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HELEN REILLY IL GIORNO IN CUI VERONICA MORÌ (The Day She Died, 1962) 1 Fu alla Centrale, nell'ufficio del commissario capo Carey, al primo piano del grande edificio grigio in Centre Street, che Christopher McKee, capo della Squadra omicidi est, sentì per la prima volta il nome di Veronica Dane. Lo sentì dal suo amico Fernandez, dell'Ufficio di medicina legale di New York. I due uomini stavano aspettando il commissario capo, e Fernandez, che era nato e cresciuto nel Sudovest, aveva trovato un giornale di Albuquerque e lo stava sfogliando allungato in una poltrona, una gamba posata scompostamente sopra il bracciolo. La notizia era in seconda pagina, oltre che negli annunci mortuari. La famiglia era notissima e molto considerata, in quella parte del paese; tra i suoi membri aveva contato uomini di stato, un governatore, un ambasciatore e un buon numero di senatori. Fernandez abbassò il giornale. «Perdiana!» esclamò. «Veronica Dane morta, e per cause naturali... Avevo sempre pensato che un giorno o l'altro qualcuno le avrebbe fatto la pelle.» Scosse il capo con aria tra il divertito e l'addolorato. «Che donna, McKee. Anzi, che pezzo di donna: bella, imponente, e forte come un toro. Poteva guidare con la stessa disinvoltura un aratro o un tiro a quattro... e che slancio! L'ultima volta che andai laggiù, circa due anni fa, stava pensando al modo di trovare il denaro per acquistare un aereo. "Per cause naturali"... Mah, per conto mio, le avrei dato almeno altri vent'anni di vita.» McKee esalò pigramente il fumo della sigaretta e lo guardò salire nella penombra del vasto locale. «Dalla descrizione, non direi che fosse una vittima designata. Cosa ti faceva pensare che qualcuno potesse ucciderla?» Fernandez si strinse nelle spalle. «Sai com'è, c'è un limite alla sopportazione umana. Veronica era addirittura la quintessenza dell'autorità, una vera esponente del matriarcato. Un capo in gonnella, insomma. Anno per anno aveva ridotto in suo potere tutti quelli che le stavano attorno: il padre, anche se lui non l'avrebbe mai confessato, perché Veronica era la sua gioia e il suo orgoglio; la madre, un fratello e la sorella più giovane, Mary... Oh, beh, ormai è nel numero dei più. Certo non era quello che si dice una natura amabile, ma era una personalità. Immagino che dovrò mandare una corona.»
Il commissario capo entrò e l'argomento venne lasciato cadere. La corona di Fernandez arrivò puntualmente al ranch dei Dane, El Toro, nel New Mexico settentrionale, insieme ad altri tributi inviati da persone che un tempo erano state amiche dei Dane, e Veronica venne puntualmente seppellita nel cimitero di famiglia, che faceva parte della proprietà. Erano presenti il clero al completo e un gruppetto esiguo di abitanti del luogo. Le sorti dei Dane erano in declino, e durante gli ultimi anni la famiglia si era tenuta molto appartata. Erano gente orgogliosa... o per lo meno, Veronica lo era stata. Il suo trapasso improvviso non aveva sollevato né curiosità né sorpresa. Era una donna prossima alla settantina, con la pressione alta, che rifiutava ostinatamente di obbedire agli ordini del suo medico. Perciò, era spirata in seguito a un colpo apoplettico. Non c'era nessuno con lei, rimasta sola in quel momento nella casa immensa. Gli unici servitori, lo stalliere e la cuoca, erano andati a una fiesta a Las Cruces, dato che Veronica aveva benevolmente concesso loro una giornata di permesso, e Mary Dane si trovava ad Albuquerque per fare spese. Era stata Mary a trovare la sorella maggiore accasciata sulla sedia accanto all'imponente tavolo della sala da pranzo, la tazza di tè ancora intatta posata davanti a sé, sul tovagliolino di pizzo. Le mani della donna erano levate alla gola, le dita infilate sotto il nastro di velluto nero che portava intorno al collo. Evidentemente, stava tentando di allentarselo quando la morte era sopraggiunta. Precipitatosi in seguito alla telefonata di Mary, il dottore le aveva assicurato che, se anche si fosse trovata in casa, le cose sarebbero andate nello stesso modo: lei non avrebbe potuto fare assolutamente nulla. Più o meno se l'aspettava, che accadesse qualcosa del genere. Infine aveva firmato il certificato di morte e lasciato il ranch. Presto la gente dei dintorni ebbe motivo di sorprendersi. Per quanto El Toro avesse perso il suo antico splendore e tutta la pompa di un tempo, oltre a parecchi dei suoi acri di terreno, Veronica Dane era sempre stata incredibilmente affezionata al suo ranch. Cinque giorni dopo il funerale, la proprietà venne messa in vendita a cancelli chiusi. Mary, sconvolta dal dolore, e confusa com'era trovandosi per la prima volta padrona della propria vita, si era mostrata fermamente decisa su una cosa sola: non sarebbe rimasta a El Toro nemmeno un giorno di più del necessario. La sua veemenza aveva sconcertato Tony Santander, il legale di famiglia, quando lei era andata a trovarlo in ufficio tre giorni dopo il fu-
nerale. Santander aveva nutrito per Veronica timore e ammirazione; a Mary invece voleva bene. Non era donna da mettere paura a qualcuno. Sul limitare della sessantina, era grassoccia, rotondetta e amabile, con due dolcissimi occhi azzurri, una voce pacata e modi cortesi. "Non ci resisto, Tony" aveva dichiarato con una forza insolita in lei. "È tutto così solitario, senza Vera, non ne hai idea... E di notte ho paura. Sì, lo so che ti sembro pazza, ma ho paura. Mi pare continuamente di sentire rumori, e di questo passo finirò per vedere addirittura i fantasmi. È tutto completamente diverso, tutto. Spot, il cane di Vera, non c'è più, è scomparso; e Charlie, il cavallo che le piaceva tanto perché l'aveva allevato da quand'era puledro, non vuole nemmeno che gli vada vicino." "Ma hai con te Della, la cuoca, e poi quell'uomo addetto al bestiame" aveva replicato Santander. "Emilio, le rare volte che si ferma la notte, dorme nella stalla, perché in genere va a dormire da sua sorella, e Della ha la sua stanza dopo la cucina, a miglia di distanza dalla mia. Potrei essere uccisa, o morire di paura, e loro non se ne accorgerebbero fino al mattino dopo." Mary si era tormentata nervosamente le mani abbandonate in grembo. "Voglio liberarmi del ranch il più presto possibile, a costo di rimetterci. Non me ne importa nulla." Se proprio ci teneva, padronissima. Alla morte della madre il ranch era passato alle due sorelle, e infine sarebbe toccato a quella che fosse vissuta più a lungo. Ormai El Toro apparteneva a Mary, che poteva disporne come voleva. Ma non era più da molti anni attivo come fattoria, e stava rapidamente tornando allo stato selvaggio. Le siepi e i recinti erano in pessime condizioni, i campi venivano invasi un po' alla volta dalla gramigna e da altre erbacce. Quanto al bestiame, un tempo numerosissimo, ormai si riduceva a qualche pollastro, soltanto perché Veronica aveva l'abitudine di prendere un uovo fresco con il tè, a un paio di cavalli, una mucca, un vitello e alcuni cani e gatti. La casa, una delle più antiche haciendas dello Stato, era stata costruita solidamente ed era ancora in ottime condizioni, ma un po' troppo antiquata per i gusti moderni; specie la cucina, la bestia nera della massaia d'oggi, era irrazionale e superata. Santander aveva avvertito Mary di non farsi troppe illusioni, perché le probabilità di trovare subito un acquirente erano scarsissime. Ma lei era sembrata decisa a concludere, e il legale aveva pubblicato un'inserzione sui giornali di Albuquerque e un'altra sul "Post" di Denver, senza tuttavia contarci molto. Invece, contro tutte le previsioni, alla fine della settimana si fece vivo un compratore.
Una certa signora Fergusson, di Chicago, presentò un'offerta per El Toro, imponendo però una clausola: avrebbe affittato il ranch per sei mesi, con un'opzione per acquistarlo se il posto si fosse rivelato di suo gradimento. Il marito era all'Est per sistemare i suoi affari, e la decisione finale sarebbe spettata a lui. La signora Fergusson era poco oltre la quarantina, con una figura sapientemente modellata dal busto, lo sguardo duro, truccatissima e molto sicura di sé. Indossava abiti di ottimo taglio, e gli anelli e gli orecchini che sfoggiava erano oggetti di valore. Era indubbiamente una donna di città dalla testa ai piedi. Spiegò che aveva intenzione di scrivere un libro e che quindi aveva bisogno di pace; che il marito aveva in progetto di ritirarsi dagli affari, che avevano viaggiato molto, e che li attirava l'idea di possedere una fattoria. Non che avessero grandi progetti agricoli, solo quel tanto perché il signor Fergusson potesse distrarsi e occupare il suo tempo. Diede come referenze due banche, una di Phoenix e l'altra di Chicago, e Santander chiese informazioni a entrambe. Senza una ragione precisa, e sebbene la signora fosse abbastanza simpatica e avesse l'aria di sapere il fatto suo, a lui finì per non piacere. Ma il denaro era sicuro, e così il legale sottopose l'offerta a Mary Dane, raccomandandogliela come positiva. Mary accettò senza esitare un istante, clausola compresa. Non le importava affatto sapere in che mani sarebbe finito il ranch; le bastava unicamente sbarazzarsene e andarsene. La signora Fergusson versò i sei mesi d'affitto anticipati, depositò mille dollari per l'opzione, i documenti vennero firmati e le trattative concluse. Il due di marzo Mary lasciava El Toro e la signora Fergusson vi si installava. Mary sarebbe andata a stare per un mese o poco più presso alcuni amici, proprietari di un ranch quattro miglia più a est, finché non avesse deciso che cosa fare. Le dispiaceva che la signora Fergusson non intendesse tenere al suo servizio né Della né Emilio, tanto più che quest'ultimo lavorava a El Toro da molti anni. Ma la signora disse che il marito sarebbe arrivato entro pochi giorni da Chicago portando con sé la loro domestica, e che nel frattempo lei non aveva bisogno di nessuno. «E non ha paura?» arrischiò Mary. La signora Fergusson la guardò divertita. «Mia cara signorina Dane, e perché dovrei averne?» La casa era completamente arredata e ben fornita di tutte le comodità. C'erano un refrigeratore nella stalla e una cella uso cantina in un edificio accanto. Prosciutti fatti in casa e pezzi di lardo pendevano dalle travi, in-
sieme con capi di selvaggina, un mezzo vitello e un paio di quarti di bue. Gran parte degli oggetti di valore dell'hacienda era stata venduta da tempo. Mary prese con sé soltanto gli effetti personali. I pochi ricordi di famiglia che restavano vennero chiusi in un ripostiglio della sala da pranzo per essere ritirati in seguito, quando lei avesse deciso dove stabilirsi definitivamente. «Farò io stessa una scappata a ritirarli, o manderò qualcuno.» La signora Fergusson non fece rimostranze riguardo al ripostiglio chiuso a chiave. Al contrario, sorrise cortese e accomodante: posto per mettere la roba, in quella casa, ce n'era a volontà. Ma precisò, in tono fermo e sbrigativo: «Quando vorrà venire a ritirare le sue cose, si ricordi di avvertirmi in anticipo. Intesi, signorina Dane? Sono stata ammalata, due mesi fa ho subito un'operazione, e ho bisogno di riposo e di quiete... senza contare che potrei essere assente, se non fossi avvertita in tempo.» Mary rispose che le sembrava giustissimo. Consegnò la serie completa delle chiavi di casa, a eccezione di quella del ripostiglio, si congedò dalla signora e si chiuse alle spalle, per l'ultima volta, la porta d'ingresso. Bill Speaker, il proprietario del ranch dove Mary sarebbe andata a stare provvisoriamente, aspettava accanto al recinto, sotto gli olmi che si allineavano da un lato. Aveva già caricato le valigie di lei nel cassone del camioncino, e osservava incuriosito i cavalli rinchiusi nel recinto, in particolare lo stallone di Veronica, Charlie. «È nervoso, imbizzarrito» disse. «Chissà che cosa gli ha preso. Guardalo, guarda quando corre... Vedi come tiene le orecchie all'indietro?» «Lo so.» Mary prese posto accanto a lui. «Credo che senta la mancanza di Veronica, povera bestia. È così da quando è morta. E non parliamo di Spot, poverino.» «Il dalmata?» «Sì. Veronica l'aveva allevato da cucciolo, era uno dei figli di Juno. Non è più ricomparso, sai, da quel giorno. Non c'era, quando sono rincasata e l'ho trovata...» Mary sospirò. «Emilio tornerà più tardi a prendere i due cavalli e Betsy con il vitellino, e anche quei tre bastardi e i gatti. La Fergusson non li vuole. Pare che non le piacciano le bestie.» «Vuoi che ti dica come la penso? Ha una faccia da strega» dichiarò ridendo Bill Speaker. «Ha un bel coraggio, questo sì. Ha l'aria di non essere mai vissuta in campagna prima d'ora. Imparerà. In men che non si dica, si ritroverà completamente assediata dai topi. Oh, beh, lascia che se la sbrighi lei, in fin dei conti. Imparerà, Mary, vedrai.» Accese il motore, fece marcia indietro per voltare il camioncino, e un istante dopo filavano via sotto gli
olmi e i pioppi, nella luce perlacea e frizzante. Non c'era segno di cattivo tempo, al momento, salvo una leggera foschia e poche nuvole vaganti sulle cime delle Sandias, che chiudevano la vallata dai due lati. Era passata da poco l'una quando uscirono dai cancelli di El Toro e si diressero a est. Poche ore dopo, a Denver, trecento miglia più a nord, un'assemblea di funzionari provenienti da ventiquattro Stati stava concludendo una discussione sui metodi e sui mezzi da impiegare per la prevenzione dei crimini. Tra i presenti c'era Christopher McKee, della Omicidi di New York, in rappresentanza della sua città. Anche il commissario capo sarebbe dovuto intervenire, ma all'ultimo momento era stato trattenuto e aveva delegato lui in sua vece. Lo scozzese sarebbe dovuto ripartire per New York in serata, ma il tempo andava peggiorando rapidamente sulle Montagne Rocciose, e tutti i voli notturni erano stati sospesi. «Potrebbe andare fino a Phoenix» gli suggerì qualcuno «e prendere l'aereo da là.» Ma McKee aveva altri progetti. Non aveva alcuna fretta di partire; la riunione era terminata presto, e un giorno o due in più o in meno non avrebbero cambiato niente. All'ufficio di New York non c'era nulla che richiedesse al momento la sua presenza; così, appena saputo che il suo volo era stato sospeso, aveva telefonato al colonnello James Ringrose. Il colonnello era un suo amico di antica data che si era stabilito in un ranch vicino a Santa Teresa, nel New Mexico occidentale. Aveva insistito innumerevoli volte con McKee perché andasse a trovarlo al ranch, dove viveva con la moglie. "Vieni a dare un'annusata all'aria che si respira quassù, e a vedere come vive un uomo libero" gli aveva ripetuto, sia per lettera sia a voce, in qualche puntatina occasionale che aveva fatto all'Est. "Ti farò assaggiare il miglior cosciotto di selvaggina che tu possa mai addentare, e quanto al pesce..." Prima non era mai stato possibile, perché la distanza era troppa. Ma McKee voleva molto bene all'amico James e, visto che si trovava a sole trecento miglia, non perse l'occasione. Prese accordi per noleggiare un'automobile, e il mattino dopo, di buon'ora, si mise in viaggio verso sud. Sebbene il tempo andasse continuamente peggiorando, non avrebbe incontrato difficoltà se si fosse tenuto sulla principale arteria di comunicazione. Ma la sera prima, al telefono, Ringrose gli aveva impartito istruzioni particolareggiate per una via più breve che gli avrebbe accorciato il tragitto di parecchie miglia, permettendo ai due amici di restare insieme più a lungo. L'errore di McKee fu di imboccare la scorciatoia. Cadeva neve mista a
pioggia, quando lasciò Denver, e sui passi montani nevicava abbondantemente. Dopo la neve cominciò la nebbia, e dopo la nebbia il vento e la pioggia. McKee era abituato al vento, a New York, e anche alla pioggia, ma non a un vento e a una pioggia come quelli che incontrò procedendo verso sudovest. Dopo che si fu lasciato alle spalle Santa Fe, svoltando per seguire il percorso alternativo, le cose andarono sempre peggio. Una mezza dozzina di volte rischiò di uscire di strada e di finire nella vallata che si spalancava trecento metri più sotto. La pioggia non era più una pioggia normale, si era trasformata in un rumoreggiante Niagara. Tutti i punti di riferimento indicati da Ringrose erano cancellati, e verso le quattro dovette convincersi di essersi irrimediabilmente smarrito. La strada che stava seguendo era stretta, ripida, tutta tornanti. Su e giù, tagliava attraverso gole, s'inerpicava verso il cielo invisibile, s'inabissava bruscamente verso profondità imperscrutabili. Fermarsi sarebbe stato anche più pericoloso. McKee non aveva idea di dove si trovasse. Perfino il suo senso di orientamento, in genere eccellente, l'aveva abbandonato. Non c'erano città o centri abitati, o per lo meno non era possibile scorgerne. E non s'intravedeva nemmeno il luccichio di una luce in qualche casa distante, assolutamente nulla salvo rapide visioni di pecore e di bovini ammassati al riparo di qualche grotta. L'unica cosa da fare era procedere coraggiosamente verso sudovest, regolandosi a naso, nella speranza di lasciarsi alle spalle la tempesta o di raggiungere prima o poi una traccia di vita civile. Sapeva di trovarsi sulle Sandias, lo capiva dalla loro altezza e dalla loro posizione sulla mappa, ma era tutto quanto sapeva al momento. Man mano che vi s'inoltrava, rami d'albero cominciarono a ingombrare la superficie melmosa del fondo stradale, inondato d'acqua e costellato di buche impressionanti. A un tratto, percorrendo un tornante, si trovò davanti un palo del telegrafo mezzo divelto, che penzolava paurosamente in un groviglio di fili strappati. Erano le quattro e mezzo, ma sembrava già notte fonda. La pioggia si congelava in chiazze di ghiaccio sul parabrezza, i tergicristalli non servivano a nulla, e a un certo punto McKee si vide costretto a guidare con la testa fuori del finestrino, tenendo gli occhi socchiusi per ripararsi dalla sferza pungente del nevischio. Invece di migliorare, le cose andavano di male in peggio. E si presentava un altro problema allarmante. Nei punti più bassi, fondi pietrosi e gole tra le montagne e gli altipiani, la strada era coperta dall'acqua che si riversava
dai canaloni recentemente in secca, trasformati dal diluvio in torrenti impetuosi. McKee riuscì per miracolo ad attraversare un traballante ponticello di legno, che slittò di traverso e venne spazzato via dai sostegni prima ancora che le ruote posteriori della macchina toccassero terra. A quel punto si sarebbe fermato, deciso ad aspettare che passasse la notte; e tuttavia aveva sentito dire da Fernandez che quelle bufere duravano a volte per giorni e giorni. Continuò perciò ad avanzare, sobbalzando sopra ostacoli invisibili e slittando da un lato all'altro, dentro e fuori dai solchi in un fango che si era fatto pericolosamente profondo e che provocava sbandamenti paurosi. Sembrava di guidare attraverso uno stagno gelatinoso e senza fondo. La fine del tragitto arrivò in modo inaspettato. Un lieve grido sopra il fragore del vento e della pioggia, una figura indistinta sorta d'improvviso proprio davanti alle ruote. McKee diede una brusca sterzata e si buttò sui freni. Subito la macchina slittò di traverso e andò a sbattere contro la parete di roccia. Uno scossone, rumore di lamiere contorte e di cristalli infranti. I fari erano andati. C'era una torcia nello sportellino del cruscotto. La cercò a tentoni e scese. Grazie al cielo, nessuno giaceva inanimato al suolo. L'uomo che per poco non aveva investito era riuscito miracolosamente a scansarsi buttandosi da una parte. Stava già rialzandosi, letteralmente ricoperto di fango. Traballò come un ubriaco, si ripulì la faccia con la mano guantata e fissò McKee attraverso il fiotto improvviso di luce. Appariva esausto. Era uno dell'Est, a giudicare dagli abiti, o dal poco che se ne scorgeva; sulla quarantina o poco più, con un viso non bello ma intelligente, a testa scoperta. Evidentemente aveva perso il cappello. I capelli gli stavano incollati al cranio a causa dell'acqua torrenziale. Dovettero urlare per riuscire a udirsi, nel frastuono. Lo sconosciuto si chiamava Steele, ed entrambi si trovavano ora nella stessa situazione: avevano smarrito la strada e le loro macchine erano fuori uso. Momentaneamente, per lo meno. Quella di McKee era gravemente danneggiata, mentre quella di Steele giaceva capovolta in un fossato un centinaio di metri più avanti. «Dove siamo?» urlò Steele, e McKee si strinse nelle spalle e urlò di rimando: «Lo sa il cielo!» E provò intanto a far danzare intorno il raggio della torcia. Si trovavano su un tratto abbastanza pianeggiante, in una specie di vallata. Da una parte la strada era serrata da massi rossicci, non molto alti, dai quali l'acqua scendeva in grossi rivoli. Dall'altra, al di là di alcuni cespugli
quasi appiattiti al suolo, una mucca li fissava da dietro una cinta di filo spinato con espressione stolida e perplessa. L'animale muggì con aria lugubre all'indirizzo dei due uomini. Il filo spinato significava che c'era una fattoria o un ranch, e i due lo seguirono dirigendosi a sud, scivolando nel fango denso, sotto la pioggia che era addirittura una muraglia d'acqua, camminando per circa mezzo miglio. Il filo spinato terminava ai pilastri di pietra di un cancello, dal quale si dipartiva l'imboccatura di un viale. Al di sopra dei pilastri c'era un'arcata in ferro che li collegava: su di essa, a lettere un tempo dorate, si leggeva un nome. McKee lo riconobbe. Gli tornarono in mente Fernandez, l'ufficio del commissario capo... Il nome del ranch era El Toro, mancava soltanto una "o". Il nome Dane era ripetuto sulla cassetta delle lettere, che si trovava su un palo vicino alla strada. I due uomini infilarono il cancello e avanzarono lungo il viale. Il fango creava un tale risucchio sotto i loro piedi che a ogni passo si rischiava di perdere una scarpa. Procedere era faticosissimo. La torcia illuminava gli alberi, olmi e pioppi, e squarci di campi aperti sui lati del viale, ma della casa non si vedeva traccia. Non c'era altro che il mugghiare del vento e il flagello incessante della pioggia. Poi, si udì un altro rumore. Un trottare di zoccoli di cavallo attutito dal fango. Lo scozzese proiettò in avanti la luce della torcia. Un uomo veniva lungo il viale, alla loro volta, su un grosso cavallo scuro. Cavalcava senza sella. Quando li raggiunse tirò le redini, imprigionato in un cerchio di luce. Il cavaliere era alto, magro, giovanissimo, poteva avere poco più di vent'anni. Indossava una giacca a vento color kaki, calzoni di fustagno e stivali. Sembrava atterrito. Gli occhi gli scintillavano nel volto pallido e madido di pioggia. Un volto aperto, simpatico, buono. Fu il primo a parlare. «Lei è lo sceriffo?» domandò con il fiato corto, guardando da Steele a McKee. «Lo sceriffo?» Steele lo fissò interdetto. McKee rispose: «No, perché?» «Perché laggiù c'è un morto» spiegò il ragazzo, accennando alla direzione dalla quale proveniva. «Andavo a chiamare aiuto. Il telefono è guasto. Venite, vi faccio vedere.» 2 Steele e McKee seguirono il ragazzo a cavallo su per il viale alberato, muovendosi con tutta la rapidità possibile, scivolando e inciampando nel
fango profondo dieci o dodici centimetri che andava facendosi sempre più denso e penetrava nelle scarpe, tanto che Steele finì per perderne una. Rami spezzati ingombravano il terreno. Una svolta brusca. In distanza, a sinistra, luci fioche, molto distanziate fra loro, emettevano puntini luminosi nell'oscurità attraverso la fitta cortina di pioggia. La casa, finalmente; ma il ragazzo non vi si diresse subito. Il viale carrozzabile, ammesso che si potesse chiamarlo così, si era fatto più ampio. Guidò i due uomini oltre un cancello che si apriva in un'alta muraglia di mattoni e immetteva in una specie di vasto cortile, fiancheggiato a tratti da edifici bassi. McKee poteva vedere ben poco, con la pioggia e l'oscurità, ma riconobbe nel luogo una tipica hacienda del Diciottesimo secolo, quale gliel'aveva descritta Fernandez e che era né più né meno che un forte, come appunto era necessario a quell'epoca. Ne erano rimaste ben poche, ormai. Una corte recintata sul davanti, sulla quale si aprivano i locali principali; un'altra sul retro, dove un tempo venivano alloggiati i braccianti, tenuti in rimessa i carri e riempiti i vari magazzini di grano, granturco e avena, di sacchi di caffè e di carne in conserva, di frutta secca, erbe e collane di peperoni piccanti che pendevano dai soffitti a travi. Tutto questo era cambiato, ormai. Braccianti e carri erano da tempo scomparsi, e gli edifici sul retro erano deserti. In un riflesso di luce brillava un vetro rotto di quello che sembrava una specie di pollaio, dal tetto mezzo sfondato. In tutta la proprietà c'era un'atmosfera di rovina e d'abbandono, di antico splendore prossimo a crollare in pezzi. Al centro della corte il ragazzo si lasciò scivolare giù da cavallo; la bestia, docile, si fermò e rimase lì a testa bassa. Il nome del ragazzo era Ward, Jim Ward. Il suo accento era dell'Ovest. «Da quella parte» disse, e si diresse a sinistra passando sotto i rami penzolanti dei pioppi, e poi di nuovo a sinistra, verso una porta che doveva essere un'entrata di servizio. Un bidone per i rifiuti e un inceneritore stavano a un lato della porta. Dall'altro, a meno di tre metri dalla soglia, un uomo giaceva riverso con un braccio in fuori e una gamba ripiegata sotto di sé. Era anziano; la faccia, bruna, rugosa, dominata da un naso adunco, era rivolta verso l'alto. Indossava calzoni da cow-boy e un pesante maglione, e calzava stivali da lavoro incrostati di fango. Gli occhi, semiaperti, non si mossero alla luce proiettata dalla torcia di McKee. Un lato della testa era completamente fracassato. Era poco probabile che un individuo potesse sopravvivere a un colpo simile. Questo, almeno, sembrava certo. Guardando l'uomo riverso, il gio-
vane Ward si girò bruscamente e rigettò. McKee s'inginocchiò sui mattoni che pavimentavano l'impiantito della corte ed eseguì meccanicamente i soliti gesti. Tastò il polso dell'uomo, e istintivamente premette con i polpastrelli. Aveva avvertito un battito lieve, irregolare, ma pur sempre un segno di vita. Si chinò più dappresso. Sì, anche la respirazione era lievissima, quasi inavvertibile, ma c'era... Si rialzò rapidamente. «Vivo» annunciò, facendo scorrere via l'acqua dalla falda del cappello. «Dobbiamo portarlo subito dentro, al coperto.» Non fu un'impresa facile. Per fortuna, il ferito non era pesante. McKee lo sollevò per le spalle, Steele gli afferrò le gambe. Ward li precedette aprendo le porte, attraverso un ingresso e poi una vasta cucina. L'elettricità era interrotta, come il telefono. L'illuminazione, nella stanza enorme, proveniva da una lampada posata al centro di un lungo tavolo, oltre che dai ceppi che bruciavano nel monumentale camino all'estremità opposta. Una donna, girata di spalle, era in piedi accanto al fuoco, intenta a riscaldarsi le mani. Al loro entrare si voltò. Le braccia le ricaddero lungo i fianchi. Li fissò con occhi sbarrati... da che cosa? Sbigottimento, sorpresa, timore? Era di mezz'età, dall'aria sciatta e modesta. I capelli scuri e opachi erano raccolti in una crocchia alla sommità del capo. Gli occhiali cerchiati di metallo non contribuivano certo a migliorare il suo aspetto. La donna continuava a fissare Steele e McKee, e intanto si passava la punta della lingua sulle labbra, come se d'improvviso fossero diventate aride e brucianti. Poi abbassò lo sguardo sul fardello sostenuto dai due e si fece pallidissima. Per un momento parve proprio sul punto di svenire. «Che cosa... Chi...» Sembrava agitatissima, balbettava. Forse conosceva il ferito? McKee non poté evitare di chiederselo. Ma non c'era tempo, adesso, per fare domande. Disse sbrigativo: «Una camera da letto, la più vicina.» La donna, con il fiato corto e le labbra serrate, indicò: «Sì, là dentro...» Un minuto dopo il ferito era disteso su un letto ampio, in una grande e tetra camera in fondo a uno stretto corridoio che pareva tagliare tutta la casa, o almeno quell'ala della costruzione. Indumenti e scarpe gli furono tolti, dopodiché venne coperto con alcune trapunte prelevate da un vecchio armadio verniciato ai piedi del letto. McKee aveva con sé una fiaschetta. Svitò il tappo e versò adagio un po' di brandy nella bocca inerte. Dapprima il liquido rifluì fuori, ma l'ispettore insistette con pazienza e finalmente qualche sorso scivolò nella gola. Un colpo di tosse. L'uomo ne aveva inghiottito una parte. Non molta, ma lo
sforzo era bastato a farlo rinvenire. Chiuse gli occhi e cominciò a biascicare qualcosa. La voce si sentiva appena, nel fragore della tempesta che infuriava all'esterno. «Non...» Una pausa, un nome mormorato. Patrick, Peter, Perez? Poi, un po' più forte, in modo più intelligibile: «Signorina Mary...» Fu tutto. Il ferito smise di parlare, chiuse di nuovo gli occhi e ricadde nell'incoscienza. Ma respirava ancora. McKee aveva una cassetta di pronto soccorso nella macchina che era stato costretto ad abbandonare. Restando inginocchiato accanto al letto, pregò Ward di andare a prenderla. Il ragazzo era ansioso di rendersi utile. «Vado subito» disse. «Prenda il cavallo, e faccia presto, capito? Più presto che può.» La donna, che li aveva seguiti nella stanza senza che le fosse stato chiesto, lo sguardo fisso sul volto immobile, bruno e dal naso adunco dell'uomo sdraiato sul letto, domandò con un filo di voce: «È morto?» McKee rispose senza voltarsi: «Respira ancora.» Versò altro brandy senza che l'uomo lo mandasse giù, poi si rialzò e si avvicinò alla sedia sulla quale erano stati gettati i calzoni e il maglione. Le tasche dei calzoni contenevano un portafogli logoro di poco prezzo, un coltello a serramanico, qualche spicciolo, una cartolina illustrata e un grosso orologio di scarso valore. La cartolina era indirizzata a Emilio Gomez, presso Dane, Route 6, Box 430, Estancia, New Mexico, ed era stata spedita da una tale di nome Mame. Il portafogli conteneva un biglietto da un dollaro e uno da cinque, una tessera della previdenza sociale e una patente di guida intestata a Emilio Gomez. Il ferito era senza dubbio Gomez. L'orologio era d'oro, grossolanamente cesellato, una specie di cipollone che doveva avere come minimo ottant'anni. Era interessante, nel suo genere. All'interno della doppia cassa c'era l'iscrizione: "A William da Mary". McKee fece scattare l'altra faccia della cassa per scoprire il quadrante. Le lancette erano bloccate sulle sei meno dieci. Quasi certamente l'orologio si era fermato quando Gomez aveva ricevuto il colpo ed era crollato sul pavimento del cortile posteriore. Rialzando lo sguardo, McKee sorprese la donna a fissare l'orologio, come se l'oggetto avesse per lei un significato particolare. Nei suoi occhi, dietro le lenti, lo sguardo era assorto, quasi smarrito. Addossata con le spalle alla parete, la sconosciuta non rispondeva alla descrizione che Fernandez aveva fatto della sorella di Veronica Dane, Mary. McKee la interpellò cortesemente: «Le dispiacerebbe dirmi chi è e come si chiama?» Lentamente la donna si scosse, e con uno sforzo portò l'attenzione sull'i-
spettore. «No, signore, certo che no.» Era la signora Tafoya: era stata sorpresa dalla tempesta mentre viaggiava verso nord, diretta da Phoenix ad Albuquerque. La sua macchina era vecchiotta e non troppo solida. Nei pressi del ranch il motore aveva cominciato a comportarsi in modo poco promettente, e così lei aveva imboccato il cancello di El Toro nella speranza di trovare una casa e possibilmente un telefono. Ma la linea era interrotta. Per fortuna la padrona era stata molto gentile e le aveva permesso di fermarsi per la notte. «La signorina Dane?» domandò McKee, ma con sua sorpresa la donna rispose di no. La padrona di casa era una certa signora Fergusson, che in quei giorni aveva affittato la proprietà dalla signorina Dane. La cosa era abbastanza plausibile, e comunque ci sarebbe stato tempo in seguito di controllarla. La donna aveva l'aria di dire la verità, il che contrastava con l'interesse mostrato per l'orologio: un interesse ben definito. «Verso che ora è arrivata qui, signora Tafoya?» Lei rifletté, rialzando una ciocca scomposta e aggiustandosi le lenti sul naso. Le sembrava, a occhio e croce, che potessero essere state le cinque e mezzo. C'erano già altre persone nella casa, sconosciuti, bloccati come lei dalla tempesta. McKee annuì. Situazioni del genere venivano descritte ogni tanto dai giornali, o alla radio: viaggiatori costretti a cercare riparo dalle condizioni proibitive del tempo. Chi erano le persone che si erano rifugiate lì quando lei era arrivata? Un signore con due donne, il ragazzo, Ward, e un altro uomo. Lei non conosceva nessuno, per lei erano tutti estranei. McKee aveva già notato i capelli bagnati della donna, e le scarpe infangate: grosse scarpe nere di foggia sportiva, dal tacco largo e solido. Era uscita recentemente dalla casa, non molto prima che lui e Steele arrivassero. Ma, o era molto furba e aveva notato la sua occhiata, oppure aveva veramente la coscienza pulita. Ammise senza esitazioni, sia pure con quel fare goffo e impacciato, di essere uscita all'aperto. Voleva prendere la sua valigia dalla macchina, ma la pioggia e l'oscurità l'avevano indotta a fermarsi dopo solo pochi passi. Non aveva una torcia elettrica, e così era tornata indietro. Sperava che qualcuno potesse prestargliene una, magari più tardi... No, non aveva visto l'uomo sdraiato al suolo, a poca distanza dalla porta di servizio. No, non sapeva chi fosse, non l'aveva mai visto in vita sua. Ne era certa? «Sì, signore, certissima. Ero appena rientrata in cucina quando siete arrivati voi.» Poteva darsi che dicesse la verità; d'altra parte, tanto l'agitazione mostra-
ta al vederli entrare in cucina con il ferito, quanto l'interesse per quel vecchio cimelio d'orologio, erano stati un po' eccessivi per una che sosteneva d'essere semplicemente una viaggiatrice arenatasi in quel luogo e di non aver mai visto in vita sua la casa né alcuno dei suoi occupanti. Sul letto, Gomez cominciò a rantolare. I respiri rauchi erano regolari, profondi. McKee si girò di scatto a esaminarlo. Quello che vide non gli piacque: il poveretto era in coma. La stanza era gelida, umida, e lui avrebbe avuto bisogno di stare ben caldo. Pregò la signora Tafoya di procurare in tutta fretta qualche bottiglia d'acqua calda. Lei disse: «Certo, signore» e uscì immediatamente. Steele stava accendendo il fuoco nel caminetto in angolo; in un cesto lì accanto aveva trovato carta e fascine. Se non altro, lui era insospettabile, rifletté McKee osservando le fiamme che cominciavano ad alzarsi. Dovevano essere state circa le cinque e dieci quando gli era apparso sulla strada, alla luce dei fari, a circa mezzo miglio dal cancello, e per arrivare fino all'hacienda avevano impiegato almeno tre quarti d'ora. Era un sollievo sapere che almeno una persona era fuori da quella losca faccenda. Poteva esserci un assassino nella casa, o annidato nelle vicinanze... e senza dubbio lui avrebbe avuto bisogno di aiuto. McKee si soffermò a meditare sulla prospettiva. "Eh, già, avrò bisogno d'aiuto..." In piedi accanto al letto, fece un'alzata di spalle tra l'irritato e il rassegnato. A New York l'omicidio era pane per i suoi denti, ma lì, perbacco, nella desolata vastità del New Mexico... E d'altra parte, era inutile prendersela e imprecare contro la sorte: non gli restava che prodigarsi nel migliore dei modi in attesa che il tempo migliorasse e che la polizia locale e quella di Stato arrivassero a dargli il cambio. Ward entrò affannato, inzuppato e sporco di fango. McKee tolse dalla valigia che il ragazzo gli aveva portato la cassetta di pronto soccorso. Conteneva adrenalina, un paio di fialette di morfina, una siringa ipodermica, un termometro e qualche benda di garza. Portarsela dietro era diventata un'abitudine, per lui. Più d'una volta quelle cose gli avevano fatto molto comodo. Gomez andava gradatamente peggiorando, su questo non c'era dubbio. Il colorito era orribile, il polso quasi non si sentiva più. In effetti avrebbe avuto bisogno di un medico, di un'ambulanza e di un ricovero immediato all'ospedale. Tutte cose che al momento non erano disponibili, rifletteva cupo lo scozzese, tendendo l'orecchio al vento che mulinava intorno alla casa e alla pioggia che crepitava con violenza contro i vetri. Praticò al feri-
to un'iniezione di adrenalina, poi restò a osservare attentamente la faccia rugosa e indurita dalle intemperie. Lo stesso fecero Steele e il giovane Ward, la cui giacca a vento grondava acqua dopo la precipitosa corsa fino alla macchina fuori uso dell'ispettore. Dopo cinque o sei minuti, la respirazione si fece lievemente più regolare, il polso più forte; ma Gomez non riprese i sensi. Probabilmente aveva una grave frattura cranica. McKee tornò a infilare il braccio inerte dell'uomo sotto le coltri. Tutto quello che si poteva fare, fino all'arrivo dei soccorsi, era tenerlo in vita... se possibile. La ferita alla testa era troppo profonda perché si potesse tentare di curarla; non restava che applicare una compressa e bendarla alla meglio. Fatto questo, rivolse a Ward più o meno le stesse domande che aveva rivolto alla signora Tafoya. Il ragazzo rispose aggrottando la fronte, cercando di essere il più preciso possibile. Gli sembrava di essere arrivato poco prima delle cinque; sì, infatti aveva udito una pendola battere in lontananza le cinque, subito dopo essere entrato al riparo. «Anche alla sua macchina è capitato qualcosa, signor Ward?» «La mia macchina?» Gli occhi grigio-azzurri, dall'espressione franca, si spalancarono sotto la massa di capelli rossi scomposti. «Non ho macchina, io. Magari l'avessi...» «Ah, no? Ma allora com'è arrivato fin qui?» «A piedi.» «A piedi?» McKee era lievemente stupefatto. Ormai la gente andava a piedi solo in città, e sempre che la distanza da coprire fosse brevissima. Ward accennò di sì con la testa. «Proprio così, signore. Sono partito da Rosita, dove vive mia madre, circa quattro settimane fa. Avevo un lavoro in una rivendita di automobili di Española, ma poi hanno cominciato a licenziare personale, e io sono stato fra i primi a fare fagotto perché ero il più giovane, non ero sposato e via discorrendo. Ho il polmone destro non troppo in buono stato. Speravo di poter trovare lavoro ad Albuquerque, tutti dicono che continua a espandersi... oppure più in là, magari a Phoenix. Ad Albuquerque ho trovato lavoro, in effetti, ma solo per dieci giorni, perciò ho deciso di proseguire. Sono venuto via di là stamattina presto. Le strade sono abbastanza ripide, in montagna, e c'era un gran vento, così non ho potuto fare molta strada. In ogni modo, ero stanco morto quando sono arrivato da queste parti, e quella donna, la signora Fergusson, mi ha dato il permesso di restare per la notte... Beh, non che fosse entusiasta, intendiamoci.»
