hai torto...» Qualche cosa mi spinse allora a guardare Mycroft e scorsi un'espressione di trionfo sul suo viso. Immediatamente quell'espressione si mutò in un sorriso di schietta amicizia che perdonava la mia follia. «Ciarlatano,» dissi con calma. Un bicchiere si rovesciò e il vino si sparse sul tappeto. Kinsella guardò il liquido che vi penetrava, prima di voltarsi verso il suo capo e consigliere. Adesso Mycroft non era più così brillante. Le finestre tremarono rumorosamente. Notai che Joby era cadaverico e
faceva ancora fatica a respirare. Le travi del soffitto scricchiolarono. Quel rumore fece sussultare Gillie che sollevò lo sguardo allarmata. «È il vento» dissi per rassicurarla. «Non preoccuparti, il tetto resisterà.» Lei parve incerta. Io indicai Joby e dissi a Mycroft: «Spero che non vomiterà sul tappeto.» La porta dell'ingresso nel corridoio vibrò. Mycroft si alzò, andò verso il giovane e gli mise un mano sulla fronte. Mormorò alcune parole che cercai di sentire, ma erano state pronunciate a voce troppo bassa. Joby si schiarì rumorosamente la gola e si riprese abbastanza da mettersi in ginocchio. Kinsella che sembrava anche lui vacillante, afferrò l'amico per le spalle e lo aiutò ad alzarsi. Anche Gillie barcollava. Mycroft si mise davanti a Midge e la studiò stringendo gli occhi. Avevo davvero pensato, una volta, che il suo volto fosse comune? Non solo delle ombre rendevano adesso pauroso quel volto, ma tutta la sua espressione. Mister Hyde si stava rivelando. Le sue parole furono lente e penetranti pronunciate a bassa voce. «Si ricordi che posso aiutarla. Creda nella rigenerazione dello spirito, si renda conto che non vi sono barriere per la volontà umana.» Non mi sarei meravigliato se le avesse dato il biglietto pubblicitario della sua organizzazione. Distolse gli occhi da lei e guardò ancora una volta la stanza indugiando sulle finestre, riprendendo l'esame, annotando tutto. Ci giunse un rumore diverso, sopra le nostre teste, un battito smorzato, quasi una morbida vibrazione. Un battito frenetico di piccole ali. Sapevo da dove veniva quel rumore e chi lo provocava e cominciai a innervosirmi come i nostri ospiti. «Mycroft,» disse Kinsella con un tono supplichevole nella voce. «E ora di andare.» Joby, visibilmente esausto, sembrava d'accordo. In realtà i tre giovani sinergisti sembravano allo stremo delle forze. Erano tutti e tre pallidissimi. Le persiane battevano così forte che io pensai che si spezzassero. Questa volta fui io a balzare in piedi. Solo Midge rimase seduta. «Vi accompagno,» dissi ai sinergisti. Mycroft si voltò verso di me, senza ostilità nello sguardo, solo con un'e-
spressione fredda. «Non dovrebbe ostacolarla,» mi disse. «Quello che non capisco,» risposi cominciando a sentirmi anch'io un po' tremante, «è perché lei sia così interessato a Midge. Si da sempre tanta pena per convertire una nuova persona?» Esteriormente i suoi modi erano disinvolti; ma l'agitazione era nei suoi occhi sempre in movimento che scattavano qua e là come quelli di un esploratore della giungla, sempre in attesa di una freccia avvelenata. Midge era seduta sul divano, le mani strette sulle ginocchia, e disse: «Potreste smettere di parlare di me come se non fossi nella stanza? Mike, ci sono delle cose per le quali tu non hai interesse né comprensione, ti prego dunque di non interferire. Queste persone sono miei amici, nostri amici, e tutti si preoccupano della mia pace mentale.» «Non credi che anch'io me ne preoccupi?» «Loro mi spiegano! Mi aiutano!» «Ne parleremo quando se ne saranno andati,» dissi con più calma di quanta ne sentissi. «Sì, dovrebbe farlo,» disse Mycroft con condiscendenza «Mike ha diritto alla sua opinione. Non è difficile capire il suo scetticismo data la scarsa notorietà di cui gode la nostra setta. Sebbene sviati, questi pregiudizi sono accettati e tollerati dai nostri membri. Siamo abituati ad avere pazienza.» La mia se n'era già andata. Mi avviai alla porta emi fermai con l'aria di chi aspetta che ospiti poco graditi se ne vadano. Mycroft sorrise, ma scorsi in quel sorriso un non so che di sinistro. Tese una mano e toccò Midge sulla fronte come aveva toccato Joby. Il battito frenetico, anche se smorzato, al piano di sopra stava facendosi troppo forte per essere trascurato, e l'aria nella stanza sembrava troppo calda nonostante il vento che sferzava le finestre. Mi voltai di scatto quando la porta del corridoio sussultò contro la serratura e i cardini. Allarmato indietreggiai, ma, se non altro, si mossero anche i sinergisti. I tre membri più giovani si raggrupparono e Mycroft indicò che dovevano seguirlo. Vennero verso di me come un gruppetto disorientato che cerchi la via di casa: Kinsella e Gillie sostenevano il loro compagno. Notai, non senza piacere, che anche il capo dei sinergisti cedeva leggermente sotto l'atmosfera pesante. I pipistrelli dell'attico erano adesso decisamente frenetici, e io mi domandai se la causa del loro trambusto non fosse il vento violento che pas-
sava fra le travi del soffitto creando lassù una specie di uragano. Mi parve di udire le loro deboli strida, ma lo attribuii alla mia immaginazione. Mycroft sostò sulla porta del corridoio, e per un momento pensai che volesse scendere le scale; invece si voltò verso Midge e disse: «Sono pronto a essere il suo alleato ogni volta che avrà bisogno di me.» Lei lo guardò, piccola e sperduta figuretta, con le mani ancora strette sulle ginocchia, ma non rispose. Io mi aspettavo che il vento entrasse ululando e mi preparai a sostenere il colpo. Ma non vi fu nulla, nemmeno la più leggera brezza. Lui avanzò nella notte, con gli altri raccolti dietro di sé, e io mi affrettai a chiudere nuovamente la porta. Prima di farlo, li guardai scendere con passi incerti giù per i gradini di pietra mentre l'oscurità avanzava lentamente. Se non fosse stato pericoloso anche per me, avrei sperato vivamente che almeno uno di loro si rompesse una gamba. Scomparvero dietro la curva e io mi rilassai un poco, sollevato dal fatto che se ne fossero andati. Ma sbattei gli occhi nella notte, stupito da come improvvisamente tutto fosse tornato tranquillo. Per quanto potevo dire, non un filo d'erba si agitava né una foglia era scossa. L'aria era calma, fresca e piacevole. Quando rientrai, chiudendo a chiave la porta dietro di me, anche i pipistrelli si erano calmati e nessun suono veniva dall'alto. C'era soltanto un forte, insostenibile odore di muffa. 30. FANTASMI Ma non è tutto. La notte non era ancora finita. Mi svegliai tardi e la stanza da letto era immersa nel buio. Ombre si fondevano con ombre più scure, strani particolari dei mobili apparivano più grandi di quanto non fossero, trasformati in forme sinistre che sembravano nascondersi. Midge era seduta accanto a me, e il suo movimento o la sua tensione mi avevano svegliato, perché lei non mi aveva toccato né mi aveva chiamato. Con una improvvisa irrequietudine mi alzai puntellandomi sui gomiti. Il braccio di Midge era rigido quando lo toccai e coperto di pelle d'oca. «Che c'è?» sussurrai preoccupato. Non rispose subito.
Stavo cercando l'interruttore quando la sua voce mi fermò. «Sono stati qui,» disse con un filo di voce. «Oh, Mike, sono stati qui.» Mi voltai verso di lei e la sostenni nell'oscurità. «Chi è stato qui? Di chi parli?» Rabbrividì fra le mie braccia. «Li ho sentiti tutti e due.» C'era nel suo mormorio una sorta di incerto timore religioso. «Ho sentito che potevo quasi'toccarli. Erano in questa stanza.» «Midge, di chi diavolo parli?» La sentii piangere, ma c'era tristezza nella sua voce quando parlò ancora. «Mia madre... mio padre. Cercavano di parlarmi, avevano bisogno di parlarmi, capisci?» La tenni stretta a me e mi sentii percorrere da un brivido. 31. NASCITA Al mattino il risveglio fu meno brusco. Ancora assonnato mi girai nel letto per abbracciare Midge, ma lei non c'era. Aprendo a fatica le palpebre che sentivo pesantissime, diedi un'occhiata alla sua parte del letto per avere la conferma di quello che il tatto mi aveva già detto. Altri pensieri seguirono a passo più lento impiegando un certo tempo per prendere forma ma infine i ricordi della notte precedente, compreso il dopo-Mycroft, spezzarono gli ultimi fili di sonno. Mi voltai sulla schiena contemplando il soffitto. Alla luce fredda del giorno gli episodi traumatici della notte scorsa sembravano irreali. La minaccia dei sinergisti, a rifletterci, finiva col diventare ridicola: nessuno di noi era abbastanza ingenuo da cadere sotto la loro influenza, non eravamo ragazzi impressionabili per essere attratti da quella ridicola "religione". Eravamo degli adulti capaci di ragionare. Tuttavia Midge era stata affascinata da Mycroft, su questo non c'era dubbio, e io mi rendevo conto che in quell'uomo c'era qualche cosa di più di quanto avessi supposto nel nostro primo incontro, quando il suo carisma era stato per lo meno sottovalutato. Forse questo faceva parte della sua attrattiva, dato che il suo aspetto comune sembrava escludere ogni suggestione ciarlatanesca. Dopo che lui se n'era andato la notte prima, Midge e io eravamo troppo tesi per discutere seriamente su quello che era avvenuto e le sue conse-
guenze. Quando le feci notare ancora che qualche cosa stava succedendo a Gramarye, lei si limitò a dire di essere troppo stanca e di volere andare a letto. Io la seguii cercando di portarla al buon senso (buon senso? Quello che cercavo di farle capire era folle anche per me), ma lei non voleva saperne. Mi disse che avevo una mentalità limitata. Questo mi fece veramente arrabbiare considerando che proprio lei era cieca a tutte le cose misteriose che ci avvenivano intorno. Sarebbe bastata quella sola notte col vento che ululava, i pipistrelli che infuriavano nella soffitta, e l'immediata quiete appena Mycroft ebbe aperto la porta per andarsene. Il problema era: c'erano veramente state delle raffiche di vento? Era possibile che la notte fosse divenuta improvvisamente calma? E guardate l'effetto che il luogo aveva avuto sui sinergisti! Accidenti. Joby era stato lì lì per andarsene davanti ai nostri occhi, e per la seconda volta Kinsella aveva dovuto fuggirsene in fretta e furia. Andai avanti così ancora per un po', fino a esaurirmi. Le feci ricordare tutto: il suo disegno rovinato, le allucinazioni di Bob, le mie allucinazioni, la guarigione del tordo, la fiducia degli animali e degli uccelli, l'apparente rifioritura del giardino. Anche i nostri gloriosi amplessi (fino a pochi giorni prima) e il suo bel lavoro (prima che fosse rovinato), perfino la mia ispirata bravura con la chitarra. Rievocai tutto quello che mi veniva in mente. Ma era come parlare a un muro. Lei non voleva saperne. Tuttavia mostrò dell'interesse quando io arrischiai la teoria che forse era stata lei quella che aveva guarito il mio braccio e non Mycroft con la sua mistura magica e le sue finte capacità paranormali: lei e qualsiasi magia che alloggiasse a Gramarye, entro le sue mura, nel suo terreno, nella sua atmosfera - nella maledetta eredità - e operasse attraverso di lei, LEI, Midge Gudgeon, innocente catalizzatore, o intermediario, o istigatore. Così come lo era stata Flora Chaldean! E chiunque avesse abitato nel villino prima di lei! Stavo divagando, inventando, traendo idee dall'aria. O così immaginavo. Può essere stata la mia stanchezza e lo stato emotivo in cui mi trovavo, a trascinarmi in una di quelle rare condizioni in cui la mente inconscia prende il sopravvento e mette allo scoperto pensieri che sono normalmente vani o addirittura inconcepibili. E, forse, il mio inconscio era sostenuto da qualche cosa di più profondo e perfino più misterioso, qualche cosa completamente fuori di me. E quando ebbi finito e detto tutto, fui io a perdere ogni interesse: fui io
quello che non riusciva più a tenere gli occhi aperti, che doveva spogliarsi e andare a letto, completamente esausto e svuotato. Come ho detto, lei era interessata, ma non cercò di scuotermi. L'ultima immagine che ebbi di Midge prima di infilarmi tra le lenzuola fu quella di lei seduta sulla sponda del letto, che mi studiava con un particolare bagliore negli occhi. Dopo di che caddi contento nel sonno. Ma più tardi mi svegliai trovando Midge sveglia, che fissava i piedi del letto. Ne fui stupito. Evidentemente gli eventi della sera le avevano provocato un incubo, e io la spinsi ancora sotto le lenzuola cercando di convincerla. Sebbene non avesse dato risposta alle mie obiezioni, ero sicuro che non le aveva accettate. Rimase sdraiata, ferma e tranquilla, e quando le sfiorai una guancia mi accorsi che era bagnata. Tentai di fare del mio meglio per consolarla, ma purtroppo, poco dopo, mi accasciai su di lei - la mente vuole, ma la carne è debole - e mi addormentai nuovamente. Sperai solo che la stanchezza avesse sopraffatto anche lei e che anche lei si fosse addormentata; l'idea che fosse rimasta sveglia al buio, con la convinzione di avere visto gli spettri dei suoi genitori, forse pensando che sarebbero tornati durante la notte, mi faceva rabbrividire. E mi sentivo colpevole. Tirai indietro le coperte e misi le gambe giù dal letto cercando l'orologio. Quasi le dieci. Midge avrebbe dovuto svegliarmi prima. Per prima cosa, seduto sul bordo del letto, notai che l'odore di muffa della sera prima persisteva, un odore di umidità e di intonaco vecchio; poi mi accorsi che stavo guardando a bocca aperta qualche cosa sull'altro lato della stanza senza che il mio cervello intorpidito riuscisse a capire che cosa stessi guardando. La lunga fessura nel muro, che andava dal pavimento al soffitto, in qualche modo non si imprimeva nella mia mente. «Accidenti,» dissi quando finalmente capii. Mi alzai in fretta e attraversai la stanza fermandomi solo quando qualche cosa di piccolo e di morbido fu schiacciata dal mio piede nudo. Feci un salto imprecando più forte quando il pungiglione mi colpì mezzo secondo dopo; caddi indietro sul letto e mi afferrai il piede. Trovai la piccola sporgenza, come una spina, e, servendomi delle unghie come pinzette, la estrassi. La zona attorno alla minuta puntura era già rossa, e io cercai a terra il colpevole La vespa schiacciata era a una sessantina di centimetri, e io immaginai che il suo rantolo di morte fosse una risata di vendetta. Chinatomi, raccolsi il peloso corpicino schiacciato e, zoppicando, lo portai, insieme alla sua arma, nel bagno, soffermandomi un poco a guardarlo
galleggiare a mia volta con un ghigno di vendetta. Tornato nella stanza da letto, esaminai la fessura nel muro: il nuovo intonaco si era diviso in due margini dentellati e molto vicini fra loro. Ma una fessura è sempre una fessura. Questo per quel che riguardava la perizia di O'Malley. Mi infilai la vestaglia e lasciai la stanza per andare in cerca di Midge. Era di sotto, seduta sul gradino della cucina, col mento sulle ginocchia, guardando i fiori del giardino. Anche questa volta, dapprima, non notai quello che era fuori posto o, in questo caso, quello che non era in nessun posto. Mi chinai e la baciai sul collo. Non rispose. Si mosse appena e io mi rannicchiai accanto a lei. Sebbene fossimo sul lato in ombra del villino, pensai che il sole doveva essere allo zenit dal modo con cui operava sui brillanti colori del giardino. E, in alto, il cielo era di un azzurro pallido con vaghi gruppi di nubi dispersi nella distanza. Ma, nella parte in ombra dove eravamo seduti, l'aria era fredda. «Come stai, oggi, Folletto?» tentai con voce disinvolta. E le misi una mano sul braccio. La sua risposta fu laconica. «Molto confusa.» E non disse altro. «Sì, anch'io. Ma non così confuso da non poter vedere Mycroft e la sua piccola e misteriosa setta per quello che sono.» «Lascia stare, Mike,» disse con voce atona. Cercai di essere comprensivo. «Non credo che possa farlo anche tu. Sei troppo "innamorata" di loro, e questo mi spaventa.» Si strinse nelle spalle, un movimento breve, quasi ritraendosi in sé. «Midge, hai pensato a quello che ti ho detto stanotte?» Sempre senza guardarmi rispose: «Mi hai detto tante cose. Tu le ricordi?» Adesso si voltò verso di me. Giusto, non potevo. Avevo parlato tanto da avere in testa un gran disordine, non ero tanto affaticato quanto confuso. Solo più tardi queste nozioni avrebbero potuto chiarirsi. Mi duoleva la testa e mi sentivo bruciare lo stomaco anche se la sera prima avevo bevuto un unico bicchiere di vino. «Che cosa è successo ai nostri amici, quest'oggi? Ce n'erano sempre due o tre che svolazzavano in cerca di cibo, a quest'ora.» «Non lo so,» rispose Midge senza espressione sulla faccia. Aggrottai la fronte. «Forse hanno trovato un menù migliore da qualche altra parte,» dissi debolmente, rifiutandomi di credere che ci fosse un qual-
che significato in questo cambiamento di abitudini, ma sentendomi molto contrariato. «Spero comunque che Rumbo sia da queste parti, eh?» Scosse la testa. «Non si è ancora visto.» Ciò mi impensierì. Doveva essere successo qualche cosa di brutto se quel golosone non era ancora comparso. Ricordai le parole di Bob al telefono: c'è una brutta atmosfera a Gramarye. Midge si alzò e la mia mano cadde come un peso morto. «Devo vestirmi e andare in paese a fare delle compere,» disse fredda e si volse prima ancora che avessi avuto il tempo di alzarmi. «Aspetta un minuto.» Le presi il braccio tirandola a me. «Siamo amici, no? Non solo innamorati, ma anche amici. Non tenerti tutto dentro, Midge, per quanto male tu possa pensare di me. Va bene, stanotte ti ho turbato con alcune mie supposizioni, ma questo non deve impedirci di parlare. Tutto quello che faccio per te, lo faccio per il tuo bene. Dannazione, ti amo più di quanto riesco a esprimere...» In altri momenti lei avrebbe aggiunto: «Io ti amo di più ogni giorno che passa...» e io avrei continuato: «Domani ti amerò il doppio...» e così via come in un duetto. Ma quella mattina niente, nemmeno un sorriso. Tutto quello che ottenni fu un silenzio turbato. In quel momento la tensione parve abbandonarla per un istante. Guardò a terra evitando il mio sguardo. «Io non ti amo di meno, Mike, nulla può cambiare questo. Ma io devo scoprire...» La strinsi forte. «Tu non hai fatto nulla di cui debba vergognarti.» «Non vuoi ascoltarmi.» Mi controllai. «Io sto solo tentando di farti ragionare, mi capisci? Sai che cosa penso? Penso che ti senti colpevole della tua felicità. Ne ha avuta tanta - ne abbiamo avuta tanta - da figurarti per qualche assurda ragione che tua madre doveva morire perché tu potessi ottenerla. È questo ciò che ti angoscia, Midge.» Scosse la testa con violenza. «Questo è sciocco.» «Dici? Tu hai avuto la tua libertà quando lei è morta...» «Si è uccisa,» insistè. «D'accordo, si è uccisa. Tu eri giovane, avevi un grande talento, e così forse ti sei domandata come sarebbero andate le cose senza legami, senza responsabilità. Chi non lo avrebbe fatto, nella tua situazione? E adesso che è passato tanto tempo, ti senti in colpa per esserti chiesta come sarebbe stata la tua vita senza legami familiari. E io non mi meraviglierei se fosse stato questo odioso Mycroft a instillarti questi sensi di colpa.
«Lui non...» «Che cosa vuoi fare? Chiedere il loro perdono? Quando siamo arrivati qui mi dicesti di desiderare che ci fosse qualche modo per far sapere ai tuoi genitori quanto eri felice. Lo ricordi? In qualche modo questo desiderio è cambiato e adesso vuoi il loro perdono per essere così maledettamente felice. Come mai i tuoi sentimenti hanno preso improvvisamente questa direzione? E successo il giorno in cui sei andata da sola al Tempio? Quando io ero a Londra?» Tentò di liberarsi da me, ma la tenni ferma. «Mi ha fatto capire!» mi gridò. «Tu non lo conosci...» «Non voglio conoscerlo! Quello che voglio sapere è perché ti fa questo.» Adesso cercò più decisamente di liberarsi. Mi guardò con occhi infuocati, il corpo piegato, come un bambino recalcitrante. «Questa notte hai detto che c'era qualche cosa di straordinario in Gramarye.» Era quasi un'accusa. «Non hai detto proprio così, ma il senso era questo. Tu stesso hai supposto che io ne fossi coinvolta, che ne facessi parte.» Sapevo di avere detto qualche cosa di simile, ma in quel momento non riuscivo a ricordare perfettamente. «Credi che sia pazza, Mike? Credi che io non abbia notato ciò che è avvenuto intorno a noi?» «E allora perché non...» «Perché è troppo delicato per essere messo in questione! Va bene, ammetto che in certa misura vi ho opposto una barriera, ma questo perché temevo di perdere... di perdere...» Scosse la testa, incapace di trovare le parole. Incapace, sospettai, di chiarire le sue idee. Feci un passo verso di lei, ma lei indietreggiò. Strinse i pugni. «Mycroft è l'unico che possa aiutarmi.» «No!» Adesso spettava a me gridare. «Lui capisce.» Aprì i pugni e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Non voleva più discutere. Mi scivolò accanto e io udii i suoi piedi nudi che salivano le scale nell'interno del villino; l'asse di uno scalino scricchiolò rumorosamente sotto il suo peso. Pensai di seguirla, ma nemmeno io volevo discutere. Ero troppo esausto. «Il signor O'Malley?» «Sì, chi parla?»
«Qui Mike Stringer.» «Come? Stringer?» «Lei ha lavorato per il nostro villino. Gramarye.» «Ah, il signor Stringer.» Poi più lentamente. «Sì... Gramarye. Che cosa posso fare per lei, adesso» «Temo che si siano ripresentati alcuni problemi.» La sua cadenza irlandese divenne un poco più forte. «Non capisco quali possano essere, signor Stringer. Abbiamo fatto un lavoro completo.» «Sì, ma il muro nella stanza da letto principale si è spaccato di nuovo e alcune porte non si chiudono bene...» «Aspetti un secondo, signor Stringer. Mi lasci trovare la nota dei lavori fatti nella sua proprietà.» Un tac mentre il ricevitore veniva messo giù all'altro capo. Rimasi nel piccolo corridoio in cima alle scale, la mano libera infilata nella tasca dei jeans, sperando che le tre aspirine che avevo preso venti minuti prima operassero sul mio mal di testa. L'odor di muffa nell'aria non mi aiutava a chiarirmi le idee. «Eccomi, vediamo...» riprese la voce dell'Irlandese. Dei disturbi sulla linea mi costrinsero ad allontanare il ricevitore dall'orecchio. «Ah, bene. Abbiamo fatto uno splendido lavoro sulla parete di quella stanza da letto. Non capisco come si sia riaperta. Immagino che non avrà fatto fare altri lavori in quel punto, signor Stringer.» «Assolutamente no.» «Capisco. Be', è strano. Qual era l'altro inconveniente?» «Le porte. Devono essersi deformate di nuovo». «Nella mia nota non si parla di porte.» «Le avete dovute piallare prima di dipingerle.» «No, no, qui non se ne parla. Le abbiamo lisciate, naturalmente, una semplice raschiatura prima di dipingerle. Adesso ricordo, sì, ricordo che le ha menzionate quando abbiamo parlato del lavoro. Non c'erano anche delle ante di armadi a muro?» «Giusto.» «Bene, il capo mastro mi ha detto che le porte erano a posto. Non c'era da fare altro che lisciare le superfici. Alcune intelaiature delle finestre erano marce e le abbiamo sostituite. Nella fattura che le abbiamo mandato non c'era altro.» Udii un rumore sopra la testa. «Le porte si possono deformare con il caldo, signor O'Malley?»
