FRANK SCHÄTZING IL QUINTO GIORNO (Der Schwarm, 2004) Per Sabina, un amore più profondo dell'oceano Hishuk ish ts'awalk Tribù dei nuu-chah-nulth, Vancouver Island PROLOGO 14 gennaio Huanchaco, costa del Perú Senza che il mondo ne sapesse nulla, quel mercoledì si compì il destino di Juan Narciso Ucañan. Solo alcune settimane dopo, il suo caso s'inserì in un contesto più ampio, anche se il suo nome non venne mai evocato. Era semplicemente uno dei tanti. Se fosse stato possibile chiedergli cos'era successo quel mattino, sarebbero emerse le analogie con vicende simili, avvenute contemporaneamente in tutto il globo. E forse l'esperienza del pescatore, proprio perché derivava da un'ingenua visione del mondo, avrebbe rivelato una serie di complesse corrispondenze, destinate a diventare palesi soltanto in seguito. Ma Juan Narciso Ucañan non poteva dire più nulla e lo stesso valeva per l'oceano davanti alla costa di Huanchaco, nel nord del Perú. Ucañan rimase muto come i pesci che si erano presi la sua vita. Quando infine la sua vicenda fu inserita in una statistica, gli avvenimenti erano già arrivati a un diverso grado di sviluppo ed eventuali informazioni sulla fine di Ucañan erano ormai d'interesse secondario. Del resto, anche prima del 14 gennaio, nessuno s'interessava particolarmente a lui o alla sua esistenza. Così almeno la vedeva Ucañan. Non gli piaceva che, nel corso degli anni, Huanchaco fosse diventata un paradiso balneare. Gli stranieri restavano sbalorditi di fronte a un mondo che sembrava perfetto, con gli indigeni che uscivano in mare su barche di giunchi apparentemente fuori dal tempo. La maggior parte dei suoi compaesani lavorava sui pescherecci a strascico,
nelle fabbriche di farina e olio di pesce che, nonostante la diminuzione del pescato, consentivano al Perú di restare tra i primi Paesi nella produzione ittica insieme col Cile, con la Russia, con gli Stati Uniti e con le principali nazioni asiatiche. A dispetto del Niño, Huanchaco si sviluppava in ogni direzione, hotel si affiancavano a hotel e le ultime riserve naturali venivano sacrificate senza scrupoli. Tutti, in un modo o nell'altro, riuscivano a combinare affari. Tutti tranne Ucañan, cui non era rimasto altro che la sua pittoresca barchetta, un caballito. Erano stati i conquistadores a chiamarla così, sbalorditi alla vista di quelle bizzarre imbarcazioni. Ma era solo questione di tempo: anche i caballitos sarebbero spariti. Tutto lasciava pensare che il millennio appena cominciato avesse deciso di eliminare Ucañan. Ormai gli sembrava di non essere più padrone delle proprie sensazioni. Da una parte si sentiva punito. Dal Niño, che, a memoria d'uomo, aveva sempre colpito il Perú e contro cui non poteva fare nulla. Dagli ambientalisti, che nei loro congressi parlavano di overfishing e di diboscamento; in quelle occasioni, le teste dei politici si giravano lentamente a guardare gli armatori dei pescherecci, e allora si capiva che avevano gli stessi interessi. Poi guardavano Ucañan, che comunque non era responsabile del disastro ecologico. Non era stato lui a volere le fabbriche galleggianti e neppure i trawler giapponesi e coreani che, a duecento miglia marine dalla costa, attendevano solo di fare incetta di pesci. Ucahan non aveva colpa di nulla, ma stentava a crederci. Quella era l'altra sensazione che lo faceva sentire un miserabile. Come se fosse lui a strappare al mare tonnellate di tonni e di sgombri. Aveva ventotto anni ed era uno degli ultimi del suo popolo. I suoi cinque fratelli maggiori lavoravano a Lima. Lo consideravano uno sciocco perché si ostinava a uscire in mare con una barca più piccola di una tavola da surf, aspettando nelle acque costiere ormai spopolate bonitos e sgombri che non arrivavano mai. Cercavano di spiegargli che non si poteva restituire la vita ai morti. Ma quella che Ucañan voleva salvare era la vita di suo padre, che, nonostante i suoi settant'anni, era uscito a pesca ogni giorno. Almeno fino a qualche settimana prima. Ormai il vecchio Ucañan non ci andava più: restava sdraiato in casa, afflitto da una tosse strana e col viso coperto di macchie; perdeva progressivamente lucidità, però Juan Narciso si era convinto che, se avesse tenuto in vita le antiche tradizioni, pure il vecchio sarebbe rimasto vivo. Più di mille anni fa, ancor prima dell'arrivo degli spagnoli, gli antenati di
Ucañan, gli yunga e i moche, usavano barche di giunchi. Avevano popolato la regione costiera dall'estremo nord fino alla zona dell'odierna città di Pisco, e rifornivano di pesce la grande capitale Chan Chan. Allora, il territorio era ricco di wachaques, acquitrini prossimi alla costa, alimentati da fonti sotterranee di acqua dolce. Lì un tempo cresceva lussureggiante la canna di palude, con cui Ucañan e quelli che erano rimasti nelle sue stesse condizioni legavano ancora i loro caballitos, non diversamente da come avevano fatto i vecchi. Costruire un caballito richiedeva abilità e calma interiore. Erano imbarcazioni singolari. Lunghe dai tre ai quattro metri, con la prua a punta, ricurva verso l'alto, quei fasci di giunchi erano leggeri come piume e praticamente inaffondabili. Una volta ce n'erano a migliaia a solcare le onde della zona costiera: era il tempo della «pesca d'oro», perché anche nelle giornate peggiori i pescatori tornavano a casa con un bottino molto più ricco di quello che gli uomini come Ucañan neppure osavano sognare. Ma gli acquitrini erano spariti e, con loro, anche i giunchi. Il Niño almeno era prevedibile. Ogni due anni, nel periodo di Natale, la corrente di Humboldt, di solito fredda, si riscaldava a causa dell'assenza degli alisei e il mare s'impoveriva di sostanze nutritive, quindi sgombri, bonitos e acciughe non arrivavano. Visto il periodo in cui si manifestava, gli antenati di Ucañan avevano chiamato quel fenomeno El Niño, «Gesù Bambino». A volte, Gesù Bambino si limitava a portare un po' di confusione nella natura senza gravi conseguenze, ma ogni quattro o cinque anni scatenava una punizione divina sugli uomini, come se volesse eliminarli dalla faccia della Terra: uragani, temporali trenta volte più violenti del solito e valanghe di fango costavano la vita a centinaia di persone. Il Niño andava e veniva, era sempre stato così. Non ci si poteva fidare di lui, ma in qualche modo ci si poteva arrangiare. Tuttavia, da quando la ricchezza del Pacifico era stata depredata dalle reti a strascico, la cui dimensione era tale da poter contenere dodici jumbo jet uno di fianco all'altro, le preghiere non servivano più a niente. Forse, mentre i flutti facevano ondeggiare il suo caballito, Ucañan pensava: Sono davvero stupido. Stupido e colpevole. E forse sono colpevoli anche le associazioni dei pescatori e quelli che hanno firmato gli accordi internazionali. Tutti noi ci siamo affidati alla protezione di un santo cristiano che non può nulla contro El Niño. Un tempo in Perú c'erano gli sciamani, rifletté. Ucañan aveva sentito raccontare di ciò che gli archeologi avevano trovato nel tempio precolom-
biano nei pressi della città di Trujillo, immediatamente alle spalle della Piramide della Luna: novanta scheletri, uomini, donne e bambini, uccisi a pugnalate. In un tentativo disperato di fermare la devastante marea del 560, il sommo sacerdote aveva sacrificato la vita di novanta persone, e il Niño se n'era andato. Chi bisognava sacrificare per fermare l'overfishing? Ucañan rabbrividì a quel pensiero. Era un buon cristiano, amava Gesù Cristo e san Pedro, il protettore dei pescatori. Aveva sempre partecipato con devozione ai festeggiamenti per il giorno di san Pedro, in cui la statua di legno del santo veniva portata in barca di villaggio in villaggio. Al mattino erano tutti in chiesa, ma di notte bruciavano i sacri fuochi. Lo sciamanesimo era in piena fioritura. Ma quale dio poteva venire in soccorso, visto che lo stesso «Gesù Bambino» non era responsabile della miseria dei pescatori, sopraffatto com'era dalla confusione delle forze della natura e dagli interventi di politici e lobbysti? Ucañan guardò il cielo e socchiuse le palpebre. Prometteva di essere una bella giornata. Il nord-ovest del Perú aveva un aspetto idilliaco. Da giorni non si vedeva una nuvola in cielo. A quell'ora i surfisti erano ancora a letto. Prima che il sole facesse capolino, Ucañan aveva portato in mare il suo caballito a colpi di pagaia, solcando le dolci onde in compagnia di una dozzina di pescatori. Adesso il sole iniziava lentamente a spuntare dietro le montagne scure e il mare aveva una luce pastello. L'infinita distesa, poco prima argentea, aveva assunto una delicata tonalità di blu. All'orizzonte s'intravedevano le sagome di gigantesche navi da carico che si dirigevano verso Lima. Indifferente alla bellezza del giorno che stava sorgendo, Ucañan tirò fuori il calcal, la tradizionale rete rossa dei caballitos, lunga alcuni metri e munita di ami di varie dimensioni. Osservò con occhio esperto le maglie finemente annodate. Se ne stava in piedi sulla barchetta di giunchi; nei caballitos non c'era spazio a sufficienza per sedersi, ma a poppa c'era un'ampia stiva per l'attrezzatura e le reti. Ucañan aveva appoggiato la pagaia di traverso davanti a sé, una caña guayaquil tagliata a metà che in Perú non usava più nessuno. Apparteneva a suo padre. La portava con sé in modo che il vecchio potesse sentire la forza con cui Juan Narciso la spingeva nell'acqua. Ogni sera, da quando il padre si era ammalato, Juan gli metteva accanto la pagaia, facendogli posare sopra la mano destra, così poteva sentire il perpetuarsi della tradizione, l'unica cosa che dava senso alla sua esistenza.
Sperava che il padre capisse che cosa stava toccando. Ormai non riconosceva più neppure il figlio. Ucañan finì d'ispezionare il calcal. L'aveva già controllato a terra, ma le reti erano costose e meritavano la massima attenzione. Perdere una rete significava la fine. Nella fatale partita a poker, in cui si giocavano le risorse residue del Pacifico, Ucañan era un perdente, ma non per questo poteva permettersi di essere negligente o, ancora peggio, di attaccarsi alla bottiglia. Non sopportava gli occhi di quei disperati che lasciavano marcire le loro barche e le reti. Sarebbe morto se un giorno, guardandosi allo specchio, avesse visto quegli occhi. Intorno si estendeva la zona di pesca della piccola flotta di caballitos che quel mattino era uscita con lui. Le barche erano molto distanziate, a mezzo miglio dalla spiaggia, ma i «cavallini» non saltavano su e giù come al solito. Il moto ondoso era appena percettibile. Nelle ore successive, i pescatori sarebbero rimasti fermi in quel punto, armati di pazienza e fatalismo. Comparvero grandi barche, alcune di legno, e un trawler, che passò vicino a loro e si diresse verso il mare aperto. Ucañan osservava indeciso gli uomini e le donne che lasciavano scivolare in acqua i loro calcal, assicurandosi di tenerli legati alla barca con una cima. Boe rosse e rotonde splendevano sulla superficie del mare. Sapeva che anche lui avrebbe dovuto calare le reti, ma ripensò ai giorni precedenti e non fece nulla, se non continuare a guardare. Qualche acciuga. Tutto lì. Seguì con lo sguardo il trawler che diventava sempre più piccolo. Anche quell'anno c'era il Niño, ma tutto sommato era innocuo. Finché si manteneva entro certi limiti, mostrava un'altra faccia, sorridente e benevola. Attirati dalla temperatura più elevata rispetto a quella della corrente di Humboldt, normalmente per loro troppo fredda, arrivavano tonni pinna gialla e pesci martello. Così, a Natale, sulle tavole erano assicurate porzioni abbondanti. Certo, i pochi pesci piccoli, prima che nelle reti dei pescatori, arrivavano nello stomaco dei pesci grandi, ma non si poteva avere tutto. In quelle giornate, chi usciva in mare aveva almeno la possibilità di portare a casa un bel boccone. Pensieri oziosi. I caballitos non si spingevano così al largo. Con la protezione del gruppo, si arrischiavano ad allontanarsi di una decina di chilometri dalla terraferma. I «cavallini» sopportavano anche il mare grosso, perché cavalcavano la cresta dell'onda. Al largo il problema diventava la corrente. Se era violenta e se il vento soffiava da terra, per riportare a riva
il caballito si poteva contare solo sulla forza dei propri muscoli. E alcuni pescatori non erano più tornati. Ucañan se ne stava accucciato sui giunchi intrecciati. L'attesa del banco di pesci, che anche quel giorno non sarebbe arrivato, era iniziata alle prime luci dell'alba. Fece scorrere lo sguardo sulla vastità del Pacifico alla ricerca del trawler. C'era stato un periodo in cui avrebbe potuto trovare facilmente lavoro su una grande nave o in una fabbrica di farina di pesce, ma quei tempi erano passati. Alla fine degli anni '90, a causa delle devastazioni del Niño, molti operai avevano perso il lavoro. I grandi banchi di acciughe erano spariti. Che cosa doveva fare? Non poteva permettersi un altro giorno senza pescare niente. Potresti insegnare il surf a qualche señorita. L'alternativa era quella. Un lavoro in uno degli innumerevoli hotel che con la loro prepotenza avevano distrutto la vecchia Huanchaco. Pescare turisti. Indossare una giacchetta ridicola. Preparare cocktail. Oppure far emettere gridolini di piacere ad americane viziate. Prima col surf e con lo sci d'acqua; poi, di notte, in camera. Ma Juan sapeva che il padre sarebbe morto il giorno in cui lui avesse reciso il legame col passato. Anche se il vecchio non era più in sé, avrebbe comunque percepito che suo figlio minore era venuto meno ai suoi princìpi. Strinse i pugni finché le nocche non gli diventarono bianche. Poi afferrò la pagaia e si mise a remare con tutte le forze per seguire il trawler ormai scomparso. I suoi movimenti erano nervosi, bruschi per la rabbia. Ogni volta che immergeva la pagaia, la distanza dagli altri aumentava. Avanzava velocemente. Quel giorno, lo sapeva, non ci sarebbero stati frangenti alti e improvvisi e neppure correnti insidiose o violenti venti da nord-ovest che gli avrebbero impedito il ritorno. Se non rischiava subito, non l'avrebbe fatto mai più. Nelle acque profonde c'erano sempre tonni, bonitos e sgombri. E non erano lì solo per i trawler. Appartenevano anche a lui. Dopo parecchio tempo si fermò e si voltò indietro. Huanchaco, con le sue casette addossate l'urta all'altra, era diventata molto piccola. Intorno si vedeva solo acqua. Nessun caballito aveva seguito il suo esempio. La piccola flotta era rimasta molto indietro. Una volta, il padre gli aveva detto: «Un tempo in Perú avevamo solo un deserto, quello nell'interno. Ormai i deserti sono diventati due e il secondo è il mare, proprio davanti alla porta di casa. Siamo diventati abitanti del
deserto che temono la pioggia». Era ancora troppo vicino. Mentre Ucañan remava con pagaiate vigorose, sentì ritornare la sicurezza di un tempo. Era elettrizzato e immaginava di cavalcare all'infinito sull'acqua col suo «cavallino», fino ad arrivare là dove, sotto la superficie, sfrecciavano i banchi di pesci splendenti come l'argento, scintillanti cascate nella luce del sole, e fin dove i grigi dorsi delle balene si levavano sopra i flutti e i pesci spada saltavano. Spinse con la pagaia, come per allontanarsi dalla puzza del tradimento. Sembrava quasi che le sua braccia si muovessero da sole. Quando finalmente lasciò la pagaia e si voltò indietro; il villaggio dei pescatori era diventato una minuscola sagoma squadrata circondata da puntini bianchi, la muffa della nuova epoca in espansione che brillava nel sole: gli hotel. Sentì crescere il timore: non si era mai avventurato così al largo. Non col caballito. Sapeva bene che era completamente diverso avere sotto i piedi delle assi anziché un fascio di giunchi sottile e appuntito come un becco. Anche se la nebbiolina in lontananza poteva ingannarlo, tra lui e Huanchaco dovevano esserci almeno sei miglia. Era solo. Ucañan si fermò un istante e recitò una breve preghiera perché san Pedro lo riportasse a casa sano e salvo con la barca piena di pesci. Poi inspirò profondamente l'aria salmastra del mattino, prese il calcal e lo fece scivolare lentamente in acqua. Le maglie con gli ami scomparvero nell'abisso trasparente, finché non rimase solo la boa rossa vicina al caballito. Che cosa poteva succedere? Il tempo era bello e lui sapeva perfettamente dove si trovava. Dal fondale si ergeva un massiccio di lava solidificata, una catena montuosa frastagliata in miniatura. Le sue cime arrivavano appena sotto la superficie dell'acqua ed erano rivestite da anemoni di mare, conchiglie e gamberi. Un gran numero di piccoli pesci abitava nelle sue crepe e nei suoi anfratti. Ma si potevano prendere anche pesci di grandi dimensioni come tonni, bonitos e pesci spada. Per i trawler era troppo pericoloso pescare in quella zona: correvano il rischio di finire sugli affilati speroni di roccia; inoltre non c'erano pesci a sufficienza per i loro standard. Ma per il coraggioso cavaliere di un caballito sarebbe stata più che sufficiente. Per la prima volta in quel giorno, Ucañan sorrise. La barca beccheggiava. Rispetto alle immediate vicinanze della costa, le onde erano un po' più
alte, ma la sua barca di giunchi reggeva bene. Si stiracchiò e guardò il sole, di un giallo pallido, che si era levato sulle montagne. Poi riprese la pagaia e, con pochi colpi, guidò il caballito nella corrente. Passò l'ora successiva a piegarsi sulle ginocchia e a rialzarsi, osservando la boa che danzava sull'acqua. In meno di un'ora aveva già preso tre bonitos. Erano nella stiva aperta del caballito, grassi e splendenti. Ucañan era elettrizzato. Era più di quanto avesse pescato nelle ultime quattro settimane... In effetti poteva tornare indietro, ma, visto che era lì, tanto valeva aspettare ancora. Il giorno era iniziato benissimo. Era probabile che finisse ancora meglio. Inoltre aveva tutto il tempo che voleva. Mentre il caballito procedeva lungo gli scogli, Ucañan lasciò più corda al calcal e osservò la boa che si allontanava, ballonzolando. Teneva sempre d'occhio la superficie dell'acqua, per scorgere le zone in cui si faceva più chiara: erano i punti in cui le rocce diventavano più alte. Doveva tenersi a una distanza sufficiente per non danneggiare la rete. Sbadigliò. Sentì la cima tirare leggermente. Un istante dopo, la boa sparì tra l'increspatura delle onde. Poi riemerse, saltò fuori, ballonzolò per qualche secondo e, infine, fu di nuovo trascinata sott'acqua. Ucañan afferrò la cima che, tendendosi, gli scorticò i palmi delle mani. Bestemmiò. Subito dopo il caballito s'inclinò da una parte e lui lasciò la presa per non sbilanciare la barca. La boa splendeva, rossa. La cima andava dritta verso il fondo, tesa come un arco, e faceva sprofondare lentamente la poppa dell'imbarcazione. Che diavolo stava succedendo? Nella rete doveva essere finito qualcosa di molto grosso e pesante. Forse un pesce spada... Ma un pesce spada sarebbe stato più veloce e avrebbe trascinato il caballito. Qualunque cosa fosse finita nella rete voleva andare verso il fondo. Ucañan cercò freneticamente di riprendere la cima, ma la barca fu scossa da un altro colpo. Il pescatore fu trascinato in avanti e finì tra le onde. Andò sotto e l'acqua gli entrò nei polmoni. Riemerse tossendo e sputando, e vide il caballito semiaffondato. La prua a punta si era sollevata: era quasi verticale. Dalla stiva aperta uscirono i bonitos appena catturati e ritornaro-
no in mare. Alla vista dei pesci che sparivano in acqua, Ucañan fu preso dalla rabbia e dall'amarezza. Ma ormai erano persi e non poteva cercare di riprenderli: prima di tutto doveva salvare il caballito e quindi se stesso. La pesca di un mattino. Tutto inutile! La pagaia galleggiava poco più in là, ma Ucañan non ci badò. Con tutta la forza si gettò sulla prua per cercare di spingerla verso il basso e finì sott'acqua col caballito, che comunque ritornò implacabilmente a sollevarsi. Allora avanzò frenetico, rivolto a pancia in giù sui giunchi verso, la poppa. Con la mano destra frugò nella stiva aperta finché non trovò quello che stava cercando. Sia ringraziato san Pedro! Il suo coltello non era scivolato in acqua e neppure la maschera da sub, il suo bene più prezioso insieme col calcal. Tagliò la cima con un colpo solo. Immediatamente il caballito venne sbalzato in alto. Ucañan ruotò su se stesso e vide il cielo girare su di lui; poi finì di nuovo con la testa sott'acqua e infine si ritrovò sdraiato sulla barca di giunchi che aveva ripreso a ondeggiare dolcemente, come se non fosse successo nulla. Si alzò, confuso e ansimante. La boa non si vedeva più. Fece scorrere lo sguardo sulla superficie dell'acqua alla ricerca della pagaia e la vide galleggiare tra le onde poco lontano. Fece muovere il caballito remando con le mani, raggiunse la pagaia e poi osservò la zona circostante. Erano loro, le macchie chiare nell'acqua cristallina. Ucañan imprecò ad alta voce. Si era avvicinato troppo alle formazioni sottomarine e il calcal si era impigliato. Non c'era da meravigliarsi che fosse stato trascinato sott'acqua. E, dove c'era la rete, naturalmente c'era anche la boa. Finché la rete rimaneva impigliata nelle rocce, la boa non poteva riemergere, era strettamente legata. Ucañan rifletté. Sì, la spiegazione doveva essere quella. Tuttavia era sorpreso dalla violenza che, per un pelo, l'aveva portato alla rovina. Sembrava del tutto plausibile che avesse perso la rete tra le rocce, ma sul resto non era sicuro Aveva perso la rete! Non poteva permetterselo. Con rapidi colpi di pagaia, riportò il caballito nel punto in cui, poco prima, era avvenuto l'incidente. Guardò in basso e cercò di scorgere qualcosa nell'acqua cristallina, ma vide solamente una chiazza chiara, dai contorni indefiniti. Della rete e della boa non c'era traccia. Cos'era successo?
Era un marinaio, aveva trascorso la vita in mare. Ucañan non aveva bisogno di strumenti tecnologici per sapere che quello era il posto giusto. Era lì che aveva tranciato la cima, per impedire che la sua barca di giunchi fosse trascinata sott'acqua. La sua rete era laggiù da qualche parte. Doveva recuperarla. A Ucañan non piaceva l'idea d'immergersi. Benché fosse un nuotatore provetto, come la maggior parte dei pescatori aveva paura dell'acqua. Ben pochi pescatori amavano davvero il mare, che giorno dopo giorno li chiamava a sé, e molti, sebbene avessero pescato per tutta la vita e vissuto grazie al mare, non avevano un buon rapporto con esso. Il mare si prendeva un po' della loro forza vitale a ogni battuta di pesca e lasciava, nelle osterie del porto, figure inaridite e silenziose che non si aspettavano più nulla. Ma Ucañan aveva la sua protezione! Il regalo di un turista che l'anno precedente aveva portato con sé a pesca: una maschera da sub. La prese dalla stiva, ci sputò dentro e spalmò con cura la saliva perché non si appannasse sott'acqua. Poi la sciacquò, se la premette contro il viso e strinse la cinghia dietro la nuca. Era una maschera molto costosa, coi bordi di morbido lattice. Non aveva il boccaglio, ma non gli serviva. Lui sapeva tenere il fiato per il tempo necessario a liberare una rete dalle rocce. Ucañan valutò quanto fosse alto il rischio di essere attaccato da uno squalo. A quella distanza dalla costa, in genere, non c'erano esemplari pericolosi per l'uomo. Talvolta erano stati avvistati pesci martello, mako e smerigli che saccheggiavano le reti da pesca, ma molto più al largo. In Perú, i grandi squali bianchi non si facevano vedere. Inoltre c'era una bella differenza tra l'immergersi in mare aperto e, come in quel caso, nelle immediate vicinanze di rocce e scogliere che offrivano una certa protezione. Decise che quanto era accaduto alla sua rete non era opera di uno squalo. La colpa era solo della sua sbadataggine. Tutto lì. Inspirò profondamente e poi si tuffò tra le onde a corpo morto. Doveva scendere il più velocemente possibile. S'immerse, aumentando rapidamente la distanza tra sé e la superficie. Dalla barca, l'acqua gli era apparsa scura e impenetrabile; adesso invece aveva intorno un mondo limpido e piacevole. La vista sulla scogliera vulcanica era perfetta e le rocce sembravano macchiate dalla luce del sole. Vide pochi pesci, ma non vi prestò molta attenzione. I suoi occhi stavano esaminando la formazione rocciosa alla ricerca del calcal. Non poteva indugiare troppo se non voleva rischiare che il caballito si allontanasse. In caso non avesse scorto nulla nei secondi successivi, sarebbe risalito, per poi ritentare.
Non poteva tornare senza rete, anche se fossero stati necessari dieci tentativi, anche se ci fosse voluta mezza giornata! Poi vide la boa. Si muoveva dolcemente dieci-quindici metri sopra uno sperone frastagliato. La rete era appena sotto e sembrava impigliata in diversi punti. Minuscoli pesci di barriera sciamarono tra le maglie e fuggirono in tutte le direzioni quando Ucañan si avvicinò. Si raddrizzò, batté i piedi e si apprestò a liberare il calcal. La corrente gli gonfiava la camicia aperta. Si accorse che la rete era completamente strappata. Osservò sbalordito quello scempio. Non poteva essere dovuto soltanto alle rocce. Perdio, che cosa si era scatenato? E dov'era adesso quel qualcosa? Preso dall'inquietudine, Ucañan cominciò ad affannarsi intorno al calcal. Era talmente malridotto che ci sarebbero voluti giorni per rammendarlo. Cominciava a mancargli l'aria. Forse non ce l'avrebbe fatta al primo tentativo, ma doveva riuscirci perché un calcal, anche se strappato, aveva comunque un certo valore. Si fermò. Non aveva senso. Conveniva prima risalire, vedere dov'era il caballito e poi reimmergersi. Stava ancora riflettendo quando successe qualcosa. Sulle prime, Ucañan pensò che una nuvola avesse coperto il sole. Le tremolanti macchie di luce sulle rocce erano sparite, la struttura rocciosa e la vegetazione sottomarina non proiettavano più l'ombra... Rimase sconcertato. Le sue mani, la rete... Tutto stava perdendo colore. Una simile trasformazione non poteva dipendere solo dalle nuvole. Nel giro di qualche secondo, il cielo sopra Ucañan si era oscurato. Lasciò il calcal e guardò in alto. Fin dove i suoi occhi riuscivano a vedere, si stendeva un banco di pesci scintillanti, lunghi un braccio. Per lo stupore, Ucañan lasciò uscire dai polmoni una parte dell'aria che salì, in bolle, verso la superficie. Si chiese da dove fosse arrivato così all'improvviso quel banco gigantesco. Non aveva mai visto nulla del genere. I corpi sembravano quasi immobili; solo di tanto in tanto un pesce dava un colpo di coda e si precipitava in avanti. Poi, di colpo, il banco corresse la propria rotta di alcuni gradi. Tutti gli animali seguirono quel movimento e i corpi si strinsero ancora di più.
Il tipico comportamento di un banco. Eppure qualcosa non quadrava. Ma non era tanto il comportamento dei pesci a disorientarlo, quanto i pesci stessi. Erano troppi. Ucañan ruotò su se stesso. Ovunque guardasse, vedeva quell'enorme quantità di pesci allungarsi all'infinito. Piegò all'indietro la testa e intravide il suo caballito, che segnava la scintillante superficie con un leggero movimento. Poi il banco si serrò completamente, diventando ancora più scuro. L'aria residua cominciò a bruciargli dolorosamente nei polmoni. Sgombri, pensò, sbalordito. Nessuno osava sperare che sarebbero tornati. In fondo avrebbe dovuto esserne felice. Gli sgombri avevano un buon prezzo sul mercato, e una rete piena di quei pesci avrebbe sfamato per un bel po' di tempo un pescatore e la sua famiglia. Ma Ucañan era tutt'altro che felice. In lui si stava insinuando il terrore. Quel banco era incredibile. Si estendeva da orizzonte a orizzonte. Erano stati gli sgombri a distruggere il calcal? Com'era possibile? Devi andartene, si disse. Si staccò dalle rocce. Sforzandosi di mantenere la calma, risalì lentamente, continuando a espirare. Poi sbatté contro i pesci, stretti l'uno all'altro. Lo dividevano dalla superficie dell'acqua, dalla luce del sole e dalla sua barca. Il banco era completamente bloccato, un'infinita distesa d'indifferenza dagli occhi vitrei. Sembrava quasi che i pesci fossero comparsi improvvisamente proprio per lui, come se lo aspettassero. Mi vogliono bloccare, pensò. Mi vogliono impedire di raggiungere la barca. Fu colto dal panico. Il cuore gli batteva all'impazzata. Ormai non si curava più del calcal strappato e della boa. Non rivolse neppure un pensiero al suo caballito: pensava solo a sfondare quella massa mostruosa per tornare in superficie, alla luce, nel suo elemento naturale, al sicuro. Alcuni pesci guizzarono di lato. E, in mezzo a loro, comparve qualcosa che serpeggiò verso Ucañan. Dopo un po', il vento si fece più fresco. Il cielo era sempre sgombro di nuvole. Era una bella giornata. Il moto ondoso era leggermente aumentato, benché ciò non costituisse un pericolo per un uomo in una piccola barca.
Però non si vedeva nessun uomo. Non si vedeva nessuno, da nessuna parte. Solo un caballito, uno degli ultimi di quel genere, galleggiava lentamente verso l'oceano sconfinato. PARTE PRIMA ANOMALIE «Il secondo versò la sua coppa nel mare che diventò sangue come quello di un morto e perì ogni essere vivente che si trovava nel mare. Il terzo versò la sua coppa nei fiumi e nelle sorgenti delle acque, e diventarono sangue. Allora udii l'angelo delle acque che diceva: 'Sei giusto, tu che sei e che eri...'» Apocalisse, 16: 3-5 «La settimana scorsa, sulla costa cilena, si è spiaggiato un gigantesco cadavere non identificato che all'aria aperta si è decomposto in poche ore. Secondo le dichiarazioni della guardia costiera cilena, si tratta solo di una piccola parte di una massa molto più grande, che era stata vista galleggiare in mare. Gli esperti cileni hanno escluso la possibilità che si tratti di un vertebrato, perché completamente privo di ossa. La massa è inoltre troppo grande per essere pelle di balena e non ne ha neppure l'odore. Le attuali conoscenze rivelano una sorprendente somiglianza coi cosiddetti globster. Tali masse gelatinose arrivano sulle coste sempre più di frequente. Al momento non è possibile ipotizzare da quale animale provengano.» CNN, 17 aprile 2003 4 marzo Trondheim, costa norvegese In fondo, la città era troppo affascinante per ospitare scuole superiori o centri di ricerca. Specialmente a Bakklandet o a Mollenberg, non c'era nulla che potesse far pensare a una metropoli tecnologica. Nel mezzo dell'idillio variopinto di case di legno ammodernate, parchi, chiesette rurali, pala-
fitte sul fiume e cortiletti pittoreschi sembrava non esserci posto per l'idea di progresso. E invece, proprio a due passi da lì, c'era l'NTNU, il più grande politecnico norvegese. Poche città riuscivano a coniugare passato e futuro altrettanto bene come Trondheim. E per quello Sigur Johanson si considerava fortunato ad abitare a Mollenberg, in via Kirkegata, una strada che pareva fuori dal tempo. La sua casa color ocra, col tetto a capanna, un balconcino dipinto di bianco e la porta con l'architrave avrebbe entusiasmato ogni regista hollywoodiano. Benché Johanson ringraziasse il destino di averlo portato a occuparsi di biologia marina, e soprattutto di uno dei settori di ricerca più legati al presente, il «qui e ora» lo interessava solo marginalmente. Era un visionario e, come tutti i visionari, era affezionato tanto agli ideali assolutamente nuovi quanto a quelli passati. La sua vita era permeata dallo spirito di Jules Verne. Nessuno aveva saputo coniugare lo scoppiettante ritmo dell'era delle macchine, l'ultraconservatore comportamento cavalleresco e il gusto dell'impossibile come il grande scrittore francese. Il presente era una lumaca che si portava sul dorso necessità oggettive e banalità e per questo non trovava spazio nell'universo di Sigur Johanson, il quale, pur sapendo di essergli assoggettato e di dovergli concedere qualcosa, lo disprezzava per il modo in cui esso trattava quello che lui gli concedeva. In quel tardo pomeriggio invernale, di ritorno da un fine settimana interamente dedicato al passato, Johanson guidava la sua jeep lungo Ovre Bakklandet verso l'NTNU. Alla sua destra si snodava lo splendente fiume Nidelva. Era stato nei boschi e aveva visitato i villaggi della zona che sembravano non essere neppure stati sfiorati dal tempo. D'estate avrebbe preso la Jaguar, mettendo nel bagagliaio un cestino da picnic con pane appena sfornato, pâté di fegato d'oca acquistato in gastronomia e avvolto in carta stagnola e una bottiglia di Gewürztraminer, preferibilmente del 1985. Fin da quando si era trasferito lì da Oslo, Johanson aveva scoperto una serie di luoghi in cui non si trovavano né gli abitanti di Trondheim, in cerca di tranquillità, né turisti. Due anni prima, per caso, era finito sulla riva di un laghetto appartato e lì, con grande gioia, aveva visto una piccola casa di campagna da ristrutturare. C'era voluto del tempo per trovare il proprietario - un dirigente della società di ricerche petrolifere Statoil che si era temporaneamente trasferito a Stavanger, - ma poi l'acquisto della casa era stato concluso in fretta. L'uomo era stato felicissimo di aver trovato un acquirente e l'aveva venduta a poco prezzo. Nelle settimane successive, Johanson l'aveva fatta rimettere in sesto da alcuni russi immigrati illegalmente e l'a-
veva trasformata sul modello dei rifugi che i signori del XIX secolo amavano adibire a residenza di campagna e luogo di piacere. Durante le lunghe serate estive, lui sedeva nella veranda con vista sul lago, leggeva i più visionari tra i classici - da Thomas More a Jonathan Swift e H.G. Wells - ascoltava Mahler e Sibelius, il pianoforte di Glenn Gould e le composizioni di Ravel nell'interpretazione di Celibidache. Aveva anche raccolto una voluminosa biblioteca. Johanson possedeva due copie di quasi tutti i suoi libri preferiti e lo stesso valeva per i CD. Non poteva pensare di rinunciarvi, ovunque si trovasse. Johanson guidava lungo il terreno leggermente in salita. Davanti a lui c'era il blocco principale dell'NTNU, un imponente edificio spolverato di neve, costruito all'inizio del XX secolo. Sembrava quasi un castello. Dietro di esso si estendeva la zona universitaria vera e propria, coi fabbricati per le aule e coi laboratori. Diecimila studenti popolavano un'area che sembrava una piccola città. Ovunque dominava una vitalità rumorosa. Si concesse un momento per gustare il ricordo della sensazione di benessere provata al lago. Era stato fantastico, lì, da solo e in uno stato di profonda ispirazione. Talvolta, l'estate precedente, aveva portato con sé una ragazza, un'assistente del dipartimento di Cardiologia, conosciuta durante un viaggio per recarsi a un congresso. Erano arrivati in fretta al dunque, ma, alla fine dell'estate, per Johanson quella storia era già finita. Non voleva legami, soprattutto perché sapeva valutare perfettamente la realtà: lui aveva cinquantasei anni e lei trenta di meno. Bello per qualche settimana; inaccettabile per la vita, soprattutto perché ormai ciò che aveva vissuto era molto più di quanto gli restava da vivere. Posteggiò nel parcheggio a lui riservato e si avviò verso l'edificio della facoltà di Scienze naturali. Quando entrò nel suo ufficio, aveva la mente ancora persa nel ricordo del lago e quasi non si accorse di Tina Lund che stava alla finestra e che si era voltata al suo arrivo. «Sei un po' in ritardo», ironizzò la donna. «È colpa del vino rosso oppure c'era qualcuno che non ti voleva lasciar andare?» Johanson sorrise. Tina Lund lavorava per la Statoil ed era impegnata nei centri di ricerca della Sintef. La fondazione Sintef era una delle più grandi strutture di ricerca indipendenti d'Europa e le industrie norvegesi offshore dovevano proprio alla Sintef il loro sviluppo nei settori più all'avanguardia. Era principalmente grazie alla stretta collaborazione tra la Sintef e l'NTNU che Trondheim si era guadagnata la fama di centro per le tecnologie sperimentali. Gli impianti della Sintef erano distribuiti in tutta la zona. E Tina
Lund, che nel corso di una breve e rapida carriera era diventata vice capo progetto per la scoperta di nuovi giacimenti petroliferi, da alcune settimane aveva piantato le tende al Marintek, l'Istituto di tecnologie marine, di fatto una succursale della Sintef. Mentre si levava il cappotto, Johanson osservò la figura alta e slanciata della donna. Tina gli piaceva. Alcuni anni prima tra loro era sbocciato l'amore, ma solo per poco: si erano resi subito conto che sarebbe stato meglio lasciar perdere e mantenere soltanto una buona amicizia. Da allora, si scambiavano informazioni sul lavoro e ogni tanto andavano a mangiare insieme. «Gli uomini anziani devono farsi delle belle dormite», ribatté Johanson. «Vuoi un caffè?» «Se c'è.» Guardò nell'ufficio della segreteria e ne trovò una caffettiera piena. La sua segretaria non c'era. «Solo latte», gridò Tina. «Lo so.» Sigur Johanson versò il caffè in due grandi tazze e in una aggiunse il latte, poi tornò nel suo ufficio. «So tutto di te. Te ne sei dimenticata?» «Non sei arrivato al punto di conoscermi così a fondo.» «No, grazie al cielo. Siediti. Come mai sei qui?» Tina prese il caffè e ne bevve un sorso, ma non fece neppure il gesto di sedersi. «Per un verme, credo.» Johanson aggrottò le sopracciglia e la osservò. Tina ricambiò lo sguardo come se si aspettasse una presa di posizione ancor prima di sentire la domanda. Aveva un temperamento impaziente. Lui bevve un sorso. «Credi?» Invece di rispondere, lei prese dal davanzale della finestra un contenitore di acciaio smerigliato e lo appoggiò sulla scrivania davanti a Johanson. «Guarda dentro.» Lui sbloccò la chiusura e sollevò il coperchio. Il contenitore era per metà pieno d'acqua, nella quale si attorcigliava qualcosa di lungo e peloso. Lo osservò con attenzione. «Hai idea di cosa sia?» chiese Tina. Lui scrollò le spalle. «Vermi. Due esemplari. Davvero magnifici.» «Anche noi siamo della stessa opinione. È la specie che ci fa impazzire.» «Voi non siete biologi. Sono policheti.» «Lo so, che sono policheti.» Tina esitò. «Li puoi esaminare e classifica-
re? Ci servirebbero dei dati il prima possibile.» «Certo.» Johanson si chinò sul piccolo contenitore. «Come ho già detto, sono senza dubbio policheti. E anche belli. Tutti colorati. Il fondale marino è abitato da animaletti simili. Ma non ho idea di che specie siano. Perché vi preoccupano?» «Se solo lo sapessimo...» «Non lo sapete?» «Arrivano dal margine continentale. Da settecento metri di profondità.» Johanson si grattò il mento. Gli animali nel contenitore guizzavano e si attorcigliavano. Volevano mangiare, pensò lui, però lì non c'era niente. Trovava singolare che fossero ancora vivi. La maggior parte degli organismi soffriva quando veniva portata in superficie da una simile profondità. Sollevò lo sguardo. «Posso provarci. Domani va bene?» «Sarebbe l'ideale.» Tina fece una pausa, poi riprese: «Hai notato qualcosa, vero? Ti si legge negli occhi». «Forse.» «Che cosa?» «Non posso dirlo con sicurezza. Non sono un classificatore di specie, non sono un tassonomo. Ci sono policheti di tutti i colori e di tutte le forme possibili. Non ne conosco tutta la gamma, però ne conosco una buona quantità. Questi qui mi sembrano... Non lo so, appunto, non lo so.» «Peccato.» Il viso di Tina si rabbuiò, ma subito dopo lei sorrise. «Perché non li esamini subito e a pranzo mi dici il tuo parere?» «Così in fretta? Credi che non abbia niente da fare?» «Se penso a che ora sei arrivato, non posso credere che tu sia sommerso di lavoro.» Sfortunatamente aveva ragione. «Va bene», sospirò Johanson. «Possiamo trovarci all'una nella caffetteria. Dovrei tagliarne dei pezzettini... Posso farlo oppure avevi intenzione di stringere amicizia con loro?» «Fa' come credi. A dopo, Sigur.» Tina uscì in fretta. Johanson la seguì con lo sguardo e si chiese se una storia con lei non sarebbe stata divertente. Ma Tina viveva di corsa. Troppo frenetica per uno come lui che amava la tranquillità e odiava rincorrere gli altri. Controllò la posta, fece una serie di telefonate rimandate da tempo e infine portò in laboratorio il contenitore coi vermi. Si trattava di policheti, senza dubbio. Appartenevano al tipo degli anellidi, come le sanguisughe, e in fondo non erano una forma di vita particolarmente complessa. Il motivo per cui affascinavano gli zoologi era di tutt'altra natura. I policheti erano
una delle più antiche forme di vita conosciute; i ritrovamenti fossili dimostravano che esistevano in una forma pressoché invariata già dal Medio Cambriano, cioè da circa cinquecento milioni di anni. Abitavano negli abissi marini, ne smuovevano i sedimenti ed erano il nutrimento per pesci e granchi. La maggior parte degli uomini ne era disgustata, soprattutto perché gli esemplari conservati nell'alcol perdevano i loro splendidi colori. Johanson, invece, vedeva in loro i sopravvissuti di un mondo sommerso e gli sembravano di una bellezza unica. Guardò per qualche istante i corpi rosa con le escrescenze tentacolari e i bianchi ciuffi setolosi. Poi innaffiò entrambi i vermi con una soluzione di cloruro di magnesio, per distenderli. C'erano diversi modi per uccidere un verme. Il più comune era metterli nell'alcol, nella vodka o nell'acquavite. Per l'uomo si sarebbe trattato di una morte in stato di ebbrezza... non il modo peggiore per crepare, insomma. I vermi la vedevano in modo diverso e, se prima non li si distendeva, nella lotta contro la morte essi si trasformavano in un duro groviglio. Col cloruro di magnesio, invece, i muscoli degli animali si distendevano, potendo così operare in piena libertà. Per precauzione, Johanson congelò uno dei due vermi. Era sempre bene tenere un esemplare di riserva nel caso si volessero fare analisi genetiche o determinare il numero degli isotopi stabili. Immerse nell'alcol il secondo verme, lo osservò ancora un po', lo distese sul piano di lavoro e lo misurò. Era quasi diciassette centimetri. Poi lo tagliò per il lungo ed emise un leggero fischio. «Ragazzo mio, hai proprio dei bei dentini», borbottò. Anche all'interno, il verme mostrava la caratteristica struttura degli anellidi. La proboscide, che i policheti potevano estrarre velocissimamente per catturare una preda, era ritratta nell'involucro protettivo. Il verme era inoltre dotato di mascella chitinosa, con diverse file di minuscoli denti. Johanson aveva già esaminato molte creature simili, ma quella mascella superava per dimensioni tutte quelle che conosceva. Più osservava quel verme, più s'insinuava in lui il sospetto che quella specie non fosse ancora stata classificata. Bene, pensò. Fama e onore! Quando mai si riesce a scoprire una nuova specie? Non ne era ancora sicuro, così consultò intranet e frugò per un po' nella giungla dei dati. In effetti era sorprendente: quel verme c'era e, nel contempo, non c'era. Pian piano Johanson fu preso dalla curiosità. Era così affascinato dal suo lavoro che quasi si dimenticò del motivo per cui stava facendo quegli esami. Infatti fu costretto a precipitarsi verso la caffetteria
dell'università, lungo i viali con le coperture di vetro, perché era in ritardo di un quarto d'ora. Entrò di corsa e, a un tavolo nell'angolo, vide Tina, che gli stava facendo un cenno. La raggiunse. «Mi dispiace... È tanto che aspetti?» chiese. «Ore e ore. Sto morendo di fame.» «Possiamo prendere lo spezzatino di tacchino. La settimana scorsa era ottimo», consigliò lui. Tina annuì. Chi conosceva Johanson, sapeva che in fatto di gusti era più che affidabile. Lei ordinò una Coca-Cola e lui si concesse un bicchiere di Chardonnay. Mentre Tina si agitava sulla sedia, Sigur, impassibile, continuava ad annusare il bicchiere per sentire se il vino aveva odore di tappo. «Allora?» chiese lei. Sigur bevve un sorso e schioccò le labbra. «Come deve essere: fresco e intenso.» Tina lo guardò senza capire. Poi strabuzzò gli occhi. «Molto buono.» Johanson posò il bicchiere e accavallò le gambe. In un certo senso, si divertiva a mettere alla prova la pazienza di Tina. Se la meritava, quella tortura, visto che aveva avuto la faccia tosta di presentarsi da lui il lunedì mattina con del lavoro da fare. «Anellidi, classe dei policheti... Ma questo lo sapevamo già. Non ti aspetti mica un rapporto completo, vero? Richiederebbe settimane o mesi. Per il momento, potrei classificare i tuoi due esemplari come mutazione o nuova specie. Oppure entrambe le cose.» «Non sei molto preciso.» «Perdonami. Dove li avete trovati, esattamente?» Tina gli descrisse il luogo. Si trovava a una notevole distanza dalla terraferma, là dove lo zoccolo continentale norvegese scendeva a strapiombo nelle profondità marine. Johanson ascoltava, pensieroso. «Posso chiedere che cosa ci fate da quelle parti?» domandò. «Analizziamo i merluzzi.» «Oh! Ce ne sono ancora? Mi fa piacere.» «Che spiritoso. Sai bene quali sono i problemi che s'incontrano nell'estrazione del petrolio. Non vogliamo essere accusati di aver trascurato qualche dettaglio.» «Costruite una piattaforma? Credevo che le estrazioni fossero in calo.» «Per il momento non è un problema mio», disse Tina leggermente innervosita. «Il mio problema è se si può costruire là. Così al largo non ab-
biamo ancora osato. Dobbiamo esaminare i presupposti tecnici e dimostrare che il nostro lavoro sia ecocompatibile. Andiamo a vedere che cosa nuota là sotto e com'è fatto l'ambiente, così non rischiamo di deturparlo.» Johanson annuì. Il problema di Tina erano i risultati della Conferenza del mare del Nord, in seguito alla quale il ministero della Pesca aveva manifestato una certa perplessità sui milioni di tonnellate d'acqua di produzione inquinata che venivano pompate in mare. I numerosi impianti offshore nel mare del Nord e lungo la costa norvegese estraevano dai fondali marini il petrolio con l'acqua di produzione, rimasta mescolata al greggio per milioni di anni e satura di prodotti chimici. In genere, durante l'estrazione, l'acqua veniva separata in modo meccanico dal petrolio greggio e scaricata direttamente in mare. Per decenni, nessuno aveva messo in discussione quella prassi, ma poi il governo aveva incaricato il Martinek di effettuare uno studio, e i risultati avevano fatto sobbalzare tanto gli ambientalisti quanto i gruppi petroliferi. Certe sostanze contenute nelle acque di produzione danneggiavano il sistema riproduttivo del merluzzo, perché avevano l'effetto di un ormone femminile. I pesci maschi diventavano sterili o cambiavano sesso. E sembrava che pure altre specie fossero minacciate. L'estrazione rischiava di subire un blocco immediato, e i petrolieri erano stati costretti a cercare altre alternative. «È giusto che vi tengano d'occhio. E più lo fanno con attenzione, meglio è», disse Johanson. «Mi sei davvero d'aiuto.» Tina sospirò. «In ogni caso, per gli scavi sulla scarpata continentale abbiamo fatto esami approfonditi, eseguendo misurazioni sismiche e mandando i robot a settecento metri per fare fotografie.» «Fotografie di vermi.» «Già. Ne siamo rimasti sbalorditi. Non ci aspettavamo di trovarli là sotto.» «Be', i vermi sono ovunque. E al di sopra dei settecento metri? Li avete trovati anche lì?» «No.» Tina si agitò di nuovo sulla sedia, impaziente. «Allora, che mi dici di quelle maledette bestie? Vorrei archiviare la faccenda... Abbiamo ancora una montagna di lavoro da fare.» Johanson appoggiò il mento alle mani. «Il problema del tuo verme è che in realtà sono due», disse. Lei lo guardò senza capire. «Certo che sono due vermi.» «Non intendo il numero, ma la specie. Se non mi sbaglio, appartengono a una specie scoperta da poco, di cui non si sa praticamente nulla. Sono
stati trovati nel golfo del Messico, dove vivono sul fondo del mare ed evidentemente sfruttano i batteri, che a loro volta usano il metano come fonte di energia e di sviluppo.» «Hai detto 'metano'?» «Sì. E ora la faccenda si fa avvincente. I tuoi vermi sono troppo grossi per la loro specie. Voglio dire, ci sono policheti che possono diventare lunghi due metri e più. E alcuni sono anche molto vecchi. Ma questi sono di un calibro differente e hanno un'origine diversa. Se i tuoi vermi sono identici a quelli del golfo del Messico, allora, dal momento della scoperta, devono essere cresciuti parecchio. Quelli del golfo misurano al massimo cinque centimetri, questi sono tre volte tanto. Inoltre non erano mai stati trovati sulla scarpata continentale norvegese.» «Interessante. Come lo spieghi?» «Non farmi ridere! Non posso spiegarlo. Al momento, l'unica risposta che posso darti è che siete incappati in una nuova specie e farvi i miei complimenti. Esteriormente somiglia al verme del ghiaccio messicano, tuttavia, per dimensioni e per altre caratteristiche fisiche, è un verme completamente diverso. Per meglio dire, è un verme che credevamo estinto da tempo, un piccolo mostriciattolo del Cambriano. Mi meraviglia soltanto che...» Esitò. La zona era stata setacciata così minuziosamente dalle compagnie petrolifere che un verme di quelle dimensioni doveva essere stato notato da tempo. «Soltanto...?» lo incalzò Tina. «Ma sì. O finora siamo stati ciechi, oppure i tuoi nuovi amici prima non erano lì. Forse sono arrivati da zone più profonde.» «Quindi si pone il problema del perché siano risaliti.» Tina rimase per un po' in silenzio. Poi disse: «Quando puoi finire il rapporto?» «Quanto stressi!» «Non posso aspettare un mese!» «Va bene», disse Johanson, alzando le braccia per rabbonirla. «Dovrò spedire i tuoi vermi in tutto il mondo, e per questo ho le persone giuste. Dammi due settimane. E non cercare di accorciare i tempi. Con tutta la buona volontà, non si può fare più in fretta.» Tina non ribatté. Arrivò il cibo, ma lei non lo sfiorò neppure, continuando a fissare il vuoto davanti a sé. «E si nutrono di metano?» domandò quindi. «Di batteri che si nutrono di metano», la corresse lui. «Un sistema simbiotico particolarmente complicato che ti possono spiegare meglio persone
più esperte di me. Ma ciò vale per il verme che credo sia imparentato col tuo. Non posso dire nulla di più.» «Se è più grande di quello del golfo del Messico, allora ha anche più appetito», borbottò Tina. «Sicuramente più di te», osservò Johanson, guardando il piatto davanti alla donna. «Comunque mi sarebbe d'aiuto se potessi fornirmi altri esemplari della specie.» «Non mancano di certo.» «Ne avete altri?» Tina annuì, con una singolare espressione negli occhi. Poi iniziò a mangiare. «Una dozzina. Ma sulla scarpata ce ne sono molti di più», rispose. «Molti?» «Approssimativamente...» Fece una pausa, quindi concluse: «Be', direi qualche milione». 12 marzo Vancouver Island, Canada I giorni passavano, ma la pioggia non cessava. Leon Anawak non riusciva a ricordare l'ultima volta che aveva piovuto così tanto. Guardò fuori, verso l'oceano piatto e uniforme. L'orizzonte era come una linea di argento vivo tra la superficie dell'acqua e le incombenti masse nuvolose. Laggiù sembrava profilarsi una pausa dopo giorni di scrosci ininterrotti, ma di più non si sapeva. Poteva anche scendere la nebbia. L'oceano Pacifico mandava quello che voleva, in genere senza preavviso. Senza perdere di vista la linea dell'orizzonte, Anawak accelerò la velocità del Blue Shark e avanzò. Lo zodiac - così erano chiamati i grandi gommoni dotati di potenti motori - era completamente occupato: dodici persone in tuta antipioggia, armate di binocoli e videocamere. E quella gente si stava ormai perdendo d'animo. Da oltre un'ora e mezzo era in attesa delle balene grigie e delle megattere che in febbraio avevano lasciato la Bassa California e le acque calde intorno alle Hawaii per spostarsi in massa nella zona estiva di nutrimento: l'Artico. Ogni volta percorrevano sedicimila chilometri. Il loro viaggio le portava dal Pacifico, attraverso il mare di Bering, al mare dei Ciukci fino al limite del pack, il paese della cuccagna, dove si riempivano la pancia di granchi e gamberetti. Quando le giornate tornavano ad accorciarsi, riprendevano a ritroso il lungo viaggio verso il Messico.
Lì, protette dalle orche, i loro peggiori nemici, mettevano al mondo i piccoli. Due volte all'anno, i branchi degli enormi mammiferi marini passavano dalla British Columbia e dalle acque prospicienti Vancouver Island; erano mesi in cui nelle stazioni di osservazione delle balene, in località come Tofino, Ucluelet e Victoria, si registrava il tutto esaurito. Quell'anno non era così. Già da tempo gli esemplari delle due specie avrebbero dovuto mostrare la testa o la coda per le foto d'obbligo. In quel periodo, la possibilità di vedere le balene era così elevata che la Davies Whaling Station garantiva un secondo viaggio gratis nel caso non se ne fossero viste. Ma due ore senza avvistamenti erano indice di un giorno proprio sfortunato. Una settimana poteva offrire qualche motivo di preoccupazione, però una cosa simile non era mai capitata: sembrava che le balene si fossero perse da qualche parte tra la California e il Canada. Anche per quel giorno, insomma, niente di niente. Le videocamere erano riposte e a casa non ci sarebbe stato nulla da raccontare, se non la navigazione nei pressi di una magnifica costa rocciosa... peccato che fosse nascosta da una cortina di pioggia. Abituato a fornire spiegazioni durante gli avvistamenti, Anawak si sentiva la lingua incollata al palato. Nel corso dell'ultima ora e mezzo aveva raccontato la storia della regione e gli aneddoti migliori nel tentativo di non deprimere ulteriormente i turisti. Ma ormai sembrava che nessuno volesse più saperne di cetacei e orsi bruni. Le sue manovre diversive di riserva erano terminate e lui si chiedeva dove diavolo fossero finite le balene. In realtà si sarebbe dovuto preoccupare dei turisti che avevano pagato, ma al momento non poteva far nulla per loro. «Torniamo indietro», decise. Silenzio di delusione. Il viaggio di ritorno attraverso il Clayoquot Sound richiedeva almeno tre quarti d'ora e tutti erano bagnati fin nelle ossa. Ma lo zodiac disponeva di due potenti motori che, spinti al massimo, garantivano un viaggio adrenalinico e l'unica cosa che Anawak ormai poteva offrire ai clienti era il brivido della velocità. Smise di piovere non appena comparvero le case di Tofino e il molo della Davies Whaling Station. Le colline e le sagome delle montagne sembravano ritagliate nel cartone grigio, le cime erano avvolte dalla foschia e dalle nuvole. Prima di ormeggiare lo zodiac, Anawak aiutò i passeggeri a scendere, perché la scaletta che conduceva al molo era scivolosa. Sulla terrazza dell'edificio della stazione si era già radunato il gruppo successivo, in
attesa di un'avventura che non ci sarebbe stata. Ma Anawak non se ne curava più. Era stanco di preoccuparsi degli altri. «Se va avanti così, dovremo cambiare mestiere», gli disse Susan Stringer, non appena fu entrato nella biglietteria. Era dietro il bancone e sistemava gli opuscoli nell'apposito espositore. «Potremmo osservare scoiattoli, che ne dici?» La Davies Whaling Station era un vero bazar - un negozio pieno di opere di artigianato, souvenir kitsch, vestiti e libri - e Susan Stringer era incaricata di gestirla. Come aveva fatto anche Anawak, lavorava per pagarsi gli studi. Anawak, invece, laureatosi quattro anni prima, era rimasto alla Davies a fare lo skipper. Nei mesi estivi si era dedicato alla scrittura di un libro sull'intelligenza e sulle strutture sociali dei mammiferi marini; quel libro, insieme coi suoi spettacolari esperimenti, aveva attirato l'attenzione degli specialisti, che avevano iniziato a trattarlo come un astro nascente della scienza. Alla spicciolata, gli erano arrivate offerte allettanti, posti ben retribuiti di fronte ai quali l'idea di una vita semplice in mezzo alla natura di Vancouver Island rischiava di perdere il suo fascino. Anawak sapeva che prima o poi avrebbe ceduto e si sarebbe stabilito in una delle città da cui provenivano le offerte: il suo futuro sembrava già deciso. Aveva trentun anni e ben presto sarebbe diventato professore oppure avrebbe avuto un posto di ricercatore in un grande istituto, avrebbe pubblicato articoli su riviste specialistiche e partecipato a congressi. Avrebbe abitato nell'attico di una casa di lusso, contro le cui fondamenta si sarebbero infrante le ondate del traffico dell'ora di punta. Cominciò a sbottonare la tuta arancione. «Se almeno si potesse fare qualcosa», disse cupo. «Fare che cosa?» «Cercare.» «Non volevi parlare con Rod Palm dell'interpretazione degli esami telemetrici?» «L'ho fatto.» «E allora?» «Non c'è molto, a quanto pare. In gennaio hanno messo dei rilevatori di posizione a qualche leone marino e a qualche foca, tutto lì. I dati ci sono, ma le trasmissioni finiscono poco dopo l'inizio della migrazione. Silenzio radio.» «Non preoccuparti. Arriveranno. Migliaia di balene non spariscono nel nulla.»
«A quanto pare invece è proprio così.» Lei sorrise. «Forse sono in coda a Seattle. A Seattle c'è sempre coda.» «Molto spiritosa.» «Forza, rilassati! Anche i primi anni qualche volta hanno tardato. Che dici, ci vediamo stasera allo Schooners?» «Io... no. Devo preparare l'esperimento col beluga», rispose Anawak. Susan lo osservò, accigliata. «Se lo vuoi sapere, esageri un po' col lavoro.» Lui scosse la testa. «Devo farlo, Susan. Per me è importante e poi non capisco nulla del corso azionario.» La stoccata era rivolta a Roddy Walker, il ragazzo di Susan. Faceva il broker a Vancouver e avrebbe trascorso qualche giorno a Tofino. La sua idea di vacanza consisteva nel dare sui nervi agli altri, parlando ininterrottamente al cellulare o elargendo consigli finanziari, ovviamente sempre a voce altissima. Susan aveva compreso da tempo che tra i due giovani non sarebbe mai nata un'amicizia, soprattutto dopo che Walker aveva tormentato Anawak per una serata intera, interrogandolo sulle sue origini. «Forse non ci crederai, ma Roddy sa parlare anche di altre cose», disse lei. «Davvero?» «Se glielo si chiede con gentilezza», disse. Una frase un po' tagliente. «Va bene. Allora verrò più tardi», concluse lui. «Sciocchezze. Non verrai neppure più tardi.» Anawak sorrise. «Se me lo chiedi con gentilezza...» Sapevano entrambi che non si sarebbe presentato, tuttavia Susan disse: «Ci troviamo verso le otto, in caso ci ripensi. Forse dovresti alzare il tuo sedere ricoperto di molluschi. C'è anche la sorella di Tom e viene per te». La sorella di Tom non era il peggiore degli argomenti per convincerlo. Ma Tom Shoemaker era il direttore amministrativo della Davies, e ad Anawak non piaceva l'idea di stringere legami proprio quando aveva già in mente di andarsene. «Ci penserò.» Susan sorrise, scrollò la testa e uscì. Anawak andò avanti a servire i clienti finché non comparve Tom, che gli concesse mezza giornata di libertà. Uscì sulla strada principale di Tofino. La Davies Whaling Station si trovava proprio all'ingresso del paese. L'edificio era carino: una tipica casa di legno con frontone rosso, terrazza sul tetto e un prato sul davanti da cui, come simbolo, spuntava una coda di ba-
lena alta sette metri, fatta con legno di cedro. Nelle immediate vicinanze iniziava un bosco di abeti. Lì il Canada appariva esattamente come lo immaginavano gli europei. Ad alimentare quell'atmosfera contribuivano gli indigeni, che, di sera, alla luce delle lanterne antivento, raccontavano di orsi arrivati fin nei loro giardini e di cavalcate sul dorso delle balene. Non tutto era vero, ma la maggior parte sì. Vancouver Island nutriva con entusiasmo il mito di rappresentare l'essenza stessa del Canada. La striscia di costa occidentale tra Tofino e Port Renfrew - con le spiagge che scendevano dolcemente verso il mare, le baie singolari, circondate da abeti secolari e cedri, le paludi, i fiumi e il panorama frastagliato - attirava ogni anno frotte di visitatori. Con un po' di fortuna, era possibile vedere balene grigie, lontre e leoni marini che prendevano il sole nei pressi della costa. Per molti, quell'isola era sempre un paradiso, anche quando il mare mandava la pioggia. Anawak non degnò il panorama di uno sguardo. S'inoltrò nel paese e svoltò verso il molo. Lì c'era ancorata una barca a vela, un dodici metri, vecchia e cadente. Apparteneva a Davie, il direttore della stazione. Non volendo investire denaro per riportarla in mare, Davie l'aveva affittata per una cifra bassissima ad Anawak, che ne aveva fatto la sua casa. Aveva anche un appartamento a Vancouver, ma ci andava soltanto se si doveva fermare in città un po' più del solito. Scese sottocoperta, prese un plico di appunti e tornò alla stazione. A Vancouver aveva un'auto - una Ford arrugginita -, ma, per le dimensioni dell'isola, era sufficiente prendere in prestito la vecchia Land Cruiser di Shoemaker. Salì, accese il motore e si avviò verso il Wickaninnish Inn, un hotel di lusso distante pochi chilometri, situato su una parete rocciosa a strapiombo con una splendida vista sull'oceano. Il cielo si era ulteriormente aperto e in alcuni punti s'intravedeva l'azzurro. La strada ben asfaltata costeggiava la fitta foresta. Dopo una decina di minuti, Anawak lasciò la macchina in un piccolo parcheggio e proseguì a piedi, scavalcando un gigantesco albero caduto, che stava lentamente marcendo, e imboccando un sentiero in salita, che serpeggiava nella Verde penombra. C'era odore di terra umida e l'acqua gocciolava. Dai rami degli abeti pendevano licheni e muschio. Sembrava che tutto fosse animato. Quando raggiunse il Wickaninnish Inn, il breve distacco dalla società umana aveva già avuto il suo effetto. Dato che il cielo si era in parte rasserenato, lui poteva sedersi in tutta tranquillità sulla spiaggia, in compagnia dei suoi appunti. La luce sarebbe stata sufficiente ancora per un po'. Men-
tre scendeva le scale a zig-zag, di legno, che portavano dall'hotel al mare, pensò che forse si sarebbe potuto finalmente gustare una cena al Wickaninnish Inn. La cucina era di prima categoria, e l'idea di essere lì - irraggiungibile da Walker e dalle sue sciocchezze - a guardare il tramonto del sole migliorò ulteriormente il suo umore. Circa dieci minuti dopo, sistemati su un albero caduto il laptop e i fogli, Anawak vide una figura scendere le scale e passeggiare lungo la spiaggia, vicino all'acqua blu argento. C'era bassa marea, e la sabbia illuminata dalla luce del sole calante era punteggiata dal legname portato dal mare. Quella persona sembrava non avere la minima fretta, però era evidente che, sebbene la stesse prendendo alla larga, stava puntando proprio verso l'albero di Anawak. Lui aggrottò la fronte e cercò di mostrarsi il più indaffarato possibile. Dopo un po' sentì il rumore leggero e scricchiolante dei passi che si avvicinavano e allora fissò i suoi appunti, ma ormai la concentrazione se n'era andata. «Salve», disse una voce cupa. Anawak sollevò lo sguardo. Davanti a lui c'era una donna gracile, dall'aria distinta. Aveva in mano una sigaretta e gli sorrideva gentilmente. Doveva avere quasi sessant'anni. I capelli erano grigi e corti e il viso appariva abbronzato e segnato da numerose rughe. Indossava un paio di jeans e una giacca a vento scura, ed era a piedi nudi. «Salve», replicò Anawak, in tono meno brusco di quanto avrebbe voluto. Nel momento in cui aveva alzato lo sguardo, non aveva più percepito la presenza della donna come un disturbo. I suoi occhi blu scuro scintillavano di curiosità. Da giovane doveva essere stata molto attraente, pensò lui. Ed emanava ancora un certo fascino. «Che cosa ci fa qui?» chiese la donna. In altre circostanze, Anawak avrebbe risposto a monosillabi e poi si sarebbe concentrato di nuovo sul lavoro. C'erano molti modi per far capire alle persone di andare al diavolo. E invece rispose: «Sto lavorando a un articolo sui beluga. E lei?» La donna fece un tiro di sigaretta, poi si sedette sul tronco, come se lui l'avesse invitata. Anawak la osservò di profilo, notando il naso piccolo e gli zigomi alti, e si rese conto che non era una sconosciuta. L'aveva già vista da qualche parte. «Anch'io sto lavorando a un articolo», disse la donna. «Ma temo che nessuno lo vorrà più leggere, se aspetterò ancora a pubblicarlo.» Lo guar-
dò. «Oggi ero sulla sua barca.» Ecco chi era... La donna minuta con gli occhiali da sole e il cappuccio tirato sulla testa. «Che cos'è successo alle balene? Non ne abbiamo incontrata neppure una.» «Non ce ne sono», replicò Anawak. «Perché?» «Non faccio che chiedermelo.» «Non lo sa?» «No.» La donna annuì, come se conoscesse bene quello stato d'animo. «Posso immaginare quello che le passa per la testa. Anche i miei non arrivano, ma, al contrario di lei, ne conosco il motivo.» «I suoi cosa non arrivano?» domandò Anawak. «Forse non dovrebbe stare ad aspettare... Dovrebbe cercare», disse la donna, eludendo la domanda di Anawak. «Certo che cerchiamo.» Appoggiò i fogli e si stupì della sua franchezza. Era come se stesse parlando a una vecchia amica. «Cerchiamo in tutti i modi.» «E come lo fate?» «Coi satelliti. Osservazioni a distanza. Inoltre siamo in grado di localizzare i movimenti dei branchi con l'ecoscandaglio. Ci sono varie possibilità.» «E tuttavia continuano a sfuggirvi?» chiese la donna. «Nessuno immaginava che non arrivassero. All'inizio di marzo ci sono stati degli avvistamenti all'altezza di Los Angeles, poi basta.» «Forse avreste dovuto guardare meglio», lo incalzò lei. «Sì, forse.» «E sono sparite tutte?» «No, non tutte.» Anawak sospirò. «È una cosa un po' complicata. Vuole sentirla?» «Altrimenti non l'avrei chiesto.» «Qui ci sono delle balene. Stanziali», cominciò lui. «Stanziali?» «Davanti a Vancouver Island si possono osservare ventitré specie diverse di balene. Alcune migrano periodicamente: balene grigie, megattere, balenottere minori; altre vivono nella zona. Abbiamo solo tre specie di orche.»
«Orche?» «Sì, orche.» «Ah! Le orche assassine.» «Quella definizione è del tutto priva di senso», replicò Anawak, seccato. «Le orche sono pacifiche e infatti non si sono mai registrate aggressioni all'uomo. 'Orca assassina'... Queste sciocchezze sono state diffuse da Cousteau, che non si vergogna a definire l'orca come 'nemico pubblico numero uno'. Oppure da Plinio nella sua Storia naturale! Sa che cosa scrive? 'Una mostruosa massa di carne armata di denti barbari'. Che sciocchezza. Possono dei denti essere barbari?» «I dentisti possono essere barbari», osservò lei, facendo un altro tiro di sigaretta. «Okay, ho capito. Che cosa vuol dire orca?» Anawak era sorpreso. Nessuno gli aveva mai fatto una simile domanda. «È una definizione scientifica», rispose. «E cosa vuol dire?» «Orcinus orca. 'Colui che appartiene al regno dei morti'. Ma, per piacere, non mi chieda chi si è inventato una cosa del genere.» Lei ridacchiò. «Ha detto che ci sono tre specie di orche.» Anawak indicò l'oceano. «Le orche 'offshore', di cui sappiamo pochissimo. Vanno e vengono, di solito in grandi gruppi. In genere vivono molto al largo. L'orca 'transiente' che invece vive da nomade in piccoli gruppi. Forse è quella che corrisponde meglio all'immagine del killer. Mangia di tutto: foche, leoni marini, delfini, uccelli... Attacca anche le balenottere azzurre. Qui, dove la costa è rocciosa, rimangono esclusivamente in acqua, ma a sud si trovano delle transienti che cacciano sulla spiaggia. Vanno all'asciutto e aggrediscono le foche e altri animali. Affascinante!» Si fermò, in attesa di una nuova domanda, ma la donna rimase in silenzio, limitandosi a soffiare il fumo nell'aria della sera. «La terza specie vive nelle immediate vicinanze dell'isola», proseguì allora Anawak. «Stanziali. Grandi famiglie. Conosce l'isola?» «Abbastanza.» «A est della terraferma c'è uno stretto, il Johnstone Strait. Le stanziali sono lì per tutto l'anno. Mangiano esclusivamente salmone. È dall'inizio degli anni '70 che studiamo la loro struttura sociale.» S'interruppe e la guardò, sbalordito. «Come siamo arrivati qui? Di che cosa le stavo parlando?» Lei sorrise. «È colpa mia. Mi dispiace, le ho fatto perdere il filo. Ma io devo sempre sapere tutto. Probabilmente faccio anche saltare i nervi con le
mie continue domande.» «Deformazione professionale?» «Sono nata così. Mi voleva spiegare quali balene sono sparite e quali no.» «Sì, lo volevo, ma...» «Non ha tempo.» Anawak esitò. Gettò un'occhiata ai fogli e al laptop. Nel corso della serata avrebbe dovuto finire l'articolo. Ma la serata era lunga. E poi aveva fame. «Soggiorna al Wickaninnish Inn?» le chiese. «Sì.» «Che cosa fa stasera?» «Oh!» Lei sollevò le sopracciglia e gli sorrise. «L'ultima volta me l'hanno chiesto dieci anni fa. Eccitante.» Sorrise anche lui. «A dire la verità, a spingermi a chiederlo è stata la fame. Pensavo che avremmo potuto continuare la nostra conversazione a tavola.» «Buona idea.» La donna si lasciò scivolare giù dal tronco, spense la sigaretta e ripose il mozzicone nella giacca a vento. «Però l'avverto: parlo con la bocca piena. E se la mia attenzione non viene tenuta desta, non faccio altro che parlare e interrompere con domande. Quindi dia il meglio di sé. A proposito...» Gli tese la mano destra. «Sono Samantha Crowe. Mi chiami Sam, come fanno tutti.» Si accomodarono a un tavolo vicino a una delle vetrate che delimitavano il ristorante. Era proprio davanti all'hotel e dominava sulle rocce, come se volesse gettarsi in mare. Dalla sommità si godeva la splendida vista del Clayoquot Sound con le sue isole, della baia e delle foreste che si stendevano nell'entroterra. Era un posto ideale per osservare le balene. Quell'anno, però, bisognava accontentarsi degli animali marini che arrivavano dalla cucina. «Il problema è che le orche offshore e quelle transienti non sono arrivate», spiegò Anawak. «Quindi, al momento, sulla costa occidentale non ci sono orche. Le stanziali sono tante come sempre, tuttavia preferiscono evitare questa zona, sebbene il Johnstone Strait sia per loro sempre meno accogliente.» «Come mai?» «Come si sentirebbe se dovesse dividere casa sua con traghetti, cargo, linee di navigazione di lusso e imbarcazioni per la pesca sportiva? Là fuori è tutto un rimbombare di navi a motore. Inoltre la zona prospera grazie al-
l'industria del legno e le linee di cargo portano intere foreste in Asia. La deforestazione provoca l'insabbiamento dei fiumi in cui i salmoni deponevano le uova. E le stanziali mangiano solo salmoni.» «Capisco. Ma lei non si preoccupa solo per le orche, vero?» chiese la donna. «Sono le balene grigie e le megattere a rappresentare un vero rompicapo. Forse hanno fatto una deviazione, oppure si sono stancate di essere osservate.» Anawak scosse la testa. «No, non è così semplice. I grandi cetacei che arrivano al largo di Vancouver Island ai primi di marzo non mangiano da mesi, perché, durante l'inverno trascorso nella Bassa California, hanno consumato tutto il grasso accumulato. Solo qui riescono a trovare il nutrimento.» «Forse si sono spostate molto più al largo», ipotizzò Samantha. «Là non c'è cibo a sufficienza. La Wickaninnish Bay, per esempio, offre alle balene grigie la parte fondamentale del loro nutrimento che al largo non troverebbero: Onuphis elegans.» «Elegans? Suona chic», commentò Samantha. Anawak sorrise. «È un verme, lungo e sottile. Nella baia sabbiosa è presente in quantità enormi, e le balene grigie lo mangiano a quattro palmenti. Senza questo pasto intermedio non riuscirebbero ad arrivare fino all'Artico.» Bevve un sorso d'acqua. «E, intorno alla metà degli anni '80, è successo: non sono arrivate. Però allora si conosceva il motivo. Le balene grigie erano quasi del tutto estinte. Cacciate a morte. Da allora le abbiamo decisamente rimesse in forza. Credo che oggi, nel mondo, se ne possano trovare ventimila esemplari, la maggior parte in queste acque.» «E non ne è arrivata neanche una?» «Le balene grigie stanziali ci sono, però sono poche», rispose Anawak. «E le megattere?» «Stessa storia. Sparite.» «Ha detto che sta scrivendo un articolo sui beluga?» domandò ancora Samantha. Anawak la fissò. «Che ne dice di raccontarmi qualcosa di lei? La curiosità non è un suo diritto esclusivo», replicò. Samantha Crowe gli lanciò uno sguardo divertito. «Davvero? Lei sa già la cosa più importante. Sono una vecchia scocciatrice e faccio domande.» Sopraggiunse un cameriere e servì ai due, gamberoni giganti con risotto allo zafferano. A dire la verità, stasera avresti voluto star qui da solo, senza nessuno a far domande, pensò Anawak. Eppure apprezzava la compa-
gnia di Samantha. «Che cosa chiede? A chi e perché?» Lei tirò fuori dalla corazza un gamberone profumato d'aglio. «Semplice. Io chiedo: c'è qualcuno?» «C'è qualcuno?» «Esatto.» «E la risposta qual è?» La polpa del gamberone le sparì tra due file di denti bianchissimi. «Non l'ho ancora avuta.» «Forse dovrebbe chiedere a voce più alta», propose Anawak, facendo il verso a quello lei che gli aveva detto sulla spiaggia. «Lo farei volentieri», disse Samantha, masticando. «Tuttavia, al momento, il mezzo e le possibilità mi bloccano a una distanza di circa duecento anni luce. Dalla metà degli anni '90 abbiamo analizzato sessanta miliardi di misurazioni e, di trentasette, non siamo ancora riusciti a capire se siano di origine naturale o il tentativo di qualcuno di dirci: 'Ciao'.» Anawak la fissò. «Il SETI? Lei è del SETI?» chiese. «Esatto. Search for Extra Terrestrial Intelligence. Del progetto di ricerca PHOENIX, per essere precisi», confermò Samantha. «Lei ascolta lo spazio.» «Circa un migliaio di stelle simili al sole che abbiano più di tre miliardi di anni, sì. È solo un progetto fra i tanti, ma forse il più importante, se mi permette l'immodestia.» «Perbacco!» «Non tenga la bocca aperta, Leon, non è una cosa così straordinaria. Lei analizza il canto delle balene e cerca di capire se ci stanno raccontando qualcosa. Noi ascoltiamo lo spazio perché siamo convinti che brulichi di civiltà intelligenti. Probabilmente lei, con le sue balene, ha ottenuto risultati migliori dei nostri.» «Io ho solo un paio di oceani; lei ha tutto l'universo.» «Ci muoviamo in dimensioni diverse, lo ammetto. Però ho sentito dire che delle profondità marine si sa ancora meno che dell'universo.» Anawak era affascinato. «E lei ha ricevuto segnali che potrebbero dimostrare l'esistenza di forme di vita intelligente?» «No, abbiamo captato segnali che non riusciamo a classificare. Le possibilità di ottenere un contatto sono molto basse, forse addirittura irrealistiche. A dire il vero, per la frustrazione dovrei gettarmi dal ponte più vicino, tuttavia mi piace troppo mangiare queste cosettine qui, e poi sono ossessionata. Più o meno come lei con le sue balene.»
«Io, perlomeno, so che esistono.» «Al momento pare di no», sorrise Samantha. Anawak avrebbe voluto fare mille domande. Il SETI l'aveva sempre interessato. Il progetto di ricerca d'intelligenze extraterrestri era stato formalmente avviato dalla NASA in occasione del Columbus Day del 1992. Ad Arecibo, in Portorico, era stato costruito il più grande radiotelescopio della Terra per portare a termine un progetto rivoluzionario. Nel frattempo, il SETI, grazie alla generosità degli sponsor, aveva intrapreso altri progetti in tutto il mondo, finalizzati alla ricerca di vita extraterrestre. Il PHOENIX era uno dei più noti. «È lei la donna che Jodie Foster ha interpretato in Contact?» chiese. «Io sono la donna che vorrebbe salire sullo stesso trabiccolo che nel film porta Jodie Foster dagli extraterrestri. Sa, per lei faccio un'eccezione, Leon. Normalmente sono presa da attacchi isterici se qualcuno mi chiede del mio lavoro. Ogni volta sono costretta a spiegare per ore quello che faccio.» «Anch'io.» «Appunto. Lei mi ha raccontato qualcosa e io sono in debito. Cos'altro vuole sapere?» Anawak non ebbe bisogno di riflettere. «Perché finora non avete ottenuto risultati?» Samantha sembrava divertita. Spazzolò i gamberoni giganti dal piatto e attese un po' prima di rispondere. «Chi ha detto che non ne abbiamo ottenuti? La Via Lattea contiene circa cento miliardi di stelle. Individuare pianeti simili alla Terra presenta qualche difficoltà, perché la loro luce è troppo debole. Riusciamo a postularne l'esistenza solo con calcoli matematici, ma teoricamente dovrebbero essere tantissimi. Comunque il problema rimane: provi lei ad ascoltare un miliardo di stelle!» «Certo», sorrise lui. «È molto più facile occuparsi di ventimila megattere.» «Come vede, c'è da invecchiare con un simile impegno. È un po' come se lei dovesse dimostrare l'esistenza di un pesce minuscolo e per farlo dovesse passare al setaccio ogni litro d'acqua dell'oceano. Ma i pesci si muovono. Potrebbe ripetere la procedura fino al giorno del giudizio e magari arrivare alla conclusione che un simile pesce non esiste. E invece ce ne sono tantissimi, solo che nuotano sempre in un litro d'acqua diverso da quello che lei sta osservando. Ora, il PHOENIX osserva contemporaneamente diversi litri d'acqua, ma diciamo che noi ci limitiamo al Georgia Strait. Capisce? Là fuori ci sono delle civiltà. Non lo posso provare, ma sono con-
vintissima che il loro numero sia enorme. Peccato che l'universo sia infinitamente grande. Questo annacqua le nostre possibilità molto più di quanto non faccia il distributore automatico di caffè ad Arecibo.» «La NASA non aveva trasmesso un messaggio nell'universo?» chiese Anawak. «Ah.» Gli occhi della donna brillavano. «Intende dire che non stiamo solo in ascolto, ma mandiamo anche segnali? Certo che l'abbiamo fatto. Nel 1974, da Arecibo, abbiamo spedito un messaggio verso M13, un ammasso stellare globulare. Ma ciò non risolve il nostro problema. Ogni segnale, che provenga sia da noi sia da altri, va perso nello spazio interstellare. Sarebbe un caso incredibile se venisse ricevuto da qualcuno. Inoltre stare ad ascoltare costa meno che mandare messaggi.» «Tuttavia aumenterebbe le possibilità.» «Forse non vogliamo aumentarle», disse Samantha. «Perché no?» «Noi vorremmo, però molti sono diffidenti. C'è gente convinta che sarebbe meglio non attirare l'attenzione perché 'loro' potrebbero arrivare qui e portarci via la nostra bella Terra. Uh! Potrebbero addirittura mangiarci.» «Ma è una sciocchezza.» «Non so se è una sciocchezza. Personalmente credo anch'io che un'intelligenza in grado di fare viaggi interstellari abbia ormai superato lo stadio del caos», replicò Samantha. «D'altra parte, credo anche che un simile argomento non possa essere trattato con leggerezza. L'umanità deve riflettere su come farsi notare. Altrimenti c'è il rischio di creare equivoci.» Anawak rimase in silenzio. Improvvisamente gli tornarono in mente le balene. «Non le capita mai di scoraggiarsi?» le chiese. «A chi non è mai successo? Ma per quello ci sono le sigarette e i video.» «E se raggiungesse il suo scopo?» «Buona domanda, Leon.» Samantha fece una pausa, strisciando distrattamente il dito sul piano del tavolo. «In fondo, è da anni che mi chiedo quale sia il nostro vero scopo. Credo che, se conoscessi la risposta, interromperei le ricerche. Una risposta è sempre la fine di una ricerca. Forse siamo tormentati dalla solitudine della nostra esistenza, dall'idea di essere un caso che non si è ripetuto da nessun'altra parte. Ma forse vogliamo anche la prova che siamo soli e quindi occupiamo davvero la posizione privilegiata che sosteniamo ci spetti nel creato. Non lo so. Perché lei studia balene e delfini?» «Sono... curioso.» No, non è del tutto vero, pensò Anawak mentre ri-
spondeva. È più che semplice curiosità. Ma che cosa sto cercando? Samantha aveva ragione. In fondo facevano la stessa cosa. Ciascuno tendeva l'orecchio nel proprio cosmo e sperava di ottenere risposte. Ciascuno provava il profondo desiderio di trovare una società di esseri intelligenti che non fossero umani. Una follia. Sembrava che Samantha avesse intuito i suoi pensieri. «Non facciamoci illusioni, la questione non è se, alla fine delle nostre ricerche, troveremo intelligenze aliene. In realtà, alla base delle nostre ricerche c'è una sola domanda: come cambierebbe l'umanità dopo la scoperta di altre intelligenze? Cosa ci resterebbe? E cosa perderemmo per sempre?» La donna si appoggiò allo schienale, si raddrizzò e gli rivolse un sorriso gentile. «Sa, Leon, credo che alla fine sia solo l'eterna domanda sul senso della vita.» Continuarono a parlare un po' di tutto, ma non di cetacei e di civiltà extraterrestri. Intorno alle dieci e mezzo - dopo aver bevuto un ultimo drink davanti al camino - si salutarono. Samantha gli aveva detto che sarebbe partita due giorni dopo. Uscirono dal ristorante e si accorsero che le nuvole erano sparite e il cielo stellato sembrava volerli risucchiare. Rimasero per un po' a guardarlo. «Non le capita di averne abbastanza delle sue stelle?» chiese Anawak. «Ne ha abbastanza delle sue balene?» «No, certo che no», replicò lui, sorridendo. «Spero che riesca a ritrovare i suoi animali.» «Glielo farò sapere, Sam.» «Lo verrò a sapere di certo, ma non da lei, perché le conoscenze sono sempre precarie. È stata una bella serata, Leon. Se c'incontreremo di nuovo ne sarò felice, ma lei sa bene come vanno le cose. Si prenda cura dei suoi animali... Credo che abbiano in lei un buon amico. Lei è una brava persona.» «Come fa a saperlo?» chiese lui. «Visto ciò di cui mi occupo, per me convinzione e conoscenza sono necessariamente sulla stessa lunghezza d'onda. Faccia attenzione.» Si strinsero la mano. «Forse ci rivedremo come orche», scherzò Anawak. «Perché proprio come orche?» «Gli indiani kawkiutl credono che i buoni rinascano come orche.» «Davvero? Mi piace.» Sembrava che tutto il viso di Samantha sorridesse. La maggior parte delle sue rughe era dovuta alle risate, pensò Anawak.
«E lo crede anche lei?» gli domandò. «Certo che no.» «Perché no? Non lo è anche lei?» «Sono che cosa?» chiese Anawak, benché sapesse benissimo che cosa intendesse. «Un indiano.» Anawak s'irrigidì. Si vedeva attraverso gli occhi di quella donna. Un uomo tarchiato, di media statura, con zigomi ampi e pelle color rame, gli occhi leggermente a fessura e i capelli folti, nerissimi e lisci che gli cadevano sulla fronte. «Qualcosa del genere», disse dopo una lunga pausa. Samantha Crowe lo fissò. Poi tirò fuori dalla giacca a vento il pacchetto di sigarette e ne accese una. «Già. Sono ossessionata anche da queste cose. Stia bene, Leon.» «Stia bene, Sam.» 13 marzo Costa norvegese e mar di Norvegia Sigur Johanson non vedeva e non sentiva Tina Lund da una settimana. Nel frattempo, aveva sostituito un professore ammalato e tenuto qualche lezione in più del previsto. Era stato anche impegnato nella stesura di un articolo per il National Geographic e si era occupato delle nuove forniture per la sua enoteca; per farlo, aveva ripreso la corrispondenza, interrotta da tempo, con un conoscente di Riquewihr, in Alsazia, un rappresentante della rinomata enoteca Hugel & Fils in possesso di alcuni vini rari che Johanson prevedeva di regalarsi per il suo compleanno. Inoltre aveva scovato un vinile con un'esecuzione dell'Anello del Nibelungo diretta da Sir Georg Solti. Così le serate erano trascorse velocemente. I vermi di Tina erano finiti in secondo piano, sotto lo schiacciante predominio di Hugel e Solti, e lì sarebbero rimasti, almeno fino all'arrivo dei risultati degli esami. Nove giorni dopo il loro incontro, finalmente Tina lo chiamò. Sembrava di ottimo umore. «Pare proprio che ti sia rilassata», constatò lui. «Devo preoccuparmi della tua obiettività scientifica?» «Forse», rispose Tina, tutta allegra. «Spiegati.» «Più tardi. Ascolta, domani la Thorvaldson sarà sul margine continentale
e calerà un robot. Vuoi esserci?» «Al mattino sono impegnato. I miei studenti devono prendere confidenza col sex appeal dei solfobatteri», disse lui. «È un peccato. La nave salpa proprio al mattino.» «Da dove?» «Da Kristiansund.» Kristiansund si trovava circa un'ora di macchina a sud-ovest di Trondheim, su una costa rocciosa battuta dal vento e dalle onde. Dal vicino aeroporto partivano gli elicotteri per le piattaforme di produzione, che si allineavano lungo lo zoccolo continentale norvegese. Solo al largo della Norvegia c'erano settecento piattaforme per l'estrazione del petrolio e del gas. «Non posso raggiungerla dopo?» propose Johanson. «Sì, forse», mormorò Tina dopo un istante di silenzio. «Non è una cattiva idea. Anzi, adesso che ci penso, potremmo andarci insieme. Che cosa fai dopodomani?» «Nulla che non possa rinviare.» «Affare fatto. Andiamo insieme e passiamo la notte sulla Thorvaldson. Avremo tutto il tempo per le osservazioni e per le analisi.» «Ho capito bene? Vuoi venire con me?» domandò stupito Johanson. «Certo. Io... Sì, insomma, potrei trascorrere una mezza giornata, sulla costa e tu potresti raggiungermi nel primo pomeriggio. Poi voliamo insieme sulla piattaforma petrolifera Gullfaks e da lì prendiamo il transfer per la Thorvaldson», propose lei. «Mi piace quando segui l'impulso del momento. Ma potrei sapere perché complichi le cose?» «Come? Te le sto rendendo più facili, no?» «Appunto. Le stai rendendo più facili a me. Tu potresti essere a bordo già domattina», disse Johanson. «Sono contenta di farti compagnia.» «Che affascinante bugiarda. Okay. Allora, tu sei sulla costa. Dove ti trovo?» chiese lui. «A Sveggesundet», rispose Tina. «Mio dio! Quel buco di paese! Perché proprio Sveggesundet?» «È carino, invece. Ci troviamo al Fiskehuset. Sai dov'è?» «Ho esplorato a sufficienza la zona per conoscere i pochi elementi di civiltà presenti a Sveggesundet. Non è il ristorante sulla costa vicino alla vecchia chiesa di legno?» «Proprio quello.»
«Alle tre?» «Alle tre va benissimo. All'elicottero ci penso io. Verrà a prenderci direttamente là.» Tina fece una pausa, quindi chiese: «Ti sono arrivati i risultati delle analisi?» «Purtroppo no. Probabilmente arriveranno domani.» «Sarebbe perfetto.» «Ci saranno. Non preoccuparti.» Chiusero la conversazione. Johanson aggrottò la fronte. Rieccolo, il verme. Ritornava in primo piano e richiedeva tutta la sua attenzione. In effetti era sorprendente che in un ecosistema da tempo conosciuto comparisse improvvisamente una nuova specie. I vermi in sé non avevano nulla di preoccupante. Non a tutti piacevano, ma se gli uomini diffidavano di collettività organiche c'era una spiegazione psicologica. A parte quello, i vermi erano molto utili. Ha senso che siano lì, pensò Johanson. Se sono davvero imparentati coi vermi del ghiaccio, allora vivono grazie al metano, anche se indirettamente. E giacimenti di metano si trovano su tutta la scarpata continentale, anche davanti alla Norvegia. Però restava una faccenda singolare. Le analisi dei tassonomi e dei biochimici avrebbero risposto a tutte le domande. Tuttavia, finché non c'erano i risultati, lui poteva dedicarsi a scegliere tra i Gewürztraminer di Hugel. Al contrario dei vermi, in genere semplici da identificare, trovare il vino giusto era molto difficile, specialmente per certe annate. Il giorno seguente, quando Johanson entrò nel suo ufficio, trovò due lettere con le analisi tassonomiche. Soddisfatto, scorse velocemente i risultati, con l'intenzione di metterli subito da parte. Invece li rilesse con maggiore attenzione. Strani animali, in effetti. Infilò tutto nella borsa e andò a lezione. Due ore dopo, era sulla jeep e stava attraversando il paesaggio collinare e i fiordi in direzione Kristiansund. Ormai era iniziato il disgelo. Gran parte della neve era sparita, lasciando posto a una campagna nera e marrone. In quei giorni, le condizioni meteorologiche rendevano difficile la scelta dell'abbigliamento. All'università, metà del personale era raffreddato. Johanson si era premunito e aveva preparato una valigia che forse era troppo pesante per il volo in elicottero, ma non aveva voglia di prendersi un raffreddore sulla Thorvaldson, e so-
prattutto non tollerava che la scelta del suo abbigliamento fosse dettata dal mezzo di trasporto. Tina l'avrebbe preso in giro nel vederlo con tutto quel bagaglio, ma non gli importava. Se fosse stato possibile, si sarebbe portato anche una sauna da viaggio. Inoltre nel suo bagaglio c'erano alcune cose che sarebbero state senza dubbio utili durante una notte su una nave in compagnia di una donna. Sì, erano solo amici, ma ciò non implicava che dovessero tenere le distanze. Johanson guidava lentamente. Avrebbe potuto raggiungere Kristiansund in un'ora, ma la fretta non faceva per lui. A metà percorso, la strada costeggiava l'acqua e procedeva lungo una serie di ponti, pertanto lui si gustò la vista di quel panorama selvaggio. Nei pressi di Halsa, imboccò la strada che passava sui fiordi, scorgendo vari ponti che attraversavano l'acqua color ardesia. La stessa Kristiansund sorgeva su diverse isole. Superò la città e passò sull'isola di Averoy, un luogo carico di storia, giacché era stato uno dei primi a essere abitato subito dopo l'ultima glaciazione. Sveggesundet, un pittoresco villaggio di pescatori, sorgeva sulla punta estrema dell'isola. Durante l'alta stagione, era invaso da eserciti di turisti e le barche viaggiavano senza sosta tra le isole. In quel momento c'era poca gente, ma già s'intravedeva l'attesa dell'imminente estate, foriera di guadagni. Dopo due ore di viaggio, svoltò nel parcheggio ghiaioso del Fiskehuset, un ristorante la cui terrazza offriva una bella vista sul mare. Era chiuso e non c'era anima viva. Tina era seduta a un tavolo di legno, all'aperto, incurante del freddo, ed era in compagnia di un giovane che Johanson non conosceva. Il modo in cui i due se ne stavano vicini sulla panca gli fece però sorgere un sospetto. Si avvicinò e tossicchiò. «Sono in anticipo?» Lei sollevò lo sguardo. Nei suoi occhi c'era uno straordinario luccichio. Johanson osservò l'uomo che le stava vicino - un trentenne di corporatura atletica, coi capelli biondo scuro e con un viso dai bei lineamenti - e il sospetto divenne certezza. «Posso tornare più tardi», disse cortesemente. Lei fece le presentazioni. «Kare Sverdrup... Sigur Johanson.» Il biondo sorrise a Johanson e gli tese la mano destra. «Tina mi ha raccontato molte cose di lei.» «Spero nulla che la possa inquietare.» Kare sorrise. «Al contrario, so che lei è un intrattenitore straordinariamente affascinante.» «Un vecchiaccio straordinariamente affascinate», lo corresse Tina. «Un libidinoso vecchiaccio», completò Johanson. Si sedette sulla panca di fronte ai due, sollevò il colletto della giacca a vento e appoggiò vicino a
sé la borsa contenente le analisi. «La parte tassonomica. Molto esauriente. Posso fare una sintesi, se vuoi.» Guardò Kare. «Non vorremmo annoiarla. Tina le ha raccontato di cosa si tratta oppure si è limitata a guardarla, sospirando d'amore?» Tina gli gettò un'occhiataccia. «Capisco.» Johanson aprì la borsa e tirò fuori le buste. «Allora, ho mandato uno dei tuoi vermi al Forschunginstitut di Francoforte e un altro allo Smithsonian Institute: ci lavorano i migliori tassonomi che io conosca e sono specialisti nel campo dei vermi. Un altro verme è andato a Kiel, per essere analizzato col microscopio elettronico a scansione lineare, ma non ho ancora i risultati. Manca anche l'analisi dello spettrometro di massa. Anzitutto ti posso dire su che cosa sono d'accordo gli esperti.» «Davvero?» Johanson si appoggiò allo schienale e accavallò le gambe. «Sono d'accordo sul fatto che non sono d'accordo.» «Illuminante.» «Sostanzialmente hanno confermato la mia prima impressione. Si tratta, con un certo margine di verosimiglianza, di Hesiocaeca methanicola, noto anche come 'verme del ghiaccio'.» «Il mangiametano?» «La definizione non è corretta, mia cara, ma fa lo stesso. Questa è la prima parte. La seconda è che le mascelle enormemente pronunciate e le numerose file di denti fanno sorgere dei dubbi. Queste caratteristiche fanno pensare a un predatore, oppure a uno scavatore o a un macinatore. E questo è strano.» «Perché?» «Perché ai vermi del ghiaccio non servono apparati tanto grandi. È vero che hanno le mascelle, ma sono decisamente più piccole.» Kare ridacchiò, imbarazzato. «Mi scusi, dottor Johanson, io non capisco molto di questi animali, però m'interessano. Perché non hanno bisogno delle mascelle?» chiese. «Perché vivono in maniera simbiotica», spiegò Johanson. «Assumono batteri che a loro volta vivono negli idrati di metano...» «Negli idrati?» chiese Kare. Johanson gettò una fugace occhiata a Tina e lei scrollò le spalle, borbottando: «Spiegaglielo». «È semplice. Forse ha sentito dire che gli oceani sono pieni di metano», cominciò.
«Sì, in questo periodo non si legge altro.» «Il metano è un gas. Si trova in grandi quantità sul fondale marino lungo la scarpata continentale. La superficie del fondale è gelata. Acqua e metano si uniscono in una sorta di ghiaccio, che resiste solo se sottoposto a pressioni elevate e basse temperature. Ecco perché si trova solo a una certa profondità. Questo ghiaccio si chiama 'idrato di metano'. Fin qui tutto chiaro?» Kare annuì. «Bene. Nell'oceano ci sono batteri ovunque. Alcuni assimilano il metano: lo mangiano e separano l'acido solfidrico. È vero che i batteri sono microscopici, però la loro quantità è tale che essi ricoprono il fondale marino come un tappeto. Infatti parliamo di 'tappeti di batteri'. Questi tappeti si trovano prevalentemente dove ci sono idrati di metano. Domande?» «Non ancora», disse Kare. «Presumo che ora entrino in gioco i vermi.» «Esatto. Ci sono vermi che vivono dei prodotti di rifiuto dei batteri. Hanno un legame simbiotico con loro. In alcuni casi, il verme mangia i batteri e li tiene dentro di sé; in altri casi, essi vivono su di lui. In un modo o nell'altro, procurano il nutrimento ai vermi. Per questo il verme vive sugli idrati. Si mette comodo, si concede un bel boccone di batteri e non fa molto altro. Per esempio, non ha bisogno di scavare perché non mangia il ghiaccio, ma i batteri che ci stanno sopra. Si limita a rotolare su se stesso per sciogliere un avvallamento e poi se ne sta lì, tutto soddisfatto.» «Capisco», disse Kare lentamente. «Il verme non ha nessun motivo di spingersi in profondità. Ma gli altri vermi lo fanno?» «Ci sono specie diversissime. Alcune mangiano i sedimenti o i tessuti presenti sui sedimenti, oppure elaborano il detritus», rispose Johanson. «E cos'è?» «È tutto ciò che, dalla superficie, affonda negli abissi marini. Cadaveri, particelle, resti di ogni genere. Ci sono vermi che non vivono in simbiosi coi batteri e quindi hanno potenti mascelle per afferrare la preda o scavare.» «In ogni caso, i vermi del ghiaccio non hanno bisogno di mascelle», disse Kare. «Certo, hanno piccole mascelle per triturare minuscole quantità di idrati o per filtrare i batteri. Ma non dei dentoni come quelli degli esemplari di Tina», rispose Johanson. Quell'argomento sembrava appassionare sempre più Kare. «Se i vermi scoperti da Tina vivono in simbiosi coi batteri che mangiano il metano...»
«... dobbiamo chiederci a che cosa serve quell'arsenale di mandibole e denti», confermò Johanson. «Adesso la questione diventa ancora più intrigante. I tassonomi hanno trovato un secondo verme che sembra avere una struttura mandibolare simile. Si chiama Nereis, ed è un predatore che si trova a tutte le profondità. Il piccoletto di Tina, dunque, ha le mandibole e i denti del Nereis, ma il suo aspetto fa pensare a un antenato preistorico del Nereis. Per così dire, un Tyrannereis rex.» «Sembra inquietante», fu il commento di Kare. «Più che altro sembra un ibrido», lo corresse Johanson. «Dobbiamo aspettare le analisi al microscopio e quelle genetiche.» «Sulla scarpata continentale ci sono idrati di metano a non finire», intervenne Tina, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Potrebbe essere.» «Aspettiamo.» Johanson tossicchiò e osservò Kare. «E lei, di che cosa si occupa? Anche lei nel ramo del petrolio?» L'altro scosse la testa. «No», rispose allegramente. «M'interesso di tutto ciò che si può mangiare. Faccio il cuoco.» «Che piacere! Lei non sospetta neppure quanto sia snervante avere sempre a che fare con gli accademici.» «Cucina da dio», precisò Tina. Probabilmente non è l'unica cosa che fa da dio, pensò Johanson. Peccato. Si consolò pensando che avrebbe gustato con Tina le prelibatezze che aveva portato con sé. A pensarci bene, si sentiva sollevato. A volte provava attrazione per Tina Lund, ma ringraziava il destino ogni volta che si lasciavano senza che fosse successo niente. Era una donna troppo impegnativa per lui. «E come vi siete conosciuti?» chiese poi, benché non gliene importasse nulla. «L'anno scorso ho rilevato il Fiskehuset», spiegò Kare. «Tina è stata qui qualche volta, ma non avevamo fatto altro che salutarci.» Le mise il braccio sulle spalle e lei gli si avvicinò. «Fino alla settimana scorsa.» «Già», borbottò Johanson, levando gli occhi al cielo. «Si vede.» Mezz'ora dopo, si trovavano sull'elicottero, insieme con una dozzina di operai petroliferi. Johanson guardava fuori, in silenzio. Sotto di loro scorreva la superficie del mare, uniformemente grigia e frastagliata. Sorvolavano in continuazione cargo, traghetti, petroliere e navi che trasportavano gas. Infine comparvero le piattaforme. Da quando una compagnia petrolifera americana, in una tempestosa notte invernale del 1969, aveva scoperto il petrolio, il mare del Nord si era trasformato in una bizzarra zona indu-
striale, poggiata su enormi pali ed estesa dall'Olanda fino alla piattaforma Haltenbank, davanti a Trondheim. Nelle giornate limpide, si potevano scorgere dozzine di gigantesche piattaforme. Viste dall'elicottero, sembravano giocattoli per giganti. Raffiche di vento scuotevano il velivolo, che si alzava e si abbassava. Johanson si sistemò meglio le cuffie antirumore. Tutti portavano cuffie e tute protettive; stavano così stretti che le loro ginocchia si toccavano e ogni movimento doveva essere coordinato. A causa del rumore, poi, era impossibile parlare. Tina aveva chiuso gli occhi. Era troppo abituata a quei voli per esserne disturbata. L'elicottero virò e proseguì verso sud-ovest. La sua meta, Gullfaks, era un insieme di piattaforme di proprietà della società petrolifera statale Statoil. L'impianto di estrazione Gullfaks C era una delle più grandi piattaforme della parte settentrionale del mare del Nord. Con le sue duecentottanta persone, formava una piccola comunità. A dirla tutta, Johanson non avrebbe potuto atterrare lì. Erano passati anni da quando aveva fatto il corso per ottenere il permesso di salire su una piattaforma e, nel frattempo, le norme di sicurezza si erano fatte più severe. Ma Tina aveva i contatti giusti. Comunque quello sarebbe stato solo uno scalo intermedio, perché sarebbero saliti immediatamente a bordo della Thorvaldson, che, da almeno un'ora, si trovava nei pressi della Gullfaks C. Una violenta turbolenza fece abbassare improvvisamente l'elicottero. Johanson si aggrappò ai braccioli, ma nessun altro reagì. I passeggeri, in prevalenza uomini, erano abituati a ben altre tempeste. Tina voltò la testa, aprì per un attimo gli occhi e gli fece l'occhiolino. In un certo senso, Kare Sverdrup era proprio fortunato. Chissà se sarebbe stato in grado di reggere il passo di Tina... L'elicottero si abbassò ancora e fece un'altra virata, dando l'impressione che stesse precipitando in mare. Poi comparve un grattacielo bianco, che sembrava svettare sull'acqua, e il velivolo si preparò all'atterraggio. Per un momento, dal finestrino, si vide tutta la Gullfaks C: un colosso su quattro piloni di cemento armato, pesante un milione e mezzo di tonnellate, con un'altezza complessiva di quasi quattrocento metri, di cui oltre la metà era sott'acqua, dove i pilastri si ergevano in mezzo a un intrico di serbatoi. Il grattacielo bianco, l'ala residenziale, occupava solo una piccola parte di quella gigantesca costruzione. Il corpo principale si presentava al profano come un caos di ponti invasi da strumenti tecnologici e da macchinari misteriosi, collegati da fasci di condutture, affiancati da gru e sormontati dal-
la cattedrale dei lavoratori petroliferi, la torre d'estrazione. Sulla punta di un gigantesco braccio metallico, proteso verso il mare, ardeva una fiamma che non si spegneva mai, alimentata dal gas separato dal petrolio. L'elicottero si abbassò sulla pista in cima all'ala residenziale e atterrò in modo sorprendentemente dolce. Tina sbadigliò, si stiracchiò per quanto lo consentiva lo spazio angusto e attese che i rotori si fermassero. «È stato un bel volo», disse. Qualcuno rise. Gli sportelli si aprirono e i passeggeri scesero. Johanson si avvicinò al bordo della pista d'atterraggio e guardò in basso. Almeno centocinquanta metri sotto di lui, le onde schiumavano. Un vento tagliente gli gonfiava la tuta. «Esiste qualcosa che possa affondare questo affare?» chiese. «Non c'è nulla che non possa essere affondato. Su, vieni. Non vorrai mettere radici, eh?» Tina lo prese sottobraccio e lo trascinò nella direzione degli altri passeggeri, che erano spariti nella parte opposta della pista. Sul pianerottolo della scala d'acciaio c'era un uomo piccoletto e tarchiato, con folti baffi bianchi. «Tina, hai nostalgia del petrolio?» gridò, gesticolando. «Quello è Lars Jörensen», spiegò lei. «È il responsabile del traffico aereo e marittimo della Gullfaks C. Ti piacerà, è un provetto giocatore di scacchi.» Nel frattempo Jörensen li aveva raggiunti. Indossava una T-shirt della Statoil e a Johanson sembrò un benzinaio. «Avevo nostalgia di te.» disse Tina, ridendo. Jörensen sorrise. La strinse al petto e i suoi baffi sparirono sotto il mento della donna. Poi strinse la mano a Johanson. «Avete scelto una pessima giornata», borbottò. «Col bel tempo si vede tutto l'orgoglio dell'industria petrolifera norvegese. Isola per isola.» «Non c'è movimento?» chiese Johanson, mentre scendeva la scala a chiocciola. Jörensen scosse la testa. «Non più del solito. Sei mai stato su una piattaforma?» Come la maggior parte degli scandinavi, anche Jörensen aveva adottato subito il «tu». «Un po' di tempo fa. Quanto estraete?» «Sempre meno, temo. Da parecchio tempo alla Gullfaks la quantità è stabile: duecentomila barili da ventun pozzi petroliferi. Adire la verità, potremmo essere soddisfatti, ma non lo siamo. Già si vede la fine.» Indicò il mare. A qualche centinaio di metri, Johanson scorse una petroliera ormeggiata a una boa. «La stiamo giusto riempiendo. Ne deve arrivare ancora
una, poi per oggi è finita. Prima o poi cominceranno a diminuire. La roba si esaurisce lentamente e nessuno ci può fare nulla.» I punti di estrazione non erano direttamente sotto la piattaforma, ma tutt'intorno a essa e a una certa distanza. Quando il petrolio arrivava in superficie, veniva depurato dall'acqua e dal sale, separato dal gas e immagazzinato nei serbatoi intorno ai piloni della piattaforma. Da lì, veniva pompato alle boe di carico attraverso gli oleodotti. Intorno alla piattaforma c'era una zona di sicurezza di cinquecento metri, che non poteva essere oltrepassata da nessun mezzo, a eccezione delle navi fabbrica della piattaforma stessa. Johanson sbirciò oltre il parapetto metallico. «Non dovrebbe esserci la Thorvaldson?» chiese. «È all'altra boa. Da qui non potete vederla», spiegò Jörensen. «Non possono avvicinarsi neppure le navi oceanografiche?» «No, la Thorvaldson non è della Gullfaks ed è troppo grossa per i nostri gusti. Non vogliamo altri guai! Ne abbiamo già abbastanza coi pescatori, che non vogliono capire di spostare altrove il loro maledetto culo.» «Avete difficoltà coi pescatori?» «Eccome. La settimana scorsa ne abbiamo beccati alcuni che avevano inseguito un banco di pesci fin sotto la piattaforma. Ne capitano in continuazione, di grane simili. Recentemente c'è stata una situazione critica alla Gullfaks A. Una piccola nave cisterna con un guasto ai motori stava andando sotto la piattaforma. Abbiamo mandato giù alcuni dai nostri per allontanarla, ma l'equipaggio è riuscito a riprendere in tempo il controllo.» Quello che Jörensen raccontava con tanto distacco in realtà era la catastrofe che tutti temevano: una nave cisterna piena fino all'orlo che si staccava dall'ormeggio e finiva contro una piattaforma. Una collisione avrebbe potuto far vacillare le isole più piccole, ma il vero pericolo era rappresentato dall'esplosione. Sebbene la piattaforma fosse dotata di un sistema antincendio che alla minima presenza di fuoco sprigionava tonnellate d'acqua, l'esplosione di una petroliera sarebbe stata la fine. Simili incidenti erano rari e accadevano per lo più nel Sudamerica, dove le norme di sicurezza erano applicate con minor rigore. Nel mare del Nord ci si atteneva alle prescrizioni. Quando il vento soffiava troppo forte, le navi non venivano caricate. «Sei dimagrito», disse Tina a Jörensen, mentre lui le teneva aperta la porta. Entrarono nella zona residenziale e attraversarono un corridoio ai cui lati si aprivano porte identiche che conducevano agli alloggi. «Non fanno da mangiare bene, qui?»
«Troppo bene», ridacchiò Jörensen. «Il cuoco è davvero bravo. Dovresti vedere la nostra mensa», proseguì, rivolto a Johanson. «Il Ritz al confronto è un chiosco da spiaggia. No, il direttore della piattaforma ha dichiarato guerra alle pance, altrimenti c'è il licenziamento.» «Davvero?» «Direttive della Statoil. Non so se si arriverà a tanto, ma la minaccia funziona. Nessuno vuole perdere il lavoro.» Raggiunsero una scala stretta e scesero. Vennero loro incontro alcuni uomini, diretti verso il fondo della piattaforma. Mentre i loro passi risuonavano nel vano d'acciaio, Jörensen li salutò, poi disse ai visitatori: «Eccoci, capolinea. Ora la scelta è vostra. A sinistra, beviamo insieme un caffè e chiacchieriamo ancora per una mezz'oretta. A destra, si va alla nave». «Berrei volentieri un caffè...» disse Johanson. «Grazie», lo interruppe Tina. «Ma abbiamo poco tempo.» «La Thorvaldson non salpa senza di voi», mugugnò Jörensen. «Potreste tranquillamente...» «Non voglio arrivare a bordo all'ultimo momento», lo interruppe lei. «La prossima volta mi prenderò più tempo, promesso. E porterò con me anche Johanson. È tempo che qualcuno ti batta a scacchi.» Jörensen rise e uscì all'aperto, scrollando le spalle. Tina e Sigur lo seguirono e furono investiti da una folata di vento. Si trovavano sul bordo più basso del blocco residenziale. Il fondo della passerella su cui procedevano era formato da fitte grate di acciaio e, attraverso le maglie, si scorgeva il mare mosso. C'era molto più rumore che sulla pista di atterraggio degli elicotteri; l'aria esplodeva di sibili e rimbombi. Jörensen si avviò lungo la passerella, dove si trovava un gommone arancione coperto e appeso a una gru. «Che cosa dovete fare a bordo della Thorvaldson? Ho sentito che la Statoil vuole costruire ancora più al largo.» «Possibile», rispose Tina. «Una piattaforma?» «Non c'è ancora nulla di definitivo. Forse anche una SWOP» SWOP era l'acronimo di Single Well Offshore Production System. Per trivellazioni fino a una profondità di trecentocinquanta metri venivano usate le SWOP, navi simili a gigantesche petroliere dotate di un sistema di estrazione, legate con un tubo di trivellazione alla testa del pozzo petrolifero. Così risucchiavano direttamente dal fondale marino il petrolio greggio e servivano anche come deposito provvisorio.
Jörensen diede un buffetto sulla guancia di Tina. «Allora non farti venire il mal di mare, piccola.» Salirono sull'imbarcazione, che era grande e spaziosa, con pareri rigide e file di panche. A bordo con loro c'era solo il timoniere. Un leggero tremolio attraversò lo scafo non appena la fune della gru si mise in movimento, facendo abbassare la barca. Dai finestrini laterali vedevano scorrere la grigia superficie screpolata di cemento. Poi improvvisamente si ritrovarono a dondolare tra le onde. I venti li arpionarono come uncini e li portarono sotto la piattaforma. Faticando a stare in piedi, Johanson si sistemò dietro il timoniere e si mise a osservare la Thorvaldson. La poppa della nave oceanografica era caratterizzata dai tipici scalmi, con cui venivano calati in mare i batiscafi e gli altri strumenti per la ricerca. Poi il timoniere accostò. Ormeggiarono e salirono su una scala a pioli d'acciaio assicurata allo scafo. Per un attimo, mentre si trascinava appresso il bagaglio, Johanson pensò che forse non era stata un'idea così brillante portare con sé metà del suo guardaroba. Tina, che si stava arrampicando davanti a lui, si voltò e disse: «Dalla valigia sembra che tu abbia intenzione di trascorrere qui le vacanze...» Johanson sospirò, rassegnato. «Mi ero già illuso che non te ne fossi accorta.» Nel mondo, ogni grande costa è circondata da una zona d'acqua relativamente bassa, la zona dello zoccolo continentale, profonda al massimo duecento metri. In sostanza, lo zoccolo continentale non è altro che la prosecuzione sottomarina della placca continentale. In alcune parti del mondo si estende solo per un breve tratto; in altre per centinaia di chilometri, finché il fondale non sprofonda negli abissi marini, in certi punti di colpo e in verticale, in altri con terrazze che digradano dolcemente. Al di là del mare dello zoccolo continentale, comincia l'universo sconosciuto di cui gli scienziati sanno ancora meno che dello spazio. Gli uomini tengono totalmente sotto controllo lo zoccolo continentale, ma non gli abissi marini. Sebbene i mari poco profondi costituiscano circa l'otto per cento della superficie marina, quasi tutto il pescato mondiale proviene da lì. L'animale terrestre uomo viveva d'acqua: ecco perché due terzi dei suoi esemplari si sono insediati su una stretta striscia di costa larga appena sessanta chilometri. Sulle carte oceanografiche, la regione dello zoccolo continentale davanti al Portogallo e nel nord della Spagna appare come una sottile striscia. Invece circonda ampiamente le isole britanniche e la Scandinavia, al punto
che le due regioni s'incontrano a formare il mare del Nord, mediamente profondo tra i venti e i centocinquanta metri, quindi molto basso. Il piccolo mare dell'Europa settentrionale, che nella forma attuale esiste da diecimila anni, non sembra avere nulla di particolare, a parte le difficili condizioni determinate dal freddo e dalle correnti. Tuttavia ha un ruolo centrale per l'economia mondiale. È una delle zone più trafficate della Terra, su cui si affacciano nazioni industriali molto sviluppate e il più grande porto di tutti i tempi, Rotterdam. Il canale della Manica è diventato una delle rotte più frequentate del mondo. In quello strettissimo spazio manovrano cargo, petroliere e traghetti. Sono passati trecento milioni di anni da quando sono spariti gli enormi acquitrini che legavano il continente all'Inghilterra, l'oceano si espandeva e si ritirava. Fiumi impetuosi trascinavano fango, piante e resti di animali nel bacino settentrionale che, col passare del tempo, si era trasformato in una coperta di sedimenti spessa chilometri. Mentre il terreno si abbassava, nascevano filoni di carbone. Nuovi strati si addossavano gli uni sugli altri e pressavano i sedimenti di arenaria e pietra calcarea sottostanti. Contemporaneamente, nelle profondità, la temperatura si alzava. I resti organici nella roccia subivano processi chimici complessi e, sotto l'effetto della pressione e del calore, si trasformavano in petrolio e gas. Una parte era filtrata attraverso la roccia porosa sul fondale marino, perdendosi nell'acqua. La maggior parte, però, era rimasta nei giacimenti sotterranei. Per milioni di anni lo zoccolo continentale era stato tranquillo. Era stato il petrolio a portare il cambiamento. La Norvegia, una nazione di pescatori ormai in declino, si era gettata sui tesori appena scoperti nei fondali marini - come l'Inghilterra, l'Olanda e la Danimarca - e, nel giro di trent'anni, era diventata la seconda esportatrice mondiale di petrolio. Il grosso dei giacimenti, e quindi circa la metà di tutte le risorse europee, si trovala al di sotto dello zoccolo continentale norvegese. E le riserve di gas norvegesi avevano più o meno le stesse dimensioni. Si costruirono piattaforme dopo piattaforme. I problemi tecnici erano risolti senza curarsi dei costi per l'ambiente. Così si era trivellato sempre più in profondità, e le semplici strutture dei primi anni si erano trasformate in torri di trivellazione alte come l'Empire State Building. Progetti di piattaforme sottomarine completamente telecomandate stavano ormai diventando realtà. Sembrava che la festa non dovesse mai finire. E invece sarebbe finita, e pure in fretta. La quantità di pescato e le estrazioni di petrolio erano diminuite in tutto il mondo. Quello che si era forma-
to in milioni di anni sarebbe scomparso in meno di quarant'anni. Molti giacimenti nel mare dello zoccolo continentale erano pressoché esauriti. Cominciava a delinearsi il fantasma di un gigantesco deposito di rottami: non si sapeva che cosa fare delle piattaforme abbandonate, perché nessuna forza al mondo sarebbe stata in grado di smuoverle. Solo una via di salvezza sembrava ancora aperta: al di là dello zoccolo continentale, sulla scarpata continentale e negli estesi bacini abissali, si trovavano giacimenti inviolati. Tuttavia le piattaforme tradizionali non erano adatte a sfruttarle, così Tina e il suo gruppo stavano progettando impianti di altro tipo. Non sempre la scarpata era ripida, infatti c'erano punti in cui digradava in terrazze che offrivano un terreno ideale per stazioni sottomarine. Ciò nonostante, a causa dei rischi legati a un progetto che prevedeva una simile distanza dal margine continentale, bisognava prevedere una forza lavoro ridotta al minimo. In fondo, con la diminuzione della quantità di estratto, aveva subito una battuta d'arresto anche la fortuna dei lavoratori petroliferi che, nel corso degli anni '70 e '80, erano stati assai richiesti e ben retribuiti. Per la Gullfaks C, per esempio, si progettava una riduzione del personale fino a due dozzine di unità. E c'erano piattaforme come quella chiamata «L'uomo sulla luna», un impianto nel canale norvegese, che ormai funzionavano quasi completamente in automatico. Alla fine gli affari petroliferi del mare del Nord erano diventati deficitari. Ma interromperli avrebbe comportato problemi ancora più gravi. Quando Johanson uscì dalla sua cabina, a bordo della Thorvaldson regnava un'atmosfera tranquilla. La nave non era particolarmente grande. Un gigante delle ricerche come la Polarstern, del porto di Brema, avrebbe permesso anche l'atterraggio di un elicottero, ma la Thorvaldson aveva bisogno di spazio per le attrezzature e così Sigur e Tina l'avevano raggiunta via mare. Johanson andò verso il parapetto e guardò fuori. Nelle due ore precedenti, si erano lasciati alle spalle tutto l'insediamento di piattaforme, le cui isole erano collegate da trasporti aerei. Ormai si trovavano oltre le isole Shetland, al di là del margine continentale e, così al largo, non c'erano più costruzioni. Si riconoscevano in lontananza i profili delle isolate torri di perforazione, ma non si aveva più l'impressione di essere in una sovraffollata zona industriale. Sotto la nave, poi, si stendevano approssimativamente settecento metri d'acqua. La scarpata continentale era misurata e cartografata, ma si aveva solo una vaga idea della zona delle tenebre eterne. Grazie alla luce di potenti proiettori, era stato possibile osservarne
alcuni settori, però il quadro generale ancora mancava. Era come se in tutta la Norvegia, la notte, fosse stato acceso un unico lampione. Johanson pensò al suo Bordeaux e alla piccola «collezione» di formaggi francesi e italiani che aveva in valigia. Si mise alla ricerca di Tina e la trovò impegnata nelle operazioni di controllo del robot. L'automa era appeso al braccio della gru: era un aggeggio rettangolare con un telaio di tubi, alto almeno tre metri e tecnologicamente all'avanguardia. Sulla parte superiore, chiusa, c'era scritto il nome: Victor. Nella parte anteriore, Johanson vide una telecamera e un braccio prensile ritratto. Tina lo guardò, raggiante. «Impressionato?» Johanson girò intorno a Victor. «Un grande aspirapolvere giallo», commentò. «Sei un disfattista.» «Va bene, ne sono affascinato. Quanto pesa questo affare?» chiese Johanson. «Quattro tonnellate. Ehi, Jean!» Un uomo magro, coi capelli rossi, sbucò da dietro un groviglio di cavi. Tina gli fece un cenno. «Jean-Jacques Alban è il primo ufficiale di questo rottame galleggiante. Senti, Jean, devo sistemare ancora alcune cose. Ma Sigur è spaventosamente curioso e vuole sapere tutto su Victor. Occupati di lui, per favore.» Tina sparì di corsa e Alban la seguì con lo sguardo in cui si leggeva un'aria di divertita rassegnazione. «Credo che lei abbia di meglio da fare che raccontarmi la storia di Victor», borbottò Johanson. «Nessun problema.» Alban sorrise. «Un giorno Tina riuscirà anche a superare se stessa. Lei è l'uomo dell'NTNU, vero? È lei quello che ha esaminato i vermi.» «Ho solo espresso la mia opinione. Come mai quegli animaletti vi creano tanti problemi?» Alban fece cenno di no. «Ci preoccupiamo della composizione del suolo qui sulla scarpata. I vermi li abbiamo scoperti per caso e occupano quasi esclusivamente le fantasie di Tina.» «Pensavo che immergeste il robot per i vermi», si meravigliò Johanson. «Gliel'ha detto Tina?» Alban guardò l'automa e scosse la testa. «No, quella è solo una parte della missione. Naturalmente qui non prendiamo nulla alla leggera: stiamo preparando l'installazione di una stazione di misurazione di lungo periodo. La piazziamo esattamente sopra il giacimento
petrolifero che abbiamo rilevato. Se arriviamo alla conclusione che il luogo è sicuro, allora ci mettiamo una stazione di estrazione sottomarina.» «Tina ha accennato a una SWOP.» Alban lo guardò come se non sapesse cosa dire. «Non credo. È ormai praticamente certo che si farà una stazione sottomarina. Se poi è cambiato qualcosa, mi deve essere sfuggito.» Ah-ah. Non ci sarà una piattaforma galleggiante, allora, pensò Johanson. Ma forse era meglio non approfondire l'argomento. Allora rivolse ad Alban alcune domande sul robot subacqueo. «È un Victor 6000, un Remotely Operated Vehicle, abbreviato in ROV», spiegò l'altro. «Può arrivare fino a seimila metri e lavorare alcuni giorni a quella profondità. Lo guidiamo dalla superficie e riceviamo i dati in tempo reale per mezzo di cavi. Stavolta resterà sott'acqua quarantott'ore. Tra le altre cose, naturalmente, deve anche prendere una bella bracciata di vermi. La Statoil non vuole essere accusata di minacciare la biodiversità.» Fece una pausa. «Che cosa ne pensa di quelle bestiole?» «Nulla, per ora», rispose Johanson, evasivo. Poi sentì un rumore di macchinari e vide che il braccio della gru si metteva in movimento, sollevando Victor. «Venga», disse Alban. A metà della nave passarono davanti a cinque container alti come un uomo. «La maggior parte delle navi non è attrezzata per l'utilizzo di Victor. L'abbiamo preso a noleggio dalla Polarstern, perché è proprio quello che ci serve.» «Cosa c'è nei container?» domandò Johanson. «Le unità idrauliche per l'argano, i gruppi motore, tutte le carabattole possibili. In quello davanti, si trova la sala di controllo del ROV. Stia attento alla testa.» Entrarono nell'angusto container attraverso una porta bassa. Johanson si guardò intorno. Più della metà dello spazio era occupato dal quadro di comando, con due file di monitor; alcuni erano spenti, altri mostravano i dati del ROV e informazioni sulla navigazione. Davanti a essi c'erano diverse persone, tra cui anche Tina. «Quello al posto di guida è il pilota», spiegò Alban a voce bassa. «Alla sua destra c'è il copilota, che si occupa anche del braccio prensile. Victor è sensibile e preciso, ma bisogna essere molto abili per farlo funzionare come si deve. La postazione successiva è quella del coordinatore. Tiene i contatti con l'ufficiale di guardia sul ponte in modo che la nave e il robot possano lavorare in sincronia. Dall'altra parte siedono gli scienziati. Que-
sto è il posto di Tina, che si occuperà della telecamera e di salvare le immagini. Siamo pronti?» «Potete immergerlo», disse Tina. L'uno dopo l'altro, anche gli ultimi monitor si accesero. Johanson vide parte della poppa, del braccio della gru, il cielo e il mare. «Ora vede quello che vede Victor», gli spiegò Alban. «Dispone di otto telecamere: una telecamera principale con lo zoom, due obiettivi di pilotaggio per la navigazione e cinque telecamere supplementari. La qualità delle immagini è straordinaria: anche a diverse migliaia di metri di profondità riceviamo immagini nitide e dai colori brillanti.» L'inquadratura cambiò. Il robot veniva abbassato. Il mare si avvicinava, poi l'acqua sciabordò sull'obiettivo e infine Victor s'inabissò. I monitor mostravano un mondo verde-azzurro che si faceva via via più torbido. Nel container giunsero gli uomini e le donne che fino a poco prima avevano lavorato alla gru. Lo spazio si fece ancora più ristretto. «Accendere il faro», disse il coordinatore. Di colpo, lo spazio intorno a Victor divenne luminoso. Era una luce diffusa. Il verde-azzurro impallidì e al suo posto, nella zona al di fuori del fascio del proiettore, il nero aumentò. Nell'inquadratura entrarono alcuni piccoli pesci, poi tutto sembrò pieno di minuscole bollicine. Johanson sapeva che in realtà si trattava di plancton, composto da miliardi di microscopiche forme di vita. Passarono meduse rosse e ctenofori trasparenti. Dopo un po', lo sciame di particelle divenne più denso. Il barimetro indicava cinquecento metri. «Che compito deve svolgere Victor?» chiese Johanson. «Deve raccogliere campioni d'acqua, dei sedimenti e anche delle forme di vita», rispose Tina senza voltarsi. «E soprattutto deve girare materiale video.» Nell'inquadratura entrò qualcosa di frastagliato. Victor si stava inabissando lungo una ripida parete. Aragoste rosse e arancione muovevano le loro lunghe antenne. Il mare era già molto buio, ma i riflettori e le telecamere riportavano i colori naturali con tonalità sorprendentemente intense. Victor passò davanti a spugne e cetrioli di mare, poi il terreno cominciò a farsi progressivamente più piano. «Ci siamo», disse Tina. «680 metri.» «Okay.» Il pilota si chinò in avanti. «Facciamo una virata.» La scarpata sparì dagli schermi. Per un po' videro solo l'acqua, poi improvvisamente, nell'oscurità nera e blu, si delineò il fondale marino.
«Victor è preciso al millimetro», disse Alban, visibilmente orgoglioso. «Se vuole può anche fargli infilare la cruna di un ago.» «Grazie, a quello ci pensa il mio sarto. Dove si trova esattamente?» chiese Johanson. «Proprio sopra un plateau. Nel sottosuolo c'è molto petrolio.» «Ci sono anche idrati di metano?» Alban lo fissò, pensieroso. «Sì, certo. Perché me lo chiede?» «Così. E la Statoil vuole costruire lì una stazione?» «È il luogo ideale. Ameno che non ci sia qualche controindicazione.» «Per esempio i vermi.» Alban scrollò le spalle. Johanson notò che al francese quell'argomento non piaceva. Osservarono il robot che sorvolava un mondo sconosciuto, superando ragni marini che camminavano con le zampe rigide e pesci che razzolavano tra i sedimenti. Le telecamere riprendevano colonie di spugne, meduse luminose e seppie. In quelle zone non c'erano molti esseri; in compenso, sul fondale, si trovava una grande varietà di forme di vita. Dopo un po', il paesaggio assunse un aspetto bitorzoluto e screpolato. Dal fondo si levavano strutture stratificate. «Sono smottamenti ricoperti di sedimenti», spiegò Tina. «Sulla scarpata norvegese ci sono già stati diversi scivolamenti.» «Che cosa sono quelle strutture a scogliera?» chiese Johanson. Il fondale era cambiato di nuovo. «Sono formazioni create dalle tempeste. Ci stiamo dirigendo verso il bordo del plateau», rispose Tina. «I vermi li abbiamo trovati non lontano da lì.» Fissarono i monitor. Nella luce dei riflettori era comparsa una macchia di grandi dimensioni e di colore più chiaro. «Un tappeto di batteri», osservò Johanson. «Sì. Segno della presenza di idrati di metano.» «Là», disse il pilota. Sul monitor comparvero gigantesche macchie bianche. Erano i punti in cui il metano congelato s'immagazzinava direttamente sul fondale. Poi, però, Johanson vide un'altra cosa e si accorse subito che l'avevano notata anche gli altri. Nella sala di controllo scese una cappa di silenzio. Parte degli idrati era sparita sotto un brulichio rosa. In un primo momento fu ancora possibile riconoscere i singoli vermi, poi la massa di corpi aggrovigliati divenne inestricabile. Tubi rosa con ciuffi bianchi si attorcigliavano l'uno sull'altro.
Uno degli uomini al quadro di comando emise un gridolino di disgusto. Come siamo condizionabili, pensò Johanson. Rabbrividiamo davanti a tutto ciò che striscia e brulica, ma è una cosa del tutto normale. Rabbrividiremmo di noi stessi se potessimo vedere le orde di acari che si muovono sui nostri pori e si nutrono di sebo, i milioni di microscopici acari che si mettono comodi nei nostri materassi, per non parlare dei miliardi di batteri presenti nelle nostre viscere. Tuttavia quello che stava vedendo non piaceva neppure a lui. Le fotografie scattate nel golfo del Messico avevano mostrato una popolazione altrettanto grande, ma gli ammali erano più piccoli e vivevano inattivi nelle loro nicchie. Quelli, invece, si spostavano, strisciavano sul ghiaccio: un'imponente massa brulicante che copriva completamente il fondale. «Procedere a zig-zag», ordinò Tina. Il ROV cominciò a nuotare in una specie di slalom. L'immagine era sempre la stessa: vermi ovunque. Improvvisamente il terreno s'inabissò. Il pilota riportò subito il robot sul bordo del plateau. I potenti fasci luminosi permettevano una visibilità di pochi metri, ma si aveva l'impressione che quelle creature coprissero tutta la scarpata. A Johanson sembravano ancora più grandi degli esemplari che Tina gli aveva fatto esaminare. Un attimo dopo, l'immagine divenne nera. Ma, superato il bordo che cadeva a strapiombo per un centinaio di metri, Victor proseguì a tutta velocità. «Girare», disse Tina. «Osserviamo la parete del precipizio.» Il pilota manovrò Victor, facendolo ruotare. Nella luce dei proiettori formicolavano delle particelle. Qualcosa di grande e chiaro s'inarcò davanti all'obiettivo della telecamera, lo occupò interamente per un attimo e poi si ritirò, fulmineo. «Che cos'era? Ritornare alla posizione precedente», gridò Tina. Il ROV si girò dalla parte opposta. «Se n'è andato.» «Movimento circolare!» Victor si fermò, poi si mise a ruotare sul proprio asse. Si vedevano solo tenebre impenetrabili e il plancton illuminato dai riflettori. «C'era qualcosa», confermò il coordinatore. «Forse un pesce.» «Allora doveva essere un pesce maledettamente grosso», brontolò il pilota. «Ha riempito completamente l'inquadratura.» Tina si voltò e guardò Johanson, che scosse la testa. «Non ho idea di che
cosa fosse.» «Okay, andiamo a dare un'occhiata più in basso.» Il ROV si mantenne vicino alla scarpata. Dopo pochi secondi, apparve un terreno scosceso. Alcuni blocchi di sedimenti spuntavano dal terreno, ma il resto era coperto di corpi rosa. «Sono ovunque», mormorò Tina. Johanson le andò vicino. «Avete un'idea della consistenza dei giacimenti di idrati presenti in questa zona?» «Qui è tutto pieno di metano. Idrati, sacche di gas all'interno del terreno, gas che fuoriesce...» rispose lei. «Mi riferisco in particolare al ghiaccio in superficie.» Tina premette alcuni tasti del suo terminale e, su un monitor, apparve una carta del fondale marino. «Le macchie chiare sono i giacimenti che abbiamo cartografato.» «Mi puoi indicare l'attuale posizione di Victor?» «All'incirca qui.» La donna indicò una zona di grandi dimensioni, contrassegnata da un colore diverso rispetto al resto. «Bene. Portatelo là e fatelo salire in diagonale», ordinò Johanson. Tina passò le indicazioni al pilota e i riflettori ritrovarono il fondale libero dai vermi. Dopo un po', tuttavia, il terreno riprese a salire e, dall'oscurità, sbucò di colpo una parete verticale. «Più in alto», disse Tina. «Molto lentamente.» Dopo qualche metro, si ripresentò la stessa immagine. Corpi rosa, di forma tubolare, con ciuffi bianchi. «Un classico», disse Johanson. «Che vuoi dire?» «Se la vostra carta è giusta, la maggiore estensione di idrati è proprio qui. Vale a dire che i batteri sono sul ghiaccio e trasformano il metano, e i vermi mangiano i batteri», spiegò lui. «È un classico pure che siano milioni?» domandò Tina. Johanson scosse la testa. Tina si appoggiò allo schienale. «Va bene», disse all'uomo che controllava il braccio prensile. «Mettiamo Victor all'opera. Deve prendere un bel mucchio di quegli animaletti e poi dare un'occhiata al terreno, ammesso che con quella massa di vermi si possa parlare ancora di terreno.» Erano già le dieci passate quando qualcuno bussò alla cabina di Johanson. Lui aprì la porta e Tina entrò, lasciandosi cadere sulla piccola sedia
che, insieme con un tavolo minuscolo e col letto, costituiva l'unico mobilio della stanza. «Ho gli occhi che mi bruciano», disse. «Alban mi sostituisce per un po'.» Poi scorse il piatto di formaggi e la bottiglia aperta di Bordeaux. «Avrei dovuto immaginarlo.» Rise. «È per questo che te la sei svignata, eh?» Johanson aveva lasciato la sala di controllo mezz'ora prima per prepararsi lo spuntino. «Brie des Meaux, taleggio, munster, formaggio di capra stagionato e un po' di fontina piemontese», presentò i formaggi seguendone l'ordine sul piatto. «Inoltre ho una baguette e del burro.» «Sei matto.» «Ne vuoi un bicchiere?» «Certo che ne voglio un bicchiere. Cos'è?» «Un Pauillac. Devi perdonarmi se non posso decantarlo, ma la Thorvaldson è caratterizzata dalla sgradevole mancanza di bicchieri di cristallo. Avete visto qualcos'altro d'interessante?» Tina prese il bicchiere e lo vuotò per metà. «Quegli animaletti di merda sono adagiati sugli idrati. Ovunque.» Johanson si accomodò di fronte a lei sul bordo del letto e prese a spalmare il burro sulla baguette. «Davvero singolare.» Tina prese il formaggio. «Ormai anche gli altri sono convinti che ci sia da preoccuparsi. Soprattutto Alban.» «Durante la vostra ultima ricognizione non erano così tanti?» «No... Be', sì, erano fin troppi per i miei gusti, però in quella occasione erano troppi solo per i miei gusti, non per quelli degli altri.» Johanson le sorrise. «Lo sai, chi ha gusto si trova sempre in minoranza.» «Va bene, comunque domattina riportiamo su Victor con una bella scorta di vermi. Così, se ne avrai voglia, potrai giocare con loro.» Si alzò, masticando il formaggio, e guardò fuori dall'oblò. Il cielo si era rasserenato. La luce della luna scivolava sulle onde e si rifrangeva. «Ho già guardato il video centinaia di volte. Quella cosa chiara... Alban pensa che sia un pesce, ma, se fosse così, allora dovrebbe avere le dimensione di una manta o di qualcosa di ancora più grande. Inoltre non aveva una forma riconoscibile.» «Forse era un riflesso di luce», ipotizzò Johanson. Tina si girò verso di lui. «No. Era distante alcuni metri, proprio al confine della zona illuminata. Era enorme e piatto e si è ritirato come un fulmine, come se non potesse sopportare la luce, oppure avesse paura di essere scoperto.»
«Potrebbe essere qualsiasi cosa.» «No, non qualsiasi cosa.» «Anche un banco di pesci può tirarsi indietro fulmineamente. Se poi nuota tenendosi molto serrato può dare l'impressione di un...», insistette lui. «Non era un banco di pesci, Sigur! Era piatto. Una superficie che si muove, in un certo senso... vitrea. Come una grande medusa», esclamò Tina. «Una grande medusa. Allora hai scoperto cos'era.» «No, no!» La donna fece una pausa e tornò a sedersi. «Va' a guardarti le riprese. Non era una medusa.» Proseguirono a mangiare per un po' in silenzio. «Hai mentito a Jörensen», disse improvvisamente Johanson. «Non ci sarà nessuna SWOP. Perlomeno nessuna che possa occupare operai petroliferi.» Tina sollevò lo sguardo, si portò il bicchiere alle labbra, sorseggiando il vino, e poi lo posò con cautela. «È vero.» «Perché? Temevi di spezzargli il cuore?» «Forse.» Johanson scosse la testa. «Il cuore glielo spezzerete comunque. Non c'è più lavoro per gli operai petroliferi, vero?» «Ascolta, Sigur, non volevo mentirgli, ma... Maledizione, tutto questo settore industriale si sta trasformando e la forza lavoro rimane tagliata fuori. Che ci posso fare? Jörensen sa che è così. Sa anche che il personale della Gullfaks C sarà ridotto a un decimo di quello attuale. Costa meno convertire tutta la piattaforma che continuare a impiegare duecentottanta persone. La Statoil sta pensando di eliminare completamente il personale della Gullfaks B. Possiamo farla funzionare guidandola da un'altra piattaforma, ma anche così i margini di guadagno sarebbero risicati.» «Mi stai dicendo che il vostro business non rende più?» disse lui. «L'affare offshore ha reso soltanto finché l'OPEC non ha fatto una politica di rialzo dei prezzi, cioè fino all'inizio degli anni '70. Dalla metà degli anni '80, i prezzi sono crollati. E quando i giacimenti saranno esauriti, crollerà anche l'Europa settentrionale, se non sfrutteremo i giacimenti più al largo... Però essi si trovano a grande profondità, dove si può lavorare solo con l'aiuto dei ROV e degli AUV.» AUV era un'altra sigla del vocabolario delle esplorazioni negli abissi marini e, da qualche tempo, era sulla bocca di tutti. Gli Autonomous Un-
derwater Vehicles funzionavano di fatto come Victor, ma non erano più legati alla nave madre dal cordone ombelicale artificiale. Le industrie offshore guardavano con grande interesse allo sviluppo di quel robot da immersione. Era come un esploratore planetario in grado di spingersi nelle zone più inospitali, era estremamente flessibile e manovrabile e, entro certi limiti, si rivelava persino in grado di prendere decisioni autonome. Con l'aiuto degli AUV si concretizzava la possibilità d'installare stazioni di estrazione del petrolio a cinque o seimila metri di profondità e di sorvegliarle. «Non ti devi giustificare», disse Johanson, mentre si versava del vino. «Non puoi farci nulla.» «Io non mi giustifico», ribatté Tina, in tono seccato. «Inoltre tutti potremmo fare qualcosa. Se l'umanità non consumasse tanto combustibile, il problema non esisterebbe.» «Be', non subito, ma in futuro sì. Comunque la tua sensibilità ecologica ti fa onore.» «E allora?» replicò lei, acida. Non le era sfuggito il tono ironico della voce di Sigur. «Forse ti sembrerà impossibile, ma le industrie del petrolio sanno anche imparare.» «Sì, ma che cosa?» «Nei prossimi decenni dovremo occuparci dello smantellamento di oltre seicento piattaforme perché non sono più economicamente convenienti e ormai si sono rivelate inadatte alle nuove tecnologie! Lo sai che cosa costa? Miliardi! Nel frattempo lo zoccolo continentale sarà completamente esaurito! Quindi non trattarci come se fossimo gentaglia.» «Va bene.» «Naturalmente adesso tutti si scagliano contro le stazioni sottomarine senza personale. Ma, se non le costruiamo, domani l'Europa dipenderà completamente dagli oleodotti del Medio Oriente e del Sudamerica e a noi rimarrà solo un cimitero in mare», continuò Tina. «Non ho nulla in contrario. Mi chiedo solo se siete perfettamente consapevoli di quello che fate.» «Che vuoi dire?» «I problemi tecnici per mettere in funzione stazioni automatizzate sono enormi», disse Johanson. «Sì, certo.» «Voi progettate l'estrazione di enormi quantità di petrolio in zone caratterizzate da una pressione estrema, utilizzando miscele altamente corrosive
e, oltretutto, con strutture prive di manutenzione.» Johanson esitò. «Fate grandi progetti, ma in realtà non avete la più pallida idea di come sia realmente laggiù.» «Lo stiamo scoprendo.» «Come oggi? Ne dubito. È un po' come la nonna che va in vacanza e scatta un po' d'istantanee, convinta che le permettano di conoscere il Paese in cui è stata. Avete la tendenza a individuare una zona e a esaminarla solo finché non vi sembra che possa essere quella giusta. Ma non cercate di comprendere il complesso sistema di relazioni in cui v'inserite.» «Rieccoci», si lamentò Tina. «Ho forse torto?» «Conosco così bene il concetto di 'ecosistema' che potrei scriverci sopra una canzone e cantarla pure al contrario. O nel sonno. Dimmi un po', sei contro le ricerche petrolifere?» «No, penso solo che si debba conoscere bene il mondo in cui ci s'inserisce.» «E, secondo te, perché siamo su questa nave?» «Sono sicuro che ripeterete i vostri errori. Alla fine degli anni '70, vi siete fatti contagiare dalla febbre dell'oro e avete riempito di costruzioni il mare del Nord. E ora tutta quella roba è soltanto un fastidio. Dovreste evitare di agire in maniera affrettata anche negli abissi marini», rispose Johanson. «Se fossimo frettolosi come dici, perché ti avrei mandato quei maledetti vermi?» gli chiese Tina. «Hai ragione. Ego te absolvo.» Lei si morse il labbro inferiore e Johanson decise di cambiare argomento. «Per parlare di cose più piacevoli, Kare Sverdrup mi sembra un tipo a posto.» Tina aggrottò la fronte. Poi si rilassò e sorrise. «Credi?» «Assolutamente.» Johanson allargò le braccia. «Non è stato molto gentile da parte tua tenermelo nascosto, ma posso capire.» Tina fece girare il vino nel bicchiere. «È tutto così bello», sussurrò. Per un po' non dissero nulla. «È amore?» chiese poi lui, rompendo il silenzio. «Per chi? Per me o per lui?» «Per te.» «Mmm.» Tina sorrise. «Credo di sì.» «Credi?» «Sono una ricercatrice. E prima devo fare delle ricerche», fu la risposta
di lei. Se ne andò a mezzanotte passata. Sulla porta si voltò, lanciando uno sguardo ai bicchieri vuoti e alle croste di formaggio. «Qualche settimana fa, con tutto questo mi avresti conquistata», mormorò. Sembrava quasi dispiaciuta. Johanson la spinse dolcemente nel corridoio. «Alla mia età, riesco a farmene una ragione... Ma adesso va'! Va' a fare ricerche!» Lei si chinò in avanti e gli diede un bacio sulla guancia. «Grazie per il vino.» Poi uscì. La vita consiste nel cercare compromessi tra un'occasione perduta e l'altra, pensò Johanson, mentre chiudeva la porta. Poi sorrise e scacciò quel pensiero. Non poteva proprio lamentarsi: di occasioni ne aveva sfruttate sin troppe. 18 marzo Vancouver e Vancouver Island, Canada Leon Anawak trattenne il respiro. Vieni, dai. Facci questo favore. Era la sesta volta che il beluga nuotava davanti allo specchio. Il piccolo gruppo di giornalisti e studenti che si era radunato nella sala di osservazione sotterranea dell'acquario di Vancouver si bloccò in un silenzio reverente. Attraverso la gigantesca vetrata potevano vedere per intero l'interno della vasca. Raggi solari obliqui danzavano sulle pareti e sul fondo e, dato che la sala di osservazione era nell'oscurità, il gioco di luci e ombre si riverberava sui volti dei presenti. Anawak aveva marcato il beluga sulla mandibola con un cerchio tracciato grazie a una vernice atossica. Il punto era stato scelto in modo che il cetaceo potesse vederlo solo se osservava la propria immagine riflessa. Sulle pareti di vetro riflettenti della piscina erano stati sistemati due specchi, e adesso il beluga stava nuotando lentamente davanti a uno di essi. Lo faceva con una consapevolezza tale da non lasciare ad Anawak il minimo dubbio sull'esito dell'esperimento. Il corpo bianco si girava leggermente nel passare davanti alla vetrata, come se il cetaceo volesse mostrare agli astanti la sua mandibola segnata. Poi l'animale scese più in profondità, finché non arrivò alla stessa altezza dello specchio. Si fermò, si sollevò e mosse la testa prima in una direzione, poi in quella opposta. Evidentemente cer-
cava di scoprire da quale angolazione si vedeva meglio il cerchio. Continuò a muoversi così per un bel pezzo davanti allo specchio, agitando le pinne e voltando la piccola testa con la caratteristica bombatura della fronte. Era davvero inquietante: un essere così diverso dall'uomo, eppure con un comportamento incredibilmente simile a quello umano... A differenza dei delfini, che avevano un repertorio limitato, i beluga erano capaci di dare molte espressioni al volto. Per un istante, sembrò persino che facesse un sorriso. Gli uomini teadono ad attribuire stati d'animo a beluga e delfini proprio a causa di quei presunti sorrisi. In realtà, gli angoli della bocca sollevati sono frutto di una serie di peculiarità fisiognomiche utilizzate per la comunicazione. I beluga potevano anche abbassare gli angoli della bocca, senza per questo esprimere tristezza. Sapevano addirittura sporgere le labbra come se fossero di buon umore e stessero fischiettando. Poco dopo, tuttavia, il beluga sembrò perdere ogni interesse. Forse aveva esaminato a sufficienza la propria immagine riflessa... A ogni buon conto, nuotò verso l'alto con una curva elegante e si allontanò dalla vetrata. «È tutto», disse Anawak a bassa voce. «E questo che vuol dire?» chiese una giornalista. «Già. Lui sa chi è. Torniamo su.» Dal sottosuolo risalirono alla luce del sole. Alla loro sinistra c'era la piscina e tutti la fissarono. Appena sotto l'increspatura delle onde videro scivolare i corpi dei due beluga. Anawak aveva volutamente evitato di spiegare agli osservatori l'esatto corso dell'esperimento. Voleva raccogliere le impressioni dei partecipanti con la certezza che non avessero letto nel comportamento dei cetacei quello che lui desiderava leggerci. Le sue osservazioni furono confermate in pieno. «Mi congratulo», disse infine. «Avete appena partecipato a un esperimento che è entrato nella storia delle ricerche sul comportamento: la coscienza di sé allo specchio. Sapete di che cosa sto parlando?» Gli studenti lo sapevano, i giornalisti un po' meno. «Non fa niente», disse Anawak. «Ve la riassumo io. L'idea della coscienza di sé allo specchio è nata negli anni '70. Per decenni i test si sono limitati quasi esclusivamente ai primati. Non so se il nome Gordon Gallup vi dice qualcosa...» Circa la metà dei presenti annuì, gli altri scossero la testa. «Va bene, Gallup è uno psicologo della State University of New York. Un giorno gli venne un'idea folle: mise a confronto diverse specie di scimmie con la loro immagine allo specchio. La maggior parte la ignorò,
altre cercarono di aggredirla perché pensavano si trattasse di un intruso. Alcuni scimpanzé, invece, si riconobbero nell'immagine e la utilizzarono per studiarsi. Era una cosa straordinaria, perché la maggior parte dei membri del regno animale non è in grado di riconoscersi allo specchio. Gli animali esistono, provano sensazioni, agiscono e reagiscono. Ma non hanno consapevolezza di sé. Non riescono a percepirsi come individui a sé, diversi dai loro simili.» Proseguì, spiegando che Gallup aveva segnato col colore la fronte delle scimmie e le aveva messe davanti allo specchio. Gli scimpanzé avevano capito subito chi vedevano nello specchio. Ispezionavano il segno, ne determinavano la posizione con le dita e annusavano. Gallup aveva proseguito l'esperimento con altre scimmie, pappagalli ed elefanti. Ma gli unici animali ad aver avuto quel comportamento erano stati gli scimpanzé e gli orangutan, cosa che portò Gallup a concludere che essi avevano la percezione di sé e quindi una certa coscienza di se stessi. «Ma Gallup andò oltre. Da tempo, sosteneva l'ipotesi che gli animali non potessero condividere la psiche delle altre specie. Ma il test dello specchio gli fece cambiare idea. E, oggi, non si limita a credere che determinati animali abbiano coscienza di sé, ma anche che tale condizione permetta loro d'immedesimarsi negli altri. Gli scimpanzé e gli orangutan attribuiscono opinioni agli altri individui e sviluppano compassione. Sono in grado di scindere le loro condizioni psichiche da quelle degli altri. Questa è la tesi di Gallup, che ha trovato molti sostenitori.» Fece una pausa. Sapeva che poi avrebbe dovuto mettere un freno ai giornalisti. Non voleva ritrovarsi a leggere che i beluga erano i migliori psichiatri, che le focene avrebbero fondato un'associazione per il salvataggio dei naufraghi e gli scimpanzé un club scacchistico. «In ogni caso, è significativo che fino agli anni '90, per il test dello specchio, siano stati usati quasi esclusivamente animali terrestri», proseguì. «Inoltre è vero che si speculava già da tempo sull'intelligenza di delfini e balene, benché fornirne la dimostrazione non suscitasse di certo l'interesse delle industrie alimentari. La carne di scimmia e la sua pelliccia interessano solo una minima parte dell'umanità. Al contrario, la caccia alle balene e ai delfini ha ben altre dimensioni e subirebbe un duro colpo se si dimostrasse l'intelligenza e la consapevolezza di sé di tali animali. Molti sono stati tutt'altro che entusiasti quando, alcuni anni fa, abbiamo iniziato i test dello specchio con le focene. Abbiamo rivestito le pareti della piscina in parte con vetri riflettenti, in parte con specchi veri e propri. Poi abbiamo segnato le focene con un pennarello nero. Ed è stato già piuttosto sorpren-
dente notare come i nostri soggetti ispezionassero le pareti finché non trovavano gli specchi. Evidentemente avevano capito che potevano vedere meglio il segno se l'immagine riflessa era più definita. Ma siamo andati oltre: abbiamo marcato alcuni animali con un pennarello che conteneva inchiostro e altri con uno che conteneva solo acqua. Temevamo che le focene reagissero solo allo stimolo tattile; invece si fermavano a lungo a esaminarsi davanti allo specchio solo i soggetti col segno visibile.» «Le focene ottenevano una ricompensa?» chiese uno degli studenti. «No, e non le abbiamo neppure allenate per il test. Durante l'esperimento abbiamo addirittura segnato diverse parti del loro corpo, per evitare gli effetti dell'apprendimento e dell'abitudine. Da alcune settimane stiamo facendo lo stesso esperimento coi beluga. Abbiamo segnato sei volte i cetacei, due volte col pennarello 'finto'. Li abbiamo osservati. Ogni volta nuotavano verso lo specchio e cercavano il segno. Per due volte non l'hanno trovato e hanno interrotto subito la ricerca. A mio avviso, abbiamo ottenuto la dimostrazione che i beluga hanno lo stesso livello di autoconsapevolezza degli scimpanzé. Per alcuni aspetti, i cetacei e gli uomini possono essere considerati molto più simili di quanto pensavamo.» Una studentessa alzò la mano. «Vuole dire...» Esitò. «I risultati vogliono dire che delfini e beluga hanno intelletto e coscienza, giusto?» «È così.» «Come può dimostrarlo?» Anawak era allibito. «Non ha sentito? Non ha visto cos'è successo?» «Certo. Ho visto che un animale ha registrato la propria immagine allo specchio, quindi è come se dicesse: 'Quello sono io'. Ciò dimostra necessariamente la coscienza di sé?» «Si è data la risposta da sola, affermando: Quindi è come se dicesse: 'Quello sono io'. Ha coscienza di sé.» «Non credo.» La studentessa fece un passo avanti e Anawak la osservò, aggrottando le sopracciglia. Aveva capelli rossi, un piccolo naso a punta e incisivi un po' troppo grandi. «Il vostro tentativo evidenzia attenzione consapevole e coscienza dell'identità fisica. E, a quanto pare, lo fa con successo. Ma non basta per dimostrare che questi animali possiedono una coscienza permanente dell'identità. Da esso non si possono fare speculazioni sul loro atteggiamento nei confronti degli altri esseri viventi.» «Non ho detto questo», si difese Anawak. «Certo. Ha difeso la tesi di Gallup secondo cui determinati animali sono in grado d'individuare se stessi rispetto agli altri...»
«Ho parlato di scimmie.» «... Cosa che, sia detto tra parentesi, è controversa. In ogni caso, lei non ha posto nessun limite quando si è messo a parlare di focene e beluga. Oppure mi è sfuggito qualcosa?» «In questo caso non c'è nessun limite da porre», ribatté Anawak, contrariato. «Che gli animali si riconoscano è dimostrato.» «Alcuni esperimenti lo lasciano pensare, certo.» «Dove vuole arrivare?» La ragazza lo fissò, spalancando gli occhi. «Non è evidente? Lei può vedere come si comporta un beluga. Ma come fa a sapere che cosa pensa? Conosco il lavoro di Gallup. Crede di aver dimostrato che un animale può immedesimarsi in un altro. Ciò presuppone che gli animali pensino e provino sensazioni come noi. Quello che oggi ci ha mostrato è un tentativo di umanizzazione.» Anawak era senza parole. Quella studentessa gli stava ritorcendo contro gli stessi argomenti. «Ha davvero questa impressione?» chiese. «Lei ha detto che i cetacei potrebbero essere più simili a noi di quanto abbiamo creduto finora.» «Lei non ha ascoltato bene, Miss...» «Delaware. Alicia Delaware.» «Miss Delaware.» Anawak si concentrò. «Ho detto che i cetacei e gli uomini potrebbero essere più simili di quanto pensavamo.» «E dov'è la differenza?» «Nel punto di vista. Non vogliamo dimostrare che la scoperta di tratti comuni rende i cetacei più simili agli uomini. La questione non è mettere l'uomo come figura ideale, ma vedere parentele sostanziali...» «Comunque non credo che la consapevolezza di sé di un animale sia paragonabile a quella dell'uomo. Le premesse di fondo sono troppo distanti. A cominciare dal fatto che gli uomini hanno una consapevolezza permanente di sé, attraverso cui...» «Sbagliato», la interruppe Anawak. «Anche gli uomini sviluppano una consapevolezza permanente solo a determinate condizioni. È dimostrato. Dai diciotto ai ventiquattro mesi, i bambini cominciano a riconoscere la propria immagine allo specchio. Fino a quel momento non sono in grado di riflettere sul loro 'essere se stessi'. Rispetto al cetaceo che abbiamo visto poco fa, sono ancora meno consapevoli della loro condizione intellettuale. E la smetta di fare continuamente riferimento solo a Gallup. Noi ci stiamo sforzando di comprendere gli animali. Perché non ci piova anche lei?»
«Io volevo solo...» «Voleva? Sa che effetto farebbe al beluga se la vedesse mentre si guarda allo specchio? Lei si dipinge il viso, quindi che cosa dovrebbe pensare? Dovrebbe dedurre che lei è in grado d'identificare la persona nello specchio. Tutto il resto gli sembrerebbe un'idiozia. Però, se dovesse considerare il suo gusto in fatto di abbigliamento e make-up, il beluga arriverebbe a dubitare della sua capacità di riconoscersi allo specchio. Metterebbe addirittura in dubbio la sua condizione mentale.» Alicia Delaware arrossì e parve intenzionata a rispondere, ma Anawak non le lasciò il tempo. «Naturalmente questi test sono solo l'inizio», disse. «Nessuno che faccia ricerche serie su delfini e balene vuole rinverdire l'ameno mito degli amici dell'uomo. Verosimilmente, delfini e balene non hanno un particolare interesse per l'uomo, soprattutto perché abitano un diverso spazio vitale, hanno altri bisogni e derivano da una linea evolutiva diversa dalla nostra. Ma se il nostro lavoro può portare a trattarli con maggiore rispetto, e quindi a proteggerli al meglio, allora ne vale la pena.» Rispose ancora ad alcune domande e lo fece il più velocemente possibile. Alicia Delaware si tenne in disparte, con aria imbarazzata. Infine Anawak si congedò dal gruppo e attese che si allontanasse. Poi si mise a parlare con la sua équipe scientifica, fissò i successivi appuntamenti e le altre procedure. Finalmente solo, si avvicinò al bordo della piscina, respirò profondamente e si rilassò. Il lavoro col pubblico non gli piaceva... e in futuro sarebbe stato costretto a trattare sempre più spesso con gli estranei. La sua carriera procedeva senza ostacoli, sostenuta da una fama ormai consolidata d'innovatore. Quindi, prima o poi, avrebbe dovuto litigare con tutte le Alicia Delaware di questo mondo, ragazze appena uscite dall'università e che, sempre chine sui libri, non avevano mai visto neppure un litro d'acqua marina. Si piegò sulle ginocchia e sfiorò l'acqua fredda della piscina. Era mattina presto. Di solito, i test e le visite scientifiche avevano luogo prima dell'apertura dell'acquario o dopo la sua chiusura. Dopo settimane di pioggia, marzo faceva bella mostra di sé con una serie di giornate straordinariamente belle e il primo sole sfiorava col suo gradevole calore la pelle di Anawak. Che cosa aveva detto quella studentessa? Che lui cercava di umanizzare gli animali? Quella critica gli rodeva. Anawak si faceva vanto di trattare la scienza con misura. Anzi tutta la sua vita era improntata al senso della misura: lui
non beveva, non andava alle feste e non si metteva mai in mostra, sostenendo tesi azzardate, solo per creare scompiglio. Non credeva in Dio e non accettava neppure nessun comportamento improntato alla religiosità. Provava avversione per ogni forma di esoterismo. Evitava di proiettare valori tipicamente umani sugli animali, quando gli era possibile. I delfini, per esempio, erano diventati le vittime di un'idea romantica non meno pericolosa dell'odio e dell'arroganza: venivano considerati migliori degli uomini e alcuni credevano persino che l'emulazione dei delfini fosse un modo attraverso il quale gli esseri umani potevano migliorare se stessi. Quella sfrenata idolatria verso i delfini era figlia dello stesso fanatismo che li perseguitava: o erano tormentati a morte o amati a morte. Quella Miss Delaware coi denti da coniglio aveva preteso di spiegargli quello di cui lui stesso era convinto. Anawak continuò a sfiorare l'acqua. Dopo un po' arrivò il beluga segnato, una femmina lunga quattro metri. Tirò fuori la testa e si lasciò dare qualche buffetto, mentre emetteva dei deboli fischi. Anawak si domandò se il beluga condividesse delle sensazioni umane e potesse capirle. In fondo non c'era la minima prova di quel fatto. Almeno in quello, Alicia Delaware aveva ragione. Però era anche vero che non esisteva la minima prova che non fosse così. Il beluga emise una sorta di cinguettio e si rituffò sott'acqua. Su Anawak era calata un'ombra. Si voltò e si ritrovò davanti un paio di stivali da cowboy con tanto di ricami. Oh, no, pensò. Non adesso! «Allora, Leon», disse l'uomo che si era avvicinato al bordo della piscina. «Chi maltrattiamo oggi?» Anawak si alzò e osservò il nuovo arrivato. Jack Greywolf sembrava appena uscito da un film western. Il suo fisico gigantesco e muscoloso era infilato in un abito di pelle. Sull'ampio petto, penzolava un gioiello indiano. Sotto il cappello ornato di piume, scendeva sulle spalle e sulla schiena una chioma nera e splendente come seta. Era l'unica cosa che appariva curata in Jack Greywolf, che, per il resto, sembrava rimasto per settimane nella prateria senza acqua e sapone. Anawak guardò il suo viso abbronzato su cui c'era un sorrisetto ironico. «Chi ti ha fatto entrare, Jack?» chiese, con un ghigno appena accennato. «Manitou in persona?» Il sorriso di Greywolf si allargò. «Permesso straordinario», spiegò. «Ah, sì? Da quando?»
«Da quando abbiamo l'autorizzazione papale di darvi bacchettate sulle dita. Sciocchezze, Leon, sono entrato poco fa, come tutti gli altri. Hanno aperto da cinque minuti.» Incredulo, Anawak guardò l'orologio e vide che Greywolf aveva ragione. Quella sosta presso la vasca dei beluga gli aveva fatto perdere la nozione del tempo. «Spero sia un incontro casuale», disse. Greywolf fece una smorfia. «Non del tutto.» «Allora stavi cercando proprio me?» Anawak si avviò lentamente, costringendo Greywolf a seguirlo. I primi visitatori stavano gironzolando fra le strutture dell'acquario. «Che posso fare per te?» «Lo sai.» «La solita solfa?» «Associati a noi.» «Scordatelo.» «Vieni con noi, Leon, tu sei uno dei nostri. Non puoi essere davvero interessato a permettere che una massa di ricchi bastardi fotografi a morte le balene.» «Infatti non lo sono.» «La gente ti ascolta. Se prendessi ufficialmente posizione contro il whale watching, tutta la discussione assumerebbe un peso diverso. Uno come te ci sarebbe molto utile.» Anawak si fermò e guardò Greywolf con aria di sfida. «Esatto. Vi sarei molto utile. Ma io non voglio essere utile a nessuno se non a quelli che ne hanno davvero bisogno.» «Loro!» Greywolf indicò col braccio teso la vasca dei beluga. «Loro ne hanno bisogno! Mi viene da vomitare a vederti qui, in intima armonia coi prigionieri! Li rinchiudete o li braccate e questo è un assassinio a rate. Ogni volta che uscite con le vostre barche, uccidete un po' quegli animali.» «Sei vegetariano?» «Come?» chiese Greywolf, disorientato. «Mi stavo proprio chiedendo a chi hanno tolto la pelle per fare la tua giacca», replicò l'altro, incamminandosi. Ancora sbalordito, Greywolf rimase immobile per un momento, poi, a lunghe falcate, raggiunse Anawak. «È c'è un'altra cosa. Gli indiani hanno sempre vissuto in armonia con la natura. Dalle pelli degli animali hanno...» «Risparmiami la storiella.» «Ma è così.» «Jack, posso dirti qual è il tuo problema? Anzi, per la precisione, i pro-
blemi sono due. Primo: ti atteggi a difensore dell'ambiente, ma in realtà stai conducendo una guerra fuori dal tempo per gli indiani che ormai hanno risolto le loro vertenze in altro modo. Secondo: non sei un vero indiano.» Greywolf impallidì. Anawak sapeva che il suo interlocutore era già stato processato diverse volte per lesioni personali e si chiedeva fino a che punto avrebbe potuto provocare quel gigante. Sarebbe bastata una sberla di Greywolf per chiudere definitivamente ogni discussione. «Perché dici queste stronzate, Leon?» «Sei un mezzo indiano», disse Anawak. Si fermò davanti alla vasca delle lontre marine e guardò i loro corpi scuri sfrecciare sott'acqua come siluri. Il pelo luccicava sotto i primi raggi del sole. «No, non è solo questo, tu sei indiano come lo è un orso bianco siberiano. Questo è il tuo vero problema: non sai a chi appartieni, non sai dove sbattere la testa e con le tue arie da ambientalista credi di poter pisciare sui piedi di quelli che ritieni responsabili della tua condizione. E ora lasciami andare.» Greywolf socchiuse le palpebre nel sole. «Non riesco a sentirti, Leon», disse. «Perché non sento neppure una parola? Sento sempre e solo rumori. Uno scroscio, come quando si rovescia una carriola di ciottoli su un tetto di lamiera.» «Augh!» «Al diavolo, non dovremmo litigare. In fondo, che cosa voglio da te? Solo un po' di sostegno.» «Non ti posso sostenere», replicò Anawak. «Ma guarda un po', e io che sono stato così gentile da venire a informarti della nostra prossima azione. Non avrei dovuto farlo.» Anawak drizzò le orecchie. «Che cosa avete intenzione di fare?» «Tourist watching.» Greywolf rise sonoramente. I suoi denti bianchi brillavano come avorio. «E che vuol dire?» «Usciamo in mare e fotografiamo i tuoi turisti. Li talloniamo e cerchiamo di beccarli. Così dovrebbero farsi un'idea di che cosa vuol dire essere inseguiti e avere qualcuno che cerca di metterti le mani addosso.» «Te lo posso far vietare.» «E invece non puoi, perché questo è un Paese libero. Non lasciamo che nessuno stabilisca per noi quando possiamo uscire con le nostre barche e dove dobbiamo andare. Capisci? L'azione è preparata e decisa, ma, se tu ci vieni incontro, potrei ripensarci e annullarla», ribatté Greywolf.
Anawak lo fissò. Poi si girò e se ne andò. «Tanto le balene non arrivano», disse. «Perché le avete costrette ad andarsene», fu la risposta di Greywolf. «Noi non abbiamo fatto nulla.» «Ah, già, è vero, l'uomo non è mai colpevole. La colpa è degli stupidi animali. Sono loro a nuotare verso gli arpioni, oppure a mettersi in posa perché vogliono una foto per l'album di famiglia. Ma ho sentito che ritornano. Negli ultimi giorni non sono forse ricomparse alcune megattere?» «Solo un paio», disse Anawak. «I vostri affari potrebbero mettersi male. Vuoi rischiare che le nostre azioni li facciano crollare definitivamente?» insinuò Greywolf. «Vaffanculo, Jack.» «Ehi, questa è la mia ultima offerta.» «Era ora.» «Accidenti! Leon! Almeno metti una buona parola per noi! Abbiamo bisogno di soldi. Ci finanziamo solo con le offerte, Leon! Fermati. È per una buona causa, non capisci? Noi vogliamo la stessa cosa.» «No, non vogliamo la stessa cosa. Buona giornata, Jack.» Anawak accelerò il passo. Avrebbe voluto correre, ma non voleva dare a Greywolf l'impressione che stesse fuggendo. L'ambientalista rimase fermo. «Carogna cocciuta!» gli gridò dietro. Anawak non rispose. Superò deciso il delfinario e si diresse verso l'uscita. «Leon, sai qual è il tuo problema? Forse io non sarò un vero indiano, ma il tuo problema è che tu sei un vero indiano!» «Io non sono un indiano», borbottò Anawak. «Ah, scusa», gridò Greywolf come se l'avesse sentito. «Tu sei un caso particolare. Perché non sei nella tua terra, dove c'è bisogno di te?» «Bastardo», sibilò Anawak. Tremava di rabbia. Prima quella capra cocciuta, poi Jack Greywolf. Avrebbe potuto essere una giornata magnifica, iniziata con un esperimento coronato da successo. E invece lui si sentiva svuotato e infelice. «Nella tua terra...» Che cosa si credeva quella montagna di muscoli senza cervello? Con che faccia tosta gli rinfacciava le sue origini? «Dove c'è bisogno di tei» «Io sono dove c'è bisogno di me», sbuffò. Una donna gli passò vicino e lo fissò, sbalordita. Anawak si guardò intorno. Era fuori, in strada. Sempre tremando di rabbia, salì in auto, diretto all'imbarco per Tsawwassen, e lì prese il traghetto per Vancouver Island.
Il giorno seguente si alzò presto. Alle sei era sveglio e, dopo essere rimasto per un po' a fissare il basso tetto della cuccetta, aveva deciso di andare alla Davies Whaling Station. Nuvole rosa sfilavano lungo l'orizzonte e il cielo cominciava lentamente a schiarirsi. Nell'acqua, liscia come uno specchio, si riflettevano le montagne vicine con tonalità scure, le case, le barche. Di lì a poche ore sarebbero apparsi i primi turisti. Anawak andò sino alla fine del pontile dov'era ormeggiato lo zodiac, si appoggiò al parapetto di legno e guardò per un po' il mare aperto. Amava quella piacevole sensazione della natura che si sveglia prima degli uomini. Lì non c'era nessuno che lo infastidisse. Quelli come l'insopportabile fidanzato di Susan Stringer erano a letto e tenevano la bocca chiusa. Verosimilmente anche Alicia Delaware dormiva... il sonno dell'ignoranza. E poi c'era Jack Greywolf. Le sue parole riecheggiavano nella mente di Anawak. Forse Greywolf era un perfetto idiota, ma purtroppo era riuscito ancora una volta a mettere il dito nella piaga. Osservando due piccoli pescherecci, Anawak rifletté se era il caso di chiamare Susan e convincerla a uscire in mare con lui. Greywolf non aveva mentito: erano state avvistate le prime megattere. Evidentemente arrivavano alla spicciolata, con grande ritardo. La cosa in sé era positiva, però non spiegava dove si fossero cacciate per tutto quel tempo. Forse sarebbero riusciti a identificarne qualcuna. Susan aveva fiuto, senza contare che la sua compagnia gli piaceva. Era una delle poche persone che non tirava mai in ballo la storia delle sue origini, indagando se era indiano oppure asiatico. O chissà cosa. Samantha Crowe l'aveva fatto. Strano, a lei avrebbe potuto raccontare tutto. Ma la ricercatrice del SETI stava per partire. Tu pensi troppo, Leon. Anawak decise di non svegliare Susan e di andare da solo. Entrò nella stazione e mise in una borsa impermeabile il laptop, la telecamera, il binocolo, il registratore, l'idrofono, le cuffie e un cronometro. Poi prese una barretta di müesli, due lattine di tè freddo e portò tutto sul Blue Shark. Guidò lentamente il gommone scoppiettante attraverso la laguna e accelerò solo quando si fu allontanato a sufficienza dalle case. Lo zodiac sfrecciava, con la prua sollevata, e il vento colpiva il viso di Anawak, spazzando i pensieri cupi.
Senza passeggeri e fermate intermedie, procedeva molto velocemente. Dopo meno di venti minuti, scorse un gruppo di minuscole isole che spuntavano dal mare argentato, mosso da onde lunghe e distanziate, e proseguì a velocità ridotta. Anawak stava all'erta, cercando di non farsi scoraggiare. Le megattere erano state avvistate, senza dubbio. E non erano quelle stanziali, bensì le transienti, provenienti dalla Bassa California e dalle Hawaii. Giunto al largo, Anawak spense il motore e fu immediatamente avvolto da un silenzio assoluto. Aprì una lattina di tè freddo, bevve e poi si mise a prua col binocolo. Passò quasi un'eternità prima che qualcosa facesse capolino, ma il dorso scuro sparì subito. «Fatti vedere. Lo so che sei lì», sussurrò Anawak. Perlustrava attentamente l'oceano. Per alcuni minuti non accadde nulla. Poi, poco più in là, dall'acqua emersero due figure lisce, a breve distanza l'una dall'altra. Sui loro dorsi si levavano bianche nuvole di vapore, simili a fumo denso. La loro comparsa fu accompagnata da un rombo, simile a una serie di colpi di fucile. Anawak fissava quello spettacolo con gli occhi spalancati. Megattere. Scoppiò a ridere, felice. Come tutti gli esperti, era in grado di riconoscere la specie soltanto dal getto. Nei grandi cetacei, il ricambio dell'ossigeno coinvolgeva ogni volta alcuni metri cubi di aria. Quella che avevano nei polmoni veniva compressa ed espulsa regolarmente dallo sfiatatoio. Una volta uscita, si allargava, si raffreddava e si condensava in una sorta di vaporizzazione. Forma e altezza del getto variavano anche all'interno della stessa specie, a seconda del tempo d'immersione e delle dimensioni. Pure il vento giocava un certo ruolo. Ma quelle erano senza ombra di dubbio le caratteristiche nuvole di condensa del getto delle megattere. Anawak accese il laptop e avviò il programma. Aveva salvato le schede di centinaia di cetacei che passavano regolarmente in quella zona. Per i profani, era quasi impossibile riconoscere la specie o addirittura il singolo individuo, da quel poco che i cetacei tenevano fuori dall'acqua, senza contare che, spesso, la visuale era resa difficile dal mare grosso, dalla nebbia, dalla pioggia o dalla luce abbagliante del sole. Tuttavia ogni animale aveva segni caratteristici. Il modo più facile per identificarli era osservare le pinne caudali che, durante l'immersione, si levavano spesso dall'acqua. Ogni esemplare aveva una coda diversa. Ciascuna aveva un disegno caratteristi-
co e potevano esserci differenze nella forma e nella struttura. Anawak sapeva riconoscere molte code, ma il suo archivio fotografico rendeva il lavoro più facile. Era pressoché sicuro che fossero due vecchie conoscenze. Dopo un po', i dorsi neri riemersero. Prima, appena visibili, comparvero i piccoli rilievi con gli sfiatatoi. Poi si sentì il fischio quasi simultaneo alla vaporizzazione dell'espirazione. Gli animali non s'inabissarono subito, ma fecero emergere ancora di più i dorsi, mostrando le pinne dorsali piatte e smussate. Quindi si piegarono pigramente in avanti e s'immersero. Anawak riconobbe chiaramente la dentellatura della colonna vertebrale. Infine sollevarono lentamente le code. Velocissimo, prese il binocolo e cercò di scorgerne la parte inferiore, ma non ci riuscì. Non importava. Erano arrivate. La prima dote di un osservatore di balene è la pazienza. Inoltre c'era ancora tempo prima dell'arrivo dei turisti. Aprì la seconda lattina e addentò la barretta di müesli. In breve tempo, la sua pazienza venne ricompensata. D'un tratto si accorse che, a poca distanza dall'imbarcazione, cinque dorsi solcavano l'acqua. Sentì il cuore battergli all'impazzata. Gli animali erano vicinissimi. Attese impaziente la comparsa delle code. Quello spettacolo lo stregava a tal punto che, in un primo momento, non percepì la figura monumentale vicino alla barca. Ma era ritta proprio davanti a lui. Anawak voltò la testa e trasalì. Dimenticò i cinque dorsi e rimase a bocca aperta. Il cranio della megattera si era levato dai flutti senza fare rumore. Era così vicino da sfiorare il bordo dell'imbarcazione. Usciva dall'acqua di quasi tre metri e mezzo, la bocca chiusa e corrugata ricoperta di crostacei balani ed escrescenze. Al di sopra della bocca, un occhio grande come un pugno fissava il passeggero dello zodiac. Al di sopra delle onde si vedevano gli attacchi delle imponenti pinne pettorali. La testa sembrava immobile come una roccia. Era il benvenuto più impressionante che Anawak avesse mai avuto. Gli era capitato più di una volta di vedere quegli animali da vicino. Si era avvicinato a loro in immersione, li aveva accarezzati e vi si era aggrappato. Li aveva persino cavalcati. Capitava spesso che balene grigie, megattere e orche emergessero con la testa vicino alle imbarcazioni per esaminarle e controllare il territorio. Ma quella volta era diverso. Sembrava quasi che fosse la megattera a osservare Anawak, non il con-
trario. E non era interessata allo zodiac. Il suo occhio, collocato tra palpebre rugose come quelle degli elefanti, fissava esclusivamente la persona sul gommone. Sott'acqua, la sua vista era acutissima, ma la marcata curvatura dei cristallini la condannava alla miopia non appena abbandonava il suo elemento naturale. Tuttavia, a una distanza così ravvicinata, era in grado di vedere perfettamente Anawak. Lentamente, per non spaventare l'animale, lui allungò la mano e gli accarezzò la pelle liscia e umida. La megattera non fece neppure cenno d'immergersi. Il suo occhio si spostò, poi puntò di nuovo su Anawak. Era una scena d'intimità quasi grottesca, un momento di felicità assoluta, ma Anawak si chiedeva a che cosa stesse mirando l'animale con quella lunga osservazione. In generale, le occhiate dei mammiferi duravano pochi secondi. Per i cetacei era molto faticoso rimanere in posizione verticale. «Dove sei stata per così tanto tempo?» chiese a bassa voce. Un tonfo appena percepibile arrivò dall'altra parte dello zodiac. Anawak si voltò appena in tempo per vedere un'altra testa levarsi. La seconda megattera era un po' più piccola, ma altrettanto vicina. Anch'essa fissava Anawak. Lui non provò neppure ad accarezzare l'altro animale. Che cosa volevano? Cominciò a sentirsi a disagio. Era insolito, per non dire bizzarro, sentirsi osservato. Una cosa simile non gli era mai capitata. Tuttavia, si chinò sulla borsa, tirò fuori in fretta la fotocamera digitale, la sollevò e disse: «Non muovetevi». Forse aveva commesso un errore. Se era così, era la prima volta nella storia del whale watching che le megattere mostravano un'esplicita avversione per le macchine fotografiche. Come dietro comando, le due teste gigantesche tornarono a immergersi. Sembravano due isole che sprofondano in mare. Un leggero gorgoglio, qualche bolla... e Anawak era di nuovo solo in quell'immensità rilucente. Si guardò intorno. Il sole era ormai sorto e, tra le montagne, si stendeva la foschia. La piatta superficie del mare si tingeva di blu. Non c'erano megattere. Anawak ansimò. Solo in quel momento si rese conto che il cuore gli batteva all'impazzata. Rimise la macchina fotografica nella borsa, riprese il binocolo, poi cambiò idea. I suoi nuovi amici non potevano essere lontani. Prese il registratore, si mise le cuffie e lasciò scivolare lentamente in acqua
l'idrofono. I microfoni subacquei erano così sensibili da riuscire a cogliere anche il rumore delle bolle d'aria in risalita. Sentì fruscii e rimbombi, ma nulla che potesse essere ricondotto alle megattere. Anawak attese il loro caratteristico verso. Non sentì nulla. Infine riportò a bordo l'idrofono. Dopo un po', a una certa distanza scorse le nuvole del respiro vaporizzato. Ma non le seguì. Che gli piacesse o no, era giunto il momento di rientrare. Mentre tornava a Tofino, immaginò la reazione entusiasta dei turisti se quello spettacolo si fosse ripetuto. Ne avrebbero parlato a tutti. La Davies e le sue balene ammaestrate. Sarebbero stati sommersi dalle richieste. Fantastico! Lo zodiac avanzava sulle acque tranquille, e lo sguardo di Anawak si posò sulle foreste vicine. Forse un po' troppo fantastico. 23 marzo Trondheim, Norvegia Sigur Johanson fu strappato al sonno da un suono acuto. Cercò tastoni la sveglia, finché non si rese conto che era il telefono. Si sollevò, imprecando, e stropicciandosi gli occhi. Ma il suo senso dell'orientamento sembrava non volersi attivare e lui ricadde all'indietro. Gli girava la testa. Cos'era successo la sera prima? Aveva fatto bisboccia con alcuni colleghi. C'erano anche degli studenti. Erano partiti con l'intenzione di andare a cena all'Havfruen, un ristorante situato all'interno di un magazzino dismesso nei pressi del Gamie Bybru, l'antico ponte della città. All'Havfruen proponevano raffinati piatti di pesce e alcuni buoni vini. Alcuni ottimi vini, ricordò improvvisamente. Erano rimasti seduti a un tavolo vicino alla finestra e avevano guardato il fiume Nidelva, coi moli e con le piccole imbarcazioni private, osservando come scorresse lentamente verso il fiordo di Trondheim. Anche nelle loro gole il vino scorreva a fiumi. Qualcuno si era messo a raccontare barzellette. Poi Johanson era sceso col proprietario in una cantina umida e si era fatto mostrare i tesori ottimamente conservati e gelosamente custoditi. Il problema di quella mattina era dovuto al fatto che il proprietario aveva stappato alcuni di quei tesori. E forse non era neppure l'unico problema.
Ho cinquantasei anni, pensò con un sospiro, mentre si alzava faticosamente a sedere. Non devo più fare cose del genere. No, sbagliato, devo farle, ma non devo permettere a nessuno di chiamarmi così presto dopo che le ho fatte. Intanto il telefono continuava a suonare, cocciuto. Con gemiti esagerati, se ne rendeva perfettamente conto - esagerati soprattutto perché non c'era nessuno a udirli -, si tirò in piedi e, nonostante le vertigini, riuscì ad arrivare in salotto. Aveva lezione quel giorno? Il pensiero lo colpì come un pugno. Terribile! Un'immagine mostruosa: stare davanti agli studenti con l'aspetto di un vecchio - be', in fondo lo era -, quasi incapace di tenere la testa eretta. Avrebbe giocherellato col colletto della camicia e con la cravatta, almeno finché non sarebbe riuscito a schiodarsi la lingua. Si sentiva la bocca impastata e gli sembrava di essere totalmente incapace di muoversi e di articolare verbo. Quando infine sollevò la cornetta, ricordò che era sabato e il suo umore migliorò di colpo. «Johanson», disse con voce sorprendentemente limpida. «Mio Dio, ce ne hai messo di tempo a rispondere.» Era Tina Lund. Johanson strabuzzò gli occhi e si lasciò cadere nella poltrona di fronte al televisore. «Che ore sono?» chiese. «Sono le sei e mezzo, perché?» «È sabato.» «Lo so che è sabato. Qualcosa che non va? Hai una voce...» «Non sono particolarmente in forma. Cosa vuoi da me, a quest'ora sconsiderata?» Tina ridacchiò. «Volevo convincerti a venire a Tyholt.» «Al Marintek? E che diavolo dovrei venirci a fare?» «Pensavo che sarebbe carino fare colazione insieme. Kare è a Trondheim per qualche giorno e gli farebbe certamente piacere vederti.» Tina fece una pausa, quindi riprese: «Inoltre volevo chiederti una cosa». «Mi pareva. Non è da te chiamarmi solo per un invito a colazione.» «No, non hai capito. Volevo sentire la tua opinione su una cosa.» «Che cosa?» «Non al telefono. Vieni?» «Dammi un'ora», disse Johanson, sbadigliando con tanto vigore che pensò di essersi slogato la mascella. «No, facciamo due. Prima voglio passare dall'università. Probabilmente sono arrivate altre analisi sui tuoi vermi.» «Sarebbe perfetto. Non è strano? Prima ero io a fare cose bizzarre, ades-
so è il contrario. Okay, prenditi il tempo necessario, ma muoviti.» «Agli ordini», borbottò Johanson. Sempre in preda alle vertigini, s'infilò sotto la doccia. Dopo una mezz'ora passata a sbuffare sotto il getto d'acqua, cominciò a sentirsi relativamente meglio. Era come se il vino avesse fiaccato le sue capacità sensoriali. Gli sembrava che la sua immagine allo specchio si sdoppiasse. C'era da chiedersi se in quelle condizioni sarebbe riuscito a guidare. Tra poco l'avrebbe saputo. Fuori c'era il sole e faceva caldo. La Kirkegata era quasi deserta. Nella luce del primo mattino, i colori delle case e il verde degli alberi splendevano con particolare intensità. Sembrava quasi che Trondheim stesse facendo le prove generali per la primavera. Con quel clima straordinariamente bello, gli ultimi residui di neve si erano già sciolti. Johanson decise che quella giornata era di suo gradimento e che gli piaceva pure l'idea che Tina l'avesse svegliato. Si mise a fischiettare una melodia di Vivaldi per dar sfogo a quella improvvisa esplosione di buon umore e per impedire che lo condizionasse troppo mentre guidava la jeep sul Gloshaugen. Ufficialmente, durante il fine settimana, l'NTNU era chiuso, ma quasi nessuno si atteneva a quella norma. Anzi era il momento migliore per leggere la posta, rispondere alle e-mail e lavorare indisturbati. Una volta arrivato, entrò nell'ufficio postale,, rovistò nella sua casella e ne estrasse una busta rigonfia, proveniente dal Forschungsinstitut und Naturmuseum Senckenberg di Francoforte. Quasi certamente conteneva le analisi di laboratorio che Tina stava aspettando con tanta ansia. Johanson infilò in tasca la busta senza aprirla, lasciò l'università e si diresse verso Tyholt. Il Marintek, l'Istituto di tecnologie marine, era strettamente collegato all'NTNU, al Sintef e al centro di ricerca della Statoli. Oltre a diverse cisterne per le simulazioni e gallerie delle onde, vi era anche la più grande piscina d'acqua marina al mondo, utilizzata per la ricerca. Serviva per simulare i venti e il moto ondoso con modelli in scala. Praticamente ogni costruzione destinata a galleggiare sullo zoccolo norvegese era stata testata in quella vasca lunga ottanta metri e profonda dieci. Sistemi generatori di onde producevano correnti e tempeste in miniatura, con cavalloni alti fino a un metro. Con una piattaforma in scala ridotta era una dimensione devastante. Johanson pensò che proprio lì Tina stesse testando la stazione sottomarina destinata a essere installata sulla scarpata continentale. Infatti la trovò nel padiglione del bacino, intenta a discutere con un
gruppo di scienziati. La scena faceva uno strano effetto. Nell'acqua c'erano alcuni sommozzatori che nuotavano intorno a una piattaforma di estrazione formato giocattolo. Petroliere in miniatura navigavano in mezzo alle barche a remi dei tecnici. A una prima occhiata, sembrava un incrocio tra un laboratorio, un negozio di giocattoli e un laghetto per le gite in barca durante le domeniche estive; ma la prima impressione ingannava. Senza il Marintek, il settore offshore praticamente non sarebbe esistito. Tina lo vide e interruppe la conversazione. Gli andò incontro, ma, per farlo, fu costretta a girare intorno alla vasca. Come sempre, si muoveva a passi rapidi. «Perché non hai usato la barca?» chiese Johanson. «Non siamo al laghetto del parco», ribatté Tina. «Tutto deve essere perfettamente coordinato. Se passo in mezzo alla simulazione provocando delle onde, centinaia di lavoratori petroliferi perderebbero la vita e la responsabilità sarebbe mia.» Gli diede un bacio sulla guancia. «Oh, Sigur... Pungi.» «Tutti gli uomini con la barba pungono», borbottò luì. «Puoi essere contenta che Kare si rada, altrimenti non avresti nessun motivo per preferirlo a me. A che cosa state lavorando? Alla soluzione dei vostri problemi sottomarini?» «Nei limiti del possibile. La piscina ci consente simulazioni realistiche fino a mille metri; a profondità superiori, i dati sono troppo imprecisi.» «Comunque è sufficiente per il vostro progetto.» «Certo, ma usiamo anche i computer per elaborare scenari alternativi. A volte si discostano dai risultati del bacino, allora cambiamo i parametri finché non raggiungiamo un allineamento soddisfacente.» «La Shell mira a una stazione posta a duemila metri di profondità. L'ho letto ieri sul giornale. Avete concorrenza.» «Lo so. La Shell ha incaricato il Marintek. È una bella gatta da pelare. Vieni, andiamo a fare colazione.» Una volta in corridoio, Johanson disse: «Continuo a non capire perché non volete utilizzare le SWOP. Non è più facile lavorare da una costruzione galleggiante, se riuscite ad andare in profondità con le tubature flessibili?» Lei scosse la testa. «Troppo rischioso. Le costruzioni galleggianti devono essere ancorate...» «Lo so, tutte...» la interruppe lui. «... e possono staccarsi», finì Tina.
«Però tutte le piattaforme sono ancorate allo zoccolo continentale.» «Si, ma a profondità minori. Più in basso ci sono correnti di altro tipo e un diverso moto ondoso. Ma non è solo il problema dell'ancoraggio. Se le condutture di estrazione vengono spinte a profondità elevate, diventano instabili e noi non vogliamo un disastro ecologico. Inoltre non si troverebbe nessuno disposto a lavorare tanto al largo su un ponte galleggiante. Persino i più incalliti vomiterebbero anche l'anima. Andiamo di qua.» Salirono una scala. «Credevo che andassimo a colazione», disse Johanson sorpreso. «Certo, ma prima voglio mostrarti una cosa.» Tina spalancò una porta. Si trovavano in un ufficio proprio sopra il padiglione del bacino. Dall'ampia finestra si vedevano file di case coi tetti spioventi illuminati dal sole e parchi che si estendevano verso il fiordo. «Che magnifica mattinata», mormorò Johanson. Tina si avvicinò a una scrivania. Prese due sedie di resopal e aprì un laptop dall'ampio schermo. Mentre il computer caricava il programma, la donna tamburellava sul piano del tavolo. Infine comparvero alcune fotografie che lui conosceva. Mostravano una macchia chiara, lattiginosa, che ai bordi si perdeva nel nero. «Sono le immagini riprese da Victor. Quella cosa sulla scarpata», disse Johanson. «Quella cosa che non mi dà pace», confermò Tina. «Avete scoperto cos'è?» «No, però sappiamo che cosa non è. Non è una medusa, non è un banco di pesci. Abbiamo analizzato la sequenza con migliaia di filtri. Questa è la migliore che siamo riusciti a ottenere.» Ingrandì la prima fotografia. «Quando quell'essere è finito davanti all'obiettivo, era colpito dalla luce violenta del riflettore. Ne abbiamo visto una parte, ma naturalmente in maniera molto diversa da come l'avremmo vista senza luce artificiale.» «Senza luce, a quella profondità, non avreste visto nulla», osservò lui. «Infatti!» «A meno che non si sia di fronte a un caso di bioluminescenza...» Si bloccò. Tina gli scoccò un'occhiata soddisfatta. Le sue dita danzarono sulla tastiera e l'immagine cambiò di nuovo. Stavolta apparve un dettaglio del bordo superiore destro. Proprio dove la chiazza illuminata si perdeva nel buio s'intravedeva qualcosa. Una luminosità di un blu intenso attraversata da linee più chiare. «Se s'illumina un oggetto luminoso, non si vede più
nulla della sua luminosità. E i riflettori di Victor abbagliano tutto. Tranne ai margini, dove la luce si disperde. Lì si riesce a riconoscere qualcosa. A mio giudizio è la prova che abbiamo a che fare con un essere luminoso. E anche molto grande», disse lei. La bioluminescenza era una caratteristica di molti abitanti degli abissi, ottenuta grazie a batteri con cui essi vivevano in simbiosi. C'erano organismi luminosi anche sulla superficie marina, come alcune alghe e piccole seppie. Però il vero mare di luce cominciava là dove spariva la luce del sole. Nel buio totale degli abissi marini. Johanson fissò lo schermo. Il blu si riusciva più a intuirlo che a vederlo. Un occhio non abituato non l'avrebbe notato. Ma la telecamera del robot aveva una definizione molto elevata. Probabilmente Tina aveva ragione. Si fregò la barba. «Secondo te, quanto è grande?» «Difficile dirlo. A giudicare dalla rapidità con cui è sparito, doveva essere al limite del fascio luminoso. Ad alcuni metri di distanza. Tuttavia la sua superficie ha occupato quasi tutto l'obiettivo. Che ne deduci?» «La parte che abbiamo visto dovrebbe essere grande dai dieci ai dodici metri quadrati.» «Quella che abbiamo visto!» Tina fece una pausa. «La luminosità ai margini induce a pensare che probabilmente quella che abbiamo visto non era la parte più grande.» A Johanson venne un'idea. «Potrebbe essere una massa di pLancton. Microrganismi. Ce ne sono di luminosi...» «E come spieghi il disegno?» domandò Tina. «Le linee chiare? Un caso. Siamo noi a credere che sia un disegno. Abbiamo pensato che anche i canali di Marte formassero un disegno.» «Io non credo che sia plancton», disse lei. «Quello che vediamo non è così chiaro.» «E invece sì. Guarda un'altra volta.» Tina aprì le immagini successive. L'oggetto si ritirava sempre più nell'oscurità. In effetti, si era visto per poco più di un secondo. Il secondo e il terzo ingrandimento mostravano ancora la macchia debolmente luminescente. Ma, nel corso della sequenza, sembrava che la posizione delle linee fosse cambiata. Nella quarta, le linee erano sparite del tutto. «Ha spento la luce», mormorò lui, sbalordito. Poi rifletté. Alcune specie di polpi comunicavano attraverso la bioluminescenza. Non era così insolito che un animale, in caso di pericolo, spegnesse, per così dire, l'interruttore e sparisse nell'oscurità. Ma quell'animale era grandissimo. Molto più grande
di qualsiasi specie conosciuta di piovra. L'inevitabile conclusione non gli piaceva affatto. Non si trattava di un essere originario del margine continentale norvegese. «L'Architeuthis», disse. «Il calamaro gigante», confermò Tina. «È la prima cosa che viene in mente. Ma la sua presenza non è mai stata segnalata in queste acque.» «Sarebbe la prima volta che vediamo quell'essere vivo.» Non era del tutto vero. Da molto tempo circolavano storie incredibili sugli Architeuthis. Come prova della loro esistenza, erano stati addotti alcuni cadaveri, giunti a riva. Una prova non decisiva, perché la carne del calamaro era come gomma. Più la si tirava, più si allungava, soprattutto nella fase di decomposizione. Pochi anni prima, a ovest della Nuova Zelanda, nelle reti dei ricercatori erano finiti alcuni giovani animali, il cui profilo genetico non lasciava dubbi: nel giro di diciotto mesi, si sarebbero trasformati in calamari giganti, lunghi fino a venti metri e pesanti fino a dieci quintali. Però nessun essere umano aveva mai visto vivo uno di quegli animali. L'Architeuthis viveva negli abissi ed era impossibile dire se fosse luminoso. Johanson corrugò la fronte. Poi scosse la testa. «No.» «Che cosa, no?» «Ci sono troppi elementi contrari. Questa non è la zona dei calamari giganti.» «Certo, ma...» Tina agitò le mani. «In realtà non sappiamo dove vivono. Non sappiamo nulla.» «Non vivono in questa zona», insistette lui. «Neppure i vermi dovrebbero essere qui», precisò Tina. Vi fu un momento di silenzio. «E se anche fosse?» riprese infine Johanson. «Gli Architeuthis non sono aggressivi. Di che vi preoccupate? Fino a oggi non c'è stato un solo uomo aggredito da un calamaro gigante.» «I testimoni non la pensano così.» «Oddio, Tina! È possibile che abbiano seguito qualche barca. Ma. non è il caso di mettersi a discutere sulla minaccia rappresentata dai calamari giganti per l'estrazione petrolifera. Devi ammettere che è ridicolo.» Tina osservò scettica l'ingrandimento della fotografia. Poi chiuse il file. «Okay, hai qualcosa per me? Qualche risultato?» Johanson tirò fuori la busta e l'aprì. Dentro c'era una spessa mazzetta di fogli, fittamente stampati. «Santo cielo», si lasciò sfuggire lei. «Aspetta, dovrebbe esserci un riassunto. Ah, eccolo!»
«Fammi vedere.» «Un attimo.» Lui scorse il rapporto. Tina si alzò e andò alla finestra. Poi si mise a camminare avanti e indietro. «Su, dimmi qualcosa», sbuffò. fohanson aggrottò la fronte e sfogliò il plico. «Hmm, interessante.» «Sputa il rospo», insistette lei. «Confermano che si tratta di policheti. E, benché loro non siano propriamente tassonomi, scrivono di essere arrivati alla conclusione che il verme presenta sorprendenti somiglianze con la Hesiocaeca methanicola. Data questa circostanza, si meravigliano per la mascella così pronunciata e poi scrivono... Qui si fa più particolareggiato... Ah, ecco. Hanno esaminato le mandibole. Molto potenti e indubbiamente pensate per trivellare e scavare.» «Fin lì c'eravamo arrivati anche noi», esclamò Tina, impaziente. «Aspetta. Hanno fatto anche altri esami. Analisi della composizione degli isotopi stabili e la spettrometria di massa. Oh! Il nostro verme è leggero, meno novanta per mille.» «Potresti esprimerti in maniera comprensibile?» chiese Tina. «È proprio metanotrofo. Vive in simbiosi coi batteri che decompongono il metano. Come posso spiegartelo? Allora, gli isotopi... Sai cosa sono gli isotopi?» «Sono atomi di un elemento chimico con lo stesso numero atomico, ma un diverso numero di massa.» «Molto bene. Ma andiamo oltre. Per esempio, il carbonio esiste con diversi pesi. C'è il carbonio 12 e il carbonio 13. Se mangi qualcosa in cui c'è prevalenza di un carbonio più leggero, quindi un isotopo più leggero, anche tu sarai più leggera. Chiaro?» «Se mangio qualcosa, sì. Logico.» «E nel metano c'è un carbonio molto leggero. Se il verme vive in simbiosi coi batteri che mangiano questo metano, allora i batteri diventano più leggeri, e, se il verme li mangia, anche lui diventa leggero. E il nostro è molto leggero», proseguì lui. «Voi biologi siete davvero ridicoli. Come fate a scoprire queste cose?» «Facciamo cose terribili. Secchiamo il verme e lo trituriamo fino a ottenere polvere di verme e poi lo ficchiamo nella macchina di misurazione. Andiamo avanti: microscopio elettronico a scansione lineare... Hanno colorato il DNA... una procedura molto approfondita...» «Piantala!» Tina gli si avvicinò e gli strappò i fogli di mano. «Non vo-
glio un trattato accademico, voglio capire se possiamo trivellare o no.» «Potete...» Johanson riprese i fogli e lesse le ultime righe. «Fantastico!» «Che cosa?» Lui sollevò la testa. «Queste bestie sono piene di batteri. Dentro e fuori. Endosimbionti ed esosimbionti. Sembra che i tuoi vermi siano un vero e proprio autobus per i batteri.» Tina lo guardò, sconcertata. «E questo che vuol dire?» «È un controsenso. Il tuo verme vive indubbiamente negli idrati di metano. Quasi scoppia di batteri. Non dovrebbe andare a caccia e scavare buchi. Se ne dovrebbe stare sdraiato sul ghiaccio, bello grasso e bello pigro. E invece possiede mandibole giganti per scavare e le orde che arrivano dalla scarpata mi sembrano tutt'altro che pigre e grasse. Anzi mi sembrano particolarmente vivaci.» Rimasero di nuovo in silenzio per un po'. Infine Tina domandò: «Che cosa fanno laggiù, Sigur? Che razza di animali sono?» «Non lo so», rispose Johanson. Forse sono davvero arrivati direttamente dal Cambriano. Non ho idea di che cosa ci facciano laggiù.» Esitò. «Non so neppure se la loro presenza abbia importanza. Che possono mai fare? Rotolano, sì, ma è poco probabile che si mettano a rosicchiare gli oleodotti.» «E allora cosa rosicchiano?» Johanson fissò il riassunto delle analisi. «Ci sono altri scienziati che potrebbero darci ulteriori informazioni. Se anche loro non ci sanno dire nulla, allora non ci resta che aspettare e scoprirlo di persona», disse. «Preferirei non dover aspettare.» «Bene. Mando loro qualche esemplare.» Johanson si stiracchiò, sbadigliando. «Forse avremo fortuna e verranno a dare un'occhiata con la nave oceanografica. In un caso o nell'altro, devi pazientare un po'. Per il momento non possiamo fare nulla. Per questo, se sei d'accordo, ora vorrei fare colazione e dare qualche buon consiglio a Kare Sverdrup.» Tina sorrise. Ma non sembrava particolarmente soddisfatta. 5 aprile Vancouver e Vancouver Island, Canada Gli affari si rimisero in moto. In altre circostanze, Anawak avrebbe condiviso la gioia di Shoemaker.
Le balene ritornavano e il gestore non parlava d'altro. E infatti, l'una dopo l'altra, arrivarono balene grigie, megattere, orche e addirittura alcune balenottere minori. Naturalmente anche Anawak era felice del loro ritorno. Non c'era nulla che avesse desiderato di più. Però avrebbe preferito collegare il loro ritorno ad alcune risposte: in particolare si chiedeva dove si fossero nascoste per tutto quel tempo, visto che non erano riusciti a rintracciarle né i satelliti né le sonde. E poi non riusciva a dimenticare quel memorabile incontro. Si era sentito come una cavia da laboratorio. Le due megattere l'avevano osservato con calma e attenzione, come se fosse sul tavolo anatomico. Erano esploratrici? E che cosa dovevano esplorare? Assurdo! Chiuse la cassa e uscì. I turisti si erano raccolti sul molo. Con le loro tute color arancione sembravano un gruppo di soldati dei reparti speciali. Anawak inspirò la fresca aria mattutina e li raggiunse. Poi sentì arrivare qualcuno di corsa. «Dottor Anawak!» Si fermò e, voltandosi, scorse Alicia Delaware. Si era raccolta i capelli rossi in una coda di cavallo e portava occhiali da sole alla moda, di colore blu. «Posso venire anch'io?» chiese. Anawak la squadrò. Poi guardò lo scafo blu del Blue Shark. «Siamo al completo», rispose. «Sono arrivata di corsa.» «Mi dispiace. Tra mezz'ora parte la Lady Wexham. È molto più confortevole. Grande, cabine interne riscaldate, snack bar...» «Non voglio. Sono sicura che c'è ancora un po' di spazio per me. Magari dietro!» «Nella cabina siamo già in due, Susan e io.» «Non ho bisogno di un posto a sedere.» Alicia sorrise. Con quei grandi denti sembrava un coniglio lentigginoso. «La prego! Non ce l'ha con me, vero? Vorrei tanto uscire in mare con lei. A dire il vero vorrei uscire solo con lei.» Anawak aggrottò la fronte. «Non mi guardi così!» Alicia Delaware strabuzzò gli occhi. «Ho letto tutti i suoi libri e ammiro il suo lavoro.» «Non ho avuto questa impressione.» «Per quello che è successo all'acquario?» Fece un gesto come per scacciare il ricordo. «Mettiamoci una pietra sopra. La prego, dottor Anawak, sono qui ancora per un giorno soltanto. Mi farebbe un piacere enorme.»
«Abbiamo le nostre regole», replicò Anawak, ma in un tono che suonò fiacco e meschino persino a lui. «Mi stia a sentire, testone», esclamò Alicia. «Sono fatta d'acqua. L'avverto: se non mi prende con sé, mi scioglierò in lacrime durante il volo di ritorno a Chicago. Vuole assumersi questa responsabilità?» concluse, fissandolo divertita. Anawak non poté fare altro che mettersi a ridere. «Va bene. Per quello che mi riguarda, può venire.» «Davvero?» «Sì. Ma non mi rompa le scatole con le sue teorie astruse.» «Non sono le mie teorie, sono le teorie di...» «Sarebbe ancora meglio se tenesse la bocca chiusa.» Alicia si preparò a replicare, ma poi ci ripensò e annuì. «Aspetti qui», disse Anawak. «Le prendo una tuta.» Alicia mantenne la promessa per ben dieci minuti. Le case di Tofino erano appena scomparse dietro il pendio ricoperto di boschi, quando si avvicinò ad Anawak e gli tese la mano. «Mi chiami pure Licia», disse. «Licia?» «Sta per Alicia. Alicia è un nome stupido. Almeno così mi pare. Naturalmente i miei genitori non la pensavano così, ma non ci chiedono il nostro parere quando ci danno il nome: è sempre stata una situazione penosa. Lei si chiama Leon, vero?» Lui strinse la mano che la ragazza gli aveva teso. «È un piacere, Licia.» «Bene. E ora dovremmo chiarire una cosa», disse lei. Anawak lanciò un'occhiata a Susan, che stava guidando lo zodiac, chiedendole silenziosamente aiuto. Lei rispose al suo sguardo, ma poi scrollò le spalle e si dedicò esclusivamente alla rotta da seguire. «Che cosa?» chiese allora, con cautela. «Quello che è successo all'acquario... Be', sono stata stupida e saccente. Mi dispiace.» «Già dimenticato.» «Ma devi scusarti anche tu.» «Come? E di che?» Lei abbassò lo sguardo. «Nulla da dire sul fatto che tu abbia ridicolizzato le mie opinioni davanti ad altre persone, ma non avresti dovuto esprimerti in quel modo sul mio aspetto.» «Io non ho...» Al diavolo. «Hai detto che un beluga che mi vedesse mentre mi trucco dubiterebbe
della mia intelligenza.» «Non era mia intenzione offenderti. Era solo un paragone... astratto», spiegò lui. «Era un pessimo paragone.» Anawak si grattò la testa. Si era arrabbiato con Alicia perché era arrivata all'acquario col suo armamentario d'idee preconcette, dimostrandosi così un'ignorante. Ma probabilmente lui non era stato da meno. E, senza dubbio, con la sua esplosione di rabbia l'aveva offesa. «Va bene. Ti porgo le mie scuse.» «Accettate.» «Ti riferivi a Povinelli», affermò lui. Lei sorrise, pensando che, in fondo, Anawak l'aveva presa sul serio. Daniel Povinelli era il più importante antagonista di Gordon Gallup nella discussione sull'intelligenza e sulla consapevolezza di sé dei primati e degli altri ammali. Lui concordava con Gallup sul fatto che gli scimpanzé che si riconoscono allo specchio avevano una rappresentazione di se stessi. Altrettanto decisamente, però, negava che tale circostanza li rendesse capaci di capire le proprie condizioni mentali e quindi anche quelle degli altri esseri viventi. Per Povinelli non era affatto dimostrato che gli animali possedessero la comprensione psicologica propria dell'uomo. «Povinelli sta percorrendo una strada coraggiosa», disse Alicia. «Le sue opinioni appaiono superate, ma lui non se ne cura. Per Gallup è molto più facile, perché fa chic parlare di scimpanzé, delfini e chissà cos'altro come soggetti con gli stessi diritti dell'uomo.» «Sono soggetti con gli stessi diritti dell'uomo», obiettò Anawak. «In senso etico.» «Lasciamo perdere. L'etica è un'invenzione degli uomini», disse lui. «Nessuno ne dubita. Nemmeno Povinelli.» Anawak fece scorrere lo sguardo lungo l'insenatura. Nel suo campo visivo entrarono alcune isolette. «Lo so dove vuoi arrivare», disse dopo una breve pausa. «Tu credi che dimostrare l'esistenza di tratti umani negli animali non sia la strada giusta per arrivare a trattarli più umanamente.» «È arrogante», gridò Alicia. «Ti do ragione. Non risolve il problema. Ma la maggior parte degli uomini crede che una forma di vita meriti di essere protetta quanto più somiglia agli esseri umani. È più facile uccidere un animale anziché un uomo. Diventa più difficile se vediamo l'animale come un nostro parente prossimo. È un concetto che la maggior parte delle persone è pronta ad accettare,
anche se si fonda sul presupposto della superiorità umana. C'è invece una minoranza che non considera l'umanità l'apice della creazione e crede che, nella scala di valore della vita, l'uomo non sia al di sopra di tutti gli altri esseri viventi, ma molto più semplicemente di fianco. Riguardo a ciò che pensa la maggior parte, rimane un problema: come posso pretendere che a un animale o a una pianta siano dedicate le stesse attenzioni che si prestano agli uomini, se considero il valore della vita umana superiore a quello di una formica, di una scimmia o di un delfino?» «Ehi!» Alicia batté le mani. «La pensiamo allo stesso modo.» «Quasi. Credo che tu sia un po' troppo... messianica nelle tue concezioni. Personalmente difendo l'idea che la psiche di uno scimpanzé o di un beluga mostri punti di contatto con quella umana.» Alicia stava già per obiettare qualcosa, ma Anawak la fermò, sollevando una mano. «Va bene, formuliamolo in un altro modo: potremmo salire nella scala di valori di un beluga - ammesso che i cetacei abbiano simili pensieri - se il beluga scoprisse in noi delle somiglianze con lui.» Sorrise. «Forse alcuni beluga ci considerano anche intelligenti. Detto così ti piace di più?» Alicia arricciò il naso. «Non lo so, Leon. Perché non mi abbandona la sensazione che tu mi stia spingendo in una trappola?» «Leoni marini!» gridò Susan Stringer. «Là davanti.» Anawak si riparò gli occhi con la mano. Si stavano avvicinando a un'isoletta coperta da una misera vegetazione. Su uno scoglio dormicchiava al sole un gruppo di leoni marini Stellar. Alcuni sollevarono stancamente la testa e osservarono l'imbarcazione. «Non si tratta di Gallup o Povinelli, vero?» Anawak prese la macchina fotografica e scattò alcune foto. «Ti consiglio un'altra discussione. Siamo d'accordo sul fatto che una scala di valori assoluta non esiste e che esiste solo una rappresentazione umana. Faccenda chiusa. Entrambi siamo assolutamente contrari all'umanizzazione degli animali. Io sono convinto che, entro certi limiti, sarà possibile comprendere il loro mondo interiore... afferrarli intellettualmente, diciamo. Inoltre credo che con certi animali abbiamo più cose in comune che con altri e che quindi troveremo la strada per comunicare. Tu, invece, credi che tutti i non umani ci saranno eternamente estranei. Non abbiamo nessun accesso alla mente degli animali, quindi non ci sarà mai nessuna comunicazione. Saremo inesorabilmente divisi e l'unica cosa sensata da fare è lasciarli in pace.» Alicia rimase in silenzio per un po'. Lo zodiac superò lentamente l'isola coi leoni marini. Susan spiegava le caratteristiche fondamentali di quegli
animali ai passeggeri, che intanto, come Anawak, scattavano foto. «Ci devo pensare», disse infine la ragazza. E lo fece davvero. O se non altro non aprì quasi bocca finché non furono in mare aperto. Anawak era soddisfatto. Era una buona cosa che il tour fosse iniziato coi leoni marini. La popolazione delle balene non aveva ancora raggiunto la sua consistenza abituale. Una roccia coperta di leoni marini dava un taglio positivo alla spedizione e forse avrebbe aiutato in caso non ci fossero stati gli avvistamenti sperati. Ma i suoi timori si dimostrarono privi di fondamento. A poca distanza dalla costa incontrarono un branco di balene grigie. Erano un po' più piccole delle megattere, ma pur sempre di dimensioni impressionanti. Alcune arrivarono molto vicino e guardarono con circospezione fuori dall'acqua, suscitando l'entusiasmo dei passeggeri. Sembravano pietre vive, macchiettate, con le potenti mascelle ricoperte di crostacei balani e copepodi, parassiti infestanti. Molti dei passeggeri fotografavano e riprendevano freneticamente. Altri osservavano rapiti. Anawak aveva visto uomini adulti mettersi a piangere alla vista di una balena che si levava dall'acqua. A una certa distanza c'erano altri tre zodiac e una nave più grassa con lo scafo rigido. Tutti avevano spento i motori. Susan trasmetteva per radio gli avvistamenti. Praticavano un whale watching rigidamente regolamentato, ma qualcuno come Jack Greywolf sarebbe sceso in campo anche contro quello. Jack Greywolf era un idiota. Un idiota pericoloso, per giunta. Anawak diffidava di quello che stava progettando. Tourist watching... Ridicolo! Ma se fossero arrivati a scontrarsi apertamente, Greywolf avrebbe avuto i media dalla sua parte. Avrebbe gettato il discredito sulla Davies Whaling Station, e il grande senso di responsabilità con cui conducevano le escursioni coi turisti sarebbe stato ignorato. Le manovre di disturbo degli ambientalisti - anche se si trattava di personaggi equivoci come i membri dell'associazione di Greywolf, la Seaguard - avrebbero reso la condanna inappellabile. Nessuno si sarebbe preso la briga di soppesare le affermazioni di organizzazioni serie e quelle di fanatici dello stampo di Jack Greywolf. In genere, le valutazioni serie arrivavano solo quando la stampa aveva già diffuso le notizie e il danno era fatto. E Greywolf non era l'unica preoccupazione di Anawak. Osservava l'oceano con attenzione, pronto a scattare fotografie. Si chie-
deva se non soffrisse ancora della paranoia provocata dall'incontro con le due megattere. Vedeva fantasmi, oppure c'era stato davvero un cambiamento nel comportamento degli ammali? «A destra!» gridò Susan. Le teste delle persone sullo zodiac seguirono il suo braccio teso. Numerose balene si erano avvicinate all'imbarcazione e s'immergevano con movimenti suggestivi. Le loro code sembravano fare dei cenni ai passeggeri. Anawak scattava foto per l'archivio. Skoemaker sarebbe stato felicissimo. Era un viaggio esemplare, come se le balene volessero indennizzare per la lunga attesa i whale watcher offrendo loro uno spettacolo generoso. Più al largo tre grandi balene grigie tenevano la testa fuori dall'acqua. «Queste non sono balene grigie, vero?» chiese Alicia. Masticava un chewing-gum e guardava Anawak come se si aspettasse una ricompensa. «No. Sono megattere.» «Mi pareva. Da dove viene questo stupido nome? Non vedo nessuna gobba.» «Infatti non ce l'hanno. Ma la fanno quando s'immergono. Credo che il nome derivi dalla caratteristica curvatura del corpo», spiegò Anawak. Alicia sollevò le sopracciglia. «Pensavo che derivasse da quella piccola gobba sulla bocca. Da quella escrescenza.» Anawak sospirò. «Fai ancora il bastian contrario, eh?» «Scusa.» Si mise ad agitare le braccia, eccitata. «Ehi, cosa fanno quelle laggiù? Che cosa fanno quelle?» Le teste delle tre megattere avevano colpito contemporaneamente la superficie dell'acqua. Avevano spalancato le gigantesche bocche al punto che si poteva vedere il palato rosa. Si distinguevano chiaramente i fanoni e le imponenti gole sembravano gonfie. Tra le balene vorticava la schiuma e qualcos'altro che luccicava come lustrini. Come dal nulla erano comparsi stormi di gabbiani e gavie, che volteggiavano intorno alla scena e volevano prendere parte alla festa. «Mangiano», chiarì Anawak, continuando a fotografare. «Incredibile! Sembra quasi che vogliano mangiare noi.» «Su, non renderti più stupida di quello che sei.» Alicia spostava il chewing-gum da una guancia all'altra. «Non capisci le battute», disse annoiata. «So bene che si nutrono di plancton e di piccoli animaletti. Semplicemente non l'avevo mai visto fare. Pensavo che scivolassero con la bocca aperta.» «La balena bianca australe fa così», disse Susan da sopra la spalla. «Le
megattere hanno un loro metodo. Nuotano sotto un banco di piccoli pesci, o krill, e lo circondano con un cerchio di bolle d'aria. I piccoli animali non amano le acque turbolente, così cercano di tenersi lontano dalla cortina di bolle e stanno stretti l'uno all'altro. Le balene emergono, aprono la bocca e... gulp.» «Non stare a spiegarglielo. Senza dubbio queste cose le sa meglio di te», disse Anawak. «Gulp?» fece eco Alicia. «Si dice così per le balenottere boreali. La 'procedura gulp'. Possono allargare la gola, che si trasforma in un gigantesco deposito per il cibo. Con un'enorme sorsata inghiottiscono plancton e pesci, che rimangono bloccati nei fanoni quando le balene risputano fuori l'acqua.» Anawak si accostò a Susan. Alicia ebbe l'impressione che volesse parlarle a quattr'occhi. Susan si sporse dalla cabina di guida e iniziò a spiegare ai passeggeri la «procedura gulp». Quando ebbe finito, Anawak le chiese a bassa voce: «Come ti sembrano?» Susan voltò la testa. «Le balene?» chiese. «Sì.» «Che domanda ridicola...» esclamò Susan. Poi rifletté. «Come al solito, credo. E a te, come sembrano?» «Le trovi normali?» domandò Anawak. «Certo. Sono in piena febbre dello show, se è questo che vuoi dire. Sì, e sono anche maledettamente brave.» «Non noti qualcosa... di diverso?» Lei socchiuse le palpebre. Il sole splendeva abbagliante sull'acqua. Vicino all'imbarcazione emerse un dorso grigio chiazzato e poi sparì. Le megattere si erano di nuovo ritirate sotto la superficie. «Di diverso?» ripeté Susan, allungandosi. «Che intendi?» «Ti ho raccontato delle due megattere che sono emerse improvvisamente vicino alla barca», spiegò lui. Le aveva chiamate «megattere» e non «balene». La sua idea era così folle che, usando il nome scientifico, sperava di darle almeno una parvenza di serietà. «Sì, e allora?» lo incalzò lei. «Ma sì. È strano.» «Me l'hai già raccontato. Una per parte. T'invidio. Assolutamente mitico. E io non c'ero», disse Susan. «Non so se sia stato mitico. Mi sembrava quasi che stessero valutando la
situazione... come se stessero tramando qualcosa...» «Parli per enigmi.» «Non è stato molto piacevole», concluse Anawak. «Non è stato piacevole?» Susan scosse la testa, sbigottita. «Ti devo consolare? Quello è proprio il tipo d'incontro che sogno. Vorrei essere stata al tuo posto.» «No, non è vero, al mio posto non ti saresti divertita. Continuavo a chiedermi chi era a osservare l'altro e a che scopo...» «Leon. Erano megattere, mica agenti segreti.» Lui si passò una mano sugli occhi. «Okay, dimenticatelo. Ma sì, è una follia. Mi devo essere sbagliato.» Il walkie-talkie di Susan gracchiò e si sentì la voce di Tom Shoemaker. «Susan? Vai sulla 99.» Tutte le stazioni trasmettevano e ricevevano sulla frequenza 98. Era comodo perché così si aveva sempre il quadro degli avvistamenti. Anche la guardia costiera di Tofino usava la frequenza 98 e purtroppo lo facevano pure diversi pescatori sportivi, che avevano un'idea non proprio positiva del whale watching. Ma ogni stazione aveva un proprio canale per le conversazioni private. Susan cambiò frequenza. «C'è Leon, lì vicino?» chiese Shoemaker. «Sì, è qui.» Passò ad Anawak la radio. Lui la prese e parlò per un po' con Shoemaker. Poi disse: «Va bene, arrivo... Sì, si può fare anche senza preavviso... Comunicagli che vado non appena torniamo. A presto.» «Di che si tratta?» chiese Susan non appena lui le ebbe restituito la radio. «Di una richiesta. Dalla Inglewood.» «La Inglewood? La società armatrice?» «Sì. La chiamata è arrivata dalla direzione. Non hanno fornito molti dettagli. Hanno detto solo che hanno bisogno di un parere, e piuttosto in fretta. Strano. A Tom è sembrato che avessero così tanta fretta che avrebbero voluto teletrasportarmi.» La Inglewood aveva mandato un elicottero. Nemmeno due ore dopo aver parlato per radio con Shoemaker, Anawak vedeva scorrere sotto di sé lo spettacolare paesaggio di Vancouver Island. Colline ricoperte di abeti si alternavano a montagne scoscese, fiumi scintillanti e invitanti laghetti di colore verde-azzurro. Tuttavia la bellezza dell'isola non poteva nascondere il
fatto che l'industria del legno aveva colpito duramente le foreste. Nel corso degli ultimi cento anni, si era sviluppata fino a diventare il ramo industriale più importante della regione. In ampie aree il diboscamento aveva lasciato il segno. Superarono l'isola di Vancouver Island e sorvolarono il trafficatissimo Georgia Strait: navi di linea, traghetti, cargo e yacht privati. In lontananza si dipanavano le imponenti catene montuose delle Montagne Rocciose, con le loro vette innevate. Torri di vetro blu e rosa contornavano un'ampia insenatura, su cui atterravano e decollavano idrovolanti che sembravano uccelli colorati. Il pilota parlò con la stazione di terra. L'elicottero si abbassò, effettuò una virata e si fermò sopra l'area di carenaggio. Poco dopo, atterrarono su uno spazio libero delle dimensioni di un gigantesco parcheggio. Su entrambi i lati c'erano cataste di legno di cedro in attesa di essere spedite. Un po' più lontano, si scorgevano mucchi di zolfo e carbone. Al molo era ormeggiato un gigantesco cargo. Anawak vide un gruppo di persone da cui si staccò un uomo che venne incontro a loro. I suoi capelli svolazzavano nei vortici creati dall'elica. Indossava un cappotto e stava curvo per difendersi dal vento. Anawak slacciò la cintura di sicurezza e si preparò a scendere. L'uomo spalancò il portello. Era alto e imponente, aveva poco più di sessant'anni e un viso tondo, dall'aria gentile e dagli occhi vivaci. Sorrise tendendo la mano ad Anawak. «Sono Clive Roberts, il managing director.» Si strinsero la mano. Anawak seguì Roberts fino al gruppo, evidentemente impegnato a ispezionare il cargo. Vide marinai e persone in abiti civili. Continuavano a guardare la parte destra della nave, le camminavano di fianco, si fermavano e gesticolavano. «È stato molto gentile a venire subito», disse Roberts. «Ci scusi. Normalmente non siamo così poco diplomatici, ma la faccenda è maledettamente urgente.» «Non c'è problema», rispose Anawak. «Di che si tratta?» «Di un incidente. Probabilmente», fu la risposta di Roberts. «Quella nave laggiù?» «Sì, la Barrier Queen. Per essere precisi, abbiamo avuto problemi coi rimorchiatori che avrebbero dovuto trainarla in porto.» «Lo sa, vero, che sono un esperto di cetacei? Uno studioso del comportamento di balene e delfini?» chiese Anawak. «Si tratta proprio di questo, del loro comportamento.» Roberts lo presentò agli altri. Tre erano del management della società
armatrice, gli altri rappresentavano i partner tecnici. Un po' più in là, due uomini scaricavano l'equipaggiamento da sub da un furgone. Roberts prese in disparte Anawak. «Al momento, purtroppo, non possiamo parlare con l'equipaggio», disse in tono preoccupato. «Ma le farò avere una copia del rapporto non appena sarà disponibile. Non vorremmo che la faccenda venisse divulgata inutilmente. Posso fidarmi di lei?» «Ma certo.» «Bene. Le faccio un riassunto degli avvenimenti. Poi toccherà a lei decidere se restare o andarsene. In un caso o nell'altro, provvederemo a tutte le spese e a risarcire il disturbo che le abbiamo procurato.» «Non c'è nessun disturbo», disse Anawak. Roberts lo guardò, pensieroso. «Deve sapere che la Barrier Queen è una nave praticamente nuova. Rigirata come un calzino poco tempo fa, perfetta in tutto e certificata. Un cargo da sessantamila tonnellate, che finora abbiamo spedito via mare senza problemi, anche con carichi pesanti; di solito fa la rotta per il Giappone. Per la sicurezza spendiamo cifre da capogiro, molto più di quanto dovremmo. Insomma, la Barrier Queen era sulla via del ritorno, completamente carica.» Anawak annuì. «Sei giorni fa, intorno alle tre di notte, ha raggiunto la zona delle duecento miglia marine al largo di Vancouver. Il timoniere ha virato di cinque gradi, una correzione di routine. Non ha ritenuto necessario guardare la strumentazione. In lontananza si vedevano le luci delle altre navi, che permettevano di orientarsi anche a occhio nudo, e infatti quelle luci avrebbero dovuto spostarsi verso destra. Invece sono rimaste dov'erano. La Barrier Queen ha continuato a procedere diritta. Il timoniere ha girato ancora il timone, senza nessun visibile cambiamento di rotta; allora l'ha girato del tutto e, improvvisamente, esso ha cominciato a funzionare. Fin troppo.» «La nave è andata addosso a qualcuno?» chiese Anawak. «No. Le altre imbarcazioni erano troppo lontane. Ma evidentemente il timone si era bloccato a fine corsa. E l'uomo non riusciva più a raddrizzarlo. Un timone bloccato a fine corsa a una velocità di venti nodi... Voglio dire, le grandi navi non si possono fermare così, come se niente fosse! A causa dell'elevata velocità, la Barrier Queen ha iniziato a girare in un cerchio molto stretto e poi si è piegata di lato. Dieci gradi di pendenza... Ha idea di che cosa voglia dire?» «Posso immaginarlo.» «Poco sopra lo specchio dell'acqua, ci sono le aperture per il drenaggio
del ponte dei veicoli. Quando c'è il mare grosso vengono incessantemente svuotati, ma altrettanto velocemente l'acqui torna a riempirli. Con un'inclinazione di quel genere, può succedere che rimangano sott'acqua. Allora la nave si riempie in un batter d'occhio. Per fortuna il mare era calmo, ma la situazione si presentava comunque critica. Non si riusciva a raddrizzare il timone.» «Per quale motivo?» chiese Anawak. Roberts tacque per un momento, poi rispose: «Lo ignoriamo. Sappiamo solo che il guaio c'è stato. La Barrier Queen ha fermato le macchine, ha lanciato il mayday e ha aspettato. Non poteva manovrare. Diverse navi nella zona hanno cambiato prudentemente rotta e, da Vancouver, sono partiti due rimorchiatori da recupero. Sono arrivati due giorni e mezzo dopo, nel primo pomeriggio. Un rimorchiatore da sessanta metri e un'imbarcazione da venticinque metri. In queste operazioni, la cosa più difficile è lanciare la gomena dal rimorchiatore, in modo che possa essere afferrata a bordo della nave. Durante una tempesta, tale procedura può durare ore: si lancia prima la gomena più sottile, poi quella un po' più spessa e infine quella pesante. Ma in questo caso non avrebbero dovuto esserci problemi: il tempo era buono e il mare tranquillo. Eppure i rimorchiatori sono stati ostacolati». «Ostacolati? Da chi?» «Ma sì...» Roberts s'irrigidì, come se fosse imbarazzato. «Tutto fa sembrare che... Ha mai sentito parlare di attacchi delle balene?» Anawak sobbalzò. «Alle navi?» chiese. «Sì. A grandi navi.» «Molto raramente.» «Raramente?» Roberts drizzò le orecchie. «Qualcosa del genere è già successo?» «C'è solo un caso sicuro. È successo nel XIX secolo e Melville lo ha trasformato in un romanzo.» «Vuol dire Moby Dick? Pensavo fosse solo un libro.» Anawak scosse la testa. «Moby Dick è la storia della baleniera Essex. In effetti è stata affondata da un capodoglio. Una nave di quarantadue metri, ma di legno e probabilmente già un po' marcia. Comunque, sì, è successo. Il capodoglio ha cozzato contro la nave che, nel giro di qualche minuto, si è riempita d'acqua. L'equipaggio è rimasto per settimane in mare sulle lance di salvataggio... Ah, sì, poi ci sono altri due casi, avvenuti negli anni scorsi davanti alle coste australiane! Due pescherecci rovesciati!» «Com'è successo?» chiese Roberts.
«Sono stati fracassati dalle code. La maggior parte della forza delle balene risiede nella coda.» Anawak rifletté. «Un uomo è morto, ma credo sia morto per un attacco cardiaco quand'è caduto in acqua.» «Che balene erano?» «Non si sa. Gli animali sono spariti troppo velocemente. Inoltre, quando accadono fatti del genere, si hanno altre cose per la testa che osservare le balene.» Anawak sollevò lo sguardo verso l'imponente Barrier Queen. Era visibilmente integra. «In ogni caso, non riesco a immaginare un attacco delle balene a questa nave.» Roberts seguì il suo sguardo. «Sono stati i rimorchiatori a essere attaccati», spiegò. «Non la Barrier Queen. Sono stati colpiti sul fianco. Evidentemente volevano rovesciarli, ma non ci sono riuscite. E poi hanno cercato d'impedire il lancio della cima, poi...» «Attaccati?» «Sì.» «Impossibile.» Anawak fece cenno di no. «Una balena può rovesciare qualcosa che sia più piccolo di lei o al massimo grande quanto lei. Non una cosa più grossa. Non attaccherebbe nulla di più grande di lei, a meno che non vi fosse costretta.» «L'equipaggio giura che è successo. Le balene hanno...» «Quali balene?» lo interruppe lui. «E chi lo sa? Come ha risposto lei, poco fa, alla stessa domanda? Si hanno altre cose per la testa.» Anawak aggrottò la fronte. «Va bene. Facciamo questo gioco. Supponiamo che i rimorchiatori siano stati attaccati dalle balenottere azzurre, i cetacei più grandi. La Balaenoptera musculus raggiunge i trentatré metri e arriva a pesare centoventi tonnellate. È l'animale più grande che esista sulla Terra. Supponiamo che una balenottera azzurra cerchi di affondare una nave lunga più o meno come quella. La balenottera deve essere almeno altrettanto veloce, meglio ancora se più veloce della nave. Ma, sulle brevi distanze, può raggiungere i cinquanta-sessanta chilometri all'ora. Ha una forma adatta alle correnti, idrodinamica. Eppure quale spinta può sviluppare? E quale controspinta sviluppa l'imbarcazione? In parole semplici, chi respinge chi, se le persone a bordo contromanovrano?» «Centoventi tonnellate sono un bel peso», osservò Roberts. Anawak indicò il furgone con un cenno del capo. «Riuscirebbe a sollevarlo?» «Che cosa? Quel veicolo? Certo che no.»
«Eppure potrebbe anche puntellarsi. Un corpo in acqua non può farlo. Non si riesce a sollevare qualcosa che sia più pesante di se stessi, poco importa che si stia parlando di un uomo o di una balena. E non si può ignorare il rapporto tra le masse. Ma soprattutto si deve calcolare il peso della balena contro quello dell'acqua spostata. Non rimane molto. Solo la forza della coda. È possibile che riesca a spostare la rotta della nave, ma, dopo il colpo, probabilmente schizzerebbe via. È un po' come il biliardo, capisce?» Roberts si grattò la fronte. «Alcuni pensano che fossero megattere. Altri balenottere comuni, e quelli a bordo della Barrier Queen dicono di aver visto dei capodogli...» «Tre specie che non potrebbero essere più diverse.» Roberts esitò. «Dottor Anawak, io sono un uomo razionale. Propendo a credere che il rimorchiatore sia semplicemente incappato in un branco. Forse non sono state le balene a urtare la nave, ma il contrario. Forse l'equipaggio ha manovrato maldestramente... Tuttavia rimane fuori discussione che gli animali hanno affondato il rimorchiatore più piccolo.» Anawak lo guardò, esterrefatto. «Quando le gomene erano già tese all'inverosimile tra la prua della Barrier Queen e la poppa del rimorchiatore, molti animali sono saltati fuori dall'acqua e le sono balzati addosso. In un caso come questo non c'è da sottrarre il volume dell'acqua spostata, e i marinai hanno detto che si trattava di esemplari molto grandi.» Roberts fece una pausa, quindi riprese: «Il rimorchiatore è stato trascinato giù e capovolto. È affondato». «Santo cielo! E l'equipaggio?» «Due dispersi. Gli altri sono stati salvati. Riesce a immaginare come mai quegli animali abbiano fatto una cosa del genere?» Bella domanda, pensò Anawak. Le focene e i beluga si riconoscono allo specchio. Pensano? Fanno progetti che possiamo comprendere anche solo approssimativamente? Che cosa le muove? Le balene conoscono la differenza tra ieri e oggi? Che interesse possono avere ad allontanare o ad affondare un rimorchiatore? Forse i rimorchiatori hanno minacciato loro o i loro piccoli. Ma come? «Non è un comportamento tipico delle balene», disse infine. Roberts sembrava disperato. «Lo penso anch'io, ma l'equipaggio la vede in modo diverso. Anche il rimorchiatore più grande è stato attaccato. Sono riusciti a fissare le gomene solo dopo la fine delle aggressioni.» Anawak si guardava i piedi, rimuginando. «Un caso», mormorò. «Un
terribile caso.» «Crede davvero?» «Forse ci capiremmo qualcosa di più se sapessimo che cos'è successo al timone», ipotizzò Anawak. «Per questo abbiamo richiesto i sommozzatori», annuì Roberts. «Tra qualche minuto dovrebbero essere pronti.» «Nel furgone hanno un equipaggiamento di riserva?» «Penso di sì.» Anawak annuì. «Va bene. Vado sotto con loro.» Come ovunque nel mondo, l'acqua del porto era un incubo: una brodaglia sudicia in cui c'erano in sospensione tante sostanze quante erano le molecole d'acqua. Il fondo era ricoperto da una fanghiglia spessa metri, da cui si levavano mulinando particelle e sostanze organiche. Il mare si chiuse sopra la testa di Anawak e lui si domandò come avrebbe fatto a vedere qualcosa lì in mezzo. Aveva l'impressione di affondare in una nebbia marrone. Percepiva in modo confuso le figure dei due sommozzatori davanti a sé, e più oltre una vaga macchia scura, la poppa della Barrier Queen. I sommozzatori guardarono verso di lui e unirono indice e pollice nel segno di okay. Anawak rispose nello stesso modo. Fece uscire l'aria dal jacket e scivolò lungo la poppa. Dopo qualche metro, tutti accesero la lampada del casco. La luce diffusa era potente. Mentre scendevano, l'aria gorgogliava rumorosamente nelle orecchie di Anawak. Dalla semioscurità si delineò il timone, scalfito e sporco. Era anche inclinato. Anawak cercò a tentoni la console del profondimetro. Otto metri. I due sommozzatori sparirono oltre la pala del timone. Si vedeva solo la luce delle loro lampade. Anawak si avvicinò dall'altra parte. Sulle prime vide soltanto i bordi arrotondati dei mitili, che si accumulavano l'uno sull'altro formando sculture bizzarre. Poi capì che era incrostato di conchiglie rigate e si avvicinò. Nelle fessure, proprio dove la pala ruotava nel pozzo, gli organismi erano diventati un pastone compatto, scheggiato e triturato. Non c'era da meravigliarsi che non fossero riusciti a muovere il timone. Si era grippato. Scese ancora. Anche lì era tutto pieno di mitili. Con cautela, Anawak afferrò la massa. I piccoli animali, lunghi al massimo tre centimetri, erano stretti l'uno all'altro. Con estrema attenzione, per non tagliarsi con le valve affilate, le tirò, finché non riuscì a staccarne alcune. Erano semiaperte. All'interno si attorcigliavano i filamenti di bisso con cui avevano cercato di tenere la presa. Le mise nella rete che teneva alla cintura.
Non sapeva granché dei mitili. Alcune specie di molluschi avevano un bisso simile, una sorta di piede sfrangiato e vischioso. Tra questi, i più noti e famigerati erano le cozze zebrate, introdotte dal Medio Oriente. Si erano diffuse qualche anno prima nell'ecosistema americano ed europeo e avevano iniziato a distruggere la fauna indigena. Se quelle che avevano ricoperto il timone della Barrier Queen erano cozze zebrate, c'era poco da meravigliarsi che fossero ammassate in mucchi così spessi. Quando arrivavano da qualche parte, quelle cozze si diffondevano immediatamente in quantità mostruose. Anawak girò nel palmo della mano i mitili distaccati. Eh, sì, sembrava proprio che il timone fosse infestato da cozze zebrate. Ma com'era possibile? Le cozze zebrate distruggevano prevalentemente gli ecosistemi d'acqua dolce. Vivevano e prosperavano anche nell'acqua salata, certo, però come avevano potuto fissarsi su una nave che navigava in mare aperto, dove non c'era altro che acqua per chilometri di profondità? Oppure si erano attaccate già in porto? La nave arrivava dal Giappone. Il Giappone era afflitto dalla piaga delle cozze zebrate? Su un lato, sotto di lui, tra il timone e la poppa, si levavano dal torbido due pale arcuate, spettrali nelle loro dimensioni. Anawak scese ancora e batté le pinne finché non riuscì ad abbracciare il bordo di una delle pale. Fu colto da una sensazione di malessere. L'elica aveva un diametro di oltre quattro metri. Si trattava di una struttura di acciaio del peso di otto tonnellate. Per un istante immaginò come doveva essere quando girava a pieno regime. Sembrava incredibile che qualcosa potesse anche soltanto sfiorare questa cosa gigantesca. Qualsiasi cosa che si fosse avvicinata troppo sarebbe stata immediatamente distrutta. Eppure i mitili erano anche sull'elica. La conclusione era ovvia, però ad Anawak non piaceva affatto. Fece scorrere lentamente le mani dal bordo al centro dell'elica e le sue dita toccarono qualcosa di scivoloso. Frammenti di una sostanza chiara si staccarono e caddero verso di lui. Ne afferrò uno e lo tenne proprio davanti alla maschera. Gelatinoso. Gommoso. Sembrava tessuto. Anawak girò e rigirò tra le mani quella cosa fibrosa, poi la fece sparire nel raccoglitore e procedette a tentoni. Uno dei sommozzatori gli si avvicinò dalla parte opposta. Con la lampada del casco sembrava quasi un alie-
no. Gli fece segno di avvicinarsi. Anawak si staccò e nuotò verso di lui. Si lasciò lentamente scivolare in basso, finché le sue pinne non toccarono l'albero a gomiti alla fine del quale vi era l'elica. Lì la sostanza vischiosa era abbondante e si era attorcigliata intorno all'albero come una guaina. I sommozzatori cercarono di staccarne alcuni brandelli e Anawak li aiutò. Ma era uno sforzo inutile. La maggior parte era così attorcigliata che, a mani nude, non sarebbero mai riusciti a staccarla. Nella testa gli risuonò il racconto di Roberts sull'attacco delle balene ai rimorchiatori. Assurdo. Perché una balena dovrebbe sabotare la manovra di aggancio di un rimorchiatore e far affondare la Barrier Queen? Il cargo non poteva manovrare, quindi col mare grosso avrebbe corso il rischio di naufragare. È vero che al momento era calmo, ma prima o poi le onde si sarebbero alzate. Le balene volevano impedire che la Barrier Queen raggiungesse acque sicure? Gettò un'occhiata all'indicatore dell'aria. Ce n'era abbastanza. Sollevando i pollici, indicò ai due sommozzatori che voleva ispezionare lo scafo e loro gli fecero il segno di okay. Si allontanarono dall'elica e nuotarono lungo la parete; Anawak era più in profondità, dove lo scafo si piegava a formare la chiglia. La luce della sua lampada scivolava sullo strato esterno d'acciaio. La pittura sembrava ancora nuova; solo in alcuni punti si riconoscevano graffi e cambiamenti di colore. Continuò a scendere verso il fondo e tutto divenne ancora più scuro. Anawak guardò verso l'alto. Due luci diffuse gli indicavano la posizione dei sommozzatori che stavano ispezionando la parete. Che cosa poteva succedere? In fondo sapeva dov'era. Tuttavia sentiva crescere l'inquietudine. Batté i piedi e scivolò lungo lo scafo. Non c'erano danni visibili. Un attimo dopo, la luce della lampada si fece più debole. Anawak sollevò la mano per controllarla. Poi si rese conto che il problema non era nella lampada, ma in ciò che illuminava. Fino a poco prima, la vernice della nave aveva riflesso regolarmente la luce. Adesso invece era inghiottita dalla scura massa di cozze che ricopriva lo scafo della Barrier Queen. Da dov'erano sbucate? Anawak pensò di raggiungere i sommozzatori, poi decise di scendere sotto lo scafo. Sulla chiglia, l'infestazione dei mitili era ancora maggiore. La parte inferiore della Barrier Queen era completamente ricoperta, quindi la nave doveva pesare molto di più. Impossibile che nessuno se ne fosse
accorto. Una simile massa era sufficiente per rallentare sensibilmente il cargo. Ormai era sotto la chiglia e poté voltarsi sulla schiena. Pochi metri sotto di lui iniziava la fanghiglia del bacino portuale. L'acqua era così torbida che non vedeva quasi più nulla, se non la montagna di conchiglie. Con rapidi colpi di pinna nuotò verso prua; di colpo il manto di cozze terminò. Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse massiccia la proliferazione. Pendeva sotto la Barrier Queen con uno spessore di quasi due metri. Cos'era? Al margine dell'escrescenza si spalancava una crepa. Anawak rimase sospeso davanti a quella crepa, indeciso. Poi allungò la mano verso il polpaccio, dove in una custodia, teneva il coltello. Lo estrasse e lo conficcò nella montagna di cozze. La crosta si crepò. Qualcosa saettò fuori e lo colpì sul volto, quasi strappandogli l'erogatore dalla bocca. Lui rimbalzò all'indietro e sbatté la testa contro lo scafo. Davanti ai suoi occhi esplose una luce violenta. Voleva risalire, ma sopra di lui c'era la chiglia. Con violenti colpi di pinne, cercò di allontanarsi dai mitili. Si voltò e si vide di fronte un'altra montagna di piccole conchiglie dure. I suoi margini sembravano attaccati allo scafo con qualcosa di gelatinoso. Sentì crescere la nausea. Si sforzò di restare calmo e, attraverso le particelle che vorticavano nell'acqua, cercò di vedere l'essere che l'aveva aggredito. Era sparito. Anawak non vedeva più nulla, se non la bizzarra crosta di conchiglie raggrumate. Solo allora si accorse che stringeva qualcosa in mano. Il coltello. Non l'aveva mollato. Dalla lama penzolava un pezzo di sostanza lattiginosa e trasparente. Anawak la avvolse nel tessuto sintetico del raccoglitore, poi cercò il modo di andarsene. Non sentiva il bisogno di altre avventure. Risalì con movimenti misurati, cercando di tenere sotto controllo il battito cardiaco - diventato quasi frenetico - finché non raggiunse il lato della nave e, in lontananza, scorse il debole bagliore dei due sommozzatori. Li raggiunse. Anche loro erano incappati in quelle infestazioni e uno dei due stava staccando dei mitili col coltello. Anawak lo osservava, nervoso, temendo di veder qualcosa saettare fuori. Ma non accadde nulla. Il secondo subacqueo sollevò il pollice e tutti e tre salirono lentamente verso la superficie. Benché l'acqua rimanesse torbida anche negli ultimi metri, il chiarore aumentava. Poi, improvvisamente, tutto riprese forma e
colore. Anawak socchiuse le palpebre nella luce del sole. Si tolse la maschera, felice di respirare l'aria fresca. Sul molo c'erano Roberts e gli altri. «Che c'è la sotto?» Il manager si chinò in avanti. «Avete trovato qualcosa?» Anawak tossì e sputò l'acqua del porto. «Può ben dirlo!» Erano radunati nei pressi del furgone. D'accordo coi sommozzatori, Anawak si era assunto il ruolo di portavoce. «Mitili che bloccano un timone?» chiese Roberts, incredulo. «Sì. Cozze zebrate.» «Santo cielo, come può succedere una cosa del genere?» «Bella domanda.» Anawak aprì il contenitore dei campioni che teneva alla cintura e, con cautela, fece scivolare i pezzi di gelatina in un altro contenitore pieno di acqua marina. Le condizioni del tessuto lo preoccupavano. Sembrava che la decomposizione fosse già iniziata. «Posso solo fare supposizioni, ma i fatti dovrebbero essersi svolti così: il timoniere gira il timone di cinque gradi. Ma il timone non si muove, perché è bloccato dalle cozze che vi si sono aggrappate. In fondo, non è così difficile bloccare un timone, e questo lo sa meglio di me. Solo che non accade praticamente mai. Lo sa anche il timoniere, e per questo non gli passa neppure per la testa che qualcosa possa aver bloccato il timone. Pensa di averlo girato meno di quanto crede, quindi lo gira ancora, ma il timone non si muove. In effetti il motore del timone sta lavorando a pieno regime, cercando di rispondere al comando. Infine il timoniere lo ruota del tutto e finalmente la pala si libera. Mentre gira, le cozze si frantumano, ma non si staccano. Il pastone di mitili blocca il timone, esattamente come la sabbia in un ingranaggio. Si grippa e non torna più indietro.» Si scostò i capelli bagnati dalla fronte e guardò Roberts. «Ma la cosa inquietante non è questa.» «C'è dell'altro?» «Le prese a mare sono libere, però l'elica è completamente ricoperta di mitili. Non ho idea di come questa massa si sia potuta attaccare alla nave, ma una cosa si può affermare con certezza: contro un'elica in movimento si sarebbe rotta la conchiglia anche del più coriaceo dei molluschi. Quindi o gli animali si sono attaccati in Giappone - cosa che mi sorprenderebbe, dato che, fino a duecento miglia marine dal Canada, il timone ha funzionato perfettamente - oppure sono arrivate non appena sono state spente le macchine.» «Vuol dire che hanno colpito la nave in mare aperto?»
«Sarebbe meglio dire aggredito», spiegò Anawak. «Cerco d'immaginare cos'è successo. Un gigantesco banco di mitili si attacca al timone. Quando la pala si blocca, la nave s'inclina. Pochi minuti dopo, si fermano le macchine e l'elica. Continuano ad arrivare altre cozze, si attaccano al timone per, diciamo così, cementare il blocco, poi raggiungono l'elica e il resto dello scafo.» «Come hanno fatto ad arrivare lì tonnellate di mitili?» chiese Roberts, guardandosi intorno, disperato. «In mezzo all'oceano!» «Perché le balene allontanano i rimorchiatori e saltano sulle gomene? È stato lei a iniziare con le storie bizzarre, non io.» «Sì, ma...» Roberts si mordicchiò il labbro inferiore. «Succede tutto contemporaneamente. Sembra quasi che ci sia un legame. Però non ha senso. Mitili e balene.» Anawak esitò. «Quand'è stato controllato l'ultima volta lo scafo della Barrier Queen?» «Ci sono controlli costanti. E la Barrier Queen ha una vernice speciale. Non si preoccupi, è ecocompatibile! Non ci si può attaccare nulla. Forse dei crostacei balani...» «Là sotto c'è ben più che qualche crostaceo balano.» Anawak si fermò, lo sguardo fisso nel vuoto. «Ma ha ragione! Quella roba non poteva essere lì. È come se la Barrier Queen fosse stata sottoposta per settimane a un'invasione di larve di mitili, e inoltre... c'era quella cosa in mezzo alle cozze...» «Quale cosa?» Anawak raccontò dell'essere uscito dalla montagna di mitili. Mentre parlava, gli sembrava di rivivere la scena. Lo shock, la testa battuta contro la chiglia... Gli rimbombava ancora. Aveva visto le stelle... No, erano lampi di luce. Un lampo di luce, per essere preciso. Improvvisamente si rese conto che il lampo non era stato nella sua testa, ma nell'acqua. Quella cosa aveva lampeggiato. Rimase letteralmente senza parole. Si dimenticò di continuare il suo rapporto perché aveva compreso che quell'essere era luminescente. Se era così, probabilmente arrivava dalle profondità abissali. Quindi era difficile che si fosse aggrappato allo scafo della Barrier Queen in un porto. Doveva essere arrivato in mare aperto, avvolto dai mitili. Forse le cozze avevano rinchiuso quell'essere perché serviva loro come nutrimento. Oppure come
protezione. E se fosse stata una piovra... «Dottor Anawak?» Anawak riportò lo sguardo su Roberts. Sì, una piovra, pensò. È la cosa più probabile. È troppo veloce per essere una medusa. E troppo forte. Ha letteralmente spaccato le conchiglie, come se fosse un unico muscolo elastico. Poi gli venne in mente che quella cosa era balzata fuori nel momento esatto in cui lui aveva infilato la lama nella fessura. Doveva averla ferita col coltello. Le ho fatto male? Di certo la punta del coltello ha provocato un riflesso... No, non esagerare, pensò. Che cos'hai visto davvero in quella brodaglia? Sicuramente ti sei spaventato. «Dovete far ispezionare il bacino del porto», disse a Roberts, poi indicò i recipienti chiusi. «Ma prima bisogna mandare questi campioni il più in fretta possibile all'istituto di Nanaimo per farli esaminare. Li metta sull'elicottero. Li porterò io, so a chi affidarli.» Roberts annuì, poi lo prese in disparte e sibilò: «Maledizione, Leon! Che cosa pensa davvero di questa faccenda? È impossibile che una copertura spessa metri si formi nel giro di poco tempo. La nave non è stata in giro per settimane.» «Queste cozze sono una peste, Mister Roberts...» «Clive.» «Clive, quelle bestie non si muovono a caso, ma come se fossero un commando d'assalto. Almeno per quello che ne sappiamo.» «Ma non così in fretta», replicò Roberts. «Ciascuno di quei maledetti molluschi può mettere al mondo fino a duecentomila discendenti all'anno. Le larve si muovono con la corrente, oppure come passeggeri clandestini tra le squame dei pesci e tra le piume degli uccelli acquatici. Nei laghi americani, si sono trovati dei punti in cui sono insediati fino a novecentomila esemplari per metro quadrato, e sono arrivati praticamente in una notte. Otturano le tubature dell'acqua, i circuiti di raffreddamento delle zone industriali nei pressi dei fiumi, gli acquedotti; distruggono le tubature ed evidentemente si trovano a proprio agio sia nell'acqua salata sia in quella dei laghi e dei fiumi.» «Va bene, ma stiamo parlando di larve», obiettò Roberts. «Di milioni di larve.» «Per me, possono anche essere miliardi e trovarsi nel porto di Osaka o in mare aperto. Che differenza fa? Mi vuole convincere che, negli ultimi giorni, sono diventate tutte adulte e complete di conchiglia? Insomma, è proprio sicuro che abbiamo a che fare con la cozza zebrata?»
Anawak guardò il furgone dei sommozzatori, che stavano sistemando l'equipaggiamento. I contenitori dei campioni, sigillati alla meno peggio, erano davanti a tutto il resto, in una cesta di plastica. «Siamo di fronte a un'equazione con molte incognite», disse. «Se davvero le balene hanno cercato di allontanare i rimorchiatori, dobbiamo chiederci il perché. Sulla nave stava succedendo qualcosa che non doveva essere portata a termine? Perché doveva affondare dopo essere stata bloccata dalle cozze? E poi c'è questo organismo sconosciuto che si dà alla fuga nel momento in cui invado il suo nascondiglio. Cosa le sembra tutto ciò?» «Il sequel di Independence day. Crede davvero...» cominciò Roberts. «Aspetti. Prendiamo la stessa equazione. Un branco di balene grigie e megattere particolarmente nervose si sente disturbato dalla Barrier Queen. In più, arrivano due rimorchiatori e le urtano. Le balene li urtano a loro volta. Per puro caso, la nave è stata attaccata poco prima da una piaga biologica che ha preso all'estero, come un turista che si prende la malaria, e in alto mare un calamaro si è infilato nella montagna di cozze.» Roberts lo fissava. «Sa, io non credo alla fantascienza», proseguì Anawak. «Tutto sta nell'interpretazione. Mandi là sotto un paio di uomini. Devono raschiare i sedimenti, guardare se c'è ancora qualche ospite inatteso e catturarlo.» «Quando pensa che potremo avere i risultati da Nanaimo?» chiese Roberts. «In pochi giorni, credo. Sarebbe molto utile se avessi una copia del referto», rispose Anawak. «In via confidenziale», sottolineò Roberts. «Ovviamente. In via altrettanto confidenziale, vorrei parlare con l'equipaggio.» Roberts annuì. «L'ultima parola non spetta a me. Ma vedrò che cosa riesco a fare.» Ritornarono al furgone e Anawak s'infilò il giubbotto. «È la prassi che prevede di consultare gli scienziati in casi simili?» chiese. «Simili casi non sono di prassi.» Roberts scosse la testa. «È stata una mia idea, avevo letto il suo libro e sapevo che lei si trovava a Vancouver Island. La commissione d'indagine non ne è particolarmente entusiasta. Ma io penso che sia stata la cosa giusta. Non è che ci capiamo molto di balene.» «Farò del mio meglio. Carichiamo i campioni sull'elicottero. Prima li portiamo a Nanaimo, meglio è. Li metteremo direttamente nelle mani di
Sue Oliviera. È la direttrice del laboratorio. Una biologa molecolare molto in gamba.» Il cellulare di Anawak suonò. Era Susan Stringer. «Devi ritornare qui il più presto possibile», gli disse. «Cos'è successo?» «Abbiamo avuto un contatto radio col Blue Shark. Sono fuori, in mare, e hanno dei problemi.» Anawak sospettò il peggio. «Con le balene?» «Non dire sciocchezze.» Il tono di Susan lasciava chiaramente intendere che ormai lo considerava irrecuperabile. «Che problemi vuoi che ci siano con le balene? È quello stupido bastardo che crea problemi, quel maledetto stronzo.» «Quale bastardo?» «E chi se non Jack Greywolf?» 6 aprile Kiel, Germania Due settimane dopo aver consegnato a Tina Lund i risultati definitivi delle analisi sui vermi, Sigur Johanson era seduto in un taxi che lo stava portando nel luogo più rinomato tra i geografi marini europei, il centro di ricerca Geomar. Quando servivano notizie sulla formazione, sullo sviluppo e sulla storia del fondale marino, si consultavano sempre gli scienziati di Kiel. Persino James Cameron era andato lì per avere un riscontro sulla fattibilità di progetti come The Abyss o Titanic. Il lavoro degli scienziati del Geomar era difficile da spiegare alla gente comune. A prima vista, rovistare tra i sedimenti e misurare la salinità dell'acqua non sembravano attività destinate a portare un contributo concreto alla soluzione dei più urgenti problemi dell'umanità. In effetti, era difficile spiegare ai profani ciò che, ancora all'inizio degli anni '90, la maggior parte degli scienziati non aveva voluto credere: i fondali marini, lontani dalla luce e dal calore del sole, non erano un deserto roccioso privo di vita. Là sotto, la vita brulicava. Certo, si conoscevano da tempo le specie esotiche lungo le pareti dei camini idrotermali degli abissi. Tuttavia, quando fu chiamato a lavorare al Geomar, nel 1989, il geochimico Erwin Suess dell'Oregon State University aveva raccontato cose ancora più bizzarre: oasi di vita nei pressi delle fonti fredde abissali,
misteriose energie chimiche che salivano dall'interno della Terra e massicci giacimenti di una sostanza che, fino ad allora, aveva ricevuto pochissima attenzione, in quanto ritenuta un prodotto bizzarro e privo d'importanza: l'idrato di metano. Da poco le scienze della Terra cominciavano a uscire dall'ombra in cui loro stesse - come la maggioranza delle scienze - si erano relegate troppo a lungo. Cercavano di aprirsi all'esterno, nutrivano la speranza di poter prevedere e controllare le catastrofi naturali, le trasformazioni climatiche e ambientali. Sembrava che il metano potesse dare una risposta ai problemi energetici del futuro. La fame d'informazioni della stampa si era risvegliata e i ricercatori avevano imparato - all'inizio con timidezza, poi progressivamente con modi da popstar - a piegare a proprio vantaggio l'interesse che si era risvegliato. IL taxista che stava portando Johanson verso il fiordo di Kiel sembrava non aver capito nulla di tutto ciò. Da venti minuti esprimeva il suo dissenso, chiedendosi come fosse possibile che avessero messo un centro di ricerca costato milioni nelle mani di alcuni pazzi, di gente che, ogni due mesi, partiva per una crociera dispendiosa, mentre quelli come lui riuscivano a campare a stento. Johanson, che parlava perfettamente il tedesco, non aveva voglia di correggere quelle convinzioni, anche perché il taxista era un fiume in piena. Inoltre parlava gesticolando e faceva sbandare paurosamente la macchina. «Non si sa che cosa combinano», stava infatti brontolando. «Ma lei è un giornalista?» chiese poi, vedendo che Johanson non gli rispondeva. «No. Sono un biologo.» L'uomo cambiò argomento all'istante e si dedicò alle devastanti conseguenze delle frodi alimentari. Evidentemente aveva visto in Johanson uno dei responsabili di quello spreco. Borbottava contro la verdura geneticamente modificata, i costosissimi prodotti biologici e intanto provocava il suo passeggero. «Ah, un biologo. Lei sa che cosa si può mangiare senza preoccupazioni? Io non lo so. Non si può mangiare più nulla. Non si dovrebbe mangiare più nulla di quello che c'è in commercio. Non bisognerebbe dargli più nemmeno un centesimo.» L'auto finì sulla corsia opposta. «Se non mangia, morirà di fame», disse Johanson. «E allora? Che importanza ha di cosa si muore? Se non si mangia si muore, se si mangia si muore per quello che si mangia.» «Lei ha senza dubbio ragione. Personalmente, tuttavia, preferirei morire
mangiando un filetto piuttosto che nello scontro con quell'autocisterna.» Per nulla impressionato, il taxista imboccò l'uscita, tagliando tre corsie e sempre procedendo a grande velocità. L'autobotte strombazzò. Alla sua destra, Johanson vide il mare. Procedevano lungo la riva orientale del fiordo di Kiel. Dalla parte opposta, enormi gru svettavano verso il cielo. Evidentemente il taxista aveva preso male l'ultima osservazione di Johanson, perché non aveva più detto una parola. Attraversarono le strade della periferia con le casette dal tetto spiovente, finché non comparve l'ampio complesso di edifici di cemento, vetro e acciaio che non avevano nulla a che fare con quella tranquillità piccolo borghese. Il taxista svoltò in modo brusco nella zona dell'istituto e si fermò facendo stridere le gomme. Johanson ispirò profondamente, pagò e scese con la consapevolezza di aver vissuto negli ultimi quindici minuti un'esperienza decisamente peggiore di quella sull'elicottero della Statoil. «Mi piacerebbe proprio sapere che cosa combinano là dentro», disse il taxista. Sembrava quasi che parlasse al volante. Johanson si chinò e lo guardò attraverso il finestrino del passeggero. «Lo vuole davvero sapere?» «Sì.» «Cercano di salvare il lavoro dei taxisti.» L'altro lo guardò, sbalordito. «Non capita spesso di portare qui dei clienti...» mormorò. «Ma per farlo la sua macchina deve muoversi. Se finisce la benzina, i vostri rottami potete anche demolirli, a meno che non si possa farli funzionare con qualcos'altro, e quel qualcosa è nel mare. Metano. Combustibile. Stanno cercando di renderlo utilizzabile.» Il taxista aggrottò la fronte, poi disse: «Sa qual è il problema? Che nessuno ci spiega queste cose». «C'è su tutti i giornali», replicò Johanson. «C'è sui giornali che legge lei, caro signore. Nessuno si sforza di spiegarlo a me.» Johanson era tentato di rispondere. Invece si limitò ad annuire e chiuse la portiera. Il taxi voltò e sfrecciò via. «Dottor Johanson!» gridò qualcuno. Da un edificio rotondo di vetro uscì un giovane abbronzato e venne verso di lui. Johanson gli strinse la mano. «Gerhard Bohrmann?» «No, Heiko Sahling, biologo. Il dottor Bohrmann arriverà con un quarto d'ora di ritardo, sta tenendo una lezione. Posso accompagnarla da lui, op-
pure magari andiamo a berci un caffè al bar.» «Lei che cosa preferisce?» «Per me è lo stesso. Molto interessanti i suoi vermi, sa?» «Se ne è occupato lei?» «Ce ne siamo occupati tutti. Venga, conserviamo il caffè per dopo. Gerhard finirà tra poco; intanto andiamo a sentire la sua lezione.» Entrarono in un foyer molto elegante. Sahling lo condusse lungo una scalinata e sopra una passerella d'acciaio. Per essere un istituto scientifico, il Geomar somigliava fin troppo a un edificio che volesse vincere un premio architettonico, pensò Johanson. «In genere le lezioni si tengono nell'auditorium», spiegò Sahling. «Ma oggi abbiamo in visita una scolaresca.» «Lodevole.» Sahling sorrise. «Per i quindicenni non c'è differenza tra un auditorium e un'aula. Allora abbiamo girato con loro per tutto l'istituto. Avevano il permesso di guardare ovunque e di toccare quasi tutto. Abbiamo tenuto il deposito delle rocce per ultimo. Lì Gerhard racconta loro la storia della buona notte.» «Su che cosa?» «Sugli idrati di metano», rispose Sahling. Aprì una porta a vetri. La passerella proseguiva anche oltre. Il deposito delle rocce era grande come la metà di un hangar. L'edificio era aperto verso il molo e Johanson fissò lo sguardo su una nave molto grande. Lungo le pareti erano accatastate casse e apparecchiature. «Qui vengono immagazzinati provvisoriamente i campioni», disse Sahling. «Prevalentemente sedimenti e campioni di acqua marina. Archiviamo la storia della Terra. Ne siamo particolarmente orgogliosi.» Sollevò una mano, facendo un cenno di saluto. Da sotto, un uomo molto alto rispose e tornò a dedicarsi al gruppo di adolescenti. Johanson si appoggiò al parapetto della passerella e lo ascoltò. «... Uno dei momenti più eccitanti che abbiamo vissuto», stava dicendo il dottor Gerhard Bohrmann. «La benna, a circa ottocento metri di profondità, aveva scavato alcuni quintali di sedimenti infarciti di una sostanza bianca e aveva versato i frammenti sul piano di lavoro. Per essere precisi, solo quello che era arrivato in superficie.» «Era nel Pacifico», mormorò Sahling. «Nel 1996, sulla Sonne, circa cinquanta miglia marine al largo dell'Oregon.» «Dovevamo fare in fretta. L'idrato di metano è molto instabile e inaffidabile», proseguì Bohrmann. «Credo che non ne sappiate molto di queste
cose, quindi cercherò di spiegarlo in modo che nessuno muoia di noia. Che succede negli abissi marini? Tra le altre cose, c'è del gas. Il metano biogeno, per esempio, si forma in milioni di anni, attraverso la decomposizione dei resti di animali e piante. Quando le alghe, il plancton e i pesci si decompongono, liberano una gran quantità di carbonio organico. Della decomposizione si occupano alcuni batteri. Negli abissi marini, ci sono temperature molto basse e una pressione straordinaria. Ogni dieci metri, la pressione dell'acqua aumenta di un bar. I sommozzatori in carne e ossa arrivano a cinquanta metri di profondità, massimo settanta. Ma è tutto lì. Il record d'immersione con aria compressa è di centoquaranta metri, ma è una cosa che sconsiglio vivamente. Simili tentativi in genere finiscono con la morte. E qui stiamo parlando di una profondità di cinquecento metri! Lì la fisica funziona a modo suo. Per esempio, se una grande concentrazione di metano sale dall'interno della Terra fino al fondale marino, laggiù succede una cosa straordinaria. Il gas si lega con l'acqua fredda degli abissi e diventa ghiaccio. Vi sarà capitato di leggere sul giornale il concetto di ghiaccio di metano. Non è del tutto corretto. Non è il metano a congelare, bensì l'acqua circostante. Le molecole dell'acqua si cristallizzano in minuscole strutture a gabbia, al cui interno si trova la molecola di metano. Comprimono il gas e lo costringono in uno spazio più ristretto.» Uno studente alzò la mano, esitante. «Hai una domanda?» Il ragazzino nicchiò. «Cinquecento metri non è proprio profondo, vero?» disse infine. Bohrmann lo osservò per alcuni secondi in silenzio, poi disse: «Non sei particolarmente impressionato, vero?» «Sì, certo. Pensavo solo che... Jacques Picard è stato con un batiscafo nella fossa delle Marianne, ed è profonda undicimila metri. Voglio dire, quella sì, che è profonda. Perché quel ghiaccio non si trova anche laggiù?» «Tanto di cappello... Hai studiato la storia dei viaggi umani negli abissi. E tu, cosa pensi?» Il ragazzo rifletté un po', poi scrollò le spalle. «Ma è chiaro», rispose una ragazza al suo posto. «Laggiù c'è pochissima vita. Dai mille metri di profondità viene decomposta poca materia, quindi c'è poco metano.» «Lo sapevo», mormorò Johanson sul ponte. «Le donne sono più intelligenti.» Bohrmann sorrise compiaciuto alla ragazza. «Giusto. Naturalmente ci
sono delle eccezioni. E in effetti si trovano idrati di metano anche a grandi profondità, anche a tre chilometri... basta che si depositino sedimenti con un alto contenuto di materiale organico. Per esempio, in alcuni mari dello zoccolo continentale. Abbiamo cartografato concentrazioni di idrati anche in acque molto basse, dove la pressione non dovrebbe essere sufficiente. Ma se la temperatura è molto fredda, si arriva comunque alla formazione di idrati, per esempio sullo zoccolo continentale polare.» Tornò a rivolgersi a tutta la scolaresca. «Tuttavia i giacimenti principali si trovano sulle scarpate continentali, tra i cinquecento e i mille metri. Metano compresso. Poco tempo fa, abbiamo esaminato, al largo della costa nordamericana, una montagna sottomarina alta mezzo chilometro e lunga venticinque chilometri. È costituita per lo più di idrati di metano. Una parte è sotto, nella roccia, l'altra è sul fondale marino. Abbiamo scoperto che l'oceano ne è pieno. Ma sappiamo anche altro: le scarpate continentali sottomarine sono tenute insieme prevalentemente dagli idrati di metano! È come la malta. Se si togliessero di colpo tutti gli idrati, la scarpata continentale sarebbe bucherellata come un formaggio svizzero. Con la differenza che il formaggio mantiene la propria forma anche coi buchi. Le scarpate, invece, crollerebbero!» Bohrmann aspettò qualche secondo perché le sue parole facessero effetto, quindi riprese: «Ma non è tutto. Come vi ho detto, gli idrati di metano sono stabili solo con un'elevata pressione associata a temperature basse. Ciò non vuol dire che tutto il metano è congelato: lo sono solo gli strati superiori. Perché, nell'interno della Terra, le temperature tornano a salire e in profondità, nei sedimenti, ci sono bolle di metano non congelato. Rimangono gassose. Ma, visto che gli strati superiori congelati sono come un coperchio, il gas non può uscire». «Ho letto qualcosa su questo argomento», disse una ragazza. «I giapponesi stanno cercando di estrarlo, vero?» Johanson era divertito. Ricordava i suoi anni di scuola. In ogni classe c'era sempre uno studente eccezionalmente preparato che sapeva già la metà di quello che avrebbe dovuto imparare. Pensò che quella ragazza non fosse particolarmente benvoluta dai compagni. «Non solo i giapponesi», rispose Bohrmann. «Tutto il mondo vorrebbe estrarlo. Ma è molto difficile. Quando portiamo in superficie i frammenti di idrati anche solo da ottocento metri di profondità, le bolle di gas si staccano dai detriti già a metà strada. Quello che riusciamo a portare in superficie non è poco, tuttavia è solo una parte di quello che abbiamo estratto.
Ho detto che gli idrati di metano diventano subito instabili. Se a cinquecento metri di profondità la temperatura dell'acqua si alzasse di un solo grado, gli idrati potrebbero diventare instabili di colpo, così li potremmo prendere e infilarli subito in una cisterna con l'azoto liquido, dove rimarrebbero stabili. Ma venite un po' qua.» «È bravo», osservò Johanson, mentre Bohrmann si avviava con la scolaresca verso una scansia di acciaio grezzo saldato. Vi erano stipati contenitori di diversa grandezza. In basso c'erano quattro taniche color argento. Bohrmann ne tirò fuori una a fatica, s'infilò i guanti e sollevò il coperchio. Si sentì un sibilo e uscì un vapore bianco. Alcuni degli studenti fecero istintivamente un passo indietro. «È solo azoto.» Bohrmann infilò la mano nel contenitore e tirò fuori un blocco grande come un pugno, che sembrava un grumo di ghiaccio sudicio. Dopo pochi secondi, il grumo cominciò a sibilare e a scricchiolare debolmente. Lui fece un cenno alla ragazza che era intervenuta poco prima e, quando lei si fu avvicinata, staccò un pezzo dal grumo e glielo allungò. «Non aver paura. È freddo, ma non è pericoloso», le disse. «Puzza», commentò la ragazza. Alcuni studenti risero. «Esatto. Puzza di uova marce. Questo è il gas. Si disperde.» Bohrmann ruppe il frammento in altri pezzi e li distribuì. «Guardate cosa succede. Le strisce di sporco nel ghiaccio sono particelle di sedimenti. Tra qualche secondo, non resteranno che qualche briciola e una pozzanghera d'acqua. Il ghiaccio si scioglie, le molecole di metano escono dalla loro gabbia e si volatilizzano. Si può descrivere anche così: quello che poco fa era stabile sul fondale marino, nel giro di pochissimo tempo si trasforma in niente. Ecco ciò che vi volevo mostrare.» Fece una pausa. Gli studenti avevano rivolto tutta la loro attenzione ai frammenti che, sibilando, diventavano sempre più piccoli. Di tanto in tanto si levavano commenti ironici sulla puzza. Bohrmann attese finché i frammenti non si furono sciolti, poi proseguì: «Ma intanto è successo anche qualcosa che non avete potuto vedere. Ed è decisivo per comprendere il rispetto che abbiamo per gli idrati. Poco fa, vi ho detto che le gabbie di ghiaccio sono in grado di comprimere il metano. Da ogni centimetro quadrato degli idrati che avete avuto in mano, si sono liberati 165 centimetri cubi di metano. Quando gli idrati si sciolgono, il volume aumenta di 165 volte. E di colpo. Quello che rimane è la pozzanghera nelle vostre mani. Puoi infilarci la punta della lingua», disse alla ragazza. «Dicci che sapore ha.»
