Burton E. Stevenson
Il Cassetto Segreto Mistery of the Boule Cabinet © 1996 Il Giallo Economico Classico - N° 121 - 29 ...
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Burton E. Stevenson
Il Cassetto Segreto Mistery of the Boule Cabinet © 1996 Il Giallo Economico Classico - N° 121 - 29 giugno 1996
Personaggi principali Lester Godfrey Philip Vantine Grady Pigot
avvocato giornalista collezionista di mobili antichi capo della polizia di New York funzionario della Sùreté
1. Le fantasie di un collezionista — Pronto — dissi staccando il ricevitore del telefono posto sulla scrivania. — Il signor Vantine desidera parlarvi, signor avvocato — disse la voce dell'inserviente dal piccolo centralino. — Datemi la comunicazione. Udii lo scatto dei contatti e un istante dopo la voce di Philip Vantine domandò: — Siete voi, Lester? — Sì. Finalmente siete di ritorno! — Sono arrivato ieri. Volete venire a pranzo da me oggi? — Con piacere — risposi e parlavo sinceramente poiché avevo molta simpatia per Philip Vantine. — Allora vi aspetto all'una e mezzo. Ed ecco come accadde che un'ora dopo io mi trovassi in Washington Square, diretto alla vecchia dimora di Vantine. La casa di Vantine era l'unica del quartiere che avesse resistito agli assalti degli intraprendenti costruttori di grattacieli. Tutt'intorno erano sorti innumerevoli edifici colossali che avevano sostituito quelli antichi; soltanto qua e là, la dimora di qualche famiglia dell'aristocrazia di New York resisteva come una retroguardia cocciuta e disperata che sfidava l'avanzata del nemico. Philip Vantine era uno di quelli che avevano puntato i piedi contro il Burton E. Stevenson
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progresso. Era nato nella casa dove viveva tuttora e dichiarava che ci sarebbe morto. Poteva fare ciò che meglio gli piaceva poiché non era sposato e viveva solo. Viaggiava spesso e appunto da uno di questi suoi viaggi era appena ritornato. Vantine era sulla cinquantina, possedeva un patrimonio considerevole, era un conoscitore d'arte e faceva collezione di mobili antichi. Era un po' eccentrico, o almeno così lo consideravano in società per il semplice fatto che non aveva mai voluto sposarsi. L'ufficio legale di cui io facevo parte vantava appunto Vantine tra i suoi clienti e la sua pratica era proprio nelle mie mani. Il lavoro non era molto arduo e consisteva per lo più nell'esazione degli affitti, nella stesura di qualche contratto, nell'investimento di fondi e nella sistemazione di piccole divergenze con gli inquilini... tutte cose che il cliente lasciava a nostra discrezione. Di quando in quando però bisognava consultarlo in merito a questioni di maggior importanza, oppure ottenere la sua firma per qualche documento ed ero sempre io che andavo da Vantine, e terminati i discorsi inerenti al lavoro, facevo invariabilmente una bella chiacchierata con lui. Vantine era un conversatore molto interessante; conosceva bene il mondo e gli uomini e aveva una cultura eccezionale. Mi venne incontro mentre consegnavo al suo domestico il cappello e il bastone e ci stringemmo la mano cordialmente. Ero lieto di vederlo e credo che anche lui mi vedesse volentieri. — Evidentemente il viaggio vi ha fatto bene — osservai notando il suo viso abbronzato. — Sì, non mi sono mai sentito tanto bene. Ma venite... parleremo a tavola. Dovrò anche affidarvi un incarico. Mi condusse al piano superiore nella sua biblioteca dove una tavola era stata preparata per due accanto alla finestra. — Faccio servire il pranzo qui perché è l'unica stanza che sia rimasta piacevole nella casa. Se non fossi proprietario di quell'appezzamento di terreno sul quale guardano le finestre da questo lato, avrei già dovuto andarmene, così invece posso tenere i grattacieli abbastanza lontani per godere un po' di sole di quando in quando. Ho dovuto mettere le doppie finestre nella mia camera da letto per attutire il frastuono della via, ma credo di poter tenere duro. — Capisco benissimo che rifuggiate dal trasferirvi in una casa nuova — dissi. Vantine fece una smorfia. — Non potrei sopportare una casa nuova. Sono abituato a questa... la Burton E. Stevenson
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conosco.. . so dove sono le cose... insomma ci sono cresciuto. Quando un uomo invecchia diventa sempre più abitudinario. D'altra parte non mi sarebbe facile adattare i miei mobili ad una casa nuova... Si fermò e si guardò attorno. Ogni mobile era l'opera di un artista. — Suppongo che abbiate trovato qualche pezzo nuovo durante il viaggio — dissi. — Non ritornate mai a mani vuote... — Sì, ho trovato qualcosa... ed è proprio di questo che desidero parlarvi. Ho portato sette od otto "pezzi" e ve li mostrerò fra breve. Sono tutti molto belli e ce n'è uno che è uno splendore... Anzi è un'opera d'arte unica. Però, disgraziatamente, non è mio. — Non è vostro? — No, non so nemmeno di chi sia. Se lo sapessi, andrei dal proprietario e lo pregherei di vendermelo. Ecco quel che vorrei che voi faceste per me. Si tratta di uno scrigno di Boule, il famoso ebanista francese, ed è il lavoro più squisito che abbia mai visto. — Di dove viene? — domandai molto meravigliato. — Viene da Parigi... è arrivato al mio indirizzo, anzi l'unica spiegazione a cui possa pensare è questa: lo spedizioniere a Parigi ha commesso un errore; ha mandato a me uno scrigno che apparteneva a qualcun altro e ha mandato il mio all'altra persona. — Allora ne avevate comperato uno? — Sì, e quello non è comparso. Ma al paragone di questo è un mobile dozzinale. Il mio domestico, Parks, ha ritirato tutti gli oggetti ieri in dogana e siccome nella lista delle merci dirette a me c'era effettivamente uno scrigno, io ho scoperto l'errore soltanto stamane quando i mobili sono stati portati qui e li ho tolti dall'imballaggio. — Alla dogana non hanno tolto gli imballaggi? — No. Da molti anni io ricevo continuamente dall'estero pezzi per la mia collezione e i funzionari della dogana hanno finito per fidarsi di me. — E' un privilegio raro — dissi. — So che in questi ultimi tempi la vigilanza è divenuta più che mai severa. — Già, l'ho sentito dire... Avanti — soggiunse udendo bussare alla porta. Il domestico entrò. — Un signore chiede di vedervi, signor Vantine — disse e porse un biglietto da visita al padrone. Vantine vi gettò un'occhiata e sembrò stupito. — Non lo conosco. Che cosa vuole? — Vuole parlarvi... dice che si tratta di una cosa urgente. — E non vi ha detto altro? Burton E. Stevenson
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— Nossignore... Non ho capito bene... — Come sarebbe a dire, non avete capito bene? — Ecco signore, dev'essere un francese e non parla bene l'inglese. Non è una persona distinta, signore... sembra uno di quegli sfaccendati che si vedevano sempre fuori dei caffè, lungo i boulevard, nel pomeriggio... Un'idea parve balenare a Vantine il quale guardò di nuovo il biglietto poi rimase un secondo a tamburellare sulla tavola. — Devo metterlo fuori, signore? — domandò Parks. — No, ditegli di aspettare — rispose Vantine e gettò il biglietto sulla tavola. — Vi assicuro, Lester, che quando sono sceso stamane e ho visto quello scrigno non credevo ai miei occhi — soggiunse Vantine quando Parks si fu ritirato. — Credevo di conoscere bene i mobili d'arte, ma raramente mi è capitato di vedere un esemplare simile. Il più bello scrigno che io abbia mai visto è al Louvre. Si trova nella sala Luigi XIV, a sinistra entrando. Apparteneva proprio a re Luigi. Ebbene, non ne posso essere assolutamente certo senza aver proceduto ad un esame molto minuzioso, ma ritengo che lo scrigno del Louvre, bello com'è, sia soltanto il negativo di questo. Tacque, mi guardò con gli occhi scintillanti d'entusiasmo, e io dissi: — Temo di non comprendere il vostro gergo da collezionista. Che cosa intendete dire per "negativo"? — Ora vi spiego: i mobili di Boule sono per solito di ebano intarsiato di tartaruga, con incrostazioni di arabeschi in metalli di varie specie. L'incrostazione doveva essere molto esatta e per ottenere l'esattezza l'artista faceva combaciare assieme due lastre di eguali dimensioni e di eguale spessore, una di metallo, l'altra di tartaruga, tracciava il disegno su una delle due, poi le tagliava entrambe assieme. Ne risultavano due combinazioni, quella originale che aveva il fondo di tartaruga e le applicazioni di metallo, e l'altra, quella che noi chiamiamo "negativo", col fondo in metallo e gli arabeschi in tartaruga. L'originale era in realtà quello che l'artista aveva disegnato e di cui aveva studiato gli effetti; il negativo invece era semplicemente un prodotto casuale. Avete capito? — Sì, credo di aver capito — dissi. — Sarebbe come se Michelangelo tracciando i suoi putti in bianco su nero avesse messo una carta carbone sotto il foglio e ne avesse fatto nello stesso tempo copia in nero su bianco. — Precisamente. Ed è l'originale che ha il vero valore artistico. S'intende che il negativo è spesso molto bello, ma non raggiunge mai la bellezza dell'originale. — Lo capisco. Burton E. Stevenson
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— Ed ora, Lester, se la mia supposizione è esatta... e il grande Luigi si accontentò del negativo di questo scrigno, a chi credete che appartenesse l'originale? Mi parve di comprendere a cosa volesse arrivare. — Forse a una delle sue amanti? — Sì, e credo di sapere anche a quale... apparteneva a Madame di Montespan. Vantine si appoggiò all'indietro contro lo schienale della seggiola e mi guardò come per vedere l'effetto delle sue parole. — Però non potete esserne certo — obiettai. — Non è facile procurarsi le prove — ammise subito. — Ma c'è qualche buon indizio. L'artigiano Boule e la Montespan erano in auge nello stesso tempo; nulla di più naturale, quindi, che la grande favorita ordinasse al grande ebanista uno scrigno di quel genere. — Ma diamine, Vantine, non sapevo che foste tanto romantico! — esclamai. Arrossì alle mie parole e mi accorsi che aveva parlato proprio sul serio. — I collezionisti si lasciano portare molto lontano dalle loro manie, talvolta — disse. — Però in questo caso credo di sapere quel che dico. Procederò a un esame minuzioso dello scrigno appena mi sarà possibile. Forse troverò qualcosa... ci dovrebbe essere un monogramma da qualche parte. Ora vorrei che telegrafaste ai miei fornitori, Armand e Fils, rue du Tempie, per sapere a chi appartiene questo scrigno, dopo di che vi incaricherò di effettuare l'acquisto per me. — Forse il proprietario non vorrà vendere — obiettai. — Ma certo che vorrà vendere. Tutto si può comprare... è questione di prezzo. — Volete dire che comprerete quello scrigno, a qualunque prezzo? — Proprio così. — Ma senza dubbio ci sarà un limite. — Praticamente non c'è limite. — Mi direte almeno da che cifra posso partire — insistetti. — Io non so nulla del valore di un oggetto di quel genere. — Ebbene, potete partire da diecimila franchi. Non dobbiamo mostrarci troppo interessati nella cosa. Appunto per questo desidero trattare per tramite vostro, perché se trattassi direttamente potrei tradire la mia avidità di collezionista. — Mi avete detto il punto di partenza... e il punto d'arrivo? — Vi ho già detto che non c'è limite. S'intende che in realtà il limite c'è, Burton E. Stevenson
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dato che il mio denaro non è inesauribile. Però non credo che dovremmo andare oltre i cinquecentomila franchi. Mi lasciai sfuggire un'esclamazione di sgomento. — Sareste disposto a pagare venticinquemila dollari per quello scrigno? Vantine annuì. — Sarei disposto a pagarlo anche di più. Se il proprietario non accetta mezzo milione di franchi fatemelo sapere prima d'interrompere le trattative. Non risposi. Mi limitai a guardarlo e lui rise incontrando i miei occhi. — Vedo che mi giudicate un po' matto, Lester. Ma venite ad ammirare il pezzo. Uscimmo dalla stanza e scendemmo le scale, ma quando fummo nel vestibolo, Vantine si fermò come perplesso. — Forse sarà meglio che prima riceva quel tale che mi aspetta. Se volete accomodarvi nella sala da musica, troverete qualche quadro nuovo... vi raggiungerò tra pochi minuti. Ero appena entrato nella sala da musica quando udii un'esclamazione brusca e subito dopo la voce di Vantine che mi chiamava. — Lester! Lester! venite subito! Attraversai l'atrio e passai nella stanza in cui l'avevo visto entrare. Era a due passi dalla porta. — Guardate — disse con voce alterata e mi additava una massa oscura che giaceva al suolo. Feci un passo di fianco per vedere meglio; allora sussultai poiché la massa che giaceva al suolo era il corpo di un uomo.
2. La prima tragedia Mi bastò uno sguardo per convincermi che l'uomo era morto. Non ci poteva essere vita in quel volto livido e in quegli occhi vitrei. — Non lo toccate — dissi, vedendo che Vantine si faceva avanti. — È troppo tardi. Lo trassi in disparte e rimanemmo ancora un momento perplessi e sconvolti come accade quando ci si trova improvvisamente a contatto con la morte. — Chi è? — domandai alla fine. — Non lo so. Non l'ho mai visto prima d'ora — rispose Vantine, poi si Burton E. Stevenson
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avvicinò a una parete dove si trovava un campanello e suonò con violenza. Il domestico apparve. — Parks, che cosa è accaduto qui dentro? — Che cosa è accaduto, signore? — rispose Parks meravigliato. — Non so proprio che... Poi il suo sguardo si posò sul corpo raggomitolato e lui rimase come impietrito, incapace di parlare. — Ebbene? — incalzò Vantine aspramente. — Chi è costui? Come mai si trova qui? — Ma... ma... è l'uomo che aspettava di vedervi, signore — balbettò Parks. — Vi rendete conto che è morto? — Quando l'ho visto per l'ultima volta era certamente vivo — rispose Parks, ritrovando un poco del suo sangue freddo. — Forse è venuto qui perché aveva bisogno di un posticino tranquillo per togliersi la vita. Mi sembrava un po' eccitato, a dire il vero. — Può darsi che sia come dite voi — fece Vantine. — Però avrei preferito che scegliesse un altro posto. Dovremo chiamare la polizia, non è vero, Lester? — Sì, e bisognerà notificare la cosa al magistrato. Lasciate fare a me. Chiuderemo questa stanza e nessuno dovrà lasciare la casa fino all'arrivo degli agenti. — Benissimo — approvò Vantine, lieto di lasciare a me tutte le pratiche. — Vado ad avvertire gli altri domestici. Si allontanò mentre io andavo al telefono e mi mettevo in comunicazione con la centrale di polizia. Un quarto d'ora dopo udii suonare il campanello di strada e Parks andò ad aprire. Quattro uomini stavano sulla soglia. — Ehilà, Simmonds — dissi, riconoscendo il sergente che aveva concorso a chiarire il mistero di palazzo Lincoln. Dietro a lui veniva il magistrato Goldberg che avevo incontrato in due casi precedenti, e, a fianco del magistrato, scorsi il volto malizioso e sorridente di Godfrey, il famoso cronista del Record. Il quarto era un agente in uniforme che dietro ordine di Simmonds si pose di guardia alla porta. — Stavo proprio chiacchierando con Simmonds quando avete telefonato — mi spiegò Godfrey mentre mi stringeva la mano — e ho pensato di accompagnarlo. Di che si tratta? — Niente di tenebroso, credo. A giudicare dalle apparenze, uno sconosciuto è entrato con la scusa di parlare con Vantine e si è tolto la vita — risposi. Burton E. Stevenson
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Simmonds, Goldberg e Godfrey passarono nella stanza. Io li seguii e chiusi l'uscio. — Nulla è stato toccato — dissi. — Nessuno si è avvicinato al corpo. Simmonds fece un cenno d'approvazione e si guardò intorno; ma gli occhi di Godfrey erano fissi sul volto del morto. Goldberg s'inginocchiò accanto al cadavere, esaminò gli occhi e passò le dita sul polso sinistro del disgraziato, poi si rialzò e rimase per qualche secondo a fissare il corpo. Seguendo la direzione dei suoi sguardi ne osservai a mia volta la posizione meglio di quanto non avessi potuto fare al momento in cui Vantine e io avevamo fatto la macabra scoperta. Giaceva sul fianco destro, anzi quasi bocconi, col braccio destro sotto il corpo e quello sinistro teso al disopra della testa; la mano sembrava ancora annaspare. Le gambe erano rattrappite, il volto era orribilmente contratto e aveva una tinta paonazza come se gli si fosse congelato il sangue improvvisamente. Gli occhi erano spalancati e la loro fissità vitrea accentuava l'espressione di terrore e di sofferenza dei lineamenti. Non era uno spettacolo piacevole e dopo un momento distolsi gli occhi con un brivido di ripugnanza. Il magistrato lanciò un'occhiata a Simmonds. — Non credo che vi sia dubbio sulle cause della morte — disse. — Veleno, naturalmente. — Lo credo anch'io — assentì il sergente. — Ma di quale genere? — domandò Goldberg. — Occorrerà l'esame necroscopico per stabilirlo — fece Goldberg chinandosi di nuovo sul cadavere. — A dire il vero i sintomi non sono consueti. Godfrey scrollò le spalle. — È quello che penso anch'io. — Che cosa ci potete dire in proposito, avvocato Lester? — mi domandò Goldberg. Gli dissi tutto quello che sapevo... come Parks avesse annunciato l'arrivo del visitatore, come Vantine e io fossimo scesi insieme, come il mio amico mi avesse chiamato d'urgenza e infine come Parks avesse riconosciuto il cadavere per quello del visitatore. — Avete formulato qualche ipotesi? — domandò ancora Goldberg. — Ecco, noi avevamo pensato che la visita fosse un semplice pretesto... che quell'uomo non cercasse altro che un posto tranquillo dove togliersi la vita. — Quanto tempo è passato dal momento in cui Parks ha annunciato il Burton E. Stevenson
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visitatore e quello in cui voi e il signor Vantine siete scesi? — Mezz'ora circa. — Vorrei interrogare Parks — disse il magistrato. Aprii l'uscio e chiamai il cameriere che stava seduto sul primo gradino della scala. Goldberg lo guardò con occhio penetrante quando entrò, ma Parks non era certo il tipo da destare sospetti. Era stato con Vantine otto o dieci anni ed era il prototipo del domestico capace e fedele. — Conoscete quest'uomo? — domandò Goldberg additando il cadavere. — Nossignore. L'ho visto per la prima volta un'ora fa circa, quando Rogers mi ha chiamato per avvertirmi che c'era qualcuno che voleva parlare col signor Vantine. — E che cosa voleva costui? — Non lo so, signore. Sapeva appena qualche parola d'inglese... m'è parso francese. Goldberg diede un'altra occhiata al cadavere, poi disse: — Continuate. — Del resto era così eccitato che credo non trovasse più nemmeno quelle poche parole d'inglese che sapeva. — Che cosa vi ha fatto pensare che fosse eccitato? — Il modo in cui ha domandato di vedere il padrone... tutto il suo contegno.. . i suoi occhi specialmente. Ecco perché penso che sia venuto qui soltanto per togliersi la vita. Ho avuto la tentazione di metterlo fuori senza nemmeno disturbare il signor Vantine e mi dispiace non averlo fatto; ho finito per portare il suo biglietto da visita al padrone il quale ha detto che sarebbe sceso di lì a poco. Poi Rogers e io siamo ritornati nella dispensa per pranzare e ci siamo rimasti finché abbiamo udito suonare il campanello; allora sono venuto qui, in questa stanza, e ho trovato il signor Vantine. — Dunque voi e Rogers ve ne siete andati e avete lasciato lo sconosciuto qui solo? — La dispensa è in fondo al corridoio che dà nell'atrio, signore. Abbiamo lasciato l'uscio aperto in modo da poter vedere quasi tutto l'atrio e la porta di strada. Se quest'uomo fosse uscito dalla stanza in cui si trovava, l'avremmo visto. — E non è mai uscito? — Nossignore. — E nessuno è entrato nel frattempo? — Oh, no. La porta di strada è chiusa da una serratura automatica e non Burton E. Stevenson
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la si può aprire dall'esterno senza chiave. — Cosicché voi siete certo che nessuno sia entrato o uscito per la porta principale mentre voi e Rogers eravate a tavola? — Non solo dalla porta principale, ma neppure da quella posteriore; per uscire dalla porta secondaria bisogna passare dalla dispensa. — Dov'erano gli altri domestici? — La cuoca era in cucina; quanto alla cameriera, oggi è la sua giornata di libertà. Il magistrato tacque. Godfrey e Simmonds avevano ascoltato entrambi l'interrogatorio, senza però rimanere inoperosi. In silenzio avevano fatto il giro della stanza, avevano guardato fuori da una porta che comunicava con un locale attiguo, avevano verificato i serramenti delle finestre e infine avevano esaminato minutamente il tappeto. — A che cosa è adibita la stanza attigua? — domandò Godfrey additando la porta di comunicazione. — Per ora funge da magazzino, signore — rispose Parks. — Il signor Vantine è appena ritornato dall'Europa e ha ammucchiato là dentro tutta la roba che ha acquistato durante il viaggio. — Basta così — fece Goldberg dopo un momento d'esitazione. — Chiamate il signor Vantine, per cortesia. Parks uscì e un istante dopo Vantine apparve. Confermò esattamente il racconto fatto da me e dal domestico, ma aggiunse un particolare. — Ecco il biglietto da visita di quest'uomo — disse e porse il cartoncino a Goldberg che dopo averlo guardato lo passò a Simmonds. — Questo non ci dice molto — osservò quest'ultimo e a sua volta diede il biglietto a Godfrey. Io guardai al disopra della spalla del giornalista e lessi: TEOPHILE D'AURELLE — Ci conferma che lo sconosciuto è un francese — rispose Godfrey. — Avete detto di non conoscerlo, è vero, signor Vantine? — domandò il magistrato. — Mi sembra proprio di non averlo mai visto in vita mia — rispose l'interpellato. — Comunque il nome mi giunge nuovo. Goldberg tornò ad impossessarsi del biglietto e se lo mise in tasca. — E ora potremmo portare il cadavere su quel divano accanto alla finestra e procedere a un esame degli indumenti. Il morto era piuttosto esile cosicché Simmonds e Goldberg poterono Burton E. Stevenson
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sollevarlo senza difficoltà e trasportarlo sul divano. Vidi che Godfrey scrutava il tappeto. — C'è una cosa che mi piacerebbe sapere — disse dopo un momento. — Se costui si è avvelenato, da dove ha preso il veleno? Ci dovrebbe essere una boccetta, oppure una cartina... qualcosa, insomma... — Forse l'ha in mano — suggerì Simmonds e alzò la mano destra del morto che penzolava fuori dal divano. Allora la luce cadde in pieno sul dorso di quella mano inerte e il sergente emise un grido. — Guardate, guardate! — disse e reggendo per il polso il braccio del morto si scostò perché tutti potessimo vedere. La carne era gonfia e violacea. — Guardate — ripeté Simmonds. — Qualcosa lo ha ferito alla mano. Così dicendo indicava poco sopra le nocche due incisioni profonde dalle quali erano uscite alcune gocce di sangue, ora coagulate. Con un'esclamazione di sorpresa, Godfrey si chinò un istante sulla mano ferita, poi si volse a noi. — Quest'uomo non si è avvelenato — dichiarò. — È stato ucciso.