«Dipende. In pieno sole, forse, o a volte con un tempo molto umido. Certo abita in una casa molto vecchia, e le strutture in legno risentono dell'età.» «Ho notato che alcune cementature all'esterno non sembrano buone. Si stanno sgretolando.» Lo udii trarre un lungo respiro, più di stanchezza che di meraviglia. «Questa è un altra cosa. Posso mandare qualcuno a dare un occhiata, ma credo di non poterlo fare prima di un settimana. E un periodo di lavoro, con il tempo così buono.» «C'è qualche altra cosa che temo richieda un intervento urgente.» «Di che si tratta?» «L'architrave sopra il fornello della cucina. C'è una crepa anche lì, e ho notato che la pietra comincia a cedere nel mezzo. Solo di poco, ma la faccenda mi sembra pericolosa.» «È un nuovo lavoro. Come le dicevo siamo molto occupati, in questo momento...» «L'architrave era nel mio elenco dei restauri. Abbiamo notato la spaccatura prima di traslocare.» «Non ricordo... ah, aspetti un momento. È vero, adesso mi torna in mente. Ci aveva dato tutta una lista di riparazioni che erano inutili. Per questo la spesa è stata al di sotto del preventivo ; i miei uomini non sono riusciti a individuare metà delle riparazioni da lei indicate.» «È assurdo.» «Sembra anche a me. Il mio capo operaio suppose allora che lei avesse confuso l'elenco con un'altra proprietà che aveva in mente di acquistare. Un'altra ditta che fosse stata un po'... Tom Mix...» «Come?» «.. .un po' cowboy, le avrebbe messo in conto tutto senza dire una parola. Bene, posso mandare qualcuno a vedere, ma non subito, temo. Diciamo martedì prossimo? Le va bene?» «Quell'architrave è pericoloso...» «Lei usa quel fornello? Immagino di no. Puntelli la pietra e ci giri al largo, non deve fare altro. Le manderò uno dei miei uomini martedì prossimo e vedremo quello che si può fare. Ecco qua, l'ho scritto sul mio taccuino. Darà un'occhiata a tutto quello che deve essere fatto e noi saremo lì appena riprende a piovere. Buon giorno, signor Stringer, spero che si trovi bene in questa bella parte della foresta.» Sentii un clic e tutto finì lì. Per quel che riguardava O'Malley, i problemi
erano risolti. Ed ecco ancora quello strano rumore che proveniva dal piano superiore. Feci due passi e allungai il collo sulle scale. Sapevo che cos'era quel rumore. Ma adesso vi erano altri rumori, al piano di sotto. Ascoltai attentamente, indeciso su quali investigare per primi anche se ero piuttosto incline a non investigare affatto. Altri rumori dal basso. Stridii e fruscii di carta. «Midge?» Forse era già tornata dal paese. Nessuna risposta, ma forse era ancora arrabbiata con me. «Midge, sei tu?» Sentivo che c'era qualcuno; ma non rispondeva. Rimasi in cima alle scale chinandomi pericolosamente verso la curva per guardare dalla parte della cucina, il mio luogo preferito. Una tazza da tè tintinnò nella credenza (non ne avevo lasciate sulla tavola). Non mi concessi tempo per riflettere, spinto dalla mia stessa paura, e scesi zoppicando perché la puntura della vespa mi faceva ancora male. Mi fermai sulla porta della cucina e tirai un respiro di sollievo. «Rumbo, mascalzone!» Da uno scaffale della credenza, lui mi rimproverò per averlo a mia volta spaventato. Un pacchetto di biscotti era aperto sulla tavola, con il contenuto sparso e rosicchiato. «Tu, almeno, non ci hai lasciati,» dissi. Presi un biscotto spezzato e glielo porsi; lui me lo prese di mano, sempre protestando. «Così, dove sono gli altri, quest'oggi?» lo interruppi. «Hanno anche loro paura di Gramarye? Per questo non sono venuti a far colazione?» Probabilmente lui se lo domandava come me. «Ci vuole ben altro per spaventare te, non è vero? Ma io devo avvertirti: le cose qui non sono più le stesse, e anch'io ho un po' di paura. E nell'atmosfera, lo senti? E come qualche cosa che si arrampica e scompare ogni volta che ti volti per guardare. Mi capisci?» Non credo che mi capisse. Continuò a rosicchiare il suo biscotto drizzando ogni tanto la testa verso di me in quel suo modo che ricordava un cagnolino ma senza badare molto a quello che gli dicevo. Che cosa potevo aspettarmi da uno scoiattolo? La porta della stanza dell'attico rimaneva come inchiodata al suo telaio (mi passò per la mente l'idea che qualcuno vi si appoggiasse contro dall'al-
tra parte). Io ero sul gradino sottostante, girando la maniglia e allo stesso tempo spingendo con l'altra mano. Rumbo mi aveva tenuto compagnia nel mio cauto viaggio su per la scala a chiocciola, come incuriosito al pari di me da quello strano suono. Ogni volta che il rumore si ripeteva - vi erano lunghe pause fra 1'uno e 1'altro - la sua testa saltava su, e lui guardava di qua e di là con rapidi movimenti scattanti. I suoni avevano un certo andamento musicale e per questo mi erano familiari. Erano i suoni di un pollice che passasse sulle corde di una chitarra. Tuttavia, ancora più blande, quasi una semplice risonanza, le vibrazioni andavano lentamente smorendo lasciando quello che sembrava un silenzio profondo e meditativo prima che le corde fossero nuovamente disturbate. Fortunatamente - dopo avere sfoggiato tutto il mio coraggio scendendo con baldanza in cucina - mi si era già presentata una spiegazione. Un uccello, o forse un pipistrello insonne, aveva trovato in qualche modo la strada per entrare nella mia sala-musica e le sue ali battevano contro la chitarra ogni volta che vi volava vicino. Altra ipotesi, una famiglia di topi poteva aver fatto il nido in uno degli strumenti, e i suoi membri strusciavano contro le corde nell'entrare o nell'uscire dalla cassa armonica. Entrambe le spiegazioni mi sembravano ragionevoli, e io ero ancora pronto a credere nella ragione (anche dopo tutto quello che era avvenuto). Spinsi più forte e la porta cedette di qualche millimetro. Nell'interno vi era stato silenzio per più di un minuto. Tentai di nuovo urtando la porta con la spalla. I legni scricchiolarono e la porta si aprì; poiché stringevo ancora la maniglia, il battente non si spalancò e io gli feci compiere piano il resto del percorso. A prima vista la stanza apparve vuota. Ma poi venne quasi da piangere quando vidi lo stato in cui erano le mie due chitarre. Entrai di corsa nella stanza e caddi in ginocchio di fronte a esse ed emisi un grido d'angoscia. Il manico della Martin, che era stata messa per dritto appoggiata a una parete in ombra, si inarcava verso di me come per inchinarsi al mio ingresso. La spagnola da concerto era lì sul pavimento, evidentemente era caduta in un momento in cui il colpo non era stato udito; e il suo manico era inclinato in su, come un ometto che cercasse di alzarsi. La prima e la seconda corda erano saltate in entrambe, le altre erano fortemente tese dall'alto al basso tirando il manico con una tensione incredibile. Non riuscivo a capire come potesse essere avvenuto: nessuna era rimasta direttamente al sole, che avrebbe potuto alterare il legno (in tal caso comunque, le corde si sa-
rebbero allentate, non tese), e nessuna era stata accordata sull'acuto: io tengo le corde a tensione normale, salvo eccezioni temporanee, nel qual caso allento sempre le corde dopo l'uso. Le corde di nylon possono restringersi se soggette a temperature estreme, purché non si spezzino prima; ma le corde d'acciaio della Martin? Scossi la testa sbigottito e sconvolto, addolorato come se mi avessero ucciso un cagnolino. Una leggera brezza alitò dalla finestra che avevo lasciato aperta di pochi centimetri giorni prima per rinfrescare la stanza e fece vibrare le corde troppo tese. L'eco fu più simile a un singhiozzo che a un suono musicale. Mi battei un pugno sulla coscia inveendo, poi inveii ancora. Sebbene le chitarre fossero irrimediabilmente rovinate (i manici avrebbero potuto essere sostituiti, ma sarebbe stato dispendioso e di esito incerto) girai le chiavette allentando le corde. Con un certo nervosismo aprii l'astuccio della Fender ed esaminai la chitarra elettrica; ebbi la sensazione di aprire una bara per dare un'occhiata al cadavere. Per fortuna lo strumento era in buon stato. Dopo di che, potei solo rannicchiarmi a terra e contemplare i miei strumenti resi invalidi, anzi, colpiti a morte, mentre Rumbo si dava alla pazza gioia saltando per la stanza senza badare alle mie sventure. Io lo lasciai giocare, contento che almeno uno di noi non fosse preoccupato di nulla. Rimasi lì pensoso per un po' di tempo e non so bene che cosa mi avesse infine risvegliato: forse le stridule "chiacchiere" dello scoiattolo, o il rumore di un movimento sulla mia testa. Era stato un mattino pieno di rumori lontani, così che non fui né sorpreso né turbato dall'udire altri suoni. E naturalmente, questa volta, l'origine di quei rumori era evidente; i pipistrelli erano inquieti. Ma non furono i rumori a spingermi a portare una sedia nel centro della stanza per raggiungere la botola. Avevo gettato lassù il disegno di Midge lo stesso giorno in cui avevamo scoperto la sua grottesca trasformazione: solo alzando un poco la botola e scagliandolo dentro, fuori della vista e fuori del pensiero. Bruciarlo sarebbe stato troppo simile a un rituale. Adesso, ancora perplesso per quel mutamento, volevo dargli un altro sguardo. Forse pensavo, pazzo ottimista che sono, che potesse essere tornato normale. Comunque volevo studiare il disegno più attentamente. Mi misi in equilibrio sulla sedia, con una mano contro lo sportello della botola e tenendo con l'altra la torcia che adesso avevo sempre pronta nell'attico per visitare la soffitta. Sollevai lo sportello, nervoso per i nostri a-
mici notturni, ma convinto, come mi era stato detto così spesso, che non fossero pericolosi. La botolona si aprì con un misterioso cigolio di "vecchia casa buia" che fece scomparire Rumbo giù per le scale con uno strido di paura. Mi ripromisi di oleare i cardini alla prima occasione. Alzando la torcia, mi servii dello schienale della sedia come vacillante sostegno e mi tirai su con la mia solita mancanza di dignità. Seduto sul bordo, mi maledissi per avere lanciato il dipinto con tanta forza: potei distinguere la sagoma rettangolare prima ancora di volgere la luce su di esso, e mi resi conto di dover strisciare sui travicelli per poterlo raggiungere. Prima di farlo, rivolsi il raggio per tutta la soffitta e rabbrividii nel vedere le nere forme appese, con la certezza che erano divenute più numerose dell'ultima volta che le avevo viste. Riempivano ogni centimetro di spazio fra i travicelli, come quella prima volta. Ma perlomeno erano fermi e tranquilli come se la mia intrusione avesse arrestato la loro attività. Mi domandai come considerassero la mia presenza. Con paura? Con ostilità? O sentivano adesso che Midge e io non avevamo intenzione di far loro alcun male? Un piccolo squittìo isolato attrasse la mia attenzione verso una trave alla mia sinistra. Illuminai un gruppo di pipistrelli particolarmente folto; uno, presso il centro, stava facendo piccoli movimenti scattanti, con la testa piegata in su, verso lo stomaco. I suoi denti aguzzi furono colpiti dalla luce mentre apriva la piccola brutta bocca per emettere un altro squittìo appena udibile. Altri squittii risposero dagli angoli più bui della soffitta, tutti isolati e in qualche modo patetici. Tirando su le gambe, cominciai a farmi strada verso il dipinto non volendo restare in quel buio un attimo più del necessario. I travicelli mi facevano male alle ginocchia mentre stisciavo, e l'odore degli escrementi di pipistrello era più forte e sgradevole dell'ultima volta che ero stato là. Tentai di tenerne lontana la mano libera mentre passavo guidandomi con la torcia, ma quella porcheria era dappertutto e presto dovetti pulirmi la mano sui jeans. Decisi che camminare direttamente sui travicelli chinandomi e tenendomi in equilibrio, sarebbe stato più facile, così mi alzai barcollando goffamente per un paio di secondi con i piedi su due travicelli paralleli. Immediatamente urtai uno di quegli animali. Il pipistrello stridette e battè le ali contro di me, mentre io indietreggiavo vacillando sulle gambe malsicure e battendo l'aria con le mani.
Piegato a metà e ancora un poco vacillante, ritrovai l'equilibrio e volsi la torcia sul pipistrello colpito per assicurarmi che non si preparasse ad attaccarmi. Quello che vidi mi fece venire la nausea. Inghiottii a fatica. A pochi centimetri dalla mia testa, il pipistrello che avevo colpito si contorceva in piccoli movimenti spasmodici, con le ali piegate all'indietro e la viscida coda all'ingiù. Qualche cosa di rosso, lucente e ripugnante gli stava uscendo fra le sue zampe. Io guardavo ipnotizzato, pieno di ripugnanza e tuttavia orribilmente affascinato. Quella cosa rosea e gibbuta aumentava in dimensioni, fragile forma lucente nella luce della torcia. Il piccolo corpo scivolava fuori, lento e umido, prendendo forma - una forma sgradevole - scaricato dal grembo materno come una pallottola ovale rosea spremuta da un sacchetto, finendo col cadere sullo stomaco del pipistrello madre, sostenuto dal cordone ombelicale. La madre chiuse le ali attorno al nuovo nato alzando la testa e tirando fuori la lingua per pulirlo. La nascita potrebbe essere stata meravigliosa per un amante della natura, ma per me, in quella soffitta buia, tra una massa di piccoli mostri appesi a capo in giù, fu una cosa orribile. Tentai disperatamente di strisciar via, attento a non scivolare fra i travicelli, e riuscii solo a disturbare quelli che erano dietro di me. E nel voltarmi, facendo scorrere la luce attorno alla soffitta, vidi altre nascite, altre pallottole rosa che uscivano ciondolando sul petto delle loro madri. Non solo due o tre, ma dozzine. Giuro di averne viste dozzine. Dovunque gettassi il raggio della torcia vedevo lo stesso movimento nauseante, la stessa viscida lucentezza sui corpi minuti che riflettevano il raggio. Sembravano getti di pus fuoriuscenti da ferite aperte. Andai barcollando verso la chiara apertura quadrata scivolando sui travicelli e ammaccandomi le ginocchia contro di essi, ma senza fermarmi, ficcandomi strisciando schegge di legno nelle mani, con il raggio della torcia che scattava qua e là, turbando i pipistrelli che squittivano per protesta o per paura, o forse per entrambe le cose. Uno mi volò vicino al volto e mi sentii alitare l'aria umida sulla faccia. Qualche cosa mi battè leggermente sulla schiena fermandosi lì per un momento prima di cadere. Per poco non diedi un urlo. Poi raggiunsi l'apertura e vi scivolai attraverso con le gambe, aggrap-
pandomi con le mani per non scivolare sul pavimento. I miei piedi trovarono la sedia sotto di me, e io mi aggrappai allo sportello chinando la testa mentre un piccolo corpo usciva dall'ombra sfiorandomi il braccio. Tirai lo sportello riuscendo appena a ritirare le dita prima che si chiudesse di colpo. Rimasi sulla sedia con le mani sulle ginocchia, mentre la torcia rotolava sul pavimento dove l'avevo lasciata cadere, e tirai un lungo respiro sperando di non vomitare. 32. PAGINA VENTISETTE Mi allontanai da Bunbury irritato, confuso e non so che altro. Disorientato, credo. Sì, e snervato. L'avvocato di Flora Chaldean aveva accettato di ricevermi con notevole riluttanza, e in realtà non aveva altra scelta. Aveva delle responsabilità circa la vendita di Gramarye, e io insistetti per un incontro. Forse si sentiva in colpa. Volevo vederlo perché vi erano certi argomenti relativi alla vecchia signora e al villino che richiedevano una spiegazione, e Ogborn era probabilmente il legame più importante, se non l'unico. Volevo essere informato. Volevo sapere di più su Flora Chaldean. Volevo sapere di più su Gramarye. Volevo sapere che collegamento vi fosse con i sinergisti. Ebbene, avevo avuto delle risposte, ma non potevo dire che fossero spiegazioni. Adesso ero confuso in un altro modo. Bickleshift, l'agente immobiliare che ci aveva venduto la proprietà, fu il primo con cui cercai di prendere contatto dopo la mia sconvolgente esperienza con i pipistrelli in soffitta, ma era via per una vacanza di due settimane. Potrete pensare, per inciso, che io abbia reagito eccessivamente a questo incidente - dopo tutto si trattava solo di mammiferi alati con le orecchie a punta, che partorivano - ma avreste dovuto essere lì per capire che vi era qualche cosa di più, che non vi era nessun Bambi in questi piccoli cuccioli, nulla di grazioso in essi: L'emergere di una nuova vita era più simile a un'escrezione che a una generazione. Era come assistere a una propagazione di disannonia, all'affermazione di influenze maligne piuttosto che al naturale piacere della natura, perché adesso avevo capito che c'erano due aspetti, in Gramarye, due climi o latitudini, comunque vogliate chiamare queste atmosfere opposte. Forse due zone diverse: positiva e ne-
gativa. Avevamo sperimentato il bene, il positivo, quando eravamo arrivati lì. Adesso qualche cosa stava spingendolo da parte. Secondo le parole di Bob Dylan, "i tempi stavano cambiando." E, tornando indietro col pensiero, i cambiamenti erano cominciati con la comparsa dei sinergisti. Questi pipistrelli appena nati significavano in qualche modo che la malsana metamorfosi di Gramarye era in cammino: un cambiamento che non poteva essere improvviso ma veniva strisciando, lento come un mostro che dall'oceano si fa strada verso la spiaggia, imparando a respirare e raccogliendo forze per potervi salire. Sospinto da coloro che possono valersi del suo potere. Assurdo? Questa è solo metà della storia. Ma precorro i tempi, e parlo di queste cose solo perché così venivano in me le intuizioni, come gocce di consapevolezza che cadevano a caso dall'alto, colpendomi la testa come piccoli sassi prima di filtrare nel mio cervello. Quel giorno, nel tornare al villino, ricordavo esattamente quello che avevo detto a Midge un paio di sere prima, suggerendo che lei fosse una sorta di catalizzatore o di intermediario. Mi domandavo se i sinergisti, e in particolare Mycroft, non fossero un'altra sorta di catalizzatori. Comunque, Bickleshift era via, e così mi rivolsi all'avvocato che aveva tergiversato e infine mi aveva dato appuntamento per il giorno dopo nel pomeriggio. Non avevo detto nulla a Midge quando era tornata dal paese, non le avevo nemmeno parlato di come le mie chitarre si fossero deformate per l'inesplicabile tendersi delle corde. Avevo bisogno di alcuni dati di fatto per presentare il caso. In ogni modo lei sembrava troppo preoccupata dai suoi pensieri, e credeva che fossi andato a Bunbury per comprare della carta da musica. Avevo passato una brutta notte e anche Midge era stata agitata, ma nel sonno. Mormorava e si agitava, si aggrappava alle coperte come se avesse paura di precipitare in qualche abisso d'incubo. 1 miei deboli tentativi per superare il suo continuo riserbo, il mattino dopo, caddero nel vuoto tanto per colpa mia quanto per colpa sua: eravamo come due protagonisti storditi, un po' troppo confusi per vedersi con chiarezza, figuriamoci per fare un passo decisivo. Solo quando mi allontanai dal villino, nel pomeriggio, i miei pensieri e le mie energie ripresero forma. Sì, era un sollievo essere lontani da quel luogo. Quando tornai, Cantrip era quasi deserta, e io guardai l'orologio. Quasi le sei: non mi ero accorto che fosse così tardi. 1 negozi erano chiusi e gli
abitanti, probabilmente, si preparavano per la cena. Attraversai il villaggio dirigendomi ai sentieri nella foresta. Presto sarei stato a casa. E qui sorgeva il problema: di quale casa si trattava? Mycroft avrebbe potuto saperlo meglio di ogni altro. Tenni una velocità sostenuta, desideroso di essere ancora con Midge e sperando che, questa volta, avrebbe ascoltato quello che dovevo dirle, quello che Ogborn mi aveva detto. Ma l'avrei fatta ascoltare. Quale che fosse il suo atteggiamento, sarebbe stata costretta ad ascoltare. Poi avremmo studiato insieme i sinistri progetti di Mycroft. Ero stranamente nervoso per la minacciosa profondità della foresta ai due lati della strada. Gramarye apparve con le sue mura bianco crema inondate dai raggi del sole che impallidiva. Il giardino era pieno di colori. Solo quando mi avvicinai, i fiori apparvero appassiti e le mura del fabbricato rivelarono i loro difetti nascosti. Parcheggiai l'automobile vicino al prato e saltai il recinto. Sentii il telefono squillare all'interno. La porta era chiusa e ne fui meravigliato: Midge amava l'aria fresca nelle stanze e le piaceva vedere il giardino dalla cucina. Il telefono continuava a squillare. Aprii la serratura e premetti sulla porta incontrando dapprima qualche resistenza. Una pressione più forte spinse la porta nell'interno e io mi fermai un momento sulla soglia per abituare gli occhi all'oscurità. Quell'ombra parve stranamente lenta a cedere il posto alla luce che veniva dalle mie spalle. Chiamai Midge, ma ero già sicuro che non era lì: la porta chiusa, il telefono lasciato senza risposta e un'altra cosa: la quasi tangibile freddezza della sua assenza. Solo il persistere di quello squillo riempiva l'aria umida. Andai alle scale pensando che Midge poteva essere all'altro capo del telefono, o forse mi chiamava per dirmi dov'era. Ma dove poteva essere andata senza automobile? Salii di corsa, certo che lo squillo sarebbe cessato prima del mio arrivo, ma afferrai il ricevitore che suonava ancora. Dei disturbi mi colpirono l'orecchio costringendomi a scostare la testa. «Pronto... pronto...» Potei udire solo una debole voce sopra le interferenze: la telefonata sembrava provenire da un lontano campo di battaglia tra un fragore di artiglierie. Battei la cornetta contro il palmo della mano per liberare i granuli di carbone, e per un momento il lontano fragore si quietò.
«Mi senti?» chiese una voce familiare. «Sì. Sei tu, Val?» La voce dell'agente rimase a lungo in silenzio. «Mike, Mike, Midge è con te?» «No. Sono tornato adesso e lei non c'è.» «Forse è meglio: volevo parlare con te.» Sentii un brivido d'apprensione. «Di che si tratta?» chiesi con forzata disinvoltura. «Non sono sicura. È tutto piuttosto strano, in realtà.» L'artiglieria riprese e la voce di lei quasi scomparve nel frastuono. «Mi senti, Mike?» La sentivo molto debolmente. «La linea è molto disturbata.» «Riappendi, Val,» gridai. Scossi ancora il ricevitore, questa volta con maggior forza. 1 rumori continuarono, ma meno intensi. «Bene,» dissi. «Che cosa dovevi dirmi?» «Forse lo troverai molto strano.» «Oh, davvero?» Sorrisi. «Ha a che fare con il disegno di Midge,» spiegò lei. «Il dipinto di Gramarye.» «Continua.» «Quando ho visto per la prima volta quel disegno, prima... prima che fosse rovinato... qualche cosa mi ha colpito. Ho avuto l'impressione di averlo già visto...» I disturbi cancellarono le sue parole per un paio di secondi «...ricordare dove. Mi persuasi che il cervello mi giocava uno scherzo, dopo la stanchezza del viaggio. Avevo osservato quel quadro in carne e ossa, per così dire, quando ero arrivata al villino quella sera. Supposi che quello che credevo di avere già visto fosse una combinazione della realtà con la fantasia del disegno.» «Val, questa linea sta per saltare del tutto.» «Va bene, vengo al punto. Mike, ho trovato una copia di un libro illustrato da Midge alcuni anni fa...» La persi ancora e i rumori aumentarono. Il fracasso si calmò dopo un altro colpo dato al ricevitore. Il palmo della mano stava diventandomi rosso a forza di colpi. «Scusami, non ho sentito. Di quale libro parlavi?» «È intitolato Il libro del mago, lo conosci?» «Sì, ricordo.»