La studentessa lo guardò, scettica. «In quella roba puzzolente?» «Non puzza più. Il gas si è volatilizzato. Ma, se non ti fidi, lo farò io.» Tra le risatine dei compagni, la ragazza abbassò lentamente la testa e leccò l'acqua. «È acqua dolce», gridò poi, sbalordita. «Esatto. Quando l'acqua gela, il sale viene, per così dire, eliminato. Per questo l'Antartico è la più grande riserva d'acqua dolce della Terra. Gli iceberg sono d'acqua dolce.» Bohrmann chiuse il recipiente stagno con l'azoto liquido e lo infilò di nuovo nello scaffale. «Quello che avete visto è il motivo per cui l'estrazione di idrati è oggetto di sentimenti tanto contrastanti. Se i nostri interventi rendono instabili gli idrati, forse la conseguenza sarà una serie di reazioni a catena. Che cosa succederebbe se esplodesse la malta che tiene insieme la scarpata continentale? Che effetti ci sarebbero sul clima mondiale se tutto il metano delle profondità marine si liberasse nell'atmosfera? Il metano è un gas serra e potrebbe scaldare ulteriormente l'atmosfera; allora i mari diventerebbero ancora più caldi e così via. Noi stiamo riflettendo proprio su queste domande.» «E allora perché cercate di estrarlo?» chiese un altro studente. «Perché non lo lasciate laggiù e basta?» «Perché potrebbe risolvere i problemi energetici», disse la ragazza, facendo un passo in avanti. «Ho letto che i giapponesi non hanno combustibili propri e devono importarli. Il metano risolverebbe i loro problemi.» «È una follia», ribatté il compagno. «Se crea più problemi di quelli che potrebbe risolvere, allora è solo dannoso.» Johanson si mise a ridacchiare. «Avete ragione entrambi.» Bohrmann sollevò le braccia. «Potrebbe risolvere i problemi energetici. Per questo non è più un problema esclusivamente scientifico. Le multinazionali dell'energia hanno preso in mano la ricerca. Stimiamo che negli idrati marini ci sia il doppio di metanocarbonio che in tutti i giacimenti di gas naturale, petrolio e carbone presenti sulla Terra messi insieme. Solo sulla dorsale di idrati al largo dell'America, cioè in un'area di ventiseimila chilometri quadrati, ne sono stipate trentacinque gigatonnellate. È cento volte il fabbisogno annuale di gas degli Stati Uniti!» «È impressionante», disse Johanson sottovoce a Sahling. «Non sapevo che ce ne fosse tanto.» «È anche di più», replicò il biologo. «Non mi ricordo esattamente il numero, ma lui lo sa di certo.» Come se Bohrmann avesse sentito, disse: «Probabilmente - possiamo so-
lo ipotizzarlo - nel mare ci sono più di diecimila gigatonellate di metano congelato. Inoltre vi sono anche riserve a terra, nel permafrost dell'Alaska e della Siberia. Solo per darvi un'idea della quantità, tenete presente che oggi, nei giacimenti utilizzabili di carbone, petrolio e gas naturale, ci sono in tutto circa cinquemila gigatonnellate. Non c'è da meravigliarsi se le società energetiche si stanno rompendo la testa per estrarre gli idrati. Una minima percentuale raddoppierebbe in un colpo le riserve energetiche degli Stati Uniti, che sono di gran lunga i maggiori consumatori. Ma è sempre la solita storia: le industrie vedono una gigantesca riserva di energia, la scienza una bomba a orologeria, quindi si cerca d'instaurare una collaborazione, naturalmente sempre nell'interesse dell'umanità. Così siamo arrivati alla fine della nostra spedizione. Grazie di essere stati qui». Ridacchiò sotto i baffi. «Volevo dire, di avermi ascoltato.» «E di aver capito qualcosa», mormorò Johanson. «Speriamo», aggiunse Sahling. «Avevo un'immagine diversa di lei», disse Johanson alcuni minuti dopo, quando strinse la mano a Bohrmann. «Nelle foto su Internet hai baffi.» «Tagliati.» Bohrmann si toccò il labbro superiore. «In fondo, è addirittura colpa vostra.» «Come?» «Ho riflettuto in continuazione sui vostri vermi. Anche stamattina. Ero davanti allo specchio e un verme è strisciato davanti al mio occhio interiore e ha fatto una rotazione che, per motivi inesplicabili, il mio rasoio ha seguito. Ho tagliato una punta e così ho sacrificato tutti i baffi alla scienza.» «Allora ho sulla coscienza i suoi baffi.» Johanson sollevò le sopracciglia. «Ogni tanto cambiare fa bene.» «Non c'è problema. Ricresceranno non appena partiremo per la spedizione. In mare se li fanno crescere tutti. Non so perché. Forse abbiamo bisogno di sembrare avventurieri per non soffrire il mal di mare. Venga, andiamo in laboratorio. O forse vuole prima una tazza di caffè? Possiamo fare una puntata al bar.» «No, sono troppo curioso, il caffè può aspettare. Parte per un'altra spedizione?» «In autunno», annuì Bohrmann, mente attraversavano passerelle e corridoi di vetro. «Vogliamo andare nella zona di subduzione delle Aleutine e fare ricerche sulle fonti fredde. Ha avuto fortuna a trovarmi a Kiel. Sono
tornato dall'Antartico quattordici giorni fa; c'ero rimasto quasi otto mesi. La sua telefonata è arrivata un giorno dopo il mio rientro.» «Posso chiederle che cos'ha fatto per otto mesi all'Antartico?» «Ho portato gli uwis sul ghiaccio.» «Chi?» Bohrmann sorrise. «Gli Uberwinterer, gli 'svernatori'. Scienziati e tecnici. A dicembre hanno cominciato il loro turno nella stazione. La squadra al lavoro sta estraendo carote di ghiaccio da quattrocentocinquanta metri di profondità. Non è incredibile? Quel vecchio ghiaccio contiene la storia del clima degli ultimi settemila anni!» Johanson pensò al taxista e disse: «La maggior parte delle persone non si entusiasma per cose simili. Non riescono a capire il rapporto tra la conoscenza della storia del clima e la fine delle carestie. Oltretutto non serve a vincere i prossimi mondiali di calcio». «Qualche responsabilità l'abbiamo anche noi. La scienza si è chiusa nel proprio guscio», osservò Bohrmann. «Lo crede? La sua piccola conferenza sembrava tutt'altro che 'chiusa'.» «Però non so se questa apertura all'opinione pubblica serva a qualcosa», sospirò Bohrmann, mentre scendevano una rampa di scale. «Di fronte al disinteresse generale, i giorni di 'porte aperte' cambiano poco. Poco tempo fa ne abbiamo avuto uno e c'era un sacco di gente. Ma se avesse chiesto a qualcuno dei visitatori se sia giusto che vengano stanziati dieci milioni di nuovi finanziamenti...» Johanson tacque per un attimo, poi disse: «Credo che il vero problema siano gli universi che dividono noi scienziati. Che ne pensa?» «Perché comunichiamo poco?» «Sì, la comunicazione è scarsa anche tra la scienza e l'industria, tra gli scienziati e i militari.» «O tra la scienza e i colossi del petrolio?» chiese Bohrmann, scoccandogli una lunga occhiata. Johanson sorrise. «Sono qui perché qualcuno ha bisogno di una risposta. Non per estorcerla.» «L'industria e i militari dipendono dagli scienziati, che gli piaccia o no», s'intromise Sahling. «Comunichiamo, certo. Ma il problema è che non possiamo mediare i nostri punti di vista.» «Del resto non lo si vuole neppure!» esclamo Johanson. «Giusto. Ciò che i nostri uomini fanno sul ghiaccio potrebbe servire a evitare una carestia. Ma potrebbe anche portare alla costruzione di una
nuova arma. Guardiamo la stessa cosa, ma ognuno la vede in modo diverso», disse Sahling. «E tutto il resto ci sfugge», confermò Bohrmann. «Quegli animali che ci ha mandato, dottor Johanson, ne sono un buon esempio. Non so se per causa loro si dovranno mettere in discussione i progetti sulla scarpata continentale, ma, quando sono nel dubbio, tendo ad agire con precauzione e a sconsigliare gli interventi. Forse è questa la differenza di fondo tra l'industria e la scienza. Noi diciamo: finché non è sufficientemente provato quale ruolo abbiano questi vermi, non possiamo consigliare una perforazione. L'industria parte dalla medesima premessa, ma arriva a un altro risultato.» «Finché non è dimostrato quale ruolo giochino questi vermi, non ne giocano nessuno», disse Johanson. E poi, guardando Bohrmann, aggiunse: «E lei che ne pensa? Giocano qualche ruolo?» «Non posso ancora dirlo. Quello che ci ha mandato è... Sì, è a dir poco insolito. Non vorrei deluderla, quello che abbiamo scoperto finora avrei potuto anche dirglielo per telefono, ma... Insomma, ho pensato che lei volesse saperne di più. E qui possiamo mostrarle diverse cose.» Raggiunsero una pesante porta d'acciaio. Bohrmann azionò un interruttore sulla parete e la porta si aprì senza un rumore. Nel centro della stanza oltre la porta si trovava un'imponente cisterna, alta come una casa di due piani. In essa, a intervalli regolari, erano inseriti degli oblò. Scale d'acciaio conducevano a passerelle circolari e poi alle apparecchiature, erano collegate alla cisterna tramite tubature. Johanson entrò. Su Internet aveva visto delle fotografie di quella cosa, ma non si era aspettato che fosse così grande. Fu colto da una vertigine all'idea della pressione mostruosa che doveva esserci in quella cisterna piena d'acqua. Lì dentro, un individuo non sarebbe sopravvissuto neppure un minuto. Quella cisterna era il motivo per cui Johanson aveva mandato una dozzina di vermi all'Istituto di Kiel. Si trattava di un simulatore di abissi marini. Conteneva un mondo artificiale, con tanto di fondale marino, scarpata e zoccolo continentale. Bohrmann fece scivolare la porta d'acciaio alle sue spalle. «Ci sono persone che dubitano del senso e dello scopo di questa struttura», disse. «Il simulatore può dare solo un quadro approssimativo della realtà, ma è sempre meglio che dover uscire ogni volta in mare. Oggi come ieri, il problema della geologia marina rimane invariato: riusciamo a vedere soltanto una minuscola porzione della realtà. Perlomeno qui siamo in grado di a-
vanzare tesi di ordine generale, benché sia necessario farlo con estrema cautela. Per esempio, possiamo studiare meglio la dinamica degli idrati di metano in diverse condizioni.» «Lì dentro ci sono degli idrati di metano?» chiese Johanson. «Circa due quintali e mezzo», rispose Bohrmann. «Recentemente siamo riusciti a estrarne una parte. Ma preferiamo non fare troppa pubblicità alla cosa. Le industrie vorrebbero che mettessimo subito il simulatore al loro servizio. E a noi farebbero molto comodo i soldi dell'industria. Ma non al prezzo di mettere in discussione la nostra libertà di ricerca.» Johanson piegò la testa all'indietro e osservò la cisterna. Sopra di lui, sulla passerella circolare più alta, si era radunato un gruppo di scienziati. L'intera scena aveva un che d'irreale, come se fosse uscita da un film di James Bond degli anni '80. «Nella cisterna, si possono regolare pressione e temperatura», proseguì Bohrmann. «Al momento, corrispondono a una profondità marina di ottocento metri. Sul fondo è immagazzinato uno strato di idrati stabili spesso due metri, che in natura corrisponde a una quantità da venti a trenta volte superiore. Al di sotto dello strato, simuliamo il calore dell'interno della Terra e così abbiamo gas libero. Quindi un fondale marino completo in scala.» «Affascinante», disse Johanson. «Ma che cosa fate esattamente? Voglio dire, potete osservare lo sviluppo degli idrati, ma...» Cercava le parole adatte. Sahling gli venne in aiuto. «Che cosa facciamo qui, oltre a osservare?» «Sì.» «Attualmente stiamo cercando di mettere a punto le condizioni di un'era geologica di cinquantacinque milioni di anni fa. Più o meno tra Paleocene ed Eocene, sembra che sulla Terra ci sia stata una catastrofe climatica di grandi dimensioni. L'oceano si è letteralmente ribaltato. Il settanta per cento di tutti gli esseri viventi sul fondale marino è morto. Intere zone degli abissi si sono trasformate in luoghi inadatti alla vita. Invece sui continenti c'è stata una rivoluzione biologica. Nell'Artico sono comparsi i coccodrilli e i primati, e i moderni mammiferi sono migrati dalle latitudini subtropicali verso il Nordamerica. Una confusione straordinaria.» «Come fate a saperlo?» «Grazie ai carotaggi. Tutta la conoscenza sulla catastrofe climatica deriva da carotaggi a duemila metri di profondità sui fondali marini.» «I carotaggi spiegano quello che è successo?» chiese Johanson.
«C'entra il metano», rispose Bohrmann. «A quell'epoca, il metano si deve essere surriscaldato e la gran massa di idrati è diventata instabile. Le scarpate continentali sono scivolate e hanno liberato altro metano. Nel giro di qualche millennio, forse addirittura di secoli, si sono sprigionati nell'oceano e nell'atmosfera miliardi di tonnellate di gas. Un circolo vizioso. Il metano genera un effetto serra trenta volte superiore a quello dell'anidride carbonica. L'atmosfera si è riscaldata e, a sua volta, ha riscaldato ulteriormente gli oceani che hanno liberato altri idrati, e così via, all'infinito. La Terra era diventata un forno. L'innalzamento attuale della temperatura delle acque profonde, compreso tra i due e i quattro gradi, non è niente a confronto dell'innalzamento di quindici gradi avvenuto allora, ma non è da sottovalutare», concluse. «Per alcuni un disastro, per altri... un inizio di riscaldamento. Capisco. Nel prossimo capitolo della nostra breve conversazione inseriremo anche il declino dell'umanità, vero?» disse Johanson. «Non accadrà così presto. Ma effettivamente ci sono alcuni indizi, secondo i quali ci troviamo in una fase di delicata fluttuazione dell'equilibrio. Le riserve di idrati nell'oceano sono molto instabili. È questo il motivo per cui dedichiamo tanta attenzione ai vostri vermi.» «Che cosa c'entra un verme con le condizioni di stabilità degli idrati di metano?» domandò Johanson. «Di fatto nulla. Il verme del ghiaccio popola la superficie degli strati superiori del ghiaccio per molte centinaia di metri. Ne scioglie qualche centimetro e si accontenta dei batteri.» «Però questo verme ha le mascelle...» «Quel verme è una creatura senza senso. Guardi lei stesso.» Si avviarono verso un quadro di comando semicircolare alla fine del padiglione. A Johanson ricordava la centrale di comando di Victor, solo un po' più grande. La maggior parte delle due dozzine di monitor era accesa e mostrava riprese dall'interno della cisterna. «Osserviamo quello che succede con ventiquattro telecamere; inoltre ogni centimetro cubo è sottoposto continuamente a misurazioni», spiegò Bohrmann. «Le macchie bianche sui monitor della fila superiore sono idrati. Vede? Qui a sinistra c'è la zona in cui, ieri mattina, abbiamo messo i policheti.» Johanson socchiuse le palpebre. «Vedo solo ghiaccio», disse. «Osservi meglio.» Johanson studiò ogni particolare dell'immagine e improvvisamente si
accorse di due macchie scure. Le indicò. «Che cos'è? Un infossamento?» Sahling scambiò qualche parola col tecnico. L'immagine s'ingrandì, rendendo visibili i due vermi. «Le superfici sono bucate», disse Sahling. «Ecco il filmato accelerato.» Johanson vide i vermi che si muovevano, contraendosi sul ghiaccio. Ogni tanto annusavano qua e là, come per capire da dove venisse l'odore. Nella riproduzione accelerata, i loro movimenti erano strani e bizzarri. I ciuffi setolosi vibravano, come elettrizzati. «Stia attento ora!» esclamò Sahling. Uno dei vermi si era fermato. Sembrava percorso da onde pulsanti. Poi sparì nel ghiaccio. «Mio Dio, scava», mormorò Johanson. Il secondo animale era un po' distante e muoveva la testa come se seguisse il ritmo di qualche musica. D'un tratto estrasse fuori la proboscide con le mascelle chitinose. «Mangia il ghiaccio!» urlò Johanson, fissando il video. Ma, nello stesso istante, pensò: Di che ti meravigli? Vivono in simbiosi coi batteri che estraggono gli idrati di metano, e quindi hanno le mandibole per scavare. Tutto ciò lasciava spazio a una sola conclusione: i vermi volevano arrivare ai batteri che si trovano nel ghiaccio più profondo. Johanson continuò a fissare, come stregato, i corpi pelosi che si rivoltavano negli idrati. A velocità accelerata le parti posteriori del loro corpo vibravano. Poi, in modo improvviso, sparirono, lasciando solo le macchie scure dei buchi sul ghiaccio. Non c'è motivo di agitarsi, pensò allora. Anche altri vermi scavano. Alcuni trivellano le navi fino a distruggerle... Ma perché scavano gli idrati? «Dove sono gli animali?» chiese. Sahling guardò il monitor. «Sono morti.» «Morti?» «Crepati. Asfissiati. I vermi hanno bisogno di ossigeno.» «Lo so. È il senso di tutta la simbiosi. I batteri nutrono il verme ed esso, girando vorticosamente, procura l'ossigeno ai batteri. Ma cos'è successo qui?» «Qui è successo che hanno scavato fino alla morte. Hanno fatto dei buchi, divorando il ghiaccio come se fosse un'autentica leccornia, finché non sono finiti nella sacca di gas, dove sono soffocati», spiegò Sahling. «Kamikaze», mormorò Bohrmann. «In effetti sembra proprio un suicidio», annuì Johanson. Poi aggiunse: «Oppure sono stati ingannati da qualcosa».
«Possibile. Ma da che cosa? All'interno degli idrati non c'è nulla che possa giustificare un simile comportamento.» «Forse il gas che c'è la sotto?» ipotizzò Johanson, sfregandosi la fronte. «Ci abbiamo pensato anche noi. Tuttavia non spiega perché essi si suicidino.» Johanson rivide dentro di sé il brulichio sul fondale marino e il suo malessere crebbe. Se milioni di vermi si mettono a scavare nel ghiaccio, quali potrebbero essere le conseguenze? Bohrmann sembrò intuire i suoi pensieri. «Gli animali non possono destabilizzare il ghiaccio», disse. «In mare, lo strato di idrati è molto più spesso che qui. Questi animaletti impazziti scalfiscono solo la superficie e al massimo un decimo dello strato di ghiaccio. Poi inevitabilmente muoiono.» «E allora? Esaminerà altri vermi?» «Sì. Ne abbiamo ancora qualcuno. Forse sfrutteremo anche l'occasione per dare un'occhiata sul posto. Credo che la Statoli ci darà il benvenuto. Nelle prossime settimane, la Sonne deve andare in Groenlandia. Potremmo anticipare la partenza della spedizione e fare una visita al luogo in cui ha trovato i policheti.» Bohrmann sollevò le mani. «Ma questa decisione non spetta a me. Devono prenderla altri. Heiko e io abbiamo solo avuto l'idea.» Johanson guardò la gigantesca cisterna e pensò ai vermi morti al suo interno. Alla fine mormorò: «Sì, è una buona idea». Più tardi, Johanson andò al suo hotel per cambiarsi. Cercò di raggiungere telefonicamente Tina Lund, ma non ci riuscì. La immaginò tra le braccia di Kare Sverdrup e riagganciò. Bohrmann l'aveva invitato a cena in uno dei bistro più alla moda di Kiel. Si osservò nello specchio del bagno. Doveva spuntarsi la barba almeno di un paio di millimetri. Tutto il resto era a posto. La chioma - un tempo nera, ora striata di grigio - gli cadeva rigogliosa sulle spalle. Sotto le ciglia lunghe e nere lampeggiava lo sguardo di sempre. C'erano momenti in cui si compiaceva del proprio carisma. In altri - soprattutto di prima mattina non riusciva più a scorgerlo. Fino ad allora erano bastate un paio di tazze di tè e un minimo di cura per rimettersi in ordine. Non molto tempo prima, una studentessa l'aveva paragonato all'attore tedesco Maximilian Schell, e Johanson si era sentito lusingato, ma poi aveva scoperto che Schell aveva settant'anni. Quindi aveva cambiato crema idratante. Frugò nella valigia e scelse un pullover con la cerniera, si mise la giacca
e si avvolse una sciarpa attorno al collo. Non era vestito bene, ma a lui piaceva così. Coltivava la propria trascuratezza e gli piaceva infischiarsene della moda. Solo nei momenti di profonda sincerità era disposto ad ammettere che il suo aspetto trasandato costituiva anch'esso una moda, che lui seguiva in modo non dissimile da come facevano gli altri, pronti ad adottare ogni nuova tendenza. E, sempre in quelle rare occasioni, ammetteva pure che dedicava più tempo alla sua chioma in disordine di quanto non facesse la maggior parte dell'umanità per mantenere una pettinatura perfetta. Dopo aver sorriso alla propria immagine riflessa, uscì dalla stanza, lasciò l'hotel e prese un taxi per raggiungere il luogo dell'appuntamento. Bohrmann lo stava aspettando. Chiacchierarono a lungo del più e del meno, bevvero vino e mangiarono delle sogliole fantastiche. Dopo un po', tuttavia, la conversazione ritornò sugli abissi marini. Durante il dessert, come per caso, Bohrmann chiese: «Lei conosce i progetti della Statoil?» «Solo a grandi linee. Non sono un esperto di questioni petrolifere.» «Che cosa stano progettando? È difficile che vogliano costruire una piattaforma così al largo...» «Non è una piattaforma», lo corresse Johanson. Bohrmann sorseggiò il caffè, poi disse: «Mi scusi, non voglio costringerla a parlare. Non so quanto siano confidenziali queste informazioni, ma...» «Non c'è problema. Sono un noto chiacchierone. Se mi confidano qualcosa, non può essere un segreto.» Bohrmann rise. «Allora, cosa crede che vogliano costruire?» «Stanno pensando a una soluzione sottomarina. A una stazione completamente automatizzata.» «Qualcosa del tipo SUBSIS?» «Cos'è il SUBSIS?» chiese Johanson. «SUBSIS è l'acronimo di Subsea Separation and Injection System. Una stazione sottomarina. Ci lavorano da qualche anno sul giacimento di Trollfeld della fossa norvegese», spiegò Bohrmann. «Non ne avevo mai sentito parlare.» «Chieda al suo committente. Il SUBSIS è una stazione d'estrazione. Si trova a trecentocinquanta metri di profondità sul fondale oceanico, dove separa acqua e gas dal petrolio. Al momento, questo processo ha ancora luogo sulle piattaforme e l'acqua di produzione viene dispersa in mare.» «Ma certo!» esclamò Johanson, ricordando che Tina aveva fatto cenno a quella cosa. «L'acqua di produzione rende sterili i pesci, no?»
«Il SUBSIS potrebbe risolvere questo problema. L'acqua inquinata viene immediatamente compressa nei pozzi di trivellazione, così spinge verso l'alto il petrolio, che a sua volta viene separato dall'acqua che viene ricompressa nel pozzo e così via. Il petrolio e il gas arrivano alla costa tramite oleodotti. In sé, è una cosa davvero raffinata...» «Ma...» «Non so se c'è un ma. A quanto pare il SUBSIS può lavorare senza problemi fino a cinquecento metri di profondità. Il costruttore sostiene che non ci sarebbero problemi neppure a duemila metri e i colossi petroliferi sperano nei cinquemila.» «È realistico?» chiese Johanson. «A medio termine, sì. Tutto ciò che funziona su scala ridotta funziona anche su grande scala, ne sono convinto, e i benefici sono a portata di mano. Ben presto le stazioni automatizzate faranno sparire le piattaforme.» «Mi sembra però che lei non condivida l'euforia generale», osservò Johanson. Bohrmann si grattò la testa. Sembrava che non sapesse come replicare. «Quello che mi preoccupa non è la stazione sottomarina, ma la faciloneria con cui si procede.» «La stazione sarebbe telecomandata?» «Sì, completamente. E da terra.» «Ciò vuol dire che le riparazioni e la manutenzione sono fatte dai robot», osservò Johanson. Bohrmann annuì. «Capisco», disse Johanson. «La questione ha pro e contro. Quando ci si addentra in un territorio sconosciuto, ci sono sempre dei rischi. E nessun luogo è più sconosciuto delle profondità abissali. È giusto automatizzare gli strumenti anziché rischiare vite umane. Va bene mandare un robot per osservare gli avvenimenti e fare qualche esperimento. Ma qui la questione è completamente diversa. Come pensano di riuscire a riportare sotto controllo un incidente a cinquemila metri di profondità, col petrolio che esce dal pozzo ad altissima pressione? Il terreno non si conosce. Gli unici dati noti sono quelli delle misure. Nelle profondità abissali siamo ciechi. Con l'aiuto dei satelliti, di sonar speciali o con le onde sismiche, possiamo disegnare una carta morfologica del fondo oceanico, precisa fino al mezzo metro. Col BSR - il Bottom Simulating Reflection - possiamo investigare la presenza di giacimenti di gas e di petrolio, in modo che si possa dire: 'Qui puoi trivellare', oppure:
'Qui c'è il petrolio, là gli idrati, e laggiù bisogna fare attenzione...' Ma che cosa ci sia là sotto - che cosa ci sia davvero - non lo sappiamo.» «Quello che ho sempre detto», mormorò Johanson. «Non vediamo gli effetti delle nostre azioni», mormorò Bohrmann. «Se succede un casino, non possiamo semplicemente far finta di niente... Non mi fraintenda, non sono contro l'estrazione di materie prime. Ma sono contrario a ripetere gli errori. Quando c'è stato il boom petrolifero, nessuno si è preoccupato di come smaltire i rottami installati allegramente in mare. Si sono scaricate sostanze inquinanti e chimiche nel mare e nei fiumi col motto: 'Tanto li assorbiranno'. Sono stati sprofondati nell'oceano materiali radioattivi; sono state sfruttate le risorse e annientate forme di vita senza minimamente curarsi di quanto complesse siano le interdipendenze.» «Ma arriveremo alle stazioni automatizzate?» chiese Johanson. «Senza dubbio. Sono economiche, rendono accessibili i giacimenti cui non arriverebbero gli uomini. E prossimamente tutti si butteranno sul metano. Perché brucia inquinando meno di tutti gli altri combustibili. Giusto! Perché un passaggio dal petrolio e dal carbone al metano rallenterebbe l'effetto serra. Giusto anche questo. È tutto giusto, finché si rimane sul piano ideale. Ma alle industrie piace confondere il piano ideale con quello della realtà. Vogliono confonderli. Fra tutte le previsioni, si sceglierà sempre quella più ottimistica, in modo che si proceda più velocemente, anche se non si sa nulla dell'universo in cui mettono le mani.» «Ma come ci riusciranno? Come si fa a estrarre gli idrati se si distruggono lungo la strada per arrivare in superficie?» «Anche per questo entrano in gioco le stazioni automatizzate. Si sciolgono gli idrati a grande profondità, per esempio riscaldandoli; s'imprigiona in imbuti il gas liberato e lo si convoglia in superficie. Sembra fantastico, ma chi ci garantisce che lo scioglimento non provochi una reazione a catena e che non si ripeta una catastrofe come nel Paleocene?» «Crede davvero che sia possibile?» Bohrmann allargò le braccia. «Ogni attacco mosso senza riflettere è un'azione suicida. Ma ormai si è già cominciato. L'India, il Giappone e la Cina sono molto attivi.» Sorrise, sconsolato. «E neppure loro sanno che cosa c'è la sotto. Non sanno nulla.» «Vermi», mormorò Johanson, pensando alle riprese che Victor aveva fatto sul fondale oceanico. E alla sinistra creatura che era sparita così velocemente nell'oscurità. Vermi. Mostri. Metano. Catastrofe climatica.
Doveva assolutamente bere qualcosa. 11 aprile Vancouver Island e Clayoquot Sound, Canada Anawak era furioso. L'animale, dalla testa alla coda, misurava oltre dieci metri. Era una delle più grandi orche migratrici che avesse mai visto, un esemplare imponente. Nelle fauci semiaperte, luccicavano le tipiche file serrate di piccoli denti a forma di cono. Verosimilmente l'animale era già molto vecchio, tuttavia sembrava scoppiare di energia. Solo se si guardava con attenzione si notavano i punti in cui la pelle bianca e nera aveva perso splendore e appariva opaca e ricoperta di croste. Aveva un occhio chiuso e l'altro coperto. Sebbene quell'orca fosse gigantesca, ormai non era più pericolosa per i salmoni. Era distesa su un fianco nella sabbia umida. Era morta. Lui aveva riconosciuto subito l'orca: era indicata nel suo archivio con la sigla J-19, ma era stata soprannominata Gengis per la pinna dorsale ricurva come una sciabola. Girò intorno all'animale e, a breve distanza da esso, vide John Ford - il direttore del programma di ricerca sui mammiferi marini dell'acquario di Vancouver - che conversava con Sue Oliviera, la direttrice del laboratorio di Nanaimo, e un terzo uomo. Si trovavano sotto gli alberi nei pressi della spiaggia. Ford fece cenno ad Anawak di avvicinarsi e gli presentò lo sconosciuto: «Il dottor Ray Fenwick, del Canadian Department of Fisheries and Oceans». Fenwick era venuto per eseguire l'autopsia. Dopo aver saputo della morte di Gengis, Ford aveva consigliato, tanto per cambiare, di non fare gli esami a porte chiuse, ma direttamente sulla spiaggia. Voleva far vedere l'anatomia di un'orca al maggior numero possibile di giornalisti e di studenti. «Inoltre sulla spiaggia fa un altro effetto», aveva detto. «Non è così asettico e distante. Proprio sotto il naso abbiamo un'orca morta e il mare. È il suo spazio vitale, non il nostro. È quasi davanti alla porta di casa sua. Se facciamo qui l'autopsia, susciteremo più comprensione, più compassione, più sgomento. È un trucco, ma funzionerà.» Avevano discusso quell'eventualità in quattro: Ford, Fenwick, Anawak e Palm della stazione di ricerca marina sulla Strawberry Island, una minuscola isola nella baia di Tofino. Da quella postazione, la squadra della Strawberry Island monitorava l'ecosistema del Clayoquot Sound. Palm era
un'autorità per quanto riguardava la popolazione delle orche. Si erano subito trovati d'accordo nel condurre l'autopsia in pubblico perché avrebbe attirato l'attenzione. E le orche avevano davvero bisogno di attenzione. «Dall'aspetto, si direbbe morta per un'infezione batteriologica», osservò Fenwick, rispondendo a una domanda di Anawak. «Ma non mi azzarderei a dire altro.» «Già», disse Anawak cupo. «Ricordate cosa successe nel 1999? Sette orche morte. E tutte infettate.» «The torture never stops...» Sue Oliviera canticchiò il verso di una canzone di Frank Zappa, poi guardò Anawak e, con aria da cospiratrice, gli fece un cenno del capo. «Vieni un po' con me.» Anawak la seguì fino al cadavere dell'orca. Lì accanto erano già pronte due valigie di metallo e un container con le attrezzature per l'autopsia. Aprire un'orca era ovviamente ben diverso dal praticare un'autopsia su un essere umano. Era un lavoro durissimo, che comportava una grande fuoriuscita di sangue e una puzza bestiale. «Tra poco arriverà la stampa con al rimorchio un'orda di dottorandi e di studenti», disse Sue, gettando un'occhiata all'orologio. «Visto che il destino ci ha fatti incontrare in questo luogo di lutto, possiamo cogliere l'occasione per parlare delle analisi dei tuoi campioni.» «Avete scoperto qualcosa?» chiese Anawak. «Più o meno.» «E avete già informato la Inglewood.» «No, ho pensato che prima fosse meglio parlarne tra noi.» «Il modo in cui lo dici mi fa pensare che non siano buone notizie.» «Mettiamola così: da una parte siamo meravigliati, dall'altra siamo perplessi», borbottò Sue. «Per quanto riguarda i mitili, non esiste letteratura che li descriva.» «Avrei potuto giurare che erano cozze zebrate», disse lui. «In un certo senso sì. Ma anche no.» «Spiegati.» «Ci sono due possibili interpretazioni», cominciò Sue. «O abbiamo a che fare con un parente della cozza zebrata, oppure con una mutazione. Quelle... cose sembrano cozze zebrate, hanno le stesse stratificazioni, ma nel loro bisso c'è qualcosa di bizzarro. I filamenti che formano il piede sono particolarmente spessi e lunghi. Per scherzo tra noi le abbiamo chiamate 'cozze a reazione'.» «Come?»
Sue fece una smorfia. «Non ci è venuto in mente niente di meglio. Ne abbiamo molte vive e dispongono... Insomma, non si comportano come di solito fanno le cozze zebrate, ma, entro certi limiti, possiedono una capacità di navigazione. Aspirano l'acqua e poi la sputano fuori. Il colpo le spinge in avanti. Inoltre utilizzano i filamenti di bisso per stabilire la direzione. Come piccole eliche. Non ti ricorda qualcosa?» «Le seppie per nuotare usano una spinta simile a quella dei razzi», esclamò Anawak. «Alcune. Ma c'è anche un altro parallelo. Ci possono arrivare solo i cervelloni, ma per fortuna di quelli in laboratorio ne abbiamo a sufficienza. Parlo dei dinoflagellati. Alcuni di questi organismi unicellulari hanno due flagelli alla fine del corpo. Con uno determinano la direzione; l'altro lo fanno ruotare per spostarsi in avanti», spiegò Sue. «Non ci stiamo spingendo un po' troppo in là?» «Diciamo che si potrebbe intravedere una convergenza. Ci si attacca a tutto. Comunque non conosco altri mitili che si muovano nello stesso modo. Questi sono mobili come un banco di pesci. E, nonostante la conchiglia, riescono in qualche modo a spingersi.» «Ciò spiegherebbe come abbiano potuto raggiungere la carena della Barrier Queen in alto mare», rimuginò Anawak. «Ed è questo che vi meraviglia?» «Sì.» «E cos'è che vi lascia perplessi?» chiese lui. Sue si avvicinò al fianco dell'orca morta e accarezzò la pelle nera. «Quei frammenti di tessuto che hai preso sott'acqua. Non sappiamo da che parte incominciare... Per essere precisi, non possiamo nemmeno incominciare. La sostanza si è decomposta. Quel poco che abbiamo potuto analizzare ci porta alla conclusione che la sostanza appesa allo scafo e quella sul tuo coltello sono la stessa cosa. E questo è tutto, perché non siamo in grado di ricondurla a nulla di conosciuto.» «Quindi la cosa che ho scacciato dallo scafo a colpi di coltello era E.T.?» «La capacità di contrazione del tessuto è del tutto sproporzionata. Di grande consistenza e nel contempo enormemente flessibile. Non sappiamo cosa sia.» Anawak aggrottò la fronte. «Segni di bioluminescenza?» «Possibile. Come mai lo chiedi?» «Perché ho avuto l'impressione che quella cosa per un attimo abbia lam-
peggiato.» «Quella cosa che ti ha steso, vuoi dire?» «Sì, è balzata fuori non appena ho smosso il rivestimento.» «Probabilmente l'hai tagliata e lei non l'ha trovato particolarmente divertente. Anche se dubito che questo tessuto possieda qualcosa di simile a un sistema nervoso, qualcosa che le faccia provare dolore. In sostanza è solo... un ammasso di cellule.» Un gruppo di persone stava attraversando la spiaggia, diretto verso di loro. Alcuni reggevano una telecamera, altri avevano bloc-notes. «Si comincia», disse Anawak. «Sì.» Sue li guardò, perplessa. «Che facciamo, ora? Devo mandare i dati alla Inglewood? Temo che non sappiano cosa farsene. Detto chiaramente, vorrei avere altri campioni. In particolare di quel tessuto.» «Mi metto in contatto con Roberts», propose Anawak. «Bene. Buttiamoci nella mischia.» Fenwick e Ford si mossero, preparandosi ad agire. Anawak osservò l'orca e si sentì travolgere dalla rabbia e dalla disperazione. Era davvero deprimente. Gli animali erano stati lontani per settimane e adesso ce n'era uno morto sulla spiaggia. «Merda!» Sue aggrottò la fronte e borbottò: «Risparmiati il malumore per la stampa». L'autopsia durò oltre un'ora, durante la quale Fenwick, assistito da Ford, estrasse le viscere, il cuore, il fegato e i polmoni, spiegando contemporaneamente la struttura anatomica dell'orca. Venne tirato fuori il contenuto dello stomaco: una foca semidigerita. A differenza delle stanziali, le orche transienti e quelle offshore mangiavano leoni marini, focene e delfini e talvolta attaccavano anche i grandi misticeti. Fra gli spettatori, i giornalisti scientifici erano la minoranza. La maggior parte era costituita da reporter televisivi o della carta stampata. In sostanza, dunque, erano pressoché digiuni di nozioni scientifiche. Così Fenwick illustrò anzitutto le caratteristiche specifiche della struttura del corpo. «La forma è quella di un pesce, ma solo perché la natura ha dotato di questa struttura genetica un essere che si trasferisce dalla terra all'acqua. Una cosa del genere accade spesso: la chiamiamo convergenza. Specie completamente diverse, quando incontrano determinate esigenze ambientali, si sviluppano in modo convergente, quindi negli effetti con strutture simili.» Allontanò una parte della spessa pelle esterna e fece uscire il grasso.
«Ancora una differenza: pesci, anfibi e rettili sono a temperatura variabile, cioè a sangue freddo; ciò significa che la loro temperatura corporea corrisponde alla temperatura dell'ambiente circostante. I merluzzi, per esempio, ci sono sia a capo Nord sia nel Mediterraneo, solo che a capo Nord abbiamo misurato una temperatura corporea di 4 °C, mentre i merluzzi del Mediterraneo hanno una temperatura di 24 °C. Per i cetacei non è così. Sono a sangue caldo. A sangue caldo come noi.» Anawak osservò i presenti. Fenwick aveva appena detto una cosa da niente, che però funzionava sempre: «come noi». A quelle parole, la gente drizzava le orecchie. I cetacei sono come noi. Rieccola, la stretta linea di confine all'interno della quale gli uomini cominciano a dare valore alla vita. «Che si trattengano nell'Artico o nella Bassa California, i cetacei hanno sempre una temperatura costante di 37 °C», proseguì Fenwick. «Per questo formano uno strato di grasso che noi chiamiamo 'blubber'. Vedete questa massa grassa bianca? L'acqua assorbe il calore, ma questo strato impedisce che il calore corporeo vada disperso». Si guardò intorno. Le sue mani inguantate erano rosse e vischiose per il sangue e il grasso dell'orca. «Ma nel contempo il blubber può essere una condanna a morte per i cetacei. I problemi di tutti i mammiferi marini che s'incagliano sono due: il peso del corpo e questo straordinario strato di grasso. Una balenottera azzurra lunga trentatré metri e pesante centotrenta tonnellate è quattro volte più pesante del più grande sauro che sia mai comparso sulla faccia della Terra, ma anche un'orca arriva a nove tonnellate. Solo in acqua, grazie alla legge di Archimede - secondo cui ogni corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l'alto pari al peso del volume di liquido spostato - possono esistere esseri di queste dimensioni. A terra, le balene sono schiacciate dal loro stesso peso, e l'effetto isolante del grasso fa il resto, perché non possono rilasciare il calore che ricevono dall'ambiente. Molti dei cetacei incagliati muoiono per shock da surriscaldamento.» «Anche questa?» chiese un giornalista. «No. Negli ultimi anni, di tanto in tanto, ci sono capitati animali il cui sistema immunitario non funzionava più. Morivano per infezione. J-19 aveva ventidue anni. Non era un animale giovane, però, in media, le orche vivono trent'anni. Quindi si tratta di una morte prematura e non si vedono segni di lotta. Credo sia stata un'infezione batteriologica.» Anawak fece un passo avanti. «Se volete sapere a che cosa è dovuta, possiamo spiegarvelo», disse, sforzandosi di mantenere un tono oggettivo.
«Gli esami tossicologici dimostrano che le orche, passando davanti alla British Columbia, si contaminano con PCB e altri veleni dispersi nell'ambiente. Quest'anno abbiamo trovato nel tessuto grasso delle orche centocinquanta milligrammi di PCB. Nessun sistema immunitario umano avrebbe la minima possibilità di resistere.» I giornalisti si girarono verso di lui. Nei loro occhi, Anawak vide un insieme di sgomento e concitazione. Aveva appena dato loro una storia di cui scrivere. Sapeva di avere il gruppo in pugno. «Il problema peggiore è che questi veleni si accumulano nel grasso», proseguì. «Ciò significa che vengono trasferiti al cucciolo col latte materno. Ci dicono che i bambini vengono al mondo con l'AIDS e noi inorridiamo. Allora, vi prego, estendete un po' il vostro orrore e comunicate anche quello che avete visto qui. Nessuna specie al mondo è più avvelenata delle orche.» «Dottor Anawak...» Un giornalista si schiarì la voce. «Che cosa succede se gli uomini mangiano la carne di questi cetacei?» «Assumono una parte dei veleni.» «Con conseguenze mortali?» «Sul lungo periodo è probabile.» «Esiste una responsabilità, anche indiretta, delle imprese che scaricano i veleni in mare o delle industrie del legno nella malattia e nella morte di molti uomini?» Ford gli gettò una rapida occhiata. Anawak esitò. Era un punto delicato. Naturalmente quell'ipotesi era fondata, ma l'acquario di Vancouver cercava di evitare ogni scontro diretto con le industrie della zona, e si sforzava di percorrere le vie diplomatiche. Dipingere l'élite politica ed economica della British Columbia come una potenziale banda di assassini avrebbe inasprito il confronto. E Anawak non voleva mettere i bastoni tra le ruote a Ford. «Mangiare carne contaminata inevitabilmente danneggia la salute umana», rispose. «Ma la carne viene consapevolmente contaminata dalle industrie», lo incalzò il giornalista. «Proprio in merito a questo stiamo cercando soluzioni. In collaborazione coi responsabili.» «Capisco.» Il giornalista annotò qualcosa. «Penso specialmente alle persone della sua terra, dottor...» «La mia terra è questa», lo interruppe Anawak.
Il giornalista lo guardò, sbalordito. Come avrebbe potuto capire? Probabilmente aveva fatto ricerche accurate. «Non volevo dire questo», affermò. «Intendevo le sue origini...» «Non è che nella British Columbia si mangi molta carne di balena o di foca», lo interruppe di nuovo Anawak. «Invece ci sono pesanti avvelenamenti tra gli abitanti del Circolo Polare. In Groenlandia e Islanda, in Alaska e ancora più a nord, nel Nunavut, e naturalmente anche in Siberia, in Kamčatka, nelle Aleutine e ovunque i mammiferi marini siano l'alimento quotidiano. Il problema non è tanto dove gli animali si avvelenano. Il problema è che migrano.» «Crede che le balene siano consapevoli dell'avvelenamento?» chiese una studentessa. «No.» «Ma lei nelle sue pubblicazioni parla di una certa intelligenza. Se gli animali dovessero capire che nel loro cibo c'è qualcosa che non va...» «Gli uomini fumano finché non muoiono di cancro ai polmoni. Sono perfettamente consapevoli dell'avvelenamento, eppure continuano a fumare e gli uomini sono indubbiamente più intelligenti delle balene.» «Come fa a esserne così sicuro? Magari è esattamente il contrario.» Anawak sospirò. «Dobbiamo vedere i cetacei come cetacei», replicò, sforzandosi di mantenere un tono pacato. «Sono molto specializzati, ma è proprio questa specializzazione che li limita. Un'orca è un siluro vivente con una linea perfettamente idrodinamica, però le mancano gambe e mani prensili, non ha mimica e non ha la vista bipolare. Lo stesso vale per i delfini, le focene e per ogni specie di odontoceti o misticeti. Non sono piccoli semiumani. Forse le orche sono più intelligenti dei cani, i beluga sono così intelligenti da essere consapevoli della propria individualità e i delfini possiedono senza dubbio un cervello singolare. Ma, per favore, si chieda, in fin dei conti, a che cosa li ha portati. I pesci abitano lo stesso spazio vitale di delfini e balene, il loro stile di vita è per molti aspetti simile, eppure hanno una quantità di neuroni che riempirebbe un quarto di ditale». Anawak fu quasi felice di sentire la suoneria attutita del suo cellulare. Fece un cenno a Fenwick perché continuasse l'autopsia, si allontanò un poco e rispose. «Ah, Leon», disse Shoemaker. «Puoi schiodarti da dove sei adesso?» «Forse. Cos'è successo?» «È di nuovo qui.»
La rabbia di Anawak era incontenibile. L'ultima volta che era ritornato precipitosamente a Vancouver Island, Jack Greywolf e i suoi compagni della Seaguard si erano già allontanati, lasciando dietro di loro due imbarcazioni cariche di turisti infuriati, che strillavano per essere stati fotografati e osservati come bestie. Shoemaker li aveva calmati a stento, offrendo a tutti una seconda escursione gratuita. Poi le acque si erano calmate. Tuttavia Greywolf aveva ottenuto ciò che voleva. Aveva creato scompiglio. Alla Davies stavano valutando le varie possibilità. Dovevano procedere contro gli ambientalisti o ignorarli? Seguire le vie ufficiali significava andare in tribunale. Per le organizzazioni serie, la gente come Greywolf era una spina nel fianco, ma un processo avrebbe offerto a un'opinione pubblica disinformata un quadro distorto. Senza dubbio, molti sarebbero stati disposti a simpatizzare con Greywolf e coi suoi slogan. In via non ufficiale, invece, avrebbero potuto impelagarsi in un'approfondita discussione. Ma a che cosa conducessero le discussioni con Greywolf era dimostrato dalle sue varie condanne. Dipendeva da loro se lasciarsi intimidire o no. Oltretutto non sarebbe stato molto utile. Avevano molto lavoro e forse Greywolf avrebbe smesso di seccarli. Così avevano deciso d'ignorarlo. Forse era stato un errore, pensava Anawak, mentre guidava il piccolo gommone a motore lungo la costa del Clayoquot Sound. Probabilmente la smania di mettersi in mostra di Greywolf sarebbe stata soddisfatta se gli avessero almeno scritto una lettera per esprimergli il loro biasimo. Qualcosa che gli segnalasse che era tenuto in considerazione. Anawak esaminava con attenzione la superficie dell'acqua. L'imbarcazione andava veloce e lui non voleva rischiare di spaventare le balene o addirittura di ferirle. Più volte, in lontananza, scorse le imponenti code; a un certo punto, poi, non distante da lui, spuntò tra le onde una pinna dorsale nera e splendente. Nel frattempo, lui parlava via radio con Susan Stringer, che si trovava sul Blue Shark. «Che cosa fanno quei tipi?» chiese. «Stanno diventando violenti?» La radio gracchiò. «No», disse la voce di Susan. «Fanno fotografie, come l'ultima volta, e c'insultano.» «Quanti sono?» «Due barche: sulla prima ci sono quattro persone, tra cui Greywolf; sulla seconda ce ne sono tre. Cielo! Adesso si sono messi a cantare.» Tra i fruscii della radio, arrivò debolmente un rumore ritmato. «Suonano il tamburo», gridò Susan. «Greywolf picchia sul tamburo e gli altri cantano. Can-
zoni indiane! Non capisco nulla.» «Restate calmi, capito? Non cedete alle provocazioni. Tra pochi minuti sarò lì.» «Scusa, Leon, ma... Che razza d'indiano è, quel bastardo? Non so che cosa stia facendo, però, se chiama gli spiriti dei suoi antenati, voglio almeno sapere che cosa comparirà.» «Jack è un millantatore», disse Anawak. «Non è un indiano.» «No? Pensavo...» «Sua madre è una mezza indiana. Tutto lì. Vuoi sapere qual è il suo vero nome? O'Bannon, Jack O'Bannon. Altro che Greywolf.» Ci fu una pausa, mentre Anawak si avvicinava alle barche a tutta velocità. Adesso il rumore dei tamburi arrivava fino a lui. «Jack O'Bannon», ridacchiò Susan. «È fantastico. Penso che gli dirò subito...» «Non farai proprio nulla. Mi vedi?» «Sì.» «Non fare nulla. Aspetta e basta», le ordinò Anawak. Poi mise via la radio e fece un'ampia curva, che lo portò verso il mare aperto. Ormai vedeva chiaramente la scena. Il Blue Shark e la Lady Wexham si trovavano in mezzo a due gruppi di megattere molto distanziati tra loro. Qua e là si scorgevano code e nuvole di vapore. Lo scafo bianco della Lady Wexham, lungo ventidue metri, splendeva nella luce del sole. Due piccole e malridotte imbarcazioni da pesca sportiva, entrambe dipinte di rosso vivo, giravano intorno al Blue Shark; erano così vicine che sembravano pronte all'arrembaggio. Il battito del tamburo si fece più forte e si confuse con un canto monotono. Se Greywolf si era accorto dell'avvicinamento di Anawak, non lo dava a vedere. Stava in piedi sulla sua barca, batteva un tamburo indiano e cantava. Il suo seguito - due uomini e una donna - cantava con lui e, di tanto in tanto, lanciava imprecazioni e maledizioni. Ma non era tutto: i membri del gruppetto fotografavano le persone sul Blue Shark oppure tiravano loro qualcosa di luccicante. Anawak socchiuse gli occhi. Erano pesci. No, resti di pesce. Alcuni passeggeri si rannicchiavano, altri li tiravano indietro. Quasi cedette all'impulso di andare addosso alla barca di Greywolf, per vedere come quel colosso se la sarebbe cavata in mare, ma si dominò. Si avvicinò alla barca e gridò: «Smettila, Jack! Parliamo». Greywolf non si voltò neppure, continuando instancabilmente a suonare il tamburo. Anawak guardò i volti nervosi e stressati dei turisti. Poi dalla
radio giunse una voce: «Ciao, Leon, che piacere vederti!» Era lo skipper della Lady Wexham, che si trovava a un centinaio di metri di distanza. Le persone sul ponte stavano appoggiate al parapetto e guardavano l'altra imbarcazione assediata. Alcuni scattavano foto. «Tutto bene, da voi?» s'informò Anawak. «Tutto bene. Che facciamo con quello stronzo?» «Non lo so ancora. Magari tento un approccio pacifico.» «Fammi sapere se devo buttarlo in mare.» «Prenderò in considerazione la proposta.» Le barche rosse a motore degli ambientalisti avevano intanto iniziato a urtare il Blue Shark. Ogni volta che la sua barca cozzava contro lo scafo, Greywolf vacillava, però non smetteva di suonare il tamburo. Le piume sul suo capo ondeggiavano al vento. Dietro le barche si levò una coda e poi un'altra, ma nessuno si curava delle balene. Susan Stringer guardava Greywolf con ostilità. «Ehi, Leon, Leon!» Una passeggera del Blue Shark si mise a gesticolare verso Anawak. Era Alicia Delaware. Lui la riconobbe per via degli occhiali blu. «Chi sono quelli? Perché sono qui?» Anawak rimase stupito. Ma quella ragazza non gli aveva detto e ripetuto che era in procinto di partire? Mah, comunque, al momento non aveva importanza. Accostò la barca a quella di Greywolf, si mise di traverso e batté le mani. «Okay, Jack. Grazie. Avete suonato bene. Ora dimmi che cosa vuoi.» Greywolf cantò a voce ancora più alta. Un monotono alzarsi e abbassarsi di sillabe dal suono arcaico, lamentose e nel contempo aggressive. «Jack, maledizione!» Improvvisamente scese il silenzio. Il colosso lasciò penzolare il tamburo e si girò verso Anawak. «Posso esserle utile?» «Di' ai tuoi di smetterla, così possiamo parlare. Parleremo di tutto, però adesso smettetela.» I lineamenti di Greywolf s'indurirono. «Non la smetteremo», gridò. «Cos'è questa sceneggiata? Dove vuoi arrivare?» «Volevo spiegartelo all'acquario, ma tu eri troppo occupato per starmi a sentire.» «Sì, non avevo tempo.» «E ora non ho tempo io.» I compagni di Greywolf risero ed esultarono. Anawak cercò di contenere la rabbia. «Ti faccio una proposta, Jack. Tu
la pianti con questa storia e noi ci troviamo stasera alla Davies in modo che tu possa spiegarci che cosa, secondo te, dovremmo fare.» «Dovete sparire. Ecco cosa dovete fare.» «Perché? Che facciamo di male?» Nelle immediate vicinanze si levarono due isole scure, rugose e macchiate come roccia. Balene grigie. Molto vicine. Sarebbero stati splendidi soggetti fotografici, ma Greywolf aveva rovinato l'escursione. «Andatevene», gridò Greywolf. Guardò i passeggeri del Blue Shark e alzò le braccia. «Andatevene e non disturbate la natura. Vivete in sintonia con lei, invece di osservarla in questo modo. Le vostre navi a motore appestano l'aria e l'acqua. Ferite gli animali con le vostre eliche. Li braccate per una foto. Li uccidete col rumore. Questo è il mondo delle balene. Andatevene. Non è posto per gli uomini.» Che tirata, pensò Anawak, chiedendosi se Greywolf credesse davvero a quello che diceva. I suoi compagni lo applaudirono, entusiasti. «Jack! Posso ricordarti che lo stiamo facendo per proteggere le balene? Noi facciamo ricerca! Il whale watching ha fornito alla gente un nuovo punto di vista su questi animali. Se intralci il nostro lavoro, danneggi gli interessi della natura.» «E tu sai quali sono gli interessi di una balena?» chiese Greywolf in tono di scherno. «Sei capace di guardare nelle loro teste, signor ricercatore?» «Jack, lascia perdere queste stronzate indiane. Che cosa vuoi?» Greywolf rimase per un attimo in silenzio. I suoi compagni avevano smesso di scagliare i pezzi di pesce addosso agli occupanti del Blue Shark e lo guardavano. «Vogliamo raggiungere l'opinione pubblica», rispose infine. «Ma dove sarebbe l'opinione pubblica? Qui non la vedo», replicò Anawak, con un ampio movimento del braccio. «Vedo soltanto qualche persona su una barca. Per favore, Jack, parliamo, se vuoi, ma lascia a noi il compito di raggiungere l'opinione pubblica. Confrontiamoci. Tuttavia chi perde deve darsi per vinto.» «Ridicolo», disse Greywolf. «Così parla l'uomo bianco.» «Merda!» Anawak perse la pazienza. «Io sono meno 'uomo bianco' di te, Mister O'Bannon. Torna coi piedi per terra!» Greywolf lo fissò come se avesse appena incassato un pugno. Poi sul suo volto si aprì un sorriso. Indicò la Lady Wexham. «Secondo te, perché la gente sulle vostre barche sta fotografando e filmando con tanta solerzia?»
«Riprendono te e i tuoi stupidi trucchetti.» «Bene.» Il sorriso di Greywolf si allargò. «Molto bene.» Di colpo, Anawak comprese. Tra i passeggeri della Lady Wexham c'erano dei giornalisti. Greywolf li aveva invitati a partecipare allo spettacolo. Maledetto bastardo! Stava per fare un commento tagliente, quando si accorse che Greywolf fissava la Lady Wexham e la indicava col braccio teso. Allora seguì il suo sguardo e rimase senza fiato. Proprio davanti alla nave, una megattera si era catapultata fuori dall'acqua. Per sollevare così in alto quel corpo massiccio era necessaria una spinta mostruosa. Per un momento sembrò quasi che l'animale si sostenesse esclusivamente sulla coda. Solo la punta della pinna caudale era ancora sott'acqua; il resto del corpo era dritto in aria e sovrastava il ponte della Lady Wexham. Si vedevano chiaramente i lunghi solchi sulla mascella e sulla parte inferiore del ventre. Le enormi pinne laterali erano aperte e parevano ali di un bianco vivo, con marezzature nere e bordi nodulosi. Sembrava che l'animale volesse uscire del tutto dall'acqua. Un coro di stupore generale si levò dalla Lady Wexham. Poi il corpo imponente si rovesciò lentamente su un fianco e colpì la superficie dell'acqua creando un'esplosione di spuma. Le persone in coperta si ritrassero e la Lady Wexham sembrò rivestirsi di una cappa di schiuma. Quindi apparve qualcosa di scuro e di massiccio. Una seconda megattera uscì dagli abissi, come se qualcosa l'avesse sparata fuori. Era molto vicina alla nave, circondata da una nuvola di lucenti goccioline d'acqua. Ancor prima che dalle barche si levassero grida di terrore, Anawak seppe che quel balzo non avrebbe mancato il bersaglio. La megattera colpì con tanta violenza la Lady Wexham che l'imbarcazione oscillò paurosamente, cigolando e gemendo. Poi l'animale s'immerse e le persone in coperta caddero bocconi. Intorno alla nave, l'acqua schiumava e vorticava. D'un tratto, molti dorsi scuri si avvicinarono e due teste balzarono di nuovo fuori dall'acqua, gettandosi con tutto il loro peso contro lo scafo. «Questa è la vendetta», gridò Greywolf, come invasato. «La vendetta della natura!» La Lady Wexham era lunga ventidue metri, quindi molto più lunga di una megattera. Era stata autorizzata dal ministero dei Trasporti e rispondeva alle norme di sicurezza della guardia costiera canadese per le navi pas-
seggeri: era sicura in caso di tempesta, di frangenti alti diversi metri e persino di scontro fortuito con una balena che fosse pigramente uscita dall'acqua. La Lady Wexham era stata concepita per essere sicura anche in quel caso. Ma non per un attacco. Anawak sentì che i motori erano stati azionati. Sotto la violenza dei corpi in caduta, la nave si era minacciosamente inclinata di lato. Su entrambi i ponti di osservazione regnava un panico indescrivibile. Tutti i vetri erano andati in frantumi. Si levavano grida ovunque, le persone s'intralciavano a vicenda senza rendersene conto. La Lady Wexham si mise in movimento, ma non andò molto lontano. Un altro cetaceo si catapultò fuori dall'acqua e si scagliò contro la parete laterale del ponte. Neanche quell'attacco sarebbe stato sufficiente per affondare la nave, però la fece oscillare ancora di più. I pensieri di Anawak correvano all'impazzata. Probabilmente lo scafo si era già squarciato in alcuni punti. Doveva fare qualcosa. Forse poteva allontanare gli animali. Portò la mano sulla leva del gas. Nello stesso istante, grida altissime squarciarono l'aria. Non arrivavano dalla Lady Wexham, bensì da un punto alle sue spalle. Si voltò di scatto. La scena aveva qualcosa di surreale. Proprio sopra la barca degli animalisti si levava il gigantesco corpo di una megattera. Sembrava quasi non avere peso: un essere di monumentale bellezza, con la bocca incrostata, tesa verso le nuvole, che se ne stava lì, a dieci-dodici metri sopra le teste degli uomini. Per un attimo che sembrò eterno, l'animale rimase sospeso, girandosi lentamente su se stesso e muovendo le gigantesche pinne, come se facesse dei cenni. Anawak scrutò quel gigante. Non aveva mai visto nulla di così terribile e magnifico al contempo. Jack Greywolf, gli uomini sul Blue Shark, lui stesso... Tutti tenevano la testa sollevata, con gli occhi sbarrati, aspettando di capire cosa sarebbe successo. «Mio Dio», sussurrò Anawak. Il corpo della megattera si abbassò, come al rallentatore, e la sua ombra si allungò sulla barca rossa degli ambientalisti. Cresceva sopra la prua del Blue Shark, diventando sempre più lunga. Infine il corpo del gigante ricadde. Veloce, sempre più veloce... Anawak diede gas e lo zodiac balzò in avanti. Anche la barca di Greywolf aveva fatto una partenza lampo, ma la sua direzione era sbagliata ed essa sbandò verso Anawak. Si scontrarono. Anawak fu sbalzato all'indie-
tro, ma riuscì a vedere che un compagno di Greywolf era caduto in mare e che lo stesso Greywolf aveva perso l'equilibrio. Poi la barca degli attivisti proseguì veloce nella direzione opposta, mentre il suo gommone si diresse a tutto gas verso il Blue Shark. In un'esplosione di schiuma, le nove tonnellate del corpo della megattera schiacciarono sotto di sé la barca rossa, la spinsero sott'acqua e colpirono la prua del Blue Shark, la cui poppa si sollevò quasi in verticale. Gli escursionisti, nelle loro tute color arancione, vorticavano nell'aria. Per un attimo il Blue Shark si bilanciò sulla punta, girò sul proprio asse e si rovesciò su un fianco. Anawak abbassò la testa e il suo gommone passò rapido sotto lo zodiac che si stava ribaltando, urtò qualcosa di massiccio al di sotto della superficie dell'acqua e lo scavalcò. A fatica, Anawak riuscì a riprendere il timone, sterzò bruscamente e rallentò. Quella davanti ai suoi occhi era una scena incredibile. Della barca degli ambientalisti erano rimasti solo relitti. Il Blue Shark si era capovolto e, tra le onde, alcune persone nuotavano, gridando selvaggiamente, mentre altre rimanevano immobili. Le loro tute si erano gonfiate automaticamente, ma Anawak temeva che qualcuno fosse morto, schiacciato dal peso dell'animale. Un po' più in là, vide la Lady Wexham rimettersi in movimento sbandando, circondata da dorsi e code. Un colpo improvviso scosse la nave che s'inclinò ancora di più. Con cautela, per non ferire nessuno, Anawak guidò il gommone verso la gente in mare. Intanto, sulla frequenza 98, comunicò la propria posizione. «Problemi», disse poi, ansimando. «Probabilmente dei morti.» Tutte le imbarcazioni avrebbero ricevuto la richiesta d'aiuto. Non aveva tempo per spiegare cos'era successo. A bordo del Blue Shark c'era una dozzina di passeggeri, oltre a Susan Stringer e al suo assistente. Poi c'erano gli ambientalisti. In tutto una ventina di persone, ma in acqua se ne vedevano di meno. «Leon!» Era Susan! Stava nuotando verso di lui. Anawak le afferrò le mani e la tirò a bordo. Tossendo e ansimando, lei si lasciò cadere sul fondo del gommone. A una certa distanza, Anawak scorse le pinne dorsali di diverse orche, che, sollevando le teste nere, sembravano dirette verso il luogo del disastro. Si muovevano come se fossero consapevoli della loro meta e questo ad Anawak non piaceva affatto. Poi individuò Alicia, che reggeva fuori dall'acqua la testa di un giovane
la cui tuta non si era gonfiata. Anawak avvicinò la barca alla studentessa e, aiutato da Susan, issò a bordo il giovane svenuto. Alicia strinse le mani di Anawak, ma rimase aggrappata al gommone e aiutò Susan a portare a bordo altre persone. Alcuni si avvicinavano con le proprie forze, allungavano le braccia e le due donne li aiutavano a salire. La barca si riempì in fretta; i superstiti si aggrappavano a essa con frenesia. Intanto Anawak continuava a perlustrare la superficie dell'acqua. «Là ce n'è un altro!» gridò Susan. Poco lontano galleggiava un corpo. Era a faccia in giù, ma, a giudicare dalle spalle larghe, si trattava di un uomo. Non aveva la tuta. Uno degli ambientalisti. «Presto!» Anawak si sporse oltre il parapetto, con Susan accanto. Presero l'uomo per le braccia e lo sollevarono. Fu facile. Troppo facile. La testa dell'uomo cadde all'indietro, rivelando gli occhi ormai spenti. Anawak comprese perché era così leggero: era troncato alla vita. Gli mancavano le gambe e il bacino. Dal torso pendevano strisce di carne, arterie e viscere. Susan annaspò e lo lasciò andare. Il cadavere si rovesciò, sfuggi alla presa di Anawak e ricadde in acqua. A destra e a sinistra, le pinne delle orche solcavano l'acqua. Erano almeno dieci, forse di più. Un colpo scosse lo zodiac. Anawak balzò al timone, diede gas e partì. Davanti a loro, tre dorsi imponenti uscirono dalle onde e s'inarcarono, Anawak virò di colpo. Le tre orche emersero. Altre due arrivavano dalla parte opposta, dirigendosi verso l'imbarcazione. Anawak fece un'altra virata. Sentiva gridare e piangere. Anche lui era preso da un terrore che lo attraversava come una corrente elettrica e gli faceva venire la nausea... Eppure una parte di lui guidava imperterrita lo zodiac, in uno slalom tra i corpi bianchi e neri che cercavano di sbarrargli la strada. Da destra sentì qualcosa fracassarsi rumorosamente. D'istinto voltò il capo e vide la Lady Wexham sommersa da una nube di schiuma. Più tardi si sarebbe ricordato che era stato quel momento di disattenzione a determinare il suo destino. Se non fosse rimasto a guardare la grande nave, forse ce l'avrebbero fatta. Di certo avrebbe visto il dorso picchiettato di grigio, avrebbe scorto la balena emergere e sollevare la coda dall'acqua proprio nella loro direzione. E invece, quando vide la coda piombare sibilando su di lui, era troppo
tardi. Vennero colpiti sul fianco. Normalmente un urto simile non sarebbe bastato a ribaltare il gommone, ma stavano andando troppo veloci ed erano molto inclinati nella virata. Fatalmente, l'imbarcazione fu colpita proprio nel momento di massima instabilità. Venne scagliata in alto, per un momento si librò nel nulla, poi cadde su un fianco e si capovolse. Anawak fu scaraventato fuori. Volava. Volteggiava nell'aria. Poi finì contro la schiuma e l'acqua verde. Un attimo dopo era sott'acqua e sprofondava nel buio, senza orientamento, senza la percezione del sopra e del sotto. Fu attraversato da un gelo paralizzante. A fatica, si riscosse, riuscì a tornare in superficie, boccheggiando, poi finì di nuovo con la testa sott'acqua. Stavolta il gelo gli entrò nei polmoni. Fu preso dal panico. Batteva disperatamente i piedi e muoveva con frenesia le braccia, ormai completamente fuori di sé. Tossendo e sputando, riuscì ancora una volta a tornare in superficie, ma dell'imbarcazione non c'era traccia. Nel suo campo visivo entrò solo la costa, che si alzava e si abbassava. Si voltò, fu sollevato da un'onda e finalmente vide le teste degli altri. Ma non di tutti... Forse di una mezza dozzina. Da una parte c'era Alicia e dall'altra Susan. In mezzo, c'erano le nere pinne dorsali delle orche. Solcavano l'acqua attraverso il gruppo dei naufraghi, poi s'immersero. Una delle teste umane sparì sott'acqua e non riemerse più. Una donna anziana vide l'uomo andare sotto e lanciò un grido. Sbatteva incontrollabilmente le braccia, come impazzita. Nei suoi occhi c'era orrore puro. «Dov'è la barca?» urlò. Dov'è la barca? pensò Anawak. Non sarebbero riusciti ad arrivare a riva nuotando. Se avessero raggiunto l'imbarcazione, magari avrebbero potuto salirci sopra e sperare di non essere aggrediti. Se fosse stata capovolta, rimaneva comunque la possibilità di aggrapparsi a essa. Ma la barca sembrava sparita e la donna chiedeva aiuto a voce sempre più alta. Anawak nuotò verso di lei. La donna lo vide arrivare e gli tese le mani. «La prego», singhiozzò. «Mi aiuti.» «Sì, sì», gridò Anawak. «Ma stia calma!» «Sto annegando!» «Non annegherà.» Anawak si diresse verso di lei a lunghe bracciate. «Non può annegare. La tuta la sostiene.» Ma la donna non gli diede retta. «Mi aiuti! Mio Dio, non lasciarmi morire! Non voglio morire!» «Non abbia paura, io...» Improvvisamente gli occhi della donna si spalancarono e lei fu trascinata
sott'acqua. Il suo urlo finì in un gorgoglio. Qualcosa sfiorò le gambe di Anawak. Fu preso da un terrore indicibile. Si sollevò un poco e lanciò uno sguardo all'intorno, riuscendo a individuare lo zodiac che galleggiava, capovolto. Tra il gruppo di naufraghi e l'isola della salvezza c'erano solo poche bracciate. Solo pochi metri... e tre siluri neri che stavano piombando sulle persone in acqua. Come paralizzato, Anawak fissò le orche che attaccavano. Una voce nella sua testa diceva: Nessuna orca ha mai attaccato un uomo! Nei confronti degli esseri umani, le orche sono curiose, pacifiche, o addirittura indifferenti. Le balene non attaccano le navi. No, non lo fanno. Nulla di tutto ciò può essere vero... Era così sconcertato che, benché avesse sentito il rumore, non capì subito che cosa fosse. Era un rombo, un ruggito che si avvicinava e diventava sempre più forte. Poi fu afferrato da un cavallone e qualcosa di rosso scivolò tra lui e le balene. Venne preso e trascinato a bordo. Greywolf non gli prestò la minima attenzione. Guidò l'imbarcazione verso il resto del gruppo, si chinò di nuovo e afferrò le braccia tese di Alicia. Senza sforzo la sollevò dall'acqua e la sistemò su una panca. Anawak si sporse e afferrò un uomo ansimante, tirandolo su a fatica. Poi scrutò la superficie dell'acqua alla ricerca degli altri. Dov'era Susan? Infine la vide. «Là!» urlò. Emergeva tra due creste di onde, sorreggendo una donna semisvenuta. Le orche avevano circondato lo zodiac rovesciato e si avvicinavano da tutte le parti. Le loro lucide teste nere solcavano l'acqua. Nelle bocche appena aperte splendevano file di denti color avorio. Di lì a pochi secondi avrebbero raggiunto Susan e l'altra donna. Ma Greywolf era di nuovo al timone e manovrava la barca con sicurezza. Anawak cercò di afferrare Susan. «Prima la donna», gridò lei. Aiutato da Greywolf, portò la donna al sicuro. Susan cercò d'issarsi a bordo con le proprie forze, ma invano. Dietro di lei, l'orca s'immerse. Nel mare deserto e apparentemente privo di vita era rimasta solo Susan. Non c'era nessuno oltre lei. «Leon?» Allungò le braccia, negli occhi il terrore. Anawak le afferrò la mano destra. Nell'acqua verde-azzurra, qualcosa di molto grande e veloce stava rie-
mergendo. La mandibola si spalancò, file di denti chiari sullo sfondo di un palato rosa, e si richiuse appena al disotto della superficie. Susan gridò, poi si mise a picchiare il pugno sulla bocca che la teneva stretta. «Vattene!» urlava. «Via, animale di merda!» Anawak strinse con forza il giubbotto della donna. Susan lo guardava. Nei suoi occhi c'era un terrore mortale. «Susan! Dammi l'altra mano.» La teneva stretta, deciso a non cedere, ma l'orca aveva afferrato Susan alla vita e la tirava con una forza incredibile. Susan emise un grido, prima soffocato, poi acuto, e smise di colpire la bocca dell'orca. Poi fu strappata dalle mani di Anawak con una violenza inaudita. Lui vide la sua testa sparire sott'acqua, le sue braccia, le dita tese. L'orca spietata la stava trascinando sotto. Per un istante, si vide ancora scintillare la tuta, sfaccettata come in un caleidoscopio, poi essa sbiadì, si dissolse, sparì. Anawak fissò l'acqua, sbalordito. Dal fondo salì qualcosa di luccicante. Un getto di bolle d'aria. Scoppiarono sulla superficie producendo schiuma. Tutt'intorno l'acqua era colorata di rosso. «No», sussurrò. Greywolf lo prese per le spalle e lo trattenne. «Non c'è più nessuno», disse. «Andiamocene.» Anawak era stordito. Quando l'imbarcazione si mise in moto, rombando, lui barcollò e si rimise in equilibrio. La donna che Susan aveva salvato sedeva su una delle panche laterali e gemeva, mentre Alicia le parlava con voce tremante. L'uomo che aveva tirato fuori dall'acqua fissava davanti a sé. A una certa distanza, Anawak sentì un rumore tumultuoso, girò la testa e vide la nave bianca circondata da pinne e dorsi. A quanto pareva, la Lady Wexham riusciva appena ad avanzare, piegata com'era su un fianco. «Dobbiamo tornare indietro», gridò Anawak. «Non ce la fanno.» Greywolf lanciò la barca a tutta velocità verso la costa. Senza voltarsi, disse: «Scordatelo». Anawak gli si avvicinò, strappò il walkie-talkie dal supporto e chiamò la Lady Wexham. Ma lo skipper non rispose. «Dobbiamo aiutarli, Jack! Maledizione, torna indietro...» «Non se ne parla! Con la mia barca non abbiamo la minima possibilità. Possiamo considerarci fortunati di essere ancora vivi.» E il peggio era che aveva ragione. «Victoria?» urlava Shoemaker al telefono. «Che diavolo stanno facendo
a Victoria? Cosa vuol dire: 'hanno fatto richiesta'? A Victoria hanno una loro guardia costiera. Nel Clayoquot Sound ci sono dei passeggeri in acqua, forse sta anche affondando una nave, una skipper è morta e noi dovremmo aver pazienza?» Rimase ad ascoltare, andando avanti e indietro nel negozio. Poi si fermò di colpo. «Che vuol dire: 'non appena possibile'? Non me ne frega niente! Allora devono mandare qualcun altro... Come? Mi stia a sentire...» Benché Shoemaker fosse a qualche metro da lui, la voce nella cornetta strillava al punto che pure Anawak la sentiva. Nella stazione regnava il caos. C'era anche Davie, il direttore. Lui e Shoemaker parlavano in continuazione in qualche cornetta o apparecchio, davano istruzioni oppure stavano ad ascoltare, sbalorditi. In Shoemaker, lo stupore raggiunse il culmine. Infine l'uomo abbassò il ricevitore e scosse la testa. «Cos'è successo?» chiese Anawak a Shoemaker. Poi gli fece segno di parlare a bassa voce e gli si avvicinò. Durante l'ultimo quarto d'ora, da quando Greywolf aveva portato la sua barca malridotta a Tofino, la Davies Whaling Station si era riempita di gente. La notizia dell'attacco si era diffusa come un lampo. L'uno dopo l'altro erano arrivati anche gli altri skipper che lavoravano per la Davies. Ormai le frequenze erano disperatamente sature. I commenti sarcastici dei pescatori che si trovavano nelle vicinanze e che avevano fatto rotta sul luogo della disgrazia - «Ah, ragazzi, ma si può essere così stupidi da non riuscire a evitare una balena...» - erano cessati. Chi cercava di portare soccorso veniva immediatamente aggredito. E le ondate degli attacchi sembravano estendersi lungo tutta la costa. Ovunque era scoppiato l'inferno, senza che nessuno fosse in grado di dire che cosa stesse succedendo davvero. «La guardia costiera non ci può mandare nessuno», sibilò Shoemaker. «Sono tutti fuori, al largo di Victoria e Ucluelet. Dicono che ci sono molte imbarcazioni in difficoltà.» «Che cosa? Anche là?» «Pare che ci siano stati molti morti.» «Sto giusto ricevendo qualcosa da Ucluelet», gridò loro Davie. Si appoggiò dietro il banco e girò la manopola della sua radio a onde corte. «Un peschereccio ha ricevuto la richiesta di soccorso di uno zodiac e stava prestando soccorso quand'è stato attaccato. Se l'è svignata.» «È stato attaccato da cosa?» «Non ricevo più niente. È sparito.» «E la Lady Wexham?» chiese Shoemaker.
«Nulla. La Tofino Air è uscita con due aerei. Ho appena avuto un breve contatto.» «E allora?» gridò Shoemaker senza fiato. «Vedono la Lady?» «Sono appena partiti, Tom», rispose Davie. «Perché su quegli aerei non ci siamo anche noi?» «Domanda stupida, perché...» «Maledizione, quelle sono le nostre imbarcazioni! Perché non ci siamo anche noi, su quei maledetti aerei?» Shoemaker correva avanti e indietro, completamente fuori di sé. «Cos'è successo alla Lady Wexham?» «Dobbiamo aspettare.» «Aspettare? Non possiamo aspettare! Io vado.» «Che vuoi dire?» domandò Davie. «Là fuori c'è ancora uno zodiac, no? Possiamo prendere il Devilfish e andare a vedere.» «Sei impazzito?» gridò uno degli skipper. «Non hai sentito quello che ha raccontato Leon?! È una faccenda per la guardia costiera.» «Però là non c'è nessuna maledetta guardia costiera!» strillò Shoemaker. «Forse la Lady Wexham si potrà mettere in salvo da sola. Leon ha detto...» «Forse, forse! Io vado.» «Basta!» Davie sollevò le mani e lanciò a Shoemaker uno sguardo di avvertimento. «Tom, non voglio mettere altri uomini in pericolo se non è assolutamente necessario.» «Tu non vuoi mettere altre barche in pericolo», latrò Shoemaker. «Aspetteremo di sentire quello che ci dicono i piloti. Poi decideremo il da farsi.» «È una decisione sbagliata!» concluse Shoemaker. Davie non rispose. Girò la manopola della radio per cercare di mettersi in contatto coi piloti degli idrovolanti, mentre Anawak chiedeva alla gente di uscire dalla stazione. Di tanto in tanto si sentiva tremare le ginocchia e provava un senso di vertigine. Probabilmente era sotto shock. Avrebbe dato qualsiasi cosa per potersi stendere un attimo e chiudere gli occhi, ma era probabile che, così facendo, avrebbe rivisto Susan trascinata negli abissi dall'orca. La donna che doveva la propria vita a Susan era su una panca di fianco all'ingresso e sembrava svenuta. Anawak non poté fare a meno di lanciarle un'occhiata irosa. Senza di lei, Susan ce l'avrebbe fatta. L'uomo salvato era seduto lì vicino e piangeva. Aveva perso la figlia che si trovava con lui sul
Blue Shark. Alicia lo assisteva. Sebbene anche lei fosse appena sfuggita alla morte, dimostrava un grande autocontrollo. Correva voce che ci fosse un elicottero in arrivo per portare i superstiti all'ospedale più vicino, ma al momento nessuno ci contava troppo. «Ehi, Leon!» chiamò Shoemaker. «Vieni con me? Tu sai meglio di tutti a cosa dobbiamo stare attenti.» «No, Tom, tu non vai», sbottò Davie con tono tagliente. «Nessuno di voi idioti deve tornare là fuori», disse una voce profonda. «Vado io.» Anawak si girò. Greywolf era entrato nella stazione e, scostandosi dalla fronte i lunghi capelli, si stava facendo largo tra la gente. Dopo aver portato a terra Anawak e gli altri, era rimasto sulla barca per verificarne i danni. In silenzio, tutti fissarono quel gigante dalla lunga criniera, vestito di pelle. «Che stai dicendo?» chiese Anawak. «Dove vai?» «Fuori, alla vostra nave. A prendere la vostra gente. Io non ho paura dei cetacei. A me non fanno niente.» Anawak scosse la testa, seccato. «Generoso da parte tua, Jack, davvero. Ma faresti bene a tenerti alla larga.» «Leon, piccolo uomo.» Greywolf digrignò i denti. «Se mi fossi tenuto alla larga, tu saresti morto, non dimenticarlo. Siete voi quelli che avrebbero fatto meglio a tenersi alla larga. Fin dall'inizio.» «Da che cosa?» sibilò Shoemaker. Con gli occhi ridotti a una fessura, Greywolf si voltò verso di lui. «Dalla natura, Shoemaker. Siete voi i responsabili di questo disastro. Voi, con le vostre barche e le vostre maledette telecamere. I miei compagni e i turisti sono morti per colpa vostra e di quelli cui avete sfilato i soldi dalle tasche. Era inevitabile che succedesse.» «Stupido bastardo!» gridò Shoemaker. Alicia, che aveva assistito alla scena vicino all'uomo in lacrime, si alzò. «Non è uno stupido bastardo!» disse con decisione. «Ci ha salvati. E ha ragione, senza di lui saremmo tutti morti.» Shoemaker sembrava sul punto di prendere Greywolf per il collo. Anawak sapeva bene che dovevano ringraziare il gigante, ma in passato Greywolf gli aveva creato fin troppi problemi, quindi non disse nulla. Per alcuni secondi, sui presenti calò un silenzio insopportabile. Alla fine, Shoemaker girò sui tacchi e, con passo rigido, andò verso Davie. «Jack...» mormorò Anawak. «Se esci adesso ci sarà qualcuno che dovrà venire a pescare te in mezzo all'acqua. La tua barca è un pezzo da museo.
Non ce la farai un'altra volta.» «Vuoi lasciar morire la gente là fuori?» chiese Greywolf. «Non voglio lasciare morire nessuno. Nemmeno te.» «Oh, ti preoccupi della mia insignificante persona. Sono così commosso che potrei vomitare. Ma io non pensavo alla mia barca. Ne ha già passate abbastanza. Prendo la vostra.» «Il Devilfish?» «Sì.» Anawak strabuzzò gli occhi. «Non posso dare via così la nostra barca. E meno che mai a te.» «Allora vieni anche tu.» «Jack, io...» «Può venire anche Shoemaker. In fondo i vermiciattoli ci possono servire come esca, visto che finalmente le orche hanno capito chi sono i loro veri nemici e hanno cominciato a mangiarli.» «Ti mancano davvero delle rotelle, Jack», disse Anawak. Greywolf si chinò verso di lui. «Ehi, Leon», sibilò. «Alcuni miei compagni sono morti. Credi che non me ne freghi niente?» «Non dovevi portarli con te.» «Non ha senso stare a discutere ora, no? Si tratta della vostra gente. Io non dovrei uscire, Leon. Forse mi dovresti un po' più di riconoscenza.» Anawak lanciò un'imprecazione e si guardò intorno. Shoemaker era al telefono. Davie parlava al walkie-talkie. Gli skipper presenti e il gestore cercavano di mandare via la gente rimasta nella stazione, ma con scarsi risultati. Davie alzò lo sguardo e fece un cenno ad Anawak. «Che ne pensi della proposta di Tom?» chiese sottovoce. «Possiamo davvero aiutarli o è un suicidio?» Anawak si mordicchiò il labbro inferiore. «Che cosa dicono i piloti?» «La Lady è piegata su un lato e sta imbarcando acqua.» «Mio Dio.» «Pare che la guardia costiera possa mandare da Victoria un grande elicottero per il recupero. Ma dubito che arriverà in tempo. Sono già maledettamente impegnati e continuano ad arrivare notizie di altri disastri.» Anawak rifletté. Il pensiero di tornare nell'inferno da cui era appena sfuggito lo terrorizzava. Ma si sarebbe rimproverato per tutta la vita se non avesse fatto il possibile per salvare la gente a bordo della Lady Wexham. «Greywolf vuole andare», replicò.
«Jack e Tom nella stessa barca? Santo cielo! Pensavo volessimo risolvere i problemi, non crearne altri.» «Greywolf potrebbe risolverne alcuni. Sì, è un fanatico, ma potremmo aver bisogno di lui. È forte e coraggioso.» Davie annuì, cupo. «Tienili d'occhio, hai capito?» «Certo.» «E se capite che non c'è nulla da fare, tornate indietro. Non voglio che qualcuno si metta a giocare all'eroe.» «Va bene.» Anawak raggiunse Shoemaker, attese che finisse la telefonata, e poi gli comunicò la decisione di Davie. «Prendiamo con noi quell'indiano della domenica?» chiese Shoemaker, sdegnato. «Sei impazzito?» «A dire la verità, credo che sia lui a prenderci con sé.» «Con la nostra barca!» «Tu e Davie siete i capi, però io so cosa ci aspetta. Posso valutare meglio quello che ci serve. E so che saremo più che contenti di avere Greywolf con noi.» Il Devilfish aveva le stesse dimensioni e lo stesso motore del Blue Shark, quindi era veloce e maneggevole. Anawak sperava che, in tal modo, sarebbero potuti sfuggire alle orche, anche se gli enormi mammiferi marini avevano dalla loro parte il fattore sorpresa. Nessuno poteva dire dove e quando sarebbero comparsi. Mentre lo zodiac rombava sulla laguna, Anawak continuava a chiedersi il perché di quelle aggressioni. Si era sempre ritenuto un esperto di animali, ma era sbalordito e incapace di trovare una spiegazione che fosse almeno in parte sensata. L'unica cosa certa era la somiglianza con quello che era successo alla Barrier Queen. Le balene avevano cercato di capovolgere la nave. Dovevano avere qualche infezione, pensò. Una sorta di rabbia. Era l'unica spiegazione: dovevano essere ammalate. Ma una malattia può contagiare contemporaneamente tutte le specie? Gli sembrava di ricordare che all'attacco avessero partecipato megattere, orche e anche balene grigie. Più ci pensava, più si convinceva che, ad affondare il suo zodiac, era stata una balena grigia, non una megattera. Forse gli animali erano impazziti a causa delle sostanze chimiche? La concentrazione di PCB nell'acqua marina e negli alimenti avvelenati aveva completamente sconvolto il loro istinto? Le orche si avvelenavano con salmoni contaminati e con altre creature piene di tossine. Le megattere e le
balene grigie, invece, mangiavano plancton. Il loro metabolismo funzionava diversamente da quello dei carnivori. La malattia non era una spiegazione. Osservò la lucente superficie dell'acqua. Quante volte era uscito in quella zona pregustando la gioia dell'incontro coi cetacei? Ogni volta era stato consapevole dei potenziali pericoli, ma non aveva mai avuto paura. Al largo, sull'oceano, poteva calare improvvisamente la nebbia. Il vento poteva girare di colpo e sollevare onde subdole, com'era successo nel 1998, proprio nel Clayoquot Sound, quando uno skipper e un turista avevano perso la vita in quel modo. E naturalmente le balene, benché fossero pacifiche, rimanevano sempre esseri imprevedibili, di dimensioni strabilianti e con una forza enorme. Ogni whale watcher esperto lo sapeva. Ma non aveva senso temere la natura. Un essere umano poteva essere aggredito - anche in casa propria - da altri uomini oppure venire investito da un'auto. In casi simili, c'erano poche possibilità di uscirne illesi. Evitare una balena infuriata, invece, era possìbile: bastava non entrare nel suo spazio vitale. Se lo si faceva, allora il pericolo diventava concreto e bisognava accettarlo. Se si decideva di affrontare una tempesta oppure un animale selvaggio, allora non si riteneva che quelle cose fossero terrificanti. La paura cedeva il posto al rispetto e Anawak aveva sempre avuto un grande rispetto. Ora, per la prima volta, aveva paura. Alcuni idrovolanti stavano sorvolando il Devilfish. Anawak era nella cabina di guida con Shoemaker, che aveva voluto guidare, benché Greywolf avesse sostenuto di saperlo fare molto meglio. Greywolf era a prua e scrutava l'acqua alla ricerca di segnali sospetti. Alla loro sinistra si levavano le propaggini ricoperte di foreste di alcune isolette. Numerosi leoni marini se ne stavano pigramente sdraiati sulle pietre, come se nulla potesse scuotere la loro placidità. Lo zodiac li oltrepassò rombando e senza diminuire la velocità; raggiunse il mare aperto. Infinito, monocromo, intimo e sconosciuto nel contempo. Oltre la laguna, le onde erano più alte e lo zodiac le superava, sbattendoci contro. Nell'ultima mezz'ora il mare era diventato più mosso. All'orizzonte si ammassavano le nubi. Non sembravano nuvole di tempesta, ma senza dubbio le condizioni stavano peggiorando velocemente, come accadeva spesso da quelle parti. Anawak cercava la Lady Wexham e, in un primo momento, temette che fosse affondata. A una certa distanza, vide una nave da crociera ferma, una delle tante che in quella stagione facevano rot-
ta verso l'Alaska passando al largo del Canada occidentale. «Che ci fanno lì?» urlò Shoemaker. «Probabilmente hanno captato la richiesta d'aiuto.» Anawak guardò col binocolo. «MS Artik. Da Seattle. La conosco. Negli ultimi anni è passata diverse volte.» «Leon, laggiù!» Piccole e sghembe, appena visibili dietro le creste delle onde, apparvero improvvisamente le sovrastrutture della Lady Wexham. La maggior parte della nave era sommersa. I passeggeri si erano riuniti sul ponte e sulla piattaforma d'avvistamento a poppa. Schiuma e acqua vaporizzata annebbiavano la visuale. Molte orche nuotavano intorno al relitto. Sembrava quasi che stessero aspettando che la Lady Wexham affondasse per scagliarsi sui suoi occupanti. «Santo cielo», gemette Shoemaker, inorridito. «Non posso crederci.» Greywolf si voltò e gli fece cenno di rallentare. Shoemaker obbedì. Un dorso grigio e terribile si levò dall'acqua immediatamente davanti a loro, seguito da altri due. Le balene rimasero per qualche secondo in superficie, fecero uscire uno sfiato vaporoso a forma di V e s'immersero senza mostrare le pinne caudali. Anawak sospettava che si stessero avvicinando sott'acqua. Poteva letteralmente fiutare la minaccia dell'attacco. «Via!» urlò Greywolf. Shoemaker diede gas. Il Devilfish si sollevò quasi in verticale e partì a tutta velocità. Dietro di loro, le tre balene balzarono fuori dall'acqua e ripiombarono giù senza fare danni. Lo zodiac si lanciò verso la Lady Wexham che stava affondando. In coperta e sul ponte, i passeggeri si misero a gesticolare freneticamente. Anawak vide con sollievo che tra i sopravvissuti c'era anche lo skipper. Le nere pinne dorsali si spostarono dalla loro traiettoria e s'immersero. «Tra poco le avremo addosso», disse Anawak. «Le orche?» Shoemaker lo guardava con gli occhi spalancati. Per la prima volta sembrava aver compreso appieno ciò che stava succedendo. «Cosa vogliono fare? Rovesciare lo zodiac?» «Potrebbero farlo senza problemi, ma distruggere le imbarcazioni tocca alle balene più grandi. Sembra quasi che gli animali abbiano sviluppato una divisione dei compiti. Le megattere e le balene grigie affondano le navi, mentre le orche sistemano i passeggeri.» Shoemaker impallidì. «Arrivano i rinforzi», gridò.
Infatti due piccole barche a motore si erano staccate dalla MS Artik e si stavano avvicinando lentamente. «Digli che devono dare gas, altrimenti sono fottuti, Leon», gridò Greywolf. «A quella velocità sono una preda facile.» Anawak prese in mano la radio. «MS Artik, qui Devilfish. Dovete prepararvi a essere attaccati.» Per qualche secondo ci fu solo silenzio. Il Devilfish aveva quasi raggiunto la Lady Wexham. Il suo scafo era sferzato dalle onde. «Qui è la MS Artik. Che cosa può succedere, Devilfish?» «Fate attenzione alle balene che saltano. Cercheranno di affondare le vostre barche.» «Balene? Ma che sta dicendo?» «Fareste meglio a tornare indietro.» «Abbiamo ricevuto la richiesta d'aiuto di una nave che si è rovesciata.» Anawak barcollò quando lo zodiac sbatté duramente contro la cresta di un'onda. Poi si rimise in equilibrio e gridò nella radio: «Non abbiamo tempo per discutere. Dovete andare più veloce!» «Ehi, vuole prenderci per i fondelli? Andiamo in soccorso della nave che sta affondando. E basta.» Ritto a prua, Greywolf cominciò a gesticolare. «Devono fuggire», gridò. Le orche avevano cambiato rotta. Si erano allontanate dal Devilfish, dirette in mare aperto, verso la MS Artik. «Merda!» imprecò Anawak. Davanti alle barche che si stavano avvicinando balzò fuori una megattera, circondata da una corona di acqua luccicante. Per un momento rimase come immobile nell'aria e poi si lasciò cadere su un fianco. Anawak respirava affannosamente. In mezzo agli spruzzi vide le due barche avvicinarsi. «MS Artik, richiamate subito i vostri uomini. Subito! Qui ci pensiamo noi», esclamò. Shoemaker ridusse la velocità. Il Devilfish era ormai nei pressi del contorto ponte della Lady Wexham, cui si aggrappava una dozzina di uomini e donne. Ognuno si teneva disperatamente a qualcosa per non scivolare in acqua. Le onde si frangevano sul ponte, schiumando. Un altro piccolo gruppo si era messo al sicuro sulla piattaforma di avvistamento a poppa. Erano appesi al parapetto, quasi fossero scimmie, scossi dalle onde. Il Devilfish s'infilò tra il ponte e la piattaforma. Sotto lo zodiac splendevano il verde e il bianco del ponte mediano. Shoemaker guidò verso il ponte finché il bordo di gomma non ci sbatté contro. Una grande onda rag-
giunse la barca e la sollevò. Salirono lungo la torre del ponte come su un enorme ascensore. Per un momento, Anawak poté quasi toccare le mani tese delle persone. Guardò i volti terrorizzati, sui quali si dipinse una vaga speranza, poi il Devilfish tornò giù, seguito da un grido di delusione. «Sarà difficile», disse Shoemaker tra i denti. Anawak si guardò intorno, nervoso. Evidentemente le balene avevano perso interesse per la Lady Wexham. Si erano raggruppate davanti alle barche della MS Artik, che stavano effettuando una serie di goffe manovre diversive. Dovevano fare in fretta. Non potevano sperare che gli animali restassero lontani in eterno; e poi la Lady Wexham sprofondava sempre più. Un cavallone verde e frastagliato riportò in alto il Devilfish. Anawak vide passare davanti a sé la vernice che si sfogliava dalla torre del ponte. Greywolf saltò dalla barca e si aggrappò a una scaletta. L'acqua lo coprì fino al petto, poi l'onda defluì e lui rimase sospeso nell'aria, un collegamento vivente tra le persone sopra di lui e lo zodiac. Allungò verso l'alto la mano libera. «Sulle mie spalle», gridò. «L'uno dopo l'altro. Tenetevi aggrappati a me. Aspettate. Quando la barca sale, saltate.» Esitavano. Greywolf ripeté le indicazioni. Finalmente, una donna afferrò il suo braccio e, con movimenti incerti, si lasciò scivolare giù. Un momento dopo era aggrappata al colosso e si teneva alle sue spalle. Lo zodiac balzò in alto. Anawak riuscì a prendere la donna e a tirarla a bordo. «Il prossimo!» Finalmente l'operazione di salvataggio era cominciata. A uno a uno i naufraghi si aggrappavano all'ampia schiena di Greywolf e finivano a bordo del Devilfish. Anawak si domandava per quanto il mezzo indiano avrebbe avuto la forza di restare aggrappato alla scala. Sopportava il proprio peso e quello dei passeggeri, si teneva con una mano sola ed era costantemente immerso a metà nell'acqua, che lo strattonava in giù quando il mare rifluiva. Il ponte cigolava terribilmente. I materiali si deformavano, emettendo gemiti cavernosi. Le giunture metalliche si spaccavano, schioccando. Sul ponte era rimasto solo lo skipper, quando improvvisamente risuonò uno spaventoso stridio e la parte superiore del corpo di Greywolf sbatté duramente contro la parete. Lo skipper perse la presa e precipitò davanti a lui. Dall'altra parte del relitto, si sollevò la testa di una balena grigia. Greywolf lasciò il piolo della scala e balzò via. Non lontano da lui, sbuffando, riemerse lo skipper e, con poche, robuste bracciate; riuscì a raggiungere lo zodiac. Verso di lui si tesero alcune mani, che lo sollevarono a bordo. An-
che Greywolf aveva raggiunto lo zodiac, ma fu trascinato indietro da un cavallone. A pochi metri da lui, emerse una pinna dorsale. «Jack!» Anawak s'intrufolò in mezzo alla gente e raggiunse la poppa. Guardava le onde. La testa di Greywolf comparve tra i flutti. Sputò acqua, s'immerse e poi sbucò di colpo sulla superficie, proprio accanto al Devilfish. La pinna dorsale dell'orca si girò e si diresse verso di lui. Le braccia muscolose di Greywolf si sollevarono e colpirono lo scafo di gomma. L'orca sollevò dall'acqua il suo muso rotondo e splendente. Anawak afferrò Greywolf, altri lo aiutarono e, unendo le forze, gli uomini riuscirono a portare a bordo quel gigante alto due metri. La pinna dorsale descrisse un semicerchio e si diresse dalla parte opposta. Imprecando, Greywolf si liberò delle mani che lo volevano aiutare e con un colpo si scostò i lunghi capelli dal volto. Perché l'orca non l'ha attaccato? pensò Anawak. Poi rammentò quello che aveva detto Greywolf: «Io non ho paura dei cetacei. A me non fanno niente». C'era qualcosa di vero in quella sciocchezza? Ma subito dopo si rese conto che l'orca non poteva attaccare. Il ponte mediano, sommerso sotto lo zodiac, non le aveva lasciato sufficiente profondità. Nelle immediate vicinanze del Devilfish erano al sicuro dalle orche, almeno finché non si comportavano come le loro parenti sudamericane, che proseguivano la caccia anche nelle acque basse o addirittura all'asciutto. Fino all'affondamento della Lady Wexham restava loro un periodo di tregua che avrebbero dovuto usare in ogni modo. Risuonò un urlo collettivo. Un esemplare gigantesco di balena grigia si scagliò contro una delle barche della MS Artik che si stava avvicinando. Volarono macerie ovunque. L'altra fece ululare il motore, virò e fuggì. Anawak fissava il luogo in cui la balena aveva affondato l'imbarcazione e, con orrore, vide molti dorsi grigi che si muovevano dal luogo della disgrazia verso il Devilfish. Ci risiamo, pensò. Shoemaker era come paralizzato e guardava quella scena a occhi sbarrati. «Tom!» gridò Anawak. «Dobbiamo andare a prendere la gente a poppa.» «Shoemaker!» Greywolf digrignò i denti. «Che c'è? Ti si è gelato il culo?» Tremando, l'uomo riprese il timone e guidò il Devilfish verso la piatta-
forma di avvistamento. Un cavallone sollevò lo zodiac, lo strappò indietro e lo scaraventò direttamente verso la piattaforma. La poppa del Devilfish sbatté con violenza contro il parapetto al quale stavano aggrappati i superstiti. Dalla profondità rimbombò il rumore di materiale sottoposto a una tensione pazzesca. Anawak immaginò il bordo della parete che si strappava ulteriormente e le sovrastrutture che cadevano, l'una dopo l'altra. Shoemaker ansimava. Non riusciva a spingere il Devilfish sotto il parapetto per permettere a quelle persone di saltare giù. I dorsi grigi s'inarcavano verso la Lady Wexham, in piena rotta di collisione. Di nuovo il relitto vibrò a causa di un colpo terribile. Una donna venne strappata via dal parapetto e cadde in acqua, urlando. «Shoemaker, maledetto idiota!» gridò Greywolf. In molti si fecero avanti e tirarono a bordo la donna. Anawak si chiedeva per quanto tempo ancora la Lady Wexham avrebbe retto. Non ce la faremo, pensò, disperato. In quell'istante accadde un miracolo. Ai lati della nave si levarono due dorsi imponenti. Anawak ne riconobbe subito uno, per via della fila di cicatrici biancastre, a forma di croce, che correva lungo la colonna vertebrale. All'animale, che evidentemente si era procurato quelle ferite quand'era molto giovane, avevano dato il nome di Scarback. Scarback era una balena grigia molto vecchia, che aveva già ampiamente superato l'età media della sua specie. Il dorso dell'altra balena non mostrava segni particolari. I due animali se ne stavano tranquilli nell'acqua e si lasciavano cullare dalle onde. L'una dopo l'altra scaricarono rumorosamente il loro getto, producendo una nuvola di sfavillanti goccioline. Il fatto singolare non fu tanto l'apparizione delle due balene grigie, quanto il comportamento delle orche, che s'immersero immediatamente. Quando i loro dorsi ricomparvero, si erano allontanate di un bel pezzo. Circondavano sempre la nave, ma tenevano una rispettosa distanza. Qualcosa diceva ad Anawak che non aveva nulla da temere dai nuovi arrivati. Al contrario: essi avevano cacciato gli aggressori. Quanto sarebbe durata la tregua era impossibile a dirsi, ma la svolta inattesa degli avvenimenti aveva permesso di tirare il fiato. Anche Shoemaker era riuscito a dominare il panico e stavolta guidò con sicurezza lo zodiac sotto il parapetto. Anawak vide avvicinarsi una grande onda e si preparò. Era l'ultima possibilità. Lo zodiac balzò in alto.
«Saltate!» urlò. «Ora!» Il cavallone che aveva sollevato il Devilfish si riabbassò. Le persone che erano riuscite a saltare nello zodiac caddero l'una sopra l'altra. Si levarono grida di dolore. Chi era caduto in acqua riuscì ad arrivare a bordo grazie all'aiuto degli altri passeggeri. Infine riuscirono a raccoglierli tutti. Ormai non restava che andarsene. No, non tutti erano in salvo. D'un tratto si accorsero che c'era ancora un bambino. Piangeva, le mani disperatamente aggrappate alla ringhiera. «Salta!» gridò Anawak, allargando le braccia. «Non avere paura.» Greywolf gli si avvicinò. «Alla prossima ondata lo prendo.» Anawak si guardò alle spalle. Una gigantesca montagna d'acqua rotolava verso di loro. «Credo che non dovrai aspettare molto», disse. Dalla profondità risuonarono ancora i rumori dello scafo che si stava sfasciando. Le due balene grigie tornarono lentamente a immergersi. La nave si riempiva sempre più velocemente d'acqua gorgogliante; poi, improvvisamente, il ponte sparì in un vortice e la poppa si alzò. La prua della Lady Wexham cominciò ad affondare. «Più vicini, presto!» gridò Greywolf. In qualche modo, Shoemaker riuscì a dar seguito all'ordine. La prua del Devilfish grattò contro il ponte cui era aggrappato il ragazzino, che strillava a pieni polmoni. Spintonando tutti, Greywolf si precipitò a poppa. Nello stesso istante, l'onda sollevò lo zodiac e sul parapetto si gonfiarono cortine di schiuma. Greywolf si sporse e riuscì ad afferrare il bambino, ma poi il Devilfish sbandò, facendo perdere l'equilibrio a Greywolf, che cadde tra le file di sedili. Però le sue braccia si stendevano in alto e le mani forti erano serrate come una morsa intorno alla vita del piccolo. Anawak guardò verso il mare. Nel punto in cui, fino a pochi secondi prima, c'era il bambino aggrappato al parapetto, adesso c'erano soltanto dei mulinelli. Vide la Lady Wexham sparire negli abissi, poi lo zodiac cadde nell'incavo dell'onda. Il salto fu tale che ad Anawak si rivoltò lo stomaco, come se fosse su un ottovolante. Shoemaker partì a tutto gas. Le onde lunghe e regolari che arrivavano dal Pacifico non potevano diventare pericolose per il Devilfish, anche se era strapieno, a meno che lo skipper non commettesse qualche errore. Ma Shoemaker sembrava aver ritrovato la sua forma migliore. Nei suoi occhi non c'era più il panico. Saltarono sopra una cresta dell'onda e la superarono, prendendo la rotta verso la costa. Anawak fissò la MS Artik e vide che la seconda barca era sparita. Poi, tra
le onde, scorse la pinna caudale di una megattera. Gli sembrò quasi che stesse facendo loro un cenno d'addio. Non sarebbe più stato capace di guardare quella cosa senza pensare al peggio. I messaggi radio rivelavano che era scoppiato l'inferno. Pochi minuti dopo, il Devilfish superò la striscia d'isole che divideva il mare aperto dalla laguna. Almeno il fatto di non aver perso anche il Devilfish riuscì a rasserenare un po' Davie. Lo zodiac, stracarico come una nave di profughi, era legato strettamente al molo. Lessero i nomi dei dispersi. Alcuni dei presenti svennero. Poi la Davies Whaling Station si svuotò, in fretta come si era riempita. Praticamente tutti avevano mostrato segni d'ipotermia, così la maggior parte si fece accompagnare da amici e congiunti alle ambulanze in attesa. Altri avevano ferite gravi, ma non era dato sapere quando ci sarebbe stato un elicottero disponibile per trasportarli all'ospedale di Victoria. Dalla radio continuavano ad arrivare notizie terribili. Davie era stato bombardato da accuse, insinuazioni e minacce da parte dei passeggeri. Nel frattempo era comparso Roddy Walker, il fidanzato di Susan, e si era messo a urlare che avrebbe citato in tribunale il responsabile della stazione. Sembrava che a nessuno interessasse chi fosse il vero responsabile dell'accaduto e la spiegazione più semplice - senza motivo, i cetacei avevano aggredito gli esseri umani - non fu accettata quasi da nessuno. Le balene non facevano cose del genere. Le balene erano pacifiche. Le balene erano meglio degli uomini. Alcuni, a Tofino, arrivarono a incolpare i whale watcher, come se fossero stati loro a uccidere a sangue freddo i passeggeri del Blue Shark e della Lady Wexham, idioti che correvano rischi inutili e che erano usciti in mare con navi malandate. In effetti la Lady Wexham aveva un bel po' di anni sulle spalle, ma ciò non aveva mai ridotto la sua capacità di tenere il mare. Però, al momento, nessuno voleva sentire scuse. Erano riusciti a riportare a casa la maggior parte dell'equipaggio e dei passeggeri. In molti avevano ringraziato Anawak e Shoemaker, ma il vero eroe era Greywolf. Riusciva a essere ovunque contemporaneamente: parlava, ascoltava, organizzava e si offriva di accompagnare personalmente con l'ambulanza. Agli occhi di Anawak, quella specie di Madre Teresa alta due metri offriva uno spettacolo disgustoso. Imprecò tra i denti, ma non aveva tempo per occuparsi di Greywolf. Sentiva che la situazione gli stava sfuggendo di mano.
Certo, Greywolf aveva rischiato la vita, e loro avrebbero dovuto ringraziarlo in ginocchio. Ma Anawak non ne aveva la minima voglia: quell'improvvisa esplosione di altruismo era molto sospetta. L'impegno di Greywolf per i passeggeri della Lady Wexham non era di certo dovuto al suo amore per l'umanità, di questo Anawak era certo. In fondo, per quel mezzo indiano la giornata era stata più che positiva. La gente gli credeva, si fidava di lui. Di lui, che aveva predetto una fine ingloriosa per il turismo imperniato sull'osservazione delle balene. Ed era successo proprio così. Non li aveva forse messi in guardia? Quanti testimoni avrebbero confermato la lucida capacità di analisi di Greywolf? Non poteva desiderare un palcoscenico migliore. Anawak sentì crescere la rabbia. Di pessimo umore, tornò nella stazione deserta. Bisognava scoprire la causa del comportamento degli animali! Rammentò la vicenda della Barrier Queen. Roberts gli doveva mandare il rapporto. Ne aveva assolutamente bisogno. Prese il telefono e si mise in contatto con la società armatrice. Gli rispose la segretaria di Roberts. Il managing director era in riunione e non poteva essere disturbato. Anawak spiegò il suo ruolo nell'ispezione della Barrier Queen e fece intendere che c'era una certa urgenza. La donna ripeté che la riunione non poteva essere interrotta. Sì, aveva sentito del disastro. Era terribile. S'informò delle condizioni di Anawak e, in tono quasi materno, espresse tutta la sua preoccupazione, ma non gli passò Roberts. Doveva riferirgli qualcosa? Anawak esitò. Roberts gli aveva promesso il rapporto in via riservata e lui non intendeva metterlo in difficoltà. Forse era meglio non menzionare quell'accordo. Poi gli venne in mente una cosa. «Si tratta dei mitili che erano attaccati alla poppa della Barrier Queen», disse. «Dei mitili e probabilmente di altre sostanze e forme di vita. Ne abbiamo mandato alcuni campioni all'istituto di Nanaimo. Laggiù hanno bisogno di rifornimenti.» «Di rifornimenti?» «Di altri campioni. Presumo che nel frattempo la Barrier Queen sia stata esaminata da cima a fondo.» «Sì, certo», disse la segretaria in tono meravigliato. «Ora dov'è la nave?» chiese Anawak. «Nel bacino di carenaggio.» Fece una pausa. «Riferirò a Mister Roberts che è urgente. Dove dobbiamo mandare i campioni?» «All'istituto. All'attenzione della dottoressa Sue Oliviera. Grazie, lei è molto gentile.»
«Mister Roberts la chiamerà appena possibile.» Poi la donna riagganciò. E questo che significa? Improvvisamente le ginocchia di Anawak si misero a tremare. La tensione delle ore precedenti stava lasciando il posto allo sfinimento. Si appoggiò al banco e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, vide davanti a sé Alicia. «Che ci fai qui?» le chiese seccamente. Lei scrollò le spalle. «Sto bene. Non devo farmi visitare.» «E invece devi. Sei caduta in acqua e da queste parti l'acqua è dannatamente fredda. Va' all'ambulanza prima che ci accusino di averti fatto venire un raffreddore.» «Ehi!» Lo fulminò con un'occhiata. «Io non ti ho fatto niente, è chiaro?» Anawak si staccò dal bancone, le girò le spalle e si avvicinò alla finestra posteriore. Il Devilfish era ormeggiato alla banchina come se non fosse successo nulla. Cominciava a piovigginare. «Cosa volevi ottenere con quella sciocchezza del tuo 'ultimo giorno' a Vancouver Island?» chiese. «Non avrei dovuto prenderti con me. Ma tu perché mi hai fatto una testa così...» «Io...» iniziò Alicia, poi s'interruppe. «Be', sì, volevo assolutamente venire. Sei arrabbiato?» Anawak si girò. «Odio essere preso in giro.» «Mi dispiace.» «No, non ti dispiace. Ma fa lo stesso. Perché non sparisci e ci lasci fare il nostro lavoro?» Fece una smorfia. «Va' con Greywolf che vi prende tutti per la manina.» «Mio Dio, Leon!» Alicia gli si avvicinò e lui si scostò. «Volevo assolutamente venire in mare con te. Mi dispiace di averti mentito. Okay, sono qui per un paio di settimane, e non vengo da Chicago, ma studio Biologia all'University of British Columbia. Che cosa devo fare? Pensavo che alla fine avresti trovato divertente questa balla...» «Divertente?» gridò Anawak. «Ma hai le rotelle a posto? Che c'è di divertente nell'essere presi per i fondelli?» Gli stavano saltando i nervi, ma non poteva farci nulla e gridava contro di lei, benché sapesse che aveva ragione. Quella ragazza non gli aveva fatto nulla. Proprio nulla. Alicia indietreggiò, sussultando. «Leon...» «Perché non mi lasci in pace? Vattene.» Si aspettava che se ne andasse, invece rimase lì. Anawak si sentiva stordito. La stanza girava. Per un momento ebbe paura che le gambe gli cedessero, poi improvvisamente tutto ritornò normale e mise a fuoco Alicia che
gli porgeva qualcosa. «Cos'è?» borbottò. «Una videocamera.» «Questo lo vedo. Ma perché?» «Prendila.» Lui allungò la mano, prese la videocamera e la osservò. Era una Sony Handycam molto costosa e con la copertura impermeabile usata dai turisti, ma anche dagli scienziati. «E allora?» Alicia allargò le braccia. «Pensavo che volessi scoprire cos'è successo.» «Non sapevo che la cosa ti riguardasse.» «Smettila una buona volta di riversare su di me la tua rabbia!» sbottò lei. «Là fuori avrei potuto morire, e questo è successo solo un paio d'ore fa. Potrei essere sulla tua ambulanza a urlare, e invece cerco di aiutarti. Vuoi scoprire cos'è successo o no?» Anawak respirò profondamente. «Okay.» «Hai visto quali animali hanno attaccato la Lady Wexham?» «Sì, balene grigie e megattere...» «No», Alicia scosse impaziente la testa. «Non quali specie. Quali individui! Sei riuscito a identificarli?» «È successo tutto troppo in fretta.» Alicia rise. Era una risata amara, ma pur sempre una risata. «La donna che abbiamo tirato fuori dall'acqua era con me sul Blue Shark. Era sotto shock, completamente fuori di sé. Tuttavia, quando voglio qualcosa non me la lascio scappare...» «Quindi...?» «... Quindi le ho visto questa videocamera appesa al collo. Era assicurata bene, perciò non è andata persa neppure in acqua. In ogni caso, quando voi siete tornati in mare, ho parlato un po' con la donna e lei mi ha detto che ha filmato per tutto il tempo, anche quando si è avvicinato Greywolf! In un certo senso era profondamente impressionata da lui, così ha continuato a riprenderlo.» Fece una pausa. «Se ricordo bene, dal nostro punto di vista, la Lady Wexham era alle spalle di Greywolf.» Anawak annuì e d'un tratto comprese dove voleva arrivare Alicia. «Ha ripreso l'attacco», mormorò. «Ha filmato soprattutto le balene che ci hanno attaccato. Non so se sarai in grado d'identificarle, ma tu vivi qui e conosci gli animali. È una ripresa di buona qualità», confermò Alicia. «Immagino che ti sia dimenticata di chiedere il permesso di tenere la vi-
deocamera», borbottò Anawak. Alicia lo guardò con aria provocatoria. «E allora?» Lui si girò la videocamera tra le mani. «Va bene. Lo guardo.» «Lo guardiamo», esclamò Alicia. «In questa storia voglio esserci anch'io. E, santo cielo, non chiedermi perché. È semplicemente così, okay?» Anawak la fissò. «Inoltre, da adesso in poi, sarai gentile con me.» Lui espirò lentamente e, con le labbra tirate, osservò la videocamera. Doveva ammettere che, fino a quel momento, quella di Alicia era la migliore idea che fosse venuta fuori. «Ci proverò», disse. 12 aprile Trondheim, Norvegia L'invito raggiunse Johanson mentre si stava preparando per andare al lago. Dopo il suo ritorno da Kiel, aveva raccontato a Tina dell'esperimento nel simulatore di abissi marini, però era stata una conversazione breve. Tina era impegnatissima in diversi progetti e il tempo che le rimaneva lo trascorreva con Kare Sverdrup. Johanson aveva l'impressione che non fosse concentrata su quella faccenda. Sembrava totalmente presa da qualcosa che non aveva a che fare col suo lavoro, ma preferì evitare di farle domande. Qualche giorno dopo, Bohrmann lo chiamò per comunicargli le ultime novità. A Kiel avevano continuato gli esperimenti sui vermi. Johanson, che aveva già preparato le valigie e stava uscendo di casa, decise che, prima di uscire, avrebbe potuto fare una telefonata a Tina e spiegarle cosa stava succedendo. Ma non riuscì a pronunciare neppure una parola. «Non puoi venire da noi?» gli chiese subito lei. «Dove? All'istituto?» «No, al centro di ricerca della Statoil. Ci sono in visita i capi progetto. Da Stavanger.» «E che cosa dovrei fare? Raccontare loro una storia dell'orrore?» «Quello l'ho già fatto io. Ora vogliono i particolari. Ho proposto che sia tu a spiegarli», disse Tina. «Perché proprio io?» chiese Johanson. «Perché no?»
«Avete montagne di analisi», disse Johanson. «Potrei solo ripetere quello che altri hanno già scoperto.» «Potresti fare di più», ribatté Tina. «Potresti... esprimere le tue sensazioni.» Per un attimo, lui fu incapace di parlare. «Sanno che non sei un esperto di ricerche petrolifere, e tantomeno un vero specialista di vermi e simili», proseguì concitata. «Ma tu all'NTNU hai un'ottima fama, sei neutrale e non compromesso come noi. Noi giudichiamo dal nostro punto di vista.» «Voi giudicate secondo l'ottica della fattibilità.» «Non solo! Guarda che alla Statoil ci sono molte persone, ognuna delle quali è in grado di determinare al meglio una cosa specifica e...» «Idioti specializzati, appunto.» «Per niente!» Tina era seccata. «Con gli idioti specializzati questi progetti non si possono fare. Qui tutti sono troppo coinvolti. Mio Dio, come posso esprimerlo... Abbiamo bisogno di più opinioni dall'esterno.» «Dei vostri affari io non capisco nulla», disse Johanson. «Naturalmente non ti costringe nessuno.» Tina sembrava sempre più nervosa. «Puoi anche lasciar perdere.» Lui alzò gli occhi al cielo. «Va bene, non ho intenzione di lasciarti in questa situazione. Tra l'altro ci sono anche alcune novità da Kiel e...» «Posso considerarlo un sì?» «Va bene! Quand'è l'incontro?» «Ce ne saranno diversi, d'incontri. In effetti siamo tutti molto presi.» «Va bene. Oggi è venerdì. Il fine settimana non ci sono e lunedì potrei...» «Questo è...» lo interruppe lei. «Veramente sarebbe...» «Sì?» disse Johanson, tormentato dai peggiori presentimenti. Lei lasciò trascorrere qualche secondo. «Cosa avevi intenzione di fare durante il fine settimana?» chiese poi, in tono colloquiale. «Saresti andato al lago?» «Brillante intuizione. Vuoi venire con me?» Lei rise. «Perché no?» «Oh, oh! E Kare che ne pensa?» «Non m'interessa. Che cosa dovrebbe pensare?» Rimase in silenzio per qualche istante, poi sbottò: «Maledizione!» «Se tu fossi brava in tutto come nel tuo lavoro...» mormorò Johanson. Forse lei non lo sentì neppure.
«Sigur, per favore! Non puoi rinviare la tua gita? Ci troviamo tra due ore e pensavo... Non sei tanto lontano da qui, non sarà una cosa lunga. Ti libererai in un batter d'occhio. Potresti partire già stasera.» «Io...» «Dobbiamo andare avanti con questa faccenda. Abbiamo dei tempi da rispettare, sai che costi ci sono, e ci sono già i primi rallentamenti soltanto perché...» «Va bene, vengo!» «Sei un tesoro.» «Devo venirti a prendere?» «No, sarò già là. Sono così felice, grazie! È molto gentile da parte tua.» E riagganciò. Johanson lanciò un'occhiata malinconica ai suoi bagagli. Quando entrò nella grande sala del centro di ricerca Statoil, si rese conto che la tensione nell'aria era quasi tangibile. Tina Lund era seduta in compagnia di altri tre uomini a un enorme, lucido tavolo nero. Il sole del tardo pomeriggio dava un po' di calore all'interno, arredato con vetro e acciaio e dipinto con tonalità scure. Le pareti erano letteralmente tappezzate da diagrammi e disegni tecnici. «Eccolo», annunciò la receptionist, consegnando Johanson ai presenti come se fosse un regalo di Natale. Uno degli uomini balzò in piedi e si diresse verso di lui con la mano tesa. Aveva corti capelli neri e portava occhiali alla moda. «Sono Thor Hvistendahl, vice direttore del centro di ricerca Statoil. Ci scusi se abbiamo approfittato del suo tempo con un preavviso così breve, però Tina Lund ci ha assicurato che lei non aveva in programma niente di meglio.» Johanson lanciò a Tina un'occhiata inequivocabile, poi strinse la mano all'uomo. «In effetti non avevo nulla in programma», disse. Tina sorrise tra sé e lo presentò agli altri. Come Johanson si era aspettato, uno di essi era giunto lì dalla sede centrale della Statoil, a Stavanger. Si trattava di un giovane tarchiato coi capelli rossi e con gli occhi chiari, dall'espressione amichevole. Era il rappresentante del management board, nonché un membro del comitato esecutivo. «Finn Skaugen», tuonò, stringendogli la mano. Il terzo uomo, completamente calvo, aveva un'espressione seria e profonde rughe intorno alla bocca; in più, era l'unico a portare la cravatta. Si
trattava del diretto superiore di Tina. Si chiamava Clifford Stone, proveniva dalla Scozia ed era il capo progetto delle nuove esplorazioni. Stone fece un gelido cenno di saluto a Johanson. Non sembrava particolarmente entusiasta della presenza del biologo, ma forse era ombroso di natura. Aveva la faccia di chi non ride mai. Johanson scambiò qualche convenevole, rifiutò un caffè e si sedette. Hvistendahl tirò davanti a sé un pacco di fogli. «Veniamo subito alla faccenda», disse. «Conosce la situazione. Non siamo in grado di valutare con esattezza se siamo davvero impantanati o se la nostra reazione è stata esagerata. È al corrente delle norme cui si deve attenere l'industria petrolifera?» «Quelle emerse dalla Conferenza del mare del Nord?» azzardò Johanson. Hvistendahl annuì. «Sì, tra le altre. Siamo sottoposti a una serie di restrizioni. Da quelle connesse alle leggi per la tutela ambientale alle possibilità tecniche. Ma naturalmente sui punti non regolamentati bisogna fare i conti con l'opinione pubblica. In breve, dobbiamo essere cauti in tutto. Greenpeace e altre organizzazioni ci stanno addosso come le zecche, ma va bene così. Conosciamo i rischi di una trivellazione, e sappiamo che cosa ci aspetta se prendiamo in considerazione un giacimento e calcoliamo i tempi.» «Vuol dire che ce la possiamo cavare da soli», disse Stone. «In genere è così», annuì Hvistendahl. «Comunque non tutti i progetti arrivano alla fase esecutiva, e questo per motivi che può ben immaginare: la composizione dei sedimenti è instabile; corriamo il rischio di trivellare una bolla di gas; alcuni impianti non vanno bene a causa delle correnti e così via. In genere, però, riusciamo a capire in fretta che cos'è possibile fare. Tina esegue i test al Marintek; noi facciamo le solite prove, andiamo a vedere là sotto, facciamo ulteriori perizie, poi costruiamo.» Johanson si appoggiò allo schienale e accavallò le gambe. «Ma stavolta c'è quel verme», disse. Hvistendahl fece un sorriso tirato. «Per così dire.» «Ammesso che le bestioline giochino qualche ruolo», borbottò Stone. «A mio avviso non ne giocano nessuno.» «Come fa a saperlo?» «Perché i vermi non sono una novità. Si trovano ovunque.» «Non come questi.» «Perché? Perché rosicchiano gli idrati?» Stone fulminò Johanson, pronto
ad attaccare. «Ma i suoi amici di Kiel dicono che non c'è nulla di cui preoccuparsi, giusto?» «Non hanno detto questo. Hanno detto...» «Che i vermi non possono destabilizzare il ghiaccio.» «Lo divorano.» «Ma non lo possono destabilizzare!» Skaugen si schiarì la gola. Sembrò un'eruzione. «Credevo avessimo invitato il dottor Johanson perché volevamo sentire le sue valutazioni», dichiarò, guardando di traverso Stone. «E non per comunicargli quello che crediamo noi.» Stone si morse il labbro inferiore e fissò il piano del tavolo. «Se ho capito bene, nel frattempo Sigur ha ottenuto nuovi risultati», intervenne Tina, sorridendo con aria incoraggiante. Johanson annuì. «Posso farvi un breve riassunto.» «Animaletti di merda», borbottò Stone. «Probabile. Al Geomar ne hanno messi altri sei sul ghiaccio e tutti hanno iniziato a scavare. Due altri esemplari sono stati collocati su uno strato di sedimenti che non conteneva idrati e loro non hanno fatto nulla. Non hanno divorato e non hanno scavato, tuttavia erano irrequieti.» «Che cos'è successo a quelli che hanno scavato il ghiaccio?» «Sono morti.» «A che profondità sono arrivati?» «Hanno raggiunto la bolla di gas... Tutti tranne uno.» Johanson guardò Stone, che lo fissava da sotto le sopracciglia aggrottate. «Ma questo non porta a conclusioni definitive sul loro comportamento in natura. Sulla scarpata continentale, gli strati di idrati sono spessi dozzine, centinaia di metri. Gli strati nel simulatore misurano al massimo due metri. Bohrmann ritiene che nessuno dei vermi possa arrivare oltre i tre o quattro metri, ma questo è difficile da verificare nelle circostanze date.» «Perché i vermi muoiono?» chiese Hvistendahl. «Perché hanno bisogno di ossigeno e, nei buchi, l'ossigeno è scarso.» «Ma anche gli altri vermi scavano nel terreno», obiettò Skaugen. Poi proseguì con un sorriso: «Come vede ci siamo dati da fare per non apparire completamente idioti davanti a lei». Johanson restituì il sorriso. Skaugen gli piaceva. «Quegli animali s'infilano nei sedimenti», disse. «E i sedimenti sono forati. All'interno c'è abbastanza ossigeno. Inoltre è difficile che un animale scavi così in profondità. Negli idrati di metano, invece, è come se fossero infilati nel cemento. Pri-
ma o poi soffocano.» «Capisco. Conosce altri animali che si comportano così?» «Intende animali votati al suicidio?» «Si tratta di un suicidio?» «Il suicidio presuppone un'intenzione», disse Johanson. «E i vermi non agiscono con intenzione. Sono condizionati dal loro comportamento.» «Ci sono animali che si suicidano?» «Certo che ci sono», disse Stone. «Quei maledettissimi lemming si buttano in mare.» «Non lo fanno», disse Tina. «Certo che lo fanno!» Tina gli mise una mano sul braccio. «Tu paragoni le mele alle pere, Clifford. Per molto tempo si è accettata l'idea che i lemming si suicidassero collettivamente, perché una cosa simile sembrava interessante e fuori dal comune. Poi si è osservato meglio il fenomeno e si è scoperto che i lemming sono semplicemente cretini.» «Cretini?» Stone guardò Johanson. «Come sono cretini gli uomini quando sono in gruppo. I lemming che sono davanti vedono che là c'è una scarpata, ma vengono spinti da quelli dietro, come se fossero a un concerto pop. Si spingono l'un l'altro in mare, finché non riescono a fermarsi.» «Ci sono animali che si sacrificano. Questo è altruismo», intervenne Hvistendahl. «Sì, ma l'altruismo ha sempre un senso», ribatté Johanson. «Le api mettono in conto di morire dopo la puntura, perché il pungiglione serve per la protezione dello sciame, specialmente della regina.» «Quindi non c'è nessuna intenzione nel comportamento dei vermi?» «No.» «Santo cielo!» sbuffò Stone. Voi state cercando di trasformare questi vermi in mostri che possono impedire la costruzione di stazioni di estrazione sul fondale marino. È stupido!» «Ancora una cosa», riprese Johanson, senza prestare attenzione al capo progetto. «Il Geomar vorrebbe fare delle ricerche sul campo. Naturalmente in collaborazione con la Statoil.» «Interessante.» Skaugen si chinò in avanti. «Vogliono mandare qualcuno?» «Una nave oceanografica. La Sonne.» «È molto gentile da parte loro, ma potrebbero usare la Thorvaldson per
le ricerche.» «Stavano già preparando una spedizione. Inoltre la Sonne è tecnologicamente più avanzata della Thorvaldson. Per loro si tratta soprattutto di verificare alcuni dati ottenuti col simulatore», disse Johanson. «Quali dati?» «L'aumento della concentrazione di metano. I vermi, scavando, hanno liberato del gas che è finito in acqua. Inoltre vorrebbero dragare qualche quintale di idrati. Insieme coi vermi. Intendono fare osservazioni su grande scala.» Skaugen annuì e intrecciò le dita. «Finora abbiamo parlato solo dei vermi», disse. «Ha visto quella sinistra ripresa video?» «Di quella cosa in mare?» Skaugen sorrise cupamente. «La cosa? Suona come un horror. Che cosa ne pensa?» «Non so se i vermi debbano essere messi in relazione con quella... con quell'essere.» «E che cosa pensa che sia?» «Non ne ho idea», rispose Johanson. «Lei è un biologo. Le viene in mente qualcosa?» «Bioluminescenza. Lo fa pensare l'elaborazione del materiale video fatta da Tina. Gli esseri viventi più grandi non hanno bioluminescenza, almeno per quanto riguarda i mammiferi.» «Tina Lund ha alluso alla possibilità che si tratti di un calamaro gigante.» «Sì, ne abbiamo discusso», disse Johanson. «Ma è inverosimile. Struttura e superficie del corpo non permettono una simile conclusione. Inoltre presumiamo che gli Architeuthis vivano in tutt'altra regione.» «Allora che cos'è?» «Non lo so.» Calò il silenzio. Stone giocherellava nervosamente con una penna. «Posso chiedere che tipo di stazione state progettando?» riprese Johanson con tono riflessivo. Skaugen gettò un'occhiata a Tina. Lei scrollò le spalle. «Ho detto a Sigur che stiamo pensando a un impianto sottomarino. E che non sappiamo ancora se si potrà realizzare.» «Che cosa sa di tali strutture?» chiese Skaugen rivolto a Johanson. «Conosco i SUBSIS», rispose Johanson. «Da poco.» «Ne sa parecchio», commentò Hvistendahl. «Sta diventando uno specia-
lista, dottor Johanson. Se farà altre tre o quattro riunioni con noi...» «Il SUBSIS è un primo stadio», sbuffò Stone. «Noi siamo ben oltre il SUBSIS. Possiamo andare più in profondità e i sistemi di sicurezza scongiurano ogni rischio.» «Il nuovo sistema è progettato dalla FMC Kongsberg, una ditta che elabora soluzioni per gli abissi», spiegò Skaugen. «Si tratta di uno sviluppo del SUBSIS. In verità, non abbiamo dubbi sull'istallazione di questi sistemi. Siamo solo indecisi se portare l'oleodotto a una delle piattaforme in superficie oppure farlo arrivare fino a terra. In entrambi i casi avremmo grandi distanze e dislivelli da superare.» «Non c'è anche una terza possibilità?» chiese Johanson. «Non si potrebbe usare una nave di produzione che galleggi proprio sopra la stazione?» «Sì, ma quest'ultima sarebbe sempre sul fondo», disse Hvistendahl. «Come ho già detto, sappiamo valutare i rischi, almeno finché sono rischi definibili», proseguì Skaugen. «Coi vermi, entrano in gioco fattori che non conosciamo e non possiamo spiegare. Forse ha ragione Clifford, e potrebbe essere davvero un'esagerazione ritardare i tempi solo perché non riusciamo a catalogare una nuova specie di vermi, oppure perché qualcosa di sconosciuto nuota davanti a un obiettivo. Ma, finché non abbiamo certezze, dobbiamo muoverci con cautela e fare tutto il possibile per non correre rischi. Non le stiamo chiedendo di prendere una decisione al nostro posto, dottor Johanson. Però le chiedo: che cosa farebbe al nostro posto?» Johanson si sentiva a disagio. Stone lo fissava con crescente ostilità. Hvistendahl e Skaugen sembravano interessati, mentre Tina non tradiva la minima emozione. Avremmo dovuto metterci d'accordo prima, pensò. Ma Tina non aveva cercato di accordarsi con lui. Forse preferiva così. Forse voleva che fosse lui a mettere un freno al progetto. O forse no. Appoggiò le mani sul tavolo. «In linea di massima, costruirei la stazione», disse. Skaugen e Tina lo guardarono, sbalorditi. Hvistendahl aggrottò la fronte, mentre Stone si appoggiò allo schienale con un'espressione di trionfo. Johanson lasciò passare qualche secondo poi continuò: «Sì, la costruirei, ma solo dopo ulteriori ricerche del Geomar e dopo un suo nulla osta. Sulla creatura del video difficilmente avremo altre informazioni. Non sono nemmeno sicuro che ce ne dobbiamo occupare. Decisivo, invece, è comprendere quale effetto potrebbe avere sulla stabilità della scarpata conti-
nentale l'arrivo in massa di una specie finora sconosciuta di vermi che divora gli idrati. E anche i rischi per la stabilità che possono derivare dalle continue perforazioni. Finché tutto questo non sarà chiaro, il mio consiglio è congelare il progetto». Stone serrò le labbra. Tina sorrise. Skaugen scambiò uno sguardo con Hvistendahl. Poi guardò Johanson negli occhi e annuì. «La ringrazio, dottor Johanson. Grazie per il suo tempo.» Più tardi, quando Johanson aveva già caricato il suo fuoristrada e stava facendo un giro in casa per controllare che fosse tutto a posto, qualcuno bussò alla sua porta. Era Tina. Aveva appena iniziato a piovere e lei aveva i capelli come incollati alla testa. «È andata bene.» «Davvero?» Johanson si fece di lato per permetterle di passare. Lei entrò, si scostò i capelli bagnati dalla fronte e annuì. «In fondo, Skaugen aveva già deciso. Voleva solo la tua benedizione.» «E chi sono io, per benedire i progetti della Statoil?» «Ti ho già detto che hai un'ottima fama. Ma per Skaugen la questione va oltre. Dovrà assumersi delle responsabilità, e tutti gli esperti lavorano per la Statoil oppure sono in qualche modo collegati con le multinazionali, quindi devono essere considerati di parte. Voleva qualcuno che non giocasse sottobanco e tu sei fuori da questo vespaio e completamente disinteressato alla messa in opera della stazione.» «Allora Skaugen ha congelato il progetto?» «Finché il Geomar non avrà chiarito la situazione.» «Accidenti!» «Gli piaci.» «Anche lui mi piace.» «Sì, la Statoil si può considerare fortunata ad avere al vertice uno come lui.» Tina era rimasta nell'ingresso e teneva le braccia abbandonate lungo i fianchi. Benché fosse sempre in movimento e sicura di sé, in quel momento appariva stranamente indecisa. Frugò con gli occhi la stanza. «Dov'è il tuo bagaglio?» «Perché?» «Non volevi andare al lago?» «Il bagaglio è in macchina. Hai avuto fortuna, stavo per uscire di casa.» La fissò. «Posso fare ancora qualcosa per te, prima di potermi tranquillamente ritirare nella mia solitudine? E ti assicuro che stavolta parto! Basta
rinvii.» «Non volevo fermarti. Volevo solo raccontarti cosa aveva deciso Skaugen e...» «Molto gentile da parte tua.» «E chiederti se la tua offerta è ancora valida.» «Quale?» chiese lui, benché lo sapesse benissimo. «Mi avevi proposto di venire con te.» Johanson si appoggiò alla parete vicino al guardaroba. Improvvisamente si vide piombare addosso una montagna di problemi. «Ti ho anche chiesto che cosa ne pensa Kare.» Tina scosse bruscamente la testa. «Non devo chiedere il permesso a nessuno, se è questo che intendi.» «No, non intendevo questo. Semplicemente non voglio equivoci.» «Non ce ne saranno», disse lei, convinta. «Se voglio andare al lago, è una decisione esclusivamente mia.» «Non mi sembra il caso...» L'acqua le scendeva dai capelli e le scorreva sul viso. «Allora perché l'hai proposto?» chiese. Già, perché? si chiese Johanson. Perché mi sarebbe piaciuto. Però una cosa così, senza mandare tutto all'aria. Non si sentiva minimamente obbligato nei confronti di Kare Sverdrup. Ma l'improvvisa disponibilità di Tina ad accompagnarlo al lago lo irritava. Fino a qualche settimana prima, tra loro c'erano state solo conversazioni sporadiche e appuntamenti a pranzo che facevano parte di un flirt recitato con ironia e privo di qualsiasi sbocco. Ma quello che stava accadendo non faceva parte della solita recita. Di colpo capì che cosa lo disturbava. Nello stesso istante, comprese perché negli ultimi giorni Tina era stata così distratta nel lavoro. «Se voi due avete dei problemi, lasciami fuori dal gioco», borbottò. «Capito? Puoi venire, ma io non sono qui per mettere Kare sotto pressione.» «Forse la tua immaginazione si è spinta un po' troppo in là», disse Tina. «Va bene. Forse hai ragione. Lasciamo perdere.» «Sì.» «Devo riflettere.» «Fallo.» Una pausa di silenzio. «Va bene», disse infine Johanson. Si chinò in avanti, le diede un bacio leggero sulla guancia e la spinse gentilmente fuori. Poi chiuse la porta alle
loro spalle. Avrebbe fatto la maggior parte del tragitto col buio e sotto la pioggia, ma in fondo preferiva così. Avrebbe ascoltato Finlandia di Sibelius. Sibelius e le tenebre. Sarebbe stato perfetto. «Ritorni lunedì?» gli chiese Tina, mentre si avviavano alla macchina. «Forse domenica pomeriggio.» «Possiamo sentirci per telefono.» «Certo. Cos'hai in mente di fare?» Lui scrollò le spalle. «Il lavoro non mi manca.» Si trattenne dal fare un'altra domanda su Kare Sverdrup. Ma Tina disse: «Kare è via tutto il fine settimana. È dai suoi genitori». Johanson aprì la portiera del guidatore e si fermò. «Non devi lavorare sempre.» Lei sorrise. «No. Naturalmente no.» «Inoltre... non potresti comunque venire con me. Non ti sei portata niente per trascorrere un fine settimana al lago.» «E che cosa serve?» «Prima di tutto buone scarpe. E poi qualcosa di caldo da indossare.» Tina si guardò. Calzava stivali coi lacci dalla spessa suola. «Cos'altro serve?» chiese. «Ma sì, ti ho detto, un pullover...» Johanson si passò una mano sulla barba. «In casa ne ho qualcuno.» «Mmm. Perché non si sa mai.» «Giusto. Perché non si sa mai.» La guardò. Poi scoppiò a ridere. «Okay, signora Complicazione. Ultima possibilità per venire.» «Io sarei quella complicata?» Tina spalancò la portiera del passeggero e sorrise. «Ne discuteremo durante il viaggio.» Era già buio quando raggiunsero la strada sterrata che portava alla casupola. La jeep si arrampicò lungo la riva, sotto la silhouette degli alberi. Davanti a loro c'era il lago, simile a un cielo adagiato nella foresta, e la sua superficie era piena di stelle. Le nuvole si erano aperte, mentre a Trondheim probabilmente stava ancora piovendo. Johanson portò la valigia in casa, poi raggiunse Tina sulla veranda, facendo scricchiolare le tavole di legno. Ogni volta che andava lì si sentiva avvolgere dal silenzio che, paradossalmente, diveniva ancora più evidente perché era pieno di rumori: fruscii, stridii e leggeri crepitìi, il lontano grido di un uccello, movimenti nel sottobosco, rumori inafferrabili. Una piccola scala conduceva dalla veranda a un prato che digradava dolcemente. Da lì
si stendeva un pontile sghembo. In fondo era ormeggiata, immobile, la barca con cui a volte usciva a pescare. Tina guardava il lago. «E tutto questo è solo tuo?» chiese. «In genere sì.» Rimase in silenzio per un po'. «Devi stare proprio bene con te stesso.» Johanson sorrise. «Che cosa te lo fa pensare?» «Se qui non c'è nessun altro... vuol dire che la tua compagnia ti deve essere proprio gradita.» «Oh, sì. Quando sono qui posso fare quello che voglio. Posso piacermi, detestarmi...» Tina si voltò verso di lui. «Che cosa intendi? Che ti detesti?» «A volte. E quando accade mi detesto proprio per questo. Vieni dentro. Preparo un risotto.» Entrarono. Nella piccola cucina, Johanson affettò le cipolle, le fece soffriggere nell'olio d'oliva e aggiunse il riso carnaroli. Mescolò i chicchi di riso con un cucchiaio di legno finché non furono ricoperti di olio, aggiunse brodo di pollo e continuò a mescolare in modo che la massa non bruciasse. Nel frattempo, aveva tagliato a fettine dei funghi porcini, li aveva scottati nel burro e li aveva lasciati friggere a fuoco lento. Tina lo guardava, affascinata. Non sapeva cucinare, e Johanson lo sapeva: non aveva la pazienza necessaria per farlo. Lui stappò una bottiglia di vino rosso, lo lasciò decantare e riempì due bicchieri. La solita procedura, funzionava sempre. Avrebbero mangiato, bevuto, parlato, fumato. E poi sarebbe successo quello che di solito succedeva quando un vecchio bohémien e una giovane donna si trovavano da soli in un luogo romantico. Maledetti automatismi! Perché diavolo è venuta? Avrebbe fatto in modo che quella serata seguisse il proprio corso. Tina era seduta in cucina, indossava un pullover di Johanson e sembrava completamente rilassata, cosa che non avveniva da tempo. I tratti del suo volto avevano riacquistato delicatezza. Lui era irritato: aveva cercato di convincersi che lei non era il suo tipo... Troppo frenetica, troppo nordica, coi suoi capelli lisci e biondissimi. Adesso doveva ammettere che non era vero. Avresti potuto trascorrere un lungo, tranquillo fine settimana, pensò. Ma hai voluto proprio complicarti la vita, idiota! Mangiarono in cucina. A ogni bicchiere, Tina era sempre più rilassata. Parlarono del più e del meno e stapparono un'altra bottiglia.
Intorno a mezzanotte, lui disse: «Non fa tanto freddo. Hai voglia di fare un giro in barca?» Tina si portò le mani alla fronte e sorrise. «Con nuotata?» «Al tuo posto, lascerei perdere. Forse tra un paio di mesi, quando farà più caldo. No, andiamo in mezzo al lago, portiamo con noi la bottiglia e...» S'interruppe. «E?» chiese lei. «Guardiamo le stelle.» Si fissarono a lungo e Johanson sentì che la sua resistenza interiore stava cedendo. Sentiva se stesso dire cose che non avrebbe voluto dire; c'era qualcosa che premeva tutti i pulsanti giusti e tirava tutte le leve giuste per azionare il meccanismo. Risvegliava aspettative, invitava se stesso e Tina a fare quello che in genere si era portati a fare se ci si trova nei pressi di un lago solitario in compagnia di qualcuno. Avrebbe voluto essere ancora a Trondheim e, nel contempo, desiderava stringerla tra le sue braccia. Le si avvicinò finché non sentì il suo respiro sul viso. Malediceva la piega che avevano preso le cose, ma nel contempo non riusciva a trattenersi. «Bene. Allora andiamo», decise. Fuori non c'era vento. Percorsero il pontile e saltarono sulla barca. Tina perse l'equilibrio, e Johanson le afferrò un braccio. Avrebbe voluto ridere. Come nei film, pensò. Come in un maledetto filmetto romantico con Meg Ryan che inciampa e il protagonista che l'afferra. Santo cielo! Era una barchetta di legno, e gli era stata venduta insieme con la casa. La prua era coperta da un'asse che formava una piccola stiva. Tina si sedette là sopra a gambe incrociate, mentre Johanson accendeva il motore. Il cupo borbottio non sembrò disturbare la pace di quella magnifica notte attraversata dai rumori della foresta. Sembrava piuttosto in armonia con essi. Durante il breve viaggio non dissero neppure una parola. Infine Johanson mise al minimo il motore e poi lo spense. Si trovavano a buona distanza dalla casa. Lui aveva lasciato accese le luci della veranda, che si specchiavano nell'acqua vicina alla riva formando strisce increspate. Ogni tanto si sentiva un leggero tonfo: erano pesci che balzavano fuori dall'acqua per prendere un insetto. Johanson si avvicinò a Tina, la bottiglia piena a metà nella mano destra. La barca dondolava dolcemente. «Stenditi sulla schiena... e l'universo con tutto quello che racchiude sarà tuo. Prova», la invitò. Tina lo guardò. I suoi occhi splendevano nell'oscurità. «Hai mai visto le stelle cadenti?» gli chiese.
«Sì. Più volte.» «E hai desiderato qualcosa?» «Sono piuttosto carente di sostanza romantica.» Si sedette accanto a lei. «Me le sono semplicemente gustate.» Tina ridacchiò. «Non credi a niente, vero?» «E tu?» «Io sono l'ultima persona al mondo che possa credere a qualcosa.» «Lo so. I fiori o le stelle cadenti non hanno il minimo effetto su di te. Kare avrà il suo bel daffare. La cosa più romantica che ti si possa regalare è un'analisi di stabilità delle costruzioni marine ad alta tecnologia.» Tina continuava a guardarlo. Poi gettò all'indietro la testa e si distese lentamente. Il pullover si alzò, mettendo in mostra l'ombelico. «Lo credi davvero?» Lui si appoggiò ai gomiti e la osservò. «No, non lo credo.» «Credi che non sia romantica?» «Credo che tu non abbia mai pensato che cosa vuol dire essere romantici.» I loro sguardi s'incontrarono un'altra volta. A lungo. Troppo a lungo. Johanson si ritrovò le dita tra i capelli di lei e li accarezzò lentamente. «Forse puoi farmi vedere che cosa vuol dire», sussurrò lei, chinandosi in avanti. Tra le loro labbra vibrava un sottile strato di aria calda. Lui le mise una mano dietro la nuca. I loro occhi erano chiusi. Baciare. Ora. Nel cervello di Johanson, si rincorrevano migliaia di rumori e di pensieri, che poi si condensarono in un vortice, lacerando la sua concentrazione. Entrambi erano ancora immobili, ma carichi di tensione, come in attesa di un segnale, di un'autorizzazione: qui, prego, in duplice copia, una per lei e una per lei. Adesso può baciare la sposa. Ora può essere appassionato, veramente appassionato. Non è così male, ma ora, per favore, ci creda! Sia appassionato, uomo! Che succede? pensò lui. Cosa c'è che non va? Sentiva il calore del corpo di Tina, sentiva il suo profumo, ed era un profumo raffinato, fantastico, invitante. Però era come se fosse nel posto sbagliato. Quell'invito non era rivolto a lui. «Non funziona», disse Tina nello stesso istante.
Per la durata di un respiro, ancora sospeso sul crinale tra capitolazione e orgogliosa resistenza, Johanson si sentì come se fosse caduto nell'acqua gelida. La tensione sparì. Si spense. Quello che restava delle braci della passione si volatilizzò nell'aria limpida del lago e lasciò spazio a un incredibile sollievo. «Hai ragione», disse. Si sciolsero lentamente l'uno dall'altra, contrariati, come se i loro corpi non avessero ancora compreso quello che le menti avevano già pattuito da tempo. Lui vide negli occhi della donna la stessa domanda che probabilmente Tina stava leggendo nei suoi: Abbiamo rovinato tutto? Abbiamo mandato tutto all'aria? Lo abbiamo distrutto per sempre? «Tutto okay?» le chiese. Tina non rispose. Johanson si mise seduto davanti a lei, con la schiena appoggiata al bordo della barca. Poi ricordò che teneva ancora in mano la bottiglia, e gliela porse. «Evidentemente la nostra amicizia è troppo forte per l'amore.» Sapeva che suonava banale e patetico, ma sortì l'effetto voluto. Lei si mise a ridacchiare, prima con nervosismo, poi evidentemente sollevata. Prese la bottiglia, bevve una lunga sorsata, e rise ancora di più. Si coprì il volto con una mano come se volesse cancellare quella risata troppo forte e del tutto fuori luogo, ma essa continuava a uscire, sebbene soffocata dalle dita. Poi anche Johanson scoppiò a ridere senza freni. «Puah!» fece lei. Rimasero in silenzio per un po'. «Sei arrabbiato?» gli chiese infine a bassa voce. «No, e tu?» «Io... no, non sono arrabbiata. Per niente. È solo che... È tutto così sconclusionato. Sulla Thorvaldson, sai, la sera nella tua cabina, ancora un minuto e... voglio dire, sarebbe potuto succedere, ma oggi...» Le prese di mano la bottiglia e bevve. «No», disse lui. «Siamo sinceri, sarebbe andata nello stesso modo. Proprio come stasera.» «Da che cosa dipende?» «Tu lo ami.» Tina strinse le braccia intorno alle ginocchia. «Parli di Kare?» «E chi se no?» Rimase a fissare il vuoto, per molto tempo, e Johanson bevve di nuovo. Non era compito suo fare chiarezza nei sentimenti di Tina Lund. «Credevo di potergli sfuggire, Sigur.»
Pausa. Se Tina si aspettava una risposta, l'avrebbe aspettata a lungo, pensò lui. Avrebbe dovuto capirlo da sola. «Siamo sempre stati così distanti, tu e io», disse Tina dopo un po'. «Nessuno dei due voleva legarsi: una premessa ideale. Però non l'abbiamo mai verificata. Non c'è stato un solo momento in cui abbia pensato: ora deve assolutamente succedere. Io... non sono mai stata innamorata di te. Non ho mai voluto essere innamorata. Ma l'idea che prima o poi potesse succedere aveva un suo fascino. Ognuno continua a vivere la propria vita: niente obblighi, niente legami. Ero addirittura convinta che sarebbe successo presto, lo credevo ineluttabile! Poi improvvisamente è arrivato Kare, e ho pensato: mio Dio, che dolce legame! Tutto o niente. L'amore è un dolce legame e questo è...» «Questo è amore.» «A dire la verità, pensavo fosse altro. Come l'influenza. Non riuscivo più a concentrarmi sul lavoro, ero costantemente altrove con la testa, avevo la sensazione che mi mancasse la terra sotto i piedi, ed è una cosa che nella mia vita non ha senso.» «Così hai pensato che, prima di perdere definitivamente il controllo, era il caso di verificare l'opzione uno.» «Sei arrabbiato!» «No. Ti capisco. Neanch'io ero innamorato di te.» Rifletté. «Ti ho desiderato. Tra parentesi, proprio da quando sei insieme con Kare. Ma io sono un vecchio cacciatore. Pensavo fosse seccante che qualcuno mi contendesse la preda, non lo sopportavo e ciò ha offeso la mia vanità...» Sorrise. «Hai visto quello splendido film con Cher e Nicolas Cage, Stregata dalla luna? Uno chiede: come mai gli uomini vogliono andare a letto con le donne? E la risposta è: perché hanno paura della morte. Mmm. Come mi è venuto in mente?» «Perché tutto ha a che fare con la paura. La paura di essere soli, la paura che accada qualcosa senza essere interpellati; ma la peggiore di tutte è la paura di scegliere e sbagliare... Tu e io non potremo avere altro che un rapporto, ma con Kare... Con Kare non posso avere altro che un legame. Non c'è voluto molto perché lo capissi. Si desidera qualcuno che non si conosce neppure, lo si vuole a ogni costo. Ma puoi ottenerlo solo se prendi anche tutta la sua vita. Da qui nasce una sorta d'incertezza che rende diffidenti.» «Perché potrebbe rivelarsi un errore.» Lei annuì.
«Sei già stata con qualcuno?» chiese. «In questo modo, voglio dire.» «Una volta», rispose Tina. «Molto tempo fa.» «Il tuo primo amore?» «Mmm.» «Cos'è successo?» «Nulla di originale. Davvero. Io mi aspettavo qualcosa di travolgente, ma di fatto lui a un certo punto ha detto basta e a me è rimasto solo il dolore.» «E poi?» Appoggiò il mento sulle mani. Se ne stava lì, seduta nella luce della luna, con una piccola ruga verticale tra le sopracciglia: era splendida. Tuttavia Johanson non sentiva la minima traccia di rammarico. Né per quello che aveva cercato di fare, né per com'era andata. «Dopo sono sempre stata io a lasciare gli altri.» «L'angelo vendicatore.» «Sciocchezze. No, a volte quelli che conoscevo mi davano sui nervi. Troppo lenti, troppo carini, troppo duri di comprendonio. Altre volte sono scappata per mettermi al sicuro prima... Lo sai che sono veloce.» «Non costruiamoci una bella casa, perché potrebbe arrivare una tempesta e distruggerla.» Tina sollevò gli angoli della bocca. «Troppo elegiaco per me.» «Può essere. Ma è così.» «Sì, può essere.» Tina aggrottò la fronte. «C'è anche un'altra possibilità: costruisci la casa e, prima che qualcuno la possa distruggere, la distruggi tu stesso.» «Kare uguale casa.» Da qualche parte, un grillo iniziò a cantare. Lontano, un altro gli rispose. «Ci sei quasi riuscita», disse Johanson. «Se oggi avessimo fatto l'amore, avresti avuto motivi sufficienti per dare a Kare il benservito.» Lei non rispose. «Credi che saresti riuscita a ingannare te stessa?» «Mi sarei detta che, per il mio stile di vita, sarebbe stato decisamente meglio un rapporto con te, invece di stringere un legame. Andare a letto con te l'avrebbe in un certo senso... confermato.» «Ti saresti scopata la tua conferma, in un certo senso.» «No.» Lo fulminò con un'occhiata. «Che tu ci creda o no, ti volevo proprio.» «Va bene.»
«Tu non sei semplicemente quello che mi serve per fuggire, se è questo che pensi. Non ti ho solo...» «Va bene, va bene!» Johanson sollevò le mani. «Sei innamorata.» «Sì», replicò lei in tono cupo. «E non dirlo in quel tono. Ripetilo» «Sì. Siiì!» «Va meglio», sorrise lui. «E ora, dopo averti rivoltata come un calzino e aver visto che sei una fifona, potremmo vuotare il resto della bottiglia alla salute di Kare.» «Non lo so», disse lei con un sorriso tirato. «Non sei ancora sicura?» «A volte sì. A volte no. Sono... confusa.» Johanson fece passare la bottiglia da una mano all'altra, poi disse: «Io ho già distrutto una casa, Tina. Tanti anni fa. Ed eravamo ancora dentro la casa quando l'ho distrutta. Abbiamo sofferto, ma ce la siamo cavata. O, meglio, uno dei due se l'è cavata. Ancora oggi non so se sia stato giusto». «Chi era l'altro abitante?» «Mia moglie.» Tina sollevò le sopracciglia. «Sei stato sposato?» «Sì.» «Non me l'avevi mai detto.» «Ci sono molte cose che non ti ho raccontato. Mi piace tenere i segreti.» «Cos'è successo?» «È successo e basta.» Sospirò. «Divorzio.» «Perché?» «Così. Senza un motivo particolare. Niente scenate, niente piatti che volano. Solo la sensazione che la mia vita fosse a un punto morto. E in verità, la paura che potesse rendermi... dipendente. Vedevo profilarsi all'orizzonte una famiglia, bambini e un botolo bavoso in giardino; mi vedevo assumermi la responsabilità dei bambini, del cane e, giorno dopo giorno, la responsabilità annientava l'amore... Allora, il divorzio mi era sembrata la cosa più saggia.» «E oggi?» «A volte penso che forse è stato l'unico errore della mia vita.» Guardò trasognato il lago. Poi si riprese la bottiglia e la sollevò. «In questo senso: arrivederci! Quello che vuoi fare, fallo.» «Io non so cosa fare», disse. «Non lasciarti prendere dalla paura. Hai ragione, tu sei veloce. Sii più
veloce della paura». La guardò. «Quando ho deciso per il divorzio, la paura è stata più veloce di me. Qualunque cosa tu decida senza la spinta della paura, è la decisone giusta.» Tina sorrise. Poi si chinò verso di lui e prese la bottiglia. Con grande sorpresa di Johanson, rimasero al lago per tutto il fine settimana. La loro storia d'amore era andata a monte durante la notte, e lui pensava che, il giorno seguente, Tina gli avrebbe chiesto di tornare a Trondheim. Ma si sbagliava. La situazione si era chiarita. Erano venute meno le basi del loro eterno flirt. Avevano trascorso il tempo tra passeggiate, chiacchiere e risate; avevano scacciato dalla mente il resto del mondo - l'università, le piattaforme di perforazione, i vermi - e Johanson aveva cucinato i migliori spaghetti alla bolognese della sua vita. Era stato il più bel fine settimana al lago che riuscisse a ricordare. Rientrarono domenica sera. Johanson accompagnò Tina fino alla porta di casa. Per un attimo, poco dopo essere entrato in casa propria, Johanson avvertì di nuovo, dopo molti anni, la differenza tra stare solo ed essere solo. Ricacciò indietro quel pensiero perché rischiava di scatenare una serie di dubbi su se stesso e renderlo malinconico. Doveva fermarsi prima. Portò la valigia in camera da letto. Anche lì c'era un televisore, come in salotto. Johanson lo accese e fece zapping finché non trovò la trasmissione di un concerto alla Royal Albert Hall. Kiri Te Kanawa cantava arie della Traviata. Lui cominciò a disfare la valigia, canticchiando le arie trasmesse dalla televisione e riflettendo sulla reale natura del suo immancabile drink della buonanotte. Dopo un po' la musica finì. Preso dalle difficoltà di piegare una camicia, non si era accorto che il concerto era terminato. Stava lottando con una manica riottosa e in sottofondo si sentiva il telegiornale. «... resa nota dal Cile. Per ora non è confermato che la scomparsa della famiglia norvegese sia in relazione con altri casi simili avvenuti contemporaneamente sulle coste del Perú e dell'Argentina. Anche lì, nelle scorse settimane, sono sparite molte barche di pescatori; alcune sono state avvistate col motore acceso, ma senza nessuno a bordo. Per il momento, non c'è traccia dei passeggeri. La famiglia composta da cinque persone era partita con un trawler per fare pesca d'altura. Le condizioni meteorologiche erano ottime e il mare calmo.» Piega la manica verso destra e mettila all'interno. Che cos'hanno detto
in televisione? «Nel frattempo, il Costarica ha registrato un'invasione di meduse di dimensioni insolite. Migliaia di caravelle portoghesi sono comparse nei pressi della costa. Quattordici pèrsone venute in contatto con queste velenosissime meduse sono morte, molte altre sono rimaste ferite, tra queste due inglesi e un tedesco. Un numero ancora imprecisato di persone è disperso. L'ente del turismo del Costarica ha annunciato l'istituzione di un'unità di crisi, ma smentisce la notizia che le spiagge sarebbero state chiuse ai turisti. Al momento non c'è nessun pericolo immediato per la balneazione.» Johanson s'immobilizzò con la manica della camicia in mano. «Che bastardi», mormorò. «Quattordici morti. Avrebbero già dovuto chiudere tutto.» «Anche davanti alla costa australiana, banchi di meduse hanno creato preoccupazioni. Dovrebbe trattarsi delle vespe di mare, animali molto velenosi. Le autorità locali sconsigliano vivamente la balneazione. Negli ultimi cento anni, in Australia sono morte diciassette persone a causa del veleno delle vespe di mare, un numero superiore a quello delle vittime dovute agli attacchi degli squali. Si è inoltre saputo di gravi incidenti mortali anche nelle acque del Canada occidentale. Non si conoscono ancora le cause dell'affondamento di diverse imbarcazioni da turismo. Probabilmente sono entrate in collisione tra loro per un errore di navigazione.» Johanson si girò. L'annunciatrice del telegiornale stava voltando un foglio e intanto fissava la telecamera con un sorriso vuoto. «E ora le altre notizie del giorno.» Caravelle portoghesi, pensò Johanson. Ricordava una donna a Bali che, scossa dai crampi, era accovacciata sulla spiaggia. Lui non era entrato in contatto con quella «cosa». E neppure la donna aveva toccato la caravella. Durante una passeggiata sulla spiaggia, avevano pescato con un bastone una cosa nell'acqua bassa vicino a riva, qualcosa che era parso loro di una bellezza strana e singolare, una sorta di vela eterea galleggiante. Dato che lui era molto prudente, era rimasto a una certa distanza. Avevano girato la cosa da una parte e dall'altra alcune volte, finché, essendo ricoperta di sabbia, aveva perso ogni fascino, e poi lei aveva commesso quello stupido errore... Le caravelle portoghesi appartenevano ai sifonofori, una famiglia che presentava per gli scienziati ancora molti enigmi. In realtà, le caravelle non erano propriamente meduse, ma una colonia navigante, formata da un gran numero di singoli animali, centinaia o migliaia, con compiti diversificati.
La loro vela di gelatina cangiante, blu o rossa, riempita d'aria s'innalzava sull'acqua e permetteva alla colonia di navigare col vento. Quello che c'era sotto la vela non si vedeva. Però, se ci si finiva in mezzo, si sentiva. Le caravelle portoghesi trascinavano dietro di sé una cortina di tentacoli che potevano raggiungere i cinquanta metri di lunghezza, ricoperti da centinaia di migliaia di minuscole cellule urticanti, dotate di sensori. La struttura e la funzione di quelle cellule rappresentavano un capolavoro dell'evoluzione, un efficientissimo arsenale. Ogni cellula custodiva una capsula, in cui si trovava una sorta di tubicino arrotolato, che terminava con una punta a forma di arpione e che veniva rovesciato all'esterno come il dito di un guanto. Bastava sfiorarlo per mettere in moto una dinamica impressionante nella sua precisione. Nel momento in cui il sensore registrava il contatto, il tubicino si srotolava con la stessa pressione di settanta pneumatici che scoppiavano. Migliaia di arpioni ricoperti di uncini penetravano nel corpo della vittima, come punture sottocutanee, e iniettavano una miscela di albumina e proteine, che attaccava contemporaneamente i globuli rossi e le cellule nervose. La conseguenza era un'immediata contrazione della muscolatura. Si avvertivano dolori come se del metallo fuso entrasse nel corpo, si entrava in uno stato di shock, la respirazione si bloccava e infine si aveva un collasso cardiaco. Se si aveva la fortuna di trovarsi nei pressi della riva e si veniva soccorsi subito, si poteva sopravvivere. I sommozzatori o i nuotatori che finivano nel groviglio dei tentacoli al largo non avevano speranze. Quella donna, a Bali, non aveva fatto altro che toccare con un dito del piede il bastone su cui era rimasto un po' di veleno. Una quantità piccola, ma sufficiente perché l'incontro diventasse indimenticabile. Tuttavia, in confronto alla Chironex fleckeri, alla vespa di mare australiana, le caravelle portoghesi erano praticamente innocue. Nel corso della storia dell'evoluzione, la natura era arrivata a creare impressionanti miscele di veleni. E, nel caso delle vespe di mare, aveva fatto un vero capolavoro. Il veleno di un unico animale era sufficiente a uccidere duecentocinquanta uomini. L'efficientissimo inibitore nervoso provocava un'immediata perdita di coscienza. La maggior parte delle vittime moriva per collasso cardiaco e annegamento nel giro di alcuni minuti, spesso addirittura di qualche secondo. Mentre fissava il televisore, Johanson ragionava su quei fatti. Stavano cercando di prendere per scemi i telespettatori. Era mai succes-
so che su un'unica costa ci fossero quattordici morti contemporaneamente? E che tutte le vittime fossero state uccise dalla stessa specie di meduse? E che cosa voleva dire quell'altra storia, quella della scomparsa delle navi? Caravelle portoghesi nel Sudamerica, vespe di mare in Australia, invasione di policheti in Norvegia. Non vuol dire niente, pensò. Le meduse si muovono in banchi. E non c'è estate senza la piaga delle meduse. I vermi erano un'altra faccenda. Ripose gli ultimi capi d'abbigliamento, spense il televisore e andò in sala per ascoltare un CD o per leggere qualcosa. Ma Johanson non ascoltò un CD e non prese neppure un libro. Andò avanti e indietro, poi guardò dalla finestra la strada illuminata dai lampioni. Era così tranquillo, al lago. Era così tranquillo, lì. Ma, se era tutto troppo tranquillo, allora qualcosa non andava. Sciocchezze, pensò Johanson. Che cosa c'entra via Kirkegata con tutto ciò? Si versò una grappa, la sorseggiò e cercò di non pensare al telegiornale. Gli venne in mente qualcuno che avrebbe potuto chiamare per avere informazioni. Olsen rispose dopo il terzo squillo. «Stavi già dormendo?» chiese Johanson. «I bambini mi hanno tenuto sveglio», disse Olsen. «È il compleanno di Maria, ha cinque anni. Com'è andata al lago?» Olsen era un padre di famiglia sempre di ottimo umore. Conduceva una vita borghese, cioè una vita che faceva inorridire Johanson. Non si frequentavano al di fuori del lavoro, se non per la pausa di mezzogiorno. Ma Olsen era una brava persona ed era dotato di senso dell'umorismo. Doveva avere per forza senso dell'umorismo, altrimenti, secondo Johanson, non avrebbe potuto reggere a cinque figli e a una dozzina di parenti sempre intorno. «Qualche volta dovresti venire con me», gli propose Johanson, senza pensarlo davvero. Con la medesima convinzione avrebbe potuto dirgli: «Dovresti far saltare per aria la tua macchina» oppure: «Dovresti vendere un paio dei tuoi bambini». «Certo, volentieri», rispose Olsen. «Hai visto il telegiornale?» Ci fu una breve pausa. «Vuoi dire per le meduse?» «Esatto! Pensavo che t'interessasse. Cos'è successo?»
«E cosa vuoi che sia successo? Le invasioni ci sono sempre state. Rane, cavallette, meduse...» «Mi riferisco in particolare alle caravelle portoghesi e alle vespe di mare.» «Questo è insolito», disse Olsen. «Ne sei sicuro?» «È insolito che le due specie più pericolose di meduse turbino il mondo. E quello che hanno detto al telegiornale suona quantomeno bizzarro.» «Diciassette morti in cento anni», suggerì Johanson. «Stupidate.» Olsen sbuffò, sprezzante. «Meno?» «Di più! Molte di più, circa novanta, se conti anche il golfo del Bengala e le Filippine, per non parlare dei dati nascosti. Naturalmente l'Australia ha problemi con quella robaccia gelatinosa, specialmente con le vespe di mare, da tempo immemorabile. Le vespe di mare depongono le uova a nord di Rockhampton, alle foci dei fiumi. Quasi tutti gli incidenti accadono nelle acque basse. Nel giro di tre minuti sei morto.» «La stagione è giusta?» chiese Johanson. «Per l'Australia, sì. Da ottobre a maggio. In Europa, rompono le scatole quando sulle spiagge si muore dal caldo. L'anno scorso eravamo a Minorca e quasi i bambini ci sono finiti in mezzo, perché c'erano tonnellate di Velella...» «Cosa c'era?» «Velella velella, detta anche barchetta san Pietro. Molto carina, se non comincia a puzzare al sole proprio davanti a te. Una cosettina violetta. Tutta la spiaggia era lilla... Le hanno infilate con pale e rastrelli in centinaia di sacchi, non puoi fartene un'idea, e dal mare ne arrivavano in continuazione. Lo sai che sono un fan delle meduse, ma era troppo anche per me. Mi sono sentito urlare nelle orecchie da mattina a sera. Comunque, in Europa, abbiamo la piaga delle meduse in agosto o in settembre, ma in Australia è naturalmente il contrario. Quello che accade laggiù è singolare.» «E cosa ci sarebbe di singolare?» «Le vespe di mare si avvicinano alla spiaggia dov'è piatta», spiegò Olsen. «Al largo della costa è difficile trovarle. E non sono mai state viste prima nei pressi della Grande Barriera Corallina. Ma ho sentito che c'erano anche là. Per quanto riguarda le Velella è diverso. Normalmente stanno in mare aperto. Ancora oggi non sappiamo che cosa le porti sulle spiagge ogni due decenni... Anzi sappiamo poco delle meduse in generale.»
«Le spiagge non vengono protette con le reti?» domandò Johanson. Olsen rise a squarciagola. «Sì, e la gente s'illude che funzionino, ma non servono a niente. Le meduse rimangono impigliate nelle reti, ma i tentacoli si staccano e passano attraverso le maglie. E quelli non si vedono.» Fece una pausa. «Perché sei così ansioso di sapere tutte queste cose? È un argomento che conosci bene.» «Sì, ma non quanto te. M'interessa scoprire se abbiamo davvero a che fare con delle anomalie.» «Ci puoi scommettere», ringhiò Olsen. «Guarda che la comparsa delle meduse è sempre legata alle alte temperature dell'acqua e allo sviluppo del plancton. Sai bene che, se c'è un bel calduccio, il plancton si sviluppa alla grande, e le meduse mangiano il plancton. Così il cerchio si chiude. Ecco perché quegli animaletti compaiono nella tarda estate e spariscono qualche settimana dopo. Questo è il corso delle cose... Aspetta un attimo.» In sottofondo si sentiva urlare. Johanson si chiese quando andavano a letto i figli di Olsen e soprattutto se mai ci andassero. In passato, ogni volta che aveva telefonato a Olsen, le cose erano andate sempre nello stesso modo. Olsen gridò qualcosa per contenere la lite. Le urla si fecero ancora più alte, poi cessarono e lui fu di nuovo al telefono. «Scusa. Litigano per i regali. Allora, se vuoi sentire il mio parere, simili invasioni di meduse derivano dall'eccessiva fertilizzazione del mare. La colpa è nostra. La fertilizzazione provoca la crescita del plancton e così via. Quando i venti soffiano da ovest o da nordovest, ce le troviamo davanti alla porta di casa.» «Sì, ma quelle sono invasioni del tutto normali. Qui parliamo di...» cominciò Johanson. «Aspetta. Volevi sapere se siamo di fronte a un'anomalia. La risposta è sì. E verosimilmente si tratta di un'anomalia che non riconosciamo come tale. A casa hai delle piante?» «Che? Ah, sì.» «Una yucca?» «Sì. Due.» «Anomalie. Capisci? La yucca è importata, e pensa un po' da chi.» Johanson strabuzzò gli occhi. «Voglio sperare che non ti metterai a parlare di un'invasione di yucca. Le mie sono assolutamente pacifiche.» «Non voglio dire questo. Voglio dire semplicemente che non siamo più in grado di giudicare cos'è naturale e cosa no. Nel 2000 sono stato nel golfo del Messico per fare ricerche sulle invasioni di meduse. Giganteschi
banchi di roba tremolante minacciavano la sopravvivenza dei pesci. Avevano invaso la Louisiana, il Mississippi e l'Alabama e divoravano le uova e le larve dei pesci, come pure il plancton. La maggior parte dei danni è stata fatta da una specie che in realtà non doveva essere là: era una medusa australiana, la medusa del Pacifico. Importata.» «Invasione biologica», disse Johanson. «Esatto. Distruggono la catena alimentare e pregiudicano la pesca. Una catastrofe. Qualche anno prima, si è sfiorato il disastro ecologico nel mar Nero, perché, negli anni '80, qualche nave da carico aveva importato con l'acqua di zavorra alcune meduse. Non erano originarie di quella zona. All'inizio la situazione è stata sgradevole, poi il mar Nero si è ritrovato nella merda. C'erano oltre ottomila meduse per metro quadrato... Sai cosa vuol dire?» Era infuriato. «E ora questa faccenda delle caravelle portoghesi. Sono comparse in Argentina, e non è la loro zona. Certo, l'America centrale, anche il Perú, forse il Cile. Ma così a sud? Quattordici morti in un colpo! Sembra un attacco. E poi le vespe di mare. Che ci fanno così vicine alla costa? È come se qualcuno le avesse stregate.» «Quello che mi dà da pensare è che si tratta proprio delle due specie più pericolose», disse Johanson. «Proprio così», confermò Olsen. «Ma aspetta un attimo; qui non siamo in America, e non mi lancerei a fare ipotesi di una cospirazione. Ci sono altre spiegazioni. Alcuni pensano che sia colpa del Niño, altri dicono che sia colpa del riscaldamento della Terra. A Malibu c'è stata un'invasione di meduse come non se ne vedeva da decenni; a Tel Aviv sono comparsi dei cosi giganteschi. Riscaldamento, importazione, si spiega tutto.» Johanson ormai lo ascoltava appena. Olsen aveva detto una cosa che continuava ad assillarlo: Come se qualcuno le avesse stregate. «... si accoppiano nelle acque basse», stava continuando Olsen. «E un'altra cosa: se parliamo di una nascita insolitamente elevata, non parliamo di migliaia, bensì di milioni. E questo vuol dire che la situazione non è sotto controllo. Non sono morte solo quattordici persone, ma molte di più, te lo garantisco io.» «Mmm...» «Mi stai ancora ascoltando?» «Certo. Ho l'impressione che sia tu ora a spacciare teorie su qualche cospirazione.» Olsen rise. «Sciocchezze. Di certo si tratta di anomalie. Osservato in superficie, ha l'apparenza di un fenomeno ciclico, ma secondo me è qualco-
s'altro.» «Te lo dice la tua pancia?» chiese Johanson. «La mia pancia mi dice che stasera ho mangiato involtino di manzo. Non è in grado di dire altro. No, lo dice la mia testa.» «Bene. Grazie. Volevo solo sentire la tua opinione.» Rifletté. Doveva raccontare a Olsen dei vermi? Forse la Statoil non sarebbe stata particolarmente felice di dare in pasto all'opinione pubblica quell'argomento, e Olsen parlava un po' troppo. «Ci vediamo domani a pranzo?» chiese Olsen. «Sì, volentieri.» «Vedrò se riesco a raccogliere qualcos'altro sulla faccenda.» «Va bene. A domani», disse Johanson e riagganciò. Solo in quel momento rammentò che avrebbe voluto chiedere a Olsen anche della navi scomparse. Ma non voleva ritelefonargli. Il giorno dopo ne avrebbe saputo abbastanza. Si chiese se l'invasione delle meduse l'avrebbe elettrizzato allo stesso modo se non avesse saputo dei vermi. No. Probabilmente no. Non erano le meduse. Erano le connessioni. Ammesso che ce ne fossero davvero. Il mattino seguente, durante il tragitto verso l'NTNU, Johanson aveva ascoltato il notiziario, non aveva scoperto niente di più di quanto già sapeva: c'erano barche e persone disperse in diverse parti del mondo. Si facevano speculazioni a non finire, ma nessuno forniva una vera spiegazione. La sua prima lezione era alle dieci; aveva quindi tempo sufficiente per leggere le e-mail e la posta. Fuori pioveva a dirotto e un cielo plumbeo incombeva su Trondheim. Quando Olsen infilò la testa nel suo ufficio, Johanson aveva appena acceso la lampada da tavolo e si era messo alla scrivania con una tazza di caffè, necessaria per svegliarsi completamente. «Folle, vero?» esclamò Olsen. «Non finisce.» «Che cosa non finisce?» «Una notizia funesta dopo l'altra. Non ascolti i notiziari?» Johanson si dovette concentrare. «Parli delle navi scomparse? Volevo proprio chiedere la tua opinione. Ieri, a furia di parlare di meduse, me ne sono dimenticato.» Olsen scosse la testa ed entrò. «Pensavo che mi volessi offrire un caffè», disse, guardandosi intorno con interesse. Tra le caratteristiche allo stesso tempo apprezzabili e snervanti di Olsen c'era anche la curiosità.
«Nella stanza a fianco», spiegò Johanson. Olsen si appoggiò alla porta aperta che si apriva sull'ufficio contiguo e ordinò ad alta voce un caffè. Poi si sedette e lasciò vagare lo sguardo nella stanza. La segretaria entrò, posò sgarbatamente una tazza sulla scrivania e, prima di andarsene, indirizzò a Olsen uno dei suoi sguardi assassini. «Ma che cos'ha?» si meravigliò Olsen. «Il caffè io me lo faccio sempre da solo», disse Johanson. «La caffettiera è proprio lì di fianco con latte, zucchero e tazze.» «Permalosa la signora, eh? Mi dispiace. La prossima settimana porterò dei biscotti fatti in casa. Mia moglie fa dei biscotti fantastici.» Olsen bevve rumorosamente. «Non hai sentito le ultime notizie?» «Certo, in auto mentre venivo qui.» «Dieci minuti fa c'è stata una breaking news della CNN. Sai che in ufficio ho un piccolo televisore... È acceso tutto il giorno.» Olsen si chinò in avanti. La luce della lampada da tavolo si rifletteva nella sua calvizie incipiente. «In Giappone è esplosa una nave che trasportava gas. Quasi contemporaneamente, nello stretto di Malacca, sono entrate in collisione due portacontainer e una fregata. Per essere precisi, una delle navi portacontainer è affondata e l'altra, ormai ingovernabile e in fiamme, è finita contro la fregata militare. C'è stata un'esplosione.» «Mio Dio.» «Ed è ancora mattina presto.» Johanson si scaldò le mani con la tazza. «Per quanto riguarda lo stretto di Malacca non mi sorprende. È strano che non capiti più spesso...» «Sì, ma questa è una strana coincidenza, non credi?» C'erano tre stretti che concorrevano per il titolo di via d'acqua più trafficata del mondo: il canale della Manica, lo stretto di Gibilterra e lo stretto di Malacca, che si trovava sulla rotta dall'Europa verso l'Asia sudorientale e il Giappone. Il problema del commercio mondiale via mare gravitava intorno a quei tre stretti. Solo nello stretto di Malacca transitavano ogni giorno circa seicento tra superpetroliere e cargo e, talvolta, fino a duemila navi percorrevano le acque tra Malaysia e Sumatra, in un canale lungo quattrocento chilometri, ma largo solo ventisette nel punto più stretto. India e Malaysia insistevano affinché i capitani delle petroliere facessero rotta verso sud e attraversassero lo stretto di Lombok, ma era come parlare ai sordi. La deviazione riduceva il guadagno. Così circa il quindici per cento del commercio mondiale continuava a transitare per lo stretto di Malacca. «Si sa com'è successo?» chiese Johanson.
«No. L'incidente è appena avvenuto.» «Terribile.» Johanson bevve un sorso. «Ma che razza di storia è, quella delle navi scomparse?» «Come? Non ne sai nulla neppure tu?» «Altrimenti non avrei chiesto», borbottò Johanson, un po' nervoso. Olsen si chinò in avanti e abbassò la voce. «Pare che nel Sudamerica, sulla costa del Pacifico, da tempo spariscano bagnanti e pescherecci. Sono fatti di cui si parla poco, specialmente in Europa. Il tutto è iniziato in Perú. Prima è sparito un pescatore: la sua barca è stata ritrovata qualche giorno dopo in mare aperto. Trattandosi di una piccola barca di giunchi, si è ipotizzato che l'uomo fosse stato trascinato in mare da un'onda, ma da settimane in quella zona il tempo era buono. Dopodiché cose simili si sono ripetute in continuazione. Infine è scomparso un piccolo trawler.» «Santo cielo, come mai non se n'è saputo nulla?» Olsen allargò le braccia. «Perché nessuno ama fare pubblicità a queste cose. Il turismo è troppo importante. Inoltre sono accadute in una zona lontanissima, dove vivono molti uomini con la pelle scura e i capelli lunghi che a noi sembrano tutti uguali.» «Però sulle meduse le informazioni le hanno date, benché le invasioni siano avvenute lontano da qui.» «C'è una bella differenza, no? Là sono morti veri turisti americani, un tedesco e chissà chi altro. In Cile è sparita una famiglia norvegese. Sono usciti in mare con un peschereccio per un'escursione gestita da un'azienda locale. Pesca d'altura. E, puf!, quei preziosissimi uomini biondi sono spariti. Non si può non darne notizia.» «Va bene, ho capito.» Johanson si appoggiò allo schienale. «E non ci sono stati contatti radio?» «No, mio caro Sherlock Holmes. È stato lanciato un SOS, ma nient'altro. Nella maggior parte delle navi scomparse, l'alta tecnologia si limitava al fuoribordo.» «Niente tempeste?» «Mio Dio, no! Nulla che potesse rovesciare le barche.» «E cos'è successo nel Canada occidentale?» «A quelle navi che pare siano entrate in collisione? Non ne ho idea. Qualcuno dice che si siano scontrate con balene di pessimo umore. Che ne so io? Il mondo è misterioso e terribile e anche tu sei un po' misterioso con tutte queste domande. Offrimi un altro caffè... No, aspetta, vado a prepararmelo da solo.»
Olsen sembrava essersi installato definitivamente nell'ufficio di Johanson. Quando infine se ne andò - non prima di aver bevuto una notevole quantità di caffè -, Johanson guardò l'orologio. Gli rimanevano pochi minuti prima della lezione. Chiamò Tina Lund. «Skaugen ha preso contatto con altre società di esplorazione in tutto il mondo: vuole sapere se hanno avuto problemi analoghi», disse lei. «Coi vermi?» «Esatto. Presume che gli asiatici sappiano dell'esistenza di quelle bestiole.» «Perché?» «Sei stato tu a riferirci quello che aveva detto il tuo uomo di Kiel, cioè che in Asia stanno cercando di estrarre gli idrati di metano. Così Skaugen vuole tastare il polso alle società che se ne occupano.» In sé non è una cattiva idea, pensò Johanson. Skaugen ha fatto uno più uno. Se i policheti sono così golosi di idrati, allora devono trovarsi soprattutto dove gli uomini sono altrettanto golosi di metano. D'altra parte... «Temo che gli asiatici prenderanno Skaugen per il naso», borbottò. «Credi che non dovrebbe dir loro nulla?» «Forse non sino in fondo. E non ora.» «Quale sarebbe l'alternativa?» «Già.» Johanson cercò le parole adatte. «Non voglio mettermi al vostro posto, ma supponiamo che a qualcuno venga in mente di forzare i tempi per la costruzione di una stazione sottomarina, benché laggiù strisci della robaccia sconosciuta...» «Noi non lo facciamo.» «È soltanto una tua ipotesi.» «Hai sentito anche tu che Skaugen ha seguito il tuo consiglio.» «Questo gli fa onore. Ma qui si tratta di denaro o sbaglio? Qualcuno potrebbe avere un'altra opinione e dire: 'Vermi? Non ne sappiamo nulla, non li abbiamo mai visti'.» «E costruire comunque?» «Non può succedere nulla. Voglio dire, si può essere arrestati per carenze tecniche, ma non per via di animali che mangiano il metano. Chi si prenderebbe mai la briga di dimostrare che nella zona di estrazione c'era una massa di vermi?» «La Statoil non nasconderebbe una cosa simile.» «Non sto parlando di voi. Per i giapponesi, un'efficiente estrazione di
metano compenserebbe il boom petrolifero. Molto di più! Diventerebbero immensamente ricchi. Credi che in questa faccenda gli asiatici giochino a carte scoperte?» Tina esitò. «No.» «E voi?» «Al momento, queste supposizioni non ci portano da nessuna parte. Dobbiamo scoprire che cosa stanno facendo prima che siano loro a scoprire che cosa stiamo facendo noi. Abbiamo bisogno di osservatori indipendenti. Gente che non possa essere messa in relazione con la Statoil. Per esempio...» Tina sembrò fermarsi a riflettere. Poi disse: «Non potresti sentire un po' in giro?» «Io? Dovrei cercare all'interno delle società petrolifere?» «No, negli istituti, nelle università, presso gente come quelli di Kiel. Non si fanno ricerche in tutto il mondo sugli idrati di metano?» «Certo, ma...» «E rivolgersi ai biologi, ai biologi marini! Ai sommozzatori dilettanti! E chissà a chi altro!» urlò lei. «Forse... Forse potresti fare tutto tu. Potremmo darti un finanziamento. Sì, è la cosa migliore: chiamo Skaugen e gli chiedo di fissare un budget! Potremmo...» «Ehi, calma!» «Sarebbe un lavoro ben pagato, a prescindere dal fatto che non avresti molto da fare.» «Sarebbe un pasticcio. Voi potreste farlo altrettanto bene.» «Sarebbe meglio se lo facessi tu. Tu sei neutrale.» «Accidenti, Tina.» «Nel tempo di questa telefonata avresti potuto chiamare già tre volte lo Smithsonian Institute. Ti prego, Sigur, sarebbe semplicemente... Cerca di capire: se come gruppo industriale esponessimo i nostri interessi vitali, avremmo addosso migliaia di organizzazioni ambientaliste. Aspettano solo quello.» «Ah-ah! Allora avete interesse a nascondere tutto sotto il tappeto.» «Sei un bastardo.» «Talvolta.» Tina sospirò. «E allora, secondo te, cosa dovremmo fare? Non credi che tutto il mondo ci accuserebbe delle cose peggiori? Ti giuro che la Statoil non farà nulla sinché non avremo chiarito il ruolo di questi vermi. Ma, se andassimo ufficialmente a bussare a troppe porte, la voce correrebbe, finiremmo subito nel mirino e non potremmo più muovere un dito.»
Johanson si stropicciò gli occhi, poi guardò l'orologio. Le dieci passate. La sua lezione. «Tina, devo lasciarti. Ti chiamo più tardi.» «Posso dire a Skaugen che ci stai?» «No.» Silenzio. «Okay», disse infine lei con voce fioca. Sembrava che la stessero portando al macello. Johanson respirò profondamente. «Posso almeno pensarci?» «Sì. Naturalmente. Sei un tesoro.» «Lo so. Il mio problema è proprio questo. Ti richiamo.» Prese i suoi appunti e si affrettò verso l'aula. Roanne, Francia Mentre, a Trondheim, Johanson stava iniziando la sua lezione, a duemila chilometri di distanza, Jean Jérôme esaminava con occhio critico dodici astici bretoni. Jérôme osservava sempre criticamente, lo faceva per principio. Il suo costante scetticismo era dovuto al luogo in cui lavorava: il Troisgros era l'unico ristorante in Francia a poter vantare trent'anni ininterrotti di tre stelle sulla Guida Michelin; e Jérôme non voleva entrare nella storia come colui che le aveva perse. Il suo settore di responsabilità riguardava tutto quello che arrivava dal mare. Era, per così dire, il signore del pesce ed era in piedi dalla mattina presto. La giornata degli intermediari commerciali cominciava molto prima della sua e cioè alle tre del mattino, a Rungis, un paese a quattordici chilometri dal centro di Parigi. Fino a pochi anni prima, Rungis era privo d'importanza, ma poi, quasi da un giorno all'altro, era diventato la mecca della cucina più raffinata. In un territorio di quattro chilometri quadrati, Rungis riforniva di alimenti le grandi città, i commercianti, i cuochi e tutti coloro che erano sufficientemente pazzi da trascorrere la loro vita in una cucina. A Rungis era rappresentata l'intera nazione. Latte, panna, burro e formaggi dalla Normandia, squisiti ortaggi bretoni, succosi frutti dal sud. Fornitori di ostriche Belon e Marenne e del Bassin d'Arcachon e pescatori di tonni da St-Jean-de-Luz arrivavano velocissimi, percorrendo le autostrade su camion scoppiettanti coi loro carichi. Camion frigoriferi coi crostacei si aprivano la strada tra furgoncini e auto private. Quello era il primo luogo di tutta la Francia in cui arrivavano le prelibatezze.
La qualità era un fattore decisivo. Gli astici arrivavano ovviamente dalla Bretagna, ma bisognava fare attenzione, perché c'erano esemplari splendidi e altri meno attraenti. In breve, dovevano necessariamente avere alcune caratteristiche ben precise perché, al momento della consegna a Roanne, un cliente come Jean Jérôme, per esempio, fosse soddisfatto. Jérôme prendeva gli astici l'uno dopo l'altro, li girava e li rigirava, scrutandoli. Gli animali erano disposti in gruppi di sei in casse di polistirolo, rivestite con una specie di felce. Si muovevano appena, ma naturalmente erano vivi, come doveva essere. Le loro chele erano legate. «Bene», disse Jérôme. Era la miglior lode che potesse tributare. In effetti era molto soddisfatto di quegli astici. È vero che erano piccoli, ma per le loro dimensioni erano molto pesanti e avevano una splendente corazza blu scuro. Tranne gli ultimi due. «Troppo leggeri», disse. Il commerciante aggrottò la fronte, prese uno degli astici che aveva ricevuto l'approvazione di Jérôme e uno degli altri e li soppesò, uno per mano. «Ha ragione, Monsieur Jérôme», ammise, sbigottito. «Mi devo scusare.» Stava lì, come una statua della Giustizia del mercato del pesce, gli avambracci piegati ad angolo e le mani distese. «Ma non c'è molta differenza. Una piccolezza, vero?» «Sì, forse non è molto per una birreria che serve pesce», borbottò Jérôme. «Ma noi non siamo una birreria che serve pesce.» «Mi dispiace. Posso tornare indietro e...» «Non si preoccupi. Dovremo solo capire quale dei nostri clienti ha lo stomaco più piccolo.» Il commerciante si scusò ancora. Si scusò nell'uscire e verosimilmente aveva continuato a scusarsi anche durante il viaggio di ritorno, mentre Jérôme era già nella splendida cucina del Troisgros e si occupava del menù serale. Aveva messo gli astici in una vasca con acqua fresca, dove se ne stavano immobili, apatici. Passò un'ora e Jérôme decise di scottare gli animali. Aveva preparato un calderone d'acqua: era consigliabile lavorare in fretta gli astici vivi, dato che gli animali in cattività tendevano a deteriorarsi internamente. Scottarli non voleva dire cuocerli, bensì ucciderli con l'acqua bollente. Più tardi, poco prima di essere serviti, venivano cotti a fuoco lento. Jérôme attese finché l'acqua non raggiunse il bollore, prese gli astici dalla vasca e li infilò velocemente nell'acqua a testa in giù. L'aria usciva dai vuoti della corazza con uno stridio ben udibile. Li metteva l'uno dopo l'altro nel calderone e
poi li tirava subito fuori. Il nono e il decimo morirono. La mano di Jérôme prese l'undicesimo - ah, è vero, era quello più leggero! - e lo mise nell'acqua bollente. Dieci secondi sarebbero bastati. Senza badarci troppo tirò fuori l'animale col grande mestolo... E gli sfuggì un'imprecazione. Che diavolo era successo? La corazza era letteralmente spezzata in due e una chela era rimasta nell'acqua. Inconcepibile. Jérôme sbuffò di rabbia. Appoggiò l'astice - o, meglio, quello che ne restava - sul tavolo da lavoro e lo girò sulla schiena. Anche la parte inferiore era frantumata e, nell'interno, dove doveva esserci la carne gustosa, c'era solo una patina gelatinosa e biancastra. Sbalordito, Jérôme guardò nel calderone. Nell'acqua ribollente galleggiavano pezzi e fili che solo con molta fantasia potevano essere scambiati per carne di astice. Be', pazienza... In realtà aveva bisogno soltanto di dieci astici. Jérôme non limitava mai gli acquisti al minimo, ma era noto per il suo equilibrio. Nell'interesse dell'economia, si doveva essere sempre ben consapevoli delle quantità da cucinare, ma sempre con la precauzione di avere una piccola riserva di sicurezza. In quel momento, i suoi princìpi si rivelarono quanto mai utili. La faccenda era comunque seccante. Si chiese se l'animale fosse malato. Guardò la vasca: c'era ancora un astice, il secondo dei due più piccoli. Be', ormai non poteva fare altro che metterlo nella pentola. Ah, no, là dentro nuotava ancora quella robaccia bianca. Improvvisamente gli venne un'idea. L'animale malato era più leggero, quello ancora vivo lo era altrettanto... Significava qualcosa? Forse gli animali si consumavano da soli, oppure erano divorati da un virus o da un parassita. Jérôme esitò, poi prese il dodicesimo astice dalla bacinella e lo posò sul piano di lavoro per osservarlo. Le lunghe antenne rivolte all'indietro si agitavano a scatti e le chele legate si muovevano debolmente. Non appena venivano tolti dal loro ambiente naturale, gli astici tendevano a una grande indolenza. Jérôme diede un colpetto all'animale e vi si chinò sopra. L'astice muoveva le zampe come se volesse scappare, ma restava fermo; dal punto in cui la coda segmentata entrava nella corazza colava qualcosa di trasparente. Che cos'era? Jérôme si piegò sulle ginocchia. Era vicinissimo all'animale, all'altezza degli occhi, per così dire. L'astice sollevò leggermente la parte superiore del corpo e, per un se-
condo, sembrò squadrare Jérôme coi suoi occhi neri. Poi esplose. L'apprendista cui Jérôme aveva dato l'incarico di squamare il pesce si trovava a soli due metri di distanza, tuttavia uno scaffale sottile e senza copertura, che ospitava arnesi da cucina e spezie, gli impediva di vedere il fornello. Sentì l'urlo straziante di Jérôme e, spaventato a morte, lasciò cadere il coltello. Vide Jérôme barcollare via dal fornello con le mani premute sul viso e balzò verso di lui. Insieme urtarono rumorosamente contro il piano di lavoro di fronte. Le stoviglie sferragliarono e qualcosa cadde a terra, rompendosi rumorosamente. «Cos'è successo?» gridava l'apprendista, nel panico. «Cos'è successo?» Arrivarono anche gli altri cuochi. La cucina era una fabbrica nel senso migliore del termine: ciascuno aveva un proprio compito. Uno si occupava solo della selvaggina, un altro solo delle salse, un terzo della farcia, un altro ancora delle insalate, uno della pasticceria e così via. In un attimo, intorno al fornello regnò la più grande confusione. Poi Jérôme si tolse le mani dal volto e, tremando, indicò il tavolo da lavoro. Sui suoi capelli c'era una sostanza appiccicosa e trasparente, che gli colava anche sul viso e sul collo. «È... esploso», ansimò. L'apprendista si avvicinò al piano di lavoro e fissò schifato l'astice in frantumi. Non aveva mai visto una cosa simile: solo le zampe erano intatte; le chele erano sul pavimento, la coda sembrava fosse stata sparata da una pressione altissima e la corazza del dorso si era spalancata. «Che cosa gli ha fatto?» sussurrò. «Fatto? Fatto?» urlò Jérôme con le mani sollevate e la faccia che era una smorfia di disgusto. «Non ho fatto proprio nulla! È esploso, è stato lui. È esploso!» Gli portarono dei tovaglioli per pulirsi, mentre l'apprendista toccava esitante quella robaccia sparsa ovunque. Quello che toccava era enormemente compatto, di una consistenza gommosa, ma si scioglieva in fretta e colava sul piano di lavoro. Seguendo un impulso, prese da una mensola un vasetto col tappo a vite e, usando un cucchiaio, lo riempì coi pezzi di gelatina, facendovi colare anche un po' di liquido. Poi chiuse bene il vasetto. Calmare Jérôme non era per nulla facile. Infine qualcuno gli portò un bicchiere di champagne e soltanto così lui riuscì a riprendersi un po'. «Portatelo via», ordinò con voce strozzata. «Per l'amor del cielo, portate via quella schifezza. Io vado a lavarmi.»
Gli aiuto cuochi si misero immediatamente all'opera per rimettere in ordine la postazione di Jérôme, pulirono il fornello e il ripiano circostante, smaltirono i rifiuti, lavarono il calderone e naturalmente versarono nello scarico l'acqua in cui gli astici avevano vissuto i loro ultimi istanti. L'acqua iniziò il percorso degli scarichi nel sottosuolo, gorgogliò nelle tubature e lì si mischiò con tutto quello che la città lascia defluire per poi riciclarlo. L'apprendista prese il vasetto con la gelatina. Non sapeva ancora che cosa farci, quindi chiese disposizioni a Jérôme, che era appena riapparso in cucina coi capelli lavati e i vestiti puliti. «Forse hai fatto bene a conservare un po' di quella robaccia», disse Jérôme, cupo. «Lo sa il cielo che cos'è.» «Vuole vederla?» «Dio me ne guardi, no! Però bisogna farla esaminare. Mandiamola dove possono farlo. Ma, per favore, senza dire nulla delle circostanze, hai capito? Al Troisgros non succedono cose simili.» Infatti la storia non uscì dalla cucina del ristorante. E fu un bene, perché avrebbe messo in cattiva luce il Troisgros. Benché nessuno, nel ristorante, avesse la minima responsabilità nell'episodio, qualcuno avrebbe potuto mettere in circolazione la voce che al Troisgros gli astici saltavano in aria, spruzzando ovunque una disgustosa gelatina. E la cosa peggiore che può capitare a un ristorante di alto livello è che si diffondano dubbi sulla sua igiene. L'apprendista osservò attentamente la sostanza nel vasetto. Non appena aveva iniziato a decomporsi, vi aveva versato un po' d'acqua, perché pensava che potesse servire a conservarla. Quel tessuto gli ricordava - ammesso che potesse davvero ricordare qualcosa - le meduse e lui sapeva che le meduse resistevano solo in acqua, perché erano fatte quasi esclusivamente d'acqua. Evidentemente era stata una buona idea perché i frammenti si stabilizzarono. Il Troisgros fece una discretissima telefonata, in seguito alla quale il vasetto fu mandato alla vicina Università di Lione per farne esaminare il contenuto. E così esso arrivò sulla scrivania di Bernard Roche, docente di Biologia molecolare. Nel frattempo, nonostante l'acqua, il processo di decomposizione della gelatina era continuato e ormai nel vasetto galleggiava solo pochissima sostanza solida. Roche sottopose immediatamente quel poco che era rimasto a diversi test, tuttavia gli ultimi grumi si decomposero prima che lui potesse esaminarli accuratamente. Riuscì comunque a documentare
alcuni legami molecolari che lo sbigottivano e irritavano allo stesso tempo. Tra l'altro, trovò una neurotossina di grande efficacia, anche se non poteva dire se provenisse dalla gelatina o dall'acqua nel vasetto. Una cosa era certa: quell'acqua era satura di materiale organico e di diverse sostanze. Visto che al momento non aveva il tempo di esaminarla, Roche decise di conservare il contenuto residuo del vasetto e di fare ricerche più accurate nei giorni seguenti. E l'acqua finì nel frigorifero. La sera stessa, Jérôme si ammalò. Cominciò col provare una leggera nausea, ma il ristorante era pieno e lui non ci fece caso, continuando come al solito a seguire le coreografie della cucina. I dieci astici che non erano esplosi erano di qualità eccezionale e non ne servirono altri. Nonostante lo sgradevole incidente del pomeriggio, tutto procedeva liscio, proprio com'era abitudine al Troisgros. Intorno alle dieci, la nausea di Jérôme aumentò e a essa si aggiunse un leggero mal di testa. Poco dopo, si accorse che aveva difficoltà a concentrarsi: dimenticò di terminare una portata e di dare alcune indicazioni. Il decorso perfetto ed elegante della serata subì un'impercettibile battuta d'arresto. Jean Jérôme era un professionista e sapeva quand'era il momento di gettare la spugna. Si sentiva davvero male, così affidò la responsabilità del seguito della serata alla sua vice, una cuoca di grande talento che aveva fatto l'apprendistato a Parigi nel rinomato Ducasse; le disse che voleva fare una breve passeggiata nel giardino del ristorante e uscì. Il giardino comunicava direttamente con la cucina. Era di una bellezza eccezionale, durante la bella stagione: era là che gli ospiti venivano ricevuti, prendevano l'aperitivo e gli hors d'oeuvres, per poi essere condotti nel ristorante attraverso la cucina, dove veniva offerta loro una breve dimostrazione. Adesso il giardino era deserto, discretamente illuminato. Jérôme passeggiò avanti e indietro per qualche minuto. Attraverso l'ampia vetrata poteva seguire la frenetica attività della cucina, ma si accorse che non riusciva a mettere a fuoco lo sguardo per più di qualche secondo. Nonostante l'aria fresca, respirava a fatica e sentiva un'enorme pressione sul petto. Gli sembrava di avere le gambe di gomma. Per precauzione si sedette a uno dei tavoli di legno e ripensò agli avvenimenti della mattina. Si era ritrovato il corpo dell'astice tra i capelli e sul viso, sicuramente aveva respirato qualcosa... Probabilmente gli era finito del liquido in bocca, oppure aveva inghiottito un frammento di quella sostanza.
Che fosse il pensiero dell'animale esploso, o semplicemente la conseguenza della sua malattia, improvvisamente vomitò con violenza tra le piante ornamentali. Mentre era ancora lì, ansante e mezzo strozzato, pensò che quella robaccia era uscita. Bene. Avrebbe bevuto un sorso d'acqua e sarebbe stato subito meglio. Si risollevò, ma il mondo intorno a lui vorticava. Si sentiva bruciare, il suo campo visivo si era ristretto e gli sembrava di guardare in una spirale. Devi alzarti, pensò. Devi alzarti e andare in cucina a controllare che sia tutto a posto. Niente può andare storto. Non al Troisgros. Avanzò a fatica, strascicando i piedi, ma prese la direzione opposta. Dopo due passi, non ricordava più che voleva andare in cucina. Non sapeva più nulla e non vedeva più nulla. Crollò sotto gli alberi che circondavano il giardino. 18 aprile Vancouver Island, Canada Non finiva mai. Anawak sentiva gli occhi stringersi e arrossarsi, le palpebre gonfiarsi e tutt'intorno gli si erano formate rughette che non avrebbe dovuto avere, perché era troppo giovane. Era rimasto a fissare lo schermo finché la testa gli non era caduta sul tavolo. Dopo il delirio sulla costa occidentale, non aveva fatto altro che guardare video, senza peraltro riuscire ad assimilare che una minima parte del materiale. Erano registrazioni la cui esistenza era dovuta a una delle invenzioni più rivoluzionarie nella ricerca sul comportamento: la telemetria animale. Alla fine degli anni '70, i ricercatori avevano sviluppato un metodo rivoluzionario per osservare gli animali. Fino ad allora, erano state possibili solo osservazioni imprecise sulla zona di diffusione e sulle migrazioni di alcune specie; di conseguenza, sulla vita di molti animali, sui loro sistemi di caccia, sulla riproduzione e sui bisogni di ogni singolo individuo era possibile solo fare speculazioni. Naturalmente c'erano migliaia di animali oggetto di costante osservazione, ma quasi sempre vivevano in cattività e non era possibile trarre conclusioni attendibili sul loro comportamento in natura. Un animale in cattività non faceva nulla di quello che avrebbe fatto se fosse stato in libertà, più o meno come un carcerato in cella non offriva dati significativi sulla vita che avrebbe condotto come uomo libero.
E anche se gli animali venivano studiati nel loro ambiente naturale, le conoscenze restavano insufficienti: o scappavano o non si facevano neppure vedere. Nei fatti, più un ricercatore osservava l'oggetto dei suoi studi, più quello si allontanava. Nel caso di specie meno timide - come gli scimpanzé o i delfini -, gli esemplari osservati regolavano il proprio comportamento sulla base dell'osservatore, reagivano aggressivamente o con curiosità, talvolta diventavano vanitosi e si mettevano in posa; in breve, impedivano ogni conoscenza oggettiva. Quando poi si stancavano, scomparivano nella boscaglia, volavano via o s'immergevano sotto la superficie dell'acqua, dove finalmente si comportavano in maniera conforme alla loro natura. Ma era impossibile seguirli. Fin dai tempi di Darwin i biologi si erano posti domande cui non avevano saputo rispondere: come sopravvivono gli animali nelle fredde acque dell'Antartico? Come si può osservare un biotopo sotto una coltre di ghiaccio? Come si vede il mondo durante il volo sul Mediterraneo verso l'Africa se non si è su un aereo, bensì sulla schiena di un'oca selvatica? Che cosa capita a una singola ape nel giro di ventiquattr'ore? Come si ottengono dati sulla frequenza dei colpi d'ala, sul ritmo cardiaco, sulla pressione del sangue, sul comportamento alimentare, sulle prestazioni fisiologiche nell'immersione, sull'immagazzinamento dell'ossigeno e sulle conseguenze dell'influsso antropico, come il rumore delle navi o le esplosioni sottomarine, sui mammiferi marini? Come raggiungere gli animali là dove nessun essere umano poteva seguirli? La risposta era arrivata con una tecnologia grazie alla quale gli spedizionieri potevano determinare la posizione dei loro mezzi senza lasciare l'ufficio, e gli autisti riuscivano a trovare una strada in città sconosciute. Quella tecnologia era già comunemente acquisita senza che si sospettasse che di lì a poco avrebbe rivoluzionato la zoologia. La telemetria. Già alla fine degli anni '50, gli scienziati americani avevano elaborato progetti per dotare di sonde alcuni animali. La marina degli Stati Uniti aveva iniziato a lavorare coi delfini ammaestrati, tuttavia i primi tentativi erano falliti per le dimensioni delle trasmittenti, troppo pesanti. A che cosa serviva raccogliere informazioni con un cronotachigrafo sulla schiena di un delfino, se proprio quello strumento ne influenza il comportamento? Era stato un problema irresolubile finché la microelettronica non era andata incontro a una svolta: minuscoli cronotachigrafi e telecamere ultralegge-
re fornivano ogni informazione sulla vita degli animali, senza che questi ultimi ne fossero infastiditi. Essi vagavano per le foreste oppure s'immergevano sotto i lastroni di ghiaccio del McMurdo Sound portandosi appresso un oggetto high-tech di appena quindici grammi. Gli animali fornivano così informazioni sul loro stile di vita, sull'accoppiamento, sul modo di cacciare e sulle rotte di migrazione. Era possibile volare in mezzo mondo con uccelli di ogni specie. La tecnologia si era evoluta a tal punto che anche gli insetti erano stati dotati di microtrasmittenti che pesavano un millesimo di grammo, prendevano l'energia dalle onde radar e rimandavano onde a frequenza raddoppiata, in modo che i dati fossero ricevibili anche a oltre settecento metri di distanza. La maggior parte delle misurazioni erano affidate alla telemetria satellitare, un sistema tanto semplice quanto geniale. I segnali dei trasmettitori degli animali venivano ricevuti da ARGOS, un sistema di satelliti dell'agenzia spaziale francese CNES, e poi rispediti alla centrale di controllo a Tolosa e verso Fairbanks, negli Stati Uniti, da dove, nel giro di meno di due ore, venivano diffusi a una serie d'istituti in tutto il mondo. La ricerca su balene, foche, pinguini e tartarughe marine si era sviluppata come un settore specifico della telemetria, permettendo di osservare il più affascinante, perché quasi inesplorato, spazio vitale della Terra. Cronotachigrafi ultraleggeri immagazzinavano dati provenienti da notevoli profondità: registravano temperatura, profondità e durata delle immersioni, posizione, direzione e velocità. Ma il loro segnale non era in grado di passare attraverso l'acqua, così i satelliti ARGO erano condannati alla cecità rispetto agli abissi marini. Le megattere, che trascorrevano la maggior parte della loro vita lungo le coste della California, rimanevano in superficie al massimo un'ora al giorno. Quindi, mentre gli ornitologi potevano osservare le cicogne migratrici e ricevere dati in tempo reale, i ricercatori marini erano come tagliati fuori non appena le balene s'immergevano. Per poterle studiare davvero, avrebbero dovuto seguirle sul fondo del Pacifico con la telecamera, ma per un sommozzatore sarebbe stato impossibile e i sommergibili erano troppo lenti e poco manovrabili. Ma gli scienziati dell'University of California di Santa Cruz erano infine riusciti a trovare la soluzione: una telecamera sottomarina del peso di pochi grammi e resistente alla pressione. Avevano fissato lo strumento a diversi cetacei. In breve, si erano scoperti alcuni fenomeni sorprendenti e, nel giro di poche settimane, le conoscenze sui mammiferi marini si erano considerevolmente ampliate. Sarebbe stato fantastico poter seguire balene
e delfini con le sonde trasmittenti come si faceva con gli altri animali, ma purtroppo era difficile, se non impossibile. Ecco perché Anawak non poteva avere tutte le informazioni che avrebbe desiderato sull'ambiente delle balene. Nel contempo, però, le informazioni erano anche troppe: nessuno sapeva dire a che cosa bisognasse prestare particolare attenzione, quindi ogni informazione poteva essere importante. Migliaia di ore di filmati e registrazioni audio, misurazioni, analisi, statistiche. «Progetto Sisifo», come lo chiamava John Ford. Perlomeno Anawak non si poteva lamentare per la mancanza di tempo: la Davies Whaling Station era stata sollevata dalla responsabilità degli incidenti, ma era chiusa; solo le grandi navi percorrevano la zona costiera occidentale del Canada e del Nordamerica. Quello di Vancouver Island non era stato un incidente isolato; episodi simili erano avvenuti contemporaneamente da San Francisco fino all'Alaska. Nel corso della prima ondata di attacchi, oltre cento piccole navi e barche erano state affondate o gravemente danneggiate. Durante il fine settimana, il numero degli attacchi era drasticamente diminuito, ma solo perché nessuno osava uscire in mare se non su grandi traghetti o cargo. Continuavano a rincorrersi notizie contraddittorie e anche sul numero delle vittime c'erano informazioni poco affidabili. Diverse commissioni e unità di crisi internazionali avevano iniziato il loro lavoro, ma finora l'unica conseguenza era stata la presenza invasiva di velivoli. Ovunque lungo la costa crepitavano elicotteri, in cui stavano pigiati soldati, scienziati e politici che fissavano il mare con uno stato d'animo comune: la perplessità. Seguendo la prassi di quegli staff, i dirigenti dei settori operativi del team governativo avevano coinvolto specialisti esterni. L'acquario di Vancouver, con Ford al vertice, fu adibito a centro per la raccolta dei dati rilevanti. Erano stati coinvolti praticamente tutti gli istituti e tutte le strutture di ricerca che si occupavano di vita marina. Per Ford era un peso opprimente, un compito di cui faticava a tracciare i contorni. Nel corso del tempo, erano stati elaborati scenari per ogni possibile avvenimento - dal terremoto del secolo all'attacco terroristico -, però non per un caso come quello. Ford non esitò a lungo e a sua volta propose come consulente Anawak, che, tra gli scienziati del Nordamerica e del Canada, meglio di tutti sapeva che cosa passava nella testa di una balena. Perché solo là poteva trovarsi la risposta: posto che le balene fossero animali intelligenti, si doveva pensare che fossero impazzite? E, in caso contrario, cos'era successo? Ma neppure Anawak, in cui venivano riposte grandi speranze, conosceva
la risposta. Aveva richiesto tutto il materiale telemetrico raccolto dall'inizio dell'anno sulla costa del Pacifico e, da ventiquattr'ore, lui e Alicia analizzavano le sequenze video, con l'aiuto dei collaboratori dell'acquario. Studiavano i dati relativi alle posizioni, ascoltavano i rumori registrati dagli idrofoni, ma senza arrivare a risultati utili. All'inizio della migrazione dalle Hawaii e dalla Bassa California fino all'Artico, nessuna delle balene portava strumenti telemetrici a parte due esemplari, i cui cronotachigrafi erano però caduti poco tempo dopo che essi avevano lasciato la California. Di fatto, le uniche conoscenze provenivano dal video della donna sul Blue Shark. L'avevano studiato più volte nella Davies Whaling Station insieme con gli altri skipper che sapevano riconoscere le pinne caudali delle balene. Dopo diverse proiezioni e ingrandimenti erano finalmente riusciti a riconoscere due megattere, una balena grigia e alcune orche. Alicia aveva ragione. Il video era una traccia. La rabbia di Anawak nei confronti della studentessa era svanita. Non stava mai zitta e parlava prima di pensare, ma, dietro i modi risoluti, c'era una mente brillante, con notevoli capacità analitiche. Inoltre Alicia aveva tempo. I suoi genitori vivevano nelle British Properties, il quartiere bene di Vancouver, avevano assicurato ad Alicia un'esistenza agiata, ma non si facevano mai vedere. Anawak si era convinto che cercassero di compensare l'eclatante mancanza d'interesse e di tempo per la figlia rifornendola di soldi, che peraltro sembravano non interessarle; tuttavia la mettevano in condizione di spendere senza problemi e di seguire la propria strada. In fondo, la situazione era perfetta: Alicia vedeva quell'insperata collaborazione come una possibilità di nutrire con la pratica i suoi studi di biologìa e Anawak, dopo la morte di Susan Stringer, aveva bisogno di un'assistente. Susan... Ogni volta che pensava alla skipper era preso dalla vergogna e dal senso di colpa per non essere riuscito a salvarla. Continuava a ripetersi che niente al mondo avrebbe potuto salvarla dopo che era stata afferrata dall'orca, ma era costantemente roso dal dubbio. Cosa sapeva davvero dei pensieri di un cetaceo, lui che aveva pubblicato saggi e trattati sull'autocoscienza delle focene? Come si convinceva un'orca a lasciare la sua vittima? Quali argomenti erano accessibili a una mente intelligente che funzionava diversamente da quella umana? C'era davvero una possibilità? Poi tornava a ripetersi che le orche erano animali. Molto intelligenti, certo, ma animali. E, per loro, una preda era una preda.
D'altra parte, gli esseri umani normalmente non rientravano tra le prede delle orche. Ma le orche avevano davvero mangiato i passeggeri finiti in acqua? O li avevano semplicemente uccisi? Assassinati... Si poteva accusare un'orca di omicidio? Anawak sospirò. Girava a vuoto, gli occhi gli bruciavano sempre di più. Prese svogliatamente un altro CD, lo rigirò indeciso tra le mani e lo mise via. La sua concentrazione era esaurita. Aveva trascorso tutto il giorno all'acquario, aveva parlato ininterrottamente con diverse persone oppure telefonato senza riuscire a fare passi avanti. Si sentiva sfinito e vuoto. Spense il monitor e guardò l'orologio: le sette passate. Si alzò e andò a cercare John Ford. Il direttore era impegnato in una riunione, quindi cercò Alicia. La trovò seduta in una sala riunioni fuori uso, impegnata coi dati della telescrivente. «Hai voglia di una bistecca di capodoglio?» chiese Anawak con un sorrisetto tirato. Alicia sollevò la testa e ammiccò. Aveva sostituito gli occhiali blu con le lenti a contatto, che mantenevano comunque un sospetto colore blu. Se si riusciva a ignorare i denti da coniglio, non era brutta. «Certo. Dove?» «C'è un chiosco decente qui all'angolo.» «Sciocchezze, un chiosco!» esclamò divertita. «T'invito io.» «Non è necessario.» «Da Cardero's.» «Ah, santo cielo.» «È un bel posto.» «Lo so che è un bel posto. Ma, primo non mi devi invitare, e secondo trovo che il Cardero's sia... ma sì, come dire...» «Io trovo che sia di classe.» Il ristorante bar Cardero's si trovava nel mezzo del porto degli yacht, Coal Harbour. Era grande, arioso, col tetto alto e con ampie finestre. Un luogo alla moda. Si poteva godere di uno splendido panorama e di una cucina West Coast di notevole qualità. Nel bar limitrofo scorrevano generosamente drink che venivano trangugiati da giovani con abiti dal taglio perfetto. Anawak sapeva che i suoi jeans lisi e il pullover non sarebbero stati adatti... Inoltre nei locali alla moda lui si sentiva a disagio. Alicia invece era come... predestinata al Cardero's. E Cardero's sia.
Andarono al porto con la vecchia Ford di Anawak ed ebbero fortuna. In genere, per trovare posto da Cardero's bisognava prenotare molto tempo prima, ma in un angolo c'era un tavolo libero, un po' in disparte, proprio come piaceva ad Anawak. Presero la specialità della casa: salmone con soia, zucchero e limone, grigliato su legno di cedro. «Okay», disse Anawak non appena il cameriere si fu allontanato. «Che cosa abbiamo?» «Per quanto mi riguarda, ho fame», esclamò Alicia. «Tutto il resto rimane un mistero.» Anawak si massaggiò la fronte. «Forse ho trovato qualcosa. Mi ha aiutato il video di quella donna.» «Il mio video.» «Ma certo», borbottò Anawak con fare ironico. «Ti dobbiamo tutto.» «Quantomeno mi dovete un'idea. Che cos'hai trovato?» «Qualcosa da mettere in relazione coi cetacei non identificati. Mi sono accorto che all'attacco hanno partecipato solo le orche transienti. Nessuna delle stanziali.» «Mmm...» Lei arricciò il naso. «È vero, in effetti le stanziali non hanno fatto niente di male.» «Appunto. Nel Johnstone Strait non ci sono stati attacchi. E là c'erano dei kayak.» «Allora il pericolo viene dagli animali migratori.» «Dalle orche transienti e probabilmente da quelle offshore. Le megattere e la balena grigia identificate sono migratrici. Tutte e tre hanno trascorso l'inverno nella Bassa California, è documentato. Abbiamo mandato per email le foto delle pinne caudali all'Istituto di biologia marina di Seattle, dove confermano che, negli ultimi anni, quegli animali sono stati avvistati là.» Alicia lo guardò irritata. «Non è una novità che le megattere e le balene grigie migrino.» «Non tutte.» «Oh. Pensavo...» «Quando Shoemaker, Greywolf e io siamo tornati in mare, è successa una cosa bizzarra. Me n'ero quasi dimenticato. Dovevamo portare a bordo i passeggeri della Lady Wexham. La nave stava affondando ed eravamo sotto l'attacco di un gruppo di balene grigie. Ero sicuro che non saremmo nemmeno riusciti a salvare la nostra pelle, figuriamoci quella di qualcun altro. Ma improvvisamente sono emerse vicino a noi due balene grigie e
non ci hanno fatto niente. Sono rimaste semplicemente per un po' nell'acqua e le altre si sono ritirate.» «Erano stanziali?» «Per tutto l'anno, sulla costa occidentale c'è una dozzina di balene grigie. Sono troppo vecchie per sopportare la fatica delle migrazioni. Quando i branchi arrivano da sud, le vecchie vengono riaccolte con un rituale di saluto. Ho riconosciuto una di quelle stanziali e non era ostile nei nostri confronti. Al contrario, credo che le dobbiamo la vita.» «Non ho parole! Vi hanno protetti!» «Be', sono sorpreso...» Anawak sollevò le sopracciglia. «Una simile umanizzazione che esce dalle tue labbra?» «Da tre giorni a questa parte, credo praticamente a tutto.» «'Protetti' mi sembra esagerato, ma credo che abbiano tenuto lontano le altre. Non avevano simpatia per gli aggressori. Con una certa cautela, si potrebbe concludere che lo strano comportamento riguardi solo gli animali migratori. Gli stanziali - di qualsiasi specie - sono pacifici. Sembra quasi che si rendano conto che gli altri non ci stanno più con la testa.» «Potrebbe essere...» disse Alicia, pensierosa, «Insomma, buona parte degli animali sparisce sulla strada dalla Bassa California a qui, in mare aperto. Le orche aggressive vivono appunto al largo, nel Pacifico.» «Appunto. Bisognerebbe cercare il motivo del loro cambiamento proprio là, negli abissi del mare blu, al largo.» «Cercare... Ma cosa?» «Lo scopriremo», disse John Ford. Era comparso vicino a loro, tirò a sé una sedia e si accomodò. «E prima che quei tipi del governo mi facciano impazzire con le loro continue chiamate.» «Mi sono accorta di un'altra cosa», disse Alicia durante il dessert. «Le orche si divertivano, ma le balene più grandi no.» «Cosa te lo fa pensare?» chiese Anawak. «Ma sì», esclamò lei, con la bocca piena di mousse al cioccolato. «Prova a immaginare di dover saltare contro qualcosa per capovolgerlo. O di lasciarti cadere su una cosa che ha spigoli e angoli. Non correresti il serio rischio di ferirti?» «Hai ragione», disse John. «Gli animali potrebbero essersi feriti. E non c'è animale che si ferisca spontaneamente se non per il mantenimento della specie o la protezione della prole.» Si tolse gli occhiali e li pulì meticolosamente. «Vogliamo provare a buttar lì qualche teoria assurda? E se tutta la faccenda fosse stata una sorta di protesta?»
«Contro che cosa?» «Contro la caccia alle balene.» «Una protesta delle balene contro la caccia alle balene?» esclamò Alicia, incredula. «In passato, ci sono stati attacchi ad alcune baleniere», disse Ford. «Specialmente se minacciavano i piccoli.» Anawak scosse la testa. «Non ci credi neppure tu.» «Era un'ipotesi.» «Vuoi dire che non si rendono conto di essere cacciate?» chiese Alicia. «È una sciocchezza.» Anawak alzò gli occhi al cielo. «Non riconoscono la sistematicità della caccia. I globicefali si spiaggiano sempre nelle stesse insenature. Alle isole Fær Øer, i pescatori ne spingono interi branchi e li colpiscono con efferata determinazione: un massacro in piena regola. Oppure guarda in Giappone, a Futo, dove si massacrano focene comuni e marsovini. Gli animali sanno da generazioni che cosa li aspetta: perché ritornano sempre lì?» «Non è di certo segno di una particolare intelligenza», annuì John. «D'altra parte, per quanto si conoscano bene le conseguenza ogni anno si vaporizzano propellenti e si dibosca la foresta tropicale. Anche questo è il segno di un'intelligenza non particolarmente acuta, non credete?» Alicia aggrottò la fronte e spazzolò gli ultimi resti della mousse. «È vero», esclamò Anawak dopo un momento. «Che cosa?» «Alicia ha ragione, gli animali devono essersi feriti saltando contro le navi. Se ti venisse in mente di uccidere delle persone, che faresti? Ti piazzeresti tranquillo in un posto che ti permette una buona visuale, e poi faresti fuoco. Ma staresti bene attento a non spararti nei piedi.» «A meno che tu non sia pazzo.» «O ipnotizzato.» «O malato. O confuso. Ecco, l'ho detto; quegli animali sono confusi.» «Un lavaggio del cervello, forse?» «Smettiamola di dire idiozie,» Per un po' nessuno disse nulla. Erano tutti assorti nei loro pensieri, a dispetto del crescente frastuono all'interno del Cardero's. Dai tavoli vicini arrivavano stralci di conversazioni. Gli avvenimenti recenti dominavano la stampa e la vita pubblica. Qualcuno metteva in relazione quanto accaduto lungo la costa con le avarie nelle acque asiatiche. In Giappone e nello stretto di Malacca erano avvenuti in breve tempo i peggiori disastri navali
dell'ultimo decennio. Ci s'intratteneva su questioni specialistiche e si scambiavano teorie, ma sembrava proprio che quei tragici avvenimenti non avessero tolto l'appetito agli avventori. «E se dipendesse dai veleni?» chiese infine Anawak. «Dal PCB, da tutta quella porcheria. Che qualcosa faccia impazzire gli animali?» «In ogni caso li fa infuriare», ironizzò John. «L'ho già detto, protestano. Perché gli islandesi chiedono un aumento delle quote di pesca, i giapponesi li incalzano e i norvegesi se ne infischiano della IWC, dell'International Whaling Commission. Perché anche i makah vogliono rimettersi a cacciarle. Ehi! È per questo!» Sorrise. «Devono averlo letto sui giornali.» «Tenuto conto che sei il direttore del comitato scientifico, mi sembra che tu non abbia le idee molto chiare», disse Anawak. «Per non parlare della tua fama di scienziato serio.» «Makah?» fece eco Alicia. «Una tribù dei nuu-chah-nulth», spiegò John. «Indiani dell'ovest di Vancouver Island. Da anni stanno cercando di ottenere dai tribunali il diritto di riprendere la caccia alle balene.» «Che cosa? Ma dove vivono? Sono pazzi?» «Il Signore ti conservi il tuo sdegno da persona civile, ma l'ultima volta che i makah hanno cacciato balene è stato nel 1928», sbadigliò Anawak. Riusciva appena a tenere gli occhi aperti. «Non sono stati loro a portare al limite dell'estinzione le balene grigie, quelle azzurre e le megattere. Per i makah è una questione di salvaguardia della loro cultura; infatti sostengono che ormai nessuno di loro padroneggia più la caccia tradizionale alla balena.» «E allora? Per mangiare carne di balena basta andare al supermercato.» «Non interrompere le nobili perorazioni di Leon», la ammonì Ford, versandosi il vino. Alicia fissò Anawak. Nei suoi occhi cambiò qualcosa. Per favore, no, pensò lui. Lui aveva l'aspetto di un indiano, ma Alicia avrebbe tratto le conclusioni sbagliate. Anawak poteva letteralmente sentire l'arrivo della domanda. Avrebbe dovuto spiegare e non c'era nulla che odiasse di più. Lo odiava e avrebbe voluto che Ford non avesse iniziato a parlare dei makah. Scambiò una rapida occhiata col direttore. Ford capì. «Ne parleremo un'altra volta», propose. E, prima che Alicia potesse aprire bocca, disse: «Dobbiamo parlare della teoria dell'avvelenamento con Sue Oliviera, Ray Fenwick o Rod Palm. Ma, per dirla senza pe-
li sulla lingua, io non ci credo. L'inquinamento si forma col petrolio fuoriuscito e con lo scarico in mare d'idrocarburi clorurati e sai meglio di me a quali conseguenze porta: indebolimento del sistema immunitario, infezioni, morte prematura... Non alla pazzia.» «Se non sbaglio, qualche scienziato ha sostenuto che le orche della costa occidentale sarebbero morte nel giro di trent'anni», intervenne Alicia. Anawak annuì, cupo. «Dai trenta ai centoventi anni, se si va avanti così. Perdendo la loro fonte di nutrimento, i salmoni, se non scompaiono per il veleno, le orche migrano. Devono cercare il nutrimento in zone che non conoscono, s'impigliano nelle reti da pesca... tutto si somma.» «Dimentica la teoria dell'avvelenamento», sbuffò Ford. «Se si trattasse solo di orche, potremmo parlarne. Ma orche e megattere che elaborano una strategia comune... Non lo so, Leon.» Anawak rifletté. «Conoscete il mio modo di vedere», disse poi a bassa voce. «Sono ben lontano dall'attribuire intenzioni agli animali o dal sopravvalutare la loro intelligenza, ma... Non avete anche voi la sensazione che vogliano sbarazzarsi di noi?» Lo guardarono. Si era aspettato di scontrarsi con energici dinieghi. Invece Alicia annuì. «Sì. Tranne le stanziali.» «Tranne le stanziali», annuì Anawak. «Perché non sono state con le altre nel luogo in cui è successo qualcosa. Le balene che hanno affondato il rimorchiatore... Insomma, ve l'ho detto! La risposta è là, al largo.» «Mio Dio, Leon.» Ford si appoggiò allo schienale e bevve un generoso sorso di vino. «In che film siamo finiti? Andate e combattete l'umanità?» Anawak rimase in silenzio. Il video della donna non portò altri risultati. A tarda sera, Anawak si trovava nel letto nel suo piccolo appartamento di Vancouver, ma non riusciva a dormire. Fu allora che maturò l'idea di studiare una delle balene dal comportamento anomalo. Gli animali avevano assorbito qualcosa che li dominava. Forse, se fossero riusciti a dotarne uno di telecamera e trasmettitore, le risposte sarebbero arrivate. La questione era come riuscirci con una megattera furiosa. Impresa difficile, considerando che anche quelle pacifiche non stavano mai ferme. E poi c'era il problema della pelle... Munire di trasmettitore una foca era ben diverso che attrezzare una balena. Una foca non era difficile da catturare. I cerotti biodegradabili con cui venivano fissati i trasmettitori rimanevano attaccati al pelo, si seccavano
velocemente e, a un certo punto, si staccavano da soli. Grazie alla muta annuale, sparivano anche gli ultimi residui del cerotto. Ma balene e delfini non avevano il pelo. Poche cose erano più lisce della pelle di orche e delfini: al tatto essa sembrava un uovo appena sgusciato ed era ricoperta da un sottile strato di gel, che serviva a ridurre la resistenza alle correnti e a tenere lontani i batteri. Lo strato superiore cambiava in continuazione. Lo staccavano gli enzimi e, coi salti, esso cadeva in brandelli lunghi e sottili, insieme con tutti gli inquilini indesiderati e coi trasmettitori. E la pelle delle balene grigie non offriva una presa migliore. Senza accendere la luce, Anawak si alzò e si avvicinò alla finestra. L'appartamento si trovava in un vecchio condominio con vista su Granville Island e lui, di notte, poteva guardare le luci della città. Esaminò le diverse opzioni. Ovviamente erano possibili alcune astuzie. Gli scienziati americani assicuravano con ventose le trasmittenti e gli strumenti di misurazione. Le sonde venivano fissate agli animali che nuotavano nei pressi di un'imbarcazione o tra le onde di prua, con l'ausilio di lunghe aste. In genere era possibile avvicinarsi abbastanza per portare a termine l'operazione. Era pur sempre una strada. Tuttavia, anche il trasmettitore con la ventosa riusciva a reggere alle correnti solo per qualche ora. Altri attaccavano gli strumenti sulla pinna dorsale. Ma in quei giorni il vero problema era come avvicinarsi a una balena senza essere immediatamente attaccati. Si potevano stordire gli animali... Ma era troppo complicato. Inoltre i cronotachigrafi non sarebbero bastati, c'era bisogno di telecamere. Telemetria satellitare e immagini video. Improvvisamente gli venne un'idea. C'era un metodo. Richiedeva un buon tiratore. Le balene erano bersagli grandi, tuttavia era consigliabile qualcuno che sapesse sparare bene. Di colpo, Anawak divenne frenetico. Corse alla scrivania, si collegò a Internet e visitò alcuni siti. Poi frugò in un cassetto, finché non trovò l'indirizzo web dell'Underwater Robotics & Application Laboratoy Team di Tokyo. Ormai sapeva come fare. Bisognava percorrere le due strade. L'unità di crisi avrebbe dovuto sborsare una gran quantità di denaro, ma nessuno avrebbe battuto ciglio perché quel tentativo poteva servire alla spiegazione del problema. I suoi pensieri vorticavano. Era quasi mattina quando finalmente si addormentò. Il suo ultimo pensiero riguardò la Barrier Queen e Roberts. Anche quello era un problema.
Il manager non l'aveva richiamato, benché Anawak avesse cercato più volte di sapere qualcosa. Sperava che la Inglewood avesse almeno mandato i campioni a Nanaimo. E che ne era del rapporto? Non gli piaceva essere tenuto all'oscuro. Come poteva fare tutto il giorno dopo? Mi devo alzare per scrivere degli appunti, pensò. Come prima cosa... Nello stesso istante si addormentò, esausto. 20 aprile Lione, Francia Bernard Roche si rimproverava per aver lasciato passare troppo tempo prima di analizzare i campioni d'acqua. Ma ormai non c'era nulla da fare. Come avrebbe potuto sospettare che un astice potesse uccidere un uomo? E probabilmente più d'uno? Jean Jérôme, il cuoco del Troisgros, a Roanne, non si era più svegliato dal coma ed era morto ventiquattr'ore dopo che un astice bretone contaminato gli era scoppiato in faccia. Non si conoscevano ancora le cause del decesso, l'unica cosa certa era che il suo sistema immunitario non aveva funzionato, evidentemente in seguito a uno shock da sostanze altamente tossiche. Anche se non era facile dimostrarlo, sembrava proprio che la responsabilità fosse dell'astice, e in particolare della sostanza al suo interno. Anche altri membri del personale di cucina si erano ammalati: il più grave era l'apprendista che aveva toccato e conservato quella strana sostanza. Soffrivano tutti di vertigini, nausea, mal di testa e difficoltà di concentrazione. Già quello delineava un quadro molto grave, specialmente per il Troisgros, che si era trovato in una situazione imbarazzante. Ma Roche era molto preoccupato per il numero di persone che si presentavano dai medici lamentando, seppure in forma attenuata, gli stessi sintomi che avevano condotto alla morte Jérôme. E temeva il peggio da quando aveva scoperto dov'era finita l'acqua in cui il cuoco aveva riposto gli astici. La stampa aveva smorzato i toni, anche per riguardo al ristorante, ma naturalmente l'annuncio era stato dato. E Roche aveva sentito notizie analoghe giungere anche da altri luoghi, a dimostrazione che, evidentemente, non era stato colpito solo il Troisgros. A Parigi erano morte allo stesso modo diverse persone che avevano consumato carne di astice avariata...
Almeno così si diceva, ma Roche sospettava che la causa fosse un'altra. Le notizie arrivavano da Le Havre, Cherbourg, Caen, Rennes e Brest. Roche aveva incaricato un assistente di continuare le ricerche. Poi, siccome cominciava a delinearsi un quadro in cui gli astici bretoni giocavano un ruolo inglorioso, mise da parte tutto il resto e si dedicò esclusivamente all'analisi dei campioni di acqua. Di nuovo si trovò di fronte a legami insoliti, che lo lasciavano perplesso. Era indispensabile avere altri campioni, così fece prendere contatti con le città colpite. Sfortunatamente a nessuno era venuto in mente di conservare un po' di quella sostanza. Non erano esplosi altri astici oltre a quello di Roanne; si parlava sempre di animali immangiabili, la cui carne era stata buttata via, e di esemplari che avevano fatto una pessima impressione già prima della cottura perché c'era qualcosa che fluiva dal loro interno. Roche si augurava che qualcuno si fosse dimostrato intelligente come l'apprendista, ma pescatori, commercianti all'ingrosso e personale di cucina non avevano mai lavorato in un laboratorio. Fu il primo ad accreditare certe speculazioni: ipotizzò che nella corazza dell'astice non ci fosse un solo organismo, bensì due. Uno dei quali, gelatinoso, si era decomposto ed era sparito completamente; l'altro, invece, era vivo, presente in quantità notevole e a Roche risultava funestamente noto. Osservò nel microscopio. Migliaia di sfere trasparenti, simile a palline da tennis, formicolavano l'una sull'altra. Se la sua ipotesi era vera, all'interno di quelle sfere doveva trovarsi un pedunculus arrotolato su se stesso, una specie di proboscide. Era stato quell'essere a uccidere Jean Jérôme? Roche prese un ago sterile e se lo infilò nella punta del pollice, facendone uscire una gocciolina di sangue. Con cautela la iniettò nel campione sul vetrino e tornò a guardare attraverso la lente del microscopio. Ingranditi di settecento volte, i globuli di Roche sembravano petali rosso rubino. Si spostavano barcollando nell'acqua, tutti pieni di emoglobina. Immediatamente le sfere trasparenti si attivarono, estrassero le loro proboscidi e balzarono fulmineamente sulle cellule umane. I peduncoli s'infilarono come aghi. Quegli inquietanti microbi si coloravano lentamente di rosso, mentre i globuli si prosciugavano. Quando un globulo era prosciugato, balzavano su un altro, e intanto s'ingrossavano. Era proprio quello che Roche temeva. Ognuno di quegli esseri poteva contenere fino a dieci globuli: al massimo in tre quarti d'ora avrebbero terminato il loro lavoro. Continuò a guardare, affascinato, e si accorse che tutto procedeva più velocemente di quanto aves-
se pensato, molto più velocemente. La scena finì dopo quindici minuti. Roche rimase immobile davanti al microscopio. Poi annotò: «Si tratta probabilmente di Pfiesteria piscicida». Il «probabilmente» l'aveva messo per scrupolo, poiché era sicuro di aver appena classificato l'agente patogeno responsabile delle malattie e delle morti. Ciò che lo turbava era l'impressione di avere a che fare con un esemplare mostruoso della Pfiesteria piscicida. Si andava di superlativo in superlativo, perché in sé la Pfiesteria piscicida era già mostruosa: un mostro che misurava un centesimo di millimetro, uno dei più piccoli predatori del mondo. E nel contempo uno dei più pericolosi. Si trattava di un vampiro. Era un argomento di cui aveva letto molto. Il primo incontro della scienza con la Pfiesteria non risaliva a molto tempo prima. Era avvenuto negli anni '80, con la morte di cinquanta pesci di laboratorio nella North Carolina State University. L'acqua in cui nuotavano i pesci era pulita, ma si registrava la presenza nell'acquario di nuvole di organismi unicellulari in sospensione. Poi l'acqua era stata cambiata e altri pesci erano stati immessi nell'acquario. Quei pesci, tuttavia, non erano sopravvissuti neppure un giorno: qualcosa li aveva uccisi, e pure con grande efficienza. Pesciolini rossi, spigole macchiate, tilapia africane... Tutti morivano, spesso nel giro di qualche ora, a volte di minuti. Gli scienziati avevano inoltre osservato che le vittime, prima di morire tra mille tormenti, erano scosse da contrazioni. E che ogni volta comparivano come dal nulla quei misteriosi microbi e altrettanto improvvisamente sparivano. Progressivamente il quadro si era fatto più chiaro. Una botanica aveva identificato il sinistro organismo come un flagellato, appartenente a una specie sconosciuta fino a quel momento. Un dinoflagellato, un'alga. Ce n'erano molte specie: la maggior parte era innocua, ma alcune ormai da tempo si erano rivelate vere e proprie pesti. Contaminavano interi allevamenti di molluschi. Erano insomma i dinoflagellati a provocare la pericolosissima «marea rossa», che colorava il mare di rosso sangue o di marrone. E si sapeva che attaccavano i crostacei. Tuttavia quegli esemplari sembravano del tutto inoffensivi rispetto all'organismo appena scoperto. Perché la Pfiesteria piscicida si differenziava dai suoi simili; la sua aggressività era impressionante e, in un certo senso, ricordava le zecche. Non per la forma, ma perché mostrava una pazienza simile. Stava appostata, apparentemente priva di vita, sul fondo delle acque. Ogni singolo organi-
smo aveva intorno una capsula, una specie di ciste che lo proteggeva. In tal modo, la Pfiesteria poteva resistere anni senza cibo. Finché non passava in zona un banco di pesci, i cui escrementi arrivavano sul fondo e risvegliavano l'appetito degli organismi unicellulari. Quello che succedeva in seguito poteva essere descritto solo come un attacco lampo. Le alghe si staccavano a miliardi dalle loro cisti e risalivano, utilizzando i due flagelli all'estremità del corpo come sistema di locomozione: uno ruotava come un'elica; l'altro guidava l'organismo nella direzione desiderata. La Pfiesteria si attaccava al corpo di un pesce e liberava un veleno che paralizzava il sistema nervoso dell'animale e, nel contempo, faceva buchi grandi come una moneta nella pelle. Poi infilava la proboscide nelle ferite e assumeva gli umori della preda morente. Quand'era sazia, si staccava dalla vittima e si lasciava cadere di nuovo sul fondo, tornando a incapsularsi. In sé, le alghe tossiche erano fenomeni normali, come i funghi in un bosco. Alcune di esse erano note fin dai tempi biblici. Nell'Esodo veniva descritto un fenomeno che sembrava corrispondere con sorprendente esattezza a una «marea rossa»: «Aronne alzò il bastone, percosse le acque che erano nel fiume sotto gli occhi del faraone e sotto gli occhi dei suoi servitori; e tutte le acque che erano nel Fiume furono cambiate in sangue. I pesci che erano nel fiume morirono e il fiume fu inquinato, tanto che gli egiziani non potevano più bere l'acqua del fiume. Vi fu sangue in tutto il Paese d'Egitto». Quindi non c'era nulla di straordinario nel fatto che le alghe uccidessero alcuni pesci... La novità era nel modo, nella brutalità con cui lo facevano. Era come se una malattia fosse uscita dall'acqua e avesse attaccato il mondo, una malattia il cui sintomo più spettacolare si chiamava Pfiesteria piscicida. Attacchi velenosi ad animali marini, nuove malattie dei coralli... tutto ciò esprimeva le condizioni in cui versavano i mari in tutto il mondo: indeboliti dagli scarichi di sostanze dannose, afflitti dall'overfishing, soggetti alla cementizzazione irresponsabile delle coste e al riscaldamento del clima. Si discuteva se le invasioni di alghe fossero un evento periodico o un fenomeno del tutto nuovo, intanto però era certo che invasioni di quelle dimensioni non si erano mai viste e che la natura era maestra nella creazione di nuove specie. Gli europei esultavano perché non erano toccati dalla Pfiesteria, ma in Norvegia morivano migliaia di pesci e l'allevamento di salmoni era sull'orlo della rovina. Stavolta l'assassino si chiamava Chrysochromulina polypeis, una sorta di zelante fratellino della Pfiesteria, e nessuno osava prevedere quali altri organismi sarebbero com-
parsi. Ora la Pfiesteria piscicida aveva attaccato gli astici bretoni. Ma era davvero Pfiesteria piscicida? Il dubbio tormentava Roche. Il comportamento delle cellule non lasciava dubbi, anche se la Pfiesteria appariva molto più aggressiva di quanto descritto nella letteratura scientifica. Soprattutto lui si chiedeva come mai l'astice fosse sopravvissuto così a lungo. Le alghe provenivano dal suo interno? Insieme con quella sostanza? La massa gelatinosa che si decomponeva all'aria sembrava essere qualcosa di completamente diverso dalle alghe, qualcosa di assolutamente sconosciuto. Provenivano entrambe dall'interno dell'astice? Ma cos'era successo alla carne dell'astice? Si trattava davvero di un astice? Roche cadde in un profondo smarrimento. Di una cosa però era assolutamente certo: qualunque cosa fosse, adesso si trovava nell'acqua potabile di Roanne. 22 aprile Mar di Norvegia, margine continentale Sul mare, il mondo sembrava fatto esclusivamente di acqua, ed era separato dal cielo solo da un labile confine. Così, nelle giornate serene, persi in quell'infinito, si aveva l'impressione di essere letteralmente risucchiati nell'universo; mentre con la pioggia era difficile comprendere se si era ancora sulla superficie del mare o se si era sommersi. Anche i marinai più incalliti trovavano deprimente la monotonia della pioggia. L'orizzonte si cancellava, il nero delle onde si perdeva nelle masse di nuvole senza contorno e lasciava l'impressionante immagine di un universo senza luce, senza forma e senza speranza. Nel mare del Nord e nel mar di Norvegia le torri di perforazione offrivano dei punti di riferimento. Ma al largo, sulla scarpata continentale, dove da due giorni incrociava la Sonne, la maggior parte delle piattaforme era troppo lontana per poter essere vista a occhio nudo. Anche le poche torri visibili sparivano nella pioggia sottile. Era tutto bagnato fradicio e un freddo umido s'infilava sotto le giacche impermeabili e le tute degli scienziati e dell'equipaggio. A quella monotona pioggerellina, tutti avrebbero preferito una vera pioggia, con gocce grosse e battenti. Sembrava che l'acqua non arrivasse solo dal cielo, ma che risalisse anche dal mare. Era uno dei giorni
più infelici che Johanson ricordasse. Si tirò il cappuccio fin sulla fronte e si diresse verso poppa, dove il personale tecnico era impegnato nel recupero della multisonda. A metà strada, Bohrmann gli si affiancò. «Anche lei continua a sognare vermi?» chiese Johanson. «Non ancora», rispose il geologo. «E lei?» «Mi rifugio nell'idea di recitare in un film.» «Buona idea. Chi è il regista?» «Che ne dice di Hitchcock?» «Gli uccelli in una versione per geologi marini?» Bohrmann fece una risata amara. «Una bella rappresentazione... Ah, ma sono già a buon punto!» Bohrmann lasciò Johanson e si affrettò verso poppa. Appeso alla gru, emerse un grande telaio rotondo, nella cui metà superiore si trovavano alcuni tubi di plastica che contenevano campioni d'acqua provenienti da diverse profondità. Johanson rimase a osservare per un po' il recupero della multisonda e dei campioni degli strati, poi arrivarono in coperta Stone, Hvistendahl e Tina Lund. Stone corse da lui. «Che dice Bohrmann?» chiese. «Dice: 'Houston, abbiamo un problema.'» Johanson scrollò le spalle. «Bah, non dice molto.» Stone annuì. La sua aggressività aveva lasciato il posto a un profondo abbattimento. Nel corso delle misurazioni, la Sonne aveva seguito il corso sudorientale della scarpata continentale fino al di sopra della Scozia, mentre le telecamere sulla slitta mandavano immagini dal fondale. La slitta, un massiccio telaio che somigliava a una scansia d'acciaio piena di apparecchiature in disordine, disponeva di diversi strumenti di misurazione, di potenti proiettori e di un occhio elettronico che filmava e mandava le immagini ai monitor del laboratorio attraverso cavi a fibre ottiche, il tutto mentre la nave la trascinava. Per le riprese video, la Thorvaldson disponeva del più moderno Victor. La nave oceanografica norvegese seguiva il corso della scarpata in direzione nord-est e analizzava l'acqua del mare norvegese fino a Tromsø. Le due navi avevano iniziato il loro tragitto dal punto in cui si sarebbe dovuta costruire la stazione, e adesso stavano facendo il percorso inverso. Al loro incontro, due giorni dopo, avrebbero avuto tutti i rilievi necessari della scarpata dello zoccolo continentale norvegese e del mare del Nord. Bohrmann e Skaugen avevano proposto di comportarsi come se la regione non fosse mai stata studiata prima. E sembrava davvero così. Da quando Bohrmann aveva presentato i primi dati, nulla sembrava più corrispondere
alla normalità. Era successo durante la riunione del mattino, non appena erano comparse sui monitor le prime immagini trasmesse dalla slitta. Avevano calato la multisonda durante un crepuscolo freddo e umido. Johanson aveva cercato d'ignorare l'effetto ascensore della Sonne che affondava improvvisamente nei cavalloni. I primi campioni d'acqua intanto erano stati mandati nel laboratorio di sismologia, dov'erano stati analizzati. Dopo, Bohrmann aveva invitato il team nella sala riunioni del ponte principale. Erano tutti radunati intorno al lucido tavolo di legno, e, in breve, la curiosità aveva catturato la loro attenzione. Avevano smesso di stropicciarsi gli occhi, sbadigliando, e stringevano le tazze del caffè, il cui calore cominciava a diffondersi lentamente alle dita. Bohrmann aveva tenuto lo sguardo fisso su un foglio, aspettando pazientemente che si radunassero tutti. «Posso offrirvi un primo risultato», disse infine. «Non è rappresentativo, giacché si tratta solo di un'istantanea.» Sollevò lo sguardo, lo fissò un momento su Johanson poi lo spostò su Hvistendahl. «Conoscete tutti il concetto di 'pennacchio di metano'?» Un giovane della squadra di Hvistendahl scosse incerto la testa. «Si parla di 'pennacchio di metano' quando il gas esce dal fondale marino, si miscela con l'acqua, entra nella corrente e sale», spiegò Bohrmann. «In genere, rileviamo questi pennacchi dove una zolla terrestre scivola sotto l'altra, la pressione schiaccia i sedimenti e li ammassa. La conseguenza è che da lì sgorgano fluidi e gas. Un fenomeno ampiamente noto.» Si schiarì la voce. «Ma vedete, a differenza dell'oceano Pacifico, nell'Atlantico non troviamo simili zone di alta pressione, quindi non ve ne sono nemmeno davanti alla Norvegia, dove i margini continentali in gran parte non sono attivi. Tuttavia, stamattina, abbiamo rilevato in questa zona un pennacchio di metano ad alta concentrazione che, nelle primissime misurazioni, non era comparso.» «Quanto è elevata la concentrazione?» chiese Stone. «È a un livello allarmante. Abbiamo rilevato valori simili al largo dell'Oregon. In una zona con fuoriuscite massicce.» «Bene.» Stone cercò di non assumere un'espressione corrucciata. «Per quello che ne so, il metano esce in continuazione al largo della Norvegia. Lo sappiamo fin dai primi progetti. Si sa che il fondale marino rilascia sempre dei gas, e ogni volta è perfettamente spiegabile. Perché stavolta volete seminare il panico?»
«La sua interpretazione non evidenzia il nocciolo della faccenda.» «Mi ascolti», sospirò Stone. «A me interessa soltanto se le sue rilevazioni offrono davvero motivo di preoccupazione. Finora non mi pare. Stiamo sprecando tempo.» Bohrmann sorrise cortesemente. «Dottor Stone, in questa zona, e soprattutto più a nord, la scarpata continentale è letteralmente cementata dagli idrati di metano. Si tratta di strati spessi da sessanta a cento metri, enormi coperchi di ghiaccio. Ma sappiamo anche che quegli strati, nelle zone più verticali, talvolta si staccano. Da lì esce da anni del gas che, secondo i nostri calcoli di stabilità, non dovrebbe proprio uscire. Tenuto conto della pressione e della temperatura dovrebbe congelarsi immediatamente, eppure ciò non succede. Sono quelle le fuoriuscite di cui stiamo parlando. Si può convivere con esse, si può anche decidere d'ignorarle, ma non possiamo illuderci di essere al sicuro solo perché abbiamo sviluppato qualche diagramma e qualche curva. Lo dico ancora una volta, la concentrazione di metano libero nelle colonne d'acqua è oltremodo elevata.» «Si tratta davvero di fuoriuscite di gas?» chiese Tina. «Voglio dire, il metano sale dall'interno della Terra, o forse il gas proviene da...» «Dagli idrati che si sciolgono?» Bohrmann esitò. «È una domanda decisiva. Se gli idrati stanno iniziando a decomporsi, significa che è cambiato qualcosa nei parametri di quella zona.» «E lei crede che sia così?» volle sapere Tina. «In realtà ci sono solo due parametri: pressione e temperatura. Ma non abbiamo misurato un riscaldamento dell'acqua e il livello del mare non è sceso.» «Lo dicevo», gridò Stone. «Cerchiamo risposte a domande che nessun essere umano ha mai posto. Voglio dire, abbiamo il prelievo di un campione.» Si guardò intorno cercando cenni di assenso. «Un unico, maledetto campione!» Bohrmann annuì. «Ha ragione, dottor Stone, si tratta soltanto di speculazioni. Ma noi siamo qui proprio per trovare la verità.» «Stone mi dà sui nervi», disse Johanson a Tina, non appena furono nella mensa. «Che ci sta a fare qui? Sembra che voglia impedire i test. Ed è proprio lui a dirigere il progetto.» «Potremmo gettarlo in mare.» «In mare scarichiamo già di tutto.» Presero un altro caffè e andarono sul ponte.
«Che ne pensi del risultato?» chiese Tina, tra un sorso e l'altro. «Non si tratta di un risultato. È solo un dato provvisorio.» «Va bene. Che ne pensi di questo dato provvisorio?» «Non lo so.» «E dai...» «L'esperto è Bohrmann.» «Credi che dipenda dai vermi?» Johanson ripensò alla conversazione con Olsen. «Non credo proprio», disse con cautela. «Sarebbe prematuro credere a qualcosa.» Sorseggiò il caffè e sollevò la testa. Sopra di lui si stendeva il cielo grigio. «So soltanto una cosa: che ora preferirei essere a casa invece che su questa nave.» Tutto ciò era accaduto il giorno precedente. Mentre venivano analizzati gli ultimi campioni d'acqua, Johanson si ritirò nella sala radio dietro il ponte. Attraverso il satellite poteva entrare in contatto con tutto il mondo. Aveva cominciato a costruire una banca dati e a spedire e-mail a istituti e scienziati, mascherando il tutto come una ricerca d'interesse personale. Le prime risposte erano state deludenti: nessuno aveva osservato i nuovi vermi. Poche ore prima, aveva preso contatto con le altre spedizioni marine. Tirò indietro una sedia, sistemò il laptop in mezzo agli apparecchi radio e aprì la posta elettronica. Anche stavolta il bottino era magro. L'unica notizia interessante arrivava da Olsen: gli comunicava che l'invasione di meduse nel Sudamerica e in Australia era evidentemente fuori controllo. Non so se voi là fuori ricevete notizie, ma ieri notte è successo qualcosa. Le meduse si spostano in gruppi lungo la costa. I notiziari dicono che è come se stessero consapevolmente muovendosi verso le zone abitate dagli esseri umani. Una cosa priva di senso, ovvio. Ah, già: c'è stata un'altra collisione. Due portacontainer in Giappone. Inoltre continuano a sparire imbarcazioni, ma stavolta ci sono state richieste di aiuto. Le storie strane dalla British Columbia continuano a eccitare la stampa senza che si scopra nulla di concreto. Si potrebbe quasi credere alle voci che, tanto per cambiare, sarebbero le balene a cacciare gli uomini. Ma grazie a Dio non si può credere a tutto. Questo è tutto per il programma Buon umore da Trondheim. Non annegare. «Grazie», ringhiò Johanson di cattivo umore.
Effettivamente ascoltavano raramente i notiziari. Sulle navi oceanografiche si viveva come in un buco spazio-temporale. La scusa ufficiale era che non si ascoltavano i notiziari perché c'era troppo da fare. In realtà, si voleva essere lasciati in pace da politica e guerra, almeno finché le onde continuavano a colpire lo scafo. Poi, però, dopo uno o due mesi sul mare, improvvisamente ci si sentiva come svanire e si provava nostalgia del proprio solido posto all'interno della civiltà, delle gerarchie, dell'hightech, dei cinema e dei McDonald's. E si sentiva la mancanza di un pavimento che non continuasse a dondolare. Johanson non riusciva a concentrarsi. Continuava a vedere nella sua mente quello che aveva osservato ininterrottamente per due giorni sui monitor. Vermi. Ormai erano arrivati a una certezza: la scarpata continentale brulicava di vermi. Le superfici e le vene di metano ghiacciato erano sparite sotto milioni di corpi rosa sussultanti, che cercavano d'infilarsi nel ghiaccio: un'unica massa impazzita. Non era più un fenomeno localizzato. Era un'invasione a tappeto che si estendeva lungo tutta la costa norvegese. Come se qualcuno li avesse stregati... Qualcuno doveva aver osservato fenomeni simili. Perché non lo abbandonava la sensazione che tra i vermi e le meduse ci fosse una relazione? Ma quale dimostrazione credibile avrebbe potuto dare? Era una sciocchezza! Una sciocchezza, già. Ma una sciocchezza che sembra l'inizio di qualcosa, pensò improvvisamente. Qualcosa su cui finora abbiamo potuto gettare solo uno sguardo fugace. Quello era solo l'inizio. Una sciocchezza ancora più grossa, si rimproverò. Si stava collegando alla CNN per leggere qualcosa sulle notizie cui Olsen aveva accennato, quando Tina entrò e gli mise davanti una tazza di tè nero. Johanson la guardò e lei gli sorrise con aria da cospiratrice. Dopo la gita al lago, si comportava spesso così con lui. Il profumo di Earl Grey si diffuse nell'aria. «A bordo abbiamo simili raffinatezze?» chiese Johanson, meravigliato. «A bordo non abbiamo nulla del genere», rispose Tina. «Una cosa del genere si porta se si sa che a bordo c'è una persona particolare.» Johanson sollevò le sopracciglia. «Come sei premurosa. Che piacere
vuoi, stavolta?» «E se volessi solo un grazie?» «Grazie.» Tina diede uno sguardo al laptop. «Fai passi avanti?» «Niente. Che ne è delle analisi degli ultimi campioni?» «Non ne ho idea. Ero impegnata in cose più importanti.» «Oh. C'è qualcosa di più importante?» «Tenere la manina all'assistente di Hvistendahl.» «E perché?» «Dà da mangiare ai pesci», rispose Tina con una scrollata di spalle. «È carne fresca.» Johanson scoppiò ridere. Tina usava il vocabolario dei marinai. Sulle navi oceanografiche s'incontravano due mondi: quello formato dall'equipaggio e quello costituito dagli scienziati. Si sfioravano con le migliori intenzioni, cercavano di assumere espressioni, stili di vita e manie l'uno dell'altro, si studiavano per un po' finché non si trovavano, per così dire, in acque sicure. Fino a quel momento regnava una rispettosa distanza, che si compensava con qualche battuta. «Carne fresca» era la definizione che i marinai davano dei novellini, per i quali, dopo aver lasciato la terraferma, la vita da marinaio diventava meno affidabile del contenuto del loro stomaco. «La prima volta hai vomitato anche tu», notò Johanson. «Tu no?» «No.» «Figurati.» «Davvero, no.» Johanson alzò una mano come se volesse giurare. «Puoi vederlo tu stessa. Non soffro il mal di mare.» «Okay, non soffri il mal di mare.» Tina estrasse un foglio e lo mise sul tavolo. C'era annotato un indirizzo web. «Dopo potrai andare immediatamente nel mar di Groenlandia. Un conoscente di Bohrmann è già là. Si chiama Bauer.» «Lukas Bauer?» «Lo conosci?» Johanson annuì lentamente. «Ricordo un congresso alcuni anni fa a Oslo, durante il quale Bauer tenne una relazione. Credevo si occupasse di correnti marine.» «È un costruttore. Costruisce tutto il possibile, dagli equipaggiamenti per gli abissi oceanici alle cisterne ad alta pressione. Bohrmann ha detto
che ha collaborato all'invenzione del simulatore di abissi marini.» «E Bauer è al largo della Groenlandia?» «Da settimane», annuì Tina. «Hai ragione, il suo lavoro riguarda le correnti marine. Sta facendo dei rilievi. Un altro candidato per la tua ricerca sui vermi.» Johanson prese il foglietto. Non aveva sentito parlare di quella spedizione. C'erano giacimenti di metano anche al largo della Groenlandia? «E come procede Skaugen?» chiese. «Faticosamente.» Tina scosse la testa. «Non come vorrebbe. Gli hanno messo la museruola, se capisci cosa voglio dire.» «Chi? I suoi superiori?» «La Statoil è un'industria statale. Devo essere più esplicita?» «Allora non scoprirà nulla», borbottò Johanson. Tina sospirò. «Gli altri non sono stupidi. Se si cerca di spillare informazioni senza darne, se ne accorgono, e si attengono al codice di riservatezza.» «L'avevo detto.» «Sì, sei sempre molto scaltro.» Fuori risuonarono alcuni passi e uno degli uomini di Hvistendahl si affacciò alla porta. «Sala riunioni», disse. «Quando?» «Subito. Abbiamo le analisi.» Sigur e Tina si scambiarono un'occhiata. Nei loro sguardi c'era l'ansiosa attesa di quello che in fondo già sapevano. Johanson chiuse il laptop e, insieme con Tina, seguì l'uomo sul ponte di comando. La pioggia scorreva sui vetri. Bohrmann si sosteneva con le nocche al piano del tavolo. «Finora abbiamo trovato la stessa situazione lungo tutto il margine continentale», disse. «Il mare è saturo di metano. I nostri risultati concordano con quelli della Thorvaldson, con alcune piccole variazioni, ma il quadro è lo stesso.» Fece una pausa. «Non voglio girarci intorno. In ampie zone, qualcosa ha iniziato a destabilizzare gli idrati.» Nessuno si mosse. Nessuno disse una parola. Lo fissavano e aspettavano. Poi le voci degli uomini della Statoil si accavallarono. «Che significa?» «Gli idrati di metano si liberano? Ma aveva detto che i vermi non potevano destabilizzare il ghiaccio!»
«Ha registrato un riscaldamento? Senza riscaldamento...» «Quali conseguenze...?» «Per favore!» Bohrmann sollevò una mano. «È così. Sono ancora dell'idea che questi vermi non possano provocare gravi danni. D'altro canto, dobbiamo tener presente che la destabilizzazione è iniziata con la loro comparsa.» «Molto illuminante», borbottò Stone. «Da quanto tempo è iniziato il processo?» chiese Tina. «Abbiamo visto le analisi fatte dalla Thorvaldson alcune settimane fa, quando hanno scoperto i vermi», rispose Bohrmann, sforzandosi di mantenere un tono tranquillo. «Allora le misurazioni erano ancora normali. La crescita è iniziata dopo.» «Ma che cosa sta succedendo, allora?» volle sapere Stone. «Là sotto diventa più caldo o no?» «No.» Bohrmann scosse la testa. «I parametri per la stabilità degli idrati non sono cambiati. La fuoriuscita di metano può dipendere solo da processi che avvengono nel profondo dei sedimenti. In ogni caso, più in profondità di quanto possano scavare questi vermi.» «Come fa a saperlo?» chiese Stone. «Abbiamo dimostrato...» Bohrmann esitò, poi riprese: «Con l'aiuto del dottor Johanson, abbiamo dimostrato che, senza ossigeno, gli animali muoiono. Riescono a raggiungere solo pochi metri di profondità». «Avete i risultati di una cisterna», disse Stone, sprezzante, come se Bohrmann fosse il suo peggior nemico. «Se non è l'acqua a scaldarsi, forse potrebbe essere il fondale marino», propose Johanson. «Vulcanismo?» «È solo un'idea.» «Un'idea plausibile, ma non in questa zona.» «È possibile che nell'acqua ci siano i residui di ciò che i vermi hanno mangiato?» «Non in simili quantità. Dovrebbero aver raggiunto il gas libero oppure essere in grado di sciogliere gli idrati.» «Ma non possono raggiungere il gas libero», insistette caparbiamente Stone. «No, ho detto che...» «Lo so che cos'ha detto. Voglio dirle come la vedo io: il verme ha un calore corporeo, come ogni essere vivente cede calore, quindi scioglie lo
strato superficiale, solo un paio di centimetri, ma quanto basta...» «La temperatura corporea di un abitante degli abissi è identica a quella dell'ambiente circostante», disse con freddezza Johanson. «Tuttavia, se...» «Clifford.» Hvistendahl mise una mano sul braccio del capo progetto. Sembrava un gesto amichevole, ma Johanson sentì che Stone aveva appena ricevuto un chiaro avvertimento. «Perché non ci limitiamo ad attendere le prossime analisi?» «Ah, dannazione.» «Non serve a niente, Cliff. Smettila di costruire teorie.» Stone guardava il pavimento. Era calato il silenzio. «E quali sarebbero le conseguenze se la fuoriuscita di metano non si fermasse?» chiese Tina dopo qualche istante. «Ci sono molti scenari possibili», rispose Bohrmann. «La scienza descrive fenomeni nel corso dei quali spariscono interi campi di idrati. Si sciolgono nel giro di un anno. Può essere che qui stia succedendo proprio questo, e probabilmente il processo è stato messo in moto dai vermi. In tal caso, nei prossimi mesi, al largo della Norvegia, si libererà nell'atmosfera moltissimo metano.» «Uno shock da metano come cinquantacinque milioni di anni fa?» «No, la quantità di metano non è sufficiente per ottenere un simile effetto. Ancora una volta, non voglio fare speculazioni. D'altra parte, non posso immaginare che il processo continui all'infinito senza riduzione della pressione e aumento della temperatura, e noi non registriamo né l'uno né l'altro. Nelle prossime ore, manderemo sott'acqua la videocamera, forse dopo ne sapremo di più. Vi ringrazio.» E, con quello, Bohrmann lasciò la sala riunioni. Johanson mandò un'e-mail a Lukas Bauer. Ormai gli sembrava di essere un biologo investigatore: Ha visto questo verme? Lo potrebbe descrivere? Lo riconoscerebbe se fosse messo a confronto con altri cinque vermi?È stato questo verme a rubare la borsetta a quella signora anziana? Chi avesse informazioni al riguardo è pregato di recarsi al più vicino centro di ricerca. Dopo qualche esitazione, scrisse alcune parole cortesi sul loro precedente incontro a Oslo e chiese se, per caso, al largo della Groenlandia, nell'ultimo periodo, avesse registrato concentrazioni di metano insolitamente alte. Finora, nelle sue richieste aveva evitato di toccare quel punto.
Poi andò sul ponte e scorse la videoslitta che penzolava, appesa all'argano: era sorvegliata dal team di geologi di Bohrmann, che la stavano sollevando. Un po' più in là, un gruppo di marinai stava accovacciato a chiacchierare sulla grande cassa per gli spazzoloni, davanti all'officina del ponte. Nel corso degli anni, la cassa era stata elevata al rango di rifugio, qualcosa a metà tra il posto di vedetta e il salotto. Vi era stato steso sopra un panno e alcuni la chiamavano semplicemente «il divano». Là si facevano battute sui movimenti impacciati di dottori e dottorandi, che quindi evitavano con cura quel luogo. Ma quel giorno non si sentivano risate o spiritosaggini: la tensione aveva contagiato anche l'equipaggio. La maggior parte dei marinai aveva un'idea approssimativa di ciò che gli scienziati stavano facendo. Ma sapevano che sulla scarpata continentale c'era qualcosa che non andava e tutti erano preoccupati. Bisognava agire in fretta. Bohrmann fece procedere lentamente la nave per esaminare il luogo attraverso le immagini video e i dati rilevati dal sonar. Proprio sotto la Sonne si trovava un esteso campo di idrati. In quel caso, «testare» significava calare in mare un mostro che sembrava arrivare dal Giurassico della ricerca marina: una benna dotata di telecamera, una bocca d'acciaio pesante varie tonnellate. Non era esattamente l'ultimo ritrovato tecnologico. Era il modo più brutale, ma anche il più affidabile, per strappare - nel vero senso della parola - al fondale marino un pezzo della sua storia. La benna scavava il sottosuolo, si spingeva in fondo, mordeva, aprendo una ferita, e raccoglieva quintali di fango, ghiaccio, fauna e pietrisco che poi portava nel mondo degli uomini. I marinai la chiamavano TRex. Quando la si vedeva appesa all'argano di poppa, con le mandibole spalancate, pronta a lanciarsi in acqua, il nomignolo risultava decisamente azzeccato. Un mostro al servizio della scienza. Come tutti i mostri, tuttavia, la benna, sebbene dotata d'incredibili capacità, era nel contempo goffa e stupida. Era attrezzata con una videocamera e con potenti proiettori che consentivano di vedere il fondale; in tal modo, essa poteva essere aperta al momento giusto. Inoltre la benna era assolutamente incapace di avvicinarsi furtivamente al suo obiettivo. Per quanto la si posasse con cautela - e a questa cautela c'erano dei limiti, perché era comunque necessaria una certa violenza per potersi addentrare nei sedimenti! -, la maggior parte degli abitanti del fondale fuggiva subito, a causa dell'ondata che la grande bocca generava davanti a sé. Pesci, vermi, granchi e tutto quello che era capace di muoversi velocemente registravano il pericolo molto prima che la benna colpisse. Anche i sistemi tecnologici più
elaborati dovevano confrontarsi con lo stesso problema. Un ricercatore marino americano, in tono amareggiato, aveva detto: «Laggiù ci sono tantissime forme di vita. Il problema è che si spostano non appena arriviamo». Mentre la benna veniva calata con l'argano di poppa, Johanson si deterse la pioggia dagli occhi e andò nella sala di controllo. Il marinaio che si occupava dell'argano si serviva di un joystick per alzare e abbassare la benna. Nelle ultime ore, aveva già guidato la slitta, ma sembrava comunque concentrato e tranquillo. E così doveva essere. Osservare per ore l'immagine pallida e opaca del fondale marino poteva avere un effetto ipnotico. Un momento di disattenzione e apparecchiature costose come una Ferrari restavano per sempre sul fondale. Nella sala c'era penombra, i visi delle persone in piedi e sedute erano resi pallidi dalla luce dei monitor. Il mondo era sparito, c'era solo il fondale marino, di cui gli scienziati studiavano la superficie come fosse un messaggio cifrato. Ogni dettaglio poteva fornire informazioni sull'insieme, comunicare messaggi codificati in modo complesso, dare voce alla tortuosa lingua di Dio. Fuori, la benna stava scendendo. Sulle prime, quasi sembrò che l'acqua schizzasse fuori dal monitor; poi la bocca d'acciaio s'inabissò attraverso una pioggia di plancton. Tutto divenne verde-blu, poi grigio, infine nero. Punti più chiari schizzavano via come comete: minuscoli gamberetti, krill, cose indefinibili. Il viaggio della benna creava lo stesso tipo di tensione di certi episodi di Star Trek. Mancava solo la musica. Nel laboratorio c'era un silenzio assoluto. Poi, improvvisamente, sul monitor apparve il fondale marino, ma poteva essere tranquillamente anche la superficie lunare. L'argano si fermò. «Meno 714», disse il marinaio addetto alla manovra. Bohrmann si chinò in avanti. «Non ancora.» Sullo schermo si videro alcuni mitili, che sembravano soddisfatti di stare sugli idrati. La maggior parte era sparita sotto i corpi rosa che si contorcevano e vibravano. Nella mente di Johanson s'insinuò l'idea che i vermi non scavassero solo il ghiaccio, ma mangiassero anche i molluschi nelle loro conchiglie. Immaginava di vederli tirar fuori la proboscide armata di chele per strappare pezzi di carne dei molluschi e portarli all'interno del loro corpo tubolare. Non c'era modo di vedere il ghiaccio sotto quell'assedio di esseri striscianti, ma tutti nella sala di controllo sapevano che era lì, esattamente sotto di loro. Ovunque salivano bolle e frammenti luccicanti: schegge di idrati. «Ora», disse Bohrmann.
La telecamera sfrecciò. Per un attimo sembrò che i vermi si sollevassero per accogliere la benna. Poi divenne tutto nero. La bocca d'acciaio s'infilò nel metano e si chiuse lentamente. «Che diavolo...?» sibilò il marinaio. Sul pannello di controllo dell'argano scorrevano dei numeri. Poi si fermarono. Infine ripresero a scorrere. «La benna è affondata... Ha sfondato.» Hvistendahl si portò in avanti. «Che succede?» «Non c'è più niente. Gli idrati non hanno più nessuna resistenza.» «Tirala su», urlò Bohrmann. «Presto.» Il marinaio tirò il joystick verso di sé. L'indicatore si fermò e poi andò a ritroso. La benna chiusa risaliva. Le telecamere esterne mostravano un grande buco, da cui uscivano grandi bolle danzanti. Poi si sollevò un'impressionante quantità di gas che si riversò sulla benna, la avvolse e la fece sparire in un vortice ribollente. Mar di Groenlandia Alcune centinaia di chilometri a nord rispetto alla posizione della Sonne, Karen Weaver aveva appena finito di contare. Cinquanta giri della nave. Camminava su e giù dal ponte, attenta a non disturbare il lavoro degli scienziati. Poteva sembrare strano, ma era contenta che Lukas Bauer non avesse tempo per lei. Aveva bisogno di muoversi... Certo, avrebbe preferito scalare un iceberg o dedicarsi a qualche altra impresa estrema, perché soltanto così avrebbe potuto smaltire le scariche di adrenalina. A bordo delle navi oceanografiche non si poteva fare molto. Karen era stata in sala macchine e si era annoiata a morte davanti ai tre ridicoli motori. Quindi non le restava che correre. Su e giù dal ponte. Davanti agli assistenti di Bauer che stavano preparando i cinque drifter, davanti ai marinai che facevano il loro lavoro oppure la seguivano con lo sguardo, verosimilmente facendo commenti salaci. Dalla sua bocca semiaperta uscivano a intervalli regolari delle nuvolette bianche. Su e giù dal ponte. Doveva lavorare sulla resistenza, perché quello era il suo punto debole. In compenso era straordinariamente forte. Nuda, Karen Weaver sembrava una statua di bronzo, con la pelle splendente sotto cui si distendevano impressionanti fasci di muscoli. Tra le scapole si aprivano le ali di un falco
tatuato ad arte, una creatura strana col becco spalancato e con gli artigli tesi. Karen Weaver non aveva i muscoli gonfiati delle body-builder. Sarebbe potuta diventare una modella, solo che era troppo piccola e le sue spalle erano troppo larghe. Un piccolo panzer ben costruito, avido di adrenalina e pronto a trovarsi sull'orlo di qualche precipizio. In quel caso, il precipizio si stendeva sotto di lei per quasi tre chilometri. La Juno stava navigando sulla piana abissale che si estendeva al disotto dello stretto di Fram, da cui le fredde acque artiche scorrevano verso sud. Al centro della circonferenza che toccava Islanda, Groenlandia, nord della Norvegia e Svalbard si trovava uno dei due polmoni dei mari della Terra. Era ciò che succedeva lì a interessare Lukas Bauer. E anche Karen Weaver, o meglio i suoi lettori. Bauer le fece cenno di avvicinarsi. Era completamente calvo, con occhiali dalle lenti gigantesche e un pizzetto bianco. Il suo aspetto lo avvicinava al modello del professore svagato molto più di tutti gli altri scienziati che Karen Weaver avesse mai conosciuto. Aveva sessant'anni e la schiena curva, ma in quel corpo magro e piegato c'era un'energia indomabile. Karen Weaver ammirava gli uomini come Lukas Bauer. Ammirava il superuomo che c'era in essi, la loro forza della volontà. «Venga qui, Karen!» gridò Bauer con voce chiara. «Non è incredibile? Qui sotto precipitano circa diciassette milioni di metri cubi d'acqua al secondo. Diciassette milioni!» La guardò, raggiante. «È venti volte la portata di tutti i fiumi della Terra.» «Dottor Bauer...» Karen lo prese sotto braccio. «Me l'ha già detto tre volte!» Bauer socchiuse le palpebre. «Davvero? Non mi dica.» «Piuttosto si è dimenticato di spiegarmi come funziona il suo drifter. Se vuole che mi occupi dei comunicati stampa, deve dedicarmi un po' di tempo.» «Ma certo, il drifter... Pensavo che fosse chiaro. Lei è qui per questo.» «Sono qui per elaborare simulazioni al computer del movimento delle correnti, in modo che si possa sapere dove stanno andando i suoi drifter. L'ha già dimenticato?» «Ah, certo. Lei non può, lei non ha... Cioè, purtroppo, non ho tempo. Ho ancora tante cose da fare. Perché non dà un'occhiata e...» «No, dottor Bauer. Stavolta no. Mi voleva spiegare qualcosa sul sistema di funzionamento.» «Sì, certo. Nelle mie pubblicazioni...»
«Ho letto le sue pubblicazioni, dottor Bauer, e ne ho capito circa la metà. E ho una formazione scientifica. Gli articoli scientifici divulgativi devono essere scritti in modo che tutti capiscano.» Bauer la guardò, contrariato. «Sono convinto che i miei trattati siano perfettamente comprensibili.» «Sì. Lo sono per lei e per un paio di dozzine di suoi colleghi in tutto il mondo.» «Eh, come? Se si studia il testo con attenzione...» «No, dottor Bauer, me lo spieghi lei.» Lui aggrottò la fronte, poi sorrise indulgente. «Nessuno dei miei studenti si azzarderebbe a interrompermi così spesso. Posso interrompermi soltanto io.» Scrollò le spalle magre. «Ma che cosa posso fare? Non posso respingerla. No, non posso. Mi è simpatica, Karen. Lei è una... cioè, una... mi ricorda... Ah, non fa niente. Guardiamoci un po' il drifter.» «E poi parleremo dei risultati del suo lavoro. Ho ricevuto alcune richieste.» «Sì? Da chi?» «Da riviste, da trasmissioni televisive e da alcuni istituti.» «Interessante.» «No, solo logico. La conseguenza del mio lavoro. A volte mi chiedo se capisca come sia difficile fare l'addetto stampa.» Bauer fece un sorriso birichino. «Me lo spieghi.» «Volentieri, anche se sarebbe la decima volta. Ma prima mi racconti lei qualcosa.» «No, non è possibile», esclamò Bauer, agitato. «Dobbiamo calare in acqua il drifter, e subito dopo devo urgentemente...» «Dopo deve fare quello che mi ha promesso», lo ammonì Karen. «Ma, bambina mia, io ricevo richieste in continuazione. Sono in corrispondenza con scienziati di tutto il mondo! Non può neanche immaginare che cosa vogliono da me. Poco fa ho ricevuto un'e-mail in cui qualcuno mi chiede di un verme. Un verme, pensi un po'! E vuole sapere se abbiamo misurato un aumento della concentrazione di metano. Certo che l'abbiamo rilevato, ma come fa a saperlo? Vede che devo...» «Posso occuparmene io. Mi renda sua complice.» «Finché...» «Se le sono davvero simpatica.» Bauer spalancò gli occhi. «Ah, capisco.» Cominciò a ridacchiare. Le spalle curve vibrarono. «Vede, è proprio per questo che non mi sono spo-
sato: si vive sotto un costante ricatto. Va bene... Venga, venga.» Karen lo seguì. Il drifter era appeso al braccio della gru sopra la grigia superficie del mare. Era lungo diversi metri e infilato in una base di sostegno; in mezzo alla struttura c'era un tubo sottile e splendente e due contenitori sferici di vetro formavano la parte superiore. Bauer si stropicciò le mani. Il piumino gli era indubbiamente troppo grande e lo rendeva simile a un bizzarro uccello artico. «Allora, mettiamo questa cosa nella corrente, che la trascinerà con sé come una... particella d'acqua virtuale», disse. «Prima giù in verticale, infatti proprio qui sotto l'acqua cade, come le ho detto prima... Allora, naturalmente non si vede un processo di caduta, capisce, ma cade... bene... Uh, come posso spiegarglielo?» «Possibilmente senza parole strane.» «Va bene, va bene. Faccia attenzione, perché non è difficile. Deve sapere che l'acqua non ha sempre lo stesso peso: la più leggera è l'acqua dolce e calda; l'acqua salata è più pesante di quella dolce, molto più pesante. In fondo il sale ha un peso, no? A sua volta, l'acqua fredda è più pesante di quella calda, ha una densità maggiore, quindi diventa tanto più pesante quanto più si raffredda.» «Dunque l'acqua fredda e salata è la più pesante», completò Karen Weaver. «Giusto, giustissimo!» si rallegrò Bauer. «Quando parliamo di correnti marine, dobbiamo tenere presente che esse scorrono su diversi piani. Le correnti calde sono superficiali, le più fredde sono sul fondo e, in mezzo, ci sono le correnti intermedie. Allora, succede che una corrente possa scorrere per migliaia di chilometri in superficie, finché non capita in una zona fredda, dove, ovviamente, l'acqua si raffredda, vero? E se l'acqua diventa più fredda...» «Diventa più pesante.» «Brava, sì. Diventa più pesante e sprofonda. La corrente superficiale diventa una corrente intermedia o addirittura profonda, e l'acqua rifluisce. Ovviamente funziona allo stesso modo nel caso contrario. Dal basso verso l'alto, dal freddo al caldo. In questo modo, tutte le correnti marine del mondo sono costantemente in movimento. Sono tutte collegate l'una all'altra, in uno scambio costante.» Il drifter fu lasciato andare sulla superficie dell'acqua. Bauer si affrettò al parapetto e guardò giù, poi si girò e fece un cenno impaziente a Karen. «Venga, venga qui, si vede meglio.»