3. La mano ferita — È stato ucciso — ripeté Godfrey in tono convinto. Tutti rimanemmo in silenzio fissando come affascinati la mano che Simmonds continuava a reggere sotto i nostri occhi... fissando quelle piccole ferite circondate da un ematoma diffuso. Poi Goldberg, traendo un profondo sospiro, espresse il sospetto che aveva attraversato anche la mia mente. — Diavolo, si direbbe che sia stato morso da un rettile! Infatti quelle due piccole incisioni che distavano l'una dall'altra poco più di un centimetro avrebbero potuto benissimo essere provocate dai denti di un serpente. La rapida occhiata che tutti gettammo attorno fu tanto involontaria quanto il brivido che ci corse per la schiena; del resto Godfrey e io... e anche Simmonds, avevamo un'attenuante, poiché tempo addietro avevamo fatto conoscenza con un rettile velenoso nel corso di un'avventura che non avremmo mai dimenticato. Ci sorprendemmo l'un l'altro e sorridemmo impacciati. Burton E. Stevenson
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— No, non credo che si tratti di un serpente — disse Godfrey e si chinò ancora sulla mano. — Annusate, signor Goldberg. Il magistrato avvicinò il naso alla mano e fiutò. — Odore di mandorle amare! — esclamò. — Il che significa acido prussico — soggiunse Godfrey e tacque un momento continuando a fissare la mano. Anche noi la fissavamo e credo che tutti ci lambiccassimo il cervello per trovare una possibile ipotesi. — Naturalmente potrebbe darsi che l'uomo si sia prodotto da solo le ferite __mormorò Godfrey come parlando a se stesso. Goldberg sogghignò. Era irritato trovandosi di Ironie a un problema tanto incomprensibile. — Non è certo normale che un uomo si tolga la vita straziandosi una mano con una forchetta o con qualcosa di simile. — È vero — assentì Godfrey in tono pacato. — Del resto devo farvi rilevare che non possiamo ancora partire dal preconcetto che si tratti di un suicidio. Certo è che, comunque stiano le cose, non siamo di fronte a una faccenda normale. Il magistrato sogghignò di nuovo ironicamente. — S'è mai visto un cronista del Record che trovi normale una qualsiasi faccenda? — domandò. Era un colpo ben diretto poiché i dirigenti del Record consideravano degne di essere stampate soltanto le notizie strane e sbalorditive, cosicché i redattori si sforzavano di fare apparire strano e sbalorditivo tutto ciò che capitava loro sotto mano, sfruttando talvolta particolari che avevano una scarsa attinenza col fatto principale e persino, temo, inventando tali particolari quando non c'erano. Godfrey stesso era stato accusato più di una volta di avere un'immaginazione troppo fertile. Forse se n'era reso conto anche lui quando, parecchi anni prima, aveva lasciato il corpo di polizia per darsi al giornalismo. Quel che poteva costituire uno svantaggio nella sua precedente professione, era invece una qualità necessaria nella nuova attività. Aveva infatti avuto un gran successo. Fra me e Godfrey si erano stabiliti rapporti d'amicizia fin dal tempo in cui c'eravamo trovati a collaborare per la soluzione del caso Holladay ed io ammiravo sinceramente la sua intelligenza, il suo acume e il suo sangue freddo. Si serviva della propria immaginazione in un modo che spesso mi faceva pensare che la polizia stessa avrebbe ottenuto migliori risultati se i suoi funzionari avessero avuto la stessa dose di fantasia. Del resto avevo notato che molti funzionari si valevano con piacere del suo aiuto, mentre la Burton E. Stevenson
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sua qualità di ex agente lo metteva in una posizione privilegiata e gli consentiva di penetrare dove non era ammessa la presenza degli altri giornalisti. Ricevette senza adirarsi la frecciata di Goldberg e rispose in tono bonario: — Dobbiamo pur vivere anche noi, non vi pare? Ci barcameniamo il più onestamente possibile. E voi cosa ne pensate. Simmonds? — Credo che quelle incisioni sulla mano siano dovute a un incidente — rispose il sergente che se possedeva dell'immaginazione non la lasciava mai intravedere. — Possono essere state prodotte da dieci diverse cause. Forse il morto è andato a sbattere con la mano contro qualcosa nel cadere... forse anche si tratta soltanto di due vescichette da ustione che sono state forate apposta. — Che cosa ha provocato la morte, allora? — domandò Godfrey. — Il veleno... ma è nello stomaco. Vedrete che lo si troverà nello stomaco. — E che dite dell'odore di acido prussico? — insistette Godfrey. — Si sarà versato un po' di veleno sulla mano nel portarselo alla bocca. Forse aveva già quei tagli sulla mano e il veleno li ha infiammati. Può darsi che il morto soffrisse di qualche malattia del sangue... Goldberg fece un cenno d'approvazione e Godfrey lo guardò sorridendo. — È facile trovare spiegazioni, non è vero? — È certamente più facile trovare una spiegazione logica e semplice che non una arzigogolata e inverosimile... come quella di supporre che un uomo possa ucciderne un altro graffiandogli una mano — ribatté il magistrato in tono stizzoso. — Suppongo che voi siate convinto che costui è stato assassinato. È ciò che avete detto un minuto fa. — Forse ho avuto troppa fretta — ammise Godfrey e io mi accorsi che, quali che fossero le sue opinioni, aveva deciso di tenerle per sé. — Non formulerò alcuna ipotesi finché non avrò qualche dato preciso su cui basarmi. I fatti sembrano indicare che quest'uomo si è tolto la vita, ma se ha inghiottito dell'acido prussico, dov'è la boccetta? Non avrà inghiottito anche quella, suppongo. — Forse gliela troveremo addosso — suggerì Simmonds. A quelle parole Goldberg si ricordò di dover fare la perquisizione e si mise all'opera. I vestiti del morto erano grossolani e avevano un aspetto trasandato. C'era un portafoglio, nella tasca interna della giacca, che conteneva due banconote, una da dieci dollari e una da cinque, e in un borsellino, in una tasca dei pantaloni, c'erano ancora tre o quattro dollari in spiccioli. Burton E. Stevenson
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Nel portafoglio c'erano anche quattro o cinque biglietti da visita ognuno con un nome diverso. Nel verso di uno di questi era scritto a matita l'indirizzo di Vantine. Il morto non aveva addosso alcun documento, neppure una lettera, e le sue tasche non contenevano altro che i soliti oggetti che un uomo è solito portare con sé: un orologio di scarso valore, un temperino, un pacchetto di tabacco francese mezzo vuoto, una bustina di carta da sigarette, quattro o cinque chiavi unite da un anello, un fazzoletto di seta e forse qualche altra inezia che non ricordo. Comunque nulla che servisse a stabilire la sua identità. — Dovremmo telegrafare a Parigi — osservò Simmonds. — Non credo che vi sia dubbio sulla nazionalità. In un secondo tempo manderemo alla polizia francese una fotografia del morto. — Assieme a quella della sua ragazza — intervenne Godfrey. — La sua ragazza? Per tutta risposta Godfrey ci mostrò l'orologio che stava esaminando. Aveva aperto la cassa constatando che conteneva la fotografia di una donna dagli occhi neri arditi, dalle labbra carnose e dal volto di un ovale perfetto; era un volto tipicamente francese. — Se dovessi fare un'ipotesi, direi che è una cameriera — soggiunse Godfrey. — È abbastanza bella, ma non è più giovanissima. Probabilmente è una di quelle donne che sentendo fuggire la giovinezza si aggrappano al primo uomo che capita loro sottomano... — Suvvia — interruppe Goldberg — tenete i vostri epigrammi per il giornale. Qui ci occorrono dei fatti. Godfrey arrossì alquanto per quelle parole e depose l'orologio del morto. — A proposito di fatti — disse poi — ce n'è uno che forse vi è sfuggito e che prova oltre ogni dubbio che questo uomo non è entrato qui per caso. La sua visita aveva uno scopo e lui non è venuto per togliersi la vita. — Come fate a stabilirlo? — domandò il magistrato. Il giornalista prese il portafoglio del morto, lo aprì e ne trasse uno dei biglietti da visita. — Ecco — disse porgendolo all'altro. — Voi avete già visto che cosa sta scritto dietro questo biglietto... il nome del signor Vantine e il suo indirizzo. Questo prova che è venuto a cercare il signor Vantine in base a un programma prestabilito, no? — Credete forse che l'abbia ucciso il signor Vantine? — fece Goldberg in tono sarcastico. — No, non ne ha avuto il tempo — rispose Godfrey, poi, volgendosi al Burton E. Stevenson
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padrone di casa che ascoltava con aria perplessa soggiunse: — Voi capite, signor Vantine, che stiamo parlando in via teorica. Non avreste potuto uccidere quest'uomo poiché sappiamo da Lester che siete stato con lui di continuo dal momento in cui il visitatore è arrivato a quello in cui ne è stato scoperto il cadavere, eccezion fatta per i pochi secondi durante i quali Lester vi ha lasciato per ritirarsi nella sala da musica. Siete quindi fuori causa. — Grazie — rispose Vantine in tono asciutto. — Allora credete senza dubbio che sia stato Parks — insistette Goldberg. — Potrebbe darsi che sia stato Parks — assentì il giornalista. — Sciocchezze! — intervenne Vantine con impazienza. — Parks è al di sopra di ogni sospetto... si trova al mio servizio da otto anni. — Naturale che sono sciocchezze — disse Goldberg. — La prima sciocchezza è quella di credere che si tratti di un delitto. Costui si è tolto la vita. Sapremo le cause quando l'avremo identificato. Forse avrà avuto dei dispiaceri di cuore, oppure sarà stato semplicemente al verde... non ha certo l'aria facoltosa. — Telegraferò a Parigi — annunciò Simmonds. — Se è parigino potremo sapere ben presto chi è. — Fareste meglio a chiamare un'ambulanza per farlo trasportare all'obitorio — riprese Goldberg. — Forse là qualcuno verrà a identificarlo. Domani ci sarà la solita folla, poiché i giornali parleranno abbondantemente della faccenda... — Sul Record almeno ci sarà un resoconto completo — assicurò Godfrey e il magistrato soggiunse: — Fisserò la seduta per l'inchiesta a dopodomani. Manderò subito il perito per l'autopsia. Se c'è del veleno nello stomaco del cadavere lo scopriremo. Godfrey non parlò, ma io sapevo a che cosa pensava: pensava che se effettivamente il veleno esisteva, il recipiente che lo aveva contenuto non era ancora stato trovato. Senza dubbio lo stesso pensiero preoccupava Simmonds poiché, dopo essere andato a dar ordine al subalterno che stava fuori di chiamare l'ambulanza, ritornò e iniziò una minuta perquisizione della stanza servendosi della lampadina tascabile per illuminare gli angoli in ombra. Anche Godfrey compì una perquisizione, ma i risultati furono negativi per entrambi. Poi il giornalista esaminò la mano ferita senza curarsi dell'impazienza palese del magistrato e infine si diresse alla porta. — Ora me ne vado — disse. — Però m'interesserà molto conoscere le Burton E. Stevenson
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conclusioni dell'anatomo patologo, signor Goldberg. — Troverà il veleno nello stomaco, statene certo — rispose l'altro in tono deciso. — Può darsi — ammise Godfrey. — A questo mondo accadono molte cose strane. Sarete a casa questa sera, Lester? — Credo di sì — risposi. — Abitate ancora a palazzo Lincoln? — Sì... appartamento numero quattordici. — Forse verrò a farvi una visitina. Un momento dopo sentimmo la porta di strada che si chiudeva. — Godfrey è un bravo ragazzo — osservò il magistrato — ma è troppo romantico. Cerca un mistero in ogni delitto, mentre la maggior parte dei delitti costituisce soltanto una manifestazione di brutalità. Prendete questo caso, per esempio. Abbiamo qui un uomo che si è ucciso. Godfrey pretende di farci credere che la morte è dovuta a un graffio sulla mano. Diamine, non so proprio quale veleno possa uccidere un uomo così rapidamente... poiché costui dev'essere morto prima di poter uscire dalla stanza in cerca di soccorso. Se si tratta di un avvelenamento da acido prussico, deve averlo inghiottito. Bisogna notare che si trovava in questa stanza da appena una ventina di minuti e che era già morto quando il signor Vantine lo ha trovato. Non si muore così facilmente per un po' di veleno inoculato attraverso due scalfitture su una mano. Vi assicuro che non è facile ammazzare un uomo... è straordinario come lo spirito... o chiamatelo come volete... si aggrappa alla vita. — Come spiegate l'indirizzo sul biglietto, signor Goldberg? — domandai. — Secondo me, costui intendeva effettivamente parlare col signor Vantine; forse voleva chiedergli del denaro, ma mentre aspettava ha rinunciato, si è perso di coraggio e si è tolto la vita. L'indirizzo non influisce in alcun modo sull'ipotesi del suicidio. Vi dirò, avvocato, che se questa ipotesi non fosse esatta io mi troverei di fronte al caso più singolare che mai mi sia capitato di trattare. — Già, in tal caso ci si troverebbe in un vicolo cieco. Il campanello suonò con insistenza. — Ecco l'ambulanza — disse il magistrato. Due inservienti entrarono con una barella, vi adagiarono sopra il cadavere e lo portarono via. Goldberg raccolse gli oggetti che aveva tolto dalle tasche del morto e soggiunse: — Voi, signori, dovrete rendere la vostra testimonianza all'inchiesta Burton E. Stevenson
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ufficiale. Altrettanto dicasi per Parks e Roberts. Probabilmente sarà per dopodomani alle dieci di mattina, ma vi manderò una conferma per l'ora. Subito dopo Goldberg se ne andò. — Ed ora devo ritornarmene all'ufficio — dissi a Vantine. — Se tardo ancora finiranno per rivolgersi alla polizia per sapere dove sono andato a finire. Santo cielo! — esclamai dando un'occhiata al mio orologio. — Sono le quattro passate. — È troppo tardi per ritornare in ufficio — protestò Vantine. — Fareste meglio a salire con me e a bere qualcosa. E poi, ho bisogno di parlarvi. — Almeno telefonerò per far sapere che sono ancora vivo. Chiamai il numero dell'ufficio e tranquillizzai i miei colleghi sulla mia sorte. Devo ammettere che non sembravano molto angustiati. — Sento proprio il bisogno di mandare giù qualcosa che mi rianimi — dichiarò Vantine aprendo il mobile bar. — Servitevi. Voi forse siete abituato a queste cose, ma... — Abituato a trovarmi dei cadaveri sotto il naso quando meno me lo aspetto? — domandai sorridendo. — Diamine, non sono cose che accadono tanto di sovente come voi sembrate credere. — Ma ditemi, Lester, credete proprio che quel povero diavolo sia entrato in casa mia soltanto per aver un angolo tranquillo dove togliersi la vita? — No, non lo credo. — E allora perché sarebbe venuto? — Credo che l'ipotesi di Goldberg non sia da scartarsi a priori... secondo lui quel disgraziato aveva udito parlare di voi come di persona generosa ed è venuto a cercarvi con l'intenzione di chiedervi aiuto... poi durante l'attesa si è perso d'animo... — E si è ucciso? — completò Vantine. Esitai, lo stesso ero meravigliato di constatare come un forte dubbio si fosse insinuato nella mia mente. — Sentite, Lester — fece Vantine — se quello non si è ucciso, che cosa gli può essere successo? — Dio solo lo sa — risposi scoraggiato. — Mi sono rivolto questa domanda un milione di volte, senza trovare una parvenza di soluzione. Come ho detto a Goldberg, scartando la sua ipotesi ci si trova in un vicolo cieco. Comunque se c'è al mondo un uomo capace di penetrare il mistero, questo è Godfrey. Vantine sembrava profondamente turbato. Passeggiò per qualche minuto nervosamente per la stanza, poi mi si piantò davanti e fissandomi negli Burton E. Stevenson
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occhi mi domandò: — Accettereste forse l'ipotesi di Godfrey? Credete anche voi che quelle minuscole ferite sulla mano abbiano potuto causare la morte? — Sembra assurdo, non è vero? Eppure Godfrey è un tale prodigio, che... che... — Dunque ci credete! Pensai un momento prima di rispondere, poi dissi: — Ebbene, sì, credo che Godfrey abbia ragione. Vantine riprese a passeggiare per la stanza, con gli occhi fissi al suolo e la fronte corrugata. — Lester — disse a un tratto. — Ho la strana sensazione che lo scopo della visita di questo sconosciuto avesse in qualche modo attinenza con lo scrigno francese di cui vi ho parlato. Forse gli apparteneva. — Poco probabile — risposi ricordandomi dell'apparenza modesta del morto. — Comunque ricordo che l'idea mi è passata per la mente anche quando Parks mi ha portato il biglietto. Sarà stato perché stavamo parlando appunto dello scrigno e forse anche perché il nome che ho letto era francese... fatto sta che il sospetto mi è venuto e che appunto perciò ho detto al mio domestico di farlo aspettare. — Può darsi che ci sia qualcosa di vero nella vostra supposizione — dissi. — Però non capisco perché quell'uomo dovesse essere tanto eccitato. A proposito, non ho potuto spedire quel telegramma. — Lo spedirete questa sera. Sarà consegnato nella mattinata di domani. Ma non avete ancora visto lo scrigno. Venite ad ammirarlo. Scendemmo di nuovo le scale. Nell'atrio Parks ci venne incontro. — C'è fuori una delegazione di giornalisti, signore — disse. — Dicono che hanno bisogno di vedervi. Vantine fece un gesto d'impazienza. — Dite loro che rifiuto recisamente di riceverli e che proibisco ai miei domestici di lasciarsi intervistare. Se vogliono informazioni si rivolgano alla polizia. — Benissimo, signore — rispose Parks. E si allontanò sorridendo. Vantine passò nel salotto dove aveva trovato il cadavere dello sciagurato francese, poi nella stanza attigua. Cinque o sei mobili appena liberati dai loro involucri stavano in mezzo al locale, ma quantunque io non sia un intenditore in materia, Vantine non ebbe bisogno di additarmi lo scrigno di Boule. Dominava la stanza, per così dire, come Madame de Montespan aveva dominato, senza dubbio, la Corte di Versailles. Burton E. Stevenson
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Rimasi a lungo a guardarlo in silenzio: era davvero un capolavoro nel suo genere. Naturalmente la mia ammirazione di profano non aveva nulla a che fare con l'entusiasmo del collezionista. Vantine invece fissava quella rarità con occhi scintillanti; passò una mano sulla superficie arabescata del mobile quasi con reverenza e mi fece notare la grazia delle linee e l'armonia degli arabeschi come un critico d'arte potrebbe additare all'ammirazione di un profano le bellezze di un capolavoro dell'arte pittorica. Poi non trovando in me alcuna eco del suo entusiasmo si fermò di colpo. — Si direbbe quasi che non vi piaccia — mi disse guardandomi come una bestia rara. — Mi piace, ma non sono in grado di apprezzarlo nel suo giusto valore — risposi. — È colpa mia... manco di senso artistico. Mi parve quasi offeso e ben presto mi condusse fuori della stanza. — Ricordatevi, Lester, che non dovete risparmiare alcuno sforzo per assicurarmi la proprietà di quello scrigno — mi disse sulla porta. — Non lasciatevelo sfuggire. Parlo sul serio. — Non me lo lascerò sfuggire — promisi. — Fatemi sapere qualcosa non appena avrete notizie — soggiunse Vantine e dopo avergli dato ulteriori assicurazioni mi accomiatai da lui. Avevo avuto intenzione di tornare a casa a piedi, ma mi trovai nella Avenue proprio al momento della chiusura di alcuni negozi e i marciapiedi erano così affollati che rinunciai alla passeggiatina e chiamato un taxi mi accomodai sul morbido sedile con un sospiro di sollievo. Ero lieto di essere uscito dalla casa di Vantine; c'era qualcosa in quelle stanze che mi opprimeva e mi metteva a disagio. Mi domandai se Vantine fosse del tutto normale. Era mai possibile che un uomo che aveva la testa a posto fosse pronto a pagare mezzo milione di franchi per un mobile? Io conoscevo l'ammontare del patrimonio di Vantine; era cospicuo, ma venticinquemila dollari rappresentavano per lui più di un anno di rendita. Poi a un tratto risi tra me. Naturalmente Vantine doveva aver scherzato menzionando quella cifra. Senza dubbio si poteva comprare quello scrigno per un decimo, al massimo. In quel momento il taxi si fermò davanti a casa mia; pagai la corsa e salii nel mio appartamento.
4. La folgore Burton E. Stevenson
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Erano circa le otto della sera quando Godfrey bussò alla mia porta. Non appena lo vidi mi resi conto dal luccichio dei suoi occhi che aveva qualche novità. — Non posso fermarmi a lungo — disse. — Devo fare una scappata in ufficio per dare gli ultimi tocchi all'articolo. Tuttavia accettò il sigaro che gli offrivo e si sprofondò nella poltrona di fronte alla mia. Conoscevo bene Godfrey, perciò aspettai pazientemente che il sigaro fosse acceso a dovere, poi domandai timidamente: — Ebbene? — Sembra di essere ritornati ai bei tempi delle nostre grandiose indagini, non è vero, Lester? — disse il giornalista sorridendo. — Quante conferenze abbiamo tenuto in questa stanza? Quanti sigari vi ho fumato? — Troppo pochi in questi ultimi tempi — risposi. — Non vi vedevo da qualche mese. — Presto o tardi dovevo riapparire poiché a quanto pare avete la capacità di trovarvi coinvolto nei casi più interessanti. E devo dirvi questo, Lester: di tutti i casi che mi sono capitati tra le mani, ne ho trovati pochi che promettessero bene come questo. Potrebbe darsi che all'ultimo momento mi sia riservata una delusione, ma non credo... — Vi siete già dato da fare per sbrogliare la matassa? — Non sono stato inoperoso e finora sono soddisfatto di me stesso. L'anatomo patologo ha terminato l'autopsia mezz'ora fa. — E il risultato? — domandai. — Lo stomaco è assolutamente normale. Non vi è traccia di veleno di sorta. Si stiracchiò rovesciandosi all'indietro contro lo schienale della poltrona e soffiò alcuni cerchi di fumo verso il soffitto; rimase così per qualche minuto sorridendo con aria assente, poi mormorò: — Goldberg deve essere rimasto con un palmo di naso. — Ma si può sapere cos'ha Goldberg? Mi sembra stizzito contro di voi oggi. — Non c'è da meravigliarsi. Lui è una creatura di Grady e il nostro giornale sta conducendo una campagna accanita contro Grady. Quell'uomo non è adatto alla direzione del reparto investigativo... ha ottenuto la carica grazie alle aderenze politiche, ma è stupido e sospetto anche che non sia il funzionario incorruttibile che vuol sembrare. Il Record sta facendo fuoco e fiamme per farlo cadere. — Cosicché cadrà — commentai sorridendo. Burton E. Stevenson
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— Statene certo — assentì Godfrey con la massima serietà — e non passerà molto tempo. Frattanto io mi trovo intralciato nel mio lavoro di cronista giudiziario. Ma una volta rovesciato Grady tutto ritornerà a procedere a meraviglia. Le battaglie del Record con gli altri funzionari della polizia m'interessavano relativamente, perciò ritornai all'argomento che mi stava a cuore. — Sentite, Godfrey, se non si tratta di veleno, di che si tratta? — Si tratta di veleno eccome! — Inoculato sulla mano? Lui annuì. — Ma Goldberg dice che non vi è alcun veleno conosciuto che inoculato in quel modo possa agire tanto rapidamente. — Su questo punto Goldberg ha ragione — assentì Godfrey. — Si deve dunque trattare di un veleno ignoto. — Non sarà stato il morso di un serpente? — Oh, no, il morso di un serpente non ucciderebbe un uomo così alla svelta... nemmeno il morso di un un fer-de-lance. Quel disgraziato è caduto praticamente nel luogo dove è stato colpito. — E allora come si spiega? Godfrey si era rattristato. Non sorrideva più, anzi il suo viso aveva un'espressione severa. — Ci sono ancora molte cose da chiarire, Lester... e io mi sono prefisso di chiarirle tutte. L'enigma è interessante quanto oscuro. Una cosa è certa... quell'uomo è stato ucciso e non si è tolto la vita di sua volontà. In qualche modo alcune gocce di veleno sono state inoculate nel suo sangue da uno strumento simile a una siringa ipodermica, e quel veleno era così potente che ha causato quasi all'istante una paralisi cardiaca. Dopo tutto il fenomeno non è stato tanto singolare quanto può sembrare a prima vista. Il sangue che si trova nelle vene della mano può arrivare al cuore in quattro o cinque secondi. — Ma voi avete già detto che non c'è un veleno abbastanza potente per provocare simili effetti. — Ho detto che noi non ne conosciamo. Ma questo non significa nulla... Noi sappiamo, per esempio, che anticamente esistevano dei veleni assai più potenti di quelli che conosce la chimica moderna. Pensate a Caterina de' Medici! — Che cosa c'entra Caterina de' Medici? — Non c'entra per niente... voglio dire soltanto che quel che è stato fatto in altri tempi può essere fatto anche oggi. Le antiche cronache sono Burton E. Stevenson
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certamente esagerate, ma sembra certo che la regina di Navarra sia stata uccisa con un paio di guanti avvelenati, il duca d'Anjou col profumo di una rosa avvelenata e il principe di Porcian coi vapori di una lampada avvelenata. Il caso di cui ci stiamo occupando è meno straordinario di quelli. — È vero — ammisi e rimasi in silenzio preso da un senso di nausea poiché vi è qualcosa di rivoltante nell'avvelenatore. — Dopo tutto c'è una cosa che né voi né io, né alcuna persona ragionevole può credere — riprese Godfrey — ed è che quel francese sia venuto da Dio sa dove... da Parigi, forse... con l'indirizzo di Vantine in tasca, abbia trovato la casa e vi sia penetrato semplicemente per togliersi la vita. Doveva avere uno scopo per cercare il vostro amico e secondo me ha incontrato la morte mentre tentava di realizzare qualche suo piano. — Avete scoperto chi è? — No, negli alberghi non si è trovata alcuna segnalazione, il Console francese non ha mai sentito parlare di lui, non appartiene ad alcuna associazione francese qui e pare che nessuno lo conosca nel quartiere francese. Si direbbe che sia caduto dal cielo. Noi abbiamo telegrafato al nostro ufficio di Parigi perché compia qualche ricerca, forse avremo notizie questa sera, ma anche se scoprissimo la vera identità di Theophile d'Aurelle questo non ci porterebbe molto lontano. — Perché? — Perché evidentemente quello non è il nome del morto. — Spiegatevi un po' più chiaramente, Godfrey — dissi e lui mi guardò sorridendo. — Diamine, è abbastanza chiaro. Quell'uomo aveva cinque biglietti da visita in tasca e non ce n'erano due uguali. Il sesto, scelto probabilmente a casaccio, è quello che ha mandato a Vantine per mezzo del domestico. Ora capivo, naturalmente, e mi sentivo un poco come dovevano essersi sentiti i Sapientoni spagnoli quando Colombo aveva fatto stare in piedi il proverbiale uovo. Godfrey soggiunse: — Il vero d'Aurelle, ammesso che esista, potrebbe forse darci qualche informazione utile, ma non è detto. Può anche darsi che la polizia di Parigi riesca a fornirci qualche segnalazione. Le misure antropometriche prese col sistema Bertillon sono state telegrafate a Parigi. Anche questo non gioverà a nulla se il morto non è mai stato arrestato in Francia. D'altra parte non possiamo formulare la più piccola ipotesi sul movente del delitto finché non sappiamo qualcosa sul conto della vittima. — Ma, Godfrey, anche ammesso che veniate a sapere chi era quell'uomo Burton E. Stevenson
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e che cosa voleva da Vantine... anche ammesso che arriviate a sospettare chi l'ha ucciso e perché... come potrete stabilire in che modo è avvenuto il delitto? Ecco ciò che mi porta fuori strada. Come è avvenuto? — Ah! questo è il problema! — assentì Godfrey. — In che modo? Vi ho già detto che è un caso oscuro, Lester. Ma aspettiamo di avere una risposta da Parigi. — Questo mi rammenta che anch'io devo mandare un telegramma a Parigi, per un affare del signor Vantine — disse facendo un salto sulla poltrona. — In rapporto con questo affare? — Oh, no! Gli spedizionieri di laggiù gli hanno mandato un mobile che non gli appartiene, e lui mi ha pregato di chiarire la cosa. Suonai il campanello per chiamare il ragazzo dell'ascensore e mi feci portare un modulo per telegramma, dopo di che compilai un messaggio per Armand e Fils segnalando l'errore e chiedendo che mi telegrafassero il nome del proprietario dello scrigno che si trovava attualmente in possesso del signor Vantine. Godfrey era rimasto seduto e fumava con aria meditabonda mentre io sbrigavo la commissione, ma quando ritornai alla mia poltrona e ripresi la pipa, disponendomi a continuare la conversazione, si riscosse come se avesse sonnecchiato, si alzò e prese il cappello. — Devo andarmene ora. È inutile stare qui a fabbricare ipotesi senza avere dei dati positivi. — Goldberg in un certo senso aveva ragione — osservai. — Dopo che ve ne siete andato ci ha fatto rilevare come la maggior parte dei delitti non abbia niente di romantico e sia soltanto una manifestazione di brutalità. Forse questo... Lo squillo del telefono mi interruppe. — Pronto — dissi, prendendo il ricevitore. — Siete voi, avvocato Lester? — domandò una voce. — Sì, chi parla? — Sono Parks. — Mi resi conto a un tratto che non avevo riconosciuto la voce perché era roca e tremante. — Potreste venire qui subito, signor avvocato? — Sì, sì — dissi sconcertato. — Posso venire... se si tratta di una cosa importante. È il signor Vantine che ha bisogno di me? — Tutti abbiamo bisogno di voi ! — rispose Parks e mi parve che la sua voce si smorzasse in un singhiozzo. — Per l'amor di Dio venite presto! — Va bene — risposi senza discutere oltre. Riappesi il ricevitore e mi volsi Godfrey — Deve essere successo qualche cosa a casa di Vantine. Parks sembra atterrito. Mi ha scongiurato di accorrere subito. Burton E. Stevenson
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Presi il cappello e il soprabito disponendomi a uscire. — Devo venire anch'io? — mi domandò il mio compagno. Quantunque quella chiamata urgente mi avesse messo in ansia, non potei fare a meno di sorridere udendo il tono della domanda di Godfrey. — Sarà meglio che veniate — risposi. — A giudicare dalla voce di Parks direi che si tratta di cosa grave. Scendemmo insieme con l'ascensore e tre minuti dopo filavamo verso il quartiere dell'est con un taxi. Piovigginava e l'asfalto luccicava come uno specchio nero rifrangendo le luci dei lampioni. Le strade erano quasi deserte e nel raggiungere la Avenue l'autista accelerò lanciando la vettura verso la Quattordicesima strada a una velocità che mi fece pensare ai regolamenti sulla circolazione. Però nessun vigile ci importunò e dopo cinque minuti scendevamo davanti alla casa di Vantine. Parks doveva essere rimasto presso la porta ad aspettare poiché la macchina si era appena fermata quando lo vidi scendere di corsa la gradinata. Alla luce di un lampione scorsi la sua faccia e cominciai ad allarmarmi. — Finalmente siete arrivato, signor Lester! — balbettò. — Meno male che siete qui voi... Dio mio... Lo afferrai per un braccio. — Coraggio — dissi. — Non vi lasciate andare in questo modo! Si può sapere che cosa è successo? Parve ritrovare con uno sforzo un poco del suo sangue freddo. — Venite a vedere — disse e, di corsa, salì la gradinata, attraversò l'atrio e si diresse verso il salotto dove avevamo trovato il cadavere dello sciagurato francese. — Là dentro, avvocato! — singhiozzò. — Là dentro! E mentre io aprivo la porta, Parks si spostava e si appoggiava al muro come se temesse di cadere. La stanza scintillava di luci e sulle prime ne rimasi mezzo abbagliato, tanto più che l'atrio era semibuio. Vidi vagamente Godfrey balzare in avanti e inginocchiarsi al suolo, poi la vista mi si schiarì e scorsi, nel punto dove era morto d'Aurelle, un altro corpo. Come in un sogno avanzai lentamente e mi curvai per vederne il volto... era Vantine. Restai per qualche minuto immobile a fissarlo con occhi sbarrati. Ero conscio che Godfrey lo stava esaminando; poi udii la sua voce. — È morto. Un momento di silenzio, poi di nuovo la voce di Godfrey alterata, Burton E. Stevenson
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stridula... — Lester, guardate! Per l'amor di Dio! Guardate! Aveva sollevato il braccio destro del cadavere e mi mostrava la mano gonfia e violacea. Sul dorso, poco più su delle nocche, si vedevano due piccole ferite dalle quali erano colate alcune gocce di sangue. Mentre fissavo quello spettacolo orrendo, quasi incapace di credere ai miei occhi, udii alle mie spalle una voce che singhiozzava monotona: — È stata quella donna! È stata quella donna! Maledetta! È stata lei!