«Bene, cerca a pagina ventisette.» «Che cosa?» «Guarda bene e vedrai quello che intendo...» Diedi uno strattone al telefono perché i disturbi mi esplodevano nell'orecchio, come se all'altro capo battessero sul ricevitore. «Mike... mi senti?» «Appena appena.» «Mi senti?» «Ascolta, Val.» gridai, «ti chiamerò io più tardi!» «... l'illustrazione...» «Va bene, va bene!» Non so se udì il mio saluto affrettato, ma riappendere il ricevitore fu un sollievo. Non restai un momento di più nel corridoio a meditare quello che Val mi aveva chiesto di fare. Andai dritto alla stanza rotonda e mi avvicinai alla libreria. Lessi i vari titoli e non trovai quello che cercavo. Ma avevamo molto libri e Midge non metteva particolarmente in vista quelli illustrati da lei. Subito dopo ispezionai la stanza degli ospiti, dove c'era la maggior parte della nostra biblioteca. Esaminai gli scaffali e presto mi venne sottocchio Il regno del mago. Era un'edizione di formato modesto, un racconto di fate, di streghe, di maghi e di draghi, dedicato ai fanciulli dai cinque agli otto anni ma, come ci disse l'editore, comprato anche da molti adulti per il piacere delle illustrazioni. Di questa storia infantile si era parlato molto nelle riunioni familiari. Estrassi il libro dallo scaffale e, sebbene la stanza non fosse in ombra, lo portai presso la finestra. Fuori la foresta era silenziosa e appariva molto densa. Sfogliai in fretta le pagine cercando la ventisette e facendomi passare davanti le illustrazioni in una confusione di colori vivaci. Ventisette. Lisciai la pagina con la mano. Il punto focale del disegno era un bianco castello con molte torri. Ricordavano vagamente il racconto: era un castello incantato abitato da un mago, il personaggio più importante di tutta la regione ma ormai vecchio e debole, il quale cercava un degno successore prima che le forze del male, che vagavano nei boschi e nel mondo sotterraneo, sottomettessero i suoi territori. Aggrottai le sopracciglia non riuscendo a trovare un legame con il recen-
te dipinto di Midge. Ma poi guardai più attentamente. Nell'illustrazione, in primo piano, vi era un villaggio di folletti con funghi rossi per case e sassolini multicolori raccolti a formare una strada. I folletti erano un allegro gruppo. Più oltre cominciava la foresta, di un verde intenso, come la foresta reale fuori della finestra, silenziosa e folta. Nello sfondo vi erano i leggeri profili dei colli, la strada che usciva dalla foresta e, alto sui colli, vi era il castello incantato con il vecchio mago, piccolo, ma chiaramente visibile, sulla torretta più alta. Nella foresta vi era una radura, e in quella radura si vedeva una casetta, piccola ma con particolari finemente disegnati. Parte di essa aveva una forma tondeggiante. Non c'era dubbio. Quella casetta era Gramarye. 33. VOCI In una foresta non vi sono pause: l'attività continua di giorno e di notte. Ma la maggior parte dell'azione rimane invisibile a qualsiasi ora. La sera, tuttavia, o di notte, sembrano esservi più rumori, più movimenti, foglie che stormiscono e, ogni tanto, ramoscelli che si spezzano. Quanto più tarda è l'ora tanto più ostile e segreta sembra la foresta. Per un estraneo, naturalmente. Feci del mio meglio per seguire il sentiero che Midge e io eravamo soliti percorrere in altre occasioni, sapendo dove mi avrebbe approssimativamente condotto e sperando che il sole non si sarebbe abbassato troppo prima che giungessi laggiù. Nel lasciare il villino avevo preso una giacca sapendo quanto poteva far freddo, sotto gli alberi, in quell'ora serale. Il morbido terriccio era scivoloso sotto i miei piedi e i miei passi risuonavano come brevi ansiti mentre io avanzavo a fatica sui densi strati del terreno. Un ramo si spezzò sotto i miei piedi e il suo scricchiolio mi sembrò un cachinno di derisione. Avevo telefonato al Tempio sinergista per sapere se Midge era là, ma le interferenze erano diventate tali da farmi appena udire la voce che rispondeva impedendo qualsiasi conversazione. Tuttavia l'istinto mi diceva che lei era là, e io ero irritato che avesse atteso una mia assenza per andarvi. Avevo riappeso senza parlare. A meno che non l'avessero accompagnata in macchina, Midge doveva aver preso la strada della foresta per andare al Tempio, e per questo segui-
vo anch'io quella direzione; non volevo perderla se era già sulla via del ritorno. Questa, comunque era molto più breve della strada carrozzabile, che faceva un lungo giro con molte svolte. Se solo avesse atteso, se solo avessi avuto la possibilità di dirle quello che avevo saputo! Avrebbe ancora avuto tanta fiducia nei sinergisti? Affrettai il passo. L'illustrazione del libro era un altro ingrediente nella miscela che sentivo prossima all'ebollizione. Capivo adesso, perlomeno, perché Gramarye mi era parsa vagamente familiare quando l'avevo vista uscendo dalla macchina in quella prima visita. E perché vi era stato un vago riconoscimento quando avevo osservato il disegno di Midge alcune settimane dopo. Val Harradine aveva fatto il collegamento, sebbene non subito: aveva dovuto controllare l'opera passata di Midge per esserne sicura. I particolari dell'illustrazione erano minuti, ma lo stile dell'artista era meticoloso e sottile, amorosamente attento a ogni parte della composizione. Nel disegno, la casetta aveva anche un bel giardino. E li vi era una figura proprio dentro la porta aperta, una figura scura, non più di un'ombra. Tutto questo è folle, continuavo a dirmi. Interamente, maledettamente folle. Il libro era solo un racconto di fate. Una storia per far addormentare i bambini. E tuttavia ero lì, vagante per la foresta per liberare la mia damigella in pericolo, per salvarla disperatamente dagli artigli del vecchio, maligno stregone, o mago, o mistico, o comunque si chiamassero questi personaggi da fratelli Grimm la cui magia era tenebrosa per non dire nera. Tutto quello che mi mancava era un cavallo bianco. Sì, ero ridicolo. Non rallentai il passo nemmeno per un momento. Perché stavo imparando a dubitare delle mie credenze naturali. Come tutti dobbiamo fare prima o poi. Un paio di volte pensai di essermi perduto nel bosco, ma poi avevo visto qualche cosa che riconoscevo: un tronco abbattuto e marcio, una quercia di forma particolare, un laghetto formato dalla pioggia, e avevo capito di essere più o meno nella direzione giusta. Infine uscii dalla foresta e vidi la casa grigia in fondo alla vasta pendenza. La casa, il Tempio, sembrava invecchiare via via che mi avvicinavo, mostrando screpolature sempre più evidenti. Il sole rossastro, più dietro, ormai basso nel cielo, non riusciva a dare un po' di calore all'edificio. Il mio passo era fermo e deciso, credo, e tuttavia mi muovevo con cautela
mentre mi domandavo se ero osservato da qualcuna delle buie finestre. Presto lasciai la pianura erbosa e mi trovai su di un terreno più solido; c'erano quattro macchine parcheggiate presso la svolta, una delle quali era la solita Citroen. Attraversai quello spazio guardando la casa, così come sentivo che lei guardava me, e salii la scalinata che portava al portone. Volevo entrare direttamente, ma la porta era chiusa. Premetti la base del palmo contro il grande pulsante di ottone murato a fianco della porta e lo tenni premuto. Inoltre mi misi a tirar pugni contro il battente stesso sfogando così la mia collera. Presto sentii dei passi nell'interno. La serratura scattò, un battente si aprì appena e l'Uomo Ossuto guardò dallo spiraglio. Fece finta di non riconoscermi, ma sapevamo entrambi chi eravamo. «Midge è qui.» Non era una domanda e quindi non richiedeva risposta. «Midge?» chiese. La sua voce era scheletrica come la sua faccia. «Non facciamo scherzi scemo,» dissi, e spinsi forte la porta facendolo indietreggiare. Entrai rapido. «Un momento, lei non può venire qui,» mi avvertì mettendomi le dita ossute sul petto. Scostai la sua mano. «Dov'è?» «Non so di chi parli.» «Midge Gudgeon. E qui da qualche parte.» «Credo che lei...» «Mi faccia vedere Mycroft.» «Temo che non possa essere disturbato.» Trassi un sospiro. «Ascolti, non si libererà di me finché non avrò visto la signorina o Mycroft stesso.» «Le ho già detto...» Una porta si aprì nel corridoio e apparve Gillie Slade guardandoci curiosamente e senza dubbio domandandosi che cosa fosse quel chiasso. Andai deciso verso di lei con l'Uomo Ossuto alle calcagna, le cui deboli proteste sembravano il sibilo di una zanzara. «Gillie, dimmi dove posso trovare Midge,» dissi prima ancora di raggiungerla. «Mike, non puoi...» «Sì, lo so. Lei è qui, no?» La fissai e lei abbassò lo sguardo. «Non è qui forse?» ripetei.
«Sì, Mike. Ma è con Mycroft, e non possono essere disturbati.» Mi fissava con i suoi occhi azzurri e ardenti. «Disturbati? Che diavolo sta succedendo?» Altre porte si stavano aprendo, altri volti si affacciarono. «Per l'amor del cielo, dimmi!» 1 suoi occhi evitarono i miei, e io avrei voluto scuoterla. Invece le passai oltre e guardai nella stanza da cui era uscita. Volti senza espressione si voltarono a guardarmi con occhi spalancati. L'unico mobilio della stanza consisteva in sedie con lo schienale alto e dritto sparse a caso. I sinergisti vi erano seduti senza libri sulle ginocchia e niente in mano. Pensai che fosse la loro versione dell'Ora Felice, l'ora della meditazione. Midge non era fra loro. Uscii e attraversai il corridoio: due persone sulla porta si allontanarono senza far parola permettendomi di guardare nell'interno. Altri sinergisti e quasi nessun mobile eccetto altre di quelle scomodissime sedie. Alcuni membri erano accovacciati a terra, apparentemente senza pensare a nulla. Lei non era lì. E nemmeno nella stanza accanto. Né nella successiva. Né nella biblioteca. La stanza in cui ero stato condotto al tempo della mia prima (e per me unica) visita, dove il mio braccio scottato era stato immerso nel liquido verdastro - che, per quanto ne sapevo, poteva essere usato per lavare i piatti o pulire le posate - e dove Mycroft aveva tentato di impressionarci con i suoi particolari poteri, era vuota. Non una maledetta anima viva. La mia frustrazione aumentava. Girai attorno alla larga scalinata e mi spinsi oltre la porta di una stanza opposta. Era vuota ma più interessante delle altre. Poltrone di cuoio, piccoli tavoli dalle forme eleganti, un magnifico zoccolo di quercia che si stendeva per quasi tutta una parete. Sopra l'orlo sporgente era incollata una tappezzeria che presentava una croce stilizzata con una rosa emblematica al centro, le braccia e l'asse verticale decorati con simboli di vario genere. Sulle altre pareti, fra le alte finestre, vi erano forme in cui riconobbi i segni dello zodiaco, e, all'estremo, un grande mandala a mosaico, con un quadrato in un cerchio e in esso un mandala più piccolo. Una maschera di legno era su di un tavolo: lunghe orecchie a punta e occhi inclinati, come fessure, sopra un lungo muso sporgente: il muso di uno sciacallo. Sebbene le tende fossero tirate a metà così che la stanza era in una conveniente penombra, i particolari mi rimasero bene
impressi in mente come se avessi studiato a lungo 1'interno. In realtà ero rimasto sulla soglia solo per pochi secondi. Penso che l'impressione sia talvolta dovuta all'aspettativa, non alla sorpresa. Me ne andai per nulla rallegrato da quella vista. I sinergisti avevano lasciato le altre stanze per riunirsi nel corridoio, alcuni parlottando fra loro mentre altri continuavano a guardarmi in silenzio con risentimento. Mi sentivo come il visitatore di un manicomio i cui ricoverati pensavano che il matto fossi io. Gillie era nell'ingresso e la sua espressione, almeno, mostrava qualche cosa che non era solo fredda ostilità. Mi avvicinai a lei e le posai una mano sulla spalla delicatamente, non volendo che lei reagisse in modo ostile. «Ti prego, Gillie, aiutami. Voglio solo parlare con Midge.» I suoi occhi parlavano anche se lei non aprì bocca. Mi domandai se il suo sguardo rivolto verso l'alto fosse casuale o voluto. Guardai nella stessa direzione, verso la sommità delle scale, e subito lasciai la ragazza salendo gli scalini a due a due. Lassù c'era Kinsella seguito dall'Uomo Ossuto. Questi mi indicò e il sorriso di Kinsella mi lanciò un'occhiata di riluttanza. «Oh, Mike, che cosa succede?» Non risposi finché non fui sull'ultimo scalino. «Cerco Midge,» dissi, «e so che è qui.» «Certo. Andiamo a prendere un caffè prima.» Mi mise amichevolmente una mano sulla spalla e io mi ritrassi. «Vorrei vederla subito,» insistei. «Oh, in questo momento non è possibile, Mike.» Detestavo quel suo tono viscido. «Vedi, è con Mycroft, e non possiamo disturbarli.» «Perché no?» «Lo sai quello che lei voleva.» Credo di essermi mostrato molto allarmato. Lui confermò col capo sempre sorridendo. Solo che negli occhi azzurri dell'americano vi era un accenno di malizioso piacere. «Hai indovinato, Mike. Con l'aiuto di Mycroft, Midge è venuta in contatto con i suoi.» «Oh, mal...» Mi lanciai, deciso a cercare in ogni stanza del corridoio fino a trovarla. Ma il suo braccio mi colpì il petto come una sbarra di acciaio. Lo scostai e cercai di proseguire. Lui mi afferrò il braccio facendomi fare un mezzo giro, e, per un attimo, parve che lo zucchero fosse scomparso dalla sua faccia di torta di mele. Il
sorriso tornò subito, ma l'espressione di un pirana avrebbe potuto avere lo stesso calore. «Scusa,» cominciò, «ma tu...» Questa volta spinsi più forte e lui indietreggiò di un paio di passi. Prima ancora che mi voltassi, lui mi afferrò ancora con una mano attorno al collo e l'altra sotto l'ascella mandandomi a sbattere contro il muro. Scivolai e caddi sul pavimento. L'eroe non vince sempre, si sa. Gillie, che mi aveva seguito sulle scale, si inginocchiò vicino a me mentre cercavo di riprendere fiato. Kinsella non sorrideva più e ne ero contento. Cominciai a rialzarmi. «No, Mike,» mi avvertì Gillie. Kinsella sembrava impaziente di ricominciare. Non lo guardai per qualche secondo, ma certo non sarei tornato a casa da solo. Mi ero rimesso in piedi e mi preparavo alla lotta quando tutti ci accorgemmo di un'altra presenza nel corridoio. Kinsella e l'Uomo Ossuto si voltarono come se fossero stati chiamati. Mycroft era lì, con un bastoncino in mano. Sulla soglia dietro di lui c'era Midge. Mi vide e la sentii ansare. Mentre la loro attenzione era sviata, passai dietro i due uomini che mi bloccavano la strada e corsi verso di lei. «Che cosa fai, qui?» fu il suo saluto. Mi fermai perché la sua voce era piena di irritazione. «Potrei chiederti la stessa cosa,» ribattei. Poi, sempre trattenendo il fiato, aggiunsi: «Voglio che tu venga via subito con me.» Sdegnata gridò: «No...» «Penso che non sia il momento opportuno...» Guardai Mycroft che aveva parlato. Sembrava più vecchio di centocinquant'anni, tutta la sua mitezza era scomparsa. Tuttavia non c'era durezza nella sua voce; era dolce come sempre. «Vi sono molte cose che Midge e io vorremmo discutere, Mike, e io l'ho invitata a restare con noi questa sera. Non deve preoccuparsi: qualcuno la riporterà in macchina a Gramarye più tardi.» Scossi la testa. «Lei torna a casa con me.» Midge mi si mise davanti con gli occhi accesi; ma non di affetto. «Chi sei per poter dire quello che devo fare o non devo fare? Chi ti dà questo diritto?» Mantenni la voce bassa. «Lui vuole il villino.» Sbarrò gli occhi verso di me, poi li rivolse a lui.
«Sei pazzo?» Questo era per me. «Hanno cercato di avere il villino da Flora Chaldean,» proseguii deciso. «Hanno cercato di acquistarlo da lei, ma lei non ha voluto saperne. Lo sai che ha messo nel suo testamento una clausola in cui proibiva esplicitamente la vendita di Gramarye ai sinergisti o a chiunque avesse a che fare con loro? Per questo sono state fatte indagini su di noi. Per questo il procuratore ha voluto avere informazioni sulla nostra vita privata. Sono andato da Ogborn questo pomeriggio e mi ha detto tutto... dopo qualche pressione, naturalmente. Lei voleva che loro non avessero mai Gramarye, Midge, e doveva avere delle buone ragioni.» «Non può essere vero.» «Domandalo tu stessa a Ogborn. O perché non te lo fai dire da Mycroft? Non credo che darà una risposta onesta, però. Lei non voleva vendere e così credo che loro siano ricorsi ad altri metodi. Devono avere cercato di spaventarla.» Mycroft rispose scuotendo tristemente la testa. «Ci avete fatto credere di non avere mai visto il villino,» dissi rivolgendomi a lui, «Ma due sere fa lei sapeva che c'era un'altra entrata sul retro.» «Una supposizione ragionevole: l'ho pensato considerando che vi erano dei gradini che giravano attorno alla casa. E la maggior parte delle case non ha forse una porta sul retro?» «È vero. Ma il modo con cui lo ha fatto mi ha indotto a pensare. Si sentiva così a disagio e non è voluto entrare in cucina. Anche Kinsella, una volta, si è sentito sconvolto stando là. Non ho potuto fare a meno di domandarmi se lei si era innervosito perché la vecchia Flora era morta là.» Midge diede un breve ansito. «Mike, non sai quello che dici.» «Hai visto da te quello che è successo quando sono venuti a trovarci. Perdio, Midge, verso la fine non vedevano l'ora di andarsene.» Sentii Kinsella e l'altro uomo avvicinarsi furtivamente alle mie spalle. Afferrai Midge per le braccia. «Va bene, Midge, tutto questo sembra pazzesco, lo ammetto; ma sono successe troppe cose che mi hanno preoccupato. Cribbio, da quando ci siamo trasferiti qui è avvenuto abbastanza da farci vendere l'anima al diavolo. E tuttavia tu sei rimasta cieca a tutto, e io non posso fare a meno di chiedermi il perché anche di questo. Così ho finito con l'andare da Ogborn per avere alcune informazioni.» «Se Flora si sentiva minacciata in qualche modo, perché non si è rivolta alla polizia?» chiese Midge.
«Per dirle che cosa? Hai visto come operano, come si sono insinuati nella nostra vita. Nulla di esplicito e di palese: sono troppo furbi per questo. E certo non vi fu alcuna violenza fisica nei riguardi della vecchia signora. Un'organizzazione fondata su di un culto misterioso non può seguire questa linea: darebbe alla legge un'occasione troppo buona per intervenire. Certo la gente di qui ne sarebbe stata contenta, se Sixsmythe ha qualche influenza. Ma Mycroft e la sua congrega non sono stupidi e non corrono rischi. Quello che non capisco è perché Gramarye sia così importante per loro.» Kinsella e Uomo Ossuto mi respiravano sul collo. «Lei ha un'immaginazione molto fervida Mike,» disse Mycroft senza la minima traccia di irritazione. «Naturalmente posso apprezzare la sua curiosità per la nostra setta, ma non so perché sia giunto a una conclusione così negativa su di noi.» «Lei non può negare di avere molestato Flora Chaldean.» «Molestare è la parola giusta. Sì, abbiamo insistito, ma la nostra intenzione è stata fraintesa. Flora era una vecchia signora sola e, in certo modo, senza risorse, che conduceva un'esistenza molto misera. Noi le abbiamo semplicemente offerto il nostro aiuto e la nostra attenzione.» «Voi volevate il villino.» Sorrise benignamente. «Una via legale per far sì che una donna orgogliosa accettasse la nostra carità. Avrebbe continuato a vivere là, sotto la nostra amministrazione, ottenendo un considerevole utile finanziario che le avrebbe permesso di sentirsi indipendente.» Mi battei la mano sulla fronte. «Oh Dio, questa è buona! Lei è così maledettamente tortuoso!» «Voglio soltanto aiutare Midge a superare un dolore personale che è durato anche troppo.» «E forse, poi, diventerà uno dei vostri cosiddetti Adottivi.» «Può fare questa scelta. Ma io desidero aiutare anche lei, Mike, e forse convincerla della nostra sincerità. Lei è un giovane turbato, con un sacco di idee sbagliate in testa e molto cinico. Io potrei aiutarla a trovare la sua strada.» «Non mi ero accorto di averla perduta.» «Lei non ha mai conosciuto la strada giusta. Crede nella magia?» Il cambiamento di discorso improvviso mi fece sussultare. «Magia?» chiesi con stupore. «La scoperta e l'applicazione delle forze sconosciute della natura attra-
verso la volontà umana. Un'alleanza fra i due poteri. Può essere definita sinergismo.» «Che cosa significa...?» «L'obiettivo più importante della magia è la scoperta del nostro vero io. Con la mia guida e la mia volontà posso aiutarvi a raggiungerlo.» «Midge, andiamocene.» Le presi il braccio. «Solo un attimo per spiegarvi,» disse Mycroft. «Non chiedo altro.» «Ti prego, Mike.» Midge faceva resistenza. «È un maniaco, non te ne accorgi?» «Mike, ho appena parlato con i miei genitori.» Prima avevo sussultato, adesso ero sbalordito. «Mi ha aiutato a raggiungerli.» Era giunta quasi al pianto, ma insieme sorrideva. «Ho parlato con loro solo pochi momenti fa, ma i rumori di fuori ci hanno disturbato, hanno sconvolto i moduli di pensiero creati da Mycroft.» «Hai visto tuo padre e tua madre?» «No, ma li ho uditi, ho udito le loro voci.» La prima lacrima cominciò a scorrere scivolando nella piega del suo sorriso. «Mi hanno perdonato, Mike.» «Per l'amor di Dio, non c'è nulla da perdonare!» «Ascoltami, sono felici per me, ma mi hanno detto che devo seguire la mia strada...» «Lasciami pensare...» «Ascolta, dannazione!» gridò lei. Mycroft le toccò una spalla. «Si calmi. L'ira non ha ragione di essere, in questo Tempio.» Roteai gli occhi. «Forse solo se vedrà si convincerà. Può prepararsi ad aprirci la mente e il cuore, Mike? A mettere da parte questo scudo di diffidenza?» «Migliorerà il dialogo?» Midge mi colpì il petto. «Una volta tanto vuoi ascoltare qualcun altro? Puoi... puoi ammettere che intorno a noi ci sia qualche cosa di più di quello che vediamo e udiamo?» «Se la mia risposta è no, verrai via con me?» Qualche cosa mi stava scavando l'intimo: sapevo che stavo per perderla. Anche lei lo sapeva. «Non posso venire con te, » ripetè Midge, ed era così piccola, così indifesa. «Ne ho bisogno, Mike, non capisci?» Idiota che fui, mi voltai verso Mycroft e dissi: «E allora parliamo.»
La soddisfazione rimase nei suoi occhi. Potei quasi sentire il respiro di sollievo di Kinsella e del suo compagno, che mi scaldava il collo. Adesso erano sicuri di avermi. Mycroft si fece da parte e con un breve gesto del suo bastoncino indicò la stanza che lui e Midge avevano lasciato pochi minuti prima. (Questa nuova affettazione con il suo bastoncino mi meravigliò, e solo più tardi scoprii il suo significato). «Credo sia meglio che parliamo qui.» Midge non esitò. Sembrava desiderosa di rientrarvi. Io la seguii con meno zelo. Entrai nella stanza più strana che avessi mai visto. 34. LA STANZA A PIRAMIDE Era a forma di piramide, con le pareti rastremate, ripide e alte, a punta, così che non vi era soffitto. E nera. Anche il pavimento era nero. Sopra di noi - all'altezza di almeno tre metri - brillavano piccole luci incassate, una in ogni parete triangolare, i loro raggi sottili, rifratti da granelli di polvere, rivolti verso il basso come dritte sbarrette translucide, creavano quattro lune dai margini sfumati sul pavimento lucido. II loro bagliore divenne sensibile solo quando la porta fu chiusa dietro di noi. Allora nella stanza discese l'oscurità. Mi resi conto che la stanza superiore doveva far parte della piramide e che le pareti inclinate dovevano attraversare il soffitto forse penetrando anche nel soffitto di quest'altra stanza. Una sola sedia era al centro del pavimento, circondata da quattro raggi sottili. «Che cosa fate qui? Affilate lame da rasoio?» Nonostante la scarsa luce capii che il mio sarcasmo non aveva divertito Mycroft. «Come le guglie di una chiesa sono costruite per attrarre grazia spirituale, così la piramide cerca di catturare energia psichica, » disse. «La forma si ripete sotto di noi, rovesciata, naturalmente, così che la punta sfiora la terra.» Si sedette, posando le mani sul manico smussato del bastoncino. «Midge, vuole sedersi come prima? E forse anche lei vorrà fare lo stesso.» Non si era curato di pronunciare il mio nome.
