JEFFERY DEAVER IL SILENZIO DEI RAPITI (A Maiden's Grave, 1995) A Diana Keene, fonte di ispirazione e critico acuto, part...
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JEFFERY DEAVER IL SILENZIO DEI RAPITI (A Maiden's Grave, 1995) A Diana Keene, fonte di ispirazione e critico acuto, parte dei miei libri come della mia vita, con tutto il mio amore. RINGRAZIAMENTI Vorrei ringraziare in particolar modo Pamela Dorman della Viking, editor con l'insistenza e la pazienza (per non parlare del fegato) necessarie a far sì che gli autori s'impegnino per ottenere quello stesso livello di eccellenza che lei raggiunge nel suo mestiere. Il mio più profondo apprezzamento, inoltre, va a Deborah Schneider, cara amica e il miglior agente del mondo. E all'intero staff della Viking/NAL, specialmente a Barbara Grossman, Elaine Koster, Michaela Hamilton, Joe Pittman, Cathy Hemming, Matthew Bradley (che si è guadagnato cento volte il titolo di Redattore combattivo dell'anno) e Susan Hans O'Connor. Nessun ringraziamento sarebbe però completo senza riconoscere i meriti di tutte le persone gentili con cui ho avuto a che fare alla Curtis Brown di Londra, in special modo Diana Mackay e Vivienne Schuster, e alla mia casa editrice inglese, la Hodder-Headline, in special modo il mio editor, Carolyn Mays, oltre a Sue Fletcher e Peter Lavery. Un grazie a Cathy Gleason della GelfmanSchneider, un grazie e un «ciao» a mia nonna Ethel Rider e a mia sorella nonché collega Julie Reece Deaver, e poi a Tracey, Kerry, David, Taylor, Lisa (signorina X-Man), Casey, Chris e a Bryan Grande e Bryan Piccolo. PARTE PRIMA LA STANZA DELLE UCCISIONI 8,30 «Otto uccelli grigi, appollaiati nel buio. Soffia un vento freddo, indelicato.» Il piccolo scuolabus giallo raggiunse la sommità di una brusca salita sul-
la strada e, per un istante, tutto ciò che lei poté vedere fu un'immensa trapunta pallida di frumento, larga migliaia di chilometri, che ondeggiava, ondeggiava sotto il cielo grigio. Poi l'automezzo discese ancora una volta e l'orizzonte scomparve «Appollaiati su un filo, sollevano le ali e si allontanano tra le ribollenti nubi.» Quando si interruppe guardò le ragazze che annuivano in segno di approvazione. Si rese conto di essere rimasta a fissare la spessa coltre di frumento, ignorando il proprio pubblico. «Sei nervosa?» le domandò Shannon. «Non chiederglielo», la ammonì Beverly. «Porta male.» No, spiegò Melanie, non era nervosa. Guardò nuovamente fuori, verso i campi che scorrevano ai lati del bus. Tre delle ragazze stavano sonnecchiando, ma le altre cinque erano ben sveglie e aspettavano che lei continuasse. Melanie ricominciò, ma venne di nuovo interrotta. «Aspetta... che tipo di uccelli sono?» le domandò Kielle. «Non interrompere», replicò seccata la diciassettenne Susan. «Le persone che interrompono gli altri sono dei cafoni.» «Io no!» ribatté Kielle. «Che cosa vuol dire?» «Grossolani e stupidi», spiegò Susan. «Cosa vuol dire 'grossolani'?» chiese ancora Kielle. «Lasciala finire!» Melanie proseguì: «Otto uccellini alti nel cielo, volano per tutta la notte finché trovano il sole». «Pausa», rise Susan. «Ieri erano cinque uccelli.» «Adesso sei tu che interrompi», fece notare la snella Shannon, il maschiaccio del gruppo. «Cafarna che non sei altro.» «Cafona», la corresse Susan. La grassoccia Jocylyn annuì enfaticamente come se anche lei avesse colto la gaffe ma fosse troppo timida per farla notare. In effetti, Jocylyn era troppo timida per fare qualsiasi cosa. «Ma voi siete otto, così l'ho cambiata.»
«E puoi farlo?» si meravigliò Beverly. Con i suoi quattordici anni, era la seconda studentessa in ordine di anzianità. «È la mia poesia», rispose Melanie. «Posso metterci tutti gli uccelli che voglio.» «Quanta gente ci sarà? Alla recita?» «Centomila.» Melanie sembrava decisamente sincera. «No! Davvero?» sbottò l'entusiasta Shannon dall'alto dei suoi otto anni, mentre la sua molto più scafata coetanea Kielle roteava gli occhi in segno di esasperazione. Lo sguardo di Melanie venne di nuovo attratto dal paesaggio monotono del Kansas meridionale. L'unica nota di colore era l'azzurro dei silos prefabbricati Harvestore che spiccavano di tanto in tanto nella pianura. Era luglio, ma faceva freddo e il cielo era molto nuvoloso; minacciava di piovere da un momento all'altro. Oltrepassarono enormi mietitrebbiatrici e camion traboccanti di braccianti stagionali, con i loro Porta-Potti al traino. Videro proprietari terrieri e mezzadri al volante dei loro enormi Deere, Massey e IH. Melanie li immaginò intenti a osservare nervosamente il cielo: quello era il periodo del raccolto per il frumento invernale, e una tempesta adesso poteva rovinare otto mesi di duro lavoro. Melanie distolse lo sguardo dal finestrino e si esaminò le unghie delle mani, che si tagliava e si limava religiosamente ogni sera. Erano ricoperte da uno smalto leggero e assomigliavano a perfette scaglie di perla. Alzò le mani e recitò altre diverse poesie, segnando elegantemente le parole. Ora tutte le ragazze erano ben sveglie; quattro guardavano fuori dei finestrini, tre osservavano le dita di Melanie, mentre la paffuta Jocylyn Weiderman teneva d'occhio ogni singola mossa della sua insegnante. Questi campi di grano non finiscono mai, pensò Melanie. Lo sguardo di Susan seguì quello di Melanie. «Sono uccelli neri», disse l'adolescente con il linguaggio dei segni. «Corvi.» Sì, erano corvi. Non cinque, od otto, ma migliaia. Melanie guardò l'orologio. Non erano ancora entrate neppure in autostrada. Ci sarebbero volute almeno altre tre ore prima di arrivare a Topeka. Il bus discese in un altro canyon di frumento. Melanie avvertì la presenza dei guai prima ancora che un singolo indizio concreto venisse registrato dalla parte conscia del suo cervello. In seguito avrebbe concluso che non si era trattato di un messaggio psichico o di una premonizione; furono le dita grosse e tozze della signora Harstrawn che si contraevano sul volante.
Mani, in movimento. Poi gli occhi della donna più anziana si socchiusero leggermente. Le spalle si mossero. La testa si inclinò di un millimetro. I piccoli gesti del corpo rivelavano che il cervello stava pensando. «Le ragazze dormono?» La domanda fu brusca, e le dita tornarono subito a posarsi sul volante. Melanie si sporse in avanti e le fece segno di no. Ora le gemelle, Anna e Suzie, delicate come piume, si erano sollevate dallo schienale, sporgendosi in avanti, respirando sulle spalle squadrate dell'insegnante più anziana e con gli occhi fissi davanti a sé. La signora Harstrawn fece loro cenno di tirarsi indietro. «Non guardate. State sedute e guardate dall'altro finestrino. Fatelo. Subito! Dal finestrino di sinistra.» Poi Melanie vide la macchina. E il sangue. Ce n'era molto. Si voltò e risospinse le ragazze ai loro posti. «Non guardate», le istruì. Il cuore le batteva ferocemente in petto; all'improvviso sentì le braccia come se le pesassero un quintale. «E mettetevi le cinture di sicurezza.» Faceva fatica a comporre le parole con le dita. Jocylyn, Beverly e la decenne Emily ubbidirono. Shannon fece una smorfia e sbirciò, Kielle ignorò sfacciatamente le parole di Melanie. Susan aveva il diritto di curiosare, puntualizzò. E perché non avrebbe dovuto? Delle gemelle, Anna si era impietrita, con le mani in grembo e il viso più pallido del solito, in acuto contrasto con la carnagione nocciola della sorella. Melanie le accarezzò i capelli e le indicò un punto fuori del finestrino, sul lato sinistro del pullman. «Guarda il frumento», le suggerì. «Proprio interessante», replicò sarcastica Shannon. «Quella povera gente.» La dodicenne Jocylyn si stava asciugando le lacrime che le scorrevano copiose sulle guance grassocce. La Cadillac bordò era andata a sbattere con violenza contro una chiusa metallica per l'irrigazione. Un soffio di vapore si innalzava da sotto il cofano. Il guidatore era un uomo anziano. Era riverso scompostamente sul sedile, per metà fuori della macchina, la testa sull'asfalto. Melanie vide una seconda automobile, una Chevy grigia. La collisione era avvenuta a un incrocio. A quanto sembrava, la Cadillac aveva la precedenza e si era scontrata con la macchina grigia, che doveva aver oltrepassato un segnale di stop senza fermarsi. La Chevy era uscita di strada, finendo tra le alte spighe di frumento. All'interno non c'era nessuno; il cofano era contorto, e dal radiatore usciva uno sbuffo di vapore biancastro. La signora Harstrawn fermò il pullman e allungò una mano verso la maniglia cromata della portiera.
No! Pensò Melanie. Continua ad andare! Raggiungi un emporio, un supermercato, una casa. Non avevano incontrato nulla per chilometri e chilometri, ma sicuramente più in là c'era qualcosa. Non fermarti. Prosegui. Aveva solo pensato quelle parole, ma le sue mani dovevano essersi mosse inconsapevolmente, perché Susan le rispose: «No, dobbiamo fermarci. Quell'uomo è ferito». Ma il sangue, pensò Melanie. Non avrebbero dovuto entrare in contatto con il sangue di quell'uomo. C'era l'AIDS, c'erano altre malattie. Quelle persone avevano bisogno di aiuto, sì, ma di un aiuto ufficiale. Otto uccelli grigi, appollaiati nel buio... Susan, di otto anni più giovane di Melanie, fu la prima a scendere dallo scuolabus; corse verso l'uomo ferito, con i lunghi capelli neri che le danzavano intorno, mossi dalle raffiche di vento. Poi la signora Harstrawn. Melanie rimase indietro, con gli occhi spalancati. L'uomo giaceva sul sedile come una bambola di pezza, una gamba piegata in un'angolazione terribile. La testa floscia, le mani grasse e pallide. Lei non aveva mai visto un cadavere prima di allora. Ma non è morto, naturalmente. No, no, è soltanto un taglio. Non è niente. È soltanto svenuto. Una dopo l'altra, le bambine si voltarono per osservare l'incidente; Kielle e Shannon per prime, ovviamente - il Duo Dinamico, le Power Rangers, le X-Men. Poi la fragile Emily, con le manine giunte in preghiera (i suoi genitori insistevano affinché pregasse ogni sera perché le tornasse l'udito. La piccola l'aveva confidato solo a Melanie). Beverly si stringeva il petto in un gesto istintivo di timore. Per il momento, non stava avendo un attacco di panico. Melanie scese faticosamente dal pullman e si incamminò verso la Cadillac. Giunta a metà strada, rallentò il passo. In contrasto con il cielo plumbeo, con il grigiore della distesa di frumento e il pallore dell'asfalto, il sangue era così rosso; era ovunque: sulla testa calva dell'uomo, sul suo petto, sulla portiera della macchina, sul rivestimento in pelle giallastra del sedile anteriore. Sulle montagne russe della paura, il suo cuore stava precipitando verso terra. La signora Harstrawn era madre di due ragazzi adolescenti, una donna
priva di senso dell'umorismo, intelligente, affidabile, solida come gomma vulcanizzata. Si frugò sotto la felpa multicolore, si sbottonò la camicetta e ne strappò una striscia facendone un bendaggio improvvisato che avvolse intorno a un profondo squarcio che si apriva nella testa dell'uomo. Si chinò e gli sussurrò qualcosa all'orecchio, gli premette il torace e gli respirò in bocca. E poi si mise in ascolto. Io non posso sentire, pensò Melanie, quindi non posso essere d'aiuto. Non c'è niente che io possa fare. Tornerò al pullman. Terrò d'occhio le ragazze. Le montagne russe della paura smisero di andare su e giù. Bene. Meglio. Anche Susan si chinò, toccando una ferita sul collo dell'uomo. Accigliata, sollevò lo sguardo verso la signora Harstrawn e formò le parole con dita insanguinate. «Perché esce così tanto sangue? Guarda il collo.» La donna esaminò la ferita. Si accigliò anche lei, scuotendo la testa. «C'è un buco nel suo collo», gesticolò l'insegnante, stupefatta. «Come un buco di proiettile.» A quel messaggio, Melanie trattenne il fiato. Il vagoncino delle montagne russe precipitò nuovamente, lasciandole lo stomaco da qualche altra parte... molto, molto più in alto. Smise di camminare. Poi vide la borsetta. A tre metri di distanza. Grata per qualsiasi distrazione che potesse tenerle lo sguardo lontano dal ferito, si avvicinò alla borsa e la esaminò. Il disegno stampato sulla pelle era il logo di qualche stilista. Melanie Charrol - una ragazza di campagna che guadagnava sedicimilacinquecento dollari l'anno facendo il tirocinio come insegnante per sordomuti - non aveva mai nemmeno sfiorato un accessorio firmato nei suoi venticinque anni di vita. La borsetta le sembrava preziosa perché era piccola come una gemma rilucente. Era il tipo di borsetta che una donna si sarebbe appesa alla spalla per entrare in un ufficio di un grattacielo nel centro di Kansas City, o addirittura di Los Angeles o Manhattan. Ma, mentre guardava la borsetta, un pensiero minuscolo le si formò nella mente, crescendo e crescendo fino a sbocciare: dov'era la donna che la portava? In quel momento, l'ombra cadde su di lei. Non era un uomo alto, né grasso, ma sembrava molto solido: vigoroso come possono esserlo i cavalli, con i muscoli sotto la pelle, ben delineati. Melanie gemette per la sorpresa, fissando il viso giovane e levigato. L'uo-
mo aveva i capelli tagliati a spazzola e i suoi vestiti erano grigi come le nubi che si rincorrevano nel cielo. Il sorriso era largo e rivelava una chiostra di denti bianchi: lei non credette a quel sorriso nemmeno per una frazione di secondo. La sua prima impressione fu che assomigliava a una volpe. No, concluse, a un furetto o a un ermellino. Nella cintura dei suoi pantaloni, larghi e sformati, c'era una pistola. Melanie annaspò e sollevò le mani. Non se le portò al volto, ma davanti al petto. «Per favore, non farmi del male», disse a gesti, senza pensarci. L'uomo osservò le sue mani in movimento e scoppiò a ridere. Con la coda dell'occhio, Melanie vide la signora Harstrawn e Susan che si alzavano in piedi, perplesse. Un secondo individuo si stava dirigendo a grandi passi verso di loro: era enorme. Alto e grosso. Anche i suoi vestiti erano di un grigio slavato. Capelli stopposi. Gli mancava un dente, e il suo era un sorriso affamato. Un orso, pensò Melanie automaticamente. «Andiamo», gesticolò a Susan. «Andiamo via. Subito.» Con lo sguardo fisso sulla superficie gialla dello scuolabus, cominciò a camminare verso i sette giovani volti infelici e preoccupati ammassati dietro i finestrini. Ermellino la afferrò per il colletto. Melanie gli schiaffeggiò la mano, ma con prudenza, timorosa di colpirlo, spaventata dalla sua rabbia. L'uomo gridò qualcosa che lei non capì e la scosse con forza. Il sorriso divenne ciò che era in realtà: un freddo sogghigno. Il volto gli si rabbuiò. In preda al terrore, Melanie lasciò ricadere la mano. «Che cos'è... questo?» disse Orso. «Sto pensando che noi... sappiamo.» Melanie non era sorda dalla nascita. Aveva cominciato a perdere l'udito all'età di otto anni, quando le sue capacità linguistiche si erano ormai consolidate. Riusciva a leggere le labbra meglio della maggior parte delle ragazze. Ma la lettura labiale è un'abilità molto insidiosa, assai complessa e non limitata alla semplice osservazione delle labbra. Il processo coinvolge l'interpretazione dei movimenti della bocca, della lingua, dei denti, degli occhi e di altre parti del corpo. Ed è veramente efficace soltanto se si conosce la persona le cui parole si stanno cercando di decifrare. Orso esisteva in un universo radicalmente diverso dalla vita di Melanie, fatta di interni anglosassoni, di tè Celestial Seasonings e di scuole delle piccole città del Midwest. E lei non aveva la più pallida idea di quello che Orso stava dicendo. L'uomo rise, sputando un getto di saliva bianca. Il suo sguardo le percorse tutto il corpo: il seno sotto la camicetta bordò, la lunga gonna grigio-
antracite, le calze nere. Melanie incrociò goffamente le braccia. Orso tornò a dedicare la propria attenzione a Susan e alla signora Harstrawn. Ermellino si stava sporgendo in avanti e parlava - probabilmente stava gridando, come fa spesso la gente con i sordi (il che va bene, perché quando gridano parlano più lentamente e i loro movimenti labiali sono più pronunciati). Le stava chiedendo chi c'era nel pullman. Melanie non si mosse. Non poteva. Si teneva le dita, fredde e sudate, strette intorno alle braccia. Orso abbassò lo sguardo sulla faccia dell'uomo ferito e gli batté pigramente la punta dello stivale contro la fronte, osservando la testa ciondolare. Lei trattenne il fiato: l'aria casuale e gratuita di quel calcio era terrificante. Cominciò a piangere. Orso spinse Susan e la signora Harstrawn davanti a sé, verso il pullman. Melanie guardò Susan e sollevò le mani. «No, non farlo!» Ma Susan si stava già muovendo. La sua figura perfetta, il suo corpo da atleta. I suoi cinquantun chili di muscoli. Le sue mani forti. Il palmo della ragazza scattò verso la faccia di Orso. L'uomo spostò la testa all'indietro, sorpreso, e afferrò la mano pochi centimetri prima che gli arrivasse agli occhi. La sorpresa si tramutò in divertimento; le piegò il braccio all'ingiù finché Susan non cadde in ginocchio, quindi la spinse a terra, insudiciandole di polvere e fango i jeans neri e la camicia bianca. Poi si voltò verso Ermellino e gli gridò qualcosa. «Susan, non farlo!» gesticolò Melanie. La ragazza era di nuovo in piedi. Ma questa volta Orso era preparato e si voltò per affrontarla. Quando la bloccò, posò per un istante la mano sul suo seno. All'improvviso, si stancò del gioco. La colpì con forza alla bocca dello stomaco e lei si piegò sulle ginocchia, stringendosi il petto e annaspando in cerca d'aria. «No!» le gesticolò Melanie. «Non lottare.» Ermellino gridò a Orso: «Dove... lui?» Orso fece un cenno in direzione di una parete ondeggiante di frumento. Aveva un'espressione curiosa sul volto, come se non approvasse qualcosa ma avesse paura di mostrarsi troppo critico. «Non... tempo... queste stronzate», borbottò. Melanie seguì il suo sguardo e osservò le spighe di frumento. Non riusciva a vedere chiaramente, ma dalle ombre e dai contorni indistinti le parve di scorgere un uomo chino su qualcosa. Era piccolo e robusto. Sembrava che il suo braccio fosse alzato, come in uno di quei saluti nazisti. Rimase così per un lungo istante. Sotto di lui, pensò Melanie,
c'era la sagoma di una persona, vestita di verde scuro. La donna della borsetta, comprese in un lampo improvviso e terribile. No, ti prego, no... Il braccio dell'uomo calò con un gesto calmo, quasi pigro. Attraverso il frumento ondeggiante, Melanie gli vide nella mano il cupo scintillio del metallo. La testa di Ermellino si inclinò leggermente: aveva udito un rumore. Fece una smorfia. La faccia di Orso si allargò in un sorriso. La signora Harstrawn si portò le mani alle orecchie, coprendosele. Era orripilata. La signora Harstrawn ci sentiva benissimo. Melanie fissò piangendo la distesa di frumento. E vide: la sagoma fatta di ombre che si chinava sulla donna; l'ondeggiare del frumento che si increspava al soffio di quel vento troppo freddo per essere luglio; il movimento del braccio dell'uomo che si sollevava e si abbassava lentamente, una volta, due volte; la sua faccia intenta a osservare il corpo steso di fronte a lui. La signora Harstrawn fissò Ermellino con uno sguardo stoico. «...andarcene e... non vi daremo fastidio. Non vi...» Melanie trovò conforto nel vedere l'espressione di sfida della donna, la sua rabbia. La postura ostinata della sua mascella. Orso e Ermellino la ignorarono. Cominciarono a sospingere lei, Susan e Melanie verso lo scuolabus. All'interno, le ragazze più giovani erano ammassate in fondo. Orso spinse dentro Susan e la signora Harstrawn e indicò con un cenno la pistola che teneva infilata nella cintura. Melanie fu l'ultima a entrare prima di Ermellino, che la spinse verso il fondo. Lei inciampò e cadde addosso alle due gemelle singhiozzanti. Le abbracciò forte, poi prese tra le braccia anche Emily e Shannon. Il Mondo Esterno... Intrappolate nel terribile Mondo Esterno. Melanie lanciò un'occhiata a Ermellino e lo vide dire: «Sorde come... tutte quante». Orso infilò a fatica la propria mole dietro il volante e accese il motore del pullman. Guardò nello specchietto retrovisore, si accigliò e si voltò, allarmato. In lontananza, alla fine del nastro d'asfalto, c'era un puntino luminoso e lampeggiante. Orso premette il pulsante al centro del volante e Melanie sentì nel petto la vibrazione del clacson. «Amico», disse Orso, «che cazzo... pensa che noi...» Poi si voltò e le sue parole andarono perdute.
Ermellino gridò qualcosa verso la distesa di frumento e annuì quando, così sembrava, l'uomo gli rispose. Un istante dopo, la Chevy grigia uscì dal campo. Danneggiata ma ancora guidabile, l'auto risalì la banchina e si fermò. Melanie tentò di sbirciare il sedile anteriore per dare un'occhiata all'uomo al volante, ma c'era troppo riverbero. Pareva che non stesse guidando nessuno. Poi l'automobile accelerò di scatto, sbandando. Il pullman la seguì, avanzando nella sbiadita nube azzurrognola lasciata dagli pneumatici. Orso afferrò il volante, si voltò per un attimo e latrò qualcosa a Melanie... parole rabbiose, malvagie. Ma lei non aveva idea di quali potessero essere. Le luci lampeggianti si fecero più vicine: rosse, blu e bianche. Come i fuochi d'artificio del Quattro Luglio al parco di Hebron due settimane prima, quando aveva osservato le striature colorate intersecarsi nel cielo, avvertendo le esplosioni dei lampi bollenti e bianchi contro la pelle. Melanie si voltò a guardare la macchina della polizia e seppe che cosa sarebbe accaduto. Ci sarebbero state cento autopattuglie ad aspettarli. Avrebbero costretto il pullman ad accostare e quegli uomini sarebbero scesi. Avrebbero alzato le mani e li avrebbero portati via. Le studentesse e le insegnanti sarebbero andate a una stazione di polizia per rilasciare delle dichiarazioni. Sì, questa volta si sarebbe persa lo spettacolo del Teatro dei Sordomuti di Topeka - persino se avessero avuto abbastanza tempo per arrivarci - ma non le sarebbe stato comunque possibile salire sul palco e recitare poesie dopo tutta quella faccenda. E l'altra ragione del suo viaggio? Forse quello era un segno che le diceva che non avrebbe dovuto andarci, che non avrebbe dovuto fare quei progetti. Era un presagio. Tutto ciò che desiderava, ora, era andare a casa. Tornare alla sua casa in affitto, dove poteva chiudere la porta a chiave e farsi una tazza di tè. D'accordo, anche un goccio di brandy al mirtillo. Mandare un fax a suo fratello all'ospedale di St. Louis, raccontare la storia a lui e ai suoi genitori. Melanie ricadde in una sua vecchia abitudine dei momenti di nervosismo, avvoltolandosi i capelli biondi intorno al medio con le altre dita tese. Quella posizione della mano era il simbolo per «luce». Poi ci fu uno strattone improvviso. Orso aveva abbandonato l'asfalto e ora stava seguendo la macchina grigia lungo una strada sterrata. Ermellino era accigliato. Domandò a Orso qualcosa che Melanie non riuscì a vedere. L'uomo grosso non rispose, ma si limitò a sputare dal finestrino. Una svol-
ta e poi un'altra, in un'area più collinosa. Più vicina al fiume. Passarono sotto un cavo dell'alta tensione ricoperto da centinaia di uccelli. Uccelli grossi. Corvi. Melanie guardò la macchina davanti a loro. Non riusciva ancora a vedere chiaramente l'uomo... l'uomo al volante, l'uomo del campo di frumento. All'inizio pensò che avesse i capelli lunghi, ma un istante più tardi le parve calvo o con i capelli a spazzola, poi le sembrò portasse un berretto. Con una sterzata improvvisa, la macchina grigia svoltò a destra e imboccò un vialetto angusto e pieno di erbacce. Lei immaginò che l'uomo avesse visto le decine e decine di auto della polizia che li aspettavano più avanti... le macchine che si dirigevano a gran velocità verso di loro per salvarle. Socchiuse gli occhi e guardò meglio. No, davanti a loro non c'era nulla. Il pullman svoltò e seguì la Chevy. Orso stava borbottando qualcosa, Ermellino era girato all'indietro a guardare la macchina della polizia. Poi Melanie si volse e vide dove erano diretti. No! pensò. Oh, ti prego, no. Perché, lo sapeva, la sua speranza che gli uomini si arrendessero all'autopattuglia ormai vicina era soltanto una fantasia. Comprese dove stavano andando. Il posto peggiore del mondo. Improvvisamente, la macchina grigia sbucò in un ampio campo pieno di erbacce. Al limite del prato, sul fiume, era acquattato un edificio industriale di mattoni rossi, abbandonato. Scuro e solido come una fortezza medievale. Nel terreno di fronte alla fabbrica si vedevano ancora alcune staccionate e dei paletti dei recinti per animali, ma la maggior parte del campo era stata reclamata dalla prateria del Kansas. La Chevy si diresse a forte velocità verso la facciata anteriore dell'edificio, con il pullman al seguito. Entrambi i veicoli frenarono bruscamente sulla sinistra del portone. Melanie sbirciò la parete di mattoni rossi. Quando aveva diciott'anni ed era lei stessa un'allieva della Laurent Clerc School, un ragazzo l'aveva portata lì, in teoria per un picnic, ma ovviamente per fare ciò che fanno i ragazzi di diciott'anni... e quello che anche Melanie voleva, o almeno così credeva allora. Ma, quando erano sgattaiolati all'interno portandosi dietro una coperta, lei aveva guardato i locali in penombra ed era stata assalita dal panico. Era fuggita e non aveva mai più visto né l'edificio né il ragazzo, che era rimasto a osservarla perplesso, senza capire. Non aveva più visto quel posto, però lo ricordava. Era un mattatoio ab-
bandonato, un luogo di morte. Un luogo crudele, ostile e pericoloso. E buio. Melanie detestava il buio. (Venticinque anni e aveva cinque luci notturne in una casa di sei stanze.) Ermellino spalancò la portiera del pullman e trascinò fuori con sé Susan e la signora Harstrawn. La macchina della polizia (con all'interno un solo uomo) si fermò all'inizio del campo. L'agente balzò fuori con il revolver in mano, ma si bloccò subito quando Orso afferrò Shannon e le puntò una pistola alla testa. La bambina di otto anni lo sorprese voltandosi di scatto e sferrandogli un calcio al ginocchio. L'uomo fece una smorfia, poi scosse la piccola finché lei non cessò di divincolarsi. Orso guardò il poliziotto. Con movimenti plateali, l'agente rinfoderò la pistola e ritornò verso l'auto. Ermellino e Orso spinsero le ragazze verso la porta del mattatoio. Orso picchiò una pietra contro la catena che la teneva chiusa e frantumò le maglie arrugginite. Ermellino prese alcune grosse borse dal bagagliaio della macchina grigia; il guidatore rimase seduto, con lo sguardo sollevato a fissare l'edificio. Il bagliore impedì ancora una volta a Melanie di vederlo con chiarezza, ma l'uomo sembrava rilassato, intento a osservare con curiosità le torrette e le finestre nere del vecchio mattatoio. Orso spalancò la porta e poi, insieme a Ermellino, spinse le ragazze all'interno. Il luogo aveva più l'odore di una grotta che di un edificio costruito dall'uomo. Puzzava di fango e letame, di poltiglia organica, di una sorta di putrefazione dolciastra... un fetore rancido di grasso animale. L'interno era un labirinto di camminamenti, di recinti e di macchinari arrugginiti, con pozzi circondati da balaustre e da parti di vecchie macchine. Sopra le loro teste c'erano file e file di ganci per bestiame arrugginiti. Ed era buio, proprio come Melanie ricordava. Orso sospinse le studentesse e le loro insegnanti in una stanza piastrellata e semicircolare, umida e priva di finestre. I muri e il pavimento di cemento erano chiazzati di marrone scuro. Una consunta rampa di legno saliva verso il lato sinistro della stanza. In alto, un nastro trasportatore da cui pendevano dei ganci per bestiame si allontanava sulla destra. Al centro c'era un canale di scolo per il sangue. Quella era la stanza dove gli animali venivano uccisi. Soffia un vento freddo, indelicato. Kielle afferrò il braccio di Melanie e si strinse contro di lei. La signora
Harstrawn e Susan abbracciarono le altre ragazze, con Susan che guardava con odio qualunque dei due uomini incontrasse il suo sguardo. Jocylyn singhiozzava, le gemelle anche. Beverly lottava per riuscire a respirare. Otto uccelli grigi senza un posto dove andare. Si raccolsero in gruppo sul pavimento freddo e umido. Un ratto sfrecciò via. Poi la porta si aprì di nuovo. Melanie sollevò una mano per ripararsi gli occhi dal riverbero. Lui si profilò nella luce fredda della soglia. Basso ed esile. Né calvo né con i capelli lunghi, ma con una chioma bionda e ispida che ricadeva a ciuffi a incorniciare un viso scarno. A differenza degli altri, indossava soltanto una t-shirt, sulla quale era scritto a pennarello il nome L. Handy. Ma non era affatto alla mano, no... e decisamente non poteva essere un Larry o un Lou. Melanie pensò subito all'attore del Teatro dei Sordomuti del Kansas che aveva interpretato la parte di Bruto in una recente messa in scena del Giulio Cesare. L'uomo spinse nella stanza due pesanti borse di tela che depositò con cura sul pavimento. La porta si chiuse e, quando la luce cerea svanì, Melanie poté vedere soltanto i suoi occhi chiari e la sua bocca sottile. Guardò Orso chiedere: «Perché... qui, cazzo? Non c'è una fottuta via d'uscita». Allora, come se fosse stata in grado di udirle, le parole di Bruto le risuonarono con chiarezza nella mente, scandite dalla voce fantasma che le persone sordomute sentono di tanto in tanto: una voce umana e al tempo stesso priva di qualsiasi reale suono umano. «Non ha importanza», disse lui lentamente. «No. Non ha importanza.» Guardò proprio Melanie quando pronunciò quelle parole, e fu a lei che indirizzò un debole sorriso prima di indicare con un cenno brusco diverse sbarre di ferro arrugginite e ordinare agli altri due uomini di sprangare le porte. 9,10 Non aveva mai dimenticato un anniversario in ventitré anni. Ecco il marito che fa per voi. Arthur Potter ripiegò all'indietro la carta crespata che circondava le rose: fiori effervescenti, arancioni e gialli, quasi tutti aperti, i petali perfetti,
morbidi, gonfi. Le annusò. Le preferite di Marian. Colori vibranti. Mai bianche o rosse. Il semaforo passò al verde. Lui sistemò con cura il bouquet sul sedile accanto e accelerò oltrepassando l'incrocio. La sua mano destra vagò fino al ventre, che gli premeva con forza contro la cintura. Fece una smorfia. La sua cintura era un barometro; era allacciata al penultimo foro. Da lunedì a dieta, si disse. Per quel giorno sarebbe stato di ritorno nel distretto federale di Columbia, con l'ottima cucina di sua cugina da tempo digerita, e avrebbe potuto dedicarsi ancora una volta a contare grammi di grasso. Era colpa di Linden... la sera prima aveva preparato carne in conserva, patate e cavoli al burro, pane di soia (con burro opzionale, e lui l'aveva preso), fagiolini, pomodori alla griglia e torta al cioccolato con gelato alla vaniglia. Linden era la cugina di Marian, nella linea di discendenza dell'antenato Sean McGillis, i cui due figli Eamon e Hardy, giunti in nave, si erano sposati nello stesso anno e le cui mogli avevano dato alla luce due figlie rispettivamente a dieci e undici mesi di distanza dal matrimonio. Arthur Potter, figlio unico rimasto orfano a tredici anni, figlio di figli unici, aveva adottato entusiasticamente la famiglia di sua moglie e aveva passato anni e anni a redigere l'albero genealogico dei McGillis. Per mezzo di un'intricata corrispondenza (scritta a mano su raffinata carta da lettera: non possedeva un wordprocessor) si manteneva aggiornato sui meandri del clan. Prese la Congress Expressway in direzione ovest. Poi verso sud. Attraversò la Chicago della classe lavoratrice, i quartieri popolari, le case ad appartamenti e le villette a schiera bifamiliari illuminate dalla luce estiva del Midwest attenuata dal cielo nuvoloso. La qualità della luce varia a seconda delle città, pensò. Arthur Potter aveva girato il mondo più volte e aveva in mente una serie infinita di idee per articoli di viaggio che non avrebbe mai scritto. Appunti genealogici e memorandum per il suo lavoro, da cui si sarebbe ritirato di lì a poco, avrebbero costituito probabilmente il suo lascito letterario. Svolta qui, svolta là. Guidava in modo automatico e quasi con noncuranza. Era per natura impaziente, ma aveva da lungo tempo superato quel vizio, se di vizio si trattava, e non si avventurava mai oltre il limite di velocità in vigore. Imboccando la Austin Avenue con la Ford presa a noleggio, sollevò lo sguardo allo specchietto retrovisore e si accorse della macchina. Gli uomini erano in una berlina grigio-azzurra più anonima possibile. Due giovani
dalla faccia pulita, rasati di fresco, coscienziosi, e lo stavano seguendo. Avevano la scritta agenti federali stampata in fronte. «Maledizione», imprecò con la sua bassa voce baritonale. Furioso, si pizzicò il doppio mento e poi avvolse strettamente la carta crespata intorno ai fiori, come se si stesse preparando a un inseguimento ad alta velocità. Quando trovò la strada che cercava e fece la svolta, però, stava andando alla prudente velocità di venti chilometri orari. Il mazzo di fiori gli rotolò contro la coscia. No, non accelerò. La sua strategia era stabilire che si era sbagliato, che la macchina trasportava due uomini d'affari che stavano andando a vendere computer o stampanti e che ben presto avrebbero proseguito per la loro strada. E lasciatemi in pace. Ma l'automobile non fece nulla del genere. Gli uomini mantennero una distanza innocua, procedendo all'identica velocità esasperantemente bassa della Ford di Potter. Lui imboccò il familiare vialetto d'accesso e proseguì per un centinaio di metri, quindi si fermò. Scese in fretta dall'auto, tenendo i fiori stretti al petto e addentrandosi nel vialetto con aria sicura, sperava, sfidando gli agenti a fermarlo proprio lì. Come erano riusciti a trovarlo? Era stato abile. Aveva parcheggiato la macchina a tre isolati di distanza dall'appartamento di Linden. Le aveva chiesto di non rispondere al telefono e di lasciare disinserita la segreteria. La donna cinquantunenne, che sarebbe stata una zingara se fosse riuscita a risistemare i propri cromosomi (così diversa da Marian, a dispetto della consanguineità), aveva accettato quelle istruzioni con un velo di eccitazione. Era abituata ai modi inspiegabili del cugino acquisito. Era convinta che il suo comportamento fosse in qualche modo pericoloso, se non addirittura sinistro, e Potter non era mai riuscito a farle cambiare idea. Gli agenti parcheggiarono dietro la macchina di Potter e uscirono. Lui udì i loro passi sulla ghiaia alle sue spalle. Non andavano di fretta: potevano trovarlo ovunque, e lo sapevano. Non sarebbe mai riuscito a sfuggirgli. Sono tutto vostro, brutti figli di puttana. «Signor Potter.» No, no, andate via! Non oggi. Oggi è un giorno speciale. È il mio anniversario di matrimonio. Ventitré anni. Quando sarete vecchi come me, ca-
pirete anche voi. Lasciatemi-In-Pace. «Signor Potter?» I due giovani agenti erano intercambiabili. Lui ne ignorò uno e, di conseguenza, li ignorò entrambi. S'incamminò per il vialetto, verso sua moglie. Marian, pensò, mi dispiace. Ho portato con me i miei guai. Mi dispiace davvero. «Lasciatemi in pace», sussurrò. E improvvisamente, come se lo avessero sentito, entrambi gli agenti si fermarono, quei due uomini cupi, con i vestiti scuri e le carnagioni pallide. Potter si inginocchiò e posò i fiori sulla tomba. Cominciò a togliere la carta crespata verde, ma riusciva ancora a vedere i due uomini con la coda dell'occhio e allora si fermò, stringendo forte le palpebre e nascondendosi la faccia tra le mani. Non stava pregando. Arthur Potter non pregava mai. Un tempo lo faceva. Di tanto in tanto. Nonostante il suo modo di vivere gli fornisse la possibilità di lasciarsi andare a qualche segreta superstizione personale, aveva smesso di pregare tredici anni prima, nel giorno in cui Marian la viva era diventata Marian la morta, spirando di fronte alle sue mani giunte proprio mentre lui era intento a districare un'elaborata negoziazione con il Dio che, per tutta la vita, aveva più o meno creduto che esistesse. L'indirizzo a cui aveva spedito le sue offerte si era rivelato vuoto come un barattolo arrugginito. Potter non ne era rimasto né sorpreso né disilluso. Ciononostante, aveva smesso di pregare. Ora, con gli occhi chiusi, sollevò quelle stesse mani e fece un rapido cenno per tenere lontani i due uomini. Erano agenti federali, sì, ma agenti timorati di Dio (molti di loro lo erano), e si mantennero a rispettosa distanza. Nessuna preghiera, ma Potter disse qualche parola alla sua sposa, che giaceva nello stesso luogo in cui aveva giaciuto in tutti quei lunghi anni. Le sue labbra si muovevano sotto gli occhi chiusi. Riceveva risposte soltanto perché conosceva la mente di lei bene come la propria. Ma la presenza degli uomini vestiti di scuro continuava a intromettersi nella sua concentrazione. Alla fine, Potter si alzò lentamente e fissò il fiore di marmo scolpito nel granito sopra la lapide. Aveva ordinato una rosa, ma il fiore assomigliava a un crisantemo. Forse l'intagliatore era giapponese. Non c'era ragione di ritardare ancora il momento. «Signor Potter?» Lui sospirò e distolse lo sguardo dalla tomba. «Sono l'agente speciale McGovern. Questo è l'agente speciale Crowley.»
«Sì.» «Ci dispiace disturbarla, signore. Possiamo parlare?» «Forse potremmo andare in macchina», aggiunse McGovern. «Che cosa volete?» «In macchina... Prego.» Nessuno dice «prego» come un agente dell'FBI. Potter camminò insieme a loro verso l'automobile... in realtà, si può dire che venne scortato. Soltanto quando fu accanto alla macchina si rese conto che il vento era troppo forte e freddo per il mese di luglio. Lanciò un'occhiata alla tomba e vide la carta verde dei fiori che rotolava sul vialetto, sospinta dalla brezza. «D'accordo.» Si fermò all'improvviso, decidendo che non avrebbe proseguito. «Siamo spiacenti di interrompere la sua vacanza, signore. Abbiamo tentato di metterci in contatto con il numero della casa dove alloggia, ma non abbiamo avuto risposta.» «Avete mandato qualcuno?» domandò Potter, preoccupato che Linden potesse turbarsi ricevendo la visita degli agenti. «Sissignore, ma quando noi l'abbiamo trovata li abbiamo avvisati via radio.» Lui annuì. Guardò l'orologio. «Cosa c'è di tanto brutto?» domandò. «Una faccenda in Kansas», rispose McGovern. «È brutta, signore. Lui le chiede di mettere insieme una squadra per fronteggiare la minaccia. C'è un jet militare riservato che la aspetta all'aeroporto di Glenview. I particolari sono qui.» Potter prese la busta sigillata dalle mani del giovane agente, abbassando lo sguardo e notando con sorpresa una macchiolina di sangue sul proprio pollice - causata, immaginava, da una spina nascosta da qualche parte lungo lo stelo di una rosa con petali simili al cappellino estivo di una donna. Aprì la busta e lesse il fax. In calce recava la firma frettolosa del direttore dell'FBI. «Quanto tempo è passato da quando si è barricato là dentro?» «Il primo rapporto è stato inoltrato intorno alle otto e quarantacinque.» «Qualche comunicazione da parte sua?» «Non ancora.» «Circondato?» «Completamente. Polizia di stato del Kansas e una mezza dozzina di agenti del nostro ufficio di Wichita. Non hanno modo di uscire.»
Potter si abbottonò e poi si sbottonò la giacca sportiva. Si accorse che i due agenti lo stavano guardando con troppa reverenza, e questo gli fece stringere i denti. «Voglio Henry LeBow come agente informativo e Tobe Geller per le comunicazioni. Si scrive con la e, ma si pronuncia Toby.» «Sissignore. Se fossero indisponibili...» «Soltanto loro. Trovateli. Ovunque siano. Li voglio sul posto tra mezz'ora. E scoprite se Angie Scapello è disponibile. Dovrebbe essere al quartier generale o a Quantico. Scienze comportamentali. Portate lì anche lei.» «Sissignore.» «Qual è la disponibilità dell'SSO?» La Squadra Soccorso Ostaggi dell'FBI, composta da quarantotto agenti, era la forza tattica d'assedio più ampia della nazione. Crowley lasciò che fosse McGovern a riferire le brutte notizie. «Questo è un problema, signore. Una squadra è dislocata a Miami. Un'incursione della DEA. Ventidue agenti occupati. E la seconda squadra è a Seattle. Una rapina in banca che si è trasformata in assedio la notte scorsa. Lì ce ne sono diciannove. Possiamo riuscire a mettere insieme una terza squadra, ma saremo costretti a togliere alcuni agenti dalle altre due. Ci vorrà un po' prima di riuscire a riunirli sul posto.» «Chiamate Quantico e mettetela insieme. Telefonerò a Frank dall'aereo. Dov'è?» «A Seattle, sul posto», gli disse l'agente. «Se vuole che la seguiamo fino all'appartamento per mettere qualcosa in una valigia, signore...» «No, andrò direttamente a Glenview. Avete la sirena?» «Sissignore. Ma l'appartamento di sua cugina è soltanto a quindici minuti da qui...» «Sentite, se uno di voi due potesse togliere la carta da quei fiori, lì su quella tomba, lo apprezzerei moltissimo. Magari sistemarli un po', per assicurarsi che il vento non li porti via.» «Sissignore, ci penserò io», si affrettò a rispondere Crowley. E così, una differenza tra i due c'era, dopotutto; McGovern, pensò Potter, non era un esperto di ikebana. «Grazie mille.» Potter si incamminò nuovamente lungo il vialetto, seguendo McGovern. Avrebbe dovuto fermarsi soltanto per comprare un pacchetto di chewinggum. Quei jet militari salivano tanto in fretta che le orecchie gli si riempivano come pentole a pressione, se non masticava un intero pacchetto di Wrigley's non appena il carrello lasciava l'asfalto della pista. Dio, quanto
odiava volare. Oh, sono stanco, pensò. Così dannatamente stanco. «Tornerò, Marian», sussurrò senza voltarsi a guardare la tomba. «Tornerò.» PARTE SECONDA LE REGOLE DELLA BATTAGLIA 10,35 Come sempre, c'era un elemento da circo equestre. Arthur Potter era in piedi accanto all'automobile migliore in dotazione all'agenzia locale dell'FBI e sorvegliava la scena. Le macchine della polizia disposte in cerchio come carri di pionieri, i furgoni delle emittenti televisive, i reporter che reggevano le loro telecamere come fossero lanciagranate e camion dei pompieri un po' ovunque (il disastroso incendio di Waco era ancora nella mente di tutti). Altre tre berline governative arrivarono in carovana, portando a undici il totale degli agenti dell'FBI. Metà degli uomini indossava l'uniforme tattica blu, il resto era abbigliato con il consueto completo scuro stile Brooks Brothers. L'aereo militare di Potter, riservato al trasporto di civili per conto del governo, era atterrato a Wichita venti minuti prima e lui era salito a bordo di un elicottero con cui aveva effettuato il viaggio di dodici chilometri in direzione nordovest fino alla minuscola cittadina di Crow Ridge. Il Kansas era piatto proprio come si aspettava, anche se la rotta dell'elicottero l'aveva portato lungo un ampio fiume circondato da alberi dove il terreno era leggermente collinoso. Quello, gli aveva detto il pilota, era il punto in cui si incontravano la prateria a erba medio-alta e quella a erba bassa. La terra a ovest, un tempo, era stata la patria dei bisonti. L'uomo gli aveva indicato un puntino all'orizzonte: Larned, dove cento anni prima era stata avvistata una mandria di quattro milioni di capi. Il pilota aveva riferito il fatto con evidente orgoglio. Avevano sorvolato fattorie immense, con terreni estesi per sette-otto chilometri quadrati. Per quanto ne sapeva Potter, luglio sembrava troppo presto per il raccolto, ma centinaia di trebbiatrici rosse, verdi e gialle stavano radendo la campagna dalle spighe di frumento. Ora, in piedi nel vento freddo sotto un cielo pesantemente coperto, ven-
ne colpito dalla monotonia inesorabile di quei luoghi, da cui sarebbe scappato senza pensarci su nemmeno un istante per tornare tra i palazzoni di Chicago che aveva lasciato poco più di un'ora prima. A cento metri di distanza sorgeva un edificio industriale di mattoni rossi, simile a un castello, probabilmente risalente a cento anni prima. Di fronte all'edificio erano visibili un piccolo scuolabus e una malconcia automobile grigia. «Che cos'è quell'edificio?» domandò Potter a Henderson, agente speciale in servizio all'agenzia FBI di Wichita. «Un vecchio mattatoio», rispose l'agente. Il vento li colpì duramente, una sferzata tanto inattesa che Potter dovette fare un passo indietro per mantenere l'equilibrio. «Ci hanno prestato quello, i ragazzi della polizia di stato.» L'uomo gli indicò con un cenno del capo un furgone che assomigliava vagamente a quelli delle consegne dell'UPS, dipinto di verde oliva. Era su un rialzo del terreno da cui si dominava l'edificio. «Come posto di comando.» Si incamminarono verso l'automezzo. «È un bersaglio troppo facile», obiettò Potter. Persino un cacciatore dilettante sarebbe riuscito a mandare a segno un colpo di fucile dai cento metri di distanza che separavano il furgone dal mattatoio. «No», spiegò Henderson. «È blindato. I finestrini sono spessi tre centimetri.» «Sul serio?» Con un'ultima, rapida occhiata in direzione del mattatoio, Potter aprì lo sportello del posto di comando ed entrò. Il furgone era spazioso e in penombra, illuminato fiocamente dalla luce di deboli lampade giallastre poste sul soffitto, dal bagliore dei monitor e dal barbaglio degli indicatori luminosi. Strinse la mano a un giovane poliziotto, che si era messo sull'attenti prima ancora che l'agente fosse riuscito a entrare del tutto. «Il suo nome?» «Derek Elb, signore. Sergente.» Il giovane, con i capelli rossi e con indosso un'uniforme perfettamente stirata, spiegò a Potter di essere un tecnico per posti di comando mobili. Conosceva l'agente speciale Henderson e si era offerto volontario per restare lì a dare una mano, se era possibile. Potter guardò disperato i pannelli, i monitor e i banchi di interruttori e lo ringraziò di cuore. Al centro del furgone c'era un'ampia scrivania circondata da quattro sedie. Potter si accomodò in una, mentre Derek, come un venditore, gli indicava entusiasticamente le attrezzature per la sorveglianza e la comunicazione. «Abbiamo anche una piccola armeria.»
«Speriamo di non averne bisogno», disse Arthur Potter, che in trent'anni di servizio in qualità di agente federale non aveva mai fatto fuoco con la sua pistola per motivi di servizio. «Potete ricevere trasmissioni via satellite?» «Sissignore, abbiamo un'antenna parabolica. Ogni tipo di segnale: analogico, digitale, a microonde.» Lui scrisse una serie di numeri su un foglio e lo porse a Derek. «Chiami questo numero e chieda di Jim Kwo. Gli dica che chiama per conto mio e gli dia il numero di codice che le ho scritto.» «Questo?» «Quello. Gli dica che vogliamo una scansione SatSurv trasmessa in...» agitò una mano verso la fila di monitor «...uno di quelli. Vi accorderete tra di voi sui dettagli tecnici. Sinceramente parlando, in queste cose mi ci perdo. Gli fornisca la latitudine e la longitudine del mattatoio.» «Sissignore», rispose Derek, prendendo appunti con aria eccitata. Era al settimo cielo. «Di che si tratta, esattamente? Il SatSurv, intendo.» «È il sistema di sorveglianza satellitare della CIA. Ci darà una visuale e una scansione all'infrarosso del terreno.» «Ehi, ne ho sentito parlare. Ho letto qualcosa su Popular Science, credo.» Derek si allontanò per effettuare la chiamata. Potter si chinò e mise a fuoco il binocolo da campo Leica per osservare oltre gli spessi finestrini antiproiettile. Scrutò attentamente il mattatoio. L'edificio assomigliava a un teschio. Scuro contro l'erba scolorita dal sole, come sangue secco su ossa ingiallite. Quella fu la considerazione dell'Arthur Potter laureato in lettere che, nel giro di una frazione di secondo, venne rimpiazzato dall'Arthur Potter negoziatore-capo dell'SSO e vicedirettore dell'Unità operazioni speciali e ricerche dell'FBI, i cui occhi rapidi e allenati notarono subito i dettagli più rilevanti: lo spesso muro di mattoni, le piccole finestre, l'ubicazione delle linee elettriche, l'assenza di linee telefoniche, lo spiazzo di terreno sgombro circostante l'edificio e gruppi di alberi, ciuffi d'erba alta e basse colline che potevano fornire adeguato riparo a eventuali cecchini... di entrambe le parti. Il retro del mattatoio dava direttamente sul fiume. Il fiume, pensò. Possiamo usarlo in qualche modo? E loro? Come possono usarlo? Il tetto era guarnito di parapetti, come un castello medievale. C'era una ciminiera alta e sottile e l'alloggiamento massiccio di un ascensore che avrebbe reso difficile l'atterraggio di un elicottero, almeno finché fosse du-
rato quel vento insolitamente sostenuto. Ciononostante, un elicottero sarebbe potuto restare in volo sopra il tetto, permettendo a una decina di agenti speciali di raggiungere l'edificio senza soverchie difficoltà. A quanto riusciva a vedere, però, non c'erano lucernari. La sede dell'ormai da lungo tempo defunta Webber & Stoltz Processing Company Inc., decise alla fine, sembrava nulla più di un crematorio. «Pete, hai un megafono?» «Certo.» Henderson uscì dal furgone e, piegato in due, corse verso la sua automobile per prenderlo. «Senta, non è che avete un bagno qui dentro, per caso?» domandò Potter a Derek. «Certo che l'abbiamo, signore», rispose Derek, orgoglioso della tecnologia del Kansas. L'agente gli indicò una piccola porta. Potter entrò e indossò un giubbotto antiproiettile sotto la camicia, che poi si rimise. Si annodò con cura la cravatta e indossò di nuovo la giacca sportiva blu scuro. Notò che restava ben poco spazio a disposizione sulla chiusura a strappo del giubbotto antiproiettile ma, nello stato mentale in cui si trovava, il suo peso corporeo aveva virtualmente cessato di preoccuparlo. Uscendo nell'aria fin troppo fresca del pomeriggio, prese il megafono nero dalle mani di Henderson e, accovacciandosi, si lanciò in una corsa zigzagante fra le collinette e le autopattuglie, dicendo agli agenti, per la maggior parte giovani e impazienti, di rinfoderare le armi e di restare al riparo. A circa sessanta metri dal mattatoio si sdraiò sulla sommità di un'altura e guardò l'edificio con il binocolo. All'interno non c'era alcun movimento. Nessuna luce filtrava dalle aperture. Nulla. Notò che le finestre anteriori erano prive di vetri, ma non sapeva se erano stati gli uomini che stavano dentro a romperli per poter prendere meglio la mira o se invece erano serviti da bersaglio agli studenti delle scuole locali che si esercitavano con le pietre o con i .22 dei loro padri. Accese il megafono e, ricordando a se stesso di non gridare per non distorcere il messaggio, disse: «Sono Arthur Potter. Sono dell'FBI. Vorrei parlare con voi. Ho richiesto un telefono cellulare. Ve lo farò avere entro dieci, quindici minuti al massimo. Non stiamo progettando un assalto. Non siete in pericolo. Ripeto: non stiamo progettando un assalto». Non si aspettava alcuna risposta e non ne ricevette. Sempre piegato in due, tornò di corsa al furgone. «Chi è il responsabile locale?» domandò a Henderson. «Voglio parlargli.» «Quell'uomo laggiù.»
Accovacciato dietro a un albero c'era un uomo alto, con i capelli biondi e un vestito blu chiaro. La sua postura era perfetta. «Chi è?» domandò Potter. «Charles Budd. Capitano della polizia di stato. Ha esperienza sia investigativa che tattica. Nessuna esperienza nella negoziazione. Un curriculum perfetto.» «Da quanto tempo è nella polizia?» A lui, Budd sembrava giovane e inesperto. «Otto anni. Ha fatto alla svelta a prendersi tutti gli encomi disponibili.» «Capitano?» chiamò Potter. L'uomo voltò gli occhi azzurri su Potter e si incamminò verso di lui, mantenendosi dietro il furgone. I due si strinsero la mano e si presentarono. «Ciao, Pete», salutò Budd. «Charlie.» «E così», disse a Potter, «lei è il pezzo grosso di Washington, vero? È un piacere conoscerla, signore. Un vero onore.» Potter sorrise. «D'accordo, signore, per quello che posso dire questa è la situazione.» Indicò il mattatoio. «Ci sono stati dei movimenti a quelle due finestre laggiù. Un luccichio, forse la canna di un fucile. O un binocolo. Non ne sono sicuro. Poi...» «Ci arriveremo, capitano Budd.» «Oh, ehi, mi chiami Charlie, che ne dice?» «D'accordo, Charlie. Quanti uomini ci sono sul posto?» «Trentasette agenti, cinque poliziotti locali. Più i ragazzi di Pete. I suoi, voglio dire.» Potter annotò ogni cosa su un piccolo taccuino nero. «C'è qualcuno dei tuoi uomini che ha qualche esperienza con gli ostaggi?» «Gli agenti? Alcuni, probabilmente, sono stati coinvolti in qualche tipica situazione da rapina in banca o in un supermercato. Quanto ai poliziotti locali, sono sicuro di no. Da queste parti la maggior parte del lavoro è ordinaria amministrazione, furtarelli, lavoranti delle fattorie che si picchiano il sabato sera.» «Qual è la gerarchia di comando?» «Io sono il supervisore. Ho quattro comandanti - tre tenenti e un sergente in attesa di promozione - che gestiscono i trentasette, in parti pratica-
mente uguali. Due squadre di dieci, una di nove, una di otto. Sta scrivendo tutto, eh?» Potter sorrise di nuovo. «Dove sono dislocati?» Come il generale della guerra di secessione al quale sarebbe assomigliato un giorno, Budd indicò i gruppi di agenti disposti sul campo. «Armi? Le vostre, intendo dire.» «Qui, come pistole d'ordinanza forniamo le Glock. Abbiamo circa una quindicina di fucili antisommossa. Calibro dodici, canne da diciotto pollici. Ho sei uomini e una donna con degli M-16, fra questi alberi e laggiù. Tutti hanno un binocolo.» «Binocoli notturni?» Budd ridacchiò. «Non da queste parti.» «Chi è al comando dei poliziotti locali?» «Dovrebbe essere lo sceriffo di Crow Ridge. Dean Stillwell. È quello laggiù.» Indicò un uomo alto e magro che, tenendo la testa china, stava parlando con uno dei suoi aiutanti. Un'automobile si avvicinò e frenò bruscamente. Potter fu enormemente rinfrancato nel vedere chi c'era al volante. Henry LeBow scese dalla macchina e si mise immediatamente in testa un cappello di tweed: nel corso delle oltre duecento trattative con ostaggi in cui lui e Potter avevano lavorato insieme, più di una volta la sua testa pelata aveva fornito uno scintillante bersaglio per i sequestratori. LeBow si incamminò a fatica verso di loro; era un uomo grassottello, basso e timido, ed era anche l'agente informativo con cui Potter avrebbe lavorato in qualsiasi caso di ostaggi meglio che con qualunque altra persona al mondo. LeBow era piegato sotto il peso di due enormi borse che portava a tracolla. I due si strinsero caldamente la mano, poi Potter lo presentò a Henderson e a Budd. «Guarda che cosa abbiamo qui, Henry. Un furgone da fantascienza tutto per noi.» «Non mi dire. E un fiume dove prendere pesci. Qual è?» «Il fiume? L'Arkansas», rispose Budd, ponendo l'accento sulla seconda sillaba. «Mi riporta alla mia giovinezza», commentò LeBow. Dietro richiesta di Potter, Henderson tornò alla sua auto per chiamare via radio l'agenzia dell'FBI di Wichita e scoprire quando sarebbero arrivati
Tobe Geller e Angie Scapello. Potter, LeBow e Budd entrarono nel furgone. Henry strinse la mano di Derek e poi aprì le due borse, estraendone due computer portatili. Li accese, inserì le spine in due prese sulla parete e poi li collegò a una piccola stampante laser. «La linea riservata?» domandò a Derek. «Proprio qui.» LeBow si collegò e, non appena ebbe tutto il suo equipaggiamento in funzione, la stampante cominciò a gemere. «C'è già qualcosa?» domandò Potter. LeBow lesse il fax in arrivo. «Profili del dipartimento carcerario, rapporti di istruttoria, precedenti penali, condanne. Tutta roba molto preliminare, Arthur. Molto rozza.» Potter gli diede il materiale che gli avevano consegnato gli agenti a Chicago e i voluminosi appunti che aveva cominciato a prendere sull'aereo. In frasi chiare e concise vi erano descritti la fuga di Lou Handy e di due altri detenuti da un carcere federale nel Kansas meridionale, l'assassinio di una coppia in un campo di grano a pochi chilometri di distanza dal mattatoio e la cattura degli ostaggi. L'agente informativo diede una scorsa ai fogli e cominciò a immettere gli appunti in uno dei suoi computer. La portiera del furgone si aprì ed entrò Peter Henderson, annunciando che Tobe Geller sarebbe stato lì da un momento all'altro e che Angie Scapello sarebbe arrivata nel giro di un'ora. Tobe era stato portato con un F-16 dell'aeronautica militare da Boston, dove stava tenendo un corso sulla programmazione di computer organizzato allo scopo di determinare l'identità degli hackers, i pirati dell'informatica, dediti ad attività criminose. Ancora pochi minuti d'attesa e li avrebbe raggiunti sul posto. Angie invece stava per imbarcarsi su un jet della marina militare in partenza da Quantico. «Angie?» disse LeBow. «Sono contento che ci sia anche lei. Molto contento.» L'agente Scapello assomigliava a Geena Davis e aveva due grandi occhi nocciola che, con trucco o senza trucco, erano assai seducenti. Ciononostante, la felicità di LeBow non aveva nulla a che fare con l'aspetto fisico dell'agente Scapello ma, piuttosto, con la sua specializzazione: psicologia degli ostaggi. Prima di arrivare al mattatoio, Angie si sarebbe fermata alla Laurent Clerc School per raccogliere tutte le informazioni possibili sugli ostaggi. Se Potter la conosceva bene, immaginava che si fosse già messa in contatto con la scuola e avesse già redatto dettagliati profili delle ragazze coin-
volte nel sequestro. LeBow appiccicò un grosso foglio di carta bianca alla parete sopra la scrivania e, per mezzo di uno spago, vi appese accanto un pennarello nero. Il foglio era diviso a metà. La parte di sinistra recava la scritta Promesse, quella di destra Inganni. Su di esso avrebbe riportato ogni cosa che Potter offriva a Handy e ogni menzogna che gli raccontava. Nella negoziazione per gli ostaggi, quella era la procedura standard. L'uso del foglio sarebbe stato spiegato meglio da Mark Twain, il quale aveva detto che, per essere un bugiardo efficace, un uomo ha bisogno di una buona memoria. Sorpreso, Budd domandò: «Avete davvero intenzione di mentirgli?» LeBow sorrise. «Ma che cos'è esattamente una bugia, Charlie?» chiese Potter. «La verità è fatta di una sostanza molto scivolosa. Sono mai state pronunciate parole oneste al cento per cento?» Strappò alcune pagine dal suo taccuino e le porse a LeBow. Questi prese i foglietti insieme ai fax che stavano uscendo a getto continuo dalla stampante e cominciò a digitare sulla tastiera del computer etichettato Profili; la parola era stata scritta molto tempo prima su un pezzo di nastro adesivo bianco ora ingrigito dalla polvere. L'etichetta sul secondo computer diceva Cronologia; il suo schermo conteneva soltanto due annotazioni: Ore 0840. Ostaggi catturati. Ore 1050. Squadra di gestione - Potter, LeBow - sul posto. I video a cristalli liquidi gettavano una macabra luce azzurrognola sulla faccia rotonda dell'uomo; LeBow assomigliava a una raffigurazione di Arthur Rackham dell'uomo nella luna. Charlie Budd osservò le sue dita che volavano rapidissime sui tasti. «Guarda. Per l'uso ha cancellato via metà delle lettere.» «Ho visto l'edificio», borbottò LeBow a Potter. «Brutta situazione. È troppo riparato per il SatSurv. Non ci sono abbastanza finestre per gli infrarossi o i microfoni. E anche il vento è un problema.» Come nella maggior parte degli assedi, il grosso delle informazioni sarebbe dovuto giungere dalle fonti tradizionali - gli ostaggi rilasciati o che riuscivano a fuggire e gli agenti che portavano cibo e bevande ai sequestratori e che lanciavano una rapida occhiata all'interno. LeBow digitò sul computer Cronologia, creando così una piccola finestra sullo schermo. Vi apparvero due cronometri digitali: uno era contrad-
distinto dalla scritta Tempo trascorso, l'altro da Ultimatum. Regolò il cronometro del tempo trascorso su due ore e dieci minuti e batté un tasto. Le cifre cominciarono a muoversi. Guardò Potter, inarcando un sopracciglio. «Lo so, Henry», disse Potter. Se non si contattano al più presto dopo la cattura degli ostaggi, i sequestratori cominciano a innervosirsi e a domandarsi se fuori non stiano progettando un'irruzione. «Daremo a Tobe ancora qualche minuto», aggiunse, «poi faremo il briefing.» Guardò i campi che si stendevano alle sue spalle, fuori del finestrino, la trapunta di erba alta e scolorita che ondeggiava al vento freddo. A circa settecento metri di distanza, le mietitrebbiatrici si muovevano seguendo tracciati simmetrici, rasando i campi di frumento come la testa di una recluta. Potter esaminò una cartina della zona. «Queste strade sono state chiuse al traffico?» «Sissignore», rispose Budd. «E non c'è altro modo per arrivare fin qui.» «Organizza un'area di servizio nelle retrovie, Charlie. Qui», ordinò Potter indicando il punto in cui, a circa un chilometro e mezzo a sud del mattatoio, la strada curvava leggermente. «Voglio che nelle vicinanze di questa zona venga eretto un tendone per la stampa. Da dove non si possa vedere il nostro sbarramento. Hai un addetto stampa?» «No», ammise Budd. «Di solito sono io a rilasciare dichiarazioni sugli incidenti che capitano da queste parti, se viene qualcuno. Suppongo di doverci pensare io.» «No. Ti voglio con me. Delega qualcun altro. Trova un agente.» Henderson lo interruppe. «Questa è un'operazione federale, Arthur. Se qualcuno deve rilasciare dichiarazioni, credo che dovrei essere io.» «No, voglio qualcuno della polizia di stato e di grado non troppo elevato. In questo modo tratterremo la stampa nel tendone, in attesa. Si aspetteranno l'arrivo di qualcuno in possesso di qualche informazione importante. E sarà meno probabile che se ne vadano in giro a ficcare il naso dove non dovrebbero.» «Be', non so proprio chi potrebbe essere bravo a farlo», borbottò Budd in tono incerto, guardando fuori del finestrino come se un agente con doti di grande comunicatore potesse passare di lì per caso. «Non dovranno essere bravi», ribatté Potter. «Tutto ciò che dovranno fare è dire che io rilascerò una dichiarazione in seguito. Punto. Nient'altro. Scegli qualcuno che non abbia paura di dire 'No comment'.» «Non gli piacerà. Ai ragazzi della stampa. Voglio dire, c'è uno sbarra-
mento sulla Statale Quattordici e i reporter locali sono tutti qui in giro. Con un affare del genere, scommetto che arriveranno anche da Kansas City.» L'agente speciale Henderson, che aveva lavorato per un po' di tempo al distretto federale, scoppiò a ridere. «Charlie», disse Potter trattenendo un sorriso, «la CNN e l'ABC sono già qui. Così come il New York Times, il Washington Post e il Los Angeles Times. Ci sono la Sky TV dall'Europa, la BBC e la Reuters. Il resto dei pezzi grossi sta per arrivare. Siamo seduti nel bel mezzo dello scoop giornalistico della settimana.» «Sul serio? Pensa che ci sarà anche Brokaw? Ragazzi, mi piacerebbe davvero conoscerlo.» «E crea un perimetro di un chilometro e mezzo intorno al mattatoio dove la stampa non abbia accesso, su entrambe le sponde del fiume.» «Che cosa?» «Metti cinque o sei agenti sui fuoristrada e mandali in giro di pattuglia. Se trovate un giornalista all'interno della zona - chiunque in possesso di una telecamera o di una macchina fotografica - lo arrestate e gli confiscate l'attrezzatura.» «Arrestare un giornalista? Non possiamo. Neanche a volerlo. Voglio dire, guardateli un po' adesso, là fuori. Guardateli.» «Davvero, Arthur», si intromise Henderson, «sarebbe meglio non farlo, non trovi? Ricordati di Waco.» Potter rivolse un blando sorriso all'agente speciale. Stava pensando a un centinaio di altre questioni contemporaneamente, vagliando, calcolando, riflettendo. «E non voglio elicotteri della stampa. Pete, puoi far arrivare qui un paio di Huey dalla McConnell di Wichita? Dichiara un'area di interdizione al volo per un raggio di cinque chilometri.» «Stai parlando sul serio, Arthur?» «Stiamo perdendo tempo», intervenne LeBow. «Gli ostaggi sono dentro da due ore e diciassette minuti.» «A proposito», disse Potter a Budd, «abbiamo bisogno di qualche stanza nell'albergo più vicino. Ce n'è uno?» «Sì, c'è il Days Inn. È a sei chilometri da qui, lungo la strada. A Crow Ridge. In centro, ammesso che Crow Ridge abbia un centro. Quante camere?» «Dieci.» «D'accordo. A che cosa servono?» «Per i parenti degli ostaggi. E fai anche in modo che all'albergo ci siano
un medico e un sacerdote.» «Forse dovrebbero essere più vicini. Se abbiamo bisogno che parlino con le loro bambine o...» «No, non deve succedere. E metti di guardia all'albergo quattro o cinque agenti. Le famiglie non devono aver noie dai reporter. Se qualcuno le infastidisce...» «Lo arresto», mormorò Budd. «Oh, ragazzi.» «C'è qualche problema, agente?» gli domandò LeBow. «Be', signore, la canzone dello stato del Kansas dice Casa mia è la prateria.» «Davvero?» domandò Henderson. «E allora?» «Conosco i giornalisti, e prima che questa faccenda sia finita ne dovrete sentire delle belle, mi sa.» Potter rise. Poi indicò lo spiazzo di fronte al mattatoio. «Guarda lì, Charlie... quegli agenti sono troppo esposti. Gli ho detto di stare giù. Non mi prestano attenzione. Fa' in modo che se ne stiano al riparo dietro le automobili. Di' loro che Handy ha già ucciso dei poliziotti. Qual è il suo rapporto con le armi, Henry?» LeBow digitò qualcosa e lesse ciò che apparve sullo schermo del computer portatile. «Tutti i processi che ha subito presentavano almeno un'accusa concernente armi da fuoco. Ha sparato a quattro individui, uccidendone due. Nell'addestramento con l'M-16 a Fort Dix aveva una media di oltre il novanta per cento di bersagli dalla distanza. Non ci sono menzioni su armi bianche.» «Hai capito ora, Charlie? Digli di tenere le teste giù.» Una luce lampeggiò davanti a loro. Potter strinse le palpebre e vide che, in lontananza, un trattore aveva appena acceso i fari. Era presto, ovviamente, ma le nubi erano opprimenti. Lanciò una rapida occhiata ai filari di alberi che si allungavano sulla destra e sulla sinistra del mattatoio. «Un'altra cosa, Charlie... voglio che lasci quei cecchini in posizione, ma che dia loro l'ordine di non sparare a meno che gli SO non facciano qualcosa.» «SO... sarebbero i sequestratori di ostaggi, giusto?» «Anche se hanno la possibilità di prendere la mira senza problemi. Quegli agenti di cui mi parlavi prima, quelli con gli M-16, sono dei tiratori scelti?» «No», rispose Budd, «soltanto gente che spara molto bene. Anche la ragazza. Ha cominciato a fare pratica sugli scoiattoli quando aveva solo...»
«E voglio che anche loro e tutti gli altri tolgano il colpo in canna. Tutti.» «Come?» «Armi cariche, ma senza il colpo in canna.» «Oh, non saprei proprio, signore.» Potter si voltò verso di lui con espressione interrogativa. «Voglio soltanto dire», si affrettò ad aggiungere Budd, «non anche i cecchini, vero?» «Puoi togliere la sicura di un M-16 e sparare in meno di un secondo.» «Non stabilizzando il mirino. Un SO può sparare tre volte, in un secondo.» La sigla gli uscì goffamente dalle labbra, come se stesse cercando di assaggiare ostriche crude per la prima volta. È così entusiasta, dotato e pieno di talento, si disse Potter. Che giornata sarebbe stata. «I sequestratori non verranno fuori a sparare a un ostaggio davanti ai nostri occhi senza darci il tempo di reagire. E se si arrivasse a questo, allora l'intera storia si risolverebbe comunque in uno scontro a fuoco.» «Ma...» «Senza colpo in canna», ribadì Potter con fermezza. «Te ne sarei grato, Charlie.» Budd annuì con riluttanza e ripeté gli ordini: «D'accordo, manderò qualcuno a rilasciare una dichiarazione alla stampa... o sarebbe meglio dire a non rilasciare una dichiarazione alla stampa. Radunerò i giornalisti e li spingerò indietro di un chilometro e mezzo, procurerò una decina di stanze all'albergo e dirò a tutti di tener giù la testa. E riferirò il messaggio sul colpo in canna». «Benissimo.» Budd uscì dal furgone. Potter lo osservò correre piegato in due verso un gruppo di agenti. I poliziotti lo ascoltarono, risero e poi cominciarono a spingere i giornalisti lontano dalla zona. Nel giro di cinque minuti il capitano fece ritorno al furgone di comando. «Fatto. Quei giornalisti erano scontenti almeno tanto quanto mi ero aspettato. Gli ho detto che me l'aveva ordinato un Feebie. Non le spiace che io l'abbia chiamata così, spero.» Nel suo tono di voce c'era una punta di ansia. «Puoi chiamarmi come ti pare, Charlie. Ora, voglio che venga installato un ospedale da campo nelle vicinanze.» «Un elisoccorso?» «No, niente del genere. Medici traumatologi e specialisti di pronto soc-
corso. Appena fuori portata di tiro dal mattatoio. A non più di sessanta secondi di distanza. Pronti a qualsiasi cosa: dalle ustioni di terzo grado alle ferite d'arma da fuoco, all'asfissia da gas lacrimogeno. Già operativi.» «Sissignore. Ma, sa, c'è un grosso ospedale a meno di venti chilometri da qui.» «Può anche esserci, ma non voglio che gli SO sentano roteare le pale di un elisoccorso. Per lo stesso motivo per cui voglio sia gli elicotteri della stampa che i nostri Huey fuori dalla portata delle loro orecchie.» «Perché?» «Perché non voglio fargli venire in mente qualcosa a cui potrebbero non aver ancora pensato. E, se anche chiedono un elicottero, devo avere la possibilità di dirgli che c'è troppo vento per farne arrivare uno.» «Sarà fatto.» «Poi torna qui con i tuoi comandanti. Anche con lo sceriffo Stillwell. Terrò un briefing.» In quel preciso istante, la portiera si aprì e un bel giovanotto abbronzato e con una folta chioma di capelli ricci neri entrò. Prima di salutare chiunque, diede un'occhiata ai pannelli di controllo e borbottò: «Eccellente». «Benvenuto, Tobe.» Tobe Geller si rivolse a Potter: «Le ragazze di Boston sono bellissime e hanno le tette sode, Arthur. Spero proprio che questa cosa sia importante». Potter gli strinse la mano, notando che il minuscolo puntino del buco all'orecchio quel giorno spiccava ancor di più. Ricordò che Tobe aveva giustificato l'orecchino ai suoi superiori dell'FBI dicendo che, nella polizia, aveva dovuto lavorare come infiltrato. Non era vero: semplicemente, Tobe Geller adorava gli orecchini e ne possedeva una vera e propria collezione. Il laureato al MIT di Boston e professore incaricato di scienze informatiche all'American University di Georgetown strinse la mano a tutti i presenti. Abbassato lo sguardo sui due computer portatili di LeBow, fece una smorfia e borbottò qualcosa sul fatto che erano antiquati. Poi si lasciò cadere nella poltroncina del pannello di controllo delle telecomunicazioni. Lui e Derek si presentarono e si immersero immediatamente in un mondo fatto di segnali analogici criptati, reti secondarie, dispositivi a pacchetto NDIS, analisi digitali tripartite e sistemi di localizzazione di oscillazioni a catena multipla. «Stiamo per fare il briefing, Tobe», lo avvisò Potter, quindi inviò Budd a chiamare gli altri. «Fammi vedere che cos'hai raccolto finora», disse poi a
LeBow. Henry voltò il computer dei profili verso di lui. «Non abbiamo molto tempo», disse. Ma Potter continuò a leggere, smarrito nel bagliore azzurrognolo dei caratteri sullo schermo. 11,02 La lepre del Nordamerica - non un coniglio, ma una lepre vera e propria - è il combattente meno probabile che esista in natura. Si tratta di un animale creato per difendersi, con un mantello mimetico (grigio e soffice nei mesi caldi, bianco d'inverno), orecchie in grado di ruotare come antenne, pronte a puntarsi nella direzione di qualsiasi rumore minaccioso, e occhi che consentono una visuale di trecentosessanta gradi del terreno circostante. Possiede denti da roditore e le sue unghie sono fatte per strappare le foglie dalle piante e, nei maschi, per afferrare le spalle delle compagne mentre sono intenti a creare nuove generazioni di lepri. Ma quando si trova con le spalle al muro, quando non c'è altra possibilità di salvezza se non quella di combattere, quando non esiste altra via di fuga, la lepre nordamericana attacca il suo avversario con ferocia stupefacente. Ci sono cacciatori che hanno ritrovato i corpi di volpi e gatti selvatici accecati o dilaniati per aver avuto la malaugurata idea di intrappolare una lepre in una tana e di assalirla con l'eccesso di sicurezza tipico dei grandi predatori. La reclusione è la nostra paura peggiore, continuava di solito Arthur Potter nelle sue lezioni sulla tattica di assedi e barricate, e i sequestratori di ostaggi sono gli avversarii più mortali e determinati che si possano incontrare. Quel giorno, nel furgone di comando dello sbarramento di Crow Ridge, Potter saltò la sua consueta introduzione di stampo naturalistico e si limitò a dire al suo pubblico: «Sopra ogni altra cosa, dovete rendervi conto di quanto siano pericolosi quegli uomini chiusi là dentro». Guardò il gruppo: Henderson, LeBow e Geller erano gli agenti federali. Per conto delle forze di polizia dello stato c'erano Budd e il suo comandante in seconda, Philip Molto, un tipo tozzo e taciturno che non sembrava essere molto più vecchio di uno studente liceale. Era uno dei comandanti delle unità tattiche. Gli altri - due uomini e una donna - avevano un'aria solenne, con sguardi privi di qualsiasi traccia di umorismo. Indossavano di-
vise da combattimento ed erano impazienti di dare inizio alla lotta. Dean Stillwell, lo sceriffo di Crow Ridge, sembrava un contadino. Le sue lunghe braccia fuoruscivano da maniche di giacca fin troppo corte e la sua pettinatura poteva tranquillamente essere stata presa da una fotografia dei Beatles dei primi tempi. Quando si erano riuniti, Charlie Budd aveva introdotto ufficialmente Potter. «Ho l'onore di presentarvi Arthur Potter dell'FBI. È un famoso negoziatore di ostaggi, e siamo molto fortunati ad averlo qui con noi, oggi.» «Grazie, capitano», si era affrettato a interromperlo Potter, preoccupato all'idea che Budd avesse intenzione di proporre un applauso. «Soltanto una cosa ancora», aveva continuato il giovane capitano, lanciandogli un'occhiata. «Ho dimenticato di dirglielo prima. Ho avuto modo di parlare con il procuratore generale, e lui sta mobilitando l'unità di soccorso ostaggi dello stato. Quindi è nostro compito...» Tentando di mantenere un'espressione neutra, Potter si era intromesso di nuovo, facendo un passo avanti. «In realtà, Charlie, se non ti dispiace...» Aveva rivolto un cenno del capo agli agenti riuniti nel furgone. Budd aveva taciuto, un sorriso sulle labbra. «Non ci sarà nessun intervento dell'unità di stato, qui. L'FBI sta approntando un'SSO federale, che dovrebbe essere qui nel tardo pomeriggio o al massimo questa sera.» «Oh», cominciò Budd. «Però il procuratore generale...» Potter lo guardò con un sorriso deciso. «Ho già parlato con lui e con il governatore mentre ero sull'aereo che mi portava qui.» Budd annuì, sempre sorridendo, e il negoziatore-capo dell'FBI proseguì con il suo briefing. Quella mattina presto, spiegò, tre uomini avevano assassinato una guardia ed erano evasi dal penitenziario federale di massima sicurezza di Callana, situato poco fuori Winfield, nelle vicinanze del confine del Kansas con l'Oklahoma: Louis Jeremiah Handy, Shepard Wilcox e Ray «Sonny» Bonner. Mentre si stavano dirigendo verso nord, la loro automobile si era scontrata con una Cadillac. Handy e i suoi compari avevano assassinato la coppia che si trovava all'interno della macchina ed erano riusciti ad arrivare fino al mattatoio prima che un poliziotto potesse raggiungerli. «Handy, trentacinque anni, stava scontando una condanna all'ergastolo per rapina, incendio doloso e omicidio. Sette mesi fa lui, la sua ragazza, Wilcox e un altro malvivente hanno rapinato la Farmers & Merchants S&L a Wichita. Handy ha chiuso due impiegate nella cassaforte e ha dato fuoco all'edificio, bruciandolo fino alle fondamenta e uccidendo le due donne.
Durante la fuga il quarto rapinatore è stato ucciso, la ragazza di Handy è fuggita, e lui e Wilcox sono stati arrestati. Supporti visivi, Henry?» Con l'aiuto di uno scanner da tavolo, LeBow aveva digitalizzato le foto segnaletiche dei tre SO e le aveva assemblate su un unico foglio, mostrandoli di fronte, di profilo e di trequarti e sottolineando le cicatrici e i segni particolari. I fogli stavano uscendo in quel momento dalla stampante laser. Lui ne distribuì diverse copie a ognuna delle persone riunite all'interno del furgone. «Distribuitele», disse Potter. «Voglio che tutte le persone presenti sul campo ne abbiano una e memorizzino queste fotografie. Se il tutto finisce con una resa, le cose possono diventare alquanto confuse e abbiamo troppi uomini in borghese per poter correre il rischio di una non corretta identificazione degli SO. Tutti devono sapere esattamente che faccia hanno i cattivi. «Il primo è Handy. Il secondo è Shep Wilcox. Wilcox è la cosa più vicina a un amico che Handy possieda. Hanno lavorato insieme in tre o quattro rapine. L'ultimo, quello grasso con la barba, è Bonner. A quanto pare, Handy lo conosce da un po', ma non hanno mai lavorato insieme. Bonner ha una rapina a mano armata tra i suoi precedenti, ma si trovava a Callana per essere fuggito oltre i confini dello stato. È sospettato di essere uno stupratore in serie, anche se sono riusciti a incastrarlo soltanto per l'ultima aggressione. Ha pugnalato la vittima ripetutamente... è stato colto in flagrante. La ragazza è sopravvissuta. Aveva diciassette anni e ha dovuto spostare l'undicesimo intervento di chirurgia plastica per poter testimoniare contro di lui. Henry, che cosa ci puoi dire a proposito degli ostaggi?» «Fin qui non molto», rispose LeBow. «All'interno dell'edificio abbiamo un totale di dieci ostaggi. Otto studentesse e due insegnanti della Laurent Clerc School per sordomuti di Hebron, che si trova a circa venticinque chilometri da qui. Erano dirette a una rappresentazione del Teatro dei Sordomuti di Topeka. Sono tutte femmine. Le studentesse hanno un'età compresa tra i sette e i diciassette anni. Presto riceverò altri dati. Sappiamo una cosa, però: sono tutte sordomute tranne l'insegnante più anziana, che è in grado di parlare e di udire normalmente.» Potter aveva fatto in modo di ottenere un interprete del linguaggio dei segni, ma anche così conosceva bene i problemi che si sarebbero presentati; diverse volte aveva negoziato ostaggi all'estero e aveva condotto trattative con molti stranieri sul territorio degli Stati Uniti. Conosceva il pericolo - e la frustrazione - di dover tradurre le informazioni con precisione e
rapidità quando c'erano in gioco delle vite umane. «Ora», disse, «abbiamo formato una squadra per fronteggiare l'emergenza, che consiste di me stesso; di Henry LeBow, il mio agente informativo e addetto alla registrazione degli avvenimenti; di Tobe Geller, il mio agente per le comunicazioni; e del capitano Budd, che svolgerà funzioni di collegamento con le forze di polizia dello stato e di mio braccio destro. Io sono il comandante dell'operazione. Ci sarà anche un ufficiale di contenimento, che non ho ancora scelto. «La nostra squadra ha due obiettivi. Il compito primario è quello di ottenere la resa degli SO e il rilascio degli ostaggi. Il secondario è di fornire assistenza in un'eventuale risoluzione tattica della crisi, nel caso si renda necessaria un'irruzione. Ciò comprende raccogliere informazioni per l'SSO, distrarre gli SO e manipolarli in tutti i modi possibili al fine di mantenere a un livello accettabile le probabilità che si verifichi qualche imprevisto.» Nei casi di SO, ognuno vorrebbe essere l'eroe, quello che convince i cattivi a uscire con le mani alzate sopra la testa. Ma anche il più pacifico e pacifista dei negoziatori deve tenere a mente che, a volte, l'unica soluzione praticabile è quella di entrare sparando all'impazzata. Quando insegnava al corso dell'FBI sulla negoziazione degli ostaggi, una delle prime cose che Potter era solito dire alla classe era: «Ogni situazione in cui sono coinvolti degli ostaggi è, essenzialmente, un omicidio in corso di svolgimento». Vide le espressioni negli sguardi degli uomini e delle donne presenti nel furgone e ricordò che «pesce freddo» era uno tra i nomignoli più gentili che erano stati adoperati per descriverlo. «Qualsiasi informazione di cui veniate in possesso sui sequestratori, gli ostaggi, il terreno circostante... qualsiasi cosa... deve essere riferita all'agente LeBow. Prima ancora che a me, se necessario. E intendo dire qualsiasi informazione. Se scoprite che uno dei sequestratori ha il naso che sanguina, non pensate che non sia importante.» Lanciò un'occhiata a due giovani poliziotti che si guardavano l'un l'altro roteando gli occhi. Fissandoli, aggiunse: «Potrebbe significare, per esempio, che possiamo somministrargli delle gocce stordenti in un'aspirina. O forse indicare una dipendenza dalla cocaina che potremmo usare a nostro vantaggio». I due giovanotti erano al di sopra di qualsiasi pentimento, ma ciononostante trattennero il loro sarcasmo. «Adesso ho bisogno di quell'ufficiale di contenimento. Il capitano Budd, qui, pensava che forse qualcuno di voi aveva avuto qualche esperienza con
degli ostaggi.» Lasciò scorrere lo sguardo sul gruppo. «Chi?» La donna della polizia di stato parlò rapidamente. «Sissignore, io. Ho frequentato il corso di soccorso ostaggi della NLEA. E sono stata addestrata alla trattativa.» «Ha negoziato un rilascio?» «No. Ma ho fornito supporto al negoziatore in una rapina in un supermercato qualche mese fa.» «È vero», intervenne Budd. «Sally era al comando della squadra di intervento tattico. E ha fatto anche un ottimo lavoro.» «Siamo riusciti a mandare un cecchino all'interno del negozio», continuò la ragazza, «su, tra i pannelli acustici del soffitto. Aveva tutti i malviventi nel mirino. Si sono arresi prima che fossimo costretti a sparare anche a uno solo di loro.» «Ho avuto anch'io qualche esperienza», disse un poliziotto sui trentacinque, con la mano posata sul calcio dell'automatica d'ordinanza. «E facevo parte della squadra che ha soccorso il cassiere nella rapina alla Midwest S&L l'anno scorso a Topeka. Abbiamo gelato i delinquenti... nessun ostaggio ferito.» Un altro si era addestrato nell'esercito e aveva fatto parte con successo di due squadre d'assalto per la liberazione di ostaggi. «Li abbiamo salvati senza che venisse sparato un solo colpo.» Peter Henderson, che aveva ascoltato il tutto con una sorta di disappunto, si fece avanti. «Forse sarebbe meglio che assumessi io questo compito, Art. Ho seguito i corsi standard e ho frequentato anche un corso di aggiornamento.» Sogghignò. «E ho letto il tuo libro. Un paio di volte. Sarebbe dovuto diventare un best-seller. Come Tom Clancy.» Si fece serio e aggiunse a bassa voce: «Credo proprio che dovrei essere io. Essendo un federale, capisci?» Dean Stillwell sollevò la testa e poi diede un'occhiata ai poliziotti, abbigliati con giubbotti antiproiettile e grosse cinture portamunizioni grigie. Il movimento dei suoi capelli a caschetto diede a Potter l'opportunità di evitare di rispondere a Henderson. «Stava dicendo qualcosa, sceriffo?» domandò a Stillwell. «No, non proprio.» «Vada pure avanti», lo incoraggiò Potter. «Be', non ho mai frequentato nessun corso, né ho mai sparato a nessuno di quei... come li chiamate?... sequestratori di ostaggi. SO, già. Ma credo che abbiamo avuto anche noi un paio di situazioni simili, qui a Crow Ri-
dge.» Due poliziotti ridacchiarono. «Mi dica», disse Potter. «Be', c'è stata quella faccenda, un paio di mesi fa, con Abe Whitman e sua moglie Emma. Giù sulla Patchin Lane. Appena oltre la Badger Hollow Road.» Stillwell rise di cuore. «Immagino che sembri buffo. Non è certo come con quei terroristi a cui voi tutti siete abituati.» Budd lanciò un'occhiataccia agli agenti e le risatine cessarono. «Che cos'è successo?» domandò Potter. Lo sceriffo, con gli occhi bassi, disse: «Il fatto è che Abe è un contadino, un allevatore di maiali fatto e finito, e niente di più». Ora anche Peter Henderson, nonostante la sua qualifica di agente speciale, lottò per soffocare il sorriso. Budd era silenzioso. Potter fece cenno a Stillwell di continuare e, come sempre, Henry LeBow ascoltava, ascoltava, ascoltava. «Ha preso un brutto colpo quando il mercato della pancetta di maiale è crollato la scorsa primavera.» «Pancetta di maiale?» domandò incredula la donna poliziotto. «Crollato.» Stillwell non aveva colto la presa in giro, o l'aveva ignorata volutamente. «Così quello che succede è che la banca rende effettive le ipoteche e Abe... Be', diciamo che gli si spezza qualcosa dentro. È sempre stato un mezzo pazzo, ma questa volta parte sul serio per la tangente e si chiude nel granaio con un fucile e il coltellaccio che adoperava per scannare quei maiali che poi finivano sulla sua tavola.» «Se la cuoceva ben bene quella pancetta di maiale, vero?» domandò un poliziotto. «Oh, non soltanto la pancetta», si affrettò a spiegare lo sceriffo. «Con i maiali funziona così. Conoscete quel detto, no? Dei maiali si usa tutto tranne i grugniti.» A quel punto, due poliziotti non ce la fecero più. Potter rivolse a Stillwell un sorriso di incoraggiamento. «Comunque sia, ricevo una telefonata. Mi dicono che sta succedendo qualcosa alla sua fattoria; vado là e trovo Emma di fronte al granaio. Sua moglie da dieci anni. L'aveva aperta dall'inguine allo sterno con quel coltello e le aveva tagliato via le mani. Abe era là dentro con i suoi due figli, e diceva che avrebbe fatto la stessa cosa anche a loro. A Brian, di otto anni, e a Stuart, di quattro.»
I sorrisi degli agenti erano scomparsi. «Quando sono arrivato, stava per tagliare le dita del piccolo Stu una alla volta.» «Gesù», sussurrò la donna. «Che cosa ha fatto, sceriffo?» L'uomo si strinse nelle spalle. «Niente di speciale. In realtà, non sapevo veramente che cosa fare. Mi sono messo semplicemente a parlare con lui. Mi sono avvicinato, ma non troppo, perché sono andato diverse volte a caccia con Abe e so che ha una mira d'inferno. Però mi sono accovacciato dietro una cunetta. E abbiamo semplicemente parlato. Lo vedevo là dentro nel granaio, a meno di quindici metri da me. Se ne stava lì seduto, seduto e basta, tenendo il coltello e il bambino.» «Per quanto tempo ha parlato con lui?» «Un casino.» «Quanto sarebbe un casino?» «Dev'essere andata avanti per diciotto, venti ore. A furia di gridare ci è andata giù la voce a tutti e due, così ho mandato uno dei miei ragazzi a procurare un paio di quei telefoni cellulari.» Scoppiò a ridere. «Ho dovuto leggere le istruzioni per capire come far funzionare il mio. Vedete, non volevo avvicinare l'autopattuglia e adoperare la radio o il megafono. Ho immaginato che, meno sbirri vedeva, meglio era.» «È rimasto lì per tutto il tempo?» «Certo. Se abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno, è quello che dico sempre. Be', due volte mi sono allontanato per... sapete, funzioni fisiologiche. E un'altra volta per andarmi a prendere una tazza di caffè. Ma ho sempre tenuto giù la testa.» «Che cosa è successo?» Un'altra stretta di spalle. «È uscito. Si è arreso.» «I bambini?» domandò Potter. «Stavano bene. A parte il fatto di aver visto la madre conciata in quel modo. Ma per quello non potevamo farci molto.» «Mi permetta di farle una domanda, sceriffo. Ha mai pensato di offrire se stesso in cambio dei bambini?» Stillwell parve perplesso. «No. Mai.» «Perché no?» «Pensavo che, se l'avessi fatto, avrei attirato la sua attenzione sui ragazzini. Volevo che si dimenticasse di loro e si concentrasse soltanto su lui e me.»
«E non ha mai tentato di sparargli? Non ha mai avuto la possibilità di prendere bene la mira?» «Certo che ce l'ho avuta. Decine di volte. Ma, non so, avevo la sensazione che quella fosse l'ultima cosa che volevo che succedesse - che qualcuno si facesse male. Lui, o io, o i ragazzi.» «Risposte giuste, sceriffo. Lei è il mio ufficiale di contenimento. Per lei va bene?» «Be', sissignore, tutto quello che posso fare per aiutare sarò orgoglioso di farlo.» Potter lanciò un'occhiata ai comandanti della polizia di stato, visibilmente dispiaciuti. «Voi e i vostri agenti farete rapporto allo sceriffo.» «Senta, aspetti un attimo, signore», esordì Budd, ma non sapeva esattamente da dove cominciare. «Lo sceriffo è una brava persona. Siamo buoni amici e tutto il resto. Siamo anche andati a caccia insieme. Ma... be', è una specie di questione tecnica, signore. Vede, lui è un poliziotto locale, municipale, sa. Questi sono per la maggior parte agenti della polizia di stato. Non può metterli sotto il suo comando. Per questo servirebbe, non so, un'autorizzazione o qualcosa del genere.» «Be', sono io ad autorizzarlo. Da questo momento potete considerare lo sceriffo Stillwell un federale a tutti gli effetti», replicò Potter in tono ragionevole. «È appena stato nominato sul campo.» LeBow rivolse uno sguardo interrogativo a Potter, che si strinse nelle spalle. Non esisteva alcuna procedura che conoscessero per nominare sul campo nuovi agenti federali. Peter Henderson, unico tra i presenti al briefing, stava ancora sorridendo. «Anche tu, Pete», gli disse Potter. «Voglio tutti gli agenti che non sono addetti alla medicina legale, al reperimento di informazioni o ai collegamenti con l'SSO sotto il diretto comando dello sceriffo Stillwell.» Henderson annui lentamente, poi disse: «Potrei parlarti per un minuto, Art?» «Non abbiamo molto tempo.» «Ci vorrà soltanto un minuto.» Potter sapeva bene ciò che stava per arrivare e capì che era importante che non accadesse di fronte agli altri comandanti. «Andiamo fuori... che ne pensi?» All'ombra del furgone, Henderson disse in un aspro sussurro: «Mi dispiace, Arthur. Conosco la tua reputazione, ma non ho intenzione di mettere i miei uomini sotto un bifolco».
«Be', Peter, la mia reputazione è del tutto irrilevante. Quello che conta è la mia autorità.» Ancora una volta Henderson annuì con fare ragionevole, come si conviene a chi indossa una camicia bianca perfettamente inamidata e un completo grigio che gli consentirebbero l'ingresso in qualsiasi ristorante nel raggio di un chilometro dal Campidoglio. «Arthur, dovrei essere maggiormente coinvolto in questa cosa. Voglio dire, io conosco Handy. Io...» «Come fai a conoscerlo?» lo interruppe Potter. «Avevo degli agenti sul posto, quando l'hanno catturato. Alla banca. L'ho interrogato dopo il fermo. Ho aiutato il procuratore a istruire il caso. Sono stati i nostri medici legali a incastrarlo.» Dal momento che Handy era stato colto in flagrante e considerato che c'erano diversi testimoni oculari, i medici legali sarebbero stati una pura questione tecnica. Sull'aereo, Potter aveva letto la trascrizione dell'interrogatorio condotto, a quanto pareva, da Henderson. Il prigioniero non aveva detto praticamente nulla tranne «Vaffanculo». «Tutto ciò che sarai in grado di dirci su di lui sarà grandemente apprezzato», disse Potter. «Ma non possiedi il tipo di esperienza di cui abbiamo bisogno per il contenimento.» «E Stillwell sì?» «Ha il temperamento di un ufficiale di contenimento. E capacità di giudizio. Non è un cowboy.» E neppure, pensò Potter, un burocrate, il che era altrettanto deleterio, se non addirittura peggio. Alla fine Henderson abbassò io sguardo sul terreno fangoso. «Non esiste, cazzo, Potter», ringhiò. «Sono rimasto incastrato in questo buco abbastanza a lungo. Quaggiù non succede mai un dannato accidente, se non qualche arresto senza importanza e qualche fonogramma dalla base dell'aeronautica perché gli indiani pisciano in qualche fottuto silo sotterraneo di Minuteman. Voglio una fetta della torta.» «Non hai alcuna esperienza di ostaggi, Pete. Ho letto il tuo curriculum, mentre venivo qui.» «Ho più esperienza di polizia di quello psicologo improvvisato che hai appena scelto. Per l'amor del cielo, ho una laurea in legge a Georgetown.» «Ho intenzione di darti la responsabilità dell'area di servizio retrostante. Coordinamento dei medici, contatti con la stampa, sistemazione delle famiglie degli ostaggi e rifornimenti per gli agenti di contenimento e per
quelli dell'SSO, quando arriveranno.» Ci fu una pausa di silenzio in cui Henderson fissò il suo collega - più vecchio di lui solo di qualche anno - con un'espressione di sbalordito divertimento e poi, all'improvviso, di puro disprezzo. Il suo sguardo venne sigillato da un brusco cenno del capo e da un sogghigno gelido. «Vai a fare in culo, Potter. Conosco l'altra parte della tua reputazione. Grandiosa davvero.» «È un lavoro importante quello che ho in mente per te», proseguì Potter come se l'altro non avesse nemmeno parlato. «È lì che potrai essere più utile.» «Vaffanculo... devi per forza avere i riflettori addosso, eh? Hai paura che se qualcuno, qualcuno con un po' di classe, si fa vedere un po' più di te possa venire meglio davanti alle telecamere?» «Credo che tu sappia che non sono queste le mie motivazioni.» «Sapere? E che cosa so, io? Se non che arrivi in città con la benedizione dell'ammiraglio e ci mandi a prendere il tuo dannato caffè. Dopo la sparatoria - nel corso della quale, chi sa, diciamo dieci agenti e un paio di ostaggi vengono uccisi - tu fai la tua conferenza stampa, ti assumi il merito di quello che è andato bene e dai la colpa a noi di quello che è andato male. E poi te ne vai. E chi rimane a spalare la merda che ti sei lasciato dietro? Io, ecco chi.» «Se non c'è altro...» Henderson si abbottonò la giacca del completo. «Oh, ci sarà dell'altro. Ci sarà. Non preoccuparti.» Si allontanò a grandi passi, ignorando il suggerimento di non fornire un così facile bersaglio ai cecchini nel mattatoio. 11,31 Arthur Potter tornò nel furgone, sentendo su di sé gli sguardi dei presenti. Si chiese se avessero orecchiato lo scambio tra lui e Henderson. «Ora», proseguì, «ecco le regole della battaglia.» Si tolse un fax dalla tasca della giacca. Sul jet partito da Glenview, Potter aveva parlato in teleconferenza con il direttore dell'FBI, con il suo vicedirettore per le indagini criminali e con Frank D'Angelo, comandante dell'SSO federale, e aveva scritto le regole per lo sbarramento di Crow Ridge. La cosa aveva richiesto la maggior parte del volo, e il risultato era un documento di due pagine a spaziatura singola che contemplava ogni eventualità e dava a Potter ordini specifici su
come gestire la situazione. Era stato redatto con molta circospezione. L'FBI aveva avuto guai seri per come era stata gestita la vicenda Koresh a Waco e, nel '92, era uscito pesantemente svilito dall'affare Randall Weaver, per il quale le regole erano state scritte con tanta approssimazione che i tiratori scelti credevano di avere l'ordine di sparare a qualsiasi adulto armato qualora l'avessero avuto chiaramente nel mirino. La moglie di Weaver era stata uccisa per sbaglio da un cecchino dell'FBI. «Il suo lavoro», disse Potter guardando Stillwell, «è quello di contenere gli SO. Il contenimento è una funzione tattica, ma passiva. Non ci sarà alcun tentativo di salvataggio degli ostaggi.» «Sissignore.» «Manterrà i sequestratori all'interno di qualsiasi perimetro io decida essere attivo. Potrebbe trattarsi dello stesso edificio, potrebbe essere una linea immaginaria posta a cento metri di distanza tutt'intorno all'edificio stesso. Quale che sia, i sequestratori non devono oltrepassare vivi quel confine. Se uno qualsiasi di loro lo fa, che abbia o meno con sé un ostaggio, le sue truppe hanno semaforo verde. Sa che cosa significa?» «Sono autorizzati a sparare.» «Esatto. E a sparare per uccidere. Nessun tentativo di ferimento. Nessuna minaccia. Nessun colpo di avvertimento. O colpi letali, o niente.» «Sissignore.» «Non ci devono essere spari attraverso finestre o porte aperte, anche se vedete un ostaggio in pericolo di vita, senza la diretta autorizzazione di qualcuno della nostra squadra.» Potter si accorse che il viso di Budd si era rabbuiato al sentire quell'ultima frase. «Capito», disse Stillwell. Gli altri annuirono con riluttanza. «Se vi sparano addosso, assumete una posizione difensiva e aspettate finché non vi viene dato l'okay per rispondere al fuoco. Se in qualsiasi momento voi o un altro agente venite minacciati con forza letale, potete usare forza letale per proteggere voi stessi o l'altra persona. Ma soltanto se siete fermamente convinti che sussista un vero pericolo immediato.» «Un pericolo immediato», borbottò sarcastico un poliziotto. Stanno sperando tutti in una seduta di tiro al piccione, pensò Potter. Lanciò un'occhiata all'orologio sullo schermo del computer di LeBow. «Stabiliremo un contatto entro cinque minuti circa. Avvertirò i sequestratori del perimetro che non devono oltrepassare e le farò sapere, sceriffo, che è stato loro comunicato. Da quel momento in avanti lei ha istruzione di
contenerli come le ho spiegato prima.» «Sissignore», rispose con calma lo sceriffo, passandosi una mano tra i capelli e scompigliandoli ulteriormente. «Per il momento la zona di fuoco comprenderà qualsiasi luogo all'esterno dell'edificio stesso. Dopo che avranno inviato qualcuno fuori a prendere il telefono cellulare, nessuno potrà uscire a meno che non lo faccia con una bandiera bianca.» Stillwell annuì. «Henry, qui, vi farà avere tutti i dati che sono tatticamente rilevanti», proseguì Potter. «Tipi di armi, ubicazione dei sequestratori e degli ostaggi, possibili vie d'uscita e così via. Non ci sarà alcun contatto diretto tra voi e gli SO. E non ascoltate le mie conversazioni con Handy.» «D'accordo. Perché no?» «Perché cercherò di stabilire un rapporto con lui e tenterò di essere ragionevole. Non potete permettervi di provare una qualsiasi forma di simpatia per lui. Dovete essere in grado di ucciderlo all'istante.» «Per me va bene.» «Ora, un'ultima cosa: non voglio incidenti. Il comandante Budd ha già detto a tutti gli agenti di togliere il colpo in canna. Giusto? Compresi i cecchini?» Budd annuì. Le sue labbra si strinsero. Potter si chiese quanto il capitano fosse infuriato. Avrà modo di esserlo ancor di più prima che tutta questa faccenda sia finita, pensò. «I miei uomini», disse rigidamente uno dei poliziotti, «non hanno il prurito da grilletto.» «No, adesso no. Ma l'avranno. Tra dieci ore punterete le armi contro la vostra stessa ombra. Ora, Dean, potreste vedere dei riflessi provenire dall'interno dell'edificio. E penserete che si tratta del mirino di un fucile. Ma probabilmente saranno soltanto specchi, come nei periscopi. I sequestratori che sono stati dentro hanno imparato il trucchetto in galera. Quindi dica ai suoi di non farsi prendere dal panico se vedono un bagliore.» «Sissignore», rispose Stillwell con la lentezza con cui sembrava dire ogni cosa. «Adesso qualche parola per concludere», disse Potter. «Generalmente gli SO criminali sono i più facili con cui trattare. Non sono come i terroristi. Il loro scopo non è quello di uccidere tutti. È quello di fuggire. Dopo un po' di tempo si renderanno conto che gli ostaggi sono più un impaccio che altro, e che un ostaggio morto vuol dire soltanto guai. Ma il fatto psi-
cologico più importante di ciò che sta accadendo in questo preciso momento è che non stanno pensando in modo razionale. Sono sovreccitati dall'eccesso di adrenalina. Sono spaventati e confusi. «Dobbiamo sdrammatizzare la situazione. Far credere a Handy che, comportandosi in modo razionale, riuscirà a venir fuori dall'imbroglio. Il tempo gioca a nostro favore. Non stabiliremo nessun ultimatum perché vogliamo che questa situazione si protragga più a lungo di quanto chiunque di noi possa sopportare. E poi ancora. E ancora di più. «Quando arriverà l'SSO ci prepareremo per una soluzione tattica, ma ciò resta comunque la nostra ultima risorsa. Finché Handy sta ancora parlando con noi, non ci sarà alcun tentativo di liberare gli ostaggi. Lo chiameremo approccio in stile pancetta di maiale.» Potter sorrise in direzione di Stillwell, quindi continuò: «Il gioco che stiamo giocando si chiama prendere tempo. Stanca gli SO, li annoia, rende più vicini loro e le vittime». «Sindrome di Stoccolma», borbottò uno dei comandanti. «Esattamente.» «Che cos'è?» domandò un altro. Potter rivolse un cenno a LeBow, che disse: «È il processo psicanalitico del transfert applicato al sequestro di ostaggi. Il termine è nato da una rapina in banca avvenuta a Stoccolma circa vent'anni fa. Il rapinatore si rinchiuse con quattro impiegate nel caveau della banca dove, poco dopo, fu raggiunto da un suo ex compagno di cella. Rimasero insieme per più di cinque giorni e, quando i due finalmente si arresero, molte delle prigioniere erano pazzamente innamorate dei loro sequestratori. Avevano sviluppato la sensazione che fosse la polizia a essere dalla parte dei cattivi. Anche il rapinatore e il suo compagno avevano sviluppato sentimenti molto profondi nei confronti degli ostaggi e non potevano nemmeno pensare di poter far loro del male». «È ora di metterci al lavoro», annunciò Potter. «Sceriffo, lei procederà con il contenimento. Io stabilirò il contatto iniziale con i sequestratori.» Timidamente, Dean Stillwell rivolse un cenno ai comandanti. «Se venite fuori tutti con me, magari sposteremo alcuni dei vostri uomini... se per voi va bene. Che ne pensate?» «Pancetta di maiale» fu l'unica risposta, ma la frase venne pronunciata a bassa voce, tanto che Potter ritenne di essere stato l'unico a udirla. L'acqua cadeva come pioggia, un ruscello argenteo che si riversava dai buchi nel soffitto in alto sopra di loro, probabilmente da pozze rancide di
acqua piovana accumulatasi sul tetto. Gocciolava sui ganci per la carne arrugginiti, sulle catene, sui nastri trasportatori di gomma nera e sui macchinari in rovina, appena fuori della stanza delle uccisioni dove Melanie Charrol era seduta badando alle ragazze. Le due gemelle di sette anni, Anna e Suzie, erano accoccolate contro di lei. Beverly Klemper continuava a scostarsi i corti capelli biondi dal viso (ancora rotondetto come quello di una bambina, nonostante i suoi quattordici anni) e ingaggiava una continua battaglia con se stessa per respirare regolarmente. Le altre erano raggruppate dalla parte opposta della stanza. La decenne Emily Stoddard si strofinava freneticamente una macchia di ruggine sui pantaloni bianchi, con le lacrime che scendevano copiose e silenziose a rigarle le guance. Melanie lanciò un'occhiata alla signora Harstrawn e a Susan Phillips che, accovacciate l'una accanto all'altra, stavano parlando con segni bruschi e nervosi. La faccia pallida dell'adolescente, incorniciata dai capelli corvini, era ancora colma di rabbia. I suoi occhi scuri erano gli occhi di una lottatrice, pensò improvvisamente Melanie. La loro conversazione doveva avere a che fare con le ragazze. «Ho paura che si faranno prendere dal panico», disse Susan all'insegnante più anziana. «Dobbiamo farle stare insieme. Se qualcuna tenta di fuggire, quegli stronzi le faranno del male.» Con l'audacia dei suoi otto anni, Kielle Stone gesticolò: «Ma dobbiamo scappare! Siamo più di loro. Possiamo farcela!» Susan e la signora Harstrawn la ignorarono, e gli occhi grigi della bambina mandarono un lampo di rabbia. Nel frattempo, Melanie si tormentava. Non so che cosa fare. Non lo so. Al momento, gli uomini non stavano prestando molta attenzione alle ragazze. Melanie si alzò e si incamminò fino alla porta. Li osservò estrarre dei vestiti dalle sacche di tela. Bruto si tolse la t-shirt e, con un'occhiata in direzione di Melanie, camminò sotto lo scroscio d'acqua, lasciando che gli cascasse addosso mentre, con gli occhi semichiusi, esaminava il soffitto scurito dalla muffa e dall'umidità. Lei vide i suoi muscoli nodosi, il suo corpo privo di peli segnato da numerose cicatrici rosee. Gli altri due uomini lo guardarono con espressione incerta e continuarono a cambiarsi. Quando si tolsero le camicie da lavoro, Melanie fu in grado di leggere i nomi scritti a pennarello sulle loro magliette. Quella di Ermellino diceva S. Wilcox, quella di Orso R. Bonner. Eppure, vedendo il corpo grasso e peloso di Orso e quello snello e agile di Ermellino, i suoi occhi scivolosi e an-
guilleschi, lei riuscì a pensare a loro soltanto con i nomi di animale che le erano venuti in mente d'istinto non appena li aveva visti. E, considerando lo sguardo di divertita malizia che gli salì al volto mentre se ne stava in piedi immobile sotto l'acqua che si riversava dal soffitto, capì che, per lui, Bruto era un nome molto più azzeccato di L. Handy. L'uomo uscì da sotto gli spruzzi, si asciugò con la sua vecchia camicia e ne indossò una nuova, di flanella, color verde scuro. Prese la pistola dal bidone d'olio su cui l'aveva posata e osservò le sue prigioniere, sempre con quel sorriso curioso e inquietante stampato sulle labbra. Raggiunse gli altri due. Con cautela, gli uomini guardarono fuori da una delle finestre anteriori. Tutto questo non può succedere, si disse Melanie. È impossibile. C'erano persone che la stavano aspettando. I suoi genitori. Danny, che l'indomani doveva essere operato. Melanie era stata sempre presente nelle camere d'ospedale dopo ognuno dei sei interventi chirurgici a cui suo fratello era stato sottoposto negli ultimi dodici mesi. Avvertiva dentro di sé l'impulso, urgente e assurdo, di dire a quegli uomini che dovevano lasciarle andare: non poteva deludere suo fratello. E poi c'era il suo spettacolo a Topeka. E, ovviamente, i progetti che aveva per il dopo-teatro. Va' a dirgli qualcosa. Adesso. Subito. Imploralo di rilasciare le bambine più piccole. Le due gemelline, almeno. Oppure Kielle e Shannon. Emily. Beverly, tormentata dall'asma. Vai. Fallo. Si mosse, poi si voltò a guardarsi alle spalle. Le altre ragazze presenti nella stanza delle uccisioni - tutte e nove - la stavano fissando con gli occhi spalancati. Susan incrociò il suo sguardo per un lungo istante, quindi le fece cenno di tornare indietro. Melanie ubbidì. «Non preoccupatevi», gesticolò Susan alle ragazze, quindi tirò a sé le due minuscole gemelline con i capelli castani. Sorridendo. «Se ne andranno presto, ci lasceranno uscire. Arriveremo a Topeka un po' in ritardo, tutto qui. Che cosa avete voglia di fare dopo la recita di Melanie? Ditemelo, tutte quante. Avanti!» È pazza? Pensò lei. Non usciremo affatto... Poi si rese conto, quasi all'improvviso, che Susan stava dicendo quelle cose per farle sentire a loro agio, per attenuare la loro ansia. La ragazza aveva ragione. La verità non aveva alcuna importanza. Confortare le più giovani, questo aveva importanza. Assicurarsi che gli uomini non avessero alcun pretesto per avvici-
narsi a loro: il ricordo di Orso che afferrava il seno di Susan, tenendo contemporaneamente Shannon stretta contro il proprio corpo grasso, le tornò in mente vivido e preoccupante. Ma nessuna aveva voglia di stare al gioco. Finché Melanie non disse: «Volete andare fuori a cena?» «Sala giochi!» gesticolò Shannon d'improvviso. «Mortal Kombat!» Kielle si raddrizzò, interessata. «Voglio andare in un vero ristorante. Voglio una bistecca a cottura media, delle patate e la torta...» «Una torta intera?» domandò Susan, con il viso allargato in un'espressione di finto stupore. Ricacciando indietro le lacrime, Melanie non riuscì a pensare a nulla da dire. Debolmente, fece segno: «Sì. Una torta intera a testa!» Le ragazze la guardarono, ma i loro occhi tornarono subito a posarsi su Susan. «Potrebbe farvi venire il mal di pancia.» La signora Harstrawn si accigliò esageratamente. «No», rispose Kielle. «Mangiare un'intera torta sarebbe grossolano.» Rivolse a Susan uno sguardo indignato. «Soltanto i cafoni mangiano le torte intere. Ne ordineremo una fetta a testa. E io prenderò anche il caffè.» Jocylyn smise di strofinarsi gli occhi grevi di lacrime quel tanto che le bastava per dire con i gesti: «Non ci lasciano bere il caffè». «Io berrò il caffè. Caffè nero», gesticolò Shannon. «Con la panna», proseguì Kielle. «Quando mia madre fa il caffè, lo mette in una tazza di vetro e ci versa sopra la panna. Si disfa come una nuvola. Ho intenzione di bere del caffè in un vero ristorante.» «Un gelato al caffè, magari», gesticolò Beverly mentre lottava per farsi entrare aria a sufficienza nei polmoni. «Con le gocce di cioccolato», propose Suzie. «Con gocce di cioccolato e frutta candita», le fece eco Anna, sua sorella minore per una trentina di secondi o poco più. «Come da Friendly's!» E, ancora una volta, Melanie non riuscì a trovare nulla da dire. «Non quel tipo di ristorante. Sto parlando di un ristorante di lusso.» Kielle non riusciva a comprendere per quale motivo nessuna delle altre sembrasse minimamente eccitata all'idea. Un grosso sorriso comparve sul volto di Susan. «Allora abbiamo deciso. Ristorante di lusso. Bistecca, torta e caffè per tutte. Vietato l'accesso ai cafoni!» Improvvisamente, la dodicenne Jocylyn proruppe in un pianto isterico e
balzò in piedi. La signora Harstrawn le fu immediatamente al fianco, cullando tra le braccia il corpo grassottello della bambina, tenendola stretta a sé. Pian piano riuscì a calmarla. Melanie sollevò le mani per dire qualcosa di confortante e simpatico. Alla fine, gesticolò: «Panna montata sulla torta di tutte». Susan si voltò verso di lei. «Ti senti ancora pronta a salire sul palco?» La giovane insegnante ricambiò per un lungo attimo lo sguardo della sua allieva, quindi sorrise, annuendo. La signora Harstrawn, con gli occhi che si spostavano nervosamente verso lo stanzone principale del mattatoio, dove gli uomini erano intenti a parlare tra loro a testa bassa, fece segno: «Forse Melanie può recitare ancora le sue poesie». Melanie annuì e il suo cervello si svuotò completamente. Aveva un repertorio di almeno una ventina di poesie che avrebbe potuto recitare sul palco di Topeka. Ora, tutto ciò che riusciva a ricordare era la prima strofa della sua Uccelli su un filo; nient'altro. Alzò le mani e cominciò: «Otto uccelli grigi, appollaiati nel buio. Soffia un vento freddo, indelicato. Appollaiati su un filo, sollevano le ali e si allontanano tra le ribollenti nubi». «Carina, vero?» domandò Susan, guardando Jocylyn. La bambina si asciugò la faccia sulla manica della camicetta e annuì. «Io ho scritto delle poesie», gesticolò con enfasi Kielle. «Cinquanta. No, di più. Parlano di Wonder Woman e dell'Uomo Ragno. E anche degli XMen: Jean Grey e Ciclopc Shannon le ha lette!» «Perché non ce ne reciti una?» le domandò Susan. Kielle ci pensò su per un istante, quindi confessò che le sue poesie avevano ancora bisogno di un po' di lavoro. «Perché nella tua poesia gli uccelli sono grigi?» domandò Beverly a Melanie. Il suo modo di gesticolare era brusco, come se dovesse terminare ogni conversazione prima che arrivasse uno dei suoi devastanti attacchi d'asma. «Perché in ognuno di noi c'è una piccola parte grigia», rispose lei, stupita del fatto che le bambine stessero davvero interessandosi all'argomento, l'attenzione apparentemente distolta dall'orrore che andava dispiegandosi intorno a loro.
