GARY GYGAX GORD IL MISERABILE 1 LA CITTÀ MALEDETTA (Gord The Rogue - City Of Hawks, 1987) Con molti ringraziamenti e ins...
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GARY GYGAX GORD IL MISERABILE 1 LA CITTÀ MALEDETTA (Gord The Rogue - City Of Hawks, 1987) Con molti ringraziamenti e insolita gratitudine, dedico questo romanzo ai miei Premurosi Editori, Kim Mohan e Pamela O'Neill. Sono così attenti ai difficili compiti di ogni autore, che posso solo chinare il capo in segno di ammirazione. «City of Hawks si svolge, in parte, nei luoghi descritti nella serie Fantasy Game: World of Greyhawk, che è stata ideata da Gary Gygax. I personaggi, le città, i luoghi e gli scenari di quella serie sono utilizzati su licenza della TSR, Inc. Tutti i personaggi e i nomi della presente pubblicazione sono immaginari. Ogni riferimento a persone contemporanee, vive o morte, o a luoghi e avvenimenti reali, è puramente casuale. Questo libro è protetto dalle leggi sul copyright degli U.S.A. - Ogni riproduzione o altro uso non autorizzato del testo o delle illustrazioni in esso contenute è proibito senza l'esplicita autorizzazione scritta del proprietario del copyright». A: Quartieri Alti AR: Rione degli Artigiani B: Quartieri Bassi BA: Bassifondi BI: Quartiere dei Birrai EC: Borgo degli Ecclesiastici F: Fortezza FI: Zona del Fiume G: Giardini HU: Hutsham L: Quartiere dei Ladri
M: Zona del Mercato ME: Quartiere dei Mendicanti O: Quartiere degli Operai P: Parco PA: Distretto di Palazzo PC: Piazza Centrale PR: Prigioni S: Quartiere degli Stranieri SH: Shacks U: Università V: Vi alone
Scala: 1 cm = 2 km
1: Porta Sud 2: Porta Lunga 3: Porta Collina 4: Porta di Mezzo 5: Porta Vecchia 6: Porta dei Signori 7: Porta della Fiera 8: Porta Alta
9: Porta della Guardia 10: Porta Bassa 11 : Porta del Fiume 12: Porta del Mercato 13: Porta della Pesa 14: Porta di Sicurezza 15: Porta dei Soldati 16: Porta dei Mendicanti
Capitolo 1 La sagoma minacciosa della metropoli, chiusa dalle sue tetre mura, incombeva sulla sponda del fiume. Così buia era la notte che neanche l'ampia superficie del corso d'acqua riusciva a riflettere il minimo bagliore: persino le torce scoppiettanti che segnavano i bordi delle mura perimetrali sembravano oppresse da quel buio quasi tangibile. Le torce, le lampade a olio e le lanterne accese nei vicoli della città mandavano un fioco chiarore sotto lo strato di vapori sospesi che opprimevano l'atmosfera, e il loro bagliore veniva inghiottito dalla densità delle tenebre prima ancora che riuscisse ad illuminare qualcosa. Quella notte il cielo della Città Libera di Falcovia, normalmente di un caldo color rosso dorato, aveva assunto una tinta più cupa. Era la Notte di Valpurga, e tutte le porte della città erano chiuse. Le capanne e le casupole sparse fuori dalle mura erano tutte buie, anche se probabilmente erano abitate. Le imposte erano chiuse, le porte sprangate. A due a due le sentinelle camminavano nervosamente lungo il cammino di ronda. Tutti gli altri erano al sicuro nelle loro case, avevano tirato fuori amuleti e talismani e probabilmente stavano pregando per allontanare il male. Neppure i ladri e gli assassini osavano andare in giro in una notte come quella, mentre i servitori dei demoni e dei diavoli recitavano le loro macabre litanie, chiusi nei lugubri santuari sconsacrati dove cercavano di unirsi spiritualmente con i loro padroni. Gelide nuvole di nebbia scivolavano sopra il fiume scuro e sulle sponde paludose; la debole brezza che soffiava sul Selintan riusciva a stento a impedire che quel freddo vapore avvolgesse la città e i dintorni nella sua cieca morsa. Sulla superficie del fiume, appena distinguibile nella foschia, avanzava una piccola barca. Nell'aria densa lo scricchiolio dei remi era poco più forte del rumore di un topo che cammina nell'erba. «Più forza sul remo destro, marinaio!» Il comando, pronunciato con voce non più alta di un sussurro, veniva da un uomo avvolto in un mantello nero in piedi sulla prua dell'imbarcazione. Il barcaiolo sbuffò, continuando a lottare con la rapida corrente del fiume che sembrava volerli allontanare dalla loro destinazione. «Presto...» Anche se pronunciata con un soffio di voce, la parola della donna giunse chiaramente all'uomo avvolto nel mantello.
«Speriamo di arrivare in tempo» le rispose. Un fagotto appoggiato a poppa si agitò per un attimo, ma nessuno disse nulla. L'uomo in piedi diede un altro ordine al rematore, poi si rivolse ancora alla sua compagna. «Coraggio, moglie. Il nostro destino non dev'essere legato al suo!» Le possenti mura della città emergevano dalle acque del Selintan simili alla prua di una gigantesca nave di granito. Su tutto torreggiava la Fortezza, la zona fortificata della Città di Falcovia. La Fortezza era il cuore del governo cittadino: lì avevano sede il centro amministrativo e la guarnigione. Quasi nessuno, né cittadino né viaggiatore, si recava mai in quella parte della città, ma la piccola barca si stava dirigendo proprio là. Con un notevole sforzo il rematore riuscì a controllare lo scafo nelle acque scure che lambivano la facciata meridionale della Fortezza. L'uomo in piedi diede un altro ordine. «Piano, ora» sussurrò. «Continua ad andare dritto». Il barcaiolo smorzò la forza dei remi e lasciò che la barca scivolasse lentamente. Poi... «Basta remare» ordinò il passeggero. Quando la barca toccò la parete di granitoci barcaiolo fece un gesto impercettibile, un segno per scongiurare il male: la nebbia era assolutamente impenetrabile, eppure l'uomo che stava trasportando era riuscito a... vedere... le pietre che emergevano dall'acqua in prossimità della riva. «Vista di demonio» mormorò fra sé il rematore. «Chiamala vista di gatto» replicò l'uomo nel mantello. Il barcaiolo lo guardò sgomento: quell'uomo riusciva a sentire i pensieri! Dopo aver fatto furtivamente un altro gesto di scongiuro, il marinaio si sporse ad afferrare un anello di metallo arrugginito e tirò la barca contro la sponda. Lo scafo si fermò vicino ad un piccolo pontile di pietra, da cui degli stretti gradini salivano verso una porta di ferro: un'entrata secondaria, quella che era proprio la meta dei passeggeri. Come se fosse stato consapevole del fatto che erano arrivati, il fagotto raggomitolato a poppa emise un debole lamento. La donna cominciò a canticchiare con voce calma e suadente, e si chinò a sollevare il mucchietto di stracci che cominciava ad agitarsi. «Aiutala, marinaio» disse l'altro passeggero, prendendo una corda e saltando a terra per legare la barca. Il barcaiolo si affrettò a ubbidire, temendo di provocare l'ira di un uomo dai poteri soprannaturali. Dopo un minuto la donna e il bimbo erano a terra, al fianco dell'uomo dal mantello nero, e lo scafo si stava già allontanando, spinto dalle remate nervose del barcaiolo terrorizzato. «Ora non possiamo tornare indietro» sussurrò la donna.
«Già, è così» rispose l'uomo prendendole il braccio e aiutandola a salire le scale col suo prezioso fardello. Prima ancora che la toccassero, la piccola porta si aprì verso l'interno con un tetro cigolio dei cardini arrugginiti. Nessuno dei due parlava e il bimbo era di nuovo calmo e silenzioso. Non c'era luce ad illuminare quell'apertura nella parete di roccia, e anche l'interno era completamente buio. Camminando davanti alla moglie, l'uomo cominciò ad avanzare nell'oscurità. Forse aveva veramente una vista di demonio o di gatto. Quando entrambi furono entrati, i cardini cigolarono ancora e la porta si chiuse alle loro spalle senza essere spinta da nessuno. L'uomo, la donna e il bambino furono inghiottiti dalla fortezza di granito. *
*
*
«Avete fatto bene a venire da me». Mentre parlava il mago teneva gli occhi, incavati e senza colore, fissi sull'uomo vestito di nero. L'uomo si era tolto il mantello lasciando scoperti ricchi abiti di velluto e di seta che mostravano i segni di un lungo viaggio. Il suo volto poteva sembrare giovane, ma a guardarlo bene si notavano rughe profonde, i suoi occhi rivelavano la fatica e la preoccupazione. «Apprezziamo molto il tuo aiuto» rispose dopo qualche secondo senza alcuna inflessione della voce. Calò di nuovo il silenzio, mentre il mago continuava a spostare lo sguardo dall'uomo alla donna e al piccolo fagotto che lei teneva stretto al seno. Poi fece degli strani gesti, mosse dei passi magici mentre i suoi occhi profondamente incavati sembravano diventare delle pozze senza luce che scrutavano qualche mondo inferiore. «Sembri incolume» disse alla fine. «Niente ti tocca, nulla riesce a contaminare il bambino...» «Io non sono uno qualunque, Wanno» replicò secco l'uomo. «Credi forse che sarei venuto da te lasciando delle tracce per il nemico?» «Certo che no. Eppure... diciamo che quelli che si sono messi contro te e tua moglie hanno poteri non comuni.» «Ma è a causa di nostro figlio! Si sono offesi per un avvenimento così raro, e hanno stretto un'alleanza innaturale!» lo interruppe la donna. La sua voce aveva un secco tono di rabbia decisa. Il suo volto, che un tempo doveva essere stato bellissimo, si era irrigidito come la sua voce, e lasciava trasparire una fredda determinazione e un sentimento molto vicino all'odio. L'addolcirsi dell'espressione, quando posò lo sguardo sul figlio, sul marito
e infine sul mago, dimostrò che il suo sentimento di odio era rivolto solo a chi li minacciava. «Puoi veramente salvarlo?» chiese infine al mago, e dal tono della sua voce trasparivano la speranza e il dubbio. «Guardatevi attorno» disse il mago incappucciato senza alcun orgoglio. Con un gesto indicò la stanza, piena di strani arazzi e di una montagna di attrezzi magici. Sul pavimento, sulle pareti e sul soffitto erano scolpite o dipinte dozzine, se non centinaia di rune, simboli e formule magiche. «Da quando avete lasciato le acque del Nyr Dyv e avete viaggiato verso sud» continuò il mago, «ho usato i miei poteri per nascondervi. Nessuno sa dove siete. Nessuna forza può penetrare in questa stanza. Senza dubbio, se avesse del tempo a disposizione, qualche mago abbastanza potente potrebbe individuare la vostra presenza e raggiungervi. Ma noi il tempo non glielo daremo, vero?» concluse cercando di addolcire la sua espressione mentre fissava la donna negli occhi. Il pensiero di quello che stava per accadere fece scendere un'ombra di dolore sul volto di lei. Fissò il mago con sguardo d'accusa, ma non pronunciò parola. Suo marito si accorse dello stato d'animo in cui si trovava e parlò al suo posto: «No, amico mio, non resteremo qui per farci trovare dai nemici.» «Il mio bravo aiutante vi porterà al sicuro senza dare tanto nell'occhio» disse Wanno. «Mettete pure il bambino in quella cesta» aggiunse, «e adesso...» «No!» «Sì, amore» l'uomo vestito di nero cercò di rassicurare la moglie. «Ma non c'è bisogno di affrettarsi, ora. Saluta nostro figlio anche per me, mentre Wanno ed io parliamo ancora di un paio di problemi che vanno risolti. Sarò da te fra pochi minuti, poi partiremo». La donna lo guardò e i suoi occhi erano pieni di lacrime. «Sii forte» continuò il marito, cercando di consolarla senza far trasparire la sua tristezza. «Ci separiamo da lui solo per qualche tempo. Lo riavremo con noi prima che compia il primo anno di vita.» Mentre il mago e l'uomo dagli abiti scuri si incamminavano verso un'altra stanza, la donna scoppiò in singhiozzi. «Mi chiedo se anche mia madre ha pianto così quando sono stato affidato alla corporazione» mormorò Wanno, ma la sua frase non sembrava affatto una domanda. «Non ha importanza... Dunque, cosa volevi dirmi?» «Che notizie hai di coloro che hanno tramato la mia rovina?» Wanno scosse le spalle. «Ben poche; però ti posso dire che nessuno dei
clan si sta muovendo apertamente contro di te, principe.» «E puoi dire lo stesso di mio nonno?» «Mah, è un uomo così imprevedibile... Eppure, anche se non ti ha mai potuto sopportare, bisogna dire che non ha certo incoraggiato i tuoi... nobili cugini nei loro sforzi per distruggerti» disse lentamente il mago. «Se dovessi azzardare un'ipotesi, direi che è stato più dalla tua parte: altrimenti i sei clan più grandi si sarebbero dati maggiormente da fare contro di te e contro l'erede» aggiunse Wanno, continuando a giocherellare lentamente con il pizzetto che aveva sul mento. L'uomo vestito di scuro ripensò per qualche istante alle parole del mago. Poi, improvvisamente, sorrise. «È la fortuna del settimo, forse. Quell'alleanza non può durare a lungo, e quando saranno nuovamente in lotta tra loro potremo riprenderci senza pericolo nostro figlio. Ti prego ancora: tienilo al sicuro, Wanno. Torneremo presto e in quel giorno felice riceverai una grande ricompensa. Ma se fallirai nel tuo compito ti assicuro che sarai rinnegato in questo e in tutti gli altri reami del mondo, finché la mia stirpe sarà in vita!» «Lo so, l'ho sempre saputo e ho accettato l'incarico» rispose lo strano mago con un sottile tono di rimprovero nella voce. «Ma posso comprendere la tua preoccupazione, anche se non sono un genitore né mai lo sarò. Dì a tua moglie che il bambino sarà al sicuro, che gli darò tutto ciò di cui avrà bisogno, cosicché quando tornerete il vostro erede sarà sano, forte e pronto ad affrontare qualunque cosa possa accadere.» «Dalle tue parole sembra che dovranno passare anni, non settimane o mesi!» «Chi può dirlo? Non io, principe. Sai bene che ho provato a leggere il vostro futuro, ma ci sono troppe cose che oscurano il destino di voi tre. Neanch'io sono in grado di sollevare tutti i veli che nascondono il vostro domani. Ma mi sembra comunque che ci vorrà parecchio tempo» disse Wanno con una certa condiscendenza, per non offendere quell'uomo e nel contempo non volendo dargli una falsa impressione di quello che lo aspettava. L'uomo vestito di scuro non disse nulla per ribattere l'ultima affermazione del mago, e sembrò anzi addolcirsi un po'. «Sei sempre stato un buon amico in questa città di falchi ipocriti e imbroglioni.» Wanno guardò tristemente quell'uomo molto più basso di lui. «Città di falchi? Certo, ma è un luogo che è andato a genio a te e ai tuoi per qualche tempo, principe. Leggi e regole non sono mai state buon cibo per i denti
del Signore di...» «È vero» lo interruppe l'uomo, mentre la sua voce e il suo volto tornavano ad essere incupiti da un'ombra d'ansia. «Ma ora smettiamola di parlare, perché non mi fido più neanche delle misure di sicurezza con cui hai fatto circondare questo tuo santuario, Wanno. Mi sento a disagio, sono pieno di brutti presentimenti.» «E quale padre non lo sarebbe? Tu e tua moglie dovete andarvene lontano e in fretta, ora. È la vostra unica speranza, e anche l'unica speranza per il vostro erede.» «E che cosa accadrebbe se... non tornassimo?» Il mago non batté ciglio: come sempre aveva una risposta pronta. «Gli racconterei dei suoi genitori, della sua eredità e dei suoi doveri. Lo addestrerei e lo aiuterei in tutti i modi possibili.» L'uomo dagli abiti neri si sfilò un anello dal dito, poi tirò fuori da una sacca appesa alla cintura una piccola scatola di legno e consegnò i due oggetti nelle mani del mago. «Forgia una catena per questo anello, Wanno, in modo che lo possa portare al collo fino a quando non sarà cresciuto. Ma non fargli vedere questa scatola e ciò che contiene finché non sarà giunto il momento.» «Riconosco l'anello. Ma il cofanetto?» «È una scatola incantata che mi è stata data dal mio signore, Wanno. Se la apri sembra vuota e assolutamente normale, ma se scopri il magico doppio fondo... potrai trovarci dentro le immagini dei miei genitori, la mia e quella di mia moglie, e una piccola pergamena dove si racconta chi e cosa siamo - tutto quello che è la sua eredità, insomma. Ci sono anche nove zaffiri neri, sotto un secondo pannello segreto. Si dice che abbiano un grande significato, ma comunque sono una riserva di ricchezza, in caso di un bisogno immediato.» Sul volto di Wanno apparve per un attimo uno strano sorriso. «Se penso alla quantità d'oro che mi hai fatto pervenire nelle ultime settimane, dubito fortemente che tuo figlio sarà a corto di denaro.» «Infatti non dovrebbe averne bisogno» rispose l'uomo in tono solenne. «Ma il benessere materiale non è tanto importante quanto quello fisico... ed entrambi sono senza significato se manca il benessere spirituale. Finché lo spirito di mio figlio non sarà violato, so che la salute e la ricchezza non lo abbandoneranno. Tienilo al sicuro da ogni male, Wanno, ma soprattutto rendilo forte nello spirito, perché possa sfidare ogni pericolo quando si troverà ad affrontarlo.»
E mentre pronunciava queste parole, sembrava proprio che sapesse che non avrebbe mai fatto ritorno. Wanno lo prese per il braccio e lo condusse nell'altra stanza, senza dirgli nulla che potesse negare quest'impressione. *
*
*
Finalmente se n'erano andati! Wanno tirò un sospiro di sollievo e si rimise al lavoro. Amava il principe più di quanto amasse chiunque altro. E sua moglie era una donna bella ed elegante, come poche donne sanno essere. Ma allora perché si era sentito così a disagio quando erano arrivati? E perché si sentiva sollevato, ora che se n'erano andati? Forse era semplicemente il peso della responsabilità nei confronti del piccolo figlio del principe? No. Quello era un compito molto facile. Anche se non era mai stato padre, Wanno possedeva tutte le capacità e le risorse per portare a termine quel compito, e poteva facilmente procurarsi tutto ciò che non aveva. Forse era il pericolo che correva. C'erano sicuramente dei rischi in tutto questo. Ma Wanno era stato coinvolto anche altre volte in missioni rischiose, e mai si era sentito così. Alla fine il mago stabilì che il problema era semplicemente il suo scarso amore per qualsiasi tipo di compagnia, anche quella di altri indovini come lui. Raccolse quel piccolo fagotto che era il principino addormentato e si diresse verso la sua stanza privata. Appena entrò, una figura che era seduta vicino alla porta si alzò per salutarlo. «Tutto fatto?» era Halferd, il suo aiutante. Wanno lasciò cadere una breve occhiata su colui che gli aveva posto quella domanda. Per il mago, Halferd era solo un ragazzetto che aveva preso con sé per farsi servire. Quell'apprendista da molti altri era considerato un mago potente, ma Wanno continuava a considerarlo uno scolaretto. Se avesse osservato con più attenzione il volto di Halferd, se lo avesse guardato negli occhi in quel momento, forse avrebbe cambiato idea su di lui; ma dopo un'occhiata veloce e distratta il mago ripose il bimbo in un lettuccio nell'angolo della piccola stanza da letto, e mise la scatola di legno ai piedi del bimbo, coprendola con la coperta. Solo allora si degnò di rispondere alla domanda di Halferd. «Sì. I genitori se ne sono andati, e ora c'è parecchio da fare se voglio tener fede al mio giuramento. Per prima cosa devo trovare una balia che si prenda cura del piccolo.»
«Ve la procurerò io subito, Padrone Wanno» mormorò Halferd in tono deferente mentre stava per uscire dalla stanza. «No.» Il cuore di Halferd si fermò a quell'ordine secco e improvviso. Che il vecchio bastardo sospettasse qualcosa? «Cosa c'è, Padrone Wanno? Ho fatto qualcosa di male?» «Tu non sai chi deve prendersi cura del neonato» disse il mago dagli occhi incavati, cominciando a darsi da fare con le iscrizioni runiche disegnate sul pavimento attorno alla culla del principino. Infatti Wanno aveva da tempo preso una decisione in merito: aveva scelto la balia per il bambino e aveva fatto molti preparativi senza dire nulla ad Halferd. Era stato costretto a nascondere la donna che aveva scelto, ma la cosa era più che giustificata. «È un problema che risolverò da solo. Mentre sarò via farai la guardia a questa stanza.» «Certo, padrone» rispose prontamente Halferd. «Posso chiedere chi avete scelto?» «Non puoi» rispose seccamente Wanno. «Meno saprai, meglio riusciremo a tenere nascosto tutto questo a quei poteri che cercano di rendere vani i miei sforzi. Sarebbe un brutto affare se ciò accadesse, vero, ragazzo?» Con le labbra strette, Halferd scosse il capo proprio come avrebbe fatto un giovane apprendista, e non l'abile mago che in realtà si nascondeva dietro quell'apparenza. «Farò la guardia, padrone, finché non sarete tornato.» Wanno gli lanciò una breve occhiata, poi fece un gesto d'assenso col capo. «Sì. Tieni gli occhi bene aperti. Stai attento ai falchi...» disse il mago con un filo di voce. Quindi alzò le braccia e pronunciò una parola così complicata che neanche uno stregone abile come Halferd sarebbe stato in grado di ripetere. Con un rumore sordo Wanno scomparve, seguito da una folata d'aria che soffiò improvvisa proprio dove si trovava solo un secondo prima. Falchi? È proprio rimbambito, pensò Halferd. Demoni o diavoli, forse qualche orrore del Tartaro o della Gehenna; ma... falchi? «Mah!» borbottò Halferd a voce alta. «Beccati questo!» aggiunse poi, disegnando rumorosamente una precisa sequenza di segni e strani simboli sul pavimento di pietra. Halferd procedeva in quella strana scrittura come se stesse lacerando della carne con qualche strumento affilato. *
*
*
Quando Wanno tornò, il suo aiutante aveva fatto tutto quello che gli era stato ordinato e stava seduto vicino al neonato tenendo in mano una vecchia asticella nodosa. «Cosa stai facendo con la mia bacchetta?» chiese il mago con tono d'accusa. Halferd strinse la presa sul legno color ebano. «Faccio il mio dovere di badare al bambino» rispose, lasciando che il suo sguardo incontrasse quello di Wanno solo per un istante prima di distoglierlo. Il vecchio poteva mettere in pratica qualche magia semplicemente guardando qualcuno negli occhi, e Halferd non aveva nessuna intenzione di farsi cogliere in fallo, non per il momento almeno. Poi qualcosa sembrò allarmare Wanno. Una strana luce brillò negli occhi profondamente incavati del vecchio mentre osservava il suo apprendista. In quel preciso istante capì che Halferd era piuttosto avanti con gli anni, diciamo verso la mezza età, e che era un mago di considerevoli capacità. Ma allora perché si era accontentato di restare presso di lui come apprendista? C'era solo una risposta... Wanno stava in piedi con la schiena dritta. La sua bacchetta era nelle mani di uno sconosciuto, di un uomo che dopotutto egli non conosceva nonostante gli anni passati assieme come apprendista e maestro. La breve occhiata di Halferd aveva tradito qualcosa di strano che al vecchio mago non piaceva affatto. Nell'aria ferma c'era odore di inganno, di qualcosa di maligno che si annidava nell'ombra del soffitto. «Capisco» disse Wanno, ma Halferd non colse il significato di quell'espressione. «Molto bene, Halferd. Molto bene!» aggiunse il vecchio con un finto tono amichevole che sperò non suonasse tanto forzato alle orecchie dell'apprendista. «Ma ora ho altri incarichi più importanti da affidarti. Dammi la bacchetta e ti dirò quello che dovrai fare.» Halferd tossì e tirò i piedi a sé, ma non porse l'asticella a Wanno. La sollevò invece e ne puntò la parte argentata in direzione del vecchio padrone. «C'è un problema da risolvere, prima che te la restituisca, Wanno.» Un brivido percorse la schiena del mago. Ora il vile imbroglio sarebbe stato svelato! Wanno aveva previsto la possibilità di qualche complicazione e aveva progettato delle protezioni per il neonato di cui nessun altro era a conoscenza, proprio nel caso succedesse qualcosa al di fuori del suo controllo. Ma non aveva mai sospettato che proprio Halferd - l'onesto, pacifico Halferd - si sarebbe rivelato un nemico! Sorridendo debolmente Wanno puntò i suoi occhi d'acciaio sull'uomo che gli stava di fronte. Dietro quelle fredde orbite che fissavano Halferd
era rinchiusa una terribile parola dagli immensi poteri magici, pronta per essere pronunciata. Prima che il nemico potesse fare qualsiasi cosa, le sillabe di quella parola sarebbero rotolate nella sua gola, sulla sua lingua e sarebbero tuonate nella stanza. Halferd sarebbe stato fulminato sul posto. Forse era qualcosa di più di un apprendista, ma non era assolutamente in grado di competere con lui per quel che riguardava gli incantesimi. Era stata una pazzia per uno come lui sfidare Wanno, specialmente nel santuario dei suoi poteri! «Riponi subito la bacchetta sul pavimento, ragazzo!» ordinò il mago, «e ti permetterò di parlare». Si accorse che Halferd cominciava a sudare e a tremare leggermente. «No!» urlò Halferd, ma allo stesso tempo abbassava la bacchetta. Poi cominciò a tremare più forte, finché il suo corpo fu attanagliato da una violenta morsa che lo faceva tossire e ansimare. Cercò di parlare, ma l'aria gli si fermava in gola e non riusciva a pronunciare altro che suoni senza senso. Tutto ciò è molto strano, pensò Wanno, perché non aveva lanciato nessuna formula magica contro il giovane. Cosa stava succedendo? Poi un debole rumore alle sue spalle tradì la presenza di qualcun altro nella stanza. Che razza di messa in scena! Halferd era solo un mezzo per distrarlo mentre qualche altro pericolo lo stava per assalire alle spalle! Senza un secondo di esitazione Wanno lasciò che la parola magica tuonasse dalla sua bocca. Le sillabe esplosero sulle sue labbra e in un secondo Halferd non esisteva più. Al posto suo volteggiavano fiocchi di cenere. Anche la bacchetta era sparita. Era troppo tardi per fare qualcosa, pensò il mago mentre dirigeva la sua attenzione verso l'intruso che era scivolato alle sue spalle. Era davvero troppo tardi... Appena Wanno girò la testa per guardare dietro di sé, l'ultima cosa che vide fu il volto del suo assassino e l'ultima cosa che sentì fu la lama di un pugnale che gli penetrava nella carne. «E questa è fatta!» La voce era pungente e gioiosa. «Taci, maledetto stupido, e cerca di fare altrettanto con il marmocchio!» ordinò un secondo uomo. Il primo che aveva parlato, e che era il più grosso dei due, teneva in mano un lungo pugnale dalla lama ondulata il cui metallo riluceva di riflessi violacei dove non era insozzato di sangue. L'uomo a cui si era rivolto era molto più esile e brutto. Entrambi erano vestiti di grigio scuro e calzavano stivali dalle suole di feltro. Chiunque in quella città li avrebbe identificati subito: erano membri della Corporazione degli Assassini. Il più umile abitante dei bassifondi, come il più ricco possidente dei quartieri alti, sarebbe stato in grado di dire che erano due dei più peri-
colosi assassini della città. Alburt, conosciuto anche come Bracciodestro, era quello col pugnale. L'altro era Slono Senzamacchia, temuto non meno di Alburt da chi li conosceva. «Che tu sia maledetto, Alby» grugnì il piccoletto. «E Halferd?» «Non c'è più nulla da fare per lui, Slony. Quel vecchio rimbambito l'ha fatto fuori prima che riuscissi ad ucciderlo. Ora vedi di tagliare la gola al moccioso mentre io cerco qualcosa che valga la pena di rubare.» Il bambino disteso in quello strano lettuccio stava piangendo, e Slono pensò che era meglio ammazzarlo velocemente. Non aveva alcun senso rischiare che quegli strilli avvertissero qualcuno di ciò che stava succedendo. «Eccomi, piccolo frignone» borbottò con un'orrenda smorfia dipinta sul volto deforme. «Lo zio Slony ha una piccola sorpresa per te...» E così dicendo si avvicinò alla culla... ma improvvisamente i suoi occhi si annebbiarono! «Dannazione!» imprecò Alburt. «Cosa diavolo stai facendo?» «Non vedo un accidente...» fu tutto ciò che Slono riuscì a dire. La sua voce, anche se era preso dal panico più totale, si sentiva appena. Alburt si affrettò a raggiungere il compagno, che si copriva il volto con le mani mentre stava accovacciato a pochi passi dal lettino. Non aveva visto nessuna luce, non aveva udito alcun suono, eppure i segni tracciati col gesso sul pavimento stavano bruciando, producendo delle fiamme senza fumo e quasi senza luce. Improvvisamente si sentì con le ossa rotte e lo stomaco sottosopra, appena si trovò davanti quelle linee danzanti di fuoco. «Su, spostati!» disse Alburt al suo complice mentre cercava di trascinarlo via da quelle scritte incendiate. «Stai fermo finché faccio fuori il bambinetto. Metto a posto io ogni cosa». E così dicendo alzò il corpo senza vita di Wanno e lo mise di traverso alle fiamme per usarlo come una specie di ponte. Ci camminò sopra con cautela, facendo attenzione a mettere i piedi solo sul cadavere del mago o nei punti in cui la sua veste toccava il pavimento. Alburt riuscì ad avvicinarsi alla culla quel che bastava per guardare dentro, e cominciò ad affondare ripetutamente l'arma tra le coperte. «Per tutti i diavoli!» esclamò. «Cosa c'è, Alby?» Slono stava ancora sfregandosi gli occhi, anche se ormai era chiaro che aveva recuperato almeno parzialmente la vista dal momento che stava guardando in direzione del compagno. «Quel piccolo verme è scomparso!» grugnì Alburt. «Svanito!» L'altro si rese conto in quell'istante che il pianto del bimbo era cessato nel medesimo istante in cui aveva perso la vista. «È uno sporco trucco ma-
gico» suggerì. «No» rispose Alburt. «Ho piantato quella lama dannata in ogni punto della culla e non l'ho sentita affondare altro che nel materasso. Sarà anche una magia, ma è certo che il bambino non è invisibile: quel maledetto moccioso non è più qua!» «Cosa facciamo, Alby? È un brutto affare per noi due...» «Mica poi tanto, Slony. Ricorda quello che il mago ha fatto al nostro amico: chi può dire che il neonato non abbia fatto la stessa fine? Perquisirò ogni buco di questa stanza, ma credo proprio che il bimbetto sia insieme ad Halferd ora.» Finalmente Slono riacquistò sufficienti capacità visive per aiutare il compagno nella perquisizione. C'era parecchio bottino, che comprendeva sfere dorate e parecchi oggetti di sicuro valore, molto interessanti per chiunque si fosse dilettato di arti magiche. Alburt si prese la parte più grossa, visto che aveva ucciso lui il mago e avrebbe dovuto fare altrettanto col bambino a causa della temporanea cecità di Slono. Il suo compagno ci teneva alla pelle e non osò ribattere. Ma non si preoccupò di avvertire Alburt quando trovò un pesante anello di oro puro con una grande pietra preziosa incastonata nel metallo giallo. Lo raccolse e se lo infilò in tasca senza farsi notare. Qualunque fosse stata la sua parte, Slono si era procurato un piccolo extra come giusta ricompensa per quella missione. «Muoviti, Slony. Siamo qui da troppo tempo» ordinò Alburt mentre infilava in una sacca l'ultima di una serie di ampolle di cristallo. «Sai» disse il suo compagno dirigendosi verso un punto nella parete dove si apriva un passaggio segreto, «è stato carino da parte di quel mago costruire il suo rifugio così vicino alla Via dei Ladri» continuò mentre si incamminavano nello stretto passaggio fra le mura della Fortezza. «È vero. Quelli della sua razza di solito si rinchiudono in qualche alta torre o in qualche tenebroso sotterraneo. Il che non li avvantaggia affatto, in ogni caso». E dopo aver pronunciato queste parole restò in silenzio. Dopo pochi minuti scesero in un altro corridoio, ancora più sotto, un accesso costruito dalla gloriosa Corporazione dei Ladri di Falcovia. Nessuno dei membri di quest'ultima setta era al corrente che quel passaggio era diventato un percorso abituale per gli assassini. In quel corridoio il silenzio era totale. Solo dopo molti giorni il corpo di Wanno fu ritrovato, e la notizia creò un tale scompiglio nella Fortezza che non si placò se non dopo molto tempo. Alla fine l'apprendista Halferd fu dichiarato colpevole di omicidio, e si
credette che fosse fuggito per evitare di pagare per il suo crimine. Fu cercato invano a lungo, e alla fine la faccenda fu del tutto dimenticata. Capitolo 2 L'essere che rispondeva al nome di Infestix stava ritto come una colonna davanti all'assemblea silenziosa. Di fronte a lui era radunato quello che tra gli umani sarebbe stato un parlamento imperiale, oppure un consiglio di sovrani: i signori dei molti pianeti della Gehenna, dell'Ade e del Tartaro erano schierati in semicerchio di fronte a Infestix; quelli a sinistra avevano sembianze diaboliche, quelli a destra demoniache e quelli al centro assomigliavano a Infestix. Altre adunanze regali avrebbero messo in evidenza tutta la magnificenza dei partecipanti: splendidi abiti, gemme luccicanti, ori sfolgoranti. Ma la corte di Infestix era il colmo dello squallore e del decadimento. Dove le altre corti avrebbero sfoggiato bellezza, grazia e stile, questa si mostrava in tutta la sua ripugnanza e sgradevolezza e faceva sentire un'aura minacciosa di morte. Questa prodigiosa corte si trovava nelle profonde Oscurità dell'Ade, il più infimo dei Pianeti Bassi, il più diabolico dei regni del male. «Incubo» sarebbe un vocabolo troppo piacevole per descrivere questo luogo, ora che tutte quelle creature erano riunite là, alla presenza di Infestix. «C'è dell'altro?» chiese Infestix in tono d'accusa. La sua voce era bassa e sepolcrale. Quando parlava, dalla sua bocca senza labbra colava un liquido giallastro, e al posto della lingua gli si agitava in bocca un grosso verme grigio. Per tutta risposta gli giunse una serie muta di stridii e scricchiolii, sussurri sibilati che si mescolavano ad acuti gracidii. Qualcuno agitava i piedi, qualcun altro si girava. Quelle teste spettrali si chinavano, le mani artigliate si stringevano, ma nessuno dei Signori degli Inferi disse una parola in risposta alla domanda del loro signore supremo. «Quello che è già stato scritto si può alterare». Questa affermazione di Infestix, nonostante il contenuto rassicurante, portò con sé una nota di dubbio, forse addirittura di disperazione. Uno schifoso dreggal bitorzoluto proveniente dalle fosse fumanti della Gehenna si tirò su in tutta la sua altezza. «Chi può opporsi a Infestix?» tuonò il mostro con voce metallica. «È meglio chiedere chi si sta già opponendo» gracchiò in risposta un enorme demodand.
I Signori dell'Orda si misero a farfugliare a quella osservazione. Alcuni deviloid e dreggal urlarono di rabbia, mentre altri demodand e demonkin scoppiarono in un'orrenda risata corale nel vedere l'agitazione di quell'orda notturna di ossessi. «Basta». La voce mortale e senza tono di Infestix riempì la sala. Quei demoni riuniti si zittirono di colpo. Il tumulto era stato placato. «Tu, Haegresse. Cosa ne è stato di quegli stupidi imbroglioni?» La regina delle streghe della notte contorse orribilmente il volto, con un'espressione a metà tra un sorriso e una smorfia di scherno. Forse voleva essere graziosa. «Si sono ritirati tutti nei loro dominii» disse sorridendo affettatamente. «Non vogliono rispondere a nessun invito e non ne vogliono sapere nulla.» «Qual è il consiglio degli inferi?» chiese Infestix ad un enorme demonio che torreggiava accanto al mostro bitorzoluto che aveva dato inizio al coro di risate. La testa cornuta del grande demonio si piegò leggermente in segno di frettolosa riverenza. «Le cose sono cambiate, mio temibile signore» rispose digrignando sonoramente i denti, «ma c'è ancora qualcosa di poco chiaro. Sono aumentate le nostre probabilità di successo, ma sussiste ancora un piccolo rischio, qualcosa di incerto...» Il volto orribile di Infestix si fece ancora più temibile. «Perché i sei figli di... di quello là... si sono ritirati, strega? Avevano già consegnato il loro fratello nelle Nostre mani.» «Sono dei tipi molto sospettosi» rispose Haegresse con la sua strana voce, «e sono inclini a farsi ammaliare dalle ricchezze. Quei sei erano sospettosi fin dall'inizio e la parte che hanno avuto nel fratricidio ha causato molta discordia fra di loro. Usurpare il diritto di regno non era un premio sufficiente. Uno dei Leoni mi chiese di conoscere tutta la profezia. Io ovviamente ho posto qualche obiezione, cercando la solidarietà del rappresentante delle focose Antiche Tigri, ma quello stupido zoticone non mi è stato di grande aiuto» disse la regina delle streghe della notte, sputando a terra per sottolineare il suo disgusto. «Sapevano già allora che il successo non sarebbe stato totale» continuò Infestix, spostando lentamente lo sguardo da destra a sinistra sul gruppo che gli stava di fronte. «È nostro compito - di più, è nostro supremo dovere! - risvegliare il Grandissimo, liberarLo e aiutarLo nel Suo trionfo sopra ogni cosa.... Tu mi hai deluso, e ciò non ti sarà perdonato». E mentre pronunciava queste parole lo sguardo incendiato del Signore degli Inferi cad-
de pesantemente sulla strega della notte. Haegresse si sentì mancare. Chinò il capo temendo il peggio, ma Infestix distolse lo sguardo da lei e continuò a parlare. «Fortunatamente per voi, razza di stupidi, ho raccolto personalmente altre forze per mandare avanti questo affare. Ho scoperto quello che voi non siete stati capaci di scoprire: altri hanno saputo ciò che abbiamo progettato e osano interferire con i nostri piani. È stato il loro potere, la loro intrusione a causare i pasticci che avete combinato.» A quelle parole Haegresse osò sollevare lo sguardo. Vide un dito ossuto puntato contro di lei, e lo sguardo maligno del terribile mostro che seguiva la traiettoria del dito. La strega della notte aprì la bocca per protestare, ma un pallido raggio verdognolo la colpì in pieno volto prima che potesse emettere un suono. La pelle del suo viso si gonfiò, per poi sciogliersi come cera. In pochi secondi di Haegresse non restò altro che una pozzanghera maleodorante sul pavimento di basalto. Gli altri guardarono con diffidenza il Signore degli Inferi. «È stata lei a dare un indizio ai nostri nemici. Ora le ho chiuso per sempre quella stupida bocca» proclamò Infestix all'assemblea di mostri. «Non posso tollerare il minimo errore.» Alcuni demoni cominciarono ad agitarsi e a osservare con malizia la scena, godendo del macabro spettacolo, mentre i più composti sovrani della Gehenna si limitarono a drizzarsi in piedi e a dare qualche breve gesto d'assenso. Dopo qualche secondo l'ambasciatore dei Nove Inferni cominciò a parlare: «Nobile Infestix, ciò significa che il mio padrone sarà convocato per partecipare a tutto questo?» «Tutti i Duchi Infernali saranno i... benvenuti» rispose il supremo sovrano dei demoni con la sua voce fredda e profonda. «Di certo, mio Supremo Signore delle Tenebre, il grande Asmodeo sarà a capo...» «Questa è una cosa tra il tuo padrone e me!» Lo sguardo di Infestix fu sufficiente a zittire il demone che chinò il capo, ammettendo la superiorità di colui che lo aveva apostrofato. «Mai più nessun mortale potrà resistere alle forze alleate dei pianeti degli inferi. Haskruble» continuò Infestix fissando il demone che rispondeva a quel nome con il suo sguardo di gelo, «devi portarci subito qui i governatori degli Abissi.» Le scaglie di acciaio blu che coprivano il demone ondeggiarono quando Haskruble rispose: «Nessuno può farlo, potente Signore Supremo dell'Ade - neanche Orcus, il mio signore. I monarchi degli Abissi fanno solo quello
che vogliono.» Anche se Infestix sapeva bene che quel demone aveva detto la verità, si infiammò di rabbia nel sentire quelle parole. La voce del demone aveva tradito un inconfondibile tono di sarcasmo quando aveva parlato. Anche gli altri esseri riuniti in assemblea avevano notato questo particolare, e tutti aspettavano ansiosamente di vedere le conseguenze di questo oltraggio. Ma il signore dei pianeti infernali non reagì, preferendo ingoiare l'ondata di rabbia che l'aveva assalito. L'orda dei demoni degli Abissi, con tutti i suoi potenti governatori, era veramente una presenza necessaria. «Andate ora, miei servitori, e dite a Orcus e agli altri che è giunto il momento per tutti di riunirsi sotto il Vessillo Nero di Tharizdun. Solo lui può sconfiggere il Bene e portare il Male alla supremazia eterna!» Dall'atteggiamento di tutti i convocati trasparì chiaramente il disappunto per la mancata punizione e per un ordine così preciso. Non c'è bisogno di dire che il demone Haskruble fu l'unico ad apprezzare il comportamento del suo superiore. Sapeva bene quello che gli sarebbe potuto accadere. «Informerò il Principe Orcus» replicò ad alta voce, e senza altri convenevoli girò sui talloni e si diresse baldanzosamente verso l'uscita. Ma subito lanciò un ululato straziante: dalla sua testa era improvvisamente spuntata un'escrescenza ulcerosa, che continuava a crescere e a contorcersi. Il demone si girò ancora per guardare Infestix con uno sguardo che esprimeva tutta la sua indignazione e il suo terrore. «Questo per ricordarti, piccolo essere insignificante, di porgere omaggio ai tuoi superiori, e soprattutto a me, Infestix. Il tuo padrone deciderà se salvarti o meno. Quel coso non ti ucciderà, ma a tempo debito ti ridurrà in un mucchietto di ossa. Questo accadrà solo tra alcune ore: hai tempo, non c'è alcun bisogno che ti affretti a partire...» Haskruble uscì urlando dalla stanza senza esitare nemmeno un istante. A quella scena si levò un coro schiamazzante di risate e di ululati d'approvazione per la giusta condotta del Signore degli Inferi: persino i diabolici mostri delle regioni infernali più lontane si unirono ad applaudire Infestix per la memorabile punizione che aveva voluto dare ad Haskruble. Pochi avrebbero saputo dare una lezione del genere. «Andate, tornate alle vostre Regioni Infernali e informate i duchi della Nostra decisione. Vi congedo tutti» proseguì il demone, «tranne te, Utmodoch, e te, Weyzeneal». Il signore dei demodand e il re dei dreggal si inchinarono al cospetto del loro imperatore e restarono in silenzio. Gli altri uscirono dalla stanza strisciando o arrancando, volando o semplicemente
dissolvendosi, ma tutti dopo aver reso omaggio al signore supremo. Nessuno voleva mettere ancora alla prova i poteri di Infestix. Dopo che tutti se ne furono andati, il demone fece segno ai due che erano rimasti di avvicinarsi a lui sulla pedana. Appena ebbero raggiunto il loro signore e padrone, tutti e tre scomparvero, lasciando solo una pozzanghera ribollente di un liquido schifoso nel punto in cui pochi secondi prima si trovava la pedana. Con qualche strano stratagemma il terzetto di demoniache creature si era spostato in una stanza circolare sospesa nel nulla, una camera senza entrata né uscita. Era un posto fuori dal mondo, ma a quei tre non sembrava affatto strano. «Grazie per il grande onore che ci hai concesso, mio supremo signore» tuonò il demodand Utmodoch. Per non essere da meno, anche il sovrano della Gehenna, Weyzeneal, si affrettò a mormorare un ringraziamento: «Il mio imperatore dimostra la sua saggezza nella sua generosità.» «Basta con queste stupide smancerie» sbottò Infestix. «Tutti noi siamo solo delle pedine mosse da Colui che possiede il Male Supremo... anche se abbiamo poteri diversi. Voi due siete qui per fornirmi delle informazioni, e non per perdere tempo con queste inutili lusinghe. Conosco troppo bene i vostri cuori neri e le vostre menti corrotte!» «I genitori del marmocchio sono stati assassinati, questo è certo, mio signore supremo» disse il dreggal coperto di pustole e di verruche, senza neppure essere interrogato. Anche lui possedeva una certa abilità, e una piccola dimostrazione di potere non comprometteva affatto la sua posizione. «Tuttavia, prima che riuscissimo a sottrarre i cadaveri qualcuno o qualcosa si è intromesso. I corpi sono spariti senza lasciare la minima traccia, e ogni sforzo di scoprirne la causa o di ritrovarli è stato vano.» «E tu, Utmodoch, cos'hai da dirmi?» chiese il demone dopo aver fatto un gesto d'assenso a Weyzeneal. Il gigantesco demodand si affrettò a rispondere: «I miei servitori umani sul pianeta materiale hanno cercato inutilmente di scoprire il mistero di cui ti ha appena raccontato Weyzeneal, mio imperatore» disse. «Ma non hanno trovato traccia del bimbetto, neanche dopo aver frugato ogni centimetro quadrato di Falcovia. Sembra che non sia mai esistito.» «Uccidi i tuoi servi, stupida faccia di cane rognoso che non sei altro! Se il marmocchio fosse morto non ci sarebbero più dubbi sul successo del Mio piano!» «Ma un piccolo bambino non può...»
Un sibilo di Infestix bloccò le parole del demone. Il secco rimprovero del supremo signore aveva tappato la bocca del governatore dei demodand. «Osate mettere in dubbio la mia comprensione delle cose?» «Mai, mio grande signore» mormorò all'unisono la coppia di esseri infernali. «Vi perdonerò... per questa volta. Pensate a questo: ho lavorato a lungo e con molta fatica per progettare il ritorno del Male dei Mali. Da quando ho avviato il mio progetto sono passati secoli, e ora un miserabile umano minaccia il successo della Nostra impresa! È inaccettabile!» «I miei agenti continueranno la caccia» rispose il demodand cercando di rassicurare il suo superiore. «Non passerà molto tempo prima che l'anima meschina di quel moccioso vada a piagnucolare nelle profondità più arcane.» «Quel moccioso?» scoppiò in un grugnito l'orribile voce di Infestix. «Neanch'io so se il marmocchio è un maschio o una femmina! Se continui così, Utmodoch, le tue supposizioni saranno la tua rovina.» Weyzeneal colse l'occasione per cercare di ingraziarsi il superiore. «Io continuerò le ricerche, mio imperatore, senza far stupide congetture. I miei scagnozzi e i loro schiavi umani andranno avanti finché riusciranno a decifrare i crittogrammi, a sciogliere quest'intrico e a conoscere il segreto. Ricorda, è stato Gehenna a scoprire l'arcano dell'Artefatto Tripartito.» «Ma sono stati i demoni ad ottenere la Chiave Iniziale» sbottò Utmodoch in tono di derisione, «solo Tartaro può...» «Ne ho abbastanza di voi due» li ammonì Infestix in tono sorprendentemente bonario. In realtà la creatura era semplicemente distratta dai suoi pensieri: stava meditando sul problema. Si era sforzato per un'eternità di localizzare le tre parti dell'artefatto che teneva Tharizdun addormentato, incatenato e imprigionato da qualche parte, in qualche luogo senza spazio e senza tempo. Le difese che custodivano il segreto erano di una potenza incredibile, ma con una tenacia pari all'importanza del piano Infestix era riuscito ad eluderle ad una ad una. Allora in un modo o nell'altro le informazioni erano filtrate, e i servi dei Duchi Infernali avevano provato ad impossessarsi dell'unica parte conosciuta della chiave che le forze del Bene avevano creato per bloccare Tharizdun, il Male dei Mali. Non c'era nulla da fare, per il momento. I governatori degli inferni avrebbero ricevuto la giusta ricompensa quando il Grande Nero fosse risorto e avesse ripreso possesso del suo trono. Forse i loro diavoli potevano essere di qualche aiuto in questo momento, pensò Infestix.
In realtà il problema era molto semplice: esisteva una sinistra profezia che preannunciava una sconfitta. Le probabilità che si avverasse erano una su diecimila, quindi assolutamente insignificanti. E inoltre solo poco tempo prima erano state di una su mille. Poi Infestix aveva costretto i Signori degli Inferi ad agire: i branchi di umani dell'Ade, assieme ai loro subordinati, si erano mossi e avevano ucciso le loro prede, come ci si aspettava. Ma anche questo non era del tutto vero. Erano riusciti a tagliare la gola di due persone, ma la terza era riuscita in qualche modo a sfuggire loro, e quel piccolo terzo individuo era il più importante di tutti: era strettamente legato alla Chiave Finale. La profezia diceva che presto il Male avrebbe ottenuto la Chiave di Mezzo, ma diceva anche che i destini della Chiave Finale e di quel piccolo umano erano indissolubilmente legati. Se si fossero uniti, tutto sarebbe stato perduto. Arrivare a questo punto non era stata impresa da poco, ma le forze delle tenebre erano abituate a lottare duramente per raggiungere i loro obiettivi. Facendo ricorso alle minacce, agli inganni, alle bugie, ai sotterfugi, alle lusinghe e a ogni altro strumento, la progenie del Male era riuscita a scoprire l'identità di coloro che minacciavano la riuscita del piano di Infestix. Colui che aveva fomentato l'opposizione era il discendente semi-umano di un piccolo nobile delle vite concordi. Lui e la sua donna avevano generato un bambino che poteva essere un elemento perturbatore in quell'affare. Ora il padre e la madre erano stati uccisi grazie al tradimento dei loro fratelli - i fratelli del padre, per essere precisi. In quella famiglia erano tutti molto invidiosi, e aspettavano con ansia di ereditare il dominio del loro signore. Bastava solamente che per un attimo uno primeggiasse sugli altri, che subito tutti si mettevano dalla parte del Male; ma quella volta la gravità del tradimento che avevano tramato e portato a termine era tale che i fratelli si erano ritirati da quella sporca impresa - e ciò aveva causato l'errore di calcolo della strega a cui Infestix aveva affidato la responsabilità della cosa. Oltretutto, il Signore degli Inferni si era già accorto che negli ultimi tempi Haegresse era diventata un po' troppo ambiziosa. Era giunto il momento che le streghe della notte avessero una nuova regina. Infestix le avrebbe informate in un secondo tempo di questa sua nuova decisione. «Imperatore?» La voce esitante era quella del governatore dei dreggal, che non voleva interrompere i pensieri del suo superiore, ma era troppo ansioso di sapere se la sua presenza in quel luogo era ancora richiesta. Infestix posò per qualche istante lo sguardo su Weyzeneal. Poi girò il capo e fissò la figura massiccia e imponente del demodand. «Una probabilità su
diecimila non è un problema così grave. Piuttosto sono gli Abissi che mi preoccupano, ora; quegli attaccabrighe di escrementi di fogna non ci saranno mai utili!» «Io sono un demodand, mio signore supremo, non un sovrano dei demonkin» rispose Utmodoch sulle difensive. «Naturalmente ho molta influenza sui più potenti principi degli Abissi» si affrettò ad aggiungere, «ma la stupidità e lo scarso valore dei demoni sono leggendari!» «Vedi di mantenere la tua influenza e di usarla come si deve» rispose il signore supremo con la sua voce cavernosa. «In un modo o nell'altro, ce la farò. Ma voi due non dovete fallire». Non c'era bisogno di aggiungere altro, dal momento che quei due sapevano bene cosa li aspettava in caso di fallimento. «Gehenna sarà inesorabile nel portare a termine il tuo piano» esclamò il re dei dreggal. Utmodoch si inginocchiò dicendo: «Tartaro offrirà i suoi servigi annientando chiunque osi opporsi a te, mio signore.» Il cadaverico essere sembrava soddisfatto di quegli omaggi e promesse. «Ora vi rimanderò a casa vostra. Fatemi sapere personalmente gli sviluppi della situazione. Nulla riguardo a questo problema mi deve sfuggire. Andate e obbedite.» Prima che potessero rispondere, Infestix toccò un diagramma che aveva davanti a sé e pronunciò una parola: il demodand e il dreggal scomparvero. Smidollati, tutti e due, pensò Infestix. Era meglio farsi servire dai Duchi Infernali, nonostante le loro macchinazioni. Che venisse pure Tharizdun; lui, Infestix, l'avrebbe sfidato volentieri sul terreno dell'abilità diabolica. E con tutte le loro congiure e i loro astuti calcoli quegli idioti demoni non avrebbero fatto altro che spianargli la strada della vittoria finale. Capitolo 3 «I vostri capelli sono stupendi questa sera, signora» disse l'ancella sollevando lo specchio. Meleena osservò la propria immagine riflessa e girò lentamente il capo da destra a sinistra, scrutando ogni più piccolo dettaglio dell'acconciatura. Gli zaffiri del pettine che adornava le ricche trecce castane si intonavano perfettamente al colore dei suoi occhi. Sorrise e fece segno alla giovane serva di andarsene, per potersi godere completamente la nuova sensazione: una nuova servitrice, un nuovo guardaroba, nuovi gioielli... una nuova vi-
ta! «Portami il mantello di pelliccia, ragazza» disse Meleena, cercando invano di mantenere un atteggiamento di distacco per non dimostrare il piacere segreto che provava dentro di sé. «Andrò alla Fortezza stanotte» aggiunse, mentre da ogni sua parola emanava un senso di felicità e di orgoglio. Grazie a Wanno, molto probabilmente il giovane Lord Roland l'avrebbe notata quella sera. Oltre a fornirle gli abiti, i gioielli e una grossa somma di denaro, in gran parte già speso, il mago aveva promesso di usare i suoi poteri e la sua influenza per attirare su di lei l'attenzione di Roland. Anche se non aveva più visto Wanno da parecchi giorni, non aveva alcuna ragione per dubitare della sua promessa. Meleena era certa che presto sarebbe diventata una persona molto importante in città. «Ecco il vostro mantello, mia signora» disse allegramente la giovane. Dal tono della sua voce era evidente che anch'essa condivideva la gioia della sua nuova padrona. «C'è una portantina che vi sta attendendo fuori» sospirò emozionata, «con due valletti e una guardia!» A quel punto Meleena non poté più trattenersi. Sorrise e ammiccò alla ragazza: «Non è meraviglioso?» disse con un risolino. Poi, ricordandosi del suo nuovo stato sociale, assunse di nuovo un atteggiamento freddo e distaccato. «Dormi sul tappeto davanti al camino, perché se tornerò tardi questa notte potrei aver bisogno di te.» «Sì, signora» rispose la ragazza mentre apriva la porta per far uscire Meleena. La prospettiva la allettava, visto che di solito dormiva comunque sul pavimento, ma senza il tepore del fuoco. Dopo aver chiuso a chiave la porta, la ragazza rassettò in fretta la stanza e si sistemò davanti al camino. Nessuno la poteva vedere, quindi aggiunse al fuoco un paio di grossi ceppi e si rannicchiò sul ruvido tappeto. Si sentiva un po' in colpa per aver usato tanta legna: era molto devota, e la sua divinità non le avrebbe perdonato una simile azione. Ma in fin dei conti si meritava quel po' di comodità, dal momento che non aveva fatto del male a nessuno per procurarsela. Avrebbe dormito indisturbata per alcune ore, e al calduccio. Era un vero lusso, disse tra sé, tenendo stretto in mano il simbolo della sua fede che portava appeso al collo. Meleena stava pensando più o meno le stesse cose mentre i valletti la trasportavano verso la Fortezza, cuore del governo della Città di Falcovia. Prima degli avvenimenti fortunati degli ultimi giorni, anche lei era solo una delle molte cameriere al servizio delle famiglie dell'oligarchia. Essendo orfana di un piccolo proprietario terriero era stata addirittura fortunata a
ottenere un lavoro come quello. Wanno, il Capo dei Maghi della città, l'aveva vista la prima volta per caso a Palazzo, quando era venuta a protestare per l'esproprio dei possedimenti paterni. Dapprima Meleena aveva pensato che quello strano vecchio avesse qualche brama su di lei, ma il mago non l'aveva sfiorata neanche con un dito. Wanno aveva semplicemente messo a tacere la sua inutile protesta, l'aveva portata in un altro edificio lì vicino e aveva chiesto al funzionario di turno di procurarle immediatamente un posto di dama di compagnia per qualche oligarca. L'impiegato si era affrettato ad eseguire l'ordine del mago, sapendo che i tipi come quello perdono spesso la pazienza con i piccoli funzionari. Anche se le aveva parlato solo qualche rara volta nei mesi successivi, Wanno aveva continuato ad occuparsi di lei. Meleena lo sapeva dalle chiacchiere che le venivano riferite dagli altri servitori della Fortezza. Come lei, tutto il personale di servizio abitava nei tetri alloggi del Distretto di Palazzo; e tutti dovevano recarsi ogni giorno alla Fortezza per prendere ordini e istruzioni. Di solito non c'era nulla da fare, se non svolgere delle commissioni per la moglie di qualche oligarca, accompagnare qualche visitatrice importante, o servire delle pietanze particolarmente raffinate durante un ricevimento o una funzione. Insomma lei e le altre non erano altro che delle cameriere trattate un po' meglio del solito, e qualche volta neanche quello. Meleena arrossì di indignazione al pensiero di come era stata trattata, umiliata e svilita in certe occasioni. Poi, un giorno, Wanno l'aveva convocata nei suoi appartamenti e l'aveva interrogata a lungo. Nella stanza c'erano molte ampolle contorte che ribollivano di strani liquidi, e coppe fumanti e bracieri accesi. Ricordava che quel fumo l'aveva intontita, e lo sguardo sanguigno di Wanno le aveva trafitto il cervello. Quella volta il mago era stato ancora più gentile e amichevole. Durante quell'incontro Wanno l'aveva informata che presto si sarebbe dovuta prendere cura del figlio appena nato di sua cugina Ermantrude, morta da poco. Meleena non si ricordava assolutamente di avere una cugina di nome Ermantrude - né si ricordava di una sorella di sua madre che Wanno continuava a chiamare Zia Una. In ogni caso Wanno era riuscito a convincerla che, grazie ai poteri di cui solo un mago come lui poteva disporre, aveva fatto delle ricerche sulla storia della sua famiglia e aveva scoperto che Meleena era l'unica parente di quel neonato. Meleena riusciva a malapena a ricordare il nome di sua madre, che era morta quando lei era molto piccola,
quindi non aveva dato molto peso al fatto di non ricordarsi né della Zia Una né tantomeno della cugina Ermantrude. Benché fosse un po' sorpresa nel sentire quella storia, la ragazza aveva acconsentito prontamente a prendersi cura del bambino, cosa di cui Wanno si era mostrato estremamente contento. Come ultima mossa Wanno aveva parlato con un alto ufficiale della Fortezza, e Meleena era stata cancellata dagli elenchi delle dame di compagnia per diventare lei stessa una Nobile sotto la tutela del Lord Mayor. Non la aspettavano più i soliti incarichi noiosi e avvilenti, ma solo convocazioni alle funzioni ufficiali, in cui Meleena si sarebbe seduta a tavola con persone della più alta estrazione sociale. Quella notte era la sua prima occasione, la sua entrata in società. Le buone cose arrivano sempre a tre a tre, come recitava il proverbio, e Meleena ne era proprio convinta: il bambino, la sua nuova posizione sociale, i mezzi per mantenere e godersi quella nuova condizione. E tutto questo grazie all'interessamento di quel caro, vecchio mago. Wanno le aveva raccontato di aver indagato personalmente sulle circostanze della morte di sua cugina, e di esser riuscito ad intervenire prima che il caso diventasse disperato. La cugina Ermantrude era stata una donna molto ricca, e alla sua morte gli ufficiali di Hardby avevano intenzione di sequestrare il denaro e fare del bambino una guardia di stato. Il mago, la cui abilità e influenza venivano sempre rispettate anche dove nessuno conosceva il suo nome, aveva chiesto di essere nominato tutore ufficiale del neonato, richiesta a cui nessuno poté opporsi dal momento che era giunta prima di qualsiasi altra decisione legale. A dispetto delle mire degli ufficiali di corte, il ruolo di tutore dava a Wanno il diritto di amministrare la considerevole fortuna di Ermantrude, con la clausola di badare sempre agli interessi del neonato. Inoltre, dato che Wanno conduceva un tipo di vita poco adatto per allevare un bambino, gli era stato permesso di delegare la responsabilità delle cure quotidiane ad un'altra persona. E quando era riuscito ad identificare Meleena come unica parente del bambino, aveva ritenuto logico - e moralmente corretto - affidare a lei tale compito. Avere l'occasione di essere una madre era già di per sé qualcosa di splendido. Vedere la propria posizione sociale crescere (seppur nell'interesse di offrire al bambino un ambiente decoroso in cui crescere) era un eccitante beneficio aggiuntivo. E c'era di più: finché Meleena si fosse occupata del figlio di sua cugina avrebbe ricevuto una rendita, una specie di stipendio, che lei credeva stabilito da Wanno in cinque globi d'oro al mese.
Come se non fosse abbastanza, il buon vecchio mago aveva fatto apparire un baule pieno di bellissimi vestiti e gioielli - una parte dei beni della sua povera, cara cugina. A Meleena era dispiaciuto un po' di non ricordare nulla di Ermantrude, perché doveva essere... doveva essere stata.... una persona meravigliosa e molto dolce. «Potete scendere, mia signora. Siamo arrivati al Gran Palazzo» disse educatamente la guardia, scostando la pesante tenda di broccato per far scendere Meleena. Quelle parole e l'improvviso arrestarsi della portantina la riportarono alla realtà. «Grazie, buon uomo» disse in tono affettato, imitando le dame che aveva servito fino a poco tempo prima. «Questo è per te» aggiunse, togliendo dal borsello una moneta d'argento e consegnandola a quell'uomo robusto. «Per favore, bada che tutto sia in ordine fino al mio ritorno.» La serata era splendida, proprio come Meleena l'aveva immaginata. Molti giovani attraenti e galanti notarono la sua presenza. Anche molti uomini più maturi si dimostrarono attratti dalla sua persona, ed erano molto più intraprendenti di quei giovani poco esperti o poco sicuri di sé. Ma riuscì a tenerli a bada aspettando l'arrivo di Lord Roland, che finalmente giunse. Danzarono assieme, e risero agli errori che lui faceva in quella complicata e pomposa coreografia. «Temo di essere senza speranza, mia cara signora» lui si scusò. Meleena avrebbe voluto essere più disinvolta, più affascinante, più spiritosa; ma il giovane non sembrava avere occhi che per lei, e continuarono a danzare, a ridere e a parlare per tutto il resto della serata. Il suo sogno si era avverato. «Posso farvi visita domani, Lady Meleena?» chiese Lord Roland al momento di congedarsi. «Certo che potete, e mi farete felice» gli rispose, dal momento che pochi giorni prima aveva ricevuto il suo primo stipendio e si era trasferita in un alloggio più adatto ad ospitare il piccolo cuginetto. «In fondo alla Via della Seta, avete detto?» «Avete buona memoria. È la casa alla fine di Vertwall Close, proprio a metà della strada che avete nominato.» «Verrò nel pomeriggio, allora. Forse potremmo fare una passeggiata ai Giardini?» «Vedremo, Lord Roland, quando sarà il momento». Aveva assistito tante volte a queste schermaglie galanti, e sapeva perfettamente come replicare. Nonostante il freddo umido della notte, volle tenere aperte le tendine della portantina mentre tornava a casa. Aveva bisogno che l'aria le rinfre-
scasse la mente annebbiata dal vino e le placasse un po' l'eccitazione. Ogni volta che pensava a ciò che era successo quella sera le girava la testa. Ma in altri momenti si sentiva molto addolorata al pensiero di Ermantrude e del piccolino di cui stava per diventare madre adottiva. Mentre continuava a pensarci le venne in mente che non sapeva il nome del bimbo. Ma non c'era da preoccuparsi: senza dubbio Wanno, o chi le avrebbe consegnato il bambino, l'avrebbe informata di questo piccolo particolare. Quando i portatori ebbero percorso tutto il Viale delle Processioni e la Via della Seta, e furono giunti al suo appartamento di Vertwall Close, Meleena era infreddolita fino alle ossa ma ancora fluttuava su una nuvola di gioia. Due occhi guizzanti osservavano Meleena mentre scendeva dalla portantina ed entrava in casa. Avevano le pupille strette come fessure ed erano rossi, come gli occhi di un mostro di qualche altro mondo. Quando la porta si chiuse alle spalle della donna, quelle orbite bestiali si disincarnarono e sparirono. Al loro posto c'era il vuoto, e né i portantini né la guardia si accorsero di nulla. I valletti si erano allontanati da pochi minuti quando un paio di figuri vestiti di nero entrarono in scena. Silenziosi e lesti come ombre nella notte, i due si appostarono a poca distanza dalla casa di Meleena guardandosi intorno con occhi diabolici. «Sveglia, pigrona!» esclamò Meleena quando trovò la cameriera addormentata davanti al fuoco. «Devi aiutarmi a togliere questi abiti, sono esausta!» Benché fosse ancora piuttosto addormentata, la ragazza notò subito l'eccitazione della padrona. «Siete raggiante di gioia, mia signora, e la vostra voce è piena di felicità.» Meleena si fermò e sorrise alla giovane. «Grazie. È stata una bella serata. Ora però devo riposare, sono molto stanca; e quando cerco di pensare la testa mi duole a tal punto che mi sento completamente stordita! Presto, aiutami ad andare a letto!» Meleena indossava la sua calda camicia da notte ed era pronta per un lungo sonno. Stava per mandare via la ragazza, quando un'improvvisa e forte folata di vento scosse la stanza. Le imposte tremavano, il legno scricchiolava e il vento ululava nel camino, dalle finestre, dalle fessure del muro. Le due donne erano terrorizzate da quell'improvviso assalto. Poi il vento entrò nella stanza con tutta la sua forza e spense tutte le candele. «Signora?» chiese l'ancella con voce sottile. «Sto bene, ragazza» riuscì a rispondere Meleena con voce tremolante,
mettendosi a sedere sul bordo del letto. «Accendi una candela, presto». Il vento era cessato, i rumori erano spariti e le sembrava di distinguere nell'oscurità il pianto di un bambino. «Le imposte sono spalancate, signora. È meglio che le chiuda: non vorrei che un'altra raffica spegnesse di nuovo le candele.» «Beh, muoviti allora» la apostrofò Meleena. Si sentiva malissimo. La gioia e l'eccitazione che aveva provato erano state sostituite da una tremenda sensazione di presentimento e di malessere che la facevano star male. «Devo distendermi.» La ragazza si agitava nella stanza, e al rumore dei suoi passi si accompagnava lo sbattere delle imposte e poi, finalmente, lo scatto delle serrature. Una piccola fiamma cominciò ad espandere il suo chiarore, mentre lo stoppino bruciava consumando velocemente il sego della candela. «Guardate!» il grido stupito della ragazza aveva una nota di allegria. Meleena si girò e vide ciò che aveva causato quell'esclamazione. Là, sul pavimento, a pochi metri da lei, c'era un bimbo avvolto in uno scialle fermato da un sigillo. Le piccole braccia si agitavano incessantemente e le gambette scalciavano mentre urlava disperatamente. «Non può essere» disse debolmente Meleena. Aspettava l'arrivo del bimbo, ma non certo in questo modo... Ora si sentiva ancora peggio. La nausea e il mal di testa l'avevano completamente stordita, e ora quella sorpresa..: Cercò lo stesso di raggiungere il bambino per vedere cosa aveva, ma il suo desiderio istintivo non era stato abbastanza intenso: appena si alzò in piedi il buio calò davanti ai suoi occhi e prima di poter muovere un solo passo crollò svenuta sul letto. I due che da fuori osservavano la scena avevano udito il sibilo del vento ma non avevano potuto notare nient'altro, poiché si tenevano distanti per non venire scoperti. Si sentivano a disagio, ma rimasero fermi, con gli occhi fissi alla casa. Invece, sul tetto spiovente di quell'edificio, un'altra sentinella si stava comportando in modo del tutto diverso. Le fessure che aveva come pupille si allargarono al primo soffio di quel forte vento. La creatura, qualunque cosa essa fosse, si raccolse in se stessa e i suoi occhi luccicanti di rosso si ingrandirono ancora quando il vento la avvolse. Poi la cosa si ingrandì e seguì il corso del vento. La creatura si lasciò trasportare verso i raggi di luce che filtravano dalle imposte di una finestra. «Buono, buono, piccolo mio» cantilenava la ragazza, che aveva preso in braccio il bambino apparso così misteriosamente nella stanza della sua padrona. «Sono qui per proteggerti. Va tutto bene, ora.»
Un fracasso improvviso fece di nuovo scoppiare in pianto il neonato. Le imposte della finestra si aprirono verso l'interno, come sotto il colpo di un gigantesco martello. Gli occhi della ragazza si spalancarono dal terrore, perché alla finestra era comparso un volto tremendo, qualcosa di appena riconoscibile tra le fauci spalancate e le orbite fiammeggianti che la fissavano. Senza nemmeno pensarci su la ragazza lasciò cadere il bambino sul letto, accanto alla padrona svenuta. Poi restò ferma, a metà strada tra la piccola creatura e quell'orrenda cosa che era apparsa alla finestra. Una risata spaventosa scoppiò nella stanza, un suono orrendo di scherno e di piacere, subito seguito da un sibilo, una specie di fischio. Ora quel mostro era entrato nella stanza e prendeva pian piano forma: gonfio, di un colore rosso cupo, orribile, con una bocca più larga delle magre spalle della fanciulla. Appena quella mostruosità ebbe preso forma davanti ai suoi occhi l'ancella si ritrasse, ma non fu presa dal panico. Frugò nella scollatura del grembiule e ne estrasse un oggetto d'argento appeso a una cinghia di cuoio. Senza un attimo di esitazione diede un forte strattone, e una parte di quell'oggetto si staccò. Dal cilindro che aveva estratto schizzò fuori uno spruzzo di liquido che colpì la creatura dagli occhi incendiati: e dove il liquido toccava la carne, questa fumava sibilando, e spariva alla vista. Sotto quella debole pioggia la creatura lanciò un urlo appena udibile. I suoi occhi demoniaci si chiusero e le grandi mascelle si spalancarono, contorcendosi orribilmente in una smorfia di dolore. Ma il liquido era poco, e il mostro ben presto si riebbe, riprendendo le sue forme. Ora i suoi occhi sembravano ancora più indemoniati e minacciosi di prima. Ma ecco il cilindro argentato partire in volo: il mostro se ne accorse e cercò di schivare il proiettile, ma la sua essenza semi-corporale lo rendeva molto lento. Il tubo d'argento colpì quel mostro in pieno volto, e a quell'urto i suoi lineamenti si contorsero in una orrenda smorfia di dolore. Adesso solo uno dei due occhi riluceva ancora di quella malvagia luce rossa, comune agli abitanti degli inferi: al posto dell'occhio sinistro c'era un buco vuoto. La ragazza non aveva più né il liquido né il cilindro, e restò immobile. Non aveva più niente per difendersi. Le lunghe braccia del mostro, munite di dita artigliate, si mossero verso di lei: con uno spruzzo di sangue la testa dell'esile fanciulla schizzò via, e il suo corpo senza vita stramazzò al suolo, macabra testimonianza della rabbiosa violenza che aveva osato sfidare. Il mostro sollevò il cadavere e lo gettò in un angolo buio. Poi si girò verso Meleena, che continuava a giacere svenuta di fianco al bambino. Nono-
stante il dolore che ancora lo tormentava lanciò un grido di soddisfazione, quando con l'unico occhio rimasto vide i due corpi distesi sul letto. Le braccia si allungarono ancora, e la sua preda non era la donna... era il bambino! Ma ad un tratto il suo corpo deforme e rossiccio venne scosso da violenti fremiti, le pieghe della pelle cominciarono a lacerarsi, mentre la sua massiccia figura girava vorticosamente spinta da forze incontrollabili. Il mostro con un occhio solo cercò di reagire e tentò a tutti i costi di prendere il bambino, perché il suo compito era di fare a pezzi quel neonato. Ma qualcosa, come un turbinare vorticoso di corpi, lo teneva lontano dalla preda. Quelle forme indistinte si muovevano a velocità impressionante, e brandivano delle armi con cui lo sfregiavano senza pietà ogni volta che tentava di avvicinarsi al neonato. Il mostro non poteva subire passivamente quell'attacco: provò ad avanzare deciso verso la vittima, ma era tutto inutile. Venne ripreso dal moto vorticoso e fu spinto all'indietro, mentre quelle armi gli squarciavano il corpo mostruoso. In pochi istanti era tutto finito: la creatura rotolò a terra e si decompose fino a diventare una repellente massa semiliquida che subito evaporò. Il suo unico occhio rosso rotolò via, emise ancora un ultimo baluginio e uscì dalla stanza, lasciando dietro di sé una traccia annerita sul pavimento. Il rumore di quella lotta aveva svegliato molti abitanti della zona. Ma prima ancora che le lampade dei vicini si accendessero, i due uomini vestiti di nero stavano correndo verso la casa di Meleena. Giunti davanti alla porta la scardinarono con un calcio ed entrarono sguainando le spade. «Non vedo nessun maledetto marmocchio!» «E non c'è nemmeno quella sgualdrina!» rispose il compagno guardando sotto il letto. «Quel che è certo è che qualcuno è stato qui» intervenne l'altro, indicando la pozza di sangue sul pavimento. «E se fossero scappate dalla finestra?» «Non credo che abbiano le ali, amico. Un paio di donnette con un bambino in braccio non potevano sicuro uscire di là.» Si guardarono negli occhi indecisi sul da farsi. Poi sentirono dei rumori al piano inferiore. «È meglio filare. Ci siamo già dentro fino al collo... Che razza di storia racconteremo?» «Maledizione! Andiamo. Non è colpa nostra se quel dannato demonio che hanno mandato ha fatto fallire il nostro piano... o forse ci ha aiutati: in fondo noi dovevamo controllare l'entrata e ucciderle se cercavano di scap-
pare di là.» Continuando a confabulare i due uomini scavalcarono il davanzale della finestra e uscirono nel buio della notte. La discesa era abbastanza facile, e quando i vicini scoprirono ciò che era successo in quella stanza i due si erano già dileguati. Nonostante i particolari impressionanti, come la bruciatura causata dall'occhio e il cadavere mutilato della ragazza, il mistero non ebbe mai una soluzione, e chi se ne occupò non poté fare che delle supposizioni su come erano andate le cose. Capitolo 4 Il Tempio senza Luce, dove i disperati, i malvagi e i criminali venivano a rendere omaggio a Nerull, di notte era buio e silenzioso. Era una cosa piuttosto normale per un luogo come quello, e nessun passante che avesse osato sbirciare all'interno avrebbe notato qualcosa di strano. Era un posto che tutti evitavano dopo il calare delle ombre. Persino gli umani e gli umanoidi che professavano quella «fede» se ne tenevano lontani dopo il tramonto, per paura di venir sacrificati alla diabolica divinità che adoravano. Ma ogni regola ha le sue eccezioni. Quella notte c'era un gran movimento nei dintorni. I lumi tremolavano e le torce ardevano nelle profondità di quel posto maledetto. Nell'intrico di corridoi e stanze sotto il tempio c'era sicuramente qualcuno. Colvetis Pol fissò i due figuri che gli stavano davanti. «Il vostro rapporto è tutto qui?» chiese il religioso, che indossava una tonaca marrone, con un tono di voce che esprimeva il suo pieno disgusto. «L'apprendista e il bambino sono stati fulminati da quel rimbambito d'un mago. Ha fatto lui il nostro lavoro, in pratica» aggiunse Alburt con una strizzata d'occhio. Non aveva paura di quello stupido prete, e aveva tutte le intenzioni di farglielo capire. «E tu, Slono Senzamacchia? Hai nulla da aggiungere?» Il più basso dei due assassini non era arrogante come il suo compagno. Dopo tutto i religiosi erano anche degli indovini. Possedevano dei poteri soprannaturali e non c'era da fidarsi. Non era un affare da prendere alla leggera, insomma. Slono aggrottò le sopracciglia, pensandoci un po' su, poi disse: «Beh, no» farfugliò. «Come ha detto Alby, abbiamo controllato ogni cosa con cura. Ci abbiamo messo solo un paio di minuti. Wanno era morto stecchito, quel gran pezzo d'asino del suo apprendista ridotto in cenere e anche il bambino, fulminato. Siamo scappati di là in fretta e furia e
siamo venuti subito qua a raccontare ogni cosa.» «E ora vogliamo il nostro denaro» aggiunse Alburt. «Il lavoro è bell'e fatto e ci devi altri cinquanta globi.» «È vero...?» chiese Colvetis Pol, lasciando cadere il tono della voce, come se la sua non fosse affatto una domanda. «Avete visto il bambino bruciato e siete subito venuti qui a raccontarmelo, non è così?» Le sue parole sembravano piccole frecce scagliate contro i due assassini. «Beh, abbiamo...» «Chiudi quella maledetta bocca, Slony!» gridò Alburt al piccolo compagno, poi si girò a guardare il prete con un'espressione aggressiva. «Abbiamo fatto quello che ti ho già detto. Il mago e il bambino sono morti, come si era stabilito. Ora dacci il nostro denaro, o altrimenti...» La tonaca del prete frusciò mentre faceva un piccolo gesto. L'arazzo che copriva una parete si scostò e alcuni uomini comparvero come dal nulla. Alburt e Slono Senzamacchia rimasero molto sorpresi, anche perché fra quegli uomini c'era il capo della loro corporazione. «Avete sentito le loro parole» disse lentamente il sacerdote di Nerull. «I vostri servitori sono veramente poco affidabili.» Il capo degli assassini di Falcovia era diventato pallido, un po' per la rabbia, un po' per la paura, e chiunque l'avrebbe capito dalla sua espressione. «Ho sentito, Lord Pol, e chiedo umilmente scusa.» «Non devi chiedere scusa a me» disse il prete con un sottile sorriso. A quelle parole il capo degli assassini guardò l'uomo coperto da un ampio mantello che gli stava al fianco, e si scostò involontariamente da lui. «No, Lord Pol» mormorò. Ora Alburt si sentiva veramente a disagio. Perduta tutta la sua boria, l'assassino cominciava a sentire i morsi del panico. «Aspettate! Stavo solo cercando di coprire Slony. È stato lui a mandare all'aria il piano, è così. Quello stupido piccolo bastardo è andato a ficcarsi fra le rune di quel pazzo e...» «Che ti si marcisca la lingua in bocca, grande pezzo di...» Slono non si sarebbe arreso così facilmente. «Eri tu a comandare, Alby, e mi hai ordinato di andare a far fuori il moccioso mentre perquisivi la stanza. Ti sei anche preso tutto il malloppo!» E questa era veramente l'accusa più grave che il piccolo assassino poteva muovere. Dalla figura col mantello provenne una voce bassa e gracchiante, che risuonò nella stanza scavata nella roccia dove si svolgeva la scena. «Quanto tempo è passato da quando il bambino è sparito a quando siete tornati
qui?» «Forse una mezz'ora» disse Alburt, ma quasi contemporaneamente anche Slono rispose: «Circa un'ora.» La voce rauca si fece sentire ancora: «Allora, mezz'ora o di più?» «Di più... credo» ammise il più alto dei due assassini, lanciando un'occhiata minacciosa a Slono. «Bene» fece la strana voce. Il figuro si mosse improvvisamente e, senza che lo si fosse visto attraversare la stanza, si portò davanti ai due assassini. Un paio di mani coperte di carne putrescente sbucarono dalle maniche della tunica e si posarono pesantemente sulle teste dei due. Tenevano Alburt per la fronte e Slono Senzamacchia per la nuca. «Per le vostre azioni vi do la mia benedizione speciale» disse il figuro. Poi sembrò agitarsi ancora e tornò di colpo nel punto dove si trovava pochi istanti prima. Sulle prime Alburt e Slono restarono completamente intontiti, poi cominciarono a tremare violentemente. «No... per favore...» piagnucolò Alburt. Poi fu colpito da un attacco di tosse e non riuscì a dire altro. «Se mi aveste riferito subito ogni cosa, come avreste dovuto» disse lentamente il diabolico sacerdote dalla pelle giallastra, assicurandosi che ogni sua parola giungesse alle orecchie dei due assassini, «nulla di tutto ciò vi sarebbe accaduto. Io, cioè noi, avremmo potuto scoprire che razza di trucco è stato usato per portarci via il bambino, e il problema sarebbe stato facilmente risolvibile.» «Prenditi cura di questi due, prete» disse l'uomo incappucciato con la sua voce aspra. «Potrebbero appestare del loro morbo molti deboli umani.» Il sacerdote che indossava il saio marrone alzò le spalle con indifferenza. «Cosa può farmi una malattia?» Osservò pensoso i due assassini morenti per qualche istante, poi si rivolse loro: «Andatevene da questa galleria. Vi resta ancora poco tempo da vivere, e non ha senso che restiate ad appestare questo posto.» Alburt cadde a terra, balbettando e implorando pietà. Sapeva che il sacerdote poteva curare il morbo che lo stava uccidendo, con la stessa facilità con cui lui poteva ammazzare qualcuno. Slono reagì diversamente. Nonostante l'infinita debolezza fisica causata dalla malattia, il più basso dei due assassini cercò di darsi da fare. Imprecando contro tutti i presenti tirò fuori una manciata di freccette appuntite e le lanciò a casaccio contro coloro che lo avevano condannato a morte. Una freccia colpì lo strano figuro, penetrando nell'ombra del suo cap-
puccio fino a lasciare visibile solo la piuma terminale. Quell'essere infilò la mano nel cappuccio, ne estrasse il dardo a cui ora mancava la punta di metallo, e mostrò l'asticella inoffensiva a Slono, che ormai stava morendo. «Stupido! Il veleno è come miele per me!» disse masticando lentamente la freccia e inghiottendola. Un'altra freccia colpì la parete vicina all'individuo incappucciato e cadde a terra; questi la raccolse e la lanciò con un ghigno nella direzione da cui era venuta. Un'altra ancora si conficcò profondamente nella coscia di un altro dei nuovi arrivati, il mago che amministrava il tempio di Nerull, facendolo urlare per il dolore. «Neutralizza questo veleno!» urlava, guardando inorridito il flusso rosso che sgorgava dalla ferita, «altrimenti morirò e non potrò più esservi utile!» Un'altra freccia avvelenata si conficcò nell'arazzo e vi restò appesa. Un'altra ancora sfiorò la testa calva del prete, segnando di una striscia rossa il giallastro e lucido cuoio capelluto di Colvetis Pol. «Stai zitto, Sigildark» disse al mago. «Mi occuperò di te a tempo debito». In realtà il sacerdote si stava preoccupando di curare la sua ferita: dopotutto la propria pelle era quella che gli interessava di più. L'ultima freccia rimbalzò su una colonna di pietra e andò a ficcarsi in una sedia lì vicino. E, pochi secondi dopo aver lanciato il suo attacco, Slono Senzamacchia si ritrovò ad esserne l'unica vera vittima: la freccia lanciata indietro dal figuro incappucciato gli si conficcò in pieno petto. E in fin dei conti quella morte fu meno dolorosa di quella che comunque gli sarebbe toccata. Subito dopo Colvetis Pol annullò gli effetti del veleno che minacciava la sua vita e quella del mago Sigildark. Il cadavere di Slono e il corpo quasi morto di Alburt furono gettati senza troppe cerimonie in una cisterna, da cui sarebbero finiti nel labirintico sistema di canali che correvano sotto la città. La decomposizione e i topi non avrebbero presto lasciato altro che ossa. Naturalmente prima vennero tolti loro tutti gli oggetti di valore che avevano addosso. Una delle guardie trovò l'anello che Slono aveva nascosto nel tacco cavo dello stivale, ma non si preoccupò di raccontare la cosa a nessun altro. «La corporazione farà ammenda per quanto è successo, mio signore» promise il capo degli assassini una volta che i suoi due ex scagnozzi furono portati via. «Ne sono sicuro» rispose seccamente il sacerdote. «E comincerete col
mandare due uomini fidati e di assoluta competenza a questo indirizzo, stanotte» continuò, consegnando al capo della corporazione una striscia di pergamena. «Tutto quello che dovranno fare è guardare se da quella porta uscirà una donna, con o senza un bambino. Chiunque ne uscisse dovrà essere ucciso.» «Consideralo già fatto, mio sacerdote.» «Puoi andare, ora. Procura che i tuoi uomini si rechino subito al posto che ho indicato». Quando l'uomo se ne fu andato, Colvetis Pol congedò anche le guardie e si mise a parlare con i due che erano rimasti: il mago Sigildark e il figuro incappucciato che proveniva da qualche altro mondo. «Possiamo contare su un sicuro successo, ora?» chiese Pol. Il mago corruccio il volto in un'espressione dubbiosa, alzò un sopracciglio e scosse leggermente il capo. L'individuo nascosto dal mantello parlò con la sua voce profonda. «Manderò uno dei miei fidi a controllare che non siano commessi altri errori. I mortali sono dei fanfaroni poco affidabili, ma i demonkin non lo sono affatto.» A quelle parole il mago sembrò infastidirsi: «Posso farti presente, Signore dei Demoni, che sono stato proprio io - un comune mortale - a scoprire l'intera trama, a mettere al lavoro le mie spie e a scoprire con i miei poteri magici la destinazione del bambino!» «Apprezziamo molto il tuo operato, Sigildark». La voce del sacerdote era così ironica che persino la creatura incappucciata scoppiò in una fragorosa risata. «Il merito dei tuoi sforzi è ben noto al Grande Nerull... Cosa puoi volere di più?» Sigildark, per quanto fosse in preda alla collera, sapeva che la divinità appena nominata non era altro che una delle incarnazioni dell'imperatore degli inferi. «Gli è noto perché tu o Demonpanus lo informerete, e perché nulla è celato alla sua immensa potenza. Onore a Nerull e venerazione a Tharizdun.» Colvetis Pol fece un gesto frettoloso: «Sempre sia venerato.» Anche la demoniaca creatura fece un gesto di omaggio: «Sia sempre fatta la volontà del nostro Padrone» intonò con la sua voce da oltretomba. «Ma ora pensiamo ai problemi che restano.» Il sacerdote fece un gesto d'assenso col capo. «Abbiamo bisogno di informazioni, signore. Stiamo facendo quello che ci hai ordinato, ma saremmo più utili alla causa se potessimo sapere altri particolari.» «È proprio così» confermò il mago. «Se ti confiderai con noi, Signore di tutti i Demoni, potremo servire meglio te, Nerull e il grande Tharizdun!»