«C'erano altre persone, quando è arrivato?» Ward rispose di sì: c'erano un macchinone di lusso, una Rolls, e un altro paio di vetture parcheggiate vicino alla casa. Lui era tutto infangato, e così aveva pensato di passare dalla porta sul retro. Non sapeva se Gomez fosse là fin da allora; non l'aveva visto, comunque. La corrente elettrica non era ancora mancata, e lui si era diretto subito alla porta di servizio. «Suppongo» concluse con un sorriso timido «che la signora Fergusson, vedendomi arrivare, abbia pensato che ormai uno più, uno meno, fosse lo stesso, e poi credo che l'altra signora, la Tafoya, abbia messo una buona parola per farmi restare.» Le due signore erano le uniche persone che aveva visto. Dopo essere entrato in casa, tutto inzaccherato, era rimasto per un bel pezzo a cercare di ripulirsi in una specie di acquaio attiguo alla cucina. E mentre parlava, si guardò avvilito gli stivali, di nuovo infangati fino al ginocchio. McKee rifletté. L'aggressione a Gomez era avvenuta alle sei meno dieci. Lui e Steele avevano incontrato Ward che arrivava a cavallo dal viale d'ingresso una buona mezz'ora più tardi, anche tre quarti d'ora. Domandò a Ward a che ora, e in che modo, avesse trovato Gomez nella corte di servizio. Quanto all'ora, Ward non era in grado di precisare, non possedeva orologio. In che modo? Beh, era uscito a fare legna per il caminetto della cucina: prima, nel raggiungere la casa, ne aveva scorto un bella catasta in fondo alla corte. No, nessuno gli aveva chiesto di andarci, ma gli era sembrato che la provvista di legna in cucina fosse scarsa. «E ho ritenuto mio dovere rendermi utile, fare il possibile per dare una mano.» Avanzando a tentoni, nell'oscurità, per poco non era caduto inciampando in un corpo umano, e aveva pensato che si trattasse di un morto. Allora aveva portato il cavallo fuori del recinto ed era corso via per cercare aiuto. «Perché non ha informato le persone di casa... la signora Fergusson, per esempio?» «Ho tentato, signore» assicurò Ward con molta serietà. «Parola d'onore, ho tentato. Sono corso in casa, ma in cucina non c'era nessuno, nel frattempo la corrente era mancata, e il telefono non funzionava fin da prima. Chissà, un po' il buio, e questa casa così strana...» Fece un gesto vago. «Credo... credo proprio d'aver perso la testa. Mi sembrava di essere nel regno degli spiriti. Sapevo che c'erano dei cavalli, il recinto è proprio accanto al cancello posteriore, e c'erano un paio di cavezze attaccate a un palo. E siccome sulla mia mappa c'è una città circa tre miglia più a sud, ho pensato
che forse là avrei trovato uno sceriffo, o qualcuno che avesse l'autorità...» McKee lo osservava pensoso. Era un giovanotto alla buona, con la faccia lentigginosa, i capelli bruno-rossicci tagliati a spazzola, e l'aria da bravo ragazzo piuttosto intelligente, ma evidentemente sconvolto da quanto era accaduto. Poteva darsi che dicesse la verità, come la signora Tafoya. Poteva anche darsi, al contrario, che avesse tentato di allontanarsi a briglia sciolta dalla scena di un delitto... Era troppo presto per decidere quale delle due versioni rispondesse al vero. C'erano altre persone da interrogare, e una quantità di indagini da svolgere, prima di arrivare a qualche conclusione. Stava per congedarlo, quando s'interruppe bruscamente. Con la coda dell'occhio aveva visto abbassarsi la pesante maniglia dell'uscio, e la porta cominciare ad aprirsi. Prima che lui potesse arrivare all'altra estremità del letto la porta si era richiusa, senza il minimo rumore. La stanza era molto grande. Quando McKee raggiunse la porta e l'aprì, non c'era più nessuno nell'angusto corridoio, nulla salvo l'oscurità. Altre porte si aprivano a destra e a sinistra, tutti nascondigli che potevano essere chiusi dall'interno. Qualcuno poteva essersi infilato in una di esse, anzi qualcuno vi si era certamente infilato, perché la maniglia non s'era di certo abbassata da sola. McKee scrollò le spalle, rientrò nella camera e lasciò andare Ward; poi, rimasto solo con Steele, gli domandò se avesse nulla in contrario a restare con Gomez, mentre lui andava a parlare con le altre persone presenti nella casa. «Qualcuno ha tentato di introdursi qui.» Steele non si sorprendeva più di nulla. Tutto era possibile, in quella casa. Inarcando le sopracciglia, accennò alla figura immobile sul letto. «Intende dire, ispettore... per finire il lavoro interrotto?» McKee aveva già rivelato a Steele la propria identità. «È possibile» convenne. «Sembra probabile, anzi, dal modo in cui quella persona si è dileguata, appena ha scoperto che eravamo qui.» «Allora è impossibile che sia stata la signora Tafoya» osservò Steele. «Sapeva che eravamo qui, perciò dev'essere stato qualcuno degli altri. Il campo si restringe un pochino, no?» «Vero, sì.» La lampada a petrolio che stava in un angolo, sul suo supporto di marmo, mandava fumo. McKee abbassò leggermente la fiamma. In quel momento la signora Tafoya bussò lievemente ed entrò nella stanza con la sua andatura un po' goffa, rattrappita. Aveva le braccia cariche di bottiglie avvolte in asciugamani. «L'acqua calda» annunciò. «Credo che così vada bene.» Spinse da parte il tavolino con sopra la cassetta del
pronto soccorso e cominciò a infilare bottiglie sotto le coperte nelle quali Gomez era avvolto fino al mento. Eseguiva il lavoro con precisione e perizia, senza più traccia del nervosismo di prima. A giudicare dall'indifferenza che ostentava, Gomez avrebbe potuto essere un pezzo di legno. Rialzatasi, si rivolse a McKee. «Posso fare altro, signore?» s'informò con la sua voce monotona. «Me la cavo benino con i malati, so prendere la temperatura e imboccarli. Un tempo lavoravo come infermiera in un ospedale.» Lui la ringraziò, le disse che non gli sembrava che ci fosse bisogno d'altro, e lei uscì. Appoggiato alla parete, le mani sprofondate nelle tasche, Steele la seguì incuriosito con lo sguardo. Sembrava assorto. «Sa» disse pensosamente, appena la porta si richiuse alle spalle della donna «è curioso, ma ho la sensazione d'averla già vista da qualche parte... Sì, ne sono quasi certo. Non da queste parti, però; è la prima volta che vengo nel Sudovest.» Tentato omicidio a opera di qualcuno che si trovava dentro casa o nelle vicinanze: anche la più vaga informazione sulle persone presenti poteva avere la sua importanza. «Nessuna idea di quando o dove l'ha vista?» lo esortò McKee. Steele non ricordava. Qualche particolare, tutt'al più, ma frammentario. «Un secchio, uno spazzolone per pavimenti... lei inginocchiata. Sì, sì, questo è certo.» Ma, per quanto si sforzasse, era tutto quello che riusciva a ripescare nella memoria. Un secchio e uno spazzolone per pavimenti: la donna aveva tutta l'aria d'aver fatto lavori umili, forse in gioventù. «Non si sforzi troppo, forse le verrà in mente all'improvviso» raccomandò McKee. A intervalli si era dedicato all'esame della stanza, e aveva quasi raggiunto la certezza che fosse quella della defunta Veronica Dane. Sul copriletto di raso sbiadito, che era stato ripiegato all'indietro, era ricamata l'iniziale V. Era una camera molto austera, quella che Veronica aveva occupato, non fosse altro per quanto riguardava le comodità. McKee contemplò il soffitto a cassettoni, le travi massicce, le pareti imbiancate a calce, le tre sedie intagliate a mano dall'imbottitura logora, alcuni tappetini navajo, molto belli ma anche molto lisi, il letto, il lavamano di poco prezzo con catino e brocca, il bel cassettone verniciato, e l'imponente, intagliatissima scrivania di un legno che sembrava ebano. Queste ultime suppellettili provenivano da altri luoghi, ed erano molto antiche. Forse erano state trasportate più di un secolo e mezzo prima da Città del Messico, da qualche antenato dei Dane. A sentire Fernandez, Ve-
ronica aveva un senso della famiglia che rasentava il fanatismo; probabilmente, aveva mantenuto ogni cosa com'era ai tempi di suo nonno. Venerazione degli avi, tendenza a immergersi nel passato... forse perché il presente l'aveva delusa? Non era da escludere. Ma perché pensare a Veronica? Era morta, ormai, scesa nel sepolcro. Eppure, la sua personalità era talmente impressa nella stanza da dare quasi la sensazione che fosse ancora viva. McKee si scosse, guardò Gomez. Nessun cambiamento. Se quell'uomo avesse potuto parlare... Le quattro parole che era riuscito a pronunciare non avevano senso. "Non... ", poi un nome d'uomo, Peter, o Perez, o Patrick, e infine "Signorina Mary...". Una ventata furiosa si abbatté contro le imposte, e la lampada riprese a mandare fumo. McKee aggiustò di nuovo lo stoppino. «Voglio andare a parlare con gli altri, ma non starò via molto» disse a Steele, e uscì prendendo con sé la torcia elettrica. Ne aveva bisogno. Il corridoio era completamente immerso nell'oscurità. Proseguì verso la cucina. Là c'era abbastanza luce, grazie alla grossa lampada a petrolio che ardeva sul tavolo al centro dell'immenso stanzone. Pareti imbiancate a calce, macchiate qua e là dal fumo; il grande caminetto era stato usato un tempo per cucinare, perché ai due lati erano appesi recipienti e accessori di ferro nero. La signora Tafoya stava riempiendo un bricco al rubinetto del lavandino. Raccogliendosi su se stessa, si girò di scatto come un animale impaurito all'ingresso di McKee, e si calmò solo quando vide di chi si trattava. L'ispettore si domandò chi mai la donna avesse pensato, o temuto, di trovarsi davanti. Nel suo movimento brusco c'era stato vero e proprio terrore. Forse era solo nervosa, o forse la fantasia di lui era leggermente eccitata. Tutto e tutti, in quella casa, sembravano vagamente sospetti, distorti, sottilmente deformati. Ma forse, e rise in cuor suo, la colpa era solo del suo sangue scozzese, e della vecchia hacienda che sembrava presa di peso fuori da un altro secolo. Si girò di scatto, quasi quanto la signora Tafoya, perché una porta si era aperta all'altra estremità della stanza ed era entrata una donna. La donna era la signora Fergusson, colei che aveva affittato El Toro da Mary Dane. La donna aveva un portamento sicuro di sé ed era piuttosto piacente, per quanto avesse un'aria dura e poco simpatica. Si arrestò fissando McKee, molto sorpresa. «E lei chi è?» La domanda era brusca, l'espressione esasperata. Date le circostanze, si
poteva anche capirla. In genere nessuno si aspetta di trovarsi in casa un perfetto sconosciuto che fa i suoi comodi come se la cucina fosse sua. McKee si presentò senza dire che era ispettore di polizia: spiegò ciò che era successo a lui e a Steele, lo sconquasso capitato alle due macchine lungo la strada, a breve distanza dal cancello del ranch, la scoperta del nome scritto sui pilastri. Disse che un suo amico dell'Est era un vecchio, intimo amico della famiglia Dane. «Mi aveva pregato di fermarmi qui, se ne avessi avuto occasione, dato che venivo da queste parti... cosa che non ritenevo affatto probabile. E invece, il caso mi ci ha portato di prepotenza.» E sorrise, affabile. La signora Fergusson non sorrideva. «E quel tale che è con lei?» McKee spiegò che si trattava di un certo signor Steele, uno scrittore di New York in viaggio di piacere nel Sudovest. Le raccontò come avevano incontrato Ward e com'era avvenuto il ritrovamento di Gomez, gravemente ferito e abbandonato nel cortile, accanto alla porta di servizio. La signora perse un po' della sua animosità; non molto, però. Disse di non avere mai visto in faccia quel Gomez, ma di sapere chi fosse. Quasi un'ora era passata da quando l'ispettore e Steele lo avevano trasportato in casa. McKee si scusò per essere entrato nell'hacienda senza permesso, ma non aveva potuto fare diversamente e la signora non era reperibile. La Fergusson si manteneva sulle sue; era evidente che le parole di McKee non erano riuscite a mitigare il suo atteggiamento sospettoso. Disse che Emilio Gomez era, o piuttosto era stato, un dipendente dei Dane, e che aveva l'incarico di tornare a El Toro per ritirare quel po' di bestiame rimasto al ranch: due cavalli, alcuni polli e qualche altro animale. Gomez doveva venire appunto quel giorno, verso sera. Invece non si era fatto vivo, ma lei, aggiunse stringendosi nelle spalle, non aveva dato importanza alla cosa, attribuendola al cattivo tempo. McKee annuì. «Capisco.» Gomez, un vecchio dipendente dei Dane. Molto interessante. Qualcuno che si trovava nella casa, o nelle vicinanze, gli aveva inferto un colpo che sarebbe riuscito letale su un cranio meno solido. Lui e Steele avevano fatto un certo rumore nel trasportare in casa l'uomo tramortito. La signora Fergusson spiegò la propria mancata comparsa dicendo di avere fatto un sonnellino. Dopo la lunga giornata, la prima che trascorreva al ranch, e tutti gli sconosciuti piovuti in casa da chissà dove, si era sentita stanca. Ma non aveva l'aria di una che ha dormito; al contrario, era ben sveglia e
presente... e d'umore piuttosto nero. Forse era così di natura. McKee le domandò se ricordasse a che ora si era ritirata nella sua stanza. No, non ricordava con esattezza, ma era stato dopo che l'ultimo degli ospiti, il giovane Ward, era arrivato al ranch. «L'ultimo a parte lei e il suo amico, s'intende.» La signora Tafoya era stata la prima, poi erano comparsi un uomo e due donne, e infine un altro uomo. No, non sapeva dove fossero al momento, nessuno di loro; probabilmente nelle stanze di cui si erano appropriati senza nemmeno chiederle il permesso. Mentre parlava, attraversò la stanza e cominciò a preparare il caffè, maneggiando con malagrazia i recipienti. Per fortuna il fornello, probabilmente l'unico accessorio moderno della cucina, era alimentato da bombole di gas. Si augurò solo che il gas non finisse, ma con un'altra scrollata di spalle concluse che il mattino dopo se ne sarebbero andati tutti, con l'aiuto di Dio. Una donna strana. Nessuna traccia di comprensione, per lo meno in apparenza. Sembrava non avere la minima curiosità di sapere chi aveva aggredito Gomez, né si preoccupava molto del disgraziato. Si limitò a osservare sbrigativa che El Toro non era il posto adatto a lui. «Dovrebbe essere all'ospedale, ecco dove dovrebbe essere.» McKee si proclamò d'accordo e lasciò la cucina. Al di là di quella c'era una dispensa tutta armadi con gli sportelli di vetro. Una seconda porta a molle, all'estremità opposta, immetteva evidentemente nella sala da pranzo. Nell'anta c'era un foro rotondo, senza vetro, della dimensione di un piatto. La dispensa era al buio, mentre dal foro filtrava un po' di luce. McKee si chinò e guardò attraverso. La luce proveniva da una lampada posata su un tavolo da refettorio, al quale avrebbe potuto sedere comodamente almeno una dozzina di persone. Una donna, che McKee scorse di profilo, era in piedi davanti a una delle finestre. Indossava cappello e pelliccia, una magnifica pelliccia di visone. McKee la scrutò attentamente. L'aveva già vista, proprio quel mattino, all'albergo White Queen di Denver. Gli era sembrata sofferente, e stava lasciando in fretta l'atrio fra un uomo e una ragazza. McKee era fermo a un metro da loro, quando erano passati. Aveva notato il terzetto, perché l'uomo che sorreggeva la signora con il visone era Henry Hilliard, capo della società d'investimenti Jones, Silver & Hilliard di New York, una figura molto nota a Wall Street. La donna era alta e avvenente, sebbene un po' matronale: una bellezza molle, abituata al lusso e a essere viziata. Hilliard era sposato, e McKee
aveva concluso che lei fosse la moglie. Mentre il terzetto attraversava l'atrio dell'albergo, Hilliard aveva detto qualcosa sul tempo, che sembrava poco promettente, e la moglie l'aveva interrotto in tono isterico: "No, Henry, no. Qui non ci resto. Te l'ho detto che mi sentirò benissimo appena sarò all'aria aperta e ci rimetteremo in viaggio". Nel dirigersi a sud, il gruppetto Hilliard era evidentemente incappato nell'uragano, proprio com'era successo a lui. A pensarci bene era una bella varietà di esemplari, quella che era capitata a El Toro, il ranch sperduto nella zona desertica delle Sandias... Nella stanza attigua, la signora Hilliard si sporgeva in avanti scrutando attraverso la vetrata rigata di pioggia. Con le mani a coppa si faceva schermo attorno agli occhi. C'era una curiosa intensità nel suo modo di fissare. Che cosa guardava? Cercava forse di vedere attraverso l'oscurità e la pioggia? Già sul punto di spingere la porta a molle, lo scozzese si trattenne e rimase dov'era. Una voce di ragazza aveva chiamato: «Rita...» La donna alla finestra lasciò ricadere le mani e si voltò di scatto. «Che cosa stavi guardando?» domandò la ragazza, e Rita Hilliard replicò con voce carezzevole e una compostezza languida che non mostrava affatto un momento prima: «Guardavo se piove ancora molto, e se non sarebbe possibile rimettersi in viaggio, per andarcene da questo posto. Non mi piace questo orrendo mausoleo, Jill, mi fa venire la pelle d'oca. E tutta quella gentaglia...» La ragazza la interruppe. «Beh, puoi rinunciare all'idea di ripartire, Rita, almeno per questa sera. Henry dice che è assolutamente impossibile, perciò levati pure cappello e pelliccia e mettiti tranquilla.» «Già, lo temo anch'io.» La bella Giunone sospirò e uscì dal campo visivo di McKee, che spinse la porta. La signora Hilliard e la ragazza erano passate attraverso un'ampia arcata in un vasto salone che si apriva sulla destra. Era un vero salone d'altri tempi. Le pareti imbiancate a calce avevano un rivestimento di seta rosa sbiadita, alto circa due metri, che correva tutt'attorno. Pilastri intagliati sostenevano il soffitto a cassettoni; un pianoforte a coda di dimensioni smisurate restava nell'ombra; l'arredamento, alla luce del fuoco e delle candele, sembrava rigido, statico. Le fiamme danzavano nel caminetto di mattoni, all'estremità della stanza, ma nonostante i grossi ceppi messi ad ardere l'aria era umida e pungente. A poca distanza dal caminetto, la signora Hilliard stava seduta su un divano di raso scolorito, tutta avvolta nella sua pelliccia. La ragazza era ac-
canto al fuoco, un piedino snello e arcuato posato sulla pietra del caminetto, le mani infilate nelle tasche di un vestito di lana rossa. Era piuttosto alta, slanciata. I capelli biondo chiaro, raccolti all'indietro, scoprivano un volto sottile più interessante che grazioso: un volto provocante, che restava impresso. Mentre McKee avanzava nella stanza, una porta all'estremità opposta, al di là del caminetto, si aprì, ed entrò Henry Hilliard. Era molto più giovane della moglie, un uomo forte e vigoroso sul finire della trentina, che sapeva quel che faceva e quel che voleva. Nel suo portamento c'era un'aria di tranquilla autorità, l'autorità di chi è sicuro di sé. Avvicinatosi alla ragazza accanto al fuoco, le passò un braccio attorno alle spalle. Sua figlia, forse? In realtà, non sembrava abbastanza giovane per esserlo. «Non hai freddo, cara, senza soprabito?» s'informò premuroso. «No» rispose lei. «Non ho molto freddo. Sai invece cos'ho? Una fame da lupo.» Mentre parlava si era spostata un po', e Hilliard lasciò ricadere il braccio. «Fame, eh? Già, bisognerà fare qualcosa. Dev'esserci da mangiare finché se ne vuole, qua dentro, se El Toro è ancora come lo ricordo io.» Girandosi, scorse McKee che arrivava dalla sala da pranzo e si fermò accigliato. Si erano incontrati per caso a due o tre cerimonie pubbliche, a New York. "Sta cercando di ricordarsi dove mi ha visto" pensò McKee, avanzando lentamente e augurandosi che l'altro non ci riuscisse. Ma Hilliard ci riuscì. «Ispettore!» esclamò dopo qualche secondo, illuminandosi. «Ma guarda guarda, che sorpresa... Che ci fa, lei, in questa parte sperduta del mondo? Sorpreso dall'uragano come noi, scommetto.» Gli strinse cordialmente la mano e lo presentò alle due signore. McKee ascoltò distratto. Qualcuno era entrato nella sala da pranzo e ne era uscito, mentre Hilliard parlava. Si domandò chi potesse essere. «La signora Mole...» Hilliard indicò la bellezza florida seduta sul divano. «E questa» posò una mano sul braccio della più giovane «è la mia fidanzata, la signorina Sheppard.» Mentre s'inchinava davanti alla ragazza, McKee avvertì un lieve senso di meraviglia. Non era la differenza d'età, poi non così grande: la signorina Sheppard doveva avere venticinque o ventisei anni. Era la ragazza in sé. C'era qualcosa di ribelle, in lei, una specie di petulante ostilità; i suoi modi non erano quelli di una giovane donna felicemente promessa. Hilliard, del resto, aveva già avuto moglie, che doveva essere morta...
In poche parole McKee mise i tre al corrente di quanto era successo: un uomo aggredito nelle ore precedenti vicino alla porta di servizio, con ogni probabilità ferito a morte. Dal divano, la signora Mole lo fissava pallidissima. Mandò un grido e ricadde affranta sui cuscini, premendosi un fazzoletto sulle labbra. «Oh, poveri noi, poveri noi. Che posto... Non avremmo dovuto fermarci, avremmo dovuto continuare.» La ragazza non diceva nulla, si limitava a guardarlo a occhi sbarrati. Non era tipo da dare in smanie, tutt'altro. Hilliard era serio. «Cosa mi dice mai... Chi è l'uomo che è stato assalito, ispettore, lo sa? È riuscito a scoprirlo?» «Sì, signor Hilliard. Un certo Gomez, Emilio Gomez. Secondo la signora Fergusson, l'affittuaria di El Toro, lavorava per i Dane, come stalliere, credo.» «Emilio... oh, misericordia!» esclamò Hilliard, estraendo un fazzoletto e asciugandosi la fronte. Era turbato e commosso. Spiegò di essere nato e cresciuto in un ranch a una quindicina di miglia a sud di El Toro, e di conoscere da anni e anni tanto i Dane che Emilio. Suo padre e sua madre vivevano ancora al ranch, per buona parte dell'anno. Suo padre era ammalato. Lui, la sua fidanzata e la sorella di quest'ultima, la signora Mole, erano appunto diretti là per fargli visita, quando l'uragano li aveva bloccati. Avevano già oltrepassato El Toro, ma avevano preferito tornare indietro. A sentire la radio, che lui aveva in macchina, era crollato il ponte su un affluente del Rio Grande che avrebbero dovuto attraversare, e perciò non si poteva proseguire. Hilliard e le sue compagne avevano raggiunto l'hacienda poco prima delle cinque. Lui sapeva che Veronica Dane era morta, l'aveva sentito dire prima di lasciare New York, ma si aspettava di trovare Mary Dane al ranch; sembrava assurdo immaginarla altrove, lei che vi aveva trascorso tutta la sua vita. E invece non c'era, aveva affittato la proprietà. L'inquilina, la signora Fergusson, era venuta ad aprire e li aveva fatti entrare. Ma Emilio non era comparso. Le uniche persone che avevano visto erano una donna di nome Sanchez, o qualcosa del genere. «Tafoya» corresse McKee, e Hilliard annuì. «Sì, sì, Tafoya. È un nome molto comune nel New Mexico. Ma c'era anche un altro, un giovanotto di nome Ward. Tutti e due erano diretti altrove, proprio come noi, e invece...» «Orfanelli dell'uragano» commentò la signorina Sheppard, accendendosi
una sigaretta e lasciando cadere il fiammifero sulla larga pietra del caminetto. Hilliard si chinò a raccoglierlo con aria distratta e lo gettò nel fuoco. «Ecco, proprio così.» Tutti i suoi gesti erano disinvolti. Fisicamente era in ottima forma. Sorrideva alla ragazza, e si capiva che era profondamente innamorato di lei. Quando sorrideva, aveva un fascino davvero notevole. Poi si rivolse a McKee. «E se non sbaglio c'è anche un altro signore, qui, un commesso viaggiatore. Non l'ho visto e non so come si chiami, ma la signora Fergusson...» S'interruppe. La signora Mole era rimasta fino a quel momento abbandonata sui cuscini del divano di raso, che un tempo era stato verde e oro, guardandosi attorno con aria annoiata e corrucciata, ostentando la massima indifferenza. Il divano era rivolto verso la facciata della casa. Tutta un tratto, la donna si tirò su di scatto. Fissava una delle finestre, con la bocca leggermente socchiusa, e intorno alle labbra le si notava un alone pallido. McKee si voltò immediatamente, e così gli altri. Un'ombra, o alcune ombre, al di là della vetrata? Qualcosa che si era mosso fuori? Qualcuno che scrutava all'interno? L'ispettore attraversò rapidamente la stanza, arrivò alla porta e la tirò a sé. Hilliard lo seguì. Fuori vennero investiti dalla pioggia, dall'oscurità e dal turbinare del vento. La finestra attraverso la quale la signora Mole stava guardando si trovava circa sei metri più in là, sulla destra. I due uomini passarono chini sotto i rami di un immenso albero da frutta e si spinsero sul prato costellato di altri alberi e di cespugli. Nei pressi della finestra non c'era nessuno. McKee diresse il raggio della torcia verso il basso, spostandolo in tutte le direzioni. No, al momento non c'era proprio nessuno, ma qualcuno c'era stato. L'erba non avrebbe conservato le impronte, poiché era troppo folta, un vero tappeto, ma alcuni cespugli nani, sotto la finestra, mostravano rametti spezzati di fresco. Si raddrizzò, si asciugò la fronte grondante pioggia e si guardò attorno. Era chiaro che condurre ulteriori ricerche sarebbe stata un'inutile perdita di tempo. Chiunque si fosse appostato là fuori per vedere che cosa succedeva nella stanza illuminata doveva essersi dato alla fuga sentendo aprire la porta d'ingresso. Lui e Hilliard rientrarono, si riabbassarono il bavero e si asciugarono il viso con il fazzoletto. La signora Mole stava parlando con la sorella. Aveva ritrovato in parte la propria compostezza, ma era ancora spaventata. «Ti assicuro che ho visto qualcosa che si muoveva. Può darsi che siano stati i miei nervi, non lo
so. Oppure sarà stato un animale, una mucca o un cavallo... Oh, che posto orribile!» Secondo McKee, non si era trattato di animali, né di uno scherzo della sua immaginazione. I cespugli erano di cactus, e un cavallo o una mucca si sarebbero allontanati d'istinto prima di arrivare a spezzarne i rami. La signora Mole fissò i due uomini, serrando le labbra come se si preparasse a esplodere da un momento all'altro. Hilliard le disse con molta calma: «Tranquillizzati, Rita, non impressionarti. Non c'è nessuno, là fuori; non c'è più, in ogni caso. Comunque, ispettore, penso che faremmo meglio a chiudere, per maggiore sicurezza.» «Giusto.» Gli occhi della ragazza luccicavano tra le lunghe ciglia scure, e le sue guance erano un po' arrossate. Era evidente che l'atmosfera la eccitava. «Chissà» osservò «forse rischiate di chiudere in casa colui che ha aggredito quel povero Gomez, invece di chiuderlo fuori.» McKee aveva avuto lo stesso pensiero. Le persone presenti al momento potevano anche essere tenute a bada, almeno fino a un certo punto. La collezione di esemplari, in ogni modo, non aveva certo bisogno di nuove aggiunte. Consigliò a Hilliard di fare un'ispezione al pianterreno. «Io darò un'occhiata di sopra. Dopo di che vorrei scambiare due parole con quel commesso viaggiatore, per sentire un po' se ha qualche informazione da darci.» «Benissimo.» Hilliard si allontanò in fretta e McKee andò di sopra. La casa degli spettri, rifletté salendo. Perfino in pieno giorno, e con il sole, la dimora doveva apparire tetra, enorme e deprimente. Al momento, poi, rischiarata solo dal fioco raggio della torcia, sembrava tolta da un film dell'orrore. Buio di fronte, buio alle spalle. Visione fuggevole di tappezzerie sbiadite, di vecchi ritratti, di porte chiuse che si materializzavano all'improvviso e tornavano a sparire inghiottite dall'oscurità. McKee cominciò dall'estremità nord del lungo corridoio che attraversava la casa. Una camera deserta dopo l'altra, tre in successione, vecchie suppellettili, alcune di un certo valore, odore di polvere, di ragnatele e di topi. Poi, una stanza occupata. L'ispettore aprì la porta e si arrestò sulla soglia. C'era un uomo pacificamente addormentato su un lettone all'antica. Era quasi invisibile sotto le coperte; solo i capelli color stoppa spuntavano sul guanciale. Russava dolcemente. La luce non lo svegliò. Non si mosse nemmeno. Doveva essere il commesso viaggiatore di cui aveva parlato Hilliard. Una valigia aperta era posata sopra un cassettone, e accanto c'era
un nécessaire da toilette, aperto. La valigia conteneva un pigiama a righe bianche e rosse, un paio di slip, due paia di calzini, una cravatta e un accappatoio celeste. La giacca del piazzista era appesa allo schienale di una sedia, e accanto al letto, sul pavimento, si vedeva un paio di scarpe infangate. McKee esaminò la giacca, tenendo d'occhio il dormiente. Un mazzo di chiavi nella tasca destra; nel taschino interno, due opuscoli sulle stecche di balena sintetiche e un portasigarette pieno. Nulla di interessante. Stava per svegliare l'uomo quando, sentendo confusione al piano sottostante, dovette lasciare in fretta la stanza. Il campanello della porta d'ingresso squillava a tutt'andare. Qualcuno bussava e chiamava per farsi sentire. McKee si diresse verso la scala e si fermò sul pianerottolo, in ascolto. La parte superiore dei battenti della porta d'ingresso era di vetro, con un'intelaiatura a riquadri e coperta da tendine di merletto accuratamente rammendate. Mentre lui si accingeva a scendere, uno dei due vetri venne infranto, una mano s'insinuò attraverso il buco e tolse il lucchetto. Il battente si spalancò. Pioggia e vento irruppero all'interno, facendo oscillare e fumare la lampada della sala da pranzo. Nel frattempo erano accorsi gli altri: la signora Mole, Jill Sheppard e Hilliard, la signora Fergusson, la signora Tafoya e il giovane Ward. L'uomo che si era introdotto in casa ricorrendo a mezzi così drastici si chiuse senza tante cerimonie la porta alle spalle. Era alto e magro, indossava una giacca a vento, calzoni di fustagno e stivaloni. «Dov'è?» domandò ansioso, a voce alta. «Ce l'ha fatta? È qui?» Qualcuno s'informò: «Ma chi?» E lo sconosciuto rispose: «La signorina Mary, Mary Dane.» 3 Il nuovo arrivato era Bill Speaker, il ranchero che il mattino precedente era venuto a prelevare Mary Dane all'hacienda. Conosceva Hilliard, e Hilliard conosceva lui. Appena Speaker si fu un po' ricomposto, i due uomini si strinsero la mano, e il primo s'informò sulla salute del senatore Hilliard. «Ho saputo che suo padre non sta molto bene. Che cara persona. Mi fermo da lui, qualche volta, quando vado a sud a comperare cavalli per il ranch.» Hilliard lo presentò alle due signore che erano con lui e a McKee. Speaker spiegò l'urgenza della sua visita. Il ranch, suo e di sua moglie, era a quattro miglia da El Toro, e Mary doveva trattenersi presso di loro per un mesetto in attesa di organizzare la
propria vita in modo definitivo. Quel pomeriggio, senza che loro lo sapessero, Mary aveva lasciato il ranch, verso le quattro. Al momento in cui se n'era andata, lui era fuori per recuperare alcune pecore che si erano allontanate, e sua moglie, Edith, era nel pollaio a distribuire il becchime. Quando Edith era rientrata in casa, dopo essersi trattenuta fuori una ventina di minuti al massimo, Mary non c'era più. Ma c'era un biglietto, in cucina, appoggiato alla zuccheriera. Mary diceva d'avere dimenticato una cosa importante, e avvertiva che avrebbe fatto una scappata a El Toro per riprendersela e che non sarebbe rimasta via per molto. Dapprima nessuno dei due si era preoccupato della cosa: Mary conosceva la regione come il palmo della propria mano. Ma dopo qualche tempo, visto che scendeva l'oscurità e il maltempo andava peggiorando, cominciarono a sentirsi veramente in pensiero. Il vento era violentissimo e la pioggia mista a nevischio. «Abbiamo tentato di telefonare, pensando che forse si sarebbe fermata qui a El Toro per la notte, ma la linea era interrotta» spiegò Speaker. Alla fine, per insistenza della moglie, si era deciso a fare una scappata con il camioncino, ed era stata un'impresa tutt'altro che semplice. «E qui non si è vista?» domandò di nuovo, corrugando la fronte. Intanto, la signora Tafoya e Ward erano ritornati in cucina. La Fergusson invece era rimasta, a braccia conserte, spettatrice attenta e inespressiva. «No» dichiarò decisa. «È venuta altra gente, ma la signorina Dane non si è vista. L'ultima volta che ho parlato con lei è stato ieri mattina.» Speaker scosse la testa. La faccenda non gli piaceva. Forse Mary aveva avuto un incidente mentre cavalcava attraverso la campagna. Forse era stata colpita da un tronco abbattuto, oppure Polo aveva messo un piede in fallo, si era spezzato una gamba e l'aveva disarcionata. Erano innumerevoli le cose che sarebbero potute accadere. Anche Hilliard era in pensiero per Mary, che conosceva fin da quando era ragazzo. La preoccupazione della signora Fergusson, invece, pareva riguardare unicamente il vetro rotto della porta. La pioggia vi penetrava attraverso formando una pozza sul pavimento. «E quella?» indicò. «Quella chi l'aggiusta?» Speaker la guardò e sorrise. Disse che sarebbe andato nella stalla a prendere un'assicella e l'avrebbe riparata in pochi minuti. Lei replicò scorbutica: «Beh, allora lo faccia subito» e si allontanò. Il ranchero era ansioso di andarsene. «Ma prima sarà bene che metta a posto quella maledetta porta.»
Andò nella stalla in cerca di assicella, martello e chiodi, e McKee lo seguì. Voleva scambiare qualche parola a quattr'occhi con lui. Ma all'aperto parlare era impossibile. Il frastuono era insopportabile, e l'uragano più violento che mai. Dovettero procedere a testa bassa contro un inferno nero di vento urlante e di pioggia. Una volta arrivati nel granaio, dopo avere ritrovato un po' di fiato, McKee mise al corrente Speaker dell'aggressione subita da Emilio qualche ora prima. Il ranchero stava frugando in una catasta di pezzi di legno d'ogni genere ammucchiati in un angolo. Alla notizia indietreggiò, e si girò sbalordito a guardare l'ispettore. «Emilio? Qualcuno ha tentato di uccidere Emilio?» Sembrava addirittura incredulo. «Ma perché? Per quale ragione?» «Speravo appunto che potesse dirmelo lei, signor Speaker» rispose McKee. Ma il ranchero non aveva spiegazioni da offrire. Era trasecolato, non riusciva a capacitarsi, e continuava a scuotere la testa con aria perplessa. Per quanto ne sapeva lui, Emilio non aveva un nemico al mondo, né possedeva alcunché di valore, salvo l'orologio d'oro del vecchio padrone, il padre di Mary: quello era il suo orgoglio. Emilio era rimasto con i Dane per più di vent'anni, e Charles Dane gli aveva lasciato l'orologio nel suo testamento. Ricordando l'osservazione di Fernandez a proposito di Veronica, nell'ufficio del commissario capo a circa tremila miglia da lì, "Avevo sempre pensato che un giorno o l'altro qualcuno le avrebbe fatto la pelle", McKee rivolse a Speaker alcune domande sulla famiglia Dane. L'altro si strinse nelle spalle. «Non credo di poterle dire molto» rispose. Spiegò di avere conosciuto solo le due sorelle. Veronica era il pezzo grosso di casa, il capo. Faceva rigare diritto la sorella minore, ma questo era nel suo temperamento. Era fatta così, imperiosa, autoritaria, e probabilmente non riusciva a essere diversa. «Ma era una persona a posto, credo.» Come la giudicavano nel circondario? Beh, certo non era molto popolare. Un po' una tiranna, la giudicavano, e orgogliosa come Lucifero. «Ti trapassava con un'occhiata, se per caso facevi qualcosa che non le andava. Non tollerava opposizioni di nessun genere.» Personalmente, lui le girava alla larga. Però, se era stata dura con la gente, si era mostrata addirittura meravigliosa con gli animali. Raccontò del cane Spot, della sua sparizione il giorno in cui la padrona era morta, del comportamento dello stallone. Mary gliene aveva parlato mentre erano in viaggio verso il suo ranch, il giorno prima. Lei era tutt'altra pasta di donna, invece. Tutti le volevano bene. Era gentile con tutti, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per chiunque.
«Non si lamentava mai riguardo a Veronica?» «Non si lamentava mai di niente.» McKee, le mani sprofondate nelle tasche, smuoveva con il piede ciuffi di fieno. Due donne che vivevano sole in quel posto fuori del mondo, un giorno dopo l'altro, un mese dopo l'altro, senza nessuna distrazione; Veronica, l'anziana, la dominatrice, Mary, l'accomodante, l'arrendevole... La pazienza ha un limite, forse? Poteva darsi. Sì, possibilissimo. Per esempio, dopo la morte improvvisa di Veronica, l'immediata messa in vendita della proprietà da parte di Mary, il desiderio di allontanarsi da El Toro al più presto... E poi, McKee ripensò a Emilio Gomez, alle parole da lui mormorate, le uniche che era riuscito a pronunciare: "Non Peter...", o forse Perez, o Patrick, "Signorina Mary...". Mary Dane aveva annunciato la sua intenzione di tornare a El Toro nel tardo pomeriggio, per prendere qualcosa che aveva dimenticato. Ma non aveva raggiunto il ranch. Ed Emilio era stato colpito da un omicida mancato... McKee fissava la fiamma della lanterna accesa da Speaker. No, il ragionamento non stava in piedi. Se Gomez avesse saputo qualcosa di compromettente per Mary, qualcosa riguardo alla morte di Veronica, lei non avrebbe aspettato più di tre settimane per metterlo fuori circolazione, per ridurlo al silenzio una volta per sempre. A meno che... Gomez poteva avere scoperto le sue carte proprio quel giorno, il che equivaleva a dire che Mary aveva raggiunto El Toro. E infatti, Mary l'aveva raggiunto. Speaker era entrato nella stanza degli attrezzi, sulla destra, per cercare i chiodi che gli occorrevano; stava fischiettando piano, tra i denti. Il motivetto era appena udibile tra lo scricchiolare delle travi e l'urlo del vento. Tutta un tratto smise di fischiettare ed esclamò: «Ehi, ispettore!» McKee lo raggiunse, scavalcando un erpice. Selle, briglie e altri lucidi finimenti che già cominciavano a essere intaccati dalla ruggine pendevano dai pioli lungo le pareti. In un angolo c'era una poltrona sgangherata; lungo una parete correva un bancone cosparso di utensili e altri aggeggi d'ogni genere. Speaker indicava qualcosa: un paio di grossi guanti di cuoio marrone, piuttosto sciupati, giacevano nell'ombra dietro un vecchio stivalone di gomma. I guanti appartenevano a Mary Dane. Speaker lo affermò Con certezza. Lei li portava il giorno prima, quando erano partiti dal ranch. Il cuoio era bagnato. Sì, Mary aveva raggiunto El Toro... Se aveva lasciato la casa degli Speaker verso le quattro, poteva essere arrivata al ranch verso le cinque
e aver atteso nel granaio l'arrivo di Gomez. Non c'erano altre tracce della sua presenza nella stanza degli attrezzi, o nel granaio, o nella stalla vera e propria. McKee e Speaker fecero un frettoloso giro d'ispezione. Balle di fieno, un grosso mucchio di avena, odore di ammoniaca, di sterco di cavallo e di biada; dal granaio si accedeva alla scuderia, composta da una dozzina di stalle. In una di esse c'era un cavallo. Era Charlie, lo stallone di Veronica. Lo stallone recalcitrò violentemente di fronte alla luce improvvisa della torcia di McKee. Con occhi rossi e scintillanti, riportò tutte quattro le zampe a terra, pestò con forza sull'impiantito e scalciò furibondo con le posteriori. McKee si teneva a prudente distanza. «Che specie di demonio.» Speaker annuì. «È nervosissimo. Per conto mio non intendo averci a che fare, finché non si sarà calmato. E ce ne vorrà, per ammansirlo.» Charlie era l'unico cavallo nella scuderia. Polo, la cavalla pezzata con cui Mary Dane era arrivata a El Toro, non c'era. Il cavallo nero montato da Ward quando McKee l'aveva incontrato nel viale doveva essere ancora nel cortile dietro la casa. Speaker osservò che Mary poteva essere entrata lì per mettere Polo al riparo, mentre andava a recuperare la cosa che aveva dimenticato a El Toro. Già... e poi? Una tentata incursione nella casa? Un incontro con Emilio Gomez nel cortile, e il colpo teso a ucciderlo, dopodiché era fuggita senza che nessuno l'avesse vista? Per sapere la risposta bisognava trovare Mary e cavarle di bocca la verità. McKee aveva la sensazione che non sarebbe stata una cosa facile. La donna conosceva bene la regione, aveva un vantaggio di tre ore. Senza contare altre possibilità. Non disse nulla a Speaker di quelle riflessioni. Rammentò irritato a se stesso che la cosa non era affar suo. La morte di Gomez, se fosse morto, avrebbe riguardato la polizia del New Mexico. Prima o poi si sarebbe fatto giorno, la tempesta sarebbe cessata, le comunicazioni sarebbero state riallacciate e le strade riaperte. Nel frattempo, a lui toccava solo fare opera di sorveglianza. Speaker osservava pensoso lo stallone. «Chissà perché si trova in questa stalla, invece che nel suo box... Oh, beh, è una bestia particolare, gli piace fare a modo suo. Su, Charlie, buono, buono.» Tentò invano di placarlo. Era impossibile. McKee raccolse i guanti di Mary dal bancone della stanza degli attrezzi, poi i due uomini lasciarono il granaio e si diressero verso l'hacienda. Dovettero affrontare un'altra lotta con il maltempo. La pioggia scrosciava più
fitta che mai, e il vento soffiava ancora più violento. Mentre avanzavano a fatica verso la porta principale, che era la più vicina, McKee all'improvviso si arrestò. Mezz'ora prima, quando erano usciti per recarsi alle stalle, la luce nella stanza di Veronica Dane, quella in cui il malcapitato Gomez riposava sorvegliato da Steele, era accesa. Ora, invece, era spenta. McKee si mise a correre. La porta d'ingresso era chiusa. Il ranchero infilò una mano attraverso il vetro rotto, come aveva fatto prima, e aprì dall'interno. Nel lungo soggiorno, che attraversarono a gran velocità, non c'era nessuno, e nemmeno nel corridoio buio che si stendeva al di là. McKee batté un colpo sull'uscio della stanza. Dapprima non ottenne risposta. «Steele!» chiamò con foga. «Steele!» E bussò di nuovo, più forte. Finalmente si udì un movimento oltre il pannello massiccio. Qualcuno si spostava lentamente, a tentoni. Ancora un paio di secondi, poi Steele aprì l'uscio. Batté le palpebre alla luce della torcia di McKee e si stropicciò gli occhi. La stanza, alle sue spalle, era immersa nel buio. Lui era ancora assonnato. «Devo essermi addormentato...» disse. McKee era già entrato nella camera ed era corso verso il letto. Speaker lo seguì, e guardò il ferito. «È proprio Emilio» disse addolorato. «Che crudeltà. Povero vecchio, sembra più di là che di qua...» In ogni modo, Gomez respirava ancora. Il petto si sollevava e si abbassava, sotto le coperte. McKee sospirò, pur non credendo a quanto stava per dire. «Non lo so, non si può mai sapere, potrebbe anche cavarsela.» E si asciugò la fronte, madida di sudore nonostante l'aria fredda e pungente. Se non altro, Gomez era vivo. Almeno apparentemente, nulla era stato tentato contro di lui, e la stanza sembrava intatta... salvo che la lampada era spenta. La esaminò. La lampada era stata spenta di proposito, e non dal vento. Non c'era corrente d'aria. Le finestre erano ben chiuse, e lo stoppino era alto. Anche la porta era chiusa dall'interno, e infatti Steele era venuto ad aprire. Eppure, là dentro c'era stato qualcuno; non era stato Steele a spegnere la lampada. Lui stesso lo confermò. «No che non l'ho spenta. Era accesa quando ho chiuso gli occhi un attimo, per riposarli... Non avevo intenzione di mettermi a dormire, ma evidentemente devo essermi appisolato. Ispettore, pensa che sia entrato qualcuno, mentre sonnecchiavo?» «Sì, e non molto tempo fa.» McKee riaccese la lampada. «Lo stoppino è
ancora bollente.» «Ma non capisco... Da che parte sarebbe potuto entrare?» Steele era sbalordito. Fu Speaker a soddisfare la sua curiosità. «Il modo c'è. Venga da questa parte, ispettore, glielo mostrerò.» Si diresse verso la parete opposta. Dietro la pesante scrivania era appeso un arazzo. Speaker spinse in là la scrivania con un colpo del fianco, e il mobile scivolò silenzioso sull'impiantito a piastrelle, poi sollevò l'arazzo e lo spostò da una parte. Dietro c'era una porticina. Non era chiusa a chiave. Si apriva su una specie di stanzino, una celletta larga appena due metri quadrati. Non c'erano finestre. L'unica suppellettile era un inginocchiatoio dalle imbottiture a brandelli, collocato sotto un trittico che racchiudeva tre dipinti piuttosto scuri: una Crocifissione, una Madonna col bambino e una Fuga in Egitto. Una stretta scaletta a chiocciola di ferro saliva verso l'alto nell'angolo opposto. Speaker rimase accanto a Gomez, sempre privo di conoscenza, mentre McKee e Steele s'inerpicavano su per la scaletta. Emersero in un solaio ingombro di mobili e cianfrusaglie: quadri ammucchiati contro le pareti, seggiole rotte, un tavolino senza una gamba e vecchi bauli. Di finestre ce n'erano tre, molto piccole. C'era anche un lucernario vicino alla grossa canna fumaria che si trovava al centro del locale. Dal lucernario si poteva benissimo accedere al solaio, che probabilmente aveva anche una porta all'estremità opposta. McKee si mosse per cercarla, ma subito si fermò, tendendo l'orecchio. Non si era udito un lieve scatto metallico, laggiù in fondo? Ma sì! Il rumore era stato appena avvertibile nel tamburellare della pioggia sul tetto. E non si ripeté. Ma lui ne aveva intuito la natura: era lo scatto di una serratura che veniva richiusa lentamente. Avanzò in fretta, ma quando raggiunse la porta opposta e la spalancò, il corridoio esterno era buio e deserto. Nulla si muoveva per tutta la sua lunghezza. La luce che arrivava dal piano sottostante era solo un alone confuso in cima alla scalinata, distante una quindicina di metri. Nessuna ombra si stagliava contro il fioco chiarore. Ma c'erano altre porte, a destra e a sinistra, che si aprivano su stanze in cui qualcuno avrebbe potuto rifugiarsi silenziosamente. Tutte le porte erano chiuse. McKee vedeva ripetersi la situazione in cui s'era trovato qualche ora prima. In quella parte della casa, ne era sicuro, c'erano Hilliard, la signora Mole e Jill Sheppard. A parte le camere da letto, c'erano altre due scale oltre a quella principale, giù per le quali qualcuno avrebbe potuto
svignarsela. Una conduceva nella cucina, all'estremità meridionale della casa, e una seconda portava verso il lato nord, in fondo a sinistra. McKee contemplò pensoso le porte delle stanze, ma... a che pro? Se anche avesse scovato qualcuno in una di esse, costui non avrebbe certo ammesso d'essere appena uscito dal solaio. Ritornò lentamente sui propri passi. Steele si era già issato fino al lucernario, scalando alla meglio la canna fumaria. Vedendo che l'ispettore veniva verso di lui, ridiscese, si spolverò le mani e spiegò che era possibile sollevare il lucernario. Era pesante, veniva tenuto a posto dal suo stesso peso e sembrava privo di chiusura. McKee annuì. Non restava che scegliere. Dal lucernario era possibile accedere alla camera di Veronica, dov'era ricoverato il ferito, se uno era tanto agile da arrampicarsi lassù dall'esterno. Il che, aggrappandosi a un ramo solido e lasciandosi cadere sul tetto, non doveva essere nemmeno tanto arduo. Oppure, avrebbe potuto accedervi chiunque si trovasse dentro casa: la signora Fergusson e ognuno degli ospiti inattesi e stranamente assortiti che vi avevano trovato rifugio per la notte. Rimaneva poi da domandarsi perché mai qualcuno avesse fatto quell'irruzione clandestina, ma era un altro paio di maniche. I due uomini ridiscesero per la stessa via nella camera da letto sottostante. Speaker la presidiava, camminando inquieto su e giù. A El Toro lui non poteva fare altro, ed era preoccupato perché la tempesta non accennava a placarsi e la strada da fare era parecchia. Sua moglie doveva essere molto in pena. La pioggia non dava segno di voler cessare. Tamburellava sorda e monotona, ora più forte, ora più piano, ma sempre con lo stesso ritmo. C'era qualcosa di inesorabile in quel diluvio, pareva che non dovesse smettere mai più. Speaker disse che, se fosse durato così fino al mattino, ci sarebbero state inondazioni, e altre strade impraticabili, altri alberi abbattuti. Immaginava che Edith, a quell'ora, dovesse essere fuori di sé dall'angoscia. Un'altra ragione per desiderare di correre a casa era che, una volta arrivato, forse vi avrebbe trovato Mary Dane sana e salva. Lo sperava tanto. Ma in ogni caso, se sul fare del mattino non fosse ancora ricomparsa, sarebbe stata organizzata una battuta a cavallo per cercarla, e in un modo o nell'altro si sarebbe riusciti ad avvertire la polizia dello Stato. Mary doveva essere ritrovata. Non era impossibile che si fosse rifugiata in una delle grotte tra le rocce, che abbondavano nella zona. Prima che Speaker lasciasse la stanza, l'ispettore gli domandò se nella
casa esisteva qualche fotografia di Mary Dane. L'altro rifletté un po' e rispose di sì. Sulla parete del corridoio esterno erano appese molte fotografie; proprio in fondo, accanto a uno scaffale di libri. «Io riparo in un momento la porta d'ingresso e scappo a casa.» Fece un cenno di saluto con la mano e si chiuse la porta alle spalle. McKee si accinse a effettuare un'ispezione più attenta della camera di Veronica. Cominciò dalla scrivania. Sotto la pesante ribalta, una serie di cassettini e di minuscoli scomparti si allineava lungo la parte posteriore. A prima vista si capiva che, chiunque si fosse introdotto nella stanza mentre Steele dormiva, doveva avere frugato in fretta e furia nella scrivania. I cassettini erano stati aperti e richiusi alla meglio. Un paio erano ancora semiaperti. McKee vi aveva già dato un'occhiata, in precedenza, e il colpo d'occhio era stato tutto diverso. Naturalmente, era impossibile dire che cosa ne fosse stato asportato, ammesso che mancasse qualcosa. La scrivania non conteneva granché: un paio di vecchi volumi rilegati in pelle, in lingua spagnola, alcune carte di poca importanza infilate negli scomparti, una mezza dozzina di fatture quietanzate per acquisti d'olio e di grano, bollette della luce e del telefono. C'erano una lista del droghiere con tutte le voci spuntate, il volantino pubblicitario di una nuova pompa, e una busta vuota indirizzata alla signorina Veronica Dane, a El Toro. McKee la girò. L'indirizzo del mittente, sul retro, era: "Signora Adams, 1058 Canyon Road, Santa Fe, New Mexico". La busta era di carta finissima. Probabilmente, Veronica l'aveva conservata proprio perché portava scritto quell'indirizzo. Ed evidentemente la persona che aveva frugato non cercava quella, altrimenti l'avrebbe portata via. D'altronde, nessun indizio è mai troppo piccolo o trascurabile per riuscire a fare luce, e l'indirizzo avrebbe potuto rivelarsi utile in seguito, quando si fosse saputo qualcosa di più. McKee intascò la busta. Il saccheggio della scrivania poteva essere solo una parte di quanto lo sconosciuto introdottosi silenziosamente lì dentro si era prefisso. Con Steele pesantemente addormentato in una poltrona accanto al fuoco, nella stanza in ombra, il passo successivo avrebbe potuto essere quello di finire Gomez; passo impedito dall'arrivo tempestivo suo e di Speaker. Accanto a lui, Steele osservava incuriosito e interessato. «Trovato nulla?» domandò. McKee rispose: «Non ancora, ma potrebbero esserci impronte digitali.» Chiuse la scrivania. «Vorrei cercare di scoprire che cosa stava facendo tutta questa gente negli ultimi tre quarti d'ora, se mi sarà possibile. Non reste-
rò via molto. Le dispiace trattenersi qui ancora per un po'?» Steele disse di no, e aggiunse deciso: «E stia tranquillo, stavolta non mi addormenterò di certo.» Lo scozzese annuì e lasciò la stanza. Si era allontanato solo di pochi passi, quando un pensiero tutt'altro che gradevole lo colpì. Fino a quel momento si era sentito molto sicuro circa l'elemento tempo, ma... era poi fondata, quella sicurezza? Secondo l'orologio rotto trovato nella tasca di Gomez, fermatosi apparentemente quando era caduto al suolo fuori in cortile, l'uomo era stato tramortito alle sei meno dieci: il che aveva fornito a Steele un alibi perfetto, a causa della distanza dall'hacienda alla strada sulla quale lui per poco non lo aveva investito. Ma... e se Gomez fosse stato aggredito parecchio tempo prima, e le lancette spostate in avanti deliberatamente? Lui non era un esperto, in grado di controllare e accertarlo. L'idea non era certo piacevole. Ammesso che avesse qualche fondamento, lasciare Steele a guardia di Gomez era come gettare una famiglia di conigli in un campo d'insalata. McKee fu lì lì per rientrare nella stanza; ma poi si ricordò che qualcuno era fuggito dal solaio, quando lui e Steele vi erano entrati, fatto sul quale non sussistevano dubbi... senza contare che era ansioso di parlare subito con tutti gli altri. Così affrettò il passo. Prima la cucina, saltando il soggiorno, nel quale si sentiva Speaker impegnato a inchiodare. Una delle porte di cucina, quella dalla quale avevano trasportato Gomez, era proprio lì a tiro. La signora Tafoya e la signora Fergusson vi si trovavano entrambe. La Tafoya leggeva un libro vicino al caminetto, testa china, spalle curve, lenti cerchiate di metallo in bilico a metà del naso. La Fergusson, seduta su una sedia accanto al tavolo di cucina, si era piegata per infilarsi un paio di pantofole chiuse. Era stata fuori. Un paio di stivali infangati era posato all'altra estremità del focolare; la sciarpa e il pesante mantello di tweed che la donna si era appena tolta erano stesi su una sedia vicino al fornello. Sciarpa e mantello erano bagnati. La Tafoya non alzò nemmeno la testa quando McKee entrò, la Fergusson sì. Stesso sguardo gelido, stesso atteggiamento imperturbabile. Senza scomporsi minimamente, la signora rispose alle domande dell'ispettore. Dichiarò con tutta calma di essere uscita nel cortile per riempire di cherosene una latta da quindici litri: per le lampade, spiegò. Nel New Mexico non era permesso tenere in casa liquidi infiammabili, qualcuno l'aveva avvisata. Bella seccatura, tra l'altro... specie con un tempaccio simile. Il signor Jackson l'aveva accompagnata, e stava riempiendo un'altra latta.