«Se parla di noi, preferirei di gran lunga essere un bell'uccellino», disse Suzie, e la sua gemella annuì. «Avresti potuto farci rosse», suggerì Emily, che indossava un vestito con un motivo floreale di Laura Ashley. Era più femminile di tutte le altre messe insieme. Poi Susan - Susan che era a conoscenza di fatti che nemmeno Melanie conosceva, Susan che l'anno seguente avrebbe frequentato il Gallaudet College avendo ottenuto il massimo dei voti -spiegò alle altre ragazze affascinate che soltanto i cardinali maschi erano rossi. Le femmine erano grigio-brune. «Allora sono cardinali?» domandò Kielle. «Non arcivescovi?» gesticolò la signora Harstrawn, facendo roteare gli occhi. Susan rise. Jocylyn annuì, ma sembrava contrariata dal fatto che qualcuno l'avesse preceduta ancora una volta in una battuta di spirito. Shannon, il maschiaccio, appassionata dei libri di Christopher Pike, domandò per quale motivo Melanie non avesse reso falchi gli uccelli della sua poesia, falchi con lunghi becchi argentei e artigli gocciolanti di sangue. «Parla di noi, allora?» domandò Kielle. «La tua poesia?» «Forse.» «Ma noi siamo nove, compresa te», fece notare Susan alla sua insegnante con la logica di un'adolescente. «E dieci se contiamo la signora Harstrawn.» «E allora saranno dieci», rispose Melanie. «Posso cambiarla.» Poi pensò tra sé: Fai qualcosa. Panna montata sulla torta? Stronzate. Assumi la responsabilità della situazione! Fai qualcosa! Vai a parlare con Bruto. Melanie si alzò all'improvviso e camminò fino alla porta. Sbirciò fuori. Poi si voltò a guardare Susan, che le gesticolò: «Che cosa stai facendo?» Lo sguardo di Melanie tornò a spostarsi sui tre uomini. Oh, non fate affidamento su di me, ragazze, pensò. È un errore. Non sono io quella che lo farà. La signora Harstrawn è più anziana. Susan è più forte. Quando lei dice qualcosa, le persone - udenti o non udenti che siano - ascoltano sempre... Non posso... Sì che puoi. Fece un passo nel locale principale, avvertendo sulla pelle lo spruzzo dell'acqua che gocciolava dal soffitto. Evitò un gancio da carne che ondeggiava e si avvicinò ulteriormente al terzetto. Soltanto le gemelline. E Be-
verly. Chi non lascerebbe andare due bambine di sette anni? Chi non proverebbe compassione per un'adolescente devastata dall'asma? Orso sollevò lo sguardo e la vide. Sogghignò. Ermellino stava inserendo delle batterie in un televisore portatile e non le prestò alcuna attenzione. Bruto, che nel frattempo si era allontanato dagli altri due, stava fissando fuori della finestra. Melanie si fermò e si voltò a guardare verso la stanza delle uccisioni. Susan era accigliata. «Che cosa stai facendo?» le domandò ancora una volta. Melanie avvertì una nota critica nell'espressione della ragazza, e si sentì lei stessa una studentessa di liceo. Non devi fare altro che chiederglielo. Scrivere le parole. La prego lasci andare le piccole. Le mani le tremavano; il suo cuore era un enorme ammasso di carne pulsante. Quando Orso gridò qualcosa, Melanie ne sentì le vibrazioni nell'aria. Lentamente, Bruto si voltò. Melanie si immobilizzò, sentendo gli occhi dell'uomo su di sé. Mimò che voleva scrivere qualcosa. L'uomo le si avvicinò. Lei era come paralizzata. Bruto le prese un braccio, le guardò le unghie, guardò il piccolo anello d'argento che la ragazza portava all'indice destro. Poi lasciò la presa. La guardò in faccia e scoppiò a ridere. Poi tornò dagli altri due, lasciandola sola, voltandole le spalle come se lei non rappresentasse minaccia alcuna, come se lei fosse ancora più giovane della più giovane delle sue allieve, come se non ci fosse nemmeno. Melanie si sentì più distrutta che se lui l'avesse schiaffeggiata. Troppo impaurita per tentare nuovamente di avvicinarlo, troppo piena di vergogna per tornare nella stanza delle uccisioni, rimase dove si trovava, guardando fuori della finestra la fila di macchine della polizia, le sagome accovacciate dei poliziotti e l'erba alta che si piegava al vento. Potter osservava il mattatoio attraverso il vetro a prova di proiettile del furgone. Avrebbero dovuto parlare al più presto. Già nella sua mente la figura di Lou Handy incombeva con dimensioni troppo grandi. C'erano due pericoli insiti nella negoziazione. Il primo era rendere il sequestratore più grande di ciò che era prima di cominciare e, di conseguenza, ritrovarsi a iniziare a trattare sulla difensiva - esattamente la sensazione che Potter stava cominciando ad avvertire in quel momento. (L'altro rischio, la sua personale sindrome di Stoccolma, sarebbe arrivato in seguito. Potter ci avrebbe pensato
allora. E sapeva che avrebbe dovuto farlo.) «Il telefono da lanciare è pronto?» «Ci siamo quasi.» Tobe stava programmando una serie di numeri in uno scanner sulla consolle. «Devo metterci un omni?» I telefoni da lanciare erano cellulari leggeri che contenevano un doppio circuito trasmittente che inviava alla postazione di comando ogni conversazione tenuta mediante l'apparecchio e un resoconto dei numeri chiamati. Solitamente gli SO parlavano soltanto con i negoziatori, ma a volte chiamavano anche dei complici o degli amici. E a volte queste conversazioni potevano rivelarsi utili per la trattativa o per ottenere un vantaggio tattico. Talora veniva nascosto all'interno del telefono un minuscolo microfono omnidirezionale che permetteva l'ascolto delle conversazioni anche quando il cellulare non veniva adoperato dagli SO. Sapere esattamente ciò che veniva detto dall'altra parte della barricata era il sogno di ogni negoziatore. Ma l'eventuale scoperta del microfono avrebbe potuto significare rappresaglie e avrebbe sicuramente danneggiato la credibilità del negoziatore... cosa che, a quello stadio, era il suo unico vero punto di forza. «Henry?» domandò Potter. «La tua opinione. Handy è in grado di trovarlo secondo te?» LeBow digitò rapidamente sulla tastiera del portatile richiamando il file, sempre più consistente e voluminoso, su Lou Handy. Lo fece scorrere. «Non è mai andato all'università, alle superiori aveva una valutazione ottima in matematica e scienze. Aspetta, ecco che ci siamo... ha studiato elettronica per un po', nell'esercito. Non è rimasto a lungo sotto le armi. Ha accoltellato il suo sergente. Sono indeciso... No, direi di non mettere il microfono. Potrebbe vederlo. In tecnica aveva risultati eccellenti.» Potter sospirò. «Lascialo fuori, allora, Tobe.» «La cosa mi fa soffrire.» «A chi lo dici.» Il telefono ronzò e Potter prese la chiamata. L'agente speciale Angie Scapello era arrivata a Wichita; la stavano trasportando in elicottero direttamente alla Laurent Clerc School a Hebron. Lei e un'agente del dipartimento di polizia di Hebron, che avrebbe fatto da interprete, sarebbero arrivate nel giro di mezz'ora. Potter riferì le informazioni a LeBow, che le immise nel computer e poi aggiunse: «Avrò gli schemi CAD dell'interno dell'edificio tra dieci minuti». LeBow aveva mandato un agente a scovare mappe catastali e piante ingegneristiche e architettoniche del mattatoio. I documenti sarebbero stati
trasmessi al posto di comando e stampati per mezzo di un software di disegno computerizzato. «Charlie», disse Potter a Budd, «sto pensando che dovremmo rafforzarli. Gli ostaggi, intendo dire. I sequestratori richiederanno energia elettrica all'interno dell'edificio. Non voglio farlo. Gli procureremo una sola torcia elettrica, alimentata a batterie. Debole. Così saranno costretti a restare tutti nella stessa stanza.» «Perché?» Fu LeBow a parlare. «Tenere insieme sequestratori e ostaggi. Lasciare che Handy parli con loro, che cominci a conoscerli.» «Non saprei, signore», obiettò il capitano. «Le ragazze sono sordomute. E, quando farà buio, quel posto metterà i brividi. Se si troveranno in una stanza illuminata soltanto da una torcia elettrica, be'... per dirla come mia figlia, usciranno di testa.» «Non possiamo preoccuparci troppo di come si sentiranno», rispose Potter in tono assente, osservando LeBow scolpire instancabilmente appunti sulla sua tavoletta di pietra elettronica. «Non sono d'accordo con lei su questo punto, signore», insistette Budd. Silenzio. Tobe stava assemblando il telefono cellulare, osservando nel contempo sei stazioni televisive simultaneamente su un unico monitor, di cui Derek Elb era riuscito miracolosamente a suddividere lo schermo. Tutti i notiziari locali stavano parlando dell'incidente. La CBS stava trasmettendo un servizio speciale, così come la CNN. Bellezze dai capelli laccati, uomini e donne, tenevano in mano i microfoni come fossero coni di gelato e vi parlavano dentro con fervore. Potter osservò che Tobe aveva preso possesso del pannello di controllo del furgone quasi l'avesse progettato lui stesso, e poi rifletté che forse era proprio così. Lui e Derek erano diventati amici alla svelta. «Ci pensi su, però», insistette Budd. «Quel posto già fa paura in pieno giorno. E di notte? Fratello, sarà orribile.» «Qualsiasi cosa accada», rispose Potter, «le prossime ventiquattr'ore non saranno comunque piacevoli per quelle ragazze. Non ci possiamo fare niente. Abbiamo bisogno che stiano tutti insieme, là dentro. E una torcia elettrica servirà allo scopo.» Budd fece una smorfia di frustrazione. «C'è anche una questione pratica. Sto pensando che, se c'è troppo buio, potrebbero farsi prendere dal panico. Tentare di fuggire. E rischiare la vita.»
Potter guardò i muri di mattoni del vecchio impianto di lavorazione, scuri come sangue essiccato. «Lei non vuole che gli sparino, vero?» domandò Budd in tono esasperato, attirando su di sé lo sguardo di LeBow, anche se non quello di Potter. «Ma, se gli forniamo l'energia elettrica», ribatté quest'ultimo, «avranno a disposizione l'intero mattatoio per nascondersi. Handy potrebbe mettere le ragazze in dieci stanze diverse.» Potter premette le mani l'una contro l'altra con espressione assente, come se stesse facendo una palla di neve. «Noi dobbiamo fare in modo che restino insieme.» «Si potrebbe portare qui un camion-generatore», propose Budd. «Far entrare un cavo. Quattro o cinque luci di quelle che adoperano i meccanici... sapete, quelle lampade con la griglia che si appendono ai ganci. Corrente elettrica appena sufficiente a illuminare la stanza principale. E poi in questo modo, se ordinate un'irruzione, possiamo interrompere l'energia elettrica in qualsiasi momento. Cosa che non si può fare con una torcia a batterie. E, guardi, a un certo punto dovremo pur comunicare con quelle ragazze. Ricorda? Sono sordomute. Come faremo?» Quello era un buon argomento, un argomento che Potter non aveva preso in considerazione. Nel corso di un'eventuale irruzione, qualcuno avrebbe dovuto comunicare le istruzioni di evacuazione agli ostaggi con il linguaggio dei segni. «D'accordo», annuì. «Ci penserò io.» «Fallo fare a qualcun altro, Charlie.» «Va bene.» Tobe premette alcuni pulsanti. Un sibilo elettrostatico riempì l'angusto spazio del furgone. «Merda», imprecò. «Ho due uomini con gli orecchioni più vicini di quanto dovrebbero essere», disse riferendosi ai piccoli microfoni parabolici che, in condizioni ottimali, sarebbero stati in grado di captare un sussurro a cento metri di distanza. Quel giorno erano completamente inutili. «Maledetto vento», borbottò LeBow. «Il telefono da lanciare è pronto», annunciò Tobe, spingendo verso Potter uno zainetto verde-oliva. «Entrambi i circuiti sono predisposti a ricevere.» «Faremo...» Un telefono ronzò. Potter lo prese immediatamente. «Qui Potter.»
«Agente Potter? Non ci siamo mai incontrati», disse una piacevole voce baritonale dall'altoparlante. «Sono Roland Marks, viceprocuratore generale dello stato.» «Sì?» «Mi piacerebbe scambiare qualche opinione con lei, signore.» L'impazienza di Potter prese il sopravvento. Non è il momento per una cosa del genere, pensò tra sé. «In questo momento sono molto occupato.» «Alcune opinioni concernenti il coinvolgimento delle forze dello stato. Roba di poco conto, ma che ci tengo a comunicarle.» Potter aveva Charlie Budd, aveva i suoi agenti di contenimento, aveva il suo furgone di comando. Non aveva bisogno di nient'altro dallo stato del Kansas. «Non è un buon momento, temo.» «È vero che hanno rapito otto giovani ragazze?» Potter sospirò. «E due insegnanti. Dalla scuola per sordomuti di Hebron. Sì, esatto. Stiamo proprio per stabilire il primo contatto con i sequestratori e abbiamo una tabella di marcia molto serrata. Non credo che...» «Quanti sono i sequestratori?» «Temo proprio di non avere tempo per discutere la questione con lei. Il governatore è stato informato della situazione, e lei può chiamare il nostro agente speciale responsabile, Peter Henderson. Immagino che lo conosca.» «Conosco Pete. Certo.» L'esitazione nella voce del viceprocuratore lasciava intendere quanta poca fiducia avesse nell'uomo. «Questa potrebbe essere una vera tragedia.» «Be', signor Marks, il mio lavoro è proprio quello di assicurare che non divenga tale.» «Stavo pensando che, forse, uno psicologo o un sacerdote potrebbero essere d'aiuto. A Topeka abbiamo questo dipartimento assistenziale statale. Di prim'ordine...» «Devo riagganciare», disse Potter in tono cortese. «Peter Henderson la terrà aggiornata sugli sviluppi della situazione.» «Aspetti un attimo...» Clic. «Henry, trovami delle informazioni su Roland Marks, viceprocuratore generale. Scopri se può creare dei problemi. Vedi se ha delle elezioni in vista o se ha messo gli occhi su qualche riconoscimento ufficiale che potrebbe aiutarlo nella carriera.»
«A me sembra soltanto un benpensante, un emotivo liberai dal cuore tenero», si accigliò Henry LeBow, che aveva votato democratico per tutta la vita, incluso Eugene McCarthy. «D'accordo», sospirò Potter, dimenticandosi la telefonata del viceprocuratore generale, «troviamo un volontario con un buon braccio. Ah, ancora una cosa...» Si abbottonò la giacca blu e sollevò un dito in direzione di Budd, indicandogli la porta. «Vieni là fuori con me, ti dispiace, Charlie?» Una volta all'esterno, rimasero alla debole ombra del furgone. «Capitano», disse, «faresti meglio a dirmi che cos'è che ti rode. Ti dà fastidio che io ti abbia pestato i piedi, poco fa?» «Assolutamente no», fu la fredda risposta dell'ufficiale. «Lei è un federale. Io sono un poliziotto di stato. È scritto nella Costituzione. Priorità, la chiamano.» «Ascoltami», continuò Potter con voce decisa, «non abbiamo tempo per le formalità. Sputa il rospo subito. Oppure tientelo, qualunque cosa sia.» «Che cosa stiamo facendo? Ci togliamo i distintivi e ci prendiamo a botte?» rise Budd senza allegria. Potter non disse nulla, limitandosi a inarcare un sopracciglio. «D'accordo, d'accordo», riprese Budd. «Quello che mi rode è che so che lei è bravo in questo lavoro e io non ho mai condotto una trattativa prima d'ora. L'ho sentita abbaiare ordini a destra e a sinistra come se sapesse esattamente ciò che sta facendo, ma non crede che ci sia una cosa che ha dimenticato di menzionare?» «Che cosa?» «Non ha detto più di tre parole su quelle bambine là dentro.» «Qual è il problema, con loro?» «Pensavo soltanto che avrebbe dovuto preoccuparsi di ricordare a tutti che la nostra priorità numero uno è tirar fuori vive quelle ragazze da là dentro.» «Oh», disse Potter, con la mente da tutt'altra parte mentre scrutava con attenzione il campo di battaglia. «Ma questa non è affatto la nostra priorità numero uno, Charlie. Le regole della battaglia sono molto chiare. Io sono qui per far sì che i sequestratori si arrendano e, se non lo fanno, per aiutare l'SSO a neutralizzarli. Farò tutto ciò che è in mio potere per salvare le persone che si trovano all'interno di quell'edificio. È per questo motivo che sono io, e non l'SSO, a mandare avanti lo show. Ma quegli uomini là dentro non lasceranno Crow Ridge se non in sacchi di plastica o in manette. E se ciò comporta che quegli ostaggi debbano morire, allora moriranno. Ora,
se puoi trovarmi quel volontario... un ragazzo con un buon braccio per lanciare il telefono. E poi, se vuoi essere tanto gentile, passami anche quel megafono.» MEZZOGIORNO Mentre camminava in un fosso poco profondo che alla fine sboccava sul lato sud del mattatoio, Arthur Potter disse a Henry LeBow: «Ci serviranno rapporti ingegneristici su qualsiasi modifica sia stata apportata all'edificio. Fisica e strutturale. Voglio sapere se ci sono dei tunnel». L'ufficiale informativo annuì. «Già fatto. E sto controllando anche gli edifici annessi.» «Tunnel?» domandò Budd. Potter gli raccontò del sequestro terroristico avvenuto alla villa dei Vanderbilt a Newport, nel Rhode Island, tre anni prima. L'SSO era riuscita a cogliere completamente di sorpresa i sequestratori introducendosi di soppiatto nella cantina dell'edificio passando attraverso una canna fumaria. Il magnate aveva ordinato che il forno venisse costruito lontano dalla casa affinché il fumo e il rumore non disturbassero i suoi ospiti, senza sapere che, cent'anni dopo, il suo senso del decoro avrebbe salvato le vite di quindici turisti israeliani. Potter notò che Dean Stillwell aveva riorganizzato i poliziotti e gli agenti, disponendoli in un ottimo schieramento difensivo intorno all'edificio. A metà del tragitto che lo separava dal mattatoio si fermò improvvisamente e scrutò in direzione dello scintillio dell'acqua che si intravedeva in lontananza. «Voglio che venga fermato tutto il traffico fluviale», disse a Budd. «Be', oh... quello è il fiume Arkansas.» «Così ci è stato detto.» «Voglio dire, è un fiume grande.» «Lo vedo.» «Be', perché? Sta forse pensando che abbiano dei complici pronti a venirli a prendere con le zattere?» «No.» Nel silenzio che seguì, Potter sfidò Budd ad arrivarci da solo. Voleva che l'uomo cominciasse a pensare. «Non è che teme che possano tentare di raggiungere a nuoto un'imbarcazione? Annegherebbero di sicuro. Qui le correnti sono molto forti.» «Ah, ma potrebbero comunque farsi venire la voglia di fare un tentativo.
Voglio essere sicuro che la cosa non gli passi nemmeno per la testa. Lo stesso motivo per cui ho ordinato di tenere lontani gli elicotteri.» «D'accordo», disse Budd. «Ci penserò io. Ma chi dovrei chiamare? La guardia costiera? Non credo che ci sia nulla di simile nei fiumi, da queste parti.» La sua frustrazione era evidente. «Parlo sul serio. Chi dovrei interpellare?» «Non lo so, Charlie. Dovrai scoprirlo.» Con il telefono cellulare, Budd chiamò il suo ufficio e ordinò ai propri agenti di rintracciare chiunque avesse giurisdizione sul traffico fluviale. Terminò la conversazione dicendo: «Non lo so. Dovrete scoprirlo». L'agente speciale Henderson era nell'area di servizio retrostante, là dove l'aveva assegnato Potter, a sistemare l'unità medica e a coordinare le operazioni con gli altri poliziotti e agenti che giungevano nella zona, principalmente agenti del BATF (l'ente di controllo su alcool, tabacco e armi da fuoco) e sceriffi federali, sul luogo perché c'erano state violazioni nell'uso delle armi e una fuga da un carcere federale. Le amare parole di commiato di Henderson riecheggiavano ancora nella mente di Potter. Oh, ci sarà dell'altro. Non preoccuparti. «Henry», disse a LeBow, «mentre cerchi informazioni sul nostro amico Roland Marks, controlla anche Henderson.» «Il nostro Henderson?» «Esatto. Non voglio che questo interferisca con le operazioni, ma ho bisogno di sapere se ha qualcosa in mente.» «Benissimo.» «Arthur», intervenne Budd, «stavo pensando... magari dovremmo portare qui la madre di questo tizio. La madre di Handy, voglio dire. O suo padre, suo fratello o qualcun altro.» Fu LeBow a scuotere la testa. «Perché no? Ho detto qualcosa di stupido?» «È solo che lei ha visto troppi film, capitano», rispose Henry. «Un prete o un membro della famiglia è l'ultima persona che vogliamo qui.» «E per quale motivo?» «Tanto per cominciare», spiegò Potter, «nove volte su dieci la loro famiglia è uno dei motivi principali per cui si trovano nei guai. E non ho mai conosciuto un sacerdote che riuscisse a fare qualcosa di più che infastidire un sequestratore.» Fu compiaciuto nel notare che Budd non aveva preso il suo commento come un rimprovero, ma soltanto come un'informazione aggiuntiva; sembrò immagazzinarla da qualche parte nel suo cervello pie-
no di entusiasmo. «Signore.» La voce dello sceriffo Dean Stillwell fluttuò fino a loro sulla brezza. L'uomo si avvicinò al gruppetto e si scompigliò i capelli con le dita. «Ho uno dei miei ragazzi che è pronto a fare quel tentativo con il telefono. Vieni qui, Stevie.» «Agente», lo salutò Potter con un cenno del capo, «qual è il suo nome?» «Stephen Oates. Ma quasi tutti mi chiamano Stevie.» L'uomo era alto e magro e sarebbe stato benissimo in pantaloni bianchi attillati, a masticare tabacco sul monte di lancio di un diamante da baseball. «D'accordo, Stevie. Indossa quel giubbotto antiproiettile e quell'elmetto. Dirò loro che stai arrivando. Ti arrampicherai su quella piccola altura. La vedi? Vicino al vecchio recinto degli animali. Voglio che tu stia giù e che lanci lo zainetto il più lontano possibile verso la porta principale.» Tobe gli porse la piccola sacca verdeoliva. «E che succede se colpisco quelle rocce laggiù, signore?» «È un telefono speciale, e la sacca è imbottita. A parte questo, se riesci a colpire quelle rocce dovresti dimetterti dalla polizia e fare un tentativo con la fanteria da sbarco. D'accordo, diamo inizio allo spettacolo.» Afferrò il megafono e strisciò fino in cima all'altura da dove aveva già parlato ai sequestratori la volta precedente, a circa sessanta metri di distanza dalle finestre nere del mattatoio. Si sdraiò sulla pancia e trattenne il fiato. Poi si portò il megafono alle labbra. «Sono ancora l'agente Potter. Stiamo per inviarvi un telefono. Uno dei nostri uomini lo lancerà il più possibile vicino a voi. Non è un trucco. È semplicemente un telefono cellulare. Permetterete al nostro uomo di avvicinarsi?» Nulla. «Voi, là dentro, riuscite a sentirmi? Vogliamo parlare con voi. Permetterete al nostro uomo di avvicinarsi?» Dopo una pausa interminabile di silenzio, un pezzo di stoffa gialla si agitò dietro una delle finestre. Si trattava con tutta probabilità di una risposta positiva; un «no», presumibilmente, sarebbe stato un proiettile. «Quando uscirete a prendere il telefono non vi spareremo. Su questo avete la mia parola.» Di nuovo il panno giallo. Potter rivolse a Oates un cenno del capo. «Proceda, agente.» Stevie si incamminò verso la salita erbosa, mantenendosi basso. Ciononostante, Potter si rese conto che un uomo armato di fucile, dall'interno del mattatoio, avrebbe potuto colpirlo facilmente. L'elmetto era in kevlar, ma
la visiera trasparente no. Un silenzio assoluto era calato sulle ottanta persone che ora circondavano il vecchio edificio. Si udiva soltanto il sibilo del vento e il fragore lontano del clacson di un camion. Di tanto in tanto, il rumore dei motori scoppiettanti dei grossi trattori John Deere e Massey-Ferguson riusciva a oltrepassare la spessa barriera offerta dal frumento. Era un rumore piacevole e, al tempo stesso, inquietante. Oates si arrampicò sul piccolo rialzo. Quando vi giunse, si sdraiò, lanciò una rapida occhiata intorno a sé e ricominciò a scendere dalla parte opposta. Fino a poco tempo prima, i telefoni da lanciare erano ingombranti e collegati mediante grossi cavi a quello del negoziatore. Anche il poliziotto più forte riusciva a gettarli soltanto a una decina di metri di distanza e, spesso, i cavi si impigliavano. La tecnologia cellulare aveva dato un nuovo impulso alla trattativa per gli ostaggi. Oates rotolò da un ciuffo di erba alta all'altro come un esperto stuntman. Si fermò in un cespuglio di erbacce. Poi proseguì. D'accordo, pensò Potter. Adesso lancialo. Ma l'agente non lo lanciò. Stevie guardò ancora una volta in direzione del mattatoio, quindi strisciò oltre la cunetta, oltrepassando i paletti di legno marcio e le staccionate dei recinti, e continuò ad andare avanti per una buona decina di metri. Anche un cattivo tiratore dilettante avrebbe avuto la possibilità di scegliere quale parte del corpo colpire, da quella distanza. «Che cosa sta facendo?» sussurrò Potter, irritato. «Non lo so, signore», rispose Stillwell. «Sono stato molto chiaro nelle istruzioni. So che l'agente Oates è preoccupato per quelle bambine e vuol fare ogni cosa nel modo più giusto.» «Farsi sparare addosso non è affatto il modo più giusto.» Oates proseguì verso il mattatoio. Non fare l'eroe, Stevie, pensò Potter, anche se la sua preoccupazione andava ben oltre il fatto che l'uomo potesse restare ucciso o ferito. Al contrario delle forze speciali e degli agenti del servizio segreto, i poliziotti non vengono addestrati nelle tecniche anti-interrogatorio. Nelle mani di una persona come Lou Handy armata di coltello o anche solo di una spilla da balia, Oates avrebbe vuotato il sacco, dicendo tutto ciò che sapeva nel giro di due minuti, descrivendo la posizione di ogni agente presente sul campo, rivelando che l'SSO non sarebbe arrivata che di lì a qualche ora, che tipo di armi avevano gli agenti e qualsiasi altra cosa che Handy fosse stato curioso di sapere.
Lancia quel dannato telefono! Oates raggiunse una seconda cunetta e, rapidamente, gettò un'altra occhiata alla porta del mattatoio, poi si accovacciò. Quando non udì alcuno sparo, strizzò le palpebre, portò il braccio all'indietro e lanciò il telefono con una parabola bassa e profonda. Lo zainetto imbottito oltrepassò facilmente le rocce di cui Oates era preoccupato e rotolò sull'erba, andandosi a fermare a meno di dieci metri dall'ingresso ad arco dell'edificio di mattoni rossi della Webber & Stoltz. «Eccellente», borbottò Budd, dando una pacca sulla spalla a Stillwell. Lo sceriffo sorrise con cauto orgoglio. «Forse è un buon segno», suggerì LeBow. Stevie rifiutò di dare le spalle alle finestre buie del mattatoio e, camminando all'indietro, tornò nell'erba fino a scomparire. «E adesso vediamo chi è quello coraggioso», disse Potter. «Che cosa intende dire?» domandò Budd. «Voglio sapere chi è che ha più fegato dei tre chiusi là dentro.» «Forse stanno tirando a sorte.» «No. La mia opinione è che due di loro non uscirebbero nemmeno per un milione di dollari, mentre il terzo non vede l'ora di farlo. Voglio vedere chi è. È per questo motivo che non ho chiesto specificamente di Handy.» «Scommetto che sarà lui, però», disse Budd. Invece no. La porta si aprì e a uscirne fu Shepard Wilcox. Potter lo scrutò con il binocolo. Sembrava stesse facendo una passeggiata. Guardandosi intorno, Wilcox camminò tranquillamente fino al telefono. Il calcio di una pistola gli usciva dalla cintura dei pantaloni. «Sembra una Glock», disse Potter dell'arma. LeBow scrisse l'informazione in un piccolo taccuino: un dato da trascrivere quando fosse tornato al posto di comando. Poi sussurrò: «Crede di essere un eroe». «Sembra molto sicuro di sé», osservò Budd. «Ma, del resto, suppongo che abbia tutte le carte dalla sua parte.» «Non ne ha nessuna», mormorò Potter. «Ma sia l'uno che l'altro caso ti danno tutta la sicurezza di questo mondo.» Wilcox afferrò la cinghia dello zainetto imbottito e guardò di nuovo la fila di automobili della polizia. Stava sorridendo. Budd rise. «È come se...» Lo schianto di un colpo di fucile echeggiò nello spiazzo e, con un som-
messo tump, il proiettile si conficcò nel terreno a tre metri di distanza da Wilcox. In un attimo il sequestratore impugnò la pistola e cominciò a sparare in direzione degli alberi da cui era provenuto il colpo. «No!» gridò Potter, balzando in piedi e attraversando lo spiazzo di corsa. Adoperando il megafono, si voltò verso i poliziotti accovacciati dietro le automobili; avevano estratto tutti la pistola o puntato i fucili e avevano inserito i caricatori. «Non sparate!» urlò agitando follemente le braccia. Wilcox fece fuoco due volte. Il primo colpo svanì nel cielo ricoperto di nubi. Il secondo spaccò un sasso a meno di un metro dal piede di Potter. «Non rispondere al fuoco!» stava gridando lo sceriffo Stillwell nel suo microfono. «A tutti i comandanti delle unità, non rispondere al fuoco!» Ma non lo ascoltarono. Il terriccio si sollevò intorno a Wilcox, che si buttò a terra e, con colpi accuratamente piazzati, mandò in frantumi il parabrezza di tre auto della polizia prima di ricaricare la pistola. Persino in quelle condizioni e con quella frenesia, Wilcox era un ottimo tiratore. Da una finestra del mattatoio eruttarono le esplosioni ripetute di un fucile semiautomatico; le pallottole sibilavano nell'aria. Potter rimase in piedi, in piena vista, agitando le braccia. «Fermate il fuoco!» Poi, all'improvviso, un silenzio totale cadde sul campo. Il vento svanì per un istante e sull'assembramento di uomini e di automezzi calò una cappa di immobilità assoluta. Lo strillo cupo di un uccello colmò il pomeriggio grigio. Un suono straziante, lacerante. L'odore dolciastro della polvere da sparo e del fulminato di mercurio era spesso e opprimente. Afferrando il telefono, Wilcox indietreggiò fino al mattatoio. «Scopra chi ha sparato», gridò Potter a Stillwell. «Chiunque sia stato a sparare il primo colpo... voglio vederlo immediatamente nel furgone. Quelli che hanno sparato dopo... li voglio fuori di qui, e voglio che tutti gli altri sappiano per quale motivo vengono allontanati.» «Sissignore.» Lo sceriffo annuì e si allontanò in tutta fretta. Potter, sempre in piedi, puntò il binocolo sul mattatoio, sperando di poter intravedere qualcosa dell'interno nel momento in cui Wilcox fosse entrato. Stava perlustrando con il binocolo il terreno circostante quando osservò una giovane donna che guardava dalla finestra sul lato destro dell'ingresso dell'edificio. Era bionda e sembrava avere sui venticinque anni. Guardava direttamente verso di lui. Venne distratta per un istante; si voltò verso le viscere buie del mattatoio e poi di nuovo verso il campo circostan-
te, gli occhi sgranati in un'espressione di puro terrore. La sua bocca si mosse in modo molto strano... con molta lentezza, con enfasi. Gli stava dicendo qualcosa. Potter le osservò le labbra. Non riusciva a capire il messaggio. Si voltò e passò il binocolo a LeBow. «Henry, svelto. Chi è quella donna? Hai un'idea di chi possa essere?» LeBow aveva immesso nel computer le identità degli ostaggi di cui possedevano informazioni. Ma, quando puntò il binocolo, la donna era scomparsa. Potter gliela descrisse. «La studentessa più grande ha diciassette anni. Probabilmente era una delle due insegnanti. Immagino la più giovane, Melanie Charrol. Ha venticinque anni. Nessun'altra informazione su di lei, al momento.» Wilcox tornò dentro l'edificio. Potter non vide nulla, all'interno, se non la più completa oscurità. La porta si chiuse di scatto. Il negoziatore-capo passò al vaglio le finestre ancora una volta, sperando di riuscire a scorgere di nuovo la giovane donna. Niente. Stava cercando di ripetere in silenzio il movimento della sua bocca. Labbra unite insieme, denti inferiori che toccavano il labbro superiore; nuovamente labbra unite, anche se questa volta in modo diverso, come in un bacio. LeBow gli sfiorò il gomito. «Dovremmo fare la telefonata.» Lui annuì e i due uomini tornarono in fretta verso il furgone, in silenzio, con Budd alle loro spalle che fissava infuriato uno degli agenti che aveva risposto al fuoco di Wilcox. Stillwell gli stava facendo una lavata di capo coi fiocchi. Labbra, denti, labbra. Che cosa stava cercando di dirmi? si domandò Potter. «Henry», disse. «Scrivi: 'Primo contatto con un ostaggio'.» «Contatto?» «Con Melanie Charrol.» «Qual era la comunicazione?» «Non lo so ancora. Ho visto soltanto le sue labbra muoversi.» «Be'...» «Scrivilo: 'Messaggio sconosciuto'.» «D'accordo.» «E aggiungi: 'Il soggetto è stato rimosso alla vista prima che il capo della squadra d'emergenza avesse il tempo di rispondere'.» «Sarà fatto», rispose il meticoloso agente informativo. All'interno del furgone Derek domandò che cosa era successo, ma Potter
lo ignorò. Afferrò il telefono dalle mani di Tobe Geller e lo posò sul tavolo di fronte a sé, tenendolo pensierosamente tra le mani. Guardò fuori del finestrino antiproiettile, osservando il campo, dove l'attività frenetica che era seguita alla sparatoria ora sembrava cessata del tutto. La prima linea, adesso, era silenziosa; gli agenti che avevano sbagliato tre, per la precisione - erano stati condotti via da Dean Stillwell e, nello spiazzo, gli agenti e i poliziotti rimasti erano eccitati, spaventati e felici alla prospettiva di una battaglia... Una felicità, pensò Potter, probabilmente dovuta al fatto che ce ne sono trenta di voi per ognuno di loro, perché siete coperti dietro una mezza tonnellata di lamiera di Detroit e indossate un giubbotto antiproiettile Owens-Corning, con un fucile di grosso calibro al vostro fianco, e perché la vostra mogliettina vi aspetta in un comodo bungalow con una birra ghiacciata e un pasto caldo pronti per voi. Arthur Potter osservò quel pomeriggio freddo e ventoso, un pomeriggio che serbava sentore di Halloween nell'aria a dispetto del mese estivo. Stava per cominciare. Distolse lo sguardo dal finestrino e premette il tasto di collegamento rapido sul telefono. Tobe abbassò un interruttore e diede inizio alla registrazione. Spinse un altro pulsante e il suono del telefono che squillava gracchiò da un altoparlante posto sopra le loro teste. Il telefono squillò cinque, dieci, venti volte. Potter sentì la testa di LeBow che si voltava verso di lui. Tobe incrociò le dita. Poi: Clic. «Abbiamo un contatto», sussurrò Tobe. «Sì?» disse la voce dall'altoparlante. Potter trasse un respiro profondo. «Lou Handy?» «Sì.» «Sono Arthur Potter. Sono dell'FBI. Vorrei parlare con te.» «Lou, quello sparo è stato un errore.» «Ma davvero?» Potter ascoltò attentamente la voce, solcata da un lieve accento, un accento delle montagne. West Virginia. E nella voce udì sicurezza di sé, derisione, stanchezza. Tutte e tre le cose combinate tra loro in modo tale da spaventarlo considerevolmente. «Avevamo un uomo appostato su un albero. È scivolato. Il colpo è parti-
to accidentalmente. Verrà punito.» «Avete intenzione di fucilarlo?» «È stato soltanto un incidente.» «Gli incidenti sono cose buffe», ridacchiò Handy. «Qualche anno fa ero a Leavenworth e c'era questo stronzo che lavorava nella lavanderia che si è soffocato con una mezza dozzina di calzini. Doveva essere stato per forza un incidente. Non si sarebbe mai messo a masticare calzini di proposito. E chi mai lo farebbe?» Freddo come il ghiaccio, pensò Potter. «Forse questo è stato proprio quel tipo di incidente», concluse Handy. «Si è trattato di un incidente vero e proprio, te lo posso assicurare, Lou.» «Non me ne frega poi molto di quello che è stato. Sparerò a una di loro.» «Ascoltami, Lou...» Nessuna risposta. «Posso chiamarti Lou?» «Ci avete circondati, no? Hai messo degli stronzi sugli alberi con i fucili puntati anche se non sono capaci di starsene seduti sui rami senza cadere. Immagino che tu possa chiamarmi come più cazzo ti piace.» «Ascoltami, Lou. Siamo in una situazione parecchio tesa.» «No, per me non lo è. Non mi sento affatto teso. Qui ce n'è una, piccola e biondina. Niente tette di cui valga la pena di parlare. Credo proprio che sceglierò lei.» Sta giocando con noi. Ottanta su cento che sta bluffando. «Lou, Wilcox era in piena vista. Il nostro agente era a soltanto ottanta metri di distanza, con un M-16 dotato di mirino telescopico. Quei tiratori sono in grado di fare secco un uomo a mille metri di distanza, se devono; questo lo sai.» «Ma là fuori c'è un sacco di vento. Forse il vostro ragazzo non ha fatto bene i calcoli di compensazione.» «Se avessimo voluto far fuori il tuo uomo, a quest'ora sarebbe morto.» «Non me ne frega niente, te lo ripeto. Incidente o no», ringhiò, «mi tocca insegnare ai tuoi un po' di buone maniere.» Il fattore bluff era calato al sessanta percento. Stai calmo, si disse Potter. Con la coda dell'occhio osservò il giovane Derek Elb asciugarsi i palmi delle mani sui pantaloni e infilarsi in bocca una gomma da masticare. Budd camminava irritato avanti e indietro, guardando fuori del finestrino. «Facciamo che sia stato un errore, Lou, e continuiamo a parlare di ciò di
cui dobbiamo parlare.» «Parlare?» Sembrava davvero sorpreso. «E di che cosa dobbiamo parlare?» «Oh, di un sacco di cose», disse Potter in tono lieve. «Prima di tutto, là dentro state tutti bene? Avete qualche ferita? Qualcuno si è fatto male?» Il suo istinto gli diceva di domandare esplicitamente delle ragazze, ma i negoziatori non tentano mai di parlare degli ostaggi, se possibile. È necessario far credere ai sequestratoti che i loro prigionieri non hanno alcun peso contrattuale. «Shep è un po' fuori posto, come sicuramente potete immaginare anche voi, ma, a parte questo, tutti gli altri sono sani come pesci. Naturalmente, rifammi la domanda tra cinque minuti. Una di loro non starà più tanto bene.» Che cosa mi ha detto quella donna? si domandò Potter. Visualizzò nuovamente il suo volto. Labbra, denti, labbra... «Avete bisogno del pronto soccorso?» «Sì.» «Che cosa?» «Un elicottero del servizio sanitario.» «Mi sembra una pretesa un po' esagerata, Lou. Stavo pensando magari a delle bende o a della morfina o a qualcosa del genere. Del disinfettante.» «Morfina? Non è che ci stordirebbe tutti un po' troppo? Ci scommetto che la cosa non ti dispiacerebbe, eh?» «Oh, non ve ne manderemmo abbastanza per drogarvi, Lou. Allora, avete bisogno di niente?» «Sì, ho bisogno di sparare a qualcuno, ecco di che cosa ho bisogno. La piccola biondina qui. Gli piazzo un proiettile in mezzo alle tette che non ha.» «Adesso come adesso non servirebbe a nessuno fare una cosa simile, non trovi?» Gli piace parlare, stava pensando Potter. È instabile, ma gli piace parlare. Questo è sempre il primo ostacolo, che a volte si rivela insormontabile. Quelli silenziosi sono i più pericolosi. Potter reclinò il capo e si preparò ad ascoltare attentamente. Doveva entrare nella mente di Handy. Entrare nei suoi schemi di discorso, tentare di immaginare che cosa avrebbe detto e come lo avrebbe detto. Avrebbe giocato quella partita per tutta la notte fino al momento in cui, con la faccenda risolta in un modo o nell'altro, una parte di lui sarebbe stata Louis Jeremiah Handy.
«Come hai detto che ti chiami?» domandò Lou. «Arthur Potter.» «Ti chiamano Art?» «Arthur, in effetti.» «Non hai informazioni su di me?» «Qualcosa. Non molto.» Spontaneamente Potter pensò: Ho ucciso una guardia durante la fuga. «Ho ucciso una delle guardie, mentre stavamo scappando. Non lo sapevi?» «Sì, lo sapevo.» Potter pensò: Quindi, la ragazzina senza tette non significa un cazzo per me. «Quindi uccidere 'sta bambina, la piccola biondina qui, non significa niente per me.» Potter premette il pulsante muto, che tagliò la sua voce senza che all'altro capo del filo si udisse nulla. «Di chi sta parlando?» domandò a LeBow. «Quale ostaggio? Bionda, dodici anni o meno?» «Non lo so ancora», rispose l'agente informativo. «Non riusciamo a dare un'occhiata decente all'interno dell'edificio e non abbiamo informazioni sufficienti.» Potter riprese a parlare al telefono: «Perché vuoi far male a qualcuno, Lou?» Adesso cambierà argomento, immaginò. Invece Handy disse: «E perché no?» In teoria Potter sapeva che avrebbe dovuto parlare di cose frivole, tentando di allungare il più possibile la conversazione, prendendo lentamente il sopravvento sull'uomo e facendolo ridere. Cibo, sport, il tempo, le condizioni all'interno del mattatoio, le bibite. Non si parla mai con i sequestratori dell'accaduto, almeno non inizialmente. Ma stava valutando il rischio che Handy stesse per uccidere la bambina, e il livello di bluff era ormai sceso al trenta percento; non poteva permettersi di chiacchierare di hamburger e di baseball. «Lou, non credo che tu voglia uccidere qualcuno.» «E come fai a saperlo?» Potter si sforzò di ridacchiare. «Be', se cominci a uccidere gli ostaggi, dovrò concludere che hai in mente di ucciderli tutti comunque. E quello è il momento in cui manderei la nostra squadra di soccorso a tirarvi fuori tutti.»
Handy stava ridendo sommessamente. «Sempre che ci siano, i ragazzi della squadra.» Potter e LeBow si scambiarono uno sguardo accigliato. «Oh, sì che ci sono», rispose, poi indicò con un cenno del capo la parte del foglio contrassegnato dalla scritta Inganni. LeBow vi scrisse Detto a Handy che l'SSO è già sul posto. «Mi stai chiedendo di non ucciderla?» «Ti sto chiedendo di non uccidere nessuno.» «Non lo so. Dovrei farlo, non dovrei farlo? Sai che cosa succede, a volte, quando semplicemente non sai quello che vuoi? Una pizza oppure un panino? È che proprio non riesci a deciderti.» Il cuore di Potter mancò un battito; aveva l'impressione che Lou fosse sincero, che davvero non fosse capace di decidere ciò che avrebbe dovuto fare e che, se avesse risparmiato la vita della ragazza, non sarebbero state le sue parole ragionevoli a salvarla ma un puro e semplice capriccio di Handy. «Lou, mi scuso con te per il colpo di fucile. Ti do la mia parola che non accadrà più nulla del genere. In cambio di questo, acconsentiresti a non sparare a quella ragazza?» È furbo, calcolatore, non smette mai di pensare, concluse tra sé. In Lou Handy non c'era nulla di psicotico che lui potesse identificare. Scrisse QI? su un foglio di carta e lo spinse verso LeBow. Non l'abbiamo. Dal telefono provenne il canto a mezza voce di Handy. Era una canzone che Potter aveva sentito molto tempo prima. Non riusciva a ricordarla. Poi, dall'altoparlante, giunse la voce amplificata dell'uomo. «Magari aspetterò.» Potter emise un sospiro di sollievo. LeBow alzò i pollici in segno di incoraggiamento e Budd sorrise. «Lo apprezzo molto, Lou. Davvero. Come state a cibarie?» Stai scherzando? immaginò Potter. «Che cosa sei? Prima fai il poliziotto, poi giochi a fare l'infermiera, e adesso mi diventi un cazzo di cameriere?» «Voglio soltanto fare in modo che là dentro stiate tutti bene, che vi sentiate a vostro agio. Se volete, vi faccio avere qualche panino e delle bibite. Cosa ne dici?» «Non abbiamo fame.» «La notte potrebbe essere lunga.» Due possibilità: o il silenzio, oppure Non sarà lunga affatto.
«Non pensare che sarà tanto lunga. Ascoltami bene, Art. Puoi chiacchierare e parlarmi di cibo, di medicine e di qualsiasi altra stronzata che ti viene in mente. Ma il fatto è che noi abbiamo delle cose che vogliamo e sarà molto meglio per tutti se riusciamo ad averle senza troppi casini, altrimenti comincio a ucciderle. Una dopo l'altra.» «D'accordo, Lou. Dimmi quali sono queste cose.» «Dobbiamo prima parlarne tra di noi. Poi ci rimetteremo in contatto.» «Noi chi, Lou?» «Ah, merda, lo sai benissimo, Art. Ci siamo io e Shep e i miei due fratelli.» LeBow sfiorò il braccio di Potter e gli indicò lo schermo del computer: Handy ha due fratelli. Mandato di cattura pendente per Robert, 27 anni. LKA, Seattle; non si è presentato al processo per rapina ed è fuggito, uscendo dalla giurisdizione del tribunale. Il fratello più vecchio, Rudy, 40 anni, è stato ucciso cinque anni fa. Sei colpi d'arma da fuoco alla nuca, assalitore sconosciuto. Handy è stato sospettato dell'omicidio, ma non è mai stato accusato formalmente. Potter pensò alle linee sottili che tracciava sulle sue mappe genealogiche. Che aspetto avrebbe avuto l'albero di Lou Handy? Da chi discendeva? Quale sarebbe stata la sua linea di sangue? «I tuoi fratelli, Lou?» chiese. «Ho capito bene? Sono là dentro con te?» Una pausa. «Loro e i quattro cugini di Shep.» «C'è un sacco di gente, là dentro. Qualcun altro?» «Doc Holliday e Bonnie & Clyde e Ted Bundy e una camolata di membri della gang di Mortal Kombat, più Luke Skywalker. E lo spettro affamato di Jeffrey Dahmer.» «Forse faremmo meglio ad arrenderci noi a te, Lou.» Handy rise di nuovo. Potter era compiaciuto del frammento di rapporto che era riuscito a stabilire. E, soprattutto, di essere riuscito a pronunciare la parola magica, «arrendersi», impiantandola nei pensieri del sequestratore. «Il mio nipotino colleziona fumetti di supereroi», proseguì. «Un autografo lo farebbe letteralmente impazzire. Non è che per caso là dentro c'è anche l'Uomo Ragno?» «Potrebbe esserci.» Il fax cominciò a ronzare e una serie di fogli uscì dal rullo. LeBow li
prese e li scorse rapidamente, si soffermò su uno di essi e poi vi scrisse in cima OSTAGGI. Indicò a Potter il nome di una ragazza, seguito da un paragrafo di testo scritto a mano. Erano i primi dati in arrivo da parte di Angie Scapello. La negoziazione di ostaggi è l'arte di mettere alla prova i limiti, per vedere quanto in là ci si può spingere. Potter lesse il fax e notò qualcosa. In tono casuale, disse: «Senti, Lou, vorrei chiederti una cosa. Una di quelle bambine là dentro ha dei seri problemi di salute. La lasceresti andare?» Era sorprendente come, a volte, richieste dirette e esplicite come quella funzionassero. Fai una domanda e rimani in silenzio. «Davvero?» Handy sembrava preoccupato. «Malata, eh? Qual è il problema?» «Asma.» Forse lo scambio di battute e la chiacchierata sui supereroi avevano avuto un qualche effetto. «Quale ragazza è?» «Quattordici anni, capelli biondi corti.» Potter rimase in ascolto del rumore di fondo - nient'altro che vuoto mentre Handy (almeno così immaginava) osservava gli ostaggi. «Se non prende la sua medicina, potrebbe morire», continuò. «Tu la lasci andare, tu fai questo per me, e quando arriveremo alla trattativa seria me ne ricorderò. Anzi, ti dico di più, lasciala andare e vi faremo avere un po' di elettricità. Un po' di luce.» «Ci darete l'energia elettrica?» domandò Handy, tanto bruscamente da far sussultare Potter. «Abbiamo già controllato. L'edificio è troppo vecchio. Non ha i cavi adatti per la corrente elettrica moderna.» Potter indicò la lavagna degli Inganni e LeBow lo scrisse. «Ma possiamo far arrivare un cavo nell'edificio con qualche lampada.» «Fallo e poi ne parliamo.» L'equilibrio del potere si stava spostando sottilmente dalla parte di Handy. Era il momento di essere duri. «D'accordo. Mi sembra abbastanza giusto. Adesso ascoltami, Lou. Devo avvertirti. Non tentate di uscire dall'edificio. Ci sono dei cecchini che vi aspettano. All'interno siete al sicuro.» Si arrabbierà, anticipò Potter. Qualche imprecazione. Oscenità e maledizioni. «Oh, io sono al sicuro dovunque», sussurrò Handy al telefono. «I proiettili mi passano attraverso. Sono invulnerabile. Quando avrò quelle luci?»
«Dieci minuti, quindici. Dacci Beverly, Lou. Se lo fai...» Clic. «Maledizione», borbottò Potter. «Sei stato un po' troppo impaziente, Arthur», disse LeBow. Potter annuì. Aveva commesso il classico errore di trattare contro se stesso. Bisogna aspettare sempre che sia la controparte a chiederti qualcosa. Comprensibilmente, aveva spinto quando aveva avvertito l'esitazione di Handy e, così facendo, aveva alzato la posta lui stesso. Ma, in questo modo, aveva spaventato il venditore. Ciononostante, a un certo punto avrebbe dovuto affrontare comunque quel tipo di prova. I sequestratori di ostaggi possono essere spinti fino a una certa distanza e comprati fino a un certo punto. Metà della battaglia consisteva nello scoprire quanto lontano potevano essere spinti e quando era il momento di farlo. Potter chiamò Stillwell e gli disse che aveva avvertito i sequestratori di non lasciare il mattatoio. «Lei ha via libera nelle operazioni di contenimento, nelle modalità che abbiamo discusso.» «Sissignore», rispose Stillwell. «Quanto ci vorrà per avere quel camion con il generatore?» domandò poi a Budd. «Dovrebbe essere qui tra dieci minuti.» Il capitano stava guardando fuori del finestrino. «Che cosa c'è, Charlie?» «Oh, niente. Stavo solo pensando che ha fatto una gran cosa, poco fa. Convincerlo a non sparare alla ragazzina.» Lui ebbe la sensazione che nella mente di Budd ci fosse qualcos'altro, ma disse soltanto: «Oh, è stato Handy a decidere di non spararle. Io non c'entro nulla. Il problema è che ancora non so per quale motivo ha deciso di non farlo». Potter aspettò cinque minuti, poi premette il pulsante di chiamata rapida. Il telefono squillò un milione di volte. «Ti dispiacerebbe abbassare un po' il volume, Tobe?» e indicò con un cenno del capo l'altoparlante sopra di lui. «Certo... Okay, collegamento.» «Sì?» latrò Handy. «Lou, avrete un cavo per la corrente elettrica nel giro di dieci minuti.» Silenzio. «Che mi dici della ragazza, Beverly?» «Non potete averla», rispose Handy bruscamente, quasi fosse sorpreso
che Potter non ci fosse già arrivato da solo. Un lungo istante di silenzio. «Pensavo che avessi detto che, se aveste avuto la corrente...» «Ci ho pensato. Ci ho pensato, e non avrete la ragazza.» Mai farsi trascinare in bisticci senza soluzione. «Bene, hai pensato anche a quello che vogliono i tuoi amici?» «Ti richiamerò per dirtelo, Art.» «Stavo sperando...» Clic. «Collegamento terminato», annunciò Tobe. Stillwell scortò l'agente all'interno del furgone di comando. Era un uomo giovane e baldanzoso. Appoggiò l'arma da fuoco accanto alla portiera, con la sicura inserita, e si avvicinò a Potter. «Mi dispiace, signore. Ero su questo ramo e c'è stata una raffica di vento, e io...» «Vi era stato detto di togliere il colpo in canna», sbottò Potter seccamente. Il poliziotto si mosse a disagio e si guardò intorno. «Forza», lo incitò Stillwell, che sembrava un po' ridicolo con l'ingombrante giubbotto antiproiettile sotto la sua corta giacca, «di' all'agente Potter quello che hai detto a me.» L'uomo guardò freddamente lo sceriffo, evidentemente infastidito dalla nuova gerarchla di comando. Poi si rivolse a Potter: «Non ho mai ricevuto quell'ordine. Ho avuto l'arma carica e pronta a sparare fin dall'inizio. Per noi è la norma, signore». Stillwell fece una smorfia, ma dichiarò: «Mi assumerò io la responsabilità, signore». «Oh, ragazzi...» Charlie Budd fece un passo avanti. «Signore», disse rivolgendosi formalmente a Potter. «Devo dirle... è colpa mia. Soltanto mia.» Potter gli rivolse un cenno interrogativo. «Non ho detto ai cecchini di togliere il colpo in canna. Avrei dovuto farlo, come lei mi aveva ordinato. Il fatto è che ho concluso che non avevo intenzione di avere dei poliziotti sul campo privi di protezione. È colpa mia. Non di quest'uomo. Non di Dean.» Potter ci rifletté, quindi si rivolse al cecchino. «Lei si allontanerà dalla zona e presterà assistenza nell'area di servizio retrostante. Si presenti a
rapporto dall'agente speciale Henderson.» «Ma sono scivolato, signore. Non è stata colpa mia. È stato un incidente.» «Non ci sono incidenti nelle mie postazioni di sbarramento», rispose freddamente lui. «Ma...» «Questo è tutto, agente», lo interruppe Stillwell. «Hai sentito quali sono i tuoi ordini. Puoi andare.» L'uomo recuperò il fucile e uscì dal furgone come una furia. «Farò anch'io la stessa cosa, signore», disse Budd. «Mi dispiace. Davvero. Dovrebbe tenere qui Dean ad assisterla. Io...» Potter prese da parte il capitano e, con la voce ridotta a poco più di un sussurro, gli disse: «Ho bisogno del tuo aiuto, Charlie. Ma ciò che hai fatto è stato un atto dettato da un tuo giudizio personale. Non è questo che mi serve da te. Intesi?» «Sissignore.» «Vuoi ancora far parte della squadra?» Budd annuì lentamente. «D'accordo, adesso vai là fuori e dà a tutti l'ordine di togliere il colpo in canna.» «Signore...» «Arthur. Dammi pure del tu.» «Devo andare a casa e guardare mia moglie negli occhi e dirle che ho disobbedito a un ordine diretto di un agente dell'FBI.» «Da quanto tempo siete sposati?» «Tredici anni.» «Vi siete conosciuti alle medie?» Budd fece un sorriso stentato. «Come si chiama?» «Meg. Margaret.» «Avete figli?» «Due bambine.» L'espressione di Budd rimaneva contrita. «Adesso vai. Fa' ciò che ti ho chiesto», disse Potter guardandolo negli occhi. Il capitano sospirò. «Lo farò, sissignore. Non capiterà più.» «Tieni giù la testa.» Potter sorrise. «E non delegare a nessuno questo compito, Charlie.» «Nossignore. Controllerò personalmente.»
Stillwell, comprensivo, guardò Budd che, con la coda tra le gambe, usciva dal furgone. Tobe stava impilando alcune audiocassette. Tutte le conversazioni con i sequestratori sarebbero state fissate su nastro. Il registratore era un apparecchio speciale con incorporato un delay di due secondi, in modo che una voce elettronica aggiungesse l'indicazione oraria minuto per minuto sulla registrazione senza bloccare la conversazione. Tobe sollevò lo sguardo verso Potter. «Chi è che ha detto: 'Ho incontrato il nemico, e siamo noi'. Era Napoleone? O forse Eisenhower? O qualcun altro?» «Credo che si trattasse di Pogo», rispose Potter. «Chi?» «Un fumetto», disse Henry LeBow. «Prima che tu nascessi.» 12,33 La stanza si stava facendo buia. Era soltanto il primo pomeriggio, ma il cielo si era riempito di nubi violacee e le finestre del mattatoio erano piccole. C'è bisogno di quella corrente e ce n'è bisogno ora, pensò Lou Handy sbirciando faticosamente nella penombra. L'acqua sgocciolava e pesanti catene arrugginite pendevano dalle ombre del soffitto. Ganci ovunque e nastri trasportatori sopra la sua testa. C'erano macchinari arrugginiti che assomigliavano a pezzi di un'automobile che, prima di venire scagliata al suolo, fosse servita da trastullo a un gigante. Un gigante, rise tra sé. Di che cosa diavolo sto parlando? Si aggirò per lo stanzone al piano terra. Strano posto, quello. Come sarà guadagnarsi da vivere ammazzando animali? si chiese. Handy aveva fatto una decina di lavori diversi. Tutti lavori manuali, che ti facevano sudare. Nessuno gli aveva mai permesso di manovrare macchinari sofisticati, la qual cosa avrebbe raddoppiato o triplicato il suo salario. I suoi impieghi finivano sempre dopo un mese o due. Discussioni con il caporeparto, rimproveri, risse, sbronze negli spogliatoi. Non aveva la pazienza di aspettare persone che non erano in grado di capire che lui non era uno che stava nella media. Lui era speciale. Nessuno, mai un cazzo di nessuno al mondo era riuscito a capirlo. Il pavimento era di legno, solido come cemento. Assi di quercia splendidamente assemblate. Handy non era un artigiano, come lo era stato Rudy,
ma era in grado di apprezzare un buon lavoro. Suo fratello, per vivere, costruiva e metteva in posa pavimenti. All'improvviso, si sentì furioso con quello stronzo di Potter. Per qualche motivo l'agente gli aveva riportato Rudy alla memoria. La cosa lo rendeva furioso, gli faceva venir voglia di pareggiare i conti. Camminò fino alla stanza dove avevano messo gli ostaggi. Era un locale semicircolare, con pareti piastrellate in porcellana bianca, privo di finestre. Il canaletto di scolo per il sangue. Handy immaginò che, se qualcuno avesse sparato un colpo di pistola al centro della stanza, lo schianto sarebbe stato tanto forte da far saltare i timpani. Cosa che non ha molta importanza per queste piccole, pensò. Le guardò attentamente. Curioso: quelle ragazze - o almeno la maggior parte di loro erano proprio carine. Quella più grande specialmente, quella con i capelli neri. Quella che ricambiava il suo sguardo con quell'espressione da va' all'inferno bastardo. Quanti anni aveva: diciassette, diciotto? Handy le sorrise. Lei lo ricambiò con un'occhiata di disprezzo. Guardò le altre ragazze. Sì, erano proprio carine. La cosa lo sorprendeva. Erano scherzi di natura, e ti saresti immaginato che avessero un'aria un po' grossolana, come tutti i ritardati... eppure, non importa quanto siano carine, in loro c'è sempre qualcosa di sbagliato, qualcosa che non quadra, qualcosa fuori posto. Ma no, hanno l'aria normale. Ma, dannazione, piangono un casino. Quella era una cosa irritante sul serio... quel suono che gli usciva dalla gola. Sono fottutamente sorde... non dovrebbero fare questi cazzo di versi! D'un tratto, nella sua mente, Lou Handy vide suo fratello. Il minuscolo puntino rosso che appariva là dove il cranio di Rudy si congiungeva alla spina dorsale. E poi altri puntini, la piccola pistola che gli rinculava tra le dita. Il brivido che aveva percorso le spalle di suo fratello mentre si irrigidiva, ballava una danza breve e macabra e crollava a terra morto. Handy decise che odiava Art Potter ancor più di quanto avesse pensato. Tornò da Wilcox e Bonner, trasse il telecomando dalla sacca di tela e fece un rapido giro di canali sul minuscolo televisore portatile alimentato a batterie posato su un vecchio bidone di olio lubrificante. Tutte le emittenti locali e uno dei network principali stavano parlando di loro. Un commentatore disse che quello sarebbe stato il quarto d'ora di gloria di Lou Handy, qualsiasi cosa ciò significasse. La polizia aveva trattenuto i giornalisti a tale distanza dal luogo dell'azione che Handy non riuscì a vedere sullo schermo nulla che gli potesse essere utile. Si ricordò del caso di O.J. Sim-
pson; aveva guardato in televisione la Bronco bianca che percorreva l'autostrada e parcheggiava davanti alla casa dell'uomo. Gli elicotteri erano abbastanza vicini da permettere agli spettatori di vedere le facce del tizio che guidava la macchina e del poliziotto che lo aspettava nel vialetto d'accesso della casa. Con tutti i bianchi nella sala TV della prigione che pensavano: Speriamo che ti salti il cervello, negro! E tutti i neri che pensavano: Vai, O.J.! Siamo tutti con te! Handy abbassò il volume del televisore. Che posto del cazzo, pensò, guardandosi intorno. L'edificio puzzava di carogna. Una voce lo fece sussultare: «Lasciatele andare. Tenete me». Handy si incamminò verso la stanza piastrellata. Si accovacciò e guardò la donna. «E tu chi sei?» «Sono la loro insegnante.» «E sei capace di fare il linguaggio dei segni, vero?» «Sì.» La donna lo fissò con sguardo di sfida. «Uh», disse Handy. «Strana roba.» «La prego, le lasci andare. Tenga me al posto loro.» «Sta' zitta», sbottò lui, e si allontanò. Guardò fuori della finestra. Un grosso furgone della polizia era parcheggiato sulla cima di una bassa collina. Handy era pronto a scommettere che Potter era proprio là dentro. Prese la pistola dalla tasca e mirò un quadrato giallo sulla fiancata dell'automezzo. Compensò la distanza e il vento. Abbassò la pistola. «Potevano farti secco, se ne avevano voglia», gridò a Wilcox. «È quello che mi ha detto lui.» Anche Wilcox stava guardando da una finestra. «Ce ne sono tanti», disse in tono pensieroso. Poi: «Chi era quello? Lo stronzo con cui stavi parlando.» «FBI.» «Oh, maledizione», esclamò Bonner. «Vuoi dire che là fuori c'è un Feebie?» «Era una prigione federale quella da cui siamo scappati. Chi cazzo credevi che ci mettessero alle calcagna?» «Tommy Lee Jones», borbottò l'uomo tenendo lo sguardo fisso sull'insegnante per un lungo attimo. Poi spostò gli occhi sulla bambina con il vestito a fiori e le calze bianche. Handy vide il suo sguardo. Quel figlio di puttana. «Non esiste, Sonny. Vedi di tenerlo dentro quei jeans puzzolenti che hai addosso, mi hai sentito bene? Altrimenti lo perderai.»
Bonner grugnì. Quando veniva accusato di fare proprio ciò di cui era colpevole, perdeva sempre la calma. Si chiudeva come un riccio. «'Fanculo.» «Spero proprio di aver aperto a qualcuno di quelli un nuovo buco del culo», disse Wilcox con quella sua voce pigra e indifferente che era uno dei motivi per cui piaceva a Handy. «Allora, che cosa abbiamo?» domandò Lou. Fu Wilcox a rispondere. «I due fucili. Circa quaranta munizioni. Una Smitty con soltanto sei proiettili. Anzi, cinque. Ma abbiamo le Glock e tante munizioni, lì. Trecento proiettili.» Handy prese a camminare avanti e indietro sul pavimento del mattatoio, oltrepassando le pozzanghere d'acqua stagnante. «Quel maledetto piagnucolio sta cominciando a darmi sui nervi!» sbottò. «Mi sta fottendo il cervello. La bambina. Quella grassa. Guardatela. E poi non so che cosa cazzo sta succedendo là fuori. Quell'agente dell'FBI mi è sembrato troppo viscido. Non mi fido di lui. Sonny, tu stai qui con le nostre bambine. Shep e io andremo a dare un'occhiatina in giro.» «Che mi dici del gas lacrimogeno?» Bonner guardò fuori della finestra perplesso. «Dovremmo avere qualche maschera.» «Se buttano dentro i lacrimogeni», gli spiegò Handy, «non devi fare altro che pisciare sulle bombolette.» «Funziona? Si riesce a fermarlo?» «Già.» «Chi l'avrebbe mai detto.» Handy lanciò un'occhiata nell'altra stanza. L'insegnante più anziana ricambiò il suo sguardo con occhi acquosi. Un'espressione un po' di sfida, un po' di qualcos'altro. «Come ti chiami?» «Donna Harstrawn. Io...» «Dimmi, Donna, e lei come si chiama?» domandò lentamente, indicandole la studentessa più grande, quella carina con i capelli neri lunghi. Prima che la donna potesse rispondere, la ragazza lo fissò e gli mostrò il medio alzato. Handy esplose in una risata fragorosa. Bonner fece un passo avanti, sollevando il braccio minacciosamente. «Tu, piccola merda.» Donna si parò di fronte alla ragazza, che ritrasse i pugni sogghignando. Le bambine emisero i loro orribili versi da uccellini e l'insegnante bionda, spaventata, sollevò una mano in un cenno implorante.
Handy afferrò la mano di Bonner e la scostò bruscamente. «Non colpirle a meno che non te lo dica io.» Indicò di nuovo la ragazza e domandò all'insegnante: «Come cazzo si chiama?» «Susan. La prego, vorrebbe...» «E lei?» e indicò l'insegnante più giovane. «Melanie.» Melanie. Era lei che l'aveva fatto veramente incazzare. Quando l'aveva sorpresa a guardar fuori della finestra appena dopo la sparatoria, l'aveva afferrata per un braccio e lei era andata fuori di testa, aveva perso il controllo. Lui le aveva permesso di vagabondare in giro perché sapeva che non avrebbe creato guai. Inizialmente aveva addirittura pensato che fosse divertente, con lei impaurita come un topolino. Poi la cosa l'aveva fatto infuriare - quella luce tremebonda nei suoi occhi che gli faceva venir voglia di battere un piede a terra soltanto per vederla sussultare. Lo faceva sempre incazzare vedere una donna completamente priva di spirito. Quella piccola cagna era l'esatto opposto di Pris. Oh, gli sarebbe piaciuto vederle litigare, quelle due. Pris avrebbe tirato fuori il coltello che a volte portava nascosto nel reggiseno - la lama calda contro la sua tetta sinistra -, l'avrebbe aperto e le sarebbe saltata addosso. La biondina si sarebbe sporcata i pantaloni dalla paura. Sembrava molto, molto più giovane di quella Susan. Susan. Lei sì che gli interessava, la piccola Suze. La buona vecchia Donna aveva un paio di occhi acquosi che non gli dicevano niente, e l'insegnante più giovane aveva uno sguardo spaventato che nascondeva qualsiasi cosa. Ma Miss Adolescente, qui... be', i suoi occhi dicevano molte cose e a lei non importava che lui riuscisse a capirle. Handy immaginò che fosse più furba e astuta delle altre due messe insieme. E più audace. Come Pris, pensò con approvazione. «Susan», disse lentamente, scandendo le sillabe. «Tu mi piaci. Hai del fegato. Non hai la minima idea di che cazzo sto dicendo, ma mi piaci.» Poi si rivolse all'insegnante più anziana: «Diglielo». Dopo una pausa, Donna si rivolse alla ragazza e le fece una serie di gesti. Susan guardò freddamente Handy e rispose. «Che cosa ha detto?» ringhiò l'uomo. «Ha detto per favore di lasciar andare le bambine.» Lui afferrò i capelli della Harstrawn e li strattonò con forza. Un'altra sel-
va di strida di uccello. Melanie scosse la testa, con le lacrime che le scorrevano sulle guance. «Che cazzo ha detto?» «Ha detto: 'Va' all'inferno'.» Handy tirò con più forza; ciocche di capelli tinti gli rimasero tra le dita. Donna gemette di dolore. «Ha detto», annaspò, «ha detto: 'Sei uno stronzo'.» Lui rise forte e spinse l'insegnante sul pavimento. «La prego», supplicò lei. «Le lasci andare. Le bambine. Tenga me. Che differenza fa se ha un ostaggio invece che sei?» «Perché, stupida puttana, posso ucciderne un paio e averne ancora qualcuna di riserva.» Donna Harstrawn trattenne il fiato e si affrettò a distogliere lo sguardo, come se fosse appena entrata in una stanza e avesse visto un uomo nudo che le faceva una smorfia. Handy si avvicinò a Melanie. «Anche tu pensi che io sia uno stronzo?» L'altra insegnante cominciò a muovere le mani, ma Melanie rispose prima che la donna le avesse posto la domanda. «Che cosa ha detto?» «Ha detto: 'Perché vuoi farci del male, Bruto? Noi non ti abbiamo fatto niente'.» «Bruto?» «È così che la chiama.» Bruto. Gli suonava familiare, ma non ricordava dove l'avesse già sentito. Si accigliò. «Dille che conosce già la risposta alla sua domanda.» Mentre si incamminava verso l'uscita, gridò: «Ehi, Sonny, sto imparando il linguaggio dei gesti. Ti faccio vedere». Bonner sollevò lo sguardo. Handy gli mostrò il medio. I tre uomini scoppiarono a ridere, poi Handy e Wilcox si incamminarono lungo il corridoio che portava sul retro del mattatoio. Mentre esploravano il labirinto di anditi e stanze di macellazione, domandò a Wilcox: «Pensi che si comporterà bene?» «Sonny? Merda, credo di sì. In qualsiasi altro momento gli sarebbe stato addosso come un segugio. Ma non c'è niente come avere cento poliziotti armati fuori dalla porta di casa tua per farti ammosciare il pisello. E questi che cazzo ci fanno, lì?» Wilcox stava guardando i macchinari, i lunghi tavoli, i nastri trasportatori. «Tu che ne pensi?» «Non lo so.»
«È un fottuto mattatoio.» «È questo che vuol dire 'lavorazione'?» «Già. Sparagli e sventrali. Lavorazione.» Wilcox indicò un vecchio macchinario. «E quello cos'è?» Handy si avvicinò e lo guardò da vicino. Poi sogghignò. «Merda. È un vecchio motore a vapore. Accidenti, ma guardalo.» «E per che cosa lo usavano, qui?» «Be'», gli spiegò Handy, «questo è uno dei motivi per cui il mondo è andato in merda. A quei tempi, vedi, quella era una turbina.» Indicò un vecchio ingranaggio arrugginito ricoperto da lame simili a quelle di un ventilatore. «Era così che funzionavano le cose. Questo girava e faceva delle cose. Era l'età del vapore, ed era simile all'età del gas. Poi siamo entrati nell'era dell'elettricità e, improvvisamente, non riesci più a vedere troppo bene perché le cose funzionano. Puoi vedere il vapore e il fuoco, ma non puoi vedere l'elettricità fare qualcosa. È questo che ci ha portato alla seconda guerra mondiale. E adesso siamo nell'era dell'elettronica. Roba di computer e tutto il resto ed è fottutamente impossibile vedere come funzionano le cose. Puoi metterti a guardare un microchip e non vedere un accidente, anche se quello sta facendo proprio quello che dovrebbe fare. Abbiamo perso il controllo.» «È andato un po' tutto a puttane.» «Che cosa? La vita o quello che sto dicendo?» «Non lo so. So solo che mi sembra tutto incasinato. La vita, immagino.» Emersero in uno stanzone enorme e buio. Doveva essere stato il magazzino. Qualcuno aveva sbarrato o chiuso le porte che davano all'esterno. «Possono sfondarle», disse Wilcox. «Un paio di cariche e le fanno saltare.» «Possono anche buttarci addosso una bomba atomica. In entrambi i casi quelle bambine muoiono. Se è questo quello che vogliono, è questo che avranno.» «Montacarichi?» «Non possiamo farci molto, per quello», osservò Handy considerando il grosso montacarichi di servizio. «Se vogliono entrare da lì, al massimo riusciamo a far fuori i primi cinque o sei. Sai, il collo. Mira sempre al collo.» Wilcox lo guardò e poi gli chiese: «E allora, che cosa stai pensando?» Ho davvero quell'espressione nello sguardo, pensò Handy. Pris me lo dice sempre. Maledizione, gli mancava proprio. Aveva voglia di sentire l'o-
dore dei suoi capelli, ascoltare il tintinnio del suo braccialetto quando cambiava le marce dell'automobile, voleva sentirla sotto di lui mentre scopavano sul tappeto liso del suo appartamento. «Restituiamogliene una», disse. «Una delle ragazze?» «Già.» «Quale?» «Non lo so. Quella Susan, forse. È una tipa a posto. Mi piace.» «Voterei per lei», borbottò Wilcox. «Non è una cattiva idea toglierla dagli occhi di Bonner. Prima di sera sarà già lì ad annusarle la fessurina. O forse quell'altra, Melanie.» «No», disse Handy, «lei teniamocela. Dobbiamo poter contare su quelle più deboli.» «Vero.» «Okay, allora sarà Susan», decise Handy. Rise. «Non ci sono molte ragazze in giro che possono guardarmi dritto negli occhi e dirmi che sono uno stronzo.» Melanie teneva un braccio stretto intorno alle spalle di Kielle, che erano stranamente muscolose per essere quelle di una bambina di soli otto anni. Si allungò ancora un poco e accarezzò il braccio di una delle due gemelle. Le bambine erano raggomitolate tra lei e Susan, e Melanie confessò a se stessa, sia pure con riluttanza, che il suo gesto aveva soltanto parzialmente lo scopo di rassicurare le ragazze; lei desiderava anche conforto per se stessa, il conforto di essere vicina alla sua allieva prediletta. Le mani le tremavano ancora. Aveva perso il controllo dei nervi quando Bruto l'aveva afferrata per un braccio, poco prima, mentre stava guardando fuori della finestra, intenta a inviare il suo messaggio al poliziotto che la osservava dal campo con il binocolo. E solo pochi minuti prima, quando Bruto l'aveva indicata e aveva chiesto il suo nome, aveva provato puro terrore. Lanciò un'occhiata a Susan e vide che stava guardando la signora Harstrawn. «Che cosa c'è?» gesticolò. «Il mio nome. Gliel'ha detto. Non avrebbe dovuto farlo. Non avrebbe dovuto cooperare.» «Dobbiamo farlo», le rispose a gesti l'insegnante più anziana. «Non possiamo lasciare che si arrabbino con noi», aggiunse Melanie.
Susan rise in tono derisorio. «E che differenza fa se sono arrabbiati? Non arrendetevi. Sono degli stronzi. Sono il peggior tipo di Altri che possa esistere.» «Non possiamo...» cominciò Melanie. Orso batté il piede a terra. Melanie avvertì la vibrazione e sussultò. Le grosse labbra dell'uomo si stavano muovendo rapidamente, e tutto ciò che lei riuscì a capire fu: «State zitte». Distolse lo sguardo. Non riusciva a sopportare la vista di quella faccia, il modo in cui i peli neri della sua barba incolta si incurvavano verso l'esterno, il grasso dei pori della sua pelle. I suoi occhi continuavano a tornare verso la signora Harstrawn. E verso Emily. Quando Orso distolse lo sguardo, Melanie sollevò lentamente la mano e passò dall'ASL, il linguaggio americano dei segni, al SEE, l'inglese gestuale esatto che usava le dita per sillabare le parole. Era un modo goffo ed elaborato di comunicare - doveva sillabare le parole e poi sistemarle nell'ordine anglosassone - ma permetteva di adoperare piccoli movimenti delle mani e di evitare gli ampi gesti necessari per comunicare in ASL. «Non farli arrabbiare», disse a Susan. «Rilassati.» «Sono degli stronzi.» Susan si rifiutò di abbandonare l'ASL. «Certo. Ma non provocarli!» «Non ci faranno del male. Da morte non gli serviamo a niente.» Esasperata, Melanie le fece notare: «Possono farci del male senza ucciderci». L'altra si limitò a fare una smorfia e distolse lo sguardo. Be', che cosa vuole che facciamo? pensò Melanie con rabbia. Vuole che gli portiamo via le armi e gli spariamo? Eppure, al tempo stesso, pensò: Oh, ma perché non posso essere come lei? Guarda i suoi occhi! Com'è forte! Ha otto anni meno di me, ma quando sono vicino a lei mi sento come se la bambina fossi io. Una parte della sua invidia poteva essere attribuita al fatto che Susan occupava il posto più alto nella gerarchia del mondo dei sordomuti. Era una sorda prelinguale - nata sorda. Ma, più ancora di questo, era sordomuta di sordomuti: entrambi i suoi genitori erano stati tali. Politicamente attiva per la difesa dei diritti dei sordomuti già a diciassette anni, accettata al Gallaudet di Washington con una borsa di studio piena, determinata e ostinata nell'uso dell'ASL invece del SEE, militante nel rifiuto dell'oralismo - la pratica che consiste nell'obbligare i sordi a tentare di parlare - Susan Phillips era la perfetta giovane donna sordomuta, bella e forte, e Melanie a-
vrebbe preferito mille volte avere lei al suo fianco, in una situazione come quella, piuttosto che una stanza intera piena di uomini. Sentì una piccola mano che le tirava la camicetta. «Non preoccuparti», gesticolò ad Anna. Le gemelle si tenevano abbracciate, le guance l'una contro l'altra, i loro splendidi occhi sgranati e lucidi di lacrime. Beverly era seduta da sola, con le mani abbandonate in grembo, e fissava tristemente il pavimento, lottando per riuscire a respirare. Kielle comunicò: «Avremmo bisogno di Jean Grey e di Ciclope», riferendosi a due dei suoi X-Men preferiti. «Li farebbero a pezzi.» Shannon rispose, sempre riferendosi agli X-Men: «No, ci servirebbe la Bestia. Ricordi? Non era lui che aveva la fidanzata cieca?» La ragazzina studiava l'arte di Jack Kirby con impegno religioso e aveva intenzione di diventare una disegnatrice di fumetti. «E anche di Gambit», aggiunse Kielle. Indicando il tatuaggio di Shannon. I fumetti di Shannon - sorprendentemente validi, pensò Melanie, per una bambina di otto anni - avevano come protagonisti personaggi portatori di handicap, come la cecità e la sordità, che potevano volgere a loro vantaggio mentre risolvevano crimini e salvavano persone. Le due bambine Shannon, magra e bruna; Kielle, in carne e bionda - si immersero in una discussione su quali, tra raggi ottici, plasmoidi o lame psichiche, fossero le armi migliori per salvarle in quel momento. Emily pianse per un breve istante nascondendosi il viso nella manica del vestito, stampato a fiori neri e porpora. Poi chinò la testa, pregando. Melanie vide i suoi due piccoli pugni sollevarsi e aprirsi verso l'esterno. Era il segno in ASL per «sacrificio». «Non preoccupatevi», ripeté Melanie a quelle giovanette che la stavano guardando. Ma nessuna le prestò attenzione. Se mai fecalizzavano la propria attenzione su qualcuno, si trattava di Susan, anche se la ragazza al momento non stava muovendo le mani, limitandosi a guardare fissamente Orso, che se ne stava in piedi accanto all'entrata della stanza delle uccisioni. Susan era il loro punto di riferimento. La sola sua presenza era sufficiente a dar loro sicurezza. Melanie si scoprì a lottare con se stessa per impedirsi di scoppiare a piangere. E quella notte sarebbe stato così buio, là dentro! Si sporse in avanti e guardò fuori della finestra. Vide l'erba che si piegava al vento. Il vento del Kansas, impietoso, inesorabile. Ricordò suo padre che le raccontava del capitano di marina Edward Smith, che giunse a Wi-
chita nell'Ottocento ed ebbe l'idea di montare delle vele sui carri Conestoga trasformandoli in veri e propri bastimenti della prateria. Aveva riso all'idea e al tono divertito di suo padre, senza mai riuscire a capire se doveva crederci o meno. Ora avvertì una fitta al ricordo del racconto e si augurò disperatamente che arrivasse qualsiasi cosa, mitica o reale che fosse, a portarla via da quella stanza. E quell'uomo là fuori? pensò all'improvviso. Il poliziotto? C'era stato qualcosa di così rassicurante nel modo in cui si era alzato in piedi in cima alla collina, dopo che Bruto aveva sparato dalla finestra e mentre Orso correva tutt'intorno in preda al panico, con il grasso ventre che ondeggiava, aprendo freneticamente scatole di munizioni. L'uomo si era alzato in piedi in cima alla collina agitando le braccia, tentando di calmare le acque, di fermare la sparatoria. E guardava dritto verso di lei. Come avrebbe potuto chiamarlo? Non le veniva in mente nessun animale. O, per lo meno, nulla di agile ed eroico. Era vecchio - probabilmente aveva il doppio dei suoi anni. E si vestiva in modo strano. I suoi occhiali erano spessi e sembrava avere qualche chilo di troppo. Poi le venne in mente. De l'Epée. L'avrebbe chiamato così. Come Charles Michel de l'Epée, l'abate del diciottesimo secolo che era stato uno fra i primi al mondo a preoccuparsi davvero dei sordomuti, a trattarli come esseri umani intelligenti. L'uomo che aveva creato l'FSL, il linguaggio francese dei segni, diretto predecessore dell'ASL. Era un nome perfetto per l'uomo là fuori, pensò Melanie, che era in grado di leggere il francese e sapeva che quel nome significava un tipo di spada. Il suo de l'Epée era coraggioso. Allo stesso modo in cui il suo omonimo aveva affrontato a viso aperto la chiesa e la convinzione popolare che i sordomuti fossero ritardati e anormali, lui stava affrontando Ermellino e Bruto, là fuori in cima alla collina, con le pallottole che gli fischiavano intorno. Sì, lei gli aveva mandato un messaggio - una preghiera, in un certo qual modo. Una preghiera e un avvertimento. L'aveva vista? E se anche l'aveva vista, era in grado di capire ciò che lei gli aveva detto? Chiuse gli occhi per un istante, concentrando tutti i propri pensieri su de l'Epée. Ma tutto ciò che sentì fu la temperatura, che si stava abbassando sempre più, la propria paura e, con sgomento, le vibrazioni dei passi mentre un uomo, no, due uomini si avvicinavano lentamente sul pavimento di quercia. Quando Bruto ed Ermellino apparvero sull'uscio, Melanie lanciò un'oc-
chiata in direzione di Susan, il cui volto si era indurito una volta ancora alla vista dei loro aguzzini. Indurirò anche il mio, pensò. Tentò, ma cominciò a tremare e un attimo dopo stava nuovamente piangendo. Susan! pensò. Perché non posso essere come te? Orso si avvicinò agli altri due. Stava indicando la stanza principale. La luce era fioca e la scienza della lettura labiale le trasmise un messaggio distorto. Melanie ritenne che avesse detto qualcosa a proposito del telefono. Bruto rispose: «Lascia che il figlio di puttana continui a squillare». Quello era molto strano, rifletté lei, mentre l'impulso di piangere diminuiva. Perché, pensò nuovamente, riesco a capire lui così bene? Perché lui e non gli altri? «Ne lasceremo andare una.» Orso fece una domanda. Bruto rispose: «Miss Adolescente Sorda». E indicò Susan con un cenno del capo. Il viso della signora Harstrawn riprese colore per il sollievo. Mio Dio, pensò Melanie con disperazione, hanno intenzione di lasciarla andare! Resteremo qui da sole senza di lei. Senza Susan. No! Soffocò un singhiozzo. «Alzati, dolcezza», disse Bruto. «Oggi è... la tua... giornata. Te ne vai a casa.» La ragazza stava scuotendo la testa. Si voltò verso la signora Harstrawn e le gesticolò un messaggio di sfida con i suoi caratteristici movimenti bruschi e secchi. «Dice che non se ne va. Vuole che lasciate andare le due gemelle.» Bruto rise. «Vuole che io...» «Alzati», le ordinò Ermellino. E l'afferrò per un braccio tirandola in piedi. In quel momento il cuore di Melanie cominciò a battere forte e il sangue le salì alle guance perché, con suo stesso orrore, si rese conto che il primo pensiero che le aveva attraversato la mente era stato: Perché non posso essere io? Perdonami, Signore. De l'Epée, ti prego, perdonami! Ma poi formulò ancora una volta il suo biasimevole desiderio. E poi di nuovo. Continuava ad attraversarle la mente all'infinito. Voglio andare a casa. Voglio sedermi da sola sul mio divano con una ciotola di popcorn, voglio guardare la televisione, voglio mettermi le cuffie sulle orecchie e sentire le vibrazioni di Be-
ethoven e Smetana e Gordon Bok... Susan si divincolò dalla stretta di Ermellino. Spinse le gemelle verso di lui. Ma l'uomo spinse di lato le due bambine e, brutalmente, prese le mani di Susan e gliele legò dietro la schiena. Bruto fissava fuori della finestra semiaperta. «Tenetela qui», disse, spingendola sul pavimento accanto alla porta. Poi si guardò alle spalle. «Sonny, va' a tenere compagnia alle amiche della signora... e portati quella pistola.» Susan si voltò a guardare la stanza delle uccisioni. Melanie lesse il messaggio sul volto della ragazza: Non preoccupatevi. Andrà tutto bene. Ci penserò io. Ricambiò il suo sguardo soltanto per un momento. Poi guardò da un'altra parte, per paura che Susan intuisse i suoi pensieri e vi leggesse quella vergognosa domanda: Perché non posso essere io, perché non posso essere io, perché non posso essere io? 13,01 Arthur Potter osservava il mattatoio e i campi circostanti attraverso il vetro oscurato del finestrino del furgone. Stava guardando un poliziotto che portava il cavo dell'energia elettrica fino alla porta principale dell'edificio. All'estremità del cavo erano appese cinque lampade protette da griglie metalliche. L'agente indietreggiò e Wilcox venne fuori ancora una volta, con la pistola in mano, per recuperare il cavo. Non lo fece passare, come Potter aveva sperato, attraverso la porta, che di conseguenza avrebbe dovuto restare aperta, ma lo introdusse nell'edificio da una delle finestre. Poi tornò all'interno e si sbarrò la spessa porta metallica alle spalle. «La porta è ancora chiusa», disse il negoziatore in tono assente; LeBow digitò l'informazione sulla tastiera del computer. Arrivarono altri fax. Ulteriori informazioni su Handy e sugli ostaggi, queste ultime dalla scuola che le ragazze frequentavano. Impaziente, l'agente informativo scorse i fogli e immise i dati più rilevanti nel computer Profili. I diagrammi ingegneristici e architettonici dell'edificio erano stati trasmessi. Erano utili soltanto per i lati negativi che portavano alla luce; facevano chiaramente capire quanto difficoltosa sarebbe stata un'irruzione. Non c'erano tunnel sotterranei che conducevano al mattatoio e, se i documenti delle varianti apportate dal 1938 in poi erano accurati, c'erano stati lavori significativi di costruzione sul tetto dell'edificio con progetti per la creazione di un quarto piano, il che avrebbe notevolmente ostacolato un
assalto con gli elicotteri. Tobe si irrigidì. «Hanno tolto l'involucro del telefono.» I suoi occhi fissavano intensamente una serie di cifre sulla consolle. «Funziona ancora?» «Finora sì.» Stavano cercando dei microfoni nascosti. Il giovane agente si rilassò. «L'hanno rimesso a posto. Chiunque l'abbia fatto conosce bene l'equipaggiamento.» «Henry, chi è stato?» «Non c'è modo di saperlo, per adesso. Se dovessi tirare a indovinare, direi Handy. Il suo addestramento militare, sai.» «Contatto», disse Tobe. Potter inarcò interrogativamente un sopracciglio in direzione di LeBow e sollevò il telefono al primo squillo. «Pronto. Sei tu, Lou?» «Grazie per le luci. Le abbiamo controllate per vedere se c'erano dei microfoni... abbiamo controllato anche il telefono. Non abbiamo trovato un cazzo di niente. Sei un uomo di parola.» Onore. Per lui significa qualcosa, annotò mentalmente Potter, cercando ancora una volta di comprendere l'imprevedibile. «Dimmi Art, che cosa sei? Un agente anziano? Un agente responsabile? È così che li chiamano, vero?» Non lasciare mai che gli SO pensino che ti trovi nella posizione di prendere decisioni importanti senza consultare nessuno. È sempre meglio poter lasciare in sospeso una situazione mentre fai finta di parlare con i tuoi superiori. «No. Sono soltanto un agente speciale ordinario a cui piace parlare.» «Questo lo dici tu.» «Sono un uomo di parola, ricordi?» disse Potter, lanciando un'occhiata al foglio degli Inganni. Era ora di confondere le cose, di cercare di costruire una specie di rapporto. «Allora, che ne pensi di qualcosa da mangiare, Lou? Possiamo cominciare a mettere qualche hamburger sulla griglia. Come li preferite?» Al sangue, tentò di indovinare. Ma si sbagliava. «Ascoltami, Art. Voglio soltanto che tu sappia che brava persona sono. Ne sto lasciando andare una.» Quella notizia depresse Potter. Stranamente, con quell'atto di generosità
spontanea, Handy li aveva messi sulla difensiva. Era tatticamente perfetto. Ora l'agente federale era in debito con il sequestratore, e ancora una volta sentì l'equilibrio delle forze spostarsi dal predatore alla preda. «Voglio che tu capisca che non sono poi così cattivo.» «Benissimo, Lou. Lo apprezzo molto. Si tratta di Beverly? La bambina ammalata?» «Uh-uh.» Potter e gli altri si sporsero in avanti per guardare fuori. La porta si aprì, lasciando uscire una sottile scheggia di luce. Poi una macchia bianca. Tieni la sua mente lontana dagli ostaggi, ricordò Potter. «Avete pensato a quello che volete? È il momento di cominciare a trattare seriamente, Lou. Che ne dici...» Il telefono si spense con un clic. Il portello posteriore del furgone si spalancò all'improvviso. Dean Stillwell mise dentro la testa. «Stanno liberando un ostaggio», annunciò lo sceriffo. «Lo sappiamo.» Stillwell scomparve di nuovo all'esterno. Potter si spostò sulla poltroncina girevole. Non riusciva a vedere bene. Le nubi erano molto dense, ora, e il campo era in penombra, come se un'eclisse avesse precipitato improvvisamente la terra nella tenebra. «Proviamo il video, Tobe.» Uno schermo video prese vita, mostrando la facciata dell'edificio in un bianco e nero fortemente contrastato. La porta era aperta. Avevano acceso tutte e cinque le luci, a quanto sembrava. Tobe regolò la sensibilità e l'immagine si stabilizzò. «Chi è, Henry?» «La studentessa più grande, Susan Phillips. Diciassette anni.» Budd rise. «Ehi, a quanto pare potrebbe essere più facile di quello che pensavamo. Se le lasciasse andare una alla volta.» Sullo schermo, Susan si voltò a guardare la porta dell'edificio. Una mano la spinse in avanti. Poi la porta si richiuse. «Grandioso», disse entusiasticamente LeBow, guardando fuori, la testa vicina a quella di Potter. «Diciassette anni. Ed è una delle studentesse più brillanti. Ci darà una vagonata di informazioni sulla situazione all'interno dell'edificio.» La ragazza si allontanò dal mattatoio camminando in linea retta. Attraverso le lenti del binocolo Potter poteva vedere quanto corrucciato fosse il
suo volto. Aveva le mani legate dietro la schiena, ma non sembrava aver risentito della breve prigionia. «Dean», disse nel microfono della radio, «manda uno dei tuoi uomini incontro alla ragazza.» «Sissignore.» Ora lo sceriffo stava parlando in tono normale nel microfono che portava alla gola; finalmente aveva preso confidenza con l'equipaggiamento. Un agente della polizia di stato, con giubbotto antiproiettile ed elmetto, scivolò da dietro un'automobile e cautamente si mosse, stando basso, verso la ragazza, che ormai era a venti metri di distanza dall'edificio. Il singulto venne dal profondo della gola di Arthur Potter. Rabbrividì come se il suo corpo fosse stato immerso all'improvviso in una vasca d'acqua gelata, e capì bene ciò che stava accadendo. Probabilmente era puro intuito, una sensazione affinata dalle centinaia di situazioni in cui si era trovato a trattare. Il fatto che nessun sequestratore avesse mai rilasciato di sua spontanea volontà un ostaggio così presto. Il fatto che Handy fosse un assassino senza rimorsi. Non avrebbe saputo dire con certezza che cosa l'avesse generato, ma l'assoluto orrore di ciò che stava per accadere gli strinse il cuore in una morsa. «No!» gridò, balzando in piedi e facendo cadere rumorosamente la sedia. LeBow lo guardò. «Oh, no! Oh, Cristo, no.» La testa di Charlie Budd si spostava freneticamente dall'uno all'altro. «Che cosa c'è che non va?» sussurrò. «Che cosa sta succedendo.» «Ha intenzione di ucciderla», sussurrò LeBow. Potter spalancò il portello del furgone e corse fuori, il cuore che gli batteva forsennatamente nel petto. Afferrando un giubbotto da terra, scivolò tra due auto e, annaspando, corse dritto verso la ragazza, oltrepassando l'uomo che Dean Stillwell le aveva mandato incontro. L'urgenza dei suoi movimenti creò agitazione tra gli agenti dislocati sul campo, ma alcuni di loro sorrisero alla vista dell'uomo grassoccio che correva, tenendo in una mano il pesante giubbotto antiproiettile e agitando un kleenex bianco con l'altra. Susan era a quindici metri da lui; camminava dritta sull'erba. Cambiò leggermente direzione per andargli incontro. «Abbassati, sta' giù!» gridò Potter. Lasciò andare il fazzoletto, che fluttuò davanti a lui sospinto dalla brezza sostenuta, e gesticolò freneticamente verso la ragazza, indicandole il terreno. «Giù! Sta' giù!»
Ma la ragazza non poteva sentirlo, ovviamente, e si limitò a guardarlo perplessa. Diversi agenti avevano sentito le parole di Potter e, subito, uscirono da dietro le macchine che servivano loro da copertura. Le mani che si allungavano verso le armi. Alle grida di Potter se ne aggiunsero altre. Una donna poliziotto agitava le braccia. «No, no, piccola! Sta' giù, per l'amor di Dio!» Susan non udiva nemmeno una parola. Si era fermata e stava guardando attentamente il terreno, forse pensando che Potter stesse cercando di avvertirla della presenza di un pozzo nascosto o di un cavo su cui avrebbe potuto inciampare. Annaspando, con il suo cuore di uomo di mezza età che batteva come impazzito, Potter ridusse la distanza tra loro fino a seisette metri. Era così vicino che, quando l'unico proiettile la colpì alla schiena e un fiore rosso scuro le sbocciò sul seno destro, udì il rumore nauseante dell'impatto, seguito da un gemito disumano proveniente da una gola incapace di parlare. La ragazza si fermò di botto e poi, descrivendo una spirale, si afflosciò a terra. No, no, no... Potter corse verso di lei e le mise il giubbotto antiproiettile intorno alla testa. L'agente si avvicinò di corsa, accovacciato, mormorando senza sosta: «Mio Dio, mio Dio». Puntò la pistola verso la finestra. «Non sparare», ordinò Potter. «Ma...» «No!» Potter spostò lo sguardo dagli occhi vitrei di Susan alla sagoma incombente del mattatoio. Dietro la finestra a sinistra della porta vide il viso aguzzo di Lou Handy. E, alla finestra sul lato destro, forse a una decina di metri nell'oscurità dell'interno, riuscì a distinguere la faccia sbalordita della giovane insegnante bionda, la stessa che gli aveva inviato quel criptico messaggio poco tempo prima e il cui nome, ora, non riusciva assolutamente a ricordare. I rumori si sentono. Il suono è semplicemente un disturbo dell'aria, una vibrazione, e si riversa sui nostri corpi come un'onda, sfiora la nostra fronte come la mano di un amante, ci trafigge e può farci piangere. Nel petto sentiva ancora il suono dello sparo.
No, pensò Melanie. No. Non è possibile. Non può essere... Ma sapeva ciò che aveva visto. Non si fidava delle voci, ma i suoi occhi raramente si sbagliavano. Susan, sordomuta figlia di sordomuti. Susan, più coraggiosa di quanto io potrò mai essere. Susan, che aveva il mondo dei sordomuti e il mondo degli Altri ai propri piedi. La ragazza era uscita nell'orribile Mondo Esterno e ciò l'aveva uccisa. Era andata, per sempre. Un minuscolo foro che si apriva nella sua schiena, scalzandole via i lunghi capelli neri. L'arresto brusco a metà della strada che Melanie aveva così vergognosamente pregato di poter essere lei a percorrere. Il suo respiro si fece breve e affannoso e i limiti del suo campo visivo vennero inghiottiti dall'oscurità. La stanza si inclinò e il sudore comparve a imperlarle gelido la faccia e il collo. Si voltò lentamente e guardò Bruto, che si stava infilando la pistola ancora fumante nella cintura. Ciò che vide la colmò di disperazione. Perché non vide né soddisfazione, né lussuria, né malizia. Vide soltanto che l'uomo aveva fatto ciò che aveva progettato di fare - e che aveva già dimenticato la morte della ragazza. Bruto accese di nuovo il televisore e lanciò un'occhiata verso la stanza delle uccisioni, sulla porta della quale le sette bambine stavano in piedi o sedute in ordine sparso, alcune guardando Melanie, altre fissando la signora Harstrawn, che era crollata a terra singhiozzando e afferrandosi i capelli, il viso contorto in un'orribile maschera paonazza. A quanto pareva, l'insegnante aveva visto il colpo di pistola e ne aveva compreso il significato. Le altre ragazze no. Jocylyn si tolse dalla faccia una ciocca di capelli scuri che si era malamente tagliata da sé. Sollevò le mani, compiendo gli stessi gesti ripetutamente: «Che cosa è successo? Che cosa è successo?» Devo dirglielo, pensò Melanie guardando le ragazze. Ma non posso. Beverly, la più grande dopo Susan, capiva che era accaduto qualcosa di terribile, ma non sapeva cosa, o non voleva ammetterlo con se stessa. Prese tra le sue la mano grassoccia di Jocylyn e fissò Melanie. Inspirò faticosamente aria nei polmoni malati e cinse con l'altro braccio le spalle delle due gemelline inseparabili. Melanie non sillabò il nome di Susan. Non poteva, per qualche ragione che non riusciva a comprendere. Adoperò il più impersonale «lei», accom-
pagnato da un gesto in direzione del campo all'esterno dell'edificio. «Lei...» Come lo dico? Oh, Dio, non ne ho la più pallida idea. Le ci volle un lungo istante per ricordare il gesto corrispondente alla parola «uccisa»: un movimento dell'indice destro sotto la mano sinistra, che poi lo stringeva con il palmo rivolto verso il basso. Proprio come un proiettile che penetra nel corpo, pensò. Non poteva dirlo. Rivide i capelli di Susan sollevarsi all'impatto. La rivide afflosciarsi a terra. «È morta», gesticolò finalmente. «Morta» era un segno diverso, ottenuto ribaltando la mano destra, da piatta e con il palmo rivolto verso l'alto a piatta ma con il palmo rivolto verso il basso e, simultaneamente, compiendo il movimento opposto con la mano sinistra. Melanie fissò la propria mano destra, pensando a come quel gesto miniasse la terra che viene buttata a ricoprire una tomba. Le reazioni delle ragazze furono differenti ma, in realtà, soltanto esteriormente: le lacrime, i singulti silenziosi, gli occhi che si colmavano di orrore. Con le mani che le tremavano, Melanie si voltò nuovamente verso la finestra. De l'Epée aveva sollevato il corpo di Susan e stava tornando lentamente verso il cordone di polizia. Osservò le braccia penzolanti della sua amica, la cascata di capelli neri, i piedi - uno scalzo, uno con la scarpa. Bellissima Susan. Susan, la persona che vorrei essere se potessi scegliere di essere qualcuno. Mentre osservava de l'Epée scomparire dietro un'auto della polizia, parte del mondo silenzioso di Melanie divenne ancor più silenzioso. Cosa che lei difficilmente poteva sopportare. «Io mi dimetto, signore», disse sottovoce Charlie Budd. Potter entrò nel gabinetto del furgone per indossare la camicia pulita che, in qualche modo, era comparsa come per magia nelle mani di uno degli agenti di Dean Stillwell. Lasciò cadere la camicia macchiata di sangue in un cestino dei rifiuti e indossò quella nuova; il proiettile che aveva ucciso Susan l'aveva spruzzato copiosamente di sangue. «Cosa significa, Charlie?» domandò in tono assente, tornando alla scrivania. Tobe e Derek erano seduti in silenzio alle loro consolle. Persino Henry LeBow aveva smesso di digitare sulle tastiere dei computer e ora
guardava fisso fuori del finestrino che, dall'angolazione in cui era seduto, rivelava soltanto campi di frumento che si perdevano in lontananza, distorti e tinti di ocra dallo spesso vetro antiproiettile. Oltre l'altro finestrino, sul lato opposto del furgone, le luci dell'ambulanza lampeggiavano mentre portavano via il corpo della ragazza. «Mi dimetto», continuò Budd. «Da questo incarico e anche dalla polizia.» La sua voce era ferma. «È stata colpa mia. È accaduto a causa di quello sparo di mezz'ora fa. Quando non ho detto ai cecchini di togliere il colpo in canna. Chiamerò Topeka e troveranno qualcuno che mi sostituisca.» Potter si voltò, infilandosi la camicia stirata nella cintura. «Resta con noi, Charlie. Ho bisogno di te.» «Nossignore. Ho commesso un errore e mi assumerò la responsabilità delle conseguenze.» «Potresti avere molte occasioni di assumerti la responsabilità dei tuoi errori prima che la notte sia finita», gli rispose con voce piatta. «Ma lo sparo di quel cecchino non è una di queste. Ciò che Handy ha appena fatto non ha niente a che vedere con te.» «E allora perché? Perché, in nome di Dio, avrebbe fatto una cosa simile?» «Perché sta mettendo le sue carte sul tavolo. Ci sta dicendo che fa sul serio. Che non possiamo tirarlo fuori da lì senza pagare un prezzo molto alto.» «Sparando a un ostaggio a sangue freddo?» LeBow si intromise. «Questo è il tipo di trattativa più difficile che esista, Charlie. Dopo un assassinio così efferato, di solito l'unico modo per salvare la pelle degli altri è un'irruzione in piena regola.» «E la posta in gioco è molto alta», borbottò Derek Elb. Altissima, pensò Arthur Potter. Poi: Gesù, che giornata! «Collegamento», disse Tobe e, un istante più tardi, il telefono ronzò. Il registratore a bobine cominciò a girare automaticamente. Potter sollevò il ricevitore. «Lou?» disse con voce piatta. «C'è qualcosa che devi capire su di me, Art. Non mi importa niente di queste ragazze. Per me sono soltanto piccoli uccellini, come quelli a cui sparavo dalla veranda di casa mia. Ho intenzione di uscire da qui, e se questo vuol dire che devo sparare ad altre nove di loro, è così che sarà. Mi hai sentito?» «Ti ho sentito, Lou», rispose Potter. «Ma dobbiamo chiarire un'altra co-
sa. Io sono l'unico uomo nell'intero universo in grado di farti uscire vivo da là dentro. Non c'è nessun altro. Quindi sono io quello con cui devi fare i conti. Mi hai sentito tu, adesso?» «Ti richiamerò per comunicarti le nostre richieste.» 13,25 Era una faccenda insidiosa, pericolosa, non una semplice questione di essere rieletti o meno. Era una questione di vita e di decenza. Così si ripeteva Daniel Tremain mentre entrava nella casa del governatore. Eretto come un trespolo, attraversò l'abitazione sorprendentemente modesta ed entrò in uno studio ampio e tranquillo. Vita e decenza. «Agente.» «Governatore.» Il molto onorevole governatore dello stato del Kansas, A.R. Stepps, stava osservando la fioca linea dell'orizzonte: campi di grano identici a quelli che avevano contribuito a fondare la compagnia di assicurazioni di suo padre, che a sua volta aveva permesso a lui di mettersi al servizio del pubblico. Tremain era convinto che quell'uomo fosse il governatore perfetto: aveva i contatti giusti, non si fidava di Washington, era furioso per l'aumento del crimine a Topeka e per i delinquenti che il Missouri scaricava nella sua Kansas City, ma al tempo stesso era capace di sopportare tutto, aspirando a nulla più che un'età della pensione trascorsa a insegnare a Lawrence e a percorrere i sentieri degli Scandia Lines insieme a sua moglie. Ma adesso c'era Crow Ridge. Gli occhi del governatore si sollevarono da un fax che stava leggendo e scrutarono attentamente Tremain. Guardami anche per un'ora, se vuoi. Continua pure. La sua uniforme da combattimento nera e blu sicuramente sembrava incongrua in quel luogo, fra le stampe incorniciate delle varie specie di anatre cacciabili e i pezzi d'antiquariato in mogano massiccio. Lo sguardo di Stepps cadde più volte sulla grossa pistola automatica che l'agente sistemò mentre si sedeva sulla poltrona irritantemente morbida. «Ne ha uccisa una?» Tremain annuì, abbassando lievemente la testa dai capelli a spazzola. Si
accorse che il governatore aveva un minuscolo buco sul gomito del suo cardigan azzurro... e che era assolutamente terrorizzato. «Che cos'è successo?» «Omicidio premeditato, a quanto sembra. Sto facendomi fare un rapporto dettagliato, ma sembra proprio che non ci fosse alcuna ragione per uccidere. L'ha fatta uscire come se la stesse rilasciando e poi le ha sparato nella schiena.» «Oh, mio Dio. Era tanto giovane?» «La più grande delle ragazze. Un'adolescente. Eppure...» Il governatore indicò un servizio d'argento con un cenno del capo. «Caffè? tè?... No? Lei non è mai stato qui prima, vero?» «A casa del governatore? No.» Non era lussuosa; semplicemente una bella casa, una casa che sapeva di famiglia e di calore. «Ho bisogno del suo aiuto in questa faccenda, agente. Da una persona della sua esperienza.» «Faccio tutto ciò che posso, signore.» «Una strana situazione. Questi prigionieri evasi da un penitenziario federale... Di che si tratta, capitano?» «Con tutto il rispetto, signore, quella prigione a Callana è come se avesse una porta girevole all'ingresso.» Tremain ricordava quattro evasioni negli ultimi cinque anni. I suoi uomini avevano catturato una parte di quegli stessi evasi, un curriculum migliore di quello della guardia nazionale che, a suo parere, era costituita da baby-sitter superpagate. Il governatore cominciò a parlare con cautela, come un uomo che cammina sul ghiaccio sottile di novembre. «Quindi, tecnicamente sono evasi federali, ma sono stati condannati anche per reati di giurisdizione statale. Ciò probabilmente non accadrà fino all'anno tremila, ma il fatto è che sono anche criminali statali.» «Ma l'operazione è sotto la responsabilità dell'FBI.» Il viceprocuratore generale aveva comunicato specificamente a Tremain che, in quella faccenda, i suoi servigi non erano richiesti. L'uomo non era un esperto della gerarchia governativa dello stato, ma persino i bambini delle elementari sapevano che il procuratore generale e i suoi sottoposti lavoravano per il governatore. Il ramo esecutivo. «Dobbiamo rimetterci a loro, ovviamente. E forse è la cosa migliore.» «Questo Potter è una brava persona...» disse il governatore. Il suo tono di voce parve non tanto interrompersi, quanto sgonfiarsi fino a lasciar intuire un punto interrogativo alla fine della frase.
Dan Tremain era un poliziotto di carriera e aveva imparato a non dire mai nulla che potesse essere citato contro di lui; l'aveva appreso prima ancora di essere addestrato a coprire due porte situate l'una di fronte all'altra quando si tuffava in una finestra nel corso di un'irruzione. «L'orgoglio dell'FBI, mi dicono», affermò, immaginando che un registratore fosse in funzione nelle vicinanze, anche se probabilmente non era così. «Ma?» Stepps inarcò un sopracciglio. «Mi sembra di capire che stia imboccando una strada difficile.» «Il che vuol dire?» Fuori, le trebbiatrici si muovevano avanti e indietro. «Vuol dire che ha intenzione di provare a stancare Handy per convincerlo ad arrendersi.» «Ma Potter attaccherà, alla fine? Se vi sarà costretto?» «È soltanto un negoziatore. È stata assemblata una squadra soccorso ostaggi federale. Dovrebbero arrivare nel tardo pomeriggio.» «E se Handy non si arrende, entreranno e...» «Lo neutralizzeranno.» La faccia rotonda del governatore si allargò in un sorriso. L'uomo fissò un posacenere con aria nostalgica, poi tornò a guardare l'ufficiale. «Quanto tempo dopo il loro arrivo effettueranno l'attacco?» «La regola è che non si dà mai l'assalto se non come ultima risorsa. La Rand Corporation ha compiuto degli studi, qualche anno fa, e ha scoperto che il novanta per cento degli ostaggi morti durante un sequestro vengono uccisi quando la situazione si fa calda - quando c'è un'irruzione, insomma. Avevo intenzione di dire qualcos'altro, signore.» «La prego. Parli liberamente.» L'angolo di un foglio di carta fuorusciva da sotto l'orribile felpa azzurra del governatore. Tremain lo riconobbe come il proprio profilo professionale. Era molto orgoglioso del suo curriculum nella polizia di stato, anche se ora si stava chiedendo se si trovasse lì perché il governatore aveva letto il breve paragrafo che si riferiva alla sua carriera di «consulente», una carriera che aveva portato Tremain in Africa e in Guatemala dopo il suo congedo dal corpo dei marines. «Lo studio della Rand Corporation è molto accurato, almeno fino a dove riesce ad arrivare. Ma c'è qualcos'altro, in questa situazione specifica, signore. Ed è il fatto che, se si verifica un omicidio nel corso delle prime ore del sequestro, la trattativa non ottiene quasi mai risultati positivi. L'SO - il sequestratore di ostaggi, come lo chiamiamo di solito - ha ben poco da
perdere. A volte scatta un meccanismo psicologico particolare per cui il sequestratore si sente tanto potente da non fare altro che aumentare sempre più le proprie richieste in modo che esse non possano venir esaudite e avere di conseguenza un pretesto per uccidere gli ostaggi.» Il governatore annuì. «Qual è la sua valutazione di Handy?» «Ho letto il suo dossier mentre venivo qui e ne ho ricavato un profilo.» «Ovvero?» «Non è psicotico. Ma senza dubbio è un amorale.» Le labbra sottili del governatore si contorsero in un breve sorriso. È perché sono soltanto un mercenario e non dovrei usare la parola amorale? pensò Tremain. «Sono convinto», proseguì lentamente l'agente, «che ucciderà altre ragazze. Magari addirittura tutte, alla fine. Se riesce a spostarsi e a sfuggirci, credo che le ucciderà soltanto per amor di simmetria.» Simmetria. Che ne pensa di questo, signore? Controlli sul mio profilo la parte riguardante gli studi. Laureato con lode a Lawrence. Primo della mia classe al corso ufficiali. «C'è un'altra cosa che dobbiamo tenere in considerazione», proseguì il capitano. «Non ha tentato con molta convinzione di scappare da quell'agente che li ha trovati questa mattina.» «No?» «C'era soltanto un unico agente a fronteggiare i tre sequestratori con le pistole e gli ostaggi. Era come se lo scopo di Handy non fosse tanto quello di fuggire, ma piuttosto quello di trascorrere qualche tempo...» «Qualche tempo cosa?» «Insieme con gli ostaggi. Se capisce ciò che intendo. Sono tutte femmine.» Stepps sollevò il proprio considerevole peso dalla poltrona e andò alla finestra. All'esterno, i trattori passavano al pettine il paesaggio piatto; due di essi stavano lentamente convergendo nello stesso punto. Sospirò pesantemente. È una cazzo di vita simmetricamente amorale, vero, signore? «Semplicemente, Handy non è il tipico sequestratore di ostaggi, governatore. In lui c'è una vena sadica.» «E lei pensa davvero che farebbe... del male alle ragazze? Capisce cosa intendo?» «Credo di sì. Se può al tempo stesso tenere d'occhio quello che accade
fuori dalla finestra, penso che lo farà. E uno degli altri due che sono là dentro insieme con lui, Sonny Bonner, sta scontando una pena per stupro. Be', in realtà per essere fuggito oltre i confini dello stato, ma alla base c'era un'accusa di stupro.» Sulla scrivania del governatore c'erano immagini della sua famiglia bionda, di un labrador nero e di Gesù Cristo. «Quanto è in gamba la sua squadra, capitano?» Un sussurro, ora. «Siamo molto, molto bravi, signore.» Stepps si stropicciò gli occhi assonnati. «È in grado di farli uscire da lì?» «Sì. Per sapere quante probabilità abbiamo di riuscirci, dovrei fare prima un piano dettagliato dell'operazione tattica e poi compiere una valutazione dei danni possibili.» «In quanto tempo può farlo?» «Ho domandato al tenente Carfallo di procurarsi le mappe dettagliate del terreno circostante e i progetti architettonici dell'edificio.» «E dove si trova adesso?» Tremain guardò l'orologio. «Proprio qui fuori, signore.» Gli occhi del governatore si strinsero di nuovo. «Perché non gli chiede di entrare?» Un istante dopo il tenente, un giovane ufficiale basso e tarchiato, stava srotolando mappe e vecchi disegni. «Tenente», ordinò seccamente Tremain, «ci comunichi le sue valutazioni.» Un dito tozzo sfiorò diversi punti sui disegni architettonici. «Penetrabile qui e qui. Entrare, adoperare granate stordenti, predisporre le linee di fuoco.» Il giovane parlò quasi con allegria, e il governatore parve di nuovo a disagio. Proprio come avrebbe dovuto sentirsi. Carfallo era una piccola volpe che incuteva timore. «Stima di sei-otto secondi dal botto ai proiettili», concluse. «Il tenente vuol dire che», spiegò Tremain, «intercorreranno circa sei secondi dal momento in cui la porta viene sfondata a quando avremo acquisito tutti e tre i bersagli - cioè; a quando avremo le armi puntate su tutti gli SO.» «Ed è buono?» «Eccellente. Significa che le perdite tra gli ostaggi sarebbero minime o addirittura inesistenti. Ma, ovviamente, non posso garantire che non ce ne saranno.» «Dio non ci dà garanzie.»
«No.» «Grazie, tenente», disse il governatore. «Può andare», ordinò Tremain. Il giovane ufficiale assunse un'espressione assente, poi si voltò e scomparve. «E che cosa mi dice di Potter?» domandò Stepps. «Dopotutto è lui il responsabile.» «La questione», spiegò Tremain, «è che dovrebbe esserci un qualche motivo per autorizzare un assalto.» «Un pretesto», borbottò tra sé il governatore in tono indifferente. Poi si irrigidì e si tolse un pelucco azzurro dal polsino della camicia. «Diciamo che accada qualcosa che interrompa le comunicazioni tra Potter e Handy e gli uomini sul campo. E poi diciamo che qualcuno della mia squadra osservi un'attività ad alto rischio all'interno del mattatoio, un'attività che metta a serio repentaglio la vita degli agenti o degli ostaggi. Qualcosa a cui Potter in quel momento non sia in grado di rispondere adeguatamente. Credo che con qualcosa del genere - be', anche dal punto di vista legale - saremmo pienamente autorizzati a entrare e a prendere possesso dell'edificio.» «Sì, sì. Credo che lo sareste.» Il governatore inarcò un sopracciglio con aria interrogativa, poi ponderò bene le parole che stava per dire. Batté il palmo della mano sul ripiano della scrivania. «D'accordo, capitano. Queste sono le mie istruzioni: lei deve spostare l'unità statale di soccorso agli ostaggi a Crow Ridge e fornire all'agente Potter tutta l'assistenza possibile. Se per qualche motivo l'agente Potter non fosse in grado di dirigere le operazioni e gli evasi dovessero costituire una minaccia immediata verso chiunque, ostaggi o agenti o... chiunque, lei è autorizzato a fare tutto ciò che è necessario a normalizzare la situazione.» Che registrassero pure su nastro. Chi mai avrebbe potuto discutere la saggezza e la prudenza di quelle parole? «Sissignore.» Tremain arrotolò le mappe e i progetti. «C'è altro, signore?» «So che il tempo è essenziale», scandì lentamente il governatore, mettendo alla prova per l'ultima volta il poliziotto, «ma crede che potremmo trascorrere qualche istante in preghiera?» «Ne sarei onorato, signore.» E il soldato prese la mano del sovrano e, insieme, caddero in ginocchio. Tremain chiuse i suoi acuti occhi azzurri. Un torrente di parole colmò la stanza, rapide e articolate come se fluissero direttamente dal cuore di un
Onnipotente preoccupatissimo per quelle povere ragazzine che stavano per morire nei corridoi bui della Webber & Stoltz Processing Company Inc. E così, poi sarai a casa. Melanie osservò la donna accasciata a terra e pensò: è impossibile che qualcuno possa piangere così tanto. Toccò il braccio della signora Harstrawn, ma tutto ciò che ottenne fu che l'insegnante cominciò a piangere ancora più forte. Erano ancora confinate nel piccolo inferno della stanza delle uccisioni. Acqua schiumosa e puzzolente sul pavimento, inanellata da spirali iridescenti di olio lubrificante. Luride piastrelle in ceramica. Niente finestre. Puzza di fanghiglia e di letame e, sulle pareti, un odore di animali morti e putrefatti. A Melanie ricordava la stanza della doccia in Schindler's List. Il suo sguardo continuava a ricadere al centro della stanza: un ampio foro di scarico da cui si irradiava una ragnatela di canaletti di scolo. Tutti, nessuno escluso, macchiati di rosso scuro. Si immaginò un giovane vitello che gemeva e poi si dibatteva mentre gli tagliavano la gola, il sangue che usciva a fiotti pulsanti per poi scorrere nel canaletto e infine nello scarico. Cominciò a piangere e, ancora una volta, udì la voce di suo padre, quando le aveva parlato quell'ultima primavera: E così, poi sarai a casa. Poi sarai a casa poi sarai a casa... Da lì, i suoi pensieri si spostarono su suo fratello, che in quel momento giaceva in un letto d'ospedale a novecento chilometri di distanza. A quell'ora aveva sicuramente già sentito le notizie, aveva sentito dell'omicidio di quella coppia nella Cadillac, del sequestro. Doveva essere preoccupato da morire. Mi dispiace, Danny. Vorrei tanto essere insieme a te! Il sangue che sprizzava nell'aria... La signora Harstrawn si raggomitolò e cominciò a tremare violentemente. Il suo volto assunse un preoccupante colorito bluastro e l'orrore di Melanie per la morte di Susan venne per il momento sostituito dalla paura che l'insegnante stesse per avere un infarto. «La prego», gesticolò. «Le bambine sono spaventate.» Ma la donna non se ne accorse. O, se l'aveva vista, non era in grado di rispondere. E così, poi sarai... Si asciugò le guance e nascose la testa fra le braccia incrociate. ...sarai a casa. E, se fosse stata a casa come volevano i suoi genitori (be', in realtà come
voleva suo padre, ma a casa sua la volontà di suo padre era quella dei suoi genitori), ora non si sarebbe trovata lì, in quel posto orribile. Nessuna di loro sarebbe stata lì. E Susan sarebbe stata ancora viva. Smettila di pensarci! Orso oltrepassò l'ingresso della stanza delle uccisioni e guardò dentro. Si strizzò lo scroto, seminascosto dalla pancia prominente, e gridò qualcosa a Shannon. Le offrì il ginocchio, dicendole qualcosa come se voleva dargli un altro calcio. La ragazza tentò di rivolgergli uno sguardo di sfida, ma poi abbassò il capo e si fissò il braccio, strofinando il finto tatuaggio ormai sbiadito del suo supereroe. Bruto disse qualcosa e Orso sollevò lo sguardo. L'omaccione aveva paura di lui, capì improvvisamente Melanie notando l'espressione che era comparsa negli occhi di Orso. L'uomo rise con una smorfia, senza allegria. Ma i suoi occhi indugiarono a lungo sulle ragazze, specialmente sulle gemelle e su Emily, sul suo vestito, sulle calze bianche e le scarpe di pelle nera, proprio quel vestito che i suoi genitori le avevano comprato apposta per la recita di Melanie allo spettacolo estivo del Teatro dei Sordomuti del Kansas. Quanto a lungo quegli occhi si attardarono sulla bambina! Poi, con riluttanza, Orso si voltò e tornò nel locale principale. Portale fuori di qui, si disse Melanie. Qualsiasi cosa tu debba fare per riuscirci, portale fuori di qui. Ma non posso. Bruto mi ucciderà. Mi violenterà. È malvagio, lui è l'Altro, lui è il Mondo Esterno. Pensò a Susan e pianse di nuovo. Suo padre aveva ragione. E così, poi sarai a casa. Se gli avesse dato retta, sarebbe stata al sicuro. Non ci sarebbe stato nessun appuntamento segreto dopo la recita a Topeka. Nessuna menzogna, nessuna decisione difficile da prendere. «Tornate indietro, mettetevi contro la parete», gesticolò in direzione delle ragazze. Doveva tenerle lontane da Orso, tenerle lontane da quegli occhi, da quello sguardo. Le bambine si spostarono come era stato loro richiesto... tutte con gli occhi pieni di lacrime, fatta eccezione per la snella, giovane Shannon, nuovamente irata e baldanzosa... Shannon, il vero maschiaccio del gruppo. E anche Kielle, sebbene non fosse arrabbiata né ostentasse sicurezza; no, non piangeva, ma era stranamente sottomessa. Melanie era preoccupata per lei. Che cosa c'era nei suoi occhi? L'ombra di ciò che aveva brillato in quelli di Susan? Eccola lì, davanti a lei, una bambina
con volto di donna. Mio Dio, nel suo sguardo c'è desiderio di vendetta, gelo... puro odio. È lei la vera erede di Susan? si domandò. «Lui è Magneto», gesticolò Kielle piattamente, guardando in direzione di Bruto e rivolgendo il proprio commento a Shannon. Era il soprannome che aveva dato a Handy. L'altra ragazza, però, non era d'accordo. «No», rispose, «lui è Mister Sinister. Non fa parte della fratellanza. È il peggio del peggio.» Kielle ci pensò su. Poi: «Ma io penso che...» «Oh, voi due, smettetela!» le interruppe Beverly intromettendosi nella loro conversazione, le mani protese che si alzavano e si abbassavano frenetiche seguendo il ritmo del suo petto che si affannava in cerca d'aria. «Questo non è uno stupido gioco.» Melanie annuì. «Non dite più nulla.» Oh, signora Harstrawn, implorò in silenzio, la prego... Come sta piangendo! Faccia rossa, congestionata, cianotica, tremolante. La prego, non faccia così! Sollevò le mani. «Non posso farcela, da sola.» Ma la signora Harstrawn non reagiva. Giaceva scompostamente, sdraiata sulle piastrelle luride del pavimento della stanza delle uccisioni, la testa poggiata su un canaletto di scolo dove un tempo fluiva il sangue ancora caldo dei vitelli e degli agnelli morenti, e non diceva una parola. Melanie sollevò lo sguardo. Le bambine la stavano fissando. Devo fare qualcosa. Ma tutto ciò che riusciva a ricordare erano le parole di suo padre, parole fantasma, parole senza suono. Le parole di suo padre mentre se ne stava seduto sul dondolo vicino alla veranda della loro casa di campagna, la primavera precedente. Le aveva detto: «Questa è casa tua e qui sarai sempre la benvenuta. Vedi, è una questione di appartenenza e di ciò che fa il Signore per rassicurare coloro che non sanno di avere un posto dove stare. Be', il tuo posto è qui, a lavorare a ciò che puoi fare, dove il tuo... il tuo problema non ti mette nei guai, non ti rende la vita difficile. È la volontà di Dio». (Con quanta perfezione era riuscita a distinguere le parole, allora, persino quelle impossibili sibilanti e gli ineffabili e improvvisi arresti della glottide. Con la stessa chiarezza con cui, adesso, riusciva a capire Handy... Bruto.) Suo padre aveva concluso: «E così, poi sarai a casa». E si era alzato per raccogliere il contenitore dell'ammoniaca senza darle modo di scrivere una sola parola di risposta sul taccuino che Melanie si portava sempre in giro
per casa. D'un tratto divenne consapevole della testa di Beverly che andava su e giù. Un attacco d'asma in piena regola. Il viso della ragazzina si fece scuro e i suoi occhi si chiusero penosamente. Lottava per riuscire a respirare. Melanie le accarezzò i capelli madidi di sudore. «Fa' qualcosa», le segnalò Jocylyn con le sue dita goffe e tozze. Le ombre che si allungavano nella stanza, ombre di macchinati e di cavi, divennero all'improvviso molto nette, poi cominciarono a ondeggiare. Melanie si alzò in piedi e, fatti pochi passi, uscì dalla stanza delle uccisioni. Vide Bruto e Ermellino che sistemavano le lampade. Magari ce ne daranno una per la nostra stanza. Oh, ti prego... «Spero che muoia, lo odio», gesticolò furiosamente Kielle, bionda palla di fuoco e di rabbia, la faccina rotonda contorta dall'odio e gli occhi incolleriti fissi su Bruto. «Basta.» «Voglio che muoia!» «Basta!» Beverly giaceva sul pavimento. Mosse le mani. «Vi prego. Aiutatemi.» Nell'altro stanzone, Bruto ed Ermellino si erano seduti uno accanto all'altro sotto una lampada ondeggiante; la luce si rifletteva sui corti capelli a spazzola di Ermellino. Erano intenti a guardare il piccolo apparecchio televisivo, passando da un canale all'altro. Orso era in piedi accanto alla finestra, impegnato a contare. Sta contando le macchine della polizia, intuì Melanie. Si incamminò verso gli uomini e si fermò a circa tre metri di distanza da loro. Bruto guardò la sua gonna scura, la camicetta rossastra, la collanina d'oro - un regalo di suo fratello Danny. La stava studiando, con quel suo maledetto sorriso curioso stampato sul volto. Non faceva come Orso, non le fissava il corpo e le gambe. Soltanto la sua faccia e, in special modo, le sue orecchie. Melanie si rese conto che aveva osservato allo stesso modo la figura devastata dal dolore della signora Harstrawn: come se stesse aggiungendo un altro elemento a una sua personalissima collezione di tragedie. Mimò il gesto di scrivere qualcosa. «Dimmelo», disse lui lentamente, e a voce tanto alta che Melanie avvertì sulla pelle le inutili vibrazioni sonore. «Dillo.» Melanie si portò un dito alla gola. «Non puoi nemmeno parlare?»