Lei si avvicinò. Gli occhi di Bauer scintillavano. «Sogno che questo drifter venga trascinato da tutte le correnti», disse. «Sarebbe veramente fantastico, scopriremmo tantissime cose.» «A che cosa servono quelle sfere di vetro?» «Come? Che cosa? Ah, sì. Corpi spinta. Permettono al drifter di muoversi nella colonna d'acqua. In basso ci sono dei pesi, ma il vero cuore è quella barra là in mezzo. Là dentro c'è tutto: guida elettronica, microcontroller, accumulatori d'energia. Ma anche un idrocompensatore. Non è fantastico? Un idrocompensatore!» «Sarebbe ancora più fantastico se mi spiegasse che cos'è.» «Oh, ah... naturalmente.» Bauer si tirò il pizzetto. «Già, abbiamo riflettuto su come il drifter... Allora, è così: i liquidi sono praticamente incomprimibili, non si può schiacciarli, ma l'acqua fa eccezione. Non si può comprimerla molto, ma un po' sì. E noi lo facciamo. La comprimiamo in quella barra in modo che all'interno ci sia sempre la stessa quantità, ma facendo anche in modo che l'acqua sia a volte più leggera e a volte più pesante. Così, mantenendo lo stesso volume, il drifter cambia il proprio peso.» «Geniale.» «In effetti. Possiamo programmarlo in modo che faccia tutto da solo: compressione, decompressione, compressione, decompressione, affondare, risalire, affondare, tutto senza il nostro intervento... Carino, vero?» Karen annuì e guardò la lunga struttura che s'immergeva nelle onde grigie. «In questo modo, il drifter può muoversi da solo in mare per mesi, se non per anni, e mandare segnali acustici. Noi possiamo localizzarlo e ricostruire velocità e percorso delle correnti. Ah, s'immerge. È andato.» Il drifter era sparito in mare. Bauer annuì soddisfatto. «E ora dove va?» chiese Karen. «Questa è una bella domanda.» Lei lo osservò. Lo sguardo di Bauer si illuminò, poi lui fece un sospiro rassegnato. «Lo so. Vuole parlare del mio lavoro.» «E in questo momento.» «Lei è una rompiscatole, cara mia, e anche testarda. Va bene, andiamo in laboratorio. Ma l'avverto, i risultati del mio lavoro sono inquietanti, per usare un eufemismo...» «Il mondo ama farsi inquietare. Non ha sentito? Invasioni di meduse, anomalie, persone disperse, un disastro navale dietro l'altro. I suoi risultati
sarebbero in ottima compagnia.» «Ah, sì?» Bauer scosse la testa. «Probabilmente ha ragione. Non riuscirò mai a capire il lavoro dell'addetto stampa. Ma io sono solo un professore, andrebbe oltre le mie capacità.» Mar di Norvegia, margine continentale «Dannazione», imprecò Stone. «Questo è un blowout.» Nella sala di controllo, tutti fissavano il monitor, come stregati. Là sotto sembrava scoppiato l'inferno. Bohrmann disse al microfono: «Dobbiamo andarcene. Comando al ponte. Avanti tutta». Tina si girò e corse fuori dalla stanza. Johanson esitò, poi le corse dietro. Gli altri li seguirono. Scoppiò il panico. Improvvisamente sembrava che tutti a bordo si fossero messi in movimento. Johanson corse sul ponte, dove marinai e tecnici, coordinati da Tina, stavano spostando a fatica la cisterna frigorifera. Quando la Sonne si mise in movimento, sul braccio dell'argano il cavò vibrò. Tina vide Johanson e lo raggiunse di corsa. «Cos'è successo?» gridò lui. «Siamo incappati in una bolla. Vieni.» Lo trascinò verso il parapetto. Arrivarono anche Hvistendahl, Stone e Bohrmann. Due dei tecnici della Statoil stavano sul ripido bordo di poppa, proprio sotto il braccio della gru, e guardavano fuori, incuriositi. Bohrmann gettò uno sguardo al cavo tesissimo. «Ma che sta facendo?» sibilò. «Perché quell'idiota non ferma l'argano?» Si allontanò dal parapetto e corse all'interno. Nello stesso istante, il mare cominciò a schiumare selvaggiamente. La Sonne andava a tutta velocità. Il cavo della benna si tese all'inverosimile, gemendo. Un uomo corse sul ponte sopra il braccio della gru, facendo cenni disperati. «Via di lì», gridava agli uomini della Statoil. «Attenti!» Johanson lo riconobbe. Era il «cane pastore», come lo chiamava l'equipaggio, il primo ufficiale. Hvistendahl si girò e prese a gesticolare verso gli uomini. Poi tutto accade in un attimo. Si trovarono di colpo in mezzo a un geyser scrosciante e sibilante; sotto la superficie dell'acqua, inoltre, comparve la sagoma della benna. Si diffuse un insopportabile odore di zolfo, la poppa della Sonne si abbassò, poi la bocca d'acciaio saltò fuori dall'inferno ribollente, oscillando come un'altalena gigantesca. Il più arretrato
dei due uomini della Statoil vide la benna arrivare e si gettò a terra. L'altro spalancò gli occhi, terrorizzato, fece un passo all'indietro e inciampò. L'ufficiale balzò verso di lui per cercare di rialzarlo, ma non fu abbastanza veloce. La benna si schiantò contro l'uomo a terra e lo scagliò in aria. L'uomo tracciò un ampio arco, scivolò sulle assi e atterrò sulla schiena. «Oh, no», gemette Tina. «Maledizione!» Lei e Johanson scattarono contemporaneamente. Il primo ufficiale e i membri dell'equipaggio erano in ginocchio vicino all'uomo. «Non toccatelo», disse l'ufficiale. «Voglio...» iniziò Tina. «Chiamate il medico, presto.» Tina si mordicchiò nervosamente un'unghia. Johanson sapeva quanto odiasse essere condannata all'inattività. Poi lei si avvicinò alla benna che oscillava, colando fango. «Aprite», gridò. «Tutto quello che è rimasto deve essere messo nella cisterna.» Johanson guardò l'acqua: dal mare uscivano ancora puzzolenti bolle di gas, ma per fortuna erano diminuite. La Sonne si era allontanata velocemente. Gli ultimi frammenti di ghiaccio di metano saliti in superficie galleggiavano tra le onde e si scioglievano. La benna si aprì, stridendo, e lasciò cadere quintali di fango e ghiaccio. Gli uomini del laboratorio di Bohrmann e i marinai si affrettarono a mettere più idrati possibile nell'azoto liquido che fumava e sibilava. Johanson si sentiva spaventosamente inutile. Si girò, andò da Bohrmann e lo aiutò a raccogliere i frammenti. La coperta era piena di piccoli corpi setolosi: alcuni sussultavano, si rivoltavano e tiravano fuori la proboscide con le mandibole. La maggior parte sembrava non essere sopravvissuta alla rapida risalita, uccisa dall'improvviso cambio di temperatura e di pressione. Johanson sollevò uno dei frammenti e lo osservò con attenzione. Il ghiaccio era attraversato da canali, dentro i quali c'erano vermi morti. Girò da tutte le parti il frammento, finché lo stridio e il sibilo della massa in decomposizione non gli ricordarono di metterlo al sicuro il più in fretta possibile. Altri frammenti erano ancora più bucherellati: la decomposizione vera e propria era quindi cominciata al di sotto dei canali scavati dai vermi. Aperture a forma di cratere si spalancavano nel ghiaccio coperto in parte da filamenti vischiosi. Che cos'era successo? Johanson si dimenticò il contenitore refrigerato. Sbriciolò il fango tra le dita, pensando che sembrava il resto di una colonia di batteri. Era normale
che sulla superficie degli idrati ci fossero tappeti di batteri, ma come mai si trovavano così in profondità nei grumi di ghiaccio? Il frammento si sciolse nel giro di qualche secondo. Johanson si guardò intorno. La poppa era diventata una pozzanghera fangosa. L'uomo che era stato colpito dalla benna era sparito. Anche Tina, Hvistendahl e Stone avevano lasciato il ponte. Allora vide Bohrmann appoggiato al parapetto e lo raggiunse. «Cos'è stato?» Bohrmann si passò una mano sugli occhi. «Abbiamo avuto un blowout. La benna è sprofondata per più di venti metri. È uscito il gas. Ha visto la bolla gigantesca sullo schermo?» «Sì. Che spessore ha il ghiaccio in quel punto?» «Sarebbe meglio dire che spessore aveva. Da settanta a ottanta metri, almeno.» «Allora laggiù deve essere tutto devastato.» «Evidentemente. Dobbiamo scoprire se si tratta di un caso unico. E dobbiamo fare in fretta.» «Vuole prelevare altri campioni?» «Naturalmente», brontolò Bohrmann. «La disgrazia di poco fa non sarebbe dovuta succedere. L'uomo all'argano ha continuato a sollevare la benna a tutta velocità. Avrebbe dovuto fermarla, invece.» Guardò Johanson. «Ha notato qualcosa quando il gas è salito?» «Ho avuto l'impressione che sprofondassimo.» «È sembrato anche a me. Il gas ha ridotto la tensione superficiale dell'acqua.» «Vuole dire che abbiamo rischiato di affondare?» «Difficile dirlo. Ha mai sentito parlare del 'buco della strega'?» «No.» «Dieci anni fa, un uomo è uscito in mare e non è più tornato. L'ultima cosa che ha detto per radio era che voleva farsi un caffè. Poco dopo, una nave da ricerca ha trovato il relitto. A cinquanta miglia marine dalla costa, affondato a una profondità insolita sul fondo del mare del Nord. I marinai chiamano quella zona 'buco della strega'. Il relitto non aveva il minimo danno ed era appoggiato verticalmente sul fondale. Come se fosse sprofondato come un sasso, come qualcosa che non potesse galleggiare.» «Sembra quasi il triangolo delle Bermuda.» «Ha colto nel segno. L'ipotesi è proprio questa, l'unica che regge a un esame accurato. Tra le Bermuda, la Florida e Porto Rico ci sono sempre violenti blowout. Quando il gas sale nell'atmosfera, può addirittura incen-
diare le turbine degli aerei. Un blow-out di metano più grande di quello che abbiamo appena visto rende l'acqua così sottile che si affonda.» Indicò la cisterna frigorifera. «Manderemo quel materiale a Kiel il più presto possibile. Lo analizzeremo, così sapremo che cosa succede là sotto. E lo scopriremo, glielo prometto. Per colpa di quella schifezza abbiamo perso un uomo.» «È...?» «È morto sul colpo.» Johanson rimase in silenzio. «Prenderemo i prossimi campioni con l'autoclave anziché con la benna. È molto più sicuro. Dobbiamo fare chiarezza. Non voglio stare a guardare mentre si costruiscono sconsideratamente delle stazioni sul fondale marino.» Bohrmann sbuffò e si staccò dal parapetto. «Ma ormai ci siamo abituati, eh? Cerchiamo di spiegare come funziona il mondo e nessuno ci ascolta. E ora che succede? I colossi industriali sono i nuovi committenti della ricerca. Noi due siamo su una nave da queste parti soltanto perché la Statoil ha trovato un verme. Fantastico. L'industria paga i ricercatori perché lo Stato non può più farlo. Non c'è più traccia della ricerca di base. Questo verme non è visto come oggetto di ricerca, ma come un problema che bisogna far sparire dalla faccia della Terra. È richiesta la ricerca applicata, e fatta in maniera tale che le industrie possano avere carta bianca. Forse però il problema non è il verme. Ci ha mai pensato? Forse è qualcosa di completamente diverso e, mentre eliminiamo un problema, ne creiamo uno molto più grande. Sa una cosa? Talvolta mi viene da vomitare.» Percorrendo alcune miglia marine verso nord-est, fecero una dozzina di carotaggi dei sedimenti senza altri incidenti. L'autoclave, un tubo con rivestimento isolante lungo cinque metri inserito in un telaio, risucchiava come una siringa il campione dal fondale marino. Ancora in profondità, il tubo era chiuso ermeticamente da una valvola. In tal modo, all'interno, c'era un piccolo universo sigillato: sedimenti, ghiaccio e fango insieme con la superficie intatta, acqua di mare ed esseri viventi che continuavano a sentirsi a proprio agio perché, nel tubo, temperatura e pressione erano mantenute costanti. Bohrmann fece portare il tubo chiuso nella cella frigorifera della nave per non creare scompiglio nelle forme di vita raccolte con cura. A bordo non era possibile esaminare i carotaggi; solo nel simulatore di abissi marini c'erano le condizioni adatte. Per il momento, dovevano limitarsi ad analizzare l'acqua del mare e a fissare i monitor. Nonostante la drammaticità, l'immagine sempre uguale degli idrati rico-
perti di vermi aveva qualcosa di noioso. Nessuno aveva voglia di parlare. Nella luce pallida dei monitor, sembravano impallidire anche tutti i presenti, gli uomini di Bohrmann, quelli del petrolio, i marinai. L'uomo della Statoil morto teneva compagnia ai carotaggi nella cella frigorifera. Il previsto incontro con la Thorvaldson nel luogo in cui si progettava di costruire la stazione era stato disdetto per poter raggiungere il più presto possibile Kristiansund, dove avrebbero lasciato il cadavere e portato i campioni al vicino aeroporto. Johanson se ne stava nella sala radio o nella sua cabina e valutava le risposte che aveva ricevuto. Non esisteva nessuna descrizione del verme, nessuno l'aveva mai visto. Alcuni dei suoi corrispondenti avevano manifestato il dubbio che si trattasse di vermi del ghiaccio messicani, cosa che non contribuì granché all'avanzamento delle conoscenze. A tre miglia marine da Kristiansund, Johanson ricevette una risposta da Lukas Bauer. La prima risposta positiva, ammesso che il contenuto potesse definirsi tale. Lesse il testo e si mordicchiò il labbro inferiore. I contatti coi colossi dell'energia spettavano a Skaugen; da Johanson ci si aspettava che s'informasse presso istituti e scienziati che non fossero in evidente rapporto col mondo delle esplorazioni petrolifere. Ma, dopo l'incidente con la benna, Bohrmann aveva detto una cosa che metteva la questione sotto una luce diversa. L'industria paga i ricercatori perché lo Stato non può più farlo. Quale istituto poteva ancora fare ricerca liberamente? Se la ricerca dipendeva sempre più dall'economia, allora quasi tutti gli istituti si trovavano a lavorare per i colossi industriali. Non si finanziavano con risorse pubbliche. Se non volevano rinunciare al loro lavoro, non avevano altra scelta. Anche il Geomar di Kiel stava trattando un accordo finanziario con la Deutsche Ruhrgas, che aveva intenzione di sponsorizzare una cattedra per lo studio degli idrati del gas. L'idea di fare ricerca coi soldi dei colossi industriali era seducente, ma era schiava degli sponsor, che volevano veder trasformati in risultati i loro cospicui investimenti. Johanson rilesse la risposta di Bauer. Aveva trattato la faccenda nel modo sbagliato. Prima di rivolgere domande in tutto il mondo, avrebbe dovuto mettere sotto la lente d'ingrandimento i legami occulti tra ricercatori e industria. Mentre Skaugen tentava un approccio sull'argomento coi consigli d'amministrazione dei colossi industriali, lui poteva fare il terzo grado agli scienziati «collaborazionisti». Prima o poi, qualcuno avrebbe parlato.
Il problema era mettersi sulle tracce di quei legami. No, non era un problema. Bastava lavorare con impegno. Si alzò e lasciò la sala radio per cercare Tina. 24 aprile Vancouver Island e Clayoquot Sound, Canada Alluci, talloni. Anawak si dondolava impazientemente sui piedi. Si metteva in punta di piedi e poi si lasciava cadere all'indietro, insistendo imperterrito in quel movimento. Era mattina presto. Il cielo splendeva di un azzurro intenso, una giornata che sembrava uscita dal più ruffiano dei dépliant. Anawak era nervoso. Alluci, talloni. Alluci, talloni. In fondo al molo di legno attendeva un idrovolante. Il suo scafo bianco si specchiava nel blu intenso della laguna sfaccettata dalle increspature delle onde. L'aereo era uno di quei leggendari Beaver DHC-2 che la ditta canadese De Havilland aveva costruito cinquant'anni prima. Erano ancora in servizio perché, dopo di loro, il mercato non aveva offerto niente di meglio. Il Beaver era arrivato anche in Polonia. Era senza dubbio robusto e sicuro. Proprio quello che serviva per ciò che Anawak aveva in mente. Guardò la palazzina del check-in, pitturata di rosso e bianco. Il Tofino Airport, a pochi minuti di macchina dalla città, non aveva nulla in comune coi classici aeroporti. Ricordava molto di più un insediamento di cacciatori o di pescatori. Qualche bassa casa di legno disposta pittorescamente su un'ampia baia, contornata da colline coperte di boschi dietro cui svettavano le montagne. Gli occhi di Anawak si spostarono sul viale d'accesso che, dalla strada principale, passando sotto alberi giganteschi, conduceva alla laguna. Gli altri sarebbero arrivati da un momento all'altro. Aggrottò la fronte ascoltando la voce che usciva dal suo cellulare. «Ma è stato due settimane fa», replicò infine. «In tutto questo tempo, Mister Roberts non ha voluto o potuto parlare con me. Eppure aveva detto di volermi tenere al corrente.» La segretaria suggerì che Roberts era un uomo molto impegnato. «Lo sono anch'io», sbottò Anawak. Smise di dondolarsi e si sforzò di essere gentile. «Mi ascolti, ormai ci troviamo di fronte a una vera escalation.
Ci sono evidenti legami tra i nostri problemi e quelli della Inglewood. Se ne renderà conto anche Mister Roberts se...» Ci fu una breve pausa. «Che somiglianze ci sarebbero?» chiese poi la donna. «Somiglianze con le balene, ovvio», spiegò lui. «La Barrier Queen ha avuto un guasto al timone.» «Sì, certo. Ma i rimorchiatori sono stati attaccati», le ricordò Anawak. «Un rimorchiatore è affondato, sì», disse lei in tono cortese ma freddo. «Ma non so nulla delle balene. Comunque riferirò a Mister Roberts che lei ha chiamato.» «Gli dica che è nel suo interesse.» «Si metterà in contatto con lei nelle prossime settimane.» Anawak sussultò. «Ha detto 'settimane'?» «Mister Roberts è in viaggio.» Ma che cos'è successo? pensò Anawak. Poi, cercando faticosamente di controllarsi, aggiunse: «Inoltre il suo capo aveva promesso di mandare altri campioni delle infestazioni della Barrier Queen all'istituto di Nanaimo. E adesso, per favore, non mi dica che non ne sa nulla. Sono stato là sotto e ho raccolto quel materiale dallo scafo. Si tratta di conchiglie e probabilmente anche di qualcos'altro.» «Mister Roberts mi avrebbe informato se...» «A Nanaimo hanno bisogno di campioni!» «Se ne occuperà al suo ritorno.» «È troppo tardi! Ha capito? Ah, non fa niente, richiamerò.» Con un gesto di stizza mise via il telefono. Poi scorse la Land Cruiser di Shoemaker che stava percorrendo il viale d'accesso. Il fuoristrada svoltò nel piccolo parcheggio di fronte alla palazzina del check-in e si fermò di botto, facendo schizzare la ghiaia da sotto i pneumatici. «Non siete un esempio di puntualità», gridò Anawak, di pessimo umore, andando verso la Land Cruiser. «Accidenti, Leon! Sono soltanto dieci minuti», esclamò Shoemaker. Al seguito, aveva Alicia e un massiccio giovane di colore con la testa rasata e con gli occhiali da sole. «Non essere così cattivo. Dovevamo aspettare Danny.» Anawak diede la mano al ragazzo massiccio che gli sorrise gentilmente. Era un tiratore di balestra dell'esercito canadese ed era stato messo ufficialmente a disposizione di Anawak. Aveva con sé la sua arma, una balestra di alta precisione, supertecnologica. «È bella, quest'isola», disse Danny. Tra una parola e l'altra, masticava un
chewing-gum e sembrava che la sua voce dovesse aprirsi la strada in una zona paludosa. «Cosa devo fare esattamente?» «Non le hanno detto nulla?» si meravigliò Anawak. «Ma certo, devo sparare con la balestra a una balena. Sono sbalordito. Pensavo fosse vietato.» «E infatti lo è. Venga, le spiegherò tutto sull'aereo.» «Aspetta.» Shoemaker gli spalancò davanti un giornale. «Hai già letto?» Anawak scorse il titolo. «'L'eroe di Tofino'?» «Greywolf sa vendersi bene, eh? Nell'intervista, quel bastardo fa il modesto, ma leggi un po' quello che dice più avanti. Ti verrà da vomitare.» «'... Ho fatto solo il mio dovere di cittadino canadese'», mormorò Anawak. «'Naturalmente eravamo in pericolo di vita, ma volevo rimediare almeno in parte ai danni causati dall'irresponsabile pratica del whale watching. Da anni il nostro gruppo sostiene che gli ammali sono sottoposti a uno stress pericoloso, i cui effetti sono impossibili da valutare.' Ma è pazzo?» «Va' avanti a leggere.» «'Non si può accusare la Davies Whaling Station di aver violato i regolamenti. Ma non si può neppure dire che si sia comportata nella maniera corretta. Speculare sul turismo delle balene sotto la copertura della protezione dell'ambiente non è un comportamento migliore di quello dei giapponesi, che, nelle acque artiche, minacciano l'estinzione di alcune specie di cetacei. Anche là si parla ufficialmente di scopi scientifici, ma nel 2002 sono finite nei supermercati oltre quattrocento tonnellate di carne di balena, venduta come prelibatezza. Il bello è che la caccia è consentita solo per fare ricerca scientifica sulla genetica.'» Anawak lasciò penzolare il giornale. «Che stronzo.» «Non è vero quello che dice?» chiese Alicia. «Per quello che ne so, i giapponesi le massacrano proprio in nome di questo presunto programma di ricerca.» «Certo che è vero», sbuffò Anawak. «La perfidia sta proprio in questo: Greywolf ci ha messo in relazione con quelle cose.» «Con tutta la mia buona volontà, non so dove voglia arrivare», disse Shoemaker scuotendo la testa. «E te lo chiedi? Vuole diventare importante.» «Ma sì, lui...» Alicia fece un gesto vago. «Be', comunque è un eroe.» Quel commento era del tutto inatteso. Anawak la fulminò con lo sguardo. «Ah, sì?»
«Certo. Ha salvato numerose vite umane. Non mi sembra gentile che adesso si metta a sputare veleno su di voi, ma indubbiamente è stato coraggioso e...» «Greywolf non è coraggioso», ringhiò Shoemaker. «Se quel verme fa qualcosa, è per avere un tornaconto. Ma stavolta ha esagerato. Avrà problemi coi makah... Non troveranno divertente che un loro sedicente fratello di sangue si schieri in maniera così brutale contro la caccia alle balene. Vero, Leon?» Anawak rimase in silenzio. Danny spostava il chewing-gum da una guancia all'altra. «Allora, quando si parte?» chiese. Nello stesso istante, il pilota dell'idrovolante gridò qualcosa dal portellone aperto. Anawak girò la testa e vide l'uomo fare alcuni segni. Sapeva che cosa significavano. Ford si era messo in contatto con loro. Era il momento. Senza dar seguito alle ultime considerazioni di Shoemaker, gli diede una pacca sulle spalle. «Quando torni alla stazione, potresti farmi un piacere?» «Certo. Per come siamo messi, abbiamo tutto il tempo del mondo.» «Potresti controllare se sui giornali, nelle ultime settimane, è apparso qualcosa sull'avaria della Barrier Queen? Fa' qualche ricerca anche su Internet, però. Magari ne hanno parlato in televisione...» «Sì, certo. Ma perché?» «Così.» «Un semplice 'così' non mi basta.» «Perché credo che non sia stato detto nulla.» «Hmm.» «Almeno io non mi ricordo. E tu?» Shoemaker piegò all'indietro la testa e socchiuse le palpebre neL sole. «No. Rammento qualcosa sulle catastrofi navali in Asia, però... Mah, da quand'è cominciata questa faccenda, mi è passata la voglia di leggere. Però hai ragione. Ora che ci penso, sono state date pochissime notizie su quell'incidente. Forse nessuna.» Anawak guardò cupamente verso l'idrovolante. «Sì», disse. «Andiamo.» Non appena l'idrovolante si fu alzato da terra, Anawak disse a Denny: «Deve sparare una sonda nel blubber della balena. 'Blubber' è il termine scientifico per indicare lo strato di grasso. Si tratta di una parte insensibile al dolore. Per anni abbiamo avuto il problema di far rimanere attaccati i trasmettitori alla pelle delle balene. Recentemente, un biologo di Kiel ha
avuto l'idea di usare una balestra con frecce speciali, al cui fusto sono fissati una trasmittente e uno strumento di misurazione. La punta della freccia s'infila nel grasso e la balena porta in giro gli apparecchi per un paio di settimane senza accorgersene.» Danny lo guardò. «Un biologo di Kiel? Bene.» «Crede che non funzioni?» «No, mi chiedo solo se qualcuno si è assicurato che non faccia davvero male alla balena. Si tratta di un maledetto lavoro di precisione. Come si fa a essere sicuri che la freccia non penetri oltre lo strato di grasso?» «Grazie alla cotenna di maiale», disse Anawak. «Come?» «Hanno testato l'arma sulla cotenna di maiale finché non sono stati in grado di determinare con precisione la profondità che raggiungeva la punta. Tutta una questione di calcoli.» «Ma guarda un po'», commentò Danny, sollevando le sopracciglia oltre il bordo degli occhiali da sole. «Ah, i biologi.» «E che succede se si spara a un uomo?» chiese Alicia dal sedile posteriore. «Anche in quel caso la freccia penetra solo un po'?» Anawak si voltò verso di lei. «Sì. Un po' troppo. Lo uccide.» Il DHC-2 virò. Sotto di loro risplendeva la laguna. «Avevamo diverse opzioni», disse Anawak. «Il problema centrale è che per molto tempo abbiamo potuto fare solo osservazioni saltuarie delle balene. Piazzare sonde con la balestra si è dimostrato il metodo più sicuro. Il cronotachigrafo registra frequenza cardiaca, temperatura del corpo e dell'ambiente, profondità, velocità di nuoto e altre cose ancora. Attrezzare le balene con le telecamere è più difficile.» «Perché non spariamo anche la telecamera con la balestra?» chiese Danny. «Non mi sembra una cosa difficile.» «Perché non si può sapere come cadrebbe. Inoltre preferirei vedere le balene, vorrei osservarle e questo si può fare solo se la telecamera è dietro di loro, non sulla loro schiena.» «Per questo usiamo l'URA», spiegò Alicia. «Un robot nautico giapponese.» Anawak sorrise, divertito. Alicia aveva pronunciato quelle parole come se fosse stata lei a inventare quel robot. Danny si guardò intorno. «Non vedo nessun robot.» «Infatti non è qui.» L'idrovolante aveva raggiunto il mare aperto e procedeva vicinissimo al-
le onde. Normalmente, al largo di Vancouver Island, c'erano sempre in viaggio piroscafi, zodiac e kajak, ma ormai neppure i più coraggiosi osavano uscire in mare aperto. Si spingevano al largo soltanto i grossi cargo e i traghetti, cui le balene non potevano fare nulla. Così la superficie dell'acqua era deserta, a parte una nave gigantesca. Sembrava che niente potesse affondare quella nave o anche solo metterla in difficoltà. L'idrovolante si allontanò dalla riva rocciosa e si diresse verso la nave. «L'URA è sul Whistler. Quel rimorchiatore laggiù», disse Anawak. «Il suo momento arriverà quando riusciremo a trovare la nostra balena.» John Ford era a poppa del Whistler e si riparava con la mano gli occhi dalla violenta luce del sole. Vide il DHC-2 avvicinarsi velocemente. Qualche secondo dopo, l'idrovolante si posizionò proprio sopra il rimorchiatore e fece un'ampia virata. Ford teneva la radio accostata alla bocca e chiamava Anawak sulla frequenza anti-intercettazione. Un'intera serie di frequenze era stata riservata a scopi scientifici e militari. «Leon? Tutto bene?» «Ti sento, John. Dove le hai viste l'ultima volta?» «A nord-ovest. A meno di duecento metri da noi. Le abbiamo avvistate circa cinque minuti fa, ma si tengono a distanza. Dovrebbero essere otto o dieci animali. Ne abbiamo identificati due. Uno ha preso parte all'attacco alla Lady Wexham, l'altro, la settimana scorsa, ha affondato un trawler a Ucluelet.» «Non hanno cercato di attaccarvi?» «No. Evidentemente siamo troppo grandi.» «E tra di loro? Come si comportano tra di loro?» «Pacificamente.» «Bene. Probabilmente appartengono tutte allo stesso gruppo, ma dobbiamo concentrarci su quelle identificate.» Ford seguì con lo sguardo il DHC-2 che diventava sempre più piccolo, poi lo vide inclinarsi, fare una larga virata e tornare indietro. Spostò lo sguardo sul ponte del Whistler. Era un rimorchiatore per il recupero in alto mare e apparteneva a una ditta privata di Vancouver: era lungo più di sessanta metri e largo quasi quindici. Con un dislocamento di centosessanta tonnellate, il Whistler era uno dei rimorchiatori più potenti del mondo. Troppo grande e pesante perché una balena potesse rappresentare un pericolo. Ford riteneva che neppure una megattera che saltasse dritta sulla poppa sarebbe riuscita a ottenere nulla di più che un violento scossone.
Però non si sentiva tranquillo. All'inizio, le balene avevano attaccato qualsiasi cosa, ma poi sembrava che avessero imparato a scegliere solo le imbarcazioni che erano in grado di danneggiare. Accanto a orche, balene grigie e megattere, onnipresenti negli attacchi alle navi, erano comparsi anche balenottere e capodogli. Ed era evidente che tutti quegli animali avevano imparato bene: non avrebbero attaccato il rimorchiatore, poco ma sicuro. Ed era proprio quel fatto ad aumentare l'inquietudine di Ford. Una simile furia distruttiva non poteva essere accompagnata dalla capacità di differenziare gli obiettivi. Pareva che, dietro il comportamento dei mammiferi marini, si celasse un'intelligenza e lui si chiedeva come avrebbero reagito al robot. Chiamò via radio il ponte. «Si va», disse. Il BHC-2 volava in cerchio sopra di loro. Dopo l'identificazione di diversi aggressori, grazie ai video e alle fotografie, era iniziata la ricerca degli animali. Il rimorchiatore incrociava da tre giorni davanti a Vancouver Island e quella mattina, finalmente, li avevano trovati. In un branco di balene grigie, avevano riconosciuto due pinne dorsali coi segni visti nelle foto e nei video degli attacchi. Ford si chiese se erano davvero in grado di scoprire la verità. Rabbrividì al pensiero delle voci sempre più insistenti che si alzavano dalle associazioni dei pescatori e dalle imprese armatrici, sostenendo che la cautela del comitato scientifico non avrebbe portato nessun risultato e richiedendo quindi l'impiego della forza militare. A detta loro, sarebbe bastato uccidere qualche balena, e le altre avrebbero capito che non era conveniente aggredire gli uomini. La richiesta era tanto ingenua quanto pericolosa perché trovava un terreno fertile. In effetti, al momento, i mammiferi marini si erano giocati in un colpo solo il credito che aveva procurato loro l'impegno degli animalisti. L'unità di crisi aveva risposto affermando che non si sarebbe ottenuto nulla con la violenza. Era necessario prima comprendere i motivi che avevano portato al comportamento anomalo dei cetacei. Al massimo, la violenza avrebbe permesso di combattere i sintomi. Ford non sapeva quale sarebbe stata la decisione ultima del governo, ma si capiva chiaramente che i pescatori e i cacciatori illegali di balene erano pronti ad affrontare la situazione a modo loro. La perplessità generale che regnava sulle decisioni da prendere non sarebbe stata fugata dal disaccordo delle parti avverse. Un brodo di coltura ideale per l'iniziativa individuale. Guerra sul mare. Ford osservò il robot a poppa. Era ansioso di vedere cosa sapeva fare l'URA che avevano ricevuto dal
Giappone in breve tempo e senza intoppi burocratici. Il robot era stato realizzato solo pochi anni prima. I giapponesi sostenevano che serviva per la ricerca e non per la caccia, ma le associazioni ambientaliste occidentali erano scettiche. Quella struttura cilindrica lunga tre metri, strapiena di strumenti di misurazione e di telecamere ipersensibili, veniva considerata da loro una macchina infernale, progettata per localizzare tutti i luoghi di svezzamento delle balene in vista di una possibile fine alla moratoria del 1986 sulla caccia ai cetacei. Al largo dell'isola giapponese di Kerama, l'URA era riuscito a localizzare una megattera e l'aveva seguita per molto tempo. Grazie a quel successo, il robot aveva trovato la più completa approvazione anche durante la Conferenza internazionale sui mammiferi marini di Vancouver. Però la diffidenza restava. Non era un segreto che il Giappone comprasse sistematicamente l'appoggio dei Paesi più poveri per ottenere la revoca della moratoria. Il governo giapponese spacciava quella sorta di mercato delle vacche come «diplomazia»... e lo stesso governo finanziava abbondantemente l'Università di Tokyo, cui apparteneva anche l'Underwater Robotics & Application Laboratory Team, che aveva realizzato il robot. «Forse oggi farai qualcosa di sensato», disse Ford sottovoce all'URA. «Salva la tua reputazione.» L'apparecchio scintillava al sole. Ford si avvicinò al parapetto e guardò fuori. Dall'alto, le balene si vedevano meglio e si potevano identificare. Dopo un po', in successione, emersero alcune baLene grigie, che solcarono le onde. Nella radio risuonò la voce proveniente dal posto di osservazione sul ponte. «A destra dietro di noi. Lucy.» Ford si girò di scatto, prese il binocolo e fece in tempo a vedere una pinna caudale intaccata di colore grigio scuro che s'immergeva. Lucy! Una delle balene si chiamava così. Era una magnifica balena grigia, lunga quattordici metri. Lucy si era scagliata contro la Lady Wexham. Forse era stata lei a squarciare la sottile parete dello scafo. «Confermo», disse Ford. «Leon?» Erano tutti sintonizzati su quella frequenza a prova d'intercettazioni. Quelli sul DHC-2 sentivano ciò che veniva detto a bordo del Whistler. «Confermo», disse Anawak alla radio. Ford socchiuse le palpebre nel sole e vide l'aereo abbassarsi proprio nel
punto in cui era scomparsa la pinna caudale. «Si comincia», disse, più a se stesso che agli altri. «Buona caccia.» Da cento metri d'altezza, il rimorchiatore sembrava un modellino costruito con cura. Invece i mammiferi marini sembravano ancora più grandi. Anawak vide diverse balene grigie nuotare tranquillamente appena sotto la superficie dell'acqua. I raggi del sole danzavano su quei corpi colossali. E benché fossero lunghi un quarto del Whistler, apparivano assurdamente molto più imponenti. «Giù», disse. Il DHC-2 si abbassò. Si diresse verso il banco e si avvicinò alla posizione in cui Lucy si era immersa. Anawak sperava che la balena grigia non stesse facendo il giro per mangiare, altrimenti avrebbero dovuto attendere a lungo. Ma probabilmente lì era troppo profondo. Le balene grigie si alimentavano in un unico modo, come le megattere. S'immergevano sul fondo e aravano tra i sedimenti, ingurgitando gli organismi del fondale marino: piccoli granchi, plancton e il loro piatto preferito, i nematodi. Gli enormi solchi di quelle orge di cibo percorrevano il fondale al largo di Vancouver Island, ma raramente quei giganti grigi andavano nelle acque più profonde. «Tra poco ci siamo», disse il pilota. «Danny?» Il tiratore scelto sorrise. Poi aprì il portellone laterale e lo ribaltò. Una folata d'aria fredda entrò nell'abitacolo e vorticò tra i capelli dei passeggeri. Il rumore divenne fortissimo. Alicia prese la balestra e la passò a Danny. «Non avrà molto tempo», disse Anawak. Doveva parlare a voce molto alta per superare il crepitio del vento e il rumore del motore. «Quando Lucy emerge, ha solo pochi secondi per sparare la sonda.» «A dire la verità, è più un problema vostro che mio», replicò Danny. Con l'arma nella mano destra, scivolò dal sedile finché non si trovò seduto per metà sulla sbarra sotto l'ala. «Pensate solo a portarmi più vicino.» Sgranando gli occhi, Alicia scosse la testa. «Non posso guardare.» «Che cosa?» chiese Anawak. «Non può andare lì. Lo vedo già in acqua.» «Non aver paura», rise il pilota. «I giovani possono fare questo e altro.» L'idrovolante sfrecciò proprio sopra le onde, quasi alla stessa altezza del ponte del Whistler. Sorvolarono il punto in cui Lucy si era immersa. Non si vedeva nulla. «Volare in cerchio», gridò Anawak al pilota. «Molto stretto. Lucy rie-
mergerà proprio dov'è sparita.» Il DHC-2 virò di colpo e il mare sembrò rovesciarsi su di loro. Danny penzolava dalla sbarra come una scimmia, con una mano aggrappata al bordo del portellone e stringendo nell'altra la balestra carica. Sotto di loro si delineò la sagoma di una balena in emersione. Poi un dorso gigantesco, grigio e splendente, ruppe la superficie dell'acqua. «Iuhu!» strillò Danny. «Leon!» Era Ford alla radio. «Non è quella giusta. Lucy nuota più avanti, sulla nostra destra.» «Maledizione!» sbottò Anawak. Si era sbagliato. Evidentemente Lucy era fermamente decisa a non attenersi alle regole. «Danny! No.» Il pilota smise di volare in cerchio e si abbassò ancora di più. Sotto di loro, le onde s'incalzavano. Si avvicinarono alla poppa del rimorchiatore. Per un momento sembrò che stessero volando dritti contro la svettante struttura del Whistler, poi il pilota corresse la rotta e passarono appena sopra la massiccia nave. Un po' più avanti, Lucy riemerse, mostrando le pinne caudali. Anche Anawak riconobbe l'animale dalle caratteristiche tacche nella coda. «Rallentare», disse. Il pilota obbedì, ma naturalmente erano ancora troppo veloci. Dovevamo prendere un elicottero, pensò Anawak. Così, invece, sarebbero passati a tutta velocità sopra il bersaglio e poi sarebbero dovuti tornare indietro, nella speranza che la balena non sparisse. Ma Lucy non era scomparsa negli abissi. Il suo corpo imponente splendeva nella luce del sole. «Sorpassare, girare, tornare indietro!» Il pilota annuì. «E per favore non vomitate», aggiunse. Piegò l'idrovolante con tale rapidità che esso sembrò reggersi sulla punta dell'ala. Attraverso il portellone aperto, si vedeva luccicare una parete verticale d'acqua, spaventosamente vicina. Alicia gridò, mentre Danny, con la balestra in mano, urlava per il divertimento. Al confronto, un ottovolante era una passeggiata. Per un momento, Anawak percepì tutto come al rallentatore. Non avrebbe mai creduto che un idrovolante potesse ruotare come un compasso, come se la punta di un ala fosse l'ago. Ma il velivolo descrisse un semicerchio perfetto e subito dopo si rimise in. orizzontale. Rombando, l'idrovolante puntò sulla balena e sul Whistler in avvicina-
mento. Trattenendo il respiro, Ford osservava l'idrovolante che si raddrizzava dopo quella virata da far rizzare i capelli. I pattini sfioravano quasi l'acqua. Ricordava vagamente che la Tofino Air impiegava anche un ex pilota della Canadian Air Force. Adesso sapeva chi era. Il corpo cilindrico dell'URA era appeso alla gru del rimorchiatore oltre il parapetto. Erano pronti a sganciare lo strumento non appena il tiratore avesse piazzato la trasmittente. Si vedeva chiaramente la schiena grigia della balena. Non si era immersa. Il velivolo e la balena si muovevano velocemente l'uno verso l'altra. Ford guardava Denny accovacciato sotto l'ala e intanto sperava che fosse sufficiente un unico colpo. Il dorso di Lucy si sollevò sulle onde. Danny alzò la balestra, chiuse un occhio e posò la mano sul metallo. L'uomo rimase assolutamente immobile per qualche istante. Poi, senza mutare espressione, premette il grilletto. Solo lui sentì in quel momento il leggero sibilo prodotto dalla freccia attrezzata che, vicinissima al suo orecchio, lasciò l'arma a oltre duecento chilometri all'ora. Un secondo dopo, l'uncino metallico perforò il grasso della balena ed entrò in profondità, senza che Lucy se ne accorgesse. L'animale inarcò la schiena e s'immerse. La trasmittente sporgeva, obliqua, sul suo dorso. «L'abbiamo presa!» urlò Anawak alla radio. Ford diede il segnale. La gru sciolse il robot dall'ancoraggio. L'URA affondò tra le onde. Il contatto con l'acqua provocò l'emissione di un impulso che azionò i motori elettrici. Sprofondando, l'apparecchio si mosse in direzione della balena. Qualche secondo dopo l'URA non si vedeva più. Ford strinse i pugni, trionfante. «Sì!» Il DHC-2 passò scoppiettando vicino al Whistler. Sul puntello dell'ala, Danny sollevò la balestra, ululando. «Ce l'abbiamo fatta!» «Grande!» «Un colpo e ... accidenti, hai visto? Incredibile!» «Uau!» A bordo dell'idrovolante parlavano tutti contemporaneamente. Danny si voltò verso i compagni, sorrise e cominciò a riportarsi all'interno. Anawak
stava allungando la mano per aiutarlo, quando vide qualcosa salire dall'acqua. Rimase immobile, terrorizzato. Una balena grigia stava salendo velocemente, come se volesse spiccare un balzo. Il corpo enorme si avvicinava, velocissimo. Proprio sulla loro traiettoria di volo. «Risalire!» urlò Anawak. L'idrovolante si sollevò verticalmente, facendo urlare e gemere il motore. Danny ricadde all'indietro. Anawak riuscì a gettare uno sguardo su una testa gigantesca piena di cicatrici, su un occhio, sulle mandibole chiuse. Poi il velivolo prese un colpo terribile. Là dove c'erano l'ala destra e Danny, ormai c'era soltanto una stanga piegata. Anawak cercò un appiglio da qualche parte, ma tutto girava. Alicia gridava, il pilota gridava, lui stesso gridava e il mare veniva verso di loro. Qualcosa di duro - era ferro? - lo colpì in faccia. Nelle orecchie sentiva ululare. Lo stridio infernale del metallo che si rompeva. Spuma. Verde scuro. Più niente. A cinquanta metri di profondità, il computer di bordo stabilizzò il corpo cilindrico dell'URA. Il robot si tarò e seguì la balena più vicina. A una certa distanza, appena riconoscibili nella penombra, si vedevano gli altri animali. L'occhio elettronico dell'URA registrava tutto, senza che il computer attribuisse immediatamente un significato alle impressioni ottiche. Si misero in moto anche le altre funzioni. Nonostante gli eccezionali sensori ottici, la vera forza dell'URA dipendeva dalle percezioni acustiche. In quel caso il suo creatore aveva dimostrato di essere un genio. I sistemi acustici permettevano al robot di ritrovare i mammiferi marini anche dieci o dodici ore dopo che si erano allontanati, e di seguirli in qualunque direzione si spostassero. Il robot seguiva il loro canto. I quattro idrofoni dell'URA, sensibilissimi microfoni subacquei sistemati intorno al corpo del robot, percepivano in ogni momento non soltanto i suoni che gli animali emettevano, ma anche le coordinate della fonte. Se una balena emetteva un suono alto e sottile, i microfoni non ricevevano il rumore contemporaneamente, bensì prima l'uno e poi l'altro. Nessun orec-
chio umano sarebbe stato in grado di registrare quel minimo ritardo e le conseguenti differenze d'intensità. Solo un computer poteva farlo. In tal modo, l'onda sonora colpiva prima e più forte l'idrofono più vicino alla fonte e poi, di seguito, gli altri tre. Sulla base di quei dati, il computer creava uno spazio virtuale e forniva le coordinate dell'autore del suono. Lo spazio si riempiva progressivamente coi segnali di posizione, che si muovevano seguendo gli spostamenti delle balene. In un certo senso, il branco veniva «ricostruito» all'interno del computer. Sparendo negli abissi, anche Lucy aveva emesso una serie di suoni. Nel computer era immagazzinata una voluminosa massa di dati sugli specifici suoni delle balene e di altri pesci, e anche le voci di ogni singolo animale. L'URA setacciò il proprio catalogo elettronico, ma non trovò Lucy come individuo. Allora creò automaticamente un gruppo di coordinate che corrispondevano a Lucy, lo confrontò con altri gruppi di coordinate, classificò tutti gli altri animali davanti a lui come balene grigie e aumentò la velocità di due nodi per avvicinarsi. Non appena ebbe individuato acusticamente e rilevato la posizione delle balene, il robot procedette con le registrazioni ottiche. Nella sua banca dati erano memorizzate la forma delle pinne caudali e la sagoma delle balene, unite alle pinne dorsali, alle pinne pettorali e agli aspetti significativi del corpo di singoli individui. Stavolta la macchina ebbe più fortuna. L'occhio elettronico scansionò le pinne caudali che si alzavano e abbassavano davanti a lui e ne identificò velocemente una come quella di Lucy. Erano infatti stati inseriti tutti i dati delle balene che avevano partecipato agli attacchi, in modo che il robot sapesse quali erano gli animali cui doveva dedicare tutta la propria attenzione. L'URA corresse la rotta di qualche grado. Il canto delle balene permetteva contatti vocali a oltre cento miglia marine di distanza. Le onde sonore in acqua si diffondevano cinque volte più velocemente che nell'aria. A Lucy piaceva nuotare, veloce e libera. Ma lui non l'avrebbe più persa. 26 aprile Kiel, Germania La porta di ferro si aprì scorrendo lateralmente e lo sguardo di Bo-
hrmann spaziò sulla gigantesca costruzione del simulatore. Il simulatore di abissi marini sembrava aver portato la natura a una dimensione comprensibile per l'uomo, senza doverla esiliare nel limbo della pura teoria. Anche se su scala ridotta, era possibile controllare il mare. Il macchinario rappresentava un mondo di seconda mano, una di quelle copie idealizzate di cui gli uomini si fidavano più che della realtà: chi voleva sapere qualcosa sulla vera vita del Medioevo dopo che Hollywood l'aveva già mostrata a modo suo? A chi interessava come moriva un pesce, come sanguinava, come veniva tagliato e come gli venivano strappate le interiora se si poteva comprarli belli puliti e adagiati su un letto di ghiaccio? I bambini americani disegnavano i polli con sei zampe, perché le cosce di pollo erano vendute in confezioni da sei. Si beveva il latte da scatole di cartone e si era disgustati da una mammella. La sensibilità del mondo si deformava e, in tal modo, l'arroganza cresceva. Bohrmann era entusiasta del suo simulatore e delle possibilità che gli forniva. Nel contempo, però, esso rivelava quanto fosse concreto il rischio di cecità della ricerca allorché si riproduceva un modello dell'oggetto invece di osservare l'originale. L'obiettivo che s'imponeva sempre più prepotentemente alla scienza non era comprendere il pianeta, bensì piegarlo alla propria volontà. Nella colorata Disneyland degli equivoci scientifici, l'azione umana riceveva nuove, spaventose giustificazioni. Ogni volta che entrava nel padiglione, la mente di Bohrmann era percorsa dagli stessi pensieri: non saremo mai certi di ciò che è possibile, ma possiamo sapere da cos'è meglio stare alla larga. Eppure non ne vogliamo sentir parlare. Due giorni dopo l'incidente sulla Sonne, lui era di nuovo a Kiel. I carotaggi nei contenitori frigoriferi erano arrivati separatamente, con un cargo veloce ed erano stati affidati a Erwin Suess, il quale, con un team di geochimici e biologi, si era messo immediatamente all'opera per analizzare il bottino. Quando Bohrmann era arrivato all'istituto, le analisi erano già iniziate. Da ventiquattr'ore gli scienziati stavano instancabilmente cercando di scoprire le cause dello scioglimento, e a quanto pare le avevano trovate. Il simulatore poteva idealizzare la realtà, ma forse, in quel caso, aveva portato alla luce la verità sui vermi. Erwin Suess aspettava Bohrmann davanti al pannello di controllo. Era in compagnia di Heiko Sahling e della biologa molecolare Yvonne Mirbach, specializzata sui batteri degli abissi marini. «Abbiamo preparato una simulazione al computer», disse Suess. «Non tanto per noi, quanto perché tutti
possano capire.» «Quindi non è più solo un problema della Statoil», mormorò Bohrmann. «No.» Suess mosse il cursore sul monitor e cliccò su un'icona. Apparve una raffigurazione grafica. Mostrava la sezione di una copertura di idrati spessa cento metri, che faceva da coperchio a una bolla di gas. Sahling indicò un sottile strato scuro sulla superficie. «Quelli sono i vermi», disse. «Passiamo all'ingrandimento», spiegò Suess. Apparve una sezione della superficie di ghiaccio. Ormai i vermi si riconoscevano a uno a uno. Suess ingrandì ancora l'immagine finché un singolo esemplare non occupò quasi tutto lo schermo. Il verme era stilizzato e solo alcune parti avevano colori vivaci. «Il rosso rappresenta i solfobatteri», disse Yvonne Mirbach. «Il blu, gli archaea.» «Endosimbionti ed ectosimbionti», mormorò Bohrmann. «Il verme è conficcato nei batteri, che a loro volta s'insediano su di lui.» «Esatto. È un'associazione. Batteri di specie diversa che collaborano.» «L'avevano già capito anche gli scienziati consultati da Johanson», proseguì Suess. «Hanno prodotto pagine e pagine di analisi sullo stile di vita simbiotico dei vermi, ma non hanno tratto la conclusione corretta. Nessuno si è mai chiesto che cosa facciano effettivamente queste associazioni. Noi siamo partiti dal presupposto che i vermi destabilizzano il ghiaccio, benché sapessimo bene che non era possibile. E infatti non sono i vermi.» «I vermi sono solo il veicolo», ipotizzò Bohrmann. «È così.» Suess cliccò un'icona. «Qui c'è la risposta al vostro blowout.» Il verme stilizzato cominciò a muoversi. A causa del poco tempo disponibile, la rappresentazione era stata realizzata in maniera molto grossolana. Era più una sequenza di singole immagini che un film. La proboscide a tenaglia saettò fuori e il verme cominciò a trivellare il ghiaccio. «Attenzione, ora», lo ammonì Suess. Bohrmann fissava le immagini. Suess aveva ridotto l'ingrandimento. Si vedevano diversi animali che trascinavano i loro corpi sul ghiaccio. Poi, improvvisamente... «Mio Dio!» esclamò Bohrmann. Poi cadde un silenzio totale. «Se succede così su tutta la scarpata continentale...» mormorò Sahling
dopo qualche istante. «Succederà», disse Bohrmann in tono inespressivo. «Ed è assai probabile che accada simultaneamente. Avremmo potuto arrivarci già a bordo della Sonne. I frammenti di idrati erano coperti di batteri.» Ciò che aveva visto era più o meno quello che si aspettava. Aveva temuto e contemporaneamente sperato di sbagliarsi. Ma la realtà era ancora peggiore. Ammesso che quella fosse la realtà. «Ogni singola cosa successa qui è già nota», riprese Suess. «Singolarmente, ognuno dei fenomeni è già stato osservato, nulla di nuovo. La novità sta nell'effetto combinato. Non appena si uniscono tutti i componenti, la decomposizione degli idrati diventa evidente.» Sbadigliò. Sembrava davvero una cosa fuori luogo di fronte al quadro spaventoso che avevano tracciato, ma nelle ultime ventiquattr'ore nessuno di loro aveva chiuso occhio. «Tuttavia non riesco a spiegarmi perché i vermi siano lì.» «Neanch'io», disse Bohrmann. «E ci penso da molto più tempo di te.» «E ora chi informiamo?» chiese Sahling. «Hmm...» Suess portò un dito sul labbro superiore. «E chi se no? La questione è chiara, giusto? Quindi anzitutto dovremmo informare Johanson.» «Perché non subito la Statoil?» propose Sahling. «No.» Bohrmann scosse la testa. «In nessun caso.» «Credi che facciano il doppio gioco?» «Johanson è la scelta migliore. Credo che sia neutrale come la Svizzera. Dobbiamo lasciare a lui la scelta se...» «Non c'è tempo «, lo interruppe Sahling. «Se la simulazione si avvicina anche solo in maniera approssimativa a quello che sta succedendo sulla scarpata continentale, allora dobbiamo avvertire immediatamente il governo.» «E tutti gli Stati sul mare del Nord.» «Buona idea. L'Islanda, per esempio.» «Ehi, fermi!» Suess sollevò le mani. «Non stiamo guidando una crociata.» «Non si tratta di questo.» «E invece si tratta proprio di questo. Per ora abbiamo solo una simulazione.» «Certo, ma...» «No, ha ragione», lo interruppe Bohrmann. «Non possiamo seminare il panico rendendo pubblico questo fatto. Neppure noi sappiamo esattamente
come stanno le cose. Voglio dire, sappiamo quello che succede, ma i risultati sono delle proiezioni. Al momento possiamo solo affermare che finiranno nell'atmosfera grandi quantità di metano.» «Ma sei pazzo?» urlò Sahling. «Sappiamo dannatamente bene quello che succederà.» Bohrmann si accarezzava distrattamente la zona in cui gli stavano ricrescendo i baffi. «Va bene, rendiamolo pubblico. Otterremo una dozzina di prime pagine. Ma quali sarebbero le conseguenze?» «Quali sarebbero le conseguenze se si pubblicasse su un giornale che un meteorite colpirà la Terra?» rifletté Suess. «Il paragone ti sembra azzeccato?» «In un certo senso, sì.» «Sono dell'idea che non dobbiamo decidere da soli», intervenne Yvonne Mirbach. «Procediamo per gradi. Per prima cosa parliamo con Johanson. In fondo, è lui che si occupa dei contatti. Inoltre, se osserviamo la cosa da un punto di vista strettamente scientifico, l'onore spetta a lui.» «Quale onore?» «I vermi li ha scoperti lui.» «No, li ha scoperti la Statoil. Comunque, per quello che mi riguarda, l'onore può andare a Johanson. E poi?» «Informiamo i governi.» «E rendiamo pubblica la cosa?» «Perché no? Viene pubblicato tutto. Sappiamo dei programmi nucleari coreani e iraniani e di qualche idiota che diffonde gli agenti patogeni del carbonchio. Sappiamo tutto della BSE, della peste suina e delle verdure manipolate geneticamente. In Francia, le persone si ammalano e muoiono a dozzine per qualche batterio nella carne di molluschi andata a male. E nonostante queste notizie, nessuno corre in montagna a nascondersi!» «No», disse Bohrmann. «Naturalmente no, ma se riflettessimo in pubblico su un possibile effetto Storegga...» «Per questo i dati sono troppo superficiali», disse Suess. «La simulazione mostra quanto la decomposizione proceda velocemente. E mostra anche tutto il resto.» «Ma non dice con certezza assoluta quello che succederà.» Bohrmann fece per rispondere, ma si arrestò. Suess aveva ragione. Potevano ipotizzare quello che sarebbe successo, ma non dimostrarlo. Se fossero usciti allo scoperto, senza avere provato in ogni dettaglio la loro teoria, le lobby del petrolio si sarebbero scatenate. E le loro argomentazioni sa-
rebbero cadute come un castello di carte. Era troppo presto. «Va bene», disse. «Di quanto tempo abbiamo bisogno per avere risultati inoppugnabili?» Suess aggrottò la fronte. «Di una settimana, credo.» «È maledettamente troppo tempo», commentò Sahling. «Ma sentilo!» Yvonne Mirbach scosse la testa, innervosita. «Il tempo è maledettamente poco. Se hai bisogno di una perizia tassonomica su un nuovo verme, tu stai a girarti i pollici per mesi, e noi...» «Data la situazione, è troppo tempo.» «Tuttavia i falsi allarmi non portano a niente. Andiamo avanti», replicò Suess. Bohrmann annuì. Non riusciva a staccare lo sguardo dal monitor. La simulazione era finita sullo schermo, ma continuava nella sua mente, facendogli venire i brividi. 29 aprile Trondheim, Norvegia Sigur Johanson entrò nell'ufficio di Olsen, si chiuse la porta alle spalle e sedette di fronte al biologo. «Hai tempo?» Olsen sorrise. «Per te mi sono fatto in quattro», rispose. «Cos'hai trovato?» Olsen abbassò la voce. «Con cosa devo incominciare? Con le storie di mostri? Con le catastrofi naturali?» Stava cercando di dare un tocco di mistero alle sue scoperte. E ci riusciva pure. «Tu con cosa incominceresti?» «Va bene.» Olsen ammiccò con aria scaltra. «Che ne diresti se, per una volta, incominciassi tu? Perché non mi dici qualcosa del motivo per cui ho dovuto recitare per giorni la parte di Watson, mio caro Holmes?» Ancora una volta, Johanson si chiese quanto potesse raccontare a Olsen, il quale non stava più nella pelle per la curiosità. D'altronde lui, al suo posto, non si sarebbe comportato diversamente. Ma, se gli avesse detto qualcosa, nel giro di poche ore l'intero NTNU l'avrebbe saputo. Improvvisamente gli venne un'idea... così assurda da suonare credibile. Olsen l'avrebbe considerato uno scemo, ma almeno l'avrebbe lasciato in pace. Abbassò a sua volta la voce e disse: «Ci ho pensato a lungo e sono arrivato a una teoria».
«Vale a dire?» «È tutto pilotato.» «Che cosa?» «Le anomalie: le meduse, la sparizione delle barche, i morti e i dispersi... Mi è semplicemente venuta l'idea che ci siano dei legami molto in alto.» Olsen lo guardò, sbalordito. «Chiamiamolo un 'grande piano'.» Johanson si appoggiò allo schienale e scrutò Olsen, per capire se aveva abboccato. «E con questa idea cosa vorresti ottenere? Il premio Nobel o un posto in manicomio?» «Né l'uno né l'altro.» Olsen continuava a fissarlo. «Mi prendi in giro.» «No.» «Sì, invece. Parli di... Che ne so, di che parli? Del diavolo? Di poteri occulti? Di omini verdi? Di X-files?» «È solo un'idea. Voglio dire, ci devono essere delle relazioni, no? Tutti i fenomeni si manifestano contemporaneamente! E tu credi che sia un caso?» «Non lo so.» «Vedi, non lo sai. E non lo so neanch'io.» «Che tipo di relazioni stai immaginando?» Le mani di Johanson si muovevano leggermente. «Dipende solo da quello che tu hai da offrirmi.» «Ah, sì.» Olsen fece una smorfia. «Bella pensata. Tu non sei un idiota, Sigur. Deve esserci molto di più.» «Raccontami qualcosa, poi vedremo.» Olsen scrollò le spalle, aprì un cassetto e tirò fuori una pila di fogli. «Il bottino di Internet», disse. «Se non fossi così dannatamente pragmatico, potrei finire col credere alle scemenze che spari.» «Allora, che cosa c'è?» «Le spiagge dell'America centrale e meridionale sono state chiuse. Le persone non vanno più in acqua e le meduse intasano le reti dei pescatori. Nel Costarica, in Cile e in Perú si parla di apocalisse gelatinosa causata dalla caravella portoghese incrociata con un'altra specie, molto piccola, con tentacoli molto lunghi e molto velenosi. All'inizio, si era pensato alle vespe di mare, ma l'aspetto è completamente diverso. Forse una nuova specie.» Un'altra specie nuova, pensò Johanson. Vermi mai visti prima, meduse
mai viste prima... «E le vespe di mare in Australia?» chiese. «Lo stesso scenario.» Olsen frugò nel suo pacco di fogli. «Diventano sempre di più. Una catastrofe per i pescatori. Il turismo è in ginocchio.» «E che ne è dei pesci della zona? Le meduse non li attaccano?» «Sparitibus.» «Come?» «Non ci sono più. I grossi banchi sono semplicemente spariti dalle coste colpite. Gli equipaggi dei pescherecci sostengono che hanno lasciato le loro zone d'origine e sono andati in mare aperto.» «Ma là non trovano da mangiare.» «Forse si sono messi a dieta. Che ne so io?» «E nessuno ha una spiegazione?» «Sono state istituite ovunque unità di crisi», disse Olsen. «Ma non si riesce a sapere niente. Ci ho provato.» «Questo significa che la situazione reale è ancora peggiore.» «Forse.» Olsen prese un foglio. «Se guardi questa lista, trovi una serie di comunicati stampa che sono stati diffusi e immediatamente dopo sono spariti. Meduse sulla costa dell'Africa occidentale, probabilmente anche in Giappone, di certo nelle Filippine. Sospetti su casi di morte, poi smentite, poi silenzio. Attento, però, perché adesso si fa interessante. C'è un'alga che da alcuni anni si aggira come un fantasma tra i media. Un'alga killer, Pfiesteria piscicida. C'è poco da fare se ti capita tra capo e collo: fa ammalare uomini e animali. Sinora ha infestato occasionalmente l'altra parte dell'Atlantico, ma ultimamente pare sia comparsa in Francia. E non in quantità modesta.» «Morti?» «Certamente. I francesi non sprecano tante parole per spiegare la loro situazione, ma, a quanto pare, l'alga è arrivata con gli astici. È tutto lì dentro, l'ho raccolto per te.» Olsen spinse verso Johanson alcuni fogli. «Poi c'è la faccenda delle imbarcazioni scomparse. Ci sono state decine di richieste d'aiuto, ma non si riesce a capire che cosa sia successo perché i contatti si sono interrotti troppo presto. Qualunque cosa sia successa, deve essere accaduta molto in fretta.» Agitò un altro foglio. «Ma chi sarei io se non ne sapessi di più del resto dell'umanità? Tre di queste richieste d'aiuto sono finite nella rete.» «Eh?» «Qualcosa ha attaccato le imbarcazioni.» «Attaccato?»
«Proprio così.» Olsen si grattò il naso. «Acqua al mulino della tua teoria del complotto. Il mare si solleva contro gli uomini, indignato per lo schifo che si ritrova dentro. Solo perché ci scarichiamo un po' d'immondizia e sterminiamo pesci e balene. Ah, a proposito di balene, l'ultima che ho sentito è che, nel Pacifico orientale, hanno attaccato in massa le navi. Pare che nessuno si fidi più ad andare in mare.» «Si sa...?» «Non fare domande stupide. No, non si sa. Non si sa niente. Ah, come sono stato solerte! In ogni caso, non si spiegano le cause delle collisioni e delle catastrofi delle petroliere. Blocco totale delle informazioni. La tua teoria finora ha qualche validità: le notizie sono state diffuse, ma ora qualcuno ha steso una cortina di silenzio. Proprio una situazione da X-files, eh?» Olsen aggrottò la fronte. «In ogni caso: troppe meduse, troppi pesci... Tutto appare sovradimensionato.» «E nessuno sa da che cosa dipenda?» «Ufficialmente nessuno ha avuto il coraggio di sostenere che potrebbero esserci delle relazioni. Andrà a finire che le unità di crisi daranno la colpa al Niño oppure al riscaldamento della Terra. Il tema dell'invasione biologica funziona alla grande, così si possono pubblicare articoli speculativi.» «I soliti sospetti.» «Si, ma non spiegano niente. Sono anni che meduse, alghe e bestiacce simili girano il mondo nell'acqua di zavorra delle navi. Conosciamo il fenomeno.» «Certo», disse Johanson. «Vedi, è lì che voglio arrivare. Se da qualche parte imperversa un'orda di vespe di mare, benissimo. Ma se in tutto il mondo accadono contemporaneamente cose inverosimili, allora la faccenda è ben diversa.» Olsen avvicinò gli indici e li guardò, pensieroso. «Allora, se vuoi davvero stabilire delle relazioni, io non parlerei d'invasione biologica, bensì di anomalie del comportamento. Si tratta di esempi di aggressività. Finora non si erano mai viste cose simili.» «Non hai trovato altro su qualche nuova specie?» «Santo cielo, non ti basta questo?» «Chiedevo soltanto.» «Che cos'hai in sospeso?» volle sapere Olsen. Se adesso gli chiedo dei vermi, capirà tutto, pensò Johanson. È vero che non sa come valutare l'informazione, ma intuirà che da qualche parte nel mondo c'è un'invasione di vermi. «Niente di concreto», disse.
Con uno sguardo torvo, Olsen gli allungò il resto dei fogli. «Quando ci sarà l'occasione, mi racconterai tutto quello che evidentemente ora non mi vuoi raccontare?» Johanson prese i fogli e si alzò. «Un giorno o l'altro andiamo a berci un bicchierino.» «Certo. Non appena ho tempo. Sai, con la famiglia...» «Grazie, Knut.» «Di niente.» Johanson uscì in corridoio. Da un'aula arrivavano alcuni studenti che gli sciamarono davanti, alcuni ridendo e chiacchierando, altri col volto serio. Si fermò e li seguì con lo sguardo. Di colpo non gli parve più così assurdo che dietro quegli avvenimenti ci fosse una regia occulta. Al largo delle isole Svalbard, mar di Groenlandia Sull'acqua si diffondeva la luce della luna. Era un panorama che invitava l'equipaggio ad andare in coperta. Quella notte, lo spettacolo del mare di ghiaccio toglieva il fiato. Era una scena che si vedeva raramente, ma Lukas Bauer non se ne curava. Era in cabina, chino sui suoi appunti e sembrava alla ricerca del proverbiale ago nel pagliaio, solo che il pagliaio aveva le dimensioni di due oceani. Karen Weaver aveva fatto davvero un buon lavoro e gli era stata di grande aiuto, ma due giorni prima lei era sbarcata a Longyearbyen, sull'isola di Spitsbergen, per fare delle ricerche. Quella donna conduceva una vita inquieta, almeno secondo Bauer, la cui vita non si poteva certo definire tranquilla. Come giornalista scientifica si era occupata soprattutto di argomenti marini. Bauer presumeva che la scelta professionale di Karen fosse dovuta unicamente al fatto che il suo lavoro le avrebbe permesso di viaggiare gratis nei luoghi più inospitali del mondo. Amava le situazioni estreme e in ciò si differenziava da Bauer, che invece le detestava con tutto il cuore. Era però posseduto dal demone della ricerca, che lo portava a non curarsi minimamente delle comodità. Molti ricercatori erano così. Erano considerati a torto degli avventurieri, e invece non facevano altro che mettere in conto l'avventura pur di arrivare alla conoscenza. A Bauer mancavano una poltrona comoda, gli alberi e gli uccellini e soprattutto una birra tedesca fresca appena spinata. Soprattutto gli mancava la compagnia di Karen Weaver. Quella ragazza testarda gli era entrata nel
cuore. Senza contare che stava cominciando a cogliere il senso e lo scopo del lavoro dell'addetto stampa: se voleva che l'opinione pubblica s'interessasse alla sua attività, doveva utilizzare un vocabolario magari non precisissimo, ma proprio per questo comprensibile a tutti. Karen gli aveva spiegato che molti non avrebbero compreso il suo lavoro, perché non sapevano come e dove nasceva la Corrente del Golfo, intorno alla quale ruotava tutto ciò che lo scienziato stava sperimentando in quei giorni. Bauer non riusciva a crederci. Non poteva pensare che ci fossero persone che ignoravano cosa fosse un drifter, ma Karen gli aveva spiegato che ben pochi potevano sapere che cosa fosse, perché i drifter erano troppo nuovi e limitati ad ambiti specialistici. Quello era riuscito ad accettarlo. Ma la Corrente del Golfo! Che cosa insegnavano a scuola? Karen aveva ragione. In fondo lui, voleva raggiungere l'opinione pubblica affinché condividesse le sue preoccupazioni e facesse pressione su chi deteneva il potere. Ed era molto preoccupato. Le sue preoccupazioni nascevano nel golfo del Messico. Da lì, lungo le coste sudamericane e dall'Africa meridionale, scorreva una corrente di superficie calda. Ai Caraibi essa si scaldava ulteriormente e continuava a scorrere verso nord. Acqua calda e molto salata che, essendo molto calda, rimaneva in superficie. Quell'acqua costituiva il teleriscaldamento dell'Europa: la Corrente del Golfo. Scorreva fino a Terranova - trasportando con sé un miliardo di megawatt di calore, corrispondenti alla produzione di duecentocinquantamila centrali atomiche - dove s'incontrava con la corrente fredda del Labrador e si disperdeva. Là si formavano i cosiddetti eddies, masse circolari d'acqua calda, che si spostavano verso nord. I venti da ovest facevano evaporare l'acqua, provocando fruttuose piogge sull'Europa e, nel contempo, elevando la concentrazione salina nel mare. La corrente avanzava oltre la costa norvegese, dove prendeva il nome di «corrente norvegese», e portava calore nell'estremo Nordatlantico, permettendo alle navi di passare a sud-ovest delle Svalbard. L'influsso caldo terminava soltanto tra la Groenlandia e la Norvegia settentrionale. In quel punto la corrente norvegese, alias Corrente del Golfo, incontrava l'acqua fredda dell'Artico che, accompagnata da venti gelidi, la raffreddava rapidamente. Già molto salata e ormai assai fredda, l'acqua diventava così pesante che la sua massa precipitava. Ciò non avveniva su tutto il fronte, ma in vortici, che cambiavano la propria posizione a seconda del moto ondoso e quindi non si potevano trovare al
primo tentativo. Quei vortici avevano un diametro compreso tra i venti e i cinquanta metri e circa una decina di essi arrivava al chilometro quadrato; dove fossero esattamente, però, dipendeva dalla configurazione quotidiana di mare e vento. Causa prima di tutto era il mostruoso gorgo prodotto dalle masse d'acqua che sprofondavano. Era quello il segreto della Corrente del Golfo e delle sue propaggini. In realtà, essa non scorreva verso nord, veniva piuttosto trascinata là dalla gigantesca pompa appena sotto l'Artico. A una profondità di due o tremila metri, l'acqua freddissima riprendeva la via del ritorno compiendo l'intero viaggio intorno alla Terra. Bauer aveva preparato una serie di drifter nella speranza che seguissero il corso dei canali. Ma, nel frattempo, sembrava aver perso la speranza di trovarne uno. Avrebbero dovuto essere ovunque. E invece sembrava che la grande pompa avesse interrotto il proprio lavoro, oppure che si fosse spostata in una zona sconosciuta. Bauer era lì proprio perché sapeva di quel problema e dei suoi effetti. Non si aspettava quindi di trovare tutto in ordine, ma neanche di non trovare nulla. E questo era causa per lui di gravi, gravissime preoccupazioni. Prima che sbarcasse, aveva condiviso le sue preoccupazioni con Karen Weaver. Da allora, le mandava regolarmente e-mail coi rapporti sulla situazione e le confidava i suoi peggiori timori. Alcuni giorni prima, il suo team aveva rilevato che la concentrazione di gas nel mare del Nord era salita a picco, e lui aveva valutato la possibilità che ciò fosse in qualche modo in relazione con la scomparsa dei canali. Adesso, solo nella sua cabina, ne era quasi sicuro. Lavorava senza posa, mentre la notte polare induceva anche i più incalliti marinai a starsene appoggiati al parapetto a guardare lo spettacolo. Sedeva, curvo su pile di calcoli, diagrammi e schede. Di tanto in tanto, mandava un'e-mail a Karen Weaver per salutarla e per metterla al corrente delle sue ultime scoperte. Era così sprofondato nel suo lavoro, che per un po' riuscì a ignorare il tremolio che percorreva la nave, finché la tazza di tè sulla sua scrivania non gli si rovesciò sui pantaloni. «Al diavolo!» sbraitò. Il tè bollente gli scorreva sulla coscia e tra le gambe. Spinse indietro la sedia e si alzò per constatare i danni. Poi si bloccò, le mani aggrappate allo schienale della sedia, e si mise in ascolto. Si sbagliava? Ma no, sentiva davvero gridare. A quel suono, si aggiunse un rumore di
passi pesanti, frenetici. Là fuori stava succedendo qualcosa. Il tremolio si fece più intenso. La nave vibrava. Improvvisamente qualcosa gli fece perdere l'equilibrio. Gemendo, sbatté contro la scrivania. Un attimo dopo il pavimento gli mancò sotto i piedi, come se tutta la nave fosse finita in un buco. Bauer fu sbattuto a terra sulla schiena. Fu preso dal terrore, un terrore profondo, mostruoso. Si rialzò a fatica e barcollò fuori dalla cabina. Sentiva urla altissime. I motori erano stati accesi. Qualcuno gridò qualcosa in islandese. Bauer non capì che cosa, perché conosceva solo l'inglese, ma non gli sfuggì il panico che permeava quella voce e che venne amplificato dalla voce che aveva risposto. Un maremoto? Lo scienziato percorse in fretta il corridoio e la scala per raggiungere la coperta. La nave ondeggiava selvaggiamente e lui faticava a reggersi in piedi. Barcollando, arrivò all'aperto e sentì un odore disgustoso. Allora comprese cosa stava succedendo. Riuscì a raggiungere il parapetto e a guardare fuori. Tutt'intorno, il mare ribolliva di bianco. Come se fossero in una pentola. Non c'erano onde. Non c'era tempesta. Erano bolle. Gigantesche bolle che salivano. Di nuovo perse l'equilibrio e cadde in avanti, battendo violentemente la faccia contro l'assito. Il dolore gli esplose nella testa. Quando riuscì a sollevare lo sguardo, gli occhiali si erano rotti. Senza occhiali, lui era praticamente cieco. Riuscì comunque a vedere il mare che si richiudeva sopra la nave. Mio Dio! pensò. Mio Dio, aiutaci. 30 aprile Vancouver Island, Canada La notte risplendeva di un verde cupo. Non faceva né caldo né freddo... C'era una sorta di gradevole assenza di temperatura. L'atto del respirare sembrava finito tra gli eventi privi di sviluppo, rimpiazzato da una funzione estesa, che permetteva di muoversi liberamente tra gli elementi. Dopo essere caduto attraverso quell'universo verde scuro, Anawak fu preso dall'euforia e distese le braccia, sentendosi un Icaro che aveva scelto gli abissi come cielo. Sprofondava, ubriacato dalla sensazione di mancanza di peso. Sul fondo c'era qualcosa che splen-
deva, un paesaggio ampio e ghiacciato. Poi l'oceano verde scuro si trasformò in un cielo notturno. Era sul bordo di una distesa di ghiaccio e guardava l'acqua nera e tranquilla. Sopra di lui, un'infinità di stelle. Com'era meraviglioso starsene lì. Il bordo di ghiaccio si sarebbe staccato dalla terraferma e avrebbe navigato per il mare del Nord, sempre più a settentrione, e lui, come passeggero, sarebbe andato là dove non lo attendevano domande pressanti, bensì una casa. La sua casa. Sarebbe stato a casa. La nostalgia si liberò nel petto di Anawak e gli fece venire le lacrime agli occhi, lacrime che scintillavano, che lo accecavano. Le scrollò via ed esse caddero nel mare nero, illuminandolo. Dalle profondità, qualcosa saliva verso di lui. L'acqua prese la forma di una figura che sembrava attenderlo a una certa distanza, là dove lui non poteva andare. Era là, rigida e cristallizzata, e la sua superficie imprigionava la luce delle stelle. «L'ho trovata», disse la figura. Non aveva né viso né bocca, ma Anawak conosceva quella voce. Si avvicinò, ma c'era il bordo del ghiaccio e nell'acqua nera nuotava qualcosa di grande che faceva venir voglia di fuggire. «Che cos'hai trovato?» chiese Anawak. Fu terrorizzato dalla sua stessa voce. Le parole gli arrivavano a fatica alle labbra, dopo averlo tormentato come animali feroci. Al contrario di quanto pronunciato, o forse solo pensato, dalla figura, le sue parole non attraversarono il perfetto silenzio del paesaggio ghiacciato. D'un tratto un freddo tagliente lo colpì. Cercò con lo sguardo quella cosa nell'acqua, ma era sparita. «Allora, come va?» gli chiese una voce. Anawak girò la testa e vide l'esile figura di Samantha Crowe, la ricercatrice del SETI. «Ti manca la pratica nel parlare», gli disse. «Il resto riesci a farlo meglio. A dire la verità, è terribile!» «Mi dispiace», balbettò Anawak. «Sì? Va bene. Forse dovresti iniziare a esercitarti. Ho trovato i miei extraterrestri. Lo sapevi? Finalmente abbiamo stabilito un contatto. Non è meraviglioso?» Anawak sussultò. Non lo trovava affatto meraviglioso. Aveva una paura terribile degli extraterrestri di Samantha Crowe, e non sapeva perché. «E... chi sono? Che cosa sono?» La ricercatrice del SETI indicò l'acqua nera oltre il bordo del ghiaccio.
«Sono là fuori», disse. «Credo che saranno contenti di conoscerti, perché amano avere contatti. Ma tu dovresti sforzarti un po' di più.» «Non posso», disse Anawak. «Non puoi?» Samantha Crowe scosse la testa, perplessa. «Perché non puoi?» Anawak fissò gli imponenti dorsi scuri che solcavano l'acqua. Erano dozzine, centinaia. Sapeva che erano lì per lui. Improvvisamente comprese che si stavano avvicinando a causa della sua paura. Si nutrivano di paura. «Io... non posso». «Su, su, non fare il vigliacco. Devi cominciare», replicò Samantha con ironia. «È la cosa più facile del mondo. Per te è molto più facile che per noi. Noi dobbiamo stare in ascolto di tutto il maledetto universo.» Anawak tremava ancora di più. Si avvicinò al bordo e guardò fuori. All'orizzonte, dove il cielo stellato accoglieva in sé il mare nero, splendeva una luce lontana. «Va'», disse Samantha. Ho volato, pensò Anawak. Ho volato attraverso un oceano verde scuro, pieno di vita, e non ho avuto la minima paura. Che cosa può succedere? L'acqua sarà solida come il terreno e io raggiungerò quella luce, trascinato dalla mia volontà. Sam ha ragione. È facile. Non c'è nulla di cui avere paura. Davanti ai suoi occhi emerse un animale gigantesco, e una colossale coda a due punte si levò contro le stelle. Nulla di cui avere paura. Ma aveva esitato troppo e la vista delle pinne caudali l'aveva reso incerto. Né la sua volontà né la forza del sogno lo aiutavano a mettere fuori gioco le leggi della natura. Quando infine fece un passo avanti, sprofondò immediatamente nel gelo del mare, che si richiuse sopra la sua testa. Era tutto nero. Anawak voleva gridare e ingoiò dell'acqua, che entrò dolorosamente nei suoi polmoni. Sprofondava implacabilmente, annaspando. Il cuore gli batteva all'impazzata, gli martellava nelle tempie, rimbombava come colpi di martello... Anawak trasalì e batté la testa contro l'asse. «Maledizione», imprecò. Si sentiva ancora battere. Ma non era più un rimbombo. Anzi era un rumore smorzato, come di nocche sul legno. Si rotolò su un fianco e vide Alicia, che, leggermente chinata in avanti, spiava nella sua cuccetta. «Scusa», disse la ragazza. «Non sapevo che ti saresti alzato di scatto.» Anawak la fissò. Alicia? Ah, sì. Lentamente i ricordi si ricomposero. Si
tenne la testa, fece un grugnito tormentato e si lasciò cadere all'indietro. «Che ore sono?» «Le nove e mezzo.» «Dannazione.» «Hai un aspetto terribile. Hai fatto un brutto sogno?» «Mah, cose assurde.» «Posso preparare il caffè.» «Un caffè? Ottima idea.» Si toccò il punto in cui aveva battuto la testa e sussultò. Sarebbe spuntato un bel bernoccolo. «Dov'è quella stupida sveglia? Doveva suonare alle sette.» «Non l'hai sentita. E non c'è da meravigliarsi, dopo quello che e successo.» Alicia andò nella piccola cucina e si guardò intorno. «Dov'è...» «Nel pensile, a sinistra. Caffè, filtri, latte e zucchero.» «Hai fame? So preparare colazioni fantastiche...» «No.» Lei scrollò le spalle e riempì d'acqua la caldaia della macchina del caffè. Anawak la osservò per qualche secondo, poi si sollevò dalla cuccetta. «Girati, devo infilarmi qualcosa.» «Non fare tante scene. Non ti guardo mica.» Lui aggrottò la fronte mentre osservava i suoi jeans. Erano appallottolati sulla panca vicino alla cuccetta. Vestirsi si rivelò molto difficile. Aveva le vertigini e la gamba ferita gli faceva male se la piegava. «John ha chiamato?» chiese. «Sì. Prima.» «Dannazione.» «Che cosa c'è?» «Anche un vecchio decrepito ci mette meno tempo a infilarsi i pantaloni. Al diavolo, perché non ho sentito la sveglia? Volevo assolutamente...» «Sai una cosa? Sei uno scemo, Leon. Un vero scemo. Due giorni fa sei sopravvissuto a un incidente aereo. Hai un ginocchio gonfio e, secondo me, qualche rotella del tuo cervello è andata fuori posto. Abbiamo avuto una fortuna incredibile. Potremmo essere morti come Danny e il pilota, invece siamo vivi. E tu ti lamenti per la tua dannata sveglia e perché non riesci a fare la ruota. Hai finito?» Anawak si sedette sulla panca. «Sì, ho finito. Cos'ha detto John?» «Ha raccolto tutti i dati e ha guardato i video.» «Fantastico. E allora?» «Niente. Ti devi formare da solo la tua opinione.»
«È tutto?» Alicia riempì il filtro con la polvere di caffè, lo mise sulla caldaia e accese la macchinetta. Dopo qualche secondo, la stanza si riempì di leggeri schiocchi e gorgoglii. «Gli ho detto che stavi ancora dormendo», disse. «Ha risposto che non ti dovevo svegliare.» «Perché?» «Perché devi guarire. Ha detto così, e a ragione.» «Io sono guarito», ribatté Anawak, testardo. Ma non ne era sicurissimo. Quando il DHC-2 era entrato in collisione con la balena grigia aveva perso la superficie portante. Danny, il tiratore, era probabilmente morto sul colpo; gli uomini del Whistler non avevano trovato il suo cadavere, ma sul fatto che fosse morto non c'erano dubbi. Non era riuscito a rientrare in tempo e il portellone laterale dell'idrovolante era rimasto aperto durante la caduta. Anawak doveva ringraziare quella circostanza se era ancora vivo. Con l'impatto era stato scaraventato fuori. Non ricordava nulla di ciò che era accaduto in seguito, neppure come si era procurato quel brutto stiramento al ginocchio. Era rinvenuto solo a bordo del Whistler a causa del dolore pulsante. Subito dopo, aveva visto Alicia sdraiata vicino a lui, e il dolore aveva perso ogni importanza. Sembrava morta. Prima che l'orrore lo sopraffacesse, gli avevano spiegato che non era morta e che aveva avuto ancora più fortuna di lui. Il corpo del pilota aveva attutito il colpo. Benché fosse semincosciente, Alicia era uscita dal relitto che si stava inabissando. L'idrovolante era affondato nel giro di un minuto. L'equipaggio del Whistler era riuscito a recuperare Anawak e Alicia, ma lo sfortunato pilota era sparito negli abissi col suo DHC-2. Nonostante la tragedia, l'operazione si poteva comunque definire un successo. Danny aveva piazzato la sonda. L'URA aveva seguito la balena ed era stato possibile registrare ventiquattr'ore di filmati senza che gli animali attaccassero il robot. Anawak sapeva che le riprese erano state mandate di prima mattina a John Ford e si era fermamente riproposto di recarsi all'acquario. Inoltre il Centre National d'Etudes Spatiales aveva fornito i dati telemetrici ricevuti fino a quel momento dal cronotachigrafo che Lucy portava sul dorso. Se l'idrovolante non fosse precipitato, avrebbero avuto tutti i motivi per essere contenti. E invece la situazione stava peggiorando. Morivano sempre più uomini. Anawak stesso era stato per due volte vicinissimo alla morte. Forse aveva elaborato così in fretta la morte di Susan Stringer perché la rabbia contro
Greywolf aveva cauterizzato tutti gli altri sentimenti. Ora, due giorni dopo la caduta dell'aereo, si sentiva malissimo. Come colpito da una malattia che, dopo essere stata repressa per anni, esplodeva, reclamando il proprio diritto di manifestarsi. Si sentiva insicuro, aveva dubbi su se stesso e avvertiva un'inquietante mancanza di energia. Probabilmente era ancora sotto shock, ma lui non ci credeva. Si trattava di ben altro. Da quand'era stato scaraventato fuori dall'idrovolante, di tanto in tanto aveva le vertigini, dolori al petto e attacchi di panico. No, non era guarito, e lo stiramento del ginocchio non era il vero problema. Anawak si sentiva mutilato dentro. Aveva trascorso quasi tutto il giorno precedente dormendo. Erano venuti a trovarlo Davie, Shoemaker e gli skipper. Ford aveva telefonato più volte, chiedendo sue notizie. Nessun altro si era particolarmente preoccupato per lui. Mentre i genitori di Alicia e un mucchio di suoi amici - compreso un suo ex fidanzato deciso a far valere i diritti maturati nel corso di una relazione durata due anni - avevano fatto pressione su di lei affinché lasciasse Vancouver Island, la partecipazione al destino di Anawak si esauriva nella cerchia dei colleghi. Era malato e sapeva che nessun medico avrebbe potuto aiutarlo. Alicia gli mise davanti una tazza di caffè appena fatto e lo fissò attraverso i suoi occhiali blu. Anawak ne bevve un sorso, si scottò la lingua e si allungò per prendere il radiotelefono. «Posso farti una domanda personale, Leon?» disse lei. Lui si fermò e scosse la testa. «Più tardi.» «Più tardi quando?» Anawak sospirò e compose il numero di Ford. «Non abbiamo ancora finito con le osservazioni», spiegò il direttore. «Prenditi del tempo e riposati.» «Hai detto ad Alicia che mi devo formare un'opinione senza essere influenzato.» «Sì, dopo che abbiamo esaminato tutto. La maggior parte è roba noiosa. Prima che tu venga qui, è meglio se ci guardiamo il resto. Forse potresti risparmiarti la strada.» «Va bene, quando finirete?» «Non ne ho idea. Siamo qui in quattro a guardare i nastri. Dacci un paio d'ore. No, tre. È meglio se mando un elicottero a prenderti oggi nel primo pomeriggio. Elegante, vero? Questo è il vantaggio dell'unità di crisi. C'è
sempre un elicottero a disposizione.» Ford rise. «Però non ci dobbiamo abituare a questi lussi.» Fece una pausa. «In compenso ho un'altra cosa per te. Adesso non ho il tempo di raccontartela, ma sarebbe meglio che tu chiamassi Rod Palm.» «Palm? Perché?» «Ha parlato un'ora fa con Nanaimo e con l'Istituto di scienze oceanografiche. Puoi parlare anche con Sue Oliviera, ma visto che Palm è a due passi da casa tua...» «Maledizione, John! Perché, quando c'è qualcosa da raccontare, non mi chiama mai nessuno?» «Volevo aspettare che ti svegliassi.» Anawak chiuse bruscamente la chiamata e telefonò a Palm. Il direttore della stazione di ricerca sulla Strawberry Island rispose subito. «Ah!» esclamò. «Ford ti ha parlato.» «Sì, l'ha fatto. A quanto pare, avete trovato qualcosa che scuoterà il mondo. Perché non mi hai chiamato?» «Lo sanno tutti che hai bisogno di riposo.» «Ah, sciocchezze.» «Va bene, va bene, volevo aspettare che ti svegliassi.» «È la seconda volta nel giro di un minuto che me lo sento dire. No, è la terza, se si conta anche la preoccupazione permanente di Alicia. Sto bene, maledizione.» «Perché non fai un salto qua?» propose Palm. «Con la barca?» «Sono soltanto poche centinaia di metri. E poi nella baia non è ancora successo nulla.» «Va bene, sarò lì tra dieci minuti.» «Fantastico. A presto.» Alicia lo guardò da sopra il bordo della tazza e aggrottò la fronte. «Qualche novità?» «Tutti mi trattano come un invalido», brontolò Anawak. «Non mi pare.» Lui si alzò, aprì il cassetto sotto la cuccetta e frugò alla ricerca di una camicia pulita. «Evidentemente a Nanaimo hanno scoperto qualcosa», borbottò. «E cosa?» chiese Alicia. «Non lo so.» «Ah.»
«Vado da Palm.» Esitò, poi disse: «Se hai voglia e tempo puoi venire anche tu, okay?» «Mi vuoi con te? Quale onore!» «Non essere sciocca.» «Non lo sono.» Arricciò il naso. I bordi dei suoi incisivi sfregavano il labbro inferiore. Dovrebbe proprio fare qualcosa per quei denti, pensò Anawak. Ogni volta che la guardava, si sorprendeva a controllare se c'era una carota nei dintorni. «Da due giorni hai la luna di traverso. È quasi impossibile fare una conversazione educata», lo rimproverò lei. «L'avresti anche tu se...» s'interruppe. Alicia lo guardò. «C'ero anch'io sull'idrovolante», mormorò. «Mi dispiace.» «Sono quasi morta dalla paura. Un'altra sarebbe corsa subito a casa dalla mamma. Ma tu hai perso la tua assistente, quindi io non corro dalla mamma e ti rimango a fianco, stupido musone. Cosa mi volevi raccontare?» Anawak si toccò il bernoccolo sulla testa. Faceva male e diventava sempre più grande. Anche il ginocchio faceva male. «Nulla. Ti sei calmata?» «Non sono affatto nervosa.» «Bene. Allora vieni.» «Comunque vorrei farti una domanda personale...» «No.» Andare alla piccola isola col Devilfish aveva qualcosa d'irreale. Quasi come se gli attacchi delle settimane precedenti non ci fossero stati. Strawberry Island era poco più di una collina ricoperta di abeti, il cui perimetro si poteva percorrere a piedi in cinque minuti. Quel giorno, il mare era liscio come una tavola e non c'era vento. Un sole caldo diffondeva una luce bianca. Anawak si aspettava in ogni momento di veder comparire una coda o una schiena nera con un'alta pinna dorsale. Ma, dall'inizio degli attacchi, a Tofino si erano viste solo due orche. Erano stanziali e non avevano mostrato segni di aggressività. Evidentemente la teoria di Anawak era vera: il mutamento di comportamento riguardava solo i cetacei che migravano. Si chiese ancora per quanto. Lo zodiac si accostò al molo di attracco dell'isola. La stazione di Palm era proprio di fronte. Si trovava all'interno di un vecchio veliero, che un tempo era il British Columbia Ferry e ora si allungava pittorescamente sulla riva, sostenuto da tronchi e circondato da pezzi di legno e ancore arrug-
ginite. Serviva a Palm sia come ufficio sia come abitazione. Ci vivevano anche i suoi due figli. Anawak si sforzava di non zoppicare. Alicia taceva. Evidentemente era arrabbiata con lui. Poco dopo tutti e tre erano davanti alla nave, seduti intorno a un piccolo tavolo adornato con corteccia di betulla. Alicia beveva una Coca-Cola con la cannuccia. Intorno si vedevano le palafitte. Benché Strawberry Island fosse soltanto a poche centinaia di metri da Tofino, era molto più tranquilla. I rumori si sentivano solo in lontananza. In compenso era possibile sentire i suoni prodotti dalla natura. «Come va il ginocchio?» chiese Palm. Era un uomo premuroso, con una barba bianca che sembrava quasi formata da fiocchi, la testa pelata e la pipa perennemente in bocca, tanto che si era portati a pensare che l'avesse avuta fin dalla nascita. «Non parliamone.» Anawak allungò il braccio destro e cercò d'ignorare il bum bum che aveva nella testa. «Piuttosto dimmi che cosa avete scoperto.» «A Leon non piace che ci s'informi sulla sua salute», commentò Alicia, tagliente. Anawak borbottò qualcosa d'incomprensibile, ma, dentro di sé, ammise che lei aveva ragione. Il suo umore era come un barometro che segnava tempesta. Palm si schiarì la voce. «Sono rimasto a lungo con Ray Fenwick e Sue Oliviera», disse. «Dopo l'autopsia pubblica di J-19 siamo rimasti in stretto contatto. Ma non solo per questo. Il giorno del vostro atterraggio di fortuna, si è arenata un'altra balena. Una balena grigia che non conoscevo. Non aveva segni particolari. Fenwick non poteva venire, così ho fatto io stesso l'autopsia con altre persone, così da mandare a Nanaimo i soliti campioni per le analisi. Un lavoraccio, ti dico. Ho operato in piedi nella cassa toracica e, dopo aver tolto il cuore, sono scivolato fuori. Il sangue e i liquidi che gocciolavano da sopra mi erano arrivati fin negli stivali. Sembravo uno zombie subito dopo pranzo. Questo è il lato romantico della mia attività. Naturalmente abbiamo preso anche un pezzo di cervello.» Il pensiero di un'altra balena spiaggiata colmò Anawak di un dolore pungente. Non riusciva a odiare gli animali per quello che avevano fatto. Per lui restavano creature meravigliose che bisognava difendere e proteggere. «Di che cos'è morta?» chiese. Palm allargò le braccia. «Direi di un'infezione. La stessa che Fenwick ha
diagnosticato per Gengis. La cosa strana è che nell'animale abbiamo trovato anche altre cose che non c'entrano nulla.» S'indicò la testa e mosse in cerchio il dito. «Fenwick ha trovato una sorta di grumo nel cervello. Sul diencefalo, per essere precisi. Con propaggini suddivise tra la massa del cervello e la calotta cranica.» Anawak rizzò le orecchie. «Coaguli di sangue in entrambi gli animali?» «Il sangue non c'entra, anche se all'inizio l'avevamo pensato. Fenwick e Sue Oliviera pensano che il responsabile delle anomalie sia il rumore. Non vogliono parlarne finché non trovano altri indizi, ma nel frattempo Fenwick si è letteralmente aggrappato alle conseguenze delle ricerche col sonar...» «Ti riferisci al Surtass LFA?» «Esatto.» «Scordatelo. Non è possibile.» «Si può sapere di che parlate?» intervenne Alicia. «Il governo americano, da un paio d'anni, ha riservato alla Marina un trattamento speciale», spiegò Palm. «Le ha dato il permesso di usare un sonar a bassa frequenza per la localizzazione di sommergibili. Si chiama Surtass LFA e viene testato con assiduità.» «Davvero?» Alicia era inorridita. «Pensavo che la Marina fosse vincolata al trattato di protezione dei mammiferi marini.» «Tutti siamo vincolati a tutti i trattati possibili», commentò Anawak con un sorriso cupo. «E ci sono tutte le possibili scappatoie. Gli Stati Uniti evidentemente non riescono a resistere alla tentazione di sorvegliare l'ottanta per cento dei mari della Terra, e questo col Surtass LFA è possibile. Così il presidente è stato assai solerte a svincolare la Marina da ogni trattato. Non dimenticare che il nuovo sistema è già costato trecento milioni di dollari e che, secondo i responsabili, non danneggia le balene.» «Ma il sonar danneggia le balene. Lo sa anche un idiota.» «Purtroppo non è sufficientemente dimostrato», disse Palm. «In passato si è rilevato che le balene e i delfini sono molto sensibili al sonar, ma non si può dire con certezza quali effetti abbia sulla caccia, sulla riproduzione e sulla migrazione.» «Ridicolo», sbuffò Anawak. «A 180 decibel si sfondano i timpani delle balene. Ognuno degli altoparlanti subacquei del nuovo sistema produce un rumore di 215 decibel. La forza complessiva del segnale è anche superiore.» Alicia guardava ora l'uno ora l'altro. «E... che cosa succede agli anima-
li?» «È appunto per questo che Fenwick e Sue Oliviera sono arrivati alla teoria del rumore», disse Palm. «Già da anni gli scandagli sonar della Marina fanno spiaggiare delfini e balene in diverse parti del mondo. Molte balene sono morte. Mostravano copiosi versamenti di sangue nel cervello e nell'orecchio interno. Le tipiche ferite causate da forti rumori. Gli ambientalisti sono riusciti a dimostrare che, nelle immediate vicinanze dei luoghi in cui sono morte le balene, c'erano state delle esercitazioni NATO, ma prova a farlo ammettere ai tizi della Marina!» «Lo smentiscono?» «Non hanno fatto che smentire per anni interi. Ora, però, sono stati costretti ad ammettere le loro responsabilità, almeno in alcuni casi. Il problema è che ne sappiamo ancora troppo poco. Conosciamo solo i danni subiti dalle balene morte e ognuno sviluppa la propria teoria. Lanwick, per esempio, crede che i rumori sottomarini possano portare anche alla follia collettiva.» «Non ha senso», brontolò Anawak. «Il rumore toglie il senso dell'orientamento, non porta ad attaccare le navi, ma a spiaggiarsi.» «Mi sembra che la teoria di Fenwick sia degna di attenzione», disse Alicia. «Ah, sì?» «Perché no? Gli animali vanno fuori di testa. Prima solo alcuni, poi sempre di più, fino a una sorta di psicosi di massa.» «Non dire fesserie! Sappiamo di mesoplodonti che si sono spiaggiati alle Canarie dopo che la NATO ha portato a termine le sue esercitazioni. Nessun animale è più sensibile al rumore dei mesoplodonti. Certo che sono andati fuori di testa. Presi dal panico, non hanno trovato altra soluzione che uscire dal loro elemento, e così sono finiti sulla spiaggia. I cetacei scappano dal rumore.» «Oppure attaccano chi lo emette», rispose Alicia, cocciuta. «Chi? Gommoni e fuoribordo? Che rumore sarebbe?» «Allora sarà stato qualche altro rumore. Esplosioni sottomarine.» «Non qui.» «Come fai a saperlo?» «Lo so.» «Devi sempre avere ragione.» «Questo lo dici tu!» sbottò Anawak. «Inoltre gli spiaggiamenti ci sono sempre stati, da secoli. Anche nella
British Columbia. Ci sono tradizioni orali...» «Lo so. Lo sanno tutti.» «E allora? Anche gli indiani avevano il sonar?» «Si può sapere che c'entra tutto questo col nostro argomento?» «Eccome se c'entra. Gli spiaggiamenti delle balene possono essere strumentalizzati senza riflettere sulle conseguenze e...» «Quindi io non rifletto?» Alicia lo fulminò con un'occhiata. «Quello che voglio dire è semplicemente che gli spiaggiamenti delle balene non dipendono per forza da rumori prodotti artificialmente. E viceversa, il rumore può portare anche a conseguenze diverse dagli spiaggiamenti.» «Ehi!» Palm sollevò le mani. «State litigando inutilmente. Lo stesso Fenwick, negli ultimi tempi, si è reso conto che la sua teorìa del rumore è tutt'altro che solida, riguarda sempre la follia collettiva, ma... Volete ascoltarmi?» Lo guardarono. «Allora», proseguì Palm dopo essersi assicurato la loro completa attenzione. «Fenwick e Sue Oliviera hanno trovato il coagulo e hanno concluso che si trattava di una deformazione dovuta a un'influenza esterna. In superficie appariva come un'emorragia e, all'inizio, l'hanno considerata tale. Poi hanno isolato la sostanza e l'hanno sottoposta ai soliti esami. Hanno scoperto che la sostanza era soltanto intrisa del sangue della balena. La sostanza in sé era una massa senza colore che si è decomposta all'aria.» Palm si chinò in avanti. «Sono comunque riusciti a esaminarne alcuni residui. I risultati coincidono con quelli di un test su campioni di alcune settimane fa. Avevano già visto quella sostanza nella testa delle balene. A Nanaimo.» Anawak rimase in silenzio per qualche secondo. «E di che si tratta?» chiese con voce roca. «Della stessa cosa che hai trovato tra le conchiglie sullo scafo della Barrier Queen.» «La sostanza sul cervello delle balene e quella dello scafo della nave...» «Sono identiche. È la stessa sostanza. Materia organica.» «Un organismo estraneo», mormorò Anawak. «Qualcosa di estraneo, sì.» Sebbene fosse in piedi solo da poche ore, Anawak si sentiva sfinito. Tornò a Tofino con Alicia. Salirono la scaletta del molo, ma il ginocchio gli ostacolava i movimenti e gli rendeva difficile addirittura pensare con
chiarezza. Si sentiva disperato, depresso e abbandonato alla mercè di una situazione inquietante. A denti stretti, Anawak raggiunse zoppicando la Davies Whaling Station, prese una bottiglia di succo d'arancia dal frigorifero e si lasciò cadere su una poltrona dietro il bancone. Nella sua mente, i pensieri s'inseguivano in un girotondo assurdo, come quello di un cane che cerca di afferrarsi la coda. Alicia gli si avvicinò. Si guardò intorno, indecisa. «Prenditi qualcosa.» Anawak indicò il frigorifero. «Quello che vuoi.» «La balena che ha abbattuto l'idrovolante...» iniziò lei. Anawak aprì la bottiglia e bevve una lunga sorsata. «Scusa se non posso farlo io. Come ti ho detto, serviti pure.» «Si è ferita, Leon. Forse è morta.» Anawak rimase qualche secondo a riflettere. «Sì», disse infine. «È probabile.» Alicia si avvicinò a uno scaffale su cui erano allineati vari modelli in plastica di balene. Ce n'erano di tutte le dimensioni: alcune erano lunghe un pollice, altre avevano le dimensioni di un avambraccio. Diverse megattere si reggevano sulle pinne pettorali. Lei ne prese una e la rigirò tra le dita. Anawak la guardava allarmato. «Non lo fanno volontariamente», disse Alicia. Lui si grattò la fronte. Poi si chinò in avanti e accese il piccolo televisore portatile vicino alla radio. Forse se ne sarebbe andata senza bisogno di chiederglielo. Non aveva nulla contro di lei. In fondo si vergognava del suo umore nero, del suo comportamento scorbutico e scostante, ma il bisogno di restare solo cresceva di minuto in minuto. Alicia ripose la balena di plastica sullo scaffale. «Posso farti una domanda personale?» Di nuovo! Anawak stava per darle una risposta brusca, poi invece si limito a scrollare le spalle. «Per me...» «Sei un makah?» Per la sorpresa, quasi gli cadde la bottiglia dalle mani. Era quello che gli voleva chiedere. Voleva sapere perché somigliava a un indiano. «Cosa te lo fa pensare?» sbottò. «Poco prima che l'aereo partisse, hai detto una cosa a Shoemaker e cioè che Greywolf avrebbe avuto dei problemi coi makah perché si era scagliato così violentemente contro la caccia alle balene. I makah sono indiani, vero?»
«Sì.» «È la tua gente?» «I makah? No. Non sono un makah.» «Sei...» «Senti... Non prendertela, ma non sono in vena di raccontare storie di famiglia.» Lei strinse le labbra. «Okay.» «Ti chiamo non appena Ford si mette in contatto.» Anawak fece un sorriso stentato. «O mi chiami tu. Forse chiamerà ancora te per non svegliarmi.» Alicia scosse la chioma rossa e si avviò lentamente verso la porta. Lì si fermò. «Ancora una cosa», mormorò, senza voltarsi. «Deciditi a ringraziare Greywolf per averti salvato la vita. C'ero anch'io, ho visto cos'è successo.» «Tu eri...» sobbalzò. «Sì. Certo. Puoi detestarlo per tutto il resto, però merita di essere ringraziato. Senza di lui saresti morto», disse. E se ne andò. Anawak la seguì con lo sguardo. Sbatté la bottiglia sul tavolo e respirò profondamente. Ringraziare Greywolf. Era sempre seduto e, facendo zapping, trovò una delle tante edizioni speciali trasmesse in quei giorni sulla situazione al largo della British Columbia. Dagli Stati Uniti si ricevevano trasmissioni analoghe. Gli attacchi avevano di fatto paralizzato il traffico navale regionale. Nello studio televisivo c'era una donna con indosso la divisa della Marina. Aveva i capelli neri e corti pettinati all'indietro. Il volto dai tratti asiatici denotava una bellezza severa. Forse la donna era cinese. No, era una mezza cinese. C'era un dettaglio decisivo che stonava col resto. Erano gli occhi: chiari, acquamarina, assolutamente non asiatici. In sovrimpressione c'era scritto: Generale comandante JUDITH LI, US NAVY. «Dobbiamo considerare perse le acque della British Columbia?» stava chiedendo l'intervistatore. «Considerarle, come dire, restituite alla natura?» «Non credo che dobbiamo rendere qualcosa alla natura», rispose Judith Li. «Viviamo in armonia con la natura, anche se ci sono alcune cose da migliorare.» «Al momento, sembra che non ci sia molta armonia.» «Siamo in stretto contatto coi più prestigiosi scienziati e istituti di ricer-
ca. Senza dubbio è preoccupante il fatto che da un giorno all'altro gli animali abbiano modificato il loro comportamento, ma sarebbe comunque sbagliato drammatizzare la situazione e seminare il panico.» «Non crede a un fenomeno di massa?» «Speculare su quale tipo di fenomeno si tratti presuppone si abbia a che fare con un fenomeno. Al momento parlerei di un insieme di avvenimenti simili...» «Di cui l'opinione pubblica non sa quasi nulla», la interruppe l'altro. «Come mai?» «Io penso invece che sia informata.» Judith Li sorrise. «Per esempio in questo momento.» «Cosa che ci fa piacere e ci sorprende nel contempo. Negli ultimi giorni, infatti, tanto nel suo Paese quanto nel nostro l'informazione è stata a dir poco scarsa. È quasi impossibile avere l'opinione di un esperto, perché i vostri uffici bloccano ogni contatto.» «Eppure Greywolf le ha blaterate, le sue teorie. Non avete sentito?» ringhiò Anawak. C'era stato qualcuno che aveva chiesto un'intervista a John Ford? O a Ray Fenwick? Rod Palm era uno dei più importanti studiosi di orche, ma era stato forse sentito da qualche giornale o rete televisiva? Lui stesso, Leon Anawak, poco tempo prima aveva ricevuto il plauso di American Scientific per un articolo sull'intelligenza dei mammiferi marini, eppure non era comparso nessuno a mettergli un microfono sotto il naso. Solo in quel momento Anawak si rese conto dell'assurdità della situazione. In ogni altra circostanza - attentati terroristici, disastri aerei, catastrofi naturali - nel giro di ventiquattr'ore ogni esperto, o chiunque si spacciasse per tale, veniva trascinato davanti alle telecamere per dare spiegazioni all'opinione pubblica. Loro, invece, lavoravano in silenzio. Inoltre doveva prendere atto che, dopo l'intervista al giornale, non si era più sentito neppure Greywolf. Nei giorni precedenti, l'ambientalista radicale non si era lasciato sfuggire l'occasione per mettersi in mostra, ma ora non si parlava più dell''eroe di Tofino'». «Lei la vede in maniera un po' unilaterale», disse con tranquillità Judith Li. «La situazione è senza dubbio insolita. In pratica non esistono casi simili. Ovviamente controlliamo che nessun cosiddetto 'esperto' tiri conclusioni affrettate, ma soltanto perché non vogliamo doverlo smentire in seguito. A parte questo, al momento non vedo nessuna minaccia che non si possa contrastare.» «Vuol dire che avete la situazione sotto controllo?»
«Ci stiamo lavorando.» «Alcuni sostengono che avete fallito.» «Non so che cosa si aspettino da noi. Lo Stato non può mettere in campo contro le balene le navi militari e i Black Hawks.» «Ogni giorno sentiamo parlare di nuove vittime. E comunque finora il governo canadese si è limitato a dichiarare le acque della British Columbia zona di guerra...» «Solo per le navi piccole. Il normale traffico di cargo e traghetti non è stato modificato.» «Di recente, non ci sono forse state ripetute segnalazioni della scomparsa di navi?» «Ripeto: erano barche di pescatori, piccole imbarcazioni a motore», spiegò Judith Li con tono infinitamente paziente. «Riceviamo in continuazione notizie di navi scomparse. E le verifichiamo. Ovviamente usiamo tutti i mezzi a disposizione per cercare i superstiti. Vorrei però sottolineare che ogni incidente in mare aperto non ancora chiarito non deve essere messo subito in relazione con gli attacchi degli animali.» L'intervistatore si sistemò gli occhiali. «Mi corregga se sbaglio, ma a Vancouver non c'è stata anche l'avaria di un grande cargo della società armatrice Inglewood, nel corso della quale è affondato un rimorchiatore?» Judith Li congiunse la punta delle dita. «Intende la Barrier Queen?» L'uomo gettò un'occhiata agli appunti alla sua destra. «Esatto. Di quell'incidente non si sa quasi nulla.» «Naturalmente no», sbottò Anawak. Lui sapeva cos'era successo, però negli ultimi due giorni si era dimenticato di parlarne con Shoemaker. «La Barrier Queen ha avuto un guasto al timone», replicò Judith Li. «Un rimorchiatore è affondato durante una manovra sbagliata di aggancio.» «Non in seguito a un attacco? Le notizie che ho...» «Le sue notizie sono false.» Anawak s'irrigidì. Ma che diavolo diceva quella donna? «Potrebbe almeno spiegarci qualcosa sulla caduta di un idrovolante della Tofino Air, avvenuta due giorni fa?» «Sì, un idrovolante è caduto.» «Pare che sia entrato in collisione con una balena.» «Stiamo esaminando anche questo caso. Mi perdoni se non posso dare spiegazioni su ogni singolo avvenimento, ma il mio lavoro si svolge a un livello superiore...»
«Naturalmente.» L'uomo annuì. «Allora parliamo della sua posizione. In che cosa consiste il suo lavoro? Come possiamo immaginarlo? Al momento pare che lei non possa fare altro che reagire alla situazione.» Sul volto di Judith Li comparve una traccia di divertimento. «Se permette, è nella natura stessa dell'unità di crisi limitarsi a reagire. Noi partiamo da situazioni di crisi, le guidiamo e le risolviamo. Ci occupiamo di fornire velocemente una diagnosi, diamo interpretazioni complete e chiare, cerchiamo di prevenire e ci occupiamo delle evacuazioni. Ma, come ho già detto, qui siamo di fronte a qualcosa di completamente nuovo. Non possiamo offrire modelli di prevenzione e di diagnosi con la stessa efficienza con cui lo faremmo in uno scenario conosciuto. Tutto il resto è sotto controllo. In mare non c'è più una sola imbarcazione che possa correre pericoli a causa degli animali. I trasporti più importanti delle navi a rischio sono stati sostituiti col traffico aereo lungo la costa. Le grandi navi dispongono di una scorta militare, la sorveglianza aerea è totale e abbiamo fornito mezzi imponenti alla ricerca scientifica.» «Avete escluso la forza militare...» «Non esclusa, relativizzata.» «Gli ambientalisti ritengono che i cambiamenti del comportamento siano dovuti all'influenza della civiltà. Rumore, veleni, traffico marino...» «Siamo sulla strada giusta per scoprire se ciò corrisponde a verità.» «E a che punto siete?» «Lo ripeto: non faremo speculazioni finché non avremo risultati concreti, e non permetteremo a nessuno di farle. Allo stesso modo, non permetteremo ai pescatori irritati, alle industrie, agli armatori, alle associazioni che si occupano di whale watching o ai sostenitori della caccia alle balene di prendere in mano la situazione, provocando un'escalation. Se gli animali attaccano è perché sono costretti a farlo o perché sono malati. In entrambi i casi, non ha senso rispondere con la violenza. Dobbiamo eliminare le cause, così spariranno anche i sintomi. E fino ad allora dovremo evitare l'acqua.» «Grazie.» L'intervistatore si voltò verso la telecamera. «Era il generale comandante Judith Li della Marina degli Stati Uniti. Da alcuni giorni riveste la carica di responsabile militare dell'unità di crisi e della commissione d'inchiesta unificata degli Stati Uniti e del Canada. E ora le altre notizie del giorno.» Anawak abbassò il volume del televisore e chiamò Ford. «Chi diavolo è questa Judith Li?» chiese.
«Oh, non l'ho ancora conosciuta personalmente», rispose Ford. «È sempre in volo nella zona.» «Non sapevo che gli Stati Uniti e il Canada avessero unificato le unità di crisi.» «Non devi sapere tutto. Tu sei un biologo.» «Ti ha intervistato qualcuno sugli attacchi delle balene?» «Ci sono state delle proposte, ma poi si sono arenate. Hanno richiesto più volte la tua presenza in televisione.» «Ah, sì? E perché nessuno...» «Leon...» Ford sembrava ancora più stanco che al mattino. «Che ti devo dire? Judith Li ha bloccato tutto. Forse è meglio così. Se fai parte di una squadra sfatale o militare, ci si aspetta che tu tenga la bocca chiusa. Tutto quello che fai è vincolato al segreto.» «E perché noi possiamo scambiarci informazioni liberamente?» «Perché siamo sulla stessa barca.» «Ma quella soldatessa racconta stronzate! Come per la Barrier Queen, per esempio...» «Leon...» Ford sbadigliò. «Tu c'eri quand'è successo?» «Adesso non cominciare.» «Non lo faccio. Sono convinto almeno quanto lo sei tu che le cose si siano svolte esattamente come ha detto il tuo Mister Roberts, quello della Inglewood. Tuttavia rifletti: un'invasione di mitili, strani animaletti mai descritti dalla scienza, una disgustosa sostanza viscida, una balena che salta su una gomena... Questo è ciò che esce dal tuo caso Barrier Queen. Ah, già, e poi non bisogna dimenticare che, nella darsena, qualcosa ti ha colpito in faccia e se l'è data a gambe e che Ray Fenwick e Sue Oliviera hanno trovato della sostanza gelatinosa nel cervello delle balene. Vorresti rendere tutto ciò di dominio pubblico?» Anawak rimase in silenzio. «Perché la Inglewood mi ha tagliato fuori?» chiese infine. «Non ne ho idea.» «Qualcosa dovresti saperlo. Tu sei il responsabile della raccolta dati.» «Certo! E per questo sul mio tavolo sono impilati quintali di dossier. Accidenti, Leon, non lo so! Ci tengono a stecchetto.» «Anche la Inglewood e l'unità di crisi sono sulla stessa barca.» «Eccome. Potremo discuterne per ore, ma vorrei finire quei maledetti video e ci vorrà molto più tempo di quanto credessi. Uno dei nostri è ha letto col mal di pancia. E tanti saluti. Non potremo vederci prima di stanot-
te.» «Dannazione», sibilò Anawak. «Stammi bene. Ti chiamo io, okay? Oppure chiamo Alicia nel caso tu voglia fare un pisolino...» «Sono raggiungibile.» «A proposito, Alicia sta migliorando, non trovi?» Certo che stava migliorando. S'impegnava molto più di quanto si potesse sperare. «Sì», borbottò Anawak. «Non è male. Posso fare qualcosa?» «Riflettere. Potresti andare a fare una passeggiata o interpellare qualche capo tribù nootka.» Ford sorrise controvoglia. «Di certo gli indiani sanno qualcosa. Sarebbe fantastico se improvvisamente ti raccontassero che tutto questo è già successo millenni fa.» Buffone, pensò Anawak. Terminata la conversazione, Anawak fissò il televisore acceso. Dopo qualche minuto, iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza. Il ginocchio gli doleva, ma lui non si fermò, come se volesse punirsi per non essere perfettamente in forma. Continuando così, sarebbe caduto in paranoia. Già era tormentato dal sospetto che qualcuno lo volesse tagliare fuori. Nessuno lo chiamava e, se non era lui a chiedere, nessuno gli diceva niente. Lo trattavano come un invalido. E poi non riusciva a camminare con scioltezza. Va bene, nell'ultimo periodo erano successe tante cose, forse un po' troppe. Prima era stato scaraventato fuori da una barca, poi da un idrovolante che stava precipitando, okay, okay... Si sbagliava. Si fermò davanti alle balene di plastica. Nessuno stava cercando di tagliarlo fuori. Nessuno lo trattava come un invalido. Ford non gli poteva mostrare nulla finché non avesse finito di esaminare il materiale, e non voleva caricarlo di lavoro, chiamandolo all'acquario per dare una mano. Alicia stava cercando di aiutarlo. Erano premurosi, nulla di più e nulla di meno. Era lui che sì considerava un invalido e non riusciva a sopportarsi. Che doveva fare? Quando continui a girare in cerchio che cosa puoi fare? pensò. Rompere il cerchio. Fare qualcosa che ti rimetta in sesto. Qualcosa che non devi pretendere dagli altri, ma da te stesso. Fa' qualcosa d'insolito. Cosa poteva fare di straordinario? Che cosa aveva detto Ford? Di rivolgersi a un capo tribù nootka.
Di certo gli indiani sanno qualcosa. Sapevano davvero qualcosa? Gli indiani del Canada si erano trasmessi le loro conoscenze di generazione in generazione, finché l'Indian Act del 1885 non aveva messo il bavaglio alla tradizione orale. Sulle prime, li avevano privati della loro identità, spingendoli a lasciare la loro patria e a mandare i figli alle Residential School: in tal modo - così si diceva -, si sarebbero integrati nella comunità dei bianchi. L'Indian Act si era rivelato un'arma a doppio taglio: da un lato, tendeva generosamente una mano per favorire l'integrazione degli indiani in un mondo straniero, dall'altro, ignorava il fatto che gli indiani erano già perfettamente integrati nella loro società, una società che, però, non andava a genio a chi aveva stilato il trattato. L'incubo dell'Indian Act produceva ancora i suoi effetti, ma da alcuni decenni, gli indiani avevano cominciato a riprendere il controllo sulla loro vita. Molti riannodavano il filo della tradizione nel punto in cui era stato tagliato, quasi cento anni prima. Il governo canadese si adoperava perché fosse corrisposto loro un risarcimento, ma non accennava neppure al recupero della loro cultura. Erano sempre meno gli indiani che conoscevano le antiche tradizioni. A chi poteva chiedere? Agli anziani. Zoppicando, Anawak raggiunse la veranda e guardò la strada principale. Praticamente non aveva contatti coi nootka o, meglio, coi nuu-chahnulth, come essi stessi si chiamavano, cioè «Quelli che vivono lungo le montagne». Oltre ai tsimshian, ai gitksan, agli skeena, agli haida, ai kwakiutl e ai coast salish, i nootka erano uno dei clan principali che abitavano la costa occidentale della British Columbia. Per chi fosse digiuno dell'argomento era pressoché impossibile tracciare le giuste relazioni tra i diversi clan, tribù e gruppi linguistici. Chi provava ad addentrarsi nella cosiddetta cultura indiana, spesso falliva già al primo tentativo, ancor prima d'imbattersi nel regno dei dialetti regionali e dei sistemi di vita che differivano da una baia all'altra. Il consiglio di Ford poteva essere preso soltanto come una battuta, una bella idea per un film d'azione in cui alcune leggende dimenticate conducono alla soluzione del mistero. Il problema era che gli indiani non erano un unico popolo, ma tanti popoli. Ed era vero che, per conoscere le storie riguardanti il Pacifico al largo di Vancouver Island, la cosa migliore era chiedere ai nootka, gli indiani delle isole occidentali. Ma si correva il rischio di perdersi tra i miti delle diverse tribù di cui i nootka erano com-
posti, ognuna delle quali abitava il proprio territorio. La tradizione dei nootka era strettamente legata al paesaggio di Vancouver Island e le mitologie erano profondamente radicate nella natura, quindi era possibile trovare un denominatore comune, ma il resto era spaventosamente ingarbugliato. In generale, tutti i nookta raccontavano una storia della creazione in cui il ruolo principale era svolto dal Transformer, il «trasformatore». Nella tribù dei dididath, il lupo aveva una grande importanza, ma non mancavano le storie sulle orche. Ma tentare di comprendere le orche tralasciando i lupi sarebbe stato il primo errore di una lunga serie, perché, nel ciclo del Transformer, uomini e animali erano legati spiritualmente. Non solo ogni creatura aveva la possibilità di trasformarsi in un altro essere, ma alcune mantenevano anche una doppia natura: se un lupo entrava in acqua si trasformava in un'orca e se un'orca andava sulla terra si trasformava in lupo. Orche e lupi avevano la stessa sostanza, e raccontare storie sulle orche senza pensare ai lupi era, per i nootka, una cosa priva di senso. Per tradizione, i nootka erano cacciatori di balene, quindi conoscevano innumerevoli storie su quegli animali. Ma nessuna delle tribù raccontava la medesima storia, e quelle identiche erano narrate in modo diverso, a seconda del luogo da cui provenivano. In linea di massima, anche i makah appartenevano ai nootka... o forse no, come sostenevano alcuni. Di certo entrambe le tribù parlavano wakashan. I makah e gli eschimesi erano le uniche tribù del Nordamerica ad avere il diritto di cacciare le balene, un diritto sancito da un trattato. Ed era in corso un acceso dibattito perché, dopo quasi un secolo senza cacciare, quelle tribù volevano riprendere la tradizione. I makah non vivevano a Vancouver Island, ma sulla punta nordoccidentale dello Stato di Washington. Nei loro miti c'erano diverse storie sulle balene, miti che si ritrovavano anche presso i nootka, che vivevano sulle isole. Invece, per quanto riguardava il comportamento delle balene, il loro modo di pensare, di sentire e le loro intenzioni, ciascuno aveva il proprio punto di vista. Non c'era da stupirsi, visto che si trattava di leggende in merito a un essere che non veniva chiamato balena, bensì iihtuup, «grande mistero». Fa' qualcosa di straordinario. Senza dubbio chiedere consiglio agli indiani era una cosa straordinaria. Se la cosa straordinaria avesse portato risultati, si sarebbe visto soltanto in seguito. Anawak fece un sorriso amaro. Proprio lui... Viveva da vent'anni a Vancouver, eppure sapeva poco degli indiani loca-
li, perché in fondo non ne voleva sapere nulla. Solo di tanto in tanto sentiva una nostalgia indefinita per il suo mondo. Quella sensazione gli era penosa, così la combatteva strenuamente, per impedirle di crescere. Alicia lo aveva preso per un makah, ma lui, tutto sommato, si sentiva assolutamente inadatto a immergersi nei miti indigeni. E Greywolf lo era ancora meno. Greywolf è meschino, pensò con rancore. Oggi nessun indiano si sognerebbe di darsi un cognome così - «Lupo Grigio» - che sembra uscito dal Far West. I capi delle tribù si chiamano «Norman George» o «Walter Michael» o «George Frank». Nessuno si chiama «John-Due-Piume» o «Lawrence-Balena-Che-Nuota». Solo uno sbruffone senza cervello come Jack O'Bannon poteva far ricorso a un nome da libro per bambini. Proprio Jack, che si atteggia da indiano, è troppo stupido per essere definito indiano. Greywolf era un ignorante! E lui? Così non arriverò a niente, pensò, contrariato. Io ho l'aria di un indiano e cerco di allontanare da me tutto ciò che è indiano. Lui non lo è e cerca con tutte le forze di esserlo. Siamo due ignoranti. Siamo entrambi ridicoli, ognuno a proprio modo. Due falliti. Quel maledetto ginocchio! Lo rendeva pensieroso. E lui non voleva pensare! Non aveva bisogno che un'Alicia Delaware, con quei suoi modi da prima della classe, lo spingesse indietro, verso il mondo da cui era arrivato. A chi poteva chiedere? A George Frank! Era uno dei capi che conosceva. Non viveva fuori dal mondo. A eccezione dei rapporti di lavoro e occasionalmente di una birra bevuta in compagnia, i bianchi e gli indiani non legavano particolarmente, ma non avevano neppure nulla gli uni contro gli altri. Era una coesistenza pacifica. Tuttavia, di tanto in tanto, nascevano delle amicizie. George Frank era meno di un amico, ma era pur sempre una conoscenza. Inoltre era un tipo simpatico, nonché taayii hawil dei tla-o-qui-aht, una tribù dei nootka della zona intorno a Wickaninnish. Se un hawil era un capo - un capo tribù -, il taayii hawil era addirittura qualcosa di più, un capo superiore, per così dire. Tra i taayii hawiih era un po' come nella famiglia reale inglese, giacché il loro rango si trasmetteva per linea ereditaria. La vita quotidiana della maggior parte delle tribù era retta da capi eletti, però i capi ereditari gode-
vano comunque della massima considerazione. Anawak rifletté. Nel nord dell'isola i capi superiori erano chiamati taayii hawiih; nel sud, invece, taayii chaachaabat. Non voleva rendersi ridicolo. Probabilmente Gorge Frank era un taayii chaachaabat, ma come diavolo faceva a esserne certo? Era meglio evitare le espressioni indiane. Poteva far visita a George Frank. Non viveva lontano: era poco distante dall'Wickaninnish Inn. Più ci pensava, più l'idea gli piaceva. Invece di aspettare la telefonata di Ford, poteva rompere il cerchio e vedere dove sarebbe arrivato. Sfogliò la guida alla ricerca del numero di Frank e lo chiamò. Il taayii hawil era a casa. Anawak gli propose di fare una passeggiata lungo il fiume. «Allora sei venuto per sapere qualcosa delle balene», disse Frank quando, una mezz'ora dopo, lui e Anawak si avviarono sotto i giganteschi alberi frondosi. Anawak annuì. Il capo si grattò la fronte. Era un uomo piccolo, col volto pieno di rughe, gli occhi neri e un'espressione gentile. I capelli erano scuri come quelli di Anawak. Sotto la giacca a vento portava una T-shirt con la scritta SALMON COMING HOME. «Voglio sperare che non ti aspetti da me qualche perla di saggezza indiana.» «No.» Anawak era felice di quella risposta. «L'idea è stata di John Ford.» «Quale?» sorrise Frank. «Il regista o il direttore dell'acquario di Vancouver?» «Il regista credo sia morto. Vagliamo tutte le possibilità, magari nella storia sono già accaduti episodi simili.» Frank indicò il fiume sulla cui riva stavano passeggiando. L'acqua scorreva, gorgogliando e trascinando rami e foglie. Il fiume nasceva dalle alte montagne che facevano da sfondo al paesaggio ed era in parte insabbiato. «La tua risposta è là», disse Frank. «Nel fiume?» L'altro sorrise. «Hishuk ish ts'awalk.» «Okay. Allora passiamo alle perle di saggezza indiana» «Una sola. Pensavo la conoscessi.» «Non conosco la vostra lingua. Solo qualche parola.»
Frank lo osservò per qualche secondo. «Va bene, è il pensiero centrale di quasi tutte le culture indiane. I nootka lo reclamano per sé, ma credo che, in altri luoghi, si dica la stessa cosa con parole diverse: 'Tutto è uno'. Quello che succede al fiume succede agli uomini, agli animali, al mare. Quello che succede a uno succede a tutti.» «Vero. Alcuni la chiamano 'ecologia'.» Frank si chinò, tirando a riva un ramo che si era impigliato nel groviglio di radici lungo il fiume. «Che ti devo dire, Leon? Non sappiamo nulla che non sappia anche tu. Posso tendere le orecchie, chiamare alcune persone... Ci sono molti canti e leggende. Ma non conosco nessuno che ci possa aiutare. Voglio dire, in tutte le nostre tradizioni troverai esattamente quello che cerchi, ma il problema è proprio quello.» «Non capisco.» «Certo, noi vediamo gli animali in maniera un po' diversa. I nootka non hanno mai preso la vita di una balena. È la balena che ha regalato la propria vita, con un atto consapevole, capisci? Nella fede dei nootka, tutta la natura è consapevole di se stessa, una grande coscienza condivisa.» Stava avanzando lungo un sentiero fangoso. «Guarda qui, che vergogna. La foresta è diboscata. Pioggia, sole e vento erodono il terreno e i fiumi si trasformano in fogne. Guarda qui, se vuoi sapere che cosa succede alle balene. Hishuk ish ts'awalk.» «Hmm. Ti ho raccontato in che cosa consiste il mio lavoro?» «Tu cerchi la coscienza, credo.» «L'autocoscienza.» «Sì, mi ricordo. Me l'hai raccontato nel corso di una bella serata. È stato l'anno scorso. Io ho bevuto birra e tu acqua. Tu bevi solo acqua, vero?» «Non mi piace l'alcol.» «Hai mai bevuto?» «Praticamente no.» Frank si fermò. «Già, l'alcol. Tu sei un buon indiano, Leon. Bevi acqua e vieni da me perché pensi che noi siamo in possesso di qualche conoscenza segreta.» Sospirò. «Quando, quando, le persone la smetteranno di valutarsi in base a cliché? Gli indiani avevano un problema con l'alcol, e alcuni ce l'hanno ancora, ma ci sono anche quelli che di tanto in tanto bevono volentieri un goccio. Oggi, se un bianco vede un indiano con una birra, dice subito: 'Che tragedia terribile, abbiamo portato quella gente ad attaccarsi alla bottiglia...' Noi siamo o i poveri ingannati o i custodi di una saggezza altissima. E tu, Leon, che cosa sei? Un cristiano?»
Anawak non era particolarmente sorpreso. Le poche volte che si era intrattenuto con George Frank, la conversazione era andata sempre nello stesso modo. Il taayii hawil conversava apparentemente senza un filo logico, saltava come uno scoiattolo da un argomento all'altro. «Non appartengo a nessuna Chiesa», disse Anawak. «La sai una cosa? Ho provato a leggere la Bibbia. Una saggezza altissima. Se chiedi a un cristiano perché c'è un fuoco nella foresta e lui ti risponde che Dio si manifesta nelle fiamme, allora farà riferimento alle antiche tradizioni, dove effettivamente Dio si manifesta in un roveto ardente. Secondo te, è possibile che un cristiano spieghi in questo modo l'incendio di una foresta?» «Certo che no.» «Tuttavia per lui la storia del roveto ardente è molto importante, se è un vero credente. Anche gli indiani credono alle loro tradizioni, ma sanno esattamente quale rapporto esse hanno con la realtà. Non è importante se una cosa è effettivamente come viene raccontata, quello che conta è l'idea. Nelle nostre leggende, troverai tutto e non troverai niente. Non puoi prenderle alla lettera, devi coglierne il senso.» «Lo so, George. Ho soltanto la sensazione che siamo bloccati. Ci spacchiamo la testa, ma non riusciamo a capire perché gli animali sono impazziti.» «E credi che la vostra scienza non possa andare oltre?» «In un certo senso, sì.» Frank scosse la testa. «Non è così. La scienza è una cosa meravigliosa, permette agli uomini di fare cose incredibili. Il problema è il punto di vista. Cosa guardi quando applichi il tuo sapere? Guardi la balena che è cambiata. Non riconosci più la tua amica. Come mai? È diventata una nemica. Che cosa l'ha spinta? Le hai fatto qualcosa? O l'hai fatto al suo mondo? Ma in quale mondo vive una balena? Tu cerchi un danno che le è stato arrecato e ne trovi tanti: i diboscamenti demenziali, le acque inquinate, il turismo spinto all'eccesso, l'avvelenamento del cibo degli animali e lo scompiglio prodotto nel loro mondo dal rumore che noi facciamo. Abbiamo preso possesso dei luoghi in cui fanno crescere i loro piccoli. Nella Bassa California non è stato costruito un impianto per ottenere il sale?» Anawak annuì, cupo. Nel 1993, l'UNESCO aveva dichiarato la laguna di San Ignacio patrimonio naturale dell'umanità. Era l'ultimo luogo ancora intatto del Pacifico in cui si riproducevano le balene grigie e altre specie di animali e vegetali sull'orlo dell'estinzione. A dispetto di tutto ciò, la Mitsu-
bishi aveva costruito un impianto di desalinizzazione. In futuro avrebbe pompato dalla laguna ventimila litri d'acqua al secondo, che sarebbero rifluiti in piscine di essiccazione grandi più di cento miglia quadrate. L'acqua sarebbe rientrata nella laguna come acqua di scarico. Nessuno sapeva quale effetto avrebbe avuto sulle balene. Moltissimi ricercatori, attivisti e premi Nobel avevano protestato contro l'impianto, che minacciava di diventare un pericoloso precedente. «Vedi, questo è il mondo delle balene come tu lo conosci», continuò Frank. «Esse ci vivono dentro, ma questo mondo è solo una catena di circostanze con cui le balene possono sentirsi a proprio agio oppure no. Forse il problema non sono le balene, Leon. Forse le balene sono soltanto la parte del problema che ci è concesso vedere.» Acquario di Vancouver Mentre Anawak ascoltava le parole del taayii hawil, John Ford ormai ci vedeva doppio. Doveva controllare due monitor, e lo stava facendo da ore. Il primo mostrava le immagini del nastro magnetico su cui erano raccolte le riprese effettuate dall'URA di Lucy e delle altre balene grigie; il secondo mostrava uno spazio virtuale, una struttura di coordinate a linee in cui brillavano dozzine di luci verdi. Indicavano il banco e cambiavano continuamente posizione. Immediatamente dopo il suo ammaraggio, il robot era riuscito a stabilire un rapporto tra il disegno delle pinne caudali di Lucy e gli specifici suoni che la balena emetteva, per poter localizzare l'animale e determinare la sua posizione, che ora appariva come un punto nello spazio delle coordinate. Non avrebbe perso Lucy neppure nelle tenebre più profonde. Sul secondo monitor scorrevano anche i dati della sonda ancora infilata nel grasso della balena: frequenza cardiaca, profondità d'immersione, dati di posizione, temperatura e misura della pressione. La sonda e l'URA offrivano un quadro completo di quello che era successo a Lucy nelle ultime ventiquattr'ore. Ventiquattr'ore nella vita di una balena impazzita. All'interpretazione dei dati, nel laboratorio, lavoravano quattro persone. Ford e due aiutanti erano seduti nella penombra, i visi illuminati dai monitor. Il quarto posto era vuoto. Un innocuo virus gastrico aveva ridotto il team e l'aveva costretto a un turno di notte. Senza togliere gli occhi dal monitor, Ford si allungò di lato e s'infilò in bocca una manciata di patate fritte ormai fredde, prendendole da una con-
tenitore di cartone. Lucy non sembrava pazza. Nelle ore precedenti, aveva fatto quello che di solito facevano le balene quando vagavano nell'oceano. Aveva mangiato in compagnia di una dozzina di suoi simili adulti e di due ancora giovani. Ogni volta che, tra cortine di alghe, andava sul fondo e smuoveva il limo sabbioso per filtrare vermi e granchi sollevava gigantesche masse di fango. Si era girata su un fianco e, con la sottile testa arcuata, aveva scavato veri e propri solchi. All'inizio, Ford era rimasto affascinato a guardare il monitor, benché non fosse la prima volta che vedeva riprese di balene grigie intente a mangiare. Tuttavia l'URA forniva immagini totalmente nuove, perché seguiva le balene come se facesse parte del branco. Molte balene si riconoscevano chiaramente. Per vedere un capodoglio mangiare era necessario scendere negli abissi, ma le balene grigie preferivano le acque più basse. Così, ormai da ore, Ford osservava quelle immagini, in cui si alternavano continuamente luce e semioscurità. Per qualche minuto, Lucy riemerse in superficie, spinse il fango attraverso i fanoni, aspirò l'aria a pieni polmoni, la buttò fuori e s'immerse. Era sempre stata abbastanza vicina alla riva, tanto che la maggior parte delle riprese non era stata fatta a più di trenta metri di profondità. Ford guardava i corpi marmorizzati e coperti di cicatrici strisciare tra i sedimenti. L'acqua s'intorbidiva. Il robot non aveva difficoltà a seguire gli animali, perché essi rimanevano in zona. Cambiavano continuamente direzione, qualche metro da una parte, un breve tratto dall'altra, emergevano, s'immergevano, mangiavano, emergevano, s'immergevano. Ford diceva spesso che Vancouver Island era un autogrill in cui le balene gironzolavano pigramente. E in effetti la definizione era azzeccata. Emergere, immergersi, mangiare. Ford cominciava ad annoiarsi. Solo una volta comparvero in lontananza le figure bianche e nere delle orche, ma sparirono subito. In genere quegli incontri si svolgevano pacificamente, sebbene le orche fossero tra i pochi nemici pericolosi delle grandi balene. Le orche non si fermavano neppure davanti alle balenottere azzurre. Quando attaccavano, lo facevano in gruppo e con estrema brutalità. Mangiavano la lingua e le labbra della vittima, poi lasciavano sprofondare lentamente sul fondo quel colosso mutilato e moribondo. Mangiare, emergere, immergersi. A un certo punto, Lucy si addormentò o perlomeno così parve a Ford.
L'ambiente diventava sempre più scuro. Stava calando la sera. Restava solo un'ombra, appena percepibile sullo sfondo: il corpo di Lucy sospeso in acqua, che sprofondava lentamente e altrettanto lentamente risaliva. Erano molti i mammiferi marini che riposavano in quel modo. Nel giro di qualche minuto, arrivavano semiaddormentati in superficie, respiravano, sprofondavano ancora in acqua e si addormentavano. Non dormivano mai più di cinque o sei minuti, tuttavia riuscivano a sommare quelle brevi fasi, ottenendo un sonno ristoratore. Infine i monitor diventarono neri. Solo lo spazio delle coordinate mostrava la distribuzione del branco. Notte. Continuare a guardare senza vedere nulla era di una noia mortale. Ogni tanto lampeggiava qualcosa, una medusa o una seppia. Per il resto, c'era solo il buio assoluto. Sul secondo monitor continuavano a scorrere i dati con le informazioni sul metabolismo di Lucy e sull'ambiente circostante. I punti verdi si muovevano pigramente nello spazio virtuale. Non tutti gli animali del branco dormivano di notte. Le balene si riposavano in momenti diversi. I dati rivelavano variazioni di profondità, quindi anche allora Lucy e le altre mantenevano il comportamento tipico della fase di alimentazione. A seconda della profondità, la temperatura oscillava di mezzo grado. Non di più. Il cuore della balena grigia batteva in continuazione, a volte più lento, a volte più veloce. Gli idrofoni dell'URA coglievano tutti i possibili rumori sottomarini: fruscii, gorgoglii, richiami delle orche e canti delle megattere, ruggiti e ringhi, il lontano rombo dell'elica di una nave. Ford se ne stava seduto davanti a un monitor nero e sbadigliava sino a far schioccare le mascelle. Raccolse le ultime patate fritte. Le sue dita unte si bloccarono. Lui lasciò cadere le patate fritte e socchiuse le palpebre. Il monitor rivelava una variazione dei dati. Fino a quel momento, la profondità aveva oscillato tra zero e trenta metri. Ora erano quaranta... cinquanta. Lucy stava cambiando posizione. Nuotava verso il mare aperto e intanto s'inabissava. Le altre balene la seguivano. Avevano smesso di ciondolare: ora si muovevano con la velocità della migrazione. Dove vai così di fretta? pensò Ford. Il battito cardiaco di Lucy rallentò. S'immergeva rapidamente. A quel punto, i suoi polmoni contenevano soltanto iì dieci per cento delle riserve
di ossigeno, forse meno. Il resto era accumulato nel sangue e nei muscoli. Una sistemazione perfetta per grandi profondità. Lucy era sotto i cento metri. Fino a quel momento, la balena non aveva sganciato dal sistema circolatorio nessuna delle parti vitali del corpo. L'eccedenza di pressione sanguigna veniva stipata in una rete di vene estremamente elastiche; muscoli e metabolismo funzionavano senza ossigeno. Nel corso di milioni di anni si era sviluppato l'effetto combinato di una serie di processi sorprendenti, consentendo a quelli che una volta erano animali terrestri di muoversi senza problemi tra la superficie e centinaia o, addirittura, migliaia di metri di profondità, mentre la maggior parte dei pesci rischiava la vita già con una differenza di cento metri. Lucy continuava a scendere - centocinquanta metri, duecento - e intanto si allontanava dalla terraferma. «Bill? Jackie?» disse Ford, senza voltarsi verso i due assistenti. «Venite a vedere.» I due si raccolsero intorno ai monitor. «Scende.» «Sì e molto in fretta. È già a quasi due miglia dalla terraferma. Tutto il branco va verso il mare aperto.» «Forse si stanno solo spostando un po' più in là.» «Ma perché a quella profondità?» «Perché di notte il plancton affonda, non è così? Anche il krill. Tutte le prelibatezze si spostano più in basso.» «No.» Ford scosse la testa. «Avrebbe senso per altre balene, non per quelle che arano il fondale, non c'è motivo...» «Guardate! Trecento metri.» Ford si appoggiò allo schienale. Le balene grigie non erano particolarmente veloci. Potevano fare un breve scatto, ma al massimo raggiungevano i dieci chilometri all'ora e solo nelle zone più superficiali. Se non dovevano fuggire, in genere si trascinavano pigramente. Da che cosa erano spinte? Era senza dubbio un comportamento anomalo. Le balene grigie si nutrivano quasi esclusivamente degli animali presenti sul fondale. Raramente si spostavano a più di un miglio dalla costa, e in genere restavano molto più vicine. Ford non sapeva che cosa avrebbero trovato a trecento metri di profondità. Verosimilmente qualcosa di buono. Ma era strano che le. balene grigie s'immergessero oltre i centoventi metri. Gli scienziati fissavano i monitor.
Improvvisamente qualcosa luccicò nella parte inferiore del reticolato virtuale. Un lampo verde che s'infiammò per un attimo e poi sparì. Uno spettrogramma! La rappresentazione grafica di un'onda sonora. Poi un'altra. «Che cos'è?» «Rumori! Un segnale particolarmente forte.» Ford arrestò la rappresentazione in tempo reale e fece ripartire il programma. Osservarono la sequenza una seconda volta. «È un segnale fortissimo», esclamò. «Come un'esplosione.» «Non può essere stata un'esplosione, l'avremmo sentita. È un infrasuono.» «Lo so anch'io. Mi chiedo solo chi...» «Là! Eccola ancora!» I punti verdi nella griglia delle coordinate si erano fermati. La potente emissione si ripeté una terza volta, poi sparì. «Si sono fermate.» «A che profondità sono?» «Trecentosessanta metri.» «Incredibile. Che ci fanno là sotto?» Lo sguardo di Ford si spostò sul monitor di sinistra, dove continuavano le riprese video dell'URA. In teoria, avrebbe dovuto essere tutto nero. La bocca dello scienziato si aprì e rimase spalancata. Poi lui sussurrò: «Guardate là». Il monitor non era più nero. Vancouver Island Anawak trovava la compagnia di Frank molto rilassante. Avevano bighellonato lungo la spiaggia davanti al Wickaninnish Inn e parlato dei progetti ambientali in cui era impegnato Frank. Il taayii hawil, nato da una famiglia di pescatori, era proprietario di un ristorante. Ma coi tla-o-qui-hat aveva dato vita a un'iniziativa per ridurre gli effetti del diboscamento. «Salmon Coming Home» era un tentativo di riportare alle condizioni originarie il complesso ecosistema del Clayoquot Sound, in buona parte distrutto dalle industrie del legno. Nessuno tra i tla-o-qui-hat s'illudeva di poter riportare in vita la foresta pluviale, ma c'era comunque molto da fare. A causa del diboscamento, il sole faceva seccare il terreno, che veniva spazzato via dalle piogge, finiva nel fiume e nei laghi e li inta-
sava, insieme con le pietre e coi resti dei giganteschi alberi abbattuti. I salmoni sparivano perché non trovavano più luoghi in cui deporre le uova e la loro scomparsa toglieva il cibo agli altri animali. L'associazione Salmon Coming Home addestrava volontari per pulire i fiumi e riaprirne il corso. Lungo i corsi d'acqua si costruivano argini di protezione, che venivano piantumati con ontani a crescita rapida. Gli attivisti cercavano faticosamente di ricostruire almeno in parte l'equilibrio tra foresta, animali e uomo. Era un impegno assiduo, non confortato dalla speranza di un rapido successo. «Lo sai che molti vi guardano con ostilità perché volete riprendere la caccia alle balene?» disse Anawak dopo un po'. «E tu?» chiese Frank. «Cosa ne pensi?» «Che non è molto saggio.» Frank annuì, pensieroso. «Forse hai ragione. Le balene sono protette, perché cacciarle? Molti di noi sono contrari. Non sappiamo più come si caccia una balena. Non conosciamo quasi più il rito del uusimich, la preparazione spirituale alla caccia. D'altra parte, sono quasi cento anni che non cacciamo balene e oggi chiediamo di catturare cinque o sei animali. È una quota irrilevante. Noi siamo pochi. I nostri antenati hanno vissuto grazie alle balene. I cacciatori di balene si sottoponevano a rituali che duravano mesi o addirittura anni. Prima di andare a caccia, purificavano lo spirito per essere degni del dono della vita che la balena faceva loro. Non arpionavano la balena migliore, ma quella che era loro destinata, quella cui loro erano destinati da una forza misteriosa, da una visione in cui la balena e il cacciatore si riconoscevano. Capisci? È questa spiritualità che vogliamo conservare.» «D'altra parte, una balena porta un bel mucchio di denaro», borbottò Anawak. «Il direttore della pesca dei makah ha stimato il valore di una balena grigia in mezzo milione di dollari americani. Ha detto schiettamente che oltreoceano la carne e l'olio sono molto richiesti, e naturalmente si riferiva all'Asia. Poi ha sottolineato i problemi economici dei makah e l'elevata disoccupazione. Non mi pare sia stato molto saggio, anzi direi addirittura che è stato molto gretto. Nelle sue parole non c'era traccia di spiritualità.» «È vero anche questo, Leon. Puoi pensare che i makah vogliano tornare a cacciare per vero amore della tradizione o che lo vogliano fare per avidità di denaro, ma rimane certo che non hanno mai fatto valere un loro diritto e che in questi decenni sono stati i bianchi a portare i cetacei sull'orlo del-
l'estinzione. E non mi pare l'abbiano fatto per motivi spirituali, vero? I bianchi sono stati i primi a considerare la vita alla stregua di merce. È un'idea da cui non eravamo mai stati neppure sfiorati. E ora, dopo che tutti si sono serviti, uno di noi osa parlare di denaro, e subito veniamo attaccati come se fossimo noi a minacciare la sopravvivenza della natura. Non te ne sei accorto? Gli uomini primitivi hanno sempre vissuto con parsimonia di ciò che poi i bianchi hanno distrutto. Prima distruggono, poi improvvisamente si svegliano e vogliono proteggere l'ambiente. Si atteggiano a salvatori, ma in realtà proteggono l'ambiente soltanto da chi non lo minaccia. La responsabilità dello sterminio delle balene è di Paesi come il Giappone e la Norvegia, ma loro possono continuare a lanciare gli arpioni. Noi non abbiamo estinto neanche una specie, eppure veniamo puniti. È sempre stato così. È così in tutto il mondo.» Anawak rimase in silenzio. «Siamo un popolo disorientato», riprese Frank. «Molte cose sono migliorate, tuttavia penso che siamo prigionieri di un conflitto che difficilmente riusciremo a risolvere da soli. Ti ho raccontato che, dopo ogni battuta di pesca, dopo ogni affare che chiudo con successo, dopo ogni festa, metto da parte qualcosa per il corvo? Il corvo è sempre affamato.» «No, non me l'avevi detto.» «Lo sapevi?» «No.» «Il corvo non rientra nei miti delle nostre isole, ma in quelli degli haida e dei tlingit. Da noi trovi le storie di Kánekelak, il Transformer. Però ci è caro anche il corvo. I tlingit dicono che parla per i poveri, come ha fatto Gesù Cristo. Allora metto da parte un pezzetto di carne o di pesce per il mai sazio corvo, che un tempo era un figlio dell'uomo-animale, Ashamed. Suo padre l'aveva nascosto nella pelle di corvo e l'aveva chiamato Wigyét. Wigyét fu mandato in giro per il mondo dopo che aveva divorato il suo villaggio. Per il viaggio ricevette una pietra su cui potersi riposare, e la pietra è diventata la Terra in cui viviamo. Grazie a un trucco, Wigyét rubò la luce del sole e la portò sulla Terra. Io do al corvo ciò che è del corvo. D'altra parte, so anche che il corvo è il risultato di un processo evolutivo alla cui origine ci sono aminoacidi, proteine e organismi unicellulari. Amo i nostri miti della creazione, ma guardo anche i notiziari televisivi, leggo e so che cos'è il Big Bang. Anche i cristiani lo sanno, tuttavia nelle loro Chiese raccontano dei sette giorni della creazione e dei dieci comandamenti. Ma loro si sono permessi il lusso di cambiare mentalità lentamente, e di trovare nel
corso dei secoli una via per coniugare mitologia e scienza moderna. Invece da noi si è preteso che lo facessimo in fretta. Siamo stati gettati in un mondo che non era il nostro e che non potrà mai essere il nostro. Ora, ritorniamo nel nostro mondo e ci accorgiamo che ci è estraneo. Questa è la maledizione dello sradicamento, Leon. Alla fine, non ti senti più a casa da nessuna parte, né nel mondo straniero né nella tua patria. Gli indiani sono stati sradicati. Ora i bianchi fanno del loro meglio per rimettere le cose a posto... Ma come possono aiutarci visto che si sono sradicati essi stessi? Distruggono il mondo che li ha generati. Anche loro hanno perso la patria. In un modo o nell'altro, è così per tutti.» Frank guardò a lungo Anawak. Poi sorrise, un sorriso segnato da decine di rughe. «È stata davvero una bella e patetica lezione indiana, eh, amico mio? Vieni, andiamo a bere qualcosa. Ah, già, che stupido... Tu non bevi.» 1° maggio Trondheim, Norvegia Prima dell'incontro, avevano appuntamento nella caffetteria, ma Tina non arrivava. Johanson bevve un caffè e guardò le lancette dell'orologio, dietro il bancone, che sembravano strisciare sul quadrante. Strisciavano anche i vermi, altrettanto stoici e imperterriti, senza tregua. Ogni secondo che passava, trivellavano il ghiaccio sempre più in profondità. E, fino a quel momento, non c'era modo di fermarli. Johanson rabbrividì. Il tempo non passa, fugge via, gli sussurrò una voce. L'inizio di qualcosa. Un piano. Tutto è pilotato... Che idea assurda. Un piano di chi? Che cos'hanno pianificato le cavallette quando si sono divorate il raccolto di un'estate? Nulla. Avevano fame e sono arrivate. Che cosa progettano i vermi, che cosa progettano le alghe o le meduse? Che cosa progetta la Statoil? Skaugen era ritornato in volo da Stavanger e voleva un rapporto dettagliato. A quanto pareva, era riuscito a fare un passo avanti e adesso era ansioso di confrontare i risultati. Era stata Tina ad avere l'idea di parlare prima a quattr'occhi con Johanson, per concordare una posizione comune. Ma ora lui era lì, solo, a bersi il caffè.
Probabilmente era stata trattenuta. Forse da Kare, pensò. Sulla nave, e anche dopo, non avevano più parlato della loro vita privata e Johanson aveva evitato accuratamente di fare domande. Odiava l'invadenza e l'indiscrezione, senza contare che Tina, al momento, sembrava avere tempo solo per se stessa. Il cellulare suonò. Era lei. «Dove diavolo sei?» gridò Johanson. «Ho dovuto bere anche il tuo caffè.» «Mi dispiace.» «Non importa, per me il caffè non è mai abbastanza. Seriamente, che cos'è successo?» «Sono già nella sala riunioni. Volevo chiamarti, ma eravamo troppo impegnati.» Aveva una voce strana. «È tutto a posto?» chiese Johanson. «Certo. Vuoi venire? La strada la conosci.» «Arrivo subito.» Dunque Tina era già lì. Quindi dovevano parlare di qualcosa che non era destinato alle orecchie di Johanson. Ma certo... Il loro maledetto progetto di trivellazione. Quando entrò nella sala, Tina, Skaugen e Stone erano davanti a una grande carta, che mostrava la zona in cui era stata pianificata la trivellazione. Il capo progetto stava parlando con Tina e cercava di controllarsi. Lei sembrava tesa. Anche Skaugen non aveva una faccia contenta. All'ingresso di Johanson si girò, sollevando gli angoli della bocca in un sorriso appena accennato. Hvistendahl era in fondo alla sala e stava telefonando. «Sono arrivato troppo presto?» chiese Johanson in tono cauto. «No, è un bene che sia arrivato.» Skaugen indicò il tavolo nero e lucido. «Sediamoci.» Tina sollevò lo sguardo. Sembrava che si fosse accorta solo in quel momento di Johanson. Lasciò Stone a metà del discorso, andò verso Johanson e lo baciò sulle guance. «Skaugen vuole dare il benservito a Stone», gli sussurrò. «Ci devi aiutare, hai capito?» Johanson non fece una piega. Tina voleva che lui la sostenesse. Era impazzita a coinvolgerlo in una simile situazione? Lei si sedette. Hvistendahl chiuse il cellulare. Johanson avrebbe voluto andarsene subito, lasciando Tina coi suoi problemi. Con molto distacco disse: «Allora, per prima cosa, ho fatto delle ricerche mirate, com'eravamo d'accordo. Cioè mi sono rivolto ai ricercatori e agli istituti che hanno rice-
vuto incarichi o sono stati consultati dalle industrie energetiche». «È stata una manovra intelligente?» chiese Hvistendahl sorpreso. «Pensavo che volessimo agire senza attirare l'attenzione... Ascoltare i rumori del bosco, insomma.» «Il bosco era troppo grande, ho dovuto limitarlo.» «Voglio sperare che lei non abbia detto a nessuno che noi...» «Niente paura. Ho solo fatto un po' di domande. Un biologo curioso dell'NTNU.» Skaugen strinse le labbra. «Immagino che non sia stato sommerso d'informazioni.» «Dipende.» Johanson indicò una cartellina. «Basta leggere tra le righe. Gli scienziati non sono bravi a mentire, odiano fare politica. Quello che ho è un dossier di sfumature. Qua e là si può letteralmente vedere il bavaglio. In ogni caso, ho la ferma convinzione che il nostro verme sia stato trovato anche da altri.» «Ne è convìnto, ma non lo sa per certo», disse Stone. «Finora nessuno l'ha ammesso esplicitamente. Ma alcuni sono diventati improvvisamente molto curiosi.» Johanson guardò Stone direttamente negli occhi. «Soltanto ricercatori d'istituti che lavorano a stretto contatto con industrie petrolifere. Uno di loro s'interessa esclusivamente dell'estrazione del metano.» «Chi?» chiese Skaugen in tono aggressivo. «Uno a Tokyo... Un certo Ryo Matsumoto. Il suo istituto per la precisione, con lui non ho parlato.» «Matsumoto? E chi è?» chiese Hvistendahl. «Il più importante ricercatore giapponese di idrati», rispose Skaugen. «Anni fa, per arrivare al metano, ha condotto prove di carotaggio sul permafrost canadese.» «Quando ho rivolto ai suoi uomini alcune domande sui vermi, sono entrati in fibrillazione», proseguì Johanson. «Mi hanno posto altre domande. Volevano sapere se i vermi potevano destabilizzare gli idrati. E se ce n'erano tanti.» «Questo non prova che Matsumoto abbia informazioni sui vermi», borbottò Stone. «E invece sì. Perché lavora per la JNOC», ringhiò Skaugen. «La Japan National Oil Corporation? Si occupa di metano?» «Eccome. Nel 2000, a Nankai-Trog, Matsumoto ha iniziato a sperimentare diverse tecniche di estrazione. Sui risultati dei test c'è il silenzio totale,
ma da allora è trapelato che, nel giro di pochi anni, inizierà l'estrazione a scopi commerciali. Quell'uomo canta come nessun altro il Cantico dei cantici dell'era del metano.» «Va bene», annuì Stone. «Ma non ha confermato di aver trovato i vermi.» Johanson scosse la testa. «Provi a immaginare il nostro piccolo giochino da detective a parti invertite. Le domande vengono rivolte a noi. Specialmente a me, in quanto rappresentante della cosiddetta ricerca indipendente. La persona in questione, che è pure un libero ricercatore e consigliere della JNOC, adduce una curiosità scientifica su qualcosa. Naturalmente io sobbalzerei, ma non gli andrei a dire che abbiamo informazioni su quelle bestioline. Vorrei sapere che cos'ha scoperto lui. Quindi cercherei di spremerlo esattamente come gli uomini di Matsumoto hanno fatto con me, e commetterei un errore. Farei domande troppo precise, troppo mirate. Se il mio interlocutore non è stupido, capirà alla svelta che ha fatto centro.» «Se le cose stanno così, in Giappone c'è lo stesso problema», disse Tina. «Non abbiamo prove», insistette Stone. «Lei, dottor Johanson, non ha la minima prova che qualcun altro sia incappato in quei vermi.» Si chinò in avanti. La montatura dei suoi occhiali brillava. «D'informazioni di questo genere non ce ne facciamo nulla, dottor Johanson! La verità è che nessuno poteva prevedere la comparsa del verme, appunto perché non è mai comparso in nessun luogo. Chi non le dice che Matsumoto avesse esclusivamente un interesse scientifico?» «Il mio istinto», disse Johanson impassibile. «Il suo... istinto?» «Mi dice anche che c'è molto di più. Anche i sudamericani hanno trovato il verme.» «Ah, sì?» «Sì.» «Anche loro le hanno posto domande insolite?» «Esatto.» «Lei mi delude, dottor Johanson.» Stone storse la bocca in una smorfia ironica. «Pensavo fosse uno scienziato. Da quando le sue conclusioni si basano sull'istinto?» «Cliff», disse Tina senza neppure guardarlo. «È meglio se tieni la bocca chiusa.» Stone le lanciò uno sguardo sdegnato. «Io sono il tuo capo», abbaiò. «Se qui c'è una che deve tenere la bocca...»
«Basta!» Skaugen sollevò le mani. «Non voglio più sentire neanche una parola.» Johanson osservò Tina, che riusciva a stento a trattenere la rabbia, e si chiese cosa le avesse fatto Stone. Tutta quella rabbia non poteva essere dovuta solo al caratteraccio del capo progetto. «Comunque sia, penso che il Sudamerica e il Giappone si tengano ben strette le loro informazioni», disse. «Esattamente come facciamo noi. In questo momento è molto più facile avere dati affidabili sull'analisi dell'acqua marina che sui vermi abissali. Per qualche motivo, l'acqua viene analizzata ovunque, mi è stato confermato da diverse fonti.» «E cos'è stato trovato?» «Sono state registrate concentrazioni di metano insolitamente alte nelle colonne d'acqua. Un fenomeno che rientra nel quadro che abbiamo delineato.» Johanson esitò. «Per quanto riguarda i giapponesi - scusi le frequenti intrusioni del mio istinto, dottor Stone - ho avuto una sensazione. Mi è sembrato che gli uomini di Matsumoto volessero farmi sapere la verità, ma si sentissero obbligati alla riservatezza. Tuttavia, se volete sapere la mia opinione, a nessun ricercatore indipendente e a nessun istituto verrebbe mai in mente di usare la tattica se, in gioco, c'è la vita di molte persone. Non ci sono motivi sostenibili per tenere riservate simili informazioni. Può accadere solo se...» Allargò le braccia e non finì la frase. Skaugen lo guardò, aggrottando la fronte. «Se ci sono in gioco interessi scientifici», concluse. «Voleva dire questo?» «Sì. Era quello che volevo dire.» «Vuole aggiungere qualcosa al suo rapporto?» Johanson annuì e prese un foglio dalla sua cartellina. «A quanto pare, solo in tre zone del mondo si registrano elevate concentrazioni di metano. In Norvegia, in Giappone e nella parte orientale dell'America latina. Ma c'è anche Lukas Bauer.» «Bauer? Chi è?» chiese Skaugen. «Uno scienziato che studia le correnti marine al largo della Groenlandia e lo fa usando dei drifter. Gli ho mandato un messaggio sulla nave. Ora vi leggo la risposta. 'Caro collega, il suo verme mi è sconosciuto ma, in effetti, in Groenlandia abbiamo registrato eccezionali fuoriuscite di metano. Nel mare si raggiungono grandi concentrazioni. Probabilmente esiste un legame con le discontinuità che stiamo osservando. Una brutta faccenda, se dovessimo avere ragione. Perdoni la scarsità di dettagli, ma sono straordinariamente impegnato. Le allego un file con un rapporto dettagliato di
Karen Weaver, una giornalista che mi dà una mano e mi dà sui nervi. Per altre questioni si rivolga a lei all'indirizzo:
[email protected]'.» «A quale discontinuità si riferisce?» «Non ne ho idea. A suo tempo, a Oslo, ho avuto l'impressione che Bauer fosse gentile, sì, ma un po' distratto. E alla sua e-mail non c'era allegato nessun file. Gli ho scritto di nuovo, ma finora nessuna risposta.» «Forse dovremmo scoprire a cosa sta lavorando Bauer», disse Tina. «Bohrmann dovrebbe saperlo, no?» «Credo che lo sappia la giornalista», disse Johanson. «Karen...?» «Karen Weaver. Il nome mi suonava noto, e infatti ho ricordato di aver letto alcuni suoi articoli. Una vita interessante: ha studiato informatica e biologia, però ha anche praticato molto sport. Si occupa prevalentemente di mare, ma il suo vero interesse va ai grandi sistemi. Rilievo degli oceani, tettonica a placche, trasformazioni climatiche... Ultimamente ha scritto vari articoli sulle correnti marine. Per quanto riguarda Bohrmann, se non si fa sentire entro la fine della settimana, lo chiamo io.» «E tutto questo dove ci porta?» chiese Hvistendahl. Gli occhi azzurri di Skaugen sembrarono aggrapparsi a Johanson. «Ha sentito che cos'ha detto il dottor Johanson, no? L'industria si comporta in modo meschino perché vuole tenere per sé informazioni fondamentali per la salvezza dell'umanità. Su questo siamo d'accordo, non c'è bisogno di discutere. Ieri pomeriggio ho partecipato a un'importante riunione coi nostri capi e ho espresso il mio parere. La Statoil ha informato subito il governo norvegese.» Stone sollevò la testa. «Come? Su che cosa, visto che non abbiamo a disposizione risultati definitivi e nessun...» «Sui vermi, Clifford. Sulla decomposizione degli idrati. Sul pericolo di una catastrofe da metano. Sulla possibilità di una solifluzione sottomarina. Per i miei gusti, i risultati sono più che sufficienti.» Si guardò intorno, cupo. «Il dottor Johanson sarà felice di sentire che il suo istinto è un affidabile indicatore della realtà. Stamattina ho avuto il piacere di trascorrere un'ora al telefono coi vertici tecnici della JNOC. Naturalmente la JNOC è al di sopra di ogni sospetto. Tuttavia supponiamo, in via ipotetica, che il Giappone abbia puntato tutto sulla conquista di una posizione dominante nell'estrazione del metano e che quindi voglia essere il primo a farlo. In secondo luogo, diamo spazio all'idea irrealistica che i giapponesi siano disposti a correre dei rischi e che non si curino delle perplessità espresse dagli spe-
cialisti.» Skaugen posò lo sguardo su Stone. «Ipotizziamo anche il caso assurdo che alcuni individui, per pura ambizione, passino sotto silenzio le perizie e ignorino gli avvertimenti. Tutto ciò sarebbe terribile! Allora dovremmo accusare la JNOC di aver scandalosamente taciuto l'esistenza di un verme, perché quella scoperta avrebbe potuto distruggere in una notte il loro sogno di diventare i primi produttori di metano. Se così fosse, bisognerebbe concludere che hanno taciuto per settimane.» Nessuno disse una parola. Skaugen digrignò i denti. «Ma noi non vogliamo essere così rigidi. Come sarebbero andate le cose se Neil Armstrong fosse rimasto nella sua navicella spaziale perché timoroso di uno stupido verme? E, come già detto, sono solo illazioni. Così, la JNOC mi ha assicurato che, in effetti, anche loro hanno trovato animali simili nel mar del Giappone, ma che li hanno scoperti solo tre giorni fa. Non è il colmo?» «È una porcheria», sibilò Hvistendahl. «E cosa pensa di fare la JNOC?» chiese Tina. «Oh, presumo che informerà il governo. È un'industria statale, proprio come la nostra. Ora che sono consapevoli di non essere gli unici ad aver trovato quel verme, non possono più permettersi di far finta di niente. Cosa che nessuno vuole fare, né noi né loro. E sono sicuro che, se accennassimo la medesima cosa ai sudamericani, di sicuro domani, del tutto casualmente, anche loro troverebbero un verme simile. Che sorpresa! Ci chiamerebbero subito per informarci. Il mio non vuole essere un atto d'accusa, perché noi non siamo migliori.» «Certo», disse Hvistendahl. «Altre opinioni?» «Solo da poco abbiamo raggiunto la consapevolezza di quanto la situazione fosse critica.» Hvistendahl sembrava seccato. «Inoltre sono stato io il primo a proporre d'informare il governo.» «Infatti nessuno ti ha mosso accuse», mormorò Skaugen. A Johanson sembrò di essere stato coinvolto in una rappresentazione teatrale. Aveva capito che Skaugen aveva messo in scena la condanna di Stone. Sul volto di Tina si era distesa un'aria di livida soddisfazione. Ma non era stato Stone a trovare il verme? «Clifford», disse improvvisamente Tina, rompendo il silenzio. «Quando ti sei imbattuto per la prima volta nel verme?» Stone impallidì. «Lo sai», disse. «C'eri anche tu.» «E non prima?» Stone la guardò. «Prima?»
«Prima. L'anno scorso. Quando hai sperimentato sul campo il prototipo del Kongsberg. A mille metri di profondità.» «Che cosa vorresti dire?» sibilò Stone, guardando Skaugen. «Non era un'iniziativa individuale. Avevo le spalle coperte. Ehi, Finn, di che cosa mi volete accusare?» «Certo che avevi le spalle coperte», disse Skaugen. «Avevi proposto di sperimentare una stazione sottomarina di nuovo tipo, concepita per una profondità massima di mille metri.» «Esatto.» «Concepita teoricamente.» «Ovvio, teoricamente. Fino al primo esperimento sul campo è tutto teorico. Ma voi avete praticamente dato il via libera.» Stone guardò Hvistendahl. «Anche tu, Thor. L'abbiamo testata e voi avete dato Tokay.» «È vero», disse Hvistendahl. «L'abbiamo fatto.» «E allora?» «Ti avevamo incaricato di esaminare la zona e di stendere una perizia per sapere se era veramente possibile iniziare un'attività su un'area...» proseguì Skaugen. «Questa è una porcata!» lo interruppe Stone. «Voi eravate d'accordo sulla zona.» «... non sufficientemente testata. Sì, ci siamo presi la responsabilità del rischio. Ma a condizione che tutte le perizie fossero inequivocabilmente favorevoli.» Stone saltò in piedi. «E lo erano», gridò, tremando per l'agitazione. «Siediti», disse Skaugen con freddezza. «T'interesserà sapere che ieri sera si è interrotto ogni contatto col prototipo Kongsberg.» Stone rimase impietrito. «Io non ho la responsabilità diretta della sorveglianza. Io non ho costruito la stazione, ho solo accelerato il progetto. Di che mi accusi? Di non essere al corrente dell'interruzione dei contatti?» «No. Ma, sotto la spinta degli avvenimenti, abbiamo ricostruito esattamente l'installazione del prototipo Kongsberg. E così siamo incappati in due perizie di cui tu allora... Be', come posso dire? Ti eri dimenticato?» Le dita di Stone si aggrapparono al piano del tavolo. Johanson ebbe l'impressione che stesse crollando. Stone barcollò, poi si riprese e, col volto inespressivo, si lasciò lentamente cadere sulla sedia. «Non ne so nulla.» «Nella prima si afferma che la distribuzione degli idrati e dei giacimenti di gas in quella zona è difficile da cartografare. Nel rapporto si avverte che il rischio d'incappare nel gas libero durante la trivellazione è ridotto, ma
non si può escludere al cento per cento.» «Era praticamente escluso», disse Stone con voce roca. «Praticamente non vuol dire al cento per cento.» «Ma il progetto non prevedeva di sfruttare il gas! Abbiamo estratto petrolio. La stazione funziona, il prototipo Kongsberg è un successo completo. Un successo tale che avete deciso di dargli seguito e stavolta ufficialmente.» «Nella seconda perizia si afferma che avete trovato sugli idrati un verme fino a quel momento sconosciuto», intervenne Tina. «Ma certo, che diamine! Era il verme del ghiaccio.» «L'hai esaminato?» «Perché io?» «L'avete esaminato?» «Era... Certo che l'abbiamo esaminato.» «La perizia dice che non è stato inequivocabilmente identificato come verme del ghiaccio. E che era presente in gran quantità. Nelle sue immediate vicinanze è stato rilevato del metano libero, tuttavia non è stato possibile stabilire con certezza se ciò fosse in rapporto con la presenza dei vermi.» Stone era diventato bianco come la cera. «Non è così... Non è esattamente così. Gli animali si trovavano in una zona molto limitata.» «Ma era una presenza massiccia.» «Noi abbiamo costruito di fianco. Io... Quella perizia... non aveva una vera rilevanza.» «Siete riusciti a classificare i vermi?» chiese Skaugen, tranquillo. «Eravamo sicuri che...» «Siete riusciti a classificarli?» Stone digrignò i denti. A Johanson pareva che, da un momento all'altro, avrebbe afferrato la gola di Skaugen. «No», disse a fatica, dopo una lunga pausa. «Bene», annuì Skaugen. «Cliff, per il momento sei sospeso da tutti i tuoi compiti. Tina assumerà il tuo ruolo.» «Non puoi...» «Ne parleremo più tardi.» Stone guardò Hvistendahl, in cerca di aiuto, ma lo scienziato fissava dritto davanti a sé. «Accidenti, Thor. La stazione funziona.» «Sei un idiota», mormorò Hvistendahl in tono piatto. Stone era sbigottito. Il suo sguardo correva sui due uomini che avevano
appena deciso il suo destino. «Mi dispiace», disse. «Non volevo... Volevo solo che andassimo avanti con la stazione.» Johanson si sentiva turbato. Allora era quello il motivo per cui Stone aveva ripetutamente sminuito il ruolo dei vermi. Sapeva che aveva commesso un errore. Aveva voluto essere il primo a mettere in funzione con successo un prototipo di stazione sottomarina automatizzata. Quella stazione era figlia di Stone, un'occasione unica per la sua carriera. E, per un po', le cose erano andate bene. Lo sviluppo era già delineato: prima l'esito positivo di un esperimento non ufficiale durato un anno, poi la messa in funzione e alla fine una serie di stazioni a profondità sempre maggiori. Una marcia trionfale, per Stone. Ma poi erano ricomparsi i vermi. E stavolta non si limitavano a occupare pochi metri quadrati. A Johanson faceva quasi compassione. «Mi dispiace coinvolgerla in questa sgradevole situazione, dottor Johanson, ma lei fa parte della squadra», disse Skaugen. «Sì, certo.» «Sembra che ci stia sfuggendo tutto di mano. Disgrazie, anomalie... La gente è più attenta e le industrie del petrolio sono perfetti capri espiatori. Gli errori non sono ammessi. Possiamo contare ancora su di lei?» Johanson sospirò, poi annuì. «Bene. A dire la verità, era quello che ci aspettavamo da lei. Non mi fraintenda, la decisione è stata tutta sua, ma, poiché dovrà dedicare più tempo al suo ruolo di coordinatore scientifico, noi, per precauzione, ci siamo permessi di parlarne con l'NTNU.» Johanson quasi schizzò in piedi. «Come?» «Per parlar chiaro, li abbiamo pregati di accordarle un congedo provvisorio. Inoltre l'ho proposta per l'unità di crisi governativa.» Johanson fissò prima Skaugen, poi Tina. «Un momento...» ansimò. «È un vero lavoro di ricerca», intervenne Tina. «La Statoil ti mette a disposizione un budget e ogni possibile supporto.» «Avrei preferito...» «Lei è arrabbiato», lo interruppe Skaugen. «E io la capisco. Ma ha visto come sia precaria la situazione sulla scarpata continentale, e nessuno ha più informazioni di lei e degli uomini del Geomar. Ovviamente può rifiutare, ma... Per favore, non lo faccia. Lo consideri un lavoro nell'interesse della collettività.» Johanson si sentiva quasi male per la rabbia. Gli salì alle labbra una risposta tagliente, ma la ricacciò indietro. «Capisco», disse, gelido.
«E quale sarebbe la sua decisione?» «Naturalmente non assumerò questo ruolo.» Lanciò a Tina uno sguardo che forse non sarebbe riuscito a sgretolarla, ma sicuramente l'avrebbe trapassata. La fissò per un po', poi distolse gli occhi. Skaugen annuì. «Ascolti, dottor Johanson: la Statoil le è oltremodo riconoscente. Tutto quello che ha fatto per noi le assicura la nostra più completa gratitudine. Ma deve sapere una cosa: per quello che mi riguarda, lei ha guadagnato un amico. Noi l'abbiamo scavalcata per la faccenda dell'NTNU, ma, in compenso, io mi lascerò scavalcare da lei, se dovesse essere necessario. Per lei mi lascerò crocifiggere, va bene?» Johanson osservò quell'uomo massiccio e lo fissò nei piccoli occhi azzurri. «Okay», disse. «Ci penserò ancora.» «Sigur! Vuoi fermarti una buona volta?» Tina gli correva dietro, ma lui camminava imperterrito lungo il vialetto lastricato che conduceva al parcheggio. Il centro di ricerca era in mezzo al verde, in una posizione idilliaca, su una collina vicina al fiordo, ma lui non si curava della bellezza del paesaggio. Voleva tornare nel suo ufficio. «Sigur!» Lei lo raggiunse, ma lui continuò a camminare. «Perché fai tutte queste scene, testone?» gli gridò. «Vuoi che continui a correrti dietro?» Johanson si fermò di colpo e si girò. Tina quasi gli finì addosso. «Perché no? Sei così veloce...» sibilò. «Idiota», sbottò lei. «Ah, sì? Sei veloce a parlare, veloce a pensare, sei addirittura sufficientemente veloce da pianificare tutto per i tuoi amici prima ancora che possano dire cosa ne pensano. Una corsetta non dovrebbe ucciderti.» «Bastardo presuntuoso!» replicò Tina, furente. «Credi davvero che volessi decidere io in quale direzione mandare la tua maledetta vita da misantropo?» «No? Ah, questo mi tranquillizza.» E riprese a camminare. Tina esitò, poi lo rincorse di nuovo. «Okay, avrei dovuto dirtelo. Mi dispiace, davvero.» «Avreste dovuto chiedermelo!» «Volevamo farlo, maledizione. Skaugen è stato poco diplomatico, hai capito male.» «Ho capito che avete mercanteggiato per me con l'università, come se fossi un cavallo.» «No.» Gli prese la manica della giacca e lo costrinse a fermarsi. «Ab-
biamo sondato il terreno, nient'altro. Volevamo sapere se ti avrebbero concesso un congedo, in caso avessi accettato.» Johanson sbuffò. «Ah, be', allora è tutto diverso.» «Te l'abbiamo detto con le parole sbagliate, tutto lì. Santo cielo, te lo giuro. Che devo fare? Dimmi: che cosa devo fare?» Johanson rimase in silenzio. Il suo sguardo e quello di lei si spostarono contemporaneamente sulle dita di Tina, ancora aggrappate alla stoffa della giacca. Lei lasciò la presa e lo guardò. «Nessuno ti vuole scavalcare. Se ci ripensi, bene, altrimenti non se ne fa nulla.» Da qualche parte, un uccello cantava. Il vento che arrivava dal fiordo portava il rumore di motori lontani. «In caso non accettassi, ti troveresti in una situazione non particolarmente facile, o sbaglio?» disse infine Johanson. «In un certo senso», mormorò lei, passandogli una mano sulla manica per togliere le pieghe. «Vale a dire?» «Non preoccuparti per me. Riuscirò a cavarmela. Non chiedere prima il tuo parere è stata una mia decisione e... Ma sì, mi conosci: ho precorso un po' i tempi con Skaugen.» «Cosa gli hai detto?» «Che lo farai.» Sorrise. «Ho giurato sul mio onore. Ma, come ho già detto, non è un problema tuo.» Johanson sentì la rabbia dissolversi. Avrebbe voluto tener duro ancora un po', solo per principio, per non permettere a Tina di cavarsela così facilmente. Ma la rabbia era sparita. Lei se la cavava sempre. «Skaugen si fida di me», riprese lei. «Non potevo incontrarti nella caffetteria. Abbiamo avuto una conversazione a quattr'occhi e lui mi ha spiegato che, a Stavanger, aveva scoperto le perizie occultate da quello stronzo di Stone. È tutta colpa sua. Se avesse giocato a carte scoperte, non ci troveremmo in questa situazione.» «No, Tina.» Lui scosse la testa. «Lui credeva davvero che quei vermi non rappresentassero un pericolo.» Stone non gli piaceva, ma Johanson sentiva la necessità di difendere il capo progetto. «Voleva solo andare avanti.» «Se davvero li considerava innocui, perché ha nascosto le perizie?» «Avrebbero ritardato il suo progetto. Neanche voi vi sareste preoccupati troppo di quei vermi, ma avreste fatto comunque il vostro dovere e rinviato
il tutto.» «Come vedi ci stiamo preoccupando di quei vermi.» «Adesso sì, ma solo perché sono troppi. Avete avuto paura. Quando Stone li ha trovati, erano diffusi in una zona limitata, vero?» «Hmm.» «Una superficie densamente popolata ma ristretta. Cose del genere succedono tutti i giorni. Gli animali piccoli compaiono spesso in grandi masse. E viene da dire: 'Che potranno mai fare un po' di vermi?' Nel golfo del Messico, quando sono stati trovati i vermi del ghiaccio, nessuno si è sognato di dichiarare lo stato d'allarme, eppure erano proprio sugli idrati.» «Non nascondere niente è una questione di principio. Lui aveva la responsabilità del progetto.» «Certo.» Johanson guardò verso il fiordo. «E ora la responsabilità ce l'ho io.» «Abbiamo bisogno di un dirigente scientifico», disse Tina. «Io mi fido solo di te.» «Santo cielo», esclamò Johanson. «Ce l'hai fatta.» «Davvero?» «Sì, accetto.» «Pensa un po'...» Tina era raggiante. «Potremo lavorare insieme.» «Ora non cercare di farmi cambiare idea. Cosa succederà adesso?» Lei esitò. «Ma sì, hai sentito, Skaugen mi vuole mettere al posto di Stone. Può farlo come soluzione provvisoria, ma non può prendere una decisione definitiva. Per quella ha bisogno dell'approvazione da Stavanger.» «Skaugen...» borbottò Johanson. «Perché ha messo in croce Stone in quel modo? E io che ci facevo lì? Dovevo fornirgli le munizioni?» «Skaugen è un uomo integerrimo, anche se, secondo alcuni, esagera», spiegò Tina. «Vede dove normalmente gli altri chiudono gli occhi, e questo lo rende furioso.» «Se è così, si rivela soprattutto umano.» «In fondo ha il cuore tenero. Se gli dovessi proporre di dare un'altra possibilità a Stone, probabilmente sarebbe d'accordo.» «Capisco», disse Johanson lentamente. «Ed è proprio quello cui stai pensando.» Lei non rispose. «Mah, sei proprio l'incarnazione dell'assistenza sociale, Tina.» «Skaugen mi ha lasciato la scelta», replicò lei, senza dar seguito alla battuta. «Questa stazione sottomarina... Stone ne sa tantissimo. Più di me. Ora
Skaugen vuole uscire con la Thorvaldson per vedere che cos'è successo là sotto e perché non riceviamo più segnali. In realtà, l'operazione dovrebbe essere guidata da Stone. Ma se Skaugen l'ha sospeso, dovrò occuparmene io.» «Quale sarebbe l'alternativa?» «Dare a Stone un'altra possibilità.» «Per salvare la stazione.» «Ammesso che ci sia ancora qualcosa da salvare. Oppure per rimetterla in attività. Skaugen ha già deciso di promuovermi, ma, se chiude un occhio, Stone rimarrebbe in gioco e potrebbe seguire la missione della Thorvaldson.» «E tu, nel frattempo, cosa faresti?» «Andrei a Stavanger a fare rapporto al presidente. Così Skaugen avrebbe l'occasione d'inserirmi in quell'ambiente.» «Congratulazioni, fai carriera», disse Johanson. Ci fu un breve silenzio. «Lo voglio?» mormorò Tina. «Come faccio a sapere cosa vuoi?» «Non lo so neanch'io, maledizione!» Johanson pensò al fine settimana al lago. «Non ne ho idea», replicò. «Nulla ti vieta di avere un compagno e fare comunque carriera, se è questo che ti fa esitare. A proposito, ce l'hai ancora?» «Anche questo è un problema.» «Il povero Kare sa perché sta con te?» «Non siamo stati più molto insieme da quando... Da quando tu e io...» Lei scosse la testa. «Mentre passeggiamo nell'intimità di Sveggesundet o andiamo sulle isole, in un certo senso mi sembra di far parte di una messinscena completamente separata dal mondo reale.» «Almeno è una bella messinscena?» «È come andare in un luogo di cui si è innamorati», spiegò lei. «Ogni volta si va in visibilio. Una scenografia splendida, però, quando bisogna allontanarsi, scorrono le lacrime. Si vorrebbe restare. E, nel contempo, ci si chiede se davvero si vuole vivere nel posto più bello del mondo e se è ancora il più bel posto del mondo. Noi siamo abituati a vedere la nostra vita... Mio Dio, come posso dire? Perdiamo il senso del meraviglioso giorno per giorno. E allora cerchiamo qualcosa che non c'è. Capisci?» Sorrise timidamente. «Scusa, è tutto terribilmente sdolcinato e confuso. Non sono brava in queste cose.»
«No. Direi proprio di no.» Johanson la guardò, cercando i segni dell'indecisione. E invece vide una donna che aveva già deciso. Però lei non lo sapeva ancora. «Se non sei disposta a vivere in un luogo, allora vuol dire che non lo ami», commentò. «Al lago abbiamo parlato proprio di queste cose, ricordi? Forse dovresti andare da Kare e dirgli che lo ami e che vuoi diventare vecchia come il cucco insieme con lui. Mi faresti un grande favore, così non sarei costretto a seguirti ogni due giorni nei pantani delle tue ampollose allegorie.» «E se va male?» «Ma tu non sei una fifona.» «E invece sì», sussurrò. «Lo sono.» «Diffidi della tua felicità. L'ho fatto anch'io una volta e non è stato un bene.» «E allora? Oggi sei felice?» «Sì.» «Senza limiti?» Johanson alzò le braccia in un disperato gesto di difesa. «Ma chi è felice senza limiti? Non mi faccio illusioni su me stesso e sugli altri. Voglio i miei flirt, il mio vino, i miei divertimenti e voglio decidere finché devono durare. Tendo alla discrezione, ma non alla compensazione. Ogni psichiatra con me si annoierebbe a morte, perché io voglio solo la mia tranquillità. Tutto sommato, mi va alla grande. Ma io sono io. La mia felicità dipende da circostanze diverse dalle tue. L'affido solo a me stesso. Tu devi ancora impararlo, e lo devi imparare in fretta. Kare non è né un luogo né una casa. Non aspetterà in eterno.» Tina annuì. Si era alzato il vento e giocava coi suoi capelli. Johanson si rese conto di quanto gli era cara. Era contento che al lago non fossero arrivati a quel tipo di rapporto che portava impressa una data di scadenza, determinando così la durata del suo affetto. «Se Stone andrà sulla scarpata continentale, potrò entrare a Stavanger», ragionò Tina. «Questo va bene. La Thorvaldson è già pronta in mare, Stone potrebbe salire a bordo domani o dopodomani. Per Stavanger ci vorrà più tempo. Dovrò scrivere un rapporto dettagliato. Così avrei un paio di giorni per andare a Sveggesundet e là... lavorare.» «Lavorare, certo», sorrise Johanson. «Perché no?» Lei strinse le labbra. «Devo riflettere e parlarne con Skaugen.» «Fallo», la spronò Johanson. «E pensa in fretta.»
Di ritorno alla sua scrivania, Johanson guardò le e-mail in arrivo. Nulla che gli fornisse qualche indicazione. Soltanto l'ultima suscitò il suo interesse non appena ebbe dato uno sguardo al mittente:
[email protected]. Johanson la aprì. Salve dottor Johanson, grazie per la sua mail. Sono appena tornata da Londra e, al momento, posso soltanto dire che non ho la minima idea di che cosa sia successo a Lukas Bauer e alla sua nave, perché abbiamo perso ogni contatto. Se vuole possiamo incontrarci tra qualche giorno... Magari ci aiuteremmo a vicenda. A metà della prossima settimana sarò nel mio ufficio di Londra. In caso volesse incontrarmi prima, sappia che, al momento, sono in visita alle isole Shetland. Magari potremmo incontrarci qui. Mi faccia sapere cosa preferisce. KAREN WEAVER «Guarda un po' come sa essere cooperativa la stampa», mormorò Johanson. Lukas Bauer era sparito? Forse doveva incontrare un'altra volta Skaugen. Al massimo, se avesse presentato la sua teoria, si sarebbe reso ridicolo. Ma era davvero una teoria? Di fatto l'unica prova che aveva era la brutta sensazione che il mondo fosse in bilico e che la colpa fosse del mare. Se voleva sviluppare seriamente quel pensiero, era tempo di preparare un dossier. Rifletté. Doveva incontrare Karen Weaver il più presto possibile. Perché non alle isole Shetland? Sarebbe stato un po' complicato per gli aerei, ma non rappresentava un gran problema, visto che pagava la Statoli. No, pensò improvvisamente. Non è per nulla complicato. Skaugen non aveva forse detto che si sarebbe fatto mettere in croce per lui? Non era necessario arrivare a tanto. Sarebbe bastato mettere a disposizione un elicottero. Era una buona idea! Un elicottero di servizio. Non uno di quelli che sembravano una specie di autobus di linea volanti, no. Uno di quelli usati dai manager, veloci e confortevoli. Visto che Skaugen lo aveva reclutato con la forza, doveva fare qualcosa per lui.
Johanson si appoggiò allo schienale e guardò l'orologio. Di lì a un'ora aveva lezione e poi un incontro in laboratorio coi colleghi per discutere un'analisi del DNA. Aprì una nuova cartelle e scrisse il nome del file: IL QUINTO GIORNO. Gli era venuto così, d'istinto. Forse era un nome po' troppo poetico, però non riuscì a pensare a nulla di meglio. Secondo la Bibbia, il quinto giorno era quello in cui Dio aveva creato il mare e i suoi abitanti. E adesso erano proprio il mare e i suoi abitanti a creare problemi. Iniziò a scrivere. E, di minuto in minuto, tutto gli apparve più chiaro. 2 maggio Vancouver e Vancouver Island, Canada Da ventotto ore, Ford e Anawak stavano studiando quell'unica sequenza. Prima soltanto nero. Poi l'emissione di un potente impulso sonoro oltre il limite dell'udito umano. Tre volte. Quindi la nuvola. Una nuvola blu, fosforescente, comparsa d'un tratto sul monitor, come un universo in espansione. Non si trattava di una luce intensa, ma di un blu fioco, un leggero chiarore diffuso, sufficiente tuttavia a scorgere le massicce figure delle balene. La nuvola si era poi allargata rapidamente. Doveva essere enorme. Aveva occupato tutto lo schermo e le balene le stavano davanti, immobili, come stregate. Erano trascorsi alcuni secondi. Nelle profondità della nuvola si scorgevano dei movimenti. Improvvisamente era balzato fuori qualcosa che somigliava a un fulmine strisciante, con punte sottili che saettavano in tutte le direzioni. Aveva toccato una delle balene - Lucy - su un lato della testa. La scarica non era durata neppure un secondo. Altri fulmini avevano toccato altri animali. Era come un temporale sottomarino, finito con la stessa velocità con cui era iniziato. Quindi il filmato era sembrato scorrere al contrario. La nuvola si era ritirata in se stessa, era collassata e sparita. Lo schermo era tornato nero. Gli uomini di Ford avevano rallentato sempre più la sequenza, fatto tutto il possibile per ottimizzare la qualità dell'immagine e ottenere più luminosità, ma anche dopo ore di analisi il video con la fuga notturna delle balene restava un mistero.
Infine Anawak e Ford avevano preparato un rapporto per l'unità di crisi. Avevano ottenuto il permesso di far arrivare da Nanaimo un biologo specializzato in bioluminescenza e lui, dopo un'iniziale perplessità, era arrivato alle loro stesse conclusioni: la nuvola e i lampi luminosi erano presumibilmente di origine organica. L'esperto aveva sostenuto che i lampi erano il risultato di una reazione a catena nella struttura della nuvola, ma non era stato in grado di dire come si fossero prodotti e quale scopo avessero. La forma a serpentina e il fatto che sulle punte diventassero più sottili facevano pensare a un calamaro, ma, in tal caso, doveva trattarsi di un animale enorme. Senza contare che non c'erano certezze sulla luminescenza dei calamari giganti. E comunque non si sarebbero spiegate la presenza della nuvola e tantomeno l'origine di quei fulmini. Tutti avevano compreso istintivamente una cosa: la nuvola doveva essere legata al comportamento anomalo delle balene. Avevano scritto tutto nel rapporto, ma il rapporto era sparito in un buco nero, nero come lo schermo dopo che la luce bluastra si era dissolta. Gli scienziati chiamavano confidenzialmente «buco nero» l'unità di crisi nazionale, perché come i buchi neri ingoiava tutto senza rivelare nulla. In un primo tempo, il governo canadese aveva cercato d'instaurare un rapporto stretto coi ricercatori. Ma da quando, qualche giorno prima, era stato deciso ufficialmente di unificare le unità di crisi di Canada e Stati Uniti sotto la guida americana, gli scienziati avevano cominciato a nutrire il sospetto di essere semplicemente sfruttati. L'acquario, l'istituto di Nanaimo, la stessa University of Vancouver erano stati degradati al rango di fornitori, cui non veniva detto nulla, se non che dovevano ricercare e inserire nei rapporti tutte le conoscenze acquisite, le ipotesi fatte e le perplessità rilevate. Né John Ford né Leon Anawak e neppure Rod Palm, Sue Oliviera e Ray Fenwick sapevano come venissero interpretati gli input che fornivano. Non sapevano neppure quale opinione avesse l'unità di crisi. Erano privati dello strumento più importante per le loro ricerche: il confronto con gli altri gruppi di ricerca, sia militari sia statali. «E tutto questo da quando Judith Li ha preso il timone. Direttrice dell'unità di crisi... Non ho idea di che cosa diriga. Ho come l'impressione che ci abbia preso per i fondelli», brontolò Ford. Sue Oliviera si rivolse a Leon Anawak. «Sarebbe molto utile avere altri mitili.» «Non riesco a mettermi in contatto con nessuno della Inglewood», disse Anawak. «Con me non parlano e Judith Li sostiene ufficialmente che si è
trattato di un errore durante la manovra di aggancio. I mitili non vengono neppure nominati.» «Ma tu sei stato là sotto. Abbiamo bisogno di quella robaccia. E di quella sostanza inquietante. Perché ci ostacolano in questo modo? Pensavo che dovessimo dare una mano!» «Perché non prendi contatto tu stessa con l'unità di crisi?» «Tutto deve passare attraverso Ford. Non capisco, Leon. A cosa servono queste unità?» Già, a cosa servivano? Qual era lo scopo dell'unità di crisi congiunta tra gli Stati Uniti e il Canada, rappresentata dal generale comandante Li? Il motivo era ovvio: entrambi i Paesi avevano lo stesso problema da risolvere, entrambi avevano dato disposizioni per lo scambio di conoscenze ed entrambi avevano steso su tutto un velo di silenzio. Forse doveva essere così. Forse lavorare in segreto era intrinseco alla natura delle commissioni d'inchiesta e delle unità di crisi. Quando mai una commissione d'inchiesta si era trovata a dover svolgere un lavoro del genere? I membri permanenti di simili unità normalmente si dannavano l'anima coi terroristi, con gli incidenti aerei, coi sequestri di ostaggi, con le crisi politiche e militari, coi colpi di Stato. Cose segrete, certo! Tuttavia un'unità di crisi entrava in azione anche se c'erano problemi con una centrale nucleare o con una diga, se bruciavano le foreste oppure le acque sfondavano gli argini, se la terra tremava, se i vulcani eruttavano e in caso di carestia. Anche quelle erano cose segrete? Forse, ma perché? «Le cause delle eruzioni vulcaniche e dei terremoti sono note», spiegò Tom Shoemaker quella mattina, quando Leon diede fiato alla sua rabbia. «Puoi temere la terra, ma non hai motivo di diffidarne. Lei non ti fa delle porcate e non cerca d'ingannarti. Queste cose le fanno solo gli uomini.» Erano in tre a far colazione sulla nave di Anawak. Il sole faceva capolino tra bianche masse nuvolose e si diffondeva un gradevole tepore. Un leggero vento scendeva dalle montagne verso la costa. Probabilmente sarebbe stata una giornata splendida, ma a nessuno interessavano più le belle giornate. Soltanto Alicia, incurante di tutte le cose sgradevoli, dava prova di un sano appetito e si stava spazzolando le uova strapazzate. «Avete sentito di quella nave cisterna che trasportava gas?» «Quella saltata in aria in Giappone?» Tom sorseggiò il suo caffè. «Roba vecchia, l'hanno detto nei notiziari.» Alicia scosse la testa. «Non mi riferivo a quella. Ieri ne è colata a picco un'altra. È bruciata nel porto di Bangkok.»
«Si conosce la causa del disastro?» «No. Strano, vero?» «Forse si è trattato solo di un guasto tecnico», disse Anawak. «Non si devono vedere fantasmi ovunque.» «Parli come Judith Li.» Shoemaker sbatté la tazza sul tavolo. «E comunque avevi ragione. Sulla Barrier Queen sono state date pochissime notizie, mentre hanno scritto del rimorchiatore affondato.» Anawak non si era aspettato nulla di diverso. L'unità di crisi li teneva a stecchetto e forse ciò faceva parte del gioco. Cercati da solo il tuo cibo. Ma se era così, loro avrebbero cercato. Dopo l'incidente con l'idrovolante, Alicia aveva iniziato a setacciare Internet. Se gli stessi collaboratori dell'unità di crisi erano tenuti all'oscuro, che cosa mai sarebbe arrivato all'opinione pubblica negli altri Paesi? In quali altre parti del mondo c'erano state aggressioni da parte di balene? Sempre ammesso che ci fossero state... Oppure aveva ragione George Frank, il taayii hawil dei tla-o-qui-aht, quando aveva detto: «Forse il problema non sono le balene, Leon. Forse le balene sono soltanto la parte del problema che ci è concesso vedere». Evidentemente Frank aveva colto nel segno, anche se Anawak si era sentito ancora più perplesso dopo che Alicia gli aveva mostrato i risultati delle sue dettagliate ricerche. Aveva esaminato siti sudamericani, tedeschi, scandinavi, francesi, giapponesi e australiani e, a quanto pareva, ovunque erano avvenuti incidenti devastanti con le meduse. «Le meduse?» Shoemaker si era messo a ridere. «E che fanno? Saltano addosso alle navi?» All'inizio, Anawak non aveva individuato una relazione. Che razza di problema era quello che si manifestava sotto forma di balene e di meduse? Ma poi ci aveva ripensato: forse l'invasione di animali urticanti altamente velenosi mostrava punti di contatto, al momento invisibili, con le aggressioni delle balene. E se fossero stati due sintomi dello stesso problema? Un accumulo di anomalie... Alicia aveva riportato il parere di uno scienziato del Costarica, il quale ipotizzava che, a imperversare nel Sudamerica, non fossero le caravelle portoghesi, bensì una specie simile, finora sconosciuta, eppure ancora più pericolosa e mortale. Ed era solo l'inizio. «All'incirca nello stesso periodo in cui qui avevamo a che fare con le balene, nel Sudamerica e nell'Africa meridionale sparivano navi», sintetizzò Alicia. «Barche a motore e cutter. Si è trovato solo qualche relitto, nient'altro. Ora, se fai uno più uno...»
«Ottieni una quantità di balene», concluse Tom. «Perché queste cose non le dicono anche qui? Il Canada è fuori dal mondo?» «Non siamo mai stati particolarmente interessati ai problemi degli altri Paesi», osservò Anawak. «Non c'interessano, e agli Stati Uniti interessano ancora meno.» «In ogni caso, gli incidenti di grandi navi sono in misura nettamente superiore alla media», disse Alicia. «Collisioni, esplosioni, affondamenti. E sapete cos'altro c'è di molto strano? L'epidemia in Francia. È stata provocata da alghe negli astici. Si sta diffondendo in un baleno un agente patogeno che non si riesce a controllare. Credo siano colpiti anche altri Paesi, ma più si ricerca, più il quadro si fa sfumato.» Di quando in quando, Anawak si stropicciava gli occhi, pensando che il rischio di rendersi ridicoli era in agguato. Sembrava proprio che si stessero abbeverando a una delle fonti predilette della fantasia americana: la teoria del complotto. Negli Stati Uniti, una persona su quattro era convinta delle più assurde fantasticherie. C'erano teorie secondo cui Bill Clinton era un agente russo e tantissime persone s'interessavano agli UFO. Pura follia. Che interesse poteva avere una nazione a nascondere avvenimenti che colpivano migliaia di persone? Senza contare che non era facile tenere segreti avvenimenti di quel genere. «Ora fate attenzione», disse Alicia. «Tofino ha milleduecento abitanti ed è formata di fatto da tre strade. Eppure è impossibile che si sappia sempre tutto di tutti. Giusto?» «E allora?» «Qualsiasi località è troppo grande perché si possa sapere tutto di tutti. A maggior ragione un intero pianeta.» «Verità evidente. La mente dell'uomo è un secchio che trabocca in fretta.» «Un governo non può bloccare le notizie, ma può sminuirne la portata. Ti preoccupi perché l'informazione è scarsa. In realtà le informazioni ci sono, ma la maggior parte circola solo nel Paese in cui si sono svolti i fatti e quel poco che arriva all'esterno è sempre presentato come notizia secondaria. Verosimilmente, tutto quello che ho trovato su Internet era apparso sui giornali e nelle televisioni locali. Noi semplicemente non l'abbiamo saputo.» Shoemaker socchiuse le palpebre. «È davvero così?» disse, incerto. «Come sempre, abbiamo bisogno di maggiori informazioni», affermò Anawak. Smosse bruscamente le uova strapazzate e le fece uscire dal piat-
to. «Cioè, alcune le abbiamo. Le altre le ha Judith Li. Sono certo che ne sa ben più di noi.» «Allora chiedi a lei», propose Shoemaker. Anawak sollevò le sopracciglia. «A Judith Li?» «Perché no? Se vuoi sapere, chiedi. Al massimo riceverai un no e qualcosa detto tra i denti, ma non staresti peggio di come stai ora.» Anawak rimuginò in silenzio. Non avrebbe ottenuto la minima informazione. Non le otteneva neppure Ford, che pure continuava a tempestare di domande Judith Li. D'altra parte, l'idea di Shoemaker non era così stupida. Si potevano anche fare domande senza che l'interlocutore se ne rendesse conto. Forse era proprio arrivato il momento di prendersi le risposte. Più tardi, quando Shoemaker se ne fu andato, Alicia mise sul tavolo, davanti ad Anawak, una copia del Vancouver Sun. «Volevo aspettare che Tom se ne andasse», disse. Anawak gettò un'occhiata alla prima pagina. Era il numero del giorno precedente. «L'ho letto.» «Tutto?» «No, solo l'essenziale.» Alicia sorrise. Negli ultimi giorni, Anawak non aveva dimostrato né cortesia né riguardi nei suoi confronti - per non parlare del suo costante cattivo umore -, eppure lei era stata davvero gentile. Dalla loro conversazione nella stazione, non aveva più toccato l'argomento delle sue origini. «Allora leggi quello che non è essenziale.» Anawak sfogliò il giornale e comprese immediatamente quello che Alicia intendeva. Era un breve articolo: poche righe corredate dalla fotografia di una famiglia felice, padre, madre e un bambino, che guardava con riconoscenza un uomo molto alto. Il padre stringeva la mano all'uomo e tutti sorridevano all'obiettivo. «Incredibile.» «Puoi pensare quello che vuoi», disse Alicia. I suoi occhi scintillavano. Quel giorno i suoi occhiali avevano lenti gialle e la montatura era decorata da croci di Strass. «Ma non sembra un gran bastardo.» Il piccolo Bill Sheckley (cinque anni), che lo scorso 11 aprile è stato salvato per ultimo dalla nave da diporto Lady Wexham che stava affondando, può tornare a sorridere. Oggi i suoi genitori sono andati a prenderlo all'ospedale di Victoria, dov'era rimasto per
qualche tempo in osservazione. Durante il salvataggio, Bill ha sofferto d'ipotermia e, come conseguenza, ha contratto la polmonite. Ora l'ha superata e, con essa, ha superato pure lo shock. Oggi i genitori ringraziano soprattutto Jack «Greywolf» O'Bannon, un ambientalista di Vancouver Island, che ha guidato l'azione di salvataggio e si è occupato in maniera commovente della convalescenza del piccolo Bill. L'«eroe di Tofino», così viene chiamato da allora O'Bannon, ha trovato posto non soltanto nel cuore del bambino. Anawak chiuse il giornale e lo buttò sul tavolo. «Shoemaker sarebbe uscito dai gangheri», disse. Per un po' non parlarono. Anawak guardava le nuvole che si spostavano lentamente e cercava di attizzare la sua rabbia contro Greywolf, ma stavolta non ci riusciva. La rabbia si rivolgeva contro chi ostacolava il lavoro suo e di Ford, contro quell'arrogante soldatessa e, per motivi inesplicabili, contro se stesso. Soprattutto contro se stesso. «Che cosa vi ha fatto Greywolf?» chiese infine Alicia. «Lo hai visto tu stessa.» «I pesci lanciati ai turisti? Va bene, ha esagerato. Si potrebbe anche considerarla una sorta di richiesta.» «Greywolf è solo un piantagrane.» Anawak si passò una mano sugli occhi. Sebbene fosse mattina, si sentiva stanco e privo di forze. «Non fraintendermi», disse cautamente Alicia. «Ma quell'uomo mi ha tirato fuori dall'acqua e se penso a quello che sarebbe stato di me... Due giorni fa sono andata a cercarlo. A casa non c'era. Si trovava a Ucluelet, in una birreria. Allora mi sono avvicinata e ... Ma sì, l'ho ringraziato.» «E allora?» chiese Anawak in tono distratto. «Che cos'ha detto?» «Non se lo aspettava.» Anawak la guardò. «Era davvero sorpreso», continuò Alicia. «E contento. Poi ha voluto sapere come stavi.» «Come sto io?» «Sai cosa penso?» Alicia incrociò le braccia e le appoggiò sul piano del tavolo. «Sono convinta che abbia pochi amici.» «Forse si dovrebbe chiedere perché.» «Gli vai a genio.»
«E cosa dovrei fare? Sciogliermi in lacrime e santificarlo?» «Raccontami qualcosa di lui.» Mio Dio, perché? pensò Anawak. Perché adesso dovrei mettermi a parlare proprio di Greywolf? Non possiamo parlare di cose più piacevoli? Qualcosa di davvero piacevole e divertente, per esempio... Rifletté. Non gli venne in mente nulla. «Una volta eravamo amici», mormorò. Si aspettava di vedere Alicia balzare in piedi con un grido di trionfo «Ah, ecco, avevo ragione!» -, invece lei si limitò ad annuire. «Si chiama Jack O'Bannon e arriva da Port Townsend, nello Stato di Washington. Suo padre era irlandese e ha sposato una mezza indiana, una suquamish, credo. Comunque sia, negli Stati Uniti Jack ha fatto tutti i lavori immaginabili: buttafuori, camionista, grafico pubblicitario e guardia del corpo. Infine è stato sommozzatore nei SEALS. Lì ha trovato la sua vocazione: addestratore di delfini. Lo faceva bene, ma poi gli hanno riscontrato dei difetti cardiaci. Niente di grave, solo che nei SEALS sono dei duri. Benché avesse una bacheca piena di decorazioni, Jack capì che con la Marina era finita.» «Come in Canada?» «Jack ha sempre avuto un debole per il Canada. All'inizio aveva cercato di entrare nell'industria cinematografica, a Vancouver. Pensava che la sua statura e la sua faccia gli avrebbero permesso di diventare attore, ma era totalmente privo di talento. A dire la verità, nella sua vita non è riuscito a combinare niente perché gli saltano subito i nervi e ogni volta picchia qualcuno sino a farlo finire in ospedale.» «Oh!» fece Alicia. Anawak digrignò i denti. «Mi dispiace se ho rovinato il tuo idolo. Non è che ci tenessi particolarmente.» «Va bene. E dopo?» «Dopo?» Anawak si versò un bicchiere di succo d'arancia. «È finito in galera. Non ha mai truffato o imbrogliato nessuno: è stato il suo temperamento irrequieto a farlo finire dentro. Quand'è uscito, naturalmente è stata ancora più dura. Nel frattempo aveva letto vari libri sulla difesa della natura e sulle balene, e aveva deciso che bisognava fare subito qualcosa. E perché no? Così andò da Davie, che aveva conosciuto durante un viaggio a Ucluelet, e gli chiese se aveva bisogno di uno skipper. Davie gli disse che l'avrebbe assunto, a patto che non creasse problemi. Jack sa essere molto affascinante, quando vuole.» Alicia annuì. «Ma non è riuscito a essere sempre affascinante.»
«Per un po' di tempo sì. Di colpo si è registrato un imponente afflusso di clienti, specialmente donne. Tutto andava per il meglio. Fino al giorno in cui lui ha dato un ceffone a una.» «A una cliente?» «Esatto.» «Accidenti.» «Già. Davie voleva licenziarlo, ma io sono riuscito a convincerlo a dargli una seconda possibilità. Così non l'abbiamo licenziato. Ma che cosa ti combina quell'idiota?» Ecco tornare la rabbia contro Greywolf. «Tre settimane dopo, fa la stessa scena. A quel punto, Davie doveva licenziarlo. Tu cosa avresti fatto?» «Credo che l'avrei liquidato la prima volta», sussurrò Alicia. «Perlomeno non devo preoccuparmi del tuo futuro», ironizzò Anawak. «In ogni caso, se fai tanto per una persona che ti ripaga in quel modo, anche il più grande affetto si dissolve.» Ingollò il succo d'arancia, lo mandò giù e tossì. Alicia allungò un braccio e gli batté sulla schiena. «Da quel momento è andato completamente fuori di testa», riprese. «Jack ha un secondo problema. A un certo punto, nella sua frustrazione, è arrivato da lui il grande Manitou e gli ha detto: 'Da oggi ti chiami Greywolf e devi proteggere le balene e tutto ciò che popola la Terra, l'aria e l'acqua... Va' e combatti'. E poiché lui ce l'aveva con noi, si è convinto di dover combattere contro di noi. A questo aggiungi che ancora oggi è convinto che io sia dalla parte sbagliata, solo che non me ne sarei ancora accorto.» Era sempre più furioso. «Butta tutto all'aria, non ha la minima idea di che cosa sia la protezione dell'ambiente e neppure degli indiani cui sente di appartenere. Gli indiani ridono a crepapelle di lui. Sei stata a casa sua? Ah, no, l'hai pescato in una birreria! La sua baracca è un vero museo del kitsch indiano. Sì, si piegano in due dal ridere, tranne quelli che non sanno cosa fare della loro vita, i ragazzetti che non fanno un tubo, quelli che si rifiutano di lavorare, i picchiatori e gli ubriaconi... Loro lo trovano fantastico, e lo stesso si può dire di un mucchio di anziani hippy bianchi e di quei surfisti che non sopportano di essere visti dai turisti mentre si grattano la pancia. Ah, e ci sono anche quelli che amavano il campeggio libero e che ora non possono più cagare dove vogliono e lasciare in giro la loro immondizia. Greywolf ha raccolto la feccia: anarchici e falliti, vagabondi e neoattivisti contro la violenza dello Stato, freak ambientalisti militanti espulsi da Greenpeace perché ne danneggiavano la reputazione, indiani che non sono mai stati graditi alle loro tribù, criminali e tutta la gentaglia possibile. Alla maggior
parte di questi malviventi non interessa niente delle balene; vogliono solo menare un po' le mani per rendersi importanti, solo che Jack non se ne rende conto e crede che la sua organizzazione sia davvero ambientalista. Pensa un po', finanzia quella gentaglia lavorando come boscaiolo e come guida per chi vuole vedere gli orsi, e lui stesso vive in una baracca pericolante che non useresti nemmeno come cuccia per un cane! Perché permette che tutti si divertano alle sue spalle? Perché uno come Jack si trasforma in una figura tragica? Quel gigantesco bastardo! Me lo sai dire?» Anawak si fermò e prese fiato. In alto, nel cielo, un uccello marino gridava. Alicia spalmò del burro su un pezzo di pane, ci mise sopra della marmellata e se lo infilò in bocca. «Magnifico!» esclamò. «Vedo che ti piace sempre.» Il nome Ucluelet derivava dalla lingua nootka e significava all'incirca «porto sicuro». Esattamente come Tofino, anche Ucluelet sorgeva protetto da una baia naturale e, nel corso degli anni, il piccolo villaggio di pescatori, con le sue casette di legno e suoi graziosi locali e ristoranti, era diventato una pittoresca attrazione per i whale watcher. La casa di Greywolf si trovava nella parte meno attraente di Ucluelet. Su un lato della strada principale si apriva un sentiero infestato di erbacce, grande appena per far passare un'automobile e adatto a distruggere gli ammortizzatori. Dopo alcune centinaia di metri, il sentiero terminava in una radura circondata da alberi antichissimi. La casa, una baracca malridotta con una stalla diroccata e vuota, sorgeva proprio là in mezzo. Dal villaggio non si vedeva. Bisognava conoscere la strada. Che la baracca fosse tutt'altro che confortevole, lo sapeva meglio di tutti il suo unico abitante. Finché il tempo reggeva - e secondo Greywolf il concetto di brutto tempo era qualcosa compreso fra un tornado e la fine del mondo -, lui se ne stava fuori, andava per i boschi, guidava i turisti a vedere gli orsi bruni e faceva tutta una serie di lavoretti occasionali. Le probabilità di trovarlo là erano praticamente nulle, anche di notte. O dormiva all'aperto, in mezzo alla natura, o nella camera delle turiste desiderose di avventure e convinte di aver accalappiato un selvaggio purosangue. Era primo pomeriggio quando Anawak arrivò a Ucluelet. Aveva progettato di andare a Nanaimo e da lì prendere il traghetto per Vancouver. Per diversi motivi aveva preferito evitare l'elicottero. Shoemaker l'avrebbe accompagnato fino a Ucluelet, dove aveva un appuntamento con Davie, e
aveva così dato ad Anawak una scusa per fare una tappa in paese. Davie stava pensando ad altri tour avventurosi: se non puoi più offrire alla gente due ore in mare, allora offri una settimana sulla terraferma. Anawak si era rifiutato di partecipare alla conversazione nel corso della quale Davie e Shoemaker volevano discutere la nuova struttura dell'azienda. Qualunque sviluppo ci fosse stato, sentiva che il suo periodo a Vancouver Island si stava avviando alla conclusione. Che cosa lo tratteneva davvero lì? Cosa gli restava, dopo la fine del whale watching? Una paralisi che cercava di mimetizzare con l'amore per l'isola, di cui gli era rimasto come sgradevole ricordo un ginocchio dolorante. Sciocchezze. Erano anni che cercava di allontanarsi. È vero, quegli anni gli avevano portato una laurea e vari riconoscimenti, ma quel tempo era ormai perso. Un conto era non vivere nel modo sbagliato, un altro avere la morte davanti agli occhi e, nelle settimane precedenti, lui aveva rischiato due volte di perdere la vita. L'incidente con l'idrovolante aveva cambiato tutto. Anawak sentiva una minaccia dentro di sé. Qualcuno aveva fiutato la sua paura ed era tornato sulle sue tracce, qualcuno che lui pensava di aver dimenticato. Un gelido fantasma gli offriva l'ultima possibilità di prendere in mano il suo destino e, se lui avesse fallito, gli prospettava un futuro di solitudine e miseria. Il messaggio era chiarissimo: rompi il cerchio. Il vecchio adagio così caro agli psicologi. Anawak aveva camminato lungo il sentiero infestato di erbacce, senza particolare fretta, come se non avesse una meta precisa. Aveva percorso la strada principale e, all'ultimo momento, aveva svoltato, come se di colpo gli fosse venuta un'idea. Era giunto nella radura, davanti a quell'orribile catapecchia, e si chiedeva cosa diavolo ci facesse lì. Salì i pochi scalini della misera veranda e bussò. Greywolf non era in casa. Girò alcune volte intorno alla capanna. Si sentiva deluso, senza riuscire a spiegarsi il perché. In fondo sapeva che non avrebbe trovato nessuno. Pensò di andarsene. Un tentativo l'aveva fatto. Tuttavia non poteva. Gli venne in mente l'immagine di un uomo col mal di denti che suona il campanello di uno studio dentistico e se ne va subito perché non gli viene aperto all'istante. I suoi piedi lo ricondussero alla porta d'ingresso. Allungò la mano e abbassò la maniglia. Spinse la porta, che si aprì con un leggero cigolio. Da quelle parti era normale lasciare la casa aperta. Un pensiero gli strappò un
brivido. Anche in un altro posto si viveva così. Per un momento si bloccò, indeciso, poi entrò. Non entrava in quella casa da un'eternità, e rimase sorpreso da quello che vide. Nei suoi ricordi, Greywolf viveva in mezzo a una sudicia confusione. Invece Anawak vide una stanza semplice ma accogliente, alle cui pareti erano appese maschere indiane e arazzi. Intorno a un tavolo basso di legno c'erano sedie intrecciate e colorate. Coperte indiane decoravano un sofà. Due scaffali erano pieni di ogni possibile oggetto di uso quotidiano, ma anche di sonagli di legno che i nootka usavano nelle cerimonie e nei canti rituali. Non c'era un televisore. Due piastre indicavano che quella camera serviva anche da cucina. Un passaggio conduceva a una seconda stanza. Quella in cui Greywolf dormiva, ricordò Anawak. Per un momento fu tentato di guardarsi intorno. Continuava a chiedersi perché fosse lì. Quella casa lo risucchiava in un buco temporale, verso un passato che lui non era sicuro di voler rivivere. Fissò una grande maschera che sembrava tenere d'occhio tutta la stanza. La maschera lo guardava. Si avvicinò. Molte maschere indiane avevano i tratti somatici simbolicamente portati all'eccesso: occhi enormi, sopracciglia oltremodo arcuate, nasi a becco. Quella era la fedele immagine di un volto umano. Mostrava il viso tranquillo di un giovane col naso dritto, con le labbra tonde e piene e la fronte alta. I capelli erano infeltriti, ma sembravano veri. Se si prescindeva dal fatto che le pupille erano bucate, in modo che chi la portava potesse vedere, gli occhi col bulbo dipinto di bianco apparivano sorprendentemente vivi. Guardavano tranquilli e severi, quasi come in trance. Anawak rimase immobile davanti alla maschera. Ne aveva visti a bizzeffe, di quegli oggetti. Le tribù le preparavano con legno di cedro, corteccia e cuoio e si potevano comprare in qualsiasi negozio di souvenir. Ma una maschera del genere non si trovava nei negozi di souvenir. «È dei pacheedaht.» Si girò. Greywolf era proprio dietro di lui. «Per uno che 'vuol essere un indiano' sei bravo ad avvicinarti di soppiatto», disse Anawak. «Grazie.» Greywolf sorrise. Non sembrava seccato per quella visita inattesa. «Non posso restituirti il complimento. Per essere un indiano completo sei una vera schiappa. Probabilmente avrei potuto farti fuori e non te ne saresti neppure accorto.» «Da quanto tempo mi stai dietro?»
«Sono appena entrato. Non faccio giochetti, dovresti saperlo.» Greywolf fece un passo indietro e fissò Anawak come se si fosse reso conto soltanto in quel momento che non l'aveva invitato. «A proposito, che vuoi?» Bella domanda, pensò Anawak. Involontariamente girò il capo verso la maschera, come se quella potesse parlare al suo posto. «Hai detto che è dei pacheedaht?» «Non sai neppure questo?» Greywolf sospirò e scosse la testa, indulgente. Onde lucenti gli percorsero i lunghi capelli. «I pacheedaht...» «Lo so chi sono i pacheedaht», disse Anawak, seccato. Il territorio di quella piccola tribù nootka era a sud di Vancouver Island, al di sopra di Victoria. «M'interessa la maschera. Sembra antica. Non come la paccottiglia che vendono ai turisti.» «È una copia.» Greywolf gli si avvicinò. Anziché il sudicio abito di pelle, portava jeans e una camicia scolorita, i cui disegni a quadri erano appena riconoscibili. Fece scorrere le dita sul profilo del volto di legno di cedro. «È la maschera di un antenato. L'originale è custodito dalla famiglia Queesto nel suo HuupuKanum. Ti devo spiegare che cos'è un HuupuKanum?» «No.» Anawak conosceva la parola, ma non sapeva esattamente che cosa significasse. Un qualche rituale. «Un regalo?» «L'ho fatta io», disse Greywolf. Si girò. «Vuoi bere qualcosa?» Anawak fissò la maschera. «L'hai...» «Nell'ultimo periodo ho intagliato parecchia roba. Una nuova passione. I Queesto non hanno nulla in contrario se copio le loro maschere. Vuoi qualcosa da bere o no?» Anawak si girò. «No.» «Allora, che cosa ti porta qui?» «Volevo ringraziarti.» Greywolf si lasciò cadere sul bordo del sofà e s'immobilizzò come un animale pronto al balzo. «Per che cosa?» «Ti devo la vita.» «Oh! Per quello! Pensavo che non te ne fossi accorto.» Greywolf scrollò le spalle. «Di niente. C'è altro?» Anawak era rimasto in mezzo alla stanza, sconcertato. Per settimane era stato oppresso da quel pensiero, e adesso era fatta. Grazie, prego. In fondo ora poteva andarsene. Aveva fatto quello che doveva. «Cos'hai da bere?» chiese invece. «Birra o Coca-Cola. La settimana scorsa, la ghiacciaia ha tirato le cuoia.
È stato difficile tirare avanti. Ma adesso funziona.» «Va bene. Una Coca-Cola.» D'un tratto, Anawak si accorse che il gigante era insicuro. Greywolf lo fissava come se non sapesse come procedere. Indicò il piccolo frigorifero vicino al fornello. «Serviti pure. Per me una birra.» Anawak annuì. Aprì il frigorifero e prese due lattine. Un po' irrigidito, si accomodò di fronte a Greywolf, su una delle sedie di vimini. Bevvero entrambi e, per un po', nessuno dei due parlò. «Allora, Leon?» «Io...» Anawak rigirò la lattina tra le mani. Poi la posò. «Ascolta, Jack, parlo sul serio. Sarei dovuto venire molto tempo prima. Mi hai ripescato dall'acqua e... Ma sì, sai che cosa penso delle tue azioni e delle tue pose da indiano. Non posso negare di essere stato maledettamente arrabbiato con te. Ma questo è un altro paio di maniche. Senza di te, molte persone non sarebbero più in vita. Questo è molto più importante e... sono venuto per dirtelo. Ti chiamano l''eroe di Tofino' e credo che, in un certo modo, tu lo sia davvero.» «Stai parlando sul serio?» «Sì.» Calò di nuovo un lungo silenzio. «Tu sostieni che le mie sono pose da indiano... Invece è qualcosa in cui io credo. Te lo devo spiegare?» In altre circostanze, dopo quelle parole la conversazione sarebbe immediatamente finita. Anawak si sarebbe innervosito e Greywolf gli avrebbe urlato qualche insulto... No, anzi: sarebbe stato Anawak a insultare Jack per primo. «Va bene», sospirò. «Spiegamelo.» Greywolf lo guardò a lungo. «Ho un popolo cui appartengo. Ne ho scelto uno.» «Oh, fantastico. Te ne sei scelto uno.» «Sì.» «E ti hanno scelto anche loro?» «Non lo so.» «Se posso dirtelo, sei il fenomeno da baraccone del tuo popolo. Oppure il personaggio di un western di serie Z. E che ne dice il tuo popolo? Pensa che tu gli stia facendo un piacere?» «Il mio compito non è fare un piacere a qualcuno.» «E invece sì. Se vuoi appartenere a un popolo, ti assumi la responsabilità
dell'appartenenza davanti a quel popolo. È così.» «Lui mi accetta. Non voglio nulla di più.» «Ti prende in giro, Jack!» Anawak si chinò in avanti. «Non lo capisci? Hai raccolto intorno a te un manipolo di falliti. In mezzo a loro ci sarà pure qualche indiano, ma di quelli con cui il tuo popolo non vuole avere nulla a che fare. Nessuno capisce perché lo fai. Non lo capisco nemmeno io. Tu non sei un indiano... Al massimo lo sei al venticinque per cento, il resto è bianco e prevalentemente irlandese. Perché non senti di appartenere agli irlandesi? Almeno il nome sarebbe appropriato.» «Perché non lo voglio», rispose Greywolf, tranquillo. «Non c'è più un unico indiano che porti un nome come quello che ti sei dato tu.» «Ci sono io.» Inutile, pensò Anawak. Sei venuto per ringraziarlo, l'hai ringraziato, tutto il resto è roba vecchia. Perché stai ancora qui? Dovresti andartene. Ma non se ne andò. «Okay, per favore, spiegami una cosa: se dai tanto valore all'essere accettato dal popolo che hai scelto, perché tanto per cambiare non provi a essere un vero indiano?» «Come te?» Anawak sobbalzò. «Lasciami fuori da questa storia.» «Perché?» ringhiò Greywolf, pronto ad attaccare. «Non capisco perché dovrei prendere le bastonate che sono indirizzate a te.» «Perché sono io a darle!» Improvvisamente sentì rimontare la rabbia, più forte che mai. Ma stavolta non aveva voglia di riportarsela a casa come al solito, di rinchiuderla dentro di sé facendosi venire l'ulcera. Era troppo tardi. Non si poteva tornare indietro. Si sarebbero dovuti guardare negli occhi e sapeva che cosa voleva dire. Ogni vittoria che otteneva su Greywolf comportava una sconfitta per se stesso. Greywolf lo guardava da sotto le palpebre semichiuse. «Non sei venuto per ringraziarmi, Leon.» «Invece sì.» «Ci credi? Sì, ci credi. Ma sei qui anche per altro.» Fece un sorriso beffardo e incrociò le braccia. «Allora, sputa il rospo. Cosa devi dire di così importante?» «Solo una cosa, Jack. Puoi chiamarti mille volte Greywolf, ma rimani quello che sei. Un tempo c'erano regole che portavano gli indiani a scegliere un nome, e nessuna di queste è adatta a te. Appesa là hai una bella ma-
schera, ma non è l'originale. È un falso, esattamente come il tuo nome. E ancora una cosa: anche la tua stupida organizzazione ambientalista è un falso.» Improvvisamente gli era uscito quello che non avrebbe voluto dire. Non quel giorno. Non era venuto per offendere Greywolf, ma non poteva impedire che accadesse. «Con te ci sono fannulloni e farabutti che si sono messi comodi sulle tue spalle. Non te ne accorgi? Non ottieni nulla. La tua idea di protezione delle balene è infantile. Hai scelto un popolo? Sciocchezze. Il popolo che ti sei scelto non avrà la minima comprensione per le tue follie.» «Se lo dici tu.» «Sai maledettamente bene che il popolo che ti sei scelto vuole riprendere a cacciare le balene. Mentre tu vuoi impedirlo. Ti fa onore, ma evidentemente non hai ascoltato la tua gente. Agisci contro il popolo cui dici...» «Palle, Leon. Tra i makah ci sono molti che la pensano come me.» «Certo, ma...» «Gli anziani della tribù, Leon! Non tutti gli indiani credono che un gruppo etnico debba esprimere la propria cultura attraverso sacrifici rituali. I makah fanno parte della società del XXI secolo, come tutti gli altri abitanti dello Stato di Washington.» «Conosco questo argomento», replicò Anawak, sprezzante. «Non deriva né da te né da qualche anziano della tribù, ma da una conclusione della See Shepherd Conservation Society, una società per la protezione degli animali, nel vero senso della parola. Non sei nemmeno in grado di offrire argomenti tuoi, Jack. Mio Dio, non riesco a crederci. Copi anche i tuoi stessi argomenti!» «Non lo faccio, io...» «Inoltre è assurdo prendere di mira proprio la Davies», lo interruppe Anawak. «Ah! Ecco che arriviamo alla questione. È per questo che sei qui.» «Sei stato uno di noi, Jack. Non hai imparato niente? Solo il whale watching ha chiarito una volta per tutte che balene e delfini valgono di più da vivi che da morti. Ha attirato l'attenzione su un problema che altrimenti non sarebbe mai arrivato con questa forza all'opinione pubblica. Fare whale watching significa proteggere la natura! Quasi dieci milioni di persone ogni anno vanno in mare per scoprire le meravigliose creature che lo abitano. La resistenza contro la caccia alle balene cresce anche in Giappone e in Norvegia perché noi offriamo questa possibilità. Hai capito? Dieci milioni di persone che altrimenti avrebbero visto le balene solo in televisione! E
forse neanche quello! Il nostro lavoro scientifico ci mette in condizione di difendere le balene nel loro ambiente, e senza il whale watching ciò non sarebbe stato possibile.» «Augh!» «E allora perché? Perché ci combatti? Perché sei stato cacciato via?» «Non sono stato cacciato. Me ne sono andato!» «Tu sei stato cacciato!» gridò Anawak. «Licenziato, giubilato, ti hanno dato il benservito. Hai fatto delle idiozie e Davie ti ha sbattuto fuori. Ma hai una tale fiducia in te stesso che non hai elaborato questo fatto, più o meno come non hai accettato quel Jack O'Bannon che hai cercato di cancellare e che ricomparirà non appena ti taglierai i capelli, ti toglierai i vestiti di pelle e abbandonerai quel tuo nome ridicolo. Tutta la tua ideologia poggia su equivoci e falsificazioni. Sei uno zero, una nullità! Produci solo merda! Danneggi la protezione della natura, danneggi i nootka, non sei a casa in nessun luogo, non hai patria, non sei irlandese e non sei indiano... Ecco qual è il tuo maledetto problema, e l'idea che siamo qui a litigare su queste cose, come se non avessimo ben altre preoccupazioni, mi fa uscire di testa!» «Leon...» sibilò Greywolf. «Mi fa impazzire vederti così.» Greywolf si alzò. «Leon, chiudi la bocca. Può bastare.» «Invece non basta. Al diavolo, potresti fare molte cose sensate, sei una montagna di muscoli e non sei stupido, allora che cosa...» «Piantala, Leon!» Greywolf girò intorno al tavolo e andò verso Anawak, stringendo i pugni. L'altro sollevò lo sguardo, chiedendosi se sarebbe bastato un pugno per spedirlo nel mondo dei sogni. Greywolf era stato licenziato perché, con quello schiaffo, aveva rotto la mandibola alla turista. Di certo, la sua lingua troppo lunga gli sarebbe costato un paio di denti. Ma Greywolf non lo colpì. Appoggiò le mani sui braccioli della sedia di Anawak e si chinò su di lui. «Vuoi sapere perché mi sono scelto questa vita? Vuoi saperlo davvero?» Anawak lo fissò. «Coraggio!» «No, non lo vuoi sapere, stronzetto presuntuoso.» «E invece sì. Solo che tu non hai nulla da dire.» «Tu...» Greywolf digrignò i denti. «Tu sei un maledetto idiota. Sì, tra le altre cose sono anche irlandese, ma non sono mai stato in Irlanda. Mia madre è una mezza suquamish. Non è mai stata accettata pienamente né dai
bianchi né dagli indiani, così ha sposato un immigrato che a sua volta non era stato accettato da nessuno.» «Commovente. Me l'hai già raccontato. Dimmi qualcosa di nuovo.» «No, ti racconterò solo la verità e tu mi farai il piacere di ascoltare! Hai ragione: non basta travestirsi da indiano per diventarlo. Ma non diventerei un irlandese neppure se mi scolassi litri di Guinness, e tantomeno potrei essere un normalissimo americano bianco solo perché in famiglia abbiamo anche un po' di quel sangue. Io non sono autentico. Non appartengo davvero a niente... E la sai una cosa? Maledizione, non posso farci nulla!» I suoi occhi scintillavano. «A te basta sollevare il culo per cambiare qualcosa. Ti guardi alle spalle e trovi la tua storia. Io non ho mai avuto la possibilità di guardarmi alle spalle per trovare la mia storia.» «Sciocchezze!» «Oh, certo, avrei potuto imparare le buone maniere e fare le cose ammodo. Viviamo in una società aperta, no? Se hai successo, nessuno ti chiede quali sono le tue origini. Ma io non l'ho mai avuto. Ci sono incroci etnici che hanno ricevuto il meglio da tutto il mondo. Si sentono a casa ovunque. I miei genitori sono povera gente, semplice e confusa. Non hanno mai capito che il loro figlio aveva bisogno di rafforzare la sicurezza in se stesso, di sviluppare un senso di appartenenza. Si sentivano sradicati e incompresi, e io ho ricevuto il peggio da tutto il mondo! Ho fallito in tutto. C'era una sola cosa che sapevo fare bene, ma ho fallito anche in quella.» «Ah, già. La Marina. I tuoi delfini.» Greywolf annuì, truce. «In Marina stavo bene. Ero il miglior addestratore che avessero mai avuto e non facevano domande stupide. Ma, non appena sono stato fuori, è crollato tutto. Mia madre ha fatto impazzire mio padre con le sue usanze indiane, e lui ha fatto impazzire lei con la sua costante nostalgia dell'Irlanda. Ognuno dei due cercava in qualche modo di affermarsi. Non credo che volessero vantarsi delle loro origini, ma semplicemente arrivare da qualche parte e dire: non sono un bastardo! Questa è la mia patria, ehi, qui sono a casa!» «Quelli erano problemi loro. Non avresti dovuto farli diventare anche tuoi.» «Ah, sì?» «Accidenti, Jack! Sei grande e grosso eppure sostieni di essere stato così traumatizzato dai conflitti dei tuoi genitori che non riesci più a rimetterti in sesto?» Anawak ansimava, furioso. «Che differenza fa se sei indiano, mezzo indiano o chissà che altro? Siamo soltanto noi i responsabili della nostra
patria interiore. Non lo sono i genitori, non lo è nessun altro.» Greywolf non replicò. Poi nei suoi occhi si accese un lampo di soddisfazione e, in quell'istante, Anawak comprese di aver perso. Doveva andare così. «Ma di chi stiamo parlando, in realtà?» chiese Greywolf con un sorriso malizioso. Anawak tacque e abbassò lo sguardo. Greywolf si alzò lentamente. Non sorrideva più e sembrava esausto. Andò verso la maschera e vi si fermò davanti. «Okay, forse sono un idiota», mormorò. «Non prendertela.» Anawak si passò una mano sugli occhi. «Siamo due idioti.» «Tu sei il più idiota dei due. Questa maschera arriva dal HuupaKanum del capo Jones. Tu non hai idea di cosa sia, vero? Te lo dico io. Il HuupaKanum è una scatola, dove si conservano maschere, ornamenti per la testa, oggetti cerimoniali e così via. Ma non è tutto. Nel HuupuKanum ci sono i diritti ereditati degli haiviih e dei chaachaabat, dei capi. L'HuupaKanum documenta il loro territorio, la loro identità storica, i loro diritti ereditari. Dice agli altri chi sei e da dove vieni.» Si voltò. «Uno come me non potrebbe mai entrare in possesso di un HuupaKanum. Tu sì. Tu potresti essere orgoglioso. Ma rinneghi quello che sei e le tue origini. Io devo portare la responsabilità del popolo cui sento di appartenere. Tu appartieni a un popolo, ma l'hai abbandonato! Mi accusi di non essere autentico. Non potrò mai esserlo, ma lotto per conquistarmi un pezzo di autenticità. Tu, invece, sei autentico, però non vuoi essere quello che sei, e non sei quello che vuoi essere. Hai detto che sembro uscito da un western di serie Z... È vero, ma almeno questa è la professione di un certo modo di vivere. Quando ti chiedono se sei un makah, tu sobbalzi.» «Come fai a saperlo...? Ah, certo. Alicia. È stata qui.» «Non rimproverarla», disse Greywolf. «A te non ha osato domandarlo una seconda volta.» «Cosa le hai raccontato?» «Non le ho raccontato niente, maledetto vigliacco che non sei altro. Vuoi venire a raccontare a me che cos'è la responsabilità? Vieni qui e osi spiattellarmi quelle idiozie sulla patria interiore, che non dipende dai genitori ma da noi stessi? Proprio tu? Leon, forse la mia vita sarà ridicola, ma tu... tu sei già morto.» Anawak rifletté. «Sì», disse poi lentamente. «Hai ragione.»
«Io ho ragione?» Anawak si alzò. «Sì. Ti ringrazio ancora per avermi salvato la vita. Hai ragione.» «Ehi, aspetta», Greywolf sbatteva le palpebre, nervoso. «Cosa... cos'hai intenzione di fare?» «Vado.» «Così? Hmm. Ma sì, Leon, io... Cioè, che tu sei già morto, io non... Maledizione, non volevo ferirti, io... Al diavolo, non stare lì in piedi, siediti.» «Perché?» «La tua... Coca-Cola! Non hai finito di berla.» Anawak sospirò, rassegnato. Si risedette, prese la lattina e bevve. Greywolf lo guardò, gli passò davanti e si lasciò di nuovo sprofondare sul sofà. «Com'è davvero la storia di quel bambino?» chiese Anawak. «Pare che tu gli sia proprio entrato nel cuore.» «Quello che abbiamo preso sulla nave?» «Sì.» «Cosa vuoi che sia? Aveva paura. Mi sono occupato di lui.» «Tutto lì?» «Certo.» Anawak sorrise. «A dire la verità, ho avuto l'impressione che tu volessi finire a ogni costo sui giornali.» Per un attimo, Greywolf sembrò seccato. Poi rispose al sorriso. «Certo che volevo finire sui giornali. Mi arrapa finire sui giornali. Qualcuno ci riesce, qualcun altro no.» «L''eroe di Tofino'.» «E allora? È fantastico! Persone assolutamente sconosciute mi hanno dato pacche sulle spalle. Non tutti possono far parlare di sé con esperimenti pionieristici sui mammiferi marini. Si prende quello che si può.» Anawak finì la sua bibita. «E come va la tua... ehm... organizzazione?» «La Seaguard?» «Sì.» «In malora. Dopo che metà dei membri ha perso la vita durante l'aggressione delle balene, l'altra metà si è dispersa al vento.» Greywolf aggrottò la fronte. Sembrava quasi che stesse ascoltando una voce dentro di sé. Poi tornò a posare lo sguardo su Anawak. «Leon, sai qual è il problema della nostra epoca? Gli uomini perdono importanza. Tutti sono sostituibili. Non ci sono più ideali e senza ideali non c'è nulla che ci possa rendere più
grandi di quello che siamo. Ciascuno cerca disperatamente la prova che il mondo senza di lui sarebbe un po' diverso. Io ho fatto qualcosa per quel bambino. Forse era una cosa priva di senso. Forse mi ha dato un po' d'importanza.» Anawak annuì lentamente. «Sì. Te l'ha data senz'altro.» Zona portuale, Vancouver Poche ore dopo la visita a Greywolf, Anawak guardava il molo alla luce del tramonto. Deserto. Come tutti i porti del mondo, anche quello di Vancouver era un cosmo autonomo di dimensioni enormi in cui sembrava non mancare nulla, se non la possibilità di orientarsi. Alle spalle di Anawak c'era il deposito dei container con le montagne spigolose delle casse dai colori irreali. Gru ferme si stagliavano contro il cielo blu argenteo della sera. I profili dei cargo per le automobili si delineavano come gigantesche scatole da scarpe. E poi navi portacontainer, cargo ed eleganti navi frigorifero bianche. Alla sua destra, si allineavano i magazzini. Un po' più avanti vedeva tubature che scorrevano l'una sull'altra, lamiere e parti di sistemi idraulici. Ancora più avanti iniziava la zona dei bacini di carenaggio e, oltre, c'era quella dei bacini galleggianti. La brezza portava fin là l'odore delle vernici. Evidentemente si stava avvicinando alla meta. Senza un'automobile, in quel luogo si era perduti. Anawak aveva dovuto chiedere ad alcune persone e per un bel pezzo aveva fatto domande vaghe, perché non riusciva a definire l'oggetto della sua ricerca. Gli avevano detto dove si trovavano i bacini galleggianti perché da lì doveva prendere le mosse per trovare quello che cercava. Nel porto di Vancouver c'erano bacini di tutte le dimensioni, compreso il secondo più grande bacino galleggiante del mondo, capace di sollevare oltre cinquantamila tonnellate. Ma, con sua grande sorpresa, quando le domande erano diventate più precise, Anawak era stato indirizzato al bacino di carenaggio, la darsena artificiale che veniva chiusa per mezzo di paratie prima che l'acqua fosse pompata fuori. Dopo aver sbagliato per due volte la strada, finalmente arrivò alla meta. Parcheggiò la macchina sotto un edificio molto alto, si mise in spalla la sacca sportiva strapiena e si mosse lungo la recinzione, finché non trovò una porta scorrevole leggermente aperta. Da lì scivolò all'interno.
Davanti a lui c'era un'area acciottolata, circondata da baracche. Subito dopo, sembrava che, dal terreno, salissero le sovrastrutture di una gigantesca nave. La Barrier Queen. Si trovava in un bacino lungo almeno duecentocinquanta metri. Ai lati si levavano gru su rotaie. La zona era illuminata da potenti riflettori. In giro non si vedeva nessuno. Mentre osservava attentamente lo spiazzo illuminato, Anawak si chiedeva se quello che si accingeva a fare non fosse inutile. La barca era in secca da settimane; probabilmente le incrostazioni erano state tolte e, con esse, tutto ciò che vi era nascosto dentro. Eventuali residui negli interstizi e nelle fessure dovevano essersi seccati ormai da tempo. Della cosa nascosta tra i mitili non era sicuramente rimasto nulla. In fondo, lui non sapeva cosa voleva ottenere dall'ispezione alla Barrier Queen. Era un tentativo fondato sulla fortuna, su una vaga speranza. Se avesse trovato qualcosa che potesse essere utile al laboratorio di Nanaimo, l'avrebbe preso con sé. Se invece non avesse trovato niente, avrebbe sacrificato una sera all'avventura. La «cosa» dello scafo. Era piccola, grande al massimo come una razza o una seppia. L'organismo aveva emesso una luce a lampi. Lo facevano molti abitanti del mare: cefalopodi, meduse, pesci degli abissi... Tuttavia Anawak era convinto di aver rivisto quel lampo quando aveva osservato con Ford le riprese dell'URA. La nuvola luminosa era molto più grande della «cosa», ma quello che era avvenuto al suo interno gli aveva ricordato in maniera sorprendente l'esperienza fatta sotto lo scafo della Barrier Queen. Se si trattava davvero della stessa forma di vita, allora la faccenda si faceva emozionante. Perché la sostanza nella testa delle balene, la materia sullo scafo della nave e l'essere che era fuggito sembravano identici. Le balene sono soltanto la parte del problema che ci è concesso vedere. Osservò lo spazio circostante con maggiore attenzione e, un po' in disparte, vide diversi fuoristrada parcheggiati davanti a una delle baracche. Le finestre erano illuminate. Rimase immobile. Erano veicoli militari. Che ci facevano lì i militari? Improvvisamente si rese conto che si trovava nel mezzo di uno spiazzo illuminato e si mise a correre, chino in avanti. Si fermò solo al bacino di carenaggio. Era così concentrato sulla presenza dei militari che, per qualche secondo, rimase a fissare il bacino senza rendersi conto di quello che vedeva. Poi spalancò gli occhi per la sorpresa. Dimenticò i veicoli e si avvicinò. Il bacino era pieno. La Barrier Queen non era in secca. Dove si sarebbe dovuta vedere la
nave sostenuta da impalcature, s'increspavano minuscole onde. Il livello dell'acqua era a otto-dieci metri dal fondo del bacino. Anawak si mise in ginocchio e fissò l'acqua nera. Perché l'avevano riempito? Avevano finito di riparare il timone? Ma allora avrebbero potuto portare fuori la Barrier Queen. Rifletté. E improvvisamente comprese. Per l'eccitazione, fece scivolare a terra la borsa così velocemente che provocò un gran rumore. Spaventato, guardò lungo il molo deserto. Il cielo si scuriva a vista d'occhio. Fasci luminosi rischiaravano il bacino con una fredda luce verdastra. Anawak si mise in ascolto, in attesa di sentire dei passi, ma udì solo i rumori della città, portati fin lì dal vento. Poi, scrutando il bacino pieno, fu assalito dai dubbi. A spingerlo fin lì era stata la rabbia scatenata dalla reticenza dell'unità di crisi, ma chi era lui per mettere in discussione quelle decisioni? Stava facendo un'azione da Rambo, probabilmente troppo grande per lui. Prima non ci aveva pensato. D'altra parte, ormai era lì. Cosa poteva mai succedere? Nel giro di venti minuti sarebbe sparito, portandosi appresso qualche informazione. Anawak aprì la sacca sportiva. C'era tutto. Non aveva escluso la possibilità di doversi immergere. Se la Barrier Queen fosse stata nel bacino galleggiante, sarebbe stato meglio avvicinarsi dal mare aperto. Ma lì era più facile. Era perfetto! Si liberò dei jeans e del resto del vestiario, prese la maschera, le piane, la torcia elettrica e un contenitore che si fissò ai fianchi. La custodia del coltello, legata a una gamba, completava l'attrezzatura. Non avrebbe avuto bisogno dell'ossigeno. Nascose la sacca sotto un blocco per gli ormeggi. Con l'equipaggiamento stretto sotto il braccio, si affrettò lungo il bacino, finché non raggiunse una scaletta che conduceva verso il basso. Lanciò un'ultima occhiata al molo. Le finestre della baracca erano sempre illuminate. Non si vedeva nessuno. Veloce e silenzioso, scese la scaletta, s'infilò maschera e pinne e si lasciò scivolare in acqua. Un freddo tagliente gli arrivò fin nelle ossa. Senza la tuta di neoprene doveva fare in fretta; a ogni buon conto, non aveva intenzione di restare a lungo sott'acqua. Con potenti colpi di pinna s'immerse e, con la torcia accesa, si diresse verso la carena. L'acqua era un po' meno torbida rispetto alla precedente immersione nel bacino del porto e lui vedeva chiaramente davanti a sé lo scafo d'acciaio. La luce della lampada faceva risplendere la
vernice rossa. Passò le dita sulla superficie, si bloccò per un attimo, si staccò e riprese a nuotare. Solo pochi metri più avanti, la parete spariva sotto una spessa incrostazione di cozze. Affascinato, continuò a nuotare. La carena era incrostata esattamente come prima. Dopo aver percorso circa la metà della distanza dalla prua, gli sembrò addirittura che le incrostazioni fossero aumentate. Allora non le avevano staccate! Avevano studiato il materiale e quello che poteva nascondersi dentro direttamente sulla nave. Ecco perché la Barrier Queen si trovava nel bacino di carenaggio: a differenza del bacino galleggiante, in caso di emergenza esso poteva essere chiuso ermeticamente, in modo che nulla finisse in mare. La Barrier Queen era stata trasformata in un laboratorio. E avevano riempito il bacino affinché quello che c'era attaccato e ciò che ci viveva dentro rimanesse in vita. Improvvisamente Anawak comprese anche il motivo dei veicoli militari. Se Nanaimo, come istituto civile, era stato tagliato fuori, ciò significava una cosa sola. L'esercito aveva avocato a sé le ricerche. Tutto il resto procedeva a porte chiuse. Anawak esitò, di nuovo assalito dai dubbi. Era ancora in tempo per lasciar perdere. Poi scacciò quel pensiero. Non gli sarebbe servito molto tempo. Estrasse velocemente il coltello e cominciò a staccare alcune cozze. Faceva attenzione a non danneggiarle: toglieva gli animali passando con cautela la lama sotto il bisso filamentoso e li staccava con un colpo deciso. Concentrato e sistematico. Nel suo contenitore, finivano un mitilo dopo l'altro. Bene. Sue gli avrebbe gettato le braccia al collo. Il bisogno di respirare divenne opprimente. Anawak rinfoderò il coltello e riemerse per prendere fiato. Nei suoi polmoni penetrò il freddo. Sopra di lui si levava lo scafo, ritto e scuro. Respirò diverse volte profondamente. Doveva cercare un punto simile a quello da cui si era scagliata contro di lui quella cosa lampeggiante. Forse quell'essere si nascondeva ancora tra le incrostazioni. Stavolta sarebbe stato pronto. Mentre si stava preparando a immergersi, sentì alcuni passi leggeri. Si voltò, sbirciando oltre il bordo del bacino. Due figure lo stavano percorrendo ed erano a metà strada tra due lampioni. Guardavano in basso. Senza far rumore, si lasciò sprofondare sotto la superficie dell'acqua. Probabilmente erano guardiani. O lavoratori che avevano fatto tardi. Sicuramente c'erano molte persone con un buon motivo per passare di lì a quel-
l'ora. Avrebbe dovuto fare molta attenzione nel lasciare il bacino. Poi gli venne in mente che, sebbene lui fosse sott'acqua, la luce della torcia rimaneva visibile. La spense. Fu circondato dall'oscurità. Che stupido. Da che parte stavano andando quei due? Verso poppa... Forse poteva nuotare verso la prua e riprendere le ricerche da lì. Si mise in movimento con colpi regolari di pinna. Dopo un po' riemerse, si girò sulla schiena, respirò con lo sguardo indirizzato al muro della banchina, ma non vide nessuno. All'altezza dell'ancora, si lasciò di nuovo sprofondare e toccò prudentemente la parete. Anche lì i mitili formavano bizzarre incrostazioni. Cercava una fessura o una grande cavità, ma non trovò nulla del genere. L'ideale sarebbe stato prenderne altri e poi sparire velocemente. A causa della fretta, staccò gli animali con minor cura. Le mani gli tremavano. Si rese conto che il suo era un piano da dilettante. Aveva un freddo terribile e la punta delle dita era quasi insensibile. La punta delle dita... Improvvisamente si rese conto che riusciva a vederla. Si guardò. Scorgeva anche le braccia e le gambe. Splendevano... No, era l'acqua che aveva iniziato a risplendere. Era fluorescente, di un colore blu scuro. Mio Dio, pensò. Un attimo dopo, venne abbagliato da una luce violenta e, d'istinto, sollevò le braccia per proteggersi gli occhi. Lampi di luce. La nuvola. Che cosa stava succedendo? Perché era andato lì? Ma non erano lampi. La luce violenta aveva un'intensità costante. Anawak si rese conto che era illuminato da un proiettore subacqueo. Altri riflettori si erano accesi lungo la soletta del bacino e rischiaravano lo scafo della Barrier Queen. Vide chiaramente l'incrostazione solcata e ondulata dei mitili e rabbrividì. I fari si erano accesi per lui. L'avevano scoperto! Per un attimo non seppe cosa fare. Ma c'era solo una strada. Doveva andare verso poppa, raggiungere la scaletta e risalire nel punto in cui aveva lasciato la sacca. Col cuore martellante, passò in fretta davanti alle luci violente. Sentiva l'acqua scrosciargli nelle orecchie. Cominciava a mancargli l'aria, ma non voleva riemergere prima di aver raggiunto la scala. Eccola, saliva a zig-zag lungo la soletta del bacino. Afferrò la ringhiera e si tirò su. Dall'alto sentì arrivare ordini impartiti ad alta voce e uno scalpiccio di piedi in corsa. In fretta si tolse la maschera e
le pinne, attaccò la torcia alla cintura e scivolò verso l'alto finché non riuscì a vedere oltre il bordo. I fucili erano puntati su di lui. Nella baracca diedero ad Anawak una coperta. Aveva cercato di spiegare ai soldati che era uno scienziato membro dell'unità di crisi, ma non gli avevano dato retta. Il loro compito era tenerlo prigioniero. Dato che non aveva opposto resistenza né cercato di fuggire, l'avevano portato nella baracca, dove c'erano un sacco di soldati e un ufficiale di servizio che lo stava tormentando con una raffica di domande. Anawak sapeva che non aveva senso inventarsi una storia. Non l'avrebbero comunque lasciato andare. Così raccontò chi era e perché era là. In breve, raccontò la verità. L'ufficiale lo ascoltò, pensieroso. «Può dimostrarlo?» chiese. Anawak scosse la testa. «I miei documenti sono nella sacca, là fuori. Potrei andarla a prendere.» «Ci dica dov'è.» Spiegò ai soldati dove aveva nascosto la sacca. Cinque minuti dopo, l'ufficiale aveva in mano i suoi documenti e li osservava con attenzione. «Se i suoi documenti non sono falsi, lei si chiama Leon Anawak, residente a Vancouver...» «Non ho fatto altro che ripeterlo.» «Dovrà spiegare molte cose. Vuole un caffè? Mi sembra infreddolito.» «Sono parecchio infreddolito.» L'ufficiale si alzò dalla scrivania, andò al distributore automatico e schiacciò un tasto. Uscì un bicchiere di plastica che si riempì di un liquido fumante. Anawak bevve a piccoli sorsi e sentì entrare un po' di calore nel corpo intirizzito. «Non so se credere alla sua storia», disse l'ufficiale, mentre gli girava lentamente intorno. «Se appartiene davvero all'unità di crisi, perché non ha fatto una richiesta ufficiale?» «Lo chieda ai suoi superiori. Sono settimane che cerco di prendere contatto con la Inglewood.» L'ufficiale aggrottò la fronte. «Lei è un collaboratore indipendente?» «Sì.» «Capisco.» Anawak si guardò intorno. Ipotizzò che la stanza ammobiliata con sedie di resopal e tavoli consunti fosse la sala per la pausa pranzo dei lavoratori del bacino, trasformata in una centrale operativa provvisoria. Aveva com-
pletamente sbagliato a valutare la situazione. «E ora?» chiese. «Ora?» L'ufficiale gli si sedette di fronte e intrecciò le dita. «Per prima cosa devo pregarla di restare qui. Il caso non è così semplice. Lei si trova in una zona militare.» «Non ci sono cartelli, se mi permette di farglielo notare.» «Non c'è neppure un cartello che autorizzi a entrare, dottor Anawak.» Anawak annuì. Di che poteva lamentarsi? Era stata un'idea balorda. O forse no... Perlomeno adesso sapeva che l'esercito si stava occupando della cosa, che stava studiando gli organismi sullo scafo e che li teneva in vita. Era poco probabile che i mitili raccolti per Sue Oliviera raggiungessero Nanaimo, almeno finché i capi continuavano a fare ostruzionismo. L'ufficiale prese la radio dalla cintura e parlò brevemente con qualcuno. «Lei è davvero fortunato», disse poi. «Verrà qualcuno che si occuperà di lei.» «Perché non prende i miei dati e mi lascia andare?» «Non è così semplice.» «Non ho fatto niente d'illegale», disse Anawak. Ma non suonava molto convincente neppure alle sue orecchie. L'ufficiale sorrise. «Le leggi sulla violazione di domicilio valgono anche per i membri delle unità di crisi. Sulla base del diritto civile.» Poi se ne andò, lasciando Anawak coi soldati. Non gli parlavano, ma lo tenevano d'occhio. Perlomeno il caffè era riuscito a scaldarlo... quello e la rabbia per aver mandato tutto all'aria. Si era dimostrato un perfetto idiota. L'unica consolazione era la prospettiva di ottenere qualche informazione da chi doveva «occuparsi» di lui. Attese mezz'ora senza fare assolutamente nulla. Poi sentì un elicottero avvicinarsi. Voltando la testa, sbirciò attraverso la finestra che dava sul bacino portuale. Un fascio luminoso entrò nella baracca e un potente proiettore scivolò sull'acqua. Poco dopo, quando l'elicottero sorvolò l'edificio e si abbassò, il rumore dei rotori si fece assordante. Il rombo si trasformò poi in un battito ritmico. L'elicottero era atterrato. Anawak sospirò. Adesso avrebbe dovuto raccontare tutto una seconda volta. Chi era? Che cosa stava cercando? Sentì dei passi avvicinarsi e frammenti di conversazione. Entrarono due soldati. Dietro di loro, c'era l'ufficiale, che annunciò: «Ci sono visite per lei, dottor Anawak». Poi fece un passo di lato e la silhouette di un'altra persona comparve nel riquadro illuminato della porta. Anawak la riconobbe subito. Rimase ferma
per un attimo come se volesse osservare all'intorno, quindi si avvicinò lentamente finché non gli fu proprio davanti. Anawak la guardò negli occhi. Due acquamarine in un viso asiatico. «Buonasera», disse lei con voce bassa e raffinata. Era il generale comandante Judith Li. 3 maggio Thorvaldson, scarpata continentale norvegese Clifford Stone era nato ad Aberdeen, in Scozia, secondo di tre figli. Fin dai primi anni di vita, gli era andato tutto male. Era piccolo, mingherlino e animato da una cattiveria che non aveva nulla d'infantile. La sua famiglia lo trattava con distacco, come se fosse una disgrazia, un contrattempo penoso che, se ignorato, sarebbe diventato meno gravoso da sopportare. Clifford non doveva portare la responsabilità del primogenito e non era coccolato come la sorella minore. Non si poteva dire che fosse maltrattato, perché in fondo non gli mancava nulla. Tranne il calore delle attenzioni. Non aveva mai provato la sensazione di eccellere in qualcosa. Da bambino non aveva amici e, intorno ai diciotto anni, aveva cominciato a perdere i capelli. Nessuno sembrava interessato alla possibilità che lui si diplomasse brillantemente. Il suo professore gli aveva comunicato il risultato finale con una certa sorpresa, come se si fosse accorto soltanto allora di quel ragazzo insignificante, con gli occhi neri così penetranti. Ma era un ottimo risultato, così il professore gli aveva fatto un cenno gentile col capo, gli aveva sorriso e nello stesso istante si era dimenticato quel viso magro. Stone aveva studiato ingegneria, rivelandosi molto portato per quella materia. Finalmente - e all'improvviso - aveva ottenuto quel riconoscimento cui aveva sempre ambito. Ma esso era rimasto confinato nell'ambito della sua vita professionale. Lo Stone privato era pressoché inesistente e non tanto perché nessuno volesse avere rapporti con lui, quanto perché lui stesso non si concedeva una vita privata. Il semplice pensiero di una vita privata gli faceva paura, significava ricadere nella mancanza di considerazione da parte degli altri. L'ingegnere Clifford Stone, con la sua intelligenza brillante, faceva carriera alla Statoil, ma disprezzava per le sue paure l'uomo calvo che la sera tornava a casa da solo, finché arrivò a togliergli ogni
diritto all'esistenza. Il colosso petrolifero era diventato la sua vita, la sua famiglia, la sua ragion d'essere, perché dava a Stone qualcosa che, a casa, lui non aveva mai provato. La sensazione di essere davanti agli altri. Di essere il primo. Era una sensazione nel contempo inebriante e angosciosa, un inseguimento continuo. Col passare del tempo, Stone aveva cominciato a nutrire una vera ossessione per la supremazia assoluta, benché nessun successo lo appagasse veramente, dato che non avrebbe saputo come e con chi festeggiare i trionfi. Quando raggiungeva una meta, era incapace di fermarsi anche solo per un attimo. Andava avanti come un ossesso. Fermarsi un attimo, probabilmente, avrebbe significato gettare uno sguardo a un ragazzo magro, dai lineamenti straordinariamente adulti; un ragazzo ignorato tanto a lungo che, alla fine, aveva iniziato a ignorare se stesso. E non c'era nulla che Stone temesse più di quegli esigenti occhi neri. Alcuni anni prima, la Statoil aveva creato un settore che doveva occuparsi della sperimentazione di nuove tecnologie. Stone si era reso immediatamente conto delle possibilità insite nell'imminente messa in opera di stazioni automatizzate per l'estrazione. Dopo aver sottoposto ai vertici dell'azienda una serie di proposte, gli era stata affidata la costruzione di una stazione, ideata dalla rinomata industria tecnologica FMC Kongsberg. In quel periodo, le stazioni sottomarine non erano una novità, ma il prototipo Kongsberg proponeva un sistema totalmente innovativo, economico e in grado di rivoluzionare le estrazioni offshore. Il governo ne era a conoscenza e approvava la costruzione, ma non in via ufficiale. E Stone sapeva che l'installazione era stata affrettata. Si temeva che associazioni come Greenpeace, se avessero saputo dell'esistenza di quella stazione, avrebbero richiesto una serie di test supplementari che si sarebbero protratti per mesi, se non per anni. La diffidenza era comprensibile; l'estrazione del petrolio era pur sempre ai primissimi posti nella statistica degli errori umani e delle scelte moralmente discutibili. Nessun groviglio d'interessi tra quelli che percorrevano il pianeta teneva gli ambientalisti col fiato sospeso quanto i cosiddetti interessi vitali dell'industria degli oli minerali. Così l'installazione era rimasta un segreto. Anche quando la Kongsberg aveva pubblicato il progetto su Internet, non aveva detto che la Statoil l'aveva già messo in attività. Laggiù negli abissi lavorava un fantasma che non toglieva il sonno ai suoi costruttori soltanto perché funzionava in automatico. Stone non aspettava altro. Dopo infinite serie di test, si era convinto di aver escluso ogni rischio. A che cosa sarebbero serviti ulteriori esperimen-
ti? I risultati ottenuti avrebbero soddisfatto anche la tipica insicurezza che lui credeva di scorgere nei colossi industriali a conduzione statale e che disprezzava. C'erano inoltre due fattori che escludevano ogni dilazione. Il primo era l'aumento delle possibilità di Stone di entrare, in quanto precursore tecnologico, negli spaziosi uffici del management board. Il secondo era che la guerra del petrolio, nonostante la strumentalizzazione della politica internazionale e gli attacchi armati per il controllo di Stati sovrani, minacciava di risolversi in una sconfitta per tutte le parti in gioco. In fondo, il problema non era prevedere quando sarebbe uscita l'ultima goccia di petrolio, ma quando l'estrazione non sarebbe più stata economicamente vantaggiosa. Il tipico sviluppo della resa di un giacimento seguiva le leggi della fisica. Dopo la prima perforazione, il petrolio veniva spinto fuori dalla pressione e spesso zampillava per decenni. Col tempo, però, la pressione si riduceva. Sembrava che la terra non volesse più dare il petrolio, che lo trattenesse in minuscoli pori con una pressione capillare. In tal modo, ciò che all'inizio usciva spontaneamente, ora doveva essere estratto con grande spesa. Costava un capitale. La quantità estratta diminuiva rapidamente molto prima che il giacimento fosse esaurito. Sottoterra poteva esserci ancora petrolio, ma, se estrarlo richiedeva più energia di quanta ne procurasse, allora era meglio lasciarlo dov'era. Era quello il motivo per cui gli esperti dell'energia, alla fine del Secondo Millennio, si erano così clamorosamente sbagliati, affermando che le riserve fossili erano assicurate per decenni. In teoria avevano ragione. La terra era imbevuta di petrolio, ma o non si poteva raggiungere o non c'era proporzione tra le spese e i ricavi. Questo dilemma, all'inizio del Terzo Millennio, aveva portato a una situazione inquietante. L'OPEC, che negli anni '80 era stata considerata morta e sepolta, festeggiava una rinascita da zombie. Non perché avesse sciolto il dilemma, ma semplicemente perché disponeva delle riserve maggiori. Ai Paesi del mare del Nord, che non volevano farsi imporre il prezzo dall'OPEC, restava solo la possibilità di abbassare drasticamente i costi, sfruttando gli abissi marini con stazioni totalmente automatizzate. L'interesse per le profondità abissali doveva però fare i conti con una serie di problemi, a partire dalle condizioni estreme di pressione e temperatura. Per chi fosse riuscito a risolverli, tuttavia, si sarebbero spalancate le porte di un secondo Eldorado. Non in eterno, è vero, ma sufficientemente a lungo per un settore che viveva grazie a un mondo disperatamente dipendente da petrolio e gas.
Stone, la cui vita era determinata dal desiderio di arrivare primo, aveva preparato una perizia, forzato i tempi per lo sviluppo del prototipo e consigliato la costruzione. La Statoil lo aveva assecondato. D'improvviso, il suo spazio d'azione e il suo credito erano aumentati enormemente. Lui curava in modo esemplare i contatti con le società incaricate dello sviluppo del progetto e otteneva la precedenza assoluta per i desideri e le esigenze della Statoil. Ma era sempre perfettamente consapevole di camminare sul filo del rasoio. Finché non ci fossero state critiche sull'attività del colosso industriale, il consiglio di amministrazione avrebbe visto Stone come un vero conquistatore. Tuttavia, se si fossero dovuti presentare all'opinione pubblica per spiegare situazioni di emergenza, senza dubbio l'avrebbero mollato. L'uomo migliore era sempre il miglior capro espiatorio. Stone sapeva che doveva riuscire a ottenere un posto nel consiglio di amministrazione prima che a qualcuno venisse in mente di sacrificarlo. Bastava che il suo nome fosse collegato una volta soltanto alle idee d'innovazione e di profitto e tutte le porte si sarebbero spalancate. A lui sarebbe bastato scegliere in quale compiacersi di entrare. Almeno aveva immaginato la faccenda in questi termini. E adesso stava su quella maledetta nave. Non sapeva con chi prendersela: con Skaugen che l'aveva tradito o con se stesso? Non rientrava tutto nelle regole del gioco che ben conosceva? Perché si agitava? Era accaduto. Lo scenario peggiore era diventato realtà. Tutti si mettevano al sicuro. Skaugen sapeva che prima o poi i disastrosi avvenimenti sulla scarpata continentale sarebbero arrivati all'opinione pubblica. Se non si voleva rischiare di fare una pessima figura, nessuno poteva rimanere in silenzio ancora a lungo. Il sondaggio fatto dalla Statoil tra le altre industrie petrolifere aveva avviato un processo che non si poteva più fermare. Tutti erano sotto pressione. Con la minaccia di una catastrofe ambientale, gli accordi segreti non erano più possibili. Ormai si trattava unicamente di vedere chi, in quella situazione, se la sarebbe cavata con un'elegante virata e chi sarebbe stato abbattuto. Stone schiumava di rabbia. Skaugen che recitava la parte della brava persona gli faceva venire il vomito. Finn Skaugen era il peggiore di tutti. Il suo gioco era di gran lunga più perfido di quello che lui avrebbe potuto concepire, anche nel suo momento più nero. Che cos'era successo? Naturalmente Stone aveva agito con ampi margini di manovra, ma perché aveva potuto farlo? Perché gli avevano concesso quegli spazi! Pazzesco! E lui non li aveva neppure sfruttati appieno. Un verme sconosciuto, e allora?
Ovviamente aveva «dimenticato» quella perizia idiota. Nessun verme aveva mai rappresentato un pericolo per i viaggi via mare e per le piattaforme di produzione. Migliaia di navi passavano ogni giorno in mezzo a minuscoli esseri viventi. Restavano forse in porto a causa di una nuova specie di granchio? Di nuove specie se ne scoprivano in continuazione. Poi c'era la faccenda degli idrati. Da morire dal ridere. Le fuoriuscite di gas erano sotto controllo. Ma cosa sarebbe successo se avesse divulgato quelle perizie? Maledetti burocrati, che razzolavano in tutto ciò che doveva essere servito caldo finché non lo trasformavano in una poltiglia fredda. Avrebbero ritardato la costruzione, senza motivo, assolutamente senza motivo. La colpa è del sistema, pensò Stone, livido. E anzitutto di Skaugen. Ma anche di quella marmaglia del consiglio di amministrazione, che dava pacche sulle spalle sorridendo e diceva: 'Fantastico, ragazzo, va' avanti così, ma non farti beccare, perché noi non c'entriamo niente...' e infine aveva scaricato tutta la responsabilità su di lui. Poi c'era Tina. Pure lei era colpevole: aveva tramato con Skaugen per prendere il suo posto, probabilmente si faceva scopare da quel bastardo! Sì, doveva essere così. Avrebbe scopato anche con lui? Maledetta puttana. Si era persino umiliato a ringraziarla, perché quella stupida vacca aveva intercesso per lui, e Skaugen gli aveva dato la possibilità di ritrovare la stazione scomparsa. Ma quell'offerta aveva un significato evidente. Non era una possibilità, ma una trappola. Tutti. Tutti l'avevano tradito! Ma gliel'avrebbe fatta vedere lui. Clifford Stone non era ancora liquidato. Qualunque cosa fosse successa alla stazione, lui l'avrebbe scoperto e l'avrebbe rimessa a posto. Soltanto allora si sarebbe visto chi aveva fatto le scarpe all'altro. Lui sarebbe andato sino in fondo. Personalmente! Nel frattempo, la Thorvaldson aveva scandagliato col sonar il luogo in cui si doveva trovare la stazione, ma invano. Sembrava che la morfologia del fondale si fosse trasformata, rivelando una fossa che, fino a pochi giorni prima, non c'era. Stone non poteva negare che, al pensiero di quella fossa, gli veniva la tremarella, non diversamente dall'equipaggio e dall'équipe tecnica. Ma rimosse la paura. Pensò solo al viaggio sottomarino e al fatto che, alla fine, avrebbe squarciato il velo di mistero. Clifford Stone, l'impavido. Un uomo d'azione! Sul ponte di poppa della Thorvaldson, il batiscafo attendeva di portarlo a
novecento metri di profondità. Prima, tuttavia, avrebbero dovuto mandare in ricognizione il robot, come avevano caldamente consigliato JeanJacques Alban e tutti gli altri a bordo. Victor aveva ottime telecamere, un braccio prensile assai sensibile e gli strumenti necessari per una rapida acquisizione dei dati. Ma se Stone fosse andato di persona, avrebbe fatto più impressione. Alla Statoil avrebbero capito che Clifford Stone non era un amico a mezzo servizio. Inoltre lui non condivideva il punto di vista di Alban. Sulla Sonne aveva parlato con Gerhard Bohrmann dei viaggi in batiscafo. Bohrmann si era immerso col leggendario Alvin al largo dell'Oregon. Mentre lo raccontava, i suoi occhi avevano assunto un'aria trasognata. Aveva detto: «Ho visto migliaia di riprese video fatte dai robot, tutte molto impressionanti. Ma essere di persona lì dentro, essere di persona là sotto, quella tridimensionalità... Non pensavo fosse così. Non c'è paragone». Aveva anche detto che nessun organo di senso artificiale e nessuna acquisizione mediata avrebbe potuto sostituire quell'esperienza. Stone sorrise, cupo. Stavolta era il suo turno. Si era mosso con intelligenza. Grazie ai suoi ottimi contatti era riuscito a procurare il batiscafo. Si trattava di un DR 1002, un Deep Rover dell'americana Deep Ocean Engineering, uno dei modelli di nuova generazione, piccolo e maneggevole. Sullo scafo, da cui partivano due braccia prensili snodate, c'era una sfera completamente trasparente. All'interno si vedevano due sedili, apparentemente comodi, con a fianco tutti gli strumenti di controllo. Quando si avvicinò al Deep Rover, Stone si mostrò molto soddisfatto della scelta. Il batiscafo era legato alla gomena del braccio della gru e sollevato in modo che ci si potesse infilare dalla botola sul pavimento. Il pilota, un uomo tarchiato, ex aviatore della Marina, che tutti chiamavano semplicemente Eddie, era già all'interno e controllava gli strumenti. Come al solito, prima che un batiscafo s'immergesse, il ponte di poppa formicolava di marinai, tecnici e scienziati. Stone si guardò intorno, scorse Alban e gli fece un fischio. «Dov'è il fotografo?» gli gridò. «E il tipo con la telecamera?» «Non ne ho idea», rispose Alban mentre si avvicinava. «Il cameraman l'ho visto poco fa bighellonare da qualche parte.» «Allora dovrebbe farmi il piacere di bighellonare da queste parti», sbuffò Stone. «Non c'immergiamo senza aver documentato tutto.» Alban aggrottò la fronte e guardò verso il mare. La giornata era nebbiosa, con una pessima visuale. «Puzza», disse. Stone scrollò le spalle. «È per il metano.»
«Peggiorerà.» In effetti sul mare aleggiava un odore ripugnante. Se in superficie c'era un simile odore, voleva dire che in profondità doveva esserci moltissimo metano libero. Avevano visto tutti che cos'era successo alla scarpata continentale, avevano visto i vermi e le bolle che risalivano. Nessuno poteva o voleva farsi un'idea di come sarebbe finito quel processo, ma di certo, se tutto il mare puzzava come se fosse esploso un intero carico di bombe puzzolenti, non era un buon segnale. «Tornerà tutto calmo», disse Stone. Alban lo guardò. «Ascolti, Stone, al suo posto lascerei perdere.» «Che cosa?» «L'immersione.» «Ah, sciocchezze! Dov'è quel maledetto fotografo?» «È troppo rischioso.» «Sciocchezze.» «Inoltre il barometro sta scendendo. Precipita. Avremo tempesta.» «La tempesta è insignificante per un batiscafo, devo spiegarle anche questo? C'immergiamo e basta.» «Stone, lei è un idiota! Perché lo fa?» «Perché così potremo avere un quadro più chiaro in breve tempo», lo catechizzò Stone. «Santo cielo, Jean, non sia così fifone. Nulla riuscirà a rompere quello scafo e di certo non ci riusciranno un po' di vermi. Può raggiungere chilometri di profondità...» «A quattromila metri l'involucro collassa», lo informò Alban in tono secco. «E l'imbarcazione è certificata fino a mille.» «Lo so anch'io, e allora? Vogliamo scendere a novecento metri, chi ha mai parlato di quattromila? Cosa può succedere?» «Non lo so. So soltanto che il fondale sotto di noi è cambiato e che nelle colonne d'acqua c'è sempre più gas. Il sonar non riesce a localizzare la stazione e non sappiamo perché.» «Forse c'è stato uno smottamento. O una frana. Nel peggiore dei casi, la nostra stazione è sprofondata un po'. Cose che capitano.» «Sì. Forse.» «Allora, qual è il problema?» «Il problema è che un robot potrebbe fare la stessa cosa», sbottò Alban. «Ma lei vuole assolutamente giocare all'eroe.» Stone indicò con due dita i propri occhi. «Con questi posso valutare molto meglio la situazione. Capisce? Direttamente sul luogo. Così si risol-
vono i problemi: si va e li si affronta.» «Va bene. Okay.» «Allora, quando c'immergiamo?» Stone guardò l'orologio. «Ah, tra mezz'ora. No, tra venti minuti. Fantastico.» Fece un cenno a Eddie all'interno del batiscafo. Il pilota sollevò la mano, poi tornò a dedicarsi alla console. Stone sorrise. «Cosa vuole di più? Abbiamo il miglior pilota che ci sia in circolazione. E, in caso di necessità, quell'affare lo so guidare anch'io.» Alban rimase in silenzio. «Allora è tutto chiaro. Bene. Voglio guardare ancora una volta il piano d'immersione. Per qualsiasi evenienza, sono nella mia cabina. E per favore, Jean, vada a prendere quei maledetti uomini per le riprese. Li porti qui, a meno che non siano caduti in mare.» Trondheim, Norvegia «Dopobarba», borbottò Johanson. Era possibile che avesse finito il dopobarba? No, impossibile. Lui era Sigur Johanson, il magazziniere delle cose belle. Vino e cosmetici non finivano così, come se niente fosse. Da qualche parte doveva avere ancora una boccetta di Kiton eau de toilette. Impaziente tornò in bagno e rovistò nell'armadietto a specchi. Doveva uscire di casa in fretta, perché l'elicottero lo aspettava sullo spiazzo del centro di ricerca, per portarlo all'incontro con Kaxen Weaver. Ma per lui, che dava importanza al suo aspetto accuratamente trasandato, preparare la valigia era un compito ben più difficile che per qualunque altro essere umano. Una persona normale non si perdeva in astrusità come scegliere con accuratezza il colore sbagliato della giacca. Trovò il dopobarba dietro due barattoli di gel per capelli. Mise la boccetta nel nécessaire, che schiacciò nella borsa da viaggio tra un volume di poesie di Walt Whitman e un libro sul Porto e chiuse la cerniera. Era una borsa in stile bagaglio a mano, d'obbligo per i nobili londinesi durante i party in campagna all'inizio del XIX secolo. I passanti di pelle erano cuciti a mano e il fatto che la maniglia fosse un po' consumata trovava la piena approvazione di Johanson. Il quinto giorno! Aveva messo in borsa il CD? Ne aveva copiato uno coi dati che documentavano la sua straordinaria teoria della regia superiore? Forse si sareb-
be presentata l'occasione di parlarne con la giornalista. Controllò ancora una volta. C'era, ricoperto da camicie e calzini. Con passi elastici lasciò la sua casa in via Kirkegata e salì sul fuoristrada. Per qualche motivo si sentiva su di giri, pieno di una voglia di fare quasi isterica. Prima di accendere il motore, dedicò ancora uno sguardo alla facciata della sua casa. Prese la chiave tra il pollice e l'indice della mano destra e fece per infilarla nel quadro. D'un tratto capì che cosa lo assillava. Cercò di scacciare il pensiero. Azione contro riflessione. Fischiare nella foresta. Trallallì, trallallà... Su Trondheim si stendeva una nebbia umida che sfumava tutti i contorni. Anche la sua casa, dall'altra parte della strada, sembrava più scialba del solito. Quasi un dipinto. Cosa succede alle cose che si amano? Perché era rimasto per ore davanti ai quadri di Van Gogh e aveva sentito dentro di sé una pace come se non fossero stati dipinti da un paranoico disperato, ma da un uomo assolutamente felice? Perché nulla poteva distruggere l'immagine. Naturalmente un quadro poteva essere distrutto. Ma, finché esisteva, l'immagine racchiusa nei colori a olio era assoluta. I girasoli non sarebbero mai appassiti. Sul ponte di Langlois, presso Arles, non sarebbero mai cadute le bombe. Nulla poteva togliere a un dipinto la sua bellezza. Anche se ci si spennellava sopra, l'originale, per quanto nascosto, esisteva ancora. Quello che era orribile restava orribile, quello che era bello non avrebbe mai perso la propria bellezza. Anche il ritratto dell'uomo coi lineamenti scavati e la benda bianca all'orecchio, che guardava l'osservatore coi suoi occhi profondi, possedeva una certa rassicurante fiducia, perché lui, almeno nel quadro, non poteva diventare ancora più infelice, non poteva invecchiare. Impersonava un momento fissato in eterno. Aveva vinto. Alla fine, aveva trionfato sugli aguzzini e sugli ignoranti, se ne era sbarazzato con la forza del suo pennello e del suo genio. Johanson osservava la casa. Perché non può restare così? pensò. Se solo fosse un quadro e nel quadro ci fossi anch'io... Ma lui non viveva in un quadro, non abitava in una galleria in cui poter passare in rassegna le scene della sua vita. La casa al lago... Quella sì, che avrebbe potuto essere un quadro fantastico, con a fianco il quadro della
donna da cui aveva divorziato e quelli delle donne che aveva conosciuto, di qualcuno dei suoi amici e naturalmente uno di Tina. Anche mano nella mano con Kare. Sì, perché no? Un quadro in cui Tina trovasse la pace, per sempre. Le avrebbe invidiato la pace e la serenità d'animo. Di colpo lo assalì una cupa ansia da abbandono. Là fuori il mondo cambia, pensò. Si unisce contro di noi. È stato deciso in un luogo segreto, e noi non c'eravamo. Gli uomini non c'erano. Una casa così bella, così tranquilla... Accese il motore e partì. Kiel, Germania Erwin Suess entrò insieme con Yvonne Mirbach nell'ufficio di Bohrmann. «Chiama Johanson», disse. «Subito!» Bohrmann sollevò la testa. Conosceva il direttore del Geomar da tempo sufficiente per capire che doveva essere successo qualcosa di eccezionale. Qualcosa che aveva sconvolto profondamente Suess. «Che cos'è successo?» chiese, benché intuisse la risposta. Yvonne Mirbach prese una sedia e si accomodò. «Abbiamo fatto elaborare al computer tutti gli scenari. Il collasso avverrà prima di quanto pensassimo.» Bohrmann aggrottò la fronte. «L'ultima volta non eravamo sicuri che si sarebbe arrivati a un collasso.» «Invece temo di sì», disse Suess. «Il consorzio di batteri?» «Sì.» Bohrmann si appoggiò allo schienale e sentì la fronte ricoprirsi di un sudore freddo. Non può essere, pensò. Sono solo batteri, microscopici esseri viventi. Si ritrovava a fare pensieri da bambino. Com'è possibile che qualcosa di così piccolo distrugga uno strato di ghiaccio spesso oltre cento metri? Non può essere. Cosa può fare un microbo a migliaia di chilometri quadrati di fondali marini? Non è immaginabile. Non è realistico. Non può succedere. Sapevano poco dei consorzi. Però, negli abissi, microrganismi di diverse specie si erano riuniti in un sistema simbiotico. I solfobatteri si erano alleati con gli archaea, unicellulari primigeni, una delle più antiche forme di vita. La simbiosi funzionava con grande successo. Solo pochi anni prima, erano stati scoperti i primi consorzi sulla superficie degli idrati di metano. I solfobatteri assimilavano con l'aiuto dell'ossigeno quello che ri-
cevevano dagli archaea, cioè idrogeno, biossido di carbonio e diversi idrocarburi. Infatti gli archaea eliminavano quelle sostanze dopo aver gustato il loro cibo preferito. Il metano. In un certo senso, anche i solfobatteri vivevano di metano, ma non direttamente. Infatti, la maggior parte del metano si trovava in sedimenti privi di ossigeno ed essi non potevano vivere senza ossigeno. Ma gli archaea sì. Erano in grado di raggiungere il metano senza bisogno di ossigeno anche a chilometri di profondità sotto la superficie terrestre. Si valutava che ogni anno trasformassero trecento milioni di tonnellate di metano marino, probabilmente a tutto vantaggio del clima terrestre, perché il metano scisso non entrava nell'atmosfera come gas serra. Da quel punto di vista erano quasi una sorta di polizia ambientale. Perlomeno finché si distribuivano su ampie superfici. Ma vivevano anche in simbiosi coi vermi. E quegli strani vermi, con le loro mostruose mandibole, ospitavano miriadi di consorzi di solfobatteri e archaea, sia dentro sia sopra di loro. A ogni metro che scavavano negli idrati, i vermi portavano i microrganismi sempre più in profondità, e quelli cominciavano a distruggere il ghiaccio dall'interno. Come un cancro. A un certo punto, i vermi e i solfobatteri morivano, ma gli archaea continuavano impassibili a divorare il ghiaccio, fino ad arrivare al gas libero. Trasformavano quella che una volta era la massa compatta degli idrati in una massa porosa e friabile, e il gas usciva. I vermi non possono destabilizzare gli idrati. Bohrmann si sentiva pronunciare quelle parole. Vero. Ma quello non era compito loro. I vermi avevano solo lo scopo di portare all'interno del ghiaccio il loro carico di archaea. Come degli autobus: idrati di metano, scendere, tutti al lavoro. Perché non ci ho riflettuto? pensò Bohrmann. Abbassamento della temperatura dell'acqua marina, diminuzione della pressione idrostatica, terremoti... Tutto ciò apparteneva al repertorio degli orrori elaborato dalla ricerca sugli idrati. Nessuno aveva pensato seriamente ai batteri, sebbene fosse noto quello che facevano. Nessuno si sarebbe neppure sognato di sviluppare lo scenario di una simile invasione. Nessuno avrebbe ritenuto possibile l'esistenza di un verme che si rivela un suicida metanotrofo. Il gran numero di vermi e la loro estensione su tutta la scarpata continentale erano cose assurde, inesplicabili! Era impossibile che ci fosse un esercito di archaea trascinato dal proprio fatale appetito!