La sua l'aveva lasciata fuori, all'ingresso di servizio. E indicò con la mano. E prima? Prima aveva sbrigato tante altre cosette, rispose con indifferenza: aveva asciugato tutta l'acqua che quel ranchero amico dei Dane aveva fatto entrare nel soggiorno, aveva sciacquato lo straccio nell'acquaio, era salita a prendere calze e pantofole asciutte nella sua stanza da letto... Ma non c'era un barlume di scherno nei suoi occhi, una luce che pareva dire: "Se pensi di prendermi in castagna, ti sbagli di grosso. So come cavarmela, non sono ingenua come credi". L'ispettore si rivolse alla signora Tafoya, i cui abiti erano asciutti. Era rimasta in camera sua a leggere. «Finché ha cominciato a fare troppo freddo, e allora sono venuta qui. La mia artrite... Vicino al fuoco si sta bene.» Sorrideva timidamente, aggiustandosi le lenti sul naso. Era in cucina da cinque minuti o poco più. E così il signor Jackson, il bell'addormentato, si era svegliato e circolava per la casa. Entrò infatti quasi subito dalla porta di servizio, reggendo una latta di cherosene che posò nell'ingresso accanto a quella della signora Fergusson; appese il cappello e il soprabito gocciolanti, si sfilò le soprascarpe inzaccherate e avanzò verso il caminetto sorridendo amabilmente e sfregandosi le mani. Era poco oltre la quarantina, un omone placido e robusto, con una circonferenza degna di nota, capelli scuri e radi divisi da una nitida scriminatura laterale, praticamente privo di collo e con un faccione bonario da buon diavolo. «Chi, io? In queste ultime ore?» Fissò McKee con aria interrogativa, ma rispose di buon grado. «Bene, vediamo... Dopo essere arrivato, mi sono buttato un po' sul letto, poi ho fatto un bagno di sopra, o meglio ho tentato. Sa cosa le dico? Quel bagno merita d'essere visto.» Ridacchiò, scuotendo la testa. «Doveva essere quello dell'arca di Noè. Oh, ragazzi, la vasca sarà lunga mezzo miglio, e dal rubinetto viene giù sì e no un filo d'acqua. Tubi arrugginiti, immagino. Nessuno li ha più ripuliti da quando è stato installato, dico io, e già allora doveva essere un pezzo da museo...» Tutto, nel signor Jackson, era affabile, tranne gli occhi. Quelli erano piccoli, slavati, accorti, e ammiccavano di continuo. Spiegò che si stava recando da Flagstaff ad Albuquerque, a una riunione di piazzisti, e aveva dovuto chiedere asilo a El Toro per via dell'uragano, e perché una delle gomme dell'auto era a terra. Non ce l'avrebbe fatta di certo ad arrivare ad Albuquerque in serata. «Eccole il mio biglietto da visita, signore.» Tolse un cartoncino dal portafogli e con un inchino lo porse a McKee. Il signor Harold Jackson era nel
ramo articoli per signora. «La signora» e indicò la Fergusson con un altro lieve inchino «è stata tanto gentile da permettermi di fermarmi per la notte. Proprio un bel gesto, devo dirlo.» Le altre persone della casa? «L'unica che ho visto è stata lei.» Indicò la signora Tafoya, china sul libro e apparentemente immersa nel suo contenuto. «E poi un giovanotto, credo che si chiami Ward.» Non aveva mai nemmeno sentito nominare i Dane. Era nuovo da quelle parti, arrivato fresco fresco. Solo ultimamente era stato trasferito dalla filiale di Brockton, nel Massachusetts, e si trovava nel Sudovest da meno di un mese. «Bella regione» concesse senza riserve. «Un po' strana, questo sì. Indiani, cavalli... Insomma, è un posto che affascina. Credo che mi ci troverò bene, quando mi sarò ambientato un po'. Ci vorrà del tempo, si capisce. Ma io dico sempre: quando devi fare una cosa, falla bene. Cerca di conoscere la piazza fino nei minimi particolari. È una cosa che alla fine rende. Proprio così.» Gli occhietti acuti, piuttosto porcini, non smettevano di soppesare lo scozzese. «E lei, signore, è di queste parti? Lo sceriffo, forse?» Il tono conteneva una specie di sfida, sia pure velata. McKee rispose di no. «Vengo dall'Est, come lei.» Era sicuro che tanto la Fergusson quanto la Tafoya avessero sentito quando Hilliard l'aveva salutato con il solito titolo, all'inizio della serata. «Sono un funzionario del Dipartimento di polizia di New York.» Jackson si mostrò entusiasta. «New York, eh? Grande città, magari avessi potuto restarci un po' più a lungo. Della polizia, eh?» Volle per forza stringergli la mano. «È qui per affari anche lei? Ah, solo per fare visita a un amico. Ho pensato che fosse lo sceriffo, perché la signora Fergusson mi stava dicendo del povero diavolo che lavorava qui e per poco non è stato accoppato. Uno proprio non se l'aspetta che succedano cose del genere da queste parti. Sembrano posti così pacifici. Ma poi chissà, a pensarci bene... Kit Carson, indiani, cow-boy armati di fucili, lotte per il bestiame... Sotto sotto sono dei duri, mi sa tanto. Quel vecchio che è stato ferito è un messicano, vero?» Sulla faccia rivolta altrove della signora Tafoya era balenato chiaramente un lampo di disgusto. McKee rispose: «Un ispanoamericano, credo, sì.» «E come sta adesso, capitano?» McKee accese una sigaretta. Qualcuno, in quella casa, voleva Emilio Gomez morto. Poteva darsi che quel qualcuno fosse Mary Dane, apparen-
temente scomparsa, ma era meglio essere prudenti. Se l'assassino mancato si fosse convinto che Gomez sarebbe morto comunque, forse avrebbe rinunciato a dargli il colpo di grazia. Si strinse nelle spalle. «Per conto mio, se campa un altro paio d'ore è un miracolo. In ogni caso, per domattina la polizia di Stato dovrebbe essere qui, e penseranno loro all'inchiesta.» Non aveva inteso rassicurare nessuno, né l'effetto delle sue parole riuscì rassicurante. Ci fu un irrigidirsi generale, impercettibile ma reale. Jackson fu il primo a parlare. «La polizia di Stato, eh? Ma la linea telefonica è interrotta.» McKee spiegò che Speaker, un ranchero della zona, avrebbe tentato di avvertire il comando. Abitava più vicino alla stazione di polizia. Pareti bianche illuminate dalla lampada e dal fuoco, qua e là annerite dal fumo. Il fragore della tempesta. Poi, durante un istante di tregua, un cavallo nitrì in lontananza. Il nitrito arrivò distintamente attraverso la finestra sopra il lavandino, che aveva il telaio a ghigliottina sollevato di qualche centimetro. La signora Fergusson si alzò, chiuse la finestra e si avvicinò al fornello, sul quale fumava un grosso bricco di caffè. «Una tazza, ispettore?» Dunque la Fergusson sapeva chi era... McKee rifiutò. «Ora no, grazie. Più tardi, caso mai.» «Io sì, dia qua» saltò su allegramente Jackson. «Gran cosa, il caffè. Io ne sono un vero bevitore. Non mi basta mai. Lo dico sempre che non c'è niente di meglio per tirarsi su.» La signora Tafoya restava immersa nella sua lettura come se fosse sola su un'isola deserta. Una donna priva di curiosità, apparentemente sprofondata in un libro. McKee lasciò i tre per andare in cerca degli altri, Henry Hilliard e le due donne. Nella sala da pranzo in penombra si fermò. Il grande soggiorno, sulla destra, era al buio. Speaker doveva avere finito di aggiustare la porta e ripreso la via di casa. Di fronte, invece, c'era una saletta più piccola dove la lampada era stata trasferita. Nella saletta c'era Hilliard, insieme a Jill Sheppard e alla signora Mole. A quanto sembrava, il giovane Ward fungeva da collegamento tra i due gruppi. La saletta, una specie di studiolo, aveva un caminetto d'angolo. Ward era lì, inginocchiato accanto al fuoco per attizzarlo con altra legna. Lui e Hilliard stavano chiacchierando. Ward disse: «Conosceva i Dane, vero, signor Hilliard? Si ricorda di una certa Molly Ransom che era al loro servizio parecchio tempo fa?» «Ransom... Ransom?» Hilliard rifletté, aggrottando le sopracciglia. «Non mi pare... Ah, sì, credo di sì, ma vagamente.»
«È mia madre, signore. Ransom era il suo nome da ragazza.» «Davvero?» «Sì. Quando lasciò casa Dane sposò mio padre, e andarono a stabilirsi a Rosita. Non ho conosciuto mio padre, morì prima che nascessi, e in seguito mamma si sposò di nuovo. Comunque lei parlava sempre dei Dane. Quella che chiamano signorina Mary venne anche a trovarci a Rosita, un paio di volte, ma io ero molto piccolo. Però ricordo ancora lo scatolone di dolci che ci portò. C'era un nastro rosa che formava un grosso fiocco. Che cosa strana. Un po' di tempo fa, mamma avrebbe dovuto venire qui in visita, e io dovevo accompagnarla, e invece si è ammalata e ha dovuto farsi ricoverare in ospedale. Quando ho letto il nome Dane, fuori sul cancello, mi sono ricordato della signorina Mary e così sono entrato. Solo che lei non c'era.» Dietro i tendaggi chiusi, la pioggia batteva furiosa contro le vetrate. Ward rimise a posto l'attizzatoio. «Poveri noi, finirà questa specie di diluvio? Ho fretta di arrivare al Sud più presto che posso, e di trovare un lavoro. Speriamo che smetta prima di domattina.» Lo sperava anche Hilliard. «In genere questi temporali di montagna non durano a lungo. La terra è talmente secca che asciuga tutto in un momento.» Abbandonata con grazia nella poltrona, la più comoda della stanza, la signora Mole rabbrividì. Era inquieta e stanca. «Proprio non lo sopporto, questo luogo orribile, Henry. Non sono disposta a restarci ancora per molto.» «Ma andiamo, Rita» protestò la sorella minore, rimettendo a posto un libro che aveva tolto da uno degli scaffali. «Smettila di lamentarti continuamente. Tanto non serve. E poi, è forse colpa di Henry? Chi ha insistito perché lasciassimo Denver, stamattina? A me piacciono i temporali. Sono eccitanti.» Era molto graziosa, con le guance rosee e i capelli chiari. Il giovane Ward, nel raccogliere la cesta vuota della legna, le lanciò uno sguardo di timida ammirazione. Stava per uscire dalla stanza quando McKee vi entrò e lo trattenne. Se almeno fosse riuscito a trovare tre, o anche due persone rimaste insieme durante la mezz'ora che lui e Speaker avevano trascorso nelle stalle, sarebbe stato un grande aiuto. Niente da fare. Nessuno di loro si era intrattenuto con gli altri durante l'intervallo di tempo in questione. Hilliard era rimasto nel soggiorno per alcuni minuti, poi si era trasferito nello studiolo. Con un ventaccio simile, era impossibile riscaldare quello stanzone. La signora Mole era salita in
camera sua per infilarsi qualcosa di più pesante. Per quanto, chi si sarebbe immaginato d'averne bisogno? Nelle case normali, in quel periodo dell'anno... La bella donna altezzosa, un po' troppo florida, parlava guardando McKee freddamente, lisciandosi le pieghe del vestito di lana scura. Sì, sua sorella era rimasta con lei parte del tempo. No, non avevano la stessa camera, ma due comunicanti. Jill Sheppard se n'era andata in giro per la casa a fare un po' di esplorazione. Assicurò che quel posto era pieno di fascino, non aveva mai visto nulla di simile. Le sarebbe piaciuto viverci per un po', assorbirne l'atmosfera... Chissà, forse si sarebbe finito con il vedere i fantasmi, osservazione alla quale Rita Mole replicò con un lungo gemito angosciato di protesta. Il giovane Ward aveva cercato di rendersi utile un po' a tutti, andando a prendere legna, rifornendo lampade e così via. «Perché ce lo domanda, ispettore?» Hilliard scrutava McKee con occhio penetrante. «Perché qualcuno si è introdotto nella stanza dove si trova Gomez, mentre Speaker e io eravamo nelle stalle.» Hilliard parve preoccupato. «Ed Emilio era solo? Se l'avessi saputo, più che volentieri mi sarei...» McKee spiegò che Steele era rimasto con lui, ma disgraziatamente si era addormentato. Mentre lui dormiva qualcuno si era introdotto nella camera e aveva spento la lampada. Al sentire il nome di Steele gli occhi della ragazza si spalancarono. «Steele?» ripeté stranamente irrigidita, e l'ispettore annuì. «Sì. Ci siamo incontrati sulla strada, fuori del ranch, e siamo arrivati qui insieme. È uno scrittore di New York, in viaggio da queste parti.» «Capisco» fu l'unico commento della ragazza, che teneva lo sguardo rivolto altrove. «Ma Emilio sta bene?» volle sapere Hilliard. McKee rispose in tono asciutto: «Bene per quanto gli è possibile, e sempre che si possa procurargli un medico al più presto. Altrimenti temo proprio che...» Non terminò la frase, ma l'espressione del suo volto diceva il resto. Tutto ciò era troppo per la signora Mole. Stavolta il suo sfogo fu quasi isterico. «Te l'ho detto, Henry, te l'ho detto. Sapevo che stava succedendo qualcosa di orribile. Questa casa è spaventosa, è indemoniata... Lo si sente, io l'ho sentito per istinto dal momento in cui ci ho messo piede. Sarebbe stato meglio passare la notte in macchina. Qualsiasi cosa sarebbe stata pre-
feribile, proprio qualsiasi cosa. E ci vorranno ore e ore prima che faccia giorno. Non credo di poter resistere...» Parole di conforto da Hilliard, espressioni infastidite da parte della ragazza. McKee lasciò la bionda alle cure dei due e tornò da Gomez per vedere come stava. Il lungo salone d'ingresso era gelido, ma il battente della porta era stato riparato e vento e pioggia non potevano più penetrare. Non entrò immediatamente nella stanza di Veronica. Bussò soltanto, e subito gli rispose la voce sveglia di Steele: Gomez stava sempre allo stesso modo. McKee lo avvertì: «Sarò da lei tra un istante.» E proseguì lungo il corridoio per dare un'occhiata alle fotografie di cui gli aveva parlato Speaker. Sarebbe stato interessante vedere che aspetto aveva la defunta Veronica Dane, e così la sorella, Mary. Soprattutto Mary. C'era un solo fatto certo, in tutta la faccenda: qualcuno aveva tentato di togliersi dai piedi Emilio Gomez, e per poco non c'era riuscito... E Mary si era allontanata in fretta e furia dal ranch, dimenticando i guanti nella stalla, tanta era la sua premura di andarsene. Poteva essere molto lontana, ormai, nonostante il maltempo. Era abituata agli uragani che si scatenavano nella zona, e in sella a un cavallo poteva spingersi dove nessuna macchina avrebbe potuto avventurarsi. La prima fotografia che gli capitò sott'occhio era un ingrandimento di Veronica, una bella donna con i capelli grigi, dal portamento regale, in sella a un cavallo arabo. Arrogante, sicura di sé, una di quelle donne che hanno sempre ragione. "Veronica sa quello che dice... È per il tuo bene... Dispiace più a me che a te, ma..." Ne studiò il volto. L'inclinazione della testa, la forma delle labbra, della mascella e del mento denotavano orgoglio e fermezza inesorabile. Altre tre fotografie confermavano quell'impressione. Nella quinta la si vedeva con una coppia di persone molto anziane, probabilmente i genitori. C'erano con lei un paio di cani. Uno era certamente il dalmata, Spot, quello che era scomparso il giorno della sua morte. Spostando il raggio della torcia, McKee lo fermò all'improvviso sul vuoto, o piuttosto su uno spazio libero della parete dal quale una fotografia era stata asportata di recente. Lo stucco era di colore diverso. Dunque, mancava uno dei ritratti. Ce n'erano altri, continuando lungo il muro, ma nessuno di Mary, né sola, né con altri membri della famiglia. Fischiettando in sordina, si guardò un po' attorno. Pochi metri più in là, in fondo al corridoio, una porta dava sull'esterno. Era chiusa, ma se Mary avesse avuto con sé un secondo mazzo di chiavi avrebbe potuto sgattaiolare dentro casa da lì, dopo aver abbattuto Gomez, e prima di darsi alla fu-
ga... McKee risalì lentamente il corridoio. Era quasi arrivato all'altezza della camera in cui giaceva Gomez, quando la porta si spalancò. Steele si affacciò sulla soglia. «C'è Speaker» annunciò a voce bassa, e indicò verso una delle finestre. Speaker, con una lanterna in mano, aspettava all'esterno, davanti a una finestra. Mentre Steele richiudeva l'uscio, McKee attraversò in fretta la stanza, trafficò con il saliscendi e aprì la finestra. Speaker entrò scavalcando il basso davanzale, portando con sé il vento e la pioggia. Aveva gli abiti inzuppati, gli stivali ricoperti di fango. Era venuto di corsa, e aveva il respiro affannoso. Facendo cadere senza complimenti sulle piastrelle dell'impiantito l'acqua raccolta nella falda del cappello, raccontò: «Ho lasciato il camioncino sulla strada. Ho pensato fosse meglio non far sapere niente a nessuno, prima di avere parlato con lei. Ho trovato Polo. In sella non c'era nessuno. Ora l'ho legata al camioncino. Di Mary nessun segno, da nessuna parte.» Polo... L'ispettore impiegò alcuni secondi a ricordare il nome. Era la cavalla che Mary Dane aveva montato per venire a El Toro, e in groppa alla quale presumibilmente era fuggita. Solo che non era andata lontano. Mary si trovava ancora nei paraggi, da qualche parte. 4 Nell'hacienda, in ogni modo, Mary Dane non c'era. McKee aveva chiamato in aiuto Hilliard. Già prima avevano effettuato insieme un giro frettoloso; ora esplorarono la casa palmo a palmo, mentre Steele rimaneva a guardia di Emilio Gomez. Dopo avere riferito la sconcertante notizia, Speaker se n'era andato quasi subito, portando con sé la cavalla pezzata. Se n'era andato a malincuore, ma non poteva fare diversamente. Era della massima importanza che la polizia venisse immediatamente avvertita dello stato di cose che regnava a El Toro, e inoltre aveva spiegato che il Chavez, il fiumicello da oltrepassare per poter raggiungere il suo ranch, era probabilmente già in piena. Se fosse straripato, attraversarlo sarebbe stato impossibile. Per di più, i fossati lungo il cammino dovevano essere gonfi, e probabilmente avevano inondato buona parte della strada. Soltanto l'anno prima una donna e due bambini, in una macchina, erano stati spazzati via dall'inondazione proprio a breve distanza dai cancelli di El Toro. L'auto e le salme erano state ripescate solo una settimana dopo in una vallata sottostante, un paio di chilometri più a est.
«Beh, dentro casa Mary non c'è di sicuro» concluse Hilliard scoraggiato, dopo una mezz'ora di ricerche scrupolosissime. Ogni stanza era stata frugata, ogni sgabuzzino, tutto inutilmente. Restavano gli edifici esterni. Questi comprendevano il granaio e le stalle attigue, una lavanderia, il magazzino dove d'inverno venivano conservate le carni, un pollaio e altre strutture, alcune delle quali fuori uso da tempo. Due uomini armati di lanterne, e con la possibilità che la persona che cercavano si ritirasse con il favore delle tenebre via via che avanzavano, non potevano sperare di compiere una perlustrazione accurata finché non si fosse fatto giorno. Nel frattempo, tuttavia, andava tentata almeno una esplorazione preliminare. La signora Fergusson e gli altri suoi ospiti erano stati messi al corrente dell'accaduto. Era necessario che sapessero, viste le circostanze. Jackson e il giovane Ward si erano offerti di dare una mano, ma McKee aveva rifiutato. Qualcuno doveva restare con le signore. La signora Mole, dopo avere saputo l'ultima novità della giumenta senza cavaliere e della donna scomparsa, era in preda a una specie di collasso. La Fergusson era accigliatissima, la sua faccia sembrava di pietra. Perfino la ragazza, Jill Sheppard, appariva nervosa e a disagio. Dopo essersi muniti di stivali e impermeabili racimolati tra quelli appesi nell'acquaio oltre la cucina, McKee e Hilliard si apprestarono a uscire. Nel lasciare la stanza, Hilliard osservò: «Quello che non capisco, ispettore, è perché Mary sia tornata a El Toro con un tempaccio come questo. Nel biglietto lasciato agli Speaker diceva d'avere dimenticato una cosa importante. Ma avrebbe potuto aspettare fino a domattina, prima di mettersi in cammino. La signora Fergusson era qui, e non sarebbe scappata di sicuro. E poi Mary non è tipo da fare cose avventate, per lo meno a me non risulta. E non basta: una volta arrivata qui, perché non entrare in casa? Le dico che sono preoccupato per lei, ma molto, ispettore.» Lo era anche McKee, infatti. La sua unica risposta fu un'alzata di spalle, poi i due uomini avanzarono adagio attraverso il cortile, le spalle curve davanti alla spinta contraria del vento e alle staffilate di pioggia. Guardarono dapprima nel pollaio, poi nella lavanderia. Niente. Nessuno. Nel magazzino delle carni non riuscirono a entrare. Poco male: era chiuso con un lucchetto dall'esterno e non aveva finestre. Mary Dane non poteva essere di certo lì dentro. Foglie rimaste attaccate ai rami durante l'inverno cadevano bagnate dai pioppi e andavano ad ammucchiarsi nel fango; reggersi in piedi sul terreno viscido era una vera impresa. I due perlustrarono il granaio e infine le stalle... e si trovarono di fronte a un mistero.
La vecchia giumenta nera, quella che il giovane Ward aveva montato senza sella e aveva poi lasciato nel cortile posteriore ad aspettare docilmente a testa bassa, adesso era in uno dei box della stalla, a masticare fieno con aria molto soddisfatta. McKee la fissò stupefatto. «Ma come diavolo...» mormorò tra i denti, e spiegò a Hilliard che le porte della stalla erano tutte chiuse quando lui e Speaker erano usciti di là poco prima. Hilliard osservò che forse una delle numerose porte era stata spalancata dal vento e poi richiusa, e McKee annuì dubbioso. Poteva darsi, d'accordo, ma restava anche un'altra possibilità. L'ombra strisciante che la signora Mole aveva creduto di vedere alcune ore prima fuori della finestra del soggiorno, uomo o donna che fosse, poteva essere entrata lì con uno scopo, e la cavalla averla seguita. Qualcuno o qualcosa, attirato dalla luce della lampada, si era certamente accostato alla finestra per tentare di sbirciare all'interno, come testimoniavano i rametti spezzati sotto il davanzale. Poteva essere stata Mary Dane... I due ripresero le ricerche. Nell'hacienda, intanto, nella stanza dove Gomez giaceva respirando sempre penosamente, Steele passeggiava inquieto su e giù. Adesso che era solo, non aveva bisogno di sorvegliare la propria faccia, la propria voce, la propria espressione. Era fuori di sé, e si vedeva. La rabbia gli si era accumulata dentro durante tutta la serata: era diretta contro se stesso. Che idiota era stato a spingersi all'Ovest, che maledetto, imperdonabile idiota! La situazione in cui era andato a cacciarsi, entrando in quella casa, era solo ed esclusivamente colpa sua. Quanto s'era imposto di prendere alla leggera il motivo che l'aveva portato fin lì, di gettarselo dietro le spalle, di metterci una pietra sopra... Era acqua passata. Bisognava lasciare perdere, e all'inferno tutto! Ma purtroppo ormai era lì, e non gli restava altro da fare che tenersi in disparte e poi andarsene al più presto. In fondo, il fatto di trovarsi isolato e chiuso nella stanza con il povero stalliere ferito era quasi una benedizione del cielo. Ma non rimase solo per molto. Aveva acceso la quinta sigaretta, nel giro di altrettanti minuti, quando un colpo venne bussato all'uscio. Steele s'irrigidì, poi s'impose di calmarsi. Probabilmente era l'ispettore di ritorno. Però, meglio accertarsene. Andò alla porta e domandò senza aprire: «Sì? Chi è?» Una voce femminile. Era la signora Tafoya. Steele aprì una fessura. La donna portava una cesta di vimini piena di bottiglie d'acqua calda rivestite di panni caldi, e alle sue spalle c'era il giovane Ward con un carico di legna per il caminetto.
La Tafoya spiegò nel suo tono impacciato: «Ho pensato... Le altre bottiglie, quelle che ha già, si saranno raffreddate, sarà meglio cambiargliele.» Steele esitò. Ma il fatto d'essere in tre era già rassicurante. La Tafoya e il giovane Ward non avevano l'aria di essere in combutta; al contrario erano, o sembravano, due perfetti sconosciuti. Inoltre, quel che la donna diceva era giusto. Aprì di più la porta e li lasciò entrare. Ward andò al caminetto e lasciò cadere i ceppi nell'apposito cassoncino; la signora Tafoya cominciò a estrarre con garbo le altre bottiglie e a sostituirle con le nuove. La stanza era ampia e in penombra, oltre il cerchio di luce della lampada, ed era difficile tenere d'occhio l'uno e l'altra contemporaneamente. Ciò nonostante, era un sollievo potersi occupare d'altro, dimenticando per un momento la propria situazione. Dopo le ultime novità su Mary Dane, sul fatto, cioè, che la donna aveva raggiunto l'hacienda e si trovava probabilmente ancora nelle vicinanze, il quadro era mutato in modo preoccupante e ogni piccolo particolare poteva rivelarsi importantissimo. Per esempio, qualcuno poteva essere suo complice, essere in combutta con lei. Si sbagliava, o la Tafoya aveva gettato un'occhiata alla scrivania e all'arazzo che nascondeva la porticina che conduceva nel solaio? Mah, forse gli era sembrato. Tornò a domandarsi dove l'avesse già incontrata, perché era sicurissimo di averla già vista. Terminato il suo compito, lisciate e rimesse a posto le coperte, la signora si trattenne accanto al letto a contemplare il povero Gomez ormai in coma. Steele la vedeva di profilo, e i suoi lineamenti apparivano diversi: erano lineamenti puri, ben fatti. Cambiò parere riguardo all'età. Il portamento, tutto l'aspetto e il modo di fare, facevano pensare a una donna sulla cinquantina, ma non era escluso che ne potesse avere di meno... Quasi avvertendo il peso di quell'esame attento, lei si voltò e l'impressione di giovinezza, sia pure di giovinezza relativa, venne immediatamente cancellata. «Poveruomo» disse, scuotendo il capo impietosita. «Cosa... cosa dice l'ispettore? C'è qualche speranza che se la cavi?» Ascoltandola, Steele provò uno strano brivido lungo la spina dorsale. Non erano le parole, ma il timbro della voce. Conteneva qualcosa, una cadenza, forse, che suscitava una specie di eco dentro di lui. Sì, non solo aveva già visto quella donna, l'aveva anche sentita parlare... ma dove? E quando, e in quali circostanze? Più si sforzava, meno ne veniva a capo. A voce alta, rispose: «Temo che di speranze ce ne siano ben poche, se non si riesce ad avere al più presto un medico.»
Ward si era girato e, fermo ai piedi del letto, fissava a sua volta Gomez. Era molto giovane per essersi trovato altre volte in presenza di un morente, e la vista lo emozionava in modo evidentissimo. Le lentiggini erano più che mai visibili sulla faccia scarna. «Se almeno potessimo fare qualcosa per lui, poveruomo...» mormorò. Steele si limitò a scuotere il capo. Tutto ciò che si poteva tentare era stato fatto. La signora Tafoya si aggiustò le lenti sul naso, raccolse la cesta con le bottiglie tiepide e un momento dopo lei e Ward lasciarono la stanza. Steele, dopo avere richiuso la porta dietro di loro, riprese cupamente la sua veglia presso il ferito. Dove diavolo si era cacciato McKee? Era assente da un bel pezzo, ormai. Cosa poteva trattenerlo tanto a lungo? Ciò che tratteneva l'ispettore era la scoperta inaspettata fatta da lui e da Hilliard nel granaio. Sul punto di lasciare la stalla vera e propria, McKee aveva esitato. Il mistero di come la cavalla nera fosse riuscita a introdurvisi continuava ad assillarlo. Le porte erano tre: una conduceva al granaio, una nel cortile, la terza dava sul recinto per i cavalli dietro la casa. Le ultime due erano entrambe chiuse. Come già Speaker, Hilliard aveva tentato di calmare un po' lo stallone di Veronica, ma senza successo. Il bestione continuava a roteare gli occhi infocati e a impennarsi e a tirare calci. D'improvviso, McKee si ricordò dell'osservazione fatta da Speaker un'ora prima. Il ranchero aveva detto: "Chissà perché Charlie si trova in questa stalla, invece che nel suo box". Il box di Charlie, dove lo stallone poteva circolare liberamente senza venire legato alla greppia, si apriva due posti più in là. McKee tornò a ispezionarlo. Era grande e spazioso, ed era il più vicino alla porta che dava sul recinto. Un secchio d'acqua pieno a metà in un angolo, la greppia colma di fieno, e una lettiera di paglia ammucchiata che copriva parte del pavimento. La paglia era fresca, color oro pallido alla luce della lanterna di Hilliard. Non c'era alcuna ragione apparente perché Charlie avesse dovuto prendere in antipatia la sua abituale residenza. Al contrario, invece... McKee entrò nel box, accese la torcia elettrica e mandò il cono di luce a illuminare gli angoli più riposti. Meravigliato, Hilliard osservava aggrottando la fronte, tenendosi sulla soglia. McKee si era fermato accanto alla lettiera di paglia. Questa era lunga quasi due metri, larga circa uno e mezzo. La esaminò socchiudendo le palpebre, poi s'inginocchiò e cominciò a tirare via la paglia, asportandone grosse bracciate e gettandole in un angolo. Le sue mani scavavano sempre più a fondo. «Qui c'è qualcosa» annun-
ciò al compagno, voltando appena la testa, e Hilliard subito accorse. Infatti, qualcosa c'era. La prima cosa che l'ispettore portò alla luce fu un piede di donna, chiuso in un corto stivaletto da amazzone. Esclamazione rauca da parte di Hilliard. Il piede apparteneva a Mary Dane. Mary giaceva là, coperta dagli ultimi ciuffi di paglia: giaceva bocconi, con la testa un po' voltata, ed era morta. E non solo era morta, ma doveva esserlo da diverse ore. Le membra avevano già cominciato a irrigidirsi. 5 Il tamburellare della pioggia all'esterno, sul tetto e contro le pareti, era fortissimo. Il vento urlava, si ritraeva fischiando, preparandosi ad abbattersi in nuove raffiche. Nell'immobilità dell'interno, lo stallone nitrì irrequieto. Hilliard mormorò: «Dio...» e posò una mano contro la parete come per sostenersi. McKee fece un breve esame del cadavere. Se potevano esserci dubbi circa le cause della morte di Veronica Dane, non ne sussistevano certo per quanto riguardava quella della sorella minore. Mary era stata uccisa. Omicidio volontario: su questo non si discuteva. Un sottile pezzo di cuoio, parte di un laccio per legare i cavalli, le era stato gettato intorno al collo da dietro le spalle, e il nodo scorsoio era stato stretto. Mary era morta per asfissia causata da strangolamento. La faccia era gonfia, la pelle tumefatta. Probabilmente l'assassino non aveva impiegato molto a ucciderla. Doveva essere stata una questione di pochi istanti. Hilliard aveva perso tutta la sua calma. Era assolutamente sconvolto. Pallidissimo, pareva doversi sentire male da un momento all'altro. «Dio...» ripeté. «Che cosa brutale. È orribile. Non posso, non riesco a crederci. Mary... Chi può avere voluto... E perché? Per me è assolutamente inspiegabile.» Sarà stato anche inspiegabile, pensò McKee, ma era così. Nonostante il freddo per cui il loro alito si tramutava in vapore, Hilliard aveva la fronte madida. Se l'asciugò con mano tremante. «Per quanto ne so io, non aveva mai fatto del male a nessuno. Mai. Non era donna da comportarsi così. Si fosse trattato di Veronica, beh...» Il commento di Fernandez formulato con altre parole. McKee si alzò. «Sarà come dice lei, ma è certo che Mary Dane stava tagliando la strada a qualcuno. Questo è evidente.» Parlava in tono distratto, e intanto rifletteva. Nella sua mente si andava formando uno schema. A differenza di Emilio Gomez, Mary non portava orologio, ma il principio di rigidità cadaverica
lasciava supporre che la poveretta fosse deceduta prima che Gomez venisse aggredito e tramortito con un colpo nel cortile dietro l'hacienda. Possibile che lo stalliere fosse stato testimone dell'uccisione di Mary? McKee si accigliò. Da quanto aveva sentito sul suo conto, Gomez non sarebbe rimasto di certo con le mani in mano mentre una delle sue antiche padrone veniva assassinata, ma si sarebbe precipitato a dare l'allarme a costo di tirarsi addosso le ire dell'assassino. Era corso in direzione della casa, probabilmente per chiamare, per invocare aiuto. Prima di riuscirci era stato raggiunto e ridotto sommariamente al silenzio. D'accordo. Fin lì, tutto chiaro. E poi? Se Gomez si era effettivamente trovato sulla scena quando il cappio di cuoio era stato gettato e stretto al collo di Mary Dane, in che punto con precisione? McKee raccolse la lanterna e fece oscillare attorno la luce giallastra. In ciascuna delle stalle che davano sul recinto c'era una finestrella. Annuì. Ecco, forse era andata così. Gomez si era trovato accanto a una di quelle finestre, aveva sbirciato nella scuderia, aveva visto quanto stava avvenendo. Nel tempo che aveva impiegato per fare il giro e irrompere nelle stalle dal granaio, forse la salma di Mary era stata nascosta sotto la paglia della lettiera. Sollevò la lanterna, e subito il suo sguardo si fece più acuto. La finestra del box in cui giaceva la donna aveva un piccolo foro triangolare in uno dei vetri. Lo stalliere poteva aver udito, oltre che visto... Quel "Signorina Mary" che aveva concluso la frase pronunciata con tanta fatica, e che era stato interpretato come un'accusa rivolta a lei, era tutt'altra cosa. Gomez aveva voluto avvertirli di quanto era accaduto, dire loro dove si trovava la padrona uccisa. Ma allora, qual era il significato delle parole dette in precedenza: "Non...", e poi un nome biascicato, Perez, Patrick, Peter? Rinunciò per il momento a venirne a capo. La prima cosa da fare era dare un'occhiata alla luce, o piuttosto all'oscurità, di quanto avevano trovato, tenendo presente quella somma di enigmi. Uscì dal box. Hilliard se ne stava appoggiato contro lo steccato di chiusura. Con uno sforzo si rimise eretto, meravigliato. «Ma non pensa che... Non sarebbe meglio che la trasportassimo altrove? Non possiamo lasciarla... Potremmo almeno trasportarla nella stanza degli attrezzi, non le pare?» McKee scosse la testa. «No. Alla signorina Dane non porterebbe alcun vantaggio; ormai non si cura più di nulla, non può importarle. E non deve essere rimossa. Dev'essere lasciata dov'è, proprio come l'abbiamo trovata, finché non arriverà il coroner, o il medico legale, non so come usino da
queste parti, e non avrà emesso il suo verdetto dopo aver esaminato la salma.» La cosa non convinceva Hilliard, che rimase turbato e perplesso. «Ma lei non è un funzionario di polizia, ispettore? Sicuramente se...» McKee lo interruppe: «No, signor Hilliard.» E spiegò: «Non ho un'autorità riconosciuta in questo Stato, capisce? Devo obbedire alla legge, come chiunque altro. Nel New Mexico valgo quanto qualsiasi altro privato cittadino, e quindi non ho facoltà di rimuovere il cadavere di una donna assassinata.» Hilliard lo guardò e fece un respiro profondo. Cominciava a ritrovare il controllo di sé, ed era un uomo di buon senso. A malincuore, concesse: «Se lo dice lei, ispettore...» e lo seguì fuori del box. McKee ricominciò a studiare attentamente tutta la malridotta costruzione: prima le stalle, poi il granaio attiguo. Nel grande stanzone centrale, balle di fieno erano ammucchiate in grandi covoni legati con filo di ferro, e contro una parete erano accantonati sacchi d'avena e di crusca. Vicino a un'altra c'erano un gran mucchio di avena protetto da una copertura di rete e, ammassati in un angolo, svariati attrezzi agricoli: forconi, pale, mazze di ferro, un erpice arrugginito e una piccola trebbiatrice. Nessuna di quelle cose rivelava granché. In fondo al locale centrale si aprivano le stalle, da un lato la stanza degli attrezzi, dall'altro la cameretta in cui aveva alloggiato Emilio Gomez; McKee volle vederla. Non si poteva certo definirla lussuosa. Un letto da campo sul quale erano stese delle coperte, panni da lavoro appesi ad alcuni pioli nascosti da una tenda, una sedia sgangherata, uno scaffale di legno sul quale erano posati una bacinella di stagno e un pezzo di sapone giallo su un coperchio di latta, e un asciugamano ruvido appeso a un chiodo. Non c'era riscaldamento e il freddo era penetrante. Emilio Gomez era un uomo ordinato. Tutto era immacolato e rassettato, tranne la branda. Le coperte vi stavano buttate sopra in disordine. McKee si avvicinò. Secondo la signora Fergusson, lo stalliere aveva lasciato El Toro di buon'ora il mattino precedente per portare alcune cose da sua sorella che stava a Chimayo, o almeno così le aveva detto la signorina Dane prima di andarsene. McKee passò una mano tra le coperte, tastò la branda e tenne a lungo la mano ferma in un punto. Sentiva un lieve tepore, appena avvertibile, ma che non lasciava dubbi. Qualcuno era rimasto sdraiato fino a poco prima sulla branda, con le coperte addosso. Provò a toglierle completamente. Al-
tro calore e umidità. Verso il fondo, sulle lenzuola ruvide, si vedevano macchie di fango, lasciate da due stivali che vi si erano posati poco prima. Il fango era ancora bagnato. Guardò Hilliard. «Sarà stata l'apparizione intravista dalla signora Mole, suppongo. L'ombra che sbirciava nel soggiorno attraverso la finestra. O per lo meno, così sembra di primo acchito.» Hilliard era ancora tutto preso dall'orribile spettacolo di Mary Dane sepolta tra la paglia. All'osservazione dell'ispettore si scosse e ridivenne attento. «La signora Mole... Ah, sì, capisco. Sì, sì. L'ombra che ha intravisto era forse di un vagabondo che più tardi ha trovato rifugio qua dentro?» McKee ne era convintissimo. Al principio della serata, quando loro due erano corsi fuori a vedere chi c'era, gli era infatti sembrato di vedere qualcuno fuggire via per sottrarsi alla luce della torcia, qualcuno che poi era rimasto a osservarli dal buio, pronto a scappare in una direzione o nell'altra. «Precisamente» rispose. E dopo un'ultima ispezione alla stanza degli attrezzi, che non rivelò nulla di interessante, i due uomini lasciarono la scuderia e si accinsero a riattraversare il viale per fare ritorno alla casa. Pioggia, raffiche di vento, agitarsi di rami invisibili; mentre procedeva a testa china, lo scozzese quasi non badava più a quel finimondo. Un omicidio portato a termine perfettamente, un secondo omicidio mancato per miracolo. Le persone sospette, quelle che, trovandosi sulla scena, potevano aver avuto qualche parte nei delitti, e al momento non era possibile escluderne nessuna, erano Hilliard, la signora Mole, sua sorella Jill Sheppard, la signora Fergusson, la signora Tafoya, il giovane Ward, il gioviale signor Jackson, e adesso l'ignoto occupante della stanzetta di Gomez. Nemmeno Steele era del tutto insospettabile. In ogni modo, quello di cui proprio non si sentiva il bisogno era la presenza di un nuovo individuo da aggiungere ai già noti. Proprio non ci voleva. Quando rientrarono, per quanto fosse molto tardi e tutti fossero stanchissimi, nessuno si era ancora coricato. Pareva che, quasi senza rendersene conto, tutti tendessero a restare uniti per sentirsi protetti, o forse per sfiducia reciproca. I due uomini si liberarono degli stivali e degli impermeabili, che riposero nell'acquaio. Nel far questo scambiarono alcune parole. Hilliard era tornato padrone di sé. Energico, deciso, un uomo abituato ad affrontare le situazioni impreviste. Voleva sapere se l'ispettore avrebbe comunicato agli altri la notizia della morte di Mary Dane. McKee rifletté per qualche istante. Se l'assassino si trovava sotto quello stesso tetto, conosceva già la fine di Mary. Gli altri no, naturalmente, e a
quell'ora, in una casa completamente isolata dal resto del mondo, la cosa da evitare assolutamente era il panico. Annunciò che per il momento non lo riteneva opportuno, e Hilliard parve molto sollevato. «Rita... la signora Mole, capisce, è già abbastanza scossa, ma se venisse a sapere anche quello che è capitato alla povera Mary» levò le braccia al cielo «perderebbe completamente la testa.» McKee era ansioso di tornare da Gomez, per vedere se nelle sue condizioni si fosse verificato qualche cambiamento, qualche miglioramento sia pure lievissimo. Se il malcapitato stalliere si fosse ripreso almeno quel tanto da riuscire a spiegarsi, si sarebbe potuto venire a capo di qualcosa. Lasciò l'acquaio e infilò in gran fretta il corridoio. Steele venne immediatamente ad aprirgli, e tornò a chiudere dopo averlo lasciato entrare. Nell'attimo in cui si avvicinò al letto e guardò Gomez, l'ispettore si sentì cascare le braccia. 6 «A me pare che stia peggio» dichiarò Steele, avvilito. «Anche a me. Tentiamo con un'altra iniezione di adrenalina.» La sostanza non ebbe alcun effetto immediato. Mentre osservavano il viso grigiastro del vecchio, segnato da innumerevoli rughe, McKee s'informò: «C'è stata qualche novità, qui?» Steele lo mise al corrente della venuta della signora Tafoya con le bottiglie di ricambio e di Ward con la legna. Poco dopo si era presentata la signora Fergusson in persona a proporgli di mangiare qualcosa e di bere un caffè. Si era offerta di restare lei accanto a Gomez, mentre Steele si rifocillava. Questi concluse: «Non ho voluto accettare. Ha notizie della signorina Dane?» «Già, purtroppo l'abbiamo trovata.» Fermo di fianco al letto, le dita sul polso di Gomez, McKee descrisse il ritrovamento fatto da lui e da Hilliard nel box dello stallone. «Gran Dio! Mary Dane uccisa, strangolata a morte...» Lo scrittore lo fissava. «Ma sembra che ci sia una specie di maledizione su questa casa. Dunque non è stata Mary a staccare quella fotografia dalla parete del corridoio?» McKee si strinse nelle spalle. «Si direbbe di no, per quanto potrebbe averlo fatto prima, appena arrivata. Sempre ammesso che avesse un'altra serie di chiavi, oltre a quelle che aveva consegnato alla signora Fergusson.