Non avrebbe parlato. No. Non avrebbe parlato, anche se nelle sue corde vocali non c'era nulla che non andava. E, siccome era diventata sorda relativamente tardi nella vita, conosceva anche le regole fondamentali che sottendono alla formazione delle parole. Ciononostante, seguendo il modello di Susan, evitava l'oralismo perché non era chic. La comunità dei sordomuti disdegnava le persone che tentavano di cavalcare entrambi i mondi - il mondo dei sordomuti e quello degli Altri. Negli ultimi anni, Melanie non aveva tentato di proferire una sola parola. Indicò Beverly e respirò affannosamente. Si toccò il petto. «Sì», disse Bruto, «quella malata... Qual è il problema?» Melanie fece il gesto di prendere una medicina. Bruto scosse la testa. «Non me ne frega un cazzo. Torna indietro e siediti.» Melanie congiunse le mani; una preghiera, un'implorazione. Bruto ed Ermellino scoppiarono a ridere. Bruto gridò qualcosa a Orso, e Melanie avvertì le vibrazioni decise dei suoi passi che si avvicinavano. Poi un braccio le circondò il torace e, un istante più tardi, Orso la stava trascinando via. Le dita dell'uomo le strizzarono con violenza un capezzolo. Melanie gli scostò la mano con decisione rabbiosa e le lacrime tornarono a pungerle gli occhi. Nella stanza delle uccisioni si divincolò, allontanandosi da lui, e crollò a terra. Afferrò una delle lampade, che era appoggiata al pavimento, e se la strinse, calda e oleosa, al petto. Le scottava le dita, ma vi rimase aggrappata come a un salvagente. Orso abbassò lo sguardo su di lei e parve rivolgerle una domanda. Ma, proprio come aveva fatto in quel giorno di primavera con suo padre, sulla veranda della loro casa di campagna, lei non gli diede alcuna risposta; semplicemente, andò da un'altra parte. Quel giorno del maggio precedente, aveva salito le scale scricchiolanti e si era seduta su una vecchia sedia a dondolo nella sua camera. Ora giaceva sul pavimento della stanza delle uccisioni. Di nuovo bambina, più giovane delle gemelle, misericordiosamente chiuse gli occhi e andò da un'altra parte. A chi la osservava poteva sembrare svenuta. Ma, in realtà, non c'era proprio: era andata in qualche altro luogo, un luogo sicuro, un luogo che nessun altro conosceva. Quando reclutava nuovi negoziatori per le trattative, Arthur Potter si ri-
trovava nella peculiare posizione di interrogare ed esaminare cloni di se stesso. Poliziotti di mezza età, arruffati, dall'aria pacata. Per qualche tempo, la corrente di pensiero dominante nelle trattative per gli ostaggi era stata quella che della negoziazione dovessero occuparsene gli psicologi; ma, anche se un sequestro con relativo assedio e barricata assomiglia in molti suoi aspetti a una seduta di terapia, gli strizzacervelli, semplicemente, non avevano funzionato. Erano troppo analitici, la loro attenzione era fecalizzata troppo sulla diagnostica. Il punto principale, nel parlare con un sequestratore, non è quello di immaginare dove possa collocarsi nel manuale di psicologia comportamentale, ma di convincerlo a uscire con le mani alzate. E ciò richiede buonsenso, concentrazione, una mente acuta, una notevole dose di pazienza (Arthur Potter l'aveva imparato a sue spese), una sana concezione di se stessi, il raro dono di saper parlare bene e il talento ancor più raro di saper ascoltare meglio. E, cosa più importante, un negoziatore deve saper controllare le proprie emozioni. Questa era l'esigenza con cui Arthur Potter stava lottando in quel preciso momento. Combatteva strenuamente con se stesso per dimenticare l'immagine del petto di Susan Phillips che gli esplodeva davanti agli occhi, la sensazione delle goccioline bollenti di sangue che gli pungevano la pelle del viso. C'erano stati molti decessi nei casi a cui aveva lavorato in tutti quegli anni, ma non si era mai trovato tanto vicino a un omicidio a sangue freddo come quello a cui aveva assistito poco prima. Telefonò Henderson. I giornalisti avevano sentito uno sparo e smaniavano per ottenere qualche informazione. «Di' loro che rilascerò una dichiarazione entro mezz'ora. Non fartelo scappare, Pete, ma ne ha appena uccisa una.» «Oh, Dio, no.» Ma l'agente speciale non sembrava per nulla sconvolto: anzi, sembrava quasi compiaciuto. Forse perché Potter si era assunto la responsabilità dell'enorme tragedia che si stava svolgendo. «È stata un'esecuzione vera e propria. Le ha sparato nella schiena. Ascoltami, questa faccenda potrebbe finire veramente male. Attaccati al telefono con Washington e cerca di spingere perché assemblino alla svelta l'SSO, d'accordo?» «Perché l'ha fatto?» «Nessun motivo apparente», rispose Potter, e interruppe la comunicazione. «Henry», disse poi a LeBow. «Ho bisogno di un aiuto. Che cosa dob-
biamo evitare?» I negoziatori tentano sempre di incrementare il livello di confidenza del loro rapporto con i sequestratori affrontando argomenti personali. Ma una domanda su una questione delicata può rendere addirittura frenetico un sequestratore particolarmente agitato, spingendolo persino a uccidere. «Ci sono così pochi dati», sospirò l'agente informativo. «Personalmente, eviterei di parlare del suo servizio militare e di suo fratello Rudy.» «I genitori?» «Rapporti sconosciuti. Al tuo posto, eviterei di parlare dei massimi sistemi finché non riusciremo a saperne di più.» «La sua ragazza? Come si chiama?» «Priscilla Gunder. Non ci sono problemi con lei, almeno così sembra. Si credevano una copia di Bonnie & Clyde.» «A meno che», fece notare Budd, «lei non l'abbia scaricato quando è finito in galera.» «Osservazione degna di nota», disse Potter, decidendo di lasciare che fosse Handy a parlare per primo della sua ragazza e di limitarsi a fare eco a qualsiasi cosa lui avesse detto in proposito. «Sicuramente da evitare la sua ex moglie. Sembra proprio che tra loro corresse cattivo sangue.» «Quindi, evitare le relazioni personali in generale», riassunse Potter. Era tipico, nei sequestri a sfondo criminale. Di solito i sequestratori mentalmente disturbati volevano parlare della ex moglie che amavano ancora. Lanciò un'occhiata al mattatoio e annunciò: «Voglio tentare di farne rilasciare una. Con quale dovremmo provare? Che cosa sappiamo degli ostaggi, fino a questo momento?» «Soltanto pochi fatti isolati. Non avremo nulla di sostanziale finché non arriva Angie.» «Stavo pensando...» cominciò Budd. «Sì, vai avanti.» «Quella ragazzina con l'asma. Hai domandato di lei, prima, ma secondo me lui non aveva idea che la bambina potesse quasi soffocare. Handy è il tipo di persona che non ha molta pazienza per una cosa del genere. Probabilmente a quest'ora è più che pronto a sbatterla fuori a calci.» «Il ragionamento è corretto, Charlie», ammise Potter. «Ma la psicologia delle trattative dice che, una volta ottenuto un rifiuto, devi proseguire con un argomento o con una persona diversa. Al momento Beverly non è più negoziabile. Sarebbe un segno di debolezza da parte nostra cercare di otte-
nere proprio lei, e un segno di debolezza troppo grande da parte sua cedere dopo aver già rifiutato. Henry, non hai proprio niente sulle altre?» «Be', c'è questa ragazza, Jocylyn Weiderman. Ho un appunto di Angie secondo il quale la ragazza è stata saltuariamente in terapia per problemi di depressione. Piange molto e ha spesso attacchi isterici. Potrebbe farsi prendere dal panico e tentare di fuggire. E farsi ammazzare.» «Io voto per questa», disse Budd. «Bene», annunciò Potter. «Proviamo con lei.» Mentre stava allungando la mano verso il telefono, Tobe sollevò un braccio per fermarlo. «Chiamata in arrivo», avvisò. Il telefono ronzò. Il registratore cominciò a girare. «Pronto?» domandò Potter. Silenzio. «Come vanno le cose là dentro, Lou?» «Non male.» Il vetro spesso del finestrino del furgone era proprio accanto a lui, ma lo sguardo di Potter era rivolto verso l'alto, fisso su ciò che LeBow aveva montato alla parete: il diagramma CAD del mattatoio. Sarebbe stato l'incubo di qualunque SSO. Il punto in cui Handy sembrava trovarsi in quel momento era un unico grande stanzone, sicuramente un recinto per gli animali in attesa di essere uccisi. Ma, sul retro dell'edificio, c'erano tre piani di stanzette: piccoli uffici, locali di taglio e imballaggio, locali per la tritatura delle salsicce e magazzini, connessi tra loro da un dedalo di angusti corridoi. «Dovrete essere piuttosto stanchi, là dentro...» «Ascoltami bene, Art. Ti dirò quello che vogliamo. Probabilmente hai un registratore in funzione, ma faremo finta che tu non ce l'abbia.» «Certo che ce l'ho, Lou. Stiamo registrando ogni parola. Non ho intenzione di raccontarti balle. Sai bene come la penso.» «Sai, detesto il suono della mia voce su nastro. In uno dei miei processi hanno fatto sentire in aula una mia confessione registrata. Non mi piaceva il suono della mia voce. Non so nemmeno perché avevo confessato. Immagino di essere stato ansioso di raccontare a qualcuno quello che avevo fatto a quella ragazza.» Potter, smanioso di apprendere tutto ciò che poteva su quell'uomo, gli domandò: «Che cosa hai fatto esattamente, Lou?» Immaginò la risposta: È stato veramente orribile. Non credo che ti piacerebbe sentirlo. «Oh, non è stato piacevole, Art. Per niente carino. Ero molto orgoglioso
del mio lavoro, però.» «Stronzo», mormorò Tobe. «A nessuno piace il suono della sua voce su nastro, Lou», continuò Potter tranquillo. «Sai, una volta all'anno devo tenere ai miei colleghi questo seminario di aggiornamento. Loro lo registrano. Detesto la voce che ne viene fuori.» Smettila di dire stronzate, Art. Adesso ascoltami bene. «Non è che me ne freghi poi molto, Art. Adesso prendi la tua matitina e ascoltami bene. Vogliamo un elicottero. Uno di quelli grossi. Uno con otto posti a sedere.» Nove ostaggi, tre sequestratori e il pilota. Ne restavano fuori cinque... che cosa aveva intenzione di farne? LeBow stava scrivendo tutto sul suo computer. Aveva foderato la tastiera con del cotone per rendere la digitazione assolutamente silenziosa. «D'accordo, tu vuoi un elicottero, ma la polizia e l'FBI hanno soltanto elicotteri a due posti. Ci vorrà un po' di tempo prima che riusciamo a...» «Come ti ho già detto, Art, non me ne frega poi molto. Elicottero e pilota. Questa è la richiesta numero uno. Intesi?» «Certo che sì, Lou, ma come ti ho già detto, io sono soltanto un agente speciale. Non ho l'autorità necessaria per requisire un elicottero. Dovrò rivolgermi a Washington.» «Art, tu non mi stai ascoltando. Questo è un tuo problema. Mi sa che la frase di prima diventerà il mio motto del giorno. Non Me Ne Frega Niente. Il tempo passa, sia che tu debba chiamare l'aeroporto a un paio di chilometri lungo la strada o il papa.» «D'accordo. Continua.» «Vogliamo qualcosa da mangiare.» «L'avrete. Qualcosa in particolare?» «McDonald's. Tanta roba.» Potter rivolse un cenno a Budd, che si desse da fare. «Sta arrivando.» Arriva fino a lui. Entra nella sua testa. «E cento proiettili calibro dodici, giubbotti antiproiettile e maschere antigas.» «Oh, be', Lou, immagino che tu sappia che questo non posso proprio farlo.» «Non lo so affatto, invece.» «Non posso darti delle armi, Lou.»
«Anche se avessi in mente di darti una delle ragazze?» «Non esiste, Lou. Armi e munizioni interrompono qualsiasi trattativa. Mi dispiace.» «Usi troppo il mio nome, Art. Ehi, ascolta, se stessimo facendo davvero una trattativa seria, quale delle ragazze vorresti? Ce n'è una in particolare? Facciamo come se non stessimo parlando di armi o di roba del genere.» LeBow inarcò le sopracciglia e annuì. Budd mostrò a Potter il pollice alzato. Melanie, pensò automaticamente Potter. Ma era convinto che la loro decisione fosse quella più giusta e che dovessero tentare con la ragazza più a rischio: Jocylyn, la studentessa con la depressione. Potter gli disse che sì, c'era una ragazza in particolare che volevano venisse rilasciata. «Descrivila.» LeBow girò il computer verso Potter che lesse le note sullo schermo e poi disse: «Capelli corti neri, sovrappeso. Dodici anni. Si chiama Jocylyn». «Lei? Quella piccola merda piagnucolosa. Si lamenta come un cucciolo con una zampa rotta. Sarà bello non averla più intorno. Grazie per aver scelto lei, Art. È proprio a lei che sparerò tra cinque minuti, se non ci dai le armi e le munizioni.» Clic. 14,00 Maledizione, pensò Potter battendo il pugno sul tavolo. «Oh, ragazzi», sussurrò Budd. «Oh, Cristo.» Potter prese il binocolo e vide una bambina apparire dietro una delle finestre del mattatoio. Era grassoccia e le sue guance rotonde scintillavano di lacrime. Quando la canna della pistola le sfiorò i capelli tagliati corti, la bambina chiuse gli occhi. «A voce alta, Tobe.» «Quattro minuti e trenta secondi.» «È lei?» sussurrò Potter a LeBow. «Jocylyn?» «Ne sono sicuro.» «Ti sei segnato che le loro pistole sono calibro dodici?» domandò con voce piatta. «Sì. E che potrebbero essere anche a corto di munizioni.» Derek li osservava, sconvolto per la loro conversazione così tranquilla.
«Gesù Cristo», esclamò Budd con voce roca. «Fate qualcosa.» «E che cosa?» «Be', richiamatelo e ditegli che gli darete le munizioni.» «No.» «Quattro minuti.» «Ma lui la ucciderà.» «Non credo che lo farà.» Lo farà, non lo farà? Potter si dibatteva nell'incertezza. Francamente, non era in grado di dirlo. «Guardate», disse Budd. «Guardate là fuori! Quella bambina ha una pistola puntata alla testa. Posso vederla piangere da qui.» «Che è proprio quello che lui vuole che noi vediamo. Calmati, Charlie. Non si tratta mai su armi o giubbotti antiproiettile.» «Ma la ucciderà.» «Tre minuti e trenta secondi.» «E se», continuò Potter, lottando per controllare la propria impazienza, «Handy è completamente senza munizioni? E se è seduto là dentro con due pistole vuote e un fucile scarico?» «Be', forse gli è rimasto un solo proiettile e sta per usarlo su quella bambina.» Una situazione in cui sono coinvolti degli ostaggi è un omicidio in corso di svolgimento. Potter continuava a fissare la faccia infelice della bambina. «Dobbiamo pensare di aver avuto nove perdite, fino a questo momento: le ragazze là dentro. Cento proiettili calibro dodici? Ciò potrebbe raddoppiare il numero delle perdite.» «Tre minuti.» Fuori, Stillwell si muoveva a disagio e si scompigliava i capelli. Guardava il furgone, poi spostava di nuovo lo sguardo sul mattatoio. Non aveva sentito la conversazione tra Potter e Handy, ma lui, come tutti gli altri poliziotti, poteva vedere la testa della povera bambina dietro la finestra. «Due minuti e trenta secondi.» «Mandaglieli caricati a salve. O dei proiettili che gli rovinino le armi.» «Questa è una buona idea, Charlie. Ma non abbiamo nulla del genere. Non sprecherà un altro ostaggio così presto.» Sarà vero? si domandò Potter. «Sprecare un ostaggio?» La voce di un altro agente - Derek, il tecnico echeggiò nel furgone. Potter credette di aver udito l'uomo aggiungere in un sussurro: «Figlio di puttana».
«Due minuti», scandì Tobe con voce completamente priva di qualsiasi inflessione. Potter si sporse in avanti, guardando fuori del finestrino. Vide i poliziotti dietro la loro linea Maginot di automobili; alcuni, visibilmente a disagio, continuavano a voltarsi verso il furgone. «Un minuto e trenta secondi.» Che cosa sta facendo Handy? Che cosa sta pensando? Non riesco a vedere dentro di lui. Ho bisogno di più tempo. Ho bisogno di parlargli un po' di più. Tra un'ora, saprei dire se la ucciderà oppure no. Al momento, tutto ciò che posso vedere è fumo... fumo e pericolo. «Un minuto», annunciò Tobe. Potter recuperò il telefono e premette il pulsante di selezione rapida. Clic. «Contatto.» «Lou.» «Art, ho deciso che voglio anche un centinaio di munizioni per le Glock.» «No.» «Anzi, fai centouno. Ne perderò una fra trenta secondi. Avrò bisogno di qualcosa per rimpiazzare il proiettile.» «Niente munizioni, Lou.» Derek fece un balzo in avanti e afferrò il braccio di Potter. «Lo faccia! Per l'amor di Dio!» «Sergente!» gridò Budd. Con uno strattone trascinò via l'uomo e lo spinse in un angolo. «Ricordi quel tipo dei vietcong che si è beccato una pallottola?» continuò Handy. «Una pallottola in testa? Era in un film. Il sangue sprizzava in alto come una fottuta fontana.» «Non posso farlo, Lou. Non mi capisci? Abbiamo la linea disturbata o qualcosa del genere? La mia voce non ti giunge forte e chiara?» «Dovresti trattare!» sussurrò Budd, irato. «Parla con lui.» Ora sembrava quasi dispiaciuto di aver allontanato Derek Elb. Potter lo ignorò. «Dieci secondi, Arthur», disse Tobe, tormentandosi nervosamente il buco dell'orecchino. Ora non fissava più i suoi preziosi display, ma stava guardando direttamente fuori del finestrino. I secondi passarono, dieci minuti o un'ora. Nel furgone di comando il silenzio era assoluto, fatta eccezione per il fruscio statico della linea telefo-
nica aperta, un suono che sembrava gocciolare dagli altoparlanti come sangue. Potter si rese conto di aver smesso di respirare. Riprese fiato. «Lou, sei lì?» Nessuna risposta. «Lou?» Improvvisamente, la pistola si abbassò e una mano afferrò la ragazza per il colletto. Mentre veniva trascinata nelle profondità del mattatoio, la bambina spalancò la bocca. Potter immaginò: Ehi, Art, che cosa sta succedendo, ragazzi? «Ehi, Art, come va?» La voce gioiosa di Handy gracchiò dagli altoparlanti. «Niente male. E voi?» «Ce la caviamo. Ecco l'accordo. Ne uccido una ogni ora finché non arriva quell'elicottero. All'ora esatta, ogni ora, a partire dalle quattro.» «Be', Lou, ti dico fin da ora che avremo bisogno di più tempo per recuperare un elicottero come quello che vuoi.» Potter immaginò: Vaffanculo. Tu farai quello che dico io. Ma, con una vena di giocosa minaccia nella voce, Handy disse: «Quanto tempo in più?» «Un paio d'ore. Forse...» «Cazzo che no. Vi darò tempo fino alle cinque.» Potter tacque per un ragionevole lasso di tempo. «Credo che così potremmo tentare di farcela.» Una risata aspra. Poi: «E un'altra cosa, Art». «Che cosa?» Una pausa di silenzio, in cui la tensione crebbe fino a farsi palpabile. «Con quegli hamburger ci voglio delle patatine fritte. Un sacco di patatine fritte.» «Le avrai. Ma io voglio quella bambina.» «Oh, ehi», sussurrò Budd, «forse non dovresti forzargli troppo la mano.» «Quale bambina?» «Jocylyn. Quella che hai appena tenuto davanti alla finestra.» «Jocylyn», ripeté il sequestratore con improvvisa animazione, sorprendendo Potter ancora una volta. «C'è qualcosa di buffo in questo nome.» Potter schioccò le dita, indicando il computer di LeBow. L'agente informativo fece scorrere il profilo di Handy ed entrambi tentarono di trovare qualche riferimento al nome Jocylyn: madre, sorella, responsabile di libertà vigilata, qualsiasi cosa. Nulla.
«Perché è buffo, Lou?» «Circa dieci anni fa mi sono scopato una cameriera che si chiamava Jocylyn e mi è piaciuto proprio tanto.» Potter sentì un brivido corrergli lungo la spina dorsale. «È stato un bel bocconcino. Prima che incontrassi Pris, ovviamente.» Il negoziatore ascoltò attentamente il tono di voce di Handy. Chiuse gli occhi. Immaginò: Era anche lei un ostaggio, quella Jocylyn, e l'ho uccisa perché... Non riusciva a immaginare il resto di ciò che Handy avrebbe potuto dire. «Non pensavo a lei da anni. Anche la mia Jocylyn era un ostaggio, proprio come questa. Non ha fatto quello che le avevo detto di fare. Voglio dire, semplicemente non l'ha fatto. Così ho dovuto adoperare il coltello.» Una parte di tutto questo appartiene alla sua recita, pensò Potter. Come l'allegro riferimento al coltello. Ma in quelle parole c'era anche qualcosa di importante, un elemento rivelatore. Non ha fatto quello che le avevo detto di fare. Scrisse la frase e la spinse verso LeBow perché la immettesse nel computer. «La voglio, Lou», disse poi al telefono. «Oh, non ti preoccupare. Adesso sono fedele alla mia Pris.» «Quando arriverà il cibo, facciamo uno scambio. Che ne pensi, Lou?» «Non vale niente, Art. La ragazzina, dico. Credo che si sia pisciata nelle mutandine. O magari è soltanto che non si lava troppo spesso. Persino Bonner non le andrebbe troppo vicino, te lo dico io. E, come probabilmente già sai, lui sì che è un figlio di puttana di quelli che non scherzano.» «Stiamo dandoci da fare per procurarvi l'elicottero e tra poco avrete lì il cibo. Mi devi una ragazza, Lou. Ne hai uccisa una. Sei in debito con me.» Budd e Derek lo fissavano increduli. «No», disse Handy. «Non credo proprio.» «In quell'elicottero avrai spazio soltanto per quattro o cinque ostaggi. Dammi quella bambina.» A volte devi abbassarti, a volte devi colpire. «Cristo, Lou», sbottò, «so benissimo che hai intenzione di ucciderle. Me l'hai fatto capire. Quindi lasciala andare e basta, d'accordo? Ti manderò un agente con il cibo; lascialo tornare indietro con la bambina.» Una pausa. «Vuoi davvero quella lì?» In realtà, pensò Potter, mi piacerebbe averle tutte, Lou. Era il momento giusto per una battuta? O era ancora troppo presto? Rischiò. «In realtà, mi piacerebbe averle tutte, Lou.»
Una pausa raggelante. Poi, una risata rauca dall'altoparlante. «Sei una lenza, Art. D'accordo, la manderò fuori. Sincronizziamo i nostri Timex, ragazzi. Le lancette si muovono. Vi prendete quella grassa in cambio del cibo. Quindici minuti. O altrimenti potrei cambiare idea. E un grosso, bell'elicottero alle cinque in punto del pomeriggio.» Clic. «Ottimo!» gridò Tobe. Budd annuiva vigorosamente. «Grande, Arthur. Questa è stata grande.» Derek era seduto in silenzio al pannello di controllo. Rimase così per un lungo istante, ma alla fine inarcò le labbra in un sorriso e si scusò per il proprio comportamento di poco prima. Potter, sempre propenso a perdonare l'entusiasmo dettato dalla giovinezza, strinse di buon grado la mano che gli offriva l'agente. Budd sorrideva per il sollievo. «Wichita è la capitale dell'aviazione del Midwest», disse. «Diavolo, possiamo far arrivare qui un elicottero in mezz'ora.» «Non abbiamo la minima intenzione di procurargliene uno», lo raggelò Potter. Fece un cenno in direzione del foglio degli Inganni/Promesse. LeBow scrisse: Elicottero a otto posti, in procinto di arrivare agli ultimatum orari. A partire dalle cinque pomeridiane. «Non avete intenzione di darglielo?» sussurrò Budd. «Certo che no.» «Ma hai mentito.» «È per questo motivo che la mia promessa è scritta sul lato Inganni del cartello.» Digitando nuovamente, LeBow disse: «Non possiamo permettergli di rendersi mobile. Specialmente in un elicottero». «Ma lui ne ucciderà un'altra alle cinque.» «Così dice.» «Ma...» «Questo è il mio lavoro, Charlie», disse Potter dando fondo a tutta la sua pazienza. «È proprio quello che sto cercando di fare qui: convincerlo con le parole a uscire da là dentro.» E si versò una tazza di caffè orribilmente cattivo da un bollitore di acciaio inossidabile. Potter si fece scivolare in tasca un telefono cellulare e uscì dal furgone,
camminando accovacciato finché non si ritrovò nel fosso che lo proteggeva dal mattatoio. Budd lo accompagnò per un tratto. Il giovane capitano aveva scoperto che la polizia di Hutchinson aveva l'autorità di fermare il traffico fluviale e aveva ordinato loro di farlo, incorrendo nell'ira di diversi committenti di navi adibite al trasporto di container verso Wichita, imbarcazioni i cui tassametri correvano al prezzo di duemila dollari l'ora. «Non si può compiacere chiunque», osservò il negoziatore, distratto. La temperatura si stava abbassando sempre più - davvero uno strano luglio, con temperature tra i quindici e i venti gradi - e nell'aria gravava un pesante odore metallico, forse prodotto dallo scarico diesel dei vicini trattori, mietitrebbia o quel che erano. Potter rivolse un cenno di saluto a Stillwell, che camminava avanti e indietro fra le truppe, sogghignando di tanto in tanto e ordinando agli agenti di mantenere le posizioni assegnate. Dopo aver lasciato Budd, Potter si infilò in un'automobile dell'FBI e guidò fino all'area di servizio nelle retrovie. I principali network e le emittenti locali dei tre stati confinanti erano già lì, così come i giornalisti dei principali quotidiani e delle agenzie più importanti. Scambiò qualche parola con Peter Henderson che, nonostante le sue frustrazioni, aveva comunque messo a punto un efficiente sistema di trasporti, un'area per i rifornimenti perfettamente funzionante e un tendone per la stampa. Potter era già noto alla stampa e i giornalisti gli si avventarono addosso con frenesia non appena scese dall'automobile. Erano esattamente come se li era aspettati: aggressivi, con poca voglia di scherzare, furbi, preparati. Non erano mai cambiati in tutti quegli anni; da quando lui faceva quel lavoro, erano sempre gli stessi. La sua prima reazione, come al solito, fu di pensare a quanto avrebbe detestato essere sposato a uno di loro. Salì sul podio che Henderson aveva installato e guardò verso la massa di luci bianche delle telecamere. «Circa alle otto e trenta di questa mattina», esordì, «tre criminali evasi hanno rapito e preso in ostaggio due insegnanti e otto allieve della Laurent Clerc School per sordomuti di Hebron. In precedenza, i criminali in questione erano evasi dal penitenziario federale di Callana. «Attualmente sono asserragliati in una fabbrica abbandonata sulle rive del fiume Arkansas a circa due chilometri e mezzo da qui, ai confini municipali della città di Crow Ridge. Sono tenuti sotto controllo da diverse centinaia di uomini appartenenti ai corpi di polizia locali, statali e federali.»
Il numero era più vicino al centinaio, ma Potter preferiva di gran lunga alterare la verità con il quarto potere piuttosto che rischiare di ingenerare nei sequestratori una sicurezza eccessiva - giusto nel caso che fossero in grado di seguire un notiziario. «Si è verificato un decesso tra gli ostaggi...» I giornalisti sussultarono. Cominciò il brusio. Una selva di mani si alzò. Latrarono domande su domande, ma Potter si limitò a dire: «L'identità della vittima e quelle degli altri ostaggi non verranno rivelate fino a quando tutti i membri delle rispettive famiglie non saranno informati dell'incidente. Siamo nel pieno della trattativa con i criminali, che sono stati identificati come Louis Handy, Shepard Wilcox e Ray 'Sonny' Bonner. Nel corso delle trattative non verrà consentito l'accesso della stampa al luogo delle operazioni. Riceverete aggiornamenti via via che verremo in possesso di nuove informazioni. Per il momento, questo è tutto ciò che ho da dire». «Agente Potter...» «Per il momento non rispondo a nessuna domanda.» «Agente Potter...» «Agente Potter, per favore...» «Se la sentirebbe di paragonare questa situazione all'affare Koresh di Waco?» «Abbiamo bisogno che venga dato il via libera agli elicotteri della stampa. I nostri avvocati hanno già contattato il direttore...» «Questa è come la situazione Weaver di qualche anno...» Potter uscì dalla tenda della stampa tra i flash silenziosi delle macchine fotografiche e sotto la luce abbagliante e impietosa delle telecamere. Era quasi giunto alla macchina quando udì una voce. «Agente Potter, mi concede un minuto?» Lui si voltò e vide un uomo che si avvicinava. Zoppicava. Non aveva l'aria del tipico reporter. Non era un ragazzino e, se da un canto sembrava aggressivo e indurito, per lo meno non era indignato, la qual cosa lo fece salire, anche se soltanto di poco, nella stima di Potter. Più vecchio dei suoi colleghi, aveva la carnagione scura e il volto profondamente segnato da una ragnatela di rughe. Dopotutto, quell'uomo assomigliava a un vero giornalista: Edward R. Murrow. «Nessuna dichiarazione individuale», disse Potter. «Non gliene sto chiedendo una. Sono Joe Silbert, della KFAL di Kansas City.» «Certo, certo. Se ora vuole scusarmi...»
«Lei è uno stronzo, Potter», sibilò Silbert, più con stanchezza che con rabbia. «Nessuno ha mai obbligato a terra gli elicotteri della stampa, prima d'ora.» I rischi sono troppo alti, pensò l'agente. «Avrete le notizie insieme a tutti gli altri.» «Un attimo. So che voi fareste volentieri a meno di noi giornalisti. Siamo una spina nel fianco. Ma anche noi dobbiamo fare il nostro lavoro. Questa è roba grossa. E lei lo sa. Avremo bisogno di qualcosa di più che qualche fottuta dichiarazione o qualche stupido briefing come quello che ci è appena stato propinato da lei. L'ammiraglio le arriverà attaccato al culo così alla svelta che lei si augurerà di essere tornato a Waco.» Qualcosa, nel modo in cui aveva pronunciato il grado militare, lasciava intendere che Silbert conosceva personalmente il direttore dell'FBI. «Non c'è nulla che io possa fare. La sicurezza sul luogo delle operazioni deve essere assolutamente perfetta.» «Mi sento in dovere di dirle che, se sopprime troppe informazioni, quei giovani giornalisti d'assalto laggiù tenteranno qualche mossa disperata per riuscire a introdursi all'interno del suo prezioso perimetro di sicurezza. Adopereranno decrittatori per intercettare le trasmissioni radio, impersoneranno ufficiali di...» «Il che è tutto illegale.» «Le sto soltanto dicendo ciò di cui alcuni di loro stavano parlando poco fa. Ci sono dei malumori notevoli, là fuori. E sicuro come l'oro che non ho intenzione di perdermi una bella esclusiva per i colpi di testa di qualche giovanotto fresco fresco di scuola di giornalismo.» «Ho dato preciso ordine di arrestare qualsiasi persona non appartenente alle forze di polizia che venga a trovarsi nelle vicinanze della fabbrica. Giornalisti inclusi.» Silbert fece roteare gli occhi. «Peter Arnett a Baghdad ha avuto vita più facile. Gesù Cristo, pensavo che lei fosse un negoziatore! Perché non vuole saperne di trattare?» «Dovrei tornare lì, adesso.» «Per favore! Ascolti soltanto la mia proposta, d'accordo? Una delegazione della stampa. Lei permette l'accesso a un paio di giornalisti per volta nelle vicinanze del mattatoio. Niente telecamere, niente radio, niente registratori. Soltanto macchine per scrivere o computer portatili. Penna e matita.» «Joe, non possiamo rischiare che i sequestratori ottengano qualsiasi in-
formazione su ciò che stiamo facendo. Lei lo sa benissimo. Potrebbero avere una radio, là dentro.» Un tono minaccioso filtrò nella voce del reporter. «Senta. Se lei comincia a sopprimere informazioni, noi cominceremo a fare congetture.» Diversi anni prima, un'analoga situazione a Miami era peggiorata improvvisamente quando i sequestratori avevano ascoltato sulla loro radio portatile un giornalista che descriveva l'assalto di un'SSO al luogo in cui erano barricati. In seguito si era scoperto che il giornalista stava semplicemente facendo congetture su ciò che sarebbe potuto accadere, ma i sequestratori avevano creduto che fosse vero e avevano cominciato a sparare agli ostaggi. «Questa è una minaccia, suppongo», osservò Potter con voce piatta. «I tornado sono minacce», rispose Silbert. «E sono anche fatti della vita. Senta, che cosa posso fare per convincerla?» «Niente. Mi dispiace.» E si voltò verso la macchina. Il reporter sospirò. «'Fanculo. Che mi dice di questo? Lei potrà leggere i pezzi prima che li inviamo. Potrà censurarli.» Quello sì che era un primo passo. Nelle centinaia di casi in cui Potter aveva trattato con i sequestratori, aveva avuto relazioni di tutti i tipi con la stampa, buone e cattive, nel tentativo di bilanciare i diritti costituzionali con la salvaguardia degli ostaggi e degli agenti. Ma non aveva mai incontrato un giornalista che acconsentiva a fargli visionare prima i pezzi. «Si tratta di una restrizione primaria», disse Potter che, al corso di legge, si era diplomato come quarto della sua classe. «Ho già sentito almeno una dozzina di giornalisti che parlavano di oltrepassare le barriere. Se lei acconsente a far entrare un paio dei nostri, la cosa li fermerà. Mi ascolteranno.» «E lei vuole essere uno di questi due.» Silbert sorrise. «Certo che voglio essere uno dei due. In realtà, voglio essere uno dei primi due. Devo consegnare il pezzo entro un'ora. Avanti, su, che cosa ne pensa?» Che cosa ne pensava? Che la metà dei problemi di Waco era stata causata dalle relazioni con la stampa. Che lui era responsabile non soltanto della vita degli ostaggi, degli agenti e dei poliziotti, ma anche dell'integrità e dell'immagine dello stesso FBI e che, nonostante la sua abilità indiscussa di negoziatore, era del tutto inetto per quanto concerneva le pubbliche relazioni e la politica dell'agenzia. E sapeva pure che la maggior parte di ciò
che il Congresso, il dipartimento della Giustizia e la Casa Bianca avrebbero appreso su quanto stava accadendo lì l'avrebbero sentito dalla CNN e letto sul Washington Post. «D'accordo», acconsentì infine. «Può farlo. Coordinerà la cosa con il capitano Charlie Budd.» Guardò l'orologio. Era l'ora del cibo: sarebbe arrivato da un momento all'altro. Doveva tornare indietro. Guidò fino al furgone di comando, disse a Budd di approntare una piccola tenda per la stampa dietro il furgone stesso e di incontrarsi con Joe Silbert per prendere accordi in tal senso. «Sarà fatto. Ma dov'è il cibo?» domandò Budd, guardando ansiosamente la strada. «Il tempo stringe.» «Oh! Abbiamo un discreto margine di flessibilità. Una volta che un sequestratore ha acconsentito a rilasciare un ostaggio, ha oltrepassato l'ostacolo più grosso. Nella sua testa, ha già lasciato andare Jocylyn.» «Lo pensa davvero?» «Vai a sistemare quella tenda per i giornalisti.» Si incamminò nuovamente verso il furgone e si scoprì a pensare non tanto al cibo o agli elicotteri o a Louis Handy, quanto piuttosto a Melanie Charrol. E non a quanto preziosa potesse essere come ostaggio nel corso delle trattative, né a quali benefici potesse apportare in quanto ad affidabilità in un'eventuale risoluzione tattica del sequestro. No, stava riflettendo su informazioni apparentemente assai più marginali, riportandosi alla mente il movimento delle labbra della giovane insegnante quando gli aveva parlato da dietro la finestra semibuia del mattatoio. Che cosa poteva avergli detto? E si domandava, principalmente, come sarebbe stato intrattenere una conversazione con lei. Da un lato un uomo che si era fatto strada nel mondo ascoltando le parole degli altri, parlando con gli altri. Dall'altro lei, una sordomuta. Labbra, denti, labbra. Mimò i movimenti che aveva intravisto poco prima. Labbra, denti... Ci siamo, pensò all'improvviso. E, nel suo cervello, udì: «State accorti». Lo ripeté ad alta voce: «State accorti». Sì, era proprio così. Ma per quale motivo un'espressione tanto arcaica? Ma certo: affinché lui potesse leggerle le labbra. Con quell'espressione, il movimento della bocca era esagerato. Era ovvio. Non «fate attenzione». Oppure «siate cauti». O ancora «è pericoloso».
State accorti. Doveva informare LeBow. Si mosse verso il furgone ma, a meno di dieci metri dalla sua destinazione, una limousine apparve accanto a lui. L'agente ebbe l'impressione che, mentre lo superava, la lunga automobile sterzasse leggermente verso l'interno, quasi a voler tagliargli la strada. La portiera posteriore si aprì e ne uscì un uomo massiccio. «Ma guarda tutta 'sta cosa», disse con tracotanza. «Sembra il D-Day, le truppe sono sbarcate. Hai tutto sotto controllo, Ike? Sicuro? Tutto perfettamente sotto controllo?» Potter si fermò e si voltò. L'uomo si avvicinò e il suo sorriso, se di sorriso si poteva parlare, svanì mentre diceva: «Agente Potter, io e lei dobbiamo parlare». 14,20 Ma non parlò subito. Si chiuse i lembi del vestito scuro quando una raffica di vento freddo spazzò il fossato e si diresse a grandi passi verso l'altura, oltrepassando Potter, e guardò attentamente il mattatoio. L'agente dell'FBI notò la targa della macchina, chiedendosi con una punta di preoccupazione chi potesse essere il visitatore, e proseguì verso il furgone. «Al suo posto starei più indietro», lo avvisò. «Lì è a portata di fucile.» La grossa mano sinistra dell'uomo si allungò e gli afferrò il braccio mentre si stringevano le mani. Si presentò come Roland Marks, viceprocuratore generale dello stato. Ah, lui. Potter ricordò la conversazione telefonica di qualche ora prima. L'uomo lanciò un'altra occhiata alla fabbrica, fornendo ancora un perfetto bersaglio per i criminali rinchiusi nell'edificio. «Fossi in lei farei più attenzione», ripeté il negoziatore con impazienza. «Al diavolo. Hanno dei fucili, vero? Con mirini al laser? Forse anche dei siluri fotonici. Come in Star Trek, sa.» Non ho tempo per queste cose, pensò Potter. Il tizio era alto e massiccio, con un naso pronunciato, e la sua presenza lì era come il bagliore blu del plutonio in un reattore nucleare. Potter gli disse: «Un momento, per favore». Poi entrò nel furgone di comando, inarcando un sopracciglio. Tobe indicò il mattatoio con un cenno del capo. «Tutto tranquillo.»
«E il cibo?» Budd disse che sarebbe arrivato di lì a pochi minuti. «Marks è qui fuori, Henry. Hai trovato niente su di lui?» «È qui?» LeBow fece una smorfia. «Ho fatto qualche telefonata. È un duro in tribunale. Rapido come un colpo di frusta. Specializzato in crimini da colletti-bianchi. Eccellente percentuale di condanne.» «Il tipo di persona alla 'qui non si fanno prigionieri'?» «Esattamente. Ma ambizioso. Una volta si è presentato per il Congresso. Ha perso le elezioni, ma ha ancora delle speranze per Washington, o almeno così si dice. La mia opinione è che stia cercando di sfruttare la situazione per avere un po' di spazio sui mass-media.» Potter aveva imparato molto tempo prima che i casi in cui sono coinvolti degli ostaggi sono anche ottime occasioni per le pubbliche relazioni: le carriere dei politici erano in gioco almeno quanto le vite delle persone coinvolte. Decise di affrontare Marks con prudenza. «Ah, scrivi che ho decifrato il messaggio dell'ostaggio. State accorti. Diamo per scontato che si riferisse a Handy.» LeBow lo fissò per un istante. Poi annuì e cominciò a battere sui tasti del suo computer. Tornato all'esterno del furgone, Potter si rivolse al viceprocuratore, il secondo avvocato più potente dello stato. «Che cosa posso fare per lei?» «Allora è proprio vero? Quello che ho sentito dire? Che ha ucciso una di loro?» Potter annuì lentamente. L'uomo chiuse gli occhi e sospirò. Le sue labbra si piegarono in una smorfia di dispiacere. «Per quale motivo, in nome del cielo, ha fatto una cosa folle come questa?» «È il suo modo per dirci che fa sul serio.» «Oh, buon Dio.» Marks si strofinò la faccia con le dita larghe e tozze. «Il procuratore generale e io stavamo parlando proprio di questa faccenda, agente Potter. Siamo molto preoccupati per gli sviluppi della situazione e io sono venuto fin qui per chiedere se c'è qualcosa, qualsiasi cosa, che possiamo fare come autorità statale. Ho sentito parlare di lei, sa. La sua reputazione. Tutti hanno sentito parlare di lei, signore.» L'agente federale rimase impassibile. Credeva di essere stato abbastanza rude al telefono da riuscire a tenere l'avvocato fuori della sua vita. Ma, a quanto sembrava, era come se per Marks quella conversazione non avesse mai avuto luogo. «Si tiene le sue carte ben strette, vero? Ma immagino che debba farlo. Dopotutto, è come giocare a poker, no? Con una posta molto, molto alta.»
Una posta altissima, pensò nuovamente Potter, e ancora una volta si scoprì a desiderare che quell'uomo se ne andasse. «Come le ho già detto, per il momento non ho bisogno di nulla da parte dello stato del Kansas. Abbiamo dei poliziotti di stato adibiti al contenimento e ho nominato Charlie Budd come mio comandante in seconda.» «Budd?» «Lo conosce?» «Certamente. È un buon poliziotto. E io conosco tutti i bravi poliziotti.» Si guardò intorno. «Dove sono i soldati?» «Il soccorso ostaggi?» «Ero convinto che, a questo punto, fossero già pronti a entrare in azione.» Potter non era ancora sicuro di che aria tirasse, a Topeka. «Non sto utilizzando l'unità dello stato del Kansas. La squadra dell'FBI si sta preparando e sarà qui tra poche ore.» «Questo è un problema.» «Per quale motivo?» domandò l'agente in tono innocente, dando per scontato che il viceprocuratore volesse che fosse l'SSO dello stato a occuparsi della parte tattica dell'operazione. «Spero che lei non stia progettando un assalto. Pensi a Randall Weaver. Pensi a Waco. Troppe persone innocenti rimaste uccise. Non voglio che qui accada qualcosa del genere.» «Nessuno lo vuole. Attaccheremo solo come ultima risorsa.» La maschera tracotante di Marks cadde d'improvviso e l'uomo divenne mortalmente serio. «So bene che lei ha la responsabilità dell'operazione, Potter. Ma voglio che sappia che la posizione del procuratore generale è per una soluzione pacifica a tutti i costi.» Mancano meno di quattro mesi alle elezioni, rifletté Potter. «Abbiamo qualche speranza che le cose possano risolversi pacificamente.» «Quali sono le sue richieste?» domandò il viceprocuratore. Era il momento di dare uno strattone al guinzaglio? Non ancora. Potter concluse che un Roland Marks offeso poteva provocare un sacco di danni. «Le solite. Un elicottero, cibo, munizioni. Tutto ciò che ho intenzione di dargli è il cibo. Sto cercando di convincerlo ad arrendersi o, almeno, di riuscire a portare fuori il maggior numero possibile di ostaggi prima dell'intervento dell'SSO.» Vide la faccia del suo interlocutore farsi ancora più scura di quanto già
non fosse. «Quel che non voglio assolutamente è che a quelle bambine sia fatto del male.» «Certo che no.» Potter guardò l'orologio. Il viceprocuratore generale proseguì: «Ecco un'idea... gli faccia mollare le ragazze e prendere un elicottero. Ci mettete dentro uno di quegli aggeggi tipo Missione: Impossibile e, quando atterrano, li beccate». «No.» «E perché no?» «Non gli permettiamo mai di rendersi mobili, se esiste una qualsiasi via per evitarlo.» «Non legge Tom Clancy? Esistono molti tipi di trasmettitori e di microspie che si possono usare.» «È comunque troppo rischioso. Al momento c'è una quantità conosciuta di deceduti possibili. Il peggio che può fare è uccidere i nove ostaggi restanti e, probabilmente, uno o due membri dell'SSO.» Nell'udire quelle parole gli occhi di Marks si spalancarono per lo shock. Potter, freddamente, proseguì: «Se esce da lì, potrebbe ucciderne il doppio. Il triplo. O anche più». «È soltanto un rapinatore di banche. Non certo un omicida di massa.» E quanti corpi ci volevano per qualificare qualcuno come un omicida di massa? Potter lanciò un'occhiata oltre i trattori che si muovevano silenziosamente a chilometri di distanza. Il frumento invernale era stato seminato in novembre, così gli aveva detto il pilota dell'elicottero. Dov'era quel dannato cibo? pensò, ora nervoso per i minuti che scivolavano via rapidamente. «Allora che cosa sono quelle bambine?» domandò Marks, in tono per nulla amichevole. «Perdite accettabili?» «Speriamo che non si arrivi a questo.» La porta del furgone si aprì e Budd guardò fuori. «Il cibo è quasi arrivato, Arthur. Oh, salve, signor Marks.» «Charlie Budd. Buona fortuna a lei. Situazione difficile. Però sono sicuro che lei riuscirà ad affrontarla.» «Stiamo facendo del nostro meglio», rispose Budd in tono prudente. «Il signor Potter, qui, è davvero un esperto. L'agente Potter, dovrei dire.» «Sto tornando in città», disse Marks. «Per aggiornare il governatore.» Quando la limousine fu scomparsa alla vista, Potter domandò a Budd: «Lo conosci?» «Non troppo bene, signore.»
«Ha dei progetti personali?» «Si dice che abbia intenzione di arrivare a Washington, tra qualche anno. Ma, principalmente, è un brav'uomo.» «Henry pensava che potesse concorrere per le elezioni, quest'autunno.» «Non ne so niente. Ma non credo che si tratti di politica, in questo caso. La sua preoccupazione sono davvero le ragazze. È un padre di famiglia responsabile, a quanto ho sentito dire. Ha avuto soltanto figlie femmine, una con seri problemi di salute; quindi immagino che senta tutto questo con molta partecipazione... voglio dire, il fatto che quelle ragazze sono sorde e tutto il resto.» Potter aveva notato l'anello nuziale al dito di Marks. «Ci creerà dei problemi?» «Non vedo come. Quel suo modo di fare, il fatto che scherza sempre, è una specie di facciata.» «Non è del suo senso dell'umorismo che sono preoccupato. Che connessioni politiche ha?» Budd si strinse nelle spalle. «Oh, be', sai com'è.» «Rimarrà tra me e te, Charlie. Devo sapere se può causarci qualche problema.» «Be', il fatto che ha detto che andava dal governatore? Come se fossero amici per la pelle?» «Sì?» «Dubito perfino che il governatore gli risponda al telefono. Vedi, ci sono repubblicani e poi ci sono repubblicani.» «Okay, grazie.» «Oh, ehi, guarda, adesso tocca a noi.» L'auto della polizia di stato che sobbalzava sulla strada sterrata si arrestò bruscamente. Ma non si trattava degli hamburger e delle patatine fritte di Handy. Due donne scesero dalla macchina. Angie Scapello indossava un abito blu, con la pistola che le sporgeva dal blazer e i folti capelli neri che le ricadevano sulle spalle. Portava un paio di occhiali scuri con la montatura turchese. Alle sue spalle emerse una giovane brunetta con i capelli corti e un'uniforme della polizia. «Angie.» Potter le strinse la mano. «Ti presento il mio braccio destro: Charlie Budd, della polizia di stato del Kansas. Capitano, ti presento l'agente speciale Angeline Scapello.» I due si strinsero la mano e si rivolsero un cenno di saluto. Angie presentò a sua volta l'altra donna. «Agente Frances Whiting, del
dipartimento di polizia di Hebron. Lei sarà la nostra interprete per il linguaggio dei segni.» La donna poliziotto strinse la mano dei due uomini e, con una smorfia, lanciò una furtiva occhiata al mattatoio. «Prego, venite dentro», disse Potter, indicando il furgone con un cenno del capo. Henry LeBow fu estremamente compiaciuto per tutti i dati che Angie aveva portato con sé e cominciò a immettere rapidamente le informazioni nel computer. Potter aveva visto giusto; nello stesso istante in cui aveva sentito parlare del sequestro - prima ancora che il jet militare facesse rifornimento di carburante - Angie aveva parlato con i responsabili della Laurent Clerc School e aveva cominciato a stilare i profili dei singoli ostaggi. «Eccellente, Angie», disse LeBow digitando furiosamente. «Sei una biografa nata.» La donna aprì un'altra cartelletta offrendone il contenuto a Potter, che domandò a Tobe: «Ti dispiacerebbe appenderle alla parete?» Il giovane agente prese le fotografie delle ragazze e le appuntò al pannello di sughero, proprio sopra i diagrammi CAD del mattatoio. Con un pennarello nero, Angie aveva scritto i nomi e gli anni delle bambine sul margine inferiore delle foto. Anna Morgan, 7 Suzie Morgan, 7 Shannon Boyle, 8 Kielle Stone, 8 Emily Stoddard, 10 Jocylyn Weiderman, 12 Beverly Klemper, 14 La fotografia di Susan Phillips rimase a faccia in su sul tavolo. «Lo fate ogni volta?» domandò Frances indicando la parete. Potter, con lo sguardo fisso alle fotografie, rispose in tono assente: «Si vince conoscendo più cose di quante ne conosce il tuo nemico». Si scoprì a guardare le adorabili gemelline, perché erano le più piccole. Ogni volta che pensava ai bambini, pensava a quelli più giovani... forse perché lui e Marian non ne avevano mai avuti, e l'immagine del figlio o della figlia che sarebbero potuti nascere era come congelata nel tempo, quasi che lui fosse eternamente un giovane marito e Marian la sua sposina venticinquenne. Guardatele, si disse. Guardatele. E, come se avesse parlato a voce alta,
si rese conto che tutti - fatta eccezione per Derek e Tobe, chini sui display - si erano fermati e stavano fissando ammutoliti le fotografie. Potter domandò ad Angie informazioni sulla ragazza che stava per essere rilasciata, Jocylyn Weiderman. A memoria, l'esperta disse: «Apparentemente ha dei problemi. È una sorda postlinguale, ovvero è diventata sorda dopo aver imparato a parlare. Si sarebbe portati a pensare che ciò possa rendere le cose più facili e, in effetti, aiuta davvero il processo di apprendimento. Ma, psicologicamente, ciò che accade è che persone come lei si adattano con estrema difficoltà alla cultura dei sordomuti. Sai che cosa significa questo? Cosa vuol dire Sordomuti con la S maiuscola?» Potter, con un occhio fisso sul mattatoio ancora una volta in cerca di Melanie, disse che non lo sapeva. Angie rivolse un cenno a Frances, che spiegò: «La parola sordomuti, con la s minuscola, è la condizione fisica di chi non è in grado di udire. Sordomuti, con la S maiuscola, è il termine adoperato dai Sordomuti per indicare la loro comunità, la loro cultura». «In termini di status di Sordomuto», proseguì Angie, «è meglio essere nati sordi da genitori sordomuti, ed evitare qualsiasi abilità orale. Se sei nato udente da parenti udenti e sai come parlare e leggere le labbra, non possiedi il medesimo status. Ma anche questo è un gradino al di sopra di un sordo che cerca di farsi passare per udente - il che è ciò che Jocylyn ha cercato di fare.» «Quindi, tanto per cominciare, la ragazza parte con un grosso handicap.» «È stata rifiutata sia dal mondo degli udenti che da quello dei sordomuti. A ciò, aggiungi il fatto che è sovrappeso. E che ha attitudini sociali molto limitate. Candidata numero uno per un attacco di panico. Se ciò accade, Handy potrebbe pensare che la ragazzina lo stia assalendo. E lei potrebbe anche farlo.» Potter annuì, grato come sempre del fatto che Angie Scapello stesse fornendo la propria assistenza alla squadra. La sua specializzazione era psicologia degli ostaggi - aiutarli a ristabilirsi e a ricordare particolari che potessero essere utili in operazioni future, oltre a prepararli a fare da testimoni nei processi contro i loro sequestratori. Diversi anni prima gli era venuto in mente di portarla sul luogo di trattative in corso, per analizzare i dati che gli ostaggi riferivano e valutare psicologicamente gli ostaggi stessi nonché i sequestratori. Spesso, quando teneva lezioni sulle tecniche della negoziazione, Angie divideva il podio con
lui. «Allora dobbiamo tentare di farla stare calma», osservò Potter. Il panico, nel corso di uno scambio di ostaggi, era contagioso. Spesso conduceva a fatalità. «Potrebbe insegnare al nostro agente qualcosa da dirle?» domandò a Frances. «Qualcosa che possa essere d'aiuto?» La donna mosse le mani e spiegò: «Questo significa 'Stai calma'. Ma il linguaggio dei segni è molto difficile da imparare e da ricordare in breve tempo. Un piccolo errore può cambiare completamente il significato delle parole. Se avete la necessità di comunicare, raccomanderei l'uso di gesti quotidiani come 'vieni qui', oppure 'vai là'». «E io suggerirei di sorriderle», aggiunse Angie. «Il sorriso è un linguaggio universale. La bambina ha bisogno soltanto di questo. Se l'agente deve dirle qualcosa di più complesso, potrebbe forse scriverlo.» Frances annuì. «Mi sembra una buona idea.» «L'età di lettura dei sordi prelinguali a volte è più bassa di quella dei loro coetanei. Ma, con il fatto che Jocylyn è postlinguale», Angie recuperò i suoi appunti dalle mani di LeBow e trovò subito ciò che cercava, «e avendo un QI elevato, è in grado di leggere bene qualsiasi comando.» «Ehi, Derek, hai delle biro e dei taccuini?» «Sì, li ho proprio qui», rispose Elb, prendendo una pila di notes e una manciata di pennarelli neri. A quel punto, Potter domandò all'esperta in psicologia se per caso avesse una fotografia delle due insegnanti. «No, io... aspetta. Credo di averne una di Melanie Charrol. La più giovane.» Ha venticinque anni, ricordò Potter a se stesso. «Abbiamo appena oltrepassato l'ultimatum per il cibo», annunciò Tobe. «Ah, eccola», disse Angie porgendogli una fotografia. State accorti... Potter rimase sorpreso. La donna ritratta era più bella di quanto pensasse. A differenza delle altre fotografie, quella era a colori. La giovane insegnante aveva capelli biondi e ondulati, quasi a boccoli, la pelle bianca e liscia, gli occhi luminosi. L'immagine sembrava appartenere più al book di una modella che a un archivio del personale scolastico. A parte gli occhi, in lei c'era qualcosa di quasi infantile. La appese alla parete personalmente, accanto a quella delle due gemelle. «Ha famiglia da queste parti?» domandò. Angie controllò i propri appunti. «Il preside della Laurent Clerc mi ha
detto che i suoi genitori hanno una fattoria non lontano dalla scuola, ma che in questi giorni si trovano a St. Louis. Il fratello di Melanie ha avuto un incidente, l'anno scorso, e domani deve sottoporsi a una complicata operazione chirurgica. Melanie avrebbe dovuto prendere l'aereo domani per raggiungerli.» «Fattorie», borbottò Budd. «I posti più pericolosi della terra. Dovreste sentire alcune delle chiamate che riceviamo.» Sulla consolle, un telefono ronzò, una linea criptata; Tobe premette il pulsante e parlò nel suo microfono per qualche istante. «È la CIA», annunciò ai presenti, quindi cominciò a parlare rapidamente nel microfono. Premette diversi tasti, confabulò con Derek e infine accese un monitor. «Kwo ha ottenuto un'immagine Sat-Surv, Arthur. Dai un'occhiata.» Lentamente, uno dei monitor prese vita. Lo sfondo era verde scuro, come uno schermo radar acceso, e si riuscivano a distinguere chiazze di un verde più chiaro, gialle e ambra. C'era un debole contorno del mattatoio e una quantità di puntini rossi che lo circondavano. «Il verde è il terreno», spiegò Tobe. «Il giallo e l'arancione, quelli sono gli alberi e le sorgenti termiche naturali. I puntini rossi sono gli agenti.» Il mattatoio era un rettangolo azzurro-verde. Soltanto sulla facciata anteriore c'era una leggerissima variazione di colore, là dove erano situate le porte e le finestre. «Probabilmente c'è un po' di calore emesso dalle lampade. Non ci dice molto. Tranne che, al momento, sul tetto non c'è nessuno.» «Digli di continuare a monitorare.» «Sai quanto costa, vero?» «Dodicimila dollari l'ora», rispose LeBow, digitando allegramente. «Adesso domandagli se gliene importa qualcosa.» «Tienilo in linea, Tobe», raccomandò Potter. «Sarà fatto. Ma voglio un adeguamento dello stipendio al costo della vita, quest'anno, se siamo tanto ricchi.» In quel momento la portiera si aprì ed entrò un poliziotto con due grosse borse di carta marrone tra le braccia; il furgone si colmò dell'odore degli hamburger caldi e delle patatine fritte. Potter si sedette sulla sua poltroncina, afferrando il telefono. Il primo scambio stava per avere inizio. 14,45 Ancora Stevie Oates.
«Volontario per punizione?» domandò Potter. «Mi annoiavo a starmene seduto sulle chiappe a far niente.» «Niente da lanciare, questa volta, Stevie. Dovrai percorrere tutta la distanza.» Dean Stillwell rimase in piedi accanto al suo uomo mentre, dietro istruzione diretta di Potter, due agenti dell'FBI rivestivano Oates con due strati sottili di tessuto antiproiettile sotto la sua uniforme regolare. Erano alle spalle del furgone. Charlie Budd, nelle vicinanze, dirigeva la sistemazione delle enormi lampade alogene puntate contro il mattatoio. La luce della giornata estiva era ancora lontana dal crepuscolo, ma la copertura di nubi si era fatta più spessa e, a ogni minuto che passava, la visibilità diminuiva. «Tutto a posto, Arthur», annunciò Budd. «Accendete», ordinò Potter, distogliendo per un momento lo sguardo dall'agente di polizia. Le alogene presero vita, lanciando i loro raggi di cruda luce bianca sulla facciata e sui lati dell'edificio. Budd ordinò un paio di aggiustamenti e le luci si focalizzarono sulla porta e sulle finestre ai due lati di essa. Il vento soffiava a raffiche; gli agenti dovettero ancorare i treppiedi delle lampade con dei sacchetti di sabbia. All'improvviso, dal campo si udì provenire un suono strano. «Che cos'è?» si domandò Budd a voce alta. «Qualcuno che ride», rispose Stillwell. «Qualche poliziotto. Hank, che cosa sta succedendo là fuori?» domandò alla radio. Ascoltò la risposta, quindi guardò il mattatoio con un binocolo. «Guardate alla finestra.» Potter, a testa bassa, girò intorno al furgone. Con le alogene accese nessuno, all'interno del mattatoio, avrebbe potuto sperare in un colpo di precisione. Focalizzò il binocolo Leica sulla finestra. «Molto divertente», borbottò. Lou Handy si era messo un paio di occhiali da sole per difendersi dalle luci abbaglianti. Con gesti esagerati, si strofinava i capelli e la fronte e faceva smorfie a beneficio del suo pubblico divertito. «Adesso basta», disse rudemente lo sceriffo alla radio, parlando alle sue truppe. «Questo non è il David Letterman Show.» Potter si voltò verso Oates e annuì nel vedere lo strato sottile di materiale antiproiettile. «Se ti sparano, ti verrà un bruttissimo livido. Ma è importante che tu non abbia un aspetto minaccioso.» Gli SO diventano molto nervosi, spiegò Angie, quando vedono poliziotti vestiti come astronauti alieni che arrancano verso di loro. «Devi vestirti
normalmente per farcela.» «Sono il meno minaccioso possibile. Comunque, è così che mi sento. Devo lasciare qui la mia pistola?» «No. Ma non tenerla in vista», disse Potter. «La tua prima responsabilità è la tua sicurezza. Non comprometterla mai. Se devi scegliere fra te e l'ostaggio, salva te per primo.» «Be'...» «Questo è un ordine, Stevie», intervenne solennemente Stillwell. Si era immedesimato nel suo ruolo di ufficiale di contenimento come se gli venisse naturale. «Cammina fin là lentamente», proseguì Potter, «porta il cibo al tuo fianco, in piena vista. Qualsiasi cosa accada, non muoverti in fretta.» «D'accordo.» Oates parve prendersi qualche istante per memorizzare gli ordini. Tobe Geller uscì dal furgone portando con sé una piccola scatola collegata a un filo che terminava in una corta bacchetta nera. Agganciò la scatola alla schiena dell'agente, sotto la giacca. Poi fissò la bacchetta tra i capelli di Oates con delle forcine. «Non potrei usarla con Arthur», disse Tobe. «Come vedi, c'è bisogno di una testa piena di capelli.» «Che cos'è?» «Una videocamera. E una cuffia.» «Quella cosa così piccola? Non stai scherzando, vero?» Tobe fece scorrere il filo lungo la schiena dell'agente e lo inserì nel trasmettitore. «La risoluzione non è ottimale», spiegò Potter, «ma ci sarà comunque d'aiuto quando tornerai indietro.» «Per quale motivo?» «Sembri abbastanza in gamba, Stevie», rispose LeBow. «Ma, nella migliore delle ipotesi, ti ricorderai circa il quaranta percento di ciò che vedrai laggiù.» «Oh, lui è uno da cinquanta percento», disse Potter, «se non mi sbaglio.» «Il nastro non ci dirà molto, da solo», proseguì Geller, «ma dovrebbe rinfrescarti la memoria.» «Capito. Ehi, questi hamburger hanno un odore niente male», scherzò Oates, ma la sua faccia diceva chiaramente che il cibo era l'ultima cosa a cui stava pensando in quel momento. «Angie?» domandò Potter.
La donna si avvicinò al poliziotto e si scostò dal viso la massa di capelli scuri scompigliati dal vento. «Qui c'è la fotografia della ragazza che verrà fuori con te», disse. «Si chiama Jocylyn.» Rapidamente, ripeté le proprie considerazioni su come sarebbe stato meglio trattarla. «Non le parlare», concluse. «Non capirebbe le tue parole, e ciò potrebbe farla andare nel panico, farle credere di non aver capito qualcosa di importante. E, mi raccomando, continua a sorridere.» «Sorridere. Ma certo. Sorridere.» Oates deglutì, nervoso. «Ora», aggiunse Potter. «La ragazzina è sovrappeso e non è in grado di correre molto rapidamente, immagino.» Dispiegò una piccola cartina del terreno circostante il mattatoio. «Se potesse farlo, vi direi di buttarvi in quel fossato laggiù, quello di fronte all'edificio, e poi di correre come se foste inseguiti dai diavoli dell'inferno. Così, sareste bersagli obliqui, per lo meno. Ma, così come stanno le cose, credo proprio che dovrete tornare fin qui camminando in linea retta.» «Come la ragazza che è stata uccisa?» domandò Budd, e nessuno fu felice che lo avesse fatto. «Adesso, Stevie», proseguì il negoziatore, «dovrai andare alla porta. Per nessun motivo devi entrare nell'edificio. Mai.» «E se lui dice che non la lascia andare se non entro?» «Allora la lasci lì. Depositi il cibo e te ne vai. Ma io credo che la lascerà andare. Avvicinati alla porta più che puoi. Voglio che guardi dentro. Cerca di vedere che tipo di armi hanno, se hanno una radio, se c'è una qualsiasi traccia di sangue, oppure ostaggi o sequestratori di cui potremmo non conoscere l'esistenza.» «Come possono esserne entrati altri?» domandò Budd. «Potrebbero essere stati dentro ad aspettare l'arrivo di Handy e degli altri due.» «Già.» Budd parve scoraggiato. «Non ci avevo pensato.» «Non dialogare con lui», continuò Potter, rivolto a Oates. «Non discutere, non dire nulla. Limitati a rispondere direttamente alle sue domande.» «Crede che mi chiederà qualcosa?» Potter guardò Angie, che disse: «È possibile. Potrebbe volerti stuzzicare un po'. Gli occhiali da sole... in lui c'è una vena ironica. Potrebbe aver voglia di metterti alla prova. Non abboccare.» Oates annuì, incerto. «Noi ascolteremo le vostre conversazioni», riprese Potter, «e io potrò suggerirti le risposte nell'auricolare.»
L'agente fece un debole sorriso. «Saranno i cento metri più lunghi della mia vita.» «Non c'è nulla di cui preoccuparsi», lo tranquillizzò il negoziatore. «Adesso come adesso, è molto più interessato al cibo che a sparare a qualcuno.» La logica di quel ragionamento parve rassicurare Oates, anche se nella mente di Potter incombeva il ricordo di parole simili che aveva detto qualche anno prima a un agente. L'uomo, pochi istanti più tardi, era stato ferito al ginocchio e al polso da un sequestratore che, all'improvviso, aveva deciso di non volere più le bende e gli antidolorifici che il poliziotto gli stava portando. Il negoziatore aggiunse un inalatore contro l'asma al sacchetto degli hamburger. «Non dire nulla di questo. Lascia soltanto che sia lui a trovarlo e che decida se darlo a Beverly oppure no.» Budd prese alcuni notes e i pennarelli che Derek aveva procurato. «Dobbiamo metter dentro anche questi?» Potter ci pensò su. I taccuini e i pennarelli avrebbero dato agli ostaggi una possibilità di comunicare con i loro sequestratori, incrementando così tra loro l'effetto Stoccolma. Ma, a volte, deviazioni anche minime da ciò che si aspettano di ricevere mettono gli SO in agitazione. L'inalatore costituiva già una deviazione. Come avrebbe reagito Handy a una seconda variazione? Potter chiese l'opinione di Angie. «Potrebbe essere un sociopatico», ipotizzò la donna dopo un istante. «Finora però non ha avuto scatti d'ira o squilibri emotivi rilevanti, sbaglio?» «No. Finora è rimasto piuttosto freddo.» In effetti, Handy era stato spaventosamente calmo. «Certo», disse Angie, «mettete dentro anche quelli.» «Dean, Charlie», ordinò Potter, «venite qui un secondo.» Lo sceriffo e il capitano obbedirono. «Quali sono i migliori tiratori che avete a disposizione?» «Direi Sammy Bullock e... che cosa ne pensi? Chris Felling? Christine. Direi che è meglio di Sammy. Dean?» «Se fossi uno scoiattolo seduto a quattrocento metri da Chrissy e la vedessi imbracciare il fucile, non mi preoccuperei nemmeno di mettermi a correre. Mi limiterei a dire addio al mio culo.» Potter si pulì gli occhiali. «Fatele caricare il fucile e procuratele un awistatore dotato di binocolo per osservare la porta e le finestre. Se le sembra
che Handy o uno degli altri stia per sparare, è autorizzata a fare fuoco. Ma dovrà mirare al pomello della porta o al davanzale della finestra.» «Credevo avessi detto che non ci sarebbero stati colpi di avvertimento», disse Budd. «Questa è la regola», rispose saggiamente Potter. «Ed è assolutamente vera. Solo che, come tutte le regole, ha un'eccezione.» «Ah.» «Provvedi, Dean.» «Sissignore.» Lo sceriffo si allontanò in fretta, correndo piegato in due. Il negoziatore si rivolse nuovamente a Oates. «Okay, Stevie. Sei pronto?» Frances guardò il giovane poliziotto: «Posso augurarti 'Buona fortuna'?» «Sì, per favore», rispose ansiosamente Oates. Budd gli diede una pacca sulla spalla inguainata nel kevlar. Melanie Charrol conosceva parecchie storie bibliche per ragazzi. Le vite dei sordomuti un tempo erano strettamente legate alla religione, e molte di esse lo sono ancora. I poveri agnelli di Dio... dagli un buffetto sulla testa e obbligali a imparare abbastanza parole per poter affrontare faticosamente il catechismo, l'eucaristia e la confessione (sempre tra di loro, ovviamente, affinché non mettano in imbarazzo la congregazione degli udenti). L'abate de l'Epée, per quanto fosse uomo intelligente e di buon cuore, creò l'FSL, il linguaggio francese dei segni, principalmente per assicurarsi che le anime che aveva in carico potessero accedere al paradiso. E poi, ovviamente, i voti di silenzio dei monaci e delle suore, che adottano l'«afflizione» degli sventurati come penitenza. (Magari pensando di poter udire molto meglio la voce di Dio; ma Melanie avrebbe potuto dir loro che non funzionava affatto.) Si appoggiò alla parete piastrellata della stanza delle uccisioni, luogo orribile del Mondo Esterno come non ne erano mai esistiti. La signora Harstrawn giaceva su un fianco, a tre metri da lei, e fissava il muro. Non piangeva più - aveva finito le lacrime, era asciutta, vuota. Muoveva le palpebre, respirava, ma avrebbe potuto benissimo essere in coma. Melanie si alzò e le spostò la gamba da una pozza d'acqua nerastra incrostata di schiuma verdognola e costellata dai corpi frantumati di mille insetti. Religione. Abbracciò le gemelle, sentendo le loro delicate spine dorsali sotto le due identiche camicie azzurre da cowboy. Si sedette in mezzo a loro, pensando
a una storia che aveva imparato al catechismo. Parlava dei primi cristiani nell'antica Roma, che attendevano il martirio nel Colosseo. Avevano rifiutato di rinnegare la propria fede. Uomini, donne e bambini che pregavano serenamente mentre i centurioni li portavano al supplizio. La storia era ridicola, prodotto piatto e banale di un non eccelso scrittore di libri di testo, e alla Melanie Charrol adulta sembrava del tutto ingiustificabile che qualcuno l'avesse inserita in un libro per bambini. Eppure, come il più facile dei melodrammi, all'epoca la storia le aveva stretto il cuore, quando aveva otto o nove anni. E le faceva ancora lo stesso effetto. Fissò la luce distante, perdendo se stessa nella meditazione pulsante della lampadina giallastra che cresceva, si restringeva, cresceva, si restringeva, vedendo la luce trasformarsi nel viso di Susan e poi nello splendido corpo di una giovane donna che veniva lacerato dagli artigli ingialliti dei leoni. Otto uccelli grigi, appollaiati nel buio... Ma no, adesso gli uccelli sono soltanto sette. Anche Jocylyn stava per morire? Melanie sbirciò oltre l'angolo e vide la ragazza in piedi davanti a una finestra. Stava singhiozzando, scuotendo la testa. Ermellino la teneva per un braccio. Erano in piedi accanto alla porta semiaperta. Movimento vicino a lei. Melanie voltò la testa - la reazione automatica di un sordomuto al movimento gesticolante delle mani. Kielle aveva chiuso gli occhi. Lei osservò le sue mani muoversi secondo uno schema ripetitivo, senza riuscire a comprendere il messaggio della ragazza finché non si rese conto che stava tentando di evocare Wolverine, un altro dei suoi eroi da fumetto. «Fai qualcosa», gesticolò Shannon. «Melanie!» Le sue manine tagliavano l'aria. Fai qualcosa. Giusto. Melanie pensò a de l'Epée. Sperava che il pensiero di lui facesse ripartire il suo cuore paralizzato. Non fu così. Era inerme come sempre, fissando Jocylyn, che si voltò a guardare verso la stanza delle uccisioni e colse lo sguardo di Melanie. «Mi uccideranno», segnò Jocylyn, singhiozzando. Le sue guance, rotonde e pallide come rugiada, scintillavano di lacrime. «Per favore, aiuto.» Il Mondo Esterno...
«Melanie.» Gli occhi scuri di Kielle mandavano bagliori di fuoco. La ragazza era apparsa improvvisamente di fianco a lei. «Fai qualcosa!» «Che cosa?» reagì Melanie. «Dimmelo. Gli sparo? Mi faccio crescere le ali e volo?» «Allora lo farò io», disse Kielle, e si voltò avventandosi verso gli uomini. Senza pensare, la donna balzò dietro di lei. La bambina aveva appena oltrepassato la porta della stanza delle uccisioni quando Orso si profilò enorme davanti a loro. Sia Melanie che Kielle si fermarono bruscamente. Melanie mise un braccio intorno alle spalle della ragazzina e abbassò lo sguardo, gli occhi fissi sulla pistola nera infilata nella cintura dell'uomo. Afferrala. Sparagli. Non ti preoccupare di ciò che accadrà poi. Puoi farlo. Il suo cervello lurido è da qualche altra parte. De l'Epée avrebbe sentito lo sparo e sarebbe arrivato di corsa per salvarle. Afferra la pistola. Fallo. Vide se stessa tirare il grilletto. Le sue mani cominciarono a tremare. Fissava il calcio della pistola, plastica nera scintillante. Orso allungò una mano e le sfiorò i capelli. Con il dorso della mano, una carezza gentile. Il tocco di un padre o di un amante. In quell'istante, le poche forze che Melanie aveva in sé svanirono del tutto. Orso le afferrò per i colletti delle camicie e le trascinò di nuovo nella stanza delle uccisioni, togliendo Jocylyn dalla loro vista. Sono sorda, quindi non posso udire le sue grida. Sono sorda, quindi non posso udirla implorarmi di aiutarla. Sono sorda, sono sorda, sono sorda... Orso le spinse con forza nell'angolo più lontano e si sedette all'ingresso, guardando le sue prigioniere spaventate. Sono sorda, quindi sono già morta. Che cosa importa? Melanie chiuse gli occhi, si portò le bellissime mani in grembo e, non più trattenuta, scivolò via ancora una volta, lontano dalla stanza delle uccisioni. «Fai partire l'HP, Tobe», ordinò Potter. Dentro il furgone il giovane agente aprì una valigetta, rivelando così l'Hewlett-Packard Model 122 VSA, che assomigliava a un monitor cardiologico. «Messa a terra a posto?» domandò indicando le prese esterne con un cenno del capo. Derek Elb gli disse di sì. Tobe si collegò e accese la macchina. Una piccola striscia di carta, simile al nastro di un registratore di cassa, uscì da una fessura e sullo schermo
scuro apparve una griglia verde. Guardò gli altri nel furgone. LeBow indicò Potter, poi se stesso, Angie e Budd. «In quest'ordine.» Frances e Derek osservavano incuriositi. «Io dico che ti sbagli», replicò Potter. «Io, Angie, tu e Charlie.» Budd rise, a disagio. «Di che cosa state parlando?» «Tutti zitti», intimò il tecnico, poi spinse un microfono verso Angie. «La pioggia in Spagna cade...» «È sufficiente», disse Tobe, puntando il microfono verso la bocca di Potter. «La rapida volpe bruna...» Henry LeBow si esibì in una lunga citazione dalla Tempesta di Shakespeare. Ci mancò poco che Budd incrociasse gli occhi fissando il microfono sotto il suo naso. Poi disse: «Questa cosa mi sta rendendo decisamente nervoso». I quattro agenti dell'FBI scoppiarono in una risata fragorosa. Tobe spiegò l'arcano a Frances. «È un analizzatore di stress nella voce. Ci dà qualche indicazione su chi dice la verità, ma principalmente ci fornisce una valutazione di rischio.» Spinse un bottone e lo schermo si divise in quattro riquadri. Linee ondeggianti fatte di picchi e di valli si immobilizzarono al loro posto. Tobe picchiettò lo schermo con un dito e disse: «Questo è Arthur. Non si scompone mai. In realtà, penso che se la faccia sotto regolarmente, ma non riuscirai mai a capirlo dal tono della sua voce. La seconda sei tu, Angie. Arthur aveva ragione. Hai vinto il Premio Freddezza. Ma Henry non è molto staccato». Rise, indicando l'ultimo riquadro. «Capitano Budd, lei è un tipo nervosetto. Posso suggerire dello yoga e degli esercizi di respirazione?» Budd si accigliò. «Se non mi avessi spinto quell'aggeggio davanti alla faccia avrei fatto di meglio. O se mi avessi detto di che si trattava fin dall'inizio. Ho una seconda possibilità?» Il negoziatore guardò fuori. «Facciamo questa telefonata. Mandalo avanti, Charlie.» «Vai, Stevie», disse Budd nel microfono del walkie-talkie. Videro l'agente spostarsi nel fossato e avanzare lentamente verso il mattatoio. Potter premette il pulsante di chiamata rapida. «Collegamento.» «Salve, Lou.»
«Art. Abbiamo la cicciona tutta agghindata come un tacchino per la festa del Ringraziamento. Vediamo il tuo ragazzo che arriva. Ce l'ha il mio frullato al cioccolato?» «È lo stesso che vi ha lanciato il telefono. Si chiama Stevie. È un brav'uomo.» Potter pensò: Era uno di quelli che ci sparavano prima? «Forse», disse Handy, «è stato proprio lui a dare il segnale di sparare al nostro Shep.» «Ti ho detto che si è trattato di un incidente, Lou. Ascolta, come stanno tutti, là dentro?» E chi se ne frega? «Bene. Ho appena controllato.» Curioso, pensò il negoziatore. Non si aspettava una risposta simile. Lo sta dicendo per rassicurarmi? Ha paura? Vuole indurirli a diventare imprudente? O forse la maschera da bambino cattivo era caduta per un istante e quello era il vero Lou Handy che dava una risposta legittima a una domanda altrettanto legittima? «Ho messo un po' di medicina per l'asma, nel sacchetto.» Che si fotta, la ragazzina. Chi se ne frega? Handy rise. «Ah, per quella che succhia aria come un mantice. È un fastidio, Art. Uno non può dormire nemmeno cinque minuti con quella piccola merda che annaspa ogni cazzo di volta che respira.» «E anche della carta e dei pennarelli. In caso le ragazze vogliano dirvi qualcosa.» Silenzio. Potter e LeBow si guardarono dubbiosi. Era arrabbiato per la carta? No, stava soltanto parlando con qualcuno dentro l'edificio. Tienigli la mente occupata, lontana dagli ostaggi, lontana da Stevie. «Come funzionano quelle luci?» domandò. «Bene. Quelle che avete voi fuori danno fastidio, però. Posso sparargli per spegnerle?» «Sai quanto costano? Me lo detrarrebbero dalla busta paga.» Oates era avanzato di una ventina di metri; camminava lentamente e con passo costante. Potter lanciò un'occhiata a Tobe, che annuì e premette alcuni pulsanti sull'HP. «E così sei un fan di McDonald's, Lou? I Big Mac sono i migliori.» «E tu come fai a saperlo?» domandò sarcasticamente Handy. «Non ci
hai mai mangiato in tutta la tua vita, sono pronto a scommetterci.» Angie gli mostrò i pollici alzati e Potter annuì, compiaciuto. È un buon segno quando gli SO si riferiscono al negoziatore. Il processo di transfert avanzava. «Indovina un po', Lou. Stai per mangiare quella che è stata la mia cena almeno due volte, la scorsa settimana. Be', tranne le patatine fritte. Però mi sono preso un frullato. Alla vaniglia.» «Credevo che voi agenti di lusso mangiaste al ristorante tutte le sere. Bistecca e aragosta. Champagne. E poi vi scopate la bellissima segretaria che lavora per voi.» «Un cheeseburger alla pancetta, e nemmeno un bicchiere di vino. Ah, e invece del sesso mi sono preso una seconda porzione di bocconcini di pollo. Quelli mi piacciono proprio.» Guardando nel debole riflesso del vetro del finestrino, Potter si rese conto che Budd lo stava fissando con gli occhi spalancati e con un'espressione d'incredulo stupore dipinta sul volto. «Sei grasso anche tu come questa bambina? La sto tenendo per un braccio e mi sembra un porcellino.» «Potrei anche perdere qualche chilo. Be', forse un po' di più.» Oates era arrivato a venti metri dalla porta. Potter voleva sondare ancora un po' i gusti di Handy, capire ciò che gli piaceva e ciò che non gli piaceva. Ma era prudente. Sentiva che ciò avrebbe messo l'uomo sulla difensiva. Esiste una filosofia, nelle situazioni di trattativa, che cerca di tenere gli SO sulle spine: bombardandoli di cattiva musica o giocando con il riscaldamento o l'aria condizionata dell'edificio in cui si trovano. Potter non credeva a questo tipo di approccio. Essere fermi, ma instaurare un rapporto. Handy era troppo silenzioso. Che cosa l'aveva distratto? Che cosa stava pensando? Ho bisogno di maggior controllo. È questo il problema, pensò Potter. Non riesco ad avere il controllo della situazione lontano da lui. «Stavo per chiederti, Lou... Questo tempo così strano per il mese di luglio. Deve fare freddo, là dentro. Vuoi che ti procuriamo dei caloriferi o qualcosa del genere?» Immaginò la risposta: No, abbiamo un sacco di corpi a disposizione per tenerci al calduccio. Ma Handy rispose lentamente: «Forse. Quanto farà freddo, stanotte?» Ancora una volta, molto logico e pragmatico. E, dietro le parole, l'implicazione che potesse avere in mente un lungo assedio. Cosa che forse a-
vrebbe dato a Potter la possibilità di spostare alcuni dei suoi ultimatum. Scrisse queste impressioni su una striscia di carta e la spinse verso LeBow affinché le immettesse nel computer. «Freddo e ventoso, mi dicono.» «Ci penserò.» Ascolta la sua voce, pensò Potter. Suona così ragionevole. Che cosa ne posso ricavare? A volte fa lo sbruffone, altre volte sembra un agente assicurativo. Il suo sguardo passò al setaccio il diagramma del mattatoio. Dodici Post-it gialli, ognuno rappresentante un sequestratore o un ostaggio, erano appiccicati sullo schema. Alla fine, sperava, sarebbero stati piazzati nell'esatta posizione in cui si trovava ogni persona. Al momento, però, erano ammassati tutti da un lato. «Lou, ci sei?» «Certo che ci sono. E dove cazzo dovrei essere? In macchina sulla I-70 per Denver?» «Non ti sentivo respirare.» Con voce bassa e raggelante, Handy sussurrò: «È perché sono uno spettro». «Uno spettro?» fece eco Potter. «Scivolo in silenzio come un gatto dietro di te, ti taglio la gola e scompaio prima ancora che il tuo sangue cada sul pavimento. Tu credi che io sia in questo edificio, nel mattatoio che stai guardando in questo preciso momento. Ma non ci sono.» «E dove saresti?» «Forse sto arrivando alle tue spalle, vicino a quel tuo furgone. Perché, vedi, io so che sei in quel furgone. E guardi fuori del finestrino. Forse sono proprio oltre quel vetro. Forse sono in quel cespuglio di erba alta che il tuo uomo sta oltrepassando in questo momento, e tra poco, quando mi passerà vicino, gli pianterò una coltellata nelle palle.» «E forse io sono dentro il mattatoio con te, Lou.» Una pausa. Adesso ride, pensò Potter. E Handy rise: una profonda risata di gola. «Mi hai comprato un sacco di patatine fritte?» «Un sacco. Normali e piccanti.» Stevie Oates aveva raggiunto l'edificio. «Ehi, barba e capelli, servito e riverito... Qualcuno è arrivato a farci visita.» «Ho la visuale», sussurrò Tobe. Abbassò le luci dentro il furgone. I pre-
senti si voltarono verso lo schermo che trasmetteva l'immagine catturata dalla videocamera nascosta sopra l'orecchio destro di Stevie Oates. L'immagine non era delle migliori. La porta del mattatoio si aprì soltanto di qualche centimetro e le immagini dell'interno - tubazioni, macchinari, un tavolo - erano distorte dal bagliore delle alogene. L'unica persona in vista era Jocylyn, di cui si distingueva soltanto il contorno; la bambina aveva la faccia tra le mani. «Ecco qui il tuo ragazzo. Stevie? Non credo di aver mai sparato a nessuno che si chiamasse Stevie. Sembra proprio fottutamente a disagio.» Quella che poteva essere la canna di un fucile avanzò lentamente e si appoggiò alla testa di Jocylyn. La ragazzina fece ricadere le mani lungo i fianchi, chiudendole a pugno. Il suono del suo piagnucolio usciva dall'altoparlante. Potter pregò che il cecchino di Stillwell riuscisse a trattenersi. L'immagine video sfarfallò per un istante. Il fucile si spostò verso Oates mentre la sagoma di un uomo riempiva il vano della porta. Dal microfono montato sopra l'orecchio del poliziotto giunsero le parole: «Hai un'arma con te?» Era una voce diversa da quella di Handy. La voce di Shepard Wilcox, immaginò Potter; Bonner avrebbe gettato un'ombra molto più grande. Potter abbassò lo sguardo per assicurarsi di premere i pulsanti giusti e si collegò con l'auricolare di Oates. «Menti. Sii insistente, ma rispettoso.» «No, non ho armi. Qui c'è quello che volevate. Il cibo. Adesso, signore, se lascia andare quella bambina...» Il poliziotto parlò senza che la sua voce mostrasse la minima traccia di tremore. «Benissimo, Stevie, te la stai cavando benissimo. Annuisci se Jocylyn ti sembra a posto.» L'immagine si abbassò leggermente. «Continua a sorriderle.» L'immagine si abbassò di nuovo. Handy domandò a Oates: «Hai un microfono o una videocamera?» Un'altra sagoma era apparsa sullo schermo. Era Handy. «Mi stai registrando?» «Decidi tu», sussurrò Potter. «Ma non ci sarà nessuno scambio se dici di sì.» «No», disse il poliziotto. «Ti ucciderò, se scopro che mi stai mentendo.» «Non sto mentendo», insistette Oates senza alcuna esitazione. Bene, benissimo.
«Sei solo? Non c'è nessuno che si sta avvicinando di nascosto alla porta?» «Non vede? Sono solo. Come sta la bambina?» «Non vedi?» lo sfotté Handy, facendo un passo da dietro la sagoma di Wilcox ed entrando in pieno nel campo visivo della videocamera. «Eccola qui. Guarda tu stesso.» Non ci fu alcun cenno di rilasciarla. «La lasci andare», disse Oates. «Forse dovresti entrare a prenderla.» «No. La lasci andare.» «Indossi un giubbotto antiproiettile?» «Sì, sotto la camicia.» «Forse dovresti darlo a me. Potrebbe servire più a noi che a te.» «Come fa a dirlo?» disse Oates. La sua voce non era più tanto ferma. «Perché non ti servirà a niente. Vedi, potremmo spararti in faccia e fartela saltar via dal collo, e saresti morto anche se ti sparassi mentre te ne vai. Allora che ne dici di darcelo adesso?» Se gli avesse consegnato la protezione antiproiettile, avrebbero trovato la videocamera e il radiotrasmettitore. E, probabilmente, l'avrebbero ucciso all'istante. Potter sussurrò: «Digli che abbiamo un accordo». «Abbiamo un accordo», ripeté Oates con decisione. «Qui c'è il cibo. Voglio la bambina. E la voglio subito.» Una pausa di silenzio che parve durare in eterno. «Mettilo per terra», disse infine Handy. L'immagine sullo schermo si abbassò mentre Oates posava a terra il sacchetto con il cibo. Ciononostante, il poliziotto mantenne la testa alta e fissa verso l'angusta apertura della porta. Purtroppo, nell'immagine c'era troppo contrasto; gli agenti nel furgone non riuscirono a vedere praticamente nulla dell'interno. «Ecco», gracchiò la voce di Handy, «prendi Miss Porcellino. Vai, vai, piagnucola fino a casa.» Risate in sottofondo. Il sequestratore si allontanò dalla porta. Dallo schermo scomparvero sia lui che Wilcox. Uno di loro due stava forse sollevando la pistola per sparare? «Ciao, piccola», disse Oates. «Non preoccuparti, andrà tutto bene.» «Non dovrebbe parlarle», sussurrò Angie. «Andiamo a fare una passeggiata, che ne dici? Vediamo se ci sono la tua mamma e il tuo papà?»
«Lou», chiamò Potter nel cellulare, preoccupato che i sequestratori non fossero più in vista. Nessuna risposta. Rivolto agli altri nel furgone, borbottò: «Non mi fido di lui. Maledizione, non mi fido affatto di lui». «Lou?» «La linea è ancora attiva», disse Tobe. «Non ha riagganciato.» Potter ordinò a Oates: «Non dirle niente, Stevie. Potrebbe provocarle un attacco di panico». L'immagine sullo schermo si abbassò in risposta. «Continua a camminare. Indietreggia. Lentamente. Molto lentamente. Poi mettiti dietro la bambina, voltati e cammina dritto davanti a te. Tieni la testa alta, così l'elmetto ti coprirà maggiormente il collo. Se sparano, buttati addosso alla bambina. Ordinerò ai nostri di far fuoco per coprirti e ti tireremo fuori il più alla svelta possibile.» Dall'altoparlante venne un sussurro debole e disturbato. Ma non vi fu altra risposta. All'improvviso, lo schermo video impazzì. Ci fu un lampo di luce, un movimento frenetico e immagini danzanti. «No!» si udì la voce di Oates. Poi un grugnito profondo, seguito da un gemito. «È a terra», disse Budd, guardando dal finestrino con il binocolo. «Oh, ragazzi.» «Cristo!» gridò Derek Elb, lo sguardo fisso sul monitor. Non avevano sentito esplodere colpi, ma Potter era sicuro che Wilcox avesse sparato alla testa della bambina con una pistola dotata di silenziatore e che ora stesse facendo fuoco su Oates. Lo schermo danzava follemente, solcato da sagome sgranate e dai bagliori delle alogene. «Lou!» gridò Potter al telefono. «Lou, ci sei?» «Guardate!» gridò Budd, indicando fuori del finestrino. Fortunatamente non era ciò che Potter aveva temuto. A quanto sembrava, Jocylyn si era fatta prendere dal panico e aveva fatto un balzo in avanti. Con la sua stazza, aveva fatto cadere Oates sulla schiena. Ora stava correndo nell'erba verso la prima fila di auto della polizia. L'agente era rotolato su un fianco, si era rialzato e ora la stava rincorrendo. Potter premette altri pulsanti. «Lou!» Batté ancora il palmo sulla consolle, attivando il collegamento radio con Dean Stillwell, che stava tenendo d'occhio il mattatoio con un binocolo all'infrarosso accanto alla sua tiratrice scelta.
«Dean?» chiamò Potter. «Sissignore.» «Riesci a vedere dentro?» «Non molto. La porta è aperta soltanto di venti o trenta centimetri. C'è qualcuno, dietro.» «Le finestre?» «Per ora sono vuote.» Jocylyn, per quanto fosse sovrappeso, stava correndo come una centometrista direttamente verso il furgone di comando, agitando le braccia, la bocca spalancata. Oates stava recuperando terreno su di lei, ma erano entrambi esposti. «Di' alla tiratrice scelta», ordinò Potter, scrutando disperatamente le finestre del mattatoio, «di togliere la sicura.» Doveva ordinarle di sparare un colpo? «Sissignore. Aspetti. C'è Wilcox. All'interno, a circa cinque metri dalla finestra. Ha un fucile e sta prendendo la mira.» Oh, Dio, pensò Potter. Se la tiratrice scelta lo uccide, sicuro come l'oro che Handy ucciderà uno degli ostaggi per rappresaglia. Sparerà oppure no? Forse anche Wilcox è in preda al panico, non sa che cosa sta succedendo. «Agente Potter?» domandò Stillwell. «Puntare.» «Sissignore... Wilcox è nel mirino di Chrissy. Ce l'ha. Non può sbagliare, dice. La croce del mirino è sulla fronte.» Sì? No? «Aspettate... Tenetelo sotto tiro.» «Sissignore.» Jocylyn era a trenta metri dal mattatoio, con Oates a pochi passi dietro di lei. Due bersagli perfetti. Una raffica di pallottole calibro dodici avrebbe tagliato le gambe a entrambi. Sudando freddo, Potter premette con violenza due pulsanti. Al telefono disse: «Lou, ci sei?» Un fruscio: elettricità statica, respiro o battito cardiaco. «Dean, di' alla ragazza di abbassare il fucile», ordinò allo sceriffo. «Non sparate. Qualsiasi cosa accada, non sparate.» «Sissignore», rispose Stillwell. Potter si sporse in avanti e avvertì il freddo contatto del vetro antiproiet-
tile del finestrino contro la propria fronte. In due balzi, Stevie Oates afferrò Jocylyn e la buttò a terra. Le mani e le gambe della bambina si agitarono disperatamente e i due, insieme, rotolarono oltre la sommità dell'altura, fuori vista dal mattatoio. Budd sospirò. «Grazie a Dio», mormorò Frances. Angie non disse nulla, ma Potter notò che la sua mano era arrivata fino alla pistola e ora era strettamente avvolta intorno all'impugnatura. «Lou, ci sei?» chiamò Potter. «Ci sei?» Si udì uno scricchiolio, come se qualcuno stesse avvolgendo il telefono in un foglio di carta. «Non posso parlare, adesso, Art», disse Handy con la bocca piena. «È ora di cena.» «Lou...» Un clic e poi il silenzio. Potter si lasciò cadere sulla poltroncina e si strofinò gli occhi. Frances applaudì, imitata da Derek Elb. «Congratulazioni», mormorò LeBow. «Un successo.» Budd era pallido. Espirò lentamente. «Ragazzi», disse con un filo di voce. «D'accordo, tutti quanti, vediamo di non sdraiarci troppo sugli allori», si riprese Potter. «Manca soltanto un'ora e tre quarti al primo ultimatum per l'elicottero.» Fra tutti i presenti all'interno del furgone, soltanto il giovane Tobe Geller sembrava turbato. Arthur Potter, da bravo padre senza figli com'era, se ne accorse subito. «Che cosa c'è, Tobe?» L'agente premette diversi pulsanti sull'Hewlett-Packard e indicò lo schermo. «Questo era il tracciato della tua voce nel corso dello scambio, Arthur. Livello di stress inferiore alla norma prevista per un evento leggermente ansiogeno.» «Leggermente», borbottò Budd, facendo roteare gli occhi. «Sono contento che non hai analizzato la mia.» «E qui c'è la sequenza media di Handy nel corso dell'intero scambio.» Indicò lo schermo, su cui spiccava una linea pressoché piatta. «Era sulla porta con decine di fucili puntati al cuore e quel figlio di puttana era stressato press'a poco come la maggior parte delle persone si stressa ordinando una tazza di caffè al bar.»
15,13 Non avvertì alcun tonfo di spari né alcuna vibrazione di grida risuonarle nel petto. Grazie grazie grazie. Jocylyn, piccola palla di burro, era in salvo. Melanie si abbracciò alle gemelle in fondo alla stanza delle uccisioni, i loro lunghi capelli castani umidi di lacrime, incollati ai visi paffuti. Sollevò lo sguardo alla nuda lampadina che a malapena riusciva a impedire alle ondate devastanti del Mondo Esterno di schiacciarla a morte. Ancora una volta il suo dito arrotolò nervosamente una ciocca di capelli. Il gesto della mano che significava «bagliore», la parola «brillantezza». La parola per «luce». Un movimento improvviso la fece sobbalzare. L'immensa sagoma barbuta di Orso, masticando un hamburger, si avvicinò furiosamente a Ermellino e sibilò qualche parola. Attese una risposta, non ne ottenne alcuna e gridò ancora. Melanie non riusciva a leggere una sola parola della loro conversazione. Più le persone diventavano emotive, più confuse e rapide diventavano le loro parole, rendendole impossibili da comprendere, come se proprio quando era più importante dire le cose chiaramente non fosse possibile alcuna chiarezza. Passandosi una mano tra i capelli a spazzola, Ermellino rimase impassibile e ricambiò lo sguardo di Orso con una smorfia di sorriso sulle labbra. Un vero cowboy, pensò Melanie, ecco cos'è. È crudele come gli altri, ma è coraggioso e ha il senso dell'onore e, se queste sono buone qualità anche nelle persone cattive, be', allora in lui c'è qualcosa di buono. Bruto apparve; Orso smise di parlare, afferrò un sacchetto di patatine con la mano grassa e si spostò verso la parete anteriore del mattatoio, dove si sedette e cominciò a spalarsi manate di cibo tra la barba folta. Bruto aveva con sé un hamburger avvolto in carta oleata. Continuava a guardarlo con occhio divertito, come se non ne avesse mai visto uno prima. Ne addentò un boccone e lo masticò accuratamente. Si accovacciò nel vano della porta della stanza delle uccisioni, osservando le bambine e le due insegnanti. Melanie incrociò il suo sguardo una volta e sentì la pelle che le prudeva per il panico. «Ehi, signorina», disse lui. Lei si affrettò ad abbassare gli occhi, sentendosi stringere lo stomaco. Avvertì un tonfo e sollevò lo sguardo, sorpresa. Bruto aveva percosso il pavimento accanto a lei. Dal taschino della camicia prese una piccola sca-
tolina azzurra di cartone e gliela lanciò. Era un inalatore contro l'asma. Melanie lo aprì lentamente e lo porse a Beverly, che aspirò avidamente il medicamento. Melanie si voltò verso Bruto. Stava per sillabare «Grazie», ma lui stava guardando da un'altra parte, gli occhi nuovamente fissi sulla signora Harstrawn, che era caduta preda di un altro attacco di pianto isterico. «È incredibile... lei... continua e continua.» Come posso capire le sue parole, se non sono in grado di capire lui? Guardalo: se ne sta lì chinato a osservare quella povera donna piangere. Masticando, masticando, con quel maledetto mezzo sorriso. Nessuno può essere tanto crudele. O forse lo capisco? Melanie sentì una voce familiare. E così, poi sarai a casa... Alzati, si infuriò silenziosamente con l'altra insegnante. Smettila di piangere! Alzati e fai qualcosa! Aiutaci. Dovresti avere tu la responsabilità. E così, poi sarai... A un tratto, il suo cuore divenne gelido e la collera disintegrò la paura. Collera e... che altro? Un fuoco nero che ribolliva dentro di lei. I suoi occhi incontrarono quelli di Bruto. L'uomo aveva smesso di mangiare e la stava guardando. Le sue palpebre non si mossero, ma Melanie ebbe la netta sensazione che lui le stesse strizzando l'occhio, come se sapesse esattamente ciò che stava pensando della signora Harstrawn e come se la stessa cosa fosse venuta in mente anche a lui. Per quel brevissimo, unico istante, la figura patetica della donna fu il soggetto di un ingiustificabile, mutuo sfottò tra loro due. Con disperazione, sentì la collera svanire e la paura tornare in lei a colmare il vuoto. Smettila di guardarmi! lo implorò. Per favore! Abbassò la testa e cominciò a tremare, piangendo calde lacrime. Così fece l'unica cosa che poteva fare, ciò che già aveva fatto in precedenza: chiudendo gli occhi, abbassando la testa, andò via. Nel luogo in cui si era rifugiata fuggendo dal mattatoio qualche ora prima. Il suo posto segreto, la sua stanza della musica. È una stanza di legno scuro, con tappezzeria in stoffa, cuscini, aria fumosa. Non c'è una sola finestra. Lì il Mondo Esterno non può entrare. Al centro vi è un clavicembalo di legno pregiato, intagliato a formare un disegno floreale, filigranato, incastonato di ebano e avorio. Ecco un pianoforte la cui voce risuona come cristallo. Un berimbau sudamericano, un
vibrafono d'ottone, una chitarra Martin risalente a prima della guerra. E ci sono pareti in grado di riverberare la voce di Melanie, che è un amalgama di tutti gli strumenti dell'orchestra. Mezzosoprani, soprani di coloritura e contralti. Era un luogo che non era e non sarebbe mai esistito. Ma era la sua salvezza. Quando gli sfottò e gli scherzi a scuola erano diventati troppo pesanti da sopportare, quando lei, semplicemente, non riusciva più ad afferrare ciò che qualcuno le stava dicendo, quando pensava al mondo che non avrebbe mai conosciuto, la sua stanza della musica era l'unico luogo in cui potesse recarsi per sentirsi al sicuro, per sentirsi confortata. Dimenticando le gemelle, dimenticando l'annaspante Beverly, dimenticando i singhiozzi della paralizzata signora Harstrawn, dimenticando l'uomo terribile che la osservava inalando per nutrirsi il dolore di un altro essere umano. Dimenticando la morte di Susan, e la propria, che probabilmente era fin troppo vicina. Melanie, seduta nel confortevole divano del suo luogo segreto, decide che non vuole essere sola. Ha bisogno che ci sia qualcuno con lei. Qualcuno con cui parlare. Qualcuno con cui poter scambiare parole umane. Chi potrei invitare? Pensa ai suoi genitori. Ma non li ha mai invitati a entrare lì, prima d'ora. Amici della Laurent Clerc, di Hebron, vicini di casa, studenti... Ma quando pensa a loro, pensa a Susan. E, ovviamente, non osa invitare proprio lei. A volte invita musicisti e compositori, persone di cui ha letto sui libri, anche se non ha mai ascoltato la loro musica: Emmylou Harris, Bonnie Raitt, Gordon Bok, Patrick Ball, Mozart, Samuel Barber. Ludwig, ovviamente. Ralph Vaughan Williams. Wagner mai. Mahler è venuto una volta, ma non si è trattenuto a lungo. Suo fratello era un visitatore regolare della stanza della musica. In effetti, per qualche tempo Danny era stato il suo unico visitatore, perché sembrava che fosse l'unica persona della famiglia a non temere la sua malattia. I suoi genitori lottavano per coccolare la loro figlia diletta, tenendola a casa, non permettendole mai di andare in città da sola, risparmiando i soldi per far sì che insegnanti privati venissero a casa, imprimendo su di lei i pericoli della sua «condizione», sempre evitando accuratamente di menzionare il fatto che era sorda. Danny non si lasciava spaventare dalla sua timidezza. Piombava ruggendo in città sulla sua Honda 350 con la sorella appollaiata sul sedile dietro di lui. Portava un casco integrale su cui spiccavano ali di fuoco. Prima
che il suo udito se ne andasse del tutto, la portava al cinema e faceva impazzire di rabbia il pubblico ripetendole i dialoghi a voce alta. Con grande disgusto dei loro genitori, il ragazzo camminava intorno alla casa indossando un paio di cuffie da tecnico d'aeroporto, così riusciva a capire ciò che lei stava passando. Che sia benedetto, Danny aveva persino imparato i fondamenti del linguaggio dei segni e le aveva insegnato qualche frase (naturalmente frasi che lei non avrebbe potuto ripetere in compagnia di sordomuti adulti, ma che in seguito le avrebbero fatto guadagnare grande prestigio nel cortile della Laurent Clerc School). Ah, ma Danny... Dall'incidente dell'anno prima, Melanie non aveva più avuto il coraggio di invitarlo di nuovo. Adesso ci prova, ma non riesce a immaginarlo lì. E così oggi, quando apre la porta, trova nella stanza un uomo di mezza età con i capelli che stanno iniziando a ingrigire, che indossa una giacca blu aviazione e un paio di occhiali con la montatura nera. L'uomo che aveva visto nel campo fuori del mattatoio. De l'Epée. Chi altri, se non lui? «Salve», gli dice con una voce simile al tintinnio di una campanella di vetro. «Salute a te.» Lo visualizza prenderle la mano e baciarla, un po' timidamente, un po' con decisione. «Sei un poliziotto, vero?» gli domanda. «Sì», risponde lui. Non riesce a vederlo chiaramente come vorrebbe. Il potere del desiderio è illimitato, ma non quello dell'immaginazione. «So che non è il tuo nome, ma posso chiamarti de l'Epée?» Ovviamente lui acconsente, da gentiluomo qual è. «Possiamo parlare per un po'? È questo ciò che mi manca di più, parlare.» Quando hai già parlato con qualcuno, irrorandolo con le tue parole e sentendo le sue nelle tue orecchie, il linguaggio dei segni non è più la stessa cosa. Per niente. «Comunque sia, parliamo.» «Voglio raccontarti una storia. Su come ho scoperto di essere sorda.» «Prego...» L'uomo sembra sinceramente curioso. Melanie aveva in mente di diventare musicista, gli dice. Fin da quando aveva quattro o cinque anni. Non era una bambina prodigio, ma aveva il
dono dell'intonazione perfetta. Musica classica, celtica o country-western, la musica le piaceva tutta. Era in grado di ascoltare un motivo una volta e poi di suonarlo a memoria sul pianoforte Yamaha di famiglia. «E poi...» «Raccontami.» «È stato quando avevo otto anni, quasi nove. Sono andata a un concerto di Judy Collins.» Prosegue: «Stava cantando un pezzo per voce sola, una canzone che non avevo mai sentito prima. Era affascinante...» Convenientemente, un'arpa celtica inizia a suonare proprio quel motivo, che si diffonde nella stanza della musica da un paio di altoparlanti immaginari. «Mio fratello aveva il programma del concerto. Io mi sono chinata verso di lui e gli ho domandato quale fosse il titolo della canzone. Lui mi ha detto che si intitolava A Maiden's Grave.» «Non ne ho mai sentito parlare», dice de l'Epée. Lei continua: «Volevo suonarla al pianoforte. Era... è difficile da descrivere. Una sensazione, qualcosa che dovevo fare. Dovevo imparare quella canzone. Il giorno dopo il concerto ho chiesto a mio fratello di passare da un negozio di musica e di comprarmi qualche spartito. Lui mi ha domandato quale canzone volessi. A Maiden's Grave, gli ho detto. «'E che canzone è?' mi ha chiesto. Era perplesso. «Mi sono messa a ridere. 'Al concerto, stupido. La canzone con cui ha finito. Quella canzone. Sei stato tu a dirmi il titolo.' «Allora si è messo lui a ridere. 'Chi è lo stupido? A Maiden's Grave? Di che cosa stai parlando? Era Amazing Grace. Il vecchio gospel. È questo che ti ho detto.' «'No!' Ero sicura di avergli sentito dire A Maiden's Grave. Ne ero sicura! E proprio in quel momento mi sono resa conto che mi ero chinata verso di lui per sentirlo e che quando eravamo girati tutti e due da un'altra parte riuscivo a malapena a sentire ciò che diceva. E che, quando lo guardavo, guardavo soltanto le sue labbra, mai i suoi occhi o la sua faccia. Proprio come avevo guardato chiunque altro con cui avessi parlato negli ultimi sei o sette mesi. «Sono corsa subito al negozio di dischi in centro - a tre chilometri di distanza. Ero così disperata... dovevo sapere. Ero sicura che mio fratello mi stesse prendendo in giro e lo odiavo per questo. Giurai che gliel'avrei fatta pagare. Andai di corsa alla sezione folk e scartabellai tutti gli album di
Judy Collins. Era vero... Amazing Grace. Due mesi dopo mi diagnosticarono una perdita di cinquanta decibel in un orecchio e settanta nell'altro. Ora siamo a circa novanta in entrambi.» «Mi dispiace tanto», sospira de l'Epée. «Che cosa è accaduto al tuo udito?» «Un'infezione. Ha distrutto la peluria nelle mie orecchie.» «E non c'è niente che tu possa fare?» Melanie non gli risponde. Dopo un lungo istante, dice: «Credo che tu sia Sordo». «Sordo? Io?» L'uomo sorride un po' goffamente. «Ma io posso sentire.» «Oh, puoi essere Sordo anche se ci senti.» Lui sembra confuso. «Sordo anche se ci senti», prosegue lei. «Vedi, noi chiamiamo quelli che ci sentono gli Altri. Ma alcuni degli Altri sono più simili a noi.» «E che tipo di persone sono?» domanda lui. È orgoglioso di essere tra di esse? Lei crede di sì. «Persone che vivono seguendo il loro cuore», risponde la ragazza, «non quello di qualcun altro.» Per un istante prova vergogna, perché non è sicura di ascoltare sempre il proprio. Un brano di Mozart comincia a suonare. O forse è Bach. Non ne è sicura. (Perché quell'infezione non poteva arrivare un anno più tardi? Pensa a tutta la musica che avrei potuto ascoltare in dodici mesi. Per l'amor del cielo, suo padre pompava le facili melodie della KSFT nello stereo della fattoria. Nella mia biografia, scopriranno che sono stata allevata con Pearly Shells, Tom Jones e Barry Manilow.) «Ci sono altre cose che devo dirti. Qualcos'altro, qualcosa che non ho mai detto a nessuno.» «Mi piacerebbe sentirlo», dice lui, lieto. Ma poi, in un istante, scompare. Melanie annaspa. La stanza della musica svanisce e lei si ritrova nuovamente nel mattatoio. Ha gli occhi spalancati, si guarda intorno, aspettandosi di vedere Bruto che si avvicina. Oppure Orso che grida, avventandosi contro di lei. Ma no, Bruto se ne è andato. E Orso se ne sta seduto da solo appena fuori della stanza delle uccisioni, intento a mangiare, con un sorriso assurdo che gli stira le labbra. Che cos'è che l'ha strappata dalla stanza della musica?
La vibrazione di un suono? La luce? No, è stato un odore. Un profumo l'ha risvegliata dal suo sogno a occhi aperti. Ma odore di cosa? Qualcosa che ha intuito tra gli odori di cibo unto, corpi ammassati e olio e gasolio e metallo arrugginito e vecchio sangue e lardo rancido e un migliaio di altri odori. Ah, l'ha riconosciuto chiaramente. Un odore ricco, pungente. «Ragazze, ragazze», gesticolò enfaticamente rivolta alle sue allieve. «Voglio dirvi qualcosa.» Orso si voltò verso di loro. Si accorse dei segni. Il suo sorriso svanì. Si alzò in piedi. Sembrava che stesse urlando: «Basta con quella roba! Basta!» «Non gli piace che parliamo», segnalò rapidamente Melanie. «Fate finta che stiamo giocando alle ombre cinesi.» C'era una cosa che a lei piaceva moltissimo della cultura dei sordi: l'amore per le parole. L'ASL era una lingua come qualsiasi altra. In realtà, era la quinta lingua più usata in America. Le parole e le frasi dell'ASL potevano essere suddivise in unità strutturali più piccole (forma della mano, movimento e posizione della mano rispetto al corpo), proprio come le parole parlate potevano essere suddivise in sillabe e fonemi. Quei gesti si prestavano a giochi di parole, adoperando i quali crescevano praticamente tutti i sordomuti. Orso le si avvicinò. «Che cosa cazzo... con...» Le mani di Melanie cominciarono a tremare violentemente. Riuscì a scrivere sulla polvere del pavimento: Gioco. Stiamo giocando. Vedi? Facciamo delle sagome con le nostre mani. Sagome di cose. «Quali cose?» Questo è il gioco degli animali. Formò la parola «stupido». Con gli indici e i medi estesi a formare una V, la forma della mano ricordava vagamente un coniglio. «Che cosa... questo?» Coniglio, scrisse lei. Le gemelle abbassarono la testa, ridacchiando. «Coniglio... Non... un fottuto coniglio, a me», disse Orso. Per favore ci lasci giocare. Non c'è niente di male. Guardò Kielle, che gesticolò: «Stronzo». Sorridendo, Melanie scrisse nella polvere: Questo era un cavallo. «...fuori di testa.» L'uomo tornò alla sua bibita e alle sue patatine fritte.
Le ragazze aspettarono finché non fu fuori vista, poi guardarono Melanie con ansia. Kielle, che aveva smesso di sorridere, domandò bruscamente: «Che cosa ci devi dire?» «Vi porterò fuori di qui», gesticolò Melanie. «Ecco cosa.» Arthur Potter e Angie Scapello si stavano preparando a interrogare Jocylyn Weiderman, che al momento veniva esaminata dai medici, quando udirono il primo sparo. Fu uno schiocco debole e molto meno allarmante della voce agitata di Dean Stillwell che uscì improvvisamente dall'altoparlante posto sopra le loro teste. «Arthur, c'è qualcosa in ballo, qui! Handy sta sparando.» Maledizione. «C'è qualcuno nel campo.» Prima ancora di guardare fuori, Potter premette il pulsante sul microfono e ordinò: «Di' a tutti di non rispondere al fuoco». «Sissignore.» Potter si unì ad Angie e a Charlie Budd davanti al finestrino color ocra del furgone. «Quel figlio di puttana», sussurrò Budd. Si udì un altro sparo dal mattatoio e il proiettile sollevò una nube di schegge e di frammenti di legno dal paletto ormai marcio dell'ex recinto per gli animali, vicino all'uomo in completo scuro che camminava a circa cinquanta metri di distanza dal furgone. Un grosso fazzoletto, senza dubbio costoso, ondeggiava al vento intorno alla mano destra alzata dell'intruso. «Oh, no», sussurrò Angie, disperata. Il cuore di Potter mancò un battito. «Henry, nel tuo profilo del viceprocuratore generale hai dimenticato di menzionare il fatto che è completamente fuori di testa.» Handy sparò di nuovo, colpendo una roccia appena dietro Roland Marks. Il viceprocuratore si fermò, accucciandosi. Agitò ancora il fazzoletto bianco. Poi, lentamente, riprese a camminare verso il mattatoio. Potter premette il pulsante di chiamata rapida. Mentre il telefono continuava a squillare, borbottò: «Avanti, Lou». Nessuna risposta. La voce di Dean Stillwell uscì dall'altoparlante. «Arthur, non so che cosa pensare. Evidentemente c'è qualcuno, qui, che crede di...» «È Roland Marks, Dean. Sta dicendo qualcosa a Handy?»