«Il mio signore mi ha dato libertà d'azione in questo, così ho deciso di informarvi di tutto, come desiderate» rispose la creatura infernale. «Se non fosse per l'improvvisa deviazione del corso delle cose, il piccolo bastardo sarebbe già morto. Sono stati proprio i suoi amici e parenti più prossimi a consegnare lui e i suoi genitori nelle nostre mani. Più tardi hanno cambiato idea, ma era troppo tardi per salvare il padre del bimbo. Siamo anche riusciti a eliminare la madre. Non erano molto lontani dal luogo dove pensavano di aver messo al sicuro il pargoletto: i nostri agenti erano alle loro calcagna. È stato uno stupido negromante di nome Wanno che ha cercato di cambiare il corso delle cose. Lo conosci, Sigildark?» «Sì, fa parte della nostra Società» rispose il mago senza aggiungere altro. Dopotutto Wanno era stato un mago molto più potente di lui. «Continua, per favore» insistette Colvetis Pol. «Il voltafaccia dei parenti ha permesso al padre di eludere le nostre ricerche, anche se solo per un breve periodo. Tuttavia è insopportabile» e a questo punto la voce cavernosa della creatura e il suo comportamento stavano diventando fin troppo umani, «è insopportabile che nessun indovino, nessuna potenza, addirittura nessun demone riesca a squarciare il velo che ha coperto le mosse di quei tre». L'apertura del cappuccio si era allargata, e il sacerdote e il mago si ritrassero d'istinto. Il demone però continuò a parlare a voce bassa, rendendoli partecipi delle sue conoscenze. «Se non fossimo stati tutti così uniti, tutto sarebbe fallito. Gran parte del piano si giocava sul pianeta materiale, e qualche forza sconosciuta si è schierata dalla parte dei nostri avversari...» «Non mi sono accorto di nulla» constatò Sigildark. «Stai zitto» lo ammonì Colvetis Pol. «Mi sono accorto di certi cambiamenti nel progetto» continuò il sacerdote rivolto a Demonpanus. «Quando i tuoi fidi avranno eliminato il bambino l'interferenza cesserà o no?» Il demone osservò Pol. Se c'era un mortale fatto apposta per gli inferi, questo era lui. Era ambizioso, potente, abile e dedito al culto maligno dell'Abisso. Diversamente da quell'idiota e meschino di Sigildark, Pol aveva servito per decenni il più alto consiglio di Nerull. Demonpanus sapeva che doveva essere vecchio di almeno due secoli. Sebbene l'aspetto esteriore di quell'uomo fosse mutato di poco negli ultimi decenni, il demone, che poteva scrutare l'essenza più intima di ogni creatura, sapeva che lo spirito di Pol brillava di luce innaturale e pulsava di forze oscure. Pol era già in grado di attingere alle energie negative e ben presto il sacerdote sarebbe passato dal suo stato di mortale a quello di im-
mortale signore dei morti. Tanto di guadagnato, dal momento che Colvetis Pol aveva sempre servito onestamente e diligentemente i Signori degli Inferi. Demonpanus aveva notato che anche il sacerdote lo stava scrutando. Pol aveva il potere di vedere chiaramente al buio, e nessuna oscurità poteva impedire alla sua vista di funzionare a dovere. Il demone si sentì un po' a disagio quando capì che quell'indagine interiore, quello scrutarsi e giudicare, era un processo a doppio senso. «Ogni interferenza sarà indebolita, questo è certo. E tutto ciò che è debole può essere fatto sparire.» «Cosa accadrebbe se i vostri agenti dovessero fallire, mio signore?» Evidentemente il sacerdote non si fidava ciecamente di Demonpanus. «Significherebbe la mia sconfitta, ma ciò non è assolutamente possibile» disse la creatura ostentando una certa altezzosità. Il mago sembrava abbastanza soddisfatto da quella conversazione, ma Colvetis Pol sollevò leggermente una delle sue sottili sopracciglia arcuate. «Sono veramente impressionato, signore. Puoi prevedere l'imprevedibile e conoscere l'inconoscibile». Nella sua voce c'era un evidente accenno di sarcasmo. «Lo vedrai tra non molto con i tuoi occhi, prete!» sbottò Demonpanus con rabbia; non sopportava di essere preso in giro, anche se da un uomo potente come quel sacerdote. Dopo tutto Pol era ancora un umano. Non c'era dubbio che quel prete stava diventando un po' troppo ambizioso; ma avrebbe trovato presto pane per i suoi denti, promise Demonpanus a se stesso. «Ora comincio a stufarmi di queste inutili chiacchiere. Mi ritirerò nelle mie stanze private.» *
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«Sangue di vergine, signore... ancora caldo». Il servo appoggiò una fiasca sul tavolo vicino a Demonpanus e uscì in fretta dalla stanza. Ora, ritiratosi nella speciale stanza per gli ospiti del tempio, l'essere infernale si stava preparando per la prossima mossa. Tracannò velocemente la bevanda rinfrescante, che gli avrebbe dato l'energia di cui aveva bisogno per portare a termine il suo compito. Le parole del sacerdote lo avevano fatto riflettere. Quelle domande non erano senza fondamento. Il demone aveva risposto alla meglio, ma ora era venuto il momento di provare che ciò che aveva affermato non erano solo millanterie. Per prima cosa avrebbe scatenato qualche malattia. Anche se
non conosceva bene quelli che voleva colpire, la descrizione di quegli esseri e dell'ambiente in cui vivevano gli erano sufficienti: era molto vicino e si sentiva pieno di vigore. Doveva però ricordarsi di conservare qualche energia per la seconda parte del suo progetto. Il rituale era molto simile alle complesse formule spesso praticate dai maghi. Se Sigildark l'avesse visto ne avrebbe riconosciuto le mosse. E anche Colvetis Pol avrebbe potuto riconoscere molti particolari della cerimonia. Demonpanus lavorava con lestezza e convinzione, ma non voleva precipitare le cose. Anche un signore degli inferi poteva commettere degli errori, e il demone lo sapeva bene. Ben presto il rituale terminò, e quindi egli volse la sua attenzione a Rheachan. Sebbene la creatura avesse le sembianze di uno dei suoi cani, in realtà era un diretto discendente di Demonpanus. La bestia pertanto era assolutamente sotto controllo, era leale e affidabile. Si nutriva delle stesse energie del demone, e lo nutriva quando ne veniva nutrita. Era una relazione molto complessa la loro, si potrebbe dire che vivevano quasi in simbiosi. Il cane era come un'inscindibile estensione delle più vili parti corporee e mentali di Demonpanus. Rheachan non aveva mai sbagliato, ma stavolta qualcosa nella voce e nelle parole del prete avevano messo a disagio il demone. Era meglio essere molto prudenti, ora. Assicurarsi che il cane portasse a termine il suo lavoro nel pieno delle forze. Non c'era alcun segreto nell'incantesimo che Demonpanus aveva scagliato sul nemico per provocare delle malattie; Pol e molti altri che praticavano quelle arti arcane conoscevano bene quei rituali. Ma l'incantesimo che voleva attivare su Rheachan era un problema diverso. La forza stessa dell'animale poteva diventare una debolezza, se i nemici avessero individuato la fonte delle sue risorse. Per evitare che ciò avvenisse, Demonpanus decise di occultare il luogo dove si trovava. Disegnando strani geroglifici e mormorando oscure cantilene, quell'essere infernale cominciò a creare delle protezioni, strato dopo strato. La prima fu uno schermo contro le forze mentali, poi contro le forze magico-religiose, e infine venne il turno di uno scudo che impedisse la vista di chiunque, persino quella di esseri non umani. Quando la tripla protezione fu sistemata Demonpanus controllò il suo operato, finché non si sentì in grado di resistere a qualsiasi attacco per il tempo necessario a concludere il suo lavoro. Per essere ancora più sicuro, il demone mescolò i tre schermi uno con l'altro, cosicché l'uno sostenesse l'altro, e sopra il tutto costruì un altro scudo per rendere la protezione invi-
sibile a chiunque. Nessuna perquisizione, anche la più minuziosa, avrebbe potuto scoprire lo scudo di energie che aveva costruito con tanta cura. Senza quello scudo chiunque avrebbe potuto conoscere i suoi piani. Non ci si poteva fidare di nessuno. Nessuno doveva sapere nulla. L'assioma dell'Abisso, e di tutti i pianeti infernali, era molto semplice: i forti sono i dominatori, i deboli sono dominati. In quell'intrico di energie, nel complesso ricamo di poteri magici, c'era ancora un'apertura. La rete lasciava a Demonpanus uno squarcio dove la sua particolare psiche, quelle vibrazioni che appartenevano solo a lui, potevano entrare e uscire liberamente. Era solo una sottile apertura, un piccolo punto debole della struttura. Col tempo un essere dotato di particolari poteri avrebbe potuto scoprire ed esplorare quell'apertura, ma il tempo non contava molto. Demonpanus avrebbe utilizzato quella protezione solo per un po' - qualche minuto, un paio d'ore, un giorno al massimo. Dopo, tutto sarebbe finito. Se tutto andava per il verso giusto, presto il signore dei demoni sarebbe tornato ai suoi pianeti infernali. Allora i ranghi si sarebbero ricostituiti e solo Infestix sarebbe stato più potente di lui. Per molto tempo aveva lottato con Anthraxus e gli altri per la conquista della seconda posizione nell'Ade, quella di Viceré delle Tenebre. Ben presto quella lotta sarebbe terminata. «Rheachan!» «Osservo e aspetto, come mi hai ordinato.» La risposta era stata chiara. Demonpanus lasciò che le sue forze fluissero verso la bestia. «Bene» pensò, vedendo nella sua mente ciò che la sua creatura aveva visto con i suoi occhi. «Mi piacerebbe veramente che i miei servigi fossero utili, mio signore». Rheachan non stava mentendo. Si sentiva veramente insoddisfatto e incompleto senza il contatto con Demonpanus. E ciò valeva anche per il demone, sebbene in proporzioni minori. Quando le sue forze si univano a quelle del suo subalterno, Demonpanus non solo era un tutto finito, ma era molto più forte di quanto potesse essere senza la sua propaggine, il suo fedele Rheachan. «Hai visto colui che dobbiamo distruggere?» «Non è ancora arrivato. Ma ora che siamo riuniti riesco a sentire che sta per accadere qualcosa, molto presto...» «Sì, è così. Forse sono gli umani a cui è stato affidato?» «Sono solo due deboli donne, mio signore. Proprio in questo momento sta entrando la seconda.»
«Aspetta! C'è qualcosa che giunge da un altro luogo». Demonpanus aveva sentito delle ondate che si rifrangevano sul pianeta materiale, come se qualche altra forza, emanata in qualche altro luogo, si facesse strada tra i pianeti e le diverse dimensioni. Quella forza portava con sé l'inconfondibile emanazione dell'umanità, appena percettibile, ma forte. Il bambino veniva trasportato nel luogo dove quegli stupidi umani pensavano che sarebbe stato al sicuro. «Andiamo, figlio mio. Stai pronto.» Naturalmente Rheachan aveva già anticipato il comando. Mentre il pensiero di Demonpanus si stava ancora formando, quell'essere era già sul lastricato della strada e si dirigeva verso il suo obiettivo: la finestra chiusa. «I due assassini che hanno il compito di bloccare ogni possibile fuga sono già arrivati, mio signore.» «Non ne avremo bisogno!» Il demone si pregustava la scena: la sua progenie avrebbe fatto fuori il bambino e se ne sarebbe cibato. Ma fu proprio in quel momento che avvertì la presenza di quelle altre forze. «Ora, mio caro! Entra, e divertiamoci!» Mentre l'energia vitale del suo creatore gli riempiva il corpo e la mente, Rheachan si sentiva capace di conquistare l'universo. Come era grande e sapiente il suo signore! Forse, se si fosse comportato bene quella notte, Demonpanus avrebbe acconsentito a restare per sempre unito a lui, e Rheachan sarebbe stato ancora più forte e potente. Questo desiderio giunse fino alla mente del suo signore, assieme alla sua sfrenata sete di sangue... e di anime. Questo bisogno primordiale si accese in Rheachan e in Demonpanus, e si sentirono uniti e felici. «Le sento, ora» comunicò mentalmente il demone al suo servitore. «La vita del bambino, le vibrazioni di quella sgualdrina che ha il compito di custodirlo - riesco a leggere tutto così bene, so tutto, capisco tutto.» «Non avrai più bisogno di cercare, mio signore. Te li farò fuori entrambi, fra un attimo.» Fu a quel punto che lo strano liquido colpì Rheachan, e l'intenso dolore della bruciatura fece tremare Demonpanus nella sua cella nascosta come se fosse stato colpito egli stesso. In quella confusione il demone diede libertà d'azione al suo cane. Il dolore aveva portato Rheachan ad uno stato di frenesia assassina, e la creatura dimenticò qualsiasi cautela pur di vendicarsi di quella donnicciola che aveva osato offendere le sue sembianze corporee. Poi anche il cilindro colpì il bersaglio, e quell'essere infernale, assieme a suo padre, fu invaso da tormenti intollerabili. «Vendetta!» L'urlo mentale riuscì a scuotere Rheachan e a ridargli ener-
gia e determinazione: «Ammazzala, figlio mio, e poi tornerai da me. Il tuo occhio ricrescerà, la tua vista sarà migliore di prima, poiché io infonderò nel tuo essere una parte più grande di me stesso.» A quelle parole Rheachan si scagliò sulla donna e la uccise. Tuttavia non aveva voglia di cibarsi di quel corpo; e neppure l'altra donna sembrava appetitosa, almeno per il momento. Il piccolo cucciolo d'uomo continuava ad agitarsi davanti all'unico occhio rimasto a Rheachan: quello sì che sarebbe stato un bocconcino delizioso! Il suo sangue giovane e fresco era dieci volte più desiderabile di quello delle due donne. La creatura infernale si avvicinò al bambino, allungando le sue orribili zampe. «Aspetta!» Quel grido mentale lo raggiunse troppo tardi, o forse Rheachan decise di ignorarlo: la rabbia e la fame gli avevano fatto perdere ogni controllo. Non si rese conto delle altre forze che improvvisamente si erano scatenate in quella stanza, e quelle forze attaccarono Rheachan cogliendolo di sorpresa. Il suo unico desiderio era divorare il bambino, ma c'era qualcosa che gli impediva di avvicinarsi e appagare il suo diabolico desiderio. Allora Rheachan si mise a ululare, impazzì e cadde morto. La rete di protezioni che Demonpanus aveva creato per tutelarsi gli impedì di correre in aiuto della sua creatura, altrimenti il signore infernale avrebbe potuto usare i suoi poteri per evitare il peggio. L'unico contatto possibile era mentale, e anche questo ormai non funzionava: quando Demonpanus cercò di staccarsi dall'unione con suo 'figlio', capì che qualcosa aveva interferito. La relazione quasi ombelicale fra il demone e la sua creatura era stata in qualche modo infettata da qualche forza esterna che Demonpanus non poteva combattere, chiuso com'era in una fortezza che si era costruito con le sue stesse mani. Quando Rheachan cominciò a ululare, per poi finire stecchito, il suo signore e padrone fece la stessa fine. Non fu proprio una vera morte quella che toccò a Demonpanus, ovviamente. Il Signore degli Inferi soffrì terribilmente, ma sapeva che, almeno qui, su questo pianeta, non poteva essere ucciso. Tutto ciò non valeva per il suo pargolo: Rheachan versò il suo putrido sangue e morì, e una parte di Demonpanus, progenitore di quella mostruosità, fu annientata. Lo shock della perdita di una parte di se stesso fu traumatizzante: il signore dei demoni cercò di vedere i suoi assalitori attraverso l'occhio morente di Rheachan, ma quell'orbita luccicante non gli rivelò nulla; e quando la vista scomparve del tutto, qualcosa di orribile scattò nella mente di Demonpa-
nus. La sua rabbia scoppiò in tutta la sua violenza e il demone cominciò a distruggere la fortezza che aveva creato come un cinghiale ferito distrugge ogni cosa che incontra. Assieme alle forze occulte fu distrutta ogni pietra di quella stanza, finché attorno a lui non ci fu altro che un informe ammasso di macerie. Il mattino dopo i servi personali di Colvetis Pol trovarono la stanza in quello stato e corsero a raccontare ogni cosa al loro padrone. Il sacerdote rifletté a lungo, anche quando seppe che Demonpanus era stato incatenato nell'Ade in attesa che la sua pazzia si fosse calmata. Dopo quell'episodio Pol scomparve. Qualcuno dice che si recò nell'Ade per servire Nerull, ma altri raccontano che diventò un eremita, in cerca di pace interiore nella più completa solitudine. Capitolo 5 «Mangia ho detto, piccolo miserabile bastardo, o ti spacco la testa!» La vecchia Leena quel mattino era proprio di buon umore, e quindi non si preoccupò di mettere in pratica la sua minaccia. Le bastò dare un pizzicotto sulla guancia del piccolo facendolo urlare, poi uscì per vedere se riusciva a trovare qualcosa nei mucchi di rifiuti lungo le mura della Città Vecchia. La giornata era calda, e perciò si sentiva molto meno irritabile del solito:era il freddo che le indolenziva le ossa e la metteva sempre di malumore. Ma perché continuava a occuparsi di quel piccolo moccioso? Era una domanda che assillava Leena da tempo, ma la vecchia non riusciva mai a rispondere onestamente, in tutta sincerità. Sentiva in qualche modo che quel bambino aveva qualcosa a che fare con la sua fortuna, o forse addirittura con la sua stessa esistenza. Non ne era sicura, ma d'altra parte non era sicura di un sacco di altre cose ben più importanti, compresa la sua vera identità, il luogo da cui era arrivata là, o il motivo per cui continuava a tirare avanti invece di dare un taglio a quella vita miserabile. Leena pensava di sapere una sola cosa molto importante. La presenza di quel bambino le dava la forza di restare viva: qualche benefattore stava sicuramente osservando il luogo dove abitavano. Ogni tanto, infatti, tornando da uno dei suoi giri, trovava nel tugurio dove abitava col marmocchio una piccola sacca di cibo; un'altra volta compariva una pentola di zuppa, e più raramente anche un paio di piccole monete o qualche indumento di lana.
«Stai lontana, brutta strega!» L'avvertimento le era giunto da una vecchia, magrissima megera che era venuta ad abitare vicino al deposito di immondizie. Il marito della donna non era lì in giro, e così Leena, invece di evitare la lite, si fermò e la fissò altezzosa. «Che ti si secchino le tette!» gridò Leena, e scoppiò in una fragorosa risata gracchiante continuando a fissare l'altra donna. Non c'era gran che di minaccioso in quello che aveva detto, tuttavia Leena ottenne proprio l'effetto desiderato: la donna si coprì il volto e si infilò all'interno della sua casupola. Dall'entrata un sasso volò in direzione di Leena, ma cadde a terra alcuni metri davanti a lei. Leena proseguì per la sua strada continuando a ridere. Certo, essere vecchi e brutti ha i suoi svantaggi. Quando era stata giovane? E carina? Leena sapeva che ci doveva essere stato quel tempo, ma non riusciva a ricordare di essere mai stata altro che Leena la Vecchia, non aveva nessun ricordo di quando non doveva badare al piccolo moccioso con cui divideva la sua sudicia bicocca. Le bande di teppistelli del Quartiere degli Operai e del Quartiere dei Mendicanti erano il suo incubo peggiore. A volte si sognava di loro, e nel sogno essi prendevano le forme dei più terribili mostri. Si avvicinavano a lei, ma ecco che un nobile guerriero interveniva, oppure era il bambino a fare la sua comparsa nel sogno diventando un gigante che terrorizzava quelle bande di ragazzi indemoniati. Scappavano ridendo. Leena teneva sempre un lungo coltello sotto le vecchie, sudice coperte che le servivano anche da mantello quando doveva uscire. In quel modo era certa di essere al sicuro. Con quegli sbandati le grida e le risate da strega non funzionavano bene come con gli altri. Fortunatamente quei mascalzoni la importunavano solo quando si allontanava dalla sua zona, tra i depositi di immondizia e la conceria abbandonata; quindi se stava attenta non poteva avere altri problemi - se non quello di trovare del cibo e le poche altre cose che potevano esserle utili. «Per tutti i diavoli!» non riuscì a trattenersi dall'esclamare. Qualcuno aveva gettato tra le immondizie un intero mazzetto di stoppini incerati; erano tutti abbastanza lunghi, e la carta oleata in cui erano avvolti era di per sé un piccolo tesoro. Leena si curvò a rovistare in quel mucchio di rifiuti: forse c'era ancora qualcosa di buono da portar via. *
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Come Leena si dava da fare per trovare del cibo, così altri, tempo prima, si erano dati da fare per condurre in porto ben altre, minuziose ricerche. Avevano passato in giro la voce, che si era sparsa in tutta la Città Vecchia e anche nella Città Nuova. I mendicanti e i ladri stavano all'erta. Piccoli chierici e guardie di città tenevano gli occhi bene aperti. Venditori ambulanti, bottegai, osti e camerieri, sempre al corrente di ogni cosa, cercavano di arricchirsi grazie a quello che sapevano. Aver visto una giovane donna di nome Meleena, ed essere in grado di provarlo, valeva qualcosa come cento globi d'oro. Se fosse stata vista con un bambino, allora la somma si raddoppiava. Se si riusciva a portarli da chi li stava cercando, allora il fortunato informatore avrebbe ricevuto mille di quelle grosse monete d'oro come ricompensa per le sue fatiche! Ogni giovane donna di Falcovia cominciò a sentirsi osservata. Ogni madre di un maschio era una potenziale fortuna. Un migliaio di persone misero sotto sopra la città cercando quei due, e si verificarono un migliaio di falsi ritrovamenti. L'offerta rimase valida per molte settimane, e quando venne ritirata nessuno se ne preoccupò molto: chi ha tanta sete di denaro trova subito qualche altra prospettiva di arricchimento. Anche persone che non erano spinte da un diretto interesse economico stavano cercando la donna e il bambino. Uomini e donne che ricoprivano alte posizioni sociali, e godevano di potere e prestigio usavano mezzi magici o indagini discrete per cercare di localizzarli. Strane creature imperversavano in città durante la notte, alla disperata ricerca dei due. Ma nessuna magia ebbe successo, nessuna indagine scoprì il minimo indizio, nessuno vide nulla di importante. Sembrava che la terra avesse ingoiato Meleena e la creatura, o che i due fossero stati portati su un altro pianeta. Infatti dopo qualche tempo la ricerca proseguì in luoghi diversi, addirittura fuori dal pianeta Tarre. Un paio di elementi dei pianeti inferiori rimasero a Falcovia per continuare le ricerche, ma solo per il fatto che altri doveri imponevano loro di restare là. Passarono le settimane, e i mesi, e gli anni. Tutti dimenticarono l'esistenza di Meleena e del bambino. Certamente erano morti entrambi da chissà quanto tempo. «Nessun essere debole e insignificante come quella donna avrebbe potuto evitare la magia di Demonpanus» osservò Sigildark quando un giorno la conversazione cadde su quell'argomento. «Sono d'accordo» disse Agrendil, il nuovo Grande Sacerdote di Nerull che presiedeva il Tempio Senza Luce. «Il nostro signore e padrone ha scagliato degli incantesimi potentissimi
su quella donna e quel bambino, non è vero?» «Più che certo. Io stesso sono stato presente ad uno degli anatemi che furono lanciati contro di loro» disse lentamente il sacerdote. Il mago era perplesso. «Sono passati quasi cinque anni, e non abbiamo più avuto una traccia, un indizio, da nessuna parte. C'è solo una possibile spiegazione: quei due sono spariti, evaporati nel nulla. Dev'essere successo molto tempo fa; e allora, perché continuiamo a cercarli?» Arendil guardò il mago con aria inespressiva. Sigildark aveva da tempo esaurito il suo mandato e tra breve doveva essere sostituito. «Ecco perché ti ho convocato» spiegò. «Altri, più importanti compiti ti aspettano, ora. Non dobbiamo più perdere tempo nelle ricerche di quei due.» Sigildark sembrava soddisfatto di ciò che aveva appena sentito, come se fosse stato proprio lui a giocare un ruolo decisivo nella questione, e fosse stato lodato per questo. Il sacerdote non l'aveva informato che l'opinione dell'Ade e dei Nove Inferni non era cambiata. Forse erano cambiati i capi, ma non aveva importanza: non c'era alcun bisogno che il mago lo sapesse. «Qual è il compito urgente che mi viene affidato?» chiese Sigildark, pieno di boria. «Sembra, mio caro mago, che ci siano nuovi indizi sulla collocazione dei... degli oggetti che cerchiamo, quelle parti di antiche reliquie che dobbiamo riunire, che sono nascoste da qualche parte nella biblioteca dei Sapienti di Falcovia. Tu dovrai...» e il prete continuò a spiegare al mago il compito che doveva svolgere in quell'affare. Così si concluse la storia di Meleena in quella città. *
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«... o ti spacco la testa!» La vecchia si era spazientita di nuovo e il ragazzino era scappato per mettersi al riparo. La risata gracchiante di Leena bastò ad accendere la rabbia nel corpo del bambino. ma per fortuna era riuscito a fuggir via veloce. «Portami della legna, moccioso, e non tornare se non ne hai raccolto abbastanza da tenere al caldo la vecchia Leena per tutta la notte, hai capito?» Una volta in salvo all'aperto, fuori dalla portata di quella vecchia strega e del suo bastone, il ragazzo si girò e con un'orribile smorfia dipinta sul volto gridò: «Vai al diavolo, vecchia strega! Non tornerò mai più e tu morirai di freddo!»
«Te la schiaccerò, quella testa!» gridò Leena per tutta risposta, alzando minacciosamente il bastone e avanzando verso di lui. Il ragazzino se la diede immediatamente a gambe e Leena scoppiò ancora una volta in quella sua risata gracchiante. Una minaccia a vuoto per una zucca vuota. Quel ragazzino era proprio inutile, ma in qualche modo se ne sarebbe servita per arricchirsi. Se lo sarebbe lavorato ben bene, gli avrebbe strizzato il cervello. Sapeva che quel piccolo bastardo era la causa di tutti i suoi guai e aveva intenzione di saldare il conto. Nel frattempo lo sfruttava come poteva. Gli lanciò dietro uno sputo, e poi tornò nel piccolo angolo di magazzino che stava in piedi per miracolo e che Leena chiamava casa. Era piccolo e molto sporco, ma non ci pioveva dentro e non c'erano fastidiosi seccatori là intorno. Quel posto le piaceva molto di più delle altre stamberghe in cui era vissuta da quando aveva abbandonato la vecchia conceria. La donna si mise a canticchiare fra sé, soddisfatta della propria saggezza. Una voce interiore aveva continuato a dirle: continua a spostarti, non parlare mai con nessuno se non è necessario, tieni da conto quel ragazzo perché un giorno o l'altro dovrà ricompensarti per ciò che hai fatto per lui. Oh, sì! Certo! La vecchia Leena era astuta e saggia, e mai nessuno l'avrebbe messa nel sacco. Nella catapecchia c'era un angolo adibito a camino. Era addossato alla parete posteriore, e sopra c'era un buco nel soffitto che si apriva dove un tempo c'era il piano superiore, ora crollato. In questo modo la pioggia non entrava dal buco, e il fumo che saliva lassù si spargeva sul pavimento del secondo piano e poi saliva verso il cielo in fili contorti che di giorno si vedevano appena. «Brava» disse Leena ad alta voce. Parlava da sola, naturalmente. E a chi altro avrebbe potuto rivolgersi? «Molto brava, e sempre più giovane e bella!» Ma subito la assalì una sensazione di delusione, che le fece ricordare qualcosa a cui non aveva più pensato da tempo. Si guardò intorno con circospezione per assicurarsi che il moccioso non la stesse spiando, poi sollevò una lastra di pietra sotto il mucchio di cenci che le facevano da giaciglio e ne estrasse una piccola scatola. Sollevò il coperchio e guardò il pezzo di pergamena che aveva trovato proprio in quella scatola, molto, molto tempo prima. «Quanto tempo fa è successo?» si chiese distrattamente, giocherellando con i suoi sozzi riccioli grigi fino ad arruffarli completamente. Si ricordò di come aveva trovato la pergamena, un fatto che ancora oggi, se ci pensava, le confondeva le idee. Un giorno aveva trovato la scatoletta sotto il letto e non aveva mai capito da dove fosse sbucata. Ma a lei impor-
tava solo che da quel momento la scatola era sua. Poi, quando la aveva aperta e aveva visto che era vuota, era andata su tutte le furie. Guardando in cagnesco il piccolo contenitore aveva grugnito: «Chi è che si vuol prendere gioco della vecchia Leena?» Poi, con sua grande sorpresa, il fondo della scatola era scomparso sotto i suoi occhi, lasciando apparire qualche altro oggetto, sempre dentro la scatola. Ci aveva ficcato dentro la mano, facendo molta attenzione, e aveva tirato fuori alcuni fogli di pergamena. Su alcuni di essi c'erano delle scritte che lei non era in grado di leggere, né se ne preoccupava. Su altri c'erano i ritratti di alcune persone, e l'attenzione di Leena era stata subito attirata da uno di quelli in particolare. Era l'immagine di una ragazza, e Leena si era chiesta se non fosse una principessa. Dopo tutto sono proprio le principesse a farsi fare dei ritratti, non è vero? «Non come questo» si rispose ad alta voce. «E come fai a saperlo?» chiese ancora a se stessa. L'inchiostro dei contorni era nitido, e i tratti leggeri formavano il disegno di un volto giovane e sereno, senza rughe e incorniciato da lunghi, vaporosi capelli. «Vorrei essere stata questa donna!» disse, continuando a conversare con se stessa. «Lo sarai, piccola stupida, ma ci vuole molto tempo per diventare giovani e carine...» Le lacrime cominciarono a scendere sulle sue guance rugose, lavando via la polvere e la sozzura dei bassifondi della Città Vecchia. «Però non ho dovuto aspettare molto per diventare vecchia e brutta!» si lamentò. Poi un denso velo cadde sui suoi pensieri. Leena si buttò sul suo mucchio di stracci e si addormentò, tenendo ancora stretto in mano il ritratto della bellissima ragazza. In fondo al disegno c'era scritta una parola, ma solo le prime due lettere - «ME» - erano leggibili. Sotto quella coppia di lettere c'era scritto il numero «100». Forse, aveva pensato la vecchia pazza, sarebbe diventata come il ritratto quando avrebbe avuto cento anni, o dopo cento anni a partire da allora... *
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Trovare della legna, o qualsiasi altra cosa da bruciare non era una cosa molto facile. La Città Vecchia sembrava enorme al ragazzino; non aveva mai osato allontanarsi troppo da casa, e anche se la sua abitazione cambiava ogni paio di mesi, riusciva sempre ad esaurire molto presto ogni fonte di combustibile nel raggio di un quarto di miglio dal luogo dove lui e Leena vivevano in quel momento. E questo era proprio uno di quei casi. Non
riusciva a trovare nemmeno una mela secca da poter bruciare, quindi era giunto il momento di esplorare qualcuno di quei vecchi e cupi edifici al limite del suo territorio. «Ehi, figliolo!» Il ragazzo sussultò a quel grido, e cominciò ad allontanarsi di corsa, ma una mano gli afferrò il vestito di sacco che aveva addosso. «Non ti ricordi di me?» La voce era molto rozza, ma non aveva nessun accenno di minaccia o di punizione. Il monello raccolse tutto il suo coraggio e girò il volto scavato verso quella voce. «Oh» fu tutto ciò che riuscì finalmente a dire. La faccia grossa e barbuta si addolcì in un sorriso amichevole. «Un ragazzo intelligente come te può dirmi di più. Ti darò qualcosa che ti aiuterà a parlare. Ecco, tieni» disse l'uomo porgendogli una mela. «Prova a mangiarla, e scommetto che a stomaco pieno sarai capace di parlare molto meglio. È una mela magica, lo sai?» Al ragazzo poco importava se fosse magica o no. Era affamato, come sempre. Afferrò quel frutto rosso e lo addentò senza dire una parola. Prima mangia, e poi sta a vedere cosa succede. Ben presto ebbe ingoiato anche l'ultimo boccone, compresi i semi e il torsolo. «Beh?» «Ne hai un'altra?» bofonchiò il ragazzo a bocca piena. L'uomo lo prese gentilmente per la spalla, sorridendogli allegramente. «Certo, e molte ancora, ragazzo. Casa mia è proprio là» lo informò. «Andiamoci un attimo. Potrai mangiare quello che vorrai e faremo quattro chiacchiere per ammazzare il tempo, finché non deciderai di andartene. Ti va?» L'uomo era molto grosso, molto più grande di Leena. Se decide di bastonarmi può farmi molto male, pensò il ragazzo. La sua risata era simpatica però, diversamente da quella della vecchia strega. Inoltre quell'uomo lo aveva salvato da un paio di ragazzi più grandi con cui aveva fatto a botte un paio di giorni prima: quei due non erano più tornati ad importunarlo. Quindi il ragazzo gli era grato anche per questo, ma non si fidava ancora di lui completamente. Tuttavia, avere qualcosa da mettere sotto i denti valeva la pena di correre qualche rischio. Gli occhi grandi e grigi del ragazzo incontrarono quelli piccoli e blu che si vedevano appena tra le folte sopracciglia dell'uomo. «Sì» rispose il ragazzo dopo qualche istante di esitazione. L'uomo si incamminò e il moccioso dovette allungare il passo per tener-
gli dietro. Entrarono in un vecchio edificio, passando per una porta robusta che l'uomo aveva aperto con una chiave. Non c'erano molti altri posti così ben custoditi da quelle parti. Leena gli diceva sempre di guardare bene luoghi come quello, perché se un giorno o l'altro ne avesse trovato uno aperto, chissà quanti tesori avrebbe potuto trovare all'interno! Ma finora non era mai entrato in posto così, e la cosa lo impressionava non poco. «Come ti chiami?» «Non so» rispose il ragazzo senza pensarci. Era troppo impegnato a guardarsi attorno. Aveva proprio trovato un tesoro! Sul pavimento c'era un vero tappeto, e piatti sulla tavola e un sacco di altre cose meravigliose. «Ma certo che lo sai» gli rispose l'uomo. «Tutti hanno un nome. Io mi chiamo Bru, per esempio. È questo il mio nome. Come ti chiami?» Il ragazzo ci pensò su un momento, poi disse la prima cosa che gli era venuta in mente: «Piccolo sporco bastardo.» «Ma no, questo non è un nome. Pensaci ancora.» Era evidente che l'uomo avrebbe continuato a interrogarlo finché non avesse saputo il suo nome. Forse gli avrebbe dato qualcos'altro da mangiare, così il ragazzetto si mise a pensare con impegno. La vecchia Leena lo aveva sempre chiamato «piccolo sporco bastardo» o qualcosa del genere. Non si trattava di veri nomi, ma semplicemente di insulti; idiota, lavativo, brutto scemo... bisognava inventare qualcosa... maiale, cretino, maledetto ingordo... ecco! Questo poteva andare: «Gord» disse. «Mi chiamo Gord.» «Gord... Beh, non è granché ma è sempre un nome. Sono lieto di conoscerti, Gord. Siediti su questa sedia, qui, e ti porterò una scodella di zuppa.» I grandi occhi del ragazzo si spalancarono ancora di più quando vide un grosso pezzo di carne galleggiare nella ciotola di legno. «Hai della carne?» «Certo, ragazzo... voglio dire, Gord. E ho anche un bel pezzo di pane da inzuppare nella minestra. Ora mangia, e poi parleremo un po'. Vedi, stavo proprio cercando qualcuno come te con cui parlare. Non ci sono molte persone da queste parti con cui vale la pena di farsi una bella chiacchierata.» «Perché proprio me?» cercò di chiedergli il ragazzo borbottando con la bocca piena. Nessuno aveva mai voluto niente da lui, se non rimproverarlo o farlo sgobbare. Forse quest'uomo dal volto peloso era un pazzo, un essere pericoloso! Aveva voglia di andarsene più in fretta possibile, ma non prima di aver finito tutta quella meravigliosa zuppa. Correndo con lo sguardo dall'uomo alla ciotola e viceversa, cominciò ad ingoiare il cibo più velocemente che poteva.
Bru notò l'improvvisa tensione di quel magro corpicino, e il sospetto che si leggeva negli occhi del ragazzo. Quell'omone lasciò che mangiasse in pace per qualche minuto, poi si alzò lentamente e si avvicinò alla credenza. «Non ce n'è più di zuppa, Gord. Ma credo che ormai sarai sazio. Ti darò un pezzo di formaggio da portar via» disse, tirando giù da uno scaffale un pacchetto. Gord si rilassava sempre di più ad ogni istante che passava. Se quell'uomo aveva intenzione di fargli del male, perché mai gli avrebbe prima riempito lo stomaco? Per quanto fosse un'idea difficile da accettare, Gord dovette ammettere che probabilmente quel barbuto sconosciuto voleva veramente parlare con lui. «Scommetto che mi piacerà molto parlare con te, ragazzo; sai, io ho una vista acuta, quasi magica come quel pomo che ti ho dato prima.» Questo era veramente troppo. «Quella mela non era magica!» «Guarda i miei occhi: vedi come sono blu?» rispose Bru. «Hai mai visto degli occhi così?» «No» dovette ammettere il ragazzo, «ma io non ho visto molta gente in vita mia. La vista acuta fa male?» L'uomo scoppiò in una sonora risata. «È una buona domanda, caro Gord. Vedi come parli bene, ora? Questo prova che la mela era magica, credo. E grazie alla mia vista, avevo capito subito che eri un ragazzo capace di chiacchierare e di fare delle domande intelligenti. Significa che hai la mente acuta, come la mia vista.» Gord fece un piccolo rutto di soddisfazione e sorrise appena. Si stava divertendo. Il cibo, per quanto ottimo, lo aveva mangiato per una questione di sopravvivenza. Ora invece provava piacere ad avere qualcuno come quell'uomo barbuto... Bru... con cui parlare. «Credi davvero che io abbia la mente acuta?» chiese Gord, non del tutto convinto di ciò che Bru gli aveva detto. «Leena dice sempre che sono...» «Lasciala perdere, almeno adesso che sei qui. Povera vecchia, è andata un po' fuori di testa» gli spiegò Bru, battendosi con l'indice la tempia per spiegare meglio al ragazzo quello che voleva dire. «Forse potresti darle un po' del tuo formaggio quando arriverai a casa.» «No! Potrei invece restare qui con te, Bru. Sono bravo a trovare le cose...» Il grosso uomo scosse pensosamente il capo. «Ho molto gradito la tua compagnia, Gord, ma io non sono mai a casa. Sta a sentire: prometto di venirti a cercare ogni volta che sarò da queste parti. Potremmo mangiare e
chiacchierare assieme. Io posso farti conoscere molte cose, e vedrai che ti divertirai!» Tutte quelle belle parole suonarono come vuote promesse alle orecchie del ragazzo, ma era talmente abituato alle delusioni che non aprì bocca per protestare. Così andavano le cose, e da molto tempo aveva imparato che uno piccolo e debole come lui doveva accettare le cose come venivano. «Certo... ora vado.» «No, non ancora, Gord. Devo tagliarti una fetta di formaggio. Cosa stavi cercando quando ti ho incontrato? Ti posso aiutare?» Di colpo Gord ricordò la minaccia di Leena. «Merda! Devo trovare subito della legna!» «Aspetta un attimo, Gord. Ecco il tuo formaggio» disse Bru, porgendogli una grossa fetta avvolta in un pezzo di stoffa. Quel pezzo di formaggio era più grosso del piccolo pugno del ragazzo. «Stai attento, mi raccomando! Non hai tasche, e non faresti molta strada tenendolo in mano. Aspetta, forse ho un sacchetto da darti. Così ci mettiamo dentro anche qualche pezzo di carbone e qualche legnetto. Credo che basterà a salvare la situazione quando arriverai a casa. vero?» E così dicendo guardò Gord con i suoi occhi blu e gentili, e il ragazzo si sentì felice. «Sarebbe...» «Grande! Abbiamo fatto un patto, Gord. Ora, dimmi un bel 'grazie' e saremo pari. Oramai siamo amici!» «Grazie» disse Gord umilmente, a bassa voce. Conosceva la parola 'amici', ma non l'aveva mai sentita usare in riferimento a se stesso. Poi gli venne in mente che gli amici si devono aiutare a vicenda, e si animò all'improvviso: «posso andare a prendere il sacco per te, se vuoi. Sono molto bravo ad andare a prendere le cose! L'uomo considerò per qualche secondo la proposta. «Beh, tu prendi un po' di carbone in quella cassa vicino al camino, e io andrò a prendere il sacco. Se guardi bene troverai anche dei pezzi di legno. Puoi prenderne quanti vuoi»Bru tirò fuori una sacca dal fondo della credenza. Era vecchia e aveva parecchi buchi, ma per Gord andava benissimo. Ci misero dentro parecchi pezzi di carbone e una manciata di legnetti, e poi appoggiarono in cima la fetta di formaggio invecchiato. Mentre si davano da fare, Gord continuava a pensare a qualcosa che lo stava tormentando. Quando anche il formaggio fu infilato nel sacco, guardò Bru e chiese: «Ma la mela era veramente magica?» «Ti senti diverso?»
Gord sorrise e fece di sì con la testa. Sì sentiva molto, molto diverso. Ora aveva persino un nome. «Era veramente magica.» «La magia è una strana cosa, Gord. Non è una cosa di cui è bene parlare, e ciò che può sembrare magico a qualcuno, ad altri sembra del tutto normale. Teniamo per noi il segreto della mela incantata, così resterà per sempre magica». Quindi Bru tirò su il sacco, soppesandolo un po'. «Non credo che riuscirai a portarlo fino a casa tua. Te lo porterò io, ma poi tornerò subito indietro. Me ne devo andare per un po'.» «Starai via per molto?» «Non ti preoccupare, Gord. Fra un paio di giorni, al massimo tre, sarò di nuovo qui, e mi avrai di nuovo fra i piedi. Tieni gli occhi bene aperti nel frattempo, e stai attento ai pericoli che ci sono da queste parti, va bene?» «Va bene!» Capitolo 6 Una doppia cinta di mura circondava la città. Tutta la città di Falcovia la Città Vecchia, la Città Nuova e anche la Fortezza - era chiusa là dentro. Le mura più esterne erano alte più di sette metri, e verso la base si allargavano. In cima c'era una fila di merli e di feritoie per proteggere i difensori in tempo di guerra. Tra le mura esterne e quelle interne si estendeva un tappeto d'erba verde largo un centinaio di metri. Il margine esterno di questo prato raggiungeva il livello dei bastioni delle mura esterne. Invece le mura interne erano molto più alte. La città era stata costruita sopra un'ampia collina, non tanto alta, ma molto estesa. Chi si trovava sul prato fra le due mura vedeva la città che si trovava più in alto rispetto a lui di una quarantina di metri, dove i merli muniti di piombatoi torreggiavano alti contro il cielo. Sulle mura esterne si alzavano ad intervalli regolari degli imponenti bastioni, in corrispondenza delle torri che davano movimento alle mura interne. Tra le porte esterne e quelle interne correvano delle strade, più basse rispetto al livello del prato. I viaggiatori che venivano da fuori dovevano prima passare per una delle porte esterne, poi percorrere una di queste strade affiancate da alte mura; poi entrare in una galleria che portava alla porta della cinta interna. Solo allora uno si poteva considerare finalmente entrato a Falcovia. Era veramente un luogo ben protetto. Se una parte delle mura esterne fosse caduta in mano nemica, le altre sezioni si potevano ancora difendere, e poi c'era sempre lo sbarramento delle mura interne. La
curva orientale della città seguiva il pendio della collina e il corso del Fiume Grigio. Quando la Città Vecchia era il centro di Falcovia, l'isola che sorgeva in mezzo al Fiume Grigio era stata fortificata per difendere la città da un eventuale attacco da est. Con l'espandersi della città le opere di fortificazione sull'isola erano state ulteriormente rafforzate. Ecco come era nato il Bastione, una fortezza così munita da resistere a qualsiasi assedio. Il Bastione, che ora aveva funzione sia di guarnigione militare che di zona residenziale, era collegato a Falcovia da due ponti. La Città Nuova fu edificata per collegare la fortezza militare che dominava il Fiume Selintan alla Città Vecchia, e nel processo di costruzione furono inglobate nuove aree per ospitare la popolazione sempre crescente. In quelle zone c'erano già dei piccoli villaggi, così gli ingegneri decisero di cingere di mura tutta l'area che si estendeva dalle colline a nord della città fino al punto in cui il Fiume Grigio e il Selintan confluivano. Le mura che in origine cingevano la città furono lasciate in piedi. Ovviamente non erano così imponenti come quelle esterne appena edificate attorno alla Città Nuova e alla Città Vecchia, ma sarebbero state utili a dividere le due zone e a proteggerle, proprio come le mura che circondavano il Quartiere degli Stranieri erano state lasciate in piedi anche quando quella zona era diventata parte integrante della città. La fortezza militare fu rinforzata e divenne il cuore del governo di Falcovia - chiamato appunto la Fortezza - mentre il vecchio fossato fu trasformato, assieme a molti altri, in un canale navigabile per i traffici fluviali che attraversavano la città. I quartieri di Hutsham e degli Shacks rimasero appollaiati fuori dalle mura esterne lungo il largo corso del Selintan. Ogni zona di Falcovia era distintamente separata dalle altre e aveva i propri ordinamenti. Questo valeva in particolar modo per le parti più antiche della metropoli: là, dove i vecchi edifici erano ammassati l'uno contro l'altro, venivano confinati gli individui meno desiderabili. Uno dei quartieri della Città Vecchia era chiamato, da tempo immemorabile, il Quartiere degli Stranieri. Questa zona era collegata al resto del mondo da quattro porte: una portava fuori dalla città, due alla Città Nuova e una nel settore verso nord nella Città Vecchia. Due grandi porte si aprivano all'esterno dai due distretti orientali della Città Vecchia, e altre due davano accesso verso ovest alla Città Nuova. Dal momento che la Città Vecchia era divisa in sezioni che ospitavano rispettivamente ladri, mendicanti, operai e birrai, e comprendeva anche il Quartiere dei Bassifondi, tutta la zona veniva chiusa al primo calare della notte. Le
mura servivano per tener fuori i nemici, e dentro gli indesiderati... almeno in teoria. I passaggi segreti sotto le mura erano numerosi, a partire dagli acquedotti e dalle fogne per arrivare a dei veri e propri cunicoli scavati per fuggire o per qualche altro scopo più ignobile. Allo stesso scopo servivano le porte di servizio abbandonate che ora erano mimetizzate da qualche edificio. Da lì si poteva facilmente giungere alla Città Nuova anche dopo la chiusura delle porte. Ma se i ladri o gli avventurieri riuscivano a spostarsi con una certa facilità, non erano invece in grado di farlo gli altri abitanti della Città Vecchia, e specialmente i poveretti che dimoravano nei Bassifondi: figurarsi un ragazzetto inesperto. «Cosa fanno là tutti quei cavalli?» chiese Gord spalancando gli occhi alla vista di una mandria di circa quaranta animali. Bru gli spiegò: «Sono le cavalcature di un plotone di Guardie. Non ci sono molti cavalleggeri in città, perché dei soldati a cavallo non potrebbero essere molto utili in un luogo così affollato.» Gord aveva già visto nel suo quartiere carri e altri veicoli, trainati da grossi cavalli da tiro o da vecchi ronzini. C'erano moltissimi asini e muli, e ogni tanto compariva qualche visitatore a cavallo. Una persona a piedi poteva facilmente sfuggire ad un uomo a cavallo in quel dedalo di vicoli, scavalcando muri crollati, salendo contorte scalette o percorrendo qualche stretta passerella. «Perché non ci sono... cavarreggeri...?» «Beh, qui, nella zona Verde, potrebbero essere utili: non ci sono edifici. Se un nemico riuscisse a penetrare oltre le mura esterne e giungere fin qua, la cavalleria potrebbe respingerlo. Ogni sezione della zona Verde ha un paio di squadroni a cavallo. Se un esercito nemico entrasse in città, la cavalleria si metterebbe all'opera per difendere la zona minacciata. Capisci?» Si erano avvicinati a quei grandi cavalli, e Gord continuava a pensare a quello che Bru gli aveva appena detto. «Zio Bru, ma se i cavalli non vanno bene all'interno della città, allora perché li portano qui? Non riesco a capire.» L'uomo scoppiò a ridere, come spesso faceva quando Gord gli poneva delle domande. Il ragazzo si era abituato a quegli scoppi di ilarità, e sapeva che Bru non lo prendeva in giro. Dopotutto lui e quell'uomo che ora chiamava Zio Bru erano buoni amici da molto tempo - doveva essere circa un anno, pensava, anche se la sua mente infantile non riusciva ancora a quantificare bene il passare del tempo. Bru aveva aiutato Gord a capire un sacco di cose. «Ci sono dei posti dove la cavalleria può essere usata. Assieme a una compagnia di fanti, può dare un grosso aiuto a respingere un invaso-
re.» «Quando saremo attaccati?» «Mai, spero. E tutti dovrebbero sperare la stessa cosa, perché in tempo di guerra si soffre molto, e la gente muore.» «Ma molta gente sta male anche adesso, e io ho visto delle risse in cui qualcuno veniva ammazzato, come quando si scontrano delle bande rivali» spiegò il ragazzino. «Quelle risse sono come le guerre, Gord, ma sono guerre molto piccole. Mettile tutte assieme, tutte quelle che tu hai visto fin'ora, e avrai solo una piccola idea di quello che è una vera guerra». Bru continuò a spiegare perché si facevano le guerre, cercando di usare un linguaggio molto semplice. «Ma allora, qui a Falcovia siamo liberi?» «Più o meno, Gord.» «Ma allora com'è che io non posso andare in nessun luogo?» E quest'ultima era un' obiezione, un'accusa più che una domanda. «Ogni volta che cerco di andare da qualche parte qualcuno mi dà la caccia, o i soldati alla porta mi dicono di tornare a casa.» «Ci sono alcune cose della libertà, Gord, che capirai solo quando sarai grande. Andiamo a vedere se i soldati ci lasciano salire in cima a quella grande torre. Non sarebbe bello poter vedere tutta la città dall'alto?» «Puoi scommetterci!» Ripassarono per la piccola porta, da cui erano usciti per raggiungere la striscia di prato fra le due mura. Una guardia stava camminando distrattamente là sotto, e dopo un breve scambio di parole e di una moneta, ai due fu permesso di salire in cima all'alto edificio che sovrastava la porta. Gord non aveva mai visto un paesaggio del genere. Bru gli indicava il luogo dove vivevano, le mura interne che circondavano la Città Vecchia, e dei luoghi ancora più lontani oltre a quelle. Mentre il vento scompigliava i suoi capelli neri, il ragazzo indicò degli alti alberi che crescevano all'interno di un parco. «Quando sarò vecchio come te, Zio Bru, me ne andrò a vivere laggiù» disse finalmente. «Chissà che non sia vero, Gord.» Leena non lo importunava quasi più, grazie al suo amico. Tutto ciò che la vecchia voleva da lui era del cibo o qualche altro genere di conforto. Arrabattarsi per la sopravvivenza era il destino di tutti i poveri della Città Vecchia, specialmente di quelli che vivevano in quei putridi bassifondi. Le immondizie e ogni genere di rifiuti erano la principale fonte di sostenta-
mento per quei disgraziati. Ogni tanto si riusciva a trovare qualcosa di valore, che subito veniva venduto, e il denaro ricavato serviva ad acquistare le piccole cose che tutti sognavano: birra, vino e altri liquori, a volte del vero cibo, un cappotto caldo o qualcos'altro di particolarmente necessario. La più piccola moneta in corso in quella città, il drab di ferro, era un vero tesoro per Gord. Ci si sarebbe comperato una focaccia secca, una rapa, o qualcos'altro di commestibile. Quattro drab equivalevano a una moneta di ottone. Gliel'aveva insegnato Bru. Con una di quelle monete si poteva comperare un dolce, una enorme mela sugosa, persino una grossa candela di sego. Poi veniva una moneta chiamata zee. Gord ne aveva trovata una, una volta, e aveva sperato di potersi comperare un paio di vecchie scarpe dallo straccivendolo. Ma Leena aveva trovato la moneta di bronzo, l'aveva presa e aveva picchiato Gord per aver cercato di nasconderla. Naturalmente l'aveva poi usata a suo beneficio personale. Doveva ancora rovistare fra le immondizie, ma non così spesso come prima. Se c'era il suo amico, Gord non aveva bisogno di scavare fra i mucchi di immondizie o di finire nei guai per trovare qualcosa, e Leena non gli chiedeva mai da dove arrivava la roba che portava a casa. Se portava del combustibile, del cibo, o qualche vecchio vestito, tutto ciò che la vecchia pretendeva era di tenere per sé gran parte del bottino. Zio Bru lo faceva lavorare, oppure Gord aveva l'obbligo di imparare certe cose - e questo gli risultava a volte più faticoso dei lavori che l'amico gli assegnava. In cambio dei suoi sforzi, Gord aveva da mangiare gustose pietanze e a volte riceveva dei regali. I vecchi abiti che aveva addosso non gli stavano molto bene, ma almeno aiutavano quel ragazzino striminzito a stare caldo e asciutto. Lo Zio Bru aveva persino insegnato a Gord a lavarsi e a lavare i suoi vestiti ogni tanto. «Perché?» il ragazzo aveva chiesto all'amico. «Se non vuoi che ti mandi via di qui» gli aveva detto Bru, «devi darti un'aria un po' più presentabile». Bru gli aveva anche insegnato a parlare un po' meglio, e pian piano il ragazzo cominciò ad avere rispetto per se stesso e per gli altri, e a comportarsi di conseguenza. Adesso capiva che i ragazzi del Quartiere dei Bassifondi erano per lo più dei piccoli delinquenti, e dentro di sé aveva deciso che non sarebbe mai diventato come loro. Senza che ne avesse la consapevolezza, il ragazzo riusciva a calcolare piuttosto accuratamente il passare del tempo. Il giorno in cui erano usciti nella zona Verde, ed erano saliti sulla torre per ammirare la città dall'alto, lui e Bru erano amici da un anno esatto. Da allora i due si erano visti piut-
tosto spesso. Qualche volta il suo amico restava per un'intera settimana, poi se ne andava per il doppio del tempo. Una volta Gord gli chiese, visto che Bru aveva intenzione di stare via per molto tempo, perché non gli dava altro cibo e magari anche qualche moneta, così non sarebbe dovuto andare a rovistare fra i rifiuti per sopravvivere. «Non sarebbe giusto per nessuno dei due, Gord» l'uomo gli aveva risposto. «Non ti devi guadagnare quello che ti do?» Gord dovette ammettere che quelli erano i patti. «E allora che razza di guadagno sarebbe il tuo, se ti dessi delle cose solo per il fatto che non ci vediamo per un po'?» «Beh, ma chi l'ha detto che ci si deve guadagnare da vivere?» Gord era molto scosso e contrariato. «Tu hai tanto cibo e tanti soldi, e anche tutto il resto. Se non puoi essere mio padre e farmi vivere con te, allora potresti almeno darmi cibo e denaro a sufficienza, così la vecchia Leena non mi picchierebbe e non sarebbe più tanto cattiva con me. Potresti darmi qualcosa da mangiare, così non sarei affamato per tutto il tempo che stai via!» Dopo quest'ultima accusa Gord non riuscì più a trattenersi e scoppiò in lacrime. Bru si girò, in modo che il ragazzo non riuscisse a vedere le lacrime che bagnavano anche i suoi occhi. «Forse potrei, ragazzo, o forse no. Ma non è questo il punto. Io sono tuo amico e anche il tuo maestro. Le cose bisogna guadagnarsele, oppure comperarle. Guadagnarsi qualcosa significa lavorare come fai tu per me, eseguendo i piccoli compiti che ti affido. Altre volte significa dover rinunciare a qualcosa per poter imparare un mestiere, lavorare e quindi guadagnare del denaro. E qualche volta la gente guadagna anche quello che non vorrebbe.» «Cosa vuoi dire?» «Hai visto quei prigionieri nella casa di lavoro? Scommetto che hai notato anche le forche, là vicino». Il piccolo Gord fece cenno di sì, ma non era sicuro di aver capito cosa c'entrasse tutto questo con il guadagno. «Beh, ragazzo, non sempre si ottiene la giusta ricompensa per quello che si fa, e invece c'è della gente che ottiene molto facendo delle cose cattive. Però a volte questa gente malvagia ottiene ciò che si merita.» «Ah...» Gli occhi di Bru erano ancora bagnati di lacrime, ed egli sorrise al suo piccolo amico. «E così, mi capisci, devi essere in grado di guadagnarti da vivere da solo, non c'è via d'uscita. E soprattutto, mio caro Gord, non puoi sempre contare su di me. Non è che io non voglio esserti amico, e aiutarti» continuò Bru tutto d'un fiato, «ma non possiamo essere sicuri che io ci sarò
domani e nei giorni a venire.» Gli occhi di Gord esprimevano ancora qualche dubbio. «Ma tu puoi fare quello che vuoi.» «Vorrei che fosse vero, piccolo amico, ma non è così. Pensa: cosa accadrebbe se un carro mi investisse? Morirei. Supponi che dei banditi mi assalgano e mi uccidano! Lo so, è difficile pensare a queste cose per un ragazzo come te, ma devi essere forte e affrontare il mondo così com'è». E pronunciando queste ultime parole Bru prese la mano del ragazzo e sorrise. «Ma ora basta con questi discorsi! Andiamo a fare un giro, qui nei dintorni, e vediamo se c'è qualche posto interessante dove puoi tornare da solo un'altra volta.» Passarono altri mesi, e Gord veniva spesso visto nel quartiere assieme al suo amico. Le bande li odiavano: non potevano far niente contro quel grosso omone che li metteva in fuga ogni volta che provavano a molestarlo. Forse, presi uno per uno, i membri di quelle bande di giovinastri avrebbero desiderato segretamente avere un amico e protettore così; ma per invidia o per qualche altra ragione, avevano giurato di fargliela pagare a Gord appena l'avessero pescato in giro senza il suo amico barbuto. Il ragazzo doveva stare veramente molto attento quando usciva per il suo giro quotidiano, perché quei teppisti lo controllavano e gli rubavano tutto ciò che aveva con sé. Quando Gord si lamentò con Bru di uno di questi episodi, il grosso omone gli sorrise benevolmente e gli disse che avrebbe potuto insegnargli qualcosa, ma Gord avrebbe dovuto imparare da solo molte altre cose. Solo così il ragazzo sarebbe stato in grado di sopravvivere in quella dura realtà. «Ti ricordi come si conta?» Gord, pieno d'orgoglio, contò fino a venti, ed era pronto ad andare avanti fino a cento quando lo Zio Bru lo fermò alzando la mano. Chiese a Gord di scrivere le cifre che aveva appena elencato. «Facile» rispose il ragazzo, e con il dito della mano cominciò a scrivere nella polvere. «Questo è un uno... questo è un due... ed ecco il...» Una pedata lo colpì in pieno mandandolo lungo disteso nella polvere. I numeri che Gord aveva disegnato con tanta cura furono cancellati dal capitombolo. «Vattene, piccolo sporco mendicante!» urlò Bru in direzione di Gord, quindi si girò e si allontanò camminando. «Se ti pesco ancora a cercare di derubarmi ti spezzerò il collo!» gridò minaccioso mentre se ne andava. Non poteva essere vero! La mente di Gord sembrava impazzita. Leena
sì, avrebbe potuto fare una cosa simile, ma non lo Zio Bru. Non si fidava di nessun altro che di lui. e il suo amico non avrebbe mai tradito la sua fiducia! Bru continuava ad allontanarsi a grandi passi, senza nemmeno voltarsi un attimo per vedere se Gord si fosse fatto male. Forse era un nuovo gioco, o una lezione... A quel pensiero Gord si tirò su e pensò di chiamare lo Zio Bru a gran voce. Poi vide due uomini dall'aspetto trasandato sbucare da un vicolo là vicino. Con loro c'era un grosso mastino, e quella presenza bastò a soffocare in gola le parole di Gord. Il ragazzo deglutì e si ritrasse. Conosceva un trucco per non farsi notare. È una cosa che tutti i bambini sanno fare, ma funziona solo con gli adulti. Nei bassifondi era un trucco essenziale per la sopravvivenza. Nessuno dei due uomini lo guardò. L'enorme cane vide il ragazzo, poi si girò a guardare l'uomo che si allontanava, dal momento che era quello l'oggetto d'attenzione del suo padrone. «È lui» disse uno dei due. «Giriamo l'angolo, allora, e lo prenderemo» rispose l'altro, mentre lo Zio Bru spariva lungo la strada. I due individui si misero a correre, e il mastino tirava il guinzaglio. Girarono l'angolo e sparirono dalla vista in pochi secondi. Le gambe magrissime di Gord si muovevano all'impazzata, e il cuore gli batteva in petto quasi allo stesso ritmo del movimento dei piedi che volavano sul terreno. Il ragazzo si lanciò dietro a Bru, ai due orribili uomini e al temibile cane. Riuscì a raggiungere la strada in tempo per vedere i due che inseguivano il suo amico infilarsi in un passaggio molto stretto, dove non riuscivano a camminare a fianco a fianco. Quello che teneva il mastino al guinzaglio entrò per primo, con il cane che ansimava tirando a più non posso. Gord rallentò il passo, ma continuò ad avanzare: il secondo degli inseguitori si era fermato dentro il vicolo. Poi un orrendo ringhio echeggiò da quella stradina. Il mastino stava attaccando lo Zio Bru! Quel rumore feroce si trasformò improvvisamente in un forte ululato e terminò con un lamento acuto che si interruppe bruscamente. «Merda!» esclamò a gran voce l'uomo che stava aspettando all'ingresso del vicolo. Poi estrasse una piccola spada da sotto la giubba e si infilò di corsa nella stradina. Immediatamente Gord si precipitò a vedere cosa stava succedendo. Appena giunse all'imboccatura del vicolo sentì dei rumori di lotta. Sbirciò oltre l'angolo, pronto a correre in aiuto del suo unico amico pur sapendo bene di essere troppo piccolo e debole per fare qualcosa.
Il vicolo era corto, non più di una dozzina di passi. Dopo, lo spazio fra gli edifici si allargava. Gord riusciva a vedere le sagome dei tre uomini oltre la fine della strettoia. Uno di essi era sicuramente lo Zio Bru, a giudicare dalla stazza e dalla barba. Era impegnato in un combattimento corpo a corpo con il più piccolo dei due uomini. L'altro si agitava attorno ai due, con la spada in mano, aspettando il momento migliore per colpire. Nessuno lo stava osservando, così Gord si lanciò di corsa fino al punto in cui la strettoia si allargava, stando sempre attento a nascondersi nell'ombra. All'inizio dello slargo poteva vedere il grosso mastino disteso a terra. Dalla posizione della testa capì che gli era stato spezzato il collo. Dopo una breve occhiata al cadavere del cane, l'attenzione del ragazzo tornò ai tre che stavano combattendo. Bru aveva gli abiti stracciati, e il sangue gli usciva da un paio di graffi profondi sul collo, ma sembrava stare ancora bene. L'uomo più basso aveva un pugnale, ma Bru riuscì ad afferrargli il polso e a bloccarglielo con la sua stretta d'acciaio, mentre lo afferrava in un abbraccio violento e si serviva del suo corpo come di uno scudo. Il pugnale si allontanava sempre di più da Bru, che continuava a torcere il braccio dell'assassino. Gord pensava che Bru se la sarebbe cavata facilmente, se non fosse stato per quell'altro malvivente con la piccola spada. «Fai fuori questo figlio di puttana!» urlò l'uomo con il pugnale. La sua voce esprimeva tutto il dolore che stava provando; ma quando cercò di parlare ancora, fu invano: Bru gli aveva stretto la sua presa d'acciaio attorno al collo. «Tienilo fermo!» ansimò il secondo cercando di girare intorno ai due per trovare un varco dove colpire. Ma il grosso uomo barbuto continuava anche lui a girare senza sosta, anticipando ogni movimento del nemico armato di spada. Dopo aver cercato ancora di colpire, il secondo malvivente gridò: «Tienlo fermo, dannazione, o non riuscirò mai a centrarlo!» «Questo bastardo mi sta spaccando il braccio» cercò di rispondere l'uomo che Bru continuava a tenere ben stretto. «Fai qualcosa!» Proprio in quel momento la mano che teneva il pugnale si mosse all'indietro, e la bocca dell'uomo si spalancò in una smorfia di dolore. Si sentì un piccolo rumore secco, e il coltello gli cadde di mano. Il secondo assalitore decise di tentare il tutto per tutto: fece un passo avanti portando un affondo. «Prendi questo!» gridò quando la lama penetrò la carne. Poi si sbiancò di colpo: aveva colpito la schiena del suo compagno. L'uomo mollò l'im-
pugnatura dello spadino, fece dietrofront e fuggì di corsa nel vicolo. In pochi secondi era sparito. «Zio Bru! Stai bene?» gridò Gord dal suo nascondiglio. Il suo amico era là, e aveva ancora tra le braccia il cadavere dell'uomo con lo spadino infilzato nella schiena. «Cosa fai qui?» La voce di Bru sembrò strana alle orecchie di Gord. L'uomo si girò lentamente, continuando a sorreggere il morto. Il volto passò da un'espressione tesa a un tenero sorriso quando vide il ragazzino uscire dall'ombra. «Non mi dar bada, Gord» disse dolcemente. «Sei un vero amico, e ti ringrazio. Adesso afferra l'impugnatura della spada e tirala fuori. Piano, mi raccomando.» Era terribile ciò che gli era stato chiesto. Gord non voleva farlo. Restò fermo, guardando incerto lo Zio Bru. «Non voglio toccarlo...» riuscì a dire. «Fai come ti dico, piccolo stupido!» gli occhi di Bru si stavano stringendo e la voce era dura e decisa. «Fallo subito, e bene. Altrimenti non sarò più tuo amico!» Dopo il calcio di prima e quello strano comportamento, Gord non era più tanto sicuro che Bru fosse ancora suo amico, ma capì che doveva obbedire. Tese le mani e toccò l'impugnatura della spada. «Afferrala bene, ragazzo, così» disse l'uomo per incoraggiarlo. Gord fece come gli veniva detto e tirò forte con le sue piccole mani. La lama cominciò a scivolare lentamente, poi venne fuori tutta d'un colpo. Gord si sbilanciò quando la lama si liberò all'improvviso. «Aaaah!» urlò Bru lasciando cadere il cadavere sul selciato. «Bravo, ragazzo, mi sento molto meglio, ora!» Solo allora Gord capì cos'era successo. Quando l'assassino aveva colpito l'amico, la lama sottile della spada lo aveva trapassato da parte a parte e si era conficcata anche nel corpo dello Zio Bru. Gord l'aveva estratta dalla schiena dell'assassino, e dal ventre di Bru. «Sei ferito gravemente?» Aveva visto che l'amico tamponava la ferita con degli stracci e che il suo panciotto era inzuppato di sangue. «Sì, purtroppo, ragazzo. Starò meglio quando mi sarò fatto cucire questa brutta ferita. Sei stato proprio uno stupido a seguirmi, Gord» aggiunse infine con uno sguardo di rimprovero. «Quegli uomini ti stavano seguendo. Li ho visti mettersi alle tue calcagna con il cane, e dovevo vedere cosa stava succedendo. Io credo che tu sia mio amico, anche se sei stato cattivo con me, e gli amici devono aiutarsi - sei stato tu a dirmelo». L'espressione di Gord era un misto di insicurez-
za e di sfida. Bru avrebbe forse rinnegato le sue stesse parole? «Sì, hai ragione di nuovo, Gord. Ma vieni, ora, dobbiamo andarcene da qui più in fretta possibile. Non vorrei che qualcuno ci vedesse - specialmente assieme». L'uomo raccolse la spada, la pulì passandola sugli abiti del morto, e la nascose sotto la giacca. «Quello che è scappato via ti ha visto?» chiese mentre usciva dal vicolo assieme al ragazzo. «No, nessuno dei due mi ha visto. Solo il cane, prima.» «Non ha importanza. Ma sei proprio sicuro che gli uomini non ti abbiano visto?» «Oh, sì! Sono proprio sicuro. Volevano solo vedere dove andavi tu, così non si sono accorti che li stavo seguendo.» «Bravo. Molto bene. Ormai siamo abbastanza lontani. Tu ora vai a casa tua e dimentica tutto quello che è accaduto. Dimentica anche me! Non dovrai mai raccontare ciò che è successo a nessuno, né a Leena, né a qualche amico; a nessuno insomma. Lo stesso vale per me. D'ora in poi, tu non hai mai conosciuto nessuno di nome Bru, non hai mai visto nessuno che mi possa assomigliare. Capito?» Gord scosse il capo. «No. Non posso fare una cosa del genere. Gli amici non si dimenticano l'uno dell'altro... anche se uno è cattivo e dà calci all'altro.» «È stato necessario. Mi dispiace ma ho dovuto farlo, Gord: tu sei ancora il mio buon amico. Ma, vedi, quei due ci stavano spiando. Se avessero capito che siamo amici avrebbero ucciso prima te, e poi mi avrebbero inseguito.» «Ecco perché l'hai fatto!» Gord era felicissimo di quella rivelazione. Ora capiva l'improvviso cambiamento del suo amico. «L'hai fatto perché quei due pensassero che ero un ladruncolo!» Il ragazzo si sentiva al settimo cielo. Poi gli venne in mente qualcos'altro: «Mi hai salvato la vita...» «Forse, forse. Ma non ha più importanza ora, perché ormai è tutto finito». Bru si sedette a terra e appoggiò la schiena ai mattoni sbriciolati del vecchio edificio. Gli si leggeva in volto quanto stesse soffrendo, e ansimava mentre cercava di sistemarsi in una posizione più comoda. «Il combattimento mi ha sfiancato, Gord. Il vecchio Zio Bru deve riposarsi un momento. Siediti qui vicino a me, che ti insegno qualcosa.» Non suonavano molto bene quelle parole al ragazzo. Gord non aveva nessuna voglia di fare lezione in quel momento, tuttavia fece ugualmente ciò che Bru gli aveva chiesto. «Cosa vuoi dire?» L'uomo accarezzò Gord sulla testa, scompigliandogli i capelli neri. «Gli
uomini che hai visto erano assassini. Uno di loro lo è ancora, ovviamente. Presto tornerà con altri assassini, e il loro numero sarà tale che riusciranno a portare a termine il loro lavoro. Io devo sparire prima che tornino, ma anche tu non sei al sicuro: forse quello che è riuscito a scappare ti ha notato. Anche se ha visto che ti davo un calcio, potrebbe cercare di rintracciarti per farti un sacco di domande.» «Ma io non gli direi nulla» disse fieramente Gord. «Io e te siamo amici, e gli amici non fanno la spia.» «Questo è sicuro» esclamò Bru con un sorriso, ma subito dopo la sua faccia tornò molto seria. «Però quelli della sua razza hanno dei metodi efficaci per farti parlare. Userebbero coltelli, carbone ardente, e ti farebbero così male che racconteresti ogni cosa piuttosto che continuare a soffrire. È gente orribile, diabolica. Ecco perché devo andarmene e non tornare mai più. E tu non dovrai farti vedere in giro per una settimana, e anche dopo dovrai stare molto attento per un bel po'.» «Non ti rivedrò mai più?» Gord non poteva credere a ciò che stava accadendo. «Portami via con te.» L'uomo strinse le labbra. «Devo spostarmi in fretta e viaggiare molto. Non riusciresti a tenere il mio passo e mi costringeresti a rallentare. Non sono sicuro di sfuggire alle ricerche neanche da solo. Quella è gente decisa, pronta a tutto pur di far fuori quelli che sono sulla loro lista». Guardava quel volto sottile e quegli occhi tristi. «Tu non vuoi che io venga ammazzato, e io non voglio che ciò accada a te. La miglior cosa che due amici possano fare in una situazione del genere è separarsi, per avere entrambi maggiori possibilità di sopravvivere.» Gord cominciò pian piano a capire. «Sei veramente in gamba, Zio Bru. Devi andartene, e io resterò qui e starò muto come un pesce, e nessuno mi vedrà in giro.» «Bene. Siamo d'accordo, allora» disse Bru con un sospiro di sollievo. Cercò di rialzarsi in piedi e il ragazzo lo aiutò come poteva. «Ora vado a farmi ricucire questo buco. Ancora una cosa, amico mio. Non tornare mai a casa mia, mai più! Io non ci metterò più piede, e tu dovrai fare altrettanto. Non avvicinarti nemmeno. La terranno d'occhio per settimane, forse per mesi!» «Ma ci sono dentro tutte le tue cose! Bru, non puoi andartene e lasciare tutto là!» «Le 'cose' non hanno tanta importanza, lo sai, vero? Cosa può valere il denaro, la ricchezza, se sei morto? Niente! Lascia che quei demoni si
prendano tutto: noi dobbiamo restare vivi!» Gord non riuscì a trattenersi: «Devi essere un uomo molto importante se quegli assassini ti cercano. Sei un principe travestito? Devi dirmelo, per favore! Stai per andartene, e chissà quando tornerai... Devo saperlo, Zio Bru.» L'uomo ci pensò su un attimo. «Hai ragione, Gord. Non credo proprio che ci rivedremo per molto, temo; forse non ci vedremo mai più, ad essere sinceri, e devo essere sincero con un amico come te. Hai ragione per quel che riguarda i miei nemici. Hai ragione a credere che sono importante. Non sono un principe, niente di tutto ciò. Sono un uomo qualunque che si sta battendo per una giusta causa. Ma ho qualcosa che quei malvagi vorrebbero avere. Se riuscissero a prendermelo, allora la loro razza diventerebbe ancora più forte e potrebbe fare delle cose terribili contro la povera gente. Io devo fare di tutto perché falliscano.» Gord abbracciò l'amico all'altezza della vita, e Bru strinse le piccole spalle del ragazzo con la mano libera. «Ti penserò sempre quando te ne sarai andato, Zio Bru. Riuscirai a sconfiggere quella gente cattiva, lo so! Nessuno è così grande e forte come te!» «Buona fortuna, ragazzo» disse l'uomo abbracciandolo per l'ultima volta. Poi se ne andò. Gord lo guardò allontanarsi con gli occhi annebbiati dalle lacrime. Bru procedeva con passo sicuro, e non si girò mai a guardare il ragazzo. Dopo un minuto sparì dalla vista, ma Gord restò fermo immobile a fissare la strada dove aveva visto per l'ultima volta il suo amico. La tristezza stava per sopraffarlo. Anche se era ancora molto giovane Gord capì in quel momento che una parte della sua vita. l'unica parte felice, si era appena conclusa. Da allora in poi Gord sarebbe stato da solo contro il mondo, e non avrebbe più avuto un amico, un maestro, un benefattore, un protettore ad aiutarlo. Quando tornò a casa quella sera, trovò Leena più infuriata del solito perché non aveva portato nulla. Ma nonostante le sue sfuriate e le minacce, la vecchia non riuscì a cavare una parola dalla bocca di Gord. Alla fine si decise ad afferrarlo e a scuoterlo fino a fargli battere i denti dalla paura. Una piccola borsa di pelle cadde a terra da sotto il camiciotto del ragazzo. «Eh? Cos'è questa roba?» esclamò la vecchia abbassandosi a raccogliere l'oggetto. Qualcosa tintinnò all'interno e la donna cercò affannosamente di aprire la borsa. «Volevi nasconderla alla vecchia Leena, vero?» disse colpendolo alla testa con un pugno così forte che il ragazzo cadde a terra di-
steso. Gord cercò di sollevare la testa e di scuoterla un pochino per farsi passare il senso di stordimento. Vide Leena estrarre una dozzina di monete d'argento dal borsellino e rigirarsele in mano, continuando a ripetere «nobili d'argento, bellissimi nobili d'argento». Gord capì che Bru gli aveva infilato la borsa nella camicia quando si erano salutati. Ora Leena si era presa il denaro, ma non aveva importanza. Ciò che contava era sapere che il suo amico si era preoccupato per lui. E questo Leena non avrebbe potuto portarglielo via. Capitolo 7 Quanto tempo era passato? Tre o quattro anni? Gord non riusciva a ricordarlo con esattezza, e non riusciva più a ricordare molto dell'amico che se n'era andato tanto tempo prima. In effetti il ragazzo pensava di rado a Bru, oramai. Restare vivo era già abbastanza difficile, e richiedeva tutte le attenzioni di cui era capace. Tutto ciò che possedeva era la velocità, l'agilità e l'astuzia. Gli altri erano tutti più grandi, più forti e più malvagi. Gord li odiava per questo. Odiava il solo pensiero che Leena, sua madre adottiva, potesse essere più forte di lui, ma la realtà era quella. I gatti randagi, e persino i ratti di fogna sapevano combattere meglio di lui. «Esci e vai a cercare del cibo» Leena gli avrebbe ordinato, come al solito. Se Gord non si fosse affrettato ad obbedire, la vecchia lo avrebbe picchiato col bastone, e a lui non sarebbe rimasto altro che incassare e uscire come lei gli aveva detto. Gord non osava provare a sopravvivere da solo. La gente dei bassifondi credeva che quella vecchia fosse una strega, e cercava accuratamente di evitare lei e il ragazzo che ci viveva assieme: tutto questo dava una certa sicurezza a Gord. «Ehi, tu, nanerottolo! Vattene via di qua!» Gli altri ragazzini del quartiere gli gridavano sempre qualche frase del genere, e Gord se la dava a gambe più veloce che poteva. Un paio di volte aveva cercato di affrontare quegli attaccabrighe invece di scappare, ma era troppo piccolo, troppo magro, troppo debole. «Guarda quel moccioso laggiù, quello nero!» Così dicevano gli adulti quando lo incontravano, specialmente se avevano qualcosa da proteggere. Gord doveva ammettere che il loro comportamento non lo sorprendeva affatto. L'unico motivo per cui si sarebbe avvicinato ad un'altra persona era quello di rubare del cibo o qualcos'altro e scappare subito via.