E poi ritornò a pensare: Come diavolo sono arrivati quegli animali? Che cosa li ha portati là? O chi? «Il problema è che la nostra prima simulazione si basava su un'equazione lineare», disse Yvonne Mirbach. «Ma la realtà non procede in maniera lineare. Abbiamo a che fare con uno sviluppo in parte esponenziale, in parte caotico. Il ghiaccio si rompe, il gas sottostante schizza fuori spinto dalla pressione e trascina con sé frammenti di ghiaccio. Il fondale marino si sfonda, cosicché il momento del collasso si avvicina a folle velocità...» «Va bene.» Bohrmann sollevò la mano. «Quanto tempo?» «Qualche settimana, qualche giorno, qualche...» Yvonne esitò. «C'è un fattore d'imponderabilità. Continuiamo a non sapere se effettivamente accadrà. Quasi tutto indica che succederà, ma lo scenario è talmente insolito che non riusciamo quasi ad andare oltre le teorie terroristiche.» «Lasciamo perdere il nascondiglio diplomatico. Qual è la tua opinione?» Yvonne lo guardò. «Non ne ho.» Fece una breve pausa. «Se tre formiche legionarie finiscono sotto un grande mammifero, sicuramente moriranno; se lo stesso mammifero finisce in mezzo a qualche migliaio di loro, sarà spolpato vivo. Per quanto riguarda i vermi e i microrganismi, immagino una cosa del genere. Capito?» «Chiama Johanson», ripeté Suess. «Digli che temiamo un effetto Storegga.» Bohrmann espirò lentamente. Poi, senza dire una parola, annuì. Trondheim, Norvegia Erano sul bordo della pista d'atterraggio, da dove si poteva vedere il fiordo. La riva di fronte quasi non si scorgeva. L'oceano si stendeva davanti a loro, come una lastra di acciaio opaco sotto un cielo che diventava sempre più grigio. «Sei uno snob», disse Tina, gettando un'occhiata all'elicottero in attesa. «Certo che sono uno snob», ribatté Johanson. «Quando si è reclutati con la forza, ci si può permettere anche un certo snobismo, non credi?» «Non ricominciare.» «Anche tu sei una snob. Nei prossimi giorni potrai andare in giro con un elegante fuoristrada.» Tina sorrise. «Allora dammi la chiave.»
Johanson frugò nelle tasche del cappotto, tirò fuori le chiavi della jeep e gliele mise in mano. «Fa' attenzione, mentre sono via.» «Non aver paura.» «E non pensarci neppure, a imboscarti lì sopra con Kare.» «Non c'imboschiamo nelle macchine.» «V'infratterete ovunque. Comunque hai fatto bene a seguire il mio consiglio e spezzare una lancia in favore del povero Stone. Ora può andare a ripescare la sua stazione.» «A costo di disilluderti, il tuo consiglio non ha giocato il minimo ruolo. Graziare Stone è stata esclusivamente una decisione di Skaugen.» «Allora è stato graziato?» «Se riesce a riportare la situazione sotto controllo, potrebbe sopravvivere all'interno del gruppo.» Guardò l'orologio. «Più o meno in questo momento si sta immergendo col batiscafo. Incrociamo le dita.» «Come mai non manda un robot?» «Perché non ha tutte le rotelle a posto.» «Davvero?» «Credo voglia dimostrare che una crisi del genere si può risolvere solo alla sua maniera. E che Clifford Stone è insostituibile.» «E voi glielo permettete?» «Perché no? È ancora il capo progetto. Inoltre su un punto ha ragione. Se scende di persona, potrà valutare meglio la situazione.» Johanson immaginò la Thorvaldson in un grigio senza contorni, e Stone che s'immergeva, circondato dal buio verso un mistero. «Sembra che sia proprio coraggioso.» «Sì.» Confermò Tina. «È uno stronzo, ma non si può dire che non sia coraggioso.» «Allora forza.» Johanson prese la borsa da viaggio. «Non fare danni alla mia macchina.» «Non preoccuparti.» Andarono insieme verso l'elicottero. Skaugen gli aveva affettivamente messo a disposizione il fiore all'occhiello del gruppo petrolifero, un grande Bell 430, il non plus ultra nel comfort e nella tranquillità di volo. «Che tipo è questa Karen Weaver?» chiese Tina davanti al portellone. Johanson le fece l'occhiolino. «È giovane e bellissima.» «Idiota.» «Che ne so? Non ne ho idea.» Tina esitò un attimo, poi lo abbracciò. «Sta' attento, d'accordo?»
Johanson le diede qualche pacca affettuosa sulla schiena. «Va tutto a rotoli... Cosa vuoi che mi succeda?» «Nulla.» Rimase in silenzio per un momento. «Se non altro, il tuo consiglio ha prodotto qualche effetto. Quello che hai detto è stato determinante.» «La decisione di andare da Kare?» «Osservare le cose da un altro punto di vista... Sì, la decisione di andare da Kare.» Johanson sorrise. Poi la baciò sulle guance. «Ti telefono non appena arrivo.» «Okay.» Lui salì sul velivolo e gettò la borsa sul sedile dietro al pilota. L'elicottero aveva posto per dieci passeggeri, ma tutto lo spazio era a sua esclusiva disposizione. Sarebbe stato un viaggio di tre ore. «Sigur!» Lui si voltò verso di lei. «Sei... Credo che tu sia davvero il mio migliore amico.» Sollevò le braccia in un gesto quasi disperato e le lasciò ricadere. Poi sorrise. «Cioè, quello che voglio dire è...» «Lo so già», sorrise Johanson. «Non sei brava in queste cose.» «No.» «Neanch'io.» Si chinò in avanti. «Più qualcuno mi piace, più mi sento stupido a dirglielo. Per quello che ti riguarda, probabilmente sono l'uomo più stupido di tutti i tempi.» «Era un complimento?» «Più o meno.» Chiuse il portellone e il pilota azionò i rotori. Lentamente il Bell si sollevò e la figura di Tina divenne sempre più piccola. Poi l'elicottero abbassò il muso e volò fuori dal fiordo. Il centro di ricerca che si lasciavano alle spalle sembrava un giocattolo. Johanson si mise comodo e guardò fuori, ma non c'era molto da vedere. Trondheim era sparita nella nebbia. L'acqua e le montagne scorrevano sotto di loro come macchie senza colori e sembrava che il cielo li volesse inghiottire. Gli ricadde addosso quella cupa sensazione. Paura. Paura di che cosa? È solo un volo in elicottero, si disse. Alle isole Shetland. Che cosa può succedere?
Ogni tanto gli capitava di avere simili sbalzi d'umore. Troppo metano e troppa robaccia mostruosa. Inoltre quel tempaccio. Forse avrebbe dovuto fare una colazione più abbondante. Prese dalla borsa il volume di poesie e cominciò a leggere. Sulla sua testa i rotori scoppiettavano, ma il rumore arrivava attutito. Il suo cappotto, nella cui tasca era infilato il cellulare, stava appallottolato sulla fila di sedili dietro di lui. Tutto ciò e il fatto che fosse sprofondato nella lettura di Walt Whitman fecero sì che non sentisse il telefono quando esso si mise a suonare. Thorvaldson, scarpata continentale norvegese Stone aveva deciso di pronunciare qualche parola prima di salire sul batiscafo. Il cameraman lo riprendeva e l'altro tipo scattava fotografie. Doveva essere una documentazione completa sull'impresa, in modo che la Statoil si rendesse conto quanto Clifford Stone fosse professionale e come prendesse sul serio l'idea di responsabilità. «Un passo a destra», disse il cameraman. Stone obbedì e scacciò due tecnici dall'inquadratura. Poi ci ripensò e fece loro cenno di avvicinarsi. «Mettiti dietro di me», disse. Probabilmente avrebbe fatto un effetto migliore se nell'inquadratura ci fossero stati anche due tecnici. Nulla doveva dare l'impressione che fossero all'opera giocatori d'azzardo e avventurieri. L'uomo alzò la telecamera. «Abbiamo finito?» gridò Stone. «Ancora un momento. Non va bene. Copre il pilota.» Stone fece un altro passo di lato. «Adesso?» «Meglio.» «Non dimenticare le foto», disse Stone all'altro. Il fotografo si avvicinò e, come per tranquillizzarlo, azionò l'otturatore. «Okay», disse il cameraman. «Giriamo.» Stone guardò deciso nell'obiettivo. «Ora scenderemo per vedere che cos'è successo al nostro prototipo. Al momento, sembra che la stazione, dalla sua posizione originaria... Ah... Dov'era prima... Accidenti.» «Non c'è problema. Rifacciamo.» Stavolta andò bene. Stone spiegò con parole molto concrete che avevano intenzione di cercare la stazione per un'ora. Fece un riassunto delle conoscenze acquisite, accennò al cambiamento della morfologia di quel settore
della scarpata ed espresse la propria opinione secondo cui, a causa di una destabilizzazione dei sedimenti, la stazione doveva essere scivolata più in basso. Aveva un tono molto deciso e forse era un po' troppo arido, ma d'altronde non era uno showman. Gli venne in mente che tutti i grandi scopritori e inventori avevano pronunciato una frase particolarmente intelligente prima o dopo essersi rimboccati le maniche. Qualcosa di eccezionale. «È solo un piccolo passo per me, ma un grande passo per l'umanità...» Qualcosa del genere. Quella era stata roba di gran classe. Naturalmente avevano raccomandato a Neil Armstrong di dirlo come se fosse stato un pensiero spontaneo, ma non cambiava niente. «Veni, vidi, vici...» Giulio Cesare. Niente male. Colombo aveva detto qualcosa? E Jacques Picard? Rifletté. Non gli venne nulla. Decise che non era necessario inventarsi qualcosa. Le riflessioni di Bohrmann sui viaggi in batiscafo non suonavano male. Stone si schiarì la voce. «Naturalmente potevamo mandare un robot», disse infine. «Ma non sarebbe stata la stessa cosa. Ho visto migliaia di riprese video fatte dai robot, tutte molto impressionanti.» Come va avanti? Ah, sì. «Ma essere di persona lì dentro, essere di persona là sotto, quella tridimensionalità... Non pensavo fosse così. Non c'è paragone. E... e ci dà la migliore... ehm, la migliore visuale... per vedere che cos'è successo... ehm... e che cosa possiamo fare.» L'ultima frase era stata tremenda. «Amen», disse sottovoce Alban sullo sfondo. Stone si girò, scivolò sotto il batiscafo e s'infilò nel portello. Il pilota gli tese la mano, ma Stone ignorò l'aiuto. Si sollevò e prese posto. Era un po' come essere in un elicottero oppure in una attrazione high-tech di Disneyland. La cosa straordinaria era la sensazione di essere ancora all'esterno, benché i rumori dal ponte non gli arrivassero più. La sfera di vetro acrilico spessa alcuni centimetri li schermava. «Devo spiegarle ancora qualcosa?» chiese Eddie con gentilezza. «No.» Eddie gli aveva già spiegato tutto poco prima. Lo aveva fatto in maniera molto approfondita e coi suoi tipici modi tranquilli. Stone gettò uno sguardo alla piccola console computerizzata davanti a loro. La sua mano destra scivolò sui comandi di guida a fianco del sedile. All'esterno, il fotografo scattava in continuazione e il cameraman riprendeva. «Bene», disse Eddie. «Andiamo a divertirci.» Uno strattone scosse il batiscafo. Improvvisamente oscillarono sopra il
ponte, poi ci passarono lentamente sopra. Ora sotto di loro si vedeva la superficie agitata dell'acqua. Per un momento rimasero là, appesi, immobili a guardare la poppa della Thorvaldson. Alban sollevò le mani coi pollici levati e Stone gli fece un rapido cenno col capo. Nelle prossime ore avrebbero comunicato solo col telefono sottomarino. Non c'era un cavo a fibre ottiche che legava il batiscafo alla nave madre, non c'era nulla, se non le onde sonore. Non appena il braccio della gru li avesse sganciati, sarebbero rimasti soli. Lo stomaco di Stone cominciò a contrarsi. Ci fu un altro strattone. Quando si sciolsero dalla gomena, sopra di loro risuonò un clonc. Il batiscafo entrò in mare, fu sollevato da un'onda, poi Eddie aprì il serbatoio e l'acqua entrò, gorgogliando. L'oceano si chiuse sopra la sfera. Il Deep Rover affondò come una pietra, circa trenta metri al minuto. Stone teneva lo sguardo fisso all'esterno. Sullo scafo erano spente tutte le luci, eccetto le piccole luci di posizione. Conveniva risparmiare energia, perché laggiù sarebbe servita. Solo pochi pesci si facevano vedere. A cento metri di profondità, il blu cupo del mare si scurì e i due si ritrovarono immersi nelle tenebre vellutate. All'esterno brillò qualcosa di simile a un lampeggiante dei pompieri. Prima una volta, poi tutt'intorno a loro. «Meduse luminose», spiegò Eddie. «Belle, vero?» Stone era affascinato. Aveva già partecipato a diverse immersioni col batiscafo, ma mai con un Deep Rover. Effettivamente sembrava che non ci fosse nulla tra loro e il mare. Le luccicanti luci rosse della console e degli strumenti di servizio sembravano volersi unire ai banchi di animaletti fluorescenti che nuotavano tutt'intorno. Il pensiero che la sua stazione si trovasse in quell'universo sconosciuto sembrò improvvisamente a Stone tanto assurdo che per poco lui non scoppiò a ridere. Io sono l'ideatore del progetto, pensò. Che sia stato seduto troppo a lungo dietro una scrivania? Così a lungo da non riuscire più a cogliere la realtà? Allungò le gambe fin dov'era possibile. Mentre scendevano, i due scambiarono solo qualche parola. Con l'aumentare della profondità cresceva anche il freddo, ma non era insopportabile. Rispetto a batiscafi come l'Alvin MIR o lo Shinkai, che potevano raggiungere i seimila metri, il Deep Rover disponeva di un sofisticato sistema di regolazione interna della temperatura. Prudentemente, Stone aveva indossato dei calzini - le scarpe non erano permesse all'interno dei batiscafi, per evitare che gli strumenti fossero
danneggiati da un calcio involontario - e un caldo pullover di lana. Nonostante il freddo, si stava bene. Eddie, vicino a lui, era tranquillo e concentrato. Di tanto in tanto, dall'altoparlante, usciva una voce gracchiante: erano chiamate di controllo dei tecnici della Thorvaldson. Le parole erano comprensibili, ma distorte perché sott'acqua le onde sonore si mischiavano con mille altri rumori. Scendevano e scendevano. Dopo venticinque minuti, Eddie mise in funzione il sonar. Leggeri fischi e scricchiolii entrarono nella sfera e si sovrapposero al dolce ronzio degli strumenti elettrici. Si avvicinavano al fondale. «Preparare popcorn e Coca-Cola», scherzò Eddie. «Inizia lo spettacolo.» Poi accese i proiettori esterni. Gullfaks C, zoccolo continentale norvegese Lars Jörensen era sulla piattaforma superiore del vano con la scala d'acciaio che portava dall'eliporto alla zona residenziale e guardava la torre di perforazione. Si era appoggiato al parapetto con le braccia incrociate e le punte dei suoi baffi bianchi vibravano al vento. Nelle giornate limpide sembrava di poter toccare la torre, ma quel giorno era difficile vederla. Col passare delle ore, con l'infittirsi della foschia che precedeva la tempesta in arrivo, diventava sempre più irreale, come se volesse impallidire completamente per diventare un puro ricordo. Dall'ultima visita di Tina, Jörensen era diventato malinconico. Continuava a chiedersi cosa volesse costruire la Statoil sulla scarpata continentale. Senza dubbio stavano progettando una stazione completamente automatizzata e magari collegata a una nave di produzione. Tina era convinta di averlo abbindolato con le sue risposte, ma lui non era stupido. Aveva capito quello che stavano facendo; intendevano mettere da parte gli uomini e sostituirli con le macchine. In fondo aveva senso. Una macchina non si preoccupava della buona cucina come faceva lui, non dormiva, lavorava in condizioni pericolosissime... e tutto ciò senza chiedere lo stipendio. Inoltre non si lamentava e, dopo qualche anno, poteva essere buttata nella spazzatura. D'altra parte, Jörensen si chiedeva come un robot potesse sostituire occhi e orecchie e prendere decisioni intuitive. Di certo, senza uomini, non c'erano errori umani. Ma se le macchine sbagliavano e non c'erano uomini nelle vicinanze, allora succedeva come in quei film di fantascienza che lui
spesso guardava di notte, quando il mare sbatteva contro i piloni. L'uomo avrebbe perso il controllo. E le macchine non si curavano della vita e dell'ambiente, né avevano la minima comprensione per gli interessi degli uomini che le costruivano e che intanto si autoeliminavano, spinti da un'idea di razionalizzazione. La luce scemava. Il cielo divenne ancora più grigio e iniziò a piovigginare. Che giorno di merda, pensò Jörensen. Non bastava che da un po' di tempo il mare puzzasse come se l'acqua fosse piena di prodotti chimici. Ora ci si metteva anche il tempo a far toccare il fondo della tristezza. Lavoriamo su delle rovine, rifletté. Una città fantasma in mare, piena di zombie che vengono esorcizzati l'uno dopo l'altro. Quando il giacimento sarà esaurito, resterà una carcassa inutile. I lavoratori saranno mandati a spasso, le piattaforme verranno liquidate, e il futuro lo vedremo in televisione. Riprese video di un mondo in cui non potremo entrare quando ce ne sarà bisogno. Jörensen sospirò. Quelle riflessioni potevano aiutare qualcuno? Erano espresse con troppa semplicità? Erano troppo di parte, troppo grette, troppo presuntuose? L'automobile aveva segnato la fine delle carrozze pubbliche. Ma c'era forse qualcuno che le voleva ancora, le carrozze? Probabilmente su tutta quella faccenda avevano ragione gli altri e lui era solo un vecchio che odiava l'idea di andare in pensione. Eppure c'era stato un momento magico. Uomini splendenti di nero, grondanti petrolio, si erano abbracciati, mentre alle loro spalle uno zampillo usciva dal terreno sabbioso, sprizzando verso il cielo e promettendo ricchezza. Era successo davvero? Nel Gigante c'era quella scena con James Dean... Amava la scena con James Dean molto più di quella con Bruce Willis in Armageddon, sebbene quest'ultima si svolgesse su una vera piattaforma, mentre Il gigante era ambientato nel Texas. In quella scena, James Dean era felice e saltava come un pazzo, completamente ricoperto di petrolio. A guardarlo era un po' come essere seduto in grembo al nonno e ascoltarlo raccontare di quando lui era giovane e tutto era più bello. Lo si ascoltava, credendo a ogni parola. Poi, a un certo punto, non gli si credeva più. Già, un nonno. Io sono un nonno! pensò Jörensen. Ancora pochi mesi, poi tutto sarà alle mie spalle. Finito, passato. E comunque mi andrà me-
glio rispetto a chi è giovane oggi. Non mi potranno più licenziare per colpa della razionalizzazione, smetterò da solo. E poi c'è ancora la pensione. C'è quasi da sentirsi in colpa a troncare prima che arrivi la fine... Ma non è più un mio problema. Ne avrò altri. Dalla costa lontana si avvicinava un rumore. Un rimbombo ritmico, che divenne il crepitio di un elicottero. Jörensen alzò la testa. Conosceva tutti i modelli che passavano da quelle parti. Già da lontano, e nonostante il cattivo tempo, vide un Bell 430 passare sulla Gullfaks e sparire nella foschia. Il rumore delle pale tornò a essere un rimbombo lontano e poi sparì del tutto. Goccioline di pioggia fini come polvere ricoprivano tutta la zona con una splendente umidità. Jörensen pensò che forse era il caso di rientrare. Aveva un'ora libera, cosa che capitava raramente, e poteva guardare la televisione o leggere, oppure giocare con qualcuno a scacchi. Ma non aveva voglia di rientrare. Non quel giorno. Gli sembrava di abitare in una bara d'acciaio. Non voleva farsi seppellire là dentro. Almeno il mare appariva come al solito: grigio, increspato, un continuo su e giù. Lontano, dietro la torre, sulla punta del braccio esterno, bruciava la fiamma del gas. Il faro dei dispersi. Ehi, ma certo! Sembrava il titolo di un film! Niente male per un vecchione che da anni sorvegliava ogni giorno il traffico di elicotteri e navi. Forse in pensione avrebbe potuto scrivere un libro. Su un'epoca che, di lì a qualche decennio, pochissimi avrebbero ricordato. L'era delle grandi piattaforme. E il titolo sarebbe stato: Il faro dei dispersi. Nonno, raccontaci una storia... L'umore di Jörensen migliorò un po'. Non era una cattiva idea. Forse non era un giorno così di merda. Kiel, Germania Gerhard Bohrmann aveva l'impressione di sprofondare nelle sabbie mobili. Andava continuamente da Erwin Suess e Yvonne Mirbach, che stavano elaborando nuovi scenari col computer, con risultati sempre più drammatici. Intanto cercava di raggiungere Sigur Johanson. Aveva chiamato la segreteria dell'NTNU, ma gli avevano detto che Johanson era in viaggio e che non avrebbe tenuto neppure le lezioni. No, non si sapeva neppure quando sarebbe rientrato. Era stato messo in congedo, a quanto pareva per
svolgere un incarico governativo. Bohrmann poteva immaginare benissimo quale incarico fosse. Allora aveva provato a casa di Johanson. Poi ancora sul cellulare. Niente. Alla fine, si era rivolto di nuovo a Suess. «Deve pur esserci qualcuno che gravita nell'orbita di Johanson e che è in grado di prendere una decisione», disse Erwin. «Tutti quelli della Statoil, ma sarebbe come se non avessimo detto niente. Questione di riservatezza... Però, se questo problema continua a essere trattato in segreto e si arriva all'effetto Storegga, allora ci troveremo di fronte a una situazione che nessuno sarà in grado di gestire.» «Che facciamo quindi?» «Con la Statoil non otterremo nulla.» «Va bene.» Suess si stropicciò gli occhi. «Hai ragione. Allora ci rivolgeremo al ministero della Ricerca Scientifica e a quello dell'Ambiente.» «A Oslo?» «E a Berlino. Ma anche a Copenhagen, ad Amsterdam. Ah, sì, e a Londra. Ne ho dimenticata qualcuna?» «Reykjavik.» Bohrmann sospirò. «Santo cielo. D'accordo, facciamo così.» Suess guardò fuori dalla finestra del suo ufficio. Da lì si vedevano il fiordo di Kiel, la zona con le imponenti gru dove si caricavano le navi, gli uffici commerciali e i silos. Un cacciatorpediniere della Marina galleggiava come sospeso tra il grigio dell'acqua e del cielo. «Cosa dicono le simulazioni su Kiel?» chiese Bohrmann. Strano che non ci avesse ancora pensato. Erano così vicino all'acqua... «Potrebbe andare bene.» «È pur sempre una consolazione.» «Cerca comunque di parlare con Johanson.» Bohrmann fece un cenno di assenso e uscì. Deep Rover, scarpata continentale norvegese Benché Eddie avesse acceso i sei riflettori esterni, la visuale rimaneva molto limitata. I quattro proiettori alogeni al quarzo da centocinquanta watt e le due luci da quattrocento watt HMI illuminavano debolmente una zona di circa venticinque metri di raggio. Non si riuscivano a distinguere strutture solide. Quasi accecato dopo il lungo viaggio nel buio, Stone socchiuse le palpebre. Il Deep Rover s'inabissava tra cortine di perle scintil-
lanti. «Che cosa sono?» chiese, chinandosi in avanti. «Dov'è il fondale marino?» Poi capì che cosa stava risalendo verso di loro. Erano bolle. Salivano a vite, alcune goffamente e sussultando, altre - più piccole - come se fossero legate a un filo. Il sonar continuava a emettere i suoi caratteristici sibili e schiocchi. Con le sopracciglia aggrottate, Eddie studiava i segnali luminosi della console: stato delle batterie, temperatura esterna e interna, riserve di ossigeno, pressione della cabina e tutti gli altri dati ricevuti dai sensori esterni. «Tanti auguri», ringhiò. «È metano.» La cortina di perle divenne più fitta. Eddie sganciò i due pesi d'acciaio fissati allo scafo e spinse aria nei serbatoi per stabilizzare il batiscafo. Quelle manovre avevano lo scopo di farli restare sospesi, invece loro continuavano a sprofondare. «Non riusciamo a portare su il culo. Non posso crederci!» Nella luce dei proiettori apparve il fondale. Si avvicinavano troppo velocemente. Stone riuscì a vedere fessure e buchi, poi furono di nuovo avvolti dalle bolle. Eddie imprecò e fece uscire altra acqua dai serbatoi. «Cos'è successo?» chiese Stone. «Abbiamo problemi con la spinta?» «Credo sia il gas. Siamo in mezzo a un blowout.» «Dannazione.» «Calma.» Il pilota accese l'elica. Il batiscafo cominciò a muoversi in avanti attraverso le collane di bolle. Per un momento, Stone si sentì come su un ascensore che si ferma dolcemente. Cercò con lo sguardo il batimetro. Il Deep Rover sprofondava più lentamente, ma la velocità con cui si avvicinava al fondale era ancora troppo elevata. Tra poco si sarebbero schiantati. Stone si morse le labbra e lasciò che Eddie facesse il proprio lavoro. In una situazione del genere non c'era niente di peggio che distrarre il pilota con le chiacchiere. Vide le cortine di bolle diventare più spesse e il fondale che s'intravedeva in mezzo al blowout inclinarsi lentamente. Il pattino destro sparì in un violento gorgoglio e il batiscafo si piegò di lato. Trattenne il respiro. Erano fuori. Fino a un attimo prima, il mare ribolliva; adesso invece avevano davanti agli occhi il fondale tranquillo. Il batiscafo riprese a salire. Senza particolare fretta, Eddie manovrò la valvola e fece entrare acqua marina nei serbatoi finché il Deep Rover non si fu stabilizzato e scese dolcemente lungo la
scarpata. «Tutto sotto controllo», disse. Ora procedevano a una velocità massima di due nodi, cioè di 3,7 chilometri all'ora. Facendo jogging si andava più veloci, ma negli abissi non ci si poteva muovere troppo in fretta. Inoltre si trovavano nella zona in cui Stone aveva installato la stazione. Non poteva essere lontana. Il pilota sorrise. «Avremmo dovuto metterlo in preventivo, vero?» «Non un blowout di questa violenza.» «No? Il mare puzza come una fogna, quindi il gas da qualche parte deve uscire. Già, ma per lei non aveva importanza. Lei voleva assolutamente immergersi.» Stone non si degnò di rispondere. Si concentrò, cercando i segni degli idrati, ma al momento non ne vedeva. L'unica cosa visibile erano i vermi. Sul fondale riposava un pesce piatto, simile a una sogliola. Al loro avvicinarsi, si sollevò pigramente, fece vorticare il fango e nuotò fuori dalla zona illuminata. Era irreale stare là, mentre sulla sfera di vetro acrilico l'acqua esercitava una pressione di cento chili per centimetro quadrato. Era tutto artificiale: la zona illuminata del plateau abissale con le sue ombre cangianti prodotte dal passaggio del Deep Rover, il nero in ogni direzione oltre la luce diffusa, la pressione interna mantenuta costante dalle apparecchiature, l'aria che usciva regolarmente dalle bombole, e il biossido di carbonio della respirazione che veniva eliminato chimicamente. Nulla invitava a trattenersi in quella situazione. Stone provò a parlare, ma la lingua gli si appiccicò al palato. Ricordò che non beveva da ore. Per ogni evenienza, a bordo c'erano delle Human Range Extender, bottiglie speciali cui far ricorso se proprio non si poteva aspettare, benché, prima di salire su un batiscafo, si consigliava caldamente di vuotare la vescica. Dal primo mattino, lui e Eddie avevano mangiato solo sandwich con burro di noccioline e durissime barrette di cioccolato e crusca. Alimenti per l'immersione. Alimenti nutrienti e secchi come la sabbia del Sahara. Cercò di rilassarsi. Eddie fece un breve rapporto alla Thorvaldson. Di tanto in tanto vedevano molluschi e stelle marine. Con un movimento della mano, il pilota indicò l'esterno. «Sorprendente, vero? Siamo a più di novecento metri e c'è buio pesto. Tuttavia questo luogo è chiamato zona della luce residua.» «Non ci sono zone in cui l'acqua è così limpida che la luce arriva fino a
mille metri?» chiese Stone. «Certo. Ma nessun occhio umano è in grado di percepirla. Oltre i cento, centocinquanta metri per noi è buio pesto. È mai stato oltre i mille metri?» «No, e lei?» «Qualche volta.» Eddie scrollò le spalle. «È più o meno dannatamente buio come qui. Preferisco stare dove c'è la luce.» «Come? Nessuna ambizione di raggiungere le grandi profondità?» «A quale scopo? Picard è riuscito ad arrivare a 10.740 metri. Io non ne ho voglia. È stata un'impresa scientifica di prima classe, ma non c'era quasi niente da vedere.» «Come fa a saperlo?» «Non lo so, ma posso immaginarlo. Voglio dire, anche se la bentosfera è più divertente del batiscafo, è comunque un mortorio.» «Scusi, ma... Picard non è arrivato a 11.340 metri di profondità?» chiese Stone. «Oh, già.» Eddie sorrise. «Lo so, è scritto in tutti i libri di scuola. Un errore. Dipende dallo strumento di misurazione. Lo avevano calibrato in Svizzera, nell'acqua dolce. Capisce? L'acqua dolce ha una densità diversa. Per questo hanno sbagliato le misurazioni durante l'unica immersione con equipaggio nel punto più basso della superficie terrestre. Avevano...» «Ehi!» Davanti a loro, il cono di luce sparì nell'ombra. Nell'avvicinarsi, si resero conto che il fondale cadeva a strapiombo. La luce si perdeva nel precipizio. «Si fermi.» Le dita di Eddie volarono su tasti e bottoni. Sviluppò una controspinta e il Deep Rover si fermò. Poi cominciò progressivamente a girarsi. «Una corrente piuttosto forte», mormorò il pilota. Il batiscafo continuò lentamente a ruotare finché i proiettori non illuminarono il bordo del precipizio. «Sembra quasi che sia crollato da poco... Una cosa molto fresca.» Gli occhi di Stone si muovevano nervosamente. «Che dice il sonar?» «Si scende di almeno quaranta metri. A destra e a sinistra non sono in grado di dirlo.» «Questo vuol dire che il plateau...» «Qui non c'è più. È crollato.» Stone si mordicchiò il labbro inferiore. Dovevano essere nelle immediate vicinanze della stazione. Ma un anno prima là non c'era nessun precipizio. Probabilmente non c'era neppure qualche giorno prima. «Scendiamo
ancora», decise. «Guardiamo un po' dove si arriva.» Il Deep Rover si mise in moto e scese lungo la parete dello strapiombo. Dopo circa due minuti, i proiettori illuminarono di nuovo il fondo. Sembrava un campo di macerie. «Dovremmo risalire di qualche metro», disse Eddie. «Qui è troppo frastagliato, potremmo sbattere da qualche parte.» «Sì, un attimo. Maledizione, davanti a noi! Guardi.» Nel campo visivo era comparsa una grossa tubatura pesantemente danneggiata. Giaceva di traverso, sopra grandi frammenti di pietrisco, e spariva oltre il cono di luce. Dalla tubatura uscivano dense e scure chiazze di petrolio che salivano verticalmente. «È un oleodotto», gridò Stone, sconvolto. «Mio Dio.» «Era un oleodotto», precisò Eddie. «Seguiamone il corso.» Stone rabbrividì. Sapeva dove andava quell'oleodotto, sapeva da dove arrivava. Erano nella zona della stazione. Ma non c'era più niente. D'un tratto, davanti a loro, comparve una parete frastagliata ed Eddie la evitò per un pelo, riuscendo ad alzare il batiscafo. La seguirono per un pezzo - sembrava non finire mai - e alla fine passarono appena sopra il bordo. In quell'istante, Stone si rese conto che quella non era una parete, bensì un gigantesco pezzo di fondale marino che si era sollevato. Dalla parte opposta scendeva ancora verticalmente. Nella luce, vorticavano particelle di sedimenti che rendevano più difficile vedere i dintorni. Poi le luci illuminarono un'altra corrente di bolle che risalivano velocemente. Schizzavano fuori da una fossa coi bordi a spigolo. «Santo cielo», sussurrò Stone. «Cos'è successo qui?» Eddie non rispose. Virò in modo da evitare le bolle. La visuale peggiorò. Per un po', persero di vista l'oleodotto, poi esso ricomparve nel fascio di luce dei proiettori. Proseguiva verso il basso. «Dannata corrente», eslcamò Eddie. «Siamo trascinati nel blow-out.» Il Deep Rover cominciò a sprofondare a vite. «Seguiamo l'oleodotto», ordinò Stone. «È una follia. Dovremmo risalire.» «La stazione è qui», dichiarò Stone. «Dovremmo vederla da un momento all'altro.» «Non vedremo niente. Qui è tutto distrutto.» Stone non replicò. Davanti a loro, l'oleodotto era piegato verso l'alto,
come se un pugno gigantesco l'avesse colpito, e terminava con un troncone strappato. L'acciaio frastagliato formava bizzarre sculture. «Vuole andare ancora avanti?» Stone annuì. Eddie manovrò fino ad arrivare proprio sopra il tubo. Rimasero per un momento sospesi sopra l'apertura seghettata, simile a una bocca gigantesca. Poi il batiscafo superò l'oleodotto. «Qui si precipita», disse Eddie. Intorno a loro riapparvero le perle. Stone strinse i pugni. Si rese conto che Alban aveva visto giusto. Avrebbero dovuto mandare il robot. Ma ormai rinunciare gli appariva assurdo. Doveva sapere! Si sarebbe presentato a Skaugen solo con un rapporto dettagliato. Stavolta non si sarebbe fatto liquidare. «Avanti, Eddie.» «Lei è pazzo.» Dietro il tubo strappato, il campo di macerie scendeva a strapiombo e la pioggia di sedimenti aumentava. Per la prima volta, anche Eddie mostrava una certo nervosismo. In ogni momento potevano incontrare nuovi ostacoli. Poi videro la stazione. In realtà scorsero soltanto dei sostegni trasversali, ma Stone comprese subito che il prototipo Kongsberg non esisteva più. Giaceva sotto le macerie del plateau crollato, cinquanta metri più in basso rispetto alla posizione originale. Osservò con attenzione. Dai puntelli metallici si staccava qualcosa che saliva verso di loro. Bolle. No, più che semplici bolle. A Stone vennero in mente i colossali vortici di gas che aveva visto a bordo della Sonne durante il blowout, quando la benna con la telecamera era sprofondata. Improvvisamente fu preso dal panico. «Via!» gridò. Eddie sganciò la restante zavorra. Il batiscafo fece un balzo e schizzò verso l'alto, seguito dalle bolle gigantesche. Poi si ritrovarono in mezzo al vortice e colarono a picco. Intorno a loro, il mare ribolliva. «Merda!» urlò Eddie. «Che succede là sotto?» Era la voce stridula del tecnico a bordo della Thorvaldson. «Eddie? Rispondi! Qui registriamo qualcosa di strano... Sta salendo una gran quantità di gas e di idrati.» Eddie schiacciò il tasto per rispondere. «Mollo l'involucro! Risaliamo.»
«Cos'è successo? Avete...» La voce del tecnico sparì sotto un rumore assordante. Sibili e schiocchi. Eddie aveva sganciato il blocco delle batterie e parte dell'involucro. Era l'estrema manovra d'emergenza per perdere peso. Il resto dello scafo con la sfera di vetro acrilico iniziò a risalire ruotando. Poi un violento colpo scosse il veicolo. Stone vide un gigantesco blocco di roccia trascinato in alto dal gas. La sfera si ribaltò. Furono colpiti un'altra volta e Stone sentì il pilota gridare. Stavolta il colpo li scagliò fuori dal blowout e il Deep Rover venne proiettato verso l'alto. Stone era aggrappato ai braccioli, più coricato che seduto. Eddie si era accasciato contro di lui e aveva gli occhi chiusi. Sul volto gli scorreva del sangue. Stone registrò con terrore che ormai poteva contare solo su se stesso. Cercò febbrilmente di ricordare come si faceva a riportare in equilibrio il batiscafo. I comandi si potevano trasferire da Eddie a lui, ma come? Eddie glielo aveva mostrato. Era quel bottone. Stone lo schiacciò mentre cercava di togliersi di dosso il pilota. Non era sicuro che l'elica funzionasse ancora dopo che l'involucro era stato sganciato. Sul batimetro le cifre scorrevano, mostrando che ora stavano risalendo molto velocemente. In fondo poter manovrare non era importante; l'importante era continuare a salire. Nel Deep Rover non c'erano problemi di decompressione. La pressione della cabina corrispondeva alla pressione sulla superficie dell'acqua. Si accese una luce d'allarme. Il proiettore sul pattino destro si spense. Poi si spensero tutte le altre luci. Tutto intorno a Stone divenne nero. Lui cominciò a tremare. Stai calmo, pensò. Eddie ti ha spiegato il funzionamento. C'è un apparato di emergenza per l'energia. Uno dei bottoni nelle file superiori della console di servizio. Se non s'inserisce in automatico, bisogna farlo manualmente. Toccava gli interruttori e intanto continuava a fissare il buio. Che c'era laggiù? Coi proiettori spenti doveva essere buio pesto. Invece si vedeva una luce. Erano già così vicini alla superficie? Le ultime cifre del batimetro, poco prima che i riflettori si spegnessero, indicavano poco più di settecento metri. Il batiscafo stava sempre scivolando lungo la scarpata. Erano ancora molto al di sotto dello zoccolo continentale, fuori dalla portata della luce del giorno. Un'allucinazione?
Stone socchiuse le palpebre. La luce risplendeva di un debole blu, così debole che si poteva intuire più che vedere. Si levava dagli abissi, e aveva la forma di una specie di tubo a imbuto, la cui parte inferiore si perdeva nell'oscurità. Stone trattenne il respiro. Forse era impazzito, ma avrebbe potuto giurare che quella cosa diventava tanto più luminosa quanto più si avvicinava. La maggior parte delle onde luminose era assorbita dall'acqua. Quindi doveva essere parecchio distante. E gigantesca. Il tubo si mosse. L'imbuto sembrò allungarsi, mentre il resto della struttura si piegò. Immobile, come stregato, con le dita bloccate alla ricerca dell'interruttore per inserire la batteria d'emergenza, Stone fissò quella cosa. Non poteva che essere bioluminescenza filtrata da milioni di metri cubi d'acqua, particelle e gas. Ma quale essere vivente luminoso aveva quelle dimensioni incredibili? Un calamaro gigante? Era più grande di qualsiasi calamaro. Era più grande anche della più audace rappresentazione fantastica di un calamaro. O era la sua fantasia? Un'allucinazione provocata dall'improvviso passaggio dalla luce alle tenebre? Immagini fantasma dei proiettori spenti? Più fissava la cosa luminosa, più gli sembrava impallidire. Il tubo sprofondava lentamente. Poi sparì. Immediatamente, Stone riprese la ricerca del tasto per attivare la batteria d'emergenza. Il batiscafo saliva, tranquillo e regolare. Sentì un brivido di sollievo all'idea che tra poco sarebbe arrivato in superficie e si sarebbe lasciato alle spalle quell'incubo. Quando Eddie aveva sganciato l'involucro, non si era liberato delle telecamere. Che avessero ripreso anche quella cosa luminosa? Riuscivano a registrare un impulso così debole? Doveva essere così. Non si era trattato di un'allucinazione. Stone rammentò le straordinarie riprese fatte da Victor. Quella cosa che improvvisamente era uscita dal cono di luce. Mio Dio, pensò. In cosa ci siamo imbattuti? Ah, ecco l'interruttore! Ronzando, il sistema elettrico d'emergenza si mise in funzione. Per prima cosa si accesero le luci sulla console, poi i proiettori esterni. Da un momento all'altro, il Deep Rover si ritrovò a scivolare in un bozzolo di luce. Eddie era disteso, immobile, con gli occhi aperti.
Stone si chinò su di lui, ma, improvvisamente, dietro Eddie, comparve qualcosa. Una nuvola rossastra. Si stava rovesciando sul batiscafo. Convinto di dover manovrare per non sbattere contro la parete, Stone afferrò i comandi. Ma poi si rese conto che era il contrario. Era la parete che stava sbattendo contro di loro. Stava andando verso di loro. La scarpata continentale gli stava crollando addosso. Fu l'ultima cosa che Stone comprese prima che la violenza dell'impatto mandasse in mille pezzi il vetro acrilico della sfera. Elicottero Bell 430, mar di Norvegia Quand'erano decollati da Trondheim, Johanson aveva previsto di fare un volo tranquillo. Invece si ballava e lui non riusciva a dedicarsi adeguatamente a Whitman. Nella mezz'ora precedente, il cielo era diventato minacciosamente nero. Sembrava così basso da dare l'impressione di voler schiacciare in mare l'elicottero, che era anche scosso da violente raffiche di vento. Il pilota si voltò. «Tutto a posto?» «Benissimo.» Johanson chiuse il libro e guardò fuori. La superficie del mare era coperta da una nebbia fittissima. Lui riusciva a malapena a distinguere qualche piattaforma o nave. Si rese conto che in quei minuti il moto ondoso era sensibilmente aumentato. Si stava avvicinando una violenta tempesta. «Non si preoccupi», disse il pilota. «Non abbiamo nulla da temere.» «Non mi preoccupo. Cosa dice il servizio meteorologico?» «Che ci sarà vento.» Il pilota lanciò un'occhiata al barometro sulla console di comando. «A quanto pare, avremo un piccolo uragano.» «Carino da parte sua non avermi detto niente prima.» «Non lo sapevo. Le previsioni del tempo non sono sempre affidabili. Ha paura di volare?» «Certo che no. Trovo che volare sia fantastico», disse Johanson con decisione. «È precipitare che non mi piace.» «Non precipiteremo. Per chi lavora nel settore offshore questa è robetta da bambini. Oggi non succederà niente di peggio che qualche sballottamento.» «Quanto abbiamo ancora?»
«Siamo oltre la metà.» «Va bene.» Johanson riaprì il libro. Mille altri suoni si mescolavano al rumore del motore. Schiocchi, strepiti, fischi... A un certo punto, gli sembrò perfino di sentire un segnale, che risuonava a intervalli regolari da qualche parte dietro di lui. Che cosa non sapeva fare il vento con l'acustica! Johanson si girò verso i sedili posteriori, ma il segnale pareva cessato. Tornò a dedicarsi al pensiero di Walt Whitman. L'effetto Storegga Diciottomila anni or sono, a metà dell'ultima Era Glaciale, il livello dell'acqua in tutto il pianeta era all'incirca centoventi metri più basso che all'inizio del Terzo Millennio. Gran parte della massa d'acqua era «bloccata» nei ghiacciai. Sulle zone dello zoccolo continentale c'era quindi una minore pressione e alcuni dei mari odierni non esistevano. Altri, nel corso della glaciazione, divennero sempre più bassi, altri ancora si asciugarono e si trasformarono in estesi paesaggi acquitrinosi. La diminuzione della pressione dell'acqua, tra l'altro, provocò in diverse parti del globo l'instabilità degli idrati di metano. Nelle regioni più elevate della scarpata continentale si liberarono in breve tempo gigantesche quantità di gas. La gabbia di ghiaccio in cui il metano era prigioniero e compresso si sciolse. Ciò che per migliaia di anni aveva funzionato come malta, tenendo unita la scarpata continentale, divenne un esplosivo. Improvvisamente, il metano liberato aumentò di centosessantaquattro volte il proprio volume. Nella sua fuga verso l'esterno, fece pressione su pori e fessure dei sedimenti e lasciò dietro di sé rovine porose. Come conseguenza, le scarpate continentali cominciarono a crollare su se stesse, trascinandosi appresso buona parte dello zoccolo continentale. Inimmaginabili quantità di materiale scivolarono come slavine di fango a centinaia di chilometri di distanza nelle profondità abissali. Il gas raggiunse l'atmosfera e provocò spaventosi mutamenti climatici. Ma lo smottamento ebbe anche altri effetti immediati, non solo sulla vita nel mare, ma anche sulle regioni costiere della terraferma e sulle isole. Nella seconda metà del XX secolo, gli scienziati fecero un'inquietante scoperta. Davanti alla costa della Norvegia centrale, s'imbatterono nelle tracce di un simile smottamento. Per la precisione, erano stati più smottamenti a trascinare via buona parte della scarpata continentale. Un processo
avvenuto nel corso di quarantamila anni. Diversi fattori erano entrati in gioco: stagioni calde che avevano elevato la temperatura media delle correnti marine della zona o periodi di glaciazione, appunto come quello di diciottomila anni prima, nel corso dei quali le temperature erano rimaste basse, ma era calata la pressione dell'acqua. In altri termini, le fasi di stabilità degli idrati - dal punto di vista della storia della Terra - rappresentavano un'eccezione. Ma in una simile eccezione vivevano gli uomini della cosiddetta epoca moderna. Ed essi tendevano a interpretare la loro condizione di tranquillità come la regola. Un errore. A quell'epoca, cinquemilacinquecento chilometri cubi dello zoccolo continentale norvegese erano stati trascinati negli abissi da frane gigantesche. Tra Scozia, Islanda e Norvegia, gli scienziati avevano trovato un deposito di sedimenti lungo ottocento chilometri. La cosa davvero inquietante era che la più grande delle frane della scarpata continentale non risaliva a molto tempo prima: si parlava di meno di diecimila anni. A quella scoperta si era dato il nome di «effetto Storegga» e si sperava che non si ripetesse più. Naturalmente era una speranza priva di senso. Ma forse la tranquillità sarebbe durata ancora per altri millenni. E probabilmente nuove ere glaciali o periodi di caldo avrebbero provocato solo scivolamenti di dimensioni sopportabili, se non fosse comparso da un giorno all'altro un certo verme col suo carico di batteri e non avesse creato le condizioni per quello che ora stava succedendo. Non appena s'interruppe il contatto col batiscafo, Jean-Jacques Alban, a bordo della Thorvaldson, intuì che non avrebbe mai più rivisto il Deep Rover e i suoi occupanti. Ma non aveva la minima idea delle dimensioni di ciò che stava accadendo a poche centinaia di metri sotto lo scafo della nave oceanografica. Senza dubbio la decomposizione degli idrati era in uno stadio molto avanzato: durante l'ultimo quarto d'ora, la puzza aveva raggiunto un'intensità insopportabile e sulle onde, che diventavano sempre più alte, galleggiavano schiumando pezzi di ghiaccio di dimensioni sempre maggiori. Alban sapeva altresì che indugiare sulla scarpata continentale equivaleva a un suicidio. L'aumento del gas avrebbe abbassato la tensione superficiale dell'acqua e la nave sarebbe affondata. Qualunque cosa stesse accadendo negli abissi era assolutamente imprevedibile. Alban detestava il pensiero di abbandonare il Deep Rover e il suo equipaggio, ma qualcosa gli diceva senza possibilità di equivoci che Stone e il pilota erano morti. Tra gli scienziati e i membri dell'equipaggio regnava una grande agita-
zione. Non tutti erano in grado d'interpretare correttamente il significato della schiuma e della puzza, ma la tempesta generava negli uomini un senso d'insicurezza. Si era scagliata dal cielo come un dio infuriato e sollevava con violenza crescente le onde del mar di Norvegia, che si schiantavano contro lo scafo della Thorvaldson, frangendosi in una miriade di gocce luccicanti. Tra poco sarebbe stato quasi impossibile reggersi in piedi. In quella situazione, Alban doveva soppesare molti fattori contrastanti. La sicurezza della Thorvaldson non si valutava con gli interessi degli armatori né con le esigenze degli scienziati. Si misurava unicamente col valore delle vite umane. E tra di esse c'erano anche quelle degli uomini sul batiscafo, sul cui destino il suo istinto era molto più convincente di quello che gli diceva la testa. Restare e scappare erano scelte sbagliate e giuste nel contempo. Alban fissò il cielo nero e si asciugò la pioggia dal volto. Nello stesso momento, il mare sconvolto si calmò per qualche istante. Lui sapeva che si trattava soltanto di una tregua, che la tempesta sarebbe poi ripresa con furia raddoppiata. E decise di restare. Sotto di lui era in corso un disastro. Improvvisamente gli idrati decomposti - fino a poco prima stabili estensioni di ghiaccio che s'infiltravano nei sedimenti, ora trasformati da vermi e batteri in un ammasso di rovine - crollarono su loro stessi. Per un tratto di centocinquanta chilometri, il legame ghiacciato di acqua e metano si trasformò in un'esplosione di gas. Mentre Alban decideva di mantenere la posizione, il gas si apriva la strada verso la libertà, faceva saltare pareti verticali, strappava pezzi di roccia, faceva tremare la scarpata continentale. E la fece precipitare. Nel giro di qualche secondo, chilometri cubi di detriti crollarono. Tutta la parte superiore del bordo continentale si mise in movimento, mentre, più in basso, gli strati collassavano e crollavano. In una mostruosa reazione a catena, le masse scivolarono l'una sull'altra, sfondarono le ultime strutture ancora solide e le trasformarono in fango. La piattaforma continentale tra Scozia e Norvegia, con le sue pompe, i suoi oleodotti e le sue piattaforme mostrò le prime fenditure. In mezzo alla tempesta, qualcuno gridò verso Alban. Lui girò su se stesso e scorse il vice direttore scientifico che gesticolava freneticamente. Nella tempesta, le sue parole si comprendevano appena. «La scarpata!» Fu l'unica cosa che Alban riuscì a sentire.
Dopo la breve calma ingannatrice, il mare infuriava più che mai, incalzando la Thorvaldson. Alban gettò un'occhiata disperata verso la gru che aveva calato in acqua il Deep Rover. Le onde schiumavano. La puzza di metano era insopportabile. Distolse a fatica lo sguardo e corse a metà della nave. Il vice direttore scientifico gli afferrò la manica della giacca. «Venga, Alban! Mio Dio! Deve vedere.» La nave vibrava. Dal fondo del mare saliva un cupo gorgoglio. Entrambi gli uomini avanzarono barcollando sulla stretta scala fino al ponte. «Là!» Alban fissò il monitor del sonar, che rilevava costantemente il fondale marino. Non credeva ai suoi occhi. Il fondale non c'era più. Era come guardare in un maelstrom. «La scarpata sta scivolando.» Nello stesso istante, Alban ebbe la conferma di quello che il suo istinto gli aveva suggerito: l'ingegnere pazzo e il pilota erano morti. «Dobbiamo andar via! Subito!» Il timoniere si girò verso di lui. «E dove?» Alban cercò di riflettere. Aveva la piena consapevolezza di quello che stava succedendo là sotto e sapeva cosa li aspettava. Correre verso un porto era escluso. Alla Thorvaldson restava una sola possibilità: dirigersi il più velocemente possibile verso le acque profonde. «Comunicare per radio», ordinò. «Norvegia, Scozia, Islanda... Tutti i residenti devono evacuare immediatamente la costa. Trasmettere in continuazione! Informiamo tutti quelli che possiamo raggiungere.» «Che ne è di Stone e di...» iniziò il vice direttore. Alban lo guardò. «Sono morti.» Non osava neppure immaginare la violenza dello smottamento. E quello che mostrava il sonar era sufficiente a farlo rabbrividire. Si trovavano ancora in una zona critica. Pochi chilometri all'interno dello zoccolo continentale e sarebbero affondati. Andando al largo, diretti verso il cuore della tempesta, probabilmente ne sarebbero usciti con le ossa rotte, ma si sarebbero salvati. Alban pensò alla morfologia della scarpata. Da nord-ovest, il fondale digradava in ampie terrazze. Se avevano fortuna, la slavina si sarebbe fermata nelle zone superiori. Nel caso di un effetto Storegga, però, non si sarebbe più fermata. Tutta la scarpata continentale sarebbe scivolata negli abissi per una larghezza di centinaia di chilometri e fino a una profondità di oltre tremila metri. Le masse sarebbero penetrate sino al fondo abissale a est
dell'Islanda e quindi avrebbero scosso il mar di Norvegia e il mare del Nord con violenza inaudita. Dove dovevano andare? Alban distolse lo sguardo dalla strumentazione. «Rotta verso l'Islanda», disse. Franarono milioni di tonnellate di fango e macerie. Quando le prime propaggini della slavina raggiunsero il canale Fær ØerShetland, sulla scarpata continentale tra Scozia e fossa norvegese non c'erano più terrazze, ma c'era soltanto una massa libera che precipitava sempre più, devastando tutto ciò che fino a poco prima aveva forma e struttura. Una parte della slavina si diresse a ovest delle isole Fær Øer e infine si fermò contro i banchi che circondavano il bacino islandese. Un'altra parte della slavina si divise lungo il rialzo tra l'Islanda e le Fær Øer. La maggior parte, però, avanzava nel canale Fær Øer-Shetland come su un gigantesco scivolo. Nulla poteva fermarla. Lo stesso bacino abissale che migliaia di anni prima aveva accolto lo scivolamento di Storegga, ora si riempiva con una slavina ancora più grande, che procedeva inarrestabile e creava un gigantesco risucchio. Poi crollò il bordo dello zoccolo continentale. Fu semplicemente strappato via per una larghezza di cinquanta chilometri. Ed era solo l'inizio. Sveggesundet, Norvegia Subito dopo la partenza di Johanson, Tina Lund aveva caricato i bagagli sulla jeep di Johanson e se n'era andata. Guidava velocemente. La pioggia che stava iniziando a cadere rendeva le strade viscide e la foschia riduceva la visibilità. Probabilmente Johanson avrebbe protestato, ma Tina era dell'idea che dalle auto si dovesse sempre pretendere il massimo. A ogni chilometro che l'avvicinava a Sveggesundet, si sentiva più leggera. Finalmente aveva deciso. Dopo aver chiarito la faccenda con Stone, aveva chiamato Kare e gli aveva proposto di passare insieme un paio di giorni al mare. Sebbene contento, Kare era stato anche un po' sorpreso... almeno così le era sembrato. Qualcosa nella sua reazione le aveva fatto sospettare che forse Johanson aveva ragione. Doveva raddrizzare l'andamen-
to a zig-zag delle settimane precedenti, altrimenti Kare l'avrebbe lasciata. Ebbe quasi paura che quell'istante fosse già passato e che Kare avesse in serbo parole inquietanti sul futuro del loro rapporto. Johanson aveva distrutto una casa, certo. Ma si poteva sempre cercare di costruirne un'altra. La jeep percorreva velocemente la strada principale di Sveggesundet, che si snodava lungo la costa. Tina sentiva il battito cardiaco accelerare. Lasciò la macchina in un parcheggio pubblico al di sopra del Fiskehuset. Di lì, una strada e un sentiero conducevano alla spiaggia, che non era di sabbia, ma di rocce e ghiaia levigata, coperta di muschio e felci. Il paesaggio intorno a Sveggesundet era piatto, ma romanticamente selvaggio, e il Fiskehuset, con la sua terrazza sul mare, offriva uno splendido panorama anche quel giorno, nonostante la pioggia e la scarsa visibilità. Tina percorse lentamente la breve distanza che la separava dal ristorante ed entrò. Era ancora chiuso e Kare non c'era. Un'aiuto cuoca, che stava trasportando ceste di verdura, le disse che era andato in paese. Forse doveva recarsi in banca o dal barbiere, comunque non aveva detto quando sarebbe stato di ritorno. Colpa mia, pensò Tina. Avevano appuntamento lì. Era stata troppo veloce, arrivando con molto anticipo. Adesso non le rimaneva che sedersi nel ristorante ad aspettare. Ma le sembrava una cosa troppo stupida. Sarebbe stato del tutto fuori luogo, uscirsene con un: «Cucù, guarda un po', sono già arrivata!» O peggio ancora con un: «Ciao, Kare, dov'eri finito? È un po' che ti aspetto!» Uscì sulla terrazza del Fiskehuset e la pioggia la colpì sul viso. Altri sarebbero rientrati immediatamente, ma Tina era insensibile al cattivo tempo. Aveva trascorso l'infanzia in campagna e amava le giornate di sole, ma anche le tempeste e la pioggia. Solo in quel momento si accorse come le raffiche di vento che nell'ultima mezz'ora avevano scosso la jeep si fossero trasformate in una vera tempesta. Non c'era più nebbia, ma in compenso le nuvole, basse nel cielo, s'inseguivano. Il mare era increspato e coperto di schiuma bianca. C'era qualcosa di strano. Era stata spesso lì e conosceva bene la zona. Tuttavia le sembrava che la riva fosse più ampia del solito. La ghiaia e le rocce, sebbene le onde s'infrangessero con violenza, si estendevano più del consueto. Sembrava quasi che ci fosse una bassa marea fuori programma. Ti sbagli, pensò.
Con decisione improvvisa, prese il cellulare e compose il numero di Kare. Poteva dirgli che era già lì. Meglio così che veder naufragare la sorpresa. Quel giorno non sarebbe riuscita a sopportare un muso lungo o anche solo la minima mancanza di gioia. Il telefono suonò quattro volte, poi rispose la segreteria. Va bene. Il destino ha voluto diversamente, rifletté. Si scostò dalla fronte i capelli ormai bagnati e rientrò, nella speranza di trovare in funzione la macchina del caffè. Tsunami Il mare era pieno di mostri. Da tempo immemorabile, esso offriva spazio a miti, metafore e paure primordiali. I compagni di Ulisse erano caduti vittime di Scilla, un orrendo mostro a sei teste. Per intimorire la vanitosa Cassiopea, Poseidone aveva creato Ceto e, per vendetta, aveva scatenato contro Laocoonte - insospettito dal cavallo di legno lasciato sulla spiaggia di Troia - due giganteschi serpenti marini, che avevano avvolto nelle loro spire lui e i suoi figli. Alle sirene si poteva sfuggire soltanto tappandosi le orecchie con la cera. Ondine, sauri di mare, polpi giganti, Vampyroteuthis infernalis popolavano le fantasie più inquietanti. Persino la bestia della Bibbia, quella con «dieci corna e sette teste», era uscita dal mare. Ma proprio la scienza, per sua natura votata allo scetticismo, da quand'era stata ritrovata la latimeria e dimostrata l'esistenza dei calamari giganti, parlava del nocciolo di verità contenuto non solo nelle leggende, ma anche nelle notizie più inquietanti. Per millenni, l'umanità aveva temuto gli abitanti degli abissi, ma poi si era messa con entusiasmo sulle loro tracce. Per lo spirito illuminato non c'era nulla d'inviolabile, nemmeno la paura. I mostri erano diventati i migliori compagni di gioco, gli autentici eppure immaginari animali di peluche della ricerca. Tranne uno. Il peggiore di tutti. Esso trascinava nel panico anche la mente più illuminata. Quando si sollevava dal mare e arrivava sulla terra portava morte e distruzione. Il suo nome si doveva ai pescatori giapponesi, che in alto mare non percepivano nulla del suo orrore e poi, al loro ritorno, trovavano il villaggio distrutto e i parenti morti. Avevano trovato per quel mostro una parola che tradotta alla lettera voleva dire «onda in porto». Infatti tsu stava per «porto» e nami per «onda».
Tsunami. La decisione di Alban di far rotta verso le acque profonde dimostrava che lui conosceva il mostro e le sue caratteristiche. L'errore più grande sarebbe stato quello di cercare l'apparente protezione del porto. Così fece l'unica cosa giusta. Mentre la Thorvaldson combatteva col mare grosso, la scarpata e i margini dello zoccolo continentale continuavano a scivolare nell'abisso. Si era generato un vortice che faceva sprofondare ampie superfici del mare. Le onde si allargavano dal luogo della frana, propagandosi con violenza ad anello in tutte le direzioni. Ma sopra il centro di quel cataclisma - un'area di diverse migliaia di chilometri quadrati - erano ancora così piatte da risultare indistinguibili dalle onde di tempesta. Superavano di circa un metro il livello del mare. Ma poi raggiungevano la zona piatta dello zoccolo continentale. A suo tempo, Alban aveva imparato che cosa rendeva diverse le onde di uno tsunami da quelle normali... In pratica tutto. Normalmente, il moto ondoso dipendeva dai venti. Quando l'irradiazione solare riscaldava l'atmosfera, il calore non si divideva equamente in tutte le zone della superficie terrestre. C'erano venti regolatori che, facendo attrito con la superficie dell'acqua, generavano onde. Gli stessi uragani sollevavano il mare al massimo a quindici metri. Le onde giganti, come le famigerate freak waves, erano eccezioni. La velocità di punta delle normali onde di tempesta era intorno ai novanta chilometri all'ora e l'effetto dei venti era limitato agli strati superficiali del mare. A una profondità di duecento metri era tutto tranquillo. Le onde dello tsunami, invece, non venivano create in superficie, ma negli abissi. Non erano il risultato della velocità del vento, ma di una scossa sismica, e le onde generate dalla scossa si muovevano a una velocità molto superiore. E l'energia si diffondeva lungo tutta la colonna d'acqua, sino al fondale marino. In tal modo, le ondate toccavano sempre il fondo, a qualunque profondità. Era tutta la massa d'acqua a entrare in movimento. Il miglior esempio di cosa fosse uno tsunami era stato mostrato ad Alban non con una simulazione al computer, ma in un modo molto più semplice. Qualcuno aveva riempito d'acqua un secchio di stagno e l'aveva colpito sul fondo, dall'esterno. Sulla superficie si erano formate diverse onde concentriche. I colpi si erano diffusi a tutta l'acqua contenuta nel secchio, che era stata spinta fuori sotto forma di onda. Gli avevano detto che doveva immaginarsi quell'effetto moltiplicato per
milioni di volte. Semplice. Lo tsunami generato dallo smottamento viaggiò all'inizio in tutte le direzioni a una velocità che toccava i settecento chilometri all'ora, con creste molto lunghe e basse. Soltanto la prima ondata trasportò un milione di tonnellate d'acqua e una corrispondente quantità d'energia. Dopo pochi minuti, raggiunse il margine della piattaforma continentale. Il fondale marino, divenuto più pianeggiante, frenò l'onda e ne rallentò il fronte, senza però ridurre l'energia trasportata. Le masse d'acqua continuarono a spingersi in avanti e, dato che la velocità era diminuita, cominciarono ad accavallarsi. Più il fondale diventava basso, più lo tsunami si alzava, mentre la lunghezza delle sue onde si restringeva drammaticamente. Sulle loro creste cavalcavano le onde della tempesta. Allorché lo tsunami raggiunse le prime piattaforme di trivellazione sullo zoccolo continentale del mare del Nord, la velocità era scesa a quattrocento chilometri all'ora, ma esso era già diventato alto quindici metri. Quindici metri non erano un'altezza tale da preoccupare eccessivamente le piattaforme. Almeno finché si trattava di normali onde di tempesta. Ma le ondate che si propagavano dal fondale marino fino alla superficie dell'acqua, accompagnate da una montagna d'acqua alta quindici metri, avevano l'effetto d'urto di un jumbo jet. Gullfaks C, zoccolo continentale norvegese Per un momento, Lars Jörensen pensò addirittura di essere troppo vecchio per trascorrere gli ultimi mesi sulla Gullfaks C. Tremava. Che cos'era successo? Tremava con tale intensità che ogni cosa sembrava tremare con lui. Non riusciva a spiegarsi il perché. Non si sentiva male. Forse era depresso, ma non malato. Cominciava così un attacco di cuore? Poi si accorse che era la piattaforma a tremare, non lui. La Gullfaks C tremava. Rendersene conto fu uno shock. Fissò la torre di perforazione e poi il mare aperto. Sotto, infuriava la tempesta, ma lui ne aveva viste di peggiori e non avevano mai fatto tremare la piattaforma. Quel tremito Jörensen lo conosceva solo dai racconti: quando si sbagliava a fare una perforazione e si creava un blowout, che spingeva gas o petrolio ad alta pressione verso l'alto, allora poteva succedere che tutta la piattaforma vibrasse violentemente. Ma sulla Gullfaks una
cosa del genere era impossibile. Il petrolio veniva pompato da giacimenti semivuoti in cisterne sottomarine, e ciò non avveniva sotto la piattaforma, bensì a una certa distanza. Nel lavoro offshore esisteva una sorta di top ten delle potenziali catastrofi. Gli scheletri d'acciaio su cui poggiava la maggior parte delle piattaforme potevano cedere. Le freak waves, le onde giganti che, di tanto in tanto, erano formate dal vento e dalle tempeste, rappresentavano uno dei peggiori incidenti ipotizzabili nel settore dell'industria petrolifera. Allo stesso modo, si temevano le collisioni coi barconi staccatisi dagli ormeggi e con le petroliere sfuggite al controllo. Tutto ciò faceva parte della hit parade degli orrori, in cima alla quale c'era la perdita di gas. Le perdite erano difficili da trovare, in genere si scoprivano solo quand'era troppo tardi ed esse erano entrate in contatto col fuoco. In tal caso, esplodeva tutta la piattaforma, com'era successo alla Piper alpha sul versante inglese. Era stata la più grande catastrofe dell'industria petrolifera, costata la vita a centosessanta persone. Ma i maremoti erano l'incubo per antonomasia. Jörensen lo capì. Quello era proprio un maremoto. Poteva succedere qualsiasi cosa. Se la terra tremava, si perdeva ogni controllo. Il materiale si deformava e si strappava. C'erano fughe e incendi. Se un terremoto faceva vibrare una piattaforma, si poteva soltanto sperare che non succedesse di peggio, che il fondale marino non sprofondasse e non franasse, che le costruzioni ancorate reggessero al colpo. Ma subito dopo la scossa c'era un altro problema contro cui non c'era nulla da fare, proprio nulla. E quel problema stava raggiungendo la piattaforma. Jörensen lo vide avvicinarsi e comprese che non c'erano più speranze. Si girò per scendere di corsa le scale d'acciaio e fuggire dalla zona esposta ai venti. Accadde tutto in fretta. Inciampò e cadde. Istintivamente si aggrappò alla grata del pavimento. Esplose un rumore infernale, una serie di ruggiti e rimbombi, come se la piattaforma si stesse spezzando. Si sentirono grida, poi un boato assordante lacerò l'aria e Jörensen venne sbattuto contro il parapetto. Un dolore violento gli percorse il corpo. Era aggrappato alla grata e il mare sembrava sollevarsi. Sopra di lui, il metallo si rompeva, stridendo. Comprese con terrore che la piattaforma si stava piegando. La sua mente si annebbiò. Quando si è in preda al panico, spesso si fanno cose prive di senso, come stri-
sciare verso l'alto per cercare di sfuggire all'acqua che si sta avvicinando. E Jörensen si trascinò sul piano inclinato che poco prima era ancora un pavimento e che adesso s'inclinava sempre più. Poi si mise a gridare. Le forze lo abbandonarono. Le dita della mano destra si staccarono dalla grata di metallo e lui rimase aggrappato col solo braccio sinistro, che prese un colpo tremendo. Gridando come un pazzo, sollevò la testa e vide la torre di trivellazione che si rovesciava e il braccio con la fiamma del gas non più orizzontale sull'acqua, ma verticale, stagliato contro il cielo nero come la pece. Per un istante sembrò quasi che la fiamma si levasse ancora di più. Un saluto agli dei. Ehi, lassù, stiamo arrivando... Poi tutto esplose in una nube di braci gialle e Jörensen venne catapultato in mare. Non sentì dolore quando l'avambraccio si strappò, benché la sua mano sinistra fosse ancora aggrappata alla grata. Prima ancora che le fiamme potessero raggiungerlo, lo tsunami si abbatté a tutta velocità contro la piattaforma e distrusse la Gullfaks C. I pilastri di cemento sparirono negli abissi col margine continentale. Nonno, raccontaci una storia... Oslo, Norvegia La donna aveva la fronte imperlata di sudore. «Che vuol dire? Si riferisce a una specie di reazione a catena?» Apparteneva all'unità di crisi permanente del ministero dell'Ambiente ed era abituata a confrontarsi con gli scenari più devastanti. Conosceva il Geomar e sapeva che non era solito proporre teorie azzardate, quindi cercò di afferrare il più velocemente possibile quello che lo scienziato tedesco le stava dicendo al telefono. «Non proprio», rispose Bohrmann. «Si tratta piuttosto di un evento simultaneo. La distruzione avviene lungo la scarpata continentale. Ovunque nello stesso momento.» La donna deglutì. «E... quali zone sarebbero colpite?» «Dipende da dove avviene esattamente la rottura e da quanto è lunga. Credo che buona parte della costa norvegese sia coinvolta. Le onde di uno tsunami si diffondono per migliaia di chilometri. Dobbiamo informare tutta la popolazione costiera dell'Islanda, della Gran Bretagna, della Germania... Tutti.» La donna guardò fuori dalla finestra dell'edificio del governo. Pensò alle
piattaforme in mare. Erano centinaia fino a Trondheim. «Che conseguenze ci sarebbero per le città costiere?» chiese poi, in tono inespressivo. «Dovreste evacuarle immediatamente.» «E per le industrie offshore?» «Mi creda, è difficile dirlo. Nella migliore delle ipotesi, ci sarà una serie di piccoli scivolamenti. Allora si ballerà solo un po'. Nella peggiore delle ipotesi...» In quell'istante, la porta si aprì e un uomo dal volto terreo entrò di corsa. Porse alla donna un foglio e le fece cenno di chiudere la conversazione. Lei prese la stampata e diede una scorsa al breve testo. Era la trascrizione di una trasmissione radio. L'aveva mandata una nave. Thorvaldson, lesse. Poi andò avanti a leggere e si sentì come se il suolo le oscillasse sotto i piedi. «Ci sono segnali che annunciano l'arrivo dello tsunami», stava dicendo Bohrmann. «La popolazione sulla costa deve essere informata affinché li possa riconoscere. Un po' prima che si scatenino, si osserva un rapido sollevamento e abbassamento della superficie marina. Più volte di seguito. Un occhio esperto se ne accorge. Dopo dieci o venti minuti, l'acqua si ritira e si allontana dalla riva. Diventano visibili scogliere e rocce che normalmente sono sott'acqua. Al più tardi in quel momento bisogna recarsi nelle zone più elevate.» La donna non replicava, lo ascoltava appena. All'inizio della telefonata aveva cercato d'immaginare che cosa sarebbe successo se le parole dell'uomo al telefono avessero avuto un fondo di verità. Ora immaginava quello che stava già succedendo. Sveggesundet, Norvegia Tina Lund stava morendo di noia. Era sciocco starsene in quel ristorante deserto a bere caffè. Ogni forma d'inattività le sembrava una tortura. L'aiuto cuoca era stata gentile e aveva acceso per lei la macchina per il caffè espresso. Il cappuccino era buonissimo e, nonostante il cattivo tempo e la visibilità ridotta, dalla grande finestra panoramica si godeva una splendida vista sul mare. Ma per Tina quell'attesa era insopportabile. Stava prendendo col cucchiaio la schiuma di latte nella tazza, allorché qualcuno entrò, portando con sé una folata di vento. «Ciao, Tina.»
Lei alzò lo sguardo. Era un amico di Kare e lei lo conosceva solo come Åke. Noleggiava barche a Kristiansund e, nei mesi estivi, guadagnava un sacco di soldi. Scambiarono qualche parola sul tempo, poi Åke chiese: «Che cosa fai qui? Una visita a Kare?» «Era mia intenzione», disse Tina con un sorriso tirato. Åke la guardò con aria stupita. «Allora come mai te ne stai qui da sola? Perché quello stupido non è dove dovrebbe essere, cioè vicino a te?» «Colpa mia. Sono arrivata in anticipo.» «Chiamalo.» «L'ho fatto. Segreteria telefonica.» «Ah, giusto!» Åke si diede una pacca sulla fronte. «Dov'è ora non c'è campo.» Tina drizzò le orecchie. «Sai dov'è?» «Sì, poco fa ero con lui all'Hauffen.» «L'Hauffen? La distilleria?» «Sì. Comprava delle grappe. Ne abbiamo assaggiata qualcuna, ma... Tu conosci Kare. Beve meno alcol di un monaco in quaresima e mi sono dovuto sobbarcare da solo gli assaggi.» «È ancora là?» «Quando me ne sono andato, stava ancora in taverna a chiacchierare. Perché non vai lassù? Sai dov'è l'Hauffen?» Tina lo sapeva. La piccola distilleria, che produceva un'ottima acquavite non destinata all'esportazione, si trovava su un altopiano a sud, a dieci minuti di cammino. Se avesse preso la strada verso l'interno, in macchina sarebbe arrivata in due minuti. Tuttavia le piaceva l'idea di fare una breve passeggiata. Era stata seduta fin troppo. «Vado a piedi», annunciò. «Con questo tempaccio?» Åke fece una smorfia. «Be', fai come vuoi. Ma sta' attenta che ti cresceranno le pinne.» «Sempre meglio che le radici.» Si alzò e lo ringraziò per l'informazione. «A dopo. Tornerò con lui.» Una volta fuori, si tirò sulla testa il cappuccio della giacca, scese verso la spiaggia e si mise in marcia a fatica. Nei giorni limpidi, da lì si poteva vedere la piccola distilleria. Ora essa appariva come un'ombra grigia nella pioggia che cadeva di traverso. Sarebbe stato felice di vederla? Incredibile! Ragionava come un'adolescente innamorata. Tina Lund, incapace d'intendere e di volere. Certo che sarebbe stato felice. Poteva essere
diversamente? Si allontanò dal Fiskehuset, facendo scorrere lo sguardo sul mare. Si rese conto che poco prima si era sbagliata. Aveva pensato che la spiaggia rocciosa fosse più grande del solito, invece era come sempre. No, sembrava addirittura più stretta. Per un attimo si bloccò. Com'era possibile sbagliarsi a quel modo? Forse era a causa della tempesta. Le onde si spingevano verso l'interno, ma non sempre con la stessa profondità. Probabilmente ora stavano diventando più violente. Scrollò le spalle e andò avanti. Era bagnata da capo a piedi quando entrò nella distilleria, ma nel piccolo ingresso non trovò nessuno. Sulla parete opposta c'era una porta di legno aperta. Dalla cantina arrivava una luce. Non esitò e scese. Trovò due uomini appoggiati a una botte con un bicchiere in mano, intenti a conversare. Erano i fratelli proprietari della distilleria, due vecchi signori gentili con la faccia scavata dal tempo. Kare non c'era. «Mi dispiace», disse uno dei due. «È andato via da qualche minuto. L'hai mancato per un pelo.» «Era a piedi?» chiese. Forse avrebbe potuto raggiungerlo. «No.» L'altro scosse la testa. «Col fuoristrada. Ha comprato qualcosa. Non molto, ma troppo per portarlo a piedi.» «Ha detto se voleva tornare al ristorante?» «Sì, stava andando al ristorante.» «Okay. Grazie.» «Ehi, aspetta.» Il più vecchio si staccò dalla botte e si avvicinò. «Dato che sei venuta per niente, almeno beviti un goccetto con noi. È un'assurdità venire in una distilleria e andarsene sobri!» «Grazie, è molto gentile, ma...» «Ha ragione», confermò entusiasta il fratello. «Devi bere qualcosa.» «Io...» «Fuori c'è il finimondo, bambina mia. Come puoi pretendere di tornare indietro senza avere qualcosa di caldo nella pancia?» La guardavano tutti e due con gli occhi teneri. Tina sapeva che, se si fosse fermata per un bicchierino, avrebbe dato loro una grande gioia. E perché no? «Uno solo», disse. I fratelli si sorrisero e fecero un cenno di assenso, felici come se avessero appena conquistato Costantinopoli.
Isole Shetland, Gran Bretagna L'elicottero si preparò all'atterraggio. Johanson guardò in basso. Avevano sorvolato la costa, ne avevano seguito il corso e adesso si trovavano sopra il piccolo eliporto dove Karen Weaver lo aspettava. Le scogliere degradavano dolcemente verso est e finivano in un'insenatura arcuata. Da lì in poi il terreno era più piatto. Si allineavano interminabili spiagge di sabbia e ghiaia, e alle loro spalle si stendeva il tipico paesaggio delle Shetland, brullo e coperto di muschio con collinette solcate da strade serpeggianti. L'eliporto apparteneva a una stazione di osservazione marina che ospitava una mezza dozzina di scienziati. Ma forse era esagerato definire «eliporto» uno spiazzo di pietrisco più o meno rotondo in mezzo a una distesa grigio-verde. La stazione era poco più di un insieme di baracche sghembe. Una strada stretta scendeva dalla collina e finiva in un molo. Johanson non vide neanche una barca. Vicino alle baracche c'erano due fuoristrada e un furgoncino Volkswagen arrugginito. Karen Weaver si trovava là perché stava scrivendo un articolo sulle foche. Usciva in mare con gli scienziati, s'immergeva con loro e abitava con loro nelle baracche. Un'ultima raffica di vento scosse il Bell, poi finalmente l'elicottero si posò a terra. «Grazie a Dio ce l'abbiamo fatta», sospirò il pilota. Al margine del campo d'atterraggio, Johanson scorse una figurina, i cui capelli svolazzavano al vento. Pensò che fosse Karen Weaver e rifletté che gli piaceva come lo stava aspettando lì, in quella landa desolata. Non lontano dalla donna c'era una motocicletta sul cavalletto. Tutto di suo gusto. Un'isola fuori dal tempo e una figura solitaria... Si stiracchiò, rimise nella borsa il libro delle poesie di Whitman e prese il cappotto. «Per quanto mi riguarda, potremmo farci un altro volo», disse. «Però mi dispiacerebbe far aspettare la signora.» Il pilota si girò verso Johanson e aggrottò la fronte. «Sta solo recitando la parte del duro o non si è davvero accorto di quello che è successo?» Johanson cercava d'infilarsi le maniche del cappotto. «Questo dovrà scoprirlo da solo. Lei ha di certo esperienza coi membri dei consigli d'amministrazione.» «Sì, certo» «E allora? Sono un duro?» «Non lo so. Forse sta solo bluffando. La maggior parte di quelli con cui
sono stato in viaggio mi avrebbe assordato con le urla.» «Anche Skaugen?» «Skaugen?» Il pilota rifletté per un attimo. «No. Credo che nulla possa impressionare Skaugen.» Mi sarei meravigliato del contrario, pensò Johanson. «Ce la fa a venirmi a prendere domani in tarda mattinata? Diciamo a mezzogiorno?» «Nessun problema.» Attese finché il portellone non si aprì, poi scese la scaletta. Era un duro? Nel suo intimo era contento di rimettere i piedi sulla terra. Il pilota doveva ripartire, ma evidentemente non lo considerava un problema perché era abituato ai repentini cambiamenti delle condizioni meteorologiche. Si sarebbe concesso solo una breve pausa e poi sarebbe ripartito per Lerwick, dove avrebbe fatto rifornimento. Johanson si mise in spalla la borsa da viaggio e si avviò verso la figura in attesa. Il cappotto si gonfiava e gli si avvolgeva intorno alle gambe, ma almeno non pioveva. Karen Weaver gli andò incontro. Curiosamente, a ogni passo sembrava diventare più piccola. Quando finalmente gli fu davanti, lui valutò che doveva essere alta un metro e sessantacinque. Aveva una corporatura solida: i jeans si tendevano sulle gambe muscolose e, sotto la giacca di pelle, si delineavano larghe spalle. Per quello che Johanson poteva vedere, non era truccata. Però sembrava attraente. L'abbronzatura era dovuta alla vita all'aperto, era frutto del sole cocente... Lo stesso sole che aveva fatto emergere anche le numerose lentiggini, distribuite sugli ampi zigomi e sulla fronte. Il vento smuoveva una cascata di riccioli castani. Lei lo fissò, interessata. «Lei è Sigur Johanson», esordì con sicurezza. «Com'è stato il volo?» «Orribile. Mi sono dovuto aggrappare alla rassicurante compagnia di Walt Whitman.» Guardò verso l'elicottero. «Ma il pilota sostiene che sono un duro.» Lei sorrise. «Vuole mangiare qualcosa?» Strana domanda da fare subito dopo i saluti, pensò. Poi si rese conto che aveva fame. «Volentieri. Dove?» Lei fece un cenno col capo verso la motocicletta. «Potremmo andare al villaggio vicino. Se ha sopportato il volo, dovrebbe reggere anche alla Harley. Alla stazione faremmo prima, ma solo nel caso in cui lei abbia una predilezione per il manzo sotto sale e la zuppa di piselli in scatola.» Johanson la guardò e si accorse che i suoi occhi erano di un insolito blu
intenso. Il blu del mare profondo. «Perché no?» disse. «Gli scienziati sono in mare?» «No, è troppo mosso. Sono al villaggio per fare provviste. Qui sono libera, anche se il massimo della mia arte culinaria è aprire una scatoletta. Venga.» Johanson la seguì sullo spiazzo sassoso dell'eliporto verso la stazione. L'edificio non appariva così sghembo come gli era sembrato visto dall'alto. «Dove sono le barche?» chiese. «Preferiamo non lasciarle fuori», spiegò Karen, indicando la baracca più vicina all'acqua. «L'insenatura non è molto protetta, perciò, dopo averle usate, le riportiamo nella baracca vicina al mare.» Il mare... Dov'era il mare? Johanson sobbalzò e si fermò. Là dove, fino a poco prima, i frangenti avevano sferzato la spiaggia, adesso si stendeva una piana fangosa da cui spuntavano rocce piatte. Il mare si era ritirato. Doveva essere successo nel corso degli ultimi minuti. In ampie zone si vedeva solamente il terreno. Neppure un terremoto avrebbe provocato un effetto simile in così breve tempo. L'acqua si era ritirata per centinaia di metri. Karen Weaver avanzò ancora di qualche passo, poi si voltò verso di lui. «Che c'è? Non ha più fame?» Lui scosse la testa. Nelle sue orecchie risuonò un rumore, crebbe, divenne più alto. In un primo momento, lui pensò a un grande aereo che sorvolava l'acqua a bassa quota e che si era fermato sull'isola. Ma quello non era il rumore di un aereo. Sembrava il brontolio di un temporale in avvicinamento, solo che era troppo uniforme... Non potevano essere tuoni e non cessava... Improvvisamente capì. Karen Weaver seguì il suo sguardo. «Che diavolo è quello?» Johanson stava per rispondere, poi però vide l'orizzonte scurirsi. E anche lei lo vide. «All'elicottero!» gridò. La giornalista sembrava impietrita. Poi si mise a correre. Insieme corsero verso l'elicottero. Johanson vide la cabina di guida e il pilota che testava gli strumenti. Ci volle qualche secondo perché l'uomo si accorgesse delle due figure lanciate verso di lui. Johanson gli fece segno di abbassare la scaletta. Sapeva che il pilota non poteva vedere quello che stava arrivando dal mare. L'elicottero era girato con la cabina verso l'entroterra.
L'uomo aggrottò la fronte, poi annuì. Il portellone si aprì con un sibilo e la scaletta scese. Il rimbombo si avvicinava. Era come se tutto il mondo stesse avanzando verso l'isola. Ed è proprio così, pensò Johanson. Il posto sbagliato. Il momento sbagliato. Atterrito e affascinato, si bloccò sulla scaletta, guardando il mare che tornava a ricoprire la piana fangosa. Mio Dio, non è possibile! Non può succedere nella nostra epoca, a persone civili. Era una cosa da libro di storia. Tutti sapevano che, nel corso di milioni di anni, meteoriti, eruzioni vulcaniche e maremoti avevano cambiato la faccia della Terra... Eppure sembrava che, grazie a una sorta di trattato segreto, simili avvenimenti fossero finiti per sempre con l'inizio dell'era tecnologica. «Johanson!» Qualcuno gli diede un colpo. Lui si riscosse e si affrettò a salire gli scalini, seguito da Karen Weaver. L'elicottero aveva iniziato a vibrare. Poi Johanson scorse lo sbalordimento negli occhi del pilota e gridò: «Parta, subito!» «Che razza di rumore è? Che succede?» «Via, sollevi questa carcassa!» «Non posso fare i miracoli. Cosa devo fare? Verso dove devo volare?» «Non ha importanza. Bisogna prendere quota.» I rotori si misero in moto, scoppiettando. Il Bell si staccò dal suolo e salì di un metro, poi di due metri. Ma la curiosità del pilota ebbe il sopravvento sulla paura. L'uomo girò l'elicottero di centottanta gradi, in modo da vedere il mare. Sul suo volto si dipinse il terrore. «Oh, santo cielo», esclamò. «Là!» Karen indicò le baracche. «Là fuori!» Johanson girò la testa. Un uomo in jeans e T-shirt stava uscendo di corsa dall'edificio principale. Correva a perdifiato, gesticolando e teneva la bocca spalancata. Johanson guardò Karen, perplesso. «Credevo...» «Anch'io.» La donna osservava terrorizzata la figura che si avvicinava. «Dobbiamo scendere. Oddio, giuro che non sapevo che Steven fosse rimasto qui, pensavo che tutti...» Johanson scosse energicamente la testa. «Non ce la può fare.» «Non possiamo abbandonarlo.» «Guardi là fuori, maledizione. Non ce la può fare. Non ce la facciamo
neanche noi...» Karen lo spinse da parte e gli passò davanti, diretta al portellone. Ma il pilota inclinò l'elicottero sulla striscia di sabbia, verso l'uomo che stava correndo, e lei perse l'equilibrio. Il velivolo fu colpito da una serie di violente raffiche che lo fecero vibrare. Il pilota imprecò ad alta voce. Per un attimo persero di vista lo scienziato, poi se lo ritrovarono vicinissimo. «Ce la può fare», gridò Karen. «Dobbiamo scendere!» «No», sussurrò Johanson. Lei non lo sentì. Non poteva sentirlo. Anche il frastuono dei rotori spariva nel rimbombo del mare che si rovesciava verso la costa. Johanson sapeva che non avrebbero potuto salvare lo scienziato. Oltretutto avevano perso tempo prezioso e ormai dubitava che loro stessi riuscissero a cavarsela. Si costrinse a distogliere lo sguardo dalla figura che stava correndo e a guardare dritto davanti a sé. L'ondata era gigantesca. Doveva essere alta trenta metri. Una parete verticale scrosciante di acqua grigio-nera. Poche centinaia di metri la separavano dalla riva, ma si avvicinava con la velocità di un treno. Restavano solo pochi secondi prima della collisione. Non c'era tempo sufficiente per prendere a bordo l'uomo e sfuggire alla massa d'acqua. Tuttavia il pilota provò ancora una volta ad avvicinarsi allo scienziato in fuga. Forse sperava che potesse saltare all'interno dal portellone aperto, oppure che riuscisse ad afferrare uno dei pattini... Insomma a fare una di quelle cose che al cinema riuscivano sempre, a patto di essere Bruce Willis o Pierce Brosnan. L'uomo inciampò e cadde. È finita, pensò Johanson. Tutto divenne scuro. Dal vetro della cabina non si vedeva più il cielo, ma solo l'onda. Riempiva il loro campo visivo, si lanciava contro di loro ad altissima velocità. Si erano giocati l'unica possibilità. Non c'era più niente da fare. Al massimo, con una risalita verticale, sarebbero stati travolti a metà del gigantesco frangente. Se avessero volato rasoterra verso l'interno, avrebbero guadagnato tempo per riprendere quota, ma l'acqua li avrebbe raggiunti comunque. Lo tsunami era più veloce del Bell che, oltretutto, doveva anche girarsi. I pochi secondi che avevano ancora a disposizione non sarebbero bastati. In un momento di lucidità, Johanson si chiese come potesse osservare quella massa d'acqua senza perdere la ragione. Poi fu riportato bruscamente alla realtà da una manovra del pilota... l'unica manovra giusta. L'uomo spinse all'indietro l'elicottero e contemporaneamente lo fece alzare. Il muso
del Bell si abbassò e tutti loro si ritrovarono a fissare il terreno. Però non stavano cadendo, anzi si stavano allontanando dal suolo e dall'ondata incombente. Il Bell ruggiva come se gli ingranaggi volessero esplodere. Johanson non avrebbe mai creduto che un elicottero potesse compiere una simile manovra - forse non lo credeva nemmeno il pilota -, eppure funzionò. L'ondata incombeva su di loro, sbavando come un animale affamato. Turbinò sulla spiaggia e cominciò a ripiegarsi su se stessa. Montagne di schiuma inseguivano il Bell nella sua fuga pazzesca. Lo tsunami ruggiva e urlava. Un attimo dopo, l'elicottero prese un colpo terribile e Johanson fu scagliato contro la parete laterale, appena di fianco al portellone aperto. L'acqua lo colpì sul viso, sbatté la testa contro la parete e vide lampi rosso scuro. Poi le sue mani toccarono una sbarra di metallo e vi si aggrapparono. Fu percorso da un dolore lancinante. Non era più in grado di dire se lo spaventoso scroscio che sentiva nelle orecchie provenisse dall'onda o dalla sua testa, se stesse aumentando o calando. Il suo unico pensiero era che sarebbero stati travolti e annientati. Ormai attendeva solo la fine. Poi la luce tornò. La cabina era piena di acqua vaporizzata. Sopra l'elicottero correvano nere nubi frastagliate. Ce l'avevano fatta. Erano scampati allo tsunami, riuscendo a superare di un pelo la cresta. L'elicottero continuò a salire e intanto virò, in modo che si potesse vedere la costa. Ma la costa non c'era più. Si scorgeva soltanto una violenta ondata, che, senza aver perso velocità, si spingeva verso l'interno e ingoiava la campagna. La stazione, i veicoli e lo scienziato erano spariti. Alla loro destra, dove la costa si alzava in verticale, esplodevano sugli scogli fontane di schiuma che schizzavano verso il cielo, molto più in alto del Bell, come se volessero unirsi alle nuvole. Karen si rialzò a fatica. Quando il getto d'acqua aveva colpito il Bell, lei era caduta sulla fila di sedili. Guardava fuori e continuava a ripetere: «Mio Dio!» Il pilota taceva. Era terreo e gli tremava la mandibola. Ma ce l'aveva fatta. Inseguirono l'ondata. La massa d'acqua procedeva sullo sfondo a una velocità molto più elevata di quella dell'elicottero. Una collinetta entrò nel loro campo visivo; l'ondata ci passò sopra e si riversò, schiumando, nella pianura retrostante, senza quasi rallentare Il terreno era così pianeggiante che l'acqua si sarebbe spinta all'interno per chilometri. Johanson vide una
serie di macchie bianche... Erano pecore, che fuggivano disperate. Poi sparirono anch'esse. Una città costiera sarebbe stata rasa al suolo, pensò. No, sbagliato. Sarà rasa al suolo. Non una sola, ma praticamente tutte le città sulla costa del mare del Nord sarebbero sprofondate nel maelstrom. Lo tsunami, ovunque si fosse generato, in quello stesso istante si stava diffondendo a cerchio, com'era tipico delle onde provocate da un impulso. La sua furia distruttrice avrebbe raggiunto la Norvegia, l'Olanda, la Germania, la Scozia e l'Islanda. Quando Johanson si rese conto della catastrofe in atto, si piegò su se stesso, come se qualcuno gli avesse versato del metallo fuso in grembo. Allora rammentò chi c'era a Sveggesundet. Sveggesundet, Norvegia Non si può negare che i fratelli Hauffen abbiano notevoli doti d'intrattenitori, pensò Tina. Facevano tutto il possibile per spingerla a restare. Avevano persino affermato di essere amanti di gran lunga migliori di Kare Sverdrup. Intanto le davano colpetti sui fianchi e le facevano cenni birichini. Tina fu costretta a bere un'altra grappa prima che acconsentissero a lasciarla andare. Guardò l'orologio. Se fosse partita subito, sarebbe arrivata puntuale al Fiskehuset. Talmente puntuale da essere quasi patetica, rifletté. Chi è così puntuale ha bisogno di qualcosa. Un paio di minuti di ritardo l'avrebbero probabilmente messa in una condizione di superiorità. Stupida. Non era necessario andare di corsa al Fiskehuset. I due vecchi esigevano un abbraccio. Lei era la compagna giusta per Kare, giuravano, una donna che non disdegnava la buona acquavite. Dopo una serie di complimenti, battute e buoni consigli, Tina venne finalmente accompagnata fuori dalla cantina da uno dei fratelli. Il vecchio le aprì la porta, guardò la violenta pioggia che cadeva di traverso e decise che lei non poteva uscire senza ombrello. Tina si sforzò di spiegargli che non lo usava mai, perché il suo lavoro prevedeva di stare all'aperto con ogni clima, ma fu come parlare al muro. Così lui andò a prendere l'ombrello. Dopo un ultimo abbraccio, Tina riuscì ad allontanarsi e prese a camminare nella pioggia, con l'ombrello chiuso. Ne vedremo delle belle, pensò. Il cielo era diventato ancora più nero e il vento soffiava con violenza
crescente. Accelerò il passo. Non aveva appena deciso di prendersi un po' di tempo? Non sei capace di andare piano, eh? Johanson aveva perfettamente ragione. Lei viveva sempre a tutto gas. E allora? Lei era fatta così e adesso voleva raggiungere l'uomo che aveva deciso di amare. Da qualche parte si sentiva un debole suono. Si fermò. Era il suo cellulare! Mi chiamai Maledizione, da quanto tempo sta suonando? Trattenendo il fiato, aprì la cerniera lampo della giacca a vento e frugò alla ricerca del telefono. Probabilmente aveva già chiamato diverse volte, ma nella cantina non c'era campo. Eccolo. Lo tirò fuori e rispose, convinta di sentire la voce di Kare. «Tina?» Sobbalzò. «Sigur. Oh, è... Sei gentile a chiamarmi, io...» «Dov'eri, maledizione? È un sacco di tempo che cerco di raggiungerti!» «Mi dispiace, io...» «Dove sei?» «A Sveggesundet», replicò lei, esitante. La voce di Johanson era distorta; evidentemente stava parlando in mezzo a un fortissimo rimbombo, ma c'era anche dell'altro. Un tono di voce che lei non aveva mai sentito e che le faceva paura. «Sono lungo la spiaggia, c'è un tempaccio, ma mi conosci...» «Vattene!» «Come?» «Devi andartene subito!» «Sigur! Ma sei matto?» «Adesso, subito!» Johanson ansimava. Le parole crepitavano contro di lei come la pioggia, sempre più distorte da fruscii e scariche, al punto che pensò di non aver capito. Poi improvvisamente comprese quello che le stava dicendo e, per un attimo, le sembrò che le gambe fossero diventate di gomma. «Non so dov'è l'epicentro!» urlò Johanson. «Evidentemente l'onda ci mette di più per arrivare da voi, ma è lo stesso, non ti resta altro tempo. Vattene, perdio, vattene subito!» Lei fissò il mare. La tempesta infuriava. «Tina?» urlò Johanson. «Io... okay.» Lei inspirò profondamente, riempiendo i polmoni. «Okay, okay!»
Poi gettò via l'ombrello e cominciò a correre. Attraverso la pioggia riusciva a vedere le luci gialle e invitanti del ristorante. Kare... pensò. Dobbiamo anzitutto prendere la macchina, la mia o la sua. Aveva lasciato la jeep cinquecento metri sopra il ristorante, ma vicino al Fiskehuset c'erano alcuni posti auto ed era lì che Kare parcheggiava di solito. Correndo, Tina cercava di scorgere l'auto, ma la pioggia le scorreva sul viso. Tentò di asciugarla e allora le venne in mente che i parcheggi riservati si trovavano sull'altro lato dell'edificio e quindi da lì non si potevano vedere. Corse ancora più velocemente. Un rumore si mischiava all'ululato del vento e al ruggito delle onde. Una specie di risucchio. Senza smettere di correre, Tina si voltò. E vide una cosa inimmaginabile. Incespicò e poi non poté far altro che fermarsi a guardare il mare che stava sparendo, come se qualcuno avesse tolto il tappo a una vasca gigantesca. Quindi comparve un fondo nero, frastagliato. Il mare si stava ritraendo, velocissimo. Fu allora che sentì il rimbombo. Socchiuse le palpebre e si asciugò di nuovo la pioggia dal volto. All'orizzonte, nella tempesta, si stava manifestando qualcosa d'indefinito, ma di imponente. Prendeva forma a poco a poco. In un primo momento, lei pensò che si stesse addensando un nuovo fronte nuvoloso, ancora più nero. Ma il fronte si avvicinava troppo rapidamente ed era troppo verticale. Involontariamente fece un passo indietro. Riprese a correre. Senza auto era perduta, non c'erano dubbi. Doveva superare il villaggio, raggiungere una zona più elevata. Respirava profondamente e lentamente per contenere il panico che cresceva. Aveva forza sufficiente per continuare a correre, ma non le sarebbe servito a niente. L'ondata era più veloce. Davanti a lei il sentiero si biforcava: a sinistra, procedeva fino al ristorante; a destra, iniziava una scorciatoia in salita che portava dalla costa fino allo spiazzo dov'era parcheggiata la jeep di Johanson. Se avesse risalito di corsa quel sentiero ce l'avrebbe fatta. Poi si trattava di allontanarsi a tutto gas. Ma che ne sarebbe stato di Kare se lei fosse andata via? Sarebbe stato spacciato. No, impossibile, impensabile, non poteva lasciarlo là. Non voleva andarsene senza di lui. I due vecchi della distilleria avevano detto che sarebbe andato direttamente al Fiskehuset. Dunque si trovava là e la stava aspettando. Non meritava di essere lasciato solo. E lei non meritava di rimanere ancora sola. Nessun essere umano lo meritava.
Con ampie falcate superò la biforcazione e corse verso l'edificio illuminato. Non era lontana dal Fiskehuset. Sperava che la macchina di Kare fosse là. Il rimbombo si avvicinava molto velocemente, ma lei cercò d'ignorarlo per non farsi paralizzare dal terrore. Anche lei era veloce. Sarebbe stata più veloce dell'ondata, la sua velocità sarebbe bastata per due. La porta della terrazza del ristorante si spalancò, qualcuno saltò fuori e rimase bloccato a fissare il mare. Era Kare. Tina lo chiamò. La sua voce si perse negli ululati del vento e nel rombo dell'onda in avvicinamento. Kare fissava l'acqua, senza reagire. Non fu neppure sfiorato dall'idea di guardare verso di lei, che pure lo chiamava disperatamente. Poi corse via. Scomparve sull'altro lato della casa. Tina emise un gemito. Instancabile, continuò a correre. Un momento dopo, sentì in mezzo alla tempesta il debole rumore di un motore che si accendeva. Qualche secondo dopo, la macchina di Kare comparve sul retro del ristorante, poi imboccò a grande velocità la strada verso l'altura. Il cuore di Tina quasi si fermò. Non poteva farle quello. Non poteva andarsene senza di lei. Doveva averla vista! Non l'aveva vista. Kare ce l'avrebbe fatta. Forse. Fu presa dallo sconforto. Continuò a correre in mezzo a sterpaglie e pietrisco, non più verso il ristorante, ma verso l'alto, verso il parcheggio. Dopo aver superato la biforcazione, fu costretta ad attraversare una striscia di terreno roccioso, che la rallentò. Ma era l'unica strada che le rimaneva. La sua ultima possibilità era la jeep. Dopo qualche metro, si trovò davanti un ostacolo, una grata alta due metri. Afferrò le maglie, si tirò su e, con un balzo, arrivò dall'altra parte. Aveva perso altri secondi preziosi, e intanto l'onda si avvicinava. Ma improvvisamente, dietro le cortine di pioggia, scorse la nera silhouette della jeep, ed era più vicina di quanto avesse pensato, a portata di mano. Corse ancora più veloce. Le rocce lasciarono posto al prato. Sotto i suoi piedi c'era il terreno del parcheggio. Bene! E là c'era la macchina. Forse ancora cento metri. Meno. Forse cinquanta. Quaranta. Corri, Tina, corri!
L'asfalto tremava. Il sangue le martellava nelle vene e le rimbombava nelle orecchie. Corri! La mano scivolò nella tasca della giacca e afferrò le chiavi dell'auto. Le suole degli stivali colpivano il terreno con un ritmo regolare. Negli ultimi metri scivolò, ma non era importante, era arrivata. Sbatté contro la macchina. Su, apri! Sentì le chiavi scivolarle via di mano. No! pensò. Ti prego, non adesso! Presa dal panico, tastava ovunque, girava su se stessa. Mio Dio, dove sono quelle maledette chiavi? Devono essere qui, da qualche parte... Calò l'oscurità. Lentamente, Tina sollevò la testa e vide l'ondata. Non aveva più fretta. Ormai sapeva che era troppo tardi. Aveva vissuto in fretta, sarebbe morta in fretta. Sperava che almeno finisse velocemente. Talvolta si era chiesta come sarebbe stato morire, che cosa poteva passare per la testa quando ci si rendeva conto che non c'era più nessuna possibilità di fuga. La morte avrebbe detto: «Eccomi qui. Hai cinque secondi, pensa a qualcosa, quello che vuoi. Oggi sono generosa e, se vuoi, puoi passare in rassegna tutta la tua vita, ne avrai il tempo». Non era forse così? Mentre un'auto si schiantava, di fronte a un proiettile o nel corso di una caduta mortale... Non si diceva forse che la vita intera scorreva davanti agli occhi? Le immagini dell'infanzia, il primo amore, una sorta di Best of? Tutti dicevano che era così, quindi così doveva essere. Ma l'unica cosa che Tina sentiva era il terrore che la morte potesse farle male, che potesse farla soffrire. Si vergognava un po' che la sua vita finisse in modo così desolante. La morte aveva mandato tutto all'aria. Era l'unica cosa che riusciva a pensare. Dentro di lei, non scorreva nessun film hollywoodiano. Non c'erano grandi pensieri. Non c'era una fine dignitosa. Davanti ai suoi occhi, lo tsunami colpì il ristorante di Kare e lo ridusse in macerie. La parete d'acqua raggiunse il parcheggio. Qualche secondo dopo, sfrecciò lungo l'altura. Lo zoccolo continentale Mentre l'onda, allargandosi, raggiungeva la terraferma, sullo zoccolo continentale aveva già lasciato una distruzione inimmaginabile.
Una parte delle piattaforme di perforazione e delle stazioni di pompaggio, costruite direttamente sul margine continentale, era sparita negli abissi con la scarpata. Soltanto quello, nel giro di qualche minuto, era costato la vita a migliaia di persone. Ma era solo un assaggio di ciò che lo tsunami avrebbe fatto sullo zoccolo continentale. Come in un tamponamento, le masse d'acqua spinte in avanti si ammucchiarono l'una sull'altra, in un fronte verticale che cresceva sempre più, a mano a mano che il fondo si abbassava. Sotto il loro impatto, le strutture portanti delle piattaforme di produzione, costruite con un sistema di ponteggi, si spezzarono come fiammiferi. Nel giro di nemmeno quindici minuti, si rovesciarono oltre ottanta piattaforme, incapaci di reggere quel peso. Per molte di esse, il colpo fatale non venne inferto dalla parete d'acqua - le piattaforme di produzione del mare del Nord erano progettate per sopportare onde di circa quaranta metri senza subire gravi danni, cosa che statisticamente avveniva una volta ogni cento anni -, ma da un insieme di diversi fattori. Nei normali frangenti, si misurava una pressione di dodici tonnellate per metro quadrato, sufficiente per strappare gli argini di un porto e scagliarli nel centro della città, per far vorticare in aria piccole navi e spezzare in due le petroliere e i grandi cargo. Quelli erano i danni causati da onde generate dal vento. La loro forza d'urto si misurava in modo diverso da quella delle onde di uno tsunami. Si poteva dire che, rispetto a uno tsunami delle stesse dimensioni, un frangente era roba da poco. Già a metà dello zoccolo continentale, lo tsunami provocato dallo smottamento raggiungeva un'altezza di venti metri. Ma, nonostante l'altezza, la sua cresta sarebbe passata sotto la coperta delle piattaforme. A essere fatale fu la violenza con cui esso colpì le strutture portanti. Sul lungo periodo, le piattaforme petrolifere, come le navi, erano soggette al logoramento del mare. Dato che, in base alle statistiche, un'onda da quaranta metri si produceva una volta ogni secolo, i progettisti avevano costruito le piattaforme in maniera tale che potessero sopportarla. A partire da questo elemento, seguendo una logica tesa alla rassicurazione, le piattaforme erano state classificate come costruzioni in grado di reggere per cento anni. Era dunque vero che, statisticamente, potevano sopportare per un secolo l'effetto del vento e del mare, ma ciò ovviamente non significava che avrebbero potuto reggere per cento anni a onde anomale continue. Ed era assai probabile che non avrebbero retto neppure a una grande ondata, perché soltanto di rado il deterioramento era il risultato di onde mostruose. In genere, esso era la conseguenza del continuo logorio provocato da onde
più piccole e dalle tempeste. In breve tempo, in ogni piattaforma si creava un tallone d'Achille, benché nessuno potesse dire con precisione dove si trovasse. In dieci anni, quei punti deboli potevano subire un logoramento che corrispondeva a quello subito da altri punti in cinquant'anni. E anche un'onda di medie dimensioni poteva rivelarsi un grave problema. I calcoli matematici sono una brutta bestia. Le medie statistiche, su cui si basa la progettazione delle costruzioni marine, partono da affermazioni ideali e non dalla realtà. Il concetto di logoramento medio può essere valido negli uffici e nelle teste dei costruttori, ma la natura non conosce le medie e non si attiene alle statistiche. La natura è fatta di una successione incalcolabile di situazioni momentanee ed estreme. Forse, in certe acque, si possono rilevare onde alte mediamente dieci metri, ma, se s'incappa in un esemplare di trenta metri, che statisticamente non esiste, il valore medio non porta nessun aiuto. E si muore. Lo tsunami spazzò via il paesaggio di torri d'acciaio, superando in un attimo il loro limite di logoramento. I piloni si ruppero, le saldature si spezzarono, le costruzioni sopracoperta si ribaltarono. Soprattutto nella parte inglese, dove prevalevano i ponteggi a tubi d'acciaio, la forza d'urto dell'onda distrusse quasi tutte le costruzioni o le danneggiò gravemente. Da anni la Norvegia era specializzata nei piloni di cemento armato e lì lo tsunami trovò meno punti deboli. Tuttavia il disastro non fu meno devastante, perché le onde spararono proiettili giganteschi contro le torri di estrazione: le navi. Teoricamente, la maggior parte delle navi non poteva reggere onde di più di venti metri d'altezza. Secondo le statistiche, gli scafi sopportavano al massimo onde di 16,5 metri. La realtà però era diversa. A metà degli anni '90, onde anomale abbattutesi sulla Scozia avevano procurato un buco grande come una casa nella petroliera Mimosa da tremila tonnellate, ma la nave se l'era cavata. Nel 2001 un frangente di trentacinque metri al largo del Sudafrica stava per affondare la nave da crociera MS Bremen, ma non c'era riuscito. Nello stesso anno, all'altezza delle Falkland, la Endeavour, una nave lunga novanta metri, era caduta vittima di un fenomeno che gli scienziati chiamavano le «tre sorelle», tre onde in sequenza con un'altezza di trenta metri. La Endeavour era stata gravemente danneggiata, ma era riuscita a trovare rifugio in porto. In genere, però, delle navi che facevano simili incontri non si sapeva più nulla. La più subdola delle onde giganti era il cosiddetto «buco nell'oceano». Il fronte dell'onda formava una sorta di profonda voragine in cui la
nave finiva di prua o di poppa. Se le onde si trovavano a una certa distanza, in genere c'era tempo sufficiente per risalire e scalare il dorso dell'onda successiva. Se erano serrate, la situazione cambiava. La nave cadeva nella voragine e l'onda seguente, troppo vicina, la inghiottiva, facendola sprofondare sotto un muro d'acqua. E se anche la nave fosse riuscita a riemergere dalla voragine, cominciando a risalire, si poteva solo sperare che l'onda non fosse troppo alta o troppo verticale. In genere, però, lo era. Allora si cercava di fare l'impossibile, cioè di risalire un piano verticale. Normalmente erano le navi più piccole a sprofondare, quelle che avevano una lunghezza inferiore all'altezza dell'onda, ma spesso neppure i giganti dell'oceano ce la facevano. Venivano rovesciate e cadevano a testa in giù. Simili onde giganti, che nascevano dall'azione combinata di vento e correnti, procedevano a una velocità di cinquanta chilometri all'ora, raramente maggiore. E comunque erano sufficienti a provocare catastrofi. Ma erano una cosa da niente rispetto allo tsunami che in quel momento imperversava sullo zoccolo continentale. Quasi tutti i rimorchiatori, le petroliere e i traghetti che ebbero la sfortuna di trovarsi sul mare del Nord furono spazzati via come giocattoli. Alcuni si sfasciarono, altri entrarono in collisione coi pilastri di cemento delle piattaforme o con le boe di carico cui erano ancorati. Neppure i pilastri di cemento armato ressero a quell'impatto. Molti colossi crollarono e quelli che non erano crollati furono distrutti dagli incendi, innescati dalle esplosioni delle navi cariche di combustibile che si schiantavano contro i piloni. Tutte le torri di perforazione esplosero, in una reazione a catena. Macerie in fiamme vennero scagliate a centinaia di metri di distanza. Lo tsunami strappò le piattaforme ancorate dal fondale marino e le rovesciò. E tutto ciò accadde soltanto qualche minuto dopo che l'onda circolare si era staccata dal suo epicentro, spostandosi a grande velocità verso le coste e le masse continentali. Ognuno di quegli avvenimenti era l'incubo per antonomasia dei viaggi in mare e dell'industria offshore. Ma ciò che stava succedendo quel pomeriggio sul mare del Nord era molto più di un incubo diventato realtà. Era l'Apocalisse. La costa Otto minuti dopo il crollo dello zoccolo continentale, lo tsunami aveva colpito le scogliere delle isole Fær Øer, quattro minuti dopo aveva rag-
giunto le Shetland e due minuti dopo si schiantava contro la terraferma scozzese e contro la costa sudoccidentale della Norvegia. Per ricoprire completamente la Norvegia sarebbe dovuta cadere in mare quella cometa che s'ipotizzava avrebbe potuto distruggere l'umanità. Il Paese era una montagna unica, contornata da coste a picco il cui margine superiore difficilmente poteva essere raggiunto dalle onde. Ma la Norvegia viveva sull'acqua e grazie all'acqua. Quasi tutte le città più importanti erano sul mare, ai piedi d'imponenti montagne, protette da piccole isole piatte. Oppure sorgevano proprio sulle ìsole. Città portuali come Egersund, Haugesund e Sandnes, a sud, erano condannate dall'onda che si stava avvicinando. E lo stesso si poteva dire di Ålesund e Kristiansund, più a nord, e delle centinaia di paesi tutt'intorno. La sorte peggiore toccò a Stavanger. Lo sviluppo di uno tsunami nel momento in cui raggiungeva la costa dipendeva da diversi fattori: dalle scogliere, dalle foci dei fiumi, dalle montagne sottomarine, dai banchi di sabbia, dalle isole che si trovavano davanti alla costa e dalla pendenza delle spiagge. Tutto ciò poteva ridurre o aumentare l'effetto dello tsunami. Stavanger, il centro dell'industria offshore norvegese, città chiave del commercio e della navigazione, una delle più antiche, belle e ricche città della Norvegia, sorgeva direttamente sul mare, di fatto senza protezione. All'esterno del porto, si stendeva una serie di basse isolette, collegate da ponti. Immediatamente prima dell'arrivo dell'onda, il governo norvegese aveva mandato alle autorità cittadine un messaggio di allarme che doveva essere diffuso immediatamente via radio, televisione e Internet. Ma restava pochissimo tempo. Un'evacuazione non era neppure ipotizzabile. L'avviso scatenò una confusione indescrivibile. Nessuno sapeva esattamente che cosa si stava abbattendo su Stavanger. A differenza degli Stati costieri del Pacifico, costretti da sempre a convivere con gli tsunami, in Europa e nel Mediterraneo non c'erano centri di allerta. Mentre il PTWS - acronimo di Pacific Tsunami Warning System - con sede principale nelle Hawaii, era diffuso in oltre venti Stati del Pacifico, dall'Alaska al Giappone e dall'Australia fino al Cile e al Perú, in un Paese come la Norvegia il fenomeno degli tsunami era pressoché ignoto. E anche per questo motivo, gli ultimi minuti di Stavanger furono dominati da una sensazione di terrore impotente. L'ondata colpì la città senza che nessuno fosse riuscito a mettersi in salvo. Lo tsunami continuò a crescere anche dopo aver distrutto i piloni dei ponti tra le isole, sollevandosi in tutti i suoi trenta metri. A causa della no-
tevole lunghezza dell'onda, non ripiegò subito su se stesso, ma si schiantò contro le protezioni del porto, ridusse a pezzi banchine ed edifici e continuò a correre velocissimo verso la città. La città vecchia, con le sue case di legno del tardo XVII secolo e dei primi del XVIII secolo, fu rasa al suolo. A Vågen, l'antico bacino portuale, l'ondata s'ingorgò e ricadde sul centro della città. I flutti distrussero il più vecchio edificio di Stavanger, la cattedrale, che risaliva al 1125. Prima abbatterono tutte le finestre, poi i muri e infine si trascinarono appresso le macerie. Con la violenza di un attacco missilistico, l'onda spazzò via tutto ciò che incontrava sulla sua strada. E non era solo l'acqua a distruggere la città, ma anche il fango che essa trascinava con sé, insieme con tonnellate di pietre, navi e automobili, sparate come proiettili. La parete verticale si era trasformata in una montagna scrosciante di spuma. Lo tsunami si muoveva un po' più lentamente in mezzo alle strade, ma in compenso era molto più caotico. Nella spuma era imprigionata dell'aria che veniva compressa nell'impatto fino a una pressione di oltre quindici bar, sufficiente per deformare una lastra corazzata. L'acqua spezzava gli alberi come se fossero stati fiammiferi e li trasformava in proiettili. Neppure un minuto dopo aver colpito i primi sbarramenti del porto, l'onda aveva già distrutto la zona portuale e il quartiere immediatamente retrostante. Per gli abitanti di Stavanger non ci fu nessuna possibilità di salvezza. Qualcuno si mise a correre, cercando di sfuggire alla parete d'acqua apparsa così improvvisamente, ma era tutto inutile. La stragrande maggioranza delle vittime venne schiacciata dall'acqua, pesante come cemento. Non si provava nemmeno dolore. Chi sopravviveva allo schianto, finiva compresso contro le case oppure stritolato tra le macerie. Paradossalmente non annegò nessuno, tranne quelli che erano prigionieri nelle cantine. Anche là, però, la maggior parte venne uccisa dalla violenza della massa d'acqua oppure fu soffocata dal fango. La morte per annegamento era orribile ma rapida. Quasi nessuno poté rendersi conto di cosa stava succedendo. Ma chi era rimasto bloccato in uno spazio chiuso, senza ossigeno, e si ritrovava immerso nell'acqua gelida, sentiva che il cuore cominciava a battere irregolarmente, trasportando meno sangue, e infine si fermava. Eppure il cervello viveva ancora. Solo dopo dieci o venti minuti si spegneva l'ultima attività elettrica e arrivava la morte. Due minuti dopo, la spuma aveva raggiunto la periferia di Stavanger; più
gli spazi si facevano ampi, più si abbassavano i flutti ribollenti. La velocità dello tsunami diminuiva. L'acqua imperversava e schiumava per le strade. Chi era stato travolto non aveva avuto scampo, ma in compenso la maggior parte delle case aveva retto alla pressione. Tuttavia chi era rimasto in vita e pensava di essere al sicuro si sbagliava di grosso. Perché lo tsunami non dispiegava il suo orrore solo all'arrivo. Quando se ne andava era quasi peggio. Knut Olsen e la sua famiglia vissero il riflusso dell'ondata a Trondheim, dove lo tsunami era arrivato qualche minuto più tardi. Al contrario di Stavanger, che si era offerta alla devastazione su un piatto d'argento, Trondheim era protetta dal fiordo. Affiancato da grandi isole e difeso da una lingua di terra, il fiordo procedeva per quasi quaranta chilometri nell'entroterra prima di aprirsi in un ampio bacino, sul cui bordo orientale era stata costruita la città. Molte città norvegesi sorgevano nelle zone interne dei fiordi. Osservando la carta del Paese, si era indotti a credere che neppure la violenza di un'ondata alta trenta metri avrebbe potuto minacciare seriamente quella città. E invece fu proprio il fiordo a rivelarsi una trappola mortale. Se uno tsunami arrivava in uno stretto di mare o in un'insenatura a forma d'imbuto, le masse d'acqua non erano più spinte solo dal basso, ma anche dai lati. Parecchie migliaia di tonnellate d'acqua si comprìmevano in uno stretto canale. L'effetto era catastrofico. Il fiordo di Sogen, a nord di Bergen, era lungo ma stretto, collocato tra ripide pareti rocciose; lì l'altezza dell'acqua crebbe in maniera drammatica. La maggior parte delle località lungo quel fiordo sorgeva al di sopra delle scogliere, sul plateau. L'acqua schizzò fino alla loro altezza, ma non fece gravi danni. Andò diversamente al termine del fiordo lungo quasi cento chilometri, dove, su una bassa penisola, sorgevano villaggi e piccole città, gli uni di fianco alle altre. L'ondata li rase al suolo e si fermò solo contro la montagna alle loro spalle. La schiuma schizzò fino a duecento metri di altezza e strappò il manto boschivo, poi la massa d'acqua ricadde su se stessa e si propagò nei fiumi limitrofi. Il fiordo di Trondheim era più largo di quello di Sogen e le sue pareti erano meno alte. Inoltre, poiché verso il fondo si allargava, i frangenti potevano suddividersi meglio. Tuttavia la montagna d'acqua che raggiunse Trondheim fu ancora sufficientemente alta per distruggere il porto e una parte della città vecchia. Il fiume Nidelva uscì dagli argini e si spinse nei
quartieri di Bakklandet e Mollenberg. Slavine di schiuma riducevano a pezzi le vecchie case. In via Kirkegata quasi tutte le case caddero sotto la violenza dell'acqua, anche quella di Sigur Johanson. La graziosa facciata venne abbattuta, il rivestimento di legno fu disintegrato e il tetto crollò sotto il devastante fronte d'acqua. Le macerie, ormai diventate parte integrante della massa d'acqua, vennero trascinate via dall'onda, che tuttavia perse forza contro le fondamenta dell'NTNU, si fermò, formando spaventosi vortici, e cominciò a rifluire. Gli Olsen abitavano in una strada dietro via Kirkegata, e la loro casa, costruita in legno come quella di Johanson, resse l'impatto dello tsunami. Tremò e oscillò. All'interno, i mobili si rovesciarono, le stoviglie si ruppero e il pavimento delle stanze anteriori s'incurvò. I bambini furono presi dal panico. Olsen gridò alla moglie di portarli sul retro della casa. Non sapeva cosa fare, ma pensò che, se l'acqua colpiva la casa nella parte anteriore, forse in quella posteriore sarebbero stati al sicuro. Mentre il resto della famiglia fuggiva, lui si arrischiò a guardare, trattenendo il fiato, da una delle finestre sul davanti. Il pavimento di legno sotto i suoi piedi continuò a incurvarsi e a scricchiolare rumorosamente senza tuttavia rompersi. Olsen si aggrappò al telaio della finestra, deciso a fuggire subito nel retro se la casa fosse stata colpita da un'altra ondata. Guardava sbalordito la città distrutta, vedeva alberi, auto e persone galleggiare nei gorghi dell'acqua, sentiva le grida e il rombo dei muri che crollavano. Poi l'aria fu scossa da diverse esplosioni e dal porto si levarono nuvole rosse e nere. Era la cosa più spaventosa che avesse mai visto. Il pensiero di dover proteggere la famiglia tuttavia lo riscosse. L'unica cosa importante era la sopravvivenza dei figli e della moglie. E, se possibile, anche la sua. D'un tratto, l'onda sembrò fermarsi. Olsen guardò ancora un po' fuori, poi con cautela si spostò sul retro. Fu immediatamente subissato dalle domande. Vide il terrore negli occhi dei figli e sollevò le mani in un gesto rassicurante, sebbene fosse anche lui spaventato a morte. Poi annunciò che ormai era finita e che non dovevano più temere nulla. Ovviamente non era finita, per niente. Dovevano uscire. Gli venne l'idea di fuggire attraverso i tetti, ma la moglie lo rimproverò di aver visto troppi film di Hitchcock e gli chiese come pensava di fare coi bambini. Olsen non seppe come rispondere. Lei allora propose di aspettare. A lui non venne in mente niente di meglio, così si disse d'accordo e ritornò alla finestra sul davanti della casa.
Stavolta, quando guardò fuori, vide che l'ondata stava rifluendo. La massa d'acqua si spostava sempre più velocemente verso il fiordo. Ce l'abbiamo fatta, pensò. Si sporse ancora di più verso l'esterno. Nello stesso momento, un colpo scosse la casa. Olsen si aggrappò al telaio della finestra. Il pavimento crollò. Lui avrebbe voluto saltare indietro, ma non c'era più nulla. Nel pavimento del soggiorno si era spalancata una voragine, in cui entrava la pioggia. Olsen cadde in avanti. Sulle prime, credette di essere stato gettato fuori dalla finestra. Poi comprese che la facciata della casa si stava staccando come un cartone incollato male, e s'inclinava verso i flutti. Gridò con tutte le sue forze. Gli abitanti delle Hawaii, che convivevano da generazioni con quel mostro, sapevano bene che cos'era il riflusso. Le masse d'acqua che rifluivano generavano un enorme risucchio, che trascinava in mare tutto ciò che era ancora in piedi o cercava di restarci. L'acqua trascinava tutto con sé. Le persone sopravvissute al primo atto della catastrofe morivano in quel momento, e la loro morte era molto più orribile. Era accompagnata dalla lotta per la sopravvivenza nella corrente, dal tentativo di nuotare contro un risucchio spietato, dalle forze che cedevano. I muscoli si paralizzavano. Si veniva travolti da oggetti che vorticavano ovunque, le ossa si rompevano. In una resistenza disperata, ci si aggrappava ovunque, si veniva strappati e trascinati in mezzo al fango e alle macerie. Il mostro arrivava dal mare per divorare e, quando tornava indietro, portava con sé una preda. Quando la facciata della casa era crollata, Olsen non sapeva queste cose, tuttavia le capì in un lampo. Ecco perché si era messo a gridare. Gridava per la sua vita. Sapeva che sarebbe morto. Mentre cadeva, altre esplosioni risuonarono dal porto: le navi e i depositi di petrolio stavano saltando in aria. Praticamente tutti i sistemi elettrici della città erano saltati. I cortocircuiti si succedevano. Forse sarebbe morto perché l'acqua era percorsa dalla corrente elettrica. Pensò alla sua famiglia. Ai suoi bambini. A sua moglie. Poi per un attimo pensò a Sigur Johanson e alle sue sorprendenti teorie e sentì crescere la rabbia. La colpa era di Johanson. Gli aveva taciuto qualcosa. Qualcosa che li avrebbe potuti salvare. Quel maledetto figlio di puttana sapeva che cosa stava succedendo! Poi non pensò più nulla a parte una cosa: sei morto. Con un frastuono assordante, la facciata cadde contro un grosso albero,
incredibilmente ancora in piedi. Olsen fu scagliato fuori dalla finestra a testa in giù. Le sue mani annasparono nel vuoto e si aggrapparono a qualcosa. Foglie e corteccia. Vedeva i flutti fangosi ribollire sotto di lui. Si afferrò al ramo e agitando le gambe riuscì a sollevarsi. Dall'alto piovevano parti del frontone, assi e intonaco. Lo mancarono per un pelo. Quella che una volta era stata la parte anteriore della sua casa si stava deformando, andava in frantumi e poi crollava. Preso dal panico, Olsen cercò di arrivare più vicino al tronco. Più in basso, si stendeva un ramo più grosso, che lui poteva raggiungere. Forse poteva metterci sopra un piede. Sentiva l'albero gemere e oscillare e si lasciò penzolare, col fiato sospeso. Gli ultimi resti della facciata crollarono rumorosamente nei flutti, trascinando con sé foglie e rami. Un colpo attraversò il ramo di Olsen e a lui sfuggì la presa. Improvvisamente si trovò appeso con una mano sola. Guardò in basso. Le forze lo stavano abbandonando. Se fosse caduto, non avrebbe avuto speranze. Girò faticosamente la testa e cercò di gettare un'occhiata alla sua casa o, meglio, a ciò che ne era rimasto. Ti prego, fa' che non siano morti. La casa era ancora in piedi. Poi vide la moglie. Aveva strisciato in ginocchio fin sul bordo e guardava verso di lui. I suoi lineamenti esprimevano una truce determinazione, come se volesse gettarsi in acqua da un momento all'altro per andare a prenderlo. Naturalmente non poteva aiutarlo, ma era là e gridava il suo nome. La sua voce era ferma e quasi arrabbiata, come se gli stesse ordinando di mettere al sicuro il suo culo maledetto e di tornare a casa, dove lo stavano aspettando. Olsen rimase per un momento a guardarla. Poi tese i muscoli. La sua mano libera si sollevò e afferrò il ramo. Strinse il legno e riprese a spostarsi finché i suoi piedi non arrivarono proprio sopra il ramo più grosso. Lentamente si lasciò scivolare verso il basso. Adesso aveva un appoggio solido. Reggeva. Un tremito gli percorse le spalle. Staccò le dita dal ramo e si aggrappò al tronco, sentì lo sforzo dell'albero per reggere al riflusso, schiacciò il volto contro la corteccia e continuò a guardare la moglie. Sembrava non finire mai. L'albero resse e così fece anche la casa. Quando l'acqua ebbe portato il proprio tributo al mare, finalmente cominciò a ritirarsi, lasciando un deserto di macerie e di fango. Olsen aiutò la moglie e i figli a lasciare la casa. Presero le cose indispensabili - carte di credito, soldi, documenti e alcuni ricordi personali raccolti in fretta - e le
infilarono in due zaini. La macchina di Olsen era sparita. Sarebbero dovuti andare a piedi, ma era sempre meglio che restare là. Lasciarono in silenzio la strada devastata e andarono dall'altra parte del fiume, lontano da Trondheim. Distruzione L'ondata continuava a espandersi. Sommerse la costa orientale della Gran Bretagna e la Danimarca occidentale. All'altezza di Edimburgo e Copenhagen, lo zoccolo continentale diventava molto basso. Si alzavano i Dogger Bank, un ricordo dell'epoca in cui parti del mare del Nord erano ancora una terra asciutta. I Dogger Bank erano stati a lungo delle isole. Gli animali che le abitavano erano stati costretti a spostarsi sempre più in alto, a causa del crescere delle acque, e alla fine erano annegati. Ora i banchi si trovavano tredici metri sotto il livello del mare e frenavano l'onda in arrivo, facendola crescere in altezza. A sud dei banchi sorgevano le piattaforme, vicinissime l'una all'altra, e numerose in particolare lungo la costa sudorientale inglese e a nord del Belgio e dell'Olanda. Là l'ondata imperversò con maggiore violenza rispetto alla parte settentrionale, tuttavia la struttura frastagliata dello zoccolo continentale, i banchi di sabbia, i crepacci e i crinali frenarono lo tsunami. Le isole Frisone furono completamente sommerse, tuttavia ridussero l'energia dell'ondata, che colpì l'Olanda, il Belgio e la Germania settentrionale con minore violenza. La massa d'acqua raggiunse L'Aia e Amsterdam a meno di cento chilometri all'ora e distrusse buona parte della zona vicino al mare. Ad Amburgo e a Brema si scatenò una furiosa alta marea. Le due città si trovavano nell'interno, ma in compenso le foci dell'Elba e del Weser non erano protette. Lo tsunami rotolò lungo il corso dei fiumi e inondò le zone circostanti prima di raggiungere le città anseatiche. Anche a Londra il livello del Tamigi crebbe e il fiume schiantò le barche contro i ponti. Le propaggini dell'onda anomala arrivarono nelle strade di Dover e furono percepibili anche in Normandia e sulla costa bretone. Solo il Baltico, con Copenhagen e Kiel, sfuggì al disastro. Anche lì l'alta marea infuriò, ma dove s'incontravano lo stretto di Skagerrak e quello di Kategat, lo tsunami si avvitò su se stesso e crollò. In compenso, nell'estremo nord l'ondata colpì la costa dell'Islanda e raggiunse la Groenlandia e le isole Svalbard. Immediatamente dopo la catastrofe, gli Olsen si erano diretti verso zone
più elevate. Più tardi, lo stesso Knut Olsen non fu in grado di dire perché si erano comportati così, benché quella fosse stata una sua idea. Forse aveva il vago ricordo di un film sugli tsunami o di un articolo che aveva letto da qualche parte. Forse fu solo un'intuizione. Comunque la fuga salvò la vita alla famiglia. La maggior parte delle persone sopravvissute all'arrivo e al riflusso dello tsunami morì subito dopo. Dopo la prima ondata, molti tornarono nei loro villaggi e alle loro case per vedere cosa ne era rimasto. Ma lo tsunami si diffondeva con una serie di onde, l'una di seguito all'altra, e la loro grande lunghezza faceva sì che la seconda ondata colpisse soltanto quando si credeva di essere ormai scampati alla catastrofe. Accade così anche quella volta. Dopo circa un quarto d'ora, arrivò la seconda ondata, non meno violenta della precedente, e concluse l'opera iniziata dalla prima. Venti minuti più tardi, ne arrivò una terza, alta la metà, poi una quarta e infine più nulla. In Germania, Belgio e Olanda le procedure di evacuazione erano fallite, nonostante il maggior tempo a disposizione. Giacché praticamente tutti possedevano un'automobile, moltissimi avevano giudicato buona l'idea di usarla per scappare. Ma la scelta si era rivelata pessima. Neppure dieci minuti dopo l'allarme, le strade erano irrimediabilmente intasate. E l'onda aveva sciolto l'ingorgo a modo suo. Un'ora dopo che la scarpata continentale era smottata, le industrie offshore del Nordeuropa non esistevano più. Quasi tutte le città costiere delle zone limitrofe erano distrutte, in parte o completamente. Centinaia di migliaia di persone avevano perso la vita. Solamente l'Islanda e le isole Svalbard, poco popolate, l'avevano scampata senza vittime. La spedizione congiunta della Thorvaldson e della Sonne aveva scoperto che i vermi avevano distrutto gli idrati anche a nord, fino a Tromsø. La scarpata era scivolata a sud. In un primo momento, le conseguenze dello tsunami non lasciarono modo di riflettere sulla possibilità di mettere in conto anche un collasso della scarpata nord. Probabilmente Bohrmann avrebbe avuto una risposta a quel problema. Ma neppure Bohrmann sapeva esattamente dove fossero avvenuti i crolli. E anche Jean-Jacques Alban, che era riuscito a portare la Thorvaldson sufficientemente al largo e a metterla al sicuro, non aveva la minima idea di che cosa fosse successo negli abissi. Le esplosioni continuavano a rimbombare in mare e tra le rovine delle
città costiere. Alle urla e ai pianti dei sopravvissuti si mischiavano il rumore degli elicotteri, l'ululato delle sirene e i comunicati degli altoparlanti. Era una cacofonia dell'orrore, ma sopra il rumore aleggiava un silenzio plumbeo. Il silenzio della morte. Passarono tre ore prima che l'ultima ondata rifluisse in mare. Poi smottò la scarpata continentale settentrionale. PARTE SECONDA CHÂTEAU DISASTER Dal rapporto annuale delle associazioni ambientaliste «Nonostante il divieto del 1994, lo scarico di scorie nucleari in mare continua come prima. Nelle acque prospicienti l'impianto francese di rigenerazione e smaltimento delle scorie, i sommozzatori di Greenpeace hanno registrato una radioattività superiore di diciassette milioni di volte rispetto alle zone non interessate dagli scarichi. Davanti alla Norvegia, fuchi e gamberi sono contaminati col tecnezio, una sostanza radioattiva. Il centro per la radioprotezione norvegese ne ha identificato la fonte nell'impianto inglese di rigenerazione e smaltimento di Sellafield. E i geologi americani vogliono calare scorie altamente radioattive sul fondale marino, facendo scivolare i contenitori antiradiazioni attraverso tubi lunghi chilometri dentro fosse che verranno coperte dai sedimenti. «Dal 1959, l'Unione Sovietica ha depositato enormi quantità di scorie radioattive, compresi i reattori smantellati, nel mare Artico. Oltre un milione di armi chimiche si arrugginisce sul fondale marino, a una profondità tra i cinquecento e i quattromilacinquecento metri. Particolarmente pericolosi sono i contenitori arrugginiti dei gas velenosi, sprofondati da Mosca nel 1947. Al largo della Spagna, sono depositati centinaia di migliaia di fusti con materiale debolmente radioattivo proveniente dalla medicina, dalla ricerca e dall'industria. Gli scienziati marini hanno trovato nell'Atlantico, a oltre quattromila metri di profondità, il plutonio disperso nei mari del Sud durante i test atomici.
«Il servizio idrografico inglese ha elencato 57.435 relitti sui fondali marini, tra cui anche i resti di sommergibili nucleari americani e russi. «Il velenosissimo DDT danneggia più gli organismi marini che tutti gli altri esseri viventi. Attraverso le correnti si propaga ovunque e s'inserisce in diverse catene alimentari. Nel grasso dei capodogli sono stati trovati composti di polibromo, utilizzati come sostanze ignifughe per computer e rivestimenti dei televisori. Il novanta per cento di tutti i pesci spada pescati è avvelenato dal mercurio e il venticinque per cento anche dai PCB. Nel mare del Nord agli esemplari di Buccinum undatum femmina cresce il pene. La causa potrebbe essere la vernice delle navi, contenente tributilstagno. «Ogni trivellazione petrolifera danneggia il fondale marino per una superficie di venti chilometri quadrati, un terzo della quale è praticamente priva di vita. «I campi elettrici dei cavi sottomarini disturbano l'orientamento di salmoni e anguille. Inoltre l'elettrosmog pregiudica lo sviluppo delle larve. «La diffusione delle alghe e la moria di pesci crescono drammaticamente in tutto il mondo. Israele non ha firmato il trattato per fermare lo scarico di rifiuti in mare e, fino al 1999, un'unica ditta ha scaricato in mare sessantamila tonnellate di rifiuti velenosi all'anno: piombo, mercurio, cadmio, arsenico e cromo trasportati dalle correnti arrivano fino in Siria e a Cipro. Nel golfo di Tunisi vengono pompati in mare ogni giorno 12.800 tonnellate di fosfati provenienti dalle industrie di fertilizzanti. «Settanta delle duecento più importanti specie marine sono state dichiarate dalla FAO a rischio di estinzione. E intanto il numero dei pescatori aumenta. Nel 1970 erano tredici milioni, nel 1997 erano già trenta milioni. La pesca con le reti a strascico, utilizzate per la cattura di merluzzi, cicerelli e salmoni dell'Alaska, ha effet-
ti devastanti sul fondale. Vengono letteralmente raschiati via interi ecosistemi. Mammiferi marini, pesci predatori e uccelli acquatici non trovano più niente da mangiare. «Il bunker C, un olio combustibile denso, il propellente più usato dalle navi, prima della combustione viene purificato da cenere, metalli pesanti e sedimenti. Rimangono rifiuti compatti che molti comandanti non smaltiscono correttamente, ma scaricano di nascosto in mare. «Al largo del Perú, a quattromila metri di profondità, ricercatori di Amburgo hanno condotto una sperimentazione per l'elaborazione di un progetto per la più grande raccolta a fini commerciali di noduli di manganese. La loro nave trascinava avanti e indietro un aratro su un pezzo di fondale marino ampio undici chilometri quadrati. Sono morte innumerevoli forme di vita. Anni dopo, la regione non si era ancora ripresa. «Durante i lavori di costruzione nelle Florida Keys fu gettata in mare della terra che si depositò sulle barriere coralline: gran parte delle forme di vita lì presenti è morta soffocata. «I ricercatori marini credono che anche le grandi concentrazioni di biossido di carbonio nell'atmosfera, causate dal crescente uso di combustibili fossili, blocchino la formazione delle scogliere. Quando il CO2 si scioglie rende l'acqua acida. Senza curarsi di ciò, i grandi gruppi energetici progettano di pompare direttamente in mare enormi quantità di CO2 per ridurre l'inquinamento atmosferico.» 10 maggio Château Whistler, Canada La notizia lasciò Kiel a trecentomila chilometri al secondo. Il testo, preparato sul laptop da Erwin Suess nel centro di ricerca Geomar, si spostò nella rete, configurato in una massa di dati digitali e fu trasformato in segnale luminoso da un diodo laser. Poi fu sparato con una
lunghezza d'onda di 1,5 millesimi di millimetro infrarosso in un cavo a fibre ottiche, insieme con milioni di telefonate e pacchetti di dati. La fibra permetteva ai fasci di luce di scorrere in un diametro doppio di quello di un capello e li rifletteva verso l'interno per non farli uscire. A velocità folle, le onde sfrecciavano dall'interno del Paese fino alla costa, attraversando ogni cinquanta chilometri in un amplificatore ottico, finché la fibra non spariva in mare, avvolta in un mantello di rame, impacchettata in diversi strati di filo metallico e di morbido isolante. Sott'acqua, il fascio di cavi aveva lo spessore di un robusto avambraccio umano. Correva sul fondo dello zoccolo continentale, sotterrato per essere protetto dalle ancore e dalle reti dei pescatori. Il TAT-14 - quello era il nome ufficiale - era un cavo transatlantico che collegava l'Europa al continente americano. Era uno dei cavi in grado di reggere il carico maggiore. Solo nel Nordatlantico c'erano dozzine di cavi simili. Centinaia di migliaia di chilometri di cavi a fibre ottiche formavano in tutto il mondo la spina dorsale dell'era dell'informazione. Tre quarti della loro capacità servivano al world wide web. Il Project Oxygen legava 157 Paesi in una sorta di super Internet. Un altro sistema collegava otto cavi a fibre ottiche per una capacità di carico di 3,2 terabit, che corrispondeva a quarantotto milioni di telefonate fatte contemporaneamente. Da tempo, fibre spesse quanto una filigrana avevano soppiantato la tecnica satellitare. La sfera terrestre era circondata da un intreccio di cavi capaci di condurre la luce, in cui correvano in tempo reale i bit e i byte della società della comunicazione, le telefonate, i video, la musica, le e-mail. Non erano i satelliti a formare il villaggio globale, ma i cavi. La notìzia di Erwin Suess schizzò verso nord, tra la Scandinavia e la Gran Bretagna. Superata la Scozia, il TAT-14 svoltava a sinistra. Oltre lo zoccolo continentale delle Ebridi avrebbe dovuto snodarsi sul profondo fondale marino, non più interrato, ma appoggiato sulla superficie. Ma non c'erano più né il margine continentale né il fondale marino. Meno di un centoventesimo di secondo dopo essere partita da Kiel, la notizia passò sotto gigatonnellate di fango, arrivò nella zona al di sotto delle isole Fær Øer, e finì in una matassa strappata. Il robusto involucro, coi suoi cavi di rinforzo e con gli strati di materiale flessibile, era tranciato di netto, le fibre ottiche tagliate facevano uscire i loro messaggi nei sedimenti. La slavina aveva travolto il cavo con tale violenza che le due estremità tranciate giacevano a centinaia di chilometri l'una dall'altra. Il TAT-14 riprendeva solo nel bacino islandese, un inutile pezzo di alta tecnologia, che
arrivava sullo zoccolo continentale a sud di Terranova e da lì correva fino a Boston, dove s'inseriva nel collegamento via terra. Infine, attraverso le Montagne Rocciose, l'autostrada dei dati raggiungeva la zona costiera montuosa del Canada occidentale a nord di Vancouver, direttamente nella stazione di scambio del famoso hotel di lusso Château Whistler, ai piedi della Blackcomb Mountain, dove il cavo a fibre ottiche si trasformava in un convenzionale cavo di rame. Un fotomoltiplicatore riconvertiva nuovamente il processo e trasformava gli impulsi luminosi in segnali digitali. In altre circostanze, sarebbe stato digitalizzato in questo modo anche il messaggio proveniente da Kiel, e sarebbe apparso in forma di e-mail anche sul laptop di Gerhard Bohrmann. Ma, in quelle circostanze, il collegamento di Bohrmann era tagliato fuori esattamente come quello di milioni di altre persone. Una settimana dopo la catastrofe, nel Nordeuropa i collegamenti transatlantici Internet ed e-mail erano quasi completamente bloccati, e i contatti telefonici - quand'erano possibili - avvenivano solo via satellite. Bohrmann era seduto nella grande hall dell'hotel e fissava lo schermo. Sapeva che Suess voleva mandargli un documento con la curva di crescita della popolazione dei vermi e le proiezioni di quello che sarebbe potuto succedere in altre parti del mondo colpite da infestazioni simili. Una volta superato lo shock, a Kiel lavoravano come ossessi. Imprecò. Il presunto mondo così piccolo era tornato di nuovo grande, pieno di spazi invalicabili. Al mattino, gli avevano detto che, nel corso della giornata, le e-mail sarebbero state ricevute via satellite, ma fino a quel momento non si era ancora visto nulla. A quanto pareva, erano ancora vincolati al cavo distrutto. Bohrmann sapeva che l'unità di crisi stava lavorando febbrilmente, tuttavia Internet collassava in continuazione. E lui presumeva che non dipendesse tanto dalle carenze tecniche quanto dalla volontà. Era vero che i satelliti lavoravano alla perfezione, ma l'esercito americano non aveva ancora dato la completa disponibilità a trasferire sui satelliti il traffico dei cavi ottici transatlantici. Prese il telefono satellitare che l'unità di crisi gli aveva messo a disposizione, si mise in contatto con Kiel e attese. Dopo diversi squilli, finalmente all'istituto risposero e gli passarono Suess. «Non è arrivato niente», disse Bohrmann. «Valeva la pena tentare.» La voce di Suess si sentiva bene, ma Bohrmann era irritato per il ritardo con cui rispondeva. Non riusciva ad abituarsi alle telefonate satellitari. Il segnale partito dal trasmettitore doveva risalire per circa trentaseimila chilometri e discendere di altrettanti per
raggiungere il ricevente. Ci si telefonava facendo lunghe pause e sovrapponendosi parzialmente. «Anche da noi non funziona nulla. Peggiora di ora in ora. Non si riesce più a raggiungere la Norvegia, in Scozia tutto tace, la Danimarca ormai esiste solo sulla carta geografica. E non credere che ci sia qualche piano d'emergenza.» «Eppure noi ci stiamo telefonando», disse Bohrmann. «Stiamo telefonando perché gli americani sono attrezzati. Stai sfruttando la superiorità militare di una grande potenza. In Europa... Scordatelo! Tutti vogliono telefonare, tutti sono in ansia perché non sanno nulla di parenti e amici. C'è un intasamento di dati. Le poche reti libere sono occupate dalle unità di crisi e dai governi.» «Allora, che facciamo?» disse Bohrmann dopo una pausa d'indecisione. «Non lo so. Forse riparte la Queen Elizabeth. I dati ti arriveranno fra sei settimane, se mandi un messaggero a cavallo sulla costa a prenderli.» Bohrmann fece una risata amara. «Parliamo seriamente», disse. «Allora ti devi procurare qualcosa per scrivere. Non posso fare diversamente.» «Ho da scrivere», sospirò Bohrmann. Mentre annotava quello che Suess gli diceva, un gruppo di uomini in uniforme attraversò la hall alle sue spalle e si avviò verso gli ascensori. Il loro comandante era un nero alto, dai tratti etiopi. Aveva i gradi di maggiore delle forze armate americane e una targhetta col nome PEAK. Il gruppo entrò in uno degli ascensori. La maggior parte scese al secondo o al terzo piano. Gli altri lasciarono l'ascensore al quarto. Il maggiore Salomon Peak rimase sull'ascensore e proseguì fino al nono piano. Là c'erano le gold executive suite, il meglio delle cinquecentocinquanta camere dello Château. Lo stesso Peak abitava in una junior suite al piano inferiore. Una normalissima camera singola gli sarebbe bastata. Non dava importanza al lusso, ma la direzione dell'hotel si era preoccupata di fornire all'unità di crisi le stanze migliori. Mentre camminava lungo il corridoio, il rumore dei passi attutito dal tappeto, non riusciva a levarsi dalla mente quello che era successo durante la riunione pomeridiana. Incrociava uomini e donne, con abiti civili e in uniforme. Le porte erano aperte e permettevano di vedere all'interno delle suite, trasformate in uffici. Dopo qualche secondo raggiunse una grande porta. Due soldati lo salutarono e Peak rispose con un cenno. Uno dei due bussò e attese la risposta dall'interno, poi aprì di scatto e fece entrare il maggiore.
«Come va?» disse Judith Li. Si era fatta portare dalla palestra un tapis roulant. Peak sapeva che Judith Li passava più tempo su quel nastro che a letto. Da lì guardava la televisione, sbrigava la corrispondenza, dettava memorandum, ordini e discorsi grazie al sistema di riconoscimento vocale del suo laptop, faceva telefonate, riceveva informazioni su ogni cosa, oppure pensava. Stava correndo anche in quel momento. I capelli neri tenuti da una fascia erano lisci e splendenti. Indossava una tuta leggera, con pantaloncini corti e stretti. Nonostante il ritmo sostenuto, il suo respiro era regolare. Ogni volta, Peak doveva richiamare alla memoria che quella donna sul tapis roulant aveva quarantotto anni. Judith Li sembrava averne meno di quaranta ed era in forma perfetta. «Non male», disse Peak. «Grazie.» Si guardò intorno. La suite aveva le dimensioni di un appartamento di lusso ed era adeguatamente arredata. Classici elementi canadesi - molto legno e atmosfera rustica, un caminetto - si mescolavano con l'eleganza francese. Accanto alla finestra c'era un pianoforte a coda. Anche quello proveniva da un altro ambiente, cioè dalla grande hall. Judith Li l'aveva fatto portare nel suo appartamento, come il tapis roulant. Sulla sinistra, un corridoio a volta conduceva in una grande camera da letto. Peak non aveva visto il bagno, ma aveva sentito dire che disponeva di una vasca per idromassaggio e di una sauna. Dal punto di vista di Peak, l'unico oggetto sensato era il massiccio tapis roulant nero, benché apparisse del tutto incongruo a quell'appartamento arredato con cura. Lui pensava che il lusso e il design non si confacessero alla vita militare. Peak proveniva da una famiglia semplice e non si era arruolato perché fornito di uno spiccato senso estetico, bensì per sfuggire alla vita in strada che troppo spesso conduceva alla galera. La costanza e un instancabile impegno gli avevano permesso di finire il college e gli avevano aperto una carriera come ufficiale. Il suo successo era di esempio per molti, ma ciò non cambiava le sue origini. Continuava a sentirsi molto più a suo agio in una tenda o in un motel economico. «Abbiamo ricevuto le ultime analisi dei satelliti della NOAA», disse, passando davanti a Judith Li per guardare la valle dalla grande finestra panoramica. Il sole era alto sui boschi di cedri e abeti. Lo scenario delle montagne era stupendo, ma Peak non ci fece caso. Al momento era molto più interessato agli sviluppi previsti per le ore seguenti. «E allora?»
«Avevamo ragione.» «C'è una somiglianza?» «Sì, tra i rumori intercettati dall'URA e lo spettrogramma non identificato del 1997.» «Bene», disse Judith Li con aria soddisfatta. «Molto bene.» «Non so se sia un bene. È una traccia, ma non spiega nulla.» «E cosa si aspettava? Che l'oceano ci spiegasse qualcosa?» Judith Li schiacciò il tasto stop sul tapis roulant e saltò giù. «Abbiamo messo in piedi tutto questo circo proprio per scoprirlo. Il gruppo è al completo?» «Ci siamo tutti. Tranne uno.» «Chi?» «Quel biologo norvegese, quello che ha scoperto i vermi. Dovrei guardare, si chiama...» «Sigur Johanson.» Judith Li andò in bagno e ritornò con un asciugamano intorno alle spalle. «Veda di ricordarsi i nomi, Sal. Nell'hotel ci sono trecento persone, di cui settantacinque scienziati... Dovrebbe riuscire a ripetere i nomi.» «Mi vuole dire che lei ha in testa trecento nomi?» «Ne ho in testa anche tremila, se serve. S'impegni.» «Sta bluffando», disse Peak. «Vuole mettermi alla prova?» «Perché no? In compagnia di Johanson c'è una giornalista inglese, da cui speriamo di avere informazioni su quello che sta succedendo al Circolo Polare. Sa come si chiama?» «Karen Weaver», rispose Judith Li, frizionandosi i capelli. «Vive a Londra. È una specialista del mare, nonché una patita di computer. Si trovava a bordo di una nave sul mar di Groenlandia che poi è affondata con uomini e topi.» Sorrise a Peak coi suoi denti bianchi come la neve. «Se solo avessimo per ogni cosa un quadro completo come per questo affondamento...» «Magari.» Peak si concesse un sorriso. «Ogni volta che discutiamo della mancanza d'informazioni, Vanderbilt s'irrigidisce.» «È comprensibile. La CIA odia non riuscire a ottenere informazioni. È già arrivato?» «È stato avvisato.» «Avvisato? Che vuol dire?» «È già in elicottero.» «La capacità di trasporto dei nostri velivoli mi sorprende, Sal. Mi suderebbero le mani se dovessi volare con quel grasso maiale. Ma non fa nien-
te. Mi faccia sapere se allo Château Whistler arrivano altre notizie sconvolgenti prima che caliamo le carte.» Peak esitò. «Come possiamo chiedere a tutti l'impegno di tenere la bocca chiusa?» «Ne abbiamo parlato mille volte.» «Lo so che se n'è parlato mille volte. Ma mille volte meno del necessario. Laggiù c'è gente di ogni tipo, gente che non è abituata a mantenere un segreto. Hanno famiglia e amici. Arriveranno schiere di giornalisti e faranno domande...» «Non è un problema nostro.» «Potrebbe diventarlo.» «Facciamoli entrare nell'esercito.» Judith Li allargò le braccia. «Poi li sottoponiamo alle leggi di guerra. Chi apre bocca sarà fucilato.» Peak s'irrigidì. Judith gli fece un cenno. «Era una battuta, Sal.» «Non sono dell'umore adatto per le battute», ribatté Peak. «So bene che Vanderbilt vorrebbe applicare il diritto militare a tutti, ma è impossibile. Almeno la metà di questa gente è straniera e la maggior parte di questa metà è europea. Se rompono gli accordi non possiamo fare nulla.» «Allora comportiamoci come se potessimo farlo.» «Vuole fare pressioni? Non funzionerebbe. Nessuno coopera sotto pressione.» «Chi ha parlato di pressione? Mio Dio, Sal, perché vuole sempre crearsi dei problemi? Quella gente vuole essere d'aiuto. Inoltre, se si convince che la violazione del rapporto di fiducia porta all'espulsione dal gruppo, starà zitta. Credere rende forti.» Peak la guardò, scettico. «C'è altro?» «No. Possiamo cominciare.» «Bene, ci vediamo più tardi.» Peak se ne andò. Judith Li lo seguì con lo sguardo, pensando con divertimento alla scarsa conoscenza del genere umano che caratterizzava quell'uomo. Era un eccellente soldato e uno straordinario stratega, ma faticava a distinguere gli uomini dalle macchine. Sembrava quasi convinto che, nel corpo umano, ci fosse da qualche parte un settore da programmare in modo da essere sicuri che le istruzioni fossero eseguite. In un certo senso, quasi tutti i laureati a West Point cadevano in quell'errore. L'accademia militare americana più
elitaria in assoluto era ben nota per i suoi spietati metodi di addestramento, alla fine del quale, però, non c'era altro che l'obbedienza, un'obbedienza inculcata a forza. Le preoccupazioni di Peak erano infondate, non capiva proprio niente di psicologia di gruppo. Judith Li pensò a Jack Vanderbilt, il vice direttore della CIA. Non le piaceva: puzzava, sudava e aveva un alito spaventoso, però sapeva fare il suo lavoro. Durante le ultime settimane, e soprattutto dopo il terribile tsunami che aveva devastato l'Europa settentrionale, il settore di Vanderbilt si era messo in funzione a pieno regime. I suoi uomini avevano tracciato una sbalorditiva visione d'insieme. In altre parole: le risposte continuavano a scarseggiare, ma il catalogo delle domande era completo. Rifletté se fosse necessario mandare alla Casa Bianca un rapporto intermedio. In fondo c'erano ben poche novità, ma il presidente stravedeva per lei e l'ammirava per la sua intelligenza. Era perfettamente consapevole della considerazione di cui godeva, ma si guardava bene dallo sbandierarla in pubblico, perché sarebbe stato controproducente. Era una delle poche donne tra i generali americani e ciò rendeva la sua posizione drammaticamente instabile. Molti militari di alto rango e vari politici la guardavano con sospetto. E il suo rapporto confidenziale con l'uomo più potente del mondo non contribuiva a rendere il quadro più limpido. Quindi Judith Li perseguiva i suoi obiettivi con prudenza. Non si metteva mai in primo piano. Non faceva mai allusioni alla solidità del rapporto tra lei e il presidente. Lui, per esempio, non gradiva che un problema fosse definito «complesso», perché la complessità era lontanissima dal suo modo di pensare. Il più delle volte, quindi, era lei a spiegargli la complessità del mondo con parole semplici; lo stesso presidente, poi, chiedeva spiegazioni a Judith Li se il punto di vista del segretario alla Difesa o dei membri del consiglio di sicurezza nazionale gli apparivano incomprensibili. E lei gli spiegava anche le posizioni del segretario di Stato. In nessun caso, Judith Li avrebbe permesso che le idee del presidente fossero pubblicamente ricondotte alla loro fonte reale. Se le veniva fatta una domanda, la sua risposta cominciava sempre con: «Il presidente crede che...» oppure con: «L'opinione del presidente a questo riguardo è...» I giornalisti non dovevano sapere che era lei a veicolare idee e nozioni al signore della Casa Bianca, ad allargare i suoi orizzonti intellettuali e soprattutto a fornirgli punti di vista e giudizi. I membri della cerchia più ristretta, tuttavia, lo sapevano. Ma lei aspettava che i suoi meriti fossero riconosciuti al momento opportuno. Come col
generale Norman Schwarzkopf, che lei aveva conosciuto nel 1991, durante la Guerra del Golfo: un intelligentissimo stratega con una notevole abilità tattica nelle questioni politiche, un uomo che non si lasciava intimidire da niente e da nessuno. Quando lo aveva incontrato, Judith Li aveva già alle spalle un percorso sorprendente: diploma in Scienze politiche e Storia alla Duke University, prima donna laureata a West Point in Scienze naturali, all'interno di un programma specifico per ufficiali di Marina, corsi d'insegnamento al War Naval College. Schwarzkopf l'aveva presa sotto la sua ala protettrice e si era preoccupato che fosse invitata a convegni e seminari, così da incontrare le persone giuste. Di per sé disinteressato alla politica, «Stormin' Norman» le aveva spianato la strada verso quel mondo in cui i confini tra politica ed esercito erano sfumati e le carte si rimescolavano continuamente. Il suo potente protettore le aveva inizialmente procurato il ruolo di vice comandante delle forze di terra nell'Europa centrale. Nel giro di breve tempo, Judith Li aveva riscosso una notevole popolarità nella cerchia diplomatica. Formazione, cultura e doti naturali le erano state particolarmente utili. Il padre, un americano, proveniva da una famiglia di generali e aveva giocato un ruolo importante nella sicurezza della Casa Bianca, prima di doversi ritirare per motivi di salute. Sua madre, una cinese, era un'apprezzata violoncellista, che suonava nell'orchestra della New York City Opera. Per la loro unica figlia, entrambi nutrivano grandi speranze. Judith aveva preso lezioni di danza e di pattinaggio sul ghiaccio, nonché di pianoforte e di violoncello. Aveva accompagnato il padre nei suoi viaggi in Europa e Asia e quindi, fin da giovanissima, si era formata un'opinione precisa sulle differenze culturali. Le caratteristiche etniche e l'evoluzione storica esercitavano su di lei una passione irrefrenabile che la spingeva a porre continuamente domande a chiunque incontrasse, aiutata in ciò anche dal fatto che, già a dodici anni, parlava il mandarino - la lingua della madre -, a quindici si esprimeva correntemente in tedesco, francese, italiano e spagnolo e a diciotto aveva raggiunto un buon livello di giapponese e coreano. I suoi genitori erano stati severissimi per tutto ciò che riguardava le buone maniere, il modo di vestire e il rispetto delle regole della buona società, dimostrando invece una sorprendente tolleranza per tutto il resto. I princìpi presbiteriani del padre e la filosofia di vita della madre, forgiata dal buddhismo, convivevano in un rapporto armonico, come la loro vita. Tuttavia la cosa più sorprendente era che, al momento del matrimonio, il padre aveva assunto il nome della moglie, cosa che aveva messo in moto
una lunga e faticosa battaglia contro le autorità. Quel gesto d'amore per la donna che aveva lasciato la sua terra pur di seguirlo aveva portato alle stelle l'ammirazione di Judith per il padre, il quale, in realtà, era un uomo dalle mille contraddizioni. Sosteneva, per esempio, di essere in parte un liberale e in parte un repubblicano ultraconservatore e andava fiero di quella dicotomia. Una ragazza con un carattere meno forte, costretta alla pressione di una famiglia che le imponeva la perfezione in ogni disciplina, probabilmente sarebbe crollata. Ma Judith Li non l'aveva fatto: dopo aver saltato due classi, aveva ottenuto la licenza liceale con voti eccezionali, cominciando così a nutrire la convinzione di poter diventare ciò che voleva, fosse pure il presidente degli Stati Uniti d'America. A metà degli anni '90, il dipartimento della Difesa le aveva offerto il posto di vice capo di stato maggiore, con delega alle operazioni e alla pianificazione; contemporaneamente era stata chiamata a occupare la cattedra di Storia a West Point. Presso il dipartimento della Difesa lei godeva ormai di una grande considerazione e il suo crescente interesse per la politica era stato notato da molti. Le mancava soltanto un rilevante successo militare. Il Pentagono riteneva indispensabile avere un'esperienza sul campo prima di dare il via libera all'ascesa ai livelli più alti, e quindi Judith Li agognava una bella crisi globale. Non aveva dovuto attendere a lungo. Nel 1999 aveva preso parte al confitto nel Kosovo come vice comandante delle operazioni e aveva scritto il suo nome nel libro degli eroi. Finita la campagna militare, era diventata generale comandante a Fort Lewis e, dopo aver impressionato il presidente con un rapporto sulla sicurezza interna, era stata chiamata proprio nel consiglio di sicurezza nazionale. Judith Li aveva adottato una linea dura. Per molti aspetti, il suo pensiero era ancora più intransigente di quello dell'amministrazione repubblicana, ma in lei l'elemento trainante era il patriottismo. Era convinta che al mondo non esistesse un Paese migliore e più giusto degli Stati Uniti d'America e aveva argomentato questa sua affermazione in modo acuto ed esaustivo. Improvvisamente si era ritrovata nel cuore del potere. Judith Li, la perfezionista dal sangue freddo, conosceva la bestia in agguato dentro di lei: una calda, indomabile emotività che, a quel punto, poteva diventare tanto utile quanto dannosa, a seconda della mossa che si apprestava a compiere. Così aveva soppresso l'impulso a enfatizzare le proprie capacità militari e politiche. Era sufficiente che, in certe serate alla Casa Bianca, sostituisse l'uniforme con un abito da sera e suonasse Cho-
pin, Brahms e Schubert agli ascoltatori rapiti, che guidasse nella danza il presidente sino a fargli credere di volteggiare come Fred Astaire, che cantasse per la sua famiglia e i vecchi amici repubblicani le canzoni dei padri fondatori... Quella parte della messinscena riguardava solo lei. Allacciava abilmente stretti rapporti personali, condivideva la passione per il baseball del segretario alla Difesa e quella del segretario di Stato per la storia europea. Si lasciava invitare sempre più spesso in forma privata e trascorreva interi fine settimana nel ranch del presidente. Davanti al mondo era rimasta umile, tenendo per sé le opinioni personali sulle questioni politiche. Obbediva alle regole del gioco che si svolgeva tra politica ed esercito, appariva colta, affascinante e sicura di sé, sempre vestita correttamente, però mai rigida o spocchiosa. Le erano state attribuite senza fondamento - una serie di relazioni con uomini assai influenti, ma lei ignorava elegantemente i pettegolezzi. Era impossibile farle perdere la calma. Ai giornalisti, ai deputati e ai sottoposti forniva bocconcini ben digeribili di certezze e convinzioni, era sempre organizzata e preparata al meglio, ricordava un'enorme quantità di dettagli, li richiamava come da un archivio e li riduceva in formule chiare e comprensibili. Così, sebbene nemmeno lei sapesse cosa stava succedendo nell'oceano, anche stavolta riuscì a trasmettere al presidente un quadro esatto della situazione. Nel voluminoso dossier stilato dalla CIA mancavano solo pochi punti decisivi. Ecco perché Judith Li si trovava allo Château Whistler. E lei sapeva bene cosa significava. Era l'ultimo, grande passo che le restava da fare. Forse avrebbe dovuto chiamare il presidente. Così, semplicemente. A lui piaceva. Poteva raccontargli che gli scienziati e gli esperti erano riuniti, sottintendendo che avevano accettato l'invito informale degli Stati Uniti, benché nei loro Paesi avessero problemi a non finire. Poteva spiegargli che i satelliti della NOAA avevano riconosciuto alcuni tratti simili tra i rumori non identificati. Cose del genere gli piacevano, era un po' come dire: «Signore, abbiamo fatto un passo avanti». Naturalmente non si aspettava che il presidente sapesse cosa s'intendeva con termini quali bloop e upsweep, e perché la NOAA credeva di aver sciolto il mistero delle origini dello slowdown. Erano cose che andavano troppo nel dettaglio, cose inutili. Qualche parola ottimistica sul collegamento satellitare a prova d'intercettazione e il presidente sarebbe stato felice. E un presidente felice era sempre utile. Decise di farlo.
Nove piani sotto di lei, Leon Anawak notò un bell'uomo coi capelli brizzolati e la barba. Stava attraversando lo spiazzo antistante l'hotel accompagnato da una donna piccola e abbronzata, con una gran massa di riccioli castani e le spalle larghe, che indossava jeans e una giacca di pelle. Anawak valutò che avesse poco meno di trent'anni. I nuovi arrivati portavano un bagaglio che fu immediatamente preso in carico dagli inservienti dell'hotel. La donna scambiò qualche parola con l'uomo con la barba, si guardò intorno e, per un momento, fissò lo sguardo su Anawak. Poi si scostò i riccioli dalla fronte e sparì nella hall. Anawak rimase a fissare il punto in cui, fino a poco prima, c'era la donna. Poi alzò la testa, si riparò gli occhi dai raggi obliqui del sole e lasciò scorrere lo sguardo sulla facciata neoclassica dello Château. L'hotel di lusso sorgeva in un panorama da sogno, che corrispondeva perfettamente all'immagine stereotipata del Canada. Da Vancouver si prendeva la Highway 99 lungo la Horseshoe Bay e si raggiungevano le montagne: lì si trovava il gigantesco hotel, che sorgeva in mezzo a una foresta su un dolce pendio circondato da imponenti cime, che splendevano di bianco anche durante i mesi estivi. Le montagne Blackcomb e Whistler formavano una delle zone sciistiche più belle del mondo. Ora, in maggio, gli ospiti venivano lì prevalentemente per giocare a golf e per fare passeggiate. Si poteva esplorare la zona con la mountain bike, oppure essere portati sulle nevi eterne con l'elicottero. Lo Château disponeva anche di un ristorante eccezionale e offriva ogni comfort immaginabile. Ma tutto ciò era ovvio, dato che il luogo era così remoto. Meno ovvia era la dozzina di elicotteri militari che stazionavano nelle vicinanze. Anawak era arrivato da due giorni. Aveva collaborato nella preparazione della conferenza di Judith Li insieme con Ford, che da ventiquattr'ore volava avanti e indietro tra l'acquario di Vancouver, Nanaimo e lo Château Whistler per visionare il materiale, analizzare i dati e riportare le ultime conoscenze acquisite. Il ginocchio gli faceva ancora male, ma non zoppicava più. La limpida aria di montagna aveva in qualche modo snebbiato i suoi pensieri e lo sconforto seguito all'incidente con l'idrovolante si era trasformato in un dinamismo nervoso. Nel frattempo erano accadute così tante cose che la sua cattura da parte della pattuglia militare sembrava lontanissima. Eppure, da quando aveva incontrato Judith Li - in una situazione penosa, doveva ammetterlo - non erano ancora passate due settimane. Gli errori da dilettante compiuti da Anawak durante la sua «missione notturna» avevano divertito non poco
Judith Li. Ovviamente l'avevano tenuto d'occhio fin dal suo arrivo in auto e lo avevano seguito mentre percorreva la banchina. Poi si erano limitati a osservarlo, cercando di capire cosa avesse intenzione di fare. Infine l'avevano catturato e Anawak si era vergognato a tal punto da convincersi che non avrebbe mai più avuto il coraggio di mettere piede fuori di casa. Invece l'aveva fatto, eccome. Non doveva più gettare le sue conoscenze nel buco nero dell'unità di crisi, dato che adesso si trovava al centro del buco nero che inghiottiva tutto, come John Ford e, da poco, Sue Oliviera. Adesso poteva conferire anche con Roberts della Inglewood, il quale era stato il primo a protestare per il silenzio che gli era stato imposto in alto loco. Imbavagliato da Judith Li, Roberts era stato costretto a negarsi. In un paio di casi, era addirittura vicino al telefono, mentre la sua segretaria buttava fumo negli occhi ad Anawak. La conferenza era pronta e Anawak non poteva far altro che aspettare. Così era andato a giocare a tennis, per vedere come il ginocchio avrebbe reagito allo sforzo. Intanto il mondo precipitava nel caos e l'Europa era sommersa da montagne d'acqua. Il suo partner di gioco era un francese piccolo, con le sopracciglia cespugliose e il naso prominente. Si chiamava Bernard Roche, un batteriologo arrivato la sera prima da Lione. Mentre l'America si scontrava coi più grandi animali del pianeta, Roche stava combattendo una battaglia disperata contro i più piccoli. Anawak guardò l'orologio: si sarebbero trovati tra mezz'ora. L'hotel era chiuso ai turisti e strettamente controllato dal governo, tuttavia era pieno come in alta stagione. Dovevano essere arrivate alcune centinaia di persone. Oltre la metà apparteneva in un modo o nell'altro all'United States Intelligence Community. Erano in maggioranza collaboratori della CIA, che avevano trasformato in tutta fretta lo Château in una centrale di comando. Era presente un intero reparto dell'NSA, la National Security Agency, attrezzato per ogni possibile spionaggio elettronico, per garantire la riservatezza dei dati e per la cartografia. L'NSA occupava il quarto piano. Il quinto era riservato ai collaboratori del dipartimento della Difesa statunitense e ai servizi segreti canadesi. Al sesto alloggiavano gli esponenti del SIS britannico e del Security Service, insieme con delegazioni dell'esercito e dei servizi segreti tedeschi. I francesi avevano mandato un gruppo della Direction de la Surveillance du Territoire ed erano presenti anche i servizi segreti svedesi e il finlandese Pääesikunnan Tiedusteluosasto. Era un incontro senza precedenti di servizi segreti, un impiego senza pari di uomini e mezzi con lo scopo di riuscire a comprendere quello che stava succeden-
do nel mondo. Anawak si massaggiò la gamba. Sentiva ancora delle punture dolorose. Non avrebbe dovuto giocare a tennis. Un altro elicottero militare si preparava all'atterraggio e la sua ombra coprì Anawak, che lo guardò per un istante, poi si girò e rientrò. C'era gente ovunque. Tutti si muovevano in fretta, veloci ma senza frenesia, come in un complicato balletto messo in scena sotto il tetto a spioventi della hall, simile a quello di una chiesa. La metà delle persone sembrava costantemente impegnata al telefono. Gli altri erano di fronte ai loro laptop e stavano seduti su accoglienti gruppi di poltroncine sotto i pilastri di pietra naturale che dividevano la «navata» centrale della hall da quelle laterali: scrivevano o fissavano concentrati lo schermo. Anawak cercò di non urtare nessuno mentre si dirigeva al bar, dove c'erano John Ford e Sue Oliviera. Erano in compagnia di un uomo alto, coi baffi, che si guardava intorno con aria infelice. Toccò a Ford occuparsi delle presentazioni. «Leon Anawak... Gerhard Bohrmann. Non stringere troppo forte la mano a Gerhard, Leon, altrimenti si stacca.» «Gomito del tennista?» chiese Anawak. «Penna a sfera.» Bohrmann fece un sorriso amaro. «Ho scritto sotto dettatura per un'ora intera quello che fino a due settimane fa avrei potuto richiamare con un clic. Sembra di essere nel Medioevo.» «Credevo che si potessero usare i satelliti.» «I satelliti sono sovraccarichi», gli fece notare Ford. «Da domani dovrebbe essere tutto a posto.» Sue sorseggiò il tè. «Ho sentito dire che hanno allestito una rete solo per l'hotel.» «A Kiel non siamo sufficientemente preparati per il satellite», commentò Bohrmann, cupo. «Nessuno è preparato a tutto ciò.» Anawak ordinò dell'acqua. «Quand'è arrivato?» «L'altro ieri. Ho collaborato alla preparazione della conferenza.» «Anch'io. Strano, evidentemente non ci siamo incontrati.» «Possibile.» Bohrmann scosse la testa. «Quest'hotel è pieno di corridoi. Qual è la sua specializzazione?» «Mammiferi marini. Ricerca sull'intelligenza.» «Leon ha alle spalle un paio d'incontri non troppo piacevoli con delle megattere», intervenne Sue. «Evidentemente non hanno gradito che lui continuasse a spiare nelle loro teste... Oh! Guardate là. Che ci fa qui?»
Tutti voltarono la testa verso la hall. Un uomo si stava dirigendo verso agli ascensori. Anawak riconobbe in lui il tizio visto pochi minuti prima insieme con la giovane donna dai riccioli castani. «E chi sarebbe?» chiese Ford aggrottando la fronte. «Non andate mai al cinema?» Sue scrollò la testa. «È quell'attore tedesco. Come si chiama? Scholl... no, Schell. È Maximilian Schell! È splendido, non trovate? Dal vero è ancora meglio che sullo schermo.» «Controllati», borbottò Ford. «Che ci fa qui un attore?» «Sue potrebbe avere ragione», disse Anawak. «Non ha forse recitato in quel film catastrofico... Sì, Deep impact! La Terra viene colpita da un meteorite e...» «Tutti noi stiamo recitando in un film catastrofico», lo interruppe Ford. «Non dirmi che non te ne sei accorto.» «Questo vuol dire che dobbiamo aspettarci l'arrivo di Bruce Willis?» Sue strabuzzò gli occhi. «È lui o no?» «Si risparmi la fatica di andare a chiedergli un autografo», rise Bohrmann. «Non è Maximilian Schell.» «No?» Sue sembrava delusa. «No. Si chiama Sigur Johanson ed è norvegese. Potrebbe raccontarvi qualcosa di ciò che è successo nel mare del Nord. Lui, io, alcune persone di Kiel e altri della Statoil...» Bohrmann scrutò l'uomo e la sua espressione tornò a incupirsi. «Ma è meglio se non gli chiedete nulla. O, meglio, lasciate che sia lui a parlarne per primo. Viveva a Trondheim e di Trondheim non è rimasto molto. Ha perso la sua casa.» Quello era l'orrore reale. La prova che le immagini televisive erano vere. Anawak bevve l'acqua. «Okay.» Ford guardò l'orologio. «Abbiamo ciondolato abbastanza. Andiamo su e sentiamo quello che hanno da dirci.» Lo Château disponeva di diverse sale riunioni. Judith Li aveva scelto uno spazio di media grandezza, quasi troppo piccolo per il gruppo di agenti dei servizi segreti, rappresentanti degli Stati e scienziati che avrebbe preso parte alla conferenza, ma sapeva per esperienza che le persone sedute molto vicine o si prendono per i capelli o sviluppano un forte spirito di gruppo. In nessun caso, comunque, hanno la possibilità di mantenere le distanze o d'intrattenersi su altri argomenti. Inoltre, sempre con quell'intento, la sistemazione dei posti non seguiva criteri di accorpamento per nazionalità o specializzazione.
Ogni posto disponeva di un tavolinetto, di un blocco per gli appunti e di un laptop. Per i supporti video della conferenza c'era uno schermo di tre metri per cinque, dotato di casse acustiche: su di esso sarebbe stata proiettata una presentazione realizzata con Powerpoint. Nell'atmosfera accogliente ma spartana di quell'ambiente, la concentrazione di strumenti hightech appariva straniante e artificiale. Comparve Peak e andò a sedersi in uno dei posti riservati ai relatori. Lo seguiva un uomo tondo come una palla, che indossava un abito sgualcito e con grosse chiazze scure sotto le ascelle della giacca. Aveva i capelli radi, di un biondo quasi bianco. Tese la mano a Judith Li, ansimando rumorosamente. Le sue dita erano gonfie e rotonde come palloncini. «Salve, Suzie Wong», disse. Judith Li strinse la mano di Vanderbilt e resistette alla tentazione di asciugarsela immediatamente sui pantaloni. «Jack, è un piacere vederla.» «Come sempre.» Vanderbilt sorrise. «Offra a quei signori un bello show, mi raccomando. Se nessuno applaude, faccia uno strip-tease e potrà contare sui miei applausi.» Si passò la mano sulla fronte sudata, sollevò un pollice e poi, facendo l'occhiolino, si sedette pesantemente vicino a Peak. Judith lo osservò con un sorriso gelido. Vanderbilt era il vice direttore della CIA, un uomo davvero in gamba. E, al momento opportuno, lei l'avrebbe annientato, lentamente e con grande soddisfazione. Aveva ancora un po' di strada da percorrere, certo, tuttavia, che lui fosse in gamba oppure no, alla fine se lo sarebbe lasciato alle spalle, quel porco. La sala si riempì. Molti dei presenti non si conoscevano e andarono a sedersi in silenzio. Judith Li attese, paziente, finché non finirono il brusio e il rumore delle sedie. La tensione era palpabile. Ma lei avrebbe potuto descrivere la condizione di spirito di ogni singolo individuo soltanto rivolgendogli un'occhiata. Judith sapeva guardare dentro l'anima della gente. Aveva imparato a farlo. Si avvicinò al podio, sorrise e disse: «Rilassatevi». Un mormorio attraversò la sala. Alcuni accavallarono le gambe e si appoggiarono rigidamente allo schienale. Solo il bel professore norvegese, con la sciarpa ricamata gettata con noncuranza intorno al collo, se ne stava seduto sulla sedia con aria quasi annoiata. Sembrava che nella sua testa stesse scorrendo un film ben diverso da quello di tutti gli altri. I suoi occhi scuri si posarono su Judith e lei cercò di valutarlo. Ma Sigur Johanson parve sottrarsi al suo esame. Judith se ne chiese il motivo. Quell'uomo aveva perso la sua casa, era stato colpito dalla catastrofe più di tutti gli altri pre-
senti in quella sala. E allora perché non era depresso? Poteva esserci un unico motivo. Johanson non era minimamente interessato alla possibilità di scoprire qualcosa di nuovo. Aveva una sua teoria, che lo tormentava, riempiendolo di dubbi. Forse ne sapeva più di tutti... o almeno ne era convinto. Judith Li decise che l'avrebbe tenuto d'occhio. «So che siete sotto pressione», proseguì. «E voglio davvero ringraziarvi perché avete reso possibile questo incontro. Vorrei ringraziare in particolare gli scienziati. Sono intimamente convinta che, grazie alla vostra collaborazione, riusciremo a guardare gli avvenimenti del recente passato alla luce di una nuova speranza. Voi ci date il coraggio.» Judith parlava senza enfasi, in tono cordiale e tranquillo, e intanto guardava direttamente ognuno di loro. Così facendo, si guadagnò un'attenzione assoluta. Soltanto Vanderbilt sembrava impegnato in tutt'altro e cioè a pulirsi i denti con uno stuzzicadenti. «Molti di voi si saranno chiesti perché non abbiamo tenuto questo incontro al Pentagono, alla Casa Bianca o presso la sede del governo canadese. In primo luogo, volevamo offrirvi un ambiente gradevole e le attrattive dello Château Whistler sono leggendarie. Ma il suo punto di forza è la posizione. Le montagne sono sicure, le coste no. Al momento, nessuna città costiera del Canada o dell'America può essere considerata sicura per un incontro come questo.» Fece scorrere lo sguardo sui volti dei presenti. «Questo è un motivo. L'altro è la vicinanza alla costa della British Columbia. Abbiamo a che fare con anomalie nel comportamento e mutazioni, c'è una scarpata continentale con giacimenti di metano... In breve, là c'è tutto ciò che, al momento, richiede la nostra attenzione. Dallo Château possiamo arrivare al mare in elicottero in pochissimo tempo, portando altresì con noi una gran quantità di strumenti di ricerca, in particolare all'istituto di Nanaimo. Già da alcune settimane abbiamo costituito allo Château una base militare per osservare il comportamento dei mammiferi marini. Di fronte agli sviluppi in Europa abbiamo deciso di trasformare la base militare in un centro di crisi per tutto il mondo. E i migliori per gestire questa crisi siete voi, signore e signori.» Fece una pausa per permettere alle sue parole d'imprimersi nella mente dei presenti. Gli individui radunati in quella sala dovevano avere piena consapevolezza della loro importanza. Se, a dispetto delle tragiche circostanze, fossero riusciti a sviluppare un certo orgoglio e la sensazione di
appartenere a un'élite, sarebbe stato un bene. Per quanto sembrasse paradossale, li avrebbe aiutati a tenere la bocca chiusa. «Il terzo motivo è che qui non saremo disturbati. Lo Château è completamente isolato dai media. Naturalmente non passa inosservato che un hotel di questo genere si riempia di colpo e che, intorno a esso, volino elicotteri militari. Ma non ci sono state comunicazioni ufficiali su ciò che stiamo facendo qui. Se ci chiedono qualcosa, parliamo di un'esercitazione, una cosa talmente vaga che può dar luogo a congetture di qualsiasi tipo, però a niente di concreto. Quindi nessuno ha ancora scritto niente.» Judith Li s'interruppe, quindi riprese: «Non si può dare in pasto all'opinione pubblica tutto quello che sta succedendo. Non possiamo permetterlo. Il panico sarebbe l'inizio della fine. Mantenere la calma significa essere capaci di agire. Permettetemi di parlare in modo schietto: in guerra, la prima vittima è sempre la verità. E noi siamo in guerra. E per vincere questa guerra anzitutto dobbiamo comprenderla. Abbiamo un dovere verso noi stessi e verso l'umanità. In concreto, ciò significa che, da questo momento in poi, non dovrete più parlare con nessuno del vostro lavoro in questa unità di crisi, nemmeno coi vostri familiari e coi vostri amici. Al termine della conferenza, ognuno di voi sottoscriverà una dichiarazione, ai cui contenuto noi diamo molta importanza. Vi sarei grata se esprimeste eventuali dubbi prima che vi sia mostrato quanto abbiamo raccolto. Naturalmente siete liberi di non firmare. Non comporterà il minimo problema. Ma chi fa questa scelta deve lasciare subito la sala e farsi riportare immediatamente a casa.» Dentro di sé fece una scommessa. Non se ne sarebbe andato nessuno. Ma ci sarebbe stata qualche domanda. Attese. Qualcuno alzò la mano. L'uomo si chiamava Mick Rubin. Proveniva da Manchester ed era un biologo specializzato in molluschi. «Questo vuol dire che non potremo lasciare lo Château?» «Lo Château non è una prigione», rispose Judith Li. «Potete andare dove volete e quando volete. L'unica cosa che non dovete fare è parlare del vostro lavoro.» «E se...» Rubin esitò. «E se lo fate lo stesso?» Judith esibì un'espressione crucciata. «Capisco che questa domanda doveva essere fatta. Bene, noi smentiremo ogni vostra dichiarazione e ci assicureremo che non possiate violare una seconda volta gli accordi.»
«E questo... ehm... è in vostro potere? Voglio dire, lei è...» «Autorizzata? La maggior parte di voi dovrebbe sapere che, tre giorni fa, la Germania ha dato vita a un'iniziativa per esaminare gli eventi nell'ambito dell'Unione Europea ed è stato concordato che la presidenza venga assunta dal ministero dell'Interno tedesco. Contemporaneamente, in via precauzionale, la NATO ha dichiarato la sospensione del patto Atlantico. In Norvegia, in Gran Bretagna, in Belgio, in Olanda, in Danimarca e nelle Fær Øer vige lo stato d'emergenza, in tutta la nazione o in alcune regioni. Anche il Canada e gli Stati Uniti cooperano, sotto la responsabilità di questi ultimi e pure altre nazioni vorrebbero impegnarsi. Visto lo sviluppo della situazione mondiale, non è escluso che le Nazioni Unite assumano una sorta di direzione unificata. Ovunque vengono abolite le regole comuni, sostituite con la nuova divisione di competenze. Di fronte a questa situazione eccezionale, sì, siamo autorizzati.» Rubin si morse il labbro inferiore e annuì. Non ci furono altre domande. «Bene», disse Judith Li. «Allora possiamo cominciare. Prego, maggiore Peak.» Peak si alzò. La luce del lampadario cadeva sulla sua pelle color ebano e la faceva risplendere. Lui schiacciò un sensore del telecomando e, sul grande schermo, apparve un'immagine dal satellite. Mostrava una costa punteggiata di località. «Forse è cominciato tutto da un'altra parte, forse in un momento precedente», disse. «Però oggi diciamo che è cominciato tutto qui, in Perú. La località un po' più grande al centro dell'immagine è Huanchaco.» Illuminò diverse zone del mare con un puntatore laser. «Nel giro di pochi giorni, questa località ha perso ventidue pescatori, benché le condizioni meteorologiche fossero ottimali. Alcune barche sono state ritrovate nell'oceano. Tempo dopo, sono sparite imbarcazioni sportive, yacht a motore e piccole barche a vela. Al massimo si è trovato qualche relitto.» Richiamò una nuova immagine e proseguì: «Gli oceani sono sottoposti a una costante osservazione; sono pieni di sonde galleggianti e di robot che trasmettono una gran massa d'informazioni sulle caratteristiche delle correnti, sulla concentrazione salina, sulla temperatura, sul contenuto di anidride carbonica e su ogni altra cosa possibile. Le stazioni di rilevamento sui fondali marini registrano lo scambio di acqua e sostanze coi sedimenti. Una flotta di navi oceanografiche solca i mari di tutto il mondo e, in orbita, abbiamo centinaia di satelliti civili e militari. Si potrebbe credere che ritrovare navi scomparse non costituisca un problema, ma le cose non sono così semplici.
Infatti, i nostri satelliti, come tutto ciò che è dotato di occhi, sono soggetti alle famose zone cieche.» La rappresentazione grafica mostrava una parte della superficie terrestre. Era sorvolata da satelliti di diverse dimensioni e collocati a varie altezze. Sembravano insetti. «Non cercate di mantenere uno sguardo d'insieme sul caos di oggetti spaziali artificiali», spiegò Peak. «Sono tremilacinquecento, senza contare sonde spaziali extraorbitali come la Magellano. La maggior parte delle macchine che gira lassù è un ferrovecchio. In funzione ce ne sono circa seicento e voi li avrete in parte a disposizione. Compresi i satelliti militari.» L'ultima frase era stata pronunciata con una certa ritrosia. Quindi Peak spostò il puntatore laser su un oggetto a forma di bidone, dotato di pannelli solari. «Un satellite americano KH-12 Keyhole, costruito con sistema ottico. Di giorno ha una risoluzione sui dieci centimetri... In altre parole, consente quasi di riconoscere il volto di una persona. Per le riprese notturne è dotato di ricettori infrarossi e a intensificazione di luce residua, ma purtroppo è completamente inutile con le nuvole.» Peak indicò un altro satellite. «Molti satelliti spia sono dotati di sensori di ripresa attiva a microonde, cioè radar, e per loro le nuvole non rappresentano un ostacolo. Non fanno fotografie, ma riproducono il mondo al centimetro: scansionano la superficie e producono un modello tridimensionale. Ma anch'essi hanno un tallone d'Achille. Le immagini radar hanno bisogno di essere interpretate. Il radar non riconosce i colori, non vede attraverso il vetro, il suo mondo è esclusivamente una forma.» «Perché non si uniscono le tecnologie?» chiese Bohrmann. «Talvolta si fa, ma è molto costoso. In fondo, questo ci porta al problema principale della sorveglianza via satellite. Per poter coprire per un giorno intero un certo Paese o un determinato settore di oceano, è necessaria la cooperazione di diversi sistemi che siano in grado di analizzare grandi aree. Anche se si vogliono immagini dettagliate di una singola zona molto ristretta, bisogna mettere in conto varie istantanee. I satelliti seguono le orbite. La maggior parte ha bisogno di circa novanta minuti per ritornare sullo stesso luogo.» «Ma ci sono molti satelliti che rimangono sempre nello stesso punto», intervenne un diplomatico finlandese. «Non possiamo posizionarli sulle zone critiche?» «Si trovano troppo in alto. I satelliti geostazionari sono stabili solo a un'altezza di 35.888 chilometri. Il dettaglio più piccolo che si può ottenere
da quell'altezza misura otto chilometri. Non si vedrebbe neppure se l'isola di Helgoland sprofondasse in mare.» Peak fece una pausa, poi proseguì: «Tuttavia, da quando abbiamo compreso su cosa dovevamo puntare l'attenzione, abbiamo iniziato ad attrezzare i nostri sistemi». Sullo schermo apparve una superficie d'acqua ripresa a bassa quota. La luce del sole cadeva obliqua sulle onde, rendendo la struttura superficiale del mare simile a un vetro smerigliato. Si vedevano anche piccole imbarcazioni e minuscole figure allungate. L'immagine seguente - più ravvicinata - rivelò alcune barche color giallo, su ognuna delle quali era accucciata una persona. «Uno zoom del KH-12», disse Peak. «La zona della piattaforma continentale al largo di Huanchaco. Quel giorno sono scomparsi diversi pescatori. Giacché siamo nelle prime ore del mattino, i riflessi rimangono nei limiti, ed è un bene, perché così abbiamo potuto fare queste riprese.» L'immagine successiva mostrava un'ampia superficie argentea, su cui andavano alla deriva due delle barche gialle. «Pesci. Un banco enorme. Nuotano circa tre metri sotto la superficie dell'acqua, quindi possiamo vederli. Il problema dell'acqua marina è che conduce poco o niente le onde elettromagnetiche, ma, se l'acqua è limpida, coi nostri sistemi ottici riusciamo ugualmente a vedere almeno un po' in profondità. Con gli infrarossi, siamo in grado di rilevare il calore di una balena fino a trenta metri di profondità. È per questo che i militari amano tanto la gamma degli infrarossi, essa rende visibili i sommergibili sott'acqua.» «Che pesci sono?» chiese una giovane donna dai capelli neri. Il suo cartellino la identificava come un'ecologa del ministero dell'Ambiente di Reykjavik. «Merluzzi?» «Forse. O forse anche sardine sudamericane.» «Devono essere milioni. Sorprendente. Per quello che ne so, il Sudamerica è ormai in una condizione disperata di overfishing.» «Ha ragione», disse Peak. «Anche il fatto che quel banco si trovi spesso nella zona in cui spariscono nuotatori, subacquei e piccole barche da pesca è una cosa che ci sta dando del filo da torcere. Al momento parliamo di banchi anomali. Quattro mesi fa, per esempio, un banco di aringhe al largo della Norvegia ha affondato un peschereccio di diciannove metri.» «L'ho sentito», disse l'ecologa. «La nave si chiamava Steinholm, giusto?» Peak annuì. «Gli animali finiti nella rete hanno continuato a nuotare, passando sotto la barca, mentre l'equipaggio voleva issarli a bordo. La na-
ve si è inclinata. L'equipaggio ha cercato di tagliare i cavi, ma è stato inutile. Hanno dovuto abbandonare la Steinholm, che è affondata nel giro di dieci minuti.» «Poco dopo abbiamo avuto un caso simile al largo dell'Islanda», precisò l'ecologa. «Sono annegati due marinai.» «Lo so. Tutti casi eccezionali, si potrebbe dire. Ma, se mettiamo insieme i casi eccezionali in tutto il mondo, nelle ultime settimane i banchi di pesci hanno affondato più navi di quante ne abbiano mai affondate prima. Qualcuno dice che è un caso, sostenendo che i banchi lottano per sopravvivere. Altri notano il corso sempre identico degli eventi e vi riconoscono una specie di strategia. Non escludiamo che gli animali si lascino catturare perché vogliono rovesciare la nave.» «Ma è una follia!» gridò un rappresentante della Russia. «Da quando i pesci hanno una volontà?» «Da quando affondano i pescherecci», ribatté Peak, asciutto. «Nell'Atlantico lo fanno. Nel Pacifico, invece, sembra che abbiano imparato a evitare le reti, benché ci sfugga completamente come facciano. Si potrebbe arrivare alla conclusione che il banco mette in atto un processo cognitivo e improvvisamente sa che cos'è una rete a strascico o una rete di circuizione e come evitarle. Ma, se avessero sviluppato una simile capacità di apprendimento, gli animali dovrebbero anche aver sviluppato un senso per le dimensioni.» «Nessun pesce, nessun banco, può vedere una rete con un'apertura di centodieci metri di altezza e centoquaranta di larghezza», disse qualcuno. «Tuttavia sembra che i pesci riconoscano le reti. Le flotte di pescherecci lamentano gravi perdite. Ne è colpita tutta l'industria alimentare.» Peak si schiarì la voce. «Il secondo motivo della scomparsa di uomini e navi è sufficientemente noto. Ma ci è voluto un po' perché il KH-12 potesse documentare simili avvenimenti.» Anawak fissava lo schermo. Sapeva cosa sarebbe successo. Aveva già visto le immagini e lui stesso aveva fornito del materiale, ma ogni volta gli si stringeva la gola. Pensò a Susan Stringer. Le riprese erano state proiettate a un ritmo così serrato da sembrare quasi le sequenze di un film. In mare aperto c'era uno yacht a vela lungo circa dodici metri. Non c'era vento, il mare era piatto, le vele raccolte. A poppa erano seduti due uomini; sulla coperta di prua due donne prendevano il so-
le. Qualcosa di molto grande, di massiccio, nuotava vicinissimo all'imbarcazione. Si riconosceva ogni particolare del corpo gigantesco. Era una megattera adulta. Con lei ce n'erano altre due. Le loro schiene avevano rotto la superficie dell'acqua, poi uno degli uomini si era alzato e aveva indicato il mare. Le donne avevano sollevato la testa. «Ora», disse Peak. Le balene avevano superato l'imbarcazione. A sinistra, qualcosa era apparso nel blu profondo, raggiungendo la superficie. Era un'altra balena, ed era balzata fuori dall'acqua. Saltava, spruzzando acqua con le pinne pettorali. Le persone a bordo erano rimaste immobili, come stregate. Il corpo massiccio si era rovesciato. Aveva colpito di traverso l'imbarcazione, spezzandola in due. L'albero si era schiantato, poi un'altra balena era saltata sul relitto. In un attimo, l'idillio si era trasformato in uno spaventoso inferno. La barca affondava. I relitti galleggiavano, dispersi in un cerchio di schiuma che si allargava. Gli uomini non si vedevano più. «Pochi di voi hanno vissuto sulla propria pelle simili attacchi», disse Peak. «Per questo vi abbiamo mostrato queste immagini. E ormai gli attacchi non sono più limitati al Canada e agli Stati Uniti, ma si sono diffusi in tutto il mondo, bloccando una parte consistente del traffico di piccole navi.» Anawak chiuse gli occhi. Chissà com'era stata, vista dall'alto, la collisione del DHC-2 con la megattera. Era stata filmata anche quella? Non aveva avuto il coraggio di chiederlo. L'idea che un insensibile occhio di vetro avesse vissuto con lui quel momento gli era insopportabile. Come se stesse seguendo i suoi pensieri, Peak riprese: «Questo genere di documentazione potrebbe apparirvi cinica, signore e signori. Ma noi non ci limitiamo a guardare. Dov'è stato possibile, ci siamo sforzati di fornire un soccorso immediato». Gettò al suo laptop un'occhiata gelida. «Purtroppo in simili casi si arriva sempre tardi.» Peak sapeva che si stava muovendo in un terreno minato. Le sue parole rivelavano che, sebbene avessero visto gli incidenti, non avevano fatto granché per impedirli. «Immaginate la diffusione degli attacchi come una specie di epidemia», riprese, «un'epidemia iniziata a Vancouver Island. I primi casi dimostrabili si sono limitati alla zona al largo di Tofino. Per
quanto possa suonare inverosimile, in vari casi si sono potute osservare alleanze strategiche. Le imbarcazioni sono state attaccate da balene grigie, megattere, balenottere comuni, capodogli e altre grandi balene, mentre le orche, più piccole e veloci, si sono occupate di eliminare gli uomini finiti in acqua.» Il professore norvegese alzò la mano. «Che cosa la spinge a presumere che si tratti di un'epidemia?» «Non ho detto che è un'epidemia, dottor Johanson», rispose Peak. «Ho affermato che il modo di espansione sembra quello di un'epidemia. Nel giro di poche ore, si è allargata da Tofino a sud, fino alla Bassa California, e a nord, in Alaska.» «Non sono per nulla sicuro che si diffonda.» «È evidente.» Johanson scosse la testa. «Intendo dire che questa interpretazione potrebbe portarci alla conclusione sbagliata.» «Dottor Johanson, se volesse darmi il tempo di esporre la mia relazione...» replicò Peak, in tono paziente. Johanson proseguì, imperterrito. «E se avessimo a che fare con avvenimenti contemporanei, coordinati in un modo un po' impreciso?» Peak lo guardò. «Sì», disse controvoglia. «Potrebbe essere così.» Lo sapeva. Johanson aveva elaborato una teoria. E Peak si era arrabbiato perché non gli piaceva che i civili interrompessero i militari. Judith Li era divertita. Accavallò le gambe, si appoggiò allo schienale e si sentì addosso lo sguardo interrogatorio di Vanderbilt. L'uomo della CIA sembrava convinto che lei avesse anticipato qualcosa a Johanson. Lei ricambiò lo sguardo, scosse la testa e si rimise ad ascoltare l'esposizione di Peak. «Sappiamo che le balene aggressive sono esclusivamente le non stanziali», stava dicendo il maggiore. «Le stanziali appartengono strettamente a un territorio, per così dire. Quelle che migrano, invece, si spostano per lunghi tratti, come le balene grigie o le megattere, oppure si spostano in mare aperto come le orche cosiddette offshore. Per questo - con una certa cautela - abbiamo sviluppato una teoria: la causa del cambiamento nel modo di agire degli animali è da cercare nel mare aperto.» Comparve un planisfero sul quale si vedevano i punti in cui erano stati segnalati gli attacchi delle balene. Un tratteggio rosso tracciato dall'Alaska fino a capo Horn. Altre zone si estendevano ai due lati del continente afri-
cano e lungo l'Australia. Poi il planisfero sparì, lasciando il posto a un'altra carta. Anche lì le zone costiere erano colorate. «Il numero delle specie marine con un comportamento aggressivo nei confronti dell'uomo aumenta drammaticamente. In Australia si moltiplicano gli attacchi degli squali, come pure in Sudafrica. Nessuno va più a nuotare o a pescare. Le reti antisqualo, in genere sufficienti per tenere lontani gli ammali, sono a pezzi, senza che nessuno sia in grado di dire cosa le abbia distrutte. I nostri sistemi ottici non possono chiarire la questione e, per quanto riguarda i robot, i Paesi del Terzo Mondo sono tecnologicamente inadeguati.» «Lei non crede a un insieme di coincidenze?» chiese un diplomatico tedesco. Peak scosse la testa. «La prima cosa che s'impara in Marina, signore, è valutare il pericolo degli squali. Sono animali pericolosi, ma non aggressivi. Non siamo di loro gusto. La maggior parte degli squali sputa subito un braccio o una gamba...» «Consolante», mormorò Johanson. «Eppure diverse specie sembrano aver cambiato i loro gusti per quanto riguarda la carne umana. Nel giro di poche settimane, gli attacchi degli squali sono decuplicati. Migliaia di squali azzurri, che di solito abitano i mari profondi, sono arrivati nella zona dello zoccolo continentale. Mako, squali bianchi e pesci martello arrivano in branco, come i lupi, attaccano una zona costiera e in breve tempo fanno danni enormi.» «Danni?» chiese un deputato francese con un forte accento. «Che vuol dire? Morti?» E cos'altro, idiota? sembrò pensare Peak. «Sì», rispose. «Attaccano anche le barche.» «Mon Dieu! Che cosa può fare uno squalo a una barca?» Peak sorrise, cupo. «Uno squalo bianco adulto è in grado di affondare una piccola barca a morsi oppure andandole addosso. Sono documentati anche casi di squali che hanno attaccato alcune zattere, affondandole. Se poi all'attacco partecipano più animali contemporaneamente, allora non c'è speranza di sopravvivere.» Mostrò l'immagine di un bel polpo, la cui superficie era adornata di lucenti cerchi blu. «Hapalochlaene maculosa. Il polpo dalle macchie blu, lungo venti centimetri. Vive in Australia, in Nuova Guinea, nelle isole Salomone... È uno degli animali più velenosi della Terra. Col morso, inietta nella ferita un enzima tossico. Quasi non ci si accorge di niente, ma due
ore dopo si è morti.» La serie d'immagini proseguì, mostrando una panoramica di bizzarri esseri viventi. «Pesci pietra, tracine, scorfani, vermocani, coni... Nel mare abita una gran quantità di animali velenosi. Nella maggior parte dei casi, le tossine vengono usate come difesa. Nella frequenza degli incidenti si assiste a un aumento più o meno consistente della curva. Tuttavia, per alcuni animali, la curva statistica è schizzata in alto e per questo fatto c'è una spiegazione semplice: specie che prima se ne stavano mimetizzate e nascoste hanno iniziato ad attaccarci.» Roche si chinò verso Johanson. «È possibile che qualcosa che trasforma uno squalo trasformi pure un granchio?» lo sentì sussultare Judith Li. «Cosa ne pensa?» Johanson si voltò verso di lui e rispose: «Ci può mettere la mano sul fuoco». Peak informò i presenti sugli enormi gruppi di meduse, ormai diventati una vera invasione che minacciava il Sudamerica, l'Australia e l'Indonesia. Johanson ascoltava con gli occhi semichiusi. La caravella portoghese provocava uno shock anafilattico che uccideva nel giro di qualche secondo. «Per semplicità dividiamo gli avvenimenti in tre categorie», disse Peak. «Mutamenti del comportamento, mutazioni, catastrofi ambientali. Essi sono conseguenza l'uno dell'altro. Finora abbiamo parlato di comportamenti anomali. Ma, per quanto riguarda le meduse, sembra che siano avvenute delle mutazioni. Le vespe di mare sono sempre state in grado di navigare, però adesso pare che esse siano diventate delle vere maestre... Si ha addirittura l'impressione che abbiano un'elica. L'impressione che se ne ricava è quella che le vespe di mare vogliano eliminare dalla zona ogni presenza umana. E noi non possiamo farci niente. Il turismo subacqueo è praticamente morto, ma il danno maggiore è per i pescatori.» Comparve una nave fattoria, di quelle che preparavano i pesci per la conservazione. «Questa è l'Anthanea. Quattordici giorni fa, l'equipaggio ha issato a bordo un carico enorme di Chironex fleckeri, cioè di vespe di mare. Per meglio dire, qualcosa che pensiamo fossero vespe di mare. È stato un errore non lasciare immediatamente in mare quanto catturato. I marinai hanno aperto la rete e, di conseguenza, sul ponte si sono scaricate tonnellate di veleno puro. Alcuni operai sono morti subito, altri dopo, quando i tentacoli - lunghi svariati metri - si sono diffusi in tutta la nave. Inoltre quel giorno pioveva e l'acqua ha portato ovunque le parti velenose delle meduse. Nes-
suno è in grado di dire come abbia fatto il veleno a finire nell'acqua potabile, fatto sta che nessuno sull'Anthanea è sopravvissuto. Da quel momento si è molto più prudenti e si tengono pronte delle tute protettive, ma ciò non cambia la sostanza del pericolo. In ampie partì del mondo, ormai, non si pesca più pesce, ma veleno.» Non pescano più pesce perché non ce n'è più, rifletté Johanson. Per correttezza avresti dovuto dirlo, Peak. Anche se non è la vera causa di quello che sta succedendo. O forse sì? Certo che era un motivo. Uno degli infiniti motivi. Pensò ai vermi. Organismi mutati che improvvisamente sembravano consapevoli di quello che facevano. Possibile che nessuno capisse quello che stava succedendo? Si vedevano i sintomi di una malattìa il cui agente patogeno era sempre presente, ma non si rendeva mai palese, camuffandosi in modo magistrale. L'uomo aveva spopolato i mari, lasciando solo qualche miserabile pesce, e i banchi sopravvissuti avevano imparato a evitare le trappole mortali, mentre «soldati» armati di veleno davano il colpo di grazia a quella pratica degenerata chiamata pesca. Il mare uccideva gli uomini. E tu hai ucciso Tina, pensò Johanson con freddezza. Tu l'hai convinta a non lasciare Kare. Ti ha ascoltato, altrimenti non sarebbe andata a Sveggesundet. Era colpevole? Come poteva sapere quello che sarebbe successo? Probabilmente Tina sarebbe morta anche a Stavanger. Cosa sarebbe successo se le avesse consigliato di prendere un volo per le Hawaii o per Firenze? Si sarebbe convinto di aver salvato Tina? Ognuno combatteva contro il proprio demone personale. Bohrmann era tormentato dall'idea che avrebbe potuto mettere in guardia il mondo molto tempo prima. Ma come? Sulla base di un'ipotesi? Di un'intuizione inquietante? Avevano lavorato a pieno ritmo per acquisire conoscenze. Non erano stati abbastanza veloci, comunque ci avevano provato. Bohrmann era colpevole? E la Statoil? Finn Skaugen era morto. All'arrivo dell'ondata, si trovava al porto di Stavanger. Johanson stava cominciando a vedere il manager della Statoil sotto un'altra luce. Skaugen era stato un manipolatore. Gli era piaciuto incarnare la coscienza buona di un settore malvagio, ma aveva agito
nel modo giusto? Anche Clifford Stone era stato vittima della catastrofe, però era davvero quel mostro senza cuore che Skaugen gli aveva dipinto? Vermi, meduse, balene, squali... Pesci intelligenti. Alleanze. Strategie... Johanson pensò alla sua casa di Trondheim. L'idea di averla persa non lo angosciava troppo. La sua vera casa era altrove, sulla riva dello specchio che, nelle notti limpide, conteneva tutto l'universo. Là aveva trovato davvero se stesso e si era creato un rifugio di bellezza e di verità. La capanna era una sua creazione esclusiva, l'incarnazione della sua anima. Custodiva quell'intimità che non avrebbe potuto trovare posto in nessun altra casa. Dopo il fine settimana con Tina non c'era più andato. Era successo qualcosa? Le acque dei laghi erano tranquille. Ma lui era preoccupato. Doveva andare a vedere se era successo qualcosa e farlo il prima possibile. Non importava quanto lavoro gli sarebbe caduto addosso. Peak richiamò una nuova immagine. Un astice... No, i resti di un astice. Sembra esploso, pensò Johanson. «Hollywood ne farebbe un film intitolandolo Il messaggero dell'orrore», disse Peak con un sorriso torvo. «E, in questo caso, la definizione coglierebbe nel segno. Nell'Europa centrale si sta diffondendo un'epidemia causata da animali come questo. Ringraziamo il dottor Roche, che ha identificato il passeggero clandestino. Si tratta di un'alga unicellulare dal nome di Pfiesteria piscicida. Una delle circa sessanta specie di dinoflagellati tossici conosciuti. La Pfiesteria è la peggiore delle alghe killer, come abbiamo tragicamente imparato da ciò che è accaduto sulla costa orientale degli Stati Uniti, in particolare nelle acque costiere del North Carolina. In quella zona, nel 1997, la Pfiesteria uccise milioni di pesci. I loro cadaveri galleggiavano in banchi sulla superficie dell'acqua e mostravano ferite aperte, rosicchiate. Per i pescatori fu un disastro economico, ma anche sanitario. Molti soffrirono di disturbi nelle percezioni e le loro braccia e le loro gambe si coprirono di ulcere sanguinanti. Alcuni furono costretti ad abbandonare il lavoro. Gli scienziati che esaminarono la Pfiesteria accusarono danni persistenti alla salute.» Fece una breve pausa. «Nel 1990, a Howard Glasgow, un ricercatore dell'University of North Carolina che aveva individuato la Pfiesteria durante un'analisi di laboratorio, successe una cosa al limite dell'incredibile. Mentre il suo cervello lavorava a pieno regime, il suo corpo aveva preso a muoversi al rallentatore: sembrava quasi che le
sue membra rifiutassero di obbedirgli. Interpretando quei sintomi come la prova che le tossine della Pfiesteria potevano diffondersi anche nell'aria, Glasgow mise gli organismi in un laboratorio sicuro, senza sapere che, all'interno di quel laboratorio, c'era una presa d'aria montata al contrario e dunque collegata direttamente col suo ufficio. Così Glasgow respirò l'aria avvelenata per sei mesi di fila, con risultati devastanti: mal di testa così forti da impedirgli di lavorare, perdita del senso dell'equilibrio, lesioni al fegato e ai reni... Se faceva una telefonata, cinque minuti dopo non se ne ricordava più. Gli capitava addirittura di dimenticare il proprio numero di telefono, il proprio nome o dove fosse casa sua. Quasi tutti pensavano che avesse un tumore al cervello o soffrisse di Alzheimer, ma Glasgow non ne voleva neppure sentir parlare. Infine decise di sottoporsi a una serie di analisi presso la Duke University e, grazie a esse, emerse la verità: da mesi il suo sistema nervoso era sottoposto a un attacco chimico. Altri ricercatori, entrati in contatto con la Pfiesteria, soffrivano di polmoniti e bronchiti croniche. E tutti - lentamente ma inesorabilmente - stavano perdendo la memoria. Tutto ciò a causa di un organismo che non si riusciva a comprendere.» Peak presentò una serie d'immagini al microscopio elettronico. Mostravano diverse forme di vita. Alcune sembravano amebe con escrescenze a forma di stella, altre parevano sfere squamose o pelose, altre ancora somigliavano ad hamburger, dalla cui parte centrale si dipartivano dei tentacoli. «Ecco la Pfiesteria», spiegò. «L'alga può cambiare il proprio aspetto nel giro di qualche minuto, può crescere di dieci volte, può inastarsi e poi balzare fuori dalla ciste, trasformandosi da innocuo essere unicellulare a zoospora estremamente tossica. La Pfiesteria può assumere venti forme diverse, e ogni volta cambia anche le proprie caratteristiche. La tossina è stata isolata. Il dottor Roche e la sua équipe lavorano a pieno ritmo su di essa, tuttavia hanno preoccupazioni ben più gravi rispetto ai ricercatori delle nostre parti. L'organismo finito nelle tubature pare non sia la Pfiesteria piscicida, ma una varietà molto più pericolosa. Pfiesteria piscicida significa 'Pfiesteria che uccide i pesci'. Il dottor Roche ha battezzato l'esemplare da lui scoperto Pfiesteria homicida, 'Pfiesteria che uccide gli uomini'.» Peak sottolineò le difficoltà nel controllare l'alga. Il nuovo organismo sembrava riprodursi con cicli esplosivi e, una volta entrato nell'acqua, non c'era più nulla da fare. Finiva nel suolo e secerneva il suo veleno, che era quasi impossibile filtrare. Il problema era proprio quello. Molte delle vittime finivano letteralmente divorate dalla Pfiesteria, avevano ferite in tutto
il corpo, ferite che, invece di guarire, s'infiammavano e suppuravano. Ma la cosa peggiore era il veleno. Le autorità s'impegnavano disperatamente per depurare canali e tubature, ma non riuscivano a impedire che l'organismo si diffondesse altrove. Il tentativo di liberarsene col calore e con sostanze chimiche non faceva altro che sostituire una piaga con un'altra. La Pfiesteria homicida era praticamente incontenibile. La Pfiesteria piscicida attaccava il sistema nervoso. La nuova specie lo attaccava con un'aggressività tale che, nel giro di poche ore, paralizzava un individuo, lo faceva cadere in coma e morire. Solo poche persone sembravano resistere a quell'aggressione. E, dato che Roche non era ancora riuscito a comprendere la struttura della tossina, si sperava almeno di capire il perché di quella resistenza, ma l'équipe del docente di Biologia molecolare stava lottando contro il tempo. La diffusione della malattia sembrava aver superato ogni tentativo di circoscriverla. «L'alga è arrivata in un cavallo di Troia», disse Peak. «All'interno di crostacei. In un 'astice di Troia', se volete... O, per meglio dire, in qualcosa che somigliava a un astice. Evidentemente gli animali erano vivi al momento della cattura, solo che la loro carne era diventata una specie di sostanza gelatinosa, e incapsulate là dentro vivevano colonie di Pfiesteria. L'Unione Europea ha vietato la cattura e l'esportazione di crostacei. Al momento, i casi di malattia e di morte sono limitati alla Francia, alla Spagna, al Belgio, all'Olanda e alla Germania. L'ultimo conteggio provvisorio parla di quattordicimila vittime. Nel continente americano, sembra che i crostacei siano ancora... crostacei, ma anche noi stiamo pensando di proibirne la vendita.» «Terribile», sussurrò Rubin. «Da dove arrivano queste alghe?» Roche si girò verso di lui. «Le hanno create gli uomini», rispose. «L'ingrasso dei suini sulla costa occidentale americana scarica in acqua quantità impressionanti di liquami e la Pfiesteria vive benissimo nelle acque inquinate. Si nutre di fosfati e nitrati, che vengono sparsi sui campi con le feci degli animali e finiscono nei fiumi. O con gli scarichi delle industrie. Perché stupirsi che quelle bestie si trovino a proprio agio nelle fogne delle grandi città, così sature di sostanze organiche? Siamo noi a generare tutte le Pfiesterie di questo mondo. Non le abbiamo inventate noi, ma noi facciamo in modo che diventino dei mostri.» Roche fece una pausa e tornò a guardare Peak. «Se il Baltico perde ogni forma di vita e i pesci muoiono, come sta succedendo da alcuni anni, la causa è negli allevamenti di maiali in Danimarca. I liquami portano alghe, che si riproducono in maniera e-
sponenziale. Le alghe assorbono l'ossigeno e i pesci muoiono. Le alghe tossiche fanno anche di peggio e nessuna zona può considerarsi al sicuro.» «Ma perché non si è fatto qualcosa prima?» chiese Rubin. «Prima?» Roche rise amaramente. «Certo che si è fatto qualcosa, amico mio. Perlomeno si è cercato di fare qualcosa. Ma dove vive lei? Però, anziché promuovere studi seri, si è lasciato che i ricercatori venissero derisi. Alcuni hanno addirittura ricevuto minacce di morte. Si dice che il North Carolina's Department of Health, Environment, and Natural Resources abbia insabbiato il caso della Pfiesteria per proteggere gli interessi di alcuni influenti rappresentanti politici che, guarda caso, erano gli stessi allevatori di maiali. Naturalmente dobbiamo chiederci quale folle ci abbia mandato gli astici infettati con la Pfiesteria. Ma questo non cambia il fatto che gli ostetrici della catastrofe siamo stati noi. In un certo senso, siamo sempre noi.» «Questi mitili hanno tutte le caratteristiche tipiche delle cozze zebrate. Però sanno fare una cosa che le normali cozze zebrate non fanno: navigare.» Peak era arrivato agli incidenti navali. Dopo aver infierito nella sala riunioni col bilancio della Pfiesteria, ora presentava statistiche non meno allarmanti. Su un planisfero s'intrecciavano linee colorate. «Ecco le principali vie di transito del traffico marittimo commerciale», disse, indicando l'immagine. «Per comprendere il loro corso è fondamentale analizzare la distribuzione dei beni trasportati. In genere, le materie prime vengono trasportate verso nord. L'Australia esporta la bauxite, il Kuwait il petrolio e il Sudamerica i minerali di ferro. Tutto si sposta a distanze che raggiungono le undicimila miglia marine verso l'Europa e il Giappone, in modo che a Stoccarda, Detroit, Parigi e Tokyo si possano produrre automobili, apparecchi elettrici e macchinari. Che a loro volta ritornano in Australia, nel Kuwait e in Sudamerica dentro navi portacontainer. Quasi un quarto del commercio mondiale si svolge nella zona asiatica del Pacifico, per un valore di cinquecento miliardi di dollari. Poco meno nell'Atlantico. I principali centri ad alta concentrazione industriale sono segnati in scuro. La costa orientale americana, con centro New York, l'Europa settentrionale col canale della Manica, il mare del Nord, il Baltico fino alle Repubbliche baltiche, il Mediterraneo e in particolare la riviera. I mari europei hanno un'importanza fondamentale nel commercio mondiale, il Mediterraneo serve anche come via marittima dalla costa orientale nordameri-
cana fino al canale di Suez. E non dimentichiamo il Giappone e il golfo Persico! Gli scambi sono in crescita nel mar Cinese, che insieme col mare del Nord, è il più trafficato della Terra. Per capire il corso del commercio mondiale via mare, bisogna tener presente questa rete, cioè capire cosa significa per una parte del globo se nell'altra i cargo affondano, quali produzioni vengono interrotte, quanti posti di lavoro vengono minacciati, a chi può costare la vita e chi potrebbe approfittare della disgrazia. Il traffico aereo ha eliminato le navi passeggeri, ma il commercio mondiale dipende dal mare. Nulla può sostituire le rotte marittime.» Peak fece una pausa, quindi riprese: «Spiegato il background, diamo qualche cifra. Ogni giorno duemila navi attraversano lo stretto di Malacca e quasi ventimila imbarcazioni ogni anno passano attraverso il canale di Suez. Questo rappresenta circa il quindici per cento del commercio mondiale. Tremila navi al giorno incrociano nella Manica per raggiungere il mare più trafficato del mondo, il mare del Nord. Circa quarantaquattromila navi all'anno collegano Hong Kong col resto del mondo. Migliaia e migliaia di cargo, petroliere, traghetti si muovono ogni anno in tutto il globo, per non parlare delle flotte di pescherecci, cutter, yacht a vela e barche sportive. Oceani, mari, canali e stretti registrano milioni di movimenti navali. Di fronte a questo traffico, l'occasionale affondamento di una superpetroliera o di un cargo non può di certo comportare una grave crisi nel traffico marittimo. Nessuno si lascia spaventare e non si rinuncia a riempire di petrolio le ultime bagnarole arrugginite e a spedirle in mare. La maggior parte delle circa settemila petroliere presenti nel mondo si trova in pessime condizioni. Oltre la metà è in attività da più di vent'anni... E molte delle superpetroliere possono essere tranquillamente definite dei rottami. A questo punto, si fanno dei calcoli: sì, la catastrofe è sempre in agguato, ma si rischia comunque. Tutto diventa un gioco d'azzardo. Se una petroliera finisce nell'incavo di un'onda, può piegarsi al centro anche di un metro, e una cosa del genere sfibrerebbe qualsiasi struttura. Tuttavia la petroliera continua a viaggiare, perché l'esito del viaggio rientra nel calcolo delle probabilità.» Peak sorrise tristemente. «Tuttavia se gli incidenti sono causati da fenomeni inspiegabili, allora ogni calcolo diventa inutile e i margini di rischio diventano imprevedibili. Entra in gioco una singolare psicologia. Noi la chiamiamo 'psicosi da squalo'. Nessuno sa dove sia uno squalo e chi sbranerà, eppure ciò basta per impedire a migliaia di turisti di andare in acqua. Statisticamente, suona impossibile che un'unica vittima possa danneggiare sensibilmente il turismo. Nella pratica, però, lo distrugge. Ora, pensate che, nel giro di poche setti-
mane, sulle rotte commerciali marittime si sono verificate quattro volte più avarie che in passato, e tutte non riconducibili a cause note. Fenomeni terrorizzanti, per cui non ci sono spiegazioni, fanno affondare anche navi in perfette condizioni. Non si sa chi sarà colpito e dove, e nemmeno come difendersi. Non si parla più di navi completamente arrugginite, di danni provocati dalle tempeste o di errori di navigazione, ormai non si parla neppure più di uscire in mare.» Peak era dunque arrivato ai mitili, che campeggiavano sullo schermo. Indicò un'escrescenza filamentosa che sbucava tra le file di conchiglie. «Con questo peduncolo, il bisso, di solito le cozze zebrate si aggrappano saldamente nel luogo in cui sono state trascinate dalle correnti. Il bisso è composto da filamenti appiccicosi costituiti da proteine. Le 'nuove' cozze zebrate hanno sviluppato questi filamenti sino a trasformarli in una sorta di elica. Il principio ricorda vagamente il modo di muoversi della Pfiesteria piscicida. In natura, le convergenze sono ben note, ma si realizzano nel giro di centinaia di migliaia o addirittura milioni di anni. Questi mitili non si sono mai fatti vedere fino a oggi, oppure hanno sviluppato le loro nuove capacità nel corso di una notte. Ciò induce a pensare a una rapida mutazione, perché, da molti punti di vista, si tratta sempre di cozze zebrate... Però esse sembrano sapere perfettamente dove vogliono andare. Per esempio, le prese a mare della Barrier Queen sono rimaste libere, ma il timone era completamente ricoperto.» Peak spiegò le modalità dell'avaria e l'attacco ai rimorchiatori. Anche se la Barrier Queen era riuscita a sfuggire, era comunque emerso come funzionava la strategia di collaborazione tra le cozze zebrate e le balene, esattamente come tra le balene grigie, le megattere e le orche. «Ma è una follia», disse un colonnello seduto in fondo alla sala. «Proprio no.» Anawak si girò verso di lui. «C'è un metodo.» «Follia pura! Vorrebbe dire che le cozze si sono accordate con le balene?» «No. Tuttavia c'è una collaborazione. Se lei avesse vissuto simili attacchi, la penserebbe in un altro modo. Noi pensiamo che l'aggressione alla Barrier Queen sia stata una sorta di test.» Peak premette un tasto sul telecomando e apparve la fiancata di una gigantesca nave. Una tempesta sollevava onde grandi come una casa al disopra dello scafo. «La Sansuo, una delle più grandi navi giapponesi per il trasporto di automobili», spiegò. «Gli ultimi carichi erano mezzi pesanti. Al largo di Los Angeles, la nave è finita in un banco di cozze zebrate. E-
sattamente come è successo alla Barrier Queen, si è bloccato il timone, ma stavolta c'era il mare grosso. La Sansuo è stata colpita a sinistra da un'onda gigantesca e ha cominciato a imbarcare acqua. Possiamo solo ipotizzare quello che è successo dopo. La violenza dell'onda anomala deve aver liberato alcuni camion all'interno, che probabilmente si sono schiantati contro le cisterne con l'acqua di zavorra. Uno ha colpito la parete. Quand'è stata fatta questa ripresa, non erano trascorsi più di quindici minuti dal momento in cui il timone era andato fuori uso. Un quarto d'ora dopo, la Sansuo si è spaccata ed è affondata.» Fece una pausa. «Nel frattempo abbiamo raccolto una lista di casi analoghi, una lista che diventa ogni giorno sempre più lunga. I rimorchiatori vengono attaccati e, nella maggioranza dei casi, si devono interrompere le operazioni di salvataggio. Il dottor Anawak ha ragione quando dice che nella follia c'è un metodo, perché, nel frattempo, siamo venuti a conoscenza di una variante della follia.» Peak presentò l'immagine satellitare di una nuvola nera, lunga chilometri. Si distendeva sulla terraferma, ma aveva origine davanti alla costa, dove si addensava intorno a un centro rosso. Sembrava quasi che un vulcano si fosse messo a eruttare in mezzo al mare. «Sotto questa nuvola si nascondono i resti della Phoebos Apollon, una nave per il trasporto del gas LNG. Classe post-Panamax, la più grande che ci sia. L'11 aprile, cinquanta miglia marine al largo di Tokyo, è improvvisamente scoppiato un incendio in sala macchine, che si è esteso alle quattro cisterne e ha provocato una serie di violente esplosioni. La Phoebos Apollon era esemplare sotto tutti i punti di vista, in perfette condizioni e revisionata regolarmente. L'armatore greco voleva sapere che cosa fosse successo, così ha mandato sott'acqua un robot.» Sullo schermo guizzarono alcuni lampi. Si vide scorrere un codice numerico, poi improvvisamente comparve uno sfarfallio su uno sfondo torbido. «In generale, le esplosioni di navi cisterna per il trasporto di gas sono rare. La nave sott'acqua era spezzata in quattro parti. Al largo di Honshu si scende fino a novemila metri e i resti erano dispersi su un'area di diversi chilometri quadrati. Infine il robot è riuscito a trovare la parte posteriore.» Nello sfarfallio apparve una struttura indistinta. La pala del timone, la poppa dalla forma arcuata, parti delle sovrastrutture. Il robot ci scivolò sopra e si abbassò, procedendo lungo l'involucro d'acciaio. Nell'immagine passò un solo pesce. «La corrente profonda trasporta una gran quantità di materiale organico, plancton, detriti e ogni cosa possibile», commentò Peak. «Non è facile manovrare laggiù. Vi risparmio l'intero filmato, ma
questo dovrebbe interessarvi.» Improvvisamente la telecamera fu vicinissima allo scafo, ricoperto da una sostanza raggrumata che, alla luce dei riflettori, scintillava e risplendeva come cera fusa. Rubin si chinò in avanti, con un'espressione nervosa in volto. «Com'è arrivata lì quella roba?» gridò. «Cosa crede che sia?» chiese Peak. «Sono meduse.» Rubin socchiuse le palpebre. «Piccole meduse. Devono essere milioni. Ma perché sono aggrappate alla nave?» «Come mai le cozze zebrate improvvisamente sanno navigare?» ribatté Peak. «Da qualche parte sotto quella gelatina ci sono le prese a mare e di certo sono irrimediabilmente intasate.» Un diplomatico alzò una mano, esitante. «Che cosa sono... ehm, esattamente...?» «Le prese a mare?» Ah, bisogna spiegare proprio tutto, pensò Peak. «Rientri squadrati in cui sbucano le tubature principali per il fabbisogno d'acqua, provvisti di una grata in modo che non entrino frammenti di ghiaccio e piante. All'interno della nave, le tubature si diramano e trasportano l'acqua marina risucchiata: negli impianti di desalinizzazione, nelle cisterne di zavorra, ma soprattutto nel circuito di raffreddamento dei motori. È difficile dire quando gli animali si siano attaccati allo scafo. Forse soltanto nel momento in cui la nave è affondata. D'altra parte... Immaginiamo questo scenario: il banco di meduse arriva verso la nave così serrato da sembrare una massa compatta. Dopo pochi secondi, gli animali hanno bloccato le prese a mare. Non entra più acqua, ma in compenso quella poltiglia organica penetra attraverso i buchi della grata di protezione. Arrivano sempre più animali. L'acqua rimasta viene pompata dalle macchine, poi tutte le tubature rimangono all'asciutto, e l'approvvigionamento di acqua di raffreddamento della Phoebos Apollon cessa da un momento all'altro. Il motore principale si surriscalda, l'olio lubrificante diventa rovente, la temperatura nella testa del cilindro sale, una delle valvole di scarico salta. Viene spruzzato fuori il carburante incendiato che innesca una reazione a catena, e il sistema antincendio non funziona perché non è più possibile pompare l'acqua.» «Una petroliera modernissima esplode perché le meduse intasano le prese a mare?» chiese Roche. Peak pensò a quanto fosse ridicola quella domanda. Radunati lì c'erano forse i migliori scienziati del mondo, e guardavano quelle immagini come
bambini delusi dal fallimento della tecnica. «Navi cisterna e cargo sono solo per metà prodotti di alta tecnologia. L'altra metà è antica. I motori diesel delle navi e i sistemi di manovra del timone possono essere molto complessi e all'avanguardia, ma in ultima analisi servono sempre a far girare un albero a vite e a muovere da una parte e dall'altra un pezzo d'acciaio. Si naviga col GPS, ma l'acqua di raffreddamento viene sempre pompata all'interno attraverso un buco. Perché dovrebbe essere diverso? Si naviga in questo modo. È così semplice... Di tanto in tanto, una presa a mare s'intasa, se vi entrano delle alghe o cose simili, ma poi essa viene pulita. Se una è intasata, si usano le altre. La natura non aveva mai attaccato le prese a mare, dunque perché migliorarle?» Lasciò passare qualche secondo. «Dottor Roche, se domani alcuni minuscoli insetti dovessero decidere di ficcarsi nelle sue narici, ciò costituirebbe un pericolo mortale per il suo fantastico, complicatissimo corpo. Non ha mai pensato che potrebbe succedere? Ecco qual è il nostro problema. Abbiamo mai pensato che queste cose avrebbero potuto accadere?» Johanson non ascoltava quasi più. Conosceva nei dettagli la parte seguente dell'esposizione, dato che erano stati lui e Bohrmann a strutturarla. Trattava dei vermi e degli idrati di metano. Quindi, mentre Peak parlava, lui affidava al laptop il corso dei propri pensieri. L'influenza sul sistema neuronale attraverso uno... Attraverso che cosa? Doveva trovare un concetto. Era faticoso trovare sempre nuove espressioni. Johanson fissava lo schermo con aria assente. L'unità di crisi aveva accesso al programma? Il pensiero che Judith Li e i suoi uomini potessero spiare i suoi pensieri lo spingeva a essere diffidente. Aveva la sua teoria e si sarebbe confrontato con gli altri soltanto quando lo avesse deciso lui. Il caso volle che a un certo punto il medio e l'anulare della sua mano sinistra scrivessero una parola. In realtà era ancor meno di una parola. Erano tre lettere, che apparvero sullo schermo del laptop. Yrr. Johanson fu tentato di cancellarle. Poi si fermò. Perché no? Qualsiasi parola poteva andare bene. E quella era persino meglio di una parola vera, perché impediva ogni possibilità d'interpretazione. In fondo, lui non sapeva di cosa stava scrivendo. Non c'era un concetto per esprimere ciò che stava facendo, quindi l'astrazione era la strada giusta.
Yrr. Suonava bene. Per il momento sarebbe rimasta così. Karen Weaver ascoltava, rosicchiando per bene la terza matita. «Forse il diluvio universale è stato altrettanto catastrofico», stava dicendo Peak, in conclusione del suo minuzioso excursus. «Le inondazioni fanno parte di diversi miti e tradizioni religiose. Forse la prima descrizione di uno tsunami, raccontata come una catastrofe naturale, risale al 479 avanti Cristo ed ebbe luogo nel mar Egeo. Nel 1755, Lisbona fu investita da un'onda alta dieci metri: i morti accertati furono sessantamila. Sappiamo anche con certezza dell'esplosione del Krakatoa, nel 1883. La camera vulcanica crollò e, come conseguenza, si ebbe la formazione di un'immensa caldera sottomarina. Due ore più tardi, ondate alte quaranta metri colpirono le regioni costiere di Sumatra e Giava, furono distrutti oltre trecento villaggi e morirono quasi trentaseimila persone. Nel 1933 uno tsunami molto più piccolo colpì la città giapponese di Sanriku e infuriò a nord-est di Honshu. Bilancio: tremila morti, novemila edifici distrutti, ottomila navi affondate. Nessuno di questi avvenimenti si avvicina neppure lontanamente allo tsunami dell'Europa settentrionale. Là, gli Stati costieri erano altamente industrializzati. Nel complesso, vivevano duecentoquaranta milioni di persone, in prevalenza sulle coste.» Si guardò intorno. La sala era immersa nel silenzio. «In un colpo, tutta la regione è cambiata dal punto di vista geologico», riprese Peak. «Le conseguenze per l'umanità non sono ancora prevedibili, ma per l'economia sono assolutamente devastanti. Alcune delle più importanti città portuali del mondo sono andate distrutte, in parte o completamente. Fino a pochi giorni fa, Rotterdam era una delle più importanti piazze commerciali di tutti i tempi, il mare del Nord una delle principali riserve di combustibili fossili, con una produzione di circa quattrocentocinquantamila barili di petrolio al giorno. La metà delle risorse petrolifere europee era al largo della costa norvegese, un'altra parte al largo dell'Inghilterra, senza contare che là si trovava anche una parte consistente dei giacimenti mondiali di gas naturale. Il numero delle vittime è valutato tra i due e i tre milioni, quello dei feriti e dei senzatetto è molto più alto.» Peak pronunciava quelle cifre come se stesse dando le previsioni del tempo, apparentemente senza la minima emozione. «Non è chiaro che cosa abbia provocato lo smottamento. I vermi rientrano senza dubbio tra le eccezionali mutazioni con cui abbiamo a che fare.
Nessun avvenimento naturale spiega la comparsa di questi eserciti di miliardi di vermi e batteri. Tuttavia i nostri amici di Kiel e il dottor Johanson ritengono che al puzzle manchi ancora una tessera. Che le distese di idrati diventassero così instabili solo a causa dell'infestazione non era ipotizzabile e quindi non era possibile prevedere una simile catastrofe. Deve essere entrato in gioco un fattore supplementare, che, con l'ondata, ha rivelato solo la parte superficiale del problema.» Con un brivido, Karen Weaver si raddrizzò sulla sedia. Benché l'immagine dal satellite apparsa in quel momento sullo schermo fosse stata scattata da una grande altezza, e risultasse sfocata e schiarita artificialmente, lei aveva riconosciuto subito la nave. «Questa ripresa spiega ciò che voglio dire», riprese Peak. «Stavamo sorvegliando la nave col satellite...» Come? Karen pensò di non aver capito bene. Stavano sorvegliando Bauer? «Una nave oceanografica, la Juno», proseguì Peak. «Le fotografie sono state scattate di notte da un satellite spia militare, l'EORSAT. Fortunatamente avevamo la visuale libera e il mare calmo, cosa insolita in quella zona. In quel momento, la Juno era davanti alle isole Svalbard.» Le luci della nave spiccavano pallide dalla superficie nera. Poi, improvvisamente, il mare si picchiettò di macchie chiare, che si allargavano finché esso non sembrò ribollire. La Juno si piegò a destra e a sinistra. Si girò. Poi affondò come un sasso. Karen era sconvolta. Nessuno l'aveva preparata a quello. Adesso sapeva dov'era Bauer. La Juno giaceva sul fondo del mar di Groenlandia. E lei prese dolorosamente consapevolezza del fatto che ora ne sapeva più di tutti gli altri. Bauer le aveva lasciato la sua eredità spirituale. «È stata la prima volta, dall'inizio delle anomalie, che abbiamo potuto osservare questo effetto», disse Peak. «Blowout di metano in questa zona ci erano noti da tempo, tuttavia...» Karen alzò la mano. «Non avete mai ipotizzato che potesse succedere qualcosa del genere?» Peak la scrutò. Il volto sembrava intagliato nel legno, tanto era immobile. «No.» «E che cosa avete fatto quando la Juno è affondata?» «Niente.» «Non avete fatto niente, benché la zona e la nave fossero sorvegliate con
un satellite?» Peak scosse lentamente la testa. «Abbiamo osservato una serie di navi che affondavano e abbiamo raccolto informazioni. Non si può essere contemporaneamente ovunque. Nessuno poteva pensare che proprio quella nave...» Karen lo interruppe: «Sbaglio, o gli effetti di simili blowout vi sono sufficientemente noti? Per esempio dal presunto mistero del triangolo delle Bermuda?» «Miss Weaver, noi...» «Detto in altri termini, se eravate a conoscenza che, in passato, alcune navi erano sparite in quel modo e se sapevate che nel mare del Nord aumentavano le fuoriuscite di metano, non avete sospettato quello che sarebbe successo alla scarpata continentale norvegese?» Peak la fissò. «Che vorrebbe dire?» «Voglio sapere se avreste potuto fare qualcosa!» L'espressione di Peak rimase completamente impassibile. Tenendo lo sguardo puntato su Karen e, nel silenzio di tomba, rispose: «Abbiamo sbagliato le valutazioni». Peak non aveva avuto scelta: doveva ammettere almeno in parte il fallimento della ricognizione aerea. Effettivamente avevano registrato una ripresa dei blowout al largo della Norvegia, ma anche tutte le altre possibilità. Non sapevano nulla solo dei vermi. Consapevole della situazione difficile in cui si trovava Peak, Judith Li si alzò, andando in suo aiuto. «Non avremmo potuto fare nulla», disse con calma. «Inoltre, Miss Weaver, vorrei pregarla di ascoltare per intero la relazione del maggiore prima di formulare accuse. Devo forse ricordarle che i consiglieri scientifici in questa sala sono stati scelti sulla base di due criteri, cioè specializzazione ed esperienza? Alcuni di loro sono stati direttamente coinvolti negli avvenimenti. Il dottor Bohrmann avrebbe potuto impedirlo? E il dottor Johanson? E la Statoil? Avrebbero potuto impedirlo, Miss Weaver? Crede davvero che al controllo dall'orbita sia collegata una task force onnipresente che arrivi immediatamente sul posto per soccorrere le vittime, qualunque cosa sia successa? Forse per questo dovremmo smettere di usare i satelliti?» La giornalista aggrottò la fronte. «Non siamo qui per rimproverarci a vicenda», dichiarò Judith Li con forza, prima che Karen potesse ribattere. «Chi è senza peccato scagli la
prima pietra. Così c'è scritto nella Bibbia, e spesso la Bibbia ha ragione. Siamo qui per impedire che capiti di peggio. D'accordo?» «Alleluia», mormorò Karen Weaver. Judith rimase per un po' in silenzio, poi sorrise. Dopo il bastone, era il momento della carota. «Siamo tutti sconvolti», disse. «Ha tutta la mia comprensione, Miss Weaver. Maggiore Peak, prosegua pure, la prego.» L'incertezza di Peak stava aumentando. I soldati non esprimevano critiche e dubbi in quel modo. Lui non aveva nulla contro le critiche e i dubbi, però odiava essere messo alla berlina e non poter rimettere a posto la situazione con un ordine. Improvvisamente provò un odio sordo verso la giornalista. E si chiese come avrebbe fatto a cavarsela con quella massa di scienziati. «Quella che avete visto era la fuoriuscita di una gran quantità di metano», riprese. «E, per quanto sia addolorato per la morte dei marinai, è mio dovere sottolineare che il gas fuoriuscito ci crea problemi ben maggiori. In seguito allo smottamento, si è liberata nell'atmosfera una quantità di metano milioni di volte maggiore di quella che ha affondato la Juno. Abbiamo inoltre elaborato scenari in caso si verifichino fuoriuscite di metano analoghe in tutto il mondo. Il risultato sembra una condanna a morte. L'atmosfera collasserà.» Tacque per un momento. Peak era un duro, ma quello che stava per comunicare faceva paura anche a lui. Pronunciò le parole con lentezza. «Devo portarvi a conoscenza del fatto che i vermi sono stati avvistati sia nell'Atlantico sia nel Pacifico. Per la precisione, la specie è stata avvistata sulle scarpate continentali dell'America settentrionale e meridionale, del Canada occidentale e del Giappone.» Silenzio di piombo. «Questa era la cattiva notizia.» Qualcuno tossì. Fu come una piccola esplosione. «La notizia buona è che l'infestazione non raggiunge neppure lontanamente le dimensioni di quella in Norvegia. Gli organismi occupano solo aree limitate. In definitiva, con quella concentrazione non sono in grado di procurare danni seri. Però noi dobbiamo impedire in qualsiasi modo che la loro presenza si rafforzi. A quanto pare, anche al largo della Norvegia, negli anni scorsi, erano stati riconosciuti piccoli insediamenti nella zona in cui la Statoil stava sperimentando un nuovo tipo di stazione.» «Il nostro governo non può confermare», disse un diplomatico norvege-
se seduto nelle ultime file. «Lo so», replicò Peak in tono ironico. «Ma praticamente tutte le persone coinvolte nel progetto sono morte. Le nostre fonti si limitano al dottor Johanson e al gruppo di ricerca di Kiel. Bene, abbiamo ottenuto una sorta di proroga. Dobbiamo utilizzarla per fare subito qualcosa contro quelle maledette bestioline.» Sobbalzò. Maledette bestioline... Un'espressione troppo emotiva. Non andava bene. Un commentatore sportivo avrebbe detto che era crollato negli ultimi metri. «Eccome, se sono maledette quelle bestiole, perdio!» tuonò una voce dal fondo. A parlare era stato un uomo dall'aspetto singolare, che era anche balzato in piedi. Svettava come una roccia, alto e massiccio. Indossava una tuta arancione e un berretto da baseball, dal quale spuntavano folti riccioli neri. Un paio di enormi occhiali colorati si reggeva a fatica su un naso troppo piccolo, ma talmente appuntito che balzava agli occhi, a dispetto della bocca grande come un forno. Quando apriva la bocca e spingeva in basso il mento colossale, somigliava a uno dei vecchietti brontoloni del Muppet Show. Sul suo cartellino c'era scritto: DOTTOR STANLEY FROST, VULCANOLOGO. «Ho visto in anteprima la documentazione», disse, in un tono da predicatore. «E non mi piace per niente. Ci stiamo concentrando sulle scarpate continentali delle zone densamente popolate...» «Sì, perché ciò corrisponde all'esempio norvegese. Prima pochi animali, poi da un giorno all'altro un'orda.» «Non dobbiamo concentrarci solo su quello.» «Vuole che ripeta quello che è successo nell'Europa settentrionale?» «Maggiore Peak! Ho forse detto che non dobbiamo badare alla scarpata continentale? Non ho sostenuto niente del genere! Ho parlato dell'esclusiva concentrazione su di essa, una cosa che - Dio me ne è testimone - è una stupidaggine colossale. È lampante. Il diavolo percorre altre strade.» Peak si grattò la testa. «Potrebbe chiarire la sua affermazione, dottor Frost?» Il vulcanologo inspirò profondamente. «No», rispose. «Come? Ho capito bene?» «Dobbiamo forse seminare il panico? No, vero? Allora prima devo fare chiarezza. Pensi alle mie parole.» Si guardò intorno, sicuro di sé, col mento gigantesco proteso in avanti, poi si sedette. Fantastico, pensò Peak. Prima la giornalista idiota e adesso quest'altro
pazzo. Vanderbilt avanzò pesantemente verso il podio. Judith Li lo seguì, socchiudendo le palpebre, e poi notò che il vice direttore della CIA stava inforcando un paio di occhiali ridicoli e la cosa la riempì di un misto di fastidio e ripugnanza. «'Maledette bestioline' è la definizione giusta, Sal», esordì Vanderbilt in tono giulivo. Quindi si guardò intorno, raggiante, come se dovesse comunicare la buona novella. «Ma noi daremo loro fuoco finché non gli bruceremo il culo. Ve lo prometto. Okay, veniamo alle nostre supposizioni. Non è molto. Il nostro carissimo petrolio, da cui siamo tutti così dipendenti e che tutti vorremmo scolarci, è andato a farsi fottere. Espresso in parametri economici, ciò significa che possiamo dire addio a una parte consistente della produzione mondiale. Per i cammellieri dell'OPEC è una gran botta. La navigazione internazionale si scontra con sempre nuovi scherzi della natura, e si blocca, come ha appena dimostrato esaurientemente Peak. E così il terrore mostra i suoi effetti. Sì, insomma, detto fra noi: gli attacchi di squali e balene sono storielle per bambini, onestamente, enormi sciocchezze. È seccante se un'intera famiglia americana non torna più a casa dopo essere uscita a pescare, ma all'umanità non importa un fico secco. Non è bello, anzi è una vera porcheria, se, in uno dei Paesi in via di sviluppo, un piccolo pescatore, che con la sua sardina quotidiana deve sfamare diciassette figli e tre mogli, è costretto a rimanere sulla spiaggia a fissare il mare con sguardo vuoto perché, uscendo a pescare, rischia di essere mangiato. Proviamo tutti un sincero dispiacere, ma non possiamo fare assolutamente nulla. L'umanità ha altri problemi. Sono i Paesi ricchi a essere stati colpiti. I pesci cattivi non si fanno più catturare, anzi spediscono nelle reti della robaccia velenosa, oppure fanno ribaltare i pescherecci. Benché si tratti di casi isolati, ormai quei casi sono maledettamente troppi. E questo è un male per i Paesi in via di sviluppo, perché non riceveranno più niente da noi.» Vanderbilt ammiccò furbescamente al di sopra del bordo degli occhiali. «Sapete, signori, se uno vuole distruggere il mondo, ne potrebbe far fuori due terzi semplicemente tenendo impegnati i Paesi più ricchi, pressandoli a tal punto da impedire loro di risolvere i problemi. Il Terzo Mondo conta sul fatto che i grandi gli tendano la mano. Di tanto in tanto si fa sentire la giusta ira dell'America, poi si concorda coi boss della droga un piccolo cambiamento di regime e lo si collega agli aiuti economici. Tutto fila liscio. Forse suona ridicolo che le balene saltino sulle barche, perché la fortuna o la crisi della nostra economia non dipende da canoe e
fasci di giunchi. Però lo standard di vita occidentale non è propriamente rappresentativo. Pensateci stasera, mentre vi servite al buffet freddo. Per il Terzo Mondo le anomalie sono la fine! El Niño è la fine! Se facciamo il bilancio delle cose stravaganti che la natura ci ha offerto negli ultimi mesi, fenomeni come quelli del passato ci sembrano cari, vecchi amici. Ci si potrebbe addirittura augurare che vengano un'altra volta a farci visita ma, egregi signori, adesso abbiamo altri ospiti, che diamine! In alcune zone dell'Europa vige lo stato d'emergenza. Cosa vuol dire? Che, col calare delle tenebre, nessuno può più andare in strada perché si corre il rischio di sparire? Vorrei spiegarvi che cosa significa. Significa che l'Europa non è in grado di controllare la catastrofe umanitaria. Che le opere assistenziali, la Croce Rossa, i supporti tecnici, l'UNESCO non arrivano più con le tende e i viveri. Che, nella dorata Europa, gli uomini muoiono di fame e per le infezioni. Che sono scoppiate epidemie. Delle epidemie in Europa! Come se non bastassero la Pfiesteria e i suoi compagni, in Norvegia infuria il colera! I rifornimenti di medicinali per i feriti non possono essere più garantiti e le ferite degli onesti europei spettatori di quiz del sabato sera brulicano di piccoli vermi e sono coperte di mosche che, a loro volta, provvedono a diffondere ulteriormente le malattie. Vi sentite già male? Be', questo non è niente. Lo tsunami è senza dubbio una brutta faccenda. Ma rammentate che, oltre alla distruzione, quando uno tsunami arriva tutto esplode. Nessuno riesce a cavarsela nella lotta contro il fuoco. Le fasce costiere sono state prima inondate e poi bruciate. Ah, già, poi è successa anche un'altra cosa: il risucchio della massa d'acqua che stava rientrando in mare ha interrotto il ciclo di raffreddamento di alcune centrali, stupidamente costruite nei pressi della costa. Abbiamo avuto un 'massimo incidente ipotizzabile' in Norvegia e uno in Inghilterra. Vi basta? Posso continuare col tracollo delle forniture energetiche. Signore e signori, per quanto mi possa dispiacere, vi devo dire di non contare sull'aiuto dell'Europa. E neppure su quello del Terzo Mondo. L'Europa trasmette soltanto il monoscopio. L'Europa è nella merda!» Vanderbilt teneva a portata di mano un fazzoletto bianco, con cui si tamponava la fronte. Peak era sul punto di vomitare. Odiava quell'uomo. Odiava il fatto che Vanderbilt non fosse amico di nessuno, probabilmente neppure di se stesso. Era un cinico disfattista. Ma, soprattutto, Peak odiava Vanderbilt perché aveva detto la verità. Nel suo odio per Vanderbilt, Peak si sentiva addirittura unito a Judith Li.
A parte quello, comunque, odiava anche Judith Li. Talvolta aveva immaginato di strapparle di dosso i vestiti, insieme con quella sua maledetta aria di sufficienza, insieme con quelle sue arroganti smancerie da figlia di buona famiglia, cui erano state instillate lezioni su lezioni di lingue straniere. In quei momenti, dentro di lui prendeva forma il Salomon Peak che, in altre circostanze, probabilmente sarebbe diventato un capo gang, un ladro, un violentatore e un assassino. Quel Peak gli faceva paura, perché non credeva negli ideali di West Point, nell'onore, nella gloria, nella patria. Era come Vanderbilt, che insudiciava tutto e lasciava intendere che il sudiciume era la realtà. L'altro Peak era cresciuto nel sudiciume. Un nero cresciuto nel sudiciume del Bronx. «E andiamo avanti», stava dicendo Vanderbilt, con aria divertita. «Nell'acqua potabile europea c'è un sacco di simpatiche alghette. Che fare? Trattarle chimicamente? Certo, si può far bollire l'acqua o riempirla di prodotti chimici. Probabilmente quelle stronzette ci rimetteranno la pelle, ma noi le seguiremo. L'acqua comincia a scarseggiare. Fino a poco tempo fa, ogni idiota poteva stare tre ore sotto la doccia a cantare canzoni da marinaio, ma ora è finita. Non so quando da noi esploderanno i primi crostacei, signori, ma il Dio della nostra terra dovrà prepararsi, perché succederà. Dio ha perso la pazienza.» Vanderbilt ridacchiò. «Oppure sarebbe meglio dire Allah? Il pianeta si ribella, signori! Preparatevi a rivelazioni sensazionali. Subito dopo la pubblicità!» Ma che sta dicendo? si chiese Peak. Era forse impazzito? Non poteva essere che così. Solo un pazzo si comportava in quel modo. Il vice direttore della CIA fece apparire l'immagine di un planisfero, sul quale i continenti e i Paesi erano collegati da linee colorate. Uno spesso fascio si stendeva dall'Inghilterra e dalla Francia attraverso l'Atlantico fin nei pressi di Boston, di Long Island, di New York e del New Jersey, nei dintorni di Manasquan e di Tuckerton. Un'altra rete, molto meno fitta, percorreva il Pacifico e collegava l'Ovest degli Stati Uniti d'America con l'Asia. Spessi fasci scorrevano lungo le isole caraibiche e la Columbia, attraverso il Mediterraneo e il canale di Suez e sulla costa dell'Asia orientale fino a Tokyo. «Cavi sottomarini», spiegò Vanderbilt. «Autostrade di dati, attraverso le quali telefoniamo e chattiamo. Senza le fibre ottiche, Internet non esiste. A quanto pare, lo smottamento al largo della Norvegia ha distrutto parte dei collegamenti in fibra ottica tra Europa e America. Almeno cinque dei più
importanti cavi transatlantici non trasmettono più dati. In ogni caso, l'altro ieri ha tirato le cuoia anche un cavo col bel nome di FLAG Atlantic-1. Collega New York con St. Brieuc, in Bretagna, ed è pur sempre in grado di trasmettere 1,28 terabit al secondo. Scusate, era in grado! FLAG Atlantic1 ha rassegnato le dimissioni, e indubbiamente non come conseguenza dello smottamento. Come pure il TPC-5 tra San Luis Obispo e le Hawaii. Notate qualcosa? C'è qualcuno che fa colazione coi cavi sottomarini. I nostri ponti crollano. C'è corrente nelle prese? Altroché. Il mondo è piccolo? Altroché! Chiamiamo la zia Polly a Calcutta e le facciamo gli auguri per il compleanno? Scordatevelo! Il fatto è che la comunicazione mondiale è arrivata alla fine e non sappiamo perché. Ma una cosa è fuori discussione.» Vanderbilt digrignò i denti e si chinò sul pulpito quel tanto che gli permetteva la sua pancia. «Qui c'è qualcuno al lavoro, signori. E ci sta staccando dalla flebo della civiltà. Ma ora basta parlare di quello che non abbiamo più e di quello che stiamo per perdere.» Annuì ai presenti con aria gioviale, facendo sobbalzare più volte il suo doppio mento. «Parliamo di quello che abbiamo.» Anawak trovò un certo conforto nelle parole di Vanderbilt. Dopo aver temporaneamente perso la fiducia nel mondo, adesso gli sembrava che il mondo marciasse verso di lui, reggendo un cartello su cui, a lettere cubitali, c'era scritto: LEON, NOI TI CREDIAMO. «Il dottor Anawak ha descritto un organismo luminoso», riprese Vanderbilt. «Non siamo riusciti a trovare un organismo di quel genere nelle escrescenze della Barrier Queen, ma il nostro eroe è coraggioso ed è riuscito a fare un buon bottino di cui è stato possibile esaminare un frammento. La sostanza è identica a una gelatina amorfa che il dottor Fenwick e la dottoressa Oliviera hanno trovato nella testa di una balena che cercava rogne. Ricordiamo la relazione con la schifezza all'interno dei crostacei infetti. Là dentro vengono trasportate come su un taxi le Pfiesterie, ma il taxista non è il nostro amico astice, bensì qualcosa che lo ha sostituito. La corazza era piena fino a scoppiare di quella roba che, all'aria fresca, ha avuto la compiacenza di dissolversi. Il dottor Roche è comunque riuscito ad analizzarne alcune tracce. È la nostra vecchia conoscenza, la gelatina!» John Ford e Sue Oliviera sollevarono contemporaneamente la testa. Poi Sue, con la sua voce profonda, disse: «La sostanza nel cervello delle balene e quella sotto la nave sono identiche, fin qui è giusto. Ma il materiale del cervello è nettamente più leggero. Le cellule sembrano meno coese».
«Ho già sentito che le opinioni sulla gelatina divergono», la interruppe Vanderbilt. «Signori, questo è un problema vostro. Da parte mia, posso dire che abbiamo isolato la Barrier Queen in un bacino per non far scappare altri eventuali clandestini. Da allora, nelle acque del bacino abbiamo osservato più volte una luce blu. Non rimane visibile a lungo. L'ha notata anche il dottor Anawak, quando ha deciso di trascorrere le sue vacanze subacquee nella nostra zona vietata. Le analisi dell'acqua mostrano la presenza del solito brulichio di microrganismi che si trova in ogni goccia di acqua marina. Allora, da dove arriva la luce? Data la mancanza di conoscenze scientìfiche, noi la chiamiamo 'la nuvola blu'. Il nome lo dobbiamo al dottor Ford, che glielo ha dato dopo aver osservato le riprese fatte da uno strumento di nome URA.» Vanderbilt mostrò il filmato del branco di Lucy. «Sembra che questi lampi non feriscano né tantomeno spaventino le balene. Evidentemente la nuvola influenza il loro comportamento. Nel suo centro potrebbe nascondersi qualcosa che stimola la sostanza nella testa delle balene e forse addirittura la inietta. Ora facciamo un passo avanti e supponiamo che questi tentacoli non solo iniettino la gelatina, ma siano la gelatina! Dovremmo concordare che qui vediamo su grande scala quello che il dottor Anawak ha visto in scala ridotta sullo scafo della Barrier Queen. Saremmo sulle tracce di un organismo sconosciuto, che guida i crostacei, fa impazzire le balene e porta la sua piaga tra i molluschi che affondano le navi. Osservate, signori, quanti passi in avanti abbiamo fatto! Ora tocca a voi scoprire che cos'è. Perché la questione è tutta lì: che relazione c'è tra la gelatina e la nuvola? E adesso vediamo chi, rintanato in un laboratorio da qualche parte, ha messo insieme tutta questa porcheria...» Vanderbilt mostrò di nuovo il filmato e stavolta, nel bordo inferiore dello schermo, comparve un analizzatore di spettro. Si vedevano forti oscillazioni di frequenza. «L'URA è un ragazzo dotato di talento. Poco prima che si manifestasse la nuvola, i suoi idrofoni hanno registrato dei suoni. Noi non sentiamo niente, perché non siamo balene, ma poveri ometti con le orecchie ricoperte di colla. Tuttavia ultrasuoni e infrasuoni possono diventare udibili se si ha l'asso nella manica. Come i nostri sorprendenti colleghi del SOSUS.» Anawak drizzò le orecchie. Conosceva il SOSUS. Ci aveva lavorato molte volte. La NOAA - la National Oceanic and Atmospheric Administration - gestiva una serie di progetti che riguardavano la registrazione e l'analisi dei fenomeni acustici subacquei. Tutti insieme rientravano nel
termine generico di Acoustic Monitoring Project. Lo strumento che la NOAA utilizzava per captare i suoni sottomarini era un relitto della Guerra Fredda. SOSUS era l'acronimo di Sound Surveillance System, una rete d'idrofoni molto sensibili che la Marina americana aveva installato nel corso degli anni '60 in tutti i mari, per poter seguire le missioni dei sommergibili sovietici. Dal 1991, quando la Guerra Fredda era finita, col crollo dell'Unione Sovietica, anche ai ricercatori civili della NOAA era stato consentito di analizzare i dati del sistema. In tal modo, gli scienziati avevano compreso che la vastità degli oceani era tutt'altro che silenziosa. Specialmente nello spettro delle frequenze al di sotto dei 16 hertz c'era un rumore infernale. Per essere udibili all'orecchio umano, i suoni dovevano essere riprodotti a una velocità sedici volte maggiore. Improvvisamente la vita marina sembrava rumorosissima: il canto delle megattere ricordava il cinguettio degli uccelli, mentre le balenottere azzurre mandavano messaggi ai loro simili, a centinaia di chilometri di distanza, con un rimbombante staccato. Tre quarti delle riprese erano dominate da un rimbombo ritmico, cannoni ad aria che le società petrolifere mettevano in funzione per sondare la struttura geologica degli abissi marini. Nel frattempo la NOAA e il SOSUS si erano integrati in un unico sistema. Ogni anno, l'organizzazione ampliava la propria rete d'idrofoni. E ogni volta i ricercatori sentivano qualcosa in più. «Anche solo coi rumori, oggi siamo in grado d'identificare diversi soggetti che si muovono in mare», spiegò Vanderbilt. «È una piccola nave? Viaggia veloce? Che genere di trazione usa? Da dove arriva, quanto è lontana? Gli idrofoni ci rivelano tutto. Dovreste sapere che l'acqua conduce bene le onde sonore e che sott'acqua esse si propagano a una velocità compresa tra i cinquemila e cinquemilacinquecento chilometri all'ora. Se una balenottera azzurra emette un suono al largo delle Hawaii, meno di un'ora dopo esso rimbomba in una cuffia californiana. Il SOSUS, tuttavia, fa qualcosa di più che registrare gli impulsi: ci dice anche da dove vengono. In breve, l'archivio dei suoni della NOAA raccoglie migliaia di rumori: scatti, brontolii, fruscii, gorgoglii, schiocchi e sussurri, suoni bioacustici e sismici, rumori ambientali... Insomma, possiamo catalogare tutto. Tranne alcune eccezioni. Il dottor Murray Shankar della NOAA è tra noi... Ah, che mossa lungimirante. Sarà certamente felice di commentare quanto segue.» Dalle prime file si alzò un uomo tracagnotto, all'apparenza timido, con un viso dai tratti indiani e occhiali dalla montatura d'oro. Vanderbilt ri-
chiamò un altro spettrogramma e fece partire il suono accelerato artificialmente. La sala fu riempita da un borbottio ovattato, caratterizzato da una serie di suoni crescenti. Shankar tossicchiò. «Abbiamo chiamato questo rumore upswewp», disse in tono pacato. «È stato registrato nel 1991 e la sua origine si situa da qualche parte intorno a 54° S, 140° W. Upsweep è uno dei primi suoni non identificati intercettati dal SOSUS, ed era talmente alto che è stato ricevuto in tutto il Pacifico. Ancora oggi non sappiamo cosa sia. Secondo alcuni, potrebbe derivare da ima risonanza tra acqua e lava, da qualche parte in una catena di montagne sottomarine tra la Nuova Zelanda e il Cile. Jack, per favore, il prossimo esempio.» Yanderbilt fece ascoltare altri due spettrogrammi. «Il primo è Julia, registrato nel 1999; il secondo è scratch, registrato due anni prima, da una serie d'idrofoni nel Pacifico equatoriale. Si poteva sentire per cinque chilometri. Julia ricorda il grido di un animale, non trovate? La frequenza cambia molto velocemente. È un insieme di singoli suoni, come nei canti delle balene. Ma non si tratta di balene. Nessuna balena produce un suono con questo volume. Scratch, invece, sembra una puntina che scivoli su un solco, solo che, per produrre un simile rumore, il giradischi dovrebbe avere le dimensioni di una grande città.» Il rumore seguente sembrava un lungo stridio, progressivamente calante. «Registrato nel 1997», disse Shankar. «Slowdown. Riteniamo che la sorgente sia da qualche parte nel profondo Sud. Sono escluse navi e sommergibili. Probabilmente slowdown deriva dallo scivolamento delle enormi placche di ghiaccio sulle rocce dell'Antartico, ma potrebbe anche essere tutt'altro. La NOAA include anche suoni di origine bioacustica, quindi di animali. Qualcuno sarebbe felice se il rumore finalmente dimostrasse l'esistenza del calamaro gigante, ma, per quanto ne so, quegli animali sono quasi incapaci di emettere suoni. Quindi niente. Nessuno sa cos'è...» Fece un sorrisetto furbo. «In compenso possiamo tirare fuori dal cilindro un altro coniglio.» Vanderbilt fece ripartire lo spettrogramma del video dell'URA. Stavolta si sentiva chiaramente un suono. «L'avete riconosciuto? È scratch. E sapete che cosa dice l'URA? Che la fonte è in mezzo alla nuvola blu! Quindi potremmo...» «Grazie, Murray, un'interpretazione da Oscar.» Vanderbilt ansimò e si tamponò la fronte col fazzoletto. «Tutto il resto è speculazione. Bene, signore e signori, diamo a questa giornata una degna conclusione in modo
che le rotelle dei vostri cervelli si mettano in moto.» Le sequenze successive mostravano una ripresa negli abissi oscuri. Alcune particelle brillavano nella luce dei riflettori. Poi qualcosa di piatto s'inarcò nel campo della telecamera e si ritrasse immediatamente. «Se si studia il filmato nella versione rielaborata che ci ha gentilmente fornito il Marintek prima che l'istituto fosse spazzato via, si arriva a due conclusioni. La prima: la cosa è enorme. La seconda: è luminosa, o meglio, s'illumina per un po' e si spegne immediatamente non appena finisce nell'obiettivo della telecamera. È certo che scorrazza intorno ai settecento metri di profondità nella zona della scarpata continentale norvegese. Studiatelo, signori. È il nostro amico gelatinoso? Arrivate a una conclusione. Da voi non ci aspettiamo niente di meno che la salvezza dell'umanità.» Vanderbilt sorrise. «Non voglio nascondere che siamo prossimi all'apocalisse, per questo propongo la divisione dei lavori. Voi scoprite come si può fermare quella schifezza animale. Forse vi verrà in mente qualche programma di ammaestramento o qualcosa che gli guasti lo stomaco. Noi cercheremo quel grosso stronzo che ci ha creato tanti guai. E qualunque cosa facciate, non diffondetela. Non cedete alla tentazione di apparire sulle prime pagine. Europa e America, in accordo tra loro, stanno conducendo una politica di disinformazione mirata. Il panico sarebbe come acido cloridrico sulla cacca di cane, se capite che cosa voglio dire. Non possiamo permetterci un'escalation sociale, politica, religiosa o che. Quindi pensate a quello che la zia Li vi ha promesso se andrete fuori a fare qualche scherzetto.» Johanson si schiarì la voce. «A nome di tutti vorrei ringraziarla per la sua coinvolgentissima relazione», disse in tono affabile. «Quindi noi dobbiamo scoprire che cosa c'è là fuori.» «Esatto, dottore!» «E lei che cosa crede che sia?» Vanderbilt sorrise. «È gelatina. Con qualche nuvola blu.» «Capisco.» Johanson rispose al sorriso. «Dovremmo essere noi ad aprire le finestrelle del calendario dell'Avvento. Ascolti, Vanderbilt, lei ha una teoria. Se vuole che collaboriamo, forse dovrebbe comunicarcela. Che ne pensa?» Vanderbilt si strofinò la sella del naso e fissò Judith Li. «Va bene», accondiscese. «Cosa sarebbe il Natale senza lo scambio di regali? Amen. Dunque, ci siamo chiesti: dove accadono queste cose, dove in maniera ridotta, dove per nulla? E abbiamo notato che non sono stati colpiti il Medio
Oriente, il territorio dell'ex Unione Sovietica, l'India, il Pakistan e la Thailandia. Non hanno subito danni neppure la Cina e la Corea. E neanche l'Artico e l'Antartico, ma lasciamo da parte i frigoriferi. A conti fatti, i danni maggiori sono toccati all'Occidente. Solo la distruzione degli impianti offshore norvegesi è, per l'Occidente, un danno di lunga durata, che ci rende sgradevolmente dipendenti.» «Se ho capito bene, sta parlando di terrorismo», disse Johanson. «Ha fatto bene a menzionarlo! Ci sono due tipi di terrorismo ed entrambi si fondano sulla distruzione di massa. La prima variante mira a provocare un crollo politico e sociale, e se ne frega di quanta gente ci rimetterà la pelle. Gli estremisti islamici, per esempio, pensano solo a togliersi dai piedi gli infedeli. La seconda variante è interamente votata all'aldilà e afferma che l'umanità peccatrice ha già bazzicato troppo su questo bel pianeta creato da Dio e che quindi è arrivato il momento di cancellarla dalla faccia della Terra. Quanti più soldi e know how possiede questa gente, più diventa pericolosa. Le alghe killer... Be', forse qualcosa del genere si può coltivare. In fondo, i cani possono essere addestrati a mordere e l'ingegneria genetica ha reso possibili interventi sul DNA. Perché con questo strumento non dovrebbe essere possibile acquisire il controllo del comportamento? Voglio dire, tante mutazioni in così poco tempo... A lei che cosa sembra? A me puzza di laboratorio. Un organismo sconosciuto senza forma, già... Ma perché non ha forma? Tutto ce l'ha! Forse perché il suo scopo non la richiede? Immaginiamo una sorta di protoplasma, un composto organico, un pastone compatto che, in fasci di molecole, occupa il cranio degli animali o dei crostacei. Voglio dire, signori, che dietro tutto questo, da qualche parte, c'è uno spirito pianificatore. Provate a immaginare che cosa significherebbe per la politica energetica del Medio Oriente il crollo dell'industria petrolifera dell'Europa settentrionale, e troverete il motivo.» Johanson lo fissò. «Lei è un pazzo, Vanderbilt.» «Lo crede? Nello stretto di Hormuz finora non ci sono state né collisioni né avarie. Neppure nel canale di Suez.» «Ammesso che sia vero, che senso avrebbe decimare i potenziali clienti del petrolio arabo?» «È una follia», ribatté Vanderbilt. «Io non ho detto che ha senso, ma che è utile. Presti attenzione al fatto che finora il Mediterraneo è stato risparmiato e quindi anche la rotta dal golfo Persico a Gibilterra. Invece, i vermi li troviamo là dove l'Occidente e il Sudamerica vogliono prendere il petrolio.»
«I vermi sono comparsi anche sulla costa nordorientale degli Stati Uniti», disse Johanson. «Uno tsunami delle dimensioni di quello europeo spazza via dal mercato la clientela dei suoi terroristi del business.» «Dottor Johanson...» Vanderbilt sorrise. «Lei è uno scienziato. Nella scienza si è alla costante ricerca della logica. La CIA è da un pezzo che non la cerca più. Le leggi di natura devono essere logiche. Gli uomini no. Da decenni pende sulla nostra testa la spada di Damocle di una guerra atomica, e tutti sanno che potrebbe far sparire la nostra amata umanità. Quelli che ricattano il mondo e i pazzi da film di James Bond ci sono, dottor Johanson, solo che la realtà non prevede nessun James Bond. Nel 1991, quando Saddam Hussein diede fuoco ai pozzi petroliferi del Kuwait, la sua gente gli disse che avrebbe potuto provocare un inverno nucleare della durata di anni o addirittura di decenni. Quelle persone avevano torto. Ma questo ha impedito a Saddam di farlo? Un'altra cosa: chieda ai suoi colleghi di Kiel. Che cosa succederebbe davvero se tutto il metano marino si disperdesse nell'atmosfera? Su questo si possono fare solo speculazioni. In ogni caso, ci sarebbe da temere una crescita del livello del mare, l'Europa scomparirebbe, perché il Belgio, l'Olanda e la Germania settentrionale si trasformerebbero in una zona per gli sport acquatici. Al contrario, i deserti del Vicino e del Medio Oriente potrebbero improvvisamente fiorire e prosperare. Con qualche tsunami non si distruggerebbe l'umanità, resterebbe comunque gente a sufficienza per comprare il petrolio arabo. E forse tutto questo terrore non porterebbe alla fine dell'umanità, ma a un indebolimento dell'Occidente e dei Paesi dell'Est Asiatico e quindi a una ridistribuzione dei rapporti di forza, e senza bisogno di una guerra. In un modo o nell'altro, il pianeta ce la farà, vuole scommettere? Le dico che il terrore viene dal mare, ma la causa è da cercare sulla Terra.» Judith Li spense il proiettore. «Vorrei ringraziare i rappresentanti diplomatici e gli inviati dei servizi segreti di tutti i Paesi per aver reso possibile questo vertice», disse. «Alcuni ripartiranno oggi stesso, ma la maggior parte resterà nostra ospite per le prossime settimane. Non è necessario che sottolinei ancora che pure a voi, come al gruppo scientifico, è richiesto il più assoluto riserbo sui progressi del nostro lavoro e sulle conoscenze che vi sono collegate. Anche nell'interesse dei vostri governi.» Fece una pausa, quindi riprese: «Per quanto riguarda i collaboratori del gruppo scientifico, ci siamo sforzati di appoggiarvi in ogni modo possibile. Da questo momento in poi, per favore, utilizzate solo il laptop che trovate davanti a voi. Ovunque nell'hotel sono state predisposte linee: nel bar, nelle vostre came-
re, nella palestra... Potete collegarvi ovunque siate. Il collegamento transatlantico è stato ristabilito. Il tetto dell'hotel è fornito di parabole satellitari. Funziona tutto. Telefonate, fax, e-mail e Internet passano attraverso i satelliti NATO III, che normalmente servivano per mantenere i collegamenti tra i governi partner della NATO. Ora servono a voi. Inoltre abbiamo allestito un circuito chiuso, un secretus in secretum, cui hanno accesso solo i membri del gruppo di lavoro. Attraverso questa rete, potete comunicare tra voi e accedere alle informazioni strettamente confidenziali. Per ottenerle avrete bisogno di una password personale che otterrete non appena avrete firmato la dichiarazione di riservatezza». Fece scorrere lo sguardo sui presenti. «Non c'è bisogno di sottolineare che per nessun motivo questa password può essere comunicata a persone non autorizzate. Una volta connessi, avrete accesso ai satelliti civili e militari, ai dati della NOAA e del SOSUS, a tutti i progetti telemetrici già archiviati e a quelli ancora in corso, alle banche dati della CIA e dell'NSA per quanto riguarda attività terroristiche mondiali, sviluppo delle armi biologiche, progetti d'ingegneria genetica e così via. Abbiamo raccolto per voi tutto quanto offerto dalle tecnologie degli abissi marini, come pure le conoscenze fondamentali di geologia e geochimica. Ci sono elenchi di tutti gli organismi conosciuti, potrete vedere le carte dei fondali abissali in possesso della Marina e naturalmente abbiamo messo in appendice tutte le cifre e le statistiche della conferenza. Ogni nuova informazione, ogni sviluppo, vi sarà immediatamente fornito senza ritardi. Vi terremo al corrente e naturalmente ci aspettiamo che voi facciate altrettanto.» Judith Li si fermò un attimo ed esibì un sorriso incoraggiante. «Vi auguro buona fortuna. Ci ritroveremo qui dopodomani alla stessa ora. Nel frattempo, chi avesse bisogno di comunicare qualcosa, potrà rivolgersi in ogni momento al maggiore Peak o a me.» Vanderbilt la guardò, inarcando un sopracciglio. «Voglio sperare che fornirà sempre le informazioni anche allo zio Jack», disse a voce così bassa che soltanto lei riuscì a sentirlo. «Jack, non dimentichi che lei è un mio sottoposto», rispose Judith, mentre raccoglieva i suoi documenti. «Credo che lei abbia frainteso. Noi lavoriamo alla stessa altezza. Nessuno dei due è inferiore all'altro.» «E invece sì, amico mio. Dal punto di vista intellettuale.» Poi lasciò la sala senza salutarlo. Johanson
La maggior parte dei convenuti si mosse verso il bar, ma Johanson non aveva voglia di aggregarsi. Forse avrebbe dovuto sfruttare l'occasione per conoscere la truppa, però aveva altre cose che gli giravano per la testa. Si era appena sistemato nella sua suite quando sentì bussare. Karen Weaver entrò senza aspettare risposta. «Agli uomini anziani devi dare il tempo d'indossare il busto, prima di entrare», borbottò Johanson. «Altrimenti corri il rischio di restare delusa.» Stava vagando per la grande e confortevole stanza col laptop in mano, alla ricerca della presa del modem. Karen, per nulla impressionata, aprì il minibar e prese una Coca-Cola. «Sulla scrivania», disse. «Oh. Infatti.» Johanson aprì il laptop e avviò il programma. Lei si mise a sbirciare da sopra le sue spalle. «Che cosa pensi del fatto che ci siano dietro i terroristi?» chiese. «Niente.» «La penso come te.» «Ma capisco la schizofrenia di cui soffre la CIA.» Johanson aprì alcuni file. «Non imparano altro. Inoltre Vanderbilt ha ragione quando dice che gli scienziati tendono a trattare allo stesso modo i comportamenti naturali e quelli umani.» Karen si chinò verso di lui. Un'ondata di riccioli le cadde sul viso e lei li tirò indietro. «Dovresti metterli al corrente, Sigur.» «Di cosa?» «Della tua teoria.» Johanson esitò. Poi con un doppio clic aprì una finestra e inserì la sua password: CHÂTEAU DISASTER 000 550 899-XK/0. «Trallallà», canticchiò a bassa voce. «Benvenuti nel Paese delle meraviglie.» Ingegnoso. Un castello pieno di scienziati, agenti segreti e soldati col compito di salvare il mondo da mostri, ondate e catastrofi climatiche. Château Disaster. Non avrebbero potuto dare una definizione più azzeccata. Lo schermo si riempì d'icone. Johanson studiò i nomi dei file ed emise un debole fischio. «Accidenti. Ci danno davvero l'accesso ai satelliti.» «Dimmi un po', possiamo anche guidarli?» «Non dire sciocchezze. Ma possiamo richiamare i loro dati. Guarda. Abbiamo a nostra disposizione GOES-W e GOES-E, tutta la squadriglia della NOAA. Guarda, QuikSCAT, anche questo non è male. E ci sono anche i
satelliti Lacrosse. Per concederci questi devono proprio aver fatto violenza alla loro natura. E qui, c'è SAR-Lupe. È...» «Va bene, fine del trip. Credi davvero che abbiamo accesso illimitato alle informazioni dei servizi segreti e ai programmi dei governi?» «Ovviamente no. Solo a quello che ci vogliono lasciar vedere.» «Perché non hai detto a Vanderbilt quello che pensi?» «Perché è troppo presto.» «Ma non abbiamo più tempo, Sigur.» Johanson scosse la testa. «Karen, bisogna convincere gente come Judith Li e Jack Vanderbilt. Vogliono risultati, non ipotesi.» «I risultati li abbiamo...» «Ma la situazione sarebbe stata troppo sfavorevole. Oggi era il loro grande momento. Avevano messo insieme tutto il possibile e montato il loro gran gala della catastrofe. Vanderbilt ha tirato fuori dal cilindro un coniglio arabo bello grasso e, maledizione, come ne era orgoglioso! Se avessi parlato, lui avrebbe interpretato le mie parole come se fossero state dettate dalla volontà di contraddirlo. Voglio che siano loro ad avere dei dubbi su quella ridicola teoria del complotto, e questo accadrà prima di quanto credi.» «Va bene.» Karen annuì. «E tu quanto ne sei convinto?» «Della mia teoria?» «Non lo sei più?» «Certo che lo sono. Ma al momento dobbiamo indebolire l'opinione degli americani.» Johanson fissava concentrato lo schermo. «Tra parentesi, ho l'impressione che Vanderbilt in questo gioco non conti molto. Dobbiamo convincere Judith Li. Penso che alla fine sia lei a decidere.» Judith Li Come prima cosa andò sul tapis roulant. Programmò il computer sui nove chilometri all'ora, un ritmo blando. Poi fece preparare il collegamento con la Casa Bianca. Due minuti dopo, sentì nelle cuffie la voce del presidente. «Jude! È un piacere sentirla. Che cosa sta facendo?» «Corro.» «Corre. Perdio, lei è la migliore, ragazza mia. Tutti dovrebbero prendere esempio da lei. Tranne me.» Il presidente si abbandonò a una bella risata, poi, in tono confidenziale, disse: «Per me, lei è decisamente troppo sporti-
va... La conferenza è stata soddisfacente?» «Sì, signore.» «Avete raccontato quello che ipotizziamo?» «Era inevitabile che venissero a sapere quello che ipotizza Vanderbilt.» Il presidente rise di nuovo. «La smetta con la sua piccola guerra contro Vanderbilt», disse. «È un imbecille.» «Ma fa il suo lavoro. Non deve sposarlo.» «Se servisse alla sicurezza nazionale, lo sposerei», replicò Judith, nervosa. «Ma non posso condividere le sue opinioni.» «No, naturalmente no.» «Non ci si può vantare di aver dato voce a ipotesi non ancora mature sul terrorismo. Ora gli scienziati sono compromessi. Inseguono una teoria anziché svilupparne una propria.» Il presidente tacque. Judith sapeva benissimo che stava valutando quello che lei aveva appena detto. Non gli piacevano le iniziative individuali, e Vanderbilt si era reso colpevole di un'iniziativa individuale. «Ha ragione, Jude. Sarebbe stato decisamente meglio tenere nascoste queste ipotesi.» «La penso come lei, signore.» «Bene. Ne parli con Vanderbilt.» «Ci parli lei. Non mi ascolta. Non posso impedirgli di parlare, anche se dice cose stupide e sconsiderate.» «Va bene. Parlerò con lui.» Judith sorrise dentro di sé. «Naturalmente non voglio creare difficoltà a Jack...» aggiunse, per essere politicamente corretta. «È tutto a posto. Basta con Vanderbilt. Lei cosa pensa? La sua schiera di accademici riuscirà a prendere in pugno la situazione? Che impressione le hanno fatto, quei tipi?» «Sono tutti altamente qualificati.» «Qualcuno ha attirato la sua attenzione?» «Un norvegese. Sigur Johanson, un biologo molecolare. Non so ancora che cosa abbia di particolare, ma sulla faccenda ha un punto di vista ben preciso.» Il presidente gridò qualcosa dietro di sé. Judith aumentò la velocità del tapis roulant. «Ho sentito poco fa al telefono il ministro degli Interni norvegese», riprese il presidente. «Non sanno a che santo votarsi. Naturalmente sono favorevoli all'iniziativa dell'Unione Europea, ma ho l'impressione che prefe-
rirebbero essere sulla stessa barca degli Stati Uniti. I tedeschi sono più o meno della stessa idea, almeno per quanto riguarda il trasferimento di know how e cose del genere. Auspicano una commissione globale con pieni poteri, che riunisca tutte le forze.» «E chi dovrebbe guidare questa federazione?» «Il cancelliere tedesco propone di autorizzare le Nazioni Unite.» «Davvero? Hmm.» «Non mi sembra una cattiva proposta.» «No, è addirittura buona.» Judith fece una pausa. «Però lei, poco tempo fa, ha dichiarato che, in tutta la loro storia, le Nazioni Unite non hanno mai avuto un segretario generale tanto debole. È stato al ricevimento degli ambasciatori di tre settimane fa, ricorda? Io ho dato fiato alle stesse trombe e ci siamo presi le solite legnate dal solito schieramento.» «Sì, lo so. Mio Dio, quante penne si sono arruffate! Però è davvero un rammollito. Bisogna poter dire la verità, maledizione! Ma dove vuole arrivare?» «Dicevo solo così...» «Lei non dice le cose solo così. Forza, quale sarebbe l'alternativa?» «Vuole dire l'alternativa a un'assemblea in cui siedono dozzine di rappresentanti del Medio Oriente?» Il presidente tacque per un momento, poi disse: «Gli Stati Uniti». Judith finse di riflettere. «Credo che sia una buona idea, signore», mormorò. «Ma così avremo di nuovo addosso i problemi di tutto il mondo, non crede, Jude?» «Li abbiamo comunque addosso. Siamo l'unica superpotenza. Se vogliamo continuare a esserlo, dobbiamo anche continuare ad assumerci le responsabilità. Inoltre i tempi cattivi sono tempi buoni per i forti.» «Lei e i suoi proverbi cinesi...» sospirò il presidente. «Non riceveremo questo incarico su un piatto d'argento. È ancora troppo presto. Dobbiamo impegnarci per rendere credibile il motivo per cui desideriamo metterci al vertice di una commissione d'indagine mondiale. Come crede che verrà presa nel mondo arabo, in Cina, in Corea, una simile iniziativa? Oh, a proposito di Asia, ho sfogliato il dossier sui suoi scienziati. Ce n'è uno che sembra asiatico. Non avevamo detto che asiatici e arabi dovevano starne fuori?» «Un asiatico? Come si chiama?» «Ha un nome ridicolo... Wakawaka o qualcosa del genere.»