Io non ero molto desideroso di rannicchiarmi ai piedi del sinergista, ma dopo tutto, avevo camminato molto nella foresta. Seguii l'esempio di Midge, evitando tuttavia la posizione del loto e preferendo appoggiarmi su di un gomito incrociando le caviglie e dando l'impressione di essere perfettamente rilassato. Midge e io eravamo fra due raggi, e io mi voltai per guardare il suo profilo. Stava osservando Mycroft intensamente. Vi era nell'aria odore di incenso. Il sinergista si chinò verso di me. «Lei non ha risposto alla mia domanda,» disse: «Quale domanda?» «Crede nella magia?» «Conosco qualche trucco con le carte...» Mi interruppe ma senza irritazione. «Può considerare l'Uomo come l'identica controparte dell'universo e di tutte le sue forze, e l'universo stesso come non più, e certo non meno, di un infinitesimo organismo umano? Può ammettere che l'energia che guida e governa l'universo sia la stessa che c'è in noi? Può capire che l'Uomo, con questa intima conoscenza, possa imparare a trascendere tutti i limiti materiali e infine il tempo e lo spazio stessi?» Non sapevo se si aspettasse una risposta, ma tuttavia gliene diedi una mantenendo la rudezza per mio piacere e forse nella speranza di scalfire la sua sicurezza. «Non riesco a capire nemmeno la domanda,» risposi. «Naturalmente no. Forse ho sopravvalutato la sua intelligenza.» Si era aperta la prima fessura. Sorrisi fra me apprezzando l'insulto. «Nondimeno,» proseguì con lo sguardo perduto nell'ombra, «sono sicuro che non sarà difficile per lei capire che la conoscenza umana si vuole chiudere in una realtà limitata, di cui non ha paura e che gli scienziati e i filosofi materialisti ci presentano come la realtà. Purtroppo noi vogliamo vedere solo l'attualità meno importante. Le altre realtà che ci circondano - e che sono dentro di noi - sono state per lo più ignorate negli ultimi secoli.» «Non dica stronzate.» Le sue mani afferrarono appena un poco più strettamente il pomo di metallo del bastoncino. «Eccetto che, recentemente, la realtà delle precognizioni, della percezione extrasensoriale, della psicocinesi è stata accettata anche dagli scettici più ostinati. Questi poteri nascosti che sono stati respinti così a lungo dagli scienziati, sono oggi oggetto di studio scientifico.»
Cominciavo a spazientirmi. «Non vedo come questo abbia a che fare con la magia.» «Davvero non capisce dove miro? Questi poteri che vengono riconosciuti dai settori più pragmatici della nostra società, furono una volta considerati la sfera del magico o del soprannaturale. Si pensava che tali poteri fossero avulsi dall'ordine normale della natura, ma era un grosso errore: i maghi cercano solo di scoprire queste forze nascoste e di operare attraverso di esse e con esse, sia che facciano parte di noi o parte dell'insieme.» Per quanto tentassi di tenermi lontano da tutto questo, dovevo ammettere che Mycroft stava avendo la meglio. No, non voglio dire che seguissi quello che stava dicendo, ma la sua voce era sottilmente persuasiva, quasi ipnotica (siete stati mai ipnotizzati? Si sa quello che avviene, ma non si capisce come avviene); la stranezza della stanza con il suo odore di incenso e le morbide luci proiettate verso il basso, provocavano effetti speciali. A tutto questo bisognava resistere consapevolmente. Finsi di sbadigliare. Lui finse di non accorgersene. «Dobbiamo imparare per gradi, dapprima eliminando le costrizioni imposte fin dalla nascita e rinnovandoci. Le convenzioni, il razionalismo, il materialismo, i nostri principi e la nostra etica non sono altro che schermi psicologici. Dobbiamo tornare fanciulli, purificati da tali influenze. I bambini credono nella magia finché non sono influenzati altrimenti. Le credenze della maturità non illuminata devono essere rovesciate e le ostacolanti dottrine della religione devono essere contrastate, perché la religione riserva il potere divino solo a Dio, mentre la magia offre il divino potere a tutti.» Io mi facevo piccolo intimamente aspettando che cadesse la folgore. Purtroppo non cadde. «Ogni passo che l'iniziato compie deve essere sperimentato e dominato, ogni nuovo mistero rivelato deve essere contemplato, ogni fase di sviluppo deve essere considerata. E forse il primo e più importante segreto è quello che si trova in noi stessi.» Si curvò in avanti così che il suo mento quasi si appoggiò sulle sue mani raccolte sul bastone, e la sua voce si fece più bassa. «Ossia,» disse gravemente e confidenzialmente, «il mistero della nostra stessa energia, delle nostre forze astrali nella terra stessa, e così pure delle infinite forze dell'universo. Un mago, amico mio, è sempre in cerca di questi legami nascosti.» Si irrigidì ancora, e il suo volto divenne di pietra. Io avevo la bocca ari-
da. «E quando questi legami sono scoperti,» aggiunse con la stessa voce bassa, «possono essere usati per gli scopi del mago.» Mi lasciò il tempo di meditare. «Tutto questo per far uscire un coniglio da un cappello?» chiesi. Mi concesse un freddo sorriso. «Tutto questo per scoprire il nostro vero io e il potere velato che abbiamo. Non vi è nulla di più fondamentale né di più trascendente. Con questa conoscenza un uomo ha accesso alle illimitate forze della sua volontà. Può evocare un'immaginazione così concentrata e così viva da poter creare una realtà nella luce astrale.» Diresse la punta del bastoncino verso il pavimento, presso le mie gambe. «Questa realtà può essere riflessa nel mondo fisico, se lo vogliamo.» Il mio coniglio apparve nel punto che lui stava indicando. Io mi tirai indietro e Midge tirò un respiro affannoso. Il coniglio contrasse il naso. Allungai un braccio verso la sua bianca pelliccia che sembrava finta. E ritrassi la mano vedendolo trasformarsi in un nero ratto dai denti aguzzi. I ratti mi fanno ribrezzo. Poi scomparve, e Mycroft esibì un sorriso da che cosa ne pensate? Battei le ciglia davanti a quell'illusione, ma mi trattenni dal chiedergli come avesse fatto. Nessuno ama gli esibizionismi. Inoltre dovevo rimettere in ordine i miei pensieri. «Magia da poco,» disse Mycroft con aria sprezzante, «un esempio volgare del potere della volontà.» Puntò il bastone verso uno spazio tra due raggi di luce alla mia sinistra e apparve un tavolino con sopra una bottiglia e un bicchiere vuoto. Mentre guardavamo, la bottiglia si alzò, si inclinò e versò un liquido rosso nel bicchiere. Sbigottito mi voltai verso Midge: il suo volto era pieno di rispetto reverenziale come quello del bambino in Incontri ravvicinati. La pura, ingenua innocenza della sua espressione mi diede il desiderio di afferrarla e portarla via da quell'oscura stanza a punta dove la fragranza dell'incenso cominciava a divenire insopportabile. La mia mente era concentrata sulla fuga, e quando riportai lo sguardo sul tavolino con il vino, la sua immagine ondeggiava e i suoi contorni erano incerti. Poi tornarono netti e ripresero solidità. «Potete bere,» disse Mycroft con noncuranza. «Il gusto vi piacerà, ve lo
assicuro.» «No, grazie,» dissi. Lui abbassò il bastone e l'immagine di dissolse rapidamente. Sapevo quello che stava facendo, ma non come: avevo sempre pensato che gli ipnotizzatori dovessero dire verbalmente quello che doveva essere visto o fatto, o il modo con cui si doveva reagire. Tuttavia ero sicuro che ciò che avevamo osservato non esisteva fuori dalla nostra immaginazione. Stavo cercando una battuta quando Mycroft fece curvare i raggi di luce. Cerchi di luce opaca cominciarono a muoversi lentamente: i due di fronte toccarono i piedi del sinergista, mentre i due di dietro risalirono le gambe della sedia. Lui rovesciò il bastone così che la punta si rivolgesse al suo volto, e i polverosi raggi si mossero in quella direzione curvandosi a poco più di un metro dal pavimento fino a formare un angolo retto. La fronte di Mycroft fu illuminata e la sua pelle parve abbagliare per la tensione. In quel momento sentii in Mycroft qualche cosa di più di quanto avessi mai sentito. L'energia, la vibrazione, comunque questo invisibile vigore potesse essere chiamato, sembrava danzare sulle sue guance come in minute scintille elettriche, e i suoi occhi, fissi nei miei, erano cristallini e lucenti, pupille sfaccettate che riflettevano la luce. Le profonde rughe che avevo osservato sul suo volto nel corridoio erano scomparse, portate via da quel bagliore solare; ogni piano del suo cranio rifletteva una luce diversa, alcune brillanti, altre più fioche, ma non vi erano ombre. I tratti del suo viso si fusero senza lasciare prominenze, il naso fu al livello delle labbra, la fronte a quello delle occhiaie: tutto fu una semplice maschera la cui forma dipendeva dai gradi in cui veniva riflessa la luce. Anche i suoi capelli erano d'argento luminoso. Una vista che mozzava il fiato. Per un attimo, tutta la sua testa si infiammò - o parve infiammarsi - e se ne irradiò un intero spettro di colori, espandendosi finché la stanza triangolare fu tutta piena di quelle screziature, eliminando ogni ombra e costringendo me e Midge a ripararci gli occhi. Ma non prima che entrambi vedessimo altri mondi entro quei sottili colori di arcobaleno che si elevarono, fluttuanti pianeti che sembravano cellule, stelle e soli lucenti, verdi, blu, viola intenso, forme che erano a volte umane e a volte vaste masse protoplasmiche, una coagulazione di forze vitali. Sperimentammo la solitària oscurità dello spazio infinito, che era l'ombra nera del tempo stesso, entrambi proiezioni della stessa non entità;
sentimmo immense maree di volubili emozioni che invadevano quelle sottili galassie formando destini e creando forze che sarebbero divenute roccia e carne, e ancora emozione: energia creativa che genera se stessa, fonte di ogni cosa, progenitrice di tutto ciò che conosciamo e di tutto ciò che non conosciamo. E al centro di questa rivelazione vedemmo un biancore che ci avrebbe bruciato gli occhi se fosse stato reale; e fu questo non la luminosità della stanza, quello che ci spinse a coprirci il volto con le mani. Ma tutto questo fu solo un'occhiata, non di più, un'occhiata permessaci da Mycroft. Tornò l'oscurità e l'odore d'incenso persisteva. Scossi la testa stordito, più stanco che allarmato. Il calore pervadeva le mie membra, dalla testa ai piedi, poi svanì dissipandosi. Mi volsi a Midge, incerto se restare ancora. Mycroft, tornato allo stato normale mentre i raggi luminosi tornavano rigidi, guardava impassibile come un entomologo che osservi uno scarabeo lottare con uno spillo conficcatogli nella schiena. «Midge, Midge, tutto bene?» Si copriva sempre la faccia con le mani, e io delicatamente gliele allontanai. Battè le palpebre come se non mi riconoscesse, e io notai la luce bianca che scintillava ancora nelle sue pupille, ma lontana, sempre più debole, fino a scomparire. Lei guardò dietro di me, verso Mycroft, e abbozzò un sorriso. Mi voltai e la faccia di lui rimase impassibile. «Che cosa è stato?» chiese Midge senza fiato. Mi aspettavo dal sinergista una risposta profonda, ma lui si limitò a sorridere enigmatico. «Sì, vorrei saperlo,» dissi. «Siete stati spettatori dei misteri.» Molto profondo. «Non ci dice molto.» «Che cosa credete di aver veduto?» Fu Midge a rispondere. «Credo di aver visto l'origine di tutte le cose, ma era incompleta, solo un frammento.» Annuì lentamente (un po' troppo ostentatamente, tuttavia, come se facesse parte dello spettacolo). «Una visione, solo un barlume. Niente altro. La vostra immaginazione ha tradotto la verità in una visione che la vostra mente poteva percepire, ma solo questo. In questi momenti la vista può es-
sere inutile come le parole, l'immaginazione è inadeguata come la ragione. Perfino il sogno può appena intuire l'unità.» Comunque mi aveva dato il mal di testa. «Un bello spettacolo, Mycroft, ma a quale scopo? Per impressionarci?» «Forse.» «Siamo impressionati. Adesso possiamo andarcene?» «Ci ha fatto vedere il suo potere,» disse Midge chinandosi in avanti, con ardore. «Ho rivelato un canale del potere, un canale che percorre il mio corpo e la mia mente,» rispose Mycroft. «Vi sono in noi altri... canali più forti che devono essere cercati e trovati. Punti di accesso, condutture, chiamateli come volete. Possono essere usati...» Tacque improvvisamente evitando il nostro sguardo. Credo che fosse stato rapito dal suo stesso genio. «Non capisco che cosa voglia da noi,» insistetti. «Noi non desideriamo diventare sinergisti né niente di simile...» «Credo che la sua compagna lo desideri, » rispose, misterioso come sempre. «Li cerchi ancora,» disse Midge. «Faccia che mi parlino, che Mike li senta con le sue orecchie.» Entrambi sapevamo quello che lei intendeva. Le toccai una mano. «È una follia. Non vedi quello che sta facendo? Proiezione di pensiero, manipolazione della mente, ipnotismo: sono tutti la stessa cosa. In realtà non è avvenuto niente. Mycroft ci fa vedere tutte queste cose, ma non sono reali...» «La loro presenza è nella stanza,» mi interruppe Mycroft. «Posso sentirli, e anche lei.» Si rivolgeva a Midge. «Sì,» rispose lei semplicemente. «Hanno altre cose da dirle.» Lei annuì. «Vogliono che ascolti.» Lei assentì ancora, con gli occhi chiusi. E adesso potei sentire qualche altra cosa nella stanza. Ma non so se Mycroft lo voleva. «Stanno parlando,» disse Midge con voce soffocata. «Io non sento niente.» Anche la mia voce era un sussurro. Una brezza ci sfiorò. «Sono deboli, ma sono qui.» Midge aprì nuovamente gli occhi.
Notai che Mycroft la fissava intensamente. Poi volse la sua attenzione a me e le sue pupille furono come piccoli buchi neri, senza fondo, ma non vuoti. Apparve un'ombra dietro di lui, grigia e nebulosa, che si faceva avanti. E dietro di essa un'altra, proprio vicino alla sua spalla sinistra. Entrambe prendevano forma rilucendo. Voci. Lontane un'eternità. Da un'altra dimensione. E tuttavia non erano voci. Erano pensieri che si imponevano al nostro pensiero. «Papà,» disse Midge. Una delle leggere nubi alle spalle di Mycroft si agitò come se sospinta da una corrente d'aria. Poi la brezza diventò sempre più forte. «Mostra a Mike che sei realmente qui.» Era una preghiera di Midge. La nebulosa prese una forma più definita: una testa vaporosa, la linea di una spalla. Divenne quasi liquida, increspandosi mentre i lineamenti si profilavano. Quei lineamenti lentamente mi divennero familiari, pur restando ondeggianti e indistinti. Una parola mi si insinuò nella mente: «... Fiducia...» Ma non volevo avere fiducia, perché lui intendeva che avessi fiducia in Mycroft: questo nebbioso spirito del defunto padre di Midge mi stava dicendo di credere nel sinergista, e io non volevo perché sapevo che era un ciarlatano, che aveva qualche mira su Midge, ma non sapevo che mira fosse, e volevo resistere, resistere, volevo... Rivolsi il mio sguardo alla seconda forma fluida dietro l'altra spalla di Mycroft, e anch'essa mi era familiare, un volto che Midge mi aveva mostrato in fotografia molte volte nel passato, e anch'essa, il fantasma di una donna, mi disse: «... fiducia... in... lui...» Midge, in ginocchio si voltava verso di loro alzando il volto ravvivato da una sua propria lucentezza nonostante l'oscurità che ci circondava, e io la trattenni con un braccio attorno alla sua spalla mentre le tenevo il polso con l'altra mano; ma lei si spingeva in avanti avvicinandosi a Mycroft sulle ginocchia come uno zoppo verso il guaritore, un neofita verso il suo sacerdote. Per un attimo la maschera dietro cui lui si nascondeva cadde rivelando il piacere del trionfo. Io colsi questo lampo di giubilo e qualche cosa scattò in me come il col-
po di un dito sulla finestra del mio cervello, avvertendomi di non accettare nulla di tutto questo. Questi fantasmi erano vapori senza né forma né pensiero. «È un trucco ! » gridai a Midge tirandola giù, così che entrambi cademmo ai piedi di Mycroft. «Questi non sono i tuoi genitori: è lui che ce li fa vedere!» Lei diede un grido rifiutando le mie parole, lottando con me. La raffica era divenuta una tempesta che ci scompigliava le vesti e disperdeva i vapori così da ridurli a nulla. Mycroft si guardò attorno come spaventato, e questo mi stupì. Mi chiesi quale nuovo gioco stesse giocando. All'improvviso parve confuso non meno di me. Il sinergista si alzò a metà, ma il vento lo respinse all'indietro. Alzò il bastone per dominare quella tempesta, ma i suoi occhi incontrarono i miei. In un'altra occasione avrei riso vedendo la sua bocca aprirsi inerte, ma in quel momento la situazione non suggeriva allegria. Mi guardava come se non credesse a quello che avveniva, e io non capivo perché. Finché non mi resi conto della nube che usciva dalla mia bocca come il fumo di una sigaretta. Usciva anche dalle mie dita serpeggiando in spire, salendo nell'aria per essere dispersa in tutta la stanza dal vento ululante. Era come se il mio interno stesse bruciando e la mia bocca e le punte delle mie dita fossero i punti da cui il fumo poteva fuggire: e tuttavia non vi era dolore, solo una grande leggerezza dentro di me. La nebbia fluttuava nella stanza uscendo sempre di più da me così da prender forza, turbinando come una tromba d'aria in miniatura con noi al centro. In essa vi erano altre voci. Potevano essere quelle di prima, suoni nella nostra mente, ma sembravano provenire dallo spazio intorno a noi. E queste non avevano niente a che fare con Mycroft perché lui si riparava dietro il bastoncino come se fosse uno scudo. Quando le voci divennero percepibili, il loro messaggio fu diverso: «Lasciate questo luogo... lasciate questa casa...» Due voci, due suoni mentali che gridavano insieme col vento. Midge guardò la nebbia turbinante e il suo volto fu inondato dalle lacrime. La sua voce fu come quella di un bambino, un bambino di cinque anni:
«Mammina... Papà...» Ebbi paura. «Mamminaaa... Papààà!» Adesso aveva l'aspetto di una bambina. Saltai in piedi, sollevato se non altro dal fatto che il flusso fumoso aveva smesso di scaturire da me. Gli occhi di Midge erano spalancati e imploranti. Mycroft era ancora rannicchiato a terra, anche lui con gli occhi spalancati, ma atterriti. Questo per me era eccellente. «Vieni, Midge.» La presi per mano. Mi guardò per un istante. «Sì,» gridò. «Sì!» Mentre si alzava, il vento rapidamente scomparve, e i vapori si levarono nell'aria rimanendovi sospesi. Poi cominciarono a dissolverei. Non attesi più. Condussi Midge alla porta strofinandomi il dorso contro lo spessore della parete inclinata. Spalancai la porta e trovammo Kinsella e Uomo Ossuto che aspettavano con un paio di sinergisti. Sembravano alquanto allarmati. Strinsi il pugno. «Levatevi di torno! Via di qui!» Kinsella parve incerto, ma era un duro. Si preparò a caricarmi. «No!» gridò Mycroft dall'interno della stanza a piramide. «Non qui. Lasciateli andare.» Poi, più piano: «Lasciateli andare...» Ce ne andammo. Ce ne andammo come pipistrelli dall'inferno. 35. FUGA La pianura in pendenza che veniva dai boschi non era sembrata forse così ripida nel discendere, ma il risalirla fu diverso: avevamo l'impressione di fare una scalata. 1 muscoli delle cosce mi dolevano, e il peso di Midge che si aggrappava a me rendeva l'ascesa ancora più dura. La prima fila di alberi sembrava lontanissima. Ma eravamo spaventati e non vi è niente come la paura per pompare l'adrenalina. La nostra fuga può essere mancata di stile, ma non d'impeto. Midge incespicò una volta, a mezza strada, e, mentre la rimettevo in piedi, guardai la casa. Si ergeva come un immenso monolito, grigia fredda come una tomba, pronta a sradicarsi e a muovere pesantemente dietro di noi. Sebbene non potessi vedere in quelle buie finestre, sapevo che i sinergisti stavano osservandoci di là. Midge aveva già il fiato grosso, e vi era in lei una fragilità preoccupante.
«Che cosa... che cosa è successo, laggiù Mike?» ansimò. «Mycroft,» mi limitai a rispondere. La spingevo avanti stringendole il gomito, tenendola dritta e in moto, desideroso solo di essere al coperto, lontano da quegli occhi. L'avanzata sembrava lenta come in un incubo, come se affondassimo i piedi nel fango; e tuttavia il suolo, sotto l'erba, era asciutto e solido. Alla fine dovetti passare un braccio attorno alla vita di Midge e sostenerla col fianco per non farla fermare. La luce era scarsa, il sole non era più che una rossa cupola all'orizzonte. La notte si avvicinava. E presto la foresta sarebbe stata buia. Senza fermarmi volsi ancora la testa, e forse mi aspettavo che i sinergisti (gli iniziati, quali realmente erano) uscissero dal Tempio per darci la caccia. Ma nessuno risaliva la collina dietro di noi, e la casa era grave e ferma come prima. E allora perché diavolo sentivo qualcuno che mi respirava dietro il collo? Raggiungemmo gli alberi con un movimento triste e lento e uno sforzo esagerato, ma sul ritmo di una colonna sonora di Vangelis. Ma finalmente ci arrivammo e il sollievo fu immediato: ci togliemmo un peso di dosso, ci liberammo da un legame che ci tratteneva. Mi dicevo che era il fresco della foresta, ma sentivo che vi era qualche cosa di più. Eravamo fuori vista dalla casa. Midge si appoggiava a me con un braccio abbandonato sul mio collo, sollevando il petto come se le mancasse il respiro. Le baciai il sommo della testa affondando una mano nei suoi capelli e tenendola stretta. Le diedi il tempo di riprendersi e di calmarsi rassicurandola con sussurri. Ma non volevo restare lì troppo a lungo. Il crepuscolo ci minacciava, le ombre fra gli alberi infittivano. 1 rami sopra di noi erano come braccia contorte, agitate dalla nostra intrusione, alcuni bassi come se pronti ad afferrarci se passavamo a portata, il fogliame vicino ondeggiava come se qualche cosa strisciasse nel folto. Vi erano altri occhi nella foresta, diffidenti e ostili alla nostra presenza. «È meglio che continuiamo a muoverci,» dissi a Midge accarezzandole la guancia con un dito, «prima che diventi troppo buio per trovare la via di casa.» «Devo capire, Mike. Devo sapere che cosa ci è successo, che cosa è avvenuto laggiù nel Tempio.» «Parleremo camminando.» Si aggrappò a me.