Addosso, comunque, non gliene ho trovate.» E finì di mettere l'altro al corrente. Secondo lui, Gomez era stato colpito dopo che Mary Dane era morta; lo si deduceva dalla rigidità del cadavere. Naturalmente la temperatura esterna aveva potuto affrettare l'irrigidimento, ma la paglia che ricopriva il povero corpo avrebbe dovuto in parte trattenere il calore. Inoltre, c'era lo sconosciuto che aveva cercato rifugio tra le coperte di Emilio Gomez, nella cameretta vicina alle stalle, e che doveva esservi rimasto nascosto durante la prima spedizione fatta da lui e da Speaker nel granaio. Naturalmente, poteva anche essere totalmente estraneo al crimine, e forse si era tenuto nell'ombra per ragioni di tutt'altro ordine. Era difficile dirlo, a quel punto; in ogni modo, si sarebbe dovuto cominciare prima di tutto con lo stanarlo... il che non sarebbe stato facile, date le circostanze. E il crepitio della pioggia contro le vetrate buie parve sottolineare le sue parole. «Dio mio, ispettore, che razza di pasticcio abbiamo per le mani!» esclamò Steele, abbandonando il suo atteggiamento solitamente impassibile. Lo scozzese annuì con aria distratta. Ogni speranza di vedere uno spiraglio di luce dipendeva dalle condizioni del povero Gomez, e a giudicare dal rantolo che gli usciva dalle labbra semiaperte, era molto più di là che di qua. A meno che non si potessero avere subito dei soccorsi, non si intravedevano probabilità che fosse in grado di parlare. McKee tornò a infilare con delicatezza sotto le coltri la mano rude e inerte dello stalliere e si accese una sigaretta. Fumò passeggiando su e giù, muovendosi inquieto per la stanza. Steele lo osservava con occhi arrossati dalla stanchezza. «Se almeno si appurasse qualcosa... Cosa pensa di fare, ispettore? Parlare di nuovo a tutta quella gente?» McKee gettò la cenere nel fuoco del caminetto. «Allo stato attuale delle cose, mi sembra una perdita di tempo. Non farebbero che confermare ciò che hanno già detto, e cioè che nulla sanno, nulla hanno visto e nulla sentito. Ammettere qualcos'altro sarebbe da stupidi, del resto, e nessuno di loro lo è, anzi... Almeno fino a domattina, non ci resta che aspettare. Può darsi che nel frattempo Speaker riesca a informare la polizia dello Stato.» Scrutò il viso intelligente di Steele e concluse tranquillamente: «Non sta cercando di nascondere qualcosa anche lei, per caso?» Steele non abboccò all'amo. Non mostrò né indignazione né imbarazzo, e protestò senza troppo scomporsi: «Ma cosa le salta in mente, ispettore? Lei e io eravamo insieme sulla strada, a circa un miglio da qui, quando
Gomez è stato aggredito, per non parlare di quello che era avvenuto prima e di quello che è successo alla povera signorina Dane. Tutto ciò lo sa benissimo. Quanto a questo posto, e a quel povero vecchio, e alla famiglia Dane, non li avevo mai sentiti nominare in vita mia finché non abbiamo avuto la malaugurata sorte di varcare quel cancello e di incamminarci per quel viale.» Da come parlava, sembrava proprio che dicesse la verità. «Eppure, la faccia della signora Tafoya non le è del tutto nuova.» «Ah, questo sì, devo averla già vista... anzi, l'ho vista, ma parola mia non riesco a ricordare dove.» «Non si sforzi, forse le verrà in mente all'improvviso. La memoria fa scherzi stranissimi. E adesso vada pure a mangiare qualcosa e a bere una tazza di caffè, e torni con una tazza anche per me, se non le dispiace. Nero, senza zucchero. Io intanto starò di guardia qui.» «Benissimo.» Steele uscì. Era un sollievo allontanarsi dalla figura stesa sul letto, sia pure per breve tempo, eppure... Ah, all'inferno! Non gli importava un corno di chi poteva incontrare. Si avviò lentamente lungo il corridoio, attraversò il soggiorno e l'arcata comunicante con la sala da pranzo. Ci si vedeva un pochino grazie alla lampada a petrolio, tenuta molto bassa, che stava sul lungo tavolo intagliato. Senza sapere bene perché, vicino al tavolo si fermò bruscamente. Che cosa l'aveva indotto a fermarsi? Qualcosa, sicuramente. Forse un rumore lieve, colto mentre era immerso nei suoi pensieri? Sì, qualcosa del genere. Si guardò attorno, ma non vide nessuno né sentì nulla, salvo l'infuriare della tempesta oltre le pareti della casa. Ma chissà perché, provava una sensazione strana, aveva l'impressione che ci fosse qualcuno vicino a lui. Si chinò a guardare sotto il tavolo, poi nella saletta attigua, dove nel caminetto brillava ancora un po' di brace. Nessuno. C'era solo un altro nascondiglio, lo sgabuzzino sulla parete opposta alle finestre. Si avvicinò e provò la maniglia. Era chiuso a chiave. Scherzi della fantasia, disse spazientito a se stesso, e proseguì attraverso la dispensa fino in cucina. La signora Tafoya era sola. Lo guardò attraverso le lenti cerchiate di metallo, fece un cenno distratto e ritornò al suo libro. Il ticchettio di una piccola sveglia su uno scaffale, lo scroscio persistente della pioggia oltre i vetri, di tanto in tanto un crepitio di legna nel caminetto. Steele si preparò un panino; su una credenza c'erano un prosciutto, del burro e il pane. Mangiò voracemente, restando in piedi. L'ultima volta che aveva mangiato qualcosa era stato a mezzogiorno, in un buco trovato lungo la strada, e non aveva
fatto certo un gran pasto. Alla fine, lavò il piatto e si versò una tazza di caffè. Il tutto comportò un certo rumore, ma la signora Tafoya non staccò gli occhi dalla pagina nemmeno per sbaglio. Evidentemente, non aveva alcun interesse per lui o per quanto accadeva nella stanza. Il silenzio era pesante, dava un senso di oppressione. A un certo punto, pensò bene di rivolgersi per primo alle spalle ostentatamente girate. «Gli altri sono andati a letto?» s'informò cordialmente. Lei non si voltò. «Non saprei. Credo di sì.» Una donna di poche parole; la voce monotona era piatta, priva di tono. Steele contemplò pensoso la testa china sul volume. Possibile che si sbagliasse? Che avesse immaginato di avvertire in quella voce, poco prima, la nota speciale, la nota dal timbro particolare che gli era rimasta tanto impressa? No, affatto. Ma la donna aveva parlato in preda all'emozione, osservando Gomez che... La porta a molle della dispensa si stava aprendo: gli era sembrato, o la donna accanto al focolare si era rannicchiata su se stessa? Steele si girò di scatto. Era la signora Mole che entrava. Si arrestò di colpo, vedendolo. La mano inanellata salì al colletto della vestaglia imbottita di raso verde che indossava sopra le pantofoline bianche. Negli occhi sgranati si leggevano lo smarrimento improvviso, il timore, e una scintilla d'odio. La signora si passò la punta della lingua sulle labbra divenute improvvisamente aride, e deglutì. Guardò la Tafoya, poi di nuovo Steele. «Oh» disse «non m'aspettavo... Non sapevo che qui ci fosse qualcuno...» Era tutta scombussolata. Maledetta strega, pensò Steele. E non era abbastanza: maledetta imbrogliona, avida, sordida, priva di scrupoli, e soprattutto maledetta bugiarda! Ecco che stava per alzare i tacchi, sotto lo sguardo blando e insieme ironico di lui. «Resti qui» fece Steele allegramente. «Perché scappa? Non mi riconosce più, signora Mole? Eppure dovrebbe. Lavoravo con suo marito a New York, ci saremo incontrati almeno una dozzina di volte. Davvero non si ricorda di me?» "E adesso che farà?" pensò. "Tenterà di cavarsela con la solita sfrontatezza?" Lei stava cercando di ricomporsi, di raggiungere una decisione. Alla fine replicò, molto sostenuta: «Ma lei... lei è il signor Steele, vero? Ma certo! Solo non m'aspettavo di... di vederla in un posto come questo, in capo al mondo.» Tutto ciò era a beneficio della signora Tafoya. Il sorriso di lui,
apertamente derisorio, mandò la signora Mole su tutte le furie. Fu la rabbia a farle decidere l'atteggiamento da prendere. Le mani infilate nelle tasche della vestaglia, il capo eretto, continuò in tono gelido: «Penso, signor Steele, che considerate tutte le circostanze, quanto meno ci incontreremo, tanto meglio sarà. Mi sembra che il suo stesso senso di... di decoro dovrebbe consigliarglielo.» Steele non si scompose. In fin dei conti, s'era forse aspettato qualcosa di diverso? Com'era da supporre, lei aveva intenzione di trattarlo con alterigia, di assumere il tono dell'innocenza offesa: "Come osi accostarti, fellone!". Del resto, a voler guardare le cose dal suo punto di vista, quale altro atteggiamento avrebbe potuto tenere? D'accordo che lui aveva un asso nella manica, un asso per una partita già persa, però... «Le circostanze a volte cambiano, signora Mole, ma sia come vuole» replicò, e le rivolse un leggero inchino. Vero pugno in pieno viso, la risposta ebbe l'effetto di farle sgombrare il campo. Girandosi con aria regale, la donna abbandonò in tutta fretta la cucina. Steele si avvicinò lentamente al fornello e versò due grosse tazze di caffè, una per McKee e un'altra per sé. Il furore gli ribolliva dentro. Era anche amaramente divertito. Sempre la stessa: se mai quella donna aveva avuto una coscienza, da lungo tempo l'aveva messa a tacere. No, Rita Mole si atteneva al vecchio copione, e non intendeva apportarvi né revisioni né mutamenti. Lui, come primo impulso, aveva avuto quello di costringerla. Ma lo scopo originale del suo viaggio nel Sudovest, uno scopo campato in aria, tutto sommato, era stato offuscato da ciò che era successo dal momento in cui aveva incontrato l'ispettore McKee. La tragedia e l'orrore di quella casa stregata avevano conferito a tutto il resto una diversa proporzione. Posò con gesto stanco il bricco sul fornello. Tutti i suoi dispiaceri, tutte le sue beghe personali, non sembravano più così importanti come gli erano sembrati a New York. Era venuto fin lì per trovare Rita Mole e metterla alle strette di fronte ad altri testimoni, per cavarle di bocca la verità a costo di fare ricorso alla violenza. Ora che si trovava sotto lo stesso tetto con lei e ne aveva la possibilità, tutto ciò che lei, e lei sola, aveva fatto gli pareva di scarsissima importanza. Scovò la zuccheriera e aggiunse zucchero al proprio caffè. Che cosa aveva pensato di tutta la scena Madame la Taciturna, che leggeva accanto al focolare come se nulla fosse accaduto? La sbirciò senza averne l'aria e rimase leggermente sorpreso. Non leggeva affatto, altro che storie! Lo teneva d'occhio a sua volta, anche lei senza averne l'aria. Il vetro di una fine-
strella che si apriva sull'acquaio buio rimandava perfettamente riflessa buona parte della stanza. La signora Tafoya si era goduta la scena del breve incontro tra lui e Rita Mole. I loro occhi s'incrociarono per una frazione di secondo, poi la donna riabbassò i suoi sul libro. Per un momento Steele ebbe voglia di prenderla di petto. Ma cosa poteva dirle, "credo che ci siamo già incontrati"? Non era così. L'aveva vista e l'aveva sentita parlare, ma non c'era stato un vero e proprio incontro. Di questo, almeno, era sicurissimo. «Buonanotte, signora Tafoya» disse, e si portò via le due tazze. «Buonanotte, signore.» Lei gli rispose senza nemmeno voltarsi. Steele lasciò la cucina e tornò dall'ispettore nella camera in fondo al corridoio. Veglia al capezzale di un moribondo. Alla luce del fuoco e di una lampada, con la pioggia che cadeva incessante e il vento che soffiava implacabile oltre le mura solide. Pareva che l'uragano non dovesse cessare mai. Gomez sprofondava sempre più nell'incoscienza. McKee e Steele parlavano a frasi brevi, e a tratti. Inutile aspettarsi aiuto fino al mattino, e allora sarebbe arrivato probabilmente troppo tardi. Verso mezzanotte il vento cominciò a placarsi un po', l'impeto era meno violento e le raffiche più distanziate. Un paio di volte Steele ebbe quasi voglia di raccontare a McKee la verità sulla signora Mole e sulle ragioni per cui si era spinto fin nel New Mexico sulle sue tracce. Ma a quale scopo? A che sarebbe servito? La cosa non aveva nulla a che vedere con quanto era successo in quel ranch della malora. E in ogni caso, appena fosse spuntato il giorno, lui sarebbe ripartito diretto a est, destinazione l'isola di Manhattan, contea, città e Stato di New York. Verso l'una arrivò Hilliard. Bussò, e McKee socchiuse un po' il battente. Hilliard disse che le signore erano andate a letto e domandò se poteva fare qualcosa, essere d'aiuto in qualche modo. McKee lo ringraziò e disse di no, almeno per ora non poteva fare nulla. Poco dopo arrivò Ward con una provvista di legna da ardere. Sembrava stanco. Aveva avuto una giornata faticosa, marciando a piedi da Albuquerque fino nelle Sandias con quella giornataccia di tempesta. Evitava di guardare verso il letto dal quale giungeva il sibilo rauco dell'ansimare di Gomez. Ward disse che gli altri, la Fergusson, Jackson e la Tafoya, oltre alla signora Mole e alla signorina Sheppard, si erano ritirati nelle rispettive stanze, la Tafoya per ultima. La casa era così solitaria... Dal tono era chiaro che l'hacienda non gli piaceva, proprio come non piaceva a Steele. Poi ag-
giunse che sarebbe andato volentieri a riposare, se l'ispettore pensava che la legna potesse bastare per il resto della notte. L'ispettore ne era certo, e Ward uscì, evidentemente contentissimo di lasciare la stanza. Non ci furono altre visite. Dopo un po' Steele si appisolò, con il rantolo di Gomez nelle orecchie. Quando si svegliò, più tardi, tutto era sprofondato nel silenzio, tanto all'esterno che all'interno. La pioggia era miracolosamente cessata e il vento non soffiava più. Restava soltanto lo sgocciolio dell'acqua dalla grondaia. Non riuscì a credere a quella improvvisa calma. Era troppo bello per essere vero. Si sollevò con un lieve senso di colpa per essersi addormentato, cercando di scacciare dagli occhi gli ultimi residui di sonno. L'ispettore era dall'altra parte della stanza, accanto al letto. Stava tirando il lenzuolo sopra la testa dello stalliere. «È morto?» domandò Steele, e lo scozzese annuì e guardò l'orologio. Erano le quattro e qualche minuto. Steele si sentì raggelare. Si aspettavano che Gomez morisse, ma era ugualmente uno choc. «Ha detto nulla, ispettore, prima di...» «Nemmeno una parola.» McKee si staccò dal letto. «E adesso, Steele» riprese «se si sente in grado di aiutarmi, avremmo un lavoretto da sbrigare. Prima andrò a chiamare quel giovanotto, Ward.» 7 «Intende... intende dire che devo restare qui da solo con lui, signore?» Ward gettò un'occhiata alla salma che giaceva coperta sul letto e parve tutt'altro che entusiasta. Quando McKee l'aveva svegliato, lui dormiva profondamente nella cameretta oltre la cucina e la dispensa, quella che un tempo era stata della cuoca. La sua riluttanza ad accettare il compito che lo scozzese voleva affidargli era evidentissima. Ma poi raddrizzò le spalle sotto la giacca a vento che aveva infilato in tutta fretta. «D'accordo, ispettore.» McKee gli spiegò: «Qualcuno deve pur restare qui a sorvegliare che nessuno entri nella stanza e che nulla venga toccato. Del resto, non staremo via molto. È pronto, Steele?» Sul punto di lasciare la stanza, si fermò e domandò a Ward notizie del cavallo nero che montava quando li aveva incontrati lungo il viale d'ingresso. «L'ha portato lei nella stalla, quando è tornato dopo avermi preso la valigia dalla macchina?» Ward disse di no, che non era stato lui. L'aveva lasciato nel cortile, accanto alla porta della cucina. «Pensavo che lei avesse fretta di avere la sua
valigia.» McKee annuì. Inutile pensare più a quel benedetto cavallo, evidentemente era entrato nel granaio seguendo l'uomo che aveva occupato la stanzetta di Gomez. Lo stallone di Veronica, invece, restava un punto di domanda. Poco ma sicuro, Charlie non si trovava nel proprio box, quando il cadavere di Mary Dane era stato sotterrato sotto la paglia della lettiera. Tuttavia era là, in un altro box, quando lui e Speaker avevano fatto senza risultato le prime ricerche, il che significava che lo sconosciuto si era aggirato per il ranch per diverse ore e che doveva avere compiuto nella stalla varie incursioni. Lo stallone, probabilmente, era riuscito a seguirlo dal recinto nella scuderia, proprio come la giumenta nera dal cortile. Spiegò tutto a Steele dopo che ebbero lasciato la stanza della defunta Veronica Dane, mentre percorrevano il lungo corridoio. «Mi sembra giustissimo, ma... è tanto importante?» obiettò dubbioso Steele. McKee disse di sì, che era importante, e che a causa del fattore tempo si aggiungeva una persona all'elenco dei sospettabili. L'hacienda era ormai buia e silenziosa, salvo una lampada accesa in cucina e il rosseggiare delle braci nel caminetto. Avvolti negli impermeabili e con gli stivali di gomma, i due uomini uscirono dalla porta di servizio, che McKee chiuse a chiave dietro di sé. Il suo intento era di dare un'occhiata alle auto con cui quella congerie di tipi umani era arrivata al ranch. Quattro occhi valevano più di due, e chiunque fosse l'individuo scappato dal granaio quando lui e Hilliard stavano per scoprire il cadavere di Mary Dane, poteva essersi rifugiato in una delle macchine per trascorrervi il resto della notte al riparo. L'alba non era lontana, anche se lassù, tra le montagne che chiudevano la via verso est, sarebbe arrivata un po' più tardi che nella zona desertica circostante. C'erano tre macchine sotto il portale, all'estremità opposta della corte. Una era quella della signora Fergusson, un modello nuovo di berlina, dalla carrozzeria verde lunga e slanciata; la seconda era della signora Tafoya, una vettura a noleggio; e la terza era quella del commesso viaggiatore, una pratica utilitaria nera che aveva conosciuto giorni migliori. Nessuna delle tre era occupata o racchiudeva qualcosa di interessante. La grossa valigia del campionario, in quella del piazzista, conteneva proprio quanto c'era da aspettarsi se Jackson aveva detto la verità, e cioè un vasto assortimento di reggicalze e reggiseni accuratamente piegati nelle loro bustine di plastica, più una quantità di volantini e opuscoli pubblicitari. C'erano poi un mozzicone di sigaro mezzo masticato nel portacenere e tre o quattro bustine vuo-
te di chewing-gum sul pavimento. Nient'altro. La Rolls di Henry Hilliard era parcheggiata sul viale, davanti alla casa. Era in perfetto ordine. Le tre valigie nel bauletto portabagagli appartenevano alla ragazza, alla signora Mole e a Hilliard stesso. Avevano le iniziali dei proprietari ed erano di gran lusso. Non erano chiuse a chiave. Contenevano vestiti ripiegati con molta cura e nient'altro di interessante. McKee si segnò i diversi numeri di targa e il chilometraggio di ciascuna vettura, per poter effettuare dei controlli in seguito. Faceva freddo, l'aria era gelida. Si calcò il cappello sugli occhi e rialzò il bavero. «E adesso voglio dare un'altra occhiata al granaio, tanto per vedere se la persona che prima abbiamo disturbato non si sia per caso rimessa al riparo dopo che io e Hilliard ce ne siamo andati.» S'incamminarono faticosamente nella fanghiglia, vischiosa e attaccaticcia. La pioggia era cessata, ma aveva lasciato il terreno in condizioni veramente disastrose. Dentro il granaio il freddo penetrava nelle ossa, nonostante il vento fosse caduto. L'intruso, uomo o donna che fosse, evidentemente non era tornato. La stanza di Gomez era nelle stesse condizioni di prima, e le coperte erano ammucchiate nella stessa posizione in cui le aveva lasciate McKee. Una breve ispezione nelle stalle: neppure il cadavere di Mary Dane era stato in alcun modo disturbato, e lo stallone e la giumenta erano tranquilli nei loro alloggiamenti. Mentre i due uomini si accingevano a riattraversare il cortile, un gallo cantò. A est non si vedeva nemmeno un lieve chiarore, l'oscurità rimaneva totale, ma il mattino ormai non era lontano. Il verso lanciato dal gallo con energia trionfante risuonò alto nel silenzio. L'acqua gocciolava incessante dai rami dei pioppi sotto i quali i due uomini dovevano passare, guidati dall'occhio giallo della torcia di McKee. La luce illuminò qualcosa che giaceva proprio ai piedi di un albero, un oggetto che sicuramente non c'era quando lui e Hilliard avevano percorso lo stesso sentiero diverse ore prima. Lo scozzese si fermò e si chinò. Era un giornale arrotolato, inzuppato di umidità. Una volta rientrato in cucina, dopo avere sprangato la porta di servizio, lo esaminò. Era l'"Herald" di Albuquerque, del giorno precedente. «Ah... Penso che il nostro amico, quello che ha cercato rifugio nel letto di Gomez, abbia seguito me e Hilliard qui alla casa, e abbia gettato uno sguardo dalla finestra là in fondo per vedere che cosa stava succedendo qui dentro. Questo» l'ispettore batté un colpetto sul giornale «potrebbe essergli scivolato di tasca proprio allora. Diamo un'occhiata.» Allargò il giornale sul tavolo e trovò quasi subito quello che cercava: era
infatti piegato alla pagina delle inserzioni commerciali, in fondo alla quale c'era un breve trafiletto. Ci risulta che il ranch El Toro, di proprietà della famiglia Dane da più di un secolo e mezzo, sia stato affittato a una coppia di coniugi dell'Est, il signore e la signora Fergusson, con un'opzione per l'acquisto. La signora Fergusson prenderà possesso del ranch oggi stesso. Il signor Fergusson raggiungerà la consorte appena avrà terminato di sistemare i suoi affari. Seguiva un breve resoconto sulla proprietà e sulle sue glorie passate, con in più la notizia che la signorina Mary Dane si trovava ancora nei dintorni, ospite di amici di un ranch vicino. A margine, accanto all'annuncio, c'era un grosso punto fatto a penna. I due uomini guardarono interessati il segno. «Dunque, la persona che si trovava nel granaio non era là per caso, non era un viandante sorpreso dall'uragano?» domandò Steele. «No» rispose convinto McKee. «Chiunque fosse, era qualcuno che s'interessava di questo posto, e molto, anche. Lo dimostra il segno qui a margine.» Tornò ad arrotolare il giornale con fare pensoso, poi si diresse verso la stanza in fondo al corridoio per dare il cambio al riluttante Ward. Il ragazzo sarebbe stato contento di rivederli. La porta non era chiusa a chiave. McKee, accigliato, la spalancò. Ward non si voltò, né si guardò attorno. Non si mosse, perché non poteva farlo. Era accasciato di traverso sulla poltrona accanto al fuoco, esattamente dove l'avevano lasciato. Non era morto. Il polso era lento, ma regolare. Era stato tramortito da un colpo alla nuca, proprio alla base del cranio. Il colpo non aveva ferito la cute, ma già cominciava a formarsi un bernoccolo considerevole. McKee si raddrizzò e diede un'occhiata in giro. Non era difficile capire quanto era accaduto. Ward s'era probabilmente appisolato, con la testa ciondoloni, ed era stato colpito alle spalle. Chi l'aveva aggredito aveva voluto stordirlo, non ucciderlo, al solo scopo di avere il tempo di frugare accuratamente nella stanza. Come prima, rifletté amareggiato l'ispettore. Se il precedente tentativo era stato interrotto, in quella seconda occasione la perquisizione era stata accurata, e non era stato fatto alcuno sforzo per cercare di mascherarla, forse perché la fretta non l'aveva consentito. Probabilmente, l'intruso non
voleva rischiare d'essere riconosciuto nel caso Ward avesse ripreso i sensi. La ribalta del vecchio cassettone ai piedi del letto era stata sollevata e il contenuto disseminato intorno; la scrivania era aperta, i cassetti mal richiusi, e le porte dell'armadio erano rimaste spalancate. «Si riprenderà?» domandò Steele, guardando impietosito il giovane viso di Ward. McKee lo rassicurò: «Credo di sì, tra un paio d'ore al massimo. La botta è arrivata piuttosto in basso, non c'è pericolo di commozione cerebrale. Se la caverà con un feroce mal di testa, penso.» Lo sguardo di Steele si spostò altrove. Corse alla porta, tornò alla poltrona nella quale Ward giaceva accasciato. Stringendo all'improvviso occhi e labbra, osservò: «Non crede, ispettore, che in questa penombra qualcuno abbia scambiato Ward per me?» Accennò alla lampada posata nell'angolo in fondo. McKee, che stava tentando di sistemare Ward in una posizione più comoda, gli lanciò un'occhiata penetrante. Si rialzò e si frugò in tasca per cercare una sigaretta. «Cosa intende dire, signor Steele?» Lo scrittore scosse la testa. «Beh, lo sapevano tutti, in casa, che mi trovavo in questa stanza per montare la guardia a Gomez.» Lo scozzese lo scrutò attentamente. «Signor Steele, ha motivo di ritenere che qualcuno in questa casa potesse avere intenzione di aggredirla?» I sospetti concepiti in precedenza sull'uomo gli riaffioravano lentamente nella testa. Steele esitò, ma solo per qualche istante. La signora Tafoya era stata testimone del suo incontro con Rita Mole. Forse non avrebbe detto nulla, lei stessa era del resto un tipo misterioso, ma era meglio stare attenti. McKee era un uomo molto in gamba; per di più, era un funzionario di polizia. Senza contare che lui stesso aveva qualcosa da portare a termine, e una rivelazione prematura avrebbe potuto mandare tutto all'aria. Si limitò a ripetere: «Se ho motivo di sospettare che qualcuno volesse aggredirmi?» «Proprio così. Che ce l'avesse con lei, personalmente.» «No, ispettore, non posso dire d'averne, ma dopo quanto è accaduto... Non dimentichi che in questa stanza c'ero io, quando è stata fatta la prima perlustrazione da qualcuno che si era infilato qui dal solaio, attraverso la porticina nascosta dietro la scrivania. Io dormivo e perciò non ho visto nessuno, ma quella persona poteva non esserne sicura, e forse voleva ridurmi completamente al silenzio. Lei dice che il colpo è stato dato molto in basso, ma potrebbe trattarsi di un caso: la testa di Ward potrebbe essere
scivolata in avanti proprio mentre l'arma veniva calata.» Ingegnoso, pensò McKee, ma inventato di sana pianta... o per la meno in buona parte. «Signor Steele, aveva mai incontrato prima d'ora qualcuna delle persone presenti nell'hacienda?» Steele rispose di sì. «Chi?» «La signora Mole e sua sorella, la signorina Sheppard.» Steele avvicinò un fiammifero alla sigaretta dell'ispettore, e ne accese un'altra per sé. «Le ha conosciute a New York?» «Proprio così. Ero amico di Pete Mole, il defunto marito della signora.» C'era una nota di rancore nella sua voce. McKee continuava a scrutarlo con aria meditativa. La signora Mole e la prima visione che lui stesso ne aveva avuta... Era possibile. Azzardò un bluff. «Per caso, era al White Queen di Denver stamattina, o meglio, ieri mattina?» La freccia centrò il bersaglio, andando oltre tutte le sue speranze. Senza un filo d'esitazione, Steele ammise: «Infatti, c'ero.» «E ha visto la signora Mole nell'atrio, con la sorella e il fidanzato di quest'ultima?» Poteva essere stata la vista di Steele a provocare un malore alla languida bellezza in visone, nell'atrio del White Queen. Poteva essere stata quella vista a indurla a insistere per riprendere immediatamente il viaggio, contro il parere di Hilliard e della sorella minore... Steele era praticamente con le spalle al muro. Prese una decisione, si vide costretto a prenderla. La mascella contratta, gettò nel fuoco quello che restava della sigaretta, si piantò di fronte a McKee e dichiarò calmo: «Ispettore, sono venuto qui nel Sudovest per un affare strettamente personale. Si tratta di una cosa che non ha nulla a che vedere con questo ranch, né con i fatti che sono accaduti dopo il nostro arrivo. Assolutamente nulla, di questo posso darle la mia parola d'onore. Non avevo mai sentito nominare i Dane in vita mia prima che imboccassimo il viale d'ingresso. Non avevo mai visto né Veronica né Mary Dane, e neppure quel poveraccio... quel Gomez.» Accennò alla figura sul letto, nascosta dal lenzuolo. «Per il momento è tutto quello che posso dirle, ispettore. Mi creda.» Lo scozzese sospirò in cuor suo. Ma quando s'imbatteva in una parete di granito, sapeva riconoscerla a colpo d'occhio. Steele non avrebbe detto altro, su questo non c'era alcun dubbio, e lui non aveva i mezzi per costringerlo. Si accontentò di ammonirlo. «Signor Steele, in circostanze come queste nascondere un fatto, per quanto estraneo possa apparire, è sempre pericoloso. Non conosciamo i
moventi dei due crimini, sia per quanto riguarda lo strangolamento di Mary Dane, sia per quanto riguarda il colpo mortale inferto a Gomez, perciò nessuno può affermare con sicurezza se un particolare sia importante o no, per quanto trascurabile possa sembrare a prima vista.» Tacque e guardò Steele. La casa, quasi a sottolineare le sue parole, mandò rumori vaghi che risuonarono nel silenzio come un lungo gemito. Era semplicemente lo scricchiolio delle vecchie travi che si riassestavano dopo l'allontanarsi dell'uragano, ma nella calma dell'alba pareva contenere una nota di minaccia, come qualcosa di arcano. Tuttavia non ebbe alcun effetto su Steele, che ripeté con fermezza: «Posso dirle soltanto che non so nulla, assolutamente nulla, su nessuno dei due omicidi, e nulla che possa gettare, sia pure lontanamente, la più lieve luce sull'uno o sull'altro.» McKee accettò filosoficamente la sua affermazione. Steele era testardo e risoluto, ma restavano altri modi di scoprire la verità. Inoltre, quando gli esperti avessero esaminato l'orologio di Gomez, si sarebbe saputo con certezza se le lancette erano state manomesse. Nel frattempo, tanto valeva lisciare il pelo per il suo verso. Fuori il gallo cantò di nuovo, con più foga. Le finestre stavano diventando lievemente grigiastre. Presto si sarebbe fatto giorno pieno. Ward era ancora privo di sensi, abbandonato di traverso sul bracciolo. Lo sistemarono più comodamente, mettendogli un cuscino sotto la testa e una coperta addosso. La stanza era gelida. In attesa che il ragazzo rinvenisse, i due uomini chiacchierarono del più e del meno. McKee osservò che, se Speaker era riuscito a mettersi in contatto con la polizia, qualcuno sarebbe dovuto arrivare non appena avesse fatto giorno. Naturalmente, era un "se" piuttosto problematico... Steele sembrava contento di strapparsi alle proprie preoccupazioni. I suoi modi erano più calmi, più distesi. «Dove pensa che si sia cacciato quel tizio che si era nascosto nella stanza di Gomez, e che vi ha seguito fino alla porta di servizio?» McKee si strinse nelle spalle. «E chi lo sa? A quest'ora potrebbe avere percorso miglia; di tempo a disposizione ne ha avuto, e non c'era niente che lo fermasse. Ma se devo essere sincero, ne dubito. Può darsi che si sia allontanato, ma qualcosa mi dice che ricomparirà.» La luce continuava ad aumentare, ma con una certa lentezza. Insospettito, McKee si avvicinò a una delle finestre, guardò fuori oltre il vetro appannato, poi con gesto brusco sollevò il telaio inferiore. La sua supposizione era fondata. Il grigiore all'esterno era nebbia, e che nebbia... Il vapo-
re gelido e umido già s'infiltrava insidiosamente in volute attraverso l'apertura. Richiuse la finestra. Era dura, e dovette fare appello a tutta la sua forza per riabbassare il telaio. La nebbia... un'altra forma di oscurità che annullava la visibilità ancor più completamente, protraendo uno stato di cose durato fin troppo. Al rumore del telaio abbassato energicamente, Ward sussultò e aprì gli occhi. Per un paio di secondi fissò con sguardo smarrito le travi del soffitto, poi guardò McKee e Steele. «Dove... cosa...» Tentò di sollevarsi, trasalì, poi ricadde contro il guanciale. Ma gli occhi rimasero aperti, e poco dopo poteva parlare con coerenza. Non disse nulla di utile. Non sapeva chi l'avesse colpito e con che cosa. Sapeva solo che gli era sembrato trattarsi di una mazza di ferro. «Ero seduto qui su questa poltrona, e probabilmente stavo per appisolarmi, quando mi hanno colpito alla nuca.» Confessò mortificato di avere lasciato socchiusa la porta che dava sul corridoio. «Non so, mi faceva un certo effetto essere rinchiuso qui dentro solo con... con lui.» E sbirciò nervosamente verso il letto. La figura coperta dal lenzuolo era invisibile, dal punto in cui si trovava lui. Poi aggiunse: «Non... non si sarà riavuto, vero?» «No» assicurò McKee. «Gomez è morto. È stato qualcun altro a introdursi qui e a colpirla. Non si è accorto di niente, non ha sentito nessun rumore?» Ward non aveva sentito assolutamente nulla. Un attimo prima stava per crollare nel sonno, e l'attimo seguente, dopo il colpo, era scivolato nel nulla più completo. «Non potrei... Vorrei uscire di qui, se è possibile.» Era ancora a disagio, in presenza del morto. Non c'era motivo di trattenerlo. Gomez non aveva più nulla da temere, ormai, e la stanza era stata frugata da cima a fondo. «Se ce la fa a camminare...» disse McKee, e lui e Steele sollevarono Ward e lo accompagnarono fuori della camera, lungo il corridoio, attraverso la cucina vuota, fino alla stanzetta oltre la dispensa. Una volta al sicuro, Ward si lasciò andare sul tettuccio con un sospiro di sollievo. «Grazie» disse, sforzandosi di mostrare il suo sorriso simpatico. «La testa mi fa un male del diavolo, ma sono contento di essere fuori di là. Parola mia.» McKee gli diede un'altra occhiata alla nuca. Il bernoccolo all'attaccatura dei capelli era grosso come un uovo. «Dopo vedremo di fare degli impacchi, di procurarle un'aspirina. Qualcuno deve averne. Non le dispiace restare qui da solo?»
Ward rispose con calore: «Non mi dispiace affatto, mi basta non trovarmi nella stessa stanza con... con quella povera cosa stecchita. Lo so che è sciocco, ma all'inizio continuavo a tendere l'orecchio, aspettavo di sentire frusciare le lenzuola, di vederlo scendere dal letto...» Fece una risatina d'imbarazzo; si vergognava un po'. McKee annunciò: «La polizia dovrebbe arrivare da un momento all'altro.» E la risatina si spense di colpo. «La polizia?» Ward aveva sgranato gli occhi. «Ma come? Voglio dire, i cavi telefonici sono interrotti e...» «Il signor Speaker, quel ranchero che era venuto a cercare la signorina Dane, ha promesso che si sarebbe messo in contatto appena faceva giorno, o che ci avrebbe provato in qualche modo, e lui abita abbastanza vicino alla stazione di polizia.» C'era paura nell'espressione di Ward. Tentava di nasconderla, ma le lentiggini spiccavano sulla pelle smorta come macchie d'inchiostro bruno. «Ha qualche motivo per temere la polizia, signor Ward?» domandò McKee. «No, no...» rispose l'altro, balbettando. «No, affatto. Non ho mai fatto nulla di male, io.» Lo scozzese non gli credette. Di sicuro un motivo c'era, l'agitazione era più che evidente. Forse una marachella, una ragazzata; però Ward non era più un ragazzino. Poteva avere diciotto o diciannove anni, ma la vita dura che aveva condotto l'aveva senz'altro temprato e maturato. Sua madre era stata al servizio dei Dane, e sebbene fosse passato tanto tempo, Mary si era tenuta in contatto con lei, attraverso gli anni. I due omicidi erano stati perpetrati a El Toro, il secondo per tenere segreto il primo, almeno provvisoriamente. E Ward stava tentando di abbandonare il ranch in fretta e furia quando si era imbattuto in loro, la sera prima, ed era stato costretto a fermarsi. Giovane, sì, fin che si voleva, e certamente simpatico... ma al punto in cui stavano le cose, nessuno poteva essere considerato con tutte le carte in regola. Steele era andato in cucina a preparare il caffè. McKee disse: «Ci vorrà un po' d'acqua fredda per quella botta.» E lasciò la stanza, chiudendosi con cura la porta alle spalle. 8 Non andò molto lontano. Arrivato a metà della dispensa, girò silenzio-
samente sui tacchi e rimase immobile, con l'orecchio teso. Dapprima nessun rumore, poi un movimento nella stanzetta dalla quale era appena uscito. Un rumore attutito, furtivo. Tornò rapidamente indietro e spalancò la porta. Ward era all'unica finestra della stanza, nell'atto di aprirla piano. Il davanzale era a circa un metro e mezzo dal suolo: un salto da nulla. All'ingresso di McKee, il ragazzo si girò di scatto e il telaio della finestra ricadde con un colpo secco. Era pallido come un lenzuolo, sotto le lentiggini. «Un po' d'aria» balbettò. «È...» Si umettò le labbra. «È così soffocante l'aria, qui dentro.» Non avrebbe ingannato un bambino. La malafede gli si leggeva in faccia. McKee lo fissò severamente, senza mai staccare gli occhi. Dopo un mezzo minuto di silenzio, disse minaccioso: «Signor Ward, non crede che sarebbe più saggio dire le cose come stanno? Un momento fa stava cercando di allontanarsi da questa casa, una casa nella quale due persone sono state assassinate nel giro di poche ore...» «Due persone? Due?» Gli occhi di Ward erano tondi, sbarrati e terrorizzati. Lo scozzese annuì. «Si, mi ha sentito benissimo. Mary Dane è stata strangolata, fuori nel granaio, ieri nel tardo pomeriggio o nelle prime ore della serata, e alla sua morte ha fatto seguito l'aggressione a Gomez.» «La signorina Dane!» Per Ward fu il colpo di grazia. Crollò a sedere sull'orlo del letto e lì rimase, fissando McKee senza vederlo. Il sudore gli imperlava la fronte. Se lo asciugò con il dorso della mano. McKee continuò nello stesso tono duro: «Lei stava cercando di darsi alla macchia prima che arrivasse la polizia.» Ward crollò del tutto. Tornò a passarsi la lingua sulle labbra. «Lo sapevo» mormorò. «L'ho sempre saputo che sarebbe successo. Bill diceva che i poliziotti non ci avrebbero mai preso, ma sentivo che si sbagliava. Sentivo che sarebbe andata diversamente. I poliziotti non mollano tanto presto.» La storia venne fuori un po' alla volta. Bill era il fratello maggiore di Ward, o meglio il fratellastro. Il patrigno di Ward aveva già avuto moglie. Quasi cinque anni prima, verso la fine dell'estate, Bill e altri ragazzi avevano rubato una macchina, e Ward si era aggregato a loro. «Se avessi immaginato quel che doveva capitare... Ero soltanto un ragazzetto senza testa.» Spiegò che l'intenzione non era stata di rubare la macchina, ma di prenderla a prestito per una bella corsa a Santa Fe, dove c'era una fiesta. Ma poi avevano bevuto un po', e sulla via del ritorno avevano investito un
tale che camminava lungo il ciglio della strada. L'uomo era rimasto ferito gravemente. La compagnia si era resa conto del guaio che aveva combinato; erano tornati indietro a tutta velocità e avevano abbandonato la macchina alla periferia di Chavez. Ward tornò ad asciugarsi la fronte. L'uomo investito era morto poco tempo dopo. In seguito alla sua morte, la polizia aveva cominciato a svolgere indagini, ma Bill aveva fatto giurare a tutti quanti che avrebbero tenuto la bocca chiusa, e infatti se l'erano cavata. I poliziotti avevano sospettato di loro, ma non avevano potuto provare nulla. Dov'era Bill, adesso? Era morto. Era rimasto ucciso a sua volta in un incidente d'auto, in Messico. «Ma io sapevo che la cosa non sarebbe finita così» concluse Ward disperato. «Me lo sentivo. Glielo dissi subito, a Bill, ma lui mi ordinò di tacere.» All'epoca, i loro nomi erano stati segnalati come quelli dei probabili colpevoli, e se la polizia l'avesse trovato in quella casa... «Non capisce? Cercheranno di addossare a me la colpa di quanto è successo qui; sono sicurissimo che lo faranno. Quando uno capita sul loro libro nero, finisce per andarci di mezzo regolarmente.» Il suo sconforto e la sua paura erano evidentissimi. «Quanti anni aveva quando è avvenuto l'incidente?» s'informò McKee. Ne aveva quasi sedici, e Bill diciannove. «Ha intenzione... Lo dirà alla polizia, quando arriverà?» Un ragazzo, pensò McKee, coinvolto in una marachella che purtroppo era finita in tragedia. Ma era minorenne, a quel tempo, e poi non era stato lui a guidare. «Ha combinato altri pasticci dopo?» «Mai. Una volta me bastata» assicurò Ward con fervore. «La lezione è stata dura. Ma mia madre ne morirebbe, se scoprisse che quella notte ero con la compagnia, invece che a letto.» Lo scozzese si staccò dalla parete alla quale si era appoggiato. «Va bene, non dirò niente se proprio non sarà necessario. Intendiamoci, sempre che se ne stia buono e non tenti di svignarsela.» Ward era quasi sopraffatto dalla gratitudine e dal sollievo. «Non succederà, ispettore. Glielo prometto. Farò tutto quello che mi dirà di fare.» Ritornò sotto le coperte, e McKee lasciò la cameretta. Steele e Ward: retroscena che cominciavano a delinearsi, vagamente... Fino a che punto fossero veri o esaurienti, era una cosa che restava da chiarire. La cucina, quando vi entrò, era gelida e deserta, eccettuata la presenza di Steele, il quale aveva messo il bricco a bollire e aveva acceso il fuoco. Lo scrittore si stava scaldando le mani alla fiamma che cominciava appena a
prendere consistenza. Fuori era ormai giorno fatto, ma la luce era scarsa. McKee andò alla porta di servizio e l'aprì. La nebbia era spessa più di prima, una solida muraglia grigia tutt'intorno al fabbricato, che precludeva il resto del mondo. Non ci si vedeva a due palmi dal naso. Steele preparò il caffè da vero esperto. Era un uomo abituato a cavarsela. Di sé e della propria situazione aveva detto ben poco, ma probabilmente era scapolo, o separato dalla moglie, e viveva solo. La signora Fergusson fu la prima a comparire. Entrò mentre loro sorseggiavano il caffè al lungo tavolo centrale, dopo averne portato una tazza a Ward insieme a due compresse d'aspirina trovate su una mensola sopra il lavandino. La Fergusson era vestita di tutto punto; non mancavano nemmeno i preziosi orecchini. Probabilmente non se li toglieva neanche di notte. Le sue sopracciglia depilatissime s'inarcarono alla vista dei due. Era una donna perspicace. Vedendoli insieme, aveva subito mangiato la foglia. «Lo stalliere?» domandò, e McKee la mise al corrente. L'unica reazione, almeno apparente, alla notizia della morte di Gomez, fu di disappunto. «Accidenti» commentò, concisa. «Ma già, non mi sorprende. Ieri sera, quando l'ho visto, ho capito subito che ne aveva per poco. Adesso chissà quante seccature. Volevo andare ad Albuquerque, oggi, mi servono tante cose... e invece immagino che ci toccherà stare qui a far niente, in attesa che arrivi la polizia.» Tolse dalla credenza tazze e piatti, facendoli tintinnare in un acciottolio sgarbato, e si accinse a prepararsi la colazione. La seconda a comparire fu la signora Tafoya. A differenza della Fergusson e dei suoi movimenti energici, strisciò quasi furtiva nella cucina. I capelli, più tirati che mai, le davano un'aria da coniglio spellato; un coniglio color terracotta con le lenti di metallo posate un po' di sghimbescio. «Gomez morto? Poveretto, poveretto...» Steele le versò una tazza di caffè, che lei si portò alla solita sedia accanto al focolare, sedendo con le spalle rivolte alla stanza. Alle sette, ancora nessun segno di vita da parte della polizia. Il nulla che circondava la vasta dimora era profondo. Non solo attutiva la luce, ma smorzava ogni suono. La differenza, rispetto al tumulto dell'uragano della sera prima, era enorme, ma non rappresentava un miglioramento. Si dovettero accendere le lampade. Senza poter fare altro che aspettare, McKee si sentiva veramente avvilito. Anche Steele, del resto, era inquieto, e di tanto in tanto sbirciava il profilo della signora Tafoya. Lo scozzese si domandava che cosa lui avrebbe fatto, o detto, quando la signora Mole e la ragazza si fossero decise a scendere. Poi andò a dare un'occhiata al giovane Ward.