«Sembra che stia gridando. Non riusciamo a sentirlo.» «Tobe, hai ancora quelle antenne?» Il giovane agente parlò nel microfono e premette una serie di pulsanti. Dopo qualche secondo, il suono lamentoso del vento riempì il furgone. Poi la voce di Marks. «Lou Handy! Sono Roland Marks, viceprocuratore generale dello stato del Kansas.» Il fragore di uno sparo, enormemente amplificato, lacerò il silenzio teso del furgone. Tutti sussultarono. «L'altro microfono è puntato sul mattatoio», riferì Tobe Geller, «ma non si sente nulla.» Certo. Perché Handy non sta dicendo niente. Perché parlare, quando ti puoi spiegare molto meglio con le pallottole? «Brutto affare», sussurrò Angie. Di nuovo la voce di Marks: «Lou Handy, questo non è un trucco. Voglio che lasci andare le bambine e prendi me al loro posto». «Gesù», sussurrò Budd. «Lo sta facendo davvero?» Il suo tono era quasi ammirato, e Potter dovette trattenersi dal rimproverare il capitano della polizia di stato. Un altro sparo, molto vicino, fece balzare da un lato il viceprocuratore. «Per l'amor di Dio, Handy», si udì la voce disperata. «Lascia andare quelle bambine!» Nel frattempo, il telefono all'interno del mattatoio continuava a squillare, a squillare, a squillare. Potter parlò nel microfono della radio: «Dean, odio doverlo dire, ma dobbiamo fermarlo. Usa il megafono e tenta di farlo tornare indietro. Se non viene, manda un paio di uomini a prenderlo». «Handy sta soltanto giocando con lui», disse Budd. «Non credo che sia davvero in pericolo. Avrebbero potuto facilmente sparargli, a questo punto, se avessero voluto.» «Non è per lui che sono preoccupato», sbottò Potter. «Come?» Angie spiegò: «Stiamo cercando di portare gli ostaggi fuori, non dentro». «E lui sta rendendoci il lavoro più difficile», concluse semplicemente Potter, senza perdere tempo a spiegare il terribile errore che Marks stava commettendo. Con un sibilo lamentoso, una pallottola spezzò in due una pietra di fian-
co alla gamba destra dell'avvocato. Marks rimase in piedi. Si voltò; stava ascoltando Dean Stillwell, la cui voce veniva raccolta dal microfono direzionale e trasmessa al furgone. Con grande sollievo di Potter, lo sceriffo non era per nulla intimorito dall'autorità dell'uomo. «Ehi, Marks, deve tornare indietro subito, altrimenti verrà arrestato. Torni da questa parte.» La voce roca di Marks colmò il furgone: «Dobbiamo salvarle». Suonava risoluto ma terrorizzato e, per un momento, il cuore di Potter fu dalla sua parte. Un altro sparo. «No, signore. Mi ha capito? Lei sta per essere arrestato.» Potter chiamò Stillwell e gli disse che se la stava cavando benissimo. «Digli che, comportandosi così, sta mettendo in pericolo le bambine.» La voce dello sceriffo, mista al fischio del vento, riempì nuovamente il furgone, riferendo il messaggio. «No! Le sto salvando», gridò il viceprocuratore, e ricominciò a camminare. Potter tentò ancora con il telefono. Nessuna risposta. «D'accordo, Dean. Andate a prenderlo. Nessun fuoco di copertura, in nessuna circostanza.» Lo sceriffo sospirò. «Sissignore. Ho dei volontari. Spero che vada tutto bene, ma li ho autorizzati a usare lo spray al pepe se oppone resistenza.» «Fagli dare una spruzzata anche da parte mia», disse Potter, e si voltò per guardare. Due poliziotti con giubbotti antiproiettile ed elmetti uscirono dal filare di alberi e, piegati in due, si diressero verso il campo. Handy sparò diversi altri colpi. Non aveva ancora notato i poliziotti e stava mirando soltanto nelle vicinanze di Marks, mancandolo sempre di qualche centimetro. Ma un proiettile colpì una roccia e rimbalzò su un'auto della polizia, mandandone in frantumi il parabrezza. I due poliziotti si mantenevano bassi, correndo perpendicolarmente rispetto alla facciata del mattatoio. Se il bandito avesse deciso di diventare cattivo e di spargere un po' di sangue, i loro fianchi e le loro gambe sarebbero stati bersagli fin troppo facili. Potter si accigliò. Uno degli uomini aveva un aspetto familiare. «Chi sono quei poliziotti?» domandò Potter a Stillwell. «Uno di loro non è Stevie Oates?» «Sissignore.» Potter emise un sospiro profondo. «È appena tornato da una missione,
Dean. Che cosa diavolo ha in mente?» «Be', signore, ha voluto uscire di nuovo. È stato molto insistente al proposito.» Potter scosse la testa. Ora Marks era a soli quaranta metri dal mattatoio. I due uomini gli si stavano avvicinando lentamente, procedendo nell'erba alta. Marks li vide e gridò loro di andarsene. «Signore», chiamò una voce dall'altoparlante - Potter la riconobbe come la voce di Oates - «i nostri ordini sono di riportarla indietro.» «Al diavolo i vostri ordini. Se vi importa qualcosa di quelle ragazze, lasciatemi in pace.» In lontananza udirono una risata captata dal microfono direzionale. «Tiro al piccione», disse la voce di Handy, cavalcando il vento. Un altro sparo, assordante. Una pietra vicino a uno dei due poliziotti volò in aria. I due si buttarono a terra e cominciarono a strisciare verso il viceprocuratore. «Marks», chiamò Oates, respirando affannosamente. «Dobbiamo portarla indietro, signore. Lei sta interferendo con un'operazione federale.» L'uomo si voltò di scatto. «E che cosa farà per fermarmi, agente? Voi lavorate per me. Non dimenticatelo.» «Lo sceriffo Stillwell mi ha autorizzato a usare tutta la forza necessaria per fermarla, signore. E lo farò.» «Sei sottovento, figliolo. Se tenti di usare lo spray, te lo becchi tutto in faccia.» Handy sparò di nuovo. Il proiettile spezzò in due un vecchio paletto, a meno di mezzo metro dalla testa di Oates. Handy, ancora di buonumore, rise di gusto. «Cristo», sussurrò qualcuno. «No, signore», disse Oates con calma, «i miei ordini sono di spararle alle gambe e di trascinarla indietro.» Potter e LeBow si scambiarono uno sguardo incredulo. Il pollice del negoziatore premette il pulsante della radiotrasmittente. «Sta bleffando, vero Dean?» «Sì», fu la risposta tremolante di Stillwell. «Ma... sembra molto determinato. Voglio dire, non crede anche lei?» Lo credeva anche Potter. «Lo farebbe?» domandò LeBow. Potter si strinse nelle spalle. Angie disse: «Ha estratto la pistola».
Oates stava puntando l'arma alle gambe di Marks. Be', tutta questa faccenda si sta trasformando in un disastro di enormi proporzioni, pensò Potter. «Signore», continuò Oates, «non sbaglierò. Sono un ottimo tiratore e sto per spararle.» Il viceprocuratore esitò. Il vento gli strappò il fazzoletto dalle dita. Il panno bianco, sospinto dal vento, si sollevò di qualche centimetro sopra la sua testa. Uno sparo. Il proiettile di Handy colpì il fazzoletto. Il pezzo di stoffa sussultò e fluttuò lontano, veleggiando sulla brezza. Ancora una volta, dal microfono direzionale uscì il suono lontano della risata di Handy. Marks si voltò a guardare il mattatoio. Gridò: «Sei un figlio di puttana, Handy. Spero che tu marcisca all'inferno». Altre risate. O forse era soltanto il vento. Camminando a testa alta, il viceprocuratore generale si allontanò dal campo. Come se stesse attraversando il giardino di casa sua. Potter si compiacque nel vedere che Oates e il suo compagno si tenevano bassi come segugi mentre strisciavano dietro all'uomo, nascosti dall'erba alta e rigogliosa spazzata dal vento. «Poteva rovinare tutto», sbottò Arthur Potter. «Che cosa diavolo aveva in mente di fare?» Doveva sollevare lo sguardo per guardare gli occhi di Marks - l'uomo era ben oltre il metro e ottanta - eppure aveva la sensazione di parlare con un moccioso che si era comportato male. L'avvocato cominciò con voce decisa: «Stavo pensando...» «Non si scambiano mai gli ostaggi. Mai. L'unico scopo della trattativa è quello di svalutarli. Era come se lei gli stesse dicendo: 'Ehi, eccomi qui, io valgo più di tutte quelle ragazze messe insieme'. Se Handy avesse preso lei, la cosa avrebbe reso il mio lavoro impossibile.» «Non capisco perché», rispose Marks. «Perché», intervenne Angie, «un ostaggio come lei avrebbe centuplicato la sua sensazione di potere e di controllo. Handy avrebbe aumentato le sue richieste e non avrebbe ceduto di un millimetro. Non saremmo mai riusciti a metterci d'accordo con lui su qualcosa di ragionevole.» «Be', continuavo a pensare a quelle ragazze là dentro. A quello che stavano passando.» «Non le avrebbe mai lasciate andare.»
«Avevo intenzione di convincerlo a farlo.» LeBow fece roteare gli occhi e continuò a scrivere il resoconto dell'incidente. «Non ho intenzione di arrestarla», dichiarò Potter. Aveva preso in seria considerazione l'ipotesi di farlo, ma aveva concluso che le conseguenze sarebbero state troppo fastidiose. «Ma, se lei interferisce ancora in qualsiasi modo con questa operazione, lo farò e le garantisco che il procuratore degli Stati Uniti la sbatterà in galera per un pezzo.» Marks non era per nulla pentito. La maschera tracotante era scomparsa, certo; ma, più che altro, l'avvocato sembrava irritato perché il negoziatore aveva interferito con i suoi piani. «Lei si comporta come da manuale, Potter.» Un grosso dito indice si puntò contro l'agente. «Ma il manuale non dice niente su uno psicopatico che si diverte a uccidere bambini.» Il telefono ronzò. LeBow prese la chiamata e riferì a Potter: «Jocylyn ha ricevuto il benestare dei medici. È a posto. Vuoi interrogarla subito?» «Sì, grazie, Henry. Di' loro di mandarla qui. Voglio anche Stevie Oates.» Poi, rivolto a Marks: «Adesso devo chiederle di andarsene». L'uomo si abbottonò la giacca e si spazzolò con le mani la polvere di roccia che il tiro al bersaglio di Handy gli aveva depositato sul vestito. Si diresse alla porta a grandi passi e borbottò qualcosa. Potter credette di aver udito: «sangue sulle sue mani». Quanto al resto della frase, non ne aveva la minima idea. 15,40 Per lunghi, preziosi minuti, la bambina pianse senza controllarsi. Angie Scapello e Arthur Potter erano seduti insieme a Jocylyn e lottavano per sembrare calmi e rassicuranti mentre, nei loro cuori, avrebbero voluto afferrare la ragazzina per le spalle e scuoterla per strapparle le risposte che cercavano. L'impazienza, la nemesi di Arthur Potter. Continuava a sorridere e ad annuire con fare rassicurante mentre la paffuta dodicenne piangeva e piangeva, appoggiando il viso tondo e rosso sulle mani tremanti. La porta si aprì e Stevie Oates entrò, togliendosi l'elmetto. Nonostante il freddo, i suoi capelli erano intrisi di sudore. Potter spostò la propria attenzione dalla bambina al poliziotto. «Dovresti rilassarti per un po', Stevie.»
«Sissignore, credo proprio che lo farò. Quegli ultimi due o tre spari erano... be', molto vicini.» «Ti hanno messo a terra, vero?» «Sissignore. Proprio così.» «Dimmi tutto ciò che hai visto quando sei andato là a portargli il cibo.» Come si aspettava, persino con l'aiuto del nastro registrato dalla videocamera posta sopra il suo orecchio, Oates non fu in grado di fornire troppi dettagli sull'interno del mattatoio. «Qualche considerazione sullo stato mentale di Handy?» «Sembrava calmo. Non era per niente sulle spine.» Come se stesse ordinando una tazza di caffè al bar. «Qualche ferito?» «Non che io potessi vedere.» Doverosamente, LeBow digitò nel computer le informazioni. Oates non riusciva a ricordare nient'altro. Potter fece notare all'agente avvilito che il fatto che non avesse visto né sangue né corpi era una buona notizia. Ciononostante, sapeva bene che la sua faccia non riusciva a mascherare lo sconforto che provava lui stesso: non avrebbero ricavato nulla di utile dalla ragazzina, che continuava a piangere e ad arricciarsi i corti capelli scuri intorno a dita che terminavano in unghie smangiucchiate. «Grazie, Stevie. Per il momento è tutto. Ah, una domanda. Avevi davvero intenzione di sparare alle gambe a Marks?» Il giovane agente divenne serio e, dopo un istante, fece un sorriso prudente. «Diciamo che, signore, non l'avrei saputo fino a quando non avessi premuto il grilletto. O non l'avessi premuto. Una delle due, insomma.» «Vai a prenderti un po' di caffè, ragazzo.» «Sissignore.» Potter e Angie tornarono a rivolgere la propria attenzione a Jocylyn. Gli occhi della bambina erano sorprendentemente rossi; era accoccolata dentro la coperta che le aveva dato uno degli agenti di Stillwell. Finalmente la bambina si calmò abbastanza perché Potter potesse iniziare a interrogarla con l'aiuto dell'agente Frances Whiting. Il negoziatore notò che, mentre le mani della donna si muovevano elegantemente e con gesti compatti, quelle di Jocylyn erano goffe e sgraziate, zoppicanti: la differenza, immaginò lui, tra qualcuno che parla correntemente e qualcuno che inserisce «ehm» e «cioè» nelle proprie frasi. Si domandò come fossero i gesti di Melanie. Sincopati? Fluidi? «Non sta rispondendo alle vostre domande», disse Frances.
«Che cosa sta dicendo?» domandò Angie, osservando i movimenti ricorrenti delle mani con i suoi rapidi occhi scuri. «Che vuole i suoi genitori.» «Sono al motel?» domandò Potter a Budd. Il capitano fece una telefonata e riferì: «Dovrebbero arrivare entro un'ora». Frances riferì l'informazione alla bambina. Senza dar segno di aver capito, Jocylyn ricominciò a singhiozzare. «Te la stai cavando bene», disse Angie in tono incoraggiante. Il negoziatore guardò l'orologio. Poco più di un'ora all'ultimatum dell'elicottero. «Parlami degli uomini, Jocylyn. Degli uomini cattivi.» Le mani di Frances si mossero e, finalmente, la bambina rispose. «Dice che ce ne sono tre. Quei tre là.» La bambina stava indicando la parete. «Sono sudati e puzzano. Quello», indicò Handy, «è Bruto. Lui è il capo.» «Bruto?» domandò Potter, perplesso. Frances pose la domanda e rimase a osservare una lunga risposta, nel corso della quale Jocylyn indicò ognuno dei sequestratori. «È così che li chiama Melanie», spiegò. «Handy è Bruto. Wilcox è Ermellino. E Bonner è Orso.» L'agente aggiunse: «Il linguaggio dei segni è altamente metaforico. 'Agnello' a volte viene usato per intendere 'gentile', 'delicato', per esempio. Spesso i sordomuti pensano in termini poetici». «Ha una qualche idea di dove si trovino all'interno del mattatoio?» domandò Potter a Frances. Angie gli suggerì: «Parla direttamente con la bambina, Arthur. Sarà più rassicurante, la farà sentire più come un'adulta. E non dimenticarti di sorridere». Lui ripeté la domanda, sorridendo, alla bambina. Frances tradusse la sua risposta mentre Jocylyn indicava diversi punti vicino alla parte anteriore della stanza più grande e poi sfiorava le fotografie di Handy e di Wilcox. Tobe spostò i Post-it che recavano i loro nomi. LeBow digitò le nuove informazioni. Jocylyn scosse la testa. Si alzò e li sistemò più accuratamente. Poi compose qualche parola all'indirizzo di Frances, che disse: «Orso - Bonner - è nella stanza con le sue amiche». La ragazzina mise il Post-it di Orso in un'ampia stanza semicircolare a circa dieci metri di distanza dalla facciata del mattatoio. Tobe sistemò nella stanza tutti gli indicatori degli ostaggi. Jocylyn risistemò anche quelli, con molta precisione. «Ecco dove sono tutti, dice. Esattamente.»
L'occhio di Potter si soffermò sul cartellino di Melanie. La piccola si asciugò le lacrime, poi riprese a fare segni. «Dice che Orso le tiene d'occhio tutto il tempo. Specialmente le più piccole.» Bonner. Lo stupratore. Potter domandò: «Ci sono altre porte o finestre che non vedi sulla pianta?» Jocylyn scrutò il diagramma con attenzione. Scosse la testa. «Sei sicura?» «Sì.» «Hai visto qualche arma?» «Tutti e tre hanno armi.» La bambina indicò la pistola appesa alla cintura di Tobe. «Che tipo di pistole sono?» domandò Potter. Jocylyn aggrottò le sopracciglia e indicò di nuovo la cintura di Tobe. «Voglio dire», insistette lui, «sono come quella, o hanno dei cilindri?» Si scoprì a compiere un gesto semicircolare con il dito. «Revolver», scandì lentamente. Jocylyn scosse la testa. Le sue mani goffe parlarono di nuovo. «No, dice che sono automatiche di colore nero. Proprio come quella.» Frances sorrise. «Mi ha chiesto perché non crede a quello che dice.» «Sai che cos'è una pistola automatica?» «Dice che guarda la televisione.» Potter rise e disse a LeBow di scrivere che la bambina aveva confermato che i sequestratori erano armati di tre Glock o armi similari. Senza che nessuno le chiedesse nulla, Jocylyn aggiunse che avevano due dozzine di scatole di proiettili. «Scatole?» «Grandi così», disse Frances, mentre la bambina muoveva le mani a circa venti centimetri di distanza l'una dall'altra. «Gialle e verdi.» «Remington», borbottò LeBow. «E fucili. A doppia canna. Come quello. Tre.» Jocylyn indicò un fucile a doppia canna sulla rastrelliera appesa alla parete del furgone. «Fucili automatici?» Potter le indicò un M-16 appoggiato alla parete. «No.» «Sono maledettamente preparati», borbottò Budd. Potter lasciò parlare Angie, che domandò: «C'è qualcuno ferito?» «No.»
«Handy - Bruto - parla con qualcuno in particolare? Con una delle insegnanti o delle ragazze, voglio dire?» «No. La maggior parte del tempo ci guarda e basta.» Ciò le riportò alla mente qualche ricordo e, insieme a esso, altre lacrime. «Stai andando benissimo, tesoro», la incoraggiò la psicologa, stringendo brevemente la spalla della bambina. «Sei riuscita a capire di che cosa parlano i tre uomini?» «No. Mi dispiace. Non sono molto brava a leggere le labbra.» «Beverly sta bene?» «Non riesce a respirare molto bene. Ma ha avuto attacchi peggiori di questo. Il problema più grande è la signora Harstrawn.» «Chiedile di spiegarmi meglio.» Frances osservò le mani della bambina e poi disse: «Sembra che stia avendo una specie di crollo nervoso. È stata bene finché non hanno sparato a Susan. Tutto ciò che fa adesso è rimanere sdraiata a piangere». Sono senza un leader, pensò Potter. La situazione peggiore. Possono farsi prendere dal panico e tentare di fuggire. A meno che Melanie non abbia preso in mano la situazione. «Come sta Melanie?» «Se ne sta seduta a fissare il vuoto. A volte chiude gli occhi.» Poi Frances aggiunse a Potter: «È un cattivo segno. I sordi non chiudono mai gli occhi in una situazione tesa. La vista è l'unico sistema di allarme che possiedono». «Gli uomini litigano, tra di loro?» domandò Angie. Jocylyn non lo sapeva. «Sembrano nervosi? Contenti? Spaventati? Tristi?» «Non sono spaventati. A volte ridono.» LeBow immise l'informazione nel computer. «D'accordo», concluse Potter. «Sei una bambina molto coraggiosa. Adesso puoi andare all'albergo. I tuoi genitori arriveranno presto.» La dodicenne si asciugò il naso sulla manica della camicetta, ma non se ne andò. Gesticolò goffamente. «È tutto quello che volete chiedermi?» tradusse Frances. «Sì. Puoi andare.» Ma la bambina gesticolò ancora. «Ha chiesto: 'Non volete sapere della televisione? E dell'altra roba?'» Tobe, LeBow e Budd si voltarono verso Potter. «Hanno una televisione là dentro?» sussurrò lui, incredulo. Frances tra-
dusse e Jocylyn annuì. «Dove l'hanno presa?» «Nelle borse insieme alle armi. Le hanno portate dentro con loro. È una di quelle piccole.» «Hanno una radio?» «Non ne ho viste.» «Guardano molto la televisione?» Jocylyn annuì. «Che altre cose hanno?» «Dice che hanno degli attrezzi. Nuovi. Sono di plastica.» «Attrezzi di che tipo?» «Color argento. Tenaglie. Pinze. Cacciaviti. Un grosso martello luccicante.» «Offrile un lavoro, Arthur», commentò LeBow. «È più brava della metà dei nostri agenti.» «Qualsiasi altra cosa che ti viene in mente, Jocylyn?» Le dita rosse della bambina si mossero. «Vuole sua mamma.» «Un'ultima cosa», disse Potter. Esitò. Voleva chiederle di più su Melanie, ma scoprì di non poterlo fare. Invece domandò: «Fa freddo, dentro?» «Non troppo.» L'uomo prese la mano grassoccia e sudata della bambina e la strinse tra le sue. «Dille che la ringrazio moltissimo, Frances. Ha fatto un ottimo lavoro.» Dopo quell'ultimo messaggio, Jocylyn si asciugò il viso e sorrise per la prima volta. Angie chiese a Frances di dire alla bambina che l'avrebbe portata all'albergo tra un minuto. Jocylyn uscì ad aspettarla in compagnia di una donna della polizia di stato. LeBow stampò la lista di ciò che gli uomini avevano a disposizione all'interno del mattatoio. La passò a Tobe, che la appese accanto alla piantina. «È come un gioco al computer», osservò il tecnico. «Hai con te una chiave, una spada magica, cinque sassi e un corvo in gabbia», recitò. Potter si lasciò andare lentamente contro lo schienale della poltroncina, ridendo. Guardò la lista. «Che cosa ne pensi, Henry? Attrezzi, un televisore?» «Hanno scassinato un negozio dopo l'evasione?»
Potter domandò a Budd: «Ci sono state denunce di furti in esercizi commerciali tra qui e Winfield, Charlie?» «Sono fuori da quel giro. Controllerò.» Uscì dal furgone. «Non ho mai avuto tante informazioni valide da un ostaggio che era rimasto sequestrato per così poco tempo», disse Potter. «Le sue capacità di osservazione sono notevoli.» «Dio compensa», commentò Frances. «Che cosa ne pensi?» domandò poi Potter ad Angie. «È dalla nostra parte, immagino.» A causa della sindrome di Stoccolma, si era saputo di ostaggi pronti a fornire false informazioni ai negoziatori e alle squadre tattiche. In una delle trattative di Potter - un sequestro terroristico durato una settimana - un ostaggio liberato aveva lasciato un fazzoletto di fronte alla finestra dove si trovava Potter affinché gli uomini barricati all'interno sapessero dove sparare. Un cecchino aveva ucciso il sequestratore prima che questi avesse il tempo di fare fuoco. Al processo che era seguito, Potter aveva testimoniato a favore dell'ostaggio; la donna aveva ottenuto una condanna con la condizionale. Il negoziatore era d'accordo con la psicologa. Jocylyn non era rimasta sequestrata abbastanza a lungo per mutare i propri sentimenti nei confronti di Handy e degli altri. Era soltanto una bambina spaventata. «La porterò all'albergo», disse Angie. «Mi assicurerò che sia sistemata bene. E tranquillizzerò gli altri genitori.» «Arthur», si intromise LeBow, «ho appena ricevuto delle informazioni su Henderson.» Mentre la donna usciva dal furgone, Potter le disse: «Intanto che sei laggiù, fai un controllo su di lui. Mi rende nervoso». «Stiamo parlando di Pete Henderson, il nostro agente speciale di Wichita?» «Sì.» «Perché?» «Una sensazione.» Potter le riferì della minaccia. E aggiunse che era molto preoccupato del fatto che Henderson non avesse detto di sua spontanea volontà che aveva interrogato Handy dopo l'incendio alla banca. «Probabilmente perché i suoi ragazzi hanno fatto un pessimo lavoro, lasciandosi scappare la donna di Handy e finendo con due agenti feriti.» E anche per l'interrogatorio che era seguito, che ora Potter ricordava contenere soltanto banali oscenità da parte del delinquente. «Ma avrebbe dovuto dirci fin dal-
l'inizio che era coinvolto in quell'operazione.» «Che cosa vuoi che faccia?» domandò Angie. Potter si strinse nelle spalle. «Assicurati soltanto che non stia creando dei problemi.» Lei gli rivolse un'occhiata spazientita. Peter Henderson, in qualità di agente speciale responsabile dell'agenzia locale, aveva il rango e l'autorità per creare tutti i problemi che voleva, e non competeva ad agenti minori come Angie Scapello intromettersi nella faccenda. «Provaci. Per favore.» Potter le soffiò un bacio. LeBow gli passò lo stampato, spiegandogli con una smorfia: «Sono soltanto informazioni tipo curriculum. Ma c'è qualche dettaglio che - sono pronto a scommettere - Henderson vorrebbe tenere nascosto». Potter era curioso. Lesse. Henderson aveva scalato i gradi, lavorando come investigatore per il dipartimento di polizia di Chicago mentre frequentava i corsi serali alla DePaul Law School. Dopo aver ottenuto il diploma era entrato nell'FBI, era stato tra i migliori a Quantico e poi era tornato nel Midwest, dove si era procurato una certa fama nell'Illinois meridionale e a St. Louis investigando principalmente su crimini contro la proprietà. Era un buon amministrativo, rientrava perfettamente nei canoni dell'FBI ed era destinato a un incarico di responsabile a Chicago o Miami o addirittura nel distretto meridionale di New York. Dopodiché, la traiettoria della sua carriera l'avrebbe portato a Washington. Non fosse stato per il procedimento penale. Potter lesse la rassegna stampa e, aiutato dai dettagli che LeBow era riuscito non si sa come a prendere dal database dell'FBI, comprese per quale motivo Henderson fosse stato trasferito nel Kansas. Sei anni prima, una decina di agenti di colore avevano intentato una causa contro l'FBI per discriminazione nelle assegnazioni, nelle promozioni e negli aumenti di stipendio. L'ufficio di St. Louis era uno dei distretti federali presi di mira, e Henderson si era affrettato a offrire la propria testimonianza per supportare i loro reclami. Troppo in fretta, aveva detto qualcuno. Nel terremoto anticipato che era seguito alla faccenda, ci si attendevano le dimissioni dell'allora direttore dell'FBI, da rimpiazzare con un giovane vicedirettore che sarebbe divenuto il primo capo di colore dell'FBI e che - così immaginava Peter - si sarebbe ricordato di coloro che avevano appoggiato la causa. Ma lo schema di Henderson si era ritorto contro di lui, scoppiandogli proprio in faccia. Quando il procedimento venne affidato alle corti federali, smise di essere tanto interessante. Alcuni dei reclamanti si ritirarono; al-
tri, semplicemente, non riuscirono a fornire le prove delle discriminazioni. Per motivi di mera ambizione, non ideologici, il giovane vicedirettore di colore aveva scelto di spostarsi al Consiglio di sicurezza nazionale. Il direttore uscente dell'FBI era andato in pensione ed era stato rimpiazzato dall'ammiraglio. L'opportunista Peter Henderson venne silurato senza tanti complimenti. L'uomo che una volta aveva perquisito l'abitazione privata del boss sindacale Mario Lacosta a Clayton, nel Missouri, era stato mandato armi e bagagli nello stato in cui si trovava il centro geografico della nazione e che era conosciuto per i furtarelli alla base dell'aeronautica militare di McConnell e per i conflitti interni fra il dipartimento degli affari indiani e l'ente di controllo su alcool, tabacco e armi da fuoco. La carriera del trentanovenne agente speciale era giunta a un punto morto. «Rischi?» domandò Potter a LeBow. «Pensi che ci metterà i bastoni tra le ruote?» «Non è nella posizione di fare niente», rispose Henry. «Non ufficialmente, almeno.» «È disperato.» «Ne sono sicuro. Ho detto 'non ufficialmente', infatti. Dobbiamo continuare a tenere gli occhi aperti, con lui.» Potter ridacchiò. «E così abbiamo un viceprocuratore generale pronto a darsi in ostaggio ai sequestratori e un agente speciale responsabile che vorrebbe dargli me.» Abbiamo incontrato il nemico... Tornò a voltarsi verso la finestra, pensando a Melanie e ricordando ciò che aveva detto Jocylyn. Se ne sta seduta a fissare il vuoto. A volte chiude gli occhi. Che cosa significa questo? si domandò. Tobe interruppe i suoi pensieri. «Handy si aspetta un elicottero tra un'ora e cinque minuti.» «Grazie, Tobe.» Guardò il mattatoio e pensò: una chiave, una spada magica, cinque sassi e un corvo in gabbia. «Agente.» Charlie Budd stava tornando al furgone dalla sua automobile priva di contrassegni, dove aveva appena concluso un'indagine a computer sulle rapine nell'area di quattro contee limitrofe. Le uniche avvenute, quel giorno, erano state a un emporio, a una stazione di servizio e a una chiesa me-
todista. In nessun caso il bottino corrispondeva alle armi, al televisore portatile e agli attrezzi che gli SO avevano portato con sé. «Venga qui, agente», disse la voce sommessa dell'uomo. Oh, ragazzi. E adesso che cosa c'è? Roland Marks era appoggiato alla fiancata di un furgone di alimentari, fumando una sigaretta. Budd pensava che dovesse essere già lontano almeno venti chilometri, ma nel suo sguardo c'era decisione e sembrava proprio che non avesse alcuna intenzione di andarsene. «Lei è stato testimone di quella pagliacciata», affermò l'uomo. Mentre Potter rimproverava il viceprocuratore, Budd era rimasto in un angolo del furgone. Il capitano si guardò intorno, poi si addentrò nell'erba alta, avvicinandosi all'uomo vestito di scuro. Si mantenne sopravvento per non respirare il fumo della sigaretta. Non disse nulla. «Adoro i pomeriggi estivi, capitano. Mi ricordano la mia adolescenza. Giocavo a baseball tutti i giorni. E lei? A vederla si direbbe che possa correre come il vento.» «Atletica. Quattrocento e ottocento, principalmente.» «Bene.» La voce del viceprocuratore si abbassò di nuovo, al limite della percepibilità. «Se ne avessimo la possibilità, ne parleremmo davanti a una bella bistecca, lei capirebbe quello che voglio dire e poi andrebbe a fare il suo dovere. Ma non c'è tempo per questo.» Non sono mai stato tagliato per fare l'ufficiale, pensò Budd, e per la centesima volta rivide nella sua mente il proiettile che stroncava la vita alla diciassettenne Susan Phillips. Improvvisamente si sentì mancare il fiato e tossì, un colpo di tosse che risuonò nel silenzio in modo strano. «Senta, sono molto occupato, al momento, signore. Devo proprio...» «Mi risponda sì o no. Ho visto qualcosa nel suo sguardo, dentro il furgone?» «Non capisco che cosa intende dire, signore.» «Certo, forse quello che ho fatto era un po' esagerato. Non riuscivo a pensare troppo chiaramente. Ma lei, capitano, non era del tutto sicuro che nemmeno Potter avesse ragione. E... no, fermiamoci qui. Credo che, se la mettessimo ai voti, in quel furgone ci sarebbe più gente dalla mia parte che dalla sua.» Budd trovò ancora un po' di coraggio e disse: «Non è una gara di popolarità, signore». «Oh, no, non lo è. Certo che no. Lei ha ragione. È una questione che riguarda la vita di quelle bambine, e io credo che a Potter non importi se so-
pravvivono oppure no.» «Noooo. Questo non è vero. Gli importa moltissimo.» «Che cosa sto vedendo nella sua faccia, capitano? Proprio ciò che ho visto nel furgone, vero? Lei ha una paura fottuta per quelle povere anime chiuse in quel mattatoio.» La nostra priorità numero uno non è far uscire vive quelle bambine là dentro... «Avanti, capitano», continuò Marks. «Lo ammetta.» «È una brava persona», sostenne Budd. «Lo so che è una brava persona. Ma questo che cazzo c'entra con tutto il resto?» «Sta facendo del suo meglio...» «Non c'è via d'uscita dall'inferno», borbottò Marks. «Sto lasciando morire quelle bambine là dentro. Il che è qualcosa che lui è pronto a fare volentieri... e questo la rode fin da questa mattina. Ho ragione?» «Be'...» La mano di Marks frugò nella tasca della giacca e ne prese un portafogli, aprendolo di scatto. Per un folle istante Budd pensò che stesse per mostrargli la sua tessera identificativa di viceprocuratore. Ma ciò che si ritrovò a guardare ebbe su di lui un impatto assai più violento. Tre fotografie di bambine. Bambine piccole. Una di esse aveva le sopracciglia unite e i lineamenti leggermente distorti. La figlia handicappata. «Lei è padre di due bambine, Budd. Ho ragione?» Il capitano deglutì a vuoto e tentò di distogliere lo sguardo dai sei occhi scuri che lo fissavano. Non ne fu capace. «Immagini le sue piccole là dentro. E poi immagini qualcuno come Potter che dice: 'Diavolo, sono sacrificabili'. Cerchi di immaginarlo, capitano.» Budd inspirò profondamente. Alla fine riuscì a spostare gli occhi. Il portafogli si chiuse di scatto. «Dobbiamo farlo rimuovere.» «Che cosa?» «È lui che sta firmando le loro condanne a morte. Che cosa ha detto sul fatto di venire incontro alle richieste di Handy? Avanti, Budd. Risponda come un ufficiale.» Budd lo guardò negli occhi, ignorando il sarcasmo, e dichiarò: «Ha detto che Handy non se ne sarebbe andato da Crow Ridge se non in manette o in un sacco di plastica».
E se ciò comporta che quegli ostaggi debbano morire, allora moriranno. «Per lei tutto ciò è accettabile, capitano?» «Non è compito mio dire se lo è o non lo è.» «'Stavo soltanto obbedendo agli ordini.'» «Sì, press'a poco è così.» Marks sputò la sigaretta. «Per l'amor di Dio, capitano, lei può assumere una posizione morale, no? Non possiede valori più alti, qualcosa di più che limitarsi a svolgere commissioni per un grasso agente dell'FBI?» «È un ufficiale anziano», disse rigidamente Budd. «È un federale, e...» «Lei non faccia altro che attenersi a queste parole, capitano», lo interruppe il viceprocuratore con l'enfasi di un evangelista esaltato. «Se le metta sottobraccio e le porti al funerale di quelle bambine. Spero che la faranno sentire meglio.» Raggiunse l'anima di Budd e la penetrò con l'unghia. «Abbiamo già il sangue di una ragazza sulle nostre mani.» Intende dire sulle tue mani. Budd rivide Susan Phillips che cadeva in ginocchio. L'impatto della caduta le aveva fatto spalancare la bocca e, per un istante, aveva distorto il suo bellissimo viso. Quando era morta, era tornata a essere bella. «Che cosa?» sussurrò, gli occhi fissi sui fari dei trattori che mietevano il frumento. «Che cosa vuole?» Quell'ultima domanda suonò infantile e lo fece vergognare, ma Budd, semplicemente, era incapace di trattenersi. «Voglio Potter fuori gioco. Lei o io o qualcuna delle autorità statali ci assumeremo la trattativa e daremo a quei maledetti figli di puttana il loro dannato elicottero in cambio delle bambine. Li ritroveremo quando atterreranno e li faremo saltare in aria, mandandoli dove devono andare: all'inferno. Ho già controllato. Possiamo far arrivare qui un elicottero in mezz'ora, dotato di un dispositivo di puntamento in grado di localizzarli fino a cento miglia di distanza. Non sapranno mai che li stiamo seguendo.» «Ma lui dice che Handy è troppo pericoloso perché gli permettiamo di uscire.» «Certo che è pericoloso», sbottò Marks. «Ma, una volta fuori, dovrà vedersela con dei professionisti. Uomini e donne che sono pagati per prendersi dei rischi. Quelle ragazze non lo sono.» Marks aveva gli occhi piccoli e a Budd parve che fossero sull'orlo delle lacrime. Pensò alla figlia mentalmente ritardata dell'uomo, che aveva passato la sua breve vita dentro e fuori dagli ospedali. Aveva notato che l'avvocato non aveva detto nulla sugli effetti che la decisione di Budd avrebbe avuto sulla sua carriera. Se l'avesse fatto, lui si sa-
rebbe irrigidito come un muro di pietra. Quando si trattava di cose come quelle, il giovane capitano poteva diventare testardo come un mulo. D'altra parte, vedere come Marks l'avesse valutato correttamente, evitando di proposito qualsiasi minaccia, aveva indebolito ogni sua resistenza. Si rese conto di essere già al tappeto, con la schiena incollata a terra, a fissare il soffitto. L'arbitro aveva già cominciato a contare. Oh, ragazzi. «Ma come facciamo a estromettere Potter?» Lo chiese per saggiare le capacità di Marks ma, ovviamente, l'uomo era preparato. La piccola scatola nera apparve tra le mani dell'avvocato. Per un istante assurdo Budd pensò davvero che si trattasse di una bomba. Fissò il registratore. «Tutto ciò che voglio è che lei lo porti a dire che gli ostaggi sono sacrificabili.» «Vuol dire registrarlo?» «Esattamente.» «E... e poi?» «Ho alcuni amici a una stazione radio di St. Louis. Faranno sentire la cassetta nel notiziario. Potter sarà costretto a lasciare.» «Potrebbe essere la fine della sua carriera.» «E potrebbe essere la fine della mia, se faccio una cosa del genere. Ma ho intenzione di rischiare. Per l'amor di Dio, avevo intenzione di offrirmi in cambio delle ragazze. Lei non ha visto Potter fare altrettanto.» «Non lo so. Non lo so.» «Salviamo quelle nove povere ragazze chiuse là dentro, capitano. Che ne dice?» Marks lo costrinse a prendere il registratore. Il capitano lo guardò per un lungo istante, quindi se lo fece scivolare in tasca e, senza aggiungere una sola parola, si voltò. Il suo unico atto di sfida fu: «No, lei si sbaglia. Là dentro ci sono soltanto otto persone, adesso. Potter è riuscito a portarne fuori una». Ma, quando lo disse, il viceprocuratore era troppo lontano per poterlo udire. 16,10 Il capitano Charles R. Budd era in piedi in un avvallamento del terreno non lontano dal furgone di comando. Stava delegando, sì, ma principalmente stava tentando di ignorare il peso del registratore - una tonnellata di metallo bollente - nella tasca dei suoi
pantaloni. Ci penserò più tardi. Delegare. Phil Molto stava approntando lo spazio per la stampa: un tavolo pieghevole di truciolare, una piccola macchina per scrivere portatile, carta e matite. Budd non era un esperto di giornalismo, ma immaginava che quell'attrezzatura sarebbe stata del tutto inutile per i reporter altamente tecnologizzati in circolazione. Chissà se sapevano battere a macchina quelle ragazzine e quei giovanottelli. Assomigliavano tutti a studentelli di liceo viziati. Ciononostante, immaginava che la nuova sistemazione avesse molto più a che fare con le pubbliche relazioni che con il giornalismo. Come faceva Potter a districarsi fra tutte quelle cose? Forse, vivere nella capitale della nazione era di qualche aiuto. Politica e pubbliche relazioni, in un modo o nell'altro. Il giovane capitano si sentiva totalmente incompetente. E anche pieno di vergogna. Il registratore si fuse in un grumo di plastica bollente che gli colò lungo la gamba. Dimenticatelo. Cinquanta minuti alle cinque - cinquanta minuti all'ultimatum. Si teneva stampato sulla faccia un sorriso senza senso, ma non riusciva a togliersi dalla testa l'immagine della ragazza che cadeva a terra morente. In un certo senso, dentro di sé sapeva che sarebbe stato versato altro sangue. Marks aveva ragione. Nel furgone Budd si era schierato con il viceprocuratore generale. Quarantacinque minuti... «Okay», disse al suo luogotenente. «Immagino che così vada bene. Tienili d'occhio, Phil. Assicurati che se ne stiano seduti al loro posto. Possono aggirarsi un po' dietro le linee e prendere appunti su tutto quello che vogliono...» Andava bene così? si domandò. Cosa avrebbe detto Potter? «...ma dategli dei giubbotti antiproiettile e assicuratevi che tengano la testa bassa.» In silenzio, Molto annuì. La prima automobile arrivò un minuto più tardi, con a bordo due uomini. I due scesero, mostrarono le loro credenziali e, mentre si guardavano intorno con espressione quasi affamata, il più vecchio dei due disse: «Sono Joe Silbert, della KFAL. Questo è Ted Biggins». Budd guardò com'erano vestiti - completi scuri non di buon taglio e
scarpe da tennis nere - e se li immaginò che correvano lungo il corridoio di un'emittente televisiva, gridando «Esclusiva! Esclusiva!» accompagnati da uno svolazzare di carte. Silbert osservò il tavolo per la stampa e rise. Budd presentò sé e Molto e si scusò: «Il meglio che potevamo fare». «Va benissimo, agente. Spero solo che non se la prenda se usiamo le nostre tavolette d'argilla per scrivere.» Biggins posò sul tavolo un grosso computer portatile. «Finché leggiamo quello che scrivete prima che lo mandiate, potete fare quello che volete.» Così l'aveva istruito Potter. «Archiviamo», lo corresse Silbert. «Diciamo 'archiviare', non 'mandare'.» Budd non riuscì a capire se il giornalista stesse scherzando oppure no. Biggins toccò la macchina per scrivere. «E questa che cos'è, esattamente?» I due uomini risero. Budd riferì loro le regole da rispettare. Dove potevano andare e dove non potevano andare. «Ci sono un paio di poliziotti con cui potete parlare, se volete. Phil ve li manderà subito.» «Sono del soccorso ostaggi?» «No. Sono del plotone K, più avanti lungo la strada.» «Possiamo parlare con qualche agente dell'SSO?» Quando Budd sorrise, il reporter sorrise a sua volta, come un cospiratore, e il giornalista si rese conto che il capitano non si sarebbe lasciato sfuggire neppure una parola sulla presenza o meno dell'SSO. «Tra poco vorremmo parlare con Potter», disse Silbert. «Ha intenzione di evitarci?» «Gli farò sapere che siete qui», rispose Budd allegramente, con quell'allegria di facciata che è l'isola di salvezza di tutti i poliziotti. «Nel frattempo Phil vi aggiornerà sulla situazione. Ha i profili degli evasi e le loro fotografie. E vi farà indossare una tuta antiproiettile. Ah, e poi, mi stavo chiedendo se per caso poteva interessarvi l'aspetto umano della faccenda. L'opinione di qualche agente, sapete. Come ci si sente sulla linea di sbarramento di fronte a dei sequestratori asserragliati. Una cosa del genere, insomma.» Le facce dei due giornalisti erano due maschere solenni, ma Budd si chiese ancora una volta se non stessero ridendo di lui. «Il fatto è», rispose Silbert, «che siamo interessati principalmente agli ostaggi. È lì che c'è la storia da raccontare. Non c'è nessuno qui con cui possiamo parlare di loro?» «Io sono qui soltanto per provvedere alla vostra sistemazione logistica.
L'agente Potter passerà di qui per fornirvi le informazioni che ritiene dobbiate avere.» Era il modo giusto di dirlo? si domandò. «Adesso ho un po' di cose da controllare, quindi vi lascerò in pace.» «Ma io no», li avvertì Molto, lasciandosi andare a uno dei suoi rari sorrisi. «Ne ero sicuro, agente», disse Silbert. I due computer portatili presero vita con un ronzio. Ciò che Melanie aveva fiutato nell'aria della stanza delle uccisioni, ciò che l'aveva strappata bruscamente dalla sua stanza della musica, era odore di fango, pesce, acqua, nafta, metano, foglie marce, corteccia umida. Il fiume. La brezza era abbastanza sostenuta da far ondeggiare la lampada. Ciò le aveva fatto capire che, da qualche parte sul retro del mattatoio, c'era una porta aperta. Le venne in mente che magari de l'Epée aveva già mandato i suoi uomini a perlustrare il perimetro dell'edificio in cerca di luoghi da cui le ragazze sarebbero potute uscire. Magari addirittura qualcuno di loro stava silenziosamente scavando una via d'accesso per venire a soccorrerle. Ripensò al suo arrivo al mattatoio, quella mattina. Ricordò di aver visto macchie di alberi su entrambi i lati dell'edificio, un declivio fangoso che conduceva al fiume, che scintillava grigio e freddo sotto il cielo coperto del pomeriggio; e poi piloni di legno scuro, chiazzati di catrame, un molo che si sporgeva precariamente sull'acqua, circondato da pneumatici appesi per attutire gli urti con le fiancate delle navi. Gli pneumatici... Ecco che cosa le aveva dato l'idea. Quando era ancora bambina, ogni estate, nel tardo pomeriggio lei e Danny andavano di corsa al Seversen Corner, alla fattoria, oltrepassavano i solchi dei trattori e, attraversando una nebbia di frumento e di pulviscolo, arrivavano allo stagno. Una pozza di neanche mezzo ettaro, circondata da salici e da erba. Lei correva come il vento del Kansas perché così sarebbe stata la prima ad arrivare in cima al dosso che dominava lo stagno, da dove poi balzava nel vuoto per afferrare lo pneumatico-altalena appeso sopra lo specchio d'acqua e dondolare sopra la superficie immobile. Poi si lasciava andare e cadeva verso il cielo e le nubi riflesse sotto di lei. Con suo fratello aveva trascorso lunghe ore spensierate allo stagno; persino adesso quell'acqua simile a cristallo era spesso il suo primo pensiero quando usciva di casa in una calda e assolata mattina d'estate. Danny le
aveva insegnato a nuotare due volte. La prima quando aveva sei anni e lui le aveva preso le mani e l'aveva adagiata nell'acqua immobile ma profonda dello stagno. La seconda volta era stata molto più difficile, dopo che lei aveva perso l'udito e aveva cominciato ad aver paura di così tante cose. Allora aveva dodici anni. Ma il ragazzo biondo, di cinque anni più vecchio di lei, si era rifiutato di continuare a permetterle di evitare il bagno nello stagno e, adoperando il linguaggio dei segni che lui solo aveva imparato nella famiglia Charrol, l'aveva convinta a lasciare la presa sul vecchio Goodyear appeso al ramo. Poi, con calma, era sceso in acqua, l'aveva sorretta e le aveva impedito di farsi prendere dal panico mentre lei, finalmente, ricordava i movimenti che aveva appreso sei anni prima. Nuotare. La prima cosa che le aveva restituito un barlume di fiducia in se stessa dopo il tuffo vertiginoso nel silenzio della sordità. Grazie, Danny, pensò. Per allora, e per adesso. Perché era proprio quel ricordo che, Melanie ne era convinta, avrebbe salvato alcune, se non tutte le sue allieve. In quel punto il fiume era molto ampio. La superficie era ribollente e la corrente rapida, ma Melanie ricordava un groviglio di rami e di spazzatura sospinto contro un albero caduto nell'acqua che giaceva forse un centinaio di metri più a valle. Immaginò le ragazze che si muovevano silenziosamente nei corridoi bui del mattatoio, sul molo e poi nell'acqua, si lasciavano trasportare dalla corrente fino all'albero, si arrampicavano sulla sponda adoperando i rami. E poi correvano verso la salvezza... «Mai sottovalutare l'acqua», le aveva detto Danny. «Anche le superfici più calme possono essere pericolose.» Be', nel fiume Arkansas non c'era niente di calmo. Potevano farcela? Donna Harstrawn era capace di nuotare. Kielle e Shannon - supereroine com'erano - potevano nuotare come chiunque altro. (Melanie immaginò il corpo compatto di Kielle che si lanciava come una palla di cannone dalla piattaforma del molo, mentre la sagoma sottile di Shannon si lasciava cadere gentilmente nell'acqua.) Le due gemelline adoravano giocare nell'acqua, ma non sapevano nuotare. Beverly sapeva come fare, ma con l'asma non poteva. Di Emily non conosceva nulla: la ragazza si rifiutava di mettere la faccia sott'acqua e, quando andavano a nuotare, se ne stava sempre accigliata vicino al bordo della piscina. Avrebbe dovuto trovare qualcosa per quelle che non sapevano nuotare: un remo, un galleggiante. Ma dove? E come faccio a farle arrivare sul retro del mattatoio?
Pensò a Danny. Ma Danny non era lì ad aiutarla. Il panico cominciò a farsi sentire. De l'Epée? Inviò i propri pensieri fuori, verso di lui, ma tutto ciò che de l'Epée fece fu di rassicurarla in un sussurro che ci sarebbero stati tanti poliziotti ad accogliere le ragazzine che sarebbero fuggite nel fiume. (Ci saranno, vero? Sì, doveva ritenere che ci sarebbero stati.) Stronzate, pensò Melanie. Sono da sola, qui. Poi, improvvisamente, l'odore cambiò. I suoi occhi si aprirono e lei si ritrovò a fissare la faccia di Bruto, a meno di un metro da lei. Non sentiva più l'odore del fiume, ma piuttosto odore di carne, alito cattivo e sudore. Lui era così vicino che lei vide, con orrore, che i segni sul suo collo - quelli che aveva pensato fossero lentiggini - dovevano essere tracce del sangue della donna con la borsetta, la donna che aveva ucciso quel pomeriggio. Melanie si ritrasse, disgustata. «Sta' seduta, signorina», ordinò Handy. Perché riesco a capirlo? si domandò nuovamente Melanie. Sta' seduta. Una frase quasi impossibile da leggere sulle labbra, eppure lei sapeva senza ombra di dubbio che era proprio questo ciò che lui aveva detto. Bruto le prese le mani. Lei tentò di resistergli, ma non ci riuscì. «Eri qui seduta con gli occhi chiusi... mani stavano muovendosi come le zampe di un procione ferito. Parlavi da sola? È questo quello che stavi facendo?» Ci fu un movimento in un angolo. Kielle si era sollevata a sedere e stava fissando l'uomo. Il volto della bambina aveva un'espressione stranamente adulta. Aveva la mascella serrata. «Sono Jubilee!» disse con le mani. Il suo personaggio preferito degli X-Men. «Lo ucciderò!» Melanie non osò risponderle con i segni, ma i suoi occhi la implorarono di rimettersi a sedere. Bruto lanciò un'occhiata alla bambina, rise e poi andò nell'altra stanza, facendo cenno a Orso di seguirlo. Quando tornò, un istante più tardi, portava con sé una grossa latta di gasolio. Kielle fissò la latta e si immobilizzò. «Che nessuna si muova.» Bruto guardò Melanie negli occhi mentre lo diceva. Poi sistemò un pesante contenitore di metallo su uno scaffale sopra le ragazze e vi versò il gasolio. Melanie avvertì la vibrazione del tonfo quando Bruto depose la latta di gasolio nell'angolo della stanza. Poi legò un cavo al bordo del contenitore e corse nell'altra stanza. Ombre inquietanti danzarono sul pavimento e sulle pareti mentre la luce dell'altra stanza si faceva sempre più intensa. Bruto tornò improvvisamente, facendo ondeg-
giare un'altra lampada. Svitò la gabbia di protezione e legò il portalampada e la lampadina a un ceppo sul pavimento, direttamente sotto il contenitore pieno di combustibile. Orso osservò compiaciuto l'operazione. Kielle fece un passo verso Bruto. «No», gesticolò Melanie. «Sta' indietro!» Improvvisamente, Bruto si inginocchiò e afferrò Kielle per le spalle. Mise la faccia a pochi centimetri da quella della bambina e parlò lentamente. «E adesso, piccolo uccellino... altri fastidi... o qualcuno tenta di salvarti, tirerò quel filo e vi brucerò tutte.» Spinse forte, e Kielle cadde su uno dei canaletti di scolo del sangue sul pavimento. «Quale dovrei scegliere?» domandò Bruto a Orso. Il grassone le guardò attentamente. Il suo sguardo si attardò su Emily, sul suo petto piatto, le sue calze bianche, le sue scarpe nere. Poi fece un cenno a indicare Shannon. «... dato un calcio. Prendi lei, amico.» Bruto abbassò lo sguardo sulla ragazza, accarezzandole i lunghi capelli scuri. Come Kielle, anche Shannon lo fissò con aria di sfida. Ma, dopo un istante, abbassò lo sguardo, gli occhi pieni di lacrime. E Melanie poté vedere la vera differenza tra le due ragazze. Shannon Boyle era una grande artista, ma non era Jubilee, o un qualsiasi altro tipo di eroe. Era soltanto un maschiaccio di otto anni, spaventato a morte. «Sei una che dà calci, vero?» domandò Bruto. «Okay, andiamo.» La portarono fuori. Che cosa avevano intenzione di fare, con lei? Lasciarla andare, come Jocylyn? Melanie si avvicinò all'ingresso della stanza delle uccisioni, avanzando fin dove ne ebbe il coraggio. Guardò fuori e vide Shannon davanti alla finestra sporca del mattatoio. Bruto prese la pistola dalla tasca posteriore. Appoggiò la canna contro la testa della bambina. No! Oh, no... Melanie fece per alzarsi. Orso voltò la grossa testa verso di lei e sollevò il fucile. Melanie ricadde sul freddo pavimento e rimase a guardare, impotente, la sua allieva. Shannon chiuse gli occhi e strinse le dita intorno al braccialetto dell'amicizia rosa e azzurro che si era legata al polso un mese prima. La bambina le aveva promesso di farne uno uguale anche per lei, ricordò ora lottando per ricacciare indietro le lacrime, ma non aveva mai avuto il tempo di farlo.
Mentre tornava al furgone dall'area dei servizi nelle retrovie, Angie Scapello si fermò. «Ehi, capitano.» Se non l'avesse saputo per certo, Charlie Budd non avrebbe mai immaginato che quella donna fosse un agente federale. «Ciao», rispose. Angie lo attese e procedettero insieme. «Hai lavorato tanto insieme ad Arthur?» le domandò lui all'improvviso. Stava soltanto cercando di fare conversazione, vero? «Trenta o quaranta trattative. Forse anche qualcuna di più.» «Ehi, devi aver cominciato molto giovane.» «Sono più vecchia di quello che sembro.» Budd non pensava che la parola «vecchia» potesse venir applicata in qualsiasi modo a lei. «Non ci sto provando... sono sposato.» Goffamente, sollevò l'anello d'oro che portava all'anulare, uguale a quello di sua moglie. «Ma non hai mai pensato di fare la modella? Te lo chiedo soltanto perché Meg, mia moglie, compra molte riviste. Sai, Vogue e Harper's Bazaar. Riviste così. Stavo pensando: non è che per caso ti ho vista in un paio di pubblicità?» «Può anche essere. Mi sono mantenuta agli studi facendo fotografie per la pubblicità. Ma è stato qualche anno fa. Niente di speciale.» Rise. «Di solito mi sceglievano per impersonare una sposa, per qualche motivo. Non chiedermi perché.» «Hai dei capelli troppo belli perché se ne stiano sotto un velo», suggerì Budd, e poi arrossì perché il suo commento suonava proprio come un tentativo di flirt. «E sono stata in un film.» «Scherzi?» «Facevo la controfigura per Isabella Rossellini. Restavo in piedi nella neve per i campi lunghi.» «In effetti stavo proprio pensando che le assomigli.» Lo disse a disagio, senza avere la minima idea di chi fosse l'attrice, e sperò che non si trattasse di qualche sconosciuta che non era mai apparsa in un film proiettato in America. «Ma tu nel tuo campo sei una specie di celebrità, eh?» domandò Angie. «Io?» Budd rise. «Dicono che hai fatto carriera molto alla svelta.» «Davvero?» «Be', hai i gradi di capitano e sei ancora giovane.» «Anch'io sono più vecchio di quello che sembro», scherzò lui. «E, prima
che questa giornata sia finita, sembrerò molto, molto più vecchio.» Guardò l'orologio. «Farei meglio a rientrare. Non manca molto al primo ultimatum. Come riesci a stare calma?» «Credo che si tratti semplicemente di abitudine. Ma tu? Quella caccia all'uomo, quando hai inseguito quel maniaco sessuale a Hamilton?» «Come diavolo hai fatto a saperlo?» rise lui. Due anni prima. Aveva toccato i centosessanta chilometri orari. Su una strada sterrata. «Non credo che i miei, ehm, exploits siano apparsi sul mensile della polizia.» «Le cose si sanno. Su certe persone, almeno.» Gli occhi castani della donna fissarono quelli di Budd, che erano verdi, troppo imbarazzati e di secondo in secondo più pesanti. Si strofinò nuovamente la guancia con la mano sinistra, giusto per farle vedere ancora una volta il suo anello nuziale, poi pensò: Ehi, torna alla realtà. Stai veramente pensando che abbia delle mire su di te? Non esiste. Sta soltanto conversando educatamente con un poliziotto locale. «È meglio andare a vedere se Arthur non ha bisogno di qualcosa», disse. Per qualche motivo, allungò la mano verso di lei. Un istante dopo se ne pentì, ma ormai l'aveva fatto e lei la prese tra le sue e gliela strinse forte, avvicinandosi di un passo. Budd sentì il suo profumo. Gli sembrava assolutamente innaturale che gli agenti dell'FBI potessero mettersi del profumo. «Sono davvero contenta che lavoriamo insieme, Charlie.» Gli rivolse un sorriso come lui non ne vedeva da anni - in realtà da quando Meg l'aveva preso di mira al ballo scolastico del secondo anno, stendendolo con uno di quei flirt che Budd non avrebbe mai creduto possibili da parte della presidentessa del gruppo delle giovani ragazze metodiste. 16,40 «Venti minuti all'ultimatum», annunciò Tobe Geller. Potter annuì. Premette il pulsante di chiamata rapida. Handy rispose dicendo: «Ho scelto il prossimo uccellino, Art». Distoglilo immediatamente dall'argomento ostaggi; continua a fargli credere che siano privi di valore. Potter disse: «Lou, stiamo lavorando per quell'elicottero. Non è così facile averne uno». «Questa è una piccola soldatina, Art. Quella grassa continuava a piangere e a piangere. Ragazzi, se mi dava fastidio. Questa, invece, sparge una lacrimuccia o due, ma è un bravo soldatino. Ha un cazzo di tatuaggio sul
braccio, roba da non credere.» Condividi qualche osservazione a carattere generale. Fagli vedere che sei preoccupato, scopri qualche altra cosa su di lui. «Sembri stanco, Lou.» «Non io. Sono dritto come un fuso.» «Davvero? Credevo che fossi stato sveglio tutta la notte a preparare la vostra evasione.» «No, mi sono fatto le mie belle otto ore canoniche. E, a parte questo, non c'è niente come una bella fuga per rimetterti in circolo tutti i fluidi giusti.» In effetti, dalla voce non sembrava per niente stanco. Anzi, sembrava rilassato e completamente a proprio agio. Potter rivolse un cenno del capo a LeBow, ma l'agente stava già battendo sui tasti. «Allora, dimmi, che cosa c'è di tanto difficile nel trovare un elicottero, Art?» Potter mise a fuoco il binocolo sulla finestra e guardò la bambina con i capelli castani e il viso ovale. Aveva già memorizzato i nomi e le facce. Premette il pulsante mute e disse ad Angie: «È Shannon Boyle. Parlami di lei». Poi, al telefono: «Te lo dico io che cosa c'è di tanto difficile, Lou. Non crescono sugli alberi e non te li danno gratis». In un momento come questo ti preoccupi dei soldi? «Cazzo, puoi prenderti tutti i soldi che ti servono. Quelli che voi stronzi rubate a noi che paghiamo le tasse.» «Tu sei uno che paga le tasse, Lou?» «Non stiamo più comprando bombe nucleari, quindi spendi un po' di soldi per un elicottero e salva qualche vita quaggiù.» Angie gli batté su una spalla. «Aspetta un secondo, Lou. Mi stanno arrivando notizie su quell'elicottero proprio in questo momento.» «Ha otto anni», sussurrò Angie, «sorda prelinguale. Non è in grado di leggere le labbra correttamente. Ha una forte personalità. Molto indipendente. Ha marciato per protesta per ottenere professori e presidi sordomuti nelle scuole per sordomuti del Kansas e del Missouri. Ha firmato la petizione per aumentare i fondi della facoltà per sordomuti alla Laurent Clerc: la sua era la firma più grossa sul foglio. A scuola si picchia spesso, e di solito vince.» Potter annuì. Quindi, se riuscivano a distrarlo abbastanza a lungo, e se la bambina avesse avuto una possibilità, avrebbe potuto tentare di fuggire verso la libertà.
O usare quella stessa possibilità per attaccare Handy e restare uccisa nel tentativo. Tornò in linea e prese a dire con voce esasperata: «Ascoltami, Lou. Stiamo parlando di un piccolo ritardo, tutto qui. Tu vuoi un apparecchio grosso. Be', tutto quello che abbiamo sono elicotteri a due posti. Quelli più grossi non sono facili da trovare». «È questo il tuo fottuto problema, eh? D'accordo, piazzo una pallottola nella testa della piccola Fannie Annie qui, vediamo... tra quindici minuti esatti del mio orologio.» Solitamente, si svalutano gli ostaggi. A volte, tutto ciò che ti resta da fare è supplicare. «Si chiama Shannon, Lou. Andiamo. Ha soltanto otto anni.» «Shannon», ripeté Handy. «Mi sembra di capire che non afferri, Art. Stai cercando di farmi sentire in colpa soltanto perché una povera bambina ha un nome. Shannon Shannon Shannon. Sono queste le tue regole, Art? Scritte sul tuo manuale di Feebie?» Pagina quarantacinque, in effetti. «Ma, vedi, queste regole non prendono in considerazione i tipi come me. Vedi, più le conosco e più mi viene voglia di ucciderle.» Cammina sul filo del rasoio. Tira, spingi, contratta. Se ti tieni giusto in equilibrio, lui si ritrarrà. Arthur Potter pensò tutto questo, ma la sua mano si strinse spasmodicamente sul ricevitore mentre diceva con voce allegra: «Credo che siano tutte stronzate, Lou. Sono convinto che tu stai soltanto giocando con noi». «Fai come ti pare.» Una leggera nota di nervosismo nella voce dell'agente: «Sono stufo di questa merda. Stiamo cercando di lavorare con voi, maledizione». «No, no, vuoi spararmi. Perché non hai le palle per ammetterlo? Se ti avessi io, nel mirino del mio fucile, ti abbatterei come un fottuto cerbiatto.» «No, non voglio spararti, Lou. Non voglio che muoia nessuno. Abbiamo un sacco di problemi logistici. Atterrare è un casino, qui. Il campo vicino al mattatoio è pieno di quei paletti delle vecchie recinzioni per gli animali. E ci sono alberi ovunque. Non possiamo far atterrare un elicottero sul tetto perché pesa troppo. Non...» «E così avete delle mappe dell'edificio, vero?» Trattare sempre da una posizione di forza - ricordando agli SO che, in fondo alla tua mente, c'è sempre l'ipotesi di una soluzione tattica (possia-
mo buttar giù la porta in ogni momento e farvi secchi subito e, ricorda, siamo molti, molti più di voi). Potter rise e disse: «Ovvio che ce le abbiamo. Abbiamo mappe e cartine e diagrammi e grafici e fotografie a colori. Sei ben poco coperto là dentro, Lou. Ma per te non è una sorpresa, vero?» Silenzio. Mi sono spinto troppo oltre? No, non credo. Adesso riderà e parlerà come se non gliene importasse niente. Fu soltanto una risatina. «Voi ragazzi siete veramente troppi, cazzo.» «E il campo a sud», continuò lui come se Handy non avesse parlato, «guardalo. Nient'altro che fossi e collinette. Far scendere un elicottero a otto posti sarebbe decisamente pericoloso. E questo vento... è un vero problema. Il nostro consulente dell'aviazione non sa bene che cosa fare.» Budd si accigliò. «Consulente dell'aviazione?» domandò muovendo soltanto le labbra. Potter si strinse nelle spalle, avendolo appena inventato di sana pianta. Indicò il foglio degli Inganni e Budd, con un sospiro, si alzò e scrisse. Attrezzi color argento, impugnature in plastica, nuovi. Potter avrebbe voluto disperatamente domandare a che cosa gli servissero. Ma non poteva. Era di importanza vitale che Handy non si rendesse conto di ciò che sapevano dell'interno del mattatoio. E, cosa ancor più vitale: se avesse avuto anche solo il sospetto che rilasciando gli ostaggi forniva informazioni di qualità, il sequestratore ci avrebbe pensato due volte prima di rilasciarne degli altri. «Art», sputò Handy, «continuo a ripetertelo, questi sono problemi tuoi.» Ora, però, non era più tanto sbruffone e almeno una parte di lui sembrava essersi resa conto che quelli erano diventati problemi suoi. «Avanti, Lou. Si tratta soltanto di una questione tecnica. Non sto discutendo sull'elicottero. Ti sto solo dicendo che abbiamo seri problemi a trovarne uno e che non sono sicuro di dove potremo farlo atterrare. Se hai qualche idea, sarò felice di prenderla in considerazione.» La strategia per la negoziazione di ostaggi richiede che il negoziatore eviti di offrire soluzioni ai problemi. Il peso di ciò andava spostato sul sequestratore. Era necessario tenerlo nell'incertezza, costringerlo a pensare a soluzioni sempre nuove. Un sospiro disgustato. «Fottiti.» Avrebbe riagganciato? Alla fine, Handy disse: «Che ne dici di un elicottero galleggiante? Puoi
farlo, vero?» Mai acconsentire troppo alla svelta. «Galleggiante?» disse Potter dopo un lungo istante. «Non so. Dovremmo vedere se è possibile. Intendi dire farlo atterrare sul fiume, no?» «È ovvio che intendo dire questo. E dove pensavi di farlo atterrare, in qualche cesso da qualche parte?» «Vedrò che cosa si può fare. Se c'è un'insenatura riparata, potrebbe funzionare. Però devi concederci altro tempo.» Non avete altro tempo. «Non avete più tempo.» «No, Lou. L'elicottero con i galleggianti potrebbe essere perfetto. È una grande idea. Mi metterò sotto immediatamente. Ma permettimi di comprare ancora un po' di tempo. Dimmi qualcosa che volete.» «Un fottuto elicottero.» «E lo avrai. Potrebbe soltanto volerci un po' più di quanto speravamo. Di' qualsiasi altra cosa. Il tuo più grande desiderio. Non c'è niente che ti viene in mente, qualcosa che vorresti?» Una pausa. Potter provò a immaginare: armi, videocassette a luci rosse e un videoregistratore, un amico tirato fuori di prigione, soldi, liquori... «Sì, c'è qualcosa che voglio, Art.» «Che cosa?» «Parlami di te.» Sorpresa. Potter sollevò lo sguardo e vide il viso corrucciato di Angie. La donna scosse la testa, prudente. «Come?» «Mi hai chiesto che cosa volevo. Voglio che mi parli di te.» Si vuole sempre che gli SO siano curiosi riguardo il negoziatore, ma solitamente ci vogliono ore, se non giorni, per stabilire un contatto serio. Quella era la seconda volta nel giro di poche ore che Handy aveva espresso un diretto interesse nei confronti di Potter, e l'agente non aveva mai incontrato un sequestratore che avesse posto la domanda in modo tanto diretto. Sapeva bene di muoversi su un terreno estremamente pericoloso. Poteva incrementare il rapporto tra loro due, oppure inserirvi un ostacolo insormontabile non rispondendo come Handy desiderava. State accorti... «Che cosa vuoi sapere?» «Tutto quello che vuoi dirmi.»
«Be', non c'è niente di molto eccitante. Sono soltanto un dipendente civile dello stato.» Il suo cervello si azzerò. «Continua a parlare, Art. Raccontami.» E poi, come se qualcuno avesse abbassato un interruttore nella sua testa, Arthur Potter si scoprì a desiderare di raccontare ogni minimo dettaglio della sua vita, la sua solitudine, il suo dolore... Voleva che Lou Handy sapesse di lui. «Be', sono vedovo. Mia moglie è morta tredici anni fa, e oggi è il nostro anniversario di matrimonio.» Si ricordò che LeBow gli aveva detto che c'erano stati pessimi rapporti tra Handy e la sua ex moglie; si voltò verso l'agente informativo, che aveva già richiamato dalla memoria del computer una porzione del profilo di Lou. L'uomo era stato sposato per due anni quando ne aveva venti. Sua moglie aveva chiesto il divorzio per crudeltà mentale e lui si era beccato una diffida perché l'aveva picchiata ripetutamente. Appena dopo quest'episodio aveva cominciato a darsi alle rapine condite da episodi di violenza. Potter stava rimproverando se stesso per aver tirato fuori l'argomento matrimonio, ma quando Handy gli domandò che cos'era capitato a sua moglie gli parve sinceramente curioso. «Aveva il cancro. È morta circa due mesi dopo che l'abbiamo scoperto.» «Io non sono mai stato sposato, Art. Nessuna donna riuscirà mai a incastrarmi. Sono uno spirito libero, vado dove mi portano il cuore e il cazzo. Non ti sei mai risposato?» «No, mai.» «E che cosa fai quando vuoi un po' di figa?» «Il mio lavoro mi tiene molto occupato, Lou.» «Ti piace il tuo lavoro, vero? Da quanto tempo lo fai?» «Ho passato nell'FBI tutta la mia vita da adulto.» «Tutta la tua vita da adulto?» Mio Dio, pensò un divertito Potter da grande distanza, adesso è lui che fa eco a me. Coincidenza? O forse sta giocando con me come io dovrei giocare con lui? «È l'unico lavoro che abbia mai avuto. Spesso lavoro diciotto ore al giorno.» «Come cazzo hai fatto a entrare in questa stronzata delle negoziazioni?» «Mi è semplicemente capitato. Volevo diventare un agente, mi piaceva l'eccitazione che ciò implicava. Ero un investigatore abbastanza in gamba, ma credo che fossi un po' troppo facilone. Riuscivo a vedere le due facce di ogni cosa. Il rovescio della medaglia, capisci?»
«Oh, sissignore», rispose con convinzione l'altro, «questo ti impedirà di arrivare in cima. Non lo sai che gli squali si muovono più alla svelta?» «Non c'è niente di più vero, Lou.» «Devi incontrare dei pazzi mica male, nel tuo lavoro.» «Esclusi i presenti, ovviamente.» Non ci furono risate all'altro capo del filo. Soltanto silenzio. Potter, con rammarico, pensò che la sua battuta fosse caduta nel vuoto; era preoccupato che Handy avesse letto del sarcasmo nella sua voce e ora si sentisse ferito. Provò l'impulso di scusarsi. Ma Handy disse semplicemente: «Raccontami una storia di guerra, Art». Angie era sempre più perplessa, ma lui la ignorò. «Be', ho fatto una negoziazione all'ambasciata della Germania Ovest a Washington, circa quindici anni fa. Ho parlato per quasi diciotto ore di fila, minuto più, minuto meno.» Rise. «Avevo degli agenti che correvano avanti e indietro dalla biblioteca per portarmi libri sulla filosofia politica. Hegel, Kant, Nietzsche... Alla fine, ho dovuto mandarli a prendermi Cliff Notes. Ero accampato sul sedile posteriore di un'automobile priva di contrassegni, parlando in un telefono a filo che avevamo lanciato dentro a questo maniaco che pensava di essere Hitler. Voleva dettarmi una nuova versione di Mein Kampf. Ancora adesso non ho la più pallida idea di che cosa diavolo abbia detto per tutto quel tempo.» Per la verità, l'uomo non aveva preteso di essere Hitler, ma Potter sentiva l'impulso a esagerare, per essere sicuro che Handy si divertisse. «Sembra una fottuta commedia.» «Sì, il tipo era buffo. Ma il suo AK-47 era maledettamente serio, devo dire.» «Sei uno strizzacervelli?» «No. Sono soltanto uno a cui piace parlare.» «Devi avere un ego grosso come una casa.» «Ego?» «Certo. Ti tocca ascoltare gente come me che ti dice: 'Ehi, brutto pezzo di merda di cane, ho intenzione di ucciderti alla prima occasione' e continuare a chiedergli se gli andrebbe della Diet Coke o del tè freddo, insieme ai suoi hamburger.» «Ci vuoi del limone con quel tè, Lou?» «Ah-ah. È questo tutto quello che fai?» «Be', insegno anche. Alla scuola di polizia militare di Fort McClellan, nell'Alabama. In più, sono capo dell'addestramento per gli assedi e per la
negoziazione degli ostaggi a Quantico, nell'Unità ricerche e operazioni speciali dell'FBI.» Ora fu Henry LeBow a rivolgergli un'espressione esasperata. L'agente non aveva mai sentito il suo collega fornire così tante informazioni personali. Lentamente, Handy disse a bassa voce: «Raccontami qualcosa, Art. Non hai mai fatto niente di cattivo?» «Cattivo?» «Qualcosa di veramente brutto.» «Suppongo di sì.» «Avevi intenzione di farlo?» «In che senso?» «Mi stai ascoltando oppure no?» Irritato, ora. Ripetere le frasi troppo spesso può rendere ostile il sequestratore. «Be', le cose che ho fatto non sono state molto intenzionali, suppongo. Una brutta cosa è che non ho passato abbastanza tempo con mia moglie. Poi lei è morta, è morta in fretta, come ti ho detto, e mi sono reso conto che c'erano un sacco di cose che non avevo fatto in tempo a dirle.» «'Fanculo», sputò Handy con una risata derisoria. «Questa non è una cattiveria. Non sai di che cosa sto parlando.» Potter si sentì profondamente ferito per quella critica. Avrebbe avuto voglia di gridare: «Certo che lo so! E sentivo davvero di aver fatto qualcosa di brutto, di terribilmente brutto». «Sto parlando di uccidere qualcuno», continuò Lou, «di rovinare la vita a qualcuno, di lasciarsi alle spalle un vedovo o una vedova, dei bambini costretti a crescere da soli. Qualcosa di brutto.» «Non ho mai ucciso nessuno, Lou. Non direttamente.» Tobe lo stava guardando. Angie scarabocchiò un appunto: Gli stai dando troppo, Arthur. Potter li ignorò entrambi, si deterse il sudore dalla fronte e mantenne lo sguardo focalizzato sul mattatoio. «Ma qualcuno è morto a causa mia. Negligenza. Errori. A volte intenzioni. Tu e io, Lou, lavoriamo entrambi per le facciate opposte dello stesso affare.» Sentiva l'insopprimibile impulso di farsi capire perfettamente. «Ma, sai...» «Non scivolare su questa merda, Art. Dimmi se ti danno fastidio alcune delle cose che hai fatto?» «Io... io non lo so.» «E quelle persone morte di cui stavi parlando?»
Prendigli il polso, si disse Potter. Che cosa sta pensando? Non riesco a vedere niente. Chi diavolo lo sa? «Ehi, Art, continua a parlare. Chi erano? Ostaggi che non sei riuscito a salvare? Agenti che hai mandato dentro quando non avresti dovuto?» «Sì, ecco chi erano.» E anche sequestratori. Ma questo non glielo disse. Ostrella, pensa spontaneamente, vede il suo splendido viso ovale, serpentino. Sopracciglia scure, labbra piene. La sua Ostrella. «E questo ti dà fastidio, eh?» «Mi dà fastidio? Certo che sì.» «Fottiti», sbottò Handy. Sembrava contrariato. Potter sentì nuovamente quella fitta. «Vedi, Art, stai dimostrando la mia teoria. Non hai mai fatto niente di brutto e tu e io, be', lo sappiamo tutti e due. Prendi quei due nella Cadillac questa mattina, quella coppia che ho ucciso. I loro nomi erano Ruth e Hank, comunque. Sai perché li ho uccisi?» «Perché, Lou?» «Per lo stesso motivo per cui tra un minuto metterò quella bambina Shannon - davanti alla finestra e le sparerò alla nuca.» Persino il freddo Henry LeBow si mosse a disagio sulla sedia. Le mani sottili ed eleganti di Frances Whiting salirono a nasconderle il viso. «Perché?» domandò Potter con calma. «Perché non ho ottenuto ciò che mi spetta! Puro e semplice. Questa mattina, in quel campo, quei due hanno fatto fuori la mia macchina, mi sono venuti a sbattere contro in pieno. E, quando sono andato a prendere la loro, di macchina, hanno tentato di scappare.» Potter aveva letto il rapporto della polizia di stato del Kansas. A quanto pareva, la macchina di Handy non si era fermata a uno stop ed era stata centrata dalla Cadillac, che aveva la precedenza. Ma questo non glielo disse. «È giusto, no? Voglio dire, che cosa al mondo potrebbe essere più chiaro di questo? Dovevano morire, e sarebbero morti in un modo molto più doloroso se soltanto avessi avuto un po' più di tempo a mia disposizione. Non mi hanno dato quello che avrei dovuto avere.» Come sembra freddo e logico. Potter ricordò a se stesso: nessun giudizio. Ma non approvarlo nemmeno. I negoziatori sono neutrali. (E il fatto che davvero non provasse il disgusto che avrebbe dovuto provare gli fece male dentro. Il fatto che una piccola parte di lui fosse convinta che le parole di Handy avessero senso.)
«Ehi, Art, davvero non riesco a capire. Quando uccido qualcuno per un motivo dicono che sono cattivo. Quando un poliziotto lo fa per un motivo, gli danno un assegno mensile e dicono che è buono. Perché alcuni motivi vanno bene e altri no? Tu uccidi quando la gente non fa quello che dovrebbe fare. Uccidi i deboli perché altrimenti ti tirano giù insieme a loro. Che cosa c'è di sbagliato, in questo?» Henry LeBow continuava con calma a digitare i propri appunti. Tobe Geller seguiva i suoi monitor e i suoi indicatori. Charlie Budd era seduto in un angolo, con gli occhi bassi. Angie era accanto a lui e ascoltava attentamente. L'agente Frances Whiting era in piedi nell'angolo opposto, reggendo tra le mani una tazza di caffè di cui probabilmente si era dimenticata: il lavoro di polizia a Hebron probabilmente non prevedeva l'avere a che fare con persone come Lou Handy. Una risata venne dall'altoparlante. «Ammettilo, Art», domandò Handy, «non hai mai desiderato farlo? Uccidere qualcuno per una cattiva ragione?» «No, mai.» «È un dato di fatto?» Lou era scettico. «Mi chiedo se...» Il silenzio colmò il furgone. Una gocciolina di sudore colò sulla faccia di Potter. Il negoziatore si asciugò la fronte. «Così», domandò Handy, «tu assomigli a quel tizio in quella vecchia serie televisiva sull'FBI, Efrem Zimbalist?» «Nemmeno un po'. Sono molto ordinario. Sono soltanto un modesto funzionario. Mangio troppe patate...» «Patatine fritte.» «Al forno sono le mie preferite, in realtà. Con un po' di sughetto sopra.» Tobe sussurrò qualcosa a Budd, che scrisse su un pezzo di carta: Ultimatum. Potter guardò l'orologio e proseguì: «Mi piacciono le giacche sportive. Quelle di tweed sono le mie preferite. O i cappotti di cammello. Ma, nell'FBI, dobbiamo indossare il completo». «Il completo, eh? Copre un bel po' di grasso, vero? Aspetta lì un secondo, Art.» Potter uscì dalle proprie riflessioni e mise a fuoco il binocolo sulla finestra della fabbrica. La canna di una pistola comparve accanto alla testa di Shannon. I lunghi capelli castani della bambina ora erano arruffati e scomposti. «Quel figlio di puttana», sussurrò Budd. «Quella poverina è terrorizza-
ta.» Frances si sporse in avanti. «Oh, no. Per favore...» Le dita di Potter si mossero rapidamente sui pulsanti. «Dean?» «Sissignore», rispose Stillwell. «Uno dei tuoi cecchini riesce a tenerlo sotto tiro?» Una pausa. «Negativo. Tutto ciò che riescono a vedere è la canna di una pistola. Handy è dietro la bambina. Non si può sparare se non nell'intelaiatura della finestra.» «Ehi, Art», domandò Lou, «davvero non hai mai sparato a nessuno?» LeBow sollevò lo sguardo, accigliato. Ma Potter rispose comunque: «No, mai». Con le mani infilate profondamente in tasca, Budd cominciò a camminare avanti e indietro. Era molto irritante. «Mai usato una pistola?» «Certo. Al poligono a Quantico. E mi è piaciuto.» «Davvero? Sai, se ti è piaciuto sparare, dovrebbe piacerti anche sparare a qualcuno. Uccidere qualcuno.» «Pazzo figlio di puttana», borbottò Budd. Potter lo zittì con un cenno. «Sai una cosa, Art?» «Che cosa?» «Sei un tipo a posto. Parlo sul serio.» Potter sentì una fitta compiaciuta... per l'approvazione di quell'uomo. Io sono bravo, pensò. Sapeva benissimo che era l'empatia ciò che faceva la differenza in quel lavoro. Non la strategia, non le parole, non il calcolo o l'intelligenza. È quello che non posso insegnare ai corsi di addestramento. Sono sempre stato bravo, rifletté. Ma quando sei morta, Marian, sono diventato bravissimo. Non sapevo più a chi dare il mio cuore, così l'ho dato a persone come Louis Handy. E a Ostrella... Un'incursione terroristica a Washington. La donna estone, bionda e intelligente, che usciva dall'ambasciata sovietica dopo venti ore di trattativa con Potter. Dodici ostaggi rilasciati, altri quattro all'interno. Finalmente si era arresa, era uscita con le mani non alzate ma appoggiate alla testa - una violazione del protocollo di resa. Ma Potter sapeva che non rappresentava alcun pericolo. La conosceva bene come conosceva Marian. Era uscito senza protezione dalla linea di sbarramento e aveva camminato verso di
lei, per salutarla, per abbracciarla, per assicurarsi che, quando fosse stata arrestata, le manette non fossero troppo strette, che i suoi diritti le venissero letti nella sua lingua d'origine. E aveva dovuto sopportare il fiotto copioso del suo sangue, versato dal cecchino che le aveva sparato alla testa quando lei aveva tirato fuori dal colletto della camicia la pistola nascosta e l'aveva puntata direttamente contro la faccia di Potter. (E la sua reazione? Gridarle: «Sta' giù!» E circondarla con le braccia per proteggere il suo nuovo amore, mentre frammenti di cranio e di materia cerebrale gli picchiettavano la pelle.) Non hai mai desiderato di fare qualcosa di cattivo? State... Sì, Lou, mi è capitato. Se tu sapessi. ...accorti. Per un lungo istante Potter non riuscì a dire nulla, timoroso di offendere Handy, timoroso che lui riagganciasse. Aveva paura di ciò quasi quanto aveva paura che uccidesse la ragazzina. «Ascoltami, Lou. Ti ho detto in assoluta buonafede che stiamo lavorando per avere questo elicottero e ti ho chiesto di dirmi qualcosa che saresti disposto ad accettare in cambio di un'altra ora.» Poi aggiunse: «Stiamo cercando di trovare un accordo. Dammi una mano». Ci fu una pausa, poi la voce sicura di Handy disse: «È un lavoro che mette sete, questo». Ah, finalmente si poteva giocare. «Diet Pepsi?» domandò timidamente Potter. «Sai benissimo di cosa sto parlando.» «Limonata fresca?» LeBow premette diversi tasti in rapidissima successione e mostrò lo schermo a Potter, che annuì. «Un bicchiere di latte di suocera?» lo schernì Handy. Leggendo il profilo di Wilcox, Potter rispose: «Non credo che gli alcolici siano una grande idea, Lou. Shep ha qualche problemino, non credi?» Una pausa. «Certo che voi ragazzi sembra che sappiate un sacco di cose su di noi.» «È per questo che mi danno il mio misero stipendio. Per sapere tutto.» «Be', ecco l'accordo. Un'ora per qualche bottiglia.» «Niente alcolici. Nel modo più assoluto.» «La birra va bene. E, in ogni caso, a me piace di più.» «Te ne manderò tre lattine.»
«Fermo lì. Una confezione.» «No. Avrete tre lattine di birra leggera.» Un sibilo. «'Fanculo tu e la tua birra leggera.» «È il massimo che posso fare.» Frances e Budd erano appiccicati al vetro del finestrino a osservare Shannon. «Questa piccola porcellina va al mercato», cantilenò la voce di Handy, «questa piccola porcellina resta a casa...» E intanto la sua pistola si spostava da una tempia all'altra della bambina. Stillwell si mise in contatto radio per sapere che cosa doveva dire ai cecchini. Potter esitò. «Niente fuoco», rispose. «Qualsiasi cosa accada.» «Ricevuto», disse lo sceriffo. Udirono il gemito della bambina quando Handy le premette la pistola contro la fronte. «Ti farò avere una confezione da sei», promise Potter, «se tu mi lasci quella bambina.» Budd sussurrò: «Non esagerare». Una pausa. «Dammi un solo motivo per cui dovrei fare una cosa del genere.» LeBow spostò il cursore su un paragrafo della sempre più ricca Biografia di Louis Handy. Potter lesse il brano, poi disse: «Perché tu adori la birra». Handy era stato rimproverato e punito da uno dei suoi garanti per aver distillato birra in prigione. Più avanti, i suoi privilegi erano stati interrotti dopo che aveva introdotto di nascosto due casse di Budweiser. «Avanti», insistette Potter, «a chi può far male? Te ne rimangono ancora molti di ostaggi.» Corse il rischio. «E, a parte questo, quella è un po' una scocciatura, eh? Almeno, questa è la reputazione che ha a scuola.» Gli occhi di Angie si spalancarono di scatto. È un rischio riferirsi in qualsiasi modo agli ostaggi, perché ciò, per il sequestratore, attribuisce loro più valore di quanto già ne abbiano. Non si suggerisce mai che gli ostaggi possano avere qualche caratteristica che potrebbe irritare o mettere in pericolo il sequestratore. Una pausa. Adesso, lancia l'amo. «Qual è la tua marca preferita?» domandò Potter. «Miller? Bud?» «Mexican.»
«D'accordo, Lou. Hai vinto. Una confezione da sei di Corona se lasci andare quella bambina e ci dai un'altra ora per l'elicottero. E così siamo tutti contenti.» «Preferirei spararle.» Potter e LeBow si guardarono. A un tratto, Budd fu in piedi accanto a Potter, con le mani in tasca; sembrava incapace di stare fermo. Il negoziatore ignorò il giovane capitano e disse a Handy: «D'accordo, Lou, allora sparale. Sono stanco di queste stronzate». Con la coda dell'occhio vide Budd spostarsi e per un istante si tese, pensando che il capitano fosse sul punto di fare un balzo in avanti, afferrare il telefono e acconsentire a tutto ciò che Handy voleva. Ma Charlie Budd si limitò a tenere le mani nelle tasche posteriori e si voltò dall'altra parte. Frances guardò il negoziatore, gli occhi sgranati in un'espressione di assoluto stupore. Potter premette una serie di pulsanti sul telefono. «Dean, potrebbe sparare alla bambina. Se lo fa, assicurati che nessuno risponda al fuoco.» Un'esitazione. «Sissignore.» Potter tornò in linea con Handy. L'uomo non aveva riagganciato, ma non stava nemmeno parlando. La testa di Shannon ondeggiava avanti e indietro. La pistola, nera e rettangolare, era ancora visibile. Potter sussultò impercettibilmente quando la risata sincopata e rauca di Handy lacerò il silenzio greve del furgone. «È un po' come il Monopoli, vero? Comprare e vendere e tutto il resto.» Il negoziatore si strinse nelle spalle per restare in silenzio. «Due confezioni da sei», ringhiò Handy, «oppure le sparo adesso.» La testa di Shannon si piegò in avanti quando Lou vi premette contro la pistola. «E avremo un'ora in più per l'elicottero?» domandò Potter. «Così, sarebbe circa alle sei e un quarto.» «Ha tolto la sicura», disse Dean Stillwell. Potter chiuse gli occhi. Nel furgone non si sentiva il benché minimo rumore. Silenzio assoluto. È così che Melanie vive la sua vita giorno dopo giorno, pensò Potter. «Affare fatto, Art», disse Handy. «E, a proposito, tu sei davvero un bastardo figlio di puttana.» Clic. Potter si lasciò andare sulla poltroncina e chiuse gli occhi per un istante. «Hai segnato tutto, Henry?»
LeBow annuì e continuò a digitare. Poi si alzò e fece per spostare l'indicatore di Shannon al di fuori dalla mappa del mattatoio. «Aspetta», disse Potter. LeBow si fermò. «Aspettiamo.» «Andrò a prendere quella birra», disse Budd, sospirando. Potter sorrise. «Un po' troppo tesa la situazione, capitano?» «Sì. Un po'.» «Ti abituerai», disse Potter, proprio mentre Budd diceva a sua volta: «Mi abituerò». Il tono di voce del capitano, però, era molto meno ottimistico di quello di Potter. L'agente e il poliziotto scoppiarono a ridere. Quando Angie gli strinse un braccio, Budd sussultò come un coniglio. «Verrò con lei a prendere quella birra, capitano. Se per lei va bene.» «Oh, be', certo, credo di sì», rispose lui incerto, e insieme uscirono dal furgone. «Ancora un'ora», disse LeBow, annuendo. Potter ruotò nella poltroncina girevole, fissando il mattatoio fuori del finestrino. «Henry, scrivi: 'È opinione del negoziatore che lo stress e l'ansietà della fase iniziale del sequestro si siano ormai dissipati e che il soggetto Lou Handy sia calmo e pensi razionalmente'.» «Forse è l'unico», commentò Frances Whiting, le cui mani tremanti fecero cadere il caffè sul pavimento del furgone. Derek Elb, il poliziotto dai capelli rossi, con un gesto galante si mise carponi per pulire. 17,11 «Che cosa sta facendo con Shannon?» gesticolò Beverly, con il petto che si alzava e si abbassava mentre tentava di respirare. Melanie si sporse in avanti. La faccia di Shannon era immobile. Stava facendo dei segni e Melanie colse il nome del Professor X, il fondatore degli X-Men. Come Emily, la bambina cercava di evocare i suoi angeli custodi. Orso e Bruto stavano parlando, e Melanie riusciva a vedergli le labbra. Orso indicò Shannon e chiese a Bruto: «Perché... darle via?» «Perché», rispose pazientemente Bruto, «se non lo facciamo sfonderanno quella cazzo di porta e... ci uccideranno.» Melanie tornò indietro di fretta e disse: «Sta lì seduta, e basta. Sta bene. Hanno intenzione di lasciarla andare». Il viso di tutte si accese di speranza. Tutte tranne la signora Harstrawn.
E Kielle. La piccola Kielle, bionda, lentigginosa gattina. Otto anni, ma con gli occhi di una ventenne. La bambina guardò impaziente Melanie e si voltò, chinandosi verso la parete al suo fianco, intenta a lavorare a qualcosa. Che cosa stava facendo? Stava cercando di scavarsi un tunnel per uscire? Be', faccia pure. Ci penserò io a tenerla lontana dai guai. «Credo che sto per vomitare», gesticolò una delle gemelle, Suzie. Anna disse la stessa cosa, ma ripeteva sempre ciò che diceva la sua sorellina di pochissimo più grande. Melanie disse loro che non sarebbero state male. Che tutto sarebbe andato bene. Si avvicinò a Emily che, con gli occhi colmi di lacrime, si stava esaminando uno strappo nel vestito. «La prossima settimana io e te andremo a fare shopping insieme», le disse. «Ne compreremo uno nuovo.» E fu proprio in quel momento che de l'Epée le sussurrò all'orecchio inutile. «La latta di gasolio», disse, e scomparve immediatamente. Lei sentì un brivido correrle lungo la spina dorsale. La latta, sì. Voltò la testa. Era appoggiata accanto a lei, rossa e gialla, una grossa latta da cinque litri. Melanie si avvicinò, chiuse il coperchio e il tappo a pressione. Poi si guardò intorno nella stanza delle uccisioni in cerca di qualsiasi altra cosa che potesse esserle utile. Là, sì. Scivolò tutt'intorno alla stanza ed esaminò il retro del mattatoio. C'erano due porte; riusciva a malapena a distinguerle nella penombra. Quale delle due portava al fiume? si domandò. Per caso abbassò gli occhi sul pavimento, dove aveva scritto i messaggi nella polvere sul gioco delle ombre cinesi. Strizzando le palpebre, guardò il pavimento di fronte a ognuna delle due porte... e scoprì che c'era meno polvere davanti alla porta di sinistra. Ecco, pensò, la brezza del fiume passa attraverso questa e ha spazzato via la polvere. Abbastanza vento perché ci fosse, probabilmente, una finestra o una porta aperta a sufficienza perché una bambina ci passasse attraverso. Beverly tossì e cominciò a piangere. Si sdraiò su un fianco, lottando in cerca d'aria. L'inalatore non le aveva dato troppo sollievo. Orso aggrottò le sopracciglia e la guardò, gridando qualcosa. Merda. Melanie gesticolò a Beverly: «So che è difficile, tesoro, ma ti prego, fai silenzio». «Paura. Paura.» «Lo so. Ma andrà tutto...» Oh, mio Dio. Melanie sgranò gli occhi e le sue mani smisero di muoversi a metà di una parola quando guardò dalla parte opposta della stanza.
Kielle teneva il coltello di fronte a sé, un vecchio coltello con la lama a uncino. Ecco che cosa aveva visto sotto un cumulo di sporcizia; ecco che cosa stava tentando di prendere con tanta determinazione. Melanie rabbrividì. «No!» gesticolò. «Mettilo via.» Negli occhi grigi di Kielle c'era una luce omicida. Si fece scivolare l'arma in tasca. «Vado a uccidere Mister Sinister. Non puoi fermarmi!» Le sue mani frustarono l'aria di fronte a lei come se stessero già pugnalandolo. «No! Così non puoi farlo!» «Io sono Jubilee! Lui non può fermarmi!» «Quello è un personaggio dei fumetti», risposero i gesti staccati e rapidi delle mani di Melanie. «Non è reale!» Kielle la ignorò. «Jubilation Lee! Lo farò a pezzi con i plasmoidi! Morirà. Nessuno può fermarmi!» Arrancò fino alla porta e scomparve sotto la doccia d'acqua rancida che cadeva dal soffitto. L'immenso stanzone principale del mattatoio Webber & Stoltz, nella parte anteriore del quale erano riuniti i tre sequestratori, un tempo aveva ospitato una serie di recinti e di camminamenti per le bestie che lì erano morte. Lo spazio era stato poi usato per l'immagazzinaggio dell'equipaggiamento della macellazione - ceppi da macellaio, ghigliottine a uno e a tre posti, macchine per lo scuoiamento, tritacarne, immensi recipienti. Fu in quel sinistro magazzino che Kielle scomparve, con l'intenzione, a quanto pareva, di girare intorno per arrivare alla parete anteriore, dove i tre uomini erano intenti a guardare la televisione. No... Melanie, piegata a metà, spiò Orso - l'unico dei tre che poteva vedere chiaramente la stanza delle uccisioni - e si immobilizzò. Non stava guardando dalla loro parte, ma doveva soltanto voltare la testa di qualche centimetro per vederle. In preda al panico, scrutò attentamente lo stanzone principale e intravide una ciocca dei capelli biondi di Kielle che svaniva dietro una colonna. Pian piano si avvicinò all'ingresso, sempre mantenendosi accovacciata. Bruto era alla finestra, accanto a Shannon, e stava guardando fuori. Orso fece per girarsi verso la stanza, ma poi si voltò verso Ermellino, che stava ridendo per qualcosa, e, accarezzando il fucile a doppia canna che teneva tra le mani, indietreggiò e sghignazzò, chiudendo gli occhi. Ora. Fallo ora. Non posso.
Fallo adesso, mentre non può vederti. Un respiro profondo. Adesso. Melanie scivolò fuori della stanza e strisciò sotto un camminamento di legno marcito, segnato e piegato da milioni di zoccoli. Si fermò, guardando attraverso la cascata d'acqua che si riversava dal tetto. Kielle... dove sei? Credi di poterlo pugnalare e poi scomparire? Tu e i tuoi dannati fumetti! Scivolò sotto l'acqua - era gelata e viscida. Rabbrividendo per il disgusto, entrò nel locale cavernoso. Che cosa avrebbe fatto la bambina? Avrebbe girato in cerchio, immaginò, per spuntargli alle spalle e pugnalarlo alla schiena. Oltre i macchinari, i frammenti di metallo arrugginito e le assi di legno marcio. Cumuli di catene e di ganci per la carne, macchiati di sangue e appuntiti da frammenti acuminati di carne essiccata. I recipienti, enormi, erano disgustosi. Da essi emanava un odore nauseante e Melanie non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine degli animali che affondavano nel grasso ribollente. Sentì lo stomaco che le si rivoltava ed ebbe un conato. No! Fai silenzio! Il minimo rumore gli farà capire che sei qui. Lottò per controllarsi, inginocchiandosi per respirare l'aria fresca e umida vicino al pavimento. Guardando sotto le gambe di una ghigliottina, con la lama angolata arrugginita e chiazzata, vide l'ombra della bambina che, dalla parte opposta dello stanzone, si spostava da una colonna all'altra. Si mosse rapidamente. E aveva fatto soltanto poco più di un metro quando avvertì il colpo doloroso della sua spalla che andava a sbattere in un pezzo di tubo metallico, lungo quasi due metri, appoggiato a una delle colonne. Il tubo cominciò lentamente a cadere. No! Melanie allargò le braccia intorno al tubo. Doveva pesare almeno cinquanta chili. Non riesco a tenerlo, non posso fermarlo! Il tubo cadde più rapidamente, trascinandola con sé. Proprio quando la sua stretta stava per cedere, cadde a terra, rotolò sotto il metallo arrugginito e assorbì l'impatto con gli addominali tesi allo spasimo. Annaspò al lampo di dolore che le esplose nel corpo, pregando che il vento e la cascata d'acqua facessero abbastanza rumore da coprire il grugnito che le era uscito dalla gola. Rimase a terra stordita per un lunghissimo istante. Finalmente, riuscì a togliersi da sotto il tubo e a farlo rotolare sul pavimento - in silenzio, sperava.
Oh, Kielle, dove sei? Non capisci? Non puoi ucciderli tutti. Ci troveranno, ci uccideranno. Oppure Orso ci porterà nel retro. Non hai visto i suoi occhi? Non sai che cosa vuole? No, probabilmente non lo sai. Non puoi averne idea... Arrischiò un'occhiata verso la parte anteriore dello stanzone. L'attenzione degli uomini era rivolta principalmente al piccolo apparecchio televisivo. Di tanto in tanto Orso si voltava a guardare la stanza delle uccisioni, ma non sembrava essersi accorto che mancavano due delle prigioniere. Guardando di nuovo sotto le gambe del macchinario, Melanie intravide i capelli biondi di Kielle. Eccola là, che avanzava inesorabilmente verso i tre uomini vicini alla finestra. Strisciando, con un sorriso stampato sulle labbra. Probabilmente la piccola pensava veramente di poterli uccidere tutti e tre. Lottando per riprendere fiato dopo il colpo infertole dal tubo, Melanie percorse un angusto corridoio, nascosto dietro una colonna arrugginita. Voltò l'angolo e vide la bambina. Ora si trovava a soli nove o dieci metri da Bruto che, continuando a guardare fuori della finestra, le volgeva le spalle. Con la mano stretta tranquillamente sul colletto di Shannon. Se uno qualsiasi dei tre si fosse alzato in piedi e avesse camminato verso Kielle, avrebbe dovuto soltanto abbassare lo sguardo oltre uno dei grossi recipienti, che giaceva su un fianco, per vederla. Kielle stava tendendo i muscoli. Stava per balzare sopra il recipiente e avventarsi su Bruto. Dovrei forse lasciare semplicemente che lo faccia? pensò Melanie. Qual è la cosa peggiore che può capitare? Arriverà a qualche metro da loro, Orso la vedrà e le toglierà il coltello. Le daranno un paio di schiaffi e poi la butteranno di nuovo nella stanza delle uccisioni. Perché dovrei rischiare la mia vita? Perché dovrei rischiare le mani di Orso su di me? Gli occhi di Bruto? Ma poi vide Susan. Vide la chiazza che le appariva sulla schiena e la nube di capelli neri che si sollevava intorno alla sua testa come fumo. Vide Orso che scrutava ossessionato il corpo infantile di Emily e sogghignava. Merda. Melanie si tolse le scarpe nere e le spinse sotto un tavolo di metallo. Partì di scatto. Dritta davanti a sé, lungo lo stretto corridoio, evitando i ganci metallici appesi, le sbarre e i tubi, balzando sopra un ceppo da macellaio. Proprio nel momento in cui Kielle si alzava in piedi e raggiungeva la
sommità del recipiente, Melanie la placcò. Una mano intorno alla vita, l'altra intorno alla bocca. Caddero pesantemente e sbatterono contro la copertura di un recipiente, che si chiuse sbattendo. «No!» gesticolò la bambina. «Lasciami...» Melanie fece qualcosa che non aveva mai fatto in vita sua: tirò indietro il palmo aperto e mirò direttamente alla faccia della bambina. Kielle spalancò gli occhi. L'insegnante abbassò la mano e lanciò un'occhiata tra due recipienti rovesciati. Bruto si era voltato e guardava nella loro direzione. Ermellino si strinse nelle spalle. «Vento», lo vide dire Melanie. Senza sorridere, Orso si alzò in piedi e, portando il fucile con sé, si incamminò verso il punto in cui lei e Kielle erano nascoste. «Dentro», gesticolò irosamente Melanie, indicando un grosso recipiente metallico lì vicino, coricato su un fianco. La bambina esitò per un istante e poi si arrampicarono all'interno, chiudendo il coperchio come fosse una porta. Le pareti del recipiente erano ricoperte da una sostanza grassa, simile a cera, che disgustò Melanie e le fece accapponare la pelle. L'odore era fortissimo, e ancora una volta dovette lottare strenuamente con se stessa per non vomitare. Un'ombra cadde sul recipiente; lei avvertì una vibrazione mentre Orso entrava nel corridoio. Era soltanto a un metro da loro. Senza troppo impegno, l'uomo diede un'occhiata in giro e poi tornò verso Shannon e gli altri due. Kielle si voltò verso di lei. Nella penembra, Melanie riuscì a malapena a distinguere le parole della bambina. «Devo ucciderlo! Non fermarmi, altrimenti ucciderò anche te!» Sollevò la lama affilata e la puntò contro di lei. Melanie annaspò. «Smettila!» gesticolò con rabbia. Che cosa dovrei fare? si chiese. Immagini di Susan le stavano scorrendo rapide nella mente. E poi la signora Harstrawn. Suo padre. Suo fratello. E de l'Epée. Susan, aiutami. De l'Epée... Poi, improvvisamente, pensò: Non c'è nessuna Susan. È morta. Morta e già fredda. E la signora Harstrawn è come se lo fosse. De l'Epée? È soltanto una menzogna. Un falso ospite nella tua piccola stanzetta falsa. Un altro dei tuoi folli amici immaginari, uno delle decine e decine con cui sei cresciuta parlando, uscendoci insieme, facendo con loro
un amore solitario mentre ti nascondevi da tutto ciò che era reale. Faccio tutto sbagliato! Sento musica quando non c'è musica, non sento niente quando la gente mi parla da pochi centimetri di distanza, ho paura quando devo essere coraggiosa... A Maiden's Grave. La bambina si era allungata verso il coperchio del recipiente. «Kielle!» gesticolò furibonda Melanie. «Jubilee... d'accordo. Ascolta.» La bambina la guardò con cautela e infine annuì. «Vuoi veramente ucciderlo?» «Sì!» Gli occhi di Kielle brillavano. «D'accordo. Allora lo faremo insieme. E lo faremo nel modo giusto.» Un sorriso stentato sbocciò sul viso della bambina. «Io lo distrarrò. Tu vai dietro quel tubo laggiù. Lo vedi? Vai laggiù e nasconditi.» «Che cosa devo fare?» «Aspetta finché non ti do il segnale di venire fuori. Lui starà parlando con me, non guarderà dalla tua parte.» «E poi?» «Pugnalalo alla schiena più forte che puoi. Okay?» «Sì!» La bambina sorrise; i suoi occhi non erano più furiosi, ma freddi come pietre. «Io sono Jubilee! Nessuno può fermarmi!» Bruto dava le spalle all'interno del mattatoio, ma doveva aver visto il suo riflesso in un pannello del vetro scheggiato della finestra. Si voltò. «Che cosa abbiamo, qui?» Melanie era scivolata fuori dal recipiente e aveva fatto il giro, tornando verso la stanza delle uccisioni. Ora camminava verso di loro, sorridendo a Shannon. Guardò Handy e gli fece cenno di voler scrivere. Lui le passò un taccuino giallo e una penna. Melanie scrisse: Non voglio che le facciate del male, e indicò Shannon con un cenno del capo. «Farle del male? La sto... andare. Capito?» Perché non lei e la bambina che sta male? scrisse Melanie. Fai il suo nome, pensò. Forse si immedesimerà di più. Beverly, aggiunse. Bruto sogghignò e indicò Orso. «Il mio amico... vuole tenere quelle carine... per un po'.» Lo sta dicendo soltanto per essere crudele, pensò lei. Poi rifletté: Ma lui è crudele, sì. Ma che altro è, che altro sento, in lui? Qualcosa di strano; c'è
una sorta di connessione. È perché riesco a capire le sue parole? O forse riesco a capirlo a causa di questa connessione? Ermellino si allontanò dalla finestra e disse: «... arrivando... due pacchi». Strizzò l'occhio e continuò a masticare uno stuzzicadenti. Ma Bruto non stava guardando fuori della finestra: stava scrutando il mattatoio, guardandosi intorno attentamente, con le palpebre semichiuse. Che cosa posso fare per impedirgli di vedere Kielle? Tentare di sedurlo? pensò improvvisamente. Ciò che conosceva dell'amore l'aveva imparato dai libri, dai film e dalle chiacchiere tra ragazze. Aveva avuto dei fidanzati, ma non era mai andata a letto con loro. La paura, sempre la paura... O che altro, non avrebbe saputo dire. Il buio, forse. Fidarsi così tanto di qualcuno. Ovviamente, c'era il problema che non aveva mai incontrato nessuno interessato a fare l'amore con lei. Oh, sì, c'erano stati molti ragazzi che volevano scoparla. Ma era così diverso. Guarda i due termini: dire «scopare» ti faceva arricciare il naso e ti rendeva i lineamenti serrati e solitari. «Fare l'amore»... era soffice, morbido e ti apriva il viso. Bruto rise e fece un passo avanti, la afferrò e la tirò vicino a sé. Forse era molto più furbo di quanto non sembrasse. O forse gli occhi di lei non riuscivano a tenere segreto proprio nulla. In ogni caso, lui sapeva esattamente ciò che Melanie stava pensando. Le accarezzò i capelli. Lei aspettò quelle mani sul seno, o tra le gambe. Ricordò come si era ritratta quando uno dei suoi ragazzi aveva fatto scivolare la propria mano lassù, in macchina. Era balzata dalle sue ginocchia come un fulmine, picchiando la testa contro la luce fioca fissata sul tetto dell'abitacolo. Poi Bruto voltò la testa e disse qualcosa che lei non riuscì ad afferrare. Orso ed Ermellino stavano ridendo. Bruscamente la spinse lontano da sé, avvicinò la faccia alla sua e disse: «Perché dovrei volerti? Una piccola cosina difettosa come te? Sei come un ragazzo. E io voglio soltanto donne». I suoi occhi neri si conficcarono in quelli di lei e Melanie scoppiò in singhiozzi. Con soddisfazione Bruto osservò l'orrore e la vergogna sul suo viso. «Io ho una donna vera. Pris è tutto quello di cui ho bisogno. Lei sì che ha un corpo di donna e due occhi di donna. Scopiamo per ore e ore. E tu, ce l'hai il ragazzo?» Lei non era in grado di rispondere. Si sentiva le braccia deboli, abbandonate lungo i fianchi. Con la coda dell'occhio vide Kielle che scivolava tra le ombre proiettate dai macchinari. Lottò per fermare le lacrime, rifiutandosi di asciugarle.
«Pris è un vero personaggio. Una coi fiocchi... pensi che io sia cattivo? Lei è più cattiva di me. Mi odi? Lei non ti piacerebbe nemmeno un po'. Ora, lei sì che potrebbe scoparti. È fatta un po' così e a me piace stare a guardare. Se ci tiriamo fuori da qui lo faremo, lei, tu e io.» L'insegnante fece un passo indietro, ma lui la afferrò per un braccio. La stretta era così forte che le interruppe l'afflusso del sangue alle mani e Melanie le sentì formicolare dolorosamente. Ermellino, con una mano sui capelli tagliati a spazzola, stava gridando qualcosa. Bruto si voltò verso la finestra e guardò fuori. Melanie avvertì una vibrazione nell'aria. Bruto guardò verso il telefono. Sorridendo, le lasciò andare il braccio e sollevò il ricevitore. «Salve...» Stava parlando con de l'Epée? Che cosa si stavano dicendo? Dietro i tubi, vicino alla porta, c'era l'ombra di Kielle. La bambina aveva il coltello in mano. «...quasi arrivato», annunciò Ermellino, puntando la pistola fuori della finestra. Bruto abbassò la testa e continuò a parlare al telefono, giocando con la pistola che teneva infilata nella cintura. Sembrava annoiato; fece una smorfia e riappese. Poi prese un fucile, tirò una leva alla base della doppia canna e si avvicinò alla porta. Dava le spalle a Kielle, che si trovava a forse tre o quattro metri di distanza. La bambina sporse la testa fuori del suo nascondiglio. La luce proveniente dall'esterno, un raggio abbagliante di luce bianca, scintillò sulla lama ricurva del coltello. «Aspetta», le comunicò Melanie, muovendo le mani senza farsi vedere. Ermellino afferrò Shannon per un braccio e la spinse verso la porta. Bruto fece un passo indietro, puntando il fucile verso l'esterno, ed Ermellino aprì la porta. Una sagoma apparve nel riquadro dell'ingresso: un poliziotto vestito di nero. Porse a Ermellino due confezioni da sei di birra. Ermellino spinse la bambina oltre la porta. Adesso! Melanie si spostò lentamente alle spalle di Bruto. Sorrise a Kielle, che si accigliò, confusa. Poi si abbassò e spazzò letteralmente la bambina dal pavimento, togliendole il coltello dalla mano. Kielle scosse violentemente la testa. Ma Melanie si voltò, muovendosi così alla svelta che Bruto rimase come paralizzato, senza capire che cosa stava succedendo. Melanie continuò a
sorridere mentre gli girava intorno, tenendo stretta tra le braccia la bambina stupefatta. Poi lanciò Kielle fuori della porta, direttamente sul petto del poliziotto. Per un istante eterno, nessuno si mosse. Melanie, che ancora stava sorridendo a Ermellino, lentamente chiuse la porta, muovendo letargicamente la mano all'indirizzo del poliziotto stupefatto come fosse una mosca fastidiosa. «Merda», sputò Bruto. Ermellino partì verso la porta, ma Melanie la chiuse del tutto e la bloccò con il coltello di Kielle. Ermellino diede uno strattone alla grossa maniglia, ma la porta non cedette di un millimetro. Poi Melanie cadde in ginocchio e si coprì la faccia, tentando di ripararsi dal colpo mentre il pugno ossuto di Ermellino la colpiva tra il collo e la mascella. Lui le divaricò le braccia e la colpì con forza sul mento e sulla fronte. «Fottuta puttana di merda!» gridò Bruto, con i tendini del collo che gli vibravano per la collera. La colpì una volta, forte, e lei cadde distesa sul pavimento. Tentando di strisciare via, si sollevò aggrappandosi al davanzale della finestra, lanciò un'occhiata fuori e vide il poliziotto che trascinava con sé le due giovani X-Men, tenendole sotto le braccia mentre, i passi resi goffi dal doppio peso, trotterellava verso il fossato, allontanandosi il più in fretta possibile dal mattatoio. Sulla nuca avvertì le vibrazioni della voce di un uomo che gridava al colmo della rabbia. Bruto stava correndo verso la finestra dalla parte opposta della porta. Fece un passo indietro, poi puntò il fucile a doppia canna verso l'esterno. Melanie gli si avventò contro. Sembrava che i suoi piedi non toccassero nemmeno terra. Ermellino tentò di afferrarla, ma riuscì a cogliere soltanto un frammento di seta dal colletto della sua camicia, che si strappò immediatamente. Quando entrò in collisione con la spalla di Bruto, Melanie ebbe la soddisfazione di vedere il suo dolore, la sua sorpresa e la sua paura mentre cadeva da un lato contro un ceppo da macellaio. Il fucile colpì il pavimento, ma non sparò. Melanie guardò di nuovo fuori della finestra e vide le due bambine e il poliziotto scomparire al di là di una piccola altura. Poi la pistola di Ermellino la colpì sopra l'orecchio che per primo era diventato sordo, tanti anni prima, e lei cadde in ginocchio. Svenne non tanto per il dolore, quanto per il terrore che la tenebra che stava salendo a oscurarle il campo visivo fosse
dovuta alla rottura di un nervo e che, ora, sarebbe stata cieca, oltre che sorda, sino alla fine dei suoi giorni. 17,34 «Ci hai fatto un regalo, Lou. Grazie mille.» «Non sono stato io», grugnì Handy. «No? Che cosa è successo?» «Ascoltami un po', sono incazzato nero.» «Per quale motivo?» «Tu sta' zitto e ascolta, Art. Non voglio stare a sentire le tue stronzate.» La sua voce era più fredda di quanto lo fosse mai stata in tutta la giornata. «Quarantacinque minuti per quell'elicottero. Questo è tutto il tempo che hai. E ti dirò un'altra cosa, mister: ho una voglia matta di uccidere qualcuno. Quasi quasi spero che l'elicottero non arrivi. Non ho più intenzione di fare nessuna trattativa con te.» «Com'è la birra?» «Ho già scelto la piccola puttanella. Ha dieci o undici anni. Indossa un bel vestitino.» «Emily», sussurrò Angie. «Ma prima lascerò che Bonner se la scopi. Sapete tutto di lui, vero? Avete i vostri cazzo di dossier su ognuno di noi. Dovreste sapere tutto del suo piccolo problema.» Un negoziatore non impone mai i propri valori morali sulla situazione: né approvazione, né critica. Facendolo, suggerirebbe la presenza di standard in base ai quali qualcosa è accettabile e qualcosa non lo è, e ciò, con molta probabilità, irriterebbe il sequestratore o farebbe sembrare giustificato il suo comportamento. Anche offrire rassicuranti cliché può essere pericoloso, perché può lasciare intendere che il negoziatore non sta prendendo sul serio la situazione. Con riluttanza, quindi, Potter disse, con la voce più fredda e distaccata che riuscì a trovare: «Sarebbe meglio che non facessi una cosa simile, Lou. Lo sai bene». Una risata perfida riempì l'abitacolo del furgone. «Tutti mi dicono che cosa sarebbe meglio che io non facessi. Lo detesto!» «Ci stiamo lavorando, a quell'elicottero, Lou. Guarda fuori. Abbiamo quaranta chilometri orari di vento, nubi basse e foschia. Volevi un galleggiante. Be', gli elicotteri galleggianti non crescono sugli alberi.»
«Invece avete un vento a venti chilometri orari, stratocumuli a ottocento metri di quota e nessuna cazzo di foschia.» La televisione, ricordò Potter, furioso con se stesso per averlo scordato. Magari Handy stava guardando le previsioni del tempo delle cinque e mezzo proprio in quel momento. Una lunga pausa di silenzio. Potter, fissando l'altoparlante sopra di sé, decise che i loro discorsi erano troppo fecalizzati sulla meccanica delle trattative. Era ora di qualcosa di più personale. «Lou?» «Sì.» «Mi hai chiesto come sono fatto. Lascia che te lo chieda io, adesso.» «Vaffanculo, avete le fotografie, ci scommetto le palle.» «E che cosa si può mai vedere da una foto segnaletica?» domandò Potter, e rise. Quando Handy parlò, la sua voce era considerevolmente più tranquilla. «Come sono fatto?» ripeté. «Lascia che ti racconti una storia. Una volta ho partecipato a una rivolta in carcere. Stava nascendo un casino, come succede sempre in queste situazioni. E che cosa cazzo capita se non che mi ritrovo nella lavanderia insieme a un tipo con cui ce l'avevo in sospeso da un sacco di tempo? Ora, sai dove si nascondono le cose quando sei dentro, no? Così ho preso questo coltello che mi ero fatto con un pezzo di vetro, l'ho tolto dalla stoffa in cui l'avevo avvolto e ho cominciato a fargli un lavoretto, a quel tipo. E sai perché?» Fai eco alle sue domande e ai suoi commenti, pensò Arthur Potter il negoziatore. Ma Arthur Potter l'uomo rimase in silenzio. «Perché quando ero dentro da pochi giorni, lui era venuto da me, tutto macho e con l'aria da duro, e mi ha detto che non gli piaceva la mia faccia.» «E così l'hai ucciso.» Una piatta asserzione. «Cazzo sì, ma non è qui che voglio arrivare. Mentre stava morendo, laggiù nella lavanderia, con il ventre squarciato, mi sono chinato su di lui. Sai, ero curioso. Mi sono messo proprio vicino vicino e gli ho chiesto che cos'era che esattamente non gli piaceva della mia faccia. E sai che cosa mi ha detto? Mi fa: 'Assomigli alla morte'. E sai una cosa, Art? Mi è dispiaciuto di averlo ucciso, dopo che mi ha detto quella cosa. Sissignore: assomigli alla morte.» Non stare al suo gioco, pensò improvvisamente Potter. Stai cadendo nel suo incantesimo. Con una punta di tremore nella voce gli chiese: «Lou,
dacci tempo fino alle sette. Se mi fai questo favore, credo che poi avremo delle buone notizie per te». «Io...» «Questo è tutto. Tanto, che differenza fa?» Potter tenne lontana dalla propria voce ogni minima traccia di supplica. Fece la sua richiesta facendo sembrare che Handy fosse un uomo ragionevole. Era un rischio, ma lui aveva stabilito dentro di sé che quell'uomo non avrebbe avuto alcun rispetto per i piagnucoloni. Ciononostante, fu molto sorpreso quando Handy disse: «D'accordo. Cristo! Ma fai arrivare qui quell'elicottero, Art. Altrimenti la piccolina con il bel vestitino se ne va». Clic. Con calma, Potter ordinò a Tobe di regolare di conseguenza l'orologio dell'ultimatum. La porta del furgone si aprì ed entrò un poliziotto. «Le due bambine sono qui, signore. Sono nella tenda dei medici.» «Stanno bene?» «Una è caduta e si è sbucciata un gomito. A parte questo, sono a posto.» «Andrò io. Mi farà bene un po' di aria fresca. Frances, può venire a fare da interprete. Henry, stacca la spina e vieni anche tu. Angie?» In un boschetto non molto lontano dal furgone, Potter fece accomodare le bambine su due sedie pieghevoli. Henry LeBow si unì a loro, con il computer portatile tra le mani. Si sedette e sorrise alle bambine, che fissavano il Toshiba a occhi spalancati. Potter tentò di ricordare ciò che gli aveva insegnato Frances e sillabò i loro nomi nel linguaggio dei segni. S-H-A-N-N-O-N e K-I-E-L-L-E, sorridendo rivolto a Shannon. Sapeva che avevano la stessa età - otto anni - ma Shannon era più alta. Kielle, però, con il suo viso corrucciato e il suo sguardo cinico, dava l'impressione di essere molto più grande. «Che cosa c'è?» domandò Potter a Kielle. Quando ricevette la risposta, Frances impallidì. «Dice che ha tentato di ucciderlo.» «Chi?» «Handy, credo. Lei lo chiama Mister Sinister.» Potter tirò fuori il dossier sugli evasi. Il viso di Kielle si contrasse in una maschera e la bambina indicò con un dito la fotografia di Handy. «Dice che lui ha ucciso Susan e che lei aveva intenzione di ucciderlo.
Melanie l'ha tradita. Melanie è un giuda.» «Perché?» domandò Angie. Altri gesti, bruschi, brutali. «L'ha lanciata fuori della porta.» «Melanie ha fatto questo?» Potter sentì un brivido gelido percorrergli la spina dorsale. Sapeva che ci sarebbe stata una rappresaglia di qualche tipo per quel gesto. Shannon confermò che i tre uomini, apparentemente, non avevano fucili automatici, soltanto fucili a doppia canna; suo padre andava a caccia e la bambina sapeva qualcosa di armi. L'asma di Beverly andava molto male, anche se Handy le aveva dato la medicina. Shannon continuava a ripetere che «quello grasso», Bonner, si aggirava intorno alle bambine e continuava a guardare Emily perché era «più carina e assomigliava più a una ragazza». «Qualcuno vi ha messo le mani addosso?» domandò Angie delicatamente. Shannon rispose di sì. Ma Kielle agitò una mano e gesticolò: «Non nel modo che pensate. Ma Orso continua a guardarci». Quindi, rifletté Potter, Bonner rappresenta una discreta minaccia, ben distinta da Handy. E probabilmente più pericolosa. I criminali spinti dalla lussuria lo sono sempre. «Chi ti ha scelta per il rilascio?» domandò Angie a Shannon. La bambina indicò Handy. «Lui.» «Quello che Melanie chiama Bruto, giusto?» Shannon annuì. «Noi lo chiamiamo Mister Sinister. Oppure Magneto.» «Perché pensi che abbia scelto proprio te? C'era una ragione in particolare?» «Perché Orso», Shannon indicò la fotografia di Bonner, «gli ha detto di farlo.» Frances guardò Angie e tradusse: «Shannon gli aveva dato un calcio, e lui era furioso». «Non volevo dargli un calcio. Solo che non ho pensato... E poi ho avuto davvero paura. Credevo che fosse per colpa mia che stava per darci fuoco.» «Darvi fuoco? Perché hai pensato una cosa simile?» Shannon raccontò loro della tanica di combustibile sistemata proprio sopra le loro teste. Frances impallidì. «Non lo farebbe mai.» «Oh, certo che sì», intervenne Angie. «Il fuoco. Il suo nuovo giocattolo.»