5. Grady interviene Non ho un ricordo chiaro di ciò che accadde in seguito. Il colpo era stato tanto violento per me che ebbi appena la forza di trascinarmi fino a una poltrona e lasciarmici cadere. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quella massa che giaceva immobile sul pavimento. Mi dicevo che ero vittima di un atroce incubo... che stavo subendo le conseguenze di una eccessiva tensione nervosa e che di lì a poco mi sarei svegliato. Senza dubbio avevo lavorato troppo. Mi occorreva un periodo di riposo... Me lo sarei concesso... E intanto nel mio subconscio sapevo benissimo che quello non era un incubo, ma una mostruosa realtà... che Philip Vantine era morto... ucciso da una donna. Chi mi aveva detto questo? Allora mi ricordai della voce che aveva singhiozzato alle mie spalle... Due o tre persone entrarono nella stanza... credo fossero Parks e gli altri domestici. Udii la voce di Godfrey che dava degli ordini e finalmente qualcuno mi portò un bicchiere alle labbra e mi ordinò di bere. Obbedii macchinalmente; tossii, poi ebbi una piacevole sensazione di calore e bevvi di nuovo avidamente. Alzai gli occhi e vidi Godfrey chino su di me. — Vi sentite meglio? — domandò. Annuii. — Non mi meraviglio che siate rimasto sconvolto — soggiunse. — Lo sono anch'io. Ho fatto chiamare il medico di Vantine... ma non potrà fare nulla. — È proprio morto? — mormorai volgendo di nuovo gli occhi verso quella forma inerte e rattrappita. — Sì... proprio come l'altro. Allora mi si chiarirono le idee e afferrando il mio compagno per un braccio lo attrassi verso di me. Burton E. Stevenson
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— Godfrey, di chi era quella voce?... oppure me la sono sognata?... giurerei di aver udito qualcuno parlare di una donna! — Non ve la siete sognata... era la voce di Rogers il quale è quasi in preda a una crisi nervosa. Sapremo la storia quando si sarà calmato. Qualcuno lo chiamò dalla porta e lui mi lasciò. Avevo ancora la mente in subbuglio. Cercai di riflettere. Dunque c'era stata una donna nella vita di Vantine! Forse per quello non si era mai sposato. E ora che sarebbe successo? Quello che Vantine si era evidentemente sforzato di tenere nascosto sarebbe venuto alla luce! Ma se una donna aveva ucciso Vantine, la stessa donna aveva ucciso anche d'Aurelle. Qual era il suo nascondiglio? Mi guardai attorno scosso da un tremito di terrore, poi mi alzai reggendomi a fatica e mi inginocchiai verso la porta. Godfrey mi udì arrivare, si volse e dopo aver dato un'occhiata alla mia faccia corse al mio fianco e mi prese sottobraccio. — Che c'è, Lester? — domandò. — Non posso restare là dentro! È orribile! — Non ci pensate. Venite con me a bere qualcos'altro. Mi condusse in un angolo dell'atrio e mi costrinse a trangugiare un altro bicchierino di cognac, dopo di che mi sentii meglio. Mi vergognavo della mia debolezza, ma quando guardai Godfrey mi accorsi che anche lui era pallidissimo. — Fareste bene a bere qualcosa anche voi — dissi. Udii il collo della bottiglia tintinnare sull'orlo del bicchiere. — Non mi ricordo di essere mai stato impressionato come ora — disse lui deponendo il bicchiere vuoto. — È una cosa così macabra... così inattesa... e poi c'è quel Rogers che blatera come un matto... Ma ecco il medico — soggiunse udendo il campanello della porta. Parks andò ad aprire. Conoscevo già il dottor Hughes che era da tempo il medico curante di Vantine; lo presentai a Godfrey, poi tutti e tre passando nel salottino. Io mi sedetti in disparte e osservai il nuovo venuto mentre si inginocchiava accanto al corpo e verificava il decesso. Poi udii Godfrey raccontargli tutto quello che sapevamo mentre Hughes ascoltava con viso incredulo. — Mi sembra una cosa assurda! — protestò quando Godfrey ebbe finito. — Queste cose non possono accadere qui a New York. A Firenze, forse, nel Medioevo... ma qui, nel ventesimo secolo... — Io stesso non so capacitarmi — fece Godfrey. — D'altra parte ho visto con i miei occhi il francese che giaceva qui nel pomeriggio di oggi... Burton E. Stevenson
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e ora ecco la volta di Vantine. — Nello stesso punto? — Ci può essere lo spostamento di una spanna. — E l'altro è morto nello stesso modo? — Esattamente nello stesso modo. Hughes guardò a lungo la mano ferita. — Secondo voi, signor Godfrey, che sorta di strumento ha prodotto questa incisione? — domandò poi. — Uno strumento con due aculei. Secondo la mia ipotesi gli aculei sono cavi come gli aghi di una siringa e nel provocare le incisioni secernono qualche goccia di veleno sulla ferita. Come vedete una vena è stata bucata. — Già. Sarebbe quasi impossibile forare una mano in questo punto senza ferire una vena. Con due aculei messi a questa distanza è una cosa sicura. — Per questo ve ne sono due, credo. — Ma vi rendete conto che non esiste un veleno capace di agire tanto rapidamente? — domandò Hughes. Godfrey alzò le sopracciglia. — Voi stesso avete menzionato il Medioevo un momento fa. Ammettete che a quel tempo esistevano veleni più potenti di quelli che si conoscono oggi? — Non mi sentirei di fare delle affermazioni in proposito — disse Hughes prudentemente. — Però si deve prestare fede alla storia... — Ebbene, sia che si tratti dell'esumazione di un'antica formula oppure di una formula nuova, ci troviamo senza dubbio dinanzi all'opera di un veleno che non ha nulla a che fare con quelli noti alla scienza moderna. Ne abbiamo la prova. Così dicendo Godfrey additava il cadavere. — Ma qual è dunque questo diabolico strumento? — soggiunse il medico. — E soprattutto chi lo maneggia? Si guardò attorno come se si aspettasse di vedere una mano implacabile pronta a colpire. Poi si riprese alquanto e soggiunse in tono più calmo: — Perdiana, non sono abituato a questo genere di cose e sono spaventato... sì, credo proprio di essere spaventato. — Lo sono anch'io — disse Godfrey. — Anche Lester lo è... non è il caso di vergognarsi. — Quello che mi spaventa — riprese Hughes come se studiasse i propri sintomi — è il mistero che circonda questa faccenda... c'è qualcosa di Burton E. Stevenson
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soprannaturale... qualcosa che non arrivo a capire. Com'è che entrambe le vittime sono state colpite alla mano destra? Perché non alla sinistra? E perché proprio alla mano? Godfrey si strinse nelle spalle. — È proprio quello che dobbiamo scoprire. — Bisognerà che chiami la polizia — disse Hughes ad un tratto. — Forse loro potranno risolvere il mistero. Un sorriso scettico passò sulle labbra di Godfrey. — Non so se la polizia potrà risolvere il mistero, ma in ogni modo bisogna avvertirla — mormorò. — Se volete me ne occupo io. — Sì, sì... ed è meglio che lo facciate subito. Più presto arrivano i funzionari e meglio è. — Benissimo — rispose Godfrey e uscì dalla stanza. Il medico sedette pesantemente sul divano accanto alla finestra e si passò il fazzoletto sul viso con mano tremante. Era abituato a veder morire la gente... ma si trattava sempre di gente morta in un letto, tranquillamente, per cause note e accertabili. La morte che si presentava in quella forma orribile e misteriosa lo sconcertava... non ci capiva nulla ed era proprio questo che gli dava un senso di terrore. Era medico e gli sembrava inammissibile non riuscire ad appurare le cause di un decesso. Eppure si trovava ora di fronte a un caso di morte, misterioso per lui come per un profano qualunque. Passò una mezz'ora opprimente. Hughes era rimasto seduto sul divano, con gli occhi fissi al suolo, forse meditando sulla propria ignoranza, forse dubitando per la prima volta in vita sua delle proprie capacità di medico. Quanto a me pensavo all'amico morto. Ricordavo Philip Vantine come l'avevo sempre conosciuto... un perfetto gentiluomo, intelligente, pieno di spirito, pieno di vitalità. Mi pareva di rivedere il suo sorriso bonario e i suoi occhi scintillanti di entusiasmo come li avevo visti poche ore prima. Mi pareva di udire la sua voce, di sentire la sua mano posarsi sulla mia spalla in un gesto affettuoso. Mi sembrava incredibile che un uomo come quello potesse essere stato abbattuto da un misterioso assassino, armato della più misteriosa delle armi... E' una donna! La mia mente ritornava sempre a quel pensiero. Una donna! Il veleno era in verità l'arma delle donne. Ma chi era? Come aveva potuto svignarsela? Dove si era nascosta? Come aveva potuto colpire con tanta sicurezza? E soprattutto perché aveva scelto proprio Philip Vantine come sua vittima? Philip Vantine che non aveva mai fatto male a nessuno... Ma a questo punto mi fermai. Mi rendevo conto che in fondo Burton E. Stevenson
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non sapevo nulla di Vantine, eccetto quel che lui stesso aveva creduto opportuno dirmi. Forse Parks ne sapeva di più. Però quella era una soluzione dalla quale rifuggivo. Avevamo il diritto di indagare? Avevamo il diritto di costringere un uomo a svelare ciò che il suo padrone aveva sempre creduto opportuno tenere nascosto? Avevo il viso in fiamme. No, non potevamo farlo... sarebbe stato abominevole... La porta si aprì e Godfrey entrò. Questa volta non era solo, Simmonds e Goldberg lo seguivano e dall'espressione delle loro facce compresi che erano sconcertati e disorientati quanto me. C'era una terza persona con loro, che non conoscevo, ma ben presto seppi che era Freyling, il medico legale. Tutti guardarono il cadavere; Freyling s'inginocchiò per esaminare la mano ferita, poi si rialzò e andò a sedersi accanto al dottor Hughes col quale rimase a colloquio per parecchi minuti. Non potevo udire quel che dicevano, ma sapevo, naturalmente, che discutevano sulle possibili cause della morte. Intuivo anche di cosa potevano parlare Simmonds e Godfrey nell'angolo opposto della stanza, ma non capivo perché Goldberg, invece di mettersi all'opera, camminasse su e giù per il locale tirandosi nervosamente i baffi e guardando di quando in quando l'orologio. Sembrava che aspettasse qualcuno, ma soltanto una ventina di minuti dopo seppi chi aspettava. La porta si aprì e comparve un uomo piccolo, tarchiato, dal volto pletorico, dai baffi neri ispidi e dagli occhi straordinariamente scintillanti e un po' troppo vicini uno all'altro. Si guardò intorno, fece un cenno di saluto a Goldberg poi mi fissò con aria interrogativa. — Capitano Grady, questo è l'avvocato Lester — disse il magistrato e io mi resi conto che il capo del reparto investigativo si era scomodato personalmente per le indagini del caso. — L'avvocato Lester è il legale del signor Vantine — soggiunse il magistrato a mo' di spiegazione. — Lieto di conoscervi, avvocato — disse Grady in tono asciutto. — Ed ora ritengo che possiamo incominciare — disse ancora il magistrato. — Un momento — rispose Grady con voce aspra. — Prima di tutto allontaneremo tutti i giornalisti. Così dicendo fissò Godfrey con aria quasi minacciosa. Mi sentii salire le vampe al volto e mi disponevo a protestare quando Godfrey mi fece tacere con un gesto. — Non c'è nulla da dire, Lester. Il signor Grady è nei suoi diritti. Mi Burton E. Stevenson
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ritiro... in attesa che mi chiami in soccorso. — Dovrete attendere un pezzo! — ribatté Grady con una risatina sarcastica. — Più a lungo attenderò e peggio sarà per voi, capitano Grady — fece Godfrey in tono mellifluo, poi uscì chiudendo la porta dietro di sé. Il funzionario rimase per un momento muto per la stizza, poi dominandosi con uno sforzo si volse al magistrato. — Avanti, Goldberg — disse e sedette per assistere al procedimento. Pochi minuti bastarono a me e a Freyling per dire tutto quello che sapevamo in merito alla tragedia e anche in merito a quella precedente. Grady sembrava più al corrente dei particolari sulla morte di d'Aurelle e ascoltò senza interrompere limitandosi a fare qualche cenno di assenso di tanto in tanto. — Voi avete l'elenco dei domestici di questa casa, naturalmente, Simmonds — disse quando avemmo finito le nostre deposizioni. — Sissignore. — E il sergente gli porse un foglio. — Ehm, sono in cinque — borbottò Grady scorrendo l'elenco. — Si sa qualcosa sul conto loro? — Sono tutti alle dipendenze del signor Vantine da molto tempo, signor capitano — rispose Simmons. — Da quanto ho potuto appurare sono tutte persone ineccepibili. — Chi di loro ha trovato il cadavere del signor Vantine? — Parks, credo — dissi io. — Almeno è stato lui a telefonarmi. — Sarà meglio farlo venire qui — disse Grady e si cacciò la lista in tasca. Parks entrò poco dopo; sembrava anche lui molto sconvolto, ma rispose alle domande del capitano in modo chiaro e conciso. Dapprima riferì gli avvenimenti del pomeriggio, poi passò a quelli della sera. — Il signor Vantine ha cenato in casa — disse. — Si è messo a tavola, credo alle sette, e deve aver finito poco dopo le sette e mezzo. Non l'ho visto perché stavo riassettando la sua camera, ma so che ha detto a Rogers... — Lasciate perdere quel che ha detto a Rogers — l'interruppe Grady. — Ditemi soltanto quello che sapete. — Benissimo, signore — rispose Parks umilmente. — Avevo molto da fare... il mio padrone e io siamo ritornati soltanto ieri dall'Europa, capite... e questa sera avevo deciso di mettere tutto in ordine; dovevano essere le otto e mezzo quando ho udito Rogers che mi chiamava a gran voce. Ho creduto che la casa fosse in fiamme e sono sceso di corsa. Rogers stava nell'atrio e aveva la faccia di chi ha visto un fantasma. Non poteva Burton E. Stevenson
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articolare parola e mi ha additato questa camera... io ho guardato dentro e ho visto il signor Vantine che giaceva là... La voce gli si strozzò in gola, ma dopo un momento di silenzio riuscì a continuare. — Allora ho telefonato all'avvocato Lester e questo è tutto quello che so. — Basta così per il momento — disse Grady. — Mandatemi Rogers. Quando Rogers entrò rimasi seriamente allarmato vedendo la sua faccia, poiché aveva tutta l'aria di un uomo in preda a un grave trauma psichico. Era sulla cinquantina, sbarbato e con i capelli grigi, ma le sue gote erano ancora molto fresche e di solito aveva un aspetto piuttosto fiorente. Ma ora il suo volto era livido, aveva i lineamenti contratti e gli occhi fissi iniettati di sangue. Avanzò barcollando e tenendosi una mano alla gola come se si sentisse soffocare. — Dategli una sedia — ordinò Grady; Simmonds fece sedere il cameriere e gli rimase al fianco. — Ora, buon uomo, bisogna che vi facciate coraggio — soggiunse il capitano. — Che avete? Non avete mai visto un morto? — Non è questo — balbettò Rogers. — Non è questo... e del resto non ho mai visto un uomo assassinato prima d'ora. — Che cosa dite? — domandò Grady in tono aspro. — Nel pomeriggio di oggi non avete forse visto quell'altro? — È un'altra cosa — gemette Rogers. — Non lo conoscevo neppure. Poi credevo che si fosse ucciso. Tutti credevano così... — E non credete che il signor Vantine abbia potuto togliersi la vita? — So che non è vero! — proruppe Rogers e la sua voce si fece stridula. — È stata quella donna! Maledetta! È stata lei! Sapevo che aveva delle cattive intenzioni quando l'ho fatta entrare.
6. La donna misteriosa "Ci siamo", pensai. "Questo segreto, qualunque sia, dovrà esser svelato." Vidi che Grady corrugava la fronte e socchiudeva gli occhi e mi accorsi che tutti si protendevano in avanti per ascoltare meglio... Il capitano si tolse di tasca una bottiglietta e l'aprì porgendola al domestico. — Bevete un sorso di questo. Rogers obbedì macchinalmente e trangugiò tre o quattro sorsate, dopo di Burton E. Stevenson
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che parve rinfrancato e restituì la borraccia al funzionario. Un po' di colore era ritornato sulle sue guance ma i suoi occhi avevano sempre una fissità impressionante. Grady si rimise in tasca la bottiglietta e riprese: — Ora, Rogers, desidero che mi raccontiate per filo e per segno tutto quanto è accaduto qui questa sera. Non vi affrettate, cercate di calmarvi. Mi dite che è stata una donna. Ebbene, ditemi tutto quello che sapete sul conto di questa donna. Ricordatevi che non c'è fretta. — Ecco, signore — cominciò il domestico lentamente, come se pesasse ogni parola. — Il signor Vantine è sceso dopo cena, alle sette e mezzo circa... forse un po' più tardi... e mi ha detto di accendere tutte le luci in questo salotto e nella stanza attigua. Io ho eseguito l'ordine e intanto lui è entrato nella sala da musica. Un momento dopo l'ho raggiunto e gli ho detto che tutte le luci erano accese. Stava guardando un quadro che ha comprato recentemente, ma è uscito subito nell'atrio. "Non voglio essere disturbato, Rogers", mi ha detto, poi è passato in questo salotto e ha chiuso la porta. Erano passati forse venti minuti quando il campanello della porta ha suonato. Sono andato ad aprire e mi sono trovato davanti una donna. Si fermò, inghiottì un paio di volte come se avesse la gola asciutta e io vidi che le sue dita si contraevano nervosamente. — La conoscevate? — domandò Grady. Rogers si passò un dito nel colletto con un moto convulso. — Nossignore, non l'avevo mai vista. — Descrivetela. Il domestico chiuse gli occhi come se facesse uno sforzo di memoria. — Portava una veletta fitta, perciò non ho potuto vederla bene, ma la prima cosa che ho notato sono stati gli occhi... anche attraverso la veletta ho visto che erano particolarmente scintillanti... e poi... e poi mi è parso che fosse molto pallida... sin dal primo momento il suo aspetto non mi è piaciuto affatto, signor capitano... — Come era vestita? — Aveva un abito scuro con la gonna tanto corta che ho capito che era una francese prima che parlasse. — Ah! Era dunque francese? — fece Grady. — Sissignore, ma parlava in inglese abbastanza bene. Ha domandato del signor Vantine. Gli ho detto che era occupato. Allora si è messa a parlare in fretta con fare concitato... ha detto che doveva vederlo assolutamente e intanto si faceva avanti passo passo finché, quasi senza che me ne Burton E. Stevenson
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accorgessi è riuscita ad entrare e ha chiuso la porta. Vedete bene che avevo ragione a essere insospettito... — Capisco — fece Grady. — Ma continuate. Rogers sembrava aver ripreso il controllo dei propri nervi e soggiunse in tono quasi disinvolto: — Io naturalmente ho protestato per quel modo di fare e le ho detto che se non se ne andava con le buone l'avrei buttata fuori. "Devo vedere il signor Vantine!", ha insistito lei. "Devo vedere il signor Vantine! È necessario, si tratta di una cosa urgente!" "Vi ho detto che è occupato", le ho risposto e ho fatto il gesto di prenderla per un braccio per metterla fuori. Lei allora ha cacciato un urlo e si è dibattuta e in quel momento il signor Vantine ha aperto la porta del salotto ed è uscito nell'atrio. "Che cosa succede, Rogers?", ha domandato. "Chi è questa signora?" Ma prima che potessi rispondere, quella strega si è fatta avanti e si è messa a parlare in francese con una velocità impressionante. Il signor Vantine l'ha guardata sulle prime come se non capisse, poi ha avuto l'aria di interessarsi a quello che la sconosciuta gli diceva e alla fine l'ha fatta entrare qui e ha chiuso la porta. Non ho più rivisto la donna e quanto al signor Vantine l'ho rivisto soltanto... morto! — Allora non siete stato voi a condurre la donna alla porta? — domandò Grady. — Nossignore, non l'ho più vista. Ho pensato che se il signor Vantine era disposto a riceverla non era affar mio; perciò sono ritornato in dispensa aspettandomi di sentire suonare il campanello da un momento all'altro. Ma il campanello non ha suonato e dopo una mezz'ora io sono ritornato nell'ingresso per vedere se la donna se n'era andata. Sono passato vicino alla porta di questa stanza, ma non ho udito nulla; allora sono andato alla porta di strada e mi sono molto meravigliato trovandola solo accostata. — Forse avevate dimenticato di chiuderla — suggerì Grady. — Nossignore; quella porta ha la serratura automatica e quando quella donna l'ha chiusa ho udito lo scatto. — Ne siete certo? — Certissimo. — E allora che cosa avete fatto? — Ho chiuso la porta e sono ritornato verso il salotto. Non ero tranquillo e sono rimasto vicino alla porta ad ascoltare, poi mi sono deciso a bussare, ma non ho ottenuto risposta; ho bussato più forte ma ancora nessuna risposta, allora ho aperto la porta e ho guardato dentro... e la prima cosa Burton E. Stevenson
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che ho visto... Rogers si fermò di colpo e si portò nuovamente la mano alla gola. — Aspettate un momento — balbettò. — Vado soggetto a questi attacchi... — Non c'è fretta — disse Grady, poi quando vide che il cameriere respirava più agevolmente domandò: — Che cosa avete fatto dopo? — Ero tanto spaventato che potevo appena reggermi in piedi, signor capitano, però sono riuscito a trascinarmi fino alla scala e a gridare per chiamare Parks, il quale è sceso subito... non so altro. — La donna non c'era? — Nossignore. — Avete guardato nelle altre stanze? — Nossignore, quando ho trovato la porta di strada aperta ho capito che se n'era andata. Probabilmente non ha chiuso la porta per timore che io udissi. — Credo che abbiate ragione — fece Grady. — Ma che cosa vi fa pensare che sia stata lei a uccidere Vantine? — Ecco, signor capitano, forse non avrei dovuto dire questo ma, capirete che trovando la porta aperta non ho potuto fare a meno di sospettare... ma forse ho parlato senza riflettere. — Dunque adesso non credete più che sia stata quella donna? — domandò Grady in tono brusco. — Non so che cosa pensare, signore. — Avete detto di non aver mai visto quella donna prima di oggi? — Mai. — Allora non era mai stata in questa casa? — Non credo, tanto più che per prima cosa mi ha domandato se il signor Vantine abitava qui. Grady fece un cenno d'approvazione. — Va bene, Rogers. Siete un acuto osservatore... quasi quasi vi offro un posto nel corpo di polizia. Riconoscereste quella donna se la vedeste? Il domestico esitò. — Non potrei dirlo con certezza... forse sì... — Da quel che mi avete detto non credo che abbiate potuto osservarla bene — obiettò Grady. — Non potreste darci una descrizione più accurata? — Temo di no, signor capitano. Come ho già detto la donna aveva una veletta fitta sul viso. — Avete detto di non aver ispezionato questa stanza? — Nossignore... non ho nemmeno varcato la soglia. Burton E. Stevenson
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— Perché no? — Avevo paura. — Paura? — Sissignore... anche adesso che mi sento affatto a mio agio. — E Parks è entrato? — Nossignore, credo che... avesse la mia stessa sensazione. — E allora come avete fatto a sapere che Vantine era morto? Perché non avete neppure tentato di prestargli soccorso? — Un'occhiata mi è bastata per capire che non c'era niente da fare — rispose Rogers e diede un'occhiata furtiva al cadavere. Grady lo fissò per un istante, ma sembrava proprio che non vi fosse alcun motivo di dubitare della versione di Rogers. Poi l'investigatore si guardò attorno. — C'è una cosa che non capisco — disse — ed è il motivo per cui Vantine abbia voluto tutte queste luci accese. Che cosa diamine stava facendo? — Non potrei dirlo con certezza, signor capitano, ma suppongo che stesse esaminando i mobili che ha portato dall'Europa. Il signor Vantine faceva collezione di mobili antichi e ci sono cinque o sei pezzi nuovi nella stanza vicina. Senza una parola Grady si alzò e passò nella stanza vicina, noi lo seguimmo; soltanto Rogers rimase seduto dov'era. Ricordo di essermi voltato un momento a guardarlo e di aver notato come si abbandonasse in avanti col mento sul petto, quasi fosse sopraffatto da un grande peso. Ma dimenticai ben presto Rogers per contemplare la scena che mi si presentava. La seconda stanza era tutta illuminata e i mobili stavano ancora in disordine tutt'attorno, come li avevo visti poche ore prima. Una cosa sola era stata spostata ed era lo scrigno di Boule. Era stato trasportato proprio nel centro della stanza in modo che le luci del grande lampadario lo colpivano in pieno. Chi aveva aiutato Vantine a portarlo là? Né Rogers, né Parks avevano detto di essere stati chiamati per questo. Ritornai nel salotto. Rogers stava ancora seduto, curvo in avanti con le mani sugli occhi e quando mi avvicinai e gli posai una mano sulla spalla lo sentii sussultare violentemente. — Oh, siete voi, signor avvocato — balbettò. — Dovete scusarmi, ma mi sento tutto sconvolto. — Non c'è niente di strano — risposi in tono rassicurante. — Volevo domandarvi soltanto una cosa: non avete per caso aiutato il signor Vantine Burton E. Stevenson
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a spostare qualche mobile questa sera? — Nossignore, non ho toccato nulla. — Va bene, grazie — mormorai con aria indifferente e tornai nella seconda stanza. Vantine aveva detto che intendeva compiere un esame minuto dello scrigno alla prima occasione. E ricordavo come i suoi occhi avessero scintillato nel guardare quel mobile e come la sua mano ne avesse accarezzato con delicatezza gli arabeschi. Senza dubbio stava eseguendo il progettato esame quando aveva udito una voce di donna ed era uscito nell'atrio per vedere che cosa accadesse. Allora lui e la donna erano entrati nel salotto insieme; lui aveva chiuso la porta, poi... Come una folgore un pensiero mi attraversò la mente. Un motivo... una spiegazione... arbitraria, improbabile, assurda, ma tuttavia una spiegazione! Soffocai il grido che mi saliva alle labbra, mi torsi le mani dietro la schiena in uno sforzo disperato di restare impassibile e intanto affascinato come da un serpente velenoso continuavo a fissare lo scrigno. Poiché là, in quel mobile prezioso, era celata la soluzione del mistero, ne ero certo!
7. Rogers prova un'emozione Grady, Simmonds e Goldberg esaminarono la stanza; sembrava che sentissero che il segreto della tragedia stava nascosto entro quelle quattro mura; ma io li osservavo distrattamente poiché avevo perduto ogni interesse per le loro operazioni. Ero sicuro che non avrebbero trovato nulla che avesse attinenza con il mistero. Udii che Grady commentava il fatto che non vi era altra porta eccetto quella che dava nel salotto e vidi che tutti e tre andavano ad esaminare gli infissi della finestra. — Nessuno potrebbe aprire questa finestra senza dare l'allarme nella casa — disse Grady e additò un filo sottile che correva lungo la cornice della finestra stessa. — C'è un campanello d'allarme. Simmonds assentì e finalmente il terzetto ritornò nel salotto. — Desidereremmo dare un'occhiata al resto della casa — disse Grady rivolto a Rogers e il domestico, che aveva ripreso un atteggiamento più disinvolto, si alzò subito e condusse i funzionari nell'atrio. Io rimasi indietro con Hughes e Burton E. Stevenson
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Freyling. Costoro avevano sollevato il cadavere, lo avevano deposto sul divano e stavano compiendo un esame minuzioso. Io mi sedetti un po' in disparte e rimasi ad osservarli. Che Philip Vantine avesse perduto la vita a causa del suo entusiasmo di collezionista sembrava un'ironia della sorte, eppure ero convinto che così fosse. Senza dubbio vi erano state delle circostanze che sembravano in contrasto con una simile ipotesi, e l'ipotesi di per se stessa era arbitraria fino all'assurdità; ma almeno era un raggio di luce dove fino a poco prima non avevo visto che tenebre complete. La esaminai da ogni punto di vista cercando di trovare qualche punto d'incontro con le circostanze della giornata e devo confessare che i risultati furono scarsi. La voce di Freyling mi strappò alle mie meditazioni. — I due casi sono identici — stava dicendo. — I sintomi sono identici. Anche in questo caso deve essere avvenuta una paralisi dei centri del respiro del midollo spinale, come per l'altro. Entrambi sono stati uccisi dallo stesso veleno. — Potreste stabilire di che veleno si tratta? — domandò Hughes. — Credo che si tratti di acido cianidrico manipolato in modo speciale... almeno così si direbbe dall'odore, ma deve trattarsi di un veleno cinquanta volte più forte dell'acido cianidrico che noi conosciamo. Allora si addentrarono in una discussione tecnica sulle possibili varianti dell'acido cianidrico pronunciando una tale quantità di parole astruse che non riuscii più a seguirli. Freyling, naturalmente, aveva tutte queste cose sulla punta delle dita, come si suol dire; gli esami di laboratorio costituivano la sua occupazione quotidiana e senza dubbio dopo aver esaminato d'Aurelle aveva consultato qualche testo per rinfrescarsi la memoria in previsione dell'inchiesta alla quale avrebbe dovuto precisare il più possibile le cause della morte. Vedevo benissimo che provava gusto a ostentare le proprie nozioni dinanzi a Hughes il quale come medico di famiglia non era esperto in fatto di tossicologia come lo poteva essere quel medico legale. I due investigatori e il magistrato ritornarono di lì a poco e ascoltarono in silenzio le spiegazioni di Freyling. Il volto color mogano di Grady non tradiva nulla di ciò che poteva passare nel suo cervello, ma Simmonds era palesemente disorientato. Bastava guardarlo per capire che nel corso della perquisizione non avevano trovato assolutamente nulla che servisse a fare luce sul mistero. Ora che la sua ipotesi di suicidio era crollata senza rimedio, il povero sergente non ci capiva più nulla. Sospettai che anche Grady stesse perdendo l'orizzonte, ma quello era troppo furbo per tradirsi. Burton E. Stevenson
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Il magistrato trasse in disparte i due medici e per qualche minuto parlò a voce bassa, poi si volse a Grady: — Freyling non ritiene che vi sia necessità di una autopsia — disse. — I sintomi sono identici in tutto e per tutto a quelli dell'altro caso. Non vi è dubbio possibile: entrambi sono morti per la stessa causa. Su questo punto abbiamo la parola del dottor Freyling. — Va bene — approvò Grady. — Allora il corpo può essere consegnato ai parenti. — Parenti non ce ne sono — dissi — o almeno non ci sono parenti prossimi. Vantine era l'ultimo del suo ramo discendente. Lo so perché il nostro ufficio legale ha compilato e ha in custodia il suo testamento. Se non avete nulla in contrario mi occuperò io di tutto. — Va bene, signor Lester — ripeté Grady poi mi domandò: — Conoscete i termini del testamento? — Sì. — Allora mi saprete dire se vi era qualcuno che avesse interesse alla morte di Vantine. — Credo di potervi dire addirittura quali sono le disposizioni del testamento — dissi dopo un attimo d'esitazione. — Eccettuato qualche lascito ai domestici, tutto il patrimonio andrà al Museo Metropolitano d'Arte. — Eravate da molto tempo il legale del signor Vantine? — Da parecchi anni. — Vi risulta che avesse dei nemici? — No. Per quanto ne so io non aveva un nemico al mondo. — Non è mai stato sposato, non è vero? — No. — E non vi consta che abbia avuto qualche intrigo di donne? — No — risposi ancora. — Anzi sono rimasto molto meravigliato quando ho sentito il racconto di Rogers. — Cosicché voi non potete darci alcun indizio sull'identità di quella donna. — Magari lo potessi! — Grazie, avvocato Lester — disse Grady e si rivolse a Simmonds. — Mi sembra che non abbiamo altro da fare qui... Una cosa ancora, avvocato; devo pregarvi di fare in modo che nessuno dei domestici si allontani fino dopo l'inchiesta. Se temete di non poterlo fare possiamo naturalmente metterli in stato d'arresto... — Non occorre — l'interruppi. — Mi rendo garante della loro presenza Burton E. Stevenson
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all'inchiesta. , — Dovrò rimandarla di un giorno — fece Goldberg. — Devo lasciare a Freyling il tempo di compiere alcuni esami domani. D'altra parte bisogna identificare d'Aurelle e chissà che nel frattempo non si trovi qualche indizio riguardo a quella donna... Un momento dopo i quattro se ne andarono. Il dottor Hughes si attardò ancora e mi disse: — Sarà meglio chiamare subito l'impresa delle pompe funebri. Non è il caso di tardare. Capii a che cosa alludeva. Sul viso del morto si vedevano già delle macchie sospette. — Potrei fare una scappata io all'impresa prima di rincasare — soggiunse e io accettai l'offerta. Mentre chiudevo la porta alle spalle del medico udii un passo sulla scala e volgendomi vidi Godfrey che scendeva tranquillamente. — Sono arrivato pochi minuti fa — spiegò in risposta al mio sguardo di meraviglia. — Sono andato a dare un'occhiata alle stanze del piano di sopra. Non c'è niente. Come se l'è cavata il nostro amico Grady? — Abbastanza bene, ma se ha capito qualcosa il suo viso non l'ha dimostrato. — Il viso di Grady non dimostra mai nulla, perché non ha nulla di dimostrare. Si è creato quella maschera sibillina per lasciar credere alla gente che ha molte cose nel cervello, ma è soltanto un imbecille ignorante. — Suvvia, Godfrey, siete prevenuto — protestai. — Questa volta ha saputo andare diritto al punto vitale della questione. Conoscete la storia di Rogers? — In merito a quella donna? Certo, Rogers me l'ha raccontata prima che Grady arrivasse. — Perdiana, non avete perso tempo! — Io non perdo mai tempo — rispose il giornalista. — Ed ora vi proverò che Grady è quell'imbecille che io lo giudico. Guardate, ha udito tutte le testimonianze e ancora non sa chi sia quella donna. — Naturalmente che non lo sa — dissi. — Volete forse dire che lo sapete voi? In tal caso sono un imbecille anch'io! — Caro Lester, voi non siete un investigatore... non è affar vostro indagare, ma Grady avrebbe il dovere di essere all'altezza del posto che occupa. — Allora volete proprio dire che sapete chi è quella donna? — insistetti. — Sono quasi sicuro di saperlo... e sono ritornato qui nella speranza di Burton E. Stevenson
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trovare una conferma. Dov'è Rogers? — Lo chiamo subito — risposi e andai a suonare il campanello del salotto. Il domestico apparve un istante dopo. — Avete suonato, signori? Aveva ancora i nervi tesi, ma era assai più calmo di quando aveva subito l'interrogatorio di Grady. — Sì, il signor Godfrey desidera parlarvi. Mi parve che Rogers impallidisse e senza dubbio vi era un'espressione intimorita nei suoi occhi quando si volse a guardare il mio compagno. Ma Godfrey sorrise con un'aria rassicurante. — Sarà meglio che gli diamo ordini in merito ai giornalisti, prima di tutto, è vero Lester? — domandò. — Quali giornalisti? — feci io. — Tutti gli altri, naturalmente. Vedrete che tra poco prenderanno d'assalto la casa. Sentite, Rogers, se dovessero presentarsi dei giornalisti, dovrete rifiutare di farli entrare nel modo più assoluto. Direte che qui non possono sapere niente e che bisogna che si rivolgano alla polizia. Potete aggiungere che il capitano Grady in persona si occupa della cosa e sarà ben lieto di metterli al corrente. Va bene così, Lester? — Benissimo. — E ora — riprese Godfrey fissando su Rogers lo sguardo penetrante — ho qui una fotografia che vorrei mostrarvi. Avete mai visto questa donna prima d'ora? Così dicendo porse un fogliettino minuscolo al domestico il quale esitò un attimo, poi lo prese con mano tremante. Un'espressione di terrore era comparsa di nuovo sul suo volto. Lentamente alzò la fotografia in modo da portarla in luce, la guardò, poi... — Sorreggetelo, Lester, presto! — gridò Godfrey e si slanciò in avanti. Mi slanciai anch'io, ma non arrivai in tempo. Rogers tirandosi disperatamente il colletto aveva fatto mezzo giro su se stesso ed era stramazzato al suolo. — Andate a prendere dell'acqua, svelto! — Intimò Godfrey vedendo apparire Parks. — Rogers si sente male. Poi mentre Parks si allontanava di corsa vidi Godfrey slacciare il colletto del disgraziato che giaceva esanime, e praticargli un massaggio energico alle tempie. — Spero che non si tratti di un colpo apoplettico — borbottò. — Non avrei dovuto prenderlo così alla sprovvista. A quelle parole mi ricordai chiaramente di quanto era accaduto e Burton E. Stevenson
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chinandomi raccolsi la piccola fotografia che era sfuggita dalle dita inerti di Rogers. Allora anch'io mi lasciai sfuggire un'esclamazione soffocata alla vista di quegli occhi neri, di quelle labbra carnose, di quel volto dall'ovale perfetto... era la fotografia che d'Aurelle aveva nell'orologio!