Lo trovò che dormiva, e si diresse verso la parte anteriore della casa. Curioso che nessun rappresentante della legge si facesse vivo. Speaker aveva l'aria di un uomo serio; aveva detto che, pioggia, vento o fine del mondo, avrebbe cercato di avvertire la polizia alle prime luci dell'alba. L'alba era cominciata da più di due ore. Ormai qualcuno sarebbe dovuto arrivare, se Speaker era riuscito a comunicare con la stazione di polizia; e Albuquerque era appena a una ventina di miglia, sul fondovalle in direzione ovest. D'accordo che i cavi erano interrotti, ma doveva pur esserci un funzionario qualsiasi in qualche villaggio o contea delle Sandias; uno sceriffo, qualcuno, insomma... Forse Speaker non era riuscito a informare nessuno. Il pensiero di essere arenato lì, a tempo indeterminato, non era affatto piacevole. Dopo un momento, McKee pensò di uscire all'aperto. La visibilità non era migliorata neppure un po', da nessuna parte. Provò a incamminarsi rasente alla casa per accertarsene. L'aria, per quanto umida, si era fatta meno rigida, ma il nebbione era più fitto che mai, da ogni lato. Badando a non scostarsi dal muro, cominciò a essere assalito da un senso di angoscia. Forse Speaker aveva avuto un incidente nel tornare a casa, e magari giaceva chissà dove, con una gamba rotta... A più riprese imprecò contro l'amico Ringrose, a causa della scorciatoia panoramica che gli aveva consigliato al telefono. Per seguirla si era cacciato in quel pasticcio... e che pasticcio, per tutti i diavoli! Nel cortile sul retro dell'hacienda, per poco non andò a urtare contro qualcuno. Era la signora Tafoya, che, in un vecchio impermeabile troppo grande per lei, reggeva un secchio di rifiuti e pane secco da portare ai polli. «Ho pensato... Chissà che fame avranno, le pare?» I capelli color topo erano imperlati da gocce d'umidità. Si era tolta gli occhiali, e ammiccava con lo sguardo miope. "Sarà nata e cresciuta in campagna" pensò McKee, guardandola scegliersi una via sicura attraverso il fango, lungo il filare di pioppi. Dopo alcuni passi, la nebbia la inghiottì completamente. Era un nebbione impressionante, mai visto. Distratto dai propri pensieri, McKee perse il contatto con la casa e finì per ritrovarsi sotto il portale, all'estremità opposta della corte. C'era una macchina, proprio vicino a lui. Era quella a noleggio della signora Tafoya. Provò a sbirciare a destra e a sinistra. La lunga vettura verde della Fergusson era al suo posto... ma la vecchia utilitaria di Jackson non c'era più. Se n'era andato. Contemplando lo spazio lasciato libero dall'auto, McKee prese a fischiettare tra i denti. «Guarda guarda, a vederlo non l'avresti detto un tipo avventuroso, quel Jackson, proprio no.» E invece aveva tagliato la corda
chissà quando, durante la notte, e con condizioni del tempo tali che nemmeno un suicida... Molto interessante, in verità. Forse qualcuno l'aveva sentito partire. McKee cercò a tentoni la porta di servizio e rientrò in casa. La cucina era deserta. L'attraversò, si spinse fino in sala da pranzo e si arrestò bruscamente a pochi passi dall'arcata che immetteva nel soggiorno. C'era gente, un uomo e una donna. L'uomo era Steele, la donna era la fidanzata di Hilliard, Jill Sheppard. Restavano fuori del suo campo visivo, ma poteva vederli perfettamente, o meglio vedeva le loro immagini, in un lungo specchio a parete appeso sopra il pianoforte a coda. La signorina Sheppard era in piedi sulla scala, sul terzultimo gradino, una mano sulla ringhiera. Si teneva molto eretta, con le spalle rigide, la testa alta. Il volto minuto era pallido. Le labbra rosse sporgenti, guardava Steele ritto a qualche metro di distanza, più in basso. Evidentemente in risposta a una frase di lui, stava dicendo: «Oh, sì, sapevo che ti trovavi in questa casa, che eri arrivato insieme a quell'ispettore... Una compagnia piuttosto insolita per te, vero? Rita mi ha detto che eri qui, ieri sera ti ha visto. Poverina, era terribilmente nervosa e sconvolta, e chi potrebbe darle torto? Quel che mi piacerebbe sapere è come hai osato seguirci fin qui. Come hai osato, dopo quello che hai fatto? O non ti sembrava abbastanza? Che altro vuoi, quale altro scopo ti prefiggi?» La voce aveva un tono violento come una frustata. Steele manteneva la calma, sembrava completamente padrone di sé. Replicò gelido: «Cosa voglio? È semplice. Voglio la verità. Se mi dai ascolto solo per qualche minuto...» Lei non lo lasciò finire. «La verità!» esclamò sprezzante. «La verità, la verità... la sanno tutti la verità sul tuo conto. Hai tentato di venirne fuori, di...» La rabbia la soffocava. Steele si accese una sigaretta. «Cara la mia ragazza, è qui che ti sbagli. Dovresti prima mettere in chiaro i fatti. Dovresti proprio. Oppure non ti va di conoscerli? Forse hai paura che quel... quel tuo nuovo uomo, quel codino al quale ti sei fidanzata, non sia d'accordo. È ricco, vero? Non sapevo che ti piacesse tanto il denaro, che fossi impastata della stessa argilla della tua adorabile sorellina. Oh, beh, vivi e impara. Fa parte del gioco.» Era in grado di restituire i colpi, e lo faceva. Il suo tono sarcastico colpiva a fondo. La ragazza lo fissava con occhi fiammeggianti, quasi irrigidita dalla rabbia. «Non permetterti di dire qualcosa su Henry. Lo conosco da quando ero piccola. Lo amo e lo stimo...» «Ma pensa, davvero commovente. Proprio com'è giusto che sia. Idillia-
co. Speriamo che duri. Purtroppo la fedeltà non è il tuo forte, vero?» Una voce dal piano di sopra chiamò la ragazza per nome: sembrava quella di Rita Mole. Jill Sheppard si voltò e disse, lanciando sprezzantemente le parole da sopra la spalla: «La fedeltà... Non come la intendi tu, non quando è fondata sulla sabbia.» E corse rapida su per la scala. Steele rimase dov'era, a seguirla con lo sguardo. McKee continuava a osservarlo nello specchio. La storia era abbastanza trasparente, almeno nelle linee generali. Steele aveva avuto un legame sentimentale con la ragazza. Forse lei doveva diventare sua moglie, o così lui aveva sperato. In ogni modo, suggestionata dalla sorella maggiore, lei aveva rotto la relazione e si era fidanzata con Henry Hilliard. McKee entrò nel soggiorno. Steele confermò le sue supposizioni appena lui si scusò per aver ascoltato involontariamente dalla stanza accanto. «Si figuri» disse «è una cosa talmente risaputa... Sì, sei mesi fa m'illudevo che la signorina Sheppard volesse farmi l'onore di diventare la mia legittima compagna, con tanto di velo, torta e fiori d'arancio. E invece ha cambiato idea. Le donne lo fanno spesso, quando si affaccia all'orizzonte qualcosa di meglio.» «E lei l'ha seguita qui all'Ovest, andando dietro alla Rolls da Denver fin qui, per tentare di indurla a cambiare di nuovo idea?» Steele si batté la punta di una sigaretta sul dorso della mano elegante. «Non so se avrebbe cambiato idea... ma è certo che volevo parlarle, e da solo a sola. Volevo parlare anche all'affascinante signora Mole. Ma ho perso di vista la Rolls quando abbiamo cominciato ad arrampicarci tra queste montagne, un bel pezzo prima che la mia macchina finisse nel fosso e che m'imbattessi in lei, ispettore. Non sapevo, non avevo la minima idea che quel... ehm, quel signor Hilliard e compagne si fossero rifugiati in questo dannato ranch. Tutto ciò che so, adesso, è che non vedo l'ora di esserne fuori.» Guardò l'orologio. «Sono quasi le otto. Ma che diavolo aspetta la polizia?» Fin lì era proprio una storia molto semplice, e gli amori di Steele erano una faccenda... Un vociare confuso interruppe le riflessioni dell'ispettore. Porte che si chiudevano, Rita Mole che diceva: «Non sarebbe una buona idea portare giù subito le valigie, in modo da tenersi pronti a partire?» Hilliard replicò: «Ci sarà tutto il tempo dopo che avremo preso il caffè.» E aggiunse: «Dormito bene, Jill? Hai l'aria stanca.» A quel punto, McKee smise di ascoltare. Ciò che l'aveva distratto era
stato un grido venuto dall'esterno dell'hacienda. Un grido debole, ovattato. Sembrava un'invocazione d'aiuto. Corse in tutta fretta alla porta d'ingresso e la spalancò. Lembi di nebbia grigiastra lo investirono con il loro umido contatto. La nebbia non era più stazionaria come poco prima; un leggero vento aveva cominciato a diradarla. Avanzò fino al margine dello spiazzo lastricato, che restava circa un metro al di sopra del livello del suolo. La nebbia, qua e là, iniziava a separarsi, fluttuando avanti e indietro. Ora le grida strozzate si udivano più vicine, più alte. Steele si era unito a McKee. «Guardi, là in fondo.» Fermo accanto a lui, indicò in direzione sud. Un canale si era formato tra due pareti di nebbia. Ciò che i due distinsero, in quel tratto di schiarita, era un uomo che nuotava. La sua testa emergeva appena sulla superficie dell'acqua. Poi la nebbia si richiuse, nascondendolo. 9 Il nuotatore era Jackson, il commesso viaggiatore. Riuscirono a ripescarlo appena in tempo. Com'erano balzati giù dalla terrazza antistante la casa, si erano ritrovati fino alla vita nell'acqua, che poi era salita alle loro spalle, e avevano dovuto nuotare a loro volta, guidati dalla voce di Jackson. Il piazzista era ridotto a mal partito, quando lo avevano raggiunto. L'inondazione aveva coperto tutta la vallata. Unendo gli sforzi, McKee e Steele trasportarono il grassone fino all'hacienda, che sorgeva su un terreno leggermente sopraelevato. Tre quarti d'ora dopo, in un accappatoio di Hilliard e con una coperta avvolta addosso, Jackson teneva banco nella cucina ormai affollata, in parte ristorato da una buona dose di whisky dopo il grave pericolo corso. Gesticolando con il bicchiere in mano, raccontò quanto gli era accaduto. Disse che non era riuscito a dormire molto, durante la notte, e che verso mattina, quando la pioggia era cessata, aveva deciso di approfittare della schiarita e di rimettersi subito in viaggio per Albuquerque. La luce era scarsa, e dapprima non aveva visto l'acqua, a causa della nebbia. Aveva pensato che si trattasse di una pozzanghera, facile da attraversare. Poi si era accorto di continuare ad avanzare in mezzo all'acqua, di esserne circondato, e aveva sentito la macchina affondare sempre più. Non sapeva nemmeno lui come fosse riuscito ad aprire la portiera; in ogni modo, l'aveva aperta e s'era tuffato. «Sapevo che sarei rimasto prigioniero dentro la macchina, altrimenti, e
sarebbe stata la mia fine. Addio, Jackson.» Non era riuscito a vedere dov'era diretto per colpa della nebbia. Aveva battuto la testa contro qualcosa, e in seguito aveva scoperto che si trattava di un albero. Per un po' si era tenuto aggrappato al tronco, ma via via era stato preso dal terrore. L'acqua continuava a salire. Con l'aumentare della luminosità, aveva capito d'essere vicino al viale d'ingresso dell'hacienda. La sua unica speranza era di mettersi a nuotare in quella direzione. «Non sono un gran nuotatore. Ho avuto anche un infarto, tempo fa... Ma mi sono fatto coraggio e ho continuato a gridare.» Ingollò d'un fiato il resto del suo whisky. McKee, Steele e Hilliard avevano già fatto un giro di esplorazione. Ciò che Jackson diceva era vero. La nebbia andava diradandosi, mentre l'acqua saliva in modo lento ma costante. Non c'era via d'uscita. Adesso era chiaro perché la polizia non fosse arrivata. Ammesso, s'intende, che il ranchero fosse riuscito ad avvertirla, i poliziotti non sarebbero potuti passare. La sera prima Speaker s'era detto preoccupato che il Chavez straripasse, gonfiato dalla quantità d'acqua che vi si riversava dai fossati in piena, ed evidentemente i suoi timori si erano avverati. Tutta la stretta vallata doveva essere sommersa. Hilliard, pratico della topografia locale, assicurava che non c'era alcun pericolo, almeno per il momento. In ultima analisi, avrebbero forse dovuto ritirarsi al piano superiore o sul tetto, ma difficilmente le acque sarebbero potute salire più di così. Naturalmente il rischio c'era sempre, per quanto improbabile. Tornati in cucina, perciò, non avevano riferito nulla di quei discorsi alle signore. Quando Jackson ebbe terminato il suo racconto, Rita Mole, che se ne stava seduta accanto al fuoco, si strinse addosso il visone. «Speravo che potessimo andarcene, che a quest'ora fossimo già in viaggio. Che posto orribile!» Rabbrividì e accennò con un gesto sconsolato alla desolazione esterna. Jackson sbirciò i due splendidi anelli sulle dita bianche della signora, poi le offrì di cuore la propria solidarietà. «Senza scherzi, signora mia.» Nessun altro aprì bocca. La Fergusson e la Tafoya erano a due finestre diverse, e ciascuna fissava il grigiore della nebbia che aderiva alle vetrate. McKee si scosse. Disse che le prime cose da fare erano ammassare provviste nell'hacienda e portare dentro tutta la legna possibile prima che l'acqua, alta già trenta centimetri nella corte di servizio, salisse di più. Poi... «A cibo come stiamo, signora Fergusson?» A quanto sembrava, nulla poteva turbare la calma statuaria dell'involontaria anfitriona, anzi si sarebbe detto che quell'isolamento dal resto del
mondo non le riuscisse del tutto sgradito. La signora spiegò che c'era abbastanza cibo per resistere un paio di giorni, e che in uno degli edifici esterni c'erano prosciutti, lardo e carne di cervo. Altro attacco di nervi da parte della signora Mole. Un paio di giorni? Si rifiutava di crederci. Senza dubbio, nel giro di tre o quattro ore al massimo, qualcuno sarebbe comparso, sarebbe arrivato un soccorso qualsiasi... Per forza, altrimenti guai! La pazienza di Hilliard nei confronti della futura cognata cominciava a scemare. Replicò che qualche soccorso sarebbe arrivato senza dubbio, ma che poteva passare del tempo, e che per il momento non c'era altro da fare che prepararsi ad aspettare. Che ringraziasse il cielo se le cose non erano andate molto peggio: a quell'ora potevano trovarsi imbottigliati dentro la macchina, per esempio, senza niente da mettere sotto i denti. La donna parve intimorita dalla piccola sfuriata e si calmò, con gran sollievo di tutti. L'isterismo e il panico erano contagiosi, e lei sembrava quasi sul punto di abbandonarvisi. Gli altri avevano accolto con apatia la notizia che lo stalliere era morto. A eccezione di Hilliard, Steele e Ward, nessuno sapeva che Mary Dane giaceva nel granaio, brutalmente strangolata. Fu a quel punto che il giovane Ward entrò in cucina... e rovinò ogni cosa. Era ancora piuttosto intontito. «L'alluvione» disse in tono eccitato. «Un pollo morto galleggiava proprio adesso davanti alla mia finestra. Che si fa per i cavalli, e per il cadavere della povera signorina Dane, nel granaio?» Non ci volle altro. Un urlo soffocato da parte della signora Mole, voci concitate, domande che fioccavano. McKee riferì, in modo calmo e conciso, del ritrovamento del cadavere di Mary Dane, avvenuto la sera prima, nel box dello stallone. Venne interrotto da Rita Mole. «Quell'uomo!» strillò la donna, indicando Steele. «Quell'uomo non ci pensa un attimo ad ammazzare la gente, ha ucciso mio marito...» Steele, che se ne stava comodamente appoggiato alla parete con le mani sprofondate nelle tasche, non si prese nemmeno il disturbo di scostarsi dalla parete e levare le mani di tasca. Si limitò a sorridere. «Suo marito è morto di una paralisi cardiaca, signora Mole, e lei lo sa benissimo.» «Paralisi cardiaca, sì!» gridò lei. «Ma provocata da che cosa?» Sguardi sconcertati e incuriositi andavano dall'uno all'altra. McKee era interessato alla cosa, ma non erano né il momento né il luogo. Intervenne sbrigativo. «Signora Mole, il signor Steele non ha nulla a che fare con la morte della signorina. Su questo posso pronunciarmi con certezza assoluta. Lo stal-
liere è stato colpito poco dopo che Mary Dane è stata uccisa, e Steele era con me, a una certa distanza da qui.» Le labbra di Rita Mole si serrarono sul volto pallidissimo. Non sembrava affatto convinta, ma per il momento l'ispettore era riuscito a farla tacere. Ora bisognava offrire una vittima a quella gente, qualcuno al di fuori dell'hacienda sul quale tutti potessero concentrare l'attenzione. McKee riprese a spiegare che, quando lui e Hilliard avevano scoperto il cadavere della signorina Dane, c'era qualcuno nascosto nel granaio. Lo sconosciuto era scomparso. Visto come si presentavano le cose, doveva essere fuggito da El Toro prima che l'acqua cominciasse a salire, e probabilmente ora si trovava a qualche miglio di distanza. Ma prima o poi la polizia l'avrebbe senza dubbio riacciuffato. Altro parlottare concitato, altre domande, ma la momentanea tensione sollevata dalla gratuita accusa della signora Mole contro uno dei presenti si era allentata, e tutti erano un po' più calmi. McKee osservò alcune differenti reazioni. Dietro la facciata impenetrabile della signora Fergusson s'indovinava un senso di sollievo. Forse anche in Jackson, o no? Nessuna breccia, invece, nella schiva riservatezza della signora Tafoya, sempre ritta davanti alla finestra con le spalle rivolte alla cucina. Nella signorina Sheppard, al contrario, era avvenuto un cambiamento. La ragazza rimaneva maldisposta nei confronti di Steele, ma in modo meno tracotante. Era trasalita quando la sorella aveva lanciato la sua spavalda accusa, e da allora aveva continuato a osservare lo scrittore senza averne l'aria, quasi che in lei l'interna certezza si fosse improvvisamente indebolita. McKee s'impresse nella mente quei dettagli per ripensarci in seguito; al momento, c'era molto lavoro da fare. L'acqua nella corte saliva lenta e inesorabile. Prima di mezzogiorno aveva raggiunto i predellini delle automobili. Nel frattempo, quasi tutta la legna disponibile era stata trasportata in casa e ammassata nell'acquaio, e tutti i recipienti adatti erano stati riempiti di petrolio per le lampade. Inoltre, in dispensa erano stati sistemati tre prosciutti e alcuni pezzi di lardo, oltre a selvaggina congelata. Lo scozzese aveva avuto in consegna dalla signora Fergusson la chiave del magazzino. Altre sedie e poltrone erano state portate in cucina. Salvo qualche breve spostamento, a intervalli, tutti restavano in quella stanza, avvilita e taciturna congrega di pellegrini. Rita Mole provò a proporre di accendere il fuoco nello studiolo oltre la sala da pranzo, sul lato anteriore dell'hacienda, ma Hilliard oppose un rifiuto. «Impossibile, Rita, non dobbiamo sprecare le-
gna inutilmente.» Lei si rassegnò senza protestare. «No, vero, Henry? Beh, certo, hai ragione tu.» Il pasto di mezzogiorno, messo insieme alla meglio, era stato apparecchiato sulla lunga tavola dalla signora Fergusson e dalla signora Tafoya. Jill Sheppard aveva dato una mano. Il telefono isolato, l'acqua che saliva all'esterno sotto il cielo plumbeo, il cadavere dello stalliere nella stanza della defunta Veronica, e quello di Mary Dane che giaceva esposto al gelo nella stalla, contribuivano a creare un'atmosfera greve e allucinante, per quanto si evitasse di parlarne. Se almeno avessero potuto sapere cosa stava succedendo, e cosa ci si dovesse aspettare in seguito... Invece erano tagliati fuori dal mondo, proprio come se fossero stati sulla luna. Poco dopo le due, posando la tazza vuota del caffè, Hilliard si batté un colpo sulla fronte con la mano aperta. «Che pezzo di idiota sono! Vorrei sapere come ho fatto a non pensarci prima.» Allontanò la sedia. Nel cruscotto della Rolls c'era una radiolina. «Se non altro possiamo avere qualche notizia... purché non sia troppo tardi, e l'acqua non abbia già guastato le batterie.» Steele, in impermeabile e stivali, era appena rientrato con un'ultima bracciata di legna. «Io sono già vestito» disse. «Mi dia le chiavi, vado a prenderla io.» Ritornò che aveva fatto appena in tempo. L'acqua aveva quasi raggiunto il cruscotto. Porse la radio a Hilliard, che la tolse dalla custodia di pelle e cercò la stazione più vicina. La voce, una voce proveniente dal mondo esterno, provocò uno strano effetto nel vasto stanzone sperduto tra le montagne, a tante miglia da qualsiasi centro abitato. Le notizie trasmesse da Albuquerque non erano certo consolanti. In gran parte riguardavano il ciclone. Tutti ascoltarono attentissimi. L'annunciatore disse che il maltempo aveva portato la devastazione in tutto lo Stato. Dappertutto inondazioni, ponti crollati, una quantità di strade sommerse. I morti per il momento assommavano a otto, ma il numero delle vittime era destinato a salire. La gente era invitata a dare ospitalità ai viaggiatori rimasti imprigionati dentro le auto. L'uragano non era ancora finito. Una massa di aria fredda stava avanzando da nord. Prima di sera erano previste nevicate sulle località più alte, mentre sotto i milleduecento metri sarebbe caduta la pioggia. Le comunicazioni erano interrotte, molte località completamente isolate. I soccorritori non potevano arrivare dappertutto. Molte comunità erano senza luce e senz'acqua, si erano formate
squadre di emergenza... Era chiaro a tutti che la prospettiva di soccorsi immediati, nel giro cioè di alcune ore, era talmente remota da rasentare l'utopia. Là erano, e là dovevano restare. Hilliard spense la radio e il silenzio tornò a gravare dentro e fuori. L'atmosfera era tetra, opprimente. Rita Mole, distrutta, se ne stava rannicchiata con una mano sugli occhi. Nessuno aveva commenti da fare, salvo lo stesso Hilliard. Disse, disinvolto: «Questi annunciatori sono tutti allarmisti, sembra che provino gusto a rendere i loro resoconti carichi di tragedia. Probabilmente le cose non vanno così male come ce le ha dipinte...» Gli rispose Jackson, che voleva infondere coraggio: «Sicuro, sicuro. Ma poi, perché vi agitate tanto, signori miei? Abbiamo un tetto sulla testa, mi pare, il fuoco per scaldarci c'è, e possiamo mangiare e bere a volontà. Non siete soddisfatti? Io sì.» Steele uscì dalla cucina. Un attimo dopo McKee lo raggiunse. Lo trovò in sala da pranzo intento a passeggiare su e giù. «Bella vista là fuori, eh? Allegra» fece Steele, e indicò le finestre. Il suo tono era truce, l'espressione esasperata. Lo spettacolo era infatti piuttosto allucinante, ora che la nebbia, salvo qualche banco qua e là, era quasi completamente scomparsa. Le montagne si ergevano contro il cielo, alte, livide, frastagliate e crudeli, cima dopo cima al di là delle finestre del salone. Premevano sulla stretta valle ripulita, una striscia non più larga di un miglio nel punto più aperto, e parevano chinarsi sopra di essa. Ma al momento l'interesse di McKee puntava su cose più immediate. L'ispettore si appollaiò su un angolo del lungo tavolo. «Signor Steele, che intendeva dire la signora Mole, poco fa, quando l'ha accusata d'avere ucciso suo marito?» Steele sedette su uno scranno intagliato e tirò fuori una sigaretta. Rifletté per qualche secondo, poi si strinse nelle spalle. «Oh, al diavolo... Tanto vale che le racconti tutto subito.» E cominciò a raccontare. Lui e Pete Mole, marito di Rita e suo amico, avevano lavorato insieme per un po' di tempo nello stesso ufficio, in una società finanziaria di New York. Mole era il capo, Steele invece solo un collaboratore a mezza giornata, che faceva contemporaneamente anche il proprio mestiere di scrittore. L'impiego non gli rendeva molto, ma gli permetteva di arrotondare le entrate e, cosa più importante, gli forniva lo sfondo per un libro al quale stava lavorando. Poi, finito il libro, Steele aveva pensato di licenziarsi, ma Pete l'aveva pregato di fermarsi per un altro mese, e lui aveva acconsentito
per fargli un favore. Durante l'ultima settimana di quella proroga, era successo il fattaccio. Dalla cassaforte nell'ufficio di Pete erano stati rubati ventimila dollari in contanti. «Ventimila...» «Precisamente, ispettore.» Steele spiegò che i soldi, ricavati dalla vendita di alcuni titoli di proprietà di una cliente, avrebbero dovuto essere versati alla signora il mattino dopo. Si alzò dallo scranno e ricominciò a passeggiare su e giù. «D'accordo che conoscevo la combinazione della cassaforte, e d'accordo anche che quella sera tornai in ufficio dopo che tutti se n'erano andati. Ero tornato a riprendere alcuni appunti che avevo lasciato sulla mia scrivania, ma chi ci avrebbe creduto? Nessuno, naturalmente.» Si mise un'altra sigaretta tra le labbra. La fiammella del fiammifero era vivida nell'umidità gelida della stanza. «Ci fu un tentativo piuttosto rozzo di far apparire il furto come opera di qualcuno penetrato dall'esterno. La porta della scala di sicurezza era stata lasciata aperta, o così doveva apparire, perché sul pianerottolo venne trovato un pezzo di legno; un paio di cassetti della scrivania di Pete erano stati rovistati, le carte erano sparpagliate in giro. Così venne chiamata la polizia. A parte il vicepresidente, che si trovava in Florida, soltanto Pete e io eravamo al corrente della combinazione della cassaforte. Stando al parere della società, Pete era al di sopra di ogni sospetto, lavorava lì da più di vent'anni. E così» Steele allargò le braccia «la colpa venne data a me. Per fortuna ho un amico che è anche un avvocato con i fiocchi. L'ufficio del procuratore distrettuale tentò di farmi condannare per l'ammanco. Niente da fare. Insufficienza di prove, caso archiviato. E questa è tutta la storia.» McKee lo guardò. «Non spiega perché la signora Mole l'accusi di averle ucciso il marito.» Steele replicò immediatamente: «Pura invenzione da parte sua. Pete si sentiva responsabile, immagino; era lui che mi aveva assunto, e naturalmente ne aveva sofferto. Un mese dopo, ebbe un attacco di cuore e si spense.» «E dopo la sua morte, la signorina Sheppard...» «Mi diede il benservito. Voleva molto bene al cognato.» Poteva essere vera, la storia, ma non era tutta lì. McKee era deciso a conoscerla fino in fondo. Alla fine, messo con le spalle al muro, Steele si decise a vuotare il sacco, ma solo dopo che l'ispettore gli ebbe assicurato che il caso non lo interessava professionalmente, comunque fossero andate le
cose. Steele ammise: «Sì, sapevo che era stato Pete, e sapevo anche perché. Poveraccio, aveva bisogno di soldi per quella sanguisuga insaziabile di moglie che non gli dava pace. Ha anche il coraggio di dire che qualcuno l'ha ucciso, quando è stata proprio lei. Dopo l'attacco cardiaco Pete visse per un paio di settimane, e prima di morire mi scrisse una lettera. Immagino che avrà convinto una delle infermiere a impostargliela. L'ho ricevuta solo verso Natale, perché ero stato assente da New York. In ogni modo, quando l'ho trovata, ho tentato di mostrarla alla signorina Sheppard, ma lei era partita per l'Ovest e si era già fidanzata con Hilliard. Non me ne importava un corno, del suo fidanzamento, ma avevo giurato a me stesso che tanto lei che la sorella avrebbero dovuto leggere la lettera di Pete.» «L'ha con sé, questa lettera?» domandò McKee, e Steele la estrasse da una tasca interna e gliela porse. La lettera era incoerente e scritta con mano malferma, ma il contenuto era sufficientemente chiaro. Se poi avrebbe retto, presentata in tribunale come prova, era tutto da vedere. Comunque, Steele diceva la verità. L'ispettore restituì il foglio e si avvicinò a una finestra. Ciò che di là si poteva scorgere della vallata era una specie di lago dal quale spuntavano grossi alberi, sommersi fino a metà del tronco, e le cime di arbusti più piccoli che rassomigliavano ora a cespugli acquatici. Una decina di metri più a sinistra c'era l'arcata che dava nella corte, oltre la quale sorgevano il granaio e le stalle. Di fronte, l'acqua lambiva dolcemente lo steccato che chiudeva il recinto del bestiame. L'unica cosa che si muoveva, nella grigia desolazione, erano alcuni corvi all'interno del recinto; cinque o sei forme nere che svolazzavano agitate, scendendo in picchiata, librandosi in cerchi sempre più stretti, abbassandosi di nuovo. McKee allungò il collo. C'era qualcosa, laggiù, qualcosa che galleggiava. Provò un brivido improvviso: corvi, uccelli che si nutrivano di carogne... Tre minuti dopo, in impermeabile e stivali, lui e Steele erano all'esterno, oltre il cancello del recinto. La cosa che galleggiava dietro le stalle non era un corpo umano. Era la carcassa di un cane, un cane bianco e nero. Un dalmata. Quello stesso Spot che Veronica teneva per il collare nella fotografia appesa in corridoio. Il collare era ancora al collo dell'animale, e sulla targhetta di metallo si leggeva: "Spot, V. Dane, El Toro". McKee si chinò sulla povera bestia Non dovette esaminarla a lungo. Spot non era morto di morte naturale. Qualcuno gli aveva sparato tra gli occhi.
Si rialzò. «Ucciso» disse forte «più o meno nel momento in cui Veronica Dane è morta. Dev'essere stato seppellito in fretta e furia qui nel recinto. L'acqua ha smosso la terra e la carcassa è venuta a galla.» «Veronica Dane?» Steele era sorpreso, non capiva cosa c'entrasse lei. «Ha detto proprio Veronica?» McKee assentì. «Sì.» «Non vorrà dire Mary, per caso?» «No, no. Mary Dane è morta meno di venti ore fa, mentre questa povera bestia lo è da un pezzo, e Veronica Dane è infatti mancata improvvisamente circa quattro settimane or sono, qui nell'hacienda. Comincio a dubitare seriamente che sia morta per cause naturali. È possibilissimo che sia stata uccisa e che Spot» indicò la carcassa immota che galleggiava ai loro piedi «abbia visto l'assassino, l'abbia inseguito abbaiando, e si sia preso una palla nella testa.» Steele era completamente esterrefatto. Scosse la testa, fuori di sé. «In nome del cielo, ma in che razza di calderone infernale siamo piombati?» «Ah, lo so che non è piacevole, ma nel complesso la cosa è più semplice di quel che sembra» continuò lo scozzese, riflettendo a voce alta. «A Veronica Dane non hanno sparato, altrimenti la cosa sarebbe stata scoperta a suo tempo. Forse è stata strangolata, o spaventata a morte. Si credeva che fosse sola in casa. Sua sorella Mary era andata ad Albuquerque per compere, e la cuoca e Gomez avevano avuto una giornata di libertà per la fiesta. La verità è che Veronica non era sola affatto, mentre gli altri erano assenti. Mary, tornando da Albuquerque, l'ha trovata morta, seduta vicino al tavolo. Probabilmente il suo arrivo ha spaventato l'assassino, o l'assassina, che è fuggito prima di avere portato a termine il suo piano.» Sbirciò i corvi che al momento si erano dispersi, ma aspettavano di tornare. «Guardiamo i fatti: la camera di Veronica frugata ben due volte nelle ultime ventiquattr'ore, l'aggressione al giovane Ward... C'è qualcosa in questa casa di cui qualcuno vuole impossessarsi a tutti i costi. Potrebbe essere la stessa cosa che Mary Dane aveva dimenticato quando se n'era andata dagli Speaker, e che ieri ha tentato di venire a riprendersi...» I due uomini lasciarono il recinto e tornarono a guado verso la casa. Un vento gelido che si era levato all'improvviso soffiava persistente da est. Le cime delle montagne si erano improvvisamente coperte. Quei veli cupi erano presagio di neve. Mentre i due raggiungevano la casa, i primi fiocchi presero a sfarfallare pigramente nell'aria.
10 McKee e Steele rientrarono nell'hacienda dalla porta di servizio. Nella cucina buia, Jackson chiacchierava animatamente. Fermo davanti al caminetto, con un sigaro tra le dita, teneva una conferenza su busti e affini. «Prendete un buon sostegno che si adatti alla perfezione. Dall'esterno non si vede, e questo è quello che conta. Il segreto di come una si presenta e si sente sostenuta, capite, sta tutto nel busto che indossa. Non importa se una donna è un disastro; una buona panciera sistema tutto. Le dà stabilità, capite, e la stabilità le dà portamento, e il portamento è quello che salva la situazione. Certo, signore mie, una donna sente di presentarsi bene, e si sente sicura di sé. Prendete la signora Tafoya, per esempio; potrei rifarla di sana pianta, farla sembrare un'altra donna con uno dei nostri busti "Dolly Vardens", elasticissimi, con ottime stecche di balena...» Si rivolgeva alla signora Mole, che sedeva in poltrona dall'altra parte del caminetto, avvolta nel suo visone. Per l'attenzione che lei gli concedeva, avrebbe potuto rivolgersi a una statua e sarebbe stato lo stesso. Lei fissava le fiamme, facendosi schermo agli occhi con la mano. A giudicare dall'espressione, si sarebbe detto che i pensieri che l'assillavano non fossero di natura piacevole. L'altra occupante della cucina era la signora Fergusson, maestosamente eretta, intenta ad asciugare i piatti e a riporli nella credenza, gli orecchini che dondolavano a ogni suo movimento energico. Quando i due uomini entrarono, portando in casa una ventata gelida, lei ordinò severa voltandosi appena: «Chiudete quella porta.» Al loro ingresso, Jackson si voltò di scatto. La sua ombra, che si proiettava ingigantita sulla parete, seguì lo spostamento. McKee inarcò le sopracciglia. Jackson indossava una cintura portadenaro. L'accappatoio che aveva preso in prestito da Hilliard in attesa che i suoi abiti si asciugassero s'era aperto per un attimo sul ventre prominente. Lo richiuse in fretta, ma non tanto da impedire alla cintura di fare capolino sopra un paio di mutande a rigoni vivaci. Si sfregò le mani e sorrise amabile. «È stato fuori a dare un'occhiata, ispettore? L'acqua sta calando, si spera.» L'ispettore rispose di no, caso mai continuava a salire, e volle sapere dove fossero gli altri. Hilliard e la signorina Sheppard stavano cercando di sgranchirsi le gambe passeggiando su e giù per il soggiorno; Ward aveva ancora mal di testa, si era fatto dare un'altra pastiglia ed era andato a buttarsi sul letto, e la signora Tafoya aveva fatto una scappata fuori per portare da mangiare ai polli.
Fuori... Perciò la donna poteva avere visto e sentito quello che era successo nel recinto. Ma non aveva importanza, perché in ogni caso era tempo di mettere le carte in tavola. McKee descrisse la scoperta della carcassa del dalmata nel recinto, portata a galla dall'inondazione che aveva smosso una sepoltura poco profonda. Mentre lui parlava, Hilliard e Jill Sheppard rientrarono. Hilliard, per quanto fosse un uomo risoluto, un dirigente abituato a dominare la propria espressione e a comportarsi sempre con calma e disinvoltura, appariva stanco, mostrava nuove rughe attorno agli occhi e alla bocca. Gli occhi della ragazza erano particolarmente accesi, le guance più colorite del solito. Che avessero avuto una discussione? Lo stesso dubbio dovette venire alla signora Mole, che li avvolse entrambi in uno sguardo penetrante. Hilliard emise un'esclamazione nel sentire nominare il dalmata. «Il cane di Veronica, Spot?» Le sue mani si strinsero sulla spalliera della sedia che aveva accostato al fuoco per far sedere la fidanzata. La signora Fergusson, dall'acquaio, posò fragorosamente un piatto e si voltò. «Spot, ha detto? È il cane di cui si preoccupava la signorina Dane quando è partita di qua con quel tizio, Speaker. Diceva che era scomparso il giorno in cui sua sorella era morta e che da allora non s'era più visto, anzi mi aveva pregato di avvertirla nel caso fosse tornato.» La signora Mole non avrebbe potuto mostrarsi più indifferente alla sorte della povera bestia, ma cambiò appena McKee riferì che Spot era stato abbattuto da un colpo d'arma da fuoco. Come per incanto, l'impassibilità della donna si dileguò. «Gli hanno sparato!» gridò con voce stridula, e si portò il fazzoletto alle labbra. «Già, signora Mole, proprio così. Sparato.» Con questo, l'ispettore venne al punto. E il punto erano le armi da fuoco. Volle sapere quanti di loro ne possedessero. Hilliard, che stava per accendersi una sigaretta, interruppe il gesto a mezz'aria. Lo sguardo che puntò su di lui era freddo e attento. «Ispettore, Veronica è morta circa un mese fa di morte naturale. Di certo non penserà che quanto è accaduto qui ieri abbia qualcosa a che fare con lei o con il suo cane.» McKee si mantenne affabile e replicò con garbo: «Caro signor Hilliard, al punto in cui siamo, mi guardo bene dal pensare. Lo farà la polizia del New Mexico, quando finalmente riuscirà a mettere piede qui. Nel frattempo, noi dobbiamo solo cercare di raccogliere i fatti come meglio ci è possibile.»