«Maledizione», borbottò Potter. Questo praticamente eliminava la possibilità di un intervento dell'SSO. L'unica concessione di LeBow all'orrore di quella rivelazione fu una breve pausa prima che ricominciasse a digitare una sommaria descrizione del rudimentale dispositivo incendiario. Potter si recò al furgone, chiamò fuori Budd e poi fece cenno a Stillwell di raggiungerlo. Poi disse a entrambi: «C'è una trappola calda pronta a scattare nella stanza degli ostaggi...» «Calda?» domandò Budd. «Innescata», proseguì Potter. «Non dobbiamo dargli il minimo pretesto per farla scattare. Non dovrà esserci assolutamente nessuna azione che possa essere interpretata come offensiva. Controllate accuratamente. Tutte le armi senza colpo in canna.» «Sissignore», rispose Stillwell. Quindi Potter ritornò dalle bambine e domandò a Shannon se c'era qualcos'altro che riusciva a ricordare dei tre uomini e di ciò che facevano dentro il mattatoio. «Guardano la televisione», tradusse Frances. «Camminano in giro. Mangiano. Parlano. Sono molto rilassati.» Rilassati. Jocylyn aveva detto la stessa cosa. Be', quella era la prima volta che gli capitava, in una situazione del genere. «Avete visto i loro attrezzi?» Shannon annuì. «Li hanno usati?» «No.» «Ti ricordi quali attrezzi hanno, che tipo di attrezzi sono?» La bambina scosse la testa in segno di diniego. «Siete in grado di dire di che cosa parlano?» domandò Potter. «No», spiegò Frances senza attendere la risposta. «Nessuna di loro due è in grado di leggere le labbra.» «Vi controllano sempre?» domandò Angie. «Molto. Mette paura. Lui.» Shannon stava indicando Handy. Kielle si allungò in avanti con ferocia e afferrò la fotografia. La strappò e gesticolò con violenza. «Dice che odia Melanie. Avrebbe potuto ucciderlo. Invece adesso lui è ancora vivo per uccidere altre persone. Dice che non le sarebbe importato nulla di morire. Ma Melanie è una codarda e lei la odia.» Come aveva fatto con Jocylyn, Potter strinse con calore la mano alle bambine e le ringraziò. Shannon sorrise; Kielle no, ma la sua stretta di ma-
no fu forte, decisa e sicura di sé. Quindi le mandò via, accompagnate da un poliziotto, a incontrare i loro genitori al motel di Crow Ridge. Conferì con Angie per qualche minuto, quindi tornò dentro il furgone. La donna lo seguì. Potter si stropicciò gli occhi, si appoggiò allo schienale della poltroncina e prese la tazza di caffè disgustoso che Derek gli aveva posato sulla scrivania. «Non capisco», esclamò, rivolto a nessuno in particolare. «Che cosa?» domandò Budd. «Un ostaggio è fuggito e lui è furioso. Questa parte la capisco benissimo. Ma non sembra arrabbiato per aver perso un pezzo della sua merce di scambio. È furioso per qualche altro motivo.» Guardò dalla parte opposta del furgone. «Angie? La nostra psicologa? Hai qualche idea?» La donna organizzò i propri pensieri, quindi disse: «Sono convinta che ciò che per Handy è più importante sia il controllo. Dice di aver ucciso delle persone perché non avevano fatto ciò che lui voleva. L'ho già sentita, questa. La cassiera di una drogheria non ha messo i soldi nella borsa del rapinatore alla svelta come lui voleva, quindi è lei a essere colpevole di un'offesa, non lui. Ciò gli ha dato, in effetti, il permesso di ucciderla». «È per questo motivo che ha ucciso Susan?» domandò Budd. Potter si alzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro. «Ah, davvero un'ottima domanda, Charlie.» «Sono d'accordo», disse Angie. «Una domanda-chiave.» «Perché lei?» continuò Potter. «Be', ciò che intendevo dire, in realtà», precisò Budd, «era perché l'ha uccisa? Perché spingersi tanto in là?» «Oh, quando qualcuno infrange le sue regole, per quanto lo faccia in modo lieve», spiegò Angie, «qualsiasi punizione è lecita. Morte, tortura, stupro. Nel mondo di Handy, ogni comportamento non in linea con le sue regole è un'offesa capitale. Ma pensiamo piuttosto alla domanda di Arthur. Perché proprio lei? Perché Susan Phillips? È questo il punto davvero importante. Henry, dicci qualcosa della ragazza.» Le dita di LeBow si mossero rapide sulla tastiera del computer. Poi l'agente informativo lesse dallo schermo: «Diciassette anni. Nata da genitori sordomuti. QI centoquarantasei». «È penoso ascoltare», sussurrò Budd. Potter fece cenno a LeBow di proseguire. «Prima della sua classe alla Laurent Clerc School. E sentite questa. Ha dei precedenti.»
«Cosa?» «L'anno scorso ha partecipato a dimostrazioni di protesta alla scuola per sordomuti di Topeka, che fa parte dell'Hammersmith College. Volevano un rettore sordo. Cinquanta studenti sono stati arrestati e Susan ha aggredito un poliziotto. Hanno lasciato cadere le accuse per aggressione, ma l'hanno condannata con la condizionale per violazione di suolo pubblico e resistenza all'arresto.» LeBow tirò il fiato per un momento, poi proseguì: «Ha lavorato come volontaria al centro biculturale/bilinguale del Midwest. C'è un articolo, qui, nel materiale che ha portato Angie». Lo scorse in fretta. «Apparentemente, si tratta di un'organizzazione che si oppone a qualcosa che si chiama mainstreaming.» «Il rettore della Clerc School me l'ha spiegato», intervenne Angie. «È una corrente di pensiero 'tradizionalista', che si propone di obbligare i sordomuti a frequentare scuole normali. È una faccenda molto controversa. Gli attivisti del movimento dei sordomuti si oppongono.» «D'accordo», disse Potter. «Mettiamo da parte per un momento le informazioni e vediamo invece chi sono gli ostaggi che Handy ha rilasciato.» «Jocylyn e Shannon», elencò la psicologa. «Qualcosa in comune tra loro?» «Non sembra proprio», rifletté Budd. «In realtà, sembrano quasi opposte. Jocylyn è un esserino timido. Shannon è decisa. Una piccola Susan Phillips.» «Angie?» disse Potter. «Che cosa ne pensi?» «Si tratta sempre di controllo. Susan era una minaccia diretta, per lui. Aveva un atteggiamento deciso, sfrontato. Probabilmente l'ha sfidato apertamente, minacciando il suo controllo sulla situazione. Ora, Shannon, con il fatto di aver preso a calci Bonner... Handy deve aver avvertito lo stesso tipo di minaccia, anche se in scala minore. Non ha sentito il bisogno di ucciderla - di riaffermare il proprio controllo nel modo più estremo possibile - ma la voleva fuori delle scatole. Jocylyn? Piangeva sempre. Piagnucolava. Gli ha dato sui nervi. Anche questo è un modo per ridurre il suo controllo.» «E le due donne adulte?» domandò LeBow. «Io penserei che rappresentano una minaccia maggiore delle bambine.» «Oh, non necessariamente. L'insegnante più anziana, Donna Harstrawn, è praticamente catatonica, a quanto sembra. Nessuna minaccia, da parte sua.»
«E Melanie Charrol?» «Il rettore della Laurent Clerc», disse Angie, «mi ha detto che ha la reputazione di essere molto timida.» «Però guarda che cosa ha appena fatto», borbottò Potter. «Ha spinto Kielle fuori.» «Un caso, immagino. Probabilmente l'ha fatto d'impulso.» Guardò fuori del finestrino. «È un tipo strano quell'Handy. Davvero insolito.» «Unico nella mia esperienza», confermò Potter. «Senti, Henry, leggici qualcosa dal tuo opus magnum. Dicci che cosa sappiamo di lui fino a questo momento.» LeBow si sollevò leggermente sulla sedia e cominciò a leggere con voce piatta. «Louis Jeremiah Handy ha trentacinque anni. È stato cresciuto dalla madre, dopo che suo padre, alcolizzato, è andato in prigione quando il bambino aveva sei mesi. Beveva anche la madre. I servizi di assistenza e protezione minorile hanno preso in considerazione diverse volte l'ipotesi di sistemare lui e i suoi fratelli presso qualche istituto, ma non se ne è mai fatto nulla. Non ci sono prove che sia stato picchiato o che abbiano abusato di lui, anche se, quando suo padre è uscito di prigione - Lou allora aveva otto anni - l'uomo è stato arrestato diverse volte per aver aggredito i vicini. Il padre se ne è andato definitivamente quando Handy aveva tredici anni ed è stato ucciso un anno dopo nel corso di una rissa in un bar. Sua madre è morta un anno più tardi.» L'agente Frances Whiting scuoteva la testa con compassione. «Handy ha ucciso la sua prima vittima quando aveva quindici anni. Ha adoperato un coltello, anche se, a quanto pare, aveva con sé anche una pistola e avrebbe potuto usare l'arma più rapida. La vittima, un ragazzo della sua età, è morta molto lentamente. Sei anni in riformatorio per l'omicidio, quindi fuori abbastanza a lungo da collezionare una serie di arresti per rapina, furto d'auto, aggressione, furto con scasso. Sospettato di aver scassinato casse automatiche e di aver partecipato a rapine in banca. È stato quasi condannato due volte per reati maggiori, ma i testimoni sono stati uccisi prima del processo. Nessun coinvolgimento di Handy negli omicidi è stato mai provato. «I suoi due fratelli continuavano a mettersi nei guai con la legge, nel frattempo. Il maggiore è stato ucciso cinque anni fa, come ho detto prima. Hanno pensato che fosse stato Handy a farlo fuori. Nessun domicilio conosciuto per il fratello minore.» Via via che la carriera di Handy progrediva, spiegò LeBow al suo pub-
blico, diventava sempre più violento. Era la ferocia e la casualità dei suoi delitti che sembrava crescere: negli ultimi tempi aveva cominciato a uccidere senza alcuna ragione apparente e - nella rapina per la quale era stato condannato l'ultima volta - aveva anche appiccato un incendio. Potter lo interruppe. «Dicci specificatamente, nei dettagli, che cosa è accaduto durante la rapina di Wichita. Alla Farmers & Merchants S&L.» L'agente informativo fece scorrere lo schermo, quindi proseguì: «Handy, Wilcox, un pregiudicato di nome Fred Laskey e Priscilla Gunder - la ragazza di Handy - hanno rapinato la Farmers & Merchants S&L di Wichita. Handy ha ordinato a una cassiera di portarlo nel caveau, ma la donna si muoveva troppo lentamente per i suoi gusti. Lui ha perso la pazienza, l'ha picchiata, quindi ha chiuso lei e un'altra donna nella stanza blindata, poi è uscito e ha preso una tanica di benzina. Ha sparso il combustibile all'interno della banca e gli ha dato fuoco. Le fiamme sono state il motivo per cui è stato preso. Se si fossero limitati a fuggire con i ventimila dollari che avevano rapinato, sarebbero riusciti a farcela, ma gli ci sono voluti altri cinque minuti per dar fuoco alla banca. Cinque minuti che hanno dato alla polizia e agli uomini di Pete Henderson il tempo di avvicinarsi in silenzio». Riassunse il resto della scena: c'era stata una sparatoria di fronte alla banca. La ragazza era riuscita a fuggire; Handy, Wilcox e Laskey avevano rubato un'altra macchina, ma erano stati fermati a un posto di blocco a meno di due chilometri di distanza. Handy aveva sparato con una pistola che teneva nascosta, facendo fuoco da dietro la schiena di Laskey, uccidendolo e ferendo due poliziotti prima di restare ferito lui stesso. «Insensato.» Budd scosse la testa. «Quell'incendio, dico. Bruciare vive quelle donne.» «Oh, no, l'incendio era un modo per riacquistare il controllo della situazione», disse Angie. Potter citò: «Non hanno fatto quello che volevo. Quando volevo che lo facessero». «Forse i tipi come Handy potrebbero diventare la tua specialità, Arthur», disse Tobe. Due anni alla pensione; come se avessi bisogno di una specializzazione, pensò lui. E, per giunta, una che comprenda i Lou Handy di questo mondo. Budd sospirò pesantemente. «Tutto bene, capitano?» domandò Potter. «Non so se sono fatto per questo tipo di lavoro.» «Ah, ma te la stai cavando più che bene.»
Ma, ovviamente, il giovane poliziotto aveva ragione. Non era fatto per quel tipo di lavoro: nessuno lo era. «Ascoltami, Charlie, a quest'ora probabilmente i poliziotti staranno cominciando a farsi prendere dall'ansia. Voglio che facciate un giro, tu e Dean. Che li calmiate. Vedete se riuscite a dargli un po' di caffè. E, per l'amor di Dio, assicuratevi che tengano giù la testa. E tienila giù anche tu, già che ci sei.» «Verrò con te, Charlie», disse Angie. «Se per Arthur va bene.» «Raggiungilo dopo, Angie. Voglio parlarti un momento.» «Ci vediamo fuori», disse la donna, quindi avvicinò la propria sedia a quella di Potter. «Angie, ho bisogno di un alleato», disse Potter. «Qualcuno all'interno.» La donna lo guardò. «Melanie?» «È stato davvero un caso ciò che ha fatto? O posso contare sul suo aiuto?» Lei ci pensò su a lungo. «Quando Melanie frequentava il liceo lì, la Laurent Clerc era una scuola oralista. Il linguaggio dei segni era proibito.» «Davvero?» «Era una scuola mainstream, tradizionalista. Ma Melanie si rese conto che la cosa la soffocava - il che è poi ciò di cui tutti gli insegnanti e gli educatori stanno cominciando a rendersi conto ora. Ciò che fece fu di sviluppare un suo linguaggio di segni, un linguaggio molto sottile, principalmente adoperando soltanto le dita affinché gli insegnanti non lo notassero, come invece si noterebbe qualcuno che adoperi l'ASL. Il suo linguaggio si diffuse nella scuola con la rapidità di un incendio.» «Ha creato un linguaggio?» «Esattamente. Ha scoperto che le dieci dita, da sole, non erano sufficienti per un vocabolario e una sintassi funzionali ed efficaci. Quindi, l'elemento variabile che introdusse era assolutamente brillante. Non era mai stato fatto nel linguaggio dei segni, prima. Ha adoperato il ritmo. Ha dato una struttura temporale alle forme assunte dalle dita. La sua ispirazione, apparentemente, sono stati i direttori d'orchestra.» Arthur Potter - che, dopotutto, si guadagnava da vivere con il linguaggio - era affascinato. La donna proseguì: «Proprio in quel periodo ci furono le prime proteste per spingere la direzione della scuola a passare a un programma scolastico che comprendesse l'insegnamento dell'ASL, e uno dei motivi citati dagli insegnanti sordomuti in favore di questa decisione fu che la maggior parte
degli studenti adoperava il linguaggio di Melanie. Ma la ragazza non prese parte alle dimostrazioni di protesta. Negò di aver creato il linguaggio come se temesse che l'amministrazione l'avrebbe punita per averlo fatto. Tutto ciò che voleva fare era studiare e tornare a casa. Dotata di molto talento, molto intelligente, rapida, acuta. Quest'estate ha avuto la possibilità di andare al Gallaudet College a Washington con una borsa di studio. Ha rifiutato». «Perché?» «Nessuno lo sa. Forse l'incidente di suo fratello.» Potter si ricordò che il ragazzo aveva un intervento chirurgico in programma per il giorno seguente. Si domandò se Henderson fosse riuscito a mettersi in contatto con la famiglia. «Forse», disse, «una certa quantità di timidezza si accompagna immancabilmente al fatto di essere sordi.» «Mi scusi, agente Potter», intervenne Frances Whiting chinandosi verso di lui. «Sarebbe come dire che una certa quantità di fascismo si accompagna immancabilmente al fatto di essere un agente federale?» Lui batté le palpebre, confuso. «Scusi?» Frances si strinse nelle spalle. «Stereotipi. I sordomuti hanno dovuto combattere contro gli stereotipi da sempre. Che sono una sorta di mentecatti. Che sono stupidi. Sordi e un po' tardi. Che sono timidi... Helen Keller ha detto che la cecità ti taglia fuori dalle cose, ma la sordità ti taglia fuori dalle persone. Così, i sordomuti compensano. Non esiste nessun'altra condizione fisica identificante che abbia sviluppato una cultura e una comunità come ha fatto la sordità. C'è un'enorme differenza tra... scelga lei un gruppo: i gay, i paraplegici, gli atleti, le persone alte, le persone basse, gli anziani, gli alcolizzati. Ma la comunità dei sordomuti è coesa in modo militante. Ed è tutto tranne che timida.» Potter annuì. «Mi cospargo il capo di cenere.» La donna sorrise in risposta. Il negoziatore osservò il campo brullo che si stendeva accanto a loro. «Ho la sensazione», disse ad Angie, «che posso spingermi soltanto fino a un certo punto, con Handy, sul piano della trattativa. Se qualcuno là dentro ci stesse aiutando, potrebbe salvare tre o quattro vite.» «Non sono sicura che sia lei quella che potrebbe farlo», rispose la psicologa. «Ne prendo nota», concluse Potter. «Faresti meglio a raggiungere Charlie, adesso. Probabilmente si starà chiedendo che fine hai fatto.» Angie uscì dal furgone seguita da Frances, che era diretta all'albergo per
controllare l'arrivo delle famiglie degli ostaggi. Potter si lasciò andare contro lo schienale, visualizzando nella mente la fotografia del volto di Melanie, i suoi biondi capelli ondulati. Com'è bella, considerò tra sé. Un bellissimo viso? A cosa stava pensando? Un negoziatore non deve mai lasciarsi coinvolgere affettivamente dagli ostaggi. È la prima regola di ogni trattativa. Dev'essere pronto a sacrificarli, se è necessario. Eppure non riusciva a smettere di pensare a lei. L'ironia della cosa era che, di quei tempi, pensava raramente alle donne in termini di aspetto fisico. Da quando Marian era morta aveva avuto soltanto una relazione. Una donna piacevole, poco meno che quarantenne. Era stata una relazione destinata a morire fin dall'inizio. Ora riteneva che si potesse tornare con successo all'amore romantico dai sessant'anni in su. Ma, nei quaranta e nei cinquanta, sospettava, il processo era destinato a fallire. Era una questione di inflessibilità. E di orgoglio. Oh, e di dubbi, sempre. I dubbi. Osservando il mattatoio, rifletté: Negli ultimi quindici anni, dopo Marian, le conversazioni più significative che ho avuto non sono state con la mia cugina acquisita Linden o con i suoi parenti o con le donne da cui mi sono fatto castamente accompagnare alle cerimonie del distretto. No, sono state con uomini che tenevano pistole ben oliate puntate alle tempie di ostaggi. Donne con corti capelli neri e facce mediorientali, anche se con nomi in codice molto occidentali. Criminali e psicopatici e suicidi potenziali. Ho aperto loro il mio animo e loro l'hanno aperto a me. Oh, sì, hanno mentito sulle tattiche e sui motivi che li spingevano (proprio come me), ma tutti hanno detto la pura e assoluta verità su se stessi: le loro speranze, i loro sogni irrealizzati e i loro sogni ancora vivi, le loro famiglie, i loro bambini, i loro fallimenti. Raccontavano le loro storie per gli stessi motivi per cui Potter raccontava loro la sua. Per stancare la controparte, per stabilire un legame, per «traslare il responso emotivo» (come spiegava il suo diffusissimo manuale sulla negoziazione degli ostaggi, giunto all'ottava edizione). E semplicemente perché qualcuno sembrava aver voglia di ascoltare. Melanie... avremo mai una conversazione, noi due? Vide Dean Stillwell che gli faceva cenno da fuori e uscì per andare incontro allo sceriffo. Lanciò un'occhiata ai riccioli di nebbia che fluttuavano intorno al furgone. E così, le previsioni del tempo di Handy non erano poi tanto aggiornate, dopotutto. La cosa gli diede un frammento di speranza irragionevole, forse, ma comunque una speranza. Alzò gli occhi e guardò il
cielo del tardo pomeriggio, in cui si inseguivano strisce di nubi livide e giallastre. In un varco tra due sagome vaporose vide la luna, una pallida falce che giaceva nel cielo sopra il mattatoio, direttamente sopra i mattoni rosso-sangue. 18,03 Apparvero all'improvviso, una dozzina di uomini. Il vento umido coprì il rumore del loro avvicinamento e, quando l'agente divenne consapevole della loro presenza, avevano già circondato lui e Dean Stillwell, che stava raccontando a Potter i dettagli riguardanti il molo sul retro del mattatoio. Lo sceriffo aveva perlustrato il fiume e il pontile ed era giunto alla conclusione che, nonostante la corrente fosse rapida, come già aveva riferito Budd, era una via di fuga troppo allettante. Aveva sistemato alcuni uomini bardati e armati di tutto punto in una scialuppa e li aveva ancorati a venti metri dalla riva. Potter vide Dean sollevare lo sguardo e fissare a occhi aperti qualcosa alle sue spalle. Si voltò. La squadra era vestita con uniformi da combattimento nere e blu. Potter riconobbe le divise - i giubbotti dell'American Body Armor, le uniformi e i cappucci gommati, i fucili semiautomatici H&K con mirini laser e le torce elettriche. Era una Squadra soccorso ostaggi, anche se non la sua SSO, e Arthur Potter non avrebbe voluto quegli uomini nel raggio di cento chilometri dall'edificio della Webber & Stoltz Processing Company. «Agente Potter?» Un cenno del capo. Sii gentile. Non strattonare il guinzaglio finché non è assolutamente necessario. Strinse la mano dell'uomo sulla quarantina con i capelli tagliati a spazzola. «Io sono Dan Tremain. Comandante dell'Unità soccorso ostaggi della polizia di stato.» Il suo sguardo, fermo e deciso, ostentava sicurezza. E sfida. «Capisco che si aspettasse una squadra della Delta.» «L'SSO dell'FBI, in realtà. Questioni di giurisdizione, capisce?» «Ovviamente.» Potter lo presentò a Stillwell, che Tremain ignorò. «Qual è la situazione?» domandò Tremain. «Sequestratori contenuti. Una perdita.» «Ho sentito», confermò Tremain, strofinandosi un grosso anello d'oro su
cui era incisa una croce. «Abbiamo tirato fuori tre ragazze incolumi», continuò Potter. «Ci sono altre quattro ragazze, dentro, oltre a due insegnanti. Gli SO hanno chiesto un elicottero, che non abbiamo intenzione di dargli. Hanno minacciato di uccidere un altro ostaggio alle sette in punto se per quell'ora non gli avremo consegnato il velivolo.» «E lei non ha intenzione di procurarglielo?» «No.» «Ma che cosa accadrà?» «Sto cercando di convincerlo ad arrendersi.» «Be', perché non ci mettiamo in posizione ugualmente? Voglio dire, se finisce con lui che uccide l'ostaggio, so che comunque lei vorrà tentare un'irruzione.» «No», disse Potter, lanciando uno sguardo al tavolo della stampa dove Joe Silbert e il suo assistente stavano battendo diligentemente il loro pezzo su un computer portatile. Il giornalista sollevò lo sguardo. Potter gli rivolse un cenno del capo e tornò a guardare Tremain. «Non sta dicendo», riprese l'ufficiale della polizia di stato, «che gli permetterà di uccidere la ragazza, vero?» «Speriamo che non si debba arrivare a questo.» Fatalità accettabili... Tremain lo fissò per un lungo istante. «Penso proprio che dovremmo metterci in posizione. In caso sia necessario.» Potter lanciò un'occhiata agli altri uomini della squadra e fece cenno a Tremain di seguirlo in disparte. Camminarono all'ombra del furgone di comando. «Se si dovesse arrivare a un'irruzione, e io certamente spero che non sia così, allora sarà la mia squadra a farla - e soltanto la mia squadra. Mi dispiace, capitano, è così che stanno le cose.» La situazione sarebbe esplosa? Arrivando direttamente al governatore e poi all'ammiraglio, a Washington? Tremain sfrigolò d'impazienza, ma si limitò a stringersi nelle spalle. «Il responsabile è lei, signore. Ma quegli uomini sono anche criminali statali e il nostro regolamento richiede la nostra presenza sulla scena. Ed è anche così che stanno le cose.» «Non ho alcuna obiezione alla vostra presenza, capitano. E se quei tre vengono fuori da lì sparando all'impazzata, sicuramente la vostra potenza di fuoco sarà la benvenuta. Ma, fino a quando ciò non accade, resta inteso che lei e i suoi uomini prendete ordini da me.»
Tremain arretrò. «Mi sembra abbastanza giusto. In realtà, ho detto ai miei uomini che, molto probabilmente, avremmo passato due o tre ore a bere caffè e poi avremmo fatto su i bagagli e saremmo tornati a casa.» «Speriamo che vada così, per il bene di tutti. Se vuole mettere i suoi uomini in posizione come parte della squadra di contenimento, lo sceriffo Stillwell, qui, è il responsabile della squadra.» I due uomini si rivolsero un cenno del capo con molta freddezza; chiunque avesse ascoltato il colloquio, però, sapeva benissimo che in nessun modo il comandante di un'SSO avrebbe messo i suoi uomini agli ordini dello sceriffo di una piccola cittadina di provincia. Potter sperò che questo particolare avrebbe garantito il rapido allontanamento di Tremain. «Credo che ci limiteremo a restare nella retroguardia. Fuori vista. Se avrà bisogno di noi, saremo qui.» «Come preferisce, capitano.» Budd e Angie apparvero in lontananza, salendo il leggero declivio, e si fermarono di colpo. «Ehi, Dan», disse Budd, riconoscendo Tremain. «Charlie.» I due si strinsero la mano. Gli occhi di Tremain indugiarono sui capelli e sul volto di Angie, ma si trattò di un esame casto, dettato più dalla curiosità che da altro, e quando lo sguardo del capitano si abbassò sul suo seno fu semplicemente per trovare conferma, dalla placca identificativa che la donna portava al collo, che si trattava realmente di un'agente dell'FBI. «E così anche voi ragazzi avete sentito di questa faccenda, eh?» disse Budd. Tremain scoppiò a ridere. «Be', tutti quelli che guardano la televisione ne hanno sentito parlare. Chi si sta occupando del pannello di controllo?» «Derek Elb.» «Derek il Rosso?» Tremain rise. «Devo proprio andare a salutarlo.» Ora gioviale, si rivolse a Potter: «Il ragazzo voleva entrare nella squadra, ma abbiamo dato un'occhiata a quei suoi capelli e abbiamo pensato che sarebbe stato troppo facile da individuare nel mirino di un cecchino». Potter sorrise accondiscendente, rallegrato dal fatto che non ci fosse stato alcuno scontro. Di solito, i negoziatori statali e federali vanno abbastanza d'accordo ma, invariabilmente, c'è sempre un po' di tensione fra i negoziatori e le unità tattiche appartenenti ad altri corpi. Com'era solito spiegare a lezione: «Ci sono quelli che parlano e ci sono quelli che sparano. Sono come il giorno e la notte, e non cambierà mai». Tremain salì sul furgone. Potter osservò i dodici uomini della squadra.
Scuri, addestrati e oh-tanto-lieti di essere qui. Pensò a Robert Duvall in Apocalypse Now e immaginò che anche quegli uomini amassero l'odore del napalm, la mattina. Finì di parlare con Stillwell. Quando si voltò, fu sorpreso nel constatare che la squadra di soccorso, fino all'ultimo uomo, era scomparsa. Quando entrò nel furgone vide che anche Tremain se n'era andato. LeBow immise le informazioni sulla scialuppa di Stillwell nella sua memoria elettronica. «Tempo, Tobe?» domandò Potter, fissando intensamente il cartello Promesse/Inganni. Il giovane agente guardò l'orologio digitale. «Quarantacinque minuti», borbottò. Poi sollecitò LeBow: «Diglielo tu». «Dirmi cosa?» «Stavamo giocando con il monitor all'infrarosso», rispose l'agente informativo. «Un minuto fa abbiamo intravisto Handy.» «Che cosa stava facendo?» «Stava caricando i fucili.» L'SSO della polizia di stato del Kansas, condotta dal capitano Daniel Tremain, scivolò silenziosamente in una macchia d'alberi a cento metri di distanza dal mattatoio. Gli alberi, notò subito il capitano, erano occupati. C'erano due o tre poliziotti locali e un tiratore scelto della polizia di stato in posizione. A cenni, Tremain guidò i suoi uomini attraverso gli alberi e poi in un fossato che li avrebbe portati sul lato dell'edificio. Oltrepassarono il boschetto completamente inosservati. Tremain si guardò intorno e vide - a una cinquantina di metri di distanza in direzione del fiume - un mulino a vento abbandonato, alto circa quindici metri, che giaceva al centro di una distesa erbosa. Accanto a esso c'erano due agenti della polizia di stato, in piedi, con le spalle rivolte all'SSO, intenti a scrutare il mattatoio. Ordinò ai due uomini di spostarsi dietro un filare di alberi, fuori portata visiva sia dal lato settentrionale del mattatoio, sia dal posto di comando. Dal mulino a vento, la squadra imboccò un altro fossato e si avvicinò ulteriormente all'edificio. Tremain alzò una mano e gli uomini si fermarono. Si batté due volte l'elmetto, e gli uomini risposero accendendo le radio. Il tenente Carfallo srotolò la mappa del terreno e i progetti architettonici. Dalla tasca della divisa, il capitano trasse la piantina dell'interno del mattatoio che Derek il Rosso, Derek il soldato, Derek la spia, gli aveva appena
passato dentro il furgone. Era contrassegnata con le ubicazioni degli ostaggi e degli SO. Ne fu incoraggiato. Le bambine non erano tenute a mo' di scudi umani vicino alle finestre davanti ai sequestratori. Non c'erano botole. Derek aveva riferito che gli uomini all'interno erano armati soltanto di pistole e di fucili a doppia canna, non con armi automatiche, e che non avevano giubbotti antiproiettile, né elmetti e torce elettriche. Naturalmente, gli ostaggi non erano lontani dai sequestratori come lui avrebbe voluto, e la stanza in cui erano trattenuti era priva di porta. Ma, ciononostante, Handy e gli altri erano almeno a sette od otto metri dalle ragazze. A Lou sarebbero occorsi cinque secondi pieni per arrivare agli ostaggi, e ciò dando per scontato che decidesse di ucciderli nell'istante in cui avrebbe udito le cariche di sfondamento. Di regola, nel corso di un'irruzione c'erano sempre dai quattro ai dieci secondi di confusione e di indecisione - nel corso dei quali gli SO tentavano di capire che cosa stava accadendo - prima che i sequestratori riuscissero ad assumere posizioni difensive efficaci. «Ascoltate.» Mani sulle orecchie e teste che annuivano. Tremain indicò la mappa. «All'interno ci sono sei ostaggi. Tre SO - ubicati qui, qui e qui, anche se si spostano parecchio. Uno controlla le ragazze abbastanza di frequente.» Rivolse un cenno a uno dei soldati. «Wilson.» «Signore.» «Tu procederai in questo fossato lungo il lato dell'edificio, da questa parte, e osserverai da una di queste due finestre.» «Signore, non può fargli spostare quella luce?» domandò l'agente Joey Wilson indicando con un cenno del capo le lampade alogene. «Negativo. Questa è un'operazione clandestina e non dobbiamo esporci alla vista dei nostri alleati.» «Sissignore», rispose il giovane agente. Non fece domande. «La finestra di mezzo è nascosta da quell'albero e dallo scuolabus. Suggerirei quella.» «Sissignore.» «Pfenninger.» «Signore.» «Tu devi tornare al furgone di comando. I tuoi ordini sono quelli che tu e io abbiamo discusso in precedenza. Siamo intesi?» «Sissignore.» «Il resto di noi si muoverà fino a questo punto qui. Useremo quei cespugli e quegli alberi come copertura. Harding, tu terrai la posizione. Tutti gli
agenti si muovano adesso.» E si dispersero nel pomeriggio crepuscolare, fluidamente come le acque scure del fiume che scorrevano poco distante, più silenziosi del vento che piegava l'erba intorno a loro. «Fumiamoci una sigaretta», disse Potter. «Non io», rispose Budd. «Una sigaretta immaginaria.» «Come?» «Andiamo un attimo fuori, capitano.» Si allontanarono di una decina di metri dal furgone, addentrandosi nel boschetto. Potter aggiustò automaticamente la propria postura per camminare più eretto: essere in presenza di Charlie Budd ti faceva venir voglia di farlo. Lungo la strada si fermò a parlare con Joe Silbert e con l'altro giornalista. «Ne abbiamo tirate fuori altre due.» «Altre due? Chi?» Silbert sembrava trattenersi. «Niente generalità», rispose Potter. «Tutto ciò che vi dirò è che sono due studentesse. Giovani. Sono state rilasciate incolumi. Questo porta a un totale di quattro studentesse e due insegnanti ancora nell'edificio.» «Che cosa avete barattato in cambio delle bambine?» «Non possiamo rilasciare questa informazione.» Si era aspettato che il giornalista gli fosse grato per lo scoop, ma Silbert grugnì: «Non ci sta rendendo le cose facili, maledizione». Potter guardò lo schermo del computer. Il pezzo era un articolo di umano interesse su un agente anonimo che aspettava di entrare in azione - la noia e la tensione di una linea di sbarramento. Pensava che fosse buono e lo disse al giornalista. Silbert sbuffò. «Oh, canterebbe come una poesia se avessi delle notizie serie da metterci dentro. Possiamo intervistarla, agente Potter?» «Presto.» L'agente e il poliziotto si allontanarono in una macchia di alberi fuori della linea di fuoco. Potter chiamò via radio e disse a Tobe dove si trovava, aggiungendo di passargli qualsiasi eventuale telefonata di Handy. «Dimmi un po', Charlie, dove si è cacciato quel viceprocuratore generale?» Budd si guardò intorno. «Credo che sia tornato all'albergo.» Potter scosse la testa. «Marks vuole che Handy prenda il suo elicottero.
Il governatore mi ha detto che vuole Handy morto. Il direttore dell'FBI chiamerà probabilmente entro la prossima mezz'ora - e ci sono state volte in cui ho ricevuto una telefonata dal presidente in persona. Oh, e segnati le mie parole, Charlie, in questo preciso momento c'è qualcuno che sta scrivendo la sceneggiatura di tutto questo e sta facendo fare a me la parte del cattivo.» «A te?» domandò Budd in tono inspiegabilmente tetro. «Tu sarai l'eroe.» «Oh, assolutamente no. Nossignore. Sono le armi che fanno pubblicità, non le parole.» «Cos'è questa storia della sigaretta immaginaria?» «Quando a mia moglie è venuto il cancro ho smesso.» «Cancro al polmone? L'ha avuto anche mio zio.» «No. Al pancreas.» Sfortunatamente, la controparte con cui Potter aveva condotto le trattative per la guarigione di sua moglie aveva rinnegato qualsiasi possibilità di accordo. Ciononostante, lui non aveva mai ricominciato a fumare. «E allora tu, diciamo... ti immagini di fumare?» Potter annuì. «E quando non riesco a dormire, immagino di prendere un sonnifero.» «E quando sei, diciamo, triste... ti immagini di essere felice?» Quello, aveva scoperto Arthur Potter, non funzionava. Budd, che forse aveva posto quella domanda a causa della depressione che aveva provato negli ultimi sessanta minuti, dimenticò per un attimo la sua pena e chiese: «Che marca non fumi?» «Camel. Senza filtro.» «Ehi, perché no?» Il suo viso mutò nuovamente espressione, e Budd sembrò di nuovo triste. «Non ho mai fumato. Forse forse mi farò un immaginario Jack Daniel's.» «Già che ci sei, fattelo doppio.» Arthur Potter trasse una lunga boccata dalla sua finta sigaretta. Dagli alberi attorno abbassò lo sguardo sul terreno, osservando quelle che sembravano profonde tracce di ruote di carro. Domandò a Budd se ne sapeva qualcosa. «Quelle? Sono vere. È proprio la pista di Santa Fe.» «E queste sono le tracce originali?» Potter era sbalordito. «Una specie di rotaia. Si dirigevano a ovest passando proprio di qui.» Potter, appassionato di genealogia com'era, scalciò il segno profondo tracciato nel terreno e si domandò se il bis-bisnonno di Marian, Ebb Schneider, che aveva viaggiato insieme alla madre vedova dall'Ohio al
Nevada nel 1868, non fosse stato un infante addormentato nello stesso carro che aveva lasciato proprio quelle tracce. Budd indicò il mattatoio con un cenno del capo. «Il motivo per cui hanno costruito quello era la pista di Chisholm. Anche questa andava da sud a nord passando proprio di qui, da San Antonio ad Abilene - la nostra Abilene, nel Kansas. Portavano i buoi dalle lunghe corna fino a qui, li vendevano e ne macellavano alcuni per il mercato di Wichita.» «Ho un'altra domanda», disse Potter dopo un istante. «Non sono uno storico dello stato del Kansas, in realtà. Questo è press'a poco tutto ciò che so.» «Principalmente, Charlie, mi sto chiedendo perché sembri così dannatamente a disagio.» Budd perse interesse per le tracce di carro ai suoi piedi. «Be', io mi chiedo esattamente di che cosa vuoi parlarmi.» «Tra meno di quaranta minuti dovrò convincere Handy a non uccidere un'altra delle ragazze. Non ho molte idee su come fare. Mi piacerebbe sentire la tua opinione. Che cosa pensi di lui?» «Io?» «Certo.» «Oh, non lo so.» «Non sappiamo mai, in questo lavoro. Dammi una risposta di cortesia. Hai sentito il suo profilo. Hai parlato con Angie... È una gran signora, vero?» «Senti, a questo proposito, Arthur... il fatto è che, vedi, io sono un uomo sposato. Lei mi sta intorno un po' troppo. Ho nominato Meg almeno una decina di volte, ma lei sembra non farci minimamente caso.» «Consideralo un complimento, Charlie. Hai la situazione sotto controllo.» «Solo in parte.» Si voltò a guardare il furgone, ma non vide da nessuna parte la giovane agente dai capelli scuri. Potter rise. «Allora, adesso dimmi che cosa ne pensi.» L'altro si mise a giocherellare con le dita, forse pensando di dover far finta sul serio di tenere in mano il suo bicchiere di whisky. Potter fumava come aveva finito per fare negli ultimi anni - non facendolo veramente, non miniando l'atto in sé, ma soltanto immaginandolo. Per lui era una sorta di meditazione. «Credo che... quello che penso», disse Budd lentamente, «è che Handy abbia un piano di qualche tipo.»
«Perché?» «In parte è quello che stava dicendo prima Angie. Tutto quello che Handy fa ha uno scopo. Non è un folle assassino, non è uno psicopatico.» «A che tipo di piano stavi pensando?» «Non lo so esattamente. Qualcosa che Handy ritiene possa sorprenderci, qualcosa a cui non abbiamo pensato.» Le mani di Budd si infilarono nuovamente nelle tasche posteriori dei pantaloni. Quest'uomo è nervoso come un quindicenne al suo primo ballo della scuola, rifletté Potter. «Perché dici questo?» «Non ne sono sicuro, esattamente. È soltanto un'impressione. Forse perché ha questo atteggiamento da quello che la sa più lunga degli altri. Non ci rispetta. Ogni volta che parla con noi, quello che sento è... sai... disprezzo. Come se lui sapesse tutto e noi non sapessimo niente.» Quello era vero. Anche lui se ne era accorto. In Lou non c'era un briciolo di disperazione, non c'era supplica, non c'era sproloquio nervoso, non c'erano toni di sfida; qui, tutte le cose che si sentono di solito dai sequestratori di ostaggi erano visibilmente assenti. Questo, insieme alla linea di stress vocale più piatta che Potter avesse mai visto. «Un tentativo di fuga», continuò Budd. «È questo quello che penso. Magari appiccando il fuoco all'edificio.» Il capitano rise. «Forse ha delle divise da pompiere, là dentro - in quelle borse che si sono portati dietro. E usciranno di soppiatto approfittando della confusione.» Potter annuì. «È già capitato.» «Davvero?» domandò Budd. Non riusciva a credere di aver elaborato quella strategia e, al tempo stesso, era molto compiaciuto di se stesso. «Una volta divise da infermieri. E un'altra volta uniformi della polizia. Ma in entrambi i casi avevo distribuito a tutti gli agenti addetti al contenimento delle foto come quelle che ho distribuito prima, quindi gli SO sono stati individuati immediatamente. Qui, però, non lo so. Non sembra essere questo, il suo stile. Ma hai ragione quando parli del suo atteggiamento. È questa la chiave. Ci sta dicendo qualcosa. Mi piacerebbe soltanto sapere cosa.» Budd stava di nuovo armeggiando nervosamente con le sue tasche. «Quegli attrezzi», rifletté Potter a voce alta, «potrebbero averci qualcosa a che fare. Magari appiccheranno un incendio, si nasconderanno in uno dei macchinari o forse addirittura sotto il pavimento. Poi usciranno quando le
squadre di soccorso saranno sul posto. Dovremmo assicurarci che tutti, non soltanto gli agenti, abbiano una copia delle loro foto segnaletiche.» «Ci penserò io.» Ancora una volta, Budd rise nervoso. «Delegherò.» Potter si era calmato. Pensò a Marian. Le poche sere che passava a casa, lui e sua moglie erano soliti restare seduti insieme accanto alla radio ascoltando la NPR, dividendosi una sigaretta e un bicchiere di sherry. Di tanto in tanto, una volta la settimana, forse due, la sigaretta veniva spenta anzitempo e loro due salivano le scale fino alla camera da letto e, per quella sera, trascuravano il programma musicale. «Questa faccenda delle trattative», continuò Budd. «È molto confusa, per me.» «Come mai?» «Be', a quanto pare, tu con Handy non parli delle cose di cui gli parlerei io... sai, le cose che vuole e gli ostaggi e tutto il resto. La trattativa vera e propria. La maggior parte delle volte sembra che stiate soltanto chiacchierando.» «Non sei mai stato in terapia, Charlie?» Il giovane ufficiale sembrò ritrarsi. Scosse la testa. Forse l'analisi era qualcosa che gli abitanti del Kansas non prendevano nemmeno in considerazione. «Io sì. Dopo la morte di mia moglie.» «Volevo dirtelo, mi è dispiaciuto quando ti ho sentito dire che era morta.» «Sai di che cosa parlavo con il terapista? Di genealogia.» «Cosa?» «È il mio hobby. Alberi genealogici, hai presente?» «E pagavi fior di quattrini a un dottore per parlare dei tuoi hobby?» «Sono stati i soldi che ho speso meglio in vita mia. Ho cominciato a sentire ciò che sentiva il terapista e viceversa. Ci siamo avvicinati l'uno all'altro. Quello che sto facendo qui - con Handy - è la stessa cosa. Non puoi premere un interruttore e far sì che Lou rilasci le ragazze. Proprio come il dottore non può premere un interruttore e renderti le cose migliori. Il punto è quello di creare una relazione tra me e lui. Un rapporto. Lui deve arrivare a conoscermi, e io devo arrivare a conoscere lui.» «Ehi, come se foste fidanzati?» «Si potrebbe dire anche così», asserì Potter senza sorridere. «Voglio che lui entri nella mia testa. Così si renderà conto di essere in una situazione senza speranza. Così mi darà le ragazze e si arrenderà, se riesco a fargli
sentire che è inutile andare avanti. Non capirlo o comprenderlo intellettualmente, ma sentirlo. Puoi vedere da te che sta funzionando, almeno un po'. Ne ha rilasciate due e non ha ucciso nessun altro, anche quando quell'altra bambina è riuscita a scappare fuori.» Fece l'ultimo tiro dalla sua Camel immaginaria. Poi la spense. Cominciò a immaginare di salire le scale con la mano di Marian nella sua. Ma quell'immagine sbiadì alla svelta. «E io lo faccio per entrare nella sua mente. Per comprenderlo.» «E così diventi suo amico?» «Amico? No, non un amico. Direi, piuttosto, che tra di noi si instaura un legame.» «Ma, voglio dire, questo non è un problema? Se devi ordinare all'SSO di sparargli, ordinerai la morte di qualcuno a cui ti senti vicino. Tradendolo.» «Oh, sì», disse il negoziatore a bassa voce. «Sì, è un problema.» Budd espirò e, ancora una volta, si voltò a osservare la mietitura. «Hai detto...» «Che cosa?» «Prima, hai detto che saresti stato disposto a sacrificare quelle ragazze per riuscire a prenderlo. Parlavi sul serio? Saresti veramente disposto a farlo?» Potter lo fissò per un lungo istante, mentre gli occhi del capitano guardavano i trattori e le mietitrici che procedevano sui campi in lontananza. «Sì. Il mio compito è di fermare Handy. Questi sono i miei ordini. E sì, può essere necessario sacrificare qualcuno.» «Ma sono bambine.» L'altro sorrise tristemente. «Come si può emettere un giudizio di valore? Questa non è più l'epoca del 'prima le donne e i bambini'. Una vita è una vita. Quelle ragazze meritano di più della famiglia che Handy potrebbe rapire e uccidere l'anno prossimo, se oggi riesce a fuggire? O dei due agenti della polizia stradale a cui spara quando lo fermano per eccesso di velocità? Io devo continuare a pensare che quegli ostaggi siano già morti. Se ne posso salvare qualcuno, tanto meglio. Ma non posso guardare alla cosa in un altro modo e continuare a essere efficace.» «Sei bravo in quello che fai, sembra.» Potter non rispose direttamente. «Credi che ci saranno altre morti?» «Oh, sì, ho paura di sì. È soltanto una congettura, ma credo proprio di sì.»
«Le ragazze?» Potter non rispose direttamente. «Il nostro problema più immediato, Charlie, è un altro... che cosa possiamo adoperare per comprarci un'altra ora di tempo?» Budd si strinse nelle spalle. «Niente armi e munizioni, vero?» «Quelle non sono negoziabili.» «Be', lui è convinto che avrà il suo elicottero immaginario, giusto?» «Sì.» «Dato che gli stiamo già mentendo a proposito di quello, perché non gli mentiamo anche su qualcos'altro? Promettigli qualcosa per tirare avanti ancora un po'.» «Non si può dare un giocattolo a un bambino senza dargli le batterie per farlo funzionare. È questo quello che stai dicendo?» «Penso di sì.» «Idea brillante, Charlie. Andiamo a sentire che cosa ne pensa Henry.» Mentre rientravano nel furgone, Potter diede una pacca sulla spalla al poliziotto e Budd gli rispose con il sorriso più forzato che l'agente avesse mai visto in vita sua. Si sarebbero divisi in tre unità: Alpha, Bravo, Charlie. Gli agenti dell'SSO, agli ordini di Dan Tremain, erano riuniti in un gruppetto sul lato sinistro, quello nordorientale, del mattatoio, nascosti in una macchia d'alberi. Ora, sopra le tute antiproiettile gli uomini indossavano tute da assalto nere. Guanti e passamontagna in tela gommata. Le unità Alpha e Bravo avevano quattro uomini ciascuna, due armati con fucili mitragliatori Heckler & Koch MP-5 dotati di ottiche BEAM e illuminatori alogeni, due armati con fucili semiautomatici H&K Super 90. I due elementi dell'SSO che componevano l'unità Charlie avevano anch'essi gli MP-5, ma portavano addosso anche granate stordenti Accuracy Systems M429 Thunderflash e granate abbaglianti M451 Multistarflash. Due altri agenti erano già in posizione. Chuck Pfenninger - Esterno Uno - era in uniforme standard accanto al furgone di comando. Joey Wilson Esterno Due - con giubbotto operativo e mimetizzazione era situato dietro la finestra di mezzo sulla sinistra della porta principale del mattatoio. Era nascosto alla vista del furgone di comando e degli agenti sul campo dallo scuolabus della Laurent Clerc School e da un grosso albero. Tremain ripassò mentalmente il piano ancora una volta. Non appena Wilson avesse riferito che gli SO erano il più possibile lontano dagli o-
staggi, Pfenninger avrebbe fatto saltare il generatore del furgone di comando adoperando una carica L210, conosciuta informalmente come miniMolotov. Era una piccola bomba al gasolio sigillata in uno speciale contenitore di fibra di cartone, simile al tetrapak dei succhi di frutta. Il contenitore si sarebbe disintegrato a causa del calore dell'esplosione e sarebbe stato virtualmente indistinguibile per i tecnici della scientifica che sarebbero arrivati in seguito. Se adeguatamente piazzato, avrebbe tagliato tutte le vie di comunicazione e bloccato gli agenti dell'FBI all'interno del furgone. Il veicolo era stato progettato per poter essere guidato anche attraverso le fiamme, oltre che isolato dal fuoco, e aveva un sistema di ossigenazione interno. Fino a quando il portello restava chiuso, nessuno dentro sarebbe rimasto ferito. A quel punto Tremain avrebbe assunto ufficialmente il comando delle operazioni e «dichiarato» che la situazione era precipitata all'improvviso. Non appena ciò fosse accaduto, le tre unità dell'SSO sarebbero entrate nel mattatoio. L'unità Charlie avrebbe adoperato cariche modello 521 per fare un buco nel tetto e avrebbe lasciato cadere due granate stordenti sui sequestratori. Le unità Alpha e Bravo avrebbero sfondato dal lato e dalle porte di servizio simultaneamente e si sarebbero introdotte nell'edificio mentre l'unità Charlie lasciava cadere la seconda serie di granate - quelle abbaglianti, che sarebbero esplose in un fungo di luce accecante - e si sarebbe poi calata all'interno dall'apertura sul tetto. L'unità Bravo si sarebbe mossa direttamente verso gli ostaggi, mentre Alpha e Charlie sarebbero avanzate contro gli SO, neutralizzandoli se questi avessero opposto qualsiasi forma di resistenza. Ora stavano aspettando i tre uomini che erano andati a controllare la porta laterale, il vano di carico e il tetto. Dan Tremain giaceva prono accanto all'impassibile tenente Carfallo e osservava il mattatoio, che si ergeva sopra di loro come un castello medievale, dentellato e scuro. «Userete l'irruzione a quattro uomini», disse il capitano alle sue truppe. «I primi due saranno i tiratori chiave. Prima raffiche di mitragliatore, seguite dalla copertura dei fucili. Questa sarà un'irruzione a fuoco dinamico. Procederete finché tutti i bersagli ostili non saranno stati neutralizzati con successo e l'edificio conquistato. All'interno ci sono sei ostaggi, ubicati nei punti che ho indicato sulla mappa. Sono tutte femmine, e quattro di loro sono bambine, che potrebbero farsi prendere dal panico e fuggire. Eserciterete il controllo più assoluto sulle bocche da fuoco delle vostre armi per tutto il tempo in cui vi troverete all'interno. Mi avete inte-
so?» Risposte affermative. Poi arrivarono le brutte notizie. Uno dopo l'altro, gli uomini mandati in perlustrazione fecero rapporto. La ricognizione aveva rivelato che la porta laterale era molto più spessa di quanto indicato nel diagramma: quercia massiccia spessa nove centimetri con rinforzo in acciaio. Sarebbero stati costretti a usare quattro cariche di sfondamento. Per sicurezza, l'unità Alpha avrebbe dovuto trovarsi più lontano, al momento dell'esplosione, di quanto originariamente previsto. Ciò avrebbe aggiunto almeno sei secondi al tempo occorrente per arrivare fino alle ragazze. Inoltre venne fuori che sul tetto doveva essere stato costruito qualcosa che non era riportato nel progetto architettonico originario: una serie di placche d'acciaio, che coprivano praticamente l'intera superficie, erano state imbullonate al tetto diversi anni prima. Gli uomini dell'unità Charlie avrebbero dovuto adoperare una grossa quantità di C4 per riuscire ad aprirsi un varco attraverso di esse. E, in un vecchio edificio come quello, una tale quantità di esplosivo al plastico avrebbe potuto far cadere le travi di sostegno, comprese probabilmente anche grosse porzioni del tetto stesso. Quindi Tremain apprese dal terzo perlustratore che la porta del vano di carico era incastrata e aperta soltanto di pochi centimetri. Era un immenso pannello d'acciaio, troppo grosso perché si potesse farlo saltare. Il capitano conferì con Carfallo e, insieme, rividero i loro piani. Decisero di lasciar perdere le irruzioni dal tetto e dal vano di carico e di procedere con un'irruzione a due unità da una sola porta, quella a nord. Wilson, dislocato di fronte alla finestra anteriore, avrebbe lanciato all'interno una granata stordente, seguita da una abbagliante. Questa parte dell'operazione era rischiosa perché l'avrebbe esposto sia al fuoco della polizia che a quello degli SO: poteva venire colpito da entrambi. Ma Tremain concluse che non c'era altra scelta. Avrebbe avuto bisogno di un'altra ora, decise, per approntare un attacco efficace: il tempo per trovare un'altra porta o finestra non bloccate e il tempo per indebolire i cardini dell'ingresso di servizio affinché si potessero impiegare cariche minori. Ma non aveva un'ora a disposizione. Aveva soltanto venti minuti prima della scadenza del prossimo ultimatum. Prima che morisse la prossima bambina. Be', allora voleva dire che sarebbe stata un'irruzione da un singolo punto
d'ingresso. «La parola in codice 'filly' significa liberi di sparare», disse Tremain. «La parola in codice 'stallion' significa attendere. Confermare.» Gli uomini risposero. Il capitano li condusse nel fossato che correva accanto al mattatoio. Lì si appiattirono contro la terra umida e caddero in un'immobilità e in un silenzio assoluti. Così era stato detto loro di fare; e quelli erano uomini che vivevano per seguire i loro ordini prima che qualsiasi altra cosa. 18,40 Joe Silbert aveva imparato da solo a battere a macchina con due dita su una vecchia Underwood che puzzava di olio e di inchiostro e del sentore agrodolce della scolorina adoperata per cancellare gli errori. L'avvento della tecnologia non aveva cambiato molto le cose per lui, e ora stava picchiando rumorosamente con gli indici sui tasti del grosso portatile Compaq. La luce arancione dello schermo illuminava sia lui che Ted Biggins, facendoli sembrare esausti e malati. Silbert immaginò che, avendo quasi il doppio degli anni di Biggins, il suo aspetto fosse doppiamente peggiore. Philip Molto faceva diligentemente la guardia, come gli era stato ordinato da un nervoso capitano Budd. «Che cosa ne pensi?» domandò Silbert al collega. Biggins guardò i caratteri densi a spaziatura singola sullo schermo da sopra la spalla del suo collega e grugnì. «Ti dispiace se mi ci metto io?» domandò indicando lo schermo. «Fai pure.» Biggins batteva come un demonio e le sue dita cominciarono subito a muoversi silenziosamente e furiosamente sui tasti. «Ehi, sono un cazzo di talento naturale, ecco cosa», disse, i capelli perfettamente pettinati nonostante fosse soltanto un tecnico; era Silbert, in realtà, il giornalista che appariva davanti alle telecamere. «Ehi, agente», disse Silbert a Molto, «il nostro turno è quasi finito. Lasceremo qui il computer per i prossimi due. Riprenderanno la storia da dove noi l'abbiamo lasciata.» «Le fate davvero, queste cose?» «È una cooperazione, sa. Terrà d'occhio il computer?» «Ma certo, sissignore.» E poi: «Che cosa c'è?» Silbert si era improvvisamente accigliato e stava guardando la macchia
d'alberi e di cespugli di ginepro dietro il cordone di polizia. «Hai sentito qualcosa?» domandò a Biggins. Biggins si era alzato in piedi e si guardava intorno, a disagio. «Già.» Molto reclinò il capo. Passi. Un fruscio. Un rametto spezzato. «Non c'è nessuno, là dietro», borbottò l'agente, parlando con se stesso. «Voglio dire, non dovrebbe esserci nessuno.» La faccia del giornalista aveva l'espressione cauta e prudente dell'uomo che è già stato in zone di combattimento. Poi si allargò in un sorriso cattivo. «Quel figlio di puttana. Tenente, credo che qui ci sia uno sconfinatore.» Il poliziotto, con la mano sul calcio della pistola, si inoltrò fra i cespugli. Quando tornò, stava scortando due uomini in tuta da ginnastica nera. Le tessere plastificate che li accreditavano come giornalisti rimbalzavano loro sul petto. «Bene bene, ma guarda un po' chi c'è», esclamò Silbert. «Walter Cronkite e Chet Huntley.» «Se ha intenzione di arrestarli, tenente», suggerì Biggins a Molto, «si dimentichi lo sconfinamento. Li accusi formalmente di essere due stronzi di prima categoria.» «Voi vi conoscete?» Uno dei due prigionieri fece una smorfia. «Silbert, sei un figlio di puttana. Hai fatto la spia? E non permettere a quella merda che c'è lì con te di dirmi una sola parola.» «Sono della KLTV», confermò Silbert a Molto. «Sam Kellog e Tony Bianco. Sembra proprio che abbiano dimenticato che stiamo facendo un lavoro di squadra.» «Vaffanculo», sbottò Bianco. «Ho rinunciato a un'esclusiva proprio come te, Kellog», ribatté Silbert. «Sarebbe arrivato anche il tuo turno.» «Dovrei arrestarvi», disse Molto a Kellog e Bianco. «Stronzate, lei non può farlo.» «Ci penserò su mentre torniamo al tendone della stampa. Andiamo.» «Senta, agente», tentò Kellog, «già che siamo qui...» «A proposito, come hai fatto ad arrivare qui, Kellog?» lo sbeffeggiò Biggins. «Hai strisciato sulla pancia?» «Vaffanculo anche tu.» Molto li condusse via. Non appena l'autopattuglia fu fuori vista, Silbert latrò a Biggins: «Adesso. Facciamolo adesso».
Biggins sganciò l'intelaiatura del monitor del computer e lo aprì. Dall'interno prese una videocamera Nippona LL3R: il modello miniaturizzato, che costava centotrentamila dollari, pesava poco più di un chilo ed era equipaggiato con un'antenna parabolica da dodici pollici pieghevole e con un trasmettitore. Produceva un'immagine a qualità video anche nella quasi totale oscurità e aveva un obiettivo telescopico accurato come il mirino di un tiratore scelto. Aveva una portata effettiva di cinque chilometri, che sarebbero stati più che sufficienti a raggiungere il centro mobile di trasmissione della KFAL, dove i colleghi di Silbert (Tony Bianco e Sam Kellog, guarda caso), se non fossero stati effettivamente arrestati, avrebbero provveduto a raccogliere la trasmissione. E, nel caso avessero realmente fatto da agnelli sacrificali in nome della libertà di stampa, altri tecnici erano pronti a subentrare al loro posto. Silbert aprì la sua ventiquattr'ore e ne prese due tute da corsa di nylon nero, identiche a quelle che indossavano Kellog e Bianco, con un'unica differenza: sulla schiena di queste due erano impresse le parole Guardia Nazionale degli Stati Uniti. I due giornalisti le indossarono rapidamente. «Aspetta», disse Silbert. Si chinò sullo schermo e cancellò l'intero file che Biggins aveva scritto e che consisteva della frase La rapida volpe bruna balzò sopra il cane pigro, una frase senza senso che usava per far pratica sulla tastiera, ripetuta circa trecento volte. Shift-F3. Richiamò sullo schermo la storia standard del poliziotto in missione, che aveva archiviato circa tre anni prima e aveva richiamato quella sera non appena avevano acceso il computer. La storia che quel cazzone di Arthur Potter aveva elogiato. I due uomini scivolarono furtivi nel fossato alle spalle del furgone di comando e si allontanarono nella notte nella stessa direzione che avevano preso Dan Tremain e la sua silenziosa SSO. Il recipiente del combustibile. Quella fu la prima cosa a cui pensò quando aprì gli occhi e si guardò intorno nella stanza delle uccisioni. Emily, inginocchiata davanti a lei, stava interpretando la parte della brava infermiera cristiana, togliendole il sangue dall'occhio sinistro. Era gonfio, anche se non del tutto chiuso. La bambina strappò l'orlo del suo prezioso vestito di Laura Ashley e lo usò per togliere altro sangue. Melanie giacque immobile, mentre il terribile dolore che le attanagliava la testa andava attenuandosi e la sua vista tornava a mettersi a fuoco. Una
delle gemelle, Suzie (o, almeno, Melanie credeva che fosse Suzie), le accarezzò i capelli con le sue dita minuscole e perfette. Il recipiente del combustibile. Eccolo. Finalmente, Melanie si sollevò a sedere e strisciò fino a Beverly. «Come stai?» domandò alla ragazza. Il sudore le aveva appiccicato i capelli biondi alla fronte. Beverly annuì, nonostante il suo petto continuasse ad alzarsi e ad abbassarsi con frenesia allarmante. Adoperò ancora l'inalatore. Melanie non l'aveva mai vista stare tanto male. Il medicamento sembrava non avere alcun effetto. La signora Harstrawn era ancora sdraiata a terra, sulla schiena. Aveva pianto di nuovo, ma adesso era tranquilla. Con delicatezza, Melanie cominciò a sfilarle il maglione colorato da sopra le spalle. La donna borbottò qualche parola. A lei parve che dicesse: «Non farlo. Ho freddo». «Devo», le rispose con i gesti. Le sue dita danzarono davanti alla faccia della donna, ma l'anziana insegnante non vide il messaggio. Un minuto dopo il maglione era tolto. Melanie si guardò intorno e lo appoggiò con fare casuale contro la parete della stanza delle uccisioni, vicino al punto in cui l'apertura ad arco incontrava il pavimento, vicino al retro del mattatoio. Poi si spostò in avanti finché non fu in grado di guardare nella stanza principale. Orso le controllava di tanto in tanto, ma i tre uomini erano concentrati davanti al televisore. Melanie fissò le gemelle e, con movimenti appena percettibili delle mani, disse loro: «Andate alla latta del combustibile». Le due bambine si guardarono, a disagio, muovendo le teste all'unisono. «Fatelo. Subito!» I suoi gesti erano urgenti: brusche, compatte coltellate infette all'aria con le dita. Le due gemelle si alzarono e strisciarono lentamente verso la latta gialla e rossa. Quando Suzie la guardò, Melanie le disse di raccogliere il maglione. La madre della signora Harstrawn, a Topeka, l'aveva fatto con le sue mani. I colori erano rosso, bianco e blu, molto visibili: un elemento negativo per il momento, ma positivo una volta che le bambine fossero state fuori. Suzie però non si stava muovendo. Melanie le ripeté l'ordine. Non c'era tempo per la prudenza, spiegò. «Muoviti! Adesso!» Perché sta esitando? Non fa altro che fissarmi. No, non sta fissando me... In quel momento, l'ombra cadde su di lei. Melanie gemette mentre Bruto la afferrava per le spalle e la costringeva
a voltarsi. «Credi... un cazzo di eroe, vero? Ehi, ho sparato a gente per molto meno di quello che hai fatto tu.» Per un terribile istante Melanie pensò che Bruto fosse realmente in grado di leggerle nella mente, che avesse un sesto senso animalesco e che sapesse che cosa aveva in mente di fare con la tanica del combustibile. Ma poi capì che stava parlando del fatto che lei aveva lanciato Kielle fuori dalla porta. Forse essere colpita con i calci delle pistole non era una punizione sufficiente. Bruto impugnò la pistola e gliela puntò alla testa. Sentendosi colmare da un eccesso di collera che stupì lei stessa per prima, Melanie spinse via la pistola, si alzò in piedi e camminò nella stanza principale dell'edificio, avvertendo contro la schiena le vibrazioni delle sue grida. Lo ignorò e continuò a camminare fino al bidone di olio che fungeva da tavolo. Orso si alzò e si mosse verso di lei, ma l'insegnante ignorò anche lui. Raccolse la penna e la carta e tornò nella stanza delle uccisioni. Scrisse: Ti impegni proprio tanto per dimostrare che sei cattivo, vero? Poi gli spinse il taccuino sotto il naso. Bruto scoppiò a ridere. Le strappò il taccuino dalle mani e lo gettò a terra. La scrutò per un lungo, lunghissimo istante e poi, con calma raggelante, disse: «...tu e io ce la caviamo. Io non parlo tanto... non molta gente con cui parlare. Ma con te posso. Perché? ... tu non puoi ribattere, penso. È un bene quando una donna non ribatte. Pris, lei ha una testa tutta sua... lo approvo. Ma a volte se ne va da qualche altra parte con la testa, sai?... non capisco proprio quello che dice. Tu, invece, ti guardo in faccia e riesco a capirti. Sembri un piccolo topolino, ma forse in te c'è qualcosa di più. C'è, non è vero?» Melanie, con orrore, scoprì da qualche parte nel profondo del suo animo un barlume di compiacimento. Quell'uomo terribile la apprezzava. Ha ucciso Susan, ha ucciso Susan, ha ucciso Susan, si disse. Mi ucciderebbe in una frazione di secondo, se solo lo volesse. Sapeva queste cose, ma tutto ciò che sentiva in quel momento era la sua approvazione. Bruto mise via la pistola e si mise a giocherellare con i lacci delle scarpe. «Tu pensi che sono cattivo per... alla tua amica. Be', per come la pensi tu, sono cattivo. Io non sono... furbo e non ho nessun talento particolare. Ma l'unica cosa che so è che sono cattivo. Non sto dicendo che non ho un cuore o che non ho mai pianto in vita mia. Ho pianto per una settimana, quando qualcuno ha sparato a mio fratello. Sì, ho pianto.» Si interruppe, ritraendo le labbra per esporre i denti piccoli e regolari. «Ora, quel figlio di
puttana là fuori...» Indicò il telefono con un cenno del capo. De l'Epée? Sta parlando di de l'Epée? «Lui e io, in questo momento stiamo combattendo una battaglia. E lui la perderà... Perché? Perché il cattivo è semplice e il buono è complicato. E il semplice vince sempre. È così che vanno le cose, alla fine. Il semplice vince sempre. Questa è la natura, e tu sai in che genere di guai si va a cacciare la gente quando ignora la natura. Guarda voi, voi sordi. Morirete prima di gente come me. Se io ho bisogno di qualcosa, posso dire: 'Datemela'. Apro la bocca e qualcuno fa quello che voglio. Ma tu, tu devi fare cose strane con le mani. Devi scrivere. Questo è complicato. Tu sei diversa... tu morirai e io vivrò. È la natura. «Io, adesso, sto per prendere quella bambina laggiù, quella con il vestito a fiori, e le sparerò tra circa dieci minuti se... elicottero non arriva. E io non credo che arriverà. Per me, fare questo non è peggio che grattarmi un prurito o comprarmi una lattina di soda quando ho sete.» Guardò Emily, le labbra incurvate in quel suo strano mezzo sorriso. E, nel suo sguardo, Melanie improvvisamente vide molto più dello sguardo di un cacciatore alla sua vittima. Vide tutte le prese in giro dei suoi compagni di classe, vide la frustrazione devastante di tentare di capire ciò che poteva essere capito soltanto con il miracolo dell'udito. Vide una vita vuota senza un amore. Vide la copertina di uno spartito musicale intitolato Amazing Grace e, all'interno, nient'altro che pagine bianche. La volontà di Dio... Lo sguardo di Bruto... E così, aveva perfettamente senso che gli saltasse addosso. Melanie balzò in avanti, le sue unghie perfette che gli si conficcavano nella faccia. Bruto emise un singulto di sorpresa e barcollò all'indietro, tentando di afferrare la pistola. Se la sfilò dalla cintura e lei si tuffò per prenderla. La pistola gli sfuggì di mano e scivolò sul pavimento. Melanie era priva di ogni controllo, infuriata, folle, sospinta da una collera bruciante diversa da qualsiasi cosa avesse mai provato in vita sua. Una collera che si riversò in lei troppo rapidamente, lacerandola, aprendola, facendole male allo stesso modo in cui le aveva fatto male la febbre che le aveva bruciato la pelle quando aveva otto anni, portandole via le cose semplici e rendendole la vita così complicata. Le sue lunghe dita, rese forti e muscolose da anni e anni di linguaggio dei segni, sormontate da unghie smaltate color perla, gli lacerarono la pelle
delle guance; Melanie gli afferrò il naso e scavò in cerca degli occhi. Quando lui cadde sulla schiena gli salì sul petto, il ginocchio premuto con violenza sul suo plesso solare. Bruto annaspò, mentre il respiro gli veniva espulso forzatamente dai polmoni. La colpì una volta al petto e lei si ritrasse, ma lui non aveva spinta e il suo colpo fu quasi indolore. «Gesù Cristo...!» Le sue mani nodose si allungarono verso la gola di Melanie, ma lei le scostò e riuscì ad afferrargli la trachea, allontanandogli le braccia con le proprie; lui non riusciva a raggiungerla. Da dove mi viene questa forza? si domandò mentre gli sbatteva la testa sul pavimento di cemento e osservava la sua faccia farsi blu per la mancanza di ossigeno. Forse Orso ed Ermellino stavano correndo verso di lei, forse le stavano puntando addosso i fucili. O forse, perché non aveva aria nei polmoni, Bruto era silenzioso, forse era troppo orgoglioso per chiamare aiuto. Melanie non lo sapeva... e non le importava. In quel momento, per lei non esisteva nulla se non quell'uomo e la sua malvagità - non le altre ragazze, non la signora Harstrawn, non l'anima di Susan Phillips, che l'agnostica Melanie credeva stesse fluttuando sopra di loro in quel preciso momento, splendido serafino. Poi, all'improvviso, Bruto si afflosciò come una pezza. La lingua gli fuoruscì dalle labbra esangui. E Melanie pensò: Mio Dio, l'ho fatto! Esultante e terrorizzata, si lasciò andare a sedere, guardando le gemelle, la singhiozzante Emily, l'annaspante Beverly. Quando il ginocchio di lui si sollevò, rapido come un fulmine, Melanie non ebbe il tempo per deviarlo e la colpì con forza devastante in mezzo alle gambe, irrompendo dentro di lei con una saetta di dolore. Melanie inspirò ferocemente e si portò le mani all'inguine proprio mentre il pugno di Bruto le piombava sul petto appena sotto lo sterno. Si piegò in due, incapace di respirare. Lui si alzò con facilità e lei vide che, a parte i graffi sulle guance, non si era fatto male per niente. Aveva soltanto giocato con lei. Poi la afferrò per i capelli e la trascinò nella stanza principale. Lei gli affondò le unghie nella mano e lui la schiaffeggiò con violenza. Il suo campo visivo esplose in un lampo di luce e le braccia le ricaddero lungo i fianchi, insensibili. La prima cosa di cui tornò a essere consapevole fu che si trovava davanti alla finestra del mattatoio, a fissare il campo battuto dal vento e le luci abbaglianti puntate contro l'edificio. La sua faccia era contro il vetro e Melanie pensò che poteva rompersi e che le schegge potevano ferirle gli occhi. No, no, non quel tipo di tenebra.
La tenebra permanente. No, ti prego... Ermellino fece un passo avanti, ma Bruto lo fermò con un cenno. Tirò fuori la pistola. La costrinse a voltarsi affinché potesse vederlo parlare. «Se tu potessi parlare come una persona normale, forse potresti dire qualcosa per salvarti la vita. Ma non puoi. No, no. Sei uno scherzo della natura, e se quelli non arrivano con quell'elicottero lo diventerai ancor di più. Shep, quanto tempo...?» Ermellino parve esitare e disse qualcosa che Melanie non riuscì a capire. «Quanto cazzo di tempo manca?» La faccia insanguinata di Bruto era contorta di rabbia. Ricevette la risposta e sollevò la pistola, puntandogliela contro la guancia. Poi, lentamente, la sua mano le afferrò i capelli e la costrinse a voltarsi dalla parte opposta, e Melanie si ritrovò ancora una volta a fissare quelle luci bianche e accecanti. Melanie. Potter vide il suo volto attraverso il binocolo da campo. Melanie sarebbe stata la prossima vittima. Budd, LeBow e Frances fissavano attoniti fuori del finestrino. Stillwell chiamò alla radio e disse: «Uno dei miei tiratori scelti dice che Handy sta sanguinando. Non sembra niente di serio, ma ha la faccia tagliata». «Dodici minuti alla scadenza dell'ultimatum», avvisò Tobe. «Collegamento in arrivo.» Il telefono squillò e Potter rispose immediatamente. «Lou, che cosa...» «Ne ho una nuova, Art», ringhiò la voce di Handy. «Ha molto spirito. Avevo intenzione di perdonarla per averti regalato quella piccola peste. Ma la puttana si è messa in testa che doveva divertirsi un po'. Si è fatta una rotolatina nel fieno insieme a me.» Stai calmo, si disse Potter. Sta nuovamente giocando con te. Tentò di abbattere la propria rabbia, che mimava quella di Handy. «È una di quelle pervertite, Art. Una di quelle sadomaso, a quanto pare. Imparerà, imparerà. Hai circa dieci minuti, Art. Se non sento le pale di quell'elicottero sopra la testa entro dieci minuti, farò un po' di chirurgia plastica a calibro nove sulla ragazza. Adesso voglio quel fottuto elicottero. Ci sei? Hai capito?» «Dobbiamo farne arrivare uno da Topeka. Lì...» «C'è un maledetto aeroporto a meno di cinque chilometri a est di qui. Perché cazzo non ne fai arrivare uno da lì?» «Avevi detto che tu...»
«Dieci minuti.» Clic. Potter chiuse gli occhi e sospirò. «Angie?» «Credo che ci sia un problema», rispose la psicologa. «Handy vuole farle del male.» Quella era una vera disdetta. Probabilmente Potter sarebbe riuscito a ottenere una proroga dell'ultimatum da un Lou Handy ben disposto mentalmente e in grado di controllare le proprie emozioni. Un Lou Handy vendicativo, un Lou Handy imbarazzato e furioso non era propenso a concedere loro assolutamente nulla, e adesso era dell'umore giusto per uno spargimento di sangue. Oh, Melanie, perché non l'hai lasciato in pace? (Eppure, che cos'altro provava, per lei? Orgoglio che avesse il fegato di resistere a Handy quando lui aveva tentato di picchiarla per aver salvato Kielle? Ammirazione? E che altro?) Il volto bellissimo ed esotico di Angie era corrucciato. «Che cosa c'è?» le domandò Budd. «Quello che Handy ha detto della chirurgia plastica. Che cosa intendeva?» «Non vuole uccidere nessuno, per il momento, credo», rispose lentamente Potter. «È preoccupato perché sta perdendo troppi ostaggi e perché noi non gli abbiamo dato nulla di sostanziale. Così ha intenzione di ferirla. Forse accecarla in un occhio.» «Cristo», sussurrò Budd. «Arthur», si intromise Tobe, «sto rilevando una fonte di segnali criptati nelle vicinanze.» «Che frequenza?» «Quanti megahertz, intendi?» «Non mi interessano i numeri. A chi appartiene?» «È una frequenza non assegnata.» «Andata e ritorno?» «Sì. E ci sono retrosegnali.» Alcune operazioni sono tanto segrete che le radio delle forze di polizia adoperano speciali dispositivi coordinati che cambiano il codice ogni due o tre secondi. Derek confermò che le radio della polizia di stato non possedevano una simile possibilità. «Quanto vicina?»
«Nel raggio di un chilometro.» «Stampa?» «Di solito non adoperano segnali criptati, ma potrebbe essere.» Potter non aveva intenzione di perdere tempo su questo, adesso. Strinse le mani a pugno e fissò fuori del finestrino con il binocolo. Vide i capelli biondi di Melanie, la macchia nera della pistola. Lottando per mantenere la voce calma, chiese: «Be', Charlie... hai pensato ancora a quale tipo di batterie immaginarie Handy vuole per il suo giocattolo?» Budd sollevò le mani in segno di impotenza. «Non riesco a pensare. Io... io non lo so.» Nella sua voce comparve un'ombra di panico. «Guardate l'ora!» «Henry?» LeBow fece scorrere lentamente il file - ora davvero lungo - su Louis Handy. Poi, rivolgendosi al nervosissimo Charlie Budd, disse: «Più urgente è il compito, capitano, più lentamente bisogna affrontarlo. Vediamo, qui ci sono un sacco di furti d'auto quando era ragazzino. Forse gli piacciono le macchine. Dobbiamo provare con questo?» «No. Charlie ha ragione. Pensiamo a qualcosa che abbia a che fare con la sua fuga.» «In che altro spende i suoi soldi?» domandò Angie. «Non molto. Non ha mai posseduto né una casa né un terreno. Non ha mai svaligiato una gioielleria...» «Qualche interesse particolare?» domandò Potter. «I rapporti della sua libertà vigilata», esclamò improvvisamente Angie. «Ce li hai, lì dentro?» «Sì, li ho scannerizzati all'inizio.» «Leggili. Vedi se ha mai chiesto il permesso di uscire da una giurisdizione e perché.» «Buona idea, Angie», approvò Potter. Un ticchettio quasi impercettibile di tasti. «Okay. Sì, l'ha fatto. Ha lasciato due volte Milwaukee, dove abitava dopo il suo rilascio, per andare a pescare nel Minnesota. Su, vicino a International Falls. E tre volte per andare in Canada. È tornato ogni volta senza incidenti.» LeBow strizzò le palpebre. «Pescare. Mi ricorda qualcosa...» Digitò una richiesta di ricerca. «Ecco qui, il rapporto di un responsabile del carcere. Gli piace pescare. Adora pescare. Ha accumulato punti di merito per poter andare a pescare trote in un torrente sul terreno del penitenziario di stato di Pennaupsut.» Minnesota, pensò Potter. Il suo stato di origine. La terra dei mille laghi.
Il Canada. Budd - in piedi nella sua perfetta posizione eretta - continuava ad agitarsi. «Oh, ragazzi.» Guardò due volte l'orologio, a distanza di cinque secondi l'una dall'altra. «Calma, Charlie.» «Abbiamo soltanto sette minuti!» «Lo so. Sei stato tu ad avere l'idea. Che cosa avevi in mente?» «Non so che cosa volevo dire!» Potter stava fissando nuovamente Melanie. Smettila, ordinò a se stesso. Dimenticati di lei. Si sollevò a sedere di scatto. «Ci sono. Gli piace pescare e ha un amore per le terre del nord?» «Esatto», disse Budd. In realtà, domandando: E allora? Ma LeBow capì. Annuì. «Sei un poeta, Arthur.» «Ringrazia Charlie. È lui che mi ci ha fatto pensare.» Budd sembrava perplesso. «Cinque minuti», dichiarò Tobe. «Faremo un finto accordo di fuga», disse rapidamente Potter, indicando il foglio degli Inganni. LeBow si alzò in piedi e afferrò il pennarello. Ci pensò su un attimo. «Però Handy vorrà controllare ciò che gli dico. Telefonerà all'amministrazione federale dell'aviazione. Charlie, dove si trova il quartier generale della FAA qui in Kansas?» «A Topeka.» Si rivolse a Tobe. «Voglio che tutte le chiamate dirette al numero principale della FAA di Topeka vengano immediatamente trasferite a quel telefono lì», disse indicando uno degli apparecchi sulla consolle. Sarebbe stato un compito difficile, Potter lo sapeva, ma senza una parola Tobe si mise al lavoro, premendo pulsanti e parlando concitatamente nel microfono delle cuffie. «No», protestò Budd. «Non c'è tempo. Dagli semplicemente quel numero. Come diavolo farà a sapere che non è la FAA?» «È troppo rischioso, se controlla.» Potter prese il telefono e premette il pulsante di chiamata rapida. Rispose una voce entusiastica. «Ehilà.» «Lou?» «Ciao, Art. Ho le orecchie tese, ma non sento elicotteri. La vedi la mia ragazza, qui alla finestra?» «Senti, Lou», disse Potter con calma, guardando fuori del finestrino. «Ho una proposta per te.»
«Dieci, nove, otto...» «Ascoltami...» «Ehi, Art, mi è appena venuta in mente una cosa. Forse è questo il tuo modo di fare qualcosa di cattivo. Forse tu sei davvero un figlio di puttana.» «L'elicottero è quasi pronto.» «E la ragazza, qui, è quasi sul punto di cominciare a sanguinare. Piange che è un vero piacere, Art. Un fiume di lacrime. Ne ho abbastanza. Ne ho fottutamente abbastanza di tutti voi. Voi non mi prendete sul serio!» Furioso: «Voi non fate quel cazzo che io voglio!» Angie si sporse in avanti. Le labbra di Charlie Budd si muovevano in una preghiera silenziosa. «D'accordo, Lou», ringhiò Potter. «So che le sparerai. Ma tu sai anche che te lo lascerò fare.» Silenzio, riempito soltanto dal fruscio dell'energia statica. «Almeno ascoltami.» «Stando al mio orologio, ti ascolterò solo per un altro minuto o due.» «Lou, ci sto lavorando da più di un'ora. Non volevo dirti niente finché non era tutto sistemato, ma te lo dirò comunque. Ormai è quasi fatta.» Lascia che la curiosità aumenti. «Be', che cosa? Dimmelo.» «Dammi un'altra ora, non fare del male alla ragazza, e ti farò avere un piano di volo prioritario per il Canada con l'autorizzazione della FAA.» Un lungo secondo di silenzio. «E questo che cosa cazzo significa?» «Puoi prendere accordi direttamente con la FAA. Non sapremo mai dove sei diretto.» «Ma il pilota sì.» «Il pilota porterà delle manette per se stesso e per gli ostaggi. Tu atterri ovunque vuoi in Canada, rendi inservibile l'elicottero e la radio, e prima che li troviamo saranno passate ore.» Silenzio. Potter si voltò a guardare disperatamente Tobe, con le sopracciglia inarcate. Il giovane agente, coperto di sudore, emise un lungo respiro e sussurrò: «Ci sto lavorando». «Forniremo l'elicottero di cibo e di acqua. Volete degli zaini, degli scarponi da montagna? Diavolo, Lou, vi daremo anche delle canne da pesca. Mi sembra un buon accordo. Non farle del male. Dacci un'altra ora e avrai via libera.»
«Fammici pensare.» «Mi farò dare il nome del supervisore della FAA e ti richiamerò subito.» Clic. L'impassibile Tobe Geller fissò i suoi display immobili e poi colpì la consolle con un pugno, sbottando: «Dove cazzo è il nostro traslatore, maledizione?» Potter giunse le mani e guardò fuori del finestrino, fissando la strana configurazione di punti che era Melanie Charrol - minuscole forme barbaglianti di colore e di luce, come i pixel su uno schermo televisivo. Il capitano Dan Tremain si sporse in avanti, scostando un ramo, silenzioso come la neve. Da quella posizione riusciva appena a vedere l'angolo della finestra dietro cui veniva trattenuta la giovane donna. Tremain era uno dei migliori tiratori scelti dell'SSO e spesso rimpiangeva che la sua posizione di comando non gli desse la possibilità di mettersi un Remington a tracolla e, con l'aiuto del suo mirino, acquisire e neutralizzare un bersaglio a ottocento, mille metri di distanza. Ma quella sera si trattava di un'irruzione. I cecchini sarebbero stati inutili, quindi spostò i propri pensieri dal vago bersaglio della finestra al lavoro che lo attendeva. Il suo orologio segnava le sette. «Ultimatum scaduto», disse. «Esterno Uno. Rapporto.» «Carica piazzata nel generatore.» «Aspetta l'ordine di via libera.» «Roger.» «Esterno Due, rapporto.» «I soggetti sono tutti nella stanza principale, gli ostaggi non sono sorvegliati, a parte la donna alla finestra.» «Roger», disse Tremain. «Unità A e B, situazione?» «Unità A a casa base. Pronti a intervenire.» «Unità B, pronti a intervenire.» Tremain appoggiò il piede contro una pietra e si sollevò su un ginocchio. Gli occhi puntati su Handy. Sembrava uno sprinter in attesa del colpo di pistola dello starter - il che era esattamente ciò che sarebbe diventato di lì a qualche minuto. «Fatto», disse Tobe. «Almeno in teoria», aggiunse poi.
Potter si asciugò il sudore dal palmo della mano. Trasferì il telefono nell'altra, poi richiamò Handy e gli disse che l'autorizzazione per l'elicottero era stata sistemata e ottenuta. Gli diede il numero dell'ufficio della FAA. «Come si chiama?» ringhiò Handy. «Con chi dovrei parlare?» Potter disse: «Don Creswell». Era il nome del marito della cugina di sua moglie, Linden. LeBow lo scarabocchiò sul foglio, ormai quasi pieno, degli Inganni. «Vedremo, Art. Ti richiamerò. La ragazza resta vicino a me e alla mia P maiuscola finché non sarò soddisfatto.» Clic. Potter si voltò e guardò lo schermo di Tobe. Poi disse: «Dovrai essere tu, Henry. Handy conosce la mia voce». LeBow fece una smorfia. «Mi sarebbe piaciuto avere un po' di tempo per prepararmi, Arthur.» «Sarebbe piaciuto a tutti.» Un istante più tardi, Tobe avvisò: «Contatto dal mattatoio... La chiamata non è diretta qui... cifre... uno, nove-uno-tre, cinque-cinque-cinque, unodue-uno-due. Il servizio abbonati di Topeka». Udirono la voce di Handy domandare il numero dell'ufficio regionale della FAA. L'operatore glielo diede. Potter sospirò di sollievo. «Avevi ragione», disse Budd. «Non si è fidato di te.» «Collegamento terminato», sussurrò inutilmente Tobe. «Collegamento dal mattatoio a Topeka, chiamata trasferita dalla linea principale a...» Indicò il telefono sulla scrivania, e subito l'apparecchio cominciò a squillare. «Su il sipario.» LeBow trasse un respiro profondo e annuì. «Aspettate», disse Budd in tono urgente. «Si aspetterà una segretaria o una della reception.» «Maledizione», sbottò Potter. «Naturalmente. Angie?» Era la più vicina al telefono. Terzo squillo. Quarto. Angie Scapello annuì bruscamente e afferrò il ricevitore. «Amministrazione federale dell'aviazione», disse con voce impostata e leggera. «Posso esserle utile?» «Voglio parlare con Don Creswell.» «Un momento, prego. Chi lo desidera?» Una risata. «Lou Handy.» Angie mise una mano sul microfono e sussurrò: «Qual è il pulsante di
attesa?» Tobe le prese il telefono di mano e lo premette con un'unghia, poi lo passò a LeBow. Potter guardò Angie e le strizzò l'occhio. LeBow inspirò ancora una volta e disse: «Creswell». «Ehi, Don. Tu non mi conosci.» Una breve pausa. «Lei è il tizio per cui mi ha chiamato l'FBI? Louis Handy?» «Sì, sono quel tizio. Dimmi un po', sono stronzate quelle che mi racconta? Sono balle, vero?» Il grassoccio e benevolo Henry LeBow sbottò: «Be', signore mio, le dirò una cosa, sono più balle per me, ecco cosa. Perché, francamente parlando, sta rendendo la mia vita un inferno. Ho sessanta velivoli ogni ora che arrivano nel nostro spazio aereo e questa cosa vorrà dire ritracciare le rotte per quasi tre quarti di questi velivoli, mi capisce? E le sto parlando soltanto dei voli commerciali. All'inizio ho detto all'agente che non se ne parlava neanche, ma lui è una spina nel fianco di prima categoria... e una spina nel fianco che si chiama FBI, tanto per cominciare. Mi ha detto che mi avrebbe incasinato la vita mica da ridere se non faccio esattamente quello che lei vuole, signore mio. Quindi, sì, certo, sono proprio stronzate, ma io ho intenzione di dargli quello che mi ha chiesto». «E che cazzo le ha chiesto, esattamente?» «Non gliel'ha detto? Un corridoio aereo libero con priorità M-4 dritto dritto fino all'Ontano occidentale.» Buon lavoro, Henry, pensò Potter, gli occhi fissi sulla sagoma di Melanie. «Un cosa?» «È la priorità più alta che ci sia. È riservata all'Air Force One e ai capi di stato in visita. Noi lo chiamiamo 'corridoio papale' perché è quello che ottiene il papa. Adesso ascolti, o magari potrebbe scriversi quello che le dico. Quello che lei deve fare è assicurarsi che il pilota dell'elicottero spenga il transponder. Lui glielo indicherà e lei può spegnerlo o sfasciarlo o quello che le pare, e noi non saremo più in grado di rintracciarvi sul radar.» «Niente radar?» «Questo fa parte dell'M-4. Lo facciamo perché così i missili a ricerca radar non possono beccare il jet di qualche dignitario.» «Il transponder. Credo di averne sentito parlare. Quanto tempo abbiamo?» LeBow guardò Potter, che gli mostrò otto dita.
«Possiamo tenere aperto il corridoio aereo per otto ore. Dopo ci sarà troppo traffico commerciale e saremo costretti a riscrivere le richieste di spazio aereo.» «D'accordo. Fatelo.» «Lo stiamo già facendo. Sarà operativo tra, mi faccia controllare...» Potter sollevò due dita. «Circa due ore.» «Due ore un cazzo. Un'ora al massimo, altrimenti uccido questa cosina carina carina che ho di fianco a me.» «Oh, mio Dio, dice sul se...? Be', sì, certo. Un'ora. Ma ho bisogno di un'ora intera. Soltanto, signore, la prego, non faccia male a nessuno.» La fredda risatina di Handy uscì dall'altoparlante. «Ehi, Don, lascia che ti faccia una domandina.» «Ma certo.» «In questo momento sei a Topeka?» Silenzio nel furgone. Potter distolse lo sguardo dal finestrino e fissò LeBow. «Certo.» Potter schioccò le dita e indicò il computer di LeBow. L'agente informativo sgranò gli occhi e annuì. Premette silenziosamente alcuni tasti. Sullo schermo apparve un messaggio: Enciclopedia in corso di caricamento. Le parole lampeggiarono ripetutamente. «Topeka, eh?» disse Handy. «Un bel posticino?» Enciclopedia in corso di caricamento... Avanti, pensò disperatamente Potter. Sbrigati, maledetta macchina! «A me piace.» Lo schermo divenne nero; dopo quella che a Potter sembrò un'eternità, apparve un logo colorato. LeBow cominciò a digitare come un matto. «Da quanto tempo ci vivi?» Come sembra calmo Handy, rifletté Potter. Sta tenendo una pistola puntata alla tempia di una ragazza e nello stesso tempo lavora a tutti gli angoli e a tutti gli spigoli con la più grande freddezza possibile. «Da circa un anno», rispose LeBow. «Quando lavori per lo Zio Sam, ti spostano in giro un bel po'.» Digitò un altro comando. Le sue dita si bloccarono. Sullo schermo apparve un messaggio di errore: Criterio di ricerca non valido. Più è urgente il compito... Ricominciò da capo. Finalmente una cartina e un articolo apparvero sul
monitor e, in un angolo dello schermo, la fotografia a colori di una veduta della città. «Immagino di sì. Come quell'agente dell'FBI che ti ha telefonato. Andy Palmer. Anche lui si deve spostare un casino.» LeBow aveva già preso fiato per rispondere, ma Potter lo bloccò e scarabocchiò su un foglio di carta: «Non rispondere al nome». «Diavolo, credo di sì.» «È così che si chiama, vero? Andy?» «Credo di sì. Non ricordo. Mi ha dato soltanto il codice che mi ha fatto sapere che era una telefonata vera, non uno scherzo.» «Avete dei codici? Che usate come fanno le spie?» «Sa una cosa, signore, adesso dovrei veramente occuparmi di quel progetto che la riguarda.» «Che fiume c'è, lì?» «A Topeka, intende dire?» «Già.» LeBow si sporse in avanti e lesse il trafiletto di sommario sulla città. «Il Kaw, intende. Il fiume Kansas. Quello che taglia la città in due?» «Già. È proprio quello. Una volta ci andavo a pescare. Avevo uno zio che viveva in quel vecchio quartiere. Era tutto, come dire, particolare... vecchie case di lusso. Strade pavimentate a cubetti di porfido, hai presente?» Henry LeBow era chinato così tanto verso il computer che rischiava di cadere dalla sedia. Lesse freneticamente la voce enciclopedica. «Ah, Potwin Place. È un uomo fortunato, suo zio. Belle case davvero. Ma le strade non sono più a cubetti di porfido, sono lastricate.» La testa calva dell'agente scintillava di una miriade di perline di sudore. «Qual è il suo ristorante preferito, a Topeka?» Una pausa. «Denny's. Ho sei figli.» «Figlio di puttana», ringhiò Handy. Clic. «Contatto terminato», annunciò Tobe. LeBow, con le mani che gli tremavano, rimase a fissare attonito il telefono. Quattro teste si affollarono davanti al finestrino. «Ha funzionato?» sussurrò Frances. Nessuno si azzardò a dare una risposta. Soltanto Charlie Budd trovò la
voce per parlare, e l'unica cosa che osò dire fu: «Oh, ragazzi». «Casa base a Esterno Due.» «Esterno Due», sussurrò il tenente Joey Wilson, piazzato appena sotto la finestra del mattatoio, all'ombra dello scuolabus. «Ubicazione dei soggetti?» L'ufficiale sollevò rapidamente la faccia annerita, guardò all'interno, quindi si abbassò di nuovo. «Due sequestratori nella stanza principale accanto alla finestra, Handy ha una pistola puntata contro un ostaggio. Una Glock. Gliela punta alla testa. Non riesco a vedere se sia senza sicura. Wilcox non ha un'arma in mano, ma ha una Glock infilata nella cintura. Bonner ha una Mossberg semiautomatica a dodici colpi. Ma è a quasi dieci metri dalla stanza degli ostaggi. È una buona situazione. Tranne per la ragazza alla finestra.» «Puoi far fuori Handy?» «Negativo. È dietro ai tubi. Non ho la visuale libera. Bonner continua ad andare avanti e indietro. Forse potrei riuscire a buttare giù lui. Non lo so.» «Rimani in attesa.» Erano parecchio oltre l'ultimatum, ora. Handy poteva sparare a quella povera ragazza in qualsiasi momento. «Esterno Uno? Rapporto.» «Esterno Uno. Sono al generatore. La carica è innescata.» Signore, non farci fallire, pensò Tremain, e trasse un respiro profondo. «Esterno Uno?» disse a Pfenninger, immaginandolo in piedi accanto al generatore del furgone di comando, con il cavo del detonatore della L210 ben saldo nella mano. «Qui Esterno Uno.» «Parola in codice...» «Esterno Due a casa base!» La voce energica di Wilson si immise con forza nelle onde radio. «L'ostaggio è al sicuro. Ripeto. Esterno Due a casa base. Il soggetto Handy si sta abbassando. Ha messo via l'arma. Il soggetto Bonner sta riportando la ragazza nella stanza insieme al resto degli ostaggi.» Tremain guardò. La ragazza veniva allontanata dalla finestra proprio in quel momento. «Il soggetto Bonner l'ha lasciata nella stanza degli ostaggi ed è ritornato nella zona anteriore dell'edificio.» «Parola in codice stallion», disse Tremain. «Tutti gli esterni, tutte le uni-
tà, stallion, stallion, stallion. Confermate trasmissione.» Confermarono tutti. Dan Tremain - comandante dell'SSO e uomo con la reputazione di saper pensare alla svelta - compose e poi offrì una preghiera silenziosa al suo giusto e misericordioso Signore Gesù Cristo, ringraziandolo per aver risparmiato la vita della ragazza. Ma, principalmente, lo ringraziò per avergli fornito il tempo supplementare che gli sarebbe servito a preparare l'assalto che il Signore gli aveva assicurato avrebbe liberato quei poveri agnelli innocenti dalle mani dei barbari pagani. «Collegamento», annunciò Tobe. «È lui.» Potter lasciò squillare il telefono un paio di volte, poi rispose. «Art?» «Lou. Creswell ha appena telefonato.» «Pensa che sei un cazzone. Non sa nemmeno come cazzo ti chiami.» «Ho i miei nemici. Ne ho di più all'interno delle istituzioni governative che fuori, mi dispiace ammetterlo. Che cosa ne pensi?» «Okay, siamo d'accordo», rispose Handy allegramente. «Hai un'altra ora.» Potter tacque, lasciando che il silenzio montasse. «Art», domandò Handy con voce incerta, «ci sei ancora?» Un flebile sospiro dalle labbra del negoziatore. «Che cosa ti prende? Sembra che ti sia appena morto il cane.» «Be'...» «Suvvia, confidati con me.» «Non so come chiedertelo. Sei stato davvero gentile ad acconsentire, a darci altro tempo. E...» Metti alla prova i legami, stava pensando Potter. Che cosa pensa veramente Handy di me? Quanto siamo vicini? «Be', dimmi che cazzo hai, Art. Dimmelo e basta.» «Creswell mi ha detto che dovrà stare in ballo almeno fino alle nove e mezzo per aprire quel corridoio come si deve. Deve coordinarsi con le autorità canadesi. Io l'ho pregato di farlo entro un'ora. Ma lui ha detto che non può farcela, così alla svelta. Mi sento come se ti stessi tradendo...» E una parte di lui si sentiva esattamente così, sì, per la bugia che gli stava raccontando così sfacciatamente, così freddamente. «Alle nove e mezzo?» Una lunga esitazione.
«Vaffanculo, posso farcela, Art.» «Davvero, Lou?» domandò Arthur Potter, sorpreso. «Non sai quanto lo apprezzo.» «Ehi, qualsiasi cosa per il mio vecchio amico Art.» Approfitta del buonumore. «Lou», disse, «lascia che ti faccia un'altra domanda.» «Spara.» Devo spingere oppure no? Angie lo stava guardando. I loro occhi si incontrarono e lei gli disse a fior di labbra: «Provaci». «Lou, che ne dici di lasciarla andare? Melanie?» D'accordo, Art. Sono di buonumore. Sto per andarmene in Canada, quindi te ne sei appena guadagnata una. La voce di Handy tagliò il silenzio come una gelida lama di rasoio. «A volte chiedi davvero troppo, che cazzo, brutto stronzo. E io sono l'unica persona in tutto il cazzo di universo con cui faresti meglio a non fare una cosa del genere.» La linea venne troncata. Potter inarcò le sopracciglia a quell'improvviso e inatteso scoppio d'ira. Ma l'interno del furgone eruppe in una salva di applausi e di risate. Potter riagganciò e si unì agli altri. Diede una pacca sulla spalla a LeBow. «Lavoro eccellente.» Guardò Angie. «Tutti e due.» «Meriteresti un Oscar per quella telefonata», disse Budd. «Sissignore, Henry, io voterei per te.» «M-4?» domandò Potter. «Che cos'è una priorità M-4?» «L'anno scorso io e Doris siamo andati in Inghilterra», spiegò LeBow. «Era un'autostrada, mi sembra di ricordare. Suonava bene, no?» Era molto orgoglioso e compiaciuto di se stesso. «Quella storia dei missili a guida radar», disse Budd. «Quella è stata semplicemente fantastica.» «Tutto inventato.» «Oh, ragazzi. E lui se l'è bevuta per intero.» Poi il loro umore tornò a farsi cupo quando Potter guardò fuori del finestrino e fissò il luogo in cui restavano prigionieri ancora sei ostaggi, al sicuro per almeno un paio d'ore... se Handy avesse mantenuto la parola. Poi, simultaneamente, l'intero staff presente nel furgone scoppiò ancora a ridere quando Tobe Geller, mago dell'elettronica e della fredda scienza razionale,
sussurrò in tono reverente: «Corridoio papale» e si fece il segno della croce con gesto sicuro, come il buon cattolico che apparentemente era. 19,15 «Be', Charlie, che notizie ci sono dal fronte?» Budd era all'esterno del furgone, in un avvallamento del terreno. Teneva il suo telefono cellulare premuto contro un orecchio, come se ciò potesse impedire a chiunque di origliare. La voce di Roland Marks tendeva a rimbombare troppo. Il viceprocuratore generale era nell'area di servizio arretrata. Budd disse: «Senta, signore, qui è stato un ottovolante. Su e giù, sa com'è. Sta facendo delle cose veramente notevoli... l'agente Potter, intendo». «Notevoli?» domandò Marks sarcastico. «Ha riportato in vita quella ragazza, vero? Una vera situazione Lazzaro-alzati-e-cammina, direi.» «Ne ha tirate fuori altre due sane e salve ed è appena riuscito a farci guadagnare un altro paio d'ore. Sta...» «Ha quel regalino per me?» domandò il viceprocuratore con voce piatta. La porta del furgone si aprì e ne uscì Angie Scapello. «Non ancora», rispose Budd, e decise che la bugia era credibile. «Presto. Adesso devo andare.» «Voglio quella registrazione entro un'ora. Il mio amico giornalista verrà lì.» «Sissignore, d'accordo. Ci risentiamo più tardi.» Premette il pulsante di fine chiamata. «I capi», disse ad Angie. «Potremmo fare molte cose, senza di loro.» La donna aveva in mano due tazze di caffè e gliene offrì una. «Poco latte, senza zucchero. È così che ti piace, no?» «L'agente LeBow ha anche il mio dossier, eh?» «Vivi da queste parti, Charlie?» «Io e mia moglie abbiamo comprato una casa a circa venti chilometri da qui.» Così andava bene. Continua a parlare di Meg, si disse. «Io ho un appartamento a Georgetown. In affitto. Viaggio così tanto che, per me, non ha molto senso comprare una casa. E poi sto da sola.» «Non ti sei mai sposata?» «No. Sono una vecchia zitella.» «Vecchia... eccoti ancora con quella parola. Devi avere al massimo ven-
totto anni.» Angie scoppiò a ridere. «Ti piace la vita qui in campagna?» gli domandò. «Certo che sì», rispose Budd. «Le bambine frequentano buone scuole... Ti ho fatto vedere le fotografie della mia famiglia?» «Sì, Charlie. Due volte.» «Frequentano buone scuole e hanno delle buone compagnie. Fanno sport. Vivono per il calcio. E non è molto costoso, davvero. Io ho trentadue anni e ho la casa di proprietà, con un bel pezzo di terreno intorno. Una cosa del genere non si può fare negli stati della costa atlantica. No, credo proprio di no. Sono andato a New York, una volta, e quello che la gente paga per gli appartamenti lì...» «Sei fedele a tua moglie, Charlie?» Angie lo fissò con i suoi caldi occhi nocciola. L'uomo ingollò un sorso di caffè di cui non aveva assolutamente voglia. «Sì. E, a proposito di questo, avevo in mente di parlarti, in effetti. Credo che tu sia una persona molto interessante, e quello che stai facendo per aiutarci è notevole. E dovrei essere veramente cieco per non accorgermi di quanto tu sia carina...» «Grazie, Charlie.» «Ma non sono infedele nemmeno con il pensiero, come quel presidente... Chi era? Jimmy Carter? O forse qualcun altro, non ricordo.» Quello era un discorso che si era preparato più volte, nelle ultime ore, e ora Charlie si scoprì a desiderare di non dover deglutire a vuoto tanto spesso. «Meg e io abbiamo avuto i nostri problemi, certo. Ma chi non ne ha avuti? I problemi sono parte integrante di una relazione, e si affrontano proprio come si affrontano i tempi buoni, e si continua ad andare avanti.» Si interruppe bruscamente, dimenticando la conclusione del suo discorso, che improvvisò sul momento. «Ecco tutto. Volevo soltanto dirti questo.» Angie fece un passo avanti e gli sfiorò un braccio. Allungò il collo e lo baciò su una guancia. «Sono molto felice che tu me l'abbia detto, Charlie. Sono convinta che la fedeltà sia la cosa più importante, in una relazione. Lealtà. E, di questi tempi, non se ne vede in giro molta.» Budd esitò. «No, credo proprio di no.» «Sto per andare giù al motel a far visita alle ragazze e ai loro genitori. Ti andrebbe di venire con me?» Sorrise. «In qualità di amico e di compagno della nostra squadra?» «Ne sarò felice.» E, con enorme sollievo del capitano, Angie non gli fe-
ce scivolare il braccio sotto il suo mentre camminavano fino al furgone per dire a Potter dove sarebbero stati reperibili. Poi procedettero fino all'autopattuglia per compiere in macchina il breve tragitto che li separava dal Days Inn. Erano sedute tutte nella stanza delle uccisioni, l'entrata per l'inferno, con i volti rigati di lacrime. Ciò che stava accadendo in quel momento - a soltanto pochi metri da loro - era peggio di quanto fossero riuscite a immaginare. Fa' che finisca presto, pensò Melanie, articolando con le dita la sua supplica muta. Per l'amor di Dio. «Non guardate», comunicò infine alle bambine. Ma, inevitabilmente, guardavano tutte; nessuna era in grado di distogliere gli occhi da quello spettacolo terrificante. Orso giaceva sopra la povera signora Harstrawn. La donna aveva la camicetta aperta e la gonna sollevata e arrotolata intorno alla vita. Stordita, Melanie osservava il culo nudo ed enorme dell'uomo che andava su e giù. Osservò le sue mani afferrare una delle mammelle della donna, bianca come la pelle tirata di quell'uomo orribile. Lo osservò baciarla e infilare la sua lingua bagnata e viscida nella bocca indifferente dell'insegnante. Orso si interruppe per un istante e si voltò a guardare verso la stanza principale. Lì, Bruto ed Ermellino erano seduti davanti alla televisione, bevendo birra, ridendo. Proprio come il padre e il fratello di Melanie si sarebbero seduti davanti alla Tv la domenica, come se la piccola scatola nera fosse qualcosa di magico che permetteva loro di parlarsi l'un l'altro. Poi Orso arretrò con la schiena, agganciò le ginocchia della signora Harstrawn con un braccio e le sollevò le gambe in alto. Quindi ricominciò a muoversi su e giù, avanti e indietro. Melanie divenne calma come la morte. È ora, decise. Non potevano aspettare un solo minuto di più. Senza mai distogliere lo sguardo dagli occhi chiusi di Orso, scrisse una nota sul taccuino che Bruto le aveva strappato di mano poco prima. Ripiegò strettamente il foglietto e lo fece scivolare nella tasca di Anna. La bambina sollevò lo sguardo. La sua gemella fece lo stesso. «Andate nell'angolo», comunicò loro Melanie, muovendo le mani il meno possibile. «Vicino alla tanica del combustibile.» Le due gemelle non volevano. Erano terrorizzate da Orso, terrorizzate dall'orribile cosa che stava facendo. Ma i segni di Melanie, seppur trattenu-
ti, erano così enfatici, i suoi occhi così freddi, che si spostarono in silenzio nell'angolo della stanza. Ancora una volta, Melanie disse loro di prendere il maglione della signora Harstrawn. «Legatelo intorno alla tanica. Andate...!» Improvvisamente, Orso balzò via dall'insegnante e fronteggiò Melanie. Il suo organo sessuale era eretto e scintillava, umido, rosso e violaceo. Il sentore soverchiante di muschio, sudore e fluidi di donna le provocò un conato. L'uomo si fermò, con l'inguine a meno di una spanna dalla sua faccia. Si abbassò e le sfiorò i capelli. «Smetti quella merda strana. Smetti... quelle stronzate... con le mani.» Mimò una serie di gesti. Lei comprese la sua reazione. Era comune. La gente era sempre stata spaventata dai gesti. Era per questo motivo che c'era un desiderio tanto forte di costringere i sordomuti a parlare e a non usare il linguaggio dei segni: quest'ultimo era un codice, un linguaggio segreto, la cifra distintiva di una società misteriosa. Melanie annuì lentamente e abbassò gli occhi ancora una volta sul pene eretto e scintillante. Orso tornò dalla signora Harstrawn, le strizzò le tette, le divaricò le gambe con un colpo e la penetrò di nuovo. Melanie sollevò una mano in un patetico tentativo di protesta. Orso gliela allontanò con uno schiaffetto indifferente. Non gesticolare... Come poteva riuscire a parlare con le ragazze? Come poteva dire alle gemelle che cosa dovevano fare? Poi, quasi per caso, le tornò in mente il suo argot privato. Il linguaggio che lei stessa aveva creato a sedici anni, quando rischiava ogni giorno di farsi bacchettare sulle nocche dagli insegnanti - per la maggior parte Altri per aver adoperato l'ASL o il SEE alla Laurent Clerc School. Era un linguaggio semplice, un linguaggio che le era venuto in mente mentre osservava Georg Solti dirigere un'orchestra silenziosa. Nella musica, il metro e il ritmo erano parte del brano almeno tanto quanto la melodia; e così, Melanie teneva le mani vicine al mento e parlava alle sue compagne di classe mediante la forma e il ritmo delle sue dita, combinati alle espressioni facciali. Aveva mostrato alle sue allieve i fondamenti del linguaggio - nelle lezioni in cui comparava i diversi tipi di gesti - ma non sapeva se le gemelle ne ricordavano a sufficienza per riuscire a comprenderla. Eppure, non aveva scelta. Sollevò le mani e mosse le dita seguendo un ritmo preciso.
Inizialmente Anna non capì e cominciò a risponderle in ASL. «No», la istruì l'insegnante, aggrottando le sopracciglia per enfatizzare il diniego. «Niente gesti.» Era di vitale importanza riuscire a trasmettere il suo messaggio, perché era convinta di poter salvare almeno le due gemelle, e forse un'altra delle bambine - la povera, annaspante Beverly, oppure Emily, le cui sottili gambe pallide erano state a lungo oggetto degli sguardi di Orso prima che l'uomo si tirasse contro Donna Harstrawn e le aprisse le gambe come un affamato che apre un pacco di cibo. «Prendete la tanica del combustibile», comunicò. In qualche modo. «Legate il maglione intorno alla tanica.» Dopo un momento, le bambine compresero. Avanzarono lentamente. Le loro manine minuscole si misero al lavoro, avvolgendo il maglione colorato intorno alla latta. Ora la tanica era avvolta nel maglione. «Uscite dalla porta dietro. Quella a sinistra.» La porta davanti alla quale la brezza che soffiava dal fiume aveva spazzato via la polvere. «Paura.» Melanie annuì, ma insistette. «Dovete farlo.» Un debole, incerto cenno di assenso. Poi un altro. Emily si mosse accanto a lei. Melanie la guardò. La bambina era terrorizzata. Melanie le prese la mano, dietro la schiena per non farsi vedere da Orso. Usando le dita, le sillabò: «T-u s-a-r-a-i 1-a p-r-o-s-s-i-m-a. N-o-n t-i p-r-e-o-c-c-u-p-a-r-e». Emily annuì. Melanie disse alle gemelle: «Seguite l'odore del fiume». Dilatò le narici. «Fiume. Odore.» Un cenno di assenso da entrambe le bambine. «Tenetevi al maglione e buttatevi in acqua.» Due no. Enfatici. Gli occhi di Melanie fiammeggiarono. «Sì!» Poi guardò la signora Harstrawn e tornò a guardare le bambine, spiegando silenziosamente che cosa poteva accadere loro se restavano. E le gemelle capirono. Anna cominciò a piagnucolare. Melanie non aveva intenzione di permetterglielo. «Basta!» insistette. «Adesso. Andate.» Le due gemelle erano alle spalle di Orso. Per vederle, l'uomo avrebbe dovuto alzarsi in piedi e voltarsi.
Timorosa di usare le mani, Anna chinò timidamente il capo e si asciugò le guance sulla manica della camicetta. Le gemelle scossero di nuovo la testa in segno di diniego. All'unisono. Melanie sollevò una mano e arrischiò una rapida sillabazione digitale e qualche segno. Orso aveva gli occhi chiusi e non vide i gesti. «L'abate de l'Epée è là fuori. Vi sta aspettando.» Gli occhi delle gemelline si spalancarono per lo stupore. De l'Epée? Il salvatore dei sordi. Una leggenda. Lui era Lancillotto, era re Artù. Per l'amor del cielo, lui era Tom Cruise! Non poteva essere là fuori. Eppure, il viso di Melanie era così serio, il suo atteggiamento tanto insistente che le due bambine risposero con deboli cenni di assenso. «Devi trovarlo. E dargli il biglietto che ti ho messo in tasca.» «Dov'è?» gesticolò Anna. «È un uomo anziano, pesante. Capelli grigi. Occhiali e completo blu scuro.» Le due bambine annuirono entusiaste (anche se difficilmente quella era l'immagine che si erano fatte del leggendario abate). «Trovatelo e dategli il biglietto.» Orso sollevò lo sguardo e lei proseguì il movimento della mano per stropicciarsi innocentemente gli occhi, rossi ma asciutti, come se stesse piangendo. Orso abbassò gli occhi e continuò a fare quello che stava facendo. Melanie fu lieta di non poter udire i grugniti porcini che sapeva gli stavano uscendo dalla bocca grassa. «Pronte?» domandò alle bambine. Certo che lo erano: si sarebbero buttate nel fuoco, se ciò significava poter incontrare il loro idolo. L'insegnante guardò nuovamente in direzione di Orso; il sudore gli colava dalla faccia e cadeva come pioggia sulle guance e sulle tette ballonzolanti della povera signora Harstrawn. Aveva gli occhi chiusi. Il momento della fine era vicino - qualcosa di cui Melanie aveva letto ma che non riusciva a capire bene. «Toglietevi le scarpe. E dite a de l'Epée di essere prudente.» Anna annuì. «Ti voglio bene», gesticolò. Suzie naturalmente fece la stessa cosa. Melanie guardò oltre la porta della stanza delle uccisioni: vide Bruto ed Ermellino, dalla parte opposta del mattatoio, che fissavano la televisione. Annuì due volte. Le bambine presero la loro tanica-salvagente e scomparvero dietro l'angolo. Melanie tenne d'occhio Orso per vedere se il loro passaggio era stato silenzioso. Apparentemente era così.
Per distrarlo, si sporse in avanti, affrontando l'occhiata terrificante di quell'uomo disgustoso e lentamente, cautamente, con la propria manica rosso scuro asciugò la patina del suo sudore dal viso dell'insegnante. Orso rimase perplesso per quel gesto, poi si arrabbiò. La spinse indietro, mandandola a sbattere contro il muro. La testa di Melanie colpì le piastrelle con un tonfo sordo. Rimase seduta lì finché lui non ebbe finito e giacque ansante sul corpo della povera donna. Finalmente, rotolò via da lei. Melanie vide una pozza di liquido viscoso sulla coscia dell'insegnante. Misto a sangue. Orso lanciò un'occhiata furtiva nell'altra stanza. Si era allontanato inosservato: Bruto ed Ermellino non avevano visto nulla. Si sollevò a sedere. Si tirò su la cerniera dei jeans luridi e abbassò la gonna della signora Harstrawn, abbottonandole rozzamente la camicia. Poi si sporse in avanti fino a portare la faccia a pochi centimetri da quella di Melanie. Lei riuscì a sostenere il suo sguardo: era terrificante, ma avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di impedirgli di guardarsi intorno. «Se... una parola su... sei...» Indugia, assecondalo. Guadagna tempo per le gemelle. Aggrottò le sopracciglia e scosse la testa. Lui tentò di nuovo, sputando saliva dalle labbra insieme alle parole. Ancora una volta Melanie scosse la testa e si indicò le orecchie. Orso ribollì per la frustrazione. Alla fine, lei si scostò e gli indicò il pavimento polveroso. Lui scrisse: Di cualcosa e sei morta. Melanie annuì lentamente. Orso cancellò il messaggio e si abbottonò la camicia. A volte tutti noi, persino gli Altri, siamo muti e sordi e ciechi come i morti; percepiamo soltanto ciò che i nostri desideri e le nostre aspettative ci permettono di percepire. Questo è un terribile fardello e un pericolo, ma può anche essere, come fu in quel momento, un piccolo miracolo. Sì, perché Orso si alzò sulle gambe malferme, si infilò la camicia nella cintura e si guardò intorno nella stanza delle uccisioni con un'espressione di vitrea soddisfazione sul viso arrossato. Poi uscì dalla stanza senza accorgersi che, al posto delle gemelle, erano restate soltanto quattro scarpine e che le bambine erano scomparse, galleggiando libere lontano da quel posto orribile. Per qualche anno non sono stata nient'altro che Sorda. Vivevo da Sorda, mangiavo da Sorda, respiravo da Sorda.
Melanie sta parlando con de l'Epée. È tornata nella sua stanza della musica perché non riesce a sopportare di pensare ad Anna e Suzie che saltano nelle acque, scure come tombe, del fiume Arkansas. Meglio che siano fuori, dice a se stessa. Ricorda benissimo il modo in cui Orso le guardava. Qualsiasi cosa accada, meglio che siano fuori. De l'Epée si muove sulla sua poltrona e le chiede che cosa intendeva dire con l'essere nient'altro che Sorda. «Quando ero al primo anno, il movimento dei Sordomuti giunse alla Laurent Clerc. Sordomuti con la S maiuscola. L'oralismo era finito e finalmente la scuola cominciò a insegnare il SEE, l'inglese gestuale esatto, che è una specie di compromesso fra oralità e gestualità. Alla fine, dopo essermi diplomata, hanno acconsentito a passare all'ASL, il linguaggio americano dei segni.» «Le lingue mi interessano. Parlamene.» (Direbbe una cosa del genere? Questa è la mia fantasia: sì, la direbbe.) «L'ASL proviene dalla prima scuola per sordi che c'è stata al mondo, fondata in Francia nel 1760 dal tuo omonimo, l'abate Charles Michel de l'Epée. Lui era come Rousseau: aveva la sensazione che esistesse un linguaggio umano primordiale. Un Linguaggio che era puro e assoluto e incontrovertibilmente chiaro. Un Linguaggio in grado di esprimere ogni emozione direttamente e che era così trasparente che non avresti potuto adoperarlo per ingannare o mentire a qualcuno.» Nell'udire ciò, de l'Epée sorride. «Con il linguaggio francese dei segni, l'FSL, i Sordi se la cavavano da soli. Un insegnante della scuola di de l'Epée, Laurent Clerc, venne in America nei primi anni dell'Ottocento insieme a Thomas Gallaudet - era un ministro del culto nel Connecticut - e fondò una scuola per sordomuti a Hartford. Lì veniva usato l'FSL, ma finì con il mescolarsi con il linguaggio dei gesti locale - specialmente con il dialetto usato sull'isola di Martha's Vineyard, dov'era presente molta sordità ereditaria. È così che è nato l'ASL. Questo, più di ogni altra cosa, permise ai Sordi di condurre una vita normale. Vedi, tu devi sviluppare una forma di linguaggio - sia a gesti che parlato, non fa differenza - prima del compimento dei tre anni di età. Altrimenti, fondamentalmente, finisci con il crescere ritardato.» De l'Epée le rivolge uno sguardo in un certo qual modo cinico. «Mi sembra che tu te la sia preparata.» Melanie può soltanto scoppiare a ridere.