8. Precauzione Ma non si trattava di un colpo apoplettico. Lo stesso Parks mi rassicurò quando ritornò portando un bicchiere d'acqua in una mano e una piccola fiala nell'altra. — Va soggetto a questi attacchi — disse. — È una forma di epilessia. Fategli annusare questo. Tolse il tappo dalla fiala che porse a Godfrey e sentii un odore penetrante di ammoniaca. Un istante dopo Rogers diede segni di vita e cominciò a respirare affannosamente. — Vedrete che si riprenderà presto — aggiunse Parks. — Però non ho mai visto che avesse degli attacchi tanto gravi. — Non possiamo lasciarlo qui disteso sul pavimento — fece Godfrey. — C'è un divano nella sala da musica — suggerì Parks e in tre rialzammo Rogers e lo trasportammo. Quando l'avemmo adagiato sul divano, Godfrey e io ci sedemmo e restammo in attesa che il domestico si riavesse del tutto. — A dire il vero non credo che ci potrà dire molto — osservò Godfrey. — Temo anzi che non sarà disposto a dirci nulla. Però la sua faccia quando ha guardato la fotografia mi ha detto tutto quello che avevo bisogno di sapere. Al momento di trasportare Rogers mi ero messo in tasca la fotografia e ora la tirai fuori. — Dove l'avete presa? — domandai. — Il fotografo della polizia ne ha fatto alcune copie e io ne ho ottenuto una. — Ma che cosa vi ha fatto sospettare che la donna che è venuta da Vantine sia proprio questa? — Innanzitutto sono entrambe francesi, e poi i pochi particolari che ho ottenuto da Rogers corrispondono al viso della fotografia... mi è sembrato probabile che si trattasse della stessa persona. Il signor Grady troverà qualcosa che non sa, domani sul Record. Ma ormai ci deve essere abituato. Burton E. Stevenson
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Questa volta non lo risparmierò. Ohilà, il nostro amico riprende i sensi. Guardai Rogers e vidi che aveva gli occhi aperti. Ci fissava come se si domandasse chi eravamo. Godfrey gli passò un braccio sotto la testa e gli avvicinò alle labbra un bicchiere d'acqua. — Bevete — disse e Rogers obbedì macchinalmente continuando a fissarlo al disopra dell'orlo del bicchiere. — Come vi sentite? — Molto debole — mormorò il domestico. — Devo avere avuto una crisi... — Sì, sì, ma non vi preoccupate — rispose Godfrey bonariamente. — Fra un momento starete benissimo. — Ma come è stato? — domandò Rogers, poi la sua faccia si fece di porpora e io credetti che svenisse di nuovo. Ma dopo aver respirato affannosamente per qualche secondo, si calmò. — Ora mi ricordo... fatemi vedere ancora quella fotografia. Gliela passai. Gli tremava la mano al punto che poteva appena reggere il cartoncino, ma vidi che lottava disperatamente per dominare la sua agitazione; riuscì a guardare la fotografia con aria indifferente. — La conoscete? — domandò Godfrey. Con mio grande stupore Rogers tentennò il capo. — Non l'ho mai vista prima d'ora — brontolò. — Quando l'ho guardata prima m'è sembrata di conoscerla... ma non è la stessa donna. — Volete dire che non è la donna che è venuta dal signor Vantine questa sera? — domandò il mio compagno in tono severo. Ancora una volta Rogers tentennò il capo. — No, no... non è proprio la stessa donna. Questa è più giovane. Godfrey non rispose; sedette e continuò a guardare Rogers il quale fissava la fotografia. A poco a poco il viso del cameriere si addolcì come se nella sua mente passasse qualche dolce ricordo. — Suvvia, Rogers — dissi. — Sarebbe meglio che diceste tutto quello che sapete. Se questa è la donna che è venuta da Vantine non esitate a dirlo. — Vi ho già detto tutto quello che so, signor Lester — ribatté Rogers, ma evitò di incontrare il mio sguardo. — Non mi sento bene... sarà meglio che vada a coricarmi. — Ottima idea — assentì Godfrey prontamente. — Parks vi aiuterà. Tese la mano per riprendere la fotografia e Rogers gliela consegnò con evidente riluttanza. Dischiuse le labbra come se volesse dire qualcosa, poi le richiuse e si alzò lentamente. — Buona notte, signori — disse con un filo di voce e si allontanò con passo strascicato, appoggiandosi pesantemente alla spalla di Parks. Burton E. Stevenson
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— Ebbene, che cosa ne pensate? — domandai rivolto a Godfrey. — Quell'uomo non dice la verità, naturalmente. Bisognerà scoprire perché mente e costringerlo a dire quello che sa. Ma si fa tardi. Devo fare una scappata all'ufficio. A proposito, Lester, badate che Rogers non se la svigni. — Lo farò tenere d'occhio — promisi. — Però, anche se ha qualcosa da nascondere, non credo che sarà tanto sciocco da fuggire. D'altra parte può anche darsi che abbia detto la verità. Non credo affatto che vi sia una donna coinvolta in queste due morti misteriose. Godfrey, che si era incamminato, si fermò di colpo e mi guardò. — Di chi sospettate allora? — mi domandò. — Di nessuno. — Supponete dunque che entrambi si siano tolti la vita con un sistema tanto anormale? — No, sono convinto che tutti e due sono stati uccisi, ma non da un essere umano... non direttamente, almeno. — Sentii che le mie spiegazioni divenivano un po' troppo vaghe e m'interruppi. — Non posso precisarvi il mio concetto ora, Godfrey... non ho avuto il tempo di riordinare le idee. Credo che per oggi ne abbiate avuto abbastanza. — Sì — rispose il giovanotto sorridendo. — Più che abbastanza per una giornata. E ora arrivederci. Forse farò una scappatina a casa vostra verso mezzanotte, prima di rincasare, sempre che riesca a svignarmela dall'ufficio per quell'ora. Sospirai. Questa volta l'inesauribile energia di Godfrey diventava una piccola calamità. Stavo già agognando di mettermi a letto e mi restavano ancora parecchie cose da fare. Ma lui dopo una giornata di attività turbinosa, con la prospettiva di dover scrivere un articolo di parecchie colonne, sembrava fresco e dinamico come non mai. — Va bene — assentii. — Se vedete la luce accesa salite pure, ma se vedete tutto buio vuol dire che sono a letto... e se mi svegliate vi ammazzo. — D'accordo — rispose lui ridendo e mi lasciò. Parks mi raggiunse nell'atrio. — Ho fatto coricare Rogers, avvocato — disse. — Domani mattina si sarà rimesso del tutto. Che uomo strano... — Da quanto tempo lo conoscete, Parks? — È al servizio del signor Vantine da circa cinque anni. Non so gran che sul conto suo... È un tipo taciturno che sta molto sulle sue e ha sempre l'aria di meditare e di rimuginare. Però ha sempre lavorato con coscienza e con buona volontà, salvo qualche rara volta quando si è sentito male come questa sera. Burton E. Stevenson
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— Parks — dissi a un tratto — devo rivolgermi una domanda. Voi sapete che il signor Vantine era mio amico e che io avevo molta stima di lui. Ora, con questa storia che Rogers va raccontando, si mormora che ci fosse una donna nella sua vita, che ne dite? Credete che sia vero? — No, signore — rispose Parks in tono deciso. — Sono stato il domestico personale del signor Vantine per otto anni e più e durante tutto questo tempo posso assicurarvi che non ha avuto il più piccolo intrigo di donne. Anzi, ho sempre pensato che avesse avuto qualche amore infelice, perché non solo non s'interessava alle donne, ma sembrava quasi sfuggirle... naturalmente questa è un'idea mia. — Grazie, Parks — dissi con un sospiro di sollievo. — Ne ho già viste e sentite tante oggi che avevo proprio paura che venisse a galla qualche altra complicazione... — Scusate, signore — disse una voce alle mie spalle — abbiamo tutto pronto. Mi voltai con un sussulto e vidi un ometto dal volto glabro che mi guardava con fare bonario e si strofinava leggermente le mani. — È l'impiegato dell'impresa di pompe funebri, avvocato — spiegò Parks vedendo la mia aria meravigliata. — È entrato mentre voi e il signor Godfrey eravate nella sala da musica. L'ha mandato il signor Hughes. — Sissignore — approvò l'ometto. — Abbiamo preparato il cadavere per metterlo nella cassa. Siamo riusciti a comporlo molto bene, ma è stato un lavoro difficile. Si tratta di avvelenamento? — Sì — risposi, preso da un vago senso di nausea. — Proprio di un avvelenamento. — Un veleno molto potente, direi, signore... non siamo certo arrivati molto presto. Dove dobbiamo mettere il corpo? — Non potete lasciarlo dov'è? — domandai spazientito. — Benissimo, signore — rispose l'uomo e poco dopo lui e il suo aiutante se ne andarono con mio grande sollievo. — Ed ora, Parks, ho ancora qualcosa da dirvi. Andiamo a sederci da qualche parte. — Volete accomodarvi nello studio, signor avvocato? Scusate la libertà, ma mi sembrate molto sconvolto. Devo portarvi qualcosa? — Prenderei volentieri un cognac... e prendetene uno anche voi. Pochi minuti dopo eravamo seduti nello studio-biblioteca dove soltanto poche ore prima Vantine mi aveva offerto un rinfresco. Guardai Parks e ripassai mentalmente ciò che dovevo dirgli. Quell'uomo mi andava a genio e sentivo di potermi fidare di lui. Deposi il bicchiere e cominciai: Burton E. Stevenson
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— Ora, Parks, quello che ho da dirvi è molto serio e desidero che resti tra noi. So che eravate devoto al signor Vantine... e posso anche comunicarvi che vi ha ricordato nel suo testamento... perciò sono sicuro che farete tutto il possibile per facilitare la soluzione del mistero della sua morte. — Potete starne certo, avvocato — assentì Parks con calore. — Ero molto affezionato al mio padrone e nessuno sentirà la sua mancanza più di me. — Conosco i vostri sentimenti — dissi — e sono sicuro di poter contare sul vostro aiuto. Ho una mia idea sul modo in cui il signor Vantine ha trovato la morte... un'idea molto vaga... troppo vaga per essere tradotta in parole, ma vi posso dire questo: la soluzione del mistero, qualunque essa sia, va ricercata nel salotto dove i cadaveri sono stati trovati e nella stanza attigua dove sono stati messi i mobili nuovi. Intendo chiudere quelle due stanze e desidero che voi facciate attenzione che nessuno vi metta piede. — Sarà poco probabile che qualcuno desideri entrarvi, avvocato — fece Parks con un sorriso amaro. — Non ne sono certo — mormorai in tono grave. — Anzi sono convinto che qualcuno desideri molto entrare in quelle stanze. Non so chi sia e non so neppure che cosa voglia, ma affido a Voi il compito di impedire l'accesso a chicchessia. Se qualcuno tentasse di entrare furtivamente cercate di catturarlo. — Fidatevi di me, signor Lester — disse Parks prontamente. — Ditemi come devo regolarmi. — Mettete un letto nel vestibolo, accanto all'atrio del salotto e dormite là questa notte. Domani deciderò se sia il caso di prendere maggiori precauzioni. — Benissimo, signore, prenderò una branda. — C'è un'altra cosa — soggiunsi. — Mi sono reso garante presso il magistrato che nessuno dei domestici lascerà la casa fino dopo l'inchiesta. Posso contare sugli altri come su di voi? — Senza dubbio, signor Lester. Farò loro capire quanto sia importante che rimangano. — Vi raccomando Rogers in modo particolare — aggiunsi guardandolo. — Capisco, avvocato. — Molto bene. E ora scendiamo a chiudere quelle stanze. Nei due locali tutte le luci erano ancora accese, ma entrambi esitammo un istante prima di varcare la soglia del salotto, poiché nel centro stava una barella su cui si scorgeva una forma coperta da un lenzuolo, che però non Burton E. Stevenson
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ne celava i contorni. Strinsi i denti ed entrai. Parks mi seguì e andò a chiudere la porta di comunicazione. Il salotto aveva due finestre e l'altra stanza, che era d'angolo, ne aveva tre. Erano tutte chiuse, ma una lastra di vetro mi sembrava una barriera assurdamente fragile contro chiunque volesse entrare. — Non ci sono delle imposte di legno per queste finestre? — domandai. — Sissignore... sono state tirate giù ieri e portate nel seminterrato. Devo andarle a prendere? — Sarà meglio... avete bisogno di aiuto? — Nossignore, non sono pesanti. Se volete aspettare un attimo potrete poi chiudere i catenacci delle imposte quando le avrò montate dall'esterno. — Benissimo — approvai e Parks si allontanò. Entrai nella seconda stanza e mi fermai davanti allo scrigno di Boule. Aveva una certa aria di arroganza quel mobile splendido che troneggiava là in piena luce con i suoi intarsi scintillanti che rifrangevano i raggi delle lampade... l'aria altera della cortigiana conscia della propria bellezza e contenta di attrarre l'attenzione... l'aria che doveva avere Madame de Montespan mentre, tutta ingioiellata, percorreva la galleria degli specchi a Versailles. C'era anche qualcosa di minaccioso... qualcosa di sinistro... o forse era la mia fantasia... Udii un lieve rumore alla finestra e vidi Parks fuori, che poneva le imposte sui cardini. Aprii i vetri e tirai il massiccio catenaccio, poi richiusi con molta cura. Quando le altre due finestre furono a posto diedi un'ultima occhiata attorno e spensi le luci. Le finestre del salotto furono ben presto sistemate nello stesso modo e con un sospiro di sollievo mi dissi che non era possibile accedere alla casa da quella parte. Con Parks di guardia davanti all'unica porta, i due locali avrebbero dovuto essere al sicuro da qualunque incursione. Allora, prima di spegnere le luci, mi avvicinai alla forma silenziosa e immota sulla barella, alzai un lembo del lenzuolo e guardai per l'ultima volta il volto del mio defunto amico. 1 suoi lineamenti non erano più sconvolti da un'espressione di terrore; il volto era stato ricomposto ed era quasi sorridente. Con gli occhi umidi e un nodo alla gola risistemai il lenzuolo, poi spensi le luci ed uscii. Nell'atrio incontrai Parks che trasportava un materasso che pose su una branda, poi, quando io ebbi chiuso la porta del salotto, lui spinse la branda attraverso la soglia. — Ecco — disse. — Nessuno potrà certo entrare in quella stanza senza che io lo sappia! Burton E. Stevenson
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— Direi di no — assentii, poi un pensiero mi attraversò la mente. — Sentite, Parks, è vero che c'è un sistema di allarme a tutte le finestre? — Sissignore. Aziona un campanello posto nella camera del signor Vantine e un altro nella mia e nello stesso tempo trasmette una chiamata diretta alla polizia. — Funziona? — Sissignore... lo stesso signor Vantine lo ha verificato nel pomeriggio di oggi, poco prima di cenare. — E allora perché non ha funzionato quando ho aperto quelle finestre, poco prima? — domandai. Parks sorrise. — Perché io avevo girato l'interruttore, avvocato — spiegò. — L'interruttore si trova in una cassettina di ferro infissa nel muro, proprio dietro alla scala. Ogni sera prima di coricarmi avevo il compito di collegare la corrente. Trassi un sospiro di sollievo. — Avete ristabilito il contatto ora? — Certamente, avvocato. Dopo quel che mi avete detto, non potevo dimenticarmene. — Farete bene ad avere anche un'arma a portata di mano — suggerii. — Ho una rivoltella. — Molto bene. Non esitate a servirvene. E adesso vado a casa... sono stanco morto. — Devo chiamarvi un taxi? — No... due passi mi faranno bene. Ci vedremo domani. Parks mi aiutò a indossare il soprabito e venne ad aprirmi la porta. Voltandomi indietro, un momento dopo, lo vidi fermo sulla gradinata che mi seguiva con gli occhi. Potevo capire assai bene la sua riluttanza a rientrare in quella casa che la morte visitava con tanta frequenza, poiché io stesso mi sentivo assai sollevato di esserne fuori.
9. Ipotesi La passeggiata mi fece veramente bene. La pioggia era cessata e si aveva la sensazione che l'aria fosse pulita e fresca, come se fosse stata lavata. La respirai a pieni polmoni e il senso di fatica e di depressione che aveva pesato su di me fino a pochi minuti prima, svanì a poco a poco. Non avevo Burton E. Stevenson
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fretta e feci una deviazione per attraversare Madison Square e per dare un'occhiata al grattacielo Flatiron che sotto i raggi della luna sembrava una torre d'avorio. Era mezzanotte passata quando entrai nell'atrio di palazzo Lincoln. Higgins, il custode, stava per l'appunto chiudendo la porta esterna e mi disse: — C'è un signore che vi aspetta, avvocato... il signor Godfrey... è arrivato dieci minuti fa. Ha detto che attendevate la sua visita e siccome lo conosco l'ho lasciato entrare nel vostro appartamento. Palazzo Lincoln è uno di quei fabbricati divisi in appartamenti, dove però il servizio è organizzato quasi come in un albergo e dove il custode tiene le chiavi di tutti gli appartamenti. — Avete fatto bene — dissi e mentre salivo con l'ascensore mi venne fatto di riflettere ancora sulla inesauribile energia di Godfrey. Trovai l'amico comodamente sdraiato in una poltrona, e volse il capo con un sorriso al mio entrare. — Higgins mi ha detto che non eravate ancora rientrato — spiegò — così ho pensato di aspettarvi, nella speranza che quando sareste arrivato non foste troppo stanco per parlare. Se siete molto stanco, ditemelo senza complimenti e io scappo. — Non sono troppo stanco — risposi togliendomi il soprabito — anzi mi sento molto meglio di un'ora fa. — Mi sono accorto che eravate scombussolato. — Ma come fate voi a resistere così bene, Godfrey? — domandai sedendomi di fronte a lui. — A guardarvi, si direbbe che non abbiate fatto nulla in tutto il giorno. — Eppure sono un po' stanco — confessò. — Ma, vedete, questo mio benedetto cervello non vuol permettere al corpo di riposarsi, finché c'è ancora del lavoro da fare. Poi, quando tutto è terminato, il cervello cede e il corpo dorme come un masso. Per esempio questa notte non avrei potuto dormire bene senza aver udito l'interessantissima ipotesi che ora vi deciderete a confidarmi. D'altra parte ho anch'io qualcosa da dirvi. — Cominciate voi — dissi. — Poco prima che lasciassi l'ufficio è arrivato un telegramma del nostro corrispondente di Parigi. Sembra che il vero signor Theophile d'Aurelle sia un violinista dell'orchestra del Cafè de Paris. Ha suonato come di consueto questa sera, così che è palesemente impossibile che sia lui l'uomo che giace all'obitorio di New York. Inoltre, che lui sappia, nessuno dei suoi conoscenti è in America; può darsi però che riesca a identificare il morto da una fotografia che gli abbiamo già spedita; però non potremo avere una Burton E. Stevenson
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risposta che fra una settimana. Comunque, vedete che avevo ragione di ritenere che il nome del morto non fosse d'Aurelle. — Avete detto di avere una sua fotografia? — Sì, ne ho fatto prendere alcune del cadavere, nel pomeriggio di oggi. Eccovene una. Tenetela... potrebbe servirvi. Presi il cartoncino e mentre fissavo il viso che vi era ritratto, mi resi conto che dai lineamenti sconvolti che avevo veduti nel pomeriggio non mi ero fatto un giusto concetto delle sembianze del francese. Ora gli occhi erano chiusi, i lineamenti ricomposti, ma nemmeno la calma della morte valeva a conferire loro un po' di dignità. Vi erano tutte le caratteristiche dell'uomo debole e dissipato, dello sfaccendato che passa tutta la sua vita nei caffè, come Parks aveva detto... dell'individuo senza quadratura morale, capace di qualunque bassezza. Questa almeno era la mia diagnosi. — Si tratta evidentemente di un uomo di bassa estrazione — osservò Godfrey. — Direi che fosse uno di quei parassiti senza lavoro e senza risorse, tanto comuni a Parigi. — Credo che abbiate ragione — assentii. — Nello stesso tempo, se era un uomo di quella fatta, non vedo che cosa potesse avere a che fare con Philip Vantine. — Nemmeno io, ma ci sono tante cose che non capisco, in questa faccenda. Siamo nelle tenebre, Lester. Ve ne rendete conto? Siamo proprio nelle tenebre! — Sì, me ne rendo conto. — Probabilmente riusciremo a stabilire l'identità di quest'uomo, col tempo... forse vi riusciremo presto, poiché la maggior parte dei giornali pubblicherà qualche fotografia e se c'è qualcuno a New York che lo conosce, si farà avanti. Quando avremo scoperto chi è, potremo probabilmente intuire la natura dei suoi rapporti con Vantine. Dobbiamo scoprire chi è la donna che si è presentata questa sera a casa di Vantine... per questo basterà mettere Rogers alle strette; potremo poi trovare la donna e strapparle il suo segreto. Sapremo perché Rogers tenta di farle da paravento... tutto ciò è relativamente semplice. Ma quando avremo nelle mani questi elementi, temo che li troveremo del tutto privi di importanza. — Strano che voi la pensiate così — osservai. — Non è possibile... — Dico privi di importanza, perché non sono questi i fatti che ci possono interessare. Noi abbiamo bisogno di sapere come sono stati uccisi Philip Vantine e lo sconosciuto francese. Ed è proprio questo che, secondo me, non ci potranno dire né la donna, né Rogers, né alcun'altra delle persone che sino ad ora abbiamo sott'occhio. C'è una personalità nascosta Burton E. Stevenson
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dietro questa faccenda... una personalità sul conto della quale non abbiamo il più piccolo indizio e alla quale non so proprio come potremo arrivare. È come un'ombra minacciosa che non si riesce ad afferrare... mi lascia perplesso... mi spaventa quasi. Seguì un momento di silenzio, poi decisi che era venuto il momento di parlare. — Godfrey, sto per dirvi una cosa in tutta confidenza... una cosa che dovrà rimanere fra voi e me fino a quando non vi darò il permesso di divulgarla. Accettate le condizioni? — Certo. Parlate — rispose il giovane piantandomi gli occhi in faccia. — Ebbene, credo di sapere come quei due uomini siano stati uccisi. Ascoltatemi. Gli raccontai con tutti i particolari la storia dello scrigno di Boule; gli ripetei l'ipotesi di Vantine sull'identità della persona che per prima l'aveva posseduto; menzionai il prezzo che il mio povero amico si era dichiarato disposto a pagare per acquistarlo; descrissi la differenza tra uno scrigno originale e il cosiddetto negativo e mi attardai sulle asserzioni di Vantine secondo le quali quello era indiscutibilmente un'opera d'arte originale. Prima che avessi finito Godfrey si alzò e cominciò a passeggiare nervosamente per la stanza; aveva il viso arrossato e gli occhi scintillanti. — Straordinario! — mormorava di tanto in tanto. — Meraviglioso! Che storia sensazionale uscirà da tutto ciò, Lester! — gridò poi fermandosi accanto alla mia poltrona e sorridendomi mentre io terminavo il racconto. — È una storia unica... ecco quello che conta... è una storia unica! Unica come quel prezioso scrigno di Boule! — Dunque avete capito anche voi? — domandai un po' deluso che la mia ipotesi sembrasse tanto evidente. — Se ho capito? — si lasciò cadere di nuovo nella sua poltrona. — Bisognerebbe avere la mente annebbiata per non capire! Tuttavia, Lester, avete un gran merito ad aver collegato i fatti. Nella polizia stessa ci sono tanti... Grady per esempio... che non sono capaci di fare altrettanto... non sanno distinguere i fatti essenziali da quelli secondari e soprattutto non riescono a capire come fra due cose che apparentemente non hanno nulla a che fare l'una con l'altra possa esistere un punto di contatto. Ora, il fatto che Vantine fosse venuto in possesso di uno scrigno di Boule sembrerebbe trascurabile a Grady, mentre invece è un fatto essenziale in tutto questo mistero. E siete stato voi il primo a capirlo! — Nondimeno, appena vi ho esposto i fatti, l'avete capito subito anche voi — osservai. Burton E. Stevenson
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— Sì, ma voi li avete menzionati in modo da renderne manifesta l'importanza. Non potevo fare a meno di capire. Ed ora credo che siamo arrivati entrambi alla medesima conclusione. Eccovi la mia: lo scrigno contiene un cassetto segreto, cosa sicura, se è vero che apparteneva a Madame de Montespan. Uno scrigno fatto per lei non poteva non avere un cassetto segreto. Quel cassetto che probabilmente era fatto per contenere preziosi documenti quali le lettere d'amore di un re (e ancor più se le lettere d'amore fossero state di un altro) doveva essere fatto in modo che nessuno potesse mettervi le mani; perciò l'artefice vi ha posto un meccanismo congegnato in modo da ferire alla mano chiunque tentasse di aprirlo e da iniettare un veleno tanto potente da causare la morte istantanea. Fin qui va bene? — A meraviglia — risposi. — Io stesso non avevo formulato l'ipotesi con tanta chiarezza. Continuate. — Veniamo alla conclusione allora — riprese Godfrey. — Innanzi tutto possiamo ritenere che lo scopo della visita dello sconosciuto francese a casa di Vantine avesse attinenze in qualche modo con lo scrigno. — Vantine stesso sospettava qualche cosa di simile — interruppi. — Mi ha detto che proprio per questo aveva acconsentito a ricevere lo sconosciuto. — Bene! Questo vorrebbe indicare che siamo sulla buona pista. La visita del francese, dunque, aveva qualche cosa a che fare con lo scrigno e con il cassetto segreto. Lasciato solo lui scopre lo scrigno, nella stanza attigua al salotto, tenta di aprire il cassetto e vi lascia la pelle. — D'accordo. Ed ora come spiega il caso di Vantine? — Il caso di Vantine non è altrettanto semplice. Presumibilmente la donna sconosciuta è andata da lui per parlargli in merito allo scrigno. A sua volta lei voleva aprire il cassetto segreto per impossessarsi di ciò che conteneva... questo lo si può presumere a priori, dato che era in rapporti col primo visitatore. — Credete ancora che la misteriosa visitatrice e la donna della fotografia siano la stessa persona? — Ne sono sicuro. Ma torniamo a bomba. Come è avvenuto che sia stato Vantine a lasciarci la vita? Si deve supporre che la donna, messa al corrente della sorte subita dall'uomo, abbia deliberatamente indotto Vantine ad aprire il cassetto per non correre il rischio? Oppure anche lei ignorava il meccanismo? E, a parte ciò, è riuscita a portar via il contenuto del cassetto? — Ma che cosa era il contenuto del cassetto? — domandai. Burton E. Stevenson
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— Ah, se sapessimo questo!... — Ma forse la donna non c'entrava per niente. Vantine mi aveva detto che voleva compiere un esame minuzioso dello scrigno. Probabilmente lo stava compiendo quando l'arrivo della donna l'ha interrotto. Potrebbe darsi che lui stesso l'abbia ricondotta alla porta, poi ritornato allo scrigno abbia trovato il cassetto fatale quando la donna se n'era già andata. — Sì, questo non si può escludere. In ogni modo, siamo d'accordo nel ritenere che entrambi gli uomini sono stati uccisi in una maniera simile a quella che ho descritto, non è vero? — Certamente. Credo che non vi sia dubbio possibile. — Vi sono delle obiezioni... delle obiezioni di un certo peso però. L'ipotesi spiega i due decessi; spiega l'uguaglianza delle ferite, spiega come queste si trovassero in entrambi i casi sulla mano destra al disopra delle nocche, spiega perché entrambi i cadaveri siano stati trovati nello stesso punto, poiché si può presumere che l'uno e l'altro abbiano tentato di raggiungere l'atrio per chiamare aiuto. Ma, in primo luogo, se il francese è riuscito ad aprire il cassetto, chi l'ha richiuso? — Forse si è chiuso da solo quando lui l'ha lasciato andare. — E si sarebbe chiuso di nuovo dopo che Vantine l'ha aperto? — Perché no? — Ci vorrebbe un meccanismo un po' complicato per questo. — Può darsi che ci sia. — Sì, può darsi. Del resto, dobbiamo ricordare che gli avvelenatori di quei tempi erano molto ingegnosi. Però c'è una cosa che non può darsi: un veleno che venisse somministrato come noi riteniamo, deve essere liquido, e non si può supporre che sia rimasto fresco conservando tutte le sue qualità tossiche per più di trecento anni. Si sarebbe seccato da secoli. D'altra parte mi sembra inammissibile che il meccanismo stesso possa funzionare ancora alla perfezione. Dev'essere complesso e complicato, quindi per funzionare dovrebbe venire lubrificato e revisionato di quando in quando. Se funziona con una molla... e non vedo come altrimenti dovrebbe funzionare... la molla dovrebbe essere rinnovata... — Ebbene? — domandai vedendolo esitare. — Ebbene, è evidente che il cassetto contiene qualcosa di assai più moderno che non le lettere d'amore di Luigi XIV. Il meccanismo dev'essere stato rimesso in funzione di recente. Ma da chi? Per quale scopo? Ecco il mistero che dobbiamo risolvere... e non si tratta di un'inezia! Ed eccovi un'altra obiezione: quel francese conosceva il segreto del cassetto poiché, secondo la nostra ipotesi, lo ha aperto ed è rimasto Burton E. Stevenson
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ucciso. Come mai non conosceva anche l'esistenza del veleno? Quella era davvero un'obiezione che dava da pensare e più riflettevo e più la trovavo grave. Finalmente Godfrey soggiunse: — Potrebbe darsi che d'Aurelle volesse operare per proprio conto... che avesse rotto i rapporti con la banda e... — Con la banda? — Naturalmente che c'è una banda! Questa macchinazione deve aver richiesto piani elaborati e sforzi concordi da parte di varie persone. E, badate, il capo della banca è un genio! Ve ne rendete conto? Riflettete: conosce il segreto del cassetto di Madame de Montespan, ma soprattutto conosce il segreto del veleno... un veleno di una potenza straordinaria! Sapete che cosa significa questo, Lester? — Che cosa significa? — domandai. — Significa che è un grande delinquente... un vero grande delinquente... uno di quegli ingegni d'eccezione che talvolta si incontrano nel mondo criminale. Osservate. Lui solo conosce il segreto del veleno; uno dei suoi uomini tenta di tradirlo e paga con la vita. Lui è il cervello, gli altri sono soltanto degli strumenti. — Allora non credete che lo scrigno sia stato mandato a Vantine per pura combinazione? — Nemmeno per sogno! Quello che sembra un errore è stato secondo me una manovra assai ben congegnata. — E potete darmi qualche spiegazione in proposito? — domandai un po' ironicamente. Mi sembrava che Godfrey lasciasse galoppare un po' troppo la sua immaginazione. Sorrise bonariamente notando il mio tono. — Naturalmente queste sono soltanto fantasticherie — ammise. — Sono il primo a riconoscerlo. Stavo semplicemente tentando di portare la nostra ipotesi a una conclusione logica. Ma forse siamo su una pista sbagliata. Forse il sedicente d'Aurelle si è trovato coinvolto in questa faccenda per caso e ha fatto la fine della falena che si avvicina troppo alla fiamma della candela. Quanto agli scopi della macchinazione dobbiamo ancora limitarci alle ipotesi. Ma supponete che voi e io avessimo compiuto un furto in grande stile... Si fermò di colpo e spalancò gli occhi. — Che cosa c'è, Godfrey? — esclamai impressionato per la sua aria allarmata. Il giovanotto era balzato in piedi e mi aveva afferrato per un braccio. — Lester! — esclamò e gli tremava la voce per l'ansia. — Quello Burton E. Stevenson
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scrigno non è sorvegliato! — Sì che lo è — risposi. — Ho pensato di impedire qualunque possibilità di manomissione. E gli raccontai delle precauzioni che avevo prese per impedire che qualche intruso penetrasse nelle due stanze. Tirò un sospiro di sollievo. — Meno male — borbottò. — Parks non potrebbe fare molto forse, se venisse assalito da un individuo deciso a tutto, ma credo che lo scrigno sia al sicuro almeno per questa notte. E domani stesso, Lester, noi compiremo un'ispezione. — Un'ispezione? — Sì, esamineremo lo scrigno per cercare il cassetto segreto! Lo fissai a bocca aperta sbalordito e lui aggiunse: — E lo troveremo! — Anche d'Aurelle e Vantine l'hanno trovato — dissi con un filo di voce. — Ebbene? — E sono morti entrambi! — Noi non ci lasceremo la pelle! Ci muniremo di un'armatura, Lester. Gli aculei possono colpire... — Per carità! — gridai rannicchiandomi alquanto sulla poltrona. — Io... io non mi sento di farlo, Godfrey. Io so che non sono un vigliacco... ma di fronte ad una cosa simile... — Mi starete a guardare — fece il giovanotto. — Sarebbe ancora peggio! — Ma io mi premunirò, Lester, non ci sarà pericolo. Avanti dunque! Diamine, non capita tutti i giorni nella vita di mettere le mani nel cassetto segreto di Madame de Montespan!... E nemmeno di entrare in lizza con il più grande delinquente dell'era moderna! — Emise una risata stridula dalla quale compresi quanto fosse eccitato. — E sapete che cosa troveremo in quel cassetto, Lester? Ma no... è soltanto un'ipotesi come le altre... anzi, più fantastica delle altre... ma se fosse esatta... se fosse esatta... Si mise a passeggiare avanti e indietro per la stanza con aria concitata, ma in breve si calmò. — Comunque mi aiuterete, Lester? Verrete con me? C'era qualcosa di irresistibile... direi quasi di magico nei suoi modi. D'altra parte, il pensiero di dare un'occhiata al cassetto segreto della Montespan mi allettava. E poi, come aveva detto Godfrey, si trattava di mettersi in lizza con il più grande delinquente del nostro tempo! Che Burton E. Stevenson
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avventura! — Sì — risposi con impeto. — Verrò! L'amico mi diede una manata sulla spalla e il suo volto fu illuminato da un sorriso. — Sapevo di poter contare su di voi! Sarà per domani sera, allora... verrò a prendervi qui alle sette. Ceneremo insieme, poi... all'arrembaggio! D'accordo? — D'accordo! Prese il soprabito e il cappello e s'incamminò verso la porta. — Ho ancora parecchie cose da fare — disse — devo preparare l'armatura... devo riflettere sul piano di battaglia... buona notte, Lester. La porta si chiuse alle sue spalle e udii i suoi passi che si allontanavano sulle scale. Guardai l'orologio... erano quasi le due. Mi coricai con le idee molto confuse e mi addormentai subito, ma il mio sonno fu turbato da un incubo tremendo... un rettile dagli occhi fiammeggianti e dai denti che sprizzavano veleno!