Gli unici che possedevano armi, o che ammisero di possederne, erano Hilliard e Jackson. La pistola di Jackson era nella macchina, a mezzo miglio di distanza, sott'acqua. Quella di Hilliard era nel cruscotto della Rolls, anch'essa sommersa, ormai. Jackson a volte portava con sé denaro della ditta. «Come dico sempre, con tutta la delinquenza e i rapinatori che ci sono in circolazione, meglio essere prudenti. Un grammo di previdenza non guasta, signori miei.» Hilliard aggiunse: «Già che siamo in argomento, ispettore, mi viene in mente che in questa casa ci sono armi, o almeno dovrebbero esserci. Veronica andava spesso a caccia, e usava tirare al bersaglio per tenersi in esercizio. Era un'ottima tiratrice.» McKee approvò con il capo. «Se avrete la cortesia di restare qui, signori, andrò a dare un'occhiata.» Aveva già parlato con Steele della cosa. Lui infatti rimase al suo posto, seduto vicino al tavolo, con le spalle rivolte al gruppo accanto al caminetto. Non aveva mai degnato di uno sguardo la signora Mole, né la ragazza, da quando quest'ultima era rientrata. Hilliard accolse la richiesta di McKee con una lunga occhiata. C'era una luce lievemente beffarda nel suo sguardo. Nessuno però accennò a protestare, e lo scozzese lasciò la stanza. Se la cucina era tetra nonostante la lampada e il fuoco acceso, il resto della casa era addirittura opprimente. La neve fioccava oltre i vetri, cadendo senza lasciare traccia sulla superficie del lago color acciaio che ben presto avrebbe cominciato a lambire le pareti della casa; sui davanzali, però, iniziava già ad ammucchiarsi, e il freddo era addirittura sepolcrale. McKee ispezionò una dopo l'altra le stanze del pianterreno. Niente armi alle pareti, né in alcuno degli armadi. Strano. In genere la gente di campagna dava grande importanza alle proprie armi, ne era orgogliosa, e le teneva a portata di mano per pulirle e oliarle spesso. Di sopra, la prima stanza in cui McKee entrò era quella della signora Tafoya. La valigia, un articolo da quattro soldi in cartone pressato e verniciato, era stata spinta sotto il letto accuratamente rifatto. Era chiusa, ma un ginocchio appoggiato sopra e una lieve pressione ebbero ragione delle non troppo solide serrature. Non c'erano armi, dentro, ma in compenso alcune cose che attrassero la sua attenzione. Sotto una vestaglia da camera di flanella, un paio di calze e un po' di biancheria piuttosto logora, c'erano una boccetta di fondotinta, un'altra boccetta senza etichetta che conteneva un liquido scuro, una matita nera piuttosto morbida e, in una tasca laterale della valigia, un paio di occhiali
di riserva. McKee provò gli occhiali, e immediatamente i contorni della camera gli divennero confusi. Provò a toglierseli, poi ad allontanare e a riavvicinare le lenti parecchie volte, e annuì tra sé. Nessuna meraviglia se la signora Tafoya aveva quel modo di guardare così curioso, quel vezzo di tenere la testa china in avanti. Gli occhiali montavano lenti di ingrandimento non graduate; occhiali da poco come se ne vendevano dappertutto nei grandi magazzini e negli empori. Rivolse la sua attenzione alle boccette: il fondotinta scuro e oleoso, l'altro liquido scuro non ben definito. Doveva trattarsi di una tintura, poiché una piccola goccia versata sul dorso della mano lasciò una macchia marrone grigiastro. Bene, bene, c'era sotto un travestimento. Chiunque fosse quella donna misteriosa, McKee era pronto a giurare che non corrispondesse, nella realtà, al personaggio della signora Tafoya donnetta alla buona, quieta e modesta, riservata e umile. Non era escluso che avesse ottime ragioni personali per camuffarsi in quel modo, ragioni che non avevano nulla a che vedere con il fatto di essere capitata a El Toro come gli altri, viaggiatrice sorpresa dall'uragano e costretta a cercare rifugio prima di arrivare alla vera destinazione. Poteva darsi... e poteva darsi di no. Forse la Tafoya si trovava lì di proposito, con uno scopo ben preciso. In ogni caso, valeva la pena di tenerla d'occhio. Che altro si poteva dire di lei? Era stata allevata in campagna, voleva bene agli animali, non aveva avuto difficoltà nel trovare la strada del pollaio, nonostante il nebbione. Era apparsa sinceramente sconvolta alla vista di Gomez, quando il ferito era stato trasportato attraverso la cucina e messo a letto nella stanza che un tempo era stata di Veronica Dane. Stanza che era stata visitata segretamente per ben due volte, durante la notte, da una delle sei persone che... Sei persone, volendo escludere Steele, da tenere d'occhio per evitare altre brutte sorprese. Sei, volendo escludere anche il misterioso ospite del granaio, l'uomo che aveva comperato un giornale ad Albuquerque il giorno precedente l'uccisione di Mary Dane e di Gomez, e che era fuggito dal ranch, o era riuscito a nascondersi molto abilmente, mentre il cadavere di Mary veniva ritrovato nel box dello stallone. Il vento si stava alzando di nuovo, facendo turbinare la neve che veniva giù fitta oltre le finestre, e la luce andava calando. McKee si scosse. Bisognava finire in fretta e poi condurre un'altra ricerca scrupolosa nei vari edifici esterni, il tutto prima che scendesse l'oscurità, e cioè nel più breve
tempo possibile. Rimise a posto le boccette sotto la vestaglia di flanella, richiuse la valigia, tornò a spingerla sotto il letto. Poi lasciò la stanza e passò a perquisire quelle della signora Mole, di sua sorella e di Henry Hilliard. Niente armi e nulla che potesse destare sospetti. Tra gli ospiti radunati lì dal caso, Hilliard, Rita Mole e Jill Sheppard erano le figure più comprensibili. La loro presenza non aveva nulla di misterioso. Erano diretti al ranch del padre di Hilliard, a una quindicina di miglia da El Toro, ed erano stati costretti a tornare indietro perché il ponte che dovevano attraversare era crollato. Hilliard conosceva la casa, ne conosceva gli antichi proprietari, e sapeva che non gli avrebbero negato ospitalità per la notte. Anche la presenza della signora Fergusson non aveva bisogno di spiegazioni. La signora aveva affittato El Toro, ne aveva preso possesso al momento della partenza di Mary Dane, vi alloggiava di diritto. Restavano Jackson, Ward e la signora Tafoya. Quei tre personaggi presentavano tre grossi interrogativi. Potevano essere esattamente ciò che volevano apparire a prima vista, così come potevano nascondere un'identità tutta diversa. Ma in un ranch sperduto tra le montagne e isolato dal mondo esterno a causa dell'interruzione della linea telefonica, non c'era alcuna possibilità di controllare quanto affermavano. McKee si accinse a esaminare la camera di Jackson, che non conteneva assolutamente nulla: tutti gli effetti personali del piazzista si trovavano nella macchina sommersa, a mezza via tra la casa e il cancello. Dove potevano mai essere le armi di Veronica? Non si trattava di oggetti di valore, ma piuttosto di mezzi per assicurarsi carne fresca e un'eventuale difesa. Nel solaio non c'erano, McKee vi aveva già frugato con cura. Sul punto di aprire la porta, si trattenne. Aveva udito un rumore nel corridoio, rumore di passi che avanzavano. I passi si fecero più vicini. Erano Rita Mole e la sorella. Le due donne si fermarono proprio davanti all'uscio. La signora Mole disse: «Ma perché non sei d'accordo, Jill? È naturale che Henry voglia fissare una data. Ha tante cose da fare, è un uomo importante...» «E io, Rita, sono una donna importante, non fosse che per me stessa. Cosa che forse tu dimentichi.» La voce della ragazza era fredda, ma Rita Mole non era sensibile alle sfumature; oppure, il suo modo di vincere l'opposizione era ignorarla. Uno schiacciasassi, pensò McKee, una dittatrice bionda, fondamentalmente simile a Veronica Dane... Lei continuò in tono lagnoso: «Beh, io non ti capisco, Jill, proprio non ti capisco. Fino a pochi giorni fa tutto andava bene,
sembravi contenta, felice, e io ero felice per te, felice di saperti così ben sistemata. E adesso questo voltafaccia. Non sarà stata la vista di quell'orribile individuo, di quello Steele, di quel ladro assassino?» La signorina Sheppard la interruppe, replicando sbrigativa: «Volevi davvero andare in bagno, Rita, o mi hai trascinata fin quassù per parlare? In questo caso è inutile, ti avverto. Sprechi il fiato per nulla.» «Oh, Jill, come puoi parlarmi con questo tono? È di te che mi preoccupo, ma sei così cocciuta...» Si allontanarono. La porta che dava nel bagno in fondo al corridoio si chiuse. McKee scese al piano di sotto. Le beghe sentimentali tra la ragazza, la sorella, Hilliard e Steele non lo interessavano; non erano affar suo, e non poteva farci nulla. Ciò che lo preoccupava, invece, erano le armi introvabili della defunta Veronica e, cosa ancora più importante, l'oggetto che Mary era venuta a riprendersi al ranch, andando incontro a una morte così brutale. La cosa che era venuta a riprendere doveva trovarsi ancora nell'hacienda. Mary non aveva fama di essere una persona sciatta, e sicuramente non avrebbe dimenticato un oggetto di valore nel granaio o nelle stalle. Del resto, quando aveva raggiunto Speaker il mattino della partenza, era uscita direttamente dalla casa e non da uno degli edifici esterni. McKee entrò in cucina. Lì faceva caldo, era l'unico posto in cui rifugiarsi per sottrarsi al gelo che regnava nel resto della casa. La scena non era cambiata. Stesse facce impassibili, impenetrabili. Impossibile capire cosa passasse dietro quelle fronti. Delle donne, l'unica presente era la signora Fergusson. Rita Mole e la sorella erano di sopra, McKee lo sapeva. Ma dov'era la signora Tafoya? Non era più tornata dal pollaio. Se avesse tentato di svignarsela, non sarebbe potuta andare lontano, visto che l'intera valle era sommersa. Tuttavia, McKee provò un senso di inquietudine. La donna era fuori da un bel pezzo, ormai. Si rivolse a Steele, che aveva trovato un libro e lo stava sfogliando con aria svogliata. «Le dispiacerebbe andare a cercare la signora Tafoya?» Steele si prestò di buon grado. «Trovate le armi di Veronica, ispettore?» s'informò Hilliard, alzando gli occhi dal solitario che stava facendo. McKee scosse la testa. «Niente, nemmeno una traccia.» La signora Fergusson, che fumava una sigaretta appoggiandosi alla credenza, saltò su all'improvviso: «Stavo pensando al ripostiglio in cui la signorina Dane aveva lasciato alcune sue cose. Aveva detto che sarebbe tor-
nata a riprenderle in seguito. Potrebbe averci messo anche le armi. È chiuso, e io non ho la chiave. Quella l'aveva tenuta lei.» McKee domandò: «È quello sgabuzzino in sala da pranzo, vicino all'orologio?» La Fergusson disse di sì e l'ispettore corse a vedere. La signora si sbagliava. Al momento il ripostiglio, nella stanza quasi in penombra, era aperto. La maniglia cedette docilmente sotto la mano di McKee, che esaminò la serratura. Non recava segno di manomissione. Spalancò la porta ed entrò. Lo sgabuzzino aveva una profondità di circa sessanta centimetri. Era lungo e stretto, con tante scansie ai due lati. Le armi erano lì, ordinatamente disposte su una delle mensole: due fucili, un revolver e un fucile da caccia. Una di esse poteva essere stata rimossa, naturalmente, ma non c'era modo di saperlo. Hilliard, che aveva seguito l'ispettore in sala da pranzo, non seppe dire con esattezza quante armi possedesse Veronica. Riconobbe uno dei fucili e quello da caccia, che era appartenuto al padre di lei. Per il resto, lo sgabuzzino conteneva pochi tesori di famiglia: un po' di cristalleria e di porcellane, parecchi oggetti d'argento, un boccale con sopra inciso il nome Charles, e una scatola piatta di legno scuro e lucido. McKee aprì la scatola. Era vuota. Ma dentro c'era stato qualcosa, fino a poco tempo prima. Sul fondo, lievemente polveroso, si notava un'impronta larga circa dodici centimetri e lunga ventiquattro o venticinque. McKee si teneva in posizione tale da impedire a Hilliard di guardare ciò che lui faceva. «Trovato nulla, ispettore?» domandò il finanziere. «Solo le armi e qualche oggetto di casa.» McKee richiuse la scatola con aria assorta. Già, fino a poco tempo prima, forse ventiquattro o trentasei ore, quella scatola che sembrava d'ebano aveva contenuto un oggetto. Forse lo stesso che Mary aveva dimenticato ed era tornata a prendere? Possibilissimo. Ma in ogni caso, ormai non c'era più. Prese in mano il boccale d'argento. «Sa chi sia Charles?» domandò. «Oh, sì.» Hilliard spiegò che Charles era il fratello minore di Veronica e Mary. Lui e Veronica non erano mai andati d'accordo, avevano sempre litigato fin da bambini. E quando, dopo la morte del padre, Charles era tornato a El Toro con la moglie e la bambina, perché non ce la faceva a mantenerle, Veronica era andata su tutte le furie. Lui era uno scavezzacollo scansafatiche, che s'era sposato mentre era ancora studente. Con la moglie e la bambina era rimasto al ranch per alcuni anni, di sicuro due o tre; poi lui e la moglie erano partiti lasciando la piccola alle zie, con l'intesa che
dopo un mese sarebbero venuti a riprendersela. Ma il mese si era trasformato in un buon numero di anni. Che n'era stato, in conclusione, di Charles, della moglie e della figlia? Hilliard non lo sapeva. La neve continuava a scendere silenziosa oltre le vetrate; il freddo penetrava nelle ossa. Hilliard si rialzò il bavero della giacca e infilò le mani nelle tasche. Disse che gli sembrava d'avere sentito da qualcuno che la ragazza si fosse sposata e fosse andata via. McKee rimise il boccale sulla mensola. Un fratello che aveva detestato Veronica... L'origine dei delitti andava forse cercata nel passato. «Quanti anni avrebbe ora, quel Charles?» Hilliard fece un rapido calcolo mentale. «Vediamo... se è ancora vivo, sarà su per giù sui cinquantacinque. Ma, ispettore...» Guardò McKee e scosse la testa. «Se ho ben capito quello che sta rimuginando, anche ammesso che Charles fosse tornato qui per una ragione qualsiasi, non avrebbe mai mosso un dito contro Mary. Lei era sempre stata affettuosa verso il fratello, che le era profondamente devoto.» «Capisco.» McKee riportò l'attenzione sullo sgabuzzino. Sul pavimento c'erano macchie di cera. Si ricordò dell'impressione provata da Steele la sera precedente, che ci fosse stato qualcuno in sala da pranzo con una luce, qualcuno che l'aveva spenta, forse soffiandoci sopra, nell'attimo in cui lui si dirigeva in cucina per ristorarsi durante la veglia al morente Gomez. La luce era stata spenta al rumore dei suoi passi che s'avvicinavano. Steele aveva sentito poi la presenza di qualcuno nascosto nei paraggi. L'impressione era stata molto forte. Qualcuno munito di una candela, che aveva perlustrato lo sgabuzzino e s'era messo in tasca l'oggetto mancante dalla scatola? Probabilissimo, si disse McKee. Ma questo non bastava a scoprire chi fosse. Avrebbe potuto trattarsi di chiunque dei presenti... anche se, in teoria, erano tutti addormentati, ciascuno nella propria camera. In teoria, naturalmente. In ogni caso, le deduzioni che se ne potevano trarre erano molto gravi. Non c'erano chiavi nella tasca della giacca che rivestiva il cadavere di Mary Dane, il che significava che era stato l'assassino a rimuoverle. Qualcuno che si trovava a El Toro da trenta ore e più, e che era ancora lì, confuso tra gli altri, oppure l'uomo che si era buttato sulla branda di Gomez e che aveva seguito lui e Hilliard fino alla casa. L'oggetto era sparito dalla scatola, ma poteva essere rimasto qualcos'altro di interessante, di utile per rintracciare l'assassino. McKee cominciò a esaminare mensola per mensola, ma interruppe bruscamente le sue ricer-
che. Dall'esterno si era udito un grido, confuso al sibilo lamentoso del vento. Sembrava un'invocazione d'aiuto. Lasciò lo sgabuzzino in tutta fretta e corse alla porta d'ingresso, mentre Hilliard, che aveva anche lui sentito gridare, accorreva a sua volta. «No» gli ordinò McKee «resti con le donne, lei, e chiuda questa porta appena sarò uscito.» Poi si lanciò fuori e s'incamminò tra neve e acqua. 11 Era stato Steele a gridare. McKee lo trovò sulla porta del pollaio, oltre l'arcata che immetteva nel cortile. Era caduto ed era tutto coperto di fango dalla testa ai piedi. La signora Tafoya era dentro il pollaio, riversa sul pavimento ingombro di paglia accanto a una fila di stie. Al di sopra delle gabbie, un gruppo di galline bianche ammassate su una pertica agitava pigramente le ali protestando contro la luce, mentre un gallo bianco passeggiava su e giù con aria bellicosa, agitando la cresta fiammante. L'umidità gelida del luogo era quasi insopportabile. «Non ho osato muoverla, avevo paura di toccarla» spiegò Steele, asciugandosi con una manica la faccia sporca di fango. «Ho gridato nella speranza che qualcuno mi sentisse.» McKee approvò con un cenno e si chinò sulla donna. Il cappello le era rotolato via e l'impermeabile era inzaccherato di fanghiglia. Perdeva sangue da una piccola ferita alla tempia, ma il polso era buono e il respiro regolare. Non sembrava gravemente ferita. Quando McKee la toccò, lei mosse le palpebre. Aprì gli occhi, fissò verso l'alto uno sguardo attonito, li richiuse. "Che stia pensando a quello che deve dire?" si domandò lui, con un po' di cinismo. Posò a terra il braccio della donna, si rialzò e si rivolse a Steele. «Cos'è successo esattamente, lo sa?» Accendendosi una sigaretta con dita tremanti, l'altro spiegò: «Appunto, ispettore, non è successo nulla. Dopo che lei mi aveva pregato di venire a cercarla» e indicò la donna che giaceva a terra con la testa voltata dall'altra parte «sono andato prima di tutto a vedere se la sua macchina era ancora sotto il portico in fondo al cortile. Poi mi sono incamminato in questa direzione. Avevo la lanterna, ma tra la neve e l'oscurità anche quella serviva ben poco. Ero quasi arrivato qui, mi trovavo forse a cinque metri di distanza, quando un uomo è uscito dal pollaio facendosi sbattere la porta alle spalle. Mi ha visto, naturalmente, o comunque ha visto la lanterna, ed è
scappato via a tutta velocità. L'ho rincorso come meglio potevo, riuscivo sì e no a distinguerlo davanti a me in mezzo alla neve, e alla fine, dopo avere percorso altri sei o sette metri, sono scivolato su qualcosa che giaceva a terra e sono finito nel fango lungo disteso. Il tempo di rialzarmi e di ritrovare un po' di fiato, e l'uomo era scomparso senza lasciare traccia.» «Dopodiché è entrato qui dentro e ha trovato la signora Tafoya riversa a terra come è adesso?» «Precisamente. Quando l'ho vista mi sono spaventato. Aveva gli occhi chiusi, così prima ho pensato che fosse morta, poi mi sono accorto che respirava.» Il gallo continuava a marciare su e giù davanti alle galline, che nel frattempo si erano calmate. McKee esaminò attentamente l'interno della baracca. L'uomo fuggito dalla stanza di Gomez la sera prima poteva avere trovato rifugio là dentro. C'era un mucchio di paglia, in un angolo, che poteva offrire una specie di giaciglio e difendere dal freddo. Partendo dall'ipotesi che lo sconosciuto si fosse accampato lì dentro, l'arrivo inaspettato della signora Tafoya doveva avergli fatto perdere la testa, specie se si nascondeva di proposito, come ormai sembrava assodato. Un colpo per stordirla e darsi alla fuga? Un attimo dopo McKee ne ebbe la certezza. Un guscio d'uovo baluginava biancastro vicino a una delle stie. L'uovo era stato bevuto. Ce n'erano altri dietro le stie. Uova: un modo di nutrirsi, sostentamento prezioso per uno che aveva fame. Cercare il fuggiasco con la neve che veniva giù fitta e quell'oscurità sarebbe stato tempo sprecato, e del resto la donna che giaceva per terra con le scarpe e le vesti bagnate andava immediatamente trasportata all'asciutto. Come minimo, la poveretta doveva essersi presa un brutto spavento. McKee si rivolse a Steele. «Sarà meglio che la portiamo in casa.» Non ebbero bisogno di trasportarla di peso. La signora Tafoya si stava rapidamente rimettendo. Una volta in piedi, fu in grado di camminare appoggiandosi al braccio di McKee. Lui si teneva rasente ai muri della casa, dove l'acqua era profonda soltanto venti centimetri. Steele, con la lanterna, fece strada attraverso il cortile e sotto i pioppi, fino alla porta di servizio. La porta era chiusa. McKee chiamò forte e Jackson venne ad aprire. Luce dopo le tenebre, tepore dopo il gelo; i ceppi ardevano allegramente nel lungo camino e la lampada a petrolio mandava un bel chiarore giallognolo. McKee fece sedere la signora Tafoya vicino alla fiamma, e lei si abbandonò nella poltrona, allontanandosi una ciocca umida dalla fronte. Gli altri erano tutti lì: la ragazza, Rita Mole, Hilliard, la signora Fergusson
e Ward. Esclamazioni sgomente alla vista del sangue sul volto della Tafoya. Domande: «Com'è stato? Misericordia, dove l'avete trovata?» Hilliard estrasse di tasca una fiaschetta d'argento e McKee versò un po' di brandy nel bicchiere che la signora Fergusson gli porgeva. «Un po' d'acqua, per favore» pregò la signora Tafoya con un filo di voce. «Tra un momento starò benissimo.» Sorseggiò la sua bevanda e dopo un paio di minuti cominciò a raccontare com'erano andate le cose. La sua versione risultò breve e imprecisa quanto quella di Steele. Era andata nel pollaio per dare da mangiare alle galline; aveva con sé un secchio di avanzi e la lanterna. Arrivata vicino alla baracca, le si era spenta la lanterna, ma era riuscita a trovare la porta, a entrare e a chiuderla dietro di sé per impedire che entrasse la neve. In tasca aveva dei fiammiferi e si era abbassata posando un ginocchio a terra. Prima che avesse il tempo di accenderne uno, alle sue spalle c'era stato un chiarore, un fiotto di luce improvviso. Aveva girato la testa e s'era vista investire e quasi accecare dal bagliore di una grossa torcia elettrica. Nonostante il calore della fiamma, la donna rabbrividiva. Sorseggiò ancora un po' di brandy. L'uomo che le aveva puntato addosso la torcia si trovava fra lei e la porta, impedendole la fuga. Nell'altra mano aveva una pistola. Prima che lei potesse gridare o fare un movimento, l'aveva colpita e lei era crollata a terra. Da quel momento non ricordava altro, salvo che a un tratto aveva riaperto gli occhi e aveva visto l'ispettore, il signor Steele e nessun altro. «Credo d'essere svenuta. È sciocco, lo so, ma... ero veramente terrorizzata.» Il suo sorriso timido aveva qualcosa di commovente, di infantile. «Terrorizzata? Lo credo bene!» esclamò Jill Sheppard, portandole una tazza di caffè bollente. «Dev'essere stato un momento orribile, un'esperienza agghiacciante.» «Lo credo anch'io, povera signora.» Jackson masticava il suo sigaro con aria impietosita e scuoteva la testa, sbirciando la donna come se stesse studiando il modello di busto da consigliarle. La signora Fergusson, come al solito, non diceva nulla. La sua imperturbabilità sembrava a prova di bomba. Non per la prima volta McKee rifletté che quella donna non era stata molto fortunata nella sua scelta di un pacifico rifugio per sé e per il consorte in arrivo, scelta che non finiva di apparirgli assurda. Anche la signora Mole era taciturna, ma non per stoicismo. Tutt'altro. Gli angoli della bocca piegati all'ingiù, le palpebre abbassate sugli occhi,
pareva domandarsi tacitamente: "Per quanto ancora riuscirò a resistere in questo posto orribile, tra questa gente orribile?". Hilliard era preoccupato sul da farsi. «Quel tizio là fuori, chiunque sia, ha una pistola. Per quanto ne sappiamo noi, potrebbe essere deciso a tutto. Non siamo al sicuro, e non lo saremo finché non riusciamo ad acciuffarlo.» Ward propose subito: «Perché non usciamo tutti insieme e tentiamo di prenderlo? Dovremmo farcela, visto che siamo cinque contro uno.» Jackson si oppose, costernato. Non voleva saperne, lui. Si accalorò al punto di togliersi completamente il sigaro di bocca. «Non diciamo sciocchezze, figliolo. Rifletta un momento, per piacere. Quel tipo ha una pistola, e potete scommettere che è carica. Ora immaginate un po': noi dovremmo avere delle lanterne per orientarci, e lui potrebbe abbatterci uno per uno senza darci il tempo di dire "amen". Lei che ne dice, ispettore?» McKee si vide costretto a dargli ragione. Tra la neve e l'oscurità la visibilità era praticamente nulla, e chiunque avesse avuto una torcia o una lanterna sarebbe stato alla mercé dello sconosciuto. Meglio invece chiudersi bene in casa per la notte e aspettare il mattino seguente per iniziare le ricerche. Allora sarebbe stato possibile condurre un'operazione completa, con buone speranze di successo. In ogni modo, era convinto che l'uomo che si aggirava lì intorno non fosse un viandante venuto a rifugiarsi a causa della tempesta, altrimenti non si sarebbe tenuto nascosto con tanta tenacia. No, quel tale era lì con uno scopo ben preciso. Forse non aveva nulla a che fare con i Dane o con Gomez, forse s'interessava a qualcuno degli ospiti occasionali di El Toro. Di sicuro, però, non era interessato alla signora Tafoya. Infatti non aveva voluto farle del male; aveva solo cercato di stordirla per fuggire senza essere visto da lei. McKee lasciò la cucina e tornò in sala da pranzo per riprendere l'esame dello sgabuzzino. L'assassino di Mary Dane, dopo avere strangolato la sua vittima, le aveva trovato addosso la chiave, probabilmente in una delle profonde tasche della giacca a vento. Gliel'aveva sottratta con uno scopo ben preciso. Ma ecco che si presentavano due interrogativi: come aveva fatto a sapere a quale serratura si adattasse quella particolare chiave? E perché, dopo aver asportato l'oggetto contenuto nella scatola nera, non aveva richiuso a chiave il ripostiglio? Le due domande trovarono una risposta quasi immediata. Indirizzando negli angoli la luce della torcia, McKee distinse un fioco luccichio in una fessura tra le assi dell'impiantito. Qualcosa era caduto nell'interstizio tra l'asse di legno più interna e la parete. L'oggetto luccicante era sprofondato
di dieci centimetri buoni. McKee aveva in tasca una lima per le unghie, e con quella cominciò a pescare pazientemente nella fessura. Impiegò cinque minuti e una quantità di tentativi per recuperare l'oggetto. Era la chiave dello sgabuzzino, una chiave piccola e piatta. Attaccata a essa c'era una strisciolina di cuoio con l'etichetta RIPOSTIGLIO SALA PRANZO. Ora tutto era chiaro. Evidentemente l'assassino l'aveva lasciata cadere la sera prima, spaventato dall'arrivo di Steele; una volta allontanatosi quest'ultimo verso la cucina, non aveva osato fermarsi per tentare di ritrovarla, per timore di essere scoperto da Steele che poteva tornare da un momento all'altro. Sì, doveva essere andata così. McKee riprese il suo esame del contenuto degli scaffali. L'unica cosa interessante che trovò fu un registro dei conti, posato su uno scaffale in cima. Era un pezzo d'uomo, ma dovette allungarsi ben bene per arrivarci. Il registro era del tipo più comune. Rilegato in pesante tela grigia, con la parola CONTI stampata in copertina e il nome di Veronica Dane all'interno, era scritto a mano. Lo aprì. La prima pagina portava la data del primo gennaio dell'anno in corso. McKee prese a sfogliarlo rapidamente. Veronica era morta il quattro di febbraio. Forse aveva segnato qualcosa poco prima di morire... Sfogliò in fretta gennaio fino al giorno venti, e non trovò altro. Le pagine dal venti al quattro di febbraio erano state accuratamente strappate. Il resto del registro era intonso. 12 «Dunque la luce c'era, e io ho sentito effettivamente qualcuno, ieri sera» disse Steele. «Ne ero quasi sicuro, infatti.» McKee richiuse il ripostiglio a chiave: oggetto e fogli di registro erano ormai scomparsi, ma restava la speranza di trovare impronte digitali. Poi si mise la chiave in tasca. «Già. Ha proprio sentito bene, caro Steele. Ha sentito l'assassino di Mary Dane... e di Gomez.» Il suo viso si stagliò accigliato alla luce della candela che Steele aveva portato con sé dalla cucina. La sala da pranzo era una caverna piena d'ombre; il soggiorno, al di là dell'arcata, una caverna ancora più vasta, con la neve che cadeva oltre le finestre buie. McKee indicò lo sgabuzzino. «Chiunque di coloro che si trovano in questa casa potrebbe essere entrato qui nelle ultime ventiquattr'ore per asportare le pagine dal registro dei conti di Veronica Dane.» Steele, che aveva posato la candela, ficcò le mani nelle tasche. Faceva
sempre più freddo. L'aria era gelida. Il fiato si condensava in nuvolette bianche. Nonostante fosse molto interessato, sbadigliò. «Mio Dio, come sono stanco» sospirò. «Potrei dormire per una settimana di seguito... E pensare che lei è fresco come una rosa.» «Si arruoli nelle forze di polizia e imparerà a fare a meno di dormire in dieci facilissime lezioni.» McKee guardò l'orologio: le otto e cinque di sera. Restava un'altra lunga notte da superare, e più tardi gli avrebbe fatto comodo l'aiuto di Steele. Ci sarebbero voluti parecchi uomini per un buon lavoro di sorveglianza, ma due valevano sempre più di uno. Senza troppo fatica, convinse il compagno più giovane a sdraiarsi per un paio d'ore su uno dei divani del soggiorno, avvolgendosi in una coperta presa nella stanza di Ward. Fatto questo, tornò in cucina con il registro sottobraccio. Nessun cambiamento. Tepore, chiarore di fiamma e di lampada. Luccichio di rame qua e là sulle pareti affumicate. Tende chiuse alle finestre tagliavano fuori la notte e la neve. Quando McKee entrò, nessuno gli dedicò un interesse particolare. Rita Mole e Hilliard stavano giocando a carte a un'estremità del tavolo, e sembravano assorti nella partita. All'altra estremità, la signora Fergusson rammendava alla meglio un tappetino a uncinetto. Non era molto abile nel lavoro di cucito. L'ago lungo e acuminato lampeggiava mentre lei lo spingeva dentro e fuori del tessuto ruvido e pesante. Nella luce fioca, le spalle girate come sempre verso il resto della compagnia, la signora Tafoya leggeva senza posa attraverso le sue lenti economiche, o almeno faceva mostra di leggere. Jackson sonnecchiava in un angolo, le gambe distese, le mani incrociate sullo stomaco e sulla cintura portadenaro, un fazzoletto sugli occhi; dall'altra parte del caminetto, la ragazza e Ward scambiavano qualche parola fissando le fiamme. McKee avvicinò una sedia al centro del tavolo e cominciò a esaminare le pagine del registro, sperando di trovarvi qualcosa di interessante. Nello stesso tempo prestava orecchio alla conversazione tra la ragazza e Ward. No, diceva la signorina Sheppard; no, non conosceva quella zona del paese, invece sua sorella sì, e bene. Rita era venuta spesso da quelle parti, da ragazzina, in visita alle compagne di scuola. Così aveva conosciuto Henry... il signor Hilliard. Più tardi, l'amicizia era ripresa a New York. «New York...» Ward non c'era mai stato. Gli occhi azzurri sotto i capelli stopposi erano attenti. Gli sarebbe piaciuto andarci, certo, vedere i grattacieli, le grandi navi e il fiume, lui che non era mai uscito dai confini del New Mexico, salvo una volta da ragazzo per andare a Phoenix, e un'altra
volta a Denver, con il fratello maggiore. Per viaggiare ci volevano soldi, e non s'illudeva di potersi cavare la voglia di arrivare all'Est. Dunque, Rita Mole era pratica di quella parte del paese. Interessante, pensò McKee, che intanto proseguiva metodicamente nel suo noiosissimo compito. La verità era che, finché non avessero potuto allontanarsi dalla casa, finché non si fosse potuto procedere a un accurato controllo delle dichiarazioni e dell'identità di tutta quella gente, non si poteva sperare di venire a capo di qualcosa. Poco dopo, la signora Fergusson posò il lavoro di cucito e si alzò con la solita aria energica. Un pasto improvvisato venne apparecchiato a un capo della tavola, mentre dal fornello arrivava l'aroma del caffè fresco. Prosciutto, sottaceti, pane, burro, un vaso di marmellata. Nessuno aveva molto appetito salvo Jackson, che parve rivivere alla vista e all'odore del cibo. «Ottimo, il prosciutto con i sottaceti» dichiarò soddisfatto, a bocca piena. Nessuno gli badava. Di tanto in tanto qualcuno si avvicinava a una finestra, sollevava un po' una tenda, scrutava fuori e annunciava che nevicava ancora. Erano come un gruppo di estranei in un aeroporto, in attesa di un aereo che aveva molto ritardo e forse non sarebbe arrivato mai. Ma c'era qualcosa di più, nella stanza. Sguardi fissi nel vuoto, commenti oziosi lasciati a mezzo, un sussulto improvviso da parte di qualcuno... C'era la paura, la si avvertiva, era sospesa nell'aria. Ed era forse strano, con un uomo che si aggirava armato di rivoltella, oltre a tutto quanto era accaduto nelle ultime ventiquattrore? Purtroppo, l'atmosfera apparentemente pacifica era fittizia, e poteva andare dispersa da un istante all'altro. Bisognava stare in guardia. E nel frattempo, McKee continuava a leggere il libro mastro del ranch, con profitti e perdite. Soprattutto perdite; i profitti, a El Toro, erano esigui. Venduto il vitello di Betsy... Scarso ricavo dalla vendita del foraggio... Poi, due annotazioni attirarono la sua attenzione. La prima diceva: "Spedito il solito a M. In questo stato di cose, comincia a diventare un vero salasso. Uno di questi giorni bisognerà fare qualcosa". M... M per Mary, forse? No, Mary viveva in casa, non c'era ragione di spedirle qualcosa. "Il solito" che stava per diventare un vero salasso? Soldi, era abbastanza chiaro. Un ricatto, forse? Poco probabile. Veronica non era tipo da adattarsi supinamente a certe cose. Il secondo appunto diceva che la pesca delle trote nel Trayez prometteva di essere ottima, e che Gomez aveva fatto presente che occorreva un nuovo paio di remi. Remi... Remi, quindi barca. E barca significava mezzo di fuga, possibili-
tà di dileguarsi senza lasciare traccia prima dell'arrivo della polizia. Sempre che qualcuno sapesse dove la barca si trovava. Forse, l'uomo che aveva stordito la signora Tafoya nel pollaio, al principio della serata, a quell'ora l'aveva trovata. Smise di leggere, si accese una sigaretta e domandò a Hilliard notizie sulla caccia e la pesca da quelle parti. Hilliard, alzando gli occhi dalle carte, assicurò che la caccia era eccellente. «Gatti selvatici, orsi, conigli.» Aggiunse che anche la pesca era ottima; il fiume Trayez confinava con la terra dei Dane a nord e a est. Jackson posò la tazza vuota, si sfregò con entusiasmo le mani grassocce e sorrise raggiante. «Ah, non parlatemi di trote. Una bella trota salmonata, di quelle che si pescano in questi torrenti di montagna... Non si può mangiare nulla di meglio al mondo, credete a me. Meravigliosa, semplicemente meravigliosa. Che tenerezza, che sapore... Oh, ragazzi, che roba!» Poi Steele entrò in cucina. Aveva dormito poco più di un'ora, ma appariva riposato, con lo sguardo limpido. Al suo ingresso, la ragazza si alzò dallo sgabello accanto a Ward e andò ad accoccolarsi sul bracciolo della poltroncina di Hilliard, appoggiandosi con fare affettuoso alla spalla di questi. Se il gesto voleva essere uno schiaffo diretto a Steele, non ebbe alcun effetto. Lui non guardò nemmeno da quella parte. Si accinse a prepararsi un panino e allungò la mano verso la mostarda. «Il signore è servito.» Jackson si mostrava comprensivo verso chiunque avesse inclinazioni mangerecce. Nello spingere il vasetto verso Steele, urtò il cestino da lavoro della signora Fergusson, il quale si capovolse e cadde a terra rovesciando il suo contenuto. Gomitoli di filo rotolarono in ogni direzione. Ward, Jill Sheppard, la signora Tafoya e Jackson li raccolsero, quest'ultimo rosso in faccia e ansante per lo sforzo di chinarsi. Non si riuscì più a trovare il grosso ago da lana della Fergusson, e inutilmente venne cercato dappertutto. Lei era molto seccata. Disse di averlo infilato in un gomitolo di lana, prima di alzarsi per preparare il caffè. «Dev'esserci» insisteva. «È l'unico ago da lana che ho.» Prese la lampada dal centro del tavolo e provò a proiettare la luce sul pavimento. Ma l'ago non si vedeva da nessuna parte. Porgendole un ditale che era rotolato ai suoi piedi, Hilliard osservò che forse era finito in una delle fessure tra le mattonelle. «Domani, con la luce del giorno, lo ritroveremo di certo.» McKee non diceva nulla. Era un piccolo incidente, eppure non gli piaceva. Lo rendeva inquieto. L'ago era lungo e acuminato, uno stiletto in mi-
niatura molto facile da nascondere. Chiuso nel pugno poteva diventare un'arma rapida, silenziosa ed efficace. L'avrebbe cercato più tardi, una volta rimasto solo. Poco dopo l'incidente, Rita Mole soffocò uno sbadiglio e annunciò che, sebbene fosse presto, sarebbe andata a letto. «Vieni, Jill?» «Ma sì, vengo anch'io.» La loro uscita fu il segnale per la ritirata generale. Nevicava sempre, e le stanze da letto dovevano essere gelate. Su consiglio di Hilliard, bottiglie d'ogni dimensione vennero portate in cucina dall'acquaio e riempite dal grosso bollitore che stava in permanenza sul fuoco. Tutti si scambiarono la buona notte, e ognuno si rifornì di candele dalla riserva che cominciava a diminuire. Alle dieci e mezzo, in cucina non restavano che Steele e McKee. Prima di ritirarsi, Ward era stato tanto cortese da attizzare il fuoco. Jill Sheppard si era complimentata con lui per l'abilità che mostrava in materia, e lui, rosso di gioia, aveva replicato: "Vantaggi d'essere stato boyscout, signorina". Una volta soli, mentre osservavano le lingue di fuoco lambire adagio i nuovi ceppi, Steele ascoltò il resoconto dell'ispettore circa il contenuto della valigia della signora Tafoya. «Adesso i suoi capelli sono di un brutto color topo. Pensa che, sotto la tintura, siano di un altro colore, forse biondi o bianchi?» Steele frugava nella memoria per cercare di ricordarsela com'era esattamente quando l'aveva vista in precedenza, chissà dove, ma scosse la testa con aria scoraggiata. Un secchio, uno straccio o uno spazzolone per pavimenti, la signora Tafoya in ginocchio... «Per quanto mi ricordo, ispettore, era molto simile a come la vediamo ora.» «Ma è all'Est che l'ha vista?» «Sì, questo è certo, all'Est.» Steele socchiuse gli occhi. «Aspetti un momento... Ora che ci penso, mi pare che qualcuno abbia pronunciato il suo nome.» Si raddrizzò e batté una mano sul bracciolo della poltroncina. «Ma che testa balorda è la mia... Come ho fatto a non ricordarmene subito, quando lei ha trovato quella busta con l'indirizzo del mittente nella scrivania di Veronica Dane? Si chiamava Adams anche lei, sì, proprio come la persona che aveva spedito la busta, e sono sicurissimo che si trattava di una signora.» «Anche se non riesce a ricordare il posto con esattezza, ha almeno un'idea di quando l'ha vista?» domandò McKee, e Steele fece un cenno affermativo.
«Sì, ce l'ho. È stato circa tre o quattro mesi fa, ma non è questo il punto essenziale. Perché me ne ricordo? Ecco il dilemma. Certo in lei non c'è nulla di particolare o insolito. Le donne addette alle pulizie in cui ci si imbatte negli uffici e nelle case non restano in genere così impresse nella memoria. Dev'esserci una spiegazione, non può non esserci... ma il diavolo mi porti se riesco a trovarla. Naturalmente, da allora quella donna potrebbe essersi sposata, ma è sicuro che il suo nome era Adams, non ho dubbi. Questo può servirle, ispettore?» Osservando una fiammella azzurra che danzava nella crepa di un ceppo, McKee osservò: «Se questa donna fosse la stessa Adams della lettera, avremmo un terzo legame tra le persone presenti a El Toro e i Dane.» «Un terzo legame?» «Appunto. C'è Ward, la cui madre era a servizio in questa casa molti anni fa, e con la quale Mary Dane si mantenne sempre in contatto, scrivendole e andando a trovarla. Poi c'è Hilliard, i cui familiari furono per molto tempo amici e vicini dei Dane, che lui stesso conosceva, da ragazzo... E adesso c'è questa signora Tafoya, il cui nome, tre o quattro mesi fa, pare fosse Adams. D'accordo, potrebbe essersi sposata di nuovo. In questo caso, bisogna dire che possiede virtù di cui siamo all'oscuro. Un fascino che a prima vista non risulta, per quanto i gusti siano vari.» Il vento, che per un po' si era calmato, cominciava a levarsi di nuovo. Prendeva d'assalto la casa con lunghe folate lamentose, agitando le tende e penetrando attraverso le fessure. Steele, che tendeva l'orecchio con aria assente, venne preso da un desiderio impellente, da un'impazienza quasi dolorosa di allontanarsi da quel luogo. Lo scopo per cui si era messo tanto impulsivamente in viaggio per l'Ovest si era risolto in un fiasco, ormai se ne rendeva conto. Aveva fatto tanto rumore per nulla, aveva completamente sbagliato i calcoli. Jill Sheppard era sinceramente innamorata di Hilliard, i due si sarebbero sposati e a lui non restava altro da aggiungere. Perfino la sua animosità contro Rita Mole si era un po' alla volta affievolita. Per una donna come lei, era perfettamente logico desiderare che la sorella sposasse un uomo facoltoso. Non rimaneva che lasciar perdere tutto e non pensarci più. Se un altro si fosse trovato nei suoi panni, lui non avrebbe esitato a dargli quel consiglio. Il ticchettio dell'orologio echeggiava sonoro nel silenzio. Il fuoco scoppiettava. Steele sentiva di nuovo le palpebre pesanti. D'improvviso si udì un rumore nella cappa del camino, e uno sbuffo di fumo penetrò nella stanza.
Subito McKee si fece attento. Si alzò. Avviatosi verso l'ingresso di servizio, aprì la porta e la tenne un po' socchiusa, dirigendo all'esterno il raggio della torcia elettrica. La lunga chiazza di luce illuminava tenebre, neve e nient'altro, ma ora la neve scendeva da un'altra direzione. Il vento era cambiato bruscamente, spostandosi da est a nordovest. McKee rivolse il raggio verso il basso. Non poteva giurarlo, ma aveva l'impressione che l'acqua fosse leggermente calata e cominciasse a defluire. Richiusa e sbarrata di nuovo la porta, tornò accanto al fuoco. Altro fumo. Steele aveva spostato la poltrona all'indietro, e più di lato rispetto al camino. Stava tossendo. McKee annunciò: «Credo che il maltempo stia per cessare, almeno per il momento, e che il peggio sia passato. Verso mattina la vallata dovrebbe essere di nuovo sgombra, e i fiumi dovrebbero rientrare nel loro alveo.» «Il che significa che potremo andarcene da qui, appena le nostre macchine saranno asciutte. Non credo che la mia abbia niente di grave, è semplicemente slittata in un fosso.» Steele parlava in tono stanco, la sua voce era spenta. McKee fu costretto a replicare: «No, impossibile. Nessuno potrà andarsene da qui, finché non sarà arrivata la polizia. Vorranno raccogliere le nostre deposizioni.» La notte trascorse lentamente. Alle tre del mattino, lo scozzese fece un giro d'ispezione della casa immersa nel buio. Non si udiva nulla. Soltanto dalla camera di Jackson arrivava un russare sonoro, per il resto tutto era silenzio, salvo il frusciare ormai lieve del vento oltre le pareti solide. Altro giro verso le cinque: sempre buio e silenzio al piano di sopra, tranne che adesso Jackson non russava più. McKee si accinse a scendere. Era arrivato in fondo alle scale quando, dall'alto, gli arrivò il rumore di una porta che si chiudeva piano. Spense la torcia e tornò sui suoi passi. Arrivato in cima, la riaccese. La signora Fergusson, in vestaglia di lana azzurro cupo, avanzava verso di lui da destra. La sua stanza era sulla sinistra, all'altra estremità del corridoio. La donna non si scompose. «Oh, ispettore, è lei. M'era parso di sentire qualcuno, e ho pensato di alzarmi per vedere che cosa stava succedendo.» Portava ancora gli orecchini, e le calze ai piedi infilati nelle pantofole. Non aveva l'aria di una persona che, spaventata da un rumore improvviso, si è alzata in tutta fretta per indagare. Quasi intuisse i sospetti di lui, continuò in tono seccato: «Pare che non mi riesca più di dormire, e sì che di solito faccio tutto un sonno. Non avrei mai creduto di poter odiare tanto una ca-
sa. Non riesco più a spiegarmi come mi sia venuto in mente di affittarla. Adesso so soltanto che, opzione o non opzione, non voglio più saperne, e appena sarà possibile leverò le tende.» McKee annuì comprensivo. «Non posso darle torto, signora mia.» Lei gli lanciò un'occhiata penetrante, gli diede la buona notte, si avviò verso la propria stanza ed entrò chiudendo la porta. L'ispettore era per la seconda volta a metà della rampa, quando gli giunse un altro rumore dal basso. Il suono proveniva da un punto oltre la sala da pranzo. Breve e attutito, ma inconfondibile. Il telefono squillava. Spiccò un balzo saltando gli ultimi gradini, atterrò sul pavimento della sala, ritrovò per miracolo l'equilibrio e a tutta velocità si diresse verso la dispensa. 13 Quando toccò l'apparecchio, la linea era stata riattivata, e si udivano voci in lontananza. Dapprima erano confuse, poi riuscì a distinguerle. Un operaio di nome Pete parlava con un altro di nome Joe. "Sono al palo 426. Mi senti, Pete?" "Sì, sì, ti sento benissimo." Una donna interloquì concitatamente: "Centralino, centralino!". "Chiuda, signora, stiamo provando" la redarguì uno degli operai, e venne investito da un fiotto di parole in spagnolo gridate da una quarta voce. Poi, bruscamente, la linea tornò a interrompersi. McKee, nei venti minuti che seguirono, controllò almeno una mezza dozzina di volte, ma senza risultato. Mancava il segnale di linea libera. Alla fine, fu la polizia di Stato a chiamare lui. Speaker era riuscito a mettersi in contatto. Un funzionario, che si presentò come tenente Menendez, disse che il ranchero aveva raggiunto a cavallo la stazione di polizia verso le tre di mattina, ma solo ora le linee erano state riattivate e non era stato possibile mettersi in comunicazione con El Toro fino a quel momento. McKee fece al funzionario un resoconto succinto di quanto era successo al ranch dei Dane, e gli comunicò l'elenco dei nomi da controllare. La conversazione durò tre o quattro minuti. Poi il tenente promise che avrebbe provveduto a tutto nel più breve tempo possibile; intanto non restava che mantenersi in contatto telefonico. McKee ringraziò, riappese e rimase un momento a riflettere. Dato che la linea era stata ripristinata solo in parte, sarebbe stato difficilissimo se non impossibile ottenere la comunicazione con New York. Tornò a staccare il ricevitore e chiamò James Ringrose.