«Perdonami per come mi sono comportata in questi ultimi giorni,» mi disse piano. «Non posso spiegare perché o a che cosa stessi pensando... perché ti biasimavo tanto.» «Non è colpa tua. Credo... credo che altre influenze fossero implicate. Non so, è tutto così misterioso: tutto quello che è avvenuto da quando ci siamo stabiliti a Gramarye è stato folle, e in qualche modo lo abbiamo accettato... o per lo meno non abbiamo discusso troppo la sua follia. Non è colpa tua, Midge, ma è qualche cosa che ha a che fare con te. Con te e con il villino.» La portavo via tenendola per mano, come una bambina, e camminando parlavo: le dissi dell'illustrazione da lei dipinta per il libro di fiabe anni prima - quella che la sua stessa mente non le aveva permesso di ricordare - e di come Gramarye aveva fatto parte di quel disegno molto prima che lei l'avesse vista; evidentemente era già esistita in qualche modo dentro di lei, chiusa nel suo inconscio, precognizione di qualche cosa o di qualche luogo che sarebbe stato. Le ricordai che era stata lei a trovare sul giornale l'avviso di Gramarye e aveva cerchiato di rosso solo quello, ignorando gli altri. E l'associazione, l'unione, era stata da lei stretta non appena era arrivata là. Doveva essere così. Il procuratore di Flora Chaldean mi aveva detto delle istruzioni che la vecchia signora gli aveva lasciato prima di morire: i particolari delle persone che avrebbero potuto acquistare Gramarye e viverci. Persone giovani, sensibili, di evidente onestà, tipi speciali. Erano questi i requisiti: nessuna meraviglia se il vecchio procuratore aveva mostrato tanto interesse per lei. «Il villino era destinato a qualcuno come te, Midge.» Scostai un ramo che ci ostacolava il passaggio. «Non chiedermi perché, non so darti alcuna risposta ragionevole. Tutto quello che posso supporre è che vi sia in te qualche cosa che è intonato con ciò che di magico può esservi in Gramarye.» Mi costrinse a fermarmi. «Magico?» Mi strinsi nelle spalle. «Sì, sono imbarazzato. Ma come altrimenti posso chiamarlo? Ricordi l'uccello con l'ala spezzata? Quando lo trovammo che volava per la cucina, il giorno dopo, pensammo che non poteva essere ferito così gravemente come avevamo creduto. E tutte quelle altre piccole cose. I fiori che erano rifioriti, gli animali e gli uccelli che si affollavano davanti alla porta. Questo non è normale: ci eravamo solo adattati a crederlo tale. Forse qualche tipo di relazione con la vita della foresta potrebbe esse-
re stabilito fra qualche anno... ma frattanto?» Ripresi a camminare e lei mi tenne dietro. «Il villino stesso. Guarda tutte le cose che non funzionavano: le porte deformate, il legno marcio, l'architrave spezzato. O'Malley non le ha aggiustate. Si sono aggiustate da sole, perbacco! E per merito tuo.» La mia voce risuonava nella foresta. Mi fermai ancora a guardarla. «E sì, il mio braccio. Pensavamo che Mycroft avesse guarito le bruciature, ma adesso non penso affatto che sia stato lui. Certo ha una qualche sorta di potere, ne abbiamo appena avuta la dimostrazione. Ma è un potere che viene dalla sua testa, è quello che lui fa credere alle persone. Mi aveva convinto che il braccio non mi facesse più male - forse il liquido usato ha aiutato in qualche modo - e qualche cosa ha prevalso sul mio scetticismo. Ma penso che quella che mi ha realmente guarito sei stata tu. Anzi, tu e Gramarye. Siete una maledetta coppia! Gesù, non mi meraviglio che Mycroft avesse tanto interesse per te. Una bella conquista per il movimento sinergista. Volontà umana e Potere Divino: tu ne sei un esempio vivente.» Lei mi guardava scuotendo la testa, ma dai suoi occhi potevo capire che credeva a quello che dicevo. Un uccello scattò via da un albero sopra di noi e ci voltammo a guardare nervosamente. Un gruppo di foglie ondeggiava e noi restammo lì finché non rimase immobile. La foresta tornò tranquilla, e notammo che l'oscurità stava aumentando. «Siamo sulla strada giusta?» chiesi a Midge guardando da ogni parte. Per un momento fu incerta; poi assentì. «Fra un momento dovrebbe esserci un bivio, e bisogna prendere a destra.» «Se lo dici tu.» Riprendemmo il cammino a passo svelto, con le orecchie e gli occhi aperti. A volte vi è un silenzio, in una foresta, quando la luce si oscura: è come in chiesa, dove un colpo di tosse o un sussurro sembrano irriverentemente rumorosi. Tenevo la voce bassa, non volendo disturbare nessuno. «Non posso fare a meno di domandarmi quello che è avvenuto tra la vecchia Flora e Mycroft, perché lei ha messo nel suo testamento quella clausola impedendogli di prendere mai possesso di Gramarye? Che cosa gliene poteva importare, una volta morta? E perché diavolo ci ha mentito dicendo di non essere mai stato là, se non aveva nulla a che fare con la sua morte?» «Credi realmente che abbiano cercato di impaurirla perché vendesse?» «Credo che siano riusciti ad impaurirla tanto da ucciderla. Abbiamo vi-
sto noi stessi di che cosa siano capaci i poteri mentali di Mycroft. Per lui fare apparire conigli e ratti è nulla. E il vino? Credo che avrei potuto bere quella roba senza rendermi conto che era un'illusione. E il farci credere di poter curvare i raggi di luce! E un asso, Midge, un illusionista di prim'ordine. Non voglio pensare a quello che può aver fatto immaginare a quella povera vecchia. Una tigre sulla soglia? La cucina in fiamme attorno a lei? Il cuore che le si spezzava in petto? Non aveva bisogno di toccarla con un dito.» «Non credo che fosse così in sua balìa, Mike.» «Sostanzialmente nemmeno io. Deve esservi stata una vera lotta, ma la sua età era contro di lei. Forse il suo vecchio cuore ha ceduto naturalmente.» Raggiugemmo il bivio e io mi feci da parte per lasciare che Midge prendesse la direzione. «Tocca a te. Tu hai il senso dell'orientamento. Sei sicura che sia quella giusta?» «Se non incontriamo un cedro caduto entro un paio di minuti, puoi dire che ho sbagliato.» «Ricordo. E a testa in giù in una gola.» «E quello.» Andò avanti e io seguii la sua figura sottile nella foresta; camminammo svelti, desiderosi di uscire al più presto all'aperto. Non mi piaceva l'atmosfera della foresta e il modo con cui Midge si guardava attorno; e non piaceva nemmeno a lei. E sebbene avessimo lasciato i sinergisti da un pezzo, la sensazione di essere seguiti era ancora in me. Midge indicò qualche cosa e vidi l'albero sradicato un centinaio di metri più avanti. Ci mettemmo a trottare come se fosse una meta che doveva essere raggiunta, e i nostri passi avevano un rumore sordo nel silenzio. Vidi un gufo bruno appollaiato su di un albero, che ci guardava con interesse, abbassando ogni tanto le palpebre come la chiusura di un obiettivo sui grandi occhi rotondi. Midge si abbandonò sul ruvido tronco e io caddi accanto a lei. «E meglio continuare,» consigliai sedendomi sul tronco. Lei si passò le mani sul volto e sul collo. «Erano loro, Mike? O era anche quello un trucco di Mycroft? Le loro voci... erano così vere...» Esitai prima di rispondere. «Sono sicuro che è cominciato come un imbroglio. Ma poi... accidenti, non so cosa sia accaduto poi.» «Erano davvero i miei genitori. So che erano loro. Il loro calore mi ha fatto tornare in me. Tutto quello che credevo su Mycroft è scomparso...»
Scivolai lungo il tronco dell'albero e tesi un braccio verso di lei. «Abbiamo troppe cose a cui pensare, Midge. Per ora torniamo al villino finché possiamo vedere la strada.» Lei saltò in piedi indugiando un attimo a baciarmi la nuca prima di riprendere. Non credo che avrei ritrovato la strada senza di lei perché l'ombra diveniva sempre più fitta; ma lei proseguì sicura, soffermandosi solo a tratti per controllare la direzione o un segno particolare; un mucchio di funghi rossi sotto un albero caduto, praticamente cavo, fu l'unico ch'io seppi riconoscere. Avevo il dorso bagnato di sudore e le gambe rigide; davanti a me Midge cominciò a barcollare e il suo passo perse il ritmo. Nemmeno il nostro nervosismo era stato superato, e quando una grande forma striata di bianco apparve sul sentiero, per poco non uscimmo di senno. Anche il tasso si spaventò e rapido si nascose fra i cespugli: lo. vedemmo e udimmo avanzare mentre si faceva strada nel sottobosco scuotendo il fogliame. Più avanti misi il piede su di un rettile o su una radice che non avevo visto evitare da Midge, e caddi disteso a terra. Ansimai mentre lei mi si inginocchiava a fianco e mi metteva la mano sotto il braccio sforzandosi di rialzarmi. Mi rimisi in piedi a fatica e rimasi lì, curvo come un vecchio, con una mano su un ginocchio e l'altra sulla spalla di Midge. «Quanta strada c'è ancora?» chiesi cercando di riprendere fiato. I suoi lineamenti, nell'ombra non si distinguevano, e lei ansimava quasi quanto me. «Non possiamo essere lontani... abbiamo camminato tanto.» «Sì, abbiamo camminato tantissimo. Tutto be...» L'ombra che vidi mentre mi rialzavo non era che un cespuglio a forma di una figura incappucciata che si nascondesse dietro un albero. I sospiri che sentivamo erano solo una brezza che passava tra le foglie. E i colpi che sentivo nel petto erano i battiti del mio cuore. «Cribbio, ho una fifa,» ammisi. La sua voce suonò dolcemente. «Stai sognando tutto questo?» «Le mie ginocchia ammaccate mi dicono di no. La mia testa non è sicura.» Stretti insieme sotto braccio nell'angusto sentiero, proseguimmo il viaggio, senza badare alla goffaggine dei nostri movimenti, cercando un reciproco incoraggiamento e la forza di tener lontani i fantasmi del bosco. L'oscurità era penetrata nella foresta come fumo in un polmone. Zoppicavamo tenendoci l'un l'altro, muovendoci più in fretta che potevamo e infine, grazie a Dio, vedemmo dei vani fra gli alberi davanti a noi e
le luci grigie dello spazio aperto. Il sollievo ci rinforzò le membra esauste e ancora una volta riprendemmo lena affrettandoci, correndo, stretti per mano, mentre io gridavo per la felicità e Midge rideva delle mie grida. Uscimmo dal bosco come se inseguiti da un leone. Il crepuscolo era divenuto notte, ma per lo meno l'aria era molto più chiara che sotto gli alberi. Ci affrettammo verso Gramarye ansiosi di sentirci dietro finestre chiuse e porte sprangate, e solo quando fummo più vicini cominciammo a renderci conto che qualcosa non andava, che quello che vedevamo nell'ombra non aveva senso. Rallentammo. Ci mettemmo al passo. Guardammo Gramarye costernati. Inciampai in qualche cosa di morbido sull'erba e mi fermai nel vedere un coniglio morto, un povero coniglietto con una smorfia di terrore sul piccolo muso. Un grumo di sangue gli macchiava il collo. Le dita di Midge si irrigidirono fra le mie, e io vidi l'altra forma abbattuta che lei aveva scoperto. Questo coniglio era più grande di quello ai nostri piedi, forse la madre, e il suo corpo era piegato dalla testa alla coda, la pelliccia indurita dal sangue secco. Non parlammo. Pensavamo che una volpe li avesse uccisi, ma non esprimemmo questo pensiero. Intorno a noi c'erano altri corpi. Avanzammo con cautela. E non riuscivamo a capire la trasformazione di Gramarye. Le mura, ridotte al grigio dalla luce fioca, apparivano solo in strane macchie. Il colore dominante era il nero. E tuttavia non riuscivamo a capire. Finché ci accorgemmo che le mura erano gonfie di vita. Una vita nera, impellicciata. Ali che si aprivano e chiudevano. Corpi, molto più grossi di prima, che pulsavano come quelle creature respiravano. Potemmo solo fissare storditamente i pipistrelli aggrappati che ricoprivano Gramarye. 36. ANCORA A CASA Per un momento restammo storditi, rabbrividendo. Come potevano essere così tanti? Non potevano essere venuti tutti dalla soffitta, molti doveva-
no essere giunti da altre partì. Forse era una riunione di pipistrelli. E come avevano potuto assumere dimensioni mostruose? Ma, domanda ancora più seria: quali erano i loro intenti? Erano problemi che ci ponevamo entrambi, non reciprocamente: non volevamo turbare la loro tranquillità con le nostre voci. La tentazione, come capirete, era di raggiungere la strada, saltare in macchina e abbandonare quel luogo popolato da pipistrelli il più in fretta possibile. L'unica difficoltà era che le chiavi della macchina erano nel villino, dove le avevo lasciate prima, e, quando lo dissi a Midge (a voce molto bassa), quasi venne meno. «Va a sederti in macchina» le bisbigliai. Mentre parlavo, tuttavia, due pipistrelli si staccarono dal muro e volarono all'altro lato dell'edificio. La luna si era alzata, senza nubi, ma mostrandosi solo a metà, e in quella chiara, misteriosa luce, la grandezza delle ali dei pipistrelli mi agghiacciò. Noi eravamo rannicchiati pronti a tornare nella foresta. «Va, Midge,» insistetti. «No, Mike,» bisbigliò lei. «Resto con te; andremo a prendere le chiavi insieme.» «È sciocco.» «Non ti lascerò andare solo!» La sua voce, sebbene bassa, era così imperiosa che rannicchiai la testa fra le spalle. Sospirai stringendole la mano. «Va bene, va bene. Ma se si muovessero, voglio che tu corra subito nella macchina senza aspettarmi.» «Che farai, adesso?» «Ti precederò.» Mi strinse ancora, ma non riuscì a sorridere. «Facciamo il giro e cerchiamo di raggiungere la porta della cucina,» suggerii. Forse là non sono così numerosi.» Il suo respiro era rapido e poco profondo mentre lei raccoglieva le forze per seguirmi, e non era certo il chiaro di luna quello che dava al suo volto un pallore così innaturale. Probabilmente il colore della mia pelle, in quel momento, era molto simile al suo. Sgattaiolammo lentamente, tenendoci curvi per non richiamare la loro attenzione. Mi parve che tutta una sezione di muro si increspasse in un nero movimento, come un'onda in un mare d'olio. Continuammo ad avanza-
re, rannicchiandoci e poi attraversando il terrapieno. Tutto intorno a noi era fermo e in qualche modo irreale, con la buia massa della foresta alle nostre spalle e, davanti, il bizzarro spettacolo del villino ricoperto di pipistrelli come un sudario a brandelli. Il chiarore lunare rivelava sempre più corpi inerti sull'erba, sconvolgente conseguenza dei giochi serali dei conigli selvatici. Raggiungemmo la breve ma ripida pendenza e, quando fui di nuovo in piano, mi volsi per aiutare Midge a salire. Lei cadde nelle mie braccia e vi rimase per qualche momento, riluttante a lasciarmi. La striscia grigia formata dal sentiero che portava al cancello ci invitava: la strada, al di là, rappresentava la normalità creata dall'uomo, una realtà concreta, e la tentazione di raggiungerla era forte; ma il villaggio era lontano e la strada percorreva la foresta per miglia e miglia. Meglio prendere l'automobile. Avevo avuto ragione circa i pipistrelli: pendevano per lo più dalle altezze superiori, nero rivestimento irto e palpitante di vita. Cautamente, con gli occhi verso l'alto, condussi Midge attraverso la porta della cucina. Un pipistrello volò via dal muro sopra di noi. Poi un altro e un altro ancora. L'impulso a fuggire quasi ci sopraffaceva, ma l'idea di spaventarli e di farceli volare tutti addosso ci obbligava a controllarci. Continuavo a dirmi: calma. Sono solo mammiferi volanti, fra loro non ci sono vampiri. Vallo a dire ai conigli, era la mia maledetta risposta. La porta era chiusa, e la mia mano tremava quando afferrai la maniglia. Cercai di girarla il più silenziosamente possibile, ma lo scatto mi fece stringere i denti; mi aspettavo di sentirmi mordere il collo a ogni momento. Spinsi il battente e uscì un odore di muffa e di marcio ad annunciare che le cose non andavano bene nemmeno nell'interno di Gramarye; mentre allargavo l'apertura il buio non fu più accogliente del puzzo. Se l'ombra può sogghignare, in quel momento faceva del suo meglio. L'interno era minaccioso, e tuttavia... e tuttavia in qualche modo allettante. Mi sembrava di essere un bambino davanti all'ingresso di quel parco di divertimenti che era la casa stregata; avevo paura, ma avevo pagato il biglietto e volevo entrare. Sulla soglia inciampai in qualche cosa, ma non mi fermai a investigare. Entrai spingendo Midge insieme a me, e immediatamente cercai l'interruttore. Accesi e, momentaneamente abbagliato, mi volsi per chiudere la porta. Midge mi afferrò il braccio prima che lo facessi..
Battei le ciglia con aria interrogativa, impaziente di mettere una barriera fra loro e noi; lei guardava la soglia. Rumbo era lì, col piccolo corpo peloso coperto di sangue, la bocca spalancata dal terrore. Gli occhi erano due fessure morte. 37. INVASIONE Lo portammo sulla tavola della cucina. Midge piangeva e io trattenevo le lacrime. Non ci eravamo accorti di quanto ci fossimo affezionati a Rumbo. Le ferite sul dorso erano gravi; profonde incisioni sanguinose lo percorrevano per tutta la lunghezza la dove i pipistrelli - certo più d'uno - lo avevano graffiato. Le ferite alla gola erano ancora più profonde, ma mi chiedevo se la vera causa della sua morte non fosse stata la sola paura. In alcune parti non aveva più pelo e una della sue orecchie era a brandelli; doveva aver lottato come un disperato. Senza speranza ascoltai i battiti del suo cuore, ma non ve n'erano. Il suo corpo non si era ancora raffreddato, e io lo scuotevo parlandogli dolcemente come per incoraggiare i suoi spiriti animali a tornare e a ravvivare quelle arterie morte. Rumbo se n'era andato, e, cosa strana (o forse no: quando la morte avviene, le donne sono sempre più realistiche degli uomini), Midge accettò il fatto per prima. Mi prese le mani nelle sue. «Povero piccolo,» dissi, incapace di distogliere lo sguardo dal corpo inerte. «Che cosa sono quegli esseri là fuori, Mike? Non possono essere gli stessi pipistrelli della soffitta. Le loro dimensioni... Perché attaccano gli animali?» Mi strinsi nelle spalle, sola risposta all'assurdo. Avevo gli occhi annebbiati e non volevo parlare per non far sentire la mia voce tremante. Invece guardai la cucina distogliendo lo sguardo da Midge. Non volevo nasconderle il dolore - ne avevamo condiviso abbastanza durante la nostra convinvenza e le lacrime non erano mai state un imbarazzo per noi - quella che non volevo che vedesse era la mia paura. La personalità di Gramarye si era alterata. La malattia che la corrodeva nell'intimo fin dalla morte di Flora era stata arrestata dal nostro arrivo, come un cancro guarito da un nuovo farmaco. La decadenza era cessata ed
era cominciata la sua rigenerazione. La sua magia si era rinnovata. Adesso mi rendevo conto di questo anche se una parte di me diceva: Ascolta, sei pazzo, qui si tratta di pietre e travi, non di una persona viva, e nemmeno di un organismo senza mente. Un mucchio di mattoni inanimato e insensibile, perdici Ma sapevo che non era così. Qualche cosa al di fuori di tutto questo mi sussurrava come aveva fatto prima, instillandomi questa certezza, forse per beffa. O forse questo qualche cosa faceva estremamente sul serio temendo che non volessi ascoltare. O capire. E in verità i pensieri erano così inconsistenti, così tenui che non sapevo io stesso se li ascoltavo o li immaginavo. Chi ero io per giudicare le mie condizioni mentali? Ma l'idea persisteva. Non la struttura di Gramarye era viva, ma l'anima di coloro che avevano abitato in essa, assorbita dalle pareti, dai soffitti, dai pavimenti, chiusa in essa come energia in una batteria, così che, col tempo, l'edificio era venuto a somigliare a una cosa vivente. Finché questa vita era stata corrotta, era stata fatta divenire cancerosa da altre influenze meno pure. Pensavo che la degenerazione era cominciata quando i sinergisti avevano preso a frequentare la casa. Con la morte di Flora, il potere di Gramarye era avvizzito, aveva cominciato a corrompersi. Solo la nostra presenza, o più esattamente quella di Midge, aveva trattenuto la corruzione e perfino iniziato un rinnovamento. Questo mi diceva la voce silenziosa e questo credevo. E in parte avevo ragione. Mi schiarii la gola e dissi in fretta: «Dove diavolo ho lasciato le chiavi?» La parola "chiavi" venne fuori un po' strozzata, e Midge mi strinse più forte la mano. «Forse di sopra. Dio mio, fa così freddo qui.» Ebbe un piccolo brivido. Tuttavia io ero sudato. Mi venne l'idea che stavamo sperimentando la febbre di Gramarye. Uno scroscio lacerante dalla porta vicina fece precipitare Midge fra le mie braccia, e io udii appena il suo grido nel frastuono della muratura che cadeva. Una nube di polvere attraversò la parte della cucina in cui eravamo. Intuimmo quello che era avvenuto, ma, come si accorre all'odore del latte traboccato sul fuoco, passammo dall'altra parte per vedere direttamente. Indugiammo per scuoterei la polvere di dosso. L'architrave aveva ceduto ed era caduto sul fornello portandosi dietro una buona parte di muratura. Le ripercussioni erano ancora nell'aria con il polverume, e la fuligginosa ferita nel seno del camino, aperta e frastagliata,
dava un'idea dell'intimo oscuro di Gramarye, uno squarcio nella sua carne di pietra che rivelava la sua nera sostanza. «No, non è vero, non può essere così!» gemette Midge, e io capii che aveva avuto la stessa immagine. La pena e la ripugnanza che apparivano sul volto erano le stesse che avrebbe avuto se avesse scoperto che il suo zio preferito era un molestatore di bambini. La portai via, impaziente di essere fuori di lì, il più possibile lontani dal villino nel tempo più breve. Eravamo fuggiti dal Tempio dei sinergisti solo per trovare che qui non c'era rifugio per noi; il villino si era alleato con la casa grigia, un alleato in qualsiasi malefica causa generata da quel luogo infausto. A questo punto non sapevo più se ero confuso o pazzo. Tutto quello di cui ero sicuro era che mi si offriva la strada aperta. Mentre ci affrettavamo verso il piano di sopra sentivamo scricchiolare l'assito sotto il tappeto: uno scricchiolio fu così netto e forte da farmi pensare che il piede sarebbe sprofondato, ma il tappeto stesso lo impedì e proseguii mentre Midge faceva attenzione a evitare quello scalino. Nel passare feci scattare gli interruttori e le luci sembrarono indecise prima di accendersi completamente. Nella stanza rotonda l'odore era nauseabondo e le mura umide fino a gocciolare. Le chiavi dell'automobile erano sul tavolino e io le afferrai. «Midge, prendi nella stanza da letto quello di cui possiamo aver bisogno, e fai in fretta. Non voglio restar qui un minuto più del necessario.» Lei non rispose, si volse e scomparve nella stanza da letto lasciandomi un momento per guardarmi attorno. Una nera muffa si era formata fra il sommo delle pareti e il soffitto, sporgendosi verso il basso in grandi macchie come se Midge avesse dipinto sulle pareti con i suoi pennelli più grossi. Ancora più singolare era l'irregolarità del tappeto: l'assito era curvato, le sue estremità sporgevano qua e là, dando l'impressione di animali che tentassero di uscire, ostacolati dalla spessa copertura. «Mike!» In un attimo passai nella stanza da letto. «Oh, no...» Dove un tempo c'era una sottile fessura nella parete adesso c'era una spaccatura di tre centimetri che andava dal pavimento al soffitto. Mi parve di vedere la notte che si affacciava dall'altro lato. «Smetti di far pacchi,» dissi a Midge. «Bisogna andarcene subito, prima che crolli la casa.»
Lei esitava. Vi era in lei un'agitazione che era quasi visibile. Potevo capire la sua angoscia e il suo smarrimento; l'unica mia meraviglia era che non fosse totalmente traumatizzata. Il sogno di Midge era divenuto un incubo, tutto quello che era accaduto era stato illogico e sconcertante, per dire il meno. Un idillio era stato guastato da forze che nessuno di noi capiva... e francamente, per quello che mi riguardava, che io non desideravo capire. Per lei era peggio, perché Midge era consapevole di avere una parte in questo disordine, ma non aveva idea di quale fosse questa parte, lo avevo avuto un'idea e avevo tentato di comunicargliela, ma in fondo che cosa sapevo? L'unica cosa ovvia era che Gramarye non era più un luogo sicuro per abitarvi. Stavo per avvicinarmi a Midge e portarla via dalla stanza da letto - portarla via dalla sua stessa introspezione - quando i suoi occhi si spalancarono e lei indicò la finestra. Fanali di automobile brillavano sull'altro lato del recinto. Altri fanali illuminavano dal di dietro la Citroen gialla. «Bastardi,» mormorai. Afferrai il polso a Midge e balzai nel corridoio. «Cosa vuoi fare?» Si aggrappò a me mentre io prendevo il ricevitore del telefono, e il suo tremito passò a me come se avessi toccato un diapason. «È tempo che se ne occupi la polizia. Non so che diavolo le racconterò, ma penserò a qualcosa. L'averti trattenuto contro la tua volontà potrà servire come inizio.» «Ma non è vero.» «Mentirò un tantino. Abbiamo bisogno della polizia.» Imprecai e tenni il ricevitore lontano mentre componevo il numero. Disturbi più forti e poi un grido lamentoso, il rumore che potremo tutti sentire un giorno, quando sarà caduta la bomba atomica e la linea si fonderà mentre telefoneremo per informarci dei nostri cari. «Merda ! » gridai. (Nei momenti di emergenza il mio linguaggio diventa un po' volgare). Scossi i contatti finché l'interferenza fu meno stridula e poi ricomposi il numero. Lo stesso suono acuto che rompeva gli orecchi. Sussultammo entrambi e io riposi il ricevitore. «Usciamo di qui,» gridai correndo verso la porta. «Ci nasconderemo nella foresta... là non ci troveranno mai.» «No, Mike, siamo più sicuri in Gramarye.» «La guardai incredulo. «Scherzi? Non vedi quello che succede qui? Questo è un luogo condannato alla rovina.» «Non credo che qui ci possano fare del male.»