10. Preparativi La mattina seguente quando mi svegliai il mio primo pensiero fu per Parks, poiché dall'atteggiamento di Godfrey avevo intuito che il domestico poteva trovarsi in un pericolo molto più grave di quanto io non avessi pensato nel metterlo di guardia alla porta davanti al salotto. Provai quindi un senso di grande sollievo quando udii la voce di Parks rispondere alla mia chiamata telefonica. — Sono l'avvocato Lester — dissi. — tutto bene? — Tutto bene, signor avvocato — rispose il cameriere. — Vi assicuro che adesso un ladro dovrebbe essere il diavolo in persona per penetrare in questa casa. — Perché? — I giornalisti si sono accampati tutt'intorno alla casa. Sembra che credano che qualcun altro verrà ucciso qui, oggi. Parks evidentemente la prendeva alla leggera, ma io non ero disposto a fare altrettanto. — Dio ce ne scampi! — dissi. — Non lasciate entrare nessuno dei giornalisti e non rispondete alle loro domande. Dite loro che se vogliono delle informazioni bisogna che si rivolgano alla polizia. Se si fanno troppo Burton E. Stevenson
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arditi fatemelo sapere e manderò qualche agente. — Benissimo, signore. — Badate che l'ordine non vale soltanto per i giornalisti. Non lasciate entrare in casa nessuno che non sia accompagnato dal signor Grady o dal signor Simmonds o dal signor Goldberg. Alla minima complicazione telefonatemi. Vi raccomando di essere molto cauto. — Capisco, signore. — Come sta Rogers? — Molto meglio. Voleva alzarsi, ma io gli ho consigliato di restare a letto. Mi è parsa la miglior cosa da farsi, avvocato. — Avete fatto benissimo! Fatelo restare a letto il più a lungo possibile. Verrò in giornata, se posso; in ogni caso il signor Godfrey e io saremo lì questa sera. Se avete bisogno di me mi troverete in ufficio. — Benissimo, signore — rispose Parks, e io riappesi il ricevitore. Durante la prima colazione diedi un'occhiata al resoconto di Godfrey sull'affare e mi divertii un mondo leggendo le frecciate contro il capitano Grady. Sotto la fotografia della donna sconosciuta, spiccava la scritta: La misteriosa visitatrice del signor Vantine (Grady ne prenda nota) C'era un periodo in cui era detto che quando Grady aveva bisogno di informazioni serie su un caso che lo lasciava perplesso, doveva andare al Record per ottenerle. Queste facezie tuttavia erano in seconda linea e la storia della duplice tragedia, riccamente illustrata, si estendeva per diverse colonne ed era palesemente trattata come la grande sensazione del giorno. Nel recarmi in ufficio, acquistati alcuni altri giornali. Tutti parlavano del dramma misterioso e pubblicavano numerose fotografie... fotografie di d'Aurelle, di Vantine, di Grady (molto grande) di Simmonds, di Goldberg, di Freyling, della casa di Vantine nonché alcune piantine del salotto, nelle quali era segnata la posizione dove i cadaveri erano stati trovati; c'erano anche degli schizzi anatomici che dimostravano l'esatta natura delle ferite, alcune fotografie dei più celebri avvelenatori della storia con un elenco delle loro maggiori prodezze, rievocate a forti tinte. Ma quando arrivavano alla storia della tragedia di per se stessa, i resoconti degli altri giornali perdevano di interesse e sfiguravano di fronte a quello del Record. Per la maggior parte erano in verità un insieme di ipotesi, di teorie, di fantasie da far agghiacciare il sangue, di misteriose allusioni a ipotetiche Burton E. Stevenson
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informazioni confidate a questo o a quel cronista, i quali però, per prudenza, non le divulgavano prima che il delinquente venisse tratto in arresto. Nessun giornale metteva in dubbio che questo non dovesse accadere molto presto. Non era forse vero che Grady, il possente Grady, aveva acconsentito ad occuparsi personalmente del caso? (E qui seguiva un roboante racconto della carriera di Grady.) Era chiaro che tutti quei giornalisti erano stati costretti a rivolgersi a Grady per avere qualche informazione e mi sembrava di sentirli imprecare contro di lui tra i denti mentre scrivevano quei panegirici sul suo conto. Mi sembrava anche di sentire i vari capo redattori dare in escandescenze confrontando gli articoli incoerenti e sconclusionati dei loro rispettivi giornali con la storia organica e logica pubblicata dal Record. Ora capivo che era stato appunto il trionfo di Godfrey a provocare la calata della falange dei giornalisti sulla dimora di Vantine. Rievocai tutte le circostanze della faccenda col mio collega anziano Royce, appena lui arrivò in ufficio, e passai il resto della giornata a riordinare le carte relative agli affari di Vantine, mettendo da parte quelle che avevano particolare attinenza con le sue ultime volontà. Parks mi telefonò un paio di volte per ottenere istruzioni su diversi particolari e il più vicino parente di Vantine, un cugino in terzo o quarto grado, mi telegrafò da qualche parte dell'Ovest, che sarebbe partito subito per New York. Poi, verso la metà del pomeriggio, arrivò da Parigi la risposta telegrafica alla quale a dire il vero non pensavo nemmeno più. Il telegramma diceva: Deploriamo errore spedizione. Attendete visita nostro rappresentante. Armand e Fils Così crollava il romanzo fabbricato da Godfrey secondo il quale l'invio dello scrigno sarebbe stato una manovra tenebrosa. In fin dei conti si trattava proprio di un errore. E pensare che ero stato sul punto di accettare la versione del giornalista. Risi tra me per la mia credulità. Senza dubbio il mio romanzo del cassetto segreto e del meccanismo che iniettava il veleno si sarebbe rivelato egualmente fantastico. La sera prima, nello stato di sovraeccitazione in cui mi trovavo, l'ipotesi mi era sembrata abbastanza ragionevole, ma ora alla cruda luce del giorno mi appariva assurda e grottesca. Per fortuna non mi ero confidato con Grady e con Goldberg, altrimenti si sarebbero fatti una bella risata alle mie spalle! Scacciai con impazienza quelle fantasticherie dalla mia mente e cercai di Burton E. Stevenson
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concentrarmi nel lavoro, ma non riuscivo a liberarmi da un certo nervosismo, cosicché finii per chiudere la scrivania e, dopo aver detto al fattorino che non sarei più ritornato, presi una carrozza e andai a fare una corsa nel parco. L'aria fresca, il profumo degli alberi, lo spettacolo dei bambini che giocavano, mi fecero bene e quando Godfrey venne a prendermi alle sette mi trovò di buon umore. — Ho prenotato un tavolo in un piccolo ristorante qui all'angolo — disse. — Il direttore è mio amico e credo che ci troveremo bene. E ci trovammo bene davvero. La cena era così buona che le dedicammo tutta la nostra attenzione e soltanto quando ci venne servito il caffè e accendemmo i sigari, affrontammo l'argomento che ci stava a cuore. — Nulla di nuovo? — domandai. — No, niente di importante. Il cadavere dell'obitorio non è ancora stato identificato. Sembra che la polizia di Parigi non abbia mai avuto occasione di prendere le sue impronte il che dimostra che non è mai stato arrestato. — Allora non è un delinquente? — Per ora sappiamo soltanto che non è mai stato arrestato — precisò Godfrey. — Lo strano è che qui nessuno lo abbia riconosciuto. Presumibilmente due milioni di persone hanno visto la sua fotografia sui giornali di stamane. Qualcuno ha creduto di riconoscerlo e si è recato all'obitorio per vedere il cadavere, ma in tutti i casi si trattava di una semplice somiglianza. Alla polizia non è stata notificata la scomparsa di nessuno che risponda ai suoi connotati. — Strano davvero — commentai. — Sì, è molto strano. Le spiegazioni possono essere due: o gli amici di quell'individuo si tengono nell'ombra a bella posta oppure non aveva amici né conoscenti a New York. Ma anche in questo caso sarebbe presumibile che la persona o le persone che gli avevano affittato una camera domandassero dov'è andato a finire e avvertissero le autorità. — Forse non aveva una camera — dissi. — Potrebbe darsi che fosse appena arrivato a New York e si fosse recato direttamente da Vantine. Il viso di Godfrey s'illuminò. — Direttamente dalla nave, naturalmente! Avrei dovuto pensarci prima... avrei dovuto intuirlo, non foss'altro che dal taglio dei capelli, prettamente francese. Quell'uomo non poteva mancare dalla Francia da oltre dieci giorni. Scusatemi un momento. Corse via e passarono cinque minuti prima che ritornasse. — Ho telefonato all'ufficio di mandare qualcuno a bordo delle navi che sono arrivate ieri. Qualche inserviente potrebbe riconoscerlo dalla Burton E. Stevenson
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fotografia. Ci sono tre navi con le quali avrebbe potuto arrivare: l'Adriatic e il Cecilia da Cherbourg, e La Touraine da Le Havre. A proposito, Freyling crede di avere scoperto la natura del veleno, dice che si tratta di acido prussico trattato in modo speciale. — Sì, gli ho sentito dire qualcosa di simile anche ieri sera. — Ho parlato con lui oggi in proposito e mi è parso molto documentato — riprese Godfrey. — Questa è la migliore occasione che gli sia mai capitata per mettersi in vista e vedo che fa l'impossibile per approfittarne. Da quello che mi ha detto mi sembra di aver compreso che il solito acido prussico, il quale è già abbastanza micidiale, contiene soltanto il due per cento del veleno; la più forte soluzione ottenuta fino ad ora sale al quattro per cento. Freyling afferma che la persona che ha manipolato questo veleno ha scoperto evidentemente un nuovo sistema di lavorazione... oppure ha riesumato qualche formula degli speziali del Medioevo... così il veleno ha una potenza maggiorata del cinquanta per cento almeno. In altre parole basta iniettare una goccia nel sangue di un uomo per provocare la paralisi cardiaca più rapidamente che con un proiettile attraverso il cuore. — Quindi non ci sarebbe salvezza possibile, è vero? — domandai. — No, assolutamente. Forse se qualcuno avesse una scure a portata di mano e si tagliasse il braccio alla spalla un istante dopo l'inoculazione, vi potrebbe essere una probabilità di vita; ma si dovrebbe agire fulmineamente e anche in questo caso ci sarebbe poco da sperare. Freyling crede che si tratti di una nuova scoperta. Io no. Ritengo piuttosto che qualcuno sia riuscito a ritrovare un'antica formula. Chissà? Forse la formula si trovava proprio nel cassetto segreto. In fondo sarebbe stato il luogo più logico per nasconderla. — Sentite, Godfrey — dissi — siete ancora deciso a manovrare attorno a quel mobile? — Più che mai. Voglio trovare il cassetto segreto. E se tira fuori gli aculei... ebbene ho preso le mie precauzioni. Guardate quel che ho fatto oggi. Trasse di tasca un arnese che sembrava un guanto di ferro, simile a quelli che si vedono nelle armature antiche. Se lo infilò alla mano destra. — Vedete, copre il dorso della mano completamente, e scende fino alla prima falange delle dita. È di acciaio durissimo e devierebbe un proiettile. Vedete questa depressione al centro, Lester? — Sì, la vedo... stavo appunto domandandomi perché l'avete fatto in quella forma. — Voglio avere un campione del veleno. Secondo la mia ipotesi, Burton E. Stevenson
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quando gli aculei colpiscono una mano, a causa del colpo stesso, secernono qualche goccia di tossico. Non voglio che quelle gocce vadano perdute e spero che si fermino in questa cavità. Pensate, Lester, come sarebbe importante avere un campione di quel liquido mortale! Rimasi un momento a guardarlo mezzo divertito e mezzo rattristato. Sembrava un peccato che la sua ipotesi dovesse crollare. Era tanto pittoresca e lui ne era così entusiata! E poi ne sarebbe uscita una storia straordinaria per il giornale! Godfrey sorprese il mio sguardo e si rimise in tasca il guanto. — Ebbene, che c'è? — mi domandò. Per tutta risposta presi dalla tasca il telegramma. Lo lesse corrugando la fronte. — Mi pare che questo sia uno spillo nel nostro palloncino, non è vero? — domandai finalmente. Godfrey assentì con aria meditabonda. — Pare anche a me — mormorò e rilesse il telegramma, parola per parola. — Il rappresentante di Armand non è ancora comparso? — No. Il telegramma è arrivato oggi alle tre. Immagino che verrà domani. — Naturalmente dovrete consegnargli lo scrigno. — Non posso fare altrimenti, dal momento che gli appartiene. Godfrey mi restituì il telegramma. Vidi che era perplesso e disorientato. — Ebbene, nonostante ciò, quello scrigno mi interessa ancora, Lester — disse finalmente. — E vorrei che lo teneste in vostro possesso il più a lungo possibile. Potreste almeno aspettare a consegnarglielo, finché lui non vi avesse dato l'altro scrigno che Vantine acquistò realmente. — Non sarà una condizione difficile da imporre — assentii. — Guadagneremo sempre qualche giorno... parecchi giorni, anzi, se lo scrigno di Vantine è ancora a Parigi. Godfrey fece un cenno al cameriere, domandò il conto e pagò. — Ed ora andiamo a dare un'occhiata a quel famoso capolavoro. Mi giudicherete sciocco. Lester, ma anche quel telegramma non ha scosso la mia convinzione in merito all'esistenza di un cassetto segreto. — E tutto il resto? — domandai. — Non vi è nulla di cambiato nel mio pensiero — mi rispose lentamente. Non disse altro, finché non arrivammo davanti alla casa di Vantine, ma mi rendevo conto della sua aria assorta che stava tentando disperatamente di dipanare la matassa del mistero. Burton E. Stevenson
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— Sembra che sia stato tolto l'assedio — osservai. — L'assedio? — Sì. Parks mi ha telefonato oggi che i vostri eminenti colleghi si sono accampati tutt'intorno alla casa. Io gli ho detto di tenere duro. — Poveri ragazzi! — commentò Godfrey. — Pensare che devono dipendere da quello che Grady può dire loro! Eravamo fermi sul marciapiede. Godfrey alzò gli occhi a guardare la facciata dell'edificio e mi domandò: — Qual è la stanza in cui si trova lo scrigno? — Il salotto è là, a sinistra, dove ci sono due finestre chiuse dalle imposte. Lo scrigno è nella stanza d'angolo che ha una finestra da questo lato e due sul fianco della casa. — Aspettate... vado a dare un'occhiata — e scavalcando con un volteggio il basso muricciolo di cinta percorse un breve tratto lungo la facciata della casa e svoltò l'angolo. Riapparve dopo un minuto. — Tutto a posto — annunciò con tono sollevato. — Naturale che tutto sia a posto! Credevate forse...? — Se quello scrigno contiene quel che io penso, non è al sicuro nemmeno nella più solida camera di sicurezza della Banca Nazionale. A un suo cenno suonai il campanello. Parks venne ad aprire immediatamente e dalla sua espressione compresi quanto fosse lieto di vedermi. — Ebbene, Parks, tutto procede regolarmente, spero — dissi entrando nell'atrio. — Sissignore, però... l'atmosfera di questa casa da un po' sui nervi. Udii un movimento dietro di me mentre davo il soprabito a Parks; mi voltai e vidi Rogers seduto sulla branda. — Ohilà — dissi — siete già in condizioni di alzarvi? — Sissignore — rispose il domestico senza guardarmi. — Ho pensato di venire a tenere un po' di compagnia a Parks. Parks sorrise un po' impacciato. — A dire il vero, sono stato io a incoraggiarlo, avvocato. Non resistevo più a star qui solo e avevo bisogno di qualcuno con cui scambiare due parole... specialmente dopo che il sistema d'allarme ha suonato. — Allarme? — ripeté Godfrey rapidamente. — Che significa questo? — Abbiamo un sistema d'allarme alle finestre, signore. Di solito, durante il giorno, si toglie la corrente, ma oggi ho ritenuto opportuno lasciarla e verso la metà del pomeriggio il campanello si è messo a suonare. Sulle prime ho creduto che uno degli altri domestici avesse Burton E. Stevenson
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toccato una finestra, ma non era così. Dev'esserci stato un contatto, credo. — Avete dato un'occhiata alle finestre? — Sissignore, il suono è stato avvertito anche al posto di polizia e un agente è venuto a controllare. Abbiamo fatto il giro di tutta la casa, abbiamo esaminato le finestre, ma erano tutte chiuse. Tuttavia mi sono un po' impressionato. — Adesso il sistema d'allarme funziona? — Nossignore, l'agente della polizia ha detto che deve esserci stato un corto circuito e che avrebbe avvertito lui stesso la ditta che ha fatto l'installazione; però fino ad ora non si è visto nessuno. — Sarà bene che diamo un'occhiata anche noi alle finestre — disse Godfrey — rimanete qui, Parks. Possiamo compiere da soli le nostre ispezioni. Io non voglio che nemmeno per un istante, quella porta rimanga senza sentinella. Passammo di finestra in finestra e Godfrey le esaminò tutte con una minuziosità che mi stupì, poiché non avevo idea di quel che si aspettava di trovare. Terminammo il giro del pianterreno senza che scoprisse nulla. — Andiamo a dare un'occhiata al seminterrato — disse il giovane e trovò la scaletta che scendeva dall'ingresso, con una tale facilità che mi resi conto che nella sua precedente ispezione della casa non gli era sfuggito nulla. In cucina trovammo la cuoca e la cameriera sedute l'una vicino all'altra, che parlavano a voce bassa. Si guardarono con fare intimorito e io mi fermai per rassicurarle mentre Godfrey proseguiva nelle sue ricerche. A un tratto udii che mi chiamava. Lo raggiunsi in una specie di stanza di sgombero e lo trovai davanti a un'unica finestrella che guardava sul giardino. Teneva in mano la lampadina tascabile accesa. — Guardate qui — disse con fare concitato e proiettò il raggio della lampadina sul punto ove i battenti della finestra si incontravano. — Che c'è? — domandai. — Non vedo niente di particolare. — Ah, no? Non vedete che qualcuno intendeva penetrare in questa casa durante la notte? Altrimenti che significa questo? Con un'unghia allontanò dal legno della cornice l'estremità di un piccolo filo isolato. Allora mi accorsi che il filo del segnale di allarme era stato tagliato.
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Gli occhi fiammeggianti Per un istante non afferrai il pieno significato di quel filo reciso. Poi compresi. — Sì — disse Godfrey in tono asciutto — le fondamenta del mio romanzo reggono ancora. Qualcuno ha preparato il terreno per invadere la casa questa notte e tagliando questo filo ha interrotto il circuito del meccanismo di allarme... si tratta naturalmente di qualcuno che si interessa di quello scrigno. — Si direbbe che questo qualcuno non volesse perder tempo — osservai. — Evidentemente sa che non ha tempo da perdere. Quando avete fatto mettere le imposte di legno l'avete avvertito che sospettavate il suo gioco. Senza dubbio, quando ha tagliato il filo, ha tenuto conto che di giorno questi apparecchi di segnalazione non funzionano e sapeva che c'era una probabilità su cento che il guasto venisse constatato. — Non potremmo tendergli un'imboscata? — suggerii. — Potremmo tentare, ma sarebbe un'impresa molto rischiosa, Lester. — Quanto a imprese rischiose ne abbiamo già una da compiere questa sera, e forse basterà — risposi con un sospiro poiché mi era ritornata di colpo la convinzione che esistesse il cassetto segreto con i suoi aculei velenosi e tutto il resto. Sentivo quasi dei rimorsi per aver dubitato dell'acume di Godfrey. — Sarà meglio che aspettiamo di vedere se possiamo sopravvivere al primo cimento, poi potremo pensare all'opportunità di intraprenderne un altro. — Va bene — rispose Godfrey ridendo. — Per il momento riparerò il guasto. Prese dalla tasca il temperino, staccò il filo elettrico da un isolatore in modo da poterlo avvicinare un poco al filo dell'altra parte, poi prese i due capi e dopo aver coperto qualche centimetro di rame bruciacchiando con un fiammifero il rivestimento isolante, li intrecciò strettamente. — Ecco fatto — disse. — Se l'invasore si azzarda a toccare una finestra, il campanello d'allarme funzionerà. Ma non credo che faccia un tentativo questa notte. A quest'ora quello sa già che non c'è niente da fare. — E come volete che faccia a saperlo? — domandai incredulo. — Sentite, a norma di logica deve aver tenuto d'occhio questa finestra; in tal caso ha visto la luce della mia lampadina; forse, anche in questo momento ci sta osservando. Lanciai un'occhiata al quadrato nero della finestra, con un brivido. Burton E. Stevenson
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Quella storia ricominciava a scuotermi i nervi. Ma Godfrey si allontanò con una scrollata di spalle. — Occupiamoci dello scrigno, ora — disse e risalì la scaletta. Rogers stava ancora seduto con aria dolente sulla branda di Parks e guardandolo da vicino vidi che era pallido e tremante. — Avete nulla da dirci, questa sera, Rogers? — domandai gentilmente, ma lui tentennò il capo. — Vi ho detto tutto ciò che so, signor avvocato — rispose a voce bassa. — Io non voglio infastidirvi, Rogers — soggiunsi — ma vorrei soltanto pregarvi di riflettere bene. In ogni caso, voi sapete di poter contare sul mio aiuto e sulla mia comprensione. Alzò il capo di scatto come se volesse dire qualcosa, ma parve pentirsi e abbassò di nuovo gli occhi. — Vi ringrazio, signore — rispose e non aggiunse altro. — E ora debbo pregarvi di alzarvi un momento — dissi. — Spostate la branda, Parks. Parks obbedì ma sembrava meravigliato. — Vorreste forse entrare nel salotto, avvocato ? — mi domandò vedendo che giravo la maniglia. — Sì, Parks. C'è forse ancora... — Nossignore, il corpo è stato messo nella cassa ed è stato portato nell'altro salotto nel pomeriggio. — Va bene. Ora accendete tutte le luci, Parks, come ieri sera. Parks girò gli interruttori del salotto e io stesso andai a girare quelli della stanza attigua. — Avete bisogno di me? — domandò Parks. — Per ora no. Aspettateci nell'ingresso. Mi venne la tentazione di dirgli di tenere a portata di mano una scure, ma vidi che Godfrey sorrideva e me ne astenni. Passammo nella seconda stanza. — Ebbene, eccolo là — dissi e additai lo scrigno di Boule che luccicava tutto in mezzo al locale. — Badate che non è troppo tardi per rinunciare, Godfrey. — Che dite mai, Lester! Se rinunciassi non avrei più un momento di pace! Non potrei mai più dormire. — E invece se non rinunciate può darsi che non possiate più svegliarvi — osservai. Mi rise in faccia. — Che lugubre profeta siete! Sedetevi e state a vedere. Burton E. Stevenson
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Si tolse la giacca e si rimboccò le maniche della camicia, quindi pose la lampadina tascabile al suolo accanto allo scrigno. Rimase poi per qualche secondo con le braccia conserte a contemplare il capolavoro dell'artefice francese. — È proprio una meraviglia — disse finalmente. Tolse tutti i cassettini uno dopo l'altro, li esaminò e li pose su una seggiola, poi soggiunse: — Ora vediamo se c'è qualche spazio non giustificato. — Trasse di tasca un metro d'acciaio flessibile e compì una serie di misurazioni così minuziose che passò una buona mezz'ora prima che avesse finito. Alla fine prese una sedia e si sedette accanto a me. — Non è un'impresa facile — dissi. — In questo senso l'artefice ha raggiunto senza dubbio il suo scopo. Il fondo dell'armadietto superiore ha uno spessore anormale. La parte posteriore sembra celare un vano... almeno c'è uno spazio di tre pollici che non si sa a che cosa sia adibito. Insomma, ci potrebbero essere non uno, ma dodici cassetti segreti. Ora si tratta di trovare la combinazione. S'infilò sulla mano il guanto d'acciaio e andò a inginocchiarsi davanti allo scrigno. — Comincerò dal fondo — annunciò. — State attento che non mi sfugga qualche punto. Fece scorrere le dita sulle gambe del mobile passando ogni asperità e premendo tutti gli ornamenti di bronzo. Le sue dita si attardavano particolarmente sulle sporgenze che lui tentava di spingere e di muovere in tutti i sensi, ma nulla si spostava. Compì la stessa operazione sulla parte inferiore del mobile e questa lo tenne occupato per un'altra mezz'ora. Quando si rialzò sudava abbondantemente. — È un lavoro faticoso — osservò sedendosi di nuovo sulla sedia e asciugandosi la fronte. — Non vi sembra che sia davvero un capolavoro, Lester? Più lo guardo e più mi piace. — Ho detto a Philip Vantine che non credevo di essere in grado di apprezzarlo al suo giusto valore. — Nemmeno io sono in grado di apprezzarlo, ma basta avere gli occhi per vedere che è bello. Qui si vede lo stile Luigi XIV in tutto il suo splendore. Guardate gli arabeschi degli sportelli... si può immaginare qualcosa di più armonico? E gli intarsi... Questa è l'opera di un grande artefice. Molto probabilmente è stato fatto da Boule in persona. Non mi meraviglio che Vantine ne fosse tanto entusiasta. Ma intanto non abbiamo trovato il cassetto! Burton E. Stevenson
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Così dicendo avvicinò la sedia allo scrigno. — Vorrei farvi notare una cosa, Godfrey — dissi. — Se continuate a manovrare con le dita di tutte e due le mani, come avete fatto finora, correte il pericolo di farvi colpire alla mano sinistra che è scoperta. — È vero. Se me ne dimentico, avvertitemi. Credo di aver già esaminato a fondo la parte inferiore. Se c'è un cassetto segreto è nascosto troppo abilmente perché un profano lo possa trovare. Ora esamineremo la parte superiore. La parte superiore del mobile consisteva in una serie di cassetti uno sopra l'altro, nascosti da due sportelli che si aprivano al centro i quali erano ornati da un insieme complicatissimo di arabeschi e intarsi. — Se il cassetto segreto è qui — disse Godfrey — deve trovarsi nella parte posteriore dove ho constatato l'esistenza di un vano. Ma il più è scoprire la combinazione... Fece scorrere le dita sui vari ricami e una volta parve che avesse scoperto qualcosa perché c'era una borchia che cedeva leggermente alla pressione, ma nulla si mosse. — Una cosa è certa — soggiunse il mio compagno — la combinazione, qualunque sia, è fatta in modo che nessuno la possa scoprire incidentalmente... appoggiandosi allo scrigno per esempio. Qui non si tratta soltanto di far scattare una molla; probabilmente bisogna far funzionare una serie di leve e azionarle in un dato ordine, altrimenti il cassetto non si apre. Temo che siamo battuti. — Non posso dire di essere molto afflitto — risposi con un sospiro di sollievo. — Per quanto mi riguarda non m'importa nulla che quel cassetto non venga scoperto. — Non sono del vostro parere — ribatté Godfrey e si sedette fissando lo scrigno, con la fronte corrugata. A un tratto si alzò e cominciò a tamburellare con le dita sulla parte posteriore del mobile, saggiandola, centimetro per centimetro. Io non so che fosse, poiché non avevo udito alcun rumore, ma un'attrazione misteriosa mi indusse a volgere gli occhi alla finestra situata più lontano da me. In alto, al di sopra delle imposte di legno, che Parks ed io avevamo rimesso sui cardini, c'era una piccola apertura semicircolare che permetteva alla luce di filtrare... e fuori c'erano due occhi che guardavano attraverso i vetri... due occhi fiammeggianti. Erano fissi su Godfrey con tale intensità febbrile che non notarono neppure il mio sguardo; abbassai il capo immediatamente. — Godfrey — mormorai con voce tremante — non vi muovete, non Burton E. Stevenson
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volgete il capo, ma badate che c'è qualcuno che guarda dentro attraverso la lunetta della finestra che sta di fronte a noi. Godfrey non pronunciò una parola per un minuto e più e continuò tranquillamente la sua ispezione, poi senza nemmeno voltarsi a guardarmi mi domandò: — Ha visto che lo guardavate? — No, stava fissando voi con gli occhi fuori dalla testa. Non ho mai visto un paio d'occhi come quelli! — E la faccia non si vede? — No, l'apertura è troppo piccola. — Quanto è alta quest'apertura? — È proprio in cima alla finestra. Un momento dopo Godfrey ritornò a sedersi sulla sua sedia e si passò un fazzoletto sul viso. Quindi si protese in avanti come per esaminare le gambe dello scrigno. — L'ho visto — disse. — O meglio ho visto i suoi occhi. Sembrano feroci! — Sono gli occhi di una tigre — risposi con convinzione. — Ebbene, è inutile continuare nelle nostre ricerche finché quello è là fuori. Anche se trovassimo il cassetto, un istante dopo saremmo all'altro mondo. — Credete che ci ucciderebbe? — Ne sono convinto. Pensate che scalpore solleverebbe una cosa simile, Lester. Parks ode due detonazioni, si precipita dentro e ci trova morti. A Grady verrebbero le convulsioni... e noi saremmo celebri almeno per qualche giorno. — Preferirei cercare la fama sotto un'altra forma — brontolai. — Che cosa contate di fare? — Dobbiamo tentare di catturarlo e se ci riusciamo avremo la celebrità ugualmente! Però è un poco come tentare di afferrare uno scorpione... si è quasi certi di farsi del male. Se quell'uomo che sta fuori è colui che io penso, ci troviamo di fronte all'individuo più pericoloso della terra. Riprese a picchiettare la superficie dello scrigno. Quanto a me avrei dato qualunque cosa per lanciare un'altra occhiata a quegli occhi lampeggianti. Me li sentivo addosso e i brividi mi correvano lungo la schiena. — Forse potrei uscire come se andassi a prendere qualcosa — suggerii. — Poi Parks ed io potremmo girare l'angolo della casa e pescarlo. — Non lo pescherete... sarebbe piuttosto lui a pescare voi. Non avete una probabilità al mondo. Piuttosto, se c'è una finestra sopra questa, al Burton E. Stevenson
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piano superiore, potreste fargli cadere addosso qualcosa, oppure farvi prestare la rivoltella di Parks e sparare... — Sarebbe una vigliaccheria, non vi pare? — domandai blandamente. — Mio caro Lester, quando attaccate un serpente velenoso non gli andate certo incontro a mani vuote — protestò Godfrey. Questa volta non potei resistere alla tentazione... alzai di nuovo gli occhi verso la lunetta... — Se n'è andato! — gridai. Godfrey fu accanto alla finestra in due salti. — Guardate! — gridò. — E ditemi se non è un genio! Seguii la direzione che lui mi indicava e vidi che nella parte bassa della lunetta era stato praticato un foro nel vetro. — Quell'uomo prevede tutto — soggiunse Godfrey con tono entusiasta. — Probabilmente ha praticato quel foro non appena sono scese le tenebre. Deve aver intuito che noi avevamo intenzione di esaminare lo scrigno questa sera... e voleva non solo vedere, ma anche ascoltare. Ha udito tutto quello che abbiamo detto, Lester! — Rincorriamolo! — gridai. E senza aspettare una risposta mi precipitai nel salotto e aprii la porta che dava nell'ingresso. Parks e Rogers erano seduti sulla branda e quando mi videro balzarono in piedi; non avevo mai visto due uomini più atterriti. — Il signor Godfrey è forse...! — cominciò Parks. — No, no, sta benissimo. C'è un uomo fuori... datemi la vostra rivoltella, Parks. Il domestico si tolse di tasca l'arma e me la diede. Gliela strappai di mano, corsi fuori e filai verso il lato della casa. Non c'era nessuno in vista, ma da qualche parte... assai vicino a me venne uno scroscio di risa beffarde.