Appena venne messo in comunicazione e si fece riconoscere, una scarica di imprecazioni pronunciate con convinzione e sollievo gli bombardò l'orecchio. «Santo cielo, McKee, non sapevo più cosa pensare. Temevo che fossi rimasto in cima a qualcosa senza poterti più muovere. Avresti dovuto seguire più attentamente le indicazioni che ti avevo dato, vecchio mio.» Ringrose si fece poi attento nel sentir nominare El Toro. «Come, come? Il ranch dei Dane, eh? Sicuro che conosco i Dane, o meglio li conoscevo. L'ultima volta che vidi Veronica fu due anni fa, alla fiera statale. Lei si beccò il primo premio al rodeo... Che cavallerizza, dovevi vederla! Conoscevo anche il fratello, sì. Com'è che si chiama? Ah, già, Charles. È anche venuto a caccia qui da noi, un paio di volte. Si era portato dietro la figlia, bella ragazzina, ricordo. Laura, cioè Lily... Mah, chi lo sa. Questo però prima del '40, intendiamoci.» Per quanto ne sapeva lui, Charles era all'estero, in Portogallo, forse... Già, la moglie era portoghese. Bella donna. Lei e Veronica non andavano molto d'accordo, ma tra cognate, si sa... Un caratterino, quella benedetta Veronica. Un po' un pezzo da museo, sì, ma una donna notevole, molto notevole. E McKee, quando pensava di arrivare? Lo scozzese disse che non sarebbe arrivato affatto, e spiegò il perché. Il colonnello ascoltò inorridito. La sorella minore uccisa! E uno sconosciuto che si aggirava intorno al ranch, poi? Oh, santa misericordia! Ma dove si sarebbe andati a finire, di quel passo? «Che tempi, che tempi!» Dopo un altro po' di chiacchiere, Ringrose promise di chiamare New York per avvertire che l'ispettore sarebbe stato trattenuto forse per altre quarantottore. Poi, McKee riagganciò. La casa sembrava ancora addormentata. Nonostante gli squilli del telefono, non si era svegliato nessuno. Ward dormiva nella sua cameretta, o almeno la sua porta era ancora chiusa, e Steele continuava a sonnecchiare nella poltrona davanti al caminetto della cucina. McKee si avvicinò alla finestra sopra il lavandino e aprì le tende. La notte era passata, grazie al cielo. L'alba cominciava a baluginare verso oriente; per ora era soltanto un grigiore sopra i monti, le cui cime erano avvolte dalle nuvole. La neve, però, era definitivamente cessata. McKee tornò alla porta di servizio per controllare il livello dell'acqua nel cortile. Si annunciava un'alba gelida e limpida. La vallata era ancora immersa nelle tenebre; le sagome delle cose si distinguevano appena. Si domandò dove potesse essere l'uomo che aveva trovato rifugio prima nel
granaio e più tardi nella baracca dei polli. Beh, posti per mettersi al riparo non ne mancavano; forse era nascosto in uno degli edifici esterni. L'acqua si era ritirata quasi completamente. I dieci o dodici centimetri che ancora restavano venivano spazzati via dalla brezza che li spingeva velocemente verso il fondovalle. Ancora un'ora o due, e ogni traccia d'acqua sarebbe scomparsa. Detriti e relitti si vedevano un po' dappertutto. Lo sguardo di McKee si posò su un bastone che galleggiava spostandosi rapido verso la casa, proprio al di là di un tronco di pioppo. Il bastone passò trascinato dalla corrente, a circa un metro dal punto dove lui si trovava. Lo fissò. No, non c'era dubbio: quel legno grigiastro era un remo con la pala spezzata. Un remo... un remo significava una barca, proprio come lui aveva immaginato la sera prima. Rientrò e richiuse. Il tenente Menendez aveva detto che forse sarebbe passato un po' di tempo prima che i suoi uomini potessero raggiungere El Toro. Qualche strada era stata riaperta al traffico, ma molte erano ancora impraticabili per via dell'erosione e dei detriti, degli alberi e dei ponti crollati. McKee sapeva che, per il momento, il suo compito era di tenere riunita quella congerie di personaggi e di fare in modo che tutti fossero al sicuro dentro casa finché non fossero arrivate le autorità locali a dargli il cambio. Era tempo di fare un altro giro di ronda. Passò accanto a Steele, si avviò verso il soggiorno e imboccò le scale. Non dovette spingersi molto in là per fare il punto della situazione. Le porte delle camere da letto potevano essere chiuse dall'interno per mezzo di un minuscolo catenaccio. Quelle di Hilliard, della signora Fergusson, di Jill Sheppard e di Rita Mole aderivano perfettamente agli stipiti. Non così quelle di Jackson e della signora Tafoya. Le due stanze infatti erano vuote, e la valigia della Tafoya era sparita da sotto il letto. Spariti erano anche i pochi capi appesi nell'armadio. A tutta velocità, McKee si diresse verso la scala di servizio e scese in cucina. Lui non poteva andarsene. "Ma c'è Steele" pensò. "Steele è l'unico che può abbandonare il campo." Meno di un quarto d'ora dopo, Steele, al volante dell'auto della signora Fergusson, si lasciava alle spalle l'hacienda. Non gli dispiaceva affatto andarsene da quella casa odiosa, e aveva acconsentito di buon grado quando l'ispettore gli aveva spiegato che cosa desiderava da lui. Era necessario guidare con la massima cautela. Il fango era, o almeno sembrava, praticamente senza fondo. Steele scrutava attento attraverso il parabrezza. L'acqua, ritirandosi, aveva lasciato una quantità di detriti d'ogni genere; un bi-
done arrugginito e pezzi di legno di varie dimensioni si profilavano nella luce incerta dell'alba. Secondo l'ispettore, Jackson e la Tafoya avevano preso il volo, insieme oppure ciascuno per conto proprio, lasciando la casa a un'ora incerta attraverso la porta che si apriva in fondo al corridoio, con il semplice espediente di girare il pomello. La serratura era a scrocco e poteva essere aperta dall'interno, ma non dall'esterno. Sotto il portale in fondo alla corte, McKee aveva trafficato un po' con il motore della signora Fergusson, in modo da avviarlo facendo a meno della chiave d'accensione. Aveva dichiarato con molta serietà che era dovere di un buon cittadino aiutare la polizia in caso di necessità e che la signora non avrebbe certo protestato una volta che lui le avesse spiegato la situazione. Barca o non barca, l'essenziale era che la macchina della Tafoya era scomparsa, ed era tutto quello che si sapeva di certo sui movimenti della donna. Steele si era subito prestato a tentare d'inseguire lei e Jackson... sempre che gli fosse riuscito. Loro erano in vantaggio, d'accordo, ma a parte questo sarebbero stati ostacolati dalle stesse condizioni stradali che potevano ostacolare lui, e avrebbero corso gli stessi rischi. Respirando l'aria fresca del mattino, se ne riempì i polmoni con un piacevole senso di libertà ritrovata. Sì, era contento di essere fuori dall'hacienda, lontano dall'odore di vecchiume e di decomposizione, soprattutto lontano da Jill Sheppard e da Henry Hilliard. Il troppo è troppo. Nessuno dei due fuggiaschi appariva lungo i tratti di strada visibili da lassù. Il ponte attraverso il torrente era ancora intatto, ma sommerso da almeno trenta centimetri d'acqua. Giunto a metà del viale, dovette girare attorno alla macchina abbandonata da Jackson; una delle portiere, quella dalla quale il piazzista era riuscito a tuffarsi il giorno prima, era ancora spalancata. Poi, ecco i cancelli di El Toro con la scritta in alto, ed ecco la strada. Si spinse oltre i pilastri per studiare la situazione. Le tracce dei copertoni erano chiare e inconfondibili nel fango: la macchina della signora Tafoya aveva svoltato a destra, in direzione di Albuquerque. Le montagne si ergevano cupe a destra e a sinistra, velate dalle nubi. La strada scendeva ripida, e il fango rallentava e rendeva pericolosa l'andatura. Poi, dopo due o tre miglia, i copertoni incontrarono l'asfalto, e allora tutto divenne più semplice. L'orologio di Steele segnava cinque minuti alle sette quando, dalla cima di una piccola altura, vide la città di Albuquerque allargarsi nell'ampia vallata sottostante: una massa eterogenea di tetti bassi interrotti da dense
macchie di alberi, che si perdeva a ovest verso una fila di mesas o di vulcani estinti. Nell'aria lavata dalla pioggia era quasi impossibile misurare le distanze, poiché il punto da cui Steele guardava era di sicuro al di sopra dei millecinquecento metri. Ciò che sembrava trovarsi a due miglia da lì poteva essere invece a una quarantina. Fin dove lo sguardo poteva spingersi lungo la strada che scendeva serpeggiando, non si distingueva alcun veicolo in movimento. Poi, oltre una curva un po' più distante, forse trecento metri più in giù, ne scorse due. Il primo era un autobus, di un bel giallo brillante: un pullman scolastico. Un po' più indietro, a una discreta andatura, procedeva la vecchia auto a noleggio della Tafoya... o una macchina molto simile a quella. Per assicurarsene, avrebbe dovuto tentare di raggiungerla. Premette l'acceleratore, e immediatamente se ne pentì. Perfino la strada asfaltata era viscida e melmosa: la vettura sbandò e per poco non lo scaraventò nel burrone. Nel tempo necessario a rimetterla in strada, l'altra auto era scomparsa. Avrebbe dovuto stare molto attento agli incroci, da quel momento in poi. Altre tre miglia o più di curve e tornanti continui. Incroci non ce n'erano, perciò l'altra macchina doveva trovarsi solo più avanti. Ormai era quasi giunto in pianura. Alle sue spalle, il sole spuntava dietro la parete di montagne a est, incendiando le lontane mesas di una lunga striscia di luce. Steele continuava a scendere. Ecco, ora le mesas non si vedevano più. La strada era quasi pianeggiante. L'immensa vallata che gli si stendeva davanti appariva completamente piatta. Poco prima di raggiungerne il fondo, distinse per un attimo la macchina della Tafoya che già si trovava alle prime case della città, circa mezzo miglio più avanti. Poi, prese a correre su strada piana. Cominciavano ad apparire casette dal tetto piatto, cavalli, pecore e bestiame disseminato nei campi. Nella valle la neve, se anche era caduta, si era ormai completamente sciolta, ma di acqua se ne vedeva in quantità. Qua e là le cime degli alberi iniziavano a essere investite dalla luce. Il traffico riprendeva quasi per magia. Auto e camion svoltavano nello stradone principale dai vicoli fangosi e dai viali di accesso, in numero sempre crescente. Steele teneva il piede sull'acceleratore. Non voleva perdere la macchina che stava inseguendo, ma nemmeno portarsi troppo sotto. L'ispettore non aveva escluso la possibilità che Jackson si fosse allontanato dall'hacienda in barca, ma di questo non esisteva alcuna prova, ed era
invece possibile che fosse partito insieme alla donna. Perché avevano entrambi trovato urgente svignarsela da El Toro? C'era forse un legame tra i due? C'era un'intesa, nonostante apparissero assolutamente estranei l'uno all'altra? Forse uno di loro, o entrambi, aveva udito la conversazione telefonica dell'ispettore con la polizia e s'era visto costretto ad affrettare la partenza? Una delle domande trovò risposta in meno di venti minuti: Jackson non era nella macchina della Tafoya. La donna era sola al volante. La lunga strada pianeggiante sulla quale le due vetture correvano terminava all'incrocio con un'altra grande arteria che andava da nord a sud. La signora Tafoya prese verso nord e, siccome il sole era ormai alto, Steele riuscì a vederla perfettamente mentre lei segnalava la svolta a destra e imboccava quella che un cartello indicava come Fourth Street. Ormai erano in pieno centro. Non c'era ancora molto affollamento, ma i marciapiedi e le vie cominciavano a popolarsi. Ai due lati di Fourth Street si allineavano autorimesse, negozi e supermercati, botteghe di alimentari, stazioni di servizio, banche. Tutti gli edifici erano piatti, brutti e piuttosto popolari. Dopo un paio di miglia circa, oltrepassato un ponte ferroviario, iniziarono ad allontanarsi dal centro commerciale della città. Ora s'incontravano solo case, separate da campi nei quali pascolavano cavalli. Di tanto in tanto qualche gruppo di negozi, una locanda. Un paio di motel, insegne che annunciavano "Vermi e ghiaccio". Pescatori in quella landa arida? Sembrava quasi incredibile... Ma dove diavolo era diretta la donna? Steele cominciava a domandarselo seriamente. Fourth Street faceva parte della Statale 85 e conduceva a nord, verso Santa Fe. Era là che la Tafoya si dirigeva? No, affatto. Su Ranchitos, una strada che si dipartiva verso ovest, svoltò nuovamente. Ora ci si addentrava in piena campagna: campi arati e cavalli in quantità, polli, una mucca con il vitello. Immensi pioppi americani si alternavano agli olmi cinesi. Nei giardini, lo splendore vivido dei fiori selvatici. Un'altra svolta, in una stradina secondaria chiamata Guadalupe Trail. Steele rallentò. La velocità consentita era di quaranta all'ora. Anche la Tafoya stava procedendo più lentamente. Le case sorgevano su terreni piuttosto spaziosi, ben distanziate tra loro e dalla strada. Poi, un tratto più povero di casupole quadrate, edificate con vecchi mattoni, malconce e con l'intonaco tutto crepe. Nonostante la pioggia avesse lasciato pozzanghere qua e là, tutto era già polveroso; nei cortili
alcuni polli, e sul fondo tettoie traballanti costruite con materiale di recupero. In uno dei poveri cortili si era appunto infilata la macchina della Tafoya. Steele, sterzando per imboccare una curva, per poco non oltrepassò la casa senza accorgersene. La macchina era ferma nel cortile, a sei o sette metri dalla strada. Dentro non c'era nessuno. Evidentemente la Tafoya era entrata in quel miserabile tugurio. Percorse una quindicina di metri fino a un'altra curva, proseguì ancora per un tratto, poi frenò portandosi il più possibile sul ciglio della stretta stradina. Le istruzioni di McKee erano state di scoprire dove erano diretti la Tafoya e Jackson, e poi di avvertire la polizia. Non aveva trovato Jackson, ma aveva trovato la donna. Era facile dire di avvertire la polizia, ma lui purtroppo si trovava in un bel dilemma. Se si fosse allontanato in cerca di una strada principale e di un telefono, dato che a intervalli, lungo la statale, aveva visto qualche cabina telefonica, durante la sua assenza la donna sarebbe potuta sparire di nuovo. No, meglio aspettare. Scese per valutare un po' la situazione. Non c'era modo di tenersi nascosti. Campi aperti si allineavano ai due lati della stradina, quasi fino all'altezza della casa in cui era sparita la Tafoya. Non c'era un cespuglio, una siepe di cinta. Poi arrivò a un fossato, e lo riconobbe per averne letto molte volte la descrizione. Era uno degli innumerevoli canali d'irrigazione che mantenevano verde la valle a nord e la rendevano fertile nonostante i deserti che la circondavano. Al momento non c'era acqua nel fossato, che era abbastanza profondo, forse un metro e mezzo. Correva parallelo al vialetto d'ingresso sul quale era ferma la macchina della Tafoya. Steele vi saltò dentro e avanzò con precauzione tra le foglie morte e l'assortimento di latte arrugginite che si ammucchiavano sul fondo, tenendosi quasi piegato in due. Proseguì per una decina di metri, finché arrivò all'altezza della macchina. Poi rialzò la testa. La vista non era tale da entusiasmare. Un cortile senza nemmeno un filo d'erba, e una latrina vicino alla recinzione, in fondo. La casa non vantava certo comodità moderne. Un cavallo di pelo chiaro, con coda e criniera nere, era legato a un palo, e alcuni polli razzolavano tra ciuffi di erbacce vicino a un'altalena rotta. A parte gli animali, nulla si muoveva in quella desolazione assoluta. E il silenzio era profondo. Che fare? Le direttive di McKee erano state chiarissime. Rinunciare a qualsiasi iniziativa, limitarsi ad avvertire la polizia. Senza sapere perché, Steele era un po' riluttante a obbedire. A dispetto dell'aria umile e dei modi impacciati, quella donna gli piaceva, anche se non poteva spiegarsene il motivo.
No, niente polizia... almeno per ora. Meglio aspettare un po' e vedere come si mettevano le cose. Tanto, non aveva alcuna fretta di ritornare al ranch tra le Sandias, i severi giganti azzurrognoli debolmente visibili là in fondo, a est. Un cane abbaiò in distanza; poi, dall'altra parte della macchina, una finestra della casa si aprì all'improvviso. «Ancora una sciacquata e poi li asciughiamo» disse una voce di donna, e un'altra voce, che era quella della Tafoya, ma nello stesso tempo diversa, replicò: «Non importa, Bella, è tanto per togliere il grosso. Li farò mettere in ordine come si deve appena arrivo a casa. Sono già in ritardo e ho fretta.» Rumore d'acqua che veniva versata da una brocca o da un secchio in un catino. La donna che rispondeva al nome di Bella disse in tono persuasivo: «Ecco qua, favorita, ancora una sciacquatina... Fatto, ora prendiamo l'asciugamano.» "Appena arrivo a casa" aveva detto la Tafoya con quella voce leggermente diversa. Dunque non viveva lì, e aveva fretta di andarsene. Steele si rigirò tra le dita una sigaretta che non accese, pur avendo una gran voglia di fumare. La berlina verde della signora Fergusson era parcheggiata a un centinaio di metri di distanza. L'ispettore aveva precisato che sarebbe stato molto meglio se la Tafoya non si fosse accorta d'essere seguita. Se anche, ripartendo, lei avesse continuato per quella strada, difficilmente avrebbe riconosciuto la macchina della Fergusson, dato che ne esistevano migliaia dello stesso tipo. Non era questo che lo preoccupava. La sua paura era che la donna si dirigesse di nuovo a nord, ripercorrendo il tragitto dell'andata: nel tempo che lui avrebbe impiegato per tornare alla macchina, e per voltarla nella stradina strettissima, lei avrebbe potuto dileguarsi. Ora, all'interno della casa tutto era silenzio. Una porta si era chiusa. Probabilmente, le donne erano andate in un'altra stanza. Steele, tutto indolenzito dalla scomoda posizione, si accinse a risalire il fossato. L'aveva ripercorso quasi tutto ed era prossimo alla strada, quando la Tafoya e l'altra donna, un donnone bruno in vestaglia, uscirono dalla porta d'ingresso della misera casupola. Steele si accucciò e rimase immobile, a occhi sgranati. In piedi, nella luce vivida, la Tafoya si stava infilando un paio di guanti. Ma non era la stessa signora Tafoya di El Toro, non aveva più nulla in comune con lei. Lui, che la osservava attraverso l'intreccio di alcuni rametti dietro i quali si teneva al riparo, era fuori di sé dalla sorpresa. Non vedeva il suo viso, ma non ce n'era bisogno: la figura era più che sufficiente. I capelli, che erano
stati di un castano sbiadito, adesso splendevano di un caldo color oro sotto l'orlo di un cappellino ardito. La donna era a testa alta, slanciata ed eretta in un abito a giacca di ottimo taglio, e sul braccio teneva ripiegata con noncuranza una bellissima pelliccia. Steele stava ancora contemplando la scena con aria sbalordita, quando le due donne si allontanarono nella direzione opposta e sparirono oltre l'angolo della casa. Un mormorio di voci distanti, poi una portiera sbattuta con forza, il morbido ronzio di un motore; infine una Lincoln Continental nera, bassa e lunga, con il tetto bianco, arrivò lungo il viale con la trasformatissima signora Tafoya al volante e, come lui aveva temuto, si diresse a nord, rifacendo il percorso compiuto poco prima dalla sgangherata utilitaria. In pochi istanti la lussuosa macchina si perse in lontananza. L'unica soddisfazione di Steele fu d'essere riuscito, mentre la Lincoln usciva in strada e sterzava, a leggere il numero di targa. Era una targa del New Mexico. Meno di tre minuti dopo, a bordo dell'auto della signora Fergusson, tentava di inseguire la Lincoln. Ma la fortuna gli era avversa. Non aveva percorso duecento metri quando un grosso aratro svoltò nella strada proprio davanti a lui. Il passaggio era troppo stretto e, per quanto lui si affannasse con il clacson, l'aratro non diede segno di volersi togliere di mezzo. Quando finalmente sbucò da Guadalupe Trail e guardò da una parte e dall'altra lungo Ranchitos, che si estendeva a perdita d'occhio in un senso e nell'altro, non c'era in vista nessuna macchina. La Lincoln era veloce, ed erano passati una decina di minuti da quando era sfrecciata via. Proseguire l'inseguimento era impossibile. Tuttavia, si poteva ancora tentare qualcosa. Tornato alla povera stamberga lungo Guadalupe Trail, bussò, poiché non c'era campanello, e il donnone venne ad aprirgli. Lo fissò con aria poco accogliente e scosse la testa. «Non compero nulla, mi dispiace.» Steele sorrise. «Oh, ma io non vendo niente» spiegò amabile. «Scusi se la disturbo, ma la signora Tafoya...» Lei lo interruppe, annuendo vigorosamente. «Sì, sì, è il mio nome. Insomma cosa vuole, cosa desidera?» Il suo sguardo si era fatto guardingo, sospettoso. «Lei è la signora Tafoya? Allora è un'altra, la signora che cerco io.» «Non ci sono altre Tafoya, in questa strada.» Il donnone aveva parlato in tono brusco, ma Steele non le badava più. Fissava una fotografia in cornice d'argento posata sulla mensola del cami-
netto alle spalle della donna. Osservando la fotografia, la memoria gli tornò in un lampo, riportandogli una quantità di ricordi rivelatori. L'attimo dopo, la visione veniva bruscamente interrotta. La donna gli aveva chiuso la porta in faccia, e si sentì scattare una serratura. Steele non perse nemmeno un istante. Non aveva la minima intenzione di insistere, tutt'altro. Pochi minuti dopo era di nuovo in macchina, deciso a trovare subito un telefono per chiamare El Toro. 14 «Cenerentola» ripeté McKee all'altro capo del filo, come se pensasse che Steele fosse diventato matto. «Cenerentola?» Steele rise. «Proprio così, ispettore. Ricorda che ero perplesso perché non mi spiegavo come mai mi fosse rimasta tanto impressa la signora Tafoya, solo per averla vista in ginocchio con un secchio e uno straccio? Non me lo spiegavo perché il ricordo era incompleto.» Tacque per accendersi la tanto sospirata sigaretta. McKee era impaziente di sapere. «Ma insomma, quando e dove l'aveva vista, e chi è, in conclusione?» Steele emise soddisfatto una boccata di fumo. «L'avevo incontrata in un circolo di campagna del Westchester, circa quattro o cinque mesi fa, quando mia sorella mi ci aveva trascinato per assistere a uno spettacolo di beneficenza. La signora Tafoya, o colei che a El Toro si faceva chiamare in quel modo, interpretava la parte di Cenerentola. Ed era anche brava. Più tardi, durante la serata, le sono stato presentato. Da vicino era una bella donna, e lo è anche adesso, a giudicare da quel che ho visto poco fa, e dai vestiti e dai gioielli che sfoggiava c'era da giurare che avesse un mucchio di quattrini. Inoltre il suo nome non era Tafoya; era Adams, signora Adams, come le ho già detto, e aveva con sé una figlia, una bella ragazzina sui quattordici anni.» Riferì tutto con molta esattezza, compresa la targa della macchina che la donna guidava quando era ripartita, dopo essersi cambiata e lavata i capelli nel tugurio di Guadalupe Trail, in casa della donna che effettivamente si chiamava Tafoya. «Probabilmente una vecchia domestica, e la signora Adams si è servita del suo nome e della sua macchina» osservò McKee, mentre nel suo cervello i diversi fatti andavano a posto come tessere di mosaico. Veronica Dane aveva avuto una nipote attrice, e la signora Adams era stata attrice
prima del matrimonio; matrimonio che doveva risalire a una quindicina d'anni prima, a giudicare dall'età della figlia. Con ogni probabilità, la signora Adams era la nipote di Veronica e Mary Dane. Ecco perché la prima sera, mentre Gomez veniva trasportato in casa, era apparsa così sconvolta: era stata allevata a El Toro, e quindi conosceva benissimo lo stalliere. Quanto poi alla ragione per cui era tornata all'hacienda usando quella specie di travestimento e un nome falso, era una questione tutta diversa. Certo doveva essere stata una ragione molto solida... McKee pregò Steele di restare in linea e si allontanò dal telefono. Poco prima era arrivata a El Toro una squadra della polizia, e lui andò in cerca dell'ufficiale Petrelli, che doveva sovrintendere alla rimozione delle due salme, quella di Gomez e quella di Mary Dane. La macchina di Petrelli era munita di radiotrasmittente e ricevente. Meno di cinque minuti dopo, l'ispettore aveva la risposta che voleva. La targa della Lincoln era stata rilasciata a Santa Fe. La proprietaria era una certa signora Adams, con residenza nella capitale. Secondo quelli di Santa Fe, gli Adams erano persone stimatissime e in vista. Il marito era morto alcuni anni prima lasciando la vedova in solide condizioni finanziarie. La signora Adams e la figlia, unica nata dal matrimonio, abitavano in una bella casa circondata da una vasta proprietà, lungo Loya Road. L'agente con cui si era messo in contatto diede all'ispettore anche il numero di telefono. McKee guardò l'orologio. La signora Adams, nata Dane, non poteva essere già arrivata a casa. Da Albuquerque a Santa Fe c'erano oltre sessanta miglia. L'avrebbe chiamata più tardi, oppure avrebbe lasciato che provvedesse la polizia a riportarla indietro per l'inchiesta sulla morte di Gomez e di Mary Dane che si sarebbe tenuta il mattino seguente. Se necessario, le sarebbe stato notificato un ordine di comparizione, ma probabilmente non si sarebbe giunti a tanto. La Adams era una donna intelligente. Tornò all'apparecchio e in poche parole informò Steele sulla situazione. Hilliard avrebbe voluto proseguire verso il ranch paterno, ma la polizia aveva fatto sapere che da quella parte le strade erano impraticabili, e così lui e le due donne, la signora Mole e la signorina Sheppard, si erano trasferiti nella locanda più vicina, in modo da essere presenti all'inchiesta. Il giovane Ward, che s'intendeva di macchine, aveva asciugato e rimesso in ordine la Rolls, e Hilliard se l'era portato con sé. «E Jackson?» volle sapere Steele, e McKee spiegò che per il momento non se ne sapeva nulla, né s'era trovata traccia dell'uomo fuggito la sera
prima dalla baracca dei polli. La signora Fergusson aveva appreso con gelida indignazione l'uso che era stato fatto della sua macchina, e aveva preteso e ottenuto di farsi trasferire nello stesso albergo in cui avrebbero alloggiato Hilliard e le due signore. «Le ho detto che lei le avrebbe consegnato la macchina là, dove vi raggiungerò anch'io, perché qui tra poco avrò finito e potrò andarmene. Nel frattempo, se la Fergusson si fa viva, cerchi di tenermela d'occhio.» Steele non si sentiva molto tagliato per fare l'investigatore dilettante, ma dato che avrebbe dovuto presenziare all'inchiesta e che per il momento non gli era possibile abbandonare il New Mexico, promise rassegnato e riagganciò. Mancavano venti minuti alle dieci. Mentre ritornava verso Albuquerque, gli sembrava di avere scavalcato con un salto parecchi secoli, tanto gli avvenimenti di quei giorni erano remoti; e tuttavia, non riusciva a liberarsi dalla sensazione di incubo che aveva gravato sul ranch. Avrebbe dato chissà cosa per fare una doccia e cambiarsi, ma dovette accontentarsi di acquistare una camicia nuova in Central Avenue e di fare una capatina da un barbiere. Dopo proseguì fino al Rio Grande, l'albergo al quale la signora Fergusson era diretta e che si trovava cinque o sei miglia più a ovest. Era un posto immenso, sperduto, un relitto di altri tempi. Prima dell'avvento dell'automobile era stato famoso per una fonte di acqua sulfurea, ormai del tutto in disuso, e le carrozze eleganti vi affluivano da ogni dove. Adesso era una specie di mausoleo, quasi completamente vuoto. La signora Fergusson non era ancora arrivata. Steele le lasciò un biglietto presso il portiere dicendole che avrebbe trovato la macchina nel parcheggio di fronte. Poi entrò nella severa sala da pranzo e ordinò uova, prosciutto, pane tostato e caffè. Stava per terminare il pasto quando, attraverso l'arcata, vide Rita Mole, Hilliard e Jill Sheppard fermi in mezzo all'atrio. La visione gli fece ribollire il sangue. Il suo unico desiderio era di mettere la massima distanza possibile tra sé e quelle persone. Con suo grande sollievo i tre non entrarono in sala da pranzo, ma si avviarono nella direzione opposta, preceduti da un fattorino in livrea che trasportava una quantità incredibile di bagagli assortiti. Aspettò che se ne fossero andati, poi scelse una poltrona in un angolino appartato dell'atrio e vi si installò, di pessimo umore, in attesa della signora Fergusson. Nel frattempo al ranch El Toro, lassù tra le Sandias, la polizia aveva terminato il suo lavoro e se n'era andata. Gli ultimi a sgomberare erano stati gli addetti alla rilevazione delle impronte. McKee li aveva riforniti di un
campionario di impronte lasciate su tazze e bicchieri, ciascun oggetto con la sua brava etichetta. Gli uomini della Scientifica avevano promesso di tenerlo informato di ogni scoperta interessante. Quando si erano messi al lavoro, erano stati pregati di prestare particolare attenzione a tutte le impronte nella camera della defunta Veronica Dane e a quelle nella stanzetta di Gomez, nel granaio, dove il misterioso individuo s'era rifugiato prima di trasferirsi nella baracca dei polli, dalla quale poi l'aveva sloggiato la signora Tafoya, costringendolo a cercarsi un'altra tana. L'ultimo nascondiglio non poteva certo trovarsi sul davanti dell'hacienda: là fuori il terreno era sgombro e non offriva riparo di sorta. Sul retro, invece, le cose stavano ben diversamente. Sì, era quello il punto da tenere d'occhio. C'erano buone probabilità che, una volta convinto che la polizia se n'era andata, e così gli altri ospiti, lo sconosciuto che si aggirava nei paraggi giudicasse sicuro avventurarsi fuori del suo nascondiglio. La signora Fergusson aveva lasciato la casa dalla porta principale, allontanandosi inosservata nell'ultima vettura della polizia partita da El Toro. Verso mezzogiorno, in casa restavano soltanto McKee e un agente. I due uomini non potevano essere scorti dall'esterno. L'agente sorvegliava un'estremità dell'hacienda, l'ispettore l'altra, ed entrambi si tenevano ben lontani dalle finestre e badavano a non fare rumore. Si astenevano perfino dal fumare. Mezz'ora dopo l'inizio della sorveglianza, arrivarono i risultati. Una chiamata sottovoce da parte dell'agente, Bernie Chavez. McKee lo raggiunse nella stanzetta che era stata occupata da Ward. Chavez gli indicò alcune balle di fieno ammucchiate al di là della tettoia della pompa. Dalla cima del mucchio faceva capolino la testa di un uomo, e sopra la testa c'era un cappello, un feltro grigio macchiato e malconcio. Solo una testa, e nient'altro. La testa con cappello costituiva uno spettacolo abbastanza sconcertante. Solo un attimo prima, non c'era; ora girava lentamente a destra, poi a sinistra. Un collo si aggiunse cautamente alla testa, seguito da una spalla e quindi dall'altra, estratte a forza di contorsioni dall'interstizio tra due balle di fieno. Finalmente tutto l'uomo apparve fuori del suo covo e si lasciò cadere a terra con un salto. Il nascondiglio era ingegnoso: caldo, riparato, offriva eccellenti possibilità d'osservazione. Mentre McKee e l'agente guardavano attentamente dall'ombra, il signore in cappello grigio si avvicinò alla casa. Mentre lui scompariva dietro il tronco di un pioppo, l'agente scavalcò silenziosamente
la finestra della stanzetta e McKee si diresse verso la cucina. Un attimo dopo che l'ispettore vi era arrivato, un colpo secco venne bussato sulla porta di servizio chiusa e sprangata, e al colpo fece seguito una voce. «È inutile, Etta!» gridò l'uomo dall'esterno. «So che sei lì dentro, e che quelli della polizia se ne sono andati. Tanto vale che apri, cara, altrimenti sarò costretto a sfondare una finestra. Mi senti? Non puoi sfuggirmi, ormai, ti ho trovata. Perciò, non provarci nemmeno. Servirebbe solo a farmi perdere la pazienza.» Nel frattempo, McKee era arrivato all'ingresso di servizio. Senza una parola girò la chiave nella serratura e tirò indietro il catenaccio. L'uomo che venne catapultato dentro dall'aprirsi improvviso dell'uscio era piccolo, mingherlino, e in altre circostanze avrebbe potuto apparire un dandy. Ne aveva tutta l'aria. Era a mezza via tra i cinquanta e i sessanta, con due candidi occhi celesti sotto un'argentea chioma a spazzola. Fissò McKee con sguardo duro. «Oh... scusi, signore» disse. «Cercavo la... signora Fergusson, che ha affittato questo ranch da certi signori Dane, mi pare, una settimana fa o poco più. Sa dirmi dove sia?» McKee voleva dare all'agente il tempo di attraversare la corte e tagliare la ritirata all'ometto. «È una sua amica?» domandò, amabilissimo. L'uomo dal cappello malconcio sorrise. «A volte sì e a volte no. Sa com'è... È mia moglie.» «Oh, sì» fece McKee «capisco.» La faccia dell'uomo aveva qualcosa di vagamente familiare, ma non ricordava dove l'avesse vista. L'agente però se ne ricordava, e senza il minimo dubbio. Arrivando di corsa entrò nel piccolo ingresso, squadrò il sedicente signor Fergusson e rimase a bocca aperta. Poi, ritrovò la favella. «Willie!» esclamò. «Willie Stokes, il diavolo mi porti se non è lui.» L'ometto non perse il controllo. Con molta calma, squadrò a sua volta l'agente dalla testa ai piedi. «Temo di non conoscerla, giovanotto, e quindi non posso pronunciarmi sulla sua... ehm, probabile discendenza, no.» Scosse il capo e si mise a scrollare via fili di paglia dal soprabito di tweed. L'agente, eccitatissimo, si rivolse a McKee, ma lui sapeva già tutto. Willie Stokes era un famoso truffatore, noto alle polizie di tutti gli Stati, uno dei più quotati nel suo campo. Per anni aveva incamerato con la frode ingenti somme di denaro, sfidando con successo la legge, finché, tre o quattro anni prima, s'era lasciato cogliere in fallo in Florida per una truffa piuttosto banale ed era stato messo al fresco per cinque anni. Evidentemente era uscito prima, per buona condotta.
L'agente estrasse di tasca un paio di manette. «Favorisca i polsi, galantuomo.» Stokes non protestò e non fece resistenza. Osservò maliziosamente, considerando la statura di McKee e i muscoli dell'agente: «Lei mi lusinga, giovanotto. Non sono così forzuto, ma facciamo pure come volete voi.» Era rassegnato, olimpico, e tale rimase nell'auto della polizia che giunse qualche momento dopo in risposta alla chiamata dell'agente, e poi all'arrivo nell'ufficio del tenente Menendez, presso la stazione della polizia di Stato. Si mostrò franco, almeno fino a un certo punto. Ma lo scozzese notò che rilasciava dichiarazioni solo su cose che potevano essere verificate. Stokes disse che, dopo essere stato scarcerato a Miami per buona condotta, era tornato a New York e aveva scoperto che la moglie aveva preso il volo, e non a mani vuote. Parlando, scuoteva rattristato la testa. Già, aveva scoperto che, andandosene, lei s'era portata via il contenuto di una cassetta di sicurezza che, sfortunatamente, era a nome di entrambi. «Lo so, lo so, delle donne non bisognerebbe fidarsi... ma è una mia debolezza.» Il nuovo "cocco" della sua dolce metà era un certo Johnson, nel quale McKee riconobbe Jackson. Stokes non si curava affatto di loro due, ma voleva indietro il suo denaro. «I risparmi di una vita intera.» Tossì con molta dignità e rifiutò di precisare l'importo della somma. Disse di avere rintracciato Johnson e la moglie grazie alle indicazioni di suoi amici. Dopo averlo spedito in cella e avergli accordato il permesso di chiamare il suo legale, il tenente Menendez spiegò a McKee: «È ricercato ad Albuquerque per una truffa, una vendita immobiliare che gli ha fruttato otto o novemila dollari, ma tra un paio d'ore sarà fuori in libertà provvisoria dietro cauzione, e vedrà se mi sbaglio. E naturalmente, appena libero riprenderà le sue ricerche.» Con gran delusione di McKee, Stokes non era stato in grado di gettare alcuna luce sull'uccisione di Mary Dane o sull'aggressione a Gomez, o non era disposto a farlo. Nella sua dichiarazione aveva riferito di essere arrivato a El Toro, secondo i suoi calcoli, circa venti minuti dopo che vi erano giunti McKee e Steele. Aveva noleggiato una macchina al Sunlight Garage di Albuquerque per farsi portare fino ai cancelli del ranch. L'autorimessa, consultata, non poté che confermare; l'autista non era rientrato, l'uragano l'aveva indotto a cercare asilo in qualche altro rifugio tra le Sandias. Willie Stokes era evidentemente l'uomo che la signora Mole aveva scorto a El Toro la prima sera, attraverso le vetrate del soggiorno. Secondo l'o-
pinione dell'ispettore, doveva essere trattenuto anche per l'inchiesta in corso: era già stato altre volte nel New Mexico, e non era escluso che avesse qualche antico rapporto con i Dane. Lui e il tenente stavano appunto discutendo della cosa, quando arrivò una telefonata di Bill Speaker. Il ranchero parlò sia con Menendez, sia con McKee. Era rimasto sconvolto dalla notizia della morte di Mary Dane, e appena l'aveva appresa si era precipitato a comunicarla per telefono a Santander, il legale dei Dane. Santander a sua volta gli aveva rivelato qualcosa che, a suo giudizio, poteva essere interessante. E spiegò di cosa si trattava. Il mattino in cui aveva lasciato El Toro, dopo avere passato le consegne alla signora Fergusson, Mary Dane aveva telefonato a Santander per dirgli che l'indomani o il giorno seguente si sarebbe recata nel suo ufficio con una busta, contenente forse documenti che aveva rinvenuto mettendo in ordine la stanza di Veronica. La busta era sigillata e recava la scritta: "Da consegnarsi a Tony Santander in caso di mia morte improvvisa". E così, rifletté McKee, ecco ciò che Mary aveva dimenticato ed era tornata a riprendersi. Era la busta sigillata, l'oggetto lungo e stretto che era stato asportato dalla scatola nera nello sgabuzzino della sala da pranzo, dopo che la poveretta era stata uccisa. Santander non era in ufficio quando l'ispettore tentò di parlargli, e il tenente Menendez lasciò detto alla segretaria del legale che questi richiamasse al più presto la stazione di polizia. Poi arrivò il rapporto della Scientifica, in triplice copia. Studiando quella che il tenente gli aveva passato, McKee emise un fischio di sorpresa, e l'altro lo guardò interessato. «Che c'è, ispettore?» McKee glielo spiegò. Altre tessere del mosaico andavano a posto, come lui aveva previsto, o almeno sperato, dopo i ritrovati contatti con il mondo esterno. La notte in cui Gomez era morto, due persone avevano frugato nella stanza di Veronica Dane, dove giaceva il ferito, probabilmente per cercare i documenti che Mary aveva già trasferito nello sgabuzzino della sala da pranzo. I due erano la sedicente signora Tafoya, il cui vero nome era Adams, nata Dane, e Henry Hilliard. La prima a introdursi là dentro era stata la Tafoya: le sue impronte erano in parte coperte da quelle di Hilliard. Di conseguenza, era stato lui a stordire con un colpo alla nuca il giovane Ward. Il tenente Menendez rimase sorpreso e imbarazzato dagli imprevisti sviluppi. In quella parte dello Stato gli Hilliard erano molto noti. Non solo erano stimatissimi, ma avevano amicizie in alto loco, e Henry Hilliard era
addirittura la perla della famiglia. Denaro e prestigio erano forze difficili da attaccare, senza contare che lui era ritenuto il candidato più probabile quando il mandato del senatore in carica fosse scaduto. Anche McKee era preoccupato, ma per altri motivi. Hilliard aveva coperto molto bene le sue tracce, s'era mostrato in apparenza schietto e fidatissimo, ma in effetti ora si rivelava un bugiardo. Per il momento non sapeva d'essere stato smascherato. L'unico che poteva in qualche modo metterlo nei guai era il giovane Ward, se per caso si fosse ricordato chi era stato a colpirlo; e Ward lo aveva seguito per soggiornare nel suo stesso albergo... Meglio andarci subito, e scambiare due parole con Hilliard. Cinque minuti dopo, l'ispettore era già in cammino. 15 «Sì, ispettore.» Henry Hilliard si aggiustò il nodo della cravatta e fissò bene in faccia McKee. Il suo portamento era disinvolto, lo sguardo freddo e per nulla turbato. «Ha perfettamente ragione. Quella notte, la prima dal nostro arrivo a El Toro, sono entrato nella stanza di Veronica Dane dopo che lei e Speaker avevate lasciato insieme l'hacienda.» Passeggiava su e giù nella sala scrittura dell'albergo. Non mostrava alcun segno di agitazione, e le sue parole erano pacate. «E avvicinandosi da dietro, attraverso la porta parzialmente aperta, ha colpito il giovane Ward alla nuca lasciandolo tramortito.» Hilliard trasalì lievemente, ma non tentò di negare. Annuì. «È così, lo ammetto. Non l'ho fatto volentieri, si capisce. Mi è dispiaciuto molto, anzi, ma in fondo sono stato attento a non fargli male sul serio... e intendo risarcirlo in qualche modo della brutta avventura.» «E una volta tramortito il ragazzo, si è messo a frugare la stanza da cima a fondo?» Un altro cenno d'assenso della testa ben pettinata. McKee lo studiava con aria incuriosita. Il rammarico di Hilliard sembrava sincero, ma non tale da sconvolgerlo. Messo di fronte a una sgradevole necessità, si era limitato a fare quel che doveva fare, ed era dispostissimo ad ammetterlo. Un tipo freddo, non c'era che dire. «Che cosa cercava, signor Hilliard? Le carte che Mary Dane aveva già trasferito nel ripostiglio della sala da pranzo? Ripostiglio la cui porta, chiusa a chiave, è stata aperta in seguito dall'assassino con la chiave trovata addosso alla poveretta?»
Hilliard lo fissò. Aveva l'aria di non capire. «Non so di che cosa stia parlando, ispettore. Quello che cercavo in camera di Veronica era una cosa che apparteneva a me. È tutto quello che posso dirle, che mi sento autorizzato a dirle. Se fossi l'unico implicato nella faccenda sarebbe diverso, ma non è così. Ci sono...» Tacque, e dopo un secondo concluse: «Sono implicate anche altre persone.» «La signora Tafoya?» suggerì calmo McKee. Hilliard era sbalordito, e anche leggermente divertito dall'insinuazione. «La signora... Buon Dio, no, cosa dice mai? Nessuno di quelli che si trovavano all'hacienda.» A quel punto la porta della stanzetta in fondo all'atrio si aprì. Era stata la signora Adams ad aprirla. Li vide e si arrestò sulla soglia. McKee si era aspettato un cambiamento considerevole nell'aspetto della donna, ma non era preparato a un mutamento così radicale. Quella che gli stava davanti sembrava addirittura un'altra persona, e per la verità una persona molto attraente. Solo fissandola molto attentamente si ritrovavano vaghi punti di rassomiglianza: negli occhi, soprattutto, e nella linea della fronte e del naso diritto e ben fatto. Forse la diversità stava soprattutto nell'insieme, nel portamento. Lei guardò dall'uno all'altro con aria composta. «Interrompo forse un colloquio? Scusate, non sapevo che la stanza fosse occupata.» E fece per andarsene. «Non se ne vada, signora Adams...» la pregò McKee. «Ci sono alcune domande che vorrei rivolgerle... sempre, s'intende, che sia disposta a rispondermi.» «Domande?» Ora lei lo fissava, con le sopracciglia inarcate. «Le faccia, ispettore, e vedremo» disse sorridendo. Aveva la stessa calma, la stessa sicurezza di Hilliard. I loro volti non rivelavano nulla, ed entrambi erano persone molto intelligenti. Era chiaro che pensavano: "Rispondi sempre sì, no, sì, no. Non agitarti, mantieni la testa sulle spalle, ammetti solo quando non puoi farne a meno e non dire nulla di tua spontanea volontà". La signora Adams ammise senza esitare di avere frugato nella stanza di Veronica la sera del suo arrivo, mentre Steele dormiva. «Era mia zia, capisce?» Il suo scopo era identico a quello di Hilliard. Era entrata per cercare qualcosa che le apparteneva. «Veronica detestava essere chiamata zia, non ci teneva a sentirsi rammentare in alcun modo l'età.» Sorrise, al ricordo, senza scherno. «In ogni modo, Veronica mi aveva detto che alla sua morte
avrei ricevuto quanto le apparteneva. Ma alla sua morte nessuno mi ha comunicato nulla, né Mary né il suo legale; poi, quando ho letto che El Toro era stato affittato a estranei, ho deciso di andarci di persona a reclamare le mie proprietà.» «Ed è per questo che ci è andata travestita, signora Adams?» Lei replicò semplicemente: «Beh, se proprio vogliamo esprimerci così, d'accordo. Vede, ispettore, per ragioni strettamente personali. Posso assicurarle che tali ragioni non hanno nulla di criminoso.» Poi si rivolse a Hilliard. «Tu ti ricordi di me, vero, Henry?» domandò disinvolta, con voce tranquillissima. «Sono Alice.» Dei due, era lei quella dotata di maggiore autocontrollo. Hilliard era rimasto immobile, a fissarla con aria stupita. Era completamente disorientato, non accennava nemmeno lontanamente a raccapezzarsi. Quando lei lo apostrofò in modo così diretto, lui si scosse, si passò una mano sugli occhi, batté le palpebre come se stesse cercando di riambientarsi in un mondo estraneo. «Alice, naturalmente... Ma è passato tanto tempo...» «Quasi diciannove anni.» «Sì.» Silenzio da ambo le parti, a quel punto. Nessuno dei due sembrava avere nulla da aggiungere, da comunicare all'altro. Per lo meno, non in presenza di McKee. Ma l'ispettore aveva raggiunto il suo scopo immediato. Hilliard era stato informato che la sua perquisizione nella stanza di Veronica Dane e il colpo che aveva calato sulla nuca di Ward non erano più un segreto. Stabilito questo, non era probabile che capitasse qualcosa al giovane Ward, nel caso che questi si fosse inopportunamente ricordato chi era stato ad aggredirlo. Quanto alla signora Adams, all'inchiesta le sarebbero state rivolte alcune domande imbarazzanti, il mattino seguente. Ma lei avrebbe sorriso, e con il suo aspetto e il suo innegabile fascino se la sarebbe probabilmente cavata in modo brillante. Era forse entrata di proposito nella stanza, quando aveva scoperto che vi si trovavano lui e Hilliard? Era forse entrata con l'intento di avvertire Hilliard, di impedire le eventuali rivelazioni che lui poteva avere in animo di fare? Impossibile dirlo. McKee li lasciò soli. Aveva altra gente da vedere, e prima di tutti Jackson. Aveva scambiato qualche parola con Steele, uno Steele lunatico e avvilito che l'aveva informato dell'arrivo di Jackson. Sarebbe stato interessante sentire quali spiegazioni avrebbe addotto il piazzista. McKee salì al piano di sopra e percorse il corridoio fino alla sua camera. Da dietro la porta, non molto massiccia, gli giunse un mormorio di voci. Due piccioni con
una fava? L'altra persona non poteva essere che la signora Fergusson. Quando Jackson gli aprì, la donna non era nella stanza. Probabilmente si era ritirata nel bagno, o nella comunicante camera attigua. Ma al momento non era necessario parlare anche con lei. E se lei non poteva ascoltare, Jackson avrebbe provveduto in seguito a metterla al corrente del colloquio. L'uomo ricevette l'ispettore con molta amabilità. «Ah, ispettore, sapevo che prima o poi ci saremmo rivisti. Si accomodi. E così, è intrappolato in questa fogna di città, proprio come tutti noi. Eh, che si deve fare... Prendiamola con filosofia, tanto domani ne saremo fuori, appena terminata questa benedetta inchiesta. Che seccatura, però, eh?» La sua spiegazione, fornita con ammirevole faccia tosta, circa la mattiniera partenza da El Toro fu che non era riuscito a prendere sonno a causa del campionario rovinato e del problema di sostituirlo. Mentre se ne stava sul letto, a occhi sbarrati, aveva sentito d'un tratto il vento mutare direzione; così si era alzato, si era rivestito ed era sceso per aprire la porta d'ingresso e dare un'occhiata fuori. Era fermo sugli scalini della terrazza, cercando di scrutare il cielo, quando una barca era passata praticamente ai suoi piedi, galleggiando sulle acque dell'alluvione. Era una barca a remi, con il fondo piatto. Senza pensarci due volte era saltato dentro, e con l'unico remo, poiché l'altro mancava, si era avviato faticosamente in direzione del cancello. Arrivato alla strada, ancora praticabile, si era messo a camminare in direzione di Albuquerque, per vedere di trovare aiuto. Dopo alcune miglia era stato superato da un pullman scolastico vuoto, e il conducente gli aveva dato un passaggio fino al fondovalle. «Ed è andato diritto alla polizia?» chiese McKee. Jackson scosse la testa. Disse che non era stato necessario. Era affamato e stava mangiando qualcosa in un chiosco alla periferia della città, quando aveva visto passare prima la signora Tafoya, e poco dopo quello scrittore, Steele. Entrambi procedevano che era una bellezza, e così lui aveva capito che tutto era a posto. Dopo il pasto aveva dormicchiato un po' con la testa sul tavolino, finché la cameriera l'aveva svegliato. Poi si era spinto a piedi fin lì, l'unico albergo decente della città, per farsi un buon sonno in un letto come Dio comanda. McKee ascoltò in silenzio la filastrocca, composta in buona parte di frottole. Poi parlò. «Forse le interesserà sapere, signor Jackson, che Willie Stokes è stato arrestato e si trova nelle mani della polizia del New Mexico.» «Cosa?» L'altro era rimasto a bocca aperta. Per un attimo la notizia lo ri-
dusse a una gelatina tremante e giallastra di pallore. La stanza non era certo molto calda, ma il sudore gli colava abbondante lungo le guance. Se le asciugò con un gesto convulso. «Mio Dio, Willie s'è messo nei guai, eh? E la polizia l'ha agguantato... È in galera?» McKee disse di sì, e aggiunse malizioso: «Ma dubito che ci resti a lungo. È un tipo in gamba. Un uomo come lui sa quel che deve fare, e in men che non si dica sarà fuori dietro cauzione.» Jackson tentò di dominarsi e cominciò a parlare ininterrottamente. Cosa c'entrava lui con Stokes? Niente. Lui era un galantuomo, e la sua fedina penale era pulita. D'accordo, era amico della povera Etta, la moglie di Willie, ma la conosceva fin da bambina, e aveva cercato di aiutarla come poteva. Lei aveva una paura del diavolo di Willie. Ecco perché se n'era venuta nel New Mexico, appena aveva sentito che lui era di nuovo a piede libero. «Sperava che lui non si azzardasse a seguirla fin qui, visto che in questo Stato lo ricercavano per truffa.» McKee contemplava pensoso il grassone. Non era affar suo salvare la pelle a lui o alla signora Fergusson, ma di sangue ne era già stato sparso abbastanza. La circonferenza di Jackson, sempre considerevole, era diminuita leggermente: non indossava più la cintura portadenaro. Probabilmente ne aveva depositato il contenuto in una banca, almeno provvisoriamente. Osservò disinvolto: «Bene, ho creduto opportuno avvertirla.» E si alzò. «Stokes ha già cantato un po'. Afferma che sua moglie, la signora... ehm, Fergusson, si è appropriata di tutti i suoi risparmi custoditi in una cassetta di sicurezza a New York, e questo senza la sua autorizzazione. Se l'importo che si trovava nella cassetta gli venisse restituito, dubito che le procurerebbe altre noie.» Era già arrivato all'uscio, quando il telefono squillò. L'impiegato dell'albergo lo avvertiva che un certo signor Santander era nell'atrio, in attesa di essere ricevuto dall'ispettore. «Ispettore McKee? Sono Tony Santander.» Mentre lo scozzese scendeva, il legale si era alzato dalla poltrona con un inchino per andare a stringergli cerimoniosamente la mano, secondo l'usanza spagnola. Era un uomo di bassa statura, con una bella chioma candida, lineamenti ben fatti e occhi scuri accorti e penetranti. Occhi che soppesarono McKee con uno sguardo d'approvazione mentre gli raccontava di avere telefonato alla polizia e di essere stato consigliato dal tenente Menendez di rivolgersi all'ispettore presso l'albergo Rio Grande, dove soggiornava in attesa di partecipare all'inchiesta.