«Flora Chaldean probabilmente la pensava così. Guarda, non so che cosa Mycroft e quei pazzi abbiano in mente, ma non credo che adesso vogliano attirarci nel loro circolo. Mycroft ci ha lasciati venire qui perché qui voleva prenderci. Dio sa perché, ma sono sicuro che aveva le sue buone ragioni. Andiamo via, vieni.» Aprii la porta, e i pipistrelli disturbati si abbatterono sulla mia testa e le mie braccia tese prima di fuggire nel buio. Nell'agitazione del momento mi ero dimenticato di loro. Attesi un'aggressione in massa. Non accadde niente ma il mio sollievo durò poco. Delle luci uscivano dai boschi. Rientrai e chiusi la porta in un attimo. «Ci hanno inseguito anche attraverso la foresta.» Midge aveva un'espressione stupefatta. «Ha diviso le sue forze, ne ha mandate alcune lungo la strada e altre nella foresta, dietro di noi. Sembra che avessi ragione: vuole prenderci in trappola qui nel villino.» Parve capire lentamente; poi assentì con la testa e subito si calmò; non tremava più. «Cristo, la porta! Non l'abbiamo chiusa. Scivolai alla curva della scala nella furia di scendere in cucina e riuscii a controllare la caduta solo allungando le braccia e premendo le mani contro le pareti. Scivolai ma riuscii a tenermi in piedi fino in fondo. Tirai i due saliscendi della porta, in alto e in basso, e restai con la fronte appoggiata al battente riprendendo fiato. Ci volle un po' di tempo prima che ritrovassi il coraggio di guardare dalla finestra. Le luci delle automobili erano state spente, e io potevo vedere il chiarore lunare riflettersi sui cofani oltre il recinto. Laggiù non c'era alcuno, nessun sinergista. Per quanto potessi dire. «Midge!» chiamai dal basso delle scale. «Cerca il numero di Sixsmythe e chiamalo: questa volta potremmo avere fortuna.» Tirai le tende della cucina non volendo che loro mi vedessero, se erano lì. Passando accanto alla tavola nell'avviarmi alle scale non potei fare a meno di accarezzare il corpo peloso che giaceva lì. Non fu un gesto consapevole e certo non vi indugiai troppo. Forse fu un gesto di affetto, un rimpianto per Rumbo che se n'era andato. Poi salii le scale aspettandomi di trovare Midge al telefono o almeno a sfogliare l'elenco locale. Il corridoio era vuoto. Lei era nella stanza rotonda, profilata nel chiaro di luna, intenta a guardare la riunione fuori.
«Midge, perché non hai telefonato?» «Non può aiutarci, Mike.» «Sixsmythe? È l'unica conoscenza che abbiamo da queste parti.» «Non saprebbe come aiutarci. E in ogni caso è troppo tardi.» Seguii il suo sguardo e quello che vidi non mi piacque. Non mi piacque affatto. Mycroft e la sua banda eterogenea erano all'aperto, gettando ombre nette e nere sull'erba inondata dalla luna. Erano in disparte, entità separate, disseminate come menhir e non meno immobili. Quelli che erano arrivati dalla foresta avevano acceso le torce e, sebbene ognuno fosse isolato, occupando un suo proprio spazio, costituivano una gruppo, unito al suo capo sinergista per qualche misterioso scopo che mi atterriva. Osservavano il villino e noi li osservavamo. Io ero vicino a Midge e lei disse con calma: «Vogliono che moriamo ma non vogliono insanguinarsi le mani.» «È un po' drastico. » Se il mio sarcasmo fu rassicurante per lei, non servì per quanto mi riguardava. «Non possono andare in giro ad ammazzar persone solo perché gli piace una casa. Vi sono delle leggi contro questo tipo di predilezioni.» «Volevano che Flora morisse e Flora è morta.» Tanto per stare allegri. «Ha avuto un attacco di cuore. Va bene, forse l'ha spaventata tanto da ottenere questo risultato, ma lei era molto vecchia. Come potranno spaventare noi fino a questo punto?» «Non avevi paura nel loro Tempio, in quella terribile stanza? Non avevi paura nella foresta?» «Certo. Ma adesso siamo in casa nostra... guardiamo quello che Mycroft può fare qui.» Spesso una bravata è il peggior modo per tentare il destino. Che cosa poteva fare? Molto, e noi stavamo per accorgercene. Non successe immediatamente. I secondi passavano e nulla e nessuno sembrava muoversi: non v'era nemmeno una nube nel cielo. Tutto era tranquillo come in un cimitero. Anche gli assiti dei pavimenti avevano smesso di scricchiolare. La cosa più evidente era il cattivo odore nell'aria. Volevo allontanarmi dalla finestra - sebbene non fossimo troppo vicini perché i sinergisti potessero vederci - ma in qualche modo mi sentivo radicato al punto in cui ero. Ero affascinato, morbosamente curioso di ciò che stava avvenendo (o non avvenendo) all'esterno. Anche respirare era fatico-
so: mi sentivo la pelle troppo tesa attorno al petto. Noi guardavamo fuori e loro guardavano dentro. Poi la figura più vicina alzò un braccio, e aveva in mano una lunga bacchetta. E allora si scatenò l'inferno. Il primo rumore fu una sorta di ruggito soffocato, come un'esplosione subacquea, un boato profondo che si sminuzzò in un agitato e irregolare tambureggiamento. Per un momento la luna scomparve e io pensai che fosse coperta da una nube; ma le luci tornarono presto con lo spezzarsi dell'oscurità sopra di noi. I pipistrelli si erano levati in massa e volavano sopra il villino, una massa nera convulsa in movimento. Volarono sempre più in alto, oltre la luna, verso le stelle, in un frenetico battito d'ali. Ci avvicinammo ancor più alla finestra, alzando la testa, perché lo spettacolo era incredibile e trascendeva lo spavento. Li perdemmo di vista, non li udimmo più, ma solo per pochi secondi. Il tambureggiamento tornò, un fracasso diabolico, sempre maggiore, così forte che l'edificio sembrava vibrare col loro avvicinarsi. Ci scostammo dalla finestra guardando il soffitto, senza fiato e incapaci di parlare. Il rumore si fece più distinto, si concentrò, divenne un basso brontolìo e guardammo all'interno del camino. Piombarono giù dal caminetto come gli uccelli di Hitchcock invadendo la stanza, rimpiendo l'aria delle loro strida e del terribile turbine delle loro ali. Il grido di Midge (Dio sa se non fu il mio) fu troncato dall'infrangersi dei vetri della finestra colpiti dall'esterno. Ci chinammo istintivamente: i pipistrelli irruppero insieme ai vetri rotti, unendosi agli altri e turbinando tra le pareti curve. Sentii qualche cosa posarmisi sulla schiena affondandovi le piccole unghie per aggrapparsi. Mentre cercavo di allontanarlo un altro mi si avventò sul collo mordendolo. Mi rotolai afferrando quello che era sul collo e schiacciando l'altro. La sensazione delle fragili ossa che si spezzavano sotto di me fu ripugnante, ma lo stringere il piccolo essere che mi aveva morso alla gola e si dibatteva fu anche peggio. Sopra di me vi era un uragano di ali battenti che mi scompigliavano i capelli; il trambusto nella stanza buia era pazzamente vertiginoso. E in quel turbinìo sentivo le grida di Midge. Altri due pipistrelli mi si abbatterono sul petto e io li colpii furiosamente con una mano mentre con l'altra stringevo quello che mi mordeva ancora il
collo. Poiché mi era vicino all'orecchio, potevo sentire il suo squittire sotto la stretta. Mi strappai via quel succhiatore di sangue senza sentire alcun dolore pur lacerandomi la carne, e lo scagliai nella massa degli altri. Con entrambe le mani mi tolsi dal petto gli altri due, che mi laceravano la camicia con le unghie e coi denti. Mentre li gettavo nell'aria, altri mi si aggrapparono alle braccia e alle gambe. Nella luce del corridoio vidi il corpo di Midge che si contorceva, così coperto da quegli esseri da sembrare un mostro mutilato da libro di fiabe. Gridava e si batteva le membra atterrita. Io corsi da lei senza badare ai pipistrelli che mi si aggrappavano al corpo. Lei cadde in ginocchio e io colpii quei mostriciattoli con furia cieca, strappando ali e rompendo ossa con una violenza selvaggia a cui nemmeno quegli ostinati bastardi potevano far fronte. Si dispersero. Gliene tolsi due che le si erano impigliati nei capelli gliene strappai dalle spalle e dalla schiena. Dovevamo andar via di lì, ma dove? Tutte le stanze avevano finestre. E intanto lottavo: nuovi pipistrelli si avventavano su di me mentre altri tornavano da Midge. Li colpivo nell'aria, ma per ognuno che abbattevo, altri tre prendevano il suo posto. Incominciavo a essere stanco, e il peso combinato dei pipistrelli, per quanto fossero leggeri, mi faceva cedere a poco a poco. Midge e io cademmo insieme, avvolti da quella nera peste alata. Restammo sul pavimento, e il dolore non era tanto acuto: solo alcuni morsi e alcuni graffi. Quello che ci teneva lì era il terrore. Mi gettai su Midge in uno sforzo per proteggerla, pur sapendo che era inutile: quei maledetti stavano per avere il sopravvento, come lo avevano avuto sui conigli e come lo avevano avuto su Rumbo. Chiusi gli occhi e attesi. Finché i pipistrelli improvvisamente fuggirono. 38. IL POTERE L'aria adesso era libera. Il loro peso non ci opprimeva più. Ascoltavamo il rumore delle loro ali che si allontanava, e restavamo lì con la faccia contro il tappeto, aspettando che il battito si allontanasse e scomparisse del tutto. Solo allora alzai la testa per assicurarmi che fossimo realmente soli. Un debole svolazzare vicino mi fece cercare allarmato la sua provenien-
za; un pipistrello con un'ala spezzata roteava sul pavimento, spinto a girare continuamente su se stesso dai colpi dell'ala sana. Un' altra forma scura si ritraeva debolmente attraverso la stanza. Altri, che ero riuscito a uccidere, erano ammucchiati qua e là. Il loro cattivo odore, morti o fuggiti che fossero, permaneva nella stanza combinandosi con quello della muffa e dell'umidità; nemmeno la brezza che passava dai vetri frantumati riusciva a disperderlo. «Midge.» La liberai dal mio peso, ma lei rimase immobile, con la faccia in giù. «È finito, Midge, se ne sono andati.» Le sue spalle sussultarono e mi accorsi che stava piangendo. Mi sedetti sui talloni e, con le mani insanguinate, me la strinsi al petto. Ma adesso eravamo esausti e potei solo tenermela così, cullandola come un bambino. Avevamo le vesti lacere, ma, sebbene macchiati di sangue, nessuno di noi era ferito seriamente. Anche la ferita sul mio collo sanguinava appena. Mentre le carezzavo i capelli le sue lacrime caddero sulla mia camicia strappata. Un leggero scatto mi immobilizzò ancora una volta. Il colpo era venuto dal corridoio, dove la luce brillava ancora, e precisamente dalla porta che dava sull'esterno. Assurdamente la chiave, che era all'interno, girò nella serratura. Midge, alzò la testa. Anche lei guardò la chiave. Il saliscendi ai piedi della porta cominciò a scivolare lentamente, tirato da una mano invisibile. La sbarra si fermò solo quando ebbe raggiunto il termine della sua corsa. Nulla avvenne lì per lì. Poi, quasi con suo comodo, la porta si aprì. Mycroft apparve sulla soglia. Io diedi un gemito e Midge mi si abbandonò addosso. Lui entrò nella luce e il suo sorriso non avrebbe potuto essere migliorato nemmeno da Boris Karloff. Il solo vederlo mi fece sbigottire. Mycroft entrò nel villino con la bacchetta tesa davanti a sé come il bastone di un cieco, e, sebbene indossasse il solito abito grigio, non aveva più un aspetto qualunque. In realtà, dato quello che gli avevo fatto, la sua urbanità era divenuta sinistra: era divenuta minacciosa e terribile. Si fermò sulla soglia della stanza rotonda, col volto nell'ombra, mentre la luce lo illuminava dal di dietro. Lo udii trarre un lungo e profondo respiro come se aspirasse tutta l'aria viziata della stanza riempiendosi il petto del cattivo odore.
Si era servito dei pipistrelli per abbatterci, e adesso era lì in persona. Una bella prova per Mycroft il Mago, illusionista «extraordinaire». Solo che i pipistrelli non erano stati un'illusione: la brezza che veniva dalla finestra rotta e i miei abiti insanguinati me lo assicuravano. E la porta si era aperta veramente da sola: la sua presenza nella stanza lo confermava. Mi domandai se parte di questa attività avesse fatto bollire l'acqua nel radiatore dell'automobile e, se possedeva tali poteri, l'averci attirato nella sua tana quella domenica non doveva essere stato un problema. Mycroft tese una mano e accese la luce prima di entrare nella stanza. Il suo sorriso non era divenuto più piacevole. Altri entrarono in fila dietro di lui mettendosi alternativamente alla sua destra e alla sua sinistra lungo le mura curve formando una specie di artiglio vivente che si chiuse attorno a noi. Dovevano essere circa una dozzina. Gli altri probabilmente erano rimasti a guardia fuori, sentinelle al chiaro di luna. Li guardai in faccia, e loro sostennero impassibili il mio sguardo. Perfino Gillie, che era fra loro, non mostrava alcuna emozione, mi aspettavo almeno un cenno dal mio vecchio amico Kinsella, ma anche lui era freddo come una pietra. «Pos...» La voce mi venne meno e dovetti ricominciare. «Posso fare qualche cosa per lei, Mycroft?» Non credevo che, date le circostanze, fosse un cattivo inizio, ma non parve divertire nessuno, e meno di tutti me. «Non più» rispose, e l'idea che non gli eravamo più di alcuna utilità mi agghiacciò ancora di più. Puntò il bastoncino verso Midge. «Lei avrebbe potuto aiutarmi, ma ha scelto di non farlo. E la colpa è sua.» Il bastoncino indicò me. Scossi la testa protestando. «Non sappiamo ancora quello che sta succedendo. Non vogliamo combattere con lei, Mycroft, non vogliamo ostacolare il suo Grande Piano, qualunque sia. Quindi che ne direbbe di andarsene?» «È troppo tardi. Voi siete divenuti parte integrale di Gramarye.» «Follie. Volete questo luogo? Prendetevelo. Fatemi un'offerta ragionevole. Io non regalo nulla.» Ed ero deciso su questo. «No!» Lo aveva gridato Midge scostandosi rapida da me. «Non sai perché vuole Gramarye? Perché Flora ha lottato tanto per non cedergliela? Ce l'ha detto lui nel Tempio, non ricordi?»
Scossi ancora la testa, questa volta senza espressione. «Gramarye, o per lo meno il luogo su cui sorge, è un canale per il potere di cui si vale, un'ulteriore fonte di qualche sorta. Non lo vedi? Chiunque occupi questo villino è il guardiano di questo potere. Come Flora, come la persona che viveva qui prima di lei, e prima ancora. La linea è probabilmente infinita.» Un mese prima - no, una settimana prima - avrei riso di questa ipotesi, ma adesso non ero così sicuro. Era difficile da ammettere, ma lo era egualmente tutto quello che era avvenuto là. E non avevo forse avuto recentemente le mie "intuizioni" su quel luogo? Mycroft parve divertito. «Finalmente incomincia a capire. Può sentire la magia che dà vita a questa terra, che crea l'aria così che possiamo respirare, che crea le sorgenti e le fa divenire fiumi perché possiamo bere, che provvede al cibo per sostenerci. Può realmente immaginare che tutto ciò fra cui viviamo sia solo un caso, che la Natura non abbia i suoi scopi, nessuna forza che la diriga? Non vede che vi sono sorgenti contenute entro questo pianeta, che non potranno mai essere capite? Sorgenti investigate solo dagli illuminati attraverso i secoli? È tanto folle da credere che tutte queste antiche leggende, queste storie di maghi, di streghe, di regni magici, siano solo fiabe per bambini?» Rise forte, nel miglior stile di Karloff, e vi fu un mormorto di approvazione tra i suoi accoliti intorno alla stanza. «Quella stupida strega,» continuò Mycroft mostrando i denti, «mi ha impedito di colmare la lacuna, di assorbire la potenza del luogo nel mio essere, di usare la vitalità eterea che trapela da questo punto della crosta terrestre. Ma era vecchia e debole, e presto è stata messa da parte.» In quel momento cominciai a ridacchiare. Non potei trattenermi. Forse era un attacco di isterismo, una combinazione di esaurimento e di paura, ma non potevo fare a meno di pensare che la situazione ci era sfuggita di mano. Dio solo sa perché, continuavo a domandarmi quale sarebbe stata la reazione del buon vecchio Bob terra terra alla diatriba di Mycroft. Gesù, avrebbe riso per una settimana! Più pensavo a questo e più ridevo. Caddi indietro sostenendomi al divano con un braccio. Ma a Mycroft non piaceva il mio riso. Non gli piaceva affatto. Puntò il bastoncino nella mia direzione e improvvisamente mi resi conto che voleva usarlo come una bacchetta magica. Mycroft il Mago con la sua fottuta bacchetta magica! Mi lacrimavano gli occhi dalle risa. Midge mi fissava come se mi fosse dato di volta il cervello (probabil-
mente ero arrivato a questo). Volevo che lei vedesse il gioco, ma ridevo tanto da non poter parlare. La faccia di Bob nell'ascoltare le fesserie che Mycroft ci aveva appena propinato. Troppo, troppo. I sinergisti raccolti nella stanza mi guardavano con gli occhi sbarrati. Perdio, loro non avevano mai visto il gioco! Nascosi la faccia nel morbido divano, con le spalle che sussultavano per le risa, desideroso di chiedere a Mycroft dove teneva il suo lungo cappello a punta e la palandrana nera, ma ridevo troppo per poter formulare le parole. Sentii il divano ondeggiare sotto di me. Sempre ridendo alzai una mano meravigliato. Una piccola sfilacciatura nella superficie logora divenne un buco e qualche cosa di nero ne sgusciò fuori. La seguì un altro animale a più gambe, scattando via. E poi un altro e un altro: una schiera di nere cimici. Apparvero altri buchi. Altre cimici ne uscirono. Sempre più buchi, sempre più cimici. Saltai via e guardai con orrore altre centinaia e migliaia che si facevano strada rodendo la stoffa del divano divenendo subito una lucida massa in fermento. Venivano fuori in file bene ordinate, scivolavano rapide lungo il fianco del divano, cadevano sul pavimento e avanzavano verso le mie gambe tese. Allora ricordai che recentemente Bob non era stato così allegro in quella stanza (era quasi impazzito) e la mia folle ilarità cessò di colpo. Ritirai il piede mentre la prima cimice vi si arrampicava. «Basta! Basta!» Midge era balzata in piedi gridando a Mycroft che si limitò a sorriderle. «Lei non può servirsi di Gramarye in questo modo! È stata fatta per il bene, non per le sue perversioni!» Aveva gli occhi ardenti e il volto contratto per l'ira. «Il potere contenuto in questo luogo può essere controllato in tutti i modi scelti da chi lo riceve,» rispose Mycroft. «La vecchia era troppo debole, resa inferma dagli anni.» «Lei la ha uccisa!» Adesso sogghignò, apparentemente compiaciuto dell'idea. «Sì, sì, credo di averlo fatto: l'ho tentata con l'altro lato, quello che lei e il suo compagno potreste chiamare il lato oscuro della magia. La sua fine è stata immediata.» Parve sorpreso, poi fece schioccare le dita: «Così: ora si è vivi e un attimo dopo si è morti. Non è riuscita a sostenere la rivelazione, capisce? Non ha potuto accettare le tenebre nella sua anima. Come avreipotuto rive-
larle queste tenebre se non si fossero annidate in lei? E strano come il suo corpo si sia corrotto così rapidamente, come se l'intima malvagità, insinuatasi nel suo essere fisico lo avesse raggrinzito come una prugna secca.» Ridacchiò senza preoccuparsi del disgusto sul volto di Midge. La luce si abbassò e si rialzò come se qualcuno venisse folgorato nella stanza accanto, e Mycroft perse per un momento il suo equilibrio. Guardò le pareti, il soffitto, il pavimento. Poi il suo sorriso tornò. «Sentite la sorgente della forza cinetica?» chiese ai suoi seguaci. «Siate ricettivi, fondete i vostri pensieri e assorbite la sua energia. Riempitevi della sua vitalità!» La maggior parte di loro chiuse gli occhi, col volto teso nella concentrazione. Vidi Gillie, presso la parete, barcollare e quasi cadere all'indietro. Un'altra donna, sull'altro lato della stanza, emise un altro gemito. Kinsella continuava a guardare Midge e me. Stranamente, il potere della suggestione, mentre Mycroft incoraggiava ancora i sinergisti, era tale che anch'io sentii un formicolìo nelle mie dita tese. La sensazione emanava dal pavimento passandomi nelle braccia attraverso le spalle e il petto. Improvvisamente ricordai le cimici che erano sembrate arrampicarsi sulla mia gamba, e tuttavia, al controllo, erano scomparse completamente. Le cimici erano state un altro dei trucchi di Mycroft. «Posso fermarlo,» gridò Midge. «Sono qui per questo, sono stata scelta per questo!» «Ah, sì, lei,» disse il Mago con un lampo di astuzia. Puntò il bastone e Midge barcollò. Tuttavia non cadde. Ritrovò l'equilibrio e rivolse a Mycroft uno sguardo d'odio inarcando il dorso e stringendo i pugni. «Posso!» gridò, e io l'amai per quella sfida. Mi alzai in piedi. Lei era puntata sulle gambe, come radicata al tappeto, e lentamente si portò le mani al volto stendendo le dita e riunendole come in un gesto di preghiera. Poi piegò i polsi così che le dita erano rivolte a Mycroft, e 1'espressione di lui tornò ansiosa. Questo, per lo meno, ci diede coraggio. Midge stava rabbrividendo, ed era come se ogni muscolo del suo corpo fosse teso e ogni sua forza fosse diretta a Mycroft. Io volevo gridare per incitarla. Poteva farlo, sapevo che poteva farlo! Ma il mio grido fu solo un sussurro. «Faglielo vedere a quel porco, Midge.» Stringeva i denti così che il suo volto era divenuto una maschera minacciosa, la sua espressione era tesa, il suo corpo vibrava come la bacchetta di
un rabdomante. «Puoi farlo, Midge!» dissi, sempre in un sussurro soffocato. Ed ero certo che poteva, era il successore di Flora, l'erede naturale di questi misteriosi poteri la cui fonte erano Gramarye e il terreno su cui sorgeva il villino. Tutto ciò che era avvenuto negli ultimi mesi l'aveva diretta verso questo punto critico. Tutto ciò che dirige queste leggi mistiche di magia e tutto ciò che esso comportava aveva deciso che spettava a lei continuare il buon lavoro della vecchia Flora: era lei la guardiana, quella che avrebbe impedito che questo potere fosse pervertito. In qualche buffo modo mi sentivo orgoglioso. «Fa fuori quel furfante, Midge!» Lei stendeva le braccia, con le palme e le dita tese. Era come se rivolgesse contro Mycroft un fucile invisibile, e io ero entusiasta del crescente disagio di lui. La tensione mi stringeva la gola così che non potevo più incoraggiare Midge. I miei pugni tremavano nell'aria davanti a me. Lo aveva in pugno, avrebbe messo fine ai suoi infami, maledetti trucchi! Le sue braccia erano rigide come bastoni e io potevo quasi vedere l'energia che la percorreva. Gli occhi di Mycroft si erano dilatati così che le pupille toccavano quasi il bianco. Kinsella tentava di farsi avanti e io ero pronto ad affrontarlo, ma si fermò di colpo, incapace di muoversi. La pressione mi martellava le tempie. Le dita di Midge si aprirono. Esalò un respiro con un gemito. E nulla avvenne. «Merda!» Gridai battendo un piede a terra. Mycroft era perplesso. Poi felice. Alzò il bastone e subito i piedi di Midge si sollevarono dal tappeto e lei fluttuò nell'aria. Il suo corpo si inclinò mentre lei gridava il mio nome. Si innalzò, un metro, un metro e mezzo, rigido come un'asse, mettendosi orizzontale. Lei si portò le mani alla faccia avvicinandosi al soffitto, e io potevo solo guardare atterrito, incapace di fare qualcosa. Ormai il suo corpo era solo a pochi centimetri dal soffitto, quando lui, con una risata, la lasciò andare. Midge cadde e io corsi sotto di lei prendendola fra la braccia: cademmo a terra entrambi. Rimanemmo lì ansanti, e tutto quello che potei udire fu il riso di Mycroft, la sua sghignazzata. Anche Kinsella e gli altri erano divertiti. Ec-