12. Godfrey è spaventato Stavo ancora guardandomi attorno con la netta sensazione di udire riecheggiare la risata del nemico sconosciuto, quando Godfrey mi raggiunse. — Se l'è svignata, naturalmente — disse in tono freddo. — Sì, e l'ho udito ridere! Godfrey mi guardò spalancando gli occhi. Burton E. Stevenson
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— Suvvia, Lester, non lasciatevi sopraffare dal nervosismo — mi raccomandò in tono blando. — Non si tratta di nervosismo! — protestai con calore. — Ho udito una risata, chiaramente. Quell'uomo non può essere lontano! — È senza dubbio troppo lontano perché possiamo prenderlo — fece Godfrey e, brandendo la lampadina tascabile, procedette a un esame del davanzale e del terreno sottostante. — Ecco dove s'era arrampicato — soggiunse e mi mostrò due pedate umide sul granito del davanzale. — S'intende che aveva già calcolato tutto per un eventuale ritirata. Proiettò il raggio della lampadina sulla superficie del prato, ma l'erba era così fitta da non lasciar vedere le orme di chi era passato. Ritornammo lentamente in casa e Godfrey riprese a contemplare lo scrigno. — È una cosa superiore alle mie capacità — confessò alla fine. — L'unico modo in cui potrei trovare il cassetto, sarebbe servirmi di una scure, ma non voglio mandare in pezzi un'opera di arte... — Lo spero bene! Sarebbe quasi come fracassare la Venere di Milo. — Non esageriamo! comunque, almeno per ora, ci asterremo dal distruggerlo. Cercherò di documentarmi un poco in merito alla tecnica degli ebanisti antichi e in merito ai cassetti segreti in generale... chissà che non riesca a trovare qualche indicazione utile. — E poi, naturalmente, c'è sempre la probabilità che il cassetto non esista affatto — dissi in tono sconsolato. Ma Godfrey tentennò il capo. — Non sono d'accordo con voi su questo punto, Lester. Scommetto che l'uomo che ci spiava dalla finestra lo potrebbe trovare nello spazio di cinque minuti. — Credete che vi guardasse in quel modo temendo che trovaste il cassetto segreto? — Ne sono convinto, e non aveva torto di temere — rispose Godfrey. — Domani farò un altro tentativo. Bisogna evitare ad ogni costo che il nostro amico dagli occhi fiammeggianti riesca a mettere le mani sullo scrigno prima di noi. — Quelle imposte sono abbastanza massicce e Parks non è uno sciocco — dissi. — Sì, le imposte sono abbastanza massicce, ma non bastano. Quanto a Parks... ci vuol altro! Non mi sembra che vi rendiate conto che abbiamo a che fare con un nemico d'eccezione. — Ieri sera infatti l'avete nominato come il più grande delinquente dei Burton E. Stevenson
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nostri tempi. Godfrey sorrise. — Forse ho esagerato un poco. Diciamo uno dei più grandi... certo abbastanza grande per farcela in barba se non stiamo attenti. Sarà meglio che avverta Simmonds di mandare un paio di agenti a sorvegliare la casa. Con quelli di fuori e Parks all'interno forse potremo stare tranquilli. — Direi! Parlate come se dovessimo prepararci a respingere la calata di un esercito. In fin dei conti, chi è quell'uomo? Si direbbe che ne foste mezzo impaurito! — Ne sono impaurito del tutto, se è l'uomo che io penso... ma per ora la mia è una semplice congettura, Lester. Aspettate un paio di giorni. Ora telefono a Simmonds. Andò all'apparecchio mentre io mi sedevo di nuovo a contemplare lo scrigno. Qual era dunque l'intrigo di cui quel mobile sembrava il centro? Chi era quell'uomo, perché Godfrey potesse considerarlo così formidabile? Perché aveva scelto proprio Philip Vantine come vittima? Godfrey ritornò e interruppe le mie meditazioni. — Tutto è a posto — annunciò. — Simmonds manderà due dei suoi migliori uomini a sorvegliare la casa. — A sua volta si rimise a contemplare lo scrigno e soggiunse: — Sì, domani verrò a fare un altro tentativo. Ho lasciato il guanto d'acciaio là, su una sedia, cosicché se vi viene la voglia di provare da solo, Lester... — Dio me ne guardi! — protestai. — A proposito, sarà bene che avverta Parks che vi può lasciar entrare... e spero di non trovarvi qui cadavere, Godfrey! — Lo spero anch'io. Ma non credo che accadrà nulla di simile. E ora veniamo a Rogers. — A Rogers? — Ecco, avevo pensato di sottoporlo a un piccolo interrogatorio questa sera, ma forse sarà meglio che aspetti di aver fatto qualche altro progresso... sì, aspetterò. Non voglio correre il rischio di fare fiasco. Uscimmo insieme nell'ingresso e io avvertii Parks che poteva lasciar entrare Godfrey in qualunque momento. Rogers stava ancora seduto sulla branda e aveva un aspetto così abbattuto e angosciato che non potei fare a meno di provare della pietà per lui. Mi venne fatto di pensare che se lo lasciavamo ancora un paio di giorni a meditare sui casi suoi, ci avrebbe detto tutto quello che desideravamo sapere senza ricorrere ad astuti interrogatori. Comunicai la mia idea a Godfrey mentre scendevamo nella via. Burton E. Stevenson
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— Forse avete ragione — disse lui. — Non credo che quell'uomo abbia qualcosa di losco' sulla coscienza. Gli deve essere accaduto qualcosa... qualcosa che ha attinenza con la donna e ora è torturato dal peso del segreto. Dovremo scoprire di che si tratta. Ohilà, ecco gli uomini di Simmonds — soggiunse vedendo apparire due agenti davanti alla casa. — Siete voi il signor Godfrey? — domandò uno di essi. — Sì. — Il signor Simmonds ci ha detto di rimetterci alle vostre istruzioni, qualora vi avessimo trovati qui. — Il vostro compito sarà abbastanza semplice — rispose Godfrey. — Dovrete sorvegliare la casa... sorvegliarla da tutti i lati perché nessuno si avvicini. — Benissimo, signor Godfrey. — I due uomini si toccarono l'elmetto, poi uno di essi s'incamminò per andare dietro la casa, mentre l'altro si metteva di guardia alla porta principale. — Forse, se si nascondessero, quel furfante potrebbe arrischiarsi a ritornare ed essere pescato — suggerii. Ma Godfrey tentennò il capo. — Preferisco che non ritorni... anzi desidero tenerlo lontano! Deve capire che stiamo in guardia! Vi ho già detto, Lester, che ho paura di lui. Forse avete creduto che scherzassi, ma non scherzavo affatto. Ed ora devo ritornare in ufficio. Così dicendo si voltò, fece un cenno a un taxi che passava e un momento dopo si congedava da me e partiva lasciandomi sempre più perplesso e preoccupato. Mentre m'incamminavo verso casa, tutti i miei pensieri erano concentrati su quell'essere singolare e misterioso col quale Godfrey stesso esitava a misurarsi. Non l'avevo mai visto titubante davanti ad alcuna prova, ma questa volta mi sembrava proprio propenso a schivare la contesa. Comunque temeva l'avversario ed era chiaro che considerava probabile che questi lo battesse. A un tratto mi ricordai della risata beffarda che avevo udito e rabbrividii. Affrettai il passo guardandomi alle spalle di quando in quando; dopo tutto, se Godfrey aveva paura, anch'io non avevo motivi di star tranquillo. Quantunque mi vergognassi un poco, non potei trattenere un sospiro di sollievo quando mi ritrovai nel mio appartamento di palazzo Lincoln con la porta chiusa e sprangata. Poco prima che mi coricassi Godfrey mi telefonò. — Volevo dirvi, Lester, che la vostra congettura era fondata. Il Burton E. Stevenson
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misterioso francese è arrivato col piroscafo La Touraine ed è sbarcato ieri a mezzogiorno. Ha viaggiato in classe turistica e gli inservienti non sanno nulla sul suo conto. Che ora era quando è arrivato a casa di Vantine? — Circa le due. — Allora deve essere proprio venuto direttamente dalla nave, come voi pensavate. Questo spiega perché nessuno lo conosceva. La Compagnia di navigazione ha in deposito una valigia che gli apparteneva. Domani spero di ottenere che la aprano in mia presenza e forse scopriremo qualcosa sulla sua identità. — Sentite, Godfrey — interruppi — non potreste dirmi qualcosa in merito a quell'altro... all'uomo dagli occhi scintillanti? Mi ossessiona... — Dominate i vostri nervi, Lester — rispose il giovanotto ridendo. — finché non andiamo attorno allo scrigno non siamo in pericolo. Quello è il centro della burrasca. Per ora non posso dirvi altro. Buona notte. E riappese il ricevitore senza aspettare la mia risposta.
13. Un distinto visitatore Ero arrivato da poco allo studio, la mattina seguente, quando l'usciere entrò e mi porse un biglietto da visita, con un'aria compunta e riverente, tanto in contrasto coi suoi soliti modi, che guardai subito il biglietto, stupito. Devo confessare che allora un senso di reverenza s'impadronì anche di me, poiché il biglietto recava il nome di Xavier Horn. Quel nome era del tutto ignoto fuori dei circoli legali delle tre grandi città dell'est, New York, Boston e Filadelfia, poiché Xavier Horn rifuggiva da ogni pubblicità, non aveva mai fatto un discorso in pubblico e non si era mai lasciato trascinare in un banchetto ufficiale. Il suo nome non aveva mai figurato sui quotidiani, eppure il suo reddito avrebbe fatto sfigurare quello di qualunque altro grande avvocato del paese. Infatti Xavier Horn era il legale di fiducia delle più grandi famiglie degli Stati Uniti. Teneva quella posizione da anni e si diceva che mai un caso affidato alle sue mani incondizionatamente si fosse risolto in uno scandalo pubblico. Era molto prudente nell'accettare i clienti e si sapeva che aveva rifiutato di servire certi milionari di Pittsburg che pure gli avrebbero potuto fruttare un patrimonio. Sembrava mettere una specie di orgoglio personale nel mantenere intatta la reputazione delle vecchie famiglie, anche quando i loro discendenti s'imbarcavano nelle più deplorevoli avventure. Bastava Burton E. Stevenson
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appartenere a una grande famiglia americana perché il signor Horn si rimboccasse le maniche di buona lena per lavare il nome del cliente da qualsiasi macchia. La sua celebrità presso l'aristocrazia era dovuta al suo tatto e alla sua delicatezza, veramente eccezionali; eppure coloro che si erano trovati suoi avversari non avevano tardato a rendersi conto che sotto il guanto di velluto c'era un pugno di ferro. Era veramente una personalità singolare e siccome non avevo mai avuto il piacere di conoscerlo personalmente, attesi con viva curiosità che l'usciere lo facesse entrare. A dire il vero, Xavier Horn non aveva un aspetto che corrispondesse alla sua fama. Dopo aver sentito parlare di lui veniva fatto di aspettarsi una specie di incrocio tra Uriah Heep e Sherloch Holmes, ma non vi era nulla di misterioso o di insinuante nel suo contegno. Era un uomo di mezza età, cordiale e bonario, un po' tarchiato, dal volto fresco e glabro illuminato da due occhi azzurri... proprio uno di quegli uomini che godono di una buona digestione e di una coscienza tranquilla. Ci stringemmo la mano, poi lui sedette e senza preamboli abbordò subito l'argomento che formava lo scopo della sua visita. Rievocando il nostro colloquio e comprendendo come posso comprendere ora la delicatezza della sua missione, non mi stanco di ammirare quel suo metodo franco e sbrigativo. Senza dubbio era venuto da me ben documentato sulla mia personalità, e aveva deciso in precedenza ciò che mi avrebbe detto. L'uomo che riesce a recitare sino alla fine la scena preparata e premeditata, con l'aria di improvvisare, si trova sempre in posizione di vantaggio. — Avvocato Lester — cominciò — mi consta che siete l'amministratore dei beni del defunto Philip Vantine. — Non io personalmente... il nostro ufficio legale li amministra — rettificai. — Però siete voi ad occuparvi della pratica, non è vero? — Sì. — Il povero signor Vantine era collezionista di mobili antichi, credo... — Sì. — E nel suo ultimo viaggio in Europa, da cui era ritornato soltanto pochi giorni fa, aveva comperato dalla ditta Armand e Fils di Parigi un scrigno di Boule? Non potei reprimere un sussulto di stupore. — Agite forse per conto della ditta Armand? — domandai. — Niente affatto. Agisco per conto di una signora che per il momento Burton E. Stevenson
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chiameremo signora X. Mi passò per la mente il sospetto che la signora X e la misteriosa francese potessero essere la stessa persona, ma lo scartai subito. Dalla descrizione che avevo avuto dell'ignota visitatrice, non credevo che potesse essere una cliente di Xavier Horn. — Sì, il signor Vantine ha comperato infatti uno scrigno — risposi. — E si trova nelle vostre mani? — Nella casa del mio defunto cliente si trova uno scrigno di Boule che gli è stato spedito da Parigi, ma, poche ore prima della sua morte, il signor Vantine mi ha assicurato che non era quello che lui aveva acquistato. — È accaduto un errore nella spedizione? — Questo è quanto supponeva Vantine e un telegramma della ditta Armand e Fils lo ha confermato. Il signor Horn rifletté un momento. — Dov'è lo scrigno che il signor Vantine ha realmente acquistato? — domandò poi. — Non ne ho idea. Forse si trova ancora a Parigi. Però aspetto da un momento all'altro una visita del rappresentante di Armand, il quale sarà in grado di chiarire la cosa. Ancora una volta il mio compagno tacque e si grattò il mento con aria distratta. — È molto strano — disse. — Se lo scrigno fosse stato ancora a Parigi, sarebbe stato trovato prima che la mia cliente assumesse informazioni in proposito. — Ci sono molte cose strane in tutta la faccenda — osservai. — Sareste disposto a lasciare che la mia cliente vedesse lo scrigno, avvocato Lester? Esitai. — Signor Horn, sarò franco con voi. C'è un mistero che circonda quello scrigno e che non siamo ancora stati capaci di risolvere. Suppongo che abbiate letto della misteriosa morte del signor Vantine e di un ignoto francese; le due vittime sono state trovate nella stessa stanza di casa Vantine e in entrambi i casi il decesso è dovuto alla stessa causa. Horn annuì. — E secondo voi lo scrigno ha qualche attinenza con la tragedia? — mi domandò. — Riteniamo che sia così, quantunque non siamo ancora riusciti a trovare una prova concreta. Comunque custodiamo lo scrigno molto gelosamente. Non avrei nulla in contrario a che la vostra cliente lo Burton E. Stevenson
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vedesse, ma non le potrei permettere di toccarlo... almeno non lo potrei permettere senza sapere con esattezza qual è lo scopo a cui tende. Dovete tener presente che non mi avete detto nulla dei motivi per i quali la signora in questione s'interessa di quello scrigno. — Sono pronto a raccontarvi tutta la storia, avvocato — rispose Horn. — È giusto che vi metta al corrente di tutto. Quando mi avrete ascoltato fino in fondo, e se sarete d'accordo, condurremo la signora X a vedere lo scrigno. — Benissimo — approvai. L'avvocato si appoggiò all'indietro contro lo schienale della poltrona e assunse un aria più grave. — La mia cliente discende da una distintissima famiglia americana... una delle più distinte. Tre anni fa ha sposato un nobile francese. Forse riuscirete ad intuire il suo nome, ma preferirei che né io né voi lo menzionassimo. Feci un cenno d'assenso e lui riprese: — Questo nobile francese è stato tanto prodigo quanto infedele. Ha sperperato il patrimonio della mia cliente a piene mani. Ha umiliato sua moglie. Sono disposto a confessare che la considero una sciocca a non averlo lasciato molto tempo fa. Finalmente gli amministratori dei suoi fondi sono intervenuti, poiché il padre di lei era stato tanto accorto da vincolare una parte del patrimonio. Questi amministratori hanno pagato i debiti del marito, gli hanno fissato un assegno e hanno diffidato i suoi creditori a concedergli ulteriore fido. Frattanto io avevo individuato il nome della cliente di Horn, poiché quei particolari erano da tempo di dominio pubblico; naturalmente il racconto del mio eminente collega veniva ad acquistare un maggior interesse per me. — Quell'assegno è principesco — continuò l'avvocato Horn — ma non basta al signor X. Non credo che vi possa essere un assegno sufficiente per lui... più danaro ha e più riesce a spenderne. Perciò ha cominciato a ricorrere a mezzi disonesti per procurarsene. Si è messo a vendere gli oggetti d'arte che ornavano la casa di sua moglie e che le appartengono, perché acquistati col suo danaro. Un paio di settimane fa la mia cliente è ritornata a Parigi dopo una permanenza nel suo castello in Normandia e ha trovato che il marito aveva quasi spogliato la casa di città. Arazzi, quadri, sculture... tutto era stato venduto. Tra le altre cose sottratte c'era lo scrigno di Boule che alla mia cliente serviva da scrittoio. Lo scrigno era prezioso, ma non è per il suo valore monetario che la mia cliente è tanto ansiosa di Burton E. Stevenson
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recuperarlo. Si fermò un istante e si schiarì la voce: mi resi conto che stava per affrontare la parte veramente delicata della sua storia. — Il signor X, a dire il vero, ha pensato di conservare le carte private di sua moglie e prima di vendere lo scrigno ha fatto vuotare tutti i cassetti, ma ce n'era uno di cui lui non sapeva l'esistenza, un cassetto segreto, noto soltanto alla mia cliente. Quel cassetto conteneva un pacco di lettere che la signora tiene assai a recuperare. Non dirò nulla sulla natura di quelle lettere... anzi ne so ben poco, perché, in fin dei conti, non è affar mio. Comunque la signora mi ha fatto capire che non avrà pace né bene fino a che non avrà riavuto le sue lettere. Feci un cenno d'assenso, in verità non occorreva che dicesse di più. In fin dei conti, pensavo, un marito infedele non ha ragione di lamentarsi se sua moglie lo ripaga con la stessa moneta! — La mia cliente si è data subito da fare per recuperare lo scrigno — riprese il signor Horn, evidentemente sollevato di aver rotto il ghiaccio. — Ha scoperto che era stato venduto alla ditta Armand. Si è precipitata al magazzino della ditta e ha saputo che il mobile era stato rivenduto al signor Vantine e spedito a New York. È partita allora con la prima nave, ufficialmente per visitare la propria famiglia ma, in realtà, per chiedere al signor Vantine il permesso di aprire il cassetto segreto e di riprendere le sue lettere. La morte del signor Vantine ha scompigliato i suoi piani e la signora ha finito per rivolgersi a me. Non ho bisogno di dirvi che nessuno della sua famiglia è al corrente di questa storia ed è particolarmente importante che il marito non ne sospetti mai nulla. Ora, a nome della mia cliente, mi rivolgo a voi, esecutore testamentario del signor Vantine perché vogliate restituirle le lettere che le appartengono. Rimasi per qualche minuto a meditare su quella storia straordinaria penando di farla quadrare con gli avvenimenti degli ultimi due giorni. Ma non quadrava. Non quadrava almeno con la mia ipotesi relativa alla causa del duplice dramma. Infatti non era ammissibile che la signora X avesse pensato custodire il segreto di quel cassetto col veleno. — C'è qualcuno all'infuori della vostra cliente che sappia dell'esistenza di quelle lettere? — domandai alla fine. — Non credo — rispose l'avvocato Horn. — Data la natura delle lettere, la mia cliente non l'avrà certo confidato a nessuno. Voi avete già capito, avvocato, che si tratta di lettere compromettenti. Dobbiamo recuperarle ad ogni costo. — Veramente — osservai — ci sono sempre almeno due persone che Burton E. Stevenson
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sanno dell'esistenza di una lettera: quella che la scrive e quella che la riceve. — Avevo pensato anche a questo... ma la persona che ha scritto quelle lettere è morta. — Morta? — ripetei. — Sì, uccisa in un duello pochi mesi fa. — Dal signor X? — Dal signor X — assentì Horn, poi mi guardò stringendo le labbra come se volesse farmi capire che non era disposto a dirmi altro. Ma non avevo certo bisogno d'interrogarlo. Conoscevo abbastanza bene la legge francese e le consuetudini francesi per rendermi conto che se quelle lettere fossero mai cadute nelle mani del signor X, lui sarebbe divenuto padrone della situazione. Sua moglie sarebbe stata del tutto alla sua mercé. Mi venne il sospetto che forse in qualche modo il signor X avesse saputo dell'esistenza delle lettere e che stesse tentando disperatamente l'impossibile per impossessarsene. Questo pensiero bastò a far pendere la bilancia in favore della moglie. Dissi: — Sono certo che il signor Vantine avrebbe acconsentito senza esitare a che la vostra cliente aprisse il cassetto e si prendesse le lettere. Come suo esecutore testamentario, acconsento a mia volta poiché chiunque sia attualmente il legittimo proprietario dello scrigno, le lettere appartengono alla signora X. S'intende che tutto ciò è subordinato al fatto che lo scrigno che si trova in mio possesso sia quello che apparteneva alla vostra cliente. Però devo avvertirvi, signor Horn, che ritengo che due uomini abbiano trovato la morte nel tentativo di aprire quel cassetto. Gli raccontai la mia ipotesi sulla morte di Philip Vantine e dell'ignoto francese e lui mi ascoltò a bocca aperta, letteralmente sbalordito. — Sono propenso a credere che Vantine abbia trovato per combinazione il cassetto segreto mentre esaminava lo scrigno — conclusi. — Ma è certo che l'altro uomo conosceva l'esistenza del cassetto e, presumibilmente, anche di ciò che conteneva. — Ebbene — proruppe il mio compagno — ho ascoltato molti racconti strani nella mia vita, ma come questo mai. E di quel francese non sapete nulla? — Nulla, eccetto che è arrivato da Le Havre sul piroscafo La Touraine, mercoledì, e si è recato direttamente dal porto a casa del signor Vantine. — Anche la mia cliente è arrivata col La Touraine... ma senza dubbio si tratta di una semplice coincidenza. Burton E. Stevenson
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— Può darsi — ammisi — ma non so se il fatto che tanto lui quanto la vostra cliente fossero ansiosi di impadronirsi del contenuto di quel cassetto, si possa attribuire a coincidenza. — Intendete dire... — Intendo dire che il misterioso francese può benissimo essere un emissario del signor X. Forse la signora X in un momento di distrazione ha tradito involontariamente il proprio segreto. L'avvocato Horn si alzò di scatto. Appariva molto turbato. — Temo che abbiate ragione — disse. — Mi metterò subito in comunicazione con la mia cliente. Se ho ben capito, voi siete disposto a permetterle di vedere lo scrigno e anche di aprire il cassetto e prendere le lettere, sempre che si tratti del mobile che le apparteneva. — Se proprio è decisa a correre questo rischio... — Benissimo. Vi telefonerò non appena avrò consultato la signora. In ogni caso, vi ringrazio per la vostra cortesia. Se ne andò e senza dubbio si recò difilato alla residenza di città della signora X... o forse lei lo aspettava ansiosamente perché non era trascorsa mezz'ora quando mi telefonò. — La mia cliente desidera vedere lo scrigno subito — disse. — È molto nervosa e agitata, tanto più che l'ho informata che qualcuno ha tentato di aprire il cassetto. Quando sareste disposto ad accompagnarci? — Anche subito. — Allora passiamo a prendervi. Saremo da voi tra un quarto d'ora o venti minuti. D'accordo? — Va bene — dissi. — Sarò pronto. Naturalmente avrò bisogno di condurre con me un testimone. — Il vostro desiderio è legittimo — assentì Horn. — Non abbiamo nulla in contrario. Tra venti minuti allora... Telefonai immediatamente all'ufficio del Record, ma Godfrey non c'era. Mi dissero che sarebbe arrivato più tardi. Telefonai a casa sua ma non mi rispose nessuno. Finalmente telefonai alla casa di Vantine. — Parks, verrò con alcune persone a vedere quello scrigno. Sarà bene che facciate scomparire la branda e che accendiate tutte le luci. — Le luci sono già accese, avvocato. — Come? Perché? — Il signor Godfrey è qui da un po' di tempo e sta appunto esaminando lo scrigno. Pensai che avrei dovuto immaginarmelo e dissi: — Ditegli che vengo con altre persone a vedere lo scrigno e che lo prego Burton E. Stevenson
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di rimanere, perché ho bisogno di un testimone. — Benissimo, signore. — Nulla di nuovo? — Nossignore, ci sono stati due agenti di polizia di guardia tutta la notte e poi Rogers e io siamo sempre all'erta. — L'automobile dell'avvocato Horn è alla porta — mi annunciò l'usciere aprendo l'uscio. — Va bene — dissi. — Veniamo subito, Parks, arrivederci. Riappesi il ricevitore e mi misi il soprabito. Mentre staccavo il cappello mi venne un'idea. Se lo sconosciuto francese era veramente un emissario del signor X, la signora poteva conoscerlo. Quella era una remota possibilità, ma non era da trascurarsi. Aprii il cassetto della mia scrivania, ne tolsi la fotografia del morto che Godfrey mi aveva dato, e me la misi in tasca. Poi scesi con l'ascensore.