Un amico? Non esisteva una persona del genere nella sua vita. Leena lo usava e lui usava la vecchia. Era pronto ad ammetterlo. Aveva mai avuto un amico? Bru era diventato un ricordo annebbiato, e Gord a volte si chiedeva se fosse mai esistito, o se non era semplicemente il frutto della sua immaginazione. Ma aveva poca importanza,ormai. Stava crescendo, e diventava sempre più sicuro di sé. Anche se era piccolo, sapeva sfruttare la sua intelligenza e la sua velocità. Aveva bisogno solo di Leena: anche se con lui era sempre stata avara e cattiva, gli dava comunque un asilo sicuro. Un giorno sarebbe stato più grande e più forte, e allora avrebbe lasciato quell'orribile donna al suo destino. Si sarebbe procurato un'arma, un grosso coltello o qualcosa del genere. Sarebbe stato veloce, alto e forte. E gliel'avrebbe fatta vedere a tutti quegli insolenti che osavano chiamarlo nanerottolo o vigliacco! «Ehi, tu, piccolo pezzo di merda! Cosa fai là seduto? Vai a cercare qualcosa di buono da mangiare per la vecchia Leena!» Si alzò in fretta e uscì. Per un attimo pensò di urlare qualche insulto alla vecchia, ma perché peggiorare le cose? Dopotutto aveva fame anche lui, e se adesso diceva qualcosa, quando tornava a casa la vecchia gli avrebbe fatto rimangiare le sue parole. Gord decise di prendere la scodella e di dirigersi verso la zona dei birrai per procurarsi qualcosa da mettere sotto i denti. C'era parecchio da camminare e molti luoghi da evitare, ma il ragazzo riuscì a raggiungere la sua meta e a tornare nel giro di un paio d'ore. La sua ciotola di metallo era piena per tre quarti di un pastone di grano, roba che i birrai buttavano via. Quella porcheria non era buona da mangiare, ma gli sarebbe servita ad un altro scopo. Usando un po' di quel grano come esca, Gord preparò una trappola per i piccioni che infestavano in gran numero i bassifondi. Leena di solito non ne mangiava più di due, così sarebbe rimasto qualcosa per lui, se riusciva a catturarne qualcuno. Il resto del pastone l'avrebbe usato come esca per i topi. Odiava nutrirsi di quegli sporchi roditori, ma a volte gli capitava di catturarne uno, magari colpendolo con una pietra. Quel giorno si mangiava il topo. Leena lo scuoiava e lo sventrava, e poi lo metteva in pentola a bollire. La zuppa di topo e di verdure marce era una delle pietanze migliori che la vecchia gli preparava. Un brusio lo riportò alla realtà. Una mezza dozzina di uccelli grigi stavano beccando il molle pastone che Gord aveva preparato. Il ragazzo sbirciava dal suo nascondiglio dietro una baracca, tenendo stretto in mano una lunga cinghia di cuoio. La cinghia era legata ad un bastoncino, e quest'ultimo teneva in equilibrio la vecchia porta della baracca. Sotto la porta Gord
aveva sparso la maggior parte del grano. Gli uccelli si stavano avvicinando alla trappola, dopo aver mangiato il pastone sparso là intorno. Gord attendeva con impazienza il momento giusto, e quando fu sicuro che quattro o cinque piccioni si trovavano proprio sotto la trappola, tirò la cinghia con tutta la forza che aveva. La porta cadde di colpo intrappolando gli animali. Gord si lanciò in avanti cercando di afferrare i piccioni prima che scappassero; riuscì a prenderne tre, e gli tirò il collo senza tanti complimenti. Dopo aver infilato le prede nella sacca del suo mantello, una specie di poncho legato in vita con degli spaghi, Gord si diresse verso casa. Almeno quella sera Leena sarebbe stata contenta, lui si sarebbe saziato e tutto sarebbe andato per il verso giusto. Forse era veramente un debole nanerottolo, ma era intelligente, e ciò compensava la sua debolezza fisica. Che lo chiamassero pure codardo, ma dentro di sé Gord aveva stabilito che era meglio essere senza fegato e vivi, che pieni di coraggio e morti. E così i giorni passavano. C'era sempre qualche problema, e non mancavano i piccoli trionfi come pure le piccole tragedie nella grama esistenza di Gord. Dopo ogni incidente, la sua prospettiva nel guardare le cose cambiava. La differenza era piccolissima, così impercettibile che non si poteva neppure notarla. Solo quando pensava al passato il ragazzo si accorgeva di qualche cambiamento. Non era cresciuto molto in altezza, e i suoi muscoli si erano ingrossati di poco. Ma era cresciuto capace di sopravvivere in quell'ambiente. Passò un anno, poi un altro. La vita diventava ogni giorno più dura nei bassifondi. A quell'epoca molta altra gente era venuta ad abitare in quel quartiere, e c'erano molti ragazzi senza casa e senza famiglia che scavavano fra i rifiuti. C'era più concorrenza. «Vuoi farmi morire di fame?» la vecchia Leena gli chiedeva sempre più spesso. Gord aveva difficoltà a trovare del cibo in quel periodo. L'inverno era alle porte, e oltre alla fame la vecchia cominciava anche a soffrire il freddo e l'umido. Gord era quasi dispiaciuto per quella povera donna che continuava a soffrire. Ma anche lui stava soffrendo, e non poco. *
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«Svegliati, Leena!» gridò un giorno Gord entrando nella piccola baracca in cui si erano trasferiti all'inizio della stagione fredda. «Ho trovato mezza pagnotta di pane nero e delle mele che qualcuno deve aver dimenticato!» Era molto orgoglioso della sua impresa: il cibo che aveva trovato sarebbe bastato a sfamarli entrambi per parecchi giorni. «Le mele sono in una sac-
ca di tela, chiusa in una cassa». Cibo e legna da ardere in un colpo solo! Leena restò ferma, distesa sotto un mucchio di stracci vicino alle ceneri ormai fredde della stufa che avevano costruito con pietre e pezzi di lamiera. Il ragazzo la afferrò per le spalle e la scosse gentilmente. «Su, andiamo, ce n'è abbastanza perché tu non...» Leena era fredda, e la sua pelle aveva il colore della cenere. «Leena! Cos'hai? Leena!» Ma la vecchia non rispondeva, non si muoveva, non socchiudeva nemmeno gli occhi, non respirava. Gord la lasciò ricadere distesa e si girò. La morte della vecchia per lui fu un colpo terribile. Era sempre stata molto cattiva con lui, l'aveva anche picchiato molte volte, ma l'aveva sempre fatto per disperazione. Nonostante tutte le sue colpe, e il fatto che si fosse curata così poco di lui, Leena era stata la sua unica parente, sua madre adottiva, l'unico essere umano che gli era stato sempre vicino. Anche se era molto scarsa, la protezione che la vecchia gli dava era un punto chiave della sopravvivenza di Gord. Ora, nel giro di poche ore, tutto sarebbe cambiato. Gord aveva solo dodici anni, ma la reazione che ebbe alla morte di Leena dimostrò che era ben più maturo della sua età. Due lacrimoni scesero sulle guance del ragazzo mentre si inginocchiava a guardare il cadavere. Si asciugò in fretta gli occhi con la manica del camicione. Ora era un uomo solo, o almeno avrebbe dovuto cercare di esserlo. Doveva far fronte alla nuova realtà, e doveva cominciare subito. Non esistevano i funerali nel Quartiere dei Bassifondi. Lui stesso aveva visto molte volte i cadaveri gettati in mezzo alla strada. Alcuni venivano rimossi dai carri degli spazzini, altri venivano dilaniati dai cani randagi che se ne cibavano. I topi mangiavano gli avanzi dei cani, la gente uccideva i topi o i cani, e il ciclo della vita continuava. «Devo prendere i tuoi oggetti di valore, Leena» disse il ragazzo mentre rigirava di qua e di là il cadavere della vecchia. Tutto ciò che trovò furono due monete di ferro. «Mi dispiace, ma devo prenderti anche queste» continuò a dire come se lei potesse ancora sentirlo. «Io sono vivo, tu no, e potrei averne bisogno». Sebbene la cosa non avesse alcun senso, avvolse con cura il corpo della vecchia nella coperta sbrindellata che lei conservava gelosamente, come se fosse uno splendido scialle, o un mantello lussuoso. Quindi, con un enorme sforzo, trascinò il cadavere fuori dalla capanna. Percorse a fatica la piccola via, alla fine della quale c'era un campo cosparso di pietre. Depose là il cadavere: il funerale di Leena era concluso. Gord tornò alla capanna, chiuse la piccola porta e accese un po' di fuoco per
scaldarsi. La notte era gelida e le stelle che luccicavano nel cielo terso annunciavano una nuova ondata di freddo. «Ora non avrai più bisogno di questi stracci» disse ad alta voce, come se Leena fosse là a rispondergli. «Ora prendo possesso della mia eredità» aggiunse, prendendo la piccola scatola di legno dal nascondiglio in cui Leena la riponeva sempre quando dormiva. Gord aveva scoperto l'esistenza di quella scatola alcuni anni prima, quando per caso aveva visto il nascondiglio di Leena frugando tra gli stracci in cerca di cibo. La donna non era nella baracca in quel momento, e Gord aveva colto l'occasione per sbirciare i frammenti di pergamena che aveva trovato. Non aveva capito molto, così li aveva semplicemente rimessi nella scatola e ficcato il tutto nella buca. Leena gliele aveva suonate, insultandolo, quando aveva capito che la scatola e il suo contenuto erano stati manomessi. Aveva persino minacciato di fargli ancora più male se l'avesse pescato a toccare di nuovo la scatola. Ma dal momento che quell'oggetto non aveva alcun interesse per lui, non ebbe alcuna difficoltà a lasciarlo stare dov'era; tuttavia non ne aveva dimenticato l'esistenza. Tenendo stretta la scatola, tutto avvolto in un fagotto di stracci, Gord si accoccolò a dormire davanti alle deboli fiamme della stufa. Il giorno dopo si trasferì in una stanza tra le rovine di un vecchio edificio. Gord pensava che fosse una buona idea quella di traslocare, perché appena i vicini avessero scoperto che Leena era morta, gli altri ragazzi l'avrebbero minacciato, spaventandolo ancora più di prima. Questa sua nuova casa era piccola, buia, e di difficile accesso per chiunque fosse appena un po' più grande di quel ragazzo così mingherlino. Un vecchio camino consentiva di accendere il fuoco, e il luogo era facile da riscaldare. Quel posto era veramente perfetto per lui, e Gord era contento di avere trovato un'ottima sistemazione così in fretta. Ma se la fortuna era stata dalla sua parte il giorno dopo che Leena era morta, non fu così da allora in poi. Doveva essere molto prudente ogni volta che usciva, perché le bande avevano sentito dire che la vecchia strega dagli occhi diabolici si era guardata allo specchio e si era uccisa. Solo adesso Gord si rese conto di quanta protezione Leena gli aveva dato, anche se indirettamente: le bande di quartiere che prima si erano limitate ad insultarlo da lontano o a tirargli delle pietre, ora lo affrontavano direttamente, assalendolo e derubandolo. Diventava sempre più difficile trovare qualcosa, e procurarsi del cibo era diventato molto rischioso. A primavera Gord cambiò casa di nuovo, cercando altre zone di rifornimento.
Le bande dei bassifondi non uscivano mai all'esterno. Nel loro territorio erano virtualmente i padroni assoluti, perché nessuno fuori del quartiere se ne curava. Quel luogo era un rifugio per i senza tetto, per gli sbandati, per i relitti umani della città. Se l'economia locale un giorno si fosse risollevata, i bassifondi si sarebbero spopolati, poiché sarebbe aumentata la domanda di lavoro e ci sarebbe stato bisogno di terreni per costruire nuove case. Adesso i bassifondi erano una specie di rifugio, un posto dove i disgraziati di Falcovia potevano abitare momentaneamente; ma quel luogo non era nato intenzionalmente con quello scopo. La situazione era tale semplicemente perché nessuno se ne curava. Molti edifici erano in rovina perché il commercio ristagnava, l'economia cittadina era indebolita e quindi non c'era lavoro. Nessuno sarebbe rimasto là avendo la possibilità di andarsene, a meno che non fosse un pazzo, o un criminale ricercato. Ovviamente c'era una sorta di primitiva economia all'interno di quel quartiere. C'erano botteghe di alimentari, venditori ambulanti, negozi che vendevano vestiti usati, e altri dove si poteva acquistare birra o vino. C'erano anche dei luoghi piuttosto ricchi, all'interno del Quartiere dei Bassifondi, ma erano i rifugi di pericolosi criminali costretti ad abitare là. Se qualche abitante dei bassifondi aveva del denaro da spendere, poteva entrare in queste zone, ma una volta finiti i soldi se ne doveva andare. Non c'era da stare sicuri in quella zona del quartiere, come del resto da nessun'altra parte, a meno che uno non potesse corrompere i malviventi, o fosse talmente forte da non subire attacchi dalle bande di ladruncoli, dai pazzi, dai mendicanti e dal resto dell'incredibile popolazione che abitava nel quartiere. Non c'è bisogno di dire che Gord si teneva bene alla larga da quelle zone di attività commerciale. Tre bande imperversavano nella zona dove abitava il ragazzo. Ma andarsene non serviva a nulla, visto che nessun altro luogo sarebbe stato più sicuro. Senza Leena a tenere lontane le bande di delinquenti, Gord era proprio nei guai. Sebbene fosse sempre vissuto nei bassifondi e fosse diventato piuttosto astuto, le probabilità di sopravvivere diminuivano di giorno in giorno. Senza un alleato o un protettore era diventato un facile bersaglio per gli altri ragazzi. Era molto piccolo per gli anni che aveva, e non era neanche molto forte. Ciò era dovuto soprattutto alla malnutrizione e alle condizioni in cui era vissuto, e non era una questione di costituzione. Comunque era un soggetto che nessuna banda avrebbe voluto con sé. Era intelligente, ma questa poteva essere una minaccia nei confronti dei capi delle varie fazioni. Era
veloce, ma questa non era certo una qualità tenuta in alta considerazione tra quei ragazzi, a meno che non fosse associata alla forza e all'abilità nel combattimento. La stessa natura di Gord non gli avrebbe mai permesso di far parte di uno di quei gruppi. Era un solitario, e la sola idea di essere lo zimbello di tutti gli altri ragazzi bastava a tenerlo lontano da qualsiasi gruppo. Tutti i ragazzi della zona lo conoscevano, e dal momento che Gord scappava sempre, o subiva passivamente i loro assalti, lo deridevano e lo prendevano in giro. Nessuno lo chiamava semplicemente 'Gord': vigliacco, smidollato o altri epiteti del genere accompagnavano sempre il suo nome, se non lo sostituivano del tutto. La legge stessa della vita dei bassifondi faceva sì che i forti se la prendessero con i deboli, e non c'era alcun dubbio sulla debolezza fisica di Gord. «Adesso vivi nel nostro territorio» gli aveva detto all'inizio dell'estate un membro della banda dei Carnefici. «Ci darai la metà di tutto ciò che trovi, altrimenti ci prendiamo tutto e ti spacchiamo la testa come ricompensa». Gord rispose che avrebbe fatto come volevano, ma in realtà non aveva sempre obbedito, se non quando era stato costretto dalle circostanze. Lo potevano anche prendere in giro per la sua debole costituzione fisica, potevano anche pestarlo fino a farlo urlare dal dolore, ma Gord era pieno di coraggio. Le minacce e le botte lo facevano cedere sul momento, ma poi si riprendeva sempre. Due o tre volte aveva cercato di collaborare, andando di sua volontà al quartier generale della banda per dividere il suo magro bottino con gli altri ragazzi, ma l'unico risultato era stato quello di farsi portare via tutto. Da allora non provò più a cercarli e decise di sfidare la sorte. I Carnefici si accorsero presto della disobbedienza di Gord e decisero di dargli una lezione. Ogni volta che riuscivano a prenderlo, quei delinquenti gli sequestravano tutto. Si divertivano e ne traevano profitto allo stesso tempo, perché Gord aveva sempre qualcosa che valeva la pena di essere rubato. Le bande prosperavano, ma Gord si indeboliva ogni giorno di più, poiché non poteva tenersi delle riserve di cibo. Era costretto a procurarsi da mangiare giorno per giorno e a divorare subito tutto ciò che trovava, o a trasportare quello che avanzava fino alla sua misera abitazione, cercando di non rivelarne la posizione quando entrava o usciva. Il più delle volte lo prendevano: se avesse potuto Gord avrebbe buttato via tutto piuttosto che essere picchiato. Ma di solito lo prendevano, gli rubavano ogni cosa, e lo mandavano via a calci.
Non aveva nessun altro posto dove andare, quindi a Gord non restava altra scelta che resistere a quella vita. Era una continua umiliazione che lo rodeva dentro, mentre le forze venivano a mancargli ogni giorno di più. I soli nomi di Chopper, Jot, Snaggle e degli altri componenti della banda dei Carnefici bastavano ad accendergli in petto una rabbia incontrollabile. Alla fine, dopo aver trascorso la parte più mite dell'anno in quel modo, Gord decise che doveva fare qualcosa. Se avesse trascorso là l'inverno avrebbe fatto la fine di Leena. «Non ce la farò mai a sopravvivere qui, nei bassifondi» disse a se stesso raccogliendo quel poco che aveva. Non volendo rischiare di perdere la scatola che conteneva le pergamene, l'unico oggetto di qualche valore che avesse mai posseduto, Gord la nascose in un luogo dove nessuno poteva trovarla. Con il resto dei suoi miseri oggetti, il ragazzo si incamminò verso il distretto degli operai. Durante il percorso fu derubato di quel poco che aveva con sé, ma non si perse d'animo. Aveva deciso di lasciare ad ogni costo il Quartiere dei Bassifondi. Pieno di paura e con addosso degli abiti appena presentabili, riuscì ad attraversare tutta la zona settentrionale della Città Vecchia fino a raggiungere il Quartiere degli Stranieri, un luogo di cui aveva solo sentito parlare. Nessuno sembrò notarlo, e comunque nessuno gli prestò attenzione. Fu proprio questo a rinfrancarlo e a incoraggiarlo. C'era dappertutto ogni ben di dio, in questo posto favoloso. Con la sua abilità e il suo coraggio, Gord era sicuro di potersi procurare un po' di quelle ricchezze e di sistemarsi per benino. Ma la fiducia in se stesso e quel poco di abilità che aveva non gli bastarono. L'esperienza di furti che si era fatta nei bassifondi non era sufficiente per questo posto, dove era necessaria una vera arte per distrarre i guardiani che con occhi di lince controllavano le merci esposte. Gord provò a rubare qualcosa, ma fu catturato, portato davanti alle autorità e condannato ai lavori forzati, tutto nello stesso giorno. Il ragazzo quel giorno non poteva capirlo, ma l'avvenimento costituì una svolta fondamentale nella sua vita. Capitolo 8 «L'hai visto?» «Credo di sì. Corrisponde abbastanza alla tua descrizione. Ma chi può essere sicuro? Tutti quei mocciosi si assomigliano.» «È stato mandato alla Vecchia Fortezza?»
«Accusato di furto e condannato ai lavori forzati per tre anni.» «Riuscirà a sopravvivere?» «Non credo proprio. È troppo piccolo e debole per resistere più di qualche mese. Tra la fatica, il trattamento da cani e il cibo pessimo, credo che al prossimo solstizio sarà già morto.» «Non deve succedere.» L'uomo si grattò la guancia ruvida. «Non ho mai capito bene quest'affare, Markham. Se quel ragazzino è così importante, perché diavolo non l'abbiamo tirato fuori dai bassifondi prima?» Markham era un grasso mercante che campava vendendo merci che portava da fuori a Falcovia. Non si interessava affatto di politica e non si immischiava mai in affari di stato. Gli interessavano di più la variazione dei prezzi, le tasse, i profitti e i costi. Ma quest'uomo obeso aveva anche degli altri interessi, Era l'agente di un'associazione che abbracciava tutto il territorio di Oerik, dal Flanaess fino all'ovest più remoto. Markham era solo un piccolo ingranaggio di una complessa organizzazione che cercava di tenere in equilibrio le forze del Male e quelle del Bene e di promuovere le azioni del gruppo neutrale che bilanciava l'esistenza. Ma se il mercante era solo un piccolo ingranaggio, quell'uomo trasandato a cui stava parlando, e che rispondeva al nome di Tapper, non era più di un dente di una rotella. «Chi può dirlo, Tapper? Io non prendo decisioni, mi limito semplicemente ad eseguire gli ordini che mi vengono impartiti. Ora sarò io ad affidarti dei compiti.» Era pagato per ascoltare e ricevere degli ordini. Markham riceveva il denaro da qualche parte e lo passava a Tapper e agli altri. Tapper ovviamente credeva nell'equilibrio dell'esistenza, ma badava prima di tutto a se stesso. Le monete che gli davano valevano qualcosa, e la forza del gruppo lo persuadeva. L'associazione non ostentava mai i suoi poteri, ma inimicarsela significava andare in cerca di guai. Tapper sapeva che la sua vita non valeva un solo denaro se si fosse opposto a Markham. Eppure, dopo aver sentito solo una parte delle istruzioni che gli venivano date, non riuscì a trattenere le sue obiezioni. «Non si può. Non riuscirò mai a far uscire quel piccolo mascalzone dalla prigione senza sollevare un sacco di sospetti!» «Rilassati» gli rispose Markham. «Né a te né a me verrà mai chiesto di fare nulla di stupido o di insensato. Devi solo fare in modo che il tuo amico alla prigione tenga d'occhio il ragazzo... come si chiama? Gord? Assicu-
rati che non sia trattato peggio degli altri. Prima o dopo potrebbe arrivare l'occasione giusta: in quel momento il tuo amico dovrà fare in modo che il ragazzo non la perda.» «Sì, si chiama Gord» rispose l'altro. «Clyde l'Astuto è il mio contatto là dentro. Il direttore del carcere non sa che è un membro della Corporazione dei Ladri, e la corporazione non sa che è un agente della Bilancia.» Il grasso mercante conosceva tutti quelli che lavoravano per Tapper, anche se non erano membri attivi dell'organizzazione e non sapevano nulla della Bilancia, ma si limitavano ad eseguire piccoli servizi in cambio di un po' di denaro. Markham era una persona precisa e pignola e controllava sempre ogni cosa. Ecco perché sapeva sempre tutto. «Va bene, allora, vai a cercare Clyde l'Astuto e digli quello che deve fare.» «Ci vorrà qualcos'altro per garantire che il ragazzo sopravviva.» «Lo so» disse Markham con un sospiro. «Le mie istruzioni sono di dare al ragazzo il maggior aiuto possibile, senza che se ne accorga». Markham non sapeva cosa avessero in mente quelli che gli avevano dato gli ordini, ma una cosa era chiara: l'interesse dell'organizzazione nei confronti di quel ragazzo non doveva trapelare, anche se ciò doveva significare la sua morte. Se Markham provava a fare qualche passo avanti nel ragionamento, era subito assalito da dubbi e incertezze. Qualunque fosse il valore di quel moccioso, sembrava che avesse solo un'importanza marginale e che l'organizzazione non volesse correre nessun rischio per causa sua. O forse la ragione per cui non si dovevano focalizzare troppe attenzioni sul ragazzo era che il suo valore per l'organizzazione era invece molto grande, molto più grande di quanto Markham stesso potesse comprendere. Tutto ciò apriva una nuova serie di ipotesi... «Solo un momento, Tapper. Voglio rileggere una cosa». Markham tirò fuori un piccolo foglio di carta sottile, lo aprì e rilesse con molta cura i piccoli caratteri: «Il giro del destino può imperniare un piccolo nostro ingegno sul sozzo collo del moccioso. Allora, egli potrà ancora staccarsi da quelli che cercano di disturbare la bilancia, e girarla con astuzia da una parte o dall'altra. Guardalo, assistilo senza farti vedere, ma non interferire attivamente. Il suo valore è incerto, ed è meglio perderlo che mettere noi in pericolo.» Markham decise di riferire l'informazione anche a Tapper. «Guarda qua,
e vedi se ci capisci qualcosa.» Tapper prese la lettera e la scrutò attentamente e a lungo. Quando la rilesse per la seconda volta le labbra si muovevano sillabando ogni parola. «... giro... imperniare... ingegno, ci sono!» Tapper guardò il grasso mercante con una smorfia d'orgoglio dipinta sul viso. «Nelle prime due frasi sono nominate le parti di una chiave, Markham! Vedi? Giro, collo, perno, ingegno - questo è addirittura nominato due volte, perché c'è scritto astuzia, che è sinonimo di ingegno, e l'ingegno è la parte seghettata della chiave. Per tutti i diavoli, sono proprio bravo!» «Molto ingegnoso, Tapper, veramente molto ingegnoso!» Markham guardava rispettosamente il ladro. Tapper era ancora un membro della Corporazione dei Ladri - una delle ragioni per cui era considerato un uomo d'azione di sicuro valore. La corporazione gli aveva permesso di ritirarsi quasi del tutto, perché aveva messo su una bottega di fabbro. Solo i capi della corporazione sapevano che Tapper era ancora parte attiva dell'organizzazione. E molti ladri non sapevano affatto che Tapper era stato un loro seguace. «Ora mi riprendo quel pezzo di carta» disse Markham con un sorriso, «e qui c'è un portafortuna per il tuo lavoro.» Lanciò in aria una moneta che Tapper prese al volo con un agile movimento della mano. «Grazie Markham» rispose il ladro porgendogli il foglio, mentre cercava di darsi un contegno, pur trovando molto difficile reprimere l'eccitazione. «Dirò a Clyde di tenere d'occhio il bambino». Tapper era convinto che i capi di Markham fossero molto interessati al piccolo Gord, molto più di quanto lui o Markham avessero sospettato prima che Tapper interpretasse il messaggio segreto. «Devi fare di più, Tapper» disse Markham con un nuovo vigore nella voce. «Di' a Clyde che c'è qualcosa anche per lui, se riuscirà a far uscire il ragazzo dalla casa di lavoro senza dare nell'occhio. Aspetta un minuto» aggiunse il grasso mercante mentre Tapper stava per andarsene. «Forse dovrei parlare di persona a Clyde. Vediamoci tutti e tre stanotte ai Quattro Boccali.» «Verso le nove» aggiunse Tapper prima di andarsene. Conosceva bene quella taverna, e sapeva che Clyde non avrebbe avuto nulla in contrario ad andarci: era fuori mano e sicura da brutti incontri, visto che era poco frequentata dai ladri. Quando Tapper se ne fu andato, Markham prese il foglio, lo bruciò e ridusse in polvere i pezzetti di cenere. L'elenco delle parti di una chiave, ecco l'informazione che gli occorreva.
Non aveva importanza ciò che il biglietto sembrava dire in apparenza. Il ragazzo era molto, molto importante per la Bilancia. Ovviamente era una cosa che non si poteva scrivere apertamente, anche perché il messaggio poteva finire nelle mani sbagliate. Ma era ovvio che, per qualche ragione, quel ragazzino scarno e malandato che veniva dai bassifondi della Città Vecchia era tenuto in grande considerazione. Markham sapeva che il suo dovere era tirare Gord fuori dalla prigione e portarlo da qualche altra parte, preferibilmente in un luogo dove fosse al riparo da qualsiasi minaccia o influenza esterna. Forse era un incarico troppo impegnativo... Markham decise che prima dell'incontro di quella sera doveva avere delle istruzioni più dettagliate. Imprecando contro se stesso per non essere stato capace di decifrare il messaggio senza l'aiuto di Tapper, il mercante uscì in fretta per porre rimedio alla propria stupidità. *
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«Oggi ho fatto su una piccola fortuna, oste! Birra e vino per tutta questa brava gente riunita qui, e anche per te, mi raccomando!» Il flemmatico proprietario dei Quattro Boccali assentì e si portò la mano alla fronte in segno di ringraziamento. «Grazie, mercante Markham. Sono felice di sentire che ti è andata bene... e sono sicuro che anche queste buone anime qui sono felici di brindare alla tua salute e prosperità, vero ragazzi?» «Certo!» si levò un coro da sette o otto persone che stavano lì vicino. «Alla tua salute e alla tua fortuna, mercante!» aggiunsero, tracannando le bevande che l'oste si era affrettato a servire. Markham sorrise, ingoiò una buona parte della sua birra scura e si guardò attorno con noncuranza. Notò due uomini seduti ad un tavolo impegnati in un gioco a pedine. Il grasso mercante si avvicinò ai due e osservò la partita per qualche minuto. «Posso unirmi al gioco?» chiese amabilmente. «Perché no, amico?» disse uno dei due, senza quasi alzare lo sguardo dal tavolo. «Potremmo giocare a soldi.» «Oste! Ancora un giro per me e questi due amici. Mi faranno diventare ancora più ricco, e voglio che si carburino bene, prima!» Poi nessuno badò più ai tre che giocavano. Markham era noto per la sua avarizia. Quel giorno doveva aver guadagnato molto a spese di qualche sfortunato cliente: mai prima d'ora aveva speso una tale cifra in bevande o aveva rischiato di perdere del denaro al gioco. Comunque non avrebbe
giocato che monete di ottone o di bronzo, al massimo una di rame. Guardare quella partita non sarebbe stato più eccitante che osservare i cerchi bagnati che i boccali disegnavano sui tavoli. Dopo qualche minuto, Markham e gli altri due non esistevano più per gli altri avventori. «Due monete su quella pedina!» Il mercante pronunciò queste parole ad alta voce, in modo da farsi sentire da tutti. Poi aggiunse, in un sussurro: «Il ragazzo ha delle speranze se riusciamo ad addestrarlo. Riesci a farlo uscire di là?» «Ancora una!» Clyde gridò con lo stesso tono di voce, lanciando tre monete di bronzo sul tavolo in risposta alla puntata di Markham. «Con un po' di tempo sono sicuro di farcela» disse sottovoce. Markham gli rispose: «Se ci riesci guadagnerai una fortuna!» E poi, ad alta voce, rivolto a Tapper: «E tu cosa fai, amico?» «Ci sto anch'io, non aver paura». Poi sussurrò: «Come dev'essere addestrato il ragazzo? Deve diventare un ladro?» «Non si può» disse piano Clyde. «Dovrebbe essere allenato da qualcuno, il che attirerebbe di certo l'attenzione». E così dicendo ritirò le monete dal tavolo e i tre si misero a parlar forte: Clyde aveva vinto quella mano. Mentre giocavano, la conversazione proseguì. Clyde propose che il ragazzo diventasse apprendista all'Unione dei Mendicanti. Era la proposta migliore. «Ne ho abbastanza!» Markham si alzò dal tavolo con lo sguardo inacidito. «Siete riusciti a togliermi tutto il mio guadagno nello spazio di un'ora. Ora vado a casa a dormire, sono stanco, triste e povero.» «Ma dai!» disse Tapper, osservando le monete che aveva di fronte. «Hai perso solo una o due monete di rame in tutto!» «Io sono un onesto mercante, non un nobile riccone. Oltretutto giuro di aver perso almeno il doppio» disse il grassone uscendo dalla taverna. Qualche avventore sorrise a questa scena, ma Markham non se ne curò. Era successo quello che aveva sperato. Tapper e Clyde pensavano di esser stati loro a scegliere l'apprendistato per il ragazzo. Invece era stato lui a spingerli a quella conclusione, come gli era stato detto di fare dall'uomo da cui prendeva ordini, il saggio... ...No. Non doveva neanche pensare a quel nome. In ogni caso la cosa non lo riguardava più, ora. Clyde l'Astuto avrebbe avuto in mano la situazione d'ora in poi. Se fosse riuscito nel suo intento, un altro lo avrebbe poi sostituito. Ma nemmeno Markham sapeva chi sarebbe stato. Doveva essere felice che la sua parte era andata liscia come l'olio. Tapper e Clyde restarono ancora un po' ai Quattro Boccali, spendendo
altro denaro per non destare sospetti. Il locale era frequentato da operai della vicina birreria, ma era meglio evitare inutili rischi. Non si poteva mai essere sicuri che uno di loro non fosse una spia, un informatore, o qualcosa del genere. «Ho protestato per la mia assegnazione alla casa di lavoro» disse Clyde a Tapper. «Ma avevo fatto le cose per benino: ho mandato al diavolo il capitano e quindi mi hanno spedito alla Vecchia Fortezza come punizione.» «Non mi sembra molto allettante come posizione, per un ladro» osservò Tapper. Clyde sorrise. «Anch'io lo pensavo all'inizio, ma invece lì c'è una montagna di denaro che aspetta solo di essere raccolto: bustarelle per modificare il piano di lavoro, per offrire un trattamento speciale ai reclusi di lusso, e per la vendita di prigionieri.» «Vendita di prigionieri?» «Certo! Si può scambiare un prigioniero con un cadavere che sta per essere portato via; oppure si può inscenare una finta morte. Il prigioniero dopo viene venduto come apprendista. Per molti» aggiunse Clyde, «questo è l'unico modo in cui riescono a comprarsi la libertà.» Il fabbro guardò con ammirazione il socio. «E così venderai il ragazzo come apprendista, ti prenderai il denaro di Markham e verrai anche pagato per il tuo lavoro alla Fortezza!» «Non diventerò certo ricco, Tapper» disse il ladro. «Dovrò ancora darmi da fare per sbarcare il lunario.» Tapper, più anziano e meno interessato a far baldoria, riusciva a passarsela abbastanza bene con le ricompense che riceveva dalla Bilancia, unite agli incassi dei suoi traffici e alle tangenti che riceveva dai ladri. Tuttavia capiva perfettamente quello che Clyde intendeva. Un alto tenore di vita nella Città Vecchia costava molto, e nella Città Nuova ancora di più. «È difficile avere sempre il borsello pieno» convenne Tapper. «È vero, amico,... e soprattutto quando ci sono io in giro...» disse Clyde strizzandogli l'occhio. Ridendo sonoramente i due lasciarono la taverna. Tapper si diresse verso il passaggio da cui avrebbe imboccato la strada del ritorno verso casa sua, nel Quartiere degli Stranieri, e Clyde girò verso nord per recarsi alla prigione dove lavorava. Il mattino dopo Clyde si diede da fare per scoprire dove si trovava il ragazzo. Gord era il suo nome, e doveva essere un tipino molto magro e deboluccio. Nel suo gruppo c'erano molti ragazzi magri e deboli di tutte le
età. Erano ammassati tutti assieme in una cella comune. Per sei giorni alla settimana dovevano lavorare per scontare i crimini compiuti nei confronti della città e dei suoi onesti abitanti. I compiti che erano loro assegnati erano piuttosto facili anche considerando il fatto che si trattava in fondo di punizioni. Sgobbare è sempre stato il destino dei poveri, e il lavoro che quei criminali dovevano fare ogni giorno non era più faticoso di quello che molte persone libere facevano abitualmente per sopravvivere. Certo, svolgevano le mansioni più umili e pericolose, ma era il minimo che potessero fare per espiare le loro colpe. Clyde scoprì che Gord era stato segnato sul registro della casa di lavoro per soli cinque giorni. «Lo stanno certamente tenendo d'occhio, e si muovono in fretta» mormorò fra sé, pensando che poteva chiedere ben più di cento denari per far uscire il ragazzo. Avrebbe chiesto due globi per quell'impresa, due volte la somma pattuita, ed era sicuro di poterli ottenere. Il sole era appena spuntato, e Clyde si diresse verso il padiglione dei prigionieri. Voleva dare un'altra occhiata al ragazzo mentre lo facevano marciare per portarlo al lavoro. L'indomani era giorno di riposo per i prigionieri, l'occasione giusta per tirar fuori il ragazzo dalla cella e portarlo via. Nessuno controllava bene quante erano le persone chiuse là dentro, così sarebbe stato facile compilare un falso documento in cui si diceva che il prigioniero chiamato Gord dei Bassifondi era morto incidentalmente durante la prigionia. Ma una bella sorpresa lo attendeva. Arrivò in tempo per vedere che il ragazzo aveva già fatto tutto da solo, per così dire: aveva usato i pochi mezzi che aveva a disposizione per fingersi colpito da una strana forma di malattia contagiosa. Qualsiasi ladro o mendicante di professione si sarebbe accorto subito dell'inganno, ma quelle zuccone delle guardie di servizio si erano fatte infinocchiare. «Tanto meglio» pensò Clyde. «Mi ha risparmiato un sacco di lavoro e ha anche eliminato ogni possibile rischio!» Clyde portò fuori il 'cadavere', e sul registro del carcere venne segnata la morte di Gord per una malattia sconosciuta In realtà il ragazzo divenne un apprendista, proprio come il suo segreto benefattore, Markham, aveva progettato. Il grasso mercante si rallegrò molto quando Clyde gli portò la notizia (anche se aveva già saputo ogni cosa da un'altra fonte), ma non fu altrettanto felice quando sentì il seguito. «Vuoi il doppio del denaro che ti ho promesso?» chiese Markham incredulo, ripetendo la domanda per dar modo alla sua ira di sfogarsi.
Clyde sorrise serenamente. «Sì, Markham. È proprio quello che voglio.» Al mercante non restò altro che pagare brontolando, ma dentro di sé era molto soddisfatto. Era un prezzo molto conveniente per la sicurezza del ragazzo, anzi per lui era la possibilità di sopravvivere. Markham conosceva bene la situazione dei mendicanti di quella città, ed era anche al corrente dell'attività clandestina di furti che il gruppo esercitava. Uno dei più fidati capi di quella gente era anche un agente di Markham. Il passaggio di Theobald dalla Corporazione dei Mendicanti ai vertici dell'Unione dei Mendicanti, che si era appena formata, lo aveva reso ancor più pieno di tracotanza. Era incredibilmente grasso, pigrissimo e aveva la mente pericolosamente instabile. Da poco la Corporazione si era alleata con i venditori ambulanti, gli stagnini, i saltimbanchi e altre canaglie per formare l'Unione dei Mendicanti, e Theobald sedeva boriosamente in cima all'intera organizzazione. Si trattava di un'associazione piuttosto strampalata, ma funzionava bene. I mendicanti portavano tutto ciò che avevano trovato, estorto o ricevuto in dono, e consegnavano ogni cosa ai venditori ambulanti perché la rivendessero o agli stagnini perché la riparassero. Trafficavano anche con i saltimbanchi, la classe sociale più bassa dopo gli stessi mendicanti, assistendo agli spettacoli che quelli organizzavano nelle strade; e in cambio anche gli attori quando erano disoccupati, potevano guadagnarsi da vivere chiedendo la carità. Anche altri sfaccendati, come girovaghi o intrattenitori, erano entrati a far parte dell'associazione. Ovviamente, Theobald aveva creato l'Unione per aumentare il suo potere personale. Aveva messo assieme tutti gli elementi che la Corporazione dei Ladri aveva rifiutato. Il capo dei mendicanti odiava i ladri, perché erano ricchi e rispettati. E il suo desiderio era quello di ottenere ricchezza e potere proprio a spese della più prestigiosa Corporazione dei Ladri. Chinkers era il più abile mendicante di tutta la città. Nel corso degli anni aveva anche imparato a rubare, ed era diventato abilissimo. Per un periodo aveva lavorato insieme a dei celebri ladri: il suo compito era distrarre la gente, per dar modo ai suoi compari di rubare borse e denari con più facilità. Quei galantuomini avevano insegnato a Chinkers molte tecniche raffinate, e ben presto il mendicante aveva imparato a imbrogliare nelle contrattazioni al mercato, a sostituire oggetti falsi a quelli veri, o addirittura a far sembrare nuovo qualcosa di vecchio. Era capace di falsificare monete o coniarne di nuove, sapeva barare ai dadi e ad altri giochi. Nemmeno lui sapeva perché continuava a mendicare, però continuava a farlo.
Quando Theobald decise di far concorrenza ai ladri della città, prese contatto segretamente con dei ladri disposti ad insegnare i trucchi del mestiere e affidò loro i suoi mendicanti più in gamba. In poco tempo quei sei o sette mendicanti furono in grado di agire come veri borsaioli, Chinkers in testa a tutti. Qualche tempo dopo, i tre ladri che avevano accettato di istruire segretamente i mendicanti furono invitati ad un banchetto nell'appartamento privato di Theobald. Il mattino seguente i tre mendicanti più fidati furono chiamati a rapporto dal capo. «Chinkers, Furgo, Jenk!» li salutò la voce stridente di Theobald. «I nostri amici ladri non sono più tra noi!» «Vuoi dire che sono scappati?» «Certo che no, Jenk. Non essere più stupido di quello che sei. Abbiamo cenato assieme ieri sera, solo che qualche vile assassino ha tramato contro la mia vita.» «No!» gridarono all'unisono i tre scagnozzi. «Oh, sì» rispose Theobald con aria inespressiva. «Per fortuna non amo molto i funghi selvatici che Jane Bellytimber coltiva nella nostra cantina, così ho passato avanti il piatto. I tre istruttori invece ne erano golosi, li hanno divorati tutti. Quando avrete sistemato i tre cadaveri - credo che la vecchia cisterna sia adatta allo scopo - portatemi la cuoca.» «Jane non avrebbe mai cercato di avvelenarti, Theo...» Il volto grigio del capo dei mendicanti si fece ancor più livido. «Non mi contraddire!» urlò a Furgo, facendolo indietreggiare. «Ora andate e sistemate ogni cosa, e accertatevi che nessuno sappia nulla. Se qualcuno osa fare delle domande, dite semplicemente che quei tre sono andati a vivere in un'altra città dove i furti sono più facili.» Chinkers e Jenk fecero sparire i cadaveri dei tre ladri, e Furgo portò Jane Bellytimber al cospetto di Theobald. Chinkers trovò un posto in cantina da cui origliare e sentire cosa stava succedendo di sopra. «Furgo sembrava molto agitato, Theo» sentì chiaramente dire la voce della cuoca. Theobald rispose con dei gridolini acuti. «Tre cadaveri irrigiditi bastano a rendere nervoso chiunque.» «Ho fatto tutto come mi hai ordinato» disse lentamente Jane, «e quei tre non sono più in grado di raccontarlo a nessuno. Non sei contento?» «Certo, Jane, mia cara cuoca e assassina. È andato tutto come volevo. Ma...»
«Ma?» la voce di Jane Bellytimber suonava strana. «Cos'altro devo fare?» «Vieni qui, mia cara, e te lo dirò in un orecchio». Chinkers immaginò la donna che si avvicinava a Theobald. Era piuttosto giovane e carina e credeva di essere la favorita del capo dei mendicanti. Improvvisamente si udì un grido strozzato. Chinkers riusciva a sentire un rumore martellante accompagnato dalla risatina acuta di Theobald. Dopo un minuto o due il rumore cessò e si sentì un colpo secco. Il mendicante si affrettò a lasciare la cantina: non desiderava affatto essere scoperto mentre spiava Theobald, specialmente in un momento come quello! Chinkers non fece mai parola con nessuno dell'accaduto, e il capo dei mendicanti non nominò mai più la cuoca, eccetto quando disse: «Trovami un'altra cuoca, Furgo. Quella vecchia non è più con noi». Neanche Furgo fece domande. L'indomani Jim il Calvo fu nominato cuoco ufficiale. Dopo poco tempo il suo soprannome fu cambiato in Cacca di Pipistrello, in onore del suo modo di cucinare; tuttavia, anche se quell'uomo sembrava veramente negato per la cucina, Theobald era contento della decisione presa. Chinkers, e come lui molti altri, era convinto che dipendesse dal fatto che il capo non mangiava mai la sbobba che loro erano costretti a buttar giù. Essendo un uomo che aveva dei principi, e anche degli ideali, il ladromendicante Chinkers si era messo al servizio della Bilancia. Osservava tutto ciò che accadeva nella Corporazione dei Mendicanti e poi nell'Unione, e la riferiva fedelmente a Markham. Quando seppe che era arrivato un ragazzo come nuovo apprendista, Chinkers fu felice di essere stato scelto come suo protettore. «Non me ne occuperò direttamente» riferì al mercante. «Ma vedrò di affidarlo ai migliori, e farò in modo che il giovane Gord sia trattato bene. Sarà dura, avendo tra i piedi quel dannato bastardo di Theobald, ma cercherò di farcela.» Markham aveva fiducia in lui, e Chinkers si dimostrò all'altezza. Capitolo 9 In genere le persone che chiedono l'elemosina sono molto magre, smunte ed emaciate. Fanno eccezione i membri di certi gruppi religiosi, i quali chiedono offerte per le loro divinità, e che di solito sono belli pasciuti. Chinkers non faceva parte di nessuna di queste categorie. Era piuttosto
in carne, anche se non era un religioso ma semplicemente un abile mendicante. In quel momento si trovava allo Scudo d'Argento, una delle tipiche locande che fiancheggiavano la strada che divide il Quartiere dei Mendicanti da quello dei Ladri, in direzione della Città Nuova. «E un boccale di birra per quel clerico mendicante, laggiù!» Tutti scoppiarono a ridere e a prendere in giro l'uomo avvolto nel mantello, che non era altri che Chinkers, nei miseri panni di un prete di Fharlanghn. «Forse mi darete anche qualche soldo per una buona causa?» chiese umilmente, allungando così gentilmente verso di loro la ciotola per le offerte, che chiunque avrebbe pensato che stesse raccogliendo gli oboli per la sua divinità. Certo, mendicare era la sua professione, ma le offerte che riceveva finivano tutte nelle sue tasche, a parte la tangente che andava al capo dei mendicanti e a vari osti. A quella domanda scoppiò un'altra scarica di risate. «Eccoti una moneta, ma in cambio voglio una benedizione speciale!» disse una prostituta, mostrandogli esplicitamente il sedere. «Sei già stata ampiamente benedetta!» le rispose Chinkers, dandole una sonora sberla sul posteriore. «Vattene ora, non voglio che questi idioti si montino la testa!» Il clerico mendicante sorseggiò la birra appena arrivata, mentre si spegnevano le ultime risate, quindi si alzò. «Ho ancora molto lavoro da fare, questa notte» annunciò. Poi si diresse verso il quartier generale di Theobald. Dallo Scudo d'Argento alla sede dell'Unione la distanza non era poca, ma nessuno importunò Chinkers durante il cammino. Quello era il Quartiere dei Mendicanti, e dalla gente che abitava là era considerato un principe. Per essere un mendicante Chinkers era molto conosciuto e rispettato. Questo suo privilegio derivava dal fatto che la Corporazione dei Ladri aveva approvato ufficialmente la sua attività. Anche se non faceva parte di quel gruppo, Chinkers doveva ogni tanto pagare una tassa anche alla Corporazione dei Ladri, in quanto la sua attività rientrava in parte tra quelle normalmente esercitate da questo gruppo. Inoltre, in cambio di questa semi-ufficiale licenza di rubare, era diventato l'informatore di Arentol, il capo di quella corporazione. Era un gioco molto pericoloso il suo, ma Chinkers si divertiva. Era una spia dei mendicanti e anche dei ladri, il tutto a vantaggio della Bilancia. Ora la sua posizione veniva a complicarsi ancora, perché era entrato in scena il giovane Gord; e né il capo dei mendicanti, né i ladri né il ragazzo
dovevano assolutamente sapere quello che stava succedendo. Era una vera sfida quella che lo attendeva. «Buona notte, Emmit» mormorò Chinkers passando vicino alla sentinella nascosta all'entrata secondaria dell'edificio. «Altrettanto a te» rispose piano l'uomo, scostandosi dalla porta senza però uscire dall'ombra. Chinkers entrò e si diresse subito verso la stretta scalinata. Cercò di salire senza fare rumore, nonostante la sua grossa mole e le condizioni decrepite di quei gradini. Il suo appartamento, e quello di una decina di pezzi grossi dell'Unione dei Mendicanti, era al secondo piano. C'erano anche altri adepti molto esperti nell'arte del furto. A differenza dei comuni ladri di Falcovia, i ladri-mendicanti operavano quasi esclusivamente in pieno giorno, quando cioè i mendicanti svolgono di norma le loro mansioni. La maggior parte delle loro azioni avveniva alla luce del sole, mentre di notte entravano in azione i veri ladri della Corporazione di Arentol, che derubavano e rapinavano in piena regola secondo le disposizioni ufficiali del governo. Così Chinkers poteva andare a dormire ogni notte senza doversi preoccupare. Il nuovo apprendista, Gord, era chiuso al sicuro fino all'alba. Il ragazzo era con loro già da tre mesi. Sulle prime Chinkers aveva pensato che non sarebbe stato possibile ricavarne niente di buono. Non riusciva proprio a capire perché quelli della Bilancia si preoccupassero tanto per un simile ragazzino. Gord era molto umile al cospetto di Theobald, ma non si comportava sempre a quel modo. E a poco a poco Chinkers aveva capito perfettamente il carattere di quel moccioso. Voleva eccellere, dimostrare di essere migliore degli altri apprendisti, non gli bastava essere bravo come loro. «Ehi, tu!» Chinkers l'aveva chiamato un giorno dopo averlo osservato per qualche tempo. «Sì, dico a te. Vieni qui. Ho qualcosa di speciale per te.» Gord l'aveva seguito, e quando erano rimasti soli Chinkers aveva cominciato a interrogarlo chiedendogli del suo passato, di cosa pensasse del presente, e dove credeva che sarebbe andato in futuro. Era successo dopo un paio di settimane dall'inizio dell'addestramento. Chinkers aveva capito subito che il ragazzo era immischiato in un gioco di potere più grande di lui. Il racconto della vita di Gord nei bassifondi, il suo adattamento al sistema del quartier generale e alla rigorosa disciplina di addestramento, le risposte evasive in merito al suo futuro, impressionarono moltissimo Chinkers. Bisognava proprio tenere d'occhio quel ragazzo.
Alcuni mesi più tardi Gord aveva dimostrato di essere esattamente quello che Chinkers sospettava. Era diventato di gran lunga il più brillante degli allievi: quel ragazzetto smilzo, debole per la fame e le privazioni sofferte, adesso era pieno di forze, traboccante di energie e di entusiasmo - anche se riusciva a mascherare tutto ciò, quasi per proteggersi in qualche modo. Tutti quelli che erano al servizio di Theobald pensavano che il ragazzo fosse particolarmente dotato. Chinkers ne era certo. Tuttavia non doveva interferire direttamente nell'addestramento del ragazzo, e in un modo o nell'altro riuscì a resistere a quello stimolo. Si limitava a lanciargli qualche occhiata severa di tanto in tanto, in modo che il ragazzo non pensasse di poter ottenere l'aiuto che Chinkers aveva deciso di dargli. Era più difficile imbrogliare Theobald. Il capo dei mendicanti non amava molto Chinkers; era troppo ben pasciuto, e questo significava che era un mendicante molto abile. Forse era proprio quella la ragione per cui Theobald aveva cominciato ad ingrassare, in origine. Ora quella giustificazione non era più valida, ovviamente. Theobald era obeso, sproporzionato, e dava libero sfogo ai suoi appetiti. Certo, la sua stazza serviva anche a sottolineare il contrasto fra il padrone e i suoi sottoposti, ma il caso di Chinkers era un'eccezione: il contrasto non era così evidente. «Cosa ne pensi di quel magro monello che ho acquistato, Chinkers?» gli chiese un giorno. «Lo vedo al lavoro con gli altri apprendisti, Theobald. Come sai, lavoro solo con i 'viaggiatori' in questi giorni, ma mi sembra che il ragazzo... Gord, vero?... dimostri ogni tanto un carattere un po' ribelle. Lo terrei d'occhio se fossi il suo padrone.» «Hmm... Anche Furgo ha fatto la stessa osservazione. Dice anche che il ragazzo è molto più in gamba degli altri. Gli ho ordinato di istruirlo bene, o di pestarlo finché non avrà imparato ad essere meno ribelle. Altrimenti ci penserò io, e con piacere!» Theobald rise, compiaciuto della sua stessa spiritosaggine, e Chinkers fu costretto a sorridere, fingendo di apprezzare lo scherzo. «Se il piccolo dovesse mai ottenere il grado di viaggiatore, stai certo che provvederei io alla sua disciplina!» «Sei un buon servitore, Chinkers, nonostante le arie che ti dai» disse Theobald con un sorriso più sottile. «Presto i lati peggiori del tuo carattere si ridurranno, e forse allora andremo più d'accordo». Si fermò a guardare nel vuoto per qualche minuto, mentre Chinkers cercava di immaginare a
cosa stesse pensando: di certo stava immaginando la realizzazione del suo impero di mendicanti-ladri, che gli avrebbe dato una posizione di preminenza all'interno dell'oligarchia di Falcovia. Il Capo dei Mendicanti lo congedò dicendogli: «Non immischiarti negli affari di quel ragazzo, Chinkers. Furgo e gli altri che l'hanno in custodia mi hanno detto che non diventerà mai un mendicante viaggiatore.» Quell'osservazione tormentò Chinkers per tutta la sera e anche la notte, quando di solito riusciva a dimenticare ogni preoccupazione godendosi le bevande e la compagnia degli avventori dello Scudo d'Argento. Il mattino successivo, per prima cosa, aveva intenzione di chiamare Jenk o Halfway in disparte e vedere se riusciva a capire cosa c'era sotto quella storia. Non avevano mica intenzione di interrompere l'addestramento di Gord? Finalmente il sonno gli portò via i pensieri, e per il resto della notte Chinkers non ebbe più da preoccuparsi. *
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«Ancora un po' di tè, Cacca di Pipistrello» disse Chinkers mentre faceva colazione assieme ad altri adepti. «Cosa stavi dicendo dell'apprendista, Jenk?» Quest'ultimo aveva la bocca piena di crostini di pane inzuppati nella birra svampita, così rispose Halfway al posto suo. «L'ultimo arrivato è nella media, e ci sono altri tre o quattro subito dietro.» «Allora posso aspettare anche quei tre o quattro per continuare l'addestramento, suppongo.» «Nient'affatto» intervenne Foxy Lon. «Furgo mi ha detto che hanno bisogno di ancora qualche settimana di lavoro prima che possa mandarteli.» Jenk stava per aggiungere qualcosa, ma lo stesso Furgo entrò in quel momento in cucina e si sedette a tavola. «State parlando del nuovo arrivato?» «Sì. Chinkers vuole sapere quanti ne deve aspettare e quando glieli manderemo» lo informò Jenk. «Lon gli ha appena detto che dovrà aspettare ancora un po'.» Furgo stava per cominciare a mangiare, ma perse prima qualche minuto per spiegare: «Quel piccolino, Gord, è una vera rivelazione. Non ho mai visto nessuno capace di rubare e mendicare come lui. È proprio tagliato per questo mestiere, non c'è alcun dubbio. L'ho riferito anche agli altri, e tutti sono del mio avviso. La decisione finale spetta al capo, ma noi sei istrutto-
ri siamo d'accordo che Gord sia promosso al grado di capo al più presto possibile. Con quello che sta succedendo, potremmo procurarci un intero esercito di ragazzi come lui!» La faccia segnata di Halfway si rabbuiò. Aveva visto Chinkers assumere un'espressione preoccupata, e non riuscì a nascondere i suoi dubbi. «So che non è una cosa normale, Chinkers, ma questa volta siamo tutti d'accordo con Furgo... anche se lui capisce solo la metà di quello che capiamo noi!» Furgo era troppo occupato a far colazione per replicare alla punzecchiatura, così Halfway continuò: «Quel ragazzo è bravissimo. Si dà sempre da fare per essere il migliore in qualsiasi compito gli affidiamo. Non puoi neanche immaginare quanto sia abile, devi vederlo in azione!» «È quello che farò, poi ti saprò dire» rispose l'astuto mendicante alzandosi dalla panca e dirigendosi al piano di sopra. «La prossima volta che lo portate fuori, fatemelo sapere.» «Va bene.» E l'occasione giunse presto. Dopo una o due settimane infatti, Chinkers riuscì ad osservare Gord mentre esercitava il suo mestiere, badando a non fargli capire che era sotto controllo. Chinkers rimase davvero stupito. Non l'aveva mai visto all'opera, ma travestito a quel modo neppure il capo dei mendicanti l'avrebbe mai riconosciuto. La prima volta Gord recitava la parte di uno zoppo, e raccontava una storia talmente commovente da far sciogliere in lacrime il più duro degli uomini e fargli sganciare una moneta di bronzo. La seconda volta Gord indossava i panni di un mezzo pazzo - cosa abbastanza comune, e che di solito non faceva guadagnare più di qualche moneta di ferro o di ottone dopo un intero giorno di lavoro. Ma Chinkers fu allibito nel vedere come Gord, che stava recitando la parte dell'idiota, riusciva astutamente a spillare quattrini ai gonzi che incontrava. Quel ragazzo era veramente eccellente, e il suo travestimento lo rendeva quasi insospettabile. La terza e ultima volta che Chinkers andò a vedere Gord fu senz'altro la migliore. Gord era a capo di una squadra di ragazzi e ragazze che dovevano probabilmente mendicare in gruppo, in modo da circondare e circuire gli sprovveduti. Il loro numero, e le condizioni di miseria in cui si trovavano, dovevano sciogliere il cuore anche dei passanti più taccagni. Era un mezzo già sperimentato e molto valido, ma bisognava stare attenti a non insistere troppo, o troppo poco. Il ragazzo prese le redini della situazione, dopo un
paio di tentativi falliti con dei passanti del Quartiere degli Stranieri. Gord guidò alla perfezione quel gruppo di giovani mendicanti per alcune ore, e durante un episodio in particolare, Chinkers quasi ne perse le tracce. «E adesso dove si è ficcato?» brontolò, vedendo tutti gli altri ragazzi allontanarsi da un terzetto di stranieri ben equipaggiati, che avevano l'aria di aver sganciato parecchie monete. Poi apparve un mercante dallo sguardo arcigno, che conduceva un carro trainato da un mulo. Chinkers notò che i due più grandi del gruppo, una ragazza allampanata coi capelli lunghi e radi, e un ragazzo ancora più brutto di lei, controllavano un vicolo stretto là vicino. Ad un tratto questi due tornarono dagli altri, e tutti assieme corsero verso il mercante. Era una vittima veramente poco probabile. Ma la banda di monelli lo circondò e cominciò ad implorarlo. Sulle prime quell'uomo dal volto impassibile li ignorò. Ma i ragazzi continuarono ad insistere. Allora lui cominciò ad insultarli, senza però riuscire a farli desistere. Poi andò su tutte le furie, e prese a gridare e a menare pugni e calci per dare loro una bella lezione. «Mangiati questa merda!» gridò la ragazza più grande, raccogliendo dello sterco di cavallo e gettandolo contro l'uomo, colpendolo in pieno. Il mercante aveva un piccolo frustino che cominciò ad agitare per farsi largo. I ragazzi che venivano colpiti urlavano dal dolore, ma quelli fuori tiro continuavano a tirare altro sterco contro l'uomo, che ormai aveva perso il controllo. Con la frusta colpì un passante, che gli rispose subito con un pugno. A questo punto esplose una vera e propria rissa, al culmine della quale tutti si misero ad inseguire il gruppo di mendicanti. Chinkers stava quasi per distrarsi completamente e dimenticarsi di Gord; ma dopotutto era anche lui una vecchia volpe, e riuscì a vedere Gord proprio mentre il ragazzo cominciava a tagliare il telo del carro con un coltello. Con una rapidità e determinazione veramente incredibili, Gord strappò il telo, arraffò quel che poteva e infilò il bottino in un sacco. Quindi si girò e si allontanò con calma dal carro, senza neppure voltarsi indietro. Ma il tocco d'artista era dato dal fatto che Gord non indossava più i vestiti da mendicante: sembrava proprio un normale garzone che trasportasse un carico pesante per qualche cliente. Era una rapina, bella e buona. Anche i mendicanti erano coinvolti, ma nessun testimone avrebbe potuto accusarli: chiunque poteva rubare il carico. Il mercante aveva sbagliato a inseguire quegli attaccabrighe, nessuno l'avrebbe fatto: nella Città Vecchia tutti erano dei ladri potenziali. Proteggi te stesso e la tua proprietà in ogni momento questa era la regola per so-
pravvivere in quel luogo, e tutti la conoscevano. «Hai sentito?» chiese eccitato Squiddle quando Chinkers entrò. Prima che potesse rispondere, il vecchio continuò. «Quell'apprendista, Gord. È tornato con un bottino che avrebbe riempito d'orgoglio il capo dei ladri. Bisogna tenerlo d'occhio!» «Davvero?» rispose secco Chinkers, spingendo da parte il vecchio. Neanche un mese più tardi ci fu una piccola festicciola per la nomina del nuovo Capo Minore, Gord. Durante la cerimonia molti adepti non riuscirono a nascondere la loro gelosia e invidia per quel ragazzino così giovane, che aveva ottenuto una carica riservata di solito a mendicanti e ladri più esperti. Chinkers si congratulò sinceramente con Gord; tuttavia adesso non avrebbe più potuto controllare di persona la carriera del ragazzo. Gord sembrava molto allegro, ma dentro di sé sentiva una sensazione molto diversa, una sorta di vaga premonizione di qualcosa di triste e negativo. Chinkers non poteva sapere cosa passava per la mente al ragazzo, ma era sicuro che ben presto il suo talento e i suoi desideri sarebbero esplosi per sorprendere tutti. Dopo poche settimane iniziò un'aspra guerra tra i ladri e i mendicanti, e durante quei tumulti Chinkers perse ogni traccia del ragazzo. Capitolo 10 Dillor era un accattone. Si aggirava tra i rifiuti lungo le rive del Fiume Selintan, in cerca di qualsiasi cosa che valesse la pena portar via. La Città di Falcovia era costruita su colline e alture, come molte altre città, e i vari corsi d'acqua che scorrevano sotto terra si gettavano tutti nei due fiumi che la cingevano. Alcuni confluivano nella Palude Ribollente e nel Fiume Grigio, ma la maggior parte emergeva nella parte occidentale della città. Dillor bazzicava da quelle parti, sempre frugando in cerca di qualcosa di valore. La sua era un'esistenza sporca e grama, ma almeno riusciva a sopravvivere, e il lavoro non gli pesava poi tanto. «Bene!» esclamò forte sbirciando nell'imboccatura di un largo canale di scolo. All'interno l'illuminazione era scarsa, ma il sole che stava per tramontare rifletteva una strana luce gialla e brillante. La fogna era chiusa da sbarre, come tutte le altre, ma l'oggetto che aveva adocchiato era proprio vicino all'inferriata. «Dillor, sei diventato ricco» balbettò, dandosi da fare tra l'acqua bassa e i rifiuti per recuperare quell'oggetto.
Dopo aver usato il suo bastone uncinato per scacciare una dozzina di ratti e raggiungere le sbarre, Dillor fu sicuro che quell'oggetto luccicante era un pezzo d'oro, e come se non bastasse vi era incastonata una grossa gemma. Era infilato al dito di un cadavere mezzo divorato. Topi, scarafaggi e altre schifose creature di fogna erano pronte a terminare l'opera devastatrice, ma non poterono continuare prima che Dillor avesse tagliato via il dito con tutto l'anello. Con molta facilità liberò il prezioso oggetto dal pezzo di carne putrescente e se lo infilò, quindi andò in fretta a cercare un acquirente. Non poteva sapere che quel gioiello era stato sulla mano di un assassino che l'aveva a sua volta rubato dal cadavere di un altro assassino. L'ultimo possessore non aveva molto bisogno di denaro liquido, e se l'era tenuto per parecchio tempo, mettendolo ogni tanto. Un giorno che per caso l'aveva addosso e stava scappando dopo un lavoretto andato male, era finito nel canale di scolo dove era scivolato battendo la testa. Aveva perso i sensi ed era annegato. Questo incidente era avvenuto solo due giorni prima. «Quanto vale questa roba?» chiese Dillor al barcaiolo, uno zingaro della tribù Rhennee. Quando vide quell'oggetto lo zingaro dalla pelle scura fischiò di sorpresa. «Dove l'hai trovato, Dild?» Odiava essere chiamato in quel modo. Dild era la contrazione del suo soprannome, e a Dillor non piaceva per niente. «Chiamami Dillor! È questo il mio nome e mi devi chiamare così se vuoi comperare quest'anello!» «Certo, certo, Dild... Dillor, voglio dire. Sali in barca e ne parliamo.» Alla fine si misero d'accordo: gli zingari gli avrebbero dato cinquecento denari, e il pagamento sarebbe avvenuto in monete di rame e nobili d'argento. Dillor sapeva che delle monete più pregiate avrebbero attirato attenzioni non desiderate sulla sua persona, e inoltre sarebbero state difficilissime da cambiare nei luoghi che frequentava abitualmente. «D'accordo» disse lo zingaro con una strana smorfia sul viso. Quell'uomo dalla carnagione molto scura frugò a lungo in un cassettone e tirò fuori una scatola. Era piena di monete di ogni tipo: di bronzo, di rame e di argento luccicante. «Ho solo cinque nobili, Dild. Ti darò il resto in monete di rame. Hai una borsa per ficcarle dentro?» Quello sporco zingaro si stava mordendo la lingua per averlo chiamato ancora a quel modo. Improvvisamente a Dillor venne in mente che poteva guadagnare molto più di cinquecento denari da quell'affare. Poteva tenersi l'anello e intascare molto più denaro: il barcaiolo era solo...
«Ah, sì, certo Streebul. Ho un borsello, qui» disse infilandosi la mano dentro la giubba fetente. Dillor non era molto sveglio, e la sua espressione tradì l'intenzione che aveva: Streebul capì tutto prima ancora che la mano di Dillor si stringesse sull'impugnatura del grosso coltellaccio che teneva nascosto tra i vestiti. Lo zingaro scattò in piedi e tirò fuori il suo pugnale proprio mentre quel goffo topo di fogna sfoderava la sua arma. Dillor fu colpito per due volte prima ancora di rendersi conto di cosa stava succedendo. «Stupido idiota!» sibilò lo zingaro. «Ora non ti resta che morire!» Dillor riuscì con un ultimo sforzo a colpire Streebul alla guancia con il suo coltellaccio. Poi il barcaiolo ebbe la meglio su di lui: continuava a colpirlo senza sosta, grugnendo e digrignando i denti. «Aaagh!» riuscì ancora a urlare Dillor, ma fu l'ultimo suono che uscì dalla sua bocca. «Bene!» disse Streebul pulendosi con uno straccio il sangue che gli usciva dalla guancia. «Dild, sei stato sempre poco furbo nei tuoi affari». E così dicendo il barcaiolo esplose in una sarcastica risata. «Rimetterci la pelle per un taglio sulla guancia è già uno spreco, ma tu ci hai rimesso anche l'anello!» Dopo un paio di mesi Streebul fu ucciso da un altro zingaro. Stavano litigando per stabilire se erano i Rhennee o gli Attloi il popolo eletto, e quella volta il barcaiolo era stato troppo lento di mano. Ovviamente l'Attloi vittorioso si prese l'anello con la pietra preziosa come giusto bottino di guerra. Il nuovo proprietario dell'anello stava viaggiando verso Urnst quando un gruppo di briganti ferocissimi assalirono la sua carovana. Nel combattimento l'Attloi diede molto filo da torcere agli assalitori, ma alla fine tutti gli zingari furono uccisi o deportati come schiavi. Il capobanda dei fuorilegge si prese l'anello come sua parte del bottino. «Perché diavolo ci stiamo dirigendo a nord?» «Chiudi quella maledetta bocca, Dogteeth» disse Renfil Leed senza neppure degnare di uno sguardo il suo luogotenente. Anche quello stupido doveva aver capito che le cose si stavano mettendo male. «I cavalieri del duca ci stanno alle calcagna, e ho intenzione di trovare un posto più tranquillo.» Nessuno osò contraddirlo, ovviamente. Il capitano era un vero duro, e non era certo il momento adatto per contestare le sue decisioni. Aveva guidato la sua banda in una lunga serie di scorrerie che avevano colpito il Ducato di Urnst, e stava tornando nel Territorio dei Banditi, dove avrebbe-
ro potuto riposare e progettare nuove incursioni. Ma mentre attraversavano le Terre dello Scudo, Leed e i suoi furono costretti a deviare verso ovest, dove caddero nell'imboscata di una tribù di umanoidi. I briganti furono mangiati vivi, e i loro beni usati per adornare le bardature di quegli esseri. Adesso un pesante anello d'oro, su cui era incastonata una strana pietra verde, decorava i capelli intrecciati del capotribù. Quando quel mostruoso umanoide fu decapitato da un cavaliere di Furyondy, qualche tempo dopo, l'anello passò di mano. Ma non passarono molti giorni e anche quel cavaliere fu sfidato in duello da un altro cavaliere errante che ebbe la meglio su di lui. Per riavere la sua armatura, le armi e il destriero, il cavaliere di Furyondy dovette consegnare all'avversario vincitore tutte le altre sue ricchezze, compreso l'anello. Alla fine, il cavaliere errante che ora possedeva l'anello con la pietra verde prese servizio presso un marchese. Da allora in poi non gli accadde più di cimentarsi in qualche impresa pericolosa, ma un giorno perse l'anello giocando d'azzardo con un nano. Dopo aver passato un lungo periodo sulle montagne, il nano si trasferì sulle Colline Kron, dirigendosi verso est in cerca di una miniera d'oro che si diceva si trovasse da quelle parti. Trovò la miniera, ma spinto dalla sua avidità entrò facendo poca attenzione. La miniera era diventata la tana di una grande orsa e dei suoi due piccoli: l'animale sbranò il nano e lo divorò, anello compreso. Alcuni cacciatori della riserva di un nobile di Dyvers uccisero l'orsa, che si era spinta nelle terre del loro padrone. L'animale era stato cacciato dalla sua tana da torme di umanoidi, che avevano invaso la zona della miniera. Uno dei cacciatori scoprì un anello nello stomaco della bestia, quando la squartarono. Lo ripulì per benino e se lo infilò al dito, felice di tanta fortuna. Il nobile proprietario della riserva di caccia presso cui l'uomo era a servizio non era un tipo incline alla pietà. Quando sorprese il cacciatore ad amoreggiare con sua figlia, il nobile ordinò che fosse impiccato per direttissima. Siccome non si voleva sporcare le mani, disse al boia che si poteva tenere tutti gli oggetti in possesso del criminale, come ricompensa per il suo lavoro. Così, assieme a qualche altro oggetto di poco valore, il boia intascò anche l'anello. Dopo qualche tempo quello stesso boia prese servizio presso la città di Dyvers, visto che lì lo stipendio offerto ai carnefici e torturatori era piutto-
sto alto. Quando però si scoprì che si era lasciato corrompere per liberare alcuni prigionieri politici, lui stesso fu imprigionato. Il suo anello fu sequestrato e incamerato nel tesoro della città. Una spia appena tornata da una missione particolarmente difficile ricevette l'anello come compenso per i suoi servizi. Dopo poco tempo l'agente si recò a Falcovia, per conto di una setta segreta, fingendosi un alleato di quella città. La sua vera identità fu scoperta e il Lord Mayor di Falcovia lo consegnò nelle mani della Corporazione degli Assassini. Dopo tutto era meglio non intervenire ufficialmente, perché quel piccolo screzio poteva incrinare seriamente i rapporti tra Dyvers e Falcovia. Gli oggetti in possesso delle vittime sono normalmente considerati parte del compenso, così l'assassino che ammazzò la spia si ritrovò a possedere anche l'anello. *
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Fu così che dopo circa cinque anni e parecchi chilometri di viaggio, l'anello fece il suo ritorno nella Città di Falcovia. Nessuna delle persone, o delle creature, che l'avevano posseduto ne aveva ricavato qualcosa. Dire che quell'anello portava sfortuna era poco, ma d'altra parte nessuno poteva raccontarne la storia, perché i suoi proprietari erano tutti morti. L'assassino di nome Eladon, l'ultimo che ne entrò in possesso, non si sarebbe spaventato neppure se avesse saputo tutta la storia: gli piaceva il colore della pietra e il modo in cui brillava alla luce. Per celebrare il successo che aveva ottenuto facendo fuori la spia di Dyvers, e per far sapere a tutti che si era guadagnato un gioiello di tale valore, aveva deciso di portare l'anello al dito. Quella sera Eladon si ubriacò e finì in un bordello alla fine del Vialone. Una delle prostitute lo derubò del borsello e degli altri preziosi che aveva addosso: l'assassino era troppo ubriaco per accorgersi di qualcosa. Ma la donna ebbe la cattiva idea di cancellare le tracce, invece di filarsela alla svelta; e questo si rivelò un gravissimo errore, perché Mel il Rosso, il suo protettore, la sorprese a trascinare il corpo di Eladon fuori dalla stanza. «Ehi, tu! Stupida puttana! Cosa stai facendo?» le chiese. La donna lasciò cadere le gambe appesantite dell'uomo e rispose: «Mi è svenuto addosso, e...» Mel il Rosso non la lasciò finire e la schiaffeggiò con violenza. «Non raccontare balle, guai a te, sai cosa ti succede. Lo hai derubato, vero?» Il ruffiano le prese la testa fra le mani e gliela mosse in un gesto d'assen-
so, mentre la donna si portava la mano alla fusciacca che aveva legata ai fianchi. «Dammelo!» le ordinò Mel il Rosso, e la donna fece esattamente ciò che le veniva chiesto: slacciò la fusciacca e tirò fuori il borsello. «Bene! Sei stata brava, Flos» disse l'uomo con vero entusiasmo mentre ammirava il gruzzolo di monete e l'anello. Chi può essere questo tanghero? Mel il Rosso girò con lo stivale il corpo dell'ubriaco per dargli un'occhiata da vicino. «Merda! Questo è un assassino!» «Cosa vuoi dire, Mel?» Ma la voce le si spense in gola: improvvisamente Eladon si era tirato su e li stava fissando. «Cosa sta succedendo, qui?» L'assassino si stava riprendendo dai fumi dell'alcool, e pian piano cominciò a capire che qualcosa non andava per il verso giusto. «Brutta...» Mel il Rosso gli chiuse la bocca con un tale calcio che la testa gli si piegò all'indietro scricchiolando. Per essere proprio sicuro Mel gli tastò il polso. L'assassino era morto stecchito. «E ora, donna» disse Mel in tono severo, «aiutami a trascinare il cadavere nel vicolo.» Flos ubbidì senza dire una parola, felice che il ruffiano non fosse più arrabbiato con lei, ma solo preoccupato per quel cadavere ingombrante. «Cosa dovrò dire se qualcuno della Corporazione mi chiederà di lui?» chiese con voce tremante. «Ecco fatto» disse Mel il Rosso, senza curarsi affatto di rispondere alla domanda della donna. Ormai il cadavere era lontano da sguardi indiscreti. Poi il ruffiano si girò verso la prostituta e sorrise. «Non preoccuparti, Flos, non dovrai parlare proprio con nessuno». La donna non fece neanche in tempo a tirare un sospiro di sollievo che un pugnale le si infilò dritto nel cuore. Quando trovarono il corpo della donna accanto a quello dell'assassino, l'espressione che aveva sul volto era un misto di sollievo e sorpresa. Il fatto non suscitò particolari curiosità, neppure tra gli Assassini della Corporazione. Eladon non era in missione quando era stato assassinato, e così tutti pensarono che l'assassino e la prostituta si fossero ammazzati a vicenda litigando come spesso accade tra venditore e cliente. *
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Da quel giorno la fortuna di Mel il Rosso cambiò in meglio. Ladav Idnorsea, uno dei membri più importanti della Corporazione dei Ladri, lo prese in simpatia e lo assunse fra i suoi scagnozzi: finalmente non avrebbe
più dovuto mantenere quel branco di sgualdrine per sopravvivere. Per un anno intero tutto andò così liscio che persino Ladav era meravigliato: tutto quello che faceva aveva sempre un esito positivo, e con le sue piccole parti di bottino anche Mel diventava piuttosto ricco. Egli ottenne un posto di riguardo all'interno della corporazione, e sembrava destinato a salire i gradini della gerarchia. In una calda notte estiva il capo portò Mel il Rosso e altri tre compagni a fare un lavoretto in una taverna della zona del porto. Individuarono subito la vittima: era un marinaio, probabilmente il comandante di una di quelle piccole imbarcazioni che trasportano le merci dal lago alla città e poi scendono il fiume. Stava giocando d'azzardo assieme ad altri due marinai, e in quel momento stava vincendo forte. Erano tutti ubriachi, e stavano puntando grossissime cifre. Idnorsea avanzò per primo e dopo qualche istante fece cenno a Mel di seguirlo. Mel lasciò passare ancora qualche secondo, poi fece come gli aveva detto il capo senza che nessuno notasse il suo spostamento. «Che ne pensi, Mel?» Era veramente una domanda lusinghiera da parte del capo. Mel il Rosso sorrise e rispose: «Sarà un gioco da ragazzi, capo. Quel barcaiolo dev'essere un babbeo!» «Non ne sono tanto sicuro, ma vale la pena tentare». Idnorsea amava contraddire i suoi uomini, ogni tanto, solo per essere sicuro che si ficcassero bene in testa chi era che comandava. Lo guardò per qualche istante, soppesando ciò che aveva detto. «Tu e gli altri ce la fate a sistemare i suoi due compagni?» «Anche con le mani legate» lo rassicurò Mel. «Datevi da fare, allora» disse il ladro, che per l'occasione si era vestito elegantemente; si sistemò il farsetto di velluto blu pulendosi la manica della giacca dove aveva notato un po' di polvere. «Raggiungi gli altri e aspetta dall'altra parte della strada. Cercheremo di prenderli in mezzo, così o io o voi gli arriviamo alle spalle... E lascia a me il capitano!» «D'accordo, capo» rispose Mel il Rosso affrettandosi a raggiungere gli altri per riferire le istruzioni di Idnorsea. Come era stato loro ordinato Mel e gli altri si misero a gironzolare sull'altro lato della strada cercando di non dare nell'occhio, in attesa dei prossimi sviluppi della situazione. Idnorsea sapeva bene cosa sarebbe successo: presto il capitano sarebbe stato troppo ubriaco e avrebbe smesso di giocare. E infatti andò proprio così.
«Andrò a vuotarmi la vescica da qualche parte» disse a gran voce il marinaio; uscì dal locale e si ficcò in un vicolo laterale seguito dai suoi due uomini. Mel vide anche Idnorsea uscire dal locale e fargli subito il segnale convenuto: assieme ai ragazzi doveva passare sul retro dell'edificio e tener d'occhio l'uomo mentre pisciava. Facendo un gesto veloce ai suoi compagni, Mel entrò nel locale, una specie di taverna con delle stanze al piano di sopra dove si consumava ogni sorta di vizio. I quattro ladri passarono senza intoppi nella sala del bar, nella cucina e nel magazzino. Il vicolo che si apriva sul retro dell'edificio era illuminato debolmente dalla luce che proveniva da qualche finestra. Ma era sufficiente perché i furfanti riuscissero a raggiungere l'angolo di sinistra, dove il capitano e i suoi due scagnozzi stavano orinando. Hilgar girò l'angolo per primo, e si lanciò in avanti come una furia. «Addosso!» gridò Mel, sapendo che presto il capo li avrebbe raggiunti, e passando dalle parole ai fatti si mise subito a lanciare qualche pugnalata. Ma i marinai non erano ubriachi come sembravano, e si accorsero dei ladri prima di venir imbottigliati nel vicolo. Hilgar riuscì ad afferrarne uno alle gambe, immobilizzandolo per qualche istante. Suggil il Grosso agguantò l'altro alla gola e cercò di colpirlo col manganello, ma quel tizio era molto forte e in qualche modo riuscì ad evitare i colpi, ferendo gravemente il ladro. Trant si gettò nella mischia per aiutare Hilgar che nel frattempo era stato ferito, così Mel il Rosso si trovò da solo contro il capitano. «Andiamo, razza di delinquente, fatti sotto!» gridò il barcaiolo con fare provocatorio. «Non ti piace fare a pugni, eh? Brutto bastardo schifoso!» In quel preciso istante Idnorsea entrò in scena, trapassando da parte a parte il corpo del malcapitato. «Bel lavoro, capo...» Mel il Rosso avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma qualcuno lo colpì alle spalle, facendolo cadere. Il ladro vide Hilgar cadere colpito a morte, mentre Trant si era lanciato addosso al marinaio che aveva ucciso il loro compagno e lo stava colpendo ripetutamente con il coltello. I suoni che giungevano a Mel indicavano che le cose si erano messe al peggio: erano arrivati altri uomini a dar man forte ai marinai. Mel il Rosso cercò a fatica di rialzarsi in piedi, vide Idnorsea e Suggil il Grosso impegnati contro tre uomini armati di spade. C'era una sola cosa da fare, ormai: lasciando i compagni al loro destino. Mel cercò di tamponare alla meglio la ferita con la mano e scappò più veloce che poteva. Due ragazzi molto magri stavano sopraggiungendo in direzione opposta,
ma Mel non se ne curò. «Questi due idioti troveranno una bella sorpresa, laggiù» pensò mentre gli passavano accanto. Fece appena in tempo a notare che uno dei due aveva in mano un sottile spadino, e stava cercando di colpirlo. Anche se era ferito, Mel non aveva perso la sua prontezza di riflessi: afferrò il braccio di quel piccolo bastardo e lo strinse così forte da fargli quasi mollare la presa, ma in quel preciso istante un dolore fortissimo gli attanagliò la testa. Era ormai troppo tardi, quando si accorse che entrambi i ragazzi erano armati: mentre ne stava bloccando uno, il secondo l'aveva ucciso. «Sei ferito, San?» «No, sto bene.» «Perfetto! Allora vediamo se costui ha addosso qualcosa di interessante!» gli rispose l'amico Gord. I due ragazzi, mendicanti-ladri al servizio dell'Unione, perquisirono in fretta il cadavere. Gord si accorse dell'anello che Mel aveva ancora infilato al dito e glielo prese con molta facilità. Quando ebbe in mano l'oggetto sentì una specie di fremito al braccio, ma non disse nulla. Infilò il gioiello in tasca e indicò il vicolo dove la rissa continuava. «Andiamo a vedere se c'è del lavoro per noi.» Quando arrivarono, le cose erano già sistemate. Il capitano e i suoi uomini, che non erano così inoffensivi come avevano fatto credere ai ladri, avevano ucciso tutti i loro assalitori tranne due. E dal momento che avevano fatto fuori uno dei fuggiaschi, i due ragazzi ricevettero molti complimenti e vennero fatti entrare nel gruppo. Uno dei ladri, di nome Idnorsea, venne portato al quartier generale di Theobald. Nessuno di quegli uomini sapeva da dove venisse quell'anello, né come fosse arrivato a Falcovia, né poteva immaginare che avesse fatto un giro così lungo fino al Nyr Dyv prima di tornare nelle mani di colui che doveva possederlo di diritto da sempre. Gord stesso considerò quel gioiello semplicemente come un bottino di valore. Ci vollero degli anni prima che capisse che le cose non erano così semplici. Capitolo 11 «Ecco qua, Tapper. Quanto mi dai?» Il fabbro osservò i meccanismi che aveva davanti agli occhi. Erano dozzine di serrature, tutte perfettamente funzionanti. «Gord, sei un vero prodigio! Che ne diresti di diventare un 'viaggiatore' come me?» «Un viaggiatore?»