cetto Gillie: era svenuta. Noi eravamo finiti. Ci avrebbe ucciso e probabilmente avrebbe fatto apparire la nostra morte come conseguenza di un litigio fra amanti finito male. O forse si sarebbe concluso che qualcuno era entrato in casa, degli scassinatori, e ci aveva aggredito disperatamente quando era stato scoperto (bastava guardare lo stato della casa). Aveva certo trovato una spiegazione ragionevole, ne ero sicuro, ma perché preoccuparmi di quale sarebbe stata? Questo era affar suo. Mi alzai su di un gomito, preparato al peggio ma deciso a difendermi. Quando il campanello squillò. 39. FLORA Era una situazione ridicola: Midge e io stesi a terra, i sinergisti disseminati per la camera, pronti a uccidere... e adesso arrivava il solito piazzista. Solo che non era qualcuno che vendeva profumi. E noi non avevamo sentito il campanello elettrico; il suono era provenuto dalla vecchia campanella appesa fuori della porta della cucina. L'imperiosità del suo squillo ci diceva che il nuovo arrivato non era disposto ad andarsene (tutte le automobili ferme sulla strada indicavano che in casa doveva esserci qualcuno). Mycroft fece a Kinsella un cenno appena percettibile e, prima che potessi muovermi, 1'americano scattò in avanti e fece scivolare un braccio sotto la gola di Midge. I piedi di lei scalciarono nell'aria. Mycroft mi si avvicinò. «Si liberi subito di chiunque sia. Non mi importa di come, ma deve farlo. Altrimenti la sua piccola beneamata ci andrà di mezzo. Uno strattone del suo braccio la strangolerà in un attimo. Può farlo, creda a me, può farlo facilmente...» Guardai Kinsella e non dubitai che poteva farlo ed era pronto a farlo. Guardando quel bel volto mi domandai dove era andata a finire la sua faccia da torta di mele. Mi alzai a fatica e pensai di aggredirlo prendendogli il braccio o stendendolo a terra prima che potesse farle del male, ma respinsi subito l'idea: quel furfante era troppo forte e troppo agile, e io troppo lento e non abbastanza forte. «Se le fai del male... » dissi senza convinzione, e quella minaccia lo divertì. Le strinse il seno con la mano libera per farmi capire quanto fosse
spaventato, e la sfrontatezza del suo sorriso mi fece rabbrividire. Midge si contorse, con quel braccio che le opprimeva la gola. Feci un passo verso di loro e lui aumentò la pressione sul collo di lei così che Midge sgranò gli occhi per il dolore. «La ucciderò e poi toccherà a te» mi avvertì amabilmente. Mi ritirai alzando le mani: non c'era nulla da fare. La campanella da basso suonò ancora. «Non faccia sciocchezze in nessun caso,» mi avvertì Mycroft. Lo sfiorai andando nel corridoio. E tutta una pazzia, continuavo a ripetermi scendendo le scale. Tutta questa maledetta faccenda è un'incredibile pazzia. E se questi esaltati vogliono farci fuori in ogni modo, perché non fare un tentativo dopo aver aperto la porta? Almeno potrei avvertire la polizia. Ma le chiavi dell'auto sono ancora di sopra, sono cadute nel trambusto. Tuttavia quello che ha suonato deve avere un'automobile. Portalo con te chiunque sia, va al villaggio e torna con aiuti; era questa la cosa da fare. Ma lasciare Midge sola nelle mani di quei pazzi? Questa domanda non richiedeva nemmeno una risposta consapevole. Un gradino cedette sotto il mio peso e mi trovai improvvisamente seduto, con un piede sprofondato nel tappeto. Un movimento alle mie spalle mi avvertì che un sinergista, o forse due spiavano alla svolta delle scale pronti ad avvertire di quello che avrei fatto aprendo la porta. La campanella non suonava più. Sentii una terribile disperazione. Poi la porta fu spinta. Mi rialzai e scesi rapidamente gli ultimi scalini, oltrepassai la cucina e raggiunsi la porta senza pensare ad altro. Il battente veniva spinto come se la persona dall'altra parte fosse adirata e impaziente e disperasse di essere fatta entrare. Le mie dita toccarono il catenaccio e rabbrividirono al contatto del freddo metallo. Improvvisamente mi resi conto di chi c'era là dietro. Non so come lo sapessi, ma lo sapevo. La mia mano si abbassò lentamente come di sua volontà e io fissai la porta. Lei aveva cercato di incontrarci già da molto tempo. La mia paura aveva raggiunto il massimo sorgendo dalla fangosa palude del terrore come un essere gocciolante da un acquitrino. Stavo realmente per affrontare quella figura che ci aveva osservato da lontano? Volevo veramente trovarmi faccia faccia con quel volto devastato, trovarmi a pochi centimetri di distanza da lui? Volevo sentir l'odore della sua putredine così da vicino, il puzzo della morte corruttrice che aveva già viziato l'aria nel
villino? Volevo incontrare finalmente il mio incubo? Ma avevo altra scelta? Il suono era cessato come se lei sapesse che io ero dall'altra parte e che fra poco la porta si sarebbe aperta. Afferrai ancora il catenaccio e lo trassi indietro, costretto da una volontà diversa dalla mia. Le mie dita scivolarono sul legno verniciato abbassandosi fino al saliscendi ai piedi della porta. Tolsi il fermo e cominciai a far scivolare il saliscendi. «No!» Ancora chinato, mi voltai e vidi Mycroft in fondo alle scale; qualche cosa lo aveva spinto a seguirmi. Un'ombra di panico nel suo comando mi disse che anche lui sapeva chi era lì. «Non apra quella porta!» Gli sorrisi nervoso. Alzai del tutto il saliscendi e girai la chiave nella serratura. Poi aprii la porta. Osservai la figura sulla soglia, stupito e senza parole. Perché naturalmente avevo sbagliato ancora. Venne verso di me brontolando come sempre. «Credevo che non mi avresti mai aperto,» sbuffò Val entrando nella cucina prima di voltarsi. «Ho visto le automobili parcheggiate fuori e ho pensato che avessi visite, ma ho suonato e tempestato per secoli. Stavo per girare dall'altra parte.» Grossa, irsuta Val; in tweed a due pezzi, scarponi e calze pesanti; grossa e baffuta Val. «Val,» gracchiai. Non ero arrabbiato come l'ultima volta. La brezza che veniva dalla porta aperta mi raffreddava la nuca umida. «Buon Dio, devi aver pensato che fossi un fantasma dal modo con cui mi guardi. Stai bene, Mike? Sono venuta perché ero ansiosa per quello di cui abbiamo parlato al telefono. Sai c'è qualche cosa di molto strano...» «Si sbarazzi di lei!» stridette Mycroft. Val, ovviamente, lo aveva visto appena entrata nel villino, ma adesso rivolse al sinergista la sua piena attenzione. «Prego?» disse. Io stesso ero stato fulminato da quel tono e da quello sguardo un paio di volte nel passato. «La faccia andar via.» Mycroft parlava con voce bassa e calma, ma io sapevo che la sua pazienza era agli sgoccioli. Quanto a me, ero lieto di vederla, sebbene mi rendessi conto che la sua presenza non portava alcun aiuto alla situazione;
per quanto Val fosse formidabile, dovevamo competere con qualche cosa di più del solo numero. «Mike, mi dispiace di aver interrotto qualche faccenda, ma vuoi avere la bontà di informare questo screanzato cretino...» Si era voltata verso di me, ma il suo sdegno si interruppe insieme alla sua frase quando guardò la porta dietro di me. La brezza che alitava era divenuta ancora più fredda portando con sé una particolare fragranza agrodolce. Una mano mi toccò la spalla dal di dietro. Senza avere il coraggio di guardare direttamente, volsi appena la testa e vidi l'ombra. Il suo respiro mi sfiorò la guancia. Mi voltai completamente. Era piccola, molto più piccola di quanto mi aspettassi. Sottile. E fragile. E aveva il volto più vecchio e più dolce che avessi mai visto. I suoi occhi erano pallidi, ancora più pallidi di quelli di Midge, e sembrava che vi passassero delle nubi. Le labbra erano sottili, piegate in giù alle estremità; ma tuttavia era una bocca dolce: la piega agli angoli non induriva la sua espressione. E sebbene il naso fosse affilato, non presentava arroganza ma solo decisione. Le rughe segnavano in tutti i suoi lineamenti, tuttavia era un volto chiaro, pulito, pieno di compassione. Portava una sciarpa a mo' di foulard, molti colori intrecciati nel suo ruvido tessuto senza un particolare disegno; capelli bianchi, che le cadevano a ciocche sulle spalle, spuntavano da sotto la sciarpa. La veste era lunga, accollata, di un grigio scuro, di moda al tempo del «Ritratto della madre» di Whistler. Flora Chaldean alzò l'altra mano. Improvvisamente capii, con quel tocco, la straordinaria quantità di energia spirituale che era stata necessaria perché lei giungesse a questo punto. I suoi precedenti fenomeni genericamente periferici, il suo graduale avvicinarsi al villino non erano stati altro che una manifestazione visiva (o visionaria) del suo sforzo di materializzazione, l'accumularsi di forze psichiche, il modellarsi della sua esistenza spirituale in forma tangibile. Tuttavia in qualche modo sentivo che solo quello che stava avvenendo a Gramarye in quella notte aveva permesso che l'ultima barriera tra il mondo spirituale e il mondo fisico fosse spezzata. Vidi tutto questo nei suoi occhi evanescenti, come se quei vapori fossero i suoi veri pensieri. E mi resi conto che la sua presenza era un avvertimento, come lo era stata per tutto questo tempo a Gramarye, quando la sua forma era stata osservata solo come un'ombra spettrale a distanza. Lei si avvicinò e aprì la bocca per parlare, ma ancora una volta, non so
se ho udito le sue parole o percepito il suo pensiero. Tuttavia quello che lei disse con le labbra o col pensiero fu solo: «Tu...» E poi cominciò a lasciarsi andare davanti ai miei occhi. Fu come se avesse bruciato tutta l'energia psichica che era stata necessaria per portarla a quel momento, 1'impulso finale di entrare in Gramarye usando le sue poche forze; adesso il processo si rovesciava nel declino, avanzato verso i sensi fisici tornava indietro come un film girato alla rovescia. Fui lieto di non essermi avvicinato a lei durante gli stadi precedenti, quando l'avevo vista all'aperto, presso la foresta, intenta a osservare Gramarye. Le rughe del suo volto e delle sue mani si approfondirono e poi scomparvero lasciando solo delle deboli linee, e la sua carne si... dissolse. Dai suoi occhi venne una passione come se le nubi si fossero raccolte in una nebbia opaca. Le sue mani colpirono le mie spalle battendo un debole tamburellìo irregolare, e la sua pelle divenne cerea, quasi lucente come carne congelata. Cominciò a stendersi, divenne sottile come carta; cominciò a lacerarsi. La sua dissoluzione fu rapida, ma ogni secondo fu senza tempo. Poi cominciò la decomposizione del suo corpo. Là dove si erano posate le mosche su di lei quando era rimasta accasciata davanti al tavolo della cucina di Gramarye, tanti mesi prima, riapparvero le loro uova, bianche larve brulicanti che banchettavano e crescevano formando un reggimento perfettamente addestrato di minuti carnivori, disparvero nelle cavità da loro stesse formate. L'intenso fetore si rovesciò su di me e io trattenni il respiro per non inalare quei fumi. La sua carne cominciò a disfarsi, a colar via, mettendo in evidenza muscoli e ossa, e lasciando allo scoperto quei piccoli esseri che strisciavano nel suo intimo. Le palpebre non ebbero più la consistenza per trattenere i suoi occhi, che sporsero dal volto devastato. Una mano che era rimasta sulla mia spalla mi scivolò lentamente lungo il petto e le ossa delle dita - su cui era rimasta poca carne - si impigliarono nella mia camicia a brandelli. Si contrasse davanti a me: la sua figura, che era stata piccola in vita, divenne ancora più piccola via via che le ossa e i muscoli rientravano gli uni negli altri. L'altra mano si sgretolò. Altre cose si contorsero in quelle buie occhiaie cave, cose nere che scivolavano l'una sull'altra come spaghi fradici. La mascella si aprì, non più sostenuta, e anche la lingua nera e floscia parve unirsi alle schiere degli a-
nimali striscianti divenendo una di loro. La sciarpa le scivolò dalla testa e i bianchi capelli caddero in ciocche sparse e flaccide mentre rimanevano solo isole di pelle sul cranio grigio. Il suo corpo si sfasciò lentamente e cominciò a dissolversi prima ancora di raggiungere il pavimento. Le vesti, le ossa, la carne liquefatta rimasero in mucchio sulle piastrelle ma, in pochi attimi, anche quelle scomparvero. Non rimase nulla di Flora Chaldean eccetto l'odore. Indietreggiai barcollando, appoggiandomi allo stipite della porta. Val osservava dalla cucina senza credere ai suoi occhi. Mycroft si era lasciando andare contro le scale. Aveva gli occhi socchiusi, come se fosse esausto, svuotato di ogni energia. E tuttavia, stranamente, io mi sentivo carico: una specie di energia chimica scintillava in me spingendomi il sangue in tutto il corpo, facendomi formicolare e fremere le estremità dei nervi. Lei mi aveva toccato la spalla e i suoi occhi e i suoi pensieri mi aveva riempito. Ma ancora non capivo. Finché mi accorsi che Mycroft mi guardava intimidito e sentii la sua paura e il suo rispetto. Allora cominciai a capire... 40. LE COSE SI SCATENANO Mycroft scomparve su per le scale - e sentii anche altri passi, evidentemente quelli dei suoi seguaci che erano rimasti nascosti - mentre alzavo le mani esaminandole e domandandomi perché palpitassero così e perché la cute e tutte le parti pelose del mio corpo mi formicolassero con una sensazione di aridità. Mi toccai la testa: i capelli erano ruvidi (quasi mi aspettavo che fossero irti). Era dunque questa la sensazione fisica che proveniva dal possesso della magia? Il possesso della magia. Non poteva essere! Non per me non per Mike Stringer, scettico e quasi miscredente. Ma venivo trasportato da qualche cosa che non badava alla mia incredulità e alla mia confusione. Val si sorreggeva stringendo il tavolo con le mani. Sembrava sconvolta e non c'era da meravigliarsene con tutto quello che era successo da quando era entrata nel villino. Adesso, tuttavia, sembrava incuriosita, rendendosi conto del mio cambiamento avvenuto. Non credo che questo cambiamento fosse tangibilmente visibile, ma lei sapeva che era realmente avvenuto. Naturalmente, per quanto ne sapessi, potevo emanare delle luci azzurre dalle orecchie, ma non lo credo. Il cam-
biamento della mia mente, comunque, era lieve, altrimenti penso che sarei stato totalmente travolto da questa metamorfosi. Il buffo era che avevo paura, ma che lo spavento non mi atterriva. Ha senso tutto questo? La paura mi eccitava perché era qualche cosa di nuovo, e con il suo acquisto - o dovrei dire con la sua liberazione - veniva un senso di benessere, un elemento essenziale che contribuiva a bilanciare il nuovo potere. Immaginiamo di essere nati ciechi e che un giorno un colpo in testa ci permetta di vedere. Si pensi all'eccitazione, al reverente timore per ogni cosa che ci è intorno, alla paura di tutto. Tuttavia non ero ancora sicuro al cento per cento. Il tocco e i pensieri di Flora mi avevano instillato la conoscenza, avevano acceso l'interruttore della consapevolezza, ma che diavolo! Poteva essere stata un'allucinazione. Vi era solo un mezzo per saperlo, e un brivido nervoso mi attraversò mentre mi avviavo alle scale. Val tentò di prendermi per un braccio mentre passavo, ma qualche cosa le fece ritrarre la mano prima che mi toccasse. Salii le scale in fretta, pronto al combattimento, e forse desiderandolo. I sinergisti mi aspettavano, ma erano confusi; e né l'evidente panico di Mycroft né il mio arrivo avevano provocato il loro disordine. Una luminosità blu-viola emanava da ogni oggetto nella stanza rotonda: il divano, le sedie, i mobili, i libri, i quadri, la mensola del camino, le intelaiature delle finestre, le tende, tutto, inondando la stanza con la sua luce misteriosa ; anche il soffitto era soffuso di colori elettrici. Spielberg non avrebbe potuto ottenere un effetto più impressionante. Il bagliore delineava i corpi umani ma in modo non meno sconcertante. Se qualcuno faceva schioccare le dita, dei disturbi elettrici tuonavano nell'aria; se qualcuno starnutiva, le correnti d'aria creavano un uragano. La stanza rotonda era viva. Palpitava e vibrava; ma non vi erano suoni e non vi erano movimenti: la sua esistenza poteva solo essere intuita con meraviglia. Rimasi sulla soglia e sentii la stanza respirare su di me. Da una parte Gillie era sostenuta dalla ragazza chiamata Sandy. Gli altri guardavano ansiosi le pareti e i mobili. Neil Joby sembrava stesse per vomitare. Vidi un uomo toccare il cavalietto del tavolo da disegno sotto la finestra infranta e subito ritrarsi mentre il fulgore si espandeva dal suo braccio rafforzando per un momento la sua luce. L'Uomo Ossuto era lì e direi che avrebbe voluto fuggire se io non avessi bloccato con la mia presenza la porta; rimase lì, in un atteggiamento indeciso. Kinsella teneva ancora Midge e sembrava
il più calmo di tutti. Anche più calmo di Mycroft, che era nel centro con gli occhi fissi su di me. Era il momento della verità. Io inghiottii. Anzitutto Kinsella. Esitai: chi non lo avrebbe fatto nella mia situazione? Per questo, forse, non agii immediatamente. Avevo bisogno di tempo e di esperienza per acquistare confidenza, e non avevo né l'uno né l'altra. Kinsella si vide improvvisamente il braccio trasformato in una zampa di capra. Non avevo idea del perché avessi scelto una capra : mi era passata per la mente e io avevo trasferito 1'idea nelle sue braccia. Purtroppo l'immagine fu solo momentanea: Midge si trovò ancora nella sua stretta prima che lui avesse il tempo di stupirsi e di lasciarla andare. Il suo stupore si manifestò un secondo più tardi, ma lui continuò a tenerla: lasciò pendere la mascella e inarcò le sopracciglia. Sbattè le palpebre pensando che fosse stata un'illusione, e Midge tentò invano di liberarsi. Nondimeno qualche cosa era avvenuto, e questo dava almeno un granello di credibilità a quello che mi sforzavo di credere. Potevo farlo! Dovevo solo concentrarmi intensamente, e sarebbe avvenuto! Mi ero sempre sbagliato nei riguardi di Midge: lei era un elemento importante in tutto questo, una sorta di catalizzatore, ma non era il successore di Gramarye. No: ero io, mio Dio! Io! Ma non era questo il momento di speculare. La forza della mia mente colpì ancora e io cercai di sostenerla imparando già i trucchi, l'arte, o la tecnica della magia. Kinsella si accorse di avere un braccio stretto da un sogghignante pitone. L'immagine fu più duratura e, con uno strido da femminuccia, lasciò la presa. Midge cadde a terra. «Vieni qui, Midge,» gridai, e lei cominciò a strisciare senza capire perché l'americano l'avesse lasciata e probabilmente senza domandarselo: voleva semplicemente raggiungermi. Ma la bacchetta di Mycroft la spinse indietro e la tenne lì ferma. «Crede di poter competere con me?» gridò Mycroft nella mia direzione. E, quant'è vero Dio, io risi. Penso che l'attacco isterico fosse tornato e mi spingesse a questo. Lui si infuriò: dovette credere che lo deridessi, e forse aveva ragione. Tese la sua bacchetta e l'intelaiatura della porta intorno a me prese fuoco. Io balzai indietro nel corridoio, atterrito davanti alla porta in fiamme. Ebbi il tempo di vedere Val che mi fissava dalle scale, col volto inorridi-
to, illuminato dal fuoco. Non l'avevo mai vista restare senza parole e, a onor del vero, fece del suo meglio per parlare. Ma riuscì solo a smuovere le labbra. «Non chieder nulla,» le dissi. Poi mi tuffai ancora nella porta infiammata senza concedermi il tempo di riflettere perché a questo punto o credevo o non credevo: non vi era una via di mezzo. Udii il grido rauco di Val, ma altri rumori nella stanza lo soffocarono. Il fuoco dietro di me si spense improvvisamente e io mi accorsi di non avere nemmeno una bruciatura. Mycroft e io ci guardammo da un capo all'altro della stanza, mentre i sinergisti, intorno a noi gemevano senza preoccuparsi molto di me, ma interessatissimi a quello che succedeva intorno a loro. Tutto nella stanza - voglio dire i cosiddetti oggetti inanimati - non solo sfolgorava, ma stava pulsando: le sedie, i mobili, perfino le pareti palpitavano come strani cuori. Il tappeto si muoveva come se forti mani sotto di esso lo spingessero in su. E i frammenti di vetro che erano schizzati via dalla finestra oscillavano ad alcuni centimetri da terra come saltellanti grani di cristallo. L'Uomo Ossuto cercava di raggiungere il saliscendi di una finestra mentre altri seguaci lo spingevano alle spalle, pensando solo ad andarsene dal villino; ma, appena afferrò l'asta di metallo, il suo corpo vibrò e i pochi capelli che gli restavano crepitarono come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Saltò via trascinando con sé gli altri in una confusione di braccia e di mani che si dibattevano. Vi furono strilli di donne nella stanza (e anche di parecchi uomini) e vidi che Joby aveva finalmente vomitato il contenuto del suo stomaco senza tuttavia liberarsene completamente, versandoselo sul collo, sul petto e sulle spalle. Mattoni e fuliggine precipitarono nel caminetto, una nube di polvere ne scaturì avvolgendosi in spire nell'aria; la muffa sulle pareti parve una ribollente putredine. La sala rotonda aveva perso gran parte del suo fascino. Mycroft borbottò qualche cosa che non riuscii a capire nel trambusto; pensai che fosse un incantesimo piuttosto che un brontolio di rammarico e mi domandai che cosa avesse in mente. Ma capii subito. Una ragnatela cominciò ad avvolgersi attorno a me, prendendomi prima le braccia e poi le gambe e continuando ad avvolgermi sempre più come una sottile rete di acciaio, coprendomi il petto e il ventre e subito intrecciandosi a quella che mi avvolgeva le cosce. La rete argentea mi raggiunse le spalle e vidi che vi era una quantità di piccoli ragni tra i fili, tutti al lavo-
ro che sollevavano e allungavano le zampette sottili. Il bozzolo crebbe rapidamente e in meno di un minuto giunse alla gola dove si restrinse. Tutto l'insieme si strinse così che riuscivo appena a respirare. Midge era in ginocchio e gridò il mio nome. Avevo paura? Sì, più di quanta sia possibile descrivere. Ma mi imposi la calma perché sapevo che era tutto un trucco e che poteva essere realtà solo in quanto la mia mente gli permetteva di esserlo. Evocai un'invisibile lama su quei fili. L'intreccio si spezzò e, prima che la lama mi giungesse allo stomaco, tutta la ragnatela scomparve. «Questo è quanto di meglio sa fare?» sfidai Mycroft ostentando una baldanza che non sentivo affatto. Il colpo d'un invisibile maglio che mi spinse ancora nel corridoio mi disse che aveva appena cominciato. Rimasi contro la porta del retro, teso, e ripromettendomi di non aprir più bocca in futuro. Tuttavia il dolore veniva dalle spalle, dove avevo colpito la porta, e non dal petto, dove immaginavo di essere stato colpito. Quando mi ripresi, corsi ancora nella stanza rotonda scontrandomi con i sinergisti che cercavano di uscirne, dato che la paura aveva preso finalmente il sopravvento sulla fedeltà al loro capo. Si scostarono da me come se fossi un appestato, tornando in fretta nella stanza. Devo ammettere che non potevo biasimarli per il loro tentativo di fuga, perché quello era divenuto decisamente un luogo poco sicuro. Se Midge non fosse stata lì, me la sarei data a gambe anch'io. Le assi del pavimento uscivano dal tappeto piegandosi in su come succhiate da un turbine; anche il soffitto si incurvava a forma di cupola. Lunghe, fratture frastagliate spaccavano le pareti. Una luce scattò dal bastone di Mycroft verso il mio cuore, e per un riflesso spontaneo io la bloccai con un pensiero. E poi la respinsi. Il suo bastone esplose: frammenti ardenti volarono nell'aria. Lui barcollò all'indietro e per poco non cadde. Ma si riprese e mi fissò con un insieme di stupore e di terribile odio. L'allievo aveva superato il maestro, pensai trucemente. Poi mi mostrò cose che non voglio rivedere - o immaginare -mai più. Aprì l'accesso a un incubo e mi condusse in esso. Non ero più a Gramarye ma in qualche altro luogo, in un'altra dimensione buia e sconosciuta, dove la decomposizione era fraganza, dove la pena e la sofferenza erano aiuto. Una buia pianura dove il disgusto sostituiva l'amore, l'oscenità la purezza. Non so se mi aveva fatto passare per la porta laterale dell'inferno o se mi aveva condotto in un corridoio perduto della mia stessa mente. Forse