14. La signora velata C'erano tre persone nell'automobile. Sul sedile posteriore stavano sedute due donne vestite di nero e velate; nonostante la somiglianza del loro abbigliamento compresi subito che l'una era la padrona e l'altra la cameriera. L'avvocato Horn era seduto su uno strapuntino. Mentre prendevo posto accanto a lui, mi disse: — Non dovevate portare un testimone? — Si trova già a casa Vantine — spiegai. — Questo è l'avvocato Lester — soggiunse e la signora velata che gli stava di fronte fece un leggero inchino col capo. Nessuno pronunciò una parola durante il tragitto. La vettura percorse la Broadway, poi si diresse al quartiere del Nord procedendo a velocità moderata a causa del traffico. Di quanto in quando davo un'occhiata alle due donne notando il contrasto del loro contegno. Una stava seduta quasi immobile, con le mani in grembo, calma e composta; l'altra sembrava irrequieta e incapace di dominare il proprio nervosismo. Mi domandai perché la cameriera sembrasse più sconvolta della padrona. Alla decima strada l'automobile prese di nuovo la direzione Ovest, attraversò Washington Square, poi imboccò la Avenue e andò a fermarsi davanti alla casa di Vantine. L'avvocato Horn aiutò le donne a scendere e Burton E. Stevenson
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io feci strada verso la gradinata. A un tratto la signora velata alzò gli occhi, vide il drappo funebre sulla porta e si fermò con un'esclamazione: — Oh, non sapevo... forse faremo bene ad attendere... non avevo pensato. — Non ci sono parenti che possano risentirsi della vostra visita, signora — la interruppi. — Quanto al morto, non vi è nulla di irriverente in ciò che stiamo per fare. Suonai il campanello e Parks venne ad aprire. Guidai il gruppo attraverso il vestibolo fino al salotto. Godfrey ci aspettava e io vidi un lampo di curiosità nei suoi occhi quando l'avvocato Horn e le due donne velate apparvero. — Questo è il mio testimone — dissi al legale. — Il signor Godfrey... il signor Horn. Godfrey s'inchinò e l'avvocato lo guardò sorridendo. — Se non fossi sicuro della discrezione dei signor Godfrey troverei qualcosa da ridire sulla scelta di un giornalista come testimone — disse. — Ma ho avuto modo di sperimentare il suo tatto e la sua delicatezza prima d'ora e so di potermi fidare di lui. — C'è una sola persona alla quale riconosco la precedenza in fatto di discrezione — rispose Godfrey sorridendo a sua volta — ed è l'avvocato Horn. — Grazie — fece il legale e s'inchinò solennemente. Durante quello scambio di complimenti, la donna che, secondo me, era la cameriera, si era seduta come se le gambe non la reggessero e si torceva le mani nervosamente; anche la sua padrona ora dava segni d'impazienza. — Lo scrigno è nella stanza vicina — dissi e m'avvicinai verso il secondo locale, seguito dagli altri. Godfrey non aveva spostato il mobile che si trovava nella posizione in cui l'avevo visto la sera della tragedia. Entrando notai il guanto d'acciaio su una sedia. — È questo, signora? — domandai. La donna fissò lo scrigno per un momento premendosi le mani contro il petto, poi quasi con un singhiozzo rispose: — Sì! Confesso che rimasi stupito. Non avevo mai pensato che potesse trattarsi proprio del mobile che la signora cercava ed anche ora non riuscivo a convincermene. — Ne siete certa? — domandai ancora. — Vi pare possibile che mi sbagli? Vi assicuro che questo è lo scrigno Burton E. Stevenson
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che mi apparteneva un tempo. Permettete? — aggiunse e fece un passo verso lo scrigno. — Un momento, signora — dissi avanzando. — Devo avvertirvi che toccando quello scrigno correte un grave rischio. — Un grave rischio? — lei ripeté fissandomi. — Un gravissimo rischio, come ho spiegato all'avvocato Horn. Ho motivo di credere che due uomini abbiano trovato la morte tentando di aprire quel cassetto segreto. — Mi sembra che l'avvocato mi abbia detto qualcosa di simile — mormorò la signora. — Ma, naturalmente, si tratta di uno sbaglio. — Dunque, che voi sappiate, il cassetto non è custodito dal veleno? — domandai. — Custodito dal veleno? Non capisco che cosa vogliate dire. Sapevo che la mia ipotesi stava per subire il colpo finale e non osavo guardare Godfrey. Tuttavia insistetti: — Non c'è per caso, collegato al cassetto, un meccanismo, che, quando il cassetto stesso si apre, pianta due aculei avvelenati nella mano di chi lo apre? — No, avvocato — rispose la donna col tono di chi non crede alle proprie orecchie. — Vi assicuro che non vi è nessun meccanismo del genere. Mi aggrappai all'ultima pagliuzza, ma era proprio una misera pagliuzza! — Il meccanismo potrebbe essere stato applicato dopo che lo scrigno è passato in altre mani — mormorai. — Può darsi — ammise la signora, ma compresi che era tutt'altro che convinta. — Comunque, signora, nell'aprire quel cassetto dovreste servirvi di questo guanto — dissi e presi il guanto d'acciaio di Godfrey dalla sedia. — È inutile correre un rischio, sia pur minimo, permettete... — e le applicai il guanto alla mano destra. In quel momento guardai Godfrey. Fissava la donna velata con una tale espressione stupefatta che per poco non scoppiai a ridere. Non capitava tutti i giorni di vedere Godfrey letteralmente impietrito per la meraviglia! La signora velata guardò il guanto d'acciaio e rise. — Ora posso aprire il cassetto? — domandò. — Sì, signora. Si avvicinò alla scrigno e Godfrey e io avanzammo dietro di lei. Infine il segreto che aveva sfidato tutti i nostri sforzi stava per essere rivelato. E con quella rivelazione sarebbe venuta la fine dell'ipotesi romanzesca che Burton E. Stevenson
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avevamo tessuta così laboriosamente. Per istinto lanciai un'occhiata verso la lunetta sopra la finestra, ma non vidi altro che un piccolo semicerchio di cielo. La donna introdusse la mano destra nell'armadietto centrale e ponendo le dita sul lato sinistro premette alcuni intarsi. — Provo una certa difficoltà, perché di solito mi sono sempre servita della mano sinistra — disse. — Osserverete che premo su tre punti, ma per aprire il cassetto bisogna premere questi tre punti nel determinato ordine, prima questo, poi questo, poi questo... S'udì uno scatto secco e di fianco al tavolino dello scrigno uno degli intarsi metallici si staccò dalla superficie. — Questa è la maniglia — spiegò la signora e senza un attimo di esitazione afferrò l'intarsio e tirò vigorosamente aprendo un cassettino di una profondità minima. — Ah! — esclamò poi gettando via il guanto d'acciaio, e afferrò un pacchetto di carte che si trovava all'interno. Dominando con uno sforzo evidente la propria emozione, sciolse il nastro che teneva insieme le carte e sparpagliò sotto i miei occhi dieci o dodici buste. — Come vedere si tratta soltanto di lettere, avvocato Lester — disse a voce bassa — e vi assicuro che mi appartengono. — Mi basta la vostra parola, signora — dissi, e con un sospiro di sollievo lei tornò a legare il pacchetto e lo fece scomparire nella propria borsetta. — C'è ancora una cosa che forse la signora può fare per me — soggiunsi. — Sarei ben lieta! — Come ho detto all'avvocato Horn, due uomini sono morti in questa stanza ieri l'altro... o meglio sono morti nel salotto attiguo, ma riteniamo che abbiano ricevuto le ferite che hanno causato la morte, qui. Ora sembrerebbe che ci stiamo sbagliando. — Se alludete al meccanismo di cui avete parlato prima, vi sbagliate senza dubbio, avvocato Lester — rispose la signora. — Posso dirvi che, almeno finché il mobile è stato in mio possesso non ha contenuto alcun congegno del genere. Forse saprete che secondo la leggenda lo scrigno fu fabbricato per Madame de Montespan. Parlava con maggior disinvoltura, ora; era evidente che si era tolta un gran peso dal cuore. — Anche il signor Vantine lo supponeva — dissi. — Era un intenditore in fatto di mobili antichi. Certo è che lo stava esaminando quando è morto. Burton E. Stevenson
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Che cosa stesse facendo l'altro al momento della tragedia, non sappiamo, ma se potessimo identificarlo sarebbe un gran vantaggio per noi. — Non l'avete identificato? — No, non sappiamo nulla di lui, eccetto che era presumibilmente francese e che era arrivato sulla La Touraine due giorni fa. — È la nave con cui sono arrivata anch'io. — Mi era venuto in mente, signora, che voi potreste averlo visto... che potreste forse conoscerlo. — Come si chiamava? — Il biglietto da visita che ha fatto consegnare al signor Vantine recava il nome di Theophile d'Aurelle. Lei tentennò il capo. — Il nome mi torna assolutamente nuovo, signor Lester. — Riteniamo che si tratti di uno pseudonimo — spiegai — ma forse potrebbe riconoscerlo dalla fotografia. La presi di tasca e gliela porsi. La prese, la guardò attentamente e di nuovo tentennò il capo. Poi la guardò di nuovo e infine si rialzò il velo per vedere meglio. — A dire il vero, la faccia non mi è del tutto nuova — disse finalmente — come se avessimo visto quest'uomo in qualche luogo, senza conoscerlo... — Sulla nave, forse — suggerii, ma sapevo benissimo che non poteva averlo visto sulla nave, dal momento che l'uomo aveva viaggiato in classe turistica. — No, non credo che sia stato lì. Sì, sono quasi sicura di aver visto quest'uomo... eppure non ricordo dove. Dissi a voce bassissima: — Forse era un conoscente di vostro marito. Vidi che le tremava la mano, ma non perdette il suo sangue freddo. — Anche a me è venuto lo stesso pensiero, avvocato — rispose — ma conosco ben pochi degli amici di mio marito... e questo non di certo. Tuttavia... ma forse la mia cameriera può aiutarci. Con la fotografia in mano, passò nel salotto. La cameriera stava seduta sulla sedia dove l'avevamo lasciata, con le mani incrociate in grembo, come se riuscisse a mantenersi calma solo con uno sforzo violento. — Julie — disse la signora velata parlando rapidamente in francese — ho qui la fotografia di un uomo che è stato ucciso in questa stanza misteriosamente, pochi giorni fa. Questi signori desiderano identificarlo. La faccia non mi giunge nuova, ma non riesco a darle un nome. Guarda Burton E. Stevenson
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anche tu. Julie tese una mano tremante, prese la fotografia e la guardò, poi con un gemito prolungato scivolò dalla sedia e stramazzò al suolo prima che Godfrey o io potessimo sorreggerla. Nella caduta, il velo le s'impigliò nello schienale della sedia e vi rimase appeso. Allora, guardando quel volto, fui preso da una grande emozione, poiché riconoscevo nella cameriera della signora X la donna misteriosa di cui d'Aurelle portava la fotografia nella cassa dell'orologio.
15. Il segreto del francese Per un attimo rimasi come impietrito fissando quei lineamenti contratti e sconvolti, poi Godfrey si fece avanti e rialzò la donna adagiandola sul divano. — Portate dell'acqua — disse e si voltò a guardarmi e io vidi che i suoi occhi scintillavano per l'eccitazione. Corsi alla porta e l'aprii. Rogers stava nel vestibolo e gli ordinai di portare dell'acqua, poi rientrai nel salotto. Godfrey era intento a praticare un massaggio vigoroso sui polsi della ragazza e la signora le stava sbottonando il corsetto. — Ecco l'acqua, signore — disse Rogers entrando e mi porse un bicchiere e una caraffa. Un istante dopo il suo sguardo cadde sulla donna svenuta che giaceva sul divano. Fissò per un poco quel volto e vidi che i suoi occhi si spalancavano gradualmente e che le sue gote si facevano di un rosso che tendeva al violaceo, poi, portandosi la mano alla gola, il poveretto fece un mezzo giro su se stesso e stramazzò al suolo come era accaduto due giorni prima. Horn, che in quel momento fissava la cameriera, si voltò con un salto udendo il tonfo. — Signore benedetto! — esclamò con un'espressione di sgomento di cui in altre circostanze avrei apprezzato la comicità, scorgendo Rogers lungo disteso al suolo. — Ma che cosa c'è in questa casa, in fin dei conti? Corsi di nuovo alla porta dell'ingresso e chiamai Parks a gran voce; questi apparve quasi subito, spaventato. — Eccomi, eccomi... che cosa c'è? — cominciò. — Nulla di grave — intervenne Godfrey bruscamente. — Rogers ha Burton E. Stevenson
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avuto un'altra crisi, portate l'ammoniaca! Parks se ne andò come un sonnambulo e l'avvocato Horn si lasciò cadere su una sedia. Quando Parks ritornò con l'ammoniaca, m'inginocchiai al suolo e rialzai il capo di Rogers mentre il domestico gli avvicinava la fiala di ammoniaca al naso. Frattanto la signora aveva spruzzato un po' d'acqua sul volto di Julie... con grave danno delle sembianze di questa... e le strofinava leggermente le tempie. — Fra un momento riprenderà i sensi — disse e infatti di lì a pochi secondi la ragazza aprì gli occhi e si guardò attorno come trasognata, poi fu presa da un tremito convulso. — Che cosa c'è, Julie? — domandò la padrona prendendole una mano. — Conoscevi quell'uomo? La cameriera continuò a tremare e non rispose. — Devi dirmelo — continuò la signora in tono suadente. — Forse è stato commesso un delitto. E devi dirmi tutto. Puoi contare sulla discrezione di questi signori. Conoscevi quell'uomo? La ragazza annuì e chiuse gli occhi; ora piangeva a calde lacrime. — L'hai conosciuto a Parigi? — La ragazza annuì. — Eri in rapporti intimi con lui? Un cenno d'assenso e un nuovo fiume di lacrime. — Ora mi ricordo — esclamò a un tratto la signora. — L'ho visto con lei una volta. Ma che cosa faceva in questa casa? — E, rivolta a Julie, soggiunse in tono più severo: — Dimmelo! — La signora non mi perdonerà mai! — singhiozzò la ragazza e io cominciai a pensare che fosse più preoccupata per sé che non per la triste sorte del suo innamorato. Lo stesso pensiero dovette attraversare la mente della sua padrona, poiché la sua voce si fece più aspra. — Ascoltami bene, Julie, bisogna che tu dica tutto... se non parli qui, dovrai parlare dinanzi a un funzionario di polizia. — Oh, no, no! — gridò la ragazza raddrizzandosi a un tratto sul divano. — Questo mai! La signora non sarà tanto crudele! — Allora parla adesso — ribatté la padrona inesorabile. — Sì, sì, sono disposta a parlare, signora! — gridò la ragazza passandosi un fazzoletto sugli occhi e usando un misto di francese e d'inglese. — Dirò tutto. In fin dei conti non sono da biasimare. È stato lui... quell'uomo. Non lo amavo, ma lo temevo. Aveva molta influenza su di me. Era capace di farmi fare quello che voleva. Mi batteva anche! Eppure non riuscivo ad Burton E. Stevenson
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allontanarmi del tutto da lui. — Come si chiamava? — domandò la signora. — George Drouet... abitava in Rue de la Huchette, nei pressi della Rue Saint Jacques. Era un cattivo soggetto... viveva sfruttando le donne. L'ho conosciuto sei mesi fa. Era molto abile nel circuire le ragazze; ho creduto che mi amasse. Poi ha cominciato a farsi prestare del denaro e ha finito col portarmi via tutti i risparmi... e anche gli anelli... tutti ! — così dicendo mostrò le mani prive di ogni ornamento. — Poi... Si fermò e guardò la sua padrona. — Continua! — Sapevo che anche la signora... Si fermò di nuovo. Mi avvicinai alla finestra e rimasi a fissare le imposte. — Ebbene, perché no? — riprese la ragazza in tono di sfida. — Perché no? Una donna non ha forse il diritto di essere amata? Una donna deve forse sopportare quel che la signora ha sopportato... — Basta così, Julie — la interruppe la padrona con voce gelida. — Racconta la tua storia. — Conoscevo l'esistenza del cassetto segreto... avevo visto la signora aprirlo e sapevo quel che conteneva. Ma ero fedele alla signora... le ero affezionata. La signora si ricorderà la sua disperazione quando, entrando nella camera, si accorse che lo scrigno era stato portato via, venduto da quel... Anch'io ero disperata e desideravo con tutta l'anima aiutare la signora. Quella sera avevo appuntamento con lui — e indicò la fotografia che giaceva al suolo. — L'ho visto e gli ho detto tutto. La signora era come impietrita. Intuivo la sua angoscia e la sua umiliazione. — Lui mi ha interrogata e mi ha strappato tutti i particolari sul cassetto e sul modo di aprirlo, ma io non sospettavo quello che aveva in mente... non l'ho sospettato nemmeno per un attimo. Però sulla nave l'ho visto e ho capito. Ebbene, ha avuto quello che meritava! Rabbrividì e si coprì gli occhi con le mani. — Questo è tutto, signora — soggiunse con voce rauca. — È tutto per quanto riguarda questa storia — ribatté Godfrey con voce tagliente, — ma c'è un'altra storia... — Un'altra storia? — fece eco la signora velata guardandolo. — Ecco, signora, domandatele per quale motivo è venuta in questa casa l'altro ieri sera e ha parlato con Philip Vantine in questa stanza. — Non è vero! — urlò la ragazza con la faccia congestionata. — È una Burton E. Stevenson
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menzogna! — Non c'è bisogno che la signorina Julie ci dia delle spiegazioni — soggiunse Godfrey inesorabile. — Non ci vuol molto per intuire che era venuta a prendere le lettere. Evidentemente aveva deciso di tentare un ricatto, signora! — È una menzogna! — urlò la ragazza di nuovo. — Sono venuta nella speranza di salvarlo... di... I singhiozzi le mozzarono la parola in gola. Mi accorsi che la signora velata tremava come una foglia. Le portai una sedia e lei vi si lasciò cadere mormorando una parola di ringraziamento. — Del resto, per quanto riguarda la sua visita abbiamo un testimone — aggiunse Godfrey. — Devo chiamare la polizia, signora? — No, no! — La ragazza si raddrizzò di nuovo; ora la sua faccia era divenuta pallidissima. — Parlerò... dirò tutto. Datemi un momento di tregua. Rimase là seduta torcendosi le mani e sforzandosi evidentemente di dominare i propri nervi. Poi, a un tratto, vidi che le si dilatavano gli occhi e seguendo la direzione del suo sguardo mi volsi e constatai che Rogers si era alzato a sedere e questa volta fissava la donna, come se vedesse un fantasma. La vista di Rogers parve fare impazzire Julie. — Sei stato tu! — gridò agitando il pugno verso il disgraziato. — Sei stato tu a parlare! Vigliacco! Vigliacco! Ma Godfrey, con fare molto severo e autoritario, la scrollò per un braccio. — Tacete! — esclamò. — Lui non ci ha detto niente! Anzi, ha cercato di salvarvi... quantunque io non comprendo proprio perché desiderasse... Rogers lo interruppe con una risata cupa. — È una cosa abbastanza naturale, signor Godfrey — disse con voce rauca. — È mia moglie!
16. La visita La storia che Rogers ci narrò con voce flebile e titubante era abbastanza banale. Otto o dieci anni prima la bella Julie era arrivata a New York per entrare al servizio di una signora la quale aveva deciso che la vita senza una Burton E. Stevenson
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cameriera francese non era sopportabile. Rogers l'aveva conosciuta, si era innamorato dei suoi occhi neri e delle sue labbra rosse e aveva finito per sposarla. Per parecchi mesi aveva condotto un'esistenza tranquilla con la moglie, poi una mattina si era svegliato e aveva constatato che lei era fuggita. A quanto sembrava, Julie era stata presa dalla nostalgia di Parigi e, senza dubbio, si era stancata della vita poco romantica che conduceva accanto a Rogers. Comunque era ritornata in Francia. Rogers aveva pensato sulle prime di seguirla, ma, spaventato dalle difficoltà che avrebbe incontrato se avesse tentato di ritrovare sua moglie, non sapendo neppure se era andata a Parigi o altrove, aveva finito per rinunciare e si era rassegnato a vivere solo di ricordi. Nonostante tutto, il grande affetto che aveva avuto per la donna non si era completamente spento in lui cosicché quando aveva aperto la porta di casa Vantine e se l'era trovata davanti, si era lasciato dominare e l'aveva assecondata in tutto e per tutto. Julie aveva ascoltato la narrazione con aria indifferente, quasi sdegnosa, senza negare e senza neppure pensare di giustificarsi. Forse non le passava nemmeno per la mente di doversi giustificare. Quando la storia fu terminata, aveva ripreso completamente la propria aria disinvolta; sembrava persino un po' orgogliosa dell'importanza che la sua parte assumeva in quel dramma complesso. D'altronde doveva sentire di farci un poco la figura della donna fatale, e forse per questo, quando si volse a guardare Rogers c'era una espressione di gratitudine nei suoi occhi. — Tutto questo è vero, suppongo — mormorò la signora velata. — Verissimo, signora — rispose Julie. — Ero giovane allora e la vita tranquilla mi era insopportabile. La tentazione di tornarmene in patria fu troppo forte. Ma ora sono maturata e credo di avere più buon senso... — Cosicché siete forse disposta a ritornare con vostro marito — l'interruppe la signora in tono ironico. — È una possibilità che ho già considerato — rispose Julie con una semplicità sconcertante. — Ci ho pensato dal momento che l'ho rivisto qui, l'altra sera, e che ho saputo che mi voleva ancora bene. Guardai Rogers e lessi la conferma delle ultime parole di Julie. Costei soggiunse. — Ho esitato soltanto per riguardo alla signora... mi dispiaceva lasciarla... — Ne parleremo più tardi — disse la signora velata. — Ora sarà meglio che tu ci parli della tua precedente visita qui. — Benissimo, signora — e Julie si accomodò meglio sul divano. — Un Burton E. Stevenson
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giorno sul piroscafo mentre guardavo giù verso il ponte di terza classe, ho visto Drouet che passeggiava. Sulle prime non credevo ai miei occhi, poi lui ha guardato in su e si è accorto che lo osservavo. Si è portato sotto la balaustra e mi ha ordinato di trovarmi con lui quella sera. È stato allora che ho appreso il suo progetto. Consisteva nell'impadronirsi di quelle lettere per farne commercio. — A chi voleva venderle? — domandò Godfrey. — Al miglior offerente, senza dubbio — rispose Julie col tono di chi si sente rivolgere una domanda oziosa. — Dapprima sarebbero state offerte alla signora per diecimila franchi l'una; se la signora si fosse rifiutata, l'offerta sarebbe stata fatta al signor duca il quale, senza dubbio, desiderava averle. La signora fu scossa da un brivido e istintivamente passò una mano sulla borsetta che aveva in grembo, come per assicurarsi che il prezioso pacchetto fosse al sicuro. — Quella notte, nella mia cabina, mi sono voltata e rivoltata sul letto cercando di trovare il modo per impedire una cosa simile — continuò Julie. — Avevo già capito da tempo che Drouet non aveva alcun sentimento per me... sapevo che avrebbe speso quel denaro con qualche altra donna. Alla fine decisi che non appena mi fosse stato possibile sarei corsa subito qui, avrei spiegato la situazione al signor Vantine e lo avrei convinto a restituirmi le lettere che poi avrei portato subito alla signora. Non è vero che volessi ricattarla... ed è logico. Non avrei avuto bisogno di ricorrere a un simile metodo dal momento che potevo contare sulla sua gratitudine. La ragazza fece una pausa e si guardò attorno. — Hai almeno una qualità — osservò la sua padrona — la franchezza. Continua. — Soltanto quella sera sono riuscita a trovare un'occasione di lasciare la signora — riprese Julie. — Mi sono precipitata qui, ho suonato il campanello, ma confesso che forse non sarei riuscita a farmi ricevere se il caso non avesse voluto che fosse proprio mio marito ad aprirmi la porta. Anzi, dirò che ero già riuscita a entrare e lui ancora non voleva permettermi di parlare col suo padrone, senonché mentre discutevamo il signor Vantine in persona è uscito nell'ingresso e io sono corsa da lui implorandolo di ascoltarmi. Allora lui mi ha invitato a entrare in questo salotto. La ragazza tacque ancora. Mi sentivo fremere d'impazienza. Stavamo per apprendere in quale modo Philip Vantine aveva trovato la morte? Burton E. Stevenson
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— Mi sono seduta — soggiunse Julie — e gli ho raccontato la storia dal principio alla fine. Mi ha ascoltato con molto interesse, ma quando gli ho proposto di consegnarmi le lettere, ha esitato. Si è messo a passeggiare avanti e indietro per la stanza, come se meditasse prima di prendere una decisione, poi mi ha condotto nella stanza vicina, attraverso quella porta, e mi ha mostrato lo scrigno che era là, in mezzo, in piena luce. "È questo il mobile?", mi ha domandato, e quando io ho risposto che era proprio quello, ha avuto l'aria di meravigliarsi. "È facile a provarsi", ho detto allora e avvicinandomi allo scrigno ho premuto le tre molle come avevo visto fare alla signora tante volte e la piccola maniglia di fianco al tavolino è scattata in fuori. Allora il signor Vantine mi ha fermato. "Si, ora sono convinto che lo scrigno sia questo", ha detto. "Senza dubbio il cassetto contiene delle lettere, come voi dite, ma quelle lettere non appartengono a voi, appartengono alla vostra padrona. Non posso permettervi di portarle via, poiché, dopo tutto, non vi conosco. Per quel che ne so io potreste anche avere intenzione di farne un uso disonesto." Ho protestato assicurandolo che i suoi sospetti erano ingiustificati, che ero una persona onesta, e devotissima alla mia padrona. Mi ha ascoltato, ma non si è convinto. Alla fine mi ha ricondotta in questo salotto. Avrei pianto di rabbia! "Ritornate dalla vostra signora", mi ha detto, "e informatela che sarò ben lieto di restituirle le lettere. Ma esigo di porle nelle sue proprie mani. Se desidera riaverle, sappia che sono qui a sua disposizione." Ho capito che era inutile insistere e mi sono rassegnata ad andarmene. Il signor Vantine mi ha accompagnata alla porta ed ecco tutto quello che so, signore. Seguì un momento di silenzio, poi udii Godfrey trarre un profondo sospiro. Lo guardai e capii che, come me, anche lui era convinto che la ragazza diceva la verità. — Naturalmente, non appena siete ritornata a casa avete riferito l'accaduto alla vostra padrona — dissi in tono pacato. Julie arrossì fino alla radice dei capelli. — Nossignore... non le ho detto niente. — Avrei creduto che desideraste dimostrarle la vostra devozione — aggiunse Godfrey con voce melliflua. — Temevo che la signora interpretasse male il passo che avevo fatto — balbettò Julie. — E poi non potendo riportarle le lettere non potevate sperare in una ricompensa — completò Godfrey. La cameriera non rispose e rimase impacciata. Burton E. Stevenson
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La signora si alzò. — Avete altre domande da rivolgerle? — domandò. — No, signora — rispose Godfrey. — La storia è completa. Julie si rimise la veletta lanciando al giornalista un'occhiata tutt'altro che amichevole. La signora velata mi si avvicinò e mi tese la mano. — Non trovo parole per ringraziarvi, avvocato Lester — disse. — Andiamo, Julie — e s'incamminò verso l'uscio che Rogers si precipitò ad aprire. L'avvocato Horn ci fece un cenno di saluto e seguì le due donne. Godfrey e io ci trovammo di nuovo soli. Ci sedemmo entrambi e per qualche minuto restammo in silenzio. Finalmente il mio compagno disse: — Che articolone potrei fare con questa storia! E pensare che non posso servirmene! Non riesco a rassegnarmi, Lester. — Certo sarebbe una storia sensazionale — risposi. — Io stesso sono ancora sbalordito. — E io più di voi. Sulle prime non ci capivo niente... ero ammutolito per la meraviglia udendovi parlare del cassetto segreto con la signora velata... e, badate, mi sono accorto che vi divertivate alle mie spalle! Ma ci sono ancora parecchie cose che non so. Come mai quella donna si è rivolta a voi? Gli raccontai della visita di Horn, della storia che mi aveva raccontato e degli accordi che avevamo presi. Godfrey rimase pensoso, quando ebbi finito. — Qui non c'è niente di losco di certo — disse. — L'avvocato Horn non si presterebbe mai a un trucco. D'altra parte, ho riconosciuto la signora. Suppongo che l'abbiate riconosciuta anche voi. — Sì, l'avevo già riconosciuta e ho avuto la conferma quando ha sollevato il velo per guardare la fotografia. — È cambiata dal giorno del matrimonio, Lester... allora era una ragazza dal volto radioso! Tre anni di convivenza col suo duca hanno lasciato delle tracce visibili. Tacque di nuovo e si mise a fissare il tappeto, quindi si riscosse e aggiunse: — La storia della cameriera è molto interessante tuttavia ci sono parecchie cose che non mi risultano chiare. — C'è una cosa soprattutto di cui non riesco a capacitarmi — dissi. — Prima non credevo affatto che questo potesse essere lo scrigno che la signora cercava e nemmeno ora riesco a capire come mai sia proprio Burton E. Stevenson
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questo. — Ecco il problema. Come mai quando la signora velata è andata dalla ditta Armand e Fils di Parigi ha avuto l'indirizzo di Philip Vantine? secondo la versione dello stesso Vantine lui non aveva comperato questo scrigno... anzi, non l'aveva mai visto prima che arrivasse, quindi si doveva presumere che gli fosse stato spedito per errore; lo stesso Armand vi ha mandato un telegramma che tenderebbe a confermare questa ipotesi, eppure quando la signora si è presentata agli uffici della ditta le è stato fatto il nome di Vantine come quello dell'acquirente. C'è qualcosa di falso in qualche punto di questa storia, Lester... Dove, non lo so, ma cercherò di scoprirlo. — A proposito, il rappresentante di Armand non si è ancora fatto vivo. Lui dovrebbe essere in grado di chiarire l'equivoco. — In ogni modo non ci farà male udire la sua versione. — fece Godfrey. — E ora andiamo a dare un'occhiata a quel cassetto. Il cassetto era aperto come l'avevamo lasciato. Godfrey lo richiuse e mi fece notare con quale perfezione i suoi contorni fossero nascosti e mascherati dagli intarsi. Fece poi funzionare le molle e aprì di nuovo il cassetto tirandolo fuori il più possibile. — L'uomo che ha fabbricato questo piccolo congegno era un genio — disse in tono d'ammirazione richiudendolo di nuovo. — Pensate a tutto ciò che questo cassetto deve aver contenuto dai giorni di Madame de Montespan a oggi! Lettere di amore, per lo più... sono quelle che richiedono maggiormente di essere nascoste. Non vi piacerebbe che questo cassetto potesse rivelarvi i suoi segreti, Lester? — C'è un segreto che vorrei che ci potesse rivelare — risposi. — Il segreto della morte di Philip Vantine. Immagino che converrete con me che la interessante versione da noi congetturata è andata a farsi benedire, come si dice volgarmente. — Sembra proprio così. — Non c'è alcun meccanismo avvelenato in quel cassetto... questo è certo — soggiunsi. — Non c'è e non c'è mai stato. — Così siamo di nuovo in alto mare e tutta questa storia ridiventa più misteriosa che mai. Non ci capisco niente. Così dicendo mi sedetti e mi grattai la testa. Avevo proprio la sensazione" che la mia mente fosse annebbiata. — Una cosa è certa — soggiunsi a un tratto — l'uccisione, qualunque sia il mezzo usato, è avvenuta, qui, nel salotto, e non nella seconda stanza. Burton E. Stevenson
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— Da che cosa lo arguite? — Ascoltatemi: noi riteniamo che Drouet sia venuto qui per impadronirsi delle lettere e dal momento che si è fatto annunciare probabilmente aveva la tentazione di convincere Vantine a consegnargliele fingendosi rappresentante della legittima proprietaria. — Credo che sin qui andiamo secondo la logica — osservò Godfrey. — Infatti. Ora, la nostra ipotesi tendeva a provare che dopo essere stato introdotto nel salotto, il francese aveva scoperto lo scrigno nel locale vicino, aveva tentato di aprire il cassetto ed era stato ucciso dal famoso meccanismo. Ma adesso sappiamo che in quel cassetto non c'è niente di micidiale, o no? — Già, è evidente. — Dunque, se avesse aperto il cassetto, Drouet avrebbe preso le lettere, poiché nulla glielo avrebbe impedito. Dal momento che non le ha prese, mi sembra lampante che sia stato ucciso prima che potesse mettere le mani nello scrigno. Forse non ha nemmeno visto il mobile. Dev'essere stato ucciso qui, nel salotto, pochi minuti dopo che Parks lo ha fatto entrare. — E riguardo a Vantine? — domandò Godfrey. — Non so — dissi in tono scoraggiato. — Lui non voleva certo le lettere... se mai ha aperto il cassetto, lo ha fatto per semplice curiosità di vedere come funzionava. L'unico dato sicuro che abbiamo è che la causa della sua morte e di quella del francese è la medesima. E ora che ci penso, possiamo essere certi che non ha neppure aperto il cassetto. — In che modo? — Se l'avesse aperto e fosse stato ucciso nel momento in cui l'apriva, noi lo avremmo trovato aperto — risposi. — Avevo pensato che si trattasse di un cassetto che si chiudeva da sé, ma, come vedete, non è così. Bisogna spingerlo per richiuderlo e ancora mettere a posto la maniglia. — Queste vostre deduzioni sono conclusive, Lester. Dobbiamo dunque ritenere che nessuno dei due abbia aperto il cassetto. Ebbene, che cosa ne consegue? — Non lo so... mi sembra che per ora non ne consegua un bel niente. — Non è vero. Ci sono due alternative. — Quali? — Innanzi tutto la mano che ha ucciso Drouet e Vantine potrebbe anche aver chiuso il cassetto — fece Godfrey fissandomi. — Lasciandoci le lettere? — domandai. — Non è possibile! Lui si volse a guardare le finestre chiuse e io compresi a chi credeva appartenesse quella mano. Burton E. Stevenson
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— D'altra parte come avrebbe fatto ad entrare? — soggiunsi. — Come avrebbe fatto a fuggire? Che cosa cercava se ha lasciato le lettere? — Mi alzai. — Devo ritornare in ufficio. Oggi è sabato e chiudo alle due. Uscite anche voi? — No — rispose Godfrey. — Se non vi dispiace rimango qui ancora un poco a riflettere, Lester. Chissà che, a forza di pensare, non riesca a vedere uno spiraglio di luce.