«Capo Viaggiatore. Ho deciso di non lavorare più tanto. Potrei dividere con te i miei profitti se tu diventassi mio socio.» Il ragazzo scosse la testa. «Nessuno mi prenderebbe sul serio, sono troppo giovane. E poi il lavoro è troppo... calmo per i miei gusti. Ho bisogno di qualcosa di più eccitante. Il mio compagno, San, è finito male per aver voluto fare un altro mestiere. Forse a lui piacerebbe quest'idea, e sarebbe anche più adatto di me per questo genere di cose.» Tapper scosse la testa incredulo. Sapeva bene che San era il migliore dei due quando si trattava di aprire delle serrature; ma siccome faceva parte della Corporazione dei Ladri, sapeva anche dove era finito San e cosa stava facendo. Tuttavia finse di non essere al corrente della cosa. «Hmm. Forse posso capire il tuo atteggiamento, Gord. Anch'io, quand'ero giovane, ero sempre in cerca di qualcosa di eccitante...» «Senti, per quel che riguarda le serrature» disse Gord con un sorriso. «Hai intenzione di comprare tutto in blocco?» «Oh sì, certo. Vediamo» disse Tapper e cominciò ad esaminare con cura ogni singolo meccanismo, cercando di ricordare il prezzo a cui li aveva venduti ai ragazzi e calcolando mentalmente a quanto poteva venderli adesso. «Una moneta di bronzo al pezzo.» «Ah, ah! Potrei venderli per un argento l'uno!» «Facciamo due, allora.» «Dieci!» «È fatta per cinque, allora. Ma è una vera lotta contrattare con te, specialmente per un povero vecchietto come me». In realtà Tapper era molto orgoglioso di quel ragazzo. Gord conosceva bene l'esatto valore di ogni cosa e non mollava così facilmente. Ora Tapper avrebbe sistemato quelle serrature e si sarebbe fatto pagare circa un nobile l'una, più il costo della mano d'opera. Mentre metteva a posto le serrature, gli chiese: «Come sta il tuo amico San?» Il ragazzo scosse la testa e scrollò le spalle. «Non lo vedo più, Tapper. Credo che stia bene.» «Forse è meglio così» rispose il fabbro. «Avrai più tempo per studiare, adesso che non siete più in giro a combinare guai. Dimmi, vuoi un'altra partita di serrature vecchie?» «No, grazie Tapper. Sono troppo occupato a studiare per sbrigare anche questi lavoretti». Non era proprio vero: Gord in realtà non si divertiva affatto a riparare vecchie serrature. Conosceva tutto quello che c'era da sapere sull'argomento, ma senza San ad incoraggiarlo quel lavoro gli sembrava
proprio noioso. Tapper osservò con attenzione il ragazzo per qualche istante. Era cresciuto parecchio e si era un po' irrobustito negli ultimi anni. I suoi muscoli si erano un po' sviluppati: oramai stava per diventare un uomo. Anche la voce era profonda e le guance erano coperte da una fitta peluria nera che il ragazzo non si era curato di radere quel giorno. «Mi dispiace sentirti parlare così, ragazzo. I nostri affari andavano bene, ma tutto prima o poi è destinato a finire, vero?» Si trattava ovviamente di una domanda retorica, e Gord non si preoccupò di rispondere. «Verrai a trovarmi ugualmente, qualche volta, vero?» E questa era una domanda che veniva dal cuore. «Se mi capiterà di essere in giro da queste parti, Tapper... ma dubito che accadrà spesso» rispose Gord senza esitazione. «Non ho molte ragioni per venire nella Città Vecchia, se non per le attrazioni del Quartiere degli Stranieri.» C'era un po' di malinconia nella voce del ragazzo, della tristezza malcelata che l'uomo non fece fatica a notare. Tapper capiva che il ragazzo non amava riandare con la memoria alla sua infanzia nei bassifondi, o al suo periodo di lavoro come ladro-mendicante. «Non c'è gran che da queste parti, hai ragione» rispose il fabbro. «Ecco il tuo denaro, Gord, e buona fortuna.» Gord sembrò esitare per qualche istante prima di andarsene. Non sopportava l'idea di tagliare i ponti con il suo passato più recente, in fondo abbastanza felice, così diverso da tutte le sue precedenti esperienze. Prese il gruzzolo di monete che Tapper gli porgeva, se le mise in tasca e prese la mano dell'uomo. «Sei stato un buon amico, Tapper. Mi mancherai... Grazie, e buona fortuna anche a te» aggiunse. «Se non mi verrai a trovare, passerò io all'Università a cercarti.» Il ragazzo sorrise. Sapeva bene che non l'avrebbe mai fatto. «Certo, Tapper. Ti mostrerò come gli studenti si scolano allegramente interi boccali di birra!» E con quelle parole, Gord se ne andò. *
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Negli ultimi anni la città era cambiata. L'Unione dei Mendicanti era stata sconfitta dalla Corporazione dei Ladri, e Chinkers, il nuovo capo mendicante, guidava l'organizzazione appena rinata che si chiamava Corporazione dei Mendicanti. Per quel che ne sapeva, Gord era uno dei pochi ladri-
mendicanti sopravvissuti alla sconfitta. I ladri e i loro scagnozzi avevano fatto fuori tutti gli altri, tranne Theobald. La caccia all'ex re dei mendicanti era ancora aperta, ma Gord sapeva che nessuno avrebbe mai trovato quel grasso demonio. Durante quella breve guerra le due bande si erano combattute senza pietà, ma adesso la situazione si era normalizzata. I cittadini in fondo erano soddisfatti: in giro c'erano meno ladri e meno mendicanti, le bande di fuorilegge erano decimate, le strade libere da pericoli per gli onesti abitanti. Gord era così cambiato fisicamente che nessuno avrebbe riconosciuto in lui un vecchio associato all'Unione dei Mendicanti, eccetto naturalmente San. Beh, forse anche Chinkers poteva ricordarsi di lui, ma Gord ne dubitava molto. Quel vecchio era stato troppo occupato a complottare per notare un semplice apprendista come lui; e neppure i ladri con cui aveva avuto a che fare due o tre anni prima potevano riconoscerlo, ora. Nei primi tempi lui e San avevano avuto paura che qualcuno li cercasse. Erano fuggiti dal Quartiere dei Mendicanti quando la situazione volgeva al peggio. Si erano nascosti un po' qua e un po' là - nel Quartiere degli Stranieri, nel Rione degli Artigiani e per un breve periodo persino nei Quartieri Bassi. Poi si erano sistemati nelle vicinanze dell'Università, proprio a sud del Borgo degli Ecclesiastici. Si erano inseriti nella comunità accademica e avevano intrapreso un corso regolare di studi, principalmente per nascondere la loro vera identità. Nella moltitudine degli studenti i due ragazzi erano veramente al sicuro da ogni indagine, anche se probabilmente nessuno li stava cercando. Entrambi avevano sopravvalutato la loro importanza, ma è una cosa che tutti i ragazzi fanno. Il fatto di essere uno studente aveva anche un sacco di altri vantaggi. Il tempo speso a studiare sotto la guida di un tutore, e in biblioteca, servì molto a Gord. Era maturato, cresciuto; era cambiato moltissimo. Era molto più istruito, ed era in grado di affrontare il mondo. Tutti i trucchi che aveva imparato nella Città Vecchia, per riuscire a sopravvivere, gli sembravano ormai inutili fuori da quell'ambiente ristretto. Gord era contento di come andavano le cose, eppure sentiva molto la mancanza di San. Era quasi un uomo ormai, ma la parte di lui che ancora non era cresciuta aveva disperatamente bisogno di un compagno e di un amico. Nel corso di quasi tutta la sua vita non aveva mai avuto niente di simile, mentre con San aveva imparato ad apprezzare più che mai la vera amicizia. Ma ora San se n'era andato, sentendo il bisogno di seguire la sua strada, e Gord era rimasto nuovamente solo.
Gord sborsò una piccola moneta di ferro, il pedaggio per passare dal Quartiere degli Stranieri nella Città Nuova. Improvvisamente gli venne in mente che era molto vicino alla casa dove aveva abitato fino a poco tempo prima con San. Era così soprappensiero che non si ricordava nemmeno di come fosse arrivato fin là. Era solo... «Dovevo andare dall'altra parte» mormorò fra sé mentre si dirigeva a grandi passi a sud, verso la zona universitaria. «Sono un solitario, ecco perché San se n'è andato. Come compagnia sono un disastro». No, disse a se stesso un istante dopo, non era vero. I pensieri continuavano a confondersi nella sua mente mentre rifletteva sul suo carattere. Sapeva che quando era dell'umore giusto poteva essere un'ottima compagnia, sempre pronto a divertirsi, a ridere o a inventare qualche scherzo. Ma quasi sempre preferiva stare da solo. Non era egoista, viste le capacità che aveva sempre dimostrato. Ma lo studio, la pratica delle armi, le esercitazioni e la meditazione richiedevano quasi tutto il suo tempo. Anche stare da soli aveva i suoi vantaggi. Una persona solitaria non era oppressa dalle responsabilità di dover badare alla sicurezza o al benessere di nessun altro. E poi c'erano delle cose che sarebbe stato impossibile, o molto difficile, fare assieme a qualcun altro. Per esempio se c'era da mettere le mani su un tesoro, e se si poteva averlo senza l'aiuto di nessuno, non era meglio fare tutto da soli? Questi frammenti di pensiero cominciavano a prender forma nella sua mente, facendolo sentire sempre meglio. E ben presto la sensazione di solitudine sparì, nell'eccitazione di un nuovo piano che aveva progettato. *
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«Dottore! Dottor Prospero, siete là?» Il vecchio diventava ogni giorno più irritabile, e quando rispose alla chiamata non sembrava affatto contento. «Cosa c'è? Oh, sei tu, Gord. Cosa vuoi?» Il ragazzo stava per rispondere, ma il vecchio lo interruppe. «Non restare là fuori, questi spifferi mi faranno morire! Entra, entra. Parleremo meglio, qui al caldo!» Era una mite giornata di primavera. Gord notò lo scialle di lana in cui era avvolto Prospero, e comprese la situazione. Anche Leena aveva sempre freddo, anche se la temperatura era alta: era la vecchiaia, la scarsa circolazione, la morte che si avvicinava giorno dopo giorno. «Vi ho portato una bottiglia di buon brandy, dottore disse Gord entrando
nella piccola casa del vecchio saggio.» «Versami un bicchiere e portamelo qui, vicino al fuoco. Prendine un po' anche tu, non troppo, mi raccomando! I ragazzi non devono ingerire grosse quantità di alcool, lo sai!» Assecondando la richiesta del vecchio, Gord portò due bicchierini di liquore vicino al caminetto, dove Prospero si era seduto. Dei fogli di pergamena, delle penne d'oca e un calamaio indicavano che il vecchio stava scrivendo qualcosa prima che Gord lo interrompesse. «Posso sedermi?» chiese molto educatamente. «Certo! Prendi quella sedia e vieni qui vicino» gli rispose il dottor Prospero, e mentre il ragazzo si sistemava cominciò a mettere ordine fra le sue scartoffie, facendo attenzione a coprire le pagine scritte. «Ti sei messo di nuovo nei guai?» chiese il saggio quando Gord si fu seduto. Il ragazzo non riuscì a trattenere un sorriso. Dopo tutto era ancora molto giovane. Lui e San avevano dovuto chiedere aiuto al Dottor Prospero parecchie volte, perché li tirasse fuori da qualche guaio che avevano combinato al Collegio Grigio. «No, dottore» disse allegramente. Poi cercò di assumere un atteggiamento più serio e aggiunse: «Sono venuto a chiedere il vostro aiuto per un problema scolastico.» «Ciò mi solleva, allora» disse Prospero, bevendo il liquore fino all'ultima goccia e borbottando qualche commento sull'ottima qualità. Il vecchio apprezzava molto Gord. Era stato il tutore di Gord e San per quasi un anno, prima di usare la sua influenza per farli entrare all'Università. Anche l'altro ragazzo era molto brillante e pieno di capacità, ma Gord era il suo preferito: Prospero non aveva mai trovato un simile talento naturale. Il dottore non sapeva bene come definire le capacità intellettuali di Gord: aveva una memoria eccezionale, una forte capacità logica di ragionamento, forse si trattava semplicemente di un genio. In ogni caso era sempre felice di vedere Gord, anche se di solito il ragazzo veniva a trovarlo perché li aiutasse a uscire dai guai. Aveva sempre fatto del suo meglio per tenere nascosta la sua simpatia ai due ragazzi, perché non voleva che Gord si montasse la testa o che San diventasse geloso del compagno. «E quale sarebbe questo problema?» chiese ancora il Dottor Prospero con un tono un po' più brusco, visto che il ragazzo aspettava di essere interrogato per parlare. «Sono interessato alla città, dottore.» «Alla città? C'è molto da sapere sulla città. Dovresti essere più preciso. Conosci già la sua storia, gli avvenimenti politici e demografici, vero? Io
stesso ti ho insegnato queste cose e sono certo che il collegio non ti ha fatto dimenticare quello che hai imparato con me. E allora, ragazzo? Cosa ti sta passando in quella fertile testolina?» Ovviamente Gord aveva in mente qualcosa di molto preciso, ma non voleva arrivare direttamente al punto per non dover dare più informazioni del necessario. Gord pensava che se il dottore avesse saputo esattamente le sue intenzioni, non solo non gli avrebbe dato nessuna informazione, ma l'avrebbe anche denunciato alle autorità. Forse il dottore non avrebbe fatto niente di così drastico, ma Gord non poteva esserne sicuro. «Mi interessa la progettazione della città. Vorrei sapere come l'hanno costruita i primi ingegneri» provò a rispondere. Le sopracciglia curve di Prospero si aggrottarono ancora di più. Per quanto si sforzasse, il vecchio non riusciva a scoprire nulla di male nel desiderio di Gord. «Hai intenzione di diventare un ingegnere? O un architetto?» «Beh, no... non esattamente. Ma non ho ancora scartato questa possibilità» si affrettò ad aggiungere il ragazzo «Questa è la mia città, la mia sola casa. Ho bisogno di conoscerla meglio, per poter capire più a fondo la sua storia e il suo futuro». Era un compito molto ambizioso quello che si era prefissato. Chissà se avrebbe fatto effetto su Prospero? Il vecchio fu positivamente impressionato da tanta sete di conoscenza. Più ampia era la base di informazione che uno si creava da giovane, e migliori sarebbero state le decisioni che avrebbe preso in futuro. L'abbondanza dei dati e la lucidità del ragionamento erano le chiavi del successo, in qualsiasi occasione. «Ma allora perché non consulti direttamente la biblioteca del Collegio Grigio? Hanno tutto il materiale che ti può servire». Prospero finse di essere un po' infastidito. «È proprio questo il punto, dottore. Ho frugato in tutta la biblioteca, ma non ho trovato nulla di veramente soddisfacente. Vorrei vedere le vecchie mappe, i disegni originali della città, gli acquedotti, le mura, le fogne, tutto! Esiste una mappa del genere?» Prospero non riusciva ancora a capire dove Gord voleva arrivare. Forse il ragazzo era diventato davvero uno studente diligente, come il vecchio saggio aveva sempre sperato. Il dottore pensò a lungo alla domanda che Gord gli aveva posto. Dove potevano essere le mappe originali della città? Forse erano custodite negli archivi del Lord Mayor, ma nessuno studente avrebbe mai avuto il permesso di accedere a quelle informazioni. C'erano
sicuramente delle gallerie segrete d'accesso, dei mezzi di difesa, e altre installazioni militari che erano tutelate dal segreto di stato. Restava solo una possibilità. «Landgrave» mormorò il vecchio saggio. Gord afferrò al volo l'idea. Il Collegio Landgrave era la più vecchia delle scuole che costituivano l'Università. In origine era situato dove ora sorgeva il Quartiere degli Operai. Poi, quando la Città Nuova aveva cominciato a prender forma, Landgrave aveva acquistato il terreno e gli edifici di un monastero e si era trasferita lì. «È un'istituzione di tutto rispetto, quella, dottore. Come semplice studente del Collegio Grigio non mi permetteranno mai di entrare nella biblioteca di Landgrave.» «Non essere così affrettato, e non dire 'mai'. È troppo negativo e ti impedisce di ragionare. Si trova sempre una via d'uscita». Il Dottor Prospero si guardò attorno, trovò un foglio di carta pulito e si mise a scrivere qualcosa con la sua penna d'oca, fermandosi ogni tanto soltanto per intingere il pennino nel calamaio colmo d'inchiostro nero seppia. «Anche il tuo amico, come si chiama... San, vero?... è interessato anche lui alla cosa?» «No, Dottor Prospero. Forse non vi ricordate che ha lasciato la scuola.» Il vecchio saggio scosse il capo, cercando di mascherare l'irritazione che provava per aver dimenticato quel particolare. Odiava dover ammettere di cominciare a perdere la memoria. «Sì, sì, certo. Non c'entra. Allora solo tu potrai entrarci». Aggiunse ancora qualcosa sul foglio che aveva davanti, lo firmò e ci versò sopra della sabbia per asciugare l'inchiostro. «Potete darmi una lettera per entrare alla biblioteca del Collegio Landgrave?» il tono di voce di Gord esprimeva tutto la sua stupita e genuina ammirazione. «Certo» rispose Prospero, senza riuscire a soffocare un moto d'orgoglio. «Tu sei uno studente impegnato in una ricerca per mio conto. Ho allungato un po' la storia, e ho scritto a un mio vecchio collega che lavora ancora a Landgrave, dicendogli che non sono più in grado di fare da solo un lavoro così lungo e faticoso». Consegnò la lettera al ragazzo, dopo avergliela sbandierata un po' davanti agli occhi. «Vai subito al collegio e chiedi del Dottor Bizzel. È un vecchio amico, un bibliotecario d'altri tempi. Ti aiuterà se avrai bisogno di qualcosa.» «Grazie!» Gord era tutto eccitato e ansioso di cominciare la sua nuova ricerca. «Mi ricorderò sempre di ciò che avete fatto per me, dottore, e potete scommettere che...» «Posso scommettere che te ne dimenticherai appena sarai uscito da quel-
la porta» lo interruppe il saggio, dicendo una cosa probabilmente vera ma che Gord non avrebbe mai ammesso. «Resta ancora un po' qui con me, ragazzo. Ho un paio di cosette da farti fare, e mi potrai anche cuocere due uova per cena. Nel frattempo ti chiederò un paio di cose. Visto che sei stato mio allievo e che ti ho appena fatto un favore di considerevole importanza, è proprio il minimo che puoi fare per me.» Gord assentì alle domande del vecchio con un sorriso. Si diede da fare fischiettando felice, preparando una cena speciale per il vecchio istitutore. Era un vero onore servire quel vecchio saggio, nonostante la raffica di domande a cui avrebbe dovuto rispondere più tardi. Il tempo era molto prezioso per lui, ma non gli sarebbe costato molto rimandare i suoi progetti di un paio d'ore. A Landgrave dovette impiegare un po' più tempo di quanto aveva previsto. Gord era entrato negli studi dell'antica biblioteca pensando che sarebbe stato molto semplice trovare ciò che cercava. Solo dopo molti giorni, molte pagine e molta polvere ingoiata, scoprì in un grosso libro i disegni che era tanto desideroso di scoprire. Il volume era collocato, con molti altri, in una sezione della biblioteca che probabilmente non era stata visitata da anni. Non era certo una sorpresa: nessuno studente poteva avere tanto interesse per gli acquedotti che scorrevano sotto Falcovia. Gord era felice che le cose stessero così, solo San avrebbe potuto sospettare il vero motivo di quel suo interesse. A Gord tornò alla mente quello che era successo. Non l'avrebbe mai, mai potuto dimenticare. Il giovane interruppe per un attimo la lettura, riflettendo sui fatti accaduti quasi tre anni prima. Assieme a San faceva parte delle forze dell'Unione dei Mendicanti che aveva dichiarato guerra alla Corporazione dei Ladri. In una delle loro uscite 'illegali', Gord si era guadagnato il suo amato anello uccidendo un pericoloso assassino in un combattimento corpo a corpo. Da quel giorno lui e San avevano cominciato a girovagare nei Quartieri Bassi e nella Zona del Fiume, mimetizzandosi fra i Rhennee e facendo tutto quello che riuscivano per danneggiare i loro nemici; anche se entrambi non avevano in grande simpatia il Capo dei Mendicanti, Theobald. Un giorno, improvvisamente, vennero richiamati alla base. La guerra era finita, si stava per negoziare la pace. Gord e San non avevano scelta: tornarono al grande magazzino abbandonato che Theobald aveva trasformato in quartier generale e palazzo di residenza. A Gord veniva da ridere: palazzo! Quell'edificio faceva mostra di tutta la sua trasandatezza e miseria, era un
monumento alla mente malata e perversa del capo mendicante e alla sua tracotanza. L'assassinio dei ladri-mendicanti e di tutti i loro associati era stato deciso proprio per la notte in cui i ragazzi fecero ritorno alla sede. Forse Chinkers era dentro l'edificio, anche se Gord nutriva forti dubbi in merito. Probabilmente quel grasso mascalzone era già scappato. Vista la sua posizione, non c'era alcun dubbio che Chinkers era stata una spia al servizio di Arentol e della Corporazione dei Ladri. Gord e San erano stati davvero fortunati a non essere ammazzati nel sonno. San si era accorto di qualche rumore ai piani sottostanti, e aveva abbandonato la sua stanza all'ultimo piano; mentre Gord, che era in una stanza ai piani inferiori, aveva dovuto uccidere l'uomo che stava per colpirlo. Ancora oggi gli capitava di sognare quella morte scampata per un pelo. La cosa positiva di quella notte era che la spada dell'uomo che voleva ucciderlo era andata ad aggiungersi all'altra arma che già possedeva: il pugnale che si era guadagnato nel suo primo combattimento. Gord aveva tentato di scappare scendendo nei sotterranei dell'edificio, dove aveva incontrato San e Theobald; quest'ultimo aveva subito ordinato ai due ragazzi di portar fuori dal palazzo il tesoro dell'Unione. In un certo senso le cose erano poi andate in maniera piuttosto divertente: era stato proprio Gord a far fuori quel grosso demonio, e proprio con quella sua dannata cassa di metallo, un baule che conteneva una quantità enorme di monete sonanti. Quali erano i piani del capo mendicante quando aveva ordinato ai due ragazzi di aiutarlo? Gord non aveva dubbi: Theobald prima o dopo li avrebbe uccisi, pugnalandoli o strangolandoli; avrebbe nascosto i corpi e se ne sarebbe andato tranquillamente. Invece la sorte aveva fatto sì che fosse lui a finire i suoi giorni nel luogo dove aveva deciso di sbarazzarsi di Gord e San: il pozzo profondo una trentina di metri che si apriva nei sotterranei del palazzo. La scena continuava ad apparirgli davanti agli occhi, il ricordo era chiarissimo. «Dammi quella cassa!» gli aveva urlato Theobald. Era fermo sul bordo del pozzo, e aspettava che San e Gord sollevassero il pesante baule e glielo passassero. Gord lo aveva sollevato da solo, impiegando tutte le sue forze. A quel tempo era molto mingherlino, e aveva fatto una fatica enorme. Ma quella fatica, pensava Gord, aveva rappresentato per lui un momento decisivo, che lo aveva strappato dalla sua giovinezza e aveva dato il via allo sviluppo dell'uomo che era in lui.
Per quale motivo aveva deciso di fare ciò che aveva fatto? Mentre si avvicinava al pozzo, con il forziere sollevato, una valanga di pensieri gli aveva invaso la mente. Gord disprezzava Theobald più di chiunque altro. Ma aveva anche molta paura di quell'uomo, quanta ne avrebbe avuta per il peggiore dei demoni. E adesso quel mostro era là, pronto a minacciare il ragazzo con la sua sola presenza, giorno e notte. Le percosse e i maltrattamenti che aveva subito nei primi tempi del suo apprendistato non si erano più ripetuti, dopo che le qualità di Gord erano diventate evidenti a tutti; ma il ragazzo aveva sempre vissuto con la sensazione che quell'individuo potesse ricominciare a punirlo in qualsiasi momento, a suo capriccio. A Gord tornò alla mente il giorno in cui Theobald aveva ucciso Violet. Violet era una ragazza dell'Unione che prometteva molto bene. Per sua sfortuna era incorsa nelle ire del capo e ne aveva pagato il prezzo. Gord era sicuro che Theobald, quando aveva ucciso Violet, aveva provato anche una forte sensazione di gioia oltre alla rabbia che doveva sfogare. Adesso, a distanza di tempo, Gord pensò che la ragazza forse non si meritava tutta l'ammirazione, per non dire l'amore, che aveva suscitato in lui. Ma 'meritare' non era la parola giusta. Era lui che era cambiato in tutti quegli anni, e adesso si rendeva conto che la mentalità della ragazza, il suo comportamento, le sue aspirazioni erano molto diversi dai suoi. Tuttavia, quando erano stati compagni di lavoro, la differenza fra loro due non era così evidente. Lei era stata troppo avida, troppo dura, forse aveva contribuito in qualche modo - involontariamente, Gord ne era sicuro - a rovinare qualche progetto di Theobald; ma quel farabutto l'aveva uccisa senza pietà, strangolandola, picchiandola, torturandola lentamente, metodicamente, gustando ogni particolare delle sue sofferenze. Oh, sì: ricordava tutto ora, proprio come in quei momenti. Era stato per se stesso, per San e anche per Violet che l'aveva fatto. Quando Theobald gli aveva detto di passargli il forziere, Gord gli aveva tirato addosso la cassa con tutta la forza che aveva in corpo, e Theobald non era riuscito a resistere all'urto: colpito alla testa da uno spigolo metallico, quel demonio aveva perso l'equilibrio ed era caduto nel pozzo, trovando la morte in quelle oscure profondità. Solo Gord e San sapevano cos'era successo, e tennero ben custodito quel segreto. Parlarne voleva dire avere i giorni contati: troppa gente poteva essere interessata a sapere qualcosa della fine di Theobald. Così, da allora in poi, i due ragazzi decisero di non toccare più quell'argomento, nemmeno fra di loro. Forse San ci pensava ancora, ogni tanto, ma Gord sapeva che il
suo compagno non avrebbe mai corso il rischio di parlarne con qualcuno. Era sicuro che, per San, una cassa piena di monete non era una ragione sufficiente per rischiare la vita, dal momento che esistevano molti altri modi, e molto meno pericolosi, per guadagnare un bel po' di denaro. Ma Gord aveva in mente qualcos'altro. Fin da quando era diventato un ladro esperto, Gord aveva sfruttato, insieme a San, la sua abilità per guadagnarsi da vivere. Ora il suo compagno se n'era andato per unirsi alla Corporazione dei Ladri, e Gord negli ultimi tempi aveva lavorato da solo. Aveva capito che doveva essere indipendente, che doveva esercitare per conto suo la professione di ladro dal momento che non aveva altri mezzi per mantenersi agli studi. «Ma non prenderti in giro!» disse Gord ad alta voce, scuotendosi da quei pensieri al suono della sua stessa voce. Per fortuna non c'era nessuno nella stanzetta dove erano custodite le mappe che si era messo a studiare. Non osava copiarle, ma una volta a casa le disegnava con cura, a memoria, lavorando ogni notte per mettere sulla carta le informazioni che aveva raccolto durante il giorno. Cercò di concentrarsi di nuovo su quello che aveva sotto gli occhi, ma la mente continuava a volare... Gord sapeva di essere diventato un ladro per forza di cose, per così dire costretto dalle circostanze, e di essere rimasto tale per un caso del destino. Altre strade gli si erano aperte nel corso della vita, come l'occasione che gli aveva dato Tapper; ma a Gord non interessava quel tipo di vita, anche perché gli piaceva il brivido delle azioni illegali che commetteva, l'eccitazione che gli procurava la progettazione e la messa in atto di qualche furto. Ma c'era qualcosa di più: sentiva che la città era in debito con lui, più di quanto lui fosse in debito con la città. Era insoddisfatto, pieno di rancore contro tutto e tutti. Tramava vendetta, insomma. Una volta, poco dopo l'incidente di Theobald, San gli aveva chiesto perché avesse buttato via la cassa con il tesoro. Gord gli aveva spiegato che era l'unica arma che aveva sottomano in quel momento. Ma la faccenda non era affatto chiusa; per liberarsi del fantasma di Theobald Gord doveva fare ancora qualcosa. Doveva affrontare da solo i pericoli del labirinto sotterraneo che correva sotto la città. Doveva andare nel luogo in cui giacevano le ossa del capo mendicante e portare via quel tesoro. Il solo pensiero di ciò che lo aspettava lo faceva rabbrividire, ma l'uomo che era in lui era determinato ad andare fino in fondo alla faccenda, per avere la prova che quel bambino debole e spaurito di una volta non esisteva più. L'avrebbe
provato, da solo, una volta per tutte, e ne avrebbe ricavato molto di più che una cassa di monete. Finalmente Gord riuscì a concentrarsi di nuovo su quegli antichi disegni. Dalle mappe risultava un intricato sistema di gallerie e canali, e Gord era diventato molto esperto nel decifrare ogni particolare. Aveva imparato a distinguere bene le fognature e i canali di scolo; i pozzi e i percorsi degli acquedotti si imprimevano nella sua mente mentre sfogliava quelle antiche pergamene. Quella notte stessa la sua mappa sarebbe stata completa, e la sua avventura poteva cominciare. Capitolo 12 Davanti a sé Gord aveva la mappa che aveva ricostruito, con il tracciato di tutte le gallerie che correvano sotto la Città Vecchia. Dalle annotazioni che aveva decifrato, Gord aveva capito che tutto il sistema principale di gallerie era scavato negli strati più profondi del terreno: nello strato superficiale di calcare erano state aperte solo delle gallerie secondarie, mentre in profondità la roccia era molto più dura, e qui c'erano i pozzi per l'acqua. Tuttavia gli antichi punti di raccolta dell'acqua piovana erano ostruiti ormai da lungo tempo, dal momento che sopra erano stati costruiti nuovi edifici. Con il passare del tempo infatti le esigenze della città erano completamente cambiate. Adesso, in caso d'assedio, la raccolta dell'acqua non era più un problema fondamentale. Un tempo, il nucleo originario di Falcovia si trovava lontano dai due fiumi, e c'era la reale possibilità che il nemico deviasse il corso delle acque: quindi era stato necessario costruire un'enorme cisterna per raccogliere delle riserve d'acqua piovana in caso di emergenza. Ma ormai Falcovia si riforniva direttamente dai fiumi, e gli antichi canali erano stati abbandonati; tuttavia la riserva principale non si era ancora prosciugata del tutto, Gord ne era certo. Gliel'aveva confermato il tonfo nell'acqua di Theobald e della cassa. Gord continuò ad esaminare con cura ogni particolare della mappa. Quattro canali principali scendevano digradando dolcemente verso la grande cisterna sotterranea. Una dozzina di condutture secondarie affluiva a sua volta nei quattro acquedotti più grandi. E ognuno dei condotti più piccoli era alimentato da una mezza dozzina di canalette che scendevano dai punti di raccolta in superficie. Tutto ciò che Gord doveva fare era trovare una di queste aperture in superficie, un'apertura che non fosse stata
bloccata. Ma questo si rivelò un compito per niente facile. Nelle successive tre settimane Gord impiegò gran parte del suo tempo a cercare nelle strade della Città Vecchia una di queste aperture. Era molto difficile individuare i cambiamenti avvenuti nella struttura urbana nel corso dei secoli, e quindi localizzare i possibili accessi. Le cose erano ulteriormente complicate dai nuovi strati di pavimentazione stradale, dalle demolizioni e dalle nuove costruzioni che avevano mutato completamente il volto della città. Forse esisteva ancora qualche condotta di scolo, ma Gord non riusciva a trovarne nemmeno una traccia. Tuttavia non si diede per vinto. Tornato di nuovo alla biblioteca del Collegio Landgrave, Gord riuscì a convincere il bibliotecario di essere ancora impegnato nella ricerca per il Dottor Prospero; disse che il vecchio dotto desiderava avere dell'altro materiale. Appena ebbe davanti la mappa della città ricominciò a studiare i diversi livelli dei sotterranei di Falcovia. Dovette tornare in biblioteca parecchie volte per trovare ciò che stava cercando, ma alla fine i suoi sforzi furono ricompensati; e quando alla fine riuscì a trovare la risposta al suo problema, fu stupito dalla sua semplicità: oltre alle aperture naturali del terreno, che raccoglievano l'acqua, esisteva tutto un sistema di gallerie per la manutenzione! Gord si rese conto che doveva esaminare altre mappe: le piantine militari del complesso sotterraneo, di cui fortunatamente la biblioteca del collegio possedeva alcune copie. Probabilmente l'acquisizione di quei documenti segreti da parte del collegio era avvenuta molto tempo prima, quando i governatori di Falcovia avevano capito che la città si avviava a diventare la più grande metropoli del Flanaess, e che quindi i sistemi di sicurezza legati alla struttura urbanistica della comunità primitiva non erano più applicabili. Gord immaginò gli antichi direttori del collegio, morti ormai da chissà quanto tempo, ricevere dalle mani degli ufficiali della città, anch'essi morti e sepolti da secoli, il dono di quei preziosi documenti nel corso di una fastosa cerimonia. E subito dopo il ragazzo immaginò l'intero plico di incartamenti dimenticato in un angolo dell'archivio: era stato come rinchiuderli in una stanza blindata, al riparo dagli occhi indiscreti di spie e ladri. Ora che sapeva cosa cercare, Gord trovò facilmente ciò che gli serviva. Le mappe non sembravano affatto un documento militare, ma Gord non ebbe alcuna difficoltà ad individuarle. C'erano segnati i percorsi per gli spostamenti sotterranei delle truppe e le vie d'accesso alla grande cisterna. Tutto ciò che doveva fare adesso era trovare i passaggi tra quei cammina-
menti e i canali di scolo. Il resto sarebbe venuto da sé. Grazie alla sua esperienza di ladro, Gord conosceva bene il labirinto di cunicoli che correvano proprio sotto le strade cittadine. Da alcune cantine, dalle fondamenta di alcuni edifici, dalle fognature, si poteva entrare in quel dedalo di strade nascoste che permettevano di spostarsi da una parte all'altra della città senza essere visti. I mendicanti, i ladri e gli assassini utilizzavano spesso queste vie di collegamento. Gatti selvatici, enormi topi, e tutte le bestie più repellenti avevano fatto di quel complesso di strade sotterranee la loro casa. Gord aveva spesso sentito raccontare anche storie di uomini che abitavano in quel mondo sotterraneo. Questo genere di pensieri lo fece rabbrividire. Quell'ambiente poteva trasformare in poco tempo qualsiasi essere umano in una creatura bestiale: sopravvivere là sotto significava diventare più feroci e violenti di qualsiasi belva. Qual era l'equipaggiamento di cui aveva bisogno, per calarsi in quel labirinto sotterraneo, trovare il modo di penetrare nell'intrico dei passaggi militari e arrivare al canale occidentale dove era caduto il forziere stracolmo di monete? Non era difficile buttar giù una lista. Per prima cosa aveva bisogno di abiti scuri e comodi, che non gli dessero alcun fastidio se doveva arrampicarsi o passare per qualche stretto pertugio; stivali robusti e ben ingrassati per non far passare l'acqua; e, ovviamente, tutte le sue armi: coltello, pugnale e spada. Poi una corda robusta, e qualche uncino. Un paio di piccole sacche per mettere le monete tolte dalla scatola di ferro. E un contenitore impermeabile per le mappe, qualche foglio di riserva di pergamena e un pezzetto di carboncino per scrivere. Poi gli sarebbero serviti un paio di pezzi di gesso per contrassegnare le pareti. Questo stratagemma, insieme alle mappe che avrebbe portato con sé, gli avrebbero consentito di non perdersi in quel buio labirinto. Forse sarebbe stata una buona idea portarsi dietro anche una piccola fiasca di liquore e un po' di cibo: poteva impiegare più tempo del previsto per trovare la strada giusta, arrivare giù e tornare indietro. Ecco pronto l'elenco. Aveva già quasi tutto, o poteva procurarsi facilmente ciò che gli mancava. Ma c'era ancora un problema da risolvere: come fare per illuminare la strada? Se Gord avesse avuto dei compagni d'avventura avrebbe certamente portato delle lunghe torce: sarebbero servite per illuminare il cammino e per allontanare le creature che vivevano laggiù, sicuramente poco abituate alla luce e alle fiamme. Ma quella era un'impresa solitaria, e non poteva tra-
sportare da solo una buona scorta di torce. D'altra parte neanche una normale lanterna andava bene; avrebbe dovuto tenerla in mano o appendersela addosso, gli avrebbe impedito i movimenti e avrebbe anche rischiato di romperla. Quello che gli serviva era una cosa che usavano i sacerdoti, un oggetto che emanava una forte luce per un lungo periodo di tempo. Aveva visto qualche volta uno di questi oggetti: i ricchi lo usavano per illuminare le loro abitazioni. Era una cosa molto diversa dai lumicini, lampade a olio e candele usati dai poveri per rischiarare le loro topaie. Probabilmente era roba molto costosa, molto più di quanto potesse immaginare. Doveva scoprirlo. I templi e gli altri luoghi di culto erano completamente sconosciuti al ragazzo. Recentemente aveva studiato un po' di teologia, ma oltre a qualche nozione basilare non aveva alcuna esperienza in fatto di religione. Tuttavia quelle quattro cose che sapeva gli permisero di individuare con facilità il luogo dove poteva trovare una di quelle lampade: si recò alla piccola cappella di Fharlanghn. In genere nelle città era molto poca la gente che praticava qualche religione; quella setta era di vedute molto aperte, e accettava tra i suoi proseliti chiunque si presentasse. Per qualche motivo Gord immaginava che quei religiosi fossero anche poco interessati al denaro. Forse c'erano anche delle altre ragioni, nella sua mente, per scegliere fra tutte proprio quella setta, ma Gord non perse tempo a pensarci su. Era tempo di mettersi al lavoro! *
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«Mi scusi, buon padre, posso parlarle un minuto?» chiese molto educatamente entrando nel piccolo edificio e rivolgendosi a un uomo che indossava un saio marrone. «Certo, figliolo. Sono qui per aiutare tutti i fedeli.» Gord fu molto sincero: «Io non sono un seguace del suo Dio, signore, sono solo uno studente in cerca di qualcosa.» «Se cerchi la conoscenza di Fharlanghn, sei nel posto giusto. Se ti aspetti di trovare qualcosa di diverso da tale conoscenza, ho paura che non potrò aiutarti». Il sacerdote fissava il ragazzo. «Sono venuto qui a chiedere se è possibile avere un oggetto che i vostri religiosi sono capaci di creare con i loro poteri» rispose chiaramente Gord, guardando dritto negli occhi quell'uomo molto alto, senza abbassare lo
sguardo e con un'espressione amichevole dipinta sul volto. Quel religioso gli sembrava un brav'uomo. «Allora forse potrò aiutarti ugualmente, ragazzo. Cos'è che stai cercando?» «Una di quelle luci che i vostri religiosi fanno emanare dalle cose. Quelle che la gente chiude in gabbie robuste e usa per illuminare la strada che deve percorrere, o la casa dove abita.» Il sacerdote sorrise: «Forse i tuoi studi ti costringono a leggere e a scrivere a lungo anche di notte?» «Beh...» «Non ha importanza, ragazzo. Io posso procurarti l'oggetto che desideri: è una piccola pietra, liscia e regolare, i cui poteri mi sono accessibili grazie al mio servizio a Fharlanghn. Seguendo il suo desiderio, la pietra brilla di luce splendente come quella del giorno, e per un lungo tempo. Sì, è possibile, se è questo che desideri.» «Sì» rispose Gord con un sorriso pieno di gratitudine. «Per favore, mi dia una di quelle pietre che ha appena descritto, e io le darò tante monete quante me ne chiederà per ricompensarla.» A quelle parole il religioso non riuscì a trattenere una sommessa risata. «Potrei anche crederti, se tu fossi un altro tipo di studente: ma ho qualche dubbio che tu possa mettere la mano in tasca e tirar fuori quanto denaro vuoi. Non sei un giovane nobile e ricco, è evidente. Credo piuttosto che tu sia il figlio di un mercante o di un ufficiale dell'esercito, o almeno il tuo aspetto mi suggerisce quest'impressione, ragazzo. Dove troveresti una somma di denaro come tremila soldi?» E così dicendo rise ancora, ma senza offendere Gord. Gord trattenne l'istinto che gli diceva di infilare la mano nel borsellino segreto cucito nella cintura e tirarne fuori tre monete d'oro che era sicuro di possedere. Il sacerdote aveva ragione. Un ragazzo come lui non poteva possedere quella somma di denaro. «Forse potrei dargliene una parte ora, e poi pagare il resto in rate settimanali.» «Cosa? E io poi dovrei vedermela con le ire di tuo padre? No, grazie. Credo che dovrai accontentarti di candele e di lampade a olio. Sì, lo so che sono una gran seccatura e devono essere sostituite ogni tanto, ma con i soldi necessari per la pietra ne potresti comperare in grande quantità.» Il sacerdote stava per andarsene, ma Gord non era affatto disposto a darsi per vinto. «Aspetti, signore!... Per favore, posso dirle ancora una cosa?» «Fai presto» gli rispose l'uomo gentilmente, ma con fermezza.
«Se diventassi uno studente di... Fharlanghn, se imparassi gli insegnamenti che voi professate e diventassi membro della vostra setta, allora potrei acquistare la pietra della luce ad un prezzo inferiore?» Il religioso si fermò e si mise davanti al ragazzo, scrutandolo per bene. Nascondeva qualcosa, era chiaro. Quel giovane desiderava la pietra per qualche altra ragione, non certo per poter studiare di notte. «Forse io e te potremmo andare nei miei appartamenti privati e fare una bella chiacchierata. Se mi spiegherai esattamente il motivo per cui desideri tanto la pietra della luce, forse riusciremo a metterci d'accordo, cosa dici?» «Il mio nome è Gord, signore» rispose sopra pensiero. «Ho le mie ragioni, e sarò molto onorato di poter parlare con lei, ma non credo che potrò dirle tutto.» L'uomo sorrise ancora, guardando da vicino il ragazzo. «Bene, Gord, sono sicuro che le tue intenzioni sono oneste. Forse non avrò bisogno di sentire una spiegazione esauriente. Ma vorrei veramente parlare un po' con te». E così dicendo il sacerdote gli fece strada verso il retro, dove erano situati gli uffici amministrativi e i dormitori. Dopo un paio d'ore tornarono fuori e il ragazzo stava ancora parlando: «...e lei capisce, signore, che ho assoluto bisogno di avere quella cosa!» «È un'impresa dissennata, tipica di un animo giovane!» «Ma io ci andrò, con o senza il suo aiuto!» La voce di Gord era decisa, il suo volto esprimeva tutta la sua determinazione, non si lamentava né aveva alcuna intenzione di implorare. Aveva semplicemente raccontato come stavano le cose. Il sacerdote conosceva bene l'animo umano e riuscì a comprendere il carattere di Gord. Il ragazzo non era sceso nei particolari, ma gli aveva raccontato che aveva deciso di cercare un tesoro in un luogo dove non c'erano pericoli, ma il vero ostacolo era la difficoltà di accesso. Il religioso, che aveva molta esperienza delle cose della vita, sapeva bene che dove c'erano ostacoli non poteva non esserci pericolo. Eppure non aveva intenzione di insistere su questo punto. E c'era qualcosa in quel ragazzo che... «Ti aiuterò» disse alla fine dopo una breve pausa. «Ti darò la pietra della luce e la mia benedizione. Ma quando tornerai con il tesoro dovrai pagare il tuo debito e dare aiuto ai poveri e ai bisognosi.» Gord gli tese la mano. Il sacerdote notò le macchie di inchiostro, che provavano il gran da fare che il ragazzo si era dato con mappe e vecchi libri. Scoprì anche che le mani di Gord erano dure e callose. Quel ragazzo
doveva aver lavorato sodo! C'era sicuramente qualcos'altro da sapere su di lui, oltre a quello che appariva a prima vista! «Allora siamo d'accordo, vero?» chiese Gord pieno di eccitazione. L'uomo sorrise. «Sì, e ne sono felice, Gord. Spero che ti vada tutto bene.» Il ragazzo lo salutò. «Sarò di ritorno tra due giorni. Lei è veramente una persona intelligente, ha capito perfettamente il mio problema!» Il sacerdote sorrise ancora a quell'esclamazione. Dubitava molto che la sua decisione sarebbe stata approvata dai superiori, ma anche lui era soggetto alla debolezza dei mortali. Quel ragazzo l'aveva coinvolto nella sua avventura senza senso. Come aveva promesso, Gord tornò a trovarlo dopo due giorni, e la pietra della luce era pronta per lui. Capitolo 13 Penetrò nelle fogne dal Canale del Fossato, dove un tempo esistevano magazzini e botteghe addossate alle mura che separavano la Città Vecchia dalla Nuova. Gord scelse un accesso sotto il Rione dei Mendicanti, preferendolo ad un'altra entrata che lo avrebbe portato più a sud, sotto il Quartiere dei Ladri. La ragione era molto semplice: quei cunicoli potevano essere frequentati da ladri, mentre quelli più a nord, tenuti sotto controllo dai mendicanti, sarebbero stati praticamente deserti. Grazie all'addestramento ricevuto, Gord era in grado di identificare i segnali segreti dei ladri e dei mendicanti: i punti d'accesso dovevano sicuramente avere qualche segno, e Gord doveva assolutamente trovare il modo per scendere più in basso possibile in quell'intrico di gallerie. Facendo ricorso alle sue abilità manuali, soprattutto quelle imparate lavorando col fabbro, si costruì una piccola scatola per tenerci la pietra magica, un robusto cubo di metallo di quattro o cinque centimetri di lato. Fermò saldamente la pietra della luce al fondo della scatola, in modo che non si potesse muovere e non facesse alcun rumore. Una delle facce del cubo era fissa, e su quella saldò una maniglia; le altre potevano aprirsi e chiudersi grazie a un meccanismo semplicissimo, in modo da dare più o meno luce. La faccia frontale, quella opposta alla maniglia, aveva un piccolo foro coperto con un sottile pezzo di lamiera, che si poteva far scorrere a piacimento per coprire e scoprire l'apertura. Da quel foro usciva solo un
sottile raggio di luce, che permetteva di vedere qualcosa senza bisogno di aprire completamente la scatola. Gord era molto compiaciuto del suo lavoro, anche se non era riuscito a chiudere ermeticamente la scatola: era impossibile impedire a quella luce brillante di filtrare dalle fessure tra le facce mobili della lanterna. Alla fine decise di usare le aperture laterali solo in caso di emergenza e coprì le fessure con cera d'api scurita con nerofumo. Siccome non si potevano sigillare anche i quattro lati della faccia frontale, Gord decise di portare la lanterna avvolta in una stoffa pesante, in modo da nascondere all'occorrenza anche il più piccolo raggio di luce. Con indosso un lungo mantello si avviò verso il luogo dove aveva deciso di entrare nelle fogne. Ormai cominciava a far buio; tuttavia scivolò con facilità tra le sbarre che chiudevano l'entrata e non ebbe alcuna difficoltà a trovare a tentoni i pioli di ferro della scala che scendeva di sotto, senza bisogno di usare alcuna illuminazione. Alla fine del primo cunicolo, circa quattro metri sotto il livello della strada, Gord cominciò a guardarsi attorno. Riusciva a vedere molto bene anche in quell'oscurità, viste le sue abitudini. La debole luce che filtrava ancora dall'esterno gli permetteva di distinguere le pareti della galleria e i punti in cui il soffitto a volta si biforcava. Dopo essersi orientato, decise di proseguire verso nord e cominciò a procedere con estrema cautela, addentrandosi nella galleria per qualche metro. Quindi tirò fuori la sua prodigiosa lanterna e lasciò uscire un filo di luce dal buco della faccia frontale. «È solo un rigagnolo» disse ad alta voce con un evidente tono di soddisfazione, quando vide ciò che gli stava davanti: nel letto concavo del vecchio canale scorreva un piccolo corso d'acqua. Era acqua piovana, e scendeva nella stessa direzione in cui stava procedendo il ragazzo. Gord salì sull'argine alto quasi un metro che costeggiava il canale. La pietra era coperta di limo e molto consumata: se non stava attento a dove metteva i piedi, rischiava di cadere. C'era un puzzo nauseante, ma non così terribile da togliere il fiato. «Poteva andar peggio» disse Gord, togliendosi il fazzoletto nero che portava attorno al collo per coprirsi il naso e la bocca. Si era ricordato all'ultimo minuto di prendere quel foulard e una piccola fiasca d'aceto per bagnarlo. Si tolse il mantello, lo ripiegò e se lo legò attorno alla spalla destra. Benché camminasse lentamente, Gord non riusciva ancora a trovare qualche segnale che indicasse un eventuale passaggio segreto. Una volta
giunto ad un altro incrocio decise di girare a destra, verso il dedalo di canali che correva sotto il Quartiere dei Mendicanti. Questo canale era leggermente più in alto rispetto a quello precedente, e Gord dovette salire qualche gradino. Il pavimento concavo di questo canale era completamente asciutto. C'erano delle grosse ragnatele e qualche scarafaggio che si aggirava qua e là, ma nient'altro. Le ragnatele confermavano le sue supposizioni: nessuno, venendo dalla Città Vecchia, usava quel canale, altrimenti le ragnatele non sarebbero state là. Usando la spada per farsi largo tra i filamenti e facendo molta attenzione ad evitare i ragni, Gord proseguì rapidamente grazie anche al pavimento asciutto. Ma poco dopo le cose cambiarono. Da alcune aperture laterali cominciò a uscire dell'acqua. Gord fu costretto a ricorrere più volte alle sue capaciti! atletiche per evitare di venir travolto. Vedeva dei piccoli bagliori e sentiva un continuo squittio: c'erano dei topi! Proprio quando cominciava a scoraggiarsi, vide una serie di segni sulla parete di fronte. Erano a malapena visibili, e un occhio poco addestrato li avrebbe scambiati per semplici ammaccature sui blocchi di pietra. Gord ne decifrò uno che avvertiva dell'esistenza di un'uscita poco più avanti. «Dannazione!» borbottò. L'uscita saliva verso la superficie, invece di scendere ancora. Ma se c'era un modo per uscire da quel labirinto, ci doveva anche essere il modo per continuare a scendere. Gord decise di proseguire. Dopo circa mezz'ora giunse nel punto di incontro di parecchi canali. I corsi d'acqua che confluivano formavano una pozza profonda al centro di una stanza circolare. C'erano dei ponticelli che consentivano di superare quel pericoloso laghetto; Gord puntò il suo fascio di luce su una delle arcate, illuminando il corpo nerastro di un rettile che si tuffò subito nell'acqua della pozza. Prima che la bestia scomparisse sotto la superficie melmosa, Gord notò chiaramente che dalla sua bocca pendeva la coda di un grosso topo. Con un tremito involontario il ragazzo si girò per accertarsi che qualche altro mostro non si stesse nascondendo alle sue spalle. In quel luogo il fetore era quasi insopportabile, così Gord decise di impregnare di aceto il fazzoletto. Cambiò direzione ancora una volta, girando a destra, parallelamente al cammino iniziale. Dopo aver attraversato con molta cautela il ponte che conduceva da quella parte, si ritrovò in un'altra galleria, questa volta diretto a sud.
A un centinaio di passi dalla pozza vide una stretta apertura. Non sembrava molto promettente, ma qualcosa spinse Gord a dare un'occhiata; non si poteva mai sapere... Il corridoio che partiva da lì non era più lungo di sei metri e terminava con una ripida scalinata... che saliva. Si girò deluso, cercando di vincere la disperazione che stava per assalirlo, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Era un altro segno sulla parete, che sulle prime non aveva notato. E indicava l'accesso a un canale inferiore! Tirando un sospiro di sollievo, Gord cominciò a cercare lungo la parete di fronte. Sapeva per esperienza che spesso quei segni erano usati per indicare qualcosa, oltre che per dare informazioni. Grazie alla sua vista acuta, e con l'aiuto della lampada, Gord riuscì in pochi minuti a trovare una porta nascosta. Ci volle un po' più di tempo per scoprire il meccanismo di apertura, ma finalmente trovò un punto in cui la lama di un coltello poteva infilarsi e sbloccare il fermo: un'intera sezione della parete si spostò all'interno rivelando un altro passaggio, che girava ad angolo retto verso destra rispetto al punto in cui il ragazzo si trovava. Gord entrò senza esitazione, richiuse la porta alle sue spalle, e sorrise con atteggiamento di trionfo. Quel canale inferiore portava ad un'altra rampa di scale che scendevano a spirale. Era impossibile dire se questo era un passaggio molto frequentato, perché sulle pietre umide non c'era alcuna traccia visibile. Gord era molto abile, ma non fu in grado di scoprire alcun segno di passaggio. Non gli restò altro che guardare se i suoi piedi lasciavano qualche traccia su quelle pietre e cercare di scoprirne eventualmente di simili. Ma non trovò nulla. Scrollò le spalle e decise di continuare a scendere in ogni caso. Quella scalinata lo portava sempre più in basso. Contando i gradini, Gord calcolò di essere ormai sceso di altri sei metri quando la scala finì nell'angolo di una piccola stanza, dalla quale si dipartivano quattro passaggi, ad angolo retto l'uno rispetto all'altro. Dopo quella discesa a spirale, Gord non aveva la più pallida idea della direzione da prendere. C'era un solo modo per orientarsi: risalire in cima alla scala e segnare la parete con il gesso che aveva con sé, prendendo nota di tutte le volte che il giro della scala cambiava direzione. Alla fine Gord riuscì a determinare che la piccola stanza alla base della scala si allargava verso est a partire dall'ultimo gradino. Ciò significava che quelle strette uscite partivano da lì esattamente in direzione dei quattro punti cardinali. Benissimo! Gord si fermò a riprender fiato e a bere un sorso del liquore che aveva portato con sé. Era molto buono! Mentre ancora si stava riposando lo assalì il pensiero dell'impresa che stava compiendo. Era passato parecchio
tempo da quando era entrato là sotto, e ora che si era fermato a pensare quell'escursione cominciava a spaventarlo. Quando ancora la stava organizzando, il pensiero di correre qualche rischio non aveva fatto altro che eccitarlo di più. Ma la realtà era ben diversa. Ora Gord si trovava in un luogo completamente sconosciuto, dove molto probabilmente si annidava ogni specie di pericolo, e stava cercando un posto della cui esistenza non era completamente sicuro; per di più era completamente solo. Nonostante gli sforzi per calmarsi, il ritmo del suo respiro continuò ad aumentare, finché il ragazzo si ritrovò ansimante e con il batticuore. La paura lo stava assalendo sempre di più. «Calmati, altrimenti continueranno a dire che sei un codardo» si disse ad alta voce. Il suono delle sue parole lo tranquillizzò, e l'offesa che odiava più di ogni altra contribuì a tirarlo su di morale. I mostri sconosciuti che si annidavano là sotto non erano nulla in confronto alla paura di essere creduto un codardo. Con un notevole sforzo di autocontrollo rallentò il ritmo della respirazione, ingoiò un altro sorso di liquore e si rimise a parlare ad alta voce. «Va meglio ora, vero? Abbiamo già dimostrato che non siamo più dei ragazzini!» Il forte liquore cominciava a riscaldarlo e Gord, per rassicurarsi, toccò il fodero del pugnale e l'elsa della spada. Poi, deciso a riprendere il cammino, tirò fuori la custodia impermeabile e la aprì. Controllò con cura le sue mappe provando a indovinare il punto, sulla prima mappa, da cui era partita la scala a chiocciola che l'aveva portato in questo secondo livello di gallerie, sotto la Città Vecchia. «Ma allora devo essere più o meno qui» mormorò tra sé, indicando un punto sulla seconda mappa. «Se continuo verso sud dovrei arrivare nel punto dove il canale scende ancora; poi dovrò girare verso ovest: un bell'angolo retto... In ogni caso la corrente d'acqua scende verso est, verso la grande cisterna, così sarà molto facile orientarsi.» Nonostante il ritrovato coraggio e la fiducia che sentiva ancora in sé, il ragazzo si fermò ad ascoltare davanti a ciascuna uscita di quella stanza, con la lanterna spenta e la spada pronta in mano. Solo quando fu rassicurato, si intrufolò in quella che portava verso sud. Quello era il sistema di gallerie e di canali che gli assassini e i ladri usavano di solito come passaggio segreto. Gord non aveva nessuna intenzione di farsi beccare là sotto o di inciampare senza volere in qualche creatura che abitava in quel labirinto: essere cauti non significava essere codardi! Nel cunicolo in cui era appena entrato c'era un debole rumore di acqua gocciolante, ma a parte quello il si-
lenzio era totale. Gord trattenne il respiro cercando di non fare il minimo rumore. Niente. Dopo aver aperto una delle facce della lanterna per permettere a un po' di luce di filtrare, Gord si rimise in cammino. A intervalli regolari si aprivano delle uscite laterali. Grazie al fascio di luce Gord scoprì che si trattava di stanze completamente vuote. Non riusciva proprio a capire il motivo per cui erano state scavate nella roccia. Forse servivano come deposito di cibo o di armi, forse per qualche altra, inimmaginabile ragione. La galleria era asciutta e Gord non incontrò nessuna creatura vivente. Ma man mano che proseguiva la situazione mutava. L'aria gelida si era fatta molto umida. Gord notò delle spesse ragnatele tese su un'apertura della parete di destra; si fermò ad ispezionare con attenzione e si accorse che sulle pareti intorno all'apertura e poco più avanti c'erano delle ragnatele squarciate: qualcuno era passato di là, e non molto tempo prima! Mentre rubava ogni particolare con lo sguardo, Gord non smise di tendere le orecchie. Sulle prime udì solo un suono di gocce d'acqua, poi cominciarono ad arrivargli sempre più distintamente delle voci, che però non riusciva a distinguere poiché erano deformate dall'eco della galleria. Smorzò la luce e si acquattò a terra. Con la spada cercò di aprirsi un passaggio nella coltre di filamenti che chiudeva l'arcata sulla parete occidentale. Si infilò in quel pertugio e provò a riattaccare i fili della ragnatela che aveva rotto, per cancellare le tracce del suo passaggio; la cosa non gli riuscì alla perfezione, ma era tutto ciò che poteva fare per far perdere le sue tracce. Poi sgusciò in fretta nella stanza che si apriva oltre quell'arcata, svoltò l'angolo e infilò la lanterna nella giacca. Tutto si svolse così velocemente che Gord non ebbe nemmeno il tempo di pensare a quello che poteva nascondersi in quella stanza. Si sedette a terra, fermo immobile, con la schiena appoggiata alla parete di pietra viscida, e aspettò. Qualcosa gli sfiorò la mano. Gord stava per lanciare un urlo, ma si morse le labbra, si rannicchiò per farsi ancora più piccolo, e trattenne il respiro. Fuori, nel passaggio, qualcuno stava camminando. Gli giungevano delle voci roche e sibilanti interrotte da strani suoni gutturali e da secche grida. Erano orchi? Gnomi? Ora i rumori erano più chiari. «Era un gran brutto striscio quello che abbiamo dovuto tirar fuori!» disse una voce profonda. Gord sentiva la presenza di almeno un'altra decina di persone. O almeno gli sembrava fossero uomini, e quel rumore di ferraglia dovevano essere le armi e le armature che indossavano. «Chi ce l'ha fatto fare?» brontolò una seconda voce. Se ne stavano già andando quando
uno di quegli uomini notò lo squarcio nella ragnatela. «Ehi, guardate! Qualcuno è passato di qua!» La luce tremolante di qualche torcia illuminò la coltre di filamenti, e delle ombre si allungarono fino al nascondiglio di Gord. «Ficcaci la torcia in mezzo e bruciacchia un po' questa ragnatela. Così potremo vederci meglio, giusto?» Il rumore di passi si stava allontanando verso nord. «Cosa cavolo fai, sei impazzito? Chi se ne frega di quello che c'è in quel buco! Andiamocene!» La voce del secondo uomo si intromise. «Ehi! Aspetta un po', Albie!» gridò la prima voce. La luce stava svanendo assieme al rumore di passi e alle voci. Gord lasciò finalmente andare un respiro profondo. Che sollievo! Quel gruppo di uomini doveva essere una pattuglia, probabilmente un distaccamento di guardie: gente che normalmente lavorava alla luce del sole. Gord non riusciva però a capire chi potesse averli mandati laggiù e per quale motivo. Ma la ragione della loro presenza non gli interessava molto; era abituato a nascondersi alla presenza delle guardie, e il fatto che in quel posto ci fossero dei soldati significava che almeno questa parte del labirinto era libera da grossi pericoli. Certo, ci poteva essere qualche imprevisto. Se era riuscito lui a sfuggire a quel gruppo di guardie, anche qualcun altro poteva nascondersi là senza essere scoperto. Uno di quegli uomini aveva parlato di 'tirar fuori' qualcosa che aveva chiamato 'striscio'. Gord immaginò che quegli uomini scendessero là sotto una volta ogni tanto per tenere quel postaccio libero da chissà quale minaccia. Quel sistema sotterraneo di gallerie veniva quindi usato, e piuttosto di frequente, da qualcuno abbastanza potente e facoltoso da reclutare dei soldati per tenerlo sotto controllo. Ogni rumore era sparito, e Gord decise di dare un'occhiata alla stanza in cui si trovava prima di tornare nel corridoio. Liberò un sottile raggio di luce, ma quando vide dove si trovava per poco non gli cadde di mano la lanterna. A non più di mezzo metro dai suoi piedi una grossa buca si apriva nel pavimento! Era seduto praticamente sul bordo del pozzo, e il tratto di pavimento vicino all'entrata era l'unica zona in cui il terreno non digradasse ripidamente, come un imbuto, verso la grande apertura. Se solo avesse fatto un altro passo al buio in quella stanza, o si fosse mosso di qualche centimetro, sarebbe caduto e finito chissà dove! Un grande ragno bianco si fermò di colpo, quando il raggio della lanterna di Gord cadde su di lui. Era grosso come un pugno ed era dotato di enormi mandibole. Forse era quella bestia che gli aveva sfiorato la mano.
«Aaagh!» disse Gord e la sua voce echeggiò stranamente in quella stanza. Il ragazzo si zittì di colpo, desiderando di non aver mai aperto bocca. Il ragno si allontanò quando Gord gli avvicinò la punta della spada. Cercando di non prestare molta attenzione ai movimenti di quell'animale, Gord si alzò in piedi e guardò nel pozzo. Era molto profondo, ma il fascio di luce illuminava bene fino giù. Poi Gord puntò la lanterna verso l'alto, scoprendo che anche nel soffitto c'era un'apertura. Ora capiva dov'era! Quello era uno dei canali di scolo usati per far scendere le acque, attraverso scarichi e condotte, dai punti di raccolta in superficie fino al sistema di canali più basso, che le riversava nella grande pozza di riserva. Ecco finalmente il modo per scendere! La stanza era del tutto simile a un pozzo. Doveva essere stata progettata come un luogo in cui i difensori assediati della Città di Falcovia potevano venire a far rifornimento d'acqua attingendola dal canale inferiore. Delle macchie rosse e degli evidenti segni di corrosione sulle pareti del pozzo gli suggerirono che un tempo ci dovevano essere stati dei pioli di ferro per scendere lungo la ripida parete, ma ora il tempo e la ruggine si erano mangiati tutto il metallo. «Bene» sussurrò piano, «è ora di scendere a dare un'occhiata». Il ragazzo srotolò la grossa fune che portava avvolta in vita, fece alcuni nodi a intervalli regolari e tirò fuori dal borsello appeso alla cintura un uncino d'acciaio. Lo incastrò in una fessura servendosi del manico del suo coltello, e dopo aver controllato che l'uncino tenesse bene assicurò la corda all'anello del gancio. Lasciò cadere la fune oltre il bordo del pozzo e udì il rumore che fece quando toccò l'acqua. «Devono essere più di dieci metri» disse dopo aver illuminato la fune e contato i nodi visibili fuori dall'acqua. La cisterna della cantina sotto il quartier generale di Theobald era profonda almeno una trentina di metri, ma il luogo in cui Gord si trovava adesso era molto più in basso rispetto alla superficie. Gord era sicuro di essere sulla strada giusta. Dopo essersi appeso la lanterna al collo ne aprì completamente le facce laterali, e cominciò a calarsi oltre il bordo. Cercava di usare i piedi per tenersi lontano dalla parete senza sbatterci contro. L'erosione dei secoli aveva reso le pareti del pozzo lisce e scivolose. «Non sarà uno scherzo tornare su di qua» disse fra i denti mentre si calava con estrema cautela, metro dopo metro. Dopo circa nove metri la parete del pozzo finiva. Gord si aggrappò con i piedi a uno dei nodi, e si lasciò penzolare tenendo stretta in mano la picco-
la lanterna. La debole luce non riusciva ad illuminare bene l'acqua scura sotto di lui, ma Gord aveva letto sulle antiche mappe che l'altezza di un canale come quello non poteva superare i cinque metri: quel che bastava per far confluire l'acqua piovana alla cisterna. Dal soffitto al punto dove erano aggrappati i suoi stivali erano circa due metri, e dagli stivali fino alla superficie dell'acqua saranno stati altri due metri: ciò significava che l'acqua sul fondo del canale era alta al massimo un metro. Gord scese ancora, fino ad affondare i piedi nell'acqua nera. Il rigagnolo scendeva verso la sua destra. Gord si tenne in equilibrio sulla pietra inclinata e scivolosa che sentiva sotto i piedi: l'acqua gli arrivava agli stinchi. Tenendo sempre stretta la fune il ragazzo provò a muovere qualche piccolo passo laterale, prima da una parte, poi dall'altra. Non era molto difficile stare in piedi, e Gord riprese fiducia in se stesso. Senza abbandonare la fune cominciò a muoversi piano, un passo dopo l'altro. Se riusciva a raggiungere la sponda sinistra poteva procedere più rapidamente. Con la lanterna appesa al collo, Gord decise che era venuto il momento di rischiare. Sfoderò la spada, puntandola verso la superficie dell'acqua, si guardò attorno con circospezione e lasciò andare la presa della fune, incamminandosi verso sinistra. In quella direzione, non più lontane di un paio di centinaia di metri, giacevano le ossa di Theobald e il suo robusto forziere metallico! Lo sforzo per non scivolare verso il centro del canale e cadere in quell'acqua lurida, assieme alla necessità di controllare tutto intorno, cominciavano a stancarlo, e il suo procedere si faceva sempre più lento e faticoso. Cercò di non farsi prendere dal panico e continuò ad avanzare. Cercava di concentrarsi su ogni mossa, passo dopo passo. Doveva guardarsi alle spalle, a destra, controllare ogni onda che si avvicinava, ogni bagliore riflesso dalle acque; poi doveva guardare avanti, sempre all'erta, per evitare qualche pericolo improvviso. Non c'erano vie d'uscita. Continuava a controllare davanti a sé prima di muovere un passo, procedeva con estrema lentezza, si fermava ad ogni metro per controllare la situazione. Dopo circa sessanta passi Gord fece un segno sulla parete col gesso. Dopo tre di quei segni il ragazzo si fermò a controllare il suo equipaggiamento, ingoiò un sorso di liquore e riprese il cammino. Una sensazione di umidità ai piedi gli comunicò che gli stivali cominciavano a far acqua, benché li avesse ingrassati per benino. Beh, era il minimo che gli poteva capitare, e non si sarebbe certo fermato per così poco. Dopo aver fatto il settimo segno sul muro, Gord cominciava a scorag-
giarsi. Forse aveva sbagliato qualcosa nel calcolare la posizione. Che il quartier generale di Theobald fosse nella direzione opposta? Non gli sembrava possibile, ma cominciava a preoccuparsi, visto il freddo, il buio e il silenzio inquietante di quel posto. Aveva i nervi tesi e la bocca spalancata e secca. Perché diavolo si era messo in un tale pasticcio? Nessun tesoro valeva il rischio che stava correndo. «Non si tratta del tesoro, idiota, è il desiderio di metterti alla prova che ti ha spinto qui sotto!» Questo pensiero gli diede coraggio. «Ma ho veramente bisogno di mettermi alla prova così? Cosa devo dimostrarmi?» La risposta era chiara, ma sentì il bisogno di parlare ancora. «Chi altri beneficerà di questa tua esibizione? Siamo soli, qui, io e te, e se non dimostriamo il nostro coraggio in questo momento, dopo resterà di noi due solo il più vigliacco...» Basta! Stava parlando da solo, proprio come faceva la vecchia Leena. Tuttavia quei pensieri rispondevano alla realtà, e servirono a spingere Gord ad andare avanti. Nel luogo dove avrebbe voluto fare il nono segno non c'era più parete. Gord era giunto ad un bacino, un ambiente in cui il canale si allargava come era successo al livello superiore, fino a formare una stanza dove due condotte più piccole riversavano le loro acque. Ora la lanterna era completamente aperta, ma la luce non riusciva ad illuminare le pareti lontane. La più vicina era a circa sei metri da lui. Quella orientale, da dove scorreva l'acqua del canale, distava una ventina di metri, come anche la parete che aveva di fronte. Il soffitto a cupola era completamente liscio, eccetto una piccola apertura da cui penzolavano i resti di una scala a pioli. Questo doveva essere il posto dove era precipitato il capo dei mendicanti con la sua scatola di preziosi, circa tre anni prima. Facendo uno sforzo di concentrazione, Gord ricordò di aver visto dei bacini come questo disegnati sulle mappe degli antichi ingegneri. Si trovavano lungo il corso di ogni canale e servivano da pozzi di riserva per coloro che non erano in grado di attingere al pozzo centrale, la grande cisterna sotto la vecchia fortezza. Cosa indicavano le mappe? Quelle pozze erano a forma di catino e la profondità centrale delle acque poteva raggiungere i sei metri... come dire che il cadavere e il forziere erano sotto sei metri d'acqua! «Che tu sia maledetto, Theobald!» urlò Gord con tutta la voce che aveva in corpo, e in risposta gli giunse l'eco delle sue stesse parole: «... etto... etto... eobald... bald... ald... ald...» A quel suono la superficie della pozza circolare si sollevò ondeggiando e qualcosa emerse da quelle acque nere.
Gord si girò e il raggio di luce della lanterna illuminò la scena. Non sarebbe mai riuscito a spiegare che razza di mostruosità si trovò davanti. Un deforme intrico di alghe marcite, coperte dalla melma del fondo di quella pozza stagnante, cominciò a prender forma. Gord notò dei tentacoli simili a quelli di un'enorme medusa e altri che facevano assomigliare quel mostro ad una gigantesca piovra. Da quella massa deforme spuntavano delle protuberanze putrescenti che avevano tutta l'apparenza di intestini squarciati, insieme ad altre strane escrescenze che potevano essere dei molluschi decomposti, senza le loro conchiglie protettive. Ecco cosa stava emergendo dall'acqua del bacino. Gord avrebbe voluto scappare, ma non sapeva dove. Restò fermo, paralizzato dalla paura più che irrigidito dal coraggio, e la luce della lanterna non fece altro che incoraggiare la creatura ad avanzare, sollevandosi sull'acqua. Le onde baluginavano a quel chiarore mentre il mostro si avvicinava sempre più, sollevandosi pesantemente dall'acqua. Gord cominciò ad arretrare piano nel canale da cui era arrivato. Ma per ogni centimetro che copriva, il mostro avanzava di un metro. Quell'incontro poteva finire solo in un modo... Mentre il mostro si trascinava verso di lui, facendo spumeggiare l'acqua al suo passaggio, Gord continuò a tenere gli occhi fissi sulla creatura, arretrando lentamente, e puntandogli contro la spada. Continuava a fissare la scena che aveva davanti come ipnotizzato, ma rimase piuttosto sorpreso quando si accorse che dal corpo della creatura si staccavano dei brandelli. Un enorme tentacolo cadde a pezzi, e da esso si staccarono tutte le protuberanze e le escrescenze marcescenti, producendo un lieve rumore distinto, una specie di piccolo scoppio. Il bestione si stava disintegrando davanti ai suoi occhi! Nello stesso tempo l'andatura del mostro si era fatta più lenta, anche se continuava a venirgli incontro. Ora era nel canale, e finalmente Gord riuscì a vedere chiaramente l'intera sua mole. La massa del corpo aveva una vaga forma di foca, ma grossa come un tricheco; una lunga protuberanza che doveva essere il collo si agitava come una serpe impazzita. Soffocato dal terrore e dal fetido puzzo emanato da quel mostro, Gord continuò ad arretrare. Quel bestione stava per arrivargli addosso! Splash! La sagoma si sollevò e ricadde ancora più vicina. Le ondate d'acqua si infrangevano sulle pareti e contro le gambe del ragazzo, facendolo quasi cadere. Altri pezzi si staccavano da quel corpo informe e cadevano in acqua.
Ecco che ancora una volta sollevava la sua mole spaventosa, e questa volta il suo collo si contrasse, come un serpente pronto ad attaccare. Gord vide la scena come al rallentatore, e capì finalmente quello che stava succedendo. Al chiarore della sua luce magica, le fetide sostanze che componevano il corpo di quella mostruosità si stavano sciogliendo: eppure il bestione non sembrava rendersi conto di quello che gli stava succedendo. Il mostro adesso era proprio sopra la testa di Gord, con tutti quei bubboni che si staccavano mostrando qualcosa di bianco sotto la pelle scura per lo sporco e la putredine. Continuava ad avanzare, e Gord non aveva più spazio per muoversi: la creatura era ormai su di lui. Quando il collo del mostro scattò verso di lui, Gord afferrò la spada con tutte e due le mani. Faceva molto freddo là sotto, ma il ragazzo sudava abbondantemente. Reggendo l'arma con tutta la sua forza calò un tremendo fendente sulla testa del mostro: l'acciaio penetrò nell'ammasso di carne decomposta con un rumore disgustoso. Un liquido putrido schizzò da ogni parte mentre la testa e il collo del mostro cadevano in acqua, di fronte al ragazzo. «Mio dio!» urlò Gord così forte da restare assordato per qualche istante. Ma almeno riuscì a sentire il suono della sua voce: poteva ancora parlare, era vivo! Nel frattempo quell'orribile corpo, privato della parte anteriore, si agitava tremando. I tentacoli continuavano a staccarsi o si scioglievano al contatto con l'acqua. Grandi sezioni di quell'ammasso informe si staccavano, si dissolvevano nel nulla. Gord osservava la macabra scena battendo i denti, con gli occhi che sembravano uscirgli dalle orbite, fino a quando non ci fu più nulla da vedere. Dopo pochi minuti le acque nere del canale erano tornate calme e il fetore del mostro si era perso nell'aria. Gord si scosse, infilò la mano nella giubba e tirò fuori con le mani tremanti la piccola fiasca di liquore. La stappò con i denti e si scolò il contenuto d'un fiato. Poi, senza pensarci su, gettò via la fiasca vuota. «Per tutti i diavoli e le streghe dell'Ade!» mormorò, tirando un lungo sospiro di sollievo. Era troppo debole per restare ancora in piedi, e appoggiò la schiena alla roccia della parete lasciando che le ginocchia gli si piegassero. Scivolò lentamente verso il basso fino a ritrovarsi seduto, mentre l'acqua fredda gli arrivava fino al torace. Ma non ci badò affatto, perché i suoi occhi si erano posati su qualcosa che emergeva dalle acque, lì vicino. Proprio sotto la superficie, illuminato dalla luce della sua pietra magica,
c'era un oggetto tondeggiante, biancastro e in qualche modo familiare. Poi lo riconobbe: era un teschio umano! Gord si rialzò con un urlo, grondante d'acqua. Aveva ancora in mano la spada e la usò per colpire quella macabra sfera di osso, la colpì urlando finché il cranio si ruppe in piccoli pezzi. «Beccati questo, Theobald, e questo!» urlava Gord sferrando gli ultimi colpi. «Questa volta sarai morto davvero!» E diede un calcio al mucchietto di ossa che scomparirono trascinate dalla corrente, proprio come i brandelli del corpo del bestione. Ora era tutto finito. Aveva dimostrato a se stesso di poter affrontare Theobald, da vivo o sotto le sembianze del peggiore dei mostri. Quella cosa contro cui aveva combattuto era sicuramente l'ultimo residuo del capo dei mendicanti. Nessun altro poteva essere stato così forte e diabolico da creare dal marciume e dalla sporcizia una massa così orripilante, e da infondere in essa una parvenza di vita e uno scopo. Oh, sì, il mostro aveva anche uno scopo. Si era annidato là, vicino al tesoro, aspettando, crescendo, sapendo che un giorno o l'altro Gord sarebbe arrivato a cercare la scatola di ferro e a rubare il tesoro. Allora quella cosa, che altri non era se non Theobald, avrebbe colpito, si sarebbe vendicata. Quel pensiero lo fece rabbrividire: un conglomerato di non-vita, un mostro in cerca di altre vite da consumare, un qualcosa tutt'uno con Theobald. «È stata la pietra della luce!» Gord disse ad alta voce quando capì cos'era successo. Il magico splendore della lanterna aveva distrutto quel concentrato corrotto di odio, ferocia e tenebra. «Ma anch'io ho fatto il mio, Theobald. È stato mio il colpo che ti ha finito una volta per sempre. La luce ti ha solo indebolito, ha consumato le tue forme, rendendomi le cose più facili». Era fiero, soddisfatto di quel che aveva compiuto. Stava quasi per girarsi e andarsene, dimentico del tesoro, per tornare nel mondo da cui proveniva. Invece restò. Non per avidità, disse a se stesso, ma perché andarsene senza il tesoro sarebbe stato come lasciare al capo dei mendicanti l'ultima mossa vittoriosa. Era solamente un piccolo trionfo, ma Gord voleva averlo tutto per sé. Dopo molte ore Gord riemerse alla luce del sole. Aveva impiegato parecchio tempo per trovare il forziere, usando anche la pietra della luce che neppure l'acqua era riuscita a spegnere. Dopo averlo individuato, aveva fissato la sua cinghia di cuoio a una delle maniglie: così aveva tirato fuori la cassa dallo strato di melma che copriva il fondo del bacino, trascinandola nel canale che vi si riversava. A quel punto aveva rotto la serratura e fi-
nalmente aveva potuto vedere con i suoi occhi e per la prima volta il contenuto del forziere. Era rimasto un po' deluso, ma in fondo non poteva che essere così. La maggior parte delle monete di ottone, di bronzo o di rame erano corrose, visto che la cassa non era a tenuta stagna. Ma ce n'erano alcune, più preziose, con cui Gord riempì una delle sue piccole sacche: argento, oro e leghe pregiate. Come il suo ex-proprietario, il tesoro di Theobald era molto misero: gioielli di poco valore, fondi di bottiglia e qualche altra pietra che Gord lasciò nella cassa insieme alle monete rovinate. Lasciò il forziere nelle acque di quel canale, sotto la Città Vecchia. Se qualcun altro l'avesse trovato, che si scervellasse pure a scoprire com'era arrivato fin là. Invece di salire usando la corda annodata, Gord decise di trovare una via più semplice per lasciare quel mondo sotterraneo. Era troppo stanco per affrontare quella scalata, ma aveva ancora la mente fresca. In poco tempo trovò il modo di risalire studiando un percorso sulle antiche mappe, e in breve raggiunse l'aria fresca in superficie. Stanco ma soddisfatto si avviò verso casa, avvolgendosi stretto stretto nel mantello per nascondere gli abiti malridotti che aveva addosso. Restava ancora una cosa da fare prima di raggiungere la stanza e dormire per un giorno intero. Ed era deciso a farla subito, prima di crollare dalla stanchezza. «E questo cos'è?» chiese il sacerdote con aria sbalordita, quando trovò le monete scintillanti nella scatola delle elemosine. L'unico fedele presente gli rispose, incerto: «Un giovane studente è stato qui circa un'ora fa. Non gli ho prestato molta attenzione perché avevo altre cose da fare... Che sia stato lui a lasciare tanto denaro?» «Credo proprio di sì, se era un giovane magro, moro, di circa sedici anni» rispose il sacerdote, lasciando cadere l'argomento. Capitolo 14 Che cos'è una città? Cosa la rende particolare rispetto alle altre? Cosa fa pensare ad essa con piacere o con fastidio? Gord conosceva la Città di Falcovia. Città di industrie e commerci. La sua posizione e il suo governo la rendevano particolare; una città simile ad altre, forse, ma con delle precise caratteristiche. Gord cominciava ad odiarla, così come odiava la sua vita lì dentro, e le domande che si poneva non riuscivano a trovare una risposta. Erano diciot-
to o diciannove anni che viveva là? Non lo sapeva con esattezza. Ciò che importava era che non si era mai allontanato a più di un tiro di balestra dalle doppie mura di quella città. Chissà com'era la città di Dyvers? Ne aveva sentito parlare, ne aveva letto la storia, ma a parte quei pochi particolari di cui era venuto a conoscenza, la seconda grande città libera del Flanaess poteva essere anche sulla luna, per quel po' di esperienza del mondo che Gord si era fatto. «Portami un'altra bottiglia di quel vino rosso di Pomarj» gridò il giovane. Non c'era nessuna nota amichevole nella sua voce, e la cameriera infastidita gli lanciò uno sguardo scuro come il vino che aveva appena ordinato. Gord le restituì l'occhiata sprezzante, e la ragazza si allontanò in fretta per servirlo. Era stata in rapporti migliori con Gord, non molto tempo prima, e sapeva che il giovane aveva un carattere lunatico e strano. «Perché bevi questa robaccia?» gli chiese la ragazza sbattendo pesantemente la bottiglia sul tavolo. A Gord dispiaceva di essere stato così brusco. Dopo tutto non era colpa sua se si sentiva così depresso. «Perché mi ricorda te, cara Meg, così scura e gustosa» le rispose con un sorriso, porgendole alcune grosse monete. «Bugiardo!» Nonostante il complimento e la grossa mancia, Meggin la Nera non prese sul serio le parole di Gord. «Tu lo bevi perché ci mettono dentro quella robaccia, sei un drogato!» «Tieni il resto, tesoro!» le rispose Gord, mentre la ragazza si era già girata per rispondere ad un altro cliente. Aveva ragione. A duecento denari la bottiglia, quel vino scuro era troppo caro. Il suo amaro retrogusto cresceva sorso dopo sorso, e i suoi effetti portavano all'assuefazione. «Bevo per scacciare il malumore? O è il vino che me lo fa venire?» chiese a voce piuttosto alta. Ma non c'era nessuno che gli volesse rispondere. «Cosa importa? Mi piace e me lo posso permettere. E allora continuerò a bere!» Un terzetto di uomini stava seduto a chiacchierare un paio di tavoli più in là. Non erano clienti abituali di quella taverna, conosciuta come l'Uomo Nella Luna, e dai loro abiti era evidente che venivano da un'altra città. Forse erano mercanti di Urnst. Il fatto strano era che continuavano a tenere sotto controllo ogni più piccolo movimento di Gord. Il Pomarj Rosso era un vino molto raro e costava parecchio; a quei tempi infatti ne veniva prodotto molto poco, dopo che c'era stata un'invasione di umanoidi nelle terre in cui si coltivava quel particolare vitigno. «Ha dato alla ragazza il corrispondente di una moneta d'argento» mor-
morò uno dei tre, un uomo dal naso aquilino. «E questo è niente» gli rispose uno dei suoi compagni, un tipo dagli occhi molto piccoli. «Ho visto un riflesso d'oro quando ha tirato fuori i denari per pagare!» Il terzo, un uomo dal collo taurino e con una barba ben regolata che nascondeva solo parzialmente una grossa cicatrice sulla guancia, si limitò ad assentire. Poi chiamò a gran voce: «Ehi, ragazza, altra birra a questo tavolo!» Sprofondato com'era nei suoi tristi pensieri, Gord non sembrava affatto aver notato i tre uomini. Da quando aveva abbandonato gli studi per un tipo di vita più attivo, il ragazzo era molto cambiato. Dopo che il suo amico e compagno, San, se n'era andato per diventare membro della Corporazione dei Ladri e per corteggiare la figlia di uno degli associati, Gord era rimasto ancora per qualche tempo uno studente spensierato, uno dei tanti frequentatori delle numerose scuole di Falcovia. Sì, certo, lui si guadagnava da vivere da solo. Faceva esattamente quello che faceva San con l'approvazione della società di cui era membro: rubava. Usando la sua notevole abilità, Gord era riuscito a vivere con un certo agio e a mantenersi agli studi presso un costoso collegio. Se i rettori dell'istituto fossero venuti a conoscenza della fonte del suo sostentamento ne sarebbero rimasti sconvolti; e uno scandalo simile avrebbe portato immediatamente il ragazzo di fronte al tribunale della città. Rubare senza appartenere a una precisa corporazione era una cosa illegale. Comunque erano passati ormai quasi sei mesi da quando aveva lasciato la sua stanza al collegio per iniziare una nuova vita. Gord continuava a leggere avidamente qualsiasi cosa su cui riusciva a mettere le mani - e i libri non erano certo oggetti comuni - ma intanto si allenava ad apprendere l'arte del combattimento col pugnale, con la spada, e con le due armi combinate. Già quando stava con San aveva cominciato a imparare l'arte della scherma, la sola che potesse assicurare la sopravvivenza in caso di pericolo. Dal momento che all'epoca erano due ragazzini soli, in una città piena di adulti predatori, la loro scelta era stata molto saggia. E ora che se n'era andato dal Collegio Grigio, Gord aveva deciso di continuare l'addestramento. Una volta alla settimana si recava da un mercenario in pensione che abitava nel Quartiere degli Stranieri. Ma anche quella abitudine doveva presto cambiare. Dal momento che era diventato un ladro molto attivo, nonché un giocatore d'azzardo, una spia e uno scassinatore, era costretto a cambiare molto spesso identità e residenza. Ma sapeva sempre dove trova-
re un buon maestro, perché la città brulicava di guerrieri capaci, disposti a dare qualche lezione in cambio di poche monete. Quella notte sarebbe stata l'ultima all'Uomo Nella Luna. Era giunto il momento di cambiare casa e nome, per scomparire dalla circolazione. Un ladro indipendente, in quella città, non era mai troppo al sicuro. Tutti gli stavano addosso: le guardie di città, la corporazione, e anche i cittadini. Gord continuava a giocherellare con la punta dei baffi; anche se era molto giovane aveva una folta barba, e la facilità con cui gli cresceva gli rendeva molto facile cambiare aspetto. «Mi sarebbe utile qualche altro cambiamento?» chiese a se stesso. «No» si rispose. «Sono quello che sono.» Quella conclusione non gli piaceva molto, così senza via d'uscita. Che abitasse nei bassifondi o nei Quartieri Alti, era sempre un orfano. Non sapeva nulla della sua eredità o dei suoi parenti, e non gli rimaneva nemmeno un amico. Ai tempi in cui era stato uno studente, si era messo a rubare per mantenersi nel mondo dell'Università, che per qualche tempo gli aveva dato una ragione di vita. Ma ne era stato deluso, come sempre. Ora si sarebbe rifatto di tutte le sofferenze subite. Era giunto il momento della resa dei conti, il momento per Gord di vivere alle spalle degli altri cittadini. Sapeva che c'erano altri giovani ribelli come lui in città; se si fosse unito a qualcuno di loro avrebbe trovato compagnia e soddisfazione - e soprattutto pace mentale. La bottiglia era quasi vuota. Gord versò gli ultimi sorsi di quel vino nero nel boccale e ne ingoiò il contenuto d'un fiato. «Devo aspettarti stanotte, Meg?» Conosceva già la risposta, ma scherzare a quel modo faceva parte del suo gioco. La ragazza dai capelli neri, Meggin, si fermò e lo guardò senza un sorriso: «Te ne vai così presto, Gord? Non c'è da meravigliarsi, con tutto quel vino che ti sei scolato! Ti terrà caldo e felice, ne sono sicura, e non avrai bisogno della mia compagnia!» Poi si fece un po' più dolce in volto e gli si avvicinò, guardandolo negli occhi. «Non ha senso che noi due continuiamo a stare assieme. Tu sei infelice, e io non posso cambiare le cose, per quanto mi sforzi di farlo. Torna a cercarmi, Gord, quando avrai capito cosa vuoi.» Gord si alzò, la guardò sorridendo, la strinse alla vita e le schioccò un bacio sonoro sulle labbra. «Ti amo molto, mia cara, ma come sempre hai ragione. È giunto il momento che io parta, e veda qualcosa di questo nostro grande mondo. Andrò in cerca di fortuna, e anche di me stesso. Quando tornerò e sarò ricco, mi sposerai, vero Meg?»