«Una volta che l'ASL arrivò a scuola, come stavo dicendo, cominciai a vivere per il movimento dei Sordi. Appresi la linea del partito. Principalmente a causa di Susan Phillips. Era stupefacente. All'epoca ero un'insegnante-studente. Lei vide i miei occhi che si alzavano e si abbassavano quando leggevo le labbra di qualcuno. Venne da me e mi disse: 'La parola udente significa una sola cosa, per me. È l'opposto di ciò che sono'. Provai vergogna. Più tardi, mi disse che il termine 'dura d'orecchio' avrebbe dovuto farci infuriare perché ci definiva nei termini della comunità degli Altri. 'Orale' è anche peggio, perché il sordo orale desidera farsi passare per ciò che non è. Gli Orali sono Sordi che non sono ancora usciti dall'armadio. Se qualcuno è Orale, diceva Susan, dovevamo 'soccorrerlo'. «Sapevo di che cosa stava parlando perché per anni avevo tentato di farmi passare per ciò che non ero. La regola è: 'pensa in anticipo'. Sei sempre preso a pensare a ciò che sta arrivando, a tentare di indovinare o di dedurre le domande che ti verranno poste, portando le persone su strade rumorose e piene di traffico o vicino a qualche cantiere in modo da avere una scusa per chiedergli di parlare più forte o di ripeterti ciò che hanno detto. «Ma, dopo aver conosciuto Susan, ho rifiutato tutto questo. Ero antiOrale, ero controcorrente. Insegnavo l'ASL. Sono diventata poetessa e ho dato spettacoli nei teatri per sordomuti.» «Poetessa?» «L'ho fatto in sostituzione della mia musica. Mi sembrava la cosa più vicina in cui potessi sperare.» «Come sono le poesie con i gesti?» domanda lui. Lei gli spiega che sono «rimate» non foneticamente, ma perché la forma della mano dell'ultima parola del verso è simile a quella delle ultime parole dei versi precedenti. E recita: «Otto uccelli grigi, appollaiati nel buio. Soffia un vento freddo, indelicato. Appollaiati su un filo, sollevano le ali e si allontanano tra le ribollenti nubi». «Buio» e «delicato» condividono una mano piatta e chiusa, con il palmo rivolto verso il corpo di chi gesticola. «Ali» e «nubi» comprendono simili movimenti dalle spalle verso il cielo sopra chi gesticola. De l'Epée ascolta, affascinato. La osserva recitare diverse altre poesie. Le sue unghie sono lisce e levigate e traslucide come pietre tombali; Mela-
nie vi passa una crema alla mandorla ogni sera, prima di andare a dormire. Si è fermata a metà di una frase. «Oh», dice, «le ho fatte tutte. L'Associazione Nazionale Sordomuti, il Centro Biculturale, l'Associazione Adetica Nazionale dei Sordomuti.» Lui annuisce. Lei vorrebbe che lui le raccontasse della sua vita. È sposato? (Ti prego, no!) Ha dei bambini? È più vecchio di quanto immagino, o più giovane? «Avevo già la carriera pronta. Sarei diventata la prima donna sorda supervisore di fattoria.» «Fattoria?» «Chiedimi della semina del mais. O dell'ammoniaca anidrogenata. Vuoi sapere qualcosa del frumento? Il frumento rosso proviene dalle steppe russe. Ma il suo nome non ha un significato politico - oh, non in Kansas, nossignore. È il colore. 'Onde ambrate di grano...' Chiedimi dei vantaggi della semina ritardata o come si compilano le dichiarazioni finanziarie della UCC a garanzia dei raccolti che non sono ancora cresciuti. 'Tutte le concrescenze e i beni annessi a detto terreno...'» Suo padre, spiega, possedeva quasi trecento ettari di terreno nel Kansas centromeridionale. Era un uomo emaciato che si portava addosso una stanchezza che la gente scambiava per ruvidità. Il suo problema non era la mancanza di volontà, quanto la mancanza di talento, che lui chiamava fortuna. E ammetteva - ma soltanto con se stesso - di aver bisogno di aiuto da diverse direzioni. Naturalmente, riponeva la maggior fiducia in suo figlio, ma le fattorie sono affari grossi, al giorno d'oggi. Harold Charrol aveva in mente di attribuire sia a suo figlio Danny che a sua figlia Melanie un terzo della proprietà e di vederli tutti prosperare come una famiglia unita. Lei era riluttante a conformarsi a questi progetti, ma l'idea di lavorare con suo fratello aveva un certo fascino. L'irriducibile ragazzino era diventato un simpatico giovanotto, niente a che fare con il loro amareggiato genitore. Mentre Harold borbottava oscuramente contro il destino quando la lama di una mietitrebbia si spezzava, restando paralizzato dalla rabbia, Danny poteva saltare giù dal posto di guida, sparire per un po' e tornare con una confezione di birra da sei lattine e qualche panino per un picnic improvvisato. «Sistemeremo quella figlia di puttana stasera. Adesso mangiamo.» Per qualche tempo aveva creduto che quella potesse essere una bella vita. Aveva frequentato qualche corso supplementare di agraria e aveva persino inviato un articolo a Silent News sul rapporto tra la Sordità e la vita in
fattoria. Ma poi, l'estate passata, Danny aveva avuto l'incidente e aveva perso sia la capacità che la voglia di lavorare alla fattoria. Charrol, con la disperata legittimità di un uomo che ha bisogno di eredi, si era rivolto a Melanie. Lei era una donna, sì (e quello era, in qualche modo, un handicap peggiore del suo handicap uditivo), ma almeno era una donna bene educata e che lavorava sodo. Melanie, così aveva in mente lui, sarebbe diventata sua socia a tutti gli effetti. E perché no? Fin dall'età di sette anni aveva viaggiato nella cabina climatizzata del grosso John Deere, aiutandolo a cambiare il numero infinito di marce. Aveva indossato occhialoni, mascherina e guanti come un rustico chirurgo e aveva riempito il serbatoio dell'ammoniaca, era stata presente ai suoi meeting con la United Produce ed era andata con lui nei punti di raccolta lungo la strada, noti soltanto agli abitanti del luogo, dove si nascondevano i lavoratori immigrati in attesa di lavori a giornata nel periodo del raccolto. Vedi, è una questione di appartenenza e di ciò che fa il Signore per rassicurare coloro che non sanno di avere un posto dove stare. Be', il tuo posto è qui, a lavorare a ciò che puoi fare, dove il tuo... il tuo problema non ti mette nei guai, non ti rende la vita difficile. È la volontà di Dio... E così, poi sarai a casa. Diglielo, pensa Melanie. Sì! Se mai lo dirai ad anima viva, dillo a de l'Epée. «C'è una cosa», comincia, «che vorrei dire.» Lui la osserva placidamente. «È una confessione.» «Sei troppo giovane per avere qualcosa da confessare.» «Dopo la recita delle poesie a Topeka, non sarei tornata subito alla scuola. Sarei andata a trovare mio fratello a St. Louis. E in ospedale. Domani gli faranno un'operazione.» De l'Epée annuisce. «Ma, prima di andare a trovarlo, c'era qualcosa che avevo progettato di fare a Topeka. Avevo un appuntamento con qualcuno.» «Dimmi.» Deve dirglielo? O no? Sì, decide. Deve. Ma, proprio quando sta per parlare, qualcosa si intromette. L'odore del fiume?
Il tonfo di passi che si avvicinano. Bruto? Allarmata, aprì gli occhi. No, non c'era nulla. Il mattatoio era immobile. Nessuno dei loro tre aguzzini era nelle vicinanze. Melanie chiuse gli occhi e lottò per rientrare nella stanza della musica. Ma de l'Epée non c'era più. «Dove sei?» gridò. Ma poi si rese conto che, anche se le sue labbra si stavano muovendo, non riusciva più a udire alcuna parola. No! Non voglio smettere. Torna indietro, ti prego... Poi si rese conto che non era stata la brezza proveniente dal fiume a strapparli via dalla stanza; era stata lei stessa. Era diventata nuovamente timida, vergognosa, e non era riuscita a confessarlo. Nemmeno a quell'uomo che sembrava più che disposto ad ascoltare qualsiasi cosa lei volesse dire, per quanto stupida, per quanto oscura potesse essere. Intravidero la scintilla di luce a circa cinquanta metri di distanza. Joe Silbert e Ted Biggins camminavano furtivi attraverso il campo sulla sinistra del mattatoio. Silbert indicò la luce, un lampo prodotto da un binocolo o da un elemento di equipaggiamento che dondolava appeso alla cintura di uno degli agenti dell'SSO, un riflesso della luce abbagliante proiettata dalle alogene. Biggins borbottò che quelle lampade erano troppo forti. Era preoccupato per il riflesso nelle lenti dell'obiettivo. «Vuoi che mi ci metta io e vada a spegnerle, cazzo?» sussurrò Silbert. Voleva disperatamente una sigaretta. Proseguirono tra gli alberi finché non sbucarono in un campo aperto. Silbert guardò nella videocamera, premendo il bottone dello zoom. Gli agenti, vide, erano raccolti su un crinale ricoperto di cespugli dal quale si dominava il mattatoio. Uno di essi - nascosto dietro lo scuolabus - era praticamente a ridosso dell'edificio, accovacciato proprio sotto una delle finestre. «Maledizione, sono in gamba», sussurrò il giornalista. «Una delle migliori squadre che io abbia mai visto.» «Fottute lampade», borbottò Biggins. «Andiamo avanti.» Mentre attraversavano il campo, Silbert si guardò intorno in cerca dei poliziotti di pattuglia. «Credevo che avessimo le baby-sitter sparse un po' ovunque», commentò. «Quelle luci sono davvero fastidiose.»
«Quasi quasi è troppo facile», borbottò Silbert. «Oh, mio Dio.» Biggins stava guardando in alto. «Perfetto», sussurrò l'altro, ridendo sommessamente. I due uomini sollevarono lo sguardo sulla sommità del mulino a vento. «Ci porterà al di sopra di quelle fottute lampade», disse Biggins come un disco rotto. Quindici metri di altezza. Da lì avrebbero avuto una visuale spettacolare del campo. Silbert sogghignò e cominciò ad arrampicarsi. Una volta in cima, si sistemarono sulla piattaforma instabile. Il mulino era abbandonato da molto tempo e le pale mancavano del tutto. La ruota si muoveva avanti e indietro nel vento. «Sarà un problema?» L'operatore si tolse di tasca un treppiede telescopico e lo allungò, avvitando strettamente le giunzioni. «E allora, che cosa posso farci? Come se avessi un cazzo di stabilizzatore in tasca.» La visuale era eccellente. Silbert poteva vedere i soldati raggruppati sul lato sinistro del mattatoio. Con truce rispetto, pensò all'agente Arthur Potter, che l'aveva guardato dritto negli occhi e gli aveva detto che non ci sarebbe stato alcun assalto. Era ovvio che i soldati si stavano preparando per un'irruzione imminente. Il giornalista prese dalla tasca un piccolo microfono ricoperto di spugna e lo impugnò. Parlò nel suo telefono cellulare criptato e chiamò il furgone di trasmissione, che era indietro, vicino alla tenda della stampa. «Succhiacazzi», disse a Kellog quando questi rispose, «speravo che vi avessero fatto il culo.» «No, ho detto a quel poliziotto che lui e i suoi colleghi potevano scoparsi tua moglie e loro mi hanno lasciato andare.» «Gli altri sono al tavolo della stampa?» «Sì.» In realtà, Silbert non aveva detto a nessuno degli altri giornalisti dell'accordo che aveva concluso con Potter. Lui e Biggins, Kellog e Bianco, e i due giornalisti che ora erano seduti al tavolo nelle vicinanze del furgone, fingendo di battere storie sul Compaq sventrato, lavoravano tutti per la KFAL di Kansas City. Biggins inserì il microfono nella videocamera e dispiegò l'antenna parabolica. La agganciò alla balaustra del mulino a vento e cominciò a parlare nel microfono. «Prova, prova, prova...» «Smettila con le stronzate, Silbert, hai intenzione o no di darci qualche
immagine?» «Ted vi sta inviando i livelli in questo momento.» Fece un cenno in direzione dell'antenna e Biggins la regolò mentre lui parlava. «Sto passando alla trasmissione radio», avvertì il giornalista, quindi prese il microfono e s'infilò un auricolare nell'orecchio sinistro. Dopo un istante, Kellog rispose: «Ecco. Cinque-cinque. Gesù Cristo Santo, abbiamo le immagini. Dove cazzo siete? Su un elicottero?» «I professionisti sanno sempre come muoversi», rispose Silbert. «Comincia a trasmettere. Sono pronto a girare. Facciamolo, prima che ci abbattano a fucilate.» Ci fu uno sfrigolio di energia statica, poi il giornalista udì uno spot della Toyota che veniva improvvisamente interrotto a metà. «E ora da Crow Ridge», disse la voce baritonale dell'annunciatore, «abbiamo un servizio in diretta dall'inviato di Canale 9 Joe Silbert con immagini esclusive dalla scena del sequestro, dove un gruppo di allieve della Laurent Clerc School per sordomuti e due insegnanti sono tenute in ostaggio da tre criminali evasi. A te la linea, Joe.» «Ron, siamo proprio sopra il mattatoio abbandonato in cui le ragazze e le loro insegnanti sono tenute prigioniere. Come potete vedere, ci sono centinaia di poliziotti che circondano l'edificio. La polizia ha sistemato una serie di lampade alogene molto potenti per illuminare le finestre del mattatoio, presumibilmente allo scopo di prevenire eventuali colpi d'arma da fuoco dall'interno. «Le luci e la presenza degli agenti, comunque, non sono riuscite a prevenire l'omicidio di uno degli ostaggi in quel punto all'incirca laggiù, al centro del vostro teleschermo, circa sei ore fa. Un agente mi ha raccontato che la ragazza è stata rilasciata dagli evasi e stava camminando per raggiungere la sua famiglia e i suoi amici quando si è udito un colpo d'arma da fuoco che l'ha colpita in pieno alla schiena. La ragazza era, come hai già detto tu, Ron, sorda, e l'agente con cui ho parlato crede che abbia adoperato il linguaggio dei gesti per implorare aiuto e per dire ai suoi genitori che gli voleva bene.» «Joe, conoscete l'identità della ragazza?» «No, non sappiamo nulla, Ron. Le autorità sono molto lente nel rilasciare qualsiasi informazione.» «Quanti ostaggi sono coinvolti?» «A questo punto sembra che all'interno dell'edificio siano rimaste quattro allieve e le due insegnanti.»
«Quindi alcune sono riuscite a venir fuori.» «Esatto, Ron. Fino a questo momento ne sono state rilasciate tre, in cambio dell'adempimento di alcune richieste dei sequestratori. Non sappiamo quali concessioni abbiano fatto le autorità.» «Joe, che cosa puoi dirci di quei poliziotti che si vedono lì di lato nelle immagini?» «Ron, quelli che vedi sono membri scelti della squadra speciale per la liberazione degli ostaggi della polizia di stato del Kansas. Non abbiamo ricevuto alcun comunicato su un possibile tentativo di intervento, ma ho già assistito a molte situazioni come questa, prima d'ora, e la mia impressione è che si stiano preparando per un'irruzione.» «Che cosa pensi che accadrà, Joe? Per quanto riguarda l'irruzione, intendo. Come procederà l'operazione?» «È difficile da dire senza sapere dove vengono tenuti gli ostaggi, qual è la potenza di fuoco a disposizione degli uomini all'interno e così via.» «Potresti fare un'ipotesi per noi?» «Certamente, Ron», disse Silbert. «Ne sarò felice.» E fece un segnale a Biggins, adoperando i gesti che avevano sviluppato nel corso della loro lunga collaborazione. Il segnale significava: «Zoom in avanti». Se ne occuparono in fretta, perché non sapevano quanto tempo restava prima della scadenza dell'ultimatum successivo. Il capitano Dan Tremain parlò sulla frequenza radio criptata all'unità Bravo e apprese che avevano scoperto una porta sfondabile accanto al molo sul retro del mattatoio, ma che questa era in piena vista di una scialuppa su cui erano posizionati due poliziotti armati. L'imbarcazione era ancorata a circa venti metri dalla riva del fiume. «Se ci avviciniamo anche solo di un centimetro, ci vedranno.» «Qualche altra via d'accesso alla porta?» «Nossignore.» Esterno Due, però, aveva delle buone notizie. Sbirciando dentro l'edificio, l'agente Joey Wilson aveva scrutato attentamente la parete dalla parte opposta - il lato sudorientale - del mattatoio e aveva visto che, proprio di fronte alla porta antincendio che l'unità Alpha avrebbe sfondato, si trovava un grosso pezzo di cartongesso malamente montato. Si domandò se non coprisse una seconda porta antincendio. La prima ricognizione esterna non ne aveva rivelato la presenza. Tremain mandò un altro dei suoi uomini sot-
to il molo dalla parte opposta dell'edificio. L'agente raggiunse il punto menzionato da Wilson e riferì che si trattava proprio di una porta, invisibile perché nascosta dall'edera. Il capitano ordinò al suo uomo di trapanare la porta con un Dremel silenziato dotato di una lunga e sottile punta al titanio per il carotaggio. Esaminando i campioni, l'agente aveva scoperto che la porta era spessa soltanto tre centimetri ed era stata indebolita dall'umidità, dalle termiti e dalle formiche del legno. C'era un'intercapedine di sette centimetri e poi il cartongesso, spesso soltanto otto millimetri. L'intera struttura era di gran lunga più fragile della porta dalla parte opposta. Piccole cariche di sfondamento l'avrebbero squarciata con irrisoria facilità. Tremain era in estasi. Era anche meglio che entrare dal vano di carico, perché un'irruzione da due ingressi opposti permetteva un immediato fuoco incrociato. I sequestratoti non avrebbero avuto la minima possibilità di rispondere. Tremain conferì con Carfallo e divise i suoi uomini in due nuove unità: la Bravo si sarebbe avvicinata al lato sudorientale del mattatoio passando sotto il pontile, l'Alpha si sarebbe posizionata alla porta settentrionale, più arretrata ma, al tempo stesso, più vicina agli ostaggi. Appena dopo l'irruzione, l'unità Alpha si sarebbe divisa in due gruppi; tre uomini si sarebbero diretti verso gli ostaggi e tre sarebbero avanzati verso i sequestratori, mentre i quattro uomini dell'unità Bravo sarebbero entrati dalla porta sud e avrebbero attaccato gli SO alle spalle. Tremain esaminò il piano: profondi fossati per celare il loro avvicinamento, assoluta sorpresa, granate prima stordenti e poi abbaglianti, fuoco incrociato. Uno scenario quasi perfetto. «Casa base a tutte le unità e a tutti gli esterni. Al mio segnale mancheranno quarantacinque minuti all'ordine di via libera. Siete pronti? A partire dal mio cinque... Cinque, quattro, tre, due, uno, segnale.» I soldati confermarono la sincronizzazione. Tremain avrebbe... Un messaggio concitato, urgente. «Comandante Bravo a casa base. C'è del movimento, qui. Dal pontile di carico. Qualcuno sta cercando di uscire.» «Identificazione.» «Non sono in grado di rispondere. Stanno scivolando da sotto la porta che immette sul pontile. Non riesco a vedere chiaramente. C'è soltanto del movimento.» «Un SO?»
«Sconosciuto. Il pontile è ridotto malissimo ed è ricoperto di lordura.» «Montate i soppressori.» «Sissignore.» Gli uomini sistemarono i soppressori sui loro H&K, enormi silenziatori a tubo. Per almeno un caricatore o due di munizioni, il rumore dei fucili sarebbe stato poco più di un sussurro metallico e, con quel vento, i poliziotti nella scialuppa probabilmente non avrebbero sentito nulla. «Acquisire bersaglio. Fuoco semiautomatico.» «Bersaglio acquisito.» «Che cosa sembra, comandante Bravo?» «È difficile riuscire a distinguerlo, ma indossa una camicia bianca, rossa e blu. Probabilmente posso neutralizzarlo, ma non sono in grado di identificarlo positivamente. Chiunque sia, se ne sta molto basso sul terreno. Consiglio.» «Se sei in grado di identificare positivamente un SO, hai il via libera per abbatterlo.» «Sissignore.» «Tienilo nel mirino. E aspetta.» Tremain chiamò Esterno Due, che arrischiò un'occhiata alla finestra e poi rispose: «Se qualcuno se ne sta andando, si tratta di Bonner. Non lo vedo. Soltanto Handy e Wilcox». Bonner. Lo stupratore. Tremain avrebbe giubilato per la possibilità di scaricargli addosso la vendetta del Signore. «Comandante Bravo. Situazione? È entrato in acqua?» «Aspetti, sì, eccolo che va. È appena scivolato nel fiume. L'ho perso. No, ce l'ho ancora. Devo avvertire gli agenti nella scialuppa? Passerà proprio accanto a loro.» Tremain si dibatté nell'indecisione. «Casa base, mi sentite?» Se era Bonner, poteva riuscire a fuggire. Ma, almeno, non sarebbe stato presente al momento dell'attacco. Una persona in meno di cui preoccuparsi. Se - nonostante sembrasse impossibile - si trattava di un ostaggio, c'era il rischio che potesse annegare. In quel punto la corrente era molto rapida e il canale molto profondo. Ma, per soccorrerlo, il capitano avrebbe dovuto rivelare la propria presenza, il che avrebbe significato rinunciare all'operazione e mettere a repentaglio la vita degli altri ostaggi. No, pensò, non può essere un ostaggio. Non esisteva che una bambina potesse riuscire a fuggire da tre uomini armati.
«Negativo, comandante Bravo, non avvisare i poliziotti nell'imbarcazione. Ripeto, non avvisare della presenza del soggetto.» «Ricevuto, casa base. E, comunque, non credo che dovremo preoccuparci di lui. Sta andando dritto verso il centro del fiume. Dubito che lo vedremo mai più.» PARTE TERZA PERDITE ACCETTABILI 19,46 «Che cos'è quello?» Il vicesceriffo di Crow Ridge Arnold Shaw non lo sapeva, e non gli importava di saperlo. Lo snello trentenne, tutore della legge fin dall'inizio della sua ancor breve vita lavorativa, aveva già avuto la sua razione di barche. Lanciando esche per i pescigatto, pescando a strascico il pesce persico. Aveva persino fatto sci nautico un paio di volte giù al lago degli Ozarks. E mai una volta aveva avuto il mal di mare come l'aveva in quel preciso momento. Oh, ragazzi. Questa è una tortura. Lui e Buzzy Marboro erano ancorati a circa venti metri o giù di lì dalla riva, tenendo gli occhi «incollati come francobolli» sul pontile del mattatoio, come aveva ordinato il loro boss Dan Stillwell. Il vento era forte, anche per il Kansas, e la piccola scialuppa dondolava e sussultava come una giostra da luna park. «Non sto molto bene», borbottò Shaw. «Là», disse Marboro. «Guarda.» «Non voglio guardare.» Ma guardò, fissando il punto che Marboro gli stava indicando. A dieci metri di distanza, qualcosa stava galleggiando, allontanandosi da loro. Gli uomini erano armati di vecchi fucili Remington e Marboro puntò pigramente il proprio sulla massa galleggiante. Pochi minuti prima avevano udito un tonfo provenire dal pontile e avevano guardato attentamente, senza però trovare nessun sequestratore che tentasse di fuggire sul fiume. «Se qualcuno si è buttato in acqua...» «L'avremmo visto», borbottò Shaw nel vento. «...a quest'ora sarebbe quasi arrivato qui. Proprio dove si trova quella
cosa. Qualsiasi cosa sia.» Shaw lottò con se stesso per liberarsi del ricordo della cena della sera prima: lo stufato al tonno di sua moglie. «Non mi sento troppo bene, Buzz. Dove vuoi arrivare?» «Vedo una mano!» esclamò Marboro facendo un balzo. «Oh, no, non farlo. Ci stiamo già muovendo abbastanza. Siediti, per l'amor del cielo.» Tonno e panna e crema di funghi e piselli e, in cima a tutto quanto, quelle cipolle fritte. Oh, ragazzi, non credo di poterlo trattenere ancora per molto. «Sembra proprio una mano e poi guarda quella cosa... è rossa e bianca! Accidenti, credo proprio che sia uno degli ostaggi!» Shaw si voltò e guardò la cosa che si alzava e si abbassava appena sotto la superficie dell'acqua. Non riusciva a vederla per più di qualche secondo di fila, né riusciva a capire di che cosa si trattasse esattamente. Sembrava una specie di rete galleggiante ma, come aveva fatto notare Buzz, era rossa e bianca. E blu, anche. E si stava allontanando da loro, molto in fretta, dirigendosi dritta verso il centro del fiume, in mezzo alla corrente. «Non vedi una mano?» disse Marboro. «No... aspetta. Sai una cosa, in effetti assomiglia a una mano. Una specie.» Con riluttanza, e con grande disappunto del suo stomaco in ebollizione, Arnie Shaw si alzò in piedi. La qual cosa lo fece sentire, stimò lui, almeno mille volte peggio. «Non riesco a capire. Forse è un ramo.» «Non lo so. Guarda come si muove alla svelta. Arriverà a Wichita in un batter d'occhio.» Shaw decise che, alla fine dei conti, avrebbe preferito farsi cavare un dente piuttosto che avere il mal di mare. No... due denti. «Magari è solamente qualcosa che i sequestratoti hanno buttato fuori per... sai, per distrarci. Noi ci buttiamo a prenderla e loro se ne vanno dall'altra parte.» «O forse è soltanto spazzatura», borbottò Shaw, tornando a sedersi. «Ehi, ma che cosa stiamo pensando? Se fossero amici non si sarebbero limitati a passarci davanti tranquillamente senza chiamare aiuto. Diamine, abbiamo indosso le uniformi. Lo saprebbero subito che siamo della polizia.» «Ma certo. Che cosa diavolo stavo pensando?» disse Marboro, sedendosi anch'egli. Un paio di occhi vigili tornò a fissare il retro del mattatoio. L'altro paio
si chiuse lentamente, mentre il suo proprietario deglutiva in uno sforzo disperato di calmare il subbuglio che aveva nello stomaco. «Sto morendo», bisbigliò Shaw. Esattamente dieci secondi dopo, i suoi occhi si spalancarono di scatto. «Oh, figlio di puttana», esclamò lentamente Shaw. Si sollevò a sedere. «Anche tu te lo sei appena ricordato?» gli chiese Marboro con gli occhi sgranati. In effetti, Shaw si era appena ricordato... che le ragazze tenute in ostaggio erano sorde e mute e non sarebbero state in grado di chiamare aiuto per salvarsi la vita, non importa quanto vicino fossero passate alla scialuppa. Quella era una delle ragioni del suo disappunto. L'altra era il fatto che lui era stato un campione di nuoto: aveva partecipato alle finali intercollegiali per tre anni di fila, vincendo ogni volta. E sapeva benissimo che Buzz Marboro invece non sarebbe riuscito a nuotare a cagnolino nemmeno per dieci metri. Respirando profondamente - non per la nuotata imminente, quanto per tenere a bada il proprio stomaco turbolento - Shaw si tolse le armi, il giubbotto antiproiettile, l'elmetto e gli stivali. Un ultimo, profondo respiro. Si tuffò di testa nell'acqua agitata e torbida del fiume Arkansas e si lanciò come una freccia verso quella cosa che galleggiava dirigendosi rapidamente verso sudest, trasportata dalla corrente impetuosa. Arthur Potter osservò la finestra dietro cui aveva visto Melanie la prima volta. Poi quella dove l'aveva quasi vista morire per mano di Lou Handy. «Sono convinto che stiamo per incontrare un muro, qui», disse lentamente. «Se siamo fortunati, forse riusciremo a portarne fuori un'altra, o altre due, tutto qui. Poi, o troviamo il modo di convincerlo ad arrendersi, o facciamo entrare l'SSO. Qualcuno mi dica le previsioni del tempo.» Stava sperando in un temporale di quelli indimenticabili per giustificare un ulteriore ritardo nell'arrivo dell'elicottero. Derek Elb spostò un interruttore e il canale meteorologico divenne visibile. Potter scoprì che le condizioni del tempo per la nottata in arrivo sarebbero state praticamente le stesse - vento sostenuto, con cielo in schiarita. Niente pioggia. I venti avrebbero soffiato da nordest a una velocità di trenta, massimo trentacinque chilometri orari. «Dovremo continuare ad aggrapparci alla scusa del vento», grugnì LeBow. «E anche questo sarà quasi inutile. Trenta chilometri orari? Quand'era nell'esercito, probabilmente Handy ha volato in elicotteri che sono atter-
rati con raffiche di vento forti almeno il doppio.» Dean Stillwell chiamò Henry LeBow; la sua voce essenziale si riversò nel furgone dagli altoparlanti. «Sì?» rispose l'agente informativo, sporgendosi verso il microfono. «L'agente Potter ha detto di riferire a lei ogni informazione sui sequestratori?» «Esatto», confermò LeBow. «Be', uno dei poliziotti qui ha un buon punto di osservazione, diciamo che ha una buona angolazione. E ha detto che Handy e Wilcox stanno camminando per tutta la stanza, perlustrandola.» «Perlustrandola?» «Scostando i tubi e guardando dietro i macchinari. È proprio come se stessero cercando qualcosa.» «Ha idea di che cosa?» domandò LeBow. «No. Pensavo che forse stavano controllando se c'erano dei posti dove nascondersi.» Potter annuì in direzione di Budd, ricordandosi che era stata un'idea del capitano che i sequestratori potessero indossare le divise dei soccorritori nel corso delle operazioni di resa o dell'irruzione dell'SSO. E non era la prima volta che qualche sequestratore, che so, lasciava aperta una finestra e poi si nascondeva in qualche armadio o in qualche buco per un giorno o due finché la polizia non arrivava alla conclusione che fosse fuggito. LeBow prese nota dell'informazione e ringraziò Stillwell. «Voglio essere sicuro che tutti abbiano le fotografie dei sequestratori», disse Potter. «E dovremo dire a Frank e all'SSO di passare al setaccio il posto, se sembrerà che siano fuggiti.» Si sedette nuovamente sulla sua poltroncina, guardando il mattatoio fuori del finestrino. «A proposito», aggiunse Stillwell tornando alla radio, «sto facendo portare da mangiare a tutti gli agenti e l'Heartland vi consegnerà la cena da un momento all'altro.» «Grazie, Dean.» «L'Heartland? Benissimo», disse Derek Elb con un'aria particolarmente soddisfatta. I pensieri di Potter, però, non erano concentrati sul cibo, ma su qualcosa di molto più grave: se doveva o meno incontrarsi con Handy. Aveva la sensazione che gli ultimatum fossero in scadenza davvero, in qualche modo sentiva dentro di sé che Lou stava diventando più testardo e che avreb-
be cominciato a dettare ultimatum non più negoziabili. Faccia a faccia, Potter avrebbe potuto essere in grado di stancarlo con più efficienza che tramite le loro conversazioni telefoniche. E stava pure pensando: Questo potrebbe anche darmi una possibilità di vedere Melanie. Potrebbe darmi una possibilità di salvarla. Ciononostante, un incontro tra il sequestratore e il comandante del blocco era la forma più pericolosa di trattativa. C'era il rischio fisico, ovviamente; i sentimenti degli SO, sia quelli positivi sia quelli negativi, sono sempre molto estremi nei confronti del negoziatore. Spesso i sequestratori sono convinti, a volte inconsciamente, che uccidere il responsabile della trattativa possa dar loro un potere che altrimenti non avrebbero; pensano che i poliziotti cadrebbero nel caos o che una persona meno abile potrebbe prendere il suo posto. Ma, anche senza violenza, esiste sempre il pericolo concreto che il negoziatore, agli occhi degli SO, diminuisca in autorità e statura e perda così il rispetto dei suoi avversari. Si sporse verso il vetro offuscato del finestrino. Che cosa c'è dentro di te, Handy? Che cos'è che ti muove? Sta succedendo qualcosa, in quel freddo cervello che ti ritrovi. Quando parli, sento silenzio. Quando non dici una parola, sento la tua voce. Quando sorridi, vedo... che cosa? Che cosa vedo? Ah, questo è il problema. Non lo so. Semplicemente non lo so. La porta si spalancò e il profumo del cibo riempì la stanza. Un giovane agente dello sceriffo di Crow Ridge portò dentro diverse scatole piene di contenitori di cibo e di thermos di caffè. L'appetito tornò improvvisamente a Potter quando il poliziotto posò i contenitori. Si era aspettato del cibo privo di sapore - panini imbottiti di carne e gelatina - ma l'agente descrisse ognuno dei piatti via via che li sistemava sulle scrivanie: «Questa è mousse di ciliegia, questi sono zwieback, bratwurst, torta salata all'agnello e al capretto, sauerbraten, patate alla griglia». «L'Heartland è un famoso ristorante mennonita», spiegò loro Derek Elb. «La gente viene da tutto lo stato per andarci a mangiare.» Nei successivi dieci minuti mangiarono, quasi sempre in silenzio. Potter tentò di ricordare i nomi dei piatti per poterli raccontare alla cugina Linden quando fosse tornato nella città del vento. Lei faceva collezione di ricette esotiche. Stava per terminare la sua seconda tazza di caffè quando, con la
coda dell'occhio, vide Tobe irrigidirsi ascoltando una trasmissione radio. «Come?» disse il giovane agente al microfono, visibilmente esterrefatto. «Ripeta, sceriffo.» Potter si voltò verso di lui. «Uno degli uomini di Dean Stillwell ha appena pescato dal fiume le due gemelle!» Un sussulto collettivo. Poi, un applauso spontaneo eruppe nel furgone. L'agente informativo prese i due Post-it che rappresentavano le bambine e li tolse dalla piantina del mattatoio, spostandoli sul margine. Poi tolse dalla parete le loro fotografie, che andarono a unirsi a quelle di Jocylyn, Shannon e Kielle nella cartelletta dei soggetti rilasciati all'interno del dossier sugli ostaggi. «Le hanno controllate per un principio di ipotermia, ma, a parte questo, stanno bene. Come topolini bagnati, ma quest'ultima considerazione dovremmo tenercela per noi.» «Chiamate l'albergo», ordinò Potter. «Ditelo ai loro genitori.» Tobe, ascoltando l'auricolare, scoppiò a ridere. Sollevò gli occhi. «Stanno venendo qui, Arthur. Hanno insistito per vederti.» «Vedermi?» «Se tu sei un uomo di mezza età con gli occhiali e un completo scuro, sì. Solo che pensano che il tuo nome sia de l'Epée...» Potter scosse la testa. «Chi?» Frances ebbe una risatina. «L'abate de l'Epée. È l'uomo che ha creato il primo linguaggio dei segni a larga diffusione.» «E per quale motivo mi chiamano così?» Frances si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea. È una specie di santo patrono per i sordomuti.» Le piccole arrivarono cinque minuti dopo. Gemelline adorabili, avvolte nientemeno che in due coperte Barney multicolori (un altro dei miracoli di Stillwell). Non assomigliavano per nulla a due roditori fradici, ma a bambine più sbalordite che spaventate mentre fissavano Potter con gli occhi sgranati. Adoperando gesti frammentari spiegarono, tramite Frances, come Melanie le aveva fatte uscire dal mattatoio. «Melanie?» domandò Angie, annuendo in direzione di Potter. «Mi sono sbagliata. A quanto pare hai un'alleata, là dentro.» Handy era già al corrente di ciò che aveva fatto Melanie? si domandò lui. Quanta altra resistenza avrebbe tollerato prima della rappresaglia? E quanto sarebbe stata letale, questa volta?
Il suo cuore mancò un battito quando vide gli occhi di Frances Whiting spalancarsi per l'orrore. La poliziotta si voltò verso di lui. «Le bambine non hanno capito bene che cosa stava succedendo, ma credo che uno di loro stesse stuprando l'insegnante.» «Melanie?» si affrettò a chiedere Potter. «No. Donna Harstrawn.» «Oh, mio Dio, no», sussurrò Budd. «E loro l'hanno visto, quelle bambine?» «Bonner?» domandò Angie. Il volto di Potter non tradiva minimamente l'angoscia che sentiva dentro di sé. Annuì. Naturale che fosse stato Bonner. Il suo sguardo si posò sulle fotografie di Beverly ed Emily. Entrambe giovani, entrambe femminili. E poi sulla fotografia di Melanie. Angie domandò alle gemelle se fosse stato Handy, in realtà, a dire a Bonner di fare quelle cose alla donna, o se l'uomo grasso avesse agito di propria iniziativa. Frances osservò i segni e poi riferì: «Orso - è così che chiamano Bonner - continuava a guardarsi intorno mentre lo stava facendo. Come se non volesse essere scoperto. Sono convinte che Bruto -Handy - si sarebbe arrabbiato moltissimo se l'avesse visto». «Bruto si comporta in modo amichevole con qualcuna di voi?» domandò Angie alle bambine. «No. È terribile. Non fa altro che guardarci con gli occhi freddi, come un personaggio dei fumetti di Shannon. Ha picchiato Melanie.» «Lei sta bene?» Una delle due bambine annuì. Angie scosse la testa. «Non andiamo bene.» Guardò la piantina del mattatoio. «Non sono poi così lontani, i sequestratori e gli ostaggi, ma non sembra che sia in corso nemmeno un accenno di sindrome di Stoccolma con Handy.» Più cose so di loro, più mi viene voglia di ucciderle. Potter domandò alle bambine delle armi, degli attrezzi e della televisione. Ma le due gemelle non erano in grado di offrire niente che già non sapesse. Poi una delle due gli porse un foglietto di carta. Era fradicio, ma le parole, scritte con i pennarelli indelebili procurati da Derek Elb, erano ancora abbastanza leggibili. «È di Melanie», comunicò. Quindi lo lesse a voce alta: «Caro de l'Epée, ci sarebbero così tante cose da scriverti, ma non c'è tempo. Stai molto attento con Handy. È malvagio, più malvagio di
qualsiasi cosa. Quel che devi sapere: Handy e Wilcox sono amici; Handy odia Orso (quello grasso); Orso è laido e lussurioso». LeBow gli chiese il foglietto per poterlo trascrivere nel computer. «Si sta disintegrando», gli rispose Potter. Lo lesse nuovamente a voce alta mentre l'agente informativo digitava sulla tastiera. Una delle due gemelle fece un passo avanti e gesticolò timidamente. Potter sorrise e rivolse a Frances un'occhiata interrogativa. «Vogliono il suo autografo», lo informò. «Il mio?» Le due bambine annuirono in perfetta sincronia. Lui si trasse una penna dal taschino della camicia, la stilografica d'argento che portava sempre con sé. «Si aspettano», continuò Frances, «abate de l'Epée.» «Ah, sì. Certo. Ed è proprio quello che avranno. Uno a testa.» Le piccole guardarono i due pezzi di carta e, mentre uscivano, li tennero religiosamente con sé. Una di loro si fermò e comunicò qualcosa a Frances. La donna tradusse: «Melanie ha detto anche un'altra cosa. Ha detto di dire a de l'Epée di stare attento». State accorti... «Fammi vedere come si dice: 'Grazie. Siete molto coraggiose'.» Frances glielo mostrò e lui mimò le parole con gesti stentati. Le gemelle sorrisero insieme, quindi presero Frances per mano mentre lei le accompagnava dal poliziotto che le stava aspettando fuori per portarle in macchina al Days Inn. Budd si sedette accanto a Potter. «Per quale motivo Melanie ci avrà detto una cosa del genere?» Indicò il bigliettino. «Che Bonner è laido e lussurioso e che gli altri due sono amici?» «Perché è convinta che possiamo farci qualcosa», spiegò la psicologa. «E cosa?» Potter abbassò lo sguardo sul foglietto di carta fradicio. Era firmato: Con amore, Melanie C, che era il motivo per cui non l'aveva consegnato direttamente a Henry LeBow. Lo piegò accuratamente e se lo mise in tasca. «Il profilo di Bonner», ordinò. Henry lesse dallo schermo. Ray «Sonny» Bonner aveva condotto un'esistenza inutile. Era stato in galera per crimini a sfondo sessuale e per rapine minori, violenza domestica, disturbo alla quiete pubblica. Spinto dalla lussuria, non intelligente. Era anche una spia: aveva testimoniato contro il suo
complice in un processo per rapina dieci anni prima. Potter e Angie si scambiarono un'occhiata. Sorrisero. «Perfetto.» La decisione era stata presa. Potter non si sarebbe incontrato faccia a faccia con Handy. Una nuova strategia si era presentata praticamente da sola. Più rischiosa, certo. Ma forse migliore. Charlie Budd divenne consapevole del fatto che Angie Scapello e Arthur Potter lo stavano guardando, studiandolo. «Che cosa ne pensi tu, Henry?» domandò Potter. «Sentite...» cominciò Budd, a disagio. «Credo che sia perfetto», rispose LeBow. «Entusiasta, onesto, corretto. E poi ha una gran voce da baritono.» «Ti aspetta una bella performance, Charlie», annunciò Potter. «Io?» Il giovane capitano aveva l'aria sbalordita. «Che cosa intendi dire, esattamente?» «Stai per prendere in mano la trattativa.» «Che cosa?» «E voglio che parli a Handy della possibilità di arrendersi.» «Sissignore», rispose Budd. Poi: «Stai scherzando». «Sei perfetto, Charlie», lo rincuorò Angie. «Ho già tirato fuori l'argomento, con lui», spiegò Potter. «Adesso è giunto il momento di presentare la resa come una possibilità concreta. Naturalmente Handy dirà di no. Ma gli resterà impressa nella mente come una delle opzioni possibili. Inizierà a soppesare le possibilità.» «Ci sarà anche qualcosa di più di questo, però», aggiunse LeBow, con gli occhi fissi come sempre sullo schermo. «Stiamo aumentando la posta in gioco», disse Potter, e iniziò a scrivere appunti su un notes giallo. «Sentite, penso proprio di non essere molto adatto per questa cosa.» «Non hai mai recitato?» gli domandò Angie. «Mi vesto da Babbo Natale per le mie bambine e per i figli di mio fratello, a Natale. Tutto qui.» «Ti darò un canovaccio da seguire.» Potter ci rifletté per un istante, poi strappò i primi fogli del notes e cominciò da capo, scrivendo meticolosamente: due pagine fitte di appunti. «Questo è soltanto lo spunto. Non devi fare altro che improvvisare su questa linea. Riesci a leggerlo senza problemi?» Budd scorse i fogli. «Certo, solo che non credo di essere pronto. Dovrei
fare un po' di pratica o qualcosa del genere.» «Non c'è tempo per fare pratica», replicò Potter. «Lascia soltanto che ti dia un paio di consigli sulla trattativa.» «Stai parlando sul serio, non è vero?» «Ascoltami, Charlie. Concentrati. Devi sfondare alla svelta le sue barriere e fargli credere queste cose.» Picchiettò sui fogli di carta gialla. Il volto di Budd divenne immobile. Il capitano si sedette di fronte alla scrivania sulla quale era appoggiato il telefono cellulare. «Ora, voglio che tu faccia da eco alle cose di cui parla. Se ti dice che vuole del gelato, tu dici: 'Gelato, ma certo'. Se ti dice che ha fame, tu gli dici: 'Hai fame, vero?' In questo modo gli fai vedere che ti interessi a quello che lui vuole, ma senza esprimere alcun giudizio. La cosa lo stanca e lo costringe a pensare. Fallo selettivamente, però. Non limitarti a ripetere ogni suo commento, altrimenti gli darai sui nervi.» Budd annuì. Stava sudando come una fontana. «Accetta le sue sensazioni», disse Angie, «ma non simpatizzare con lui.» «Giusto», continuò Potter. «Lui è il nemico. Noi non permettiamo la violenza, e di conseguenza lui sta facendo qualcosa di sbagliato. Ma dovrai riuscire a spiegargli che capisci perché si sente a quel modo. Ci sei? Non parlare troppo. Devi essere sempre consapevole di come suona la tua voce e di quanto rapidamente stai parlando. Ti dico fin da ora che andrai troppo veloce. Fai uno sforzo consapevole per parlare lentamente e deliberatamente. A te sembrerà di essere sott'acqua.» La psicologa aggiunse: «Se gli fai una domanda e lui non ti risponde, lascia che il silenzio cresca. Non permettere alle pause di scombussolarti». «Non permettergli di manipolarti. Lui lo farà intenzionalmente e inconsciamente - usando minacce, parlando alla svelta, dicendo cose folli e restando in silenzio. Non devi fare altro che tenere bene a mente qual è il tuo scopo finale.» Potter, questa volta con fare solenne, picchiettò con la punta delle dita i due fogli di carta. «La cosa più importante: non permettergli di arrivare fino a te. Lascialo sproloquiare e lasciagli dire cose terribili, ma non sconvolgerti. Lascia che rida di te. Che ti insulti. Non ci badare, fatteli scorrere addosso come acqua. Sei al di sopra di queste meschinità.» Si chinò verso di lui e sussurrò: «Potrebbe anche dirti che ha intenzione di uccidere tutti gli ostaggi. Potrebbe anche far fuoco con la pistola per farti credere di aver sparato a qualcuno. Potrebbe anche dirti che le torturerà o le violenterà. Non lasciare che la cosa ti condizioni».
«Che cosa dico?» domandò Budd disperatamente. «Se lui dice una cosa del genere, che cosa gli dico?» «È meglio non parlare. Se ti senti obbligato a rispondere, di' semplicemente che non sarebbe nel suo interesse fare una cosa del genere.» «Oh, ragazzi.» Potter guardò l'orologio. «Mettiamo in piedi lo spettacolo. Pronto?» domandò a Budd. Il giovane capitano annuì. «Premi il pulsante uno.» «Cosa?» «È il pulsante di chiamata rapida», spiegò Tobe. «Premi il numero uno.» «E poi gli parlo?» «Hai capito gli appunti?» chiese Potter. Budd annuì di nuovo. Potter gli indicò il telefono. «Oh, ragazzi», gemette il capitano. Afferrò il telefono e premette il pulsante. «Collegamento», sussurrò Tobe. «Ehi. Come ti va, Art?» La voce proveniva dagli altoparlanti sopra le loro teste. Handy sembrava ironico. «Qui parla Charlie Budd. Sto parlando con Lou Handy?» «Chi cazzo sei?» Gli occhi di Budd erano fissi sul foglio che aveva di fronte. «Sono dell'ufficio del procuratore degli Stati Uniti.» «Che cazzo dici.» «Mi piacerebbe parlare con te per qualche minuto.» «Dov'è Art?» «Non è qui.» «Che cosa cazzo sta succedendo?» Budd deglutì. Forza, Charlie, pensò Potter. Non c'è tempo per il panico da palcoscenico. Picchiettò sul foglio. «Succedendo?» fece eco il capitano. «Che cosa intendi dire?» «Voglio parlare soltanto con lui.» «Con chi?» «Art Potter. Con chi cazzo pensavi che volessi parlare?» Budd respirò profondamente. «Be', perché non parli con me? Non sono poi così cattivo.» «Procuratore degli Stati Uniti?» «Già. Voglio parlarti della possibilità di arrenderti.» Rallenta, scrisse Potter.
«Oh, un timidone con il senso dell'umorismo. Be', vaffanculo.» I lineamenti di Budd si stavano rilassando. «Ehi, non ti piacciono gli avvocati?» «Li adoro.» «Vuoi sentire una barzelletta, Lou?» disse Budd. Potter e LeBow si scambiarono un'occhiata, perplessi. «Ma certo, Charlie.» «Una donna va dal suo ginecologo e gli chiede se può restare incinta facendo sesso anale. E il dottore le dice: certo che si può, da dove crede che vengano gli avvocati?» Handy scoppiò a ridere fragorosamente. La faccia di Budd divenne color cremisi. Mai, in vent'anni di trattative, Potter aveva raccontato una barzelletta a un sequestratore. Magari avrebbe riscritto un capitolo del suo manuale. Budd continuò. «Arthur si sta sbattendo per farti avere un elicottero. Qualcosa che ha a che fare con dei galleggianti. Dovrebbe arrivare tra poco.» «Farebbe meglio a essere qui tra un'ora e venti minuti.» «Be', tutto quello che so, Lou, è che lui sta facendo il possibile. Ma dammi retta, anche se ottieni quell'elicottero, prima o poi ti troveranno.» Fissò il foglio davanti a sé. «Non appena qualcuno scopre chi sei, e il fatto che hai sparato a una ragazza nella schiena, sai benissimo che cosa succederà. Ti prenderanno e, in un modo o nell'altro, mentre sarai a bordo di uno di quei cellulari blindati, capiterà un incidente.» «Mi stai minacciando?» «Diavolo, certo che no. Sto cercando di salvarti. Ti sto dicendo come stanno le cose. Come anche tu sai che stanno le cose.» «Nessuno riuscirà mai a trovarmi. Quindi fottiti, tu e le tue stronzate di arrendermi. Non accadrà. Voi stronzi dovrete entrare qui e venirmi a prendere, se volete che lo faccia. E mi troverete seduto sopra sei ostaggi morti.» Potter indicò le fotografie delle gemelle. LeBow aggrottò le sopracciglia. Per quale motivo Handy non sapeva ancora che erano fuggite? Budd continuò: «Ascoltami, Lou, la procura può offrirvi un accordo». «Un accordo? Che tipo di accordo?» «Una specie di immunità. Non completa, ma...» «Lo sai che cosa ho fatto qui, oggi?» «Be', che cosa hai fatto?» Ripete come un professionista, pensò Potter.
«Ho ucciso qualche persona oggi, ecco cosa ho fatto. Non stiamo parlando di immunità, stiamo parlando di... quale cazzo è quella cosa che ti danno i preti?» Budd guardò Potter, che sussurrò: «Dispensa». «La dispensa.» «Quindi non credo proprio, mio caro rottinculo procuratore Charlie. Quello che penso è che ho bisogno di un elicottero, altrimenti dirò al mio amico Bonner, qui, di farsi una bambina o due. Conosci Bonner? Ce l'ha duro ventiquattr'ore su ventiquattro. Una cosa davvero notevole, che cazzo. Mai visto nessuno come lui. Avresti dovuto vederlo in galera. Un ragazzino arriva per un furtarello e, bang, prima ancora che l'inchiostro delle impronte digitali gli si è asciugato sulle dita, Bonner è già da lui per dirgli: 'Chinati un po', ragazzo bello. Apri quelle gambe'.» Potter, vedendo l'angoscia sul volto di Budd, gli strinse il braccio con forza e batté ancora una volta le dita sui fogli. «Dov'è Art?» domandò improvvisamente Handy. «Mi piace più di te.» «È fuori a trovarti quell'elicottero, te l'ho già detto.» «Col cazzo se non è lì che ascolta noi due con il vivavoce. Quanto è vicino? Probabilmente potrebbe ficcarti l'uccello in bocca senza nemmeno che vi muovete di un millimetro. Ehi, sei un finocchio, Charlie? A sentirti si direbbe di sì.» Budd aggiustò la presa sul telefono. «L'agente Potter sta cercando di procurarti quello che tu gli hai chiesto.» Sono morti perché non mi hanno dato quello che volevo. Potter annuì in segno di approvazione. «Voglio quell'elicottero, altrimenti Bonner si fa una bambina.» «Non hai bisogno di fare una cosa simile, Lou. Avanti. Qui stiamo lavorando tutti insieme, no?» «Oh, l'ultima volta che ho controllato, io e te non eravamo nella stessa squadra, Charlie.» Budd si asciugò il sudore dalla fronte. Potter, sentendosi molto simile a un direttore d'orchestra, gli fece un cenno e gli indicò una parte precisa del foglio giallo. «La stessa squadra?» rispose Budd. «Ehi, no, qui ti sbagli, Lou. Io sono dalla tua parte. E voglio offrirvi un accordo. A te e a Wilcox.» Potter si portò le dita alle labbra, indicando a Budd di fare una pausa. Il capitano deglutì. Angie gli porse un bicchiere d'acqua. Charlie lo buttò giù e le rivolse un sorriso stentato.
Handy restava in silenzio. Budd fece per parlare, Potter scosse la testa. Alla fine Handy disse: «Io e Shep?» «Esattamente.» Con cautela: «Che genere di accordo?» Budd guardò gli appunti. «Chiederemo soltanto l'ergastolo. Niente pena di morte.» «Per noi due?» Potter sentì l'incertezza nella voce di Handy. Splendido, pensò. Per la prima volta da quando questa dannata storia è cominciata, non è sicuro di sapere che cosa sta succedendo. Mostrò a Budd i pollici alzati. «Soltanto tu e Wilcox», ripeté Charlie con decisione. «E Bonner?» Potter agitò le mani per indicare incertezza. «Be', io sto parlando soltanto di voi due.» «E perché non stai parlando anche di Bonner?» Potter si accigliò con rabbia. Budd annuì e, con voce testarda, ribadì: «Perché non voglio parlare di Bonner. Sto offrendo un accordo a te e a Wilcox». «Sei uno stronzo, Charlie.» «Uno stronzo?» «Non me la stai raccontando tutta.» Potter si toccò le labbra. Silenzio. Perfetto, pensò Potter. Se la sta cavando alla grande. Alla fine gli rivolse un cenno di proseguire. «Io te la sto raccontando tutta.» Budd smise di fissare il foglio giallo degli appunti e guardò il mattatoio fuori del finestrino. «E te lo sto dicendo per il tuo bene, oltre che per il bene di tutti. Dovresti arrenderti, amico. Anche se riesci ad andartene da qui su quell'elicottero, sarai l'uomo più ricercato di tutto il Nordamerica. La tua vita sarà un inferno e, se ti prendono, ti condanneranno a morte. Questo lo sai anche tu. Non esiste alcuno statuto limitativo, per l'omicidio.» «E che cosa dovrei dire a Bonner?» Potter strinse il pugno, irato. «Non mi interessa niente quello che gli dirai», rispose rudemente Budd. «Lui non è incluso nell'accor...» «E perché no?»
Esita, scrisse Potter. Fu Handy a interrompere l'interminabile pausa di silenzio. «Perché cazzo non me lo dici?» «Vuoi un accordo oppure no? Tu e Wilcox. Vi salverà da un'iniezione letale.» «Io voglio un fottuto elicottero, ed è questo quello che avrò. Dillo ad Art. Andate tutti a fare in culo.» «No, aspetta...» Clic. Budd chiuse gli occhi e appoggiò il telefono sulla scrivania. Le mani gli tremavano incontrollabilmente. «Eccellente, Charlie. Davvero eccellente.» Potter gli diede una pacca sulla schiena. «Ottimo lavoro», gli disse Angie, strizzandogli l'occhio. Budd sollevò lo sguardo, perplesso. «Eccellente? È incazzato come non mai. Mi ha chiuso il telefono in faccia.» «No, è esattamente dove volevamo che fosse.» LeBow trascrisse l'accaduto nel computer e prese nota dell'orario. Sul foglio degli Inganni, scrisse: Autorità federali chiedono accordo per mezzo del «Procuratore Budd» a Handy e Wilcox. Ergastolo al posto della pena di morte. Budd si alzò. «Credi davvero?» «Hai piantato il seme. Ora dobbiamo vedere se attecchisce.» Potter colse lo sguardo di Angie e i due agenti federali si scambiarono un'occhiata seria. Il negoziatore fu svelto a distogliere lo sguardo prima che Budd se ne accorgesse. 20,16 «Meno cinque minuti.» Dan Tremain aveva chiamato il governatore e, insieme, avevano deciso che l'operazione dell'SSO sarebbe proseguita come previsto. Usando la frequenza criptata, il capitano lo comunicò ai propri uomini. Esterno Uno, Chuck Pfenninger, ritornò in posizione accanto al furgone di comando. Esterno Due, Joey Wilson, nascosto dietro lo scuolabus, era pronto a lanciare le granate stordenti attraverso la finestra anteriore. Le unità Alpha e Bravo si predisposero a effettuare un'irruzione dinamica attraverso gli ingressi di nordest e sudest come pianificato. Tremain era molto fiducioso e sicuro di sé. Anche se gli SO potevano
aspettarsi un attacco da una delle uscite di sicurezza, non si sarebbero mai aspettati un'irruzione dalla porta nascosta sul lato sudorientale. Di lì a cinque minuti sarebbe stato tutto finito. Lou Handy fissò il telefono e avvertì quella sensazione per la prima volta in tutta la giornata: dubbio. Figlio di puttana. «Dov'è?» ringhiò, guardando all'interno del mattatoio. «Bonner? Dentro con le ragazze», rispose Wilcox. «O forse sta mangiando. Non lo so. Che cosa succede?» «Sta succedendo qualcosa di strano, ecco cosa succede», borbottò Lou camminando avanti e indietro. «Credo che forse abbia fatto un accordo.» Raccontò a Wilcox ciò che gli aveva detto il procuratore. «Loro stanno offrendo un accordo a noi? A noi due?» «Mica bello. Ergastolo a Leavenworth.» «Sempre meglio che quel piccolo ago. La cosa peggiore è che ti pisci addosso. Lo sai? Non c'è niente che tu possa fare per fermarti. Ti dico una cosa, io me ne vado fuori, non mi voglio pisciare nei pantaloni davanti a tutti.» «Ehi, amico.» Handy reclinò il capo, fissando freddamente il suo complice. «Noi usciremo di qui. Non dimenticartelo.» «Certo, sicuro.» «Sono convinto che quel cazzone sia stato dalla loro parte fin dall'inizio.» «E perché mai?» domandò Wilcox. «E tu per che cazzo credi? Soldi. Per spassarsela meglio.» Wilcox fissò lo sguardo nell'oscurità del retro del mattatoio. «Sonny è uno stronzo, ma non farebbe mai una cosa del genere.» «L'ha fatta, un po' di tempo fa.» «Che cosa?» «Ha venduto qualcuno. Un tipo con cui aveva fatto un lavoro.» «E tu lo sapevi?» domandò Wilcox, sorpreso. «Certo che lo sapevo», replicò con rabbia Handy. «Ma avevamo bisogno di lui.» Ma come aveva fatto Bonner ad arrivare ai federali? Praticamente ogni minuto dopo l'evasione l'aveva passato insieme a loro. Non sempre, ricordò ora Lou. Bonner era andato a prendere la macchina. Dopo essere usciti dalla prigione, era stato via per mezz'ora, per recuperare
quella dannata quattroruote. Handy ricordò di aver pensato che ci stava mettendo troppo tempo, e ricordò anche di aver pensato: Se ci tradisce morirà molto, molto lentamente. Mezz'ora per andare a prendere una macchina a otto isolati di distanza. Aveva avuto un sacco di tempo a disposizione per chiamare i federali. «Ma non ha una condanna lunga», fece notare Wilcox. Per essere fuggito oltre i confini dello stato il compare doveva scontare quattro anni. «Proprio il tipo di persona con cui è più probabile che abbiano fatto un accordo», ribatté Handy. «I federali non riducono mai le condanne di più di un paio d'anni.» E, a parte questo, Bonner aveva un incentivo: i criminali sessuali erano i detenuti che più spesso si svegliavano con schegge di vetro infilate in gola o con un coltello di latta conficcato nel ventre - o che non si svegliavano affatto. Incerto, Wilcox guardò nuovamente il mattatoio in penombra. «Che cosa ne pensi?» «Credo che dovremmo parlare con lui.» Attraversarono la stanza principale, sopra le rampe ormai marce su cui un tempo erano passati gli animali, oltrepassando i lunghi tavoli su cui le carcasse erano state tagliate in pezzi, le ghigliottine arrugginite, i recipienti del grasso. Giunsero sulla porta della stanza delle uccisioni. Bonner non c'era. Lo udirono poco distante, intento a pisciare in un buco o in un pozzetto di scarico. Lou fissò la stanza. La donna più anziana, che giaceva raggomitolata come una palla. La bambina asmatica e quella carina con il bel vestito a fiori. E poi c'era Melanie, che ricambiò il suo sguardo con occhi che tentavano di essere coraggiosi ma che, in realtà, erano semplicemente spaventati a morte. Poi, all'improvviso, si accorse di qualcosa. «Dove cazzo sono», disse a bassa voce, «le due più piccole?» Fissò due paia di scarpine di cuoio nero. «Figlio di puttana», sputò Wileox. Corse in corridoio, seguendo le minuscole impronte impresse nella polvere. Melanie abbracciò la bambina con l'asma e si ritrasse contro la parete. Proprio in quel momento Bonner uscì da dietro l'angolo e si fermò di scatto. «Ehi, amico.» Strizzò gli occhi, a disagio, fissando la faccia di Handy. «Dove sono, brutto bastardo?» «Chi?» «Le bambine. Le gemelle!»
«Io...» Bonner si ritrasse. «Le stavo tenendo d'occhio. Le ho tenute d'occhio sempre. Lo giuro.» «Sempre?» «Sono andato a pisciare, ecco tutto. Senti, Lou. Devono essere qui da qualche parte. Le troveremo.» L'uomo deglutì a vuoto, visibilmente inquieto. Handy gli rivolse un'occhiata di fuoco. Bonner si avvicinò a Melanie, gridando: «Dove cazzo sono finite?» Si tolse la pistola di tasca e le fu addosso. «Dove sono?» «Lou!» Wilcox stava gridando nella stanza principale. «Gesù Cristo.» «Che cosa?» strillò Handy, voltandosi di scatto. «Che cosa cazzo c'è?» «Abbiamo un problema peggiore. Guarda qui.» Handy raggiunse Wileox di corsa, e lui gli indicò il televisore. «Cristo santo. Potter, quel bugiardo figlio di puttana.» Sullo schermo: le immagini di un notiziario che mostravano una perfetta inquadratura della facciata anteriore e del lato del mattatoio. I giornalisti avevano oltrepassato il cordone di polizia e avevano sistemato la telecamera su qualcosa di molto alto e molto vicino - forse quel vecchio mulino a vento in direzione nord. La telecamera era leggermente tremolante, ma non c'era alcun dubbio che quello che stavano vedendo nello schermo era un soldato delle forze speciali davanti a una delle finestre anteriori - a soltanto sei o sette metri da dove si trovavano Handy e Wileox in quel momento. «Quelli sono altri soldati?» gridò Wileox, indicando alcune macchie nere in un fossato sul lato nord del mattatoio. «Potrebbe essere. Merda, sì. Devono essercene una dozzina, almeno.» Lo speaker disse: «Sembra proprio che un'irruzione possa avvenire da un momento all'altro...» Handy sollevò lo sguardo alla porta antincendio sul lato nord dell'edificio. L'avevano sbarrata, ma sapeva benissimo che non avrebbe resistito: un paio di cariche di esplosivo potevano abbatterla in pochi secondi. «Prendi quel maledetto fucile», gridò a Bonner. «Ci sarà una sparatoria.» «Merda.» Bonner tirò indietro lo scivolo del Mossberg e poi lo lasciò andare. «Il tetto?» domandò Wilcox. Quelle erano le uniche due vie d'accesso da cui una task force sarebbe potuta entrare rapidamente: la porta laterale e il tetto. Il pontile di carico era in posizione troppo arretrata. Ma, quando guardò il soffitto, vide una fitta rete di collettori, tubi e condotti di ventilazione. Anche se avessero
fatto saltare il tetto, avrebbero dovuto oltrepassare quegli ostacoli. Handy guardò il campo di fronte al mattatoio. A parte il soldato vicino alla finestra - nascosto alla vista dei cordoni di polizia dallo scuolabus nessun altro poliziotto sembrava avvicinarsi da quella direzione. «Entreranno da quella porta laterale laggiù.» Lou si spostò lentamente verso la finestra dov'era nascosto il soldato. Indicò la pistola di Wilcox con un cenno. L'uomo sogghignò, si tolse l'arma dalla cintura e, agendo sullo scivolo, mise un proiettile in canna. «Vai dietro di lui», sussurrò Handy. «L'altra finestra. Attira la sua attenzione.» Wilcox annuì, si lasciò cadere a terra e cominciò a strisciare verso l'altra finestra. Anche Handy strisciò: fino alla finestra aperta oltre la quale era nascosto il soldato. Wilcox appoggiò la bocca vicino a un pannello di vetro mancante ed emise il verso di un tacchino selvatico. Handy non riuscì a trattenersi dal sorridere. Quando Wilcox ripeté il verso, Handy lanciò una rapida occhiata fuori. Vide il soldato, a meno di un metro di distanza, che si voltava confuso verso il rumore. Allungò le mani fuori della finestra, afferrò l'elmetto del soldato e, strattonandolo con violenza, lo sollevò di peso dal terreno. L'uomo lasciò andare il mitra, che gli rimase appeso alla spalla agganciato alla tracolla di cuoio, e afferrò i polsi di Handy, lottando ferocemente mentre veniva strangolato dalla cinghia dell'elmetto. Wilcox balzò al fianco di Handy e, insieme, trascinarono il soldato all'interno a forza di muscoli. Mentre Handy lo teneva fermo, Wilcox gli diede un calcio all'inguine e gli tolse il mitra, la pistola e le granate. L'uomo si piegò in due e cadde sul pavimento. «Brutto figlio di puttana», ringhiò Lou, scalciandolo con violenza. «Lasciati guardare!» Gli strappò via l'elmetto, il passamontagna e gli occhiali. Si chinò su di lui. Si tolse il coltello di tasca e lo aprì, quindi puntò la lama contro la guancia del soldato. «Spararmi alle spalle? Sono questi i coglioni che hai? Arrivare alle spalle di un uomo come un fottuto negro!» Il soldato tentò di divincolarsi. Handy abbassò il coltello, tagliandolo di striscio lungo la mascella. Poi abbatté il pugno sulla faccia dell'uomo, e poi ancora, ancora, ancora, dieci, quindici volte, quindi si alzò e gli diede un calcio nel ventre, poi nei testicoli. «Ehi, Lou, non ti...» «Bastardo fottuto! Voleva spararmi alle spalle! Mi avrebbe sparato alle spalle, cazzo! È questo il tipo di uomo che sei? È questa la tua idea di ono-
re?» «Vaffanculo», gemette il soldato, rotolando inerme sul pavimento. Handy lo voltò sulla schiena, gli diede un calcio alle reni e poi lo ammanettò con le sue stesse manette. «Dove sono gli altri?» Gli infilò il coltello nella coscia, un taglio poco profondo. «Dimmelo!» ringhiò. Spinse il coltello con più forza. L'uomo gridò. Handy avvicinò la faccia fino a portarla a pochi centimetri da quella del soldato. «Dritto all'inferno, Handy. Ecco dove tu andrai.» Il coltello affondò ulteriormente. Un altro grido. Handy allungò una mano e sfiorò un lembo della lacerazione. La carne gli rimase attaccata al dito, e lui se lo portò alle labbra. Spinse il coltello di un altro centimetro. Altre grida. Vediamo quando il ragazzo si spezza. «Oh, Gesù», gemette il soldato. Deve succedere, prima o poi. Non dobbiamo far altro che spingerci un po' più a nord con questo pezzettino d'acciaio e vedere quando comincia a squittire come un topo in trappola. Cominciò a segare lentamente con la lama del coltello, facendosi strada verso l'inguine dell'uomo. «Non lo so dove sono gli altri! Ero soltanto in ricognizione!» Improvvisamente, Handy si stancò del coltello e lo prese di nuovo a pugni, più infuriato che mai. «Quanti sono? Da dove entreranno?» Il soldato gli sputò su una gamba. E, a un tratto, Handy venne trasportato a qualche anno prima e vide Rudy che gli ghignava in faccia (o forse sembrava ghignargli in faccia). Lo vide voltargli le spalle, con i suoi duecento dollari nel portafoglio (Handy credeva che fossero lì, forse). Vide suo fratello andarsene come se lui non fosse nient'altro che un pezzo di merda secca. E la rabbia, la rabbia che lo lacerava, come una lama d'acciaio nel ventre caldo di qualcuno. «Dimmelo!» strillò. Il suo pugno si sollevò ancora e ancora si abbatté sulla faccia del soldato con violenza. Alla fine, Handy si alzò. «Che vada a fare in culo. Che vadano a fare in culo tutti.» Corse nella stanza delle uccisioni e rovesciò il contenitore del gasolio. La stanza si riempì del liquido gelato, che investì in pieno le due donne e le due bambine. Melanie, la troia spaventata, trascinò le due ragazzine in un angolo, ma ormai erano fradicie. Handy puntò il mitragliatore del soldato verso la porta laterale. «Shep»,
disse, «entreranno da lì alla svelta. Non appena lo fanno, sparerò a qualcuno di loro nelle gambe. Tu lanci quella», e indicò la granata, «nella stanza e dai fuoco al gasolio. Voglio tenere qualcuno di quei poliziotti vivo perché dica a tutti che cosa è successo a quelle bambine. Come è stato quando sono bruciate vive.» «Ehi, bellezze. Ci siamo.» Wilcox tolse la sicura dalla granata e, tenendo saldamente tra le dita la linguetta di scoppio ritardato, si sistemò all'ingresso della stanza delle uccisioni. Handy tolse la sicura dall'H&K e lo puntò verso la porta. «Arthur, abbiamo del movimento vicino alla finestra», disse Dean Stillwell alla radio. «La seconda finestra a sinistra dalla porta principale.» Potter diede il ricevuto e guardò fuori del finestrino con il binocolo. La vista della finestra, però, gli era impedita da un albero e dallo scuolabus. «Che cos'era, Dean?» «Uno dei miei uomini ha detto che sembrava qualcuno che passava dalla finestra.» «Uno degli SO?» «No, intendevo dire qualcuno che entrava dalla finestra.» «Entrava? Ci sono delle conferme?» «Sissignore, anche un altro agente ha detto di averlo visto.» «Be'...» «Oh, Cristo», sussurrò Tobe. «Arthur, guarda.» «Chi sono?» sbottò Angie. «Chi diavolo sono?» Potter si voltò verso lo schermo televisivo che la psicologa stava fissando con gli occhi sgranati. Gli ci volle un attimo per rendersi conto che stava guardando un notiziario, sul monitor che fino a poco prima era stato sintonizzato sul canale meteorologico. Con orrore capì che stava assistendo a un'irruzione nel mattatoio. «Aspetta un momento», esclamò Budd. «Che cosa sta succedendo?» «... immagini esclusive. A quanto pare, uno dei soldati dislocati all'esterno si è appena introdotto nel mattatoio.» «Ma dov'è la telecamera?» domandò uno stupefatto Henry LeBow. «Non possiamo preoccuparci di questo, adesso», disse Potter. Il pensiero involontario gli balzò immediatamente nel cervello: È questa la vendetta di Henderson? «Tremain», gridò LeBow. «È Tremain.» «Vaffanculo», disse Tobe, il buon cattolico. «Erano quelli i messaggi
codificati che stavamo intercettando. Ha messo in piedi un'irruzione.» «La trappola all'interno del mattatoio! Tremain e i suoi non ne sanno niente!» «Una trappola?» domandò Derek nervosamente. Potter sollevò lo sguardo, sbalordito. Comprese immediatamente la profondità del tradimento. Derek Elb aveva fornito alla SSO di Tremain le informazioni logistiche e di schieramento strategico. Doveva averlo fatto. «Qual è la frequenza radio di Tremain?» gridò, balzando sopra il tavolo e afferrando il giovane poliziotto per il colletto. Derek scosse la testa. «Diglielo, maledizione!» gridò Budd. «Non ho l'accesso. Viene stabilita di volta in volta. Non c'è modo di entrare nelle trasmissioni.» «Posso farcela io», disse Tobe. «No, usano retrosegnali, ti ci vorrà un'ora. Mi dispiace, non sapevo... Non sapevo niente della trappola.» A Potter venne in mente che si trovavano fuori del furgone quando ne avevano scoperto l'esistenza. «Handy ha predisposto una bomba incendiaria là dentro, sergente», ringhiò Budd. «Oh, Dio, no», sussurrò Derek. Potter afferrò il telefono. Fece il numero. Nessuna risposta. «Avanti, Lou. Forza! Rispondi!... Tobe, la SatSurv è ancora collegata?» «Sì.» Il giovane agente premette un pulsante. Un monitor prese vita immediatamente. Si trattava essenzialmente della stessa immagine azzurroverde del terreno circostante che avevano già visto in precedenza, ma ora c'erano dieci piccoli puntini rossi raggruppati su entrambi i lati del mattatoio. «Sono in quei fossati laggiù. E probabile che stiano per entrare dalle finestre o dalle porte di nordovest e sudest. Fammi subito una stampa.» «Subito. In bianco e nero faremo più in fretta.» «Fallo!» Mentre la stampante ronzava, Potter si premette il telefono contro l'orecchio, ascoltando il calmo, ritmico squillo senza risposta all'altro capo della linea. «Lou, Lou... Rispondi!» Sbatté il telefono sulla scrivania. «Henry, che cosa faranno?» LeBow balzò dalla sedia e fissò il foglio che stava finendo di uscire dalla stampante. «Faranno saltare la porta qui, sulla sinistra. Ma non so che intenzioni abbiano per il lato destro. Non ci sono porte. Non si possono adoperare cariche di sfondamento per aprire un muro portante.» Poi indicò
la piantina dell'edificio appesa alla parete. «Guarda lì. Quella linea tratteggiata. Poteva essere una porta, un tempo. Tremain deve averla trovata. Entreranno da entrambi i lati.» «In fila indiana?» «Due uomini per volta, non di più. Non possono fare altro.» «È...» Il colpo fu molto sommesso. All'improvviso il furgone divenne buio. Frances si lasciò sfuggire un gridolino. L'interno del furgone era illuminato soltanto dalla luce azzurregnola dei due schermi gemelli di LeBow e da un raggelante bagliore giallastro al di fuori dei finestrini. «Non c'è corrente», urlò Tobe. «Noi...» «Arthur!» LeBow stava indicando le fiamme che, oltre il finestrino, lambivano la fiancata del furgone. «Che cosa è successo? Gesù, Handy ci ha colpito?» Potter corse alla porta. La aprì e lanciò un grido, balzando all'indietro di fronte alle lingue di fiamma e al calore insopportabile che irruppero nel furgone. Sbatté la porta di scatto. «Non possiamo ripristinare la corrente», disse Tobe. «Anche il generatore secondario è andato.» «Quanto tempo ho?» ringhiò Potter a Derek. «Io...» «Rispondimi! Quanto tempo è previsto da quando salta la corrente al momento in cui attaccano?» «Quattro minuti», sussurrò Derek. «Signore, ho fatto soltanto quello che...» «No, Arthur», gridò Angie, «non aprirla!» Potter spalancò il portello. Si gettò all'esterno di schiena, mentre le maniche della giacca gli prendevano fuoco. Tutto ciò che gli altri riuscirono a vedere fuori fu un oceano di fiamme. Poi il fumo nero della gomma e dell'olio bruciati si riversò all'interno, mandandoli tutti sul pavimento in cerca d'aria. Disattivando il codificatore di segnale, Dan Tremain trasmise via radio: «Agente Potter, agente Potter! Qui è il capitano Tremain. Rispondete, per favore. State tutti bene?» Tremain osservò il fuoco sulla collina. Era allarmante vedere le fiamme arancioni e il fumo nero che si avvoltolavano nell'aria. Conosceva tutto del furgone, l'aveva usato spesso lui stesso, e sapeva che gli occupanti erano al
sicuro finché tenevano la porta chiusa. Nonostante questo, era stata una conflagrazione tremenda. Non c'era tempo per pensarci, adesso. Chiamò di nuovo: «Agente Potter... Derek? C'è nessuno nel furgone di comando? Vi prego, rispondete.» «Qui parla lo sceriffo Stillwell. Chi chiama?» «Capitano Dan Tremain, polizia di stato. Che cosa sta succedendo?» «Il furgone ha preso fuoco, signore. Non sappiamo perché. Handy potrebbe aver sparato un colpo fortunato.» Grazie, sceriffo, pensò Tremain. Le conversazioni radio venivano registrate al quartier generale della polizia di stato. Il commento di Stillwell avrebbe più che giustificato l'azione di Tremain. «Stanno tutti bene?» domandò il comandante dell'SSO. «Non riusciamo ad avvicinarci al furgone. Non...» Tremain interruppe la trasmissione e ordinò sulla frequenza criptata: «Unità Alpha, unità Bravo. Parola in codice filly. Parola in codice filly. Innescate le cariche di sfondamento. Sessanta secondi alla detonazione.» «Alpha. Innescata.» «Bravo. Innescata.» «Fuoco nella tana», ordinò il capitano, e abbassò la testa. Arthur Potter, otto chili sovrappeso e tutt'altro che atletico, rotolò sul terreno appena oltre le fiamme che due poliziotti stavano tentando invano di spegnere con gli estintori. Colpì il terreno e fissò allarmato le maniche in fiamme della sua giacca. Un poliziotto gridò e lo investì con il diossido di carbonio. La schiuma gelida gli punse le mani più della bruciatura. Potter vide le ferite che aveva sulla pelle e capì quale tipo di sofferenza lo attendeva più tardi. Sempre che fosse riuscito a sopravvivere. Non c'era tempo, non c'era tempo... Si alzò in piedi, incurante del tessuto incandescente che gli rosseggiava sulla giacca e del dolore che gli lacerava la pelle. Cominciò a correre, con il megafono in mano. Attraversò faticosamente il campo, oltrepassò il cordone di auto della polizia e si diresse dritto verso il mattatoio. «Lou Handy, ascoltami!» gridò nel megafono. «Ascoltami. Sono Art Potter. Riesci a sentirmi?» Sessanta metri. Cinquanta. Nessuna risposta. Gli uomini di Tremain sarebbero entrati da un momento all'altro.
«Lou, stai per essere attaccato. È un'operazione non autorizzata. Io non c'entro niente. Ripeto: si tratta di un errore. Gli agenti sono nascosti in due fossati a sud e a nord del mattatoio. Puoi imbastire un fuoco incrociato dalle due finestre su quei lati. Mi senti, Lou?» Respirava con affanno e faceva fatica a gridare. Un dolore improvviso gli si allargò nel petto, e fu costretto a rallentare il passo. Bersaglio perfetto, si fermò sulla cresta di un'altura - proprio nel punto in cui Susan Phillips era stata colpita alla schiena - e gridò: «Stanno per far saltare le porte laterali, ma puoi fermarli prima che entrino. Posizionati per il fuoco incrociato alle finestre di nordovest e di sudest. C'è una porta, sul lato sud, di cui non sai niente. È coperta da qualcosa, ma c'è. La faranno saltare ed entreranno anche da lì, Lou. Ascoltami. Voglio che gli spari alle gambe. Hanno i giubbotti antiproiettile. Sparagli alle gambe! Usa i fucili. Sparagli alle gambe.» All'interno del mattatoio, nessun movimento. Oh, ti prego... «Lou!» Silenzio. Soltanto il sibilo incessante del vento. Poi Potter notò del movimento nel fossato a nord del mattatoio. Un elmetto che si sollevava da una macchia di erba alta. Il lampo di un binocolo puntato nella sua direzione. O si trattava del mirino telescopico di un H&K MP-5? «Lou, mi senti?» gridò nuovamente Potter. «Questa è un'operazione non autorizzata. Posizionati per il fuoco incrociato alla porta nord e alla porta sud. Ci sarà del cartongesso o qualcosa del genere a coprire la porta sud. Trovala.» Nulla. Silenzio. Qualcuno per favore... Per l'amor di Dio, qualcuno mi parli. Qualcuno! Poi: movimento. Potter guardò da quella parte... appena a nord del mattatoio. Sulla sommità di un dosso a settantacinque-ottanta metri di distanza, un uomo vestito di nero si alzò in piedi con le mani sui fianchi e un H&K che gli pendeva dalla spalla, guardando fisso verso Potter. Poi, uno dopo l'altro, gli agenti dell'SSO nascosti nei fossi si alzarono e si allontanarono silenziosamente dalle due porte del mattatoio. Gli elmetti scomparvero tra i cespugli. L'SSO aveva rinunciato all'irruzione. Dal mattatoio soltanto silenzio. Ma Arthur Potter era ancora addolorato.
Perché sapeva che ci sarebbe stata una rappresaglia. Per quanto crudele e amorale fosse Lou Handy, l'unica cosa che aveva fatto costantemente era stata mantenere la parola. Il mondo di Handy poteva muoversi in base a una giustizia tutta sua, una giustizia malvagia, ma era pur sempre giustizia. Erano invece i buoni che avevano appena tradito la parola data. Potter, LeBow e Budd erano in piedi poco discosti, con le braccia incrociate, mentre Tobe disperatamente tagliava e univa cavi, tentando di ripristinare i collegamenti. Potter osservò Derek Elb che veniva scortato via da due agenti di Pete Henderson e domandò a Tobe: «Sabotaggio?» Tobe - esperto di balistica quasi quanto lo era di elettronica - non era in grado di affermarlo con certezza. «Sembra un semplice incendio causato dal gasolio. Stavamo perdendo un sacco di fluido dal generatore. Ma qualcuno potrebbe aver fatto scivolare nell'aggeggio una L210 e non ne sapremmo una sola virgola di più. In ogni modo, adesso come adesso, non posso mettermi a cercare nulla.» E intanto strappava, univa e collegava fili. «Sai bene che è sabotaggio, Arthur», disse LeBow. Potter era d'accordo, ovviamente. Probabilmente Tremain aveva lasciato nel generatore del furgone un ordigno incendiario comandato a distanza. «Avrebbe fatto davvero una cosa del genere?» domandò Budd incredulo. «E tu che cos'hai intenzione di fare?» «Al momento niente», rispose il negoziatore. Nel suo cuore, viveva troppo nel passato; nella sua professione, invece, non ci viveva praticamente mai. Potter non aveva né il tempo né il gusto per la vendetta. Ora aveva gli ostaggi a cui pensare. Forza, Tobe, fai funzionare di nuovo le linee. L'agente Frances Whiting tornò nel furgone. Le avevano dato dell'ossigeno alla tenda medica. La sua faccia era annerita dal fumo e la donna respirava con qualche difficoltà, ma per il resto stava bene. «Un po' più di agitazione di quella a cui è abituata a Hebron, vero?» scherzò Potter. «Senza contare le multe per divieto di sosta, il mio ultimo arresto risale ai tempi di George Bush.» La puzza di gomma bruciata era soverchiante. Le braccia di Potter erano costellate di piccole ustioni. La peluria sul dorso delle sue mani era scomparsa e una vescica sul polso gli inviava al cervello stilettate di dolore. Ma per il momento non poteva perdere tempo a farsi visitare dall'équipe medi-
ca. Prima doveva rimettersi in contatto con Handy per tentare di ridurre al minimo qualsiasi idea di rappresaglia che stava indubbiamente fermentando nella mente del sequestratore. «Okay», annunciò Tobe. «Ci siamo.» Miracolosamente, aveva attivato una linea elettrica dal camion-generatore più lontano e ora il furgone era nuovamente operativo. Potter stava per dire a Budd di aprire la portiera per aerare l'interno quando si rese conto che il portellone non c'era più. Era bruciato. Si sedette alla scrivania, afferrò il telefono e compose il numero. Il suono dello squillo riempì l'interno del furgone. Nessuna risposta. Alle loro spalle, Henry LeBow aveva ricominciato a digitare sui suoi computer. Il rumore dei tasti silenziati, più di ogni altra cosa, fece riguadagnare fiducia a Potter. Di nuovo al lavoro, pensò. E rivolse la propria attenzione al telefono. Rispondi, Lou. Avanti. Abbiamo troppe cose alle spalle, tra noi, per lasciare che tutto vada a rotoli proprio adesso. Ci sono troppe cose, siamo diventati troppo vicini... Rispondi a quel dannato telefono! Uno stridio all'esterno, così vicino che Potter inizialmente pensò che si trattasse del feedback degli altoparlanti. La limousine di Roland Marks si fermò bruscamente e l'uomo balzò giù dalla macchina, lanciando una breve occhiata al furgone bruciacchiato. «Ho visto il notiziario!» gridò a nessuno in particolare. «Che cosa cazzo è successo?» «Tremain si è ammutinato», rispose il negoziatore, premendo ancora una volta il pulsante di chiamata e guardando freddamente l'avvocato. «Lui cosa?» LeBow gli spiegò che cosa era accaduto. «Non abbiamo indizi, signore», aggiunse Budd. «Voglio parlare con questo tizio, oh, sì», brontolò Marks. «Dove...» Proprio in quell'istante ci fu un'improvvisa incursione dall'ingresso spalancato e Potter venne scaraventato di lato. Cadde pesantemente sulla schiena e grugnì di dolore. «Brutto figlio di puttana!» gridò Tremain. «Capitano!» ruggì Marks. Budd e Tobe afferrarono il comandante dell'SSO per le braccia e lo spinsero fuori. Potter si alzò lentamente. Si toccò la testa nel punto in cui l'aveva sbattuta cadendo. Non c'era sangue. Fece cenno ai due uomini di lascia-
re Tremain. Con riluttanza, Charlie e Tobe obbedirono. «Ha uno dei miei uomini, Potter. E questo grazie a te, fottuto giuda traditore.» Budd si irrigidì e fece un passo avanti. Potter lo calmò con un gesto e si aggiustò la cravatta, osservandosi le ustioni sul dorso delle mani. Sulla pelle si erano formate grosse vesciche, e il dolore era sempre più acuto. «Tobe», disse con calma, «fai partire il nastro, ti dispiace? Il nastro della KFAL.» Il ronzio di un videoregistratore e, subito dopo, uno dei monitor si attivò. Il logo bianco rosso e blu dell'emittente televisiva apparve nell'angolo in basso a destra dello schermo, insieme alle parole In diretta dal luogo del sequestro... Joe Silbert. «Oh, fantastico», commentò cupamente Marks, guardando lo schermo. «Handy ha uno dei suoi uomini», replicò Potter, «perché lei ha allontanato gli agenti che impedivano ai giornalisti di avvicinarsi all'edificio.» «Che cosa?» Tremain fissava la ripresa televisiva con gli occhi spalancati. LeBow continuava a digitare. Senza sollevare lo sguardo, spiegò: «Handy vi ha visti arrivare. Ha un televisore, là dentro». Il capitano non rispose. Potter si domandò se per caso non stesse pensando: Nome, grado, numero di matricola. «Mi aspettavo di meglio da te, Dan», lo redarguì il viceprocuratore generale. «Il governatore...» sbottò Tremain prima di rendersi conto che avrebbe fatto meglio a tacere. «Be', anche se ci ha visti, avremmo potuto salvare quelle ragazze. A quest'ora sarebbero fuori. Avremmo potuto ancora riuscire a tirarle fuori sane e salve!» Perché non sono arrabbiato? si domandò Potter. Perché non mi infurio con lui, con quest'uomo che è andato vicino a rovinare tutto? Che ha quasi ucciso le ragazze prigioniere, che ha quasi ucciso Melanie? Perché? Perché in questo modo è più crudele, capì improvvisamente. Dirgli la verità duramente e senza emozione. Non hai mai fatto niente di cattivo, Art? «Handy aveva sistemato una trappola, capitano», disse, calmo come un maggiordomo deferente. «Una bomba incendiaria collegata a un filo. Quelle ragazze sarebbero bruciate vive nello stesso istante in cui lei avrebbe fatto saltare quelle porte.» Tremain lo fissò. «No», sussurrò. «Oh, no. Che Dio mi perdoni. Non lo
sapevo.» Sembrava che fosse sul punto di svenire. «Collegamento», annunciò Tobe. Un istante più tardi il telefono squillò. Potter lo afferrò immediatamente. «Lou?» È stata una vigliaccata, Art. Credevo che tu fossi mio amico. «Be', Art. È stato proprio un fottuto colpo basso. Che cazzo di amico sei?» «Io non c'entravo niente.» Lo sguardo di Potter era fisso su Tremain. «Abbiamo avuto un ufficiale che si è ammutinato.» «Certo che questi ragazzi sono equipaggiati mica male. Adesso abbiamo anche un mitra e qualche granata.» Potter accennò a LeBow, che prese Tremain in disparte e gli domandò quale tipo di armamenti aveva con sé il soldato che era stato catturato. Una sagoma apparve sulla soglia. Angie. Potter le fece cenno di entrare. «Lou», disse poi al telefono, «mi scuso davvero per ciò che è accaduto. Non succederà più. Hai la mia parola, su questo. Mi hai sentito, là fuori. Ti ho dato delle valide informazioni tattiche. Sai bene che non era qualcosa che avevo progettato io.» «Suppongo che abbiate anche quelle bambine, adesso. Le due gemelle.» «Sì, le abbiamo, Lou.» «Quel procuratore degli Stati Uniti, Budd... ci ha ingannato, non è vero, Art?» Ancora un'esitazione. «Non so niente a questo riguardo.» E adesso sarà molto ragionevole, speculò Potter. O impazzirà del tutto. «Ah. Sei uno con le palle, Art. Be', d'accordo. Ti credo, a proposito di questa merda di sbarco in Normandia. Mi dici che c'era un qualche sbirro fuori di testa che faceva cose che non avrebbe dovuto fare. Ma tu dovresti essere più autoritario, Art. È così che funziona la legge, o mi sbaglio? Tu sei responsabile delle cose che fanno quelli che lavorano per te.» Angie era corrucciata. «Che cosa?» le domandò Budd, vedendo l'espressione senza speranza sul suo viso, la stessa che aveva Arthur Potter. «Che cosa c'è?» sussurrò Frances Whiting. Potter afferrò il binocolo, pulì le lenti dal fumo residuo e guardò fuori. Oh, Cristo... Disperatamente, ripeté: «Lou, è stato un errore». «Avete sparato a Shep ed è stato un errore. Non mi procurate il mio elicottero in tempo e non è colpa vostra... Non mi conosci abbastanza, a que-
sto punto, Art?» Ti conosco troppo bene. Potter posò il binocolo. Distolse lo sguardo dal finestrino e guardò le fotografie appese sopra la piantina del mattatoio. A chi toccherà? si chiese. Chi sarà? Emily? Donna Harstrawn? Beverly? Poi pensò improvvisamente: Melanie. Sceglierà Melanie. Frances capì che cosa stava accadendo e gridò: «No, per favore! No! Fate qualcosa!» «Non c'è niente da fare», sussurrò Angie. Tremain appoggiò la faccia distrutta al finestrino e guardò il mattatoio. La voce di Handy rimbombò nel furgone. Suonava ragionevole, saggio. «Tu sei molto simile a me, Art. Sei leale. È così che la penso. Sei leale con quelli che fanno quello che dovrebbero fare e non hai tempo da perdere con quelli che non lo fanno.» Una pausa. «Sai perfettamente che cosa sto dicendo, vero, Art? Lascerò il corpo fuori della porta. Potete venire a prenderlo. Con una bandiera bianca.» «Lou, non c'è proprio niente che posso fare?» Potter udì la disperazione nella propria voce e la odiò. Ma la disperazione c'era. A chi toccherà? Angie si era voltata dall'altra parte. Budd scosse cupamente la testa. Persino il tracotante Roland Marks non riusciva a trovare niente da dire. «Tobe», mormorò Potter, «per favore, abbassa il volume.» Tobe obbedì. Ma, nonostante questo, tutti sussultarono al suono secco del colpo di pistola che lacerò il silenzio del furgone come un enorme squillo metallico. Mentre arrancava verso il mattatoio, dove il corpo giaceva pallido alla luce delle alogene, si tolse il giubbotto antiproiettile e lo lasciò cadere a terra. Si lasciò alle spalle anche l'elmetto. Dan Tremain continuò a camminare con le lacrime agli occhi, fissando il corpo immobile, il corpo insanguinato, che giaceva scompostamente a terra come una bambola di pezza. Oltrepassò l'altura e, con la coda dell'occhio, vide i poliziotti che si alza-
vano in piedi dalle loro postazioni al riparo. Lo stavano fissando: sapevano che lui era responsabile di ciò che era accaduto, responsabile di quella morte irragionevole. E, nella finestra della fabbrica abbandonata, Lou Handy, con un fucile puntato direttamente sul petto di Tremain. Non faceva differenza, lui non rappresentava alcuna minaccia: il capitano aveva lasciato cadere il cinturone a cui teneva appesa la sua pistola Glock di servizio qualche passo più indietro. Continuò ad arrancare, cadendo quasi, poi recuperando l'equilibrio come un ubriaco dotato di un insopprimibile istinto di sopravvivenza. La sua disperazione era accentuata dalla faccia di Lou Handy: gli occhi rossi, incavati sotto le sopracciglia sporgenti, il mento sottile, l'ombra che la tagliava di sbieco. Stava sorridendo, un innocuo sorriso di curiosità, mentre fissava il dolore sulla faccia del poliziotto. Comprendendolo, assaporandolo. Tremain guardò il corpo che giaceva davanti a lui. A cinquanta metri di distanza. Quaranta. Trenta. Sono pazzo, pensò. E continuò a camminare, fissando l'occhio nero della canna del fucile di Handy. Venti metri. Il sangue così rosso, la pelle così bianca. La bocca di Handy si stava muovendo, ma Tremain non riusciva a udire nulla. Dieci metri. Cinque. Rallentò il passo. I poliziotti erano in piedi, adesso, tutti in piedi, e lo fissavano. Handy avrebbe potuto sparare a uno qualunque di loro, e loro avrebbero potuto fare la stessa cosa con lui, ma non ci sarebbe stata nessuna sparatoria. Quella era la notte di Natale durante la prima guerra mondiale, quando le truppe nemiche avevano condiviso il cibo e i canti di festa. E si erano aiutate a vicenda a raccogliere e a seppellire i corpi straziati che giacevano nella terra di nessuno. «Che cosa ho fatto?» sussurrò. Cadde in ginocchio e sfiorò la mano gelida. Pianse per un istante, poi prese tra le braccia il corpo senza vita del soldato Joey Wilson, l'Esterno Due, e lo sollevò senza sforzo, guardando dentro la finestra. Guardando la faccia di Handy, che aveva smesso di sorridere ma che aveva, stranamente, un'espressione incuriosita. Tremain memorizzò i lineamenti volpini di quella faccia, gli occhi freddi, il modo in cui la punta della lingua gli stava appoggiata contro il labbro superiore. Il capitano si voltò e cominciò a camminare verso il cordone di polizia.
Nella sua mente udiva un motivo, una melodia che gli fluttuava senza meta nella memoria. Per un lungo istante non riuscì a pensare a cosa potesse essere, poi lo strumento generico che suonava dentro di lui si trasformò nella cornamusa che ricordava da tanti anni prima e la melodia divenne Amazing Grace, la canzone tradizionale che veniva suonata ai funerali dei poliziotti caduti. 20,45 Arthur Potter pensava alla natura del silenzio. Era seduto nell'ospedale da campo, lo sguardo fisso sul pavimento, mentre i medici si occupavano delle ustioni sulle sue mani e sulle sue braccia. Giorni e settimane di silenzio. Silenzio più spesso di legno massiccio, silenzio perpetuo. Era così la vita quotidiana di Melanie? Anche lui aveva conosciuto il silenzio. Il silenzio di una casa vuota. Le mattine della domenica. Un silenzio colmato soltanto dal rumore distante dei motori e delle pompe della casa. Lunghi, immobili pomeriggi estivi trascorsi da solo sulla veranda. Ma Potter era un uomo che viveva in uno stato di perenne anticipazione e per lui il silenzio era, almeno nei giorni migliori, lo stato di attesa in cui si ritrovava prima che la sua vita potesse iniziare di nuovo - quando avrebbe incontrato qualcuno come Marian, quando avrebbe trovato qualcun altro, oltre ai sequestratori, ai terroristi e agli psicopatici, con cui avrebbe potuto condividere le proprie idee e i propri pensieri. Qualcuno come Melanie? si chiese. No, naturalmente no. Avvertì una sensazione gelida sul dorso della mano e osservò il medico applicargli un qualche tipo di unguento, che ebbe l'effetto immediato di attenuargli considerevolmente la sensazione di bruciore. Arthur Potter pensò alla fotografia di Melanie, la vide appesa sopra la piantina del mattatoio. Ripensò alle proprie reazioni quando aveva capito, pochi minuti prima, che Handy avrebbe ucciso un altro ostaggio. Lei era stata la prima persona a cui aveva pensato. Si stiracchiò. Una giuntura, da qualche parte lungo la sua schiena, schioccò lievemente e lui ammonì se stesso: Non fare l'idiota... Ma, in un altro angolo della mente, il laureato in letteratura inglese Arthur Potter pensò: Se proprio si deve essere idioti, bisogna esserlo in amore. Non nel nostro lavoro, dove le vite sono in equilibrio; non con i nostri
dei o nella nostra brama di bellezza e di sapere. Non con i nostri bambini, così desiderosi e così insicuri. Ma in amore. Poiché l'amore non è altro che la più pura delle follie, e noi lo cerchiamo con lo scopo preciso di lasciarci prendere dalla passione e perdere la ragione. Nelle faccende del cuore, il mondo sarà sempre generoso con noi, generoso e pronto a perdonarci. Poi rise di se stesso e scosse la testa, mentre la realtà calava su di lui ancora una volta, come il dolore cupo e attutito che gli tornò nelle braccia ustionate. Ha venticinque anni, meno della metà dei tuoi. È sorda, con la s maiuscola o minuscola non importa. E, per l'amor del cielo, oggi è il tuo anniversario di matrimonio. Ventitré anni. Mai uno mancato. Basta stupidaggini. Torna al furgone di comando. Torna al lavoro. Il medico gli batté su una spalla. Potter sollevò lo sguardo di scatto, sorpreso. «Siamo a posto, signore.» «Sì, grazie.» Si alzò e, con passo incerto, tornò al furgone. Una sagoma comparve sulla porta. Potter sollevò lo sguardo e vide Peter Henderson. «Stai bene?» gli domandò l'agente speciale. Potter annuì cautamente. Tremain poteva anche essere stato il bastardo numero uno, ma lui sarebbe stato pronto a scommettere una settimana di paga che Henderson aveva giocato qualche ruolo nell'attacco. Ambizione? Un desiderio di rivalsa nei confronti dell'FBI che l'aveva tradito? Ma ciò sarebbe stato ancor più difficile da provare dell'esistenza della presunta bomba al gasolio nel generatore. I periti dell'animo umano sono sempre molto elusivi. Henderson guardò le ustioni. «Ti daranno una medaglia, per questo.» «La mia prima ferita nell'adempimento del dovere.» Potter sorrise ironico. «Arthur, volevo soltanto scusarmi per aver perso le staffe, prima. Da queste parti la vita è monotona. Stavo sperando in un po' di azione. Sai com'è.» «Certo, Pete.» «Ho nostalgia dei vecchi tempi.» Potter strinse la mano che l'uomo gli offrì. Poi parlarono di Joe Silbert e dei suoi compari giornalisti. Avrebbero passato il fascicolo al procuratore degli Stati Uniti, ma entrambi conclusero che probabilmente non ne sareb-
be venuto fuori nulla. Ostacolo al corso della giustizia è un'accusa spuria e, solitamente, i giudici si schierano dalla parte della libertà di stampa. Potter si era accontentato - e con non poca soddisfazione - di avvicinarsi minaccioso a Silbert, che era circondato da una folla di poliziotti, freddo e impassibile come un leader rivoluzionario appena catturato. Il negoziatore gli aveva detto che aveva intenzione di cooperare in qualsiasi modo con la vedova del poliziotto morto, che senza dubbio avrebbe intentato una causa da milioni di dollari contro la stazione televisiva e contro Silbert e Biggins in particolare. «Ho intenzione di testimoniare per l'accusa», aveva spiegato Potter al giornalista, la cui maschera di sicurezza si era incrinata temporaneamente, rivelando uno spaventatissimo uomo di mezza età di discutibile talento e di animo meschino. Ora il negoziatore si sedette sulla sua poltroncina girevole e, attraverso il vetro giallognolo del finestrino antiproiettile, osservò il mattatoio. «Quanti minuti alla scadenza del prossimo ultimatum?» «Quarantacinque.» Potter sospirò. «Sarà veramente dura, questa volta. Devo pensarci a fondo. Adesso Handy è furioso. Ha perso il controllo della situazione, e mica poco.» «E quel che è peggio è che tu l'hai aiutato a riprenderlo», argomentò Angie. «Il che, di per sé, è già una forma di perdita di controllo.» «Quindi è risentito in generale e con me in particolare.» «Anche se probabilmente non lo sa», concluse Angie. «Brutta faccenda.» Lo sguardo di Potter era fisso su Budd, che fissava il mattatoio con espressione costernata. Il telefono ronzò. Tobe prese il ricevitore, soffiò via la fuliggine e rispose. «Sì», disse il giovane agente. «Glielo dirò.» Riappese. «Charlie, era Roland Marks. Ha chiesto se puoi incontrarti con lui immediatamente. Il suo amico è con lui. Qualcuno che vuole farti conoscere. Ha detto che è importante.» Il capitano tenne lo sguardo fisso sul campo di battaglia. «Lui... dove si trova?» «Giù all'area di servizio nelle retrovie.» «Uh-uh. Okay. Senti, Arthur, posso parlarti un secondo?» «Certo.» «Fuori?» «Hai cominciato a fumare sigarette immaginarie, eh?»
«Arthur ha dato il via a una moda, alla sezione operazioni speciali», raccontò sorridendo Tobe. «Henry ha cominciato con il sesso immaginario.» «Tobe!» latrò LeBow, senza mai smettere di digitare. Il giovane agente aggiunse: «Non è una critica, Henry. Io stesso ho iniziato a frequentare le riunioni immaginarie degli alcolisti anonimi». Budd sorrise debolmente, poi lui e Potter uscirono dal furgone. La temperatura era calata di cinque gradi almeno, e a Potter parve che anche il vento fosse peggiorato. «Allora, che cosa c'è, Charlie?» Smisero di camminare. Entrambi guardarono il furgone e la chiazza di terra bruciata tutt'intorno - la devastazione causata dal fuoco. «Arthur, c'è qualcosa che devo dirti.» Si mise una mano in tasca e ne trasse un registratore portatile. Abbassò lo sguardo e se lo rigirò pensosamente tra le mani. «Oh», esclamò l'agente. «Si tratta di questo?» Potter gli mostrò una cassetta. Budd aggrottò le sopracciglia, perplesso, e aprì lo sportellino del registratore. Dentro c'era una cassetta. «Quella che hai tu è vuota», spiegò Potter. «È una cassetta speciale. Non ci si può registrare sopra.» Budd premette il pulsante d'avvio. Dal piccolo altoparlante incorporato uscì soltanto il sibilo dell'elettricità statica. «Lo sapevo, Charlie.» «Ma...» «Tobe ha le sue bacchette magiche. Individuano apparecchi per le registrazioni magnetiche. Setacciamo sempre i luoghi operativi in cerca di microfoni nascosti. Mi ha detto che qualcuno aveva un registratore. E non potevi essere che tu.» «Lo sapevi?» Budd fissò l'agente federale con gli occhi sgranati, poi scosse la testa, disgustato di se stesso per essere stato scoperto a fare una cosa che fin dall'inizio l'aveva lasciato ben più che perplesso. «Chi era?» domandò Potter. «Marks? O il governatore?» «Marks. Quelle bambine... è preoccupato per loro. Voleva dare a Handy tutto ciò che pretendeva perché le rilasciasse. Poi gli avrebbero dato la caccia. Aveva un aggeggio speciale che avrebbe piazzato sull'elicottero. Era possibile seguirli da cento chilometri di distanza e loro non se ne sarebbero mai accorti.» Potter annuì. «Immaginavo che si trattasse di qualcosa del genere. Qual-
siasi uomo pronto a sacrificare se stesso è pronto anche a sacrificare qualcun altro.» «Ma come hai fatto a scambiare le cassette?» domandò Budd. Angie Scapello uscì dalla porta aperta del furgone e salutò i due uomini con un cenno del capo. Passò accanto a Budd, sfiorandogli leggermente il braccio. «Ciao, Charlie.» «Ehi, Angie», rispose lui senza sorridere. «Senti, sai dirmi che ore sono?» gli domandò lei. Budd sollevò il polso. «Diavolo, non c'è più. Il mio orologio. Maledizione. E Meg me l'aveva appena regalato per il mio...» Angie gli mostrò il Pulsar. Budd annuì; ora capiva tutto. «D'accordo», sospirò, chinando la testa ancor di più, sempre che ciò fosse possibile. «Oh, ragazzi», mormorò. «Un tempo insegnavo al corso di riconoscimento dei borseggiatori al distretto di polizia di Baltimora», gli spiegò la donna. «Ti ho preso il registratore mentre passeggiavamo nel fossato - facendo i nostri bei discorsi sulla lealtà - e ho scambiato le cassette.» L'uomo sorrise penosamente. «Sei brava. Devo ammetterlo. Oh, ragazzi. Mi sono sentito incasinato per tutto il giorno. Non so che cosa dire. Vi ho tradito.» «Hai confessato. Nessun danno procurato.» «Era Marks?» domandò Angie. «Sì.» Budd sospirò di nuovo. «All'inizio la pensavo come lui - che avremmo dovuto fare qualsiasi cosa per salvare quelle ragazze. Stamattina ho fatto una testa così ad Arthur, su questo argomento. Ma avevi ragione tu», disse rivolto a Potter, «una vita è una vita. Non importa se è quella di una ragazza o di un poliziotto. Dobbiamo fermarlo qui.» «Apprezzo molto il fatto che Marks abbia dei nobili motivi», replicò il negoziatore. «Ma dobbiamo fare le cose in una certa maniera. Perdite accettabili. Ricordi?» L'uomo chiuse gli occhi. «Arthur, ho quasi rovinato la tua carriera.» Il negoziatore scoppiò a ridere. «Non ci sei arrivato neanche vicino, capitano. Da' retta a me, eri tu l'unico a rischiare qualcosa. Se avessi consegnato quella cassetta a chiunque, la tua carriera nella polizia sarebbe finita.» Budd aveva un'aria molto contrita. Poi, quasi di scatto, allungò una mano.
Potter gliela prese con calore, anche se Budd non gliela strinse troppo forte, forse per la vergogna o forse per la preoccupazione di fargli male, viste le spesse bende che gli avvolgevano i polsi fino alla base delle dita. Rimasero in silenzio, mentre Potter scrutava il cielo. «Quando scade l'ultimatum?» L'altro si guardò il polso per un istante, poi si rese conto che aveva ancora l'orologio nella mano destra. «Tra quaranta minuti. Qual è il problema?» Gli occhi del capitano si sollevarono a fissare la stessa nube che Potter stava guardando. «Ho una brutta sensazione, su questo ultimatum.» «Perché?» «Soltanto una sensazione.» «Intuito», intervenne Angie. «Dagli retta, Charlie. Di solito ha ragione.» Budd riabbassò lo sguardo e trovò Potter che lo fissava. «Mi dispiace, Arthur. Sono veramente a corto di idee.» Gli occhi di Potter si muovevano avanti e indietro sull'erba annerita dal fuoco e dall'ombra proiettata dal furgone. «Un elicottero», sbottò improvvisamente. «Cosa?» Potter avvertì un acuto senso di urgenza prendergli possesso dei nervi. «Procurami un elicottero.» «Ma ero convinto che non glielo avremmo dato.» «Ho soltanto bisogno di fargliene vedere uno. Uno grosso. Almeno a sei posti - a otto o anche a dieci, se riesci a trovarne uno.» «Se io riesco a trovarne uno?» esclamò Budd. «Dove? E come?» Un pensiero irruppe nella mente del negoziatore. Aeroporto. C'era un aeroporto nelle vicinanze. Potter tentò di ricordare. Come l'aveva saputo? Gliel'aveva detto qualcuno? Non ci era passato davanti, no. Budd non gliel'aveva detto; l'agente speciale Henderson non gli aveva detto niente. Dove? Era stato Lou Handy. Il sequestratore l'aveva menzionato come luogo possibile per reperire un elicottero. Doveva averlo oltrepassato mentre si dirigeva lì. Lo disse a Budd. «Sì, lo conosco», esclamò il capitano. «Hanno un paio di elicotteri, laggiù, ma non so se c'è qualcuno che sia in grado di farne volare uno. Voglio dire, se ne troviamo uno a Wichita potrebbero farcela ad arrivare qui in
tempo. Ma, diavolo, ci vorranno più di quaranta minuti per rintracciare un pilota.» «Be', quaranta minuti è tutto quello che abbiamo, Charlie. Datti una mossa.» «La verità...» Melanie sta piangendo. E de l'Epée è l'unica persona davanti alla quale non vorrebbe piangere. Eppure sta piangendo. Lui si alza dalla sedia e si siede sul divano accanto a lei. «La verità è», prosegue la ragazza, «che a me non piace quello che sono, ciò che sono diventata, ciò di cui faccio parte.» È il momento di confessare, e adesso nulla può fermarla. «Ti ho detto come io abbia vissuto in funzione del fatto di essere Sorda. Che era diventato tutta la mia vita.» «Miss Contadina Sorda dell'Anno.» «Non volevo nulla di tutto questo. Nemmeno una virgola.» Diventa veemente. «Mi sono così stancata della consapevolezza di se stessi. Delia politica, del far parte del mondo dei Sordomuti, i pregiudizi che i Sordi hanno - oh, ci sono, ci sono. Ne saresti sorpreso. Nei confronti delle minoranze e degli altri handicappati. Sono stanca di tutto questo! Sono stanca di non avere la mia musica. Sono stanca di mio padre...» «Come dici?» chiede lui. «Sono stanca che mio padre la usi contro di me. La mia sordità.» «E come riesce a farlo?» «Perché mi spaventa più di quanto io già non sia! Mi tiene a casa. Ricordi quel pianoforte di cui ti ho parlato? Quello su cui volevo suonare A Maiden's Grave? L'hanno venduto quando avevo nove anni. Anche se riuscivo a sentire ancora abbastanza per suonarlo e avrei potuto continuare a suonarlo ancora per un paio d'anni. Hanno detto - be', lui ha detto, mio padre ha detto - che non volevano che imparassi ad amare una cosa che poi mi sarebbe stata portata via.» E aggiunge: «Ma la vera ragione era che voleva tenermi alla fattoria». E così, poi sarai a casa. Melanie guarda de l'Epée negli occhi e dice ciò che non ha mai detto a nessuno. «Non riesco a odiarlo perché vuole che io resti a casa. Ma vendere il pianoforte... mi ha fatto tanto, tanto male. Anche se mi fosse rimasto un solo giorno per poter suonare, sarebbe stato sempre meglio che niente. Non riuscirò mai a perdonarlo, per questo.»
«Non avevano nessun diritto di fare una cosa del genere», commenta de l'Epée. «Ma tu sei riuscita a staccarti, a venir via. Hai trovato un lavoro lontano da casa, sei indipendente...» La sua voce si attenua. E ora, la parte più difficile. «Di che si tratta?» le domanda delicatamente de l'Epée. «Un anno fa», comincia Melanie, «ho comprato un nuovo apparecchio acustico. Generalmente non sono affatto utili, ma questi sembravano funzionare con certi toni di musica. C'era un concerto, a Topeka, a cui volevo assolutamente andare. Con Kathleen Battle. Avevo letto sul giornale che avrebbe cantato alcuni spiritual come parte del programma e ho pensato...» «Che avrebbe cantato Amazing Grace?» «Volevo vedere se riuscivo a sentirla. Volevo disperatamente andarci. Ma non c'era modo di arrivare fin là. Non posso guidare, e gli autobus ci avrebbero impiegato un'eternità. Ho implorato mio fratello di portarmi. Lui aveva lavorato tutto il giorno alla fattoria, ma ha detto che mi ci avrebbe portata comunque.» Una pausa. Poi: «Siamo arrivati giusto in tempo per l'inizio del concerto. Kathleen Battle è uscita sul palco con indosso uno splendido vestito azzurro. Ha sorriso al pubblico... E poi ha cominciato a cantare.» «E?» «È stato inutile.» Melanie respira a fondo, intreccia nervosamente le dita delle mani. «È...» «Perché sei così triste?» «Gli apparecchi acustici non hanno funzionato per niente. Era tutto attutito. Non riuscivo a sentire quasi niente e le poche note che potevo sentire erano tutte stonate, per me. Ce ne siamo andati nell'intervallo. Danny stava facendo del suo meglio per tirarmi su di morale. Lui...» Tace d'improvviso. «C'è dell'altro, vero? C'è qualcos'altro che vuoi dirmi.» Fa così male! Melanie pensa soltanto queste parole, ma, in perfetto accordo con le strane regole della sua stanza della musica, de l'Epée riesce a sentirle perfettamente. Si sporge in avanti, attento. «Che cos'è che fa male? Vuoi dirmelo?» Ci sono così tante cose da dirgli! Lei potrebbe usare un milione di parole per descrivere quella sera e non riuscirebbe comunque a rendere tutto l'orrore che comporta vivere con quel ricordo. «Vai avanti», la sprona de l'Epée con tono incoraggiante. Come era solito fare suo fratello, come suo padre non ha mai fatto. «Vai avanti.»
«Siamo usciti dal teatro e siamo saliti sulla macchina di Danny. Lui mi ha chiesto se volevo mangiare qualcosa, ma io avevo lo stomaco chiuso. Gli ho chiesto di riportarmi semplicemente a casa. Nient'altro. Volevo soltanto tornare a casa.» De l'Epée si spinge in avanti. Le loro ginocchia si toccano. Le sfiora un braccio. «Che altro?» «Siamo usciti dalla città, abbiamo preso l'autostrada. Eravamo nella piccola Toyota di Danny. L'aveva ricostruita praticamente da solo. Tutto quanto. Ogni cosa. È così bravo con le cose meccaniche. È stupefacente, davvero. Stavamo andando molto forte.» Si interrompe per un istante per lasciare che la marea di tristezza che l'ha invasa si ritragga. Non si ritrae mai, in realtà, ma Melanie fa un respiro profondo - ricordandosi di quando doveva prendere fiato prima di dire qualcosa - e si scopre in grado di continuare. «Stavamo parlando, in macchina.» De l'Epée annuisce. «Ma questo significa che stavamo usando il linguaggio dei segni. E questo significa che dovevamo guardarci l'un l'altra. Continuava a chiedermi perché ero triste, se era perché gli apparecchi acustici non avevano funzionato, se ero scoraggiata, se papà mi aveva nuovamente rotto l'anima sulla fattoria... Lui...» Deve fermarsi, per respirare profondamente ancora una volta. «Danny stava guardando me, non la strada. Oh, Dio... era proprio lì, di fronte a noi. Non ho visto da dove era arrivato.» «Che cosa?» «Un camion. Uno di quelli grossi, che trasportava un carico di tubi di metallo. Credo che avesse cambiato corsia mentre Danny non stava guardando e... oh, Gesù, non c'era proprio niente che potesse fare. Tutti questi tubi che ci venivano addosso a mille chilometri all'ora...» E il sangue. Tutto quel sangue. «So che ha frenato, so che ha tentato di sterzare. Ma ormai era troppo tardi. No... Oh, Danny.» Sprizzava, il sangue. Sprizzava, come dalla gola di un vitello. «È riuscito a sterzare quasi completamente, a togliersi quasi del tutto dalla traiettoria del camion, ma uno dei tubi ha fracassato il parabrezza. E...» De l'Epée le stringe la mano. «Dimmi», sussurra. «Gli...» Le parole sono quasi impossibili da pronunciare. «Gli ha tronca-
to il braccio.» Come il sangue che scorre dai canaletti di scolo in quell'orribile pozzetto al centro della stanza delle uccisioni. «All'altezza della spalla.» Singhiozza al ricordo. Del sangue. Dell'espressione sbalordita sulla faccia di suo fratello quando si era voltato verso di lei e aveva parlato per un lunghissimo istante, dicendo parole che lei non era riuscita a capire e che non aveva avuto il coraggio di chiedergli di ripetere. Il sangue era schizzato sul tetto dell'abitacolo e gli aveva formato una pozza tra le gambe, mentre Melanie lottava per avvolgere un pezzo di stoffa intorno al moncherino e strillava e strillava e strillava. Lei, che usava la voce. Mentre Danny, ancora cosciente, muovendo follemente la testa, restava completamente muto sul sedile della Toyota. «I medici sono arrivati pochi minuti dopo», dice Melanie a de l'Epée, «e hanno fermato l'emorragia. Gli hanno salvato la vita. L'hanno portato in ospedale e i chirurghi gli hanno riattaccato il braccio nel giro di un paio d'ore. Nell'ultimo anno si è sottoposto a interventi di tutti i tipi. Ne ha uno domani. Ecco dove sono i miei genitori. A St. Louis, a trovarlo in ospedale. Sono convinti che, alla fine, riuscirà a riacquistare il cinquanta percento dell'efficienza del braccio. Se è fortunato. Ma, dopo l'incidente, ha perso ogni interesse nella fattoria. È rimasto quasi tutto il tempo a letto. Legge, guarda la televisione. Praticamente non fa altro. È come se la sua vita fosse finita con...» «Non è stata colpa tua», dice de l'Epée. «Ti stai dando la colpa di ciò che è successo, vero?» «Qualche giorno dopo l'incidente, mio padre mi ha chiamata fuori sulla veranda. C'è una cosa, di lui, che è strana... riesco a leggergli le labbra perfettamente.» (Come con Bruto, pensa, e subito si pente di averlo pensato.) «Si è seduto sul dondolo della veranda, mi ha guardata e mi ha detto: 'Spero che tu capisca quello che hai fatto, adesso. Non avresti dovuto convincere Danny a fare qualcosa di così stupido come portarti a quel concerto. E per un motivo del tutto egoista. Ciò che è successo è colpa tua, non c'è altro modo per dirlo. Potevi accendere il motore di una mietitrebbia mentre Danny stava lavorando a una delle lame e sarebbe stata la stessa cosa. «'Dio ti ha fatto difettosa, e nessuno te ne vuole per questo. È una disdetta, ma non è un peccato... finché riesci a capire ciò che devi fare. Adesso
torna a casa e ripara a ciò che hai fatto. Smettila con quel tuo lavoro di insegnante, fai quest'ultimo anno e poi basta. Lo devi a tuo fratello. E, specialmente, lo devi a me. «'Questa è casa tua e qui sarai sempre la benvenuta. Vedi, è una questione di appartenenza, e di ciò che fa il Signore per rassicurare coloro che non sanno di avere un posto dove stare. Be', il tuo posto è qui, a lavorare a ciò che puoi fare, dove il tuo... il tuo problema non ti mette nei guai, non ti rende la vita difficile. È la volontà di Dio.' E poi si è avvicinato allo spruzzatore dell'ammoniaca, dicendo: 'E così, poi sarai a casa'. Non era una domanda. Era un ordine. Tutto deciso. Niente discussioni. Voleva che tornassi a casa il maggio scorso. Ma io ho prolungato di qualche mese. Sapevo che alla fine avrei ceduto. Io cedo sempre. Ma volevo soltanto qualche altro mese da passare per conto mio.» Si stringe nelle spalle. «E aspetto.» «Non vuoi la fattoria?» «No! Voglio la mia musica. E voglio udirla, non soltanto sentire le vibrazioni... Voglio udire il mio amante sussurrarmi qualcosa quando sono a letto con lui.» Non riesce a credere di star dicendo queste cose a lui, queste cose intime... molto più intime di quanto abbia mai osato dire a chiunque altro. «Non voglio più essere vergine.» E, ora che ha cominciato, tutto le si riversa fuori, impossibile da contenere. «Odio la poesia, non me ne importa nulla! Non me ne è mai importato nulla. È stupida. Sai che cosa dovevo fare a Topeka? Dopo il mio spettacolo al Teatro dei Sordomuti? Avevo quell'appuntamento, dopo.» E un istante più tardi le braccia di lui la avvolgono e lei si preme contro il suo corpo, la testa poggiata sulla sua spalla. È un'esperienza doppiamente strana: essere vicina a un uomo, e poter comunicare con lui senza guardarlo. «C'è una cosa chiamata impianto cocleare.» Deve interrompersi per un attimo, prima di poter proseguire. «Ti mettono un microchip nell'orecchio interno. È collegato con un filo a questa cosa, questo speech processor che converte i suoni in impulsi diretti al cervello... Non sono mai riuscita a dirlo a Susan. Sono stata sul punto di farlo almeno una decina di volte. Ma lei mi avrebbe odiata. La sola idea di tentare di curare la sordità... avrebbe odiato un'idea simile.» «E funzionano, questi impianti?» «Possono funzionare. Io ho una perdita di udito del novanta percento in entrambe le orecchie, ma si tratta di una media dei valori. In alcuni registri riesco a distinguere i suoni, e l'impianto può migliorare questi. Ma, anche se non dovessero funzionare, ci sono altre cose da tentare. C'è un sacco di
nuova tecnologia che, nei prossimi cinque o sei anni, aiuterà le persone come me, sordi dalla nascita, sordi orgogliosi di esserlo e persone normali che vogliono udire.» E pensa: E io lo voglio. Voglio udire... voglio ascoltarti sussurrarmi parole all'orecchio mentre facciamo l'amore. «Io...» De l'Epée sta parlando, la sua bocca si sta muovendo, ma il suono delle sue parole svanisce nel nulla. Si attenua, si attenua. No! Parlami, continua a parlarmi. Che cosa c'è che non va? Ma ora è Bruto che è comparso sulla soglia della sua stanza della musica. Che cosa ci fai tu qui? Vattene! Esci! Questa è la mia stanza. Non ti voglio qui! Lui le sta sorridendo e guarda le sue orecchie. «Scherzo della natura», dice. Poi, in un attimo, fu nuovamente nella stanza delle uccisioni e Bruto non stava affatto parlando con lei, ma con Orso, che era in piedi con le braccia incrociate sul petto in una posa difensiva. La tensione tra loro due era spessa come fumo. «Ci hai venduti?» domandò Bruto a Orso. Orso scosse la testa vigorosamente e disse qualcosa che Melanie non riuscì ad afferrare. «Le hanno raccolte là fuori, quelle due bambine.» Le gemelle! Erano in salvo! Melanie riferì la cosa a Beverly e a Emily. La più giovane delle due ragazze sorrise e le sue dita eruppero in una preghiera spontanea di ringraziamento. «Le hai lasciate andare, vero?» domandò Bruto a Orso. «Era il tuo piano fin dall'inizio.» Orso scosse la testa. Disse qualcosa che Melanie non capì. «Ho parlato con...» ringhiò Bruto. «Chi?» parve chiedere Orso. «Il procuratore degli Stati Uniti con cui hai fatto l'accordo.» La faccia di Orso si rabbuiò. «Non esiste, amico. Non esiste per un cazzo.» Wilcox comparve alle sue spalle e disse qualcosa. Orso puntò l'indice verso Melanie. «È lei quella...» Bruto si voltò verso di lei. Melanie gli restituì freddamente lo sguardo, quindi si alzò in piedi e camminò lentamente sulle piastrelle umide, soffocando quasi per l'odore del gasolio. Si fermò e rimase in piedi proprio so-
pra Donna Harstrawn. Con un dito, fece cenno a Bruto di avvicinarsi. Con gli occhi fissi in quelli di Orso, Melanie sollevò la gonna dell'insegnante di una ventina di centimetri, rivelando le cosce chiazzate di sangue. Poi annuì in direzione di Orso. «Brutta puttana!» Orso fece un passo verso di lei, ma Bruto lo afferrò per un braccio, gli tolse la pistola dalla cintura e la lanciò a Ermellino. «Stupido stronzo!» «E allora? Me la sono scopata, e allora?» Bruto inarcò un sopracciglio e poi si tolse la pistola di tasca. Tirò lo scivolo e lo lasciò scattare, quindi premette un pulsante e fece uscire il piccolo tubo di metallo che conteneva il resto dei proiettili. Mise la pistola in mano a Melanie. L'arma era fredda come una pietra, trasmetteva un potere simile a corrente elettrica e la terrorizzava. Orso stava borbottando qualcosa: con la coda dell'occhio Melanie vide le sue labbra che si muovevano. Ma era del tutto incapace di distogliere lo sguardo dalla pistola. Bruto si mise in piedi alle sue spalle e diresse la canna verso il petto di Orso. Avvolse le mani di Melanie con le proprie. Melanie sentì il suo odore, un sentore dolciastro di pelle non lavata. «Avanti!» La faccia di Orso era truce. «Smettila di scherzare...» Bruto le stava parlando: Melanie avvertiva le vibrazioni delle sue parole sulla carne della guancia, ma non era in grado di capire ciò che stava dicendo. Sentì la sua eccitazione, un'eccitazione quasi sessuale, e la sentì anche in sé - come una febbre. Orso alzò le mani. Stava borbottando qualcosa. Scuotendo la testa. La pistola bruciava, radioattiva. Orso si allontanò lentamente e Bruto aggiustò la traiettoria dell'arma in modo da tenere la canna sempre puntata contro il suo petto. Melanie lo rivide mentalmente sopra la signora Harstrawn. Lo vide guardare con lascivia le gambe delle gemelline, i loro petti privi di seno. Premi il grilletto! pensò. Premilo! La sua mano cominciò a tremare. Ancora una volta avvertì contro di sé le vibrazioni delle parole di Bruto. Nella mente udì la sua voce, una voce stranamente morbida, la voce fantasma. «Avanti», le disse. Perché non sta sparando? Sto ordinando al mio dito di premere il grilletto. Nulla. Orso stava piangendo. Le lacrime gli scorrevano lungo le guance grasse, scomparendogli tra la barba incolta.