«Oh, Leon Anawak. Ha letto il suo curriculum?» «No, gli ho dato solo una scorsa.» «Non è asiatico.» Judith aumentò la velocità a dodici chilometri all'ora. «Io sono di gran lunga la più asiatica in tutto il gruppo del Whistler.» Il presidente rise. «Ah, Jude. Potrebbe anche venire da Marte e io le concederei comunque i pieni poteri. È un vero peccato che non possa venire quaggiù a vedere la partita di baseball. Ci troviamo tutti al ranch, se non succede nulla. Mia moglie sta facendo marinare le costate.» «La prossima volta, signore», disse Judith. Si intrattennero ancora un po' sul baseball. Judith non ribadì la proposta di mettere gli Stati Uniti al vertice della commissione d'indagine mondiale. Al massimo entro un paio di giorni, il presidente si sarebbe convinto che era un'idea sua. Era sufficiente avergli inculcato l'idea. Dopo la conversazione, corse ancora per qualche minuto, poi, sudata com'era, si mise al pianoforte e appoggiò le dita sulla tastiera. Si concentrò. Qualche secondo dopo, la sonata per pianoforte in Sol maggiore di Mozart riempì la suite. KH-12 Il suono del pianoforte di Judith Li si perdeva nei corridoi del nono piano, come un vapore che diventasse sempre meno denso, e usciva anche dalla finestra semiaperta delia suite. A cento metri di altezza dalla superficie terrestre, le onde sonore si diffondevano in cerchi. Un orecchio allenato avrebbe potuto sentirle, seppure debolmente, anche dal punto più alto dello Château che, come un castello delle fiabe, aveva una torre abitabile col tetto a spioventi. Al di sopra del tetto, il suono cominciava a disperdersi. Dopo un centinaio di metri si era già mescolato con moltissime altre onde sonore e più andava verso l'alto, più diventava debole. Un chilometro al di sopra della superficie terrestre, si sentivano ancora il rombo dei motori, lo scoppiettante rumore di piccoli aerei a elica e i rintocchi della campana della chiesa presbiteriana nel villaggio di Whistler, normalmente pieno di turisti, ma ormai entrato a far parte della zona vietata. Il crepitio degli elicotteri militari, che costituivano il collegamento principale col mondo esterno, s'indeboliva solo a duemila metri. Da quell'altezza, si godeva di una vista mozzafiato sull'hotel, così bello che pareva una costruzione da sogno, maestoso in mezzo alla foresta. Sulle
montagne, invece, si vedevano zone splendenti di neve e attraversate da solchi. Là sparivano anche gli ultimi rumori provenienti dalla Terra. Si sentivano solamente i jet in fase di decollo o atterraggio. A dieci chilometri di altezza, lo Château era completamente fuso col paesaggio. Gli aerei di linea percorrevano le loro rotte. L'orizzonte iniziava nettamente a curvarsi. I banchi di nuvole basse somigliavano a nevai, terreni ingannevoli di vapore acqueo. Tra i cinque e i dieci chilometri più in alto, l'atmosfera sempre più rarefatta era attraversata dal rumore degli aerei supersonici. La troposfera era soggetta ai capricci del tempo, la stratosfera all'ozono che assorbiva gran parte dei raggi ultravioletti. A quell'altezza, le nuvole non erano altro che formazioni eteree, con riflessi che le facevano sembrare di madreperla. Palloni aerostatici argentei riflettevano la luce del sole e si occupavano di avvistare gli UFO. Nel 1962, nel silenzio assoluto dei venti chilometri di altitudine, il leggendario U2 aveva intrapreso la propria rotta segreta verso Cuba, per dimostrare la presenza dei missili sovietici. Il pilota del velivolo spia, a causa dell'altitudine estrema, aveva dovuto indossare una tuta da astronauta. Era stato uno dei voli più audaci di tutti i tempi, sotto un cielo il cui blu scuro lasciava già intuire lo spazio. A ottanta chilometri, risplendevano ancora isolate nubi nottilucenti. La temperatura era di -113 °C. Lassù, nulla lasciava intuire presenze umane, se si escludevano gli occasionali passaggi di veicoli spaziali in partenza o in arrivo. Il blu scuro tendeva sempre più al nero. Oltre gli ottanta chilometri e fino ai cinquecento c'era la termosfera, regno di quegli dei pagani che erano poi stati smascherati dalla scienza moderna e riconosciuti come luci polari e fiammeggianti meteoriti. Era un luogo le cui particolarità fisiche erano ideali per suggerire la creazione di miti e leggende. In effetti, però, non poteva essere adatto come residenza né per le divinità né per nessun'altra forma di vita. Niente e nessuno poteva resistere lassù. Raggi gamma e raggi X cadevano senza trovare ostacoli. Non si trovavano quasi neppure molecole di gas. In compenso, però, c'era altro. A centocinquanta chilometri d'altezza, sfrecciavano a ventottomila chilometri all'ora i primi satelliti. Erano prevalentemente satelliti spia, che, per loro natura, cercavano di mantenersi il più vicino possibile alla superficie terrestre. Ottanta chilometri sopra di loro, la sonda Space Radar Topography Mission riprendeva il profilo altimetrico della superficie terrestre e lavorava alla carta del mondo del XXI secolo. A quell'altezza, l'atmosfe-
ra ancora relativamente compatta rallentava la velocità dei satelliti, che, per non precipitare, avevano bisogno della spinta del propellente. Trecento chilometri più in alto il propellente non serviva più. In quel punto la forza centrifuga e la gravità terrestre si equivalevano e ciò rendeva possibile mantenere rotte stabili. Così il cielo si riempiva. Era come una rete di autostrade stratificate e, più si andava in alto, più il traffico era intenso. Due piccoli ed eleganti oggetti volanti dal nome di Champ e Grace osservavano il campo magnetico e gravitazionale. Seicento chilometri sopra i poli, l'ICESat riceveva i riflessi della superficie terrestre e dava informazioni sui cambiamenti del manto di ghiaccio. Settanta chilometri più in alto incrociavano i satelliti Lacrosse dell'esercito americano, che esaminavano il terreno con radar ad alta risoluzione. A settecento chilometri d'altezza le sonde LANDSAT della NASA osservavano continenti e coste, misuravano l'espansione e il ritiro dei ghiacciai, l'estensione delle foreste e del pack e fornivano rappresentazioni dettagliate della distribuzione globale delle temperature. Il SeaWiFS, con strumenti fotografici a infrarossi, era sulle tracce delle concentrazioni di alghe negli oceani. I satelliti della NOAA erano stati sistemati in un'orbita a ottocentocinquanta chilometri di altezza e sincronizzati col sole. Da polo a polo si muovevano tutti i possibili satelliti meteorologici. C'era un gran traffico fin oltre la magnetosfera, che superato il confine dei novecento chilometri, attirava particelle cosmiche ed emissioni solari in due fasce di radiazioni, le cosiddette fasce di Van Allen, che si erano sviluppate fino a diventare un curioso fenomeno mediatico. Una gran parte della popolazione americana le considerò la prova decisiva che gli astronauti non erano stati sulla luna; persino noti scienziati dubitarono che gli uomini sulla navicella spaziale fossero sufficientemente protetti per poter attraversare quella regione di radiazioni mortali. Nella terminologia dei satelliti, quella regione è definita con l'acronimo LEO, Low Earth Orbit, ed è seguita dalla zona della Middle Low Orbit, ampiamente trafficata dai satelliti GPS che volano a un'altezza di ben ventimila chilometri, finché, a 35.888 chilometri, si trovavano fissati, come se fossero appesi, i satelliti geostazionari, primo tra tutti l'Intelsat per le comunicazioni mondiali. La distanza tra Mozart e tutto ciò era incommensurabile. Mentre il suono del pianoforte si perdeva, la conversazione di Judith Li col presidente era risalita fino allo spazio e poi era ridiscesa. Allo zenit della loro telefonata, i due si erano intrattenuti nella parte esterna dello spazio e si erano scambiati informazioni che appunto provenivano dallo
spazio. Senza l'esercito dei satelliti, l'America non avrebbe potuto condurre la Guerra del Golfo, né quelle in Kossovo e in Afghanistan. Senza il supporto dallo spazio, l'Aeronautica non sarebbe riuscita a colpire con precisione. Senza l'obiettivo ad alta risoluzione di Crystal, detto anche KH-12, il comando generale sarebbe stato cieco rispetto ai movimenti del nemico nelle inaccessibili regioni montuose. KH stava per Keyhole. I precisi satelliti spia americani costituivano il corrispondente ottico del radar del sistema Lacrosse. Riconoscevano oggetti delle dimensioni di quattro o cinque centimetri e facevano anche fotografie con gli infrarossi, così erano attivi anche di notte. A differenza degli altri satelliti oltre l'atmosfera, erano dotati di propulsione a razzo che permetteva loro di posizionarsi anche su orbite basse. Normalmente ruotavano intorno al pianeta a trecentoquaranta chilometri di altezza tra il Polo Nord e il Polo Sud, così potevano fotografare tutta la Terra in ventiquattr'ore. Con l'inizio degli attacchi al largo di Vancouver Island erano stati abbassati a duecento chilometri. Keyhole, Lacrosse e altri ventiquattro nuovi satelliti ottici ad altissima precisione, lanciati dall'America in orbite vicinissime alla Terra in risposta all'attacco dell'11 settembre, formavano una costellazione con un rendimento che superava quello del famoso sistema tedesco SAR-Lupe. Alle 20.00, ora locale, due uomini in una sala sotterranea al Buckley Field, nei pressi di Denver, ricevettero una chiamata. La Buckley Field Station apparteneva a una serie di stazioni di terra dell'NRO - la National Reconnaissance Organisation - incaricata della pianificazione dello spionaggio via satellite per conto dell'Aeronautica e in stretto contatto con l'NSA. Il suo compito consisteva nell'intercettare e ascoltare. L'alleanza tra i due servizi segreti offriva alle autorità americane la possibilità di attuare una sorveglianza senza precedenti. Nel frattempo, una rete in gran parte automatizzata, detta Echelon, aveva ricoperto il pianeta e, coi suoi diversi sistemi tecnici, sorvegliava le comunicazioni internazionali, dai satelliti alle radio a bassa frequenza sino alle fibre ottiche. I due uomini stavano sotto una gigantesca antenna parabolica. Circondati dai monitor, ricevevano in tempo reale i dati da Keyhole, Lacrosse e dalle altre sonde, li interpretavano, li rielaboravano e li mandavano negli uffici competenti. Erano entrambi agenti segreti, anche se non corrispondevano all'immagine che normalmente si aveva di simili personaggi. Portavano jeans e scarpe da ginnastica e il loro aspetto era quello dei membri di una band grunge.
La chiamata informava i due uomini su un peschereccio in difficoltà al largo della punta nord di Long Island. Se la notizia era vera, all'altezza di Montauk c'era stata una collisione provocata da un capodoglio. L'isteria collettiva sfociava in un flusso contìnuo di falsi allarmi. Sembrava che sul luogo della disgrazia si stesse indirizzando una grande nave, ma anche quella notizia non era verificata. Il contatto con l'equipaggio si era interrotto qualche secondo dopo l'SOS. Il KH-12-4, uno dei satelliti del sistema Crystal-Keyhole, si avvicinava da sud-ovest di Long Island. Era in una posizione favorevole. Chi aveva chiamato ordinò alla squadra a terra di orientare immediatamente il telescopio verso la zona dell'incidente. Uno dei due uomini diede una serie di comandi. Centonovantacinque chilometri al di sopra della costa dell'Atlantico sfrecciava il KH-12-4, un tubo fornito di un telescopio lungo quindici metri, con un diametro di quattro metri e mezzo e pesante quasi venti tonnellate. Ai due lati si spiegavano dei pannelli solari. L'ordine impartito da Buckley Field azionò uno specchio girevole davanti all'obiettivo in movimento. Con quello, il satellite poteva ricevere un'informazione da ogni direzione fino a una distanza di mille chilometri. In quel caso, bastò una minima correzione. Visto che non era ancora completamente buio, si accesero i dispositivi per potenziare la luce residua e si ottenne un'immagine come se fosse mezzogiorno. Il KH-12-4 scattava una foto ogni cinque secondi e spediva i dati a un satellite relè che a sua volta li inviava a Buckley Field. I due uomini fissarono il monitor. Videro Mountak, una pittoresca località la cui attrattiva principale era il suo faro, il più antico nello Stato di New York. Da quasi duecento chilometri di altezza, però, Montauk non era più pittoresca di un segno su una carta stradale. Strade diritte e sottili attraversavano un paesaggio caratterizzato da puntini chiari. I puntini erano gli edifici. Lo stesso faro era appena percepibile come un punto bianco al termine di una lingua di terra. Tutt'intorno si stendeva l'Atlantico. L'uomo che guidava il satellite definì la zona in cui doveva essere avvenuto l'attacco alla nave, inserì le coordinate e passò al grado superiore d'ingrandimento. La costa sparì dal campo visivo. Si vedeva solo acqua. Niente navi. Anche l'altro uomo guardava, mangiando pesce fritto che prendeva da un sacchetto di carta. «Muoviti», disse. «Calma.»
«Niente calma. Vogliono subito le informazioni.» «Al diavolo quello che vogliono.» L'uomo ai comandi spostò ancora di una minuzia lo specchio davanti al telescopio. «Ci vorrà una vita, Mike. Merda. Bisogna muoversi! Come dovremmo fare? Dobbiamo cercare in tutto quel maledetto mare di merda per trovare un minuscolo peschereccio di merda.» «Non è necessario. È stata una richiesta d'aiuto satellitare fatta attraverso la NOAA. Non può essere che qui. Se non c'è, vuol dire che quel barcone è affondato.» «Una merda ancora più grossa.» «Sì.» L'altro si leccò le dita. «Poveracci.» «Poveracci loro? Siamo noi i poveracci. Se quel barcone è affondato, bisognerà cominciare una merdosissima ricerca del relitto.» «Cody, sei davvero un bastardo.» «Verissimo.» «Prendi un pezzo di pesce... Ehi, ma che cos'è quello?» Mike indicò il monitor con un dito unto. In acqua si riconosceva chiaramente qualcosa di scuro e allungato. «Guardiamo meglio.» Il telescopio zoomò finché, tra le onde, non fu possibile riconoscere il profilo di una balena. Nell'immagine entrarono altre balene. Sopra le loro teste si allargava una macchia chiara. Le balene sfiatavano. Poi s'immersero. «Che cos'era?» chiese Mike. Cody ingrandì ancora la sezione dell'immagine. Adesso erano al maggiore ingrandimento possibile. Videro un uccello marino cavalcare sulle onde. Per la precisione, era un insieme di quasi due dozzine di pixel quadrati, ma nel complesso riproducevano senza possibilità di equivoco un uccello. Esaminarono i dintorni, ma non riuscirono a scoprire né la nave né i relitti. «Forse è andata alla deriva», ipotizzò Cody. «Difficile. Se la notizia è vera, dovremmo trovare qualcosa qui. Forse sono riusciti ad andare avanti.» Mike sbadigliò, accartocciò il sacchetto e cercò di fare canestro nel cestino della spazzatura. Lo mancò clamorosamente. «Forse un falso allarme. Comunque adesso vorrei essere laggiù.» «Dove?» «A Montauk. Un posto bellissimo. Sono stato là coi ragazzi l'anno scor-
so, poco dopo che Sandy mi aveva mollato. Eravamo sempre ubriachi o sballati, ma era fantastico starsene sdraiati sugli scogli al tramonto. Il terzo giorno mi sono fatto la cameriera della birreria del porto. Che periodo, ragazzi.» «Ogni tuo desiderio è un ordine.» «Che vorresti dire?» Cody gli sorrise. «Vuoi la tua merdosa Montauk? Accidenti, comandiamo tutto l'esercito del cielo. E visto che siamo già da quelle parti...» Il volto di Mike s'illuminò. «Al faro», disse. «Ti faccio vedere dove me la sono scopata.» «Ahi, ahi.» «No, aspetta, forse è meglio di no. Potremmo avere una valanga di guai se...» «Perché mai? Spetta a noi condurre la ricerca dei relitti.» Le sue dita sfrecciarono sulla tastiera. Il telescopio zoomò all'indietro. Comparve la lingua di terra. Cody cercò il punto bianco del faro e lo ingrandì finché non lo videro chiaramente svettare sotto di loro. Gettava un'ombra molto lunga. Gli scogli erano immersi nella luce rossa. A Montauk, il sole stava tramontando. Una coppietta stava passeggiando intorno al faro. «Questo è il momento migliore», disse Mike eccitato. «Romanticissimo.» «Hai scopato proprio davanti al faro?» «Non dire idiozie! Più in basso. Là, dove stanno andando quei due. È un posto conosciuto per quello. Tutte le sere c'è in programma una bella sdraiata.» «Forse riusciremo a vedere qualcosa.» Cody spostò il telescopio in modo da precedere i due. Ma sugli scogli neri non c'era nessuno. Solo uccelli marini che roteavano in cielo o scendevano in picchiata tra le scogliere per prendere il cibo. Poi nell'immagine entrò qualcos'altro. Qualcosa di piatto e disteso. Cody aggrottò la fronte. Mike si avvicinò. Attesero lo scatto successivo. L'immagine era cambiata. «Ma che cos'è?» «Non ne ho idea. Puoi avvicinarti?» «No.» Il KH-12-4 mandò altri dati in forma d'immagine. E ancora una volta il paesaggio era cambiato.
«Oh, merda», sussurrò Cody. «Che diavolo è?» Mike socchiuse le palpebre. «Si allarga. Si sta arrampicando sui fottuttissimi scogli.» «Merda», ripeté Cody. In effetti non faceva che ripetere in ogni occasione «merda», anche se c'era qualcosa che gli piaceva. Mike non ci badava più, ma quella volta esprimeva un vero sgomento. Montauk, USA Linda e Darryl Hooper erano sposati da tre settimane e stavano trascorrendo la luna di miele a Long Island. Un tempo, sull'isola, vivevano più pescatori che star del cinema, ma, da quando il rapporto si era invertito, Long Island era diventata carissima. Centinaia di bei ristoranti - la cui specialità erano ovviamente i piatti a base di pesce - occhieggiavano sulla spiaggia lunga chilometri. Le persone in vista di New York avevano eletto quel luogo a palcoscenico della loro vita mondana e dividevano coi ricchissimi industriali la zona di East Hampton, uno splendido villaggio da cartolina, in cui il tenore di vita era a livelli proibitivi. Anche Southampton, più a sud-ovest, non era di certo economica. Ma Darryl Hooper era un giovane avvocato rampante e si era fatto un nome a New York. Era diventato una sorta di figlio adottivo del socio anziano del grande studio nel cuore di Manhattan in cui lavorava. Guadagnava ancora relativamente poco, ma sapeva di essere ormai a un passo dal fare davvero i soldi. E aveva sposato una ragazza dolcissima. Linda era stata l'oggetto del desiderio di tutti gli studenti della facoltà di Legge, però aveva scelto lui. Evidentemente non le importava che Darryl, benché giovane, cominciasse già a perdere i capelli e dovesse portare occhiali dalle lenti spesse, dato che non sopportava Le lenti a contatto. Darryl era felice. In previsione della ricchezza in arrivo, aveva deciso di gustarne un anticipo con Linda. L'hotel a Southampton era molto costoso. Ogni sera spendevano quasi cento dollari in uno dei ristoranti di lusso della zona. Ma andava bene così. Lavoravano entrambi come muli e se lo meritavano. Tra non molto si sarebbero potuti permettere senza problemi i posti più esclusivi. Darryl strinse ancora più forte il braccio intorno alla vita della moglie e guardò verso l'Atlantico. Il sole era appena tramontato e il cielo tendeva al violetto. Ad alta quota, banchi di nuvole rosa rilucevano all'orizzonte. Il mare spingeva sulla spiaggia deboli onde che, quasi per riguardo al biso-
gno di riposo della grande città, sciabordavano delicatamente e si frangevano senza fare rumore. Darryl pensò che forse sarebbe stato il caso di fermarsi ancora un po' in quel luogo e tornare più tardi a Southampton. Al momento, la strada principale era ancora molto trafficata, ma, nel giro di un'oretta, non ci sarebbero stati problemi. Se la Harley girava come doveva, avrebbero percorso i cinquanta chilometri in venti minuti. Partire subito sarebbe stato un vero peccato. Inoltre lo sapevano tutti: dopo il tramonto, quel luogo era riservato all'amore. Passeggiarono lentamente sugli scogli bassi. Dopo qualche passo, davanti a loro comparve una piccola conca. Un posticino ideale, riservato. Darryl era innamoratissimo ed erano lontani da sguardi indiscreti. Oltre gli scogli si sentiva il mare. Sembrava che non ci fosse nessun altro. La maggior parte degli innamorati stava passeggiando sulla vicina spiaggia; quello tra gli scogli era un mondo solo loro. Darryl non avrebbe mai immaginato che due osservatori in una sala sotterranea a Buckley Field lo stessero guardando con un satellite a quasi duecento chilometri di altezza. Quindi baciò la moglie, mettendole le mani sotto la T-shirt e sfilandogliela, mentre lei gli slacciava la cintura. Si spogliarono a vicenda e si sdraiarono sul mucchio di vestiti. Lui la baciava e la accarezzava. Linda si girò sulla schiena e Darryl staccò le labbra dalla bocca della donna e si chinò lentamente verso il suo ventre, muovendo freneticamente le mani e cercando di toccare ogni millimetro di quel corpo. Lei ridacchiò. «No. Mi fai il solletico.» Lui spostò la mano destra che aveva portato all'interno delle cosce e continuò a baciarla con impeto. «Ehi... Ma cosa stai facendo?» Darryl sollevò lo sguardo. Cosa stava facendo? Stava facendo quello che faceva sempre e che le era sempre piaciuto. La baciò sulla bocca e vide il suo sguardo confuso. Guardava alle sue spalle. Hooper girò la testa. Sullo stinco di Linda c'era un granchio. Lei lanciò un gridolino e lo scosse via. Il granchio cadde sulla schiena, divaricò le chele e poi si rimise in piedi. «Mio Dio. Mi ha spaventata.» «Tesoro, voleva partecipare anche lui», rise Darryl. «Hai avuto sfortuna, ragazzo. Cercati un'altra femminuccia.» Linda sorrise e si appoggiò ai gomiti. «Che tipo strano», disse. «Non ne
ho mai visti così.» «Cos'ha di strano?» «Non trovi che sia strano?» Darryl lo guardò meglio. Il granchio era immobile sul fondo ghiaioso. Non era particolarmente grande - più o meno dieci centimetri - ed era completamente bianco. La corazza riluceva sul terreno scuro. Il colore era indubbiamente insolito, ma c'era qualcos'altro che disorientava Darryl. Linda aveva ragione. Era strano. Poi si rese conto del perché. «Non ha gli occhi», esclamò. «È vero.» Linda si rialzò e gattonò verso l'animale, che era sempre immobile. «Che roba! Che sia malato?» «Sembrerebbe che non li abbia mai avuti» disse lui, e intanto le faceva scorrere le dita sulla colonna vertebrale. «Non importa. Lascialo perdere, tanto non fa niente.» Linda continuava a osservare il granchio. Poi prese un sassolino e glielo lanciò contro. L'animale indietreggiò, ma non reagì. Gli toccò le chele con un dito, ritirandolo poi immediatamente, però il granchio non attaccò. «Forse è uno stoico.» «Vieni, lascia perdere quello stupido granchio.» «Non si difende.» Darryl sospirò. S'inginocchiò di fianco a lei e, per farle piacere, diede un colpetto al granchio. «È vero», affermò. «È imperturbabile.» Lei rise, gli girò la testa e lo baciò. La punta della lingua di Linda giocherellava con la sua. Chiuse gli occhi e si gustò il piacere... Linda si ritrasse. «Darryl...» Il granchio era improvvisamente salito sulla mano con cui lei si stava sostenendo. Dietro ce n'era un altro. E poi un altro ancora. Darryl spostò lo sguardo sulle rocce che dividevano la conca dalla spiaggia e pensò di avere un incubo. Dovevano essere milioni. Linda fissava gli animali immobili. «Mio Dio», sussurrò. Nello stesso istante, la fiumana si mise in movimento. Darryl aveva visto dei piccoli granchi correre sulla spiaggia, e sapeva che non erano né lenti né flemmatici. Ma quelli erano ancora più veloci. La loro velocità era spaventosa, come se un'onda si stesse riversando su di loro. Le zampe dure sulle rocce producevano un leggero tamburellio. Nuda com'era, Linda balzò in piedi e scappò. Darryl cercò di afferrare i vestiti. Aveva le vertigini. I vestiti gli caddero di mano. L'esercito dei
granchi in corsa si avvicinava e lui fece un balzo indietro. Gli animali lo seguirono. «Non fanno niente», gridò, benché non ne fosse convinto, ma Linda si era già girata e stava correndo sugli scogli. «Linda!» Lei inciampò e cadde. Darryl corse verso di lei. Un attimo dopo i granchi erano ovunque, e si lanciavano contro di loro, aggrappandosi al loro corpo e pizzicandoli. Presa dal panico, Linda urlava. Darryl colpiva gli animali col palmo della mano per toglierli dalla schiena di lei e dai propri avambracci. Poi Linda balzò in piedi e, sempre urlando, si passò le mani tra i capelli. I granchi le stavano correndo sulla testa. Darryl l'afferrò e la spinse in avanti. Non voleva farle male... Desiderava soltanto sottrarsi a quella valanga che si riversava dagli scogli. Ma Linda inciampò di nuovo e lo trascinò con sé. Darryl perse l'equilibrio, cadde a terra e sentì i piccoli corpi duri spezzarsi sotto il suo peso. I frammenti gli entrarono dolorosamente nella carne. Agitò mani, braccia e gambe, sentendo centinaia di minuscole zampe appuntite che gli passavano sopra. Le sue dita presero a sanguinare. Finalmente si rialzò, trascinando Linda con sé. In qualche modo, riuscirono a correre verso la Harley, con le corazze chitinose che scricchiolavano sotto i loro piedi. Durante la corsa, Darryl girò la testa e rimase allibito: tutta la spiaggia sembrava ribollire di granchi. Arrivavano dal mare... Continuavano ad arrivare, sempre di più. Sembravano infiniti. I primi avevano già raggiunto il parcheggio e, sul fondo liscio, procedevano ancora più velocemente. Darryl correva con tutte le sue forze, trascinando Linda. Le piante dei piedi erano piene di schegge e ricoperti da una fanghiglia disgustosa. Doveva fare attenzione a non scivolare. Finalmente raggiunsero la moto, saltarono in sella e Darryl azionò lo starter. Sfrecciarono via, fuori dalla recinzione del parcheggio fino alla strada. La moto rischiava d'impantanarsi nella melma dei granchi schiacciati, ma, alla fine, raggiunse l'asfalto. Linda si aggrappava al marito. Verso di loro veniva un camion, con alla guida un uomo anziano che li guardava, incredulo. Per un attimo, Darryl pensò che simili scene - due persone completamente nude su una moto - si vedevano solo nei film. Se la situazione non fosse stata così spaventosa, ci sarebbe stato da morire dal ridere. In lontananza comparvero le prime case di Montauk. La punta orientale di Long Island era poco meno che una striscia di terra, con la strada che correva parallela alla costa. Mentre si dirigeva verso Montauk, Darryl vide avvicinarsi sulla sinistra la fiumana bianca dei granchi. A quanto pareva, stavano arrivando dal mare anche da altri luoghi. Si riversavano dagli sco-
gli e si dirigevano verso la strada. Accelerò. La fiumana bianca era più veloce. Pochi metri prima del cartello del paese, i granchi avevano raggiunto la strada, trasformando l'asfalto in un mare di piccoli corpi. Contemporaneamente, un pick-up stava uscendo in retromarcia dal portone di una casa. Darryl sentì che la Harley sbandava e cercò di evitare il pick-up, ma la moto non rispondeva più ai suoi comandi. No, pensò. Mio Dio, ti prego, no. Il pick-up si mise di traverso sulla strada e poi indietreggiò ancora, mentre l'Harley scivolava verso di lui. Darryl sentì Linda gridare e sterzò bruscamente. Riuscirono a passare per un pelo davanti al radiatore cromato. L'Harley ruotò su se stessa. Dopo qualche secondo, Darryl riuscì a stabilizzare la moto. Le persone fuggivano. Non ci fece caso. La strada davanti a loro era libera. Si diressero a tutta velocità verso Southampton. Buckley Field, USA «Ma che cosa diavolo è?» Le dita di Cody correvano sulla tastiera. Inserì l'uno dopo l'altro tutti i filtri possibili, ma l'immagine rimase quello che era, una massa chiara che si dirigeva rapidamente dal mare verso la terraferma. «Sembra quasi un'onda gigante.» «Non abbiamo visto onde», disse Mike. «Non è un'onda. Devono essere animali.» «Che animali di merda sarebbero?» «Sono...» Mike fissò lo schermo. «Là. Quello là. Portami più vicino. Fammi una sezione di un metro quadrato.» Cody delimitò la sezione e la ingrandì. Il risultato fu una superficie chiara e scura. Mike socchiuse le palpebre. «Ancora più vicino.» I quadrati dei pixel divennero più grandi. Alcuni erano bianchi, altri di diverse tonalità di grigio. «Dirai che sono pazzo», mormorò Mike. «Ma potrebbero...» Era possibile? Ma cos'altro potevano essere? Cos'altro arriva dal mare e si muove così velocemente? «Chele», esclamò infine. «Sembrano corazze con le chele.» Cody lo fissò. «Chele?»
«Granchi.» Cody aprì la bocca. Poi ordinò al satellite di esaminare il resto della costa. Il KH-12-4 si mosse da Montauk verso Southampton, poi oltre Southampton fino a Mastic Beach e Patchogue. A ogni nuova immagine scattata dalla sonda, Mike diventava sempre più inquieto. «Non può essere vero», gridò. «Non può? È merdosamente vero! Laggiù c'è qualcosa che arriva dal mare. Su tutta la costa di Long Island c'è qualcosa che arriva dal mare di merda! Vuoi continuare a guardare Montauk?» Mike si passò una mano sugli occhi. Poi prese la cornetta del telefono e chiamò la centrale. Greater New York, USA Poco dopo Montauk, la Route 27 sfociava nella 495, la Long Island Expressway. Era la via diretta per il Queens. Da Montauk a New York c'erano duecento chilometri e, più ci si avvicinava alla metropoli, più aumentava il traffico. A metà strada, dopo Patchogue, diventava davvero intenso. Bo Henson gestiva una società di spedizioni e faceva due volte al giorno la tratta di Long Island. A Patchogue aveva ritirato alcuni pacchi dal locale aeroporto e li aveva distribuiti nella zona. Adesso era sulla strada per tornare in città. Si era fatto tardi, ma, per poter essere concorrenziali con società come la FedEx, non si poteva fare gli schizzinosi sugli orari di lavoro. Per quel giorno ormai era quasi finita. Aveva fatto tutto, anche prima di quanto pensasse. Era stanco e si rallegrava all'idea di una birra. All'altezza di Amityville, a circa quaranta chilometri dal Queens, una macchina davanti a lui cominciò a sbandare. Henson frenò bruscamente. La macchina si raddrizzò, proseguì lentamente e accese le frecce d'emergenza. Qualcosa ricopriva ampi tratti di strada. Nella luce del crepuscolo, in un primo momento, Henson non riuscì a capire cosa fosse: vide solo che si muoveva e che usciva dai cespugli a sinistra. Poi si accorse che la strada era coperta di granchi. Piccoli granchi, bianchi come la neve. Stretti l'uno all'altro, cercavano di attraversare la strada, ma era un'impresa senza speranza. Tracce fangose e corazze frantumate rivelavano che molti di loro avevano già pagato quel tentativo con la vita. Il traffico procedeva lentamente. Quella sostanza era come sapone. Hen-
son aveva letto su una rivista che, una volta all'anno, i granchi di terra sulla Christmas Island scendevano dalle montagne e marciavano verso il mare per riprodursi. Ogni anno si mettevano in viaggio cento milioni di granchi. Ma la Christmas Island era nell'oceano Indiano e, sulla rivista, c'erano le fotografie di grandi animali rosso vivo, non di piccoli esseri bianchi. Henson non aveva mai visto nulla del genere. Imprecando, accese la radio. Dopo qualche ricerca trovò una stazione locale e si appoggiò allo schienale rassegnandosi al proprio destino. Dolly Parton fece del suo meglio per consolarlo, ma ormai l'umore di Henson era irrimediabilmente rovinato. Ci vollero dieci minuti, poi finalmente arrivò il notiziario, ma l'invasione di granchi non fu neppure menzionata. In compenso, comparve uno spazzaneve che si fece largo tra le automobili, cercando di togliere dalla strada quella robaccia. L'effetto fu il blocco totale. Per un bel po' non si mossero più. Henson provò tutte le possibili stazioni locali, ma nessuno diede notizia di ciò che stava accadendo, e ciò lo rese furibondo, perché si sentiva completamente abbandonato. Il climatizzatore portava all'interno un odore disgustoso, così lo spense. Dopo l'incrocio che, a sinistra, conduceva a Hempstead e, a destra, a Long Beach, si cominciò a procedere un po' più spediti. Evidentemente gli animali non erano arrivati fin lì. Henson accelerò e raggiunse il Queens un'ora più tardi di quanto avesse sperato. Era furioso. Poco dopo l'East River svoltò a sinistra e superò il Newton Creek per raggiungere la sua birreria abituale, nella zona di Brooklyn chiamata Greenpoint. Parcheggiò il furgone, scese e, quando vide le condizioni del suo mezzo, quasi gli venne un colpo. Pneumatici, parafanghi e fiancate fin sotto i finestrini erano insozzate di fanghiglia di granchio. Una vista orribile... E la mattina seguente doveva cominciare presto il suo giro. Così era impossibile guidare. Ormai era già tardi. Henson si strinse nelle spalle. La birra poteva aspettare finché non avesse portato il furgone al vicino autolavaggio. Risalì, andò all'autolavaggio tre isolati più avanti e raccomandò al personale di spruzzare bene i cerchioni finché non fosse sparito anche l'ultimo residuo di quella porcheria. Poi disse loro dove avrebbero potuto trovarlo e andò alla birreria per bersi finalmente una birra. Quell'autolavaggio era noto perché faceva bene e a fondo il suo lavoro. La patina fangosa sul furgone di Henson si rivelò più ostinata del previsto, ma, dopo aver lavorato a lungo con la pompa ad alta pressione, finalmente scivolò via. Il ragazzo che lavava il furgone aveva l'impressione che i frammenti si sciogliessero. Come fantasmi al sole, pensò.
Finì tutto nello scarico. New York aveva un sistema singolare di canalizzazione. Mentre le gallerie stradali e della metropolitana passavano l'East River a circa trenta metri di profondità, il sistema di tubature dell'acqua potabile e delle fogne raggiungeva anche i duecentoquaranta metri. Con l'aiuto di enormi trivelle, i costruttori di gallerie scavavano nel sottosuolo sempre nuovi canali, in modo che le riserve e gli approvvigionamenti d'acqua di quella metropoli non s'interrompessero bruscamente. Accanto al sistema di tubature, c'era anche una serie di gallerie che non erano più in attività. Gli esperti sostenevano che ormai nessuno era più in grado di dire dove fossero esattamente tutti i canali di New York. Non c'era una carta che rappresentasse tutta la rete. Alcune gallerie erano note solo a determinati gruppi di senzatetto, che tenevano il segreto per sé. Altre avevano ispirato i registi dei film horror, che le avevano trasformate in luoghi di cova per creature mostruose. L'unica cosa certa era che tutto ciò che finiva nelle fogne di New York in un certo senso poteva considerarsi perduto. Quella sera e nei giorni seguenti, a Brooklyn, nel Queens, a State Island e a Manhattan venne lavata una gran quantità di auto provenienti da Long Island. Gli scarichi finivano nelle viscere della metropoli, si dividevano, s'incontravano con altri scarichi, venivano pompati negli impianti di rigenerazione e ricondotti nei distributori d'acqua. Poche ore dopo che l'autolavaggio aveva riportato a un bianco splendente il furgone di Henson, nelle tubature sotterranee tutto era irrimediabilmente mescolato. Sei ore dopo sfrecciavano per le strade le prime ambulanze. 11 maggio Château Whistler, Canada Coi cambiamenti ci si poteva sempre aggiustare. Lui almeno ci riusciva. Per quanto soffrisse a causa della perdita della casa, riusciva comunque a vivere. La fine del suo matrimonio aveva dato inizio a quel modo di vedere le cose. Poi c'era stato il trasferimento a Trondheim e l'avvio di nuove relazioni - pochissime, per la verità -, ma nulla l'aveva coinvolto emotivamente. Johanson aveva un concetto ben preciso di benessere e piacere, e tutto ciò che non vi corrispondeva poteva essere tranquillamente consegnato alla pattumiera della storia. Con gli altri condivideva solo la superficie, l'intimità la teneva per sé. Stava bene così.
In quel momento, nelle prime ore del mattino, ripensava agli avvenimenti meno gradevoli del suo passato. Dopo essersi svegliato, era rimasto nel letto, con gli occhi chiusi, a osservare il mondo dalla prospettiva del suo ego smisurato e a riflettere sulle persone che avevano fatto parte della sua vita e che erano crollate di fronte al cambiamento. Sua moglie. Col tempo, s'imparava che la vita apparteneva solo a se stessi e che soltanto noi potevamo influenzarla. Ma quando lui l'aveva lasciata, lei aveva dovuto imparare che nulla le apparteneva e che l'autodeterminazione era del tutto illusoria. Aveva cercato di convincerlo a restare, aveva imprecato, gridato, mostrato comprensione, ascoltato pazientemente. Aveva chiesto comprensione e toccato tutti i tasti, ma alla fine era stata piantata. Si era ritrovata impotente, spodestata, gettata fuori dalla loro vita comune come da un treno in corsa. Privata di ogni forza, aveva smesso di credere che i suoi sforzi potessero servire a qualcosa. Aveva perso. La vita era un gioco d'azzardo. Anche se non mi ami più, non puoi almeno fingere che mi ami ancora? gli aveva detto. Credi che staresti meglio? le aveva chiesto lui. No, era stata la sua risposta. Sarei stata meglio se tu non mi avessi mai amato. Bisognava sentirsi in colpa se i propri sentimenti cambiavano? I sentimenti andavano oltre la colpa o l'innocenza, erano l'espressione di processi biochimici dovuti alle circostanze vissute. Suonava del tutto privo di romanticismo, ma le endorfine avevano sempre trionfato sul romanticismo. Allora, dov'era la colpa? Nell'aver fatto promesse e non averle mantenute? Johanson aprì gli occhi. Per lui i cambiamenti erano sempre stati un elisir vitale. Per lei erano la fine della vita. Anni dopo - ormai lui viveva a Trondheim - aveva saputo che lei era finalmente riuscita a scrollarsi di dosso il senso d'impotenza. Aveva ripreso il controllo di se stessa. E, alla fine, lui aveva sentito dire che nella sua vita era rientrato un uomo. In seguito, qualche volta si erano telefonati, senza risentimenti e pretese. L'amarezza si era dissolta, eliminando anche la pressione su Johanson. Ma adesso era tornata. Adesso si chiamava Tina Lund e lo perseguitava, con quel viso bello e pallido. Da allora si prefigurava tutte le varianti. Ogni volta ricominciava da capo. L'aver fatto l'amore quella sera al lago, per esempio. Forse sareb-
be andato tutto diversamente. Avrebbero passato più tempo insieme. Forse lei l'avrebbe seguito alle Shetland. Altrettanto facilmente, andare a letto insieme avrebbe rovinato tutto e, a quel punto, lui sarebbe stato l'ultimo cui avrebbe chiesto consigli. Per esempio, il consiglio di andare a Sveggesundet. In un caso o nell'altro, Tina sarebbe stata ancora viva. Continuava a ripetersi che quei pensieri non avevano senso. Eppure continuavano a girargli nella testa. Nella stanza entrava la prima luce del sole. Aveva lasciato le tende aperte, com'era sua abitudine. Una camera da letto con le tende tirate gli era sempre sembrata una cripta. Pensò di alzarsi e andare a fare colazione, ma non aveva voglia di muoversi. La morte di Tina lo colmava di tristezza. Non era innamorato, ma in un certo senso aveva amato l'inquietudine di quella donna, la sua spinta verso la libertà. In quello si erano trovati. E su quello si erano persi, perché non aveva senso incatenare insieme due persone libere. Forse erano stati entrambi troppo vigliacchi. Ma ormai a che cosa serviva rimuginare? Prima o poi morirò anch'io, pensò. Da quando Tina era scomparsa tra i flutti, Johanson pensava spesso alla morte. Non si era mai sentito vecchio. Ora, però, aveva l'impressione che la provvidenza gli avesse stampato addosso una scritta del tipo DA CONSUMARSI PREFERIBILMENTE ENTRO..., come un vasetto di yogurt che si guardava con attenzione e poi si rimetteva giù, perché la scadenza era imminente. Aveva cinquantasei anni, era in condizioni eccezionalmente buone, che gli avevano permesso, almeno fino ad allora, di sfuggire alla statistica dei casi di morte determinati da incidenti e malattie. Era riuscito addirittura a sopravvivere a uno tsunami. Tuttavia non c'erano dubbi che il suo tempo si stava esaurendo. Aveva alle spalle la maggior parte della sua vita. E improvvisamente si ritrovava a domandarsi se avesse vissuto nel modo giusto. In quella vita, due donne avevano avuto fiducia in lui, e lui noa era riuscito a proteggerle. La prima era morta e l'altra, al momento, era come se lo fosse. Karen Weaver era viva. Gli ricordava Tina Lund. Era chiusa, d'indole più seria e assai meno frenetica. In compenso, era altrettanto forte, decisa e impaziente. Dopo che erano riusciti a sfuggire all'onda gigante, lui le aveva esposto la sua teoria e lei gli aveva spiegato il lavoro di Lukas Bauer. Poi Johanson era tornato in Norvegia e si era ritrovato nell'elenco dei senzatetto, ma gli edifici dell'NTNU erano ancora in piedi. Era stato sommerso dal lavoro, finché non
aveva ricevuto una telefonata dal Canada, cosa che gli aveva impedito di andare al lago. La proposta di far entrare nel team Karen Weaver era stata sua, sostenuta dal fatto che lei conosceva meglio di chiunque altro il lavoro di Bauer ed era in grado di svilupparlo. Ma lui aveva anche altri motivi. Senza l'elicottero non sarebbe sopravvissuta all'ondata. In un certo senso, l'aveva salvata. Karen gli dava l'assoluzione per il fallimento con Tina, e lui era deciso a mostrarsene degno. In futuro, si sarebbe curato di lei e per quello era un bene saperla nelle vicinanze. Alla luce del sole, il passato sbiadì. Johanson si alzò, andò a fare la doccia, e alle 6.30 si presentò al buffet. Scoprì di non essere l'unico mattiniero. Nella sala spaziosa c'erano soldati e agenti segreti che bevevano caffè, mangiavano frutta e muesli e parlavano a bassa voce. Johanson riempì un piatto di pancetta e uova strapazzate e si mise alla ricerca di un volto noto. Gli sarebbe piaciuto fare colazione con Bohrmann, ma non c'era. Vide invece Judith Li seduta a un tavolino a due posti. Sfogliava un classificatore e di tanto in tanto piluccava un pezzo di frutta da una tazza, mettendolo in bocca senza guardare. Johanson la osservò. Judith Li esercitava su di lui un fascino indefinibile. Valutò che fosse meno giovane di quanto sembrava. Con un po' di make-up e il vestito giusto sarebbe stata senza dubbio al centro di ogni party. Si chiese cosa bisognasse fare per andare a letto con lei, ma probabilmente era meglio non provarci neppure. Judith Li non sembrava un donna disposta a lasciare l'iniziativa agli altri. Inoltre una storia con un generale comandante della Marina americana sarebbe stata davvero troppo. Judith sollevò la testa. «Buongiorno, dottor Johanson», lo salutò. «Dormito bene?» «Come un bambino.» Si avvicinò al tavolo. «Come mai fa colazione da sola? La solitudine dei superiori?» «No, sto rimuginando su alcuni problemi.» Sorrise e lo fissò con quei suoi incredibili occhi acquamarina. «Mi faccia compagnia, dottore. Mi piace avere intorno persone che hanno idee originali.» Johanson si accomodò. «Cosa glielo fa pensare?» «È evidente.» Appoggiò i documenti. «Caffè?» «Volentieri.» «Lo ha rivelato ieri alla conferenza. Finora nessuno degli scienziati è riuscito a vedere oltre il proprio campo di specializzazione. Shankar si lambicca il cervello sui rumori degli abissi che non riesce a classificare; Anawak si chiede che cosa sia successo alle sue balene... benché, proba-
bilmente, sia l'unico che riesca ad allargare il pensiero oltre la propria sfera di competenza. Bohrmann vede il rischio di un 'massimo incidente ipotizzabile' col metano e cerca di analizzare gli elementi noti e quelli possibili per impedire un secondo smottamento. E così via.» «Be', non è poco.» «Ma nessuno di loro ha sviluppato una teoria che metta tutto in relazione.» «Ora ce l'abbiamo», disse Johanson con aria indifferente. «Sono i terroristi arabi, no?» «Lo crede anche lei?» «No.» «Allora che cosa crede?» «Credo che avrò bisogno di un paio di giorni prima di dirglielo.» «Non ne è ancora certo?» «Quasi.» Johanson sorseggiò il caffè. «Ma è un tema delicato. Il suo Vanderbilt si è convinto che si tratti di terrorismo. Voglio coprirmi le spalle prima di esporre le mie ipotesi.» «E chi dovrebbe coprirla?» Johanson appoggiò la tazza del caffè. «Lei.» Judith Li non sembrò particolarmente sorpresa. Rimase per un momento in silenzio, poi disse: «Se mi vuole convincere di qualcosa, forse dovrei sapere che cos'è». «Sì.» Johanson sorrise. «Al momento opportuno.» La donna gli passò il raccoglitore e Johanson vide che conteneva diversi fax. «Forse questo accelererà la sua decisione, dottore. È arrivato stamattina alle cinque. Non abbiamo ancora uno sguardo d'insieme e nessuno è in grado di dire con certezza cosa sia successo, ma ho deciso che, nelle prossime ore, dichiareremo lo stato d'emergenza a New York e nelle zone limitrofe. Peak è già là per coordinare gli interventi.» Johanson fissò il raccoglitore, immaginando una nuova onda anomala. «Perché?» «Cosa direbbe se lungo la costa di Long Island stessero uscendo dal mare miliardi di granchi bianchi?» «Direi che stanno facendo una gita aziendale.» «Buona idea. Per quale azienda?» «Che sta succedendo?» disse Johanson, ignorando la sua domanda. «Che cosa fanno?» «Non ne siamo ancora sicuri. Ma pensiamo a qualcosa di simile agli a-
stici bretoni in Europa. Diffondono un'epidemia. Può rientrare nella sua teoria, dottore?» Johanson rifletté, poi disse: «Qui in zona c'è un laboratorio chiuso ermeticamente in cui esaminare gli animali?» «Ne abbiamo allestito uno. A Nanaimo. Ci stanno già portando alcuni esemplari dei granchi.» «Esemplari vivi?» «Non so se siano ancora vivi. So soltanto che erano vivi quando sono stati catturati. In compenso sono già morte molte persone. Shock anafilattico. Sembra si tratti di un veleno con effetto ancora più rapido di quello delle alghe diffuse in Europa.» Per un momento Johanson rimase in silenzio. «Ci vado», disse poi. «A Nanaimo?» Judith Li annuì, soddisfatta. «Buona idea. E quand'è che mi dirà quello che pensa?» «Mi dia ventiquattr'ore.» Judith si morse le labbra e rifletté per qualche secondo. «Ventiquattr'ore. Non un minuto di più», replicò. Nanaimo, Vancouver Island Anawak era nella sala riunioni più grande dell'istituto con Ray Fenwick, John Ford e Sue Oliviera. Il proiettore mostrava il modello tridimensionale del cervello di una balena. Sue l'aveva preparato al computer e aveva segnato i punti in cui si trovava la gelatina. Il cervello si poteva osservare da tutte le angolazioni ed era possibile «tagliarlo a fette» per la lunghezza con una lama virtuale. Erano già state proiettate tre simulazioni. La quarta mostrava la sostanza che si diffondeva tra le circonvoluzioni cerebrali con sottili propaggini, che in alcuni punti si spingevano all'interno. «La teoria è la seguente», cominciò Anawak, con lo sguardo fisso sulla biologa. «Immagina di essere uno scarafaggio...» «Grazie, Leon.» Sue sollevò le sopracciglia, facendo così sembrare ancora più lungo il suo viso da cavallo. «Tu sì che sai adulare una donna.» «Uno scarafaggio senza intelligenza e creatività.» «Continua pure tranquillamente.» Fenwick rise e si grattò il naso. «Sei guidata esclusivamente dai riflessi», proseguì Anawak, impassibile. «Per un neurofisiologo, guidarti sarebbe un gioco da ragazzi. Non dovrebbe far altro che controllare i tuoi riflessi e usarli secondo i suoi desideri.
Come una protesi. Soprattutto saprebbe dove sono i bottoni da schiacciare.» «Ricordo male o qualcuno, una volta, ha decapitato uno scarafaggio per impiantargli la testa di un altro?» chiese Ford. «E se non sbaglio la bestiolina aveva ripreso a camminare.» «All'incirca è così. Hanno decapitato uno scarafaggio e a un altro hanno tolto le zampe. Poi hanno collegato tra loro i sistemi nervosi dei due corpi e lo scarafaggio con la testa ha preso il controllo dell'apparato motorio dell'altro, come se non ne avesse mai avuto uno proprio. È proprio questo quello che voglio dire. Creature semplici, dinamiche semplici. In un altro esperimento, hanno cercato di fare qualcosa di simile coi topi. A un topo è stata trapiantata una seconda testa e lui è vissuto incredibilmente a lungo, qualche ora o addirittura giorni, credo, e le due teste sembravano funzionare in maniera del tutto normale, ma il controllo del corpo, naturalmente, era più complicato. Il topo camminava, però non andava sempre dove voleva e in genere cadeva dopo qualche passo.» «Disgustoso», mormorò Sue. «Questo vuol dire che, in fondo, ogni essere vivente può essere controllato. Tuttavia più è complesso, maggiori diventano le difficoltà. Se ora passi all'aspetto della percezione consapevole, dell'intelligenza e del pensiero creativo e legato all'io, imporre a qualcuno la tua volontà diventa maledettamente più difficile. Allora che fai?» «Cerco di distruggere la sua volontà e di ridurlo a uno scarafaggio. Con gli uomini funziona, quando ci si china davanti a loro senza mutandine.» «Esatto.» Anawak sorrise. «Infatti esseri umani e scarafaggi non sono così lontani.» «Certi uomini», osservò Sue. «Tutti gli uomini. È vero che siamo orgogliosi del nostro spirito libero, ma esso è libero solo finché non schiacci certi bottoni. Per esempio sui centri del dolore.» «Dunque chi ha ideato la gelatina sa molto bene com'è strutturato il cervello di una balena», intervenne Fenwick. «È questo che stai cercando di dire? Che quella sostanza stimola i centri nervosi del cervello?» «Sì.» «Ma bisogna sapere quali.» «Non è difficile scoprirlo», disse Sue. «Pensa al lavoro di John Lilly.» «Brava, Sue!» Anawak annuì. «Lilly è stato il primo a impiantare elettrodi nel cervello degli animali per stimolare i centri del dolore e del piace-
re. Ha dimostrato che, attraverso una manipolazione mirata delle zone del cervello, si possono suscitare negli animali gioia e benessere oppure dolore, rabbia e paura. Con le scimmie i risultati sono stati notevoli. Per quanto riguarda la complessità e l'intelligenza, le scimmie vengono subito dopo balene e delfini, ma ha funzionato. Con l'aiuto degli elettrodi, poteva controllare gli animali fornendo stimoli mirati per la ricompensa e la punizione. Ed era arrivato a quel punto già negli anni '60!» «Tuttavia Fenwick ha ragione», disse Ford. «Va tutto bene se puoi mettere l'animale sul lettino di una sala operatoria e lavorarci sopra. Ma la gelatina deve essere entrata dalle orecchie o dalla bocca. Inoltre deve aver cambiato la propria forma. Anche se riesci a mettere quella sostanza nella testa di una balena, come puoi essere certo che si disponga nel modo desiderato e... ma sì, schiacci i bottoni giusti?» Anawak si strinse nelle spalle. Era convinto che la sostanza nella testa delle balene facesse esattamente quello, ma naturalmente non aveva la minima idea di come lo facesse. «Forse non è necessario schiacciare tanti bottoni», rispose dopo un po'. «Forse è sufficiente che...» La porta si aprì. «Dottoressa Oliviera?» Uno degli assistenti di laboratorio mise dentro la testa. «Mi scusi se la disturbo, ma è richiesta la sua presenza nel laboratorio di massima sicurezza. Immediatamente.» Sue guardò i colleghi. «Fino a poche settimane fa, non accadevano cose del genere», disse, scuotendo la testa. «Si poteva starsene seduti tranquilli e scambiarsi indisturbati tutte le sciocchezze immaginabili. Adesso sembra di essere in un film di James Bond. Allarme, allarme! Per favore la dottoressa Oliviera nel laboratorio di massima sicurezza! Puah!» Si alzò e batté le mani. «Va bene. Vamos muchachos! C'è qualcuno che mi accompagna? Tanto qui senza di me non farete neppure un passo avanti.» Laboratorio di massima sicurezza L'elicottero atterrò di fianco all'istituto poco dopo l'arrivo dei granchi. Un assistente accompagnò Johanson all'ascensore. Scesero due piani e seguirono un corridoio spoglio, illuminato dai neon. L'assistente aprì una porta pesante ed entrarono in una stanza piena di monitor. Solo un cartello di avvertimento sul pericolo biologico appeso a una porta d'acciaio rivelava che là dentro aleggiava la morte. Johanson vide scienziati e personale della sicurezza. Riconobbe Roche, Anawak e Ford, che stavano parlando tra loro a bassa voce. Sue Oliviera e Ray Fenwick erano presi da una con-
versazione con Rubin e Vanderbilt. Quando Rubin vide Johanson, gli si avvicinò e gli porse la mano. «Non si può mai stare tranquilli, vero?» Rise nervosamente. «No.» Johanson si guardò intorno. «Finora abbiamo avuto poche occasioni per confrontarci», disse Rubin. «Mi deve assolutamente raccontare tutto su quei vermi. È terribile che ci si debba conoscere in una simile circostanza, ma in un certo senso tutto questo è entusiasmante... Ha sentito le ultime notizie?» «Credo di essere qui proprio a causa di quelle.» Rubin indicò la porta d'acciaio. «Incredibile, vero? Fino a poco tempo fa qui c'erano i magazzini, ma in breve tempo l'esercito ha installato un laboratorio chiuso ermeticamente. Sembra provvisorio, ma non c'è nulla da temere. Gli standard di sicurezza corrispondono al livello L4. Possiamo esaminare gli animali senza rischi.» L4 era il livello di sicurezza più alto per i laboratori. «Entra anche lei?» chiese Johanson. «Io e la dottoressa Oliviera.» «Credevo che fosse Roche l'esperto di crostacei.» «Qui tutti sono esperti di tutto.» Jack Vanderbilt e Sue Oliviera si erano avvicinati. L'uomo della CIA aveva un leggero puzzo di sudore. Diede a Johanson una pacca sulla spalla, come se fossero vecchi amici. «Il nostro gruppo di teste d'uovo, con un'intelligenza nove volte superiore alla media, è stato messo insieme in modo che specialisti di tutti i tipi formino una sorta di pizza. Inoltre Judith Li va pazza per lei. Scommetto che passerebbe volentieri con lei giorno e notte per scoprire quello che pensa.» Fece un ampio sorriso. «Oppure vuole qualcos'altro? Chi lo sa?» Johanson rispose con un sorriso gelido. «Perché non lo chiede direttamente a lei?» «L'ho fatto», rispose Vanderbilt con indifferenza. «Temo, amico mio, che lei debba rassegnarsi all'idea che Judith Li sia interessata solo alla sua testa. La conosco. È convinta che lei nasconda qualcosa.» «Davvero? E cosa?» «Me lo confidi.» «Io non nascondo niente.» Vanderbilt lo osservò con sguardo indagatore. «Nessuna teoria entusiasmante?» «Mi sembra che la sua teoria sia sufficientemente entusiasmante.» «E lo è finché non salta fuori niente di meglio. Se va subito là dentro,
dottore, pensi a qualcosa che noi in America chiamiamo 'sindrome della Guerra del Golfo'. Nel 1991 in Kuwait, l'esercito americano è riuscito a contenere il numero delle perdite, ma, in seguito, circa un quarto di tutti i soldati impegnati laggiù si è ammalato, mostrando misteriosi sintomi che somigliavano, in forma attenuata, a quelli provocati dalla Pfiesteria e dai suoi complici. Vuoti di memoria, problemi di concentrazione, danni agli organi interni... Presumiamo che siano entrati in contatto con qualcosa di chimico, perché operavano nella zona in cui sono esplosi i depositi di armi iracheni. Allora pensavamo al sarin, ma forse gli iracheni stavano lavorando a qualche agente patogeno. Metà del mondo islamico dispone di agenti patogeni. Con la manipolazione genetica non è un problema trasformare innocui batteri o virus in piccoli killer. Armi biologiche.» «E lei crede che abbiamo a che fare con qualcosa del genere?» «Io credo che farebbe bene a tirare in barca la zia Li.» Vanderbilt gli strizzò l'occhio. «Detto fra noi, è un po' matta. Capisce? I pazzi bisogna lasciarli fare a modo loro.» «Non mi è sembrata pazza.» «È un problema suo. Io l'ho avvisata.» «Il mio problema è che sappiamo ancora troppo poco», disse Sue e indicò la porta. «Andiamo là dentro e facciamo il nostro lavoro. Ovviamente verrà anche Roche.» «E io? Non ha bisogno di una guardia del corpo?» rise Vanderbilt. «Mi offro volontario.» «Molto gentile, Jack», replicò Sue, scrutandolo. «Purtroppo gli abiti della sua misura sono finiti.» Entrarono in quattro attraverso la porta d'acciaio nella prima delle tre camere di decompressione. Il sistema era concepito in modo che le camere di decompressione si sigillassero l'una dopo l'altra. Una telecamera osservava dal soffitto. Sul lato erano appese quattro tute di protezione gialle coi cappucci trasparenti e con guanti e stivali neri. «Sapete tutti come si lavora in un laboratorio di massima sicurezza?» chiese Sue. Roche e Rubin annuirono. «Teoricamente», ammise Johanson. «Non c'è problema. In condizioni normali dovremmo farle un corso, ma non abbiamo tempo. La tuta è un terzo della sua assicurazione sulla vita. È fatta con un pezzo unico di PVC. Gli altri due terzi sono prudenza e concentrazione. Aspetti, l'aiuto a indossarla.»
Johanson scivolò in una specie di panciotto che serviva per distribuire uniformemente l'aria all'interno della tuta. Poi infilò la protezione gialla e intanto ascoltava attentamente Sue. «Non appena saremo dentro, la collegheremo a un tubo flessibile e riempiremo d'aria la tuta. L'aria viene deumidificata, temperata e fatta passare attraverso filtri di carbonio così che l'interno sia pressurizzato, accorgimento indispensabile perché l'aria vada sempre verso l'esterno. L'eccedenza passa attraverso una valvola. Se vuole può regolare l'afflusso, ma non sarà necessario. Tutto chiaro? Come si sente?» «Comodo come in un paio di mocassini.» Sue Oliviera sorrise. Passarono la prima paratia. Johanson sentì la voce di Sue attutita e si rese conto che adesso erano collegati per radio. «Nel laboratorio c'è una pressione bassa, - 50 pascal. Le spore non possono uscire. In caso di blackout c'è sempre il generatore d'emergenza, quindi è poco probabile che sorgano problemi. Il pavimento è di cemento sigillato e le finestre di vetro blindato. Tutta l'aria nel laboratorio è mantenuta sterile da filtri ad alta prestazione. Qui non ci sono scarichi, e l'acqua viene sterilizzata all'interno dell'edificio. Col mondo esterno comunichiamo via radio oppure via fax o computer. Tutti i congelatori, i meccanismi di apertura e chiusura sono forniti di allarme, che suona contemporaneamente nella sala di controllo, in Virologia e nella portineria. Ogni angolo è videosorvegliato.» «È così, se qualcuno di voi cade o muore, c'è un bellissimo video ricordo per i nipoti», intervenne Vanderbilt. Johanson vide Sue alzare gli occhi al cielo. Passarono la seconda e la terza paratia ed entrarono nel laboratorio. Le loro tute collegate ai tubi sembravano adatte a una missione su Marte. La sala era grande all'incirca trenta metri quadrati e, coi congelatori, frigoriferi e pensili bianchi alle pareti, sembrava quasi la cucina di un ristorante. Accostati a una parete c'erano contenitori d'acciaio delle dimensioni di latte d'olio, in cui erano conservate nell'azoto colture virali e altri organismi. Diversi tavoli offrivano spazio più che sufficiente per il lavoro. Tutto l'arredamento interno aveva gli spigoli arrotondati, in modo da evitare accidentali strappi delle tute. Sue indicò i tre grandi pulsanti rossi con cui si azionava l'allarme, poi condusse i colleghi a uno dei tavoli e aprì un contenitore a forma di bacinella. Era pieno di piccoli granchi bianchi. Erano in due spanne d'acqua e sembravano privi di vita. «Merda!» si lasciò sfuggire Rubin.
Sue prese una spatola metallica e toccò gli animali, ma nessuno si mosse. «Morti, direi.» «È una sfortuna.» Rubin scosse la testa. «Una vera sfortuna. Non avevano detto che ci sarebbero arrivati vivi?» «Come da ordine del generale comandante Judith Li, quando sono partiti erano vivi», disse Johanson. Si chinò in avanti e osservò attentamente i granchi. Poi batté sull'avambraccio di Sue. «Là, il secondo da sinistra. Ha appena mosso una zampa.» Sue trasportò il granchio sul tavolo da lavoro. L'animale rimase immobile per qualche secondo, poi si mise improvvisamente a correre velocemente verso il bordo. La biologa lo riportò indietro. Il granchio si lasciò trascinare sul tavolo senza opporre resistenza, poi cercò di nuovo di scappare. Ripeterono quella procedura alcune volte, infine rimisero l'animale nella bacinella. «Qualche opinione estemporanea?» chiese Sue. «Dovrei esaminare l'interno», disse Roche. Rubin si strinse nelle spalle. «Sembra comportarsi normalmente, ma quella specie non l'avevo mai vista. Forse lei, dottor Johanson?» «No.» Johanson rimase un momento a riflettere. «Non si comporta normalmente. Dovrebbe vedere la spatola come un nemico, quindi aprire le chele e assumere un atteggiamento aggressivo. Mi pare che l'apparato motorio sia a posto, ma non quello sensoriale. È come se...» «Qualcuno l'avesse caricato», disse Sue. «Come se fosse un giocattolo a molla.» «Sì, un meccanismo. Cammina come un granchio, ma non si comporta come un granchio.» «È in grado di determinare la specie?» «Non sono un tassonomo. Posso dirvi che cosa mi ricorda. Ma dovrete considerarlo con precauzione.» «Dica.» «Ci sono due caratteristiche significative». Johanson prese la spatola e toccò alcuni dei corpi senza vita. «La prima è che gli animali sono bianchi, quindi senza colore. I colori non sono una decorazione, hanno una funzione. La maggior parte degli animali privi di colore non ne ha bisogno semplicemente perché nessuno li può vedere. La seconda particolarità è la completa mancanza di occhi.» «Questo vuol dire che arrivano da caverne o da abissi privi di luce», mormorò Roche.
«Sì. Negli animali che vivono senza luce, gli occhi sono fortemente atrofizzati, ma almeno in forma rudimentale ci sono. Perlomeno si riconosce dov'erano un tempo. Questi granchi, invece... Non voglio dare giudizi precipitosi, però mi danno l'impressione di non aver mai avuto occhi. Se è così, non solo deriverebbero da un mondo completamente buio, ma avrebbero anche avuto origine da esso. Conosco solo una specie di granchi con queste caratteristiche.» «I granchi ciechi», annuì Rubin. «E da dove provengono?» chiese Roche. «Dai camini idrotermali degli abissi», disse Rubin. «Oasi vulcaniche. Sembrano proprio i granchi ciechi.» Roche aggrottò la fronte. «Ma allora sulla terra non potrebbero sopravvivere neppure un secondo.» «La domanda è: cos'è sopravvissuto?» disse Johanson. Sue sollevò dalla bacinella uno dei corpi senza vita, lo girò sul dorso e lo appoggiò sul tavolo da lavoro. Poi prese da un piatto una serie di attrezzi. Passò con una minuscola sega circolare a batteria lungo i fianchi della corazza e immediatamente dall'interno schizzò fuori qualcosa di trasparente, spinto da un'alta pressione. Impassibile, la biologa continuò a tagliare la corazza, sollevò la parte inferiore con le zampe e l'appoggio di fianco. Tutti fissarono l'animale tagliato. «Questo non è un granchio», esclamò Johanson. «No», annuì Roche. Indicò la massa appiccicosa di gelatina vischiosa che riempiva la maggior parte della corazza. «È la stessa robaccia che abbiamo trovato negli astici.» Servendosi di un cucchiaio, Sue mise la gelatina in un barattolo. «Guardate un po'», disse. «Proprio dietro la testa sembra che ci sia il granchio originario. Vedete le ramificazioni fibrose lungo la schiena? È il sistema nervoso. L'animale aveva ancora tutti i suoi sensi, però erano inutilizzabili.» «E invece sì», disse Rubin. «La gelatina.» «Quindi non è un granchio nel vero senso della parola.» Roche si chinò sul recipiente con quella sostanza viscida priva di colore. «La struttura di un granchio. Funzionante, ma non vivente.» «Questo spiegherebbe perché non si comporta come i granchi. A meno che non identifichiamo la sostanza all'interno come una nuova specie di carne di granchio.» «Non se ne parla neppure», sbottò Roche. «È un organismo estraneo.»
«Allora è stato questo organismo estraneo a fare in modo che il granchio arrivasse a terra», osservò Johanson. «E dobbiamo riflettere se si è infilato in animali che erano già morti e in un certo senso li ha resuscitati...» «O se i granchi sono stati allevati così», completò Sue. Per un po' regnò un silenzio sgradevole. Infine Roche disse: «Qualunque sia il motivo della loro presenza, una cosa è certa: se adesso ci togliessimo le tute, moriremmo in un lampo. Credo che troverete questi animaletti pieni di colture di Pfiesteria, o forse di cose ancora peggiori. In questo laboratorio è contaminata anche l'aria». Johanson pensò a una cosa che aveva detto Vanderbilt. Armi biologiche. Sì, Vanderbilt aveva ragione. Assolutamente ragione. Ma in un modo completamente diverso da quello che credeva. Karen Weaver Karen era euforica. Bastava inserire una password e si aveva accesso a tutte le informazioni immaginabili. Senza l'accesso ai satelliti militari, quello che le veniva offerto avrebbe richiesto mesi di ricerche. Era fantastico! Era seduta sul terrazzo della sua suite, collegata in rete con la banca dati della NASA e concentrata sulla cartografia americana ottenuta col radar. Negli anni '80, la Marina americana aveva iniziato le ricerche su un fenomeno sorprendente. Geosat, un satellite radar, era stato lanciato in un'orbita vicina al Polo. Non avrebbe dovuto cartografare il fondale marino, anche perché non avrebbe potuto, dato che il radar non attraversava l'acqua. Il compito del Geosat consisteva prevalentemente nel misurare la superficie marina nel suo insieme, con una precisione al centimetro. Si sperava che una scansione di grandi superfici avrebbe mostrato se lo specchio d'acqua - a prescindere da maree e moto ondoso - fosse ovunque allo stesso livello. Quello che Geosat scoprì superò ogni aspettativa. Si era sospettato che l'oceano, anche in condizioni di assoluta calma, non fosse perfettamente piatto. Ora, però, si evidenziava una struttura che dava alla Terra l'aspetto di una gigantesca patata gibbosa, piena di ammaccature e gobbe, rialzi e sprofondamenti. Per molto tempo si era ritenuto che le masse d'acqua dei mari fossero equamente suddivise su tutta la Terra, ma adesso la cartografia dava un'altra immagine. A sud dell'India, lo specchio
del mare era circa centosettanta metri più basso che al largo dell'Islanda. A nord dell'Australia, il mare si avvolgeva su se stesso a formare una montagna che superava di ottantacinque metri il livello medio. Gli oceani erano letteralmente un paesaggio montuoso, la cui topografia sembrava seguire le linee del paesaggio sottomarino. Le catene montuose sottomarine e le fosse abissali sembravano imprimersi sulla superficie, variando di alcuni metri l'altezza della superficie. La conclusione era affascinante. Conoscere la superficie dell'acqua voleva dire conoscere approssimativamente anche l'aspetto di quello che c'era sotto. Il fenomeno era dovuto alle irregolarità della gravitazione. Una montagna sottomarina aggiungeva massa al fondale, dunque in quel punto la forza di gravità era maggiore che in una fossa abissale. L'acqua veniva allora trascinata sui lati della montagna sottomarina, formando una gobba. Sulle montagne, la superficie del mare s'inarcava; sopra le fosse, sprofondava. Per un po', si notarono alcune eccezioni sconcertanti - per esempio quando l'acqua s'inarcava anche sopra alcune piane abissali -, ma poi si scoprì che le rocce del fondo erano molto pressate e pesanti, così la topografia gravitazionale ritornava ad avere un senso. La pendenza delle parti concave e delle gobbe era così dolce che a bordo di una nave non si registrava. In effetti, senza la cartografia satellitare nessuno si sarebbe mai accorto del fenomeno. Ma adesso si disponeva di una nuova strada non solo per descrivere la topografia dei fondali marini, ma anche per comprendere la dinamica complessiva degli oceani. Bastava tenere conto di una cosa: ciò che accadeva in superficie era l'effetto di ciò che succedeva sul fondo. Geosat scoprì inoltre che nell'oceano c'erano enormi vortici provocati dalle correnti, vortici con un diametro di centinaia di chilometri. Come col caffè in una tazza che viene mossa in senso circolare, le masse in rotazione formavano al centro una depressione, mentre ai bordi si sollevavano, inarcandosi. Ciò dimostrava che - a parte gli indebolimenti della forza di gravità - anche simili vortici, detti eddies, deformavano la superficie del mare, e a loro volta gli eddies facevano parte di vortici ancora più grandi. Dall'ampio punto di vista dei satelliti per la cartografia, apparve chiaro che tutti gli oceani ruotavano. Giganteschi sistemi ad anello ruotavano in senso orario al di sopra dell'equatore e in senso antiorario a sud, e ruotavano tanto più velocemente quanto più si avvicinavano ai poli. Così si era compreso un altro principio della dinamica dei mari: la rota-
zione terrestre influenzava l'intensità della rotazione delle acque. In quel senso, la Corrente del Golfo non era una corrente vera e propria, ma il bordo occidentale di una gigantesca lente d'acqua che ruotava lentamente. Era uno degli innumerevoli, piccoli vortici che componevano l'enorme vortice che, girando in senso orario, si spingeva contro l'America settentrionale. Poiché il centro dell'enorme vortice non era nel mezzo dell'Atlantico, ma spostato a ovest, la Corrente del Golfo veniva schiacciata contro le coste americane, dove si raccoglieva e s'inarcava. I forti venti e la sua direzione tendenziale verso il polo la acceleravano, mentre l'enorme attrito con la costa la rallentava. Così il vortice nordatlantico manteneva una rotazione stabile, conforme alla spinta ricevuta dall'impulso alla rotazione che rendeva costante un moto circolare finché non veniva disturbato da influssi esterni. Erano quegli influssi esterni che Bauer credeva di aver riconosciuto, ma senza esserne sicuro. La scomparsa al largo della Groenlandia di vortici attraverso cui l'acqua precipitava negli abissi come una cascata, offriva motivi di preoccupazione, ma non dimostrava nulla. Cambiamenti globali si potevano dimostrare solo con rappresentazioni globali. Nel 1995, dopo la fine della Guerra Fredda, l'esercito americano aveva reso progressivamente disponibile la cartografia di Geosat. Poi il sistema Geosat era stato sostituito da una serie di satelliti più moderni. Karen Weaver poteva consultare tutti i dati, una documentazione completa raccolta dalla metà degli anni '90. Trascorse ore a mettere in relazione i rilevamenti. I dati differivano in alcuni dettagli - poteva succedere che il radar di un satellite scambiasse una nuvola particolarmente densa per la superficie di un'onda, cosa che ovviamente gli altri satelliti non confermavano -, ma tutto sommato si otteneva sempre lo stesso risultato. Più andava in profondità, più la sua iniziale eccitazione si trasformava in una profonda inquietudine. Alla fine si rese conto che Bauer aveva ragione. I suoi drifter avevano trasmesso per un po', ma era stato impossibile comprendere quale corrente stessero seguendo. Poi erano spariti, l'uno dopo l'altro. Praticamente i dati della spedizione di Bauer non esistevano. Karen Weaver si chiese se lo sfortunato professore avesse capito di avere perfettamente ragione. Sentiva che la sua eredità era affidata a lei. Lui le aveva confidato tutto quello che sapeva e ora lei poteva leggere tra le righe quello che per gli altri non aveva senso. Era sufficiente per vedere la catastrofe incombente.
Rifece ancora una volta tutti i calcoli, sebbene fosse sicura che non ci fossero errori. Ripeté tutta la procedura una seconda volta e poi una terza. Era ancora peggio di quanto temesse. Online Johanson, Oliviera, Rubin e Roche rimasero per alcuni minuti con le loro tute di PVC sotto una doccia di acido peracetico all'1,5 per cento, il cui vapore avrebbe distrutto senza pietà ogni agente patogeno, poi il liquido corrosivo fu lavato via con l'acqua e neutralizzato con una soluzione di soda caustica. Shankar e la sua équipe lavoravano per codificare i rumori non identificati. Avevano chiesto aiuto a Ford e continuavano ad ascoltare in tutti i modi scratch e gli altri spettrogrammi. Anawak e Fenwick passeggiavano e discutevano le possibilità di un influsso esterno sul sistema neurale. Frost, massiccio e gigantesco, era comparso nella suite di Bohrmann col berretto da baseball tirato fino al bordo degli occhiali, e aveva affermato con aria minacciosa: «Ebbene, dobbiamo parlare!» Dopodiché aveva raccontato a Bohrmann che cosa pensava dei vermi. Era incredibile. I due si erano compresi così bene al primo colpo che in un battibaleno vuotarono diversi boccali di birra ed elaborarono numerosi scenari, tanto inquietanti quanto evidenti. E intanto, attraverso il satellite, si tenevano in contatto con Kiel. Da quando il collegamento Internet era stato ripristinato, Kiel mandava una simulazione dopo l'altra. Suess aveva cercato di ricostruire nella maniera più dettagliata possibile ciò che era successo sulla scarpata continentale norvegese, col risultato che i dati in possesso non giustificavano una catastrofe di quelle dimensioni. Vermi e batteri avevano senza dubbio giocato un ruolo fatale, ma nel puzzle mancava qualcosa, una tessera minuscola, un decisivo fattore scatenante. «E finché non lo conosciamo continuerà a prenderci per i fondelli, Dio mi è testimone!» affermò Frost. «E finirà per smottare la scarpata continentale anche in America e Giappone.» Judith Li era seduta davanti al laptop.
Era sola nella sua gigantesca suite eppure era vicina a tutti. Aveva seguito per un po' i lavori nel laboratorio di massima sicurezza e aveva ascoltato quello che dicevano laggiù. Tutti gli spazi dello Château erano sorvegliati da microfoni e telecamere. Lo stesso valeva per Nanaimo, l'University of Vancouver e l'acquario. Alcune delle case private della zona, quelle di Ford, della Oliviera e di Fenwick, erano state riempite di cimici, come pure la barca di Anawak e il suo piccolo appartamento a Vancouver. C'erano occhi e orecchie ovunque, solo quello che si diceva all'aperto, nei bar e nei ristoranti non poteva essere intercettato. Ciò seccava parecchio Judith Li, ma, per sorvegliare costantemente gli scienziati, avrebbe dovuto far impiantare su di loro delle trasmittenti. Funzionava meglio il controllo della rete interna. Bohrmann e Frost erano online, come pure Karen Weaver, la giornalista, che in quel momento stava confrontando i dati satellitari della Corrente del Golfo. Era molto interessante, come pure le simulazioni provenienti da Kiel. La rete era stata una buona idea. Naturalmente, Judith Li non poteva sapere cosa pensava chi la stava utilizzando. Ma quello su cui stavano lavorando e i dati che richiamavano venivano salvati e potevano essere visionati in ogni momento. Se la teoria terroristica di Vanderbilt fosse stata vera - cosa di cui Judith Li dubitava - allora sarebbe diventato addirittura legittimo spiare ogni singolo componente del gruppo. Sembrava che fossero tutti puliti. Nessuno teneva contatti con associazioni estremistiche o con Paesi del mondo arabo, ma esisteva sempre un margine di rischio. E anche se le ipotesi del vice direttore della CIA si fossero rivelate infondate, era comunque molto utile tenere d'occhio gli scienziati senza che loro se ne accorgessero. Era sempre un bene ottenere subito le informazioni. Judith Li ritornò su Nanaimo e ascoltò Sigur Johanson e Sue Oliviera mentre andavano all'ascensore. Parlavano delle condizioni di lavoro nel settore di massima sicurezza. Sue osservava che la doccia acida, senza la tuta protettiva, avrebbe lasciato solamente uno scheletro perfettamente pulito, Johanson fece una battuta. Risero e risalirono. Perché Johanson non rivelava a nessuno la sua teoria? L'aveva quasi fatto. Nella sua camera, parlando con Karen Weaver subito dopo la conferenza. Ma poi si era limitato a fare qualche allusione. Judith fece una serie di telefonate, parlò brevemente con Peak a New York e guardò l'orologio. Era l'ora del rapporto di Vanderbilt. Lasciò la suite, percorse il corridoio e andò in una sala in fondo all'ala sud dello Château. Corrispondeva alla War Room della Casa Bianca e, come la sala
riunioni, era a prova d'intercettazioni. L'attendevano Vanderbilt e due dei suoi uomini. Il vice direttore della CIA era appena tornato da Nanaimo in elicottero e sembrava ancora più sconvolto del solito. «Possiamo metterci in contatto con Washington?» chiese Judith Li senza salutare. «Potremmo», disse Vanderbilt. «Ma non servirebbe a niente...» «Non faccia il misterioso, Jack.» «... se ha intenzione di mettersi in contatto col presidente. Il presidente non è più a Washington.» Nanaimo, Vancouver Island Uscendo dall'ascensore con Sigur Johanson, Sue Oliviera incrociò nell'atrio Fenwick e Anawak. «Da dove arrivate?» chiese, stupita. «Siamo andati a fare una passeggiata.» Anawak le strizzò l'occhio. «Vi siete divertiti in laboratorio?» «Idiota», borbottò Sue. «Sembra che ci siano piombati addosso i problemi dell'Europa. La gelatina nei granchi è la nostra vecchia conoscenza. Roche ha isolato un agente patogeno nascosto nei granchi.» «Pfiesteria?» chiese Anawak. «Qualcosa del genere», rispose Johanson. «La mutazione della mutazione, per così dire. La nuova specie è infinitamente più tossica di quella europea.» «Abbiamo dovuto sacrificare qualche cavia», aggiunse Sue. «Le abbiamo rinchiuse con un granchio morto e sono spirate tutte nel giro di qualche minuto.» Fenwick fece involontariamente un passo indietro. «Quel veleno è davvero così contagioso?» «No, mi puoi tranquillamente sbaciucchiare. Non si trasmette da uomo a uomo. Non abbiamo a che fare con un virus, ma con un'invasione batteriologica. Che tuttavia sfugge al controllo non appena la Pfiesteria raggiunge l'acqua e si riproduce in maniera esponenziale quando i granchi sono già morti da un pezzo. Erano morti tutti tranne uno, e ora ci ha lasciati anche quello.» «Granchi kamikaze», sentenziò Anawak. «Il loro compito è portare i batteri sulla terra, come il compito dei vermi era portare i batteri nel ghiaccio», disse Johanson.
«Dopo crepano. Meduse, mitili, anche quella gelatina... Niente sopravvive a lungo, ma tutto adempie al proprio scopo.» «Che sarebbe quello di danneggiarci.» «Esatto. Anche le balene si comportano come attentatori suicidi», disse Fenwick. «Le aggressioni fanno di norma parte di una strategia di sopravvivenza, come la fuga. Ma una simile strategia non si è mai vista.» Johanson sorrise. I suoi occhi neri scintillavano. «Non ne sarei così sicuro. Qui è evidente che qualcuno sta seguendo una strategia di sopravvivenza.» Fenwick lo fissò. «Sembra quasi di sentire Vanderbilt.» «Sembra. In una cosa Vanderbilt ha ragione; per il resto, io la penso in modo diverso.» Johanson fece una pausa. «Ma scommetto qualsiasi cosa che ben presto Vanderbilt la penserà come me.» Judith Li «Che vuol dire?» chiese Judith Li, mentre si sedeva. «Dov'è il presidente?» «Sta raggiungendo l'Offutt Air Force Base nel Nebraska», disse Vanderbilt. «Sono comparsi banchi di granchi nella Chesapeake Bay e nel Potomac. Evidentemente superano il braccio di mare. Pare che alcuni abbiano raggiunto la terraferma a sud di Alexandria e Arlington, ma non abbiamo ancora la conferma.» «E chi ha ordinato il trasferimento all'Offutt?» Vanderbilt scrollò le spalle. «Il capo di stato maggiore alla Casa Bianca teme che la capitale possa subire lo stesso destino di New York», disse. «Lei conosce il presidente. Si è opposto con tutte le forze. Avrebbe preferito uscire e dichiarare guerra personalmente a quelle bestie disgustose, ma alla fine ha dovuto acconsentire al trasferimento. Si dedicherà a una sana vita campagnola.» Judith Li rifletté. L'Offutt era la sede dello Strategic Command, che sovrintendeva all'arsenale atomico degli Stati Uniti, un luogo ideale per proteggere il presidente. Era nel mezzo della terraferma, lontano da tutti i pericoli che arrivavano dal mare. Da lì, il presidente poteva tenersi in contatto in videoconferenza col consiglio di sicurezza nazionale e sbrigare tutte le sue incombenze di governo. «È stata una decisione affrettata», disse con enfasi. «D'ora in poi, cose del genere le voglio sapere immediatamente, Jack. Se da qualche parte c'è qualcosa che mette la testa fuori dal mare, io
lo voglio sapere subito. Anzi, voglio saperlo prima che metta fuori la testa.» «Dovremmo riuscirci», disse Vanderbilt. «Potremmo instaurare rapporti diplomatici coi capi locali dei delfini e...» «Inoltre voglio essere immediatamente informata se a qualcuno viene l'idea di spedire il presidente all'Offutt.» Vanderbilt rise. «Se posso fare una proposta...» «E voglio che sia fatta chiarezza su quello che è successo a Washington», lo interruppe Judith. «Entro due ore. Se la notizia sarà confermata, evacueremo la zona colpita e trasformeremo Washington in una zona vietata come New York.» «Era proprio quello che avrei voluto proporre», mormorò Vanderbilt. «Allora siamo d'accordo. C'è altro per me?» «Una montagna di merda.» «A quello ci sono abituata.» «Appunto. Giacché non volevo farle perdere l'abitudine, mi sono impegnato a trovare il maggior numero possibile di brutte notizie. Cominciamo con questa: la NOAA ha cercato di far scendere due robot lungo la scarpata continentale davanti al Georges Bank per raccogliere altri vermi da esaminare. Questo... ehm... è riuscito.» Judith Li sollevò le sopracciglia e si appoggiò allo schienale. «Allora, sono riusciti a raccogliere i vermi», riprese Vanderbilt, gustandosi ogni parola. «Ma non a portarli a bordo. Non appena i robot li hanno messi nel cestino, è arrivato qualcosa che ha tagliato il collegamento. Abbiamo perso i due robot. Dal Giappone arrivano notizie simili. Al largo di Honshu e Hokkaido è andato perduto un batiscafo con uomini a bordo. Anch'essi dovevano prendere dei vermi. Secondo i giapponesi, sono aumentati. Nel complesso la situazione è passata a un altro livello. Finora venivano attaccati solo subacquei, non mezzi sottomarini, sonde e robot.» «Siamo riusciti a scoprire qualcosa di sospetto?» «Non proprio. Non c'erano tracce di batiscafi o sonde nemiche, ma, a settecento metri di profondità, la nave della NOAA ha registrato la presenza di una superficie in movimento con un'estensione di diversi chilometri. Il direttore delle ricerche è sicuro al novanta per cento che si tratti di una massa di plancton, ma non ci giurerebbe.» Judith annuì e pensò a Johanson. Quasi le dispiacque che non fosse lì a sentire la relazione di Jack. «Seconda notizia, i cavi sottomarini. Sono stati tranciati altri collega-
menti, CANTAT-3 e alcuni cavi TAT: tutti i collegamenti più importanti attraverso l'Atlantico. Nel Pacifico, a quanto pare, abbiamo perso PACRIM WEST, uno dei nostri principali collegamenti con l'Australia. Inoltre, negli ultimi due giorni, ci sono stali più incidenti navali che mai, e sempre in zone molto trafficate. È stata colpita la metà delle circa duecento crune dell'ago marittime che conosciamo, in particolare lo stretto di Gibilterra, lo stretto di Malacca e il canale della Manica, ma anche il canale di Panama ha subito qualche... Be', sì, c'è stato qualche incidente, forse non dobbiamo sopravvalutarlo. C'è stata una vera carambola nello stretto di Hormuz e un'altra presso Khalij as-suways, che è... ehm...» Judith osservò Jack. Sembrava meno cinico e arrogante del solito e in quel momento ne comprese il motivo. «So dov'è», disse. «Khalij assuways è la propaggine del mar Rosso che sfocia nel canale di Suez. Questo vuol dire che il mondo arabo è stato colpito in due punti vitali del traffico marittimo.» «Bingo. Problemi di navigazione. Niente di nuovo, insomma. La ricostruzione degli avvenimenti è difficile, ma pare che, nello stretto di Hormuz, sette navi siano finite l'una sopra l'altra perché almeno due di loro avevano perso l'orientamento. Solcometro ed ecoscandaglio non mandavano più dati.» A bordo di ciascuna di quelle navi, c'erano quattro sistemi vitali: ecoscandaglio, solcometro, radar e anemometro. Mentre radar e anemometro lavoravano al di sopra della linea di galleggiamento, la finestra di fuoriuscita dell'ecoscandaglio era a prua. Come pure il solcometro, un tubo di Pitot con dei sensori integrati, che misurava il flusso d'acqua che veniva verso la nave. Il solcometro informava il sistema radar sulla rotta e sulla velocità della nave e, su quelle basi, il radar calcolava il rischio di collisione con le imbarcazioni nelle vicinanze e offriva rotte alternative. In generale si seguivano alla cieca gli strumenti. Alla cieca perché il settanta per cento dei viaggi marittimi avveniva di notte, con la nebbia o in mare aperto, circostanze in cui un'occhiata dal finestrino non serviva a nulla. «In un caso è evidente che gli organismi hanno intasato il solcometro», disse Vanderbilt. «Sebbene tutt'intorno il traffico fosse molto intenso, l'apparecchio non indicava più nessuna rotta, così il radar non poteva rilevare il pericolo di collisione. Nell'altro caso, deve essere impazzito l'ecoscandaglio perché indicava una riduzione della profondità, benché la nave fosse in acque profonde. L'equipaggio ha cambiato immediatamente rotta. Il risultato è che tutte e due sono andate a collidere con altre navi e, poiché era
già buio, anche altre imbarcazioni sono finite in quella giostra. Simili scherzi sono capitati anche in altre parti del mondo. Qualcuno avrebbe visto delle balene nuotare a lungo sotto le navi.» «Ovvio», mormorò Judith. «Se per lungo tempo qualcosa di grosso rimane immediatamente sotto l'uscita dell'ecoscandaglio, si può facilmente scambiarlo per terreno.» «Inoltre si accumulano i casi d'incrostazioni sul timone e sui propulsori laterali. Ovviamente anche di prese a mare intasate. In India è appena affondato un cargo, dopo che settimane d'incrostazioni avevano portato a una corrosione sorprendentemente rapida. Il mare era calmissimo, però il vano di carico anteriore è collassato. Il cargo è affondato nel giro di qualche minuto. E così via. Non finisce più. Tutto peggiora costantemente, e l'epidemia arriva anche sulla terra.» Judith Li congiunse la punta delle dita e rifletté. Semplicemente ridicolo... Ma, a ben guardare, le navi erano ridicole. Peak aveva evidenziato bene quel punto. Carrette arcaiche, che navigavano con strumenti all'avanguardia, ma aspiravano l'acqua di raffreddamento da un buco. Altrove, i granchi si spingevano in città modernissime, si lasciavano schiacciare e diffondevano nelle fogne tonnellate di alghe velenosissime. Così si era dovuta isolare una città e ora verosimilmente se ne sarebbe dovuta isolare un'altra. E il presidente degli Stati Uniti volava nell'entroterra. «Ci servono quei maledetti vermi», disse Judith. «E dobbiamo intervenire contro le alghe.» «Ha assolutamente ragione», replicò Vanderbilt, zelante. Gli uomini di Vanderbilt se ne stavano seduti al suo fianco e fissavano Judith col volto impassibile. In effetti, la proposta sarebbe dovuta partire da lui. Ma a Jack Vanderbilt, Judith Li piaceva ancora meno di quanto lui piacesse a lei. Quindi non avrebbe mosso un dito, aspettando che quella donna si rovinasse con le proprie mani. Ma Judith Li non aveva bisogno di Jack Variderbilt per prendere decisioni. «Primo: se la notizia è confermata, evacuiamo Washington», disse. «Secondo: voglio che nelle zone colpite sia mandata acqua potabile coi camion cisterna e che sia strettamente razionata. Asciugheremo le fogne ed elimineremo quelle bestie con prodotti chimici.» Vanderbilt rise. I suoi uomini sogghignarono. «Prosciugare New York? Le fogne?» Lei lo guardò. «Sì.» «Buona idea. I prodotti chimici uccideranno tutti i newyorkesi e potremo
affittare l'intera città ai cinesi. Ho sentito che c'è un numero inquietante di cinesi...» «È compito suo trovare le soluzioni, Jack! Io chiederò al presidente di convocare una riunione plenaria del consiglio di sicurezza per dichiarare lo stato d'emergenza.» «Ah, capisco.» «Sarà vietato l'accesso a tutte le coste. Manderemo squadre in pattuglia. Forniremo alle truppe tute protettive e lanciafiamme. D'ora in poi, qualunque cosa cerchi di arrivare sulla terra dal mare sarà trattato come se dovesse finire su un barbecue.» Si alzò. «E se abbiamo problemi con le balene, dobbiamo smetterla di reagire come bambini terrorizzati. Voglio che le navi siano sempre pronte all'intervento. Tutte le navi. Staremo a vedere a che cosa porterà un po' di guerra psicologica.» «Che cos'ha in mente, Jude? Vuole cercare di convincere gli animali?» «No.» Judith Li fece un sorriso cupo. «Voglio cacciarli, Jack. Voglio dar loro una lezione. Darla alle balene e a chi ha condizionato il loro comportamento. La politica protezionistica nei confronti della natura è finita.» «Vuole inimicarsi l'IWC, la commissione internazionale per la caccia alle balene?» «La smetta. Colpiremo le balene coi sonar finché non la smetteranno di attaccarci.» New York, USA Un uomo crollò a terra e morì davanti ai suoi occhi. Peak sudava sotto la pesante tuta protettiva. Respirava attraverso una maschera a ossigeno e, dietro lo schermo di vetro blindato, vedeva una città che, da un giorno all'altro, si era trasformata in un inferno. Il sergente al suo fianco guidava lentamente la jeep sulla 1st Avenue. L'East Village appariva totalmente deserto. Incontrarono altri gruppi di persone scortati dai militari. Il problema principale era che non si poteva lasciar andare nessuno finché non si aveva l'assoluta certezza che l'epidemia non fosse contagiosa. Al momento non sembrava. Gli effetti somigliavano molto a quelli di un attacco coi gas. Ma Peak era scettico. Si era accorto che le vittime mostravano ferite grandi come una moneta. Se erano davvero le alghe killer ad aver infestato New York, non trasudavano solo una nube tossica, ma si attaccavano anche ai corpi delle vittime. Teoricamente era possibile trovarle in tutti i liquidi corporei. Peak non era un bio-
logo, ma si domandava che cosa sarebbe successo se un malato avesse baciato una persona sana, passandole della saliva. Le alghe vivevano nell'acqua, sopportavano un ampio spettro di temperature e, per quello che ne sapeva, si riproducevano a velocità impressionante. Stavano lavorando febbrilmente per mettere in quarantena gli abitanti di New York e Long Island, sia i sani sia i malati. All'inizio erano stati ottimisti. Dopo il primo attacco al World Trade Center, nel 1993, il sindaco aveva dato vita a un ufficio speciale per tutti i tipi di emergenze, l'Office of Emergency Management, abbreviato in OEM. Alla fine degli anni '90, era stata allestita la più grande esercitazione nella storia della città, simulando un attacco con armi chimiche. Seicento poliziotti, pompieri e agenti dell'FBI in tute protettive avevano «salvato» gli abitanti di New York. L'esercitazione si era svolta al meglio e il senato aveva generosamente concesso nuovi finanziamenti: quindici milioni di dollari con cui l'OEM aveva costruito un bunker a prova di bomba, dotato di un sistema di aerazione autonomo, in cui oltre quaranta collaboratori superspecializzati erano in attesa del vero giorno del giudizio. Era stato costruito poco prima dell'll settembre 2001 e si trovava al ventitreesimo piano del World Trade Center. Dopo il crollo delle Torri Gemelle, la struttura dell'OEM era stata rivista ed esso era ancora in fase di riorganizzazione e quindi non poteva fronteggiare le emergenze. Inoltre le persone si ammalavano e morivano in fretta, prima ancora che qualcuno potesse aiutarle. La jeep evitava i morti e si avvicinava all'incrocio con la 14th Street. Molte auto suonavano il clacson selvaggiamente. La gente cercava di lasciare la città, ma non sarebbe andata lontano. Era tutto chiuso. Per ora l'esercito aveva sotto controllo solo Brooklyn e alcuni quartieri di Manhattan, ma nessuno poteva più lasciare New York senza un permesso speciale. Proseguirono lungo i posti di blocco militari. Nella città si muovevano centinaia di soldati. Dietro le loro maschere antigas, goffi e privi di forma nelle tute ABC gialle, sembravano invasori extraterrestri senza volto. Ovunque si caricavano corpi su barelle, veicoli militari e ambulanze. Molti giacevano nelle strade. Nel centro della città non si riusciva più a passare, perché le auto che si erano scontrate e quelle abbandonate bloccavano le corsie. Il costante rombo degli elicotteri risuonava tra i grattacieli. L'autista di Peak salì rumorosamente sul marciapiede con la jeep e ne percorse un tratto, fermandosi a un centinaio di metri dal Bellevue Hospital Center nei pressi dell'East River, dov'era stato allestito il comando provvisorio dell'unità d'intervento. Peak si affrettò a entrare. L'atrio era
pieno di gente. Percepì gli sguardi terrorizzati e accelerò il passo. Alcune persone gli misero davanti le foto dei loro cari. Era investito da urla. Affiancato da due soldati, passò il posto di blocco interno e marciò verso il centro di calcolo dell'ospedale, dove gli misero a disposizione un collegamento satellitare a prova d'intercettazione con lo Château Whistler. Dopo qualche minuto di attesa, Judith Li era in linea. Non le diede il tempo di pronunciare neppure una parola. «Abbiamo bisogno di un antidoto. E il più presto possibile.» «Nanaimo sta lavorando a pieno ritmo», rispose lei. «Sono troppo lenti. Non possiamo tenere sotto controllo New York. Ho visto i progetti delle canalizzazioni... Si tolga dalla testa di svuotarle. Sarebbe come svuotare il Potomac.» «Riuscite a provvedere alle cure mediche?» «E come? Non possiamo curare nessuno, non sappiamo neppure cosa possa essere d'aiuto. Ci limitiamo a fornire medicine che rafforzano il sistema immunitario e a sperare che l'agente patogeno muoia.» «Mi ascolti, Sal», disse Judith. «Prenderemo la situazione in pugno. Possiamo affermare con una sicurezza quasi del cento per cento che la tossina non si trasmette. Praticamente non c'è il rischio che i malati siano contagiosi. Dobbiamo eliminare quelle bestiacce dalle canalizzazioni, bruciarle, cauterizzarle o qualunque cosa ci sia da fare.» «Allora cominci», sbottò Peak. «Non servirà a nulla. La nube di veleno sulla città è il problema minore perché, all'aperto, il vento disperde le tossine. Ma, nel frattempo, in ogni casa è stata fatta scorrere l'acqua, ci si è fatta la doccia, si è lavato, bevuto, ci si è occupati del pesciolino rosso, o di chissà cos'altro. Le macchine sono state lavate, i pompieri hanno spento gli incendi. Queste alghe si sono diffuse in tutta la città, impestano l'aria all'interno delle case e si sono piazzate nei climatizzatori e negli impianti di aerazione. Anche se non arrivasse più nemmeno un granchio, non saprei comunque come fermare la riproduzione delle alghe.» Prese fiato. «Mio Dio, Jude, negli Stati Uniti ci sono seimila ospedali, ma pochissimi sono preparati a una simile evenienza! Non ci sono cliniche in grado d'isolare una simile quantità di pazienti e mancano i medici specializzati. Il Bellevue è disperatamente pieno, ed è un ospedale maledettamente grande.» Judith rimase per qualche istante in silenzio, poi disse: «Bene. Ecco cosa bisogna fare. Trasformi Greater New York in un carcere gigantesco. Nulla e nessuno deve uscire». «Ma qui non possiamo fare niente per la gente. Moriranno tutti.»
«Sì, è terribile. Fatelo per gli altri, per quelli che sono fuori di lì. Trasformate l'intera zona di New York in un'isola.» «E come?» gridò Peak, disperato. «L'East River si estende verso l'interno.» «Per l'East River ci faremo venire in mente qualcosa. Per ora...» In quel momento accadde qualcosa. Più che sentire l'esplosione, Peak la percepì. Il pavimento tremò sotto i suoi piedi. Un cupo rimbombo sembrò pervadere l'aria. Le onde sonore percorsero tutta Manhattan come un terremoto. «È esploso qualcosa», disse Peak. «Vada e s'informi. Tra dieci minuti voglio un rapporto.» Peak imprecò e corse alla finestra, ma non vide nulla. Fece un cenno ai suoi uomini, uscì dal centro di calcolo e percorse il corridoio verso la parte posteriore dell'ospedale. Da lì poteva vedere l'East River, Brooklyn e il Queens. Guardò verso sinistra, seguendo il corso del fiume. Molte persone correvano verso l'ospedale. A circa un chilometro, vide salire in cielo un gigantesco fungo di fumo. Da quelle partì c'era il quartier generale delle Nazioni Unite. In un primo momento, Peak pensò che fosse saltato in aria. Poi si rese conto che la nube saliva da un punto più all'interno della città. Si levava dall'accesso del Queens Midtown Tunnel, che passava sotto l'East River e collegava il Queens con Manhattan. Il tunnel era in fiamme. Peak pensò alle macchine ferme ovunque, incastrate l'una nell'altra, finite nelle vetrine o contro i lampioni perché gli uomini alla loro guida erano stati infettati e avevano perso i sensi. Intuì che cos'era successo nel tunnel. Era l'ultima cosa di cui avevano bisogno in quel momento. Ritornò di corsa nell'edificio, attraversò l'atrio e raggiunse la sua jeep sulla 1st Avenue. Era difficile muoversi con la tuta protettiva, perché bisognava stare attenti a non impigliarsi in qualcosa e a non strapparla. Comunque riuscì a infilarsi nella jeep aperta, che partì subito a tutta velocità. In quel preciso istante, al terzo piano dell'ospedale, morì Bo Henson, lo spedizioniere che voleva fare concorrenza alla FedEx. I coniugi Hooper erano già morti da alcune ore. Vancouver Island, Canada
«Cosa diavolo state facendo al Whistler?» Avrebbe dovuto essere un ritorno temporaneo nella normalità, ma naturalmente non era stato così. Dopo giorni di assenza, Anawak si trovava nella Davies Whaling Station e guardava Tom Shoemaker e Alicia Delaware che, per l'occasione, si erano scolati due lattine di Heineken. Dato che non c'erano state richieste per fare escursioni nell'entroterra, Davie aveva temporaneamente chiuso la stazione. Nessuno aveva voglia di osservare gli animali. Se le balene erano andate fuori di testa, cosa mai poteva succedere agli orsi bruni? Se l'Europa era stata travolta da uno tsunami, cosa rischiava la costa del Pacifico? La maggior parte dei turisti aveva lasciato Vancouver. Shoemaker continuava a svolgere il ruolo di direttore amministrativo, almeno finché era possibile. «Vorrei proprio sapere che cosa fate», continuò a brontolare. Anawak scosse la testa. «Smettila, Tom. Ho promesso di tenere la bocca chiusa, quindi parliamo d'altro.» «Perché tutte queste scene? Perché non puoi dire a cosa state lavorando?» «Tom...» «Vorrei sapere se devo portare il mio culo via da qui», continuò Shoemaker. «A causa di uno tsunami o di qualche altra diavoleria.» «Nessuno parla di uno tsunami.» «No? Stronzate! Anche se voi non dite niente, si è diffusa la voce che potrebbe succedere. La gente non è cretina, Leon. Da New York arrivano sconcertanti storie horror di un'epidemia, in Europa la gente muore, le navi spariscono... Tutte queste cose non restano nascoste.» Si chinò in avanti e fece un cenno ad Anawak. «Voglio dire, abbiamo salvato insieme la gente della Lady Wexham. C'ero anch'io sulla barca. Sono un iniziato, capisci? Appartengo alla cerchia ristretta.» Alicia bevve una lunga sorsata dalla lattina e si asciugò la bocca. «Non seccare Leon. Se lo hanno blindato, lo hanno blindato.» Portava un nuovo paio di occhiali, con le lenti rotonde color arancione. Anawak si accorse che aveva fatto qualcosa ai capelli. Erano meno ricci e le cadevano sulle spalle in onde che sembravano di seta. A dire la verità, era carina, nonostante i denti troppo grandi. Molto carina, addirittura. Shoemaker sollevò le braccia e le fece ricadere in grembo con un gesto sconsolato. «Dovete prendermi con voi. Davvero, Leon. Potrei essere d'aiuto. Qui non posso fare altro che gironzolare e togliere la polvere dalle guide.»
Anawak annuì. Si sentiva a disagio perché non poteva rivelare nulla. Quel ruolo non faceva per lui. L'aveva recitato per anni nelle sue questioni private, e ormai cominciava a dargli sui nervi ogni forma di mistero. Si chiese se non fosse il caso di parlare del suo lavoro allo Château. Ma non aveva dimenticato lo sguardo di Judith Li. Si era dimostrata comprensiva e gentile, ma era certo che, se lo fosse venuta a sapere, avrebbe scatenato un casino infernale. Probabilmente aveva ragione lei. Fece vagare lo sguardo nel negozio. Di colpo si accorse che, nel giro di pochi giorni, la stazione gli era diventata completamente estranea. Quella non era la sua vita. Dalla sua riconciliazione con Greywolf, molte cose erano cambiate. Anawak intuiva che davanti a lui c'era qualcosa di decisivo, qualcosa che avrebbe ribaltato completamente la sua esistenza. Si sentiva come un bambino su un ottovolante: improvvisamente si rendeva conto che il vagone si era messo in moto e iui non poteva più scendere. Il timore - talvolta persino il terrore - si univa a un'euforia indescrivibile e a un senso di attesa pieno di curiosità. La stazione lo aveva rinchiuso in una sorta di bastione e adesso gli sembrava di essere all'aperto, nudo e senza protezioni. Era come se nella sua vita mancasse uno spazio, una porta che conducesse nella stanza vicina, consentendo di chiudere fuori il mondo. Sentiva su di sé una pressione molto intensa, forse addirittura eccessiva, violenta. «Dovrai continuare a spolverare le tue guide», disse. «Sai bene che il tuo posto è qui e non in un gruppo di esperti, dove saresti immediatamente annientato se solo provassi ad aprire bocca. Senza di te, Davie sarebbe finito.» Shoemaker lo guardò. «Non fingi nemmeno di darmi una piccola motivazione?» chiese. «No. A quale scopo? Sono io quello che deve tenere la bocca chiusa e non può raccontare nulla ai suoi amici. Perché non provi a motivarmi tu?» Shoemaker rigirò tra le mani la lattina di birra. Poi sorrise. «Quanto resti?» «Finché voglio», rispose Anawak. «Ci trattano come pascià, abbiamo a disposizione l'elicottero ventiquattr'ore su ventiquattro. Devo solo chiamare.» «Accidenti, ti leccano davvero il culo!» «Sì, lo fanno. In compenso si aspettano che ottenga dei risultati. Probabilmente dovrei essere a Nanaimo o all'acquario o da qualche altra parte a lavorare, però volevo vedervi.»
«Puoi lavorare anche qui. Okay, ti do una motivazione. Stasera vieni a cena da me. Avrai una bistecca gigante. La cucinerò io stesso finché non sarà bella e gustosa come il peccato.» «Mi sembra un'idea invitante», intervenne Alicia. «A che ora?» Shoemaker le lanciò un'occhiata indefinibile. «Anche tu puoi venire», disse. Lei non rispose. Anawak si chiese che cosa fosse successo durante la sua assenza, ma preferì lasciar perdere e promise di arrivare alle sette. Poco dopo, la compagnia si sciolse. Shoemaker si mise in viaggio per Ucluelet, dove avrebbe incontrato Davie. Anawak percorse la strada principale verso la sua barca, in compagnia di Alicia. Era contento che lei fosse lì. In un certo senso, quella seccatrice gli era mancata. «Cosa voleva dire Tom?» le chiese. Alicia finse di non capire. «Di che parli?» «Dell'invito per la bistecca. Dal modo in cui l'ha detto sembrava non gradire la tua compagnia.» Alicia era imbarazzata. Arrotolò intorno alle dita una ciocca di capelli e arricciò il naso. «Sì, nei giorni scorsi è successa una cosa. Lo sai anche tu, la vita riserva sempre qualche sorpresa, no? E talvolta si rimane di stucco.» Anawak si fermò e la guardò. «E allora?» «Allora... Ricordi il giorno in cui sei andato a Vancouver? Be', non tornavi più... Insomma, sei sparito per tutta la notte! Non sapevamo dove fossi e ci siamo preoccupati. Tra gli altri anche, ehm... Jack. Allora, Jack mi ha chiamato e mi ha detto che in realtà voleva chiamare te, ma che non c'eri e...» «Jack?» chiese Anawak. «Sì.» «Greywolf? Jack O'Bannon?» «Ha detto che vi eravate parlati», proseguì Alicia, prima che lui potesse aggiungere altro. «E deve essere stata proprio una bella conversazione. In ogni caso, lui ne era contento e voleva solo chiacchierare un po' con te, almeno credo, e...» Guardò Anawak negli occhi. «È stata davvero una bella chiacchierata, vero?» «E se non lo fosse stata?» «Allora sarebbe proprio stupido, perché...» «Okay, va bene. È stata una bella chiacchierata. Ora, saresti così gentile da venire al punto?» «Ci siamo messi insieme», sbottò Alicia.
Anawak aprì la bocca e poi la richiuse. «Te l'avevo detto che talvolta si rimane di stucco! È venuto a Tofino. Gli avevo dato il mio numero e tu sai che in un certo senso lo trovo... cioè, che in un certo senso condivido il suo punto di vista e...» Anawak si sforzò di non ridere. «Che c'è una certa comprensione, naturalmente.» «Be', insomma, è arrivato. Abbiamo bevuto qualcosa allo Schooners e poi siamo andati al pontile. Mi ha raccontato tutto di sé, io gli ho raccontato di me, come succede di solito, si chiacchiera, si chiacchiera e poi improvvisamente... bum... Sai com'è.» Anawak iniziò a sghignazzare. «E Shoemaker non è contento, eh?» «Odia Jack!» «Lo so. Non puoi fargliene una colpa. Che improvvisamente Greywolf ci sia diventato caro - a te in particolare - non cambia il fatto che si sia comportato da bastardo. Per anni, se proprio vuoi saperlo. Lui è un bastardo.» «Non più di quanto lo sia tu», ribatté lei. Anawak annuì. Poi si mise a ridere. Con tutte le disgrazie che erano piombate sul mondo, rise della storia d'amore di Alicia, di se stesso e del suo rancore contro Greywolf, che in realtà era solo la rabbia per un'amicizia perduta. Ma rise anche della sua vita degli ultimi anni, della sua esistenza cupa e disperata. Rise di se stesso fino al punto da sentire dolore, e ne provò piacere. Rideva sempre di più. Alicia inclinò il capo e lo guardò, sbalordita. «Che c'è da sghignazzare in quel modo?» «Hai ragione», disse Anawak tra le risate. «Che vuoi dire con 'hai ragione'? Sei andato fuori di testa?» Sentì che il suo attacco di euforia si trasformava in una risata isterica, ma non poté farci niente. Era scosso dalle risate. Non riusciva a ricordare l'ultima volta che aveva riso in quel modo. Ammesso che avesse mai riso così. «Ah, sei impagabile», boccheggiò. «Hai maledettamente ragione. Bastardo. Esatto! Tutti noi. E tu stai con Greywolf. Non ci posso credere. Oh, Cristo!» Alicia socchiuse le palpebre. «Mi stai prendendo in giro?» «No, certo che no», ridacchiò lui. «E invece sì.» «Ti giuro che è solo...» Improvvisamente gli venne in mente una cosa. E
si chiese perché non gli fosse venuta in mente prima. La sua risata si spense. «Dov'è Greywolf?» «Non lo so. Forse a casa.» «Jack non è mai a casa. Ma non siete insieme?» «Mio Dio, Leon! Non ci siamo sposati. Ci divertiamo e ci siamo presi una cotta, ma non è che io controlli ogni suo passo.» «No», mormorò Anawak. «A lui non andrebbe bene.» «Perché me lo chiedi? Gli vuoi parlare?» «Sì.» La prese per le spalle. «Licia, ascoltami. Devo sistemare alcune faccende private. Cerca di scovarlo. Prima di stasera, in modo che a Shoemaker non vada di traverso la cena. Digli che... mi farebbe piacere vederlo. Sì, davvero! Ne sarei felice. Ho letteralmente nostalgia di lui.» Alicia sorrise, incerta. «Va bene. Glielo dirò.» «Sei gentile.» «Voi uomini siete strani. Davvero, caro mio. Siete davvero due scimmie ridicole.» Anawak andò sulla sua barca, guardò la posta e fece un salto allo Schooners, dove bevve un caffè e chiacchierò coi pescatori. Durante la sua assenza, due uomini avevano avuto un incidente in canoa ed erano morti. Si erano arrischiati a uscire in mare nonostante il divieto. Nemmeno dieci minuti dopo, erano stati attaccati da un'orca. Più tardi, i resti di uno dei due erano riemersi, ma dell'altro non c'era traccia. E nessuno voleva andarlo a cercare. «Non è un problema loro», disse uno dei pescatori. Stava parlando dei gestori dei grandi cargo, dei traghetti, delle navi fabbrica e della Marina militare. Beveva la sua birra con l'accanimento di chi crede di aver trovato i colpevoli e non permette a niente e a nessuno di addossargli la responsabilità per la sua disperazione. Poi guardò Anawak come se si aspettasse da lui una conferma. Invece è un problema loro più di quanto tu possa immaginare... Infatti non è che alle loro navi vada meglio, fu tentato di rispondere Anawak. Invece tacque. Non poteva rendere noto il quadro generale, e la gente di Tofino vedeva solo la propria fetta di mondo. Non conosceva le statistiche sull'incremento dei gravi incidenti di cui Peak aveva informato l'unità di crisi. «Ma, ragazzo mio, per quelli capita tutto al momento giusto!» brontolò l'uomo. «Le grandi flotte di pescherecci stavano già estendendo il loro mo-
nopolio, e ora capita questo. Ci hanno portato via tutto quello che ci dava da vivere, e ora ci prendono anche il resto, perché noi piccoli non possiamo più uscire in mare.» Dopo una seconda sorsata dal suo bicchiere, aggiunse: «Dobbiamo far fuori quei maledetti cetacei. Dovremmo far vedere loro chi comanda». Ovunque era la stessa storia. Nelle poche ore trascorse a Tofiao, aveva sentito le medesime rivendicazioni. Uccidiamo le balene. Era stato tutto inutile? Anni di fatiche per riuscire a strappare qualche misera, farraginosa legge? A modo suo, il pescatore frustrato dello Schooners aveva colto nel segno. Dal punto di vista dei piccoli pescatori, quei tragici avvenimenti portavano vantaggi solo ai grandi, perché ormai solo le navi fabbrica potevano percorrere le zone di pesca. E quelli che non avevano mai sopportato i decreti della commissione per la caccia alle balene con le loro rigide quote di pescato e i divieti di caccia, finalmente erano legittimati a riprendere a cacciare. Anawak pagò il suo caffè e tornò alla stazione. Il negozio era vuoto. Si mise comodo dietro un tavolo, accese il computer e cercò sul web i siti dei programmi militari di addestramento dei mammiferi marini. Era sfiancante. Diverse pagine non potevano essere richiamate. Mentre allo Château aveva accesso a ogni informazione desiderata, la rete aperta soffriva sempre di più a causa dell'interruzione dei cavi sottomarini. Ma non si lasciò scoraggiare. Trovò la homepage dell'US Navy's Marine Mammal Program, riguardante il lavoro sui mammiferi marini, però le informazioni erano quelle che aveva già visto allo Château. Tutti i migliori giornalisti investigativi avevano scritto dozzine di articoli. Chiuse la pagina e continuò a cercare. Poco dopo, trovò la notizia di un progetto militare dell'ex Unione Sovietica che sembrava molto promettente. Durante la Guerra Fredda, molti delfini, leoni marini e beluga erano stati addestrati per il ritrovamento di mine e di missili andati perduti e per proteggere la flotta nel mar Nero. Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, gli animali erano stati portati nell'acquario di Sebastopoli, nella penisola di Crimea, per esibirsi in numeri da circo, finché i proprietari non avevano finito i soldi per il cibo e i medicinali ed erano stati costretti a scegliere se ucciderli o venderli. Alcuni animali erano stati usati nei programmi terapeutici per bambini autistici. Gli altri erano stati venduti all'Iran. E là le loro tracce si perdevano, dal che si poteva presumere che fossero diventati oggetto di nuovi esperimenti militari.
Evidentemente i mammiferi marini avevano vissuto una sorta di rinascita all'interno dei programmi di strategia bellica. Durante la Guerra Fredda, tra Stati Uniti e Unione Sovietica c'era stata una vera e propria corsa agli armamenti, che aveva finito per coinvolgere anche l'efficientissima squadra dei mammiferi marini. Con la fine di quel periodo, sembrava finito anche lo spionaggio coi delfini, ma alla rissa tra le superpotenze non era seguito un ordine mondiale migliore. Il conflitto israelo-palestinese era sfuggito al controllo, destabilizzando tutta la regione. Lontano dagli occhi di tutti, cresceva una nuova generazione di terroristi capace di sabotare le navi da guerra americane. Innumerevoli conflitti internazionali finivano con mine lasciate in acqua, siluri andati perduti e costosissime attrezzature affondate che dovevano essere recuperate. E si era scoperto che, per le operazioni di recupero, i delfini, i leoni marini e i beluga erano molto più adatti dei sommozzatori o dei robot. Nella ricerca delle mine, per esempio, i delfini si erano dimostrati dodici volte più efficienti degli uomini. I leoni marini delle basi militari americane di Charleston e San Diego avevano avuto una percentuale di successo del novantacinque per cento. Sott'acqua, gli uomini potevano lavorare soltanto rinchiusi dentro qualcosa; inoltre avevano un pessimo senso dell'orientamento e, una volta risaliti, dovevano trascorrere ore nelle sale di decompressione. I mammiferi marini, invece, operavano nel loro elemento naturale. I leoni marini riuscivano a vedere anche se le condizioni erano pessime. I delfini erano in grado di orientarsi anche nel buio assoluto grazie al loro sonar, una raffica di vocalizzazioni, dalla cui eco riuscivano a ricavare con precisione incredibile posizione e forma degli oggetti. I mammiferi marini s'immergevano dozzine di volte al giorno a profondità di centinaia di metri. Una piccola squadra di delfini sostituiva navi da milioni di dollari, sommozzatori, equipaggi e strumenti. E sempre - quasi sempre - gli animali tornavano indietro. In trent'anni, la Marina americana aveva perso solo sette delfini. Così i programmi di addestramento americani erano stati riavviati, con nuovi finanziamenti. Dalla Russia arrivavano notizie dei primi sforzi per riprendere il lavoro coi mammiferi marini. Un'attività che si era avviata pure in India e nel Medio Oriente. Che Vanderbilt avesse ragione? Anawak era convinto che, nelle profondità del web, si potessero trovare informazioni che non comparivano sul sito ufficiale della Marina americana. Non era la prima volta che sentiva parlare di esperimenti fatti dai militari per controllare balene e delfini. Non si trattava di un classico adde-
stramento, ma di ricerche neurali, come quelle iniziate tempo prima da John Lilly. In tutto il mondo, i militari rivelavano un interesse incontenibile per il sonar dei delfini, perché era nettamente superiore a ogni sistema umano. Però non si era ancora riusciti a comprenderne il funzionamento. Tutto lasciava intendere che, nel recente passato, fossero stati fatti esperimenti che andavano ben oltre quanto si era disposti ad ammettere in via ufficiale. Nel web avrebbe potuto trovare la spiegazione al comportamento delle balene. Per il momento, tuttavia, il world wide web taceva. Taceva insistentemente, interrotto da distacchi e mancate connessioni. Tacque per tre ore, e Anawak era ormai sul punto di rinunciare. Gli occhi gli bruciavano. Non aveva più voglia e la concentrazione si era allentata, tanto che quasi gli sfuggì una breve notizia del Earth Island Journal. Il titolo diceva: «La Marina statunitense responsabile dei delfini morti?» Il giornale era pubblicato dall'Earth Island Institute, un gruppo ambientalista che si occupava della protezione della natura in forme nuove e conduceva diversi progetti. I suoi membri partecipavano alla discussione sul clima e avevano rivelato alcuni scandali ambientali. Gran parte del loro lavoro riguardava la vita negli oceani e specialmente la protezione dei cetacei. L'articolo citava alcuni fatti risalenti all'inizio degli anni '90, quando, sulla costa francese del Mediterraneo erano stati ritrovati sedici delfini morti. Tutti i cadaveri mostravano le stesse ferite misteriose. Un buco grande come un pugno sulla nuca, una ferita così pulita che si vedevano le ossa del teschio. Allora, nessuno era stato in grado di spiegare che cosa avesse provocato le ferite, ma senza dubbio era quella la causa della morte degli animali. Tuttavia, giacché quella strage era avvenuta durante la prima crisi del Golfo, mentre le navi americane incrociavano nel Mediterraneo, l'Earth Island Institute aveva messo in relazione le ferite con esperimenti segreti della Marina statunitense, che si sospettava fossero iniziati proprio in quel periodo. Esperimenti che non avevano avuto il risultato sperato, e dunque tenuti nascosti. «Qualcosa deve essere andato spaventosamente storto», scriveva il giornale. Anawak stampò il testo e cercò nell'archivio altri articoli sull'argomento. Era così concentrato nel suo lavoro che quasi non si accorse che la porta si era aperta. Solo quando il suo campo visivo si oscurò, sollevò lo sguardo,
scorgendo un ventre muscoloso e un petto villoso sotto una giacca di pelle slacciata. Piegò all'indietro la testa. Vista l'altezza dell'uomo che aveva di fronte, era impossibile non riconoscerlo. «Volevi parlare con me», disse Greywolf. Come sempre, l'abito di pelle era unto e sgualcito. I lunghi capelli erano legati in una coda lustra e occhi e denti brillavano. Anawak non vedeva Greywolf da qualche tempo, e improvvisamente anche lui, come tutto ciò che aveva intorno, gli apparve sotto una luce diversa. Sentiva la forza del gigante, il suo carisma, il suo fascino naturale. Non c'era da meravigliarsi che Alicia fosse caduta vittima di quel concentrato di virilità. Probabilmente Greywolf non aveva dovuto fare granché per conquistarla. «Pensavo fossi da qualche parte a Ucluelet», disse. «C'ero.» Greywolf prese una sedia e si accomodò, facendola cigolare. «Licia ha detto che hai bisogno di me.» «Bisogno?» Anawak sorrise. «Le ho detto che mi avrebbe fatto piacere vederti.» «Dunque hai bisogno di me. Eccomi.» «Come stai?» «Starei meglio se tu avessi qualcosa da bere.» Anawak andò al frigorifero, prese una birra e una Coca-Cola e le mise sul banco. Greywolf si scolò mezza lattina di Heineken in un sorso e si asciugò la bocca. «Ti ho disturbato?» chiese Anawak. «Non preoccuparti. Ero a pescare con un paio d'imbecilli di Beverly Hills. I vostri stupidi affari coi whale watcher sono ricaduti tutti su di me. Nessuno ha mai sentito di una barca attaccata dalle trote, così mi sono riorganizzato e propongo tour di pesca sui fiumi e sui laghi della nostra amata isola.» «Vedo che la tua posizione sul whale watching è notevolmente cambiata.» «No, perché dovrebbe? Ma vi lascio in pace.» «Oh, grazie», disse Anawak con tono sarcastico. «Ma per fortuna tu sei ancora sul piede di guerra per vendicare la natura tormentata. Raccontami quello che facevi in Marina.» Greywolf lo guardò, sbalordito. «Ma lo sai, no?» «Raccontamelo di nuovo!» «Ero un addestratore. Addestravo i delfini per operazioni tattiche.»
«Dove? A San Diego?» «Sì, anche.» «E tu sei stato licenziato per disturbi cardiaci? È proprio così?» «Esatto», annuì Greywolf tra due sorsate di birra. «Non è vero, Jack. Tu non sei stato licenziato. Te ne sei andato.» Greywolf si tolse la lattina dalla bocca e l'appoggiò quasi con cautela sul bancone. «Come ti è venuta quest'idea?» «Perché nei dossier dello Space and Naval Warfare System Center di San Diego c'è scritto così», spiegò Anawak, cominciando a camminare lentamente avanti e indietro. «Solo perché tu capisca che sono informato: l'SSC San Diego è l'organizzazione che ha sostituito un ufficio che si chiamava Navy Command, Control and Ocean Systems Center, guarda caso con sede a Point Loma, San Diego. I finanziamenti provenivano da un'organizzazione da cui oggi è derivato l'US Navy's Marine Mammal System. Queste organizzazioni compaiono quando si vanno a cercare informazioni sulla storia dei programmi riguardanti i mammiferi marini, e ognuna di esse risulta collegata sottobanco con una serie di esperimenti discutibili, che però ufficialmente non sono mai stati fatti.» Anawak si fermò e decise di bluffare. «Esperimenti condotti a Point Loma, dove stazionavi tu.» Greywolf seguiva con occhio attento gli spostamenti di Anawak. «Perché mi racconti queste idiozie?» «Attualmente a San Diego si studiano le abitudini alimentari, i comportamenti durante la caccia, le possibilità di ammaestramento, di addomesticamento e così via. La cosa che più interessa ai militari è il cervello dei mammiferi marini, un interesse che risale agli anni '60, ma che si è improvvisamente riattizzato nel periodo della Guerra del Golfo. In quel periodo, tu eri là da alcuni anni. Quando te ne sei andato dalla Marina, eri tenente, responsabile di due squadre di delfini, MK6 e MK7, due su un totale di quattro.» Le sopracciglia di Greywolf s'inarcarono. «E allora? Nella vostra unità di crisi non avete altro di cui preoccuparvi? Per esempio della situazione in Europa?» «Il passo successivo nella tua carriera sarebbe stata l'assunzione della responsabilità di tutto il programma», continuò Anawak. «E invece tu li hai mandati a farsi fottere.» «Io non ho mandato nessuno a farsi fottere. Sono stati loro a farmi fuori.»
Anawak scosse la testa. «Jack, io godo di qualche privilegio particolare. Grazie ai militari, ho accesso a una serie di dati la cui affidabilità non può essere messa in discussione. Te ne sei andato di tua spontanea volontà e io vorrei sapere perché.» Prese la stampata dell'articolo dell'Earth Island Journal e la passò a Greywolf, che diede una rapida occhiata e mise da parte il foglio. Per un po' ci fu silenzio. «Jack», disse quindi Anawak a bassa voce. «Avevi ragione. Sono felicissimo di vederti, ma ho anche bisogno del tuo aiuto.» Greywolf fissava il pavimento. «Cos'è successo? Perché te ne sei andato?» Il mezzo indiano rifletteva. Poi gonfiò la cassa toracica e incrociò le braccia dietro la testa. «Perché vuoi saperlo?» «Perché ci può aiutare a capire cos'è successo alle nostre balene.» «Non sono le vostre balene. E non sono i vostri delfini. Niente è vostro. Vuoi sapere cos'è successo? Restituiscono il colpo, Leon. Ci è arrivato il conto. Abbiamo trattato i cetacei come una nostra proprietà, abbiamo inflitto loro sofferenze, ne abbiamo abusato, li abbiamo guardati a bocca aperta. Semplicemente non ne possono più di noi.» «Credi che lo facciano di loro iniziativa?» Greywolf fece per replicare qualcosa, poi scosse la testa. «Non m'interessa perché lo fanno. Ci siamo già interessati troppo di loro. Non voglio sapere niente, Leon. Voglio solo che li si lasci in pace.» «Jack...» mormorò Anawak. «Sono costretti...» «Sciocchezze. Chi dovrebbe...» «Sono costretti! Ne abbiamo le prove. Non posso raccontarti niente, però ho bisogno d'informazioni. Tu vuoi risparmiare loro delle sofferenze, allora fallo. Al momento sono soggetti a sofferenze che nemmeno puoi immaginare...» «Che nemmeno posso immaginare?» ripeté Greywolf, scattando in piedi. «E tu che ne sai? Tu non sai niente!» «Allora spiegami.» «Io ho...» Il gigante sembrava lottare con se stesso. La sua mandibola fremette. Strinse i pugni. Poi in lui avvenne una sorta di trasformazione. Si rilassò di botto, come se si fosse sgonfiato. «Vieni con me», disse. «Andiamo a fare una passeggiata.» Per un po' camminarono in silenzio l'uno accanto all'altro. Ai margini del villaggio, Greywolf scelse un sentiero che, passando in mezzo agli al-
beri, scendeva fino al mare. Dopo qualche passo raggiunsero l'argine. Un piccolo pontile malfermo permetteva di gustare l'austera bellezza della baia. Avanzando sulle assi storte, Greywolf si teneva vicino al bordo del pontile. Anawak lo seguiva. Sulla destra, nascosti dietro la lingua di terra, si vedevano solo il molo della Davies e alcune palafitte. Rimasero seduti per un po' a guardare le montagne, i cui colori rilucevano nella luce del tardo pomeriggio. «I tuoi dati non sono completi», disse infine Greywolf. «Ufficialmente esistono quattro gruppi, da MK4 a MK7... Ma in realtà esiste anche un quinto gruppo e il suo nome in codice è MK0. La Marina preferisce chiamarli 'sistemi' anziché 'gruppi'. A ogni sistema spettano compiti specifici. È vero, il comando è a San Diego, ma io passavo la maggior parte del tempo a Coronado, in California, dove vengono addestrati molti degli animali. L'esercito li tiene nel loro ambiente naturale, nelle baie e nelle strutture portuali. Per loro è una pacchia! Sono alimentati regolarmente e hanno tutte le cure mediche... È molto più di quanto possa desiderare per sé la maggior parte degli esseri umani.» «E tu eri responsabile di questo quinto gruppo... del quinto sistema?» «Ti sei fatto un'idea sbagliata. MK0 è ben altro. In genere, ogni sistema comprende da quattro a otto animali con compiti ben definiti. MK4, per esempio, è composto da delfini e ha il compito di rintracciare e segnalare le mine ancorate sui fondali marini. Inoltre i delfini vengono addestrati per raccogliere informazioni su eventuali tentativi di sabotaggio alle navi. MK5 è una squadra di leoni marini. Anche MK6 e MK7 cercano mine, ma il loro compito principale è la difesa da sommozzatori nemici.» «Attaccano i sommozzatori?» «No. Danno all'intruso un colpo col naso e così attaccano alla sua tuta un filo arrotolato, alla cui estremità c'è un galleggiante. Al galleggiante è collegata una luce stroboscopica, che indica la posizione del sommozzatore. Tutto il resto lo facciamo noi. Lo stesso accade con le mine. Gli animali informano del ritrovamento. In alcuni casi, s'immergono con un magnete e lo piazzano sulla mina; al magnete è attaccata una corda che riportano in superficie. Se la mina non è ancorata troppo saldamente, non dobbiamo far altro che tirare il filo. Fine della storia. Le orche e i beluga riescono a riportare in superficie i siluri da un chilometro di profondità... È impressionante. Per l'uomo, la ricerca delle mine è pericolosissima. Ti possono scoppiare in faccia, certo, ma soprattutto devi sempre cercarle nei pressi delle rive e in mezzo alle esplosioni, perché si viene bombardati dalla ter-
raferma.» «E le mine non uccidono gli animali?» «Ufficialmente per quel motivo non ne sono morti. In realtà, ci sono eccezioni, ma in una misura tollerabile. In ogni caso, all'inizio avevo solo sentito parlare di MK0, e l'avevo considerata una fandonia. Non si tratta di un sistema vero e proprio, ma del nome in codice per una serie di programmi ed esperimenti condotti in luoghi sempre diversi e con animali sempre nuovi. Gli animali di MK0 non vengono mai in contatto con gli altri, però talvolta elementi dei sistemi normali vengono reclutati da MK0 e spariscono per sempre.» Greywolf fece una pausa. «Io ero un buon addestratore. MK6 è stato il mio primo sistema. Prendevamo parte a ogni grande manovra. Nel 1990 mi sono assunto anche la responsabilità di MK7 e tutti mi hanno fatto i complimenti. Poi a qualcuno è venuto in mente che forse avrei dovuto saperne un po' di più.» «Di MK0.» «Naturalmente sapevo che le focene della Marina avevano ottenuto un grande successo nei primi anni '70 in Vietnam, dove avevano protetto il porto a Cam Ranh Bay, bloccando i sabotaggi sottomarini dei vietcong. È la prima cosa che ti raccontano in Marina, e ne sono orgogliosi. Quello che non ti raccontano sono le circostanze in cui è avvenuto quel successo. Non spendono neppure una parola sullo Swimmer Nullification Program, che in effetti funziona in maniera un po' diversa. Gli animali vengono addestrati a strappare maschera, pinne e respiratore ai sommozzatori nemici. Una cosa già piuttosto brutale in sé, vero? Ma in Vietnam quegli animali avevano anche coltelli lunghi e affilati sul muso e sulle pinne e alcuni esemplari portavano addirittura degli arpioni sul dorso. Quello che attaccava sott'acqua non era più un delfino o una focena, ma una macchina per uccidere. Comunque robetta in confronto a quello che si sono inventati in seguito, quando hanno piazzato sui musi degli animali delle siringhe da conficcare nei sommozzatori, cosa che gli animali facevano diligentemente. Per il sommozzatore colpito, il problema era che la siringa iniettava nel suo corpo tremila psi di anidride carbonica, cioè anidride carbonica compressa. Il gas si diffondeva nel giro di qualche secondo e la vittima esplodeva. In quel modo, dai nostri animali, sono stati uccisi più di quaranta vietcong e per sbaglio anche due americani, ma qualche perdita era normale.» Anawak aveva la nausea. «Qualcosa del genere è accaduto negli anni '80, nel Bahrein», proseguì Greywolf. «Era la mia prima volta al fronte. Il mio sistema aveva fatto di-
ligentemente il proprio lavoro... e io allora non sapevo nulla di MK0. Non sapevo neanche che lanciavano gli animali col paracadute nelle zone che non era possibile raggiungere, anche da tre chilometri di altezza, benché non tutti sopravvivessero. Alcuni erano lanciati dagli elicotteri senza paracadute, da venti metri sul livello del mare. Altri ancora venivano mandati ad attaccare le mine agli scafi delle navi e dei sommergibili nemici. Talvolta si aspettava che gli animali fossero sufficientemente vicini e poi li si faceva esplodere con un comando a distanza. Operazioni kamikaze. L'ho saputo poco tempo dopo.» Greywolf rimase per un po' in silenzio, quindi riprese: «Avrei dovuto smettere già allora, Leon, ma la Marina era la mia casa. Là ero felice. Non so se riesci a capire, ma era così». Anawak rimase in silenzio. Lo capiva fin troppo bene. «Mi consolavo col fatto di appartenere ai good guys. Ma il comando generale aveva deciso che sarebbe stato un bene inserirmi nel programma MK0. I bad guys pensavano che avessi un talento eccezionale nel trattare con gli animali.» Greywolf sputò. «Avevano ragione, quei figli di puttana. E io sono stato un idiota perché, invece di prenderli a pugni, ho accettato. Mi ero convinto che la guerra fosse così. Gli uomini cadevano in combattimento, saltavano sulle mine... Allora perché piangere per qualche delfino? Così sono arrivato a San Diego, dove stavano lavorando per dotare le orche di testate nucleari...» «Come?» Greywolf lo guardò. «Ti meravigli? Io ho smesso da tempo di meravigliarmi. Ci sono progetti per spedire in giro le orche con quelle cose. Una bomba di quel genere pesa sette tonnellate e un'orca adulta può portarla per chilometri e chilometri prima di raggiungere un porto nemico. È praticamente impossibile fermarla. Non so a che punto siano arrivati, ma credo che, a tutt'oggi, abbiano risolto parecchi problemi. Allora eravamo nel pieno degli esperimenti. In quell'occasione, sono stato testimone anche di un altro esperimento. La Marina si compiaceva di mostrare ai giornalisti dei video nei quali i delfini nuotavano con una mina in bocca e poi la riportavano indietro, anziché far esplodere il culo al comandante del sommergibile cui era destinata. È su queste basi che la Marina sostiene che simili commando killer non esistono. In effetti cose del genere accadono, ma molto raramente. Nella peggiore delle ipotesi, salta in aria una barca con tre uomini, una cosa che la Marina può tranquillamente sopportare. E che comunque non ha impedito di continuare gli esperimenti.» Greywolf fece una pausa, quindi proseguì: «Se non riesci a tenere sulla rotta giusta un'or-
ca nucleare, però, le cose cambiano. La Marina può mandare quante orche vuole, ma deve essere sicura che agli animali non vengano idee stupide. E la strada migliore per evitare idee stupide è... toglierle». «John Lilly», mormorò Anawak. «Chi?» «Un ricercatore. Negli anni '60 ha condotto esperimenti sul cervello dei delfini.» «Ah, sì, ne ho sentito parlare», disse Greywolf, pensieroso. «In ogni caso, sono stato testimone di come bucavano la testa dei delfini. Era il 1989. Facevano dei piccoli buchi nella scatola cranica con martello e scalpello. Gli animali erano svegli e dovevano essere tenuti fermi da diversi uomini robusti, perché cercavano di saltar giù dal tavolo operatorio. Mi avevano spiegato che non era tanto per il dolore, quanto perché il rumore li infastidiva. In effetti, la procedura appariva molto più dolorosa di quanto probabilmente fosse in realtà. Nei buchi infilavano degli elettrodi per stimolare il cervello con impulsi elettrici.» «Sì, questo è John Lilly!» esclamò Anawak. «Ha cercato di preparare una sorta di carta geografica del cervello.» «Credimi, la Marina ha già preparato le sue carte», commentò amaramente Greywolf. «Mi sentivo male, ma ho tenuto la bocca chiusa. Mi hanno mostrato un delfino in una vasca: portava sul dorso un dispositivo, come se avesse addosso delle briglie. Il dispositivo controllava gli elettrodi nella scatola cranica. Riuscivano a guidare l'animale attraverso impulsi elettrici. Era stupefacente, bisogna ammetterlo. Potevano far nuotare il delfino a destra o a sinistra, spingerlo a saltare... Potevano fare in modo che aggredisse e colpisse manichini di sommozzatori oppure bloccavano la sua fuga e lo mettevano in una sorta di standby. Che l'animale lo facesse di sua spontanea volontà o no era assolutamente irrilevante. Quel delfino non possedeva più la minima volontà. Funzionava come un'automobilina telecomandata, era un... giocattolo. Loro erano entusiasti. Si profilava un grande successo. Nel 1991, eravamo in viaggio per il Golfo e avevamo con noi una dozzina di questi delfini telecomandabili; a San Diego, intanto, stavano lavorando sulle orche nucleari. Io continuavo a tenere chiusa la mia boccaccia e cercavo di convincermi che quel progetto non mi riguardava. I miei delfini cercavano le mine, venivano alimentati bene e coccolati. Loro insistevano perché m'impegnassi attivamente con MK0, ma in qualche modo ero riuscito a ottenere una pausa di riflessione, una cosa non particolarmente gradita nell'esercito, perché presuppone che tu pensi! Co-
munque sia, ci passarono sopra. Superammo lo stretto di Gibilterra per fare una serie di test in mare aperto. All'inizio filò tutto liscio. Poi iniziarono i problemi. Nei laboratori e negli acquari di San Diego il comando a distanza funzionava perfettamente, ma in mare aperto gli animali erano sottoposti anche ad altri stimoli. Gli inconvenienti si accumularono. In natura l'esperimento non funzionava - perlomeno non come i dirigenti del progetto avevano immaginato - e così gli animali divennero un rischio per la sicurezza. Non potevamo riportarli in America e nessuno voleva portarli con sé nel Golfo. Gettammo l'ancora al largo della Francia. Là c'è un istituto partner in cui esperti francesi collaboravano al programma MK0. I francesi non sono i nostri migliori amici, ma ne sanno parecchio di ricerche marine... Insomma speravamo di avere qualche risposta. Ci accolse un certo René Guy Busnel, che mi fu presentato come direttore del rinomato Laboratoire d'Acoustique Animale. Promise d'interessarsi del nostro problema e c'invitò a una visita. Come prima cosa, in quel rinomato laboratorio, ci si presentò un delfino completamente mutilato, bloccato in un dispositivo a morsa. Nel suo dorso era infilato un coltello lungo un braccio. Non chiesi quale scopo avesse, però gli assistenti del laboratorio ci consegnarono una cartolina dell'istituto che loro avevano firmato col sangue del delfino. Nel darcela, ridevano tutti.» Greywolf si fermò. Dal profondo della sua enorme cassa toracica giunse un suono indefinibile, come un sospiro di rassegnazione. «Busnel ci parlò degli esperimenti sul cervello e arrivò alla conclusione che qualcosa non andava. Evidentemente i direttori del progetto avevano trascurato un elemento o l'avevano valutato nel modo sbagliato. Ritornati a bordo, si tenne il consiglio di guerra in cui si decise di eliminare i delfini. Li liberammo in mare e, quando si furono allontanati di qualche centinaio di metri, sulla nave qualcuno schiacciò il bottoncino di uno strumento. Avevano inserito delle capsule esplosive negli elettrodi, per impedire che quella tecnologia finisse in mani nemiche. L'esplosivo non era molto potente, ma bastava per distruggere gli elettrodi e la bardatura. Sarebbero morti anche gli animali. Poi continuammo il nostro viaggio.» Greywolf si morse il labbro inferiore. Poi guardò Anawak. «Sono quelli i delfini trovati sulla costa francese. La notizia dell'Island Earth Journal si riferisce a loro. Adesso lo sai.» «E tu hai...» «Ho detto loro che ne avevo abbastanza. Cercarono di farmi cambiare idea, ma invano. Naturalmente non volevano vedere scritto nei dossier che
il loro miglior addestratore se ne andava per motivi... innominabili. Su una cosa del genere si gettano sempre orde d'imbrattacarte e la televisione rizza le orecchie, sai come vanno queste cose. Tergiversarono. Alla fine ci mettemmo d'accordo: loro mi avrebbero dato un bel mucchio di soldi e io avrei accettato un congedo per motivi di salute. Io ho militato nei SEALS. I miei scompensi cardiaci non esistono. Ma nessuno si sogna di fare domande stupide se vieni congedato per problemi cardiaci. E io ero fuori.» Anawak guardò verso la baia. «Non sono uno scienziato come te», disse Greywolf a bassa voce. «Capisco qualcosa dei delfini e di come si debba trattarli, però non so niente di neurologia e di tutta quella merda. Non riesco più a sopportare se qualcuno sviluppa pubblicamente un interesse per le balene o per i delfini, anche se vuole fare solo una fotografia. Questo è tutto. Non riesco più a sopportarlo, e non posso farci niente.» «Shoemaker è convinto che tu volessi eliminarci.» Greywolf scosse la testa. «Per un po' ho pensato che il whale watching fosse un'attività tollerabile, ma poi... Lo hai visto tu stesso, non ha funzionato. Sono stato io ad andarmene. Non ho dovuto far altro che costringervi a licenziarmi.» Anawak appoggiò il mento alle mani. Era così bello lì. Quella baia con le montagne, come tutta l'isola, era così incredibilmente bella che quasi faceva male. «Jack», disse dopo un po'. «Sarai costretto a ripensarci. Succede di nuovo. I tuoi cetacei non si stanno vendicando. Non ci stanno presentando il conto. Sono guidati. C'è qualcuno che sta conducendo il suo personale programma MK0. Ed è molto peggio di tutto ciò che la Marina ha fatto sinora.» Greywolf non ribatté. Lasciarono il pontile e imboccarono in silenzio il sentiero nel bosco verso Tofino. Davanti alla Davies Whaling Station, Greywolf si fermò. «Poco prima che me ne andassi, ho sentito dire che gli esperimenti con le orche nucleari avevano fatto un decisivo passo in avanti. In quell'occasione, venne anche pronunciato un nome, collegato alla neurologia e a qualcosa che hanno chiamato 'computer neurali'. Dicevano che per raggiungere il controllo totale sugli animali bisognava seguire le idee di un certo professor Kurzweil. Ho pensato di dirtelo. Non so se servirà a qualcosa.» Anawak rifletté. «Certo», mormorò. «Penso proprio di sì.» Château Whistler, Canada
Verso sera, Karen Weaver bussò alla camera di Sigur Johanson. Com'era sua abitudine, non attese risposta e abbassò la maniglia per entrare, ma la porta era chiusa. Lo aveva visto ritornare da Nanaimo e sapeva che voleva incontrare Bohrmann. Allora Karen scese nella hall e lo trovò al bar, seduto con lo scienziato tedesco e con Stanley Frost. Erano chini su alcuni diagrammi e immersi in una discussione concitata. «Salve.» Karen si avvicinò. «Avete fatto qualche passo avanti?» «Siamo bloccati», sospirò Bohrmann. «Nell'equazione abbiamo ancora un paio d'incognite.» «Bah, prima o poi riusciremo a trovarle», brontolò Frost. «Dio non gioca a dadi.» «Questo l'ha detto Einstein», notò Johanson. «E aveva torto.» «Dio non gioca a dadi!» ripeté Frost, convinto. Lei attese qualche istante, poi toccò Johanson su una spalla. «Potrei... Scusa il disturbo, ma potrei parlarti a quattr'occhi?» Lui esitò. «Subito? Stiamo esaminando lo scenario di Stan. È una cosa che fa venire i sudori freddi.» «Davvero, dovrei parlarti.» «Perché non ci fai compagnia?» «Non potresti venire con me per un paio di minuti? Non mi serve molto tempo.» Sorrise. «Poi parteciperò anch'io, mi lascerò mostrare tutte le simulazioni e vi farò saltare i nervi con osservazioni di un'intelligenza nove volte superiore alla media.» «Una prospettiva splendida», ghignò Frost. «Dove andiamo?» chiese Johanson, non appena ebbero lasciato il tavolo. «È lo stesso. Nella hall.» «È qualcosa d'importante?» «Importante è un eufemismo!» «Bene.» Uscirono. Il tramonto ricopriva di una luce rossastra lo Château e le cime innevate. Gli elicotteri davanti all'albergo sembravano giganteschi insetti. Mentre si avviavano in direzione del villaggio, Karen avvertì un vago senso di disagio. Di certo, gli altri si sarebbero convinti che lei e Johanson avevano dei segreti. Ma non era così: lei voleva soltanto sentire la sua opinione. Toccava a lui decidere quando e come presentare la sua teoria all'unità di crisi... e ciò significava che doveva essere informato prima di tutti.
«Com'è andata a Nanaimo?» chiese Karen. «Da brivido.» «Significa che Long Island è stata invasa da granchi killer?» «Granchi con alghe killer», disse Johanson. «Simili a quelle dell'Europa, solo più velenose.» «Sembra una nuova ondata di attacchi.» «Sì. Oliviera, Fenwick e Rubin le stanno analizzando.» Si schiarì la voce. «Senti, apprezzo il tuo interesse, ma non eri tu che volevi raccontarmi qualcosa?» «Ho trascorso tutto il giorno a studiare i dati dei satelliti. Poi ho confrontato le analisi dei radar con le registrazioni multispettro. Avrei voluto vedere anche i dati dei drifter di Bauer, ma non trasmettono più. Gli elementi sono comunque sufficienti. Lo sai che la superficie dei mari nelle zone esterne ruota in giganteschi vortici oceanici?» «L'ho sentito dire.» «Una di queste zone esterne è la Corrente del Golfo. Bauer presumeva che in quella regione fosse successo qualcosa. Non trovava più i vortici, quelli in cui l'acqua sprofondava, ed era arrivato alla conclusione che qualcosa stava turbando il comportamento delle grandi correnti, ma non ne era sicuro.» «E allora?» Si fermò e lo guardò. «Ho fatto i calcoli, li ho confrontati, valutati, li ho rifatti, li ho confrontati ancora, ho avuto dei dubbi, li ho rivalutati e rifatti ancora. La curvatura della Corrente del Golfo è sparita.» Johanson aggrottò la fronte. «Vuoi dire...» «Il vortice non ruota più come prima e, se osservi le analisi spettrografiche, arrivi alla conclusione che il calore è sparito. Non ci sono dubbi, Sigur. Ci stiamo avviando verso una nuova Era Glaciale. La Corrente del Golfo non scorre più. Qualcosa l'ha fermata.» Consiglio di sicurezza nazionale «Questa è una vera porcheria! E qualcuno dovrà pagare.» Il presidente voleva veder scorrere il sangue. Era arrivato all'Offutt Air Force Base e, come prima cosa, aveva indetto una videoconferenza del consiglio di sicurezza nazionale. Erano collegati Washington, Offutt e lo Château. Alla Casa Bianca c'erano il vice presidente, il segretario alla Difesa e il suo vice, il segretario di Stato - una
donna -, il consigliere per la sicurezza nazionale, il direttore dell'FBI e il capo degli stati maggiori riuniti. Nella centrale per la lotta al terrorismo, in una sala sotterranea priva di finestre all'interno del quartier generale della CIA, a Langley, si trovavano il direttore della CIA, il vice direttore per le operazioni, il direttore del Centro nazionale per la lotta al terrorismo e il capo delle operazioni speciali. La cerchia era completata dal generale Judith Li e dal vice direttore della CIA, Jack Vanderbilt, seduti nella War Room provvisoria dello Château, davanti a una fila di schermi nei quali si vedevano gli altri partecipanti alla riunione. Alcuni esibivano un atteggiamento di ferma determinazione, altri apparivano disorientati. Il presidente non si sforzava neppure di nascondere la rabbia. Nel pomeriggio, il suo vice aveva proposto di affidare allo stato maggiore la gestione di un'unità di crisi, ma il presidente era rimasto dell'idea di dirigere personalmente la seduta plenaria del consiglio di sicurezza nazionale. Non voleva farsi sottrarre il potere decisionale. E con questa scelta agiva nel senso auspicato da Judith Li. Nella gerarchia dei consiglieri, Judith non era la voce più importante. Il più alto rango militare era rivestito dal capo degli stati maggiori riuniti. Era il primo consigliere militare del presidente e anche lui aveva un vice. Tutti gli idioti avevano un vice. In ogni caso, Judith sapeva che il presidente la ascoltava e ciò la faceva ardere di orgoglio. L'evoluzione della sua carriera era sempre al centro dei suoi pensieri e lo era anche in quel momento. Da generale comandante sarebbe diventata capo degli stati maggiori riuniti. L'attuale capo era sul punto di essere esonerato dall'incarico e il suo vice era notoriamente un incapace. Poi, con qualche giro di valzer politico, sarebbe approdata al dipartimento di Stato o alla Difesa e infine si sarebbe potuta presentare alle elezioni presidenziali. Se ora faceva bene il suo lavoro - cioè nell'esclusivo interesse degli Stati Uniti - la sua elezione era pressoché sicura. Il mondo stava sprofondando. Judith Li era in ascesa. «Abbiamo di fronte un nemico senza volto», disse il presidente. «Alcuni pensano che dovremmo puntare il dito contro quella parte dell'umanità che ci è ostile. Altri sono convinti che si tratti di qualcosa in più di una tragica accumulazione di processi naturali. Per quanto mi riguarda, non voglio lunghi discorsi, ma esigo che si trovi un accordo per agire. Voglio dei piani, voglio conoscere i costi e la durata.» Socchiuse le palpebre. Il livello della sua rabbia e della sua determinazione si poteva leggere in quel semplice movimento. «Personalmente non credo alla favola della natura impazzita. Siamo in guerra. Questa è la mia opinione. L'America è in guerra.
Quindi che facciamo?» Il capo di stato maggiore disse che non bisognava più stare sulla difensiva. Si doveva passare all'attacco. Sembrava molto determinato. Il segretario alla Difesa lo guardò, aggrottando la fronte. «E chi vorrebbe attaccare?» «Là fuori c'è qualcuno da attaccare», rispose l'altro, deciso. «E prima o poi scopriremo chi è.» Il vice presidente obiettò che, al momento, gli sembrava impossibile che singoli gruppi terroristici fossero in grado di condurre offensive di quel calibro. «Ma allora dietro tutto ciò si nasconde uno Stato», aggiunse. «Forse diversi Stati, chissà. Jack Vanderbilt ha formulato per primo questa idea e ritengo che non sia da escludere. Credo che dovremo indirizzare la nostra attenzione verso chiunque possa avere le risorse per fare una cosa del genere.» «Ce ne sarebbero alcuni», disse il direttore della CIA. Il presidente annuì. Da quando, immediatamente dopo la sua elezione, il direttore della CIA gli aveva fatto una relazione dal titolo I buoni, i cattivi, i malvagi, vedeva il mondo popolato da criminali senza Dio che pianificavano la distruzione degli Stati Uniti. E non era un'analisi completamente sbagliata. «Dobbiamo chiederci se è necessario cercare tra le file dei nostri nemici classici», disse. «L'aggressione riguarda tutto il mondo libero, non solo l'America.» «Il mondo libero?» sbottò il segretario alla Difesa. «Accidenti, siamo noi! L'Europa fa parte della libera America. La libertà del Giappone è la libertà dell'America. Il Canada, l'Australia... Se l'America non è libera, non lo sono neppure loro.» Davanti a sé sul tavolo aveva un foglio di appunti. Lo colpì col pugno. Era convinto che nessuna questione fosse così complessa da non poter essere sintetizzata in un singolo foglio. «Solo come promemoria: di armi biologiche disponiamo noi e Israele, e siamo i buoni», disse. «Poi ci sono il Sudafrica, la Cina, la Russia, l'India, che sono i cattivi. Inoltre le hanno la Corea del Nord, l'Iran, l'Iraq, la Siria, la Libia, l'Egitto, il Pakistan, il Kazakistan e il Sudan. I malvagi. E questo è un attacco biologico. Una cosa malvagia.» «Potrebbero avere un ruolo anche composti chimici», disse il vice del segretario alla Difesa. «O no?» «Calma.» Il direttore della CIA sollevò la mano. «Bisogna partire dal presupposto che avvenimenti come quelli che stiamo vivendo devono essere supportati da una gran quantità di denaro e da una enorme capacità di
spesa. Le armi chimiche sono facili da preparare ed economiche, mentre la robaccia biologica richiede risorse enormi. E noi non siamo ciechi. Il Pakistan e l'India collaborano con noi. Abbiamo formato più di cento agenti segreti pakistani per operazioni sotto copertura. In Afghanistan e in India alcune dozzine di agenti lavorano per la CIA e in parte hanno contatti eccellenti. Tutta quella zona può essere esclusa. In Sudan abbiamo truppe paramilitari che collaborano con l'opposizione locale e nel governo del Sudafrica ci sono nostri uomini. Da nessuna parte è venuto fuori che si sta preparando qualcosa di grosso. Quindi dobbiamo analizzare dove, nell'ultimo periodo, sono confluite grosse somme di denaro e dove sono state osservate attività sospette. Il nostro compito è delimitare una zona, non fare l'elenco di tutte le canaglie del mondo.» «Posso affermare che non ci sono stati grandi spostamenti di denaro», disse il direttore dell'FBI. «Come fa a saperlo?» «Lei sa che l'attuazione delle ordinanze per la sorveglianza delle fonti di finanziamento del terrorismo ci permette una visione sufficientemente ampia. Il dipartimento del Tesoro ha il quadro esatto di dove vengono trasferite grandi somme di denaro. Avremmo notato qualcosa.» «E allora?» chiese Vanderbilt. «Niente, né in Africa, né in Asia, né nel Medio Oriente. Nulla che indichi il coinvolgimento di uno Stato.» Vanderbilt si schiarì la voce. «Ci stanno prendendo per il naso», disse. «Di certo non lo pubblicano sul Washington Post.» «Ripeto che non abbiamo...» «Mi spiace disilludere qualcuno», lo interruppe Vanderbilt. «Ma credete davvero che qualcuno in grado di mandare a pezzi il mare del Nord e di avvelenare New York presenti ai nostri uomini la valigetta piena di soldi?» «Il mondo cambia», intervenne il presidente. «E, in un mondo del genere, mi aspetto che noi riusciamo a vedere in tutte le valigette. Dobbiamo scoprire se quelle canaglie sono furbe oppure se siamo noi a essere stupidi. So che alcuni di voi sono maledettamente scaltri, ma il nostro lavoro consiste nell'essere ancora più scaltri. E a partire da oggi.» Guardò il direttore del Centro nazionale per la lotta al terrorismo. «Allora, quanto siamo furbi?» L'altro si strinse nelle spalle. «L'ultima cosa che abbiamo ricevuto è un avvertimento dall'India secondo cui alcuni terroristi pakistani vorrebbero far saltare in aria la Casa Bianca. Conosciamo già quella gente. Non c'è
nessun pericolo. Lo sapevamo da un pezzo e avevamo tenuto d'occhio alcune transazioni finanziarie. Il Centro nazionale per la lotta al terrorismo raccoglie ogni giorno montagne d'informazioni sulle minacce internazionali. È vero, signor presidente, non succede nulla che noi non veniamo a sapere.» «E al momento è tutto tranquillo?» «Non è mai tutto tranquillo. Ma quello che sta succedendo non è preparato o finanziato apertamente. Questo non vuol dire rinunciare alle ricerche.» Lo sguardo del presidente si appuntò sul capo delle operazioni speciali. «Dalla sua gente mi attendo un impegno raddoppiato», disse in tono sferzante. «Non m'interessa in quali postazioni esterne e in quali basi militari lavorino. I cittadini americani non possono subire danni perché qualcuno non ha svolto il proprio compito.» «Naturalmente, signore.» «Vorrei ricordarvi ancora una volta che siamo stati attaccati! Siamo in guerra! Voglio sapere contro chi.» «Si rivolga al Medio Oriente», gridò Vanderbilt. «Lo stiamo facendo», disse Judith Li di fianco a lui. Senza guardarla, Vanderbilt sospirò. «Ovviamente è possibile colpirsi in faccia da soli per dare l'impressione di essere stati picchiati», riprese Judith Li. «Ma è credibile? Se pensiamo che gli ultimi avvenimenti catastrofici abbiano avuto origine in Paesi ai quali non andiamo a genio, allora rimane il problema del perché quei Paesi si siano danneggiati da soli. Ci hanno preso di mira? Be', spargere un po' di terrore in tutto il mondo ha senso, serve a depistare, a far credere che gli Stati Uniti non siano l'obiettivo primario. Ma non è questo il caso.» «La nostra idea è diversa», disse il direttore della CIA. «Lo so. Questa è la mia: noi non siamo l'obiettivo primario. Sono successe troppe cose, e quello che è accaduto è troppo orribile. Prendere il controllo di migliaia di animali, allevare milioni di nuovi organismi, provocare uno tsunami nel mare del Nord, sabotare la pesca, far invadere l'Australia e il Sudamerica dalle meduse, distruggere navi... Come si può ricavare un vantaggio politico ed economico da tutto ciò? Che piaccia o no a Jack, la catastrofe ha colpito anche il Medio Oriente. E dobbiamo prenderne atto. Io mi rifiuto di scaricare la responsabilità sugli arabi.» «Nel Medio Oriente sono affondati un paio di cargo», ringhiò Vanderbilt.
«Ben più di un paio.» «Forse abbiamo a che fare con un folle?» suggerì il segretario di Stato. «Con un criminale?» «Forse», ammise Judith Li. «Qualcuno - un individuo assai ricco - potrebbe muovere di nascosto grandi somme e utilizzare strumenti tecnologici all'avanguardia. Credo che dovremmo prestare più attenzione a questa categoria. Qualcuno ha inventato qualcosa. Allora inventiamoci anche noi qualcosa da contrapporre. Qualcuno ci scaglia addosso i vermi? E noi inventiamo qualcosa contro i vermi. Qualcuno alleva granchi killer, alghe e sostanze velenose? E noi adottiamo delle contromisure.» «Quali contromisure ha adottato?» chiese il segretario di Stato. «Abbiamo...» iniziò il segretario alla Difesa. «Abbiamo isolato New York», lo interruppe Judith Li. Non tollerava di farsi rubare la scena. «E ho appena sentito che l'allarme granchi a Washington è da prendere sul serio. Dobbiamo dichiarare lo stato di emergenza. Metteremo in quarantena anche Washington. Il personale della Casa Bianca deve seguire l'esempio del presidente e cercare un'altra sede per tutta la durata della crisi. Ho fatto piazzare nelle vicinanze di tutte le città costiere varie unità coi lanciafiamme. Stiamo anche valutando l'uso di rimedi chimici.» «E che cosa ne è di batiscafi, robot e cose simili?» volle sapere il direttore della CIA. «Nulla. Da qualche tempo, qualsiasi cosa caliamo in mare sparisce senza lasciare tracce. Là sotto non abbiamo la minima possibilità di controllo. I ROV sono collegati al mondo esterno solo attraverso cavi, che regolarmente tiriamo fuori dall'acqua in pezzi e subito dopo che le telecamere hanno ripreso una luce bluastra. Non sappiamo dove siano andati a finire gli AUV. Quattro coraggiosi scienziati russi, nelle scorse settimane, sono andati sott'acqua con un batiscafo MIR, ma a mille metri di profondità qualcosa li ha afferrati e inghiottiti.» «Ciò significa che abbiamo ceduto il campo.» «Al momento, cerchiamo di ripulire le zone infestate dai vermi con reti a strascico. Vengono tese delle reti anche davanti alle coste, una misura aggiuntiva per evitare invasioni della terraferma come quella di Long Island.» «Mi sembra un metodo piuttosto antiquato.» «Siamo stati attaccati in modo antiquato. Inoltre abbiamo messo alle strette coi sonar i cetacei di Vancouver Island. Qualcosa manovra gli ani-
mali, e allora noi li colpiamo finché il rumore non fa scoppiare loro la testa. Vedremo chi vincerà l'ultima mano.» «Sembra una cosa orribile, Judith.» «Se ha un'idea migliore, sarà la benvenuta.» Per un momento rimasero tutti in silenzio. «La sorveglianza satellitare ci aiuta?» chiese poi il presidente. «Parzialmente.» Il vice direttore per le operazioni scosse la testa. «L'esercito è in grado di rilevare panzer mimetizzati sotto i rami, ma ci sono pochi sistemi che possano rilevare qualcosa delle dimensioni di un granchio. È vero, abbiamo KH-12 e i satelliti Keyhole di nuova generazione. Inoltre Lacrosse e gli europei ci permettono l'accesso a Topex/Poseidon e SAR-Lupe, che però lavorano col radar. Il problema è che cose di quel genere possiamo riconoscerle solo con lo zoom. Cioè ci dobbiamo concentrare su una piccola sezione. Finché non sappiamo che cosa esce dal mare e dove, osserviamo disperatamente in tutte le direzioni. Il generale Li ha proposto di mettere a disposizione i satelliti spia che pattugliano sopra le coste. Mi sembra una buona proposta, ma anch'essi non vedono tutto. Gli NRO e gli NSA fanno del loro meglio. Probabilmente riusciremo a fare qualche passo avanti con l'analisi delle informazioni che abbiamo ottenuto. Le stiamo tentando tutte con SIGINT.» «Forse è proprio questo il nostro problema», disse pensieroso il presidente. «Forse dovremmo provare a usare un po' più di HUMINT.» Judith trattenne un sorriso. HUMINT era una delle espressioni preferite dal presidente. Nel gergo della sicurezza degli Stati Uniti, SIGINT stava per Signals Intelligence, una definizione che comprendeva tutte le tecniche per ottenere informazioni a distanza. HUMINT, invece, indicava l'acquisizione d'informazioni attraverso il lavoro delle spie cioè Human Intelligence. Il presidente, un uomo a proprio agio in maniche di camicia e per nulla versato nelle questioni tecnologiche, era pervaso dallo spirito pionieristico dei padri fondatori. Gli piaceva guardare qualcuno negli occhi. Sebbene comandasse l'esercito più tecnologicamente avanzato del mondo, era molto più legato all'immagine dell'esploratore che si muove nel sottobosco che a quella dei satelliti. «Mettete in movimento le rotelle», sbottò. «Alcuni amano nascondersi dietro le console di comando e i programmi dei computer. Voglio che si programmi meno e si pensi di più.» Il direttore della CIA congiunse la punta delle dita. «Va bene», disse. «Forse non dovremmo attribuire troppa importanza all'ipotesi Medio O-
riente.» Judith guardò Vanderbilt. Il vice direttore della CIA fissava dritto davanti a sé. «Si era lanciato un po' troppo in avanti, Jack?» gli mormorò, in modo che nessun altro potesse sentirla. «Chiuda la bocca, dannazione.» Lei si chinò in avanti e, ad alta voce, disse: «Vogliamo parlare di qualcosa di positivo, una volta tanto?» Il presidente sorrise. «Tutto ciò che è positivo non può che farci piacere, Jude.» «Bene, c'è sempre il tempo del dopo, ma ci arriva soltanto chi vince. Quando questa storia sarà finita, il mondo sarà diverso. Finora sono stati destabilizzati molti Paesi e, tra di essi, ce ne sono alcuni il cui crollo può essere sfruttato a nostro vantaggio. Il pianeta si trova in una situazione terribile, ma 'crisi' è un sinonimo di 'possibilità'. Se lo sviluppo della situazione attuale portasse alla caduta di un regime a noi sgradito, la colpa non sarebbe nostra... Tuttavia noi potremmo orientare gli eventi e sostituire gli esponenti di quel regime con gente di nostra fiducia.» «Ehm...» fece il presidente. Il segretario di Stato rifletté per un attimo, poi disse: «Di conseguenza, la questione non è chi fa questa guerra, ma chi la vince». «Penso che il mondo civilizzato debba combattere fianco a fianco contro il nemico invisibile», confermò Judith Li. «Insieme. Se si va avanti in questo modo, senza dubbio tutte le alleanze convergeranno verso l'ONU. E per il momento va bene così, tutto il resto sarebbe sbagliato. Non dobbiamo imporci, ma essere disponibili. Offrire collaborazione. E dobbiamo vincere, condannando alla sconfitta tutti quelli che, in passato, ci hanno minacciato o sono stati contro di noi. Indichiamo in modo chiaro la strada da prendere per uscire da questa situazione e, una volta passata la crisi, la divisione dei ruoli sarà obbligata.» «Un punto di vista chiarissimo, Jude», commentò il presidente. Gli uomini intorno al tavolo fecero vari cenni di approvazione. Ma si percepiva anche un vago fastidio. Judith Li si appoggiò allo schienale. Aveva detto abbastanza - forse più di quanto le fosse concesso dalla sua posizione -, ma aveva ottenuto l'effetto sperato. Sì, aveva infastidito alcune persone il cui compito sarebbe stato proprio quello di dire quelle cose. Non aveva importanza. Era riuscita ad arrivare a Offutt. «Bene», disse il presidente. «Credo che, allo stato attuale delle cose,
possiamo mettere questa proposta nel cassetto, ma il cassetto deve restare un po' aperto. In nessun caso dobbiamo risvegliare nell'opinione pubblica mondiale l'impressione di essere interessati a prendere la guida della crisi. Come procedono i suoi scienziati, Jude?» «Credo che siano il nostro capitale più grande.» «Quando vedremo dei risultati?» «Domani ci riuniremo. Ho ordinato al maggiore Peak di tornare, in modo che possa essere presente. Potrà coordinare anche da qui lo stato di emergenza a New York e Washington.» «Signore, dovrebbe tenere un discorso alla nazione», disse il vice presidente al presidente. «Sì, è vero.» Il presidente batté una mano sul tavolo. «Bisogna allertare tutti gli scribacchini. Voglio qualcosa di schietto. Non le solite chiacchiere per rabbonire, ma qualcosa che dia speranza.» «Dobbiamo accennare a un eventuale nemico?» «No, la situazione verrà trattata come una catastrofe naturale. Non è ancora il momento, la gente è già abbastanza inquieta. Dobbiamo rassicurarla, sostenendo che faremo tutto ciò che è umanamente possibile per proteggerla - che possiamo farlo, che abbiamo i mezzi e le possibilità per farlo - e che. siamo pronti a tutto. Gli Stati Uniti non sono solo il Paese più libero del mondo, ma anche il più sicuro, qualunque cosa esca dal mare. Non importa quello che succede. E do a tutti voi ancora un consiglio. Pregate, pregate il Signore. Questa è la sua Terra e Lui sarà con noi. Ci darà la forza per sistemare tutto secondo la nostra volontà». New York, USA Non ce la facciamo. Ecco cosa pensava Salomon Peak mentre saliva sull'elicottero. Non siamo preparati. Non abbiamo nulla con cui combattere questo orrore. Non ce la facciamo. L'elicottero decollò dall'eliporto di Wall Street e si diresse verso nord, sorvolando Soho, Greenwich Village e Chelsea. La città era illuminata, ma c'era qualcosa che non andava. Molte strade erano rischiarate dai riflettori e il traffico era assente. Da lassù si rivelavano le reali dimensioni del caos. New York era controllata dalle forze di sicurezza dell'esercito e dall'Office of Emergency Management. Elicotteri atterravano e decollavano in continuazione. Anche il porto era stato chiuso. Sull'East River incrociavano so-
lo navi militari. E i morti aumentavano. Erano impotenti. Non potevano fare nulla. L'OEM aveva divulgato centinaia di prescrizioni e consigli sul comportamento da tenere in caso di catastrofe, ma, a quanto pareva, i costanti avvertimenti e le esercitazioni pubbliche non avevano ottenuto nessun effetto. Le taniche con l'acqua potabile che dovevano essere presenti in ogni casa non erano state predisposte. E anche dov'era stato fatto, la gente moriva per le tossine che uscivano come gas dalle tubature, dai lavandini, dalle toilette, dalle lavastoviglie. Tutto ciò che Peak poteva fare era portare fuori dalla zona a rischio le persone apparentemente sane e tenerle rinchiuse nei giganteschi campi di quarantena. New York si era trasformata in una zona mortale. Scuole, chiese ed edifici pubblici erano stati trasformati in ospedali, le strade intorno alla città sembravano circondare un'enorme prigione. Guardò a sinistra. L'incendio nel tunnel non era ancora spento. L'autista di un'autocisterna militare non aveva indossato bene il respiratore e aveva perso conoscenza mentre viaggiava a tutta velocità. Inoltre si trovava all'interno di un convoglio e aveva così innescato una reazione a catena, nel corso della quale erano esplose dozzine di veicoli. Al momento, nel tunnel c'era la stessa temperatura dell'interno di un vulcano. Peak si sentiva in qualche modo responsabile di quell'incidente. Ovviamente il rischio di contaminazione nel tunnel era maggiore che nelle strade, dove le tossine si potevano disperdere. Ma come poteva essere ovunque contemporaneamente? E soprattutto, poteva davvero impedire qualcosa? Se c'era una cosa che Peak odiava era l'inadeguatezza. E adesso anche Washington era sotto assedio. «Non ce la facciamo», aveva detto per telefono a Judith Li. «Dobbiamo», aveva ribattuto lei. Sorvolarono l'Hudson e fecero rotta verso l'Hackensack Airport, dove un apparecchio militare attendeva Peak per portarlo a Vancouver. Le luci di Manhattan svanirono. Peak si domandò a cosa avrebbe portato la riunione del giorno seguente. Sperava che almeno si fosse arrivati a trovare una cura per mettere fine all'orrore di New York, ma una voce gli diceva di non farsi illusioni. Era la sua voce interiore e, in genere, aveva ragione. La testa gli rimbombava al ritmo delle pale dell'elicottero. Peak si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi.
Château Whistler, Canada Judith Li era soddisfatta. Certo, la situazione era spaventosa. Ma la giornata era andata bene. Vanderbilt si era messo sulla difensiva e il presidente l'aveva ascoltava. Dopo infinite telefonate, aveva messo insieme un quadro agghiacciante e adesso attendeva con impazienza di essere messa in contatto col segretario alla Difesa. Voleva discutere della nave che il giorno seguente avrebbe dovuto condurre i primi attacchi col sonar. Ma il segretario alla Difesa era impegnato in una riunione, e lei aveva ancora qualche minuto. Avrebbe potuto suonare Schumann con la splendida cornice del cielo stellato. Erano passate da poco le due. Il telefono squillò. Judith saltò in piedi e rispose. Si aspettava il Pentagono, per cui rimase sbalordita quando sentì una voce diversa. Ma si riprese subito. «Dottor Johanson... Cosa posso fare per lei?» «Ha tempo?» «Quando? Ora?» «Vorrei parlarle a quattr'occhi, generale.» «Devo fare qualche telefonata. Diciamo tra un'ora?» «Non è curiosa?» «Dovrei esserlo.» «Era convinta che avessi una teoria, no?» «Oh, certo!» Rifletté per qualche istante, poi disse: «Va bene. Venga». Riagganciò con un sorriso. Era proprio quello che si aspettava. Johanson non si sarebbe mai presentato da lei senza annunciarsi ed era troppo corretto per scavalcarla. Voleva definire la situazione, anche nel cuore della notte. Chiamò il centralino. «Sposti la mia telefonata col Pentagono di mezz'ora.» Esitò, poi si corresse: «No, di un'ora». Vancouver Island Dopo il racconto di Greywolf, Anawak aveva perso l'appetito. Ma Shoemaker aveva superato se stesso. Aveva cucinato bistecche sontuose, accompagnate da un'insalata con crostini e noci. A mangiare nella sua veranda erano in tre. Alicia evitò di parlare della sua nuova relazione e si mostrò molto socievole. Conosceva una gran quantità di barzellette ed era brava a
raccontarle, tanto che avrebbe potuto farlo anche su un palco. Era davvero divertente. La serata era come un'isola in un mare di desolazione. Nell'Europa medievale, mentre imperversava la peste nera, si ballava e si facevano feste. Non erano ancora a quel punto, ma riuscirono a passare alcune ore parlando di tutto tranne che di tsunami, balene e alghe killer. Anawak era riconoscente per quella distrazione. Shoemaker raccontò alcuni aneddoti sugli inizi della Davies. Risero, chiacchierarono e si gustarono quella serata. Poi, seduti con le gambe allungate, rimasero a osservare l'acqua nera della baia. Intorno alle due, Anawak si congedò. Alicia rimase. Lei e Tom avevano aperto un'altra bottiglia di vino, e si erano messi a parlare di vecchi film. Anawak bevve un bicchiere d'acqua, ringraziò e si avviò nella notte verso la stazione. Una volta arrivato, accese il computer e si collegò a Internet. Nel giro di qualche minuto, era riuscito a trovare il professor Kurzweil. Alle prime luci dell'alba, cominciò a delinearsi il quadro. 12 maggio Château Whistler, Canada Probabilmente siamo al punto di svolta, pensò Johanson. Oppure sono un vecchio pazzo. Era sul piccolo podio, a sinistra dello schermo. Il proiettore era acceso. Avevano dovuto attendere per qualche minuto Anawak, che aveva pernottato a Tofino, ma ormai c'erano tutti. In prima fila sedevano Salomon Peak, Jack Vanderbilt e Judith Li. Peak era sfinito. Durante la notte era rientrato da New York e sembrava aver perso gran parte delle sue energie. Johanson aveva passato metà della sua vita in sale riunioni ed era abituato a parlare in pubblico. Nei suoi discorsi, a poco a poco, aveva aggiunto alle nozioni scolastiche le scoperte fatte e le ipotesi formulate, mettendo quindi in conto la possibilità di litigare con alcuni specialisti o sedicenti tali. A parte ciò, le sale riunioni erano un terreno tranquillo. Si comunicava quello che si era scoperto e si facevano domande. Quella mattina, invece, fu travolto da una sensazione inattesa: l'insicurezza. Come poteva spiegare la sua teoria senza che tutti si spanciassero dalle risate? Judith Li aveva ammesso che poteva avere ragione. Era già molto. Con cauto ottimismo, si poteva addirittura affermare che lei era disposta a seguire il suo ragionamento. Ma l'insicurezza non lo abbandonava.
Aveva visto giusto o stava prendendo una solenne cantonata? Quel dubbio lo aveva spinto a trascorrere la notte in bianco, a correggere la sua relazione. Però non si faceva illusioni. Aveva solo quel colpo a disposizione. O riusciva a cogliere gli altri di sorpresa, oppure l'avrebbero considerato un pazzo. Tutti gli occhi erano puntati su di lui. Il silenzio era assoluto. Guardò il primo foglio dei suoi appunti. L'introduzione gli era sembrata esauriente. Adesso invece gli appariva incomprensibile e complicata. Durante la notte, mentre gli occhi gli bruciavano per la stanchezza e lui faticava a pensare con lucidità, ne era stato soddisfatto. Ora quello che aveva davanti non lo convinceva. Le argomentazioni non erano approfondite a sufficienza. La struttura retorica era traballante. Johanson esitò. Poi mise da parte gli appunti. Si sentì immediatamente sollevato, come se quei pochi fogli pesassero tonnellate. La sua sicurezza ritornò, come un cavaliere che si prepara alla battaglia tra gli sventolii delle bandiere e gli squilli di tromba. Fece un passo in avanti, si guardò intorno, si assicurò l'attenzione dei presenti e cominciò: «È molto semplice. Le conseguenze ci faranno venire un terribile mal di testa, ma in fondo è tutto molto semplice e immediato. Questa non è una catastrofe naturale. Non abbiamo a che fare né con gruppi terroristici né con Stati canaglia. Non è neppure l'evoluzione a essere impazzita. Tutto ciò non c'entra niente». Fece una pausa, poi riprese: «Sta succedendo qualcosa di completamente diverso. In questi giorni, siamo testimoni di una guerra tra pianeti. Tra due pianeti che non riconosciamo come tali, perché sono fusi in. uno. Tante volte abbiamo guardato lo spazio, in attesa d'intelligenze aliene, e invece esse sono parte integrante di quel mondo che non ci siamo mai sforzati di comprendere veramente, il nostro. Due sistemi radicalmente differenti di vita intelligente coesistono su questo pianeta, e fino a oggi si sono lasciati in pace. Tuttavia, mentre il primo sapeva dello sviluppo del secondo, quest'ultimo - e parlo di noi - non aveva la minima idea della complessità del mondo sottomarino. In altre parole, noi abbiamo ignorato tutto dell'universo sconosciuto con cui dividiamo questo pianeta. L'universo è negli oceani. Gli extraterrestri non arrivano da lontanissime galassie, ma dagli abissi marini. La vita nell'acqua è molto più antica di quella sulla Terra e presumo che questi esseri siano molto più antichi di noi. Non ho idea di quale aspetto abbiano e di come vivano, che cosa pensino e come comunichino. Ma ci dovremo abituare all'idea che esistono. In
più noi, da vari decenni, stiamo distruggendo il loro ambiente vitale. E sembra proprio che 'quelli' laggiù siano davvero molto arrabbiati con noi, signore e signori. E non hanno tutti i torti». Nessuno parlò. Vanderbilt lo fissò. Le sue guance cadenti presero a tremare. Anzi fremeva tutto, come se fosse scosso da una risata, che sarebbe esplosa contro Johanson come la raffica di un plotone di esecuzione. Le labbra carnose sussultarono. Vanderbilt aprì la bocca. «La sua idea mi ha illuminato», intervenne Judith Li. Era come se qualcuno avesse piantato un coltello nella schiena del vice direttore della CIA. La sua bocca si richiuse. Trasalì violentemente e guardò la donna, sbigottito. «Non dirà sul serio», ansimò. «E invece sì», ribatté lei tranquilla. «Non ho detto che il dottor Johanson ha ragione, però mi sembra sensato starlo ad ascoltare. Credo che potrà spiegare la sua tesi.» «Grazie, generale», disse Johanson con un inchino appena accennato. «In effetti posso farlo.» «Allora le propongo di andare avanti. Cerchi di essere sintetico, in modo da arrivare rapidamente alla discussione.» Vanderbilt sembrava sotto shock. Johanson fece scorrere lo sguardo sui presenti, cercando però di mantenere un'aria tranquilla, così da non dare l'idea di essere preoccupato delle reazioni. Quasi nessuno mostrava un'evidente disapprovazione. La maggior parte dei volti era pietrificata dalla sorpresa; alcuni sembravano affascinati, altri increduli, altri ancora erano privi di espressione. Ora doveva fare il secondo passo. Quegli uomini dovevano comprendere il suo pensiero e svilupparlo autonomamente. «Nei giorni e nelle settimane appena trascorse, il nostro problema principale è stato mettere in relazione i singoli avvenimenti», riprese. «Sembrava non ci fosse nessun legame, finché non siamo incappati in quella sostanza gelatinosa che si distruggeva all'aria. Purtroppo questa scoperta ha aumentato ulteriormente la confusione, perché abbiamo trovato la sostanza nei granchi e nei mitili, ma anche nella testa delle balene, quindi in esseri diversi tra loro. L'unica spiegazione possibile è una sorta di epidemia. Un aspergillo, una sostanza che provocava la rabbia, qualcosa di simile alla BSE. Ma questo non spiega gli affondamenti delle navi o il fatto che i granchi portino con sé delle alghe killer. E i vermi sulla scarpata continentale non hanno nulla di gelatinoso. In compenso, però, trasportano batteri che ossidano il metano e sono responsabili della fuoriuscita in grandi
quantità di gas e, non da ultimo, dello scivolamento del margine continentale e quindi dello tsunami. Nel frattempo, in ampie parti del mondo sono comparsi organismi evidentemente soggetti a mutazione e banchi di pesci che si comportano contro la loro natura. Tutto ciò non sembra del tutto irrelato. Jack Vanderbilt ha assolutamente ragione quando parla della responsabilità di uno spirito pianificatore. Ma sottovaluta il fatto che gli scienziati non hanno sufficienti conoscenze degli ecosistemi marini per poterli manipolare in quel modo. Si dice che sappiamo molto più dell'universo che degli abissi marini. È vero. Però bisognerebbe completare l'affermazione, spiegando che nello spazio possiamo muoverci e vedere meglio che nei mari. Il telescopio Hubble scruta instancabilmente nelle galassie sconosciute. Invece, nell'acqua, anche i più potenti proiettori del mondo riescono a illuminare al massimo una zona di una dozzina di metri. Un uomo con una tuta spaziale si può muovere quasi ovunque nell'universo, ma un sommozzatore, a una certa profondità, viene schiacciato, anche con una tuta high-tech. I mezzi sottomarini, gli AUV e i ROV, funzionano solo a certe condizioni. In definitiva, non possediamo né le attrezzature tecniche né le doti fisiche per piazzare sugli idrati miliardi di vermi, e tantomeno disponiamo delle conoscenze necessarie per allevarli in funzione di un mondo che conosciamo appena. I cavi sottomarini sono stati distrutti, e non soltanto a causa dello smottamento. Dagli abissi risalgono banchi di molluschi e meduse. Sì, è giusto, per spiegare questi fenomeni ci aiuta mettere in gioco uno spirito pianificatore, ma dobbiamo essere coerenti sino in fondo: tutto quello che succede, infatti, può accadere perché, laggiù, qualcuno conosce quell'ambiente almeno quanto noi conosciamo quello in superficie. Intendo qualcuno che vive là e che ha assunto un ruolo dominante nel proprio universo.» «Ho capito bene?» gridò Rubin, eccitato. «Lei sta dicendo che dividiamo questo pianeta con un'altra specie intelligente?» «Sì. Lo credo.» «Se è così, perché finora non abbiamo mai visto o sentito qualcosa di questa specie?» chiese Peak. «Perché non esiste», sbottò Vanderbilt. «Sbagliato.» Johanson scosse energicamente la testa. «Ci sono almeno tre motivi. Primo, la legge del pesce invisibile.» «Come?» «La maggior parte degli esseri viventi degli abissi, nel senso classico del termine, non vede quanto vediamo noi in quell'ambiente, ma ha sviluppato
altri organi di senso che sostituiscono la vista. Essi reagiscono alla più lieve variazione di pressione. Le onde sonore li raggiungono da centinaia e migliaia di chilometri. Ogni mezzo subacqueo viene percepito molto prima che il suo equipaggio possa vedere qualcosa. Teoricamente, in una zona potrebbero vivere milioni di pesci di una determinata specie, ma, se rimangono nell'oscurità, non ne vedremo mai neanche uno. E qui abbiamo a che fare con un essere intelligente! Non potremo osservarlo finché non sarà lui a volerlo. Il secondo motivo è che non abbiamo idea dell'aspetto di questo essere. Abbiamo riprese video di misteriosi fenomeni, la nuvola blu, la scarica che sembra un fulmine, la 'cosa' sulla scarpata continentale norvegese. Sono espressioni di un'intelligenza sconosciuta? Che cos'è quella gelatina? Cosa sono i rumori che Murray Shankar non riesce a classificare? E c'è un terzo motivo. Un tempo, si credeva che fossero abitati solo gli strati superiori del mare, quelli attraversati dai raggi solari. Ora sappiamo che la vita brulica in ogni strato. C'è vita anche a undicimila metri di profondità. Per molti organismi degli abissi, non c'è un solo motivo per trasferirsi verso la superficie. La maggior parte non potrebbe neppure, perché l'acqua sarebbe troppo calda, la pressione troppo bassa e non ci sarebbe il nutrimento di cui hanno bisogno. Noi, al contrario, abbiamo esplorato solo gli strati superficiali dell'acqua e, negli abissi, ci sono state solo alcune persone in batiscafi corazzati e qualche robot. Se vogliamo paragonare queste escursioni occasionali al famoso ago nel pagliaio, dobbiamo immaginare un pagliaio grande come tutto il pianeta. Sarebbe come se degli extraterrestri mandassero sulla Terra delle navi spaziali con telecamere i cui obiettivi possono riprendere solo quello che vedono in una zona di pochi metri. Una di esse riprende un pezzo di steppa della Mongolia, un'altra fa un'istantanea sul Kalahari e una terza viene calata sull'Antartico. Un'altra nave spaziale arriva a Central Park, a New York, dove riprende un pezzo di manto erboso e un cane che fa pipì contro un albero. A che conclusione arriverebbero gli extraterrestri? Un pianeta inabitabile, su cui si trovano sporadiche forme di vita primitive.» «E la loro tecnologia?» chiese Sue Oliviera. «Devono possedere una tecnologia per poter mettere in piedi tutto ciò.» «Ho riflettuto anche su questo», rispose Johanson. «Credo che esista un'alternativa a una tecnologia come la nostra. Noi elaboriamo materie morte per farne apparecchi, case, mezzi di locomozione, radio, vestiti e così via. Ma l'acqua marina è molto più aggressiva dell'aria. Laggiù conta solo una cosa: l'adattamento ottimale. E, in genere, le forme di vita sono otti-
mamente adattate, quindi potremmo immaginare una biotecnologia pura. Se presupponiamo un'intelligenza evoluta, potremo attribuirle una notevole creatività e una precisa conoscenza della biologia degli organismi marini. Voglio dire, cosa facciamo noi? Gli uomini sfruttano da secoli le altre forme di vita. I cavalli sono motociclette viventi. Annibale ha valicato le Alpi con mezzi pesanti biologici. Gli ammali vengono continuamente addestrati. Oggi vengono anche modificati geneticamente. Cloniamo le pecore e produciamo mais geneticamente modificato. Che succede se sviluppiamo sino in fondo questa idea? Arriviamo a una specie che ha sviluppato la propria cultura e la propria tecnologia esclusivamente su basi biologiche! Semplicemente alleva ciò di cui hanno bisogno. Per la vita quotidiana, per spostarsi, per la guerra.» «Oh, santo cielo», gemette Vanderbilt. «Noi coltiviamo il virus Eboia, gli agenti patogeni della peste e facciamo esperimenti col vaiolo», continuò Johanson, senza curarsi dell'uomo della CIA. «Quindi con forme di vita. Le mettiamo nelle testate esplosive, ma è complicato, e un razzo, anche se guidato dal satellite, non arriva necessariamente sull'obiettivo. Probabilmente la strada più intelligente per arrecare danni terribili sarebbe allevare cani portatori di simili agenti patogeni. Oppure uccelli. O, a parer mio, anche insetti! Che si può fare contro uno sciame di moscerini o di formiche contaminate? Oppure contro milioni di granchi che trasportano un'alga killer?» Fece una pausa. «Quei vermi sulla scarpata continentale sono stati allevati. Non c'è da meravigliarsi se prima non li avevamo mai visti. Non esistevano. Il loro compito consiste nel trasportare i batteri nel ghiaccio, quindi in un certo senso abbiamo a che fare con dei missili Cruise della famiglia dei policheti, con armi biologiche sviluppate da qualcuno la cui cultura si basa interamente sulla manipolazione di vita organica. E così, in un colpo solo, abbiamo una spiegazione per tutte le mutazioni! Alcuni animali sono stati modificati in maniera insignificante, altri rappresentano qualcosa di completamente nuovo. Quella gelatina, per esempio, è un prodotto biologico ad alto grado di variabilità, ma di certo non è il risultato della selezione naturale. Quella gelatina ha uno scopo. Guida le altre forme di vita, infestando la loro rete neurale. In qualche modo, cambia il comportamento dei cetacei. Invece granchi e astici sono stati ridotti alle pure funzioni meccaniche. Gusci vuoti con resti di masse nervose. La gelatina li guida e porta a bordo il carico di alghe killer. Probabilmente questi granchi non sono mai stati realmente vivi. Sono stati allevati come tute spaziali organiche, per poter essere spediti nell'altro mon-
do, il nostro mondo.» «Questa sostanza, questa gelatina, non potrebbe averla elaborata un essere umano?» ipotizzò Rubin. «Difficile», s'intromise Anawak. «Quello che dice il dottor Johanson ha senso, secondo me. Se dietro tutto questo si nasconde un uomo, perché avrebbe dovuto scegliere la strada degli abissi marini per contaminare una città?» «Perché le alghe killer provengono dal mare.» «Perché non ha tentato con qualcos'altro? Chi è in grado di coltivare alghe killer più velenose della Pfiesteria, sarà pure in grado di trovare un agente patogeno che non abbia bisogno dell'acqua. A che scopo allevare granchi se poteva utilizzare le formiche, gli uccelli o i topi?» «Coi topi non si provoca uno tsunami.» «La sostanza proviene da un laboratorio umano», insistette Vanderbilt. «È una sostanza sintetica...» «Non credo», gridò Anawak. «Nemmeno la Marina riesce a fare una cosa del genere e si sa bene quant'è in gamba a manipolare i mammiferi marini.» Vanderbilt scosse la testa con violenza, come se avesse il morbo di Parkinson. «Ma di che parla?» «Sto parlando degli esperimenti condotti sotto il nome in codice MK0.» «Mai sentito.» «Vuole forse negare che da anni la Marina sta cercando di manipolare i flussi cerebrali dei delfini e di altri mammiferi marini inserendo elettrodi nella scatola cranica e...» «Tutte chiacchiere!» «Cosa che finora non è riuscita, almeno non come desiderato. Allora si studiano i lavori di Ray Kurzweil...» «Kurzweil?» «Uno dei corifei della neuroinformatica», interloquì Fenwick e improvvisamente il suo viso s'illuminò. «E Kurzweil ha sviluppato una visione che va ben oltre l'attuale stato delle ricerche sul cervello. Volendo sapere se gli uomini sono in grado... No, molto di più... I suoi lavori potrebbero fornire informazioni su come un'intelligenza esterna prende il sopravvento su un altro essere!» Era sempre più eccitato. «Il computer neurale di Kurzweil! Questa è una possibilità!» «Scusate», disse Vanderbilt. «Non ho la minima idea di che cosa stiate parlando.»
«No?» ridacchiò Judith Li. «Ho sempre pensato che uno degli interessi principali della CIA fosse il lavaggio del cervello.» Vanderbilt sbuffò, guardandosi intorno. «Di che parla quello? Maledizione, c'è qualcuno che mi può dire di che cosa sta parlando?» «Il computer neurale è un modello per la completa ricostruzione di un cervello», rispose Sue. «Vede, il nostro cervello è composto da miliardi di cellule nervose. Ogni cellula è collegata con innumerevoli altre. Comunicano attraverso impulsi elettrici. In questo modo, conoscenze, esperienze ed emozioni vengono costantemente aggiornate, riordinate o archiviate. In ogni secondo della nostra vita, anche quando dormiamo, il nostro cervello è sottoposto a una continua ristrutturazione. Con le tecniche attuali, è possibile determinare con precisione le aree attive del cervello fino a un millimetro. Come una carta geografica. Possiamo osservare come si pensa e si provano emozioni, quali cellule nervose vengono temporaneamente attivate, per esempio, con un bacio, con un acuto dolore o con un ricordo...» «Si conoscono le posizioni, e la Marina sa bene dove deve fornire uno stimolo elettrico per avere una determinata reazione», continuò Anawak. «Ma è ancora a un livello troppo grossolano. Come una carta geografica il cui dettaglio si fermi a cinquanta chilometri quadrati. Kurzweil, invece, crede che ben presto avremo la possibilità di scansionare un cervello completo, compreso ogni singolo collegamento nervoso, ogni sinapsi e l'esatta concentrazione di tutti i messaggeri chimici, fino al minimo dettaglio di ogni singola cellula!» «Uffa!» esclamò Vanderbilt. «Quando si avranno le informazioni complete, si potrà trasferire un cervello con tutte le sue funzioni in un computer neurale», disse Sue. «Il computer sarebbe una copia perfetta della mente della persona il cui cervello è stato scansionato, con tutte le sue capacità e i suoi ricordi. Un secondo Io.» Judith Li sollevò una mano. «Posso assicurarvi che MK0 non è ancora a quel punto», disse. «Per ora, il computer neurale di Kurzweil resta un'ipotesi.» «Jude...» sussurrò Vanderbilt, terrorizzato. «Perché racconta questo? Non sono cose che li riguardano, si tratta di un segreto militare...» «MK0 si fonda su necessità militari», replicò pacatamente Judith Li. «L'alternativa sarebbe sacrificare esseri umani. Non possiamo sempre scegliere la nostra guerra, no? In effetti, il progetto si trova in un vicolo cieco, ma è soltanto una pausa. La strada dell'intelligenza artificiale è ormai aper-
ta. La medicina non è lontanissima dal sostituire gli organi umani con microchip. I ciechi, grazie a simili impianti, riescono già a riconoscere i contorni. Ci saranno forme d'intelligenza completamente nuove.» Fece una pausa e fissò lo sguardo su Anawak. «Era questo che voleva dire, non è vero? Comunque, per tornare al nostro argomento, se l'umanità fosse già al punto immaginato da Kurzweil, allora bisognerebbe riconsiderare l'ipotesi del terrorismo mediorientale. Ma l'umanità non è ancora arrivata a quel punto. Non c'è arrivata l'America e non ci sono arrivati altri. Nessun essere umano può aver coltivato questa gelatina che, a quanto pare, funziona come un computer neurale.» «Nella pratica, i computer neurali significano il controllo totale su ogni pensiero», disse Anawak. «Se la gelatina è qualcosa del genere, allora non si limita a guidare quegli animali, diventa quegli animali. Diventa parte del loro cervello. Le cellule della sostanza assumono le funzioni delle cellule nervose. O allargano il cervello di un essere vivente...» «O lo sostituiscono», concluse Sue. «Leon ha ragione. Un simile organismo non proviene da un laboratorio umano.» Johanson ascoltava, col cuore che batteva all'impazzata. Avevano compreso la sua teoria. La stavano elaborando e vi aggiungevano nuovi punti di vista; ogni parola che veniva pronunciata la rafforzava. Iniziò a immaginare quel computer biologico che poteva copiare le cellule nervose... Intanto intorno a lui la discussione era sempre più accesa. Poi Roche balzò in piedi e prese la parola. «C'è ancora una cosa che non capisco, dottor Johanson. Come spiega il fatto che quelli là sotto sanno così tante cose su di noi? Voglio dire, con tutto il rispetto per la sua teoria, come può un abitante degli abissi scoprire così tanto su di noi?» Johanson vide Vanderbilt e Rubin annuire. «Non è difficile da spiegare», rispose. «Se noi sezioniamo un pesce, lo facciamo nel nostro mondo, non nel loro. Perché questi esseri non dovrebbero acquisire conoscenze nel loro mondo? Ogni anno annega una gran quantità di persone e, in caso servano loro altri esemplari, possono sempre prenderseli. D'altra parte, lei ha ragione: cosa sanno davvero di noi? Poco prima dello smottamento della scarpata continentale, anch'io ero arrivato a pensare a un attacco organizzato. Ma l'idea che dietro di esso si nascondessero degli uomini mi era sembrata assurda. La strategia era troppo lontana dalla logica umana. Sì, annientare in un colpo tutte le infrastrutture europee era una cosa pianificata brillantemente, con conseguenze devastanti per noi. Far affondare piccole navi dalle balene, invece, è subito sembrata una mossa ingenua.
L'overfishing non si ferma con banchi di meduse velenosissime. Le catastrofi navali ci colpiscono duramente, ma dubito che questi banchi di mutanti possano paralizzare il traffico navale mondiale. In ogni caso, balza all'occhio che hanno informazioni molto precise sulle navi. Conoscono bene tutto ciò che tocca il loro mondo. È il mondo fuori dall'acqua, quello che conoscono meno. Mandare sulla terra i granchi con le alghe killer è un eccellente piano militare, ma l'inizio, con gli astici, è stato maldestro. Evidentemente non avevano pensato alla pressione minore presente sulla terraferma. Quando i corpi degli astici sono stati riempiti di gelatina, essa era compressa dalla pressione elevata. Naturalmente, in superficie, la gelatina tende a espandersi e infatti alcuni astici sono esplosi.» «Coi granchi sembra che abbiano imparato», disse Sue. «Rimangono stabili.» «Ma certo.» Rubin fece una smorfia. «Crepano non appena arrivano a terra.» «E perché no?» ribatté Johanson. «Hanno svolto il loro compito. Tutti gli animali allevati sono destinati a una morte rapida. Devono combattere il nostro mondo, non occuparlo. Gli uomini non condurrebbero mai così una guerra! Perché un uomo dovrebbe sobbarcarsi simili esperimenti? Che motivo fondato avrebbe per modificare geneticamente proprio degli esseri che vivono a diversi chilometri di profondità come i granchi dei camini idrotermali? Qui non ci sono degli uomini al lavoro. Qui si stanno facendo esperimenti per vedere dov'è il nostro punto debole. E soprattutto esperimenti che ci distraggano.» «Ci distraggano?» gli fece eco Peak. «Sì. Il nemico ha aperto molti fronti contemporaneamente. Alcuni per noi sono veri incubi, altri sono per lo più fastidiosi, ma ci tengono impegnati comunque. La maggior parte delle punture che c'infliggono sono molto dolorose. Ma la vera perfidia è che stanno camuffando quello che succederà davvero. Siamo così impegnati a limitare i danni da non vedere il pericolo reale. Avete presente il giocoliere che mette i piatti su dei bastoni e li fa roteare? Be', deve continuamente correre da un bastone all'altro. Quando ha stabilizzato il secondo, il primo comincia a vacillare e viceversa. Più piatti ci sono, più velocemente deve correre. Nel nostro caso, il numero dei piatti ha già ampiamente superato le nostre capacità da giocolieri. Gli attacchi sono troppo numerosi. Le aggressioni delle balene e dei banchi di pesci non sono un problema irresolubile di per sé. A conti fatti, però, raggiungono il loro scopo, che è quello di bloccarci e impe-
gnarci. Se i fenomeni continuano a diffondersi, alcuni Stati perderanno il controllo e altri cercheranno di sfruttare l'occasione per controllarli. Il risultato sarà una serie di conflitti - locali e su vasta scala -, che sfuggirà di mano e non avrà vincitori. C'indeboliremo da soli. Le strutture delle organizzazioni internazionali di soccorso crolleranno. La rete delle forniture medicinali cederà. Non avremo mezzi, forza e know how sufficienti e infine non avremo abbastanza tempo per impedire che l'obiettivo venga raggiunto.» «E l'obiettivo sarebbe...» fece Vanderbilt in tono annoiato. «L'annientamento dell'umanità.» «Come?» «Non è evidente? Hanno deciso di trattarci come gli uomini trattano i parassiti. Vogliono annientarci...» «Adesso basta!» «... prima che noi annientiamo la vita nel mare.» L'uomo della CIA balzò in piedi e puntò un dito tremante contro Johanson. «Questa è la più grande idiozia che abbia mai sentito! Perché crede di essere qui? Ha visto troppi film? Vorrebbe farci credere che laggiù ci sono questi... E.T. usciti da The Abyss, che dal fondo del mare ci minacciano, levando il dito perché siamo stati maleducati?» «The Abyss?» Johanson rifletté. «Ah, giusto. No, non intendo esseri di quel tipo. Quelli erano extraterrestri.» «Comunque è una stupidaggine.» «No. In The Abyss quegli esseri erano giunti nei nostri mari dallo spazio. Il film li descriveva come migliori di noi, venuti a portare un messaggio morale. Ma soprattutto quegli alieni non avevano intenzione di scacciarci dal vertice dell'evoluzione terrestre, come farebbe una specie intelligente sviluppatasi su questo pianeta in modo parallelo a noi.» «Dottor Johanson!» Vanderbilt tirò fuori il suo fazzoletto e si asciugò il sudore sulla fronte e sul labbro superiore. «Lei non è una persona dai mille segreti come noi. Non ha la nostra esperienza. Le fa onore averci offerto un quarto d'ora d'intrattenimento di alto livello, ma, se vuole scoprire chi c'è dietro questi disastri, anzitutto deve capire chi se ne avvantaggia! Questo la porterebbe sulla strada giusta! Non il suo razzolare nel...» «Nessuno se ne avvantaggia», disse qualcuno. Vanderbilt si girò a fatica. «Si sbaglia, Vanderbilt.» Bohrmann si era alzato. «Fino a ieri notte, a Kiel si sono sviluppati scenari su quello che succederà se altre scarpate
continentali collasseranno.» «Lo so», sbottò Vanderbilt. «Tsunami e metano. Avremo qualche problemuccio col clima...» «No.» Bohrmann scosse la testa. «Non problemucci. È una condanna a morte. È universalmente noto quello che è successo alla Terra cinquantacinque milioni di anni fa, quando il metano si è disperso nell'atmosfera...» «Come diavolo fa a sapere quello che è successo cinquantacinque milioni di anni fa?» «L'abbiamo ricostruito coi calcoli e, nello stesso modo, abbiamo previsto quello che succederà. Sulle coste si scateneranno tsunami che annienteranno la popolazione. Poi, la temperatura aumenterà gradualmente, fino ad arrivare a un caldo insopportabile, e noi moriremo. Anche nel Medio Oriente, Mister Vanderbilt. Anche i suoi terroristi morirebbero. Il nostro destino potrebbe essere segnato già con la fuoriuscita del metano dell'America orientale e del Pacifico occidentale.» Di colpo calò un silenzio di piombo. «E lei non potrà farci nulla, Jack», disse lentamente Johanson, fissando Vanderbilt. «Perché non saprà cosa fare. E non avrà il tempo di pensarci, impegnato com'è con balene, squali, molluschi, meduse, granchi, alghe killer e invisibili divoratori di cavi che eliminano anche i nostri sommozzatori, i batiscafi e qualsiasi cosa possa andare a vedere che succede sott'acqua.» «Quanto ci vorrà perché l'atmosfera sia surriscaldata al punto di diventare una seria minaccia per l'umanità?» chiese Judith Li. Bohrmann aggrottò la fronte. «Penso qualche centinaio d'anni.» «Rassicurante», ringhiò Vanderbilt. «No, non è così», disse Johanson. «Se quegli esseri hanno iniziato la loro guerra perché stiamo mettendo in pericolo il loro spazio vitale, devono finire in fretta il lavoro. Dal punto di vista della storia della Terra, qualche secolo non è niente. Ma l'uomo, nel giro di poco tempo, ha già causato danni gravissimi. È per questo che hanno fatto un altro passo in avanti. Sono riusciti a fermare la Corrente del Golfo.» Bohrmann lo fissò. «Hanno fatto cosa?» «È già ferma», intervenne Karen Weaver. «Forse scorre ancora un po', ma sono gli ultimi movimenti. Nel giro di pochi anni, il mondo dovrà prepararsi a un'altra Era Glaciale. È possibile che, in meno di cento anni, sulla Terra sia tutto ghiacciato.» «Un momento», gridò Peak. «Il metano surriscalderebbe la Terra, e que-
sto lo sappiamo. L'atmosfera potrebbe collassare. Ma che cosa c'entra con un'Era Glaciale provocata dal blocco della Corrente del Golfo? Com'è possibile, per l'amor del cielo? Siamo di fronte a una sorta di compensazione del terrore?» Karen Weaver lo guardò. «Direi un potenziamento.» All'inizio, sembrava che Vanderbilt fosse l'unico a rifiutare la teoria di Johanson; nel corso delle ore successive, tuttavia, il quadro cambiò. Il gruppo si spaccò in due e gli animi degli schieramenti contrapposti si esacerbarono. Vennero riesaminati tutti gli avvenimenti: le prime anomalie, l'inizio degli attacchi delle balene, le circostanze in cui erano stati scoperti i vermi. Ormai sembrava di essere in mezzo a una partita di rugby: ci si faceva largo a gomitate con la retorica, gli argomenti venivano giocati da un parte all'altra, le fazioni si attaccavano a turno, spiazzavano l'avversario con nuovi aspetti e cercavano di atterrarlo. Anawak sapeva bene qual era la domanda inespressa: era possibile che una diversa forma d'intelligenza stesse contendendo il predominio a quella umana? Nessuno ne parlava apertamente. Ma lui, avvezzo alle dispute sull'intelligenza animale, coglieva il significato profondo di ogni parola. La teoria di Johanson non metteva in discussione la scienza, bensì l'immagine che un gruppo di esperti aveva di se stessi. Scienziati che, prima di tutto, erano uomini. Vanderbilt riuscì a ottenere l'appoggio di Mick Rubin, Stanley Frost, Bernard Roche, Murray Shankar e Salomon Peak, benché quest'ultimo non fosse pienamente convinto. Johanson conquistò la fiducia di Judith Li, Sue Oliviera, Ray Fenwick, John Ford, Gerhard Bohrmann e Leon Anawak. Gli agenti dei servizi segreti e i diplomatici in un primo momento rimasero sbalorditi, come se stessero assistendo a una pièce del teatro dell'assurdo. Poi cominciarono a schierarsi. Fu sorprendente. Quelle spie di professione, quei consiglieri per la sicurezza superconservatori e quegli esperti di terrorismo si schierarono quasi tutti dalla parte di Johanson. Uno di loro disse: «Sono abituato a ragionare senza pregiudizi. Se gli argomenti mi convincono, ci credo. Se gli argomenti contrari sono deformati con espedienti retorici soltanto perché così possono rientrare nella griglia delle nostre esperienze, allora non ci credo». Il primo a disertare dalla piccola truppa di Vanderbilt fu Peak. Lo seguirono Frost, Shankar e Roche. Vanderbilt, sfinito, propose una tregua.
All'esterno della sala riunioni era stato allestito un buffet con succhi di frutta, caffè e dolci. Karen si avvicinò ad Anawak. «Lei non ha espresso perplessità sulla teoria di Johanson», affermò. «Come mai?» Lui la guardò e sorrise. «Caffè?» «Grazie. Col latte.» Versò due tazze e gliene passò una. Karen era poco più bassa di lui. Improvvisamente si rese conto che le piaceva, benché non avessero parlato molto. Le era piaciuta fin dal primo momento, quando i loro sguardi si erano incrociati davanti allo Château. «Sì», disse. «La teoria è ben ponderata.» «Solo per questo? O è perché in fondo crede all'intelligenza degli animali?» «Non ci credo. In generale credo all'intelligenza, ma sono anche convinto che gli animali sono animali e gli uomini sono uomini. Se potessimo dimostrare che i delfini sono intelligenti come noi, con tutte le conseguenze del caso, non sarebbero più animali.» «E crede che sia così?» Anawak scosse la testa. «Finché continueremo a giudicare le cose dal punto di vista umano, non lo scopriremo. Lei ritiene che gli uomini siano intelligenti, Miss Weaver?» Karen sorrise. «Un singolo uomo è intelligente. Gli uomini in gruppo diventano un'orda anomala.» Bella risposta, pensò Anawak. «Vede?» disse. «Lo stesso potremmo...» «Dottor Anawak?» Un uomo gli si avvicinò a passo veloce. Era del personale addetto alla sicurezza. «È lei il dottor Anawak?» «Sì.» «La cercano al telefono.» Anawak aggrottò la fronte. Allo Château, nessuno era raggiungibile direttamente per telefono. Ma c'era a disposizione un numero cui i parenti potevano lasciare notizie o chiamare in casi urgenti. Shoemaker aveva il numero. Chi altri? «Nella hall», spiegò l'uomo. «O preferisce che la telefonata sia trasferita nella sua camera?» «No, va bene nella hall. Arrivo.» «A presto», gli gridò Karen, mentre lui si allontanava. Anawak seguì l'addetto alla sicurezza fino alle cabine telefoniche. «La prima», disse l'uomo. «Faccio trasferire la telefonata. Quando suona, non deve fare altro che sollevare la cornetta e sarà collegato con Tofi-
no.» Con Tofino? Allora è Shoemaker. Anawak attese. Il telefono squillò e lui alzò il ricevitore. «Ah, Leon», disse la voce di Shoemaker. «Mi dispiace davvero disturbarti. Lo so che sei impegnato in cose importanti, ma...» «Non fa niente, Tom. Ieri è stata una bella serata.» «Oh, sì. E... anche questo è importante... ehm...» Sembrava che Shoemaker non riuscisse a trovare le parole. Poi sospirò. «Leon, ti devo dire una cosa terribile. Abbiamo ricevuto una telefonata da Cape Dorset.» Anawak ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse strappato via il pavimento da sotto i piedi. E seppe all'istante che cos'era successo. Lo seppe prima ancora che Shoemaker dicesse: «Leon, tuo padre è morto». Rimase immobile, come paralizzato. «Leon?» «Tutto okay, io...» Tutto okay. Come sempre. Tutto okay. Tutto okay. Che cosa doveva fare? Niente era okay! Judith Li «Extraterrestri?» Il presidente era stranamente calmo. «No», ripeté Judith per l'ennesima volta. «Non sono extraterrestri. Sono abitanti di questo pianeta. È... la concorrenza, se vuole.» L'Offutt Air Force Base e lo Château erano in collegamento. A Offutt, oltre al presidente, erano presenti il segretario alla Difesa, il consigliere per la sicurezza nazionale, il segretario agli Interni, il segretario di Stato, e il direttore della CIA. Ormai non c'erano più dubbi: Washington avrebbe condiviso lo stesso destino di New York. La città era stata evacuata e il gabinetto del presidente era stato in gran parte trasferito nel Nebraska. I primi casi di morte evidenziavano la gravità della situazione, ma le procedure di evacuazione verso l'interno procedevano più o meno secondo i piani. Stavolta erano preparati. Allo Château si erano riuniti Judith Li, Vanderbilt e Peak. Judith sapeva che a Offutt detestavano l'idea di doversene stare rinchiusi là dentro. Il direttore della CIA sentiva la mancanza del suo ufficio al sesto piano della sede di Langley. In segreto, invidiava il direttore del Centro nazionale per
la lotta al terrorismo, che si era strenuamente rifiutato di far evacuare i suoi collaboratori. «Porti la sua gente al sicuro», gli aveva ordinato. «Questa è una crisi che bisogna tenere sotto controllo», era stata la risposta. «I miei uomini devono restare ai loro computer e lavorare. Il loro compito è decisivo. Sono gli occhi con cui osserviamo il terrorismo internazionale. Non possiamo evacuarli.» «New York è stata attaccata da killer biologici», aveva ribattuto il direttore della CIA. «Guardi che cos'è successo. A Washington non sarà diverso.» «Il Centro nazionale per la lotta al terrorismo è stato creato proprio per fronteggiare situazioni critiche.» «Va bene, ma i suoi uomini potrebbero morire.» «Allora moriranno.» Anche il segretario alla Difesa avrebbe preferito dirigere le operazioni dal suo imponente ufficio. E diventava sempre più difficile impedire al presidente di salire sull'Air Force One e tornare alla Casa Bianca. Gli si potevano rimproverare molte cose, ma non che fosse un vigliacco. Anzi era così audace da indurre molti suoi avversari a mormorare che fosse troppo ignorante per provare paura. L'Offutt Air Force Base era attrezzata come una seconda sede del governo. Ma il problema era un altro: quegli uomini così potenti erano stati costretti a scappare, a cercare rifugio lì. Ecco perché accettavano senza troppe proteste l'idea che, nel mare, ci fosse un'entità intelligente, rifletté Judith. Battere in ritirata davanti ad avversari umani, contro cui non si poteva opporre resistenza, sarebbe stato un segno di debolezza, uno smacco intollerabile. La teoria di Johanson gettava una luce totalmente nuova sulla situazione, alleggerendo la pressione su ognuno di loro e soprattutto sul segretario alla Difesa e sul presidente stesso. «Che ne pensate?» chiese il presidente ai suoi. «È possibile una cosa del genere?» «Quello che io ritengo possibile non ha importanza», replicò bruscamente il segretario alla Difesa. «Gli esperti sono allo Château. Se sono arrivati a questa conclusione, dobbiamo prenderli sul serio e chiederci quale sarà la nostra prossima mossa.» «Vuole prendere sul serio questa roba?» chiese Vanderbilt, agitato. «Stiamo parlando di alieni! Di omini verdi!» «Non sono extraterrestri», ripeté pazientemente Judith.
«Avremo un problema ben diverso», notò il segretario alla Difesa. «Supponiamo che la teoria sia vera. Quanto possiamo far sapere all'opinione pubblica?» «Quanto? Niente!» Il direttore della CIA scosse energicamente la testa. «Si scatenerebbe subito un caos mondiale.» «L'avremo ugualmente.» «E comunque i media ci farebbero a pezzi. Direbbero che siamo matti. Anzitutto non ci crederanno e, in seconda istanza, non ci vorranno credere. L'esistenza di una simile specie metterebbe in discussione l'importanza dell'umanità.» «Questo è un problema prevalentemente religioso», disse il segretario alla Difesa, scuotendo il capo. «La sua rilevanza politica è pressoché nulla.» «La politica non esiste più», intervenne Peak. «Non si può parlare di politica se si è incapaci di osservare i fatti a prescindere dalla paura e dalla miseria. Vada a Manhattan e capirà. Troverà inginocchiato a pregare un sacco di gente che non è mai stata in chiesa.» Il presidente sollevò lo sguardo al soffitto. «Dobbiamo chiederci quali sono i piani divini», mormorò. «Con tutto il rispetto, signor presidente... Dio non siede nel suo governo», sbottò Vanderbilt. «E non è neppure dalla nostra parte.» «Questo non è un buon punto di vista, Jack», borbottò il presidente, con le sopracciglia aggrottate. «Ho smesso di valutare i punti di vista sulla base del bene e del male. M'interessa solo che abbiano un senso. Evidentemente qui sono tutti convinti che in questa teoria ci sia qualcosa di vero. Allora mi chiedo chi di noi sia tanto cretino...» «Jack!» esclamò il direttore della CIA. «Be', d'accordo, sono disposto ad ammettere che il cretino sono io. Tuttavia farò marcia indietro soltanto quando vedrò le prove. Quando avrò comunicato con questi rompiscatole, con questo... allevamento acquatico. Fino ad allora, è mio dovere formulare un ammonimento. Non escludiamo la possibilità di un attacco terroristico su grande scala e non trascuriamo di vigilare.» Judith gli posò una mano sull'avambraccio. «Jack, perché degli uomini dovrebbero scegliere una simile strada?» «Per far credere a gente come lei che E.T. ci ha preso di mira. E funziona. Accidenti se funziona.» «Qui nessuno è ingenuo», disse il consigliere per la sicurezza nazionale,
in tono seccato. «Non abbasseremo la guardia, ma, detto sinceramente, con la sua psicosi del terrorismo non faremo un passo avanti. Non possiamo continuare a sorvegliare dei mullah suonati o dei criminali ricchissimi mentre crollano altre scarpate continentali, intere città vengono spazzate via e muoiono americani innocenti. Allora, Jack, qual è la sua proposta?» Vanderbilt incrociò le braccia sul ventre. Sembrava un Buddha imbronciato. «La proposta c'è stata», disse lentamente Judith. «E sarebbe?» «Comunicare coi rompiscatole. Prendere contatto.» Il presidente congiunse la punta delle dita, poi disse in tono riflessivo: «Questa è una prova. Una prova per l'umanità. Forse Dio ha predisposto il pianeta per ospitare due specie diverse. Forse la Bibbia ha ragione quando parla della bestia con dieci corna e sette teste che esce dal mare. Dio ha detto: 'Che l'uomo abbia dominio su tutta la terra'. L'uomo, non i pesci.» «Già», mormorò Vanderbilt. «L'ha detto agli americani.» «Forse questa è la lotta contro il male, la grande battaglia tante volte preannunciata.» Il presidente si alzò. «E noi siamo i prescelti per combatterla e per vincerla.» Judith comprese dove voleva arrivare e concluse: «Forse chi vincerà questa battaglia, vincerà il mondo». Peak la guardò di traverso e tacque. «Dovremmo discutere la teoria di Johanson coi membri della NATO e con l'UE», propose il segretario di Stato. «Poi dovremmo coinvolgere le Nazioni Unite.» «E, nel contempo, far capire loro con la massima chiarezza che non saranno in grado di condurre le operazioni», si affrettò ad aggiungere Judith. «Toccherà a noi sfruttare il know how e le capacità dei loro uomini migliori. Propongo di coinvolgere anche gli Stati arabi amici e gli Stati asiatici, così faremo una buona impressione. Ma è anche arrivato il momento di porci al vertice della comunità mondiale. Non siamo di fronte a una collisione di meteoriti, che spazzerebbe via l'umanità dalla faccia della Terra. Questa è una terribile minaccia, che possiamo contrastare solo se non commettiamo errori.» «Le sue contromisure sono efficaci?» chiese il consigliere per la sicurezza. «In tutto il mondo, i ricercatori stanno lavorando a pieno ritmo per trovare un antidoto. Stiamo lottando contro l'invasione dei granchi e gli attac-
chi dei cetacei e cercando di catturare quei vermi, anche se non è facile. Facciamo e faremo di tutto per ridurre i rischi, ma, se continueremo a mantenere un comportamento convenzionale, non sarà sufficiente. Il blocco della Corrente del Golfo ci condanna all'impotenza. Non è possibile fermare il 'massimo incidente ipotizzabile' col metano. Anche se riuscissimo a pescare dal mare milioni di quei vermi, non potremmo comunque vedere dove torneranno a insediarsi, e si ricomincerebbe da capo. Siamo diventati ciechi perché è impossibile mandare sott'acqua robot, sonde e batiscafi. Non abbiamo la minima idea di cosa stia succedendo là sotto. Ho sentito che oggi pomeriggio, davanti al Georges Bank, abbiamo perso due reti gigantesche. Si sono interrotti i contatti con tre trawler che stavano incrociando all'altezza della fossa Laurentius per pescare sui fondali. Aerei sorvolano la zona alla ricerca dei dispersi, ma le condizioni meteorologiche sono difficili. A est ci sono i banchi di Terranova, una zona di nebbia permanente, e da due giorni imperversano violente tempeste.» Fece una pausa. «Sono due esempi delle migliaia che potrei fare. Quasi tutte le notizie riflettono il nostro insuccesso. La dichiarazione dello stato d'emergenza funziona bene, siamo riusciti diverse volte a impedire l'invasione dei granchi, grazie ai lanciafiamme, ma in compenso essi continuano a uscire dal mare in altri punti. Dobbiamo ammettere che, per quanto riguarda il mare, abbiamo poche notizie. Sarebbe già molto se da lì non uscissero altre minacce, ma ora...» «E gli attacchi col sonar?» «Continuano, ma non si evidenzia nessun successo concreto. I cetacei non scappano dal rumore, come dovrebbe costringerli a fare l'istinto. Credo che soffrano terribilmente, però sono telecomandati. Il terrore continua.» «Visto che parla di pianificazione, Jude, mi dica: dietro tutto questo, lei vede una strategia?» chiese il segretario alla Difesa. «Credo di sì. A mio parere è articolata in cinque fasi. Il primo passo è l'allontanamento degli uomini dalla superficie del mare e dagli abissi. Il secondo è la distruzione e l'allontanamento delle popolazioni costiere, com'è successo nel Nordeuropa. Il terzo passo riguarda l'abbattimento delle nostre infrastrutture. Nel Nordeuropa, appunto, sono state colpite duramente le industrie offshore. Inoltre il blocco della pesca darà enormi problemi di approvvigionamento, specialmente al Terzo Mondo. Il quarto passo è la devastazione dei pilastri della nostra civiltà, le grandi città - con gli tsunami e gli attacchi biologici -, col conseguente spostamento della
popolazione all'interno. E poi c'è il quinto e ultimo passo: il collasso del clima. La Terra diventa inabitabile per gli uomini. Si ghiaccia o viene sommersa, si scalda o si gela, o forse entrambe le cose, non siamo ancora in grado di dirlo.» Per un po' regnò un silenzio assoluto. «Ma la Terra non diventerebbe inabitabile anche per tutto il mondo animale?» chiese il consigliere per la sicurezza. «Sulla superficie, sì. O, meglio, diciamo che ci lascerebbe le penne una gran parte del mondo animale. Però mi sono fatta spiegare che cos'è successo cinquantacinque milioni di anni fa: sono morti moltissimi animali e piante, ma hanno lasciato spazio a nuove specie. Credo che questi esseri abbiano riflettuto molto attentamente su come sopravvivere alla catastrofe senza danni.» «Una simile guerra di distruzione è...» Il segretario all'Interno non trovava le parole. «È sproporzionata, inumana...» «Non sono esseri umani», ribadì Judith. «Ma possiamo fermarli?» «Se scopriamo chi sono», intervenne Vanderbilt. Judith Li si girò verso di lui. «Sbaglio o ha cambiato opinione?» «La mia opinione non cambia», replicò Vanderbilt, ostentando indifferenza. «Svelando lo scopo di un'azione, spesso si può risalire a chi l'ha compiuta. In questo caso, riconosco che la sua strategia in cinque fasi è al momento la più convincente. Quindi dobbiamo agire. Chi sono? Dove sono? Che pensano?» «Cosa possiamo fare contro di loro?», aggiunse il segretario alla Difesa. «Il male...» sussurrò il presidente, tenendo le palpebre serrate. «Come si può sconfiggere il male?» «Bisogna comunicare con loro», disse Judith. «Entrare in contatto?» «Si può trattare anche col diavolo. Al momento, non vedo altra scelta. Johanson sostiene che ci stiano tenendo sulla corda, per impedirci di trovare soluzioni. Non possiamo concedere loro altro tempo. Siamo ancora in grado di agire, allora dobbiamo cercare di stabilire un contatto. Poi li colpiremo.» «Esseri degli abissi marini?» Il segretario all'Interno scosse la testa. «Santo cielo!» «Siamo davvero tutti dell'opinione che in questa teoria ci sia qualcosa di fondato?» chiese il direttore della CIA. «Voglio dire, stiamo parlando co-
me se tutti i dubbi fossero stati spazzati via. Vogliamo davvero accettare l'idea che dobbiamo dividere la Terra con un'altra specie intelligente?» «C'è solo una specie voluta da Dio», sottolineò deciso il presidente. «Ed è quella umana. Che quella forma di vita nel mare sia intelligente è un'altra questione. Che abbia il diritto di rivendicare per sé il pianeta come facciamo noi è cosa assai dubbia. La creazione non prevede simili esseri. La Terra è il mondo degli uomini, è stata creata per gli uomini e il progetto divino è il nostro progetto. Ma che responsabile di tutto ciò sia una forma di vita sconosciuta mi sembra accettabile.» «Lo chiedo un'altra volta: che cosa riveliamo al mondo?» disse il segretario di Stato. «È troppo presto per dire qualcosa al mondo.» «Ci saranno domande...» «E lei inventi le risposte. È un diplomatico, no? Se dicessimo al mondo che nel mare vivono esseri intelligenti, succederebbe un pandemonio.» «Tra parentesi...» disse il direttore della CIA, rivolto a Judith. «Come dobbiamo chiamare questi cervelli bacati nell'oceano?» Judith sorrise. «Johanson ha una proposta: yrr.» «Yrr?» «Una y e due r. È un nome del tutto casuale. Il risultato di un movimento inconsapevole delle dita sulla tastiera del computer.» «Che cosa puerile.» «Johanson ritiene che qualsiasi nome vada bene, e io gli do ragione. Dovremmo chiamarli yrr.» «Va bene, Jude.» Il presidente annuì. «Vedremo cosa c'è di vero in questa teoria. Dobbiamo tenere in considerazione tutte le opzioni, tutte le possibilità. Ma se decideremo di dover combattere una battaglia contro esseri che, per quello che mi riguarda, possiamo anche chiamare yrr, allora sconfiggeremo questi yrr. Perché siamo in guerra contro gli yrr.» Si guardò intorno. «Questa è un'opportunità. Una grande opportunità. Voglio che sia sfruttata al meglio.» «Con l'aiuto di Dio», disse Judith. «Amen», farfugliò Vanderbilt. Karen Weaver In quella situazione di assedio, c'erano comunque dei vantaggi. Per esempio, allo Château, tutto era sempre aperto. Judith Li aveva fatto in mo-
do che specialmente gli scienziati, impegnati giorno e notte nel lavoro, avessero la possibilità di gustarsi una bistecca anche alle quattro del mattino. Di conseguenza c'erano pasti caldi ventiquattr'ore su ventiquattro; il ristorante e i bar non chiudevano e tutte le attrezzature sportive, comprese la sauna e la piscina, erano disponibili a ogni ora del giorno e della notte. Karen Weaver aveva nuotato in piscina per mezz'ora. Era già l'una passata. A piedi nudi, coi capelli bagnati e avvolta in un morbido accappatoio, stava attraversando la hall, diretta agli ascensori, quando, con la coda dell'occhio, notò Anawak. Era seduto al bancone del bar, un posto che non sembrava abituale, per lui. Se ne stava là con aria persa, davanti a una Coca-Cola che non aveva toccato e a una ciotola di noccioline; ogni tanto ne prendeva una, la guardava e poi la lasciava ricadere. Karen esitò. Dopo la conversazione bruscamente interrotta nel pomeriggio, non l'aveva più visto. Forse non voleva essere disturbato. Nella hall e negli spazi limitrofi regnava ancora un'intensa attività; solo il bar era semideserto. In un angolo c'erano due uomini in abito scuro, impegnati in una conversazione a bassa voce. Un po' più in là, una donna fissava concentrata lo schermo del suo laptop. Una musica West Coast in sottofondo rendeva quella scena del tutto normale. Anawak non sembrava triste. Karen aveva quasi deciso di tornare in camera, ma poi, quasi senza rendersene conto, entrò nel bar, lasciando orme umide sul parquet. Andò in fondo al bancone, dov'era era seduto Anawak, e disse: «Salve!» Lui girò la testa e la fissò con sguardo assente. Karen si bloccò. Sapeva benissimo che bastava un attimo per violare involontariamente la sfera intima di una persona, guadagnandosi la fama imperitura di scocciatori. Si appoggiò al bancone e strinse l'accappatoio intorno alle spalle. Tra loro c'erano due sgabelli. «Salve», replicò Anawak. I suoi occhi scintillarono. Sembrava che si fosse reso conto solo in quel momento della presenza della donna. Lei sorrise. «Cosa... ehm... Cosa fa qui?» Domanda stupida. Che cosa sta facendo? È seduto al bancone e giocherella con le noccioline. «Oggi è sparito.» «Mi dispiace.» «No, non deve», si affrettò a dire Karen. «Insomma, non volevo disturbarla. Ma l'ho visto seduto qui e ho pensato...» C'era qualcosa che non andava. Avrebbe fatto meglio ad andarsene.
Anawak sembrava essersi scosso dal torpore. Prese il bicchiere, lo sollevò e poi lo rimise giù. Posò lo sguardo sullo sgabello di fianco al suo. «Ha voglia di bere qualcosa?» chiese. «Davvero non disturbo?» «No, per niente.» Esitò. «Io mi chiamo Leon. Possiamo darci del tu?» «Va bene, allora... Io mi chiamo Karen... Un Baileys con ghiaccio, grazie.» Anawak fece un cenno al barman e ordinò. Lei si avvicinò, ma non si sedette. Dai capelli bagnati le scorrevano sulle spalle alcune gocce di acqua fredda, che poi si raccoglievano tra i seni. In genere, non aveva problemi ad andare in giro mezza nuda, ma ora si sentiva a disagio. Un bicchiere e poi sarebbe sparita. «E come stai?» chiese, sorseggiando il liquore cremoso. Anawak aggrottò la fronte. «Non lo so.» «Non lo sai?» «No.» Prese una nocciolina, la posò davanti a sé e poi la lanciò via con un colpo. «Mio padre è morto.» Oh, merda. Lo sapeva. Non doveva avvicinarsi. E invece lo aveva fatto e adesso stava lì con un uomo che si era messo di proposito in fondo al bancone di un bar, quasi volesse esporre un cartello con l'avvertimento di tenersi alla larga. «Di che cosa?» chiese, esitante. «Non ne ho idea.» «I medici non lo sanno ancora?» «Io non lo so ancora.» Anawak scosse la testa. «E non sono sicuro di volerlo sapere.» Rimase in silenzio per un po', quindi disse: «Oggi pomeriggio ho camminato nei boschi per ore. A tratti quasi arrancando, in altri momenti correndo come un pazzo. Alla ricerca di un... sentimento. Pensavo di calarmi in una situazione emotiva adatta alle circostanze, e invece mi sono soltanto fatto del male». La guardò. «Non so se tu abbia mai provato una sensazione simile... Ovunque tu sia, vuoi solo andartene. Tutto sembra schiacciarti e improvvisamente ti accorgi che non dipende da te. Capisci che sei tu quello che se ne vuole andare. Sono i luoghi che vogliono staccarsi da te. Ma nessuno ti spiega a quale luogo appartieni, e così corri e corri...» «Strano...» mormorò Karen. «Qualcosa di simile si prova da ubriachi. Quando sei talmente pieno che qualsiasi posizione ti fa stare male, non importa come ti giri, se stai sulla schiena o sulla pancia.» S'interruppe. «Scusa. Ho detto una stupidaggine.»
«No, per niente! Hai ragione. Stai meglio solo dopo aver vomitato. Mi sento esattamente così. Probabilmente devo proprio vomitare, ma non so come.» Fece scorrere le mani sul bordo del bicchiere. La musica continuava, incessante. «Avevi un buon rapporto con tuo padre?» «Non avevo il minimo rapporto con lui.» «Davvero?» Karen aggrottò la fronte. «Ma è possibile? È possibile non avere il minimo rapporto con una persona che si conosce?» Anawak si strinse nelle spalle. «E tu?» chiese. «Cosa fanno i tuoi genitori?» «Sono morti.» «Oh. Mi dispiace.» «Non preoccuparti, non c'è niente di strano. È successo quando avevo dieci anni. Un incidente durante un'immersione, in Australia. Io ero rimasta all'hotel. Sono morti per una corrente profonda molto violenta. Sai come sono quelle correnti: prima è tutto tranquillo, poi, improvvisamente vieni afferrato e trascinato in mare aperto. Loro erano cauti ed esperti, ma...» Scrollò le spalle. «Il mare cambia sempre.» «Li hanno trovati?» chiese Anawak sottovoce. «No.» «E tu? Come te la sei cavata?» «Per qualche tempo è stata molto dura. Avevo avuto un'infanzia splendida, sai com'è. I miei genitori erano insegnanti e affascinati dall'acqua. Abbiamo fatto di tutto: vela alle Maldive, immersioni nel mar Rosso, nelle grotte dello Yucatan... Ci siamo immersi anche in Scozia e in Islanda. Naturalmente, quand'ero con loro, restavano vicini alla superficie e, se le immersioni erano pericolose, non mi portavano. E durante una di quelle più pericolose sono morti.» Sorrise. «Ma, come vedi, me la sono cavata.» «Sì.» Ricambiò il suo sorriso. «Non si può non notare.» Era un sorriso triste, disperato. Per un po', Anawak si limitò a guardarla. Poi scese dallo sgabello. «Dovrei cercare di dormire. Domani c'è il funerale.» Esitò. «Allora, buonanotte e... grazie.» «E di che? Buonanotte.» Karen rimase seduta davanti al suo Baileys bevuto per metà e ripensò ai suoi genitori, al giorno in cui la direttrice le aveva detto che doveva essere molto coraggiosa. Una ragazzina coraggiosa. Piccola, forte Karen. Fece ondeggiare il liquore nel bicchiere.
Non aveva raccontato ad Anawak fino a che punto era stata dura. La nonna l'aveva presa con sé, una bambina scossa e impaurita che aveva trasformato il suo dolore in rabbia, al punto che l'anziana donna non sapeva mai cosa fare. I suoi risultati a scuola erano rapidamente peggiorati e lo stesso si poteva dire del resto della sua vita. Non aveva raccontato ad Anawak delle continue fughe, della prima canna e delle droghe che aveva preso quando viveva per strada. Era sempre completamente ubriaca o sballata e andava a letto con chiunque fosse disponibile, e nessuno si tirava indietro. Poi i piccoli furti, l'espulsione dalla scuola, un aborto clandestino, le droghe pesanti, i furti nelle auto, i servizi sociali. Sei mesi in un istituto di correzione. Il corpo pieno di piercing. La testa rasata e cicatrici ovunque. L'anima e il corpo ridotti a un campo di battaglia. Però l'incidente non aveva spezzato il suo amore per il mare, al contrario. Il mare esercitava su di lei un fascino oscuro, sembrava quasi chiamarla, invitarla ad andare sul fondo, dove la aspettavano i suoi genitori. Il mare la affascinava a tal punto che, una notte, era andata in autostop a Brighton e aveva nuotato fino al largo. Quando l'acqua, liscia come l'olio, nera, illuminata solo dalla luna, aveva come inghiottito le luci della località balneare, si era lasciata sprofondare lentamente sotto la superficie, provando ad annegare. Ma non era così facile. Era rimasta sospesa nell'oscurità, trattenendo il fiato e contando i battiti del cuore finché non le erano rimbombati nelle orecchie. E invece, anziché prendersi la sua forza vitale, il mare le aveva dimostrato quanta ne possedeva: quel cuore così forte... Eppure lei voleva assolutamente abbandonarsi al suo freddo abbraccio. Di colpo era arrivato l'istinto di respirare, che l'avrebbe costretta a prendere acqua nei polmoni. Suo padre le aveva parlato spesso di quel fenomeno. Nei polmoni si sarebbe formata della schiuma, la rete di alveoli si sarebbe sgonfiata a poco a poco e infine l'acuta mancanza di ossigeno l'avrebbe condotta alla morte. Due minuti per arrivare ai crampi del diaframma, che avrebbero reso impossibile il respiro. In cinque minuti, il cuore si sarebbe fermato. Era schizzata verso l'alto, riemersa dall'incubo cominciato quando lei aveva dieci anni. Di anni ne aveva ormai sedici. L'equipaggio di un cutter, che passava lì vicino, l'aveva tirata fuori dall'acqua e portata in ospedale con una grave ipotermia. Lì, Karen aveva avuto tempo sufficiente per trasformare il coraggio e la disperazione in un progetto. Dopo essere stata dimessa, si era osservata per un'ora allo specchio, concludendo che non
voleva più vedersi così. Si era tolta i piercing e aveva deciso di non rasarsi più i capelli. Poi aveva fatto dieci flessioni ed era crollata. Una settimana dopo, era riuscita a farne venti. Si era impegnata al massimo per recuperare quello che aveva perso. La scuola l'aveva riammessa, a condizione che si sottoponesse a una terapia, e lei aveva acconsentito. Si era dimostrata volenterosa e disciplinata. Era premurosa e gentile. Leggeva tutto quello che le capitava tra le mani, soprattutto sull'ecosistema della Terra e sugli oceani. Non passava giorno senza che si allenasse. Da quando il mare l'aveva liberata, lei correva, nuotava, faceva boxe e si arrampicava per cancellare anche le ultime tracce del tempo perduto. Alla fine, la ragazza magra e con gli occhi incavati era sparita: il suo corpo ricordava quello di una statua greca. A diciannove anni, con un anno di ritardo, si era diplomata brillantemente e si era iscritta a Biologia. Karen era diventata una persona nuova. Con una vecchia nostalgia. Per comprendere meglio il mondo e come funzionava, si era occupata anche d'informatica. La rappresentazione di relazioni complesse attraverso il computer la entusiasmava, e non si era data pace finché non era riuscita a rappresentare virtualmente i movimenti dell'oceano e dell'atmosfera. Il suo primo lavoro era stato un ampio quadro delle correnti marine, una cosa che non avrebbe portato nulla di nuovo al sapere universale, ma che rivelò grande lucidità e rigore logico. Era un omaggio a due persone che lei aveva amato e che aveva perso troppo presto. Quando Karen metteva la testa sott'acqua e faceva ricerche, restituiva qualcosa di quello che aveva ricevuto in abbondanza: amore e sapere. Aveva fondato una società di pubbliche relazioni, la Deepbluesea; scriveva per Science e per il National Geographic; teneva rubriche su periodici di divulgazione scientifica. In tal modo, era riuscita ad attirare l'attenzione di vari istituti, che l'avevano invitata a partecipare a varie spedizioni, perché avevano bisogno di una voce che desse forma alle loro idee. Con il MIR avera raggiunto il Titanic; l'Alvin l'aveva portata ai camini idrotermali della dorsale abissale atlantica; la Polarstern le aveva permesso di svernare nell'Artico. Lei c'era sempre e faceva sempre del suo meglio, perché, dopo quella notte, non conosceva più la paura. Niente e nessuno le faceva più paura. Tranne l'essere sola. Ogni tanto. Si guardò nello specchio del bar: era bagnata e avvolta nell'accappatoio di spugna. Aveva un'aria perplessa.
Bevve in fretta il Baileys e andò a letto. 14 maggio Anawak Il ronzio del motore lo fece sprofondare lentamente nel sonno. Una volta presa la decisione di partire, aveva avuto la sensazione di essersi lasciato alle spalle le sue difficoltà. Si era convinto che Judith Li l'avrebbe bloccato; invece lei l'aveva letteralmente spinto a prendere il primo aereo. «Se muore uno dei genitori o un bambino, allora bisogna stare con la propria famiglia. Se dovesse restare qui, non se lo perdonerebbe mai. Nella vita, la cosa più importante è la famiglia. Si può contare solo sulla famiglia. La prego soltanto di essere sempre raggiungibile.» Adesso, seduto sull'aereo, si chiedeva se Judith Li avesse una famiglia. E lui? Lui aveva una famiglia? Era una situazione paradossale: una persona che probabilmente non aveva legami coi propri parenti tesseva le lodi della famiglia a chi non ne aveva una. Il suo vicino, un esperto del clima che proveniva dal Massachusetts, cominciò a russare. Anawak spostò un po' indietro lo schienale del sedile e guardò fuori dal finestrino. Ormai da ore, era solo con se stesso e coi propri pensieri, però non era ancora sicuro che gli facesse bene. Un Boeing della Canadian Airlines International l'aveva portato da Vancouver al Pearsons Airport di Toronto, investito da un temporale insolitamente violento, che aveva bloccato il traffico aereo. Ad Anawak era sembrato un brutto segno. Aveva aspettato, impaziente, vicino al gate, mentre un aereo dopo l'altro si agganciava alla passerella telescopica. Finalmente, con due ore di ritardo, anche il suo volo per Montreal era partito. Da lì in poi era andato tutto liscio. Aveva preso una stanza all'Holiday Inn vicino al Dorval Airport e poi era ritornato nella sala d'attesa. Alcuni segni gli indicavano che era entrato in un altro mondo. Alcuni uomini bevevano caffè davanti alla grande finestra panoramica. Indossavano tute con loghi di ditte petrolifere e sembrava che avessero solo un bagaglio a mano. Il volto di due di loro somigliava a quello di Anawak: largo, piatto e scuro, con gli occhi dal taglio orientale. All'esterno, enormi bancali strapieni, assicurati da reti d'imballaggio, sparivano l'uno dopo l'altro nel ventre del
Boeing 747 della Canadian North Airlines. Stavano ancora scivolando sul ponte elevatore quando venne fatta la chiamata per i passeggeri. Attraversarono a piedi il campo di atterraggio ed entrarono nell'aereo attraverso una scala collocata sotto la coda. I sedili erano presenti solo nel terzo anteriore dell'aereo; lo spazio rimanente era riservato al bagagliaio. Il viaggio era ripreso da due ore. Di tanto in tanto l'aereo sobbalzava leggermente. Si trovavano ormai nei pressi dello stretto di Hudson e le masse nuvolose si stavano aprendo, rivelando un paesaggio montagnoso e frastagliato, coperto da nevai e continuamente interrotto da laghi su cui galleggiavano lastroni di ghiaccio. Poi apparve la costa. Lo stretto di Hudson scivolò sotto di loro e Anawak si rese conto che aveva attraversato l'ultimo confine. Dentro di lui scoppiò una confusione di sentimenti che lo strappò alla sonnolenza. In ogni azione c'era un punto di non ritorno. Fisicamente quel punto era stato Montreal, ma a livello simbolico era lo stretto di Hudson. Al di là di quella striscia d'acqua cominciava il mondo in cui lui non voleva più tornare. Anawak era in viaggio verso la sua terra natale, verso la sua patria ai margini del Circolo Polare: Nunavut. Continuava a guardare fuori e cercava di scacciare quel pensiero. Dopo mezz'ora tornarono a sorvolare la terraferma, poi un'abbagliante piana ricoperta di ghiaccio, la Frobisher Bay, a sud-est dell'isola di Baffin. L'aereo virò a destra e si abbassò velocemente. Comparvero un edificio di un giallo intenso e una tozza torre di controllo. Accovacciata in quel paesaggio scuro e collinoso, sembrava un avamposto umano in un pianeta sconosciuto. In realtà segnalava l'aeroporto di Iqaluit, «la scuola dei pesci», la capitale del Nunavut. Il Boeing atterrò. Anawak non dovette aspettare a lungo per la consegna dei bagagli. Prese lo zaino e bighellonò nella zona. C'era una mostra sull'arte inuit, con arazzi e statue di steatite. Nel mezzo della sala scorse una figura a grandezza naturale, tarchiata, vestita con stivali e abiti tradizionali. Nella destra, reggeva un tamburo piatto che teneva sollevato sopra la testa; nell'altra mano, aveva la bacchetta. Il suonatore di tamburo di pietra aveva la bocca aperta nel canto. Irradiava vigore e sicurezza. Anawak si fermò per un momento e lesse la didascalia sul basamento della scultura: IN PARTICOLARI OCCASIONI, QUANDO GLI UOMINI RITORNANO DALL'ARTICO, VENGONO ACCOLTI DA DANZE COL TAMBURO E DA UN TIPO PARTICOLARE DI CANTO, CHIAMATO «THROAT SINGING». Poi
si diresse al check-in della First Air e consegnò lo zaino. La donna che prese in consegna il bagaglio lo avvertì che l'aereo sarebbe partito con un'ora di ritardo. «Forse deve sbrigare ancora qualcosa in città», disse in tono gentile. Anawak esitò. «No. Conosco appena la città.» Lei lo guardò con un certo stupore. Evidentemente si meravigliava che un uomo che aveva l'aspetto da inuk non conoscesse la capitale. Poi sorrise. «Iqaluit offre varie attrazioni. Dovrebbe sfruttare l'occasione. Vada al museo Nunatta-Sunaqutangit, ha tutto il tempo. C'è una bella mostra sull'arte tradizionale e contemporanea.» «Oh, sì... certo.» «Oppure all'Unikkaarvik Visitor Information Centre. E faccia una puntata alla chiesa anglicana. Sembra un igloo... È l'unica chiesa al mondo che somigli a un igloo!» Anawak osservò la donna. Era un'indigena, piccola, con la frangia e la coda di cavallo. Quando allargava il sorriso, le brillavano gli occhi. «Avrei potuto giurare che lei fosse di Iqaluit», disse lei. «No.» Per un attimo fu tentato di confidarle che veniva da Cape Dorset, invece disse: «Vancouver. Vengo da Vancouver». «Oh, io adoro Vancouver!» esclamò lei. Anawak si guardò intorno. Temeva di bloccare la coda, ma evidentemente quel giorno era l'unico a prendere quel volo. «C'è mai stata?» «No, non sono mai stata così lontano. Ma su Internet ci sono le fotografie e tutte le informazioni. Una bella città.» Sorrise. «Un po' più grande di Iqaluit, vero?» Ricambiò il sorriso. «Sì, penso proprio di sì.» «Oh, però noi non siamo più così piccoli. Iqaluit ha pur sempre seimila abitanti. E noi ci stiamo lavorando. Tra qualche anno saremo grandi come Vancouver. Be', insomma... quasi. Mi scusi.» Dietro di lui era apparsa una coppia. Quindi non era l'unico a prendere quel volo. Salutò in fretta e uscì prima che alla donna venisse in mente di accompagnarlo nella visita alla città. Iqaluit. Il suo ultimo ricordo era così lontano. Alcune cose gli sembrarono note; altre non le riconobbe. Le nuvole erano rimaste nel Quebec, il cielo era splendido, e il sole rendeva gradevole la temperatura. Dovevano esserci almeno dieci gradi. Anawak aveva troppo caldo col piumino sopra il pullover pesante, così lo tolse, se lo legò intorno ai fianchi e s'incamminò fati-
cosamente verso il centro, lungo la strada polverosa. Il traffico lo sorprese. Non ricordava che un tempo ci fossero in circolazione così tanti fuoristrada. Vide anche numerosi ATV, veicoli simili a una moto, ma dotati di tre o quattro ruote. Ai lati della strada sorgevano le tipiche case di legno dell'Artico, costruite su bassi pilastri a causa del permafrost. Tutti gli edifici dell'Artico poggiavano su pilastri, Se si fosse costruito direttamente sul terreno, questo si sarebbe sciolto a causa del calore irradiato e gli edifici sarebbero sprofondati. Più Anawak si guardava intorno, più gli si formava nella mente l'immagine di Dio che, un giorno, aveva agitato in una mano una gran quantità di edifici, come se fossero dadi, e poi li aveva lanciati, sparpagliandoli senza il minimo progetto. Impressionanti costruzioni colossali, cubiche, di un bianco abbagliante e senza finestre, si levavano in mezzo alle tradizionali casette, dipinte di verde oliva o di un color ruggine. La scuola sembrava un UFO finito lì per caso. Alcuni dei condomini rilucevano in un intenso color petrolio e acquamarina. Un po' più avanti, incappò nell'edificio dell'assemblea legislativa, un incrocio tra una gradevole villa con giardino e una cupola abitativa per astronauti. Nelle vicinanze sorgeva un elegante edificio a tre piani, con grandi finestre e un ingresso imponente, che si sarebbe potuto trovare in qualsiasi città del mondo, se si prescindeva dai tipici pilastri e dalla scala. Anawak cercò di non farsi condizionare da quelle impressioni, ma, da quand'era scampato al disastro dell'idrovolante, aveva perso la capacità di abbandonarsi all'indifferenza. Quel selvaggio miscuglio architettonico trasmetteva una sensazione di spensieratezza, quasi di allegria, nei confronti della quale lui provava una profonda diffidenza, ma che non lo lasciava insensibile. Si chiese cosa fosse successo. Quella non era la deprimente Iqaluit degli anni '70. Le persone lo salutavano con gentilezza in inuktitut. Lui rispondeva al saluto in modo asciutto. Senza mai fermarsi, camminò attraverso la città e andò all'Unikkaarvik Visitor Information Centre, dove trovò una copia ancora più imponente del danzatore col tamburo. Il danzatore col tamburo... Quelle danze risalivano alla sua infanzia. A molto tempo prima, quando le cose erano ancora a posto. Che sciocchezza! Quando mai le cose lì sono state a posto? Ritornò sulla strada e continuò a camminare. Faceva sempre più caldo e la luce del sole aveva una qualità cristallina. Effettivamente, la chiesa anglicana sembrava un igloo, con una punta tesa verso l'alto. La lasciò alla sua sinistra. Dopo un'ora, era di nuovo all'aeroporto e si sedette su una
panca con un giornale per ingannare l'attesa del volo. Oltre a lui, c'era solo la coppia che aveva visto poco prima. Aprì il giornale in modo che lo riparasse dalle sollecitazioni esterne, lesse gli articoli senza coglierne il contenuto, e alla fine lo gettò via. La ragazza dello sportello li invitò a seguirla. Attraverso un'uscita secondaria arrivarono sulla pista, dove li attendeva un bimotore a elica, un Piper. Anawak salì con la coppia i due gradini che conducevano nella stretta cabina. L'aereo aveva solo sei posti e i bagagli erano sistemati nella parte posteriore, dietro una rete. Non c'era una vera e propria separazione tra la cabina di pilotaggio e lo spazio per i passeggeri. Rullarono sulla pista di decollo, dovettero attendere l'atterraggio di un aereo simile al loro, poi, dopo una breve corsa, si sollevarono, traballando. L'aeroporto divenne sempre più piccolo e poi sparì. Sotto di loro, luccicava la Frobisher Bay. Superando montagne ancora in parte coperte di neve e sfaccettate di ghiacciai, volarono verso ovest. A sinistra, la luce del sole risplendeva sullo stretto di Hudson; a destra, si rifrangeva su un lago... Amadjuak Lake, ricordò improvvisamente Anawak. C'era stato qualche volta. Quante cose gli stavano tornando in mente. I ricordi si manifestavano come ombre in una tormenta di neve e lo trascinavano nel passato. Non voleva tornare laggiù. La terra divenne sempre più piatta, poi finì. Per venti minuti la loro rotta li portò sul mare, poi, dal finestrino della cabina, ricomparve un territorio montagnoso. Nel campo visivo entrò la baia di Tellik Inlet, con le sue sette isole. Su una di esse si stendeva la linea sottile della pista di atterraggio di Cape Dorset. Atterrarono. Anawak ebbe l'impressione che il cuore volesse balzargli fuori dal petto. Era a casa. Era là dove non avrebbe mai voluto tornare. Mentre il Piper rullava verso l'edificio dell'aeroporto, dentro di lui avversione e curiosità si mescolavano con la paura. Cape Dorset... Coi suoi milleduecento abitanti era definita, un po' con meraviglia e un po' per scherzo, la New York del nord, ed era uno dei principali centri dell'arte inuit. O, meglio, lo era diventata. Un tempo non era così. Cape Dorset... Kinngait, «grande montagna», nella lingua degli inuit, situata nell'ampia zona di Sikusiilaq, «dove sul mare non c'è ghiaccio», perché, anche negli inverni più rigidi, le correnti tiepide impedivano che, in-
torno alla penisola di Foxe, braccio sudoccidentale dell'isola di Baffin, il mare si gelasse completamente. I nomi si riversavano nel cervello di Anawak. Là c'era quell'isoletta nei pressi di Cape Dorset, Mallikjuaq, una zona naturale protetta, piena di piccole meraviglie, con le trappole per volpi del XIX secolo, resti dell'antichissima cultura thule, tombe avvolte nella leggenda e un lago romantico, sulle cui rive aveva campeggiato spesso. Anawak ricordò il piccolo pontile dei kajak. Era un posto in cui andava volentieri, Mallikjuaq. Poi nei ricordi comparvero suo padre e sua madre, e lui riscoprì cosa l'aveva allontanato da quella terra che, allora, non si chiamava ancora Nunavut, bensì Territori del nord-ovest. Prese lo zaino e scese dal Piper. Un uomo si precipitò verso la coppia. Evidentemente si conoscevano. Il saluto fu calorosissimo, com'era solito tra gli inuit. Nel loro vocabolario c'erano moltissime parole per salutare, ma nessuna per dire «addio». Diciannove anni prima, nessuno aveva detto ad Anawak una parola di commiato, neppure l'uomo piccolo e segnato dal tempo che era apparso improvvisamente sulla pista non appena la coppia e il loro amico indigeno se n'erano andati, chiacchierando. In un primo momento, Anawak faticò a riconoscerlo. Ijitsiaq Akesuk era evidentemente invecchiato e aveva un paio di baffi grigi e sottili che prima non portava. Però era lui. Il viso solcato da rughe si allargò in un sorriso. Andò in fretta verso Anawak e lo abbracciò, stringendo tra le braccia pure lo zaino. Dalle sue labbra sgorgò un fiume di parole in inuktitut. Poi se ne rese conto e, in inglese, disse: «Leon, ragazzo mio. Ma che bel giovane dottore sei». Anawak si lasciò abbracciare e diede qualche pacca sulle spalle di Akesuk. «Zio Iji, come stai?» «Come vuoi che stia, con tutto quello che succede? Hai fatto un buon volo? Devi aver viaggiato per un'eternità, chissà dove hai dovuto fare scalo per arrivare qui...» «Ho dovuto cambiare aereo un paio di volte.» «Toronto? Montreal?» Akesuk si staccò e lo guardò, raggiante. Anawak notò le fessure tra i denti, tipiche degli inuit. «Montreal, naturalmente. È stato un viaggio lungo, vero? Sono contento. Mi devi raccontare tante cose. Ovviamente starai da me, ragazzo mio, è già tutto pronto. Hai altro bagaglio?» «No. Ehm, zio Iji...» «Iji, solo Iji, lascia perdere lo zio. Sei troppo grande per dire zio.» «Ho prenotato in un hotel.»
Akesuk indietreggiò di un passo. «E dove?» «Al Polar Lodge.» Per un secondo il vecchio sembrò deluso. Ma si riscosse subito. «Annulliamo la prenotazione. Conosco il direttore. Lo sai, qui ci conosciamo tutti. Non c'è problema.» «Non voglio crearti disturbo», disse Leon. Sono qui per portare mio padre sotto il ghiaccio, pensò. E per sparire il più in fretta possibile. «Tu non mi disturbi», disse Akesuk. «Sei mio nipote. Per quanto tempo hai prenotato?» «Due notti. Credo siano sufficienti, no?» Akesuk aggrottò la fronte e lo squadrò dall'alto in basso. Poi prese Anawak per un braccio e lo trascinò via. «Ne riparleremo. Hai fame?» «Eccome.» «Magnifico. Mary-Ann ha preparato uno stufato di caribù e c'è anche zuppa di foca con riso. Una cosa squisita. Quand'è l'ultima volta che hai mangiato zuppa di foca?» Anawak si lasciava trascinare dallo zio. Davanti all'edificio dell'aeroporto c'erano diversi veicoli parcheggiati. Akesuk si diresse deciso verso un pick-up. «Metti lo zaino lì dietro. Conosci Mary-Ann? Ovviamente no. Te ne eri già andato quando lei è arrivata da Salluit e ci siamo sposati. Stare solo era diventato insopportabile. È più giovane di me. E devo dire che penso sia bene così. Tu sei sposato? Oh, santo cielo, quante cose dobbiamo raccontarci. È un'eternità che non vieni qui.» Anawak s'infilò sul sedile del passeggero e rimase in silenzio. Sembrava che Akesuk avesse proprio deciso di sfinirlo con le chiacchiere. Cercò di ricordarsi se anche prima il vecchio era così logorroico. Poi comprese che lo zio doveva essere nervoso quanto lui. Uno taceva. L'altro parlava. Ognuno aveva il proprio modo di reagire. Imboccarono la strada principale. Cape Dorset era diviso da catene montuose in diverse località. Al Kinngait vero e proprio si affiancavano a nordest Itjuritruq, a ovest Kuugalaaq e Muliujaq a sud. La famiglia di Anawak aveva vissuto a Kuugalaaq. Akesuk, il fratello della madre di Anawak, aveva la casa a Kinngait. Anawak si chiese se abitasse ancora là. L'avrebbe scoperto tra poco. Girarono per tutto il paese. Lo zio gli illustrava quasi ogni edificio e, a un certo punto, Anawak comprese che gli stava facendo fare una specie di gita turistica. «Zio Iji, le conosco queste cose», disse.
«Tu non conosci niente. È da diciannove anni che non vieni qui. Ci sono molte cose nuove. Là dietro, ti ricordi il supermercato?» «No.» «Vedi. E come potresti? È tutto nuovo! E ne abbiamo anche uno più grande. Prima andavamo sempre al Polar Supply Store, non l'hai dimenticato, vero? Là c'è la nuova scuola... Be', non è così nuova, ma per te lo è. Guarda a destra. Quello non lo puoi conoscere: è il salone per le feste Tiktaliktaq. Sai chi è stato qui per ascoltare il 'throat singing' e vedere le danze col tamburo? Bill Clinton, Jacques Chirac e Helmut Kohl... È davvero un gigante quel Kohl, vicino a lui sembravamo degli gnomi, quand'è che è stato qui, aspetta...» E così via. Visitarono la chiesa anglicana col cimitero in cui doveva essere seppellito suo padre. Anawak vide davanti a una casa una donna inuit, che stava lavorando a una statua, rappresentante un gigantesco uccello. Lo stile gli ricordò quello delle raffigurazioni tipiche degli indiani nootka. Un edificio grigio e blu a due piani e con un ingresso futurista si rivelò essere la sede del governo. L'amministrazione decentrata del Nunavut prevedeva che in ogni grande comune ci fosse un edificio simile. Anawak si arrese, trovandosi costretto ad ammettere che Cape Dorset era molto cambiata da quand'era bambino. E d'un tratto, senza quasi rendersene conto, disse: «Vai al porto, Iji». Akesuk sterzò bruscamente. Percorsero una strada in ripida pendenza. Case di legno di tutte le dimensioni e di tutti i colori erano distribuite in maniera evidentemente casuale nel paesaggio nero e marrone. Si vedevano alcune aree isolate con l'erba della tundra e, di tanto in tanto, una superficie innevata. Il porto di Cape Dorset era poco più di un pontile con delle gru, dove un paio di volte l'anno le navi che trasportavano i beni necessari per la sopravvivenza gettavano l'ancora. Non lontano, con la bassa marea, si poteva attraversare il Tellik Inlet per raggiungere l'isola vicina, Mallikjuaq, dove c'era il Mallikjuaq Territorial Park, con le sue tombe, il pontile dei kajak e il lago. Avevano campeggiato spesso lì. Si fermarono. Anawak scese, percorse il pontile e guardò verso l'acqua azzurra. Akesuk lo seguì per un tratto, ma non si avvicinò. Il molo era l'ultima cosa che Anawak aveva visto lasciando Cape Dorset. Non con l'aereo, ma con una nave. Aveva dodici anni. La nave aveva preso con sé lui e la sua nuova famiglia, che, piena di speranza e di attesa per il nuovo mondo, lasciava quella terra, provando già nostalgia per quel paradiso tra i ghiacci, un paradiso perduto da ormai molto tempo.
Dopo cinque minuti, Anawak tornò indietro a passi lenti e risalì sul pickup senza dire una parola. «Sì, il nostro vecchio porto», mormorò Akesuk. «Il vecchio porto. Non lo dimenticherò mai. È da qui che te ne sei andato. Ha spezzato il cuore a tutti...» Anawak gli rivolse uno sguardo tagliente. «A chi si è spezzato il cuore?» chiese. «Ma sì, a tuo...» «A mio padre? A voi? A qualche vicino?» Akesuk accese il motore. «Vieni», disse. «Andiamo a casa.» Akesuk non aveva cambiato casa: abitava ancora in un piccolo complesso residenziale, grazioso e curato, con la facciata azzurra e il tetto blu scuro. Alle sue spalle, le colline salivano dolcemente e culminavano nel Kinngait, la «grande montagna», i cui versanti erano segnati da venature di neve. Nei ricordi di Anawak, il Kinngait - più una tozza catena montuosa che una vera montagna - svettava nel cielo. E, per un attimo, lui fu tentato di andarlo a esplorare. Benché fosse piccolo e mingherlino, Akesuk riuscì a prendere lo zaino dal piano di carico prima di Anawak, e tenendolo con una mano, con l'altra aprì di slancio la porta di casa. «Mary-Ann!» gridò. «È arrivato! Il ragazzo è qui!» Apparve un cagnolino che avanzò goffamente. Akesuk gli passò davanti, sparì all'interno e ricomparve dopo qualche secondo in compagnia di una donna grassoccia, il cui volto cordiale poggiava su un imponente doppio mento. Abbracciò Anawak e lo salutò in inuktitut. «Mary-Ann non parla inglese», si scusò Akesuk. «Spero che tu capisca ancora la tua lingua.» «La mia lingua è l'inglese», disse Anawak. «Sì, naturalmente... Ormai.» «Ma riesco ancora a capire.» Mary-Ann gli chiese se aveva fame. Anawak disse di sì in inuktitut. La donna scoprì una dentatura con molti buchi e, prendendo in braccio il cagnolino che stava annusando gli scarponi di Anawak, gli fece cenno di seguirla. Nell'anticamera c'erano diverse paia di scarpe. Anawak si sfilò meccanicamente i suoi scarponcini da trekking e li posò a fianco delle altre. «Vedo che non hai dimenticato la buona educazione», sorrise lo zio.
«Non sei diventato un qallunaaq.» Qallunaaq - al plurale qallunaat - era il nome dato ai non inuit. Anawak guardò in basso, si strinse nelle spalle e seguì Mary-Ann in cucina, dove c'erano un moderno fornello elettrico e vari elettrodomestici, come in qualsiasi appartamento di Vancouver. Nulla ricordava le desolanti condizioni di quella che era stata casa sua. Sotto la finestra c'era un tavolo rotondo e, di fianco, una porta che conduceva sul balcone. Akesuk scambiò qualche parola con la moglie, poi condusse Anawak in un salotto arredato in modo accogliente. Mobili massicci si raggruppavano in una sorta di torre, in cui erano incassati il televisore, il videoregistratore, la radio e il lettore CD. Un passavivande si apriva sulla cucina. Akesuk gli mostrò il bagno, l'adiacente spazio per la lavatrice, la dispensa, la stanza da letto e una piccola camera con un letto a una piazza. Sul comodino c'erano dei fiori freschi: papaveri artici, sassifraghe purpuree e campanule. «Li ha raccolti Mary-Ann», disse Akesuk. Suonava come un invito a mettersi comodo. «Grazie, io...» Anawak scosse la testa. «Credo sia meglio che dorma all'hotel.» Si aspettava che lo zio si offendesse, ma Akesuk sembrò semplicemente riflettere un po'. «Un drink?» chiese poi. «Non bevo.» «Neanch'io. Durante i pasti beviamo succo di frutta. Ne vuoi?» «Sì, volentieri.» Akesuk miscelò in due bicchieri succo concentrato e acqua, poi andarono con le bibite sul balcone, dove lo zio si accese una sigaretta. Mary-Ann non era ancora soddisfatta della cottura del suo stufato e aveva detto che non sarebbe stato pronto prima di un quarto d'ora. «Non posso fumare in casa», spiegò Akesuk. «Quando ci si sposa, succedono cose del genere. Ho fumato in casa per una vita... Ma è meglio così. Non è sano. Se solo riuscissi a smettere...» Sorrise e aspirò il fumo con evidente piacere. «Fammi indovinare, tu non fumi.» «No.» «E non bevi. Bene, bene.» Rimasero per un po' in silenzio, a guardare il panorama delle montagne con le loro venature di neve. Nel cielo brillavano nuvole striate. Appena sotto, volavano gabbiani d'avorio di un bianco splendente e, di tanto in tanto, si lanciavano in basso. «Com'è morto?» chiese Anawak.
«È caduto», rispose Akesuk. «Ha visto una lepre, l'ha voluta rincorrere ed è caduto.» «L'hai riportato indietro tu?» «Il suo corpo, sì.» «Era ubriaco fradicio?» Il tono amaro con cui aveva posto quella domanda lo spaventò. Akesuk continuava a guardare le montagne, avvolto dal il fumo. «Ha avuto un infarto... Così ha detto il dottore di Iqaluit. Si muoveva poco e fumava troppo. Erano dieci anni che non beveva neppure un goccio.» Lo stufato di caribù era squisito: aveva il sapore della sua infanzia. Invece la zuppa di foca non gli era mai piaciuta, ma ne prese una porzione abbondante. Mary-Ann aveva un'espressione soddisfatta. Anawak cercò di riprendere confidenza col suo inuktitut, ma il risultato fu pietoso. Capiva quasi tutto, però faticava a parlarlo. Così conversarono prevalentemente in inglese sugli avvenimenti delle ultime settimane, sugli attacchi delle balene, sulla catastrofe in Europa e su tutto quello che giungeva fino nel Nunavut. Akesuk traduceva. Più volte lui cercò di portare la conversazione sul padre, ma Anawak non lo seguì. La sepoltura era prevista per il pomeriggio nel piccolo cimitero della chiesa anglicana. In quella stagione, i morti venivano seppelliti in fretta, mentre durante l'inverno venivano spesso custoditi in una capanna vicina al cimitero, perché la terra era troppo dura per scavare la tomba. Nel freddo naturale dell'Artico, i corpi si conservavano a lungo, ma le capanne in cui venivano tenuti dovevano essere sorvegliate. Il Nunavut era selvaggio. Lupi e orsi polari, spinti dalla fame, non si fermavano di fronte ai vivi e neppure di fronte ai morti. Dopo il pasto, Anawak si trasferì al Polar Lodge. Akesuk non aveva insistito perché si fermasse a casa sua. Si era limitato a togliere i fiori dalla piccola camera e a posarli sul tavolo, dicendo: «Puoi sempre ripensarci...» Al funerale mancavano ancora due ore, ma Anawak non lasciò la sua stanza d'albergo. Rimase sdraiato nel letto, cercando di dormire un po'. Non sapeva cosa fare... No, a dire la verità lo sapeva. Poteva andare a Mallikjuaq e forse anche oltre; il Tellik Inlet era ancora ghiacciato e avrebbe retto il suo peso. Oppure poteva rivolgersi ad Akesuk, che sicuramente sarebbe stato entusiasta di portarlo in giro per Cape Dorset e presentarlo a tutti. In un insediamento inuit tutti erano in qualche modo imparentati. E specialmente a Cape Dorset, la capitale mondiale dell'arte inuit, un simile
giro sarebbe stato come partecipare a un vero e proprio vernissage. Un abitante dell'insediamento su due era considerato un artista e molti esponevano i loro lavori nelle gallerie di tutto il mondo. Ma Anawak sapeva che si sarebbe sentito un po' come il figliol prodigo, perché le persone che avrebbe incontrato erano sicure che non sarebbe mai tornato lì. Era fermamente deciso a mantenere una distanza di sicurezza e non voleva che si riaprissero antiche ferite, permettendo che qualcosa di quel mondo entrasse nel suo animo. Quindi rimase sdraiato sul letto a fissare il soffitto e, a un certo punto, si appisolò. La sveglia da viaggio lo strappò dal sonno. Quando uscì dalla hall del Polar Lodge, il sole era visibilmente più basso, ma splendeva sempre luminoso e gradevole. Al di sopra dei lastroni di ghiaccio dell'Inlet si vedeva Mallikjuaq; sembrava quasi di poterla toccare. Il Polar Lodge era all'estremità nordorientale di Cape Dorset, il cimitero dalla parte opposta del paese. Anawak guardò l'orologio. C'era tempo sufficiente. Era d'accordo con Akesuk che l'avrebbe raggiunto a casa e poi sarebbero andati insieme col pick-up. Vicino al Polar Lodge, sulla strada che conduceva alla spiaggia, c'era il Polar Supply Store. Avvicinandosi a esso, Anawak si accorse che il negozio era diventato anche la sede di una società di spedizioni, un autonoleggio e un'officina. L'edificio era come lo ricordava, ma l'insegna era nuova. Entrò e non riconobbe i due uomini che stavano dietro il banco. Non erano inuit. Curiosò nel negozio, accogliente e pieno di cianfrusaglie: c'era praticamente di tutto, dalla carne secca di caribù agli stivali. Nella parte più interna erano accatastate litografie e sculture. Non era il suo mondo. Uscì e si avviò verso il centro. Davanti a una casa vide un vecchio, seduto su un cavalletto, che lavorava alla statuetta di un sommozzatore; un po' più avanti, c'era una donna impegnata a levigare un falco di marmo bianco. Entrambi lo salutarono e lui rispose al saluto senza fermarsi, ma avvertendo che i loro sguardi lo seguivano. La notizia del suo arrivo doveva essersi diffusa in un baleno. Non sarebbe stato necessario presentarsi. Sapevano tutti che il figlio del defunto Manumee Anawak era arrivato a Cape Dorset, e probabilmente stavano già commentando il fatto che dormiva in un hotel e non a casa dello zio. Akesuk lo aspettava davanti alla casa. Percorsero le poche centinaia di metri fino alla chiesa anglicana, dove si era già radunato un nutrito gruppo di persone.
Anawak chiese se fossero tutti lì per suo padre. Akesuk lo guardò, sbalordito. «Certo, cosa pensavi?» «Non sapevo che avesse tanti...» «Sono le persone con cui viveva. Che importanza ha se sono amici o no? Quando muore qualcuno, la cosa riguarda tutti, e tutti fanno con lui l'ultimo tratto di strada.» Il funerale fu breve e composto. Prima della cerimonia, Anawak aveva dovuto stringere molte mani. Gente che non aveva mai visto gli si era presentata davanti e lo aveva abbracciato. Quindi il pastore lesse un passo della Bibbia e recitò una preghiera, poi la bara fu calata in una fossa profonda giusto il necessario per contenerla, e venne ricoperta con un telo di plastica blu. Alcuni uomini cominciarono ad ammassarci sopra delle pietre. La croce all'estremità della fossa venne infilata un po' storta nel terreno duro, come tutte le altre croci nel cimitero. Akesuk mise tra le mani di Anawak una piccola cassa di legno col coperchio di vetro, in cui erano chiusi alcuni fiori artificiali, un pacchetto di sigarette e il dente di un orso incastonato nel metallo. Gli diede una spintarella, e Anawak, obbediente, si affrettò verso la tomba e depose la cassa sotto la croce. Akesuk gli aveva chiesto se voleva vedere il padre per l'ultima volta, ma Anawak aveva rifiutato. Mentre il pastore leggeva la Bibbia, lui aveva cercato d'immaginare chi fosse l'uomo nella bara e soprattutto se, in quella bara, ci fosse davvero qualcuno. Poi, improvvisamente, si era reso conto che suo padre non avrebbe potuto commettere altri errori. Ormai si trovava in uno stato di non-vita, quindi era andato oltre l'innocenza e la colpa. Di fronte a quella semplice bara, qualunque cosa lui avesse fatto o non fatto perdeva ogni significato. Per Anawak, tuttavia, le azioni del padre non avevano più importanza ormai da molto tempo. Per lui, quell'uomo era già morto da parecchio. Da così tanto che quel funerale gli appariva del tutto superfluo. Non si sforzò di provare qualche sentimento. Desiderava solo andarsene il più in fretta possibile. Tornare a casa. Ma dov'era casa sua? Improvvisamente, mentre il gruppo intonava un canto, fu preso da una gelida sensazione di abbandono e di panico. Non era il freddo artico a farlo tremare. Aveva pensato a Vancouver e a Tofino, ma né l'una né l'altro erano la sua casa.