«Figurarsi!» gli rispose Meg spingendolo via con un movimento di stizza. «Tanto lo so che sarai di nuovo qui domani sera, a bere ancora quel vino schifoso e a fare lo scemo con la prima smorfiosa che ti capiterà a tiro!» E così dicendo si affrettò a servire un altro cliente. Meg non voleva far vedere a Gord che i suoi occhi erano diventati umidi. Sapeva bene che quello strano ragazzo non stava parlando al vento, e che non sarebbe più tornato. L'aveva sentito nel preciso istante in cui Gord era entrato nella taverna quella sera. Se ne voleva andare, forse per non tornare mai più, e Meggin gli voleva veramente bene, anche se era un po' matto. Le sarebbe piaciuto se fosse rimasto, ma Meg non era una stupida. Gord non avrebbe mai amato né lei né nessun'altra, finché non avesse trovato ciò che cercava dentro di sé. Ecco perché si scolava tutto quel vino nero di Pomarj. «Arrivederci, Gord» sussurrò, mentre il giovane usciva dall'Uomo Nella Luna. Un minuto dopo anche i tre sconosciuti lasciarono il locale, senza neppure finire il boccale quasi colmo di birra che avevano sul tavolo. Meggin se ne meravigliò quando andò a sparecchiare, ma non si preoccupò più di tanto. Il terzetto si mise a seguire il giovane che si dirigeva verso la parte meridionale del quartiere, addentrandosi sempre di più nelle stradine buie e silenziose. «Guardate, sbanda come un marinaio ubriaco» sussurrò l'uomo dagli occhi piccoli. «Stai zitto» gli rispose quello col collo grosso e la cicatrice sulla guancia. «Presto non si accorgerà neanche di essere ubriaco». Era evidente che costui era il capo, e non si lasciava sfuggire occasione per ricordarlo agli altri due. Aveva sempre lui l'ultima parola. «Come al solito?» La domanda dell'uomo dal naso aquilino ricevette in risposta un gesto d'assenso. Senza aggiungere altro, l'uomo attraversò la strada. Camminava velocemente e passò davanti a Gord, dall'altra parte della strada. Il giovane, che continuava a barcollare, non prestò molta attenzione al passante, anche perché era già abbastanza impegnato a tenersi in piedi. «Un tempo, mi ricordooo...» cominciò a canticchiare Gord mentre continuava a camminare, appoggiandosi ogni tanto con la mano destra al muro di qualche edificio. «Era una notte buiaaa...» intonava, sempre più compiaciuto della propria abilità canora, «quando caddeee...» e a quel punto perse l'equilibrio e cadde nell'oscurità, in un vicolo laterale.
«Prendetelo, ora!» gridò il capo dei tre inseguitori mentre gli altri due correvano verso il giovane. Attraversò anch'egli la strada, pronto a scattare. I tre malviventi si avventarono sulla loro vittima come avvoltoi che si lanciano in picchiata per banchettare sulla carcassa di un animale già morto. L'uomo dal naso aquilino fu il primo ad arrivare, con il pugnale pronto a colpire. Un istante dopo si lanciò sul giovane steso a terra, e un grido risuonò nella via. Non una finestra si aprì a illuminare ciò che stava accadendo, non una porta cigolò per soddisfare la curiosità di qualcuno. Nessuno si preoccupava di ciò che succedeva di notte nel Quartiere degli Stranieri. Persino le pattuglie di ronda controllavano solo le strade principali e le vie sotto le mura. Quelli che abitavano là, o quelli che osavano passare a notte fonda in quei paraggi erano una facile preda. «Lo ha già sistemato!» urlò l'uomo dagli occhi piccoli, correndo verso il luogo dove le due sagome erano immerse nell'ombra: aveva visto il suo compare gettarsi addosso al giovane ed era sicuro che lo stesse derubando. «Avrai la tua parte!» grugnì il capo, quello con la cicatrice sul volto, raggiungendo ansimante il luogo dell'assalto. Adesso avrebbe dato una bella lezione al suo scagnozzo: non ammetteva che qualcun altro si impossessasse del bottino senza la sua approvazione. Si chinò sopra i due corpi, afferrò il suo uomo per il collo e lo spinse lontano: ma immediatamente capì cos'era successo. «La sua parte lui l'ha già avuta, amico!» esclamò Gord mentre si rimetteva in ginocchio e conficcava la spada nella gola del suo avversario. Il capo dei malviventi gridò: la lama gli era penetrata in profondità. Stringendosi la gola con entrambe le mani, l'uomo indietreggiò barcollando. Il terzo era rimasto qualche passo indietro, il che gli diede il tempo di fermarsi ed estrarre l'arma. Quei secondi di ritardo tornarono anche a vantaggio di Gord. Il malvivente si lanciò su di lui imprecando e gli sferrò un terribile colpo di coltello: ma Gord riuscì a tirare il cadavere dell'altro malvivente verso di sé, usandolo come uno scudo. «Per gli dei!» il rapinatore cominciò a imprecare, ma non riuscì a dire altro perché gli arrivò addosso il cadavere del collega. Fu costretto a fare qualche passo all'indietro, cercando di liberarsi da quel corpo e di estrarne il coltello. Gord ne approfittò per tirarsi su e attaccare. Era ubriaco, ma non quanto aveva voluto far credere. Per di più quel terzetto di malviventi era molto inesperto. Quando li aveva visti entrare nella taverna aveva subito capito chi erano, poi era sprofondato nel suo malumo-
re e nei fumi dell'alcool. La sua giovane età e il suo borsello pieno avevano reso troppo incauti quei tre: uno sbaglio già costato caro a due di loro, e ora toccava al terzo. Mentre Gord avanzava verso di lui con la spada sguainata e salda nella mano destra, l'uomo stava ancora tentando di estrarre il suo coltello dal cadavere del compagno. «Tiralo fuori, quel coltello» gli disse Gord, «perché questo dev'essere un combattimento ad armi pari». Finalmente sorrise: si stava divertendo e aveva scordato il cattivo umore di poco prima. «Aiutami, Baldor!» gridò il malcapitato al suo capo, non sapendo che il compagno non era più in grado di aiutarlo. Finalmente l'uomo dagli occhi piccoli si accucciò col coltello teso davanti a sé. Era un'ottima posizione: si capiva chiaramente che aveva combattuto a quel modo abbastanza spesso da muoversi con agilità, le mosse gli venivano dall'istinto. Quando si rivolse a Gord dimostrò di aver ripreso fiducia in se stesso: «Armi pari? Piccola canaglia bugiarda! Una spada contro un pugnale non significa armi pari!» Come rapinatore quell'uomo lasciava alquanto a desiderare, ma Gord capì subito che l'avversario era un ottimo lottatore. «Forse sì, forse no» rispose, provando ad agitare la lama per osservare le reazioni del malvivente. Sapeva bene che quella non era una lotta impari come l'uomo voleva fargli credere: un uomo abile col coltello poteva essere un temibile avversario, in un combattimento ravvicinato. E l'uomo dagli occhi piccoli colse l'opportunità quando Gord si spostò leggermente sulla destra, per scavalcare il cadavere che poco prima aveva gettato addosso all'avversario; a rendere ancora più facili le cose, il ragazzo aveva portato la mano sinistra dietro alla schiena, lasciando il busto completamente scoperto. «Yaaah!» urlò l'uomo per distrarre il nemico, mentre con la mano sinistra colpiva la spada di Gord allontanandola da sé. Poi si lanciò in avanti, pronto a sferrare il colpo mortale. Gord riuscì a parare, alzando il pugnale che fino ad un istante prima aveva tenuto nascosto dietro alla schiena. «Non l'avrai vinta...» grugnì Gord, facendo ricorso a tutte le sue forze. Quell'uomo era molto più grosso e robusto di lui. Quando gli si era avvicinato, Gord aveva fatto perno sul tallone destro e si era girato di scatto, lasciando che per lo slancio l'avversario gli si portasse sulla sinistra. L'uomo quasi aveva perso l'equilibrio, e Gord si era girato completamente lasciando cadere la spada sul collo dell'avversario. «...così facilmente!» concluse Gord nell'attimo in cui la lama penetrò
nella carne. Poi si girò a cercare il terzo uomo, quello chiamato Baldor. Non riusciva a vederlo da nessuna parte, e non aveva neanche voglia di cercarlo. Non si fermò neppure a controllare quanti soldi avessero addosso i due che aveva ucciso. Da quello che aveva visto alla taverna aveva capito che non arrivavano a mettere insieme più di qualche moneta di rame in due. Dopo aver pulito la lama della spada, si affrettò a sparire da lì. Non aveva nessuna intenzione di attirare la curiosità di qualcuno su di sé. Gord abitava in un alto edificio che ospitava una farmacia. Il farmacista con la sua famiglia abitava sopra la bottega, mentre i tre piani superiori erano affittati. Come al solito Gord era stato felice di prendersi l'ultimo piano. Da là poteva entrare e uscire dal tetto senza essere notato. Anche quella notte aveva fatto così: si era arrampicato sul tetto di un magazzino addossato alla casa del farmacista e si era calato nella sua stanza, silenzioso ed invisibile. Anche se aveva deciso di non indossare mai più gli abiti che aveva, Gord ficcò tutta la sua roba in una valigia di cuoio. Quando ebbe finito di fare i bagagli, di lui non restò alcuna traccia. Se ne andò da dove era entrato, risalendo sui tetti, messo in difficoltà dalla valigia che gli faceva perdere l'equilibrio. Scese nel magazzino, aprì la valigia, tirò fuori qualche oggetto che poteva servirgli, e la nascose in un angolo. Prima o dopo qualcuno l'avrebbe trovata - dopo qualche giorno, qualche settimana o qualche mese. Ne avrebbe ricavato qualche soldo e nessuno si sarebbe preoccupato di capire com'era arrivata là. A quell'epoca conosceva perfettamente tutti i passaggi segreti che permettevano di uscire dal Quartiere degli Stranieri senza passare davanti alle guardie di città. Scelse una galleria sotto la torre della Porta di Sicurezza, dove le mura interne della Città Vecchia incontravano quelle che cingevano il Quartiere degli Stranieri. Non era mai stato un grosso problema per quel ragazzo evitare le guardie, e anche quella volta non ci furono eccezioni. Gord scese sotto il livello della strada, percorse velocemente un lungo corridoio, e riemerse in superficie dall'altra parte delle mura. Il giorno dopo comperò un mantello nuovo e una grossa cassa. Poi prese un portatore a nolo e acquistò un fornito guardaroba, pensando che non si addiceva ad uno straniero essere vestito fuori moda. Siccome si fermò a far compere nel rione dei mercanti vicino ai Quartieri Alti, nessuno dei bottegai si meravigliò delle grosse somme che sborsava: molti ricchi viaggiatori facevano esattamente lo stesso, e per loro quel giovane era solo uno dei tanti. Più tardi, quello stesso giorno, quando il sole cominciò a tramonta-
re,Gord fece un altro giro, questa volta senza portatore. Acquistò un paio di cappelli e tre paia di guanti. Spese due monete di lega per un farsetto e altrettanto per una mantella corta di finissima fattura. Per più volte fece ritorno alla villa che aveva affittato, depositò gli acquisti e se ne tornò fuori. Al tramonto, quando le botteghe cominciavano a chiudere porte e serrande, Gord aveva finito il suo lavoro. L'armadio della sua stanza da letto era pieno, e così anche il baule. Ora disponeva di abiti di vario stile e fattura. Poteva recitare la parte del nobile di qualche vicino reame, o del giovane in cerca di fortuna, o qualsiasi altra cosa gli passasse per la testa. «Questa città è sempre pronta a derubare gli ingenui, a sfruttare i poveri, e a rispettare solo i ricchi e i potenti» disse a gran voce provando a indossare i ricchi panni tipici dell'aristocrazia di Veluna. «Lasciamo che mi credano un giovane agnello, ricco e stupido, pronto per essere tosato, troppo debole anche per protestare se dovessi scoprire ciò che si trama contro di me.» «Invece» aggiunse con un sorriso amaro dopo una breve pausa, «sarò io a derubare i tosatori, a sfruttare i forti, e a ottenere ricchezza e potere. Grazie alla loro disonestà e avidità mi potrò far beffe di loro, e nessuno se ne accorgerà finché non sarà troppo tardi.» E con quelle parole uscì nell'aria fresca della sera, fischiettando una canzone allegra. I poveri non avevano nulla da temere, e neppure i ricchi e onesti. Ma guai a chiunque altro Gord avesse incontrato sulla sua strada. Ormai aveva scoperto se stesso, e aveva deciso che era giunto il momento di prendere la sua strada. Era sempre la stessa persona, ma il Gord di adesso era molto diverso dal Gord di prima, e la prospettiva di un futuro soddisfacente lo spronò e lo rese fiducioso in se stesso. Capitolo 15 Lo scricchiolio delle ruote di legno ricordava una malinconica melodia, ma Gord si lasciava cullare dolcemente, disteso su una cuccetta di fortuna in un carro di zingari Attloi diretto a nord. Era felice di essere là, lontano da Falcovia. E mentre la carovana percorreva faticosamente la sua strada gli tornavano alla memoria molti episodi del passato... Erano già trascorsi tre anni da quando aveva smesso di nascondersi e di scappare da una parte all'altra della città. Aveva avuto molto successo come giocatore d'azzardo, truffatore e spia, tanto successo che ora in città tut-
ti erano diventati molto sospettosi con gli stranieri. L'incontro fortuito col suo vecchio amico San, ora genero di Arentol, Grande Capo della Corporazione dei Ladri, l'aveva convinto a partire. San l'aveva salvato da un interrogatorio piuttosto pesante alla Fortezza - dopo tutto Arentol era anche uno degli oligarchi della città, oltre che il capo dei ladri. Gord aveva accettato di buon grado il cambiamento di vita, ed era partito volentieri. La sua condotta licenziosa e il suo comportamento balordo dopotutto erano solo una montatura. E poi non ne poteva più del visconte Margus, né del mercante di gioielli Poffert Tyne, né di tutti i finti personaggi che aveva interpretato ultimamente. Dopo più di due anni di vita scellerata, i suoi desideri di rivalsa contro quella città di falchi si erano un po' spenti: era giunto il momento di andarsene, di uscire, di scoprire il resto del mondo. Aveva passato quasi un anno navigando sul Nyr Dyv con le barche dei Rhennee. All'inizio quello gli era sembrato un modo molto eccitante per allargare le sue esperienze, ma adesso il ricordo di quei mesi lo faceva solamente sorridere. Era stata una lunga avventura piena di pericoli, sia a bordo dei barconi sia nei porti che aveva toccato. Aveva dovuto affrontare molti mostri acquatici, combattere duelli con i Rhennee, e partecipare alle razzie e ai saccheggi delle comunità che vivevano vicino al fiume. Ma tutto ciò non era niente, in confronto al rischio che aveva corso quando si era messo in testa di corteggiare una delle loro bellissime donne dagli occhi neri. L'aveva conquistata, ma poi aveva dovuto darsi parecchio da fare per liberarsene. Chissà cosa ne era stato di Adaz, quella donna dal temperamento così focoso? Gord si addormentò a quel pensiero, cullato dal movimento del carro. *
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Mentre Gord sognava le sue avventure passate, qualcuno a Falcovia parlava di lui. Se avesse assistito a quella scena il giovane si sarebbe sorpreso non poco, vedendo quelle persone e ascoltando i loro discorsi; ma era molto lontano, addormentato, e non ne sapeva nulla. «Non posso fermarmi a lungo» disse il massiccio capo dei mendicanti agli altri sei individui presenti nella piccola stanza. «Ci sono degli svantaggi a comandare... Chi l'avrebbe mai detto?» Chinkers spostava lo sguardo dall'uno all'altro, quasi aspettando una risposta alla sua domanda retorica. Il sacerdote di Fharlanghn si mise a ridere, e anche Chinkers lo guardò
sorridendo. Poi qualcun altro parlò. «Allora, avete qualche traccia di lui?» Era Markham, mercante e agente capo della Bilancia in città. Gord sarebbe stato molto sorpreso, sbalordito addirittura, nel vedere quell'uomo, perché era colui che, più di dieci anni prima, egli chiamava Zio Bru. Il suo volto era profondamente segnato e la sua barba era diventata grigia, ma nei suoi occhi c'era ancora la stessa luce che li aveva illuminati in passato. «Sì, fino a un certo punto» rispose lentamente Chinkers. «I nostri amici lo hanno sempre sorvegliato, ma ora l'hanno perso di vista...» Clyde, che ora era diventato un membro delle Guardie Personali del Lord Mayor, e per la precisione un ufficiale, lanciò un'occhiata al suo compagno, il vecchio Tapper. Anche lui era un membro rispettato della comunità, essendo salito di grado fino a diventare consigliere della Corporazione degli Artigiani; Tapper si astenne dal commentare la cosa, e si girò a guardare il sacerdote che in quel momento aveva cominciato a parlare. «Lady Risteria, c'è qualcosa che lei possa aggiungere?» Il sacerdote si stava chiedendo come mai la maga era rimasta zitta per tutto quel tempo. Non c'era alcun dubbio, infatti, che fosse Bru il capo nominale di quella riunione, ma qualcun altro era più potente e più informato. La donna aveva aspettato di sentire tutto quello che gli altri avevano da dire; voleva che le chiedessero la sua opinione, prima di esporre i fatti di cui era a conoscenza. Ora si decise finalmente a parlare. «Grazie, Zarten. C'è infatti qualcosa che vi debbo dire». La maga si sistemò comodamente sulla sua sedia e si fermò un momento ad aggiustare il suo lungo abito di un colore grigio chiaro. «Abbiamo aiutato quel ragazzo... direi che ci siamo intromessi nella sua vita, anche perché qualcuno, più saggio di me, ha deciso come dovevamo comportarci... ma a che scopo?» Prese un lungo respiro e rispose alla sua stessa domanda. «Beh, non è più un ragazzino, un miserabile, un disgraziato che abita nel quartiere più povero della città. Ma allora cos'è quest'uomo chiamato Gord?» La domanda non era del tutto insensata. Lady Risteria si fermò a guardare, ad uno ad uno, tutti i sei uomini che le stavano davanti. Dalle loro espressioni capì che qualcuno aveva una sua idea in proposito, ma nessuno aprì bocca. Lei fece un gesto d'assenso col capo, soddisfatta della loro deferenza, poi continuò. «Devo ammettere che dobbiamo aver sbagliato qualcosa. A volte la Bilancia ci lascia troppa libertà d'azione, e temo che in questo caso sia successo proprio così. Invece di essere un mendicante povero, inutile e igno-
rante, Gord è diventato un ladro, fannullone, colto e molto abile. Non dimostra il minimo senso di lealtà, non si cura di alcun dovere ma solo dei suoi piaceri personali, agisce per capriccio e adesso va in giro con quella banda di zingari Attloi, dilapidando tutto il denaro che si procura illegalmente, e diventando sempre più bravo a procurarsene dell'altro grazie alle tecniche di quei mascalzoni, bugiardi ed imbroglioni!» «Grazie, Lady Risteria, siamo...» ma prima che Bru potesse dire di più la maga lo interruppe. Aveva ancora qualcosa da dire ed era decisa ad andare fino in fondo. «Perché non hai fatto qualcosa, Markham, per farlo restare all'Università? E tu, Zarten, visto che sei un prete sarebbe stato tuo dovere incoraggiarlo a studiare, convincerlo a seguire una strada onesta per raggiungere una meta migliore di quella che ha ottenuto. Gran bel prete, se non sei riuscito a convincerlo a dedicarsi alla magia! Eppure tutti voi, nessuno escluso, aveva il dovere di allontanarlo dalla strada che lo ha portato ad essere quello che è: nient'altro che un misero ladro!» «Signora!» sbottò Tapper, rosso in volto. Clyde era troppo arrabbiato per dire qualcosa, e il Capo dei Mendicanti, Thadeus, meglio conosciuto come Chinkers, stava cercando di controllare a fatica uno scoppio d'ira. Risteria faceva presto a parlare a quel modo dei ladri: a sentirla insultare così la sua professione gli sembrava di scoppiare. «Chi di noi è perfetto?» Fu Bru a parlare a nome di tutti gli altri. La maga aprì la bocca per rispondere, ma quell'uomo grosso e dalla folta barba proseguì: «La Bilancia non esprime mai simili giudizi di valore, signora. E allora con quale diritto lei sostiene che la sua arte, o quella di Zarten, supera in qualche modo le altre? Non sa rispondermi, vero signora? Perché lei non ha quel diritto. Né io né lei possiamo permetterci di esprimere dei giudizi su Gord o sui nostri superiori, i quali hanno diretto le nostre azioni riguardo a questo problema. Abbiamo fatto solo ciò che ci è stato chiesto, da quando abbiamo accettato la guida dell'Illuminato. Devo forse mettermi in contatto con i superiori e comunicare il vostro dissenso?» Il volto della maga si fece pallido. «No, Padron Bru, non credo sia necessario. Devo scusarmi con tutti voi per aver perso il controllo e non aver badato a ciò che dicevo. Semplicemente io pensavo che quel ragazzo fosse così promettente...» «E lo è ancora, se non di più!» Clyde finalmente diede voce alla sua opinione. «Ora è un uomo, e non ne è mai esistito uno così abile nell'arte del furto, almeno per quel che ne so io! Fin da ragazzo superava molti adulti.
Ora che è cresciuto Gord tiene testa anche ai capi delle corporazioni. Altrimenti il suo nome non sarebbe diventato una leggenda tra quelli...» «Chi può sapere l'esatto valore delle nostre capacità?» intervenne il sacerdote. «Non siamo qui per discutere i meriti di Gord; e naturalmente sono d'accordo con Lady Risteria per quel che riguarda la sua deplorazione nei confronti dei ladri, per motivi anche troppo evidenti.» «Lo sappiamo, lo sappiamo; ma adesso andiamo avanti!» Markham cominciava ad essere seccato. Queste acide ripicche erano cose da bottegai, e dovevano essere tenute fuori da quella sala. Il suo volto esprimeva chiaramente la sua opinione in merito. «Certo, certo» rispose Zarten. «Credo di aver aiutato in qualche modo il ragazzo quando gli ho procurato la pietra della luce, dopo tutto... Ma veniamo al punto. Gentile signora maga, vogliate renderci edotti sulla attuale posizione di Gord e sulle prospettive che si aprono davanti a lui. Avete menzionato una carovana di zingari a cui si è unito, mi sembra di ricordare.» «Sì, certo» rispose Lady Risteria. «Quando l'ho saputo mi sono assunta la responsabilità del problema, e ho cercato aiuto nelle forze arcane con cui sono in particolare sintonia». Fece una pausa aspettandosi dei commenti, ma nessuno dei sei presenti aprì bocca, così la maga continuò il suo racconto. «Gord è un giovane molto abile, di questo non c'è dubbio. Da quando ha lasciato la nostra città le sue capacità sono ulteriormente aumentate, sia per quel che riguarda la sua... attività, sia per le sue capacità di difesa con le armi. Gli Attloi con cui ora sta viaggiando sono dei bravi istruttori, e il giovane Gord si allena ogni giorno alla ginnastica a corpo libero, a quella acrobatica, a camminare sulla fune, a fare salti mortali e a tutte quelle inutili attività tanto comuni fra i giocolieri, saltimbanchi e altri straccioni che le impiegano per mettere in pratica i loro miserabili...» «Ehm! Ehm!» Quel colpo di tosse, insieme allo sguardo di Markham bastarono a rimettere in riga Risteria. «... il loro mestiere» concluse, cercando di restare tranquilla. «Sembra che diventerà ancora più abile di quel che era, tuttavia ci sono dei pericoli che lo aspettano, molte zone ombrose. Qualcuno, qualcosa, forse uno strano potere, si intromette negli schemi, se si osservano da vicino le cose.» «Anch'io mi sono accorto della presenza di certe interferenze, signora» disse Zarten in tono solenne. «Ma non credo si tratti di un intervento mali-
gno. Non ne posso essere sicuro tuttavia, anche perché non ho osato indagare molto» aggiunse il sacerdote a beneficio degli altri. «Sembra evidente che si troverà spesso in pericolo. Uno di noi dovrebbe stargli vicino, nel caso avesse bisogno d'aiuto.» «È proprio questo il motivo per il quale ci siamo riuniti qui, questa sera» disse il capo barbuto di quel raduno. «Le vostre parole sono state ascoltate. Prima di notte partirò dalla Città di Falcovia e comunicherò le opinioni di voi qui presenti ai miei superiori. È questa allora la nostra delibera unanime? Gord dovrà avere tutte le nostre attenzioni nel prossimo futuro, visti i pericoli che incombono su di lui?» Tapper, Clyde, Markham e Chinkers assentirono con un gesto del capo. «Sono d'accordo» disse Lady Risteria. Il sacerdote fu l'ultimo a parlare: «Questa è la cosa migliore, sempre che la Bilancia continui a ritenere Gord un cardine importante per gli eventi futuri. Gord sta per mettersi nei guai, su questo non c'è dubbio.» «Allora sarà questo il messaggio che porterò ai miei superiori» disse Bru, chiudendo la riunione. Proprio nello stesso istante Gord si svegliò. Aveva fatto un brutto sogno, e un sobbalzo più violento del carro l'aveva svegliato di colpo liberandolo da quell'incubo. Asciugandosi il sudore il giovane ladro si spostò nel retro del veicolo e aprì una piccola porta. Decise di saltar giù per cercare i suoi due amici, i quali erano a cavallo da qualche parte; presto si sarebbero accampati, e Gord desiderava conoscere i progetti per la serata. «Ehi! Channos! Elo! Aspettatemi!» I due giovani zingari Attloi erano suoi amici, nonché istruttori, sin dall'estate precedente. Ora era quasi primavera e Gord non era più un semplice allievo. Era già capace di cimentarsi in qualche numero acrobatico e non aveva più bisogno dei loro insegnamenti. Ma erano sempre rimasti buoni amici. «Dove ti eri cacciato?» gli chiese Elo girando il cavallo in direzione di Gord. Channos era invece piuttosto impaziente. «Muoviti! Prendi il cavallo e vieni con noi! Non abbiamo tempo da perdere, lo sai! C'è una locanda a Karrish, il villaggio dove stiamo per arrivare. Se non ci sbrighiamo, gli altri saranno lì prima di noi e si prenderanno il meglio!» e con quelle parole Channos spronò il cavallo, subito seguito da Elo. Gord recuperò il suo animale, quindi si gettò al galoppo ad inseguire i due amici. A sentire quei due la locanda doveva essere un posto meraviglioso. In un
certo senso lo era, considerando il lungo viaggio che la carovana aveva fatto e la qualità piuttosto scadente degli altri locali che avevano trovato in quella parte del Flanaess. Ma Gord, abituato a ben altro genere di luoghi di ristoro, che aveva visitato a Falcovia, a Radygast e in altri posti ancora, la trovò molto deludente. Persino le ragazze avevano qualcosa che non andava. Gli avventori abituali, anche se tenevano d'occhio i nuovi clienti, erano abbastanza disposti ad accettare la loro temporanea presenza. Anche i due amici di Gord sembravano delusi, dopo un po' che avevano bevuto. «Queste donne sono senza vita» osservò Channos. «Vuoi che scateni una rissa?» chiese il grosso Elo. mentre un gran sorriso gli illuminava il volto. «No» rispose Gord, afferrando l'amico e portandolo verso l'uscita. «Andiamocene, Channos. Noi tre abbiamo altro da fare.» Neanche due settimane più tardi Gord lasciò l'accampamento degli Attloi, che si erano stabiliti in una di quelle vaste praterie dove gli zingari passano abitualmente l'estate addestrando gli animali. Con lui partirono i suoi due amici, Channos ed Elo. Erano diretti verso nord, decisi a trovare divertimenti e ricchezze in territori per loro ancora sconosciuti. *
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In un luogo molto distante da lì, un uomo molto importante si stava preoccupando per quel giovane ladro. «Quanto vicino riuscite a stargli?» chiese l'uomo, che aveva un occhio solo. Tre figuri incappucciati, coperti da sozze tonache, stavano seduti su delle sedie dagli alti schienali. Quello al centro rispose alla domanda: «Sembra che nessun altro lo controlli... almeno finora, così siamo in grado di seguirlo da molto vicino, Lord Gellor. Continueremo a controllarlo come abbiamo sempre fatto, ma c'è bisogno della vostra presenza.» «Ci sono guai, allora?» «Sempre, di continuo. Quel giovane, Gord, è un soggetto difficile!» «Vi prego, mostratemi ciò che avete previsto. E io farò del mio meglio, o Illuminati.» I tre fecero contemporaneamente un piccolo gesto, e nell'aria scoccarono delle scintille: una fila di immagini trasparenti apparve a mezz'aria e a Gellor sembrò di essere in presenza di un miraggio, o di una visione spettrale. Sapeva che non era così; ciò che vedeva davanti a sé era una proiezione del futuro di quel giovane, una serie di scene che si susseguivano rapida-
mente, dove ogni minuto corrispondeva a un'ora di tempo reale. Ogni tanto il terzetto di Illuminati faceva scorrere le immagini ad una velocità ancora maggiore. Ad un certo punto Gellor gridò: «Ferma!» senza nemmeno pensarci. I tre bloccarono le immagini, e non le fecero scorrere finché l'uomo con un occhio solo non chiese loro gentilmente di farlo. Improvvisamente quelle vivide immagini cominciarono a confondersi nell'ombra, fino a svanire del tutto. «Cos'è successo?» chiese Gellor. I tre figuri si alzarono di scatto, mettendosi a urlare tutti insieme. Gellor era sconvolto. «Vi ho fatto qualcosa?» «No, fedele agente. Non sei tu che hai causato il danno» disse uno dei tre mentre gli altri due tornavano a sedersi. L'uomo con un occhio solo rimase sorpreso: era stato il figuro di sinistra a parlare, non quello centrale. «È qualche misterioso potere, una forza di cui dobbiamo tener conto, che ci intralcia a questo modo» disse a sua volta il figuro di destra. «Però non abbiamo sofferto un dolore effettivo» aggiunse quello di mezzo. «È una richiesta di segretezza forse, non un attacco. Il giovane non sarebbe mai in grado di fare una cosa del genere da solo, quindi dobbiamo concludere che ha degli altri... amici.» Gellor desiderava altre spiegazioni, ma non osò insistere. Probabilmente si trattava di qualcosa di molto importante, e le forze coinvolte potevano essere benevole o maligne. Ma fu distolto dai suoi pensieri da una domanda del figuro centrale: cosa aveva intenzione di fare, ora? «Avvertire il signore del luogo che ci sono dei banditi nella sua riserva di caccia» rispose l'uomo con un occhio solo. «Il pericolo che sta correndo Gord laggiù è mortale, a meno che non intervenga qualche forza in suo aiuto» cercò di spiegare, ricordando ciò che aveva visto. «Non ci sono altre possibilità, così ho deciso di partire per il Territorio dei Banditi. Mi fermerò solo quando potrò incontrare Gord e tenere su di lui il mio sguardo vigile.» Quel leggero movimento dei tre Illuminati significava che avevano apprezzato la sua offerta? Dopo qualche istante il figuro centrale riprese a parlare. «Non perderemo altro tempo d'ora in poi, né impiegheremo agenti incapaci, buoni solo ad attirare l'attenzione. Un vento nero ha cominciato a soffiare: proviene dal vuoto mortale e fa arrivare fin qui i suoi vortici. Andate, presto, Lord Gellor. Ci metteremo ancora in contatto con voi se ne avremo bisogno.» «Grazie, Illuminati. Farò ciò che mi è stato ordinato e resterò in attesa di
altre istruzioni» rispose l'uomo con un piccolo inchino. Poi Gellor si girò e uscì dalla stanza, addentrandosi nella notte più nera. Non si preoccupò di guardarsi alle spalle, sapeva bene che il luogo da cui era uscito non esisteva più: era il tipico comportamento degli Illuminati. Aveva tante cose da fare, e pochissimo tempo. Parecchie teste coronate si erano servite di lui come agente, e lui le aveva sempre servite onestamente, nei limiti prescritti dal suo dovere nei confronti della Bilancia. Era una copertura perfetta, la sua. Quando fosse partito, l'indomani all'alba, tutti avrebbero pensato a qualche affare di stato. E ovunque fosse andato, Gellor sarebbe stato accolto benevolmente da gruppi e organizzazioni di ogni sorta. Così hanno sempre vissuto le spie, e a dire il vero quell'uomo con un occhio solo amava particolarmente quel genere di vita. Dopo alcune settimane, in una piccola e sporca città nel cuore del Territorio dei Banditi, Gellor incontrò finalmente Gord. Era l'inizio di una lunga e avventurosa amicizia. Capitolo 16 «Ma guarda chi c'è!» L'esclamazione del giovane ladro era piena di autentica gioia: davanti a lui c'era il suo amico e consigliere, Gellor. «Come hai fatto a trovarmi? No, non importa. Vieni, entra! Accomodati e raccontami ogni cosa!» L'uomo con un occhio solo sorrise e strinse la mano di Gord in un caloroso gesto di saluto. «E' bello incontrarsi ancora, vero?» Il giovane lo precedette nella stanza, dove Gellor si sedette su un divano mentre Gord andava a prendere del vino e due bicchieri. Quel luogo era arredato con ogni cura, ma non c'era alcun segno di ricchezza. Certo, non mancava nulla, ma l'arredamento era di qualità piuttosto mediocre. Gord non era uno stupido: poteva permettersi una villa da riempire con ogni sorta di lusso e di comodità, ma così facendo avrebbe attirato attenzioni indesiderate. «Cosa ci fai qui a Falcovia? Credevo che tu fossi a est, al servizio di qualche importante duca o re!» Senza che il suo volto lasciasse trapelare nulla, Gellor rispose: «Forse è proprio quello che sto facendo, amico Gord... O forse ci sono dei signori ancora più potenti che stanno dirigendo le mie mosse.» «Allora sei qui per qualche affare di stato?» «Diciamo che mi trovavo a passare qui vicino, e che ho pensato di venire a porgere i miei omaggi ad un vecchio amico» rispose Gellor con un
cordiale sorriso. Prima che Gord potesse chiedergli ancora qualcosa, l'uomo si affrettò a proseguire. «Da quando sei partito non ho fatto che annoiarmi. Cominciavo proprio a desiderare una piccola, divertente vacanza, così sono tornato nella Città di Falcovia.» «Non credo a una parola» replicò Gord, colmando le due coppe di vino. Ne porse una a Gellor, e dopo che entrambi ebbero bevuto qualche sorso, il giovane continuò: «Ha qualcosa a che fare con quel demonio che abbiamo fatto fuori? Quel diabolico relitto chiamato Chiave di Mezzo? È scoppiata qualche guerra da queste parti? Andiamo, vecchia volpe, dimmelo!» «Sì e no. Forse, ma forse no. Non sto scherzando, Gord. Chi lo può dire? Né tu né io siamo in grado di ordinare gli eventi o di determinare il destino». Gellor guardava il suo giovane amico, e dalla sua espressione si capiva che non avrebbe dato ulteriori spiegazioni; sospirò e bevve un altro sorso di vino. Era molto buono, un'ottima annata di Keoish bianco, e se lo voleva assaporare, tenendolo a lungo in bocca, facendolo rotolare sulla lingua e sul palato, e inghiottendolo lentamente per godere anche del meraviglioso retrogusto. Gord era contento che l'amico apprezzasse tanto quella bevanda, e restò in silenzio mentre Gellor si rilassava assaporando il vino; ma stava aspettando una spiegazione, e non avrebbe mollato finché non l'avesse ricevuta. Gellor lo sapeva bene. «E va bene, Gord. Sarò un po' più preciso. Altrimenti non potrò godermi in pace questo nettare superbo che mi hai offerto così stupidamente.» Cogliendo al volo la richiesta, Gord prese la bottiglia e riempì nuovamente il bicchiere di Gellor. «Da quanto tempo non ci vediamo?» «Più di un anno, quasi due ormai. Da questa domanda deduco che non ti sono mancate le occasioni divertenti per passare il tempo, qui a Falcovia.» «Sì, è vero, ogni tanto vado in cerca di qualche diversivo. Chert - ti ricordi di lui, vero? - è partito molti mesi fa in cerca d'avventure; ma mi sembra ieri il giorno che mi ha salutato. Diciamo che sono stato occupato qua e là, ho cercato di sopravvivere come potevo. Ma sono stufo di questa vita, Gellor. Sei venuto ad affidarmi qualche importante impresa?» Quando l'uomo con un occhio solo alzò le spalle e scosse la testa, l'interesse di Gord ne fu ancora più stuzzicato. «Beh, non restare lì seduto a scolarti il mio vino, muto come un pesce! Non mi caverai più una parola di bocca finché non mi avrai raccontato di te.» «Foglia Verde, il Druido, è più informato di me sugli affari dell'Abisso.
Vai a interrogare lui» disse Gellor con un sorriso. Sapeva di non poter sviare Gord, ma cercava di far cadere la conversazione su un altro argomento. «Pensi spesso alla tua eredità?» chiese dopo una breve pausa. Il giovane si era fatto serio. «Anche troppo spesso, vecchio mio. Mi crea un tale dolore che devo cercare di distrarmi con qualche azione pericolosa. Non c'è nessuno che possa rispondere ai miei interrogativi. Eppure continuo a rimuginare gli stessi pensieri, giorno e notte...» la voce di Gord si stava spegnendo, mentre il suo sguardo si posò sul cofanetto che, per quel poco che sapeva, era l'unico indizio che aveva sul suo passato, i suoi genitori, la sua eredità. «Questa è una delle ragioni per cui sono venuto qui, Gord. Forse c'è qualcuno, o qualcosa, che può rispondere almeno in parte ai tuoi interrogativi». A quelle parole Gord spalancò la bocca, ma Gellor lo interruppe prima che potesse parlare. «No, aspetta, non interrompermi ora. Mi hai punzecchiato come una mosca, e ora mi lascerai parlare. Ma prima apri un'altra bottiglia di quella meravigliosa annata!» Gord si affrettò ad ubbidire, e l'uomo con un occhio solo tornò al suo racconto. «Credo che ormai tu abbia capito, Gord, di essere sottoposto a particolari attenzioni, anche se probabilmente fino ad ora non te n'eri mai reso conto. Gente molto più importante di me e di te ti ha osservato e sorvegliato. Immagina una partita di Grandi Scacchi...» fece una piccola pausa per guardare il giovane, e Gord gli fece capire che lo stava seguendo con attenzione. Era un esperto giocatore, e aveva capito il paragone che Gellor aveva intenzione di fare. «Ma pensa a una partita a tre giocatori, non a due o a quattro; e prova anche a pensare che non si riconosca sempre il colore e la forma dei pezzi.» «Con questo vuoi dire che i giocatori non sempre riconoscono i piani e gli schemi dei loro avversari?» «Esatto! E tu potresti essere paragonato a uno dei pezzi. Qual è il tuo ruolo? Quale tattica nascondi?» Gord fece con la mano un gesto di disapprovazione. «Sono solo un ladro e un uomo di spada abbastanza in gamba; un compagno piacevole, credo, pronto a lanciarsi in qualsiasi avventura. Ma un elemento del grande gioco? No, non credo. E se anche lo fossi, sarei sicuramente un pezzo di scarso valore!» «Forse è così, ma potrebbe anche essere il contrario» lo interruppe Gellor. «In ogni caso tu sei - o comunque eri - tenuto sotto controllo da forze sia maligne che favorevoli. Credo che solo tu possa stabilire se fai parte
del gioco o meno; e se sei solo un pedone, o un pezzo più importante. Io penso, amico mio, che tutto questo sia legato in qualche modo al tuo passato.» «I tuoi indovinelli sono addirittura più complicati del mistero delle mie origini» rispose Gord, un po' agitato, alzandosi in piedi. «Potrei risolverli se sapessi qualcosa riguardo alla mia nascita; ma siccome non è così, anche i tuoi indovinelli resteranno per sempre senza risposta!» L'uomo con un occhio solo dovette ammettere che Gord aveva ragione, ma cercò di calmare l'amico e di farlo sedere. «Hai compiuto molte imprese valorose, hai liberato delle dame in pericolo, hai combattuto ogni genere di battaglia, ti sei tuffato in ogni sorta di avventure senza la minima esitazione. Le tue abilità sono cresciute di giorno in giorno; ora disponi anche di grandi doti magiche, e conduci una vita affascinante. Credi che ci siano al mondo molti come te? Pensi veramente che gli amuleti, le armi, e le altre cose che tu consideri come normali siano molto comuni fra la gente? E che dire della tua fortuna? Certo, sei stato aiutato, ma quanto? Molti uomini, meno dotati di te, avrebbero incontrato la morte se si fossero trovati al tuo posto.» «Beh... forse c'è qualcosa di vero in quello che dici» concesse Gord. «Continua, per favore, e lasciami riflettere sulle tue parole.» «Molto generoso, Vostra Grazia» rispose Gellor, con tono di sarcasmo. Non era offeso, stava solo scherzando, come si usa fare fra amici. «Sono nel gioco anch'io, come sai bene, e c'è anche Foglia Verde. Ci siamo entrati per obbedire a un ordine, ma adesso è una scelta nostra. C'è qualcosa in te, Gord, che ci dà speranza. Forse un giorno riuscirai a trovare la chiave per svelare il mistero del tuo passato, per capire il significato di quel cofanetto e del suo strano contenuto. Chissà... certo è che dove passi tu si verificano strani mutamenti. Le congiure dei nobili sono legate alla tua presenza; si combattono delle guerre; temibili demoni sono ricacciati nei più infimi pianeti, e improvvisamente si viene a sapere qualcosa di vitale per tutti. Non ti sembra strano tutto questo?» «Non ci avevo mai pensato.» «No, sei stato troppo indaffarato a correr dietro a qualche sottana, a divertirti come un ragazzino, a rubare gioielli di inestimabile valore, e a giocare la parte del grande vendicatore! Non fraintendermi: non voglio fartene una colpa. Sei stato costretto dalla sorte a vivere in questa maniera, non poteva andare diversamente, tutto sommato. Ma la mia domanda è la seguente: rivolgerai i tuoi talenti ad un fine più importante?»
Mentre Gellor parlava, Gord rifletteva: si era già stancato di vivere in città; non ne poteva più di recitare la parte del ladro imprendibile, del dissoluto, del vagabondo spensierato. Anche se non poteva conoscere le sue origini, desiderava ormai dare alla sua vita un indirizzo preciso. Essere un ladro, anche se fra i più abili, non gli aveva dato grosse soddisfazioni in quel senso. Si era semplicemente dedicato a qualcosa in cui riusciva particolarmente bene, in attesa di un'occasione migliore. Lo disse a Gellor, che reagì alle sue parole con un'esclamazione di sorpresa. «In attesa? Stai scherzando? Credi che il destino ti gironzoli attorno e ti serva un'occasione migliore su un cuscino di seta? Sono senza parole! Forse ti ho sopravvalutato. Quando eri un ragazzo di strada non ti aspettavi nulla, ma approfittavi senza esitare di ogni occasione. Lottavi ogni giorno per migliorare la tua posizione, il tuo guadagno, la tua vita. Ora che la giovinezza è passata e sei un uomo fatto, nel fiore degli anni, vieni a raccontarmi che ti accontenti di passare il tempo aspettando momenti migliori?» «Beh... non è proprio così che stanno le cose» disse Gord in sua difesa. «Io sono pronto a rispondere alla tua chiamata.» «Sei pronto a rispondere, ma non a muoverti per andare in cerca del nemico. È proprio come pensavo» ribadì Gellor. «Solo tu puoi decidere cosa fare di te. Ti ripeto: usa le tue capacità per un fine migliore!» «Belle parole, ma ancora non mi hai detto niente! Qual è la nobile meta verso cui mi stai indirizzando, vecchio saggio?» Gellor si appoggiò allo schienale sbuffando. Si era talmente immedesimato nella predica, come un padre che rimprovera il figliolo, che si era allontanato troppo dal punto più importante. «Ah, sì, ecco. Certo. Ora te lo dico. Non voglio certo obbligarti a fare quel che ti dirò, ovviamente. Sarebbe troppo presuntuoso da parte mia. Ti darò solo un suggerimento, che forse potrà anche venire incontro ai tuoi desideri.» «Ebbene?» Il tono di Gord era piuttosto freddo e distaccato. «Tu non sei l'unico a non sapere nulla di te, amico mio. Tu fai parte di uno schema di gioco, e tutta l'attenzione degli altri misteriosi giocatori è fissa su di te. Se noi riuscissimo a scoprire qualcosa per primi, eviteresti di essere solo una preda e potresti passare dalla parte degli oppositori del male. Ma per fare ciò devi conoscere te stesso, e questa sarebbe già un'impresa di valore...» «Scusa se ti interrompo, ma continui a non venire al punto» rispose Gord un po' seccato. «Io sono un libertino, e credo che tu mi voglia mettere sulla retta via.»
«Piantala! Però hai ragione, scusami. Posso continuare?» Gord rispose senza ironia: «Certo. Però mi è molto difficile seguire i tuoi discorsi. Ricordati che non ho frequentato molte scuole da bambino, e nemmeno da ragazzo.» Non c'era autocommiserazione nella voce di Gord, e Gellor lo sapeva: la vita è quello che è, per tutti quelli che hanno la fortuna di viverla. L'uomo continuò il suo discorso. «Durante le nostre ricerche - non mie personali, ma di quelli molto più potenti di me, a nome dei quali sto parlando - abbiamo subito delle interferenze da varie forze maligne. Caro mio, hai un'esistenza davvero misteriosa! Prendendo ogni precauzione abbiamo fatto intervenire anche i nostri maghi: hanno cercato le stesse risposte che stai cercando tu, ma hanno trovato solo il vuoto. Tuttavia c'è qualcosa... probabilmente di scarsissima importanza, ma c'è qualcosa. Una visione, che era stata focalizzata su di te... mi ha riportato alla mente un particolare che mi ha fatto correre qui.» A quelle parole il giovane si alzò e cominciò a camminare su e giù, in preda all'agitazione. «Sai qualcosa dei miei genitori? Della mia casa? Cosa ti sei ricordato? Mi calerei nei pozzi dei Nove Inferni, mi tufferei nell'Abisso o nel più profondo dei reami dell'Ade per una simile informazione!» «Non è nulla di così preciso, e non varrebbe la pena esporsi a tali pericoli, Gord. I maghi hanno scoperto qualcosa a cui non hanno prestato attenzione, sulle prime, ed è solo merito della mia strana capacità di ricordare le cose se mi sono spinto fin qui. Cosa ti ricordi della tua infanzia?» «Non molto... Solo quello che mi ha raccontato la vecchia Leena. È stata lei a dirmi che quel cofanetto era la mia unica eredità, ma solo dopo che ne avevo scoperto per caso l'esistenza. A quel tempo non aveva alcun significato per me, ma la vecchia era molto gelosa di quell'oggetto. Avrebbe voluto tenermelo nascosto e raccontarmi di averlo bruciato per scaldarsi, o venduto per procurarsi del denaro, o cose del genere. Povera vecchia. Come credi che sia finito nelle sue mani?» Gellor lo guardò con tenerezza. «Da quello che mi racconti, quella vecchia deve aver vissuto una vita molto triste. Ma ha conservato quel piccolo cofanetto, e adesso che l'ho visto ho capito che era proprio quello della visione. È stato difficile collegare le due cose, altrimenti te l'avrei detto tempo fa. In quella visione la tua scatoletta era splendida e lucente e conteneva nove grossi zaffiri neri!» «Sei sicuro che fosse proprio questo?» gli chiese Gord, prendendo il cofanetto e mettendolo davanti a Gellor.
Invece di rispondere Gellor sollevò la sua palpebra e osservò con attenzione la scatoletta di legno. Il suo occhio aveva una pupilla magica, fatta di una particolare gemma che gli permetteva di vedere molto da vicino, o molto lontano, e di notare cose nascoste agli occhi degli altri uomini. Quando Gellor si serviva di questa sua capacità nessun nascondiglio e nessun mimetismo magico potevano sfuggire alla sua ispezione. «È la stessa, ne sono sicuro. Credo che con un po' di pazienza si potrebbe restaurarla e farla tornare splendente come in quella visione.» «E i nove zaffiri neri?...» «Grossi zaffiri brillanti, neri come l'ebano. Li ricordo perfettamente, viste le circostanze.» Gord ripose la scatola e chiese: «Quali erano esattamente queste... circostanze?» Gellor avrebbe voluto dare ancora un'occhiata alla scatola per scoprire qualche altro particolare, ma le insistenze del suo giovane amico erano troppo pressanti. «Di solito in quelle profezie, mio caro Gord, vengono svelati il presente e il futuro; ma spesso si manifesta anche l'ombra del passato. I maghi esperti in quest'arte evocativa di solito evitano di seguire le scene del passato, per non sprecare tempo prezioso: preferiscono concentrarsi sugli eventi futuri. Io non sono un grande mago, e quindi la mia attenzione è stata spesso distratta dai fantasmi del tuo passato - quello di cui sei a conoscenza e anche quello che ancora ignori. In una delle visioni più oscure, ho visto un bambino paffuto e felice. Giocava ai piedi di una bellissima donna, e fra i suoi giocattoli c'era anche la scatola, con tutto il suo contenuto. Quel bimbo eri tu, Gord, e stavi giocando spensierato con quelle preziosissime pietre.» «Ma... e la donna?» «E chi lo sa? Io non l'ho mai vista prima. Hai mai avuto intorno delle donne bellissime? Te ne ricordi qualcuna?» «No... Lo avrei saputo» si affrettò a rispondere Gord. «Quella donna doveva essere molto ricca, se permetteva al bambino di giocare con delle pietre preziose!» «Non pensare al valore delle pietre, per un momento. Pensa a questo: da come appariva nella visione, quegli zaffiri dovevano essere tuoi, una parte della tua eredità, o forse un regalo. La donna poteva anche essere una governante, non sono stato in grado di capirlo. Ma quel che è certo è che quelle pietre erano in tuo possesso». Gellor si fermò a fissare il suo giovane amico. «Non riesci a ricordarti neanche un particolare di quelle gemme?
Proprio nulla?» «Niente! Forse se le vedessi, se le tenessi in mano, qualcosa mi tornerebbe alla memoria. Sai dove sono ora?» Senza rispondergli Gellor si appoggiò allo schienale e finì di bere il suo vino. «Cosa ti ricorda il tuo anello?» «Questo?» Gord indicò l'anello che portava al dito. Nella grossa montatura d'oro era incastonato un grande smeraldo verde a forma di stella, che assomigliava moltissimo all'occhio di un felino. Siccome la gemma era molto dura Gord l'aveva scambiata per crisoberillo, ma poi aveva capito che era troppo verde per quel tipo di gemma. Solo uno smeraldo corindone poteva essere così bello. «Nessun ricordo. L'ho preso a un fesso, ladro e assassino, quando ero ancora un ragazzo. Credevo di avertelo già raccontato.» «Non importa. Quel che conta è che forse ho un indizio che ci permetterà di trovare le nove pietre.» «Avanti, racconta!» «Appena arrivato ho fatto delle ricerche in città. Delle gemme come quelle dovevano per forza esser state notate da qualche mercante, da qualche gioielliere o da qualche appassionato. Ma a quanto pare sono arrivato con un paio di settimane di ritardo; e questo perché non ho subito associato la scatola della visione con la tua». Gord gli disse che non l'avrebbe rimproverato, e che anzi si congratulava con lui per l'abilità dimostrata nel collegare i due oggetti, così diversi in apparenza e così poco legati a lui. «Grazie. In ogni caso le nove pietre sono ancora tutte assieme, sembra: ora fanno parte di una collana, un oggetto di incredibile bellezza, montato in platino e tempestato di diamanti. Così mi hanno detto. Il gioiello è stato portato in città circa un mese fa da un mercante della Costa Selvaggia. Diceva che la collana veniva da ovest, e i mercanti che l'hanno vista dicono che la lavorazione era così raffinata che non hanno dubitato un attimo della sua autenticità. Un oggetto del genere non viene mai fatto girare molto; la collana è stata esaminata da qualcuno per un paio di giorni, poi il mercante l'ha venduta all'asta a un collezionista di opere d'arte. È l'agente di uno straniero molto ricco, un nobile di Dyvers sembra. Anche se l'acquirente ha lasciato la città solo qualche giorno fa, puoi essere sicuro che la collana se n'è andata molto prima, diciamo tre settimane fa. Un uomo che si occupa di questo tipo di traffici non viaggia mai con molto denaro o con gli oggetti che vende o acquista.» Gord era fuori di sé dalla gioia. «E il nome dell'acquirente?»
«Né il compratore, né l'uomo che gli ha commissionato l'acquisto sono conosciuti in giro. È piuttosto strano. L'agente si faceva chiamare Demming, o Demming Vista d'Aquila. Le descrizioni che ho sentito andrebbero bene per qualsiasi uomo di media statura, lineamenti comuni e mezz'età. Puoi scommettere che quel tipo usa in ogni luogo un nome diverso. Non so nient'altro.» «Beh, è già molto! Dyvers non è grande come Falcovia, e nascondersi in quel buco non è così facile. Riusciremo a trovare l'uomo e le pietre in men che non si dica!» «Mi spiace dovertelo dire, Gord, ma cosa ti fa credere che quell'uomo si trovi a Dyvers? Uno che fa quel mestiere è sempre in giro; a quest'ora sarà già ripartito, diretto in qualche altra città in cerca di buoni affari: non possiamo cercarlo dappertutto!» Dopo averci pensato su per qualche momento, il giovane dovette dare ragione a Gellor. «Sì, hai ragione. Avrà consegnato la collana al suo mandante, il quale l'avrà messa in cassaforte. Un tesoro del genere va tenuto al sicuro, chiuso da qualche parte: lo so per esperienza!» esclamò Gord con un sorriso sornione. «A meno che...» aggiunse Gord con un lampo negli occhi, «uno non voglia usarla per suscitare l'invidia e l'ammirazione degli altri. Una collana del genere starà già ornando il collo di qualche splendida cortigiana, forse. Quell'uomo è molto fortunato: possiede la collana e anche una splendida donna... Oh, sì, Gellor! Riusciremo a trovarli!» Gord si fermò, schioccò le dita, scattò in piedi e cominciò a gironzolare per la stanza. «Quanto tempo ti ci vuole per essere pronto a partire, Gellor? A me non serve più di un'ora per mettere assieme le mie cose. Dammene un'altra per sistemare alcune faccende, e sarò pronto!» A quel punto anche Gellor si alzò in piedi e afferrò saldamente alle spalle il suo giovane amico. «Non tutti sono liberi da impegni e preoccupazioni come te, ragazzo mio. Mi stai proponendo un viaggio di almeno una settimana, o forse anche di più, a gironzolare per Dyvers. Se potessi ti accompagnerei, e vorrei veramente poterlo fare! Ma devo occuparmi di altre cose. Ho dei doveri da compiere e non posso né rimandarli né scaricarli su qualcun altro. Domattina devo imbarcarmi, e starò via per un motivo o per l'altro per almeno un mese. Forse quando avrò concluso questi affari potrò prendermi un po' di giorni liberi.» Gord era un po' contrariato, ma ancora determinato a partire: «Sarebbe meglio se ci fossi anche tu; ma con te o senza di te, io prenderò la strada
per l'ovest oggi stesso! Quando ci rivedremo?» «Chi può saperlo? Cercherò di tornare qui appena potrò, al massimo fra un paio di mesi.» «Se quella volta non sarò ancora tornato, non tornerò mai più» disse il giovane con un sorriso. «Cercami qui o alla Taverna dello Scacchista: è un bel posticino!» Gellor restò lì ancora un po', mentre l'amico si dava da fare per preparare i bagagli. Per quasi un'ora si scambiarono solo qualche parola. Quando Gord ebbe finito i preparativi, si rivolse ancora all'amico con un occhio solo: «Resti da solo, fino alla partenza della nave?» «Certo» rispose Gellor con una risata. «Sono abituato a stare da solo, molto più di quanto tu possa credere. Ora vai, e non perdere tempo in convenevoli. Il tuo problema è molto più importante di qualche chiacchiera fra amici, vero?» «Grazie, Gellor. Sei veramente un buon amico. Spero di rivederti fra qualche settimana. Stammi bene!» Gord prese il bagaglio, e i due uomini scesero in fretta la scala e uscirono nell'aria limpida del tardo pomeriggio. L'uomo con un occhio solo si diresse verso il porto, in cerca di un posto decente dove passare la notte, mentre Gord, dopo aver sistemato alcune faccende, si diresse verso le scuderie. Mentre si lasciava alle spalle Falcovia, la polvere sollevata dal suo cavallo creava un alone dorato negli ultimi raggi del sole. Capitolo 17 La città di Dyvers assomigliava molto a Falcovia, ma c'erano fra le due delle differenze notevoli. Dyvers era più vecchia, non così grande per superficie e popolazione, più frequentata da stranieri. Gli edifici erano diversi, più squadrati, le torri più tozze e le mura più spesse di quelle della città natale di Gord. Non c'era la divisione tra città nuova e vecchia: Dyvers aveva un unico governo. C'erano i bassifondi e qualche altro quartiere molto povero, ma non come quelli della Città di Falcovia. E i quartieri ricchi non potevano competere con gli splendori dei quartieri alti della città rivale, più a est. Le case di collina della Città di Falcovia guardavano dall'alto le acque serpeggianti del Selintan. Da Dyvers si vedeva il corso del Fiume Velverdyva e la pianura sconfinata del Nyr Dyv. C'era una commistione di ele-
menti bellissimi e tetri, poveri e ricchi, proprio come in qualsiasi grande città, pensò Gord. Il suo viaggio era stato rapido e tranquillo. Dopo essere giunto a Dyvers, Gord aveva trascorso una giornata a rilassarsi e a riposare le stanche membra. Aveva trovato una locanda abbastanza economica nel centro della città, dove la clientela era piuttosto comune. Era una casa qualunque, tranquilla e sicura: proprio quello che ci voleva per lui. Ciò che aveva imparato durante il suo periodo di studi gli tornò molto utile: non faticò molto a trovare un mercante di libri e di mappe, e acquistò una cartina particolareggiata della città. Quindi si ritirò nella sua stanza per studiarla a memoria. Quella notte, la seconda che passava alla locanda, decise di uscire per fare un giro delle taverne frequentate dai cittadini benestanti di Dyvers. Quell'escursione non portò alcun frutto, ma Gord non si scoraggiò. Non si era aspettato nulla, ma sapeva che valeva la pena tentare. Il lavoro di ricerca gli richiese l'acquisto di parecchi abiti nuovi, e fu costretto a frequentare vari locali dove si riuniva gente di ogni sorta. Ogni tanto credeva di aver trovato qualche debole indizio, o gli veniva indicato qualche nome. C'era pochissima gente a Dyvers in grado di acquistare un gioiello così prezioso come quello che Gord stava cercando, e tra quelli quasi nessuno poteva permettersi degli agenti che viaggiassero in cerca di qualche pezzo specifico. In più doveva agire con la massima discrezione; ma questo era un problema solo suo, non certo del proprietario dei nove zaffiri. Se Gord avesse indagato nei bassifondi, chiedendo informazioni qua e là, avrebbe subito trovato la persona che cercava. Ma in quel modo ogni informatore governativo, ogni ladro o assassino avrebbe saputo chi era e cosa cercava. Il trucco era raccogliere informazioni senza rivelare nulla di sé, il che richiedeva tempo, abilità e denaro. Ma Gord disponeva di tutte e tre le cose e così, in un paio di giorni, riuscì ad ottenere ciò che voleva. «Partirò per Veluna oggi, locandiere. Posso avere il conto?» Gord regolò il conto con il proprietario della locanda e lasciò un bel po' di denaro come mancia. Preparò il cavallo e si mise in viaggio. Era sicuro che il padrone non l'avrebbe dimenticato per un bel po'. Gord lasciò la città dalla porta di ponente, dove si fermò un momento a chiacchierare con il sergente delle guardie, complimentandosi con lui per l'efficienza dell'amministrazione e sottolineando con una strizzata d'occhio la bellezza e la generosità delle donne di quella città. Il che lasciò un po' perplessa la guardia, proprio come Gord voleva.
Quando il sergente provò a protestare e a chiedere delle scuse, Gord lo prese in giro, accusandolo di essere un buzzurro e un provinciale, e se ne andò. «La gente di Veluna sarà senz'altro migliore!» gridò, mentre si allontanava con aria di sdegno. Anche il sergente si sarebbe ricordato di lui. Qualche giorno dopo, su un cavallo diverso e con addosso i panni di un viaggiatore della lontana Keoland, Gord rientrò a Dyvers da una delle porte meridionali. Trovò un modesto ostello dove nessuno gli fece domande, anche perché il giovane pagò il conto in anticipo. Adesso il lavoro vero e proprio poteva finalmente cominciare. Se per caso qualcuno si fosse ricordato di un giovane interessato alla vendita di alcuni gioielli di famiglia, lo avrebbe sicuramente identificato con l'individuo che era partito per Veluna qualche giorno prima. Da come si presentava adesso Gord sembrava più vecchio, aveva i capelli striati di grigio ed era molto più alto del tipo che era stato in città prima di lui. Il giovane ladro era molto soddisfatto di sé e pensava a quanto era facile far perdere le proprie tracce con un po' di tintura, degli stivali con un tacco interno e un semplice cappello. Certo, se qualcuno l'avesse osservato con attenzione il travestimento sarebbe stato scoperto, ma non aveva certo intenzione di esporsi a una tale accurata indagine. Gord uscì presto quella sera, e tornò all'ostello prima di mezzanotte completamente ubriaco. Cantava a squarciagola e camminava barcollando: non poteva non attirare l'attenzione di qualcuno. Sbatté la porta e la chiuse a chiave, buttandosi immediatamente sul letto e provocando non poco rumore. Dopo pochi minuti eccolo completamente sobrio, vestito di nero, con addosso l'equipaggiamento completo di un ladro esperto, uscire dalla finestra e andare in caccia della preda. Qualche problema? No. Semplicemente bisogna fare le cose per bene, quando si ha intenzione di introdursi nel Tempio di Nerull per rubare al sacerdote superiore una collana di inestimabile valore... e soprattutto quando lo stesso sacerdote ha annunciato che quei nove zaffiri neri significano per lui molto più di quanto si possa immaginare! Quell'informazione gli era giunta tramite il servitore di un ricco e depravato aristocratico di Dyvers. Costui era un seguace della divinità maligna di Nerull, chissà per quale ragione. Oltre a ciò, era un collezionista di gemme, ed era a lui che il famoso agente aveva appena procurato i nove zaffiri! Ma non si era tenuto la collana, diversamente da come Gord aveva immaginato: l'aveva offerta in dono al sacerdote superiore di Nerull. Tuttavia questo particolare non aveva per Gord alcuna importanza: che fosse
nelle mani di un aristocratico o di un prete, quella notte stessa avrebbe rubato il gioiello. Il basso tempio di basalto si trovava ai confini della zona urbana dedicata ai luoghi di devozione. Ma diversamente dagli altri templi, la Casa di Nerull non era circondata da altri edifici. Anche le strade là intorno erano deserte, e quel luogo sembrava abbandonato. Ma Gord ne sapeva di più. I seguaci di quell'essere demoniaco si recavano ad adorare la loro divinità durante la notte. Da qualche parte, sotto terra, in una stanza buia e tetra, i devoti di quell'essere malvagio stavano pregando e facendo sacrifici cruenti. Era proprio ciò che ci voleva: mentre tutti erano intenti alla funzione, Gord avrebbe potuto agire indisturbato. Sarebbe entrato, avrebbe rubato la collana e se ne sarebbe andato prima che qualcuno se ne accorgesse. Grazie a una spada magica che aveva trovato in uno dei suoi viaggi in oriente, Gord era in grado di vedere nell'oscurità più nera come se fosse appena il crepuscolo, mentre al chiarore delle stelle la sua vista era perfetta, come in pieno giorno. Neanche il basso recinto che circondava il tempio poteva essere un problema, nonostante le inferriate uncinate. Il vero ostacolo erano le sentinelle e le belve che le accompagnavano: ogni guardia era affiancata da uno scimmione nero! «Ecco un nemico che non ho mai affrontato prima» disse Gord fra sé mentre studiava la zona. Ora aveva capito perché le inferriate erano incurvate sia verso l'interno che verso l'esterno: quei bestioni dovevano essere degli assassini mangiatori di uomini. Se uno di loro fosse scappato di là, le conseguenze che la cosa avrebbe avuto in città sarebbero state molto sgradevoli per il sacerdote superiore. «Potrei attaccarli dall'alto» pensava. Era abbastanza agile da riuscire a balzare oltre l'inferriata e atterrare pronto a combattere. La sua spada e il lungo pugnale gli sarebbero bastati per far fuori entrambi gli avversari rapidamente e senza far troppo rumore, a parte forse qualche grido soffocato. «No, le guardie si scambiano delle parole d'ordine a intervalli regolari. I preti hanno pensato a tutto» rifletteva il giovane. Così cambiò idea. Rimase immobile per alcuni minuti, controllando i movimenti delle sentinelle e degli scimmioni. Poi decise di agire. Quando la coppia di guardie che stava là sotto si fu allontanata, Gord si diede un grosso slancio e cadde rotolando sul tappeto erboso che circondava l'edificio. Dopo aver recuperato l'equilibrio aprì una piccola sacca che aveva appesa alla cintura, si girò, e gettò una manciata di pepe rosso sulla zona dove aveva messo piede. Poi si lanciò verso quel tetro edificio, conti-
nuando a lasciare dietro di sé una scia di quella polvere rossa. Aveva portato quella spezia dall'odore pungente per irritare e confondere gli eventuali cani da guardia, ma la cosa avrebbe funzionato alla perfezione anche con l'olfatto delle scimmie. I grandi blocchi di basalto che costituivano l'esterno del tempio erano completamente lisci, e non c'era nemmeno un centimetro di spazio tra una lastra e l'altra: gli ci volle il massimo dello sforzo per scalare quella parete verticale abbastanza in fretta da non essere visto. Non era nemmeno riuscito ad aggrapparsi al bordo del primo piano, quando udì sotto di sé un poderoso starnuto. Senza far rumore si tirò su e si appiattì contro il muro. C'era una scimmia là sotto, e stava starnutendo, grattandosi il naso e digrignando i denti bianchi che spiccavano sul muso nero. Gord vide altre due sentinelle accorrere. Gli uomini si scambiarono qualche parola mentre le bestie continuavano a starnutire. Poi le guardie portarono via le scimmie frastornate. Mentre gli uomini cercavano di spiegarsi la ragione di quell'inconveniente, Gord decise che era venuto il momento di muoversi. Avrebbe avuto a disposizione solo poco tempo, su questo non c'era alcun dubbio: ben presto le guardie di Nerull si sarebbero messe in caccia dell'intruso. Non doveva sprecare neppure un attimo, altrimenti avrebbe perso l'occasione e anche la vita! Trovò la porta di un balcone aperta. Una dimenticanza? O forse i frequentatori di quel lugubre posto non si preoccupavano di impedire l'accesso agli intrusi, altrimenti dove avrebbero trovato le vittime per i loro riti sacrificali? Non era un'idea molto piacevole, e Gord decise di scacciarla dalla mente. Il giovane avventuriero scivolò all'interno del tempio e scese in fretta una rampa di scale. Arrivò così al piano principale dell'edificio, che doveva essere riservato al clero. La luce che riusciva a vedere sotto le porte lo avvertì che molte stanze in quei corridoi erano occupate: forse da qualche prete, o accolito, o forse anche da qualche guardia. Gord teneva gli occhi fissi sulle pareti di pietra, cercando un segno rivelatore. Quel tempio era molto antico, e chissà quanti piedi calzati di sandali avevano percorso quei corridoi durante i secoli! Quella che sembrava una parete vuota allo sguardo indagatore del ragazzo rivelò una porta segreta. «Neanche tanto segreta, poi!» osservò Gord, mentre con la lama del pugnale forzava la serratura nascosta. La porta si aprì verso l'interno. Quello era il percorso, o forse uno dei percorsi, che i
sacerdoti del diabolico dio del male usavano per recarsi all'altare. «E questo» disse piano Gord scendendo in fretta qualche gradino, «dev'essere il santuario privato del sacerdote superiore. Speriamo che sia impegnato in una delle sue malefiche funzioni.» Dalla scalinata proveniva il suono di una cantilena, basso e quasi indistinto. Più scendeva, più il suono diventava forte, ma Gord non riuscì a capirne il significato nemmeno quando giunse ai piedi della rampa. All'improvviso si udì il cupo suono dei corni, mentre dei grossi strumenti a percussione cominciarono a rullare accompagnando il canto; dei suoni discordi, come se qualcuno pizzicasse a caso le corde di molte arpe, accentuavano lo strano ritmo. I suoni venivano da sinistra, così Gord decise di infilarsi in un passaggio che si apriva a destra. L'oscurità era totale, ma il giovane ladro non aveva alcuna difficoltà ad avanzare; la lama magica, con la sua luce soffusa, gli permetteva persino di individuare i passaggi più frequentati. Quando poteva, cercava sempre di scegliere quelli meno battuti. Dopo una dozzina di vicoli ciechi e di giri viziosi, Gord arrivò in una piccola stanza circolare alla fine di un corridoio. Le uniche suppellettili erano quattro semplicissimi candelabri, infissi alle pareti a intervalli regolari. «È molto strano» si disse. «Un ambiente così, senza una panca, un bacile, o l'immagine di una divinità da adorare... Cosa può essere?» Ma i suoi movimenti non erano certo quelli di uno che cercava un posto dove sedersi, lavarsi, o pregare. Gord stava controllando rapidamente le pareti, usando le dita e gli occhi. Dal momento che non c'era nulla di interessante, tornò nel corridoio. Solo allora vide una piccola fessura, e ciò significava che... «Le pietre del corridoio sono staccate da quelle della stanza!» esclamò sottovoce il giovane ladro. Mentre tornava nella stanza, la sua mente lavorava ad una velocità vertiginosa. Gord rivolse l'attenzione agli alti candelabri: erano oggetti molto antichi che potevano sorreggere grosse candele. Tutti e quattro erano di bronzo appena lucidato. «È questo» mormorò Gord, notando che quello alla destra dell'entrata era più consunto degli altri tre. Lo toccò, poi lo spinse in alto, quindi in basso, poi cercò di girarlo da una parte o dall'altra. Non si spostava di un millimetro, restava fermo dov'era. «Non può essere» cominciò a lamentarsi Gord, mentre provava ancora a darsi da fare; ma non aveva ancora finito di pronunciare l'ultima parola che
finalmente scoprì la combinazione giusta: bisognava prima premere verso il basso la punta dove andava infilzata la candela, quindi spingere verso l'alto il candelabro. Accompagnata da uno scricchiolio appena percettibile, l'intera stanza fece mezzo giro su se stessa. Gord non si aspettava una cosa del genere, e rimase talmente stupefatto che si dimenticò di estrarre un'arma mentre la stanza girava. «Chi osa penetrare nel santuario del mio maestro?» Era una domanda e una sfida allo stesso tempo. Insieme al suono di quella voce un tremendo odore di morte invase la stanza. Non aveva via d'uscita. Il suo udito gli diceva che la voce veniva da destra. Non desiderando restare intrappolato nella piccola stanza, Gord si lanciò verso sinistra, in direzione di una camera più grande che era apparsa dopo la rotazione. Appena entrato si girò immediatamente in direzione della voce. Il corpo che vide davanti a sé poteva sembrare quello di un piccolo orco: un mostriciattolo dal torace tozzo e nodoso sostenuto da un paio di gambe molto grosse e ricurve. La carnagione aveva il pallore della morte, e il puzzo di cadavere che emanava rafforzava quell'impressione. Ma subito dopo Gord vide qualcosa di molto più raccapricciante. Dalla testa della creatura cominciarono ad uscire dei lunghi vermi: dagli occhi, dalla bocca, dalle orecchie, dal naso. Si agitavano alla cieca, quasi a voler intimidire lo stupido umano che aveva profanato quel luogo. «Per tutti gli inferni!» sibilò Gord, balzando all'indietro a quella visione orripilante. Fu una mossa fortunata: in quel preciso istante la creatura sputò i vermi che aveva in bocca, e nel punto in cui caddero al suolo la pietra sibilò e ribollì per qualche momento. Gord notò con una sensazione di terrore e di repulsione il pavimento corroso nei punti dove si erano levati quei fumi sibilanti. Si erano formati dei piccoli buchi, ma se al posto della pietra ci fosse stata la sua carne... «Hackkahhkk» tossì quell'orribile creatura di carne marcia. Stava per espettorare altri vermi dal profondo della sua cassa toracica. Nel frattempo cominciò ad avanzare barcollando verso il giovane ladro, e i suoi piedi piatti producevano un rumore viscido al contatto con la pietra. Gord scattò verso sinistra, agitando la spada alla cieca, quindi si tuffò a terra e con una capriola si rialzò alle spalle del mostro. Appena in tempo. «Puah!» la creatura sputò un'altra boccata di vermi che si inarcarono in aria. Gord vide la scena, ma non ci prestò molta attenzione: il suo sguardo
andò verso il punto in cui aveva sentito la sua spada colpire qualcosa. Voleva assicurarsi di aver ferito le grosse gambe della creatura. La carne giallastra si era effettivamente squarciata al contatto con l'arma, e la ferita assomigliava ad una bocca aperta con il labbro inferiore pendulo. Tuttavia non usciva né sangue né alcun altro liquido. Quella tozza creatura ultraterrena sembrava non aver risentito della ferita. Stava ancora camminando, agitandosi e tossendo profondamente. Gord cominciò a girare all'impazzata, costringendo il mostro a muoversi di continuo. Dopo una mezza dozzina di sputi corrosivi il mostro abbandonò quella tattica, forse perché ormai aveva esaurito le riserve interne di quegli schifosi vermi. Durante tutto quel tempo Gord aveva sempre cercato di colpire le gambe della creatura, e da una delle ferite spuntavano le ossa del mostro; ma ancora la creatura sembrava non soffrirne. A questo punto Gord era terrorizzato: la creatura infatti disponeva di altre armi. Da qualche parte, sotto i suoi abiti ammuffiti, il mostro tirò fuori un paio di armi che sembravano dei falcetti. Con le sue lunghe braccia e quelle lame ricurve, aveva un raggio d'azione di un paio di metri a destra e a sinistra. A quel punto la creatura emise le sue prime parole da quando il combattimento era iniziato: «E ora, umano, avrò il piacere di ridurti in piccole striscioline, prima di banchettare con la tua carne, il tuo sangue e le tue ossa!» La voce risuonava impastata, le parole appena distinguibili, come se anche i polmoni di quel mostro fossero marci e infestati dai vermi. Quell'essere era molto sicuro di sé, e si muoveva lento. Gord si lanciò ancora una volta contro il suo fianco destro, tenendo il pugnale alzato, pronto a parare un eventuale colpo di falcetto. Con un movimento repentino riuscì a colpire l'osso esposto della gamba del mostro, poi si ritrasse immediatamente. Appena si ritrovò in piedi dietro alla creatura, la colpì ancora e disse: «Maledetto demonio! Qualunque cosa tu sia, l'acciaio lucente cancellerà la tua esistenza dal mondo!» Il mostro provò a girarsi di scatto e contemporaneamente a colpire Gord con il falcetto sinistro. La lama sibilò nell'aria proprio sopra la testa di Gord, ma subito dopo la creatura cadde pesantemente a terra, abbandonando l'arma che teneva nella mano destra. Finalmente le sue gambe avevano ceduto! Mentre la creatura cercava di rialzarsi, tenendosi in precario equilibrio sulle gambe ferite, Gord le balzò addosso colpendola al collo con tutte le
sue forze. La lama tagliò di netto la carne cadaverica del mostro, spezzò le ossa, e non aveva ancora perso tutta la potenza quando uscì dall'altra parte del collo sbattendo sonoramente sul pavimento di pietra. La testa mozzata della creatura cadde a terra e si fermò poco lontano. Un pugno di vermi sprizzò dal collo squarciato, proprio come da un corpo decapitato sprizza il sangue, investendo la testa staccata: vermi e testa sparirono in una nuvola di fumi sfrigolanti. Il corpo si contorse per qualche istante, mentre Gord restava all'erta a guardare la scena: ma la creatura non sembrava avere capacità di rigenerazione, e finalmente il cadavere si placò. Evitando di toccare quei resti puzzolenti, Gord cominciò a perquisire in fretta la zona dove si era svolto il combattimento. C'erano parecchie stanze nella zona segreta, un intero appartamento sotterraneo per il grande sacerdote di Nerull. A quel punto per Gord fu un gioco da ragazzi. Localizzò senza difficoltà la cassaforte del prete, individuò il segnale d'allarme e riuscì a disinnescarlo usando gli oggetti sacramentali del prete: dell'unguento violaceo e un telo d'altare nero, che serviva ad annullare le forze negative dei sigilli che proteggevano il tesoro. Anche alcuni aghi avvelenati, disposti intorno alla chiusura, furono facilmente individuati e neutralizzati. Le serrature del grosso forziere furono un divertimento per il giovane ladro: in pochi minuti riuscì ad aprirlo e ad ammirarne il contenuto. Senza badare agli oggetti religiosi e ad una borsa di pelle piena di monete, Gord tirò fuori alcuni piccoli cofanetti di ottima fattura, ben sapendo che di solito quelle scatole venivano usate per custodire gemme preziose o qualche raro pezzo di gioielleria. «Stupende!» esclamò involontariamente, aprendo il primo e trovando una collezione di pietre preziose. C'erano grossi smeraldi, enormi rubini, grandi diamanti luccicanti: un arcobaleno di colori dai toni più strani. Il cofanetto successivo era infilato in un sacchetto di velluto. Era rotondo, e conteneva un opale nero delle dimensioni di un pugno, dalle cui striature verdi pulsava una strana luce, mentre al centro della pietra si vedeva una specie di fiammella luminosa e danzante. «Prenderò anche questo!» mormorò Gord pieno di stupore, e infilò velocemente la sfera di opale nella sua sacca di cuoio. Ma sebbene quella pietra da sola valesse una fortuna, Gord non poteva dimenticare che era venuto fin là prima di tutto per recuperare i nove zaffiri neri. Quando ebbe aperto anche l'ultimo dei cofanetti, Gord cominciò a dispe-
rare. Si era impadronito di parecchi gioielli di grande valore, ma non aveva trovato le gemme che stava disperatamente cercando. «Che gli dei ti fulminino, lurido prete! Me le darai tu personalmente!» E così dicendo tornò nella stanza circolare e azionò il candeliere, ma restò nella stanza più grande mentre quella piccola ruotava per tornare alla posizione iniziale. «Prima o poi entrerai da questa porta, prete» borbottò. «Su questo ci scommetto la vita. E quando sarai di ritorno dai tuoi macabri riti, questa notte, sarò qui a darti il benvenuto». Quindi trovò una sedia, la sistemò in modo da essere pronto per quando la porta segreta si fosse aperta, e si mise ad aspettare dentro quella prigione volontaria. Parecchie ore più tardi il gran sacerdote di Nerull fece ritorno alle sue stanze, esausto dopo un'intera nottata di oscene orge rituali. Era tutto lordo di sangue, e quando la piccola stanza rotonda cominciò a girare su se stessa stava cercando di pulirsi alla meglio. Gord gli piombò addosso animato da una furia cieca, tramortendolo prima di dargli il tempo di lanciare un grido. Usò l'abito talare del sacerdote per tappargli la bocca, mentre continuava a picchiarlo. Dopo avergli legato mani e piedi, Gord lo girò a faccia in giù e gli infilò il pugnale sotto il mento, schiacciandogli la lama contro la gola. «Svegliati, topo di fogna!» gli ordinò, versandogli addosso del vino che aveva trovato nella stanza da letto. Al contatto con il liquido il prete di Nerull grugnì e provò a sollevare la testa. Girò lo sguardo di lato, e anche in quelle condizioni svantaggiose riuscì ad essere piuttosto minaccioso. «Mi prenderò la tua vita e la tua anima per quello che hai fatto, straniero! Non sai chi sono io?» «Stai zitto, o dovrai dire chi eri» rispose Gord. «Senti come ti brucia la gola? È la lama del mio pugnale che ti sta affettando la carne. Parla solo per rispondere alle mie domande, o ti scanno!» Il prete si fermò. «Cosa vuoi?» «Solo qualche informazione. Dove sono i nove zaffiri neri incastonati in una collana di platino?» La domanda incontrò il silenzio, e Gord premette un po' di più il pugnale contro la gola dell'uomo. Fu sufficiente. «Aspetta, aspetta! Ora mi ricordo. Me n'ero scordato, davvero! Sto cercando di collaborare!» piagnucolò quel prete malvagio. «Allora, dov'è la collana?» «E... io... non è qui» farfugliò intimorito. «Stai mentendo! Dev'essere qui! Quelle gemme sono troppo preziose
perché tu non le tenga nascoste qui!» «No, no! Non sto mentendo, ti dico la verità. Erano preziose, ma non tanto quanto un grande op... ehm, quanto un'altra gemma che mi è stata data in cambio.» Gord non poteva credere alle sue orecchie. «Quando? Quando è avvenuto questo scambio?» chiese, allontanando il pugnale dalla gola dell'uomo, non volendo ucciderlo prima di aver ottenuto una spiegazione esauriente. «Una settimana fa.» «Con chi hai fatto l'affare? Dimmelo subito. Il mio pugnale ha sete della tua vita, maiale schifoso!» «Con un essere molto potente, che non è più umano. È diventato grande e superumano, e abita nell'ombra. Un servitore del mio dio, un devoto seguace di Ne...» Gord colpì con violenza la tempia dell'uomo, prima che finisse di pronunciare quel nome. Non era proprio il caso che quell'essere potente sentisse il suo nome e accorresse in aiuto. Dopo tutto si trovavano nel suo tempio, e quello era il suo sacerdote superiore. L'uomo si agitò lamentandosi, e Gord parlò ancora. «Bada a quello che dici! Non sono così stupido da permetterti di agitare la tua stupida lingua per nulla. Provaci ancora e la fermerò per sempre. Ora, dimmelo in fretta: a chi hai dato le pietre che sto cercando?» «Al Primus delle ombre diaboliche, il Cadavere dei Cadaveri: è con lui che è avvenuto lo scambio.» «Perché mai desiderava liberarsi di... quell'altra pietra, se vale di più dei nove zaffiri? Un essere potente e astuto come questo Primus si sarebbe senz'altro accorto che faceva un cattivo affare.» «Voleva toglierle da... beh, diciamo così... il fatto che le avessi io disturbava il suo senso di proprietà» il prete si affrettò a rispondere. Stava riprendendo forze e coraggio. «Ora le pietre le ha lui?» chiese Gord. Alla risposta affermativa del sacerdote, il giovane avventuriero chiese ancora: «E dov'è questo Cadavere che tu chiami Primus?» «Nel Reame dell'Ombra, ladro, oltre la tua portata!» «E va bene» disse Gord con calma. Poi colpì ancora una volta la testa pelata di quell'uomo. «Ora ti farai una bella dormita e mi darai il tempo di lasciare questo posto». Era preoccupato per la notizia che il sacerdote gli aveva comunicato, ma era abituato alle delusioni. E poi un giorno o l'altro avrebbe trovato il modo di penetrare in quel Reame dell'Ombra, e avrebbe
scovato il Cadavere e il suo tesoro. Ora doveva uscire di là. Voleva essere lontano quando il sacerdote avesse scoperto che il tesoro era stato saccheggiato e che mancava il grande opale nero. Gord non aveva fatto i conti con l'intrico di passaggi segreti che correvano sotto il tempio. Ci mise molto più tempo di quanto avesse previsto per rintracciare la strada giusta e tornare in superficie. In quel momento il sacerdote aveva ripreso i sensi, si era liberato e aveva dato l'allarme. Gord era ormai vicino al muro di cinta, quando fu visto. Una pioggia di frecce cominciò a piovergli addosso, sibilando come api infastidite. Una lo colpì al braccio sinistro, e il dolore lo fece barcollare. Imprecando, il giovane cercò di spezzare la coda della freccia, e di estrarre la punta spingendola nella direzione in cui era penetrata. Quell'operazione gli portò via parecchi secondi, e ciò fu la sua rovina. Il sacerdote era ormai uscito dal tempio, e stava guardando il ragazzo con i suoi diabolici occhi neri. Cominciò ad intonare una litania cantilenante, invocando la sua malvagia divinità perché infliggesse la morte più terribile e dolorosa all'uomo che aveva osato violare quel luogo sacro. Il sacerdote aveva sollevato le braccia, e con le dita della mano destra aveva formato il simbolo del suo dio: quando le sue labbra pronunciarono l'invocazione, dalla mano partì un raggio di luce rossa che colpì Gord in piena schiena, inondandogli la testa e il torace di una cupa luminescenza scarlatta. Il dolore era insopportabile. Gord cercò di urlare, ma aveva la gola paralizzata. Poi anche il suo cuore si fermò e il giovane scivolò in una completa oscurità. L'ultima cosa di cui ebbe coscienza fu il tentativo di scagliare l'opale oltre il muro, per non farlo tornare nelle mani del sacerdote. Ma si era mosso troppo tardi: riuscì a prendere la grossa gemma in mano, ma in quello stesso istante fu colpito dal raggio mortale e le sue braccia smisero di rispondere ai suoi comandi. Poi non sentì più nulla. Il suo corpo era avvolto in un alone di luce, che quasi accecava il sacerdote e gli altri che assistevano alla scena. Gord crollò a terra, esanime. Il gran sacerdote di Nerull scosse il capo e urlò: «Correte, cani! Portatemi quel corpo! Non ho ancora finito!» Una decina di sacerdoti di grado inferiore, assieme a qualche guardia, si affrettò ad obbedire. Il tenue bagliore delle torce rischiarava appena il cortile; d'altra parte qualsiasi altro tipo di illuminazione avrebbe segnalato che nella grande casa di Nerull stava succedendo qualcosa di molto serio, e ciò non doveva accadere. Alcune guardie che erano accorse nel punto in cui
Gord era caduto tornarono lentamente indietro, verso il loro padrone. «Muovetevi, vi dico!» Non ci fu una risposta immediata, ma alla fine uno degli uomini si fece timidamente avanti dicendo: «Io... non abbiamo trovato nessun corpo, padrone. C'è solo una traccia di bruciato nel punto in cui quel porco è caduto. Forse con i vostri poteri l'avete disintegrato.» Il sacerdote aggrottò le ciglia e si rabbuiò in volto. «È impossibile! Tornate là! Cercate ancora, continuate a cercare per tutta la notte, se necessario, e non fatevi vedere senza quel cadavere!» E così dicendo si ritirò nei meandri del tempio. Tuttavia le ricerche risultarono infruttuose, e furono abbandonate un'ora dopo, all'alba. Chissà, pensò il sacerdote, forse la maledizione aveva veramente incenerito quel giovane ladro. Quale altra spiegazione ci poteva essere? Capitolo 18 «Svegliati! Non sei morto!» «Sì che sono morto! Lasciami in pace!» Ma la voce senza tono non si preoccupò della contraddizione. «Non sei morto. Alzati!» «No!» Quella voce cominciava ad infastidirlo, e l'irritazione rinvigoriva la sua resistenza. «Sono morto. Non posso fare altro che restare dove sono!» «Svegliati! Non sei morto!» Era troppo. Adesso Gord gli avrebbe fatto passare la voglia di fare il saccente! Si tirò su di colpo e mise mano alle armi. Una morsa di dolore gli fece mancare i sensi per un istante: aveva il braccio sinistro ferito. Gord vide un bastoncino spuntare dal bicipite. Era una freccia spezzata, ancora conficcata nel braccio, che gli causava quell'intenso dolore. Cosa diavolo era successo? «Vai nella Sala dell'Ombra, e...» la voce senza tono si bloccò a mezza frase. Gord sollevò lo sguardo. Il suono proveniva da una cosa informe, una specie di grumo di ombre che si muovevano là intorno. Mentre guardava quello strano fenomeno, sollevò inavvertitamente il braccio destro, portandolo verso quello sinistro, ferito. Questo movimento lasciò intravedere l'oggetto che teneva chiuso in pugno, e a quella vista la creatura fatta di ombre si ritrasse, quasi impaurita.