I due uomini si appartarono in un angolo e sedettero. Santander era profondamente scosso dalla tragica morte di Mary. «Le ero sempre stato profondamente affezionato» disse. «È una cosa terribile. Sconvolgente. Ecco perché, appena l'ho saputo, ho pensato di correre alla polizia.» Accomodandosi meglio e arrotolandosi con destrezza una sigaretta, prese a raccontare gli ultimi avvenimenti. Quella mattina, verso le undici, aveva ricevuto una telefonata interurbana da parte di una certa signora Ransom, di Rosita, una cittadina a una cinquantina di miglia, ai piedi dei monti Jemez. «Ransom? Non sarà la madre del giovane Ward, quella che era al servizio dei Dane a El Toro alcuni anni fa?» domandò McKee. Santander rispose che non sapeva nulla di quel Ward, ma che tale era il nome del primo marito della signora Ransom, che aveva lavorato dai Dane per un buon numero di anni, prima di sposarsi. La Ransom era apparsa molto sconvolta, al telefono, e non per la morte di Mary Dane, di cui non sapeva nulla, tanto che l'aveva appresa da lui. In ogni modo, desiderava vedere sia lui sia la signora Adams. Doveva vederli subito, per una cosa della massima importanza. «Conosce la signora Adams?» Santander sorrise. «Ma certo.» Spiegò che la conosceva da quando era alta così, e tenne la mano all'altezza del ginocchio, con il palmo all'ingiù; che da piccola era stata una gran bella bambina e che adesso era una signora attraente e di molto fascino, madre a sua volta di una bella ragazzina. La nipote di Mary e di Veronica viveva a Santa Fe, ma Santander aveva saputo dal tenente Menendez che era attesa al Rio Grande, dove si sarebbe fermata per la notte in modo da presenziare all'inchiesta. L'aveva anzi detto alla signora Ransom, per telefono, e lei l'aveva avvertito che sarebbe arrivata con l'autobus che passava da Albuquerque alle cinque. Il legale guardò l'orologio. «Non so cosa l'abbia trattenuta. Sono le cinque e mezzo, ormai, e la stazione è qui a due passi. Può darsi che l'autobus sia in ritardo. Quasi quasi vado a telefonare alla stazione.» Si alzò. C'era una cabina telefonica proprio vicino alle scale. Tornò poco dopo, accigliato. L'autobus da Rosita era arrivato in orario. La signora Ransom doveva averlo perso. La signora non aveva perso l'autobus. L'avvocato aveva appena finito di parlare quando una donna urlò. Fu un urlo acuto di terrore, che lacerò la quieta penombra dell'atrio deserto. Proveniva da un punto in fondo al corridoio che si trovava alla destra del banco del portiere. Parecchie sale lettu-
ra e scrittura si aprivano sul corridoio. Era stata una cameriera, entrata nella sala scrittura per vuotare il cestino della carta, a lanciare il grido. A strapparglielo era stata la vista di una donna stesa al suolo, con il volto coperto di sangue. La donna era la signora Ransom, su questo non c'era dubbio. L'avvocato, McKee e il portiere furono i primi ad accorrere, mentre la ragazza fuggiva via sconvolta. Santander diede un'occhiata alla figura sul pavimento e scosse la testa, incapace di spiccicare parola. «Morta?» riuscì a balbettare, quando McKee si rialzò dopo un rapido esame. «Il polso non si sente.» Il portiere era corso al telefono per chiamare il dottor Giles. Intanto la voce si era sparsa, e il corridoio era gremito di gente che si affollava davanti all'uscio e allungava il collo per vedere meglio. Tra gli altri c'era il giovane Ward. Doveva avere sentito qualcosa. McKee lo vide farsi largo per entrare nella sala, ma non fece in tempo a fermarlo. Il ragazzo continuò ad avanzare finché non riuscì a scorgere la sagoma che giaceva sul pavimento. Allora si arrestò, allibito. «È... ma sì, è mia madre!» esclamò, passandosi meccanicamente una mano sul volto. Continuava a muovere le labbra senza poter dire altro, incredulo, gli occhi sbarrati. Qualcuno lo prese per un braccio. Si trattava di Hilliard. «Ward, venga via. Qui non può fare nulla. Tra pochi minuti arriverà il dottore.» E con molta energia lo sospinse verso il corridoio, mentre gli altri si scostavano per farli passare. Usciti loro, McKee chiuse d'autorità la porta sull'eterogeneo assortimento di facce allibite. Molly Ransom era stata soffocata. Sotto il sangue rappreso la faccia era gonfia, cianotica. Santander aveva smesso di fissarla inorridito. Ora guardava davanti a sé, nel vuoto, e sembrava sorpreso e perplesso. Dopo un momento fece un profondo sospiro e domandò: «Chi era quel ragazzo, ispettore?» «Ward» spiegò McKee. «Il ragazzo di cui le parlavo, figlio della signora Ransom e del suo primo marito. Perché me lo domanda?» Ma il legale si richiuse subito nella sua riservatezza. «Così, non ne ero certo, e poi perché ho visto quanto era sconvolto. Dev'essere stato un brutto colpo, per lui, trovarsi di fronte a una scena simile.» McKee era convinto che nell'improvviso interesse di Santander per Ward ci fosse qualcosa di più, ma per il momento fece finta di nulla. Ri-
portò lo sguardo accigliato sulla donna che giaceva ai suoi piedi. Qualcosa lo lasciava sconcertato, gli sembrava fuori posto. Nel macabro spettacolo c'era una nota illogica, stonata. In quel momento arrivò il dottor Giles, che era anche il coroner. Aveva dell'ossigeno con sé, e varie sostanze. Praticò alla donna un'iniezione, poi le applicò i tubi dell'ossigeno e regolò la valvola della bombola. Infine aspettarono, osservando in silenzio. McKee non l'aveva detto, ma non era del tutto sicuro che la poveretta fosse morta. E infatti non lo era, o almeno non ancora. Un paio di minuti di ritardo, e ogni soccorso sarebbe stato vano. Così, invece, restava ancora una scintilla di vita. L'assassino in ogni modo aveva fatto del suo meglio. Ripensando al modo in cui era morta Mary Dane, rifletté che lo strangolamento doveva essere uno dei suoi metodi preferiti. In quel caso, però, non era riuscito a portare a termine l'opera. Mentre si aspettavano gli effetti dell'iniezione e dell'ossigeno, Giles cominciò a fare domande. Si sapeva ben poco che potesse servire a identificare lo strangolatore. Chiunque, nell'albergo o all'esterno, poteva avere visto la signora Ransom e averla seguita con l'intento di ucciderla. Un banale pretesto qualsiasi, "la prego, entri un momento qui dentro...", la porta chiusa dall'interno, l'aggressione. Mani attorno alla gola, oppure la sciarpa... Già, la sciarpa che appariva sotto il bavero del logoro cappottino nero. Chinandosi per esaminare la gola più da vicino, Giles assunse un'espressione perplessa. «Non capisco il perché di tutto questo sangue.» McKee fu subito d'accordo. Già, ecco ciò che l'aveva turbato fino a quel momento. Rimessosi in ginocchio, Giles girò la testa inerte della donna da una parte e dall'altra, la sollevò lievemente, infine esclamò: «Ma qui c'è qualcosa!» Dalla borsa dei ferri scelse un minuscolo forcipe. L'oggetto che estrasse dalla gola della signora Ransom era un grosso ago lungo una decina di centimetri. Nella cruna si vedeva ancora un pezzetto di filo insanguinato. Santander sembrava sul punto di svenire, il dottore aveva la faccia scura. McKee li mise entrambi al corrente. Quello era l'ago da tappezziere che la signora Fergusson aveva smarrito nella cucina di El Toro quando il suo cestino da lavoro era stato urtato e capovolto. L'ago scomparso e mai più ritrovato. 16 Fuori era calata la notte, e in cielo si erano spente le ultime striature del crepuscolo di marzo. McKee se ne stava disteso su uno dei due letti della
camera di Steele, al primo piano dell'albergo, le mani incrociate dietro la nuca, gli occhi fissi su una chiazza scolorita del soffitto di stucco. Lo scrittore, in piedi davanti al lavandino, si stava facendo la barba. Erano passate più di due ore dal ritrovamento dell'ago nella gola di Molly Ransom, e l'ispettore aveva tentato in proposito tutto quanto gli era possibile. Ora le cose dipendevano da ciò che la polizia avrebbe scoperto nelle varie indagini in corso. Il dottor Giles, che come coroner avrebbe condotto l'inchiesta il mattino seguente, si era molto meravigliato quando McKee aveva chiesto un brandello del filo di lana ancora infilato nella cruna dell'ago, ma l'aveva accontentato dopo essersi annotato la lunghezza originale, che era di dieci centimetri. Ottenuto il frammento, McKee l'aveva lavato con tutta la cura possibile fino a fare sparire ogni traccia di sangue, riportandolo al suo naturale color nocciola. Quando la signora Fergusson aveva riposto l'ago nel cestino da lavoro, all'hacienda, il filo era lungo come minimo mezzo metro. Inoltre, l'ispettore aveva messo sotto il torchio delle domande l'avvocato Santander. Uno dei particolari che era riuscito a cavargli di bocca, dopo sforzi incredibili, era curioso e interessante. Per diciannove anni, da quando cioè la domestica aveva lasciato El Toro, Veronica le aveva versato regolarmente una pensione di cento dollari mensili, e nel testamento le aveva lasciato una somma di mille dollari netti. Molly Ransom... M per Molly, come nell'appunto segnato nel libro dei conti di Veronica, in cui si diceva che "il solito" stava diventando un vero salasso e che bisognava provvedere in qualche modo? La signora Ransom aveva venticinque o ventisei anni al massimo, quando aveva lasciato il servizio per sposare il primo marito, Ward. D'accordo che lavorava presso i Dane fin da quando ne aveva sedici, ma era pur sempre insolito che venisse assegnata una pensione a una ragazza di quell'età. McKee era molto ansioso di interrogarla, ma al momento era impossibile. Molly Ransom non era ancora stata dichiarata fuori pericolo, e non si sapeva se sarebbe vissuta tanto da poter parlare e spiegare che cosa fosse venuta a fare al Rio Grande. Altri frammenti di fatti erano stati raccolti a forza di indagini. Dopo la sosta presso la vera signora Tafoya, ad Albuquerque, la signora Adams era tornata a Santa Fe. Vi si era fermata il tempo necessario a mettere la figlia su un aereo diretto a New York, dove sarebbe stata ospite di amici ai quali lei stessa aveva telefonato appena messo piede in casa. Dopodiché aveva rifatto la valigia, senza le strane boccette che le erano servite come signora
Tafoya, ed era risalita in macchina per tornare ad Albuquerque, anche lei al Rio Grande. Lo scozzese si alzò dal letto e cominciò a passeggiare irrequieto per la stanza. Erano quasi le otto. Restavano solo dodici ore, né più né meno, prima dell'inchiesta; dodici ore di tempo per smascherare l'assassino. Dopo l'inchiesta tutta quella gente si sarebbe dispersa, allontanata, e ogni prova di colpevolezza, ammesso che ne esistessero, sarebbe stata distrutta o nascosta troppo bene perché si potesse ritrovarla. Lo spiegò a Steele, il quale, intento a ravviarsi i capelli umidi davanti allo specchio, gli rispose con un sorriso un po' ironico. «Che gliene importa, ispettore? Lei stesso ha detto, a El Toro, che una volta che fossimo stati fuori da quella tana di spettri la faccenda sarebbe stata scaricata dalle sue spalle e sarebbe divenuta di stretta competenza della polizia del New Mexico.» McKee sorrise a sua volta, imbarazzato. «Lo so, ma avevo promesso al tenente Menendez di fare tutto il possibile finché ero qui. E poi dispiace lasciare un caso insoluto, e soprattutto lasciare un assassino a piede libero.» Steele si strinse nelle spalle. «Beh, per conto mio non sono certo addolorato all'idea di andarmene dal New Mexico.» S'infilò la giacca, e i due uomini lasciarono insieme la stanza. Il corridoio esterno era largo, e la passatoia centrale aveva sostituito i tappeti di un tempo. Una luce fioca pioveva da deboli lampade notevolmente distanziate una dall'altra. La greve immobilità venne rotta dalla voce di Jill Sheppard, che arrivò loro da una porta socchiusa a breve distanza. «Sì, l'ho fatto... No, non intendo sposare Henry, non voglio sposare nessuno, per sempre.» Un grido soffocato di Rita Mole. «Ma Jill, non puoi...» La donna guardò nel corridoio, vide Steele e McKee, e chiuse la porta energicamente. McKee sbirciò il suo compagno. Non c'erano né sollievo né giubilo, in lui. Il suo commento fu un'osservazione amara: «La signorina Sheppard ha cambiato di nuovo idea, a quanto pare. Si vede che lo fa per abitudine. Mi domando chi sarà la prossima vittima.» Proprio davanti a loro, Ward stava salendo le scale, tutto chino e avvilito nella sua logora giacca a vento, indossata sopra i pantaloni di fustagno infilati negli stivali di cuoio. Aveva gli occhi rossi, e la faccia giovane e scarna recava i segni del momento terribile vissuto nel pomeriggio. Appariva esausto e trasognato. Rientrava allora dall'ospedale, dov'era stato a
trovare la madre. Ma non era ancora tornata in sé, e gliel'avevano lasciata vedere solo per un momento. Stava per proseguire lungo il corridoio, quando Steele propose: «Che ne direbbe di mangiare qualcosa, giovanotto?» Ward rispose svogliato, guardandosi gli stivali coperti di fango: «Grazie, ma non ho appetito, signor Steele. E poi, vestito così, in un posto come questo...» «Bene, ce ne andiamo da qualche altra parte» insistette Steele. «Su, venga a farmi compagnia. Ho una fame da lupo. Si unisce a noi, ispettore?» McKee disse che si sarebbe fermato in albergo, perché aspettava alcune risposte da New York. Si separarono. Un lusso sbiadito e scalcagnato persisteva ancora nei saloni del pianterreno, grandi e spaziosi. L'ultimo tratto della lunga sala da pranzo era vividamente illuminato, e si vedevano otto o nove tavoli apparecchiati con cura. A uno di essi sedeva Hilliard, da solo, a sorseggiare un cocktail. Al tavolo c'erano altri due coperti, probabilmente per la signorina Sheppard e la signora Mole. Mentre l'ispettore osservava, le due donne raggiunsero Hilliard. Se la Sheppard aveva parlato sul serio, un momento prima, e se davvero gli aveva già comunicato che non intendeva sposarlo, in apparenza la situazione non era mutata. I tre presero a conversare con la massima amabilità. A cenare non erano più di otto o nove persone. La signora Fergusson, il signor Jackson e la signora Adams non figuravano tra quelle. McKee entrò nel piccolo bar attiguo e consumò un paio di whisky. Poi risalì al piano di sopra. La signora Fergusson e Jackson non erano nelle loro stanze. Si disse che probabilmente la sala da pranzo dell'albergo non era abbastanza riservata per loro, dato che a quell'ora Willie poteva essere già fuori dietro cauzione. Uscendo dalla stanza di Jackson, ebbe una sorpresa. La signora Adams si stava allontanando lungo il corridoio. La stanza dalla quale era uscita era quella di Henry Hilliard. Appena la donna fu scomparsa oltre l'angolo, McKee entrò in camera di Hilliard e trovò proprio ciò che s'era aspettato di trovare: una busta appoggiata contro la massiccia alzata del cassettone, indirizzata a Hilliard. La busta era chiusa, ma la colla era ancora fresca. McKee la riaprì con cura e lesse il messaggio che vi era contenuto. Era breve ed essenziale: "Devo vederti stasera. È importantissimo. Verrò in camera tua appena ci sarà via libera". Dunque lui, nel pomeriggio, non s'era sbagliato. Quei due avevano più
cose da dirsi di quanto volessero ammettere davanti a testimoni, o a eventuali orecchie indiscrete. Rimise a posto il biglietto, richiuse la busta, vi passò il pugno sopra perché la colla aderisse, e uscì in corridoio. Giù nella sala da pranzo la signora Adams si era seduta a un tavolo, con le spalle al gruppetto di Hilliard. McKee attraversò l'atrio, andò alla cabina telefonica e chiamò la polizia. I controlli sulle persone rimaste imprigionate a El Toro durante l'uragano non erano ancora terminati. Per ora non si sapeva nulla di preciso. Poi, McKee chiamò l'ospedale. Nessun cambiamento. La signora Ransom era sempre nelle stesse condizioni; solo le pulsazioni erano leggermente più fievoli. Il figlio era stato il suo unico visitatore. Mangiò un panino e bevve un altro whisky al bar, poi ordinò che gli servissero un caffè nell'atrio. Poco dopo, Steele rientrò dalla passeggiata e McKee lo chiamò con un cenno. Steele era solo. Il giovane Ward era tornato all'ospedale. Lo scrittore sedette e ordinò a un cameriere che sembrava Matusalemme di portargli un cognac. «Dopo mangiato ho fatto due passi» raccontò. «Niente di nuovo, mi pare di capire dalla sua faccia.» McKee disse di no. Intanto la sala da pranzo si era vuotata. Hilliard, la ragazza, Rita Mole e la signora Adams se n'erano andati, e la sala era chiusa e buia. Venne portato il caffè di McKee. L'aveva appena finito e stava accendendosi una sigaretta, quando lo chiamarono al telefono. Era il tenente Menendez che telefonava dalla stazione di polizia. Aveva appena avuto notizie fresche. Le precauzioni raccomandate dall'ispettore si erano rivelate provvidenziali. Cinque minuti prima, poco dopo che la signora Ransom era stata trasferita in un'altra stanza in fondo al corridoio, una serie di colpi era stata sparata nella camera da lei precedentemente occupata, da qualcuno appostato su un rialzo a meno di sei metri dall'ampia finestra, e allo stesso livello. Se la donna fosse stata a letto, sarebbe sicuramente rimasta uccisa. I proiettili erano stati sparati da una Colt 38. L'unica pistola posseduta dalle persone che si erano trovate a El Toro era quella di Hilliard, custodita nel cruscotto della Rolls, ed era una Colt calibro 38. Anche Jackson ne aveva una, ma era rimasta sott'acqua e quindi era inservibile. La Colt 38 era scomparsa dalla Rolls: qualcuno l'aveva asportata. E Hilliard non era in camera sua... ma questo non significava nulla, perché non era l'unico assente dall'albergo. E l'ospedale era a meno di cinque minuti di strada a piedi. Chiunque poteva avere sottratto l'arma dalla macchina di Hilliard; tutti sapevano che si trovava là, perciò chiunque poteva avere compiuto un se-
condo, audacissimo tentativo di chiudere per sempre la bocca alla signora Ransom. Il perché era semplice: per impedirle di fare rivelazioni. Quanto al "chi", ogni ipotesi era buona. Entro mezz'ora tutti quelli di El Toro fecero ritorno al Rio Grande. Ognuno era andato a spasso per conto suo. La signora Adams, Jill Sheppard e Hilliard avevano fatto una passeggiata, ciascuno per una strada diversa. Rita Mole era rimasta a camminare nei giardini dell'albergo. Nemmeno Jackson aveva un alibi per l'ora in questione: era tornato a piedi dal localino messicano in cui aveva cenato; aveva mangiato benissimo ed era molto soddisfatto. La signora Fergusson aveva cenato con lui. Aveva lasciato il locale un po' prima, mentre lui non aveva alcuna fretta di rientrare. La serata era bella. Ward era stato all'ospedale ed era tornato in albergo più scoraggiato che mai, poiché non era riuscito a vedere la madre. Willie Stokes restava tra gli assenti. Erano quasi le dieci e mezzo quando cominciarono ad arrivare le informazioni attese da McKee. Alcune erano negative, altre positive. Tra le negative c'era quella che gli abiti indossati dalla signora Adams all'hacienda, quando si era spacciata per la signora Tafoya, non mostravano d'essere stati ricuciti con l'ago e il filo di lana spariti dal cestino da lavoro della signora Fergusson. E nemmeno quelli di Jill Sheppard. Al momento, era quanto si era accertato al riguardo. Ciò che Ward aveva detto circa la sua sosta ad Albuquerque e la sua assunzione come precario in una ditta di legname della città, prima che si dirigesse a sud attraverso le Sandias, era stato verificato. Infine, arrivò anche un'informazione positiva. Henry Hilliard, nel pomeriggio in cui era morta Veronica Dane, era stato a El Toro. Era stato visto e riconosciuto da un vicino che passava in macchina mentre lui entrava a cavallo nei confini del ranch. Montava un grosso cavallo nero, ed evidentemente proveniva dal ranch di suo padre, che si trovava a poche miglia. McKee emise un fischio a mo' di commento, e il tenente Menendez, all'altro capo della linea, si astenne da ogni considerazione. Hilliard era stato visto verso le tre pomeridiane, e Veronica era morta al più tardi verso le quattro. Menendez promise di telefonare ogni volta che fosse giunta qualche nuova notizia, indipendentemente dall'ora tarda. Nel caso l'ispettore fosse stato occupato altrove, gli avrebbe mandato un agente all'albergo perché consegnasse e riportasse messaggi. Erano le undici meno dieci quando McKee riagganciò. Si trattenne per un attimo accanto all'apparecchio, lo
sguardo assente fisso su un'indiana che entrò nell'atrio con una cassettina di monili d'argento e venne cacciata via dal portiere, che le indicava indignato l'orologio sopra il bancone. Uscì dalla cabina. Doveva in qualche modo assistere al colloquio tra Hilliard e la signora Adams. Al momento nulla di conclusivo o di essenziale per giungere a una conclusione era venuto a galla in seguito alle indagini. Nello stesso tempo sedevano tutti sopra un vulcano in eruzione, come dimostravano i colpi sparati dall'oscurità nella camera d'ospedale. Santander, il legale dei Dane, sapeva molto più di quanto non volesse ammettere, ma le sue labbra erano sigillate dal segreto professionale, e non avrebbe parlato per nessun motivo. Di conseguenza, per fare luce bisognava ricorrere a qualche espediente. Lo scozzese aveva già preso le sue misure; il resto era affidato all'occasione e a un pizzico di fortuna. Le camere dell'albergo avevano soffitti di un'altezza spropositata, e le porte, anch'esse altissime, erano sormontate da antiquate lunette. McKee aveva trovato quanto gli occorreva in uno sgabuzzino in fondo al corridoio: una lunga canna con un uncino in cima per aprire e chiudere le lunette. Impadronitosene, se ne servì per aprire la lunetta della stanza di Hilliard abbastanza per poter vedere e sentire. Poi, appena la signora Adams fosse entrata nella stanza, ci sarebbe stato bisogno di una scala. Per averla si era rivolto a Jones, l'agente di Menendez, il quale aveva scovato chissà dove una scala a pioli, l'aveva portata su dalla scala di servizio e l'aveva appoggiata oltre l'angolo del corridoio, poco lontano dalla stanza di Hilliard. Altri agenti erano impegnati in una quantità di cose, ma McKee, per quanto lo riguardava, ora non poteva fare altro che aspettare il momento propizio. 17 Verso le undici e mezzo tutte le persone tenute sotto osservazione si erano ritirate nelle loro stanze, e quasi tutte avevano spento la luce, anche se non tutte dormivano. Non rimaneva che sperare che le luci restassero spente. Era l'una meno dieci quando la signora Adams si materializzò finalmente nel corridoio buio, avvolta in una veste da camera scura. Dal suo posto d'osservazione nel ripostiglio delle scope, McKee la vide avanzare. Dopo una rapida occhiata a destra e a sinistra, la signora si fermò davanti alla porta di Hilliard e bussò leggermente. Evidentemente, lui la stava aspettando. La porta si aprì subito e, appena la donna varcò la soglia, venne richiusa a chiave dall'interno. Trenta se-
condi dopo, la scala veniva appoggiata al muro esterno e McKee si arrampicava fino all'ultimo piolo. Da lassù, spingendo piano la lunetta di un altro paio di centimetri, poteva vedere e sentire tutto quello che avveniva nella stanza. Le tende alle finestre erano tirate, e l'unica luce proveniva dalla lampada posata su un elaboratissimo tavolino dal piano di marmo che, affiancato da due poltrone a braccioli, si trovava al centro della camera. La signora Adams sedeva sull'orlo di una delle due poltrone, con le mani intrecciate e abbandonate sulle ginocchia. L'altra poltrona era occupata da Hilliard. I due parlavano sottovoce, ma le parole erano perfettamente udibili anche da quella distanza. Hilliard estrasse un astuccio e le offrì una sigaretta. La donna rifiutò con impazienza. «No, grazie, vorrei andare subito al dunque. Per questo sono tornata qui, per parlare con te. Sarei tornata ugualmente, anche se la polizia non avesse scoperto chi ero. Ma non credo che ci convenga restare insieme più del necessario.» Fece una pausa, quindi riprese con più calma: «Non tornerò su quello che successe diciannove anni fa, Henry. Ormai è acqua passata. Allora fu... terribile. Al momento pensai che tu mi avessi abbandonata deliberatamente. Che altro potevo pensare? Naturalmente, oggi so che le cose non andarono così. Veronica intercettò le lettere che ci eravamo scritti, e così tu non sapesti mai nulla. Sposasti un'altra, e quando...» La voce le si ruppe per l'amarezza. «Quando nacque il bambino, me ne andai e cercai di dimenticare, e un po' alla volta ci riuscii. Così, dopo un paio d'anni sposai un galantuomo. Ora è morto, ma mi ha lasciato una figlia, Eileen.» Hilliard annuì. Appariva diverso. Tutta la sua aria giovanile era scomparsa, il viso era segnato e disfatto. Sembrava stranamente commosso. «Sì, lo so. Me lo ha detto Veronica quando mi ha convocato a El Toro, il giorno in cui è morta.» Per la prima volta da quando aveva cominciato a parlare, la signora Adams levò lo sguardo e fissò Hilliard negli occhi. Il suo pallido sorriso era appena un'ombra sui lineamenti tesi. Si appoggiò contro lo schienale. «Veronica voleva che tu facessi di me una donna onesta, vero, Henry?» Lui annuì e lei continuò: «Un po' tardi, ti pare? Ma nella vecchiaia era diventata molto coscienziosa, o forse non aveva ancora rinunciato a interferire nella vita degli altri... Non lo so. Aveva scritto anche a me di venire a El Toro, quel giorno, ma avevo degli impegni e non potevo allontanarmi. Nella lettera mi diceva che... che nostro figlio sarebbe stato là con la madre adottiva, Molly, la ragazza che un tempo era al nostro servizio al ranch. Si
era sposata, e Veronica l'aveva convinta ad adottare il bambino. Ma questo ormai lo sai.» «Sì» confermò Hilliard «lo so. Me l'ha detto lei, quando sono andato là quel pomeriggio. Mi ha detto che aveva lei le lettere che ci eravamo scritti, intercettate a nostra insaputa, e anche il certificato di nascita del bambino firmato dal dottore che aveva assistito al parto, nel caso io avessi voluto delle prove. E ha aggiunto di essere disposta a consegnarmi quelle carte, ma a una condizione.» «Che tu e io ci fossimo sposati?» «Appunto. Veronica mi ha fatto notare che mia moglie era morta, che tuo marito era morto, e che tra noi non esisteva più alcun impedimento. Non occorre che ti dica che sono rimasto esterrefatto, senza parole. Chissà che cosa dovevi avere passato, allora. Certo, doveva essere stato un inferno, una tragedia. Ma... ormai erano passati quasi vent'anni, e io mi ero appena fidanzato con Jill Sheppard. Ho risposto a Veronica che quanto mi proponeva era impossibile, fuori discussione, ma mi sono offerto di fare tutto quello che lei voleva per il ragazzo, di provvedere in qualsiasi modo da lei indicato, purché mi restituisse le lettere.» Hilliard tacque, e si passò una mano sugli occhi. «Beh, sai che tipo era, no? Non tollerava d'essere contraddetta, e così ha rifiutato. Ha concluso che avrei riavuto lettere e certificato alla sua morte, non un minuto prima. E così me ne sono andato.» Si strinse nelle spalle con aria avvilita. «Poi, ma questo l'ho saputo parecchio tempo dopo, è morta, quello stesso pomeriggio. Ho aspettato. Pensavo che il legale, Santander, si sarebbe messo in contatto con me dopo la sua morte, e invece niente. Non ho più saputo niente da nessuno. Perciò quel mercoledì, quando ci siamo trovati bloccati nei paraggi di El Toro, costretti a cercarvi rifugio per la notte, ho tentato di recuperare le nostre lettere di allora e il certificato di nascita.» «E le hai trovate?» «No.» «Lo supponevo, infatti. Ho avuto anch'io la tua stessa idea, e ho cercato a mia volta. L'unica differenza è che io sono tornata a El Toro di proposito, appena ho sentito dire da certi amici, che l'avevano saputo non so come, che il ranch era stato affittato a estranei e che Mary se n'era andata o stava per andarsene. Non mi hai riconosciuto nei panni della signora Tafoya?» Hilliard scosse la testa. «Sono stato proprio cieco, lo ammetto. Ho però riconosciuto nostro... nostro figlio nel giovane Ward, appena ha parlato di sua madre. Era evidente che ignorava la verità e si credeva veramente fi-
glio di Molly Ransom. Sono deciso a provvedere per lui, come puoi ben immaginare.» «Ti aiuterò anch'io, Henry. Denaro ne ho tanto.» Hilliard fece per obiettare, ma lei lo fermò con un gesto della mano. «Da quando... Come dire? Da quando sono diventata più matura, ho sempre rimpianto amaramente d'averlo abbandonato; ma ero così giovane, allora, e così spaventata, e dopo la sua nascita rimasi sofferente per un bel pezzo. Mary mi disse che il bambino stava benissimo, che era in buone mani... e al momento mi parve sufficiente. In fondo, allora desideravo solo dimenticare tutto.» Si raddrizzò un po' sulla poltrona. «Quando lasciai l'ospedale, invece di tornare a El Toro andai a stare da un'amica, a New York. Mio padre e mia madre erano morti entrambi. Quest'amica era stata attrice, e dirigeva una scuola di recitazione. Lei e il marito erano convinti che avessi talento. Mi procurarono delle particine, e calcai le scene per più di un anno... Ma lasciamo perdere.» Fece un gesto, come per dire che ormai erano cose del passato. «Non è per parlare di questo che sono qui. Penso che sarebbe molto meglio se quel ragazzo ignorasse per sempre la verità. Sapere non gli servirebbe a nulla, e potrebbe solo soffrirne. Francamente, preferirei che rimanesse all'oscuro. Ho una figlia, come ti dicevo, una ragazzina, e la sorpresa di... di scoprire questo mio segreto... Insomma, alla sua età, non so come potrebbe prendere la cosa.» «Sono d'accordo con te» disse lentamente Hilliard. «Nemmeno io vedo quale vantaggio ricaverebbe il ragazzo scoprendo la verità.» «E qualunque cosa accada, mi prometti che non dirai a nessuno quello che accadde diciannove anni fa?» La voce della donna era supplichevole. Nell'ansia si era alzata in piedi, e si sporgeva verso Hilliard puntando le mani sul ripiano del tavolino. McKee smise di ascoltare, perché aveva udito un lieve rumore in fondo al corridoio, a destra. Girò la testa. Un agente veniva in tutta fretta verso di lui. Ridiscese rapidamente. L'agente gli portava novità. Stavano parlottando a voce bassissima, quando la porta si aprì e la signora Adams uscì dalla stanza. Si fermò allibita alla vista dei due uomini. Trovarseli davanti era stata già una brutta sorpresa, ma poi il suo sguardo si posò sulla scala e tutta la situazione le apparve chiara in un lampo. Facendo un cenno all'agente, che subito si allontanò, McKee disse in tono grave: «Signora Adams, dovrei parlare immediatamente con lei e con il signor Hilliard.» Lei aveva il respiro affannoso e si era fatta pallidissima, ma non protestò. Rientrò come
una sonnambula nella stanza, seguita dall'ispettore. Lui chiuse la porta e disse ai due che quanto doveva riferire era della massima gravità, e cercò di spiegarsi in fretta, usando il minor numero di parole possibile. Il giovane Ward era loro figlio... e un assassino. Era stato lui a uccidere Gomez e Mary Dane. Durante la prima notte all'hacienda, era stato lui ad aprire il ripostiglio della sala da pranzo con la chiave sottratta alla povera Mary e a impossessarsi della busta indirizzata al legale dei Dane, busta che Mary era tornata a riprendersi a El Toro. I due ascoltavano affranti, sconvolti nel più profondo dell'animo. Il loro ragazzo, figlio illegittimo ma pur sempre loro figlio, era un assassino. Il colpo era durissimo. Tragico. Senza contare il resto, e cioè che per loro non c'era più via di scampo: la verità non si poteva più tenere nascosta, ormai tutto sarebbe venuto completamente alla luce... McKee diede loro il tempo di rimettersi. Poi, dopo un lungo silenzio, Hilliard parlò: «In che modo» domandò con voce spenta, un gomito puntato sul tavolino, la fronte nascosta nella mano «in che modo aveva scoperto la verità, aveva saputo chi era? Da Molly Ransom, forse?» «No» rispose McKee. «La signora Ransom mantenne il patto con Veronica Dane, e cioè di prendersi il bambino e di farlo passare per suo. Ma lui venne a scoprirlo ugualmente, forse origliando i discorsi tra la presunta madre e il patrigno, o forse ascoltando Mary Dane durante una delle sue rare visite alla signora Ransom. In ogni caso si trovava anche lui a El Toro, il giorno in cui lei vi è stato convocato da Veronica Dane.» Cercò una sigaretta, ma poi non ebbe il coraggio di accenderla e continuò: «Interrogato di nuovo un paio d'ore fa, il vicino che l'ha vista entrare quel giorno nel ranch ha detto di avere visto anche un giovanotto che risponde in pieno alla descrizione di Ward, entrato a piedi subito dopo di lei. Non c'è dubbio che, tenendosi nascosto, è riuscito a sentire il colloquio tra lei e Veronica. Dopodiché, ha avuto la certezza. L'altra notte, dopo essersi finalmente impossessato dei documenti, li ha cuciti dentro la pelle d'agnello di cui è foderata la sua giacca a vento, servendosi del maledetto ago che aveva rubato dal cestino da lavoro della signora Fergusson. Ago che poi ha piantato nella gola della signora Ransom per essere ben certo che la poveretta morisse.» Un brivido incontrollabile attraversò la signora Adams, altrimenti immobile nella sua poltrona. Ma la donna non parlò, e neppure Hilliard. McKee riprese: «Molto probabilmente, dopo che lei si è allontanato dall'hacienda, quel pomeriggio, lui è uscito dal suo nascondiglio e ha af-
frontato, minacciandola, Veronica Dane per imporle di consegnargli i documenti. Non è possibile stabilire se la donna sia morta per lo choc e la paura, o se sia stato lui a soffocarla. In ogni modo è morta, e all'arrivo di Mary, che infatti è rientrata pochi minuti dopo la morte della sorella, Ward è fuggito dopo avere sparato al dalmata che certamente lo aveva inseguito abbaiando. Non è andato lontano. Si è trovato un lavoro ad Albuquerque e ha aspettato l'occasione favorevole per cercare i documenti, poi ha letto che El Toro era stato affittato.» Il tenente Menendez stava interrogando Ward in una stanza in fondo al corridoio. C'erano alcuni particolari che l'ispettore era curioso di apprendere, primo fra tutti perché mai avesse tentato di uccidere la madre adottiva. «Tornerò più tardi» disse, ma fu come parlare all'aria. Né Hilliard né la signora Adams risposero. Forse non lo udirono nemmeno. Lui lasciò la stanza e si avviò lungo il corridoio. Ward era là, su una sedia contro la parete. Era pallidissimo, dietro le lentiggini, e appariva sorprendentemente schivo e infantile. Ma la maschera quasi perfetta nascondeva il calcolo freddo e impassibile di uno spietato assassino. I suoi reiterati dinieghi, a ogni accusa del tenente, erano una sconcertante simulazione di innocenza offesa. Il succo dei dinieghi si riduceva a questo: «Dunque la polizia è entrata nella mia stanza mentre dormivo, si è impadronita della mia giacca e vi ha trovato delle carte cucite nella fodera con un determinato tipo di filo. E con questo? Io non ne so niente. Non ho cucito nessuna carta nella fodera.» Lui non aveva ucciso Mary Dane, non aveva aggredito Gomez. E non aveva affatto tentato di uccidere sua madre, che adorava. «Perché avrei dovuto farlo?» Osservandolo, McKee rifletté fra sé sulla venuta di Molly Ransom ad Albuquerque al fine di parlare con il legale e con la signora Adams, e sul fatto che Ward aveva tentato di ucciderla appena lei aveva messo piede in albergo... Un barlume di sospetto cominciava a formarsi in fondo al suo cervello. Poteva darsi... Era per lo meno possibile... Menendez continuava a tenere Ward sotto torchio. Lo scozzese scese nell'atrio e telefonò all'ospedale. Le condizioni della signora Ransom erano lievemente migliorate. Il polso e il respiro erano più regolari. Aveva aperto gli occhi per alcuni istanti e aveva mormorato alcune parole. Le speranze che potesse cavarsela erano un po' aumentate. McKee riagganciò. C'era una mezza dozzina di cose che andavano fatte subito. Lasciò l'albergo. Ormai era l'una passata. Andò prima di tutto alla stazione di polizia. Non riusciva a smettere di pensare al signor Hilliard e alla signora Adams. Sof-
friva per entrambi. Un errore giovanile, un incidente di quasi vent'anni prima, aveva attirato la tragedia sul capo di entrambi, quando ormai credevano che la cosa appartenesse al passato e fosse soltanto un triste ricordo. La vera colpevole era Veronica Dane, che aveva voluto atteggiarsi a padreterno e intromettersi nell'esistenza di coloro che la circondavano. Erano le cinque e mezzo quando l'ispettore rientrò in albergo e salì nella stanza di Steele. Il cielo si era fatto grigio; entro un'ora il sole sarebbe apparso dietro le Sandias. Steele era sveglio. Alzato e vestito, stava riponendo le sue cose in valigia. Nella tarda serata la sua macchina era stata rimessa in ordine e portata al parcheggio dell'albergo dagli uomini dell'ufficio dello sceriffo. Appena terminata l'inchiesta, Steele intendeva mettersi in viaggio verso l'Est. «Quei maledetti uccelli» disse. «Che baccano. Il primo, quello che ha svegliato tutti gli altri, ha cominciato a cantare alle quattro e venti.» McKee non credeva affatto che fossero stati gli uccelli a interrompere il sonno di Steele. Ficcando la testa in un catino d'acqua fredda, e asciugandosi vigorosamente, annunciò che anche lui sarebbe partito entro poco più di un'ora con l'aereo, perché l'inchiesta non ci sarebbe stata. In poche parole, informò lo scrittore di quanto aveva fatto Ward. Non aveva tempo di dirgli altro, per il momento. Doveva comunicare qualcosa di molto urgente al signor Hilliard e alla signora Adams. Infilandosi la giacca e il soprabito, concluse: «Il resto glielo racconterò a New York.» Si diresse all'uscio. Dalla soglia, si voltò per aggiungere con aria serafica: «Oh, a proposito, ho infilato la lettera che le aveva scritto il marito della signora Mole sotto la porta della signorina Sheppard, ieri sera. Se la rivuole, se la faccia dare da lei.» E si allontanò. Andò prima di tutto a bussare da Hilliard, che venne ad aprire e si mise un dito sulle labbra. Con grande sorpresa di McKee, la signora Adams era ancora lì, nella poltrona accanto al tavolino, la testa abbandonata sul braccio. Evidentemente era rimasta così tutta la notte. Dormiva profondamente. Hilliard gli spiegò sussurrando: «Abbiamo parlato fino a tarda notte. È stanchissima, poverina.» Lui era cereo, distrutto. Al rumore delle voci la donna si svegliò con un sobbalzo e rialzò la testa. Li guardò come se si aspettasse qualche altra orrenda notizia. «Che c'è?» domandò con voce flebile. Poi scorse qualcosa di nuovo nell'espressione dello scozzese, e s'illuminò a sua volta. «Ha scoperto che quel ragazzo...» non osò definire diversamente Ward «non è colpevole?» McKee scosse la testa. «L'uomo che si fa chiamare Ward è colpevole
eccome, signora Adams. Solo che... non è vostro figlio.» Un silenzio attonito. Entrambi fissavano l'ispettore senza capire. Lui continuò a spiegare. Il giovanotto che diceva di chiamarsi Ward era in realtà George Ransom, figliastro della signora Ransom, nato da un precedente matrimonio del secondo marito. Il loro ragazzo era morto. Aveva perso la vita in un incidente quando aveva quindici anni. Molly Ransom e il suo secondo marito avevano continuato a riscuotere i cento dollari mensili da Veronica Dane per altri quattro anni. Nonostante l'aria da sempliciotto, George Ransom, per indicarlo con il suo vero nome, era un poco di buono. Anzi, era sempre stato un fior di delinquente. A diciassette anni era stato arrestato perché sospettato di furto d'auto, e gli erano state prese le impronte digitali. Ecco in che modo la polizia era riuscita, alle tre del mattino, a scoprire finalmente la sua reale identità. Lacrime scivolavano lente lungo le guance della signora Adams. Hilliard riuscì solo a mormorare con voce scossa: «Dio misericordioso...» Era abbastanza facile, conoscendo i fatti, capire in che modo il ragazzo avesse scoperto la verità. Ascoltando i discorsi della matrigna e del padre, esaminando la posta, e via dicendo. Inoltre, aveva probabilmente letto la lettera in cui Veronica Dane ordinava a Molly Ransom di presentarsi all'hacienda con il figlio adottivo, il giorno in cui poi era morta. L'intenzione di Veronica era stata, naturalmente, quella di mettere Hilliard e la signora Adams davanti a loro figlio. Ma i suoi piani erano andati all'aria. La signora Ransom non aveva avuto il coraggio di andare a El Toro. Non poteva accompagnare là il figliastro e presentarlo al posto del ragazzo morto, perché Mary Dane, che era andata di tanto in tanto a trovarla, avrebbe immediatamente smascherato l'inganno. E così, il marito della signora Ransom aveva scritto un biglietto a Veronica dicendole che la moglie era in Arizona, presso un'amica malata. All'ospedale, tornando in sé per qualche secondo verso le due di notte, Molly Ransom aveva pronunciato alcune parole incoerenti. McKee le riferì alla lettera. «"Non... Peter... non Peter... Io..."» Poi spiegò. Era la stessa frase, o almeno in parte, che Gomez era riuscito a farfugliare poco prima di morire. Gomez, dal canto suo, stava evidentemente citando le parole di Mary. Dal finestrino rotto della stalla aveva assistito all'incontro tra il giovane Ransom e Mary. In effetti Mary doveva aver esclamato qualcosa come "Ma tu non sei Peter!", quando Ransom aveva provato a ingannarla, e per questa ragione era stata uccisa. Gomez,
che aveva tentato di entrare nella stalla, era arrivato troppo tardi, mentre Ransom stava già seppellendo il cadavere della donna sotto la paglia. Allora era corso all'hacienda a tutta velocità per invocare aiuto, ma Ransom l'aveva raggiunto nel cortile e l'aveva colpito a morte, probabilmente con un pezzo di legno. Il resto di ciò che era avvenuto a El Toro lo sapevano già. «Non capisco» osservò Hilliard, quando McKee ebbe finito «quale potesse essere il suo vero obiettivo.» «Ma è semplice» spiegò l'ispettore. «È un tipo molto astuto. Voi stavate per sposarvi, e immaginava che in ogni caso non ci avreste tenuto a far sapere la verità; perciò intendeva scegliere tra la possibilità di ricattarvi, grazie alle lettere e al certificato, e quella di presentarsi a voi come vostro figlio. Probabilmente avrebbe optato per la soluzione più vantaggiosa.» L'amarezza e lo sconforto erano tornati sul volto distrutto della signora Adams. La sua preoccupazione principale era ancora la figlia. «Immagino che al processo salterà fuori tutta la verità.» L'ispettore scosse la testa. «Non ci sarà processo» annunciò. «Mentre veniva rinchiuso in cella, Ransom, astuto come sempre, è riuscito a sfilare una pistola dalla fondina dell'agente più vicino. Nella colluttazione che è seguita, è rimasto ucciso da un colpo partito dall'arma.» La donna mandò un gemito in cui si avvertiva il sollievo, ma anche una pena profonda. McKee la confortò: «Coraggio, signora Adams. Le assicuro che troverà il tenente Menendez molto comprensivo nei vostri confronti.» Nel dire questo guardava dalla finestra alle spalle della donna; la stanza si affacciava sulla strada. Fuori c'era Steele, al volante della sua auto. E qualcuno stava correndo lungo il viale dell'albergo, dirigendosi verso di lui. Era Jill Sheppard, e portava con sé una valigia. Da lontano una voce stridula gridò: «Jill!» Era quella di Rita Mole. Ma la ragazza non si fermò. Aprì la portiera e salì accanto a Steele. Un istante dopo, la macchina era già schizzata via rombando. Le due persone dentro la stanza erano ignare di ciò che accadeva intorno a loro. Per tutto il resto della vita avrebbero portato il peso di quei momenti d'angoscia, ma il peggio era passato anche per loro. Gli occhi della signora Adams erano colmi di lacrime. Nascose il viso tra le braccia, appoggiate sul tavolino. «È tutta colpa mia. Tre morti... Non avrei dovuto abbandonare il bambino. Colpa mia, colpa mia...»
Hilliard aveva ritrovato parte del suo consueto vigore. «No, Alice» dichiarò con veemenza. «Non è così. La colpa è sempre stata di Veronica, fin dall'inizio, sua e soltanto sua.» E posò una mano, con gesto affettuoso, sui capelli di Alice Adams. Il compito di McKee era terminato. Senza dire altro, l'ispettore lasciò la stanza e l'albergo. Trentacinque minuti dopo era a bordo del grande aeroplano che si preparava a decollare con la prua puntata verso est. FINE