Anawak stava guardando in un buco nero. Il suo campo visivo si restrinse e numerose spirali presero a vorticargli davanti agli occhi. Il buio gli piombò addosso, come un'onda gigantesca cui non poteva sfuggire. Era finito in trappola, come un animale, senza via di fuga, costretto a fissare quel vuoto che lo avvolgeva. «Leon.» Fu attraversato da una vertigine carica di terrore. «Leon!» Akesuk l'aveva afferrato per il braccio. Anawak, sconvolto, guardò quel volto rugoso coi baffi color argento. «Tutto a posto, ragazzo?» «Sì, certo», mormorò. «Buon Dio! Riesci appena a reggerti sulle gambe», mormorò Akesuk, impietosito. Gli altri li fissavano. «Sto bene. Grazie Iji, è passata.» Nelle facce dei presenti, Anawak scorse soltanto indifferenza. Quegli uomini erano lì e contemporaneamente a chilometri di distanza. Il cordoglio nei loro occhi era puramente formale. Davanti alle tombe delle persone amate si crolla. Crollano anche gli inuk, benché siano così orgogliosi da non capitolare davanti a niente e a nessuno. A parte, forse, davanti all'alcol e alle droghe. Anawak stava male. Si girò e lasciò il cimitero a rapide falcate. Lo zio non lo trattenne. Davanti alla chiesa, quando si sentì sotto i piedi l'asfalto della strada, fu preso dal bisogno di correre via, ma si trattenne. Fece qualche passo, col cuore che batteva tumultuosamente. Voleva fuggire, ma non sapeva dove. Non aveva una direzione. Cenò al Polar Lodge. Mary-Ann aveva preparato da mangiare, ma Anawak aveva detto allo zio che voleva stare da solo. Il vecchio si era limitato ad annuire, l'aveva accompagnato all'hotel e poi si era allontanato con aria triste. Ma la sua tristezza era dovuta al fatto di essersi reso conto che la richiesta di Anawak non era motivata dal desiderio di un po' di quiete e di raccoglimento. Anawak rimase disteso su uno dei due letti singoli della stanza, fissando il televisore acceso per ore intere. Si domandò come avrebbe potuto sopportare un altro giorno a Cape Dorset senza che incordi lo travolgessero. Aveva prenotato per due notti, convinto che ci fossero delle formalità da
sbrigare, ma Akesuk si era già occupato di tutto. In fondo, la sua presenza era inutile. Poteva anche partire subito. Decise di annullare la prenotazione per la seconda notte. Sarebbe di certo riuscito a trovare un posto sul volo per Iqaluit e, con un po' di fortuna, ne avrebbe trovato un altro sul Boeing verso Montreal. Una volta arrivato là, non gli importava quanto avrebbe dovuto aspettare per la coincidenza. Montreal meritava una visita e soprattutto era lontanissima da tutto ciò che era legato a quel terribile luogo alla fine del mondo, chiamato Cape Dorset. Finalmente arrivò il sonno. Anawak dormiva, ma il suo spirito continuava a ricordare il Nunavut. Si ritrovò sull'aereo che girava sopra Vancouver in attesa dell'autorizzazione all'atterraggio. Ma la torre di controllo non la concedeva. Allora il pilota si girò verso di lui, dicendo: «Non possiamo atterrare. Non può andare a Vancouver, e neppure a Tofino». «Perché?» urlò Anawak. «Perché non possiamo atterrare?» «Il controllo di terra dice che è colpa sua. Sostiene che quella non è casa sua.» «Ma io vivo a Vancouver. Abito a Tofino, su una barca.» «Abbiamo verificato. Lei non abita là. Laggiù non conoscono nessun Leon Anawak. Il controllo di terra dice che devo portarla a casa. Allora, dove vado?» «Non lo so.» «Deve sapere dov'è casa sua.» «Casa mia è laggiù.» «Bene.» L'aereo si abbassò, preparandosi all'atterraggio. Le luci della città si avvicinavano, ma erano poche per essere quelle di Vancouver, troppo poche. Non era Vancouver. C'era neve ovunque. Lastroni di ghiaccio galleggiavano su un lago nero e, sullo sfondo, si levava una montagna. Atterrarono a Cape Dorset. Improvvisamente fu di nuovo a casa, dai suoi genitori, che avevano preparato una festa in suo onore. Era il suo compleanno. Erano venuti molti bambini del vicinato e tutti danzavano allegramente intorno a lui. Poi suo padre propose di fare una gara di corsa nella neve, ma, prima, diede ad Anawak un pacco gigantesco, legato grossolanamente con lo spago, e gli spiegò che quello era il suo unico regalo e che era molto prezioso. «Qui dentro troverai tutto ciò che ti servirà nella vita», disse. «Ma lo de-
vi prendere con te quando corriamo fuori.» Anawak, con le braccia sopra la testa, cercò di tenere in equilibro il pacco gigantesco. Uscirono. La neve brillava nell'oscurità. Una voce gli sussurrò che doveva assolutamente vincere la corsa, perché, in caso contrario, gli altri lo avrebbero ucciso. Nessuno aveva osato rivelarglielo, ma senza dubbio l'avrebbero fatto. Se non fosse stato abbastanza veloce a gettarsi sott'acqua, durante la notte si sarebbero trasformati in lupi e l'avrebbero fatto a pezzi. Anawak cominciò a piangere. Non riusciva a immaginare perché qualcuno volesse fargli una cosa del genere. Malediva il suo compleanno, perché sapeva che ben presto sarebbe diventato grande e lui non voleva diventare grande ed essere fatto a pezzi. Stringendo il pacco, si mise a correre. La neve era troppo alta, lui sprofondava quasi sino ai fianchi e riusciva appena ad avanzare. Si guardò intorno, ma non c'era nessuno che stava correndo con lui. Alle sue spalle, non molto distante, c'era solo la casa dei suoi genitori, immersa nel buio e con la porta chiusa. Nel cielo c'era una luna gelida. Poi calò un silenzio assoluto. Anawak si fermò. Si chiese se fosse giusto tornare a casa, ma evidentemente là non c'era più nessuno. Allora si sentì isolato, respinto e provò un senso d'incertezza. In quella notte gelida, illuminata dalla luna, non c'era anima viva, non si sentiva un rumore. Gli venne in mente la profezia dei lupi che aspettavano soltanto di sbranarlo vivo. Erano in casa? Avevano già fatto strage degli ospiti? Non c'era niente che lo confermasse. Sembrava che la casa e Cape Dorset fossero misteriosamente andati oltre le leggi della natura. Era Lo stesso posto in cui si era svolta la sua festa di compleanno, ma in un altro tempo, in un futuro lontano o in un lontano passato. Oppure il tempo era fermo e lui stava guardando in un universo ghiacciato in cui non era possibile nessuna forma di vita. La paura ebbe il sopravvento. Si girò e cominciò a camminare a fatica verso l'acqua. Non c'era un pontile come nella vera Cape Dorset, solo una riva ghiacciata. Il pacco si era rimpicciolito; ormai poteva tenerlo agevolmente con una mano. Procedeva con maggior agio e in pochi passi raggiunse la riva. Guardò il mare. La luce della luna splendeva sulle nere onde increspate, che trascinavano lastroni di ghiaccio. Il cielo era pieno di stelle. Qualcuno gridò il suo nome. La voce risuonò debolmente da un cumulo di neve e Anawak, sospeso
tra paura e curiosità, si avvicinò con passi esitanti, finché vide che quello non era un cumulo. Erano due corpi coricati, vicinissimi l'uno all'altro, e ricoperti di neve. Erano i suoi genitori. Fissavano con sguardo vuoto il cielo. Erano morti oppure non erano in grado di parlare con lui e di avvertirne la presenza. Sono adulto, pensò. Devo aprire questo pacco. Lo osservò. Era diventato minuscolo. Cominciò ad aprirlo, ma all'interno c'era solo altra carta. Lui la strappò, la fece a brandelli e la gettò via sinché non ci furono più né il pacchetto né i genitori distesi là immobili, ma solo la riva ghiacciata e l'acqua nera. Un'imponente dorso tagliò l'acqua e poi scomparve. Anawak girò lentamente la testa. Vide una misera casetta... No, era una baracca di lamiera. La porta era aperta. La sua casa. No, pensò. No! Si mise a piangere. Qualcosa era andato storto. Era impossibile che quella fosse la sua vita. Non era quello che aveva progettato! Si accovacciò nella neve, fissando la casa. Non riusciva a smettere di piangere. Fu preso da uno strazio indicibile. I singhiozzi gli squassavano il torace e risuonavano nel cielo. Coi suoi lamenti, lui riempiva il mondo intero, un mondo in cui, oltre a lui, non esisteva nessuno. No. No! Luce. La sua camera al Polar Lodge. Tremando, Anawak si era rizzato a sedere. La sveglia indicava le 2.30. Ci volle un po' prima che riuscisse a calmarsi abbastanza per alzarsi e aprire il minibar. Aveva la lingua incollata al palato. Vide acqua, Coca-Cola e birra. Prese una Coca-Cola, la aprì e la bevve a lunghi sorsi. Con la lattina nella mano destra, andò alla finestra, scostò le tende e guardò fuori. L'hotel era situato a un'altezza tale da permettere di scorgere la zona di Kinngait e una parte del quartiere limitrofo. Il cielo era sereno e senza nuvole, come nel suo sogno, ma su Cape Dorset, anziché l'incommensurabile cielo stellato, c'era la penombra notturna: le case, la tundra e le distese di neve emergevano in un rosa irreale, tendente all'oro. In quel periodo non diventava mai buio; solo i contorni apparivano più sfumati e i colori più scialbi. Di colpo, Anawak si rese conto di quanto fosse bello quel posto.
Guardava stregato quel cielo incredibile, lasciava scivolare gli occhi sulle montagne e sulla baia. Il ghiaccio sulla Tellik Bay splendeva come argento fuso. Mallikjuaq, nera e gibbosa, sembrava distendersi davanti alla costa come una balena addormentata. Continuava a guardare, bevendo di tanto in tanto un sorso dalla lattina. Che doveva fare? Ricordò i sentimenti provati pochi giorni prima, quando aveva cenato con Tom e Alicia. La stazione di Tofino gli era sembrata estranea, tutto gli era diventato estraneo. Come in ogni altro luogo, non c'era la stanza in cui avrebbe potuto ritirarsi per sfuggire al mondo. Qualcosa d'importanza capitale stava per succedere, ne era convinto. Euforico e timoroso, aveva atteso che la predizione si avverasse. Invece suo padre era morto. Era quello? Era quello l'avvenimento importante? Tornare nell'Artico per seppellire suo padre? Certo, si trovava di fronte a una grande sfida. A una delle più grandi mai lanciate contro l'umanità. Ed era toccato a lui e a pochi altri raccoglierla. Difficile pensare a qualcosa di più importante. Ma quella sfida non riguardava la sua vita. La sua vita si snodava in un altro contesto. Tsunami, catastrofi dovute al metano ed epidemie non c'entravano nulla. La sua vita era balzata in primo piano con l'annuncio della morte di suo padre. E, per la prima volta da quand'era arrivato, Anawak cominciò a sospettare che proprio là, nel Nunavut, gli veniva offerta la possibilità di trasformare la morte in vita. Anche lui era morto. Ora doveva rinascere. Dopo un po' si vestì, si tirò con cura sulle orecchie il berretto foderato di pelliccia e uscì nella notte luminosa. Per strada non c'era nessuno. Camminò per un'ora buona nel villaggio, finché non sentì arrivare la stanchezza, molto più pesante e gradevole rispetto all'intontimento provato davanti al televisore. Ritornò nell'hotel riscaldato, gettò i vestiti sul pavimento, si avvolse bene nelle coperte e si addormentò non appena ebbe posato la testa sul cuscino. Il mattino seguente chiamò Akesuk. «Hai voglia di fare colazione con me?» chiese. Lo zio sembrava sorpreso. «Mary-Ann e io stiamo appunto facendo colazione. Non pensavo che volessi...» «Okay. Non c'è problema.» «No, aspetta... Abbiamo appena iniziato. Perché non vieni a gustarti una sostanziosa porzione di uova strapazzate col prosciutto?»
«Va bene. Arrivo.» La porzione che Mary-Ann gli mise davanti si poteva definire davvero sostanziosa. Anawak si sentì pieno solo a guardarla, ma stoicamente la finì. La donna era raggiante. Si chiese cosa le avesse raccontato Akesuk. Doveva essersi inventato qualche valido motivo per spiegare come mai lui avesse rifiutato la sua cena. Comunque non sembrava risentita. Era strano stringere la mano che gli porgevano Akesuk e la moglie. Lo riportava alla sua famiglia. Anawak non sapeva ancora se gli piaceva. La magia della notte di luna era svanita e lui non aveva ancora stilato un vero e proprio trattato di pace col Nunavut. Ma era deciso ad accogliere - con prudenza - tutto quello che sarebbe venuto. Dopo colazione, Mary-Ann sparecchiò e poi disse che sarebbe andata in paese a fare compere. Akesuk girò la manopola di una radio a transistor, ascoltò per un minuto, poi mormorò: «È un bene». «Che cosa?» chiese Anawak. «La IBC dice che nei prossimi giorni ci sarà bel tempo. Non bisogna prenderli alla lettera, ma, se è vero anche solo la metà, potremo andare all'aperto.» «Davvero?» «Sì, per un po'. Domani. Se ti va, oggi possiamo fare qualcosa insieme. A proposito, che progetti hai? Vuoi tornare subito in Canada?» La vecchia volpe l'aveva intuito. Anawak continuava ad aggiungere latte al suo caffè. «Per essere sincero, ieri sera avevo deciso così.» «Non è una sorpresa», constatò Akesuk seccamente. «E adesso?» «Ancora non lo so», rispose Anawak. «Forse andrò a Mallikjuaq oppure a Inuksuk Point. A Cape Dorset non mi sento a mio agio, Iji. Non volermene. Non è un luogo che ricordi volentieri con un... un...» «Con un padre come il tuo», completò la frase lo zio. Si accarezzò i baffi e annuì. «Quello che più mi meraviglia è che tu sia tornato. Per diciannove anni non hai avuto contatti con nessuno di noi. E io sono rimasto l'ultimo della tua famiglia. Ho telefonato solo perché ritenevo giusto informarti, ma neppure nei miei sogni più folli ho creduto che ti avremmo visto qui. Allora, perché sei venuto?» «Non ne ho idea, Iji. Non c'è nulla che mi abbia spinto. A dire la verità, credo che Vancouver mi volesse allontanare per un po'.» «Stupidaggini.» «Di certo non per mio padre! Sai maledettamente bene che non verso
una lacrima per lui.» Il suo tono era stato davvero brusco, ma lui non poteva farci niente. «E non succederà mai.» «Sei troppo duro.» «La sua vita è stata tutta sbagliata, Iji!» Akesuk lo guardò a lungo. «Sì, è vero. Ma, in passato, non c'era la possibilità di condurre una vita giusta. Sembra che tu lo abbia dimenticato.» Bevve rumorosamente gli ultimi sorsi di caffè. «Sai una cosa? Ti faccio una proposta», esclamò, ridacchiando. «Mary-Ann e io partiamo oggi. Stavolta vogliamo andare da un'altra parte, a nord-ovest, verso Pond Inlet. E tu vieni con noi.» Anawak lo fissò. «Non posso... Starete vìa per settimane e io non posso assentarmi per tanto tempo. A prescindere dal fatto che comunque non voglio.» «Mi hai frainteso. Vieni con noi solo per un paio di giorni, poi torni indietro da solo. Non devo tenerti per mano, sei grande. Spero che tu sia capace di trovarti da solo un aereo.» «È troppo complicato, Iji, io...» «Con le tue complicazioni mi stai proprio annoiando. Che c'è di complicato nel portarti sul ghiaccio con noi? Lassù ci uniremo a un gruppo. È già tutto preparato e troveremo un posticino anche per il tuo... civilizzato posteriore.» Gli strizzò l'occhio. «Ma non pensare che sia una passeggiata. Anche tu dovrai fare i turni di guardia contro gii orsi, come tutti gli altri.» Anawak si appoggiò allo schienale e rimuginò. Quell'invito lo aveva colto impreparato. Era pronto solo a quei due giorni... anzi a un giorno soltanto. Non a tre o quattro. Come l'avrebbe spiegato a Judith Li? D'altra parte, lei gli aveva lasciato intendere che poteva restare via quanto voleva. Pond Inlet. Tre giorni. In realtà non erano tanti. Il volo da Cape Dorset avrebbe richiesto al massimo due ore. Tre giorni all'aperto, indietro in due ore, direttamente a Iqaluit. «E tu che cosa ti riprometti con questo invito?» chiese. Akesuk rise. «Di riportarti a casa, ragazzo. Che altro?» All'aperto. In quelle due parole si condensava la filosofia di vita degli inuit. «Essere all'aperto» significava sfuggire agli insediamenti, trascorrere le giornate estive negli accampamenti lungo le spiagge o sulle rive ghiacciate per cattu-
rare narvali e cacciare foche e trichechi. Agli inuit era permessa la caccia alle balene, limitatamente al loro fabbisogno. Si prendeva il necessario per la sopravvivenza al di fuori della civiltà, si caricavano vestiti, attrezzature e strumenti da caccia sugli ATV o sulle barche. Il luogo verso cui sarebbero partiti era selvaggio, un'area gigantesca che gli inuit avevano percorso da tempo immemorabile, prima che la civiltà li costringesse - loro malgrado - a diventare stanziali. All'aperto, le strutture intorno alle quali si organizzava la vita nelle città non avevano più significato. Le distanze non erano misurate in chilometri o miglia, ma in unità di tempo. Due giorni per arrivare là, mezza giornata per raggiungere quell'altro posto, forse una giornata soltanto... Che senso aveva parlare di cinquanta chilometri, se in mezzo c'erano barriere impreviste come il pack o i crepacci? La natura non si sottometteva a un progetto. All'aperto si viveva esclusivamente nel presente, perché già l'istante successivo poteva essere pieno di avvenimenti imponderabili. La campagna seguiva un ritmo proprio, cui ci si sottometteva volontariamente. Nel loro lunghissimo periodo nomade, gli inuit avevano imparato che in quella sottomissione c'era il dominio. Fino alla metà del XX secolo avevano percorso la campagna senza legami, e ancora oggi quella vita rispondeva meglio alla loro natura che un'esistenza dentro le case e in un unico luogo. Anawak si rese conto con maggiore chiarezza dei cambiamenti avvenuti. Sembrava che gli inuit avessero accettato quello che il mondo aveva chiesto loro: le attività regolari necessarie per svolgere un ruolo nella società industriale. Ma, al contrario di quando lui era bambino, il mondo aveva iniziato ad accettare gli inuit. Rendeva qualcosa di ciò che si era preso e soprattutto dava loro una prospettiva. Gli standard occidentali trovavano spazio nel mondo inuit esattamente come le tradizioni più antiche. Anawak aveva lasciato il suo paese quando aveva smesso di essere tale, diventando invece una regione senza consapevolezza della propria identità. Era scappato, portandosi appresso l'immagine di un popolo profondamente depresso, privo di energie, e al quale era stata negata ogni forma di rispetto per così tanto tempo che, alla fine, aveva addirittura smesso di averne per se stesso. A quel tempo, l'unico che avrebbe potuto correggere quell'immagine era suo padre. Invece era proprio lui a esserne in gran parte responsabile. L'uomo che adesso si trovava nel piccolo cimitero di Cape Dorset era diventato il simbolo di quella rassegnazione: un individuo infelice, collerico e alcolizzato, che aveva fallito in tutto, anche nel proteggere la sua famiglia. Mentre Anawak si allontanava da Cape Dorset, aveva gri-
dato dalla nave - e nella nebbia - una frase che nessuno oltre a lui poteva sentire, pensata per suo padre e per tutto il suo popolo. E quella frase adesso gli rimbombava nelle orecchie: «Perché non vi uccidete tutti, in modo che non ci si debba più vergognare di voi?» Per un istante aveva pensato di essere il primo ad accettare quell'invito e buttarsi in mare. Invece era diventato un abitante del Canada occidentale. I suoi genitori adottivi si erano infatti stabiliti a Vancouver. Erano gentili e l'avevano sempre sostenuto, ma, tra loro, non c'era mai stata una vera intimità. Una coppia che stava insieme per convenienza, insomma. Quando Leon aveva compiuto ventiquattro anni, si erano trasferiti ad Anchorage, in Alaska. Una volta all'anno gli spedivano una cartolina, cui lui rispondeva con poche frasi convenzionali. Non era mai andato a trovarli e non sembrava neppure che loro se lo aspettassero. Anzi, se fosse andato ad Anchorage, forse se ne sarebbero meravigliati. E non si poteva neppure sostenere che erano diventati come estranei, perché, semplicemente, non erano mai stati vicini. Quella non era la sua famiglia. La proposta di Akesuk aveva risvegliato in Anawak nuovi ricordi. Le lunghe serate accanto al fuoco, per esempio, durante le quali c'era sempre qualcuno che raccontava una storia e tutto il mondo sembrava animarsi. Quand'era piccolo, naturalmente, c'erano la regina delle nevi e il re degli orsi. Aveva sentito di donne e uomini che erano venuti al mondo negli igloo e aveva immaginato che, una volta cresciuto, si sarebbe spostato sul ghiaccio in armonia con se stesso e col mito dell'Artico. Dormire se si è stanchi. Lavorare e andare a caccia se il clima lo permette o semplicemente quando se ne ha voglia. Mangiare se lo stomaco brontola e non durante la pausa di mezzogiorno. Succedeva che la caccia durasse svariati giorni, benché si fosse partiti con l'intenzione di star via solo per poco. Talvolta ci si preparava e poi la caccia non aveva luogo. Ai qallunaat, quell'apparente disorganizzazione degli inuit era sempre sembrata sospetta. I qallunaat non capivano come si potesse vivere senza pianificare il tempo e valutare le prestazioni. I qallunaat si costruivano un mondo al di fuori del mondo. Sostituivano il corso naturale delle cose con un ordine artificiale e tutto ciò che non rientrava nel loro modo di pensare veniva ignorato o estirpato. Anawak pensò allo Château e al lavoro che cercavano di fare laggiù. Penso a Jack Vanderbilt. A come il vicedirettore della CIA si aggrappasse testardamente all'idea che gli avvenimenti degli ultimi mesi dovessero es-
sere ricondotti a piani e atti umani. Chi voleva comprendere gli inuit, doveva staccarsi dalla psicosi del controllo tipica della società civile. Almeno, però, si aveva a che fare con esseri umani, mentre l'entità sconosciuta che si nascondeva dietro gli avvenimenti che stavano studiando non possedeva nulla di umano. Anawak si era convinto che Johanson aveva ragione. Continuando a seguire l'ordine e i valori umani, c'era il rischio di perdere quella guerra. Individui come Vanderbilt l'avrebbero persa, perché incapaci di comprendere che esistevano diversi modi di pensare. Probabilmente l'uomo della CIA era addirittura consapevole di quella sua inadeguatezza, ma sarebbe stato incapace di forzare la propria natura di membro della compagine civile per percorrere la strada della comprensione di una specie addirittura non umana. In un delfino non c'era nulla da comprendere. E allora, che c'era da capire in una specie che Johanson, con un tocco dadaista, aveva definito yrr? Improvvisamente Anawak comprese che non avrebbero potuto svolgere il loro compito finché non avessero formato la squadra giusta. Mancava qualcuno. E lui sapeva chi. Mentre Akesuk preparava il necessario per la partenza, Anawak, nel Polar Lodge, cercava di mettersi in contatto con lo Château. Dopo qualche minuto, lo deviarono su una linea a prova d'intercettazione e lo collegarono con diversi telefoni, l'uno dopo l'altro. Judith Li non era nell'hotel, si trovava a bordo di un incrociatore della Marina al largo di Seattle. Dovette attendere quindici minuti prima di averla in linea. Le chiese se poteva restare ancora due o tre giorni e lei, dopo aver sentito che doveva occuparsi dei parenti, gli rispose che poteva fermarsi quanto voleva. Benché non si sentisse a posto con la coscienza, Anawak si convinse che probabilmente la salvezza del mondo non dipendeva dalla sua assenza di tre giorni. Inoltre rimaneva comunque a disposizione. E la sua testa continuava a lavorare, anche se si trovava nell'estremo nord. Judith Li gli comunicò che gli attacchi col sonar alle balene erano proseguiti. «So che non le piace, ma...» «Funzionano?» chiese Anawak. «Siamo in procinto di sospendere gli esperimenti, perché non raggiungono gli effetti desiderati. Però dobbiamo tentare tutto. Più a lungo teniamo alla larga le balene, maggiore è la possibilità di mandare sott'acqua sommozzatori ed equipaggiamenti.» «Vuole aumentare le possibilità? Allora allarghi il team.» «Con chi?»
«Con tre persone.» Fece una pausa, poi decise di passare all'offensiva: «Abbiamo bisogno di più collaboratori che si occupino di fare ricerche sul comportamento e sull'intelligenza. E io ho bisogno di qualcuno che mi assista e di cui mi possa fidare. Voglio che sia convocata Alicia Delaware. È una studentessa che si occupa di ricerche sull'intelligenza. D'estate, risiede a Tofino». «Va bene», replicò Judith Li con sorprendente velocità. «Il secondo?» «Vive a Ucluelet e, se consulta i dossier del programma MK0, lo troverà sotto il nome di Jack O'Bannon. Sa come comportarsi coi mammiferi marini. E sa pure altre cose che ci potrebbero essere utili.» «È un accademico?» «No, è un ex addestratore dalla Marina. Ha partecipato all'US Navy's Marine Mammal System.» «Capisco, ma dovremo discuterne», disse Judith Li. «Abbiamo tutta una serie di esperti in questo settore. Perché vuole proprio lui?» «Voglio lui e basta.» «E la terza persona?» «È la più importante. In un certo senso, abbiamo a che fare con degli alieni. Ci sarà bisogno di qualcuno che abbia ragionato esclusivamente sul problema di come comunicare con intelligenze non umane. Prenda contatto con la dottoressa Samantha Crowe. Dirige il progetto SETI ad Arecibo.» Judith Li sorrise. «Lei è un ragazzo intelligente, Leon. Avevamo già intenzione di coinvolgere qualcuno del SETI. Conosce la dottoressa Crowe?» «Sì. È a posto.» «Bene.» «Soddisferà le mie richieste?» «Vedrò che cosa posso fare.» In sottofondo qualcuno la chiamò. «Stia bene, Leon. E torni da noi sano e salvo. Ora devo tornare al fronte.» L'aereo a turboelica Hawker Siddeley non si portò subito a nord, ma volò per un tratto in direzione est. Akesuk aveva convinto il pilota a fare quella piccola deviazione in modo che Anawak potesse ammirare la Great Plain of the Koukdjuak, una riserva naturale piena di stagni rotondi, in cui viveva la più grande colonia di oche del mondo. Sull'aereo c'erano altri passeggeri provenienti da Cape Dorset e Iqaluit, e tutti stavano andando a Pond Inlet. La maggior parte conosceva il panorama e pensava ai fatti propri, senza neanche sbirciare dal finestrino.
Anawak, invece, non si stancava più di guardare. Per lui era come svegliarsi da un sonno durato anni. Per un po' volarono lungo la costa e attraversarono il Circolo Polare. Dal punto di vista geografico, l'Artico iniziava lì. Sotto di loro, si stendeva il paesaggio ghiacciato del bacino di Foxe, coi suoi crepacci di ghiaccio grandi e piccoli, interrotti da superfici d'acqua. Dopo un breve tratto, tornarono a sorvolare la terra, frastagliata e con pareti montuose scoscese e falesie verticali. La neve brillava sul fondo di gole profonde e ombreggiate. Nei laghi ghiacciati si riversavano i rigagnoli dell'acqua del disgelo. Nella luce del sole basso, il paesaggio diventava sempre più splendido. Montagne scure si alternavano a valli innevate; davanti a loro si allungavano catene montuose coperte quasi per intero da manti di neve. Poi, repentinamente, l'aereo passò su una linea di costa azzurrognola, interrotta da macchie bianche, e apparve l'Eclipse Sound. Anawak dimenticò tutto ciò che aveva intorno. Osservava la bizzarra bellezza dell'Artico. Gigantesche formazioni cristalline si levavano dalla bianca pianura: erano montagne di ghiaccio perenne. Sotto di loro, correvano due minuscoli orsi polari, come se fossero inseguiti dall'ombra dell'aereo che sfilava sulla superficie ghiacciata. Punti splendenti fuggivano via: gabbiani. Per un buon tratto, sorvolarono le imponenti pareti verticali e i ghiacciai dell'isola Bylot. Poi, scesi un poco, seguirono il corso di un'altra sponda. Un paesaggio scuro sembrò andar loro incontro. C'erano case, centri abitati e una pista d'atterraggio: Pond Inlet, Mittimatalik nella lingua degli inuit, cioè: «dove si trova Mittimata». Il sole era violento sull'orizzonte nordoccidentale. In quella stagione non sarebbe tramontato; solo intorno alle due del mattino avrebbe sfiorato per qualche minuto l'orizzonte. Erano le nove di sera quando raggiunsero la loro meta, ma Anawak aveva già perso il senso del tempo. Si trovava nei luoghi della sua infanzia e gli sembrava che un peso enorme gli fosse caduto dal petto. Akesuk era nel giusto. Aveva ottenuto quello che fino a ventiquattr'ore prima lo stesso Anawak avrebbe ritenuto impossibile. L'aveva riportato a casa. Pond Inlet aveva le stesse dimensioni e il medesimo numero di abitanti di Cape Dorset, ma era completamente diversa. Quella regione era abitata da oltre quattromila anni. Lì nessuno aveva osato costruire edifici architettonicamente azzardati come a Iqaluit. Akesuk spiegò che in quella zona del
Nunavut gli inuit davano decisamente più valore alle tradizioni che in qualunque altro luogo. Con cautela, proseguì dicendo che lassù lo sciamanesimo aveva ancora un ruolo di primo piano, benché ovviamente tutti fossero cristiani credenti. Ma Anawak non replicò e lui lasciò cadere l'argomento, mettendosi invece a elencare una serie di cose che, il giorno seguente, si sarebbero dovuti procurare al supermercato locale. Trascorsero una notte in hotel. Al mattino presto, Akesuk lo svegliò e andarono verso la riva. Lo zio guardava al largo, fiutando l'aria; disse che il bel tempo avrebbe retto e che si aspettava una splendida caccia. «La primavera non si è fatta aspettare», affermò soddisfatto. «All'hotel dicono che fino al limite del pack c'è mezza giornata. Forse una, dipende.» «Dipende da cosa?» «Può succedere di tutto. Dipende. Vedrai tanti animali. Balene, foche, orsi polari. Quest'anno il distacco dei ghiaccio è arrivato prima del solito.» Non c'è da meravigliarsi, con quello che sta succedendo, pensò Anawak. Il gruppo comprendeva dodici persone. Anawak ne aveva conosciute alcune sull'aereo, altre le conobbe a Pond Inlet. Dopo che Akesuk ebbe confabulato con le due guide, raggrupparono i bagagli e lasciarono in deposito all'hotel quello che non era strettamente necessario. Nel frattempo erano state preparate per il viaggio quattro qamutik. Nei ricordi di Anawak, le slitte tradizionali erano trainate dai cani; adesso invece erano attaccate con una corda doppia ai gatti delle nevi, o skidoo. Le qamutik avevano sempre lo stesso aspetto: lunghe quattro metri, con pattini di legno molto arcuati e un gran numero di traverse tese e legate insieme, senza neppure un chiodo e una vite. Le slitte erano tenute insieme da corde e cinghie, per rendere più semplici le riparazioni. Su tre qamutik erano montate cabine di legno aperte in alto per proteggere dalle intemperie; la quarta serviva per trasportare i bagagli. «Non sei vestito abbastanza», disse Akesuk, sbirciando la giacca a vento di Anawak. «Ma come! Ho guardato il termometro. Ci sono sei gradi.» «Dimentichi il vento. Hai due paia di calzini pesanti negli stivali? Qui non siamo a Vancouver.» Effettivamente si era dimenticato tante cose. Soltanto adesso cominciava a rendersi conto di aver scelto un abbigliamento inadeguato per affrontare il freddo. Quasi si vergognava. Ovviamente il freddo ai piedi era il problema principale, lo era sempre stato. S'infilò un altro paio di calzini e un secondo pullover, benché si sentisse un barile ambulante. Tutti i parteci-
panti al viaggio, coi loro abiti protettivi e gli occhiali da neve, somigliavano ad astronauti. Akesuk e le guide controllarono per l'ennesima volta l'attrezzatura. «Sacchi a pelo, pellicce di caribù...» Gli occhi dell'uomo brillavano. I baffi sottili e grigi sembravano arruffarsi per il piacere. Anawak lo osservava mentre correva indaffarato di slitta in slitta. Ijitsiaq Akesuk era completamente diverso da suo padre. In sua compagnia, gli inuit e il loro modo di vivere acquistavano importanza. I pensieri di Anawak si rivolsero all'entità che abitava gli abissi marini. Una volta iniziato il viaggio sul ghiaccio, avrebbero seguito solo le regole della natura. Per sopravvivere là fuori era necessario assumere un atteggiamento che si poteva definire panteistico. Non ci si doveva dare troppa importanza. Non si era importanti in se stessi, perché si era solo una parte dell'anima del mondo, che si manifestava negli animali, nelle piante, nel ghiaccio e occasionalmente anche negli uomini. E negli yrr, pensò Anawak. Chiunque siano, qualunque aspetto abbiano, ovunque vivano e come. Con un leggero scossone, il gatto delle nevi che trainava la slitta su cui avevano trovato posto Anawak, Akesuk e la moglie si mise in moto. Poi cominciarono a scivolare sul mare ghiacciato e innevato. Il disgelo era iniziato, ma si limitava agli strati superiori. Girarono intorno alla riva collinosa di Pond Inlet e tennero la direzione nord-est finché non giunsero ad alcuni chilometri dalla costa dell'isola di Baffin, che si sviluppava verso sud oltre la coltre di ghiaccio. Dalla parte opposta, spiccavano le rocce dell'isola Bylot, circondata da iceberg. Un'imponente lingua di ghiaccio scendeva dalle vette fino alla riva. Anawak comprese che quella che stavano attraversando non era terra, bensì la crosta gelata del mare. Sotto di loro nuotavano i pesci. Di tanto in tanto, quando trovavano un dislivello, i pattini della qamutik si sollevavano per poi sbattere nuovamente sul ghiaccio, ma la slitta attutiva l'impatto. Dopo un po' i due inuit delle qamutik in testa cambiarono direzione di marcia, e gli altri li seguirono. Anawak rimase sconcertato, poi vide che stavano girando intorno a un crepaccio aperto nel ghiaccio, troppo grande per essere attraversato dalle slitte. Oltre il bordo azzurrognolo si scorgeva l'acqua nera e apparentemente senza fondo del mare. «Potrebbe volerci un po'», disse Akesuk. «Sì, ci costerà del tempo», concordò Anawak, rammentando come, in passato, avessero costeggiato a lungo simili crepacci.
Akesuk si grattò il naso. «No. Perché dovrebbe costare qualcosa? Non stiamo sacrificando del tempo. Lo teniamo comunque, sia che viaggiamo direttamente verso est, sia che ci spostiamo per un tratto verso nord. L'hai dimenticato? Quassù non è importante la velocità con cui si procede. Anche se fai una deviazione, la tua vita continua lo stesso. Non è tempo perso.» Anawak rimase in silenzio. Sorridendo, lo zio proseguì: «Forse è stato questo il problema che ci ha afflitto nel secolo scorso: i qallunaat ci hanno portato il tempo. Abbiamo dovuto imparare che esiste il tempo perso. I qallunaat credono che l'attesa sia tempo perso, e così perdono il tempo della loro vita. Quand'eri piccolo, tutti noi l'abbiamo creduto. Anche tuo padre ci ha creduto e, dato che non vedeva nessuna possibilità di fare cose che avessero un senso e un valore, si è convinto che la sua vita fosse priva di valore perché fatta di tempo sprecato, inutilizzato. Il tempo della sua vita era privo di valore. La sua vita era priva di valore». Anawak lo guardò. «Non dovresti rammaricarti per lui, ma per mia madre», disse. «Anche lei si è rammaricata per lui», ribatté Akesuk. Poi si mise a chiacchierare con Mary-Ann. In effetti furono costretti a percorrere diversi chilometri prima che il crepaccio si stringesse a sufficienza per poter passare dall'altra parte. Una delle due guide inuit sganciò il proprio gatto delle nevi e superò il crepaccio a tutta velocità. Poi gettò delle corde alle qamutik e le trascinò oltre il crepaccio. Proseguirono. Con aria imperturbabile, lo zio s'infilò in bocca una sottile striscia di grasso e passò ad Anawak il barattolo con le strisce rimanenti. Esitando, Anawak ne prese una. Era pelle di narvalo. Un tempo, quand'erano in viaggio, avevano sempre della pelle di narvalo tra le provviste. Sapeva che aveva molta vitamina C, più del limone e dell'arancia. La masticò e gustò il sapore di noci fresche. Il sapore innescò la reazione a catena delle immagini e delle sensazioni. Sentì delle voci, ma non erano quelle dei membri della spedizione. Appartenevano a persone con cui era stato in viaggio vent'anni prima. Sentì la mano di sua madre che gli accarezzava i capelli. «Crepacci di ghiaccio sul mare, barriere di ghiaccio pressato...» Lo zio rise. «Questa non è un'autostrada, Leon. Dimmi la verità, non ti sono mai mancate queste cose?»
Se Akesuk aveva notato lo stato emotivo in cui era improvvisamente sprofondato Anawak e aveva pensato di rafforzarlo con quella domanda, si era sbagliato di grosso. Anawak scosse la testa. Forse fu solo l'orgoglio, ma disse asciutto: «No». Nello stesso istante si vergognò della risposta. Akesuk scrollò le spalle. Dopo aver trascorso la maggior parte della propria vita a Vancouver Island come studioso della vita marina, Anawak avrebbe potuto affermare di essere vissuto più vicino alla natura che a qualsiasi opera umana. Tuttavia scivolare su quel braccio di mare bianco, senza contorni - sempre più al largo, con a destra la tundra marrone e a sinistra le cime coperte di neve dell'isola Bylot - era una cosa completamente diversa rispetto all'osservare le balene nel Clayoquot Sound. Mentre il clima nel Canada occidentale sembrava fatto apposta per gli uomini, l'Artico era una sorta d'inferno. Certo, era magnifico, straordinario, però bastava a se stesso ed era letale per qualsiasi essere umano che si cullasse nell'illusione di poterlo dominare. I centri abitati sembravano quasi il caparbio tentativo di conquistare qualcosa che non si sarebbe mai potuto neppure raggiungere. Il viaggio in qamutik verso il bordo dei ghiacci si trasformò in un viaggio nell'ignoto. Quel poco che restava ad Anawak del senso del tempo sparì dopo un'altra notte illuminata dal sole. Stava facendo un viaggio alle origini del mondo. Anche il più razionale degli individui avrebbe capito perché l'orso polare aveva un'aria così malinconica, come raccontavano gli inuit nelle lunghe serate davanti al fuoco. L'orso aveva dimenticato la realtà a causa dell'amore per una donna sposata, la quale, però, aveva confidato al marito dove si trovava il nascondiglio dell'amante, mossa a compassione dal fatto che l'uomo aveva cacciato per settimane senza prendere nulla. Ma l'orso, che l'aveva supplicata di non parlargli dei loro incontri, aveva sentito quella rivelazione e, mentre il cacciatore usciva a cercarlo, era scivolato nell'igloo dell'amante per ucciderla. Aveva sollevato la zampa, ma poi era stato sopraffatto dalla tristezza. Che senso aveva annientare la vita di quella persona? Ormai il tradimento era compiuto. Così se n'era andato, solo e a passi pesanti. L'aria fredda pungeva la pelle di Anawak. Ogni volta che la natura si era avvicinata all'uomo era stata tradita. Da allora, dicono le leggende, gli orsi aggrediscono gli uomini. Quello era il loro regno. Erano i più forti. Tuttavia l'uomo li aveva sconfitti e, con loro,
aveva sconfitto se stesso. Benché Anawak avesse voltato le spalle alla sua patria da due decenni, sapeva bene che i prodotti chimici industriali come il DDT o il PCB arrivavano fino al mar Glaciale Artico dall'America del Nord, dall'Europa e dall'Asia, trasportati dai venti e dalle correnti marine. Le sostanze tossiche si accumulavano nei tessuti delle balene, delle foche e dei trichechi, di cui si nutrivano orsi polari e uomini, e tutti si ammalavano. Nel latte materno delle donne inuit erano state rilevate concentrazioni di PCB che superavano anche di venti volte i limiti stabiliti dall'Organizzazione mondiale della sanità. I bambini soffrivano di disturbi neurologici e i loro test d'intelligenza davano risultati sempre peggiori. Le regioni selvagge venivano avvelenate, perché i qallunaat non capivano - o non volevano capire - il principio su cui si basava il funzionamento del pianeta Terra: una gigantesca pompa di circolazione di correnti marine e d'aria che prima o poi diffondono ogni cosa ovunque. C'era da meravigliarsi che negli abissi qualcuno avesse deciso di mettere la parola fine a tutto ciò? Dopo due ore di viaggio, tornarono a dirigersi verso la costa dell'isola di Baffin. Indolenziti per essere stati seduti così a lungo e per i sobbalzi, per quanto ammortizzati dai pattini, camminarono a fatica sul ghiaccio pressato verso la tundra libera dalla neve, di fianco a macigni ricoperti di licheni. In mezzo alle pianure acquitrinose, ricoperte di muschio, splendevano fiori isolati, sassifraghe purpuree e potentille. Era la stagione migliore. Più tardi, in estate, lì ci sarebbero stati miliardi di moscerini. Il terreno saliva dolcemente. Uno degli autisti degli skidoo li condusse su un altopiano che si affacciava sul mare e sulle montagne imbiancate, e mostrò loro i resti di antiche abitazioni dell'epoca thule e due semplici croci. Là erano seppelliti alcuni cacciatori di balene tedeschi. Diversi siksik scoiattoli artici - s'inseguivano sull'altopiano e poi sparivano nelle spaccature del terreno. Mary-Ann trovò alcune pietre adatte e si mise a fare giochi di abilità. Anawak la fissò per qualche istante, poi, di colpo ricordò che quella era una specialità sportiva degli inuit, vecchia come il mondo. Ci provò anche lui, ma il risultato fu disastroso e suscitò una risata collettiva. Gli inuit erano fatti così. Un popolo sciocco che si ammazzava dal ridere anche soltanto se qualcuno scivolava. Dopo un breve pasto con panini e caffè, ripartirono, superarono un crepaccio ancora più grande e si diressero verso l'isola Bylot. Gli skidoo spruzzavano da tutte le parti l'acqua del disgelo. Il pack formava bizzarre barriere e costringeva a sempre nuove deviazioni. Dopo un breve tratto, ar-
rivarono alle scogliere dell'isola Bylot. L'aria era satura delle grida degli uccelli. A migliaia, i gabbiani tridattili avevano fatto il nido nelle spaccature delle rocce e volavano in stormi. Il convoglio rallentò sino a fermarsi. «Facciamo una passeggiata», disse Akesuk. «Ne abbiamo appena fatta una», si meravigliò Anawak. «È stato tre ore fa, ragazzo.» Tre ore? Oh, santo cielo. A differenza della tundra dell'isola di Baffin, che saliva dolcemente, l'isola di Baylot si mostrava assai impervia già nella zona costiera. Più che una passeggiata fu una scalata. A un certo punto, Akesuk indicò ad Anawak una scia bianca di escrementi di uccello. «Girifalchi», disse. «Splendidi animali.» Emise una serie di fischi straordinari, ma i falchi non si fecero vedere. «Nell'interno avremo più possibilità di vederli. E potremo incontrare anche volpi, oche delle nevi, gufi, falchi e poiane.» Sorrise, ironico. «O forse no. L'Artico è così. Non si può prendere appuntamento. Il pack è inaffidabile, per gli animali come per gli inuit. Vero, ragazzo?» «Io non sono un qallunaaq, se è questo che intendi», ribatté Anawak. «Oh.» Lo zio fiutò l'aria. «Va bene. Penso che ci risparmieremo la salita. Lo faremo un'altra volta. Certamente tornerai qui, visto che non sei più un qallunaaq. Andiamo al bordo dei ghiacci, col bel tempo dovremmo farcela.» Da quel momento in poi, il tempo smise di esistere. Mentre si dirigevano verso est, lasciandosi alle spalle l'isola di Bylot, il ghiaccio si fece più irregolare e i colpi contro la slitta divennero più violenti. Il vento freddo aveva congelato almeno in parte le pozzanghere formate dall'acqua del disgelo. Il ghiaccio strideva, come se stessero viaggiando sul vetro. Anawak si alzò e vide un piccolo crepaccio. Lo fece notare all'autista della quamutik, ma l'uomo lo aveva già visto. Si girò verso Anawak, continuando a sfrecciare sul ghiaccio, e gli sorrise, riconoscente. «Ti ricordi ancora qualcosa», rise Akesuk. Anawak lo guardò perplesso. Poi rise con lui. Si sentiva orgoglioso. Incredibile. Si sentiva orgoglioso di aver visto il crepaccio. Nel pomeriggio, come per magia, nel cielo apparvero i «cani del sole». Così gli inuit chiamavano l'occasionale apparizione ai lati del sole di grandi anelli splendenti, generati dalla luce che attraversava minuscoli cristalli di ghiaccio. In lontananza, il pack si accatastava in gigantesche barriere,
profondamente frastagliate. Poi, improvvisamente, alla loro destra apparve l'acqua. Una foca emerse, si guardò velocemente intorno e sparì. Un poco più avanti, ricomparve. Si lasciarono alle spalle quel buco e si fermarono davanti a un altro, di dimensioni enormi. Ci volle un po' ad Anawak per rendersi conto che quello non era un buco, bensì il bordo del ghiaccio. Al di là di esso, iniziava il mare aperto. Dopo un po' incontrarono un accampamento e si fermarono. Ci fu una serie di saluti cordiali. Alcuni degli uomini si conoscevano e gli altri furono presentati con dovizia di particolari. Quelli dell'accampamento provenivano da Pond Inlet e Igloolik. Avevano catturato un narvalo e, dopo averlo squartato, ne avevano lasciato i resti più a est, nelle vicinanze del bordo del ghiaccio, all'incirca dov'era diretto il gruppo di Anawak. Vennero offerti pezzi di pelle e ci s'intrattenne sulla caccia. Poi arrivarono due cacciatori coi loro skidoo; provenivano dal bordo del ghiaccio e stavano tornando a casa. Avevano legato alle loro qamutik due canoe per la caccia e due foche che avevano ucciso il giorno precedente. Uno dei due disse che gli animali avrebbero seguito prima del solito il ghiaccio che si ritirava, per procurarsi il cibo e per la cova. Poi agitò un Winchester 5.6 e consigliò di usarlo con prudenza. Sul suo berretto c'era scritto: IL LAVORO È SOLO PER GLI UOMINI CHE NON CAPISCONO NIENTE DI CACCIA. Anawak gli chiese se avesse notato qualcosa di strano nel comportamento delle balene, se si fossero mostrate particolarmente aggressive o se addirittura avessero aggredito qualcuno, ma i cacciatori non avevano osservato nulla. Immediatamente l'accampamento intero si radunò intorno a loro. Tutti erano informati fin nel dettaglio di ciò che stava tenendo il mondo col fiato sospeso, ma sembrava che fino a quel momento l'Artico fosse stato risparmiato dalle anomalie. Verso sera lasciarono l'accampamento. I due cacciatori ritornarono a Pond Inlet e il convoglio di Anawak si rimise in movimento lungo il bordo del ghiaccio. Dopo un po' superarono i resti del narvalo ucciso, circondato da stormi di uccelli che, gridando, cercavano di prendere i brandelli di carne. Il gruppo proseguì per allontanarsi il più possibile ma, quando si fermò, la carcassa era ancora visibile. Le guide piantarono il campo a circa trenta metri dal bordo del ghiaccio. Le casse vennero slegate dalle slitte e fu sistemato il palo per la radio, una cosa necessaria per non perdere il contatto col mondo esterno. In breve tempo, le guide montarono cinque tende, quattro per i viaggiatori e una per la cucina, fornita di pedane e tappeti isolanti. Tre assi pitturate di bianco for-
mavano la toilette; all'interno, c'erano un secchio, provvisto di un sacco di plastica blu, e un sedile smaltato tutto graffiato. «È arrivato il momento», disse Akesuk, raggiante. Sparì per primo nel «vaso di miele», come gli inuit chiamavano le loro toilette mobili. Intanto l'allestimento del campo procedeva. Le guide inuit proposero di fare una corsa con gli skidoo e Anawak si fece mostrare i comandi. Guidare uno skidoo risultò piuttosto semplice; poco dopo, lui correva, facendo curve folli sul ghiaccio splendente. Sentì il cuore diventare più leggero. Adorava essere lì. Fecero diverse corse, finché un uomo di Igloolik fu dichiarato vincitore del torneo. A quel punto, la fame si fece sentire. Mary-Ann li cacciò dalla tenda della cucina e così si riunirono all'esterno, infagottati contro il freddo, appoggiati alle slitte, mentre una giovane donna si mise a raccontare una storia inuit, di quelle che ogni volta vengono narrate in maniera un po' diversa. Anawak ricordava che, a volte, quelle storie venivano raccontate per giorni. Gli inuit non pensavano che fosse necessario arrivare alla fine in un colpo solo. I giorni sul ghiaccio erano lunghi e le storie erano lunghe. E allora perché non dividerle? Era mezzanotte quando Mary-Ann servì la cena. Aveva superato se stessa. C'era un profumo allettante di salmerino alla griglia, spezzatino di caribù con riso ed eskimo-potatoes, una specie di tubero locale, arrosto. Inoltre c'era tè nero caldo a litri. La tenda-cucina avrebbe dovuto offrire spazio a tutti i membri, ma si rivelò più piccola del previsto. Akesuk si arrabbiò e imprecò contro l'uomo che gliela aveva noleggiata. Ma non servì a farla diventare più grande, così portarono i loro piatti sui telai delle slitte e sulle casse delle provviste e mangiarono fin quasi a scoppiare. Intorno all'una e mezzo, quando tutti cominciavano a essere stanchi, Akesuk tirò fuori dalle profondità del suo bagaglio una bottiglia di champagne. Strizzò l'occhio divertito ad Anawak. Mary-Ann storse il naso e andò a dormire. Infine, rimasero svegli solo Anawak, suo zio e l'uomo che faceva il turno di guardia contro gli orsi. «Allora ce la beviamo noi», disse Akesuk. Anawak scosse la testa. «Io non bevo.» «Ah, è vero!» Akesuk lanciò uno sguardo triste alla bottiglia. «Ne sei sicuro? L'avevo tenuta per aprirla in un'occasione davvero speciale. L'occasione speciale è... Ma sì... Sei tornato a casa e pensavo...» «Non voglio perdere il controllo, Iji.»
«Di che cosa? Della tua vita o di questo momento?» Rimise via la bottiglia. «Va bene. Ci saranno altre occasioni speciali. Forse avremo una caccia fruttuosa. Magari riusciremo a prendere una balena bianca o un grasso e succoso tricheco. Cosa dici, camminiamo ancora un po' prima di crollare a dormire?» «Volentieri, Iji.» Bighellonarono fino al bordo del ghiaccio. Anawak lasciò andare avanti lo zio, che sapeva meglio di lui dove il ghiaccio fosse stabile e dove rischiasse di rompersi. Gli inuit non avevano un'unica parola per indicare il concetto di «neve» o «ghiaccio»: ne avevano centinaia. Al momento, stavano avanzando sul ghiaccio elastico. Mentre gli iceberg erano fatti di acqua dolce - perché i sali non congelavano -, nel ghiaccio alla deriva e nel ghiaccio marino se ne trovavano dei residui. Quanto più in fretta il ghiaccio si congelava, tanto maggiore era la concentrazione salina. Quello era il motivo per cui il ghiaccio diventava più elastico: una cosa vantaggiosa d'inverno - perché era più difficile che si rompesse -, ma un inconveniente in primavera, dato che il rischio di rottura diventava più elevato. Tuffarsi nell'acqua gelata poteva uccidere, ma era ancora peggio se si veniva trascinati dalla corrente sotto il manto di ghiaccio. Si appoggiarono contro un blocco di pack. Davanti a loro si stendeva il mare argentato. Per un po', Anawak rimase semplicemente a guardare. Anche Akesuk era in silenzio. Lasciarono trascorrere il tempo e improvvisamente - come se la natura avesse deciso di ricompensare la loro resistenza - dall'acqua si levarono due corni attorcigliati, simili a spade incrociate. Due maschi di narvalo apparvero a pochi metri di distanza dal bordo, rivelando le teste tonde, chiazzate di grigio scuro. Poi gli animali s'immersero lentamente. Nel giro di un quarto d'ora sarebbero riemersi. Quello era il loro ritmo. Anawak era affascinato. A Vancouver Island i narvali non si vedevano praticamente mai. Per molto tempo erano stati prossimi all'estinzione. I loro corni - che in realtà erano denti allungati - erano di avorio e, per quel motivo, i narvali erano stati cacciati per secoli. Comparivano ancora nell'elenco degli animali minacciati di estinzione, ma il loro numero, tra il Nunavut e la Groenlandia, era risalito a diecimila. Il ghiaccio scricchiolava e gemeva. Un po' più in là, gli uccelli stridevano sui resti dell'animale ucciso. Sulle rocce e sui ghiacciai dell'isola di Baylof si stendeva una luce delicata, che disegnava ombre sul mare ghiacciato. Appena sopra l'orizzonte c'era un sole pallido e gelido.
«Mi hai chiesto se mi sono mancate queste cose», disse Anawak. Akesuk rimase in silenzio. «Le ho odiate, Iji. Le ho odiate e disprezzate. Volevi una risposta. Ora ce l'hai.» Lo zio sospirò. «Hai odiato tuo padre», replicò. «Forse. Ma prova a spiegare a un ragazzino di dodici anni la differenza tra suo padre e il suo popolo, quando entrambi non hanno altro da offrire che la loro miseria. Mio padre era un debole e soprattutto era sempre ubriaco. Non ha fatto altro che lamentarsi e ha spinto mia madre sulla via della depressione e infine del suicidio. Sapresti dirmi il nome di un solo nucleo familiare in cui non c'è stato un suicida? Erano tutti così. È giusto che si raccontino ancora le storie sugli inuit come popolo orgoglioso e indipendente, ma non è quello che ho visto io.» Guardò Akesuk. «Come fai a sopportare che, nel giro di qualche anno, tuo padre e tua madre diventino dei relitti, dipendenti dalle droghe e incapaci di vivere? Che tua madre s'impicchi perché non riesce più a sopportare se stessa? E che tuo padre non sappia far altro che frignare e ubriacarsi? Sono andato da lui e gli ho detto che doveva piantarla. Che la mia forza bastava per due. Gli ho urlato che sarei andato a lavorare, che avrei fatto qualcosa, che volevo aiutarlo, in primo luogo a mollare la bottiglia, così che potesse tornare a pensare lucidamente, come prima... Ma lui si è limitato a fissarmi con gli occhi sbarrati e si è messo a piagnucolare!» «Lo so.» Akesuk scosse la testa. «Non era più padrone di se stesso.» «Mi ha dato in adozione», disse Anawak. Nelle sue parole c'era l'amarezza di anni interi. «Io volevo restare con lui e invece quello smidollato mi ha mandato via.» «Non ti ha mandato via. Ti voleva proteggere.» «E allora? Si è forse preoccupato di quello che sarebbe stato di me? Mia madre aveva toccato il fondo della depressione, mio padre era distrutto dall'alcol ed entrambi mi hanno cacciato dalla loro vita. E qualcuno mi ha aiutato? No! Erano tutti impegnati a guardare i buchi nella neve e a lamentarsi di quanto fossero disgraziati gli inuit. Anche tu, lo ricordo bene. Tu eri lo zio Iji, mi facevi ridere, avevi sempre qualche storia da raccontare... Eppure neanche tu sei riuscito a mettere a posto le cose. Eri capace solo di tirare fuori le leggende. Ore e ore a narrare favole sul popolo libero degli inuit. Un popolo nobile! Un popolo orgoglioso!» «E lo era», confermò Akesuk. «Era un popolo orgoglioso.» «Quando?»
Si aspettava che Akesuk s'infuriasse, ma lo zio si limitò ad accarezzarsi i baffi. «Prima della tua nascita», mormorò. «Gli uomini della mia generazione sono nati negli igloo, ed era assolutamente ovvio che tutti sapessero costruirli. Quando facevamo il fuoco, lo accendevamo con le pietre focaie, non coi fiammiferi. Non si sparava ai caribù, ma li si uccideva con arco e frecce. Non era lo skidoo a tirare le qamutik, ma i cani. Non suona tutto molto romantico? Ah, i bei tempi andati...» Akesuk scosse la testa. «E invece non è passato neppure mezzo secolo. Guardati intorno, ragazzo mio. Come vive oggi la gente? Voglio dire, è anche un bene, pochi popoli conoscono il mondo quanto noi. In una casa su due c'è un computer col collegamento a Internet, anche nella mia. Abbiamo ottenuto il riconoscimento di un nostro Stato.» Ridacchiò. «Recentemente, su nunavut.com c'era un quiz, a prima vista molto divertente. Hai mai visto la vecchia banconota canadese da due dollari? Sul davanti era raffigurata la regina Elisabetta II, mentre, sul retro, c'era un gruppo di inuit. Uno degli uomini è davanti a un kajak e tiene in mano un arpione. Davvero idilliaco. La domanda era: cosa rappresenta questa scena? Tu lo sai?» «Temo di no.» «Io sì. È l'immagine della cacciata, ragazzo. Il governo di Ottawa aveva trovato una bella parola per indicarla: 'trasferimento'. Una storia da Guerra Fredda. Ottawa temeva che agli Stati Uniti o all'Unione Sovietica venisse l'idea di rivendicare le zone disabitate del Canada artico, così aveva trasferito gli inuit, che vivevano da nomadi dalle loro zone d'origine, a sud della zona polare, verso Resolute e Grise Fiord, nelle vicinanze del Polo Nord. Avevano detto loro che lassù i territori di caccia erano migliori; in realtà si trattava di una trappola. Gli inuit dovevano portare un numero di matricola impresso su una placca di lamiera, simile alla piastrina dei cani. Lo sapevi?» «Non lo ricordo.» «Molti della tua generazione, molti dei bambini di oggi non hanno idea di come hanno dovuto vivere i loro genitori. E che in realtà è cominciato tutto ancor prima, a metà degli anni '20, quando sono arrivati i trapper bianchi coi fucili. I caribù e le foche vennero decimati... da entrambi, dai qallunaat e dagli inuit. Però, capisci, pallottole invece di frecce... Gli inuit furono travolti da un'ondata di miseria. In generale non avevano mai avuto patticolari problemi con le malattie, ma, da quel momento, la poliomielite, la tubercolosi, il morbillo, la difterite fecero la loro comparsa. Così gli inuit lasciarono i loro accampamenti e si trasferirono nei centri abitati. Alla
fine degli anni '50, morivano in massa per la fame e le malattie infettive, però il governo ufficiale non ne sapeva nulla. I militari iniziarono a mostrare interesse per i Territori del nord-ovest e costruirono basi segrete nei territori tradizionali di caccia. Gli inuit che risiedevano ancora in quei luoghi vennero naturalmente mandati via. Per iniziativa delle autorità canadesi, furono imbarcati sugli aerei e deportati centinaia di chilometri più a nord, ovviamente privi delle loro tende, dei kajak, delle canoe e delle slitte. Anch'io venni trasferito e così accadde ai tuoi genitori. Quel provvedimento era stato motivato dall'idea che, per gli inuit affamati, a nord ci fossero più possibilità di sopravvivenza che nei pressi delle basi militari. In realtà erano zone lontane dai percorsi migratori dei caribù e dai luoghi in cui, d'estate, gli animali andavano a riprodursi.» Akesuk fece una pausa e rimase a lungo in silenzio. Nel frattempo riemersero i narvali. Anawak osservò le «spade incrociate» finché lo zio non riprese: «Dopo che siamo stati trasferiti, hanno mandato i bulldozer negli antichi territori di caccia. Per impedirci anche solo di pensare a un ritorno, venne raso al suolo tutto ciò che ricordava la nostra esistenza. E, naturalmente, nell'estremo nord i caribù non si fecero vedere. Non c'era da mangiare né da vestirsi. A cosa serve il più grande coraggio se puoi catturare solo qualche siksik, poche lepri e alcuni pesci? Se vedi morire il tuo popolo e non puoi fare nulla, nonostante tutta la tua forza e la tua determinazione? Ti risparmierò i particolari. Nel giro di pochi decenni, siamo diventati un caso per i servizi sociali. Non eravamo in grado di riprendere la nostra vita e non avevamo imparato a vivere in un altro modo. Più o meno nel periodo in cui sei nato, il governo si è sentito responsabile per la nostra situazione, così ha costruito per noi delle scatole, delle case. Per i qallunaat è una cosa naturale. Loro vivono nelle scatole. Quando si muovono lo fanno con delle scatole che poi chiudono in altre scatole. Mangiano in scatole pubbliche, i loro cani vivono in scatole, e le scatole in cui vivono gli uomini sono separate con muri e recinzioni da altre scatole. Quella era la loro vita, non la nostra... Eppure anche noi andammo a vivere nelle scatole. E a cosa porta la perdita della propria identità? All'alcol, alle droghe e al suicidio.» «Allora mio padre ha lottato per i diritti degli inuit?» chiese Anawak sottovoce. «L'abbiamo fatto tutti. Ero giovane quando siamo stati cacciati. Ho lottato con gli altri per ottenere un risarcimento. Per trent'anni abbiamo fatto cause e combattuto. Anche tuo padre. Ma lui è crollato. Ora, dal 1999, abbiamo il nostro Stato, il Nunavut, la «nostra terra.» Nessuno s'immischia
più, nessuno ci trasferisce. Ma la nostra vita, l'unica vita che era fatta per noi, è irrimediabilmente perduta.» «Allora dovete cercarne una nuova.» «Hai ragione. A cosa serve lamentarsi? Noi siamo sempre stati nomadi e indipendenti, ma ci siamo adattati all'idea di vivere in un territorio limitato. Fino a pochi decenni fa, non conoscevamo nessuna forma di organizzazione, tranne vaghe alleanze familiari, non tolleravamo né capi tribù né condottieri... Ora invece gli inuit dominano sugli inuit, come si addice a un'amministrazione statale moderna. Non conoscevamo la proprietà privata, ora ci avviamo sulla strada di un moderno Stato industriale. Torniamo a ravvivare le tradizioni, alcuni si comprano i cani da slitta, s'insegna nuovamente a costruire gli igloo e ad accendere il fuoco con le pietre focaie. È bello che si rinnovino quei valori, ma non possiamo fermare il tempo. E ti voglio dire, ragazzo mio, che io non sono insoddisfatto. Il mondo si muove. Oggi viviamo come nomadi in Internet, percorriamo la rete delle autostrade di dati, cacciamo e raccogliamo informazioni. I giovani chattano con persone di tutto il mondo e raccontano loro del Nunavut. In questa terra si suicida ancora tanta gente, troppa. Dobbiamo elaborare un lutto. Abbiamo bisogno di tempo. Non si può sacrificare ai morti le speranze dei vivi... Sei d'accordo?» Anawak guardò il sole che sfiorava l'orizzonte. «Hai ragione», rispose. Poi, seguendo un impulso, raccontò ad Akesuk tutto quello che avevano scoperto allo Château, a che cosa stava lavorando l'unità di crisi e il sospetto maturato sull'esistenza in mare di un'intelligenza sconosciuta. Gli uscì tutto così, semplicemente. Sapeva che contravveniva al ferreo divieto di Judith Li, ma non gli importava. Era stato in silenzio per una vita intera. Akesuk era tutto quello che gli restava della sua famiglia. «Vuoi il consiglio di uno sciamano?» chiese infine lo zio. «No. Non credo agli sciamani.» «Certo, e chi ci crede? Ma non potete risolvere questo problema con la scienza, ragazzo mio. Uno sciamano ti direbbe che tutto ciò dipende dagli spiriti del mondo animale che vagano negli esseri viventi. I qallunaat hanno iniziato a distruggere la vita. Si sono inimicati gli spiriti, la dea del mare, Sedna. Chiunque siano quegli esseri, non otterrete nulla se cercherete di attaccarli.» «E allora?» «Considerateli una parte di voi. In questo pianeta apparentemente unito da una rete virtuale, ciascuno è un extraterrestre per l'altro. Prendete con-
tatto. Come tu hai preso contatto con lo sconosciuto popolo degli inuit. Non sarebbe un bene se tutti crescessero insieme?» «Non sono umani, Iji.» «Non c'entra. Fanno parte di un unico mondo, come le tue mani e i tuoi piedi fanno parte di un unico corpo. Nella lotta per la supremazia non ci sono vincitori. Le battaglie generano solo vittime. A chi interessa, in fondo, quante specie ci siano sulla Terra e quanto siano intelligenti? Imparate a comprenderle invece di combatterle.» «Sembra un precetto cristiano. Porgi l'altra guancia...» «No», ridacchiò Akesuk. «È il consiglio di uno sciamano. Da queste parti ne abbiamo ancora, ma non lo gridiamo ai quattro venti.» «Ma quale sciamano dovrebbe...» Anawak sollevò le sopracciglia. «Non sarai mica tu?» Akesuk sorrise. «Qualcuno si deve pure occupare delle questioni spirituali», rispose. Poi esclamò: «Guarda!» Un gigantesco orso polare si era avvicinato agli ultimi resti del narvalo e aveva scacciato gli uccelli, che si erano allontanati o avevano preso a zampettare sul ghiaccio, tenendosi a distanza di sicurezza. Uno stormo di uccelli, però, non si era dato per vinto e si accaniva contro l'intruso, benché questi sembrasse del tutto indifferente. Era abbastanza distante dall'accampamento perché la guardia non lanciasse l'allarme, ma l'uomo aveva sollevato il fucile e osservava con attenzione. «Nanuq», disse Akesuk. «Sente tutti gli odori. Anche i nostri.» Anawak osservò l'orso che stava mangiando. Non aveva paura. Dopo un po', il colosso perse ogni interesse nella sua preda e si allontanò lentamente. Si guardò intorno solo una volta, adocchiando l'accampamento, e infine sparì dietro una barriera di ghiaccio. «Che aria affabile», sussurrò lo zio. «Ma sa correre, ragazzo mio! Eccome!» Ridacchiando, frugò nella giacca a vento e tirò fuori una statuetta che mise in grembo ad Anawak. «Ho aspettato. Tu sai che ogni regalo ha il suo tempo. Forse adesso è il momento giusto per dartelo.» Anawak prese la scultura e la osservò. Raffigurava un volto umano con piume al posto dei capelli; inoltre la parte posteriore della testa terminava in un corpo d'uccello. «Uno spirito uccello?» Akesuk annuì. «L'ha fatto Toonoo Sharky, un mio vicino di casa. È un artista molto stimato; le sue opere sono esposte addirittura al Museum of Modem Art. Prendila. Ti aspettano molte cose. Ne avrai bisogno, ragazzo mio. Quando sarà il momento, guiderà i tuoi pensieri nella giusta direzio-
ne.» «Quando sarà il momento?» «La tua coscienza volerà.» Con le mani, Akesuk formò due ali, le fece muovere e sorrise. «Ma tu sei stato via per tanto tempo e sei un po' fuori esercizio. Forse hai bisogno di un intermediario che ti confidi quello che vede lo spirito uccello.» «Parli per enigmi.» «È un privilegio degli sciamani.» Un uccello volò sopra di loro. «Un gabbiano di Ross», rise Akesuk. «Sì, tu sei proprio fortunato, Leon! Lo sapevi che ogni anno migliaia di bird watcher vengono qui da ogni parte del mondo proprio per vedere questo gabbiano? È così raro... No, non ti devi preoccupare, davvero. Gli spiriti ti hanno mandato un segnale.» Più tardi, quando s'infilarono nei loro sacchi a pelo, Anawak rimase sveglio ancora un po'. Il sole notturno illuminava le pareti della tenda. Una volta sentì il grido della guardia: «Nanuq, nanuq!» Pensò al mare nero e profondo tutt'intorno a lui, e i suoi pensieri sembrarono scivolare sul manto di ghiaccio, verso un mondo sconosciuto. Respirando tranquillamente, galleggiò su un mare di sonno e infine giunse sull'altopiano formato da un gigantesco iceberg, nato dai ghiacciai della Groenlandia, trascinato fino alla costa orientale dell'isola Bylot, bloccato dal mare ghiacciato e infine strappato via dal vento e dalle onde e trascinato verso sud. Nel sogno, Anawak saliva un sentiero stretto e innevato fino alla cima della montagna, dove l'acqua aveva formato un lago verde smeraldo. Un mare liscio come uno specchio si stendeva a perdita d'occhio. L'iceberg si sarebbe sciolto e lui sarebbe sprofondato nel mare calmo, fino alle origini della vita, dove un mistero attendeva di essere chiarito. E forse l'avrebbe aiutato uno sciamano. 24 maggio Frost Come al solito, Stanley Frost era di opinione diversa. Secondo le valutazioni delle industrie estrattrici di materie prime, i principali giacimenti di metano si trovavano nel Pacifico, lungo la costa occidentale nordamericana, di fronte al Giappone, nel mare di Okhotsk, nel mare di Bering e ancora più a nord, nel mare di Beaufort. Nell'Atlantico,
gli Stati Uniti ne avevano la maggior parte davanti alla porta di casa. C'erano grandi giacimenti nei Caraibi e al largo del Venezuela, forti concentrazioni nella zona dello stretto di Drake, tra America meridionale e Antartico. Si sapeva anche degli idrati norvegesi e altrettanto nota era l'esistenza di giacimenti nel Mediterraneo orientale e nel mar Nero. Soltanto la costa nordoccidentale dell'Africa ne.era quasi completamente priva. E in special modo la zona delle Canarie. E Frost non se ne capacitava. Perché là, dagli abissi saliva acqua fredda satura di nutrimento per il fitoplancton, che a sua volta era la causa principale della pescosità eccezionale delle Canarie. A partire da quegli elementi, nelle Canarie si sarebbe dovuta rilevare una gran quantità di idrati; ovunque si presentasse una notevole varietà di vita organica, prima o poi, negli abissi marini, si formava il metano: era una cosa inevitabile. Il problema delle Canarie era che i resti decomposti degli esseri viventi non potevano depositarsi. Dato che quelle isole erano nate milioni di anni prima dai vulcani, si ergevano, verticali come torri, dal fondale marino: Tenerife, Gran Canaria, La Palma, Gomera e Hierro. Tutte crescevano dal fondale a una profondità fra i tre chilometri e i tre chilometri e mezzo, guglie di roccia vulcanica su cui i sedimenti e i resti organici scivolavano anziché depositarsi. Ecco perché la cartografia corrente mostrava, nella zona delle Canarie, l'assenza di giacimenti di metano. Cosa che, secondo Stanley Frost, costituiva il primo errore. In secondo luogo, lui presumeva che i coni vulcanici, sulla cui punta si ergevano le isole, non fossero verticali, come in genere si sosteneva. O, meglio, erano verticali, sì, però non lisci e perpendicolari come le pareti di una casa. Frost si era occupato abbastanza a lungo della formazione e dello sviluppo dei vulcani per sapere che anche il cono più verticale mostrava crinali e terrazze. Era quindi pienamente convinto che, intorno alle isole, ci fosse una gran quantità di metano e che fino a quel momento nessuno avesse guardato con attenzione. Quegli idrati non si sarebbero presentati in grandi blocchi, ma in una fitta rete di vene tra il pietrisco. In ogni caso, il metano doveva essere immagazzinato sui crinali ricoperti di sedimenti. Giacché lui era un vulcanologo e non un esperto di idrati, Frost aveva chiesto il parere di Bohrmann ed entrambi avevano deciso che si trattava di una questione da approfondire. Frost aveva preparato una lista di isole che riteneva minacciate. Oltre a La Palma, c'erano anche le Hawaii, le isole di Capo Verde, Tristan de Curtha più a sud e l'isola di Réunion nell'oceano
Indiano. Ognuna costituiva una potenziale bomba a orologeria, ma La Palma costituiva un caso esemplare. Se le peggiori paure di Frost erano fondate e se quegli esseri erano scaltri come sosteneva il norvegese, allora il vulcano Cumbre Vieja di La Palma pendeva sulla testa di milioni di persone come una spada di Damocle alta duemila metri. Grazie all'impegno di Bohrmann, Frost e la sua équipe ebbero a disposizione per la spedizione la famosa Polarstern. Esattamente come la Sonne, la nave oceanografica tedesca aveva a bordo un Victor 6000. La Polarstern era sufficientemente grande per non temere gli attacchi delle balene, inoltre era stata attrezzata con telecamere sottomarine per individuare in tempo gli attacchi di banchi di mitili, meduse o altri organismi. Frost ovviamente non poteva assicurare che il Victor, una volta mandato sott'acqua, sarebbe riemerso. Era un tentativo basato solo sulla fortuna, ma nessuno lo impedì. Il Victor s'immerse a ovest di La Palma e la Polarstern rimase in vista della terraferma. Il robot esaminò in maniera sistematica la parete del cono vulcanico, finché, a circa quattrocento metri, arrivò a una serie di terrazze abbondantemente ricoperte di sedimenti. Lì trovò i giacimenti di idrati, come Frost aveva previsto. Ma erano sepolti da una massa di corpi bianchi e rosa con mandibole a tenaglia. 8 giugno La Palma, Canarie, al largo dell'Africa occidentale «Perché quei vermi lavorano con tanta foga alle fondamenta di quest'isola - meta d'innumerevoli turisti - quando potrebbero ottenere risultati ben più devastanti, al largo del Giappone o sotto casa nostra?» chiese Frost. «Voglio dire, il mare del Nord era una zona ad alta concentrazione industriale. Come la costa orientale americana e come Honshu, eppure in quel posto la popolazione di vermi è lontanissima da una diffusione che possa creare problemi. E ora li scopriamo in un'isola a occidente dell'Africa. Che significa? Quelle bestioline hanno forse deciso di andare in ferie?» Come sempre, Frost indossava il suo berretto da baseball e una tuta da lavoratore petrolifero. Si trovava sulla parte orientale della montagna che sorgeva al centro dell'isola. Mentre a nord le rocce racchiudevano la famosa caldera di roccia erosa chiamata Caldera de Taburiente, la cresta della
montagna si stendeva con innumerevoli vulcani fino alla punta sud. Frost era in compagnia di Bohrmann e di due rappresentanti dell'impresa De Beers, un'amministratrice e un direttore tecnico di nome Jan van Maarten. L'elicottero era parcheggiato sullo spiazzo sabbioso in cui si trovavano anche loro, ma un po' discosto. Il panorama era di una bellezza impressionante: crateri pieni di verde si alternavano a distese di lava nera, picchiettate sempre di verde, ma di una tonalità più delicata. I vulcani di La Palma non eruttavano regolarmente, tuttavia un'eruzione poteva avvenire in qualsiasi momento. Dal punto di vista della storia della Terra, quelle isole erano giovani. Solo nel 1971, nell'estremo sud, era sorto un nuovo vulcano, il Teneguia, che aveva ampliato l'isola di qualche ettaro. Per la precisione, l'intera catena era formata da un unico vulcano con molte bocche, per cui si parlava semplicemente delle eruzioni del Cumbre Vieja. «La questione è dove colpire per ottenere il danno maggiore», disse Bohrmann. «Lei crede davvero che qualcuno abbia avuto simili pensieri?» L'amministratrice aggrottò la fronte. «È tutto ipotetico», replicò Frost. «Però, se presumiamo che dietro tutto ciò si nasconda uno spirito intelligente, dal punto di vista strategico esso procede con grande abilità. Dopo il disastro del mare del Nord, tutti hanno ipotizzato che la disgrazia seguente sarebbe avvenuta nelle vicinanze di coste ampiamente popolate e di zone ad alta concentrazione industriale. In effetti, in quelle zone abbiamo trovato i vermi, anche se in numero ridotto. Così abbiamo pensato che il grosso delle truppe del nemico - per chiamarlo col suo nome - si fosse ritirato. Oppure che lui avesse bisogno di tempo per produrre altri vermi. In tal modo, la nostra attenzione si è concentrata su falsi obiettivi. Bohrmann e io siamo arrivati alla conclusione che le invasioni dell'America settentrionale e del Giappone siano manovre diversive.» «Ma a che cosa serve distruggere gli idrati a La Palma?» chiese la donna. «Non è che qui farebbero molti danni.» Quelli della De Beers erano stati chiamati perché Frost e Bohrmann erano alla ricerca di un sistema che potesse risucchiare i vermi che sbranavano il ghiaccio. Da decenni, il fondale marino davanti al Sudafrica e alla Namibia veniva perlustrato a caccia di diamanti. Erano impegnate diverse società - tra cui anche il colosso diamantifero De Beers -, che con navi e piattaforme galleggianti dragavano il fondale fino a centottanta metri. Da alcuni anni, la De Beers aveva iniziato a sviluppare sistemi per arrivare più
in profondità: bulldozer sottomarini guidati a distanza e dotati di proboscidi che pompavano sabbia e ghiaia attraverso tubature fino alle navi d'appoggio. Uno degli sviluppi più recenti era un sistema molto flessibile e apparentemente senza rischi: un aspiratore teleguidato che poteva operare anche su pareti ripide. In teoria, il sistema arrivava a una profondità di diverse migliaia di metri, ma prima di metterlo in opera si doveva costruire un tubo aspiratore sufficientemente lungo. Lo stato maggiore dell'unità di crisi aveva deciso di coinvolgere il gruppo incaricato del progetto per conto delle multinazionali dei diamanti. I due rappresentanti della De Beers, a quel punto, sapevano solo che il loro sistema avrebbe potuto giocare un ruolo importante nel quadro delle catastrofi naturali, che era necessario un aspiratore lungo diverse centinaia di metri, e che serviva il più in fretta possibile. E Frost aveva proposto di andare sul Cumbre Vieja per presentare nella maniera più chiara possibile il quadro di quello che sarebbe successo all'umanità se avessero fallito la loro missione. «Non ingannatevi», disse Frost. «Qui sono successe un mucchio di cose.» I capelli che spuntavano disordinatamente da sotto il berretto si attorcigliavano nei freddi alisei. Il cielo si specchiava nei suoi occhiali colorati. Sembrava un incrocio tra Fred Flinstone e Terminator, ma la sua voce rimbombava come se lui stesse dettando i nuovi dieci comandamenti. «Noi ci troviamo qui perché, due milioni di anni fa, il vulcanismo ha sputato in mare le Canarie. Questo sembra un luogo idilliaco, ma è un'illusione. Giù a Tijarafe - tra l'altro un pittoresco paesino in cui si gusta un delizioso queso curado a la almendra - l'8 settembre festeggiano la festa del diavolo e quest'ultimo corre nella piazza del villaggio, scoppiettando e sputando fuoco. Perché lo fanno? Perché gli abitanti dell'isola conoscono il loro Cumbre Vieja. Perché gli scoppi e il fuoco appartengono alla loro vita quotidiana. Lo sa anche l'intelligenza cui dobbiamo i vermi. Sa come si sono formate le isole. E, in genere, chi conosce queste cose ne conosce anche i punti deboli.» Frost fece qualche passo fino al bordo della parete. Il pietrisco di lava scricchiolava sotto i suoi Doc Martens. Sotto, le onde dell'Atlantico si frangevano, scintillando. «Nel 1949, il Cumbre Vieja, il vecchio cane dormiente, si è risvegliato. Per la precisione, si è risvegliato uno dei suoi crateri, il vulcano San Juan. Da allora, il versante occidentale, quello sotto i nostri piedi, è percorso da
una frattura lunga diversi chilometri, a malapena visibile a occhio nudo. Probabilmente essa arriva fino alle strutture profonde di La Palma. Una parte del Cumbre Vieja è sprofondata di quattro metri in direzione del mare. Negli ultimi anni, ho analizzato spesso questa regione. È molto probabile che, alla prossima eruzione, il versante occidentale crolli del tutto, perché diversi strati di pietrisco contengono una quantità enorme d'acqua. Non appena un nuovo caldissimo magma uscirà dal camino vulcanico, quest'acqua si espanderà di colpo e si trasformerà in vapore. L'aumento della pressione potrebbe far saltare la parte instabile, senza contare che contro di essa spingono anche i versanti est e sud. Come conseguenza, cinquecento chilometri cubi di pietre scivolerebbero in mare.» «L'ho letto da qualche parte», lo interruppe van Maarten. «Ma i rappresentanti politici delle Canarie ritengono questa teoria discutibile...» «Discutibile!» tuonò Frost come le trombe di Gerico. «Il problema è che tutte le comunicazioni ufficiali assumono toni tranquillizzanti per non spaventare i turisti. All'umanità non sarà risparmiato questo evento, come dimostrano altri casi. Nel 1741, in Giappone, l'eruzione dell'Oshima-Oshima produsse onde alte trenta metri. Della stessa altezza sono state quelle che, nel 1888, seguirono il collasso della Ritter Island, in Nuova Guinea, e la quantità di roccia caduta in acqua equivale forse all'uno per cento di quella che ci dobbiamo attendere qui! Il Kilauea, nelle Hawaii, è sorvegliato da anni da una rete di stazioni GPS che registrano ogni minimo movimento... e quello si muove, eccome! Il versante sud-est scivola di dieci centimetri all'anno, e guai se prendesse velocità. Non si può nemmeno immaginare cosa succederebbe. Col tempo, praticamente ogni isola vulcanica tende a diventare sempre più verticale. Se diventa troppo verticale, ne crolla una parte. Il governo di La Palma è cieco e sordo. La questione non è se succederà, ma quando. Tra cento anni? Tra mille? È questa l'unica cosa che non sappiamo. Le eruzioni vulcaniche non hanno l'abitudine di farsi annunciare.» «Che succederebbe se metà di questa montagna cadesse in mare?» chiese la donna. «La massa di pietre sposterebbe un'immensa quantità d'acqua, che si solleverebbe sempre di più, e a una velocità stimabile sui trecentocinquanta chilometri all'ora» rispose Bohrmann. «I detriti si stenderebbero per sessanta chilometri nel mare aperto e l'acqua non vi si potrebbe infiltrare facilmente. Si formerebbe una gigantesca bolla d'aria, che darebbe all'acqua una spinta ancora maggiore di quella provocata dalle rocce cadute. Su
quello che succederebbe dopo, effettivamente ci sono idee un po' diverse, tuttavia, nessuna delle varianti possibili è particolarmente allegra. Nelle immediate vicinanze di La Palma, la frana potrebbe provocare un'onda alta dai seicento ai novecento metri e con una velocità di circa mille chilometri all'ora. A differenza dei terremoti, i crolli delle montagne e gli smottamenti sono eventi puntiformi. Le onde si diffonderebbero radialmente lungo l'Atlantico, disperdendo la loro energia. Più ci si allontana dal punto di origine, più diventano basse.» «Suona consolante», mormorò il direttore tecnico. «Solo in parte. Le Canarie saranno spazzate via all'istante. Un'ora dopo, un'onda alta cento metri investirà le coste del Marocco... Quella in Europa settentrionale ha raggiunto, nei fiordi, un'altezza di quaranta metri e i risultati sono noti. In un arco di tempo tra le sei e le otto ore, un'onda di cinquanta metri di altezza raggiungerà i Caraibi, annienterà le Antille e sommergerà la costa occidentale degli Stati Uniti, tra New York e Miami. Immediatamente dopo si schianterà con la stessa violenza contro il Brasile. Onde più piccole arriveranno in Spagna, in Portogallo e nelle Isole Britanniche. Gli effetti saranno devastanti anche per l'Europa centrale, anche in termini economici.» I due rappresentanti della De Beers impallidirono. Frost sogghignò. «Per caso, avete visto Deep Impact?» «Il film? Ma lì si parlava di un'onda alta diverse centinaia di metri», obiettò la dorma. «Per spazzare via New York basta un'onda di cinquanta metri. Con l'impatto viene liberata una quantità di energia pari a quella che gli Stati Uniti consumano in un anno. E non pensate all'altezza delle case: lo tsunami è un problema per le fondamenta. Crolla tutto, non importa di quanti piani sia l'edificio. E nessuno di noi è Bruce Willis, se posso dir così.» Fece una pausa e indicò il pendio. «Questo versante occidentale può essere destabilizzato in due modi: con un'eruzione del Cumbre Vieja o con uno smottamento sottomarino. A quest'ultimo stanno lavorando i vermi. È un compito meno... impegnativo rispetto a quello che hanno portato a termine nel Nordeuropa, ma porterebbe al crollo di una parte della colonna vulcanica sottomarina. La conseguenza sarebbe un terremoto, non particolarmente violento, ma sufficiente per minare la statica del Cumbre Vieja. Un terremoto che, con ogni probabilità, scatenerebbe anche un'eruzione. In ogni caso, il versante occidentale perderebbe la presa, crollando. E così si compirebbe la catastrofe.»
«Quanto tempo ci resta?» «Poco. Quelle raffinate bestioline hanno scelto luoghi cui non si può arrivare facilmente. Sfruttano la capacità di propagazione delle onde in mare aperto. Il mare del Nord è stato un brutto colpo, ma il crollo di una piccola isola, apparentemente innocua, sarebbe una vera sciagura per la civiltà umana.» Van Maarten si grattò la fronte. «Abbiamo costruito un prototipo del tubo aspiratore che può arrivare a trecento metri. Funziona. Non abbiamo ancora fatto esperimenti a grandi profondità, ma...» «Potremmo allungare la proboscide», propose la donna. «Praticamente dovremo tirarla fuori dal cilindro... Sì, potrebbe andare, se fermiamo tutto il resto... Quello che mi preoccupa di più è la nave d'appoggio.» «Non credo che ve la caverete con una nave», intervenne Bohrmann. «Qualche miliardo di vermi sono una biomassa mostruosa. Li dovrete pompare da qualche parte.» «Questo non è un problema. Possiamo allestire un trasporto pendolare. Mi riferivo alla nave da cui guidare il tubo aspiratore. Se dobbiamo arrivare a quattro-cinquecento metri, allora sarà necessario immagazzinarlo da qualche parte. È un tubo flessibile di mezzo chilometro, pesante come il piombo e un po' più grosso dei cavi sottomarini che si possono arrotolare nella stiva. Inoltre, quando la proboscide viene mossa, la nave deve essere sufficientemente stabile per compensare gli spostamenti. Gli attacchi non sarebbero un problema, ma l'idrostatica nasconde delle insidie. Non si può calare il tubo a sinistra o a destra senza mettere a rischio la stabilità della nave.» «E se si ricorresse a una nave escavatrice?» «Non è abbastanza grande.» Il direttore tecnico rifletté. «Forse una nave per le trivellazioni? No, troppo pesante. Sarebbe meglio una piattaforma galleggiante. Stiamo già lavorando a qualcosa del genere. Un sistema di galleggianti... L'ideale sarebbe una costruzione semisommersa, come nella tecnica offshore, solo che non dovrebbe essere ancorata con cavi, ma muoversi come una nave vera. Dev'essere manovrabile.» Si allontanò di qualche passo e cominciò a mormorare qualcosa che riguardava le frequenze di risonanza e l'andamento del moto ondoso. Poi tornò indietro. «Sì, una struttura semisommersa andrebbe bene. Massima stabilità al moto ondoso e ideale per una gru che possa sollevare tutto senza problemi. Al largo della Namibia c'è una cosa del genere che potremo trasformare in fretta.»
«L'Heerema?» disse la donna. «Già.» «Ma... Stavamo per scartarla, no?» «Non è un rottame. L'Heerema dispone di due corpi principali e il ponte poggia su sei colonne. Sì, è del 1978, ma per questo scopo dovrebbe andare. Sarebbe la via più rapida. Non abbiamo una torre di trivellazione, ma due gru. Con una delle due caleremo il tubo. La pompa principale non è un problema. E potremo caricare le navi per portare via i vermi.» «Mi sembra una buona idea», disse Frost. «E quando potreste cominciare?» «In condizioni normali, tra sei mesi.» «E in queste?» «Non posso promettere nulla. Da sei a otto settimane, se iniziamo immediatamente.» Il direttore tecnico guardò Frost. «Faremo il possibile. Siamo bravi in queste cose. Tuttavia, se ci riusciremo in tempo, consideratelo pure un miracolo.» Frost annuì. Guardò l'Atlantico, azzurro e splendido. Cercò d'immaginare l'acqua che improvvisamente si alzava fino a seicento metri. «Va bene», mormorò. «In questo momento i miracoli sono particolarmente richiesti.» PARTE TERZA INDEPENDENCE «Sono convinto che - come i fondamenti matematici - i diritti siano universali, indipendentemente dagli uomini, primo fra tutti il diritto alla vita. Il dilemma è: dove sono scritti? E chi altri può permetterseli oltre agli uomini? Ci piacerebbe accettare l'idea che, al di fuori delle nostre percezioni, esistano diritti e valori, ma non possiamo metterci al di fuori delle nostre percezioni. Sarebbe come se il gatto dovesse decidere se il topo può essere mangiato.» Da Leon Anawak, Autocoscienza e consapevolezza 12 agosto Mar di Groenlandia Samantha Crowe appoggiò i suoi appunti e guardò fuori. Il CH-53 Super Stallion si abbassava velocemente. Una forte brezza
scuoteva l'elicottero lungo trenta metri. Sembrava quasi cadere sulla piattaforma in mezzo al mare, e Samantha si domandava come un affare tanto gigantesco potesse stare a galla. Ma, nel contempo, si chiedeva: come si può atterrare su una cosa così piccola? Più di cinquecento miglia marine a nord-est dell'Islanda, sopra la piana abissale groenlandese, c'era la USS Independence LHD-8, una città galleggiante, strana e irta di strutture, col fascino di un mezzo spaziale uscito da Alien. Due ettari di libertà e novantasettemila tonnellate di diplomazia, così la definiva la Marina. Per le settimane seguenti, la più grande portaerei tattica del mondo sarebbe stata la casa di Samantha Crowe. Per un po' di tempo, il suo indirizzo sarebbe stato: USS Independence LHD-8, 75° latitudine nord, tremilacinquecento metri dal fondale marino. Il suo compito: condurre una conversazione. L'elicottero virò. Con un movimento circolare, il Super Stallion si mosse verso il punto di atterraggio e si posò. Attraverso i finestrini laterali, Samantha vide un uomo con una tuta da lavoro gialla che dava indicazioni al pilota. Qualcuno dell'equipaggio la aiutò a slacciarsi la cintura e a indossare casco, cuffie, jacket e occhiali protettivi. Il volo era stato sgradevole e Samantha si sentiva malferma sulle gambe. Con passi incerti scese dall'elicottero, passò sotto la coda del Super Stallion e si guardò intorno. Sulla pista d'atterraggio c'erano poche persone. Quel vuoto aumentava l'impressione di un posto surreale: una distesa asfaltata, pressoché infinita, punteggiata di fortificazioni, lunga 257,25 metri e larga 32,6. Samantha Crowe lo sapeva con precisione. Era una scienziata col debole per i numeri esatti, quindi aveva cercato di sapere tutto il possibile sulla USS Independence, ma in quel caso la teoria capitolava di fronte alla realtà. La vera Independence non aveva nulla a che vedere coi disegni dei progetti e i dati tecnici. Nell'aria aleggiava un intenso odore di petrolio e kerosene, cui si mischiavano quello di gomma calda e sale. Il ponte era spazzato da un vento violento che sembrava strapparle la tuta. Non era un luogo per viaggi di piacere. C'erano uomini con giubbotti colorati e cuffie antirumore che correvano da tutte le parti. Uno le andò incontro, mentre alcuni soldati scaricavano il suo bagaglio. Avevano un giubbotto bianco. Samantha cercò di ricordare. Il bianco era il colore dei responsabili della sicurezza. Quelli in giallo dirigevano il traffico degli elicotteri sul ponte, quelli vestiti di rosso si occupavano del carburante e delle armi. E in marrone non c'era nessuno? E in lilla? Di che cosa si occupavano quelli in marrone?
Il freddo le entrò fin sotto la pelle. «Mi segua», gridò l'uomo per sovrastare il fragore dei rotori che si stavano fermando. Indicò l'unica costruzione della portaerei. Pareva un condominio ed era sormontata da antenne e da enormi parabole. Mentre seguiva il suo accompagnatore, Samantha si toccò meccanicamente il fianco con la mano destra. Poi le venne in mente che, con indosso la tuta, non poteva prendere le sigarette. Non aveva potuto fumare neanche sull'elicottero. Volare sull'Artico col vento forte per lei non era un problema, ma l'astinenza da nicotina non riusciva a reggerla. L'uomo aprì un portellone e lei entrò nell'«isola», come veniva chiamato quell'edificio nel gergo della Marina. Dopo avere oltrepassato una doppia paratia, si trovò a respirare aria fresca e pulita, ma non riuscì a cancellare la sensazione di soffocamento che quel luogo le comunicava. L'uomo della sicurezza la affidò a un gigantesco uomo di colore, che indossava un uniforme e che si presentò come maggiore Salomon Peak. Si strinsero la mano. Peak sembrava molto rigido, come se non fosse abituato a trattare coi civili. Nelle ultime settimane, Samantha aveva parlato spesso con lui, ma solo per telefono. Attraversarono un corridoio tortuoso e scesero attraverso ripide scalette nella parte più interna della nave, seguiti da due soldati col bagaglio. Su una parete spiccava a grandi lettere l'indicazione LIVELLO 2. «Sicuramente vorrà darsi una rinfrescata», disse Peak, aprendo una porta identica alle numerose altre che si allineavano sui due lati del corridoio. Apparve così una stanza incredibilmente spaziosa e ben arredata, quasi una piccola suite. Samantha aveva letto che, su una portaerei, lo spazio privato era ridotto al minimo e che i soldati dormivano in camerate. Interpretando l'espressione della donna, Peak sollevò le sopracciglia. «Aveva forse creduto di finire coi marinai?» disse, accennando un sorriso. «La Marina sa come comportarsi coi propri ospiti. Questa è la zona degli ammiragli.» «La zona degli ammiragli?» «È il nostro Hotel Excelsior. Sono gli alloggi per gli ammiragli e per il loro stato maggiore quando vengono a bordo. Attualmente l'equipaggio non è al completo, così abbiamo tutto lo spazio del mondo. La parte femminile della spedizione è sistemata negli alloggi per gli ammiragli; la parte maschile in quelli degli ufficiali. Posso?» Le passò davanti e aprì un'altra porta. «Bagno personale e WC.» «Sono impressionata.» I soldati portarono dentro il bagaglio.
«Sotto il televisore c'è un minibar», spiegò Peak. «Analcolici. Le basta una mezz'ora per sistemarsi prima della prossima riunione?» «Eccome.» Samantha attese finché Peak non ebbe chiuso la porta alle proprie spalle, poi si mise freneticamente alla ricerca di un portacenere. Lo trovò in una credenza, armeggiò per sfilarsi la tuta e frugò nella giacca sportiva alla ricerca delle sigarette. Tornò a sentirsi un vero essere umano soltanto dopo aver preso una sigaretta dal pacchetto schiacciato, averla accesa e aver inalato il fumo. Si accomodò sul bordo del letto. In realtà era una cosa triste. Due pacchetti al giorno erano una cosa maledettamente triste, come pure non riuscire a smettere. Ci aveva provato due volte. E non ce l'aveva fatta. Forse non voleva farcela. Dopo la seconda sigaretta, andò sotto la doccia. Quindi s'infilò jeans, scarpe da ginnastica e felpa, fumò un'altra sigaretta e guardò in tutti i cassetti e negli armadi. Quando qualcuno bussò alla porta, aveva studiato così a fondo la cabina che avrebbe potuto farne un inventario completo. Le piaceva essere informata. Alla porta non c'era Peak, ma Leon Anawak. «L'avevo detto che ci saremmo rivisti», esordì lui con un sorriso. Samantha rise. «E io avevo detto che avrebbe ritrovato le sue balene. È bello rivederla, Leon. È lei la persona che devo ringraziare per essere stata convocata qui, giusto?» «Chi gliel'ha detto?» «Judith Li.» «Credo che sarebbe qui anche senza il mio intervento. Però senza dubbio ho contribuito un po'. Deve sapere che l'ho sognata.» «Santo cielo!» «Non si preoccupi. Mi è apparsa come uno spirito buono. Com'è stato il volo?» «Rumoroso. Sono l'ultima, vero?» «Noi siamo saliti a bordo a Norfolk.» «Sì, lo so. Ma non potevo venir via prima da Arecibo. Non ci crederà, ma c'è una gran quantità di lavoro da svolgere anche per non far funzionare un progetto. Per ora il SETI è stato accantonato. Al momento non ci sono soldi per esplorare l'universo alla ricerca di omini verdi.» «Forse troveremo più omini verdi di quanti vorremmo», replicò Ana-
wak. «Venga, Peak arriverà tra un minuto. Le mostreremo le possibilità dell'Independence. Poi toccherà a lei. Sono tutti molto eccitati. Le hanno già dato anche un soprannome.» «Un soprannome? E quale sarebbe?» «Miss Alien.» «Oh santo cielo! Per un bel pezzo mi hanno chiamata Miss Foster, dopo che Jodie Foster ha interpretato la mia parte nel film.» Samantha scosse la testa. «Ma sì, perché no? Spero di essermi portata le foto da autografare... Andiamo, Leon.» Peak li guidò nel mondo del livello 2. Avevano iniziato la visita dalla parte anteriore della nave e ora si stavano spostando verso il centro. A prua, Samantha aveva ammirato la grande palestra piena di tapis roulant e di macchine. Era praticamente deserta. «Di solito qui c'è un grande movimento», spiegò Peak. «L'Independence può ospitare tremila persone. Adesso a bordo non siamo neppure in duecento.» Percorsero l'ala residenziale destinata agli ufficiali più giovani. C'erano cabine per quattro o sei persone con comode cuccette, spazio sufficiente per i bagagli, tavoli ribaltabili e sedie. «Accogliente», commentò Samantha. Peak scrollò le spalle. «Questione di punti di vista. Quando c'è vero movimento non si riesce a chiudere occhio. Pochi metri sopra la sua testa decollano e atterrano elicotteri e jet. I problemi maggiori, ovviamente, li abbiamo coi novellini.» «E quando ci si abitua al rumore?» «Mai. Però ci si abitua a non fare un sonno continuo. Sono stato spesso sulle portaerei, talvolta anche per mesi. Dopo un po', diventa assolutamente normale essere costantemente in stato di allerta. In compenso si perde l'abitudine a dormire nel silenzio. La prima notte a casa è un inferno. Si aspetta il rombo delle turbine, il tonfo dei velivoli e dei cavi di ancoraggio, i passi di corsa nei corridoi, i continui annunci... e invece si sente solo il ticchettio della sveglia.» Giunsero infine al centro della nave. Di fianco alla mensa gigantesca, c'era una paratia, con chiusura a combinazione, che si apriva su una grande sala oscurata. Era la prima zona che Samantha vedeva animata. Davanti alle console illuminate da lampadine, erano seduti uomini e donne che fissavano gli schermi allineati lungo le pareti.
«Al livello 2 si trovano le sale di comando e di manovra», spiegò Peak. «Prima era tutto nella struttura dell'isola, ma là si correvano dei rischi. I mirini dei sistemi missilistici nemici puntano su strutture più calde e più grandi delle navi. Una di esse è ovviamente l'isola. Con un paio di colpi sarebbe come se vi staccassero la testa dalle spalle, così abbiamo portato gran parte delle sale di comando sottocoperta.» «E che fate esattamente qui?» «Questa sala è il CIC...» «Ah, sì. Il Combat Information Center.» Per un attimo, nel magro viso d'ebano, gli occhi lampeggiarono. Samantha Crowe sorrise e decise di tenere la bocca chiusa. «Il CIC è il sistema nervoso centrale dei nostri sensori», disse Peak. «Tutti i dati arrivano in questa sala, quelli provenienti dalla nave e dai satelliti, ovviamente in tempo reale. Le difese della nave e quelle aeree, il rilevamento dei problemi, le comunicazioni... In caso di combattimento qui succede il pandemonio. Vede quei posti vuoti laggiù, dottoressa Crowe? Credo che ci passerà molto tempo.» «Mi chiami Samantha. O più semplicemente Sam.» «Da lì si vede e si ascolta sott'acqua», proseguì Peak, imperturbabile. «Sorveglianza dei sottomarini, rete di sonar SOSUS, Surtass LFA e molto altro. Rileviamo qualunque cosa si avvicini all'Independence.» Indicò un gigantesco monitor sotto il soffitto. Vi si poteva vedere un patchwork di diagrammi e di carte. «Il quadro completo. Raccoglie tutti i dati che arrivano alla nave e ne redige una panoramica. La stessa cosa, anche se rimpicciolita, la vede il comandante sul ponte.» Peak li condusse nella stanza attigua. Era quasi completamente in penombra, illuminata solo da grandi schermi, monitor e display. Al CIC era collegato l'LFOC, il Landing Force Operation Center. «Funziona come centrale d'intervento per le truppe di terra. Ogni unità di combattimento dispone di una propria console. In caso di emergenza, i rilevamenti satellitari e gli aerei spia mostrano la posizione del nemico.» Era impossibile non sentire l'orgoglio nella voce di Peak. «Dall'LFOC possiamo spostare fulmineamente le truppe e sviluppare strategie. Il computer centrale collega in ogni momento il comandante con le unità in loco.» Samantha vide su alcuni schermi il ponte di volo e, d'istinto, le venne da porre una domanda. E, benché sapesse che Peak avrebbe reagito aspramente, la fece comunque. «A che ci serve tutto questo, maggiore? Il nostro nemico è negli abissi marini.»
«Esatto.» Peak la guardò, irritato. «È appunto da qui che possiamo dirigere un'operazione sottomarina. Dov'è il problema?» «La prego di scusarmi. Sono stata troppo a lungo nello spazio.» Anawak sorrise. Finora aveva evitato ogni commento e si era limitato a seguirli. A Samantha piaceva averlo vicino. Peak mostrò loro altre sale di controllo. Adiacente al CIC si trovava il JIC, il Joint Intelligence Center. «Qui vengono decifrati e interpretati i dati di tutti i servizi d'informazione», commentò Peak. «All'Independence non si avvicina nulla che non sia esaminato con estrema attenzione e, se non piace ai ragazzi che sono qui, viene immediatamente colpito.» «Una grande responsabilità», mormorò Samantha. «Alcune cose vengono interpretate dal computer. Ma lei ha ragione.» Peak abbracciò la sala con un movimento della mano. «Il CIC e il JIC sono i settori scientifici. Tra l'altro, qui siamo costantemente aggiornati su ciò che avviene nel mondo. Abbiamo televisori sintonizzati sulla CNN, sull'NBC e su un'altra dozzina di reti. Lei avrà accesso a tutte le informazioni immaginabili e a tutte le banche dati della Defense Mapping Agency. Avrà il piacere di lavorare con la cartografia degli abissi marini elaborata dalla Marina, di gran lunga più dettagliata di quella che hanno a disposizione i ricercatori indipendenti.» Ripresero a scendere. Visitarono lo spaccio di bordo, le camerate vuote, le sale di ricreazione e il gigantesco settore sanitario al livello 3, un'area asettica e deserta con seicento letti, sei sale operatorie e un enorme reparto di terapia intensiva. Samantha immaginò come doveva essere quel luogo durante una guerra. Uomini insanguinati che gridavano, medici e infermieri che correvano da tutte le parti. L'Independence le sembrava quasi una nave fantasma... anzi una città fantasma. Risalirono al livello 2 e proseguirono verso poppa, finché non raggiunsero una rampa che sembrava fatta per le automobili. «Il tunnel conduce a zig-zag dal ventre della nave fino all'isola», disse Peak. «L'Independence è costruita in maniera tale che si possano raggiungere con la jeep i livelli strategici più importanti. Anche i marine marciano in coperta attraverso i tunnel. Adesso scendiamo.» I loro passi risuonavano tra le pareti d'acciaio. A Samantha, quel luogo fece venire in mente un parcheggio; poi il tunnel sfociò in un gigantesco hangar. Lei sapeva che occupava, in lunghezza, circa un terzo della nave e, in altezza, almeno due ponti. Era esposto alle correnti d'aria. Su due lati si aprivano imponenti portoni che conducevano alle piattaforme esterne. L'il-
luminazione, di un giallo pallido, si confondeva con la luce del giorno, creando un'atmosfera surreale. Tra i costoloni laterali si vedevano piccoli uffici e punti di controllo dietro pareti di vetro. Un sistema di trasposto a rotaia fornito di ganci si stendeva lungo il ponte, Samantha vide grandi muletti e, sullo sfondo, due fuoristrada Hummer. «Normalmente l'hangar è pieno di velivoli», disse Peak. «Ma, per questa missione, abbiamo sei elicotteri Super Stallion in coperta. In caso di emergenza, ognuno di essi può evacuare cinquanta persone. Abbiamo anche due elicotteri da combattimento Super Cobra per le missioni rapide.» Indicò le due aperture sui lati. «Le piattaforme esterne sono elevatori, con cui normalmente spostiamo i velivoli da qui al ponte di volo. Hanno una portata di oltre trenta tonnellate.» Samantha uscì dal portone dell'hangar e guardò il mare, grigio e gelido fino all'orizzonte. Era raro che gli iceberg arrivassero da quelle parti. La corrente della Groenlandia orientale scorreva lungo la costa, a oltre trecento chilometri di distanza. Lì si vedevano solo alcune lastre di ghiaccio melmoso alla deriva. Anawak le si avvicinò. «Uno dei molti mondi possibili, vero?» Samantha annuì. «Tra i suoi scenari per le civiltà extraterrestri c'è anche una variante sottomarina?» «Nel nostro repertorio abbiamo di tutto, Leon. Lei riderà, però, quando penso a forme di vita extraterrestri, guardo prima di tutto al nostro pianeta. Guardo agli abissi marini e al sottosuolo, ai poli e in aria. Finché non si conosce il proprio mondo, non ci si può fare un'idea degli altri.» «Credo che il nostro problema sia proprio questo», mormorò Anawak. Seguirono Peak che scendeva lungo la rampa che collegava i livelli. Il tunnel sbucava in un corridoio che conduceva a prua. Ormai si trovavano nel cuore dell'Independence. Su un lato c'era una paratia da cui usciva una fredda luce artificiale. Quando entrarono, Samantha riconobbe la biologa con cui nelle ultime settimane aveva parlato spesso per videotelefono. Sue si trovava accanto a uno dei numerosi tavoli, impegnata in una conversazione con due uomini che si presentarono come Sigur Johanson e Mick Rubin. Sembrava che l'intero ponte fosse stato trasformato in un laboratorio. Tavoli e strumenti erano raggruppati in isole. Vide lavandini, frigoriferi, due container collegati tra loro e cartelli che mettevano in guardia dal rischio biologico. Era un settore di massima sicurezza. In mezzo, c'era qual-
cosa delle dimensioni di una piccola casa circondata da una passerella. Si raggiungeva con scale d'acciaio. Grossi tubi e fasci di cavi collegavano le pareti della cisterna con apparecchiature grandi come armadi. Una grande finestra ovale permetteva di vedere l'interno illuminato con una luce diffusa. Sembrava pieno d'acqua. «Avete un acquario a bordo?» esclamò Samantha. «Che bello.» «È un simulatore di abissi marini», spiegò Sue. «L'originale si trova a Kiel ed è un po' più grande. In compenso, questo ha una finestra di vetro blindato. La pressione che c'è là dentro ucciderebbe una persona, ma è proprio quella che tiene in vita altri esseri. Attualmente, nella cisterna, ci sono circa duecento granchi bianchi catturati a Washington e messi subito in contenitori ad alta pressione. È la prima volta che riusciamo a mantenere in vita la gelatina. Perlomeno crediamo di esserci riusciti. Finora non si è fatta vedere, ma siamo sicuri che è dentro quei granchi e li guida.» «Affascinante», disse Samantha. «Ma il simulatore non è a bordo solo per i granchi, vero?» Johanson fece un sorriso misterioso. «Non si sa mai che cosa finisce nella rete.» «Quindi è una specie di campo per prigionieri di guerra.» «Un campo per prigionieri di guerra!» ripeté Rubin, ridacchiando. «Mica male come idea.» Samantha si guardò intorno. La zona era ermeticamente chiusa. «Questo non era un ponte per ospitare velivoli?» chiese. Peak sembrò stupito. «Be', sì. Se si attraversa quella paratia, si raggiunge la metà posteriore dell'Independence e l'hangar è proprio sopra di noi. Sbaglio o ha letto molto su questa nave?» «Sono curiosa», ammise Samantha con modestia. «Rimane solo da sperare che trasformi la sua curiosità in conoscenza.» «Che musone», sussurrò lei ad Anawak, mentre lasciavano il laboratorio e percorrevano il tunnel sullo stesso livello verso poppa. «Non proprio.» Anawak scosse la testa. «Il buon Sal è un tipo a posto. Più che altro guarda con sospetto ai civili che ne sanno più di lui.» Il tunnel sfociava in una zona ancora più alta e lunga dell'hangar. Raggiunsero una sponda artificiale che si affacciava su un bacino rivestito di legno e posto molto più in basso. Sembrava una gigantesca piscina vuota. Al centro era stata montata una copertura di vetro rettangolare, costituita da due paratie, l'una vicina all'altra. Su un lato si stendeva un'ampia vasca,
le cui ombre increspate rispecchiavano l'illuminazione circostante. Samantha vide corpi sottili dalla forma di siluro che si muovevano sotto la superficie. «Delfini», esclamò, sorpresa. Peak annuì. «La nostra squadra speciale.» Il suo sguardo si spostò verso l'alto. Anche su quel soffitto c'era un sistema di rotaie con molte ramificazioni. A esso erano appese strutture dal singolare aspetto di opere d'arte futurista, come se qualcuno avesse incrociato una gigantesca macchina sportiva con un batiscafo e un aereo. Ai due lati del bacino, la sponda proseguiva in passerelle a forma di molo. Lungo le pareti, erano accatastate le casse con le attrezzature. Tra le altre cose, negli armadietti aperti, Samantha vide sonde, strumenti di misurazione e mute. A intervalli regolare erano inoltre sistemate delle scalette, che conducevano sul fondo della vasca. Nella parte anteriore del bacino c'erano quattro zodiac. «Qualcuno ha tolto il tappo?» chiese. «Sì, ieri sera. In genere il tappo è là.» Peak indicò la copertura di vetro, lunga otto metri e larga dieci. «La chiusa, la nostra porta verso il mare. Ha un doppio sistema di sicurezza: una paratia di vetro, posta sul pavimento, e una massiccia paratia d'acciaio sulla parte esterna. In mezzo c'è un pozzo alto tre metri. Il sistema è semplicissimo. Quando un'imbarcazione entra nella chiusa, chiudiamo la copertura di vetro e apriamo la paratia di acciaio per farla uscire. Se vuole tornare all'interno della nave, procediamo nello stesso modo. L'imbarcazione entra nella chiusa, le paratie d'acciaio si chiudono e noi possiamo vedere attraverso la copertura di vetro se con lei è entrato qualcosa che non ci piace. Contemporaneamente, l'acqua viene sottoposta a un'analisi chimica. L'interno della chiusa è fornito di sensori, che rivelano la presenza di tossine o di agenti contaminanti. I risultati vengono riportati su due display, uno sul bordo della paratia e l'altro nella sala di controllo. L'imbarcazione rimane nella chiusa per circa un minuto. Se tutto è a posto, la copertura di vetro si apre e il batiscafo può rientrare. I delfini sono sottoposti alla stessa procedura. Venga.» Percorsero il molo di dritta. A metà lunghezza era situata una console, vicinissima al bordo e fornita di monitor e di diversi sistemi di comando. Un uomo ossuto, con lo sguardo penetrante e i baffi sporgenti, venne loro incontro, staccandosi da un gruppo di persone in divisa. «Il colonnello Luther Roscovitz», lo presentò Peak. «Direttore della stazione d'immersione.»
«Lei è Miss Alien, vero?» Roscovitz sorrise, svelando denti lunghi e gialli. «Benvenuta in crociera. Dove si è imboscata finora?» «La mia nave spaziale era in ritardo.» Samantha si guardò intorno. «Com'è chic questo quadro di comando.» «Risponde al suo scopo. Lo usiamo per comandare le paratie e per far salire e scendere i batiscafi. Inoltre da qui controlliamo anche le pompe per mantenere sott'acqua il ponte.» Samantha richiamò alla memoria quello che sapeva sull'Independence. Con un movimento del capo indicò la parete d'acciaio rivolta verso poppa, quella che chiudeva il ponte. «Quella è una paratia, vero?» «Esatto», rise Roscovitz sotto i baffi. «Possiamo alzare il portellone di poppa e far abbassare la nave riempiendo le diverse cisterne di zavorra. L'acqua del mare entra e così abbiamo un bel porto completo di accesso.» «Un posto di lavoro proprio carino. Mi piace.» «Non s'inganni. Normalmente qui è un via vai di navi da sbarco, rimorchiatori e hovercraft. In un attimo, questa zona così grande diventa un bugigattolo. Ma, per la nostra missione, abbiamo dovuto mettere tutto sottosopra. Non servono navi da sbarco. Abbiamo bisogno di una nave sufficientemente pesante per non essere affondata da qualche bestiaccia, che possa reggere le onde giganti, che disponga di tutto ciò che la moderna tecnologia delie comunicazioni possa offrire e che abbia spazio per i velivoli e per le basi d'immersione. È stata una vera fortuna che l'LHD-8 fosse in costruzione. La più grande e potente nave anfibia di tutti i tempi. Ormai era praticamente finita e abbiamo avuto la possibilità di apportare qualche modifica... non si poteva pretendere di più. Il cantiere navale sul Mississippi è molto avanzato. Gli ingegneri hanno concepito il ponte a pozzo in brevissimo tempo, poi hanno fatto costruire la chiusa e cambiato il sistema di pompaggio. Ora possiamo riempire il bacino senza aprire il portellone. Che comunque ci serve solo se vogliamo uscire con gli zodiac.» Samantha guardò il bacino. Accanto a esso c'erano due persone che indossavano una tuta di neoprene: una donna gracile coi capelli rossi e un gigante dalla chioma nera. Entrambi osservavano un animale che si avvicinava al bordo e sollevava la testa dall'acqua, emettendo suoni giocosi. Il gigante lo accarezzò sulla testa liscia e il delfino si gustò le coccole per qualche secondo, poi s'immerse. «E chi sono quelli?» chiese Samantha. «Si occupano della squadra dei delfini», intervenne Anawak. «Lei si chiama Alicia Delaware e lui è...» Esitò. «... Greywolf.»
«Greywolf?» «Sì. O anche Jack... Lo chiami come vuole. Risponde a entrambi i nomi.» «A cosa serve la squadra?» «Sono telecamere viventi. Quando sono fuori, registrano filmati su nastri magnetici. Ma il motivo principale è che i delfini dispongono di sensi più acuti dei nostri. Il loro sonar percepisce altre forme di vita molto prima che i nostri sistemi le registrino. Jack ha già lavorato con alcuni di quegli animali nell'ambito di un programma sui mammiferi marini. Dispongono di un ampio vocabolario, composto da diversi fischi. Uno per le orche, uno per le balene grigie, un altro per le megattere e così via. Sono in grado d'identificare ogni forma di vita che conoscono, inoltre classificano i banchi e, se trovano qualcosa che non conoscono, trasmettono l'informazione identificandola come forma di vita sconosciuta.» «Notevole.» Samantha sorrise. «E quel bell'uomo coi capelli lunghi capisce la lingua dei delfini?» Anawak annuì. «Meglio della nostra. A volte.» Si ritrovarono nella sala riunioni di fronte all'LFOC. Samantha conosceva già la maggior parte dei presenti, sia personalmente sia attraverso i contatti stabiliti grazie al videotelefono. Fu presentata a Murray Shankar - il direttore scientifico del SOSUS - a Karen Weaver, a Mick Rubin e anche al comandante dell'Independence, un uomo aitante coi capelli bianchi di nome Craig C. Buchanan, che sembrava incarnare lo stereotipo del militare. Conobbe anche Floyd Anderson, il primo ufficiale. Strinse una notevole quantità di mani e decise che Anderson, col suo collo taurino e coi suoi occhi neri, non le piaceva. Per ultimo salutò un uomo grasso arrivato con qualche minuto di ritardo. Indossava un berretto da baseball, una T-shirt giallo canarino con la scritta BACIAMI, SONO UN PRINCIPE e scarpe da ginnastica. Inoltre sudava profusamente. «Jack Vanderbilt», si presentò. «A dire la verità, la madre di E.T. me la immaginavo diversa.» «'Figlia' sarebbe stato un po' più elegante», ribatté Samantha, asciutta. «Non si aspetti complimenti da uno che ha il mio aspetto», disse Vanderbilt, ridacchiando. «Non è fantastico, dottoressa Crowe? Finalmente ha l'occasione di mettere da parte il suo vano tentativo di proiettare nello spazio speranze e timori.» Tutti sedettero. Judith Li prese la parola per riassumere gli ultimi avvenimenti, benché fossero già noti a tutti. Gli Stati Uniti avevano presentato
una proposta all'ONU e, nel corso di una riunione segreta, avevano ricevuto all'unanimità il mandato per svolgere il ruolo di guida logistica e tecnologica nella lotta contro l'entità sconosciuta. Nel frattempo, il Giappone e alcuni Stati europei erano arrivati alla stessa conclusione del team dello Château: non erano gli uomini a minacciare l'umanità, ma una forma di vita sconosciuta. Comunque sembravano tutti sollevati all'idea di non aver dovuto pregare gli Stati Uniti per mettersi alla guida delle operazioni. «Alcuni fatti inducono a pensare che siamo prossimi alla scoperta di un antidoto contro le tossine delle alghe killer, ma gli effetti collaterali non sono ancora ben definiti. Inoltre sono comparsi granchi che veicolano agenti patogeni mutati. Le infrastrutture degli Stati colpiti più duramente sono crollate. L'America si è accollata la responsabilità di dirigere le operazioni, ma dobbiamo ammettere che riusciamo appena a proteggere le nostre coste. I vermi si stanno raccogliendo sulla scarpata continentale e - ancor peggio - intorno a isole vulcaniche come La Palma, dove il dottor Frost e il dottor Bohrmann stanno cercando di ripulire le aree infestate con una specie di aspirapolvere abissale. E veniamo alle balene. Gli attacchi col sonar non ottengono risultati perché gli animali sono sopraffatti da un organismo estraneo. A ogni buon conto, fermare le balene non ci permetterebbe di bloccare il massimo incidente ipotizzabile provocato dal metano e tantomeno di rimettere in moto la Corrente del Golfo. La lotta contro i sintomi non risolve il problema, e finora non abbiamo potuto intervenire sulla causa, perché tutte le operazioni subacquee sono state sabotate. Non sappiamo cosa stia succedendo là sotto. I cavi sottomarini sono inutilizzabili. Il bilancio catastrofico di questa guerra è che siamo diventati sordi e ciechi. Diciamo pure tranquillamente che l'abbiamo persa.» Judith Li fece una pausa. «Chi dobbiamo attaccare? A che serve una battaglia se La Palma frana e una montagna d'acqua si abbatte sulle coste dell'America, dell'Africa e dell'Europa? In breve, non possiamo fare passi avanti finché non conosciamo meglio il nostro avversario, e noi non lo conosciamo affatto. Ecco perché il senso della nostra missione non è la lotta, ma la trattativa. Dobbiamo prendere contatto con questa forma di vita sconosciuta e convincerla a fermare le sue aggressioni terroristiche contro l'umanità. So per esperienza che si può trattare con ogni avversario. Molti elementi ci portano a pensare che il nostro nemico sia proprio qui, nel mar di Groenlandia.» Sorrise. «Speriamo in una soluzione pacifica. E adesso passo la parola alla dottoressa Samantha Crowe, ultima arrivata all'interno del nostro gruppo, alla quale porgo anche il mio benvenuto.»
Samantha appoggiò i gomiti sul tavolo dei relatori e disse: «Grazie». Poi gettò un rapido sguardo a Vanderbilt. «Come forse sapete, fino a oggi il SETI non è stato un gran successo. Di fronte a un'estensione spaziale di oltre dieci miliardi di anni luce - queste sono le dimensioni che presumiamo abbia l'universo osservabile -, non è difficile capire quanto siano basse le possibilità di trasmettere per caso nella giusta direzione e raggiungere qualcuno che sia in ascolto in quel momento. In questo senso, qui è molto meglio. In primo luogo, alcuni indizi indicano la presenza di entità 'altre'. In secondo luogo, abbiamo un'idea approssimativa di dove vivono tali entità, cioè da qualche parte nell'oceano e verosimilmente proprio sotto di noi. Ma se pure vivessero al Polo Sud, riusciremmo comunque a circoscrivere la zona. Essi non possono lasciare il mare e un forte impulso acustico emesso nell'Artico si sentirebbe anche oltre l'Africa. Ci sono segnali incoraggianti. A questo punto, però, devo sottolineare una cosa importante e cioè che il contatto è già stato stabilito. Sono decenni che noi mandiamo messaggi nel loro mondo. Sfortunatamente si trattava di messaggi distruttivi, quindi essi non hanno risposto mandando un ambasciatore, ma attaccandoci, punto e basta. È una cosa assai sgradevole, certo, ma io vi chiedo di liberarvi dei sentimenti negativi e di guardare a quelle aggressioni come a una possibilità.» «Una possibilità?» le fece eco Peak. «Dobbiamo prenderli per quello che sono, come il messaggio di una forma di vita sconosciuta, da cui possiamo trarre conclusioni sul suo modo di pensare.» Appoggiò la mano su una pila di fogli. «Ho tracciato uno schema di come dovremmo procedere. Ma devo smorzare le vostre speranze di un rapido successo. Ciascuno di voi, nelle settimane passate, si sarà scervellato sulla questione di chi sia stato a mandarci queste... sette piaghe. Tutti voi conoscete i film sull'argomento: Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.T., Alien, Independence Day, The Abyss, Contact e così via. In quei film abbiamo a che fare o con mostri o con benefattori. Pensate alla sequenza finale di Incontri ravvicinati: molti personaggi sono lieti del fatto che superiori creature celesti siano arrivate sulla Terra per condurci verso un futuro radioso. Non che questa sia una novità... Un'interpretazione religiosa della vicenda non sarebbe neppure troppo azzardata. Anche il SETI ha questo atteggiamento. Ed esso ci rende ciechi di fronte alle semplici differenze delle intelligenze aliene.» Samantha fece una pausa, lasciando che quel suo discorso sortisse l'effetto sperato. Aveva riflettuto a lungo su come affrontare la questione,
concludendo che l'intero progetto sarebbe fallito sul nascere se lei non fosse riuscita a cancellare una lunga serie di preconcetti idioti dalla testa dei membri della spedizione. «Voglio dire che impegnarsi seriamente con culture diverse dalla nostra non c'entra nulla con la fantascienza. Gli extraterrestri vengono sempre presentati come l'espressione grottesca e amplificata delle paure e delle speranze umane. Gli alieni di Incontri ravvicinati simboleggiano la nostra nostalgia del paradiso perduto. In fondo sono angeli e si comportano di conseguenza. Alcuni eletti vedono la luce. La cultura di questi extraterrestri non interessa, sono semplicemente funzionali a una rappresentazione religiosa. Sono intimamente e profondamente umani perché sono creati dagli uomini. Pensate al momento del loro arrivo: una luce bianca e splendente, un'apparizione eterea... Proprio quello che vorremmo accadesse. Hanno poco di extraterrestre anche gli alieni di Independence Day. Sono malvagi perché corrispondono alla nostra idea di malvagità. Anch'essi non hanno una reale alterità. Il bene e il male sono valori postulati dagli uomini e difficilmente la fiction può permettersi di non tenerne conto. Abbiamo difficoltà a credere che i nostri valori non siano anche i valori degli altri e che la loro idea del bene e del male potrebbe non corrispondere alla nostra. Per comprendere queste cose non è necessario stare ad ascoltare lo spazio. Ogni nazione, ogni cultura ha i propri alieni davanti alla porta di casa, ma sempre al di là di una barriera. Finché non avremo interiorizzato questi concetti, non potremo instaurare una comunicazione con un'intelligenza aliena. Perché, con ogni probabilità, non ci sarà una base comune di valori, non ci saranno un bene e un male universali e, verosimilmente, non ci saranno neppure apparati sensoriali compatibili attraverso i quali comunicare.» Samantha passò una pila di fogli a Johanson, che era seduto di fianco a lei, e lo pregò di distribuirli. «Se vogliamo arrivare a una vera comunicazione con gli extraterrestri, forse bisogna immaginare uno Stato di formiche. Anzitutto le formiche sono assai organizzate, non veramente intelligenti. Ma supponiamo che lo siano. Ci troveremmo di fronte al compito di comunicare con un'intelligenza collettiva che mangia i propri simili, malati e feriti, senza trovare questo fatto moralmente riprovevole, che s'impegna in guerre senza comprendere la nostra idea di pace, che vede la riproduzione individuale come qualcosa di assolutamente inaudito e che tratta come un sacramento lo scambio e il consumo di escrementi. In breve, un'intelligenza che sotto ogni punto di vista funziona in modo del tutto diverso dal nostro, ma che
funziona! E ora facciamo un altro passo avanti: immaginate che non riconosciamo come tale un'intelligenza aliena! Leon, per esempio, vorrebbe sapere se i delfini sono intelligenti, così li sottopone a test alquanto dispendiosi. Ma riesce a ottenere la certezza della loro intelligenza? E non dimentichiamo che c'è anche l'altro lato della questione: come ci vedono loro? Gli yrr ci combattono, ma ci considerano intelligenti? Spero di essermi espressa con chiarezza. Per quello che ci riguarda, un avvicinamento agli yrr non sarà possibile finché continueremo a considerare la nostra scala di valori come l'ombelico del mondo e dell'universo. Dobbiamo ridurci a quello che de facto siamo: una delle innumerevoli forme di vita possibili, senza nessuna particolare pretesa nei confronti del tutto.» Samantha si accorse che Judith Li stava scrutando Johanson con un'intensità inaudita, neanche volesse entrargli nella testa. Su quella nave, la rete di relazioni era davvero interessante. Poi colse uno scambio di occhiate tra Jack O'Bannon e Alicia Delaware e immediatamente capì che tra loro c'era qualcosa. «Scusi, dottoressa Crowe...» disse Vanderbilt, sfogliando la sua copia della relazione. «Secondo lei, che cos'è l'intelligenza?» Il tono faceva presumere che quella domanda fosse una trappola. «Un caso fortuito», rispose Samantha. «Un caso fortuito? Lo crede davvero?» «È il risultato di molte circostanze in accordo tra loro. Quante definizioni vuole sentire? Alcuni ritengono che l'intelligenza sia ciò che viene stimato come fondamentale in una cultura. Ed è proprio lì che casca l'asino. Ci sono almeno tante definizioni quante sono le culture e i modi di pensare. Alcuni studiano i processi che stanno a fondamento delle capacità spirituali, altri cercano di misurare statisticamente l'intelligenza. Poi c'è un'altra questione: è innata o acquisita? All'inizio del XX secolo, si era dell'opinione che l'intelligenza si rispecchiasse nelle forme e nei modi con cui si gestiva una specifica situazione. Oggi alcuni riprendono quell'idea e definiscono l'intelligenza come la capacità di adattarsi alle esigenze di un ambiente mutevole. Quindi essa non sarebbe congenita, bensì acquisita. Molti altri, invece, ritengono che l'intelligenza sia strettamente ancorata all'essere umano, una capacità innata che permette al nostro pensiero di archiviare situazioni sempre nuove. Secondo questi ultimi, l'intelligenza è la capacità d'imparare dall'esperienza e quindi di adattarsi alle esigenze dell'ambiente. E poi c'è quella bellissima definizione secondo cui l'intelligenza è la capacità di chiedersi che cosa sia l'intelligenza.»
Vanderbilt annuì lentamente. «Capisco. Ciò significa che non lo sa.» Samantha sorrise. «Mister Vanderbilt, mi permetta di fare un'osservazione prendendo spunto dalla sua T-shirt. Basandosi esclusivamente sull'aspetto esteriore, sarebbe difficile riconoscere come tale un essere intelligente.» Ci fu un'esplosione di risate che si affievolì subito. Vanderbilt la fissò, poi sorrise e mormorò: «Se qualcuno ha ragione, si può soltanto ammetterlo». Una volta rotto il ghiaccio, le cose proseguirono in fretta. Samantha delineò i passi successivi. Aveva posto le basi del piano nelle settimane precedenti, con l'aiuto di Murray Shankar, Judith Li, Leon Anawak e di alcuni scienziati della NASA. Il progetto si fondava sui pochi tentativi che erano stati condotti fino a quel momento per prendere contatto con forme di vita extraterrestri. «Lo spazio rende le cose più facili», spiegò Samantha. «Nel campo delle microonde si possono mandare quantità enormi di dati in un punto preciso. La luce è ben visibile e viaggia a trecentomila chilometri al secondo. Non ha bisogno di fili e cavi. Sott'acqua è tutto diverso, perché l'energia dei segnali a onde corte viene assorbita dalle molecole e i segnali a onde lunghe necessitano di antenne gigantesche. È vero che la comunicazione per mezzo della luce funziona, ma non sulle lunghe distanze. Rimane l'acustica. Ma in questo campo sorge il problema che chiamiamo 'effetto risonanza'. I segnali acustici si riflettono in tutti i luoghi possibili, generando interferenze. Il messaggio interferirebbe con se stesso e diventerebbe incomprensibile. Per attenuare tale effetto ci serviremo di un modem speciale.» «È una cosa che abbiamo rilevato nei mammiferi marini», intervenne Anawak. «Un sistema che i delfini utilizzano per eliminare quasi completamente risonanze e interferenze: cantano.» «Credevo lo facessero solo le balene», disse Peak. «Che le balene cantino è un'interpretazione umana», ribatté Anawak. «Probabilmente non hanno la minima idea di cosa sia la musica. Sam intende un'altra cosa. In questo caso, cantare significa che gli animali modulano costantemente la loro frequenza e lo spettro acustico, così non solo evitano le interferenze, ma aumentano anche il potenziale di trasmissione delle informazioni digitalizzate sott'acqua. Quindi noi useremo un modem che, appunto, canta. Al momento, riusciamo a raggiungere la velocità di 30 Kbps con una portata di tre chilometri, che corrisponde a circa metà della
velocità di una linea ISDN. È sufficiente a trasferire immagini di alta qualità.» «E cosa gli raccontiamo?» chiese Peak. «Le leggi della fisica e il codice cosmico sono espressi in forma matematica», rispose Samantha. «L'ordine cosmico ha permesso l'evoluzione della conoscenza ed essa a sua volta ha permesso di creare la matematica per poter spiegare in maniera sintetica e creativa la sua stessa origine. La matematica è l'unica lingua universale che ogni essere intelligente possa comprendere, perché esiste all'interno delle condizioni generali di validità della fisica, e noi la utilizzeremo.» «E cosa vorrebbe fare? Assegnare verifiche di matematica?» «No. Confezioneremo i pensieri in formule matematiche. Nel 1974, abbiamo sviluppato un segnale radio terrestre ad alta energia e l'abbiamo mandato verso un gruppo di stelle della costellazione di Ercole. Dovevamo trovare un sistema per cifrare il messaggio in modo che potesse essere compreso anche su un pianeta sconosciuto, e forse siamo stati un po' troppo zelanti... Infatti bisogna essere molto sviluppati per decifrare quel codice. Però con metodi matematici funziona. In tutto abbiamo mandato 1679 segni col sistema binario, quindi punto e linea, come il Morse. E qui la cosa si fa complessa. Un matematico è in grado d'interpretare il numero 1679 perché può essere immaginato come il prodotto di 23 e 73, tutti e due numeri primi, cioè numeri che possono essere divisi solo per uno o per se stessi. Già questo è sufficiente perché chi riceve il segnale possa comprendere le basi del sistema numerico umano. La disposizione dei 1679 segni avviene in 73 colonne di 23 segni. Come vedete, con un po' di matematica si possono sistemare parecchie cose, e se si trasformano i punti e le linee in bianco e nero - miracolo! - si ottiene un disegno.» Sollevò un foglio. Sembrava una stampata da computer. Alcuni elementi parevano astratti, in altri si riconoscevano chiaramente delle forme.
«Le file superiori danno informazioni sui numeri da 1 a 10 e quindi anche sul nostro sistema di calcolo. Appena sotto, ci sono i numeri atomici degli elementi chimici: idrogeno, carbonio, azoto, ossigeno e fosforo. Sono d'importanza fondamentale per il nostro pianeta e per la vita terrestre. Poi si procede con una corposa suddivisione della biochimica terrestre, formule degli zuccheri e delle basi, struttura a doppia elica e così via. Questo disegno mostra un uomo collegato direttamente con la struttura del DNA, che fornisce informazioni sullo sviluppo della vita sulla Terra. Un extraterrestre non conosce le unità di misura terrestri, così abbiamo impresso la statura media di un uomo sulla lunghezza d'onda dei segnali radio. Poi segue una rappresentazione del sistema solare e infine abbiamo schizzato l'aspetto, il modo di lavorare e le dimensioni del telescopio di Arecibo da cui veniva trasmesso il messaggio.» «Proprio un bell'invito a precipitarsi qui e mangiarci tutti», notò Vanderbilt. «Sì, è quello che ci ha sempre ripetuto la sua agenzia. E ogni volta abbiamo risposto che non c'è bisogno di quell'invito. Da decenni vengono emesse nell'universo onde radio, tutto il nostro traffico radio, compreso quello dei servizi segreti. Non è necessario decifrare quelle onde per capire che possono provenire solo da una civiltà che ha fatto progressi in campo tecnologico.» Samantha posò il foglio. «Il messaggio di Arecibo sarà in viaggio per ventiseimila anni, quindi riceveremo una risposta al più presto tra cinquantaduemila anni. Posso rassicurarvi rhe stavolta avverrà tutto più in fretta. Procederemo in diverse fasi. Il nostro primo messaggio sarà costi-
tuito in effetti da due 'verifiche' matematiche. Se quelli là sotto hanno uno spirito sportivo, risponderanno. Questa prima comunicazione ha lo scopo di dimostrare l'esistenza degli yrr e se ci sono le condizioni per instaurare un dialogo.» «Perché dovrebbero rispondere?» chiese Greywolf. «Loro sanno già tutto di noi.» «Forse sanno alcune cose, ma non necessariamente la cosa più importante, cioè che siamo intelligenti.» «Come?» Vanderbilt scosse la testa. «Quelli distruggono le nostre navi! Quindi sanno che le sappiamo costruire. Come potrebbero dubitare della nostra intelligenza?» «Il fatto che siamo in grado di realizzare costruzioni non è una prova d'intelligenza. Provi a guardare le colline fatte dalle termiti: sono capolavori architettonici.» «È una cosa diversa.» «Scenda dal suo destriero alato. Se è vero, come dice il dottor Johanson, che la cultura degli yrr è basata esclusivamente sulla biologia, allora dubito che ci considerino capaci di un pensiero mirato e strutturato.» «Sta dicendo che ci considerano...» Vanderbilt fece una smorfia, disgustato. «... animali?» «Forse parassiti.» «Un'infestazione di funghi», sogghignò Alicia Delaware. «Forse abbiamo a che fare con un gruppo di disinfestatori.» «Mi sono sforzata d'indagare le loro strutture di pensiero, così da avere qualche idea sul loro modo di vivere», riprese Samantha. «Lo so che è tutto spaventosamente aleatorio, però dobbiamo dare un obiettivo preciso al nostro tentativo di prendere contatto. Ho riflettuto sul fatto che gli attacchi non sono stati preceduti da nessun approccio diplomatico. Forse ciò significa che gli yrr non attribuiscono nessun valore alla diplomazia. Oppure che non sono stati nemmeno sfiorati dall'idea di farvi ricorso. Ebbene, neanche un esercito di formiche legionarie penserebbe di mandare un ambasciatore dalla preda e di attaccarla soltanto dopo quella 'visita'. Ma le formiche seguono l'istinto che hanno sviluppato. Gli yrr, invece, procedono come se avessero un piano, sembrano caratterizzati da capacità cognitive. Sviluppano strategie creative. Quindi, posto che siano intelligenti e consapevoli della loro intelligenza, non direi che si muovono sulla base di una morale e di un'etica corrente, almeno non sulla base del nostro concetto di bene e di male. Forse, per loro, combattere la nostra specie con tutte le for-
ze disponibili è semplicemente una conseguenza logica. E, se non diamo loro un motivo per tornare indietro, non lo faranno.» «Che bisogno c'è di mandare un messaggio, visto che distruggono i nostri cavi sottomarini?» chiese Rubin. «Da lì, quelle bestie potrebbero succhiare tutte le informazioni.» «Sta facendo un po' di confusione», sorrise Shankar. «Il messaggio di Arecibo è comprensibile agli extraterrestri perché è costruito in maniera tale che una mente aliena lo possa decifrare. Uno sforzo che non facciamo nel nostro quotidiano scambio di dati, il quale di certo appare come un caos mostruoso a un'intelligenza diversa dalla nostra.» «Vero», annuì Johanson. «Ma spingiamoci oltre. Pensavo alla biotecnologia, e Sam ha afferrato subito l'idea. Perché? È lampante. Niente macchine, niente tecnica. E, al loro posto, genetica pura. Organismi come armi, mutazioni mirate. Gli yrr devono essere legati alla natura in maniera completamente diversa da come lo siamo noi. È probabilissimo che essi abbiano molta più confidenza col loro ambiente naturale di quanta ne abbiamo noi.» «Sarebbero dunque dei nobili selvaggi?» chiese Peak. «Nobili non direi. Voglio dire, è riprovevole inquinare l'aria con gli scarichi delle macchine, ma credo sia altrettanto riprovevole allevare animali per modificarli geneticamente, proprio come avviene con quella robaccia. In questo modo di agire riesco a vedere solo una cosa: la denuncia della nostra minaccia nei confronti del loro ambiente vitale. Noi ci preoccupiamo per il diboscamento della foresta tropicale. Alcuni sono contrari e altri agiscono lo stesso. Se mi passate la metafora, forse loro sono la foresta tropicale. È evidente da come sanno maneggiare la biologia. A questo proposito, va notato che, escluse le balene, in quasi tutti i casi si servono di forme di vita che compaiono in massa. Vermi, meduse, mitili, granchi... tutti animali che vivono in gruppo. Ne sacrificano a milioni per raggiungere il loro scopo. Il singolo non conta. Gli uomini la penserebbero così? Noi coltiviamo virus e batteri, ma usiamo le armi artificiali in modo limitato. Le armi biologiche di distruzione di massa non sono una cosa che ci appartiene completamente. Invece sembra che gli yrr le trattino con molta confidenza. Perché? Forse perché anche loro vivono in banco?» «Lei crede...» «Penso che abbiamo a che fare con un'intelligenza collettiva.» «E cosa sente un'intelligenza collettiva?» chiese Peak. «Un pesce finito nella rete, se fosse capace di simili riflessioni, si chie-
derebbe che cosa sente un pescatore», intervenne Anawak. «Perché lui e milioni di altri come lui devono soffocare? Non è un assassinio di massa?» «No», disse Jack Vanderbilt. «Sono bastoncini di pesce.» Samantha sollevò le mani. «Sono d'accordo col dottor Johanson. E la conseguenza estrema è che gli yrr hanno preso una decisione collettiva, in cui non si pongono questioni di responsabilità morale e compassione. Non possiamo presentarci da loro con l'aria innocente, come accade nei film. Possiamo tentare solo una cosa: risvegliare il loro interesse in modo da portarli a ritenere che è meglio comunicare con noi piuttosto che ucciderci. Senza conoscenze fisiche e matematiche, gli yrr non avrebbero potuto fare quello che hanno fatto, quindi sfidiamoli a un duello matematico, finché la logica o la morale che li guida li porterà a ripensare le loro azioni.» «Per loro deve essere evidente che siamo intelligenti», insistette Rubin. «Chi meglio di noi padroneggia le conoscenze di matematica e fisica?» «Già, ma siamo un'intelligenza consapevole?» chiese Samantha. Rubin la guardò, confuso. «Che intende?» «Siamo consapevoli della nostra intelligenza?» «Ma certo!» «Oppure siamo un computer in grado di apprendere? Noi conosciamo la risposta, ma la conoscono anche gli altri? Teoricamente si potrebbe sostituire il cervello con un corrispettivo elettronico, ottenendo un'intelligenza artificiale. Sarebbe in grado di fare tutto quello che sa fare l'uomo. Potrebbe costruire una navicella spaziale e raggiungere la velocità della luce. Ma questo cervello-computer sarebbe consapevole delle proprie capacità? Nel 1997, Deep Blue, un computer dell'IBM, ha sfidato il campione mondiale di scacchi Garry Kasparov. Definirebbe Deep Blue consapevole? Il computer ha vinto senza averne la consapevolezza? Si deve quindi presumere che noi siamo forme di vita consapevoli della propria intelligenza soltanto perché costruiamo città e posiamo cavi sottomarini? Noi del SETI non abbiamo escluso la possibilità di trovare una civiltà di macchine sopravvissute ai propri costruttori e sviluppatesi autonomamente per milioni di anni.» «E quelli laggiù? Insomma, se è vero quello che dice, forse gli yrr sono soltanto formiche con le pinne. Senza valori, senza...» «Giusto. È proprio questo il motivo per cui dobbiamo procedere per gradi», disse Samantha, sorridendo. «Come prima cosa, voglio sapere se là c'è qualcuno. Secondo, se è possibile instaurare un dialogo con loro. Terzo, se gli yrr sono consapevoli del dialogo e di loro stessi. E se arriverò alla conclusione che, accanto al loro sapere e alle loro capacità, gli yrr hanno an-
che facoltà d'immaginazione e di comprensione, allora sarò disposta a vederli come esseri intelligenti. Soltanto dopo questi passaggi avrà senso riflettere sui valori... e comunque nessuno si deve aspettare che coincidano coi nostri.» Per un po' regnò il silenzio. «Non voglio immischiarmi nelle vostre discussioni scientifiche», disse Judith Li. «L'intelligenza pura è una cosa fredda. L'intelligenza accoppiata con la consapevolezza è un'altra cosa. Dal mio punto di vista, in questo caso ci devono essere dei valori. Se gli yrr sono intelligenze consapevoli devono riconoscere almeno un valore, quello della vita. E fanno tutto questo perché cercano di proteggersi. Quindi hanno dei valori. La questione allora è se, da qualche parte, esista un'intersezione coi valori umani, anche se molto piccola.» Samantha annuì. «Già», disse. «Anche se molto piccola.» Nel tardo pomeriggio, mandarono i primi impulsi negli abissi. Scelsero un campo di frequenza, stabilito da Shankar, nello spettro dei rumori non identificati che gli uomini del SOSUS avevano battezzato scratch. Il modem modulò le frequenze. Il segnale rimbalzò in diversi punti e si produssero le attese interferenze. Samantha e Shankar erano nel CIC e modularono a loro volta le frequenze sinché non furono soddisfatti. Dopo un'ora, Samantha era sicura che il messaggio fosse perfettamente comprensibile per chiunque sapesse elaborare le onde sonore. Ma la possibilità che gli yrr ne comprendessero il senso... Be', quella era tutta un'altra storia. Quanto a ritenere che fosse necessario rispondere, poi... Nella penombra del CIC, Samantha era seduta sul bordo della sedia e provava una strana euforia al pensiero di quanto fosse vicina al contatto cui aveva aspirato per decenni. Nel contempo nutriva forti timori. Sentiva pesare su di sé e sui membri della spedizione una responsabilità schiacciante. Quella non era un'avventura come Arecibo e il SETI. Era il tentativo di fermare una catastrofe e salvare l'umanità. Il sogno accademico era diventato un incubo. Amici Anawak salì le scale dall'interno della nave verso l'isola, attraversò gli stretti corridoi e uscì sul ponte di volo. Nel corso del viaggio, il ponte si era trasformato in una sorta di zona di
passeggio. Chi riusciva a trovare il tempo per sgranchirsi le gambe, bighellonava da quelle parti, rimuginando o parlando con gli altri. Così, paradossalmente, proprio la pista di atterraggio e decollo della più grande portaerei del mondo si era trasformata in un luogo tranquillo per riflettere e scambiarsi idee. I sei Super Stallion e i due elicotteri da combattimento Super Cobra apparivano come sperduti in quell'immensità asfaltata. Anche a bordo dell'Independence, Greywolf proseguiva la sua esistenza appartata, benché Alicia vi giocasse un ruolo sempre più importante. I due formavano una coppia davvero singolare. Dimostrando una notevole intelligenza, lei lo lasciava tranquillo, così era sempre lui a cercare la sua compagnia. Agli altri si erano presentati come amici, ma ad Anawak non sfuggiva l'intensità del loro rapporto. I segnali erano evidenti. Alicia ormai lo assisteva sempre più raramente e si occupava dei delfini con Greywolf. Anawak trovò Greywolf a prua, seduto a gambe incrociate e con lo sguardo rivolto verso il mare. Gli si sedette vicino e vide che stava intagliando qualcosa. «Che cos'è?» chiese. Greywolf glielo passò. Era un pezzo di legno di cedro di notevoli dimensioni, con una sorta d'impugnatura a un'estremità. Nella zona centrale c'erano alcune figure intrecciate: un uccello e un uomo in balia di due animali dotati di fauci enormi. Era quasi finito. «Bello», disse Anawak, accarezzando la scultura. «È una copia.» Greywolf sogghignò. «Faccio solo copie. Per gli originali non ho il sangue.» «Il sangue puro degli indiani.» Anawak sorrise. «Ho già capito.» «Come al solito non capisci.» «Va bene. Cosa rappresenta?» «Quello che vedi.» «Non essere così maledettamente altezzoso. Spiegamelo oppure lascia perdere.» «È una mazza da cerimonia dei tla-o-qui-aht. L'originale è in una collezione privata: è fatto di osso di balena e risale alla fine dell'Ottocento. Come vedi, è una storia dell'epoca degli antenati. Un giorno, un uomo trovò una gabbia misteriosa che rinchiudeva tutte le creature possibili e la portò nel suo villaggio. Poco dopo, gli venne una febbre altissima, da cui nessuno riusciva a guarirlo. Non si sapeva cosa avesse fatto ammalare l'uomo, ma lo scoprì lui stesso in sogno: vide che la colpa era delle creature nella gabbia. Nel sogno, esse lo afferravano, perché non erano semplici animali, ma esseri metamorfici.» Greywolf indicò una delle figure intagliate, che
era per metà un mammifero terrestre e per metà un cetaceo. «Qui vedi un lupo-orca. Nel sogno, il lupo-orca attaccò l'uomo e lo prese per la testa. Poi arrivò un uccello del tuono e cercò di salvare l'uomo. Osserva come affonda le unghie nei fianchi del lupo-orca... Però, mentre combattevano, comparve un orso-orca, che riuscì ad afferrare i piedi del malato. L'uomo si svegliò e, dopo aver raccontato il sogno al figlio, morì. Il figlio allora intagliò una mazza come questa e con essa uccise seimila esseri metamorfici per vendicare la morte del padre.» «E qual è il significato profondo?» «Tutto deve avere un senso profondo?» «In questo caso ce deve essere uno. È la lotta eterna tra le forze del bene e del male, vero?» «No.» Greywolf si scostò i capelli dalla fronte. «La storia racconta della vita e della morte. Tutto lì. Alla fine muori, questo è certo, e fino ad allora è tutto alti e bassi. Tu stesso sei impotente. Puoi vivere bene o male la tua vita, ma quello che ti succede è determinato da forze superiori. Se vivi in armonia con la natura, essa ti salverà, se ti metti contro di essa, ti distruggerà. Ma la cosa più importante è che non sei tu a dominare la natura, bensì lei a dominare te.» «Sembra che il figlio di quell'uomo non abbia condiviso questa consapevolezza», commentò Anawak. «Perché ha voluto vendicare la morte del padre?» «La storia non dice che si sia comportato nel modo giusto.» Anawak restituì a Greywolf la mazza da cerimonia, frugò nella sua giacca a vento e tirò fuori la scultura dello spirito uccello. «Mi sai dire qualcosa di questa?» Greywolf osservò il pezzo, lo prese e lo rigirò. «Questo non viene dalla costa occidentale», disse. «No.» «È marmo... Viene da qualche altra parte. Dalla tua terra?» «Da Cape Dorset.» Anawak esitò. «L'ho ricevuto da uno sciamano.» «Tu accetti un regalo da uno sciamano?» «È mio zio.» «E cosa ti ha detto?» «Ben poco. Sostiene che lo spirito uccello dovrebbe portare i miei pensieri nella giusta direzione, quando sarà il momento. E ha aggiunto che probabilmente avrò bisogno di un intermediario.» Greywolf rimase per un po' in silenzio. «Ci sono spiriti uccello in tutte le
culture», disse poi. «L'uccello del tuono è presente in un antico mito indiano e ha molte sfaccettature. Fa parte della creazione, è uno spirito della natura, un essere superiore, ma stabilisce anche l'identità di un clan. Conosco una famiglia il cui nome deriva dall'uccello del tuono perché i suoi antenati lo hanno visto sulla cima di una montagna nei pressi di Ucluelet. Ma ci sono anche altri significati per lo spirito uccello.» «Appare sempre in collegamento con la testa, vero?» «Sì. Non è sorprendente? Nelle antiche rappresentazioni egizie si trova spesso l'immagine di un ornamento del capo a forma di uccello. Là, lo spirito uccello rappresenta la coscienza. È imprigionato nel cranio come in una gabbia. Non appena il cranio si apre - in senso metaforico - esso può uscire, ma c'è anche la possibilità di riportarlo dentro. In quel caso, si torna a possedere la propria coscienza o ci si sveglia.» «Ciò vuol dire che, mentre dormo, la mia coscienza va a fare un giro.» «Tu sogni, ma i tuoi sogni non sono fantasie. Ti mostrano quello che la tua coscienza vede nei mondi superiori che normalmente restano nascosti. Non hai mai visto la corona di penne di un capo tribù cherokee?» «Solo nei film western, per essere sincero.» «Non fa niente. Con la corona di penne, lui dimostra che il suo spirito invisibile crea forme nella sua testa, una penna dopo l'altra. Per dirlo più semplicemente, nella sua testa c'è tutta una serie di buone idee e per questo lui è il capo tribù.» «I pensieri ispirati...» «Sì, attraverso le penne. In altre tribù è sufficiente una penna sola, ma ha lo stesso significato. Lo spirito uccello rappresenta la coscienza. Ecco perché gli indiani non possono assolutamente perdere lo scalpo o le penne. Nel contempo perderebbero la coscienza e, nel peggiore dei casi, per sempre.» Greywolf aggrottò la fronte. «Se uno sciamano ti ha dato questa scultura, allora ha richiamato la tua attenzione sulla tua coscienza, sulla forza delle tue idee. Devi usarle, ma, per farlo, hai bisogno di aprire il tuo spirito, che deve andare in giro per il mondo, cioè fondersi con l'inconscio.» «Perché tu non hai delle penne tra i capelli?» Greywolf fece una smorfia. «Come tu hai acutamente notato, io non sono un vero indiano.» Anawak rimase in silenzio. «Nel Nunavut ho fatto un sogno», disse dopo un po'. Greywolf rimase in silenzio. «Diciamo che il mio spirito è andato in giro per il mondo. Sprofondavo
nel mare nero attraverso il ghiaccio. Poi il mare si è trasformato nel cielo e io risalivo un iceberg finché non ho visto che galleggiava sul mare. Ovunque non c'era altro che acqua. L'iceberg galleggiava su quel mare e io pensavo che si sarebbe sciolto. Strano, però non avevo paura, ero solo curioso. Sapevo che sarei sprofondato quando sarebbe stato il momento, tuttavia non avevo paura di annegare. Avevo l'impressione che mi sarei immerso in qualcosa di nuovo, di sconosciuto.» «Che ti aspettavi di trovare?» Anawak rifletté. «La vita», rispose infine. «Quale vita?» «Non lo so. Semplicemente la vita.» Greywolf guardò la piccola scultura di marmo verde dello spirito uccello. «Dimmi la verità, perché a bordo ci siamo anche Licia e io?» Anawak guardò il mare. «Perché c'è bisogno di voi.» «Non è vero, Leon. Forse c'è bisogno di me perché so cavarmela bene coi delfini, ma avreste potuto assumere qualcun altro, ugualmente qualificato. E Licia non ha nessuna funzione.» «È una magnifica assistente.» «L'hai richiesta tu? Ti serve?» «No.» Anawak sospirò. Chinò all'indietro la testa e guardò il cielo. Se lo si fissava per un po', immaginando che tutto era al contrario - che in realtà si era in alto e che le nuvole formavano un paesaggio posto molto in basso, e che non si guardavano montagne di vapore, bensì colline, valli, fiumi e laghi - allora a un certo punto ci si credeva. Ci si credeva a tal punto che ci si doveva tenere ben saldi per non cadere nella profondità che si apriva in alto. «No, voi siete a bordo perché l'ho voluto io.» «E il motivo sarebbe...» «Che siete miei amici.» Per un po' rimasero in silenzio. Anawak riusciva a individuare sempre maggiori dettagli nelle nuvole. Dettagli di un mondo che si trovava a molti, molti chilometri di distanza. Infinitamente più lontano del mondo degli yrr. «Credo proprio di sì», ammise Greywolf. Anawak sorrise. «Sai, ho sempre avuto un buon rapporto con la gente, ma non ricordo di aver mai avuto degli amici. Dei veri amici. E non avrei mai neppure pensato di chiamare 'amica' una piccola, irritante, saccente dottoranda. O un pazzo alto come un albero con cui ho quasi fatto a botte.» «La piccola dottoranda ha fatto quello che fanno gli amici.»
«Sarebbe?» «Si è interessata della tua stupida vita.» «Sì, lo ha fatto.» «E noi due siamo sempre stati amici. Probabilmente...» Greywolf esitò, poi sollevò la scultura e sorrise. «... le nostre teste sono state chiuse per un po'.» «Tu che ne pensi? Perché si sognano cose del genere?» «Parli del sogno dell'iceberg?» «Ci ho riflettuto a lungo e tu sai bene che non ho la minima simpatia per l'esoterismo. Odio tutte quelle stronzate. Ma nel Nunavut c'era qualcosa che non riuscivo a spiegare. Dentro di me è successo qualcosa. Forse proprio quand'ero là fuori, sui ghiacci, quando ho fatto il sogno.» «E tu, che ne pensi?» «Questa forza sconosciuta, questa minaccia che vive nelle nostre acque, negli abissi... Forse la incontrerò là. Forse il mio compito è andare laggiù e...» «Salvare il mondo?» «Ah, scordatelo.» «Vuoi sapere che cosa credo, Leon?» Anawak annuì. «Penso che tu stia sbagliando. Ti sei nascosto per anni e ti sei portato appresso il tuo stupido trauma eschimese. Hai rotto i coglioni agli altri e a te stesso. Non hai capito niente della vita. L'iceberg su cui ti sei trovato sei tu, un cafone gelido e inavvicinabile. Però hai ragione: là è successo qualcosa e il cafone ha iniziato a sciogliersi. Quell'oceano in cui sprofonderai non è il mare in cui vivono gli yrr. È la vita degli uomini. Quella cui appartieni. Questa è l'avventura che ti aspetta. Amicizia, amore... E anche i nemici, l'odio e la rabbia. Il tuo ruolo non consiste nel recitare la parte dell'eroe. Non devi dimostrare a nessuno di essere coraggioso. I ruoli degli eroi in questa storia sono già stati assegnati. Ai morti. Tu appartieni al mondo dei vivi.» Notte Ognuno dormiva in modo diverso. Samantha, piccola e minuta, si era avvolta nelle lenzuola, come se volesse scomparirvi dentro. La sua capigliatura grigio ghiaccio usciva solo per metà. Karen dormiva sulla pancia, nuda e senza coperte, con la testa piega-
ta di lato. Le ciocche castane si attorcigliavano in tutte le direzioni, cosicché si vedeva solo la bocca semiaperta. Shankar, invece, rientrava in quella categoria di persone il cui letto, quando si alzano al mattino, appare come se avesse sopportato gli incubi di molte notti. Si agitava costantemente nel sonno, ribaltando quasi completamente lenzuola, coperte e guanciali; ogni tanto russava ed emetteva mormorii soffocati. Rubin passava la maggior parte del tempo sveglio. Anche Greywolf e Alicia dormivano poco perché facevano l'amore in continuazione, prevalentemente sul pavimento della cabina. Spesso Greywolf - con la pelle color rame e possente come un animale mitologico stava disteso sulla schiena e sosteneva il corpo bianco come il latte della donna. Due cabine più in là, Anawak dormiva su un fianco, con indosso solo una T-shirt. Anche Sue aveva un modo piuttosto convenzionale di dormire. Entrambi erano tranquilli e, nel corso della notte, si giravano un paio di volte, ma niente di più. Johanson era sdraiato sulla schiena, con le braccia distese, i palmi delle mani rivolti all'esterno. Solo i letti nell'area degli ammiragli e negli alloggi degli ufficiali avevano spazio sufficiente per permettere di dormire nelle più svariate posizioni. E la posizione nel sonno di Johanson era così egoistica che una volta, anni prima, una sua amante l'aveva svegliato nel cuore della notte per dirgli che dormiva «come un latifondista». Lui aveva raccontato quell'aneddoto allo Château, facendo ridere tutti. In effetti, ogni notte dormiva così, un uomo che, anche con gli occhi chiusi, sembrava voler abbracciare la vita. Tutti - quelli che dormivano e quelli rimasti svegli - risplendevano su una serie di monitor, ognuno dei quali mostrava per intero una cabina. Due uomini in uniforme stavano seduti nella semioscurità e osservavano gli scienziati. Dietro di loro, c'erano Judith Li e il vicedirettore della CIA. «Che angioletti», disse Vanderbilt. Impassibile, Judith Li guardava Alicia che stava arrivando all'orgasmo. Benché il volume fosse basso, qualche nota dell'atto d'amore si diffuse nella fredda atmosfera del centro di controllo. «Sono contenta che le piaccia, Jack.» «Quel piccolo ammasso di muscoli non sarebbe di mio gusto», sbottò Vanderbilt, indicando Karen. «Particolarmente stronza, non trova?» «È innamorato?» Vanderbilt sorrise. «Dovrei pregare non poco.» «Metta in azione il suo fascino», disse Judith Li. «Ne ha pur sempre un
buon quintale.» Il dirigente della CIA si asciugò il sudore dalla fronte. Rimasero a guardare ancora per un po'. Se succedeva qualcosa che a Vanderbilt piaceva, lui doveva goderselo con calma. Per Judith Li era del tutto indifferente se nelle cabine russavano o facevano l'amore. Per lei, potevano anche appendersi al soffitto coi piedi, oppure saltarsi addosso sbavando. La cosa importante era sapere dov'erano, cosa facevano e cosa si dicevano. «Procedete», disse e si girò. Mentre usciva, aggiunse: «E controllate tutte le cabine». 13 agosto Visita Non ci fu risposta. Il messaggio era stato inviato in mare senza risultati. Alle sette, la sveglia aveva buttato tutti giù dal letto e molti non avevano dormito abbastanza. Normalmente si era cullati dal movimento della gigantesca nave, e, poiché non c'erano missioni di volo, dalla coperta non arrivavano rumori. Il CPS, ronzando leggermente, manteneva una temperatura gradevole e i letti erano davvero comodi. Di tanto in tanto, se passava qualcuno dell'equipaggio, si sentivano dei passi nel corridoio. Nel cuore della nave frusciavano i generatori. Se non ci fosse stata quella tensione, il sonno sarebbe potuto essere davvero ristoratore. Ma la maggior parte degli scienziati si limitava a cadere in un dormiveglia tormentato, come Johanson, che cercava d'immaginare quali effetti avrebbe avuto il messaggio trasmesso negli abissi del mar di Groenlandia e si ritrovava ossessionato dalle fantasie più assurde. Il fatto che si trovassero al largo della Groenlandia, e non più a sud, era dovuto alla sua arringa e al sostegno di Karen Weaver e Gerhard Bohrmann. Anawak, Rubin e alcuni altri avevano proposto di cercare il contatto sulla catena vulcanica della dorsale medioatlantica. Per Rubin, infatti, la somiglianza tra i granchi dei camini idrotermali e quelli che avevano attaccato New York e Washington era un fattore decisivo. Inoltre negli abissi marini c'erano pochi luoghi che offrissero i presupposti per una vita altamente evoluta. Nelle catene vulcaniche, invece, c'erano condizioni ideali. L'acqua calda sgorgava da camini di roccia molto alti e metteva a disposi-
zione tutti i minerali possibili e le sostanze necessarie per la vita. Là vivevano vermi, molluschi, pesci e granchi in una situazione che poteva evocare quella di un pianeta sconosciuto. Perché non avrebbero dovuto viverci anche gli yrr? Johanson aveva dato ragione a Rubin su molte cose. Ma aveva avanzato due obiezioni. Benché le catene vulcaniche rappresentassero senza dubbio il luogo più favorevole alla vita negli abissi marini, erano anche il più pericoloso. Quando le placche oceaniche divergevano, si avevano frequenti colate laviche. C'erano eruzioni che avrebbero distrutto completamente il biotipo. Era vero che in quei luoghi sarebbe ricomparsa la vita ma, secondo Johanson, era poco probabile che una civiltà complessa e intelligente si stabilisse in quella zona. La seconda obiezione era legata al fatto che le possibilità di prendere contatto aumentavano quanto più ci si avvicinava agli yrr. Le opinioni divergevano su dove si trovassero esattamente e forse tutti, a loro modo, avevano ragione. Alcuni indizi facevano pensare che vivessero nelle più profonde regioni marine. Molti fenomeni recenti erano avvenuti nelle immediate vicinanze di quelle fosse abissali. Però non era da escludere l'imponente bacino abissale, e naturalmente non si potevano scartare gli argomenti di Rubin sulle oasi medioceaniche che permettevano la nascita della vita. Alla fine, Johanson aveva proposto di non rivolgere l'attenzione all'ambiente naturale degli yrr, ma di cercare un posto in cui si fosse sicuri della loro presenza. Nel mar di Groenlandia era stata fermata la caduta delle acque fredde. La conseguenza era stata il blocco della Corrente del Golfo. Solo due cause potevano spiegare quel fenomeno: un improvviso riscaldamento del mare o un eccessivo afflusso di acqua dolce proveniente dall'Artico, che diluiva l'acqua salata dell'Atlantico settentrionale rendendola troppo leggera per precipitare. Entrambe le cose presupponevano una profonda manipolazione delle condizioni di quel luogo. Gli yrr erano impegnati a condurre a termine quel mostruoso sconvolgimento da qualche parte nell'Artico. Da qualche parte, nelle vicinanze. Restava l'aspetto della sicurezza. Lo stesso Bohrmann, che era abituato a temere il peggio, ammetteva che il rischio di un blow-out di metano nel bacino abissale della Groenlandia era molto basso. La nave di Bauer era stata colpita nei pressi delle isole Svalbard, e là, sulla scarpata continentale, erano stipate massicce quantità di idrati. Sotto la chiglia dell'Independence si stendevano tremilacinquecento metri d'acqua. Probabilmente, così in profondità, c'era assai meno metano, e comunque non abbastanza per far
affondare una nave delle dimensioni dell'Independence. Tuttavia, per ogni evenienza, nel corso del viaggio erano stati eseguiti regolari rilevamenti sismici, per scoprire giacimenti di metano nel fondale marino e trovare così una posizione che ne fosse priva. Anche uno tsunami, per quanto dirompente verso la terraferma, lì al largo sarebbe stato appena percettibile, almeno finché non fosse smottata La Palma. Ma in quel caso sarebbe stato comunque troppo tardi. Era quello il motivo per cui si trovavano lì, tra i ghiacci eterni. Erano seduti nella mensa degli ufficiali, gigantesca e deserta, a mangiare uova strapazzate e pancetta. Anawak e Greywolf non c'erano. Dopo la sveglia, Johanson aveva parlato al telefono per qualche minuto con Bohrmann, che era arrivato a La Palma e stava preparando l'operazione con l'aspiratore. Le Canarie erano un'ora indietro, ma Bohrmann era già in piedi da diverse ore. «Il lavoro lo fa un tubo aspirante lungo cinquecento metri», aveva detto, ridendo. «Pulite bene anche negli angoli», gli aveva consigliato Johanson. Bohrmann gli mancava. D'altra parte, a bordo dell'Independence, non c'era carenza di personaggi singolari. Stava parlando con Samantha, quando entrò Floyd Anderson, il primo ufficiale, reggendo un contenitore termico grande come una pentola, con la scritta USS WASP LHD-8. Anderson andò al tavolo delle bibite e lo riempì fino all'orlo di caffè. Poi latrò: «Abbiamo visite». Tutti lo guardarono. «Un contatto?» chiese Sue. «Lo saprei.» Samantha prese un'enorme porzione di pancetta. Nel portacenere, c'era la sua terza o quarta sigaretta, ancora accesa. «Shankar è nel CIC. Ci avrebbe informati.» «Che cosa c'è allora? È atterrato qualcuno?» «Uscite in coperta», replicò Anderson con aria misteriosa. «E lo vedrete.» Ponte di volo All'esterno, sul volto di Johanson si appoggiò una maschera di freddo. Il cielo era di un bianco indefinito. Le onde grigie sollevavano creste schiumose. Durante la notte si era alzato il vento e soffiava cristalli di ghiaccio sottili come aghi sulla superficie asfaltata. Johanson scorse un gruppo di persone imbacuccate e, avvicinandosi, riconobbe Judith Li, Anawak e
Greywolf. Poi immediatamente capì che cosa aveva attirato la loro attenzione. A una certa distanza dall'Independence, un appuntito profilo di pinne dorsali era emerso dal mare. «Orche», spiegò Anawak, quando Johanson gli fu vicino. «Che cosa fanno?» Anawak socchiuse le palpebre contro la pioggia di aghi di ghiaccio. «È da circa tre ore che girano intorno alla nave. I delfini ne hanno annunciato la presenza. Direi che ci osservano.» Shankar arrivò di corsa e si mise di fianco a loro. «Che succede?» «Forse è una risposta» disse Samantha. «Al nostro messaggio?» «E a cosa, sennò?» «Strana, come risposta a una verifica di matematica», disse Shankar. «Avrei preferito qualche sostanziosa equazione.» Le orche si tenevano prudentemente a distanza dalla nave. Erano molte. Centinaia, valutò Johanson. Nuotavano con un ritmo regolare e, di tanto in tanto, sollevavano il dorso nero. In effetti dava proprio l'impressione che fossero una pattuglia. «È possibile che siano infestate?» «Probabile.» «Dite un po'...» Greywolf si grattò la testa. «Se quella robaccia controlla il loro cervello... non avete mai pensato che ci possano anche vedere? E sentire?» «Hai ragione», disse Anawak. «Usano i loro organi di senso.» «Appunto. Così quella sostanza gelatinosa ha occhi e orecchie.» «A ogni buon conto, sembra proprio che sia cominciata», disse Samantha, soffiando nell'aria gelida il fumo che venne immediatamente portato via. «Che cosa?» chiese Judith Li. «La prova di forza.» «Bene.» Un sorriso sottile le increspò le labbra. «Siamo attrezzati per ogni evenienza.» «Per quelle che conosciamo», precisò Samantha. Laboratorio Mentre scendeva - con Mick Rubin e Sue Oliviera al seguito -, Johanson
si chiedeva se la psicosi non avesse già cominciato a creare nella loro mente una realtà allucinata. Il processo l'aveva messo in moto lui. Certo, se non l'avesse fatto lui, sarebbe stato qualcun altro a elaborare quella teoria. I fatti si disponevano sulla base di un'ipotesi. Un branco di orche circondava l'Independence e loro ci vedevano gli occhi e le orecchie degli alieni. Vedevano alieni ovunque. Quindi avevano mandato dei messaggi nel mare con la speranza di allacciare un contatto, che magari non ci sarebbe mai stato perché erano stati attaccati da una muffa marina. Il quinto giorno. Era solo una fantasia che ormai si autoalimentava? Si stavano comportando da idioti? Non riusciamo ad andare avanti, pensò, frustrato. Qualcosa deve succedere. Qualcosa che ci dia la certezza che non ci stiamo muovendo nella direzione sbagliata, accecati dalle teorie. Scesero la rampa coi passi che rimbombavano, passarono l'hangar e continuarono a scendere. La porta d'acciaio del laboratorio era chiusa. Johanson inserì un codice numerico ed essa scivolò con un leggero sibilo. Lui regolò l'illuminazione del soffitto e quella delle postazioni. Una luce fredda e bianca invase le isole di lavoro. Dal simulatore arrivava il ronzio dei sistemi elettrici. Salirono sulle passerelle tutt'intorno alla cisterna ad alta pressione e si misero davanti alla grande finestra ovale. Da lì si dominava l'interno della vasca. Sul fondale marino artificiale, nella luce dei proiettori, c'erano piccoli esseri, con zampe da ragno. Alcuni si muovevano esitanti, evidentemente disorientati. Si spostavano in cerchio oppure si fermavano dopo qualche passo, come se non sapessero dove andare. Più si guardava in profondità nella cisterna, più l'acqua rendeva difficile cogliere i dettagli. Alcune telecamere facevano riprese ravvicinate dall'interno e le proiettavano sui monitor di un banco di controllo. Tutti osservarono i granchi con sgomento. «Non hanno fatto granché da ieri», notò Sue. «No, se ne stanno rannicchiati e aumentano le nostre perplessità.» Johanson si strofinò la barba. «Dovremmo aprirne qualcuno e vedere che succede.» «Aprire i granchi?» «Perché no? Che continuano a vivere con l'alta pressione ormai lo sappiamo. Non è che questa conoscenza acquisti interesse col passare dei giorni.» «Continuano a vegetare», lo corresse Sue. «Non abbiamo ancora spiegato se quello che fanno può essere definito 'vivere'.»
«La sostanza al loro interno vive», intervenne Rubin, pensieroso. «Il resto non è più vivo di un'automobile.» «D'accordo», disse Sue. «Ma com'è questa vita che hanno all'interno? Perché non fa nulla?» «Che dovrebbe fare, secondo lei?» «Girare.» La biologa si strinse nelle spalle. «Muovere le chele, che ne so. Lasciare la corazza. Osservate quei granchi. Se sono stati programmati per arrivare sulla terra, fare danni e infine crepare, si trovano in una situazione davvero difficile. Non arriva nessuno a dare nuovi ordini. Stanno girando a vuoto.» «Appunto», annuì Johanson, spazientito. «Sono letargici e noiosi e si comportano come giocattoli a molla. La penso come Mick. Questi corpi di granchio sono stati allevati già morti; è rimasta solo un po' di massa nervosa e sono un'armatura per chi ci sta dentro. E adesso voglio costringere chi è là dentro a uscire, capite? Voglio sapere come si comporta quella cosa nell'ambiente degli abissi marini se qualcuno la costringe a lasciare la corazza.» «Va bene», approvò Sue. «Vediamo di esplorare quella sostanza gelatinosa.» Lasciarono la passerella, scesero e si avviarono alla console di comando. Il computer permetteva di controllare diversi robot all'interno della cisterna. Johanson scelse una piccola unità ROV a due componenti, di nome Spherobot. Su un quadro di comando, munito di due joystick, erano accesi diversi monitor ad alta risoluzione. Uno mostrava l'interno del simulatore. Il grandangolo dello Spherobot consentiva di vedere tutta la cisterna, ma riportava l'immagine come se fosse distorta dall'occhio di un pesce. «Quanti ne apriamo?» chiese Sue. Le mani di Johanson scivolarono sulla tastiera del comando manuale e l'angolazione della telecamera si alzò leggermente. «Quanti ne servono per una buona cena», rispose. «Almeno una dozzina.» Una delle parti più strette della cisterna somigliava a un garage aperto a due piani in cui si trovavano alcuni robot sottomarini di diverse dimensioni e teleguidati. Non sarebbe stato possibile operare in altro modo in quel mondo artificiale; inoltre il garage offriva ai costruttori degli AUV e dei ROV la possibilità di testare i loro prodotti nelle condizioni estreme degli abissi marini. Nel momento in cui Johanson attivò il sistema di guida, sotto uno dei
robot si accese una potente luce e due eliche cominciarono a girare. Una slitta rettangolare delle dimensioni di un carrello da supermercato scivolò lentamente fuori dal garage. La parte superiore era coperta e piena di apparecchiature tecnologiche; quella inferiore consisteva in una cesta vuota con pareti dalle maglie fittissime. Il robot scivolò sul fondale marino artificiale verso i granchi e si fermò a breve distanza da un gruppo immobile. Si vedevano chiaramente il guscio arcuato completamente privo di occhi e le potenti chele. «Passo alla sfera», disse Johanson. L'immagine deformata divenne una ripresa chiara e precisa. Dalla slitta che pendeva immobile sopra i granchi, scese una sfera smaltata di rosso, non più grande di un pallone da calcio. Era quella a dare il nome al veicolo. Il modo in cui scendeva - collegata solo da un cavo all'apparecchio più grande, con l'occhio splendente dell'obiettivo che fissava dritto davanti a sé - ricordava il piccolo robot da combattimento con cui, in Guerre stellari, Luke Skywalker si allenava con la spada laser. In effetti, lo Spherobot, coi suoi sei piccoli reattori per la guida, imitava il modello cinematografico fin nel dettaglio. Dopo un breve tratto, si abbassò lentamente e poi si fermò al di sopra dei granchi, i quali non ebbero nessuna reazione, neppure quando la sfera rossa si aprì e, dal suo interno, uscirono due bracci sottili e snodati. Un arsenale di strumenti prese a ruotare alle due estremità. Poi, a sinistra, uscì una tenaglia e, a destra, una sega. Le mani di Johanson sui joystick si mossero con cautela in avanti e i bracci del robot nella cisterna seguirono il suo movimento. «Hasta la vista, baby», disse Sue, imitando Schwarzenegger. Le tenaglie scesero, afferrarono un granchio e lo sollevarono davanti alla telecamera. Sul monitor, l'animale aveva le dimensioni di un mostro. La sua bocca si mosse, le zampe si dimenarono, ma le chele restavano inerti. Johanson fece ruotare le tenaglie di trecentosessanta gradi e osservò attentamente il comportamento dell'animale mentre veniva girato. «La motricità è perfetta», commentò. «Il sistema motorio funziona.» «In compenso ci sono reazioni atipiche», notò Rubin. «Non divarica le chele, non ha atteggiamenti minacciosi. Questo è semplicemente un automa, una macchina che cammina.» Mosse il secondo joystick e schiacciò un pulsante nella parte superiore, mettendo in azione la sega circolare. Quindi la portò sul fianco della corazza. Per un attimo le zampe del granchio si mossero freneticamente. La corazza si ruppe e ne uscì qualcosa di lattiginoso, che rimase sospeso
per un attimo sopra l'animale spaccato. «Mio Dio», si lasciò sfuggire Sue. Quella cosa non somigliava né a una medusa né a una seppia. Era totalmente priva di forma. I suoi bordi erano come percorsi da onde e il corpo si gonfiava e si appiattiva. Johanson ebbe la sensazione che nel suo interno si muovesse un fulmine, ma, nell'illuminazione abbagliante della cisterna, quella poteva anche essere un'illusione ottica. Mentre lui stava riflettendo, improvvisamente l'essere si trasformò in qualcosa di allungato, simile a un serpente, e sparì. Johanson imprecò, prese il granchio successivo e lo tagliò. Stavolta accadde ancora più in fretta e l'interno gelatinoso scomparve ancor prima che potessero osservarlo attentamente. «Accidenti!» Rubin era evidentemente agitato. «Cose da pazzi! Che razza di roba è?» «Qualcosa che scappa», ringhiò Johanson. «Seccante. Come facciamo a prendere quella robaccia?» «Ma non l'abbiamo già presa?» «Sì, due cose svolazzanti, grandi come una pallina da tennis senza forma e colore in una piscina. E come le troviamo?» «Il prossimo lo aprirei direttamente nella cesta del robot», suggerì Sue. «È aperta nella parte anteriore, scapperà.» «No, non lo farà. La cesta si può chiudere, basta essere sufficientemente rapidi.» «Non so se ci riusciremo.» «Ci provi.» Sue aveva ragione. Nella parte anteriore della cesta del robot c'era un coperchio a maglie; chiudendolo, la cesta si trasformava in una gabbia. Johanson afferrò un altro animale, girò la sfera di centottanta gradi e la portò verso il robot trasportatore, finché il suo braccio elettronico non si distese all'interno della gabbia. Lì appoggiò la sega circolare sul lato del granchio. La corazza si frantumò. Non accadde nulla. «Vuoto?» si meravigliò Rubin. Attesero qualche secondo, poi Johanson riportò lentamente indietro il robot sferico. «Merda!» L'essere gelatinoso era scivolato fuori dal corpo del granchio, ma aveva scelto la direzione sbagliata. Sbatté violentemente contro la parete poste-
riore della cesta, si raccolse in forma di palla tremolante e rimase davanti all'inferriata. Il suo disorientamento - ammesso che si potesse definirlo così - durò solo un istante. La cosa si allungò. «Vuole scappare!» gridò Sue. Johanson portò indietro lo Spherobot, che sbatté contro una parete laterale e poi uscì. Uno dei bracci riuscì a prendere il coperchio e lo sollevò. La cosa si appiattì completamente e poi si lanciò in avanti. A pochi centimetri dalla copertura, fece un balzo indietro e cambiò ancora forma. I suoi bordi si stesero finché essa non rimase sospesa in acqua, come una campana trasparente che occupava quasi la metà della gabbia. Il corpo si piegò. Per qualche secondo sembrò una medusa, poi tornò ad arrotolarsi. Un momento dopo, a galleggiare nella gabbia, c'era di nuovo una palla. «Una follia», sussurrò Rubin. «Guardate un po'», esclamò Sue. «Si sgonfia.» In effetti, la sfera si stava ritirando e perdeva trasparenza. Divenne lattiginosa. «Il tessuto si contrae», disse Rubin. «Quella cosa può cambiare la propria densità molecolare.» «Non vi ricorda qualcosa?» «Le prime forme semplici di polpi», rifletté Rubin. «Ci sono altri organismi in grado di fare cose simili. La maggior parte dei cefalopodi può contrarre i propri tessuti, ma non cambia forma. Dobbiamo catturarne altri per capire come reagiscono.» Johanson si appoggiò allo schienale. «Non ci riuscirò un'altra volta», disse. «Con un secondo tentativo, questo scapperebbe. Sono troppo veloci.» «Va bene. Per le osservazioni ne può bastare uno.» «Non lo so.» Sue scosse la testa. «Osservare va bene, ma io voglio esaminare la sostanza, non soltanto resti in decomposizione. Forse dovremmo congelarla e tagliarla a fette.» «Certo.» Rubin fissava il monitor, affascinato. «Ma non subito. Prima guardiamolo un po'.» «Abbiamo anche gli altri due. Per caso li vedete?» Johanson mise in funzione diversi monitor e l'interno della cisterna apparve da diversi punti di vista. «Sparitibus.» «Sciocchezze. Devono essere da qualche parte.» «Va bene, apriamone qualcun altro», sbuffò Johanson. «Volevamo co-
munque farlo. Quanta più roba gelatinosa c'è in giro nella cisterna, più aumentano le possibilità di vederla. Il nostro prigioniero di guerra, per sicurezza, lo lasciamo in gabbia. Poi vedremo.» Sorrise e strinse le dita intorno al joystick. «Cric crac. È anche divertente, vero?» Aprirono un'altra dozzina di granchi senza cercare di catturare la sostanza che ne usciva. Gli esseri di gelatina sfrecciavano fuori non appena la corazza si rompeva e si perdevano da qualche parte nella vastità della cisterna. «Evidentemente la Pfiesteria non li fa fuori», affermò Sue. «Ovviamente no», annuì Johanson. «Gli yrr si sono preoccupati che le due cose andassero d'accordo. La gelatina guida il granchio, la Pfiesteria è il carico. È logico che non mandino un taxi in cui il passeggero uccide l'autista.» «Crede che anche la gelatina sia una coltivazione?» «Non ne ho idea. Forse c'era già prima. Probabilmente è stata allevata.» «E se questi esseri gelatinosi fossero... gli yrr?» Johanson orientò lo Spherobot in modo che la telecamera riprendesse la gabbia. Osservò l'esemplare catturato. Aveva mantenuto la forma sferica e restava sul fondo, simile a una palla da tennis bianca e vetrosa. «Queste... cose?» chiese Rubin, incredulo. «Perché no?» esclamò Sue. «Le abbiamo trovate nella testa delle balene, nelle infestazioni della Barrier Queen, all'interno della nuvola blu, ovunque.» «Sì, appunto la nuvola blu. A cosa serve?» «Ha una funzione, certo. Queste cose si nascondono là dentro.» «A dire la verità, mi sembra che la gelatina, come i vermi e le altre mutazioni, sia un'arma biologica.» Rubin indicò la palla immobile nella cesta. «Credete che sia morta? Non si muove più. Forse, quando muore, i suoi tessuti si ritirano in forma di palla.» In quel momento, dagli altoparlanti del soffitto giunse un segnale. Poi si sentì la voce di Peak. «Buongiorno. Visto che, con l'arrivo della dottoressa Crowe, siamo al completo, abbiamo organizzato un incontro per le 10.30 nel ponte a pozzo. Vogliamo che prendiate confidenza coi batiscafi e con le attrezzature. Sarebbe quindi gentile da parte vostra essere presenti. Inoltre vorrei ricordarvi che, alle 10, terremo il nostro solito incontro nella sala riunioni. Grazie». «Per fortuna che ce l'ha ricordato», borbottò Rubin. «Me n'ero comple-
tamente scordato. Quando faccio ricerche dimentico il tempo e lo spazio. O si è ricercatori o non lo si è, vero?» «Giusto», replicò Sue, annoiata. «Sono ansiosa di sentire se ci sono novità da Nanaimo.» «Perché non chiama Roche?» propose Rubin. «Gli racconti dei nostri successi. Forse è già riuscito a scoprire qualcosa.» Sorrise a Johanson e gli diede un colpetto sulla spalla. «Forse sapremo qualcosa prima di Judith Li e faremo una bella figura.» Johanson rispose al sorriso, ma Rubin non gli piaceva. Era bravo nel suo lavoro, però era anche un leccaculo, disposto probabilmente a vendere sua nonna, se fosse servito per fare carriera. Sue si avvicinò all'unità radio proprio di fianco al pannello di comando e fece comporre il numero in automatico. La connessione satellitare proprio sopra l'isola permetteva ogni forma di scambio di dati. Ovunque nella nave si potevano ricevere molte emittenti televisive, si potevano collegare televisori portatili, radio e laptop, e naturalmente si poteva telefonare in tutto il mondo attraverso canali a prova d'intercettazione. Sue parlò un po' con Fenwick e poi con Roche, che a loro volta erano in contatto con numerosi scienziati in tutto il globo. A quanto pareva, erano riusciti a circoscrivere le mutazioni della Pfiesteria, ma il successo non era ancora in vista. Ed eserciti di granchi stavano attaccando Boston. Sue comunicò quello che avevano scoperto e riagganciò. «Oh, merda», sbottò Rubin. «Forse ci aiuteranno i nostri amici nella cisterna», disse Johanson. «Qualcosa li protegge dalle alghe. Portiamoli a fare un giro nel laboratorio di massima sicurezza. Non appena sapremo che cosa...» Guardò il monitor. L'essere nella gabbia era sparito. Sue e Rubin seguirono il suo sguardo e sgranarono gli occhi. «Non c'è più!» «Come ha fatto a uscire?» Sullo schermo si vedevano solo granchi e acqua. «Quelle cose se ne sono andate.» «Sciocchezze! Dove possono essere scappate?» «Un momento! Ne abbiamo fatte uscire una dozzina. Non dovrebbero essere invisibili.» «Saranno là, da qualche parte. Ma dov'è quella nella gabbia?» «Forse è diventata molto sottile», ipotizzò Sue.
Johanson osservò lo schermo e la sua espressione si rasserenò. «Sottile? Non è una cattiva idea», mormorò. «Certo... Può cambiare la forma. Le maglie sono fitte, ma probabilmente non abbastanza fitte per qualcosa di lungo e sottile.» «Che sostanza incredibile», sussurrò Rubin. Cominciarono a esaminare la cisterna, dividendola in zone. Ciascuno controllava un monitor, in modo da avere sempre sotto controllo tutto il bacino. Zoomarono con le telecamere, ma quella robaccia gelatinosa non si vedeva. Infine Johanson fece uscire i robot dal garage, ma non era nascosta neppure lì. Gli esseri erano spariti. «Forse abbiamo qualche problema col sistema di tubature», rifletté Sue. «Che siano nascosti in qualche tubo dell'acqua?» Rubin scosse la testa. «Non è possibile.» «Comunque sia, dobbiamo salire per la riunione», ringhiò Johanson. «Forse ci verrà in mente dove possono essere.» Confusi e frustrati, spensero le luci nel simulatore e uscirono. Rubin spense anche le luci del laboratorio e fece per seguirli. Ma non li seguì. Johanson si voltò e lo vide, immobile davanti alla porta, a fissare il buio. Poi si accorse che Rubin aveva la bocca spalancata. Lentamente tornò indietro, seguito da Sue. Dietro la finestra ovale del simulatore splendeva qualcosa. Una luce debole e diffusa. Una luce blu. «La nuvola blu», sussurrò Rubin. Senza curarsi degli ostacoli, corsero nell'oscurità verso il simulatore. Salirono in fretta le scale e si ammassarono davanti al vetro blindato. La luce blu era sospesa nel nulla, come una strana nuvola nello spazio privo di luce. Ma quello spazio era una cisterna piena d'acqua. La sua estensione copriva alcuni metri quadrati. Pulsava. I bordi tremolavano. Johanson socchiuse le palpebre, cercando di osservare con la massima attenzione. Che stava succedendo oltre il bordo? Minuscoli punti luminosi sembravano scorrere all'interno della nuvola, sempre più velocemente. Simili a particelle di materia nel campo gravitazionale di un buco nero. Il blu divenne più intenso. Poi collassò. Quasi come un Big Bang al contrario, la nuvola crollò su se stessa. Tutto
tendeva verso l'interno, che diventava più luminoso e denso. Da lì partivano lampi luminosi, che formavano disegni complicati. A folle velocità, la nuvola fu risucchiata nel proprio centro con un turbinio violento, e poi... «Non ci credo», mormorò Sue. Davanti ai loro occhi, era sospesa una cosa sferica, delle dimensioni di un pallone da calcio. Qualcosa formato da una materia compatta. La cosa splendeva di una luce blu. Gelatina pulsante. Avevano ritrovato gli esseri. Gli esseri erano diventati un unico essere. Sala riunioni «Unicellulari!» gridò Johanson. «Sono unicellulari.» Era agitatissimo. Il gruppo lo guardava in silenzio. Rubin non riusciva a stare fermo sulla sedia e annuiva freneticamente, mentre Johanson camminava avanti e indietro. «Abbiamo sempre creduto che la gelatina e la nuvola fossero due cose distinte, e invece sono la stessa cosa. La sostanza è un legame tra le singole cellule. La gelatina può non solo cambiare la propria forma, ma si può anche dissolvere e poi ricomporsi.» «L'essere si dissolve?» gli fece eco Vanderbilt. «No, no! Non l'essere... Voglio dire, l'essere sono le singole cellule che si fondono tra loro. Abbiamo aperto alcuni granchi e fatto uscire la sostanza gelatinosa, che si è nascosta in qualche angolo del simulatore. Siamo riusciti a catturarne una. E improvvisamente erano sparite tutte, senza lasciare traccia, non era rimasto nulla... Mio Dio, che idiota sono stato a non pensarci! È ovvio! Degli esseri unicellulari non possono essere trattenuti in una gabbia, non possono essere osservati a occhio nudo, in genere sono troppo piccoli. Poiché il simulatore era illuminato dall'interno, non potevamo vedere la bioluminescenza. È lo stesso problema che abbiamo incontrato al largo della Norvegia, quando quella cosa gigantesca è passata davanti alla telecamera. Allora abbiamo visto solo la superficie illuminata dai proiettori di Victor, ma in realtà emetteva luce essa stessa.. Era luminosa, era un insieme di organismi bioluminescenti. Quello che ora nuota laggiù nella cisterna è la somma delle sostanze che abbiamo tolto dai granchi!» «Questo spiega alcune cose», disse Anawak. «L'essere senza forma sullo scafo della Barrier Queen, la nuvola blu al largo di Vancouver Island...» «... le riprese dell'URA, esatto! Una gran parte delle cellule si muove li-
beramente nell'acqua, ma, al centro, le cellule sono compresse. La massa forma tentacoli. Inietta se stessa nelle teste delle balene.» «Un momento.» Judith Li sollevò le mani. «Va bene, è stato stabilito qualche legame, ma ho l'impressione che vi stiate spingendo troppo avanti. Forse siamo stati testimoni di uno scambio. Via la gelatina vecchia, dentro quella nuova. Oppure c'è stato qualcosa di simile a un controllo. Forse la sostanza nelle teste rimanda qualcosa alla massa totale.» «Informazioni», disse Greywolf. «Sì!» esclamò Johanson. «Sì!» Alicia arricciò il naso. «Dunque possono assumere qualsiasi dimensione, a seconda delle necessità?» «Qualsiasi dimensione e qualsiasi forma», confermò Sue. «Per guidare un granchio ne basta una manciata. Quella cosa al largo di Vancouver Island intorno cui si sono raccolte le balene aveva le dimensioni di una casa, e...» «Questo è il fatto decisivo della nostra scoperta», interloquì Rubin, scattando in piedi. «La gelatina è un materiale grezzo necessario per svolgere determinati compiti.» Sue annuì, seccata per l'interruzione. «Ho riguardato con attenzione le riprese fatte davanti alla scarpata continentale norvegese», proseguì Rubin, senza prendere fiato. «E credo di sapere cos'è successo! Che mi venga un colpo se non è stata quella sostanza a dare il colpo definitivo per lo smottamento della scarpata continentale. Siamo a un passo dal comprendere la verità!» «Avete trovato una massa che svolge una gran quantità di lavoro sporco», disse Peak, per nulla impressionato. «Molto bene. E dove sono gli yrr?» «Gli yrr sono...» Rubin si bloccò. Improvvisamente tutta la sua sicurezza era svanita. Il suo sguardo si spostava incerto da Sue a Johanson. «Ma sì...» «Crede che quelli siano gli yrr?» domandò Samantha. Johanson scosse la testa. «Non ne ho idea.» Cadde un silenzio pesante. Samantha Crowe strinse le labbra e fece un tiro di sigaretta. «Non abbiamo ancora ricevuto risposte. Chi ci può rispondere? Un essere intelligente o un'associazione di esseri intelligenti? Che ne pensa, Sigur? Gli esseri nella cisterna si comportano in maniera intelligente?» «Sa meglio di me che la domanda è oziosa», ribatté Johanson.
«Era quello che volevo sentirle dire», sorrise Samantha. «Come possiamo rendercene conto? Un'intelligenza extraterrestre come valuterebbe un gruppo di prigionieri di guerra rinchiusi in un campo, che non sanno nulla di matematica, hanno paura, freddo, si lamentano oppure stanno seduti in un angolo?» «Oh, santo cielo», si lamentò Vanderbilt a bassa voce. «Adesso tiriamo in ballo pure la Convenzione di Ginevra.» «Vale anche per gli extraterrestri?» sogghignò Peak. Sue gli scoccò uno sguardo disgustato. «Dovremo sottoporre ad altri test la massa nella cisterna», disse. «Tra parentesi, non riesco a spiegarmi come mai ci abbiamo messo tanto a comprenderlo. Leon, cos'hai notato quando sei andato di nascosto nel bacino di carenaggio della Barrier Queen?» Anawak la guardò. «Poco prima che mi pescassero? Un bagliore blu.» «Appunto», disse Sue, rivolta a Judith Li. «Lei ha voluto muoversi da sola, e ha tenuto sotto osservazione nel bacino la Barrier Queen per settimane senza arrivare a niente... Va bene, ormai è andata. Alla sua gente deve essere sfuggito qualcosa di fondamentale nell'analisi dei campioni d'acqua del bacino di carenaggio. Nessuno si è accorto della luce? O di una gran quantità di organismi unicellulari nei campioni d'acqua?» «Certo», replicò Judith Li. «È ovvio che abbiamo analizzato l'acqua.» «E allora?» «Niente. Acqua normalissima.» «Ah, bene», sospirò Sue. «Potrebbe farmi avere le analisi? Compresi i risultati di laboratorio.» «Naturalmente.» «Dottor Johanson...» Shankar alzò la mano. «Come pensa che avvenga questa fusione? Cosa li porta a fondersi?» «E tutti contemporaneamente», si meravigliò Roscovitz. Era la prima volta che prendeva la parola. «Come avviene? A che scopo? Una di quelle cellule dovrà pur dire: 'Ehi, gente, venite un po' qui che facciamo una festa!'» «Non necessariamente», disse Vanderbilt con fare scaltro. «Il grado più alto di collaborazione si trova nelle cellule del corpo umano, giusto? E non c'è nessuno che dica loro come fare.» «Sta parlando della struttura organizzativa della CIA?» chiese ridendo Judith Li. «Stia attenta, Suzie Wong.»
«Ehi!» Roscovitz sollevò le mani. «Io sono solo un pilota di sommergibili. Voglio capire questa storia. Negli uomini le cellule stanno incollate tutte insieme, ma qui è un'altra faccenda. Noi non ci dissolviamo a piacere, inoltre c'è un sistema nervoso centrale che funge da boss.» «Tra le cellule umane la comunicazione avviene per mezzo di messaggeri chimici», disse Alicia. «E questo che vuol dire? Dobbiamo immaginare queste cellule come un banco di pesci in cui tutti nuotano contemporaneamente nella stessa direzione?» «Il movimento di un banco di pesci è simultaneo solo in apparenza», spiegò Rubin. «Il comportamento dei banchi dipende dalla pressione.» «Questo lo sapevo, gente, volevo solo...» sbuffò Roscovitz. «Sui fianchi dei pesci ci sono degli organi», continuò Rubin, impassibile. «Se un corpo cambia la propria posizione, al suo vicino arriva la pressione di un'onda e automaticamente si sposta nella stessa direzione, e così via finché tutto il banco partecipa allo spostamento.» «Ho detto che lo so!» «Ma certo!» Alicia s'illuminò. «È così!» «Che cosa?» «La pressione delle onde. La grande massa di gelatina può guidare facilmente i banchi con la pressione delle onde. Ci siamo chiesti per quale stregoneria i banchi di pesci non finiscono più nelle reti, e questa potrebbe essere una spiegazione.» «Guidare un intero banco?» chiese Shankar, dubbioso. «Certo, ha ragione», esclamò Greywolf. «Ha maledettamente ragione! Se gli yrr guidano milioni di granchi e possono trasportare miliardi di vermi sulle scarpate continentali, possono dirigere anche i banchi con la pressione delle onde. Una cosa del genere si può fare, eccome. La sensibilità alla pressione è la più importante protezione di un banco.» «Vuol dire che quegli organismi unicellulari nella cisterna reagiscono alla pressione?» «No.» Anawak scosse la testa. «Sarebbe troppo semplice. I pesci possono generare una pressione, ma qui parliamo di organismi unicellulari...» «Eppure ci deve essere qualcosa che innesca la fusione.» «Aspettate», disse Sue. «Ci sono forme simili di comunicazione nei batteri. Il Myxococcus xanthus, per esempio. Una specie che vive nel terreno e si unisce in piccoli gruppi chiusi. Quando le singole cellule non trovano da mangiare a sufficienza, danno una specie di segnale per indicare la fame.
All'inizio, la colonia praticamente non reagisce, ma quando cominciano a esserci più cellule affamate, allora il segnale si fa più intenso finché non supera una determinata soglia. I membri della colonia cominciano a radunarsi. Un po' alla volta, formano una struttura complessa pluricellulare, un corpo fruttifero, che si può vedere a occhio nudo.» «In cosa consiste il segnale?» «È una sostanza che rilasciano.» «Quindi un odore?» «In un certo senso, sì.» La discussione si bloccò. Qualcuno aggrottò la fronte, altri congiunsero la punta delle dita, altri ancora si mordicchiarono il labbro inferiore. «Bene», disse Judith Li. «Sono impressionata. Questo è un grande successo. Non dobbiamo sprecare tempo a scambiarci conoscenze da dilettanti. Quali sono i prossimi passi?» «Avrei una proposta», disse Karen. «Parli pure.» «Allo Château, Leon ha avuto un'idea, ricordate? Si trattava delle ricerche della Marina sul cervello dei delfini. E d'impianti che non erano semplici microchip, ma cellule nervose artificiali strette l'una all'altra, che riproducevano fin nel dettaglio una parte del cervello e che comunicavano tra loro con impulsi elettrici. Se la gelatina è davvero un'associazione di singole cellule e se queste cellule assumono le funzioni delle cellule cerebrali e le sostituiscono, allora possono comunicare tra loro. Addirittura devono farlo. Altrimenti non sarebbero in grado di fondersi e di cambiare forma. Forse creano davvero un cervello artificiale con tanto di messaggeri chimici. Forse...» Esitò. «... Forse assorbono addirittura le emozioni, le caratteristiche e il sapere del loro ospite e in questo modo imparano a governarlo.» «Per farlo dovrebbero avere una notevole capacità di apprendimento», borbottò Sue. «Ma come possono imparare degli organismi unicellulari?» «Leon e io potremmo creare artificialmente al computer una colonia di questi organismi unicellulari e dotarli di caratteristiche. Finché non comincia a comportarsi come un cervello.» «Un'intelligenza artificiale?» «Con basi biologiche.» «Sembra utile», affermò Judith Li. «Fatelo. Altre proposte?» «Cercherò di frugare nella preistoria per trovare una forma di vita imparentata con questi esseri», disse Rubin.
Judith annuì. «Lei ha qualche novità, Sam?» «Non proprio.» La voce di Samantha uscì da una nuvola di fumo. «Stiamo lavorando per decifrare il vecchio segnale scratch, almeno finché non avremo risposte.» «Forse dovreste mandare ai vostri yrr qualcosa di più impegnativo di una verifica di matematica», ironizzò Peak. Samantha lo guardò. Il fumo si diradò, rivelando il suo bel viso e le numerose piccole rughe tirate in un sorriso. «Con calma, Sal.» «Sbaglio o lei è maledettamente ottimista?» «Ho pazienza.» Ponte a pozzo Roscovitz era una di quelle persone che hanno trascorso tutta la vita in Marina e non era disposto a cambiare. Pensava che ciascuno dovesse impegnarsi a fondo nelle cose che sapeva fare e, dato che gli piaceva andare sott'acqua, aveva scelto la carriera di sommergibilista e aveva ottenuto diversi comandi. Ma credeva pure che una delle caratteristiche fondamentali dell'essere umano fosse la curiosità. La sua vita era permeata dalla fedeltà, dal senso del dovere e dall'amore per la patria, ma lui non gradiva affatto la retorica dell'esercito. Aveva capito che la maggior parte dei comandanti di sommergibili attraversava un mondo di cui non sapeva nulla, e lui non voleva essere come loro, così aveva iniziato a studiare. Non era diventato un biologo, ma il suo interesse per la materia era arrivato alle orecchie dei reparti scientifici della Marina, che stavano cercando individui con la mentalità del soldato, ma anche abbastanza flessibili per assumere le funzioni esecutive della ricerca. Quand'era stata presa la decisione di attrezzare l'Independence per la missione in Groenlandia, gli era stato affidato l'incarico di allestire sulla nave la miglior base d'immersione possibile. In tutto il mondo non c'era più denaro disponibile... tranne che per la ricerca. Molti consideravano l'Independence l'ultima speranza dell'umanità, quindi Roscovitz aveva avuto carta bianca, senza limiti di budget. Poteva comprare tutto ciò che gli fosse sembrato utile e, se la cosa era possibile in tempi brevi, anche far costruire quello che non esisteva ancora, ma che lui riteneva indispensabile. Nessuno si aspettava che avrebbe scelto batiscafi con equipaggio. Il principale candidato era il ROV, il robot sottomarino dotato di cavi e tele-
comandato, il cui modello Victor 6000 era già stato usato in Norvegia. Ma anche gli AUV erano ormai così evoluti da non avere neppure bisogno di un cavo di collegamento con la nave. La maggior parte possedeva telecamere ad alta definizione e un tipo di braccio mobile che aveva la sensibilità di un arto in carne e ossa. Nessuno voleva mettere in pericolo vite umane, perché i sommozzatori erano stati regolarmente aggrediti e uccisi, e nessuno si arrischiava più a entrare in acqua. Roscovitz aveva ascoltato quelle argomentazioni, ma poi aveva dichiarato che, in quelle circostanze, se lo potevano scordare. «Abbiamo mai vinto una guerra utilizzando esclusivamente le macchine? Possiamo sparare bombe intelligenti e far volare aerei senza equipaggio sul territorio nemico, ma, durante la battaglia, una macchina non può prendere decisioni come un pilota. Sono certo che in questa missione arriverà un momento in cui saremo noi a dover decidere.» Allora gli era stato domandato di cosa avesse bisogno. Naturalmente di ROV e AUV - aveva risposto -, ma anche d'imbarcazioni con l'equipaggio. Inoltre aveva chiesto una squadra di delfini e, con sua grande soddisfazione, gli era stato comunicato che, su indicazione di un membro dell'équipe scientifica, era già stato predisposto l'invio di MK6 e MK7. E, non appena Roskovitz era venuto a sapere chi si sarebbe occupato delle squadre, la sua soddisfazione era stata ancora maggiore. Jack O'Bannon. Roscovitz non conosceva personalmente O'Bannon. Ma, in certi ambienti, quello era un nome molto noto. Secondo alcuni, era il miglior addestratore che avessero mai avuto. Poi, però, era fuggito dalla Marina come se questa fosse il diavolo. Roscovitz sapeva la verità sui presunti problemi cardiaci di O'Bannon. Per quello era rimasto ancora più sorpreso quando aveva saputo che si trovava a bordo. I suoi superiori avevano cercato di convincerlo a non usare mezzi con uomini a bordo, ripetendogli i rischi connessi a quell'opzione. Ma lui era cocciuto e continuava a ripetere: «Ne avremo bisogno». E, alla fine, si erano decisi a dargli il via libera. Poi Roscovitz li aveva sbalorditi un'altra volta. Verosimilmente, il dipartimento della Marina era partito dal presupposto che lui avrebbe riempito la gigantesca portaerei coi batiscafi più noti, come i MIR russi, gli Shinkai giapponesi e i Nautile francesi. In tutto il mondo c'era una mezza dozzina d'imbarcazioni che poteva raggiungere profondità superiori ai tremila metri e, fra quelle, c'era anche il caro, vecchio Alvin.
Ma Roscovitz aveva inserito alcune novità. Con lo Shinkai si potevano raggiungere i seimilacinquecento metri di profondità, ma il suo movimento verticale era regolabile solo coi flussi e con le pompe delle taniche di zavorra, esattamente come succedeva col MIR e col Nautile. Roscovitz non pensava a esplorare gli abissi marini, bensì alla guerra con un nemico invisibile e, a partire da quel presupposto, aveva dedotto che usare quei batiscafi sarebbe stato come condurre una battaglia aerea con le mongolfiere. La maggior parte dei batiscafi era troppo lenta. Quello di cui aveva bisogno erano i jet degli abissi. Jet da guerra. Dopo qualche tempo, aveva trovato la Hawkes Ocean Technologies di Point Richmond, in. California. L'azienda non godeva soltanto di una fama notevole, ma veniva anche chiamata regolarmente dai produttori hollywoodiani per realizzare le loro idee in modo che fossero scientificamente plausibili. Graham Hawkes, un noto ingegnere e inventore, l'aveva fondata a metà degli anni '90 per realizzare un sogno: volare sott'acqua. Roscovitz gli aveva messo sul tavolo un foglio coi suoi desideri e una gran quantità di denaro. E aveva posto come condizione che realizzassero il progetto in pochissimo tempo. Il denaro aveva fatto sì che i risultati arrivassero. Alle 10.30, gli scienziati, infagottati in una tuta di neoprene che lasciava libero solo il viso, raggiunsero il molo del ponte a pozzo. Roscovitz era più che soddisfatto: una volta tanto, sarebbe stato lui a spiegare qualcosa a quei cervelloni. I soldati e l'equipaggio avevano ricevuto le direttive già a Norfolk. La maggior parte apparteneva ai SEALS, quindi era gente «con le mani e i piedi palmati». Ma Roscovitz era fermamente deciso a rendere abili alla guida e al combattimento anche gli scienziati. Sapeva che, nel corso di una simile operazione, c'era la possibilità che pure un civile si ritrovasse a giocare un ruolo decisivo. Diede alla sua capo tecnico, Kate Ann Browning, l'ordine di far scendere dal ponte uno dei quattro batiscafi e rimase a osservare il Deepflight 1 che si abbassava lentamente. Vista da sotto, l'imbarcazione somigliava a una gigantesca Ferrari senza ruote, dotata di quattro tubi lunghi e sottili. Roscovitz attese finché essa non arrivò all'altezza degli occhi, a quattro metri dal pavimento del bacino e proprio sopra le paratie del pozzo. Anche da quella prospettiva, somigliava davvero poco al classico veicolo per l'immersione. Piatto e largo, con una forma più o meno quadrangolare, quattro reattori per la trazione e per la guida nella parte posteriore, e due corpi tu-
bolari parzialmente in vetro che si staccavano obliquamente dalla sua superficie, il Deepflight ricordava una piccola nave spaziale. Nella parte inferiore della cupola trasparente si stendevano bracci mobili con diverse articolazioni. L'elemento più evidente erano le due ali mozze ai lati. «Trovate che somigli a un velivolo», disse Roscovitz. «E avete ragione. È un velivolo ed è maneggevole come un jet. Le superfici portanti svolgono la stessa funzione, con la piccola differenza che il loro profilo si sviluppa nella direzione opposta. Negli aerei si occupano della spinta. Le ali di un Deepflight, invece, generano un vortice verso il basso e si contrappongono alla spinta. Anche il meccanismo di guida è copiato dagli aerei. Il Deepflight non affonda come una pietra, ma si muove con un angolo d'inclinazione fino a un massimo di sessanta gradi, fa eleganti virate e si muove velocemente verso l'alto o verso il basso, uussc, uussc!» Con la mano aperta indicò l'involucro protettivo. «La differenza principale con un aereo è che non si sta seduti, ma sdraiati. Così ci resta una superficie di tre metri per sei e un'altezza di un metro e quaranta.» «A che profondità può arrivare questo... aereo?» chiese Karen. «Alla profondità che vuole. Può andare dritto sul fondo della fossa delle Marianne in non più di un'ora e mezzo. Questo giocattolino viaggia a dodici nodi. Ha un involucro di ceramica, la cupola è fatta di materiale acrilico ricoperto da un involucro al titanio. Si gode di una vista eccezionale, che, nel nostro caso, consente di sparire in tempo o di fare fuoco, in base alle necessità.» Indicò la parte inferiore. «Abbiamo dotato il nostro Deepflight di quattro siluri. Due hanno un limitato potenziale esplosivo. Possono ferire gravemente una balena e probabilmente ucciderla. Gli altri due fanno dei grossi buchi. Scagliano acciaio e pietre e possono distruggere completamente un gruppo. Vi prego di lasciare che sia il pilota a fare fuoco, a meno che non sia morto o svenuto e quindi per voi non ci sia altra scelta.» Batté le mani. «Okay. Potete cominciare ad azzuffarvi per decidere chi sarà il primo a salire per il giro di prova. Ah, già! Una cosa che vi potrebbe interessare: la benzina basta per otto ore di volo. Se per caso restate bloccati da qualche parte, il sistema provvede a diffondere l'ossigeno per novantasei ore. Ma niente paura: a quel punto, la Marina, Dio degli eserciti, vi avrà già salvati da tempo. Allora, chi vuole provare?» «Senz'acqua?» chiese Shankar guardando scettico verso il basso. Roscovitz sorrise. «Le bastano quindicimila tonnellate?» «Io, eh... Penso di sì.» «Bene. Riempiamo il bacino.»
Combat Information Center Due radiotelegrafisti avevano preso il posto di Samantha Crowe e di Murray Shankar mentre i due scienziati erano trattenuti nel regno di Roscovitz. A rigore, avrebbero dovuto tenere la bocca chiusa e le orecchie tese, ma avevano i computer e potevano contare sull'equipaggio del SOSUS di Shankar sulla terraferma. Qualunque cosa arrivasse dagli abissi marini veniva raccolta da sistemi elettronici e da organi di senso umani, selezionata, valutata e spedita via satellite con un commento all'Independence. Benché il messaggio di Samantha fosse stato trasmesso dalla nave e anche l'Independence fosse in ascolto, essa era solo una delle molte postazioni di ascolto. Una possibile risposta degli yrr avrebbe raggiunto tutti gli idrofoni atlantici. Dalla suddivisione spaziale e dalla registrazione degli intervalli di tempo, il computer avrebbe calcolato il punto da cui proveniva il segnale, l'avrebbe spedito al CIC e quindi avrebbe dato la segnalazione. Con la più completa fiducia nella tecnologia, i due uomini si erano messi a discutere di musica. E ben presto la discussione - sulla credibilità dei cantanti hip hop bianchi - si era fatta animata. Nessuno si curava più dei monitor, finché uno dei due non prese la tazza del caffè e casualmente girò la testa. Rimase come bloccato. «Ehi, cos'è quello?» esclamò. Su due monitor erano comparse linee di frequenza colorate. L'altro sgranò gli occhi. «Da quanto tempo sono lì?» «Non lo so.» Il radiotelegrafista fissava le linee. «Avremmo dovuto ricevere qualcosa dalla terraferma. Perché non si mettono in contatto? Dovrebbero averlo ricevuto.» «È la frequenza su cui ha trasmesso Samantha Crowe?» «Non ne ho idea. Non si sente niente. Deve essere nella zona degli infrasuoni o degli ultrasuoni.» L'altro rifletté. «Okay. Il prossimo idrofono è al largo di Terranova. Gli altri non l'hanno ancora ricevuto, quindi noi siamo i primi che ha raggiunto. E questo può voler dire solo...» Il compagno lo guardò. «... che viene da qui.» Deepflight Il sistema idraulico lavorava rumorosamente mentre riempiva le cisterne
di poppa. La poppa dell'Independence sprofondava lentamente e l'acqua di mare scorreva all'interno. «Possiamo far entrare l'acqua attraverso la chiusa», spiegò Roscovitz quasi gridando per sovrastare il rumore. «Dovremmo aprire tutte le paratie, ma preferiamo evitarlo per motivi di sicurezza. Ci serviamo di uno speciale sistema di pompaggio. Un sistema di tubi separato porta l'acqua all'interno del ponte. L'acqua viene filtrata diverse volte. Esattamente come la chiusa, il bacino è fornito di sensori che ci dicono se possiamo sguazzare nella grande vasca da bagno.» «Testiamo le imbarcazioni nel bacino?» «No. Usciamo.» Dopo che i delfini avevano annunciato il ritiro delle orche, Roscovitz si era convinto che si potesse rischiare una vera immersione. «Oh, santo cielo.» Rubin fissava come paralizzato il bacino che si riempiva. «È come se stessimo affondando.» Roscovitz ridacchiò. «Si sta facendo un'idea sbagliata. Mi è capitato di affondare con una nave da guerra. Mi creda, è un'altra cosa!» «E com'è?» Roscovitz rise. «Mi creda, è meglio non saperlo.» Metro dopo metro, la poppa della gigantesca nave sprofondava. L'Independence era troppo grande perché si potesse avvertire l'inclinazione. Nel suo insieme era una cosa minima, però l'effetto era sconcertante. La marea salì finché arrivò a lambire il bordo del molo. Nel giro di pochi minuti, il ponte si era trasformato in una piscina profonda diversi metri. Anche il delfinario era sott'acqua, così ora gli animali avevano a disposizione tutto lo spazio del bacino. Sul lido artificiale galleggiavano gli zodiac, ben ormeggiati. Il Deepflight 1 oscillava dolcemente sulle onde. Kate Ann, seduta alla console, fece scendere dal soffitto un altro batiscafo. Muovendo un joystick manovrò le imbarcazioni sul sistema di rotaie fino al bordo del molo e aprì la copertura dei corpi tubolari, che si ribaltò verso l'alto. «Ogni cabina tubolare si può aprire e chiudere separatamente», spiegò. «Entrare è semplice. Tuttavia chi non è abituato rischia di bagnarsi i piedi. Durante l'operazione di pompaggio, l'acqua del bacino è stata riscaldata e ora ha una temperatura sopportabile, sui 15 °C. Ma che non vi venga in mente di rinunciare alla tuta protettiva! Se per un qualunque motivo doveste finire in mare aperto senza la protezione del neoprene o del batiscafo, morireste nel giro di pochissimo tempo. L'acqua al largo della Groenlandia raggiunge al massimo i due gradi.»
«Altre domande?» Roscovitz divise i gruppi, formati da un pilota e da uno scienziato. «Allora andiamo. Resteremo nei pressi della nave. È vero che i nostri simpatici delfini dicono che non dobbiamo preoccuparci, ma la situazione può cambiare. Leon, venga con me. Prendiamo il Deepflight 1.» Saltò sull'imbarcazione che altalenò violentemente. Anawak lo seguì, ma perse l'equilibrio e cadde in acqua a testa in giù. Il gelo lo colpì in faccia e gli tolse il fiato. Sputacchiando, risalì in superficie, accolto da una risata collettiva. «Era proprio quello che intendevo», commentò Kate Ann. Anawak si trascinò sullo scafo e, ventre a terra, scivolò nell'interno della cabina tubolare, che si rivelò sorprendentemente comoda e spaziosa. Non si stava sdraiati in modo orizzontale, ma in leggera salita. La posizione del corpo ricordava quella di uno sciatore durante un salto dal trampolino. Davanti a lui c'era un pannello di controllo semplice e funzionale. Roscovitz accese il sistema e la copertura si chiuse silenziosamente. «Non è proprio come una suite al Ritz, Leon.» La voce del colonnello arrivò alle orecchie di Anawak da un altoparlante. Lui voltò la testa. Un metro più in là c'era Roscovitz che lo guardava e gli sorrideva da sotto la cupola di vetro acrilico. «Vede il joystick davanti a lei? Come le ho già detto, è un velivolo e si comporta come tale. Deve imparare a farlo salire e scendere come se fosse un aereo, a fare le virate e a compiere movimenti rotatori in tutte e quattro le direzioni. Inoltre, nella parte inferiore, ci sono quattro getti che producono sufficiente spinta per tenere il Deepflight per un po' in sospensione. Per il primo giro guido io, poi prenderà lei i comandi e io le dirò dove sbaglia.» Improvvisamente si piegarono in avanti e si mossero. L'acqua sciabordò sulla cupola di vetro acrilico e s'immersero, a un'angolazione non troppo pronunciata. Sulla prua e sulle superfici portanti si accesero dei proiettori. Anawak vide scorrere sotto di sé il fondo del bacino. Poi arrivarono alla chiusa. La paratia di vetro si aprì, rivelando un pozzo illuminato, profondo diversi metri e col pavimento di acciaio. Il Deepflight scese lentamente nel pozzo e le paratie di vetro si chiusero alle loro spalle. Anawak si sentiva un po' smarrito. «Non abbia paura», disse Roscovitz. «Si fa più in fretta a uscire che a rientrare.» La paratia di acciaio si mise rumorosamente in moto. Le imponenti lastre si spalancarono e apparve il mare scuro e indefinito. Poi il Deepflight uscì dallo scafo dell'Independence e si diresse verso l'ignoto.
Roscovitz accelerò e fece una virata che li portò sul fianco della nave. Anawak era affascinato. Gli era già capitato di guidare piccoli batiscafi costruiti secondo i sistemi convenzionali, concepiti per l'utilizzo negli strati superiori dell'acqua. Ma quello era completamente diverso. In effetti, il Deepflight si comportava come un aereo sportivo. Ed era veloce! In automobile, venti chilometri all'ora - il corrispettivo di dodici nodi - significava procedere molto lentamente, ma, per essere un veicolo sottomarino, il Deepflight aveva una velocità spettacolare. Anawak osservava, rapito, mentre passavano sotto lo scafo dell'Indipendence per poi tornare in superficie. Roscovitz abbassò la prua del batiscafo e scesero con una ripida inclinazione. Fece un'altra virata, si fermò sotto la poppa della portaerei e risalì. Sopra le loro teste, c'era l'enorme timone. «Impressionato?» chiese Roscovitz. «Eccome», replicò Anawak con voce incerta. «So quello che sta pensando. Ha paura. Ce l'abbiamo tutti. Ma il ponte a pozzo è troppo stretto per esercitarsi. È anche poco profondo. Non vogliamo sfasciare subito questi giocattolini, eh?» La virata successiva fu ancora più stretta. Da un momento all'altro, Anawak si aspettava di scorgere il muso rotondo, bianco e nero, di un'orca; invece arrivarono due delfini che sbirciarono all'interno delle cupole. Sulla testa avevano delle telecamere e sembravano eccitati. Si misero a fare capriole intorno al batiscafo. «Sorrida, Leon!» disse Roscovitz, ridendo. «Ci stanno riprendendo.» Si accese una luce. I comandi del Deepflight erano passati ad Anawak. «Ora guidi lei», lo invitò Roscovitz. «Se arriva qualcosa che ci vuole mangiare, gli serviremo un siluro come colazione. Ma questo lo faccio io, capito? Ora guidi.» Anawak rimase sconcertato e, d'istinto, serrò ancora di più il joystick. Roscovitz non gli aveva detto cosa doveva fare, così, in un primo momento, si limitò ad andare diritto. «Ehi, Leon! Non dorma. Manovrare questo affare è uno spasso.» «Che devo fare?» «Quello che vuole. Basta che faccia qualcosa. Ci porti sulla luna!» E in questo caso la luna è in basso. Va bene... pensò Anawak. Spinse il joystick in avanti. La punta del Deepflight si abbassò bruscamente e loro si diressero verso gli abissi. Anawak teneva lo sguardo fisso nell'oscurità. Tirò indietro il joystick, stavolta con maggiore cautela. L'imbarcazione si raddrizzò. Provò a
fare una virata, ma la prese troppo stretta. Ci provò un'altra volta. Sapeva che stava guidando con troppi strappi, ma in fondo era molto semplice. Una pura questione di esercizio. Un po' più in là, vide il secondo Deepflight e, improvvisamente, cominciò a provarci gusto. Avrebbe potuto volare per ore. «Non male, Leon. È vero che, alla lunga, col suo modo di guidare, c'è il rischio di sentirsi male, ma imparerà. Ora vada in orizzontale. Bene, così. Lo lasci galleggiare lentamente. Ora le mostro come si usa il braccio meccanico. È ancora più semplice.» Dopo cinque minuti, Roscovitz riprese i comandi e riportò lentamente l'imbarcazione verso la paratia. I minuti trascorsi tra le due paratie chiuse sembrarono eterni, ma, alla fine, i due furono liberi e riemersero. In un certo senso, Anawak si sentì sollevato. Nonostante il suo entusiasmo, il pensiero delle orche che quella mattina avevano circondato la nave lo faceva sentire a disagio. Per non parlare delle sorprese che il mare poteva ancora riservare agli imprudenti piloti dei batiscafi. Roscovitz aprì le cupole. Si sollevarono dalle cabine e balzarono sul molo. Davanti a loro c'era Floyd Anderson. «Allora, com'è andata?» chiese, senza dimostrare un particolare interesse. «È stato divertente.» «Purtroppo devo interrompere il divertimento.» Il primo ufficiale guardò il secondo batiscafo che stava riemergendo. «Non appena avete messo la testa sott'acqua, è successo qualcosa. Abbiamo ricevuto un segnale.» «Come?» Samantha si fece avanti. «Un segnale? Di che genere?» «Credo che sia lei a dovercelo dire.» Anderson le rivolse uno sguardo indifferente. «Ma è molto alto. E molto vicino.» Combat Information Center «È un segnale nel campo delle basse frequenze», disse Shankar. «Sul modello scratch.» Lui e Samantha avevano raggiunto di corsa il CIC. Nel frattempo, avevano ricevuto la conferma dalle stazioni di terra. In effetti, secondo i calcoli, la fonte si trovava nelle immediate vicinanze dell'Independence. «Ci capite qualcosa?» chiese Judith Li, entrando. «Per il momento, no.» Samantha scosse la testa. «Dobbiamo usare il computer. Spezzetterà il segnale e lo confronterà coi campioni.»
«Allora ne avremo fino all'anno prossimo.» «Vorrebbe essere una critica?» sbottò Shankar, seccato. «No, tuttavia mi chiedo come farete a decifrare in pochi giorni un segnale su cui la vostra gente si sta spaccando la testa dagli anni '90.» «E se lo chiede ora?» «Non litigate, bambini.» Samantha prese una sigaretta, poi la accese con tutta calma. «Ho detto che è una cosa completamente diversa cercare di farsi comprendere dagli extraterrestri. Verosimilmente, ieri abbiamo mandato agli yrr il primo messaggio che potessero decifrare. Risponderanno nello stesso modo.» «Lei crede davvero che risponderanno con lo stesso codice?» «Se sono gli yrr, se è una risposta, se hanno capito il codice, se hanno interesse a dialogare, allora sì.» «Perché rispondono con gli infrasuoni e non sulla nostra stessa frequenza?» «Perché dovrebbero?» chiese Samantha, sorpresa. «Per diplomazia.» «Perché non risponde in russo a un russo che si rivolge a lei in un inglese passabile?» Judith Li scrollò le spalle. «Va bene. E ora?» «Come prima cosa, dobbiamo interrompere la trasmissione del messaggio per segnalare che abbiamo ricevuto la loro risposta. Se hanno usato il nostro codice, lo scopriremo in fretta. Si saranno sforzati di rendere la decifrazione il più semplice possibile. Ma se la nostra intelligenza sia sufficiente per comprendere la risposta... Be', questa è un'altra faccenda.» Joint Intelligence Center Karen Weaver si era ripromessa l'impossibile. Cercava d'ignorare la consapevolezza dell'esistenza di una forma di vita intelligente e contemporaneamente di confermarla. Samantha le aveva spiegato che tutte le ipotesi sulle civiltà extraterrestri culminavano sempre nelle stesse domande, tra cui c'era quella sulle dimensioni di un'entità intelligente. Nell'ambiente del SETI, dove ci si dedicava alle possibilità di una comunicazione interstellare, si filosofeggiava prevalentemente su esseri consapevoli dell'esistenza di altri mondi, esseri che sollevavano lo sguardo al cielo e che, a un certo punto, decidevano di stabilire un contatto. Era verosimile che esseri di quel genere vivessero sulla
terraferma, cosa che avrebbe imposto limiti ben definiti alla loro possibilità di crescita. Astronomi ed esobiologi erano arrivati a una conclusione: per avere temperature superficiali tali per cui, nel giro di uno o due miliardi di anni, si potesse sviluppare una vita intelligente, un pianeta non doveva possedere meno dell'85 per cento e più del 133 per cento della massa terrestre. Dalle dimensioni di quei pianeti virtuali risultavano diversi scenari riguardanti la forza di gravità, che a sua volta poteva fornire indicazioni sulla costituzione fisica delle specie che li abitavano. Teoricamente, su un pianeta simile alla Terra, un essere vivente poteva crescere senza limiti. In pratica, però, la sua crescita terminava nel momento in cui esso diventava troppo pesante per reggere il suo stesso peso. Naturalmente i dinosauri avevano ossa sovradimensionate, ma, in un certo senso, il cervello era rimasto indietro. Il loro organismo sembrava costruito esclusivamente per permettere loro di spostarsi - a fatica - e mangiare. Per gli esseri intelligenti dotati di mobilità valeva la regola generale che non dovevano superare i dieci metri. Ancora più entusiasmante era la questione del limite inferiore della crescita. Le formiche potevano sviluppare l'intelligenza? E che dire dei batteri o dei virus? Gli scienziati del SETI e gli esobiologi avevano una lunga serie di argomenti su cui discutere. Era praticamente certo che, nei settori più «familiari» dello spazio, non c'era nessuna forma di civiltà simile a quella umana. Ciò si poteva sostenere quantomeno nel sistema solare. Al massimo, c'era la speranza di scoprire su Marte o su una delle lune di Giove qualche spora e forse addirittura un organismo unicellulare. Quindi si cercava la più piccola unità funzionante che potesse essere definita vita, con cui si potesse arrivare inevitabilmente a una molecola organica complessa, il più minuscolo sistema informativo e di memoria immaginabile, con una propria infrastruttura. E quindi si arrivava alla domanda se una molecola poteva sviluppare l'intelligenza. Indubbiamente una molecola non poteva. Ma non era intelligente neppure la singola cellula nervosa del cervello umano. Per rendere intelligente un uomo erano necessari cento miliardi di cellule e ciò era in relazione alle sue dimensioni corporee. Un essere intelligente più piccolo dell'uomo probabilmente avrebbe avuto bisogno di meno cellule, ma le dimensioni delle molecole di cui esse erano costituite sarebbero rimaste uguali e, al di sotto di un certo numero di molecole, non poteva accendersi la scintilla dell'intelligenza. Il problema con le formiche
era proprio quello. Forse si poteva attribuire loro un'intelligenza inconsapevole, ma il loro cervello aveva comunque un numero troppo limitato di cellule per «mirare» a un'intelligenza superiore. Inoltre, poiché le formiche non respiravano coi polmoni, ma conducevano l'ossigeno direttamente nelle cellule attraverso le trachee, non potevano crescere - oltre certe dimensioni la respirazione attraverso il corpo non funzionava più - e quindi non potevano sviluppare un cervello più grande. Così, come tutti gli insetti, arrivavano in un vicolo cieco dell'evoluzione. Gli scienziati ritenevano che il limite inferiore delle dimensioni corporee per un essere intelligente fosse dieci centimetri, e quindi la possibilità di trovare un Aristotele che zampettava era praticamente pari a zero. Figuriamoci un Aristotele unicellulare. Mentre lavorava al computer, tentando di spiegare il rapporto tra organismi unicellulari e intelligenza, Karen rifletteva su queste cose. Poche ore dopo la scoperta fatta in laboratorio, la questione se la gelatina fosse davvero intelligente suscitava, sull'Independence, un diffuso scetticismo. Gli unicellulari non erano creativi e non sviluppavano la consapevolezza di sé. Era vero che una grande massa di unicellulari poteva teoricamente corrispondere a un cervello o a un corpo. Ed era altrettanto vero che la «cosa» al largo di Vancouver Island verso cui avevano nuotato le balene era composta da miliardi di cellule. Ma ciò implicava un pensiero? E, se anche così fosse stato, come apprendeva, quella cosa? Come comunicavano le cellule? Cosa rendeva un conglomerato di cellule un insieme dotato di capacità superiori? Cosa aveva portato gli uomini a un tale livello? O quella gelatina era effettivamente solo una massa apatica, oppure nascondeva un trucco. Era effettivamente riuscita a guidare balene e granchi. Doveva esserci un trucco! La Kurzweil Technologies aveva sviluppato un programma per la costruzione di un'intelligenza artificiale, composta da miliardi di unità di memoria che dovevano simulare i neuroni e quindi il cervello. In tutto il mondo si lavorava sull'intelligenza artificiale e si era arrivati a uno stadio in cui essa era dotata di capacità di apprendimento e, in un certo senso, anche di un autosviluppo creativo. Nessuno dei ricercatori aveva ancora sostenuto di essere arrivato a qualcosa che somigliasse alla consapevolezza, ma la questione rimaneva aperta: in quale momento un agglomerato di piccole unità identiche diventava una forma di vita? E, soprattutto, era
possibile creare la vita in quel modo? Karen aveva preso contatto con Ray Kurzweil, quindi disponeva di un'intelligenza artificiale di ultima generazione. Fece una copia di sicurezza e suddivise l'originale nelle sue singole componenti elettroniche, troncò i ponti di comunicazione e la trasformò in uno sciame destrutturato. Immaginò come sarebbe stato se si fosse scomposto nello stesso modo un cervello umano e cosa sarebbe dovuto succedere perché le singole cellule ritornassero a essere un tutt'uno pensante. Dopo un po', il suo computer era popolato da miliardi di neuroni elettronici, minuscole unità di memoria senza legami tra loro. Poi immaginò che non fossero unità di memoria, ma unicellulari. Miliardi di unicellulari. Rifletté sul passo successivo. Doveva stare vicina alla realtà, altrimenti i suoi risultati non sarebbero stati credibili. Dopo aver riflettuto per un po', programmò uno spazio tridimensionale e lo dotò delle caratteristiche fisiche dell'acqua. Come apparivano gli unicellulari? Avevano tutte le forme possibili: a bastoncino, a triangolo, frastagliati, a stella, con o senza flagelli... Optò per il più semplice. Rotondo. Ora avevano una forma. Finché i suoi colleghi in laboratorio non fossero arrivati ad altre conclusioni, i suoi unicellulari virtuali sarebbero stati rotondi. Un po' alla volta, il computer si trasformò in un oceano. Forse avrebbe dovuto spingersi oltre e programmare anche le correnti, in modo che lo spazio virtuale somigliasse fin nel dettaglio agli abissi oceanici. Ma non c'era tempo. Doveva anzitutto rispondere alla domanda cruciale. Karen fissò il monitor. Quante unità... Come poteva derivarne un essere pensante? Le dimensioni non avevano importanza. Per gli esseri che vivevano nell'acqua non valeva la regola generale delle dimensioni corporee massime, perché essi sono soggetti ad altre condizioni di gravità. Un essere intelligente che viveva nell'acqua poteva raggiungere dimensioni incomparabilmente più grandi di un organismo che viveva sulla Terra. Erano pochi gli scenari di civiltà acquatiche elaborati del SETI: non era possibile raggiungere simili culture con le onde radio e, probabilmente, esseri subacquei non avrebbero sviluppato interesse per lo spazio e per gli altri pianeti. Oppure avrebbero attraversato l'universo in acquari volanti? Era proprio quello lo scenario di cui aveva bisogno. Mezz'ora dopo, quando Anawak entrò nel JIC, trovò Karen che fissava il monitor. Lei fu felice di vederlo. Dopo il suo ritorno dal Nunavut, avevano
parlato molto del loro passato. Anawak sembrava sicuro di sé e ottimista. L'uomo triste che lei aveva visto al bar dello Château si era perso da qualche parte nell'Artico. «A che punto sei?» le chiese. «Ho il cervello annodato.» Karen scosse la testa. «Non so da che parte cominciare.» «Qual è il problema?» Gli raccontò che cosa aveva fatto. Anawak la ascoltò senza interromperla, poi disse: «Ovvio che non riesci ad andare avanti. Tu sei bravissima nelle simulazioni al computer, ma ti mancano alcune conoscenze basilari di biologia. Ciò che rende un cervello un'unità pensante è la sua struttura. I neuroni del nostro cervello sono in larga misura simili; sono le forme e i modi della connessione che portano al pensiero. È come... Hmm... Sta' attenta. Immagina la pianta di una città.» «Okay, Londra.» «E adesso immagina che improvvisamente tutte le case e le strade perdano coesione e cadano le une addosso alle altre. Una vera baraonda. Ora prova a rimetterle insieme. Ci sono infinite varianti, ma solo una è Londra.» «Va bene. Ma come faccio a sapere dove va ogni casa?» Karen sospirò. «No, partiamo da un altro punto. Non importa come le cellule nel cervello sono collegate tra loro. La questione è: perché prese nel loro insieme formano qualcosa che è più della somma delle parti?» Anawak si grattò il mento. «Come posso spiegartelo? Okay, torniamo alla nostra città. Si sta costruendo un grattacielo, diciamo da... mille operai. Sono tutti uguali... Per quanto mi riguarda possono anche essere clonati.» «Oh, mio Dio. Non è Londra.» «Ognuno di loro ha un compito specifico, determinati movimenti che deve eseguire. Ma nessuno di loro conosce il progetto per intero. Tuttavia costruiscono la casa. Se tu ne sostituissi qualcuno, ci sarebbe un blocco. Dieci operai che formano una catena per passarsi le pietre cadrebbero in confusione se improvvisamente uno di loro fosse sostituito da uno che deve avvitare.» «Capisco. La cosa funziona finché ciascuno resta al proprio posto.» «Funzionano insieme.» «E tuttavia alla sera vanno a casa.» «Vanno ciascuno nella propria direzione. Il giorno successivo, sono di nuovo tutti al cantiere e proseguono. Potresti dire che il lavoro funziona
perché c'è qualcuno che suddivide gli operai, ma senza operai la casa non si potrebbe costruire. Un elemento ha bisogno dell'altro. Dal progetto deriva l'effetto della collaborazione e, a sua volta, da quella deriva il progetto.» «Quindi c'è un progettista.» «Oppure gli operai sono il progetto.» «E ogni operaio deve essere codificato in maniera leggermente diversa rispetto ai suoi colleghi.» «Esatto. Gli operai sono uguali solo in apparenza. Ricominciamo da capo. Okay, c'è un progetto. Okay, loro sono codificati. Ma cosa ti serve perché diventino una rete?» Karen rifletté. «La volontà di collaborare?» «Una cosa più semplice.» «Hmm...» Poi, improvvisamente, comprese. «La comunicazione. Una lingua che tutti capiscano. Un messaggio.» «E cosa dice il messaggio quando, al mattino, tutti si alzano dal letto?» «Vado al cantiere, a lavorare.» «E dunque?» «So che cosa devo fare.» «Già. Be', sono operai poco adatti a una conversazione complessa. Sono tipi che lavorano sodo. Sudano costantemente, sudano anche di notte a letto e al mattino quando si alzano, sudano per tutto il giorno. Come fanno a riconoscersi tra loro?» Karen lo guardò con un'espressione tirata. «Dall'odore di sudore.» «Bingo!» «Certo che ne hai di fantasia.» Anawak sorrise. «È colpa di Sue. Ha raccontato prima di quel batterio che forma delle colonie... Myxococcus xanthus. Lo sai anche tu, secerne una sostanza odorosa e tutti si ammucchiano.» Karen annuì. Aveva senso. L'odore era una possibilità. «Ci penserò in piscina», disse. «Vieni anche tu?» «A nuotare? Adesso?» «A nuotare? Adesso?» lo scimmiottò. «Stammi a sentire, di solito non me ne sto chiusa in una stanza e inchiodata in un posto.» «Pensavo fosse normale per i patiti di computer.» «Ho l'aspetto di una patita di computer? Sono pallida e flaccida?» «Oh, sei senza dubbio l'apparizione più pallida e flaccida che mi sia mai capitato di vedere», rise Anawak. Notò lo scintillio negli occhi di Karen. Anawak era piccolo e tarchiato e
non sembrava davvero George Clooney, ma in quel momento le sembrò bello e sicuro di sé. «Che stupido», disse, ridendo. «Grazie.» «Solo perché hai trascorso metà della tua vita in acqua, sei convinto che chi si occupa di computer sia cresciuto appiccicato a una sedia. La maggior parte delle cose le faccio all'aria aperta. Con la mia testa, Leon! Metto il laptop nello zaino e via, camminare! Si può scrivere anche su una roccia, sai? Questa ricerca m'innervosisce. Mi sento le spalle come se fossero travi d'acciaio.» Anawak si alzò e si portò dietro di lei. Per un momento, Karen pensò che se ne volesse andare. Poi sentì le sue mani sulla nuca, sulle scapole. Le stava facendo un massaggio. Karen s'irrigidì. Non era sicura che le piacesse. Certo che le piaceva. Però non era sicura di volerlo. «Non sei contratta», commentò Anawak. Aveva ragione. Perché l'aveva detto? Nel momento in cui si alzò dalla sedia, un po' troppo bruscamente, facendo scivolare via le mani di Anawak, Karen comprese che stava commettendo un errore. Le sarebbe piaciuto restare lì, seduta, e lasciarlo continuare. E invece mormorò, imbarazzata: «Io vado a nuotare», e uscì. Anawak Si chiese cos'era andato storto. Sarebbe andato volentieri con lei in piscina, ma l'atmosfera era cambiata di colpo. Forse doveva chiederle il permesso di farle un massaggio alle spalle. Forse aveva valutato male la situazione. Tu non ci sai fare in queste cose, pensò. Resta con le tue balene, stupido eschimese che non sei altro... Decise di cercare Johanson per discutere la questione delle intelligenze unicellulari. Ma, in un certo senso, non ne aveva voglia. Così decise di dare un'occhiata al CIC. Greywolf e Alicia trascorrevano in quel luogo la maggior parte del tempo, impegnati nell'osservazione e nell'interpretazione dei suoni della squadra di delfini. Ma nel CIC non c'era altro da vedere che le riprese delle telecamere sullo scafo. I monitor mostravano l'acqua scura. Non era successo praticamente nulla da quando, al mattino, le orche avevano circondato la nave e poi, a quanto pareva, se n'erano andate. Shankar
era seduto davanti al monitor su cui scivolavano file di numeri, portava cuffie enormi ed era in ascolto dei suoni degli abissi. Uno degli uomini di Shankar disse che Greywolf e Alicia erano nel ponte a pozzo per dare il cambio a MK6 con MK7. Quindi Anawak discese la rampa del tunnel e raggiunse il ponte dell'hangar. Lì faceva freddo e si era esposti alle correnti. Voleva procedere, ma qualcosa lo trattenne. Benché la luce del giorno entrasse dalle gigantesche aperture degli elevatori esterni, l'atmosfera era dominata dalla penombra giallognola e sbiadita dell'illuminazione al vapore di sodio. Cercò d'immaginare l'hangar pieno di elicotteri, jet Harrier, veicoli e attrezzature, tutto stipato al centimetro, in modo che restasse appena lo spazio per infilarsi in una porta, in una finestra o in una botola. Cercò d'immaginare le jeep e i muletti che salivano e scendevano le rampe, scoppiettando rumorosamente. Cercò d'immaginare le centinaia di marine diligenti che, non appena i velivoli arrivavano in coperta, ne esaminavano le armi e le attrezzature, veloci e concentrati. Immaginava l'imponente meccanismo dell'Independence. Quello spazio gigantesco era assurdamente vuoto, inutile. Gli uffici tra le strutture di rinforzo dello scafo erano inutilizzati. Le lampade gialle appese alle traverse d'acciaio dell'alto e scuro soffitto illuminavano praticamente solo se stesse. Le tubature lungo le pareti conducevano al nulla. E ovunque c'erano cartelli di pericolo. Per chi? «Talvolta, se la palestra è troppo affollata, mettiamo qui qualche tapis roulant», aveva detto Peak a Norfolk quando lo aveva condotto a fare un giro per la nave. «Allora sì che è proprio piacevole.» Era rimasto con la fronte aggrottata, come se stesse cercando le parole giuste. Infine aveva aggiunto: «Odio quando l'hangar è così vuoto. Odio il senso di abbandono che deriva dagli spazi che dovrebbero essere pieni. In un certo senso odio questa missione». Era stata l'unica volta che aveva visto Peak in quello stato d'animo. Lo spazio più vuoto è sempre quello dentro di sé, pensò Anawak. Senza fretta, attraversò l'hangar e uscì sulla piattaforma dell'elevatore di sinistra. Il montacarichi era sospeso sulle onde, simile a un enorme solarium. Era fissato a rotaie verticali collocate ai due lati del portone di accesso. Due grandi elicotteri, con le pale dei rotori ripiegate, si trovavano lì per essere sollevati dall'hangar al ponte di volo. Anawak socchiuse gli occhi. Il vento sembrava morderlo. Una violenta raffica avrebbe potuto sollevare una persona e gettarla oltre la piattaforma, che era priva di sponde. Invece,
intorno alla piattaforma, erano tese delle reti. Un cerchio di reti simili circondava tutta la nave, in modo che la tempesta e il getto degli aerei non scagliassero qualcuno in acqua. Restava comunque rischioso. Dieci metri sotto di lui, infuriava il mare. La visuale era ancora indistinta, ma la pioggia di particelle ghiacciate era finita. Il mare era un'infinita distesa marmorizzata, striata di schiuma. Un mare color ardesia, striato di bianco e in moto costante. Un deserto. Che strano, pensò. Aveva trascorso più di metà della sua vita nel clima più temperato della costa occidentale del Canada. E adesso, per la seconda volta consecutiva, il destino l'aveva scagliato tra i ghiacci. Il vento gli scompigliava i capelli. Sentì la pelle diventare progressivamente insensibile per il freddo. Portò le mani davanti alla bocca, formando una conchiglia, e ci soffiò dentro. Poi rientrò. Laboratorio Sigur Johanson aveva promesso a Sue Oliviera d'invitarla a una vera cena a base di gamberi non appena tutto fosse finito. Poi con l'aiuto dello Spherobot pescò un granchio dal simulatore. Il robot sferico, tenendo nel suo braccio meccanico l'animale quasi completamente immobile, scivolò nel garage, dov'era pronto un contenitore a chiusura ermetica, laccato, di PVC. Era impressionante: sembrava quasi che il robot reggesse quel granchio tenendolo a distanza con disgusto, per farlo poi cadere nel contenitore che infine chiuse. Un piccolo robot stomacato dalla situazione. Il contenitore fu portato in uno spazio asciutto attraverso una paratia, spruzzato di acido peracetico, lavato con l'acqua, sottoposto a un altro getto di soda caustica e portato fuori dal simulatore attraverso un'altra paratia. Per quanto letale fosse l'acqua nella cisterna, adesso il contenitore era pulito. «È sicura di cavarsela da sola?» chiese Johanson. Aveva in programma una videotelefonata a Bohrmann che, a La Palma, stava preparando l'operazione con l'aspiratore. «Nessun problema.» Sue prese il contenitore col granchio. «Nel caso, mi metterò a gridare, con la speranza che venga lei a salvarmi e non quello scimmione di Rubin.»
Johanson rise sotto i baffi. «Condividiamo un'avversione?» «Non ho niente contro Mick», disse lei. «Però è così maledettamente impegnato a inseguire il Nobel...» «Pare anche a me. E lei?» «Che c'entro io?» «Non ha voglia di mettersi sul capo la corona d'alloro? Se sopravvivremo, tutti noi diventeremo un po' più famosi.» «Non avrei nulla in contrario a qualche fan. La scienza è piuttosto arida.» Sue si bloccò. «A proposito, dov'è?» «Chi? Rubin?» «Sì. Voleva assistere alle analisi del DNA nel laboratorio di massima sicurezza.» «Ne sia lieta.» «Ne sono lieta. Però mi chiedo dove si sia cacciato.» «Sicuramente starà facendo qualcosa di utile», disse Johanson, conciliante. «Credo che non sia una cattiva persona. Non puzza, non ha ucciso nessuno e sui suoi scaffali c'è una lunga serie di riconoscimenti. Può anche non piacerci, ma ci è d'aiuto.» «Davvero? Lei crede davvero che finora abbia fatto qualcosa di utile?» Johanson allargò le braccia. «Mia gentile signora, che importanza ha chi di noi ha una buona idea?» Sue sorrise. «L'autoinganno di serie B.» Si strinse nelle spalle. «Ma sì, faccia quello che vuole. Chissà che non torni buono.» Sedna Anawak si avvicinò al bordo del bacino. Il ponte era ancora pieno d'acqua. Vide Greywolf e Alicia, con le tute di neoprene, togliere le bardature ai delfini. Più in là, verso poppa, sul ponte era sospeso un batiscafo Deepflight. Roscovitz e Kate Ann tenevano d'occhio ogni cosa dal pannello di controllo. Lo scafo, simile a quello di una navicella spaziale, si piegò lentamente in avanti, fino a toccare l'acqua, e vi si appoggiò, oscillando. Sul fondo, attraverso l'acqua increspata, si vedeva luccicare la paratia. Roscovitz guardò verso di lui. «Esce?» gli gridò Anawak. «No.» L'altro indicò l'imbarcazione. «Questo giocattolino è un po' malconcio. Ha qualcosa che non va nella guida verticale.»
«Una cosa grave?» «Niente d'importante, ma è meglio controllare.» «È quello con cui siamo usciti noi, vero?» «Non abbia paura. Non l'ha rotto lei.» Roscovitz rise. «Probabilmente è un difetto del software. Tra qualche ora sarà tutto a posto.» Un'ondata colpì le gambe di Anawak. «Ehi, Leon!» Alicia gli sorrise dal bacino. «Che fai lì? Vieni dentro.» «Buona idea», disse Greywolf. «Così potresti fare qualcosa di utile.» «Noi lassù facciamo tante cose utili», ribatté Anawak. «Senza dubbio.» Greywolf accarezzò un delfino che si era avvicinato ed emetteva deboli suoni. «Infilati una delle mute.» «Volevo solo salutarvi.» «Gentile da parte tua.» Greywolf diede una pacca al delfino e rimase a guardarlo mentre si allontanava in fretta. «Ora ci hai salutati.» «C'è qualche novità?» «Stiamo preparando la seconda squadra», rispose Alicia. «MK6 non ha registrato nulla di straordinario, a parte stamattina quando ha comunicato la presenza delle orche.» «E prima che le vedessero gli strumenti elettronici», notò Greywolf non senza una punta d'orgoglio. «Sì, il loro sonar...» Anawak si prese una seconda ondata, stavolta perché uno degli animali era balzato fuori dall'acqua e l'aveva infradiciato. Evidentemente il delfino si divertiva. «Non sforzarti», disse Alicia al delfino, come se questi la potesse capire. «Leon non entra. Si gelerebbe il sedere, perché non è un vero inuit, ma solo un inuit presunto. Non può essere un inuit. Altrimenti già da tempo sarebbe...» «Okay! Okay!» Anawak alzò le mani. «Dov'è quella maledetta muta?» Cinque minuti dopo, stava aiutando Alicia e Greywolf a dotare di telecamera e trasmittente gli animali della seconda squadra. Improvvisamente rammentò che Alicia gli aveva chiesto se era un makah. «Come ti è venuto in mente?» volle sapere. Lei si strinse nelle spalle. «Eri così riservato... Dovevi essere di qualche tribù indiana. Comunque non somigliavi di certo a un tedesco. Ora che ti conosco meglio...» Lo guardò, raggiante. «... Ho qualcosa per te!» «Tu hai qualcosa per me?»
Lei fissò una cinghia intorno al torace di un delfino. «L'ho trovato su Internet. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere. L'ho imparato a memoria. Vuoi sapere cos'è?» «Parla!» «La storia del tuo mondo!» Sembrava quasi che le sue parole fossero accompagnate da una fanfara. «Oh, santo cielo.» «Non t'interessa?» «Ma certo», disse Greywolf. «Leon ha un interesse ardente per la sua amata patria, solo che creperebbe piuttosto di ammetterlo.» Si avvicinò, accompagnato da due delfini. Nella sua muta sembrava un mostro marino di medie dimensioni. «Preferisce essere considerato un makah.» «Sei tu ad aver bisogno di sembrare un indiano», osservò Anawak. «Non litigate, bambini!» Alicia si distese sulla schiena e si lasciò galleggiare. «Sapete da dove vengono le balene, i delfini e le foche? Volete sentire la vera spiegazione?» «Bruciamo di curiosità.» «Allora, tutto è cominciato nella notte dei tempi, quando uomini e animali erano una cosa sola. A quell'epoca, nei pressi di Arviat, viveva una ragazza.» Anawak ascoltava. Da bambino aveva sentito quella storia in tutte le varianti possibili, ma, dopo l'infanzia, essa si era come perduta. «Dov'è Arviat?» chiese Greywolf. «Arviat è l'insediamento più meridionale del Nunavut», rispose Anawak. «Il nome della ragazza era forse Talilayuk?» «Oh, sì. Si chiamava Talilayuk», proseguì Alicia con un certo pathos. «Aveva capelli bellissimi, e molti uomini erano interessati a lei, ma solo un uomo-cane era riuscito a conquistare il suo cuore. Così Talilayuk era rimasta incinta e aveva partorito inuit e non-inuit, tutti mescolati. Finché, un giorno, mentre l'uomo-cane era andato a caccia, nell'accampamento di Talilayuk era comparso uno splendido uomo-uccello della tempesta. Aveva invitato la donna a salire sul suo kayak e, come succede di solito, tra i due si era accesa la passione.» «Già, come succede di solito.» Greywolf stava ispezionando l'obiettivo di una telecamera. «Quand'è che entrano in gioco le balene?» «Calma. A questo punto, arriva il padre di Talilayuk, in visita alla figlia. Ma lei è sparita e l'uomo-cane è disperato. Allora il vecchio prende una barca e va per mare finché non arriva all'accampamento dell'uomo-uccello
della tempesta. Già da lontano vede Talilayuk seduta davanti alla tenda: la raggiunge e le fa una scenata, dicendole che deve tornare immediatamente a casa. La donna obbedisce e i due risalgono sulla barca. Dopo qualche tempo, però, vedono che il mare comincia a ingrossarsi. In breve, le onde diventano sempre più alte e infine scoppia una violenta tempesta. I frangenti colpiscono la barca e il vecchio teme che non riusciranno a raggiungere la terraferma. Poi capisce che quella è la vendetta dell'uccello della tempesta e allora afferra Talilayuk - l'unica responsabile di quel pasticcio - e la getta fuori bordo, sperando così di salvarsi. La ragazza, disperata, si afferra al bordo della barca. Il vecchio le grida di mollare la presa, ma Talilayuk si aggrappa ancora di più. Di conseguenza, lui perde il lume della ragione, afferra una scure e la colpisce sulle prime falangi delle dita. Non appena esse toccano l'acqua, però, si trasformano in narvali e le unghie diventano la 'spada' di quegli animali. Ma Talilayuk non vuole mollare. Così il vecchio le taglia le falangi mediane e quelle si trasformano in balene bianche, in beluga. Niente da fare: la ragazza rimane sempre aggrappata al bordo. Le ultime falangi si trasformano in foche. Talilayuk non cede. In qualche modo, riesce a restare aggrappata coi palmi delle mani alla barca che comincia a riempirsi d'acqua. In preda al terrore, il vecchio la colpisce con la pagaia in pieno volto e le strappa l'occhio destro. Finalmente lei molla la presa e sprofonda nelle onde.» «Che storia crudele.» «Ma Talilayuk non muore... o, almeno, non muore davvero. Si trasforma nella dea del mare, Sedna, e regna sugli animali degli oceani. Scivola tra le acque con un occhio solo e coi moncherini delle mani tesi in avanti. I suoi capelli sono sempre bellissimi, ma lei, non avendo le mani, non può pettinarli. E siccome la cosa la irrita profondamente, si dice che chi riuscirà a pettinare i capelli di Sedna e a raccoglierli in una treccia, potrà rabbonirla. E lei gli permetterà di cacciare i suoi animali marini.» «Quand'ero piccolo, questa storia era raccontata durante le lunghe notti invernali e ogni volta era un po' diversa», disse Anawak sottovoce. «Ti è piaciuta?» «Mi è piaciuto che tu l'abbia raccontata.» Sorrisero, soddisfatti. Anawak si chiedeva cosa l'avesse spinta a tirare fuori la leggenda di Sedna. Gli sembrava che, dietro quella storia, ci fosse molto di più che il caso. Alicia aveva cercato quella storia su Internet. Era un regalo per lui. Una prova della sua amicizia.
In un certo senso, era commovente. «Sciocchezze.» Greywolf fischiò per chiamare l'ultimo delfino che non era ancora dotato di telecamera e idrofono. «Leon è un uomo di scienza. Con lui non otterrai niente parlando di dee marine.» «La vostra sciocca, piccola guerra», mormorò Alicia, scuotendo la testa. «Senza contare che quella storia non è vera. Volete davvero sapere come si è formato tutto? Non c'era nessuna terra. C'era solo un capo tribù che abitava in una capanna sott'acqua. Era davvero un pigrone, perché non si alzava mai; restava sempre coricato, dando la schiena al fuoco in cui bruciava un qualche cristallo. Viveva là sotto completamente solo e il suo nome era 'il magnifico uomo attivo'. Un giorno, il suo aiutante gli disse che gli spiriti e gli esseri soprannaturali non trovavano nessuna terra in cui stabilirsi e che lui doveva fare qualcosa per prestare fede al suo nome. Come risposta, il capo tribù sollevò da terra due pietre e le diede all'aiutante, aggiungendo che dovevano essere gettate in acqua. L'aiutante obbedì e le pietre s'ingrandirono sino a formare la Queen Charlotte Island e tutta la terraferma.» «Grazie», sogghignò Anawak. «Finalmente una rigorosa spiegazione scientifica.» «Il racconto deriva da un antico ciclo haida: Hoyá Káganas, 'I giganti del corvo'», disse Greywolf. «Presso i nootka si trovano storie simili e molte ruotano intorno al mare. O vieni da lui o lui ti distrugge.» «Forse dovremmo prestare più attenzione a queste leggende», disse Alicia. «Nel caso non riuscissimo a fare passi avanti con la scienza.» «Da quando t'interessi dei miti?» si meravigliò Anawak. «È divertente.» «Tu sei ancora più concreta di me.» «E allora? In ogni caso, i miti dicono molto chiaramente come vivere in pace con la natura. A chi interessa se anche una sola di quelle parole è vera? Si riceve qualcosa e si rende qualcosa. Questa è la verità.» Greywolf sorrise e diede dei colpetti al delfino. «Così avremmo risolto il problema, vero, Licia? Allora basterebbe usare il tuo corpo.» «Che vorresti dire?» «Mi hanno detto che la gente che viveva sul mare di Bering aveva un'usanza singolare. Prima che i cacciatori uscissero in mare, quello che lanciava di arpione doveva andare a letto con la figlia del capo, per prendere l'odore della sua vagina. Quello attirava la balena vicino alla barca e la addolciva a tal punto che si lasciava uccidere.»
«A una cosa del genere possono arrivare solo gli uomini», sbuffò Alicia. «Uomini, donne, balene...» Greywolf rise. «Hishuk ish ts'awalk. 'Tutto è uno'.» «Okay», esclamò Alicia. «Immergiamoci sul fondo marino, cerchiamo Sedna e pettiniamola.» Tutto è uno... Quella frase riecheggiò nella mente di Anawak. Akesuk gli aveva detto: «Non potete risolvere questo problema con la scienza, ragazzo mio. Uno sciamano ti direbbe che tutto ciò dipende dagli spiriti del mondo animale che vagano negli esseri viventi. I qallunaat hanno iniziato a distruggere la vita. Si sono inimicati gli spiriti, la dea del mare, Sedna. Chiunque siano quegli esseri, non otterrete nulla se cercherete di attaccarli». E aveva aggiunto: «Nella lotta per la supremazia non ci sono vincitori... Imparate a comprenderli invece di combatterli». Roscovitz e Kate Ann avevano fatto un passo avanti nella riparazione del Deepflight, e intanto loro stavano lì a nuotare coi delfini e a raccontarsi leggende sugli spiriti e sulla dea del mare. Si divertivano e, nonostante il riscaldamento e le mute protettive, senza rendersene conto perdevano progressivamente il calore corporeo. Come avrebbero potuto pettinare i capelli della dea del mare? Fino a quel momento, gli uomini avevano gettato a Sedna soltanto sostanze tossiche e scorie nucleari. Una marea nera dopo l'altra, che finiva per ingarbugliarle ancora di più i capelli. Avevano cacciato i suoi animali e molti si erano addirittura estinti per colpa loro. Anawak sentiva il cuore battere nell'acqua gelida. Aveva i brividi. Qualcosa gli diceva che quell'istante di felicità sarebbe stato breve. Aveva fatto pace con molte cose, aveva conquistato nuovi amici, si sentiva libero dal peso di un'esistenza intesa nel modo sbagliato. In lui s'insinuò il vago sospetto che tutto ciò stesse per finire. Non si sarebbero mai più ritrovati insieme in quel modo. Greywolf esaminò la bardatura del sesto e ultimo delfino della squadra e annuì, soddisfatto. «Tutto a posto», disse. «Mandiamoli fuori.» Laboratorio di massima sicurezza «Sono proprio una stupida. Ma ero forse cieca?» Sue osservava lo schermo su cui c'era l'ingrandimento del campione messo sotto il microscopio a fluorescenza. A Nanaimo aveva esaminato diverse volte la gelatina o, meglio, ciò che ne era rimasto dopo che aveva-
no tolto la sostanza dal cervello delle balene. Aveva guardato al microscopio anche i frammenti attaccati al coltello di Anawak durante l'immersione sotto la Barrier Queen. Ma non sarebbe mai arrivata a pensare che una sostanza in decomposizione fosse formata da un insieme di organismi unicellulari. Avrebbe dovuto capirlo prima. Ma tutti si erano concentrati sull'alga killer, la Pfiesteria. Lo stesso Roche non si era accorto che la sostanza gelatinosa in decomposizione non era sparita, ma si trovava lì sotto il microscopio in forma di organismi unicellulari morti o moribondi. Nell'interno degli astici e dei granchi c'era tutto, e tutto si era mischiato: alghe killer, gelatina e acqua marina. Acqua marina! Per secoli ci si era lasciato sfuggire il novantanove per cento delle forme di vita perché si prestava attenzione soltanto ai pesci, ai mammiferi e ai crostacei. In realtà, non erano gli squali, le balene e i calamari giganti a dominare gli oceani, ma eserciti di esseri microscopici. In ogni litro d'acqua di superficie, c'erano dozzine di miliardi di virus, un miliardo di batteri, cinque milioni di organismi unicellulari e un milione di alghe. Anche i campioni d'acqua presi dalle zone senza luce e con le condizioni meno favorevoli alla vita, cioè oltre i seimila metri, mostravano la presenza di milioni di virus e batteri. In quel caos, era praticamente impossibile mantenere una visione d'insieme. Più la ricerca si spingeva nel microcosmo, più esso si rivelava immenso. Cos'era l'acqua marina? Uno sguardo attraverso un microscopio a fluorescenza portava alla conclusione che si trattava di una sorta di gel poco denso. In ogni goccia le macromolecole erano collegate da una sorta d'intreccio di ponti sospesi. Nel groviglio di fili trasparenti, membrane e pellicole, innumerevoli batteri trovavano la loro nicchia ecologica. Bastava un millilitro per avere una misura lineare di due chilometri di molecole del DNA, trecentodieci chilometri di proteine e cinquemilaseicento chilometri di polisaccaridi. E da qualche parte lì in mezzo si nascondevano i membri di una forma di vita probabilmente intelligente. Si nascondevano lì dentro e intanto mostravano il volto di microbi assolutamente comuni. La gelatina si presentava in modo così bizzarro non perché formata da forme di vita esotica, ma perché composta da amebe degli abissi assolutamente ordinarie. Sue Oliviera sobbalzò. Era evidente perché Roche non aveva capito, perché non aveva capito lei stessa e perché non avevano capito tutte le persone che avevano analizzato l'acqua del bacino di carenaggio. Nessuno aveva pensato che le amebe de-
gli abissi marini potessero fondersi e guidare granchi e balene. «Non può essere», mormorò. Le sue parole suonarono straordinariamente prive di energia. Senza il riverbero, rimasero chiuse dentro l'involucro della sua tuta protettiva. Lei confrontò di nuovo i risultati tassonomici, ma senza scoprire nulla di nuovo. La gelatina era composta dai rappresentanti di un insieme di una nuova specie di amebe, una specie che in gran parte proveniva da oltre i tremila metri di profondità, talvolta anche da profondità maggiori, ed era presente in masse inimmaginabili. «Sciocchezze», sibilò la biologa. «Mi stai prendendo in giro, piccola. Ti sei travestita. Hai solo l'aspetto di un'ameba. Non ti credo, non ti credo per niente! Cosa diavolo sei, realmente?» DNA Dopo il ritorno di Johanson, si misero all'opera per isolare le singole cellule della gelatina. Senza sosta, congelarono e scaldarono le amebe, finché le pareti delle cellule non scoppiarono. Dopo l'aggiunta di proteinasi, le molecole proteiche si frantumarono in catene di aminoacidi. Aggiunsero del fenolo e centrifugarono i campioni - una procedura lunga e difficile -, liberarono la soluzione dai residui proteici e dai resti delle pareti cellulari, tolsero gli elementi precipitati e finalmente ottennero un liquido acquoso e non troppo limpido, la chiave per la comprensione dell'organismo sconosciuto. Una soluzione di DNA. Il passo successivo richiese ancora più pazienza. Per decifrare il DNA, dovevano isolarne una parte e farne delle copie. Non era possibile leggere il genoma nel suo complesso, perché era troppo complicato, così si gettarono ad analizzare le sequenze di alcune parti determinate. Era un lavoro pazzesco e Rubin non poteva aiutarli perché non stava bene. «Quello stronzo», sussurrò Sue. «Ora che potrebbe rendersi utile. Ma si può sapere cos'ha?» «Un'emicrania», rispose Johanson. «Be', è consolante. L'emicrania fa male.» Sue mise le pipette coi campioni nel sequenziatore. Per fare i calcoli sarebbero servite varie ore, così si fecero scorrere addosso l'obbligatoria pioggia di acido e uscirono all'aperto. Sue propose una pausa sigaretta nel
ponte dell'hangar, ma Johanson aveva un'idea migliore. Sparì nella sua cabina e ricomparve cinque minuti dopo con due bicchieri e una bottiglia di Bordeaux. «Andiamo», disse. «Dove l'ha scovata?» chiese Sue, meravigliata, mentre scendevano la rampa. «Una cosa del genere non si 'scova'», rispose Johanson, ridendo sotto i baffi. «Una cosa del genere si porta con sé. Sono un maestro nel portarmi appresso cose proibite.» Sue occhieggiò incuriosita la bottiglia. «Ma è buono? Non me ne intendo molto.» «È uno Château Clinet del '90. Pomerol. Alleggerisce il portafoglio e i pensieri.» Johanson adocchiò una cassa metallica vicino a uno degli uffici e vi si diresse. Si sedettero. Non si vedeva nessuno. Di fronte a loro si spalancava il portone della piattaforma di dritta, rivelando il mare che si stendeva, tranquillo e piatto nella penombra della notte polare, attraversato da veli di foschia e gelo, ma senza ghiaccio. Nell'hangar faceva freddo, ma, dopo le ore trascorse nel laboratorio di massima sicurezza, avevano bisogno di aria fresca. Johanson stappò la bottiglia, versò il vino e accostò il suo bicchiere a quello della donna. Un suono cristallino si perse nell'immensità nebbiosa. «Buono», affermò Sue. Johanson fece schioccare le labbra. «Ho portato con me qualche bottiglia per le occasioni speciali», disse. «E questa è un'occasione speciale.» «Crede che riusciremo a trovare le tracce di quelle cose?» «Forse li abbiamo già.» «Gli yrr?» «Già, la questione è proprio questa. Che cosa abbiamo nella cisterna? È possibile immaginare un'intelligenza formata da organismi unicellulari? Da amebe?» «Se guardo con attenzione l'umanità, mi chiedo cosa ci differenzia dalle amebe.» «La complessità.» «È un vantaggio?» «Lei che ne pensa?» Sue scrollò le spalle. «Quello che può pensare una microbiologa. Io non ho una cattedra come lei. Non mi confronto con giovani studenti arrabbiati, non comunico con l'opinione pubblica e soffro per la mancanza di distacco da me stessa. Sono una cavia da laboratorio in forma umana. Forse
ho i paraocchi, ma vedo ovunque solo microrganismi. Viviamo nell'epoca dei batteri. Mantengono invariata la loro forma da oltre tre miliardi di anni. L'umanità non è altro che una moda passeggera; quando il sole esploderà, da qualche parte ci sarà ancora qualche microbo. Loro sono il vero modello vincente su questo pianeta, non noi. Non so se gli uomini abbiano vantaggi rispetto ai batteri, però se arriveremo a dimostrare che i microbi possiedono l'intelligenza, allora, secondo me, saremo proprio nella merda.» Johanson sorseggiò il vino. «Sì, sarebbe fatale. Anche solo per quello che le Chiese cristiane dovrebbero spiegare ai loro fedeli: che la creazione divina ha raggiunto il suo apice il quinto giorno, non il sesto.» «Posso farle una domanda personale?» «Certo.» «Come fa a venire a capo di tutta questa faccenda?» «Finché c'è del Bordeaux eccezionale non vedo difficoltà insormontabili.» «Non prova rabbia?» «Contro chi?» «Contro quelli là sotto.» «È possibile risolvere questo problema con la rabbia?» «Certo che no, o mio Socrate!» Sue fece un sorriso stentato. «M'interessa, davvero. Hanno distrutto la sua casa...» «Sì, una parte.» «Non lo trova terribile? La sua casa a Trondheim...» Johanson fece ruotare il vino nel bicchiere. «Meno di quanto pensassi», disse, dopo un momento di silenzio. «Certo, era una casa fantastica, piena di cose magnifiche, ma non conteneva la mia vita. È sorprendente come ci si stacchi con facilità dalla propria cantina e da una biblioteca ben selezionata. Inoltre, per quanto strano possa sembrare, me ne ero già staccato da tempo. Dal giorno in cui sono volato alle Shetland devo essermi congedato dalla mia casa, in un certo senso senza neppure accorgermene. Ho chiuso la porta, me ne sono andato e, nel contempo, si è chiuso qualcosa anche nella mia testa. Ho pensato: se dovessi morire, quale sarebbe la cosa di cui sentiresti maggiormente la mancanza? E non era la casa. Non quella.» «Ce n'è un'altra?» «Sì.» Johanson bevve. «Su un lago nell'entroterra. Quando si è seduti là, sulla veranda, guardando l'acqua, si ascolta Sibelius o Brahms, e si beve un sorso di vino... è una cosa completamente diversa. È quello il luogo di cui sento davvero la mancanza.»
«Sembra bello.» «Sa perché sopporto tutto questo? Per poter tornare là.» Johanson prese la bottiglia e le riempì il bicchiere. «Dovrebbe esserci stata, aver visto il cielo stellato che si specchia nell'acqua. Non lo dimenticherebbe più. Tutta la sua esistenza sarebbe legata a quell'isolata scintilla. L'universo diventerebbe come trasparente. Un'esperienza straordinaria, ma che si può fare soltanto da soli.» «È stato là dopo lo tsunami?» «Nel ricordo.» Sue bevve un sorso di vino. «Sinora sono stata fortunata», mormorò. «Io non ho perso nulla. Ho ancora tutto, gli amici e la famiglia.» Si fermò un momento e sorrise. «Però non ho una casa al lago.» «Tutti hanno una casa al lago.» Le parve che Johanson volesse aggiungere qualcosa. E invece lui si limitò a far girare di nuovo il vino nel bicchiere. Rimasero lì a bere il Bordeaux e a guardare la foschia che si stendeva sul mare. «Ho perso un'amica», disse infine Johanson. Sue rimase in silenzio. «Era un po' complicata. Faceva sempre tutto di corsa.» Sorrise. «Strano, ci siamo trovati davvero solo dopo esserci lasciati. Ma sì. È il corso delle cose.» «Mi dispiace», mormorò Sue. Johanson annuì. La fissò, ma poi il suo sguardo parve oltrepassarle. Era come se i suoi occhi si fossero pietrificati. Sue aggrottò la fronte e voltò la testa. «C'è qualcosa?» «Ho visto Rubin.» «Dove?» «Laggiù.» Johanson indicò la parete dell'hangar nel mezzo della nave. «È entrato là.» «Entrato? Là non c'è nulla in cui si possa entrare.» Una parete alta diversi metri divideva l'hangar dal resto del ponte. Sue aveva ragione. Laggiù non c'erano porte. «Che ci sia qualcosa nel vino?» ironizzò. Johanson scosse la testa. «Posso giurare che era Rubin. È comparso per un attimo, poi è sparito.» «Ne è sicuro?» «Sicurissimo.» «Ci ha visto?»
«Difficile. Siamo in un angolo in ombra. Avrebbe dovuto guardare con molta attenzione.» «Chiediamogli se si è rimesso in forma.» Johanson continuava a osservare la parete. Poi disse: «Sì. Chiediamoglielo». Quando tornarono in laboratorio, la bottiglia di Bordeaux era vuota per metà, ma Sue non si sentiva ubriaca. In un certo senso, il vino non aveva fatto effetto nell'aria gelida. Era solo straordinariamente allegra e animata dal pensiero di fare una scoperta eccezionale. E la fece. Nel laboratorio di massima sicurezza, la macchina aveva finito il proprio lavoro. Fecero arrivare i risultati sulla console del computer all'esterno del laboratorio. Lo schermo mostrava una serie di sequenze di base. Le pupille di Sue si muovevano a zig-zag, mentre lei scorreva le righe dall'alto in basso. A ogni fila, la sua mandibola sembrava abbassarsi un po'. «Non può essere», mormorò. «Che cosa?» Johanson si chinò sulle sue spalle. Lesse. E tra le sue sopracciglia si formarono due profonde rughe. «Sono tutte diverse!» «Sì.» «Impossibile! Esseri identici hanno DNA identico.» «Gli esseri di una specie sì.» «Ma questi sono esseri di una specie.» «Le forme naturali di mutazione...» «Se le scordi!» Johanson era sconcertato. «Siamo ben oltre. Questi sono esseri diversi, tutti quanti! Nessun DNA è esattamente uguale all'altro.» «In ogni caso non sono amebe normali.» «No. In loro non c'è niente di normale.» «Cosa sono, allora?» Johanson guardò i risultati. «Non lo so.» «Neanch'io.» Sue si stropicciò gli occhi. «Però so una cosa. In quella bottiglia c'è ancora del vino. E adesso ne ho proprio bisogno.» Johanson Johanson cercò nelle banche dati per confrontare la sequenza del DNA della gelatina con altre analisi già descritte. Sue incappò nel risultato che lei stessa aveva raggiunto il giorno in cui aveva esaminato la sostanza nella testa delle balene. All'epoca, non aveva potuto stabilire differenze nella
successione delle coppie di basi. «Avrei dovuto esaminare in maniera più approfondita quelle cellule», borbottò. Johanson scosse la testa. «Forse non avrebbe trovato niente comunque.» «Non importa!» «Come avrebbe potuto sospettare che avevamo a che fare con la fusione di organismi unicellulari? Forza, Sue, è inutile. Lasci perdere e si concentri su questo.» Sue sospirò. «Sì, ha ragione.» Lanciò un'occhiata all'orologio. «Okay, Johanson. Vada a dormire.» «E lei?» «Io vado avanti. Voglio sapere se questo caos di DNA è già stato descritto da qualche parte.» «Potremmo dividerci il lavoro.» «Non se ne parla neanche.» «Non m'importa.» «Mi ascolti, Sigur! Lei ha bisogno del suo sonno rigeneratore, io no. Da quando ho compiuto quarant'anni, la natura mi ha fornito di rughe e di borse sotto gli occhi. Per me non c'è differenza se sono sveglia o se mi rigiro nel letto. Vada e si porti via quello che resta del suo squisito vino rosso, altrimenti rischio di bermi con quello anche la mia obiettività scientifica.» Johanson ebbe l'impressione che preferisse occuparsi da sola della faccenda. Era insoddisfatta di se stessa. Naturalmente non aveva nulla da rimproverarsi, ma forse sarebbe stato comunque meglio lasciarla in pace. Prese la bottiglia e lasciò il laboratorio. Appena fuori, si rese conto di essere un po' stanco. Oltre il Circolo Polare Artico, il tempo si perdeva. La luce costante dilatava all'infinito il giorno, interrotto solo da poche ore di crepuscolo. Il sole sfuggiva agli sguardi facendo appena capolino da sotto l'orizzonte. Con un po' di buona volontà, quella si poteva definire notte. Dal punto di vista psicologico, era l'occasione migliore per andare a dormire. Ma Johanson non ne aveva voglia. Invece risalì la rampa. Le dimensioni del gigantesco ponte dell'hangar si perdevano nelle ombre squadrate. Come sempre, non si vedeva nessuno. Lanciò un'occhiata al luogo in cui avevano aperto la bottiglia e trovò la cassa nascosta nell'oscurità. Non era possibile che avesse visto Rubin. Eppure l'aveva visto!
A che scopo dormire? Doveva osservare ancora una volta la parete. Con grande delusione e sorpresa, l'ispezione non portò risultati. La percorse diverse volte, fece scorrere le dita lungo le giunture dei pannelli d'acciaio, sulle tubature e sulle casse, ma sembrava proprio che Sue avesse ragione. Doveva aver avuto un'allucinazione. Non c'era niente, né una porta né qualcosa che potesse costituire un passaggio. «E invece non mi sbaglio», si disse sottovoce. Doveva proprio andare a dormire? Avrebbe comunque continuato a rimuginare su quella faccenda. Forse era il caso di chiedere a qualcuno. A Judith Li, per esempio, oppure a Peak, a Buchanan o ad Anderson. Ma cosa sarebbe successo se si fosse davvero sbagliato? Sarebbe stato piuttosto imbarazzante. Sei un ricercatore, quindi ricerca, pensò, testardo. Senza fretta tornò nella parte dell'hangar verso poppa, si sedette sulla cassa e attese. Quel posto non era male. Anche se fosse arrivato alla conclusione che effettivamente Rubin non era passato attraverso la parete, avrebbe potuto godersi la vista del mare per un po'. Bevve una sorsata dalla bottiglia. Il Bordeaux lo scaldò. Le sue palpebre cominciarono a diventare pesanti, finché non riuscì quasi più a tenerle aperte. In effetti era stanco. Però Johanson era uno di quegli uomini che si rifiutavano di arrendersi alle leggi imposte dalla natura al corpo umano. A un certo punto, quando la bottiglia era ormai vuota, finalmente si assopì e il suo spirito aleggiò sopra il mar di Groenlandia, coperto dalla foschia. Un lieve rumore metallico lo fece sobbalzare. In un primo momento, lui non rammentò neppure dove fosse. Poi sentì dolorosamente la parete d'acciaio dell'hangar contro la regione lombare. Sul mare, il cielo si era schiarito. Si rialzò a fatica e guardò lungo la parete. Era aperta. Ancora intontito, Johanson scese dalla cassa. Nella parete si era aperto un passaggio, grande all'incirca quattro metri quadrati. Si spalancava, luminoso, in mezzo all'acciaio scuro. Guardò la bottiglia vuota sulla cassa. Stava sognando? Si avvicinò al quadrato luminoso e si accorse che dava su un corridoio con le pareti nude. Tubi al neon diffondevano una luce fredda. Dopo pochi metri, il corridoio raggiungeva una parete e faceva una curva. Johanson spiò all'interno e rimase in ascolto.