«Fuoco dell'Ombra!» disse, riuscendo in qualche maniera a far sentire una nota di timore. Gord guardò in basso, chiedendosi cosa potesse aver spaventato quello strano essere. Vide un luccichio nella sua mano, un gioco di luci nere con dei riflessi verdi, ravvivato da quella che sembrava essere una fiamma che continuava a sparire e a riapparire nel cuore di una grossa gemma. Che razza di oggetto era quello? «Questo?» chiese Gord, porgendo la sfera a quell'essere immateriale. La creatura fece un balzo all'indietro, come se fosse stata tirata da una corda. Volò per una decina di metri prima di fermarsi tremando. «No!» urlò. «Tienila lontana da me, e non dirò niente al padrone» implorò ad alta voce. Gord si sedette sull'erba scura: si sentiva stanco e debole. Quella cosa nera restava distante, ma Gord voleva qualche spiegazione. «Di che cosa stai parlando? Chi è il padrone? Dove siamo? Perché mi dici che non sono morto?» Mentre rivolgeva tutte quelle domande alla creatura, Gord aveva infilato il grosso opale nero nella sacca. L'essere se n'era accorto e si era avvicinato per rispondere. «Sto parlando della tua semi-esistenza, ex uomo. Il padrone di cui parlo è il signore di questo luogo, il Reame dell'Ombra, in cui io e te dovremo abitare per il resto dell'eternità. Credevi di essere morto... sono riuscito a leggere i tuoi pensieri. Non lo sei, ovviamente. Ti trovi nel Reame dell'Ombra: sei mezzo vivo e mezzo morto, ma né vivo né morto.» L'assenza di tono, la voce piatta e inespressiva di quella creatura fecero digrignare i denti a Gord. Quell'essere non gli piaceva, qualunque cosa fosse. «Cosa sei? Dov'è questo tuo padrone?» chiese, sottolineando la seconda domanda per far capire che il cosiddetto padrone non era affatto padrone anche di Gord. «Io sono importante. Non sai riconoscere un adombrato quando ne vedi uno?» «Non rispondere alle mie domande con altre domande! E fai attenzione a quello che dici! Ti ho chiesto dove si trova il tuo padrone!» La creatura sembrò respirare a fondo, e la massa di ombre diventò più grossa e gonfia. «La Sua Ombrosa Maestà, il Signore del Buio, è il mio padrone - e anche il tuo, ora che sei stato consegnato al Reame dell'Ombra. Sua Oscurità è molto vicino a noi in questo istante, perché il Palazzo del Chiaroscuro si sta preparando alla Grande Celebrazione.» Colui che si era definito un adombrato aveva continuato ad avvicinarsi,
mentre parlava. La sua voce senza tono non tradiva alcuna emozione, ma gli atteggiamenti che quell'essere assumeva, se così si può dire di una creatura del genere, sembravano indicare una certa ostilità. Gord li interpretò come un desiderio di partire all'attacco, e reagì di conseguenza. Mentre l'adombrato si avvicinava il giovane avventuriero raccolse le forze e balzò in piedi. Contemporaneamente sfoderò la spada e l'acciaio argentato balenò a pochi centimetri dalla creatura. Con un rumore simile a quello del vento, quando solleva delle foglie morte, l'adombrato si scansò dalla punta minacciosa; dal suo corpo partirono inarcandosi piccoli raggi di luce argentata, come fulmini da una piccola nuvola nell'infuriare di una tempesta. «E allora, ometto» sbottò, con una certa emozione nella voce. «Credi di potermi minacciare con un'arma mortale?» Senza smettere di produrre quello strano suono crepitante, la voce dapprima si allontanò, poi tornò verso Gord, quasi a volerlo avvolgere. La spada sembrò reagire di sua volontà. Un istante era qua, quello successivo era a pochi centimetri dall'adombrato che continuava ad avanzare. Il metallo sembrava luccicare, poi quasi sciogliersi al contatto con l'essere informe. Gord sentì un'ondata di energia fluirgli nel braccio facendolo rabbrividire, quando la lama toccò la creatura. Ci fu una folata, come una raffica di vento incanalata in un camino, poi un debole lamento, appena riconoscibile. La spada tornò ad essere normale, e la creatura era scomparsa. «Benissimo» mormorò Gord, tornando a preoccuparsi del suo braccio ferito. Togliere quella freccia sarebbe stato piuttosto doloroso, ma Gord sapeva che ce l'avrebbe fatta e strinse i denti per sopportare meglio il dolore. Quando finalmente ci riuscì, dalla ferita uscì un po' di sangue scuro. Gord stracciò una striscia di stoffa pulita dalla camicia e se la legò stretta attorno al bicipite. Non era proprio il massimo, e la stoffa si era subito inzuppata di sangue, ma per il momento poteva bastare. Aveva subito ferite ben peggiori in passato, ed era sempre sopravvissuto per raccontarle. Mentre riposava per riprendere un po' le forze, Gord frugò nella sacca per cercare una piccola fiasca di liquore che era sicuro di aver preso, e per vedere di cos'altro poteva disporre. Forse qualche oggetto gli avrebbe rinfrescato la memoria. Infatti il giovane non si ricordava assolutamente di come fosse arrivato in quel... quel Reame dell'Ombra, come l'adombrato, che ora era svanito e probabilmente morto, aveva chiamato quel posto. Di certo non era casa sua. Gord si diede un'occhiata in giro e non vide
nulla che gli potesse ricordare neanche lontanamente Tarre, il suo pianeta, e meno che meno Falcovia. Il cielo era una specie di tenda del colore del carbone. C'erano delle macchie qua e là, punti neri luccicanti, e una sfera di colore metallico emanava una debole luce artificiale che illuminava quello strano mondo. Tutto, come Gord aveva notato, era nero e grigio. Non sembrava esserci vegetazione, né erba né alberi, né cespugli né fiori; i colori erano spenti, alcuni opalescenti, altri traslucidi. Per di più il paesaggio sembrava formato da una serie di ombre che danzavano fluttuando senza posa. «È proprio un regno di ombre!» mormorò Gord fra sé esaminando gli oggetti che possedeva, nella speranza di trovare un indizio. Il grosso opale che la creatura aveva chiamato... Fuoco dell'Ombra? Era un nome davvero azzeccato... ma non gli diceva nulla. E nulla gli diceva il mucchietto di gioielli tempestati di gemme preziose che si era trovato addosso. Non c'era nulla che gli fosse d'aiuto; ma alla fine trovò la piccola bottiglia d'argento e bevve una lunga sorsata, rabbrividendo alla sensazione di bruciore che il liquore gli procurava sulla lingua, nella gola, e nello stomaco. Ora che si sentiva meglio, si fece coraggio e versò il resto del liquore sullo straccio avvolto attorno alla ferita. Faceva un male cane, ma almeno l'alcool l'avrebbe disinfettata superficialmente. Bevve l'ultimo goccio, poi gettò la bottiglia vuota fra gli altri oggetti che aveva con sé. Ora bisognava pensare ad altro. Sapeva chi era - quello non era un problema. Ma dov'era, e perché, e cosa fosse successo di recente nella sua vita... erano domande che continuavano a restare senza risposta. Aveva bisogno di un luogo dove rinfrescarsi e riposare un po'. Si alzò in piedi ed esaminò con cura il terreno circostante, lasciando che il suo sguardo vagasse lontano, scrutando ogni particolare, finché ebbe ispezionato tutta la zona ombrosa che lo circondava. Ora che si era abituato a quel luogo, Gord riuscì a individuare anche delle tracce di colore. C'erano dei tocchi di viola, qualche accenno di marrone, di blu scuro, e uno strano tono di grigioverde, ma molto scuro e intenso. I suoi occhi colsero nei grigi e nei neri dei riflessi perlati, opalescenti, brillanti e iridescenti, che non esistevano altrove. Il nero non era semplicemente nero. Quella parola poteva descrivere almeno una dozzina di colori dalle differenze così sottili che un occhio normale poteva distinguerle solo a costo di una notevole concentrazione. I grigi erano almeno due volte più variegati, senza tener conto delle molte tonalità metalliche e cristalline. «Si muove!» esclamò Gord ad alta voce. Esaminando quello strano mondo si era concentrato sui particolari più minuti, e per qualche tempo
non aveva badato al resto del paesaggio. Improvvisamente si rese conto che una piccola collina, che prima gli stava di fronte, ora si trovava alle sue spalle, a destra: Gord capì che quello che sembrava un gioco di colori nell'ombra era in realtà molto di più. Il terreno scorreva come un grande fiume di ombre. «Eppure il luogo dove mi trovo non si muove!» disse fra sé, continuando a parlare ad alta voce per darsi un po' di sicurezza. «Vediamo cosa succede se mi sposto» disse tranquillamente, e si incamminò tra l'erba alta e nera verso le ombre che circondavano la collina. Salì fino in cima e si sedette, osservando il paesaggio. La collinetta divenne un'isola ferma, mentre tutto il resto continuava a fluire fuori dal campo visivo di Gord. Ben presto il giovane si stancò dell'esperimento e decise che il luogo dove si trovava andava benissimo per riposare un pochino. Si rannicchiò sotto un cespuglio dalle foglie nere e lucide, che lo nascondevano da occhi indiscreti, e nonostante la stranezza della situazione e i pericoli sconosciuti che potevano annidarsi là intorno scivolò presto in uno stato di dolce torpore. Fu un sussurro a interrompere il suo riposo. Aveva sempre un sonno molto leggero, e in quel luogo così inconsueto il giovane si era addormentato ancora più leggermente del solito. Quel suono lo disturbò, mettendo in allarme i suoi sensi. Senza muoversi aprì appena gli occhi e sbirciò tra le lunghe foglie del cespuglio che lo nascondeva. Ciò che vide bastò a fargli afferrare di scatto la spada e balzare in piedi, pronto a difendere la vita: era completamente circondato da un gruppetto di creature, gli esseri più eterogenei che mai avesse visto riuniti in un solo posto. Riconobbe immediatamente alcuni esseri fatti di ombre, che identificò come adombrati. Erano mescolati in una folla di altre creature ombrose: esseri dagli occhi debolmente luccicanti, che assomigliavano a serpi, uomini, cani, tassi, falene, gufi, alci e una serie infinita di altri esseri poco identificabili. Tutti erano rivolti verso la collinetta su cui stava Gord e lo fissavano. Gli occhi del giovane si posarono su un enorme leone dalla lunga criniera fatta di ombre inconsistenti, che lo guardava con occhi d'argento senza battere ciglio. «Vattene, amico, e porta via tutti i tuoi compagni» disse Gord al grosso felino. «Non ho alcuna intenzione di farvi del male». Con sua grande sorpresa il giovane vide la mostruosa creatura girargli le spalle e allontanarsi. Anche altre ombre, molto simili nell'aspetto al grosso leone, abbandonarono lo strano circolo. «Sei una nullità!» disse una voce tenebrosa alle spalle di Gord... una vo-
ce troppo vicina! Gord si girò ad affrontare colui che aveva parlato, con la spada sguainata, pronto a colpire. Una forma umana, dai toni cupi e dal corpo inconsistente, si tirò indietro appena il metallo gli si avvicinò. «Anche tu sei una nullità!» replicò Gord. «Non avvicinarti o sarò costretto a spedirti su qualche pianeta ancora più tetro!» La strana assemblea di creature mormorò qualcosa e il tenebroso uomoombra esclamò: «Insolente!» La sua voce era cavernosa e gracchiante. «Non minacciare mai... specialmente qualcuno che può superare i tuoi poteri!» Gli occhi cupi della figura ombrosa scrutarono il volto di Gord; e leggendovi un'espressione di incertezza, la creatura abbozzò un sorriso, mostrando dei denti grigi e lasciando immaginare il resto. «Stai tranquillo, straniero. A differenza degli altri sono venuto per assisterti amichevolmente, e non per cercare di arraffare qualcosa.» Quell'affermazione mise in allarme Gord. «Perché lo fai, uomo dell'ombra?» chiese con molta calma. «Ombra io? No, anche se qui ce ne sono parecchie» rispose il figuro. «Io sono Smirtch, l'Imprimus del Crepuscolo... Questa non ti sembra una ragione sufficiente per il mio comportamento?» «Ombra, fantasma o spirito... che importa?» «Ah, non importa? E tu, sei un nano? O un gigante?» riprese la figura. «Sappi che esistono degli esseri chiamati ombre, spiriti, fantasmi o spettri che sono molto diversi l'uno dall'altro, proprio come i nani e i giganti sono diversi dagli uomini, nel mondo che un tempo era il tuo.» Questa frase suscitò l'interesse di Gord, anche se gli confuse le idee. «A proposito» disse, «da quando mi sono svegliato ho fatto molte domande, ma ho avuto in risposta solo altre domande o indovinelli senza senso. Ora conto su di te, Smirtch-il-Crepuscolo. Puoi restare qui, vicino a me e parlarmi senza timore, ma dovrai concedermi due cose.» «Due? Ti prego di parlare chiaramente, poiché non si possono fare promesse senza conoscere bene i termini dell'affare.» Un po' più sollevato, Gord spiegò le sue condizioni. «Prima di tutto devi giurarmi che non tenterai di farmi del male... e che non costringerai qualcun altro a farmene.» «Va bene, questo lo accetto» rispose subito l'Imprimus. «Come seconda cosa dovrai rispondere onestamente a tutte le mie domande, senza darmi delle indicazioni confuse o devianti.»
Smirtch scosse la testa a quelle parole. «Non correre, straniero. Stai chiedendo molto e non offri nulla in cambio, tranne una promessa di pace. Risponderò con piacere alle tue domande, ma anche tu dovrai rispondere a quelle che ti farò.» «Mi sembra accettabile» disse Gord dopo una breve pausa. «E costoro? Come si comporterà questo campionario di creature dell'ombra?» «Nessuno di loro si tratterrà qui se io ordinerò che se ne vadano» lo rassicurò il figuro. «Questa assemblea non è altro che una normale riunione di abitanti di questo pianeta. Sono tutti curiosi, forse qualcuno potrà sembrarti strano, ma nessuno ha abbastanza potere da metterci in pericolo. Perché non li lasciamo in pace?» Ancora una domanda come risposta! Gord si allontanò di qualche passo e mise mano alla spada per scacciare quel gruppetto di creature. Quelle più vicine si ritrassero quasi svolazzando, senza produrre alcun rumore se non il solito, strano sussurro. Ecco come erano riuscite a circondarlo mentre dormiva: non solo sembravano delle ombre, ma anche si muovevano silenziosamente come ombre. «Sono esseri timidi e debolucci» disse Smirtch. «Hai visto come sono scappati davanti alle tue minacce? Questo prova la mia sincerità. Non costituiscono un pericolo per te in questo momento, anche se possono venir usati a tale scopo... Ma veniamo alla nostra discussione.» «Come vuoi» disse Gord bruscamente. «Come si chiama questo posto?» «È il Reame dell'Ombra» rispose altrettanto bruscamente il figuro. Ma allora, pensò Gord, l'adombrato che aveva incontrato prima gli aveva detto il vero. «Cosa hai fatto da quando sei giunto qui?» continuò Smirtch, ponendogli la prima domanda. Gord aveva notato che da quando si era messo a parlare con Smirtch, le ombre di forma più o meno umana, spiriti folletti, gnomi e altre creature scure e allampanate, si erano avvicinate a loro due. Il giovane ladro aveva conosciuto alcune di queste creature in incontri casuali nel passato, aveva sentito molte storie e visto alcuni disegni di questi umanoidi tenebrosi fatti di ombre rapprese. Facendo finta di non accorgersi dell'intrusione, Gord rispose alla domanda con una certa noncuranza. «Io? Ben poco, temo. Mi sono riposato, ho dato un'occhiata nei dintorni, e poi vi ho incontrato.» Smirtch continuò con un'altra domanda, forse sperando che Gord non ci facesse caso. «Sai che cos'è un adombrato?» «No. Non so molto di quelle creature» rispose educatamente Gord. «Ma
ora, dal momento che non era il tuo turno di fare domande, dovrai rispondere a due delle mie. Primi qual è la natura del Reame dell'Ombra? Secondo, come ma uno come me è arrivato in questo posto?» «È un luogo molto simile ad altri della sua specie» disse Smirtch, contento di poter aggirare la prima domanda. Poi diede una risposta altrettanto vaga al secondo quesito. «Uno come te può giungere nel Reame dell'Ombra in vari modi, compresi alcuni di natura magica; però non posso rispondere con certezza senza conoscere i dettagli di ciò che è accaduto prima del tuo arrivo... che è avvenuto quando?» «Il tempo è molto difficile da calcolare in questo luogo» replicò Gord. Non voleva dare delle risposte dirette, ma a quella domanda non avrebbe veramente saputo dare una risposta precisa. Quanto tempo poteva essere passato? Si fermò per qualche istante prima di proseguire. Controllando con la coda dell'occhio il gruppo di ombre che continuava ad avanzare, Gord continuò: «Ero... addormentato quando sono giunto qui, e più tardi mi sono appisolato di nuovo, per cui potrei essere qui da qualche ora, o da un giorno, o anche di più. Ora dimmi, quale razza governa questo reame?» Smirtch sembrò corrucciarsi un po' a quella domanda. «Noi crepuscoli siamo gli abitanti più potenti, mentre i dragoscuri sono i bestioni più temibili che abitano questo pianeta... cioè, questo luogo» si corresse in fretta, ma Gord aveva sentito. Smirtch continuò subito a parlare, sperando che l'umano dimenticasse quel particolare. «Poi vengono i fantasmi, anche se le nostre forze li oscurano. Quindi le ombre nere, gli scuri e i foschi. Dal momento che gli adombrati non sono altro che delle mostruosità, li lascio fuori dalla gerarchia. Ma sto divagando! Quando ci siamo incontrati mi hai detto che ti eri svegliato da un sonno che ti sembrava la morte... e infatti vedo che hai una ferita al braccio. Cosa ricordi delle circostanze che ti hanno portato a questa situazione?» «Ben poco... quasi nulla» Gord dovette ammettere con tutta sincerità, mentre in un'altra parte del cervello rielaborava le informazioni ricavate dalle parole dell'Imprimus. Quel Reame dell'Ombra era, proprio come aveva sospettato, il Pianeta delle Ombre, un satellite collegato al mondo reale e ai pianeti di Yang e Yin, l'uno positivo e l'altro negativo. Aveva anche delle buone ragioni per credere che quel Smirtch facesse del suo meglio per tenerlo all'oscuro della vera natura e della funzione di quel pianeta. Smirtch aveva detto di essere il crepuscolo principale, e dalla deferenza che le altre ombre gli dimostravano sembrava aver detto la verità. Tuttavia
era chiaro che la creatura desiderava qualcosa da Gord, il che significava che Smirtch non era padrone di molto. Inoltre, le parole con cui aveva descritto gli adombrati facevano capire che c'era una certa inimicizia fra le due razze. E l'inimicizia si crea là dove c'è competizione. Gli adombrati dovevano essere potenti come i crepuscoli, almeno sotto certi aspetti, anche se Gord non aveva ancora ben chiara la scala di potere. Gord pensò che la rivalità tra le due specie era qualcosa che preoccupava parecchio Smirtch; forse la creatura pensava che Gord potesse far pendere il piatto della bilanci,: dalla sua parte. Interessante... ma quali mezzi poteva avere un umano appena arrivato? La spada poteva essere un oggetto di forza, eppure... Deciso ad ascoltare le successive risposte con molta attenzione, Gord pose un'altra domanda. «Chi è il re, o chi sono i re, i sovrani di questo posto?» «C'è qualcuno che ha proclamato un Re dell'Ombra, ma noi crepuscoli non riconosciamo la sua sovranità. Io, in quanto Imprimus, sono degno della sovranità quanto chiunque altro» aggiunse Smirtch, accigliandosi un po' mentre parlava. «Ma questo non ha alcuna importanza in questo momento, poiché tu hai un problema in cui ti posso aiutare Hai detto che non ricordi nulla di ciò che è successo prima del tuo arrivo qui, vero? Forse se esaminiamo con cura gli oggetti che hai con te possiamo scoprire qualche indizio, qualcosa che ti rinfreschi la memoria...» A quelle parole, Gord sorrise. «Sì, ho detto di non ricordare gli istanti precedenti al mio arrivo nel Pianeta dell'Ombra. Ma ora dimmi: i crepuscoli sono in guerra contro il Re dell'Ombra?» «Non hai risposto alla mia domanda!» disse Smirtch esprimendo tutta la sua irritazione. «Ma sì, caro Smirtch, certo che ho risposto. Mi ha chiesto se avevo detto una certa cosa: questa era la tu domanda. Ho confermato di averla detta: questa era la mi risposta. Ora, ti prego, potresti rispondermi?» «No. Non siamo in guerra.» Queste parole rivelarono al giovane avventuriero molto più di quanto il crepuscolo potesse sospettare. Il tono dell'ultima parola lasciava chiaramente capire che c'era per lo meno una rivalità fra le due fazioni. Il fatto che non fosse scoppiata una vera guerra significava che i crepuscoli non erano così forti da affrontare il Re dell'Ombra, anche se Smirtch si era dichiarato altrettanto potente; ma proprio in quell'istante Smirtch riprese a parlare, costringendo Gord a concentrarsi sulle sue parole. «Cos'hai portato qui?»
«Oh, non molto. Ho tutto addosso» rispose Gord distrattamente. «E dov'è la città o il castello in cui abita questo Re dell'Ombra?» «Beh, qui localizzare qualcosa è sempre un problema» rispose Smirtch; e così dicendo fece con la mano un piccolo gesto, sicuro che Gord non lo potesse notare. «Basta essere nel posto giusto, e il palazzo verrà da te. Adesso puoi essere così gentile da mostrarmi ciò che possiedi?» «No di certo» rispose Gord prontamente. «Come descriveresti questo cosiddetto 'posto giusto'?» «No, no, devi rispondere» Smirtch apostrofò il giovane umano. «Hai con te qualche oggettino divertente?» «Il divertimento è una questione di gusti e di punti di vista» rispose Gord, mentre un gruppetto di ombre dalle fattezze umane si avvicinava alle sue spalle, seguito da alcuni scuri e foschi. Gord decise che il gioco era durato abbastanza. Era venuto il momento di provare la sua teoria. Anche se si sbagliava, la sorte che lo aspettava non sarebbe stata peggiore di quella che il crepuscolo aveva intenzione di riservargli. «Comunque» disse Gord, infilando distrattamente il braccio ferito nella sacca, «ho qui qualcosa che forse ti piacerà», e sorrise. Le dita della mano si chiusero attorno all'opale, e Gord, con una mossa improvvisa, estrasse la pietra che l'adombrato aveva chiamato Fuoco dell'Ombra alzandola proprio davanti al crepuscolo. «Rimettila nella sacca!» grugnì Smirtch con un sussurro lamentoso, girando le spalle a Gord mentre pronunciavi, quelle parole. Ignorando la creatura per qualche momento, Gord girò su se stesso, tenendo la pietra all'altezza della spalla e tracciando nell'aria un cerchio luccicante con la spada che teneva nell'altra mano. Sulla lama danzarono riflessi di verde e di scarlatto, colori che Gord non aveva mai visto in quel luogo. Non furono solo quei colori a far gemere le creature minacciose che stavano per assalirlo alle spalle. Quando il giovane si girò la forza del Fuoco dell'Ombra le fece indietreggiare, così come una raffica di vento freddo spazza via le foglie secche dell'autunno. Quando la lama toccava le ombre si scatenavano delle scintille nere e marroni; le ombre si trasformavano per un istante in uno sfolgorio turbinante, per poi scomparire del tutto, lasciando solo un debole suono, come il ronzio di un insetto. Dopo aver fatto sparire a questo modo quattro di quelle ombre, Gord si girò ancora e affrontò Smirtch. «Cosa c'è che non va? Non ti piacciono gli spettacoli pirotecnici?»
«Me la pagherai per questo!» urlò la creatura in tono minaccioso, dopo essersi portata a distanza di sicurezza dalla lama sfolgorante. Gord avanzò verso di lui, e l'Imprimus si allontanò in fretta, sussurrando suoni misteriosi mentre spariva rapidamente. Anche le altre creature si volsero in fuga. Le falene e gli uccelli volarono via, mentre gli altri animali strisciarono o corsero al riparo. In pochi istanti Gord fu di nuovo solo. Capitolo 19 «Niente male!» disse Gord fra sé quando tutte le creature se ne furono andate. Per mettere alla prova il suo nuovo potere, mise l'opale a contatto con l'impugnatura della spada. La gemma divenne più luminosa, mentre i suoi riflessi colorati diventavano più vivaci. Poi da quei bagliori si formarono due aloni di luce: uno era corallino, venato di vivide lingue scarlatte; l'altro era olivastro, screziato di archi smeraldini. Quella trasformazione non durò che un istante, e Gord ebbe appena il tempo di notare il cambiamento prima che i colori si spegnessero; ma ecco che dalla lama della spada partirono dei colpi violenti, come dei lampi di energia diretti verso una specie di albero contro cui la spada era puntata. Gord lanciò un grido di meraviglia vedendo cos'era successo, e allontanò in fretta l'opale dalla spada. Dove prima c'era lo strano albero adesso non c'era più nulla, e nel terreno al posto delle radici si apriva una voragine, un profondo pozzo nero da cui sbucavano dei tenui fili argentati. «Non c'è da meravigliarsi se Smirtch e i suoi scagnozzi mi stavano intorno» mormorò Gord mentre riponeva con cura la spada nel fodero. «Questa gemma è più preziosa di quanto potessi immaginare, almeno in questo pianeta di ombre!» Dopo aver messo al sicuro nella sacca il potente opale nero, Gord si mise alla ricerca del Palazzo del Chiaroscuro, residenza del Re dell'Ombra, sicuro di poter fronteggiare chiunque avesse incontrato durante il cammino. La sua spada magica era molto più potente qui che altrove, e assieme al Fuoco dell'Ombra diventava qualcosa di veramente sensazionale. «Forse questo pianeta ha bisogno di un nuovo governatore» pensò mentre camminava. «No, come non detto... Questo grigiore e questa oscurità non fanno per me. Quando riuscirò a scoprire come sono arrivato fin qui, e come fare ad andarmene, pretenderò solamente un po' di denaro come regalo d'addio!» Poi cercò di fischiettare un'arietta allegra, ma tutto quello
che gli uscì di bocca fu una canzone piuttosto triste e monotona. Dopo un tempo indeterminato, che gli sembrò qualche giorno, Gord aveva percorso a piedi molte miglia. Durante il viaggio era sempre stato solo: non sapeva se fosse un caso, o se gli eventuali abitanti lo evitassero di proposito, ma la cosa non gli interessava gran che. Durante il cammino il giovane aveva avuto modo di riflettere a lungo. Gli venne in mente che la sua carne gli era sembrata grigia, quando l'adombrato l'aveva svegliato. Si ricordava di aver pensato che fosse la luce grigiastra a far apparire tale anche la sua pelle. Ma durante l'esperimento con la gemma la carnagione di Gord era diventata argentata, e lui si sentiva più vitale; invece adesso era tornato di nuovo grigio, e gli sembrava che il suo corpo fosse sprofondato in un lungo letargo. Se l'opale entrava in contatto con la sua pelle il colorito tornava a farsi più brillante, così ogni tanto Gord se la sfregava addosso. D'accordo, era finito su questo pianeta, ma non aveva nessuna intenzione di lasciarsi trasformare in un'ombra se poteva evitarlo. Sperava che la pietra potesse impedire, o per lo meno ritardare tale metamorfosi. Però c'era un altro problema: quando era argentato, l'acqua e il cibo non gli servivano per placare la sete e la fame. Quando invece era più simile alla sostanza del pianeta, le acque di quei fiumi neri diventavano come più consistenti; e se ne inghiottiva qualche sorsata riusciva a rinfrescare la gola e a sciacquarsi il viso. Lo stesso accadeva per la frutta che cresceva su quegli strani alberi: non gli dava nessun nutrimento, se non diventava anche lui un'ombra. Gord scelse una via di mezzo. In questo modo era quasi sempre assetato, il suo stomaco non era mai pieno e il suo passo restava piuttosto malfermo, ma almeno non rischiava di perdere la sua identità, di diventare per sempre un'ombra. Un'altra cosa che notò durante il viaggio attirò il suo interesse. Il movimento del pianeta sembrava avere due direzioni: una parallela allo scorrimento del terreno, l'altra perpendicolare. La prima era facile da verificare ed osservare. Se ci si fermava in un dato punto, si aveva la netta sensazione che l'intero pianeta scivolasse. La seconda direzione era più che altro un'ipotesi, ma piuttosto logica. Il paesaggio si allontanava sempre più se si procedeva ad angolo retto rispetto alla prima corrente. Se si percorreva un tratto di cammino perpendicolarmente al flusso, il terreno di ombre si allontanava sempre più velocemente, in ogni direzione. Pertanto sembrava ci fossero veramente delle correnti contrarie, per così dire, oltre al flusso principale. Gord era certo che se fosse tornato indietro
per un bel tratto, sarebbe arrivato in un punto in cui il terreno si muoveva più lentamente; mentre continuando nella stessa direzione sarebbe arrivato nella zona per così dire più veloce. Questo significava che il Reame dell'Ombra aveva solo una superficie e solo un bordo. Ma quanto era vasta questa superficie? Quanto era lungo il margine? In fin dei conti Gord non aveva molta voglia di rompersi la testa con questi interrogativi. Decise che pensieri del genere lo avrebbero sicuramente scoraggiato. Dopo un po' il movimento del terreno rallentò. Non si poteva calcolare quanto tempo fosse passato, visto che il tempo stesso era una cosa piuttosto relativa e mutevole. Gord individuò un luogo piuttosto piacevole: una collina punteggiata di cespugli carichi di bacche, cinta da un laghetto che lambiva i tre lati dell'altura. Confidando nel fatto che la sua sola presenza sarebbe bastata a far fermare quella pozza d'acqua, Gord si sedette a riposare. Invece di attraversare tutta la pianura a piedi, avrebbe aspettato che la terra si avvicinasse a lui. Se ne stava lì seduto da un tempo interminabile, quando qualcosa cominciò a preoccuparlo. Un angolo della sua mente cominciò a mandare segnali d'allarme alle terminazioni nervose, ma lui era così intento a pensare ad altro che si accorse appena di quegli avvertimenti. Cambiò posizione, e le sue gambe cominciarono a tremare. Questa reazione lo infastidì a tal punto che costrinse il suo corpo all'immobilità più assoluta. Seduto, immobile come una roccia, cercò di capire cosa avesse causato quell'improvviso senso di disagio. Era come quando si sente un rumore inaspettato, e si reagisce con un'ondata di stimoli nervosi. Troppo tardi... «Saluti, uomo!» una voce da baritono tuonò alle sue spalle, e alle narici gli giunse una gelida folata di alito puzzolente. Qualsiasi altra persona, in quella situazione, sarebbe morta dallo spavento, ma non Gord. Appena udito il suono di quelle parole rotolò via con una mossa improvvisa, che in una frazione di secondo lo portò fuori dalla portata di un eventuale assalto. Quel saluto fu accompagnato da un forte schiocco, come se dei grossi denti si fossero chiusi di colpo. Con un salto Gord si portò di lato e sfoderò le armi. Davanti ai suoi occhi c'era una figura fatta di ombre, dall'aspetto di un lungo verme. La grossa testa della creatura era però munita di denti che avevano tutta l'aria di essere piuttosto consistenti, e i suoi occhi balenavano di una luce opalescente. Il mostro agitava il muso in direzione della sua vittima predestinata. «I miei più sinceri omaggi, verme!» cercò di rispondere Gord. Poi si
mosse di nuovo, appena in tempo: dalla bocca della mostruosa creatura uscì un flusso di oscurità, che andò a coprire la zona in cui Gord si trovava solo un istante prima. La vegetazione grigiastra si illuminò di fiamme senza colore e sparì al contatto con quella tetra spruzzata di oscurità. Il dragone d'ombra sibilò rabbioso quando si accorse che la sua agile vittima non era stata neppure toccata da quel flusso malefico. Ma non importava, pensò la creatura, dal momento che esistevano molti altri metodi per catturare gli umani. Quel verme aveva in serbo delle armi incredibili, e in quel momento gli sembrò opportuno ricorrere ad un incantesimo, visto che quell'uomo cercava di colpirlo alle spalle con la sua debole spada. «Aaaagghh!» Un urlo di dolore gli uscì dalla bocca fetida, quando la lama argentata di Gord penetrò fra le scaglie della schiena infilandosi profondamente nella carne. Quell'uomo l'avrebbe pagata cara! Il mostro aveva deciso di conservare il suo alito nero per dopo, e cominciò a sibilare dei suoni che avrebbero creato la magia dei colori intrecciati: qui, sul pianeta dell'ombra, era un'arma che non poteva fallire! Mentre quell'ometto insignificante avrebbe ammirato pieno di stupore le ondate di colori fluttuanti, lui, Vishwhoolsh, avrebbe trasformato l'avversario in gustosi bocconcini che in seguito avrebbe divorato con piacere. Ecco che apparvero i primi flutti di colore, i quali cominciarono subito a intrecciarsi attorno a quello stupido umano! Vishwhoolsh era rapito in un'espressione estatica, e riuscì appena a scuotersi per completare la sua opera, distogliendo lo sguardo dalla sua preda per un paio di secondi. «Fai bene a vivacizzare questo mondo così tetro» sghignazzò Gord mentre la grossa testa del dragone si girava per venirgli incontro. Il mostro era disorientato: l'arcobaleno di colori aveva formato una specie di otto attorno alla spada del giovane ladro, ma adesso i colori si stavano trasformando per diventare un duetto di grigio muschiato e di magenta. La spada aveva annullato l'effetto della magia, ma il peggio doveva ancora venire. Lo sguardo guizzante del verme cadde ben presto su qualcosa di ancor più sorprendente: Gord teneva in mano il Fuoco dell'Ombra e lo stava appoggiando all'impugnatura della spada. La fiamma che serpeggiava all'interno della gemma sembrò pulsare, e muoversi al ritmo della danza di colori creata dalla magia del mostro. «Risparmiami!» sibilò la creatura, mentre la banda bicolore si trasformava improvvisamente in una lingua infuocata che gli si attorcigliava attorno al collo. «E perché mai?» chiese Gord. «Tu non l'avresti fatto al mio posto!»
«Possiedo un bel gruzzolo. Risparmiami la vita, potentissimo umano, e per ricompensarti ti consegnerò tutto il mio tesoro!» La creatura sibilò la sua preghiera con una voce che suonava piuttosto diabolica, nonostante il tentativo di sembrare piacevole e promettente. Con un solo, piccolo movimento della spada, Gord fece in modo che la striscia colorata si stringesse più forte, costringendo il mostro a inghiottire l'ondata di alito puzzolente che stava per vomitargli addosso. «Ti do una garanzia» disse Gord con una strana smorfia sul volto. «La garanzia di una morte veloce!» Mentre pronunciava queste parole il giovane avventuriero sollevò la lama della spada, puntandola direttamente contro il verme. Il verde muschiato si trasformò subito in una brillante tonalità smeraldina, e il magenta in rosso fiammante. Il mostro si paralizzò e si sollevò dal suolo, teso come se un gigante gli avesse afferrato la testa e la coda e le stesse tirando. I due nuovi colori penetrarono nel corpo del mostro infondendogli una lucente luminosità, che però subito si affievolì. Mentre i colori svanivano, anche il mostro scompariva. «E non mi ha neanche detto il suo nome!» esclamò Gord con un tono di sarcastica ironia. Sul terreno, lì vicino, era rimasta una grossa scaglia metallica. Doveva essersi staccata dalla schiena del mostro quando Gord l'aveva colpito con la spada. Ci fece due buchi, cosa che risultò piuttosto difficile benché usasse il pugnale magico, e ci fece passare una cinghia. Quel pezzo di armatura era largo il doppio del palmo della sua mano, e quasi altrettanto lungo. Gord se lo legò attorno al collo, come una gorgiera, per conservarlo come ricordo del suo incontro con il mostro. Poi tornò a sedersi e ricominciò ad aspettare. Più tardi il giovane fu scosso dai suoi pensieri da qualcosa di nuovo. Questa volta non sentì nessun avvertimento, e non capì che cosa lo avesse distolto dal torpore dell'attesa. Poi tutto fu chiaro: della cupa vegetazione ombrosa era improvvisamente apparsa vicino a lui, da entrambi i lati. Era una specie di orto, o di frutteto, che serviva a nutrire animali e gente d'ombra... Senza muovere un muscolo era giunto vicino a una zona abitata! Quel villaggio sembrava proprio trapiantato là dal pianeta Tarre, anzi, addirittura dalle vicinanze di Falcovia, se non fosse stato per le ombre scure che lo avvolgevano dandogli un'apparenza inconsistente. Gord pensò che se avesse assunto quella luminescenza argentata che gli dava l'opale, avrebbe potuto attraversare le mura di mattoni e di pietre di ombra come se
fossero state ragnatele. Ma non lo fece. Decise di restare così com'era per assomigliare il più possibile agli abitanti di quel pianeta, e si incamminò verso il villaggio, ben sapendo che la collina su cui si era fermato ad aspettare sarebbe sparita in lontananza appena si fosse mosso. «Ehi, straniero! Cosa vai cercando a Dunswych?» La domanda gli era stata posta da uno strano tipo, molto grosso e armato di un arco. Indossava qualcosa che Gord avrebbe definito come una giacca di pelle d'ombra, rinforzata con piastre di osso; gli riusciva ancora molto difficile distinguere tutti quegli oggetti fatti di ombre. Dal momento che Gord esitava a rispondere, l'individuo si tolse l'arco di spalla e fischiettando con aria di indifferenza incoccò una freccia nera. «Ehi, non t'arrabbiare!» gridò Gord appena vide quella mossa, e subito alzò le mani. «Sono un viandante, solo e senza cattive intenzioni, in cerca di un posto dove mangiare un boccone, riposare, e magari trovare qualcosa di fresco da bere.» La freccia continuava a restare puntata contro di lui, mentre un'altra mezza dozzina di individui d'ombra si affrettavano a raggiungere il compagno. Erano tutti armati, chi d'ascia, chi di lancia o di frusta, oppure di forconi. Tutte armi molto semplici ma efficaci, utili sia per il lavoro che per la difesa. «Tu non sei un fantasma!» esclamò l'uomo armato di arco in tono di stupita accusa. «Non proprio» sorrise Gord in risposta, «però forse abbiamo altre cose in comune.» La battuta ebbe l'effetto desiderato e tutti si tranquillizzarono. Abbassarono le armi, compreso l'omone con l'arco, il quale vide l'oggetto che ornava il collo di Gord. «Dove hai trovato quella scaglia di drago?» La domanda era piuttosto sospettosa. Gli altri si avvicinarono per vedere di cosa stesse parlando il loro compagno, e quando videro la gorgiera fecero dei mormorii di stupore. «Questa?» chiese Gord toccando distrattamente quella scaglia nera come la pece. «Un generoso dragone, fatto di ombra come tutte le cose di questo pianeta, è stato così gentile da lasciarmela in dono prima che lo spedissi all'altro mondo.» «Tu menti!» lo accusarono tutti ad una voce. Il tono aggressivo di quegli strani esseri fece perdere la pazienza a Gord, e il suo viso si rabbuiò mentre rispondeva con voce rabbiosa: «Mentire? Vedi un po' se mente questa lama!» E contemporaneamente la spada sem-
brò quasi volare nelle sue mani, come per magia. Il gruppetto sollevò le armi, pronto all'attacco, ma la loro mossa era inutile. «Guarda qui, amico» Gord apostrofò l'uomo con l'arco in mano, mostrandogli la lama della spada. Non si era preoccupato di pulire il sangue del dragone, poiché quella lama incantata non sembrava aver bisogno di cure particolari. «Non è forse il sangue di quel mostro?» Il grosso fantasma, come lui stesso si era definito, esaminò con cura la spada, e prese accuratamente alcuni pezzetti di sangue rappreso per analizzarli da vicino. Dopo aver annusato, toccato, e persino assaggiato quelle incrostazioni rossastre, stabilì che si trattava davvero di sangue di dragone. «Straniero, sei il benvenuto a Dunswych!» disse allegramente. «Più a lungo deciderai di restare con noi, meglio sarà» e anche gli altri si unirono a quell'invito. Più tardi, seduto nella taverna del villaggio, Gord seppe qualcosa di più di Dunswych. Quello era uno dei pochissimi villaggi del Pianeta dell'Ombra, tutti abitati da fantasmi. C'erano anche grandi città in rovina, ma solo i crepuscoli e i loro servitori vivevano in quei luoghi desolati. I fantasmi avevano deciso di vivere là e di comportarsi in maniera molto simile agli umani, sposandosi, organizzandosi in piccole fattorie, andando a caccia e a pesca. I crepuscoli invece erano dei parassiti malefici e distruttivi, che depredavano le comunità dei fantasmi. Quando Gord chiese perché il loro capo non li proteggesse dalle scorrerie, tutti difesero il loro sovrano, il Re dell'Ombra. «I crepuscoli sono come dei nobili ribelli» cercò di spiegare il più anziano del villaggio. «Il nostro re non ha forze sufficienti per sottomettere quei predatori... La situazione gli è sfuggita di mano, molto tempo fa. Neppure il mio bisnonno riusciva a ricordare i tempi in cui i Grandi Crepuscoli erano fedeli - anche se una volta mi ha raccontato che quando lui era piccolo i crepuscoli di grado minore erano ancora vassalli del Palazzo del Chiaroscuro.» Il mostro che Gord aveva ucciso, quel dragone d'ombra - Vishwhoolsh, come l'aveva chiamato il fantasma - era un alleato dei crepuscoli. Una delle ragioni per cui in quel territorio c'erano così pochi villaggi era proprio quel drago. Ogni anno sceglieva un luogo da assalire: si stabiliva nella zona, terrorizzava gli abitanti, e cominciava a divorare sistematicamente prima il bestiame e poi le persone. Quando il luogo era ormai deserto, il dragone andava in cerca di altro bottino. Vishwhoolsh era capace di fiutare le sue prede a leghe di distanza. «Anche se il drago è stato sconfitto, i crepuscoli potrebbero reclutare al-
tri scagnozzi» disse il capo del villaggio con una smorfia di disappunto. «Ma saranno tenuti a bada dalle spade magiche e dai maghi del Re dell'Ombra!» Le cose stanno cambiando in meglio, pensò Gord. Quei fantasmi erano abbastanza umani da farlo sentire a suo agio, e poteva rivolgersi a loro come se fossero di carne ed ossa. Forse un tempo appartenevano al suo mondo, o ne avrebbero fatto parte in futuro. «Andrò a cercare il Palazzo del Chiaroscuro» disse. «Credo che io e il vostro re potremo trovare un accordo per un affare che ci darà reciproca soddisfazione!» «Peccato» disse con calma l'uomo che aveva l'arco ancora in mano. «È passato di qua, a non più di un paio di leghe, solo un giorno fa. Ma corre velocemente e si sarà già allontanato di una quindicina di chilometri, o forse più.» «Quando si avvicinerà di nuovo?» «Hmmm... è molto difficile calcolare il tempo da queste parti» disse l'arciere, scuotendo la testa coperta di riccioli grigi. «Credo che passi circa quattro volte ogni cento sonni. Questa volta è arrivato subito prima della Festa del Tramonto, quando i cieli si illuminano e il disco di Mool diventa scuro e grande: giorni di vera baldoria! Devi restare qui a Dunswych per le celebrazioni!» «No, temo che dovrò trovare prima il vostro re.» «Non è il momento giusto, amico» disse uno degli abitanti del villaggio. «Dopo il Tramonto queste terre diventano molto più cupe, ed è quello il momento in cui il Re dell'Ombra comincia i suoi giri. Non è quasi mai a palazzo in questi giorni, e se lui è fuori non sarai accolto come si deve. I crepuscoli sono esseri infidi, lo sai.» «Quando arriva il Tramonto?» la domanda gli sembrava molto stupida, in quel luogo tenebroso. «Può arrivare da un momento all'altro, straniero, in qualsiasi momento! Ci stavamo proprio preparando. Via, mangiamo, beviamo e andiamo a riposare un po'. Qualcuno ci sveglierà al momento giusto.» Gord stava facendo dei rapidi calcoli mentali. C'era ancora una possibilità di farcela. «C'è qualcuno qui che può guidarmi dove ieri si trovava il palazzo del re?» «Certo! Lo farò io volentieri, dopo il Tramonto» disse l'arciere, continuando a tracannare la sua birra scura. «No. Volevo dire adesso, in questo preciso istante! Vorrei esser portato nel punto esatto in cui è stato visto per l'ultima volta il Palazzo del Chiaro-
scuro. Mi puoi accompagnare?» Il grosso fantasma considerò per un attimo la richiesta. «È facile, sono un cacciatore. Se ci sbrighiamo saremo là in un quarto di sonno... anche prima se ce la fai a correre un po'.» Gord e il cacciatore si allontanarono dal villaggio, addentrandosi nel paesaggio nero e grigio della campagna, mentre dietro di loro un coro di voci avvinazzate gli gridava di tornare presto e augurava buona fortuna. Adesso Gord sapeva cosa stava per succedere, e tutto gli sembrava migliore: la faccia dell'astro nel cielo era più chiara, la luce era meno tetra e quei puntini neri che brillavano debolmente, le stelle del Regno dell'Ombra, erano addirittura visibili nell'oscurità del firmamento. Gord era un corridore instancabile, e fu lui a dare il ritmo. Passò circa un'ora e un quarto, secondo la stima di Gord, prima che i due raggiungessero il punto esatto. Aveva calcolato il tempo in base alle pulsazioni cardiache e all'istinto innato che possedeva. Sopra di loro era appesa, immobile, la faccia pallidissima di Mool. «Devo salutarti, straniero» disse l'arciere. «Buona fortuna!» «Grazie, amico fantasma» gli rispose Gord allontanandosi controcorrente. «Spero che Dunswych prosperi in felicita e pace d'ora in poi!» Il fantasma sparì alla vista, e Gord si mise a correre più veloce che poteva nella direzione in cui si era spostato il palazzo. Quando si sentiva mancare il fiato si fermava; si sfregava con l'opale dal cuore di fiamma, e subito si lanciava nella sua corsa sfrenata, lasciandosi alle spalle tanto terreno quanto ne copre il vento gelido che soffia impetuoso dal nord. La terra del Regno dell'Ombra si muoveva, su questo non c'era alcun dubbio. Eppure, se ci si muoveva nel verso della corrente, in un senso o nell'altro, o se addirittura la si attraversava, il movimento sembrava in qualche modo cambiare. Perciò la meta di Gord non si stava in realtà allontanando, per lo meno non così rapidamente come se stesse correndo dalla parte opposta. Gord continuava a correre sotto il disco perennemente illuminato di Mool. Quando sentiva i muscoli troppo stanchi, e gli succedeva molto spesso, usava l'opale per ritrovare il vigore perduto. I suoi passi coprivano metri, e i metri si trasformavano in chilometri. Ad un certo punto si sentì veramente distrutto, tirò fuori per la terza volta il Fuoco dell'Ombra, si concentrò, e si schiacciò la sfera di opale sulla carne. Un pizzicore gli invase le membra, e la pelle cominciò a brillare come se fosse diventata d'argento. Poteva bastare: ancora un secondo e sarebbe scomparso fra le ombre.
Ora si muoveva come l'argento vivo, di cui aveva anche l'aspetto. L'astro nel cielo stava diventando sempre più pallido, quando Gord intravide all'orizzonte grigio una massiccia costruzione. Era un enorme palazzo irto di torri, torrette, guglie e archi rampanti: il Palazzo del Chiaroscuro, la reggia del Re dell'Ombra! Capitolo 20 «Mi chiamo Criniera di Fumo» disse una voce profonda, nella lingua degli umani. Gord, a quel suono, si girò di scatto. Davanti ai suoi occhi, come creato dai vapori, c'era il più grande leone che avesse mai visto. Aveva una criniera foltissima, molto più scura del corpo grigiastro. Vicino alla belva era seduto un altro leone maschio fatto di ombra, con la criniera grigia: a Gord sembrò che fosse una delle creature che si erano radunate intorno a lui quando era arrivato sul pianeta, quello che se n'era andato portando via gli altri suoi simili quando Gord gliel'aveva chiesto. I felini sorridevano: forse avevano intenzione di mettere Gord a suo agio, ma ottennero l'effetto contrario. «Sto andando dal Re dell'Ombra. Non intralciate il mio cammino» provò a dire, ma senza riuscire ad assumere un tono minaccioso. Il più giovane dei due, quello che Gord aveva già visto, scoppiò in una risata nell'udire le parole di Gord. Criniera di Fumo, ancora più grosso del primo, gli diede un colpetto con la zampa, senza fargli male. «Stai a sentire quando parla!» ruggì. Il vecchio maschio si girò ancora una volta verso Gord, dicendo: «Siamo stati informati della tua missione dal nostro signore. È stato lui a ordinarci di attendere il tuo arrivo. Siamo qui per accompagnarti. Saremo i tuoi nuovi attendenti, se non ti dispiace.» Gord restò fermo, osservando attentamente quei due leoni di ombra. Forse i felini avevano un linguaggio particolare per parlare fra di loro, ma come mai questi due si esprimevano nel linguaggio degli uomini? In fondo erano degli animali! Eppure, bestie o no, Criniera di Fumo stava parlando come un uomo, dimostrando che lui e il suo compagno avevano un'intelligenza molto superiore ai felini di Tarre, per esempio. Gord doveva sapere qualcosa di più. «Avete nominato il vostro signore...» azzardò. «Certo, il Signore dei Felini!» lo interruppe quello dalla criniera grigia.
Il leone più anziano sembrò infastidito dal cattivo comportamento del compagno, ma grugnì qualcosa a conferma delle sue parole. Forse era proprio così. Nel Regno dell'Ombra c'erano dei felini, come su Tarre, e non c'era nulla di strano che avessero un loro capo, come accade dovunque. «Come ha fatto il vostro signore a sapere della mia presenza?» chiese Gord. «Il qui presente Respiro Caldo mi ha raccontato che hai mandato via lui e i suoi amici, che si erano raccolti attorno a te a causa della forza che emanavi» rispose Criniera di Fumo. «Io non ci ho fatto molto caso, queste cose vanno al di là della mia comprensione. Ma il Signore dei Felini mi ha chiesto se fosse successo qualcosa di strano da queste parti, e ho dovuto riferirgli quello che Respiro Caldo mi aveva raccontato. Ed eccoci qui, in attesa di tuoi ordini, signore.» Signore? La gemma doveva avere dei poteri veramente notevoli! «Grazie, capobranco... grazie a tutti e due» disse Gord rivolgendosi ai due grossi leoni. «Dal momento che me lo chiede il Signore dei Felini, evidentemente desideroso di ricambiare qualche favore, accetto i vostri servizi. Devo entrare nel Palazzo del Chiaroscuro e ottenere un'udienza del Re dell'Ombra. Mi aiuterete in quest'impresa.» Respiro Caldo si alzò in piedi e si stiracchiò, tendendo le zampe e mostrando le enormi zanne. Oltre ad essere dotati di straordinarie capacità cerebrali, i leoni di ombra sembravano ottimi combattenti, proprio come i loro progenitori, le proto-tigri dalle fauci nere. Anche Criniera di Fumo esibì il suo arsenale di denti in uno sbadiglio prolungato, poi richiuse le fauci con uno schiocco e biascicò: «Il Re dell'Ombra non ama molto i felini.» Se ciò era vero, si chiedeva Gord, perché mai il Signore dei Felini aveva ordinato a quei due di accompagnarlo proprio quando stava per andare dal re? Ma non era quella la domanda che voleva fare: prima doveva arrivare al nocciolo della questione. «Perché il signore di questo pianeta vi è nemico?» «Non vi, ci è nemico» rispose Criniera di Fumo. «Lui vorrebbe che gli abitanti di questo pianeta fossero tutti o suoi amici o suoi nemici. Classificare le creature in queste due categorie sembra dargli una sorta di piacere perverso. Ma noi siamo felini, e ci comportiamo a modo nostro. Anche noi abbiamo un capo, ma lo serviamo e lo onoriamo come meglio possiamo. Se ci sono altri padroni o altri sudditi, che c'importa? Noi stiamo per conto
nostro, andiamo per la nostra strada, facciamo del nostro meglio. Ma questa nostra indipendenza dà fastidio al Re dell'Ombra, perché lui vuole avere il controllo di tutto ciò che accade e trattare tutti come marionette. Invece anche tu sei indipendente, riservato e padrone di te stesso.» «Mi stai dicendo che il Re dell'Ombra è un essere malvagio?» «No» disse il grosso felino, scuotendo la grande testa per enfatizzare la risposta, come avrebbe fatto un essere umano. «Non è un servitore del Male. Non si può dire questo del Re dell'Ombra. Ma la sua prepotenza supera ogni limite accettabile, e per noi felini questo è già troppo. Il re cerca di limitare la libertà degli altri tenendoli sotto controllo, ma ad essere sinceri le cose non sono andate sempre così.» «Saggio capobranco» disse Gord in tono di sincero rispetto, «sono in debito con voi: credo che se mi fossi recato da solo al palazzo del Re dell'Ombra mi sarebbe successo qualcosa di poco piacevole. Invece in compagnia di due come voi, credo che le mie probabilità di ottenere un'udienza aumenteranno molto. Ma il tempo vola e dobbiamo affrettarci. Ho ancora una cosa da chiedervi: avete detto che un tempo il Re dell'Ombra non era così; ma come mai è cambiato?» «Non so dirtelo, signore. I ragionamenti di esseri come lui sono al di là della mia comprensione. Tu sei molto più competente di me. Forse lo stesso Re dell'Ombra ti racconterà tutto, visto che si comporta più francamente con i suoi pari che con esseri di altre specie.» «Io, un suo pari? Non proprio, mio valoroso, non proprio. Tu mi credi molto potente, ma non è così... comunque basta. Ora dobbiamo raggiungere il palazzo, mettiamoci in cammino!» A quelle parole entrambi i leoni sembrarono accennare un sorriso, come sono abituati a fare i felini quando vogliono esprimere un sentimento o un parere. «Staremo al tuo fianco» disse Respiro Caldo in un vigoroso sospiro d'assenso che terminò in un potente ruggito. Anche Criniera di Fumo fece sentire la sua voce leonina: quei due stavano annunciando l'arrivo del loro protetto. Il Palazzo del Chiaroscuro era un edificio molto strano, costruito in parte come una fortezza, in parte come un luogo di piacere. Quando arrivarono nelle vicinanze Gord controllò rapidamente le armi: si sentiva piccolo e insignificante, anche se sapeva di possedere il Fuoco dell'Ombra. Cercò di accantonare quel pensiero e fece cenno ai due grossi felini di procedere. Sbucando da una macchia di fogliame argentato e nero si diresse con aria decisa verso l'entrata principale, seguito dalla sua scorta. L'entrata era co-
stituita da una scalinata con i gradini di ossidiana e marmo grigio, coperta da un soffitto a cupola ornato di bandiere: erano le decorazioni per la Festa del Tramonto che si avvicinava. Mentre si avvicinavano udirono lo squillo argentino delle trombe, frammisto al rullo dei tamburi. I sudditi del Re dell'Ombra rispondevano così al ruggito dei leoni di Gord: poteva essere una sfida o un saluto. «Perché le mura e i merli sono sguarniti di uomini?» chiese Gord sottovoce ai leoni. «Il mio naso mi dice che tutto questo posto è pieno di bipedi e di esseri informi» brontolò Respiro Caldo per tutta risposta. Era ovvio, quello era un modo molto astuto per proteggere un palazzo di ombra: non c'erano sentinelle visibili, ma solo delle guardie nascoste, avvolte tra le nuvole. Erano fatte di ombra e mascherate dalle nuvole. Potevano essere dovunque, in qualsiasi momento. Erano delle illusioni... Certo! Dal momento che aveva capito come stavano le cose, Gord decise di non credere più a quello che gli dicevano gli occhi. Si fermò e guardò verso l'alta facciata del palazzo che si elevava davanti a lui. L'edificio non era così bello come gli era sembrato. Assomigliava più a una roccaforte che a una ricca dimora: era la corte di un guerriero, non il palazzo di un poeta o di un sognatore. I pilastri e le colonne erano in realtà soldati armati, le torrette di pietra erano guardiani simili a grifoni dalle piume nere e dai becchi lucenti, appollaiati in attesa di lanciarsi in picchiata su qualche visitatore indesiderato. Gord cercava di guardarsi attorno senza dar troppo nell'occhio, per cogliere tutti i particolari. «Vedete qualche creatura sui merli? Ci sono dei soldati sul parapetto?» Nessuno dei due felini rispondeva, ma entrambi osservavano in giro con attenzione; tutt'intorno regnava un silenzio innaturale. Il giovane ladro decise di darsi da fare per togliere ogni velo, e scoprire la vera natura del Signore del Regno dell'Ombra e della sua fortezza. «Venite, amici» disse allegramente. «Andiamo a porgere i nostri rispetti al. Re dell'Ombra». E cominciò a salire la scala affiancato dai grandi leoni dalla folta criniera. Una figura ombrosa, che indossava una veste apparentemente inconsistente, ma molto voluminosa, stava appoggiata contro una colonna di marmo venato, che con la sua altezza di più di cinque uomini sosteneva il soffitto concavo della grande anticamera. Quando Gord e i suoi attendenti si avvicinarono alle porte d'argento che si aprivano in fondo alla sala, la figura parlò, ma la sua voce sembrò provenire da una statua di marmo che
formava la parte posteriore della colonna. «C'è un uomo nobile, senza armi né inganni, se si eccettua la sua scorta di leoni!» I leoni volsero lo sguardo verso la statua, convinti che le parole fossero uscite da lì, tale era la capacità ventriloqua del magico maggiordomo che li aveva annunciati. Le ante di metallo si aprirono istantaneamente al suono di quelle parole, scivolando silenziosamente e dolcemente verso una stanza dalle dimensioni apparentemente indefinite. Erano vere stelle quelle che si vedevano? Era il disco di Mool? No, con uno sforzo di concentrazione Gord svelò il mistero. La sala era enorme, d'accordo, il soffitto a cupola era alto più di venti metri, ma in fondo si trattava sempre di una grandiosa sala di un grandioso palazzo, nonostante l'intenzione del Re dell'Ombra di farla apparire diversa agli occhi degli ospiti. «Gli ospiti sono i benvenuti nella stagione del Tramonto» disse dolcemente una debole voce. «Dovranno dire i loro nomi e la loro natura. Ti prego, mio signore, di favorirmi queste preziose informazioni perché le possa annunciare al nostro sovrano.» Gord vide una bellissima donna nera, e dal suo abbigliamento e comportamento dedusse che si trattava del fantasma di una donna di corte. «Sono molto onorato, mia signora. Puoi riferire che Gord, Alto Cittadino della Città di Falcovia del pianeta Tarre, è venuto a porgere i suoi omaggi e i suoi rispetti al Re dell'Ombra» le disse, cercando di non osservarla con aria troppo indiscreta mentre cercava di indovinare la sua vera natura. «Come desideri, onorabile gentiluomo» rispose la splendida donna, con un tono di cortese adulazione appropriato alla carica annunciata da Gord. «Ma non sei forse troppo modesto?» aggiunse, sbattendo le ciglia lunghe e nerissime. «Il tuo portamento e i tuoi modi mi dicono che sei molto di più di quello che dici: nessun semplice cittadino di una qualunque città libera viene accompagnato da due capibranco.» Gord chiese nuovamente di essere annunciato, ma questa volta provò a minimizzare il suo ruolo, in maniera da non dare alla donna più informazioni del necessario. «Bene. Allora di' che Gord, un miserabile vagabondo che ne ha viste di tutti i colori, chiede di essere ricevuto.» La donna si era già piegata in un inchino profondo, prevedendo una risposta ancora più altisonante. Interruppe l'inchino a metà; poi, in preda all'agitazione, si affrettò a raggiungere un gruppetto di persone che stava aspettando nella sala. Gord sorrise tra sé. Le illusioni potevano essere combattute con le bugie, ma anche con la verità. Quelli che cercavano di ingannarlo, o ordivano contro di lui delle oscure macchinazioni, a volte re-
stavano confusi davanti a una risposta schietta, o a una realtà ovvia. Comunque quella donna non sembrava solo una falsa illusione, forse c'era qualcosa di vero. O forse si trattava semplicemente di una tattica più raffinata, una vera sottigliezza del Signore dell'Ombra, che però non avrebbe funzionato con lui. «Gord, uomo di valore, accompagnato da due capibranco del nostro reame» intonò una voce sussurrante ma decisa. Tutti gli occhi si girarono di colpo verso di lui, e Gord si sentì un po' a disagio. Il gruppetto che li stava osservando comprendeva alcune di quelle creature che aveva conosciuto come adombrati, e altre che non potevano essere che crepuscoli con i loro scagnozzi. Sparsi qua e là c'erano fantasmi, ombre, scuri, spiriti e anche qualche umano. Che bella compagnia! Nani dalla pelle grigia, gnomi marrone, e qualche altro strano umanoide: esseri che gli ricordavano Pinkus, una creatura stranissima che lo aveva accompagnato molto tempo prima in un'altra avventura fra illusioni e trasformazioni. Un tipo tozzo, con delle sopracciglia sporgenti su di una faccia larga e onesta, si avvicinò ai tre con passo traballante. «Salve, Gord. Lo so, non hai la più pallida idea di chi possa essere io, ma ho sentito parlare di te!» Quindi l'uomo si girò e fece per andarsene. Ma si rivolse ancora una volta a Gord, strizzandogli l'occhio: «Non ti preoccupare, non dirò una parola...» e si mischiò tra la gente. Stupito da quella strana apparizione, Gord restò immobile, mentre le note di una strana melodia cominciavano improvvisamente a diffondersi nell'aria e la sala si riempiva di coppie danzanti. «Mio signore?» era ancora la bella donna-ombra che gli stava sorridendo timidamente, rialzandosi da uno dei suoi profondi inchini. Gord le fece un gesto e la donna continuò: «So di essere scortese, ma si tratta di un ordine del re. Sua Oscurità vuole che, invece di danzare, ti presenti al suo cospetto nella Volta dei Veli. È molto strano che ti dia udienza in tempo di festa» aggiunse con una punta di preoccupazione. «E, se posso aggiungere una cosa, non è stato carino da parte tua prendermi in giro così...» Gord non poté fare altro che sorriderle ambiguamente. Egli desiderava quell'udienza presso il Re dell'Ombra, e non gli interessavano i motivi per cui il re lo aveva invitato in tempo di festa. «A volte, dolce signora, è la necessità che ci fa apparire come non siamo, o ci fa parlare come non dovremmo.» Il fantasma sorrise e fece un gesto d'assenso a quelle parole, mentre il bel volto si illuminava in un'espressione di sollievo. «Oh, sì. Queste cose le so molto bene, signor... Gord?» concluse quasi in tono interrogativo, e si
lasciò sfuggire un risolino per quello strano nome. «Lo so, non dovevo farmi trarre in inganno solo perché fingevi di essere un miserabile. Ma sono stata attratta da una sorta di... beh, lasciamo stare, non starò qui a implorare il tuo perdono. Chiacchiero sempre e poi mi pento di quello che dico. È la prima volta che partecipo alla festa come Presentatrice di Corte, e tutta questa gente importante mi mette in imbarazzo.» «Sono sicuro che ti dimostrerai degna della tua carica» le disse Gord, anche se non aveva la più pallida idea di quali fossero i compiti di una presentatrice, oltre che portare messaggi e accompagnare gli ospiti. «Questa è l'entrata dell'uditorio privato, nobile Gord. E grazie ancora per essere stato così gentile con me» disse la donna. «Se avrai bisogno di altre... cortesie, chiedi di Lady Sabina.» La porta scura davanti a lui rimase chiusa. Non c'erano maniglie, nessuna grata attraverso cui parlare. Doveva bussare? No, non era il caso. Forse doveva chiedere a Sabina come comportarsi, ma ormai era troppo tardi. Gord incrociò le braccia e rimase fermo ad aspettare nella grande sala. Avrebbe pazientato. I due leoni si accucciarono, anch'essi in attesa che accadesse qualcosa. Passò qualche minuto. Nessuno si fece vivo, ma si sentivano dei rumori: c'era una festa da qualche parte. Se non fosse stato per quella musica, le voci, le risate e quelle strane canzoni, lui e i due felini si sarebbero sentiti fuori dal mondo. Ma poi, improvvisamente, la porta si spalancò: era spessa una ventina di centimetri, e neppure all'interno era dotata di maniglia. «Entrate». Il comando risuonò cavernoso e inumano. La Volta dei Veli era una stanza a forma di doppio diamante, piuttosto piccola, ma dal soffitto alto più di sei metri. Dappertutto erano appesi dei veli sottili che coprivano le pareti e creavano dei divisori tra gli otto angoli della stanza. I teli erano sottili come ragnatele e trasparenti come una coltre di fumo. Era evidente che potevano nascondere qualcosa, ma Gord era sicuro che erano lì per qualche scopo. Al centro della stanza c'era un tavolo, della stessa forma del perimetro delle mura, con intorno quindici sedie disposte con ordine. Su una di esse, più scura e tenebrosa delle altre, era seduto un uomo alto e magro dal fare aristocratico e dal volto arrogante. «Accomodati dove vuoi... dopo aver reso omaggio» disse il pallido monarca delle ombre, lasciando uscire quelle poche sillabe dalle labbra sottilissime e nere come la notte. Poi la bocca gli si allargò in un sorriso, ma gli occhi grigi, dello stesso colore dei capelli, restarono fissi in un'espressione dura come il marmo.
Gord piegò un ginocchio e chinò leggermente il capo. Quel gesto doveva bastare a dimostrare il suo rispetto, senza troppa umiltà. Il Re dell'Ombra non gli era molto simpatico. «I miei ringraziamenti, Grazioso Signore delle Ombre» disse, sforzandosi di nascondere il suo fastidio. «Sono molto onorato di essere al cospetto della Vostra Ombrosa Maestà.» Mentre diceva quelle parole, Gord si accorse che il re si stava agitando. «Sei stato tu a distruggere uno dei miei adombrati!» urlò il Re dell'Ombra in tono di accusa. «Come giustifichi questo fatto?» Gord sorrise gentilmente, continuando ad accarezzare la testa di Criniera di Fumo che stava seduto al suo fianco. «Non sono venuto qui per dare spiegazioni, Vostra Maestà. Vi basti sapere che quel mostro ha osato attaccarmi dopo avermi insultato.» «E così hai il coraggio di sfidare Me, nel Mio Stesso Palazzo! Imprimus mi ha avvertito che non sei altro che carne per il boia!» Le cose si stavano mettendo male. Da un momento all'altro il monarca l'avrebbe spedito in chissà che razza di prigione, ad aspettare chissà quale destino riservato solitamente a chissà quali criminali. E da ciò che aveva sentito dire a Dunswych, non era certo quello il trattamento che si meritava. C'era solo una cosa da fare... Gord si alzò in piedi e pronunciò una sola parola: «Inganno!» Intendeva dire che il Re dell'Ombra era stato ingannato; ma improvvisamente qualcosa ondeggiò davanti ai suoi occhi. Il monarca, alto e dalla carnagione perlata, si era trasformato in una sagoma annerita, un crepuscolo ondeggiante. «Ah, ah, ah!» Un'altra figura era entrata nella stanza, alle spalle di Gord. La risata che aveva emesso era debole, ma in qualche modo lasciava trapelare una certa determinazione. «Hai fallito, Imprimus. Costui ha scoperto il tuo gioco. Accetta la tua sconfitta e vattene ora, a tramare la rovina del mio regno o qualcos'altro di altrettanto inutile!» Gord si girò, e dall'altra parte del tavolo vide una replica dell'uomo che gli aveva parlato poco prima: ma in costui non c'era nulla che desse una sensazione di falsità, e anche il sorriso che illuminava il suo volto era reale. A questo punto Gord fece un atto di omaggio più rispettoso e rimase a capo chino, finché il vero Re dell'Ombra non ebbe fatto uscire dalla stanza il crepuscolo travestito ed ebbe preso posto sulla sedia che Imprimus aveva occupato. «Vostra Ombrosa Maestà» disse Gord. «Gord, pellegrino. Do il benvenuto alla tua degna persona nel Mio Reame. Scusa per quello stupido scherzo. I crepuscoli sono divertenti, ma alla lunga i loro trucchi finiscono per annoiare. Ma veniamo a noi: il mio tem-
po durante il Tramonto è piuttosto limitato, quindi ti chiedo di consegnarmelo subito. Dopo potrai visitare il palazzo.» La richiesta del re poteva significare soltanto una cosa, pensò Gord: in qualche modo egli sa ciò che possiedo. Poi si rivolse al sovrano con parole decise: «La Vostra Maestà è stata molto generosa ad accogliermi nel suo reame. Ma dovete sapere che sono arrivato qui contro la mia volontà, quindi sono costretto a rifiutare umilmente la vostra offerta di far parte del Regno dell'Ombra: io sono del pianeta Tarre, e non voglio essere agli ordini di nessuno.» Il Re dell'Ombra sembrò infastidito dalle parole di Gord. «Ah, è così! Ma dalla presenza di quei due gattoni deduco che sei legato in qualche modo al Signore dei Felini. Stai attento, mortale. Sono io che comando qui. Mi sembra che la tua presente condizione non ti permetta di scegliere, vero? Dal momento che il tuo re sono Io, ora ti ordino di consegnarmi ciò che è Mio. L'udienza è conclusa.» A quelle parole Gord si alzò, inchinandosi leggermente. Anche i due leoni d'ombra si sollevarono da terra, lasciando sfuggire qualche ruggito in sordina. «State reclamando la scaglia di dragone che ho addosso? O la mia spada? Cosa mi sta chiedendo la Vostra Maestà?» chiese Gord, fingendo di non capire. «Non cercare di scherzare con me, marmocchio! Consegnami il Fuoco dell'Ombra, altrimenti dovrai subire la mia collera!» «La gemma sarà vostra, signore...» rispose lentamente Gord. Ma appena il Re dell'Ombra accennò un sorriso, egli aggiunse: «Appena restituirete alla mia mente i suoi ricordi, e il mio corpo al mio pianeta.» «Tu... tu... come osi fare delle richieste a Me?.» «Vi chiedo perdono, Oscura Maestà. Non oserei mai chiedere qualcosa a un re come voi... a meno che non potessi dare in cambio qualcosa di molto utile a Vostra Maestà e al Suo reame.» «È un gioco da ragazzi per me, prendere ciò che voglio.» «Non c'è alcun dubbio. La vostra potenza è molto rinomata, Signore delle Ombre.» «Il Fuoco dell'Ombra! Dammelo subito!» «Temo di non potervelo dare in questo momento, Maestà. Forse più tardi, quando avremo discusso il piccolo problema che mi tormenta, potremo dare un'occhiata alla pietra.» Delle sagome scure cominciarono a riempire la stanza, prendendo forme terrificanti: erano chiaramente ostili a Gord e ai suoi due grandi leoni.