erano entrambi la stessa cosa. Sapevo solo che, se non mi ritraevo da quel mondo sotterraneo dove l'orrore si insinuava nell'oscurità intorno a me, se non trovavo subito la strada del ritorno, sarei rimasto lì per sempre. Era come la rinuncia al mio stesso pensiero. Vidi una massa che si affollava verso di me provenendo dall'ombra, una massa che mi parve una folla in cammino, vidi gambe farsi avanti a fatica, profili di braccia ondeggianti, teste agitate qua e là; ma quando mi furono più vicine mi resi conto che era un'ardente massa di gente fusa insieme da un fuoco che aveva liquefatto e confuso le loro carni. Vidi un fiume che fluiva nell'aria sopra la mia testa e, nelle sue putride acque, delle creature che non erano né pesci né uomini, ma in parte entrambi; si nutrivano di se stessi scegliendone uno in un gruppo e mettendolo al bando per divorarlo. Vidi strani rettili che strisciavano sulla nera terra e che, quando si avvicinavano, erano solo sacchi membranacei pieni di una moltitudine di forme che si contorcevano, differenti specie di vermi, larve e insetti tutti chiusi nello stesso guscio trasparente, provocando con la loro irrequietezza il movimento dell'insieme. Vidi mostri che sfidavano ogni descrizione, assorbii pensieri troppo ignobili per essere riferiti. Esistevo in una tetra e tenebrosa regione inferiore il cui orrore aveva un proprio fascino. Qualche cosa di freddo e di viscido mi avvolse la caviglia e io gridai. Ma prima che il grido smorisse sulle mie labbra, la voce di Midge mi riportò nel mio mondo, per quanto bizzarro e caotico fosse divenuto. Non sapevo come fosse sfuggita a Kinsella, ma lei era lì e mi scuoteva, battendomi il petto, strappandomi da quell'altra dimensione, riportandomi indietro da qualche profondità che era in me stesso, un luogo scuro e segreto che è in tutti noi. Cessò di colpirmi solo quando nei miei occhi apparve un segno di riconoscimento; e allora nascose la testa nella mia spalla. «Oh, Mike, Mike, ho avuto tanta paura! Non eri più tu... per un momento sei stato solo un guscio vuoto e senza vita!» L'abbracciai, il sollievo divenne esultanza: la sensazione che si può avere sopravvivendo a un orribile incidente; la paura ossessiva di quello che avrebbe potuto succedere viene in seguito. Sebbene mi fossi ingannato sul compito di Midge negli eventi che avevano portato a questo momento, mi resi nuovamente conto che lei aveva una parte importante: era certo un catalizzatore, ma non del genere che
pensavo; per me era sempre stata la motivazione, il legame fra me e Flora Chaldean... l'intermediario che mi aveva condotto a Gramarye. Aveva la sua particolare positività. Mycroft era indietreggiato verso la mensola del camino, e la polvere si levava ancora dal focolare più sotto formando una nebbia fuligginosa intorno a lui. Come ho mai potuto descrivere il suo aspetto come mite? Con i suoi occhi minacciosi e le spalle curve, le mani alzate come artigli, la bocca piegata in giù e il volto solcato da rughe che prima non apparivano, imbrattato di polvere. .. Gesù, appariva come un abitante di quell'incubo che avevo appena lasciato. Tuttavia cedeva, la sua riserva di trucchi si era esaurita e lui, ovviamente, lo trovava difficile da sopportare. Devo dire che appariva non solo indebolito, ma anche sconcertato. E ne fui lieto: ero nauseato della sua espressione soddisfatta. Ma vi era ancora della vitalità in quel furfante. Agitò la mano e creò fra noi un muro di animali repellenti i cui corpi irti di peli formavano letteralmente dei mattoni (credo di avere già detto che non sopporto i ratti) sovrapposti fino all'altezza di un metro e mezzo così che potevo vedere solo la testa di Mycroft al di là, quasi posata su quell'ammasso di pelame come un grottesco uovo pasquale. I sinergisti furono ancora più spauriti: essi non badavano affatto a quell'immagine. Il muro franò quando io mi raffigurai un enorme maglio che lo colpiva e i ratti fuggirono in tutte le direzioni scomparendo prima ancora di trovare un rifugio. Sorrisi senza badare al trambusto tutt'intorno. Lui squarciò l'aria davanti a me così da far apparire un vuoto di assoluto nulla; un turbine tentò di succhiarmi in quel vuoto. Chiusi l'apertura con punti immaginari. «Io sono più giovane di lei, Mycroft!» gli gridai, e lui capì che alludevo a Flora. «Posso sostenere tutti gli sforzi che mi oppone. Giovane e fresco, capisce? Non può farmi alcun male!» Non avrei dunque mai imparato? Indietreggiai quando qualcuna di quelle cose che credevo di essermi lasciato alle spalle nella regione inferiore cominciò a strisciare dai buchi creati nel pavimento. Il tappeto cominciò a lacerarsi tutt'attorno a me, e mostri simili a lumache strisciarono lentamente su dagli orli lasciando bave lucenti. Mani scabbiose, gocciolanti di pus si aggrapparono al tappeto lacero. Quelle membrane, piene di una vita contorta, si agitavano nell'aria prima di ripiegarsi sull'orlo. Sbuffi di fumo nero
salivano in lente spire, piene di microrganismi pestiferi, male corruttore che vaga nel profondo, sovvertitori che cercavano di farsi strada verso la superfìcie cercando manifestazioni, definizione, attuazione. Erano queste le sostanze infiltranti del male. Io mi chinai fino a inginocchiarmi perché la loro esistenza dipendeva anche da me; io ero la loro fonte ed esse minavano la mia forza. Anche Kinsella era in ginocchio, presso una delle cavità che si allargavano, con le mani strette fra le sue cosce (adesso capii come Midge si fosse allontanata da lui) e la cosa che si era avvolta attorno alla mia caviglia quando mi ero perso in quel breve ma eterno incubo della mia mente inferiore, stava raggiungendolo dall'apertura e avvolgendo la sua. Kinsella gridò e colpì forte col pugno quella corda scintillante, che si contrasse ritirandosi nella sua cavita, e lui attraversò faticosamente la stanza a carponi, singhiozzando. Altre forme emergevano, di cui anche Mycroft sembrava avere un misterioso spavento; erano infangate e fosche come spremute fuori dalla terra sotto la stanza rotonda. Una ventata passò impetuosa presso di me scompigliandomi i capelli e i vestiti; altri nella stanza cadevano, gemevano, si aggrappavano ai vicini per sostenersi a vicenda. I bagliori elettrici erano più intensi, come per un'ardente radiazione. I mobili si sollevavano, i libri attraversavano volando la stanza. Il cavalietto del tavolo da disegno si schiantò contro un muro trascinando con sé un sinergista: credo che fosse Uomo Ossuto, anzi, sono sicuro che era lui. E adesso le pareti si stavano spaccando. Un corpo cadde rumorosamente presso di me, e improvvisamente Midge mi fece voltare a forza il volto perché la guardassi. «Puoi fermarli, Mike» gridò nel frastuono. «Non puoi lasciare che se ne vadano! Tu puoi fermare Mycroft!» «No, non so come fare! E stato tutto un errore, Midge. Non sono l'uomo giusto! Non so usare la magia!» «Basta che ci creda, è tutto quello che devi fare! Gramarye ti aiuterà! Le forze sono qui... tu devi solo dirigerle!» Poteva essere così semplice, così facile? Delle voci - dei pensieri - mi dissero che era così, e questa affermazione, detta o suggerita, veniva da coloro che erano vissuti lì prima di me, da altri che erano stati guardiani, che avevano custodito il potere di quel luogo, di quel terreno, per il Bene. Non solo Flora, ma quelli che l'avevano preceduta e altri ancora prima di
loro, risalendo a un tempo in cui quel luogo non era che una radura circolare in una folta foresta, forse all'epoca dei draghi, delle streghe, dei bianchi castelli, all'epoca delle leggende che crediamo inventate. Forse un'epoca ancora precedente. Immaginai questi tempi e le immagini si diffusero dalla mia mente. Urlai a quelle oscenità insorgenti ed esse esitarono, cominciarono a scivolar via ricadendo nelle melmose profondità da cui erano sorte. Nei profondi regni del mio pensiero. Gradualmente un altro suono si formò sotto quel tumulto, un tambureggiamento, un ritmo che sottolineava l'ululare del vento. L'interno del camino palpitò con il loro volo, e ancora una volta i pipistrelli scesero dall'apertura del camino stridendo e sciamando su Mycroft, colpendolo con le loro ali. In pochi secondi lui ne fu sommerso e spinto contro la mensola del caminetto. Lo avvolsero quasi completamente, così che il suo aspetto fu simile a quello degli esseri che erano tornati nelle loro sedi sotterranee. Nella mia mente vi era una luce che dissipava l'oscurità da cui per poco non ero stato travolto, un'alba che vinceva la notte. Con l'aiuto di Midge riuscii a tenermi in piedi, e Mycrofte io ci guardammo in faccia per l'ultima volta prima che il suo volto fosse coperto dai piccoli mostri divoratori. Non ho idea di quello che lui avesse sentito per me: notai solo un grande vuoto nei suoi occhi. Il sangue scorse tra i corpi frenetici dei pipistrelli che lo soffocavano, bagnandoli e sgocciolando sul pavimento. Lo dissanguarono lì, senza che potesse fuggire. Nel corridoio, la porta sul retro si spalancò e si chiuse di colpo, allettante trappola per coloro che cercavano di fuggire. Alcuni furono sbattuti fuori, altri vennero schiacciati contro lo stipite e i loro corpi furono sputati nel corridoio come semi da una bocca. Le spaccature delle mura ricurve si aprivano sempre più e altri pipistrelli vi si infilarono mentre altri ancora passavano dalle finestre frantumate. Volarono attorno alla stanza, portati dal vento, piombando sulle facce e sulle mani che trovavano. I mattoni cominciarono a staccarsi dalle pareti scattando come missili attraverso la stanza. Midge mi afferrò il braccio indicando in alto. Il soffitto si alzava nel mezzo diventando più curvo, più incavato di prima. Le assi del pavimento si liberarono dal tappeto e si sollevarono fino al soffitto per raccogliersi lì insieme ai libri, ai cuscini e ai soprammobili. Il divano cominciò a sollevarsi e roteò nell'aria girando su un angolo rimasto
a contatto col suolo. Molti sinergisti erano appiattiti contro le mura che si sgretolavano. Io sentii su di me la pressione gravitazionale, lateralmente e verso l'alto e dovetti resisterle. Gramarye stava frantumandosi fino nelle radici (e Dio solo sa dove esse fossero). «Dobbiamo uscire!» gridò Midge, con la faccia avvolta dai capelli. «Sta per avvenire qualche cosa di ancora più terribile, lo sento!» Lo sentivo anch'io. Sapevo che aveva ragione. Le forze erano state ravvivate, scatenate, esplodevano come da un pozzo di petrolio, e io non sapevo come arrestare il flusso. Stretti l'uno all'altra andammo barcollando verso le scale lasciandoci dietro quella carneficina, la paurosa immagine di Mycroft dissanguato, le facce deturpate di coloro che erano stati colpiti dalle pietre o straziati dai pipistrelli, la tempesta che devastava le mura in rovina. Il tutto inondato da quel bagliore elettrico. Avevamo già quasi oltrepassato la porta quando due dure mani mi afferrarono alla gola dalle spalle. Fui spinto indietro e gettato sul pavimento che erompeva ruggendo. Poi un potente peso sul mio petto mi inchiodò lì, e le mani che mi stringevano il collo mi attaccarono di fronte. Stupito dapprima, aprii gli occhi e vidi il nostro eroe americano che mi gridava qualche cosa e non aveva più quel suo aspetto ordinato. Il naso e le guance erano macchiati di rosso e sulla fronte aveva una profonda ferita da cui il sangue usciva a fiotti. I suoi biondi capelli erano arruffati e polverosi; Dio sa come erano state strappate delle ciocche così che appariva la cute violacea in quella luce innaturale. La follia che aveva nello sguardo rivelava in lui il vero discepolo di Mycroft. Gli afferrai i polsi e cercai di allontanare le sue mani, ma lui si divertì del mio sforzo guardandomi truce e aumentando la pressione. Allora Midge si scagliò su di lui graffiandogli la faccia con le unghie e afferrandogli il margine della ferita sulla fronte e sollevandogli la pelle. L'osso era sporco di sangue, con qualche piccola macchia bianca, Kinsella la spinse facilmente da parte con il dorso della mano senza badare al dolore e al sangue che lo accecava. Ma l'altra potente mole che si fece avanti non si poteva allontanare con eguale disinvoltura. Una grande mano lo afferrò sotto il mento e gli trasse la testa all'indietro continuando a tirare mentre un'altra mano lo colpiva duramente alla gola. Un getto di saliva mi bagnò il volto, ma non ci badai affatto. Lo spinse a terra e uno dei suoi pesanti scarponi lo colpì sugli incisivi. Val faceva sul serio.
Si avvicinò a Midge e la tirò su, chinandosi per evitare gli oggetti e i pipistrelli che volavano sulla sua testa, poi si voltò per aiutare me; ma io ero già in piedi. La stanza stava esplodendo intorno a noi, la sezione centrale del pavimento era completamente andata, le assi che rimanevano erano piegate in su e ondeggiavano come rigide banderuole; dalle aperture sgorgavano terra e fango schizzando fino al soffitto. Dalle pareti cadevano mattoni in blocchi troppo pesanti per essere trascinati dal vento. I sinergisti che non erano fuggiti, né giacevano sul pavimento in cui si erano aperte voragini, ma erano premuti contro le pareti, incapaci di liberarsi. Val spinse Midge e me verso la porta, decisa e indomabile come sempre, anche se era atterrita e fuori di sé. La porta sul retro battè ancora rumorosamente, invitandoci a tentare la sorte, a sconfiggere il diavolo: filate via alla svelta! «Dalla cucina!» comandò Val senza nemmeno considerare quell'invito. Ci precipitammo insieme giù per le scale inciampando nelle assi sconnesse e nel tappeto e tutti e tre ruzzolammo in un ammasso di braccia e di gambe. Ci fermammo in fondo, mentre le mura palpitavano ai lati. Ci districammo farfugliando e gemendo e riprendemmo la fuga mentre dietro di noi i rumori divenivano ancora più forti. Attraversammo la cucina, con Midge in testa; la luce del soffitto si accendeva e si spegneva in rapida successione. Le piastrelle del pavimento erano tutte saltate via e battevano l'una contro l'altra come un mucchio di cocci così che non era facile tenerci in piedi. Qualche cosa attrasse il mio sguardo, ma proseguii spinto da Val. Midge aprì la porta sul davanti e tutti e tre saltammo il gradino precipitandoci fuori del villino. Continuammo ad avanzare correndo lungo il sentiero, con i fiori e le erbe che si agitavano sapendo che qualche cosa di catastrofico stava per succedere laggiù, che la casa stava per esplodere, o per franare, o per essere inghiottita dalla terra. Ma io mi fermai bruscamente a mezza strada. Midge e Val raggiunsero il cancello prima di accorgersi della mia mancanza. «Mike!» urlò Midge volgendosi. «Scappa!» le gridai, poi mi volsi e corsi ancora verso Gramarye. Nell'entrarvi, la udii che gridava ancora il mio nome. 41. FINE?
Così conoscete tutta la storia. Vi avevo avvertito che non sarebbe stato facile per voi credervi e, se è difficile per voi, immaginate quanto lo fu per me allora. Ancor oggi a volte mi chiedo... Vorrei potervi spiegare meglio e collegare i vari fili come lo psichiatra al termine del film Psycho, quando ci spiega, seduti nel buio della sala, le ragioni dello strano comportamento di Norman Bates; ma lui aveva a che fare solo con le complessità umane: questo è qualche cosa di diverso. E magia. Le spiegazioni non possono essere così precise. Quello che ho imparato, per inciso, è che non esistono una magia buona e una magia cattiva, una magia bianca e una magia nera. Vi è solo la magia. Quello che conta è il modo con cui viene usata e da chi. Se abbiamo il potere, spetta noi dirigerlo. Avevo sempre supposto che il potere lo avesse Midge, invece risultò che lo avevo io. Fu un vero e proprio colpo, sebbene rapidamente e con facilità, una volta riconosciuta la cosa, fu accettata, come avrete notato. E come andare in bicicletta: quando si è imparato si può fare e si fa. Ma questo dimostra quanto poco si sappia realmente di noi stessi, e quanto rimanga nascosto e probabilmente mai usato. Dimostra anche quanto poco si sappia delle leggi che governano le cose, se pur vi sono delle leggi. Midge ha avuto una grande importanza in tutto questo: era servita a portarmi a Gramarye; qualche bagliore nel suo inconscio l'aveva spinta a guidarmi là. Fu peculiare - ma questo lo avevo sempre saputo - una vera eletta del Grande Disegno delle cose. Grande Disegno di chi? Del Grande Disegnatore, ovviamente, chiunque Egli, Ella o Esso sia. Mycroft, nella tradizione, fu uno di quei malvagi vecchio stile che vogliono governare il mondo: desiderava il potere di Gramarye per i suoi scopi: e non ho idea quali fossero in definitiva. Scomparve nel villino insieme ai suoi seguaci che non erano riusciti a fuggire prima che le mura franassero, e tra loro Hub Kinsella (difficile versare una lacrima per lui). Gramarye non esplose, né solo franò, incidentalmente. Oh no. Implose, rientrò in se stessa. Divenne solo un mucchio di macerie destinate a consumarsi, prive di sbocco spero per sempre. Fu piuttosto difficile spiegare questo alla polizia e ai vigili del fuoco quando incominciarono a investigare. Noi raccontammo loro di non avere alcuna idea di quello che era successo. Loro finirono col supporre che una sacca di gas naturale si fosse formata sotto il villino espandendosi per
qualche tempo e scoppiando infine come una pentola a pressione con il coperchio difettoso. Questo non aveva molto senso per me - probabilmente neppure per loro - ma sappiamo come le autorità amino incasellare le cose, renderle bene ordinate, precise e razionali. Fortunatamente per noi, Gillie Slade si fece avanti mentre le inchieste erano in corso, e dissipò ogni idea che qualche cosa di anomalo fosse avvenuta fra noi e i sinergisti. Così, perché avremmo dovuto dire la verità su quello che era avvenuto? Lo avreste fatto, voi? Pensate che qualcuno con la mente a posto ci avrebbe creduto? No di certo. Tutti e tre ci attenemmo a una storia di totale ignoranza. I sinergisti ci erano venuti a trovare e, mentre erano là, era avvenuto il disastro. Che cosa potevamo dire di più? Midge e io siamo nuovamente in città, con Val che ci sorveglia con occhio materno. Devo ammettere che mi sono affezionato molto alla Grossa Val. Dopo alcune discussioni con la compagnia di assicurazioni - in che cosa consiste esattamente un Atto Divino di cui parlava il contratto? - ricevemmo un bell'assegno come risarcimento per la perdita del villino, che ci ha permesso di metter su nuovamente casa (nel nostro caso un appartamento). Le cose, adesso, ci vanno benino: io ho finito il mio rock musical la versione definitiva include una quantità di maghi, di folletti e di magia e Midge ha disegnato alcuni scenari belli da togliere il respiro (credo che abbiano molto contribuito al successo dello spettacolo). In questo momento viene rappresentato a Manchester, e Bob sta pensando di portarlo a Londra. Io ho scritto un paio di canzoni di successo (grazie soprattutto ai grossi nomi che le hanno cantate), e sto per iniziare il mio secondo libro di storie per bambini, che Midge illustrerà. E lei? Passa da una fatica all'altra, con più lavoro di quanto possa eseguire (sebbene sia arrivata al punto di poter scegliere), e Val ha organizzato per lei un paio di mostre personali. Le sono stati dedicati articoli ed è anche apparsa alla TV. È graziosa come sempre e modesta, lo l'amo più che mai e, quel che importa, la cosa è reciproca. I miei rapporti con la magia? Be', quali che siano i poteri che ho tratto da Gramarye, non li possiedo sempre. Qualche volta faccio qualche cosa di geniale con meraviglia di entrambi, ma solo di tanto in tanto. Suppongo che devo essere in qualche parte presso la fonte del potere, dovunque sfoci nell'atmosfera, ma non me ne preoccupo troppo. Per pura curiosità, recentemente, Midge ed io abbiamo fatto una gita alla Nuova Foresta: tutto quello che resta di Gramarye è una macchia perfettamente ro-
tonda di terra nera sul terrapieno dove una volta esisteva la stanza rotonda. Ha un'aria di mistero e ci ha fatto sorridere. Siamo andati all'osteria del luogo dove il proprietario ci ha detto che il consiglio comunale deve sorvegliare attentamente la zona: a quanto sembra, i cosiddetti funghi magici, quelli da cui si trae la mescalina, vi crescono in abbondanza rendendo la zona un punto di ritrovo per gli hippy di passaggio. Il consiglio ha fatto cospargere il luogo con veleni di ogni sorta, fino a impregnarlo, ma ci vuole molto tempo perché i funghi smettano di crescere. Ah, sì. Vi domanderete perché quella sera sono tornato nel villino. Ricordate che ho detto di aver visto qualche cosa mentre attraversavo la cucina correndo all'impazzata? Ebbene, quel piccolo mucchio peloso che avevamo lasciato morto sulla tavola si era mosso: Rumbo aveva alzato la testa e si guardava attorno domandandosi che cosa fosse tutto quel trambusto. Non mi ero reso veramente conto di quello che avevo visto finché non fui arrivato a metà sentiero, e per questo mi voltai e corsi indietro. Riuscii a ritrovarlo e a prenderlo qualche momento prima che Gramarye si disintegrasse. Credo che apprezzò il mio gesto, o forse era felice di essere ancora vivo, perché mi leccò la faccia e le mani come un cagnolino. Non sarebbe mai tornato il bello scoiattolo di una volta: le ferite sul collo e sulla gola si sarebbero rimarginate, ma il pelo non sarebbe mai cresciuto. Non credo però che se ne desse pensiero. Lo lasciai andare quando fummo dall'altra parte del cancello e dopo che Midge gli ebbe fatto grandi feste saltò via nell'oscurità, vivace come sempre, dirigendosi verso la foresta e verso qualsiasi amore segreto tenesse nascosto là. Fu l'ultima volta che vedemmo Rumbo. Adesso tutto questo fa parte del passato e la vita è piuttosto felice per Midge e per me. E tuttavia... e tuttavia entrambi sentiamo qualche volta un'irrequietudine. Oggi Midge ha segnato con un cerchio un annuncio sul giornale e lo ha lasciato sul tavolino della colazione perché lo vedessi. E nella colonna Acquisti e Vendite. Una casa piccola ma graziosa in un posticino appartato in qualche parte dei Cotswolds. Forse domani farò un colpo di telefono all'agente. Forse. «La magia ha il potere di sperimentare e scandagliare cose che sono i-
naccessibili alla ragione umana. Perché la magia è una grande saggezza segreta come la ragione è una grande follia palese.» PARACELSO «Il problema della magia è quello discoprire e impiegare forze della natura finora sconosciute.» CROWLEY «La magia è credere in ciò che non si dovrebbe, e gioire di credervi.» STRINGER FINE