Dalla parte opposta arrivavano voci e rumori. D'istinto, fece un passo indietro, riflettendo se non fosse il caso di sparire il più in fretta possibile. In fondo, si trovava su una nave da guerra. Quel settore avrà pure avuto qualche funzione, no? Magari qualcosa in cui i civili non dovevano mettere il naso. Poi pensò a Rubin. No! Se se ne fosse andato, non avrebbe più smesso di pensarci. Rubin era stato lì! Johanson entrò. 14 agosto Heerema, al largo di La Palma, Canarie Bohrmann cercava di godersi il bel tempo, ma non c'era proprio niente di cui godere. Non con milioni di vermi quattrocento metri sotto di lui e con miliardi di batteri che, in un tempo spaventosamente breve, si stavano aprendo la strada nelle sottili ramificazioni degli idrati sul cono vulcanico di La Palma. Passò attraverso la piattaforma e raggiunse l'edificio principale. L'Heerema era una piattaforma galleggiante delle dimensioni di diversi campi da calcio. La coperta rettangolare poggiava su sei colonne, che si stendevano uscendo da sei galleggianti. All'asciutto, l'isola somigliava a un goffo catamarano sovradimensionato. Ora i galleggianti erano gonfiati solo in parte e, sotto la superficie dell'acqua, non si vedevano. Solo una parte delle sei colonne emergeva dalle onde. Con un pescaggio di ventun metri e un dislocamento di centomila tonnellate, l'isola galleggiante aveva una notevole stabilità. I semisommersi riuscivano a reggere bene il moto ondoso, anche nelle tempeste più violente e soprattutto erano ben manovrabili e relativamente veloci. Due propulsori a getto facevano raggiungere all'Heerema la velocità di sette nodi che le aveva permesso, nelle settimane precedenti, di coprire la distanza tra la Namibia e La Palma. A poppa s'innalzava un edificio a due piani che ospitava gli alloggi per l'equipaggio, la mensa, la cucina, il ponte di comando e la sala di controllo. Di fronte, svettavano nel cielo due gru imponenti, ciascuna delle quali poteva sollevare tremila tonnellate. Dalla gru di destra veniva calato negli abissi il condotto dell'aspiratore; l'altra sosteneva il sistema d'illuminazione, un'unità separata con telecamere integrate. Quattro uomini, sistemati nelle
cabine di controllo sopraelevate, erano impegnati esclusivamente a coordinare e guidare l'aspiratore e l'isola d'illuminazione. «Gerrhaard!» Frost stava arrivando verso di lui da una gru. Bohrmann gli aveva chiesto di chiamarlo semplicemente Gerd, ma Frost insisteva a usare il nome intero, benché lo pronunciasse in modo un po' strascicato, alla texana. Entrarono insieme nell'edificio di poppa e poi nell'oscurità della sala di controllo. C'erano alcuni uomini del team di Frost e alcuni tecnici della De Beer, compreso Jan van Maarten. Il direttore tecnico aveva compiuto il miracolo promesso. Il primo aspiratore sottomarino di vermi della storia dell'umanità era pronto a entrare in azione. «Bene, gente», barrì Frost, mentre prendeva posto fra i tecnici. «Che il Signore ci aiuti. Se qui funziona tutto, poi ci dedicheremo alle Hawaii. Ieri è sceso un robot e, sul versante sudorientale, ha scoperto vermi in quantità mostruosa. Saranno attaccate in maniera mirata anche altre isole vulcaniche, almeno questo è ciò che penso. Ma il male non avrà scampo! Lo spazzeremo via col nostro aspiratore. Ripuliremo il mondo da tutta quella robaccia!» «Buona idea», disse Bohrmann sottovoce. «Qui abbiamo una zona facile da gestire. Forse vorresti ripulire con quest'unico aspiratore tutta la scarpata continentale americana?» «Sciocchezze!» Frost lo guardò, stupito. «L'ho detto soltanto per motivare gli uomini.» Bohrmann sollevò le sopracciglia e guardò i monitor. Sperava davvero che quella faccenda funzionasse. Anche se fossero riusciti a spazzare via i vermi, restava sempre aperta la questione di quante colonie di batteri si fossero insediate nel ghiaccio. In segreto, era tormentato dalla preoccupazione che ormai fosse troppo tardi per impedire il crollo del Cumbre Vieja. Di notte, sognava una gigantesca cattedrale d'acqua che si levava fino alle nuvole e sfrecciava sull'oceano verso di lui, e ogni volta si svegliava bagnato di sudore. Tuttavia Bohrmann faceva anche esercizi di ottimismo. Ce l'avrebbero fatta. E forse sull'Independence sarebbero riusciti a far arretrare l'entità sconosciuta. Se gli yrr erano in grado di provocare la frana di un'intera scarpata continentale, forse sarebbero anche stati in grado di porre rimedio al disastro. Frost tenne un altro infuocato discorso contro tutti i nemici dell'umanità e si sperticò in lodi nei confronti del team della De Beer. Poi diede il segnale di calare l'aspiratore e l'isola luminosa.
L'isola luminosa era una struttura gigantesca, composta da potenti proiettori ad ampio fascio luminoso e ripiegata su se stessa. Al momento, dato che era appesa al braccio della gru, formava un compatto fascio di stanghe e puntoni, lungo dieci metri e pieno di luci e telecamere. Venne abbassata e scomparve in mare. Era collegata all'Heerema con cavi a fibra ottica. Dopo dieci minuti, Frost guardò l'indicatore del batimetro e disse: «Stop». Van Maarten trasmise l'ordine ai piloti. «Aprire», aggiunse. «Prima solo metà della superficie. Se non urtiamo da nessuna parte, aprirla completamente.» A quattrocento metri di profondità, avvenne un'elegante metamorfosi. Il fascio si dispiegò in una costruzione sottile. Se il telaio non avesse trovato resistenza, l'isola avrebbe continuato ad aprirsi. E così fu: il risultato fu una sorta di grata dalle dimensioni di mezzo campo da calcio. «Pronto a entrare in azione», comunicò il pilota. Frost gettò un'occhiata agli strumenti. «Dovremmo essere vicinissimi alla parete.» «Luci e telecamere», ordinò van Maarten. Sulla costruzione si accesero file e file di lampade alogene. Contemporaneamente le otto telecamere iniziarono il loro lavoro. Sui monitor apparve un panorama torbido. Il plancton galleggiava in mezzo all'immagine. «Più vicino», disse van Maarten. I riflettori si spostarono in avanti, mossi da piccole eliche orientabili. Dopo qualche minuto, dall'oscurità uscì una struttura frastagliata: una parete di lava nera dalla forma bizzarra. «Più in basso.» L'isola si abbassò. Il pilota la guidava con estrema cautela. Il sonar rivelò la presenza di una sporgenza a forma di terrazza. D'un tratto, vicinissimo, apparve un ampio crinale, letteralmente tappezzato di corpicini formicolanti. Bohrmann fissò gli otto monitor e sentì crescere lo scoramento. Stava incontrando nuovamente l'incubo che lo aveva accompagnato fin dal collasso della scarpata continentale norvegese. Se tutto era come nei quaranta metri che gli elementi luminosi riuscivano a strappare all'oscurità, allora potevano anche lasciare perdere. «Schifosi, piccoli, sudici vermi», ringhiò Frost. Siamo arrivati troppo tardi, pensò Bohrmann. Poi si vergognò della propria paura. Non era detto che i vermi avessero
già depositato il loro carico di batteri e soprattutto c'era la possibilità che tale carico non fosse sufficiente. Inoltre c'era ancora quel misterioso fattore che aveva dato il colpo definitivo per lo smottamento. Non era troppo tardi. Ma dovevano fare molto in fretta. «Va bene», disse Frost. «Pieghiamo l'isola di quarantacinque gradi e solleviamola un po', per vedere meglio. E poi giù con l'aspiratore. Spero che abbia un buon appetito.» «Ha una fame terribile», sibilò van Maarten. Completamente srotolata, la proboscide raggiungeva il mezzo chilometro di profondità. Era un mostro di tre metri di diametro, segmentato, isolato col caucciù, che terminava con un'apertura simile a un'enorme bocca, intorno alla quale c'erano proiettori, telecamere ed eliche orientabili. Col comando a distanza, la fine della proboscide poteva essere spostata in alto e in basso, avanti, indietro e di fianco. Nella cabina del pilota arrivavano le immagini delle telecamere dell'isola luminosa e dell'aspiratore, offrendo sia totali sia dettagli. Nonostante la buona visuale, il successo del lavoro dipendeva dalla sensibilità delle dita sul joystick e da un attento copilota, pronto a segnalare qualsiasi cosa fosse sfuggita all'uomo che manovrava. Per un lungo tratto, la proboscide scese in un'oscurità impenetrabile. I proiettori restarono spenti. Poi l'isola luminosa entrò nel campo visivo. Prima fu solo un vago bagliore nelle tenebre degli abissi marini, poi cominciò a splendere, prese la sua forma rettangolare e infine rivelò il pendio. Era così grande che a Bohrmann ricordava una stazione spaziale. Il tubo continuò a scendere, avvicinandosi ai vermi, finché la loro immagine non riempì completamente i monitor. Ogni minimo particolare dei corpi pelosi era visibile. Scivolavano l'uno sull'altro e s'intrecciavano, con la mandibola estroflessa che sminuzzava il ghiaccio. Nella sala di controllo era calato un silenzio assoluto. «Fantastico», sussurrò van Maarten. «La donna delle pulizie non dovrebbe essere affascinata dalla polvere che c'è in casa.» Con aria truce, Frost scosse il capo. «Si decida a mettere in funzione il suo aspirapolvere e spazzi via quell'orda.» La proboscide era in realtà una pompa d'aspirazione, che creava una depressione e trascinava dentro di sé tutto ciò che capitava davanti alle sue fauci. Quando si mise in funzione, in realtà non accadde nulla. Evidentemente la pompa aveva bisogno di un po' di tempo per entrare in azione.
Bohrmann almeno sperava che fosse così. Nel frattempo i vermi continuavano indisturbati la loro attività distruttrice. Sulla sala di controllo calò un velo di delusione. Nessuno aprì bocca, ma lo stato d'animo di tutti era evidente. Angosciato, Bohrmann fissò i due monitor delle telecamere della proboscide. Da che cosa dipendeva? La costruzione era troppo lunga? La pompa non era sufficientemente potente? Mentre stava ancora rimuginando, qualcosa sui monitor cambiò. Pareva che i vermi fossero trascinati via. La parte posteriore dei loro corpi si sollevava, si mettevano verticali, tremavano... Improvvisamente sfrecciarono davanti alla telecamera. «Funziona!» Bohrmann sollevò i pugni. Contrariamente alle sue abitudini, aveva lanciato un grido. Avrebbe voluto mettersi a ballare e, perché no?, fare qualche capriola. «Alleluia!» Frost annuiva freneticamente. «È un giocattolo magnifico! Oh, Signore, permettici di ripulire il mondo dal male!» Si tolse il berretto da baseball, si passò la mano sui capelli e poi lo rimise sulla testa. «E con questo li facciamo fuori!» Seguirono molti altri vermi, aspirati così velocemente e in tale quantità che sugli schermi si vedevano solo superfici indistinte. Anche le telecamere dell'isola luminosa mostravano quello che avveniva sotto l'imboccatura dell'aspiratore. Vennero aspirati anche dei sedimenti, che si sollevavano in vortici. «Avanti a sinistra», disse Bohrmann. «O a destra. È lo stesso, l'importante è continuare.» «Procediamo con un lento movimento a zig-zag», propose van Maarten. «Da un limite all'altro della zona illuminata. Non appena avremo ripulito la zona visibile, muoveremo l'isola e procederemo con gli altri quaranta metri.» «Molto bene! Faccia così.» L'aspiratore si muoveva e intanto risucchiava i vermi. In quei punti, l'acqua era così torbida che non si riusciva a vedere il fondale. «Riusciremo a vedere il risultato dell'operazione soltanto quando i sedimenti nell'acqua si saranno depositati», disse van Maarten. Sembrava notevolmente sollevato. Con un profondo sospirò, sembrò liberarsi della tensione accumulata nel corso di quelle settimane e si appoggiò allo schienale, quasi rilassato. «Ma credo che saremo tutti decisamente soddisfatti.»
Independence, mar di Groenlandia Dinn-donn! Le campane di Trondheim, la domenica mattina. Il campanile in via Kirkegata. Illuminato dal sole, si staglia contro il cielo, una piccola torre sicura di sé, che getta la propria ombra sulle case color ocra dal tetto a capanna e sulla scala d'ingresso, dipinta di bianco. Una piccola torre che infastidisce l'udito. Dinn-donn, mondo intero. Alzarsi. Cuscini sulla testa. Chi ha dato facoltà a una chiesa di decidere quando bisogna alzarsi? Lui no di certo. Maledetta chiesa! Bevuto troppo, ieri coi colleghi e con gli srudenti? Non può essere che così. Dinn-donn! «Sono le otto.» L'altoparlante. Non c'è più via Kirkegata, non c'è più la piccola torre così sicura di sé, non c'è più la casa color ocra. Nel suo cranio non martellavano le campane di Trondheim, ma un terribile mal di testa. Cos'è successo? Johanson aprì gli occhi e si trovò tra le lenzuola disfatte di un letto sconosciuto. Intorno c'erano altri letti, tutti vuoti. La sala era grande, piena di apparecchiature, senza finestre e decisamente antisettica. Una camera d'ospedale. Che diavolo ci faceva in una camera d'ospedale? Sollevò la testa, che ricadde immediatamente sul cuscino. Gli occhi si richiusero da soli. Qualsiasi cosa era meglio del rimbombo nella testa. E lui stava male. «Sono le nove.» Johanson si sollevò. Era ancora in quella stanza, ma si sentiva assai meglio. La nausea era sparita, il dolore penetrante era diventato un'intensa, ma sopportabile, pressione. Però continuava a non sapere come fosse finito lì. Si guardò intorno. Camicia, pantaloni e calze erano quelli della notte precedente. La giacca a vento e il pullover erano sul letto di fianco al suo; davanti c'erano le scarpe, sistemate accuratamente l'una accanto all'altra.
Spostò le gambe oltre il bordo del letto. Immediatamente si aprì una porta ed entrò il dottor Angeli, il direttore dell'assistenza medica. Angeli era un italiano; era piccolo, aveva la chierica e rughe profonde agli angoli della bocca. Su quella nave svolgeva il lavoro più noioso, perché nessuno si ammalava. Però evidentemente adesso non era più così. «Come sta?» Angeli chinò la testa. «Tutto a posto?» «Non lo so.» Johanson si toccò la nuca e trasalì violentemente. «Le farà male ancora per un po'», disse il medico. «Non si preoccupi. Poteva andare peggio.» «Ma cos'è successo?» «Non ricorda?» Johanson ci pensò, ma l'unico risultato che ottenne fu il ritorno del dolore. «Credo che un paio di aspirine non mi farebbero male», gemette. «Non sa cos'è successo?» «Non ne ho idea.» Angeli si avvicinò, scrutandolo. «Già. Stanotte l'hanno trovata sul ponte dell'hangar. Deve essere scivolato. È una benedizione che qui sia tutto sorvegliato con le telecamere, altrimenti sarebbe ancora là disteso. Probabilmente ha sbattuto la nuca contro il pavimento.» «Il ponte dell'hangar?» «Sì, non ricorda?» Certo, era stato sul ponte dell'hangar. Con Sue. E poi un'altra volta, da solo. Ricordava di essere tornato là, ma non il perché. E tantomeno che cosa fosse successo. «Poteva finire male», riprese Angeli. «Lei... ehm... Per caso, ha bevuto qualcosa?» «Bevuto?» «Per via della bottiglia vuota. C'era una bottiglia vuota. Miss Oliviera sostiene che avete bevuto qualcosa insieme.» Allargò le dita. «Non mi fraintenda, non c'è niente di male. Ma le portaerei sono luoghi pericolosi. Umidi e bui. Si può scivolare o cadere in mare. È meglio non andare da soli sul ponte, soprattutto se... ehm...» «... se si è bevuto qualcosa», concluse Johanson. Si alzò, ma fu preso dalle vertigini. Angeli lo sostenne per i gomiti. «Grazie, sto bene.» Johanson lo scostò. «Dove sono?» «Nell'ambulatorio. Riesce a stare in piedi?» «Se mi desse le aspirine...» Angeli andò a una cassettiera laccata di bianco e prese una scatola di a-
nalgesici. «Ecco. È solo un bel bernoccolo. Presto starà meglio.» «Okay, grazie.» «Si sente davvero bene?» «Sì.» «E non ricorda niente?» «No, accidenti.» «Va bene.» Angeli sorrise. «Non si butti subito a capofitto nel lavoro. E, se dovesse succedere qualcosa, non esiti a tornare subito qui.» Sala riunioni «Regioni ipervariabili? Non capisco nemmeno una parola.» Vanderbilt cercava di seguire l'esposizione di Sue, la quale si stava rendendo conto che chiedeva forse un po' troppo al suo uditorio. Peak la fissava, irritato. Judith Li non lasciava trapelare nulla, ma c'era da scommettere che le sue conoscenze di genetica non si spingessero fino a quel punto. Johanson era seduto in mezzo a loro come un fantasma. Era comparso in ritardo, come pure Rubin, che, con imbarazzo, si era scusato per l'assenza. A differenza di Rubin, però, Johanson aveva un aspetto terribile. Il suo sguardo guizzava all'intorno, come se dovesse accertarsi che le persone intorno a lui fossero vere e non dei miraggi. Sue pensò che, dopo la riunione, gli avrebbe dovuto parlare. «Vorrei prendere a esempio una normale cellula umana», disse. «In fondo, non è altro che un sacco pieno d'informazioni, con tutt'intorno una membrana. Il nucleo contiene i cromosomi, il complesso di tutti i geni. Insieme formano il genoma o DNA, la doppia elica, come sapete. Detto in modo informale, il nostro progetto di costruzione. Più un organismo è sviluppato, più quel progetto è differenziato. Grazie all'analisi del DNA, è possibile scoprire un assassino o chiarire rapporti di parentela, ma, nelle sue linee generali, il progetto è uguale per tutti gli esseri umani: piedi, gambe, busto, braccia, mani e così via. L'analisi del DNA ci dice quindi due cose. In generale: questo è un essere umano. In particolare: di quale persona si tratti.» Sul volto dei presenti si accese una scintilla d'interesse. Evidentemente era stata una buona idea iniziare con qualche nozione basilare di genetica. «È chiaro che le differenze tra due esseri umani, come individui, sono molto più numerose rispetto a quelle tra due organismi unicellulari della stessa specie. Statisticamente, il mio DNA mostra circa due milioni di pic-
cole differenze rispetto a quello di tutte le altre persone. Le differenze tra un essere umano e un altro dipendono da una coppia di basi diversa ogni milleduecento coppie identiche. A sua volta, se si esaminano le cellule dello stesso essere umano, si trovano minime differenze, divergenze biochimiche nel DNA dovute a mutazioni. Se analizzate una cellula della mia mano sinistra e una del mio fegato, avrete quindi risultati diversi. Tuttavia, ognuna di esse dice senza possibilità di equivoco: si tratta di Sue Oliviera.» Fece una pausa. «Con gli organismi unicellulari ci sono meno problemi, perché, come dice il loro nome, si deve analizzare un'unica cellula. C'è un solo genoma e, dato che gli yrr si riproducono per scissione e non per accoppiamento, non avviene nessun miscuglio di cromosomi di mamma e papà. L'essere si duplica con tutte le informazioni genetiche e basta.» «Quindi se si conosce il DNA di un unicellulare si conosce anche quello di tutti gli altri», disse Peak con parole che sembravano essere sospese su un filo da equilibrista. «Sì.» Sue gli regalò un sorriso. «È del tutto naturale. Una popolazione di unicellulari mostrerà sempre un genoma identico. Se lasciamo da parte le mutazioni occasionali, il DNA di tutti gli individui è identico.» Rubin si mosse sulla sedia, irrequieto. Poi aprì e chiuse la bocca. Normalmente, a quel punto, avrebbe cercato d'inserirsi nel discorso. Che stupido, starsene a letto con l'emicrania, pensò Sue, soddisfatta. Tanto per cambiare, non sai quello che sappiamo noi. Devi tenere la bocca chiusa e ascoltare. «Ma il problema inizia proprio qui», riprese. «A una prima occhiata, le cellule della gelatina sembrano identiche. Sono amebe, come si trovano negli abissi marini. Neppure particolarmente strane. Per poter descrivere tutto il loro DNA, dovremmo far lavorare diversi computer per alcuni anni. Ci limitiamo quindi ai controlli a campione. Isolando piccole sezioni di DNA otteniamo una parte del codice genetico, un amplicon, in termini tecnici. Ogni amplicon mostra una serie di coppie di base, il vocabolario genetico. Analizzando gli amplicon della stessa sezione di DNA di diversi individui e confrontandoli tra loro otteniamo interessanti informazioni. Gli amplicon di più individui della stessa popolazione dovrebbero dare un quadro più o meno come questo.» Sollevò una stampata che aveva ingrandito apposta per la riunione. Al : AATGCCAATTCCATAGGATTAAATCGA A2: AATGCCAATTCCATAGGATTAAATCGA
A3: AATGCCAATTCCATAGGATTAAATCGA A4: AATGCCAATTCCATAGGATTAAATCGA «Vedete che le sequenze analizzate sono identiche in tutta la stringa. Quattro unicellulari identici.» Mise da parte il foglio e ne mostrò un secondo. «Invece abbiamo ottenuto questo.» Al: AATGCCA CGATGCTACCTG AAATCGA A2: AATGCCA ATTCCATAGGATT AAATCGA A3: AATGCCA GGAAATTACCCG AAATCGA A4: AATGCCA TTTGGAACAAAT AAATCGA «Sono le sequenze di base dell'amplicon di quattro esemplari della gelatina. I DNA sono identici, tranne che per alcune piccole regioni ipervariabili. Non c'è nessuna affinità. Abbiamo esaminato dozzine di cellule. Alcune differiscono nelle regioni ipervariabili solo di poco, altre sono completamente diverse. Una cosa del genere non si può spiegare con la mutazione naturale. In altri termini: non può essere un caso.» «Forse sono di specie diverse», disse Anawak. «No. Senza dubbio è la stessa specie. Com'è pure indubbio che ogni essere vivente non può cambiare nel corso della vita il proprio codice genetico. Il progetto viene sempre per primo. Solo poi si costruisce, e ciò che è stato costruito può corrispondere unicamente a quel progetto e a nient'altro.» Per lungo tempo nessuno parlò. «Però, se quelle cellule sono diverse, devono avere trovato una strada per cambiare il loro DNA dopo essersi scisse», disse poi Anawak. «Ma a che scopo?» chiese Alicia. «Uomini», rispose Vanderbilt. «Uomini?» «Ma siete ciechi? La dottoressa Oliviera dice che non è opera della natura e non sento obiezioni da parte del dottor Johanson. Allora, chi ha cervello sufficiente per pensare a una cosa del genere? Quella sostanza è un'arma biologica. Solo gli uomini possono crearla», spiegò Vanderbilt. «Obiezione», disse Johanson. Si passò una mano tra i capelli. «Non ha senso, Jack. Il vantaggio delle armi biologiche è che si ha bisogno solo di una ricetta base. Il resto è riproduzione...» «Potrebbe essere un vantaggio anche se i virus fossero in grado di tra-
sformarsi, no? Il virus dell'AIDS muta incessantemente, quando si pensa di aver scoperto il trucco, quello è già cambiato un'altra volta.» «Ma qui abbiamo a che fare con un superorganismo, non con un'infezione virale. Deve esserci un altro motivo per quella diversità. Dopo la scissione, nel DNA succede qualcosa. Vengono codificati in maniera diversa. A chi interessa chi ne sia responsabile? Noi dobbiamo scoprire che senso ha.» «Ha il senso di ucciderci tutti!» esclamò Vanderbilt, alterandosi. «Questa sostanza esiste per distruggere il mondo libero.» «Va bene», ringhiò Johanson. «Allora la uccida. Dobbiamo controllare se sono cellule musulmane? Forse il loro DNA è un fondamentalista islamico. Così la questione sarebbe legittimata.» Vanderbilt lo fissò. «Da che parte sta?» «Da quella di chi vuole capire.» «Capisce anche perché ieri notte ha battuto la testa?» ghignò Vanderbilt. «Dopo aver gustato una bottiglia di Bordeaux, beninteso. Come sta, dottore? Le fa male la testa? Perché non prova a tenere la bocca chiusa per un po'?» «Perché lei non abbia troppo spesso l'occasione di aprire la sua.» Vanderbilt sbuffò pesantemente. Sudava. Judith Li gli lanciò uno sguardo ironico in tralice e si chinò in avanti. «Lei sostiene che si tratta di codificazioni diverse, giusto?» «Giusto», confermò Sue. «Non sono una scienziata, ma non è pensabile che la codificazione abbia lo stesso scopo di un codice umano? Del codice in caso di guerra, per esempio?» «Si», annuì la biologa. «Sarebbe ipotizzabile.» «Codici per riconoscersi tra di loro.» Karen scarabocchiò qualcosa su un foglio e lo passò ad Anawak, che lo lesse, fece un rapido cenno di assenso e lo mise da parte. «Per quale motivo dovrebbero riconoscersi tra loro?» chiese Rubin. «E perché in un modo così complicato?» «Mi pare sia lampante», disse Samantha. Per un momento si sentì solo il fruscio del cellophane che lei stava togliendo dal suo pacchetto di sigarette. «Lei che ne pensa?» chiese Judith Li. «Penso che serva alla comunicazione», disse Samantha. «Queste cellule comunicano tra loro. È una forma d'intrattenimento.»
«Vuol dire che quella sostanza...» Greywolf la fissò. Samantha Crowe portò la fiamma dell'accendino alla sigaretta, aspirò e soffiò fuori il fumo. «Sì. Voglio dire che comunica.» Rampa «Cos'è successo la notte scorsa?» chiese Sue, mentre scendevano verso il laboratorio. Johanson scrollò le spalle. «Non ne ho la più pallida idea.» «E ora come si sente?» «Strano. Il mal di testa diminuisce progressivamente, però nei miei ricordi si è aperto un buco grande come il ponte dell'hangar.» «Uno stupido incidente, vero?» Mentre camminava, Rubin si era girato verso di loro e digrignava i denti. «Così, entrambi abbiamo avuto il mal di testa. Entrambi! Dio mio, ero così a pezzi che non potevo neppure uscire. Mi dovete scusare, ma quando capita... Bang! Coma!» Sue osservò Rubin con un'espressione indefinibile. «Emicrania?» «Sì. Terribile! Va e viene. Non capita spesso, ma, quando arriva, è ormai troppo tardi. L'unica cosa che si può fare è prendere una supposta e spegnere la luce.» «Ha dormito fino a stamattina?» «Certo.» Rubin sembrava molto sicuro di sé. «Mi dispiace. Però si perde ogni controllo, sul serio. Altrimenti mi sarei fatto vedere.» «E non l'ha proprio fatto?» La domanda suonava strana. Rubin sorrise, irritato. «No.» «Sicuro?» «Lo saprei.» Nella testa di Johanson scattò qualcosa. Si sentiva come un proiettore di diapositive rotto: la slitta cercava di prendere un'immagine, ma scivolava. Perché Sue aveva fatto quelle domande? Si fermarono davanti alla porta del laboratorio, e Rubin inserì il codice numerico. La porta si aprì. Mentre Rubin entrava e accendeva le luci, Sue disse sottovoce a Johanson: «Ehi, ma che succede? Ieri sera era fermamente convinto di averlo visto». Johanson la fissò. «Ero... cosa?» «Mentre eravamo seduti sulla cassa a bere il vino, in attesa che la macchina per la sequenza finisse il suo lavoro», sussurrò Sue. «Ha detto di averlo visto.»
Clic. La slitta cercava di prendere la diapositiva. Clic. Johanson si sentiva la testa piena di ovatta. Avevano bevuto del vino, quello lo ricordava. Avevano chiacchierato. E poi lui aveva... visto... che cosa? Clic. Sue scrollò le spalle ed entrò, esclamando: «Santo cielo, forse è proprio andato fuori di testa». Computer Erano seduti nel JIC davanti al computer di Karen Weaver. «Attenzione», esordì lei. «La questione della codificazione ci offre una prospettiva completamente diversa.» Anawak annuì. «Le cellule non sono tutte uguali.» «E non solo per le forme e i modi con cui sono collegate. Se il loro DNA mostra sequenze codificate, la chiave per la loro fusione potrebbe essere proprio lì.» «No. La fusione deve essere provocata da qualcos'altro. Qualcosa con un effetto a distanza.» «Ieri avevamo pensato all'odore.» «Okay», disse Anawak. «Proviamo. Programmalo in modo che emettano una sostanza odorosa che dia il segnale 'fusione'.» Karen rifletté, poi chiamò il laboratorio. «Sigur? Stiamo preparando una simulazione. Nel frattempo vi è venuta qualche idea su come le cellule si fondano?» Rimase per un po' in ascolto. «Esatto. Ci proviamo. Fateci sapere.» «Che dice?» «Stanno tentando un test di fase. Vogliono costringere la gelatina a sciogliersi e poi a rifondersi.» «Allora pure loro credono che le cellule emettano un odore?» «Sì.» Karen aggrottò la fronte. «Il problema è: quale cellula inizia? E perché? Se è una sorta di reazione a catena, ci deve essere un iniziatore.» «Un programma genetico», confermò Anawak. «Solo determinate cellule possono mettere in moto la fusione.» «Una parte del cervello in grado di fare più delle altre...» ipotizzò Karen. «Affascinante. Però manca ancora qualcosa.» «Aspetta! Forse siamo sulla strada sbagliata. Siamo ancora legati all'idea che queste cellule tutte insieme formino un grande cervello.» «Sono convinta che sia così.»
«Anch'io. Ma proprio ora stavo pensando...» «Cosa?» Anawak rifletteva febbrilmente. «Non trovi strano che siano diverse l'una dall'altra? Mi viene in mente un solo motivo per spiegare una codificazione simile. Qualcuno programma il loro DNA in modo che possano svolgere compiti specifici. Ma, se questo fosse vero, allora ogni cellula sarebbe un piccolo cervello a sé.» Continuò a riflettere. Sarebbe fantastico! Però non aveva idea di come potesse avvenire. «Vorrebbe dire che il DNA di ogni cellula è il cervello.» «Un DNA in grado di pensare?» «In un certo senso, sì.» «Allora dovrebbe anche apprendere.» Lo guardò e sul suo volto si Leggeva chiaramente la sua perplessità. «Ormai sono pronta ad accettare di tutto, ma...» Aveva ragione. Era assurdo. La conseguenza era una biochimica di genere completamente diverso. Qualcosa che non esisteva. Però, se avesse funzionato... «Ricominciamo. Come apprende un computer neurale?» chiese Anawak. «Attraverso calcoli molto complessi eseguiti contemporaneamente. Con l'esperienza, cresce il numero delle alternative nell'azione.» «E come le trattiene?» «Le memorizza.» «Quindi ogni unità deve avere a disposizione dello spazio di memoria. Il pensiero artificiale consiste nella rete degli spazi di memoria.» «Dove vuoi arrivare?» Anawak glielo spiegò. Lei rimase ad ascoltarlo, scuotendo ogni tanto il capo, e poi se lo fece spiegare una seconda volta. «A quanto pare, vuoi riscrivere la biologia.» «Sì. Puoi realizzare un programma che funzioni in questo modo?» «Mio Dio.» «Forse in piccolo.» «Anche in piccolo è sempre troppo grande. Accidenti, Leon! Che razza di teoria sballata. Okay, okay! Lo faccio.» Distese le braccia abbronzate. Sotto il cotone della T-shirt si tendeva la muscolatura. Anawak pensò a quanto gli piaceva quella ragazza piccola e dalle spalle larghe. Nello stesso momento lei lo guardò. «Però ti costerà parecchio», disse, minacciosa. «Spara.»
«Spalle e schiena. Massaggi rilassanti.» Sorrise. «E ora, avanti. Mentre faccio il programma.» Anawak era impressionato. Che sfacciata! pensò. In ogni caso, che la sua teoria avesse senso o no, era valsa la pena parlargliene. Rubin A pranzo, andarono insieme in mensa. Le condizioni di Johanson erano visibilmente migliorate; inoltre lui sembrava intendersi alla perfezione con Sue. Entrambi non sembrarono particolarmente tristi quando Rubin spiegò loro che, dopo l'attacco di emicrania, non aveva fame. «Farò una passeggiata in coperta», disse, cercando di suscitare la compassione dei presenti e assumendo un'espressione provata. «Stia attento», sogghignò Johanson. «Qui basta un attimo per inciampare.» «Non si preoccupi», sorrise Rubin. E pensò: Non puoi neanche immaginare quanto sono attento in ogni istante. «Mi terrò lontano dagli spigoli.» «Abbiamo ancora bisogno di lei, Mick.» «Ah, sì», disse Sue, mentre lei si allontanava con Johanson. Ah, sì? pensò Rubin, stringendo i pugni. Ma in fondo potevano sparlare alle sue spalle finché volevano. Alla fine sarebbe stato lui a ricevere quello che gli spettava. Il merito di aver salvato l'umanità sarebbe stato attribuito a lui. Aveva atteso a lungo di poter uscire dall'ombra delia CIA. Se la faccenda era ormai superata, non c'era motivo per tenere nascosto al mondo il suo lavoro. Mantenere il segreto sarebbe stato assolutamente inutile. Avrebbe potuto pubblicare a piacere, accompagnato dall'ammirazione di tutti. Mentre percorreva la rampa, il suo umore era notevolmente migliorato. Al livello 3 prese una diramazione e arrivò davanti a una porticina chiusa. Inserì il suo codice numerico. La porta si aprì e Rubin entrò in un corridoio. Lo percorse sino in fondo e lì trovò un'altra porta chiusa. Stavolta, quando inserì il codice, sulla console si accese una lampadina verde. C'era un obiettivo collocato dietro una finestrella di vetro. Rubin si mise vicinissimo al vetro e guardò con l'occhio destro nella lente che scansionò la sua retina e diede l'okay al sistema. La porta si aprì e lui entrò in una grande sala in penombra, piena di computer e monitor, molto simile al CIC. Al quadro di comando erano se-
duti militari e civili. L'aria era percorsa da costanti ronzii. Judith Li, Jack Vanderbilt e Salomon Peak erano a un grande tavolo per le carte nautiche illuminato dall'interno. Peak alzò lo sguardo. «Venga», disse. Rubin si avvicinò, improvvisamente incerto. Nel corso della notte si erano telefonati, scambiandosi informazioni stringate. Il tono dell'uomo era sempre stato asciutto. Adesso era diventato gelido. Rubin decise di forzare i tempi. «Stiamo procedendo», esordì. «Facciamo sempre un passo avanti e...» «Si sieda», disse Vanderbilt, indicandogli con un rapido gesto una sedia dalla parte opposta del tavolo. Rubin obbedì. I tre rimasero in piedi, così lui si ritrovò in una posizione che lo metteva a disagio. Si sentiva come davanti a un tribunale. «Quello che è successo la notte scorsa è stato stupido», aggiunse. «Stupido?» Vanderbilt batté con le nocche sul piano del tavolo. «Maledetto idiota. In altre circostanze l'avrei gettata in mare.» «Un momento, io...» «Perché lo ha colpito?» «Cosa avrei dovuto fare?» «Prestare maggiore attenzione. Incapace! Non avrebbe dovuto farlo entrare.» «Non è stato un errore mio», aggiunse Rubin. «È la vostra gente che controlla chi si gratta il culo mentre dorme!» «Perché ha aperto quella maledetta paratia?» «Perché... Sì, pensavo che forse avremmo avuto bisogno...» «Di cosa?» «Stia attento, Rubin», disse Peak. «La paratia sul ponte dell'hangar ha una sola funzione, e lei sa qual è. Far entrare e uscire il materiale esplosivo.» I suoi occhi fiammeggiavano. «Allora, la notte scorsa che cosa aveva da fare di tanto importante da dover aprire la paratia?» Rubin si morse le labbra. «Lei è stato semplicemente troppo pigro per prendere la strada dall'interno della nave, il punto è questo.» «Come può dire una cosa simile?» «È la verità.» Judith Li superò il tavolo e si sedette sul bordo. Lo guardava con aria indulgente, quasi amichevole. «Lei ha detto agli altri che andava a prendere un po' d'aria.» Rubin si afflosciò sulla sedia. Ovvio che l'aveva detto. E ovviamente i
sistemi di sorveglianza l'avevano registrato. «E più tardi è tornato a prendere un po' d'aria.» «Sembrava che sul ponte non ci fosse nessuno», si difese lui. «E la vostra gente non ha comunicato nulla in contrario.» «Ma come, Mick? La sorveglianza non ha detto nulla perché lei non ha fatto nessuna richiesta. Lei ha l'obbligo di chiedere il permesso ogni volta che vuole aprire la paratia. Quelli non potevano comunicarle nulla.» «Mi dispiace», disse Rubin. «Per essere onesti, ammetterò che pure qui non tutto ha funzionato secondo i piani. Ci è sfuggita la seconda passeggiata di Johanson sul ponte dell'hangar. Inoltre, preparando la missione, abbiamo commesso l'errore di non installare un sistema di ascolto senza buchi. Per esempio, non sappiamo che cosa si siano detti Sue Oliviera e Sigur Johanson quando hanno fatto il loro piccolo party sul ponte dell'hangar, e purtroppo non abbiamo potuto sentire neppure la conversazione sulla rampa. Ma questo non cambia il fatto che lei si sia comportato da stupido.» «Prometto che non succederà più...» «Lei è un rischio per la sicurezza, Mick. Un imbecille senza cervello. E anche se non sempre la penso come Jack, stia sicuro che lo aiuterò a gettarla in mare, se si dovesse ripetere una cosa del genere. Mi procurerò un paio di squali e me ne starò a guardare con soddisfazione mentre le strappano il cuore. Ha capito? Io la ucciderò.» Gli occhi acquamarina splendevano nel volto di Judith Li e avevano un'aria amichevole, ma Rubin sospettava che quella donna non avrebbe esitato un attimo a tradurre in realtà le sue minacce. Aveva paura di lei. «Vedo che ha capito.» Judith Li gli diede una pacca sulle spalle e tornò dagli altri. «Bene. Contenimento dei danni. La droga fa effetto?» «A Johanson ne abbiamo iniettati dieci millilitri», rispose Peak. «Una dose maggiore l'avrebbe messo fuori combattimento e non ce lo possiamo permettere. Quella sostanza nel cervello funziona come una gomma per cancellare, ma non c'è garanzia che non ricordi nulla.» «Quant'è elevato il rischio?» «Difficile dirlo. Una parola, un colore, un odore... Se il cervello trova un punto di collegamento è in grado di ricostruire tutto.» «Il rischio è molto elevato», ringhiò Vanderbilt. «Fino a oggi non siamo riusciti a trovare una droga che possa eliminare completamente i ricordi. Sappiamo troppo poco del sistema di funzionamento del cervello.»
«Quindi dovremo tenerlo sotto sorveglianza», disse Judith Li. «Che ne pensa, Mick? Per quanto crede che dipenderemo ancora da Johanson?» «Oh, siamo molto avanti», esclamò Rubin in tono concitato. Lì poteva recuperare terreno. «Karen Weaver e Leon Anawak hanno avuto l'idea di una fusione feromonica. Anche Sue Oliviera e Sigur Johanson sono arrivati alla conclusione che possa dipendere dall'odore. Oggi pomeriggio faremo dei test di fase per ottenere la conferma. Se è vero che la fusione avviene in seguito a un odore, allora avremo un punto di partenza che ci dovrebbe portare velocemente alla meta desiderata.» «Nel caso, se, forse, potrebbe...» sbuffò Vanderbilt. «Quando avrà quel maledetto strumento?» «Questo è lavoro di ricerca, Jack», disse Rubin. «Nessuno si è seduto in grembo ad Alexander Fleming per chiedergli di quanto tempo aveva ancora bisogno per scoprire la penicillina.» Vanderbilt stava per ribattere, quando una donna si alzò dalla console e venne verso di loro. «Al CIC hanno decifrato il segnale», disse. «Scratch?» «Così pare. Samantha Crowe ha detto a Shankar che lo ha decifrato.» Judith Li guardò la console su cui arrivavano le immagini e le conversazioni del CIC. Dalla prospettiva di una telecamera nascosta, si vedevano Shankar, Samantha e Anawak intenti in una conversazione. «Quindi tra poco riceveremo la notizia», disse. «Va bene. Allora, signori, mostriamo la dovuta sorpresa.» Combat Information Center Tutti si accalcavano intorno a Samantha e a Shankar per vedere la risposta. Non più in forma di spettrogramma, ma come rielaborazione visiva del segnale ricevuto il giorno precedente. «È una risposta?» chiese Judith Li. «Bella domanda», disse Samantha. «Che cos'è scratch?» chiese Greywolf, appena arrivato con Alicia al seguito. «Una lingua?» «Scratch forse sì, ma non di certo la forma in cui è codificato in questo caso», spiegò Shankar. «All'incirca è come il messaggio di Arecibo. Gli uomini sulla Terra non conversano col sistema binario. In fondo, non siamo stati noi a mandare un messaggio nello spazio, ma i nostri computer.» «Quello che siamo riusciti a scoprire è la struttura di scratch e perché ha
lo stesso suono di una puntina trascinata su un disco», intervenne Samantha. «Si tratta di uno staccato nella zona delle basse frequenze, adatto per attraversare tutto l'oceano. Le onde a bassa frequenza possono raggiungere le distanze maggiori. Uno staccato velocissimo. Il problema con gli infrasuoni è che per rendere udibili i rumori al di sotto dei cento hertz dobbiamo accelerarli di molte volte e così aumentiamo ancora di più la velocità dello staccato. La chiave per la comprensione consiste tuttavia nel rallentamento.» «Abbiamo dovuto dilatarlo per poter dividere le singole unità», disse Shankar. «Così lo abbiamo rallentato finché è diventato una serie di singoli impulsi di diversa intensità e lunghezza.» «Quasi come un alfabeto Morse», disse Karen. «Pare che funzioni in maniera analoga.» «E come viene rappresentato?» chiese Judith Li. «Con uno spettrogramma?» «In parte. Ma non è sufficiente. Visto che si tratta di sentire, allora la cosa migliore è ascoltare realmente qualcosa. Così siamo ricorsi a un trucco simile a quello usato nella rappresentazione delle immagini dei satelliti, quando le riprese radar vengono rese visibili colorandole artificialmente. In questo caso, trasportiamo ogni segnale in base alla sua lunghezza e alla sua intensità su una frequenza che possiamo udire. Teniamo conto anche delle originali altezze delle frequenze. Così abbiamo fatto con scratch.» Samantha diede alcuni comandi con la tastiera. «Quello che abbiamo ottenuto suona così.» Il suono sembrava quello di un tamburo picchiato sott'acqua. Una sequenza veloce, quasi troppo per poterla seguire completamente, ma indubbiamente composta da impulsi di differente lunghezza e intensità. «In effetti, sembra un codice», borbottò Anawak. «Che vuol dire?» «Non lo sappiamo.» «Non lo sapete?» le fece eco Vanderbilt. «Pensavo che l'aveste decifrato.» «Non sappiamo che lingua sia», spiegò Samantha in tono paziente. «Non sappiamo se è parlata normalmente. Non abbiamo la minima idea di cosa significhi il segnale scratch ricevuto negli ultimi anni. Ma questo non ha importanza.» Soffiò il fumo dalle narici. «Abbiamo di meglio: un contatto. Murray, mostri loro la prima parte.» Shankar cliccò su un'icona del computer. Lo schermo si riempì di serie infinite di numeri. Intere colonne erano identiche. «Se ricordate, abbiamo
spedito laggiù alcune 'verifiche di matematica'», disse. «Come un test d'intelligenza. Si trattava di completare serie di decimali, di risolvere logaritmi e di aggiungere elementi mancanti. Nella migliore delle ipotesi, ci siamo immaginati che quelli laggiù l'avrebbero trovato divertente e ci avrebbero spedito la risposta, in modo da segnalarci: 'Vi abbiamo sentito, siamo qui, conosciamo la matematica e siamo in grado di maneggiarla'.» Mostrò una serie di numeri. «Questi sono i risultati. Voto: dieci e lode. Hanno risolto perfettamente gli esercizi.» «Mio Dio», sussurrò Karen. «Questo ci dice due cose», affermò Samantha. «Anzitutto che scratch è una sorta di lingua e, con molta probabilità, i segnali scratch contengono complesse informazioni. In secondo luogo - e questo è decisivo! - che gli yrr sono in grado di deformare scratch in modo che per noi abbia un senso. È una prestazione di prima classe. Dimostra che non ci sono per nulla inferiori. Sono in grado non soltanto di decodificare, ma anche di codificare.» Per un po' rimasero tutti a guardare le colonne di numeri. Sembravano oppressi da un misto di commozione e di angoscia. «Ma questo cosa prova esattamente?» chiese Johanson, rompendo il silenzio. «Ma è chiaro», rispose Alicia. «Che laggiù c'è qualcuno che pensa e risponde.» «Sì, ma un computer non potrebbe dare le stesse risposte?» «Pensi che stiamo conversando con un computer?» «Ha ragione», disse Anawak. «Ci mostra che qualcuno ha fatto diligentemente i suoi compiti. È senza dubbio impressionante, ma non è una prova incontestabile dell'esistenza di una vita intelligente e consapevole di se stessa.» «E chi altri potrebbe aver dato quelle risposte?» chiese Greywolf, entusiasta. «I merluzzi?» «Certo che no. Ma prova a pensarci. Quello che abbiamo vissuto qui è un contatto tecnicamente perfetto attraverso simboli. Tuttavia da ciò non si può dedurre la presenza di un'intelligenza evoluta. Quando si adatta all'ambiente, un camaleonte porta a termine calcoli di elevata complessità, per così dire. Di fatto non se ne accorge nessuno. Se non si conosce l'effettiva intelligenza del camaleonte, si potrebbe arrivare alla conclusione che esso abbia doti impressionanti per poter gestire un programma che oggi rende il suo aspetto simile a una foglia e domani a una roccia. Bisognerebbe presupporre un'elevata capacità di comprensione, perché esso possa de-
cifrare il codice ambientale e procedere in modo creativo, regolando il proprio codice sulla base di quello.» «Allora che cos'abbiamo qui?» chiese Alicia, sconcertata. Sembrava quasi delusa. Samantha ridacchiò. «Leon ha ragione», disse. «La capacità di manipolare dei simboli non fornisce affatto la prova che quei simboli siano anche stati compresi. Il vero spirito creativo si dimostra attraverso la capacità di rappresentazione e la conoscenza delle relazioni all'interno del mondo reale. Attraverso una comprensione profonda. Un computer, per quanto dotato di capacità di apprendimento, non conosce il rapporto con la regola generale, né il comportamento contro la logica; non si mette in confronto con l'ambiente e non fa esperienze. Credo che sia la stessa cosa che hanno detto gli yrr quando hanno formulato la loro risposta. Hanno cercato qualcosa che ci mostrasse la loro più elevata capacità di comprensione.» Indicò il monitor. «Questi sono i risultati dei due compiti matematici. Se osservate con attenzione, noterete che il risultato uno compare undici volte di fila, poi per tre volte vediamo il risultato due, una volta il risultato uno, poi nove volte il risultato due e così via. In un punto, il risultato uno si ripete quasi trentamila volte. Ma perché? Ha senso spedirci i risultati più di una volta perché il messaggio sia sufficientemente lungo per essere registrato. Ma come mai questa sequenza apparentemente caotica?» «Qui entra in gioco Miss Alien», disse Shankar e sorrise ai presenti. «Il mio alter ego, Jodie Foster», confermò Samantha. «Devo ammettere che la risposta mi è venuta in mente quando ho pensato al film. La sequenza è un codice. Se lo si sa leggere correttamente, si ottiene un'immagine composta da pixel bianchi e neri, quindi niente di diverso da quello che facciamo col SETI.» «Spero che non sia Adolf Hitler», disse Rubin. Stavolta ottenne una risata. Tutti avevano visto il film Contact con Jodie Foster. Gli alieni avevano mandato sulla Terra un'immagine televisiva che conteneva in realtà un manuale di costruzione. E avevano preso la prima immagine inviata dagli esseri umani nell'etere: Hitler che inaugurava le Olimpiadi di Berlino, nel 1936. «No», rispose Samantha. «Non è Hitler.» Shankar impartì un comando al computer. Le colonne di numeri sparirono e apparve un'immagine.
«Che cos'è?» Vanderbilt si chinò in avanti. «Non lo riconosce?» Samantha sorrise ai presenti. «Nessuno di voi ha idea di cosa sia?» «Sembra un grattacielo», disse Anawak. «L'Empire State Building», propose Rubin. «Sciocchezze», sbuffò Greywolf. «Come fa a vederci l'Empire State Building? Sembra un missile.» «E come fanno a conoscere i missili?» chiese Alicia. «Perché in mare ce ne sono tantissimi. Provvisti di testate nucleari, di armi chimiche...» «Ma che cosa c'è tutt'intorno?» chiese Sue. «Nuvole?» «Forse acqua», affermò Karen. «Forse è qualcosa degli abissi marini. Una formazione.» «L'acqua? Forse», intervenne Samantha. Johanson si grattò la barba. «Sembra quasi un monumento. Probabilmente un simbolo. Qualcosa di... religioso.» «Umano, assolutamente umano.» Samantha sembrava divertirsi come una matta. «Perché non vi chiedete semplicemente se non è possibile osservare l'immagine in un altro modo?» Continuarono a fissare l'immagine e improvvisamente Judith Li trasalì. «Potete girarla di novanta gradi?» Le dita di Shankar scivolarono sulla tastiera e l'immagine si dispose orizzontalmente. «Continuo a non capire che cosa sia», disse Vanderbilt. «Un pesce? Un
grande animale?»
Judith Li scosse la testa e accennò un sorriso. «No, Jack. I motivi tutt'intorno sono le onde. Onde marine. Un'istantanea vista da sotto. Dal fondo verso la superficie.» «Come? E quella cosa nera?» «Semplice. Siamo noi. La nostra nave.» Heerema, al largo di La Palma, Canarie Forse non avrebbero dovuto essere così euforici. Durante le ultime sedici ore, l'aspiratore aveva lavorato ininterrottamente, portando alla luce tonnellate di corpicini rosa che evidentemente non avevano gradito il cambiamento. La maggior parte era morta subito, gli altri si erano contorti a lungo, finendo con le proboscidi estroflesse e le mandibole aperte. All'inizio, Frost era corso fuori a vedere i policheti che uscivano dal tubo insieme con l'acqua marina, formando un'imponente fontana, e poi finivano in una grande rete. Attraverso alcuni scivoli, i vermi erano stati scaricati in un cargo, posto a fianco dell'Heerema e ne riempivano la stiva. Frost, entusiasta, aveva infilato le mani nella massa ed era tornato indietro ricoperto di fango, sollevando trionfante una dozzina di cadaveri. «Solo un verme morto è un verme buono», aveva tuonato. «Ascoltate le mie parole! Yeah!» Avevano applaudito tutti, anche Bohrmann. Dopo un po', i vortici di fango si erano posati, consentendo a loro di osservare la pietra lavica. Da lì, salivano isolati fili di piccole bolle. Le telecamere dell'isola luminosa avevano zoomato e Bohrmann era riuscito a
vedere cos'era successo. «Colonie di batteri», aveva detto. Frost lo aveva guardato. «E questo che significa?» «Difficile da dire.» Bohrmann si era strofinato le nocche sul mento. «Finché popolano solo la superficie, non c'è pericolo. Però non so quanta sostanza sia già penetrata nei sedimenti. Quelle linee grigio sporco, là in mezzo, sono gli idrati.» «Quindi ci sono ancora.» «Quelli che vediamo. Però non sappiamo quanti ce n'erano prima e quanti ne sono stati distrutti. La fuoriuscita di bolle si mantiene in una dimensione tollerabile. Con una certa cautela, potrei dire che non è stato un insuccesso.» «Per me vale un sì», aveva esclamato Frost, soddisfatto. Poi si era alzato. «Vado a prendere del caffè per tutti.» Erano rimasti per ore a fissare l'aspiratore in azione e, a un certo punto, gli occhi avevano cominciato a bruciare. Infine van Maarten aveva cacciato Frost a letto. Erano tre notti che Frost e Bohrmann praticamente non dormivano. Frost stava ancora protestando quando i suoi occhi avevano cominciato a chiudersi. Poi, con le ultime energie, era riuscito a raggiungere, barcollando, la cabina. Bohrmann era rimasto con van Maarten. Erano le undici. «Lei è il prossimo che deve andare a dormire», aveva detto l'olandese. «Non posso.» Bohrmann si era passato la mano sugli occhi. «Nessuno conosce gli idrati come me.» «E invece no, noi li conosciamo.» «Non ci vorrà ancora molto», aveva commentato Bohrmann. In effetti, il team dei piloti era già stato cambiato tre volte. Ma, nel giro di poche ore, Erwin Suess sarebbe arrivato in elicottero da Kiel, e lui doveva tenere duro fino al suo arrivo. Sbadigliò. Nel frattempo era calata la notte. La sala era percorsa da un leggero ronzio. Nel corso delle ultime ore, l'aspiratore e l'isola luminosa erano stati spinti, lentamente ma con continuità, verso nord. Se i dati della spedizione Polarstern erano esatti, i vermi infestavano solo quella terrazza. Bohrmann valutò che sarebbero serviti ancora alcuni giorni per aspirarli completamente, ma in lui si era risvegliata la speranza. La fuoriuscita di bolle era di poco superiore a quanto ci si attendeva, però non costituiva un reale motivo di preoccupazione. Forse, una volta spariti i vermi e le orde di batteri, gli idrati si sarebbero ristabilizzati. Osservò i monitor con le palpebre socchiuse.
Fu colpa della stanchezza se il cambiamento raggiunse la sua coscienza soltanto dopo un po' che era iniziato. Si chinò in avanti. «Là c'è qualcosa che luccica», disse. «Allontanate l'aspiratore.» Van Maarten sgranò gli occhi. «Dove?» «Guardi sui monitor. In quella confusione, qualcosa ha lampeggiato. Ecco, ancora!» In un attimo fu completamente sveglio. Ormai anche le telecamere dell'isola luminosa rivelavano che qualcosa non andava. La normale nuvola di sedimenti e le fauci dell'aspiratore si erano gonfiati. Frammenti scuri e bolle vibravano tutt'intorno e poi venivano trascinati in alto. Gli schermi dell'aspiratore divennero neri e la sua bocca venne spinta da una parte. «Maledizione, che cosa succede?» Dagli altoparlanti uscì la voce del pilota: «Stiamo aspirando cose molto grosse. L'aspiratore diventa instabile. Non so se...» «Via!» urlò Bohrmann. «Via dal pendio!» Di nuovo, pensò, disperato. Come con la Sonne. Un blowout. Si erano trattenuti troppo a lungo nello stesso posto e il plateau era diventato instabile. La pressione più bassa separava i sedimenti. No, non era un blowout. Era ancora peggio. Il tubo dell'aspiratore cercò di tirarsi fuori dalla nuvola di sedimenti. Si gonfiò ancora di più, in apparenza sul punto di esplodere. Un'onda d'urto colpì l'isola luminosa. L'immagine ondeggiava. «C'è uno smottamento», gridò il pilota. «Spenga l'aspiratore!» Bohrmann balzò in piedi. «Lo riporti indietro.» Dall'alto cadevano grandi frammenti di roccia. Pietrisco lavico franava sulla terrazza. Nella nuvola di fango e macerie, la bocca dell'aspiratore si vedeva appena. «L'aspiratore è spento», confermò van Maarten. Osservarono lo smottamento con occhi spalancati: cadevano sempre più rocce. Se avesse coinvolto la parete quasi verticale del vulcano, si sarebbero staccati pezzi sempre più grandi. La pietra dei vulcani era porosa. Nel giro di qualche minuto, un piccolo smottamento poteva diventare molto grande, e alla fine avrebbe provocato proprio quello che stavano cercando d'impedire. Dobbiamo accettare con tranquillità la situazione, pensò Bohrmann. Ormai è troppo tardi per fuggire. Una montagna d'acqua alta seicento metri...
Lo scroscio di pietre finì. Per lungo tempo, nessuno parlò. Gli sguardi erano incollati ai monitor. Sulla terrazza c'era una nuvola diffusa che disperdeva e rifletteva la luce delle lampade alogene. «Ha smesso», disse van Maarten con voce tremante. «Sì», confermò Bohrmann. «Pare di sì.» Van Maarten chiamò i piloti. «L'isola luminosa ha ballato non poco», comunicò il team addetto all'illuminazione. «Un riflettore è caduto.» «E il tubo dell'aspiratore?» «Pare bloccato.» L'informazione arrivò dall'altra gru. «I sistemi trasmettono i comandi, ma non sembra in grado di eseguirli.» «Credo che la bocca sia rimasta sotto le macerie», ipotizzò il pilota. «Quanto peso può esserci caduto sopra?» chiese van Maarten con un filo di voce. «Prima si deve depositare la nube», rispose Bohrmann. «Sembra proprio che ne siamo usciti con un occhio pesto.» «Va bene. Allora dobbiamo aspettare.» Van Maarten parlò nel microfono. «Non fate altri tentativi per liberare l'aspiratore. Pausa caffè. Non voglio che laggiù si creino scosse inutili. Aspettiamo un po', poi vedremo.» Tre ore dopo, videro. In realtà videro solo per pochi metri, perché i sedimenti non si erano ancora posati del tutto, ma la bocca dell'aspiratore si vedeva benissimo. Era arrivato anche Frost, più spettinato che mai. «Si è incastrato ben bene», constatò van Maarten. «Sì.» Frost si grattò la testa. «Ma non sembra rotto.» «I motori sono bloccati.» «E come facciamo a sbloccarli?» «Potremmo mandare giù un robot che sposti tutto il materiale», propose Bohrmann. «Santa furia di Dio e di tutti gli angeli!» sbraitò Frost. «Ci costerà tantissimo tempo. Ammesso che funzioni.» «Dobbiamo fare in fretta.» Bohrmann si rivolse a van Maarten. «Quanto ci vuole per allestire Rambo?» «È già pronto.» «Allora via. Proviamoci.» «Rambo» doveva il suo nome al film con Sylvester Stallone, quindi a motivi nient'affatto scientifici. Il ROV sembrava una versione più piccola
del Victor 6000: aveva quattro telecamere, diversi propulsori per la stabilità a poppa e sui fianchi e due robusti bracci meccanici snodati. L'apparecchio raggiungeva al massimo ottocento metri di profondità, ma era molto apprezzato nel settore offshore. Nel giro di un quarto d'ora, Rambo era pronto a entrare in azione. In breve tempo, scivolò lungo il cono vulcanico verso la terrazza, collegato con la cabina di pilotaggio sull'Heerema da un cavo a fibre ottiche. L'isola luminosa entrò nel campo visivo. Il robot continuò a scendere, si mise in movimento e manovrò verso la bocca dell'aspiratore. Da vicino, si vedeva chiaramente che i motori e il sistema video della proboscide erano intatti, tuttavia alcuni blocchi di pietra vulcanica l'avevano incastrato, bloccandolo. I bracci meccanici di Rambo iniziarono a spostare i detriti. All'inizio, sembrava che il robot potesse liberare l'aspiratore. Spostava le macerie l'una dopo l'altra, finché non incappò in una punta posta di traverso, che si era conficcata nella terrazza e schiacciava il tubo contro uno sperone di roccia. I bracci si muovevano avanti e indietro, si giravano, cercavano di spostare la roccia. Ma invano. «Un automa non ce la può fare», affermò Bohrmann. «Non può sviluppare una forza sufficiente.» «Ah, fantastico», sibilò Frost. «E se i piloti ritirassero l'aspiratore?» azzardò Bohrmann. «Con la tensione, prima o poi si dovrà liberare.» Van Maarten scosse la testa. «Troppo rischioso. Il tubo potrebbe strapparsi.» Tentarono la sorte facendo collidere il robot col blocco da diverse parti. Intorno a mezzanotte, fu evidente che la macchina non ce l'avrebbe fatta. E i vermi, che spuntavano ovunque dall'oscurità, stavano tornando a occupare le zone ripulite. «Non mi piace neanche un po'», grugnì Bohrmann. «Proprio qui, dov'è instabile. Dobbiamo cercare di liberare l'aspiratore, altrimenti la vedo nera.» Frost aggrottò la fronte. Dopo un po', disse: «Bene. Allora la vedremo nera. E personalmente». Bohrmann lo guardò con aria interrogativa. «Ma sì. Nelle profondità marine è tutto nero, no? Voglio dire, se Rambo non ce la fa, c'è solo uno che ce la può fare. Sono quattrocento metri. Per quella profondità, a bordo abbiamo delle tute speciali.» «Vuoi andare laggiù?» chiese Bohrmann, sbalordito.
«Naturalmente.» Frost distese le braccia, che scrocchiarono. «Dov'è il problema?» 15 agosto Independence, mar di Groenlandia Samantha Crowe aveva preso la risposta degli yrr come occasione per mandare negli abissi un secondo e più complesso messaggio. Conteneva informazioni sulla specie umana, sulla sua evoluzione e sulla sua cultura. Vanderbilt non ne era particolarmente felice, ma alla fine Samantha lo aveva convinto che ormai non era più possibile prendere un'altra direzione. Gli yrr erano sul punto di vincere la battaglia. «Non è cambiato niente, continuiamo ad avere una sola possibilità», aveva detto. «Dobbiamo convincerli che siamo degni di esistere. Questo può accadere solo se raccontiamo il più possibile di noi stessi. Forse c'è qualcosa che non hanno preso in considerazione. Qualcosa che li porterà a ripensarci.» «L'intersezione di due sistemi di valori», aveva azzardato Judith Li. «Sì, per quanto piccola sia.» Sue Oliviera, Sigur Johanson e Mick Rubin si erano seppelliti in laboratorio. Volevano costringere l'essere gelatinoso nella cisterna a dividersi e a disperdersi completamente. Erano in contatto costante con Karen Weaver e Leon Anawak. Karen aveva provvisto i suoi yrr virtuali di un DNA artificiale e aveva inserito un messaggero feromonico. Funzionava. Avevano dimostrato teoricamente che gli unicellulari, per fondersi, utilizzavano un odore, ma la gelatina rifiutava ogni cooperazione pratica. L'essere - per la precisione, la somma degli esseri - si era trasformato in un'ampia superficie ed era affondato sul fondo della cisterna. Nel frattempo, Alicia e Greywolf analizzavano i filmati dei delfini, senza riuscire a vedere altro che lo scafo dell'Independence, qualche pesce isolato e altri delfini che si riprendevano a vicenda. Trascorrevano il loro tempo nel CIC o nel ponte a pozzo, dove Roscovitz e Kate Ann erano impegnati nelle riparazioni del Deepflight. Judith Li sapeva che pure gli uomini migliori correvano il rischio di andare in tilt se, di tanto in tanto, non si prendevano una pausa. Si fece mandare le previsioni del tempo e chiese l'analisi della loro attendibilità. Tutto faceva credere che, fino al mattino successivo, il tempo sarebbe stato bello
e senza vento. Già in quel momento, rispetto all'inizio della giornata, il moto ondoso si era notevolmente ridotto. Così aveva chiesto ad Anawak di dedicargli qualche minuto e aveva scoperto che lui non sapeva praticamente nulla della cucina dell'estremo nord. Allora si affidò a Peak, che, nella sua carriera militare, non si era mai occupato del cibo. Fece una serie di telefonate. Due elicotteri partirono per la costa della Groenlandia. Nel tardo pomeriggio, Judith Li annunciò che il capo chef invitava tutti a un party, che sarebbe cominciato alle nove. Gli elicotteri tornarono, portando tutto il necessario per preparare una cena groenlandese. Sul ponte di volo davanti all'isola furono portati tavoli, sedie e fu allestito un buffet. Venne pure sistemato un impianto stereo e tutt'intorno furono messi dei radiatori per tenere lontano il freddo. Nella cucina iniziò un gran trambusto. Judith Li era ben nota per la sua capacità di tirare fuori dal cilindro idee eccezionali e di realizzarle nel giro di pochissimo tempo. Carne di caribù passava dalle pentole alle padelle. Fu affettato il maktaaq, la pelle di narvalo croccante, e preparata una zuppa di foca. Inoltre vennero cotte uova di edredone. Il fornaio dell'Independence si dedicò al bunnok, una focaccia di pane azzimo, piatta e molto gustosa, per la cui preparazione a regola d'arte gli inuit facevano gare annuali. Furono sfilettati salmoni e arrostiti salmerini con erbe aromatiche, fu preparato un carpaccio di carne congelata di tricheco e montagne di riso vennero cotte a fuoco lento. Peak si era limitato a far arrivare tutto ciò che non era disponibile in magazzino e si era affidato ciecamente ai consulenti groenlandesi. Solo una specialità gli era suonata sospetta: intestino di tricheco al forno. Per quanto fosse magnificata, era una di quelle cose cui, secondo il suo modo di vedere, si poteva tranquillamente rinunciare. Aveva predisposto un equipaggio d'emergenza per il ponte, la sala macchine e il CIC. Tutti gli altri comparvero puntuali alle nove sulla coperta dell'Independence: equipaggio, scienziati e soldati. Quel luogo, normalmente deserto, si riempì in un lampo. Circa centosessanta persone presero il loro cocktail analcolico di benvenuto e si accomodarono ai tavoli, oppure rimasero in piedi, sinché non fu aperto il buffet. A un certo punto, l'atmosfera si rilassò e tutti gli ospiti cominciarono a chiacchierare. Era un party insolito, quello che Judith Li aveva organizzato: alle spalle delle persone c'era l'alto edificio d'acciaio dell'isola e tutt'intorno la vastità solitaria del mare. La foschia si era ritirata e aveva formato all'orizzonte surreali montagne di nuvole, in mezzo alle quali, di tanto in tanto, faceva
capolino la sfera del sole. L'aria era frizzante e limpida e, intorno a ogni cosa, sembrava avvolgersi il blu intenso del cielo. Per un po', tutti si sforzarono di lasciare da parte i discorsi sul motivo per cui erano lì. Fece bene a tutti intrattenersi per un po' su altri argomenti. Tuttavia c'era qualcosa di forzato, quasi di disperato, in quel modo di conversare, come se si trovassero a un vernissage. E poco prima di mezzanotte, quando ormai iniziava il crepuscolo, la fragile barriera si ruppe. La maggior parte dei presenti aveva cominciato a darsi del tu e a dividersi in gruppi, che poi si radunavano intorno agli sciamani del sapere nel tentativo di strappare loro una consolazione che però nessuno poteva offrire. «Parliamo seriamente», disse Craig C. Buchanan a Samantha. Era l'una passata. «Non crederà davvero a degli esseri unicellulari intelligenti, vero?» «E perché no?» chiese Samantha di rimando. «Mi faccia il piacere. Stiamo parlando di vita intelligente, giusto?» «Così sembra.» «Allora...» Buchanan cercò le parole. «Non mi aspetto che siano simili a noi, ma suppongo che si rivelino un po' più complessi di un organismo unicellulare. Si dice che gli scimpanzé siano intelligenti e lo stesso si afferma delle balene e dei delfini. Be', tutti hanno un corpo dalla struttura complessa e un cervello grande. Abbiamo imparato che le formiche sono troppo piccole per sviluppare una vera intelligenza. E allora come porrebbe esserci negli unicellulari?» «Non confonda le due cose, comandante.» «Quali cose?» «Quello che ci potrebbe essere e quello che le piacerebbe ci fosse.» «Non capisco cosa intende.» «Vuol dire che dobbiamo abituarci all'idea che l'umanità dovrà cedere il predominio a un avversario forte e potente. Grande, bello e coi muscoli», interloquì Peak. Buchanan batté il palmo della mano sul tavolo. «Non ci credo. Non credo che un organismo primitivo possa dominare questo pianeta e superare in intelligenza l'uomo. Non può essere! Gli uomini sono progrediti...» «Progresso? Complessità?» esclamò Samantha. «Ma che cosa crede? Che l'evoluzione sia progresso?» Buchanan la guardò, inquieto. «Vediamo un po'», riprese Samantha. «L'evoluzione è la lotta per la sopravvivenza del più adatto, per restare a Darwin. È il prodotto dalle avver-
sità, dello scontro con altri esseri viventi o con le catastrofi naturali. Quindi c'è uno sviluppo attraverso la selezione. Ma questo conduce automaticamente a una maggiore complessità? E la maggiore complessità è un progresso?» «Non so molto dell'evoluzione», mormorò Peak. «Pensavo che nel corso della storia naturale, la maggior parte degli esseri viventi fosse diventata sempre più grande e complessa. Ed è senza dubbio così per noi. Dal mio punto di vista, è indubbiamente il risultato di una tendenza.» «Una tendenza? Sbagliato. Noi vediamo solo un piccolo frammento della storia, in cui appunto si è sperimentata la maggiore complessità, ma chi ci dice che non siamo finiti in un vicolo cieco dell'evoluzione? Quando ci vediamo all'apice di un trend naturale, non facciamo altro che sopravvalutare noi stessi. Sapete tutti com'è l'albero genealogico dell'evoluzione, quel quadro tutto ramificato con rami principali e secondari. Allora, Sal, se lei pensa a quell'albero, come vedrebbe l'umanità? Come ramo principale o secondario?» «Senza dubbio principale.» «Era quello che mi aspettavo. Corrisponde alla prospettiva umana. Se molti rami di una famiglia di animali si dividono e uno sopravvive, mentre tutti gli altri muoiono, noi definiamo i sopravvissuti come ramo principale. Perché? Solo perché sono ancora vivi? Ma forse quella che vediamo è solo una linea secondaria che riesce a sopravvivere un po' più delle altre. Noi uomini siamo l'unica specie sopravvissuta di un ceppo evolutivo originariamente molto rigoglioso. Ciò che resta di uno sviluppo che ha seccato gli altri rami, l'ultimo sopravvissuto di un esperimento chiamato Homo. Homo australopithecus: estinto. Homo habilis: estinto. Homo sapiens neanderthalensis: estinto. Homo sapiens sapiens: c'è ancora. Per il momento, abbiamo noi il dominio del pianeta, ma attenzione! I parvenu dell'evoluzione non devono confondere il dominio con la superiorità intrinseca e la sopravvivenza a lunga scadenza. Potremmo sparire molto più velocemente di quanto ci piaccia pensare.» «Probabilmente ha ragione», disse Peak. «Ma ha dimenticato un fattore decisivo. Questa specie sopravvissuta è anche l'unica specie ad avere una coscienza altamente sviluppata.» «D'accordo. Però mi faccia la cortesia di osservare l'evoluzione nel panorama complessivo della natura. Quello che vede è davvero uno sviluppo o un trend eccezionale? L'ottanta per cento degli organismi pluricellulari vanta un successo evolutivo di gran lunga migliore di quello umano, senza
che questo presunto trend li abbia portati alla formazione di un'elevata complessità nervosa. Tutto il nostro corredo di spirito e coscienza è un progresso esclusivamente in rapporto alla nostra soggettiva visione del mondo. Finora, questa bizzarra, inverosimile apparizione marginale di nome 'uomo' ha portato all'ecosistema Terra solo una cosa: una valanga di guai.» «Sono sempre convinto che vi siano dietro degli uomini», stava dicendo Vanderbilt al tavolo vicino. «Ma va bene, mi lascio convincere. Se non ci sono alternative, c'impegneremo al massimo per capire questi yrr. Metteremo quella disgustosa robaccia sotto l'osservazione della CIA finché non sapremo cosa pensa e cosa progetta.» Era con Alicia Delaware e Leon Anawak. Intorno a loro, c'erano soldati e membri dell'equipaggio. «Se lo scordi», sbottò Alicia. «Non otterrà niente con la CIA.» «Puah!» disse Vanderbilt ridendo. «Se sei paziente, riesci a infilarti in ogni testa. Anche se è quella di un maledetto unicellulare. È solo questione di tempo.» «No, è questione di obiettività», disse Anawak. «Cosa le fa pensare di essere in grado di assumere il ruolo di un osservatore obiettivo?» «Possiamo, eccome. È per questo che siamo intelligenti e civilizzati.» «Lei sarà anche intelligente, ma non è in grado di percepire obiettivamente la natura.» «Per essere precisi, è soggettivo e privo di libertà come un animale», aggiunse Alicia. «A che animale stavate pensando?» ridacchiò Vanderbilt. «A un tricheco?» Anawak sorrise. «Dico sul serio. Siamo sempre più vicini alla natura di quanto crediamo.» «Io no. Io sono cresciuto in una grande città. Non sono mai stato in campagna. E neppure mio padre.» «Non importa», disse Alicia. «Le faccio un esempio: i serpenti. Sono temuti e nel contempo adorati. Oppure gli squali... C'è una gran quantità di divinità squalo. Questo legame emotivo con le altre forme di vita è innato nell'uomo, forse addirittura determinato geneticamente.» «Voi parlate di uomini primitivi. Io parlo di uomini che vivono nelle metropoli.» «Okay.» Anawak rifletté per un attimo. «Ha una fobia, o qualcosa che
possa essere definito come tale?» «Be', sì, non esattamente una fobia...» cominciò Vanderbilt. «Una repulsione?» «Sì.» «Per che cosa?» «Oddio, non è così originale. Probabilmente ce l'hanno tutti. Per i ragni. Le odio quelle bestie.» «Perché?» «Perché...» Vanderbilt scrollò le spalle. «Sono disgustosi. Non trova anche lei che siano disgustosi?» «No, ma il punto non è questo. Il punto è che, nel nostro mondo civilizzato, la causa principale delle fobie è data dai pericoli che correvamo prima di vivere nelle città. Sviluppiamo fobie verso le pareti di roccia che incombono su di noi, per i temporali, le acque impetuose, per la superficie dell'acqua impenetrabile allo sguardo, per i serpenti, per i cani e per i ragni. Perché non verso i cavi elettrici, i revolver, i coltelli a serramanico, le auto, gli esplosivi e le prese di corrente che, nel complesso, sono molto più pericolosi? Perché nel nostro cervello è impressa una regola: devi stare all'erta di fronte a oggetti a forma di serpente e a esseri con molte zampe.» «Il cervello umano si è sviluppato in un ambiente naturale, non meccanico», aggiunse Alicia. «La nostra evoluzione spirituale si è svolta nel corso di oltre due milioni di anni in strettissimo rapporto con la natura. Forse le regole di sopravvivenza di quell'epoca si sono addirittura impresse nei geni... In ogni caso, un minuscolo frammento della nostra storia evolutiva è passato nella nostra cosiddetta civiltà. Crede davvero che tutte le informazioni arcaiche presenti nel suo cervello siano sparite solo perché suo padre e suo nonno hanno sempre vissuto in città? Perché abbiamo paura dei piccoli animali che strisciano nell'erba, perché prova disgusto per i ragni? Perché, nel corso della nostra evoluzione, quella paura ha permesso di sopravvivere. Perché gli uomini, che sono più paurosi di tutti gli altri, sono raramente in pericolo e possono generare più discendenti. È così. Ho ragione, Jack?» Lo sguardo di Vanderbilt si spostava da Alicia ad Anawak. «E tutto questo che c'entra con gli yrr?» chiese. «C'entra perché forse somigliano ai ragni», rispose Anawak. «Ah! Allora non venga a parlarci di obiettività. Finché proveremo ripugnanza per gli yrr - qualunque aspetto abbiano, che siano gelatina, unicellulari o granchi velenosi - non scopriremo nulla sul loro modo di pensare,
semplicemente perché non potremo farlo. Saremo unicamente interessati a distruggere le altre specie, in modo che non striscino nelle nostre caverne e non si prendano i nostri bambini.» Un po' in disparte, nell'oscurità, sedeva Johanson. Stava cercando di ricordare i dettagli della notte precedente, quando arrivò Judith Li e gli porse un bicchiere di vino rosso. «Pensavo che ci fossero solo analcolici», si meravigliò Johanson. «Certo», annuì lei, toccando il bicchiere di Johanson col suo. «Ma non siamo così rigidi. Inoltre sono molto attenta alle preferenze dei miei ospiti.» Johanson sorseggiò il vino. Era davvero buono. «Che tipo di persona è lei, generale Li?» chiese. «Mi chiami pure Jude. Lo fanno tutti quelli che non devono stare sull'attenti davanti a me.» «Non riesco a capirla, Jude.» «Dove sarebbe il problema?» «Non mi fido di lei.» Judith sorrise divertita e bevve. «È reciproco, Sigur. Cos'è successo ieri notte? Vuole davvero farmi credere che non ricorda niente?» «In effetti non ricordo proprio niente.» «Che ci faceva sul ponte dell'hangar a un'ora così tarda?» «Volevo rilassarmi.» «Si era già rilassato con Sue.» «Sì, quando si lavora molto, di tanto in tanto bisogna farlo.» «Hmm.» Judith lo oltrepassò con lo sguardo e fissò il mare. «Ricorda di cosa avete parlato?» «Del nostro lavoro.» «Di nient'altro?» Johanson la guardò «Cosa vuole davvero, Jude?» «Risolvere questa crisi. E lei?» «Non so se lo voglio nello stesso modo in cui lo vuole lei», rispose Johanson dopo una breve esitazione. «Che cosa resterà, una volta che questa crisi sarà risolta?» «Resteranno i nostri valori. I valori della nostra società.» «Intende la società umana? O quella americana?» Lei girò la testa verso di lui. Gli occhi azzurri sembravano risplendere nel bel viso asiatico. «C'è differenza?»
Samantha Crowe aveva parlato in tono concitato, spalleggiata da Sue. Al momento erano loro ad aver raccolto il maggior pubblico. Peak e Buchanan si erano indubbiamente messi sulla difensiva, tuttavia, mentre Peak si faceva sempre più pensieroso, Buchanan schiumava di rabbia. «Non siamo l'ineluttabile risultato di un processo superiore di sviluppo della natura», stava dicendo Samantha. «L'uomo è un prodotto del caso. Siamo il risultato di un fortuito accidente cosmico, avvenuto quando un gigantesco meteorite ha colpito la Terra e ha fatto estinguere i dinosauri. Probabilmente, senza quell'incidente, oggi la Terra sarebbe popolata da sauridi intelligenti o da un qualsiasi altro animale. Ci siamo sviluppati a causa di vantaggi naturali, non per consequenzialità logica. Da quando il Cambriano ha prodotto i primi organismi pluricellulari, tra i milioni di sviluppi possibili forse ce n'era solo uno che prevedeva l'uomo.» «Ma gli uomini dominano il pianeta», insistette Buchanan. «Che lo voglia o no.» «Ne è sicuro? Al momento lo dominano gli yrr. Affronti la realtà: noi siamo solo un piccolo gruppo della specie dei mammiferi, che di certo non è ancora stato registrato dall'evoluzione come un successo. I mammiferi coronati da successo sono i pipistrelli, i topi e le antilopi. Noi non rappresentiamo l'ultima parte vincente della storia della Terra, ma siamo solo una specie fra le tante. In natura, non c'è un trend verso un'epoca che faccia da coronamento a tutte le altre, c'è solo la selezione. Il tempo potrebbe registrare un provvisorio aumento della complessità fisica e spirituale di una specie di questo pianeta ma, da un punto di vista generale, non si tratta di un trend e tantomeno di un progresso. In generale, la vita non mostra nessun impulso in direzione del progresso. Aggiunge all'ecosistema un elemento complesso e intanto conserva inalterata da tre miliardi di anni la forma dei batteri. La vita non ha nessun motivo per voler migliorare qualcosa.» «Come concilia queste affermazioni con un progetto divino?» chiese Buchanan, in tono quasi minaccioso. «Se esiste un Dio ed è un Dio intelligente, ha strutturato le cose come le ho descritte. Quindi noi non siamo il suo capolavoro, bensì una variante che sopravvivrà finché sarà consapevole del proprio ruolo di variante.» «E il fatto che Dio abbia creato l'uomo a sua immagine e somiglianza? Vuole mettere in discussione anche questo?» «Mi sta dicendo che lei è così prigioniero della sua ottusità da non pren-
dere neppure in considerazione l'ipotesi che potrebbe aver fatto gli yrr a sua immagine e somiglianza?» Gli occhi di Buchanan lampeggiarono, ma Samantha non gli diede il tempo di ribattere e gli soffiò contro una nuvoletta di fumo. «Ma questa discussione è obsoleta. Diciamo che gli uomini sono relativamente grandi. Ma un corpo più grande è un corpo migliore? In effetti, sembra che alcune specie nel corso della selezione diventino sempre più grandi. Ma la maggior parte se la cava decisamente meglio con un corpo più piccolo. In un'epoca di estinzione di massa, sopravvivono meglio le specie più piccole, quindi, ogni tot milioni di anni, le più grandi spariscono, l'evoluzione ricomincia dal limite inferiore delle dimensioni, fino allo schianto del prossimo meteorite. Pam! Questo è il progetto divino!» «Questo è fatalismo.» «No, è realismo», disse Sue. «Sono le tipologie altamente specializzate come gli uomini a estinguersi in caso di trasformazioni estreme, perché incapaci di adattarsi. Il koala è complesso e può mangiare solo foglie di eucalipto. E che fa se l'eucalipto si estingue? Tira le cuoia. Invece la maggior parte degli unicellulari supera le epoche glaciali, le eruzioni vulcaniche, l'eccesso di ossigeno e di metano, può trascorrere millenni in una condizione simile alla morte e poi ritornare in vita. I batteri possono vivere nella roccia a chilometri di profondità, nelle fonti bollenti, nei ghiacciai. Senza di loro, non potremmo sopravvivere, ma loro possono farlo benissimo anche senza di noi. Tutti gli elementi che determinano la nostra vita - ossigeno, azoto, fosforo, zolfo, carbonio - sono a nostra disposizione grazie all'attività di microrganismi. Batteri, funghi, organismi unicellulari, piccoli animali necrofagi, insetti e vermi elaborano piante e ammali morti e riportano le loro componenti chimiche nel sistema complessivo della vita. E nell'oceano accade come sulla terraferma. I microrganismi sono le forme di vita dominanti negli oceani. La gelatina che abbiamo nella cisterna è sicuramente più vecchia di noi e forse anche più intelligente, che ci piaccia o no.» «Non può paragonare un essere umano a un microbo», ringhiò Buchanan. «Un uomo ha un'importanza diversa. Se non riesce a comprendere questo fatto, come mai è qui e ci rimane?» «Proprio per questo motivo: per fare la cosa giusta!» «Lei tradisce l'umanità già con le parole.» «No, è l'uomo che tradisce il mondo quando stabilisce uno squilibrio tra le forme di vita e la loro importanza. È l'unica specie a farlo. Noi giudi-
chiamo. Ci sono animali cattivi, animali importanti, animali utili. Noi giudichiamo la natura in base a quello che vediamo, ma esso è soltanto una minuscola parte, cui diamo un'importanza sproporzionata. La nostra percezione è indirizzata solo verso i grandi animali e i vertebrati, e soprattutto su noi stessi. Quindi vediamo ovunque solo vertebrati. Nei fatti, il numero complessivo dei vertebrati descritti scientificamente è poco inferiore a 43.000, tra cui 6.500 rettili, 8.700 specie di uccelli e 4.600 mammiferi. E invece, fino a oggi, è stato descritto circa un milione d'invertebrati, tra cui, solo di coleotteri, ce ne sono 350.000, vale a dire più di otto volte il numero complessivo dei vertebrati.» Peak guardò Buchanan. «Ha ragione, Craig», disse. «Prendine atto. Hanno ragione loro.» «Noi non siamo coronati dal successo», disse Samantha. «Se volete vedere il vero successo, osservate gli squali. Esistono dal Devoniano, da quattrocento milioni di anni. Sono centinaia di volte più antichi di ogni progenitore dell'uomo, e ce ne sono trecentocinquanta specie. Ma probabilmente gli yrr sono ancora più antichi. Se sono unicellulari e hanno trovato il modo di costruire un pensiero collettivo, allora sono avanti di un'eternità rispetto a noi. Non riusciremo mai a recuperare questo vantaggio. Al massimo potremo ucciderli. Ma davvero si vuole correre questo rischio? Sappiamo che importanza hanno per la nostra esistenza? Probabilmente non potremo vivere né con questo nemico né senza.» «Lei vuole difendere i valori americani, Jude?» Johanson scosse la testa. «Allora falliremo.» «Che cos'ha contro i valori americani?» «Niente. Ma ha sentito cos'ha detto Samantha: forse, le forme di vita di altri pianeti non sono simili né agli uomini né ai mammiferi, forse non si basano sul DNA, quindi il loro sistema di valori sarà completamente diverso dal nostro. Secondo lei, laggiù negli abissi, che sistema morale c'è? Quali princìpi può avere una specie che probabilmente possiede una cultura fondata sulla divisione cellulare e sull'autosacrificio per la collettività? Come può pretendere di arrivare a una comprensione se tiene sempre ed esclusivamente sotto gli occhi valori che neppure l'umanità riesce a condividere?» «Mi ha valutato male», replicò Judith. «So bene che la nostra morale non è innata. La questione è: dobbiamo davvero comprendere a ogni costo quello che pensano gli altri? Non è forse meglio investire le energie nel tentativo di una coesistenza?»
«Mi sembra che lei sia un po' in ritardo, Jude», sospirò Johanson. «Credo che gli abitanti primitivi dell'America, dell'Australia, dell'Africa e dell'Artico avrebbero salutato con gioia il suo punto di vista. Come pure lo avrebbero fatto diverse specie animali che abbiamo condannato all'estinzione. L'unica cosa certa è che questa faccenda è molto complessa. E, anche se intuiamo a malapena come pensano gli altri, dobbiamo tentare, perché ormai ci siamo tagliati la strada a vicenda. Il nostro spazio ritale è diventato troppo stretto per condurre le nostre vite l'una a fianco dell'altra; ormai non resta che condurle insieme. E questo funziona unicamente se ridimensioniamo i nostri presunti diritti dati da Dio.» «E come dovremmo fare, secondo lei? Acquisire le abitudini di vita di organismi unicellulari?» «Ovvio che no. Non ci sarebbe possibile geneticamente. Anche quello che noi definiamo cultura è strettamente legato ai nostri geni. L'evoluzione culturale inizia nell'era preistorica. È stato allora che, nelle nostre teste si è preparato il terreno, per così dire. La cultura è biologica... Oppure vogliamo presumere che si siano aggiunti nuovi geni che ci hanno indotto a costruire navi da guerra? Noi costruiamo aerei, portaerei e teatri, ma lo facciamo seguendo il cosiddetto livello di civiltà delle nostre attività primitive, dall'epoca in cui un'ascia di pietra è stata scambiata con un pezzo di carne: guerra, incontro di tribù, commercio... La cultura fa parte della nostra evoluzione. Serve per mantenerci in una condizione di stabilità...» «... finché un'altra condizione di stabilità non si dimostra migliore. Capisco dove vuole arrivare, Johanson. Nelle epoche preistoriche, il patrimonio genetico ha determinato la cultura e, in base a quella, ci ha trasformato geneticamente. Quindi sono i geni a guidare il nostro comportamento. Ci danno i fondamenti per questa conversazione, benché tale pensiero possa risultare odioso. Tutto il nostro bagaglio intellettuale, di cui siamo così orgogliosi, è il risultato di un controllo genetico e la cultura non è altro che il repertorio di comportamenti sociali, accoppiato con la lotta per la sopravvivenza.» Johanson rimase in silenzio. «Ho detto qualcosa di sbagliato?» chiese Judith. «No. L'ascolto, affascinato e rapito. Lei ha assolutamente ragione. L'evoluzione è un gioco tra mutamenti genetici e cambiamenti culturali. Ci sono state delle mutazioni genetiche che hanno portato alla crescita del nostro cervello. È stata la biologia che ci ha reso possibile la parola, quando, nel corso di cinquecentomila anni, ha strutturato la nostra laringe e ha for-
mato i centri del linguaggio sulla corteccia cerebrale. Ma questa trasformazione genetica porta a una costruzione culturale. Le lingue formulano conoscenza, passato, futuro e capacità immaginativa. La cultura è il risultato di processi biologici, e a loro volta le trasformazioni genetiche sono la conseguenza dello sviluppo culturale. Molto lentamente, è vero, ma è così.» Judith Li sorrise. «Che bello, riesco a seguirla.» «Non ne dubitavo», replicò Johanson, dispiegando tutto il suo fascino. «Ma così ha sistemato anche se stessa, Jude. La nostra tanto esaltata molteplicità culturale si scontra coi limiti genetici. Noi abbiamo sviluppato una gran quantità di culture, ma tutte si basano sulla necessità di mettere al sicuro la nostra specie. Non potremo appropriarci dei valori di una specie la cui biologia è contro la nostra e che naturalmente dovrà essere nostra nemica nella lotta per lo spazio vitale e per le risorse.» «Non crede in una specie di confederazione galattica, in cui strani esseri s'incontrano con noi al bar per una bibita?» «Come in Guerre stellari?» «Sì.» «Un film fantastico. No. Credo potrebbe funzionare solo dopo un periodo lungo, molto lungo, necessario per il superamento delle differenze, quando il nostro programma genetico avrà 'assorbito' lo scambio culturale con le altre specie.» «Allora ho ragione! Quindi non dobbiamo cercare di capire gli yrr. Dobbiamo trovare una strada per lasciarci in pace a vicenda.» «No, non ha ragione. Perché loro non ci lasceranno in pace.» «Allora abbiamo perso.» «Perché?» «Non eravamo arrivati alla conclusione che umani e non umani non possono raggiungere un accordo?» «Eravamo arrivati anche alla conclusione che i cristiani e i musulmani non avrebbero potuto raggiungere un accordo. Ascolti, Jude: non possiamo e non dobbiamo comprendere gli yrr. Ma dobbiamo concedere spazio anche a coloro che non comprendiamo. Il che è diverso dall'accettare incondizionatamente i valori dell'altra parte. La soluzione è nell'arretramento e, al momento, siamo noi a dover arretrare. Questa strada può funzionare. Non porta a una comprensione emotiva - quella non esiste -, ma a un diverso punto di vista. A una comprensione del mondo che diventa tanto più ampia quanto più ci allontaniamo dalla nostra specie, per trovare un di-
stacco da noi stessi, senza il quale non saremmo in grado di spingere gli yrr a guardarci in modo diverso da come ci hanno guardato finora.» «Non stiamo già arretrando? Anche solo il fatto che stiamo cercando un contatto con loro...» «E che cosa si dovrebbe ottenere, ammesso che ci si riesca?» Judith rimase in silenzio. «Jude, mi confidi il suo segreto. Com'è possibile che la stimi tanto e nel contempo mi fidi così poco di lei?» Si guardarono. Dai tavoli arrivava il rumore delle altre conversazioni. Scorreva come un cavallone sul ponte e s'infrangeva con forza contro di loro. D'un tratto di levarono alcune grida, sempre più acute. Infine, dagli altoparlanti, risuonò una voce. «Allarme dei delfini! Attenzione! Allarme dei delfini!» Judith abbassò per prima gli occhi, perdendo quel duello di sguardi. Girò la testa e guardò il mare nella semioscurità. «Mio Dio», sussurrò. Il mare non era più avvolto nella semioscurità. Aveva incominciato a splendere. La nuvola blu Le onde erano diventate fluorescenti. Isole blu scuro si levavano dagli abissi verso la superficie, si allargavano e si riversavano l'una sull'altra, come se il cielo si volesse rovesciare nel mare. L'Independence scivolava nella luce. «Se questa è la risposta al suo ultimo messaggio, deve proprio averli impressionati», disse Greywolf a Samantha, senza distogliere lo sguardo dallo spettacolo. «È magnifico», sussurrò Alicia. «Guardi!» gridò Rubin. Sulle superfici luminose qualcosa si mosse. La luce iniziò a pulsare. Si formarono giganteschi vortici, si misero a ruotare dapprima lentamente, poi sempre più veloci, finché non somigliarono a galassie a spirale e a correnti blu. I centri s'ispessirono. Là in mezzo sembravano brillare migliaia di stelle, che poi tornavano a sparire... Un lampo. Dal ponte di volo giunsero delle grida. Il quadro cambiò improvvisamente. Scariche accecanti attraversarono l'acqua e raggiunsero i vortici, che ruotavano all'impazzata. Sotto la super-
ficie dell'acqua infuriava un temporale silenzioso. Un momento dopo, i vortici cominciarono ad allontanarsi dallo scafo dell'Independence e la nuvola blu si lanciò verso l'orizzonte a una velocità mozzafiato, scomparendo alla vista. Greywolf fu il primo a scuotersi dall'incantesimo. Corse verso l'isola. «Jack!» Alicia gli corse dietro. Gli altri li seguirono. Greywolf raggiunse la scaletta di boccaporto, percorse a lunghe falcate il pianerottolo del settore di sicurezza ed entrò nel CIC, con Peak e Judith Li alle calcagna. Per qualche istante, i monitor collegati alle telecamere non mostrarono altro che l'acqua grigio scuro. Poi apparvero due delfini. «Cos'è successo?» gridò Peak. «Che cosa dice il sonar?» Uno degli uomini si girò. «Là fuori c'è qualcosa di grosso, signore. Qualcosa, non so... difficile da dire... in un certo senso...» «Qualcosa? In un certo senso?» Judith Li afferrò l'uomo per le spalle. «Mi faccia rapporto, idiota! E sia preciso. Che succede là?» L'uomo impallidì. «È... sono... sullo schermo non avevamo nulla e poi sono comparse quelle superfici. Sono arrivate dal nulla, lo giuro, l'acqua si è improvvisamente trasformata in una... sostanza. Si sono riuniti in una parete, in una... È ovunque...» «I Cobra devono subito partire per un volo di ricognizione ad ampio raggio.» «Cosa avete ricevuto dai delfini?» chiese Greywolf. «'Forma di vita sconosciuta'», riferì un soldato. «L'hanno registrata prima che la vedessimo.» «La localizzazione?» «Ovunque. Si allontana. Ora è a un chilometro di distanza, arretra. Il sonar rileva ovunque massicce presenze.» «Dove sono i delfini?» «Sotto l'Independence, signore. Sono raggruppati davanti alle paratie. Credo che abbiano paura! Vogliono entrare.» Il CIC si stava riempiendo di gente. «Porti l'immagine del satellite sul monitor più grande», ordinò Peak. Videro l'Independence dalla prospettiva del KH-12. Galleggiava sull'acqua scura. Non c'era traccia della luce blu e dei lampi. «Un attimo fa, laggiù era tutto chiaro», disse l'uomo che si occupava delle analisi del satellite. «Possiamo ricevere immagini da altri satelliti?»
«Al momento no, signore.» «Okay. Allarghiamo la visuale col KH-12.» L'uomo impartì i comandi e, qualche secondo dopo, sul monitor, l'Independence si rimpicciolì. Il satellite aveva aumentato la sezione. In tutte le direzioni si stendeva il mar di Groenlandia, color piombo. Dall'altoparlante arrivavano i fischi e i suoni dei delfini. Continuavano a segnalare la presenza di una forma di vita sconosciuta. «Non basta ancora.» Il KH-12 allargò ancora la visuale. Adesso l'obiettivo riprendeva una sezione di cento chilometri quadrati. L'Independence, che pure era lunga duecentocinquanta metri, là in mezzo sembrava una scheggia di legno. Col fiato sospeso, tutti guardarono il monitor. E videro. A una notevole distanza si era formato un sottile cerchio blu luminoso, da cui partivano delle scariche. «Quanto è grande quella cosa?» sussurrò Peak. «Quattro chilometri di diametro», rispose la donna al monitor. «Addirittura un po' di più. Sembra una specie di tubo. Quello che vediamo dall'immagine del satellite è solo l'apertura, ma da lì si stende fino agli abissi. Siamo in una... voragine, per così dire.» «E che cos'è?» Johanson era comparso al loro fianco. «È gelatina, direi.» «Ma brava», ansimò Vanderbilt, rivolto a Samantha. «Cosa diavolo ha mandato laggiù?» «Li abbiamo esortati a farsi vedere», replicò lei. «È stata una buona idea?» Shankar si voltò verso di lui, seccato. «Volevamo prendere contatto o no? Di che si lamenta? Pensava che ci mandassero un messaggero a cavallo?» «Stiamo ricevendo un segnale!» Tutti si assieparono intorno all'uomo che sorvegliava le emissioni acustiche. Shankar lo raggiunse e si chinò sul monitor. «Che cos'è?» gli gridò Samantha. «Lo spettrogramma di un segnale scratch.» «Una risposta?» «Non so se...» «Il cerchio si restringe!» Tutte le teste si voltarono verso il grande schermo. Il cerchio luminoso
aveva cominciato a muoversi lentamente verso la nave. Nel frattempo, due punti minuscoli si allontanavano dall'Independence. I due elicotteri da combattimento avevano iniziato la loro ricognizione. I fischi e i suoni provenienti dagli altoparlanti divennero più forti. Tutti cominciarono a parlare contemporaneamente. «Zitti!» sbraitò Judith Li. Con la fronte aggrottata, stava ascoltando i delfini. «Questo è un altro segnale.» «Sì.» Anche Alicia ascoltava, con le palpebre abbassate. «Forme di vita sconosciute e inoltre...» «Orche!» «Diversi corpi di grandi dimensioni si stanno avvicinando dal basso», confermò la donna al sonar. Greywolf guardò Judith Li. «Non mi piace. Dobbiamo riportare i delfini nella nave.» «Perché proprio ora?» «Non voglio rischiare la vita degli animali. Inoltre abbiamo bisogno delle immagini della telecamera.» Judith Li esitò, poi disse: «Va bene. Li riporti dentro. Informo Roscowitz. Peak, prenda quattro uomini e accompagni O'Bannon nel ponte a pozzo». «Leon, Licia, andiamo», li esortò Greywolf. Uscirono in fretta e Rubin li seguì con lo sguardo. Poi si chinò all'orecchio di Judith Li e le sussurrò qualcosa. Lei lo ascoltò, annuì, quindi si girò verso i monitor. «Aspettatemi», disse Rubin al gruppo che stava uscendo. «Vengo anch'io.» Ponte a pozzo Roscovitz raggiunse il ponte a pozzo ancor prima degli scienziati, accompagnato da Kate Ann Browning e da un altro tecnico. Quando vide il difetto del Deepflight, si lasciò sfuggire un'imprecazione. Non l'avevano ancora riparato. Galleggiava sull'acqua col portello d'ingresso aperto, assicurato solo con una catena che si tendeva sul ponte. «Non dovrebbero aver già finito?» disse alla donna. «Il problema è più complicato di quanto pensassimo», si giustificò lei, mentre correvano lungo il molo. «Il pilota automatico...» «Merda.» Roscovitz fissò l'imbarcazione. Era proprio sopra la chiusa,
che si delineava a quattro metri di profondità. «Questa faccenda sta cominciando a infastidirmi. Mi disturba sempre di più ogni volta che facciamo entrare e uscire quegli animali.» «Con tutto il rispetto, signore, non disturba affatto e, quando avremo finito di ripararlo, lo riporteremo sul ponte.» Roscovitz ringhiò qualcosa d'incomprensibile e poi si mise alla console di servizio. L'imbarcazione era proprio davanti al suo naso, cosicché, da quella prospettiva, lui non riusciva a vedere la chiusa sul fondo, che poteva essere controllata solo dalla zona dei monitor. Imprecò di nuovo, in modo ancora più colorito. L'Independence era stata attrezzata in fretta e il lavoro era stato svolto in maniera approssimativa! Perché diavolo i problemi dovevano saltar fuori solo all'atto pratico? A che cosa servivano i test nello spazio virtuale se non si riusciva a vedere la chiusa da dietro il batiscafo che galleggiava? Altri passi risuonarono sul ponte dell'hangar. Greywolf, Alicia, Anawak e Rubin stavano scendendo la rampa, seguiti da Peak e dai suoi uomini. I soldati si divisero sui due lati della banchina. Rubin e Peak andarono da Roscovitz, mentre Greywolf e gli altri s'infilarono nelle tute di neoprene e indossarono le maschere. «Fatto», annunciò Greywolf. Formò un cerchio col pollice e l'indice e ordinò: «Portiamoli dentro». Roscovitz annuì e mise in funzione il richiamo automatico. Vide gli scienziati tuffarsi in acqua, illuminati dai proiettori subacquei. Si avvicinarono nuotando, poi, all'altezza della chiusa, s'immersero, l'uno dopo l'altro. Allora aprì la paratia inferiore. Alicia s'immerse verso gli strumenti sul bordo della chiusa. Stava ancora scendendo quando le imponenti lastre d'acciaio - poste tre metri al di sotto della copertura di vetro - presero a muoversi. Lei vide le lastre che si allontanavano, mostrando gli abissi marini. Due delfini scivolarono subito all'interno. Apparivano nervosi, e colpivano il vetro col muso. Greywolf fece segno di attendere ancora. Un altro delfino entrò nella camera di decompressione. Nel frattempo, le paratie d'acciaio si erano completamente aperte e, sotto la cupola di vetro, si spalancava l'abisso. Alicia guardava nervosa nell'oscurità. Non si vedeva niente d'insolito. Niente luci, niente lampi, niente orche e neppure gli altri tre delfini. Scese ancora, finché non toccò con le mani la superficie di vetro, sempre scrutando alla ricerca dei delfini. Im-
provvisamente entrò un quarto animale, ruotò su se stesso e s'infilò nel bacino della chiusa. Greywolf annuì e Alicia diede il segnale a Roscovitz. Lentamente, le lastre d'acciaio si mossero, chiudendosi poi con un cupo rimbombo. All'interno della chiusa si misero al lavoro i sensori, che esaminarono l'acqua alla ricerca di sostanze inquinanti o contaminate. Dopo qualche istante, i sensori diedero via libera e trasmisero l'autorizzazione alla console di Roscovitz. Senza il minimo rumore, le paratie di vetro si aprirono. Non appena si formò uno spiraglio sufficiente grande, gli animali scivolarono dentro, e furono ricevuti da Greywolf e Anawak. Peak osservò Roscovitz mentre chiudeva la paratia di vetro. Il suo sguardo era fisso sui monitor. Rubin era andato sul bordo del bacino e scrutava la chiusa. «Fuori ce ne sono ancora due», disse Roscovitz fra i denti. Dagli altoparlanti uscivano i fischi e i suoni dei delfini ancora in mare. Diventavano sempre più nervosi. La testa di Greywolf comparve sulla superficie dell'acqua, poi emersero anche Leon e Alicia. «Che dicono gli animali?» chiese Peak. «Sempre la stessa cosa», rispose Greywolf. «Forma di vita sconosciuta e orche. Qualcosa di nuovo sui monitor?» «No.» «Non vuol dire niente. Prendiamo gli ultimi due.» Peak sobbalzò. A partire dai bordi, avevano cominciato a risplendere di blu scuro. «Bisogna fare in fretta», disse. «Si sta avvicinando.» Gli scienziati s'immersero e nuotarono verso la paratia. Peak chiamò il CIC. «Cosa vedete da lassù?» «Il cerchio continua a stringersi», gracchio la voce di Judith Li dai box della console. «I piloti dicono che la struttura si sta immergendo, ma dalle immagini del satellite si vede ancora meglio. Sembra che voglia andare sotto la nave. Tra poco dovreste avere molta luce laggiù.» «Ci sarà molta luce. Con cosa abbiamo a che fare? Con la nuvola?» «Sal?» Era Johanson. «No, non credo che abbia una forma di nuvola. Le cellule si sono fuse. È un compatto tubo di gelatina e si contrae. Dovreste sbrigarvi.» «Abbiamo quasi fatto. Roscovitz?» «Apro la paratia», replicò subito l'altro.
Anawak era sospeso sopra la parete di vetro. Stavolta, quando le paratie d'acciaio si aprirono, fu completamente diverso. La prima volta, avevano guardato in un'oscurità grigio scuro. Ora gli abissi erano attraversati da una debole luce blu che aumentava lentamente d'intensità. È diversa dalla nuvola, pensò. È come una luce diffusa. Ripensò alle riprese dal satellite che aveva visto nel CIC. All'apertura dell'imponente tubo nel cui centro c'era l'Independence. Improvvisamente si rese conto che stava guardando proprio nell'interno del tubo e, al pensiero delle dimensioni di quella cosa gli si contrasse lo stomaco. Il terrore s'impadronì di lui. Di colpo, dal nulla, entrò nella chiusa il quinto delfino, e Anawak balzò indietro, dominando a fatica l'impulso di fuggire. Il delfino andò contro la copertura di vetro. Anawak si costrinse a star calmo. Un attimo dopo, anche il sesto delfino superò la paratia. Le lastre d'acciaio si chiusero, scivolando. I sensori analizzarono l'acqua, mandarono l'okay a Roscovitz e la paratia di vetro della chiusa si aprì. Con un lungo balzo, Kate Ann saltò sul Deepflight. «Che vuoi fare?» chiese Roscovitz. «Gli animali sono dentro. E io faccio il mio lavoro, tutto qui.» «Ehi, non mi sembra il momento adatto.» «E invece lo è.» La donna si piegò sulle ginocchia e aprì un portello. «Adesso riparo questo maledetto affare.» «Ci sono cose più importanti, Browning», sbottò Peak, irritato. «La smetta di fare i capricci.» Non riusciva a staccare gli occhi dai monitor. Stavano diventando sempre più luminosi. «Sal, avete finito là sotto?» Era la voce di Johanson. «Sì. Cosa vedete?» «Il bordo del tubo scivola sotto la nave.» «Quella sostanza ci può fare qualcosa?» «Difficile. Non riesco a immaginare un organismo che riesca anche solo a far vacillare l'Independence. Neppure questa cosa. È una gelatina... gomma senza muscoli.» «Ed è sotto di noi», disse Rubin dal bordo del bacino. Si girò. I suoi occhi luccicavano. «Apra ancora la paratia. Presto.» «Come?» Roscovitz sgranò gli occhi. «È impazzito?» Con pochi passi, Rubin gli fu a fianco. «Generale?» gridò nel microfono della console. Il collegamento gracchio. «Che c'è, Mick?»
«Abbiamo la fantastica possibilità di prendere un bel po' di quella gelatina. Ho suggerito di riaprire la paratia, ma Peak e Roscovitz...» «Jude, non possiamo correre il rischio», intervenne Peak. «Non siamo in grado di controllarla.» «Ci limitiamo ad aprire la paratia d'acciaio e aspettiamo», borbottò Rubin. «Forse quell'organismo è curioso. Ne catturiamo qualche pezzo e poi richiudiamo la paratia. Una bella porzione di materiale per la ricerca, che ne pensa?» «E se è contaminata?» chiese Roscovitz. «Oddio, quanti dubbi! Lo scopriremo, no? Naturalmente terremo chiusa la copertura di vetro finché non saremo certi che è tutto a posto!» Peak scosse la testa. «Non mi sembra una buona idea.» Rubin strabuzzò gli occhi. «Generale, questa è un'occasione unica.» «Okay», disse Judith Li. «Ma siate prudenti.» Peak sembrava contrariato. Rubin sorrise, si avvicinò al bordo del bacino e gesticolò. «Ehi, finitela», gridò a Greywolf, Anawak e ad Alicia, impegnati a togliere le bardature agli animali. «Fate...» Non potevano sentirlo. «Ah, non fa niente. Forza, Roscovitz, apra quella maledetta paratia. Non può succedere nulla finché la copertura di vetro rimane chiusa.» «Non sarebbe meglio aspettare finché...» «Non possiamo aspettare», lo interruppe Rubin. «Ha sentito che cos'ha detto il generale Li. Se aspettiamo, sparirà. Faccia entrare un po' di gelatina nella chiusa e poi chiuda. Me ne basta un metro cubo.» Stronzo arrogante, pensò Roscovitz. Avrebbe voluto gettare Rubin in acqua, ma quel bastardo aveva l'autorizzazione di Judith Li. Era stata lei a dare l'ordine. Premette il pulsante della paratia. Alicia era impegnata con un esemplare particolarmente agitato. Mentre cercava di togliergli la telecamera, il delfino era scappato e si era immerso verso la chiusa, trascinandosi dietro la bardatura. Lo vide nuotare in cerchio sopra la copertura di vetro e lo seguì con potenti bracciate. Così non sentì nulla di quanto si diceva in superficie. Che cos'hai? pensò. Vieni qui. Non devi avere paura. Poi vide cosa stava succedendo. Per un momento fu così sbalordita che smise di nuotare e sprofondò finché le sue dita non toccarono il vetro. La paratia, sotto di lei, si stava aprendo. Il mare splendeva di un blu intenso ed era attraversato da scariche
simili a fulmini. Che diavolo sta facendo Roscovitz? Perché apre? Il delfino girava come un pazzo sopra la chiusa. Venne verso di lei e le diede una spinta. Evidentemente cercava di spostarla in là. Ma, dato che Alicia non reagiva, fece una piroetta e scappò via. Lei fissava l'abisso luminoso. Cosa c'era laggiù? Scorse alcune ombre indistinte che scivolavano, poi una chiazza che si avvicinava e diventava più grande. Si avvicinava molto velocemente. La macchia prese forma, diventando una figura. Improvvisamente Alicia comprese che cosa si stava scagliando contro la nave. Riconobbe il corpo gigantesco con la fronte nera e la parte inferiore bianca, i denti disposti in file uguali tra le labbra semiaperte. Era il più grande esemplare che avesse mai visto. Risaliva in verticale dagli abissi a una velocità altissima e sembrava ancora in accelerazione. Di certo non si sarebbe scansato, era ovvio. I pensieri nella testa di Alicia si accavallavano. Nel giro di qualche secondo, la donna mise insieme tutto ciò che sapeva. Che le paratie di vetro erano spesse e robuste, ma insufficienti a reggere l'impatto di una bomba vivente. Che quell'animale doveva essere lungo almeno dodici metri e che poteva catapultarsi verso l'alto con una velocità massima di cinquantasei chilometri all'ora. Che era troppo veloce. Fece un disperato tentativo di allontanarsi. L'orca si schiantò contro la copertura di vetro con la stessa violenza di un siluro. L'onda d'urto fece roteare Alicia su se stessa. La donna venne investita dai frammenti dell'intelaiatura d'acciaio e dalle schegge di vetro e scorse il ventre bianco dell'orca che, praticamente illesa, si sollevava oltre la cupola di vetro distrutta. Poi qualcosa la colpì tra le scapole. Alicia gridò, si ribaltò e smarrì il senso dell'orientamento. Fu presa dal panico. Roscovitz ebbe appena il tempo di afferrare la situazione. Quando l'orca sfondò la paratia, il molo prese a rimbombare, tremando sotto i suoi piedi. Una gigantesca montagna d'acqua sollevò il Deepflight. Vide Kate Ann barcollare, mulinando le braccia. Per un momento, l'orca sembrò reimmergersi, poi riprese velocità, saltando da ferma. «La paratia!» gridò Rubin. «Chiuda la paratia!» La testa dell'orca colpì il batiscafo, lanciandolo verso alto. I supporti del-
le catene saltarono. Kate Ann fu scagliata in aria, si schiantò contro il quadro di comando, colpì Roscovitz in pieno petto e lo fece cadere all'indietro, mandandolo a sbattere contro la parete dell'hangar. Peak venne trascinato via insieme con lui. «Il batiscafo!» Rubin strillava. «Il batiscafo!» Con la fronte che sanguinava, Kate Ann cadde in acqua. Sopra di lei, c'era la poppa del Deepflight. Il batiscafo si riempì d'acqua e affondò nel giro di qualche secondo. Roscovitz si rialzò a fatica e cercò di raggiungere il quadro di comando, ma udì un sibilo. La catena strappata stava schizzando verso di lui, come una frusta. Cercò freneticamente di evitarla, ma sentì che un'estremità gli sfiorava la tempia. Poi la catena gli si attorcigliò intorno alla gola. Non riusciva più a respirare. Fu trascinato in avanti e scivolò oltre il bordo. Greywolf era troppo lontano per capire cosa aveva provocato la catastrofe e, dato che si trovava in acqua, non percepì la scossa. Ma vide che il batiscafo era stato strappato dal suo supporto e osservò quello che stava succedendo a Kate Ann e a Roscovitz. Vicino al quadro di comando, Rubin gesticolava e urlava. Da qualche parte dietro di lui apparve la testa di Peak. I soldati avevano imbracciato le armi e correvano verso il luogo della disgrazia. Poi cercò freneticamente Alicia. Anawak gli stava di fianco, ma nemmeno lui riusciva a vedere la donna. «Licia!» Nessuna risposta. «Licia!» Il suo cuore venne serrato da una morsa gelida. Con un tuffo potente s'immerse e nuotò velocemente verso la paratia. Alicia stava nuotando nella direzione sbagliata. Aveva un terribile dolore alla schiena e temeva di affogare. Improvvisamente si ritrovò davanti alla chiusa. Le due metà della copertura di vetro erano infrante e la paratia di acciaio si stava chiudendo. Oltre la chiusa, il mare era luminoso. Si girò sulla schiena. Oh, no! Il Deepflight stava arrivando verso di lei coi portelli aperti, la prua in avanti. Affondava come un sasso. Alicia sbatté i piedi con tutte le forze, consapevole che il batiscafo rischiava di colpirla. Vide i bracci meccanici
ripiegati avvicinarsi sempre più e si allungò come una lontra, ma non fu sufficiente. La prese in pieno. Lei sentì le costole rompersi, aprì la bocca, gridò e ingoiò altra acqua. L'imbarcazione la spingeva verso il fondo, attraverso la chiusa e poi nel mare aperto. Il freddo le penetrò fin nelle ossa. In uno stato di semincoscienza, vide la paratia d'acciaio cozzare con un rumoroso clonc contro il Deepflight, bloccandosi. Il batiscafo si era incastrato. Lei, invece, continuava a sprofondare. Allungò le braccia e cercò di aggrapparsi all'imbarcazione, ma le dita scivolarono. Non aveva più forza e i polmoni erano in fiamme. Chissà quante costole si era rotta... Per favore, voglio tornare indietro. Tornare alla nave. Non voglio morire, pensò. Da qualche parte, tra la paratia bloccata e l'imbarcazione, scorse il volto di Greywolf. Ma ormai la salvezza era un'utopia, un bel sogno. Qualcosa di scuro, di grande, la aggredì sul fianco. Fauci spalancate, file di denti conici tutti uguali. Il morso dell'orca le spaccò la cassa toracica. Non vide la massa luminosa scivolarle di fianco. Quando l'organismo entrò nella paratia, Alicia Delaware era già morta. Per la rabbia, Peak vibrò un pugno possente sul quadro di controllo. Il suo tentativo di chiudere la paratia era fallito. Il Deepflight si trovava in mezzo ai due pannelli d'acciaio. C'erano solo due possibilità: o avrebbero continuato a chiudersi, distruggendo il batiscafo, oppure qualcosa - chissà cosa - sarebbe entrato nella nave. Kate Ann non si vedeva più. Roscovitz oscillava, appeso alla catena, con le gambe nell'acqua e le mani attaccate al collo. Dov'era quella maledetta orca? «Sal!» urlò Rubin. L'acqua ribolliva e schiumava. I soldati correvano da una parte all'altra, incerti. Greywolf si era immerso. Di Anawak non c'era traccia. E Alicia? Cos'era successo ad Alicia? Qualcuno gli si avvicinò. «Sal, maledizione!» Rubin lo strappò via dalla console. Le sue mani corsero sulla tastiera, schiacciando freneticamente tasti e bottoni. «Perché non chiude quella maledetta paratia?» «Stupido idiota!» gridò Peak. Poi sollevò il braccio e gli sferrò un pugno in pieno volto. L'altro vacillò e cadde in acqua, fra alti spruzzi. In mezzo alla spuma, Peak vide salire la pinna dorsale dell'orca. Si dirigeva verso di loro.
Rubin riemerse dai flutti, sputacchiando. Anche lui vide la pinna. E cominciò a gridare. Peak spinse il bottone per aprire la paratia d'acciaio e lasciare così che il Deepflight sprofondasse negli abissi. Doveva accendersi una spia. Non accadde nulla. Greywolf credeva d'impazzire. Sotto l'Independence c'erano delle orche. Uno degli animali aveva afferrato il corpo di Alicia e l'aveva trascinato via. Senza riflettere, Greywolf nuotò attraverso una fessura della paratia incastrata e vide che qualcosa stava risalendo dagli abissi. Davanti ai suoi occhi si accesero lampi e scariche. Poi fu colpito da quello che sembrava un pugno gigantesco e scaraventato all'indietro. Alla sua sinistra, Anawak apparve e scomparve subito. Quindi Greywolf scorse due gambe che si muovevano freneticamente e un corpo che schizzava verso di loro. Un ventre bianco... Era l'orca, che stava passando sopra di lui a tutta velocità. Poi di nuovo la paratia col batiscafo incastrato... E la cosa che si stava intrufolando dalla paratia aperta. Sembrava il tentacolo di un polpo enorme. Ma non esisteva un polpo dotato di un simile tentacolo. Nessun polpo era grande a sufficienza per avere un tentacolo di tre metri di diametro. Una massa senza forma entrò nel ponte a pozzo, velocissima, sempre più grande. Un muscolo gelatinoso che, non appena superata la chiusa, si ramificò in fasci sottili, sulla cui superficie liscia splendevano lucenti decorazioni. Rubin nuotava per salvarsi la vita. La pinna lo seguiva. Ansimando e sputando raggiunse il molo e, preso dal panico, cercò di tirarsi su. Ma le braccia non avevano abbastanza forza. Sentì dei colpi, finì di nuovo sott'acqua e si trovò di fronte uno spettacolo incredibile. Si rese conto che il suo desiderio era stato esaudito: l'organismo sconosciuto era entrato a bordo. Ma in circostanze completamente diverse da quelle che si era aspettato. Ovunque c'erano tentacoli lucenti. Spessi come tronchi. E, in mezzo, c'erano le fauci spalancate dell'orca. Rubin riemerse. Di fianco a lui, c'erano due gambe che frustavano l'acqua. Appartenevano a Roscovitz, che lo guardò con occhi disperati. Sembrava appeso a una forca e cercava di liberarsi la gola dalla catena.
Dalle sue labbra uscì uno spaventoso gorgoglio. Oddio, pensò Rubin. Dio misericordioso! Là c'era la pinna, l'aveva quasi raggiunto. Si girò... L'orca emerse in una montagna di schiuma, con la bocca spalancata. Le gambe di Roscovitz scomparvero. La mascella si serrò. Per un attimo l'animale sembrò immobile a mezz'aria, poi ricadde... Il busto di Roscovitz pendeva sull'acqua, colando sangue, e Rubin non riusciva a staccare lo sguardo da quel pezzo di carne. Sentì un grido. E poi capì che era lui a gridare. Gridava e gridava. E là c'era ancora la pinna. Combat Information Center Judith Li non credeva ai suoi occhi. Nel giro di pochi secondi, nel ponte a pozzo era scoppiato l'inferno. Attonita, vide Peak correre sul molo, i soldati sparare alla cieca nell'acqua e il corpo maciullato di Roscovitz. «Stabilire il contatto radio», ordinò. La centrale di comando risuonò di urla e spari. Sui volti dei presenti si leggeva un orrore indicibile. Tutti cominciarono a parlare e il caos nel ponte a pozzo si specchiò in quello nel CIC. Judith rifletté febbrilmente sul da farsi. Mandare rinforzi, naturalmente. Con colpi esplosivi, stavolta. Perché continuano a sparare con munizioni convenzionali? Doveva riprendere il controllo. Sarebbe andata lei stessa. Senza dire una parola, corse nel vicino LFOC. In caso di guerra, serviva come centrale di comando per le operazioni anfibie. Da lì, si potevano riempire o svuotare le cisterne di zavorra e, in caso si fosse perso il controllo del ponte a pozzo, era possibile aprire il portello di poppa. Ma dal LFOC non si potevano controllare le paratie sul pavimento: un altro stupido errore nell'allestimento frettoloso dell'Independence. Si rivolse al personale, terrorizzato, ordinando: «Svuotare le otto cisterne di zavorra. Prosciugare la poppa». Poi rifletté. La paratia sul fondo del ponte a pozzo era aperta o chiusa? L'acqua poteva scorrere via? A giudicare dall'inferno che si vedeva sui monitor non c'erano dubbi. In genere era sufficiente sollevare la poppa della nave per far defluire all'esterno l'acqua del porto artificiale, attraverso le paratie aperte o attraverso il portellone di poppa sollevato. Se entrambi erano bloccati, c'era il sistema di pompaggio
di emergenza. Ci voleva un po' più di tempo, ma il risultato era il medesimo. Judith Li diede l'ordine di mettere in funzione le pompe e tornò di corsa nel CIC. Ponte a pozzo La paratia non reagiva e Peak non aveva tempo d'indagare perché. Ansimando, corse verso un armadio pieno di armi e prese un arpione con capsula esplosiva. I soldati sparavano all'impazzata nell'acqua. Attraverso la paratia aperta stava entrando qualcosa di enorme, una specie di polpo che si muoveva appena sotto la superficie. E poi c'era l'orca, che aveva strappato le gambe a Roscovitz. Con la coda dell'occhio, vide Rubin che usciva dall'acqua. Ne fu sollevato e dispiaciuto nel contempo. Odiava quell'uomo, però non avrebbe dovuto perdere il controllo e spingerlo in acqua. La vita di Rubin doveva essere protetta a ogni costo. Bisognava portare a termine il compito. La pinna era lontana dal molo. Più indietro, stavano nuotando Anawak e Greywolf, diretti dalla parte opposta. Alcuni tentacoli luminosi li seguivano, ma in verità quelle cose erano ovunque e si stendevano in tutte le direzioni. Evidentemente l'orca aveva preso di mira i due fuggitivi. Doveva far fuori quell'animale prima che uccidesse di nuovo. Improvvisamente, Peak riacquistò una calma assoluta. Adesso sapeva come agire. Anzitutto doveva liquidare quella massa di carne coi denti. Il resto poteva aspettare. Sollevò l'arpione e prese la mira. Anawak vide l'orca avvicinarsi. L'acqua del bacino artificiale schiumava e ribolliva, come se avesse vita propria. Era una massa blu, piena di tentacoli, che l'orca attraversava per avventarsi contro di loro. Apparve la testa nera e l'animale respirò, con un colpo violento. Era a pochi metri di distanza. Non ce l'avrebbero fatta ad arrivare al molo, poco ma sicuro. Dovevano fare qualcosa. Durante l'attacco delle orche a Clayoquot Sound, Greywolf era arrivato al momento giusto con la sua barca, ma adesso lui era nella stessa situazione di Anawak. Dovevano ingannare l'orca. Il cetaceo s'immerse. «Lasciamola passare!» gridò Anawak a Greywolf.
Non molto preciso, pensò. Non sapeva se Greywolf avesse capito. Ma era troppo tardi per le spiegazioni. Anawak prese fiato e s'immerse. Peak imprecò. La bestia era sparita e ora non si vedevano più nemmeno Greywolf e Anawak. Continuò a correre sul molo, alla ricerca del corpo massiccio, ma il bacino si era trasformato in un surreale inferno in movimento, in cui la luce, le forme indefinite e la schiuma spruzzata confondevano la visuale. Davanti a lui, c'era un soldato che sparava contro quelle cose serpentine in acqua, ma invano. «La smetta!» Peak spinse l'uomo in direzione del quadro di controllo. «Dia l'allarme. Cerchi di aprire la paratia e di disincagliare il batiscafo.» Perlustrò con lo sguardo la superficie dell'acqua. «E poi chiuda quelle maledette paratie.» Il soldato smise di sparare e corse via. Peak si avvicinò al bordo del molo e socchiuse le palpebre, stringendo l'arpione. Dov'era quell'orca? Non si vedeva più. In compenso si scorgevano masse tremolanti e attorcigliate, luci blu e bianche. Per Anawak, che si era lasciato sprofondare sott'acqua, il rumore intenso si era trasformato in un fruscio. Aveva vicino Greywolf. Dalla sua bocca uscivano bolle d'aria. Anawak l'aveva trascinato con sé e lo teneva ancora per il braccio. Non sapeva se la sua idea avrebbe funzionato, ma in superficie sarebbero stati comunque spacciati. Qualcosa guizzò verso di loro: sembrava un gigantesco serpente senza testa, traslucido, di colore blu e attraversato da pulsanti striature luminose. Dal corpo centrale si dipartivano centinaia di tentacoli sottili come fruste, che schiaffeggiavano il fondo del bacino. Anawak comprese che quell'essere stava esaminando l'ambiente. Mentre osservava quella scena - atterrito e affascinato nel contempo -, dal corpo di serpente sbucarono altri tentacoli, che si diressero verso di lui. In mezzo a essi sbucò la bocca spalancata dell'orca. In Anawak avvenne una trasformazione. Una calma assoluta calò su di lui. Cominciò a porsi delle domande. Fino a che punto l'aggressore era ancora un cetaceo? Fin dove si spingeva il controllo esercitato dalla gelatina?
Cosa dovevano aspettarsi da un essere vivente che non agiva più secondo la propria natura, ma spinto da una coscienza esterna che si era impossessata di lui? Doveva considerare l'orca come una parte della massa lucente, non più come un animale caratterizzato da riflessi naturali. Ma forse quello era un vantaggio. Forse potevano disorientarlo. L'orca si avvicinava con la velocità di una freccia. Anawak si scansò, diede una spinta a Greywolf e lo vide allontanarsi nella direzione opposta. Evidentemente aveva compreso l'intento dell'amico. L'animale sfrecciò in mezzo a loro. Avevano guadagnato qualche secondo. Senza dedicare neppure uno sguardo all'orca, Anawak nuotò in mezzo al groviglio di tentacoli. Carponi sul molo, Rubin boccheggiava. Un soldato gli passò vicino di corsa e si diresse al quadro di controllo. Gettò un'occhiata agli strumenti, si orientò e schiacciò il pulsante per aprire la paratia d'acciaio. Il sistema era bloccato. Come qualsiasi altro militare imbarcato, anche lui era stato istruito sul funzionamento di tutti i sistemi della nave. L'immagine della donna scaraventata contro il quadro di controllo si era impressa nella sua mente. Si chinò e osservò attentamente il pulsante. Era bloccato. Piegato da una parte, forse per via del colpo datogli da Kate Ann. Non c'era molto altro da fare. Lo colpì col calcio del fucile. Il pulsante scattò. Anawak scivolava in un mondo sconosciuto. Intorno a lui si stendevano cortine di sottili tentacoli. Non era sicuro che fosse stata una buona idea nuotare in mezzo a quel groviglio, ma la questione era ormai oziosa. Forse la gelatina avrebbe reagito in maniera aggressiva, forse no. Probabilmente quella sostanza era anche contaminata. In quel caso sarebbero morti tutti comunque. Ma, almeno per il momento, l'orca avrebbe faticato a trovarlo. I tentacoli luminescenti si piegarono nella sua direzione. Tutto si mosse. Poi l'intreccio divenne più fitto e lui sentì una di quelle cose a forma di frusta sfiorargli il viso. Si spostò di lato. Altre fruste serpeggiarono verso di lui, toccandolo. Nella testa sentiva un rombo pulsante. I polmoni gli facevano male. Doveva trovare subito il
modo per riemergere, altrimenti poteva anche arrendersi a quella sostanza. Afferrò la massa con entrambe le mani e la divise. Era come combattere con un fascio di serpenti. Quell'organismo somigliava a un muscolo molto flessibile e in costante metamorfosi. I tentacoli che un attimo prima l'avevano avvolto si deformavano, si ritiravano e rientravano nella grande massa, da cui, nello stesso istante, nascevano altre estremità. Quella cosa era del tutto imprevedibile. Ed evidentemente aveva un debole per Leon Anawak. Doveva uscire da lì. Gli scivolò vicino un corpo affusolato ed elegante. Un muso sorridente. Uno dei delfini. D'istinto, Anawak afferrò la sua pinna dorsale e il delfino, senza la minima esitazione, volò fuori dalla massa di tentacoli e lo trascinò con sé. Anawak si aggrappò e vide l'orca arrivare a tutta velocità. Dietro di loro, le gigantesche mascelle si chiusero, mancandoli per un soffio. Un attimo dopo, il delfino ruppe la superficie dell'acqua e si fermò sulla sponda artificiale. Il soldato schiacciò il pulsante. Era stata una riparazione di emergenza però aveva funzionato. Le paratie d'acciaio si misero lentamente in movimento e liberarono il batiscafo, che ricominciò a sprofondare, passando a fianco dell'organismo che s'infilava nella paratia. Il Deepflight uscì dalla nave e sparì negli abissi marini. Per un istante, al soldato venne il dubbio che forse sarebbe stato meglio lasciare aperta la paratia, ma gli ordini che aveva ricevuto erano diversi. Doveva chiuderla, quindi lo fece. Stavolta non c'era il batiscafo a bloccarla. Le lastre, spinte dal potente motore della chiusa, scivolarono nell'organismo spesso come un albero e lo schiacciarono. Peak sollevò l'arpione. Aveva appena visto Anawak. Sembrava che l'orca l'avesse preso, ma poi l'uomo ricomparve, mentre l'animale si allontanava dalla parte opposta. I soldati spararono alla schiena nera e l'orca s'immerse. L'avevano eliminata? «La paratia si chiude», gridò il soldato dal quadro di controllo. Peak sollevò una mano per fargli segno che aveva capito e si mosse lungo il molo. Esplorava con lo sguardo la parte opposta. Contro quella cosa tentacolare, i colpi di mitra non servivano, e lui non si fidava a sparare un proiettile esplosivo nella gelatina. Nel bacino c'erano ancora delle persone.
Si avvicinò al bordo. Greywolf aveva seguito l'esempio di Anawak e si era messo a nuotare tra i tentacoli. Nuotò con tutte le forze verso la parte opposta del bacino. Dopo alcuni metri, trovò la strada bloccata dalla massa dell'organismo e fu costretto a cambiare direzione. Aveva perso l'orientamento. I tentacoli si avvolgevano intorno alle sue spalle. Greywolf sentiva crescere dentro di sé il disgusto. Era stravolto. Sulla retina aveva impressa per l'eternità la sequenza delia morte di Alicia, simile a un film che continuava a ripetersi. Spinse lontano da sé i tentacoli della gelatina, si districò e cercò di uscirne. Improvvisamente nuotò sopra la chiusa. Il batiscafo era sparito. Vide che le paratie si stavano chiudendo sul tessuto gelatinoso, che venne tranciato. La reazione dell'essere fu impressionante. E non gli piacque. Un'ondata investì Peak. Davanti a lui c'era l'orca. Troppo sorpreso per provare paura, Peak guardò le fauci rosa e barcollò all'indietro. Sembrava che tutto il ponte fosse in movimento. L'organismo si era scatenato. Giganteschi serpenti impazziti si attorcigliavano fin sulla riva artificiale, colpivano le pareti e spazzavano il molo. Peak sentì i soldati urlare e sparare, vide corpi che schizzavano in aria e poi sparivano nel bacino. Qualcosa lo colpì alle gambe, facendolo cadere sulla schiena. L'aria gli uscì di colpo dai polmoni. L'orca si ribaltò su di lui. Peak gemette, ma strinse ancora di più l'arpione mentre veniva trascinato nel bacino. Sprofondò in un vortice di bolle d'aria. Le sue gambe erano infilate in una luccicante massa blu. La colpì con l'arpione e la presa si sciolse. Sopra di lui, l'orca ricadde in acqua. Un'imponente ondata lo colpì e lo fece girare più volte su se stesso. Vide le file di denti nelle fauci spalancate dell'orca a meno di un metro da lui, le infilò l'arpione in bocca e sparò. Per un attimo, tutto sembrò immobile. Dalla testa dell'orca uscì una sorda detonazione. Non fu particolarmente rumorosa, ma colorò il mondo di rosso. Peak fu spinto indietro in una massa di sangue e brandelli di carne. Fece un salto, finì contro la parete laterale e, in un unico movimento circolare, riuscì a risollevarsi sul molo. Poi, strisciando sulla pancia, si allontanò dal bordo. C'era sangue ovunque. Chiazze rosse si mischiavano con tessuto grasso e frammenti di ossa. Cercò di rialzarsi, ma scivolò e ricadde. Un dolore acuto lo attraversò. Il suo
piede sinistro era piegato a un angolo innaturale che non lasciava presagire niente di buono, ma al momento non gli interessava. Fissava incredulo la scena davanti a lui. L'organismo sembrava in preda a una furia incontenibile. I tentacoli frustavano selvaggiamente in tutte le direzioni. Gli scaffali cadevano, le attrezzature volavano in aria. A correre sul molo, sparando, era rimasto un unico soldato, ma poi uno dei tentacoli lo trascinò in acqua. Peak vide una struttura semitrasparente muoversi verso di lui e si chinò. Ma non era né un serpente né un tentacolo... Era una cosa che non aveva mai visto. Con gli occhi spalancati, Peak fissò le punte della struttura che si trasformavano, volando verso di lui. Per un attimo esse presero la forma di un pesce e poi si divisero, guizzando, in vari fili. Sembrava che nel bacino si fossero improvvisamente materializzati degli animali: pinne dorsali spuntavano e poi sparivano, teste deformate sollevavano le loro fauci... Si trattava di esseri gibbosi e non definiti, che poi perdevano la loro forma e ricadevano in acqua, come grumi. Peak si strofinò gli occhi. Era un'allucinazione, oppure l'acqua si stava davvero abbassando? Il rombo dei motori si mescolava al rumore generale, ma infine lui comprese: stavano svuotando il bacino! L'acqua veniva spinta fuori dalle cisterne di zavorra. La poppa dell'Independence si sollevava impercettibilmente e il contenuto del bacino artificiale ritornava in acqua. I tentacoli che frustavano in tutte le direzioni si ritirarono. D'un tratto, l'essere era di nuovo completamente sommerso. Appoggiandosi alla parete, Peak si sollevò, caricò il peso sul piede sinistro e si piegò. Prima che potesse cadere, due mani lo afferrarono. «Preso», esclamò Greywolf. Peak si aggrappò alle spalle del gigante e cercò di muoversi, zoppicando. Benché non fosse piccolo, vicino a Greywolf si sentiva mingherlino e impotente. Emise un gemito. Greywolf lo sollevò con decisione e lo portò lungo il molo verso la sponda artificiale. «Si fermi», ansimò Peak. «Può bastare. Mi lasci.» Greywolf lo depose delicatamente a terra. Si trovavano davanti al tunnel che conduceva al laboratorio. Da lì si poteva vedere tutto il bacino. Peak si rese conto che le pareti del delfinario erano tornate visibili. Le pompe continuavano a rimbombare. Ripensò alle persone nel bacino, probabilmente tutte morte, ai soldati, ad Alicia Delaware e a Kate Ann Browning... Ad Anawak! Scrutò con ansia nell'acqua. Dov'era Anawak?
Anawak riemerse, sputacchiando. Greywolf balzò verso di lui e lo aiutò a tornare all'asciutto. Rimasero a fissare l'acqua, che continuava ad abbassarsi. Ormai potevano riconoscere un grande essere che emetteva una luce blu intensa e perlustrava il bacino come se stesse cercando una via d'uscita. La sua forma ricordava una balena sottile o un serpente marino schiacciato. Sul suo corpo non c'erano più lampi luminosi e dalla massa non uscivano più tentacoli. Nuotava in ogni angolo, serpeggiava lungo le pareti, cercava velocemente e sistematicamente una via d'uscita che non c'era. «Maledetto animale di merda!» gemette Peak. «Adesso ti togliamo l'acqua.» «No. Dobbiamo salvarlo.» Era la voce di Rubin. Peak si voltò e vide il biologo sbucare dal tunnel. Tremava e si stringeva le mani al petto, ma nei suoi occhi era tornata a splendere la luce apparsa nel momento in cui aveva proposto di far entrare la gelatina nella nave. «Salvarlo?» gli fece eco Anawak. Rubin si avvicinò con passo incerto. Scrutava il bacino, in cui la creatura girava in tondo sempre più velocemente. Lo specchio d'acqua era al massimo a due metri. L'essere si allargò per ridurre l'altezza. «È una possibilità unica», disse. «Non capite? Dobbiamo decontaminare il simulatore di profondità marine, portare fuori i granchi, mettere dentro acqua pulita e infilarci la maggior quantità possibile di questa cosa. È molto meglio dei granchi. Così possiamo...» Con un balzo, Greywolf gli fu di fronte, gli mise le mani alla gola e cominciò a stringere. Il biologo spalancò gli occhi e la bocca, facendo uscire la lingua. «Jack!» Anawak cercò di trattenerlo. «Smettila!» Peak si rialzò, a fatica. Il piede sinistro non era rotto, ma gli faceva un male d'inferno. Riuscì ad avanzare solo di un passo. Ma doveva fare qualcosa per quel bastardo, che gli piacesse o no. «Jack, non serve a niente», gridò. «Lo lasci.» Greywolf sollevò Rubin, il cui volto cominciava a diventare bluastro. «Può bastare, O'Bannon!» Judith Li uscì dal tunnel, accompagnata da alcuni soldati. «Lo ammazzo», disse Greywolf. Sembrava tranquillissimo. Judith Li si avvicinò a Greywolf e gii strinse il polso destro. «No, O'Bannon, non lo farà. Non m'interessa quale conto in sospeso abbia con Rubin. Il suo lavoro è importante.»
«Ora non più.» «O'Bannon! Non mi metta nella sgradevole situazione di doverle fare del male.» Greywolf la fulminò con lo sguardo, ma poi comprese che il generale Li stava dicendo sul serio, così posò lentamente Rubin a terra e gli tolse le mani dalla gola. Il biologo cadde sulle ginocchia, rantolando. Annaspava e sputava. «Licia è morta a causa sua», mormorò Greywolf in tono gelido. Judit Li annuì. Improvvisamente l'espressione del suo volto cambiò. «Jack», disse, quasi dolcemente. «Mi dispiace. Le prometto che la sua morte non sarà inutile.» «Morire è sempre inutile», rispose Greywolf, impassibile. Poi si voltò. «Dove sono i miei delfini?» Judith Li avanzava lungo il molo coi suoi uomini. Peak era un idiota. Perché non aveva armato i soldati con colpi esplosivi? Non si poteva forse prevedere una cosa del genere? Sciocchezze! Era esattamente quello che aveva previsto. Una montagna di problemi. Non sapeva in che modo si sarebbero presentati, ma sapeva che ci sarebbero stati. Lo sapeva già prima che gli scienziati arrivassero allo Château, e aveva adottato le opportune contromisure. Nel bacino era rimasta solo qualche pozzanghera. Lo spettacolo era impressionante. Direttamente sotto i loro piedi, a quattro metri di profondità, c'era il cadavere dell'orca. Dove prima si trovava la testa, ora si allargava una fanghiglia rossa. Un po' più in là, c'erano i corpi immobili di alcuni soldati. I delfini erano soltanto tre. Probabilmente gli altri, spinti dal panico, avevano lasciato la nave quando le paratie erano ancora aperte. «Che schifo», disse Judith Li. La cosa senza forma nel mezzo del bacino si muoveva appena. Aveva assunto un colore bianchiccio. Sui bordi, dove la poca acqua rimasta lambiva la massa, si formavano corti tentacoli, che strisciavano sul fondo come serpi. Quell'essere stava morendo. La sua capacità di cambiare forma e di buttar fuori tentacoli era stata impressionante, ma ora le sue condizioni erano disperate. La parte superiore della massa gelatinosa mostrava i primi segni di decomposizione. Da essa gocciolava un liquido chiaro, limpido come l'acqua. Judith Li ricordò che quel colosso incagliato non era un unico essere, bensì un conglomerato di miliardi di organismi unicellulari che stavano
perdendo la loro coesione. Rubin aveva ragione. Dovevano portarne al sicuro la maggiore quantità possibile. E dovevano agire in fretta, prima che fosse troppo tardi. Senza dire una parola, Anawak si mise al suo fianco. Judith Li continuava a esaminare il bacino. Non fece caso al corpo penzolante di Roscovitz o, meglio, a ciò che ne restava. Con la coda dell'occhio, percepì un movimento sul fondo della vasca, andò al fondo del molo e scese lungo una scaletta. Anawak la seguì. Qualcosa aveva attirato la loro attenzione, qualcosa che si sottraeva al loro sguardo. Passarono a rispettosa distanza dal torso che aveva iniziato a diffondere uno sgradevole odore e sentirono gridare dalla parte opposta. Poi corsero intorno alla massa e quasi inciamparono in Kate Ann Browning. La donna aveva gli occhi sbarrati ed era semisommersa dalla massa che si stava sciogliendo. «Mi aiuti», disse Anawak a Judith Li. Tirarono fuori la donna. La sostanza si staccava a fatica dalle sue gambe. A Judith Li quel corpo sembrava insolitamente pesante. Il viso splendeva, come se fosse laccato. Lei si chinò per osservare meglio. Il busto di Kate Ann si sollevò. «Merda!» Judith Li balzò indietro, mentre il volto della donna si deformava, come se lei fosse stata colta da un attacco epilettico. Kate Ann gettò in alto le braccia, aprì la bocca e poi la richiuse. Le sue dita si torcevano. Sbatté le gambe, piegò la schiena e scosse violentemente la testa. Impossibile! Assolutamente impossibile! Judith Li era una donna dura, però in quel momento avvertiva un terrore indicibile. Rimase immobile a fissare il cadavere vivente, mentre Anawak s'inginocchiava vicino alla donna con evidente disgusto. «Jude», mormorò quindi lui. «Deve vedere.» Combattendo contro il ribrezzo, Judith Li si avvicinò. «Qui», disse Anawak. Lei guardò il punto indicato. Lo strato luccicante che ricopriva il viso di Kate Ann cominciava a gocciolare... Judith comprese. I fili appiccicosi che si stavano sciogliendo si stendevano sulle spalle e sulla gola della donna, sparivano nelle orecchie... «È entrato in lei», sussurrò. «Quella sostanza sta cercando di prenderne il controllo», confermò Anawak. Aveva il volto grigio, uno straordinario cambiamento di colore per un inuit. «È verosimile pensare che stia strisciando nella sua testa per stu-
diarla. Ma questa donna non è un cetaceo. Credo che quel po' di elettricità residua nel cervello stia reagendo al tentativo di presa di possesso.» Fece una pausa. «Potrebbe finire da un momento all'altro.» Judith Li rimase in silenzio. «Controlla tutte le funzioni del cervello», riprese Anawak. «Ma non riesce a controllare un essere umano.» Si alzò. «Kate Ann Browning è morta, generale. Quello che stiamo vedendo è la fase finale di un esperimento.» Heerema, al largo di La Palma, Canarie Bohrmann guardò con aria scettica le mute nella piccola stazione d'immersione: involucri argentei con caschi di vetro, giunture segmentate e pinze. Erano appese in un grande container d'acciaio aperto e sembravano bambole senza vita che fissavano il nulla. «Non pensavo che dovessimo andare sulla luna», disse. «Gerhard!» Frost rise. «A quattrocento metri di profondità è come essere sulla luna. Hai voluto venire a tutti i costi, quindi non lamentarti.» In effetti, Frost avrebbe voluto portare con sé van Maarten, ma Bohrmann aveva fatto notare che l'olandese conosceva meglio di tutti i sistemi dell'Heerema, quindi era più utile in superficie. Non l'aveva detto, però temeva che là sotto ci sarebbero state delle difficoltà. «Inoltre non mi va di stare a guardare mentre lavorate sott'acqua», aveva aggiunto. «Sarete anche degli eccellenti subacquei, ma io conosco gli idrati.» «Proprio per questo devi restare qui», aveva ribattuto Frost. «Tu sei il nostro esperto di idrati. Se ti dovesse succedere qualcosa, non ne avremmo altri.» «E invece sì. Abbiamo Erwin. Ne sa quanto me. Addirittura di più.» Nel frattempo, Erwin Suess era arrivato da Kiel. «Un'immersione non è una passeggiata», aveva detto van Maarten. «Ha già fatto delle immersioni?» «Diverse volte.» «È mai stato in profondità?» Bohrmann aveva esitato. «Fino a cinquanta metri. Un'immersione convenzionale con le bombole. Ma sono in condizioni eccellenti, e non mi ritengo uno stupido», aveva concluso, in tono orgoglioso. Dopo averci riflettuto, Frost aveva detto: «Due uomini robusti basteranno. Porteremo delle piccole cariche esplosive e...»
«Ma siamo diventati matti?» aveva esclamato Bohrmann, terrorizzato. «Cariche esplosive?» «Okay, okay!» Frost aveva sollevato le mani. «Vedo che senza di te non si farà nulla. Vieni anche tu. Ma non metterti a frignare se la situazione diventerà tosta.» Si trovavano all'interno del galleggiante di sinistra, diciotto metri al di sotto della superficie dell'acqua. I galleggianti erano stati riempiti, ma van Maarten ne aveva risparmiato un piccolo settore, collegato con una scala alla piattaforma. Da lì venivano calati anche i robot. Van Maarten aveva valutato la possibilità di fare delle immersioni e, sapendo che si sarebbero svolte ad alcune centinaia di metri di profondità, aveva ordinato delle tute speciali alla Nuytco Research di Vancouver, un'azienda nota per i suoi prodotti innovativi. «Sembrano pesanti», disse Bohrmann. «Novanta chili, prevalentemente titanio.» Frost prese un casco e gli diede qualche colpetto sulla parte anteriore vetrificata. «L'Exosuit è un affare pesante, ma sott'acqua non te ne accorgi. Puoi salire e scendere a piacere. La tuta è riempita di miscele di gas, che ti circondano completamente, quindi non si formano bollicine di azoto nel sangue. Questo permette di evitare le soste per la decompressione.» «Ha le pinne.» «Geniale, vero? Invece di affondare come un sasso, puoi nuotare come un uomo rana.» Frost indicò i numerosi anelli di snodo. «Questa struttura consente una completa libertà di movimento anche a quattrocento metri di profondità. Le mani sono protette da una semisfera. Non ci sono guanti sarebbero troppo sensibili alla pressione - ma le due braccia terminano in un sistema di presa controllato dal computer. I sensori trasmettono all'interno una sorta di tatto artificiale. Sono talmente sensibili che con quelli potresti scrivere anche il tuo testamento.» «Quanto tempo possiamo restare sott'acqua?» «Quarantott'ore», rispose van Maarten. Quando vide l'espressione di sorpresa sul volto di Bohrmann, sorrise. «Non abbia paura, non vi servirà tanto tempo.» Indicò due robot a forma di siluro, ciascuno dei quali era lungo quasi un metro e mezzo, dotato di elica e con la punta ricoperta di vetro. Un cavo lungo diversi metri usciva dalla parte superiore e terminava in una console con maniglie, display e tasti. «Questi sono i vostri Trackhound. Cani da soccorso, AUV. Sono programmati per raggiungere l'isola luminosa. La precisione nell'obiettivo è di pochi centimetri, quindi
non cercate di orientarvi e lasciatevi semplicemente trainare. Queste cose viaggiano a quattro nodi. Arriverete laggiù in tre minuti.» «Che margine di sicurezza c'è nel programma?» domandò Bohrmann, scettico. «Altissimo. I Trackhound hanno diversi sensori per registrare la profondità e la posizione. Non potete sbagliare. Se qualcosa si dovesse mettere di traverso, il Trackhound lo eviterebbe. Sulla console di servizio, all'estremità del cavo, potete attivare il programma. Avanti, indietro, è semplicissimo. Il tasto con lo 0 attiva l'elica senza mettere in funzione il programma. In questo caso, potrete guidare il Trackhound con un joystick, e il cagnolino corre dove volete voi. Altre domande?» Bohrmann scosse la testa. «Allora andiamo.» Van Maarten li aiutò a infilare le tute. Nelle Exosuit si entrava attraverso un'apertura sulla schiena, su cui erano montate le due bombole. A Bohrmann sembrava di essere un cavaliere pronto a fare una passeggiata sulla luna. Non appena la tuta fu chiusa, per un attimo rimase escluso da tutti i rumori, poi ricominciò a sentire qualcosa. Attraverso la superficie incurvata del vetro, scorse Frost e sentì la sua voce tonante all'interno del proprio casco. Poi arrivarono alle sue orecchie anche i rumori esterni. «Contatto radio», spiegò Frost. «È meglio che gesticolare. Te la cavi con la presa?» Bohrmann mosse le dita nella sfera. La mano artificiale seguiva ogni movimento. «Credo di sì.» «Cerca di prendere la console che van Maarten ti allunga.» Ci riuscì al primo tentativo. Bohrmann fece un sospiro. Sperava che fosse tutto facile come il controllo della mano artificiale. «Ancora una cosa. All'altezza della vita vedi un riquadro, un interruttore piatto. È un POD.» «Un cosa?» «Nulla su cui ti debba rompere la testa o che ti debba innervosire. Una misura di sicurezza. Difficilmente saremo costretti a usarla, ma, se dovesse succedere, ti dirò a che serve. Per attivarlo, devi solo colpirlo con forza. Okay?» «Che cos'è un POD?» «Qualcosa che rende l'immersione più tranquilla. Prima o poi ti spiegherò.» «Vorrei sapere...»
«Più tardi. Sei pronto?» «Sì.» Van Maarten aprì il tunnel della paratia. Un'acqua illuminata di azzurro lambì i loro piedi. «Dovete solo lasciarvi cadere», disse. «Vi manderò subito i Trackhound. Aspettate di essere fuori dalla chiusa, poi attivateli l'uno dopo l'altro. Prima Frost.» Bohrmann fece scivolare le pinne sul bordo. Ogni minimo movimento con indosso la tuta era una vera sfacchinata. Fece un profondo respiro e si lasciò cadere in avanti. L'acqua lo colpì. Fece una capriola completa, vide le luci della chiusa scivolare sopra di lui e poi ritornò in posizione verticale. Sprofondò lungo il tunnel verso il mare aperto, finché non si trovò in mezzo a un banco di pesci. Corpi splendenti scorrevano a migliaia in tutte le direzioni, formando una spirale vivente. Poi si ammassarono. Il banco cambiò diverse volte la propria forma, infine si distese e fuggì via. Bohrmann scorse di fianco a sé il Trackhound e continuò ad affondare. Sopra di lui, la chiusa splendeva nello scafo scuro del galleggiante. Sbatté le pinne e si rese conto che la sua posizione si stabilizzava. Ormai non sentiva più il peso della tuta. Anzi era perfettamente a proprio agio. Un sommergibile portatile. Frost lo seguì, avvolto in un bozzolo di bolle. Giunse all'altezza di Bohrmann e lo guardò attraverso il vetro del casco. In quel momento, Bohrmann si rese conto che l'americano portava il berretto da baseball anche nell'Exosuit. «Come ti senti?» chiese Frost. «Come R2-D2, fratellone.» Frost sorrise. L'elica del suo Trackhound si mise a girare. Immediatamente, il robot abbassò il muso e trascinò il vulcanologo verso gli abissi. Bohrmann mise in funzione il programma. Ci fu una spinta e lui precipitò a testa in giù. Di colpo, tutto divenne buio. Van Maarten aveva ragione. Si andava davvero veloci. Già dopo pochissimo tempo intorno a loro regnavano le tenebre più fitte. Non si vedeva altro che la luce diffusa irraggiata dalle macchine. Con sua grande sorpresa, l'oscurità gli provocò un senso di malessere. Era stato seduto migliaia di volte davanti a un monitor a sorvegliare le immersioni dei robot che si calavano nelle profondità abissali. Con l'Alvin, era stato a quattromila metri. Tuttavia stare in quella tuta ed essere trascinato verso l'ignoto da un «cane» era una cosa completamente diversa. Sperava che il Trackhound fosse stato programmato correttamente, al-
trimenti sarebbe finito chissà dove. Il proiettore illuminava una pioggia di plancton e, nel casco di Bohrmann, risuonava il suo ronzio elettronico. Più avanti, notò un essere filiforme che, con movimenti indolenti e pulsanti, galleggiava nella notte. Era una medusa degli abissi di una bellezza incredibile, che emetteva segnali luminosi circolari, come una navicella spaziale. Bohrmann sperava che non fosse il segnale di pericolo dovuto a qualche mostro che la inseguiva. Poi la medusa sparì. Altre meduse s'illuminarono a grande distanza, e improvvisamente si allargò davanti a lui una nuvola bianca e luccicante. Sobbalzò. Ma la nuvola era bianca, non blu, e la bioluminescenza era debole, poi sparì. Bohrmann capì che si trattava di un Mastigoteuthis, un calamaro che in genere si trovava solo intorno ai mille metri di profondità. Era ovvio che scagliasse una pittura bianca contro gli intrusi, perché una pittura nera nell'oscurità non sarebbe stata di nessun aiuto. Il «cane» tirava e tirava. Bohrmann scrutava gli abissi alla ricerca della luce dell'isola, ma non si vedeva altro che il nero e il punto chiaro davanti a lui: era Frost, che stava scendendo velocemente. Ammesso che stesse davvero scendendo. Due luci immobili, la sua e quella di Frost, in un universo senza stelle. «Stanley?» «Che c'è?» La risposta immediata lo tranquillizzò. «Ben presto dovremmo vedere qualcosa, no?» «Sei impaziente, amico mio. Guarda il tuo display. Siamo solo a duecento metri.» «Oh, certo. Naturalmente.» Bohrmann non osò chiedere a Frost se aveva fiducia nel programma dei Trackhound, quindi rimase in silenzio e cercò di controllare il crescente nervosismo. Cominciò a sperare nella presenza di qualche medusa, ma non apparve nulla. Il robot continuava a ronzare. Poi, improvvisamente, cambiò direzione. Là c'era qualcosa. Bohrmann aguzzò la vista. In lontananza risplendeva un alone luminoso, appena intuibile, ma di una forma vagamente rettangolare. Si sentì sollevato. Bravo «cane», pensò. Come sembrava piccola l'isola luminosa. La luce si avvicinò e divenne più chiara. A poco a poco, lui riconobbe i singoli proiettori allineati lungo le sbarre. Continuò ad avanzare verso l'isola e, d'un tratto, la vide sospesa sopra di lui, luminosa e gigantesca. Na-
turalmente era lui a galleggiare sopra l'isola, ma la discesa a testa in giù gli aveva fatto perdere l'orientamento. Quindi divenne visibile anche la terrazza. Poco dopo, Bohrmann scorse Frost, un'ombra trascinata dal siluro che teneva al guinzaglio e che si dirigeva verso quello che appariva come un campo da calcio pieno di riflettori. Davanti a loro, tutto era illuminato. La terrazza sospesa, il tubo serpentino dell'aspiratore, i detriti che ne bloccavano l'apertura... Il brulichio dei vermi. «Spegni il 'cane' prima di sbattere contro l'isola luminosa», disse Frost. «Gli ultimi metri li facciamo a nuoto.» Bohrmann mosse le dita e cercò di premere i tasti con la mano artificiale. Stavolta fu meno disinvolto. Non riuscì al primo tentativo e volò oltre Frost che, nel frattempo, aveva rallentato. «Ehi, Gerhard! Dove diavolo vuoi andare?» Provò di nuovo. La mano artificiale scivolava, poi finalmente lui riuscì a fermare il «cane». Bohrmann sbatté le pinne e si mise in posizione orizzontale. In effetti era arrivato molto vicino all'isola luminosa, che si stendeva in tutte le direzioni, apparentemente infinita. Dopo qualche secondo, recuperò il senso dell'orientamento e l'isola fu sotto di lui. Con movimenti regolari, nuotò verso il tubo incagliato e scese di fianco a esso. L'isola luminosa galleggiava una quindicina di metri sopra la sua testa. I vermi cominciarono a strisciargli sulle pinne. Fu costretto a farsi violenza per ignorarli. Non potevano fare nulla al materiale della tuta e, in fondo, erano solo disgustosi. Un vermiciattolo non sarebbe mai diventato pericoloso per un essere vivente delle sue dimensioni. D'altra parte, che si sapeva di vermi che in realtà non dovevano neppure esistere? Il Trackhound si era posato al suo fianco. Bohrmann lo parcheggiò su uno sperone di roccia e osservò il tubo. Le eliche del motore erano bloccate da frammenti di nera roccia vulcanica, alti come un uomo. Quello si poteva risolvere. A preoccuparlo era il grande cuneo - alto circa quattro metri - che spingeva il tubo contro la parete rocciosa. Bohrmann dubitava che in due sarebbero riusciti a smuoverlo, benché sott'acqua tutto fosse meno pesante e la pietra lavica fosse leggera e porosa. Frost lo raggiunse. «Disgustoso», borbottò. «Figli di Lucifero ovunque.» «Come?» «Vermi che brulicano e strisciano! Sembra una piaga biblica! Va bene, nuotiamo più in basso. Propongo di togliere i blocchi più piccoli e vedere
fin dove possiamo arrivare. Van Maarten?» «Eccomi.» La voce di van Maarten risuonò, metallica, nel casco. Bohrmann si era completamente scordato che erano collegati anche con l'Heerema. «Ora proviamo a mettere un po' d'ordine. Come prima cosa, libereremo i motori. Forse basterà per consentire all'aspiratore di liberarsi da solo.» «Va bene. Tutto a posto, Bohrmann?» «Benissimo.» «State attenti.» Frost indicò un masso roccioso quasi rotondo che bloccava l'articolazione di una delle eliche. «Cominciamo con quello.» Si misero all'opera per spostare la pietra. Dopo averla spinta e tirata per un po', essa scivolò via, liberò il motore e spiaccicò sotto di sé qualche centinaio di vermi. «Yeah», esclamò Frost soddisfatto. Riuscirono a spostare nello stesso modo altri due blocchi. La pietra successiva era più grande, ma con un po' più d'impegno riuscirono a rovesciarla da una parte. «Come si è forti, sott'acqua», si rallegrò Frost. «Abbiamo liberato tutti i motori tranne uno. Non sembrano danneggiati. Riesci a muovere l'articolazione? Non accendere l'elica, girala solo!» Passarono alcuni secondi, poi si sentì un ronzio: una delle turbine che ruotava sullo snodo. Subito dopo si mossero anche le altre. «Molto bene», gridò Frost. «Ora provate a mettere in funzione quelle cose.» Per sicurezza si spostarono di qualche metro dalla proboscide, poi rimasero a guardare le eliche che si accendevano. Il tubo sussultò. Non accadde nient'altro. «Niente», disse van Maarten. «Sì, lo vedo anch'io.» Frost era imbronciato. «Provate ancora. Girate quelle cose in un'altra direzione.» Anche quel tentativo non funzionò. In compenso, le eliche avevano cominciato a far vorticare il fango. L'acqua divenne torbida. «Stop!» Frost gesticolava con le sue braccia segmentate. «Fermatevi lassù! Non serve a niente, c'impedite solo di vedere.» Le eliche si fermarono. La nuvola di fango si divise in strisce chiare. La fine del tubo si vedeva appena. «Va bene.» Frost aprì un box piatto sul fianco dell'Exosuit e prese due
oggetti delle dimensioni di una matita. «Il nostro problema è quel blocco gigantesco. So che non ti piacerà, Gerhard, ma dobbiamo far saltare quella maledetta cosa.» Bohrmann spostò lo sguardo sui vermi che stavano progressivamente riprendendo possesso della parte già ripulita. «È rischioso», disse. «Usiamo una piccola carica esplosiva. Propongo di piazzarla alla base, dove il cuneo si è conficcato nel fondo. Gli strappiamo via le gambe, insomma.» Bohrmann fece un balzo, alzandosi di qualche metro verso il cuneo. Intorno a lui, l'acqua era torbida. Accese l'illuminazione del casco e si lasciò sprofondare nella nube di sedimenti. Con cautela, si mise in ginocchio e portò il suo casco il più vicino possibile al punto in cui il blocco si era conficcato nel suolo. Con la mano artificiale spazzò via i vermi. Alcuni tirarono fuori le loro fauci e cercarono di mordere l'arto artificiale. Bohrmann li scrollò via e studiò la struttura dei sedimenti, scorgendo sottili venature di un bianco sporco. Quando le colpì con la mano artificiale, il pietrisco si disintegrò e verso di lui si mossero delle piccole bolle. «No», disse. «Non è una buona idea.» «Ne hai una migliore?» «Sì. Prendiamo una carica più potente, cerchiamo delle fessure nel terzo superiore del blocco e le facciamo saltare. Con un po' di fortuna, la parte superiore si rovescerà e così potremo togliere la parte sottostante senza compromettere la stabilità del fondo.» «Va bene.» Frost lo raggiunse nella nube. Risalirono un poco. La visuale era migliore. Si misero a cercare in maniera sistematica nel cuneo i punti adatti. Infine Frost trovò una profonda tacca e c'infilò dentro qualcosa che sembrava un pezzo di plastilina grigia. Poi infilò nella massa un bastoncino sottile come una matita. «Dovrebbe bastare», disse, soddisfatto. «Salterà proprio bene. Adesso dobbiamo allontanarci.» Accesero i Trackhound e si lasciarono trascinare fino al margine della zona illuminata, dove la scarpata si perdeva nel buio totale. Il particolato sospeso si manteneva nei limiti, così le onde luminose erano appena riflesse dalle alghe e da altre sostanze in sospensione, tuttavia il passaggio tra luce e tenebre era improvviso. Sott'acqua, la luce scompariva seguendo la serie delle lunghezze d'onda: dopo un paio di metri il rosso, poi l'arancione, infine il giallo. Oltre i dieci metri s'intuivano solo il grigio e il blu, fin-
ché l'assorbimento e la dispersione non inghiottivano anche quei residui. Da lì in poi, il mondo cessava di esistere. A Bohrmann non piaceva l'idea di abbandonare la relativa protezione della zona illuminata per avventurarsi nell'imprevedibilità del buio. Con sollievo, si accorse che Frost non riteneva necessaria una grande distanza di sicurezza. Scorse indistintamente una fessura nella parete nel punto in cui il blu si perdeva nel nero. Forse c'era una grotta. Immaginò la lava che ne era uscita un tempo, rossa, incandescente, una poltiglia compatta che lentamente si raffreddava e si solidificava in forme bizzarre. All'interno del suo equipaggiamento cominciava a sentire freddo. Erano i brividi che lo percorrevano all'idea di trascorrere la vita lì sotto. Sollevò lo sguardo verso l'isola luminosa. Intorno ai proiettori bianchi, fissati alle sbarre, non si vedeva altro che un alone blu. «Bene», disse Frost. «Facciamola finita.» Accese il detonatore. Dal cuneo esplose una grande ondata di bolle d'aria, mischiate con frammenti e polvere. Rimbombò nel casco. Un anello scuro si allargò, seguito da altre bolle d'aria che trasportavano macerie in tutte le direzioni. Bohrmann trattenne il respiro. Lentamente, molto lentamente, la parte superiore del cuneo cominciò a piegarsi. «Yeah!» urlò Frost. «Il Signore mi sia testimone!» Il cuneo si rovesciava sempre più velocemente, trascinato dal suo stesso peso. Si ruppe a metà e cadde vicino al tubo, sollevando una nuvola ancora più grande. Nonostante il pesante equipaggiamento, Frost riusciva a saltare e a gesticolare. Sembrava Armstrong che saltellava sulla luna. «Alleluia! Ehi, van Maarten, Mijnheer! Abbiamo rimpicciolito quella cosa di merda. Forza, tenti la fortuna.» Nel profondo del cuore, Bohrmann sperava che la scossa non provocasse altri smottamenti. In mezzo al fango che vorticava sentì i motori accendersi. Poi, improvvisamente, l'aspiratore tornò in vita. S'inarcò, poi sollevò lentamente la bocca dalla nuvola, come la testa di un verme gigantesco. L'apertura si mosse prima nella loro direzione, poi in quella opposta, come se stesse esaminando l'ambiente circostante. Se Bohrmann non avesse saputo che cos'aveva di fronte, si sarebbe dato per spacciato. «Ce l'ha fatta!» gridò Frost. «Siete i migliori», affermò van Maarten. «Niente di nuovo», lo rassicurò Frost. «Spegnetelo, prima che si divori
Gerhard e me. Diamo un'occhiata al punto in cui era bloccato. Poi risaliamo.» Il tubo salì ancora un pezzo, lasciò sprofondare la sua bocca rotonda e poi rimase a penzolare in mezzo alla luce. Frost cominciò a nuotare e Bohrmann lo seguì. Faceva scorrere lo sguardo sull'isola e poi lo spostava. Qualcosa lo innervosiva, benché non sapesse esattamente cosa. «Faccenda torbida...» mormorò Frost, davanti alla nuvola. «Guarda un po' a destra, Gerhard, in quella brodaglia ci vedi meglio di me.» Bohrmann accese il proiettore del suo Trackhound, rifletté per qualche istante e infine lo spense. Che c'era laggiù? I suoi sensi gli stavano forse giocando un brutto tiro? Rivolse di nuovo lo sguardo all'isola luminosa e la fissò a lungo. Gli sembrava che i proiettori diffondessero una luce più forte rispetto a prima, ma era impossibile. Avevano lavorato sempre alla massima potenza. Non erano i proiettori. Era l'alone blu. Si era ingrandito. «Vedi là?» Bohrmann indicò l'isola. Frost seguì il movimento con lo sguardo. «Non posso...» Si bloccò. «Che cos'è?» «La luce», disse Bohrmann. «La luminescenza blu.» «Per Ariel e Uriel», sussurrò Frost. «Hai ragione. Si allarga.» Intorno all'isola si era formata una grande superficie blu scuro. Sott'acqua era difficile valutare le distanze - l'indice di rifrazione della luce faceva apparire tutto di un quarto più vicino e di un terzo più grande -, ma indubbiamente la fonte della luce blu si trovava un bel pezzo dietro l'isola luminosa. Le lampade alogene sulle sbarre accecavano Bohrmann, il quale però vide saettare dei lampi. Poi il blu perse d'intensità, divenne più debole e sparì. «Non mi piace», disse Bohrmann. «Credo che dovremmo risalire.» Frost non rispose. Continuava a fissare l'isola. «Stan? Mi senti? Dovremmo...» «Non così in fretta», mormorò Frost. «Abbiamo visite.» Indicò il bordo superiore dell'isola, oltre il quale sfrecciarono due ombre allungate. Avevano il ventre illuminato di blu. Un attimo dopo erano sparite. «Che cos'era?» «Tranquillo, ragazzo. Attiva il POD.» Bohrmann schiacciò il sensore nel ventre dell'Exosuit. «Non volevo metterti in ansia», disse Frost. «Ho pensato che, se ti avessi detto a cosa serve, saresti diventato nervoso e avresti tenuto d'occhio esclusivamente...»
Non andò avanti. Tra le sbarre schizzarono due corpi a forma di siluro. Bohrmann vide le teste dalla forma strana. Gli animali si stavano dirigendo verso di loro a velocità incredibile e con le fauci spalancate. Il suo cuore venne serrato da un pugno di ghiaccio. Barcollò all'indietro, portando le braccia davanti al casco per difendersi. Nessuna di quelle reazioni aveva senso, ma era l'istinto preistorico che trionfava sulla sua mente civilizzata. Quell'istinto gli ordinava di urlare, e Bohrmann ubbidì. «Non possono farti niente», sbottò Frost. Gli aggressori svoltarono proprio davanti a lui. Bohrmann boccheggiò, cercando di contenere il panico. Frost gli si avvicinò con energici colpi di pinna. «Abbiamo testato il POD», disse. «Funziona.» «Insomma, ma cosa diavolo è il POD?» «POD è l'acronimo di Protective Ocean Device. La migliore protezione contro gli squali. Il POD forma un campo elettrico che ti circonda come una barriera. Non possono avvicinarsi a più di cinque metri.» Bohrmann ansimava, tentando di superare lo shock. Gli animali erano spariti dietro l'isola luminosa. «Erano a meno di cinque metri», disse. «Solo la prima volta. Adesso hanno imparato la lezione. Tranquillo. Gli squali dispongono di organi estremamente sensibili all'elettricità. Il campo li sommerge di stimoli e disturba il loro sistema nervoso, provocando crampi dolorosi. Abbiamo attirato squali bianchi e squali tigre con delle esche e poi abbiamo attivato il POD: non sono stati in grado di attraversare il campo.» «Dottor Bohrmann? Stanley?» La voce di van Maarten. «Tutto okay?» «Tutto a posto», disse Frost. «POD di qua e POD di là... Dovreste risalire, invece.» Gli occhi di Bohrmann esaminarono nervosamente l'isola luminosa. Qusi tutte le cose che Frost gli aveva raccontato, le conosceva già. Nella parte anteriore della testa, gli squali avevano delle cavità, le cosiddette ampolle di Lorenzini, con cui percepivano anche i più deboli impulsi elettrici generati dai movimenti muscolari degli altri animali. Fino a quel momento, tuttavia, Bohrmann aveva ignorato l'esistenza del POD e la sua capacità di disturbare gli organi sensibili all'elettricità. «Erano pesci martello», disse. «Sì, grandi pesci martello. Circa quattro metri ognuno, direi.» «Merda.» «Coi pesci martello il POD funziona ancora meglio», ridacchiò Frost. «Guarda il loro muso quadrato, lì ci sono più ampolle di Lorenzini che negli altri squali.»
«E ora?» Vide un movimento. Dal buio oltre l'isola luminosa riapparvero i due squali. Bohrmann non si mosse. Osservò gli animali che venivano all'attacco. Decisi, senza la tipica oscillazione della testa con cui gli squali seguivano nell'acqua le tracce olfattive. Attaccarono, ma poi si fermarono di colpo, come se avessero urtato un muro. Deformarono la bocca e nuotarono, disorientati, nella direzione opposta. Poi tornarono indietro e cominciarono a girare nervosamente intorno ai sommozzatori, mantenendosi però a distanza. In effetti funzionava. La valutazione di Frost era giusta. Ciascuno dei due esemplari misurava almeno quattro metri. Il corpo era quello tipico degli squali. La testa invece aveva la forma tipica, cui essi dovevano il nome. I lati della testa erano allungati in ali piatte, sulle cui parti più esterne si trovavano gli occhi e le narici. La parte anteriore del martello era liscia e dritta come una mannaia. Bohrmann cominciò a sentirsi più tranquillo. Forse si era comportato da idiota. Gli animali non erano in grado di danneggiare l'Exosuit. Tuttavia voleva andarsene. «Quanto tempo ci serve per risalire?» chiese. «Col Trackhound, bastano pochi minuti. Non più di quando siamo scesi. Nuotiamo fin sopra l'isola luminosa. Là attiviamo il programma e ci lasciamo tirare su.» «Va bene.» «Non accenderlo prima, hai capito? Altrimenti ti sfracelli contro le luci.» «Okay.» «Stai bene?» «Sì, maledizione! Sto benissimo. Quanto dura la protezione?» «L'accumulatore del POD ha una carica di quattro ore.» Frost salì con colpi di pinna regolari, tenendo la console del Trackhound nella mano artificiale destra. Bohrmann lo seguì. «Cari miei», esclamò Frost. «Purtroppo vi dobbiamo lasciare.» Gli squali li seguirono. Se cercavano di avvicinarsi, cominciavano a tremare e le loro bocche si deformavano. Frost rideva e continuava a nuotare verso l'isola luminosa. La sua figura appariva piccola e bluastra davanti alla gigantesca superficie luminosa che rendeva ancora più netti i contorni. Bianco e blu, i colori degli abissi. Bohrmann pensò alla nuvola blu che aveva visto in lontananza. Ovvio! Se ne ricordò di colpo. A causa dello spavento, aveva completamente
dimenticato che si era formata poco prima dell'arrivo degli squali. Lo stesso fenomeno era stato responsabile dei cambiamenti nel comportamento delle balene e di tutta la serie di anomalie e catastrofi. Se era vero, allora non avevano a che fare con squali normali. Perché quegli animali erano lì? Gli squali avevano un udito finissimo. Forse li aveva attirati l'esplosione. Ma perché li attaccavano? Né lui né Frost emanavano odori. Lo schema di caccia di quelle bestie non era così. Inoltre gli attacchi degli squali agli uomini in acque profonde erano rarissimi. Si avvicinarono al bordo superiore dell'isola. «Stan, con quei due c'è qualcosa che non va.» «Non possono farti niente.» «Sì, però...» Uno dei due squali girò la testa ampia e piatta e nuotò di fianco a loro. «Tuttavia non hai torto», affermò Frost. «Quello che mi colpisce è la profondità. I grandi pesci martello non sono mai stati osservati oltre gli ottanta metri. Mi chiedo se questi...» Lo squalo si girò. Per un momento rimase immobile, con la testa leggermente sollevata e la schiena inarcata, la classica posizione minacciosa. Poi mosse con violenza la coda e sfrecciò verso Frost. Il vulcanologo fu così sorpreso che non abbozzò neppure un tentativo di difesa. L'animale s'impennò per un istante, poi colpì Frost con la parte più ampia del corpo. Frost girò su se stesso come una trottola, con le braccia e le gambe divaricate. «Ehi!» La console gli sfuggi di mano. «Che diavolo...» Come dal nulla, sopra le sbarre apparve un terzo corpo. Avanzava sulla fila superiore dei proiettori e procedeva veloce, con un'eleganza sinistra. Era scuro, con un'alta pinna dorsale e la testa a forma di martello. «Stan!» gridò Bohrmann. L'ultimo arrivato era gigantesco, molto più grande degli altri due. Il suo martello si rovesciò in alto quando spalancò le fauci, mostrando le file di denti. Afferrò l'avambraccio destro di Frost e cominciò a scuoterlo. «Merda», strillò Frost. «Che razza di animale è questo? Figlio dell'inferno! Lasciami, tu...» Il pesce martello scuoteva selvaggiamente la grande testa spigolosa e intanto compensava il movimento con la pinna caudale. Doveva essere lungo sei o sette metri. Frost veniva sbattuto di qua e di là, come una foglia. Il suo braccio corazzato era scomparso fino alla spalla nella bocca dello
squalo. «Piantala», gridò. «Per l'amor del cielo, Stan», urlò van Maarten. «Colpiscilo sulle branchie. Cerca di colpirgli gli occhi.» Naturalmente, pensò Bohrmann. Da sopra vedono. Vedono tutto! Talvolta si era chiesto come sarebbe stato incontrare un simile gigante, essere aggredito o vedere qualcun altro attaccato. L'immaginazione non era niente in confronto alla realtà. Bohrmann non era né particolarmente coraggioso né particolarmente vigliacco. Lui definiva «coraggioso» colui che non sfuggiva i rischi, ma neppure se li andava a cercare. Benché, in passato, fosse stato definito un amante dell'avventura, adesso quella definizione sembrava del tutto priva di fondamento. Bohrmann non fuggì. Si limitò a nuotare. Gli si avvicinò uno degli squali più piccoli. I suoi occhi luccicavano, le mascelle si deformavano come percorse da un crampo. Evidentemente si stava forzando a superare il campo elettrico. Con un ultimo scatto, urtò Bohrmann. Era come essere colpiti da un auto a tutta velocità. Bohrmann fu sbattuto di lato e galleggiò verso l'isola luminosa. Il suo unico pensiero era non lasciare la console, qualunque cosa succedesse. Il Trackhound era il suo biglietto di ritorno. Senza la programmazione della rotta avrebbe vagato nell'oscurità fino all'esaurimento delle riserve di ossigeno. Sempre ammesso che rimanesse in vita fino ad allora. Un'improvvisa pressione lo spinse verso il fondo. La coda dello squalo più grande frustava l'acqua appena sopra di lui. Bohrmann cercò di riprendere il controllo dei movimenti e vide i due squali più piccoli avventarglisi contro. Aprivano e chiudevano le fauci. Erano così vicini all'isola luminosa che, nel blu dell'oceano, si vedeva il loro colore naturale. Sopra il ventre bianchiccio c'era un dorso color bronzo. La carne della bocca e della gola splendeva in una miscela di rosa e arancione, come carne fresca di salmone appena tagliata, ornata dai tipici denti triangolari nella parte superiore nella mascella e dai canini appuntiti sulla mandibola. Cinque file dure come l'acciaio, l'una dietro l'altra, pronte a sminuzzare qualunque cosa riuscissero a ghermire. «Gerhard!» gridò Frost. Bohrmann guardò la luce delle alogene e vide Frost che, con la mano libera, colpiva la testa del grande squalo. Poi, improvvisamente, con un solo
movimento del capo, lo squalo strappò il braccio corazzato dell'Exosuit all'altezza della spalla e lo scaraventò via. Dall'apertura uscirono grandi bolle di ossigeno. Le mascelle si serrarono sul braccio di Frost, privo di protezione, e lo morsero all'articolazione della spalla. Una nuvola rossa si allargò nell'oscurità, mischiandosi con le bolle. Ma quell'incredibile quantità di sangue fu subito dispersa dai movimenti a frusta dello squalo. Frost urlava, ma le sue non erano più parole, bensì suoni inarticolati e striduli. Poi l'acqua marina entrò nella tuta e il vulcanologo cominciò a gorgogliare. Le grida cessarono. Gli squali più piccoli persero momentaneamente interesse per Bohrmann. L'istinto della fame era più forte dell'influenza esterna che li guidava. Si scagliarono nel vortice schiumoso, morsero il corpo senza vita del vulcanologo e gli vorticarono intorno, cercando di sfondare la corazza. In mezzo alle interferenze si sentivano anche le grida di van Maarten. Benché Bohrmann fosse sconvolto, una parte della sua mente lavorava senza posa e gli diceva che non si doveva fidare dell'istinto degli animali. La loro forza e il loro impulso a sbranare erano manipolati. Non si trattava semplicemente di nutrirsi. La sostanza nella loro testa era interessata a uccidere gli uomini sott'acqua. Doveva tornare alla parete rocciosa. La sua mano artificiale sinistra colpì la zona dei tasti. Se avesse schiacciato il pulsante sbagliato, si sarebbe attivato il programma per tornare all'Heerema. E allora sarebbe stato perduto, perché il POD non avrebbe più tenuto lontani gli squali. Ma lui schiacciò il tasto giusto. L'elica ronzò. Mosse freneticamente il joystick in modo che il «cane» lo trascinasse lontano dall'isola, verso la parete rocciosa. Sentì l'accelerazione, ma, a differenza di quanto era successo durante la discesa, quando il piccolo robot gli era parso veloce e maneggevole, ora gli sembrava insopportabilmente lento. Bohrmann sbatté le pinne e scivolò nel blu verso la terrazza. In una simile situazione non c'era molto da fare, però una delle regole dei sommozzatori diceva che le rocce proteggevano le spalle. Bohrmann si spinse verso la parete lavica. Poco prima si era voltato verso l'isola luminosa. La nuvola di sangue si era allargata, in mezzo si vedevano pinne e code in un vortice schiumoso. Pezzi della tuta di Frost stavano sprofondando. Era uno spettacolo orribile. Ma quello che terrorizzava Bohrmann non era la carneficina in sé. Era il fatto che vi stavano partecipando solo due squali. Mancava il più grande.
Terrorizzato, Bohrmann spense l'elica e si guardò intorno. Il pesce martello più grande sbucò dalla nuvola di sedimenti. Aveva le fauci spalancate. Scivolava verso di lui a una velocità mozzafiato. Anche l'ultimo barlume di lucidità scomparve. Mentre l'enorme testa si avventava contro di lui, Bohrmann non riusciva a decidere se riaccendere il Trackhound oppure no. Poi l'impatto lo scagliò contro la parete rocciosa. Lo squalo continuò a nuotare, fece un ampio arco e ritornò indietro con la velocità di un'auto da corsa. Bohrmann gridò. Il mondo si trasformò in un abisso di fauci e denti, poi il suo fianco sinistro - dalla spalla all'anca scomparve nella bocca dello squalo. È finita, pensò. Senza mollare la presa, lo squalo lo sollevò, scivolando lungo il pendio. Nelle cuffie, Bohrmann sentiva scrosci e rimbombi. Udì i denti dell'animale che stridevano sul rivestimento di titanio dell'Exosuit. Dato che la testa dello squalo si muoveva da una parte all'altra, il casco sbatté più volte contro la roccia e si scalfì. La lega di titanio era sufficientemente robusta per resistere per un po' a simili colpi, ma la testa di Bohrmann era violentemente sballottata. Era del tutto impotente, il suo destino era segnato. La sua vita ormai non valeva più nulla. Ma proprio quell'impotenza risvegliò la rabbia. Non aveva smesso di respirare. Si poteva ancora difendere! Sopra di lui si stendeva il profilo del martello. La larghezza della testa dello squalo misurava oltre un quarto della lunghezza del corpo, dunque le due bombature laterali erano molto distanti. Bohrmann vedeva solo il bordo, non gli occhi e le narici. Cominciò a colpirlo con la console, ma sembrava che lo squalo non se ne accorgesse neppure. Poi l'animale lo spinse verso il limite della luce. Se fossero andati oltre, Bohrmann non sarebbe più riuscito a vederlo. Non poteva permettersi di lasciare la zona di luce. La rabbia di Bohrmann crebbe ancora. Sollevò il braccio sinistro, che si trovava nelle fauci, e colpì il palato dell'animale. In effetti, in un certo senso, poteva dirsi fortunato, perché lo squalo aveva aggredito il suo fianco sinistro per intero e non soltanto un braccio o una gamba. In quel caso, lui sarebbe stato ormai spacciato, come Frost; la parte centrale della corazza, invece, non aveva punti deboli come gli anelli di giuntura. Insomma era troppo grande e massiccio per essere divorato, anche per quel colosso. E sembrava averlo capito anche l'animale, che scosse la testa con forza anco-
ra maggiore. Bohrmann era sul punto di perdere i sensi. Probabilmente aveva già diverse costole rotte, ma, più l'animale lo scuoteva, più cresceva la sua rabbia. Piegò all'indietro il braccio destro e colpì più volte con la console la testa a forma di martello... Improvvisamente fu libero. Lo squalo lo aveva sputato. Evidentemente Bohrmann aveva colpito un punto sensibile, un occhio o una narice. Il corpo gigantesco si abbassò velocemente, passandogli di fianco e lo scagliò contro le rocce. Per un istante, sembrò davvero che lo squalo stesse fuggendo. Bohrmann rifletté febbrilmente su come sfruttare la situazione. Non s'illudeva di poter tentare la risalita verso l'Heerema. Era riuscito ad allontanare l'animale, però al massimo aveva guadagnato una manciata di secondi. Tirò a sé il Trackhound e abbracciò il tubo con entrambi le mani. Non poteva permettersi di perderlo, a nessun costo. Lo squalo era scomparso nell'oscurità. Poi riapparve, un po' discosto. Un'ombra blu. Bohrmann guardò la parete. Là c'era la grotta! L'enorme pesce martello rimaneva a una certa distanza. Al di sotto dell'isola luminosa, gli altri due squali ancora impegnati coi resti di Frost e stavano finendo al di fuori della zona illuminata. Bohrmann si chiese quando avrebbero lasciato quel corpo maciullato per avventarsi contro di lui. Un attimo dopo, smise di chiederselo. Nella penombra, lo squalo più grande aveva fatto una virata sorprendentemente veloce e stava tornando indietro. Bohrmann s'infilò nella fenditura. Era stretta. La tuta con le bombole lo ostacolava, ma riuscì a entrare, benché le sue braccia fossero strette come in una morsa. Cercò di spingersi all'interno, ma lo squalo era già su di lui. La testa del martello sbatté contro i bordi della roccia. L'animale rimbalzò all'indietro. Aveva una testa troppo larga per entrare. Nuotava in un cerchio così stretto che sembrava quasi inseguire la propria coda, poi attaccò un'altra volta. Dall'ingresso della fenditura si staccarono pezzi di lava, formando una nuvola che offuscò la visuale. Bohrmann premette ancora di più le braccia contro il corpo. Non aveva idea di quanto fosse profonda quell'apertura. Fuori, lo squalo stava infuriando contro la roccia, creando vortici di sedimenti e schegge. La nuvola circondò anche Bohrmann. La luce blu che ar-
rivava anche lì dentro sparì quasi completamente. «Dottor Bohrmann?» Era la voce di van Maarten, molto debole. «Bohrmann, per l'amor del cielo, risponda!» «Sono qui.» Van Maarten emise un rumore, forse un sospiro di sollievo. Si capiva poco in mezzo al frastuono provocato dallo squalo. Sott'acqua, il rumore era completamente diverso che in superficie, un cupo miscuglio cavernoso di tutte le possibili vibrazioni. Bohrmann cominciò a tremare e improvvisamente l'assalto cessò. Era schiacciato nella fessura, avvolto dalla nebbia di particelle. La luce dell'isola s'intravedeva appena. «Sono infilato in una fessura rocciosa», disse. «Mandiamo giù i robot», disse van Maarten. «E due uomini. Abbiamo ancora due tute.» «Se lo scordi. Il POD non funziona.» «Lo so. Abbiamo visto che cos'è successo a Frost...» A van Maarten mancò la voce. «Gli uomini verranno lo stesso, hanno arpioni con cariche esplosive e...» «Cariche esplosive? Che idea fantastica!» sibilò Bohrmann, caustico. «Frost era convinto che non vi sarebbero serviti.» «No. Certo che no.» «Il POD ha sempre funzionato...» Qualcosa colpì frontalmente Bohrmann e lo premette con forza dentro la fenditura. Ne fu talmente sorpreso che si dimenticò di gridare. Nella vaga luce torbida scorse il martello. Lo squalo si era girato su un fianco e stava colpendo l'uomo tenendo il martello in verticale. Inoltre stava cercando di entrare nella grotta. Che tipo sveglio, pensò Bohrmann, truce. Ma dovrà sudare per avermi. Riempì di botte il martello, sforzandosi di non lasciare il «cane». Vedeva indistintamente la bocca che si apriva e si chiudeva. Gli squali non potevano nuotare all'indietro. La testa spigolosa andava su e giù, ma le fauci non riuscivano a raggiungerlo. Gli occhi nella parte superiore della testa ruotavano selvaggiamente. Bohrmann sollevò il braccio con la console e lo colpì. Il martello balzò indietro. Non ce la farà a uscire da solo, pensò Bohrmann. Così cominciò a spingergli contro il Trackhound. Lo squalo non poteva essersi spinto così all'interno. Fino a che punto arrivava il controllo della gelatina? Condizionava il comportamento dell'animale, ma poteva anche far nuotare all'indietro
uno squalo? Evidentemente sì, perché lo squalo uscì dalla grotta. Era il più grande. Bohrmann attese. Qualcosa sbucò di nuovo dalla nuvola. Era un martello, e stava arrivando verso di lui. Apparteneva a uno degli animali più piccoli. La testa dello squalo sbatté contro la finestrella bombata del casco. Le mascelle si aprirono e chiusero, le file di denti graffiarono il plexiglas. Ormai l'intero campo visivo di Bohrmann era occupato da quell'animale. Cercò di spingersi ancora più all'interno e improvvisamente gli parve che le pareti sparissero. Cadde all'indietro, nel nulla. Tenebre nere come la pece. Mosse nervosamente la mano artificiale sinistra sulla console. L'interruttore per la luce del Trackhound era appena sopra i tasti per attivare i programmi. Poco prima l'aveva... Dov'era quel maledetto pulsante? Eccolo! Il proiettore si accese. Nella luce oscillante, vide che la fenditura si era aperta in una grotta spaziosa. Diresse il cono luminoso verso l'apertura e vide apparire la testa dello squalo. L'animale si agitava, ma non riusciva a entrare di più. Che cos'è successo? pensò Bohrmann. Poi capì. Lo squalo era incastrato. Sollevò il braccio e vibrò una serie di colpi sulla testa squadrata, mai poi si rese conto che non era una buona idea ferire lo squalo sino a farlo sanguinare e così lo spinse con tutto il peso del corpo. Ma sott'acqua non serviva a granché; allora Bohrmann si lanciò contro il muso che cercava di afferrarlo. Lo colpì col petto, con le spalle e le braccia, finché lo squalo non cominciò lentamente a ritirarsi. Il cono luminoso del Trackhound sussultava, illuminando la faringe rosa con le branchie pulsanti. Come uscire di qui è un problema tuo, pensò Bohrmann. Ma io voglio che tu te ne vada! Questa è la mia grotta, quindi togliti dai coglioni! «Togliti dai coglioni!» «Dottor Bohrmann?» Lo squalo continuava a ritirarsi. Poi sparì. Bohrmann arretrò. Le braccia gli tremavano. Era così teso che non riusciva a rimanere fermo. D'un tratto, si sentì esausto e cadde sulle ginoc-
chia. «Dottor Bohrmann?» «Non rompa, van Maarten.» Tossì. «Faccia qualcosa per tirarmi fuori di qui.» «Mandiamo giù immediatamente i robot con gli uomini.» «Perché i robot?» «Portiamo giù tutto quello che può spaventare e far fuggire gli animali.» «Quelli non sono animali, sono soltanto involucri di animali. Sanno che cos'è un robot. Sanno perfettamente che cosa facciamo qui.» «Gli squali?» Eridentemente Frost non aveva raccontato tutto a van Maarten. «Sì, gli squali. Non sono più squali, esattamente come le balene non sono più balene. Qualcosa li controlla. Gli uomini devono essere preparati.» Tossì un'altra volta, più violentemente. «In questa maledetta grotta non vedo niente. Che succede là fuori?» Van Maarten rimase un attimo in silenzio. Poi sussurrò: «Mio Dio...» «Ehi! Parli con me.» «Sono comparsi altri animali. A decine... A centinaia! Stanno distruggendo i proiettori dell'isola luminosa. Frantumano tutto.» Ovvio, pensò Bohrmann. Sono qui proprio per questo motivo, per impedirci di aspirare i vermi. Si tratta solo di questo. «Allora se lo scordi.» «Come?» «Si scordi il salvataggio, van Maarten.» Nel suo casco c'era un tale fruscio che van Maarten dovette ripetere la risposta. «Ma gli uomini sono pronti.» «Dica loro che qui sotto li aspettano delle forme di vita intelligente. Questi squali sono intelligenti. La sostanza nelle loro teste è intelligente. Due sommozzatori e un po' di lamiera non bastano. Pensi a qualcos'altro. Io ho ossigeno per quasi due giorni.» Van Maarten esitò. «Va bene. Valutiamo la faccenda. Forse nelle prossime ore gli animali si ritireranno. Crede di essere al sicuro nella grotta?» «E che ne so? Con squali normali sarei al sicuro, ma l'ingegno dei nostri amici non conosce limiti.» «La tireremo fuori prima che finisca l'ossigeno, Gerhard!» «La prego con tutto il cuore di farlo.» Nella grotta arrivò un po' più di luce. La corrente lungo lo zoccolo del vulcano portava con sé le particelle di sedimenti. Se quello che van Maarten aveva detto era vero, ben presto la luce sarebbe sparita completamente
e lui si sarebbe trovato solo nel mare tenebroso. Finché non fosse arrivato qualcuno a salvarlo da un centinaio di pesci martello. Dotati di un'intelligenza sconosciuta. Nessuno squalo che avesse seguito il proprio istinto naturale sarebbe entrato nel campo elettrico. Nessun pesce martello avrebbe attaccato due sommozzatori nell'Exosuit, ma, in caso l'avesse fatto, avrebbe rinunciato subito. I pesci martello erano considerati potenzialmente pericolosi e di una curiosità snervante, ma in genere giravano al largo da tutto ciò che sembrava loro sospetto. Normalmente non nuotavano neppure nelle fenditure delle rocce. Bohrmann se ne stava accovacciato nella sua grotta, provvisto di ossigeno per altre venti ore e con un sistema antisqualo che non funzionava. Quando gli uomini di van Maarten fossero scesi, sperava di non assistere a un'altra carneficina. Una carneficina nelle tenebre. Spense il proiettore del Trackhound per risparmiare la batteria e fu immediatamente avvolto dall'oscurità. Una debole luce penetrava nella fenditura. Una luce sempre più debole. Independence, mar di Groenlandia Johanson non trovava pace. Era stato nel ponte a pozzo, dove, sotto la sorveglianza di Rubin, gli uomini del generale Li stavano provvedendo al trasferimento della massa gelatinosa nel simulatore. La cisterna era stata completamente svuotata e decontaminata. I granchi infettati dalla Pfiesteria erano stati messi nell'azoto liquido. Le misure di sicurezza erano strettissime. Non appena la massa era arrivata nella cisterna, Sigur Johanson e Sue Oliviera erano giunti lì per effettuare i test di fase. Discussero un po' e infine stabilirono la sequenza dei test, mentre Samantha Crowe e Murray Shankar s'impegnarono a decifrare il secondo segnale scratch. «L'orrore è indescrivibile», aveva detto Judith Li nel corso di una riunione improvvisata. «Siamo tutti profondamente colpiti. Hanno cercato di demoralizzarci, di distruggerci. Ma noi non ci dobbiamo fermare. Di certo vi chiederete se questa nave è ancora sicura e io posso rispondervi: assolutamente sì! Finché non diamo al nemico la possibilità di entrare, a bordo dell'Independence non abbiamo nulla da temere. Tuttavia dobbiamo fare in
fretta. E non possiamo permetterci d'interrompere i contatti. Soprattutto ora. Dobbiamo convincerli a fermare questi atti terroristici contro l'umanità!» Johanson andò sul ponte di volo, dove il servizio di bordo era impegnato a sgombrare tavoli, sedie e tutto ciò che era rimasto dopo la brusca interruzione del party. Nel cielo c'era ancora il sole, il mare aveva il solito aspetto. Non c'erano luci blu, non c'erano lampi. Nessun sogno luminoso che si trasformava in un incubo. Tentò di ricostruire l'andamento dei suoi pensieri, interrotto dall'arrivo di Judith Li e dai tentativi della donna d'interrogarlo sulla sua avventura notturna. Ormai aveva capito due cose. Judith Li sapeva che cos'era successo realmente. Però non era sicura di cosa effettivamente lui ricordasse e se stesse dicendo la verità. E quello la preoccupava. Gli avevano mentito. Non era caduto. Era stato sul punto di accettare quella versione. Poi Sue, mentre entravano nel laboratorio, gli aveva detto una cosa: la notte precedente, a lui era sembrato di aver visto Rubin entrare in una porta segreta nel ponte dell'hangar. Se lei non avesse fatto quel commento, Johanson non se ne sarebbe ricordato affatto e avrebbe accettato le spiegazioni sull'incidente date da Angeli e dagli altri. Invece la frase di Sue aveva messo in moto qualcosa e il cervello di Johanson stava iniziando a riprogrammarsi. C'erano immagini misteriose che andavano e venivano. Cercò di riflettere, fissando il mare. Poi, d'un tratto, rivide tutto: stava seduto con Sue sulla cassa, a bere del vino e... Rubin era entrato nella porta dell'hangar! Quella porta era lontana, ma un'altra immagine gli suggeriva che lui era vicinissimo. Per Johanson ciò costituiva una prova sufficiente a stabilire l'esistenza di quel passaggio segreto. Ma cos'era successo in seguito? Erano andati in laboratorio. Poi lui era tornato sul ponte dell'hangar. Perché? Aveva a che fare con quella porta? Oppure stava immaginando tutto? Forse sei diventato un vecchio pazzo senza neppure accorgertene, pensò. Sarebbe stato davvero penoso. Poteva forse andare da Judith Li e costringerla a parlare soltanto per poi scoprire che era lui a non avere tutte le rotelle a posto? Una prospettiva tutt'altro che esaltante. Mentre se ne stava lì a rimuginare, il destino gli tese una mano. Gli mandò Karen Weaver. Johanson fu contento di vedere la figurina muscolosa che veniva verso di lui sul ponte. Nell'ultimo periodo non avevano po-
tuto parlare molto. Si erano intesi fin dall'inizio, ma lui in breve tempo aveva preso atto che lei non rappresentava un sostituto di Tina. Quell'intesa non aveva portato a un legame profondo, né allo Château né sull'Independence. Forse Johanson, attraverso di lei, aveva sperato di porre almeno in parte rimedio a quello che era capitato a Tina Lund, ma ormai le cose erano cambiate. Johanson non era più così sicuro di essere responsabile di quanto era successo e non era neppure sicuro che tra lui e Karen potesse instaurarsi quella confidenza che lui aveva condiviso con Tina. Da un po' di tempo, aveva l'impressione che stesse nascendo qualcosa tra lei e Anawak, e in effetti i due sembravano fatti l'uno per l'altra. Quindi non ci sarebbe stata confidenza. Ma ci sarebbe stata fiducia. Una cosa completamente diversa. Dare fiducia a Karen poteva portare solo vantaggi. Era troppo obiettiva per cercare sottintesi romantici in un avvenimento misterioso. Lo avrebbe ascoltato, facendogli poi capire chiaramente se gli credeva o se lo considerava un pazzo. Le raccontò in breve quello che ricordava, la confusione che aveva in testa, su quali punti lui stesso era diffidente e che cosa aveva provato durante il breve interrogatorio di Judith Li. Dopo averci riflettuto per un po', Karen disse: «Sei tornato a controllare?» Johanson scosse la testa. «Non ne ho ancora avuto l'occasione.» «Volendo, ne avresti avute un sacco. Non vuoi andare a controllare perché temi di non trovare niente.» «Probabilmente hai ragione.» Lei annuì. «Bene. Allora andiamo insieme.» Aveva colto nel segno. A ogni passo, Johanson sentiva crescere la paura e l'insicurezza. Che cosa sarebbe successo se non avessero trovato nulla? Ormai era praticamente certo che laggiù non avrebbero trovato nessuna porta e quindi avrebbe dovuto abituarsi all'idea di essere andato fuori di testa. Aveva cinquantasei anni, era un bell'uomo, cui si riconoscevano intelligenza, una certa carica erotica, un discreto fascino e un elevato numero di successi con le donne. Evidentemente era diventato un vecchio decrepito. Accadde quello che temeva. Percorsero diverse volte la parete senza trovare nulla che potesse far pensare a un passaggio. Karen lo guardò. «Va bene», mormorò Johanson.
«Non c'è problema», disse Karen. Ma, subito dopo, con sua grande sorpresa, aggiunse: «La parete è rivettata, lungo le saldature corrono ovunque delle tubature. Ci sono migliaia di possibilità per costruire una porta invisibile. Cerca di ricordare esattamente dove l'hai vista.» «Mi credi?» «Ti conosco a sufficienza, Sigur. Non sei un pazzo. Non bevi come una spugna e non prendi droghe. Sei un buongustaio, e i buongustai hanno occhio per dettagli invisibili agli altri. Io sono più un tipo da fish'n' chips. Probabilmente non vedrei quella porta nemmeno se si spalancasse davanti al mio naso, perché non concepirei neppure l'idea che una parete del genere possa ruotare su se stessa. Non so che cos'hai visto, però... ti credo.» Johanson sorrise. E, dopo aver stampato un bacio sulla guancia di Karen, scese la rampa verso il laboratorio, decisamente sollevato. Laboratorio Rubin era sempre molto pallido e, quando parlava, sembrava gracchiare come un pappagallo. In effetti, per poco non ci aveva rimesso la pelle. Greywolf era stato a un passo dallo spedirlo nell'aldilà. Ma il biologo si era mostrato comprensivo. Sorrideva in modo così tirato che a Johanson faceva venire in mente l'infermiera Ratched di Qualcuno volò sul nido del cuculo, dopo che Jack Nicholson le aveva stretto le mani alla gola. Quando guardava a destra o a sinistra girava anche la parte superiore del corpo, descriveva a tutti le sue pietose condizioni fisiche e sosteneva che Greywolf non era malvagio. «Stavano insieme, vero?» gorgogliava. «Per lui deve essere stato terribile. E sono stato io a voler aprire la paratia. Certo, non doveva aggredirmi, ma lo capisco.» Sue faceva scorrere lo sguardo da lui a Johanson e teneva la bocca chiusa, cosa piuttosto insolita per lei. Nella cisterna galleggiavano grandi frammenti della massa gelatinosa. Avevano ricominciato a splendere. Al momento, quello che interessava maggiormente i tre biologi non era tanto la gelatina, quanto la nuvola. Oltre alle due tonnellate e mezzo di sostanza che gli uomini di Judith Li avevano portato nel simulatore, c'erano anche grandi quantità di materiale sciolto. Tra i microrganismi e i grumi di sostanza in sospensione si muoveva un robot dotato di sensori sensibilissimi, che analizzava la composizione chimica dell'acqua e mandava i dati sul monitor della console di comando. La parte esterna del robot era corredata di tubi che, premendo un
pulsante, si potevano far uscire, aprire, chiudere e far rientrare. Era grande come lo Spherobot, estremamente robusto e maneggevole. Johanson era seduto alla console con un piglio da comandante di navicella spaziale ed era in attesa, con le mani sui joystick. L'illuminazione della cisterna e del laboratorio era stata ridotta al minimo per poter osservare meglio gli avvenimenti. Gli scienziati erano dunque stati testimoni di come la massa si fosse progressivamente ripresa. I frammenti di gelatina splendevano intensamente e diffondevano all'interno del simulatore una pulsante luce blu. «Credo che ci siamo», mormorò Sue. «Si riforma.» Johanson guidò il robot sotto uno dei frammenti, aprì una provetta per i campioni e la infilò nella massa. Il bordo della provetta era affilato come un rasoio. Staccò un po' di gelatina, si richiuse da sola e rientrò. Il frammento non reagì a quella puntura. Si stava deformando, avvolto in una nuvola blu. Johanson attese qualche istante, poi ripeté la procedura in altri punti. Nel grumo di gelatina scintillavano luci minuscole. Il grumo aveva le dimensioni di una focena adulta o di un delfino. Più Johanson procedeva nel riempire le provette, più si rendeva conto che quel paragone era esatto. Le dimensioni di un delfino. No, di più. La forma di un delfino. Nello stesso istante, Sue disse: «Incredibile. Sembra un delfino». Johanson quasi si dimenticò di guidare il robot. Osservava affascinato gli altri frammenti che cambiavano forma. Alcuni ricordavano gli squali, altri sembravano calamari. «Com'è possibile?» rantolò Rubin. «Programmazione», spiegò Johanson. «Non può che essere così.» «Ma come fanno a sapere come si fa?» «Lo sanno e basta. Hanno imparato.» «In che modo?» «Se sono in grado d'imitare forme e successioni di movimenti, devono essere maestri del travestimento. Che ne pensa?» chiese Sue. «Non lo so.» Johanson era scettico. «Non so se ciò che stiamo vedendo abbia come scopo quello di mimetizzarsi. Ho piuttosto la sensazione che stiano... ricordando.» «Ricordando?» «Lo sa cosa succede quando pensiamo, no? Determinati neuroni si accendono all'improvviso, si raggruppano e creano collegamenti. Creano una decorazione. Il nostro cervello non può cambiare forma, ma in un certo
senso le decorazioni neurali creano una forma. Se s'impara a leggerle, si possono riconoscere i pensieri.» «Crede che stiano pensando a un delfino?» «Quello non somiglia a un delfino», disse Rubin. «E invece sì, è...» Johanson sobbalzò. Rubin aveva ragione. La forma era cambiata ancora. Adesso somigliava a una specie di razza, che risaliva nella cisterna muovendo lentamente le ah. Dalla punta delle ali uscivano fili sottili che studiavano l'ambiente. «Guardate!» La razza si trasformò in qualcosa di serpeggiante e la massa fuggì in tutte le direzioni. Sembravano migliaia di pesci minuscoli, con movimenti sincronizzati. Poi si riunirono. L'immagine cambiava sempre più velocemente il proprio aspetto, come se scorresse un programma. Nel giro di pochi secondi si trasformava in forme note o sconosciute. Tutti i frammenti di gelatina erano coinvolti dal fenomeno. Si gettavano l'uno sopra l'altro. Saettavano i soliti lampi e, per un terribile e sgradevole momento, Johanson pensò di riconoscere nel rapidissimo cambio di forme una figura umana. Materia e brandelli di nubi... Tutto vorticava. «Si fonde!» gemette Rubin. Guardava con occhi luccicanti il monitor davanti a lui, su cui scorrevano i dati. «L'acqua è satura di una nuova sostanza, un composto chimico!» Johanson virò col robot attraverso quell'universo mutante, continuando a raccogliere campioni. Era come un rally. Quanti sarebbe riuscito a raccoglierne? Quando sarebbe stato consigliabile fare marcia indietro? Sembrava che la massa si fosse completamente ripresa. Si era formato un centro. Tutto collassava su se stesso. Quello che era già successo in piccolo, ora si ripeteva in grande scala. Singole cellule che si riunivano a formare un essere unico. Un organismo senza occhi visibili, senza orecchie e organi di senso, senza cuore, cervello e viscere, un grumo omogeneo che però era in grado di attuare processi complessi. Si stava formando qualcosa di gigantesco. Una buona metà di quanto era penetrato nel ponte a pozzo era stata rimandata in mare dalle pompe, ma quello che era rimasto aveva pur sempre le dimensioni di un furgone. Attraverso la finestra ovale del simulatore videro la gelatina raggrumarsi e diventare più solida. Johanson portò il robot al bordo della fusione, dove c'erano nuvole blu che tendevano verso il centro. Tre delle provette non avevano ancora raccolto campioni. Le fece uscire e tentò d'infilarsi nuo-
vamente nella massa. L'essere si ritirò subito, producendo decine di tentacoli che afferrarono il robot. Johanson perse il controllo della macchina. Il robot, immobile, era preda dei tentacoli dell'essere, che scendeva lentamente verso il fondo della cisterna e intanto stava generando una sorta di piede appiccicoso. Improvvisamente ricordò un fungo enorme con una corona di braccia flessibili. «Maledizione», imprecò Sue. «È stato troppo lento.» Le dita di Rubin correvano sulla tastiera del computer. «Ho una gran quantità di dati», spiegò. «Un'ebbrezza molecolare. Quella sostanza usa davvero un feromone! Allora avevo ragione.» «Anawak e Karen avevano ragione», lo corresse Sue. «Ovvio, volevo dire...» «Avevamo tutti ragione.» «Era quello che volevo dire.» «È qualcosa che conosciamo, Mick?» chiese Johanson senza distogliere lo sguardo dal monitor. Rubin scosse la testa. «Non ne ho idea. Gli ingredienti sono noti. Ma sulla ricetta non posso dire niente. Abbiamo bisogno dei campioni.» La parte superiore dell'essere formò una spessa matassa, che si ramificò in fili sottili. Poi la matassa si piegò verso il robot. I fili tastavano la macchina e i contenitori dei campioni. Tutto lasciava pensare a un esame sistematico e ponderato. «Vedo bene?» Sue si piegò in avanti. «Vuole aprire le provette?» «Non sono così facili da aprire.» Johanson cercò di riprendere il controllo del robot. I tentacoli che lo serravano reagirono, stringendolo ancora di più. «Evidentemente si è innamorato», sospirò. «Va bene. Aspettiamo.» I fili proseguirono il loro esame. «Può vedere il robot?» chiese Rubin. «Con che cosa?» Sue scosse la testa. «Può cambiare la forma, ma non credo possa formare degli occhi.» «Forse non gli servono neanche», commentò Johanson. «Lui comprende il suo mondo.» Infine la massa lasciò libero il robot. Tutti i fili e i tentacoli rientrarono nella grande struttura, sparendo. L'organismo si appiattì fino a coprire completamente il fondo della cisterna con un strato sottile. «Dunque sa fare anche il pavimento galleggiante», scherzò Sue. «Arrivederci», disse Johanson e riportò il robot nel garage.
Combat Information Center «Che ci state dicendo?» Samantha Crowe appoggiò il mento alle mani. Tra l'indice e il medio della mano destra bruciava l'immancabile sigaretta, ma stavolta si consumava senza essere stata quasi fumata. Samantha non aveva tempo di aspirare. Insieme con Murray Shankar, stava cercando di capire il messaggio mandato dagli yrr. Un messaggio accompagnato da un attacco. Dopo che il computer aveva decifrato il primo messaggio, comprendere il secondo era stato più facile. Come nel primo, gli yrr avevano risposto con un codice binario. Non era ancora chiaro se i dati formassero un'immagine. Per ora, sembrava avere senso soltanto una informazione. Un dato che, sullo sfondo dell'orizzonte di attese generate da un'intelligenza aliena, appariva quantomeno ridicola. Era la rappresentazione di una molecola, una formula chimica. H2O. «Molto originale», commentò Shankar, acido. «Che vivono nell'acqua lo sapevamo da un pezzo.» Tuttavia gli yrr avevano accoppiato altri dati alla formula dell'acqua. Il computer lavorava a pieno ritmo e, nella testa di Samantha, cominciava a farsi strada il modo in cui interpretare quei dati. «Forse si tratta di una carta geografica», disse. «Cosa intendi? Una carta del fondale marino?» «No. Questo vorrebbe dire che vivono sul fondale. Se il nostro amico nel simulatore fa parte di quell'intelligenza sconosciuta, il suo ambiente vitale può essere solo il mare aperto. Gli abissi marini sono il suo universo, quello attraverso il quale si muove. Omogeneo e uguale in ogni direzione.» Shankar rifletté. «E sia», ammise. «Allora mettiamolo sotto il microscopio ed esaminiamo la sua composizione. Sostanze minerali, acidi, basi e così via.» «Che non sono uguali ovunque», confermò Samantha. «La prima volta hanno mandato un'immagine coi risultati delle due verifiche matematiche. Questo è decisamente più complicato. Ma se abbiamo ragione, anche queste varianti saranno limitate. Non posso giurarlo, però credo che ci abbiano mandato un'altra immagine.» Joint Intelligence Center
Karen trovò Anawak seduto al computer. Sullo schermo vorticavano unicellulari virtuali, ma lei ebbe l'impressione che Anawak non li stesse guardando. «Mi dispiace per quello che è successo alla tua amica», disse sottovoce. Anawak guardò il soffitto. «Sai qual è la cosa strana?» La sua voce sembrava impastata. «Che la sua morte mi colpisce da vicino. La morte non mi ha mai particolarmente impressionato. L'ultima volta che ho pianto è stato quand'è morta mia madre. Mio padre è morto e l'orrore di non riuscire a dispiacermene mi fa star male. Tu conosci fin troppo bene la storia... Ma Alicia? Mio Dio. Non ho mai riflettuto seriamente su di lei. Era una studentessa che per lungo tempo mi ha dato sui nervi. Poi ho imparato ad apprezzarla.» Karen esitò, poi timidamente gli tocco la spalla. Le dita di Anawak le sfiorarono la mano. «Il tuo programma funziona benissimo», disse lui. «Questo vuol dire che i biologi in laboratorio dovranno cambiare tutto e verificarlo.» «Sì. Il problema sta proprio qui. Rimane un'ipotesi.» Avevano provvisto gli unicellulari virtuali di un DNA capace di apprendere e in grado di mutarsi continuamente. Secondo questo modello, ogni singola cellula era una sorta di piccolo computer autonomo, che riscriveva costantemente il proprio programma. Ogni nuova informazione cambiava la struttura del genoma. Se una determinata parte delle cellule faceva un'esperienza, l'esperienza cambiava la struttura genetica. Poi, quando le cellule si fondevano con le altre, trasmettevano le nuove informazioni e il DNA delle altre si modificava. In tal modo, l'insieme apprendeva di continuo e la fusione provocava anche una distribuzione delle informazioni. Ogni nuova conoscenza della singola cellula arricchiva l'esperienza collettiva. Quell'idea era rivoluzionaria, perché significava che il sapere era ereditario. Anawak ne aveva parlato con Sue Oliviera, Sigur Johanson e Mick Rubin, e gli scienziati erano rimasti sconcertati. Da una parte, l'idea era stata accettata con entusiasmo. Dall'altra, c'era un inconveniente. Sala di controllo «Se il DNA muta, si arriva a un cambiamento delle informazioni geneti-
che», spiegò Rubin. «E una cosa del genere sarebbe problematica in tutti gli esseri viventi.» Nel bel mezzo dell'analisi, si era allontanato dal laboratorio, dicendo che gli era tornata l'emicrania. Invece era seduto nella sala di controllo segreta con Judith Li, Peak e Vanderbilt. Stavano scorrendo i verbali delle intercettazioni. Naturalmente in quella sala sapevano tutti del programma di Karen e di Anawak, e anche della loro teoria. Tranne Rubin, però, nessuno riusciva a capirci qualcosa. «Un organismo ha la necessità che il proprio DNA resti intatto», stava dicendo Rubin. «In caso contrario, si ammala, oppure si ammalano i suoi discendenti. Per esempio, l'esposizione alla radioattività provoca danni irreparabili nel DNA, col risultato che nascono individui mutanti o si sviluppa il cancro.» «Ma come la mettiamo con l'evoluzione?» chiese Vanderbilt. «Se noi ci siamo sviluppati da scimmie in esseri umani, vuol dire che il DNA deve essere cambiato.» «Giusto, ma l'evoluzione avviene in tempi molto lunghi. E sceglie sempre quelli che mostrano un adattamento ottimale alle circostanze. Non si parla mai degli insuccessi evolutivi, tuttavia la natura elimina parecchie mutazioni. Fra la trasformazione genetica radicale e l'eliminazione, però, c'è la riparazione. Pensate all'abbronzatura. La luce del sole trasforma le cellule degli strati superficiali della pelle e ciò porta a mutazioni del DNA. Diventiamo scuri... anzi, se non stiamo attenti, diventiamo rossi e ci scottiamo. In questo caso, il corpo elimina le cellule distrutte. Negli altri casi le ripara. Se non ci fossero queste riparazioni, non potremmo vivere. A ogni piccola mutazione ci scorticheremmo, le ferite non guarirebbero e non si potrebbe sconfiggere nessuna malattia.» «Capisco», disse Judith Li. «Ma cosa accade con gli organismi unicellulari?» «Se il loro DNA muta, devono ripararlo. Guardi, le cellule si riproducono per scissione. Se il loro DNA non venisse riparato, nessuna specie resterebbe stabile. Bisogna tenere presente che la natura ha sempre l'interesse a mantenere le mutazioni di qualunque cellula a un livello tollerabile. Però ora c'è l'inconveniente della teoria di Anawak. Un genoma viene sempre riparato globalmente, in tutta la sua lunghezza. Dovete immaginare gli enzimi addetti alla riparazione come poliziotti che pattugliano tutto il DNA, attenti a scovare eventuali errori. Non appena trovano un punto danneggiato, iniziano la riparazione. Così le informazioni, quale che
sia la condizione originaria, si conservano. Gli enzimi riparatori sono, per così dire, i protettori del sapere del genoma. Durante i loro giri di controllo, si accorgono subito che qui c'è un gene nelle condizioni originali e lì ce n'è uno sbagliato. È come se un bambino volesse imparare in segreto una lingua. Non appena impara una parola, arrivano gli enzimi riparatori e riprogrammano il cervello alle condizioni originarie, quindi all'ignoranza. Una conoscenza non è concessa.» «Quindi la teoria di Anawak non ha senso», constatò Judith Li. «Le mutazioni nel DNA dell'essere unicellulare non si dovrebbero conservare.» «Da un certo punto di vista è così. Gli enzimi riparatori percepirebbero ogni nuova informazione come un danno, quindi riporterebbero il genoma alle condizioni originali. Al punto zero, per così dire.» «Presumo che adesso arriverà l'altro punto di vista», borbottò Vanderbilt. Rubin annuì, esitante. «In effetti c'è», disse. «E sarebbe?» «Non ne ho idea.» «Un momento», esclamò Peak. Si sollevò sulla sedia, ma crollò subito. Aveva il piede fasciato e sembrava davvero malconcio. «Non ha appena detto...» «Lo so! Ma la teoria è semplicemente fantastica», dichiarò Rubin con voce sempre più stridula. Ogni volta che parlava a lungo, si facevano sentire le conseguenze della stretta alla gola di Greywolf. «Spiegherebbe tutto. Intanto avremmo la consapevolezza che quella cosa nella cisterna è effettivamente il nostro nemico. Avremmo gli yrr sotto gli occhi. E io sono sicuro che sono loro! Stamattina siamo stati testimoni di avvenimenti eccezionali. Quella cosa ha esaminato un robot subacqueo, e il modo in cui l'ha fatto non aveva nulla a che vedere con un comportamento istintivo o con la curiosità animale. Era pura intelligenza cognitiva! La spiegazione di Anawak deve essere giusta. Il modello al computer fatto da Karen Weaver funziona.» «E ne consegue...» sospirò Vanderbilt, asciugandosi la fronte sudata. «Che la possibilità dipende dall'anomalia.» Rubin spalancò le braccia. «Anche gli enzimi riparatori commettono errori. Raramente, è vero, ma ogni diecimila riparazioni ne saltano una. Una coppia di basi che non è riportata nelle condizioni originali. È poco, ma basta perché qualcuno venga al mondo come emofiliaco, col cancro o con la faringe aperta. Noi ci vediamo dei difetti, ma è la prova che il principio di riparazione non ha valo-
re assoluto.» Judith Li si alzò e prese a misurare a passi lenti la sala. «Quindi lei è convinto che gli esseri unicellulari e gli yrr siano la stessa cosa? Abbiamo trovato i nostri nemici?» «Ci sono due limitazioni», disse rapidamente Rubin. «Primo, dobbiamo risolvere il problema del DNA. Secondo, ci deve essere qualcosa di simile a una regina. Il collettivo può essere intelligente quanto vuole, ma quello che abbiamo nella cisterna è solo la parte esecutiva del tutto.» «Una regina? Come dobbiamo immaginarla?» «Identica e nel contempo diversa. Prenda le formiche. Anche la regina è una formica, ma particolare. Dipende tutto da lei. Gli yrr sono esseri che vivono in colonia, un insieme di microrganismi. Se Anawak ha ragione, incarnano una seconda via nell'evoluzione verso una vita intelligente, però qualcosa li deve guidare.» «Quindi se troviamo la regina...» iniziò Peak. «No.» Rubin scosse la testa. «Non facciamoci illusioni. Potrebbe essercene più di una. Potrebbero essere milioni. E, se sono furbe, non si faranno vedere nei nostri paraggi.» Fece una pausa. «Tuttavia, per essere regine, devono funzionare secondo gli stessi princìpi dei normali yrr. La fusione e la memoria genetica. Siamo sul punto d'identificare una sostanza odorosa che le cellule emettono come segnale per la fusione. Un feromone, sulle cui tracce sono Sue Oliviera e Sigur Johanson. Attraverso questo feromone, questo odore, è garantito che tra le cellule si fonde anche la regina. L'odore è la chiave della comunicazione tra gli yrr.» Rubin rise, soddisfatto di sé. «E potrebbe essere la chiave per la soluzione di tutti i nostri problemi.» «Bene, Mick.» Vanderbilt gli fece un magnanimo cenno di assenso. «È tornato nelle nostre grazie. Anche se nel ponte a pozzo ha combinato un bel casino.» «Non potevo farci niente», replicò Rubin, dispiaciuto. «Lei è della CIA, Mick. Nel mio gruppo, una frase del genere non esiste. Ci siamo forse dimenticati di dirglielo quando l'abbiamo presa con noi?» «No.» Vanderbilt infilò goffamente il fazzoletto nei pantaloni. «Sono contento di sentirlo. Tra poco, Jude parlerà col presidente. Così potrà dirgli che bravo ragazzo è lei. Grazie per la sua visita. E ora torni nelle miniere di sale!» Sala riunioni
Samantha Crowe e Murray Shankar sembravano molto meno sicuri rispetto al momento della decifrazione del primo segnale. La squadra era tesa e demoralizzata, non solo per i terribili avvenimenti del ponte a pozzo. Ormai diventava sempre più evidente che nessuno era in grado di comprendere gli schemi di comportamento degli yrr. «Perché ci mandano dei messaggi e contemporaneamente ci attaccano?» chiese Peak. «Nessun essere umano farebbe una cosa simile.» «Non stiamo parlando di uomini», intervenne Shankar. «Vorrei tanto capirli.» «Le ribadisco che non li capirà se segue i princìpi della logica umana», replicò Samantha. «Forse il primo messaggio è stato un avvertimento: 'Sappiamo dove siete'. Comunque sia, è questo che ci hanno risposto.» «Potrebbe essere una manovra diversiva», propose Sue. «E a cosa sarebbe servito il diversivo?» domandò Anawak. «A distrarci.» «Da cosa? Da quello che hanno messo in scena poco dopo?» «Non è un'ipotesi poi così assurda», intervenne Johanson. «Una cosa sono riusciti a ottenerla: ci hanno fatto credere di essere interessati alla comunicazione. Sal ha ragione, nessun essere umano si comporterebbe così. Forse loro lo sanno. Ci hanno illuso. Si sono mostrati in tutto il loro splendore e noi, che aspettavamo l'apparizione cosmica, ci siamo presi un bel calcio nei denti.» «Forse avrebbe dovuto mandare negli abissi qualcosa di diverso dagli esercizi matematici», disse Vanderbilt a Samantha. Per la prima volta da quando Anawak la conosceva, lei sembrò perdere la calma. Fulminò con lo sguardo il vicedirettore della CIA. «Ha un'idea migliore, Jack?» «Non è compito mio avere idee migliori, ma suo», sbottò Vanderbilt, pronto all'attacco. «La comunicazione con quelli è responsabilità sua.» «Con chi? Lei continua a credere che dietro questa storia si nasconda qualche mullah, vero?» «Se lei manda messaggi che servono soltanto a rivelare la nostra posizione, questo è un problema che deve risolvere lei. Nel suo stupidissimo impulso a onde sonore ha spedito informazioni dettagliate sull'umanità. Ha mandato loro un invito ad attaccarci!» «Per poter parlare con qualcuno, prima bisogna conoscerlo», ribatté Samantha, acida. «È così stupido da non capirlo? Io volevo sapere chi erano,
così ho raccontato loro qualcosa su di noi.» «I suoi messaggi ci portano in un vicolo cieco...» «Mio Dio, abbiamo appena iniziato!» «... proprio com'è un vicolo cieco quella montatura del SETI. Appena iniziato? Auguri. Quanta gente dovrà morire prima che lei riesca a ingranare?» «Jack!» esclamò Judith Li. «Questo stupido programma di contatto...» «Jack, la pianti! Voglio risultati, non litigi. Allora: c'è qualcuno, in questa sala, che ha un risultato?» «Noi», rispose Samantha, burbera. «Il nocciolo del secondo messaggio è una formula: acqua, H2O. Per quanto riguarda il resto, lo scopriremo, ammesso che nessuno ci stia col fiato sul collo!» «Anche noi abbiamo fatto un passo avanti», intervenne Karen. «E noi pure!» interloquì Rubin. «Noi abbiamo fatto un grande passo avanti, grazie... ehm... alla fattiva collaborazione di Sigur e Sue.» Fu costretto a tossire. La sua voce non si era ancora rimessa in. sesto. «Forse vuoi fare tu la relazione, Sue?» «Non fare tante scene», gli sibilò lei, sottovoce. Poi, a voce alta, disse: «Abbiamo estratto una sostanza odorosa che porta le cellule alla fusione. Dobbiamo ringraziare Sigur, che è riuscito a districarsi nella faticosissima lotta con le mostruose analisi di fase e dei campioni». Mise un contenitore trasparente sigillato sul tavolo, pieno per metà di un liquido chiaro come l'acqua. «La sostanza odorosa è qui dentro. L'abbiamo decodificata e la possiamo riprodurre. La ricetta è sorprendentemente semplice. Al momento non sappiamo al cento per cento come restino in contatto quegli esseri laggiù, e neppure chi o che cosa avvii la fusione. Ma, ammesso che ci sia qualcosa a dare l'impulso - per semplicità chiamiamola 'la regina' - rimaneva da risolvere il problema di come si riuniscano miliardi di unicellulari dispersi ovunque e oltretutto privi di occhi e orecchie. Il feromone serve proprio a questo. In sé, l'odore non è particolarmente adatto alla comunicazione sott'acqua, ma un richiamo feromonico funziona benissimo sulle brevi distanze. E, a quanto pare, la comunicazione feromonica delle cellule si limita a questa sostanza odorosa. Non c'è un vocabolario, ma un'unica parola: fusione! E non è neppure chiaro come comunichino tra loro le cellule fuse. È però certo che usano una qualche forma di scambio. Non diversamente da come accade in un computer neurale o in un cervello, ogni unità ha sempre
bisogno di messaggeri. In biologia si chiamano ligandi. Quando una cellula vuole comunicare qualcosa, non va a far visita alle altre: manda un messaggio che viene trasportato dai ligandi alle altre cellule. Che a loro volta, come in ogni casa, hanno bisogno di una porta e di un campanello... di un recettore, in termini scientifici. Il ligando suona, il messaggio sonoro si diffonde come una cascata d'impulsi all'interno della cellula e fornisce al genoma le nuove informazioni.» Fece una pausa, quindi riprese: «A quanto pare, i microrganismi nella cisterna comunicano attraverso ligandi e recettori. Naturalmente l'immagine delle cellule che hanno la porta e di messaggeri gentili che arrivano e suonano è un po' falsata. Ogni cellula emette una nube di molecole odorose e non ha un unico recettore, bensì duecentomila. Con quelli riceve i feromoni e si aggancia all'insieme. Duecentomila campanelli suonati per scambiare informazioni con le cellule vicine sono già qualcosa. Il processo di fusione si svolge come una sorta di staffetta: una cellula riceve il feromone dall'insieme e si aggancia alla cellula vicina. Nel momento dell'aggancio, lei stessa produce dei feromoni che raggiungono le cellule nelle vicinanze, e così via. Il processo si svolge dall'interno verso l'esterno. Per capirlo meglio, anticipiamo la dimostrazione e ammettiamo che le cellule da noi esaminate siano effettivamente i nostri nemici. Perciò, con una certa sicurezza, possiamo chiamarle yrr». Unì la punta delle dita. «Abbiamo notato immediatamente che le cellule non dispongono solo di recettori, ma di coppie di recettori. Ci siamo spaccati la testa per capire come mai, ma poi ci siamo arrivati. Sono la garanzia che l'insieme non si ammali. Perciò abbiamo definito i recettori in base alla loro funzione. Il recettore universale riconosce: 'Io sono un yrr'. Il recettore speciale dice: 'Io sono un yrr sano, con tutte le funzioni, col DNA intatto e adatto a unirmi col collettivo per la grande festa'.» «Una cosa del genere non potrebbe avvenire con un solo recettore?» chiese Shankar, aggrottando la fronte. «No. Probabilmente no.» Sue rifletté. «È un sistema ben meditato. Secondo il nostro modello, dobbiamo immaginare ogni cellula degli yrr come un accampamento militare, circondato da un muro di cinta. Se un soldato si avvicina dall'esterno, si riconosce da un segno universale: l'uniforme. Quella dice ai soldati nel campo: 'Sono uno di voi'. Ma noi abbiamo visto abbastanza film di guerra con Michael Caine da sapere che, sotto un'uniforme, si potrebbe nascondere un traditore; inoltre, se uno riesce a entrare, va a finire che spara nel mucchio. Per questo Michael Caine deve presentarsi con un segno di riconoscimento supplementare. Deve conoscere una
parola d'ordine. Mi sono espressa in termini carretti dal punto di vista militare, Sal?» Peak annuì. «Perfettamente.» «Adesso sono più tranquilla. Allora, quando due yrr si uniscono, accade questo: lo yrr già fuso con l'insieme produce una molecola odorosa, un feromone. Attraverso questo feromone, le cellule si agganciano ai loro recettori universali e iniziano un legame primario. Ha avuto luogo il primo passo nel riconoscimento: 'Io sono uno yrr'. Per il secondo passo, per l'aggancio dei recettori speciali, deve essere pronunciata questa frase: 'Io sono uno yrr sano'. Se è così, va tutto bene. Tuttavia ci sono yrr che non sono in grado di funzionare e non sono sani; in altri termini, ci sono yrr che rivelano difetti nel DNA. Il nostro nemico è un organismo che procede in maniera massiccia, che evidentemente è in costante sviluppo ed è quindi costretto a eliminare le cellule che non raggiungono lo stesso livello di crescita. Il trucco sembra questo: è vero che tutte le cellule possiedono i recettori universali, ma solo le cellule sane, capaci di arrivare a uno sviluppo elevato, sono in grado di formare i recettori speciali. Gli yrr malati non li hanno. E ora accade il vero miracolo, quello che ci deve spaventare. Lo yrr difettoso non dispone della parola d'ordine. Non viene accettato nella fusione, bensì rigettato. Questo però non basta: gli yrr sono unicellulari e, come tutti i procarioti, si riproducono per scissione. Naturalmente una specie in costante, elevata evoluzione non può permettere che rimanga una seconda popolazione difettosa, quindi deve impedire che le cellule non sane trovino il tempo di riprodursi. A questo punto, il feromone assume una doppia funzione. Durante il rigetto, il recettore universale dello yrr difettoso rimane appeso e si trasforma in un veleno a effetto rapido. Avvia la cosiddetta morte programmata della cellula, un fenomeno normalmente sconosciuto tra gli organismi unicellulari. Le cellule difettose muoiono all'istante.» «Coma fa a sapere che un essere unicellulare è morto?» chiese Peak. «È semplice: il suo metabolismo s'interrompe. Inoltre uno yrr morto si riconosce perché non luccica più. Per gli yrr, luccicare è una necessità biochimica. Un esempio noto al riguardo è fornito dall'Aequoria, una medusa dei mari del Sud. Per essere luminosa, essa produce un feromone. Nel nostro caso, si tratta di un fenomeno simile: abbiamo l'emissione di una sostanza odorosa che determina la luminescenza, le potenti scariche luminose e i lampi, segni di reazioni particolarmente violente nei legami delle cellule. Quando gli yrr s'illuminano, comunicano e pensano. Quando muoiono, smettono di essere luminosi.» Sue si guardò intorno. «E adesso voglio
spiegarvi cosa ci deve fare paura. Con pochissimi strumenti, gli yrr hanno reso possibile una complessa selezione. Se uno yrr è sano e dispone di una coppia di recettori intatti, allora il feromone ne guida la fusione. Se non ha il recettore speciale, il feromone sviluppa un effetto mortale. Una specie che funziona così vede la morte con altri 'occhi' rispetto all'uomo. Nella società degli yrr, la morte è una questione assolutamente necessaria. Agli yrr non verrebbe mai in mente di guarire una cellula difettosa. Dal loro punto di vista, sarebbe incomprensibile, addirittura idiota. Bisogna uccidere ciò che minaccia lo sviluppo. È solo una questione di logica. Di fronte alla minaccia per l'insieme, gli yrr reagiscono con la logica della morte. Non c'è nessuna pietà, nessuna compassione, nessuna eccezione. Allo stesso modo, la logica della morte non c'entra niente con la crudeltà. Simili idee sono totalmente estranee agli yrr. Ergo, non capiranno perché dovrebbero risparmiarci, dato che rappresentiamo per loro una minaccia concreta.» «Perché la loro biochimica non permette nessuna etica... Per quanto essi siano intelligenti», concluse Judith Li. «Va bene», disse Vanderbilt. «Che cosa possiamo cavare di concreto dal fatto che ora conosciamo il loro piccolo segreto dello Chanel No. 5? Potremmo fonderci con loro, se ho visto giusto. Fantastico. Io potrei fondermi con loro!» Samantha Crowe lo squadrò con una lunga occhiata. «E crede che loro lo vogliano?» «Ma vada a quel paese!» «Sarebbe bene da parte vostra rinviare a più tardi il match di boxe», intervenne Anawak. «Karen e io abbiamo avuto un'idea su come gli unicellulari possono arrivare a pensare. Sigur, Mick e Sue si metteranno le mani nei capelli. Dal punto di vista biologico è un'assurdità, ma potrebbe dare una risposta a molte domande.» «Abbiamo programmato le nostre cellule virtuali con un DNA artificiale che muta continuamente», riprese Karen. «In altri termini, un DNA che impara. Ci siamo ritrovati al punto di partenza, a un computer neurale. Vi ricorderete che abbiamo diviso quel cervello elettronico nelle sue più piccole componenti di memoria capaci di apprendere e ci siamo chiesti come potesse tornare a essere un tutt'uno pensante. Non funzionava finché le singole cellule non sono state in grado di apprendere autonomamente. Ma l'unica via concessa a una cellula per imparare consiste nel mutare il DNA, una cosa che non può accadere. Tuttavia noi abbiamo fornito le cellule vir-
tuali di questa possibilità. E di un profumo, come vi ha appena descritto Sue.» «Non solo abbiamo riavuto il nostro computer neurale perfettamente funzionante», proseguì Anawak. «Ma abbiamo anche avuto davanti agli occhi uno yrr vivente in un ambiente naturale. La nostra piccola creatura virtuale dispone infatti di qualche extra. Le cellule si muovono in uno spazio tridimensionale. Abbiamo provvisto questo spazio delle caratteristiche tipiche degli abissi marini, quindi pressione, correnti, attrito e così via. Prima, però, dovevamo comprendere come i membri dell'insieme si riconoscevano tra loro. L'odore è solo una mezza verità. L'altra metà consiste nel limitare le dimensioni dell'insieme. E qui entra in gioco quello che Sue e Sigur hanno scoperto, e cioè che gli amplicon degli yrr cambiano in piccole regioni ipervariabili. Vi ricorderete delle conseguenze di questa scoperta: le cellule devono aver cambiato il loro DNA dopo la nascita. Noi crediamo che accada proprio questo e che le regioni ipervariabili servano come codice che permette agli yrr di riconoscersi tra loro e, per esempio, di limitare l'insieme.» «Gli yrr con lo stesso codice si riconoscono tra loro e gli insiemi più piccoli possono fondersi con quelli più grandi», concluse Judith Li. «Proprio così», annuì Karen. «Allora abbiamo codificato le cellule. A questo punto, ogni cellula disponeva già di una sorta di conoscenza basilare del proprio ambiente vitale. Quindi aveva informazioni particolari non possedute da tutte le cellule. Come c'era da aspettarsi, le prime cellule che si sono fuse in un insieme sono state quelle con lo stesso codice. Poi abbiamo tentato una cosa diversa, provando a far fondere due collettivi con un codice diverso. Ha funzionato, ed è successo l'incredibile: non solo la fusione è avvenuta, ma le cellule si sono anche scambiate il loro codice individuale e si sono portate nella medesima condizione. Si sono programmate su un nuovo codice omogeneo, un livello immediatamente superiore di conoscenza condiviso da tutte. Alla fine, i due insiemi sono diventati uno solo. Noi abbiamo agganciato quest'ultimo a un terzo insieme e, ancora una volta, esso è diventato qualcosa di nuovo che prima non c'era.» «Come passo successivo, abbiamo cercato di osservare la capacità di apprendere degli yrr», disse Anawak. «Abbiamo formato due insiemi con codici diversi. Il primo è stato provvisto di una specifica esperienza. Abbiamo simulato l'attacco di un nemico. In modo non particolarmente originale, abbiamo scelto uno squalo che si è mangiato un bel boccone dell'insieme, e poi abbiamo fatto in modo che, la volta successiva, l'insieme si
scansasse. Quando lo squalo è arrivato, abbiamo ordinato all'insieme di abbandonare la sua forma sferica e di appiattirsi come una platessa. All'altro insieme non abbiamo insegnato questo trucco, ed esso è stato in parte mangiato. Poi abbiamo fatto fondere i due insiemi e rimandato lo squalo. L'insieme si è scansato. Tutta la massa aveva imparato. Infine abbiamo diviso l'insieme in tante piccole parti e improvvisamente tutte sapevano come evitare uno squalo.» «Quindi imparano attraverso le regioni ipervariabili?» chiese Samantha. «Sì e no», disse Karen, lanciando un'occhiata ai suoi appunti. «È possibile che lo facciano, ma, per un computer, il processo è troppo lungo. In ogni caso, la massa che ci ha attaccato nel ponte a pozzo è molto veloce nelle reazioni e probabilmente pensa altrettanto velocemente. Un gigantesco cervello variabile. No, non possiamo limitarci alle piccole regioni. Abbiamo programmato il DNA in maniera tale che fosse del tutto capace di apprendere e la loro velocità di pensiero è aumentata enormemente.» «E il risultato?» chiese Judith Li. «Si basa sui pochi tentativi condotti poco prima di questo incontro. Pochi, ma sufficienti per la seguente affermazione: un insieme yrr, non importa quanto grande, pensa con la velocità di un calcolatore simultaneo di ultimissima generazione. Il sapere individuale è diffuso a tutti, ciò che è sconosciuto viene esaminato. All'inizio, alcuni insiemi di nuova formazione non sono cresciuti, ma, con lo scambio, hanno imparato. Fino a un certo punto, lo sviluppo della capacità di apprendere procede in maniera lineare, ma, da lì in poi, il comportamento dell'insieme non è più prevedibile...» «Un momento», la interruppe Shankar. «Vuol dire che il programma comincia a condurre una vita autonoma?» «Abbiamo sottoposto agli yrr situazioni completamente sconosciute. Più complesso era il problema, più spesso si fondevano. Dopo breve tempo, hanno iniziato a sviluppare strategie i cui fondamenti non erano stati programmati. Sono diventati creativi e curiosi. E hanno imparato in maniera esponenziale. Abbiamo potuto fare soltanto pochi tentativi - e stiamo sempre parlando di un programma al computer - ma i nostri yrr hanno imparato ad assumere le forme desiderate, a imitare le forme di altri esseri viventi e a variarle, a formare estremità rispetto alle quali la sensibilità delle nostre dita è analoga a quella di un pezzo di legno, a esaminare oggetti a livello microscopico, a scambiare ognuna di queste esperienze con ognuna delle altre cellule e a risolvere problemi in cui gli uomini fallirebbero.» Per un momento regnò un silenzio sbigottito. Si vedeva chiaramente che
la maggior parte dei presenti stava ripensando agli avvenimenti avvenuti nel ponte a pozzo. Infine Judith Li disse: «Ci faccia un esempio dei problemi risolti». Anawak annuì. «Allora, io sono un insieme yrr, chiaro? Un'intera scarpata continentale è attaccata da vermi che io ho allevato, ho riempito di batteri e ho portato là in modo che gli idrati di metano si destabilizzino su tutto il fronte. Il mio problema è che i vermi e i batteri possono fare una gran quantità di lavoro, ma, per ottenere il grande smottamento, ho bisogno di un colpo decisivo.» «Vero», disse Johanson. «È una bella gatta da pelare. Vermi e batteri fanno il lavoro preliminare, però manca ancora qualcosa per trasformarlo in una catastrofe.» «Manca un leggero abbassamento del livello del mare che diminuirebbe la pressione sugli idrati, oppure un riscaldamento dell'acqua, giusto?» «Sì.» «Di un grado?» «Dovrebbe bastare. Ma diciamo due.» «Bene. Ci siamo fatti furbi. Davanti alla scarpata continentale norvegese c'è il vulcano di fango Håkon-Mosby. I vulcani di fango non eruttano lava, ma trasportano gas, acqua e sedimenti dall'interno della Terra fino al fondale marino. L'acqua al di sopra dei vulcani di fango non è bollente, ma è comunque più calda che negli altri punti. Quindi mi riunisco a formare un grande insieme. Un insieme molto grande. Mi do la forma di un tubo con le estremità aperte e, dato che voglio diventare un tubo grande, limito lo spessore delle mie pareti esterne a poche cellule. Per riuscirci, ho pur sempre bisogno di una notevole quantità di me stesso, di molti miliardi di cellule, però io sono talmente sottile che riesco a stendermi per molti chilometri. La mia circonferenza corrisponde a quella del cratere centrale, circa cinquecento metri. Prendo l'acqua calda del vulcano di fango al mio interno e la porto, come se fossi una gigantesca tubatura, là dove vermi e batteri hanno fatto il lavoro preliminare. E così ho la mia soliflussione. Nello stesso modo, potrei riscaldare anche l'acqua della Groenlandia o le calotte polari, cosa che porterebbe allo scioglimento dei ghiacciai e al blocco della Corrente del Golfo.» «Se questo è ciò che possono fare gli yrr del suo computer, cosa possono fare gli yrr reali?» mormorò Peak, sbalordito. Karen fece una smorfia e lo guardò. «Credo qualcosa in più.»
Nuotare Karen sentiva una tensione interiore, ma anche il suo corpo era rigido. Non appena ebbero lasciato la sala riunioni, chiese ad Anawak se aveva voglia di fare qualche vasca in piscina. Le sue spalle erano un unico blocco dolente. E capitava proprio a lei, che era abituata a fare ogni tipo di sport, anche i più estremi. Forse è proprio questo il tuo problema, pensò. Forse dovresti praticare uno sport che non sia estremo. Anawak la accompagnò. Andarono a prendere i costumi da bagno nelle rispettive cabine, indossarono l'accappatoio e si ritrovarono lungo la strada per la piscina. Karen avrebbe voluto prenderlo per mano - anzi, in quel momento, avrebbe fatto volentieri ben altro con lui -, ma non sapeva come s'iniziava una cosa del genere senza fare la figura dell'idiota. Prima della trasformazione radicale della sua vita, non si era mai fatta simili problemi, ma quello che era successo allora non aveva niente a che fare con l'amore. Si sentiva timida, bloccata. Come si flirtava? Com'era possibile andare a letto insieme quando il giorno precedente erano morte delle persone e il mondo stava precipitando nel baratro? Si poteva essere così sciocchi? Sull'Independence, l'area riservata alla piscina era enorme e sorprendentemente confortevole per una nave da guerra; la piscina stessa aveva le dimensioni di un laghetto. Quando si tolse l'accappatoio, Karen sentì sulla schiena lo sguardo di Anawak e comprese che era la prima volta che lui la vedeva così. Il costume da bagno era molto ridotto e profondamente scollato sulla schiena. Inoltre di certo lui aveva notato il tatuaggio. Imbarazzata, si avvicinò al bordo della piscina, si diede una spinta e fece un tuffo elegante. Si muoveva appena sotto la superficie, con le braccia tese in avanti, e sentì Anawak che la seguiva. Forse succederà qui, pensò. Sentì lo stomaco serrarsi. Sospesa tra la speranza e il timore, iniziò a battere i piedi e a nuotare più velocemente. Fifona! Perché no? Immergersi e fare l'amore. Sott'acqua. Fondersi... Improvvisamente le venne un idea. Era ridicolmente semplice e purtroppo anche piuttosto crudele. Se avesse funzionato, però, sarebbe stata davvero brillante. Poteva portare al ritiro pacifico degli yrr o quantomeno spingerli a ripensare alle loro azioni.
Ma era davvero un'idea brillante? Toccò con le dita le mattonelle delle pareti. Riemerse e si tolse l'acqua dagli occhi. Un attimo dopo, quel pensiero le sembrò soltanto volgare. Poi dispiegò nuovamente il suo fascino ammaliante. A ogni metro che Anawak percorreva, nuotando verso di lei, diventava sempre più indecisa. E quando lui fu quasi vicino a lei, l'idea le sembrò ripugnante. Doveva dormirci sopra. Improvvisamente Anawak le fu molto vicino. Karen si schiacciò contro il bordo della piscina. La sua cassa toracica si alzava e abbassava. Il suo cuore batteva come allora, quand'era rimasta sospesa nell'acqua del canale... Quella sensazione di vertigine e il martellio violento del cuore che sembrava dire: «Ora... ora... ora». Si sentì sfiorare all'altezza della vita e aprì le labbra. Paura! Di' qualcosa, pensò. Bisogna parlare di qualcosa, di qualsiasi argomento. «Sembra che Sigur stia meglio.» Le parole le uscirono come se lei stesse sputando un rospo. Negli occhi di Anawak comparve un'ombra di delusione. Si allontano un po' da lei, si strizzò i capelli bagnati e sorrise. «Sì, uno strano incidente.» Maledetta stupida, sei completamente idiota! «Ma ha un problema.» Appoggiò i gomiti al bordo e si sollevò. «Tienilo per te. Non deve assolutamente sapere che ne parlo. Voglio solo sentire il tuo parere.» Sigur avrebbe un problema? Sei tu ad avere un problema! Idiota! Idiota!!! «Quale problema?» chiese Anawak. «Ha visto qualcosa. O, meglio, dice di aver visto qualcosa. Per come la racconta, io gli credo, ma allora la questione sarebbe di tale importanza che... Ascoltami.» Sala di controllo Seduta davanti al monitor, Judith Li stava ascoltando Karen Weaver che raccontava ad Anawak i dubbi di Johanson. Che bella coppia, pensò, divertita. Il contenuto della conversazione la divertiva meno. Quell'idiota di Rubin aveva messo a rischio l'intera missione. Potevano soltanto sperare che Johanson non ricordasse quello che la droga avrebbe dovuto eliminare dalle
sue circonvoluzioni cerebrali. Ora della questione si occupavano anche Karen Weaver e Leon Anawak! Perché vi occupate di questa faccenda, bambini miei? pensò. Le stupide favolette dello zio Johanson! Perché non andate a letto insieme? Lo vedrebbe pure un cieco che non aspettate altro. Però non sapete come agire. Judith sospirò. Da quando la Marina aveva ammesso le donne, aveva osservato innumerevoli volte quel tipo di approccio impacciato. Ogni volta era così evidente! Monotono e banale. A un certo punto, tutti volevano andare a letto insieme. A quei due nella piscina non veniva in mente niente di meglio da fare che rompersi la testa su Johanson? «Dobbiamo abituarci all'idea che Rubin dovrà saltare», disse a Vanderbilt. L'uomo della CIA se ne stava in piedi alle sue spalle, con in mano una tazza di caffè. Erano soli. Peak si trovava nel ponte a pozzo per portare a termine le operazioni di sgombero e per controllare le condizioni dell'equipaggiamento per le immersioni. «E poi cosa facciamo?» «Ci sono alcune chiare opzioni.» «Ma non siamo ancora così avanti da poterle usare, mia cara Judy. Rubin non è ancora così avanti. Naturalmente sarebbe molto meglio se non dovessimo farlo.» «Che succede, Jack? Scrupoli?» «Solo calma. Questo maledetto piano può anche essere il suo, però a me spetta la garanzia della sua riuscita. Può essere certa che i miei scrupoli si muovono in una sfera di compatibilità.» Ridacchiò. «In fondo, c'è il rischio di perdere la reputazione.» Judith Li si voltò verso di lui. «Perché, lei ne ha una?» Vanderbilt bevve rumorosamente dalla sua tazza. «Sa che cosa apprezzo particolarmente di lei, Jude? Il modo in cui sa essere disgustosa. Mi dà la sensazione di essere un bravo ragazzo. Ed è tutto dire!» Combat Information Center Samantha Crowe e Murray Shankar si stavano scervellando. Il computer mostrava immagini intrecciate, linee parallele che improvvisamente tendevano l'una verso l'altra, si piegavano e diventavano una sola. In mezzo, si stendevano ampi spazi vuoti di forma irregolare. Scratch era costituito da un'intera serie di simili grafici, che sembravano formare un'u-
nica immagine, però non si decideva a comparire. Le immagini non s'incastravano tra loro. Inoltre Samantha non aveva ancora la minima idea di che cosa significassero le linee. «L'acqua è la base», rimuginò Shankar. «A ogni molecola d'acqua è accoppiata un'informazione supplementare. Che cos'è? Una caratteristica dell'acqua?» «Possibile. Quali caratteristiche potrebbero intendere?» «La temperatura.» «Sì, per esempio. O la concentrazione salina.» «Forse non si tratta di caratteristiche fisiche o chimiche, ma degli stessi yrr. Le linee potrebbero indicare la densità della loro popolazione.» «Quindi vorrebbero dire: 'Noi abitiamo qui'? Una cosa del genere?» Shankar si grattò il mento. «Qualcosa del genere o no?» «Non lo so, Murray. Noi comunicheremmo loro dove si trovano le nostre città?» «No. Però loro non pensano come noi.» «Grazie di avermelo ricordato.» Samantha fece un anello di fumo. «Va bene, riprendiamo. H2O. Acqua. Questa parte del messaggio non è difficile da comprendere. L'acqua è il nostro mondo.» «Che è la prima risposta, seguendo l'ordine del nostro messaggio.» «Vero. Abbiamo confidato loro che viviamo all'aria aperta. Poi abbiamo descritto il nostro DNA e la nostra forma.» «Supponiamo che rispondano davvero nell'ordine», disse Shankar. «Le linee potrebbero essere una rappresentazione della loro forma?» Samantha fece una smorfia. «Loro non ce l'hanno, una forma. Ovviamente gli organismi unicellulari ne hanno una, però è difficile che si definiscano in base a quella. In quanto forma, si percepiscono solo come insieme e non possono di certo definirsi in base a quello: la gelatina ha migliaia di forme e nel contempo nessuna.» «Bene. La forma è esclusa. Quali altri informazioni potrebbero essere interessanti? Il numero degli individui?» «Un numero seguito da così tanti zeri che dovremmo utilizzare tutto lo scafo dell'Independence per scriverlo. Inoltre si riproducono a pieno regime, muoiono a pieno regime... Probabilmente nemmeno loro sono in grado di stabilire il numero esatto.» Samantha fece oscillare la sigaretta tra le dita. «Non conta il singolo essere. È totalmente privo d'importanza. Conta l'insieme. L'idea yrr, se vuoi, lo yrr idealizzato. Il genoma yrr.» Shankar la guardò da sopra il bordo degli occhiali. «Non bisogna dimen-
ticare che abbiamo mandato solo l'informazione che la nostra biochimica si basa sul DNA. La loro risposta dovrebbe essere più o meno così: 'Anche la nostra'. Credi davvero che si siano spinti a decifrare per noi il loro genoma?» «Potrebbe essere.» «Perché dovrebbero farlo?» «Perché quella è l'unica cosa che possono dire di se stessi. Il genoma e la fusione sono i punti centrali di tutta la loro esistenza, tutto lo lascia pensare.» «Sì, ma come si può descrivere un DNA in costante mutazione?» Samantha guardò sconsolata l'intreccio di linee. «Che siano una carta geografica?» «Una carta geografica di cosa?» «Va bene.» Sospirò. «Ricominciamo da capo. H2O è la base. Viviamo nell'acqua...» A quattr'occhi Judith Li aveva messo il tapis roulant alla massima velocità. In altre circostanze, sarebbe andata in palestra per cementare il morale della truppa. Ma stavolta non voleva essere disturbata. Come ogni giorno, stava parlando con l'Offut Air Force Base. «Com'è il morale, Jude?» «Alto, signore. L'attacco ci ha colpito duramente, ma abbiamo tutto sotto controllo.» «La gente è motivata?» «Come non mai.» «Sono preoccupato.» Il presidente sembrava stanco. Sedeva, solo come un cane, nella War Room della base. «Boston è stata evacuata. Su New York e Washington ci abbiamo messo una croce. E riceviamo nuove notizie spaventose da Philadelphia e Norfolk.» «Lo so.» «Il Paese sta andando a rotoli, mentre tutto il mondo non fa altro che parlare di un'intelligenza non umana nel mare. Mi piacerebbe proprio sapere chi non ha tenuto la bocca chiusa.» «Che importanza ha, signore?» «Che importanza ha?» Il presidente sbatté il palmo della mano sul tavolo. «Se l'America prende la guida, non accetto nessuna azione indipendente
di un qualche stronzo dell'ONU! Solo perché qualcuno pensa che il proprio piccolo, stupido Paese debba entrare in gioco. Sa cos'è successo là fuori, a che razza di autonomia si arriva?» «So bene cos'è successo.» «Oppure è stato qualcuno della sua cerchia a parlare?» «Con tutto il rispetto, signore, l'ipotesi degli yrr è una cosa cui possono essere arrivati anche altri. Da quello che sento, la maggior parte delle ipotesi in tutto il mondo ruota ancora intorno ai fenomeni naturali e al terrorismo internazionale. Stamattina, uno scienziato di Pjongjang...» «Ha detto che siamo delle canaglie.» Il presidente agitò una mano. «So tutto. Saremmo noi a muoverci con sommergibili ultraleggeri e ad attaccare le nostre stesse città, per avere il pretesto di fare le scarpe ai comunisti innocenti. Che sciocchezza.» Si piegò in avanti. «In fondo non me ne importa nulla. Me ne infischio della popolarità. Voglio che il problema sia risolto, voglio sul tavolo altre opzioni! Jude, maledizione, nessun Paese è nelle condizioni di aiutare gli altri! Gli stessi Stati Uniti d'America devono chiedere aiuto! Siamo presi d'assalto, avvelenati, i nostri cittadini fuggono verso l'interno. Mi devo ritirare in una base di sicurezza come una talpa. Nelle città dominano i saccheggi e l'anarchia. L'esercito e le forze dell'ordine sono disperatamente sovraccarichi di lavoro. Le persone possono scegliere tra alimenti contaminati e medicine prive di effetti.» «Signore...» «Dio tiene ancora la sua mano protettrice sull'Occidente, se non si tiene conto del fatto che c'è qualcosa che morde le dita non appena si prova a mettere un piede in acqua. La popolazione di vermi davanti all'America e all'Asia cresce in continuazione e a La Palma siamo ormai alla fine. Non è che mi dispiaccia se alcuni regimi vacillano, ma al momento non possiamo affrontare il problema di dove finiranno le loro armi.» «Il suo ultimo discorso...» «La smetta! Da mattina a sera non faccio altro che lasciarmi andare a esternazioni appassionate. Nessuno di quelli che scrivono i miei discorsi le raccoglie. Nessuno di loro capisce quello che voglio dire a questo Paese e al mondo. Voglio diffondere fiducia. Il popolo americano deve vedere un comandante supremo determinato, che farà tutto il necessario per vincere la guerra, anche se il nemico nasconderà mille volte il proprio volto. Il mondo deve trovare la forza. No, non vogliamo illudere nessuno, dobbiamo prepararci al peggio, ma avremo un punto di riferimento! Questo è quello che dico, ma quando quegli scribacchini vogliono diffondere l'otti-
mismo, diventano inaffidabili e patetici e c'infilano anche un bel po' di paura. Ce ne sarà mai uno che mi stia a sentire?» «Ma la gente la ascolta», lo confortò Judith Li. «Al momento lei è uno dei pochi che viene ascoltato. Insieme coi tedeschi.» «Sì, i tedeschi.» Il presidente socchiuse le palpebre. «È vero? I tedeschi stanno progettando una loro missione?» Judith quasi cadde dal tapis roulant. Che sciocchezza era? «No, non lo stanno facendo. Siamo noi a guidare il mondo. Siamo legittimati dalle Nazioni Unite. La Germania guida l'Europa, ma collabora strettamente con noi. Guardi La Palma.» «Allora perché la CIA mi racconta queste cose?» «Perché Vanderbilt le mette in circolazione.» «Ah, Jude...» «E invece sì. È stato e rimane un intrallazzatore.» «Bambina mia, se lei fosse già prossima a raggiungere il posto cui mira, peraltro meritandolo, di certo non avrebbe intorno Vanderbilt.» Judith espirò lentamente. Si era lasciata prendere dall'emotività. Si era scoperta, forse sopravvalutandosi. Non era un bene. Doveva riprendere il controllo. «Naturalmente, in Jack non vedo un problema, ma un partner», disse sorridendo. Il presidente annuì. «I russi ci hanno mandato un team che ha ampiamente informato la CIA sulla situazione sulle coste del mar Nero. Siamo in stretto contatto con la Cina. È probabile che quella dei tedeschi sia una bufala. Nemmeno io ho l'impressione che stiano giocando per conto loro, però sa bene che, in momenti simili, i media si buttano su queste notizie come se fossero leccornie. No, possiamo essere soddisfatti. È già meraviglioso vedere quante persone di diverse nazioni si riuniscano sotto lo stesso Dio di fronte al diavolo che sale dal mare.» Si passò una mano sugli occhi. «Allora, a che punto siamo? Non volevo chiederle altro, Jude, non voglio metterla nella penosa situazione di dover dissimulare qualcosa, però adesso deve parlare. A che punto siamo?» «Siamo vicini al successo.» «Cosa intende con 'vicini'?» «Rubin sostiene che, se tutto va come previsto, nel giro di un paio di giorni potremo agire. Abbiamo fatto un gran colpo in laboratorio. C'è una sostanza odorosa attraverso cui gli yrr comunicano. Hanno preparato la sostanza artificialmente...» «Mi risparmi i dettagli. Rubin sostiene che funziona?»
«Ne è assolutamente sicuro, signore», disse Judith Li. «E lo sono anch'io.» Il presidente si morse il labbro inferiore. «Mi affido a lei, Jude. C'è qualche complicazione coi suoi scienziati?» «No», mentì lei. «Tutto procede al meglio.» Perché aveva fatto quella domanda? Forse Vanderbilt... Calma, Jude. Una frase casuale. Non è nell'interesse di Vanderbilt. Quel sacco di lardo ha una vera boccaccia, però non si darebbe la zappa sui piedi. «Siamo molto avanti, signore», riprese. «Le ho promesso che avrei portato a termine l'operazione come desiderato, e lo farò. Noi salveremo il mondo. Lo salveranno gli Stati Uniti d'America. Lei salverà il mondo.» «Come al cinema, eh?» «Meglio.» Il presidente annuì, cupo. Subito dopo sorrise. Non era il solito sorriso raggiante, però aveva un tocco di quell'indispensabile determinazione a vincere per cui lei lo ammirava e rispettava. Combat Information Center Qualunque cosa nascondesse il messaggio mandato dai nemici nascosti in mare, lo stomaco di Murray Shankar, spinto dalla biochimica umana, brontolava tanto che, a un certo punto, Samantha Crowe non ne poté più di sentirlo e spedì il collega a mangiare. «Non devo mangiare», insistette Shankar. «Ma fammi il piacere», sbottò Samantha. «Non abbiamo tempo per mangiare.» «Lo so anch'io. Ma non ne avremo comunque, se a un certo punto qualcuno troverà le nostre ossa sbiancate. Perlomeno io mi nutro di Lucky Strike. Va', Murray. Mangia qualcosa, torna rinvigorito e risolvi il nostro problema con un impulso costruttivo.» Shankar andò e lei rimase sola. Aveva bisogno di stare un po' da sola. Non aveva niente contro Shankar. Era un uomo brillante e aveva aiutato parecchio. Però sembrava vivere unicamente in funzione dell'acustica. Faticava a confrontarsi con un modo di pensare non umano, e Samantha era arrivata alla conclusione che la cosa migliore sarebbe stata non avere intorno nessuno, tranne il fumo. Fumò una sigaretta e ricominciò. H2O. Noi viviamo nell'acqua.
Il messaggio si presentava come il disegno di una carta da parati. Un rapporto sull'H2O. Sempre uguale, a parte il fatto che ogni molecola di H2O era accoppiata con qualche dato supplementare. Milioni di simili coppie di dati allineati. Nella trasposizione grafica, si rivelavano delle immagini formate da linee. Il pensiero più naturale era che i dati supplementari descrivessero caratteristiche dell'acqua o di qualcosa che ci viveva in mezzo. Ma forse quel pensiero era sbagliato. Che avevano da raccontare gli yrr? Acqua. E poi? Samantha rifletté. Improvvisamente le venne in mente un esempio. Due affermazioni. Primo: «Questo è un secchio». Secondo: «Questa è acqua». Insieme: un secchio d'acqua. Le molecole dell'acqua erano tutte uguali, quelle che descrivevano il secchio, no. Differivano: forse si trattava della forma del secchio, della sua struttura superficiale, di eventuali decorazioni. Dati supplementari che descrivevano il secchio attraverso la codificazione di migliaia di singole affermazioni diverse, quindi una questione completamente diversa. E allora, da una parte, l'affermazione che il secchio era pieno fino all'orlo. Facilissima da trovare, visto che ogni affermazionesecchio era legata all'affermazione aggiuntiva «acqua». Dall'altra parte, HzO veniva accoppiata con dati che descrivevano qualcosa che non aveva nulla a che fare con l'acqua, cioè un secchio. «Vìviamo nell'acqua.» E dov'era, quell'acqua? Come si poteva dire qualcosa su un luogo che non aveva forma? Si poteva descrivere qualcosa con cui esso confinava. Le coste e i fondali marini. Le superfici libere erano la terraferma; i loro bordi erano le coste. A Samantha quasi cadde la sigaretta. Cominciò a dare comandi al computer. Di colpo, comprese come mai le superfici messe insieme non formavano un'immagine coerente. Perché non descrivevano uno spazio bidimensionale, bensì una figura tridimensionale. Bisognava piegarle in modo che si adattassero le une alle altre. Piegarle finché non formavano qualcosa di tridimensionale. Una sfera. La Terra. Laboratorio
Nello stesso momento, Johanson era impegnato coi campioni presi dal tessuto degli yrr. Dopo dodici ore d'intensissimo lavoro in laboratorio, Sue aveva ceduto. Nelle notti precedenti aveva dormito assai poco. La spedizione stava cominciando a pagare il proprio tributo alla stanchezza. Benché procedessero a grandi passi, il senso d'insicurezza era calato su tutti, penetrando fin nelle ossa. Ognuno reagiva a proprio modo. Greywolf si era ritirato nel ponte a pozzo. Si occupava dei tre delfini rimasti, analizzava i dati ed evitava accuratamente ogni contatto. Gli altri mostravano un notevole nervosismo. Rubin compensava l'orrore con l'emicrania, e quello era il secondo motivo, oltre al meritatissimo riposo di Sue, per cui Johanson era solo nella penombra del grande laboratorio. Aveva spento l'illuminazione principale. Le luci ai tavoli e i monitor costituivano le uniche fonti di luce. Dal simulatore che ronzava usciva un alone blu appena percepibile. La massa continuava a coprire il fondo. Si sarebbe potuto considerarla morta, ma ormai sapevano che non era così. Finché era luminosa, era viva. Sulla rampa risuonarono dei passi. Anawak infilò dentro la testa. «Leon.» Johanson sollevò lo sguardo dalla sua documentazione. «Che piacere.» Anawak sorrise. Entrò, prese una sedia e vi si accomodò cavalcioni, con le braccia appoggiate allo schienale. «Sono le tre del mattino», disse. «Che diavolo ci fa qui?» «Lavoro. E tu?» «Non riesco a dormire.» «Forse potremmo concederci un sorso di Bordeaux. Che ne dici?» «Oh...» Anawak sembrò incerto. «È davvero molto gentile da parte tua, ma non bevo alcol.» «Mai?» «Mai.» «Strano.» Johanson aggrottò la fronte. «In genere non mi sfuggono queste cose. Ma qui siamo un po' tutti fuori squadra, vero?» «Lo può ben dire.» Anawak fece una pausa. Sembrava che volesse dire qualcosa, ma poi chiese: «Come procede il tuo lavoro?» «Bene», rispose Johanson. Poi, come di sfuggita, aggiunse: «Ho risolto il vostro problema». «Il nostro problema?» «Tuo e di Karen. Il problema della memoria del DNA. Avevate ragione.
Funziona, e so anche come.» Anawak spalancò gli occhi. «E lo dici così, come se niente fosse?» «Scusami, però sono troppo stanco per mettermi a ballare il tip tap. Naturalmente hai ragione. Bisogna festeggiare con una bevuta.» «Come ci sei arrivato?» «Ricordi quella misteriosa regione ipervariabile? Sono cluster. Ovunque sul genoma si trovano questi cluster che codificano determinate famiglie di proteine. Ah... sai di cosa sto parlando?» «Aiutami.» «I cluster sono sottoclassi dei geni. Geni che servono per qualcosa, per esempio per formare i recettori e per la produzione di qualche sostanza. Se un grumo di questi geni si trova su una sezione di DNA, si chiama cluster. E il genoma degli yrr ne ha una gran quantità. La cosa divertente è che le cellule degli yrr vengono completamente riparate. Negli yrr, però, la riparazione non copre tutto il genoma e gli enzimi non esaminano tutto il DNA alla ricerca di errori: reagiscono solo a un segnale specifico. Come su una tratta ferroviaria. Riconoscono un segnale di partenza, cominciano a riparare, raggiungono il segnale di stop e si fermano. Perché lì comincia...» «Il cluster.» «Esatto. E i cluster sono protetti.» «Possono proteggere dalla riparazione alcune parti del loro genoma?» «Attraverso inibitori della riparazione. Guardiani biologici, se si vuole. Proteggono i cluster dagli enzimi riparatori. Così queste zone sono libere e possono mutare in continuazione, mentre il resto del DNA viene riparato per mantenere le informazioni fondamentali della specie. Ingegnoso, vero? In questo modo, ogni yrr diventa un cervello capace di svilupparsi senza limiti.» «E come si scambiano le informazioni?» «Come ha già detto Sue, da cellula a cellula. Attraverso ligandi e recettori. I recettori ricevono i ligandi, gli impulsi delle altre cellule e li trasformano in una cascata di segnali indirizzata verso il nucleo. Il genoma muta e dà l'impulso alla cellula vicina. È un processo fulmineo. Quel mucchio di gelatina nella cisterna pensa con la velocità di un superconduttore.» «In effetti, è una biochimica completamente nuova», sussurrò Anawak. «Oppure vecchissima. È nuova solo per noi. Probabilmente esistono già da milioni di anni. Forse fin dall'inizio della vita. Una variante dell'evoluzione.» Johanson fece una breve risata. «Una variante di grande successo.» Anawak appoggiò il mento alle mani. «E ora che facciamo?»
«Bella domanda. Raramente mi sono trovato in uno stato di confusione simile a quello in cui mi trovo oggi. Perché una simile conoscenza non mi fa fare un solo passo avanti. Conferma solo quello che temevamo: sono diversi da noi sotto ogni punto di vista.» Si stiracchiò e fece un largo sbadiglio. «Non so se i tentativi di prendere contatto fatti da Samantha ci faranno andare avanti. Al momento, ho l'impressione che loro si stiano semplicemente intrattenendo con noi, mentre continuano a diffondere il terrore. Forse ai loro occhi non rappresenta una contraddizione. Di certo non è il tipo di conversazione che preferisco.» «Non abbiamo altra scelta. Dobbiamo trovare una strada per comprenderci.» Anawak si mordicchiò l'interno delle guance. «A proposito, credi che sulla nave stiamo tutti dalia stessa parte?» Johanson drizzò le orecchie. «Come ti viene in mente?» «Perché...» Anawak s'incupì. «Okay, non arrabbiarti, ma Karen mi ha raccontato quello che hai visto nella notte del tuo strano incidente. O che credi di aver visto.» Jokanson lo squadrò con occhio critico. «E lei che ne pensa?» «Ti crede.» «E tu, Leon?» «Difficile da dire.» Anawak scrollò le spalle. «Tu sei norvegese. Voi siete convintissimi che esistano i troll.» Johanson sospirò. «Senza Sue non sarei riuscito a ricordarlo», disse. «È stata lei a farmi tornare alla mente la notte che abbiamo trascorso insieme su una cassa sul ponte dell'hangar. Pare che io abbia visto Rubin, benché si presumesse che fosse a letto con l'emicrania. Da allora sono riemersi dei frammenti. Ricordo cose che è poco probabile io abbia sognato. Talvolta sono sul punto di rivedere tutto, ma poi... Mi trovo davanti a una porta aperta, vedo una luce bianca, entro e i ricordi spariscono.» «Cosa ti rende così certo di non aver sognato?» «Sue.» «Ma lei non l'ha visto.» «E Judith Li.» «Perché proprio Judith Li?» «Perché durante il party si è interessata un po' troppo insistentemente ai miei ricordi. Credo volesse sondare il terreno.» Johanson lo guardò. «Leon, mi hai chiesto se qui tutti stanno dalla stessa parte. Credo di no. Neppure allo Château. Ho diffidato di Judith Li fin dall'inizio. E intanto mi sono convinto che Rubin non soffre di emicrania. Non so cosa devo credere,
ma ho la netta sensazione che ci sia qualcosa in corso!» «Intuizione maschile», sorrise incerto Anawak. «A tuo parere, che cos'ha in mente Judith Li?» Johanson guardò il soffitto. «Questo lo sa soltanto lei.» Sala di controllo Casualmente, proprio in quel momento, Johanson guardò in una delle telecamere nascoste. Senza saperlo, fissò Vanderbilt, che aveva preso il posto di Judith Li e disse: «Questo lo sa soltanto lei.» «Sei un tipetto sveglio», sibilò Vanderbilt. Poi chiamò Judith Li nel suo alloggio attraverso un canale a prova d'intercettazione. Non sapeva se stava dormendo, ma non gli importava. Judith Li apparve sul monitor. «Le avevo detto che non c'erano garanzie, Jude», disse lui. «Johanson sta per recuperare la memoria.» «E se anche fosse?» «Non è neppure un po' nervosa?» Judith accennò un sorriso. «Rubin ha lavorato duro. È appena stato qui.» «E allora?» «È brillante, Jack!» I suoi occhi luccicavano. «Lo so, quel piccolo stronzo non ci piace, ma devo ammettere che stavolta ha superato se stesso.» «Una cosa già testata?» «Su piccola scala. Ma la piccola è come la grande. Funziona. Tra poche ore avrò l'autorizzazione del presidente. Poi io e Rubin andremo giù.» «Vuole farlo personalmente?» esclamò Vanderbilt. «E chi dovrebbe farlo? Lei nel batiscafo non c'entra», ribatté Judith Li. Poi riattaccò. Ponte a pozzo I sistemi elettrici ronzavano negli hangar vuoti e sui ponti dell'Independence creando un effetto spettrale. Facevano vibrare appena le paratie. Si potevano sentire nell'enorme ospedale vuoto e nella mensa ufficiali deserta. Soltanto gli uomini dell'equipaggio che, dalle loro cuccette, appoggiavano le dita dei piedi sugli armadietti erano in grado di percepire quelle vibrazioni. Arrivavano fin nel ventre della nave, dove, sul bordo del bacino, Gre-
ywolf stava fissando la copertura d'acciaio. Perché si deve sempre perdere tutto? Si sentiva travolto dalla tristezza e dalla sensazione di aver sbagliato ogni cosa. Era stato un errore anche venire al mondo. Era andato tutto storto. E non era neppure riuscito a salvare Alicia. Non hai protetto nulla. Assolutamente nulla. Tu hai sempre avuto solo una gran bocca e una paura ancora più grande. Un piccolo bambino piagnucoloso in un corpo gigantesco che vorrebbe contare qualcosa per sé e per gli altri. Una volta soltanto era riuscito a contare qualcosa: all'ospedale, col bambino della Lady Wexham che aveva salvato. Allora si era sentito davvero orgoglioso. Sulla Lady Wexham aveva fatto un buon lavoro. Aveva aiutato molte persone e persino Anawak era ridiventato suo amico. Un fotografo aveva scattato una foto e il giornale del giorno seguente aveva sancito il suo coraggio e la sua disponibilità. Ma le balene continuavano a impazzire, i delfini soffrivano, tutta la natura soffriva e Alicia era morta. Greywolf si sentiva privo di qualsiasi valore. Provava disgusto per se stesso. Non ne avrebbe parlato con nessuno, quello era certo. Avrebbe solo fatto il suo lavoro finché quell'incubo non fosse finito. E poi... Dagli occhi gli sgorgarono le lacrime. Il suo volto era immobile. Continuava a fissare la copertura, ma là c'erano solo travi d'acciaio. Nessuna risposta. Il quadro generale «Questa sfera è il nostro pianeta», stava dicendo Samantha Crowe. Aveva appeso alle pareti diversi ingrandimenti di stampate e si spostava lentamente dall'una all'altra. «Ci siamo scervellati per tanto tempo sulla natura delle linee, e adesso crediamo che rappresentino il campo magnetico terrestre. In ogni caso, le superfici libere sono i continenti. Questo ci ha permesso di decifrare la sostanza del messaggio.» Judith Li socchiuse le palpebre. «Ne è sicura? Questi presunti continenti non sono simili ai continenti che conosco.» Samantha sorrise. «E non potrebbero neppure. Questi sono i continenti come apparivano centottanta milioni di anni fa, riuniti in uno solo. Pangea, il continente primordiale. Probabilmente anche l'ordinamento delle linee
magnetiche corrisponde a quell'epoca.» «Lo ha verificato?» «L'ordinamento del campo magnetico è difficile da ricostruire. Invece la costellazione delle masse terrestri di allora è nota. Ci è voluto un po' per capire che ci hanno mandato un modello della Terra, ma poi i conti sono tornati. In fondo è molto semplice. Come nucleo dell'informazione hanno scelto l'acqua e l'hanno accoppiata coi dati geografici.» «Come fanno a sapere qual era allora l'aspetto della Terra?» si meravigliò Vanderbilt. «Perché lo ricordano», rispose Johanson. «Lo ricordano? L'oceano primordiale?» esclamò Vanderbilt. «Esatto», annuì Johanson. Ieri notte abbiamo trovato l'ultima tessera del puzzle. Gli yrr dispongono di un DNA ipermutabile. Supponiamo che, all'inizio del Giurassico, circa duecento milioni di anni fa, si sia manifestata la loro consapevolezza. Da allora apprendono costantemente. Nei romanzi e nei film di fantascienza ci sono alcune frasi diventate ormai classiche, del tipo: 'Non so cos'è, ma ci sta venendo addosso', oppure: 'Mi passi il presidente'. Un'altra di queste frasi canoniche è: 'Sono superiori a noi', e quasi sempre il libro o il film ci restano debitori di una spiegazione. In questo caso, possiamo completarla: gli yrr sono superiori a noi.» «Perché immagazzinano il loro sapere nel DNA?» chiese Judith Li. «Sì. Questa è la differenza fondamentale con gli uomini. La nostra cultura si trasmette attraverso la voce, i testi scritti o le immagini. Ma non possiamo trasmettere all'istante le cose che viviamo. Col nostro corpo muore anche il nostro spirito. Quando diciamo che non si devono dimenticare gli errori del passato, non facciamo altro che dar voce a un desiderio irrealizzabile. Ciò che si ricorda si può soltanto dimenticare. Nessun uomo può ricordare quello che un altro essere umano ha vissuto prima di lui. I ricordi li possiamo registrare e richiamare, però noi non c'eravamo. Ogni bambino deve imparare le stesse cose, mettere la mano sul fornello rovente per capire che scotta. Per gli yrr non è così. Una cellula impara e si scinde. Sdoppia il proprio genoma con tutte le informazioni, un po' come se duplicassimo il nostro cervello con tutti i ricordi. Le nuove cellule non ereditano un sapere astratto, bensì l'esperienza immediata, come se fossero state presenti anche loro. Dall'inizio della loro esistenza, gli yrr sono capaci di un ricordo collettivo.» Johanson guardò Judith Li. «Ora ha capito chi si è messo contro di noi?» Judith annuì lentamente. «Per annientare l'insieme bisognerebbe elimi-
nare tutti i suoi ricordi.» «Temo che, per riuscirci, dovremmo distruggere tutti gli individui», replicò Johanson. «E questo è impossibile per diversi motivi. Non sappiamo quanto sia fitta la loro rete. Probabilmente formano catene cellulari lunghe centinaia di chilometri. Diversamente da noi, non vivono nel presente. Non hanno bisogno di statistiche, di valori medi, di simboli che stanno in piedi con le stampelle. In associazioni sufficientemente grandi, sono essi stessi la statistica, la somma di tutti i valori, la loro stessa cronaca. Conoscono uno sviluppo che si estende per millenni, mentre noi non siamo nemmeno in grado di agire nell'interesse dei nostri figli e dei nostri nipoti. Siamo stati spodestati. Gli yrr confrontano, analizzano, riconoscono, fanno pronostici e agiscono sulla base di un ricordo costantemente presente. Non va persa nessuna prestazione creativa, tutto fluisce nello sviluppo di nuove strategie e concetti! Una selezione che non finisce mai, diretta verso soluzioni migliori. Attingere, modificare, raffinare, imparare dagli errori, confrontarsi col nuovo, fare previsioni, agire.» «Che cosa fredda e disgustosa», disse Vanderbilt. «Trova?» Judith Li scosse la testa. «Io invece ammiro quegli esseri. Elaborano nel giro di qualche minuto strategie che per noi richiederebbero anni. Già soltanto sapere quello che non va... Semplice, si ricorda perché gli errori si sono fatti di persona, anche se fisicamente non si esisteva ancora.» «Per questo gli yrr si sono adattati al loro ambiente molto meglio di come noi abbiamo fatto col nostro», riprese Johanson. «Per loro, ogni prestazione intellettuale è collettiva e ancorata saldamente ai geni. Vivono contemporaneamente in tutte le epoche. Gli uomini, invece, non sanno valutare il passato e ignorano il futuro. Tutta la nostra esistenza si fissa sui singoli, sul cervello individuale, sul qui e ora. Sacrifichiamo prospettive più ampie agli interessi personali. Non ci possiamo salvaguardare dalla morte, così ci eterniamo nei manifesti, nei libri e nelle opere. Cerchiamo di scrivere la storia, lasciamo annotazioni, veniamo riraccontati, fraintesi, falsati; valanghe ideologiche si formano e precipitano anche molto tempo dopo che siamo morti. Siamo così ossessionati dall'idea di sopravvivere a noi stessi che i nostri scopi spirituali raramente coincidono con ciò che sarebbe utile all'umanità. Il nostro spirito forgia l'estetica, l'individualismo, l'intellettuale, il teoretico. Non vogliamo essere animali. Da una parte, il corpo è il nostro tempio, dall'altra ci consideriamo solo come unità di funzioni. Così ci siamo abituati a considerare lo spirito superiore al corpo, e osserviamo la nostra necessità oggettiva di sopravvivenza con ripugnanza e di-
sprezzo per noi stessi.» «E negli yrr una simile separazione non esiste», constatò Judith Li. Per motivi inesplicabili, sembrava decisamente soddisfatta. «Il corpo è lo spirito, lo spirito è il corpo. Nessuno degli yrr farebbe qualcosa contro l'interesse generale. Sopravvivere è un interesse della specie, non dell'individuo, ed essi agiscono sempre secondo questa risoluzione. Grandioso! Nessuno yrr riceverà mai un'onorificenza per una buona idea. La soddisfazione è nella compartecipazione al risultato. Nessuno yrr gode di privilegi. Mi chiedo se le singole cellule abbiano qualcosa di simile a una coscienza individuale.» «Diversa da come la conosciamo noi», annuì Anawak. «Non so se in un organismo unicellulare si possa parlare di autocoscienza, però ogni cellula individualmente è creativa. Ogni cellula è un collettore che trasforma l'esperienza in creatività e poi la diffonde nell'insieme. Probabilmente tengono conto di un pensiero quand'è sufficientemente forte, cioè quando un numero sufficiente di yrr lo trasmette contemporaneamente. Ogni idea dovrà fare i conti con le altre, e la più forte sopravvive.» «Evoluzione pura», confermò Karen. «Pensiero evolutivo.» «Che razza di avversario!» Judith Li era meravigliata. «Niente vanità, nessuna perdita d'informazioni. Noi esseri umani vediamo sempre solo una parte del tutto, loro abbracciano con lo sguardo il tempo e lo spazio.» «Per questo noi distruggiamo il nostro pianeta», intervenne Samantha Crowe. «Perché non riconosciamo quello che distruggiamo. Devono averlo capito anche quelli laggiù, e di certo hanno capito che non abbiamo una memoria della specie.» «Sì, tutto torna. Perché dovrebbero trattare con noi? Con lei o con me? Domani potremmo essere morti. E allora, con chi parleranno? Se avessimo una memoria della specie, allora saremmo protetti anche dalla nostra stupidità. Ma non l'abbiamo. Andare d'accordo con gli esseri umani è un'illusione. Questo lo hanno già imparato, è una parte della loro conoscenza e il fondamento della decisione di agire contro di noi.» «E nessun nemico sarà in grado di eliminare quel sapere», disse Sue. «In un insieme yrr lo sanno tutti. Non ci sono teste pensanti, scienziati, generali o comandanti che possano essere eliminati per sradicare i fondamenti dell'informazione anche da tutti gli altri. Si possono uccidere quanti yrr si vuole, ma, finché alcuni sopravvivono, sopravvive il sapere di tutti.» «Un momento», Judith voltò la testa verso Sue. «Non ha detto che ci devono essere delle specie di regine?»