Gord infilò la mano in tasca, toccò lo strano opale nero e lasciò che il suo potere fluisse nel suo braccio, e quindi in tutto il corpo. Subito la pelle di Gord cominciò ad irradiare un pallore opalino, iridescente, che inondò la stanza illuminando la penombra. Il giovane era diventato una sorgente di luce, e questo ebbe degli effetti sorprendenti. Toccate da quei pallidi raggi, alcune figure svanirono, tornando nel nulla da cui erano uscite. Quelle che non erano pure illusioni si fecero trasparenti, diventando i fantasmi di ciò che erano state in precedenza. Dal momento che non erano più fatte di alcuna sostanza, cominciarono a volteggiare nell'aria e finirono impigliate nei veli appesi alle pareti. Come pesci intrappolati nella rete, quelle potenti creature del Regno dell'Ombra piagnucolavano con voce flebile mentre il loro signore e sovrano le guardava con espressione incredula. «E così conosci già i poteri della gemma» disse il Re dell'Ombra senza riuscire a celare una nota di rassegnazione. «Ma sappi che il Fuoco dell'Ombra è così solo perché Io ho infuso nel suo cuore quella fiamma potente. E Io posso distruggere in qualsiasi momento ciò che ho creato». Quest'ultima affermazione non voleva essere minacciosa o vanagloriosa. Il Re dell'Ombra sembrava quasi un po' triste quando la pronunciò, e Gord ne rimase colpito. «State tranquillo, Maestà. Non ho alcun desiderio di usurpare il vostro posto né di contestare la vostra potenza. Non mi permetterei mai di essere vostro avversario. Con tutto il rispetto, devo ripetervi che non sono qui per mia volontà; ma proprio per questo sono costretto a proteggere la mia vita, per quanto posso.» Il Signore delle Ombre sorrise: «Vuoi suggerirmi di trattarti come un caro amico, anche se sei colpevole di alto tradimento, proprio qui, nel Mio palazzo! Credi che mi si possa ricattare? Mai!» Gord fu irremovibile. «Vi ho forse fatto qualche richiesta? È evidente che non è così. Non ho alcuna memoria del mio recente passato, sono prigioniero in questo posto, in questo pianeta di ombre, contro la mia volontà, e voi cercate di strapparmi l'unico mezzo di difesa che mi potrebbe consentire di lasciare per sempre questo posto. Sto lottando per una giusta causa, Re dell'Ombra, e non cambierò idea. Posseggo ciò che desiderate: il Fuoco dell'Ombra. Non so come ne sono venuto in possesso, ma sono certo di non averlo rubato a voi! Ve lo consegnerò con piacere, ma in cambio dovete darmi la vostra regale parola che mi restituirete la memoria e mi farete tornare sano e salvo nel pianeta materiale.»
«Ma tu potresti usurpare il mio trono, lo sai?» «Vi chiedo perdono, maestà. Non so nulla del vostro regno, né mi interessa sapere se mi state dicendo la verità. Vi offro ancora una volta l'opale, chiedendovi in cambio solo la vostra parola.» «Sei un uomo valoroso, Gord» sghignazzò il Re dell'Ombra, appoggiando il lungo dorso sullo schienale della sedia e inclinando la testa all'indietro, per lasciar uscire liberamente il suono della sua voce. «Senza sapere nulla della forza dei tuoi eventuali nemici, hai preso una decisione e non ti tiri indietro davanti a nulla. Forse stai dicendo la verità... non percepisco alcun inganno nelle tue parole, e anche i maghi che sotto diverse fattezze sono presenti in questa Volta dei Veli hanno rilevato solo sincerità». Il Re dell'Ombra scostò la sua sedia massiccia e fissò Gord negli occhi neri e impenetrabili. «Devo quindi accettare la tua richiesta? Posso fidarmi di te?» «Per il momento, vostra maestà... Chi di noi può dichiararsi in ogni istante onesto e giusto?» Ancora una volta il Re dell'Ombra scoppiò a ridere. «Cominci a piacermi, Gord. Obbedisci solo a te stesso, e possiedi un grande tempismo. Sei intelligente, divertente, e franco. E questa è una qualità che apprezzo molto. Sarò franco anch'io. Molti degli abitanti del Mio Reame, il Pianeta dell'Ombra, non sono indigeni: sono stranieri, venuti qui di loro spontanea volontà per continuare a vivere come più piaceva loro. Questi esseri mi sono avversi, nemici, come per esempio...» «Le creature che si chiamano crepuscoli?» chiese Gord incerto. «Esattamente, giovane principe; ma non solo quelle. Un tempo erano umani, lo sai. Gli scuri un tempo erano gnomi e nani; i neri, guarda caso, erano creature diaboliche. Questi stranieri, assieme ai più diabolici nativi del pianeta, si sono alleati per opporsi al mio dominio e fomentano tradimenti e ribellioni. Non posso più fidarmi dei crepuscoli, per esempio, a causa delle macchinazioni di Imprimus e della sua razza. Solo i fantasmi mi sono rimasti fedeli, assieme a poche altre creature inferiori del Reame dell'Ombra. Queste divisioni interne mi hanno molto indebolito, ovviamente.» «L'infedeltà è sempre dolorosa, maestà» concluse Gord, dal momento che il monarca era rimasto in silenzio, rapito nei propri pensieri. «Non hai capito. È ovvio, perché tu non sei soggetto a queste condizioni. Quando un regno si frammenta, anche il suo sovrano ne risente. Io, Gord, sono un pericoloso schizofrenico. Non è un male che mi sono scelto, e non
deriva da una mia particolare fragilità mentale. Sono un'ombra, e come tale sono dilaniato da queste fazioni opposte. Sono alternativamente il Bene, il Male, e l'Indifferenza che regnano nei confini del mio pianeta. Se nel Regno dell'Ombra si creasse un'altra divisione, anch'io soffrirei di un'altra spaccatura nella mia personalità già così frantumata.» Gord balzò in piedi, sconvolto. «Se è così io vi offro le mie armi e miei servizi, maestà, e mi impegno a fare in modo che le cose tornino alla normalità, a prezzo della mia vita.» «Nobili sentimenti, senza dubbio. Ma allora perché ti rifiuti di darmi ciò che è Mio? Se avessi di nuovo la sfera di opale, la mia psiche sarebbe confortata.» «E che ne sarebbe di me, maestà?» Il Re dell'Ombra cominciava ad infastidirsi. «Sei stato consegnato a questo pianeta da qualche forza soprannaturale. Qualche potente servitore di una divinità infernale desiderava la tua morte, o forse la desiderava la stessa divinità. Ma prima di morire, per caso, ti sei trovato tra le mani il potere del Fuoco dell'Ombra, e questo ha ingannato il tuo uccisore: ti ha mandato qui invece che nell'inferno dove aveva intenzione di spedirti. Magari c'è stato l'intervento di qualche altra entità, ma su questo punto posso solo azzardare delle ipotesi.» «C'è qualcosa che può farmi tornare al mio paese?» «Adesso è questo il tuo paese. Un tempo sarei stato in grado di alterare il corso delle cose a tuo favore. Ora non più.» «Con il Fuoco dell'Ombra?» «È un gran corroborante, molto prezioso, ma insufficiente». Il magro Signore delle Ombre sospirò tristemente, rassegnato davanti al suo destino. Gord si inchinò, appoggiando un ginocchio sul pavimento di marmo venato. «Maestà» disse solennemente sfoderando la spada e tenendola alta nelle mani guantate, «metto me stesso e la mia spada al vostro servizio. Volete accettare la mia offerta?» «Sì, per quel poco che può essere d'aiuto ad entrambi. Oramai ho pochissime speranze.» «In questo caso, Sovrano dell'Ombra, restituisco con piacere il Fuoco dell'Ombra nelle vostre mani» disse con voce squillante e risoluta il giovane avventuriero. «E mi impegno a combattere i nemici che seminano la discordia nel vostro reame.» Il Signore dell'Oscurità allungò le braccia, toccando l'elsa della spada in segno di accettazione dell'offerta di Gord. Il giovane rimise l'arma nel fo-
dero e tirò fuori quella strana pietra che tanti desideravano possedere. Silenzioso, nell'incredulità del momento, il Re dell'Ombra si alzò e prese in mano l'opale. «Per lungo tempo ho cercato il Fuoco dell'Ombra» mormorò. «È vostro, maestà» disse Gord, consegnando nelle pallide mani del sovrano la sfera luccicante. «Che nessuno osi toglierla dalle mani del suo legittimo proprietario.» Quell'individuo alto e allampanato osservò per molto tempo la preziosa sfera, senza essere in grado di pronunciare una sola parola. Poi sorrise debolmente. «Alzati, Gord» disse solennemente, «poiché ora ti nominerò Cavaliere del Regno dell'Ombra. Mettiti di fronte a me, Conte del Tramonto, Cavaliere del Chiaroscuro. Ti conferisco l'incarico di aiutarmi nei momenti di bisogno, di offrire il tuo servizio al Regno dell'Ombra, e ti chiedo di serbare fedeltà e onestà in tutte le imprese che compirai, fino a quando potrai tornare nel pianeta che di diritto è il tuo paese.» A quelle parole un sottile brivido scese lungo la schiena di Gord. In pochi istanti le memorie tornarono in lui, inondandogli la mente: «Dyvers! Gli zaffiri neri!» «Ecco perché sei stato assassinato. Le gemme che cerchi sono nel Regno dell'Ombra.» «Ma se...» Il Re dell'Ombra sollevò le mani. «Le forze che dilaniano questo paese ora mi stanno addosso in modo ancor più minaccioso. I crepuscoli stanno lavorando per distruggere il beneficio del tuo dono, Principe Gord; posso resistere alle loro forze solo grazie all'energia che mi viene dal Fuoco dell'Ombra. Lasciami, ora, perché devo oppormi da solo a questo attacco: se in questo scontro ci sarà una tregua, ti convocherò di nuovo perché avrò bisogno urgente del tuo aiuto. Ora non posso dirti di più.» E dicendo queste parole il re dell'oscuro pianeta si sedette, con il volto contratto in un'espressione di fredda determinazione. Il Re dell'Ombra stava per affrontare una battaglia, e doveva combattere da solo. Capitolo 21 Il Buio, l'Oscurità dopo il Tramonto, giaceva sopra il Regno dell'Ombra come un oppressivo mantello di tenebre. Persino gli abitanti dell'Ombra erano soggiogati da quel nero tiranno: tutti erano ciechi, indeboliti dalle tenebre che opprimevano il pianeta. Nella notte tetra Gord camminava in un paesaggio che si muoveva len-
tamente, modificandosi continuamente. Il vento nero del Buio ululava lamentoso, e persino le bestie selvagge del Regno dell'Ombra si erano nascoste nelle loro tane, cercando conforto nelle profondità della terra, aspettando il ritorno di un po' di chiarore in quel mondo desolato. Ma il giovane avventuriero vestito di nero, ora Conte del Tramonto, camminava con passo sicuro in quel buio pesto, tenendo stretta nella mano destra una spada dalla lama corta. Sull'impugnatura dell'arma era incastonato un gioiello fosforescente, l'opale che emanava dal suo interno una strana luminosità verdastra. Grazie a quella luce Gord riusciva a vedere abbastanza chiaramente dove metteva i piedi. Il Re dell'Ombra in persona gli aveva dato quel talismano, dal momento che non ne aveva più bisogno: Gord aveva di nuovo con sé il potentissimo Fuoco dell'Ombra. Imprimus. Crepuscolo di diabolica malvagità, capo di una congrega di esseri malefici. Imprimus, Cadavere dei Cadaveri. Era lui che Gord andava cercando nella tempesta del Buio. Da qualche parte, nelle zone più selvagge del pianeta, Imprimus si nascondeva in una fortezza segreta, aspettando il suo momento. Quel diabolico essere stava tramando la divisione del Regno dell'Ombra. Lui e i suoi demoni avrebbero usato i loro malefici poteri per portare il pianeta alla schizofrenia, alla irrimediabile divisione delle menti: in questo modo avrebbero avuto nelle loro mani metà del potere. Gord sapeva che tutto ciò avrebbe condotto il regno alla catastrofe: la mente del monarca si sarebbe come spaccata, diventando debole e vulnerabile. A quel punto avrebbero scatenato l'assalto finale, e Imprimus sarebbe diventato Signore delle Ombre... il re è morto, viva il re nero! Gord era deciso a contrastare Imprimus e il suo progetto di distruzione, ma il crepuscolo poteva solo immaginare cosa stava per accadere. In quel momento, durante il Buio, tutto il Regno dell'Ombra era al livello minimo di energia, ed anche Imprimus era debole e cieco. Mentre procedeva su quel terreno impervio, Gord cercava i segni della presenza del crepuscolo. In quel paese di tenebra, così buio da non poter essere descritto, il giovane avventuriero cercava il nero dei neri, un'oscurità ancor più terribile di quella che avvolgeva il Regno dell'Ombra. Quel buio sarebbe stato un indizio per scoprire dove si annidava il crepuscolo, poiché era la malvagità stessa di Imprimus che attirava la pece del Buio come una calamita attira il ferro. Le fiamme verdi e luminescenti che emanavano dal cuore del grande opale illuminavano gli occhi di Gord, e chiunque si fosse avventurato in quell'impenetrabile oscurità avrebbe potuto notarli. Ma non c'era nessuno
in giro, e Gord proseguiva da solo, inosservato. Solo il cupo ululato del vento lo accompagnava mentre vagava in cerca del nemico. Poi, ad un tratto, anche quel suono vuoto e monotono cambiò registro. «Uuuuuhh, uuuhh...» il vento implacabile sembrava chiamarlo. Era un suono appena percepibile, un lamento a metà fra una risata e un pianto. «Uuuuuhh, uuuhh, uuuuuhh!» Questa volta l'aria portò un suono più distinto, che faceva rabbrividire. Non era la voce del vento, ma il richiamo di qualche creatura, quello che gli giungeva alle orecchie in quell'atmosfera buia e soffocata. Quando udì per la terza volta il richiamo lamentoso, sempre più forte, Gord coprì la sua fonte di luce. Ora il giovane poteva vedere solo a pochi passi di distanza. Il paesaggio si allargava o si restringeva, mentre il vento faceva girare vorticosamente ogni cosa e sagome tenebrose gli scivolavano davanti agli occhi. Il vento portò un rumore secco. Qualcosa stava percuotendo la sostanza ombrosa del pianeta. Delle fauci mostruose frantumavano ogni cosa, riducendo tutto a pezzetti. «Uuuuuhh, uuuuhh, uuuuuhh!» tornò quel suono, adesso molto chiaro, come se provenisse da Gord stesso. C'era solo una creatura così grande, in grado di lanciare un grido così pauroso: il dragone dell'ombra, il quale stava dando la caccia a Gord. Nessun altro mostro dell'ombra poteva tener testa al Buio, nessun altro se non il dragone poteva essere così potente. Ogni tentativo di fuga era inutile, e Gord si rassegnò ad affrontare il bestione; era meglio morire combattendo che essere preso alle spalle, e divorato come una lepre da un cane. Il vortice nero si placò, rivelando a un centinaio di metri di distanza una massa d'ombra dentellata. Gord non si ricordava di aver visto, fino a quel momento, nessuna pietra appuntita; eppure ora aveva davanti agli occhi una grande distesa di rocce dentate. Poi la guglia più alta di quegli spuntoni si aprì e lasciò vedere un'apertura, come l'entrata di una cava; da quel buco profondo uscì un grido infernale, accompagnato da una folata di vapore: «Ohouu, oohooo, ooooah!» Il dragone aveva avvistato la preda. Il terreno tremò sotto i piedi di Gord quando l'enorme mostro cominciò ad avanzare, coprendo ad ogni passo una decina di metri e distruggendo tutto ciò che trovava sul suo cammino. «Vai al diavolo!» urlò Gord con insolenza. Le ombre si contorsero e si appiattirono attorno alla mostruosa bestia: una reazione alle parole di Gord? Evidentemente il dragone capiva il linguaggio umano. Per quanto fosse potente, anche il dragone risentiva degli effetti del Bu-
io. In quella pesante oscurità i suoi movimenti erano come rallentati; il collo spigoloso si muoveva avanti e indietro, parallelamente al suolo. Si spostava con passo pesante, come al ritmo di una goffa danza. Ad ogni passo lanciava dei portentosi ruggiti, che rimbombavano dal profondo del suo petto e uscivano accompagnati da una specie di sibilo. Assieme a quel terribile suono, dalla bocca del mostro uscivano delle vampate d'ombra. Queste fiamme non assomigliavano per nulla a quelle del grande opale nero; il getto sibilante era grigio e trasparente come un cristallo di quarzo ambrato, e ogni lingua era screziata di nero e aveva sulla punta una macchia dello splendore di un diamante. L'eruzione di fiamme si propagò sul terreno divorando ogni cosa, colorando le rocce surriscaldate di un cupo e spento grigiore, devastando il terreno dove Gord si trovava solo pochi istanti prima. Gord aveva immaginato che il fiato del dragone fosse pericoloso, ma solo ora si rendeva conto della sua situazione. Gli agili riflessi del giovane non potevano bastare a salvargli la vita: benché appesantito dalla tenebrosa cappa del Buio, il mostruoso dragone era ancora piuttosto veloce. Un lembo di fuoco colpì Gord e gli bruciò le carni causandogli un dolore quasi insopportabile. Solo allora Gord seppe quanto era pericoloso il fuoco dell'ombra, solo allora capì quale potenza devastatrice avessero usato gli antichi maghi umani per devastare e distruggere interi regni. Anche se le sue terminazioni nervose continuavano a mandare al cervello messaggi di dolore feroce, Gord cercò di reagire. La fiammata lo aveva colpito, ma nello stesso tempo aveva anche fatto fondere le ombre circostanti, creando una strana torbidità, una densa nube di oscurità che avvolgeva ogni cosa e attraverso la quale né il dragone né l'uomo potevano vedere. Gord era disteso al margine di questa massa scura, e mentre il mostro si aggirava sibilando nella nuvola di vapori, cercava di curarsi le bruciature. Aveva con sé una piccola scatola di unguento, che gli era stata data, chissà per quale oscura ragione, da quello strano personaggio che conosceva il suo nome e che lo aveva salutato al Palazzo del Chiaroscuro. Quello strano tipo, con la testa inclinata di lato, come un uccello, e con quegli occhi chiari che sembravano penetrare nell'anima, gli aveva semplicemente messo la scatolina in mano, dicendo: «Tieni, Gord. È un mio piccolo regalo per la tua imminente impresa. Temo che avrai bisogno di molto di più, ma questo è tutto ciò che ti posso offrire». Quando Gord gli aveva chiesto cosa conteneva la scatola, l'uomo gli aveva detto che gli sarebbe stata utile in caso
di tagli, bruciature o altre ferite dolorose. L'unguento si rivelò efficace, proprio come aveva sperato. Gord se lo spalmò in abbondanza sulla faccia, sulle braccia ustionate, sulle mani annerite, e il balsamo placò subito il dolore. Intanto l'enorme dragone si stava facendo strada nella nube, sibilando per la fatica, sbattendo le enormi zampe sul terreno, dimenando la grossa coda, e agitando il lungo collo in cerca di quel minuscolo nemico. Mentre le ferite di Gord si rimarginavano sotto l'effetto curativo del balsamo, il grosso bestione era sempre più irritato: gli sembrava impossibile non riuscire a scovare e a finire quel misero umano che aveva osato oltraggiarlo. Continuava a dimenare il collo in segno di frustrazione, spalancando le fauci con furia bestiale per lasciar uscire le fiammate che devastavano ogni cosa. Gord evitò per miracolo una seconda dose di quelle fiamme portentose. La coda del mostro, grossa come un tronco d'albero, frustava con violenza l'aria proprio sopra la testa di Gord, che si era riparato in un buco del terreno. Gord aspettò il momento opportuno per balzare in piedi e lanciarsi verso dove sentiva il rumore degli enormi piedi del mostro, che schiacciavano ogni cosa trovassero sul loro cammino. «Doooveee tii seeeei naaassscostooo, miiiseraaaabileee omuuuuncoooolooo?» Il mostro sapeva anche parlare, ma Gord non aveva voglia di fare conversazione. Si avvicinò alle gigantesche gambe del dragone, e si accorse che si stavano piegando. Il grosso pancione e il petto della bestia si abbassavano: il mostro adesso si era accucciato, e usava le zampe anteriori, molto più corte, per scavare tra le rocce e le macerie. Gord capì che voleva stanarlo con quelle unghie poderose, che sollevavano i massi come fossero sassolini. Quando Gord era stato colpito dall'attacco incendiario del mostro, la gemma incastonata nell'impugnatura della spada era diventata più brillante. Il cambiamento non era passato inosservato agli occhi del giovane avventuriero; e adesso che si trovava molto vicino al dragone, Gord vide che la luminosità verdastra all'interno del grosso opale si era fatta ancora più intensa, più brillante di quanto non fosse mai stata in precedenza. Se era ancora vivo Gord lo doveva alla sua prontezza di riflessi, e al balsamo che gli aveva curato le bruciature; ma forse anche quella gemma incantata, il talismano del Re dell'Ombra, aveva fatto la sua parte. Sicuramente ora la pietra era più vivida, e quando sollevò la spada, pronto a colpire, notò che il luccichio grigio della lama era percorso da lunghi archi di luce verde che
danzavano dall'impugnatura alla punta. «Oooohh, hhoooo!» tuonò il dragone; aveva girato la grossa testa, e uno dei suoi occhi laterali, un disco della larghezza di uno scudo, aveva percepito la pietra luminosa e l'energia che da essa promanava. Anche se il mostro era ormai all'erta, e stava sollevando una delle sue possenti zampe per colpirlo, Gord si lanciò all'attacco. «Yaaaah!» gridò, incapace di trovare qualcos'altro da gridare quando la lama penetrò fra le enormi scaglie che coprivano il ventre del dragone. Anche la schiena e i fianchi del mostro erano coperti da quelle dure, grosse scaglie, acuminate e nere come l'inchiostro; ma sullo stomaco erano più distanti l'una dall'altra. Usando tutte e due le mani Gord infilò con forza la spada in una fessura tra due scaglie, e tra i raggi di energia verde si creò un arco di scintille rosa, incandescenti. Anche sotto le scaglie la pelle era dura, grossa e resistente come quella di un rinoceronte. Gord dovette usare tutta la forza che aveva, coordinare i movimenti delle gambe, delle spalle, delle braccia, per ottenere il risultato sperato: con tutti i muscoli tirati, spinse la lama illuminata di verde dentro al nemico, infilandola per tutta la sua lunghezza, fino a raggiungere la fornace nel ventre del mostro. «Ahhrrrooo!» fu l'urlo assordante del dragone quando la lama gli penetrò nella carne. «Haaaarrg!» tuonò ancora, mentre il cuore verde dell'opale si incendiava, consumando la gemma, inondando il metallo dell'impugnatura di scintille infuocate che si propagavano per tutta la lunghezza dell'arma: la luminescenza era così intensa che la pelle e le scaglie del bestione divennero trasparenti, lasciando vedere le fiamme che si erano prodotte al suo interno. Gord venne scagliato a una dozzina di metri di distanza da un movimento convulso del dragone. Venne ferito dalle sue unghie, e rimase intontito dal colpo; ma in questo modo riuscì a salvarsi la vita, perché venne a trovarsi lontano dagli ultimi spasmi mortali del mostro. Il dragone aveva cominciato a contorcersi nel dolore della pugnalata, ma quando fu assalito dalla tortura dell'incendio che divampava dentro di lui, diventò pazzo dal dolore. Serrava le fauci, poi le riapriva per sputare lingue di fuoco grigio, mentre con gli artigli continuava a scavare la roccia. Ogni tanto si rotolava per terra, sollevando nuvole di fumo e schegge di pietra. Poi l'incandescenza verde della spada si scontrò con le fiamme grigie; i due calori si combinarono, sciogliendo le interiora del dragone, trasformandole in uno schifoso miscuglio nerastro: i fuochi si erano mescolati
e avevano consumato il bestione. Gord si rialzò in piedi e si mise a correre, incurante delle ferite e del dolore. Sapeva che doveva allontanarsi al più presto possibile, era una questione di vita o di morte. Senza il talismano non riusciva più a rompere l'oscurità totale del Buio, ma la fornace che si era prodotta nel corpo del mostro produceva una notevole fonte di luce. Alla luce infernale del dragone incandescente Gord continuò a correre, cercando di evitare gli ostacoli che trovava sulla sua strada. Poi si fermò di colpo, esterrefatto. Davanti a lui, infilzata nel terreno di ombra, c'era la sua spada. Forse il mostro era riuscito a sfilarsela di dosso e a lanciarla lontano, sperando di liberarsi da quella folle agonia. L'opale era sparito, ma l'arma era in buone condizioni. La raccolse e si girò: alle sue spalle aveva udito un ruggito assordante. Una stella di rubino emetteva dei raggi insanguinati, lance di luce che si intensificavano ad ogni istante che passava. Sentì un calore intenso inondargli la schiena, e si gettò a terra. Poi udì un tuono profondo, infernale: le fiamme opaline e quelle grigie del dragone stavano divorando l'enorme mostro. Una scossa tremenda sconquassò il terreno, poi tutto fu di nuovo nero. Con un enorme sforzo Gord si rialzò in piedi, tremante e stordito, ma vivo. Dove prima c'era il dragone titanico, ora non si vedeva più nulla. Quando si avvicinò per controllare meglio, Gord vide un grosso cratere: il dragone e il talismano erano spariti. Ora doveva affrontare l'oscurità totale del Buio senza nessun aiuto magico, tranne la spada e il suo lungo pugnale. Ma aveva ancora senso cercare il nascondiglio di Imprimus? In fondo uccidendo il mostro Gord aveva fatto un favore a quell'essere diabolico: senza il talismano non era più in grado di scovare la tana dei suoi nemici. Il giovane si sentiva molto depresso. Decise di spalmarsi altro unguento sulle nuove ferite. Il vento crudele ululava attorno a lui, ricordandogli che il Buio non era ancora finito; ma quel periodo di buio totale non sarebbe ancora durato a lungo, e il pianeta sarebbe tornato alla sua triste penombra. Allora le ombre sarebbero tornate scivolando da ogni parte, il potere dei crepuscoli si sarebbe rafforzato, e il destino del Re dell'Ombra e del suo regno sarebbe stato segnato. Ma forse restava ancora una piccola speranza. Gord si accorse che la pietra del suo anello aveva preso su di sé un po' del fuoco verde del talismano; usato insieme alla spada, poteva forse servire a qualcosa. Non aveva nulla da perdere a fare quest'ultimo tentativo: Gord avvicinò la spada al-
la mano sinistra, dove aveva l'anello, e per qualche minuto restò a fissare quella fitta oscurità. I suoi occhi osservavano ciechi quel mondo di pece, incapaci di penetrare la tenebrosa cappa del Buio. Poi, lentamente, a poco a poco, la sua vista cominciò a registrare delle variazioni nell'oscurità. C'era del buio color carbone, e più in là altro buio, ma colore dell'ombra. Poi Gord fu in grado di distinguere il grigio scuro dal nero anche a molti metri di distanza. Il giovane riprese la caccia: doveva trovare il suo nemico, Imprimus, nel luogo che gli era stato indicato dal Re dell'Ombra come il più probabile nascondiglio di quell'essere malvagio. Forse era ancora in tempo. L'assalto del dragone non era certo stata una coincidenza. Quella terribile belva non poteva aver incontrato Gord per caso: il dragone si trovava lì per un motivo preciso, e Gord pensava che il suo compito fosse quello di vigilare su Imprimus durante il periodo di calo d'energia. Se la sua ipotesi era giusta, la sua vista incantata l'avrebbe presto avvisato di qualche cambiamento: ci sarebbe stata un'oscurità palpabile, un nero più intenso del solito, poiché Imprimus attirava a sé il buio mentre giaceva addormentato. «Salve, principe!» ruggì una voce piuttosto familiare. Ma non c'era come un tono di sarcasmo? Difficile a dirsi: non si leggeva altro che rispetto e obbedienza negli occhi e nel comportamento di Respiro Caldo. «Che il tuo branco sia sempre ben nutrito» rispose Gord molto formalmente. «Come hai fatto ad arrivare fin qui?» «Con grandi difficoltà. Anche noi abbiamo saputo dal Re dell'Ombra dove si trova il nascondiglio dei nemici. Sono venuto con qualche altro compagno di branco, e Criniera di Fumo sta per arrivare accompagnato dalle sue femmine. Siamo qui per aiutarti, ancora una volta.» «Perché...?» «Perché questa è la volontà del nostro Re di Ogni Cosa. Quale altra ragione ci può essere?» «Già, quale altra ragione?» rispose Gord con sarcasmo. Strano: dei leoni come alleati, e sempre al momento giusto. «Sto cercando la tana del crepuscolo e dei suoi scagnozzi, Respiro Caldo. Raccogli il tuo branco e seguimi». Senza neppure guardare se il grande leone di ombra obbedisse al suo comando, Gord si incamminò verso il destino che lo attendeva. Il profondo ruggito di un leone maschio si fece sentire all'improvviso. Gord si mise a correre in quella direzione, ed ecco davanti a lui Criniera di Fumo, accompagnato da qualche grossa leonessa. Il felino stava piegando il capo all'indietro e stava per lanciare un secondo, tonante ruggito quando
Gord lo raggiunse. «Perché stai alzando il tuo grido di sfida?» gli chiese. «Ho fiutato il diabolico puzzo dei crepuscoli» rispose Criniera di Fumo ruggendo ferocemente. «Sto annunciando la mia intenzione di stanarli, a chiunque voglia seguirmi in questa caccia.» «Ora sono qui io» disse Gord rivolto al leone e alle femmine. «Aprirò la strada, e tu e Respiro Caldo mi seguirete con i vostri branchi. Qualsiasi cosa succederà, mi occuperò io di Imprimus. Tutti gli altri saranno vostra preda. Ricordate bene: lui, il Cadavere dei Crepuscoli, Imprimus, è solo mio.» «Ai tuoi ordini, signore. Ma ora smettiamo di parlare, e andiamo a stanare le nostre prede!» Il fiuto dei felini lo guidò verso il rifugio del crepuscolo, la cui entrata era celata da potenti sbarramenti. L'accesso era chiuso da una massiccia lastra di acciaio d'ombra, contro cui neppure gli artigli dei leoni potevano nulla. Gord impugnò il suo pugnale, e quella lama magica cominciò a tagliare l'acciaio compatto come se fosse tenero legno di betulla. Probabilmente la porta era difesa da molte protezioni, ma prima di tutto bisognava aprire la serratura esterna. La lama del pugnale penetrava nell'acciaio, facendo cadere a terra una pioggia di riccioli di metallo, e finalmente il vano della serratura fu accessibile. La lamina interna cadde a terra e Gord poté infilare la mano nel buco. «Ci siamo!» gridò, quando a tastoni trovò un pesante rettangolo di metallo all'interno del portale. Lo tirò verso l'alto e una sbarra si mosse, cadendo fragorosamente a terra. A quel punto il giovane provò a spingere la pesante porta, che però non si spostò di un millimetro. «Aspettate» disse ai leoni che davano qualche segno di impazienza. «Ci sono altre sbarre che la tengono chiusa!» Fu piuttosto difficoltoso, ma allungandosi un po' Gord riuscì a localizzare un secondo fermo vicino al pavimento. Questa volta fece molta attenzione a non far cadere la sbarra, e la usò come leva per togliere quella che, ne era sicuro, doveva esserci in alto. «Ancora un piccolo sforzo e ce la facciamo!» L'arnese funzionò alla perfezione, e dopo un attimo anche la terza sbarra uscì dal suo alloggiamento. Quando riprovò a spingere il portale, la lastra di acciaio si scostò con facilità, girando su dei cardini ben oliati. «L'eclissi di Mool e dei lumi che lo accompagnano sta per finire, principe» mormorò il grosso Criniera di Fumo a Gord, fermo davanti alla porta spalancata. «Dobbiamo affrettarci, se vogliamo cogliere di sorpresa il nemico!»
Spinto da quell'incitamento Gord si mosse, entrando nella cupa oscurità della tana di Imprimus, seguito da dieci leoni e leonesse. Il corridoio che si allungava oltre il portale d'acciaio penetrava nel terreno, scendendo piuttosto ripidamente verso il basso. L'uomo e il suo gruppetto di felini si erano già addentrati parecchio, muovendosi a tentoni o seguendo l'istinto che permetteva a quegli animali di camminare nell'oscurità più totale, quando improvvisamente il terreno crollò sotto i loro piedi. Capitolo 22 I leoni annaspavano con gli artigli contro le pareti lisce della trappola, tentando di frenare la caduta, mentre Gord cercava di convincersi che si trattava solo di una strana forma di illusione. Ma non era così. Continuarono tutti a precipitare, e in pochi secondi si trovarono in fondo a un pozzo circolare, profondo quasi una decina di metri. I leoni atterrarono in piedi, impauriti ma salvi. Anche Gord riuscì a cavarsela, grazie alle sue doti di acrobata: rotolò con una certa elasticità e si rialzò subito in piedi, per evitare di venire schiacciato dai leoni. Non c'era un filo di luce, e neppure gli occhi dei felini riuscivano a scorgere qualcosa in quel buio pesto. Poi si cominciò a intravedere un debole chiarore, che inondò la stanza di una pallida luminosità verdastra: come Gord aveva immaginato, nel suo anello restava ancora qualche residuo della forza del talismano. I due grossi leoni maschi ringhiarono, e il pelo si drizzò loro a causa dello strano fenomeno. Gord riuscì a calmarli con poche parole, e Criniera di Fumo e Respiro Caldo fecero segno alle loro femmine che tutto andava per il meglio. Non potevano a nessun costo perdere la loro dignità di fronte alle femmine. «È bello... è troppo bello per essere vero!» esclamò Gord. «Come fai a dire che una trappola è bella?» grugnì il vecchio Criniera di Fumo. Gord non riuscì a trattenersi dall'accarezzare la testa del leone, arruffandogli il pelo. Era un gesto di affetto che voleva rassicurare l'animale. «Questo posto serve per tenere prigionieri gli eventuali intrusi fino a quando i guardiani della fortezza non vengono a prenderli. Ora, durante il Buio, non c'è nessuna sentinella, nessuna guardia. Uscirò di qua in un momento e vi tirerò fuori tutti!» I leoni restarono immobili. Solo la coda di Criniera di Fumo si muoveva,
dando segno di qualche incertezza. Nel frattempo Gord aveva preso il pugnale e si era messo a incidere la parete di quel lungo cilindro. Doveva scavare delle tacche che gli servissero come appigli. Era un lavoro piuttosto semplice, e ben presto si arrampicò fino al bordo del pozzo. Aveva pensato di poter facilmente tirare su i leoni, ma ora cominciò ad avere dei dubbi. I maschi pesavano almeno tre quintali ciascuno, a dir poco, e le femmine erano di poco più piccole. Come poteva tirare fuori quei bestioni da un pozzo profondo dieci metri? Uno stretto camminamento circondava il pozzo. Di fronte al punto in cui loro erano caduti, c'era un'arcata che portava in una galleria larga circa sei passi e alta altrettanto. Sebbene la luce stesse per svanire, Gord riuscì a dare una rapida occhiata in quel passaggio. Sui due lati della galleria si aprivano delle stanze, e dietro una pesante grata Gord vide delle sagome di legno che non potevano essere altro che scale a pioli. La serratura della grata di ferro non costituiva certo un grosso problema, e in pochi istanti Gord tornò indietro portando con sé una massiccia scala di legno. La fece scivolare oltre il bordo del pozzo, la guidò fino al fondo, poi corse di nuovo nella galleria per recuperare l'altra. La fece scivolare in fondo al pozzo, di fianco alla prima. Poi scese lui stesso. «Ho sistemato meglio che potevo queste due scale» disse Gord a Criniera di Fumo. «Dovrete cercare di uscire di qua, distribuendo il vostro peso su tutt'e due le scale. Quando avrete raggiunto l'ultimo piolo dovrete tirarvi su con la forza delle zampe anteriori. Non preoccupatevi: la roccia sul bordo è piena di buoni appigli». Gord guardò gli occhi di Criniera di Fumo, poi si volse verso Respiro Caldo. «Credete di farcela?» Prima che uno dei maschi ruggisse qualcosa in risposta, una femmina dal pelo lucido si fece avanti, balzò sulla doppia scala a pioli e si arrampicò con una certa facilità. «Certo» ruggì, e con un ultimo balzo fu fuori dal pozzo, a guardare in basso i compagni e le compagne con un po' di alterigia. Mentre Gord restava a guardare, ad una ad una tutte le femmine si tirarono fuori dal pozzo. Poi fu la volta dei maschi: il legno cigolò piegandosi sotto il loro peso, ma fortunatamente non si spezzò. Gord salì per ultimo, e con estrema facilità. «Sarebbe comodo poter cambiare forma a piacere, e trasformarsi in una scimmietta in caso di bisogno» borbottò divertita la leonessa che era salita per prima, appena vide sbucare Gord dal bordo del pozzo. Il giovane non le rispose, ma pensò che sarebbe stato davvero molto bello potersi trasformare in un grosso felino.
Ben presto il gruppetto raggiunse la fine della galleria, e un puzzo spaventoso li avvertì che ci doveva essere qualcosa poco più avanti. Infatti, nella stanza rettangolare che si apriva alla fine del passaggio, trovarono la fonte di quel tanfo nauseabondo: una dozzina di enormi cani yeth che sembravano profondamente addormentati. Ormai dovevano essere nelle vicinanze del quartier generale di Imprimus. Quel branco di yeth, per il momento, non sembrava in grado di dare alcun fastidio: il Buio li aveva fatti crollare in uno stato di torpido letargo. In circostanze diverse quelle creature si sarebbero lanciate ringhiando nella galleria, abbaiando contro qualunque intruso che avesse osato penetrare là dentro. Tuttavia alla vista dei leoni qualche cane si tirò su e cominciò a ringhiare; uno sollevò il capo e proruppe in un cupo ululato, che cominciò nei toni più bassi per salire fino a superare la soglia dell'udito umano. A quell'urlo i leoni risposero con un coro di tremendi ruggiti, che echeggiarono rimbombando tra le pareti della stanza sotterranea. Ormai la sfida era lanciata, e l'istinto primordiale prese il sopravvento: i mostruosi cani yeth si lanciarono all'attacco digrignando i denti. Il Buio aveva indebolito anche i leoni, ma i felini erano avvantaggiati dal fatto che non avevano bisogno di alcuna luce, mentre i cani sì. Quei mastini non avevano via di scampo. Mentre Gord cercava di salvare la pelle, colpendo alla cieca un paio di maschi yeth che gli erano arrivati alle spalle, i dieci leoni letteralmente sbranarono il resto del branco. «Ti devo la vita» disse Gord, ancora senza fiato: Respiro Caldo aveva appena ucciso uno dei cani che avevano tentato di azzannare il giovane alla gola. La spada e il pugnale erano delle ottime armi, ma poco adatte a combattere contro questo genere di animali. «E tu, signore, ci hai tirato fuori dal pozzo» rispose il grande maschio, pulendosi il sangue scuro che gli insozzava le zampe e le mascelle. «Puah!» ruggì, pieno di disgusto. «Non mi devi nulla per aver fatto fuori quello yeth... spero solo di sbranare presto qualcun altro, per farmi andar via di bocca questo gusto schifoso di sangue di cane.» «Sarai presto accontentato! Devo trovare qualcosa per fare un po' di luce, e poi continuiamo; la tana di Imprimus non può essere tanto lontana». Respiro Caldo tornò dai suoi compagni per riferire l'informazione e Gord si mise a perquisire quella larga stanza. La sua vista si stava affievolendo sempre più, e se non trovava presto una soluzione si sarebbe ritrovato di nuovo nel buio pesto. Tre porte si aprivano in quella stanza. Ognuna di esse si trovava al cen-
tro di una parete, e aveva ai lati due strane lucerne. Non erano accese, ma Gord si accorse che in tutte c'era ancora qualche residuo di olio. Usando dei brandelli di stoffa e dei pezzi di legno che aveva trovato nella stanza dei cani, Gord riuscì a costruire tre torce imbevute di quel po' d'olio che era riuscito a recuperare. Sfregando la punta del pugnale sulla parete fece sprizzare una scintilla, e riuscì ad accendere una delle torce. «E ora, amici leoni, affido completamente a voi la mia difesa» disse ai felini tenendo alta la fiamma. «Con questa torcia in mano non posso fare altro». La fiaccola dava solo un po' di luce molto pallida. Nel Regno dell'Ombra le fiamme bruciano di solito con un colore grigio perlato, ma durante la stagione dell'oscurità assoluta l'oppressione del Buio fa sì che anche i fuochi più vivaci brillino solo di un debole grigiore. Dalla torcia saliva un fumo denso, creando un debole alone di luce che permetteva di vedere qualcosa solo a pochi passi di distanza. «Certo» rispose Criniera di Fumo a nome del gruppo. «Facci strada, al resto ci pensiamo noi». Il ruggito del leone echeggiò nella stanza, perdendosi nei meandri della galleria. «Da questa parte» disse Gord, dirigendosi a sinistra rispetto al pozzo. La sua vista acuta aveva osservato molti peli neri di yeth attorno alla porta di destra. Molto probabilmente quello era solo un magazzino dove veniva conservato il cibo per i mastini, di certo un posto poco frequentato dal padrone del luogo. La porta centrale invece aveva molte tracce di usura sulle maniglie e sui cardini. Ma questo fatto aveva molto insospettito il giovane avventuriero, anche perché quella era l'unica porta delle tre ad aprirsi verso l'esterno: probabilmente si trattava di un modo, neanche tanto astuto, per attirare e intrappolare gli intrusi e gli indesiderati. «Andiamo a sinistra. È l'unica porta che mi sembra a posto» aggiunse, nel caso che qualcuno avesse desiderato una spiegazione. Ma di solito i leoni non badano troppo a questo tipo di ragionamenti. La porta si aprì con una certa facilità. C'era un piccolo pianerottolo e una lunga scala in discesa. Gord cominciò a scendere alla debole luce della torcia, Respiro Caldo lo seguiva da vicino, e poi venivano gli altri nove leoni. Si muovevano tutti in fretta, perché presto sarebbe terminato il periodo di completa oscurità. Il Buio non sarebbe scomparso a poco a poco, proprio come era avvenuto per il Tramonto: l'oscurità era giunta all'improvviso dopo l'ultimo istante di chiarore, e sarebbe scomparsa altrettanto velocemente. Quando il tetro intervallo del Buio fosse finito, il Regno delle Ombre avrebbe riacquistato il consueto pallore di ombre argentate, gradazioni
di grigio e nero; poi Mool sarebbe cresciuto di nuovo, fino a far tornare ancora la nera oppressione del Buio: quello era il ciclo di un anno, come lo si misurava nel Pianeta dell'Ombra. Quando finalmente raggiunsero la fine della lunga rampa, Gord capì di essere arrivato nel cuore della tetra fortezza del crepuscolo. Al piano di sopra c'erano le postazioni delle guardie, dei cani e il resto delle difese. Qui dovevano esserci le sale di lavoro, i laboratori e le biblioteche di quelli che cercavano di impadronirsi del governo del pianeta. Questo risultò ad una prima, rapida perlustrazione delle stanze che si aprivano nella galleria in cui erano arrivati. Gord riuscì anche a scovare una fonte migliore di luce: in un laboratorio alchemico aveva trovato una strana lampada. Era chiusa in una scatola di cristallo, e sembrava quasi una lanterna. Non era riuscito a identificare il carburante che la teneva accesa, ma c'era uno stoppino che al contatto della torcia, ormai quasi spenta, si accese subito di una vivida fiammata. Emanava il solito chiarore grigiastro, ma almeno riusciva ad illuminare ad una distanza superiore. Ora il gruppetto era pronto a continuare la ricerca. Quel luogo sembrava veramente il centro del palazzo, ma c'era sicuramente qualche altra zona da scoprire. Durante il Buio i crepuscoli dovevano essere rimasti nelle loro stanze personali, a meno che non fossero tutti come Imprimus: Gord sapeva che quel demonio era chiuso nel suo sarcofago, in attesa che il ritorno delle ombre gli restituisse le forze. Quando aveva tentato di rubargli il Fuoco dell'Ombra, Imprimus era stato bloccato dall'arrivo del Tramonto. I periodi più chiari e più scuri, in quel regno di ombre, erano gli unici in cui Imprimus perdesse gran parte dei suoi poteri, e il chiarore del Tramonto avrebbe di certo ucciso quel demonio se non si fosse nascosto in tempo. Allo stesso modo l'oscurità totale del Buio lo rendeva debole e vulnerabile, e Gord sperava appunto di trovarlo prima che il Buio finisse. «Gord! Sento degli strani odori! Da questa parte». Era Respiro Caldo: si era irrigidito completamente e stava puntando uno degli angoli più bui della biblioteca. Gord riuscì a localizzare un'uscita segreta, una porta nascosta da uno scaffale pieno di volumi e pergamene. Lì dietro c'era un'altra scala, e il giovane avventuriero cominciò a scendere immediatamente, seguito dai dieci leoni. Nello stretto pertugio c'era un insopportabile puzzo di cadaveri, e persino l'udito umano di Gord riusciva a individuare dei suoni che provenivano dal basso: poi la luce della lampada illuminò il grigio pallore di un muc-
chio di ossa d'ombra. Era evidente che anche in quel pianeta c'erano dei mangiatori di cadaveri, infatti assieme al puzzo dei morti si sentiva l'inconfondibile odore delle creature che si nutrono di corpi in putrefazione. «Non potrò difendervi se incontriamo dei nemici» sussurrò Gord, «devo tenere in mano la torcia.» «Sono mangiatori di uomini morti» ruggì Criniera di Fumo in risposta. «Ne abbiamo già incontrati una o due volte, è gente che tenterà di sbranare anche noi». Gord notò che il leone non faceva alcuna distinzione tra gli esseri umani del pianeta materiale e i fantasmi del pianeta delle ombre; e in effetti i fantasmi erano proprio l'equivalente degli uomini. Invece i crepuscoli erano diversi, erano qualcosa di soprannaturale, nemici dei fantasmi e di ogni altra creatura vivente. I due grossi maschi superarono Gord e continuarono a scendere la scala. Poi scesero le leonesse, e la battaglia incominciò. Con la torcia alta in mano, Gord si affrettò a seguirli. I ruggiti rabbiosi dei felini si mescolavano alle orribili grida dei crepuscoli e dei loro temibili cugini, i ghulaz, che cercavano di difendersi dal feroce attacco. I mangiatori di cadaveri, così come i crepuscoli, erano molto indeboliti dalla stagione di buio totale: sembravano appena risvegliati da un lungo letargo, avevano i riflessi lenti, e sebbene combattessero disperatamente si resero conto di non avere alcuna speranza di salvezza. Ben presto cominciarono a ritirarsi: i piccoli crepuscoli correvano verso un'apertura sulla sinistra, mentre i ghulaz, molto più grandi, cercavano rifugio dietro una lastra di pietra nella zona di destra della sala. Gord decise di ignorare le creature più piccole. «I più grandi... i ghulaz!» gridò ai suoi compagni. «Dobbiamo fermarli! Seguitemi!» E così dicendo si diresse verso una nicchia in cui si erano rifugiati sei grossi ghulaz dall'aspetto canino; quell'angolo non poteva nasconderli tutti, ci doveva essere un'altra uscita. Ma quando la lampada illuminò quel tetro recesso, Gord non vide altro che roccia nuda: nessuna uscita, nessun ghulaz. Niente. «Sento il puzzo di quelle dannate creature» ruggì Criniera di Fumo. «Sono vicini, ma non riesco a vederli.» Forse si trattava di qualche forma di incantesimo. Con un notevole sforzo di volontà Gord si costrinse a tastare la parete di roccia. C'era una fenditura, molto bassa, che poteva lasciar passare un uomo ma non certo un grosso leone. «Restate qui, amici» sussurrò Gord. Erano tutti feriti, anche se non seriamente, e non avrebbero potuto far molto per lui: doveva veder-
sela da solo con i ghulaz. «Devo prendere la torcia e seguirli» disse in fretta a Criniera di Fumo. «Voi state all'erta, nel caso che quei bipedi puzzolenti decidano di tornare» ordinò, indicando il punto dove si erano dileguati i crepuscoli. «Aspettatemi qui. Se non farò ritorno nel giro di un breve sonno, proseguite in quella direzione. Ci dovrebbe essere un passaggio che risale. Non posso fare di più per voi.» «Siamo venuti di nostra spontanea volontà, signore. È stata una buona caccia, e ne abbiamo fatti fuori parecchi. Se adesso tocca a noi, diventeremo delle vittime senza lagnarci troppo. Vogliamo combattere e morire da leoni, e ti ringraziamo per l'onore che ci hai concesso» disse il più grosso dei due maschi con la sua voce cavernosa. Anche Respiro Caldo e le leonesse si unirono ai ringraziamenti, e in pochi minuti la grotta si riempì dei ruggiti di quella decina di leoni che incitavano alla sfida gli abitanti di quel tetro luogo sotterraneo. Gord si infilò nello stretto pertugio e, con la lampada nella mano sinistra e la spada nella destra, avanzò nella galleria. Subito dopo l'entrata strettissima il passaggio si allargava, abbastanza da permettergli di proseguire carponi e poi addirittura di camminare, un po' chinato. Il cammino era difficile, perché la galleria continuava a girare verso sinistra e diventava sempre più ripida. Ma la cosa peggiore era il puzzo insopportabile dei ghulaz che costringeva Gord a lottare con la nausea. Oltre a quelle difficoltà fisiche, Gord doveva vedersela con un ostacolo psicologico. Come avrebbe fatto, da solo, armato solamente di una spada e di un pugnale, a combattere e a sconfiggere sei grossi zombi? Eppure in qualche modo doveva farcela, se voleva raggiungere il suo obiettivo finale: uccidere Imprimus, il Cadavere dei Crepuscoli. Il puzzo si faceva sempre più forte. Gord girò un angolo e si trovò di fronte a una di quelle orrende creature. Il grosso mostro si era appostato per cogliere di sorpresa il giovane avventuriero. Ma la luce della strana torcia che Gord aveva in mano lo colpì in pieno volto, creandogli non poco fastidio. Quel raggio quasi palpabile di grigia luminosità colpì gli occhi senza vita della creatura, e il ghulaz sembrò accecato e confuso. L'effetto durò solo qualche istante, ma per Gord fu più che sufficiente. La sua lama incantata disegnò nell'aria un arco scintillante che colpì il ghulaz al basso addome, squarciandolo dall'inguine al petto. Il mostro ululò per il dolore, e il suo fetido fiato investì il volto di Gord. Il giovane lo colpì
ancora di taglio sul collo, da sinistra a destra. La lama affilata quasi decapitò il ghulaz, che si ritirò barcollando con il collo reciso e la testa penzolante, attaccata al resto del corpo solo da qualche tendine e da un po' di pelle. Gli altri ghulaz erano accorsi immediatamente. Ora la galleria era abbastanza alta da permettere a Gord di stare in posizione eretta, ma per fortuna le pareti distavano l'una dall'altra meno di un metro: quindi gli avversari potevano assalirlo solo uno alla volta. Il più grosso di quei mostri era proprio davanti a lui, accucciato, pronto a balzare all'attacco. Visto il successo avuto con il primo, Gord diresse subito il raggio di luce in faccia al secondo; il volto bestiale si contrasse per evitare quel chiarore, e il mostro si piegò come irrigidito, paralizzato. Anche la creatura successiva reagì allo stesso modo davanti a quella pallida fonte di luce: quando il raggio gli cadde sugli occhi, il terzo ghulaz lanciò un orrendo ululato e cercò di scappare. Per tutta risposta Gord spinse in avanti la torcia, verso il mostro che si era piegato per evitare di essere illuminato. Né lui né quello che lo seguiva riuscirono a scappare, dal momento che le altre tre creature erano subito dietro. Un orribile lamento uscì dalla bocca dei due ghulaz colpiti dalla luce. Il primo cadde carponi, pronto ad attaccare. Con la forza della disperazione Gord lo colpì alla testa; il cranio della creatura si spaccò, schizzando tutt'intorno pezzi di osso e putrida materia cerebrale. Senza un attimo d'esitazione il giovane avventuriero saltò oltre quei resti schifosi per portarsi addosso agli altri zombi. Ormai si erano accorti con chi avevano a che fare, e cercavano di allontanarsi il più presto possibile da quel terribile nemico: ma era troppo tardi. I raggi della lampada continuavano a balenare nell'oscurità, la spada scintillava mentre colpiva senza tregua. Tre superstiti però stavano ancora dando del filo da torcere a Gord. Il giovane si lanciò ancora una volta all'attacco, colpendo alla schiena uno dei ghulaz ancora in vita: il colpo gli tranciò di netto la spina dorsale, mandando il suo spirito infernale a tener compagnia ai due che erano già morti. Gli ultimi due se l'erano già filata, e avevano un discreto vantaggio rispetto a Gord. Ma il giovane si lanciò in un inseguimento mozzafiato, e fu subito chiaro che le creature non erano abbastanza veloci. Una delle due cadde quasi subito sotto il violento attacco di Gord; invece l'ultimo dei mostri si era nascosto poco più avanti, con il volto premuto contro un masso che chiudeva la galleria. Era finito in un vicolo cieco e sapeva che an-
che per lui era giunta la fine. Gord gli procurò una morte rapida e indolore, anche se si meritava qualcosa di peggio. Gord si fermò a tirare il fiato, e guardandosi intorno notò dei geroglifici tracciati su un masso lì vicino. I misteriosi simboli sembravano ondeggiare all'incerto tremore della luce, poi cominciarono addirittura a produrre uno strano ronzio e ad emettere dei piccoli riccioli di fumo oleoso. Nonostante tutto quel brusio, che sembrava preannunciare la loro scomparsa, i segni restarono fissi sulla pietra. Doveva essere un'iscrizione magica, messa lì a protezione di qualcosa; dapprima Gord pensò di averla disattivata, grazie alla luce della lanterna, ma poi gli venne in mente una cosa. In fondo quella lampada era stata trovata proprio lì, nella fortezza del crepuscolo: quindi era poco probabile che avesse la capacità di disattivare una protezione contro gli intrusi. Molto saggiamente il giovane pensò che gli strani effetti della luce sui geroglifici erano stati solo un'illusione, creata apposta per dare ad un eventuale intruso un eccessivo senso di sicurezza: quindi era bene non fidarsi. Anche se l'idea gli ripugnava, Gord sollevò la carcassa dell'ultimo ghulaz che aveva ucciso e la appoggiò al masso. Non accadde nulla, proprio come aveva immaginato. Allora provò ad aumentare con il suo peso la pressione di quel cadavere puzzolente: usando il ghulaz come un cuscino fra sé e il masso, cominciò a spingere. Ed ecco che l'incantesimo di protezione cominciò a svolgere la sua funzione: Gord sentì le ossa del cadavere del ghulaz frantumarsi, i muscoli e le carni perdere la loro consistenza: il corpo si stava decomponendo, quasi disintegrando al contatto con il masso e le sue magiche protezioni! Il puzzo si era fatto così insopportabile che Gord non riuscì a trattenere qualche conato di vomito. Dopo pochi istanti, che in quella situazione gli sembrarono un'eternità, i resti del ghulaz si erano trasformati in una sostanza gelatinosa, ma bastavano ancora per creare un cuscinetto e permettergli di spingere. A quel punto non poteva più tirarsi indietro: aveva sentito il masso spostarsi leggermente. E ad un tratto si mosse, lasciando libero il passaggio. Col respiro affannato Gord cercò di pulirsi alla meglio le mani e il torace, sfregandoli contro il muro. Poi si chinò e penetrò nel pertugio che si era creato tra il masso e la parete; con un po' di speranza e molto timore stava entrando in quello che doveva essere il rifugio di Imprimus.
Capitolo 23 «Hai proprio voglia di morire» gracchiò una voce secca che sembrava provenire dalle sue stesse orecchie, «se hai superato tanti ostacoli per arrivare fino a qui.» Gord si girò di colpo, e la sua lampada disegnò strane ombre sulla parete mentre cercava di impugnare la spada. Niente. Non c'era nessuno. Si trovava in una grotta dal soffitto molto alto, una caverna naturale di ampie proporzioni. Le pareti sembravano di solida pietra, visto che dall'alto pendevano grosse stalattiti e dal suolo si alzavano numerose stalagmiti; alcune di queste formazioni calcaree si congiungevano a formare delle colonne. «Carino come posto, vero?» chiese ancora la voce rugginosa in tono allegro, come se non riuscisse a trattenere quelle spiritosaggini. «Forse ti permetterò di restare qua, come guardiano speciale» sussurrò infine. «Imprimus! Dove sei, maledetto bastardo?» gridò Gord risvegliando l'eco della caverna: «... tardo... ardo... ardo...» «He, he, he, he» tra le rocce serpeggiò il sibilo di una risata che non proveniva da nessuna parte, o da tutte le parti contemporaneamente. «Abbi pazienza! Verrò presto a salutarti!» ruggì sinistra la voce. Da qualche parte scorreva dell'acqua, acqua di ombra naturalmente, che però creava un rumore argentino gocciolando in un laghetto. La torcia bruciando emetteva un debole sibilo, e i suoi deboli raggi sembravano quasi sussurrare qualcosa mentre percorrevano l'oscurità della grotta. Non si sentiva nessun altro rumore. Per liberare entrambe le mani, Gord appoggiò la lampada sopra una grossa stalagmite piatta. «Hai paura, umano?» chiese quella voce aspra. Questa volta era più forte, e non c'era alcun tono ironico. «Non puoi fuggire da qui, e non puoi neanche nasconderti. Aspetta con calma e ti renderò le cose molto facili.» Non ci fu risposta, non ci fu alcun rumore oltre al sibilo della lampada e al monotono gocciolio dell'acqua. Gord si guardò attorno tendendo le orecchie con la massima attenzione. C'era un'ombra scura che si muoveva nella grotta? Qualche creatura che si aggirava silenziosa nell'oscurità? Adesso sentiva un debole scricchiolio, a metà strada fra sé e il fondo della caverna, a circa tre metri d'altezza dal suolo. Poi sentì un frusciare di vestiti, il cigolio di quelli che potevano essere vecchi cardini, e un debole brusio. Subito dopo quattro sfere di luce scura presero forma nella caverna. Galleggiavano a mezz'aria proprio di fronte all'apertura da cui era entrato Gord, ma non riuscivano ad illuminare il giovane avventuriero.
Le quattro sfere si divisero, un paio volteggiando verso sinistra, le altre due muovendosi lentamente verso destra. Le due coppie di sfere lucenti percorsero il perimetro della grotta, rendendo visibile per un attimo tutto ciò che sfioravano: null'altro che roccia. Allora dal bordo di un sarcofago di ossidiana, collocato su una piattaforma in fondo alla caverna, spuntò una mano artigliata. E dietro la mano apparve una testa orribile. L'aspetto era quello di un cranio umano sfigurato dall'incrocio con un mostruoso pipistrello: era il volto di Imprimus, un tempo umano, poi crepuscolo, ora vampiro, Cadavere non-morto che il Buio del pianeta delle ombre aveva costretto ad assumere le sue vere sembianze. Ma se quel corpo scheletrico riusciva a sollevare la sua testa orrenda, significava che il tempo del grande Buio stava svanendo. Entro breve tempo, forse entro pochi minuti, l'oscurità se ne sarebbe andata e il mostro avrebbe ripreso il controllo dei suoi poteri. Le fauci di quel mostruoso pipistrello-uomo si stavano spalancando, lasciando intravedere la possente dentatura. «E così» sussurrò la voce rugginosa, «il nostro piccolo uomo ha cercato salvezza nella fuga, dopotutto». La testa si arrovesciò per lasciare uscire un tetro ghigno, ma il suono morì prima di poter uscire da quella gola infernale. Gli occhi cadaverici della creatura si fissarono in un punto della caverna, e improvvisamente si incendiarono di una vampa di fuoco grigio. L'agile figura del giovane ladro era comparsa all'improvviso come dal nulla, e con un salto spettacolare passò sopra la mostruosa creatura distesa nel sarcofago. Con una capriola a mezz'aria, Gord cadde in piedi in una nicchia che si apriva dietro la bara. La faccia della demoniaca creatura si contorse dalla rabbia. Quell'umano era un avversario intelligente, anche se forse un po' avventato nell'osare tanto. Non solo aveva avuto il coraggio di minacciarlo, ma adesso stava cercando di impossessarsi di ciò che il vampiro aveva di più caro. «Fermo!» Imprimus avrebbe voluto gridare, ma l'ordine risuonò debolmente, poiché il Buio non aveva ancora terminato il suo corso. Poi il mostro si girò completamente e vide ciò che quell'impudente aveva intenzione di fare: e l'espressione di rabbia si mutò in una di preoccupazione. «Sei molto intelligente e abile» disse Imprimus con la sua voce sussurrata. «Ti sei guadagnato il mio rispetto e la mia approvazione. Vieni a rendermi omaggio ora, e ti accoglierò fra i miei servi più fidati.» Gord non si degnò nemmeno di rivolgergli uno sguardo. Davanti a lui,
nella nicchia, c'era una montagna di tesori ammassati in una confusione indescrivibile, che brillava di una luce interna, debole, ma ben visibile. Da qualche parte, in quel mucchio, ci doveva essere un'arma che gli avrebbe permesso di combattere i terribili poteri del vampiro. Adesso Imprimus era molto indebolito dall'ondata di oscurità, ma restava comunque un temibile nemico, difficile da vincere con armi e capacità normali. Avori, ambre e giade traboccavano da quel mucchio di gioielli: grosse gemme, collane di perle e metalli preziosi, amuleti magici, fiaschette di cristallo piene di chissà quale liquido magico. Alcune si rovesciarono e rotolarono via, altre finirono per rompersi e il loro contenuto si mescolò ai frammenti di un rubino spezzato, o andò a bagnare un rotolo di pergamena contenente qualche antica formula magica. Senza curarsi affatto di quello che calpestava, Gord continuò a cercare, rovistando in quel cumulo come un cane da caccia nella tana della preda. Ad un tratto delle dita ossute lo afferrarono alla gola, e delle unghie cercarono di infilarsi nella sua carne. Quel tocco gli fece scendere un brivido lungo la schiena, e quando dei denti affilati gli penetrarono nel collo non riuscì a trattenere un grido di dolore. «Che tu sia dannato!» urlò, girandosi e portando un affondo con il pugnale. La forza del colpo fece mollare la presa a Imprimus, che sibilò dal dolore: il lungo pugnale gli si era infilzato nel fianco destro. La creatura arretrò di qualche passo, lanciando terribili occhiate all'umano che aveva osato colpirlo. Nel frattempo aveva già cominciato a pronunciare uno dei suoi più temibili incantesimi. «Ora saprai cos'è il dolore, omiciattolo!» disse il Cadavere; poi sputò a terra e il suo volto si contrasse in una smorfia d'odio. Nella disperazione, Gord raccolse una manciata di gioielli e la lanciò contro il volto del crepuscolo. «Aaaaggh!» Il grido di rabbia di Imprimus fu il suono più bestiale che Gord avesse mai udito, più terribile persino di quello del dragone. La manciata di gemme aveva ottenuto l'effetto desiderato, era evidente: quella pioggia di oggetti aveva distratto l'orrenda creatura dalla formula magica che stava per pronunciare. Gord continuò a lanciare tutto quello che gli capitava sottomano contro Imprimus, e intanto cercava un'arma più adatta. Nel mucchio c'era infatti ogni sorta di armi: pugnali tempestati di gioielli, mazze rilucenti di pietre preziose, spade cerimoniali e asce di oro zecchino, naturalmente tutte fatte di ombra. Nessuna di quelle, però, poteva essergli utile in quel frangente. «Adesso si fa sul serio» pensò Gord, e si arrampicò in cima al cumulo. Il
crepuscolo si era di nuovo lanciato all'attacco, e cercava di afferrarlo e di conficcargli i temibili canini nella carne. «No, no! Vieni quassù se hai coraggio!» L'oscurità del Buio si era quasi completamente dileguata: Gord lo capiva dal luccichio crescente negli occhi del mostro e dalla velocità con cui si stava muovendo. Gord doveva portarlo all'esasperazione per avere almeno una piccola opportunità, un'occasione per annientare quel demonio. Ma tutto stava accadendo così in fretta... Il crepuscolo grugnì, guardando fisso il nemico. Adesso l'umano era uscito allo scoperto e stava tenendo in mano una lunga spada. Era un'arma molto antica, dalla lama a foglia e con una strana decorazione che rappresentava dei serpenti. Come mai si trovava in quel mucchio di gioielli? Imprimus non riusciva a ricordarselo, ma comunque quella vecchia spada sembrava più che altro un inutile ornamento: era fatta di uno strano materiale cristallino, probabilmente quarzo o topazio... che importava? L'oppressione che il Buio aveva fatto calare sul pianeta stava per svanire, ma Imprimus voleva punire subito duramente quell'omiciattolo arrogante che gli aveva appena ricordato, così dolorosamente, la sua condizione di debolezza. Quel giovane aveva rifiutato di consegnare il Fuoco dell'Ombra, poi l'aveva dato a quel noioso che diceva di essere il re del pianeta. Beh, presto quell'umano sarebbe diventato un altro dei suoi servitori; Imprimus si sarebbe ripreso il potente opale dalle mani del Re dell'Ombra e l'avrebbe portato in un luogo segretissimo. Imprimus aveva intenzione di togliere personalmente la vita dal corpo del suo nemico, per assaporare fino in fondo la sensazione di potere e divertirsi nell'assistere alla sua agonia: voleva godere il momento in cui le forze vitali del giovane sarebbero defluite dal suo corpo per essere rimpiazzate dal gelido tocco della vita negativa! «Avanti! Scendi da lassù, e cerchiamo di venire a patti!» disse Imprimus, mentre i suoi occhi grigi scintillavano verso quelli della sua vittima predestinata. «La mia generosità non durerà a lungo...» Gord scosse la testa per rompere l'effetto ipnotizzante di quello sguardo e il ronzio delle parole del mostro. Poi lanciò un'altra manciata di gioielli sulla faccia di Imprimus. «Sterco di topo, faccia di pipistrello! Prova solo ad avvicinarti e...» Gord lanciò un'altra manciata di monete e gemme, e una nuova rabbia alimentò lo spirito del crepuscolo. «Troppo tardi!» ruggì Imprimus, e si lanciò in aria con le mani protese, la grande bocca spalancata, pronto ad azzannare il morbido corpo del piccolo umano che aveva osato sfidarlo. Il
Cadavere aveva acquistato una tale energia che il suo balzo lo portò direttamente vicino al giovane. Il suo corpo sembrava un dardo scagliato da una balestra. Niente poteva fermare quell'impeto di forza e velocità. L'attacco fu improvviso e fulmineo: Imprimus giunse vicino a Gord nel tempo di un battito cardiaco, e le sue mani dure come il ferro agguantarono il nemico in una stretta potente. Ma... «Troppo tardi!» Le parole echeggiarono nella mente di Gord che stava perdendo i sensi. «Cosa succede a un Cadavere quando muore?» chiese il giovane avventuriero, ma non ci fu risposta alla sua domanda. Le unghie di Imprimus lasciarono la presa, scivolando lentamente su tutta la lunghezza del corpo di Gord. L'impugnatura della spada cristallina usciva come una strana lingua dalla bocca di Imprimus. La punta era conficcata in qualche posto, nel profondo del petto del mostro. Gord allontanò con un calcio i resti del nemico e si fermò a guardare affascinato quell'essere, che era stato il potentissimo sovrano dei crepuscoli, ridotto ad un ammasso informe in una fetida pozza di sangue. Ben presto anche il sangue si asciugò, e non rimase nient'altro che un mucchietto di polvere nera. No, non tutto era scomparso. La spada cristallina era ancora là, e sulla sua lama trasparente non c'era traccia di quell'essere demoniaco. Anzi: l'arma sembrava ancor più rilucente di prima, quasi fosforescente. «Di tutti questi tesori» mormorò Gord, guardandosi attorno, «prenderò solo questa spada, oltre a ciò che sono venuto a cercare. Tutto il resto è contaminato dal tocco di Imprimus!» Si rimise il pugnale nel fodero, e con la nuova spada in mano cominciò a frugare alla ricerca della collana con le nove pietre nere. Nonostante lo sforzo e le ferite subite, Gord era deciso a passare al setaccio il mucchio di tesori di Imprimus, pezzo per pezzo se fosse stato necessario. Quelle nove pietre dovevano per forza trovarsi là. In un regno di ombre, delle gemme come quelle dovevano avere un valore inestimabile; e quello era l'unico vero tesoro che avesse visto su quel pianeta. Neppure il Re dell'Ombra possedeva tante gemme, gioielli e oggetti di valore. Facendo del suo meglio per non badare al dolore, Gord usò la spada di cristallo come fonte di luce, ed esplorò meticolosamente il pavimento della caverna: forse la collana di platino era uno degli oggetti che aveva lanciato contro Imprimus. Ma fra i gioielli sparsi qua e là non c'era, così decise di tornare al mucchio principale. Poi gli venne un'idea.
Ma certo! Se anche in quel pianeta gli zaffiri e la collana erano tanto preziosi, non potevano certo essere buttati là, in quell'ammasso disordinato e senza custodia. Muovendosi in fretta, nonostante le ferite, Gord si avvicinò al sarcofago dove Imprimus aveva trascorso il periodo di letargo; e appena infilò la spada nella bara, la vide. La collana era distesa in un cerchio ordinato alla testa del giaciglio, come se Imprimus l'avesse usata come un cuscino. Nonostante il pensiero dell'orribile creatura che l'aveva posseduta, e delle altre mani in cui era passata nel corso degli ultimi anni, Gord sentì un brivido di timoroso piacere quando sollevò la collana e ammirò le nove grandi gemme nere che vi erano incastonate. Purtroppo non le riconobbe, non gli fecero tornare alcun ricordo. Erano sue - in qualche modo ne era certo - ma non sapeva né come né perché. Gord arrotolò con cura la collana, e la infilò in una tasca laterale della sacca che portava alla cintura. Cercando di soffocare le sue emozioni, si convinse che avrebbe avuto molto tempo, più tardi, per decidere cosa fare. Per il momento doveva preoccuparsi solo di uscire da quel posto tremendo. La caverna era completamente buia. La strana lampada si era consumata durante la battaglia con i grandi demoni e il pericoloso crepuscolo. Gord non se ne preoccupò molto, visto che ora aveva la spada di cristallo che gli illuminava la strada. Ogni passo gli risultava dolorosissimo. L'attacco del Cadavere lo aveva ferito fisicamente e psichicamente: si sentiva stanco, debole, e soffriva molto per le ferite inflittegli dalle unghie e dalle zanne di quel mostro. Sapeva che ci sarebbe voluto molto tempo per riprendersi dagli effetti devastanti di quel combattimento. Con passo sempre più lento riattraversò la stretta galleria e si infilò nella grotta dove Imprimus teneva i mangiatori di cadaveri e i ghulaz, a cui dava gli avanzi dei suoi pasti: i corpi dissanguati dei disgraziati che uccideva per placare la sua insaziabile sete di sangue e il suo desiderio di forza vitale. «Criniera di Fumo! Respiro Caldo!» Nessuno rispose al richiamo. Poi Gord vide che c'erano dei leoni, ma erano morti. Dovevano aver combattuto durante la sua assenza. A quanto sembrava i mangiatori di cadaveri erano tornati, assieme ad altri crepuscoli, perché ce n'erano alcuni dilaniati e morti fra la mezza dozzina di leoni che avevano perso la vita combattendo contro gli scagnozzi di Imprimus. Uno era il grosso Criniera di Fumo, ma dell'altro grande leone, e delle tre leonesse superstiti, non c'era traccia. Gord decise di ritardare di qualche secondo la sua fuga, e si avvicinò ai
felini morti, toccandoli dolcemente ad uno ad uno: «Arrivederci, amici. Che il vostro viaggio nell'infinito sia pacifico e sereno» mormorò. Poi, con l'aiuto della pallida luce emanata dalla spada di cristallo, Gord lasciò anche quella grotta e seguì la direzione che i demoni avevano preso scappando, la prima volta che era entrato con la sua scorta in quel luogo. Il puzzo di carne marcia era tale che Gord non riusciva a capire se nelle vicinanze ci fosse un demone, o un leone, o entrambi. L'accesso alla piccola caverna era un passaggio naturale che descriveva una stretta curva penetrando tra gli strati di roccia d'ombra. Dopo un tempo che gli sembrò un'eternità, il giovane avventuriero raggiunse finalmente la superficie del Pianeta delle Ombre. C'era una strana luce, che brillava di pallidi riflessi argentati, ora che non era più offuscata dall'uniforme grigiore del Tramonto o ammantata dell'oscurità del Buio. Insomma, al giovane sembrava proprio di essere riemerso su Taire, alla luce del sole nel cielo azzurro di un mattino di primavera. «Sei vivo, signore!» il ruggito di saluto veniva da Respiro Caldo. Il grosso felino saltò addosso a Gord, piazzandogli le zampe anteriori sulle spalle, e facendolo quasi cadere. «Sei troppo pesante!» ansimò Gord sorridendo di gioia e accarezzando affettuosamente il leone. «Sono contento che tu ce l'abbia fatta!» esclamarono all'unisono l'uomo e il leone. Poi si raccontarono della lotta con Imprimus e dell'attacco dei demoni. «Ecco perché ce ne siamo andati, Gord» grugnì il leone. «Il nostro istinto naturale ci avvertiva che il Buio stava per passare. Tu non eri ancora arrivato, e credevamo fossi morto. Non saremmo riusciti a tener testa a quel crepuscolo che tu chiami Imprimus, così abbiamo deciso di scappare, dopo aver cercato in tutti i modi di annientare quel branco di indemoniati.» Abbracciando quella criniera scompigliata e macchiata di sangue Gord disse, in tutta sincerità: «Avete fatto così tanto per me, tu e Criniera di Fumo, che non so come esprimere la mia gratitudine. Anche il Re dell'Ombra verrà informato della vostra lealtà e delle ingiustizie che ha dovuto subire la vostra razza; e forse, d'ora in poi, finirà ogni disaccordo fra lui e i leoni dell'ombra. Ora devo andare in cerca del signore di questo pianeta: se restassi qui ancora, so che non riuscirei più a tornare nel mio mondo.» «Anche noi dobbiamo cercare le nostre case. C'è da badare al branco di Criniera di Fumo... sono rimaste poche femmine e qualche cucciolo, lo sai. Si uniranno al mio branco, finché uno dei suoi figli non sarà cresciuto ab-
bastanza per formare un nuovo branco e cacciare nei territori di suo padre. Per quel che riguarda il Re dell'Ombra, non mi importa di ciò che pensa della nostra razza. Se deciderà di darci la caccia, combatteremo contro di lui e il suo seguito. Una cosa però ti chiedo: parla bene di noi con il Re dei Felini, e te ne saremo sempre grati.» Dopo un ultimo scambio di saluti i leoni si allontanarono: qualcuno zoppicava, e tutti portavano evidenti segni della battaglia che avevano dovuto affrontare. Anche le ferite di Gord erano ben visibili, e dolorose; ma il giovane si incamminò lentamente in quel desolato regno di ombre, di nuovo in cerca del sovrano di quel paese. Sarebbe stato un cammino lungo e difficile, ma tuttavia il giovane ladro era deciso a trovare ancora una volta il Palazzo del Chiaroscuro. Anche se c'erano ben poche speranze di trovare il Re dell'Ombra, quella era l'unica possibilità che gli rimaneva per tornare nel suo mondo. Con la spada di cristallo appoggiata sulla spalla, Gord avanzava con passo lento e disuguale sulla superficie in movimento del Pianeta delle Ombre, deciso a raggiungere la meta o a morire durante il viaggio. Capitolo 24 Finalmente vide delle guglie alte sull'orizzonte. Il palazzo del governatore delle ombre gli stava venendo incontro come una nave spinta dalla corrente. Gord si incamminò in quella direzione, lasciando scivolare via la piccola isola d'ombra su cui si era fermato; poteva raggiungere la grande costruzione in pochissimo tempo. A quanto si poteva vedere non c'era neanche una guardia sui bastioni, sembrava che nessuno si fosse accorto del suo arrivo. Le porte del Palazzo del Chiaroscuro erano sbarrate. Ma quando Gord vi giunse davanti, nel terreno si aprì una caverna e una voce chiese: «Chi sta davanti all'entrata proibita della Fortezza del Re dell'Ombra?» «Sono io» disse il giovane avventuriero, cercando di mascherare il tono di disperazione. «Gord, un viandante, giunto troppo tardi...» Ma ecco che nel palazzo si aprì una porticina di legno, e una voce disse: «Entra, Gord, insieme a chiunque sia con te. Il nostro sovrano ti dà il benvenuto. Vai immediatamente alla Volta dei Veli.» Ci vollero solo pochi minuti per raggiungere il luogo che la voce gli aveva indicato; mentre si avvicinava alla porta quella si spalancò all'im-
provviso, e appena Gord fu entrato si richiuse sbattendo. Gord si ritrovò da solo, nella stanza illuminata soltanto dalla pallida radiosità della sua spada di cristallo. Improvvisamente la stanza fu inondata dal chiarore di un'ombra dai toni pastello: la figura trasparente del Re dell'Ombra apparve sul suo trono, e cominciò a parlare. «Ti ho fatto questa sorpresa, Principe Gord, per salutare il tuo ritorno. Ciò che stai vedendo e sentendo è il segno del tuo trionfo, il quale sancisce la mia vittoria! Ti ringrazio di cuore e ti nomino Principe e Duca delle Ombre. Ora i malvagi dovranno inginocchiarsi al nostro cospetto, e davanti a tutti i miei vassalli.» Quando hai ucciso il dragone dell'ombra, la scossa provocata dalla morte di quell'essere maligno si è sentita in tutto il reame. Le mie speranze allora si sono riaccese, perché uno come te, capace di resistere all'attacco di quella demoniaca creatura, poteva veramente trovare e uccidere anche Imprimus prima della fine del Buio. Con questo sentimento di nuova speranza, e sapendo che la magia della tua spada era stata annullata nello scontro con il drago, ho cercato il pezzo migliore del mio tesoro. È una cosa molto potente tra le ombre; ma anche alla luce del sole, o nel buio della notte, può risultare molto efficace. Mentre il re pronunciava quelle parole, si sentì un forte suono metallico, e davanti a Gord apparve una cassettina. Il giovane la aprì e ci guardò dentro, scoprendola piena di piccoli semi rotondi. «Sono semi di ombra, Gord» disse il sovrano. «Servono per creare dei veli protettivi d'ombra. Per creare un velo occorre un pizzico di semi, e ogni velo dura un'ora.» Era un dono splendido, specialmente per chi viveva di furti, come lui. Gord sorrise e infilò il cofanetto nella tasca interna della tunica. L'immagine del Re delle Ombre era ancora lì, ma la sua voce non si udiva più: sembrava in attesa di una risposta. Gord non voleva sembrare maleducato, specialmente dopo aver ricevuto un regalo come quello; tuttavia a lui interessava una cosa sola, e fu proprio quella domanda che gli uscì di bocca: «Come farò ad andarmene da qui?» Poi, ricordandosi che stava parlando a un'illusione, a una figura che era solo apparenza, il giovane ladro sospirò profondamente e chinò tristemente il capo. «Con la mia vista incantata, nobile Gord» proseguì la voce del fantasma, «ti ho seguito fino alla fine della tua impresa. Quando Imprimus è morto, ho visto che hai recuperato qualcosa che ti era stato donato dal tuo signore
quando eri solo un bambino, troppo piccolo per poterlo ricordare. I nove zaffiri neri incastonati in quella collana sono il mezzo che ti permetterà di tornare nel tuo mondo, principe. È questo il mio...» Gord era sbalordito. L'illusione aveva dunque udito veramente la sua preghiera? Aprì la bocca per dire qualcosa, ma il fantasma del re non gli diede modo di parlare. «... dono finale per te. Libera le stelle nere dal metallo che le imprigiona. Ci sono nove livelli di esistenza, e novantanove principali stati di vita: è per questo che hai ricevuto in eredità nove gemme. Mettine otto in circolo, intorno alla nona, pensa intensamente al tuo mondo, e ti ritroverai là. Ma prima che tu lo faccia, Gord, devo darti un avvertimento. È vero che il potere delle nove pietre ti consente di tornare dove desideri, ma devi sapere che anche gli zaffiri torneranno nel loro luogo d'origine, quel luogo che era stata la casa natale del tuo signore. Non le rivedrai più finché non sarai in grado di ritrovarle di nuovo.» La scelta spetta a te. Puoi tenerti le pietre e restare nel Regno dell'Ombra come un principe, come un mio figlio adottivo, e arrivare in poco tempo alla conoscenza che desideri riguardo alle tue origini. Sarai un Grande Signore dell'Ombra, libero di viaggiare dovunque vorrai, anche nel reame dei tuoi avi, ma non sarai più umano. Se invece vuoi sfruttare i poteri racchiusi in quegli zaffiri neri li perderai, almeno per qualche tempo, o forse per sempre. Sarai un mortale, e quindi sarai soggetto a tutti i pericoli che potrai incontrare; però sarai vivo, reale, fatto di carne e sangue, e vivrai nel tuo mondo. Qualsiasi decisione tu voglia prendere devi agire in fretta, poiché neppure io posso frenare il corso del destino. Se resterai ancora per qualche tempo nel Regno dell'Ombra, sarai per sempre legato a questo posto, come se tu ci fossi nato. Nessuno può sapere con precisione quanto tempo ti resta per decidere, ma ti posso dire che il momento della decisione finale si avvicina rapidamente. Fai pure quello che desideri; e possa la fortuna accompagnarti, Principe Gord, qualunque sia la strada che decidi di prendere! L'illusione svanì e il giovane avventuriero rimase completamente solo. Cosa doveva fare? Se rimaneva sarebbe diventato un potente governatore di quel reame, un esploratore di pianeti e, come aveva detto il Re dell'Ombra, avrebbe finalmente saputo tutto sulla storia dei suoi avi: una scelta ricca di prospettive. Ma dall'altra parte c'era la nostalgia per il mondo reale, la vivida luce del
sole e i colori brillanti di Tarre. Non era legato in particolar modo a Falcovia, città di banditi e di falchi rapaci, eppure era quella la sua casa. Aveva pochi amici, ma quei pochi gli erano molto cari. E c'era anche qualcos'altro da tener presente... Gli venne in mente il suo amico Gellor, e si ricordò delle sue parole. Aveva detto che proprio lui, Gord, sarebbe stato una figura chiave nella lotta finale del mondo - no, ancora di più! - nella lotta che avrebbe visto il male scontrarsi con il bene, una guerra che avrebbe coinvolto non solo il suo mondo, ma i molti livelli di esistenza dell'universo molteplice, il multiverso, compreso il Regno dell'Ombra. Per di più il signore delle ombre gli aveva detto che se il destino voleva, lui, Gord, un giorno avrebbe preso possesso della sua eredità... ma forse, solo forse. Il giovane uomo appoggiò la spada di cristallo sullo strano tavolo al centro della Volta dei Veli. Era un'arma che poteva servire al Re dell'Ombra contro i crepuscoli e le altre creature malvagie che volevano usurpare il suo regno. Il signore di quel paese lo aveva aiutato molto, e quello era proprio il minimo che potesse fare per lui. «Ora farò ciò che devo» disse Gord, mentre con la punta del pugnale cercava di togliere le gemme dalla collana. «Sono quello che sono, e voglio restare umano.» Il cerchio delle otto pietre cominciò a brillare, appena anche la nona, l'ultima, venne sistemata al centro. Un istante più tardi Gord svanì dal Pianeta dell'Ombra, mentre le gemme tornavano nel loro luogo d'origine. Capitolo 25 «Bevi un boccale di birra con noi, ragazzo!» L'invito proveniva da un tavolo vicino, dove era seduta una mezza dozzina di soldati dai volti scuri e induriti. Quello che aveva parlato era un corpulento mercenario a cui mancava un orecchio e qualche dente. Ma Gord aveva raccolto la manciata di monete che erano sparse davanti a lui e si era alzato in piedi. «Mi dispiace, amico. C'è una pollastrella qui vicino che morirebbe dal dolore se non andassi da lei, come le ho promesso...» I soldati scoppiarono in una sarcastica risata e commentarono pesantemente le parole del giovane. «Ehi, ehi, pensate alle vostre donne, ragazzi! Ti ringrazio comunque per la birra che mi volevi offrire» aggiunse Gord, rivolto a quello che era sicuramente il capitano di quella banda di mercenari. «Sarà per un'altra vol-
ta...» Gli occhi chiari e freddi del corpulento soldato erano stretti come fessure mentre l'uomo guardava sorridendo verso Gord. Non c'era alcuna luce ad illuminare quello sguardo, assolutamente inespressivo nonostante l'affabilità dimostrata dal giovane. «Certo. Il mondo è piccolo e ci sono pochi posti dove ci si può incontrare. Ma tieni pronta la tua arma fino ad allora!» «Come sempre!» rispose Gord. In quel momento passò di là una cameriera, e continuando a parlare il ragazzo depose la manciata di monete sul vassoio di legno che la ragazza teneva in mano. «Ecco qui. Un giro di birra per i miei amici, laggiù, e il resto è per te!» Poi uscì da quella taverna affollata e si incamminò nella notte di Falcovia. Il brusio degli avventori era svanito, ma l'effetto che aveva avuto su Gord restava ancora. Lo aveva piacevolmente infastidito, se si poteva dire così. Era stato gratificato dall'affabilità di quegli uomini, che lo avevano trattato come uno di loro. Eppure Gord amava pensare a se stesso come a un giovane e libero vagabondo, un bellimbusto che sapeva come trattare le donne. Si sforzava sempre di apparire tale, ostentando ardimento e sprezzo del pericolo; ma i soldati più esperti, che ne avevano viste di tutti i colori, leggevano in lui qualcosa di diverso. Per troppe volte aveva affrontato mostri e demoni. L'oscurità e la continua minaccia di morte, come la morte vivente che aveva vissuto tra le ombre, avevano lasciato il loro segno su Gord. Il suo volto era ancora giovane, c'era forse solo qualche ruga in più a testimoniare le sue avventure passate. La chiave però erano i suoi occhi: erano invecchiati, distanti, induriti. Avevano visto la guerra, il pericolo, la morte. Ma non c'era in lui il freddo sguardo di pietra di un assassino, o l'espressione impietosa e vuota del mercenario che non guarda in faccia il nemico. Gli occhi di Gord rivelavano le sue sofferenze interiori, il senso di vuoto che regnava nel suo animo. Il suo spirito perduto guardava con quegli occhi, in cerca di una risposta. Chi era? Cos'era destinato a diventare? Solo una persona molto attenta si sarebbe accorta della differenza che passava tra il suo sguardo e quello di un mercenario veterano. Il pensiero delle sue preoccupazioni esistenziali a volte preoccupava il giovane, ma quella notte aveva deciso di respingere quei pensieri. Dopo tutto quel suo sguardo aveva anche dei vantaggi... Non aveva mentito a quei soldati, il suo sguardo attraeva irresistibilmente le donne. «Credo però che il gioco non valga la candela» disse fra sé continuando a camminare. Poi si diede una scrollata, raddrizzò le spalle e proseguì con
passo più veloce, fischiettando un'arietta quasi allegra. Dopo tutto era molto meglio essere là, piuttosto che dove aveva rischiato di finire molte volte. Dopo qualche settimana ricevette un messaggio da Gellor: l'amico non sarebbe venuto a trovarlo. La notizia arrivò quasi due mesi dopo il giorno in cui i due si erano visti per l'ultima volta. Benché gli sembrasse di aver passato molto tempo nel regno delle ombre, il calendario di Tarre era avanzato solo di un paio di giorni da quando era stato colpito, fuori dal tempio di Dyvers, a quando si era trovato improvvisamente in aperta campagna, in vista delle mura di Falcovia. Il messaggio di Gellor, che gli era stato passato da un anonimo oste, non era molto chiaro, ma Gord era abituato a quella sorta di comportamento del suo amico. Ciò che lo metteva a disagio era il fatto che stava per provare di nuovo quel sentimento di delusione e di incertezza per la sua città. Non trovava divertimento né eccitazione neppure nelle missioni più pericolose. Gord si sentiva solo, e ne risentiva profondamente. Tutti i suoi amici erano altrove, presumibilmente impegnati in qualche attività redditizia o per lo meno divertente. Gord lasciava semplicemente che il tempo passasse, chiedendosi cosa sarebbe successo e cercando di prepararsi psicologicamente a qualsiasi evenienza. Poi, a poco a poco ma irrevocabilmente, l'intero mondo subì un cambiamento. *
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Molto più a ovest, all'insaputa del giovane ladro, il suo amico Gellor e il calvo guerriero druido Curley Foglia Verde avevano ricevuto delle istruzioni che li avevano fatti partire in fretta. Quella specie di nano di Foglia Verde doveva andare a prendere Gord e incontrarsi con Gellor nella lontana Pomarj. Erano sopraggiunti tempi terribili, che recavano portentose disgrazie, e tutti dovevano darsi da fare. I due uomini commentarono poco l'accaduto, ma tutti e due ritenevano che il giovane ladro fosse molto più importante di quello che sapesse o credesse. Non parlarono della cosa per varie ragioni, non ultimo il fatto che loro stessi avevano delle grosse incertezze riguardo al ruolo preciso che Gord aveva negli eventi che stavano per accadere. «Stai molto attento, mio caro druido, e vedi di sbrigarti!» L'ultima raccomandazione era inutile, perché nonostante le apparenze Foglia Verde era consapevole della situazione quanto l'amico.