La mano di Melanie tremava sempre più. Le dita ferme di Bruto si avvoltolarono intorno alle sue. Poi la pistola le sussultò silenziosamente in mano. Quando l'aria calda espulsa dalla canna le arrivò in faccia, Melanie gemette. Un minuscolo puntino apparve sul torace di Orso e l'uomo si afferrò la ferita con entrambe le mani, guardò in alto e cadde all'indietro. No, ha sparato da sola! Io non l'ho fatto, non l'ho fatto! Lo giuro! Gridò queste parole a se stessa, le gridò e continuò a gridarle. Eppure... eppure, non ne era sicura. Non ne era per niente sicura. Per un attimo prima che l'orrore di ciò che era accaduto la colpisse - si era sentita infuriata all'idea che potesse non essere stata lei la responsabile della sua morte. Che fosse stato Bruto, e non lei, ad applicare l'ultimo grammo di pressione necessario a far scattare il grilletto. Bruto si allontanò di un passo e ricaricò la pistola, tirò una leva e lo scivolo scattò in avanti. Le labbra di Orso si muovevano, il suo sguardo si oscurava. Melanie rimase a osservare l'espressione miserabile del suo volto, in cui sembrava che tutta l'ingiustizia di questo mondo stesse cospirando per strappare con l'inganno un brav'uomo alla sua esistenza. Melanie non tentò nemmeno di immaginare che cosa stesse dicendo. Pensò: Una volta tanto, la sordità è una benedizione. Handy le passò vicino. Abbassò lo sguardo su Orso. Gli disse qualcosa a bassa voce. Gli sparò un colpo nella gamba, che per reazione scalciò violentemente. La faccia di Orso si contrasse per il dolore. Poi Lou sparò ancora, nell'altra gamba questa volta. Alla fine mirò al ventre: la pistola esplose una volta ancora. Orso sembrò rabbrividire, poi si irrigidì e giacque immobile. Melanie si lasciò scivolare sul pavimento e circondò Emily e Beverly con le braccia. Bruto si chinò e la tirò vicina a sé. La sua faccia era soltanto a pochi centimetri di distanza da quella di Melanie. «Non l'ho fatto perché si è scopato quella donna», le disse. «Ma perché lui non ha fatto quello che io gli avevo detto di fare. Ha lasciato scappare quelle bambine e aveva intenzione di tradirci. E adesso stai lì seduta e non ti muovere.» Conte posso capire le sue parole, se non riesco a capire lui? Come? si chiese Melanie. Lo sento in modo così perfetto, proprio come sento mio padre.
E così, poi sarai a... Come? si chiese. Handy la scrutò da capo a piedi come se conoscesse perfettamente la risposta alla sua domanda e stesse semplicemente aspettando che lei ci arrivasse da sola. Poi guardò l'orologio, si chinò, afferrò Emily per un braccio e trascinò la ragazzina nella stanza principale. Lou stava cantando. Potter l'aveva chiamato al telefono e gli aveva detto: «Lou, come vanno le cose là dentro? Crediamo di aver sentito qualche colpo di pistola». Sulla musica di Streets of Laredo, Handy cantò con voce quasi intonata: «Vedo dal mio Timex che vi restano quindici minuti...» «Sembra che tu sia di buonumore, Lou. Sei a posto con il mangiare?» La sua voce non tradiva alcuna preoccupazione. Erano davvero colpi di pistola? «Mi sento molto allegro, certo. Ma non voglio parlare del mio umore. È fottutamente noioso, non trovi? Raccontami del mio elicottero d'oro che sta volando verso di me in questo momento. Me ne hai trovato uno con i rotori di diamante, Art? E una pupa con due grosse tette come pilota?» Che cos'erano quegli spari? Guardando il monitor, che riproduceva le immagini della telecamera telescopica puntata sulla finestra, poteva vedere i capelli ondulati della decenne Emily Stoddard, i suoi occhi sgranati, il suo viso a forma di cuore. Il luccichio argenteo della lama di Handy era appoggiato alla sua guancia. «Ha intenzione di ferirla», sussurrò Angie. Per la prima volta, quel giorno, dalla sua voce traspariva l'emozione. Perché lei, come Potter, sapeva che Handy l'avrebbe fatto. «Lou, abbiamo il tuo elicottero. Sta arrivando.» Perché non si stanca? si domandò Potter. Dopo tutto questo tempo, di solito, la maggior parte dei sequestratori criminali starebbe già arrampicandosi sui muri, farebbe qualsiasi cosa pur di arrivare a un accordo. «Resta in linea, Lou. Credo che sia il pilota. Ti metterò in attesa. Torno subito.» «Non ce n'è bisogno. Fai soltanto in modo di farmi avere quell'elicottero tra quattordici minuti.» «Resta in linea.» Potter premette il pulsante che toglieva l'ascolto e domandò: «Che cosa ne pensi, Angie?»
La donna fissò fuori del finestrino. Poi d'un fiato: «Fa sul serio. Lo farà davvero. Si è stancato della trattativa. Ed è ancora furioso per l'assalto». «Tobe?» «Sta squillando. Nessuna risposta.» «Maledizione. Ma non se lo tiene in tasca, quel telefono?» «Ci sei ancora, Lou?» «Il tempo passa, Art.» Potter tentò di sembrare distratto mentre domandava: «Ehi, dimmi un po', Lou. Che cosa mi dici di quegli spari?» Una risatina sommessa. «Certo che sei proprio curioso, Art.» «Erano veramente degli spari?» «Non lo so. Forse era tutto nella tua testa. Forse ti stavi sentendo in colpa per quello sbirro che è rimasto ucciso accidentalmente dopo che hai tentato accidentalmente di attaccarmi. E allora hai sentito gli spari... sai, come una specie di allucinazione.» «Da qui sembravano veri.» «Forse Sonny si è sparato accidentalmente mentre cercava di pulire la pistola.» «È questo che è successo?» «Sarebbe un vero peccato se tutti contavano su di lui perché facesse il testimone. E guarda cosa va a succedere: che si mette a pulire una Glock senza controllare prima se c'è un colpo in canna.» «Non c'è nessun accordo tra lui e noi, Lou.» «No che adesso non c'è. Questo te lo posso proprio garantire, cazzo.» LeBow e Angie guardarono Potter. «Bonner è morto?» domandò a Handy il negoziatore. Non hai mai fatto qualcosa di cattivo, Art? «Ti restano dodici minuti», rispose la voce allegra di Handy. Clic. «Ce l'ho», avvisò Tobe. «Budd.» Potter afferrò il telefono. «Charlie, ci sei?» «Sono all'aeroporto e hanno un elicottero. Ma non riesco a trovare nessuno che lo faccia volare.» «Deve esserci qualcuno.» «C'è una scuola qui - una scuola di pilotaggio - e c'è un tizio che vive sul retro, ma alla porta non risponde nessuno.» «Ho bisogno di un elicottero qui tra dieci minuti, Charlie. Mi basta che sorvoli il fiume e atterri in quel grosso campo che c'è a ovest. Quello a cir-
ca settecento metri da qui. Questo è tutto quello che devi fare.» «Ah, questo è tutto? Oh, ragazzi.» «Buona fortuna, Charlie», disse Potter. Ma Charlie non era già più al telefono. Charlie Budd corse sotto le alte pale del Sikorsky. Era un vecchio modello, di grosse dimensioni, del tipo che aveva raccolto dall'oceano gli astronauti a mollo ai giorni dell'Apollo e del Gemini alla NASA. Era arancione, rosso e bianco, i colori della Guardia costiera, anche se le insegne erano state cancellate da tempo. L'aeroporto era piccolo. Non c'era torre di controllo; soltanto una manica a vento accanto a una striscia d'erba. Una mezza dozzina di monomotori Piper e Cessna erano parcheggiati qua e là, legati strettamente contro i tornado improvvisi della terra di Oz. Budd picchiò il pugno sulla porta di una piccola baracca situata dietro l'unico hangar dell'aeroporto. Il cartello accanto alla porta diceva: SCUOLA PILOTAGGIO ELICOTTERI D.D. PEMBROKE. LEZIONI, GIRI TURISTICI. NOLEGGIO ORARIO E GIORNALIERO. Nonostante quelle affermazioni, però, il posto era principalmente un'abitazione. Sullo zerbino giaceva una pila di posta e, attraverso la finestrella della porta, Budd intravide una luce gialla, una serie di vestiti in un sacchetto di cellophane azzurro e quello che sembrava il piede di un uomo che sporgeva dall'estremità di una branda. L'alluce protrudeva da un buco nella calza. «Avanti, rispondi!» Charlie picchiò più forte. Poi gridò: «Polizia! Aprite!» L'alluce si mosse - sussultò, poi compì un lento movimento circolare - e tornò a immobilizzarsi. Altri colpi alla porta. «Aprite!» L'alluce aveva ripreso a dormire della grossa. Il vetro si ruppe facilmente. Charlie sbloccò la porta ed entrò. «Ehi, signore!» Un uomo sulla sessantina giaceva sulla branda, con indosso i pantaloni di una tuta e una t-shirt. I suoi capelli erano come paglia e gli si irradiavano dalla testa in tutte le direzioni. Il rumore del suo russare era forte come quello del motore del Sikorsky. Budd lo afferrò per un braccio e lo scosse con violenza. D.D. Pembroke, se di D.D. Pembroke si trattava, aprì gli occhi rossi e
umidi per un istante, guardò Budd senza vederlo e si voltò dall'altra parte. Almeno, aveva smesso di russare. «Signore, sono un ufficiale della polizia di stato. Questa è un'emergenza. Si svegli! Abbiamo bisogno subito del suo elicottero.» «Va' via», borbottò Pembroke. Budd inspirò profondamente, stizzito. Trovò la bottiglia vuota di Dewar's sotto il braccio dell'uomo, che la cullava nel sonno come fosse un orsacchiotto di pezza. «Merda. Si svegli, signore. Abbiamo bisogno di lei per volare.» «Non posso volare. E come potrei volare? Va' via.» Pembroke non si mosse né aprì gli occhi. «Come hai fatto a entrare qui?» domandò senza la minima traccia di curiosità. Charlie lo girò a forza e lo scosse per le spalle. La bottiglia cadde sul pavimento di cemento e andò in frantumi. «Lei è Pembroke?» «Già. Merda, quella era la mia bottiglia?» «Mi ascolti, questa è un'emergenza federale.» Charlie vide un barattolo di caffè solubile sul ripiano lurido del tavolo. Fece scorrere l'acqua nel lavandino arrugginito e riempì una tazza, senza aspettare che diventasse calda. Buttò nell'acqua fredda quattro cucchiai di caffè solubile e spinse la tazza sporca tra le mani di Pembroke. «Beva questo. Dobbiamo andare. Ho bisogno che lei mi porti in elicottero a quel mattatoio lungo la strada.» Pembroke, con gli occhi ancora chiusi, si sollevò a sedere e annusò la tazza. «Quale mattatoio? Che cos'è questa merda qui dentro?» «Quello vicino al fiume.» «Dov'è la mia bottiglia?» «Beva questo, la sveglierà.» I granuli solubili non si erano sciolti: galleggiavano sulla superficie dell'acqua come ghiaccio marrone. Il pilota sorseggiò la mistura, ne sputò una boccata sul letto e gettò via la tazza. «Geeeesù!» Soltanto in quel momento si rese conto che c'era un uomo in uniforme blu e con un giubbotto antiproiettile accanto alla sua branda. «E lei chi cazzo è? Dov'è la mia...» «Ho bisogno del suo elicottero. E ne ho bisogno adesso. Si tratta di un'emergenza federale. Lei mi deve portare in elicottero a quel mattatoio lungo il fiume.» «Là? Quello abbandonato? Ma è a soli cinque chilometri di distanza. Ci arriva prima in macchina, maledizione. 'Fanculo, ci può andare a piedi! Oddio... la mia testa. Ooooooh.»
«Mi serve un elicottero. E mi serve subito. Sono autorizzato a pagarla quanto vuole.» Pembroke si lasciò ricadere sul letto. I suoi occhi continuavano a chiudersi. Budd immaginò che, se anche fossero riusciti a decollare - cosa di cui dubitava - l'elicottero sarebbe precipitato. «Andiamo.» Charlie lo sollevò prendendolo per le bretelle della tuta. «Quando?» «Adesso. In questo istante.» «Non posso volare quando sono così addormentato.» «Ha sonno. D'accordo. Qual è la sua tariffa?» «Centoventi dollari l'ora.» «Gliene darò cinquecento.» «Domani.» Fece per sdraiarsi di nuovo, con gli occhi chiusi, tastando le lenzuola luride in cerca della sua bottiglia. «Si tolga dalle palle.» «Signore! Apra gli occhi.» Pembroke li aprì. «Merda», borbottò mentre guardava la canna della pistola automatica. «Signore», disse Budd con voce calma e rispettosa, «adesso lei si alzerà in piedi e andrà a quell'elicottero e lo porterà esattamente dove io le dirò di portarlo. Mi ha capito?» Un cenno di assenso. «È sobrio?» «Come una pietra», disse Pembroke, e riuscì a tenere gli occhi aperti per due interi secondi prima di perdere nuovamente conoscenza. Melanie era appoggiata alla parete, accarezzando i biondi capelli sudati di Beverly, osservando la povera ragazza che annaspava a ogni respiro. Si sporse in avanti e guardò fuori. Emily era in piedi davanti alla finestra. Piangeva. Bruto si voltò d'improvviso e guardò Melanie, facendole cenno di venire avanti. Non andare, si disse lei. Resisti. Esitò per un istante, poi uscì dalla stanza delle uccisioni e si diresse verso di lui. Vado perché non posso fermare me stessa. Vado perché lui mi vuole. Sentì il gelo entrarle in corpo dal pavimento, dalle catene e dai ganci di metallo, dalla cascata di acqua viscida, dalle pareti umide chiazzate di fanghiglia e di sangue vecchio.
Vado perché ho paura. Vado perché io e lui abbiamo appena ucciso un uomo insieme. Vado perché riesco a capire quello che dice... Bruto la tirò accanto a sé. «Credi di essere migliore di me, vero? Credi di essere una persona buona.» Lei riusciva a capire che stava sussurrando. La faccia delle persone cambia quando sussurrano. Hanno l'aria di chi ti sta raccontando verità assolute, ma in realtà stanno soltanto rendendo più convincente la menzogna. «Perché lo stiamo vendendo? Tesoro, lo sai quello che ha detto il dottore. Si tratta delle tue orecchie. Adesso riesci ancora a sentire qualcosa, certo, ma anche questo sparirà; ricordati quello che hanno detto. Non credo che tu voglia davvero cominciare a fare qualcosa che tra qualche anno sarai costretta a mettere da parte. Lo stiamo facendo per te.» «Vedi, la tagliuzzerò fra tre minuti circa se quell'elicottero non arriva. La ucciderei, se avessi altri ostaggi. Ma non posso permettermi di perderne un altro. Almeno non ancora.» Emily era immobile, con le mani serrate insieme, e fissava fuori della finestra, le spalle scosse dai singhiozzi. «Vedi», Bruto strinse ferocemente le sue dita forti intorno al braccio di Melanie, «se tu fossi una persona buona, se tu fossi veramente buona, diresti: 'Prendi me, non lei'.» Smettila! Lui la schiaffeggiò. «No, tieni gli occhi aperti. Quindi, se non sei completamente buona, in te dev'esserci qualcosa di cattivo. Da qualche parte. Per permetterti di lasciar tagliare questa ragazzina invece che te. Non è come se morisse, sai. Non ho intenzione di ucciderla. Soltanto un po' di dolore. Per assicurarmi che quegli stronzi là fuori... sappiano che faccio sul serio. Non ti importa che la tua amichetta provi un po' di dolore, eh? Tu... cattiva. Proprio come me?» Melanie scosse la testa. Bruto si voltò. Anche Ermellino. Melanie immaginò che il telefono stesse squillando. «Non rispondere», ordinò Bruto a Ermellino. «Abbiamo già parlato troppo. Sono stanco e nauseato...» Passò il pollice sul filo della lama. Melanie era come paralizzata. «Tu? Tu al posto suo?» Spostò la lama del coltello da una parte e poi dall'altra. A formare un otto. Che cosa avrebbe fatto Susan? Melanie esitò, anche se conosceva chiaramente la risposta. Alla fine an-
nuì. «Già», disse Bruto, inarcando le sopracciglia. «Fai sul serio?» «Due minuti», gridò Ermellino. Melanie annuì, quindi abbracciò la singhiozzante Emily, abbassò la testa sulla guancia della bambina e la condusse gentilmente via dalla finestra. Handy le si avvicinò, la testa a pochi centimetri da quella di Melanie, il naso dietro il suo orecchio. Lei non poteva udirlo respirare, ovviamente, ma aveva l'impressione che stesse inalando qualcosa - forse l'odore della sua paura. I suoi occhi erano fissi sul coltello... che fluttuava sopra la sua pelle: la guancia, il naso, poi le labbra, la gola. Melanie sentì il freddo della lama accarezzarle un seno e scivolarle lungo il ventre. Avvertì le vibrazioni della sua voce e si voltò per guardargli le labbra. «...dovrei tagliarti? Una tetta? Non sarebbe una gran perdita; non hai nessun fidanzatino che ti palpa, eh? L'orecchio? Ehi, anche lì non avrebbe molta importanza... Hai visto quel film, Le iene?» La lama si sollevò, scivolandole su una guancia. «Che mi dici di un occhio? Sordomuta e cieca. Saresti un vero fenomeno da baraccone, dopo.» Alla fine Melanie non riuscì più a sopportarlo e chiuse gli occhi. Tentò di pensare alla melodia di Amazing Grace, ma era scomparsa dalla sua memoria. A Maiden's Grave... Nulla, nulla, nient'altro che silenzio. La musica può essere suono o vibrazioni, ma non entrambe le cose. E, per me, né l'una né l'altra. Bene, pensò, fa' tutto quel cazzo che vuoi e falla finita. Ma poi le mani la spinsero via brutalmente e lei aprì gli occhi, barcollando. Bruto stava ridendo, e Melanie capì che quella piccola scena del sacrificio era stata soltanto uno scherzo. Aveva giocato con lei ancora una volta. «No, no, no», disse lui, «ho altri progetti per te, piccolo topolino. Tu sei un regalo per la mia Pris.» La consegnò nelle mani di Ermellino, che la tenne stretta. Melanie si divincolò, ma le sue dita erano come una morsa. Bruto prese Emily e la trascinò nuovamente davanti alla finestra. Gli occhi della ragazza incontrarono quelli di Melanie per un istante; Emily giunse le mani, pregando, piangendo. Bruto afferrò la testa della ragazzina nell'incavo del braccio sinistro e sollevò la punta del coltello davanti ai suoi occhi. Melanie lottò invano contro la stretta d'acciaio di Ermellino.
Bruto guardò l'orologio. «È ora.» Emily singhiozzava: le sue dita intrecciate sussultavano nel comporre frenetiche preghiere. Bruto strinse la presa sulla testa di Emily. Ritrasse il coltello di qualche centimetro e poi puntò direttamente verso la palpebra serrata del suo occhio destro. Ermellino distolse lo sguardo. Ma, improvvisamente, le sue braccia sussultarono per la sorpresa. Guardò il soffitto polveroso. Bruto lo imitò. E, alla fine, anche Melanie lo sentì. Un immenso rombo sopra la sua testa, come un rullo di timpani. Poi il rombo si fece più vicino, trasformandosi nel suono continuo di un'enorme grancassa. Una frequenza indiscernibile che Melanie avvertì sul viso e sulle braccia e nella gola e nel petto. La musica è suono o vibrazione. Ma non entrambe le cose. L'elicottero era sopra di loro. Bruto si sporse fuori dalla finestra e guardò il cielo. Con le dita ossute sbloccò drammaticamente la lama del coltello e la chiuse con quello che Melanie immaginò essere uno schiocco secco. Poi rise e disse qualcosa a Ermellino, parole che Melanie, per qualche motivo, fu assolutamente furiosa di non riuscire a comprendere. 21,31 «Sei un po' verde, in faccia, Charlie.» «Quel pilota», borbottò Budd a Potter, arrampicandosi sul furgone con gambe malferme. «Ragazzi, ho creduto davvero che fosse arrivata la mia ora. Ha mancato il campo in pieno e ha fatto atterrare quell'aggeggio nel bel mezzo della statale 346, per poco non lo metteva giù sul tetto di un camion dei pompieri. Oh, questa sì che è un'esperienza, vi assicuro. Poi ha vomitato fuori del finestrino e si è addormentato. Ho continuato a spegnere roba, pulsanti, interruttori, finché il motore si è spento. E quest'odore che c'è qui dentro non aiuta per niente il mio stomaco.» La postura esemplare del capitano era andata a farsi benedire: si lasciò cadere su una sedia come un sacco vuoto. «Be', hai fatto veramente un buon lavoro, Charlie», gli ripeté Potter. «Handy ha acconsentito a darci ancora un po' di tempo. L'SSO sarà qui da
un momento all'altro.» «E poi?» «E poi vedremo», rispose laconico Potter. «Mentre stavo andando là in macchina», disse Budd, gli occhi fissi in quelli di Potter, «ho sentito una trasmissione radio. C'è stato uno sparo nel mattatoio?» LeBow smise di digitare. «Handy ha sparato a Bonner», rispose. «Crediamo.» «Credo che Handy e Wilcox», continuò Potter, «abbiano preso la nostra strategia un po' più seriamente di quanto mi aspettavo... quell'accordo tra noi e Bonner. Hanno pensato che fosse una spia.» «Non c'era niente che potessimo fare», affermò LeBow in tono indifferente. «Non si possono prevedere cose del genere.» «L'eventualità non avrebbe potuto essere prevista», recitò Tobe, come un cyborg in uno dei romanzi di fantascienza che leggeva di continuo. Charlie Budd - il falso procuratore degli Stati Uniti, nonché ingenuo membro della polizia di stato - fu l'unico onesto del gruppo, perché rimase in silenzio. Continuò a guardare Potter e, alla fine, i loro occhi si incontrarono. Lo sguardo del giovane capitano diceva che aveva capito: Potter sapeva già ciò che sarebbe accaduto quando gli aveva dato gli appunti da leggere. Era stata intenzione di Potter fin dall'inizio far sì che Budd impiantasse il seme della sfiducia che avrebbe messo Handy contro Bonner. Ma nell'occhiata del capitano c'era un altro messaggio. I suoi occhi dicevano: Oh, ho capito. Mi hai usato per uccidere un uomo. Be', quel che è giusto è giusto: dopotutto, io ti ho spiato. Ma ora i nostri rispettivi peccati si sono cancellati a vicenda. Mutuo tradimento, e che cos'è accaduto? Abbiamo un sequestratore in meno. Meglio così. Ma ascoltami bene: non ti devo più nulla. Un telefono ronzò - il cellulare di Charlie Budd. Il poliziotto prese la chiamata. Rimase in ascolto punteggiando la conversazione con diversi significativi «mm-mm», poi coprì il microfono con il palmo della mano. «Be', che ne pensi di questa? È il mio comandante di divisione, Ted Franklin. Dice che c'è un'agente a McPherson, non troppo lontano da qui. Una donna. Ha trattato la resa di Handy cinque anni fa in una rapina a una drogheria che non era andata per il verso giusto. Franklin vuole sapere se deve chiederle di venire qui a darci una mano.» «Handy si è arreso a questa donna?» Budd ripeté la domanda al telefono e ascoltò per un istante la risposta.
Poi riferì: «Sì, si è arreso. Sembra che non ci fossero ostaggi. Erano riusciti tutti a fuggire e l'SSO stava per entrare. Un bel po' diverso da adesso, a quanto pare». Potter e LeBow si scambiarono un'occhiata. «Falla venire comunque», decise il negoziatore. «Che possa aiutarci direttamente o meno, posso vedere Henry che si lecca i baffi al pensiero di ricevere altre informazioni sui cattivi.» «Davvero», confermò LeBow. Budd riferì la decisione al suo comandante e Potter si sentì momentaneamente rincuorato all'idea di avere un alleato. Si appoggiò allo schienale della poltroncina e rifletté a voce alta: «Esiste un modo per portarne fuori una o due altre prima che l'SSO arrivi qui?» Angie domandò: «Che cosa possiamo dargli che non ha ancora chiesto? C'è qualcosa?» LeBow fece scorrere lo schermo. «Ha chiesto un mezzo di trasporto, cibo, alcolici, pistole, giubbotti antiproiettile, energia elettrica...» «Tutte le cose classiche», consentì Angie. «Le cose che vuole ogni sequestratore.» «Ma non soldi», realizzò improvvisamente Budd. Perplesso, Potter guardò il foglio delle Promesse, dove erano registrate le cose che avevano realmente dato a Handy. «Hai ragione, Charlie.» «Non ha chiesto soldi?» domandò Angie, sorpresa. LeBow consultò il proprio file e confermò che Handy non aveva menzionato il denaro nemmeno una volta. «Come hai fatto a pensarci?» chiese al capitano. «L'ho visto in un film», rispose Budd. «È un sequestro casuale», cercò di spiegare LeBow. «Handy non è lì per ricavarne un profitto. È un criminale in fuga.» «Lo era anche questo tipo», replicò Budd. Potter e LeBow guardarono il capitano che, arrossendo, aggiunse: «Nel film, voglio dire. Credo che fosse Gene Hackman. O forse lui interpretava il tuo ruolo, Arthur. È un bravo attore Gene Hackman». «Sono d'accordo con Charlie, Henry», intervenne Angie. «È vero che molti sequestratori criminali non vogliono soldi. Ma Handy ha in sé una vena mercenaria. La maggior parte dei suoi reati minori sono contro la proprietà.» «Tentiamo di comprarne un paio allora», propose Potter. «Che cosa abbiamo da perdere?» Poi si rivolse a Budd. «Puoi mettere le mani su del de-
naro contante?» «A quest'ora della notte?» «Immediatamente.» «Gesù, credo di sì. Al quartier generale hanno un po' di soldi. Forse duecento dollari. Che ne dici?» «Sto parlando di centomila dollari in banconote di piccolo taglio, non segnate. Nel giro di, diciamo, venti minuti.» «Oh», esclamò Charlie. «In questo caso, no.» «Chiamerò la DEA», intervenne LeBow. «Devono avere dei soldi a Topeka o a Wichita. Faremo un trasferimento da un'agenzia all'altra.» Fece un cenno a Tobe, che sfogliò un'agenda e compose un numero di telefono. LeBow cominciò a parlare nel microfono della sua cuffia con una voce bassa e urgente che ricordava il suo modo di digitare alla tastiera del computer. Potter sollevò il suo telefono e chiamò Handy. «Ehilà, Art.» «Come te la passi, Lou? Sei pronto a partire?» «Ci puoi scommettere. Un bel cottage riscaldato... Oppure un albergo. O un'isola deserta.» «Mi dici dove vai, Lou? Magari ti vengo a trovare.» Hai un bel senso dell'umorismo, Art. «Mi piacciono gli sbirri con il senso dell'umorismo, vecchio figlio di puttana.» Poi: «Dov'è il mio elicottero?» «Più vicino possibile, Lou. In quel campo appena oltre gli alberi. Alla fine abbiamo scoperto che il fiume era troppo agitato, dopotutto. Adesso ascoltami, Lou. Hai visto quell'elicottero. È un sei posti. So che tu ne volevi uno a otto posti, ma questo è tutto quello che siamo riusciti a procurarti.» Sperò che Handy non avesse avuto il tempo di guardarlo bene: in un vecchio Sikorsky ci si poteva far entrare mezza squadra dei Washington Redskins. «Così, ho una proposta da farti. Lasciami comprare un paio di ostaggi.» «Comprare?» «Certo. Sono autorizzato a pagare fino a cinquantamila dollari a testa. Là sopra, semplicemente, non c'è posto per voi sei e il pilota. Non ci sono portapacchi dove metterli, sai. Lasciamene comprare un paio.» Merda, Art, potrei ucciderne una. Così avremmo tutto lo spazio che ci serve.
Ma riderà mentre lo dice. «Ehi, ho un'idea. Invece di dartene una, le potrei sparare. Così avremo un sacco di spazio. Per noi e per i nostri bagagli da perfetti turisti americani.» La sua risata fu quasi un ghigno. «Ah, ma Lou, se la uccidi, non ti becchi neanche un soldo. E questa sarebbe una vera fregatura, come dice sempre mio nipote.» Potter parlò in tono tranquillo, perché aveva la sensazione che il rapporto tra lui e Handy si fosse ristabilito. Era solido, consistente. Il negoziatore sapeva che l'uomo stava prendendo in seria considerazione l'offerta. «Cinquantamila?» «Pronta cassa. Biglietti di piccolo taglio, non segnati.» Un'esitazione. «D'accordo. Ma soltanto per una. Io mi tengo le altre.» «Facciamo due. Te ne resteranno pur sempre altre due. Non voglio essere avido.» Vaffanculo, Art. Dammene centomila per una. Questo è tutto quello che posso fare. «No», disse Handy. «Te ne becchi una. Cinquantamila. L'accordo è questo.» Potter lanciò un'occhiata ad Angie. Lei scosse la testa, perplessa. Lou non stava trattando. Il negoziatore, dopo un po' di finta trattativa, era già preparato a dargli tutti i centomila dollari per una sola ragazza. «Bene, d'accordo, Lou. Accetto.» «Solo che, Art...» C'era un tono, nella voce di Handy, che Potter non aveva ancora sentito, e la cosa lo preoccupò. Non aveva la minima idea di ciò che sarebbe arrivato. Dove si era esposto? «Sì?» «Devi dirmi tu quale.» «Cosa intendi dire, Lou?» Ancora quella risata. «Una domanda piuttosto facile, Art. Quale degli ostaggi vuoi comprare? Sai come funziona, amico mio. Tu vai da un rivenditore di auto usate e dici: prenderò quella Chevy o quella Ford. Paghi i tuoi soldi e fai la tua scelta. Quale vuoi?» Nel cuore. Ecco dove Potter si era scoperto. Nel cuore. Budd e Angie lo stavano fissando. Tobe teneva la testa bassa, concentrato sui suoi display. «Be', Lou, adesso...» Potter non riusciva a pensare a nient'altro da dire.
Per la prima volta, quel giorno, l'indecisione gli strisciò nell'animo. E, cosa ancora peggiore, l'aveva sentita nella sua stessa voce. Una cosa del genere non poteva accadere. L'esitazione era letale, in una trattativa. I sequestratori la coglievano immediatamente e ne ricavavano potere, potere letale. Per uno come Handy, maniaco del controllo, captare anche una frazione di secondo di pausa nella voce di Potter poteva farlo sentire invincibile. Nel ritardo della sua risposta, Potter sentì di stare firmando la condanna a morte per tutti e quattro gli ostaggi. «Be', è una domanda difficile», tentò di scherzare. «Deve esserlo. Infatti, sembra proprio che tu sia dannatamente in difficoltà.» «Stavo soltanto...» «Lascia che ti aiuti, Art. Facciamo insieme una passeggiatina nel parcheggio degli ostaggi usati, perché no? Be', allora, c'è la vecchia... quella maestra. Ora, lei ha un sacco di chilometri sul groppone. È piuttosto malridotta. Un rottame, spremuto come un limone. È stata opera di Bonner. L'ha cavalcata duramente, Art, te lo dico io. Il radiatore sta ancora perdendo.» «Gesù», mormorò Budd. «Quel figlio di puttana», inveì la placida Angie. Gli occhi di Potter erano fissi sulle finestre giallastre e ormai familiari del mattatoio. No! pensava. Non farmi questo! No! «Poi c'è quella carina. Quella bionda. Melanie.» Perché conosce il suo nome? pensò Potter. Irragionevolmente furioso. È stata lei a dirglielo? Parla con lui? Si è innamorata di lui? «Io stesso ho un debole per lei. Ma è tua, se la vuoi. Poi abbiamo questa piccola merda che non riesce a respirare. Oh, e per ultima abbiamo quella con il vestitino che stava per diventare Miss Un Occhio Solo. Fai la tua scelta.» Potter si scoprì a osservare la fotografia di Melanie. No, smettila! ordinò a se stesso. Guarda da un'altra parte. Lo fece. E adesso pensa! Qual è quella più a rischio? Chi è che minaccia maggiormente il suo controllo? L'insegnante più anziana? No, niente affatto. La ragazzina, Emily? No, troppo fragile e femminile e giovane. Beverly? La sua malattia avrebbe, come aveva suggerito Budd, irritato Handy. E Melanie? La frase di Handy, quando aveva detto di avere un debole per lei, lasciava intendere che fosse in corso un accenno di sindrome di
Stoccolma. Era sufficiente per farlo esitare all'idea di ucciderla? Probabilmente no. Ma lei è più grande. Come poteva scegliere un'adulta prima di una bambina? Melanie, gridava senza speranza il cuore di Arthur Potter, io voglio salvarti! E quello stesso cuore bruciava di rabbia perché Handy gli aveva buttato quella decisione sulle spalle. Aprì la bocca: non riusciva a parlare. Budd aggrottò le sopracciglia. «Non c'è molto tempo. Potrebbe ripensarci, se non scegliamo subito.» LeBow gli sfiorò un braccio e sussurrò: «È tutto okay, Arthur. Scegli chi vuoi. Non ha molta importanza». Ma ne aveva, ne aveva eccome. Ogni decisione era importante, in un caso di sequestro. Potter si ritrovò nuovamente a fissare la fotografia di Melanie. Capelli biondi, occhi grandi. Stai accorto, de l'Epée. Si raddrizzò sulla sedia. «Beverly», disse d'un fiato nel telefono. «La ragazza con l'asma.» Chiuse gli occhi. «Hmmm. Ottima scelta, Art. Il suo continuo sibilare mi sta dando davvero sui nervi, sai? Stavo cominciando a pensare di farla fuori a prescindere da tutto il resto proprio per quel sibilo di merda. Okay, allora, quando hai i soldi la mando fuori.» Clic. Per un lunghissimo istante nessuno parlò. «Odio quel suono», mormorò infine Frances. «Non voglio più sentire riagganciare un telefono in tutta la mia vita.» Potter si lasciò andare contro lo schienale. LeBow e Tobe lo stavano osservando. Lentamente, si voltò verso la finestra e guardò fuori. Perdonami, Melanie. «Salve, Arthur. È una di quelle brutte, a sentirne parlare.» Frank D'Angelo era un uomo snello con due folti baffi, calmo come uno stagno in estate. Il capo dell'SSO dell'FBI era stato responsabile del lavoro sporco in cinquanta o sessanta trattative condotte da Potter. Gli agenti tattici - presi dalle operazioni in corso in Florida e a Seattle - erano appena arrivati e ora erano assembrati nell'avvallamento del terreno alle spalle del furgone di comando. «È stata una giornata molto lunga, Frank.» «Ha preparato una trappola incendiaria?»
«Così sembra. Sono propenso a farlo uscire con il guinzaglio corto e poi a catturarlo o neutralizzarlo. Ma questa è la tua specialità.» «Quanti ostaggi sono rimasti?» chiese D'Angelo. «Quattro. Ne tireremo fuori un'altra tra pochi minuti.» «Hai intenzione di tentare una resa?» Lo scopo ultimo di tutte le trattative è di portare i sequestratori ad arrendersi. Ma, se glielo si propone poco tempo prima che ottengano il loro elicottero o un altro mezzo per fuggire, potrebbero arrivare alla ragionevole conclusione che l'offerta sia in realtà un velato ultimatum e che tu sia in procinto di inchiodarli. D'altro canto, se si dà l'autorizzazione a un attacco, sarà molto probabile che ci siano delle perdite e tu trascorrerai il resto della tua vita a chiederti se non avresti potuto convincere i sequestratori ad arrendersi senza spargimenti di sangue. E poi c'era il fattore Giuda. Il tradimento. Potter stava promettendo a Handy una cosa mentre gliene consegnava una di tutt'altra natura. Possibilmente - probabilmente - la sua morte. Per quanto malvagio fosse Lou, lui e il negoziatore erano in un certo qual modo soci, e anche l'idea di averlo tradito era qualcosa con cui Potter avrebbe dovuto convivere per lungo, lunghissimo tempo. «No», scandì lentamente l'agente, «nessun tentativo di resa. Lo intenderebbe come un ultimatum e capirebbe che stiamo progettando un'irruzione. E allora non riusciremmo più a tirarlo fuori.» «Che cos'è successo qui?» domandò D'Angelo indicando la parte bruciata del furgone di comando. «Te lo racconto dopo.» All'interno del furgone, D'Angelo, Potter, LeBow e Budd studiarono i progetti architettonici dell'edificio, le mappe del terreno e quelle inviate dal SatSurv. «Qui è dove sono situati gli ostaggi», spiegò Potter. «Almeno fino a un'ora fa. E, per quanto ne sappiamo, quella bomba incendiaria è ancora innescata.» LeBow cercò la descrizione del dispositivo che aveva fatto la piccola Shannon Boyle poche ore prima e la lesse a voce alta. «E sei sicuro di riuscire a portarne fuori ancora una?» domandò D'Angelo. «La compriamo per cinquantamila dollari.» «La ragazza dovrebbe essere in grado di dirci se la trappola è ancora pronta a scattare», osservò il comandante dell'SSO. «Non credo che abbia molta importanza», sostenne Potter guardando
Angie, che con un cenno del capo gli fece capire di essere d'accordo. «Bomba o non bomba, farà fuori gli ostaggi. Se ha il tempo per farlo, anche soltanto uno o due secondi, gli sparerà o lancerà dentro una granata.» «Granata?» D'Angelo si accigliò. «Avete una lista delle armi di cui dispone?» LeBow ne aveva già stampata una. Il comandante dell'SSO la lesse attentamente. «Ha un MP-5? Con mirino laser e silenziatore?» Scosse la testa. Sul suo volto era visibile il disappunto. Qualcuno bussò alla fiancata del furgone e un giovane agente dell'SSO entrò subito dopo. «Signore, abbiamo completato le procedure iniziali di ricognizione.» «Continua.» D'Angelo gli indicò la mappa. «Questa porta qui è di legno rivestito in acciaio. A quanto pare è già provvista di cariche di sfondamento.» D'Angelo guardò Potter. «Un gruppo di poliziotti troppo entusiasti. È così che si è procurato l'Heckler & Koch.» L'altro annuì cupamente, strofinandosi i baffi. L'agente continuò: «C'è un'altra porta sul lato sud, di legno più sottile. C'è un pontile di carico sul retro, qui, accanto al fiume. La porta è aperta a sufficienza per farci passar sotto qualcuno senza equipaggiamento. Un paio dei ragazzi più piccoli. Accanto a questa c'è una porta più piccola, di acciaio rinforzato, bloccata dalla ruggine. Qui c'è un tubo di scarico, diametro settanta centimetri, sbarrato da una griglia metallica. Le finestre del secondo piano sono tutte sbarrate con assi spesse due centimetri. Queste tre finestre qui non sono visibili dalla posizione degli SO. Il tetto è coperto da pannelli d'acciaio spessi un centimetro e la tromba dell'ascensore è sigillata. La porta d'accesso alla tromba è di metallo e la mia stima è di venti-trenta secondi dallo sfondamento all'apertura del fuoco, se entriamo da lì.» «Troppo tempo.» «Sissignore. Se effettuiamo un'irruzione a quattro uomini dalle due porte, con fuoco di copertura da una delle finestre, e due uomini che entrano dal pontile di carico, la mia stima è di poterli neutralizzare in otto-dodici secondi.» «Grazie, Tommy», disse D'Angelo al suo uomo. Poi, rivolto a Potter, aggiunse: «Non male, se non fosse per la bomba». Poi gli domandò: «A
Stoccolma com'è messo?» «Praticamente nulla», rispose Angie per lui. «Dice che più conosce qualcuno e più si sente portato a ucciderlo.» I baffi di D'Angelo ricevettero un ulteriore massaggio. «Sparano bene?» Potter confermò. «Diciamo che riescono a restare freddi durante una sparatoria.» «È sempre meglio che essere un buon tiratore.» «E hanno ucciso dei poliziotti», aggiunse Budd. «Sia in sparatorie che a freddo», osservò Potter. «D'accordo», disse lentamente il comandante D'Angelo. «La mia sensazione è che non sia possibile effettuare un'irruzione. Non con il rischio della bomba incendiaria e delle granate. E non con il suo atteggiamento mentale.» «E farlo camminare fino all'elicottero?» domandò Potter. «È proprio qui», disse indicando il punto preciso sulla cartina. Il capo dell'SSO osservò la parte della mappa che mostrava il terreno e annuì. «Penso di sì. Faremo arretrare tutti e lasceremo che i sequestratori e gli ostaggi attraversino a piedi questo boschetto.» Angie lo interruppe. «Handy si sceglierà la strada da solo, non credi, Arthur?» «Hai ragione. Vorrà essere lui a deciderlo. E probabilmente non sarà la strada più breve.» D'Angelo e Potter segnarono quattro vie possibili per andare dal mattatoio all'elicottero. LeBow le disegnò sulla mappa. Il comandante degli incursori propose: «Piazzerò dei tiratori scelti sugli alberi, qui, qui e qui. Metterò degli uomini mimetizzati lungo tutte e quattro le strade. Quando i sequestratori passeranno, i cecchini li prenderanno di mira. Poi stordiremo l'intero gruppo con i senzafumo. Gli agenti a terra afferreranno gli ostaggi e li tireranno giù. I cecchini abbatteranno gli SO se mostrassero una qualsiasi minaccia. Ti sembra che vada bene?» Potter stava fissando la cartina. Passò un istante. «Arthur?» «Sì, mi sembra buono, Frank. Molto buono.» D'Angelo uscì per istruire i suoi uomini. Potter guardò la fotografia di Melanie e poi si sedette ancora una volta, fissando fuori del finestrino. «Aspettare è sempre la cosa più difficile, Charlie. Peggio di qualsiasi al-
tra.» «Riesco a capirlo.» «E questa è quella che si chiama una trattativa-espresso», soggiunse Tobe senza staccare lo sguardo dai suoi schermi e dai suoi indicatori. «Siamo in ballo soltanto da undici ore. Non sono niente.» Improvvisamente qualcuno entrò di gran carriera dall'ingresso sprovvisto di porta, così alla svelta che nessun agente all'interno del furgone, tranne Potter, ebbe il tempo di allungarsi verso le pistole. Roland Marks si fermò sulla soglia e li guardò severamente. «Agente Potter», lo apostrofò in tono freddo. «A quanto capisco ha intenzione di catturarlo?» Potter guardò un albero che, alle spalle dell'avvocato, si piegava nel vento. La brezza era aumentata considerevolmente. Bene, pensò. Avrebbe confermato la menzogna sul fiume troppo agitato per l'atterraggio dell'elicottero. Sì, e così. «Be', stavo giusto parlando con il suo collega agente D'Angelo. E lui mi ha messo a parte di un fatto alquanto disdicevole.» Potter non riusciva a credere alle proprie orecchie. Nell'arco di poche ore Roland Marks era arrivato vicinissimo per ben due volte a mandare a rotoli le trattative rischiando anche la sua vita. E ora eccolo nuovamente all'offensiva. Il negoziatore era quasi deciso ad arrestarlo soltanto per toglierselo di torno. Inarcò un sopracciglio. «Mi ha detto che c'è il cinquanta percento di possibilità che uno degli ostaggi muoia.» Potter aveva stimato la percentuale in sessanta-quaranta a favore degli ostaggi. Ma Marian l'aveva sempre preso in giro perché era un incurabile ottimista. Si alzò lentamente e oltrepassò la porta bruciata, facendo cenno al viceprocuratore generale di seguirlo. Si tolse di tasca una cassetta audio, la tenne bene in vista, poi la rimise al suo posto. Gli occhi di Marks ebbero un'esitazione. «C'era qualcos'altro che voleva dire?» gli domandò Potter. Il volto di Marks si ammorbidi soltanto per un momento, come se si fosse accorto che una frase di scusa gli si stava formando nella gola e l'avesse uccisa all'istante. «Non voglio che quelle bambine si facciano male», affermò. «Nemmeno io.» «Per l'amor di Dio, lo metta in un elicottero e gli faccia rilasciare gli o-
staggi. Quando atterra, i canadesi gli potranno saltare addosso come iene.» «Oh, ma lui non ha nessuna intenzione di andare in Canada», disse Potter con impazienza. «Pensavo che... Ma quel corridoio aereo speciale che avete inventato...» «Handy non crede a una sola parola di quella storia. E, se anche ci credesse, sa benissimo che potremmo mettere un secondo transponder sull'elicottero. Il suo piano è di dirigersi direttamente al Busch Stadium. O ovunque la sua televisione portatile gli dica che stasera c'è una partita importante.» «Come?» «O forse in un parcheggio dell'università del Missouri proprio mentre escono gli studenti dei corsi serali. Oppure a McCormick Place. Atterrerà in qualche posto intorno al quale ci sarà una grossa folla. Non abbiamo alcuna possibilità di catturarlo in una situazione del genere. Potrebbero restare uccise un centinaio di persone.» La comprensione comparve nello sguardo di Marks. E, sia che vedesse quelle vite messe in pericolo, o che vedesse in pericolo la propria carriera, o che non vedesse nient'altro che la smorfia ottusa e senza speranza della sua povera figlia, finalmente annuì. «Naturalmente. Ma certo, lui è proprio il tipo che farebbe una cosa del genere. Lei ha ragione.» Potter scelse di interpretare quella concessione come una scusa e decise di lasciarlo in pace. Tobe mise la testa fuori del furgone. «Arthur, ho appena ricevuto una telefonata. È quella detective della polizia di stato del Kansas di cui ci ha parlato Charlie. Sharon Foster. È al telefono.» Potter aveva seri dubbi che la Foster potesse aiutarli. Introdurre un nuovo negoziatore in una trattativa può avere effetti imprevedibili. Ma una cosa che secondo lui poteva essere d'aiuto era il suo sesso. Aveva l'impressione che Lou si sentisse minacciato dagli uomini - il semplice fatto che si fosse asserragliato con dieci ostaggi donne lasciava intuire la possibilità che potesse ascoltare una donna senza innalzare le proprie barriere difensive. All'interno del furgone, Potter si appoggiò alla parete mentre parlava al telefono. «Detective Foster? Sono Arthur Potter. Qual è il suo orario previsto d'arrivo?» La donna disse che stava procedendo a sirene spiegate e che sarebbe stata sul luogo dell'incidente alle dieci e trenta, dieci e quaranta al massimo. La voce era giovane, essenziale e calma, anche se probabilmente stava
viaggiando a centosessanta all'ora. «Non vedo l'ora», concluse Potter, un po' burbero, e riappese. «Buona fortuna», borbottò Marks. Esitò, come se stesse pensando a qualcos'altro da dire. Alla fine si limitò a un «Dio salvi quelle ragazze» e lasciò il furgone. «La DEA sta arrivando», annunciò Tobe. «Hanno il denaro. Proviene da un turbo-elicottero confiscato. Si beccano i giocattoli migliori, quei cazzoni.» «Ehi», disse Budd, «porteranno centomila dollari, giusto?» Potter annuì. «Dove terremo i cinquantamila che non gli consegneremo? Sono un sacco di soldi da custodire.» Potter si portò l'indice alle labbra. «Ce li divideremo, Charlie. Tu e io.» Budd sbatté le palpebre, sconvolto. Alla fine Potter gli strizzò l'occhio. Il capitano rise di cuore, imitato da Angie e Frances. Tobe e LeBow rimasero quasi impassibili. Quelli che conoscevano Arthur Potter sapevano che raramente faceva battute. Tendeva a farlo soltanto quando era molto nervoso. 22,01 La stanza delle uccisioni era diventata fredda come un freezer. Beverly ed Emily erano raggomitolate addosso a Melanie mentre, tutt'e tre, osservavano la signora Harstrawn che giaceva a pochi metri di distanza: gli occhi aperti, respirava, ma era morta come Orso, che bloccava ancora l'ingresso della stanza e il cui corpo stava inviando tre lunghe dita di sangue nero che si allungavano lentamente verso di loro. Beverly, con l'aria che le raschiava nei polmoni come se ogni respiro fosse l'ultimo, non riusciva a distogliere lo sguardo dal sangue. Nell'altra stanza stava succedendo qualcosa. Melanie non riusciva a vedere chiaramente, ma sembrava che Bruto ed Ermellino stessero impacchettando la roba nelle borse - pistole, proiettili e il piccolo televisore. Si aggiravano nello stanzone guardandosi intorno. Perché? Era come se si sentissero tristi all'idea di lasciare quel posto. Forse avevano intenzione di arrendersi... Poi pensò: Non è possibile. Saliranno su quell'elicottero, trascinandoci con loro, e fuggiranno. Continueremo a vivere questo incubo senza sosta,
continuamente, ancora e ancora. Voleremo in qualche altro posto. Ci saranno altri ostaggi, altri morti. Altre stanze buie. Melanie scoprì di avere di nuovo la mano tra i capelli, intenta ad arricciarsi nervosamente una ciocca intorno al dito; i suoi capelli, ora, erano umidi e sporchi. Nessuna «lucentezza», ora. Nessuna luce. Nessuna speranza. Lentamente, abbassò la mano. Bruto entrò prepotentemente nella stanza e guardò la signora Harstrawn, fissando la fronte corrugata della donna. Aveva quel sorrisetto strano sul volto, il sorriso che Melanie aveva imparato a riconoscere e a odiare con tutta se stessa. Afferrò Beverly e la trascinò via con sé. «Lei se ne va a casa. A casa.» Bruto la spinse fuori della stanza delle uccisioni. Poi si voltò indietro, si prese il coltello di tasca, lo aprì e tagliò il filo collegato al contenitore di gasolio. Lo usò per legare le mani e le caviglie di Melanie. Poi fece la stessa cosa con Emily. Rise. «Legarvi anche le mani è come mettervi un bavaglio. Che cosa ne dici di questo?» Poi se ne andò, lasciando soli i tre ostaggi che restavano. Va bene, pensò Melanie. Se le gemelle ce l'avevano fatta, ce l'avrebbero fatta anche loro. Sarebbero uscite seguendo l'odore del fiume. Melanie si voltò, con le spalle rivolte a Emily, e le offrì le mani legate. La bambina capì e cominciò a lottare con i nodi. Ma era inutile: Emily ammirava molto le unghie lunghe, ma lei aveva il vizio di mangiarsele. Tenta ancora, avanti! Improvvisamente Melanie rabbrividì mentre le dita di Emily le si conficcavano nei polsi. Le dita della bambina strattonarono disperatamente le sue... poi, scomparvero. Qualcuno l'aveva presa, la stava trascinando via! Che cosa stava succedendo? Perplessa e spaventata, Melanie si voltò di scatto. Orso! Con la faccia ricoperta di sangue e contorta per la collera, Orso spinse Emily contro il muro. La sbatté contro le piastrelle. La bambina cadde, stordita. Melanie aprì la bocca per gridare, ma lui si tuffò in avanti, ficcandole uno straccio lurido tra le labbra e abbattendole la mano insanguinata su una spalla. Melanie cadde all'indietro. La faccia grassa e ributtante di Orso le scivolò sul seno e la baciò, bagnata e sanguinante. Lei sentì l'umido filtrarle attraverso la camicia. Gli occhi offuscati di Orso le scrutarono il corpo mentre lei tentava di sputare lo straccio. L'uomo si tolse un coltello di tasca e lo
aprì, adoperando i denti e la mano insanguinata. Melanie tentò di allontanarsi, ma lui continuava a tenerle stretto un seno. Poi si alzò su un gomito e rotolò sopra di lei. Melanie scalciò con tutte le forze che aveva, ma i piedi, legati, si alzarono soltanto di una spanna. Un torrente di sangue gli si riversava dai pantaloni, dov'era rimasto a raccogliersi nell'ultima ora, e le copriva le gambe di un liquido freddo e viscoso. Melanie, singhiozzando terrorizzata, tentò di spingersi via da lui, ma Orso afferrò la camicia che le ricopriva il seno con forza disperata. Le aprì gli stinchi con una gamba, inchiodandola al pavimento con il proprio peso mentre altro sangue le cadeva addosso. Vi prego, aiutatemi. Qualcuno mi aiuti. De l'Epée... Qualcuno! Vi prego! Oh, no... Rabbrividì per l'orrore. Non questo. Ti prego, no. Orso le sollevò la gonna sopra la vita con la mano con cui reggeva il coltello. Le strappò giù con violenza le collant nere. Il coltello le risalì lungo la coscia, verso il cotone rosa degli slip. No! Lei tentò di divincolarsi, con le orecchie che le rombavano per lo sforzo. Ma non c'era via di fuga. La massa enorme del corpo di Orso giaceva sopra di lei e le sgocciolava sangue sulle gambe. La lama le sfiorò il monte di Venere e recise una cucitura delle mutandine. Melanie sentì il freddo della lama tra i peli radi in mezzo alle sue gambe e si ritrasse. Con un orribile ghigno stampato sul volto, Orso la guardò con occhi gelidi. Il metallo tagliò l'altro lato degli slip, che le scivolarono a terra. La vista di Melanie si oscurò. Non svenire! Non perdere anche la vista! Inchiodata al pavimento dal suo peso, era comunque terrorizzata all'idea di muoversi: il coltello era sospeso a meno di un centimetro dalla sua carne rosea, dai peli chiari, dalla pelle pallida. Con la mano libera, Orso si abbassò la cerniera dei pantaloni. Tossì, sputandole addosso altro sangue che le imbrattò la guancia e il petto. Mentre si frugava nei pantaloni, il coltello scese e Melanie gemette, soffocandosi quasi con lo straccio, mentre il metallo gelido le s'infilava in mezzo alle gambe. Poi la lama si sollevò di nuovo mentre lui guidava il suo enorme pene scintillante fuori dalla gabbia insanguinata dei pantaloni. Melanie si divincolò, ma lui si lasciò andare e le afferrò nuovamente il seno, tenendola ferma. Si strofinò contro la sua gamba, il sangue che usciva dal suo membro sussultante che le scorreva sulla coscia nuda. Si premette contro la sua pel-
le una volta, due, e poi spostò il proprio peso per muoversi oltre lungo il suo corpo. E poi... Poi... Nulla. Melanie stava respirando più rapidamente di quanto credesse possibile; il petto le tremava. Orso era paralizzato, gli occhi a pochi centimetri dai suoi, una mano sul suo petto, l'altra serrata intorno al coltello, che aveva la punta rivolta verso il basso e posata tra le sue gambe, a pochi millimetri dalla carne. Melanie sputò lo straccio, sentì il fetore putrido di Orso, l'odore penetrante e rugginoso del sangue. Inspirò disperatamente. Sentì il coltello gelido sussultare contro la sua pelle una volta, due, tre... e poi basta. Le occorse un intero, eterno minuto per rendersi conto che lui era morto. Tentò di combattere la nausea, sicura che avrebbe vomitato. Ma poi, lentamente, la sensazione passò. Aveva le gambe insensibili: il peso di Orso le aveva interrotto la circolazione. Piantò fermamente le mani legate sul cemento sotto di lei e spinse. Uno sforzo tremendo. Ma il sangue era viscido come smalto fresco, e lei riuscì a scivolare per diversi centimetri, allontanandosi da lui. Provò ancora. E poi di nuovo. Ben presto le sue gambe uscirono da sotto il corpo dell'uomo. Ancora una volta... Anche i suoi piedi uscirono dalla morsa e si fermarono nel punto in cui lui teneva il coltello. Tendendo i muscoli dell'addome, Melanie sollevò leggermente i piedi e cominciò a sfregare il filo contro la lama d'acciaio. Guardò verso la porta. Non c'era traccia di Bruto o di Ermellino. I muscoli del suo stomaco gridavano in protesta, ma lei continuò a sfregare. E, finalmente... snap! Il filo cedette. Si alzò faticosamente in piedi. Diede un calcio alla mano sinistra di Orso, e poi un altro. La lama cadde a terra. Melanie la scalciò verso Emily. Le fece cenno di prenderla. La bambina era seduta contro la parete e piangeva in silenzio. Guardò il coltello, che giaceva in una pozza di sangue, e scosse la testa in segno di diniego. Melanie le rispose con un feroce cenno di assenso. Emily chiuse gli occhi, si voltò e tastò nella viscida pozza rossa in cerca dell'arma. Alla fine riuscì ad afferrarla e, con una smorfia di disgusto, la sollevò. Melanie si voltò e cominciò a sfregare sulla lama il filo che le legava i polsi. Qualche minuto più tardi sentì i legacci che si rompevano. Afferrò il coltello e recise i le-
gami di Emily. Cautamente si avvicinò alla porta. Bruto ed Ermellino erano alle finestre, voltati dalla parte opposta rispetto alla stanza delle uccisioni. Beverly era in piedi accanto alla porta e Melanie riuscì a vedere un poliziotto che si avvicinava con una valigetta ventiquattr'ore. Quindi stavano scambiando la ragazza con qualcosa. Con un po' di fortuna sarebbero rimasti occupati per qualche minuto - abbastanza a lungo perché Melanie e le altre due riuscissero ad arrivare al pontile. Melanie si chinò sulla signora Harstrawn, che ora era fradicia del sangue di Orso. La donna fissava il soffitto, assente. «Avanti», gesticolò Melanie. «Si alzi.» L'insegnante non si mosse. «Subito!» segnò enfaticamente Melanie Poi, d'un tratto, la donna formò con le mani parole che Melanie non aveva mai visto prima nell'ASL. «Uccidimi.» «Alzati!» «Non posso. Andate voi.» «Forza.» Le mani di Melanie laceravano l'aria come pugnali. «Non c'è tempo!» Schiaffeggiò la donna e tentò di tirarla in piedi, ma l'insegnante era un peso morto. Melanie fece una smorfia di disgusto. «Avanti. Muoviti. Altrimenti dovrò lasciarti qui!» L'insegnante scosse la testa e chiuse gli occhi. Melanie si infilò il coltello ancora aperto nella tasca della gonna e, tirando Emily per un braccio, scivolò silenziosamente fuori della stanza. Oltrepassarono la porta che conduceva sul retro del mattatoio e scomparvero attraverso i corridoi bui. Lou Handy guardò il denaro, una pila sorprendentemente piccola per tutti quei soldi, e disse: «Avremmo dovuto pensarci prima. Ogni dollaro aiuta». Wilcox guardò fuori della finestra. «Quanti cecchini credi che abbiano messo contro di noi?» «Oh... vediamo un po'... direi circa cento. E, avendo fatto fuori quello sbirro, probabilmente ce ne sono due o tre pronti a sparare e poi a giurare di non aver sentito l'ordine di non farlo.» «Ho sempre pensato che tu saresti stato un buon cecchino, Lou.» «Io? No, io sono troppo... sai, impaziente. Ne ho conosciuti alcuni, quando ero militare. Sai che cosa fai la maggior parte del tempo? Te ne
devi stare sdraiato sulla pancia per due o tre giorni, prima di poter sparare. Senza muovere un muscolo. Dove sta il divertimento?» Tornò con la mente al periodo del suo servizio militare. Sembrava un'epoca al tempo stesso più dura e più facile della vita che conduceva adesso, e molto simile alla vita in prigione. «Ma la sparatoria sarebbe divertente, però.» «Questo te lo posso concedere, certo... Oh, merda d'inferno!» Aveva dato un'occhiata al retro del mattatoio e aveva visto una serie di impronte insanguinate che partivano dalla stanza in cui erano prigioniere le ragazze. «Merda», imprecò Wilcox. Lou Handy era un uomo spinto da forze positive: lo credeva fermamente. Perdeva di rado la pazienza e, sì, era un assassino, ma quando uccideva, lo faceva per convenienza; difficilmente uccideva per rabbia. Ciononostante, qualche volta nel corso della sua vita, una collera feroce ribolliva in superficie dal profondo del suo animo e Lou Handy si trasformava nell'uomo più crudele della terra. Inesorabilmente crudele. «Quella troia», sussurrò con la voce tremante per l'ira. «Quella troia succhiacazzi.» Corsero alla porta, dove la traccia delle impronte insanguinate scompariva. «Tu resta qui», ordinò Handy. «Lou...» «Resta qui, cazzo!» ringhiò Handy. «La sistemerò come avrei dovuto fare molto tempo fa.» Si tuffò nelle viscere ombrose del mattatoio con il coltello in mano, basso sulle ginocchia e la lama rivolta verso l'alto, come gli era stato insegnato non nell'esercito ma nelle strade di Minneapolis. 22,27 La vista è un miracolo ed è il più importante dei nostri sensi. Ma spesso riceviamo informazioni anche da una percezione secondaria: il suono. La vista di un fiume ci dice che cos'è, ma il rumore dell'acqua ce ne può spiegare il carattere: placido o mortale o morente. Per Melanie Charrol, privata di questo senso, l'olfatto aveva preso il sopravvento. Le rapide del fiume erano ariose ed elettriche. L'acqua stagnante odorava di marcio. Lì, il fiume Arkansas aveva un odore terribile... pungente e profondo e putrefatto, quasi fosse una tomba.
Ciononostante le diceva: Vieni da me, vieni da me, io sono la tua via d'uscita. Seguì il suo richiamo senza esitare. Nel labirinto del mattatoio deserto, condusse dietro di sé la bambina con il vestito di Laura Ashley. Le assi di legno che ricoprivano il pavimento erano marcite in diversi punti, ma le lampadine nude che illuminavano la parte principale del mattatoio erano tanto forti che anche là in fondo filtrava luce a sufficienza da permetter loro di proseguire. Di tanto in tanto si fermava, sollevava il naso e respirava l'aria per assicurarsi che stessero andando nella giusta direzione. Poi svoltava verso il fiume, ruotando su se stessa e guardandosi alle spalle quando il panico prendeva il sopravvento. L'olfatto non ha preso il posto dell'udito come nostro principale sistema d'allarme. Ma sembrava che Bruto ed Ermellino non si fossero ancora accorti della loro fuga. L'insegnante e l'allieva continuarono a inoltrarsi nell'oscurità sempre crescente, fermandosi spesso per procedere tastoni. Le sottili schegge di luce che filtravano di tanto in tanto erano l'unica ancora di salvezza di Melanie, e ora sollevò lo sguardo per farsi guidare. La parte superiore delle pareti era marcita ed era da lì che quel debole lucore paradisiaco colmava il cielo del muffoso mondo sommerso di quella porzione del mattatoio. E poi eccola, proprio di fronte a loro! Una porta stretta sotto un cartello che diceva PONTILE. Melanie strinse la presa sulla mano di Emily e tirò la bambina dietro di sé. Aprirono la porta con una spinta e si ritrovarono in un'ampia zona di carico. L'area era quasi completamente vuota, a parte alcuni bidoni di petrolio che avevano l'aria di poter ancora galleggiare. Ma la porta più grossa che si apriva verso l'esterno era sollevata soltanto di una ventina di centimetri - abbastanza alta per permettere loro di strisciarvi sotto, ma non abbastanza per spingere fuori uno dei bidoni. Melanie ed Emily raggiunsero la porta e scivolarono fuori. Libertà, pensò Melanie, respirando a pieni polmoni la freschezza umida e intossicante di quell'aria. Rise tra sé all'ironia della situazione: eccola lì, a gioire di essere nel Mondo Esterno, grata fino alle lacrime per essere riuscita a fuggire da quell'orribile Dentro. Un movimento la fece sussultare: si voltò e vide un'imbarcazione che galleggiava non troppo distante dalla riva. Dentro c'erano due poliziotti. In qualche modo erano già riusciti a vederle e ora stavano remando di gran lena verso il pontile.
Melanie fece voltare Emily e le comunicò: «Aspettali qui. Stai giù, nasconditi dietro quel paletto». Emily scosse la testa. «Ma tu non...» «Io torno dentro. Non posso lasciarla lì.» «Ti prego.» La bambina la guardò, con le lacrime che scendevano a bagnarle le guance. Il vento le scompigliò i capelli intorno alla testa. «Lei non voleva venire.» «Vai.» «Vieni con me. Dio vuole che tu venga con me. Me l'ha detto Lui.» Melanie sorrise, abbracciò la bambina e fece un passo indietro. Guardò il vestitino strappato e sporco. «La prossima settimana abbiamo un appuntamento. Shopping.» Emily si asciugò le lacrime e camminò fino al bordo del pontile. I poliziotti erano molto vicini; uno le sorrideva, l'altro scrutava l'edificio tenendo un corto fucile nero puntato verso le finestre buie sopra le loro teste. Melanie li guardò, quindi scivolò nuovamente sotto la porta del pontile di carico. Una volta all'interno, tirò fuori il coltello di Orso dalla tasca della gonna macchiata di sangue e si addentrò nei meandri del mattatoio, seguendo istintivamente lo stesso percorso che aveva compiuto per giungere fino a lì. La peluria sulla sua nuca si mosse improvvisamente e Melanie avvertì un'ondata di quel sesto senso che spesso le persone sorde asseriscono di possedere. E, quando guardò, sì, sì, eccolo: Bruto, a circa quindici metri da lei, accovacciato, che si spostava nell'ombra da un macchinario all'altro. In una mano aveva anch'egli un coltello a lama corta. Melanie rabbrividì di terrore e si abbassò dietro una pila di armadietti. Pensò di arrampicarsi dentro uno di essi, ma poi si ricordò che lui avrebbe udito senz'altro qualsiasi rumore avesse prodotto. Poi il suo sesto senso tornò a farsi sentire, accarezzandole la nuca. Ma Melanie si rese conto che non si trattava di nulla di soprannaturale: era la vibrazione della voce di Bruto che chiamava Ermellino. Che cosa stava dicendo? Un istante dopo lo scoprì. Le luci si spensero e lei venne precipitata nell'oscurità. Si lasciò cadere a terra, paralizzata dal terrore. Sorda, e adesso anche cieca. Si raggomitolò in posizione fetale per un istante, pregando di poter svenire: il terrore che provava era immenso, devastante. Si rese conto di
aver lasciato cadere il coltello. Tastò il pavimento intorno a sé, ma ben presto ci rinunciò: sapeva che Bruto aveva udito il rumore dell'arma che cadeva; probabilmente si stava avvicinando a lei proprio in quel momento. Avrebbe potuto sbattere contro qualsiasi ostacolo mentre avanzava, e lei non l'avrebbe mai saputo, mentre Melanie doveva strisciare cautamente sul pavimento, avanzando silenziosamente su pezzi di metallo e di legno, frammenti di macchinari e attrezzi. Devo... No! Sentì qualcosa sulla spalla. Si voltò in preda al panico, agitando forsennatamente le braccia per colpire. Ma era soltanto un cavo che pendeva dal soffitto. Dov'è lui? Là? O là? Fai silenzio. È l'unica cosa che ti può salvare. Poi un pensiero rassicurante. Lui riesce a udire, certo, ma non ci vede meglio di quanto vedo io. Vuoi sentire una barzelletta, Susan? Che cosa c'è di peggio di un uccello che non può sentire? Una volpe che non può vedere. Otto uccelli grigi, appollaiati nel buio... Se resto assolutamente in silenzio, lui non saprà mai dove mi trovo. La notevole bussola interna che l'altrimenti ingiusto destino figlio di puttana ha regalato a Melanie le dice che sta procedendo nella giusta direzione, verso la stanza delle uccisioni. E, perdio, lei porterà Donna Harstrawn sulle spalle, se sarà necessario. Lentamente. Un piede davanti all'altro. In silenzio. Nel silenzio più assoluto. Sarebbe stato più facile di quanto aveva pensato. Lou Handy era al suo peggio e lo sapeva - ancora pieno di amarezza, impaziente di vendetta e di rappresaglia, ma ora in grado di ragionare freddamente. Era in quello stato che uccideva e torturava godendosela di più. Aveva seguito le impronte fino alla porta del pontile di carico dove, aveva immaginato, le due piccole merde erano uscite. Ma poi, mentre stava per tornare sui propri passi, aveva udito qualcosa: un tintinnio di metallo, un
fruscio. Aveva guardato nel corridoio e l'aveva vista: lei, Melanie, la topolina puttana scherzo della natura, che tornava silenziosamente verso la stanza principale del mattatoio. Si era avvicinato e che cosa aveva udito? Un suono liquido. Squish, squish. I suoi passi. Passi insanguinati. Il buon vecchio Bonner, sguaiato e triviale fino all'ultimo istante della sua schifosa esistenza, le aveva sanguinato copiosamente nelle scarpe. E, a ogni passo che compiva, Melanie trasmetteva esattamente la propria posizione. Così aveva gridato a Wilcox di spegnere le luci. Era tremendo quanto fosse buio quel posto. Nero come la pece. Non riuscivi a vederti le mani. Inizialmente era stato molto attento a non fare alcun rumore. Poi aveva pensato: Ehi, stronzo, lei non ti può sentire! E allora si era lanciato all'inseguimento, fermandosi di tanto in tanto per ascoltare il rumore di quei passi umidi. Eccolo. Splendido, dolcezza. Sempre più vicino. Ascolta. Squish... Non può essere a più di dieci metri di distanza. Ecco, ci siamo. Eccola qui. Vide una forma spettrale davanti a sé, che camminava all'indietro verso la stanza principale del vecchio impianto di lavorazione. Squish, squish. Le si avvicinò ancor di più. Fece cadere una tavola, ma i suoi passi continuarono a procedere. Quella stupida non sentiva un cazzo di niente. Sempre più vicino ora, tre metri... due. Uno. Proprio dietro di lei. Esattamente come era arrivato alle spalle di Rudy, sentendo il profumo del dopobarba Vitalis, vedendo la polvere di legno di quercia sulla sua camicia e il rigonfiamento nella tasca posteriore che era un portafogli pieno di ciò di cui non avrebbe dovuto essere pieno. «Stronzo», aveva gridato Handy a suo fratello, non vedendo rosso come recita il luogo comune, ma vedendo un fuoco nero, non vedendo nient'altro che la propria collera. Rudy gli aveva rivolto una smorfia di scherno e aveva continuato a camminare. E la pistola nelle mani di Lou aveva cominciato a sparare. Una pistola piccola, una calibro .22 caricata con lunghi proiettili da fucile. Che avevano lasciato minuscoli puntini rossi sul collo di suo fratello che si era
messo a ballare quella cazzo di danza orribile prima di cadere sul pavimento e crepare. Si infuriò nuovamente con Art Potter per avergli riportato nella mente il pensiero di Rudy, come se stesse piantando il ricordo nell'anima di Handy allo stesso modo in cui un sasso ti viene ficcato nel palmo della mano durante una rissa in galera. Era infuriato con Potter, con quel grassone morto di Bonner e con Melanie, la fottuta menomata puttana-topolino. Mezzo metro dietro di lei, osservando i suoi timidi passi spaventati. Non ha la minima idea... Era semplicemente grandioso camminare insieme a lei, al ritmo dei suoi passi. C'erano così tante possibilità... Salve, Miss Topolina... Ma Handy scelse la più semplice. Si sporse verso di lei e le leccò la nuca. Pensò che si sarebbe rotta la schiena, tanto rapidamente balzò via da lui, contorcendosi da un lato e cadendo su una pila di metallo arrugginito. Handy le afferrò i capelli con una mano e la trascinò dietro di sé. La ragazza si contorceva e inciampava. «Ehi, Shep, riaccendi quelle luci!» Un istante più tardi la stanza si riempì di una luce fioca e Handy riuscì nuovamente a distinguere la porta che conduceva alla sezione principale del mattatoio. Melanie lottava per liberare i capelli dalla sua morsa, ma lui strinse ancora più forte e lei avrebbe potuto picchiare fino al giorno del giudizio e lui non l'avrebbe mollata comunque. «Stai facendo degli strani piccoli versi. Non mi piace. Sta' zitta! Sta' zitta, cazzo!» Le allentò un potente schiaffo. Non credeva che avesse capito ciò che stava dicendo, ma in ogni caso tacque. Handy la trascinò sotto la cascata d'acqua, tra i corridoi di rottami. Direttamente alla ghigliottina. Si trattava fondamentalmente di un grosso ceppo da macellaio in cui era stata ricavata una nicchia per il petto del maiale o del bovino. Sulla sommità era montata un'intelaiatura che reggeva una lama triangolare, manovrata da una lunga manopola rivestita in gomma. Un tagliacarte fottutamente grosso. Wilcox osservava la scena. «Hai davvero intenzione...?» domandò. «E allora?» gridò di rimando Handy. «È solo che siamo così vicini a uscire, amico.» Handy lo ignorò, afferrò un tratto di cavo dal pavimento e lo avvolse
strettamente intorno al polso destro di Melanie. Lo strinse di più. Lei si divincolò e lo colpì alla spalla con il pugno sinistro. «Handicappata del cazzo», borbottò lui, e la colpì violentemente alla schiena. Lei cadde a terra, dove si raggomitolò su se stessa, gemendo, fissando con orrore la sua mano che, lentamente, stava diventando blu per l'assenza di circolazione sanguigna. Handy accese il suo accendino Bic e lo fece scorrere lentamente sulla lama della ghigliottina. Melanie scosse la testa violentemente, con gli occhi fuori dalle orbite. «Avresti dovuto pensarci prima di farmi lo scherzetto.» La sollevò di peso dal pavimento e la sbatté contro la ghigliottina. Singhiozzando, percuotendolo vanamente, la puttana-topolina tentò di sfuggirgli. Handy immaginò che il dolore nella sua mano destra, ora violacea, fosse quasi insopportabile. Le spinse l'inguine contro la ghigliottina e la spinse in avanti, a faccia in giù, allungandole il braccio destro sotto la lama. Poi le fece lo sgambetto. Melanie perse il baricentro e si ritrovò appesa al macchinario. Con facilità quasi irrisoria, lui le afferrò la mano e la sistemò nel solco di taglio. Esitò un istante e la guardò in faccia, ascoltando i versi annaspanti che le uscivano dalla gola. «Dio, detesto quel cazzo di rumore che fate voialtri. Tienila, Shep.» Wilcox esitò, poi fece un passo avanti e prese il braccio di Melanie, tenendolo fermo con entrambe le mani. «Non credo di voler guardare», disse a disagio, e si voltò dall'altra parte. «Io sì», mormorò Handy. Incapace di resistere alla tentazione, abbassò la testa vicino al viso di lei e inalò il suo odore, strofinando la guancia sulle sue lacrime. Le accarezzò i capelli. Poi le sue mani si mossero verso la leva. La spostò avanti e indietro, allentando la corda, lasciando scendere la lama fino a sfiorarle la carne e poi sollevandola di nuovo. Alla fine, la sollevò sino a fine corsa. Afferrò la manopola di gomma con entrambe le mani. Il telefono squillò. Handy lo guardò. Una pausa. Wilcox lasciò andare la mano di Melanie e si allontanò dalla ghigliottina. Merda. Handy era indeciso. «Rispondi.» «Pronto?» disse Wilcox nel ricevitore. Poi ascoltò. Alla fine si strinse nelle spalle e guardò Handy, che si fermò. «Ehi, ragazzo, è per te.»
«Di' a Potter di andare all'inferno.» «Non è Potter. È una ragazza. E te lo dico io, amico, sembra una pupattola mica da ridere.» 22,58 Potter era seduto davanti al finestrino, intento a guardare il mattatoio con il suo binocolo Leica, mentre alle sue spalle la giovane, decisa detective Sharon Foster, che aveva inchiodato le gomme della sua autopattuglia nell'area di servizio delle retrovie meno di dieci minuti prima, stava passeggiando nervosamente avanti e indietro imprecando come un marinaio contro Lou Handy. «Il cazzo che hai ragione, Lou», ringhiò. Come molte donne poliziotto, Sharon Foster aveva quella smorfia risoluta e seria che la lunga coda di cavallo bionda e il viso carino non riuscivano a nascondere. «È passato un po' di tempo, brutta puttana. Sei una detective, adesso?» «Esatto. Mi hanno promosso.» Sharon Foster si chinò e guardò il mattatoio dal finestrino, la testa a pochi centimetri da quella di Potter. «Che cosa cazzo hai combinato della tua vita, Lou? A parte mandarla completamente a puttane, voglio dire?» «Ehi, sono molto orgoglioso dei miei progressi.» Dagli altoparlanti venne la risatina gelida che Potter aveva imparato a conoscere fin troppo bene. «Ho sempre saputo che eri una fregatura di prima categoria. Potrebbero scriverci un libro, su di te.» Potter riconobbe chiaramente ciò che Foster stava facendo. Non era il suo modo di operare. Lui preferiva essere più tranquillo. Un po' alla Will Roger. Duro quando era necessario, comunque tentava sempre di evitare le sbruffonate, che potevano facilmente trasformarsi in schermaglie emotive. Lui non si era mai accapigliato con Marian e non lo faceva con i suoi amici. Ma, a volte, con alcuni sequestratori - di solito con criminali troppo sicuri di sé - lo stile di quella giovane donna funzionava: gli sfottò, il continuo dare e prendere. Potter continuò a fissare il mattatoio, tentando disperatamente di vedere Melanie. L'ultima delle ragazze, Emily, era stata raccolta dagli uomini dello sceriffo Stillwell nella scialuppa sul retro dell'edificio. Per mezzo di Frances, la bambina aveva spiegato che Melanie l'aveva portata fuori e poi era tornata dentro a prendere la signora Harstrawn. Ma ciò accadeva quasi venti minuti prima, e da quel momento nessuno aveva visto i due ostaggi
fuggire. Potter riteneva che Handy l'avesse scoperta. Era tormentato dal desiderio di sapere se Melanie stava bene, ma non avrebbe mai e poi mai interrotto un negoziatore al lavoro. «Sei uno stronzo, Lou», continuò Foster. «Puoi anche andartene su quell'elicottero, ma ti prenderanno. In Canada? Ti estraderanno il culo tanto alla svelta da farti venire i giramenti di testa.» «Prima devono trovarmi.» «Pensi davvero che indossino le giubbe rosse e i cappelli da orso Yoghi e che inseguano i ladruncoli con i fischietti? Tu hai ucciso, Lou - ostaggi e poliziotti. Non c'è un solo agente di polizia al mondo che si fermerà finché non ti avranno trovato.» LeBow e Potter si scambiarono un'occhiata. Il disagio di Potter stava aumentando di minuto in minuto. Sharon Foster stava provocando Handy apertamente. La guardò accigliato, ma la donna non vide (o ignorò del tutto) la sua espressione, indifferente alle critiche di un uomo più anziano - e per giunta dell'FBI. Potter stava anche provando le fitte della gelosia. Gli ci erano volute ore e ore per costruire un rapporto con Handy: era in piena sindrome di Stoccolma. E invece ecco quell'ultima arrivata, quella biondina, che gli portava via il suo buon amico e compare. Indicò discretamente il computer con un cenno del capo. LeBow comprese ciò che voleva dire e si collegò al database nazionale delle forze di polizia. Un istante dopo voltò lo schermo verso Potter perché potesse leggere le informazioni. Sharon Foster sembrava soltanto giovane e inesperta; in realtà, aveva trentaquattro anni e possedeva un curriculum di tutto rispetto come negoziatore di ostaggi. Era riuscita a ottenere delle rese pulite in ventiquattro dei trenta casi che aveva condotto. Gli altri sei avevano richiesto l'intervento dell'SSO, ma si trattava di negoziati in cui erano coinvolti sequestratori emotivamente disturbati. In tali situazioni le soluzioni abituali funzionavano soltanto nel dieci percento dei casi. «Preferisco Art», disse Handy. «Lui almeno non mi piglia a pesci in faccia.» «Questo è il mio Lou, il Lou che conosco. Sempre in cerca della strada più facile.» «Vaffanculo», latrò Handy. «C'è una cosa a cui ho pensato, Lou», aggiunse Foster con voce astuta. «Mi sto chiedendo se andrai davvero in Canada.» Potter si voltò a guardare D'Angelo. Il piano tattico richiedeva che Handy e Wilcox attraversassero la macchia d'alberi per arrivare all'elicotte-
ro. Se Sharon Foster gli faceva pensare di non essere stato creduto, Handy avrebbe subodorato una trappola e sarebbe rimasto rinchiuso nel mattatoio. Potter si alzò in piedi, scuotendo la testa. La donna lo guardò, ma lo ignorò completamente. LeBow e Angie erano scioccati per la mancanza di rispetto. Potter si sedette di nuovo, più imbarazzato che ferito. «Certo che vado in Canada. Mi sono fatto dare una priorità speciale. Ho parlato io stesso con quella cazzo di FAA.» Come se Handy non avesse detto nulla, la voce fortemente accentata della detective raspò in risposta: «Sei un assassino di poliziotti, Lou. Se atterri da qualsiasi parte negli Stati Uniti, con o senza ostaggi, sei carne morta. Ogni sbirro della nazione conosce la tua faccia. E pure quella di Wilcox. E, credimi, prima ti spareranno e poi leggeranno i diritti al tuo corpo sanguinante. E ti prometto, Lou, che ogni ambulanza che ti porterà a un qualsiasi ospedale di una prigione ci metterà tutto il cazzo di tempo possibile per fartici arrivare». Potter ne aveva abbastanza di quella tattica violenta. Era sicuro che quella donna avrebbe spinto nuovamente Handy a rintanarsi nel suo buco. Allungò una mano per toccarle una spalla. Ma si fermò quando sentì Handy che diceva: «Nessuno mi può prendere. Io sono la cosa peggiore in cui tu ti sia mai imbattuta. Sono la morte». Non furono le parole di Handy a fermare Potter, ma il tono della sua voce. Sembrava un bambino spaventato. Quasi patetico. Per quanto il suo stile fosse poco ortodosso, Sharon Foster aveva toccato una corda nascosta nell'animo di Lou Handy. La donna si voltò verso di lui. «Posso fargli un'offerta di resa?» LeBow, Budd e D'Angelo guardarono Potter. Che cosa c'era nella mente di Handy? si domandò lui. Un'improvvisa consapevolezza dell'impossibilità della sua situazione? Forse un giornalista era riuscito a trasmettere alla sua emittente la notizia che l'SSO dell'FBI era arrivata e aveva circondato il mattatoio, e Handy aveva sentito la notizia guardando la sua televisione portatile. O forse si era semplicemente stancato. Succedeva. In un istante, l'energia si dissolve. Sequestratori pronti a uscire con le armi spianate non fanno altro che restare seduti sul pavimento quando l'SSO butta giù la porta e guardano gli agenti che si avvicinano senza nemmeno l'energia di alzare le mani sopra la testa. Ma c'era anche un'altra possibilità, una possibilità che Potter detestava anche soltanto prendere in considerazione. Ovvero che quella giovane
donna fosse semplicemente più brava di lui. Che fosse entrata come una folata di vento, avesse valutato Lou Handy e quindi l'avesse messo in riga. Ancora una volta, si sentì lacerato dalla gelosia. Che cosa dovrei fare? Improvvisamente pensò a Melanie. Quale soluzione avrebbe avuto le maggiori possibilità di salvarla? Potter annuì alla giovane detective. «Certo. Vada avanti.» «Lou, che cosa ci vorrà per farti venire fuori da lì?» Potter pensò: Lasciati scopare. «Posso scoparti?» «Dovresti prima chiedere a mio marito, e lui ti direbbe di no.» Una pausa di silenzio. «Non c'è nient'altro che voglio, a parte la libertà. E quella ce l'ho.» «Davvero?» domandò Foster a bassa voce. Un'altra pausa. Più lunga della precedente. Potter immaginò: Cazzo, sì. E nessuno me la porterà via. Ma Handy, in realtà, disse esattamente l'opposto. «Io non... non voglio morire.» «Qui nessuno vuole spararti, Lou.» «Tutti vogliono spararmi. E, se torno indietro, il giudice mi farà siringare.» «Di questo possiamo parlare.» La voce di Sharon era gentile, quasi materna. Potter fissò il giallo riquadro di luce. Da qualche parte dentro di sé stava cominciando a pensare di aver commesso qualche grave errore, quel giorno. Errori che erano costati vite umane. Foster si voltò verso di lui. «Chi può garantirgli che lo stato non richiederà la pena di morte?» Potter le disse che Roland Marks era nelle vicinanze e mandò Budd a cercarlo. Un istante dopo Marks entrò nel furgone e Sharon Foster gli spiegò ciò che voleva Handy. «Si arrenderà?» Lo sguardo freddo del viceprocuratore generale era fisso su Potter, che avvertì tutta la censura e il rimprovero che aveva dispensato a Marks poco prima tornargli addosso come un boomerang. Per la prima volta, quel giorno, Potter scoprì di non poter sostenere lo sguardo di Marks. «Credo di poterlo convincere a farlo», disse Foster. «Sì. Gli garantirò tutto quello che vuole. Ci metterò sopra un bel sigillo rosso. Anche un nastro ufficiale. Non posso ottenere una riduzione della
pena esistente...» «No. Sono sicura che questo Handy lo sa benissimo.» «Ma gli posso garantire che non gli infileremo quell'ago nel braccio.» «Lou. Il viceprocuratore generale è qui vicino a me. Ti garantisce personalmente che, se ti arrendi, non richiederanno la pena di morte.» «Davvero?» Ci fu una pausa, preceduta dal suono di una mano che veniva messa sul ricevitore. Poi: «E la stessa cosa vale per il mio amico Shep, qui?» Foster si accigliò. LeBow voltò lo schermo del computer verso di lei e la donna lesse le informazioni su Wilcox. Poi guardò Marks, che annuì. «Certo, Lou. Per tutti e due. E l'altro che c'è con voi?» Potter pensò: Il figlio di puttana si è procurato un brutto incidente. Handy rise. «Ha avuto un piccolo incidente.» Foster rivolse a Potter un'espressione interrogativa. «Lo crediamo morto», le rispose Potter. «D'accordo, Lou. Tu e Wilcox», dichiarò la detective, «avete un accordo.» Lo stesso accordo che Potter, per mezzo di Charlie Budd, gli aveva offerto poco prima. Per quale motivo Handy lo stava accettando ora? Lo scoprì un momento dopo. «Ehi, aspetta un attimo, puttanella frigida. Non è finita.» «Adoro quando parli sporco, Lou.» «Voglio anche la garanzia di restare fuori da Callana. Ho ucciso quel secondino, lì, e se torno mi picchiano a morte di sicuro. Non voglio più scontare pene federali.» Foster guardò nuovamente Potter, che fece un cenno a Tobe. «Chiama il dipartimento di giustizia», sussurrò. «Dick Allen.» Era il viceprocuratore generale a Washington. «Lou», disse la donna. «Stiamo controllando in questo momento.» Potter anticipò di nuovo: Ce l'ho ancora duro. Scopiamo. La voce di Handy si ravvivò e il vecchio marpione tornò a farsi sentire. «Vieni a sederti sul mio cazzo mentre aspettiamo.» «Lo farei volentieri, Lou, ma non ho idea di dove sia stato.» «Nei miei pantaloni per troppo tempo.» «Allora tienilo lì ancora un po'.» La telefonata di Potter venne inoltrata ad Allen, che ascoltò le sue spiegazioni e alla fine, non senza qualche riluttanza, disse che, se Handy aveva intenzione di arrendersi, avrebbe potuto scontare prima la condanna stata-
le. Allen avrebbe anche derubricato le imputazioni per l'evasione, ma non quelle per l'omicidio del secondino. L'effetto pratico di tutto ciò era che Handy non avrebbe dovuto consegnarsi nelle mani di alcun carceriere federale fino a circa cinquant'anni dopo essere morto di vecchiaia. Foster riferì a Handy gli ultimi sviluppi. Ci fu una lunga pausa. Un istante dopo, la voce di Handy disse: «Okay, siamo d'accordo». Foster guardò Potter con espressione interrogativa. L'agente annuì, sbalordito. «Ma devo vederlo scritto», disse Handy. «D'accordo, Lou. Possiamo farlo.» Potter stava già scrivendo a mano i termini dell'accordo. Passò il foglio a LeBow affinché lo battesse al computer e lo stampasse. «Allora ci siamo», disse LeBow, gli occhi fissi sullo schermo azzurrognolo. «Uno a zero per i buoni.» Scoppiò una risata generale. Potter si sentì arrossire osservando il sollievo sulle facce di Budd e degli altri agenti federali. Sorrise anche lui, ma capiva perfettamente - come nessun altro membro della squadra che aveva gestito l'emergenza - di aver vinto e perso al tempo stesso. E sapeva che non erano stati il suo coraggio, la sua forza o la sua intelligenza a fallire, ma la sua capacità di giudizio. Che è la più grande sconfitta che un uomo possa patire. «Ci siamo», disse LeBow offrendo lo stampato a Potter. Lui e Marks firmarono il documento e Stevie Oates fece un'ultima corsa al mattatoio. Quando tornò, aveva un'espressione perplessa in viso e portava con sé una bottiglia di birra Corona che Handy gli aveva dato. «Agente Potter?» Sharon Foster, a quanto pareva, l'aveva chiamato più volte. Potter sollevò lo sguardo. «Vuole coordinare le operazioni di resa?» Potter la fissò per un lungo istante e poi annuì. «Sì, certamente. Tobe, chiama Dean Stillwell e chiedigli per favore di venire qui.» Tobe fece la chiamata. Per nulla turbato, LeBow continuò a digitare informazioni sul computer della cronologia. La detective Sharon Foster rivolse a Potter quella che lui prese per un'occhiata di comprensione; era quasi compassionevole, e gli fece molto più male di un sorriso di trionfo. Mentre la guardava, si sentì improvvisamente molto vecchio, come se tutto ciò che aveva saputo e fatto nella sua vita - il suo modo di guardare le cose, ogni parola che aveva detto ad amici e sconosciuti - fosse diventato, in un solo istante, fuori moda e privo di valore.
Era mimetizzato, così nessuno vide l'uomo che giaceva in una macchia di cespugli non molto lontano dal furgone di comando. Le sue mani, umide di sudore, erano strette intorno al binocolo all'infrarosso. Dan Tremain era rimasto immobile in quella posizione per un'ora, nel corso della quale era sopraggiunto un elicottero che poi se n'era andato, l'SSO federale era arrivata e si era radunata lì vicino, e un'autopattuglia aveva inchiodato davanti al furgone portando con sé una giovane donna poliziotto. Tremain aveva udito la notizia, che si stava diffondendo come un incendio in un campo di grano, passando da un agente all'altro: Handy aveva deciso di arrendersi in cambio di un accordo per evitare la pena di morte. Ma per Dan Tremain questo era semplicemente inaccettabile. Il suo uomo, il giovane Joey Wilson, e prima quella povera ragazza non erano morti affinché Lou Handy potesse vivere abbastanza a lungo da uccidere di nuovo, da vantarsi rivivendo la gioia perversa del massacro che aveva provocato nel corso della sua vita dannosa e inutile. A volte il sacrificio era necessario. E chi meglio di un soldato poteva donare la propria vita nel nome della giustizia? «Resa tra dieci minuti», disse qualcuno alle sue spalle. Tremain non avrebbe saputo dire se si trattava della voce di un poliziotto o di quella di un angelo disceso appositamente dai cieli per fare quell'annuncio. In ogni caso annuì e si alzò in piedi. Si erse in tutta la sua altezza, si asciugò le lacrime dal viso, si aggiustò l'uniforme e si passò le dita tra i capelli. Pur non essendo mai stato attento a simili dettagli, aveva deciso che sarebbe stato molto importante che lui avesse un aspetto forte e risoluto e fiero quando avrebbe posto termine alla sua carriera nel modo drammatico che aveva pianificato. 23,18 La resa è lo stadio più critico di un sequestro. Vengono perse più vite umane nel corso delle operazioni di resa che durante qualsiasi altra fase delle trattative, fatta eccezione per le irruzioni. E quella sarebbe stata particolarmente insidiosa: Potter lo sapeva, perché l'essenza della resa era la nemesi di Handy - rinunciare al controllo della situazione. Ancora una volta, la sua naturale impazienza lo spingeva a farla finita al-
la svelta, a prendere Handy in custodia. Ma doveva a tutti i costi combattere contro la propria predisposizione all'urgenza. Stava comandando la resa seguendo il manuale e aveva riunito gli uomini della sua squadra nel furgone. In quel momento erano tutti di fronte a lui. La prima cosa che fece fu stringere la mano a Dean Stillwell. «Dean, ora affiderò a Frank e all'SSO dell'FBI la responsabilità del contenimento e delle questioni tattiche. Hai fatto un gran bel lavoro. È solo che io e Frank abbiamo già sperimentato molte volte queste situazioni in passato.» «Non c'è problema, Arthur. Sono onorato che mi abbiate permesso di aiutarvi.» Con grande imbarazzo di Potter, Stillwell gli rivolse un saluto militare che lui gli restituì con riluttanza. Budd, LeBow, Tobe e D'Angelo erano chinati sulle mappe del terreno e la piantina del mattatoio mentre Potter adempiva la procedura. Angie, che non aveva alcuna esperienza tattica e poteva offrire ben poca assistenza a D'Angelo e all'SSO, stava accompagnando Emily e Beverly al Days Inn. L'intensa, giovane detective Sharon Foster era fuori a fumare vere, concretissime Camel. Frances era nel furgone, aspettando pazientemente. «Saranno tutti molto tesi e quasi folli per l'agitazione», ammonì Potter. «I nostri e i sequestratori. Siamo tutti molto stanchi e purtroppo ci sarà molta incuria. Quindi dobbiamo decidere la precisa coreografia di ogni passo.» Poi tacque e si mise a guardare gli occhi gialli e rettangolari dell'edificio dal finestrino. «Arthur?» disse LeBow. Ma quello che intendeva dire era: Il tempo passa. «Sì, certo.» Si chinarono sulla cartina e Potter cominciò a dare gli ordini. Gli sembrava di aver perso completamente la voce e fu sorpreso quando scoprì che gli uomini di fronte a lui annuivano come se stessero ascoltando parole che lui stesso riusciva a malapena a sentire. Venti minuti dopo, mentre era nascosto in una chiazza d'erba e premeva il pulsante di chiamata rapida sul telefono cellulare, Potter pensò che c'era qualcosa di molto sbagliato in tutta la faccenda. Che Handy stesse loro preparando una trappola. Pensò alle parole di Budd, qualche ora prima, sul fatto che Handy stesse progettando qualcosa di astuto e azzardato - magari una fuga, un tentativo disperato e inatteso. Una sensazione viscerale. Dagli retta. Di solito ha ragione.
E ora la sensazione era innegabile. Il clic della comunicazione attivata. «Lou.» Potter cominciò quella che probabilmente sarebbe stata la loro ultima conversazione al telefono. «Qual è il progetto della partita, Art?» «Voglio soltanto ripassare un paio di regole.» Potter era a cinquanta metri dall'ingresso del mattatoio, con accanto Frank D'Angelo e Charlie Budd. LeBow e Tobe erano rimasti nel furgone di comando. «La donna più anziana è cosciente? L'insegnante?» «Fuori come un balcone. Te l'ho detto, Art. Ha avuto una brutta serata. Bonner è... be', era un tipo grosso. In tutti i sensi.» Potter scoprì che la voce gli tremava mentre chiedeva: «E l'altra insegnante?» «La bionda? La piccola topolina?» Ci fu una pausa, in cui Handy si produsse nella sua famosa risatina. «Perché sei così interessato a lei, Art? Mi sembra di ricordare che hai chiesto di lei già un paio di volte.» «Voglio soltanto sapere come stanno i nostri ultimi ostaggi.» «Ma certo.» Lou rise di nuovo. «Be', probabilmente anche lei ha passato serate migliori di questa.» «Che cosa intendi dire, Lou?» domandò in tono casuale. Quale terribile rappresaglia le aveva inflitto? «È troppo giovane per una vecchia scoreggia come te, Art.» Maledizione, pensò Potter, furioso. Handy riusciva a leggerlo troppo chiaramente. L'agente si obbligò a togliersi Melanie dalla testa e tornò al capitolo nono del suo manuale, intitolato La fase della resa. Potter e D'Angelo avevano deciso di mandar dentro le talpe - i loro uomini più piccoli - attraverso il passaggio sotto la porta del pontile di carico per prendere possesso dell'interno dell'edificio e badare agli ostaggi nel momento in cui i sequestratori fossero usciti dalla porta anteriore. «D'accordo, Lou», continuò. «Quando ve lo dirò, vorrei che metteste giù le armi. Poi uscite dall'edificio con le braccia aperte. Non con le mani sulla testa. Le braccia aperte.» «Come Cristo sulla croce.» Il vento era peggiorato notevolmente, piegando i cespugli e l'erba e sollevando nell'aria nubi di polvere. Avrebbe creato non pochi problemi alla mira dei cecchini. «Dimmi la verità. Bonner è morto o ferito?» Potter aveva visto Beverly, la povera ragazza con l'asma, nella tenda del
pronto soccorso e aveva appreso che Bonner si era beccato davvero un colpo di pistola. Ma la ragazza aveva spiegato di aver fatto del suo meglio per evitare di guardarlo. Non sapeva dire con certezza se fosse ancora vivo o meno. «Sono stanco di parlare, Art. Io e Shep scambieremo quattro chiacchiere per qualche minuto, adesso, e poi ci arrenderemo. Ehi, Art?» «Sì,Lou?» «Ti voglio fuori. Dove posso vederti. Altrimenti non esco.» Lo farò, pensò Potter istintivamente. Tutto quello che vuoi. «Ci sarò, Lou.» «Proprio di fronte alla porta.» «D'accordo.» Una pausa. «Adesso, Lou, voglio dirti esattamente...» «Addio, Art. È stato divertente.» Clic. Potter scoprì di tenere ancora stretto il telefono tra le dita molto tempo dopo che la voce di Handy era stata rimpiazzata dal fruscio dell'elettricità statica. Un pensiero gli si formò nella mente dal nulla: Quell'uomo ha tendenze suicide. L'impossibilità della situazione, l'impossibilità di fuggire, il processo senza fine, una condanna insopportabile ad attenderlo. Si ucciderà in un attimo. Ostrella, mia amata... Sarebbe stata l'affermazione definitiva del suo controllo. D'Angelo interruppe le sue riflessioni e i suoi ricordi. «Daremo per scontato che Bonner sia vivo e armato fino a una conferma del contrario», stabilì. Potter annuì, premette il pulsante di scollegamento e si mise il telefono in tasca. «Gestiscila attentamente, Frank. Credo che potrebbe anche uscire sparando.» «Credi davvero?» sussurrò Budd, come se Handy avesse un microfono puntato su di loro. «È soltanto una sensazione. Ma pianificate la cosa di conseguenza.» D'Angelo annuì. Si mise alla radio e raddoppiò il numero di tiratori scelti tra gli alberi spostando anche alcuni esperti di esplosivi nella squadra dell'irruzione iniziale. Quando furono al loro posto domandò: «Dobbiamo entrare, Arthur?» Potter gli rivolse un cenno di assenso. D'Angelo parlò nel microfono e quattro agenti dell'SSO scivolarono lungo la facciata anteriore del mattatoio. Due si fermarono davanti a due finestre aperte, mentre gli altri scom-
parvero nell'ombra su entrambi i lati della porta. I due vicino alle finestre avevano coperte di amianto sulle spalle. Poi il comandante dell'SSO chiamò i due uomini già all'interno dell'edificio. Ascoltò per un istante, quindi riferì il loro rapporto a Potter: «Due ostaggi, apparentemente vivi, sdraiati sul pavimento della stanza che hai indicato. Feriti, ma l'entità delle ferite non è conosciuta. Bonner sembra essere morto». La voce impassibile si fece preoccupata. «Ragazzi, c'è sangue dappertutto.» Sangue di chi? si domandò Potter. «Handy e Wilcox sono armati?» «Non hanno armi in mano, ma indossano camicie molto larghe. Potrebbero essere nascoste.» Feriti, ma l'entità delle ferite non è conosciuta. «Avevano con sé degli attrezzi», disse Potter a D'Angelo. «Potrebbero essersi portati del nastro isolante ed essersi incollati le armi sotto le camicie.» Il comandante dell'SSO annuì. Sangue dappertutto... Sharon Foster si unì agli uomini in cima all'altura. Aveva indossato un grosso giubbotto antiproiettile. Come sarebbe andata a finire? si chiese Potter. Ascoltò il sibilo lamentoso del vento. Sentì un bisogno disperato e urgente di parlare con Handy ancora una volta. Premette il pulsante di chiamata rapida sul cellulare. Dieci squilli, venti. Nessuna risposta. D'Angelo e LeBow lo stavano guardando. Potter rinunciò. All'interno del mattatoio le luci si spensero. Budd si irrigidì: Potter gli fece cenno di rilassarsi. Spesso gli SO spengono le luci prima di uscire, per paura di presentare la propria silhouette come bersaglio anche se si stanno arrendendo. La luna si era spostata di qualche grado nel cielo battuto dal vento. Spesso c'è una sensazione di familiarità, persino di perverso conforto, che un negoziatore prova nei luoghi in cui ha trascorso ore o addirittura giorni. Quella notte però, mentre osservava l'oscura costruzione rosso-mattone, tutto ciò che Potter riusciva a pensare era la frase di Handy: «Sono la morte». La porta si aprì lentamente, rimase aperta a metà per un istante, quindi si aprì ancora di più. Nessun movimento.
Come andrà a finire? si chiese Potter. In bene o in male? Sarà una soluzione pacifica o violenta? Ah, mia bellissima Ostrella. Nel corso delle rese ne aveva viste di tutti i colori: terroristi che crollavano a terra piangendo come bambini, criminali disarmati che correvano in un ultimo tentativo di fuga, armi nascoste. La giovane donna siriana che era uscita camminando lentamente da un consolato israeliano, con le braccia aperte nel modo giusto e gli aveva sorriso dolcemente proprio un attimo prima che le granate che si era nascosta nel reggiseno esplodessero facendo a pezzi lei stessa e tre agenti dell'SSO. State accorti. Per quella che era soltanto la terza o la quarta volta nella sua carriera, Arthur Potter tolse la pistola dalla fondina che portava appesa alla cintura e goffamente tirò lo scivolo dell'automatica, mettendo un colpo in canna. Poi rimise a posto la pistola, senza però mettere la sicura. «Perché non succede niente?» sussurrò Budd irritato. Potter represse un impulso improvviso e inspiegabile di mettersi a ridere istericamente. «Art?» La voce di Handy fluttuò dall'interno del mattatoio, un morbido suono reso tremolante dal vento. «Sì?» disse Potter nel megafono. «Dove cazzo sei? Non ti vedo.» Potter guardò Budd. «Ecco dove mi guadagno lo stipendio.» Si alzò su gambe malferme e si pulì gli occhiali sul bavero della giacca sportiva. Sharon Foster gli chiese se era sicuro di volerlo fare. Lui la guardò, poi si incamminò goffamente giù dal rialzo e oltrepassò un vecchio recinto malconcio. Si fermò a circa trenta metri dalla porta del mattatoio. «Eccomi qui, Lou. Vieni fuori, adesso.» E uscirono. Prima Handy. Poi Wilcox. La prima cosa che Potter notò fu che avevano le mani dietro la testa. Va tutto bene, Ostrella. Vieni fuori come vuoi. Vieni a casa. Andrà tutto bene. Starai bene. «Lou, allarga le braccia!» «Ehi, non ti agitare, Art», gridò Handy per farsi sentire. «Non farti venire un fottuto attacco di cuore.» Strizzando gli occhi contro il bagliore accecante delle alogene, si guardò in giro divertito. «Lou, hai una decina di tiratori scelti con le armi puntate contro di te...»
«Soltanto una decina? Merda! Pensavo di valere un po' di più.» «Allarga le braccia, altrimenti spareranno.» Handy smise di camminare. Guardò Wilcox. I due sorrisero. La mano di Potter si posò sul calcio della pistola. Lentamente, le braccia dei prigionieri si allargarono verso l'esterno. «Assomiglio a una fottuta ballerina, Art.» «Stai andando bene, Lou.» «È facile dirlo, per te.» «Muovetevi in direzioni opposte per circa tre metri, poi stendetevi a terra a faccia in giù.» I due si allontanarono dal mattatoio, camminarono un po' più di quanto era stato loro ordinato, ma poi caddero in ginocchio e si sdraiarono a faccia in giù. I due agenti dell'SSO accanto alla porta tenevano gli H&K puntati alla schiena dei due evasi e si mantenevano discosti dalla porta nel caso che Bonner non fosse realmente morto o che ci fossero all'interno altri sequestratori di cui nemmeno gli ostaggi rilasciati erano a conoscenza. I due agenti vicino alle finestre si arrampicarono dentro, seguiti da altri due che corsero fuori dall'ombra ed entrarono rapidamente dalla porta. I raggi delle potenti torce elettriche montate sui loro fucili spazzarono il buio del mattatoio. Erano stati istruiti sul presunto funzionamento dell'ordigno incendiario che Handy aveva approntato e si muovevano molto lentamente, in cerca di eventuali fili nascosti che potessero far scattare la trappola. Potter era fermamente convinto di non essere mai stato tanto ansioso in vita sua. Si aspettava che l'interno del mattatoio fiorisse in un fungo di fiamme arancioni da un momento all'altro. Fuori, altri due agenti dell'SSO erano avanzati, coprendo i due accanto alla porta, che ora si diressero su Handy e Wilcox. E se avevano addosso delle granate innescate? Coltelli nascosti? Fu soltanto quando li vide ammanettati e perquisiti che Arthur Potter si rese conto che il sequestro era finito. Era riuscito a farcela, a uscirne vivo e incolume. E, ancora una volta, aveva letto male le intenzioni di Handy. Tornò da Budd, D'Angelo e Sharon Foster. Disse al comandante dell'SSO di comunicare via radio agli agenti che stavano prendendo in custodia i due prigionieri gli ordini precisi su come dovevano trattarli. Potter ricordava che Wilcox era il cowboy del gruppo, più impulsivo degli altri. Ordi-
nò che venisse legato anche intorno alla vita, oltre che ammanettato, ma aggiunse anche di non fare la stessa cosa con Handy. Sapeva che Lou avrebbe cooperato più volentieri se avesse mantenuto almeno un minimo di controllo. Altri agenti comparvero silenziosamente e coprirono i due uomini. Li tirarono in piedi e li perquisirono di nuovo, questa volta in modo più minuzioso, poi li condussero rapidamente in un fossato e li allontanarono in tutta fretta dal mattatoio. Poi le luci all'interno si accesero. Un lungo, lunghissimo istante di silenzio, anche se probabilmente non durò che qualche secondo. Dov'è lei? «Andate avanti», ordinò D'Angelo nel microfono della radio. Ascoltò per qualche secondo, poi riferì a Potter: «L'edificio è a posto. Non ci sono altri sequestratori. Niente trappole. C'era qualcosa pronto a scattare nella stanza, ma è stato smantellato». Anche gli altri si alzarono in piedi e osservarono Handy avanzare lungo il fossato. «E gli ostaggi?» domandò Potter in tono urgente. D'Angelo ascoltò. Poi confermò: «Bonner è morto». Sì, sì, sì? «E hanno trovato due ostaggi. Donne. Una, bianca, sulla quarantina. Cosciente e incoerente.» Per l'amor di Dio, e... «La seconda, bianca, sui venticinque. Anche lei cosciente.» D'Angelo fece una smorfia. «Seriamente ferita, dice.» No. Oh, mio Dio. «Cosa?» gridò Potter. «Che cosa le è successo?» Il negoziatore prese la propria radio e si intromise sul canale. «Come sta? La donna più giovane?» L'agente dell'SSO all'interno del mattatoio disse: «Handy deve aver fatto un lavoretto da bastardo su di lei, signore». «Quanto è ferita?» disse furiosamente Potter. Budd e D'Angelo lo fissarono con gli occhi spalancati. Handy si stava avvicinando, con due agenti a destra e due a sinistra. Potter scoprì di non poterlo guardare. L'agente all'interno dell'edificio parlò alla radio: «Be', signore, in realtà non sembra ferita così tanto, ma il fatto è che deve averla picchiata a sangue. Non riesce a sentire una parola di quello che diciamo».
La resa era avvenuta con tanta rapidità che lui si era dimenticato di avvertire gli agenti tattici che Melanie era sorda. D'Angelo gli rivolse qualche parola, e così fece Charlie Budd, ma lui non li udì, tanto forte era la risata isterica e folle che gli eruppe dalla gola. Sharon Foster e gli agenti vicini lo guardarono a disagio. Potter immaginò, senza che gliene importasse nulla, di sembrare proprio il vecchio pazzo che era. «Lou.» «Art, non assomigli per niente a quello che pensavo. Devi veramente perdere qualche chilo.» Handy era dietro il furgone, ammanettato, e Sharon Foster osservava i prigionieri. Quando Handy le guardò il corpo sogghignando, la donna lo ricambiò fissandolo con disprezzo. Potter sapeva bene che dopo una trattativa difficile, e particolarmente dopo una in cui c'era stato un omicidio, sentivi quasi l'impulso di insultare o di sminuire il tuo nemico. Lui riusciva a controllarsi, ma la donna era più giovane e più emotiva. Rivolse a Handy una smorfia soddisfatta e si allontanò. Il prigioniero rise e si voltò nuovamente verso Potter. «La tua fotografia non ti rende giustizia», disse il negoziatore. «Con gli stronzi è sempre così.» Come sempre, dopo una resa il sequestratore appariva minuscolo in confronto all'immagine mentale che il negoziatore se ne era fatto. I lineamenti di Lou erano duri e compatti, la sua faccia magra e pallida. Potter conosceva bene sia il peso che l'altezza di Handy, ma ciononostante era sorpreso di quanto gli sembrasse più piccolo. Scrutò la folla in cerca di Melanie. Non la vide. Agenti, vigili del fuoco, medici e membri della squadra di contenimento ora smantellata di Dean Stillwell passeggiavano intorno al mattatoio. La macchina, lo scuolabus e la fabbrica stessa erano ovviamente scene del delitto e, dal momento che ora quella era a tutti gli effetti un'operazione della polizia di stato, Budd aveva arrestato formalmente Handy e Wilcox e stava tentando di preservare il sito per l'arrivo delle squadre della scientifica. Dov'è? Ci fu un breve incidente quando Potter arrestò Handy per reati federali. Gli occhi di Handy divennero gelidi tutt'a un tratto. «Che cazzo è questa storia?» «Sto soltanto preservando i nostri diritti», disse Potter. L'agente speciale
Henderson spiegò a Handy che si trattava di una mera questione tecnica e Roland Marks confermò che tutti si sarebbero attenuti all'accordo scritto, anche se Potter passò un brutto momento quando pensò che Marks avesse intenzione di colpire il prigioniero. Ma il viceprocuratore si limitò a borbottare: «Fottuto assassino di bambini», e se ne andò furioso. Handy rise alle sue spalle. Shep Wilcox, sogghignando, si guardava intorno, deluso, a quanto sembrava, che non ci fossero giornalisti presenti. L'insegnante più anziana, Donna Harstrawn, venne portata via in barella. Potter le si avvicinò e camminò per un tratto al fianco degli addetti sanitari. Guardò interrogativamente uno degli infermieri. «Starà bene», gli sussurrò il giovane. «Fisicamente, voglio dire.» «Suo marito e i suoi figli sono al Days Inn», le sussurrò Potter. «Era...» cominciò lei, poi tacque. Scosse la testa. «Non posso vedere nessuno, adesso. Per favore. No... io mai...» Le sue parole si dissolsero nell'incocrenza. Potter le strinse affettuosamente un braccio e smise di camminare, osservando gli infermieri che la portavano sulla collinetta dove l'ambulanza li stava aspettando. Si voltò verso il mattatoio proprio mente Melanie Charrol veniva scortata fuori. Aveva i capelli biondi scomposti. Anche lei - come Handy - sembrava più piccola di quanto Potter si aspettasse. Fece un passo avanti, ma poi si fermò. Lei non l'aveva visto: stava camminando rapidamente, gli occhi fissi su Donna Harstrawn. I suoi vestiti erano scuri - gonna grigia, calze nere, camicia bordò - ma a Potter sembrò che fossero zuppi di sangue. «Che cos'è tutto quel sangue che ha addosso?» domandò a uno degli agenti dell'SSO che era stato all'interno. «Non è suo», fu la risposta. «Di Bonner, probabilmente. Quel tipo ha sanguinato come un cervo sventrato. Vuole interrogarla?» Lui esitò. «Più tardi», disse. Ma nella sua mente la parola fu più una domanda che altro, e la risposta era sconosciuta. La detective Sharon Foster andò da lui e gli strinse la mano. «Buona notte, agente Potter.» «Grazie di tutto», rispose lui con voce piatta. «Si immagini.» Gli puntò contro un dito. «Ehi, gran lavoro con quella resa. Liscia come l'olio.» Poi girò sui tacchi e tornò alla sua automobile di servizio, lasciando Potter in piedi sul prato, da solo. La faccia dell'agente
scottava come quella di un novellino appena strapazzato da un rude sergente istruttore. Angie Scapello tornò dal Days Inn per raccogliere le sue borse e salutare Potter e gli altri. Aveva ancora un po' di lavoro da svolgere all'albergo, dove avrebbe dovuto interrogare ulteriormente gli ostaggi e assicurarsi che loro e le rispettive famiglie avessero i nomi dei terapeuti specializzati in sindromi da stress post-traumatico. Budd e D'Angelo si fecero dare un passaggio da Angie fino all'area di servizio posteriore. Potter e due agenti scortarono i sequestratori nel furgone. Nelle vicinanze, diverse autopattuglie aspettavano di poterli portare al quartier generale della polizia di stato a quindici chilometri da lì. «Avete avuto un bell'incendio, a quanto pare», commentò Handy, guardando attentamente i segni delle bruciature. «Non darete la colpa a me anche di questo, spero.» Mentre osservava il prigioniero, Potter divenne consapevole della presenza di un uomo che si avvicinava furtivo dal fossato. Non vi badò più di tanto, dal momento che erano presenti decine di poliziotti. Ma c'era qualcosa di determinato nel passo dell'uomo, troppo rapido e diretto perché stesse passando casualmente tra la folla. Si stava dirigendo dritto verso di loro. «Attenti!» gridò Potter mentre Dan Tremain, a venti metri di distanza, cominciava a sollevare la pistola. Wilcox e l'agente che lo teneva si buttarono a terra, come fece il secondo agente di scorta, lasciando soltanto Potter e Handy in piedi. A portata di tiro. Handy, sorridendo, si voltò per fronteggiare Tremain. Potter estrasse la sua pistola, la puntò contro il comandante dell'SSO del Kansas e si mise davanti a Handy. «No, capitano», disse con fermezza. «Togliti di mezzo, Potter.» «Lei è già in un mare di guai.» La pistola fra le mani di Tremain rombò. Potter sentì il proiettile passargli sibilando accanto alla testa. Udì Handy che scoppiava a ridere. «Togliti di mezzo!» «Fallo», gli sussurrò Handy all'orecchio. «Premi il grilletto. Fai fuori lo stronzo.» «Sta' zitto!» latrò l'agente. Intorno a loro, quattro o cinque poliziotti avevano estratto le armi e le puntavano contro Tremain. Nessuno sapeva che
cosa fare. O nessuno voleva fare ciò che sapeva avrebbe dovuto fare. «È mio», dichiarò Tremain. «È legale», sussurrò Handy. «Uccidilo, Art. Vuoi farlo comunque. Sai che vuoi farlo.» «Taci!» gridò Potter. E poi, improvvisamente, si rese conto che Handy aveva ragione. Voleva davvero farlo. E, ancor di più, sentiva di avere il permesso di farlo - di uccidere l'uomo che aveva quasi fatto bruciare viva la sua Melanie. «Fallo», insistette Handy. «Muori dalla voglia di farlo.» «Questo non ti porterà altro che guai, Dan», affermò con calma Potter, ignorando le parole del suo prigioniero. «Non vorrai fare una cosa del genere.» «Eccoti qui, Art. Questo è il tuo campo. Dire alla gente quello che vogliono fare. Adesso però ti dirò io quello che tu vuoi fare. Tu vuoi sparare a quel cazzone. Quell'uomo ha quasi fatto uccidere la tua ragazza. Lei è la tua ragazza, vero Art? Melanie?» «Chiudi quella dannata boccaccia!» «Fallo, Art. Sparagli!» Tremain fece fuoco un'altra volta. Potter si ritrasse mentre il proiettile gli sfiorava la faccia e strappava una scheggia dalla parete del furgone. Il capitano stabilizzò la pistola, cercando un bersaglio. Arthur Potter allargò le braccia, facendo da scudo all'uomo che era suo prigioniero e - sì, Charlie - che era suo amico. «Fai qualcosa di cattivo», sussurrò Handy con voce fluida e rassicurante. «Spostati di lato di qualche centimetro. Lascia che mi uccida. Oppure spara tu a lui.» Potter si voltò. «Vuoi chiudere...?» Diversi agenti dell'FBI avevano estratto le armi e stavano gridando a Tremain di mettere giù la pistola. I poliziotti di stato erano silenziosamente dalla parte del loro uomo. Potter pensò: Handy aveva quasi ucciso Melanie. Non devi fare altro che spostarti di qualche centimetro. E anche Tremain l'aveva quasi uccisa. Spara. Vai avanti. Handy sussurrò: «Se avesse fatto a modo suo, Art, la tua ragazza adesso avrebbe ustioni di terzo grado su quasi tutto il corpo. I suoi capelli e le sue tette... tutto bruciato. Nemmeno tu vorresti scoparti qualcosa come...»