«Sì. Qualcosa del genere. Potrebbe essere che tutti gli yrr abbiano un sapere collettivo, ma un'azione collettiva potrebbe iniziare da un centro. Sì, credo che ci siano delle regine.» «Anche loro unicellulari?» «Devono condividere la stessa biochimica degli altri. Si può presumere che siano unicellulari. Un'associazione altamente organizzata che riusciremo a comprendere solo comunicando con loro.» «Per ricevere messaggi misteriosi», disse Vanderbilt. «Allora, ci hanno mandato un'immagine della Terra preistorica. A che scopo? Cosa ci vogliono raccontare?» «Tutto», rispose Samantha. «Potrebbe essere un po' più precisa?» «Ci spiegano che questo è il loro pianeta. Che lo dominano da almeno centottanta milioni di anni, probabilmente da più tempo ancora. Che hanno una memoria della specie, si orientano coi campi magnetici e sono ovunque ci sia dell'acqua. Dicono: 'Voi siete il qui e ora; noi siamo il sempre e ovunque'. Questi sono i fatti. Questo ci dice il messaggio, e io credo che sia parecchio.» Vanderbilt si grattò la pancia. «E che cosa rispondiamo? Che possono infilarselo nel culo, il loro dominio?» «Non ce l'hanno, Jack.» «Allora cosa?» «Penso che alla loro logica di volerci annientare potremmo contrapporre la nostra logica di voler sopravvivere. La nostra unica possibilità di sopravvivere consiste nel segnalare che riconosciamo il loro dominio...» «Il dominio di organismi unicellulari?» «E in questo modo convincerli che non siamo più pericolosi per loro.» «Ma lo siamo», obiettò Karen. «Vero», disse Johanson. «Parlare non serve. Dobbiamo dare il segnale che ci ritiriamo dal loro mondo. Dobbiamo smettere d'inquinare i mari con veleni e rumori, e anche in fretta. Così in fretta che forse loro arriveranno a pensare di poter vivere anche con noi.» «Questo deve deciderlo lei, Jude», disse Samantha. «Noi possiamo solo darle consigli. Lei deve raccomandare. Oppure ordinare.» Tutti guardarono Judith Li. «Sono dell'idea di percorrere questa strada», disse lei. «Ma non dobbiamo affrettare i tempi. Se ci ritiriamo dal mare, dobbiamo mandare loro un messaggio che sia formulato con precisione e che sia convincente.» Si guardò intorno. «Voglio che collaborino tutti. E
senza farsi prendere dalla furia e dal panico. Qualche giorno in più non cambia niente, e invece potrebbe essere utile per elaborare il messaggio giusto. Questa specie ci è estranea in tutto, in un modo che mai avrei immaginato. Ma se c'è anche solo una possibilità di arrivare a un accordo pacifico, dobbiamo utilizzarla. Quindi date il massimo.» «Jude», sorrise Samantha. «Non sono mai stata così entusiasta dei militari americani.» Quando Judith Li lasciò la sala con Peak e Vanderbilt, disse sottovoce: «Rubin è riuscito a fabbricare sufficiente sostanza?» «Sì», rispose Vanderbilt. «Bene. Voglio che carichi il Deepflight. Non m'interessa quale. Entro due ore, tre al massimo, dobbiamo andare e risolvere la faccenda» «Perché tutta questa fretta?» chiese Peak. «Johanson ha un'espressione negli occhi... come se fosse sul punto di avere un'ispirazione. Non ho voglia di stare a discutere. È tutto. Domani potrà fare tutto il baccano che vorrà.» «Siamo davvero così avanti?» Judith lo guardò. «Questo ho detto al presidente degli Stati Uniti, Sal. E così sarà.» Ponte a pozzo «Ehi.» Anawak si avvicinò al delfinario e Greywolf sollevò un attimo lo sguardo, tornando poi subito a dedicarsi alle piccole telecamere che aveva smontato. Quando Anawak fu più vicino al bordo, due animali tirarono la testa fuori dall'acqua e lo salutarono con schiamazzi e fischi. Poi si accostarono per farsi accarezzare. «Ti disturbo?» chiese Anawak, allungandosi oltre il bordo per toccare gli animali. «No.» Anawak gli si appoggiò di fianco. Non era la prima volta che andava lì dopo l'attacco, cercando di spingere Greywolf a parlare, ma invano. L'amico sembrava completamente chiuso in se stesso. Non prendeva più parte alle riunioni, si limitava a trasmettere i video, accompagnati da brevi commenti scritti. Oltretutto quei video non dicevano molto. Le riprese della gelatina che si avvicinava erano deludenti: si scorgeva una luce blu che
si perdeva negli abissi. Poi c'erano le immagini sfocate di alcune orche. Infine, quando i delfini si erano spaventati, rifugiandosi sotto lo scafo della nave, si vedevano solo lastre d'acciaio. Anawak dubitava sempre più dell'utilità della squadra, ma non aveva detto nulla. In segreto, sospettava che Greywolf volesse continuare a lavorare come prima solo per non cadere nel baratro dell'inazione. Rimasero per un po' in silenzio. Dietro di loro, a una certa distanza, un gruppo di soldati e tecnici risalì dal ventre del ponte a pozzo. Avevano ricostruito la paratia di vetro distrutta. Uno dei tecnici andò alla console sulla banchina e le pompe ricominciarono a lavorare. «Andiamocene», disse Greywolf. Risalirono la sponda. Anawak vide il bacino che lentamente si riempiva d'acqua. «Lo riempiono ancora», constatò. «Sì. Se il bacino è pieno, è più facile far uscire i delfini.» «Vuoi mandarli di nuovo fuori?» Greywolf annuì. «Ti aiuto», propose Anawak. «Se ne hai voglia.» «Buona idea.» Greywolf aprì la telecamera e armeggiò all'interno con un minuscolo cacciavite. «Ora?» «No, prima devo riparare questa cosa.» «Non ti va di prenderti una pausa? Potremmo andare a bere qualcosa. Di tanto in tanto abbiamo tutti bisogno di un po' di riposo.» «Non ho poi tanto da fare, Leon. Sistemo l'equipaggiamento e mi preoccupo che gli animali stiano bene. Non faccio altro che prendermi pause.» «Allora vieni con me alla riunione.» Greywolf gli gettò una rapida occhiata e poi continuò il lavoro in silenzio. «Jack», disse infine Anawak. «Non puoi stare permanentemente rintanato.» «Chi dice permanentemente?» «E allora cosa sarebbe quello che stai facendo?» «Faccio il mio lavoro. Presto attenzione a quello che trasmettono i delfini, analizzo i video e se qualcuno ha bisogno di me, ci sono.» «No, non ci sei. Non sai neppure che cosa abbiamo scoperto nelle ultime ventiquattr'ore.» «E invece lo so.» «Come?» Si sorprese Anawak. «Chi te l'ha detto?»
«Sue è stata qui. Talvolta viene anche Peak, per vedere se è tutto a posto. Tutti mi raccontano qualcosa, non c'è neppure bisogno di chiedere.» Anawak fissava dritto davanti a sé. Sentiva la rabbia crescere. «Allora non hai bisogno di me», disse indispettito. Greywolf non rispose. «Allora vuoi restare qui a fare la muffa?» «Lo sai che preferisco la compagnia degli animali.» Anche se uno di loro ha ucciso Alicia? voleva chiedergli Anawak, ma all'ultimo momento si fermò. Che doveva fare? «Anch'io ho perso Alicia», disse infine. Greywolf si bloccò per qualche istante. Poi riprese ad armeggiare col cacciavite nella telecamera. «Non si tratta di questo.» «E di che cosa, allora?» «Che vuoi, Leon?» «Che voglio?» Anawak rifletté. Non era gentile. Di fronte a tutto quello che stava soffrendo Greywolf, non era per nulla gentile. «Non lo so, Jack. Ti dico apertamente che me lo chiedo anche io.» Si girò per andarsene. Quando ebbe quasi raggiunto il tunnel, sentì Greywolf dire a bassa voce: «Aspetta, Leon». Ricordo Johanson si assopì. Era stanco morto. La notte precedente gli era penetrata fin nelle ossa. Era seduto davanti alla console, mentre Sue, nel laboratorio sterile, produceva i feromoni concentrati degli yrr. Avevano deciso di metterne una parte nel simulatore. La massa gelatinosa era sparita e l'acqua era intorbidita dal gran numero di unicellulari. Era probabile che si fosse momentaneamente sciolta e avesse interrotto la luminosità. Gli scienziati speravano che, introducendo l'estratto di feromone, avvenisse la fusione, così loro avrebbero potuto condurre altri test. Forse bisognerebbe mandare nella cisterna il messaggio di Samantha, per vedere se l'insieme risponde, pensò Johanson. Aveva un vago mal di testa e sapeva il perché. Non dipendeva né dal superlavoro né dalla stanchezza. A far male erano i pensieri, avvinghiati l'uno all'altro. I ricordi bloccati. Dall'ultima riunione, la situazione era peggiorata. Una frase di Judith Li
aveva rimesso in movimento la sua slitta per le diapositive. Erano state poche parole, ma avevano riempito tutta la sua mente, impedendogli di concentrarsi sul lavoro. Quel continuo riflettere era snervante. La testa di Johanson si rovesciò lentamente all'indietro e lui cadde in un sonno leggero. Galleggiava sulla superficie della coscienza, prigioniero del loop infinito generato dalle parole di Judith. Non dobbiamo affrettare i tempi, non dobbiamo affrettare i tempi, non... Da qualche parte arrivò alle sue orecchie un rumore. Sue aveva già finito con la sintesi dei feromoni? Per un attimo, riemerse dal sonno, socchiuse gli occhi nell'illuminazione del laboratorio e poi li richiuse. Non dobbiamo affrettare i tempi. Luce fioca. Il ponte dell'hangar. Un rumore metallico, strascicato, leggero. Johanson si spaventa. All'inizio non sa dove si trova. Poi sente la parete metallica contro la schiena. Sul mare, il cielo si è schiarito. Si tira su a fatica e guarda lungo la parete. Si è aperta. Una porta si è aperta e risplende, luminosa. Dall'interno esce una luce bianca. Johanson scivola giù dalla cassa. Da come gli dolgono le ossa, deve aver trascorso lì molte ore. Un vecchio. Si avvia lentamente verso il quadrato luminoso da cui inizia un corridoio con le pareti nude. Ora lo riconosce. Lampade al neon si allineano sul soffitto. Dopo qualche metro, la parete fa una curva. Johanson spia all'interno e ascolta. Voci e rumori. Fa un passo indietro. Cosa c'è dietro l'angolo? Deve entrare? Johanson esita. Non dobbiamo affrettare i tempi, non dobbiamo affrettare i tempi. Esita. Improvvisamente si rompe una barriera. Entra. Sui lati ci sono solo pareti spoglie. Va a destra. Ancora un gomito, stavolta nell'altra direzione. È un corridoio molto largo, ci potrebbe passare un'auto. Ancora rumori, voci, stavolta più vicini. La fonte deve essere dopo il secondo gomito. I suoi passi lo portano lentamente alla svolta, a sinistra, e là c'è... Il laboratorio. No, non il laboratorio. Un laboratorio. E anche quel laboratorio ha un
simulatore, un apparecchio più piccolo, delle dimensioni di una cassa. All'interno galleggia qualcosa di luminoso, di blu, coi tentacoli distesi... Johanson guarda la scena, incredulo. Quella sala è una copia perfetta, ma più piccola, del settore sottostante. Sono allineati diversi tavoli. Apparecchiature. Contenitori con azoto liquido. Una console con vari monitor. Un microscopio elettronico. Sullo sfondo, su una porta di vetro blindato, un simbolo di pericolo biologico. Ancora oltre, una porta aperta conduce in un corridoio più stretto. E là ci sono delle persone. Le persone sono davanti al piccolo simulatore. Parlano tra loro senza accorgersi dell'intruso. Due uomini gli voltano la schiena e una donna, messa di tre quarti, annota qualcosa su un blocco. Lo sguardo della donna si sposta dagli uomini al simulatore, poi nella sala, cade su Johanson... La sua bocca si spalanca e gli uomini si girano di colpo verso di lui. Uno lo conosce. È della squadra di Vanderbilt, nessuno sa esattamente cosa faccia. Ma cosa fanno di solito gli agenti della CIA? Il secondo uomo lo conosce bene. È Rubin. Johanson è troppo sbigottito per fare altro che starsene lì e guardare. Vede il terrore negli occhi di Rubin, vi legge la domanda di come sia possibile salvare la situazione. In effetti è solo quello sguardo che sblocca Johanson, il quale improvvisamente capisce. Lì si sta giocando un gioco strano, in cui lui è solo usato, lui come tutti gli altri, Sue Oliviera, Leon Anawak, Karen Weaver, Samantha Crowe... Chi altro ricopre un ruolo in questo gioco? E a che scopo? Rubin gli si avvicina lentamente. Sui suoi lineamenti è comparso un sorriso tirato. «Sigur, mio Dio! Soffre d'insonnia?» Lo sguardo di Johanson si sposta nella sala, sfiora gli altri. Basta guardare un secondo nei loro occhi per capire che lui non dovrebbe essere lì. «Che fate qui, Mick?» «Oh, niente, è solo...» «Che vuol dire? Cosa succede qui?» Rubin gli si piazza davanti. «Le posso spiegare, Sigur. Sa, in effetti non avevamo intenzione di utilizzare questo secondo laboratorio, è stato allestito solo per le emergenze, se, per qualsiasi motivo, quello più grande non dovesse più funzionare. Ispezioniamo costantemente i sistemi in modo che sia pronto a entrare in azione nel caso...»
Johanson indica l'essere nel simulatore. «Avete nella cisterna una... di quelle cose!» «Ah, quella?» Rubin si gira e poi torna a guardarlo. «Ehm... sì, dovevamo provare, per la messa in sicurezza. Non vi abbiamo detto nulla, non c'era nessuna necessità, perché...» Tutte bugie. Certo, Johanson non è perfettamente sobrio, ma ha notato che Rubin parla come se ne andasse della sua vita. Si gira e imbocca il corridoio verso l'esterno. «Sigur! Dottor Johanson!» Passi alle sue spalle. Rubin al suo fianco. Dita che afferrano nervosamente la sua manica. «Aspetti.» «Cosa fate qui?» «Non è come pensa, io...» «Come fa a sapere cosa penso, Mick?» «È una misura di sicurezza.» «Come?» «Il laboratorio è una misura di sicurezza!» Johanson si libera dalla stretta. «Credo che dovrò parlarne col generale Li.» «No, questo...» «O meglio ancora con Sue. Sciocchezze, credo che sia meglio che ne parli con tutti, che ne dice, Mick? Ci state prendendo in giro?» «Certo che no.» «E allora si decida a spiegarmi cosa vuol dire tutto questo.» Negli occhi di Rubin si accende il panico. «Sigur, non sarebbe una buona idea. Ora non deve affrettare i tempi. Ha capito? Non dobbiamo affrettare i tempii» Johanson lo guarda. Poi sbuffa involontariamente e se ne va. Sente gli altri che lo seguono, si sente sulla schiena la paura di Rubin. Non dobbiamo affrettare i tempi. Una luce bianca. Gli esplode davanti agli occhi e nel cranio si diffonde un dolore sordo. Le pareti, il corridoio, tutto oscilla. Il pavimento viene verso di lui... Johanson fissò il soffitto del laboratorio. Tutto era di nuovo nel presente.
Balzò in piedi. Sue stava ancora lavorando nel laboratorio sterile. Respirando affannosamente, guardò il simulatore, il quadro di controllo, i tavoli da lavoro. Guardò ancora il soffitto. Là sopra esisteva un altro laboratorio. Proprio sopra di loro. E nessuno doveva saperlo. Rubin lo aveva colpito e poi gli avevano dato qualcosa per cancellare il ricordo. Perché? Perdio, che razza di partita stavano giocando? Johanson strinse i pugni. Dentro di lui ribolliva una rabbia impotente. Con pochi passi uscì e corse lungo la rampa. Ponte a pozzo «Che dovrei fare lassù con voi?» chiese Greywolf. «Non vi posso aiutare.» La rabbia di Anawak si era dissolta. Si voltò, tornando lentamente indietro, mentre il bacino si riempiva d'acqua. «Non è vero, Jack.» «E invece è così.» Aveva parlato in tono quasi indifferente. «La Marina ha tormentato i delfini e io non ho potuto farci nulla. Mi sono impegnato per le balene, ma le balene sono diventate vittime di un'altra entità. A un certo punto, ho deciso di vedere negli animali qualcosa di migliore degli uomini, una cosa stupida, ma pur sempre un modo per tirare avanti, e ora ho perso Alicia a causa di un animale. Non sono di aiuto a nessuno.» «Smettila di compatirti, maledizione.» «Questi sono fatti!» Anawak tornò a sedersi di fianco a lui. «Aver lasciato la Marina è stata una cosa giusta e coerente», proseguì. «Eri il miglior addestratore che avessero mai avuto e interrompere la collaborazione è stata una scelta tua, non loro. Eri tu a manovrare i fili.» «Sì, ma, dopo che me ne sono andato, è cambiato qualcosa?» «Per te è cambiato qualcosa. Hai dimostrato di avere una spina dorsale.» «E con questo, che cosa ho ottenuto?» Anawak tacque. «Sai, la cosa peggiore è questa sensazione di non appartenere a niente», disse Greywolf. «Ami una persona e la perdi. Ami gli animali e sono loro che ti uccidono. Progressivamente sto arrivando a odiare i cetacei. Capisci quello che dico? Comincio a odiare i cetacei!»
«Abbiamo tutti questo problema, e noi...» «No! Ho visto Alicia morire nella bocca di un'orca e non ho potuto far niente per aiutarla. Questo è un problema mio! Se morissi ora, in questo istante, non cambierebbe nulla nel destino del mondo. A chi interessa? Non ho fatto nulla per cui si possa dire che la mia presenza su questo pianeta abbia avuto un senso.» «Interessa a me.» Greywolf lo guardò. Anawak si aspettava un commento cinico, ma non ottenne altro che un rumore smorzato, un gorgoglio nella gola di Greywolf, come un sospiro bloccato. «E, prima che te ne dimentichi, interessava anche ad Alicia», disse Anawak. Johanson La sua rabbia era tale che non ci avrebbe pensato due volte ad afferrare Rubin, a trascinarlo fino al ponte di volo e a scaraventarlo fuori bordo. E forse l'avrebbe fatto davvero se avesse incrociato il biologo. Ma Rubin non si vedeva. Invece Johanson incontrò Karen, che stava scendendo. Sul momento non seppe cosa fare. Poi si ricompose. «Karen!» Sorrise. «Sei venuta a trovarci?» «A dire la verità volevo andare nel ponte a pozzo. Da Leon e Jack.» «Ah, sì, Jack.» Johanson si costrinse a stare calmo. «Non sta bene, vero?» «No. Credo che tra lui e Alicia ci fosse molto più di quanto lui stesso credesse. È difficile avvicinarsi a lui.» «Leon è suo amico. Ce la farà.» Karen annuì e guardò Johanson con aria interrogativa. «Stai bene?» gli chiese. «Magnificamente.» Le prese una mano. «Ho appena avuto un'idea sensazionale su come prendere contatto con gli yrr. Vieni con me in coperta?» «In effetti volevo...» «Solo per dieci minuti. Ho bisogno della tua opinione. Questo continuo girare in spazi chiusi mi dà sui nervi.» «I tuoi abiti sono troppo leggeri per andare in coperta.» Johanson si guardò. Indossava un pullover e i jeans. La sua giacca a vento era appesa in laboratorio. «Irrobustimento», disse. «Contro che cosa?»
«Contro l'influenza. Contro la vecchiaia. Contro le domande stupide! Che ne so?» Si rese conto di aver alzato la voce. Controllati, pensò. «Ascolta, devo assolutamente sbarazzarmi di questa idea che è legata alla vostra simulazione. Non ho voglia di farlo qui sulla rampa. Vieni?» «Sì, certo.» Risalirono insieme la rampa e arrivarono all'interno dell'isola. Johanson si costrinse a non guardare in continuazione il soffitto e a non cercare telecamere e microfoni nascosti. Di certo non li avrebbe visti. Invece disse, in tono leggero: «Naturalmente Jude ha ragione: non bisogna affrettare i tempi. Credo che avremo bisogno di un paio di giorni prima che l'idea sia matura, perché si basa su...» E così via. Dicendo cose prive di senso, guidò Karen fuori dall'isola, all'aria aperta, e la precedette gesticolando, finché non raggiunsero uno dei punti di atterraggio degli elicotteri. Faceva freddo e si era levato il vento. Addensamenti di foschia si erano distesi sul mare, le onde si erano alzate. Danzavano davanti a loro come animali preistorici, grigie e indolenti, e sollevavano l'odore di acqua salmastra. Johanson aveva un freddo cane, ma la sua rabbia lo riscaldava almeno all'interno. Infine si trovarono in un punto sufficientemente lontano dall'isola. «Per dirla tutta, non ho capito una parola», disse Karen. Johanson sollevò la testa contro il vento. «Infatti non c'è niente da capire. Credo che qui fuori non ci possano sentire. Dovrebbero aver allestito una cosa davvero dispendiosa per riuscire ad ascoltare le conversazioni sul ponte di volo.» Karen socchiuse le palpebre. «Ma di che stai parlando?» «Mi sono ricordato, Karen. Ora so cos'è successo l'altra notte.» «Hai trovato la porta?» «No. Ma so che c'è.» Le raccontò in poche parole tutta la storia. Karen lo ascoltava, impassibile. «Intendi dire che a bordo c'è una sorta di quinta colonna?» «Sì.» «Ma a che scopo?» «Hai sentito quello che ha detto Jude: non bisogna affrettare i tempi. Voglio dire, tutti noi - tu e Leon, Sue e io, anche Rubin naturalmente, Sam e Murray - abbiamo preparato una scheda segnaletica degli yrr. Forse c'illudiamo, forse abbiamo sbagliato clamorosamente, ma tutto fa pensare il contrario. Almeno dal punto di vista teorico sappiamo con quale tipo d'intelligenza aliena abbiamo a che fare e come funziona. Abbiamo lavorato a
pieno ritmo per scoprirlo. E improvvisamente possiamo prendercela con calma?» «Perché non hanno più bisogno di noi», replicò lei in tono piatto. «Perché Mick ci sta lavorando in un altro laboratorio con altra gente.» «Noi siamo i fornitori», confermò Johanson. «Abbiamo fatto il nostro dovere.» «Ma perché?» Karen scosse la testa, incredula. «Quale obiettivo può perseguire Mick che non sia in accordo coi nostri? Quali alternative ci sono? Dobbiamo arrivare a un accordo con gli yrr! Che cos'altro può volere?» «È stato avviato un piano alternativo. Mick fa il doppio gioco, ma non è un'idea sua.» «E di chi, allora?» «Dietro di esso c'è Jude.» «Sei stato diffidente nei suoi confronti fin dall'inizio, vero?» «E lei lo è stata nei mie confronti. Entrambi abbiamo capito subito che nessuno dei due era da sottovalutare. In sua presenza ho sempre avuto questa sensazione, solo che mi appariva ridicola. Non trovavo un unico motivo convincente per non fidarmi di lei.» Rimasero per un po' in silenzio. «E ora?» chiese poi Karen. «Ora ho tempo di ragionare a mente fredda», rispose Johanson, stringendosi le braccia intorno al corpo. «Jude ci vedrà qui. Credo che mi tenga d'occhio con molta attenzione. Non può essere sicura di quello di cui parliamo, ma naturalmente parte dal presupposto che prima o poi tornerò a ricordare. Il tempo stringe. Stamattina, per la prima volta, ci ha dato lo stop. Se sta seguendo un suo piano, allora agirà ora.» «Quindi dobbiamo scoprire in fretta che cos'ha in mente.» Karen rifletté. «Perché non raduniamo gli altri?» «Troppo rischioso. Se ne accorgerebbe subito. Sono certo che tutte le sale della nave sono sorvegliate. Non dovrebbero far altroché chiudere la porta e gettare via la chiave. Voglio costringere Jude nell'angolo. Voglio sapere cosa succede e, per farlo, ho bisogno di te.» Karen annuì. «Okay. Che devo fare?» «Trovare Rubin e torchiarlo, mentre io do una strapazzata a Jude.» «Hai idea di dove sia?» «Forse in quel laboratorio misterioso. Ora so dov'è, però non ho idea di come si faccia a entrare. Ma forse è da qualche altra parte nella nave.» Jo-
hanson sospirò. «Mi rendo conto che sembra un film di serie Z. Forse sono io a essere impazzito. Forse soffro di paranoia... Se è così, potrò comunque fare ammenda. Ma adesso voglio sapere cosa sta succedendo!» «Tu non sei paranoico.» Johanson la guardò e le sorrise, riconoscente. «Torniamo indietro.» Sulla strada verso l'isola, continuarono a intrattenersi sul messaggio decifrato e sui contatti pacifici. «Io vado da Leon», concluse Karen. «Vediamo che ne pensa della tua proposta. Forse già oggi pomeriggio potremo fare insieme il programma e testarlo.» «Buona idea, a dopo», disse Johanson. Guardò Karen scendere la rampa. Poi prese una scaletta di boccaporto, scese al livello 2 e gettò un'occhiata nel CIC, dove Samantha e Shankar erano davanti ai loro computer. «Che cosa state combinando?» chiese con tono leggero. «Pensiamo», rispose lei in mezzo alla sua tipica nuvola di fumo. «E voi, procedete coi feromoni?» «Sue ne sta giusto sintetizzando un nuovo carico. Dovremmo ormai avere una dozzina di provette.» «Allora siete più avanti di noi. Abbiamo sempre più dubbi sul fatto che la matematica sia l'unica via per il successo nella comunicazione», commentò Shankar. Il suo viso scuro si contrasse in una smorfia amara. «Credo che sappiano fare i conti meglio di noi.» «Quale sarebbe l'alternativa?» «Le emozioni.» Samantha soffiò il fumo dalle narici. «Ridicolo, vero? Voler raggiungere gli yrr coi sentimenti. Ma se i loro sentimenti sono di natura biochimica...» «Come i nostri», notò Murray. «... forse l'odore potrebbe aiutarci anche in altro modo. Sì, grazie, Murray. Lo so. Anche l'amore è chimica.» «E tu, Sigur, hai qualcuno verso cui ti senti attratto chimicamente?» scherzò Shankar. «No, al momento ho attenzioni solo per me stesso.» Si guardò intorno. «Per caso, avete visto Jude da qualche parte?» «Poco fa era nel LFOC», rispose Samantha. «Grazie.» «Ah, già, Mick ti cercava.» «Mick?»
«Erano seduti là insieme a chiacchierare. Mick voleva andare in laboratorio, è stato qualche minuto fa.» Bene. Così si sarebbe imbattuto in Karen. «Fantastico», esclamò Johanson. «Mick ci può aiutare nella sintesi. Almeno finché non gli arriva un attacco di emicrania. Poveraccio.» «Dovrebbe abituarsi a fumare», disse Samantha. «Il fumo fa bene contro il mal di testa.» Johanson sorrise e andò nel LFOC. La maggior parte dei dati veniva archiviata nei sistemi che si trovavano lì, così Samantha e Murray potevano lavorare indisturbati nel CIC. Dagli altoparlanti arrivavano deboli fruscii e di tanto in tanto fischi e clic. Su un monitor passò l'ombra di un delfino. Evidentemente Greywolf aveva fatto uscire gli animali. Di Judith Li, Peak e Vanderbilt non c'era traccia. Johanson raggiunse il JIC. Era vuoto, come pure lo erano le sale di comando e di controllo. Pensò di andare a vedere nella mensa ufficiali, ma poi si rese conto che là probabilmente avrebbe trovato solo gli uomini di Vanderbilt e qualche soldato. Judith poteva essere in palestra o nel suo alloggio. Non aveva tempo di cercare in tutta la nave. Se Rubin era diretto in laboratorio, Karen l'avrebbe trovato. Doveva riuscire a parlare prima con Judith Li. Va bene, pensò. Se non sarò io a trovarti, sarai tu a trovare me. Senza fretta, andò alla sua cabina, entrò e si piazzò in mezzo alla stanza. «Salve, Jude», disse. Dove potevano essere le telecamere e i microfoni? Inutile cercarli, comunque c'erano. «Pensi un po' cosa mi è successo... Mi è venuto in mente che, sopra il laboratorio grande, c'è un secondo laboratorio, in cui Mick ama ritirarsi quando gli viene l'emicrania. Vorrei tanto sapere cosa fa là dentro, a parte menare i colleghi.» Il suo sguardo scorreva sui mobili, sulle lampade, sul televisore. «Credo tuttavia che non me lo dirà di sua spontanea volontà, eh, Jude? Ho preso qualche precauzione. Vede, nel giro di pochissimo tempo tutta la squadra sarà al corrente dei miei ricordi, senza che lei abbia la minima possibilità d'impedirlo.» L'aveva sparata grossa, ma sperava che lei la bevesse. «Potrebbe interessarle? E a lei, Sal? Ah, già, quasi dimenticavo: che ne dice, Jack? Che ne pensate?» Andò lentamente avanti e indietro nella stanza. «Io ho tempo. E lei? Direi proprio di no.» Allargò le braccia e sorrise.
«Potremmo trattare tutta questa faccenda in maniera confidenziale. Forse ci sono intenzioni del tutto onorevoli nella struttura ombra costruita dai vostri uomini. Forse è tutto nell'interesse della sicurezza nazionale. Non è che mi piaccia granché essere colpito in quel modo, Jude. Lo capisce, vero? Vorrei parlarne con lei ma, a quanto sembra, l'intero gruppo è stato colpito dall'emicrania di Rubin. Siete tutti a letto col mal di testa?» Fece una pausa. E se a Judith Li non importasse ormai più nulla? Se non lo sentiva? Allora sarebbe rimasto lì come un idiota ad andare avanti e indietro nella sua stanza. «Jude?» Si guardò intorno. Sì, lo ascoltavano. Era sicurissimo che lo ascoltavano. «Jude, mi è venuto in mente che lei ha finanziato la spesa di un simulatore per Rubin. Ho visto che è molto più piccolo del nostro, ma vorrei sapere questo: cosa studia lì che non possa studiare anche nel nostro? Non è che vi siete alleati con gli yrr alle nostre spalle? Mi aiuti a capire, Jude, non ho la minima idea di che cosa...» «Dottor Johanson.» Si girò. Sulla soglia c'era l'alta e nera figura di Peak. «Ma che sorpresa», mormorò Johanson. «Il caro, vecchio Sal! Gradisce un tè?» «Jude vorrebbe parlarle.» «Ah, Jude.» Johanson piegò gli angoli della bocca in un mezzo sorriso. «Che vuole da me?» «Mi segua.» «Be', credo che si possa fare.» Karen Weaver Quando Karen entrò, Sue stava uscendo dal laboratorio di massima sicurezza con un contenitore metallico. «Hai visto Mick?» «No, ormai vedo solo feromoni.» Sue sollevò il contenitore. Era aperto su entrambi i lati. Una valigetta per i campioni con supporti per le provette. E infatti all'interno si allineava una dozzina di provette, piene di un liquido chiaro. «Ma ha chiamato poco fa per minacciare il suo arrivo. Dovrebbe essere qui da un momento all'altro.» «Eau de yrr?» chiese Karen, lanciando un'occhiata alle provette. «Sì. Oggi pomeriggio ne metteremo un po' nel simulatore. Così vedremo
se riusciremo a convincere le cellule a fondersi. Sarà, per così dire, la santificazione della nostra teoria.» Sue si guardò intorno. «Controdomanda: hai visto Sigur?» «Poco fa, sul ponte di volo. Ha sviluppato un paio d'idee interessanti per aiutare Sam. Ripasso tra un po'.» «Fa' pure.» Karen rifletté. Poteva dare un'occhiata al ponte dell'hangar. Ma, se Johanson aveva ragione, avrebbe dato immediatamente nell'occhio. Inoltre c'erano pochissime possibilità che la porta proibita venisse aperta finché lei gironzolava da quelle parti. Seguì il tunnel fino al ponte a pozzo. Il bacino era stato riempito quasi completamente. Sul molo c'erano alcuni tecnici di Roscovitz, che sorvegliavano la procedura. In acqua, lei vide Greywolf e Anawak. «Avete mandato fuori i delfini?» gridò. Anawak uscì dall'acqua. «Sì.» Andò verso di lei. «Cos'hai fatto nel frattempo?» «Non molto, a essere sincera. Credo che tutti noi abbiamo bisogno di rimettere ordine nei nostri pensieri.» «Possiamo rimetterli in ordine insieme», disse Leon sottovoce. Karen incontrò il suo sguardo e pensò a quanto volentieri l'avrebbe preso tra le braccia. Dimenticare tutta questa storia spaventosa e fare solo quello che era necessario... Ma quella storia incombeva su tutti loro. E là c'era Greywolf, che aveva perso Alicia. Fece un sorriso fugace. Livello 3 Senza dire una parola, Johanson seguì Peak, che zoppicava. Scesero, attraversarono una parte dell'ospedale e s'incamminarono lungo un corridoio. Dopo una diramazione, si trovarono davanti a una porta chiusa. «Che settore è questo?» chiese Johanson, mentre le dita di Peak scivolavano su una tastiera. Un segnale elettronico risuonò nelle sue orecchie. La porta si aprì. Il corridoio proseguiva dalla parte opposta. «Sopra di noi c'è il CIC», spiegò Peak. Johanson cercò di orientarsi, ma era difficile valutare le dimensioni della nave. Se sopra di loro c'era il CIC, verosimilmente il laboratorio segreto era sotto i loro piedi.
Raggiunsero una seconda porta. Stavolta Peak si dovette sottoporre a uno scanner della retina prima di poter entrare. Johanson adocchiò una sala che assomigliava al CIC, avvolta da ronzii elettronici. Le voci e i rumori erano attutiti. C'era almeno una dozzina di persone intente al lavoro. Vide su numerosi monitor le immagini dei satelliti e delle telecamere sottomarine, alcune sezioni delle rampe, l'interno del ponte in cui si trovavano Buchanan e Anderson, il ponte di volo e il ponte dell'hangar. Vide Samantha e Shankar seduti nel CIC, Karen Weaver con Anawak e Greywolf nel ponte a pozzo e Sue nel laboratorio. Altri schermi mostravano l'interno delle cabine. Anche la sua. A giudicare dall'angolazione, la telecamera doveva trovarsi proprio sopra la porta. Doveva essere stata una gran bella ripresa, quella del suo monologo al centro della stanza. Judith Li e Vanderbilt erano seduti a un grande tavolo illuminato. Judith si alzò. «Salve, Jude», esordì Johanson cordialmente. «Carino, questo posto.» «Sigur...» disse lei, rispondendo al sorriso. «Credo che ci dobbiamo scusare con lei.» «Ma non parliamone neppure.» Johanson si guardava intorno, stupito. «Sono impressionato. Sembra che esista un duplicato di tutte le cose importanti.» «Se le interessa, posso mostrarle i progetti.» «Mi basterebbe una spiegazione.» «E l'avrà.» Judith parve imbarazzata. «Prima, però, vorrei dirle quanto mi dispiace che lei abbia scoperto tutto in questo modo. Rubin non avrebbe dovuto spingersi a tanto.» «Dimentichiamoci quello che ha fatto. Vorrei sapere che cosa fa ora. Per l'appunto: cosa fa in questo laboratorio?» «Sta producendo un veleno», rispose Vanderbilt. «Un...» Johanson deglutì. «Un veleno?» «Mio Dio, Sigur.» Judith si torse le mani. «Non possiamo affidarci a una soluzione pacifica con gli yrr. So quanto deve suonare orribile per lei: un tradimento della fiducia, un gioco sporco, ma... Non volevamo indirizzare lei e gli altri nella direzione sbagliata. Per arrivare a scoprire qualcosa sugli yrr, era assolutamente necessario farvi lavorare a una soluzione pacifica e tutti voi avete fatto un lavoro magnifico. Ma non sareste arrivati a tanto se il compito fosse stato quello di sviluppare delle armi.» «Ma di che diavolo sta parlando? Che razza di armi?» «Pace e guerra sono antitetiche. Chi lavora alla pace non può pensare al-
la guerra. Mick studia le alternative. Sulla base delle vostre conoscenze.» «Studia un veleno per annientare gli yrr?» «Se ci fossimo fidati di lei, che cosa sarebbe successo?» disse Vanderbilt. «Un momento!» Johanson sollevò le mani. «Il nostro compito era stabilire un contatto. Spiegare a quelli laggiù che dovevano smetterla. Non annientarli.» «Che sognatore», sbuffò Vanderbilt, sprezzante. «Ma ce la possiamo fare, Jack! Maledizione, noi...» Johanson scosse la testa, allibito, incapace di comprendere. «Come pensa di farcela?» «Nel giro di pochi giorni abbiamo imparato tantissimo. Ci sarà una strada.» «E se non c'è?» «Perché non ci avete informati? Perché non avete parlato apertamente? Miriamo tutti allo stesso scopo!» «Sigur...» Judith lo guardò con espressione grave. «Quello che stiamo facendo qui non è esattamente in linea con l'incarico ricevuto dalle Nazioni Unite. Lo so che dobbiamo prendere contatto, ed è quello che cerchiamo di fare. D'altra parte, nessuno sarà dispiaciuto se elimineremo questo nemico. Non crede anche lei che debbano essere esplorate entrambe le strade?» Johanson la fissò. «Sì, lo credo anche io. Ma perché tutto questo circo?» «Perché il comando generale non si fida di lei», disse Judith Li. «Perché temono che lei e gli altri vi opporreste scoprendo che i vostri sforzi per ottenere contatti pacifici preparano il terreno a un'offensiva militare. Credono, appunto, che gli scienziati si comportino come nei film di fantascienza, che vogliano proteggere e studiare le specie sconosciute invece di distruggerle, anche se sono malvagie e pericolose...» «Film? Si riferisce forse ai film i cui i militari sparano su qualunque cosa non riescano a capire?» «Dicendo questo, conferma che abbiamo ragione», borbottò Vanderbilt, massaggiandosi la pancia. «Cerchi di capire, Sigur...» «Avete inscenato questo trucco perché pensavate che ci saremmo comportati come i personaggi di un film hollywoodiano?» «No.» Judith Li scosse energicamente la testa. «Certo che no. Si trattava semplicemente d'indirizzare la vostra attenzione esclusivamente sul contatto e sulla ricerca.»
Con un ampio gesto, Johanson indicò i monitor nella sala. «Ed è per questo che curiosate ovunque?» «Quello che ha fatto Rubin è stato un errore», insistette Judith Li. «Non ne aveva il diritto. Questa sorveglianza serve unicamente alla vostra sicurezza. Noi abbiamo lavorato in segreto a una soluzione militare per non rendere insicuri lei e gli altri e non distrarvi dal vostro vero compito.» «E in cosa consisterebbe questo... compito?» Johanson si portò vicinissimo a Judith e la guardò dritta negli occhi. «Ottenere la pace, oppure trattarci come dei gonzi che vi mettono a disposizione tutte le conoscenze necessarie a preparare un'offensiva militare pianificata già da tempo?» «Dobbiamo pensare a entrambe le cose.» «A che punto è Mick con la sua variante militare?» «Ha qualche idea che potrebbe funzionare, ma ancora niente di concreto.» La donna respirò profondamente e lo guardò dritto negli occhi, risoluta. «La prego, nell'interesse della sicurezza, di non dire nulla agli altri, almeno per il momento. Ci dia il tempo di fare quello che dobbiamo, in modo che il lavoro su cui si fondano le speranze di miliardi di persone non venga interrotto. Molto presto, lavoreremo insieme a tutte le varianti. Ora che avete portato a termine il lavoro incredibile di dare un volto al nemico, non abbiamo più nessun motivo di tenere segreto questo aspetto della missione. E se lavoreremo insieme a un'arma, sarà nella speranza di non essere costretti...» «Posso dirle una cosa, Jude?» sibilò Johanson. Le andò così vicino che i loro volti quasi si sfiorarono. «Non credo a una sola parola di quello che mi ha detto. Non appena avrete le vostre maledette armi le userete. Non potete neppure immaginare la responsabilità che vi assumete. Quelli sono organismi unicellulari, Jude! Miliardi e miliardi di organismi unicellulari! Esistono dall'inizio del mondo. Non abbiamo la minima idea del ruolo che giochino nell'ecosistema. Non sappiamo che cosa succederà agli oceani se li avveleniamo. Non sappiamo che cosa succederà a noi. Ma soprattutto, non saremo in grado di fermare quello che loro hanno messo in movimento! Ma le capisce queste cose oppure no? Come pensa di rimettere in movimento la Corrente del Golfo senza gli yrr? Che cosa pensa di fare contro i vermi senza gli yrr?» «Se schiacceremo gli yrr, spazzeremo via anche i vermi e i batteri», replicò lei. «Come? Vuole spazzare via i batteri? Tutto questo pianeta è fatto di batteri! Vuole estinguere i microrganismi? Ma di quale delirio d'onnipotenza
è vittima? Se ci riuscisse, condannerebbe a morte tutta la vita sulla Terra. Sarebbe lei a distruggere il pianeta, non gli yrr. Morirebbero tutte le specie animali nel mare, e poi...» «Appunto, moriranno», gridò Vanderbilt. «Stupido, ignorante, stronzo scienziato testa d'uovo! Se muore qualche specie di pesce, ma in compenso noi sopravviviamo...» «Non sopravviveremo!» gridò Johanson a sua volta. «Non lo capite? Tutte le cose sono legate. Non possiamo combattere gli yrr. Sono superiori. Contro i microrganismi non possiamo fare niente! Contro una semplice infezione virale non possiamo fare niente. L'uomo vive perché la Terra è dominata dai microbi.» «Sigur...» lo implorò Judith Li. Johanson si girò. «Apra quella porta», sibilò. «Non intendo continuare questa conversazione.» «Va bene.» Judith Li annuì, serrando le labbra. «Allora si accomodi e conservi il suo senso di giustizia. Sal, apra la porta al dottor Johanson.» Peak esitò. «Sal, non ha sentito? Il dottor Johanson desidera andarsene.» «Non possiamo propria convincerla che stiamo facendo la cosa giusta?» chiese Peak in tono afflitto, disperato. «Apra la porta, Sal», ripeté Johanson. Controvoglia, Peak si mosse e schiacciò un pulsante nella parete. La porta si aprì, scivolando. «Anche quella dietro, se non le dispiace.» «Ovviamente.» Johanson uscì. «Sigur!» Lui si fermò. «Cosa vuole, Jude?» «Lei mi ha rimproverato di non saper valutare le mie responsabilità. Forse ha ragione. Ma adesso valuti le sue. Se va dagli altri a raccontare ciò che ha visto qui dentro, comprometterà tutto il lavoro fatto su questa nave. Lo sa più che bene. Forse noi non avevamo il diritto di mentirle, però rifletta: ha il diritto di farlo?» Johanson si girò lentamente. Judith Li era sulla soglia della sala di controllo. «Ci rifletterò», disse. «Allora proviamo a trovare un compromesso. Mi dia il tempo di trovare una strada e, nel frattempo, non dica nulla. Stasera ne parleremo tra noi. Fino ad allora, nessuno di noi farà qualcosa che metta in difficoltà l'altro.
Si sente di accettare questa proposta?» Johanson serrò le mascelle. Cosa sarebbe successo se avesse fatto esplodere la bomba? E cosa sarebbe successo a lui se avesse rifiutato? «Va bene», mormorò. Judith Li sorrise. «Grazie, Sigur.» Karen Weaver Avrebbe preferito rimanere nel ponte a pozzo. Anawak faceva del suo meglio per rasserenare Greywolf. Lei voleva stare col primo, perché si sentiva attratta da lui, e non voleva lasciare il secondo, perché l'infelicità di Greywolf era quasi tangibile. Trovava spaventoso vedere quel gigante, che fino a poco prima sprizzava energia da tutti i pori, ridotto alla disperazione. Ma trovava ancora più spaventoso quello che Johanson le aveva raccontato. Più ci pensava, più quello che stava succedendo a bordo dell'Independence le sembrava mostruoso. Qualcosa le diceva che stavano correndo tutti un grave pericolo. Forse Rubin era tornato. «A dopo», disse ai due. «Devo sbrigare una faccenda.» Si accorse subito di aver usato un tono troppo disinvolto. Anawak aggrottò la fronte. «Che cos'è successo?» chiese. «Niente di particolare.» Non era brava a mentire... Risalì in fretta la rampa e percorse il corridoio contiguo. La porta del laboratorio era aperta. Quando entrò, vide Sue intenta a parlare con Rubin. Erano a uno dei tavoli del laboratorio. Rubin si girò verso di lei. «Ciao. Volevi chiedermi qualcosa?» Karen schiacciò l'interruttore interno, in modo che la paratia si chiudesse alle sue spalle. «Sì. Mi dovresti spiegare una cosa.» «Nelle spiegazioni sono un grande», sogghignò Rubin. «Davvero?» Si avvicinò ai due, sbirciando il tavolo, su cui erano disposte numerose attrezzature. In un sostegno, c'erano anche vari bisturi. «Potresti spiegarmi a cosa serve il laboratorio proprio sopra di noi, cosa fai là dentro e perché l'altra notte hai colpito Sigur dopo che aveva scoperto il trucco.» Ponte dell'hangar
Johanson era pervaso da una furia così incontrollabile da non sapere dove andare. Poi corse al ponte dell'hangar ed esaminò la parete. Il suo ricordo gli diceva che lì c'era la porta, ma lui non trovò nulla che lasciasse pensare a un passaggio nascosto. In fondo era del tutto superfluo cercarla, perché Judith Li aveva ammesso che quel laboratorio esisteva. Però quello non gli bastava. Improvvisamente notò alcuni punti in cui, sulla vernice grigia, c'era una patina di ruggine. In effetti li aveva già notati, però non aveva dato loro importanza: la ruggine e la vernice che si sfogliava erano un fatto assolutamente normale su una nave. In quel momento, però, comprese cosa non quadrava. Non poteva esserci della ruggine su una nave nuova. E l'Independence era nuova fiammante. Fece alcuni passi indietro. Se seguiva i tubi da sinistra verso il basso, si vedeva che arrivavano a una lunga striscia di ruggine. Un po' più in là erano appesi i quadri degli interruttori. Anche lì sotto la vernice si sollevava. La porta era là. Era mimetizzata benissimo. Se non l'avesse cercata con zelo maniacale, non l'avrebbe mai notata. Quel perfetto camuffamento l'aveva ingannato anche prima, quando aveva esaminato la parete con Karen. Benché non riuscisse ancora a vedere i contorni, notò vari dettagli, apparentemente casuali, che concorrevano all'effetto finale: nascondere la porta. Era entrato da lì. Karen! Aveva trovato Rubin? Che doveva fare? Richiamarla, mantenendo fede all'accordo fatto con Judith Li? Quale valore aveva quell'accordo? Aveva fatto bene ad accettare una trattativa con il generale Li? Percorreva avanti e indietro il grande ponte deserto, ansimando, indeciso sul da farsi. Improvvisamente, la nave gli apparve come una prigione. Anche l'hangar tetro, illuminato dalla luce gialla, aveva qualcosa d'inquietante. Doveva riflettere. Aveva bisogno d'aria fresca. Ad ampie falcate si diresse verso la piattaforma dell'elevatore esterno. Soffiava un vento impetuoso, che gli scompigliava i capelli. Il mare era ancora più agitato. Nel giro di qualche secondo, una pellicola di schiuma gli coprì il volto. Andò sul bordo della piattaforma e guardò il paesaggio
lunare, frastagliato e in movimento del mar di Groenlandia. Che doveva fare? Sala di controllo Judith Li si trovava davanti ai monitor. Vide Johanson che esaminava la parete e poi, frustrato, lasciava l'hangar. «Perché questo ridicolo accordo?» brontolò Vanderbilt. «Crede davvero che terrà la bocca chiusa fino a stasera?» «Mi fido di lui», disse Judith Li. «E se si sbagliasse?» Johanson sparì nell'ingresso dell'elevatore esterno. Judith Li si girò verso Vanderbilt. «Domanda superflua, Jack. Ovviamente il problema lo risolverà lei. E proprio ora.» «Un momento.» Peak sollevò le mani. «Questo non era previsto.» «Risolvere? Che significa risolvere?» chiese Vanderbilt, subdolo. «Risolvere significa risolvere», sbottò Judith Li. «Sta arrivando una tempesta. E con la tempesta non si dovrebbe stare fuori. Un colpo di vento...» «No.» Peak scosse la testa. «L'accordo non era questo.» «Sal, tenga la bocca chiusa.» «Maledizione, Jude! Possiamo chiuderlo in cella per un paio d'ore, Basterebbero, eccome!» «Jack», disse Judith Li a Vanderbilt, senza degnare Peak di uno sguardo. «Faccia il suo lavoro. E, per cortesia, lo faccia personalmente.» Vanderbilt sorrise. «Con piacere, tesoruccio. Con grande piacere.» Laboratorio Il viso già lungo di Sue Oliviera divenne ancora più lungo. Fissò prima Karen poi Rubin. «Allora?» disse Karen. «Non ho la più pallida idea di cosa stai dicendo.» «Mick, ascolta.» Si piazzò tra lui e il tavolo e mise un braccio intorno alle spalle di Rubin con fare quasi amichevole. «Non sono una grande oratrice né sono brava nelle chiacchiere da salotto. Le persone come me non vengono invitate ai cocktail e non si mandano sul podio. Io preferisco le conversazioni veloci ed essenziali. Allora non menare il can per l'aia. Te lo
ripeto. Lassù, proprio sopra di noi, c'è un laboratorio. Vi si accede dal ponte dell'hangar ed è ben mimetizzato, ma Sigur ti ha visto entrare e uscire. Per questo gli hai procurato un bel bernoccolo, vero?» «È la più grande sciocchezza che... No!» Con la mano libera, Karen aveva preso dal supporto uno dei bisturi e gli premeva la punta sulla carotide. Rubin indietreggiò sussultando. Karen spinse un po' il bisturi, toccando il muscolo. Il biologo era stretto nel suo abbraccio come in una morsa. «Sei impazzita?» gemette. «Cos'è questa storia?» «Mick, non sono una fragile donnina. Ho parecchia forza. Quand'ero piccola, ho abbracciato dei gatti e, per sbaglio, li ho stritolati. Terribile, vero? Volevo solo abbracciarli e invece cric, crac... Rifletti bene su quello che dici. Perché, in realtà, non ti voglio soltanto abbracciare.» Vanderbilt Jack Vanderbilt non era particolarmente entusiasta di uccidere Johanson, ma nemmeno gli importava granché di lasciarlo in vita. In un certo senso, quell'uomo gli piaceva. Nel contempo, però, gli era del tutto indifferente. Si trattava di un incarico, e l'incarico era preciso. Se Johanson costituiva un rischio per la sicurezza, non lo sarebbe rimasto a lungo. Floyd Anderson lo seguiva. Il primo ufficiale, come la maggior parte degli uomini a bordo, aveva una doppia funzione. Era un esperto marinaio, ma anzitutto lavorava per la CIA. Quasi tutti a bordo, tranne Buchanan e alcuni membri dell'equipaggio, lavoravano per la CIA. Anderson aveva preso parte a operazioni segrete in Pakistan e nel Golfo. Era bravo. Ed era un killer. Vanderbilt stava pensando a come si era ribaltata la situazione. Fino a poco prima, si era aggrappato all'idea di dover combattere contro un manipolo di terroristi; adesso invece era costretto ad ammettere che Johanson aveva avuto ragione fin dall'inizio. In sé era un peccato doverlo uccidere, soprattutto dietro incarico di Judith Li. Vanderbilt era disgustato da quella strega dagli occhi acquamarina. Judith Li era un'imbrogliona, una paranoica... La odiava, ma non poteva sottrarsi alla perfida logica con cui lei aveva deciso quell'omicidio. Eppure, nel suo delirio, Judith Li aveva ragione. Anche quella volta. Gli venne in mente quando, a Nanaimo, aveva messo Johanson in guardia contro di lei.
Detto fra noi, è un po' matta. Capisce? Era chiaro che Johanson non aveva capito. E come avrebbe potuto? All'inizio, nessuno capiva cosa ci fosse di anormale in Judith Li: diffidava di tutto e di tutti, era mossa da un'incontenibile ambizione, reagiva sempre in maniera eccessiva, mentiva e ingannava, sacrificava qualsiasi cosa ai suoi obiettivi. Judith Li, la cocca del presidente degli Stati Uniti. E lui non se ne accorgeva. L'uomo più potente del mondo non aveva la minima idea della persona cui stava cedendo il suo potere. Dovremo stare tutti molto attenti, pensò Vanderbilt. Nel caso, bisognerà essere pronti anche a impugnare un'arma e risolvere il problema. Prima o poi. Percorrevano rapidamente i corridoi. Mettendosi sulla piattaforma dell'elevatore esterno, Johanson non avrebbe potuto fargli un piacere più grande. Come aveva detto quella pazza? Un colpo di vento... Sala di controllo Vanderbilt aveva appena lasciato la sala, quando uno degli uomini alla console chiamò Judith Li e indicò un monitor. «Nel laboratorio sta succedendo qualcosa», disse. Judith guardò le immagini. C'erano Karen Weaver, Sue Oliviera e Mick Rubin. Erano vicini. Molto vicini. Karen aveva messo un braccio intorno alle spalle di Rubin e lo stringeva a sé. Da quando quei due se la intendevano? «Alzare il volume», ordinò. Si sentì la voce di Karen. Era bassa, ma sufficientemente chiara. Stava chiedendo a Rubin del laboratorio segreto. Zoomando, si poté cogliere la paura sul volto di Rubin e qualcosa che brillava nella mano di Karen, qualcosa che stava molto vicino alla gola del biologo. Judith Li aveva visto e sentito a sufficienza. «Sal! Lei e tre uomini. Armi con colpi esplosivi. Presto. Andiamo giù.» «Che intende fare?» chiese Peak. «Riportare l'ordine.» Voltò le spalle al monitor e andò verso la porta. «La sua domanda ci è costata due secondi, Sal. Non sprechi il nostro tempo, altrimenti la faccio fuori. Gli uomini qui. Nel giro di un minuto, voglio che Karen Weaver si tolga qualsiasi idea che le sia passata per la testa. Per gli scienziati, l'età dell'oro è finita.»
Laboratorio «Lurido maiale», stava dicendo Sue. «Hai colpito Sigur. Che vuol dire questa storia?» Negli occhi di Rubin c'era il terrore. Il suo sguardo dardeggiò verso il soffitto. «Non è vero, io...» «Non guardare la telecamera, Mick», sibilò Karen. «Sarai morto prima che qualcuno ti possa aiutare.» L'uomo prese a tremare. «Te lo chiedo un'altra volta, Mick. Cosa fate là?» «Abbiamo sviluppato un veleno», ansimò lui. «Un veleno?» gli fece eco Sue. «Abbiamo usato il tuo lavoro, Sue. Il tuo e quello di Sigur. Dopo che avete trovato la formula del feromone, è stato facile produrlo in quantità sufficiente e... L'abbiamo accoppiato con un isotopo radioattivo.» «Voi avete... cosa?» «Il feromone è radioattivo, ma le cellule non se ne accorgono. L'abbiamo sperimentato...» «Come? Avete una cisterna ad alta pressione?» «Solo un modello più piccolo... Karen, ti prego, tira via il bisturi... Non hai nessuna possibilità! Vedono e sentono tutto quello che succede...» «Non blaterare», mormorò lei. «Va' avanti. E poi, che avete fatto?» «Abbiamo osservato come il feromone uccide gli yrr difettosi, quelli senza recettore speciale. Esattamente come hai spiegato tu, Sue. Dopo aver chiarito che la programmazione della morte delle cellule è tipica della biochimica degli yrr, dovevamo trovare una strada per portare alla morte anche le cellule sane.» «Attraverso il feromone?» «È l'unica strada. Non possiamo attaccare il genoma finché non è completamente decifrato e ci vorranno anni. Così abbiamo accoppiato la sostanza odorosa con un isotopo radioattivo che gli yrr non riconoscono.» «E cosa fa questo isotopo?» «Elimina l'effetto protettivo del recettore speciale. Così il feromone diventa per gli yrr una trappola mortale. Uccide anche le cellule sane.» «Perché non ci avete detto nulla?» Sue scosse la testa, sbalordita. «Nessuno di noi ama quelle bestie. Avremmo potuto trovare insieme una solu-
zione.» «Judith ha un suo piano», bofonchiò Rubin. «Ma così non funzionerebbe!» «Ha funzionato. L'abbiamo sperimentato.» «È una follia, Mick! Non avete idea del processo che state avviando. Cosa succederebbe se quella specie morisse? Gli yrr dominano il settanta per cento del nostro pianeta, dispongono di una bioteconologia sviluppatissima e antichissima. S'infilano negli altri organismi, probabilmente in tutta la vita marina, metabolizzano sostanze, forse il metano e il biossido di carbonio... Non abbiamo la minima idea di quello che può accadere alla Terra se li eliminiamo.» «Come mai tutti?» domandò Karen. «Il veleno non elimina solo alcune cellule? Oppure un insieme?» «No, mette in moto una reazione a catena», ansimò Rubin. «La morte programmata delle cellule. Non appena si fondono, si eliminano da sole. Quando il feromone si aggancia, è ormai troppo tardi. Una volta che il processo è iniziato, non è più possibile fermarlo. Noi decodifichiamo gli yrr... È come un virus mortale che si trasmettono a vicenda.» Sue afferrò Rubin per il colletto. «Dovete fermare l'esperimento», disse con foga. «Non potete percorre questa strada. Maledizione, non capisci che questi esseri sono i veri signori della Terra? Loro sono la Terra! Un superorganismo. L'oceano intelligente. Cosa succederebbe se...» «E se non lo fermiamo?» Rubin emise una risata gracchiante. «Non venire a farmi la predica! Moriremo tutti. Volete aspettare il prossimo tsunami? La prossima fuoriuscita di metano? La nuova Era Glaciale?» «Non siamo qui neppure da una settimana e abbiamo già avviato un contatto», ribatté Karen. «Perché non cerchiamo di continuare sulla strada della comprensione?» «Troppo tardi», gemette Rubin. I loro sguardi si spostavano dal soffitto alle pareti. Non sapevano quanto tempo restava prima dell'arrivo di Judith Li o di Peak. Forse sarebbe arrivato anche Vanderbilt. Probabilmente mancava poco. «Perché?» «Perché è così, stupida!» gridò Rubin. «Tra meno di due ore metteremo in azione il veleno.» «Siete pazzi», mormorò Sue. «Voglio sapere esattamente come farete, Mick. Altrimenti la mia mano scivolerà e...»
«Non sono autorizzato a parlare!» «Dico sul serio.» Rubin tremò ancora di più. «Due siluri che contengono il veleno sono pronti per il Deepflight 3. Abbiamo riempito i proiettili...» «Sono già a bordo?» «No, dovevo attrezzare l'imbarcazione tra poco per...» «Chi va giù?» «Judith e io.» «Scende anche Judith?» «È stata una sua idea. Non lascia niente al caso.» Rubin si sforzò di sorridere. «Non potrete far nulla contro di lei, Karen. Noi salveremo il mondo. Sarà il nostro nome quello che verrà ricordato...» «Chiudi la bocca, Mick.» Karen cominciò a scivolare in direzione della porta. «Ora andiamo in quel laboratorio. L'imbarcazione non sarà caricata. C'è appena stato un cambio nella sceneggiatura.» Ponte a pozzo «C'è qualcosa fra te e Karen?» chiese Greywolf, mentre riponeva l'attrezzatura nel container. Anawak sobbalzò. «No, assolutamente no.» «Davvero?» «Andiamo d'accordo. Credo sia tutto lì.» «Almeno tu dovresti cominciare a fare qualcosa di giusto», borbottò Greywolf, fissandolo. «Non so se lei sia interessata a...» D'un tratto, Anawak si rese conto di ciò che aveva appena ammesso con se stesso e a Greywolf. «Davvero, Jack, non lo so. Purtroppo in queste cose sono un vero imbranato.» «Lo so», ridacchiò l'altro. «Doveva morire tuo padre perché arrivassi nel mondo dei viventi.» «Ehi...» «Non agitarti. Lo sai che ho ragione. Perché non vai da lei? Aspetta solo quello.» «Sono venuto qui per te, non per Karen.» «Sono perfettamente in grado di gestire la situazione. Va', su.» «Accidenti, Jack.» Anawak scosse la testa. «Smettila di seppellirti qui. Vieni su con me prima che ti crescano le pinne.» «Al momento, le pinne non mi dispiacerebbero.»
Anawak guardò verso il tunnel. Certo che voleva raggiungere Karen, ma, oltre al sentimento che aveva appena ammesso, c'era anche un altro motivo. Si era accorto che qualcosa la rendeva inquieta. Non l'aveva mai vista così tesa e agitata. Probabilmente stava riflettendo su quello che gli aveva raccontato di Johanson. «Va bene, sta' qui a fare la muffa», disse a Greywolf. «Se ci ripensi io sono su.» Lasciò il ponte a pozzo e passò davanti al laboratorio. Era chiuso, ma lui pensò di darci un'occhiata. Forse avrebbe trovato Johanson. Gli avrebbe chiesto qualcosa di più su quella faccenda... Poi cambiò idea e risalì la rampa verso il ponte dell'hangar, per dare un'occhiata alla parete misteriosa. Ma non lo fece. Non appena fu entrato nell'hangar, vide Vanderbilt e Anderson che stavano attraversando il passaggio per la piattaforma esterna. Improvvisamente ebbe una brutta sensazione. Che ci facevano lì? E dov'era finita Karen? Abisso Si era alzato il vento da ponente. Ululando, soffiava dalla calotta polare, trascinava frangenti schiumosi contro lo scafo dell'Independence, spazzava via dal mare gli ultimi residui di calore. Sotto la superficie violentemente scossa si formavano mulinelli e turbolenze, ma, con l'aumentare della profondità il mare diventava sempre più calmo. Fino a qualche mese prima, l'acqua gelida, appesantita dal sale, sprofondava in cascate. C'era sempre un freddo terribile, ma adesso, nell'oceano, all'acqua salata si mescolava quella dolce, proveniente dal rapido scioglimento delle masse di ghiaccio polari, verso le quali da un po' di tempo era stato dirottato il calore. La grande pompa nordatlantica - detta il polmone dei mari, perché, con l'acqua fredda, portava in profondità anche grandi quantità di ossigeno - si stava lentamente ma inesorabilmente fermando. Il nastro trasportatore delle correnti marine era fermo, la corrente che diffondeva il calore proveniente dai tropici si era esaurita. Eppure la pompa non aveva interrotto completamente il proprio lavoro. Anche se le cascate non erano più misurabili, c'erano ancora piccole masse d'acqua fredda che si spostavano in basso. Attraverso un silenzio senza lu-
ce, cadevano nell'abisso del bacino di Groenlandia, metro dopo metro, per centinaia, migliaia di metri. A tremila metri di profondità, appena sopra il fondale, le tenebre svanivano, attraversate da una lucentezza blu scuro. Si stendeva su una superficie gigantesca: non era una nuvola, bensì una formazione dalle pareti sottili, a forma di tubo, ancorata al suolo da innumerevoli piedini gelatinosi. All'interno del tubo, milioni di filamenti si piegavano in onde regolari, un prato di fili gelatinosi che si oscillavano con regolarità. Grandi frammenti di una sostanza bianchiccia si spostavano in direzione di un grande oggetto. La luce blu bastava appena per riconoscere la sua forma e illuminava due cupole aperte. Non si vedeva nulla di più del Deepflight affondato, che ormai giaceva nella melma degli abissi marini. Da un po' di tempo, l'organismo aveva riempito il batiscafo di grandi frammenti ghiacciati. Ma ormai l'interno era pieno, così i rifornimenti erano cessati. Una parte del tubo si strinse, sprofondò sul batiscafo e cominciò ad avvolgerlo. La sostanza trasparente si stese intorno allo scafo e s'ispessì, spingendo in basso le cupole. Alcune superfici, di un blu splendente, si allargarono e si avvolsero l'una sull'altra, finché il batiscafo non fu rinchiuso in un involucro, verso cui si dirigeva un lungo tubo sottile. Il tubo si mise a pulsare. Al suo interno veniva pompata dell'acqua, che proveniva da luoghi lontani. La sottilissima gelatina la aspirava da un grande pallone organico che stava sospeso un po' più in alto del batiscafo, ed era pieno di acqua più calda. La gelatina aveva preso quell'acqua dal vulcano di fango al largo della costa norvegese. Grazie all'acqua calda, e quindi più leggera, il pallone avrebbe potuto salire fino in superficie, ma il suo peso lo teneva in perfetto equilibrio. Il calore fluiva nell'involucro di gelatina che racchiudeva il batiscafo. I frammenti bianchi reagirono all'istante. Nel giro di qualche secondo, le gabbie di cristallo degli idrati si sciolsero. Come in un'esplosione, il metano compresso si espanse fino a centosessantaquattro volte il suo volume, riempì il Deepflight di gas e gonfiò l'involucro, finché questo non si tese. Il bozzolo di gelatina si staccò dal tubo e si chiuse. Il gas non poteva più uscire. Cominciò a salire verso l'alto, prima lentamente, poi, col diminuire della pressione, sempre più velocemente. Era un bozzolo che trascinava dentro di sé il batiscafo. Laboratorio
Karen continuò a tenere stretto Rubin e a puntargli la lama alla gola, ma non riuscirono ad uscire. La porta del laboratorio scivolò di lato. Tre soldati muniti di armi balzarono all'interno e le puntarono contro di loro. Karen sentì Sue emettere un grido di terrore e si fermò, senza tuttavia mollare Rubin. Judith Li entrò nel laboratorio seguita da Peak. «Lei non andrà da nessuna parte, Karen.» «Jude», ansimò Rubin. «Era ora che arrivaste! Mi liberi da questa pazza.» «Stia zitto», gli ordinò Peak. «Senza di lei non saremmo in una situazione così difficile.» Judith Li sorrise. «Davvero, Karen», disse con tono affabile. «Non crede che la sua reazione sia un po' esagerata?» «Rispetto a quello che ha raccontato Mick?» Karen scosse la testa. «No, non credo.» «E che ha raccontato?» «Oh, Mick è stato molto loquace. Non è vero, Mick? Ci hai traditi tutti.» «Mente», gracchiò Rubin. «Ha parlato di una reazione a catena, di veleno nelle testate dei siluri e del Deepflight 3. Ha anche accennato al fatto che voi due volete fare una gita, entro un paio d'ore.» «Mah», fece Judith Li e avanzò di un passo. Karen afferrò Rubin e lo trascinò indietro, verso Sue. La biologa stava vicino al tavolo del laboratorio ed era come pietrificata. Aveva ancora in mano la valigetta con le provette che contenevano il feromone. «Sa una cosa? Mick Rubin è forse il miglior biologo del mondo, però soffre di un complesso d'inferiorità», riprese Judith Li. «Vorrebbe tanto essere famoso. L'idea che il suo nome non venga tramandato ai posteri lo fa impazzire. Questo spiega il suo esagerato bisogno di comunicare. Lo guardi. Sarebbe capace di vendere sua madre per un po' di notorietà.» Si fermò. «Ma ormai non ha più importanza. Visto che sa che cosa vogliamo fare, si renderà anche conto delle necessità che dobbiamo affrontare. Ho fatto il possibile per evitare un'escalation, ma, giacché tutti sono al corrente del nostro piano, non mi rimane altra scelta.» «Ragioni, Karen», la supplicò Peak. «Lo lasci andare.» «Non lo farò», replicò lei. «Mi è utile. Con la sua copertura, potremo parlare di tutto.» «No, non parleremo più.» Judith Li estrasse la pistola e la puntò su Ka-
ren. «Lo liberi, Karen. Immediatamente, altrimenti le sparo. È la mia ultima offerta.» Karen guardò la piccola bocca nera della pistola. «Non arriverà a tanto», disse. «Ah, no?» «Non ha nessun motivo per farlo.» «Sta commettendo un errore, Jude», intervenne Sue con voce roca. «Non può usare quel veleno. Ho già spiegato a Mick che...» Judith spostò l'arma, la puntò contro Sue e sparò. La biologa fu scaraventata contro il tavolo e poi scivolò a terra. La valigetta con le provette le cadde di mano. Per un secondo, la donna fissò con sguardo incredulo il buco, grande come un pugno, che si era formato nel suo petto, poi i suoi occhi divennero vitrei. «No!» gridò Peak. «Per l'amor del cielo, che sta facendo?» L'arma ritornò su Karen. «Lo lasci andare», ripeté Judith Li. Elevatore esterno «Dottor Johanson!» Johanson si girò e vide Vanderbilt e Anderson. Stavano venendo verso di lui lungo la piattaforma. Anderson sembrava apatico, distaccato, con le pupille nere fisse in un punto indefinito, mentre Vanderbilt sfoggiava un largo sorriso. «Deve essere furioso con noi», disse, con un tono e con un atteggiamento amichevole. Johanson scrutò i due uomini. Si trovava alla fine della piattaforma, a pochi metri dal bordo. Violenti colpi di vento gli sferzavano il viso. Sotto di lui, le onde rombavano. Un istante prima, aveva deciso di rientrare. «Cosa la porta qui, Jack?» «Niente di particolare.» Vanderbilt sollevò le mani in un gesto di scusa. «Sa, volevo semplicemente dirle che ci dispiace. È assolutamente inutile litigare. Tutta questa stupida storia... Non trova anche lei?» Johanson rimase in silenzio. Vanderbilt e Anderson si avvicinavano sempre di più. Lui fece un passo di lato e i due nuovi arrivati si fermarono. «Dobbiamo discutere di qualcosa?» chiese Johanson. «Prima l'ho offesa», disse Vanderbilt. «Volevo scusarmi.» Johanson aggrottò la fronte. «Molto nobile da parte sua, Jack. Le accetto. C'è altro?» Vanderbilt sollevò il volto nel vento. I radi capelli biondi svolazzavano come erba sottile. «C'è un freddo maledetto, qui fuori», disse, rimettendosi
lentamente in movimento. Anderson lo imitò. I due si erano disposti in modo tale da circondare Johanson. Lui non sarebbe riuscito a passarci in mezzo, e neppure a destra o a sinistra. Quello che avevano intenzione di fare era così evidente che quasi non si sorprese. Ebbe solo una paura tremenda, contro cui non poté fare nulla. Paura unita a una rabbia disperata. Involontariamente fece un passo indietro e si rese subito conto che era stato un errore. Ormai era molto vicino al bordo. Non avrebbero dovuto sforzarsi troppo. Con un colpo violento, lui sarebbe finito in una delle reti sottostanti o addirittura oltre, in mare. «Jack... Non è che ha intenzione di uccidermi?» «Mio Dio, come le viene in mente?» Vanderbilt spalancò gli occhi, fingendo stupore. «Voglio parlare con lei.» «E che ci fa qui Anderson?» «Oh, era da queste parti. È stato un caso. Pensavamo...» Johanson scattò verso Vanderbilt, poi si abbassò, scartando verso destra. Si era allontanato dal bordo. Anderson balzò verso di lui. Per un momento, quell'improvvisata manovra diversiva sembrò avere successo; poi Johanson si sentì afferrare e trascinare indietro. Il pugno di Anderson partì e lo colpì sul volto. Incespicò, scivolando sulla piattaforma. Con calma, Anderson gli si avvicinò. Le sue mani enormi sparirono sotto le ascelle di Johanson e lo sollevarono. Johanson cercò d'infilare le dita sotto quelle di Anderson, per liberarsi dalla presa, ma era come se fosse rinchiuso in una gabbia di cemento. I suoi piedi si staccarono dalla passerella. Agitava selvaggiamente le gambe mentre Anderson lo portava verso il bordo, dove Vanderbilt li aspettava, guardando in basso con aria sprezzante. «Moto ondoso di merda», borbottò il dirigente della CIA. «Spero che non abbia niente in contrario se la buttiamo giù, dottor Johanson. Dovrà nuotare un po'.» Girò la testa e digrignò i denti. «Ma non tema, non sarà per molto. La temperatura dell'acqua è al massimo di due gradi. Troverà addirittura piacevole il modo in cui tutto diventerà tranquillo, come perderà la sensibilità, come rallenterà il battito cardiaco...» Johanson iniziò a gridare. «Aiuto!» strillava con tutte le sue forze. «Aiuto!» I suoi piedi ormai sporgevano oltre il bordo. Sotto di lui c'era la rete. Usciva per meno di due metri. Non abbastanza. Anderson l'avrebbe gettato oltre senza la minima fatica.
«Aiuto!» E, con sua enorme sorpresa, l'aiuto arrivò. Prima sentì Anderson che ansimava. Poi avvertì di nuovo la piattaforma sotto di sé. Infine il cielo si rovesciò. Anderson era caduto sulla schiena, trascinandolo con sé. Per qualche istante le mani dell'uomo lo strinsero ancora, poi si sciolsero. Johanson rotolò di lato, strisciò via e poi balzò in piedi. «Leon!» esclamò. La scena davanti ai suoi occhi era grottesca. Anderson cercava di rialzarsi, imprecando. Anawak, da dietro, si era aggrappato alla sua giacca e i due erano finiti a terra. E adesso Anawak stava cercando di strisciare via da sotto l'uomo caduto, ma senza lasciarlo: un'impresa impossibile. Johanson fece per muoversi. «Fermo!» Vanderbilt gli sbarrò la strada. Nella sua mano era apparsa una pistola. Lentamente girò intorno ai due uomini a terra finché non arrivò con la schiena rivolta all'ingresso della piattaforma. «Bel tentativo», disse. «Ma ora basta. Dottor Anawak, sarebbe così gentile da permettere a Mister Anderson di rialzarsi? Sta solo facendo il suo dovere.» Anawak staccò le dita dalla giacca a vento di Anderson e questi balzò in piedi. Non attese neppure che il suo avversario si rialzasse, ma lo sollevò come un sacco. Un attimo dopo, Anawak volava verso il bordo. «No!» gridò Johanson. L'altro cadde sulla piattaforma e prese a scivolare. La testa di Anderson si voltò verso Johanson. Occhi privi di espressione lo guardarono. Poi l'uomo allungò un braccio, lo ritrasse e gli sferrò un pugno nello stomaco. Johanson annaspò, alla ricerca d'aria. Nelle sue viscere si allargarono ondate di dolore. Si ripiegò come un coltello a serramanico e cadde sulle ginocchia. Il dolore era insopportabile. Non poteva rialzarsi. Stava lì, accovacciato, cercando disperatamente di respirare, mentre il vento lo frustava. E attendeva che Anderson lo colpisse di nuovo. PARTE QUARTA DISCESA «Le ricerche hanno portato alla conclusione che l'uomo, al di sotto di un preciso sublivello o metalivello, non è più in grado di riconoscere l'intelligenza come tale. Concepisce come intelligenza
solo ciò che si muove nella cornice del suo stesso comportamento. Oltre quella cornice, nel microcosmo, appunto, semplicemente non la può vedere. La stessa cosa accadrebbe con un'intelligenza di grandi dimensioni, uno spirito molto esteso: l'uomo vedrebbe solo il caos, perché non riuscirebbe a districare quelle complesse connessioni. Le decisioni di una simile intelligenza gli rimarrebbero del tutto incomprensibili, giacché i parametri su cui essa si fonda supererebbero la sua capacità di elaborazione. Anche un cane vede nell'uomo solo il potere cui si sottopone, non lo spirito. I comportamenti umani gli sembrano privi di senso, perché noi agiamo sui fondamenti della riflessione, i quali superano le capacità percettive del cane. Allo stesso modo, non potremmo percepire Dio - ammesso che esista - in quanto intelligenza, dato che il suo pensiero deve poggiare su una riflessione totale, la cui complessità ci è completamente preclusa. Come conseguenza, Dio ai nostri occhi appare caotico e quindi serve soltanto a far vincere la locale squadra di calcio o a sventare una guerra. Un essere simile si trova ben oltre i confini estremi della capacità di comprensione umana. Cosa che, a sua volta, spinge a porsi una domanda: da parte sua. Dio è in grado di cogliere l'intelligenza del nostro sottolivello? Forse siamo solo un esperimento in una provetta...» Dal diario di Samantha Crowe Deepflight Ma Anderson non lo colpì. Qualche secondo prima, i delfini avevano avvisato della presenza di un oggetto sconosciuto e l'equipaggio dell'Independence era stato messo in stato di massima allerta. Subito dopo, anche i sistemi sonar avevano segnalato che qualcosa di forma e dimensioni indeterminate si stava avvicinando rapidamente. Non faceva rumore come un siluro e non si riusciva a identificare la fonte da cui proveniva. Gli uomini sul ponte e quelli agli strumenti di controllo erano molto preoccupati, non solo perché quella cosa si avvicinava a velocità crescente e senza fare il minimo rumore, ma anche perché saliva verticalmente dagli abissi. Fissavano i monitor e, dalle tenebre, videro sbucare qualcosa di rotondo, che emetteva una luce bluastra. Quindi prese forma una sfera tremolante, da un diametro di oltre dieci metri, che si avvicinò, diventando sem-
pre più grande. Quando Buchanan diede ordine di sparare contro quella cosa sconosciuta, era ormai troppo tardi. La sfera esplose proprio sotto lo scafo. Durante gli ultimi minuti, il gas all'interno si era ulteriormente dilatato, accelerando la salita. Quella palla di gelatina sottile, tesa fino a scoppiare e giunta a tutta velocità, improvvisamente si strappò nella parte superiore, si aprì e rimase come uno straccio svolazzante. Il gas liberato vorticò verso la superficie e trascinò con sé qualcosa di grande e squadrato. Il Deepflight affondato sfrecciava verso l'Independence, con la prua in avanti, e conficcò i siluri nello scafo della nave. Quell'attimo si dilatò per un'eternità. Poi seguì l'esplosione. Ponte di comando La nave gigantesca tremò. Buchanan, che aveva visto avvicinarsi la disgrazia, era sul ponte di comando e si mantenne a fatica in equilibrio aggrappandosi al tavolo delle carte. Altri non trovarono nulla cui afferrarsi e caddero a terra. Nelle sale di controllo al di sotto dell'isola, la nave vibrò talmente che i monitor si frantumarono e altre apparecchiature volarono in aria. Nel CIC, Samantha e Shankar furono strappati via dalle loro sedie. Nel giro di un secondo, sull'Independence scoppiò il caos più totale. Il suono penetrante dell'allarme, entrato immediatamente in funzione, si mischiò alle urla; si sentirono stridii e boati, mentre un rombo si espandeva Lungo i corridoi, le sale e i livelli. Pochi secondi dopo l'impatto, la maggior parte dei mangiapetrolio, com'erano chiamati nel gergo della Marina i tecnici delle caldaie e della trasmissione, era morta. L'esplosione aveva aperto una falla gigantesca nei punto di confine tra lo spazio di carico e la sala macchine, dotata di due turbine a gas LM-2500. Lo scafo venne squarciato per una lunghezza di venti metri. L'acqua entrò con violenza inaudita, travolgendo quelli che non erano stati uccisi dall'esplosione del batiscafo. Chi era riuscito a sopravvivere e cercava di sfuggire a quell'inferno doveva fare i conti con le paratie, che si stavano chiudendo. L'unica strada per salvare l'Independence era impedire un'ulteriore espansione della falla, il che voleva dire sacrificare le persone che stavano nel ventre della nave, chiudendole in-
sieme con la mugghiante massa d'acqua. Elevatore esterno La piattaforma subì un violento scossone. Balzò in alto come un'altalena e scagliò Floyd Anderson al di sopra di Johanson. Il primo ufficiale mulinava le braccia, allungando le dita, ma lì non c'era nulla cui aggrapparsi. Spiccò un salto che, in altre circostanze, sarebbe stato comico. Poi sbatté la fronte sulla piattaforma, si girò sulla schiena e rimase immobile, con gli occhi sbarrati. Vanderbilt barcollò. La pistola gli cadde e scivolò via, fermandosi a pochi centimetri dal bordo. Vide Johanson che cercava di rialzarsi a fatica, corse verso di lui e lo colpì nelle costole. Lo scienziato si rovesciò su un fianco con un grido soffocato. Vanderbilt non aveva la minima idea di cosa fosse successo, ma si rendeva conto che doveva essere qualcosa di molto grave. Tuttavia l'incarico prevedeva di eliminare Johanson e lui era fermamente deciso a portarlo a termine. Si chinò per attaccare l'uomo, gemente e sanguinante, disteso sulla piattaforma e gettarlo oltre le reti di protezione, ma qualcuno gli saltò addosso, bloccandolo. «Maledetto bastardo!» gridò Anawak. Vanderbilt fu tempestato da una scarica di colpi e indietreggiò. Ebbe bisogno di qualche istante per riprendersi dallo sbigottimento. Sollevò le braccia per proteggersi la testa, scartò di lato e colpì l'aggressore con un calcio nella rotula. Anawak vacillò, chinandosi in avanti. Allora Vanderbilt spostò il proprio baricentro. Era corpulento e sembrava goffo e impacciato, però non era affatto così. Il vice direttore della CIA aveva frequentato tutti i corsi possibili di attacco e autodifesa e, nonostante il suo quintale di peso, riusciva anche a fare qualche salto di notevole portata. Prese la rincorsa, si catapultò in aria e atterrò con gli stivali contro lo sterno di Anawak, che cadde sulla schiena. La sua bocca si aprì, ma non uscì nessun suono. Vanderbilt sapeva che gli mancava il fiato. Si chinò su di lui, lo afferrò per i capelli, lo sollevò e gli affondò il gomito nel plesso solare. Per il momento poteva bastare. Doveva tornare da Johanson. Buttarlo in mare e spedirgli Anawak al seguito. Quando si alzò, vide Greywolf venire verso di lui. Vanderbilt si mise in posizione di attacco. Girò sul proprio asse con la gamba destra tesa, sferrò il calcio e rimbalzò.
Che storia è mai questa? pensò, sbigottito. Tutti gli altri erano finiti a terra o si stavano contorcendo dal dolore. Quel gigantesco mezzo indiano, invece, non aveva fatto neanche una piega. Nei suoi occhi c'era un'espressione inequivocabile. Di colpo, Vanderbilt comprese che doveva vincere quel duello, altrimenti non sarebbe sopravvissuto. Incrociò le braccia per assestare il colpo, lo sferrò e sentì che il suo pugno veniva tranquillamente deviato. Un attimo dopo, la mano sinistra di Greywolf affondò nel suo doppio mento. Vanderbilt cercò di colpirlo coi piedi, ma l'altro, con una mossa disinvolta, lo trascinò con sé verso il bordo. Poi lo sollevò e lo colpì. Il campo visivo di Vanderbilt esplose. Tutto divenne rosso. Sentì il setto nasale che si rompeva. Il colpo successivo gli frantumò lo zigomo sinistro. Dalla sua gola uscì un grido gorgogliante. Un nuovo pugno si conficcò in mezzo alla mascella. I denti saltarono via. Ormai Vanderbilt urlava a pieni polmoni, per il dolore e per la rabbia. Era fuori di sé. Si trovava nella morsa del gigante e non poteva fare nulla per evitare che il suo viso fosse ridotto in poltiglia. Le gambe cedettero. Greywolf lo lasciò e lui cadde lungo disteso. Non vedeva più granché: un po' di cielo e l'asfalto grigio della piattaforma coi segni verniciati di giallo, il tutto attraverso una cortina di sangue, e là, vicinissima, l'arma. Allungò la destra, riuscì a prenderla, strinse l'impugnatura. Sollevò l'arma e sparò. Per un momento regnò il silenzio. L'aveva preso? Sparò un'altra volta, ma quel colpo andò in aria. Il suo braccio era stato piegato all'indietro. Per un attimo scorse Anawak, poi la pistola gli venne sottratta. Infine vide di nuovo gli occhi di Greywolf, iniettati d'odio. Il dolore lo attraversò come una scossa elettrica. Cos'era successo? Non era più appoggiato sulla schiena, ma verticale. O era sospeso? In effetti non sapeva più dov'erano il sopra e il sotto. Volò all'indietro. Attraverso una nebbia di sangue, riconobbe la piattaforma. Là c'era il bordo. Perché era oltre il bordo? Vide che esso gli passava davanti e si allontanava verso l'alto, insieme con le reti di protezione. Allora Vanderbilt comprese che la sua vita era finita. Il freddo lo colpì come uno shock. Spuma che spruzzava verso l'alto. Verde striato dalla schiuma, bolle, tante bolle. Incapace di muoversi, Vanderbilt affondava. L'acqua del mare
gli lavò il sangue dagli occhi. La nave non c'era più. In realtà non c'era più nulla, a parte un verde senza contorni che diventava sempre più scuro. E un'ombra. Era veloce. E aveva una bocca che si spalancava proprio davanti a lui. Poi non ci fu davvero più nulla. Laboratorio «Per l'amor del cielo, che sta facendo?» «Lo lasci andare.» Le parole risuonavano nella testa di Karen. Erano la domanda fatta con orrore da Peak e il brusco ordine di Judith Li, appena prima che il laboratorio fosse scosso con incredibile violenza. Al rombo dell'esplosione era seguito un rumore indescrivibile, come se la nave si stesse sfasciando. Karen cadde, trascinando con sé Rubin. Finirono dietro il tavolo in una confusione di strumenti e contenitori. La sala rimbombava. Vibrava tutto. I vetri esplodevano. Karen pensò al laboratorio di massima sicurezza e sperò che l'isolamento di vetro corazzato e la paratia a tenuta stagna reggessero. Strisciando, si allontanò da Rubin, che stava rotolando e si guardava intorno, allucinato. Lo sguardo di Karen cadde sulla valigetta con le provette. Era scivolata proprio davanti ai suoi piedi. L'aveva vista anche Rubin. Per un attimo, ciascuno dei due valutò le proprie possibilità. Poi Karen si catapultò in avanti, ma Rubin fu più veloce. Afferrò la valigetta, saltò in piedi e corse attraverso la sala. Karen fu costretta a lasciare il suo rifugio. Doveva assolutamente recuperare la valigetta; non importava quello che sarebbe successo e quali conseguenze ci sarebbero state. Doveva fermare il piano di Judith Li. Due soldati erano finiti a terra. Uno non si muoveva, l'altro si stava rialzando a fatica. Il terzo soldato era rimasto in piedi e teneva sempre l'arma spianata. Judith Li si chinò per prendere il mitra dell'uomo immobile, un massiccio aggeggio nero. Un istante dopo, scorse Karen. Peak era appoggiato alla porta chiusa, rigidissimo. «Karen!» gridò. «Si fermi! Non le succederà niente! Si fermi, maledizione!» Le raffiche dell'arma coprivano la sua voce. Karen fece un balzo felino dietro un bancone. Non sapeva con che cosa le stesse sparando Judith Li, ma i colpi sfasciavano il tavolo come se fosse stato di cartone. Schegge di
vetro le passarono vicino alle orecchie e un microscopio da mezzo quintale si sfracellò a terra vicino a lei. In quell'inferno di rumori, c'era anche il suono lamentoso dell'allarme di bordo. Improvvisamente, Karen vide Rubin che, con gli occhi sgranati per il terrore, correva verso di lei. «Mick», gridò Judith Li. «Idiota! Venga qui.» Karen uscì dal suo nascondiglio, si lasciò cadere sull'uomo e gli strappò la valigetta. Nello stesso istante, la nave tremò di nuovo e la sala sembrò piegarsi. Rubin scivolò sul pavimento, finì contro uno scaffale e lo rovesciò. Fu martellato da una pioggia di provette e vetri. Lanciò un grido e, appoggiato sulla schiena, cominciò a zampettare come uno scarafaggio. Con la coda dell'occhio, Karen vide Judith agitare l'arma e il terzo soldato saltare oltre il tavolo distrutto. Anche lui aveva uno di quegli imponenti aggeggi neri e lo aveva sollevato già durante il salto. Non c'erano vie di fuga. Quindi Karen si lasciò cadere vicino a Rubin. «Non sparare!» sentì dire a Judith Li. «È troppo...» Il soldato fece fuoco e la mancò. Con un suono simile a quello di un gong, i proiettili si conficcarono nel vetro blindato del simulatore di abissi marini e solcarono il vetro ovale da sinistra a destra. Improvvisamente calò un silenzio inquietante. Solo l'allarme diffondeva a intervalli regolari il suo suono gracchiante. Come stregati, tutti fissavano la cisterna. Karen sentì un unico, altissimo scricchiolio. Allora girò la testa e vide delle crepe sulla grande superficie di vetro. Le crepe diventavano sempre di più. «Mio Dio», gemette Rubin. «Mick!» gridò Judith. «Si muova! Venga qui!» «Non posso», piagnucolò lui. «La mia gamba... Sono bloccato.» «Fa lo stesso», lo interruppe la donna. «Non abbiamo più bisogno di lei. Andiamo via.» «Non può...» iniziò a dire Rubin. «Sal, apra la porta!» Non si seppe mai se Peak avesse intenzione di ribattere qualcosa. Il vetro si frantumò, con uno schianto assordante. Tonnellate di acqua marina si riversarono su di loro. Karen balzò via. Dietro di lei, l'acqua invase nel laboratorio e distrusse tutto ciò che non era già stato frantumato. «Karen!» Era Rubin. «La prego, non mi lasci qui...» La sua voce divenne un gorgoglio. La donna vide Peak zoppicare fuori dal laboratorio, con Judith al seguito. Nell'uscire, lei batté con la mano in un punto vicino alla porta e, con rinnovato orrore, comprese che cosa si-
gnificava. Judith voleva chiuderla dentro. L'ondata la colpì alle spalle e la spinse in avanti, facendola cadere sulle ginocchia. Era fradicia fino alle ossa, ma stringeva a sé la valigetta con le provette. Boccheggiando e lottando per non essere risucchiata via, cercò di raggiungere la porta che si stava chiudendo lentamente, fece gli ultimi metri con un unico balzo, sbatté contro l'intelaiatura e arrivò sulla rampa. Elevatore esterno Greywolf e Anawak aiutarono Johanson a rialzarsi. Benché fosse stato duramente colpito, era cosciente. «Dov'è Vanderbilt?» mormorò. «A pescare», rispose Greywolf. Anawak si sentiva come se fosse finito sotto un treno. Il punto in cui Vanderbilt l'aveva colpito col gomito gli doleva al punto che riusciva appena a stare in piedi. «Jack», ripeteva. «Mio Dio, Jack.» Greywolf l'aveva salvato. Ormai sembrava una tradizione. «Come mai sei venuto qui?» «Ero stato un po' brusco», disse Greywolf. «Volevo scusarmi.» «Brusco? Ma sei pazzo? Non hai niente di cui doverti scusare.» «Mi sembra sia stato un bene che si volesse scusare», ansimò Johanson. Greywolf fece un sorriso tirato. Il suo viso color rame era impallidito. Che gli sta succedendo? Si chiese Anawak. Le spalle di Greywolf si piegarono in avanti, le sue palpebre vibrarono... Improvvisamente Anawak vide che la T-shirt di Greywolf era piena di sangue. Per un attimo s'illuse che fosse quello di Vanderbilt, poi si rese conto che la macchia si allargava e che il sangue usciva dal ventre di Greywolf. Allungò le braccia per afferrare il gigante, ma, in quel momento, un nuovo rimbombo arrivò dalla pancia dell'Independence. La nave ondeggiò e Johanson gli barcollò addosso. Greywolf si rovesciò in avanti e sparì oltre il bordo. «Jack!» Cadde sulle ginocchia e scivolò verso il punto in cui l'amico era sparito. Greywolf era caduto in una rete e guardava verso di lui. Il mare sotto infuriava. «Jack, dammi la mano.» Greywolf non si mosse. Fissava Anawak con le mani premute contro il ventre. Tra le sue dita sgorgava il sangue.
Vanderbilt! Quel maledetto bastardo l'aveva colpito. «Jack, andrà tutto bene.» Sembrava la battuta di un film. «Dammi la mano. Ti tiro su. Ne usciremo, vedrai.» Di fianco a lui, strisciando, era arrivato Johanson. Si mise bocconi e cercò di raggiungere la rete, ma era troppo in basso. «In un modo o nell'altro devi venire su», gridò Anawak, disperato. Poi prese una decisione. «No, resta lì. Vengo giù io. Io ti sollevo e Sigur ci aiuta da sopra.» «Scordatelo», ansimò Greywolf, a fatica. «Jack...» «È meglio così.» «Non dire stronzate», sbottò Anawak. «Non voglio neppure sentirle, quelle scemenze da film. 'Lasciatemi qui', 'Non preoccupatevi per me', eccetera.» «Leon, amico mio...» «No! Ho detto di no.» Dalla bocca di Greywolf sgorgò una sottile striscia di sangue. «Leon...» Sorrise. D'un tratto sembrò completamente rilassato. Poi, con un colpo, si sollevò, si fece rotolare oltre la rete e cadde tra le onde. Laboratorio Rubin non vedeva né sentiva più nulla. L'acqua che usciva dalla cisterna infuriava su di lui. Si chiedeva cosa mai fosse successo negli ultimi secondi. La situazione era sfuggita di mano. Poi, improvvisamente, si rese conto che la massa vorticosa d'acqua aveva sollevato lo scaffale e la gamba si era liberata. Così riemerse, sputacchiando. Grazie a Dio, hai superato il peggio, pensò. L'acqua del simulatore non sarebbe bastata per sommergere il laboratorio. Era tanta, però, non appena si fosse dispersa in tutta la sala, non sarebbe stata più alta di un metro. Si strofinò gli occhi. Dov'era Judith Li? Di fianco a lui galleggiava il corpo di un soldato. L'altro, ancora completamente intontito, era uscito dall'acqua più in là, in fondo alla sala. Judith Li se n'era andata. L'avevano lasciato lì.
Sbigottito, Rubin fissò la porta chiusa. A poco a poco, la mente gli si snebbiò. Doveva uscire da lì. Nella nave era esploso qualcosa, probabilmente stavano affondando. Se non avesse raggiunto uno spazio aperto nel giro di pochi minuti, la situazione rischiava di diventare molto difficile. Intorno a lui cominciò a splendere una luce. C'erano dei lampi. Di colpo gli venne in mente che nella cisterna non c'era solo l'acqua. Cercò di alzarsi, scivolò e cadde all'indierro. L'acqua sprizzò. Rubin finì con la testa sotto la superficie, remò con le mani e sentì che qualcosa opponeva resistenza. Qualcosa di liscio. Di mobile. Davanti ai suoi occhi comparvero dei lampi, poi non riuscì più a prendere aria perché la gelatina gli stava coprendo il viso. Come impazzito, Rubin cercò di strapparla via, ma non riusciva ad afferrare quella sostanza. Scivolava ovunque e, se riusciva a prenderla in mano, essa cambiava forma all'istante oppure si scioglieva. Inoltre continuava ad arrivarne altra. No, pensò. No! No! Aprì la bocca e sentì che quella sostanza gli stava strisciando dentro. Perse completamente il lume della ragione. Una sottile propaggine serpeggiò nell'esofago, altre gli penetrarono nelle narici. Lui soffocava, dava colpi all'intorno... Poi sentì un dolore incredibile alle orecchie, come se un boia vi stesse conficcando spietatamente dei coltelli. Un ultimo, limpido pensiero gli disse che la gelatina era diretta nel suo cranio. Dal momento della disgrazia nel ponte a pozzo Rubin aveva continuato a chiedersi se l'organismo esaminava il cervello umano per curiosità o perché avesse qualche intenzione precisa, oppure se lo facesse per abitudine. Da milioni di anni s'infilava in tutto ciò che, dal suo punto di vista, meritava di essere esaminato... Poi non si chiese più niente. Greywolf Che pace. Che tranquillità. Probabilmente Vanderbilt aveva provato altre sensazioni. Aveva avuto paura. La sua morte era stata orribile, com'era giusto che fosse. Senza la paura era un'altra cosa. Gieywolf sprofondava nell'abisso. Tratteneva il fiato. Nonostante il tremendo dolore al ventre, voleva tene-
re il fiato il più a lungo possibile. Ma non perché credesse che ciò gli avrebbe allungato la vita. Quello era l'ultimo atto di volontà, di controllo. Sarebbe stato lui a determinare quando l'acqua gli sarebbe entrata nei polmoni. Alicia era là sotto. Tutto quello che aveva voluto, quello che era stato importante per lui si trovava sott'acqua. Dunque era logico che pure lui seguisse quella strada. Era inevitabile. Se nel tempo della tua vita sei stato un uomo buono, allora rinascerai come un'orca. Vide un'ombra nera venire verso di lui. Un'altra la seguiva. Gli animali non gli prestarono attenzione. Già, pensò. Io sono amico vostro. Voi mi lasciate in pace. Naturalmente lui sapeva che il motivo per cui quegli animali non l'avevano visto era molto più prosaico. Quelle orche non erano amiche di nessuno. Da molto tempo non erano più loro stesse. Erano maltrattate da una specie che procedeva senza scrupoli, esattamente come gli uomini. Ma anche quello si sarebbe rimesso a posto. Prima o poi. E il lupo grigio sarebbe diventato un'orca. Poteva esserci un ultimo pensiero più bello? Espirò. Peak «Ma è completamente impazzita?» La voce di Peak risuonava tra le pareti della rampa. Judith Li procedeva in fretta davanti a lui. Cercò d'ignorare il dolore martellante alla caviglia e di tenere il passo della donna, che aveva buttato via il mitra e teneva in mano la pistola. «Non mi dia sui nervi, Sal.» Judith Li si diresse verso la scaletta di boccaporto successiva. Salirono al livello immediatamente superiore, nel punto in cui sfociava il corridoio del settore segreto. Dal ventre della nave arrivavano tremiti e rimbombi sinistri. Il pavimento oscillava violentemente e si piegava, così furono costretti a fermarsi. Forse alcune paratie non avevano retto alla pressione dell'acqua. Nel frattempo, l'Independence si era sensibilmente inclinata e ciò li costrinse a percorrere il corridoio in salita. Dalla sala di controllo uscirono uomini e donne, che correvano verso di loro. Fissarono Judith Li in attesa di ordini, ma lei non li degnò di uno sguardo e continuò a camminare.
«Non darle sui nervi?» Peak le sbarrò la strada. Sentiva che il suo orrore si stava trasformando in rabbia. «Lei uccide senza scrupoli oppure lascia che le persone muoiano. Perché, maledizione? Non era questo che avevamo pianificato e discusso!» Judith Li lo guardò. Il suo viso era tranquillo, ma gli occhi acquamarina fiammeggiavano. Peak non aveva mai visto prima quella luce sinistra. D'un tratto comprese che quella soldatessa pluridecorata era completamente pazza. «Era stato discusso con Vanderbilt», spiegò lei. «Con la CIA?» «Con Vanderbilt della CIA.» «Per questa follia si è impegolata con quel sacco di merda?» Peak fece una smorfia. «Mi viene da vomitare, Jude. Dobbiamo evacuare la nave.» «Inoltre è stato approvato dal presidente degli Stati Uniti», aggiunse lei. «Non è vero!» «Più o meno.» «Non così! Non le credo!» «Lo approverebbe.» Lo oltrepassò. «Ora si tolga dai piedi. Stiamo perdendo tempo.» Peak le zoppicò dietro. «Quelle persone non le hanno fatto niente. Hanno rischiato la vita. Sono dalla nostra parte! Perché non ci limitiamo a imprigionarle?» «Chi non è con me è contro di me. Non se n'è accorto, Sal?» «Johanson non era contro di lei.» «E invece sì, fin dall'inizio.» Si girò di scatto e lo guardò. «Ma lei è cieco, rimbambito o che? Non capisce cosa succederebbe se l'America non vincesse questa guerra? Se la vincesse qualcun altro, infliggerebbe una sconfitta anche a noi.» «Non si tratta dell'America! Si tratta del mondo.» «Il mondo è l'America!» Peak la fissò. «Lei è pazza.» «No, sono realista, stupido negro. E lei farà quello che dico io. Lei è sotto il mio comando!» Si rimise in movimento. «Forza, ora. Abbiamo un incarico da eseguire. Devo scendere col batiscafo prima che scoppi la nave. Mi aiuti a trovare i due siluri col veleno di Rubin, poi, per quanto mi riguarda, può anche filarsela.» Rampa
Karen oscillò per alcuni secondi, indecisa sul da farsi, quando sentì delle voci arrivare dalla parte superiore della rampa. Judith Li e Peak erano spariti. Probabilmente stavano andando nel laboratorio segreto di Rubin a prendere il veleno. Corse verso il gomito della rampa e vide Anawak e Johanson che si sorreggevano a vicenda. «Leon», gridò. «Sigur!» Corse verso i due e li abbracciò. Fu costretta ad allargare molto le braccia, ma aveva un bisogno incontenibile di stringere a sé i due uomini. In particolare uno dei due. Evidentemente aveva esagerato, perché Johanson gemette. Lei si tirò indietro. «Scusa...» «Sono solo le ossa.» Johanson si pulì la barba dal sangue. «Lo spirito è sempre determinato. Cos'è successo?» «Cos'è successo a voi, piuttosto!» Dal pavimento giunse un rumore. Un lungo scricchiolio attraversò lo scafo dell'Independence e il pavimento si piegò leggermente verso poppa. Si raccontarono in sintesi gli ultimi avvenimenti. Anawak era visibilmente colpito dalla morte di Greywolf. «Qualcuno di voi ha idea di cosa sia successo alla nave?» chiese. «No, e temo che non avremo il tempo di pensarci.» Karen si guardava intorno, nervosa. «Credo che dovremo fare due cose contemporaneamente: impedire l'immersione di Judith e cercare di metterci al sicuro.» «Credi che voglia portare a termine il suo piano?» «Certo che lo farà», ringhiò Johanson. Sollevò la testa. Dal ponte di volo arrivavano dei rumori. Si sentiva il crepito dei rotori. «Sentito? I topi lasciano la nave.» «Ma che cos'è successo a Judith?» Anawak scosse la testa, sbigottito. «Perché ha sparato a Sue?» «Voleva uccidere anche me. Judith Li ucciderà chiunque si metta sulla sua strada. Non è mai stata interessata a una soluzione pacifica.» «Ma a che scopo?» «Ormai non ha più importanza», esclamò Johanson. «Il suo progetto ha tempi molto stretti. Qualcuno deve fermarla. Non deve portare sott'acqua quel veleno.» «Giusto», approvò Karen. «E invece porteremo giù questo.» Solo in quel momento Johanson si accorse della valigetta che lei teneva in mano. «Sono gli estratti del feromone?»
«Sì. Il lascito di Sue.» «Bene, ma chi ci può aiutare?» «Be', io ho un'idea.» Esitò. «Non so se funzionerà. Mi è venuta ieri... Nel frattempo, però, sono cambiate alcune cose.» La spiegò. «Sembra buona», affermò Anawak. «Ma richiede un'estrema velocità. In fondo ci resta solo qualche minuto. Non appena la barca affonda, dobbiamo essere da qualche parte all'asciutto.» «Soprattutto non so bene come potremo realizzarla», ammise Karen. «Ma io sì.» Anawak indicò la rampa. «Abbiamo bisogno di una dozzina di siringhe sottocutanee. Me ne occupo io. Voi scendete e allestite il batiscafo.» Rifletté. «Poi ci servono... Aspetta! Pensi di riuscire a trovare qualche...?» «Sì, va bene. E le siringhe dove pensi di procurartele?» «In ospedale.» Sopra di loro il rumore si fece più intenso. Nel passaggio dell'elevatore di sinistra apparve un elicottero e passò vicinissimo alle onde. L'acciaio dell'hangar scricchiolava. La nave aveva iniziato a deformarsi. «Fa' in fretta», lo pregò Karen. Anawak la guardò negli occhi. Per un momento rimasero a fissarsi. Maledizione, pensò lei. Perché proprio ora? «Conto su di te», disse Anawak. Evacuazione A differenza degli altri, Samantha Crowe sapeva bene cos'era successo all'Independence. Le telecamere sullo scafo avevano trasmesso ai monitor l'immagine della sfera luminosa che saliva. La sfera era fatta di gelatina, quello era certo e, quand'era esplosa, il gas al suo interno si era dilatato. Si trattava probabilmente di metano. In mezzo alle bolle vorticanti, le era sembrato di vedere una sagoma conosciuta: quello che arrivava a tutta velocità contro l'Independence era un batiscafo. Un Deepflight dotato di siluri. Immediatamente dopo l'esplosione era scoppiato l'inferno. Murray Shankar aveva battuto la testa contro la console e sanguinava copiosamente. Samantha Crowe l'aveva aiutato a rialzarsi, poi nel CIC erano arrivati di corsa dei soldati e dei tecnici e li avevano cacciati fuori. Il rauco suono a intervalli regolari dell'allarme li spingeva a muoversi. Nei corridoi laterali la gente si assiepava, ma pareva che l'equipaggio dell'Independence avesse
ancora la situazione sotto controllo. Un ufficiale li prese in consegna e li condusse verso una scala, in direzione della poppa. «Attraverso l'isola usciamo sul ponte di volo», spiegò. «Non fermatevi. Attenetevi alle disposizioni.» Samantha spinse Shankar, ancora intontito, sulla scala. Lei era piccola e minuta, Shankar alto e pesante, però raccolse tutte le sue forze e ci riuscì. «Muoviti, Murray!» ansimò. Le mani di Shankar afferrarono tremanti i pioli. Si tirò su a fatica. «Ho sempre immaginato in maniera diversa un contatto diretto», esclamò, tossendo. «Hai sempre visto i film sbagliati.» Per calmarsi, una sigaretta sarebbe stato l'ideale. Pensò a quella che si era accesa qualche secondo prima dell'esplosione e che era rimasta a consumarsi nel CIC. Che guaio... Cosa non avrebbe dato per una sigaretta! Fumarne ancora una prima di tirare le cuoia. Qualcosa le diceva che le speranze di sopravvivere non erano particolarmente alte. Ma non dobbiamo affidarci alle lance di salvataggio, rifletté poi. Abbiamo gli elicotteri! Provò un certo sollievo. Shankar aveva raggiunto la parte superiore della scaletta di boccaporto e alcune mani si erano tese verso di lui. Samantha lo seguì e intanto si chiedeva se non stavano sperimentando proprio il tipo di contatto in cui la specie umana era così esperta: aggressivo, spietato, mortale. I soldati li trascinarono all'interno dell'isola. Ehi, Miss Alien. Sei sempre affascinata dalla possibilità che nell'universo esistano altre forme di vita intelligenti? «Ha una sigaretta?» chiese a un soldato. L'uomo la fissò. «Ma è matta? Si sbrighi a uscire!» Buchanan Sul ponte c'erano Buchanan col secondo ufficiale e il timoniere. Buchanan si teneva informato sull'evolversi della situazione e dava istruzioni, mantenendo un tono pacato e riflessivo. A quanto pareva, l'esplosione aveva distrutto una parte della stiva e della sala macchine. La stiva non avrebbe creato problemi, ma nella sala macchine si era evidentemente innescata una reazione a catena nei sistemi del carburante e del lubrificante. Come conseguenza, ci furono altre esplosioni. I sistemi esplodevano uno dopo
l'altro. Il fabbisogno di elettricità della nave era garantito da una serie di gruppi elettrogeni. Oltre alle due turbine a gas LM-2500, provvedevano all'energia dell'Independence sei generatori diesel, che stavano appunto saltando in aria l'uno dopo l'altro. Probabilmente, laggiù nelle catacombe, sotto il ponte dei veicoli, erano tutti morti. Nel momento in cui aveva dato l'ordine di chiudere le paratie, aveva sacrificato l'equipaggio della sala macchine, ma non poteva permettersi il lusso di pensarci. Dovevano evacuare la nave. Non osava immaginare per quanto tempo ancora sarebbe rimasta relativamente stabile. L'impatto era avvenuto nella parte centrale, quindi non avrebbero potuto impedire che la stiva si riempisse a prua e che la nave s'inabissasse in avanti. Nello scafo c'era troppa acqua. Sotto l'enorme pressione, quell'acqua si sarebbe aperta la strada verso la punta della prua e avrebbe sfondato le paratie del livello appena superiore. Se poi fossero saltate anche le paratie del ponte di poppa, la nave avrebbe rischiato di riempirsi completamente. Buchanan non si faceva illusioni, sapeva che sarebbe successo. L'unico dubbio era quando. La gestione di quella crisi dipendeva esclusivamente da lui e dalle sue capacità di valutare gli eventi. Valutò che subito dopo sarebbe stata la volta del ponte dei veicoli sotto il laboratorio e di una parte degli alloggiamenti limitrofi. L'unica nota consolante era che a bordo non c'erano marine. In caso di guerra, a bordo ci sarebbero stati circa tremila uomini. Invéce ora erano poco meno di centottanta e si trovavano tutti nei livelli superiori. Alcuni dei monitor che trasmettevano sul ponte il quadro complessivo del CIC erano saltati. Proprio sopra la testa di Buchanan era appeso il telefono rosso piombato che, nelle situazioni eccezionali, permetteva il collegamento diretto col Pentagono. Lui fece scorrere lo sguardo sugli apparecchi per le comunicazioni, pratici e disposti razionalmente, sugli strumenti di navigazione e sui tavoli delle carte. Niente poteva aiutarli. Robaccia inutile. Sul ponte, il personale addetto allo sbarco si muoveva freneticamente. La gente veniva condotta di corsa dall'isola verso il ponte di volo e fatta salire sugli elicotteri già pronti, coi rotori accesi, Buchanan parlò brevemente con la centrale di volo e poi tornò a guardare fuori, attraverso la grande vetrata verde del ponte di comando. Un elicottero si era già sollevato e si allontanava velocemente dalla nave. Non erano abbastanza veloci. Se la prua si fosse piegata ancora, il ponte di volo si sarebbe trasformato in uno scivolo. I velivoli erano ben assicurati, ma, a un certo punto, la situa-
zione sarebbe diventata critica. Livello 3 Anawak non incontrò molte persone. Temeva di finire nelle braccia di Judith Li e di Peak, ma evidentemente i due erano in marcia nella direzione opposta. Senza fiato e con le costole doloranti, si affrettò lungo il corridoio diretto alla stazione medica. L'ospedale era deserto. Non c'era traccia di Angeli e del suo personale. Attraversò diverse sale piene di letti prima di arrivare nella stanza delle attrezzature mediche. Sembrava che ci fosse stato un terremoto. Gli armadietti erano aperti, il pavimento era ricoperto di schegge che scricchiolavano sotto i piedi. Aprì tutti i cassetti e frugò nelle scansie finite a terra e ricoperte di macerie senza riuscire a trovare neppure una siringa. Dov'erano? Dov'erano di solito quando si andava dal medico? Sempre in qualche cassetto. Lo sapeva bene. In piccoli armadietti laccati di bianco con molti cassetti. Da sotto giunse un rumore. Udì dei lamenti. L'acciaio si stava piegando. Si precipitò nella sala adiacente. Anche lì era un disastro, ma uno degli armadietti laccati sembrava fissato molto bene. Lo raggiunse e frugò all'interno, gettandosi alle spalle tutto ciò che gli capitava tra le mani. Finalmente trovò ciò che stava cercando. Afferrò una dozzina di siringhe in confezione sterile e se le infilò nella giacca. Adesso non restava altro che tornare indietro. Che idea folle! O Karen aveva ragione, e allora si trattava di un piano geniale, oppure si erano creati un'immagine completamente falsa della realtà. La proposta, da un lato plausibile, gli appariva dall'altro irrealizzabile e ingenua, soprattutto sullo sfondo del messaggio escogitato da Samantha e mandato negli abissi. Però... Samantha? Ma dov'era? Samantha che gli era apparsa in sogno molto tempo prima e gli aveva indicato la via per il Nunavut... Nelle sue orecchie risuonò un fortissimo gong, come se fosse andata in frantumi una campana. Il pavimento s'inclinò ulteriormente. Dal fondo della nave arrivava un ruggito cupo. L'acqua! Anawak si chiese se avrebbe avuto il tempo di fuggire. Poi non si chiese
più niente e si mise a correre. Laboratorio Karen non sapeva cosa l'aspettava. Si sentiva a disagio all'idea di riaprire la porta del laboratorio. Ma, se voleva far partire il piano, il laboratorio era l'unica possibilità. Il pavimento tremava. Sotto i suoi piedi, lei sentiva l'acqua scrosciare e gorgogliare. Johanson si appoggiò vicino a lei, ansimando pesantemente. «Apri», disse. Karen vide il simbolo rosso dell'emergenza sopra la tastiera. Mentre correva fuori, Judith Li era riuscita a inserire la chiusura d'emergenza che sigillava il laboratorio. Digitò una combinazione numerica e la porta si aprì. L'acqua si rovesciò contro di lei e le sommerse le gambe. Usciva dal laboratorio illuminato a giorno, ma, anziché scorrere lungo la rampa, si raccoglieva appena fuori della porta e cresceva. Karen comprese subito il perché: l'Independence era così inclinata che l'acqua non poteva scorrere verso il ponte a pozzo. Probabilmente, a causa dell'inclinazione, quella parte della rampa aveva assunto una posizione orizzontale. Indietreggiò. «Dobbiamo stare attenti», disse. «Quella sostanza potrebbe essere uscita.» Johanson gettò uno sguardo all'interno. Nelle immediate vicinanze della cisterna distrutta vide galleggiare due corpi senza vita. Con passi cauti, camminò tra i vortici dell'acqua, che fluiva, impetuosa. Karen lo seguì. Il loro primo sguardo fu ai container del laboratorio di massima sicurezza: sembravano intatti. Fu un sollievo. Una contaminazione di Pfiesteria era l'ultima cosa di cui avevano bisogno in quel momento. Verso poppa, il pavimento emergeva lentamente dall'acqua. In compenso, dalla parte opposta, l'acqua era molto più alta. «Sono tutti morti», mormorò Karen. Johanson socchiuse le palpebre. «Là!» Poco discosto dai soldati galleggiava un terzo corpo. Era Rubin. Karen ricacciò indietro il disgusto e il terrore. «Ce ne serve uno», disse. «Non importa quale.» «Però dobbiamo spingerci più all'interno.» «Sì. Non si può fare diversamente.» Avanzò. «Attenta!» gridò Johanson
Lei stava per girarsi quando qualcosa la colpì da dietro, facendola scivolare. Con un grido, finì in acqua; poi riemerse, sputando, e si girò sulla schiena. Uno dei soldati era là, e li teneva sotto tiro con un fucile nero e massiccio. «Oh, no», disse disperato. «Oooh, no.» Nel suo sguardo si leggeva chiaramente la paura di morire. Karen si rialzò, sollevando con calma le mani in modo che l'uomo le potesse vedere. «Oh, no», ripeté il soldato. Era molto giovane; sui vent'anni, forse nemmeno, pensò Karen. Il fucile tremava nella sua mano. Fece un passo indietro, spostando lo sguardo da lei a Johanson e viceversa. «Ehi», disse Johanson. «Vogliamo aiutarti.» «Voi ci avete chiuso qui dentro», disse il soldato. Sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. «Non siamo stati noi», mormorò Karen. «Ci avete... con questo... ci avete lasciati soli con questo...» Ci mancava solo quella. L'Independence stava affondando, dovevano fermare Judith Li, prendere in qualche modo uno dei morti per portare a termine il piano, e adesso si trovavano davanti quel ragazzo in preda al panico. «Come ti chiami?» domandò Johanson. «Come?» Gli occhi del soldato fiammeggiarono. Poi lui gli puntò contro l'arma. «No!» gridò Karen. Johanson sollevò le mani per indicare che era tutto a posto. Guardò la bocca dell'arma e abbassò la voce. «Per favore, dicci il tuo nome.» Il soldato esitò. «È importante che conosciamo il tuo nome», ribadì Johanson con voce dolce. «MacMillan. Sono... Mi chiamo MacMillan.» Karen cominciò a capire che cosa aveva in mente Johanson. La prima mossa da fare per ricondurre qualcuno alla normalità è richiamargli alla mente chi è. «Bene, MacMillan, molto bene. Ascoltami, abbiamo bisogno del tuo aiuto. Questa nave sta affondando. Noi dobbiamo condurre un esperimento che potrebbe salvarci tutti...» «Tutti?»
«Hai una famiglia, MacMillan?» «Perché lo vuole sapere?» «Dove abita la tua famiglia?» «A Boston.» I lineamenti del giovane s'irrigidirono. Cominciò a piangere. «Ma Boston è...» «Lo so», disse Johanson, comprensivo. «Ascolta, possiamo fare ancora qualcosa per rimettere tutto a posto. Anche a Boston. Ma, per farlo, abbiamo bisogno del tuo aiuto. Ne abbiamo bisogno adesso! Ogni secondo che perdiamo potrebbe annullare l'ultima possibilità della tua famiglia.» «Ti prego», mormorò Karen. «Aiutaci.» Il soldato continuava a guardarli. Tirò su col naso. Poi abbassò il fucile. «Ci portate fuori da qui?» chiese. «Sì», confermò Karen. «Promesso.» Mio Dio, che stai dicendo? pensò. Non puoi promettere niente. Proprio niente. Judith Li Sorprendentemente, il laboratorio segreto appariva intatto, forse perché era più in alto rispetto a quello ufficiale. Il pavimento era ricoperto di schegge di vetro, ma il resto era a posto. Alcuni monitor lampeggiavano. Dove avrà messo i tubi? rifletté Judith Li. Infilò l'arma nella fondina e si guardò intorno. La sala era deserta. Nella piccola cisterna ad alta pressione si aspettava di vedere il bagliore blu, ma poi le venne in mente che Rubin le aveva spiegato di aver condotto a termine con successo l'esperimento col veleno. Spiò attraverso uno degli oblò. Nulla. Nessun organismo, nessun bagliore. Peak girava fra i tavoli da laboratorio e gli armadi. «Qui», gridò. Lei lo raggiunse di corsa. Uno scaffale era caduto. A terra, c'erano diversi tubi sottili, a forma di siluro, lunghi quasi un metro. Li sollevarono, l'uno dopo l'altro. Due erano notevolmente più pesanti rispetto agli altri. Poi Judith vide i segni di riconoscimento. Rubin li aveva segnati su un fianco con un pennarello resistente all'acqua. «Sal», mormorò, affascinata. «Abbiamo in mano il nuovo ordine mondiale.» «Bene.» Peak si guardava nervosamente intorno. Una provetta rotolò giù da un tavolo e si ruppe con un leggero tintinnio. L'allarme continuava a risuonare. «Allora portiamo il nuovo ordine mondiale fuori di qui il più in
fretta possibile.» Judith Li scoppiò a ridere. Passò a Peak uno dei tubi, prese l'altro e uscì di corsa dal laboratorio. «Tra cinque minuti avrò mandato all'inferno questa creazione arrogante, Sal, può contarci!» «Con chi vuole scendere? Crede che Mick sia ancora vivo?» «Non m'interessa se lo è.» «Potrei accompagnarla io.» «Grazie, Sal, molto generoso da parte sua. E cosa vorrebbe fare? Venire laggiù a rompermi i timpani perché mi permetto di ammazzare quella fanghiglia blu?» «È una cosa maledettamente diversa e lei lo sa bene!» Raggiunsero la scaletta di boccaporto. Dalla parte opposta, qualcuno stava correndo verso di loro a testa bassa. «Leon!» Anawak sollevò lo sguardo, li riconobbe e si fermò di colpo. Erano molto vicini; in mezzo a loro c'era solo la scaletta di boccaporto. «Jude... Sal...» Anawak li fissò. «Ma guarda un po'.» Ridicolo! pensò Judith. Quell'uomo era assolutamente incapace di fingere. Le era bastato uno sguardo per capire che Anawak sapeva tutto. «Da dove arriva?» chiese. «Io... volevo cercare gli altri e...» Non aveva importanza quanto sapesse. Non avevano tempo da perdere. Forse stava davvero cercando i suoi amici, forse aveva un piano. No, non aveva importanza. Anawak si era messo sulla sua strada. Judith Li tirò fuori la pistola. Ponte di volo Quando uscirono sul ponte, Samantha Crowe era alle calcagna di Murray Shankar, ma poi qualcuno la fermò. «Aspetti», disse un soldato in uniforme. «Ma io devo...» «Lei è nel prossimo gruppo.» Due dei grandi Super Stallion avevano già lasciato il ponte e altri due attendevano di fronte all'isola. Erano parcheggiati vicinissimi. Mentre correva con soldati e civili, Shankar si girò verso Samantha. Il gigantesco eliporto s'inclinava sempre di più. Era così grande da dare l'impressione che non fosse la nave a essere obliqua, bensì il mare, agitato e coperto di
schiuma. «Ci vediamo più tardi!» gridò Shankar. «Te ne andrai col prossimo volo.» Samantha lo seguì con lo sguardo mentre lui correva sulla rampa che portava all'interno del Super Stallion. Un vento gelido le frustava il viso. A quanto pareva, l'evacuazione procedeva in maniera molto ordinata. Era un bene. Doveva solo pazientare. Il suo sguardo vagava tutt'intorno. Dov'erano gli altri? Leon, Sigur, Karen... Erano già andati via? Un pensiero tranquillizzante. Il portellone si chiuse alle spalle di Shankar. I rotori presero a girare più velocemente. Scafo Meno di trenta metri sotto il ponte di volo, l'acqua premeva contro le paratie della stiva di prua e degli alloggi dell'equipaggio. Le paratie reggevano. Un siluro era rimasto in acqua. Durante l'esplosione del batiscafo, l'innesco era scattato, però il siluro non era esploso. Casi del genere erano rari, ma succedevano. Era affondato in una stiva piena d'acqua, sopra una grata che, staccatasi in parte dal suo ancoraggio, si torceva nell'oscurità. Il siluro ci rotolava sopra dolcemente e scivolava di alcuni centimetri in avanti, seguendo la progressiva inclinazione della nave. Le paratie reggevano, ma la grata scricchiolava e gemeva sotto la pressione. Anche i puntoni reggevano ancora, però erano sottoposti a una tensione estrema. Nell'acciaio delle paratie si formarono alcune crepe. Una delle grandi viti di rinforzo si staccò lentamente dal suo ancoraggio, forzando la filettatura. Poi uscì con un botto. La tensione aumentò. La grata schizzò in aria, altre viti saltarono, la parete cedette. Il siluro ricevette un colpo che lo catapultò verso l'alto e lo spinse nel punto in cui confinavano tutti gli spazi: la stiva di prua e le gigantesche camerate dei marinai da una parte e il ponte dei veicoli proprio sotto il laboratorio dall'altra. Era uno dei punti di contatto più sensibili della nave. La carica esplosiva fece il proprio lavoro.
Livello 3 «No», disse Peak. Lasciò cadere l'involucro a forma di siluro e puntò la pistola contro Judith Li. «Non lo farà.» Judith rimase immobile. L'arma era sempre puntata contro Anawak. «Sal, ne ho abbastanza delle sue resistenze», sibilò. «Mi faccia il piacere di non comportarsi da idiota.» «Abbassi l'arma.» «Maledizione, Sal! La porterò davanti alla corte marziale, io...» «Al tre sparo, Jude! Glielo giuro. Non ucciderà altre persone. Abbassi l'arma. Uno... due...» Judith Li abbassò il braccio. «Va bene, Sal. Va bene.» «La lasci cadere.» «Perché non ne parliamo e...» «La lasci cadere!» Negli occhi di Judith Li comparve un lampo di odio indicibile. L'arma cadde rumorosamente a terra. Anawak gettò un'occhiata a Peak. «Grazie», disse. Con un balzo, raggiunse la scaletta di boccaporto e sparì. Judith Li lo sentì correre via. I passi si allontanarono. Imprecò. «Generale comandante Judith Li», disse Peak in tono formale. «Io la destituisco dal comando per incapacità d'intendere e di volere. Da questo momento in poi lei è ai miei ordini. Può...» Ci fu un colpo terribile. Dal basso provennero mostruosi gorgoglii. La nave si piegò in avanti come un ascensore in caduta e Peak perse l'equilibrio. Cadde a terra, rotolò e si rialzò immediatamente. Dov'era la sua arma? Dov'era Judith? «Sal!» Si girò. La donna era inginocchiata davanti a lui. Gli teneva l'arma puntata contro. Peak si bloccò. «Jude.» Scosse la testa. «Cerchi di capire...» «Idiota», disse Judith Li. E sparò. Ponte di volo Samantha Crowe barcollò. Il ponte si stava inclinando ancora di più. Il
Super Stallion coi rotori in movimento scivolò verso l'elicottero parcheggiato poco oltre. Quindi si sollevò, ululando, e cercò di guadagnare quota per evitare l'impatto. Samantha si sentì mancare il respiro. No, pensò. Non è possibile. Non può essere. Non a un passo dalla salvezza. Sentiva gridare. Alcune persone caddero, altre scapparono. Fu trascinata via e cadde a terra. Da sdraiata, vide il Super Stallion finire addosso all'altro elicottero, un cannone laterale sfiorare quello dell'altro, poi rimanere incastrato, mentre il colosso volante iniziava a girare su se stesso. Lo Stallion era fuori controllo. Samantha balzò in piedi. Presa dal panico, cominciò a correre. Porte di comando Buchanan non credeva ai propri occhi. Era stato scaraventato contro la sedia, contro quella fantastica Captain's Chair coi braccioli comodi e il poggiapiedi che tutti gli invidiavano, un misto di sedia da scrivania barocca e poltrona di comando del capitano Kirk. Colpì la sedia con la testa e prese a sanguinare. Sul ponte di comando volava tutto. Lui si rialzò, barcollando, e corse alla finestra laterale, giusto in tempo per vedere il Super Stallion girare e rovesciarsi lentamente su un fianco. Si era incastrato! «Fuori di qui!» gridò. L'elicottero continuava a girare. Il personale del ponte fuggiva, tentando disperatamente di mettersi al sicuro, mentre Buchanan non riusciva a staccare gli occhi dall'elicottero che si stava rovesciando. D'un tratto, il velivolo si liberò e salì. Buchanan boccheggiò. Per un momento sembrò che il pilota avesse ripreso il controllo. Ma era troppo inclinato. La coda dell'elicottero, lungo trenta metri, si sollevò quasi in verticale, i rotori ulularono ancora più forte, poi l'elicottero precipitò. Buchanan si portò le mani davanti al viso e fece un passo indietro. Era una mossa ridicola. Tanto valeva allargare le braccia e dare il benvenuto alla sua fine. Oltre trentatré tonnellate di elicottero da combattimento con novemila litri di carburante si schiantarono contro il ponte di comando, trasformando la parte anteriore dell'isola in un inferno di fiamme. Tutte le finestre si
frantumarono. Una fiammata invase la costruzione, liquefece l'arredamento, fece esplodere i monitor, strappò le paratie dai loro ancoraggi, colpì i fuggitivi sulle scalette di boccaporto, li ridusse in cenere e, attraverso i corridoi, si allargò al resto dell'isola. Ponte di volo Samantha correva per salvarsi la vita. Intorno a lei, cadevano macerie infuocate. Correva verso la poppa dell'Independence. La nave si era talmente inclinata che lei doveva avanzare in salita ansimando pesantemente. Negli ultimi anni, i suoi polmoni avevano ricevuto più nicotina che aria fresca. In effetti, aveva sempre pensato che sarebbe morta per un cancro ai polmoni. Incespicò e cadde sull'asfalto. Mentre cercava di rialzarsi, vide la parte anteriore dell'isola avvolta dalle fiamme. Anche il secondo elicottero stava bruciando. Sul ponte c'erano individui ridotti a torce umane che correvano per un tratto e poi crollavano. Lo spettacolo era orribile, e la consapevolezza di avere pochissime possibilità di sopravvivere all'affondamento dell'Independence era ancora più orribile. Violente detonazioni facevano volar via dall'isola globi incandescenti. Le fiamme urlavano e infuriavano. Poi ci fu una violenta esplosione. E proprio davanti a Samantha cadde una pioggia di scintille. Shankar aveva perso la vita in quell'inferno. Lei non voleva morire così. Balzò in piedi e riprese a correre verso poppa senza avere la minima idea di come avrebbe fatto ad arrivarci. Livello 3 Judith imprecò. Aveva tenuto il primo siluro ben stretto sotto il braccio, ma il secondo era rotolato via da qualche parte. O era caduto nella scaletta di boccaporto oppure era precipitato nel corridoio verso prua. Quel maledetto imbecille di Peak! Mentre oltrepassava il cadavere, si chiedeva se un unico siluro pieno di veleno sarebbe stato sufficiente. Le sarebbe rimasta una sola possibilità. Forse uno non avrebbe funzionato, forse non si sarebbe aperto per disper-
dere in acqua il veleno. In ogni caso, era meglio averne due. Osservò il corridoio. Poi sentì sopra di sé un potente rimbombo e la nave vibrò con maggiore violenza. Judith Li cadde e scivolò sulla schiena lungo il corridoio. Cos'era successo? La portaerei stava saltando in aria? Doveva uscire in fretta. Il Deepflight le sarebbe servito non solo per portare a termine la missione, ma anche per salvarsi la vita. Il siluro le scivolò di mano. «Merda!» Cercò di afferrarlo, ma quello continuava a rotolare. Se quei tubi fossero stati pieni di esplosivo, sarebbero già saltati in aria. Ma dentro non c'era esplosivo, bensì un liquido per eliminare una specie intelligente. Allargò braccia e gambe nel tentativo di aggrapparsi da qualche parte. Dopo alcuni secondi, la calma tornò. Sentiva male ovunque, come se qualcuno l'avesse colpita con una sbarra di ferro. Forse non dimostrava di avere quasi cinquant'anni, però si sentiva come se ne avesse cento. Si alzò, reggendosi alla parete e si guardò intorno. Era sparito anche il secondo siluro. Avrebbe voluto urlare. I rumori di sottofondo provocati dall'acqua risuonavano spaventosamente vicini. Non aveva più molto tempo. Dall'alto arrivava un rumore gorgogliante. E del calore. Sobbalzò. In effetti faceva più caldo. Doveva ritrovare i siluri. Con selvaggia determinazione, si staccò dalla parete e si dedicò alla ricerca. Laboratorio Quando il colpo fece vibrare la nave, il soldato MacMillan era appena dietro Johanson e Karen, col fucile spianato. Caddero tutti in acqua. Karen riemerse e sentì un'esplosione provenire dall'alto. Poi la luce si spense. «Sigur?» gridò. Nessuna risposta. «MacMillan?» «Sono qui.»
Sentiva il fondo sotto i piedi e l'acqua le arrivava al petto. Maledizione, ci mancava anche quella! Avevano quasi raggiunto uno dei soldati morti. Qualcosa urtò dolcemente la sua spalla e lei lo afferrò. Uno stivale. Teneva in mano uno stivale e dentro c'era una gamba. «Karen?» La voce di Johanson, vicinissima. A poco a poco, i loro occhi si abituarono all'oscurità. Un attimo dopo, si accesero le luci di emergenza rosse e il laboratorio prese l'aspetto di un cupo antinferno. Nella penombra, Karen vide la testa di Johanson che si sollevava dall'acqua. «Vieni qui», gli gridò. «Aiutami.» Ora il cupo rimbombo non veniva solo dal basso, ma anche dall'alto. Che cos'era successo? Lei ebbe la sensazione che nel laboratorio si fosse alzata la temperatura. Johanson apparve al suo fianco. «Chi è?» «Non importa. Prendilo.» «Dobbiamo uscire di qui», ansimò MacMillan. «In fretta.» «Sì, subito, noi...» «Presto!» Karen guardò l'acqua un po' più avanti. Una debole luce blu. Un lampo. Afferrò il piede del morto e si mosse in direzione della porta. Johanson aveva preso il braccio dell'uomo. O era una donna? Avevano preso Sue? Karen sperava che quello che si stavano trascinando appresso non fosse il cadavere della povera Sue. Si spinse in avanti, poi colpì qualcosa che la fece scivolare. Finì con la testa sott'acqua. Guardò nel buio con gli occhi sbarrati. Qualcosa serpeggiava verso di lei. Si muoveva velocemente e sembrava una lunga anguilla luminosa. Anzi un gigantesco verme senza testa. E poi... Non era uno soltanto, erano molti. Riemerse. «Via di qui.» Johanson tirava dall'altra parte. Sotto la superficie dell'acqua si stendevano i tentacoli luminosi. Erano almeno una dozzina. MacMillan sollevò il fucile. Karen sentì qualcosa scivolarle sulla caviglia e poi trascinarla. Nello stesso istante, uscirono dall'acqua diverse cose che strisciarono su di lei. Cercò di strapparsele via. Johanson le balzò vicino e affondò le dita fra i tentacoli intorno al corpo della donna, ma era come se lei fosse tra le spire di un anaconda. L'essere la stringeva.
L'essere? Stava combattendo contro miliardi di esseri. Miliardi e miliardi di esseri unicellulari. «Non ci riesco», ansimò Johanson. La gelatina strisciava sul petto della donna verso la gola. Karen finì di nuovo sotto. L'acqua splendeva. Dietro i tentacoli sgusciava qualcosa di grande. La massa principale dell'organismo. Karen lottava con tutte le forze per raggiungere la superficie. «MacMillan» gorgogliò. Il soldato sollevò il fucile. «Con quello non otterrai nulla», gridò Johanson. MacMillan sembrava assolutamente calmo. Puntò e prese la mira sulla grande massa che si avvicinava. «E invece con questo otterrò qualcosa.» Fece fuoco ed esclamò: «Le pallottole esplosive ottengono sempre qualcosa!» La raffica penetrò nell'organismo, l'acqua sprizzò. MacMillan sparò una seconda raffica e la cosa andò in brandelli. Frammenti di gelatina volarono ovunque. Karen annaspava, in cerca d'aria. Poi di colpo fu libera. Johanson la afferrò. Ripresero a trascinare il cadavere. Lo specchio d'acqua si abbassava e ora procedevano in fretta. Dopo che la nave si era ulteriormente rovesciata in avanti, la maggior parte dell'acqua si era raccolta nella parte del laboratorio verso prua e la porta era praticamente all'asciutto. Era difficile non scivolare sul pavimento in pendenza, ma ormai procedevano con l'acqua non più alta della caviglia. Portarono il cadavere fuori, sulla rampa. Anche là l'acqua si era ritirata. A Karen sembrò di sentire un grido soffocato. «MacMillan?» Sbirciò nel laboratorio. «MacMillan, dov'è?» L'organismo luminoso stava tornando a riunirsi. I frammenti si fondevano. I tentacoli sembravano scomparsi. L'essere aveva assunto una forma piatta. «Chiudi la porta», gridò Johanson. «Può ancora uscire. C'è acqua sufficiente.» «MacMillan!» Karen si aggrappò al telaio della porta e continuò a guardare nella sala illuminata di rosso, ma il soldato non si vedeva. MacMillan non ce l'aveva fatta. Un filo sottile e luminoso si avvicinò. Karen balzò all'indietro e chiuse la paratia. Il tentacolo accelerò, ma stavolta non fu sufficiente. La porta si
chiuse. Esperimenti Anawak era stato sorpreso dall'esplosione sulla scaletta di boccaporto. Aveva il respiro affannoso e il ginocchio gli faceva male. Imprecò. Vanderbilt gli aveva colpito proprio il ginocchio uscito malconcio dall'incidente con l'idrovolante. Trovò diversi boccaporti bloccati. Ormai la nave era molto inclinata. L'unica via di fuga era quella lungo la rampa del ponte dell'hangar, quindi lui corse indietro e salì finché non fu abbastanza in alto per raggiungere la rampa. Più saliva, Più aumentava il calore. Cos'era successo lassù? Il rumore non lasciava presagire nulla di buono. Zoppicò lungo il ponte dell'hangar e vide del fumo nero e spesso entrare dalle porte aperte. Gli sembrò di sentire qualcuno che chiedeva aiuto. Fece qualche passo nell'hangar. «C'è qualcuno?» gridò. La visuale era pessima. Dietro le strisce di fumo nero si riusciva appena a intravedere l'illuminazione gialla del soffitto. In compenso, il grido d'aiuto adesso si sentiva chiaramente. La voce di Samantha! «Sam?» Anawak corse in avanti, in mezzo alle nubi di fuliggine. Stava in ascolto, ma il grido non si ripeteva. «Sam? Dove sei?» Niente. Attese ancora un momento, poi si girò e corse verso la rampa. Si accorse troppo tardi che essa aveva assunto la pendenza di un trampolino per il salto con gli sci. Gli si piegarono le gambe. Rotolò giù, pregando che almeno una delle siringhe rimasse intatta. C'erano poche speranze che gli rimanessero intatte le ossa. Invece non si ruppe nulla. Quando finalmente arrivò in fondo, finì nell'acqua, che attutì l'impatto. Si riscosse, si riportò all'asciutto procedendo gattoni e vide Karen e Johanson che trascinavano un corpo verso il ponte a pozzo. Il pavimento era ricoperto da una sottile pellicola d'acqua. Il bacino artificiale! Stava tracimando nei corridoi. Se l'Independence si fosse piegata ancora un po', tutto quel settore sarebbe stato sommerso. Dovevano affrettarsi. «Ho le siringhe», gridò. Johanson sollevò lo sguardo. «Era ora.»
«Chi è? Chi avete preso?» Anawak si rialzò, barcollando, raggiunse di corsa i due e lanciò un'occhiata al cadavere. Era Rubin. Ponte di volo Al fondo del ponte di coperta, Samantha si accovacciò e guardò l'isola in fiamme. Vicino a lei c'era un uomo tremante. Sembrava pakistano e indossava una tenuta da cuoco. Soltanto a loro due era venuta l'idea di scappare lì, oppure nessun altro c'era riuscito. L'uomo respirò affannosamente e si rialzò. «Sa una cosa?» disse lei. «Questo è il risultato del confronto tra specie intelligenti.» L'altro la fissò come se le stesse crescendo un corno in fronte. Samantha sospirò. Aveva raggiunto il punto al di sotto del quale c'era la piattaforma dell'elevatore di destra. Lì si apriva l'accesso al ponte dell'hangar. Aveva gridato un paio di volte, ma nessuno aveva risposto. Sarebbero sprofondati con la nave in fiamme. Probabilmente le lance di salvataggio non c'erano neppure. Su una portaerei, ci si salvava prima di tutto coi velivoli. Ammesso che ci fossero delle lance, ci sarebbe comunque stato bisogno di qualcuno che le sganciasse e le calasse in acqua. Ma erano spariti tutti nell'inferno di fuoco. Un fumo nero giunse verso di loro. Un fumo ripugnante, catramoso. Nella sua ultima ora, Samantha non voleva respirare quella roba. «Ha una sigaretta?» chiese al cuoco. Si aspettava una reazione sconcertata e invece lui tirò fuori un pacchetto di Marlboro e un accendino. «Lights», spiegò. «Oh? Per la salute?» Samantha sorrise e inspirò mentre il cuoco la faceva accendere. «Molto divertente.» Feromone «Gli iniettiamo la sostanza sotto la lingua, nel naso, negli occhi e nelle orecchie», disse Karen. «Perché proprio in quei punti?» chiese Anawak. «Perché penso siano i punti in cui fatica meno a entrare.»
«Allora iniettala anche sotto le unghie, senza dimenticare quelle dei piedi. Ovunque. Più ce n'è, meglio è.» Il ponte a pozzo era deserto; il personale tecnico era probabilmente fuggito. Karen aveva tolto in fretta a Rubin tutti i vestiti tranne le mutande, mentre Johanson e Anawak riempivano le siringhe con l'estratto di feromoni. Se n'era rotta una sola. Rubin era coricato sulla sponda artificiale. L'acqua era salita solo di qualche centimetro, ma continuava a crescere. Con grande cautela, avevano tolto i pezzi di gelatina sotto cui era sparita una parte della testa di Rubin e li avevano gettati in un luogo asciutto. Dalle orecchie gli usciva ancora qualche frammento. Anawak lo tirò via. «Potete anche iniettargliela nel didietro», disse Johanson. «Ne abbiamo in abbondanza.» «Credi che funzionerà?» chiese Karen dubbiosa. «Quel poco di yrr che è rimasto nel suo corpo non può essere in grado di produrre tanto feromone quanto quello che gli iniettiamo noi. Se ci cascheranno, penseranno che l'ha prodotto lui.» Johanson si mise in ginocchio. Allungò verso di loro una mano con Le siringhe piene. «Chi si offre?» Karen sentì salire il disgusto. «Non accapigliatevi, eh?» esclamò Johanson. «Leon?» Alla fine lo fecero insieme. Il più velocemente possibile, iniettarono a Rubin la soluzione di feromone, finché non arrivò a contenerne quasi due litri. Probabilmente una metà sarebbe uscita. «L'acqua è salita», osservò Anawak. Karen rimase in ascolto. Si sentivano gemiti e stridii in tutta la nave. «Fa anche più caldo.» «Sì, perché sta bruciando il ponte di coperta.» «Forza.» Karen prese Rubin sotto le ascelle e lo sollevò. «Portiamo a termine questo lavoro prima che arrivi Judith.» «Judith? Pensavo che Peak l'avesse messa fuori gioco», esclamò Johanson. Anawak gli lanciò uno sguardo mentre trascinavano il cadavere di Rubin nel ponte a pozzo. «Lo credi davvero? Eppure la conosci. Non è una che si fa mettere fuori gioco così facilmente.» Livello 3 Judith era fuori di sé. Continuava a correre nel corridoio e a guardare nelle porte aperte. Quel
maledetto tubo doveva essere da qualche parte! Era lei, che non cercava bene. Di certo l'aveva proprio sotto il naso. Cerca, stupida bestia, si diceva. Sei troppo stupida per trovare un tubo. Stupida bestia. Vecchia rimbambita! D'un tratto le mancò il pavimento sotto i piedi. Barcollò e si aggrappò a qualcosa. Erano saltate altre paratie. Il corridoio s'inclinava sempre più. Probabilmente l'Independence era ormai così piegata che le prime onde stavano già lambendo il bordo del ponte di volo verso prua. Non poteva durare ancora a lungo. Di colpo vide il tubo. Era rotolato dentro un passaggio aperto. Judith Li lanciò un grido di trionfo. Corse verso il tubo, lo afferrò e corse lungo il corridoio verso la scaletta di boccaporto. Il cadavere di Peak era proprio lì in mezzo. Spinse via il corpo pesante e scese la scala. Per gli ultimi due metri saltò e si tenne stretta alla ringhiera per non cadere lunga distesa. E là c'era il secondo tubo. Adesso era davvero euforica. Il resto sarebbe stato un gioco da ragazzi. Ma, quando riprese a correre, si dovette ricredere: alcune delle scalette di boccaporto erano bloccate da diversi oggetti. Per liberarle ci sarebbe voluto troppo tempo. Come si usciva da lì? Doveva tornare indietro. Doveva risalire, arrivare al ponte dell'hangar e prendere la rampa. Cominciò a salire velocemente coi due siluri, stretti a sé come se fossero il suo tesoro più prezioso. Anawak Rubin era pesante. Dopo essersi infilati le tute di neoprene - Johanson ansimando e gemendo -, unirono le forze e lo trascinarono lungo il molo di destra. Dal ponte si vedeva una scena assurda. I moli si sollevavano da tutte e due le parti, come trampolini da sci. Il fondo era visibile nel punto in cui toccava la paratia di poppa. Una gran parte dell'acqua del bacino aveva sollevato i quattro zodiac ormeggiati ed era. rifluita nel corridoio del laboratorio. Anawak sentiva i gemiti dell'acciaio e si chiedeva per quanto tempo la struttura avrebbe retto quel carico. I tre batiscafi erano appesi obliquamente sopra il bacino. Il Deepflight 2 era stato spostato al posto del Deepflight 1, andato perso. Gli altri due bati-
scafi erano stati aperti. «Con quale vuole scendere Judith?» chiese Anawak. «Col Deepflight 3», rispose Karen. Osservarono le funzioni del quadro di controllo e provarono a schiacciare diversi pulsanti. Non accadde nulla. «Deve funzionare.» Lo sguardo di Anawak si spostava sulla console. «Roscovitz ha detto che il ponte a pozzo dispone di un circuito elettrico autonomo.» Si chinò ancora di più sul quadro di controllo e lesse con attenzione le scritte. «Eccolo. Questo è il tasto per farlo scendere. Bene, voglio il Deepflight 3. Così Judith Li non potrà prenderlo in caso riesca ad arrivare qui.» Karen mise in funzione l'impianto di sollevamento, ma, invece del batiscafo di mezzo, si abbassò quello davanti. «Non puoi far calare il Deepflight 3...?» «Probabilmente c'è un sistema, ma io non lo conosco. Per quello che ne so, scendono l'uno dopo l'altro.» «Non importa», la interruppe Johanson nervosamente. «Non abbiamo tempo da perdere. Prendi il Deepflight 2.» Attesero finché il batiscafo non scese all'altezza del molo. Karen ci saltò sopra e aprì le coperture delle due cabine a forma di tubo. Il corpo di Rubin sembrava incredibilmente pesante quando lo tirarono a bordo. In effetti era appesantito dall'umidità e dalla sostanza che gli avevano iniettato. La testa ciondolava da una parte all'altra e gli occhi acquosi fissavano il nulla. Tirarono e spinsero insieme, finché Rubin non finì nella cabina tubolare del copilota. Era arrivato il momento. Il suo sogno dell'iceberg. Sapeva che prima o poi sarebbe finito là sotto. L'iceberg si sarebbe sciolto e lui sarebbe sprofondato sul fondo dell'oceano sconosciuto... Per incontrare chi? Karen Weaver «No, Leon, tu non vai.» Anawak sollevò sorpreso la testa. «Che vorresti dire?» «Quello che ho detto.» Uno dei piedi di Rubin era ancora fuori. Karen lo colpì con un calcio. Trovava terribile dover trattare un morto in quel modo, anche se Rubin era stato un traditore. Ma la pietà era un sentimento che
non si poteva permettere. «Scenderò io.» «Come? Perché questa decisione improvvisa?» «Perché è giusto così.» «No, per niente.» La afferrò per le spalle. «Karen, potrebbe andare malissimo. Questo...» «So bene come può andare a finire», mormorò. «Nessuno di noi ha grandi possibilità di salvarsi, ma le vostre sono maggiori. Prendete gli altri batiscafi e auguratemi buona fortuna, okay?» «Karen! Perché?» «Vuoi assolutamente saperlo, vero?» Anawak la fissò. «Vorrei far gentilmente notare che stiamo perdendo tempo», sbuffò Johanson. «Perché non state qui voi due e vado io?» «No.» Karen continuava a fissare Anawak. «Leon, lo sai che ho ragione. Un Deepflight lo guido con la mano sinistra, sono più brava di voi. Sono stata con l'Alvin sulla dorsale medioatlantica, a migliaia di metri di profondità. Sono quella che conosce meglio i batiscafi e...» «È una follia», esclamò Anawak. «So guidare questa cosa bene quanto te.» «... inoltre quello laggiù è il mio mondo. Il profondo mare blu, Leon. Fin da quand'ero piccola. Dal mio decimo anno di vita.» Anawak aprì la bocca per ribattere. Karen gli posò l'indice sulle labbra e scosse la testa. «Vado io.» «Vai tu», sussurrò lui. «Okay.» Si guardò intorno. «Aprite la chiusa e fatemi scendere. Non ho idea di cosa succederà quando il pozzo sarà aperto. Forse gli yrr ci attaccheranno direttamente, forse non succederà niente. Pensiamo positivo. Dopo che mi sarò sganciata, aspettate un minuto e, se la situazione lo permette, partite col secondo batiscafo. Non seguitemi. Rimanete appena sotto le onde e vedete di allontanarvi dalla nave. Più tardi...» Fece una pausa. «Prima o poi qualcuno ci ripescherà, no? Questi affari hanno a bordo una trasmittente satellitare.» «A dodici nodi avrai bisogno di due giorni e due notti per raggiungere la Groenlandia o le Svalbard», commentò Johanson. «Il combustibile non è sufficiente.» «Andrà tutto bene.» Si sentiva il cuore stretto. Abbracciò in fretta Johanson. Pensava a com'erano sfuggiti insieme allo tsunami sulle Shetland. Si sarebbero rivisti!
«Che ragazza valorosa», disse Johanson. Poi lei strinse il viso di Anawak tra le mani e gli diede un lungo bacio sulla bocca. Non avrebbe più voluto lasciarlo. Avevano parlato così poco, soprattutto di quello che sarebbe stato meglio per loro... Adesso non diventare sentimentale. «Sta' attenta», disse Anawak sottovoce. «Al più tardi tra un paio di giorni saremo di nuovo insieme.» Con un balzo, Karen entrò nella cabina tubolare del pilota. Il Deepflight 2 oscillò leggermente. Lei si mise prona, scivolò nella posizione corretta e attivò il dispositivo di chiusura. Lentamente le due cupole si abbassarono e si chiusero. Osservò gli strumenti. Tutto sembrava intatto. Karen Weaver sollevò i pollici. Il mondo dei viventi Johanson andò al pannello di controllo, aprì la chiusa e mise in movimento il Deepflight, che cominciò a scendere. Le paratie si apiirono e apparve il mare scuro. Non c'era nulla che cercasse di entrare. Karen staccò dall'interno il blocco per liberare il batiscafo, che sbatté sull'acqua e affondò. Nella cupola di vetro entrò l'aria del sistema. I colori impallidirono l'uno dopo l'altro, e il profilo del Deepflight cominciò a sfocarsi finché di esso non rimase che un'ombra. Poi sparì. Anawak sentì come una coltellata nel cuore. «I ruoli degli eroi in questa storia sono già stati assegnati. Ai morti. Tu appartieni al mondo dei vivi.» Greywolf! «Forse hai bisogno di un intermediario che ti confidi quello che lo spirito uccello vede.» Il medium di cui gli aveva parlato Akesuk era stato Greywolf, che gli aveva spiegato il suo sogno e aveva visto giusto. L'iceberg si era sciolto, ma la strada di Anawak non portava negli abissi, bensì nella luce. Lo portava nel mondo dei vivi. Da Samantha Crowe. Anawak sobbalzò. Ma certo! Come aveva potuto farsi prendere così tanto dall'idea dell'eroico sacrificio? Come aveva potuto lasciarsi sfuggire il vero compito che lo aspettava a bordo dell'Independence? «E ora?» chiese Johanson.
«Piano B.» «Che sarebbe?» «Devo tornare su.» «Ma sei pazzo? A che scopo?» «Voglio trovare Sam. E Murray.» «Lassù non c'è più nessuno», disse Johanson. «La nave è stata evacuata. Erano tutti e due nel CIC l'ultima volta che li ho visti. Probabilmente sono stati tra i primi a volare via.» «No.» Anawak scosse la testa. «Almeno non Sam. L'ho sentita chiedere aiuto.» «Come? Quando?» «Prima che vi raggiungessi. Sigur, non voglio infastidirti coi miei problemi, ma nella mia vita ho chiuso gli occhi troppo spesso. Ora è diverso. Non sono più così. Capisci? Non posso ignorarlo.» Johanson sorrise. «No. Non puoi.» «Stai attento! Faccio solo un tentativo. Intanto abbassa il Deepflight 3 e preparalo per la partenza. Se non riesco a trovare Sam nei prossimi minuti, torno indietro e ce la filiamo.» «E se la trovassi?» «C'è il Deepflight 4.» «Va bene.» «Davvero?» «Certo.» Johanson allargò le braccia. «Cosa stai aspettando?» Anawak esitò e si morse le labbra. «E se non torno entro cinque minuti, vattene senza di me, capito?» «Aspetterò.» «No. Tu aspetti cinque minuti. Al massimo.» Si abbracciarono. Anawak corse lungo il molo. La zona in cui iniziava il tunnel che conduceva al settore del laboratorio era tutta allagata, ma l'Independence sembrava ancora in posizione piuttosto stabile. Negli ultimi minuti, la nave non si era ulteriormente inclinata in avanti. Per quanto ancora? pensò Anawak. L'acqua gli lambì le caviglie. Avanzò, a un certo punto fu costretto a nuotare, sentì di nuovo il pavimento sotto i piedi, infine nuotò ancora per qualche metro. Subito dopo, procedere divenne più difficile. Nei pressi della rampa dell'hangar, il soffitto era inclinato verso la superficie dell'acqua, ma rimanevano alcuni metri liberi per respirare. Anawak nuotò davanti alla porta chiusa del laboratorio fino al gomito della rampa e sbirciò
oltre. Mentre alcune parti della rampa erano diventate piane, altre erano molto ripide. E il tratto fino al ponte dell'hangar era ripidissimo. In alto era sospesa una cappa di fumo. Doveva procedere carponi. Nonostante la tuta di neoprene aveva freddo. Anche se fossero riusciti ad andarsene col batiscafo, la loro sopravvivenza non era affatto certa. E invece sì. Doveva sopravvivere! Doveva rivedere Karen Weaver. Si mise a salire con decisione. Fu più facile di quanto avesse creduto. L'acciaio della rampa era scanalato per offrire una presa ai veicoli e ai marinai. Le dita di Anawak si aggrapparono ai solchi. Più saliva, più la temperatura aumentava. In compenso nei suoi polmoni arrivò del fumo denso, che gli tolse il poco fiato rimasto. Le nuvole di fumo diventavano sempre più spesse. Dal ponte di volo arrivava ancora quel tremendo rimbombo. Quando aveva sentito il grido di Samantha stava già bruciando tutto. Se era sopravvissuta all'esplosione e all'incendio, forse era ancora via. Ansimando, si trascinò per gli ultimi metri e, con sua grande sorpresa, si rese conto che la visuale nell'hangar era migliore che sulla rampa. Nel tunnel il fumo si accumulava; lì i passaggi degli elevatori esterni permettevano la circolazione dell'aria. Facevano entrare il fumo, ma nel contempo lo disperdevano. L'aria era calda e soffocante come in un forno. Anawak si premette la manica davanti alla bocca e al naso e corse sui ponte dell'hangar. «Sam!» gridò. Nessuna risposta. Cosa si era aspettato? Che sarebbe corsa verso di lui a braccia spalancate? «Sam! Samantha!» Doveva essere impazzito. Però meglio essere pazzo che morto, anche se apparentemente vivo. Greywolf aveva ragione. Lui aveva vissuto come uno zombie. La pazzia che sentiva in quel momento gli dava molto di più di una vita illusoria. «Sam!» Ponte a pozzo Johanson era solo. Era praticamente certo che Floyd Anderson gli avesse rotto un paio di costole. Almeno così si sentiva. Ogni movimento gli procurava un dolore infernale. Quando avevano portato via Rubin e l'avevano caricato sul bati-
scafo, più volte avrebbe voluto urlare per il dolore, però aveva stretto i denti per non creare ulteriori problemi. Ma le forze lo stavano abbandonando. Pensò al Bordeaux nella sua cabina. Che guaio! Ne avrebbe gustato volentieri un bicchiere. Sì, non avrebbe sanato le costole, tuttavia avrebbe dato a quella incresciosa situazione una nota sopportabile. Anche a costo di brindare con se stesso, dal momento che tutti i buongustai erano morti, tranne lui. Soprattutto tenuto conto del fatto che, tra gli individui fantastici o ripugnanti conosciuti nelle ultime settimane, non ce n'era neppure uno che condividesse il suo spiccato senso estetico. Probabilmente lui era un dinosauro. Un Saurus exquisitus, pensò, mentre abbassava il Deepflight 3 all'altezza del molo. Gli piaceva. Saurus exquisitus. Era proprio quello. Un fossile che amava essere un fossile. Affascinato dal futuro e dal passato che troppo spesso si mescolavano, al punto da rendergli impossibile capire in quale epoca stesse vivendo. Le cose passate e quelle future eccitavano la sua fantasia. Bohrmann... Il tedesco avrebbe saputo apprezzare un buon Bordeaux. Lui e nessun altro. Sue si era divertita, ma avrebbe potuto anche offrirle un vino preso al supermercato. Del team dello Château Disaster, chi era sufficientemente raffinato da saper apprezzare un Pomerol, il suo bouquet ricco di sfumature? Nessuno, tranne forse... Judith Li. Cercò per l'ennesima volta d'ignorare il dolore, saltò sul Deepflight, gemette e restò in posizione eretta con le ginocchia tremanti. Aprì il coperchio del meccanismo di chiusura e liberò gli sportelli, che lentamente si sollevarono. Le due cabine tubolari erano aperte davanti a lui. «Tutti a bordo», gridò. Strano... Stava in equilibrio su un batiscafo in un ponte a pozzo inclinato. In quali situazioni ti cacciava la vita. Ripensò a Judith Li. Piuttosto avrebbe vuotato le bottiglie nel mar di Groenlandia. Si poteva preservare il bello anche non condividendolo con determinate persone. Judith Li Quando raggiunse il ponte dell'hangar era affannata. Le dense nuvole di fumo bloccavano quasi completamente la visuale,
tuttavia le sembrò di vedere in lontananza una figura che correva avanti e indietro. Poi sentì: «Sam! Samantha!» Era stato Anawak a gridare? Esitò. A cosa sarebbe servito eliminarlo, ormai? Le ultime paratie a prua potevano cedere da un momento all'altro e la nave si sarebbe spezzata. A quel punto, l'Independence sarebbe sprofondata come un sasso. Corse verso la rampa e vide un buco pieno di fumo. Le si strinse lo stomaco. Non aveva paura e tantomeno considerava quella discesa superiore alle sue forze, però si chiese come avrebbe fatto a scendere coi due tubi. Se le fossero scivolati di mano, sarebbero finiti nell'acqua scura. Mise i piedi di traverso e cominciò a scendere la rampa, un passo alla volta. Intorno a lei, buio opprimente e fumo soffocante. I suoi stivali risuonavano contro l'acciaio scanalato. Perse l'equilibrio e cadde con le gambe distese in avanti. Poi scivolò a folle velocità. Serrava i due tubi tra le braccia, ma sentiva dolorosamente la ruvida superficie della rampa e i travetti che le martellavano l'osso sacro. Poi si ribaltò e vide l'acqua nera che si avvicinava. Cadde e non vide più niente. Poi riemerse, boccheggiando. Non aveva lasciato andare i tubi! Dalle pareti del tunnel provenivano gemiti cupi. Judith Li si mosse, nuotò silenziosamente, superò il gomito e si diresse verso il ponte a pozzo. Nel tunnel l'illuminazione era spenta, ma il ponte a pozzo disponeva di un sistema elettrico autonomo. Oltre, c'era più luce. Nell'avvicinarsi, vide il molo sollevato, il coperchio di chiusura di poppa che pendeva minaccioso sul bacino artificiale e i due batiscafi, uno dei quali ondeggiava all'altezza del molo. Due batiscafi? Il Deepflight 2 era sparito. E sul Deepflight 3 c'era Johanson, in equilibrio precario, con indosso una tuta di neoprene. Ponte di volo Samantha Crowe non ce la faceva più. Sì, il cuoco pakistano aveva le sigarette, ma per il resto non era di grande aiuto. Se ne stava accucciato a frignare e non era in grado di elaborare uno straccio di piano. A dire la verità, neppure Samantha sapeva che cosa fare. Guardava sbigottita le fiamme che divampavano, ma odiava anche
soltanto l'idea di arrendersi. Dopo aver trascorso anni - decenni - ad ascoltare l'universo nella speranza di ricevere segnali da intelligenze aliene, arrendersi era impensabile. Quella cosa non poteva rientrare nel suo repertorio. Improvvisamente si sentì un boato. Sull'isola si allargò una nuvola incandescente, che esplose come se fosse un fuoco d'artificio. Un'ondata di violente vibrazioni attraversò il ponte di coperta, poi alcune fontane di fuoco saettarono verso Samantha e il cuoco. Urlando, l'uomo balzò in piedi, fece un salto indietro, inciampò e cadde fuori bordo. Samantha cercò di afferrare il suo braccio teso. Per qualche istante, il cuoco la fissò, col volto deformato dal terrore, poi cadde nell'abisso. Colpì il portellone di poppa inclinato, venne trascinato via e sparì. Le urla finirono. Samantha sentì un tonfo, si ritrasse, atterrita, e girò la testa. Era in mezzo alle fiamme. L'asfalto bruciava tutt'intorno a lei. Il calore sembrava insopportabile. Solo la parte di dritta era stata risparmiata dalle fiamme. Per la prima volta, Samantha sentì nascere dentro di sé una vera disperazione. Non c'era più speranza. Al massimo poteva ritardare la morte, nient'altro. Il calore la costrinse a spostarsi indietro. Corse verso destra, dove c'era il raccordo dell'elevatore esterno. Che doveva fare? «Sam!» Adesso aveva anche le allucinazioni! Qualcuno aveva gridato il suo nome? Impossibile. «Sam! Samantha!» No, non era un'allucinazione. Qualcuno stava gridando il suo nome. «Qui!» urlò. «Sono qui.» Si guardò intorno, con gli occhi sgranati. Da dove proveniva la voce? Sul ponte di volo non vedeva nessuno. Poi comprese. Con cautela, per non cadere, si chinò oltre il bordo. L'aria era piena di fumo, tuttavia vide chiaramente sotto di lei la piattaforma inclinata dell'elevatore esterno. «Sam?» «Qui! Qui in alto!» Urlava fino a sputare l'anima. Qualcuno arrivò di corsa sulla piattaforma e sollevò la testa. Era Anawak.
«Leon!» gridò. «Sono qui!» «Mio Dio, Sam.» La fissò. «Aspetta. Resta lì, vengo a prenderti.» «E come, ragazzo mio?» «Salgo.» «Non si può più salire», gridò lei. «Qui è tutto in preda delle fiamme. L'isola, il ponte di volo... C'è un inferno di fuoco che farebbe impallidire qualsiasi film catastrofico.» Anawak correva nervosamente avanti e indietro. «Dov'è Murray?» «Morto.» «Dobbiamo andarcene, Sam.» «Grazie per l'attenzione che mi riservi.» «Sei sportiva?» «Come?» «Sai saltare?» Samantha lo fissò. Sportiva! Oh, santo cielo. Un tempo lo era stata. In un'epoca lontana della sua vita, prima di scoprire le sigarette. E quelli erano almeno otto metri, forse dieci. Senza contare che l'inclinazione della piattaforma aveva formato una sorta di scivolo. «Non lo so.» «Neanch'io. Hai un'idea migliore che possa funzionare nel giro dei prossimi dieci secondi?» «No.» «Possiamo andarcene col batiscafo.» Anawak allargò le braccia. «Forza, salta! Ti prendo io.» «Scordatelo, Leon. È meglio se ti sposti.» «Smettila di arringare il popolo e salta!» Samantha lanciò un'ultima occhiata al di sopra della propria spalla. Le fiamme si avvicinavano. La attaccavano, lingueggiavano fameliche verso di lei. Chiuse per un momento gli occhi e li riaprì. «Arrivo, Leon!» Ponte a pozzo Dove diavolo era Anawak? Johanson stava accucciato sul batiscafo, che ondeggiava lievemente, e guardava nell'acqua nera della chiusa: finora non era comparso nulla che facesse pensare agli yrr. In fondo, però, a che scopo? Perché avrebbero dovuto attaccare ancora? Dovevano soltanto aspettare che la nave affondasse.
Gli yrr avevano distrutto anche l'Independence. I cinque minuti erano passati. Forse poteva andarsene. C'era un altro batiscafo a disposizione di Leon e di Samantha. E Shankar? Allora sarebbero stati in quattro. Non poteva andar via. Se Anawak fosse arrivato con Samantha e Shankar, avrebbero avuto bisogno di entrambi i batiscafi. Cominciò a canticchiare la Prima sinfonia di Mahler. «Sigur!» Johanson sobbalzò. Un dolore paralizzante gli frustò la parte superiore del corpo e gli tolse il respiro. Proprio dietro all'imbarcazione, sul molo, c'era Judith Li e gli puntava contro una pistola. Di fianco a lei c'erano due tubi sottili. «Scenda, Sigur. Non mi costringa a spararle.» Johanson afferrò il cavo cui era appeso il Deepflight. «Perché dice 'costringere'? Pensavo che si divertisse.» «Scenda.» «Mi vuole minacciare, Jude?» Fece un sorriso asciutto, mentre i suoi pensieri correvano all'impazzata. Doveva trattenerla. Improvvisare. Bluffare, fare il possibile fino all'arrivo di Anawak «Al suo posto non sparerei, altrimenti può dire addio alla sua immersione.» «Che intende?» «Questo lo vedrà.» «Parli.» «Parlare è noioso. Forza, generale comandante Li. Non sia così schizzinosa. Mi spari e lo scoprirà.» Lei esitò. «Cos'ha messo nel batiscafo, maledetto idiota?» «Sa che le dico?» Con grande fatica, Johanson si rialzò. «La aiuterò a rimettere tutto a posto, però prima mi deve spiegare una cosa.» «Non c'è tempo.» «Già. Che stupido.» Judith Li lo fulminò con un'occhiata furiosa. Abbassò l'arma. «Avanti, chieda.» «La domanda la conosce già. Perché?» «Dice sul serio?» Judith Li sbuffò. «Provi un po' a sforzare il suo cervello così sviluppato. Dove crede che sarebbe il mondo senza gli Stati Uniti d'America? Noi siamo l'unico elemento di stabilità rimasto. Esiste un solo
modello duraturo per il successo nazionale e internazionale, un modello reale e valido senza limiti per ogni persona in ogni società: quello americano. Non possiamo permettere al mondo, né alle Nazioni Unite, di risolvere il problema degli yrr. Essi hanno inferto gravi danni all'umanità, però hanno anche a disposizione un mostruoso potenziale di conoscenze. In quali mani vuole che finiscano, quelle conoscenze, Sigur?» «Nelle mani di quelli che le sappiano usare al meglio.» «Esatto.» «Ma questo è ciò cui abbiamo lavorato tutti, Jude! Non siamo dalla stessa parte? Potremmo arrivare a un accordo con gli yrr. Potremmo...» «Ma non ha ancora capito? La possibilità di un accordo ci è preclusa. Contraddice gli interessi del mio Paese. Noi, gli Stati Uniti, dobbiamo arrivare a quelle conoscenze e nel contempo impedire ad altri di arrivarci. Non c'è alternativa: bisogna liberare il mondo dagli yrr. Anche solo una coesistenza sarebbe l'ammissione della nostra sconfitta, una sconfitta dell'umanità, della fede in Dio, della fiducia nella nostra egemonia. Ma la cosa peggiore di una coesistenza è che porterebbe a un nuovo ordine mondiale. Rispetto agli yrr, saremmo tutti uguali. Ogni Paese che possiede una tecnologia sviluppata potrebbe comunicare con loro. Tutti cercherebbero di speculare, di stringere alleanze con loro, di entrare in possesso delle loro cognizioni, e magari qualcuno prima o poi riuscirebbe persino a sconfiggerli. E arriverebbe a dominare il pianeta.» Fece un passo verso di lui. «Capisce? Quella cosa laggiù dispone di una biotecnologia che noi oggi non ci sognamo neppure. Con lei si può entrare in contatto solo per via biologica, così in tutto il mondo diventerebbe legittimo continuare gli esperimenti coi microbi. Non possiamo permetterlo. Non c'è alternativa, è necessario distruggere gli yrr, e deve farlo l'America! Non possiamo permetterlo a nessuno, nemmeno a quegli smidollati dell'ONU, in cui ogni straccione ha un posto e il diritto di voto.» «Lei è incredibile», commentò Johanson, tossendo. «Ma che razza di persona è?» «Sono una persona che crede in Dio...» «Lei è in pieno delirio di onnipotenza! Lei ama la sua carriera!» «E la mia patria!» gridò Judith Li. «E lei a che cosa crede? Io so in cosa credo. Solo gli Stati Uniti d'America riusciranno a salvare il mondo...» «E a stabilire una volta per tutte quali sono i ruoli, vero?» «E allora? Il mondo vuole sempre che gli Stati Uniti facciano il lavoro sporco, e lo stiamo facendo anche adesso! Ed è giusto così! Non possiamo
permettere che il mondo condivida il sapere degli yrr, quindi dobbiamo distruggerli e preservare quel sapere. Così saremo definitivamente noi a guidare la storia di questo pianeta e nessun dittatore, nessun regime che non ci sia amico potrà mettere in discussione questa egemonia.» «Lei intende annientare l'umanità.» Judith Li digrignò i denti. «Oh, voi scienziati vi riempite la bocca con argomenti simili. Non avete mai creduto che questo nemico si potesse sconfiggere e neppure che il suo annientamento arrivasse a risolvere i nostri problemi. Ve la fate sotto, piagnucolate all'idea che l'estinzione degli yrr possa distruggere l'ecosistema del pianeta. Ma gli yrr lo stanno già distruggendo! Crede che non sia il caso di mettere in conto qualche danno all'ambiente se, in compenso, torniamo a essere la specie dominante del pianeta?» «Lei è l'unica che vuole dominare. Ed è una povera pazza. Come crede di dominare i vermi e impedire che...» «Prima avveleniamo gli uni, poi gli altri. Quando non avremo più gli yrr tra i piedi, il campo sarà libero.» «Lei avvelena l'umanità.» «Sa una cosa, Sigur? Ridurre il numero degli esseri umani può avere anche i suoi vantaggi. A dire la verità, il pianeta potrebbe trarre profitto dal diventare più... spazioso.» Socchiuse le palpebre. «E ora si tolga dai piedi.» Johanson non si mosse. Si tenne stretto al cavo e scosse la testa. «Il batiscafo non è utilizzabile», affermò. «Non ci credo.» «Allora non le resta che correre il rischio.» Judith annuì. «Lo farò.» Sollevò la pistola e sparò. Johanson cercò di scansarsi, ma sentì la pallottola penetrare nello sterno. Un'ondata di freddo e di dolore lo investì. Quella stronza aveva sparato. Gli aveva sparato. Le sue dita si staccarono dal cavo, una alla volta. Barcollò, cercò di dire qualcosa, si girò e cadde bocconi nella cabina tubolare del pilota. Elevatore esterno Nel momento in cui vide saltare Samantha, Anawak dubitò che sarebbe andata bene: lei scalciava in aria, ma si era gettata troppo a sinistra. Ana-
wak si lanciò all'indietro, spostandosi contemporaneamente di lato, allargò le braccia e sperò che l'impatto non li spedisse entrambi in mare. Benché fosse minuta, Samantha lo colpì con la forza di un autobus in corsa. Anawak cadde sulla schiena, con Samantha sopra. Scivolarono sul piano inclinato, strillando. Lui cercò di spingere i tacchi contro il pavimento, ma la sua testa sbatté contro l'asfalto. Era la seconda volta in quel giorno che faceva un'esperienza sgradevole sull'elevatore, e sperava intensamente che fosse l'ultima. Si fermarono appena prima del bordo. Samantha lo fissò. «Tutto bene?» gli chiese con un filo di voce. «Mai stato meglio.» Lei si staccò da Anawak, cercò di alzarsi, ma ricadde. «Non ce la faccio.» Anawak saltò in piedi. «Che c'è?» «Il mio piede. Il destro.» Anawak s'inginocchiò e le toccò la caviglia. Samantha gemette. «Credo sia rotta.» Lui si bloccò. La nave si era forse inclinata ancora? La piattaforma scricchiolò. «Mettimi un braccio intorno alle spalle.» Aiutò Samantha a rialzarsi. Appoggiandosi a lui sarebbe riuscita a procedere su una gamba sola. Faticosamente, raggiunsero l'interno dell'hangar. Non si vedeva a una spanna dal naso e oltretutto il pavimento era diventato molto ripido. Come faremo a scendere la rampa? pensò Anawak. Ormai doveva essere una vera e propria parete verticale. Fu allora che sentì la rabbia crescere dentro di lui. Quello era il mar di Groenlandia. L'estremo nord. E lui proveniva dall'estremo nord. Era un inuk. Un inuk al cento per cento! Era nato nell'Artico e apparteneva a quelle zone. Ma di certo non sarebbe morto lì e neppure sarebbe morta Samantha. «Forza», la incitò. «Avanti.» Deepflight 3 Judith Li corse al pannello di controllo. Ho perso troppo tempo, rifletté. Non dovevo farmi coinvolgere da Johanson in quella discussione insensata. Fece risalire un po' il Deepflight e lo spostò lungo il molo finché non fu
esattamente sopra di lei. Vide i due vani vuoti. I siluri perforanti erano infilati nei loro supporti, mentre i due siluri più piccoli erano stati tolti per far spazio ai tubi pieni di veleno. Perfetto! Il Deepflight disponeva ancora di un considerevole armamento. Infilò velocemente i tubi nei vani e li bloccò. Il progetto del sistema era magnifico. Non appena fossero stati sparati fuori, una piccola capsula esplosiva si sarebbe occupata di spruzzare il veleno. Della diffusione si sarebbe occupata l'acqua e il resto - involontariamente - l'avrebbero fatto gli yrr. Quella era la parte migliore del piano: la morte programmata delle cellule, elaborata da Rubin. Una volta infettato, l'insieme si sarebbe autodistrutto con una reazione a catena. Rubin aveva fatto un buon lavoro. Esaminò ancora una volta il sistema di blocco, manovrò il Deepflight sino a portarlo sopra la chiusa e lo abbassò al livello dell'acqua. Non aveva tempo d'infilarsi la tuta di neoprene. Doveva stare attenta. Scese velocemente la scaletta verso l'imbarcazione. Il Deepflight oscillò mentre lei si arrampicava a bordo. Il suo sguardo cadde sul vano del pilota aperto e, dentro, lei vide Johanson. Era in posizione prona, immobile. Quell'incorreggibile idiota... Perché non si era spostato, lasciandosi cadere nel bacino? Adesso avrebbe dovuto anche disfarsi del cadavere. Provò un vago dispiacere. In un certo senso, quell'uomo le piaceva, lo ammirava. In altre circostanze, forse... Un rumore attraversò la nave. No, era troppo tardi per occuparsi di lui e in effetti non importava. Il batiscafo si poteva guidare tranquillamente anche dal posto del copilota. Le funzioni si potevano trasferire. Poteva disfarsi di Johanson sott'acqua. Da qualche parte, l'acciaio si crepò con un rumore assordante. Judith Li s'infilò velocemente nella cabina tubolare e azionò la chiusura degli sportelli, che si abbassarono e si chiusero con uno scatto. Fece scivolare le dita sulle apparecchiature di controllo: un ronzio riempì lo spazio interno, si accesero alcune file di luci e due piccoli monitor. Tutti i sistemi erano pronti. Il Deepflight galleggiava tranquillo sull'acqua verde e nera del mar di Groenlandia, pronto a scendere negli abissi attraverso i tre metri del pozzo. Judith si sentì travolgere dall'euforia. Ce l'aveva fatta.
Rifugio Johanson era seduto presso il lago. Lo specchio d'acqua si stendeva davanti a lui, calmo e pieno di stelle. Quanto aveva desiderato tornarci un'altra volta. Osservava il paesaggio della sua anima e provava un senso di rispetto e di felicità. Si sentiva stranamente privo di peso, non sentiva il caldo e il freddo. E poi c'era qualcosa di diverso dal solito. Gli sembrava di essere lui stesso il lago, la casetta, la foresta nera e silenziosa tutt'intorno a essa, i rumori del sottobosco, la luna... Lui era tutto e tutto era in lui. Tina Lund. Che peccato. Come gli dispiaceva che non fosse lì. Quella tranquillità e quella pace profonda le sarebbero piaciute. Ma lei era morta, uccisa dalla violenta ribellione della natura contro una piaga creata della civiltà umana, una piaga che, simile a una muffa, si stendeva lungo le coste. Tina era stata spazzata via, come tutto il resto. Però l'immagine impressa sulla sua retina rimaneva. Il lago era eterno. Quella notte non sarebbe finita. E all'essere solo sarebbe seguito il benefico nulla, il piacere finale dell'egoista. Voleva quello? Voleva davvero essere solo? Da una parte, perché no? Essere solo aveva una serie di vantaggi impagabili. Si passava tempo prezioso con se stessi. Si stava in ascolto del proprio animo e si sentivano cose sorprendenti. Ma, dall'altra... Su quale linea correva il confine della solitudine? Improvvisamente provò paura. La paura faceva male. Gli mordeva il petto, gli toglieva il respiro. Sentì freddo e prese a tremare. Le stelle del cielo si trasformarono in luci rosse e verdi ed emisero un ronzio elettrico. Tutta l'immagine si sfocò in qualcosa di splendente, spigoloso. Lui non era più seduto davanti al lago. Il lago non c'era più. Lui era disteso, stretto in un tunnel, in una canna, in un tubo. All'improvviso riprese coscienza. Sei morto, pensò. No, non era morto. Ma sentiva che gli rimanevano solo pochi secondi. Era disteso all'interno del batiscafo che doveva portare il veleno negli abissi per ripagare il crimine compiuto dagli yrr -ammesso che fosse davvero un crimine - con un crimine peggiore, un crimine contro gli yrr e contro l'umanità. Davanti a lui non splendevano le stelle, ma le apparecchiature del Deepflight. Erano accese. Alzò lo sguardo, sbirciò attraverso la cupola di vetro
e vide il bordo superiore del ponte a pozzo sparire verso l'alto. Erano nella chiusa. Con un incredibile sforzo di volontà, riuscì a girare la testa. Nella cabina tubolare di fianco a lui riconobbe il bel profilo di Judith Li. Juiith Li. Judith Li l'aveva ucciso. Quasi. Il batiscafo sprofondava. Passarono davanti ai pannelli d'acciaio rivettati. Ben presto sarebbero stati fuori. Niente e nessuno poteva impedire a Judith Li di scaricare in mare il suo carico mortale. Non poteva finire così. Fece scivolare le mani da sotto il busto e allargò le dita. Cominciò a sudare e quasi perse i sensi. Là c'era la console. Lui era nella cabina del pilota. Judith Li aveva trasferito i comandi e guidava il batiscafo dalla cabina del copilota. Ma quella cosa si poteva cambiare. Era sufficiente premere un tasto e i comandi sarebbero tornati a lui. Ma dov'era quel pulsante? Era stata Kate Ann Browning ad addestrarli. L'aveva fatto in maniera esaustiva e lui era stato attento. Quelle cose lo interessavano. Il Deepflight rappresentava l'inizio di una nuova era nelle immersioni abissali, e Johanson nutriva un grande interesse per il futuro. Sapeva dov'era quel tasto! Sapeva anche a cosa servivano gli altri strumenti e cosa bisognava fare per ottenere l'effetto desiderato. Doveva soltanto ricordare. Ricorda! Le sue dita strisciavano come ragni sulle tastiere sporche di sangue. Il suo sangue. Ricorda! Là. Il tasto. E di fianco... Non poteva più fare granché. La vita lo stava abbandonando, ma lui aveva ancora un residuo di forza. Sarebbe bastato. Va' all'inferno, Judith Li! Judith Li Judith Li fissava fuori dalla cupola. A pochi metri da lei, si stendeva la parete d'acciaio della chiusa. Il batiscafo scendeva lentamente verso il mare aperto. Ancora un metro, forse meno, e avrebbe fatto partire l'elica. Poi
si sarebbe spostata di lato. Voleva essere il più lontano possibile dall'Independence nel momento in cui sarebbe affondata. Quando avrebbe incontrato il primo insieme di yrr? Un insieme massiccio avrebbe potuto crearle dei problemi, lo sapeva, e non aveva la minima idea di quanto potessero diventare grandi quelle creature. Forse sarebbe stata anche attaccata dalle orche. In entrambi i casi, il suo armamento le avrebbe liberato la strada. Non c'era motivo di preoccuparsi. Doveva solo aspettare la nuvola blu. Il momento giusto per sparare era poco prima della fusione. Quei maledetti esseri unicellulari avrebbero avuto una bella sorpresa. Che pensiero divertente. Un organismo unicellulare poteva essere sorpreso? Ma subito dopo fu lei a meravigliarsi. Nelle apparecchiature era cambiato qualcosa. Si era appena spenta una spia, quella che indicava che i controlli dalla sua parte... I comandi! Non aveva più il controllo dei comandi! Tutte le funzioni erano state trasferite al pilota. Si era acceso un display che mostrava la disposizione dei quattro siluri, due sottili e due più grandi, i siluri perforanti. Uno dei siluri perforanti era illuminato. Judith Li sobbalzò, terrorizzata. Colpì la console per riportare i controlli alla sua postazione, ma il comando di sparo non si poteva bloccare. Nei suoi occhi acquamarina si riflettevano, inesorabili, le cifre del conto alla rovescia. 00.03... 00.02... 00.01... «No!» 00.00. Il suo volto si pietrificò. Siluro Il siluro perforante che Johanson aveva sparato schizzò fuori dal tubo. Si aprì la strada nell'acqua per circa tre metri, poi impattò contro la parete d'acciaio della chiusa ed esplose. Il Deepflight fu travolto da un'ondata mostruosa e si schiantò contro la parete opposta. Dalla chiusa sgorgò una gigantesca fontana d'acqua. Il batiscafo si stava ancora ribaltando quando partì il secondo siluro. Con un rumore assordante, metà del ponte a pozzo saltò in aria e si gonfiò in una
palla di fuoco, in cui sparirono immediatamente il Deepflight, le persone a bordo e il carico velenoso, come se non fossero mai esistiti. Grossi frammenti si conficcarono nel ponte e nelle pareti, perforando le cisterne di zavorra di poppa, che si riempirono immediatamente, mentre, attraverso il cratere, che una volta era stato il fondo del bacino artificiale, sgorgarono migliaia di tonnellate di acqua marina. La poppa dell'Independence sprofondò. La nave prese ad affondare a grande velocità. Fuga Anawak e Samantha avevano appena raggiunto il bordo della rampa quando l'ondata dell'esplosione percorse la nave. La scossa li fece cadere. Anawak vorticò in aria e vide il tunnel pieno di fumo girare davanti ai suoi occhi, poi finì a testa in giù nella gola nera. Di fianco a lui, Samantha roteò e sparì dal suo campo visivo. L'acciaio scanalato gli sbatteva contro le spalle, la schiena, il petto, il bacino e gli strappava la pelle. Anawak atterrò, fece un salto e fu preso da un'onda d'urto che lo trascinò via. Per un attimo, ebbe l'impressione di essere spinto nuovamente in alto. Nelle sue orecchie risuonava un rumore indescrivibile, come se tutta la nave stesse andando in pezzi. Continuò a cadere per qualche secondo, poi, con un ampio arco, finì in acqua e andò sotto. Venne subito risucchiato da un vortice. Mulinò le braccia e le gambe per sfuggirgli, senza avere la minima idea di dove fossero il sopra e il sotto. L'Independence non stava affondando di prua? Perché allora era sommersa la poppa? Il ponte a pozzo. Era esploso. Johanson! Qualcosa lo colpì sul viso. Un braccio. Lo afferrò e lo tenne stretto, sbatté i piedi, ma non ebbe la sensazione di andare avanti. Fu scagliato da una parte e immediatamente trascinato indietro, in tutte le direzioni contemporaneamente. I polmoni gli dolevano come se stesse respirando fuoco liquido. Doveva tossire. Quell'ottovolante subacqueo gli dava anche una profonda nausea. Improvvisamente la testa sbucò in superficie. Luce fioca. Samantha emerse al suo fianco. Lui le teneva sempre stretto il braccio. La donna aveva gli occhi chiusi e sputacchiava. Finì ancora sott'acqua e lui
la tirò su. Intorno, l'acqua schiumava e ribolliva. Anawak alzò la testa e comprese che erano sul fondo del tunnel della rampa. Dove una volta c'era il gomito che portava al laboratorio e al ponte a pozzo, adesso infuriavano le onde. L'acqua saliva ed era freddissima. Acqua gelida direttamente dall'oceano. La sua tuta di neoprene lo avrebbe protetto per un po' contro l'ipotermia. Ma Samantha non la indossava. Annegheremo, pensò. Oppure congeleremo. In un modo o nell'altro, questa è la fine. Siamo rinchiusi nel ventre di questa orribile nave che si sta riempiendo. Affonderemo con l'Independence. Moriremo. Morirò. Fu preso da una paura sconosciuta. Non voleva morire. Non voleva che finisse così. Amava la vita. L'amava tantissimo e aveva ancora tante cose da fare. Non poteva morire. Non era ancora arrivato il suo momento. Un'altra volta, bene, ma adesso no. La paura era insopportabile. Finì di nuovo sott'acqua. Qualcosa gli aveva toccato la testa. Era un'oggetto non particolarmente duro, ma che lo teneva sotto. Anawak sbatté le gambe e si liberò. Riemerse, boccheggiando, e vide ciò che l'aveva colpito. Il suo cuore fece un balzo. Uno degli zodiac era stato sputato fuori dal ponte a pozzo, probabilmente liberato dall'onda d'urto dell'esplosione. Galleggiava, girando su se stesso nell'acqua schiumosa che continuava a crescere nel tunnel della rampa. Un gommone intatto, dotato di fuoribordo e cabina antipioggia. Pensato per otto persone, quindi più che sufficiente per due, e completo di attrezzature d'emergenza. «Sam!» gridò. Non la vedeva. Intorno a lui c'era soltanto nera acqua gorgogliante. No, non può essere. Un attimo fa era vicino a me. «Sam!» L'acqua continuava a salire. Oltre metà del tunnel era sommerso. Allungò le braccia, si sollevò sul bordo di gomma dello zodiac e si guardò intorno. Samantha era sparita. «No», urlò. «No, maledizione, no!» Si sollevò nella barca, che oscillava violentemente. Muovendosi carponi, andò dalla parte opposta e guardò in acqua. Samantha era là! Galleggiava vicino allo zodiac. Le onde le coprivano il viso. Il gommo-
ne gli aveva impedito di vederla. La donna agitava debolmente le mani e aveva gli occhi semichiusi. Anawak si chinò verso l'esterno, riuscì ad afferrarle i polsi e la tirò. «Sam!» strillò. Le palpebre della donna vibrarono. Poi lei tossì e buttò fuori l'acqua. Anawak puntò i piedi contro il bordo e la tirò a sé. Le braccia gli dolevano talmente che temeva di non farcela, ma la volontà gli diceva che quella era l'unica strada percorribile per salvare Samantha. Non devi tornare a casa senza di lei, sembrò ammonirlo. Altrimenti puoi anche buttarti subito in acqua. Gemeva e si lamentava, gridava e imprecava, tirava e trascinava... Poi improvvisamente la donna fu a bordo. Anawak cadde seduto. Non aveva più forze. Non fare lo smidollato, gli disse la sua voce interiore. Il fatto che tu sia sullo zodiac non serve a niente. Devi uscire dalla nave prima che essa ti trascini con sé negli abissi. Lo zodiac girava sempre più in fretta. Ballava sulla colonna d'acqua in salila verso il ponte dell'hangar. Ancora un breve tratto e sarebbero stati sputati proprio lì. Anawak si alzò, ma ricadde subito. Si trascinò fino alla cabina di guida e si rialzò, aggrappandosi ai sostegni della parete. Lo sguardo gli cadde sulla strumentazione. Era disposta intorno al timone ed era identica a quella del Blue Shark. Una situazione nota. Sapeva come fare. Sollevò lo sguardo. Stavano risalendo la parte finale della rampa. Si aggrappò e attese il momento giusto. D'un tratto furono fuori dal tunnel. Un'ondata li scagliò via e li spedì nell'hangar, che aveva già iniziato a riempirsi. Anawak accese il fuoribordo. Niente. Forza, pensò. Non fare così il difficile, brutto stronzo! Accenditi. Ancora niente. Accenditi! Brutto stronzo! Brutto stronzo! Di colpo, il motore rombò e lo zodiac scattò in avanti. Anawak si rovesciò aU'indietro. Riuscì ad afferrare uno dei sostegni della cabina e rientrò. Le sue mani strinsero il timone. Sfrecciò a tutta velocità nell'hangar, fece una virata mozzafiato e sfrecciò verso il passaggio per l'elevatore esterno. L'apertura diventava sempre più bassa.
Più si avvicinava, più il passaggio si restringeva. La velocità con cui il ponte si stava riempiendo aveva dell'incredibile. L'acqua entrava dal basso e dai lati in ondate grigie e increspate. Nel giro di qualche secondo, gli otto metri di altezza dell'hangar si erano ridotti a quattro. Meno di quattro. Tre. Il fuoribordo ululava in maniera straziante. Meno di tre. Ora! Schizzarono fuori come una palla di cannone. Il tetto della cabina strisciò violentemente contro il bordo superiore del passaggio, poi lo zodiac volò sopra la cresta delle onde, rimase sospeso in aria per un attimo e ricadde con un tonfo. Il mare era in tempesta. Tutt'intorno a loro rotolavano grigie onde mostruose. Anawak strinse con tale forza il timone che le nocche gli diventarono bianche. Risalì la successiva montagna d'acqua e cadde nell'abisso appena dietro, risalì di nuovo e ricadde. Poi diminuì la velocità. Era meglio andare più lentamente. Le onde erano molto alte, ma non ripide. Girò lo zodiac di centottanta gradi, si lasciò sollevare dalla successiva montagna che rotolava verso di lui, quindi procedette molto lentamente, guardando fuori. La vista era spettrale. L'isola in fiamme dell'Independence emergeva dal mare color ardesia e spiccava nel cielo nuvoloso. Sembrava che un vulcano stesse eruttando in mezzo all'oceano. Nel frattempo, anche il ponte di volo era finito sott'acqua, e solo le rovine in fiamme continuavano testardamente a opporsi al destino ineluttabile. Anìwak era riuscito a distanziare lo zodiac dalla nave che stava affondando, ma il ruggito delle fiamme li raggiungeva lo stesso. Continuava a fissare quello spettacolo, ammutolito. «Forme di vita intelligenti...» Samantha gli comparve al fianco, bianca come un lenzuolo, con le labbra blu e tremante. Si stringeva nella giacca, e teneva piegata la gamba ferita. «Con loro si hanno solo guai.» Anawak rimase in silenzio. Guardarono insieme l'Independence che affondava. PARTE QUINTA CONTATTO
«La ricerca di un'intelligenza aliena è sempre la ricerca della propria.» Carl Sagan Sogni Sveglia! Sono sveglia. Come fai a saperlo? Intorno a te c'è la più totale oscurità. Ti stai avvicinando alle origini del mondo. Cosa vedi? Niente. Cosa vedi? Vedo le luci verdi e rosse degli strumenti davanti a me. Strumenti che indicano la pressione interna ed esterna, le riserve di ossigeno del Deepflight, l'angolazione con cui scivolo in basso, le riserve di combustibile, la velocità. Il batiscafo esamina la composizione chimica dell'acqua e mi mostra dati e tabelle. I sensori registrano la temperatura esterna e me la trasmettono. Cos'altro vedi? Vedo un vortice di particelle. Nella luce dei proiettori sembra neve. Sostanze organiche che sprofondano. L'acqua è satura di composti organici. Un po' torbida. No, molto torbida. Puoi vedere ancora molto. Non vuoi vedere tutto? Tutto? Karen ha messo quasi mille metri tra sé e la superficie dell'acqua e non è ancora stata aggredita. Non ha incontrato né orche né yrr. Il Deepflight lavora in maniera impeccabile. Si avvita verso il basso in un'ampia spirale ellissoidale. Di tanto in tanto, qualche piccolo pesce finisce nella luce e scappa via subito. Tutt'intorno danzano detriti. Krill, granchi minuscoli... Nient'altro che punti bianchi nel cono del proiettore. L'abbondanza di particelle riflette la luce verso la sorgente. Da dieci minuti, Karen fissa concentrata il bozzolo sporco, grigio, formicolante che le luci del Deepflight proiettano davanti a sé. Oscurità illuminata artificialmente. Luce che non illumina. Dieci minuti in cui ogni senso del sopra e del sotto è scomparso. Ogni due o tre secondi controlla sugli strumenti quello che la vista all'esterno non può dirle: a che velocità
va, con quale inclinazione, da quanto tempo. L'affidabilità del computer. Naturalmente sa che è la sua voce quella con cui sta dialogando quasi inconsapevolmente. È la quintessenza delle esperienze fatte, della vita imparata e vissuta: punti di vista solo al limite della coscienza. Qualcosa le sta parlando, qualcosa che, nel contempo, è fuori di lei e con lei, la cui esistenza le era rimasta nascosta fino a quel momento. Quella cosa nella sua testa le pone domande, le fa proposte, la confonde. Cosa vedi? Poco. Poco è già un'esagerazione. Solo gli uomini accettano l'idea assurda di affidarsi a un apparato sensoriale artificiale quando il loro non funziona più. Con tutto il rispetto per i tuoi strumenti, per sapere dove va la tua specie, un cono luminoso è assai inadatto, Karen. Quella luce è solo uno spazio angusto, una prigione. Libera la tua mente. Vuoi vedere tutto? Sì. Allora spegni i proiettori. Karen esita. Aveva comunque intenzione di farlo. Sarebbe stato necessario per vedere la luminescenza blu nell'oscurità, quando sarebbe arrivato il momento. Ma quando? Con sorpresa, si rende conto di quanto si fosse aggrappata a quel ridicolo cono luminoso. Troppo. Come a una piccola torcia elettrica sotto le coperte. Uno alla volta, spegne i potenti proiettori. Rimangono solo le spie della strumentazione. La pioggia di particelle sparisce. Il nero assoluto la circonda. Le acque polari sono blu. Nel Pacifico settentrionale c'è poca vita dipendente dalla clorofilla, come pure in determinate zone intorno al continente Antartico. A pochi metri sotto la superficie, quel blu sembra quasi un cielo. Come un astronauta che, in una navicella spaziale, vede il blu diventare sempre più scuro, finché lui non si trova circondato dal nero dello spazio, così su un batiscafo si sprofonda nella direzione opposta, verso un universo pieno di misteri, una zona d'intimità. In fondo, non importa se l'uomo sale o scende. In entrambi i casi, con le immagini abituali spariscono le sensazioni abituali o tutto ciò che i sensi umani trasformano in sensazioni, anzitutto la vista, seguita dal peso. Al contrario dello spazio, il mare è dominato dalla forza di gravità, ma chi si trova a mille metri di profondità, in viaggio nelle tenebre assolute, non può che fidarsi dell'indicatore digitale
per sapere se sta scendendo o salendo. Simili informazioni non possono venire né dall'orecchio interno, né da uno sguardo all'esterno. Karen è scesa alla velocità massima. Il Deepflight ha attraversato in fretta quel cielo polare capovolto, e tutto è diventato buio molto velocemente. Quando il batimetro aveva indicato i sessanta metri, già c'era solo il quattro per cento della luce presente in superficie, e lei aveva comunque acceso i proiettori. Un'astronauta impegnata a illuminare l'universo con una lampadina. Sveglia, Karen. Sono sveglia. Sì, certo, sei sveglia e molto concentrata, ma stai sognando il sogno sbagliato. Tutta l'umanità è prigioniera del sogno a occhi aperti di un mondo che non esiste. Noi sogniamo un cosmo fatto di tabelle tassonomiche e medie statistiche, che colga oggettivamente la natura. Rifiutiamo di vedere la relazione intima delle cose, legate in un intreccio indistricabile, cerchiamo di scorporare ogni elemento, ordinandolo in una struttura gerarchica al cui vertice mettiamo noi stessi. Ci accordiamo su idoli e frammenti minuscoli che chiamiamo realtà, creiamo conseguenze e gerarchie, deformiamo spazio e tempo. Dobbiamo sempre vedere qualcosa per comprenderlo, ma, nel momento in cui lo rendiamo visibile, lo sottraiamo alla nostra comprensione. L'uomo vedente è cieco, Karen. Guarda nell'oscurità. L'origine di tutta la vita è scura. L'oscurità è minacciosa. E invece no! Semplicemente sottrae i punti di riferimento alla nostra esistenza visibile. È così brutta? La natura è obiettiva e ricca di varietà! S'impoverisce attraverso le lenti dei preconcetti, perché noi giudichiamo secondo ciò che approviamo o non approviamo. Vediamo sempre noi stessi in quel violento luccichio. Tutte quelle rappresentazioni sugli schermi dei nostri televisori e dei computer mostrano il mondo reale? La somma di tutte le impressioni può dare varietà, se ci dobbiamo sempre accordare su modelli come «il gatto» o «il colore giallo»? Senza dubbio c'è qualcosa di fantastico nel modo in cui il cervello umano strappa alla ricchezza della realtà questo mondo medio. È un comodo trucco per rendere possibile la comprensione dell'impossibile, ma il prezzo è l'astrazione. Ciò che rimane è un mondo idealizzato, in cui milioni di donne cercano di somigliare a dieci top model, ci sono famiglie che hanno un bambino virgola due, i cinesi arrivano in media a sessantatré anni e a un metro e settanta di altezza.
Siamo così ossessionati dalla norma da non renderci più conto che la normalità è nell'anormalità, nella divergenza. La storia della statistica è la storia dell'incomprensione. Ci ha aiutato ad avere uno sguardo d'insieme, ma nega le varianti. Ci ha reso estraneo il mondo. Ma in compenso ci ha resi più vicini. Lo credi davvero? Non abbiamo forse cercato una strada per comunicare con gli yrr? Non ha funzionato? Abbiamo scoperto la matematica come base comune. Attenzione! Questa è una cosa completamente diversa. Non c'è spazio per le varianti nei calcoli della tavola pitagorica. La velocità della luce rimane sempre la velocità della luce. Le formule matematiche sono immutabili finché descrivono lo stesso spazio fisico. La matematica non permette valutazioni. Le formule non vivono in una caverna o su un albero, non si possono accarezzare, non digrignano i denti se ci si avvicina troppo. Non c'è una legge della gravitazione che sia la media di molte altre, ne esiste una sola. Certo, attraverso la matematica abbiamo stabilito un contatto, ma per questo ci comprendiamo a vicenda? Il modo di etichettare il mondo segue le peculiarità della storia della cultura, e ogni cultura vede il mondo in maniera diversa. Gli inuit non hanno un'unica parola per la neve; identificano centinaia di tipi di neve. Il popolo dei dani in Nuova Guinea non possiede una definizione per i colori. Cosa vedi? Karen fissa nell'oscurità. Il batiscafo segue tranquillo la propria rotta, sempre inclinato di sessanta gradi, a dodici nodi di velocità. È già sceso di millecinquecento metri. Dal rivestimento del Deepflight non arrivano né gemiti né scricchiolii. Nella cabina tubolare a fianco c'è Mick Rubin. Cerca di non pensarci. È strano volare nella notte con un morto. Un messaggero morto al quale sono affidate tutte le speranze. Un lampo improvviso. Gli yrr? No, qualcos'altro. Cefalopodi. È finita in un banco. Improvvisamente si trova a scivolare in mezzo a una Las Vegas sottomarina. Nell'eterna notte, i possibili partner non possono essere impressionati né dagli abiti vivaci né dalle danze. Quando i giovani sono a caccia di una compagna, sfoggiano la luminescenza. Intere serie di organi scintillano con batteri luminosi posti nei fotofori, piccole tasche trasparenti che si aprono e si chiudono, una tempesta di luci, l'urlo codificato degli abissi. In questo caso, sembra che non si tratti di fare la corte al batiscafo di Karen. I lampi servono per spa-
ventare. Sparisci, dicono, e, dato che Karen non se ne va, gli animali aprono completamente i loro fotofori e la mandano in visibilio coi loro abiti uniformemente luminosi. In mezzo ci sono organismi più piccoli, chiari, con un nucleo rosso o blu: meduse. Poi si aggiunge qualcosa che Karen non può vedere, ma che il sonar rileva. Una massa grande e compatta. Per un momento lei pensa a un insieme di yrr. Ma quelli sono luminosi e invece la cosa è nera come il mare tutt'intorno. Ha una forma allungata, massiccia da una parte e affilata verso la parte opposta. Karen sta volando proprio verso di lei. Solleva un po' il Deepflight e scivola appena sopra l'essere e, nello stesso istante, capisce cos'ha appena evitato. Le balene devono bere. Può sembrare assurdo per chi trascorre la vita sott'acqua, ma, per una balena, il pericolo di morire di sete nell'oceano è tanto elevato quanto per un naufrago. Le meduse sono fatte quasi esclusivamente di acqua, come pure i cefalopodi, e forniscono molti liquidi vitali; per questo il capodoglio cerca i cefalopodi e le meduse. S'immerge verticalmente fino a mille, duemila, a volte anche tremila metri, rimane laggiù poco più di un'ora, ritorna in superficie per una decina di minuti per respirare e poi s'immerge di nuovo. Karen ha incontrato un capodoglio. Un predatore inquieto con una buona vista. Sto attraversando un regno di tenebre e di buona vista. Quaggiù tutti ci vedono bene. Cosa vedi? E cosa non vedi? Stai percorrendo una strada. A una certa distanza, scorgi un uomo che ti viene incontro. Un po' più in là c'è una donna che porta a spasso il cane. Clic, un'istantanea! Descrivi quanti esseri viventi ci sono in strada e a che distanza sono tra loro. Siamo in quattro. No, siamo di più. Fra gli alberi vedo tre uccelli... allora siamo in sette. L'uomo è a diciotto metri da me, la donna a quindici. Il cane a tredici e mezzo, la tira in avanti, ha il collare. Gli uccelli sono a dieci metri di altezza e a mezzo metro l'uno dall'altro. No! In realtà, su quella strada, ci sono miliardi di esseri viventi. Soltanto tre sono umani. Uno è un cane. Oltre i tre uccelli, ce ne sono altri cinquantasette che io non vedo. Pure gli alberi sono esseri viventi, sulle loro foglie e nella corteccia abita una miriade d'insetti. Nel piumaggio di ogni uccello ci sono gli acari, come pure nei pori della nostra pelle. Nel pelo del cane vive una pattuglia di cento pulci,
quattordici zecche, due moscerini; nel suo intestino e nello stomaco migliaia di minuscoli vermi. La sua saliva è piena di batteri. Anche su di noi ci sono tutti quegli esseri e la distanza tra le forme di vita è praticamente zero. Spore, batteri e virus si spostano nell'aria, formano catene organiche di cui noi facciamo parte, ci trasformano tutti in un superorganismo. E il mare si comporta nello stesso modo. Cosa sei tu, Karen Weaver? L'unica forma di vita umana presente da queste parti, se si esclude Rubin, che non è più una forma di vita perché è morto. Sei una particella. Una particella nella varietà. Non somigli perfettamente a nessun altro essere umano, come una cellula non somiglia in ogni dettaglio alle altre. C'è sempre qualcosa di diverso. Così devi osservare il mondo. Come una differenziazione nelle somiglianze. Non trovi consolante poterti considerare una particella, se ti rimangono comunque a disposizione delle peculiarità? Sei una particella nello spazio e nel tempo. Il batimetro lampeggia. Duemila metri. Diciassette minuti. Sono in viaggio da diciassette minuti. È questo che ti dice l'orologio? Sì. Per comprendere il mondo devi scoprire un altro tempo. Dovresti ricordare, ma non puoi. L'uomo è miope da due milioni di anni. L'Homo sapiens ha trascorso la maggior parte della propria evoluzione a cacciare e a raccogliere. In quel modo, ha formato il suo cervello così com'è oggi. Per i nostri antenati, il futuro è sempre stato l'«immediatamente dopo». Quello che andava oltre era confuso al pari di quello che era rimasto indietro nel tempo. Noi viviamo nel presente e siamo interessati prima di tutto alla riproduzione. Le peggiori catastrofi vengono dimenticate o al massimo trovano un posto nella mitologia. La capacità di rimuovere è stata un dono dell'evoluzione, ma poi è diventata la nostra condanna. Ancora oggi il nostro spirito non riesce a tracciare un orizzonte temporale che vada oltre qualche anno nel passato o nel futuro. Bastano poche generazioni e noi rimuoviamo, ignoriamo, dimentichiamo. Non siamo in grado di fissare il nostro passato e di trarne insegnamenti, siamo incapaci di osservare il futuro. Gli uomini non riescono a vedere il tutto e non sanno dov'è il loro po-
sto. Noi non condividiamo il ricordo del mondo. Sciocchezze! Il mondo non ricorda. Gli uomini ricordano, il mondo no. Quella della memoria del mondo è una sciocchezza esoterica. Credi? Gli yrr ricordano tutto. Essi sono il ricordo. A Karen vengono le vertigini. Controlla la diffusione dell'ossigeno. I suoi pensieri si accavallano. Quel viaggio in batiscafo sembra diventato un trip allucinogeno. I suoi pensieri si disperdono in tutte le direzioni nel buio del mar di Groenlandia. Dove sono gli yrr? Sono qui. Dove? Li vedrai. Tu sei una particella nel tempo. Sprofondi attraverso le tenebre silenziose con innumerevoli tuoi simili, una particella d'acqua salata e fredda, stanca e appesantita dopo un lungo viaggio in cui hai perso il calore, dai tropici fino a queste regioni inospitali, finché non vi siete radunate tutte nei bacini abissali di Groenlandia e di Norvegia, in una grande vasca di acqua gelida e pesante. Da lì trabocchi oltre la catena montuosa sottomarina tra Groenlandia, Islanda e Scozia nell'oceano Atlantico. Andate all'infinito nell'abisso, su mucchi di lava e depositi di sedimenti. Tu e le altre particelle siete una forte corrente e, nei pressi di Terranova, venite ulteriormente rafforzate dalle masse d'acqua del mare del Labrador, meno spesse e fredde. All'altezza di Bermuda, si avvicinano degli UFO che girano in cerchio, muovendosi obliqui attraverso l'oceano. Provengono dal Mediterraneo e sono vortici d'acqua calda e molto salata, usciti dallo stretto di Gibilterra e diretti contro di voi. Mar Mediterraneo, mare del Labrador, mar di Groenlandia mescolano le loro acque, e voi tendete sempre verso sud, in fondo al mare. Sarai testimone di come la Terra crea se stessa. La tua strada ti conduce lungo la dorsale medioatlantica, una di quelle alte dorsali che attraversano tutto l'oceano nel senso della lunghezza. Grande come tutti i continenti messi insieme, lunga sessantamila chilometri, coronata da file e file di vulcani attivi e spenti. I dorsi si sollevano di oltre tremila metri dal fondo marino, sopra hanno quasi altrettanta acqua e dividono la Terra. Dove il loro asse si divarica, il magma dei serbatoi sottomarini fuoriesce in superficie ma, anziché evaporare in esplosioni, la roccia fusa, sotto l'effetto della forte pressione dell'acqua fredda, sgorga in
lente colate. Esse scivolano lungo i fianchi della dorsale oceanica e si sospingono a vicenda con la testardaggine di grassi bambini impertinenti: fondale marino appena nato, che deve ancora trovare la sua forma. Con una lentezza infinita, i pendii vanno alla deriva. Il terreno dove la lava rosa s'insinua nel nero degli abissi è caldissimo. Terremoti scuotono il cratere da cui essa cola. Più all'esterno, i pendii si raffreddano. La roccia vecchia forma la topografia, con una distanza sempre maggiore dalla dorsale, diventando sempre più antica, fredda e impenetrabile, finché il terreno antico, freddo e pesante non cade nell'infinità abissale che, punteggiata da montagne e coperta da strati di sedimenti, veri e propri nastri trasportatori delle epoche passate, si muove verso l'America occidentale e verso est in direzione dell'Europa e dell'Africa, finché un giorno scivolerà sotto le masse continentali, sprofonderà nel mantello e si scioglierà nel forno dell'astenosfera, che milioni di anni dopo la rispedirà nei crateri delle dorsali oceaniche sotto forma di magma rovente. Che sistema circolatorio! Il fondale marino si muove intorno alla sfera terrestre, spaccato dalla pressione della Terra e trascinato dal peso delle placche terrestri che s'immergono. Un continuo schiacciare, tirare, trascinare: doglie neolitiche e cerimoniale funebre che formano il volto della Terra. L'Africa si unirà all'Europa. Di nuovo unite! I continenti si spostano. Ma non si muovono come rompighiaccio attraverso la dura crosta terrestre; sono trascinati passivamente su di essa, da quando Rodinia, il primo di tutti i continenti primordiali, si è spezzato, nel Precambriano. I frammenti dell'antico continente tendono sempre l'uno verso l'altro, si ritrovano in Gondwana e infine in Pangea e poi si dividono di nuovo, una famiglia dispersa, col ricordo vecchio di centosessantacinque milioni di anni di un'unica massa terrestre unita, circondata da un unico oceano, legata alla velocità di scorrimento del denso mantello roccioso, condannata a ricercarsi continuamente su una sfera. Tu sei una particella. Tu vivi solo un attimo di tutto ciò. Mentre il fondale atlantico scivola di cinque centimetri, per te è già passato un anno. In questo viaggio, tu vedi la vita senza sole. La lava si raffredda velocemente, formando faglie e fenditure. L'acqua marina penetra nel fondale poroso. Scende a chilometri di profondità fin nelle immediate vicinanze dei caldissimi serbatoi magmatici, nelle viscere della Terra, ritorna indietro, satura di calore che dona la vita e di minerali, colorata di nero dai solfuri, e schizza fuori in formazioni a camino alte come una casa, caldissima ma senza bollire. A simili profon-
dità, l'acqua a trecentocinquanta gradi di temperatura non bolle, ma scorre fuori e diffonde la sua ricchezza di nutrimento nelle immediate vicinanze, un'offerta cento volte maggiore di quella delle acque circostanti. In questo viaggio nell'universo sconosciuto, hai raggiunto i primi avamposti di comunità aliene di esseri viventi che non hanno bisogno della luce del sole. Intorno alle fumarole nere s'insediano vermi lunghi vari metri e intrecciati tra loro, mitili della lunghezza di un braccio, eserciti di granchi bianchi e ciechi, di pesci, ma soprattutto di batteri. Esseri autosufficienti, come le piante verdi che si nutrono di luce solare e da cui si crede dipenda tutta la vita. Ma questi batteri non hanno bisogno del sole. Essi ossidano l'acido solfidrico. La loro fonte vitale è l'interno della Terra. In prati estesi, coprono il terreno della comunità di vita delle fumarole nere, vivendo in simbiosi coi vermi, coi mitili e con alcuni granchi mentre, a loro volta, altri granchi e pesci vivono di mitili e vermi, senza che ci sia a disposizione un solo raggio di sole. Forse le prime forme di vita di questo pianeta non provengono dalla superficie, Karen, ma da qui, dagli abissi senza luce. Col tuo viaggio negli abissi atlantici, tu vedi il vero giardino dell'Eden. Certamente gli yrr sono la più antica delle due specie intelligenti, una delle quali ha ereditato la terraferma, perdendo così la sua culla. Immagina che gli yrr siano la specie prediletta. La specie divina. Controllo del sistema. Karen richiama i suoi pensieri ormai arrivati fino all'Africa e ridotti a particelle. Deve concentrarsi sul presente. Potrebbe essere in viaggio da cento anni. All'esterno, scorrono a una certa distanza luci spettrali, ma non sono gli yrr, bensì banchi di gamberetti luminosi. Non si riesce a riconoscerli con precisione. Forse sono piccole seppie o qualcosa di completamente diverso. Duemilacinquecento metri. Ancora circa mille metri al fondale. Intorno a lei non sembra esserci altro che acqua, ma d'un tratto il sonar comincia a suonare freneticamente. Le dice che si sta avvicinando qualcosa di massiccio. Deve essere di dimensioni enormi e si sta avvicinando proprio a lei. Una superficie impenetrabile che sprofonda sopra di lei. Karen sente la paura latente trasformarsi in panico. Mentre quella cosa gigantesca si avvicina, lei fa una virata di centottanta gradi. I microfoni esterni portano nel Deepflight un frastuono
che non ha nulla di terrestre e diventa sempre più alto, qualcosa tra un ruggito e un gemito. Karen è tentata di scappare, ma poi la curiosità ha la meglio. È abbastanza distante da quel qualcosa sconosciuto e non sembra che l'essere la stia inseguendo. Ammesso che sia un essere. Con una seconda virata, scivola a velocità ridotta verso di lui. Ora è alla sua altezza, proprio davanti. Il Deepflight vibra nelle turbolenze. Turbolenze? Che può essere? È così grande! Una balena? Ma ha le dimensioni di dieci balene. O di cento. O più ancora. Accende i proiettori. Nello stesso istante, si rende conto di essersi avvicinata alla cosa più del previsto. La vede ai margini del cono di luce. Per un momento, Karen è troppo sbalordita per determinare genere e origine della piatta superficie che sta transitando davanti a lei finché nei proiettori non appare qualcosa di chiaro. Linee dritte e curve lunghe metri, che le risultano spaventosamente note, e formano un nome: USS Inde... Lo shock la fa gridare. L'urlo risuona senza riverbero e la riporta alla consapevolezza di essere incapsulata nel suo tubo, sola. E ora che vede la nave affondare davanti ai suoi occhi è ancora più sola. I suoi pensieri corrono a Leon, a Sigur, a Samantha, a Murray, agli altri. Leon! Continua a fissare, sbalordita. Per un attimo compare il bordo del ponte di volo, poi sparisce. Il resto rimane nascosto nel buio. Si vedono solo danzare le bolle dell'aria che esce. Subito dopo, un vortice trascina con sé il Deepflight. No! Karen cerca febbrilmente di stabilizzare il batiscafo. Maledetta curiosità! Perché non ha saputo aspettare a distanza di sicurezza? I sistemi indicano che non c'è neppure una cosa in ordine. Karen cerca di risalire, spingendo il batiscafo alla massima velocità. Il Deepflight lotta e barcolla, seguendo l'Independence nella fossa, poi finalmente rivela la genialità del suo progetto, riesce a sfuggire al vortice e risale velocemente. Da un secondo all'altro, tutto torna come se nulla fosse accaduto. Il cuore le batte all'impazzata. Le rimbomba nelle orecchie. Come uno
stantuffo, spinge il sangue al cervello. Karen spegne i proiettori, abbassa con calma il Deepflight e riprende il suo viaggio negli abissi del bacino di Groenlandia. Dopo un po', qualche minuto o forse pochi secondi, piange. Tutti i pensieri sgorgano. Piange come una vite tagliata. Che significa? Sapeva che l'Independence sarebbe affondata, lo sapevano tutti, ma così in fretta... Certo, sapevamo anche quello. Ma ignora se Leon è ancora vivo. E cosa ne è di Sigur. Si sente spaventosamente sola. Voglio tornare indietro! «Voglio tornare indietro!» Col volto rigato dalle lacrime, le labbra che tremano, comincia a dubitare della sensatezza della sua missione. Non ha incontrato gli yrr, benché il fondale sia sempre più vicino. Controlla gli strumenti. Il computer la tranquillizza. Le dice che è in viaggio da circa mezz'ora e che si trova a duemilasettecento metri di profondità. Mezz'ora. Per quanto deve ancora resistere lì sotto? Vuoi vedere tutto? Cosa? Vuoi vedere tutto, piccola particella? Karen tira su col naso. Un rumore forte e distinto, molto terrestre in quel nero Paese delle meraviglie. «Papà?» piagnucola. Calma. Calmati. Una particella non si chiede quanto durerà. Semplicemente si muore o sta ferma. Segue il ritmo della creazione, obbediente servitrice del tutto. Quella assillante domanda sulla durata è tipica degli umani, è la lotta contro la propria natura, la divisione in epoche... Agli yrr il tempo non interessa. Il tempo lo portano nel loro genoma, fin dall'inizio della vita cellulare, quando, duecento milioni di anni fa, i blocchi di roccia oceanica si attaccarono alle masse continentali che formano l'odierna America settentrionale; quando, sessantacinque milioni di anni fa, la Groenlandia cominciò ad andare alla deriva, allontanandosi dall'Europa; quando, trentacinque milioni di anni fa, si formarono le caratteristiche topografiche dell'Atlantico; quando la Spagna era ancora lontana dall'Africa; quando i fondali sottomarini sprofondarono tanto che, venti milioni di anni fa, finalmente si mise in moto lo scambio tra oceano Artico e Antartico, grazie al quale, particella, è
possibile il tuo viaggio, iniziato nel bacino di Groenlandia e che ti porterà, costeggiando l'Africa, verso sud, all'Antartico. Sei in viaggio nella corrente circumpolare, la stazione di smistamento delle correnti marine, l'eterna circolazione. Dal freddo al freddo. È vero, sei solo una particella, ma fai parte di un tutto che ha una portata d'acqua corrispondente a ottanta volte il Rio delle Amazzoni. Scorrete sul fondale marino, superate l'equatore e arrivate nell'Atlantico meridionale, fino all'estrema punta del Sudamerica. Fino a quel punto, il vostro corso è stato regolare e tranquillo. Ma oltre capo Horn entrate in una turbolenza tempestosa. Barcollando e sobbalzando, sarai trascinata in qualcosa che assomiglia al traffico di mezzogiorno intorno all'Arc de Triomphe, ma infinitamente più imponente. La corrente circumpolare antartica si muove da ovest a est intorno al continente bianco, un movimento di smistamento in cui entrano ed escono tutti i mari. La corrente circolare non si ferma mai, non colpisce mai la Terra. Insegue se stessa all'infinito. Ha una portata corrispondente a ottocento Rio delle Amazzoni, aspira in sé tutte le acque del mondo, le scompiglia e le miscela, annulla la loro origine e la loro identità. Immediatamente prima dell'Antartico ti prende un gelo che fa tremare. Sei trascinata in superficie da frangenti schiumosi e poi riaffondi, per diventare parte del grande carosello circumpolare. Esso ti porta per un tratto e poi ti scarta. Ti muovi di nuovo verso nord, a ottocento metri di profondità. Tutti i mari si nutrono della corrente circumpolare antartica. Una parte dell'acqua ritorna nell'Atlantico, un'altra va nell'oceano Indiano, la maggior parte viene spinta nel Pacifico, dove vai anche tu. Stretta al fianco occidentale del Sudamerica, scorri fino all'equatore, dove gli alisei dividono le acque e il calore tropicale ti riscalda. Risali in superficie, e sei trascinata verso ovest, in mezzo al caos dell'Indonesia: isole e isolette, correnti, mulinelli, fondali bassi e vortici... un passaggio sembra impossibile. Sei trascinata a sud, lungo le Filippine e attraverso lo stretto di Makasar, tra Borneo e Sulawesi. Potresti schiacciarti nello stretto di Lombok, ma c'è la deviazione a est di Timor, una rotta migliore, attraverso la quale raggiungi finalmente l'oceano Indiano. Ora vai verso l'Africa. Le calde acque basse del mare Arabico ti saturano di sale. Viaggi verso sud, lungo il Mozambico, e la tua compagnia di viaggio si chiama corrente
di Agulhas. Scorri sempre più veloce, pregustando il piacere del ritorno al tuo luogo d'origine, ti getti nella grande avventura che è costata la vita a tanti marinai, superare il capo di Buona Speranza, e sei ricacciata indietro. Là si scontrano troppe correnti. La place de l'Étoile antartica col suo traffico del venerdì sera è troppo vicina. Per quanto ti sforzi, non riesci a procedere. Infine, insieme con altre particelle, ti stacchi in un vortice dalla corrente principale e finalmente ti ritrovi a galleggiare nell'Atlantico meridionale. Tu e i tuoi simili andate alla deriva verso ovest con la corrente equatoriale, girate in un gigantesco vortice lungo il Brasile e il Venezuela sino alla Florida e siete strappate l'una dall'altra. Hai raggiunto i Caraibi, il bacino d'origine della Corrente del Golfo. Col carico del sole tropicale, cominci il tuo viaggio verso Terranova. Avanti ancora in direzione dell'Islanda, galleggi orgogliosa in superficie e lasci generosamente all'Europa il tuo calore, come se ne avessi all'infinito. Diventi impercettibilmente sempre più fredda, l'acqua più densa dell'Atlantico settentrionale ti lascia un carico di sale che diventa sempre più pesante e improvvisamente ti ritrovi sopra il bacino di Groenlandia, il punto d'inizio del tuo viaggio. Sei stata in viaggio mille anni. Da quando l'istmo di Panama divide l'Atlantico dal Pacifico, le particelle d'acqua fanno questa strada. Da oltre tre milioni di anni. Da allora, solo uno spostamento dei continenti avrebbe potuto variare la circolazione termoalina. Avrebbe potuto! L'uomo ha distrutto l'equilibrio del clima. E, mentre gli esperti discutono se il surriscaldamento possa portare allo scioglimento delle calotte polari e quindi bloccare la Corrente del Golfo, essa si è già fermata, perché ci hanno pensato gli yrr. Hanno fermato il viaggio delle particelle, interrompendo così il calore per l'Europa, bloccando il futuro di quella specie che si è autodefinita divina. Perché essa sa bene che cosa succederà col blocco della circolazione marina, proprio al contrario dei loro nemici, che non sanno nulla delle conseguenze delle proprie azioni, che non ricordano il futuro perché privi di memoria genetica e della consapevolezza che il senso della creazione sta nella trasformazione dell'inizio nella fine e della fine nell'inizio. Mille anni, piccola particella. Più di dieci generazioni umane e tu hai fatto una volta il giro del mondo. Mille di questi viaggi e il fondale marino si è completamente rinnovato un'altra volta.
Centinaia di questi rinnovamenti e i mari sono spariti, i continenti sono stati trascinati l'uno contro l'altro e intanto ne sono cresciuti di nuovi, sono nati nuovi oceani, il volto del mondo è cambiato. Un secondo del tuo viaggio, piccola particella, e le forme di vita più semplici nascono e muoiono. Nanosecondi e le particelle elementari cambiano il loro posto. In un tempo ancora più breve, si completano le reazioni chimiche. E, da qualche parte là in mezzo, l'uomo. Soprattutto gli yrr. L'oceano è diventato consapevole di se stesso. Tu hai viaggiato per il mondo, com'era e com'è, come parte della grande circolazione che non conosce inizio né fine, ma solo variazione e ritorno. E cambia fin da quando questo pianeta è nato. Tutti gli esseri viventi formano un unico tessuto che ricopre la Terra, indivisibili nei loro legami alimentari, strettamente legati tra loro. Il più semplice si cambia con il più complesso, molte forme di vita sono scomparse per l'eternità, altre si sono sviluppate, alcune ci sono sempre state e ci saranno sempre, finché la Terra non cadrà nel sole. Da qualche parte, là in mezzo, l'uomo. Da qualche parte, nel tutto, gli yrr. Cosa vedi? Cosa vedi? Karen si sente incredibilmente stanca, come se fosse in viaggio da anni. Una piccola particella stanca, triste e sola. «Mamma? Papà?» Deve costringersi a spostare lo sguardo sugli strumenti. Pressione interna, okay. Ossigeno, okay. Inclinazione: zero. Zero? Il Deepflight è orizzontale. Sobbalza. Karen si riscuote. Anche il controllo della velocità di discesa segna zero. Profondità: 3466 metri. Tutt'intorno il nero. Il batiscafo non affonda più. È sul fondo. Ha raggiunto il fondo del bacino di Groenlandia. Quasi non si azzarda a guardare l'orologio, perché ha paura di scoprire qualcosa di terribile, che è là sotto da ore, che non avrà abbastanza ossige-
no per tornare in superficie, qualcosa del genere. Ma l'indicatore digitale, splendendo tranquillamente, le comunica che la sua discesa è iniziata trentacinque minuti prima. Non riesce a ricordare il momento in cui ha toccato il fondo, ma è andato tutto bene. Le eliche sono ferme, i sistemi attivi. Potrebbe risalire subito. Poi, improvvisamente, inizia. Insieme In un primo momento, Karen pensa a un'allucinazione. Un debole alone blu a una certa distanza. L'apparizione si presenta vorticando e poi sparisce, come se qualcuno avesse soffiato della polvere blu scura dal palmo di una mano gigantesca. Una nuova luminescenza, stavolta più vicina e con una maggiore superficie. Si ferma e poi si ritira, formando un arco sopra il batiscafo. Karen è costretta a guardare in. alto. Quello che vede le ricorda una nube cosmica. È impossibile dire quanto sia grande e a che distanza si trovi. Karen ha la sensazione di non essere sul fondo del mare, ma di aver raggiunto il bordo di una galassia lontana. Poi il blu si perde. Per un istante, lei crede che stia diventando più debole, poi teme di essere vittima di un'allucinazione, perché la nuvola si schiude in una più grande che scende lentamente verso il batiscafo. Allora capisce che, se vuol mandare fuori Rubin, non è una buona idea restare sul fondale. Il momento è arrivato. Ora o mai più. Fa uscire gli alettoni laterali e accende le eliche. Il Deepflight scivola per un tratto sul fondo, solleva vortici di sedimenti e si alza. Lampi splendono sull'orizzonte incommensurabile, nero come la notte. La fusione è iniziata. L'insieme è gigantesco. La luce blu splende ovunque. Il Deepflight è sospeso in mezzo alla nuvola in fusione. Karen sa che la gelatina si può contrarre in un tessuto estremamente resistente, ma non vuole soffermarsi a riflettere su quello che potrebbe succedere al batiscafo se quel muscolo composto da esseri unicellulari si dovesse chiudere intorno a lei. Le compare davanti agli occhi l'immagine di un pugno enorme che schiaccia un uovo. È a poco più di dieci metri dal fondo. Dovrebbe bastare.
Ora. La pressione di un dito decide tutto. Basta non aver guardato bene, basta che il dito tremi per il nervosismo e la paura e potrebbe aprire l'abitacolo sbagliato. Morte istantanea. A tremilacinquecento metri di profondità, la pressione è di 385 atmosfere. Non si perde la forma corporea, ma la vita sì. Karen apre l'abitacolo giusto. Al suo fianco, la copertura della cabina tubolare del copilota si mette in verticale. L'aria viene espulsa come in un'esplosione e spinge in alto il corpo di Rubin, facendolo uscire in parte. Karen rallenta la velocità del velivolo sottomarino - quasi ingovernabile con un abitacolo aperto - e lo fa abbassare in modo che il corpo di Rubin venga catapultato fuori. Il cadavere nero si staglia sullo sfondo della tempesta blu in avvicinamento. L'ambiente estraneo gli squassa i tessuti e gli organi, gli frantuma il teschio; sotto la pressione della sua stessa muscolatura, gli rompe le ossa e spreme i liquidi corporei. Tutto è illuminato. Il corpo di Rubin che ruota su se stesso viene preso dalla gelatina e spinto contro il batiscafo in fuga. L'organismo arriva anche da altre direzioni, da tutte contemporaneamente, da sopra e da sotto. Si stringe intorno al batiscafo e a Rubin, si solidifica, Karen urla per il terrore... Il batiscafo è libero. Quasi con la stessa velocità con cui si sono avvicinati, gli yrr si ritirano. Di molto. Sembrano inorriditi. È l'unico modo adatto per descrivere il comportamento degli yrr in quel momento. Karen sente se stessa gemere. Il mare intorno a lei è ancora blu. Luci sfumate attraversano l'imponente massa di gelatina che circonda il batiscafo come una muraglia chiusa e insuperabile. Karen gira la testa e vede il volto fracassato di Rubin illuminato debolmente dagli strumenti della console. È stato schiacciato dal tessuto in contrazione contro un lato iella cupola e fissa l'interno con le orbite vuote. Gli occhi sono stati sciolti dalla pressione idrostatica e al loro posto c'è solo un liquido che cola. Poi il cadavere si stacca lentamente e ricade nella notte. Di nuovo è solo un'ombra sullo sfondo illuminato, cade con un movimento stranamente avvitato, come se facesse una danza goffa e infinitamente lenta in onore di dei pagani. Karen trae un profondo respiro e si costringe alla calma. In altre circostanze, sarebbe già stata male, ma non ha semplicemente tempo per farlo. L'anello continua a ritirarsi e si avvolge su se stesso. Da sotto riemerge il
nero. Onde attraversano i bordi dell'organismo, che si arrotola sempre di più, mentre il cadavere di Rubin si fonde con l'oscurità. Contemporaneamente, dall'alto giungono alcuni tentacoli sottili a punta, simili a liane della foresta vergine. Sono coordinati e hanno una meta precisa. Trovano Rubin e iniziano a toccarlo. Karen non riesce a vedere il corpo, ma il sonar lo rileva e i movimenti cauti dei tentacoli fanno concludere che essi stanno toccando una figura umana. Sulle punte si formano fili ancora più sottili che toccano ogni singola parte del corpo. Di tanto in tanto scivolano l'uno sull'altro, come se stessero facendo un silenzioso consulto. A differenza di tutto ciò che Karen aveva visto degli yrr fino a quel momento, i tentacoli splendono di un bianco cangiante. Il tutto crea un effetto coreografico, un balletto silenzioso. D'un tratto Karen risente la musica della sua infanzia: La plus que lente di Debussy, il valzer «più che lento», il pezzo preferito da suo padre. È sbigottita e incantata, ogni paura sparisce. Naturalmente là sotto non c'è nessuno che suona La plus que lente, ma ci sarebbe stato bene, perché quel gioco esplorativo è di una bellezza mozzafiato, e in quel momento Karen non riesce a vedere altro che la... ... bellezza. In mezzo a quella bellezza, lei ha ritrovato i suoi genitori. Karen solleva la testa. Sopra di lei si avvolge una campana gigantesca splendente di blu, alta come il cielo. Karen non crede in Dio, ma è costretta a ricordarselo per non mettersi a mormorare qualche preghiera. Ricorda Samantha Crowe, che aveva parlato degli extraterrestri forgiati sul modello umano, del narcisismo degli uomini nella rappresentazione delle altre specie, della loro assoluta incapacità di dare spazio a visioni più coraggiose. Forse Samantha avrebbe criticato quella purezza della luce, e si sarebbe augurata una luce meno carica di simboli di quel sacro bianco. Ma esso non è paragonabile a nulla. È bianco solo perché la bioluminescenza produce spesso luce bianca, come pure blu, verde o rossa. Non è la manifestazione di un dio, ma soltanto un effetto generato da organismi unicellulari capaci di produrre luce. Tuttavia, a parte questo, quale dio simile agli uomini si manifesterebbe sotto forma di tentacoli? La cosa che fa quasi impazzire Karen è che non esiste possibilità di ritorno. Non si può più discutere se gli organismi unicellulari possono sviluppare l'intelligenza o no. La questione è chiusa: l'autorganizzazione di
queste cellule porta alla conclusione che si tratti di vita consapevole di se stessa, e non di un comportamento mimetico altamente sviluppato. Quando si sono infilati nello scafo dell'Independence coi loro tentacoli, gli yrr si sono assicurati un posto nel gabinetto degli orrori della storia; mostri gelatinosi rispetto ai quali i marziani di Wells sembrano imbranati. Tutto ciò perde ogni importanza di fronte a quello spettacolo fantastico e mai visto. Ciò che Karen vede è la prova definitiva dell'esistenza di un'intelligenza non umana. Il suo sguardo si perde in quella volta blu, finché non raggiunge il vertice, dal quale scende lentamente qualcosa, una formazione dalla cui parte inferiore si diramano i tentacoli. Ha una forma quasi sferica ed è grande come la luna. Sotto la superficie bianca scivolano ombre grigie. Per qualche secondo compaiono complicate decorazioni, sfumature di bianco sul bianco, luci simmetriche, file splendenti di punti e linee, un codice criptico che farebbe la gioia di un semiologo. Quell'essere sembra a Karen un computer vivente, al cui interno avvengono calcoli di mostruosa complessità. Rimane a guardare quella cosa che pensa e improvvisamente comprende che pensa per tutto l'insieme, per tutta quella massa gigantesca, per il firmamento blu. Alla fine Karen capisce cosa sta osservando. Ha trovato la regina. La regina prende contatto. Karen quasi non osa respirare. Le tonnellate di pressione hanno compresso i liquidi in Rubin e li hanno fatti uscire dal corpo massacrato, disperdendoli in acqua. Da tutti i punti in cui gli hanno iniettato la soluzione sono usciti i feromoni concentrati cui gli yrr hanno reagito istintivamente. La fusione era appena iniziata e si è arrestata di colpo. Karen è sempre incerta sull'esito del piano. Tuttavia, se non si è sbagliata, quell'esperienza deve aver portato l'insieme a una confusione babelica, con la differenza che a Babele si riconoscevano l'un l'altro ma non si capivano più, mentre l'insieme capisce senza riconoscere. Il messaggio feromonico era sempre stato diffuso e compreso solo dagli yrr. L'insieme non può riconoscere Rubin. Indubbiamente è il nemico di cui si era decisa la distruzione, ma il nemico dice: «Fondersi». Rubin dice: «Sono uno yrr». Che cosa succederà nella regina? Si accorgerà del trucco? Riconoscerà che Rubin non è un insieme di yrr, che le sue cellule sono strettamente le-
gate tra loro, che gli mancano i recettori? Sicuramente non è il primo uomo che gli yrr esaminano. Tutto ciò che percepiscono classifica Rubin come nemico. Secondo la logica degli yrr, chi non è yrr è da ignorare o da combattere. Ma gli yrr hanno mai combattuto contro gli yrr? Può esserne sicura? Almeno su quel punto, Karen non ha dubbi e sa che Sigur, Anawak e tutti gli altri l'avrebbero pensata nello stesso modo. Gli yrr non si uccidono tra loro. Eliminano le cellule malate e difettose, il feromone si occupa di uccidere le cellule, ma ciò non è molto diverso da un corpo che elimina le cellule morte della pelle. Nessuno parlerebbe di una lotta tra le cellule del corpo, perché insieme esse formano un essere unico, e per gli yrr è la medesima cosa. Sono innumerevoli miliardi, ma nel contempo uno. In ultima analisi, anche i diversi insiemi con le diverse regine sono un unico essere con un'unica memoria, un cervello diffuso in tutto il mondo che può prendere decisioni sbagliate, ma che non conosce nessun senso di colpa morale, che lascia spazio alle idee individuali, senza che una singola cellula possa rivendicare diritti di superiorità, all'interno del quale non vengono somministrate pene e non si fanno guerre. Ci sono soltanto yrr intatti e yrr difettosi e quello che è difettoso muore. Eppure uno yrr morto non emetterà mai un contatto feromonico come quel pezzo di carne di forma umana, che è un nemico, che è morto e tuttavia non è nessuna delle due cose. Karen, lascia stare i ragni. Karen è piccola, ha preso in mano un libro per schiacciare un ragno. Anche lui è piccolo, ma ha commesso l'imperdonabile errore di venire al mondo in forma di ragno. Perché? Il ragno è odioso. Dipende da chi guarda. Perché trovi i ragni odiosi? Domanda stupida. Perché un ragno è odioso? Perché lo è. Non guarda con gli occhioni sgranati da cucciolo, non è dolce e affettuoso, non si può accarezzare, ha un aspetto strano e malvagio e quindi è da eliminare. Il libro scende e il ragno è schiacciato. Poco tempo dopo, Karen si pente amaramente di quell'atto. Sta guardando una puntata dell'Ape Maia. Ha imparato che le api sono okay. In quella puntata compare un ragno, con le sue otto zampe e lo sguardo fisso: di certo vuole riempirsi immediatamente la pancia. Ma il ragno apre una bocca
sottile senza labbra e parla con un'incantevole voce squillante, da bambino. E non lancia terribili minacce, come Karen si aspetterebbe dai ragni; sembra la bontà in persona, affettuoso e dolce. Ormai Karen non riesce più nemmeno a immaginare di schiacciare un ragno. Ancora peggio, uno le appare in sogno e la accusa con quella voce infantile. La cosa è terribile e Karen piange. Quella volta ha imparato il rispetto. Ha imparato quello che, anni dopo, a bordo dell'Independence è maturato in un'idea. Come può una specie intelligentissima metterne nel sacco un'altra, aggirando completamente il suo intelletto per ottenere un rinvio dello scontro o forse addirittura qualcosa di simile a una comprensione reciproca? E che l'uomo - abituato a porsi come punto di riferimento per giudicare il livello di sviluppo - arrivi al punto di voler somigliare agli yrr? Una cosa inaccettabile per il vertice della creazione! Dipende da come lo s'intende. Sopra di lei si muove lieve la bianca luna pensante. E si abbassa. I tentacoli si staccano da Rubin, che torna visibile come un busto mummificato dalla gelatina, e si ritirano all'interno. La regina incombe sul Deepflight ed è molte volte più grande del batiscafo. Il nero dell'oceano è sparito. Il corpo della regina comincia a chiudersi intorno al veicolo. Tutto è illuminato. Intorno a Karen pulsano luci bianche. La regina prende in sé il batiscafo e assorbe i suoi pensieri. Karen sente tornare la paura. Non respira. Contrasta l'impulso di accendere le eliche, benché non desideri altro che andarsene. L'incantesimo è finito e rimane la minaccia reale, ma lei sa che le eliche, mordendo in quella gelatina solida e flessibile, avrebbero come unico risultato quello di far arrabbiare l'essere... Magari invece lo divertirebbero o lo lascerebbero indifferente... In ogni caso, è meglio non pensare alla fuga, almeno per il momento. Il batiscafo viene sollevato. L'essere può vederla? Karen non ha la minima idea di cosa succederà. L'insieme non ha occhi, ma ciò esclude che possa vedere? Avrebbero avuto bisogno di più tempo, a bordo dell'Independence. Spera che l'essere possa in qualche modo vederla o almeno percepirla all'interno della cupola di vetro. E che alla regina non venga la tentazione di aprire l'abitacolo per tastarla. Non sarebbe una buona idea, ma almeno sa-
rebbe stato il tentativo finale di una presa di contatto. Non lo farà. Lei è intelligente. Lei? Come si fa in fretta a ricadere nel modo di pensare umano. Karen scoppia a ridere. E, come se avesse dato un segnale, la luce all'intorno si fa diafana. Sembra che l'essere si allontani in tutte le direzioni. L'essere che lei chiama regina si sta dissolvendo. Per un istante meraviglioso, si diffonde come la polvere di stelle delle origini dell'universo. Proprio sopra la cupola danzano minuscoli punti bianchi. Se sono gli esseri unicellulari, allora hanno una dimensione considerevole, quasi come piselli. Poi il Deepflight è fuori, la luna si fonde di nuovo e ora è sotto di lei, sorretta da un ampio disco blu scuro. La regina deve aver sollevato il batiscafo di un bel po'. Sulla superficie del disco si muove qualcosa che Karen riesce a definire solo in un modo: «traffico formicolante». Miriadi di esseri luminosi volteggiano lungo la sfera blu. Pesci simili a chimere, i cui corpi risplendono di complesse decorazioni, schizzano dall'interno della gelatina, s'incontrano e poi tornano a sprofondare nella massa. Lontano scintillano cose che sembrano fuochi d'artificio, poi immediatamente davanti al batiscafo ardono cascate di punti rossi, che si dispongono continuamente in nuove forme, troppo veloci perché gli occhi possano seguirli. Mentre cadono e si avvicinano al centro bianco, prendono lentamente una forma, ma soltanto quando si trovano appena sopra la regina palesano la loro vera natura. A Karen vengono le vertigini. Non si tratta di un banco di pesciolini, come aveva pensato, ma di un unico essere gigantesco con dieci braccia e un corpo lungo e sottile. Un calamaro. Grande come un autobus. La regina fa uscire un tentacolo chiaro e tocca il calamaro nel mezzo. Il gioco delle macchie rosse si ferma. Cosa sta succedendo? Karen non riesce a distogliere lo sguardo. Davanti a lei, brillano banchi di plancton; sembra neve, solo che cade dal basso verso l'alto. Le passa davanti un banco di calamari degli abissi con gli occhi sulle antenne, di un verde che sembra una luce al neon. Il blu infinito è solcato da lampi che si perdono là dove la luce non può più raggiungere Karen. Lei guarda e guarda. È troppo. Non regge più. Sente che il batiscafo ricomincia a sprofondare verso la
luna luminosa. Si sta di nuovo avvicinando a quel mondo spaventosamente bello e spaventosamente sconosciuto, stavolta senza possibilità di sfuggirgli. No. No! Chiude rapidamente l'abitacolo ancora aperto e ci pompa dentro l'aria compressa. Il sonar indica cento metri dal fondo, in diminuzione. Karen esamina la pressione interna, l'ossigeno, il carburante. Tutto a posto. I sistemi lavorano. Fa uscire gli alettoni laterali e accende le eliche. Il batiscafo comincia a salire, prima lentamente, poi in modo sempre più veloce. Sfugge al mondo sconosciuto sul fondo del bacino di Groenlandia e tende verso il cielo del suo mondo. Ritorna alla terra. Nella sua vita, Karen non aveva mai vissuto tante emozioni in così poco tempo. Ha la testa piena di domande. Dove sono le città degli yrr? In cosa consiste la loro biotecnologia? Come generano lo scratch? Cos'ha davvero visto di quella civiltà? Cosa le hanno permesso di vedere? Tutto? O niente del tutto? Era una città galleggiante? O solo un posto di guardia? Cosa vedi? Cos'hai visto? Non lo so. Spiriti Su, giù. In alto, in basso. Noia. Le onde sollevano il Deepflight e lo fanno ricadere. Su e giù. In alto, in basso. Dopo essere partita dal fondo del bacino, ormai Karen galleggia in superficie. Si sente come su un ascensore schizofrenico. Su, giù. Su, giù. Onde alte, ma regolari. Raramente una cresta che si rompe, una vera monotonia. Viene trascinata in un movimento costante di grigie montagne digradanti. Aprire la cupola sarebbe troppo pericoloso. Il Deepflight si riempirebbe all'istante. Quindi non può far altro che stare coricata e guardare fuori, nella speranza che prima o poi il mare si calmi. Ha ancora un po' di carburante. Non abbastanza per arrivare fino in Groenlandia o alle Svalbard, ma nelle vicinanze sì. Finché fosse durata la tempesta, lei avrebbe risparmiato le riserve. Non voleva viaggiare contro i cavalloni e non voleva più immergersi. Sarebbe ripartita non appena il mare si fosse calmato. Non im-
portava dove sarebbe arrivata. Non sa cos'ha vissuto davvero. Tuttavia, se la forma di vita degli abissi è arrivata alla conclusione che gli uomini hanno qualcosa in comune con gli yrr, fosse anche solo l'odore, i sensi potrebbero aver sconfitto la ragione. Allora l'umanità avrebbe guadagnato tempo. Un credito ripagabile con la buona volontà, le intenzioni e i fatti. Un giorno, gli yrr arriveranno a un nuovo accordo - perché la loro origine e il loro sviluppo, tutto il loro progresso si basa sull'accordo - e decideranno se c'è ancora posto per l'umanità. Karen non vuole pensare ad altro. Non a Sigur Johanson, non a Samantha Crowe e a Murray Shankar, non ai morti, a Sue Oliviera, ad Alicia Delaware, a Jack Greywolf. Non a Salomon Peak, a Jack Vanderbilt, a Luther Roscovitz. A nessuno, neppure a Judith Li. Non a Leon, perché pensare significa provare paura. E invece ci pensa. Si presentano l'uno dopo l'altro, come se arrivassero a un party, prendono posto nella sua testa e si mettono comodi. «La nostra ospite è deliziosa», dice Johanson. «Ma di certo non ha a bordo del vino di qualità.» «Che ti aspetti su un batiscafo?» ribatte seccamente Sue. «Un'enoteca?» «Certe cose si devono esigere.» «Accidenti, Sigur.» Anawak scuote la testa, ridendo. «Dovresti congratularti con lei. Ha appena salvato il mondo.» «Lodevole.» «Cos'ha salvato?» chiede Samantha Crowe. «Il mondo?» Silenzio imbarazzato. «Siamo sicuri? Proprio il mondo?» Alicia Delaware sposta il chewinggum da una guancia all'altra. «Per il mondo è assolutamente indifferente correre nell'universo con noi o senza di noi. Posiamo salvare o distruggere solo il nostro mondo.» «Augh!» Greywolf inclina il capo. Anawak è d'accordo. «All'atmosfera non interessa se per noi è respirabile o no. Se l'uomo cessa di esistere, crolla anche il sistema di valori umani. E poi uno stagno ribollente di zolfo è bello come la luce del sole a Tofino.» «Molto toccante, Leon», afferma Johanson. «Beviamo il vino della ragione. L'umanità è di fatto su un ramo in declino. Copernico ha cacciato la
Terra dal centro dell'universo, Darwin ci ha tolto dalla testa la corona della creazione, Freud ha mostrato che la ragione umana naufraga nell'inconscio. Fino a poco tempo fa eravamo anche le uniche intelligenze organizzate su questo pianeta, e ora arrivano inquilini di più lunga data e ci sloggiano.» «Dio ci ha abbandonati», polemizza Sue. «No, non del tutto», obietta Anawak. «Karen ha ottenuto una dilazione per tutti noi.» «Ma a che prezzo!» Johanson s'intristisce. «Alcuni di noi sono morti.» «Una piccola perdita», ironizza Alicia. «Non far finta che non te ne importi.» «Cosa vuoi che ti dica, mi sento molto valorosa. Quando vedi storie del genere al cinema, sono sempre i vecchi a morire, mentre i giovani sopravvivono.» «È così perché siamo scimmie», dichiara Sue, asciutta. «I geni vecchi cedono il posto a quelli più giovani, più sani, che garantiscono una riproduzione ottimale. Non può che essere così.» «Anche al cinema», conferma Samantha. «Se sopravvivono i vecchi, e i giovani muoiono, il pubblico protesta sonoramente. Per La maggioranza delle persone non sarebbe un lieto fine. Da non credere, eh? Anche una cosa profondamente romantica come il lieto fine deriva da necessità biologiche. Altroché libero arbitrio. Qualcuno ha una sigaretta?» «Niente vino, niente sigarette», dice Johanson malizioso. «Dovete guardare il lato positivo», interviene Murray Shankar con la sua voce dolce. «Gli yrr sono un mostro e il mostro ci ha superato. Voglio dire, King Kong, lo squalo bianco... I mostri devono morire. L'uomo che è sulle tracce del mostro lo guarda con stupore e lo ammira, si lascia ammaliare dalla sua stranezza e lo uccide. Vogliamo davvero questo? Noi ci siamo lasciati ammaliare da scratch, dalla stranezza, dall'ignoto, ma a che scopo? Per cacciarlo dal mondo? Perché dovremmo uccidere un mostro?» «Perché l'eroe e l'eroina possano baciarsi e dare vita a una noiosissima discendenza», grugnisce Greywolf. «Va bene!» Johanson si batte il petto. «E anche lo scienziato vecchio e saggio deve morire per far piacere a dei borghesucci senza cervello il cui unico merito è quello di essere giovani.» «Grazie», ironizza Alicia. «Non mi riferivo a te.» «Buoni, bambini.» Sue solleva le mani. «Organismi unicellulari, scim-
mie, mostri, uomini, sono sempre la stessa cosa. Sono tutte biomasse. Non c'è motivo di agitarsi. La nostra specie si presenta in maniera diversa non appena la si osserva al microscopio, oppure la si descrive con concetti biologici. L'uomo e la donna diventano maschietti e femminucce, lo scopo vitale primario del singolo è procurarsi il cibo, mangiare diventa divorare...» «Il sesso, l'accoppiamento...» esclama Alicia, divertita. «Giustissimo. Chiamiamo guerra la decimazione della specie e, nel peggiore dei casi, la minaccia della sua stessa esistenza, e così non dobbiamo continuare a sentirci responsabili della nostra stupidità, perché possiamo dare la colpa ai geni e all'istinto.» «Istinto?» Greywolf cinge con un braccio Alicia. «Nulla in contrario.» Compare un sorriso appena accennato, diventa ammiccante e poi assume una piega che lo rende premuroso. Anawak esita. «Allora, per tornare alla questione del lieto fine...» Tutti lo guardano. «So che ci si può porre la domanda se l'umanità meriti di sopravvivere. Ma non c'è un'umanità: ci sono solo esseri umani. Singoli esseri umani, molti dei quali avrebbero una montagna di buoni motivi per cui continuare a vivere a ogni costo.» «E tu, Anawak, perché vuoi continuare a vivere?» chiede Samantha. «Perché...» Anawak solleva le spalle. «Semplicissimo. Perché c'è qualcuno per cui vorrei continuare a vivere.» «Lieto fine», sospira Johanson. «Lo sapevo.» Samantha sorride ad Anawak. «Finalmente ti sei innamorato, Leon?» «Finalmente?» Anawak riflette. «Sì. Finalmente credo di essere davvero innamorato.» Continuano a chiacchierare e le voci riverberano nella testa di Karen, finché non rimane soltanto un fruscio che si confonde col suono delle onde. Sei una sognatrice, pensa. Una patetica sognatrice. È di nuovo sola. Karen piange. Dopo circa un'ora, il mare diventa più calmo. Dopo un'altra ora, il vento è talmente calato che le onde si sono appiattite. Tre ore dopo, lei si azzarda ad aprire la cupola. Il blocco si libera con un clic. La copertura si muove, ronzando. Un freddo gelido la sferza. Guarda fuori e vede un dorso emergere in lontananza e sparire subito. Non è un'orca quella che si avvicina; è qualcosa di
più grande. Emerge e scompare una seconda volta, stavolta molto più vicina, l'imponente coda esce dall'acqua. Una megattera. Deve chiudere la cabina tubolare? Ma che cos'ha da contrapporre alle tonnellate di peso di una megattera? Che sia sdraiata nella cabina tubolare o seduta con una parte del corpo all'esterno, se la balena non vuole che lei sopravviva ai prossimi minuti, non sopravvivrà. La gobba si leva un'altra volta dal grigio mare increspato. L'animale è enorme. Rimane sulla superficie dell'acqua, vicinissima alla barca. Passa così vicina a Karen che le basterebbe allungare la mano per toccare la testa intaccata e coperta d'incrostazioni. La balena si volta su un fianco e il suo occhio sinistro osserva per qualche secondo la piccola donna su quella macchina. Karen ricambia lo sguardo. Il fiato della balena si scarica rumorosamente. Poi l'animale s'immerge senza provocare una sola onda, sparisce nell'acqua grigia e diventa solo un ricordo. Karen si aggrappa al bordo della cabina tubolare. Non ha attaccato. La balena non le ha fatto niente. Quasi non riesce a crederci. La testa le rimbomba. Le orecchie le ronzano. Mentre continua a fissare l'acqua, sente il rimbombo e il ronzio avvicinarsi. Non è nella sua testa. Proviene dall'aria e diventa un rumore assordante, vicinissimo. Karen volta la testa. L'elicottero è sopra l'acqua. Alcune persone si accalcano al portellone laterale. Ci sono soldati e qualche civile. Uno si sbraccia verso di lei. Un uomo la cui bocca è spalancata nel disperato tentativo di superare il fragore dei rotori. Alla fine ce la farà, ma per il momento la macchina trionfa. Karen piange e ride contemporaneamente. È Leon Anawak. EPILOGO DAL DIARIO DI SAMANTHA CROWE 15 agosto Nulla è più come prima.
È trascorso un anno da quando l'Independence è affondata. Ho deciso di tenere un diario. Un anno dopo. Gli uomini hanno sempre bisogno di una data simbolica per iniziare o finire qualcosa. Non è che manchino le testimonianze scritte sugli avvenimenti dei mesi scorsi. Ma quello che è stato scritto non rappresenta il mio pensiero e, un giorno, vorrei avere una rassicurazione sulla validità di ciò che penso. Nelle prime ore del mattino ho chiamato Leon. Durante il naufragio dell'Independence, l'alternativa era tra bruciare, annegare o congelare. Gli devo la vita. Gliela devo due volte, per essere precisi. Dopo l'affondamento della nave, avrei potuto morire: ero inzuppata fino alle ossa, avevo una caviglia rotta e non nutrivo la minima speranza che qualcuno mi ripescasse. Lo zodiac aveva a bordo l'attrezzatura d'emergenza, ma dubito che da sola me la sarei cavata. Oltretutto, dopo l'affondamento dell'Independence, devo essere svenuta. Ancora oggi, il mio cervello si rifiuta di mostrami le ultime sequenze di quegli avvenimenti. Ricordo che siamo caduti dalla rampa e l'ultima cosa di cui ho memoria è l'acqua. Mi sono svegliata in ospedale. Avevo un principio di congelamento, la polmonite, una commozione cerebrale e un disperato bisogno di nicotina. Leon sta bene. Al momento, lui e Karen sono a Londra. Abbiamo parlato dei morti. Di Sigur Johanson, che non potrà più vedere la sua casa nell'entroterra norvegese; di Sue Oliviera, di Murray Shankar, di Alicia Delaware e di Jack Greywolf. A Leon mancano i suoi amici, specialmente in un giorno come questo. Noi umani siamo così. Anche per pensare ai morti abbiamo bisogno di un momento stabilito per esprimere il cordoglio. Ci serve per chiudere il dolore in una cassa e tirarlo fuori l'anno seguente, così, quando lo libereremo, potremo dire: «Non abbiamo dimenticato». I morti alla morte. Noi torniamo in fretta ai vivi. Non ho potuto conoscere a fondo Gerhard Bohrmann. Era un tipo piacevole, equilibrato e tranquillo. Non so se al suo posto avrei rimesso piede in acqua, ma lui è convinto che non possa capitare niente di peggio di quanto è già successo a La Palma. Così continua a immergersi, per avere un quadro delle condizioni della scarpata continentale. Infatti ora le immersioni sono riprese. Gli attacchi sono terminati immediatamente dopo l'affondamento dell'Independence. Poco prima, le stazioni di rilevamento del SOSUS avevano registrato dei segnali scratch diffusi in tutto l'oceano. Quando, ore dopo, la squadra di salvataggio era arrivata sul cono vulcanico per liberare Bohrmann dalla fenditura nella roccia, gli squali erano spariti. Nel giro di una notte, le balene sono tornate al loro solito comportamento. I vermi sono spariti, come
pure gli eserciti di meduse e di animali velenosi; i granchi hanno smesso di risalire le coste e lentamente la grande pompa ha ripreso a lavorare, scongiurando una nuova Era Glaciale. Bohrmann sostiene che gli idrati stanno addirittura riprendendo la loro stabilità. Ancora oggi, Karen non sa esattamente cos'ha visto sul fondo del bacino di Groenlandia, ma il suo piano ha funzionato. I segnali scratch sono stati rilevati proprio nel momento in cui lei prendeva contatto con la regina, questo lo sappiamo dai sistemi di bordo del Deepflight. Il computer ha registrato quando Karen ha aperto la copertura per lasciare il cadavere di Rubin negli abissi, e poco dopo il terrore si è fermato. O dobbiamo dire che è stato sospeso? Stiamo sfruttando l'opportunità? Non lo so. L'Europa si sta lentamente riprendendo dalle conseguenze dello tsunami. Le epidemie in America orientale continuano a infuriare, anche se il loro effetto si sta indebolendo e pare che una nuova serie di vaccini cominci a funzionare. Queste sono le buone notizie. Di contro, il mondo è precipitato in un vortice di rabbia. Come possiamo convivere con la montagna di macerie in cui si è sgretolata la nostra autostima? Le religioni rivelate ci sono debitrici di una spiegazione, in particolare il cristianesimo: Adamo ed Eva, gli archetipi della nostra specie, hanno già lasciato il campo da tempo agli elementi costituivi della biochimica. La Chiesa è stata costretta ad accettare l'idea che Dio abbia iniziato la creazione con proteine e aminoacidi. È un principio accettabile. La cosa importante è che Lui voleva quello che stava facendo! Come ha creato l'uomo non conta, è rilevante solo che l'uomo è stato creato secondo la volontà divina. Dio non gioca a dadi, diceva Einstein. Mette in atto progetti, la cui riuscita è fuori discussione. L'infallibilità vale sempre a priori. Il cristianesimo ha dovuto adattarsi anche all'esistenza d'intelligenze extraterrestri. Perché Dio non avrebbe dovuto ripetere la sua creazione, se gli andava? Anche ammesso che gli altri esseri abbiano un aspetto diverso, sono comunque frutto della volontà divina. Il modello umano rientra perfettamente nella cornice dei princìpi che Lui ha stabilito con la forza della sua volontà. Sugli altri pianeti, Dio ha creato nella cornice di altri princìpi e quindi sono nate forme di vita diverse. In un modo o nell'altro, Dio ha creato secondo la sua immagine, perché il concetto di «ritratto» è da intendersi in senso metaforico: la creazione non corrisponde all'immagine riflessa di Dio, ma all'immagine che Lui aveva in mente quando si è messo
all'opera. La Chiesa non ha faticato a elaborare questi concetti, ma il problema che le si presentava era di altra natura: se è vero che il cosmo è abitato da altre forme intelligenti, tutte create da Dio, deve esserci anche una storia legata al figlio di Dio su ogni pianeta? Gli abitanti di ogni mondo sono necessariamente peccatori, redenti dal sacrificio divino? Si potrebbe anche ribattere che una specie creata da Dio non debba inevitabilmente diventare peccatrice. Su un pianeta lontano, se gli abitanti seguono le leggi divine, allora non è necessario un redentore. In tal caso si aprirebbe un problema complesso: se quest'altra specie ha sempre vissuto secondo la parola di Dio, allora, nella mente di Dio, è quella la specie migliore? Si sarebbe dimostrata più degna degli uomini, quindi Dio dovrebbe darle la precedenza. In questo modo, però, l'umanità diventerebbe una creazione di seconda classe, con precedenti penali, visto che è già stata espulsa una volta per indegnità morale. In maniera più drastica, si potrebbe dire: con l'umanità, Dio non ha fatto il suo capolavoro. Ha sbagliato. Non ha potuto impedire che l'umanità diventasse peccatrice, così si è visto costretto a sacrificare il figlio per cancellare la colpa. Una sorta di credito pagato col sangue. Quale padre fa una cosa simile a cuor leggero? Dio stesso deve essere arrivato alla conclusione che con l'umanità aveva fallito. Gli scienziati postulano l'esistenza nell'universo di migliaia e migliaia di civiltà. Trovare galassie popolate esclusivamente da ragazzi modello sembra un po' inverosimile, quindi possiamo ipotizzare che almeno qualcuna delle altre specie sia peccatrice, e quindi che avrebbe bisogno di un redentore. Nella religione, problemi di questo genere non sono robetta, ma dogmi e princìpi. Non importa quanta colpa si porti su di sé, ma che la colpa ci sia. In altre parole: con Dio non si può mercanteggiare. Il tradimento della fiducia è il tradimento della fiducia. La pena è la pena e la redenzione è la redenzione. Di conseguenza, la storia della redenzione si sarebbe dovuta ripetere molte volte. Ma si può essere certi che Dio, altrove, non abbia trovato altre strade per rimediare ai difetti della sua creazione? Magari senza far morire suo figlio? E così si presenta un nuovo problema: la morte di Cristo è stata dolorosa, ma imprescindibile perché è stata la via scelta da Dio e quindi l'unica possibile. Ma, se ci fossero state alternative, quella sarebbe rimasta l'unica via giusta? Come si può rappresentare l'infallibilità di Dio se Lui, su un pianeta, ritiene necessario il sacrificio del figlio per purificare la creazione e su un altro no? Sacrificare il figlio è stato un errore che Dio non
voleva ripetere su altri pianeti? E che senso ha pregare un Dio che non tiene le cose saldamente in mano? In senso stretto, dunque, il cristianesimo potrebbe accettare solo intelligenze che rivelano una storia della Passione. In caso contrario, a uscirne male sono o l'umanità o Dio. Ma neppure i custodi della dottrina cristiana possono immaginare un universo pieno di storie della Passione. E allora cosa resta? La nostra unicità sulla Terra. Dio ha destinato il mondo a noi. Noi siamo la specie divina col compito di sottomettere la Terra. Questo gii abitanti degli altri pianeti non lo possono cambiare, neppure se venissero qui. Questo è il nostro pianeta e gli altri hanno il loro. Su ogni mondo c'è una specie voluta da Dio. Adesso però questo bastione è caduto. Gli yrr hanno distrutto gli ultimi concetti fondamentali del cristianesimo. Viene messo in discussione non soltanto il predominio umano, ma anche il progetto divino. Ancora peggio: anche se si accettasse che Dio ha creato sulla Terra due specie con lo stesso valore, allora o anche gli yrr hanno vissuto una storia della Passione, oppure vivono secondo i comandamenti divini. In caso contrario, si sarebbero resi peccatori, ma questo porta alla questione del perché Dio, nella sua furia, non li abbia puniti da tempo. Inoltre gli yrr non vivono secondo i suoi comandamenti. La loro biochimica impedisce loro di seguire il quinto comandamento. Cosa che può significare che Dio: a) non esiste, b) non ha il controllo o c) quello che fanno gli yrr gli va bene. Allora avremmo commesso un errore antico quanto l'umanità. Non saremmo frutto di un progetto consapevole! Le grandi religioni - cristianesimo, islam, ebraismo - si contorcono in simili pensieri. Mentre cercano di definire, analizzare, chiarire, le loro strutture sono crollate da tempo, trascinando con sé il marcio sistema finanziario delle Chiese, molto più dipendente dalla parola di Dio di quanto pensassimo. Invece il buddhismo e l'induismo, che accettano altre forme di vita, conoscono un seguito senza precedenti. I circoli esoterici sono in un periodo di piena fioritura, sorgono nuovi movimenti, le religioni arcaiche rinascono. Tra le vecchie sette, i mormoni si battono con onestà, e il loro Dio dice: «Ho creato infiniti mondi!» Ma neppure i mormoni sono in grado di spiegare perché Lui abbia fatto crescere due bambini nella stessa stanza dei giochi. L'ultima che ho sentito è stata che un vescovo cattolico, insieme con una delegazione da Roma, sta percorrendo l'oceano in lungo e in largo, spar-
gendo ovunque acqua santa e ordinando al demone di andarsene. Singolare. Siamo una specie abituata a deridere i fondamenti divini e a danneggiare la creazione, e ora ci proponiamo come suoi rappresentanti per ricondurre il nemico alla ragione. Abbiamo la faccia tosta di comportarci come avvocati di un creatore che non si fida più di noi. È come se volessimo predicare il Vangelo a Dio per dissuaderlo dal punirci. Il mondo crolla. L'ONU ha revocato agli Stati Uniti d'America il mandato per guidare le operazioni. Un altro atto d'impotenza. In molti Paesi l'ordine pubblico è crollato. Ovunque si guardi, ci sono orde di sbandati. Ovunque si arriva a conflitti armati. Il debole attacca il più debole, perché ormai gli uomini non sono più esseri disposti ad aiutare, bensì prigionieri della loro eredità animale. Chi è a terra diventa una preda, e le prede non mancano. Gli yrr non hanno distrutto le nostre città, ci hanno annientato interiormente: vaghiamo senza credere in nulla, bambini ripudiati e crudeli che sono rapidamente degenerati e cercano disperatamente un nuovo inizio. Ma c'è anche la speranza. Emergono i primi segni di un cambiamento di mentalità nel concepire il nostro ruolo sul pianeta Terra. Molti cercano di comprendere la varietà biologica per capire i veri princìpi unificatori. In ultima analisi, è un processo che abbatte ogni gerarchia. L'uomo si è già chiesto quali effetti avrà sulla psiche dei suoi discendenti ereditare un mondo impoverito. Chi è in grado di decidere quale valore può avere una specie animale per lo spirito umano? Vorremmo boschi, barriere coralline e mari pescosi, aria pulita, fiumi e laghi limpidi. Se continuiamo a danneggiare la Terra e ad annientarne la varietà, distruggiamo una complessità che non comprendiamo e che non saremo mai in grado di sostituire. Le cose che distruggiamo rimangono distrutte. Chi vuole decidere a quale parte della natura possiamo rinunciare? Il segreto della rete di relazioni si rivela solo se la rete è intatta. Già una volta ci siamo spinti troppo oltre e la rete ha deciso di eliminarci. Per il momento, c'è una tregua. A qualsiasi decisione arrivino gli yrr, noi faremmo bene a renderla il più duratura possibile. Perché il trucco di Karen non funzionerà una seconda volta. Oggi, nell'anniversario del naufragio, apro un giornale e leggo: «Gli yrr hanno cambiato il mondo per sempre.» Lo hanno fatto davvero? Hanno avuto una rilevante influenza sul nostro destino, ma di loro non sappiamo praticamente nulla. Crediamo di conoscere la loro biochimica, ma ciò significa davvero conoscerli? Da allora non li abbiamo più visti.
Solo i loro segnali risuonano nel mare, incomprensibili perché non pensati per noi. Come fa una massa di gelatina a emettere suoni? Come li recepisce? Due domande tra le milioni che ci dovremmo porre. Le risposte spettano a noi. Solo a noi. Forse un'altra rivoluzione dell'umanità sarà in grado di conciliare le nostre costrizioni genetiche col nostro elevato sviluppo. Se vogliamo dimostrarci degni del regalo - il fatto che la Terra esiste ancora - non dobbiamo studiare gli yrr, ma noi stessi. Solo la consapevolezza della nostra origine, che abbiamo imparato a falsificare tra grattacieli e computer, c'indicherà la via per un futuro migliore. No, gli yrr non hanno cambiato il mondo. Ci hanno mostrato il mondo com'è. Nulla è più come prima. Anzi, no, una cosa è come prima. Fumo ancora. Cosa saremmo senza costanti? NOTA DELL'AUTORE Benché le vicende narrate in questo romanzo comprendano alcuni elementi di fantasia, esse sono tuttavia basate su solidi fatti scientifici. Le notazioni sulla geologia marina, sugli idrati di metano e sugli smottamenti sottomarini rispecchiano i risultati attualmente raggiunti dalle ricerche. Allo stesso modo, corrispondono alla realtà le descrizioni dei cetacei, del whale watching, del programma di addestramento della Marina americana, dei sonar, degli idrofoni e del sistema di satelliti. I batiscafi e i robot subacquei rispecchiano i più avanzati sviluppi tecnici raggiunti in questo campo da specialisti quasi esclusivamente americani. Ogni volta che l'acqua si tinge di blu, invece, è la fantasia a entrare in gioco. In relazione a questo, però, vorrei sottolineare che le congetture in ambito genetico sono state sempre elaborate in collaborazione con gli scienziati. Anche in questo ho sempre cercato di avvicinarmi il più possibile alla realtà. FRANK SCHÄTZING RINGRAZIAMENTI In pagine e pagine strapiene di sapere e scienza ci si deve aspettare l'in-
fluenza di molte persone intelligenti e infatti è così. In particolare, vorrei ringraziare: Prof. dott. Uwe A. O. Heinlein, Miltenyi Biotec, per gli insegnamenti sugli yrr, sui geni pensanti e per la saggezza trovata sul fondo di bicchieri ben riempiti. Dott. Manfred Reitz, Istituto per le biotecnologie molecolari di Jena, per lo sguardo in ciò che è extraterrestre e per l'ispirazione sul significato degli yrr. Hans-Jürgen Wischnewski, ex ministro della cooperazione economica, per il mezzo secolo in tre ore, la torta di semi di papavero e per l'accoglienza. Clive Roberts, managing director della Seaboard Shipping Co. Vancouver, per i consigli tecnici e paterni e «semplicemente per essere se stesso»! Bruce Webster, sempre della Seaboard Shipping Co., per il tempo, la pazienza e le ventisei risposte esaurienti a domande assurde. Prof. dott. Gerhard Bohrmann, centro di ricerca Geomar, Kiel e Università di Brema, per i suggerimenti sugli idrati e un ruolo di primo piano non solo nella scienza. Dott. Heiko Sahling, Università di Brema, per i vermi fissati, passati, per la loro autopsia e per la partecipazione. Prof. dott. Erwin Suess, centro di ricerca Geomar, Kiel, per una soleggiata pausa di mezzogiorno negli abissi marini e per la presenza letteraria. Prof. dott. Christopher Bridges, Università di Düsseldorf, per diversi momenti illuminanti nelle profondità oscure. Prof. dott. Wolfgang Fricke, Technische Universität Hamburg Harburg, per due giorni estremamente costruttivi trascorsi con finalità distruttive. Prof. dott. Stefan Krüger, Technische Universität Hamburg Harburg, per l'instancabile impegno nell'impedire errori nell'affondamento delle navi. Dott. Bernhard Richter, dei Lloyd tedeschi, per la presenza telefonica durante il picco della catastrofe col dottor Fricke. Prof. dott. Giselher Gust, Technische Universität Hamburg Harburg, per le riflessioni critiche e una vera corrente circumpolare d'idee. Tobias Haack, Technische Universität Hamburg Harburg, per il lavoro della sua testa nel ventre della nave. Stefan Endres, per il whale watching, i veri indiani e i grandi animali che saltano contro i piccoli aerei. Torsten Fischer, Alfred-Wegener-Institut, Bremerhaven, per la possibili-
tà di visitare all'ultimo momento una nave oceanografica. Holger Fallei, per una spedizione con la Polarstern in un bacino asciutto, che era tutto tranne che asciutto. Dott. Dieter Fiege, Forschungsinstitut Senckenberg, Francoforte, per una giornata in cui il verme era in forma perfetta! Björn Weyer, cui si deve la protezione della flotta, per la sua disponibilità a collaborare col nemico, ovviamente solo letterario. Peter Nasse, per i preziosi contatti, la costante disponibilità e per il piacere di vederlo un giorno sullo schermo. Ingo Haberkorn, Dipartimento federale anticrimine, Berlino, per la profonda capacità di gestione degli atti di violenza e dei delitti non umani. Uwe Steen, pubbliche relazioni della polizia di Colonia, per il contributo alla questione di chi, quando, dove e come si reagisce al tempo degli yrr. Dieter Pittermann, per la via di comunicazione con la piattaforma galleggiante, con la parte scientifica di Trondheim e per «Håper det er til hjelp». Tina Pittermann, per il contatto col papà, per i libri della nonna e per la paziente attesa dei libri della nonna. La nonna di Tina, per i libri sopraccitati. Paul Schmitz, per le fotografie, per il trapianto dei peli della barba, per due anni di rinuncia alla musica e l'incrollabile sapienza. Che non invecchi mai! Jürgen Muthmann, per lo sguardo nell'esistenza dei pescatori peruviani, per la pazienza con lo scrittore musone e per l'intima vicinanza nonostante la grande distanza. Olaf Petersenn, lettore di mia fiducia presso la casa editrice Kiepenheuer & Witsch e per il tanto agognato arricchimento del mio vocabolario con la parola «cancellare». Helge Malchow, editore e curatore, casa editrice Kiepenheuer & Witsch, per la fiducia e per il libro più lungo nella storia della casa editrice. Yvonne Eiserfey, che senza dubbio ha dato uno sguardo al libro per le MinuscOle e le mAiuScole. Jürgen Milz, mio amico e compagno, per la comprensione e per l'arte di non far affondare una piccola nave nonostante la violenta tempesta. Grazie a tutta la casa editrice Kiepenheuer & Witsch, al marketing e alla pubblicità, alla stampa, alla distribuzione, alla redazione, alla produzione, alla segreteria e un grande ringraziamento ai servizi esterni.
Ringrazio di cuore anche Norbert Burger, per tanti anni sindaco di Colonia, per il ruolo nei contatti con Hans-Jürgen Wischnewski; Hans-Peter Buschheuer per la sua lettera a Ben Wisch; Claudia Dambowy per l'assistenza medica; Jürgen Streich per il materiale su Greenpeace; Hejo Emons per i video sugli abissi marini, appassionanti e ricchi d'informazioni, Jochen Cerhak per altri video simili ai precedenti e in particolare Wahida Hammond per la grande, grande amicizia che l'ha portata a farmi tantissimi piaceri! Un ringraziamento del tutto particolare è dovuto a Brigitte e Rolf Schätzing, i miei genitori, che sono sempre stati a mia disposizione, che mi hanno sempre guidato nelle acque tranquille e in quelle agitate. Anche con la nebbia peggiore, sapevano sempre come tenere la rotta. Nel grande movimento circolare della natura, la fine è identica all'inizio. Seguendo questa bellissima logica, i ringraziamenti cominciano davvero solo alla fine. Così come le mie giornate cominciano, finiscono e ricominciano con la cosa più bella che ci si possa augurare: un grande amore. Alcuni dicono che Sabina sia la mia editor segreta, altri la definiscono semplicemente il mio colpo di fortuna. Hanno tutti ragione. Ho scritto questo libro per te, dolce tesoro, pensando a quello che c'è scritto sul pezzo di sottobicchiere che tieni nel portafoglio: Alles... und meer! FINE