«Certo, Gellor. Forse dalle nostre azioni dipende molto più di quello che sappiamo...» lasciò cadere così la frase, perché non c'era alcun bisogno di aggiungere altro. Poi rise. «Io dovrei essere un sacerdote pio e caritatevole, tu lo spietato avventuriero: e sei proprio tu a raccomandarmi di fare in fretta e di stare attento, come se io fossi un pulcino e tu la chioccia! Puah!» L'espressione di disgusto era stata scherzosa, e mentre parlava Curley Foglia Verde aveva dato un buffetto affettuoso alla guancia di Gellor. «Ma anche tu, amico mio, stai attento! Presto ci rivedremo, e solo allora comincerà la vera battaglia!» Gellor si mise in cammino, e anche il prete-guerriero si allontanò in fretta dal luogo segreto dove si era svolta l'assemblea della setta occulta che voleva salvare il sistema del multiverso, l'universo molteplice. Nel grande gioco di scacchi quei due erano solo dei pezzi minori, e il giovane ladro un pedone. Eppure loro si dovevano muovere per proteggerlo: solo quando fosse stato al sicuro, il pedone si sarebbe potuto muovere. In quel grande contrasto per la supremazia nel mondo c'erano molti protagonisti. Alcuni si tenevano pigramente in disparte, e la gran parte dei pezzi della scacchiera non venivano mossi: stavano al loro posto, senza esercitare il loro potere, senza aspettarsi nulla in particolare. Solo due delle molte parti in quel gioco multiversale si muovevano di proposito e con determinazione. Una era la parte rappresentata da Foglia Verde, Gellor e molti altri come loro. L'altra era ostile, maligna e diabolica. Come poteva essere diversamente? *
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Il male ha molti volti, ovviamente. Demoni bestiali e diavoli ghignanti sono rappresentanti diversi delle vili forze del male. Esiste una fossa, una depressione più grande delle buche infernali, più profonda dell'impenetrabile profondità dell'Abisso dei demonkin. Il nadir di tutte le malvagità, la più grande riserva di ogni depravazione si trova fra le due facce del male. Qualcuno chiama Ade quel posto, altri lo indicano come il vuoto nero. Qualunque nome esso abbia, assieme ai suoi abitanti rappresenta il peggiore dei mali, la tenebra più oscura. I suoi nemici sono tutti quelli che si muovono sull'immaginaria scacchiera; non solo le forze deboli ed esposte di quelli come Gellor e il suo amico, ma anche i demoni ribelli che non vogliono piegare il capo ed essere guidati come marionette. «Chi è l'inutile escremento di cui ci serviremo questa volta?» L'essere
che parlò dall'alto del palco era Infestix, Signore Supremo della Morte, governatore della più profonda oscurità. Una creatura avvizzita, uno scagnozzo del putrido signore dell'Ade, rispose umilmente con voce tremula: «Quelli dal colorito scarlatto, padrone, si muoveranno a migliaia per obbedire alla tua richiesta...» «E poi?» «Gli Otto Infestati, padrone» disse la creatura, «con tutti i loro servitori, demoni e umani.» Infestix sputò, un grumo di orrida saliva giallastra che finì sul pavimento di pietra nera ai piedi dell'umile servitore. Lo sputo si allargò e venne assorbito dalla pietra, che cominciò a consumarsi fino a corrugarsi tutta. «Ma nessuno riesce a portarmi la notizia che aspetto, nessuno ne sa nulla! Sono stanco di queste zucche piene di letame. Vattene via, piccolo bocciolo profumato!» ordinò il Signore Supremo del Male alzandosi dal suo trono e avvicinandosi al servitore. Virulex, anche lui potente e temuto signore di quel reame, si scostò un po' impacciato per far largo al suo alleato. «La questione è molto più complessa di quello che pensavamo, padrone, ed è impossibile analizzare tutte le possibilità. Tutti gli indizi portano ad un punto che nessuno riesce a capire...» «Ti lamenti come un pupattolo dagli occhi teneri, Virulex. Trovi sempre delle scuse per tutto, ma è solo per mascherare te stesso. Credi che io sia stupido? Stai zitto e seguimi, cane! Straccerò di persona i veli che oscurano la nostra comprensione e risolverò questo problema una volta per tutte!» In un'altra sala del tetro palazzo di Infestix, più piccola, ma non per questo meno tetra, gli Otto Infestati e i loro luogotenenti erano riuniti in attesa. Cercarono di celare la sorpresa quando videro giungere il Signore Supremo in persona, e tutti riferirono subito i risultati delle loro preveggenze e divinazioni. Gli eserciti erano in marcia, tutti i soldati dell'Ade erano radunati per contrastare la ribellione dei demoni. Le spie erano state sguinzagliate, gli assassini si erano sparsi dovunque, gli agenti riferivano preziose informazioni, i maghi lanciavano incantesimi mortali, e i sacerdoti delle tenebre avevano teso le loro diaboliche trappole. Era tutto un turbinare di azioni, reazioni, stratagemmi e tattiche. «Siamo sicuri di farcela, Padrone della Morte» disse uno dei soldati. «La vostra esistenza dipende da questo» rispose subito Infestix sbirciando fra i vapori di una grande pozza di ombre nere. L'ampio bacino sul pa-
vimento della stanza era pieno di una sostanza indefinibile. «Proprio come pensavo!» sbraitò il maligno con la sua voce bassa e cavernosa mentre osservava le scene che si riflettevano nel liquido della vasca. «Le cose cambiano laggiù, padrone» esclamò uno degli Otto. «Forse possiamo intervenire.» «Stupido! Metteremmo all'erta il nemico, riveleremmo le nostre intenzioni, distruggeremmo quel po' di segreto che ci resta!» Infestix seguiva nella pozza l'assedio a una grossa fortezza che apparteneva alla Confraternita Scarlatta. Quella malvagia organizzazione lo adorava nelle vesti del suo avo, Nerull. «Oltre a ciò» pensò fra sé il governatore degli inferi, «la successione degli eventi è tale che persino io potrei sbagliare e alterare qualcosa che invece potrebbe tornarmi utile». Infestix voleva diventare viceré di Tharizdun. Era meglio diventare un servo del più forte e governare un dominio infinito, piuttosto che restare come era, forte solo nel proprio raggio d'azione. «È quell'animale ambizioso che si intromette nei nostri piani, Signore. Se riuscissimo ad assassinare il Principe di Ulek...» «Silenzio». Infestix aveva parlato senza rabbia, ma il comando fu sufficiente per zittire gli Otto. «Chi è costui?» «È uno schiavo della Qabbala, padrone, comunemente conosciuto col nome di Gellor.» «Proprio come pensavo. Tenetelo d'occhio. Dovunque lui vada, noi dovremo arrivare prima di lui, pronti a ostacolare i suoi piani.» «Lo ucciderò, padrone, in meno di un'ora!» Infestix si girò e guardò il demone che si era offerto volontario. Poi si volse verso Virulex. «Quello là» disse lentamente, indicando il demone. «Toglilo dalla sua carica e distruggilo immediatamente. È stupido e incapace.» La creatura cercò di protestare, e continuò a dimenarsi e ad urlare mentre due guardie lo allontanavano dalla sala. Gli Otto Infestati restarono in silenzio, fermi come statue. Variolaz alla fine ebbe il coraggio di parlare. «Come mai, padrone, siamo... costretti... a rispettare la debole Qabbala e i suoi cani?» «Loro posseggono la Chiave» spiegò Infestix, come se stesse parlando a un bambino. «Quella reliquia è il codice del multiverso. Grazie ad essa possono manipolare ogni dimensione, spazio, probabilità. Ed è una ben magra soddisfazione sapere che non sanno ancora sfruttare al massimo i suoi poteri... Dei loro scagnozzi l'hanno presa ad un demone inferiore, uno
di quegli idioti dei pianeti abissali! Se solo l'avessero data a me...!» «Non possiamo uccidere quei loro vassalli, allora? Annientandoli potremmo diminuire i loro poteri. E allora noi Otto potremmo muoverci per recuperare la reliquia per te, padrone.» «Un gran bel suggerimento, veramente. Proprio la cosa da fare, come se non ci fossero quegli altri di mezzo. No, è meglio lasciare che quei cani continuino a latrare fra di loro, piuttosto che intervenire ed essere scoperti. Ma è quell'uomo con un occhio solo che dobbiamo controllare, credo. Gli altri non contano. Guarda: da lui non emana nessun alone!» «È uno dei due che ha rubato la Chiave» disse il capo degli Otto Infestati. «Morirà presto» disse Infestix con voce piena di gioia. «Ma aspettiamo ancora un po'.» Il signore supremo e i suoi otto fedeli si misero ad osservare le scene che apparivano sulla superficie liquida del bacino, e dopo un po' Virulex fece ritorno dall'esecuzione del demone. Anch'egli si unì al gruppo e tutti assieme continuarono ad osservare quelle piccole creature che si affaccendavano in azioni senza significato, laggiù, sul pianeta materiale, in quel mondo conosciuto come Tarre. A volte la scena svaniva, mascherata da uno strato di nebbia. Infestix cercava di allontanare quei vapori, di togliere ogni velo, ma anche i suoi poteri erano insufficienti. Tutti erano silenziosi ed osservavano ogni particolare che avevano davanti agli occhi. Il loro signore non lasciò mai trasparire un'espressione di frustrazione o di dubbio. La fortezza crollò; gli eserciti si scontrarono; uomini, nani e umanoidi caddero morti. Un piccolo drappello corse a cercare qualcosa. Poi vennero i demoni e i servitori dell'Ade fallirono l'impresa a causa dell'intervento dell'Abisso. «Dobbiamo fare qualcosa!» il capo degli Otto era infuriato. Infestix restò calmo. «Guardate! Quei disgraziati stanno attirando l'attenzione su di sé! Ora tutti gli avversari si riuniscono per contendersi il bottino. Quello è Theorpart, il Sollevatore. I miei servi obbediscono a Initiator, che li sta chiamando a raccolta. È più forte di qualsiasi mago umano!» Anche Infestix si inasprì per gli eventi che seguirono. Potenti armate si avventarono su quella reliquia, che avrebbe risvegliato il sonno del grande male, il re davanti al quale persino Infestix si sarebbe inchinato. Tharizdun, il più grande dei Mali, colui che avrebbe restituito il multiverso ai poteri maligni. Colui che era ancora prigioniero del nulla, addormentato, incatenato. Ma ora, finalmente, era stato dissotterrato il mezzo che avrebbe
annientato quel nulla, che lo avrebbe risvegliato dal sonno dell'incoscienza. Benché gli eventi sembrassero contrari, Infestix sapeva che presto la reliquia tripartita si sarebbe ricongiunta, i maghi annientati e Tharizdun liberato. Non poteva andare altrimenti. Il Male era più forte della Bilancia, più potente del Bene. Non c'era nessuna interferenza di tipo etico, nessuno scrupolo. Alla fine doveva prevalere. «Adesso tocca ai demoni, padrone!» Infestix si girò e uscì in silenzio dalla sala. «Siamo sconfitti?» chiese il capo degli Otto, calmo, quasi incredulo. Virulex fissava il gruppo con occhio fermo, senza battere ciglio. «Mai! Continuate a guardare, ma non interferite, evitate specialmente di fare previsioni sulla reliquia o su coloro che governano la Bilancia. Il nostro padrone ci ha avvertito. Non ci può essere che una soluzione!» E così dicendo anche il servo di Infestix lasciò la stanza delle visioni. Gli Otto Infestati, i nobili dell'Ade, restarono ai loro posti, osservando e aspettando. C'erano tante fazioni in lotta, tante forze spiegate, tanti giocatori e pedine. Persino i loro intelletti superpotenti avevano grosse difficoltà a vedere tutto, e a riconoscere ciò che vedevano. Ma sapevano, e credevano. «È stata mangiata una pedina» osservò uno degli Otto. Un altro annuì. «Era quella senza alone, quella che il padrone aveva detto che sarebbe morta presto.» «Non riesco più a vederlo» osservò il primo che aveva parlato. «Dove sarà finito?» «È stato annientato» rispose l'altro senza esprimere la minima emozione. «Dove vuoi che sia andato? Ci sarebbe una traccia, qualcosa...» «Certo» disse il primo. Dal momento che era l'ultimo degli Otto, gli toccava osservare gli eventi meno importanti. Il fatto che un suo superiore lo stesse rassicurando gli bastava. Lui era a posto: quando era venuto il suo momento aveva fatto notare il fatto, ed era stato sentito. La spiegazione che gli aveva dato Pneumonias gli mise l'animo in pace. Era soddisfatto. «I guardiani degli inferi saranno utili» commentò infine, rivolto agli altri sette. «Se non possiamo intervenire direttamente, lo facciano almeno i diavoli.» «Certo. Infestix l'ha ordinato» disse il maggiore degli Otto. Poi tornarono a prestare tutta la loro attenzione alle visioni, e nella sala dai toni violacei tornò a regnare il silenzio.
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Anche in altri luoghi, su altri pianeti, umani e superumani stavano osservando il succedersi degli eventi. Tanti erano gli osservatori, e così forti le energie, e così diversi i propositi coinvolti che ben presto si creò un vortice. Cominciò in maniera del tutto naturale, lentamente e con ordine, e sulle prime passò inosservato. Quel dirompere di magiche correnti non ebbe effetti distruttivi. Il vortice di energie che si era generato continuò a crescere man mano che le attenzioni degli osservatori si focalizzavano sul pianeta materiale, distorcendo le prospettive; ma nessuno se ne accorse. Ciò che i demoni e i diavoli videro non era uguale a quello che poterono osservare gli abitanti del pianeta della luce, i cui poteri perseguivano il bene, la prosperità e la giustizia. Ed era diverso anche ciò che videro coloro che credevano in un tutto completo, coloro che avevano capito che senza il male non può esistere il bene, che senza la tenebra la luce non sarebbe comprensibile, non sarebbe vera. E forse era proprio questa la visione più realistica, dal momento che i potenti della Bilancia non avevano preconcetti né verità sacrosante da tutelare come dogmi. In ogni caso quegli esseri compresero subito ciò che stava accadendo. «Come si è creato quel vortice?» chiese un demiurgo. «Le correnti, le sorgenti... i flussi...?» «Quel vortice è fatto di energie» fece osservare il demiurgo all'anziano arcimago umano che aveva cercato di rispondere alla sua domanda, «ma non credo che si siano formate da sole. Osserva quante interferenze ci sono. Ciò che sta accadendo, che è accaduto e che accadrà non si può leggere nella forza di quel vortice.» L'arcimago rimase pensieroso a lungo. «Ma allora ci sono due cose che non sappiamo, signore: la prima è la causa della distorsione; la seconda quello che si nasconde sotto di essa.» «Esatto, amico mio. In parole povere è così. E temo che possiamo solo fare delle ipotesi su entrambe le cose.» Altri membri della Bilancia, sacerdoti, ierofanti, umani e altri esseri simili al demiurgo, proposero un certo numero di soluzioni e fecero delle domande. E dopo che tutti ebbero detto la loro, il grande operatore alla fine parlò: «Probabilmente dietro questa ondata di energie c'è qualche forza sconosciuta. Tuttavia non si può escludere che si tratti di una coincidenza,
e pertanto dobbiamo continuare a comportarci come se l'unica causa del vortice fosse una coincidenza.» «Continueremo a opporre i demoni ribelli alle forze combinate del Male?» «Proprio così. Per di più i nostri agenti su Tarre continueranno a lavorare per confondere i progetti dell'Ade, come al solito, però...» «Dite, signore...» chiese il venerabile arcimago. «Non possiamo più accettare gli eventi quali ci si presentano. Abbiamo sempre creduto che stesse per scoppiare una battaglia finale, e quindi siamo rimasti in attesa. Forse è proprio così, ma ora mi accorgo che è vero solo in parte. Dobbiamo opporci continuamente ai malvagi, perché se riuscissero ad unirsi e a portare a termine i loro progetti, la luce sparirebbe dal mondo. E con essa periremmo anche noi tutti.» «Continuate, per favore.» «Forse noi siamo inferiori a quello che abbiamo sempre creduto di essere. Oltre a noi, oltre al signore del Male e ai poteri del Bene, all'insaputa dei padroni di entrambi gli ordini e delle forze del Caos, qualcuno molto più potente potrebbe essere all'opera.» «Con noi o contro di noi, signore?» «Chi può dirlo? Forse non sta da nessuna parte, mi sembra un'ipotesi ragionevole. Quel potere persegue un fine che ci è nascosto. Noi continueremo ad agire come abbiamo sempre fatto, ma dobbiamo stare in guardia. Forse tutto ciò che accade va molto al di là degli scopi che abbiamo sempre preso in considerazione.» «Forse è proprio così, signore» disse improvvisamente l'arcimago. Poi continuò a parlare con l'eccitazione e il vigore di un ragazzino. «Se le cose fossero veramente come noi le vediamo, non esisterebbe la Bilancia. Signori, provate a considerare questa continua deformazione degli eventi: essa è causata dal fatto che i servitori delle tenebre devono sempre lottare per evitare che uno di loro conquisti il potere del multiverso. C'è forse un tale potere nei ranghi degli esseri superiori? E fra di noi? La risposta è evidente, e se si pone la domanda in riferimento al caos o alla legge, la risposta è la stessa: no, non ne esiste nessuno, l'unico potere supremo esiste nelle profondità degli Inferi.» Uno ierofante intervenne, spinto dal dubbio: «Ci sarebbe dunque un'anomalia nel multiverso?» «Forse» disse il demiurgo. «Ma altrimenti a cosa servirebbe la Bilancia?»
«A meno che non ci sia qualcosa al di sopra, qualcosa di ancora più grande» concluse l'arcimago. «Qualcosa di superiore ai principi del bene e del male. In quel caso potrebbe esistere anche una forza di natura inferiore, e questa forza saremmo noi della Bilancia.» «È indubbio che quelli della luce non sono guidati da un'unità» fece notare il capo degli ierofanti. «Ma se quello che dici è vero, c'è solo una possibilità: questo principio superiore non è più potente del male supremo, e si muove alla cieca. Noi non siamo guidati!» «Vergogna!» fu la reazione del grande operatore. «Come possiamo essere così presuntuosi da fare ipotesi su ciò che è troppo grande per noi? Forse esiste uno sbilanciamento totale, e il potere sconosciuto deve combattere contro delle energie senza intelligenza oltre che contro il resto. Chi può dirlo? Cosa ci fa credere che non siamo guidati? Forse la direzione che abbiamo preso non ci è chiara, ma non per questo possiamo affermare che non esista. Ognuno di noi deve continuare a perseguire il proprio fine, e bisogna accettare le nuove informazioni come valide, fintanto che non saranno smentite. Lavoreremo sui nostri progetti, inseguiremo le nostre mete, finché verrà il giorno che una evidenza inconfutabile ci spingerà in altre direzioni. Ma dobbiamo tener sempre presente che tutte le nostre supposizioni, e tutto ciò per cui le tenebre lottano - quel potere antico che in questo momento viene portato alla luce -, e il risultato della battaglia - che è già predestinato -, possono essere solo le facce di un tutto che non riusciamo ancora a percepire.» Quando il demiurgo finì di parlare, intervennero gli altri capi della Bilancia. Dopo che si fu raggiunto un accordo, i numerosi membri del gruppo tornarono ai loro posti. C 'era tanto da fare, molti incarichi da sbrigare... almeno così pensavano. *
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Mentre i supremi e gli inferi visionavano e progettavano, mentre quelli della Bilancia cercavano una soluzione; Gord partiva a cavallo da Falcovia in compagnia del guerriero druido Foglia Verde. Queste pedine del gioco si stavano muovendo per volere della Bilancia, ma anche la libera volontà e il caso avevano un ruolo in quella partita. Ci furono combattimenti e battaglie, viaggi e scoperte, amici umani e umanoidi nemici. Alla fine, quelli che erano neutrali rispetto alle scelte etiche del Bene e del Male, del caos e dell'ordine, mancarono le loro mete, fallirono la mis-
sione. Le orde dei demonkin conquistarono la preda, e Gord perse la vita. Infestix stesso scese su Tarre nel suo aspetto di Morte, anche i grandi demoni presero fattezze materiali e cominciarono ad interferire con le attività umane. Alla fine sembrò che i demoni prevalessero su tutte le altre forze, il male fu diviso in due, e ne beneficiarono il Bene e gli altri, tutti eccetto quelli che non furono abbastanza veloci. Gord morì di nuovo e di nuovo tornò in vita. Solo la magia poteva permettere tutto questo. Il suo anello, così venne a sapere, possedeva un potente incantamento che l'avrebbe salvato dalla morte per nove volte: restavano quindi sette reincarnazioni. Gord era molto contento di quel dono; adesso conosceva la sua parte nel gioco, l'aveva capita a fondo, e fu per questo che da pedina divenne un pezzo più importante. Sulla scacchiera di quel gioco immaginario erano schierati dei pezzi che andavano, in ordine crescente d'importanza, dal pedone al re. Grazie alle sue numerose vittorie, Gord era progressivamente aumentato di grado, diventando sempre più potente, più determinante sul tavolo da gioco. Finalmente era giunto al termine di quel lungo percorso attraverso il campo di battaglia. Gord aveva raggiunto l'ultimo grado ed era diventato un pezzo di considerevole potere. Poteva controllare molte caselle contemporaneamente, anche se la sua portata era ancora limitata rispetto alle dimensioni dell'enorme scacchiera su cui si svolgeva quella partita. Poteva muoversi rapidamente a tutto campo, intervenire dove riteneva opportuno, saltare oltre gli avversari che si trovava di fronte. Gord era ancora un pezzo minore, ma molto potente. Aveva capito non solo il suo ruolo, ma l'intero schema del gioco: era perciò doppiamente pericoloso per i suoi nemici. Capitolo 26 «E così le cose sono andate avanti negli ultimi anni?» disse Rexfelis, Signore di Tutti i Felini, guardando Gord fisso negli occhi. «Non hai preso parte a questo gioco?» chiese il giovane. Il Signore dei Felini alzò le spalle. «Un po', ma non direttamente. Gli anelli incantati che ho creato molto tempo fa hanno avuto qualche effetto sul corso delle cose, credo...» «Il mio e gli altri otto, vuoi dire? So che il mio anello mi permette di trasformarmi in leopardo, di vedere e sentire le cose come vedono e sentono i felini, e mi ha risparmiato una morte orribile per ben due volte, finora. Tut-
tavia non capisco perché ha questi effetti su di me, e non capisco il ruolo degli altri anelli e perché li hai creati.» «Questo è un problema che affronteremo in un altro momento. Potrei essere un superumano, Gord; rispetto alla media degli uomini sono un essere potente. Eppure ho dei limiti e molti difetti. Ho bisogno di studiare molto prima di poter discutere con te degli anelli. So già qualcosa e credo che presto apprenderò qualche altro particolare: non è lontano il tempo, mio caro, in cui io e te riparleremo di quegli anelli e del problema della tua eredità.» «Sai anche quello?» chiese Gord alzandosi di scatto dal divano su cui era sdraiato. «Dimmi!» Le lunghe dita vigorose del Signore dei Felini afferrarono le spalle di Gord con fare rassicurante, e lo spinsero a sedersi di nuovo. «Mettiti comodo. Al momento ho solo dei sospetti. Quando parleremo degli anelli, allora discuteremo anche del mistero che ti circonda, Gord. Come ho già detto, non ho nessuna conoscenza divina da rivelare. Anch'io, come te, devo cercare e trovare, studiare e imparare, raccogliere e analizzare informazioni.» Ho dei sospetti, delle supposizioni che ti riguardano, ma è tutto ciò che so. Il tuo destino è offuscato, Gord. Ne abbiamo già parlato. Ho già scoperto qualcosa, ma si tratta di particolari che conosci anche tu. Sei più di quel che eri, non ti pare? Gord annuì, e avrebbe voluto rispondere se Rexfelis non avesse continuato a parlare. «Gli affari degli uomini» proseguì il Signore dei Felini, «o i poteri che esistono su altri pianeti, non mi riguardano molto, né me ne sono mai interessato. Quelli che cercano l'equilibrio sono molto simili a me, ma mi sembra che si confondano quando una fazione o l'altra fa pendere il piatto della bilancia dalla sua parte. Tu hai servito la Bilancia e altrettanto farai in futuro. In effetti proprio tu potresti essere il fulcro degli avvenimenti che accadranno.» «Tu parli per indovinelli, come sempre, Rexfelis. Cosa devo fare per avere da te delle risposte immediate?» chiese Gord. Era ancora un po' agitato, e la sua espressione, la sua voce e la tensione del corpo lo dimostravano chiaramente; sembrava proprio un felino indispettito, pronto a scattare alla minima provocazione. «Non devi contare sulla mia amicizia» fece notare il Signore dei Felini, volgendo le spalle all'ospite. Si diresse ad una credenza dove era appoggia-
ta una brocca di kumis e si versò un boccale di quel latte fermentato. Si girò, ne bevve qualche sorsata, poi rivolse ancora la parola a Gord. «Ti sono molto affezionato, e so che hai un ruolo molto importante. Ma non sono sicuro di apprezzare ciò che potrai fare, e non credo che mi piaceranno molto gli eventi che stanno per accadere. Non parlarmi mai più con quel tono, tu, Gord lo Sconosciuto, il Miserabile, a meno che tu non sia pronto ad accettare la mia inimicizia e la mia sfida.» Era veramente impensabile. Il giovane sapeva bene che, anche se poteva avere la meglio sugli altri felini, non ce l'avrebbe mai fatta contro Rexfelis; tranne forse in un duello di spada, ma anche questo era da vedere. Per di più Gord non aveva alcun desiderio di litigare con quell'esse: re, che gli aveva dato molto più di qualsiasi altro, umano o no. «Ti chiedo perdono, Signore dei Felini» disse umilmente Gord. «Ho permesso per un attimo che il cuore avesse il sopravvento sulla ragione, e che la mia frustrazione guidasse la mia lingua. Perdonami, e ti prometto che non ti offenderò più così.» Rexfelis sorrise, con l'inconfondibile sorriso dei felini. «Sei perdonato, anche se sono sicuro che in futuro mi offenderai ancora.» «Futuro, signore? Ne parli molto spesso, ma hai anche detto che non sai nulla del mio destino. Capisci ciò che voglio dire?» «Sì, certo. Sono stato poco chiaro. Voglio parlare con te solo di ciò di cui sono sicuro. Per favore, serviti qualcosa da bere, rilassati, e ne parleremo ora.» Gord obbedì con qualche difficoltà. Da qualche tempo il giovane avventuriero sospettava che dietro quell'aria sorniona, e quell'interesse apparentemente distratto per i suoi affari, Rexfelis nascondesse qualcosa. Quell'incontro confermava i suoi sospetti. Quando il Signore dei Felini cominciò a parlare, Gord cercò di calmarsi e di fare attenzione a ogni parola che usciva da quella bocca. Rexfelis gli disse che la conoscenza tra loro due era iniziata in circostanze apparentemente casuali; ma il Signore dei Felini non ne era molto convinto, perché quasi mai gli era capitato di legarsi al destino di un umano come era successo con Gord. Pertanto Rexfelis aveva dato inizio a qualche indagine. «Sei incatenato a me, Gord, e altrettanto lo sei alla Bilancia, ai demoni, e al diabolico Infestix. Non è stato un caso, credo, che sia venuto lui in persona ad ucciderti nel suo tempio di Nerull. Era tutto prestabilito, proprio come la tua visita qui. E proprio a causa di questo intreccio, di questa interferenza, riesco a vedere ben poco della matassa arruffata del tuo destino,
mio giovane amico. Vorrei ti fosse di conforto sapere che, se non ci riesco io, è molto improbabile che ci riesca qualcun altro, compresi i tuoi grandi nemici, demoni o diavoli.» Pensaci. Gli inferi hanno addirittura mandato uno di loro ad ucciderti, quell'essere bestiale che sei riuscito ad ammazzare e che credeva di aver fatto altrettanto con te. Non potevano sapere come sarebbe andata a finire! «Allora Infestix ha fallito per lo stesso motivo?» «Esatto, Gord. Nessuno, tranne te, può sapere ciò che è stato scritto sul tuo destino; forse nemmeno tu riuscirai a togliere i veli, ma forse ce la farai. Devi tentare.» «Non so nulla di incantesimi e visioni» commentò il giovane. «Ma se è possibile, tenterò... Non puoi dirmi nient'altro?» Rexfelis sospirò, annuendo lentamente. «Devi sapere proprio tutto, vero? Ricorda, tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino». Entrambi risero, poi il Signore dei Felini ricominciò a parlare. «Una pessima battuta, davvero. Comunque so che dovrai affrontare altre sfide, viaggi pericolosi, prove e duelli mortali, le solite cose per un avventuriero come te, mio caro giovane! E per prima cosa dovrai affrontare i miei simili, che ti metteranno alla prova. Temo che tu non sia ben accetto in questo posto...» «Non mi sorprende» lo interruppe Gord. «Alcuni dei felini sono arroganti e insopportabili. Ho già fatto calare la cresta a un paio di loro.» «Sì» osservò seccamente il Signore dei Felini, «è vero. Ma sarai messo alla prova mentalmente e fisicamente dai servi del Male, e dalla natura stessa. Se riuscirai in qualche modo a sopravvivere - e intendo la tua sopravvivenza mentale ed etica, oltre che quella fisica - sembra che dovrai tornare a Falcovia ancora un'ultima volta.» Il giovane ladro restò interdetto. «Dovrò tornare? Un'ultima volta? Come sarebbe a dire? Io seguo solo la mia volontà, e Falcovia è la mia unica casa. Ci vado o non ci vado come mi piace, e sarà più di una volta, credo!» «Come fai a saperlo? Non sei più libero di me, nel fare ciò che vuoi, anzi, lo sei meno di me. Ma lasciamo perdere questo punto. Forse è una condizione che si può modificare. In ogni caso io ho visto che farai ritorno a Falcovia ancora solo una volta, e solo per pagare un vecchio debito. Non so di cosa si tratta, ma sembra che non sia direttamente connesso con la tua persona. Te ne ho parlato» aggiunse il Signore dei Felini, «perché la mia visione vi accennava.» «Accennava a cosa?» chiese Gord. «A una vendetta. Legata al tuo passato, alla tua famiglia, credo. Ma c'era
qualcosa di ancora più strano, così sconvolgente che esito a raccontarlo.» Gord era di nuovo teso e pieno di presentimenti. «Non voglio farti pressione, signore, ma ti chiedo con tutto il rispetto di dirmi tutto ciò che ancora sai su di me.» «Certo» disse Rexfelis. «Arrivati a questo punto non potrei fare diversamente. Il problema della vendetta sembra andare oltre i confini di Falcovia, molto più in là. È arrivato fino a qui, è tornato a me in qualche modo, ma non ho capito bene come. Non ci sono immischiato, eppure sembrerebbe di sì. Devo ammettere che tutto ciò è piuttosto sconcertante per me.» «È tutto?» «No, Gord, non proprio. La tua ricerca di un mondo migliore può andare ben oltre a questo. C'erano delle rotture, altre strade da prendere, ma sembra che ci sia una via più forte di tutte; a parte un'altra, che porta nelle più infime profondità, nel reame del Male più oscuro, a Nerull e anche oltre.» L'affermazione fece impallidire il giovane. «E quell'altra linea più forte, signore?» chiese dubbioso. «Quella porta all'indecisione, all'inattività, e a una morte orribile.» «Ma allora sono finito, non ho speranze!» «Ti sbagli di grosso! C'è sempre una speranza, non lo capisci! Non ti ho appena detto che neppure io sono perfetto? Ciò che ho visto è solo una serie di possibilità. Ci sono strade più facili e più difficili, ma su tutte ci sono delle diramazioni. Solo tu puoi decidere l'esatto corso da seguire. Anche se non puoi evitare il tuo destino, ci sono dei punti in cui hai piena libertà di scelta. Forse alla fine sarai sconfitto, ma questo nessuno può saperlo. Se ti ritieni finito in partenza, lo sarai di certo!» Quest'ultima affermazione rincuorò un po' il giovane, che cercò di farsi un po' di coraggio. «Grazie, Lord Rexfelis. Anche se ciò che mi hai detto è piuttosto preoccupante, ho apprezzato molto la tua franchezza. Ora guarderò le cose con occhio diverso, mi preparerò mentalmente e fisicamente. Qualsiasi cosa mi capiterà, mi troverà preparato. Starò all'erta, in guardia. La strada migliore potrebbe essere quella più difficile da trovare e da seguire.» «Stai diventando saggio, amico umano. Ciò che dici è vero, è un rischio da correre anche a costo della vita. Ma ora basta parlare di queste cose! Ecco» esclamò amabilmente il felino, «permettimi di servirti ancora un po' di quest'ottimo kumis. Brinderemo insieme e continueremo a bere finché saremo di buon umore e avremo voglia di festeggiare!» «Purché io non debba cantare... o ascoltare quel terribile rumore che qui
chiamate musica!» «Mi offendi! Ahimè!» continuò Rexfelis fingendo un'espressione sconcertata. «Ma farò del mio meglio perché gli intrattenimenti siano di tuo completo gradimento. Sei mio ospite, e devi divertirti» concluse, versando altro liquore nel boccale di Gord fino a farlo traboccare. Senza aggiungere altro il Signore dei Felini tracannò il suo boccale di kumis, e Gord non aspettò altri incoraggiamenti per fare altrettanto. Qualche tempo dopo, molto tempo dopo in realtà, dopo un duetto canoro in cui Gord diede il meglio di sé, Rexfelis concluse la festa con un'occhiata e una smorfia. «Vattene ora, Gord. Ho delle cose da fare, e anche tu hai bisogno di una compagnia migliore. Vai a trovare quella gattina di Tirrip!» A Gord l'idea non dispiaceva, e la serata si concluse così. Capitolo 27 Tirrip era una ragazza molto carina. No, era una bella tigre che poteva assumere le sembianze di una splendida donna. Beh, forse era anche qualcos'altro, un essere intelligente di un altro pianeta di cui non si conoscevano le vere fattezze, ma che poteva diventare una tigre o una donna quando si trovava sul pianeta del Signore dei Felini. In ogni caso Tirrip e Gord erano diventati molto amici, e ciò aveva procurato qualche difficoltà al giovane avventuriero. Il cugino di lei, Raug, e alcuni altri del suo gruppo si erano risentiti per quella relazione, e non sopportavano la presenza di Gord. Il giovane aveva cercato di non pensarci più, dopo aver avuto qualche lite con Raug e i suoi amici. Tirrip voleva bene anche a loro, e Gord decise di non badare a quelle antipatie e di ignorarli completamente. Qualche giorno dopo l'udienza e la bevuta con Rexfelis, Gord andò a fare una passeggiata con Tirrip. Camminavano lentamente, senza preoccuparsi di dove andavano. Lui le raccontava del suo colloquio con il Signore dei Felini, ma ad un certo punto furono interrotti. «Ehi, Tirrip! Vieni con noi, cugina! Stiamo andando a caccia!» Gord vide Raug e un'altra mezza dozzina di felini poco distanti. Avevano ignorato di proposito la presenza di Gord, e quando Tirrip li chiamò e li salutò, il giovane ladro volse lo sguardo facendo finta che non esistessero. «Andiamo, Gord!» disse Tirrip, tutta eccitata. «Puoi assumere l'aspetto di un leopardo e venire con noi! Ti prego, uniamoci a loro!»
«No, grazie» rispose calmo Gord. «Non mi piace per niente quella compagnia, e sono sorpreso che tu...» «Oh, non fare lo stupido» disse Tirrip con voce ancora piena di entusiasmo. «Raug e gli altri sono carini, davvero! È tanto tempo che non vado a caccia! Gord, ti prego, andiamo! Fallo per me!» «Vai pure con loro» rispose Gord, inflessibile. «Sono amici e parenti tuoi, dopotutto, non miei» aggiunse in tono gelido. «Cercherò di divertirmi come posso, mentre sarai via... Lady Cheeba mi ha chiesto parecchie volte di andarla a trovare.» A quelle parole Tirrip si girò verso di lui con l'aria sconvolta: gli mollò uno schiaffo così improvviso che Gord non ebbe modo di evitare il colpo. «Sei un bastardo insopportabile!» esclamò Tirrip. «Sei geloso dei miei amici e li temi solo perché sono più grossi di te!» Gord si ritrasse e fissò Tirrip in silenzio. Aveva pronte parecchie risposte, ma qualcosa gli disse di mordersi la lingua e restare zitto. «Molto bene, Signor Nessuno!» continuò Tirrip. «Andrò con loro e mi divertirò quanto mi pare. Sono stufa di ascoltare sempre le solite tristi storie di ricerche, destini ed eredità, non ne posso più! Ma a chi vuoi che importi? L'origine e il futuro di un orfano umano, abbastanza fortunato da aver ricevuto i favori di Lord Rexfelis, possono andar bene come argomento di conversazione ad un party noioso, ma per il resto sono proprio una barba. Sei un bifolco... uno zoticone... un... una nullità!» «Ben detto, lady Tirrip, ben detto!» Gord si guardò attorno per vedere chi aveva parlato; mentre si stavano scambiando quelle parole infuocate, anzi, mentre lei lo stava insultando e lui la ricambiava con sguardi d'odio, Raug e i suoi compagni si erano avvicinati. Il gruppo si era incuriosito per quello schiaffo e per la lite che ne era seguita. Il maschio che aveva lodato Tirrip si chiamava Lurajal. «Mai lodare un insulto» disse Gord in tono adirato, guardando fisso quel tipo. Anche se Lurajal era parecchio più piccolo di Raug e degli altri, era comunque più alto di Gord e molto più robusto. Aveva la pelle liscia e tesa sopra i muscoli che guizzavano ad ogni movimento, ed era ben noto per la sua velocità e potenza. Lurajal si accigliò alle parole di Gord e cominciò a fissarlo con i suoi occhi giallastri. «I cani come te non sono altro che dei bastardi, e meritano solo insulti!» Tirrip a quelle parole rabbrividì, mentre Raug e gli altri scoppiarono in una fragorosa risata. Gord non li degnò di uno sguardo, e continuò a fissa-
re Lurajal. «Beh, parlare a vanvera è l'unica cosa che sa fare una canaglia vigliacca del tuo stampo. Davanti a te hai quello che hai chiamato bastardo. Colpisci, se ne hai il coraggio!» Gord in fondo era lì da poco, e Lurajal non aveva la più pallida idea delle capacità del giovane. Aveva sentito alcuni racconti, e in tutti si parlava della sua astuzia e degli espedienti che sapeva inventare al momento giusto. D'altra parte Lurajal si era già cimentato contro Raug e gli altri del gruppo, e aveva scoperto di essere più debole, ma molto più agile e veloce. Quel piccolo cane che osava parlargli a quel modo, e che lo sfidava a colpirlo, sarebbe stato un avversario da nulla se paragonato a Raug e agli altri; e questa volta non avrebbe avuto l'aiuto del Signore dei Felini né di nessun altro. Lurajal sapeva bene che quel piccolo umano aveva amici potenti, altrimenti Raug e gli altri lo avrebbero fatto a pezzi già da un po', ma questa volta voleva proprio togliersi la soddisfazione. Mentre questi pensieri gli incendiavano la mente, Lurajal si gettò addosso a Gord. Sembrò che Lurajal avesse colto il giovane di sorpresa, e che ben presto Gord sarebbe rimasto vittima del suo assalitore. Ma quest'impressione durò solo pochi momenti. Mentre cadeva all'indietro aveva portato le ginocchia al petto, e un attimo prima che Lurajal gli cadesse addosso aveva disteso le gambe piantandogliele nell'inguine. Appena la schiena di Gord toccò terra le sue braccia si sollevarono, e le sue mani afferrarono il petto dell'avversario: poi si raggomitolò sulla schiena lanciando all'indietro il corpo dell'avversario. Lurajal aveva urlato di dolore quando il calcio l'aveva colpito, poi era volato in aria ed era atterrato pesantemente sulla schiena. Adesso era steso a terra, ansimante e stordito. Gord concluse la capriola all'indietro, usando braccia e gambe per sollevarsi, poi si girò volteggiando a mezz'aria. Scoppiava di rabbia, di una furia accecante che non si sarebbe placata facilmente, anche se riusciva in qualche modo a controllarsi. Gord sapeva quello che faceva, come andava fatto e quale era il momento giusto. Il giovane tese ogni muscolo, e mentre ancora era in aria si appallottolò e si lanciò su Lurajal, il quale era proprio sotto di lui. Gord tese le gambe puntando alla gola dell'avversario, disteso a terra a pancia in su. Ma poi il giovane acrobata modificò leggermente la sua direzione di caduta, forse spinto da un riflesso innato, e colpì il petto di Lurajal invece della gola. Alcune costole si spezzarono, ma il colpo non fu fatale come avrebbe potuto essere. Con un'altra capriola Gord tornò in piedi, e guardò il volto di Lurajal se-
gnato dal dolore. «Un bel lavoro per un cane bastardo, vero sbruffone? Non dimenticarti mai perché è cominciato, e non rivolgermi più la parola a quel modo, o la prossima volta non ti risparmierò!» Lurajal non poteva parlare, il sangue gli usciva dalla bocca e faceva fatica anche a respirare. Gord si sentì improvvisamente dispiaciuto, si vergognò di aver trattato a quel modo un insignificante bulletto. Ma probabilmente Lurajal non aveva alcuna colpa, era stato istigato da Raug e dagli altri amici: e ad un tratto il sentimento di dispiacere si mutò in rabbia. «Ora che il tuo amico si è ridotto così per combattere al posto tuo, Raug» disse, fissandolo duramente, «forse riuscirai a trovare il coraggio per fare un passo avanti e vedere se puoi fare di meglio». I muscoli di Raug si tesero, e stava quasi per accettare la sfida quando Tirrip intervenne. «Lascia perdere, cugino! Questo piccolo assassino è un avversario pericoloso e sleale. Non sporcarti le mani con uno come lui. Se la vedrà presto con Rexfelis. Ha ferito uno dei nostri nobili pari, un nostro parente e alleato». Poi si girò per guardare Gord. «Sei una nullità! Spero che Lord Rexfelis ti incateni e ti faccia frustare dai servi per quello che hai fatto!» Quindi se ne andò, facendo un gesto a Raug che non poté fare a meno di seguirla. Gli altri del gruppetto continuarono a osservare la scena ancora per un po', poi si incamminarono dietro a Tirrip e Raug, lasciando Gord a prendersi cura del ferito. «Merda» disse Gord a bassa voce. Poi tornò a guardare il suo avversario steso a terra. Il dolore gli aveva quasi fatto perdere i sensi, e quando aveva cercato di mettersi seduto era subito caduto all'indietro. «Stai fermo! Non cercare di muoverti, se ci tieni alla vita» cercò di dire Gord con aria amichevole. «Hai una brutta ferita, ma non è mortale. Ecco qua» disse, quasi tra sé, mentre si frugava nella cintura. «Ho qualcosa che ti allevierà il dolore e che forse potrà curarti un po'.» Lurajal cercò di ringhiare e di rifiutare il medicamento, ma era troppo debole. «Prima devi toglierti quel farsetto» continuò Gord, ignorando il tentativo di reazione. In un secondo estrasse il pugnale e si mise al lavoro. Fece molta attenzione a non sfiorare la carne con la sua lama incantata, e riuscì a tagliare gli abiti del ferito in modo da liberare il petto. Nel punto in cui i suoi talloni lo avevano colpito la carne era cianotica e gonfia, e c'era anche qualche segno d'abrasione. «Resta fermo, ora. Cercherò di fare più in fretta possibile. Neanche a me
piace molto questa situazione, ti assicuro, ma hai veramente bisogno di cure immediate. Più tardi qualche sacerdote, o chi per lui, completerà la cura, non temere.» «Perché lo fai?» Lurajal non riusciva a comprendere il comportamento del nemico. Poco prima Gord poteva ucciderlo, e invece gli aveva solo spezzato qualche costola, mettendolo fuori gioco. Ora aveva deciso di aiutarlo. Tutto ciò non aveva senso per Lurajal. «Sono stato io ad attaccarti, e non avrei avuto alcuna pietà per te...» «Non è stata veramente colpa tua, Lurajal. La tua è una colpa che molti commettono: hai ascoltato dei consigli sbagliati e li hai presi per giusti e veri.» «Non ti capisco.» «Non mi sorprende» disse Gord spargendo con cura l'unguento. Aveva immerso le dita nella pomata e stava massaggiando i punti più malridotti del petto di Lurajal. Mentre procedeva nella medicazione, il respiro di Lurajal divenne più rilassato, più scorrevole. «Che cos'è quella roba?» «Un unguento magico» rispose Gord, guardando con un po' di rammarico il contenitore vuoto. «L'ho ricevuto in dono da uno strano tipo nel Regn... in un posto che ho dovuto visitare non molto tempo fa. Peccato che sia finito» si lamentò ancora Gord. Adesso Lurajal poteva sollevare la testa, e anche la sua voce era più sicura. «È incredibile» disse, mentre Gord riponeva la scatola vuota. «Ho sentito altre volte parlare di unguenti del genere, ma di nessuno che avesse una tale efficacia!» «Hmmm» disse il giovane ladro per confermare il commento di Lurajal. «Probabilmente me lo ha donato l'inventore della formula originale, da cui poi sono state copiate tutte le altre. Questo spiegherebbe la sua straordinaria potenza, vero?» I suoi occhi incontrarono quelli giallastri di Lurajal. «Non capisco quello che dici, Gord, ma apprezzo molto che tu abbia consumato il tuo prezioso dono per salvarmi la vita. Non sapevi che, essendo io di stirpe reale, non posso correre alcun pericolo di morte?» Ora toccò a Gord restare di stucco. Aiutò Lurajal a mettersi seduto, e quando quello glielo chiese, lo aiutò anche ad alzarsi in piedi. «E ora» disse Gord, «spiegami cos'è questa storia del non temere le ferite e la morte!» Soffocando una dolorosa risata, Lurajal accettò la spalla di Gord che si era offerto di sostenerlo, e i due si incamminarono lentamente verso la residenza del Signore dei Felini. «Credevo che tutti gli abitanti di qui fossero
a conoscenza delle speciali prerogative di cui godono i discendenti di Rexfelis.» «Beh, io non ne so nulla, e poi non sono neanche un cittadino di questo reame.» «Neanch'io, per il momento, anche se un giorno potrei diventarlo. Alla morte del mio signore, qualche mese fa, sono stato convocato qui per conoscere il luogo, i nobili di corte e così via.» «E questo ti dà l'immortalità?» Lurajal scoppiò di nuovo in una debole risatina, che lo fece ansimare. Doveva cercare di trattenere il riso per evitare il dolore e per non offendere Gord. I due proseguirono quindi in silenzio per un bel po', prima che il felino fosse in grado di riprendere a parlare. «Non sono immortale, no davvero. Ma posso guarire abbastanza in fretta: anche senza il tuo aiuto sarei stato in grado di tornare a casa da solo prima di notte, e dopo un giorno sarei tornato in perfetta forma. E se dovessi incontrare la morte, rinascerei in fretta...» «Grazie al tuo anello dall'occhio di gatto?» Lurajal restò molto sorpreso. «Come sai del mio anello reale?» Fissò Gord per un secondo, poi spostò lo sguardo sulle sue mani e quindi sull'anello del giovane. «È molto simile al tuo, anche se il gioiello è diverso, di foggia più fine...» disse lentamente. «Beh, certo..,» «Ma dimmi come sei venuto a sapere dell'anello!» Lurajal non avrebbe lasciato cadere la questione. «Credo che Tirrip me ne abbia accennato» suggerì Gord, non volendo mentire troppo spudoratamente. «È probabile. Anche lei ne ha uno, ovviamente, dal momento che è di stirpe reale». Sembrò soddisfatto, e proseguì: «Ma non è l'anello che mi può restituire la vita. Questo beneficio mi viene direttamente da Rexfelis, che mi ha accettato fra i suoi eredi. Tirrip, io, Lowen e gli altri, tutti abbiamo ricevuto questo dono. Mi meraviglia che lei non te ne abbia parlato» concluse Lurajal. «Quanto all'anello...» Gord provò a suggerire, sperando che la conversazione continuasse sull'argomento. Ma prima che Lurajal potesse aggiungere altro si sentì un grido proveniente dal palazzo. Lord Lowen, il siniscalco, stava venendo loro incontro di corsa, assieme a quattro robusti servitori, creature che assomigliavano ai castellani dalla bionda criniera, ma erano di aspetto meno nobile e di più bassa statura.
«Assicuratevi che Lord Lurajal si metta comodo nelle sue stanze» ordinò il siniscalco ai quattro, «poi tornate da me». I quattro si affrettarono ad obbedire e per Gord le speranze di sapere qualcosa di più sugli anelli di Rexfelis svanirono. «Ebbene, Sir Gord, non è il caso che un principe si immischi fra la gente comune, vero?» tuonò quell'uomo. «Credo che abbiate bisogno di un po' di riposo e di un po' di tempo per riflettere in santa pace. Per favore, tornate ai vostri quartieri, e vi porterò subito qualcosa da mangiare.» «Certo, Lord Lowen.» «Magnifico. Parlerò della cosa con il mio signore. Poi tornerò e vi dirò cosa vi dovete aspettare, quale giudizio vi toccherà.» Gord stava attendendo con ansia il ritorno del siniscalco, quando udì bussare violentemente alla porta di legno di rosa che separava la sua stanza dall'anticamera. Balzò in piedi, fece qualche passo, poi si ricompose e disse ad alta voce: «Entrate, prego!» La grossa porta dai pannelli di legno lucido si aprì verso l'interno e sull'uscio apparve non Lord Lowen, ma Rexfelis in persona. Il suo volto era serio, gli occhi glaciali. «Hai ferito uno del mio sangue» disse solennemente. «È vero» rispose Gord. «Hai qualche scusa?» «Nessuna, Rexfelis.» «Chiedi perdono?» «No, Signore, non mi abbasserò a tanto. Mi sono riappacificato con Lord Lurajal, e mi sono calmato. Sono pronto ad accettare il tuo giudizio.» «Le cose stanno così» disse lentamente il Signore dei Felini. «Hai accettato la sfida di uno che ingiustamente si è intromesso in affari che non lo riguardavano, hai combattuto lealmente e gli hai risparmiato la vita, se non mi sbaglio. La tua condotta è stata corretta, nobile, e al di là di ogni rimprovero. Ciò non di meno hai ferito a sangue uno della mia stirpe, quindi sarò costretto ad infliggerti una giusta punizione» disse il Signore dei Felini mentre continuava a fissare il giovane avventuriero. Gord cercava di restare imperturbabile a quello sguardo. «E cioè?» «Farai le tue scuse a tutti quelli coinvolti - Lurajal, Raug, Tirrip. Loro le accetteranno, ci penserò io. Poi tutti voi mi accompagnerete alla sala delle udienze. Lì si svolgerà la cerimonia che farà di te un ufficiale del mio regno, un cavaliere più o meno, se vogliamo parlare in termini umani.» Gord era sbalordito. «Io... io... è un onore che non mi merito, Lord Re-
xfelis» balbettò. «Ma... ma perché?» «Lord Lowen mi ha fatto notare che finché resterai qui ci saranno sempre delle rivalità tra te, Lord Raug e gli altri. Sciocchezze, roba da ragazzini immaturi, lo so. Mi ha suggerito di darti questo titolo, e non ho potuto fare a meno di trovare il suggerimento molto sensato. Le sfide tra i pari non intaccano l'onore, anche se l'avversario è di stirpe reale .» Gord era rimasto senza parole. «Ma io...» «Su, su. Basta così! Credi che non mi sia accorto dei tuoi meriti? Le tue azioni a Falcovia sono state molto diverse, spesso dubbie, eppure non sei un membro onorato di quella città?» «Beh, sì, suppongo di sì...» «Non c'è nulla da supporre. Credi che noi nobili non comunichiamo gli uni con gli altri? Quelli della Bilancia ti lodano. E ancor di più il Re delle Ombre! Beh, ora hai raggiunto una certa posizione su ben tre pianeti, mio astuto, giovane ladro! Il Pianeta Materiale, il Regno delle Ombre e il Regno dei Felini, e ti sei meritato il rispetto che ti dobbiamo!» Poi Rexfelis in persona guidò la corte nella stanza dove ebbe luogo la cerimonia, dal complicato rituale, officiata da vari ministri e presieduta da Rexfelis. Di sua propria mano conferì a Gord la carica onorifica, nominandolo Guardiano dei Leopardi, Sentinella a Cavallo dei Leoni, Duca del Regno dei Felini, Protettore di Tutti i Felini e così via. Quando tutto fu terminato, Tirrip e Raug, assieme al loro seguito, se ne andarono senza dire una parola. Assieme a loro uscirono parecchi altri individui che Gord non conosceva affatto, anche se li aveva già visti o aveva scambiato qualche parola con loro. Il giovane scosse il capo, chiedendosi cosa sarebbe successo. Lurajal gli era vicino e gli mise una mano sulla spalla, in un gesto amichevole. «Congratulazioni, Lord Gord» disse con calore. «Non ti porto rancore, lo sai, e vorrei esserti amico, se ciò non ti offende.» «Quale offesa? Anzi, al contrario!» disse Gord con un gran sorriso, tendendogli la mano. Lurajal la scosse con vigore. «Allora siamo amici! E avrai bisogno di amici ora, credo» aggiunse poi. «Le tigri sono contro di te, e altrettanto i leoni anziani e quelli delle montagne. Il vecchio Lowen non prenderà posizione, ma i suoi scagnozzi si schiereranno di certo con gli altri. Le Linci sono neutrali, come anche la Casata Reale dei Leopardi, a meno che tu non abbia raggiunto fra di loro una posizione di rilievo. Solo così potresti avere il loro aiuto, nel caso che decidessero di tornare a corte. Insomma, almeno
cinque sono contro di te, Gord.» «Cinque cosa?» «Cinque delle nove Casate Reali. Il dominio primordiale appartiene alle Casate di Smilodon e Paleoleo. Feudi antichissimi sono quelli della Tigre, del Leone, del Giaguaro e del Puma. Infine ci sono le Famiglie del Leopardo, del Ghepardo e della Lince. Ognuno è governato da un discendente del nostro alleato, il Signore dei Felini Rexfelis.» «Capisco...» «Che ti serva da lezione, amico mio» sussurrò Lurajal fra i denti. «Ecco Lord Sergetta con la sua signora. Salutalo molto cordialmente, perché è il Principe dei Ghepardi. Hai bisogno di tutto il sostegno che riuscirai ad ottenere». Gord fece come gli era stato suggerito. Alla fine gli unici che gli dimostrarono la loro amicizia furono Lord Lurajal e il Signore dei Ghepardi. Quelli della casa della Lince arrivarono in ritardo, e presero parte ai festeggiamenti senza presentarsi personalmente. Per Lurajal si trattava di un gioco. Il Signore dei Giaguari era forte, onesto e sincero. Amava l'intrigo, era evidente. Per dirla in breve, aveva pensato Gord, l'amico era un alleato fedele, ma poco saggio. Erano rimasti solo loro due contro il gruppo di Raug e Tirrip. I nobili Sergetta erano amichevoli, ma non si sarebbero esposti direttamente. Lord Lowen rimase neutrale, come pure i nobili delle ultime fra le nove caste. Che razza di fazioni! Che subdoli intrighi! «Vorrei rivedere la mia terra» disse un giorno Gord. «Cosa? Tarre? Quel luogo è un inferno!» «È vero, almeno in parte» Gord dovette ammettere, «ma è un paese grande e molto vario. Se le rivalità di un luogo ti vengono a noia, non hai altro da fare che salire a cavallo e andartene lontano.» Lurajal non era convinto. «Il pianeta del nostro signore e alleato - il mio pianeta, e ora anche il tuo - è praticamente sconfinato!» Il giovane sorrise e scosse lievemente il capo: «Ma non è casa mia!» Lurajal non seppe trovare una risposta. Un giorno chiese udienza presso Rexfelis e gli raccontò dei problemi che avevano lui e Gord. «Sì, principe» disse il Signore dei Felini, «sono anche troppo consapevole del crescente disagio che si è creato a corte a causa di quelle teste calde e dei loro amichetti. È giunto il momento che tu faccia ritorno al tuo feudo, Lurajal, solo per un po'.» «E che ne sarà di Gord, signore?» Rexfelis sorrise di cuore al Principe dei Giaguari. «Sei così forte e one-
sto. Se ti si dà un compito non devieresti mai, vero?» «Mai, mio signore!» «Infatti. Anche Gord è così, a suo modo. Ecco perché siete diventati buoni amici. Beh, per quel che lo riguarda, ho parlato con... dei vecchi soci, diciamo. Hanno qualche interesse su di lui.» «Dovrà essere impiegato come servo o come apprendista?» «No di certo!» Rexfelis sorrise, rassicurando il principe che aveva espresso la sua preoccupazione per l'amico. «Diciamo che si tratta di una sorta di nobile servizio per una causa giusta e valida. Dopo tutto, Gord comincia ad annoiarsi qui. È lui stesso ad alimentare le fiamme dell'antagonismo tra i miei parenti, perché questo stato conflittuale è l'unica cosa che mantiene vivo il suo interesse. È una reazione inconscia, ne sono sicuro, ma le cose stanno proprio così.» «Beh, allora...» «Va tutto bene, non ti preoccupare. Tu andrai nel tuo dominio per un po' di tempo, e io accompagnerò personalmente il tuo amico Gord nel primo tratto del suo viaggio .» «Non è un esilio, allora? Solo un periodo di servizio?» Il Re dei Felini si fece serio. «Esatto, caro Lurajal, è proprio così.» Quando il giovane nobile se ne fu andato, Rexfelis aggiunse fra sé: «Non sarà un esilio, a meno che la Morte non se lo prenda.» Capitolo 28 Mentre i demoni complottavano nell'Abisso e i padroni dell'Ade macchinavano con i loro diabolici alleati, il destino seguiva il suo corso. In quella partita a scacchi di dimensioni cosmiche le pedine si muovevano incessantemente, e spesso molte fazioni muovevano contemporaneamente numerosi pezzi. La scacchiera era grande, complessa, imperscrutabile. Quella che poteva sembrare una posizione inattaccabile, per una delle forze in gioco, finiva per crollare sotto un attacco imprevisto. I demoni erano in vantaggio, le forze di Infestix stavano perdendo. L'unico problema per l'Abisso era che ognuno dei suoi pezzi, ogni singola pedina, si muoveva come meglio credeva. Era quasi impossibile, anche se a volte accadeva, che i vari pezzi dei demonkin lavorassero assieme - ed era veramente strano che l'Ade non si accorgesse di questa situazione. Forse neanche i grandi intelletti di esseri come i demonlord e i duchi dei Nove Inferni erano capaci di afferrare l'intero senso del gioco, intenti co-
m'erano a spianare la strada per il loro pezzo più forte, un uomo che si poteva paragonare a una combinazione di re, regina, cavallo e giraffa* (vedi la Nota dell'Autore in fondo al capitolo) del gioco dei Grandi Scacchi. Nessun altro partecipante aveva un pezzo del genere, perderlo sarebbe stato un disastro: se era libero di muoversi questo pezzo poteva controllare talmente tante caselle che niente sarebbe stato in grado di fermarlo, e nessun avversario si sarebbe potuto avvicinare impunemente a lui. Anche se le loro posizioni erano indebolite i grandi intelletti del male continuavano a lavorare, e il gioco si fece più chiaro; tra non molto le truppe color viola dell'Ade, insieme a quelle rosso-sangue degli Inferi, avrebbero trionfato su tutti gli avversari: neri, bianchi, grigi, blu, dorati, bronzei. Solo i pezzi e le pedine verdi, quelli affiliati alla Bilancia, rimanevano in posizione, ma ce n'erano già molti sul terreno. Il verde-verde, nella sua posizione esposta e centrale, sembrava il più indebolito; e infatti aveva subito molte perdite. Ma in compenso i pezzi di tonalità più chiara - verde pallido, verde acqua, smeraldo chiaro - come anche quelli color verde oliva, verde bottiglia e gli altri di tonalità ancora più scura, erano ora liberi di muoversi ad affrontare il nemico. Non essendo minacciati direttamente, potevano impiegare le loro forze contro le orde nere. I pezzi verde chiaro della Bilancia erano aiutati dal verde scuro e dal verde smeraldo, e da legioni giallo-verde e verde oliva. «Ci stanno tagliando fuori!» Il grido di rabbia veniva da uno degli Otto Infestati. Gli altri sette si erano piegati davanti al bacino delle visioni e osservavano con sguardo spento ciò che aveva visto il loro socio. «Informate il Padrone!» ordinò il capo degli Otto a uno dei suoi aiutanti. «Questa offesa non deve restare impunita!» Un altro degli Infestati obiettò: «Lord Infestix ci ha ordinato di non interferire...» Fu zittito da uno sguardo tagliente del capo. «Se non agisco immediatamente perderemo il nostro pezzo di maggior valore, oltre alla nostra postazione avanzata!» In effetti le orde della Morte erano riuscite a resistere per qualche tempo, ma poi le forze scure del principe dei demoni si erano mosse e la situazione era cambiata di colpo. Il fianco destro dell'Ade era scoperto, e l'Abisso stava per attaccare e distruggerlo. «Cosa significa tutto questo?» Infestix vide ciò che stava succedendo, e ne fu sconvolto. Il più potente degli Otto servitori venne degradato, e quello che aveva osato obiettare prese il suo posto. Il signore supremo avrebbe punito volentieri con maggior violenza l'essere che lo aveva offeso, ma la
situazione era troppo critica e Infestix aveva bisogno di tutti i suoi luogotenenti se voleva spuntarla. «Sono stati commessi gravi errori, imperdonabili mancanze, stupidi sbagli grossolani. Ma non abbiamo ancora perso la partita. Rassicuratevi e lavorate con diligenza. Non risparmiate nessuno, tranne voi stessi» disse agli Otto. «La fase iniziale della partita è finita, ma ora comincia il bello. Ci muoveremo con astuzia, prenderemo posizione, guideremo le nostre forze e tenderemo le nostre trappole. Quando verrà la fase finale mi manifesterò all'improvviso per rivelare la nostra forza reale, e allora solo il viola resterà in gioco!» «Trappole, Padrone?» «Sì, trappole. Trappole e qualche luogo di tortura, penso. Non fatemi altre domande!» Il truce signore supremo degli inferi li lasciò a rimuginare sulle sue parole. Solo lui sapeva esattamente le mosse che avrebbe fatto. I più potenti dei demonkin continuavano a lottare, spostando le loro pedine nere qua e là. I loro inferiori cercavano di imitare il metodo dei padroni, facendo un po' come volevano, e la posizione dei demoni finì presto nel caos. Il loro potere e il loro numero era però tale, che le orde scure dell'Abisso si erano sparpagliate dovunque. Iuz, il più temuto campione, esultava poiché aveva conquistato una postazione imprendibile, e inoltre possedeva due regine che gli garantivano ancora più forza. Graz't chiamò a raccolta tutte le truppe di cui disponeva, e dispose le sue legioni sul campo. Altri ancora litigavano tra loro, oppure se la prendevano a caso con schieramenti di altre fazioni - dorate e blu, bianche o grigie, arancioni o rosse come l'inferno. Ciò che importava era combattere e uccidere. L'armata color smeraldo non dava preoccupazioni, dal momento che ce n'erano molte altre ben più potenti da tenere a bada. I neri si muovevano, e la loro avanzata era davvero irrefrenabile mentre pregustavano il piacere del saccheggio finale. I presuntuosi soldati della fazione viola si stavano già ritirando, tornavano in trincea, rabbrividivano al pensiero della fine di quel meraviglioso gioco di morte. *
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Molto lontano dal campo di battaglia, sul pianeta materiale, su quel mondo chiamato Tarre, nella città dei falchi, solo un abitante era a conoscenza della tremenda lotta che si stava svolgendo. Era un sapiente demonurgista. Nessuno conosceva il suo vero nome. Forse nemmeno lui se lo
ricordava più. I bambini delle vicinanze lo chiamavano Padron Fagiolo. Egli ci rideva sopra e rispondeva con delle orribili boccacce. I marmocchi si spaventavano e correvano via terrorizzati. Anche gli adulti sorridevano nel vedere quelle scene. Per loro quel vecchio era Norund il Gemmaio, un vecchio un po' tonto e malfermo, che ogni tanto regalava una manciata di smeraldi o di ametiste in cambio di qualche piccolo favore, come una ciotola di zuppa. Ma i nobili e gli oligarchi della città sapevano molto di più su quel vecchio. Per loro era un mistico veggente, pratico di arti magiche. Rundon Tallman era un prezioso informatore che li teneva aggiornati su tutto ciò che accadeva nel Flanaess. Gli alti ufficiali che beneficiavano di tali informazioni sapevano bene che quel vecchio pazzo era un disgraziato sottopagato. Persino i grandi maghi e i sacerdoti superiori si stupivano della sua abilità, e si noti che le tariffe che chiedevano per le loro prestazioni erano dieci volte più alte di quelle che venivano corrisposte a Rundon. Ma lui si accontentava, forse perché era un po' rimbambito, o forse perché viveva in austerità. Era un bene, si dicevano gli oligarchi. Se quel vecchio era contento così, altrettanto lo erano quelli che lo pagavano poco e ne ricavavano molto. Tutti insomma usufruivano volentieri dei suoi servigi. Ovviamente il demonurgista sapeva bene cosa pensavano gli altri di lui, ma si era proposto di non farlo mai capire. Solo uno dei membri del Consiglio di Falcovia si era reso conto che il vecchio era qualcosa di più di un venditore di gemme, o un semplice veggente. Il capo degli assassini di Falcovia lo conosceva come Undron Nalvistor, sacerdote inferiore di Nerull e straordinario mago. Poteva assumere diverse fattezze, e non avrebbe mai smesso di lavorare al servizio delle tenebre. Il capo della corporazione considerava Undron Nalvistor il suo agente principale, il più importante di tutti i suoi scagnozzi, fatta eccezione per il suo primo assistente, un altro incantatore che si era specializzato nell'arte dell'assassinio. Grazie a Undron Nalvistor il capo degli assassini aveva ottenuto la massima carica nella corporazione, e di recente aveva raggiunto una posizione di rilievo fra gli oligarchi. Quel vecchio magro e altissimo era un buon collegamento da usare con accortezza e abilità, e il capo della corporazione lo pagava bene. Quello che il vecchio faceva delle somme che incassava erano affari suoi. Ormai era normale che Undron continuasse a vestire i panni che indossava, restando quel che si credeva che fosse. Un giorno, forse, avrebbe de-
ciso di cambiare: allora una mattina il vecchio sarebbe stato trovato morto nel suo letto, e tutti avrebbero pensato che era spirato serenamente nel sonno. E in effetti uno che muore soffocato da un cuscino dà proprio quell'impressione; d'altra parte si sa come sono questi vecchietti mezzo rimbambiti, che cominciano ad andare in giro a raccontare cose che non dovrebbero... Norund-Rundon-Undron sapeva bene tutto ciò, ma non si preoccupava. Continuava a servire fedelmente uno solo, e quell'uno era un essere superiore: se stesso. Per perseguire quel fine era diventato un agente di Infestix, un discepolo di Nerull, un servitore degli inferi. Il suo vero padrone, la Morte, lo chiamava Tomba, rendendo così omaggio alla sua abilità nel mandare i nemici umani nella loro ultima residenza, ma ricordando nello stesso tempo al vecchio che anche lui non era che un mortale. In verità il Padrone dell'Ade si sentiva un po' a disagio per quella presenza, e TombaNorund-Rundon-Undron lo sapeva. Ma Infestix non avrebbe mai permesso che morisse finché gli era utile, e lui lo sarebbe stato per l'eternità, perché possedeva dei poteri e delle conoscenze che neppure la Morte aveva. Il demonurgista gli aveva messo vicino due grandi demoni, Pazuzeus e Shabriri. Anche se gli abitanti dell'Abisso credevano che quei due fossero della loro razza, né Pazuzeus né Shabriri erano dei veri demoni. Erano entrambi creature degli inferi, ovviamente, e abitavano nei profondi recessi di quei reami tenebrosi. Eppure erano diversi, avevano delle origini più antiche. Derivavano da una razza di esseri antichi che si era originata nel nadir delle tenebre, nella stessa casa di Infestix. Pazuzeus e Shabriri erano gli agenti del vecchio, costretti forse contro la loro volontà a lavorare per lui: quando il grande buio fosse sceso su ogni cosa, allora il demonurgista li avrebbe liberati. Questa era stata la sua promessa, e l'avrebbe certo mantenuta... se il Signore del Male Infinito glielo avesse ordinato. Ma il demonurgista dubitava che ciò potesse accadere. Sapeva di essere indispensabile. Forse un giorno lui, un uomo, anche se non più mortale, sarebbe potuto diventare un capo sotto il dominio di Tharizdun. Con tre cani di quel calibro al guinzaglio - Shabriri, Pazuzeus e Infestix - avrebbe avuto un potere immenso. Ma c'era un piccolo problema, e il saggio demonurgista era un po' preoccupato. Ormai aveva capito la natura del gioco, le forze che vi erano coinvolte, i pezzi e le pedine in gioco. Per adesso si trovava a fianco del re viola, un pezzo debole ma importante per la difesa contro attacchi inaspettati. Ma neppure il suo stesso signore sapeva che il demonurgista comandava due
dei pezzi minori dello schieramento nero. Ad un suo comando quei due pezzi si sarebbero trasformati dal colore dell'ebano a quello dell'ametista, si sarebbero uniti a lui e avrebbero contribuito a costruirgli un'identità di maggior rilievo. Potente, grande eliminatore di avversari, poteva essere un ottimo candidato per diventare re... ma c'era un ostacolo in quel progetto. Già da molto tempo - in termini umani, s'intende - stava lavorando per il trionfo della tenebra assoluta. Era stato il ragno che aveva tessuto la tela, il burattinaio che aveva mosso i fili giusti. Il suo piano aveva avuto successo, il suo progetto aveva funzionato alla perfezione, tranne che per un particolare. Una vittima insignificante gli era in qualche modo sfuggita. E adesso quella stessa vittima era una pedina in uno dei numerosi eserciti che osavano opporsi ai viola. Molte volte il demonurgista aveva fatto le sue mosse per eliminare quell'insignificante elemento, ma ogni volta quello era riuscito a fuggire. Neppure Nerull sapeva nulla dell'errore originario del demonurgista, né di tutti i fallimenti successivi. Il vecchio aveva lavorato con tutte le precauzioni per mantenere il tutto assolutamente segreto. E ora quel nemico si stava muovendo di nuovo, minacciando seriamente la sua posizione. Chiamò a raccolta i suoi vassalli. «Pazuzeus, corri veloce sul pianeta dell'Abisso e bada che quegli zotici mandino i loro migliori campioni a eliminare i verdi!» Il demone alato sparì in un batter d'occhio. Shabriri fissava il demonurgista con i suoi quattro occhi infuocati. Il vecchio se ne accorse, e colse negli occhi del demone un'espressione di dubbio. «Non temere, piccolo demonling! Sta andando tutto bene...» Shabriri abbassò lo sguardo con una falsa espressione di umiltà, e il demonurgista fece finta di non accorgersi di nulla. «Tu vai da quelli che operano qui, sul pianeta materiale. Dai loro le stesse istruzioni che Pazuzeus sta trasmettendo ai suoi simili. Presto! Se ce la farai, 'Briri, starai al mio fianco destro; se fallirai vedremo se ti divertirai a sentire altre abbreviazioni del tuo nome...» Soggiogato dalla minaccia, anche Shabriri partì in fretta per obbedire agli ordini ricevuti. Eppure non era del tutto convinto che il vecchio mago stesse facendo la cosa giusta. Dopotutto era un mortale, e quella gente spesso commetteva degli errori. Ma il pensiero di ottenere la libertà, di poter toccare con mano quella nuova sensazione lo faceva esultare di gioia. Rimasto solo, il demonurgista pensava agli sviluppi del gioco, e ne era piuttosto soddisfatto. In quel momento i neri e i rossi si stavano muovendo contro il verde. Nessuno sospettava la sua esistenza: era sconosciuto, al si-
curo, e al comando della partita. Ben presto il suo ruolo si sarebbe ingrandito. Con una sensazione di appagamento che non aveva più sentito da parecchio tempo, il vecchio si rilassò e si mise a guardare quello che stava per accadere... Nota dell'autore I lettori che non conoscono le varianti del gioco degli scacchi, in uso presso altri popoli, possono essere rimasti sorpresi dal termine giraffa. I Grandi Scacchi, anche nella versione più recente di Timur, si giocano su una scacchiera di dieci caselle di altezza e undici di larghezza, con due caselle aggiuntive, chiamate cittadelle, che prolungano sulla destra la seconda fila di ciascun giocatore. All'inizio del gioco si sistemano tre file di pezzi: i pedoni più vicini all'avversario, i pezzi più deboli nella seconda fila, pezzi deboli e forti mescolati insieme nella prima fila. Quando la scacchiera è relativamente sgombra, uno dei pezzi più potenti e devastanti risulta essere la giraffa. Facciamo un paragone. Il cavallo si muove di una casella laterale e poi di una diagonale. Il cammello, un'altra variante, si muove di due caselle orizzontali o verticali, e poi di una diagonale. Di conseguenza il cavallo si sposta da una casella di un colore a una casella di un altro colore, mentre il cammello rimane sempre su caselle dello stesso colore (e per questo motivo è un pezzo più debole). La giraffa ha un movimento più complicato, e inoltre alla fine di ogni mossa può trovarsi su una casella di entrambi i colori. Nella prima fase della mossa deve avanzare di tre spazi in linea retta e poi farne uno in diagonale. Ma a questo punto le somiglianze con il cavallo e il cammello finiscono. La giraffa non riesce ad aggirare gli altri pezzi, amici o nemici, come fanno il cavallo o il cammello, però in compenso ha un più ampio raggio d'azione e una capacità di movimento più pericolosa degli altri due pezzi. Quando la giraffa ha completato il movimento diagonale, può restare dov'è oppure continuare di uno spazio sulla stessa riga o colonna, però sempre nella stessa direzione in cui si era spostata all'inizio, prima del movimento diagonale. In questo modo, una giraffa che si trovi più o meno al centro della scacchiera ha un potere tremendo, e controlla un numero notevole di caselle. La figura che segue potrà soddisfare la curiosità dei lettori interessati. - G.G.
Se il passaggio è libero sulle caselle segnate con un puntino (.), la giraffa è in grado di mangiare o di muoversi su tutte le corrispondenti caselle segnate con una X.
FINE