Potter si voltò di scatto, con il pugno proteso. Colpì Handy alla mascella. Il prigioniero indietreggiò barcollando e cadde a terra. Tremain, ora soltanto a dieci metri di distanza, mirò ancora una volta al petto dell'uomo. «Metti giù la pistola», ordinò Potter, voltandosi e facendo un passo avanti. «Lasciala giù, Dan. La tua vita non è ancora finita. Ma lo sarà se premi quel grilletto. Pensa alla tua famiglia.» Ricordò l'anello che aveva visto al dito di Tremain. Disse a bassa voce: «Dio non vuole sprecarti su qualcuno così privo di valore come Handy». La pistola ondeggiò, poi cadde a terra. Senza più guardare né Potter né Handy, Tremain raggiunse Charlie Budd e gli porse le mani per ricevere le manette. Budd scrutò il suo collega, parve sul punto di dire qualcosa, ma poi scelse di tacere. Mentre si alzava faticosamente in piedi, Handy disse: «Ti sei lasciato sfuggire una buona occasione, Art. Non c'è molta gente che ha la possibilità di far fuori qualcuno e di...» Potter lo afferrò per i capelli e la canna della pistola si conficcò sotto la mascella ispida di barba di Lou Handy. «Non dire una parola.» Handy indietreggiò, respirando affannosamente. Dapprima distolse lo sguardo, spaventato. Ma durò solo un istante. Poi scoppiò a ridere. «Sei davvero un tipo in gamba, Art. Sissignore. Facciamola finita. Prenotami la camera, stronzo.» MEZZANOTTE Arthur Potter era solo. Si guardò le mani: stavano tremando. Fino all'incidente con Tremain si era sentito solido come una roccia. Prese un Valium immaginario, ma non ebbe alcun effetto. Dopo un istante, si rese conto che il suo disagio non era dovuto tanto alle conseguenze nervose della resa dei conti quanto a un soverchiante senso di disappunto. Avrebbe voluto parlare con Handy. Scoprire di più su di lui, scoprire che cosa lo aveva spinto. Per quale motivo reale aveva ucciso Susan? Che cosa stava pensando? Che cosa era accaduto in quella stanza, la stanza delle uccisioni? E che cosa pensa di me? Era come guardare i poliziotti scortare via una parte di lui. Osservò la nuca di Handy, i suoi capelli stopposi. L'uomo guardava di sottecchi, con un sogghigno da iena che gli stirava le labbra. Potter intravide per un istan-
te l'angolo acuto della mascella. State accorti. Si ricordò la propria pistola. Tolse il colpo in canna e lo rimise nel caricatore, poi infilò la pistola nella fondina. Quando tornò a sollevare lo sguardo, le due autopattuglie che portavano Wilcox e Handy erano scomparse. In quel momento, gli parve che il perverso cameratismo fra negoziatore e sequestratore non si sarebbe mai attenuato. Una parte di lui soffriva nel vedere andar via quell'uomo. Potter considerò il lavoro che gli restava da fare. Ci sarebbe stato un IR1002 da compilare in ogni sua parte. Quella stessa notte ci sarebbe stata la seduta postoperativa via telefono con il direttore delle operazioni del distretto federale e una relazione dal vivo con l'ammiraglio in persona quando il capo dell'FBI avesse terminato di leggere il rapporto dell'accaduto. Potter avrebbe dovuto cominciare subito a stendere la presentazione. Al direttore piaceva che le sue relazioni fossero corte come notizie d'agenzia, ma gli incidenti della vita reale avevano raramente la cortesia di adeguarsi ai suoi gusti. Potter si era presentato alla conferenza stampa di Pete Henderson, ma aveva risposto soltanto a poche domande prima di andarsene, lasciando l'agente speciale a prendersi meriti e approvazioni e colpe come desiderava: a lui non importava affatto. Inoltre, doveva immaginare un modo per risolvere la questione dell'irruzione mancata da parte dell'SSO della polizia di stato del Kansas. Potter sapeva bene che Tremain non avrebbe mai tentato quella pazzia senza un diretto benestare dalle alte sfere - probabilmente addirittura dal governatore. Ma, se era questo il caso, il capo esecutivo dello stato del Kansas aveva sicuramente già preso le distanze dal comandante. Poteva anche avere in mente una subdola manovra offensiva sua personale - come, per esempio, la pubblica crocifissione di un certo Arthur Potter. L'agente avrebbe dovuto prepararsi una linea di difesa. E l'altra questione. Doveva restare lì per qualche giorno? Tornare a Chicago? Tornare al distretto? Si trovava non molto distante dal furgone bruciacchiato, abbandonato dalla folla di poliziotti in partenza, in attesa di incontrare Melanie. Guardò il mattatoio, domandandosi che cosa le avrebbe chiesto. Vide l'agente Frances Whiting appoggiata alla sua macchina; sembrava esausta esattamente come lui. Potter si avvicinò. «Ha tempo di darmi una lezione?» domandò. «Ci può scommettere.»
Dieci minuti dopo si incamminarono insieme verso la tenda del pronto soccorso. All'interno, Melanie Charrol era seduta su un basso tavolo da visita. Un infermiere le aveva bendato il collo e le spalle. La ragazza si era raccolta i capelli in una treccia, forse per aiutarlo. Potter avanzò verso di lei e - come si era ripromesso, anzi, ordinato di non fare - parlò con il sanitario che le stava applicando del Betadine alla gamba, piuttosto che rivolgersi direttamente a Melanie. «Sta bene?» Lei annuì. Lo fissava con un sorriso intenso sulle labbra. L'unico momento in cui aveva distolto lo sguardo da lui era stato quando aveva parlato, per guardargli le labbra. «Non è sangue suo», disse l'assistente medico. «È di Orso?» domandò Potter. Melanie annuì, ridendo. Il sorriso le rimase sul volto, ma lui si accorse che aveva gli occhi incavati. L'uomo le diede una pillola, che Melanie inghiottì insieme a due bicchieri d'acqua, quindi si scusò: «Vi lascio soli per qualche minuto». Quando se ne andò, entrò Frances. Le due donne si scambiarono una serie di segni rapidi e bruschi. Frances spiegò: «Mi sta chiedendo delle altre ragazze. Le sto facendo un riassunto». Melanie tornò a voltarsi verso Potter e lo fissò. Lui incontrò il suo sguardo. La giovane donna era ancora nervosa, ma - nonostante le bende e il sangue - bella come lui si aspettava. Incredibili occhi azzurro-grigi. Sollevò le mani per compiere i gesti che Frances gli aveva appena insegnato, e la sua memoria solitamente prodigiosa lo tradì. Potter scosse la testa. Melanie reclinò il capo, guardandolo interrogativamente. Lui alzò un dito. Aspetta. Sollevò le mani di nuovo e si paralizzò ancora una volta. Poi Frances fece un cenno e Potter ricordò. «Sono Arthur Potter», gesticolò. «È un vero piacere incontrarti.» «No, tu sei Charles Michel de l'Epée», disse Frances traducendo i gesti di Melanie. «Non sono così vecchio.» Stava parlando ora, sorridendo. «L'agente Whiting, qui, dice che è nato nel diciottesimo secolo. Come ti senti?» Melanie capì senza bisogno di traduzione. Indicò i propri vestiti e fece una smorfia, poi gesticolò. Frances tradusse: «La mia gonna e la mia camicia sono finite. Non potevate tirarci fuori un pochino prima?» «Gli spettatori del film-della-settimana si aspettano finali mozzafiato.» E, come con Handy, Potter si sentì schiacciato: c'erano mille cose che
avrebbe voluto chiederle. Nessuna delle quali trovò la strada per passare dal suo cervello alle sue corde vocali. Si avvicinò a lei ancor di più. Per un istante, nessuno dei due si mosse. Potter pensò a un'altra frase in ASL - parole che Frances gli aveva insegnato diverse ore prima. «Sei molto coraggiosa», segnò. Melanie parve molto compiaciuta del commento. Frances osservò i suoi gesti, ma poi si accigliò e scosse la testa. Melanie ripeté le parole. A Potter, Frances disse: «Non capisco che cosa intende. Quello che ha detto era: 'Se tu non fossi stato con me non sarei riuscita a farcela'». Ma lui capiva. Udì lo scoppiettio di un motore e si voltò per vedere una mietitrebbia. Mentre osservava il goffo veicolo, credette per un istante che stesse sospingendo un'orda di insetti davanti a sé. Poi si rese conto di stare osservando frammenti e polvere lanciati verso il cielo dalle lame della mietitrice. «Andranno avanti tutta la notte», tradusse Frances. Potter guardò Melanie. Lei continuò: «L'umidità è critica. Quando le condizioni sono giuste, corrono come nessun altro. Devono farlo». «Come fai a saperlo?» «Dice di essere una ragazza di fattoria.» Melanie lo guardò dritto negli occhi. Potter cercò di convincersi che Marian l'avesse guardato allo stesso modo per poter convertire la sensazione che stava provando in sentimento o in nostalgia e farla finita una volta per tutte. Ma non poté. Lo sguardo, come i sentimenti che racchiudeva, come quella giovane donna davanti a lui, era del tutto originale. Unico. Potter ricordò l'ultima frase che Frances gli aveva insegnato. Esitò, quindi, d'impulso, formò le parole con le mani. Mentre lo faceva, gli parve di sentire le forme delle mani con assoluta chiarezza, come se soltanto le sue mani potessero esprimere ciò che voleva dire. «Voglio vederti ancora», le comunicò. «Magari domani?» Melanie rimase immobile per un lunghissimo istante, poi annuì e sorrise. Improvvisamente lei si allungò verso di lui e chiuse le mani sul suo braccio. Lui le premette una mano bendata sulla spalla. Rimasero in quell'abbraccio ambiguo per un istante, poi lui sollevò le dita fino ai suoi capelli e le sfiorò la nuca. Lei abbassò la testa e lui le labbra, portandole quasi a sfiorare la folta chioma bionda. Ma poi, improvvisamente, avvertì l'odore muschioso del suo cuoio capelluto, il suo sudore, una traccia di profumo,
sangue. Gli odori degli amanti che fanno l'amore. E non riuscì a baciarla. Com'è giovane! E, mentre pensava questo, in un istante il suo desiderio di abbracciarla svanì e la sua fantasia di uomo di mezza età - mai articolata, addirittura a malapena formata nella sua mente - scomparve come il pulviscolo sparato via dalla mietitrebbia che aveva osservato poco prima. Sapeva che doveva andarsene. Sapeva che non l'avrebbe più rivista. Fece un passo indietro, d'improvviso, e lei lo guardò, momentaneamente perplessa. «Devo andare a parlare con il procuratore degli Stati Uniti», disse lui bruscamente. Melanie annuì e gli porse la mano. Lui lo scambiò per un gesto in ASL. Fissò la mano, in attesa. Poi Melanie la allungò ancor di più e gli prese le dita tra le sue con calore. Risero entrambi per il malinteso. Poi, senza preavviso, lei lo tirò verso di sé e lo baciò su una guancia. Potter si avviò verso la porta, si fermò, si voltò a guardarla. «'State accorti.' È questo che mi hai detto, vero?» Melanie annuì, gli occhi nuovamente vuoti e incavati. Vuoti e tristi. Frances tradusse la sua risposta: «Volevo che sapessi quanto era pericoloso. Volevo che facessi attenzione». Poi sorrise e gesticolò ancora. Potter rise quando udì la traduzione. «Mi devi una gonna e una camicia nuove. E mi aspetto di essere ripagata. Farai bene a non dimenticartene. Sono una sordomuta con un bel caratterino. Povero te.» Potter tornò al furgone, ringraziò Tobe Geller e Henry LeBow, che stavano per prendere due voli di linea che li avrebbero riportati nelle rispettive città di residenza. Un'autopattuglia li imbarcò per condurli via. Potter strinse la mano un'altra volta a Dean Stillwell e sentì l'impulso ridicolo di fargli un regalo di qualche tipo, un nastro o una medaglia o un anello da agente federale. Lo sceriffo si scostò i capelli dalla fronte ed ebbe la presenza di spirito di ordinare ai suoi uomini - federali o statali che fossero di camminare con prudenza, ricordando loro che si trovavano, dopotutto, sulla scena di un crimine e che le prove dovevano ancora essere raccolte. Potter si fermò sotto una delle alogene, fissando la sagoma oscura del mattatoio. «Buonanotte, signore», disse una voce alle sue spalle. Potter si voltò e vide Stevie Oates. Il negoziatore gli strinse la mano. «Non saremmo riusciti a farcela senza di te, Stevie.»
Il ragazzo era più bravo a schivare proiettili che a incassare complimenti. Si guardò i piedi. «Be', già, sa com'è.» «Un consiglio.» «Di che si tratta, signore?» «Non ti offrire volontario così dannatamente spesso.» «Sissignore.» L'agente sorrise. «Lo terrò a mente.» Poi Potter trovò Charlie Budd e gli domandò un passaggio per l'aeroporto. «Non hai intenzione di restare da queste parti per un po'?» domandò il giovane capitano. «No, devo andare.» Salirono sull'automobile priva di contrassegni di Budd e si allontanarono rapidamente. Potter afferrò un'ultima veduta del mattatoio: sotto la luce cruda dei riflettori alogeni, la cupa struttura rossa e bigia dava l'impressione di un osso sanguinolento e scarnificato. Con un brivido si voltò dall'altra parte. A metà strada, Budd gli confidò: «Ho apprezzato molto la possibilità che mi hai dato». «Visto che mi hai confessato qualcosa, Charlie...» «Dopo averti quasi rovinato la carriera.» «...sarà meglio che ti confessi qualcosa anch'io.» Il capitano si strofinò i capelli e li lasciò in un modo tale che sembrava fosse passato dal parrucchiere di Dean Stillwell. Il suo gesto significava: Vai avanti, posso farcela. «Ti ho tenuto con me come assistente perché avevo bisogno di far vedere a tutti che questa era un'operazione federale e che le forze di polizia statali venivano in secondo piano. Ti stavo tenendo al guinzaglio. Sei una persona intelligente, e immagino che tu l'avessi capito.» «Sì. Non sembrava che avessi davvero bisogno di un fattorino come me. Ordinare patate fritte e birre ed elicotteri. È stata una delle cose che mi ha fatto mettere in tasca quel registratore. Ma il modo in cui mi hai parlato, il modo in cui mi hai trattato, è stata una delle cose che me l'ha fatto tirare fuori.» «Be', hai tutti i diritti di essere incazzato. Ma volevo dirti soltanto che ti sei comportato molto meglio di quanto mi aspettassi. Eri veramente parte della squadra. E gestire quella conversazione da solo... ti è venuto proprio naturale. Ti porterei a trattare insieme a me ogni volta che vuoi.» «Oh, ragazzi, nemmeno per tutto l'oro del mondo. Ti dico una cosa, Ar-
thur... facciamo così: io li inseguo sul terreno aperto e tu li tiri fuori dalle loro tane.» Potter rise. «Mi sembra accettabile, Charlie.» Proseguirono in silenzio attraverso chilometri e chilometri di frumento. La distesa di grano, battuta dal vento, sembrava viva alla luce della luna, come il mantello serico di un animale impaziente di mettersi a correre. «Ho una sensazione», disse Budd a un certo punto. «Che tu stia pensando di aver fatto un errore, questa notte.» L'altro rimase in silenzio, osservando gli occhi da insetto delle mietitrebbiatrici. «Stai pensando che, se avessi provato con quello che ha fatto la detective Foster, avresti potuto tirarli fuori prima. Forse anche salvare la vita a quella ragazza, e a Joey Wilson.» «Mi è passato per la mente», ammise Potter dopo un minuto. Oh, quanto odiamo venire capiti e spiegati. Che cosa c'è di tanto affascinante nell'idea che siamo dei misteri per tutti tranne che per noi stessi? Ho messo te a parte dei miei segreti, Marian. Ma soltanto te. È un aspetto dell'amore, credo, e anche abbastanza ragionevole. Ma come ci si sente deboli quando gli sconosciuti hanno la capacità di vedere in noi così chiaramente. «Ma le hai tenute in vita per tre o quattro ultimatum», continuò Budd. «Quella ragazza, però... Susan...» «Ma lui le ha sparato prima ancora che tu cominciassi a trattare. Non c'era niente che avresti potuto dire per salvarla. E, a parte questo, Handy ha avuto molte possibilità di chiedere ciò che Sharon gli ha offerto, e non l'ha mai fatto. Nemmeno una volta.» Questo era vero. Ma se Arthur Potter sapeva qualcosa della sua professione, era che il negoziatore rappresentava la cosa più vicina a Dio in quel genere di sequestri, e che il peso di ogni decesso ricadeva sulle sue spalle e soltanto sulle sue spalle. Ciò che aveva imparato - e ciò che gli aveva salvato il cuore nel corso degli anni - era che alcuni di quei decessi pesavano semplicemente meno di altri. Proseguirono per altri cinque chilometri e Potter si rese conto di essersi quasi ipnotizzato a furia di fissare la distesa di frumento illuminata dalla luce argentea della luna. Budd gli stava parlando di nuovo. L'argomento era la sua vita domestica, sua moglie e le sue bambine. Potter distolse lo sguardo dal grano e ascoltò ciò che il capitano gli stava raccontando.
Nel piccolo aereo a reazione, Arthur Potter si mise in bocca due Wrigley's e salutò Charlie Budd, che stava accomiatandosi agitando la mano, anche se l'interno dell'aereo era molto buio e Potter dubitava che il capitano potesse vederlo. Poi si lasciò affondare nella sofficità spugnosa del sedile beige del Grumman Gulfstream. Pensò alla fiaschetta di whisky irlandese che aveva nella valigetta e scoprì di non essere affatto dell'umore giusto. Che ne pensi di questo, Marian? Niente bicchiere della staffa, e sono fuori servizio. Che diresti di una cosa del genere? Vide un telefono su una consolle vicino al suo sedile e pensò che avrebbe dovuto telefonare a sua cugina Linden per dirle di non aspettarlo. Forse avrebbe chiamato dopo il decollo. Avrebbe chiesto di parlare con Sean; il ragazzo sarebbe stato eccitatissimo nel sentire che lo zio Arthur gli stava parlando da seimila metri di quota. Fissò distrattamente fuori del finestrino la costellazione di luci colorate che contrassegnava le piste di rullaggio e di decollo. Prese dalla tasca il biglietto ancora umido che Melanie gli aveva scritto dal mattatoio. Lo lesse. Poi accartocciò il foglio e lo ficcò nella tasca del sedile di fronte al suo. Le turbine gemettero poderosamente e, con una spinta improvvisa, Potter scoprì che l'aereo non stava accelerando su una delle piste ma stava sfrecciando direttamente nel ciclo, praticamente da fermo, come un'astronave diretta su Marte. Si alzarono e si alzarono, mirando alla luna, che era una falce inquietante nel cielo di velluto. L'aereo puntò il muso verso il disco nero circondato dalla mezzaluna bianca. Stranamente poetica, pensò lui di quell'immagine: i gelidi pollice e indice di una strega, protesi nel tentativo di pizzicare la notte. Il negoziatore chiuse gli occhi e si lasciò andare contro lo schienale morbido del sedile. Proprio mentre lo faceva, il Grumman virò. La manovra fu tanto brusca che Arthur Potter ebbe l'improvvisa certezza di stare per morire. Rifletté su quel fatto con molta calma. Un'ala o un motore si erano staccati. Un bullone che teneva insieme l'intero aeroplano alla fine aveva ceduto. I suoi occhi si spalancarono e - sì, sì! - credette di vedere chiaramente il viso di sua moglie nel lucore che circondava la luna. E comprese che ciò che aveva unito loro due, lui e Marian, per tutti quegli anni li teneva ancora uniti, con la stessa identica forza, la stessa ostinazione, e ora lei lo stava trascinando con sé nella morte.
Chiuse nuovamente gli occhi. E si sentì in pace. Ma no, non era destinato a morire. Non ancora. Perché, mentre l'aereo completava la virata e tornava indietro verso l'aeroporto, lasciando uscire il carrello, spingendo fuori i flap e scivolando sempre più in basso verso il piatto paesaggio del Kansas, Potter si tenne il telefono contro l'orecchio, ascoltando l'agente speciale Peter Henderson che gli raccontava, con voce cupa e tremante, di come mezz'ora prima la vera detective Sharon Foster fosse stata trovata morta e mezza nuda non lontano da casa sua e di come ora si sospettasse fortemente che la donna che l'aveva impersonata a Crow Ridge fosse in realtà la ragazza di Lou Handy. I quattro agenti che scortavano Handy e Wilcox erano morti, come lo stesso Wilcox - tutti uccisi in una violenta sparatoria a otto chilometri dal mattatoio. E, per quanto riguardava Handy e la donna, erano spariti senza lasciare traccia. PARTE QUARTA A MAIDEN'S GRAVE 1,01 Mentre attraversava i campi sotto la luce della luna, la coppia all'interno della Nissan rifletteva sulla serata trascorsa a casa della loro figlia a Enid, che era stata spiacevole esattamente come si aspettavano entrambi. Quando parlarono, però, non accennarono alla roulotte sciatta in cui vivevano i bambini, al loro nipotino sporco o alla scomparsa del loro genero dai capelli stopposi nel cortile pieno di spazzatura in cerca di una bottiglia di Jack Daniel's. No, parlarono soltanto del tempo e degli insoliti cartelli stradali che, da qualche tempo a quella parte, stavano comparendo davanti al parabrezza. «Pioverà molto quest'autunno. Magari un'alluvione.» «Potrebbe.» «Qualcosa che c'entra con le trote del Minnesota. L'ho letto da qualche parte.» «Le trote?» «Sto parlando di pioggia di quella seria. Stuckey's è soltanto a sette chilometri. Guarda lì. Ti vuoi fermare?»
Harriet, la loro figlia, aveva preparato una cena che poteva essere descritta soltanto come non commestibile - stracotta e strasalata. E il marito, a un certo punto, aveva detto che era sicuro che ci fosse un po' di cenere di sigaretta nel sugo. E adesso stavano tutti e due morendo di fame. «Potrebbe anche andare. Magari soltanto un po' di caffè. Guarda il vento - caspita! Spero che tu abbia chiuso le finestre, a casa. Magari una fetta di torta, anche.» «Le ho chiuse.» «L'ultima volta ti sei dimenticato di farlo», gli ricordò petulante la moglie. «Non voglio perdere la lampada un'altra volta. Sai bene quanto costano quelle lampadine multiple.» «Be'», disse il marito. «E adesso cosa succede?» «Cosa c'è?» «Mi stanno fermando. Una macchina della polizia.» «Accosta!» «Lo sto facendo», ribatté piccato lui. «Non c'è motivo di lasciare i segni delle frenate sull'asfalto. Lo sto facendo.» «Che cosa fai adesso?» «Non faccio niente. Stavo andando a settantacinque in una strada con limite a settanta, e questo non è un crimine da nessuna parte del mondo.» «Be', accosta e togliti dalla strada.» «Sto accostando. Vuoi calmarti? Ecco, qui. Contenta?» «Ehi, guarda», esclamò la moglie stupita, «al volante c'è una donna poliziotto!» «Adesso ci mettono anche loro. Lo sai. Guardi sempre Cops alla tele. Devo uscire io o vengono qui loro?» «Forse», suggerì la moglie, «dovresti andare tu da loro. Fare lo sforzo. Così, se hanno intenzione di darti una multa, magari non te la fanno.» «Questa è un'idea. Ma ancora non so che cosa ho fatto di male.» E, sorridendo come un irlandese nel giorno di San Patrizio, il marito scese dalla Nissan e camminò fino all'autopattuglia, togliendosi di tasca il portafogli. Mentre Lou Handy portava la macchina della polizia nel folto del campo di frumento, tagliando una scia nelle alte spighe, si perse nel ricordo di un altro campo - il campo della mattina precedente, vicino all'incrocio dove la Cadillac gli era piombata addosso. Ricordò il cielo grigio. La sensazione del coltello tra le mani. La faccia incipriata della donna, le righe nere che le solcavano il trucco, gocce del
suo stesso sangue che la imbrattavano mentre lui spingeva il coltello verso il basso, conficcandoglielo nel corpo soffice. L'espressione del suo sguardo, di disperazione e di dolore. Le sue strane grida, gementi, soffocate. I versi di un animale. Era morta allo stesso modo in cui erano appena morti i due occupanti della Nissan, la coppia che ora giaceva nel bagagliaio dell'autopattuglia che lui stava guidando. Diavolo, dovevano morire, entrambe le coppie. Avevano qualcosa di cui lui aveva bisogno. Le loro auto. La Cadillac e la Nissan. Quella mattina Hank e Ruth avevano ridotto in pezzi la sua Chevy. E quella notte, be', lui e Pris semplicemente non potevano continuare a guidare una macchina della polizia rubata. Era impossibile. Avevano bisogno di una macchina nuova. Dovevano averne una. E quando Lou Handy riusciva a prendere ciò che il mondo gli doveva, quando riusciva a togliersi quel prurito, be', era l'uomo più contento sulla faccia della terra. Parcheggiò l'auto, che puzzava di sangue e polvere da sparo, nel campo di frumento, a cinquanta metri dalla strada. L'avrebbero trovata la mattina dopo, ma andava bene così. Nel giro di poche ore lui e Pris sarebbero stati fuori dello stato, in volo sul confine tra il Texas e il Messico a trenta metri d'altezza, diretti a San Hidalgo. Oh, fa' attenzione... Accidenti, il vento era forte, spingeva la macchina da una parte all'altra e mandava le spighe di frumento a sbattere contro il parabrezza con un rumore simile a una raffica di fucili da caccia all'apertura della stagione. Handy scese dall'automobile e tornò rapidamente sulla strada, dove Pris era seduta al volante della Nissan. Aveva buttato via l'uniforme da sbirro e ora indossava un maglione e un paio di jeans e, in quel preciso momento, Lou avrebbe voluto più di ogni altra cosa al mondo tirarle giù quei Levi's, quelli e le mutande di nylon da quattro soldi che Pris indossava sempre, e scoparla lì, sul cofano di latta di quella macchina giapponese. Tenendole la coda di cavallo stretta nella mano destra come piaceva a lui. Invece balzò sul sedile del passeggero e le fece cenno di partire. Pris buttò la sigaretta fuori del finestrino e accese il motore. La macchina si scostò dalla banchina, compì una stretta inversione a U e toccò i novanta chilometri orari in un attimo. Tornarono nella direzione da cui erano appena venuti: nord. Sembrava folle, certo. Ma Handy andava fiero di essere fuori di testa come nessun altro e di riuscire ugualmente a cavarsela. In realtà la loro de-
cisione aveva senso, però, perché il posto dove erano diretti era l'ultimo dove a qualcuno sarebbe venuto in mente di andarli a cercare. Comunque, pensò, 'fanculo se è folle o meno. Ormai se l'era messo in testa. Aveva del lavoro da sbrigare, laggiù. Qualcuno gli doveva qualcosa. Il Testamento di Heiligenstadt, scritto nel 1802 da Beethoven ai suoi fratelli, è la cronaca della sua disperazione per la sordità progressiva che lo stava assalendo, che un decennio e mezzo più tardi divenne totale. Melanie Charrol lo sapeva, perché Beethoven non era soltanto il suo mentore spirituale e il suo modello, ma era anche un assiduo frequentatore della sua stanza della musica, nella quale lui, tutt'altro che inaspettatamente, era in grado di udire perfettamente come lei. Avevano avuto diverse conversazioni affascinanti sulla teoria della musica e sulla composizione. Entrambi si lamentavano della tendenza ad allontanarsi dalla melodia e dall'armonia nelle composizioni moderne. Lei la chiamava «musica medicinale» - una frase che Ludwig aveva approvato di cuore. Ora era seduta nel soggiorno di casa sua, respirando profondamente, pensando al grande compositore e chiedendosi se fosse ubriaca. Al bar dell'albergo di Crow Ridge si era versata due brandy in compagnia dell'agente Frances Whiting e di alcuni parenti degli ostaggi. Frances si era messa subito in contatto con i suoi genitori a St. Louis e aveva detto loro che Melanie stava bene. Sarebbero tornati dopo l'operazione di Danny l'indomani e si sarebbero fermati a Hebron a farle visita - una notizia, questa, che in qualche modo aveva messo Melanie in agitazione. Voleva che passassero a trovarla oppure no? Invece di decidere, si era fatta un altro brandy. Poi era andata a salutare le ragazze e i loro genitori. Le gemelline stavano dormendo. Kielle era sveglia ma la snobbava; tuttavia Melanie, conoscendo i bambini, sapeva che i loro umori erano instabili come il tempo: l'indomani, o il giorno dopo, la bambina sarebbe passata dalla stanzetta di Melanie, a scuola, e si sarebbe stravaccata sull'ordinatissimo ripiano della sua scrivania per mostrarle l'ultimo fumetto degli XMen o l'ultima figurina dei Power Rangers. Emily, com'era ovvio, aveva indosso una camicia da notte assurdamente frivola e femminile e dormiva. Shannon, Beverly e Jocylyn erano l'attrazione principale della serata. Al momento, riunite al centro dell'attenzione amorevole di tutti i presenti, erano allegre e baldanzose e, dai loro gesti, Melanie capiva che stavano ricordando alcuni degli avvenimenti di quella sera con una ricchezza di det-
tagli che lei stessa non sarebbe stata in grado di sopportare. Si erano persino soprannominate «Le Dieci di Crow Ridge» e stavano parlando di farsi stampare delle magliette. La realtà sarebbe arrivata da loro più tardi, quando ognuna avrebbe cominciato a sentire l'assenza di Susan. Ma, per il momento, perché no? E, a parte questo, quali che fossero i malintesi e le piccolezze che aveva condiviso con de l'Epée sulle politiche della Sordità, i membri della comunità erano comunque molto elastici. Melanie augurò la buonanotte a tutti, rifiutando almeno una dozzina di offerte di passare la notte all'albergo. Mai, prima di allora, aveva formato con le mani le parole «No, grazie» tanto spesso come quella sera. Ora, a casa sua, tutte le finestre erano bloccate, le porte pure. Aveva bruciato un po' di incenso, si era concessa un altro brandy - al mirtillo, la cura di sua nonna per i crampi - ed era seduta nella sua poltrona di pelle, pensando a de l'Epée... be', ad Arthur Potter. Si strofinava il segno lasciatole sul polso destro dal filo con cui Bruto l'aveva legata al ceppo. Aveva le sue cuffie Koss sulle orecchie e il Quarto Concerto per pianoforte di Beethoven sullo stereo a volume così alto che gli indicatori erano stabilmente sul rosso. Era un grandissimo brano musicale, composto durante quello che gli storici della musica chiamano il «secondo periodo» di Beethoven, quello che aveva prodotto l'Eroica, quando lui era consapevole - e tormentato della sua perdita di udito, prima che diventasse completamente sordo. Mentre ascoltava il concerto, si domandò se fosse stato scritto da Beethoven in previsione degli anni futuri, quando la sordità sarebbe peggiorata, se avesse costruito certi accordi e certe dinamiche affinché un vecchio sordo potesse riuscire nonostante tutto almeno a distinguere l'anima del brano. Perché, anche se c'erano interi passaggi che Melanie non riusciva a sentire per niente (deboli e delicati come fumo, immaginava), la passione di quella musica proveniva dai bassi enfatici, dalle due mani che si abbattevano con forza sui tasti del registro più grave del pianoforte, dal tema che spiraleggiava verso il basso come un falco che cala sulla sua preda, dai timpani dell'orchestra e dagli archi più gravi - contrabbassi, violoncelli che producevano quello che per lei era lo spirito pieno di speranza del concerto. Una sensazione di galoppo, di libertà. Melanie riusciva a immaginare, per mezzo delle vibrazioni e delle note e leggendo la partitura, la maggior parte del concerto. E in quel momento pensò, come faceva sempre, che avrebbe venduto anche l'anima per poter riuscire ad ascoltare davvero l'intero concerto. Una volta, una volta soltanto prima di morire.
Fu durante il secondo movimento che guardò fuori e vide una macchina rallentare improvvisamente mentre passava davanti a casa sua. Pensò che fosse strano, perché la strada di fronte era poco trafficata. Era una strada senza uscita e Melanie conosceva tutti coloro che vivevano nell'isolato e le macchine che guidavano. Quell'auto non la riconobbe. Si tolse le cuffie e andò alla finestra. Poteva vedere che l'automobile, con due persone a bordo, aveva parcheggiato di fronte alla casa degli Albertson. E anche quella era una cosa strana perché era sicura che la famiglia fosse via per tutta la settimana. Strizzò le palpebre, guardando la macchina. Le due persone - non riusciva a distinguerle chiaramente, vedeva soltanto le loro sagome - uscirono e oltrepassarono il cancello degli Albertson, scomparendo al di là dell'alta siepe che delimitava la proprietà della coppia. Poi Melanie ricordò che la famiglia possedeva diversi gatti. Probabilmente alcuni loro amici davano da mangiare agli animali mentre i due erano via. Tornando al divano, si sedette e si rimise le cuffie. Sì, sì... La musica, ciò che di essa riusciva a udire, per quanto limitato fosse per lei il mondo dei suoni, le era di incredibile conforto. Più del brandy, più della compagnia e della solidarietà dei genitori delle sue allieve, più del pensiero dell'inspiegabilmente attraente Arthur Potter, la musica la portò via, magicamente, dall'orrore di quel ventoso giorno di luglio. Melanie chiuse gli occhi. 1,20 Il capitano Charlie Budd era invecchiato considerevolmente nel corso delle ultime dodici ore. Potter lo osservò nell'ingannevole luce fluorescente dell'ufficio dello sceriffo di Crow Ridge, che si trovava in un piccolo edificio nel quartiere commerciale. Budd non sembrava più tanto giovane ed era di almeno dieci anni più cinico. E, come tutti coloro che si trovavano lì quella notte, la sua faccia era avvolta da una patina di disgusto. E di incertezza. Perché non riuscivano ancora a capire se erano stati traditi e, se ciò era accaduto, da chi. Budd e Potter erano seduti alla scrivania di fronte a Dean Stillwell, che parlava al telefono, annuendo con aria grave. Passò il ricevitore a Budd. Tobe e Henry LeBow erano appena arrivati in una corsa folle dall'aeroporto. I computer di LeBow erano già in funzione; sembravano un'esten-
sione del suo corpo. Il jet militare di Angie Scapello aveva fatto inversione di rotta da qualche parte sopra il cielo di Nashville e la donna sarebbe arrivata a Crow Ridge nel giro di mezz'ora. «D'accordo», concluse Budd riagganciando. «Ecco i dettagli. Non sono belli.» Le due autopattuglie che portavano Handy e Wilcox avevano lasciato il mattatoio e si erano dirette verso sud al quartier generale della divisione C a Clements, a circa quindici chilometri di distanza. Tra Crow Ridge e il posto di polizia, l'automobile in testa alla fila, guidata dalla presunta Priscilla Gunder, aveva frenato così all'improvviso da lasciare una traccia di sette metri sull'asfalto e aveva mandato fuori strada la macchina che la seguiva dappresso. Apparentemente, la donna aveva estratto la pistola e aveva sparato al poliziotto accanto a sé e a quello seduto sul sedile posteriore, uccidendoli all'istante. Gli investigatori che si erano recati sul luogo del delitto immaginavano che Wilcox, nella seconda automobile, si fosse tolto le manette con la chiave che la Gunder gli aveva fatto scivolare in mano e avesse afferrato la pistola del poliziotto seduto accanto a lui. Ma, dal momento che era stato legato due volte, secondo le istruzioni date da Potter, aveva impiegato più tempo del previsto a fuggire. Aveva sparato al poliziotto accanto a lui, ma quello al volante era riuscito a saltare giù dalla macchina e a far fuoco almeno una volta contro di lui prima che Handy, o la sua ragazza, lo uccidessero colpendolo alla schiena. «Wilcox, ferito dal poliziotto, non è morto immediatamente», proseguì Budd passandosi una mano tra i capelli, cosa che la semplice presenza di Stillwell ti faceva venir voglia di fare. «È sceso e ha strisciato fino all'altra autopattuglia. Qualcuno - gli investigatori ritengono che si tratti di Handy l'ha finito con un colpo di pistola alla testa.» Nella sua mente, Potter udì: Uccidi quando la gente non fa quello che dovrebbe fare. Uccidi i deboli perché altrimenti ti trascinano giù insieme a loro. Che cosa c'è di sbagliato, in questo? «E la vera detective Foster?» domandò Potter. «È stata trovata accanto a una macchina rubata a circa due chilometri da casa sua. Suo marito ha detto che era uscita di casa circa dieci minuti dopo aver ricevuto la telefonata dal luogo del sequestro. Gli investigatori pensano che la Gunder l'abbia fermata vicino all'autostrada, le abbia preso l'uniforme, l'abbia uccisa e abbia rubato l'auto. Gli accertamenti preliminari della scientifica hanno rivelato che alcune delle impronte erano le sue.»
«Che altro, Charlie? Dillo.» Potter vide l'espressione della sua faccia. Budd esitò. «Dopo che la vera Sharon Foster si è spogliata, restando in mutande e reggiseno, la ragazza di Handy l'ha imbavagliata e ammanettata. Poi ha adoperato un coltello. Non era necessario. Ma l'ha fatto ugualmente. E quello che ha fatto non è stato troppo piacevole. La donna ci ha messo un bel po' per morire.» «E poi è venuta in macchina fino al mattatoio», sbottò rabbiosamente Potter, «e ha ballato un valzer con lui sotto i nostri occhi.» «Dove sono diretti?» domandò LeBow. «Ancora a sud?» «Nessuno ne ha la minima idea», rispose Budd. «Sono in una macchina della polizia», osservò Stillwell. «Non dovrebbe essere difficile trovarli.» «Abbiamo fatto uscire degli elicotteri in ricognizione», replicò Charlie Budd. «Sei.» «Oh, ha già cambiato macchina», borbottò Potter. «Concentratevi su qualsiasi rapporto di furto d'auto nel Kansas centromeridionale. Qualsiasi cosa.» «Il blocco motore dell'autopattuglia tratterrà il calore per circa tre ore», disse Tobe. «Gli elicotteri hanno dei teleobiettivi all'infrarosso?» «Tre sì, gli altri no», rispose Budd. «Che strada li porterebbe il più lontano possibile in questo lasso di tempo?» domandò LeBow. «Handy saprà che gli saremo addosso molto presto.» Nell'ufficio altrimenti scarno ed efficiente, cinque piante d'appartamento rossastre erano sistemate su una credenza: la vita vegetale dall'aria più sana che Potter avesse mai visto in un ambiente chiuso. Stillwell era di fronte a una mappa delle quattro contee. «Potrebbe tagliare sulla 35 - quello è lo svincolo - che lo porterebbe verso nordest. O la 81 per poi immettersi sulla I-70.» «E se invece», domandò Budd, «prendesse la 81 attraversando tutto il Nebraska e poi tagliasse sulla 29?» «Sì», borbottò lo sceriffo. «È lunga, ma alla fine lo porterebbe a Winnipeg.» «Quella storia del Canada era soltanto una cortina fumogena?» domandò Tobe. «Non lo so», rispose Potter, sentendosi scaraventato in una partita a scacchi con un uomo che poteva essere un grande maestro o che poteva anche non conoscere i movimenti fondamentali dei pezzi. Si alzò e si sti-
racchiò, provando una fitta di dolore alla schiena. «L'unico modo che abbiamo di trovarlo, a parte la fortuna, è immaginare come diavolo ci è riuscito. Henry? Qual è stata la cronologia?» LeBow premette qualche tasto e recitò: «Alle ventuno e trenta il capitano Budd ha detto di aver ricevuto una telefonata dal suo comandante di divisione su una donna detective che aveva convinto Handy ad arrendersi diversi anni fa. La donna era ubicata a McPherson, nel Kansas. Il comandante si chiedeva se dovesse mandare la donna sul luogo dove i sequestratori si erano barricati. Il capitano Budd ha conferito con l'agente Potter e alla fine è stata presa la decisione di chiedere alla detective di venire sul posto. «Alle ventuno e quarantanove una donna presentatasi come detective Sharon Foster, con indosso un'uniforme della polizia di stato del Kansas, è arrivata sul luogo delle operazioni e ha iniziato le trattative con il soggetto Handy». «Charlie», lo interruppe Potter, «chi era il comandante?» «Ted Franklin della divisione B.» Aveva già il telefono in mano e stava componendo il numero. «Il comandante Franklin, per favore... si tratta di un'emergenza... Ted? Sono Charlie Budd... no, nessuna notizia. Sto per metterti in viva voce.» Si udì un clic e poi il fruscio dell'elettricità statica riempì la stanza. «Ted, qui con me c'è metà FBI. Il responsabile è l'agente Arthur Potter.» «Salve, signori», salutò Franklin. «Buonasera, comandante», ricambiò Potter. «Stiamo cercando di capire che cosa è successo qui. Ricorda di aver telefonato questa sera per parlarci di Sharon Foster?» «Mi sto tormentando il cervello, signore, cercando di ricordare. Un poliziotto. Francamente, non stavo ascoltando molto chi era, quanto piuttosto che cosa mi stava dicendo.» «Un uomo, ha detto?» «Sissignore. Era un uomo.» «Ed è stato lui a parlarle della detective Foster?» «Esattamente.» «Lei la conosceva già?» «No, ma avevo sentito parlare di lei. Era una in gamba. Un ottimo curriculum come negoziatore.» Potter domandò: «E allora le ha telefonato dopo aver parlato con questo poliziotto».
«No, prima ho telefonato a Charlie giù a Crow Ridge per vedere se a voi andava bene. Poi ho telefonato alla Foster.» «Quindi», si intromise Stillwell, «qualcuno ha intercettato la sua telefonata alla detective Foster e l'ha raggiunta proprio mentre stava uscendo di casa.» «Ma come?» chiese Budd. «Suo marito ha detto che è uscita dieci minuti dopo aver ricevuto la telefonata. Come può aver fatto la ragazza di Handy ad arrivare lì in tempo?» Potter si rivolse a Tobe: «Non c'è modo di controllare la presenza di cimici?» «Comandante Franklin», domandò Tobe. «Il suo ufficio è stato controllato di recente?» Una risatina. «No, certo che no. Almeno non per il tipo di cimici di cui state parlando.» Tobe rispose a Potter: «Potremmo farlo, per vedere se ce n'è qualcuna. Ma ci dirà soltanto se c'è o no. Non potremo sapere chi ha ricevuto la trasmissione e quando». Ma no, stava pensando Potter, aveva ragione Budd. Semplicemente non c'era stato abbastanza tempo perché Priscilla Gunder raggiungesse la casa dei Foster dopo la telefonata di Franklin. LeBow parlò per tutti. «Questa storia non mi suona come una faccenda di microspie. E, a parte questo, chi poteva mai sapere di dover mettere la cimice proprio nell'ufficio del comandante Franklin?» «A me suona», rifletté Stillwell, «come se fosse stato tutto pianificato in anticipo.» Potter era d'accordo. «Il poliziotto che le ha telefonato, comandante Franklin, non era affatto un poliziotto. Era un complice di Handy. E probabilmente la ragazza di Lou stava aspettando davanti alla casa dei Foster mentre il compare - di chiunque si tratti - faceva quella telefonata.» «Questo vuol dire che qualcuno doveva conoscere l'esistenza della vera Sharon Foster, tanto per cominciare», suggerì Budd. «E che Handy si era arreso a lei in passato. Chi poteva essere a conoscenza di queste cose?» Ci fu un lunghissimo momento di silenzio mentre gli uomini presenti nella stanza pensavano a tutti i modi possibili per scoprire le passate trattative condotte dalla polizia: notiziari, database dei computer, fonti interne al dipartimento. LeBow e Budd ci arrivarono per primi. «Handy!» Potter stesso ci era appena arrivato. Annuì. «Chi poteva saperlo meglio
dello stesso Handy? Ripensiamo a ciò che è accaduto. È intrappolato nel mattatoio. Sospetta fortemente che non riuscirà a ottenere il suo elicottero e che, se ci riesce, lo seguiranno fino al centro della terra - con o senza il suo corridoio aereo con priorità M-4 - e così parla con il suo complice di Sharon Foster. Il complice chiama la sua ragazza e progettano il salvataggio. Ma Handy non avrebbe potuto telefonare con il cellulare. L'avremmo sentito.» Potter chiuse gli occhi e ripensò agli eventi della sera appena trascorsa. «Tobe, quelle trasmissioni in codice di cui parlavi... Pensavamo che fossero Tremain e l'SSO del Kansas. Potrebbero essere state qualcos'altro, invece?» Il giovane agente si strofinò il lobo perforato e poi tolse diversi dischetti da una busta di plastica. Li porse a LeBow, che ne inserì uno nel suo computer portatile. Tobe si sporse in avanti e premette una serie di tasti. Sullo schermo comparve una sussultante, lenta animazione grafica di due onde sinusoidali che si sovrapponevano l'una all'altra. «Ce ne sono due!» annunciò Tobe, i suoi occhi di scienziato che brillavano per la scoperta. «Due frequenze diverse.» Sollevò lo sguardo. «Entrambe assegnate alla polizia. E codificate con retro-segnali.» «Sono entrambe di Tremain?» si domandò Potter a voce alta. Ted Frankìin chiese quali fossero le frequenze. «Quattrocentotrentasette megahertz e quattrocentottanta punto quattro», rispose Tobe. «No», disse Ted Frankìin. «La prima è assegnata all'SSO. Il secondo non è un segnale della polizia di stato. Non so di chi sia.» «Quindi Handy aveva un secondo telefono nel mattatoio?» s'interrogò Potter. «Non un telefono», specificò Tobe. «Doveva essere una radio. E la quattro-ottanta viene spesso riservata alle operazioni federali, Arthur.» «Ne sei sicuro?» Potter ci pensò sopra e poi esclamò: «Ma sul luogo non è stata trovata una radio, non è vero?» Budd frugò in una valigetta nera. Trovò il foglio che elencava l'inventario delle prove rinvenute sul luogo del crimine e la catena iniziale di custodia. «Niente radio.» «Potrebbe averla nascosta, suppongo. Ci saranno un milione di nicchie e di buchi, in un posto come quello.» Potter pensò a qualcos'altro. «Non c'è alcun modo di rintracciare le trasmissioni?» «Non ora. È necessario effettuare una triangolazione sul segnale in tempo reale.» Tobe lo disse come se Potter gli avesse domandato se poteva
nevicare in luglio. «Però lei, comandante Franklin, ha ricevuto una telefonata, vero? Da questo presunto poliziotto? Non era una trasmissione radio?» «No, era una linea di terra. E non era nemmeno inoltrata da una chiamata via radio. Si riesce sempre a capirlo.» Potter tacque ed esaminò una delle piante fiorite. Era una begonia? Una fucsia? Marian aveva la passione del giardinaggio. «Quindi Handy ha chiamato via radio Mister X, che poi ha telefonato al comandante Franklin. A quel punto X ha telefonato alla ragazza di Handy e le ha dato il via libera per intercettare Sharon Foster. Tobe?» Gli occhi del giovane agente mandarono un lampo di comprensione in risposta. Schioccò le dita e balzò dalla sedia. «Ci sei, Arthur! Registrazione di tutte le telefonate arrivate al suo ufficio, comandante Franklin. Ha qualche obiezione?» «Diavolo, no. Voglio prendere questo bastardo almeno quanto voi.» «Ha una linea diretta?» domandò Tobe. «Sì, ce l'ho, ma metà delle telefonate che ricevo passano dal centralino. E quando rispondo non so da dove vengono.» «Le faremo tutte», replicò pazientemente Tobe, per nulla turbato. Chi è il complice di Handy? si domandò Potter. «Henry?» chiese Tobe. «Un mandato, per favore.» LeBow ne fece uscire uno collegandosi alla stampante di Stillwell e lo porse a Potter, poi richiamò sullo schermo del suo computer l'Archivio giudiziario federale. Potter fece una telefonata a un giudice del tribunale distrettuale del Kansas. Gli spiegò i motivi della richiesta. A casa a quell'ora, il giudice acconsentì a firmare il mandato sulle basi delle prove presentate da Potter; stava guardando la CNN e sapeva tutto dell'incidente. In qualità di membro delle avvocature di Washington e dell'Illinois, Potter firmò la richiesta di mandato. Tobe la inviò via fax al giudice che firmò il mandato e lo rispedì immediatamente. Poi LeBow fece scorrere l'Archivio delle aziende della Standard & Poor sul suo computer e trovò il nome del direttore della Bell Company del Midwest. Inviarono il mandato a casa dell'avvocato via fax. Una telefonata e, cinque minuti più tardi, i file richiesti vennero scaricati ingloriosamente nel computer di LeBow. «Allora, comandante Franklin», annunciò LeBow controllando lo schermo. «A quanto pare abbiamo settantasette telefonate in arrivo al suo quartier generale oggi, trentasei sulla linea privata.» «È un uomo molto occupato», commentò Potter.
«Eh, si. La mia famiglia può testimoniarlo.» «A che ora le è arrivata la telefonata in questione?» «Intorno alle nove e mezzo.» «Fai un intervallo di venti minuti.» Rumore di tasti. «Siamo arrivati a un totale di circa sedici», disse LeBow. «Si comincia a poterci lavorare.» «Se Handy avesse avuto una radio», domandò Budd, «che portata avrebbe avuto?» «Ottima domanda, Charlie», si complimentò Tobe. «Ridurrà ulteriormente lo spazio di ricerca. Se si tratta di una radio standard della polizia, direi circa cinque chilometri. Il nostro Mister X doveva essere dannatamente vicino al mattatoio.» Potter si chinò a guardare lo schermo. «Non conosco queste città, a parte Crow Ridge, e non c'è alcuna telefonata proveniente da qui diretta a lei, comandante. Charlie, da' un'occhiata. Dicci quelle che sono vicine.» «Hysford è a circa trenta chilometri. Billings è troppo lontana.» «Quella è la mia signora», spiegò il comandante Franklin. «E questa? Una telefonata di tre minuti da Towsend al suo ufficio alle nove e ventisei. Ha parlato con quel finto poliziotto per circa tre minuti, comandante Franklin?» «Circa, sissignore.» «Dove si trova Towsend?» «Confina con Crow Ridge», disse Budd. «È una città abbastanza grande.» Poi, rivolto a Tobe: «Puoi fornirci l'indirizzo?» I file scaricati dalla compagnia dei telefoni non includevano gli indirizzi, ma una semplice telefonata al centro computerizzato della Bell Company indicò una cabina pubblica. «All'angolo tra la Statale 236 e la Roosevelt Highway.» «È l'incrocio principale», disse Stillwell, scoraggiato. «Ci sono ristoranti, alberghi, stazioni di servizio. E la Roosevelt è il raccordo per due autostrade interstatali. Potrebbe essere stato chiunque, e a quest'ora potrebbe essere chissà dove.» Gli occhi di Potter erano fissi sulle cinque piante fiorite. Sollevò di scatto la testa e si allungò verso il telefono. Ma fu un gesto strano: si fermò all'improvviso e parve momentaneamente imbarazzato, come se avesse appena commesso una gaffe clamorosa a una cena formale. La sua mano scivolò via dalla cornetta.
«Henry, Tobe, venite con me. Anche tu, Charlie. Dean, ti spiacerebbe restare qui a badare al forte?» «Ci puoi scommettere, Arthur.» «Dove stiamo andando?» domandò Charlie. «A parlare con qualcuno che conosce Handy meglio di noi.» 2,00 Si chiedeva come avrebbero fatto ad annunciare la loro presenza. C'era un pulsante sullo stipite della porta principale, proprio come su qualsiasi altra. Potter guardò Budd, che si strinse nelle spalle e lo premette. «Credo di aver sentito qualcosa dentro. Un campanello. È possibile?» Anche Potter aveva sentito qualcosa. Ma aveva anche notato una luce rossa lampeggiare all'interno della casa, dietro una tendina di pizzo. Non ci fu alcuna risposta. Dov'era? Potter si scoprì sul punto di chiamare a voce alta: «Melanie?» E, quando si rese conto che sarebbe stato inutile, alzò il pugno per bussare. Scosse la testa a quel gesto e abbassò la mano. Vedendo le luci accese in una casa senza vita, avvertì una fitta di disagio e si scostò il lembo della giacca, esponendo la fondina nella quale era posata la Glock. LeBow si accorse del gesto ma non disse nulla. «Aspettate qui», disse Potter ai tre uomini. Si incamminò lentamente lungo la veranda buia della casa in stile vittoriano, guardando dalle finestre. All'improvviso si fermò, vedendo due piedi scalzi, due gambe aperte su un divano, immobili. Ora allarmato, quasi in preda al panico, si affrettò a compiere il perimetro della veranda. Ma non riuscì a vederla - soltanto le sue gambe immobili. Batté forte al vetro, gridando il suo nome. Niente. Dovrebbe essere in grado di avvertire la vibrazione, pensò Potter. E poi c'era la luce rossa lampeggiante - il «campanello» - sopra l'ingresso, che pulsava in piena vista della forma adagiata sul divano. «Melanie!» Estrasse la pistola. Tentò di aprire la finestra. Era bloccata. Fallo. Spaccò il vetro con un gomito, mandando una doccia di schegge a cadere sul parquet all'interno. Allungò una mano oltre l'intelaiatura, sbloccò la
finestra e cominciò a entrare. Si immobilizzò quando vide la sagoma di Melanie sollevarsi a sedere, terrorizzata, fissando l'intruso che entrava dalla sua finestra. Lei sbatté gli occhi per liberarsi dal sonno e gemette. Potter sollevò una mano verso di lei come per arrendersi, un'espressione di orrore dipinta sul volto al pensiero di come doveva averla spaventata. Ciononostante, era più che altro perplesso: perché mai, si domandò, aveva in testa un paio di cuffie stereo? Melanie Charrol aprì la porta e fece cenno ai suoi visitatori di entrare in casa. La prima cosa che Arthur Potter vide fu un grande acquerello di un violino, circondato da gruppi di note surreali dipinte nei colori dell'arcobaleno. «Mi dispiace per la finestra», compitò lentamente. «Potrai detrarla dalle tasse.» Lei sorrise. «Buonasera, signora», disse Charlie Budd. E Potter la presentò a Tobe Geller e a Henry LeBow. Melanie guardò fuori, osservando la macchina parcheggiata due porte più in là e le due persone in piedi dietro la siepe che guardavano la casa. Potter vide la sua espressione e le disse: «Sono nostri». Melanie si accigliò. «Due poliziotti», le spiegò lui. «Li ho mandati qui qualche ora fa per tenerti sott'occhio.» Melanie scosse la testa: Perché? Potter esitò. «Entriamo.» Con i lampeggianti in funzione, un'autopattuglia della polizia di Hebron accostò al vialetto. Angeline Scapello, con l'aria esausta anche se con il viso non più sporco di fuliggine, scese dall'auto e salì di corsa i quattro gradini. Salutò tutti con un cenno del capo e, come gli altri suoi compagni della squadra, non stava sorridendo. La casa di Melanie aveva un aspetto accogliente. Spesse tende alle finestre. Nell'aria, un leggero odore di incenso. Pungente. Vecchie litografie, la maggior parte delle quali ritraeva antichi compositori, erano appese alle pareti rivestite di carta da parati color oro e verde scuro. La stampa più grande era di Éeethoven. La stanza era piena di tavoli antichi e di splendidi vasi Art Nouveau. Con un vago imbarazzo, Potter pensò al suo appartamento di Georgetown, sciatto e trasandato. Aveva smesso di badarci tredici anni prima. Melanie indossava un paio di blue jeans e un maglione nero di cachemi-
re. I suoi capelli non erano più raccolti in una goffa treccia, ma le ricadevano liberi sulle spalle. I lividi e i graffi sulla faccia e sulle mani spiccavano con violenza, così come le macchie brunastre del Betadine. Potter si voltò verso di lei, tentando di pensare a parole che richiedessero un chiaro movimento delle labbra. «Lou Handy è fuggito.» Inizialmente Melanie non capì. Quando Potter glielo ripeté, spalancò gli occhi per l'orrore. Cominciò a gesticolare, poi si fermò, frustrata, e afferrò un mazzetto di fogli di carta. LeBow le sfiorò un braccio. «Sei capace di battere a macchina?» disse miniando il gesto. Melanie annuì. LeBow aprì i suoi due computer portatili, lanciò i wordprocessor, li collegò tramite un cavo seriale e li mise uno accanto all'altro. Potter si sedette davanti a uno, Melanie davanti all'altro. Dov'è andato? digitò lei. Non lo sappiamo. È per questo che siamo venuti da te. Melanie annuì lentamente. Ha ucciso qualcuno, fuggendo? Scriveva usando le dieci dita, e mentre poneva la domanda tenne gli occhi fissi su Potter. Potter annuì. Wilcox - quello che chiamavi Ermellino - è rimasto ucciso. Anche dei poliziotti. Lei annuì di nuovo, scura in volto, pensando alle implicazioni di ciò che le era appena stato comunicato. Potter digitò: Devo chiederti di fare qualcosa che non avrai voglia di fare. Melanie lesse il suo messaggio e scrisse: Il peggio l'ho già passato. Le sue mani danzavano invisibili sui tasti, senza commettere il minimo errore. Dio compensa. Voglio che torni al mattatoio. Con la mente. Le dita di Melanie rimasero sospese sopra la tastiera. Non scrisse nulla, limitandosi ad annuire. Non riusciamo a capire alcune cose del sequestro. Se tu potessi aiutarci, credo che riusciremmo a capire dov'è andato. «Henry», disse Potter alzandosi e cominciando a camminare avanti e indietro. LeBow e Tobe si scambiarono un'occhiata. «Richiama il suo profilo e la cronologia. Che cosa sappiamo di lui?» LeBow cominciò a leggere, ma Potter lo fermò: «No, facciamo soltanto congetture». «È un tipo furbo», disse Budd. «Sembra un sempliciotto, ma è molto a-
stuto.» Potter aggiunse: Gioca a fare l'idiota ma credo che sia una recita. Melanie digitò: Amorale. Sì. Pericoloso, propose Budd. Andiamo oltre. È malvagio, scrisse Melanie. Il male personificato. Ma quale tipo di male? Un istante di silenzio. Poi Angie digitò: fredda morte. Potter annuì e disse a voce alta: «Vero. Lou Handy è il male freddo. Non il male passionale. Teniamolo bene a mente». Angie continuò. Non è un sadico. Perché allora sarebbe un male passionale. Non prova nulla nei confronti del dolore che provoca. Se ha bisogno della morte o del dolore per perseguire i suoi scopi, provocherà morte o dolore. Come accecare gli ostaggi - per lui era semplicemente un altro mezzo per ottenere ciò che voleva. Potter si sporse in avanti e digitò: Quindi, è freddo e calcolatore. «E allora?» chiese Budd. Potter scosse la testa. Sì, è calcolatore, ma hai ragione, Charlie: questo che cosa significa? Gli uomini smisero di parlare mentre le dita di Melanie danzavano sulla tastiera. Potter le girò intorno e le rimase vicino mentre digitava. Le sfiorò una spalla con la mano e gli parve che lei si fosse appoggiata alle sue dita. Melanie scrisse: Tutto ciò che fa ha uno scopo. È una di quelle rare persone che non sono guidate dalla vita; è lui a guidarla. Angie digitò: Controllo, controllo, controllo. Potter scoprì la propria mano appoggiata sulla spalla di Melanie. La ragazza abbassò la guancia per sfiorarla. Forse era soltanto un caso che avesse voltato la testa. Forse no. «Controllo e fermezza nei propri scopi», disse Potter. «Sì, ci siamo. Digita quello che sto per dire in modo che lei possa vederlo, Henry. Tutto quello che Handy ha fatto oggi aveva uno scopo preciso. Anche se è sembrato casuale. L'omicidio di Susan era per chiarire che faceva sul serio. Ha richiesto un elicottero a otto posti, ma non aveva alcun problema a rilasciare la maggior parte degli ostaggi. Perché? Per tenerci occupati. Per allungare il tempo a sua disposizione e dare al suo complice e alla sua ragazza la possibilità di neutralizzare la vera Sharon Poster. Ha portato con sé un televisore, una radio criptata e le armi.»
Angie si chinò per digitare: E allora qual è il suo scopo? «Be', la fuga», rise Budd. «Quale altro potrebbe essere?» Si sporse in avanti e batté con due dita: Fuggire. No!! digitò Melanie. «Esatto!» gridò Potter, e indicò la ragazza, annuendo vigorosamente. «Fuggire non era affatto la sua priorità. E come avrebbe potuto esserlo? Praticamente si è messo in trappola da solo. C'era soltanto un poliziotto a seguirlo, dopo l'incidente con la Cadillac. Loro tre avrebbero potuto tendergli un'imboscata, prendergli la macchina e fuggire. Perché mai qualcuno si metterebbe in trappola da solo?» «Diavolo», disse Budd, «un coniglio spaventato si ficcherebbe nella tana di una volpe senza nemmeno pensarci.» Doverosamente, batté la sua considerazione sul computer. Ma lui pensa eccome, scrisse Melanie. Non possiamo dimenticarlo. E non è per niente spaventato. Per nulla spaventato, digitò Angie. Ricordatevi l'analisi dello stress vocale. Potter annuì ancora a Melanie, sorridendole e stringendole nuovamente la spalla. Calmo come se stesse ordinando una tazza di caffè al bar. Melanie scrisse: Io l'ho chiamato Bruto. Ma in realtà è simile a un furetto. Budd proseguì: Be', se è un furetto, allora si rintanerebbe soltanto se sapesse di non essere affatto in trappola. Soltanto se avesse una via di fuga a disposizione. Melanie digitò: Quando è entrato nel mattatoio, Orso ha detto che non c'erano vie d'uscita. E Bruto gli ha risposto: «Non ha importanza. Non ha la minima importanza». Potter annuì, riflettendo a voce alta mentre LeBow continuava a digitare le sue parole: «Avrebbe potuto fuggire, ma no, ha rischiato una deviazione verso il mattatoio e si è messo in trappola. Ma non era poi un grande rischio, perché sapeva di poter uscire. Aveva le armi e aveva una radio per chiamare il suo complice ed escogitare un piano di fuga. Forse aveva già pensato di sostituire la sua ragazza alla detective Foster». Poi batté: Melanie, raccontaci esattamente ciò che è accaduto quando vi hanno preso. Abbiamo visto l'incidente. Lui stava uccidendo quelle persone. Senza fretta. Era sicuro di sé? Molto. Si è preso tutto il tempo che gli serviva, digitò lei, scura in volto.
Potter dispiegò una mappa. Su che strada eravate? Non conosco le strade, scrisse Melanie. Dopo una stazione radio, una fattoria con molte mucche. Rimase per un attimo perplessa, poi tracciò la strada sulla cartina. Forse è questa. Il carcere è centocinquanta chilometri a sud del mattatoio, più o meno, scrisse Potter. Loro tre si sono spinti a nord fino a questo punto, hanno avuto l'incidente con la Cadillac in quest'altro punto, hanno preso l'autobus e hanno girato intorno fino a qui... Tracciò una rotta che rivelava come Handy avesse oltrepassato di diversi chilometri il mattatoio, prima di tornare indietro. Melanie digitò: No. Siamo andati direttamente al mattatoio. Questo è un fatto che al momento mi è sembrato strano. Sembrava che Bruto sapesse dove si trovava il mattatoio. Ma, se ci è andato direttamente, batté Potter, quando avete oltrepassato l'aeroporto? Non ci siamo passati, spiegò Melanie. Quindi Handy sapeva dell'aeroporto già da prima. Quando mi ha chiesto l'elicottero, ha parlato di un aeroporto a soltanto cinque o sei chilometri di distanza lungo la strada. Come faceva a saperlo? Budd scrisse: Aveva già predisposto le cose per fuggire dal mattatoio in elicottero. Ma, digitò LeBow, rapidamente come se stesse parlando, se era soltanto a qualche chilometro di distanza e se c'era un aereo o un elicottero ad aspettarlo, perché andare nel mattatoio? «Perché?» borbottò Potter. «Henry, dimmi che cosa sappiamo. Cominciamo con ciò che aveva con sé.» Hai con te una chiave, una spada magica, cinque pietre e un corvo in gabbia. È entrato nel mattatoio con gli ostaggi, le armi, una tanica di gasolio, munizioni, un televisore, la radio, un set di utensili... «Gli utensili, già», disse Potter mentre LeBow digitava. Si voltò verso Melanie. «L'hai visto adoperarli?» No, rispose lei. Ma sono rimasta nella stanza delle uccisioni per la maggior parte del tempo. Verso la fine ricordo di averli visti aggirarsi per lo stanzone guardando attentamente i macchinari e gli infissi. Credevo che stessero dando un'occhiata nostalgica al posto, ma forse stavano cercando qualcosa. Potter schioccò le dita. «Dean ci ha detto qualcosa di simile.»
LeBow scorse rapidamente la cronologia dell'incidente. Lesse a voce alta: «Diciannove e cinquantasei. Lo sceriffo Stillwell ha riferito che un uomo ai suoi ordini ha osservato Handy e Wilcox perlustrare la fabbrica, provando le porte e gli infissi. Motivo sconosciuto». «D'accordo. Bene. Mettiamo da parte gli utensili per un attimo. Quelle sono le cose che aveva con sé quando è entrato. Noi che cosa gli abbiamo dato?» «Soltanto il cibo e la birra», rispose Budd. «Oh, e i soldi.» «I soldi!» gridò Potter. «Soldi che non aveva mai chiesto fino a quel momento.» Angie digitò: E non ha nemmeno tentato di trattare sulla cifra. Si è accordato subito per cinquantamila dollari. Perché? C'è soltanto un motivo per cui un uomo come lui può non volere dei soldi, digitò LeBow. Quando ne ha più di quanti gliene servono. Potter stava annuendo, eccitato. Ci sono dei soldi nascosti nell'edificio. Faceva parte del suo piano fin dall'inizio: fermarsi al mattatoio a prenderli. Ecco perché aveva gli attrezzi con sé. Per tirare fuori il denaro da dove era nascosto, riuscì faticosamente a digitare Charlie Budd. Potter annuì. «Da dove venivano quei soldi?» si domandò Tobe. «È un rapinatore di banche», disse seccamente Budd. «Questa è una possibilità.» «Henry», ordinò Potter, «immettiti nella Lexis/Nexis e leggiamo di quella sua ultima rapina. Quella con l'incendio doloso.» Cinque minuti dopo LeBow era collegato con la Mead Data. Lesse gli articoli di giornale relativi all'episodio e riassunse: «Handy è stato trovato con ventimila dollari rubati dalla Farmers & Merchants bruciata a Wichita». «Non aveva mai bruciato nient'altro, prima di quella volta?» LeBow scorse rapidamente gli articoli e il profilo di sedici pagine che lui stesso aveva compilato su Lou Handy. «Nessun incendio doloso in precedenza.» E allora perché quell'incendio? Ha sempre uno scopo, ricordò loro Angie. Melanie annuì enfaticamente, poi rabbrividì e chiuse gli occhi. Potter si domandò quale ricordo terribile si fosse insinuato nei suoi pensieri. L'agente e Charlie Budd si guardarono, entrambi accigliati. Poi: «Sì, Charlie. È giusto». Potter si abbassò sulla tastiera del computer. Non era affatto
andato lì per rapinare la banca. C'era andato per bruciarla. LeBow stava leggendo il profilo. «E ha sparato al suo complice alla schiena quando sono stati intrappolati dalla polizia. Forse perché così nessuno avrebbe scoperto che cosa fosse andato a farci in realtà.» Ma perché l'ha fatto? digitò Budd. Qualcuno l'ha assoldato? Fu Potter a porre la domanda. LeBow annuì. «Naturalmente.» «E, chiunque sia stato», disse Potter, «lo stava pagando con un sacco di soldi. Molto più di cinquantamila dollari. Ecco perché non ha pensato di chiederci del denaro. Era già un uomo ricco. Henry, entra nel database della Corporation Trust e vediamo i documenti societari della banca.» L'agente informativo si scollegò dalla Mead e, nel giro di qualche minuto, stava controllando i dati della banca di Wichita. «È una società di poche persone, quindi le informazioni accessibili al pubblico sono limitate. Ma sappiamo che i direttori sono anche i consiglieri. Eccoli: Clifton Burbank, Stanley L. Poole, Cynthia G. Grolsch e Herman Gallagher. I codici di avviamento postale sono simili, tutti nelle vicinanze di Wichita. Burbank e Gallagher vivono in città, Poole ad Augusta e la signora Grolsch a Derby.» Potter non riconobbe nessuno dei nomi, ma tutti potevano avere un collegamento con Handy. Come, per esempio, un cassiere disonesto, un ex impiegato che era stato licenziato, l'amante respinta di uno dei direttori. Ma Arthur Potter preferiva comunque avere troppe possibilità, piuttosto che niente del tutto. «Charlie, quali alberghi ci sono vicino a quel telefono pubblico da cui Mister X ha chiamato Ted Franklin? A Towsend.» «Diavolo, ce ne sono parecchi. Almeno quattro o cinque. L'Holiday Inn, un Ramada. Credo un Hilton e qualche albergo locale: il Towsend Motor Lodge e forse uno o due altri.» Potter disse a Tobe di cominciare a telefonare. «Scopri se uno di quei consiglieri era prenotato in uno di quegli alberghi oggi, o se era prenotato qualcuno proveniente da una di quelle città.» In cinque minuti ebbero una risposta. Tobe schioccò le dita. Tutti, tranne Melanie, si voltarono a guardarlo. «Qualcuno aveva una prenotazione da Derby, la stessa città di Cynthia Grolsch.» «È una coincidenza troppo grossa», borbottò Potter, prendendo il telefono. Si identificò, parlò con il portiere per qualche secondo. Alla fine scosse cupamente la testa e domandò: «In quale stanza?» Scrisse su un foglietto: Holiday Inn, stanza 611. Poi disse al portiere: «No. E non faccia parola di
questa telefonata». Riappese e batté un dito sul foglietto. «Può essere il nostro giuda. Andiamo a fare quattro chiacchiere con loro, Charlie.» Melanie guardò il foglietto di carta. Il suo viso si immobilizzò. Chi? Chi è? I suoi occhi fiammeggiavano. Si alzò in piedi di scatto e prese un giubbotto di pelle da un attaccapanni. «Lascia che se la sbrighino loro», le disse Angie. Melanie si voltò a guardare Potter con occhi di fuoco. Digitò: Chi è? «Per favore.» Potter la prese per le spalle. «Non voglio che ti succeda niente.» Lentamente, Melanie annuì, si tolse il giubbotto e se lo buttò sopra una spalla. Sembrava un aviatore degli anni Trenta. «Henry, Angie, Tobe», ordinò Potter, «voi restate qui. Handy sa di Melanie. Potrebbe tornare.» Poi disse alla ragazza: «Tornerò presto». Quindi raggiunse rapidamente la porta. «Andiamo, Charlie.» Dopo che se ne furono andati, Melanie sorrise agli agenti rimasti. Digitò: Tè? Caffè? «Non per me», rispose Tobe. «No, grazie. Vuoi giocare al solitario?» disse LeBow, facendo partire il gioco sul computer. Melanie scosse la testa. Andrò a farmi una doccia. È stata una giornata lunga e difficile. «Mi sembra giusto.» Melanie scomparve e, pochi minuti dopo, udirono il rumore dell'acqua che scrosciava nella stanza da bagno. Angie cominciò a lavorare al suo rapporto, mentre Tobe richiamava sul suo computer portatile Doom II e iniziava a giocare. Quindici minuti più tardi era stato fatto a pezzi dagli alieni. Si alzò in piedi e si stiracchiò. Guardò alle spalle di LeBow, gli diede un suggerimento sulla regina di cuori che non venne accolto con favore e poi cominciò a passeggiare avanti e indietro nel soggiorno. Guardò il tavolino, dove aveva lasciato le chiavi dell'automobile messagli a disposizione dal governo. Non c'erano più. Andò alla finestra e guardò fuori. La strada era vuota. Per quale motivo, si chiese, Potter e Budd hanno preso due macchine separate per andare all'Holiday Inn? Ma la sua sete di sangue era insaziabile. Tobe smise di preoccuparsi di una questione tanto banale e tornò al suo computer, preparandosi a uscire facendosi largo a colpi di fucile dalla fortezza di Doom.
2,35 All'Holiday Inn c'era stata la serata hawaiana. Gli ukulele suonavano dagli amplificatori e al collo dei portieri notturni erano appese ghirlande di fiori di plastica. L'agente Arthur Potter e il capitano Charles Budd passarono tra due finti palmizi e presero l'ascensore per il sesto piano. Tanto per cambiare, questa volta era Budd a sembrare perfettamente sicuro di sé e Potter quello a disagio. L'ultima irruzione in cui l'agente dell'FBI era stato coinvolto di persona era stato l'arresto di un malvivente che indossava un completo turchese e una camicia a fiori d'argento di poliestere, che andavano per la maggiore vent'anni prima. Ricordava soltanto che non avrebbe dovuto fermarsi di fronte alla porta. E che altro? Si rassicurò guardando Budd, che aveva una lucida custodia di cuoio per le manette appesa alla cintura. Potter non aveva mai ammanettato un sospetto - soltanto volontari durante le esercitazioni nel cortile interno di Quantico. «Delegherò a te questo compito, Charlie.» Budd inarcò le sopracciglia, sorpreso. «Be', ma certamente, Arthur.» «Ma ti guarderò le spalle.» «Ah. Benissimo.» I due uomini estrassero le pistole dalle fondine. Potter mise di nuovo il colpo in canna - per la seconda volta nel giro di poche ore e a tre anni dall'ultima operazione in cui un proiettile era rimasto seriamente nella canna della sua pistola. Si fermarono davanti alla stanza 611 e si scambiarono un'occhiata. Il negoziatore annuì. Budd bussò amichevolmente. Servizio in camera. «Sì?» disse la voce burbera. «Sì? Chi è?» «Sono Charlie Budd. Può aprirmi la porta per un minuto? Ho appena scoperto qualcosa di interessante.» «Charlie? Che cosa sta succedendo?» Il chiavistello si aprì, una serratura scattò, e quando Roland Marks aprì la porta si ritrovò a fissare le canne di due identiche pistole automatiche: una ferma, l'altra che tremava leggermente, ma entrambe senza la sicura. «Cynthia è nel consiglio della banca, certo. È una carica soltanto nominale. In realtà sono io quello che muove le fila. Abbiamo tenuto il suo nome da ragazza. Non è colpevole di nulla.»
Il viceprocuratore generale poteva protestare finché voleva, ma sarebbe stato compito della giuria decidere il destino di sua moglie. Nessun inganno. Ora Marks stava interpretando la parte dell'uomo retto. I suoi occhi erano rossi e umidi e Potter, non provando per lui altro che disprezzo, non ebbe alcuna difficoltà a sostenere il suo sguardo. L'avvocato si era sentito leggere i propri diritti. Era tutto finito, e lo sapeva. Quindi, decise di collaborare. La sua dichiarazione venne incisa su nastro con lo stesso registratore che aveva consegnato a Budd il pomeriggio precedente. «E che cosa faceva, esattamente, con la banca?» domandò Potter. «Concedevo pessimi prestiti a me stesso. Be', a persone e a compagnie fittizie. Compilavo i moduli e mi tenevo i soldi.» Si strinse nelle spalle, come per dire: non è ovvio? Marks, pubblico ministero specializzato in crimini finanziari, aveva imparato molte cose dai suoi accusati: aveva dissanguato le casse dell'istituto di credito di Wichita per quasi cinque milioni di dollari - la maggior parte dei quali erano già stati spesi, a quanto pareva. «Pensavo che, con l'impennata del mercato immobiliare», continuò, «alcuni degli investimenti legittimi della banca avrebbero cominciato a rendere e così avremmo potuto coprire gli ammanchi. Ma quando ho dato un'occhiata ai libri contabili, ho visto semplicemente che non ce l'avremmo fatta.» La Resolution Trust Corporation, l'agenzia governativa che commissaria le strutture bancarie fallite, stava per arrivare a prendere possesso dell'istituto. «E così ha assoldato Lou Handy per bruciarlo», concluse Budd. «E distruggere tutti i documenti.» «Come l'ha conosciuto?» gli domandò Potter. Budd rispose prima di Marks. «Lei ha perseguito Handy cinque anni fa, vero? La rapina alla drogheria... il sequestro in cui Sharon Foster l'ha convinto ad arrendersi.» Il viceprocuratore annuì. «Oh, sì, me lo ricordavo bene. E chi non se lo sarebbe ricordato? Un figlio di puttana furbo come una volpe. Ha assunto lui stesso la propria difesa e quasi è riuscito a farmi mangiare la polvere. Ho dovuto scavare un bel po' per trovarlo e convincerlo a fare quel lavoro alla banca, potete scommetterci. Ho controllato con il suo ufficiale responsabile per la libertà vigilata, ho parlato con alcuni miei informatori dei quartieri malfamati. Gli ho offerto duecentomila dollari per dar fuoco all'edificio nel corso di una rapina. Solo che l'hanno preso. Così non avevo
scelta: dovevo fare un accordo con lui. L'avrei aiutato a fuggire, altrimenti lui avrebbe parlato. Questo mi è costato altri trecentomila dollari.» «Com'è riuscito a farlo evadere? Il penitenziario di Callana è un carcere di massima sicurezza.» «Ho dovuto pagare a due secondini l'equivalente in contanti dello stipendio di un anno.» «Uno di loro era la guardia che Handy ha ucciso?» Marks annuì. «Ha risparmiato un po' di soldi, con lui, vero?» gli domandò amaramente Charlie Budd. «Gli ha lasciato una macchina con le armi, la radio criptata e la televisione», proseguì Potter. «E gli attrezzi per portar fuori il denaro dal mattatoio dove l'aveva nascosto per lui.» «Be', che diavolo, non potevamo lasciare semplicemente i soldi nella macchina. Troppo rischioso. Così ho sigillato il denaro in questo vecchio tubo di aerazione dietro la finestra principale.» «Quali dovevano essere i termini della fuga?» domandò Potter. «Originariamente avevo sistemato le cose in modo che un aereo privato portasse lui e i suoi amici fuori da Crow Ridge, da quel piccolo aeroporto non molto lontano dal mattatoio. Ma Handy non ci è mai arrivato. Ha avuto quell'incidente - con la Cadillac - e ha perso quasi mezz'ora.» «Perché ha preso le ragazze?» «Aveva bisogno di loro. Con il ritardo dovuto all'incidente, sapeva di non avere più il tempo necessario per arrivare ai soldi e poi all'aeroporto con gli sbirri alle calcagna. Ma non aveva nessuna intenzione di andarsene senza i soldi. Lou ha creduto che, con gli ostaggi dentro il mattatoio e io che lavoravo per tirarlo fuori di Lì, non avrebbe avuto importanza quanti sbirri ci fossero stati intorno. Prima o poi sarebbe uscito. Mi ha chiamato via radio da dentro e io ho acconsentito a convincere l'FBI a dargli un elicottero. La cosa non ha funzionato, ma a quel punto mi sono ricordato della trattativa di Sharon Foster con Handy di qualche anno fa. Ho scoperto dov'era in servizio e ho chiamato Pris Gunder - la ragazza di Handy - per dirle di andare in macchina a casa della Foster. Poi ho fatto finta di essere un poliziotto e ho chiamato Ted Franklin al quartier generale della polizia di stato.» «E così», tirò le somme Potter, «la sua offerta strappalacrime di dare se stesso ai sequestratori in cambio delle ragazze... era tutta una recita.» «Volevo davvero che uscissero. Non volevo che morisse nessuno. Certo
che no!» Ma certo, pensò cinicamente Potter. «Dov'è Handy adesso?» «Non ne ho idea. Una volta che è uscito dal mattatoio, la faccenda per me si è chiusa. Avevo fatto tutto quello su cui ci eravamo accordati. Gli ho detto che da quel momento in avanti era solo.» Potter scosse la testa. Budd domandò con voce gelida: «Mi dica, Marks, come ci si sente ad aver assassinato quei poliziotti?» «No! Lui mi ha promesso che non avrebbe ucciso nessuno! La sua ragazza non avrebbe dovuto fare altro che ammanettare la Foster. Lui...» «E gli altri poliziotti? La sua scorta?» Marks fissò il capitano per un lunghissimo istante e, quando capì che non gli sarebbe venuta in mente nessuna bugia credibile, sussurrò: «Non avrebbe dovuto andare a questo modo. Non avrebbe dovuto». «Chiama qualcuno che lo prenda in consegna», disse Potter. Ma, prima che Budd avesse il tempo di farlo, il suo telefono ronzò. «Pronto?» Il giovane capitano ascoltò per qualche secondo. Spalancò gli occhi. «Dove? D'accordo, ci muoviamo.» Potter lo guardò interrogativamente. «Hanno trovato l'altra autopattuglia, quella in cui c'erano Handy e la sua ragazza. È diretto verso sud, a quanto sembra. Verso l'Oklahoma. L'autopattuglia era trenta chilometri oltre il posto di polizia. C'era una coppia nel bagagliaio. Morti tutti e due. Handy e la sua ragazza devono avergli rubato la macchina. I due non avevano addosso nessun documento di identificazione, quindi non abbiamo ancora né la marca del veicolo, né il numero di targa.» Budd si avvicinò al viceprocuratore generale e, rabbiosamente, gli ringhiò sulla faccia: «L'unica buona notizia è che Handy andava di fretta. Sono morti alla svelta». Marks gemette di dolore quando Budd lo costrinse a voltarsi e lo sbatté contro il muro. Potter non fece nulla per fermarlo. Budd legò i polsi dell'avvocato con legacci di plastica, quindi gli ammanettò il polso destro alla testata del letto. «È troppo stretto», piagnucolò Marks. Budd lo buttò sul letto. «Andiamo, Arthur. Ha un sacco di vantaggio su di noi. Ragazzi, a quest'ora potrebbe essere quasi in Texas.» Era circondata dal Mondo Esterno. Eppure non era difficile come aveva creduto. Oh, sì, immaginava che l'uomo al volante dell'altra macchina avesse
suonato furiosamente il clacson quando aveva oltrepassato la linea di mezzeria qualche istante prima. Ma, tutto considerato, se la stava cavando bene. Melanie Charrol non aveva mai guidato un'automobile in vita sua. Molti sordomuti guidavano, ovviamente, anche se non avrebbero dovuto farlo, ma Melanie aveva sempre avuto troppa paura. Non di fare un incidente. Piuttosto, era terrorizzata all'idea di fare qualcosa di sbagliato e di trovarsi in imbarazzo. Magari imboccare la corsia sbagliata. Fermarsi troppo lontano da un semaforo rosso o troppo vicino. La gente si sarebbe ammassata intorno alla macchina e avrebbe riso di lei. Ma ora stava viaggiando lungo la Statale 677 come un pilota professionista. Non aveva più da molto tempo l'orecchio per la musica, ma aveva ancora due mani da pianista, sensibili e forti. E le sue dita imparavano rapidamente a non compensare troppo il gioco del volante e così Melanie sfrecciava dritta verso la sua destinazione. Lou Handy aveva avuto uno scopo; be', l'aveva anche lei. Il cattivo è semplice e il buono è complicato. E le cose semplici vincono sempre. Ecco a cosa si riduce tutto quanto, alla fine, ha semplicità vince sempre... è soltanto la natura e tu sai in che genere di guai si va a cacciare la gente, quando ignora la natura. Nella notte. Settanta chilometri all'ora, ottanta, novanta. Guardò nuovamente il cruscotto. Molti dei display e delle manopole non avevano alcun senso, per lei. Ma riconobbe la radio. Premette tutti i pulsanti finché non si accese: 103.4. Con gli occhi in perenne movimento, immaginò quale potesse essere la manopola del volume e poi premette il pulsante finché l'indicatore a emissione luminosa non raggiunse il massimo. Inizialmente non sentì nulla, ma poi aumentò il livello dei bassi e cominciò a udire dei tonfi e, di tanto in tanto, il suono scivoloso di accordi e di note. Il registro dei bassi, il registro di Beethoven. Quella parte del suo udito non l'aveva mai abbandonata del tutto. Forse stavano trasmettendo la sua Nona Sinfonia, l'etereo, ispirato Inno alla Gioia. Sembrava una coincidenza troppo grande, considerando la sua missione, e l'emittente che trasmetteva sui 103.4 era probabilmente una stazione rap o heavy metal. Ma le inviava una pulsazione potente e irresistibile nel petto. E questo le bastava. Ecco! Frenò bruscamente, fermando la macchina nel parcheggio deserto del negozio di ferramenta. In vetrina c'erano proprio gli oggetti che stava cercando.
Il mattone attraversò facilmente il vetro e, se anche fece scattare un allarme - cosa che probabilmente accadde - Melanie non poteva udirlo, quindi non sentì alcuno stimolo particolare ad affrettarsi. Si sporse all'interno della vetrina e scelse quello che sembrava il coltello più affilato dell'esposizione, un coltello da macellaio con la lama di trenta centimetri della Chicago Cutlery. Tornò tranquillamente dietro il volante, lasciò cadere la lunga lama d'acciaio sul sedile accanto, quindi inserì la marcia e ripartì. Mentre obbligava il motore ad aumentare la velocità fino a novanta chilometri orari tra le raffiche silenziose del vento, pensò a Susan Phillips. Che ben presto avrebbe riposato per sempre in una tomba silenziosa come lo era stata la sua vita. A Maiden's Grave... Oh, Susan, Susan... io non sono te. Non posso essere te e non ti chiederò nemmeno di perdonarmi, per questo, anche se una volta l'avrei fatto. Dopo oggi, so che non potrò ascoltare musica immaginaria per il resto dei miei giorni. So bene che, se fossi stata viva, mi avresti odiato per questo. Ma io voglio udire le parole, voglio udire torrenti di consonanti e di vocali, voglio ascoltare la mia musica. Tu eri Sorda figlia di Sordi, Susan. Ciò ti rendeva forte, anche se alla fine ti ha uccisa. Io mi sono salvata perché sono debole. Ma non posso più essere debole, ora. Sono una degli Altri: è così, semplicemente. E in quel momento Melanie capisce, con sorpresa e quasi con uno shock, per quale motivo riusciva a comprendere tanto bene quel figlio di puttana di Bruto. Perché lei è come lui. Ha le stesse sensazioni che ha lui. Oh, voglio fare del male, voglio restituir loro tutto il dolore che mi hanno causato, voglio farla pagare a tutti: al destino, che mi ha portato via la mia musica; a mio padre, che ha complottato per tenermela lontano; a Bruto e all'uomo che l'ha assoldato, che ci hanno rapite, hanno giocato con noi, ci hanno fatto del male, hanno fatto del male a ognuna di noi - le ragazze, la signora Harstrawn, quel povero poliziotto... e, ovviamente, Susan. L'automobile sfrecciava nella notte. Melanie teneva una mano elegante sul volante, mentre con l'altra accarezzava la sensuale impugnatura di legno del coltello. Amazing grace, how sweet the sound... (Oh, grazia splendida... oh, quanto era dolce il suono)
Il vento percuoteva ferocemente la macchina e, sopra di lei, lunghe strisce di nubi nere attraversavano rapide il cielo cupo e freddo. That saved a wretch like me. I once was lost but now I'm found. Was blind, but noto I see (che salvò un relitto come me. Un tempo ero perduta, ma ora mi sono ritrovata. Ero cieca, ma ora vedo.) Melanie lasciò ricadere il coltello sul sedile e afferrò il volante con entrambe le mani, ascoltando la potente vibrazione dei bassi che le risuonava nel petto. Immaginò che il vento stesse ululando come un lupo impazzito, ma ovviamente quella era una cosa che non poteva sapere con certezza. E così, poi sarai a casa. Mai. Erano a cinque chilometri da Crow Ridge, diretti verso sud, quando Budd si sollevò di scatto sul sedile, migliorando ulteriormente la sua postura perfetta. Si voltò bruscamente verso Potter. «Arthur!» L'agente dell'FBI fece una smorfia. «Ma ovvio! Oh, accidenti!» L'auto si fermò inchiodando sulla statale, finendo perpendicolarmente alla strada e bloccando entrambe le corsie. «Dov'è, Charlie? Dove?» «A mezzo chilometro da qui, da quella parte», gridò Budd, indicando alla sua destra. «Quell'incrocio che abbiamo appena oltrepassato. È una scorciatoia. Ci porterà direttamente lì.» Arthur Potter, che solitamente era un automobilista molto prudente, compì la curva a tutta velocità e, sull'orlo di un canale di irrigazione, riuscì a controllare la sbandata. «Oh, ragazzi», borbottò Budd, anche se non era della guida folle che si stava lamentando, ma della sua stessa stupidità. «Non riesco a crederci di non averci pensato prima.» Anche Potter era furioso con se stesso. Aveva capito esattamente dove si trovava Lou Handy. Non si stava affatto dirigendo verso sud, ma stava tornando direttamente dal suo denaro. Tutte le altre prove erano state rimosse dal mattatoio dalla polizia. Ma la scientifica non aveva trovato né la radio
criptata né i soldi. Erano ancora lì, nascosti da qualche parte. Centinaia di migliaia di dollari. Mentre guidava, piegato sul volante, Potter disse a Budd di chiamare Tobe a casa di Melanie. Quando la comunicazione fu stabilita, tolse il telefono dalle mani del capitano. «Dove sono Frank e l'SSO?» domandò l'agente. «Resta in linea», rispose Tobe. «Lo scoprirò.» Un momento dopo tornò al telefono. «Stanno per atterrare in Virginia.» Potter sospirò. «Maledizione. D'accordo, allora telefona a Ted Franklin e a Dean Stillwell e fagli mandare degli uomini al mattatoio. Handy sta andando lì. Sempre che non ci sia già arrivato. Ma è di vitale importanza non spaventarlo. Potrebbe essere la nostra unica possibilità di inchiodarlo. Voglio che arrivino senza lampeggianti e senza sirene e che parcheggino ad almeno mezzo chilometro di distanza e su strade laterali. Ricorda di dire a entrambi che Handy è armato ed estremamente pericoloso. Digli che noi saremo dentro l'edificio. Io e Charlie.» «Dove siete adesso?» «Resta in linea.» Potter lo domandò a Budd, che gli fornì la loro ubicazione in quel momento. «Charlie dice: Hitchcock Road, appena fuori della Statale 345. A circa due minuti.» Una pausa. «Charlie Budd è lì con te?» domandò Tobe con voce incerta. «Be', certo. L'hai visto anche tu venir via insieme a me.» «Ma avete preso tutt'e due le macchine.» «No. Abbiamo preso soltanto la mia.» Un'altra pausa. «Resta in linea, Arthur.» A disagio, Potter disse a Budd: «Sta succedendo qualcosa, lì. A casa di Melanie». Avanti, Tobe, forza. Parlami. Un istante più tardi il giovane agente tornò al telefono. «Lei è scomparsa Arthur. Melanie. Ha lasciato la doccia aperta e ha preso l'altra macchina.» Un brivido gelido gli corse lungo la spina dorsale. «Tobe, sta andando all'Holiday Inn a uccidere Marks.» «Che cosa?» gridò Budd. «Non conosce il suo nome. Ma conosce il numero della stanza. Mi ha visto scriverlo.» «E io l'ho lasciato ammanettato lì senza nessuno che lo guardasse. Mi sono dimenticato di telefonare.»
Potter ricordò l'espressione nello sguardo di Melanie, il fuoco gelido che le navigava negli occhi. Domandò a Tobe: «Ha preso un'arma? Ce n'era una nella macchina?» Tobe gridò qualcosa a LeBow. «No, noi due abbiamo le nostre. In macchina non c'era niente.» «Be', manda qualche poliziotto all'albergo, alla svelta.» Aveva in mente l'immagine di Melanie che si avventava furiosa su Marks nonostante gli agenti. Se aveva una pistola o un coltello, l'avrebbero uccisa all'istante. «Okay, Arthur», disse Tobe. «Ci pensiamo noi.» In quel momento, il paesaggio cupo e desolato divenne familiare - come un déjà-vu da un incubo ricorrente. Un istante dopo, il mattatoio si profilò dinanzi a loro. Il campo di battaglia era costellato di tazze di plastica e di impronte di pneumatici. Il campo era deserto. Potter ripiegò il cellulare e lo restituì a Budd. Poi spense il motore e, per inerzia, percorse silenziosamente gli ultimi venti metri. «E Melanie?» sussurrò Budd. Non c'era tempo per pensare a lei, adesso. L'agente si portò un dito alle labbra e indicò la portiera. I due uomini uscirono dall'automobile e vennero assaliti dalla violenza del vento. Stavano camminando nel fossato lungo il quale, qualche ora prima, uno stupito poliziotto aveva trasportato Kielle e Shannon come sacchi di patate. «Passiamo dalla porta principale?» sussurrò Budd. Potter annuì in cenno di assenso. La porta era spalancata; potevano entrare senza correre il rischio di cardini scricchiolanti. E, a parte questo, le finestre erano a un metro e mezzo da terra: Budd avrebbe anche potuto farcela, ma Potter, già esausto e senza fiato, sapeva che non sarebbe riuscito a scavalcarne una. Rimasero immobili per qualche minuto, ma non c'era traccia di Handy. Nessuna macchina in vista, nessuna coppia di fari in avvicinamento, nessuna torcia elettrica. E nessun rumore se non l'ululato poderoso del vento. Potter indicò la porta principale con un cenno del capo. Piegati su se stessi, i due uomini corsero fino alla facciata del mattatoio di mattoni rossi e bigi, sangue e ossa. Si fermarono accanto al punto in cui Handy aveva lasciato cadere il corpo senza vita del soldato di Tremain. Il tubo d'aerazione vicino alla finestra, ricordò Potter. Riempito con mezzo milione di dollari, l'esca che sta riportando Handy tra le nostre ma-
ni. Si fermarono su entrambi i lati della porta. Questo non sono io, pensò improvvisamente Potter. Non è questo ciò che dovrei fare. Sono un uomo che parla, non d'azione. Non è che ho paura. Ma sono fuori dal mio elemento. Non ho paura, non ho paura... Ma ce l'aveva. Perché? Perché, immagina, per la prima volta in tanti anni nella sua vita c'è qualcun altro. In qualche modo, l'esistenza gli è diventata più preziosa nelle ultime dodici ore. Sì, voglio parlare con lei, con Melanie. Voglio raccontarle delle cose, voglio sentire come ha passato la giornata. E sì, sì, voglio prenderle la mano e salire le scale insieme a lei dopo cena, sentire il calore del suo respiro sulle mie orecchie, sentire i movimenti del suo corpo sotto di me. Lo voglio! Io... Budd gli batté sulla spalla. Potter annuì e, con le armi in pugno, entrarono nel mattatoio. Era come una caverna. Oscurità ovunque. Il vento ruggiva attraverso i buchi e le giunture sconnesse del vecchio edificio con tanta forza che i due uomini non riuscivano praticamente a udire nient'altro. Istintivamente si nascosero dietro una grossa struttura metallica, una sorta di container. E aspettarono. Gradualmente gli occhi di Potter si abituarono all'oscurità. Riusciva appena a distinguere due riquadri leggermente più chiari in corrispondenza delle finestre oltre la porta. Sotto quella più vicina c'era un tubo massiccio di almeno sessanta centimetri di diametro, che si innalzava a forma di L dal pavimento come il fumaiolo di una nave. Potter lo indicò e Budd strizzò gli occhi, annuendo. Mentre avanzavano lentamente, come due ciechi, Potter cominciò a capire che cosa aveva passato Melanie là dentro. Il vento gli rubava l'udito, l'oscurità la vista. E il freddo gli stava attenuando il tatto e l'odorato. Si fermarono. Potter sentì il panico farsi largo dentro di lui come un'ondata di acqua gelida. Quando gemette, Budd sollevò la mano, allarmato, e si accovacciò. Anche Potter aveva visto l'ombra in movimento, ma poi scoprì che si trattava semplicemente di un pezzo di lamiera metallica che si piegava al vento. Erano a cinque metri dal tubo. Potter si fermò, si guardò lentamente intorno. A parte il vento, non udì nulla. Si voltò. Ripresero ad avanzare, ma Budd gli batté su una spalla. «Non scivola-
re», sussurrò il capitano. «Qui è stato rovesciato qualcosa. Olio, a quanto sembra.» Anche Potter guardò il pavimento. C'erano larghe chiazze di un liquido argenteo - più simile a mercurio che ad acqua o a olio lubrificante - alla base del tubo. Si chinò e allungò un dito. E toccò la fredda consistenza del metallo. Non era olio. Erano frammenti d'acciaio. Il pannello inferiore era stato tolto dal tubo. Handy era stato lì se... Il colpo di pistola venne da non più di tre metri di distanza. Un frastuono assordante, che riverberò dolorosamente sulle piastrelle, sul metallo e sui mattoni a vista. Potter e Budd si voltarono di scatto. Nulla, nient'altro che oscurità. Il leggero movimento delle ombre mentre le nubi oscuravano momentaneamente la luna. Poi il suono soffocato di Charlie Budd che sussurrava: «Mi dispiace, Arthur». «Cosa?» «Mi... mi dispiace. Sono ferito.» Il colpo gli era stato sparato alla schiena. Budd cadde in ginocchio mentre il proiettile gli usciva dalla parte inferiore del ventre. Crollò sul pavimento. L'agente si mosse istintivamente. Prudenza, ricordò a se stesso, voltandosi nella direzione da cui era venuto lo sparo. Prima mettiti al sicuro. Il pezzo di tubo lo colpì in pieno alla spalla, togliendogli il fiato dai polmoni. Cadde pesantemente a terra e sentì la mano nodosa che gli toglieva la pistola dalle dita serrate. «Solo voi? Voi due?» La voce di Handy era poco più di un sussurro. Potter non riusciva a parlare. Handy gli torse il braccio dietro la schiena, piegandogli brutalmente il mignolo. Il dolore si irradiò dalla mano di Potter su su fino al collo e poi alla testa. «Sì, sì, soltanto noi due.» Handy grugnì mentre faceva rotolare Potter sulla schiena e gli legava le mani con un filo sottile, conficcandoglielo strettamente nella carne dei polsi. «Non c'è modo che tu riesca a...» cominciò Potter. Poi, un movimento rapido e improvviso. Handy venne sbattuto contro il tubo dove erano nascosti i soldi. Con un suono vuoto e tintinnante, il lato
destro della sua testa colpì violentemente il metallo. Charlie Budd, con la faccia che colava sudore con la stessa intensità con cui il suo ventre perdeva sangue, sollevò il pugno una volta ancora e colpì Handy alle reni. L'assassino sibilò di dolore e si buttò in avanti. Mentre Potter lottava invano per riuscire a rialzarsi, Budd tastò nel buio in cerca della sua automatica d'ordinanza. Si sentì sull'orlo dell'incoscienza e barcollò di lato. Si riprese quel tanto che gli bastava per fare un altro passo, ma inciampò nel grosso ceppo da macellaio. Handy gli balzò addosso, ringhiando di rabbia, stringendogli il collo con le braccia e spingendolo a terra. L'evaso si era fatto male, sì, ma possedeva ancora la sua forza; quella di Budd, invece, stava fuoruscendo rapidamente dalla ferita aperta. «Oh, ragazzi», tossì Budd. «Non riesco...» Handy lo afferrò per i capelli. «Vieni, ragazzo. Questo è soltanto il primo round.» «Va' all'inferno», sussurrò il giovane capitano. «Ecco un ragazzo con i coglioni.» Handy lo cinse con le braccia e lo tirò in piedi. «Non ho sentito il gong. Avanti. I tifosi ci aspettano.» Charlie, perdendo sangue come una fontana, con gli occhi vitrei, si allontanò con uno strattone e cominciò a tentare di colpire la faccia di Handy. Un colpo arrivò a bersaglio con forza sorprendente, e Handy balzò all'indietro colto di sorpresa. Ma, quando il dolore iniziale svanì, scoppiò a ridere. Guardò Budd. «Vieni avanti», lo stuzzicò. «Dai, Sugar Ray, vieni avanti...» Quando Budd gli andò addosso un'ultima volta, Handy si avvicinò e gli assestò cinque o sei pugni in faccia, in rapida successione. Budd cadde in ginocchio. «Ehi, l'arbitro comincia a contare.» «Lascialo in... pace», gridò Potter. Handy si tolse la pistola dalla cintura. «No!» strillò l'agente. «Arthur...» Handy si rivolse a Potter. «È fortunato che io lo faccia in questo modo. Se avessi un po' più di tempo, non sarebbe per niente indolore. Nossignore.» «Ascoltami», tentò disperatamente Potter. «Sst», sussurrò Handy. Il vento aumentò di intensità, levando un lamento luttuoso. I tre colpi di pistola furono rapidi e vennero immediatamente rimpiazzati
dalla voce di Potter che piangeva. «Oh, Charlie, no, no, no...» 3,00 Lungo i corridoi umidi, dove avevano camminato i vitelli e i buoi condannati a morte, tra i massi rettangolari dei ceppi da macellaio, sotto un migliaio di ganci metallici arrugginiti che, sospinti dal vento, risuonavano come campane... E per tutto il tempo, il vento che gridava intorno a loro, infilandosi sibilando nelle crepe e nelle finestre rotte come il fischio di una locomotiva. I polsi di Potter bruciavano a causa del filo. Pensò alle mani di Melanie. Alle sue unghie perfette. Pensò ai suoi capelli, miele raffinato. Rimpianse con fervore di non averla baciata, quella sera. Con la lingua spinse un dente che si era allentato durante la caduta, allontanandolo dal suo precario punto d'appoggio e sputandolo fuori. La sua bocca si riempì e Potter sputò di nuovo: uno schizzo di sangue chiazzò il pavimento. «Povero stronzo», disse Handy con grande soddisfazione nella voce. «Non ci eri arrivato, eh, Art? Semplicemente, non ci eri arrivato per un cazzo.» Davanti a loro, una fioca illuminazione. Non era luce, ma piuttosto un vago recedere dell'oscurità. Dall'esterno, la debole luce delle stelle e l'argento della luna. «Non eri costretto a ucciderlo», si scoprì a dire l'agente. «Da questa parte. Vai di là.» Handy lo spinse in un corridoio umido. «Da quanto tempo fai questo lavoro, Art?» Potter non rispose. «Probabilmente venti, venticinque anni, immagino. E ci scommetto che per la maggior parte dev'essere stato simile a quello che hai fatto ieri - parlare con stronzi come me.» Handy era un uomo minuto, ma la sua stretta era feroce. Potter sentì la punta delle dita che cominciava a formicolargli per la mancanza di circolazione sanguigna. Attraversarono una decina di stanze, nere e puzzolenti - il sogno sanguinolento dei signori Stoltz e Webber. Handy lo spinse attraverso una porta nera. E poi si ritrovarono all'esterno, sbattuti dall'improvvisa forza dei vento. «Cazzo, un viaggetto agitato, questa notte.» Handy spinse Potter verso una macchia d'alberi. Potter vide la sagoma di un'automobile. I blocchi motore impiegano due o tre ore per raffreddarsi. Se avesse avuto un visore
all'infrarosso, l'avrebbero vista prima. E Charlie Budd sarebbe ancora vivo... «Venticinque anni», gridò Handy sopra il fischio del vento. «Sei sempre stato dall'altra parte del cordone di polizia. Dal lato sicuro. Hai mai pensato a come ti sentiresti a essere un ostaggio? Non sarebbe una fottuta esperienza? Avanti, Art, provaci. Voglio farti conoscere Pris. Lei è una che fa fuori le palle, ecco chi è. «Sissignore, ecco che cosa sarai: un ostaggio. Sai, la gente non fa mai esperienza delle cose. La maggior parte delle persone non ha mai sparato a nessuno. La maggior parte delle persone non è mai entrata in una banca estraendo una pistola. La maggior parte delle persone non ha mai guardato una ragazza senza dire una parola, ma limitandosi a fissarla e a fissarla mentre lei piange come un cucciolo e poi comincia a togliersi i vestiti di dosso perché ha immaginato che cosa tu vuoi che lei faccia. «E la maggior parte delle persone non è mai stata vicina a qualcuno che muore. Voglio dire toccarli mentre succede. Quando l'ultima cellula nel corpo di qualcuno smette di nuotare in giro. Io ho fatto tutto questo. Tu non ci arrivi neanche vicino a sentire cose come queste. Come invece le ho sentite io. Questa è esperienza, Art. «Hai tentato di fermarmi. Ma non avresti dovuto farlo. Ti ucciderò, Art, probabilmente già lo sai. Ma non subito. Ti porterò con noi. E non c'è niente che tu possa dire per fermarmi. Non puoi offrirmi una confezione da sei di birra, non puoi offrirmi un corridoio aereo a priorità M-cazzo-4 per il Canada. Quando saremo lontani e al sicuro, l'unica cosa che vorrò è vederti morto. E, se non saremo lontani e al sicuro, voglio vederti morto lo stesso.» Improvvisamente Handy rabbrividì di collera e afferrò Potter per il bavero. «Non avresti dovuto tentare di fermarmi!» Ci fu un crepitio in una delle tasche di Potter. Handy sorrise: «Che cosa abbiamo, qui?» No! pensò Potter, divincolandosi. Ma Handy gli infilò una mano nella giacca e sfilò la fotografia dalla tasca interna. «Che cos'è?» La fotografia di Melanie Charrol. Quella che era rimasta appesa per ore alla parete del furgone. «La tua ragazza, eh, Art?» «Non esiste un solo luogo al mondo», disse Potter, «dove tu sarai al sicuro.»
Handy lo ignorò. «Staremo via per un po', io e Pris. Ma terrò questa istantanea sempre con me. Un giorno torneremo e le faremo una bella visita. Melanie, lei sì che è una che ci sa fare. Mi ha messo con le spalle a terra, mi ha tolto il fiato dai polmoni. Mi ha fatto questo... vedi questi graffi? E poi ha fatto uscire quelle bambine dalla porta prima che io avessi il tempo di dire ba. E poi ha preso anche quell'altra, quella carina su cui Sonny aveva messo gli occhi, e ha fatto uscire anche lei. Oh, Melanie avrà quello che si merita.» Poi, come se gli stesse rivelando un enorme segreto, Handy aggiunse: «Un uomo non può permettere a nessuno di mettergli i piedi in testa. Specialmente a una donna. Può passare un mese, possono passarne due. Ma un giorno o l'altro troverà me e Pris nel suo letto ad aspettarla. E non potrà nemmeno gridare per chiamare aiuto». «Saresti un pazzo a tornare da queste parti. Ogni sbirro dello stato conosce la tua faccia.» Handy era nuovamente furioso. «Sono in credito! Sono in credito, cazzo!» Si infilò rabbiosamente in tasca la fotografia di Melanie e trascinò Potter dietro di sé. Erano diretti all'aeroporto - «un viaggetto agitato, questa notte». Lo avrebbero ucciso non appena fossero stati al sicuro. Magari l'avrebbero buttato giù dall'aereo, a mille metri di altezza sopra un campo di frumento. «Eccola qui, adesso, la mia Pris.» Handy indicò con un cenno del capo la Nissan parcheggiata dietro un gruppo di alberi. «È una pupa coi fiocchi, Art. Una volta mi hanno sparato, mi hanno colpito al fianco, e lo stesso sbirro di merda che mi aveva beccato aveva Pris sotto tiro. Lei aveva la pistola in mano, ma quello avrebbe potuto inchiodarla prima ancora che lei avesse avuto il tempo di sollevarla. E allora che cosa succede se non che lei, fredda come il ghiaccio, si sbottona la camicia senza mai smettere di sorridere? Sissignore, sissignore. Quello voleva spararle, te lo dico io! Ma non riusciva a farlo. E, non appena ha abbassato gli occhi sulle sue tette, lei ha sollevato la Glock e l'ha fatto fuori: bang, bang, bang. Tre proiettili nel petto. Poi gli si è avvicinata e gliene ha piazzato uno in testa nel caso avesse un giubbotto antiproiettile. Credi che la tua ragazza potrebbe essere tanto in gamba? Oh, scommetto proprio di no, Art.» Handy si fermò, costrinse Potter a fermarsi e poi si guardò intorno, con la testa alta, annusando l'aria, perplesso. Melanie l'aveva battezzato Bruto e aveva dato agli altri due i nomi di due animali, ma Potter sapeva che Handy era più animalesco di Bonner e Wilcox messi insieme. Lo sguardo di Handy si voltò verso la macchina.
Potter poteva vedere la portiera aperta dalla parte del guidatore e la donna all'interno, la stessa che aveva impersonato Sharon Foster, che fissava qualcosa fuori del parabrezza. I suoi capelli biondi erano tirati all'indietro nella stessa coda di cavallo di qualche ora prima. Ma si era cambiata d'abito. Non più in uniforme, ora indossava un paio di jeans e un maglione scuro a collo alto. «Pris?» sussurrò Handy. Lei non rispose. «Pris?» più forte. «Prissy?» portato dal vento. Handy spinse Potter a terra. L'agente cadde e rotolò impotente sull'erba, quindi osservò Handy che correva al sedile del passeggero e prendeva la sua ragazza tra le braccia. Poi, il criminale evaso cominciò a ululare di dolore e di rabbia. Potter strizzò gli occhi per vedere meglio. No, non era affatto un girocollo, non era affatto un ornamento. Lo squarcio nella gola della donna si estendeva da una giugulare all'altra e il maglione scuro era in realtà metà del sangue che aveva in corpo che le scorreva sulle spalle, sulle braccia e sul seno. La sua unica implorazione di aiuto era stata quella di sollevare una mano insanguinata verso il parabrezza e di gesticolare freneticamente, lasciando sul vetro sporco una rappresentazione del proprio terrore. «No, no, no!» Handy la cullava, muovendosi freneticamente avanti e indietro. Potter rotolò su un fianco e tentò di arrancare via. Riuscì a compiere soltanto un metro prima di sentire il fruscio dei cespugli e i passi di Handy che si avvicinavano. Uno stivale gli si abbatté tra le costole. Potter cadde a terra, sollevando le mani legate a coprirsi il volto. «Siete stati voi! L'avete presa alle spalle! Sei stato tu a fare questo, brutto stronzo bastardo!» Potter si raggomitolò, tentando di ripararsi dai calci. Handy fece un passo indietro e sollevò la pistola. Potter chiuse gli occhi e abbassò le mani. Tentò di figurarsi Marian, ma l'immagine di sua moglie non ne voleva sapere di entrargli nella mente. No, nei suoi pensieri c'era soltanto Melanie mentre, per la seconda volta quella notte, si preparava a morire. Arthur Potter divenne improvvisamente consapevole del vento intorno a sé. Ululava, sibilava, cresceva e diminuiva di intensità, formando parole. Ma non erano parole di questa terra: erano sillabe arcane e profonde che nascevano dalla gola profonda di qualche spettro che parodiava il linguaggio dei poveri esseri umani. Inizialmente Potter non riuscì a capirne il con-
testo, una frase ripetuta in modo maniacale, pronunciata con furia e disgusto. Poi il grido si assemblò e, mentre Handy si voltava, Potter udì le parole malformi che si ripetevano senza sosta: «Ti odio ti odio ti odio ti odio...» Il coltello si conficcò profondamente nella spalla di Handy e l'uomo sussultò di dolore, mentre le forti mani di Melanie Charrol estraevano la lunga lama dalla sua carne e la conficcavano di nuovo dentro di lui, questa volta nel suo braccio destro. La pistola cadde a terra. Potter rotolò in avanti e la raccolse. Handy tentò di colpirla al volto, ma Melanie indietreggiò rapidamente, con facilità, tenendo sempre il coltello davanti a sé. Handy cadde in ginocchio, con gli occhi chiusi, tenendosi il braccio da cui il sangue si riversava a fiotti, scendendogli in rapide spirali lungo l'indice proteso come quello di Dio negli affreschi della Cappella Sistina. Potter si alzò faticosamente in piedi e girò intorno a Handy, fermandosi accanto a Melanie. La ragazza gli guardò le mani e sciolse il filo che le legava. Stava tremando incontrollabilmente. E così anche lei aveva avuto la stessa deduzione su Handy che avevano avuto lui e Budd - che stesse tornando lì a recuperare il suo denaro. Non era andata affatto a vendicarsi di Marks. «Va' avanti, fallo», ringhiò Handy a Potter, come se fosse lui la vittima sofferente degli eventi di quella lunga giornata. Sentendo il peso della Glock tra le dita, Potter abbassò lo sguardo sulla faccia contorta dall'odio di Lou Handy. L'agente non fece nulla, non disse nulla. Non hai mai fatto niente di cattivo? E poi, d'un tratto, Arthur Potter capì quanto in realtà fosse diverso da Lou Handy e quanto lo fosse sempre stato. Nel corso delle trattative l'agente era come un attore: diventava qualcun altro per un breve periodo di tempo, diventava una persona di cui non si fidava, una persona di cui aveva paura, una persona che addirittura detestava e disprezzava. Ma, misericordiosamente, il suo talento era compensato dalla sua grande abilità nel ritrarsi dal ruolo, nel ritornare a essere se stesso. E così fu Melanie Charrol che fece un passo avanti e conficcò profondamente la lunga lama del coltello da macellaio nelle costole di Handy, infilandola fino all'impugnatura insanguinata. L'uomo tossì, sputò una boccata di sangue e poi cadde all'indietro, sussultando. Lentamente, Melanie estrasse il coltello.
Potter le tolse l'arma dalle mani, strofinò l'impugnatura con un lembo della giacca e la lasciò cadere a terra. Fece un passo indietro, osservando Melanie accovacciarsi accanto a Handy, che stava tremando mentre gli ultimi istanti della sua vita abbandonavano il suo corpo ossuto. Melanie si chinò sopra di lui, con la testa bassa, gli occhi fissi su di lui. Nell'oscurità della notte Potter non riusciva a distinguere chiaramente la sua espressione, anche se gli parve di intuire ciò che credette essere un debole sorriso che le inarcava le labbra, un sorriso di curiosità. E avvertì anche qualcos'altro. Nella postura di lei, nell'angolo di inclinazione della sua testa accanto a quella di Handy, gli parve che stesse inalando il dolore dell'uomo come l'incenso speziato che galleggiava nell'aria di casa sua. Le labbra di Handy si mossero. Ne uscì un suono umido, un rantolo, ma tanto sommesso che Arthur Potter fu sordo a quel rumore quasi quanto lo sarebbe stata Melanie. Quando l'uomo sussultò violentemente una volta, e poi un'altra, e quindi giacque completamente immobile, Potter la aiutò a rialzarsi. Con un braccio intorno alle spalle di lei, Potter e Melanie si allontanarono nella notte mentre, intorno a loro, l'erba alta si muoveva da una parte all'altra per l'azione del vento. Cinquanta metri più in là, verso la strada, trovarono l'automobile governativa di cui Melanie si era impossessata per giungere fin lì da Hebron. Si voltò verso di lui, allacciandosi il giubbotto di pelle. Lui la prese per le spalle, sentì il vento che gli sbatteva i suoi capelli contro le mani. Un'infinità di cose che avrebbe potuto dirle gli attraversarono la mente. Voleva chiederle se stava bene, sapere che cosa stava provando, descriverle che cosa intendeva raccontare alla polizia, dirle quante volte aveva pensato a lei nel corso della trattativa. Ma non disse nulla. La luna era scivolata dietro una grossa nube nera e il campo era molto buio; in ogni caso, si disse Potter, non potrebbe comunque vedere le mie labbra. D'un tratto la trasse a sé e la baciò sulla bocca, rapidamente, pronto a ritrarsi alla minima esitazione. Ma non ne sentì alcuna e la strinse forte a sé, appoggiando il viso contro la pelle fresca e profumata del suo collo. Rimasero abbracciati così per un lungo istante. Quando Potter si ritrasse, la luna era uscita di nuovo e ricopriva i loro volti di una pallida patina argentea. Ma continuò a restare zitto, limitandosi a guidarla fino al volante dell'automobile.
Melanie mise in moto e, voltandosi a guardarlo, tolse le mani dal volante per fargli alcuni gesti nel linguaggio dei segni. Perché fa una cosa del genere? si chiese Potter. Che cosa può aver detto? Prima che potesse dirle di aspettare, di scrivere le parole, Melanie ingranò la marcia e partì verso la strada sterrata, ondeggiando sul fondo irregolare del campo erboso. L'automobile fece una brusca svolta e scomparve dietro una fila di alberi. Gli stop rosseggiarono una volta e poi scomparvero alla vista. Potter tornò faticosamente alla Nissan insanguinata. Lì cancellò tutte le impronte digitali tranne le proprie e poi risistemò il coltello, le pistole e i due corpi finché la scena del delitto non raccontò una storia credibile anche se disonesta. «Ma che cos'è esattamente una bugia, Charlie? La verità è una cosa molto scivolosa. Esistono parole oneste al cento percento?» Stava osservando il proprio lavoro quando, improvvisamente, capì che cosa Melanie gli aveva detto pochi istanti prima. Le parole erano tra le poche appartenenti al suo miserevole vocabolario di ASL, parole che, in realtà, lui stesso le aveva comunicato quella stessa sera. «Voglio vederti ancora.» Era quella la frase? Alzò le mani e la ripeté a se stesso. Dapprima goffamente, poi con la scioltezza di un professionista. Sì, era convinto che fosse proprio quella. Arthur Potter vide un'automobile in lontananza. Si stava avvicinando. Sollevandosi il bavero della giacca per ripararsi dall'instancabile soffio del vento, si sedette sul terreno pietroso ad aspettare. FINE