17. Entra il signor Armand Quando ritornai in ufficio mi dissero che il signor Felix Armand della ditta Armand e Fils era venuto a cercarmi e, non trovandomi, aveva lasciato il suo biglietto su cui aveva scritto a matita che sarebbe ritornato lunedì mattina. C'era un altro visitatore che aveva aspettato il mio ritorno... un uomo alto, angoloso, con un paio di baffoni imperiali che si presentò come Simon Morgan di Osage City. — Sono il parente più prossimo del povero Philip Vantine — mi disse. — Sono venuto il più presto possibile. — Siete arrivato in tempo — risposi. — Il funerale avrà luogo domani mattina alle dieci, partendo dall'abitazione. — Avete ricevuto il mio telegramma? — Sì. Si agitò sulla sedia, un po' impacciato, sapevo quel che desiderava dire, ma non avevo voglia di aiutarlo. — Suppongo che mio cugino abbia lasciato un testamento — mormorò alla fine. — Certo. Abbiamo disposto in modo che l'omologazione sia fatta per lunedì. Allora potrete esaminarlo se lo desiderate. • — Voi ne avrete già preso visione? — Conosco le disposizioni, perché il testamento è stato compilato qui nel vostro ufficio. Il signor Morgan si tormentava i baffi furiosamente. — Mio cugino Philip era molto ricco, a quanto mi consta — soggiunse. — Abbastanza ricco. Aveva titoli per il valore di un milione e duecentocinquantamila dollari oltre a qualche proprietà terriera. Era anche proprietario di una preziosa collezione di oggetti d'arte... quadri, mobili, arazzi, di cui forse non sapremo mai il valore reale. Burton E. Stevenson
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— Perché no? — Perché ha lasciato tutto al Museo Metropolitano d'Arte. A questa istituzione ha lasciato tutto, eccezion fatta per qualche lascito ai domestici. La faccia del signor Morgan si fece paonazza. — Ah, davvero? Mi avevano detto che era un po' matto. — Nemmeno per sogno, era sanissimo — ribattei in tono asciutto, poi mi ricordai dei dubbi che mi avevano assalito quell'ultimo giorno quando avevo visto Vantine maneggiare lo scrigno di Boule, ma tenni per me quei dubbi. — Ebbene, ci sarà da discutere — scattò il mio visitatore in tono minaccioso. — Come volete, signor Morgan. Se avete dei dubbi sull'autenticità del testamento, siete libero di verificare. Ma ora, se volete scusarmi, ho molto da fare. Si alzò subito e con un brusco cenno di saluto uscì. Non lo rividi mai più. Probabilmente consultò un legale, seppe che non c'era nulla da fare e prese il primo treno per ritornarsene a Osage City. Non aspettò nemmeno per il funerale. In verità poche persone assistettero alle esequie. C'era un gruppo di vecchi amici di famiglia, i rappresentanti del Museo e di varie Istituzioni benefiche che Vantine aveva soccorso, alcuni amici personali e nessun parente. Il testamento fu omologato la mattina seguente. Vantine aveva disposto che la sua collezione d'arte venisse trasportata al museo e che la casa con tutte le suppellettili che non potevano interessare al museo venisse venduta a beneficio del museo stesso. Avevo già avvertito il professore Clarke dei termini del testamento e quando questo venne letto, il legale del museo era presente. A nome della sovraintendenza mi pregò di custodire la collezione per una settimana o due, finché potessero essere prese le disposizioni per il trasferimento al museo. Frattanto si sarebbe proceduto a un inventario della collezione di Vantine. Aderii a queste disposizioni, ma mi sentivo molto triste mentre m'incamminavo verso l'ufficio. Avevo sempre avuto l'impressione che la collezione di Vantine facesse un poco parte della personalità del mio defunto amico... e soprattutto faceva parte della casa in cui lui l'aveva raccolta. Catalogata e disposta rigidamente lungo le pareti di una galleria avrebbe perso molto della sua bellezza e mi venne fatto di pensare che sarebbe stata un'ottima soluzione se la città di New York avesse lasciato intatta quella casa avita con tutto ciò che conteneva per conservare un Burton E. Stevenson
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classico esemplare delle antiche dimore dell'aristocrazia americana. Ma naturalmente, la cosa non sarebbe stata possibile, anzi, il municipio sarebbe stato ben lieto di poter togliere di mezzo l'ultima barriera che impediva l'avanzata della moderna edilizia commerciale della Avenue. Ero appena rientrato in ufficio e mi ero seduto alla scrivania quando il fattorino venne ad annunciarmi una visita. Un istante dopo stringevo la mano del signor Felix Armand. Anche oggi mi basta chiudere gli occhi per rievocare la singolare personalità di quell'uomo, poiché Felix Armand era senza dubbio una delle persone più straordinarie che mai mi fosse accaduto di conoscere. Aveva un volto abbronzato ed energico, gli occhi vivaci, la barba e i capelli nerissimi e nell'insieme un aspetto eccezionalmente virile e vigoroso. Aveva anche quell'aria indefinibile, ma inconfondibile dell'uomo raffinato e colto... l'aria dell'uomo che ha viaggiato molto, che ha visto molte cose, e che ha conosciuto molta gente di ogni specie. Era uno di quegli individui che si trovano a loro agio dovunque. Non mi è possibile tradurre in parole semplici un'idea adeguata della sua personalità, ma confesso che fin dal primo momento ne rimasi incantato e dominato. Del resto anche ora sono incantato, forse più che al primo momento, perché so tutta la storia. — Parlo l'inglese molto male, avvocato — disse mentre si accomodava. — Se voi parlate il francese... — Il mio francese non vale nemmeno la metà del vostro inglese — risposi ridendo. — Le poche parole che avete pronunciato mi bastano per rendermene conto. — Se è così farò del mio meglio. Mi scuserete se dico degli strafalcioni. Innanzi tutto, avvocato Lester, a nome della ditta Armand e Fils devo chiedervi scusa per l'errore commesso. — È stato dunque proprio un errore? — domandai. — Sì, è stato un errore e non vi nascondo che ci ha messi in imbarazzo. Non siamo nemmeno riusciti a capire come sia accaduto. Credetemi, signor Lester, che non ci accade spesso di sbagliare. L'ordine che regna nella nostra ditta è proverbiale. Comunque, lo scrigno che fu acquistato dal signor Vantine è rimasto nei nostri magazzini, mentre l'altro è stato imballato e spedito. Stiamo ancora compiendo delle indagini in proposito. — Allora lo scrigno del signor Vantine è ancora a Parigi? — No, avvocato. L'errore è stato scoperto qualche giorno fa e lo scrigno che appartiene al signor Vantine vi è stato spedito. Dovrebbe arrivare giovedì prossimo con La Provence. Io stesso lo riceverò e lo consegnerò al signor Vantine. Burton E. Stevenson
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— Ma il signor Vantine è morto! Non lo sapete? Il signor Armand rimase un momento a guardarmi a bocca aperta, come se non riuscisse a capire le mie parole. — Avete detto che il signor Vantine è morto? — balbettò. Gli narrai in breve l'accaduto e lui mi ascoltò con aria stupefatta. — È strano che voi non abbiate visto nulla sui giornali — aggiunsi. — Tutti ne hanno parlato. — Sono stato ospite di amici a Quebec — spiegò. — È stato appunto là che mi è pervenuto l'ordine da Parigi di venire da voi. Sono partito subito e sono arrivato a New York sabato. Sono venuto al vostro ufficio direttamente dalla stazione, ma non ho avuto la fortuna di trovarvi. — Sono dolente di avervi procurato tanto disturbo — dissi. — Ma che dite mai, avvocato! Non ho fatto che il mio dovere. Un errore come quello che è accaduto è un vero disonore per noi. Mio padre, che è della vecchia scuola, è furibondo. Ma sapete che non so capacitarmi che il signor Vantine sia morto? per me è un gran colpo, perché lo conoscevo abbastanza bene. Era un vero intenditore... e noi abbiamo perso uno dei nostri più preziosi clienti. Avete detto che è stato trovato morto in casa sua? — Sì, e la morte è stata causata da due piccole ferite sulla mano in cui è stato inoculato un veleno ultrapotente. — Incredibile! E in che modo sono state prodotte le ferite? — Non si sa. Io avevo formulato un'ipotesi... — Ed era? — incalzò quello vivamente interessato. — Vedete, poche ore prima un altro uomo è stato trovato morto nella medesima stanza, ucciso nello stesso modo. — Un altro uomo? — Uno sconosciuto che si era presentato chiedendo di parlare col signor Vantine. La mia ipotesi era che entrambe le vittime fossero state uccise mentre tentavano di aprire il cassetto segreto dello scrigno di Boule. Sapete qualcosa della storia di quello scrigno? — Riteniamo che sia stato costruito a suo tempo per Madame de Montespan, da Boule in persona. È l'originale corrispondente a un altro scrigno che si trova ora al Louvre e che, a quanto risulta, apparteneva a Luigi XIV. — Questa era anche la convinzione del signor Vantine — dissi. — Come abbia fatto a trarla non so... — Il signor Vantine era un intenditore, come vi ho detto — mormorò il signor Armand. — Ci sono certe caratteristiche che non possono sfuggire Burton E. Stevenson
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al conoscitore. — Sono state appunto le sue congetture sulla storia dello scrigno che hanno costituito la base della mia ipotesi — spiegai. — Ho pensato che, uno scrigno che apparteneva a Madame de Montespan, non poteva non avere un cassetto segreto e siccome è stato costruito ai tempi della Brinvilliers e di La Voisin, nulla di più naturale che il cassetto fosse custodito da un meccanismo avvelenato, non vi pare? — Sono perfettamente del vostro parere, avvocato Lester! — esclamò il mio compagno. — Il vostro ragionamento non fa una grinza. — Sembrava spiegare una situazione che altrimenti era avvolta nel più fitto mistero — soggiunsi. — Ed era anche un'ipotesi pittoresca. — Unica! — assentì il mio interlocutore fissandomi con occhi scintillanti, tanto era intenso il suo interesse. — Fin dall'infanzia i racconti misteriosi mi hanno appassionato. Possiedono per me un fascino irresistibile, tutto ciò che è mistero mi entusiasma. Qualche volta penso che avrei potuto divenire un grande investigatore... oppure un grande delinquente. E invece sono soltanto un commerciante di oggetti artistici. Potete capire quanto mi interessi questa storia eccezionale. — Forse potete esserci d'aiuto — dissi — poiché quella mia ipotesi è crollata irrimediabilmente. — Crollata? In che modo? — Il cassetto segreto è stato trovato... — Come? — esclamò Armand con voce brusca. — È stato trovato? — Sì, e non c'è alcun meccanismo avvelenato che lo custodisca. Trasse un profondo sospiro, poi riprese un contegno disinvolto e rise. — Io devo proprio combattere contro questa mia mania. È una specie d'ebbrezza. Dunque dicevate che il cassetto è stato trovato e che non c'era alcun meccanismo micidiale. Era vuoto anche? — No, c'era un pacco di lettere. — Delizioso! Lettere d'amore senza dubbio. Biglietti galanti del grande Luigi alla Montespan, forse? — No, purtroppo erano di data molto più recente. Le lettere sono state già restituite al legittimo proprietario. Le ho restituite io e spero che voi approviate. Per qualche minuto il visitatore rimase in silenzio fissandomi con occhi penetranti; avevo la sensazione che sapesse a chi era appartenuto lo scrigno e stesse ricostruendo la storia della signora velata. Finalmente disse in tono asciutto: — Dal momento che le lettere sono state restituite è inutile discutere in Burton E. Stevenson
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proposito. Senza dubbio, se fossi al corrente di tutte le circostanze, approverei il vostro passo... specialmente se avete agito in favore di una signora. — Proprio così — dissi e vidi dall'espressione del suo volto che aveva capito tutto. — Allora avete fatto bene. Non si è trovata alcun'altra spiegazione per la morte del signor Vantine e dello sconosciuto? — Non credo. Il magistrato svolgerà l'inchiesta ufficiale domani. L'ha rimandata nella speranza che emerga qualche nuovo indizio. — E la polizia non ha scoperto nulla? — Che io sappia, no. — Non sapete nemmeno chi fosse quel francese? — Questo sì. Era un poco di buono di nome Drouet. — Era residente in America? — No. Era appena arrivato. Dimorava a Parigi in Rue de la Huchette. Il signor Armand che non mi aveva mai tolto gli occhi di dosso, sospirò e sorrise, come se le mie spiegazioni gli avessero tolto un peso dal cuore. Nella mia mente si fece strada un sospetto, che il signor Armand sapesse molto più di quanto non volesse dire in merito a quella faccenda. — Non lo conoscevate, per caso? — domandai con aria noncurante. — No... non credo. Però c'è una cosa che non capisco, avvocato. Che cosa faceva questo Drouet in casa del signor Vantine? — Tentava di impossessarsi delle lettere — risposi. — E mentre tentava di impossessarsi delle lettere è stato ucciso? — Sì, ma nessuno capisce come, signor Armand. Chi o che cosa lo ha ucciso? Come gli è stato inoculato il veleno? Sapete forse suggerirmi qualche spiegazione? Rimase un momento a meditare, guardando fuori dalla finestra. — È un problema interessante — disse poi. — Ci penserò, avvocato. In ogni caso, ci rivedremo giovedì. Se non avete nulla in contrario possiamo trovarci a casa del signor Vantine ed effettuare lo scambio degli scrigni. — A che ora? — Non lo so con esattezza. Potrebbe esserci qualche ritardo nella consegna dello scrigno. Sarà meglio che venga a prendervi all'ufficio. — Benissimo. — Permettete che vi esprima di nuovo il mio rammarico per l'errore accaduto. Mi addolora il pensiero di non poter presentare le mie scuse al signor Vantine in persona. Dunque, arrivederci a giovedì, avvocato Lester. — Arrivederci — risposi e seguii con gli occhi la figura eretta ed Burton E. Stevenson
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elegante del visitatore, finché la porta non si fu chiusa alle sue spalle. Mentre tornavo a sedermi alla mia scrivania, pensavo che il signor Armand era davvero un uomo interessante e che mi sarebbe piaciuto conoscerlo più intimamente. Aveva una passione per tutto ciò che era mistero e nessuno meglio di me poteva comprenderlo. Sorrisi ripensando all'avidità con cui aveva ascoltato la storia del duplice dramma. Con quanta ingenuità aveva detto che forse avrebbe potuto divenire un grande investigatore... o un grande delinquente; ed era soltanto un commerciante di oggetti rari. Ebbene, molte volte avevo avuto anch'io pensieri del genere... e che cos'ero invece? Soltanto un modesto avvocato. Decisamente il signor Armand e io avevamo molto in comune.
18. La consegna dello scrigno L'inchiesta ufficiale si tenne il giorno seguente, e le mie supposizioni si rivelarono esatte. La polizia non aveva scoperto nulla di nuovo che potesse far luce sulla morte di Drouet e di Vantine. I testimoni non fecero altro che ripetere tutto ciò che io già sapevo e i giurati, di fronte a quel groviglio inesplicabile di circostanze, rimasero disorientati. Con mio grande sollievo, l'identità di Drouet fu stabilita senza bisogno del mio aiuto. La valigia che era rimasta in custodia alla Compagnia di navigazione era stata aperta dietro richiesta della polizia e vi erano stati trovati dei documenti del morto. Sullo scopo della sua visita a Vantine e il motivo per cui aveva presentato un biglietto da visita che non era il suo, la polizia non aveva neppure formulato un'ipotesi, né io mi sentii in dovere di offrire delle spiegazioni le quali, in fondo, non avrebbero fatto alcuna luce sul mistero della sua morte. All'inchiesta si verificò un incidente spassoso quando Goldberg tentò di stroncare Godfrey, senza dubbio dietro suggerimento di Grady. — La mattina dopo la tragedia — cominciò il magistrato — avete stampato sul Record una fotografia dichiarando che era quella della donna che aveva fatto visita al signor Vantine la sera prima e che era, presumibilmente, l'ultima persona che l'aveva incontrato in vita. Dove avete trovato quella fotografia? — Era una copia di quella che Drouet portava nell'orologio — rispose Godfrey. — In seguito non avete fatto altra allusione a questo particolare — Burton E. Stevenson
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soggiunse Goldberg. — Vi siete accorto che eravate in errore, immagino. — Al contrario, ho trovato le prove che avevo ragione. Goldberg s'imporporò e prese un atteggiamento tutt'altro che piacevole. — Nientemeno che le prove! Non è poco! — Non posso esprimermi altrimenti. — Quali erano i rapporti della donna con quel Drouet? — Era stata la sua amante. — Parlate con molta sicumera — osservò il magistrato con una smorfia sprezzante. — In fin dei conti, si tratta di vostre congetture, non è vero? — Posso parlare con assoluta certezza — ribatté Godfrey in tono pacato — poiché la donna ha confessato tutto in mia presenza. Goldberg era paonazzo. — E ha confessato di essere stata lei a far visita al signor Vantine? — domandò sogghignando. — Non solo ha confessato di essere stata lei — fece Godfrey sempre più mellifluo — ma ha raccontato dettagliatamente ciò che è accaduto durante la sua visita. — E s'intende che la confessione è stata fatta a voi, in privato, eh? — insistette Goldberg assumendo un tono decisamente insultante. Gli occhi di Godfrey lampeggiarono a quelle parole, ma riuscì a mantenere un contegno impassibile. — Niente affatto — rispose. — La confessione è avvenuta alla presenza dell'avvocato Lester e di un altro distinto professionista di cui non ho la facoltà di rivelare il nome. Goldberg inghiottì a fatica come se avesse ricevuto uno schiaffo. Credo che avesse proprio la sensazione di averlo ricevuto. — Questa donna è a New York? — domandò. — Credo di sì. — Come si chiama e dove abita? — Non posso rispondere. Goldberg fulminò il giornalista con un'occhiata. — Dovete rispondere — tuonò — altrimenti vi denuncio per resistenza a pubblico ufficiale. Godfrey non perdette il suo sangue freddo e rispose sorridendo: — Va bene, non ho nulla da obiettare; però, se fossi in voi, rifletterei. L'avvocato Lester potrà assicurarvi che quella donna non ha nulla a che fare con la morte di Drouet e del signor Vantine. Goldberg rifletté davvero, si rese conto del pericolo che correva tentando di prendere dei provvedimenti a carico di un giornale potente Burton E. Stevenson
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come il Record e alla fine decise di accettare la assicurazioni di Godfrey. — Questo è soltanto uno dei particolari che sono sfuggiti al capitano Grady — osservò Godfrey bonariamente. — Basta così — lo interruppe il magistrato e Godfrey scese dal banco dei testimoni. Fui richiamato per confermare la sua versione. Naturalmente rifiutai anch'io di dare il nome della donna, spiegando a Goldberg che lo avevo appreso nell'esercizio della mia professione e che ero sicuro della sua innocenza, e aggiunsi che, rivelando quel nome, avrei procurato dei guai a un'altra persona perfettamente innocente. Grady non salì sul banco dei testimoni; non era neppure presente all'inchiesta. Fin dal primo giorno aveva cercato di evitare che si facesse il suo nome in relazione a un caso che minacciava di restare senza una soluzione e del quale, quindi, aveva poche probabilità di farsi merito. Le indagini erano state ufficialmente affidate a Simmonds e fu appunto il sergente che testimoniò per conto della polizia, confessando in tutta franchezza che questa era completamente disorientata. Disse di aver compiuto una minuziosa perquisizione nella casa di Vantine e in particolar modo nella stanza in cui i cadaveri erano stati rinvenuti, ma di non aver trovato alcun indizio che giovasse alla soluzione del mistero. Non aveva abbandonato la speranza e continuava le sue ricerche; però era propenso a credere che, se mai si fosse risolto l'enigma, lo si sarebbe fatto per un caso fortunato oppure in grazia della spontanea confessione del colpevole. Goldberg era irritatissimo; lo si capiva dal modo in cui si mordicchiava i baffi, ma nemmeno lui era in grado di avanzare un'ipotesi. Non c'era la più vaga parvenza di prove per attribuire il delitto a qualcuno e alla fine dell'udienza i giurati emisero un verdetto secondo il quale Philip Vantine e George Drouet erano morti per effetto di un veleno somministrato da ignoti. Godfrey mi raggiunse sulla porta, mentre uscivo e c'incamminammo assieme. — Mi ha fatto piacere udire che Simmonds confessava che la polizia è in alto mare — disse. — Naturalmente Grady ha tentato di lavarsene le mani e di fare cadere il biasimo per il colpo mancato sulla testa di qualcun altro... ma veglierò io a che non ci riesca. Farò almeno in modo che Simmonds non rimanga danneggiato ingiustamente... è un buon diavolo, e poi siamo vecchi amici. — Tutto questo va bene — dissi — ma quel che conta è che ci troviamo tutti in alto mare, non vi sembra? Burton E. Stevenson
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— Per il momento — rispose Godfrey ridendo. — Ma abbiate pazienza e vedrete, Lester. — Da quando la mia ipotesi relativa alla scrigno di Boule è crollata non ho più ne pazienza né speranza. A proposito, consegnerò lo scrigno al suo legittimo proprietario domani. — Al suo legittimo proprietario? — ripeté Godfrey guardandomi con occhi socchiusi. — Prevedevo che presto o tardi sarebbe venuto a ritirarlo, ma non pensavo che comparisse tanto presto. E chi è, Lester? — Diamine — esclamai con una certa impazienza — voi sapete come me che lo scrigno appartiene alla ditta Armand e Fils. — Allora avete visto il loro rappresentante? — mi domandò preso da un'eccitazione di cui non riuscivo a comprendere il motivo. — È venuto a trovarmi ieri. Mi piacerebbe farvelo conoscere. È Felix Armand, il figlio del vecchio Armand... uno degli uomini più intelligenti e compiti che abbia mai conosciuto. — Anche a me piacerebbe conoscerlo — fece Godfrey con uno strano sorriso. — Forse un giorno o l'altro avrò questo piacere... spero. Ma come vi ha spiegato l'errore, Lester? — Credo che lui stesso non sappia con esattezza come è avvenuto. In qualche modo è stato spedito a Vantine uno scrigno che non era quello che aveva comperato. Quello che gli apparteneva gli arriverà qui con La Provence domani. Gli riferii minuziosamente il mio colloquio con Felix Armand e soggiunsi: — Era tutto confuso per questo sbaglio. Non la finiva più di scusarsi. Godfrey ascoltò con grande attenzione e quando ebbi finito assentì con aria soddisfatta. — Molto interessante — commentò. — Il signor Armand non ha detto per caso a quale albergo è sceso? — No, ma non sarà difficile trovarlo, se desiderate vederlo. Deve essere alloggiato in uno dei più grandi alberghi, naturalmente... Probabilmente il Plaza oppure il St. Regis. — Per che ora lo aspettate domani? — Non abbiamo fissato l'ora. Verrà nel pomeriggio non appena avrà potuto ritirare dalla nave lo scrigno di Vantine. Sentite Godfrey: ieri, mentre gli parlavo, ho avuto l'impressione che, in merito a questa faccenda, lui ne sapesse più di quanto non voglia ammettere. Mi sono accorto che ha indovinato subito chi era la proprietaria delle lettere stesse. Credete che debba ritardare la consegna dello scrigno? Potrei inventare Burton E. Stevenson
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facilmente qualche pretesto? — No, no dategli pure il suo mobile — rispose Godfrey con un calore che mi meravigliò. — Dal momento che la vostra ipotesi è crollata, a che serve aggrapparsi a quello scrigno? — Credevo che voleste esaminarlo ancora. — L'ho già esaminato abbastanza — rispose Godfrey e io pensai che era la prima volta che lo udivo confessarsi sconfitto. — Ho come la sensazione che quando avremo riconsegnato lo scrigno rinunceremo all'unica traccia che avevamo in merito a questa storia — spiegai. — Ma dal momento che non sappiamo più che farcene, non c'è ragione che ci teniamo lo scrigno — obiettò Godfrey. — Consegnatelo al signor Armand. Forse verrò da voi domani mattina. Arrivederci. L'indomani mattina non comparve. Credevo di trovarlo a casa di Vantine quando vi giunsi in compagnia del signor Armand, ma non c'era e quando domandai di lui, Parks mi disse che non l'aveva veduto dal giorno prima. Confesso che l'indifferenza di Godfrey riguardo al destino dello scrigno mi sorprendeva; d'altra parte avevo sperato che venisse per fare la conoscenza del francese. Il signor Armand non aveva trovato alcuna difficoltà nel ritirare lo scrigno alla dogana e non erano ancora le tre quando arrivammo a casa di Vantine. — Non ho visto il signor Godfrey — ripeté Parks — ma c'è dell'altra gente qui la cui vista mi spezza il cuore, signore. — Lo scrigno è in una stanza da questa parte — dissi al signor Armand e lo guidai, attraverso il salotto, nella stanza dove Vantine aveva messo i suoi ultimi acquisti. Parks accese tutte le luci e il mio compagno guardò con meraviglia le imposte di legno alle finestre. — Le abbiamo messe per precauzione — spiegai. — Ci eravamo messi in mente che qualcuno volesse penetrare qui di nascosto. Dirò anzi che una sera abbiamo trovato reciso uno dei fili del sistema d'allarme e più tardi io ho visto qualcuno che guardava dentro dalla lunetta a vetri di quella finestra laggiù. — Davvero? — domandò rapidamente il signor Armand. — E riconoscereste la persona che spiava se la rivedeste? — No, purtroppo. Vedete, la lunetta è molto piccola e io non ho potuto vedere altro che due occhi. Eppure credo che riconoscerei quegli occhi, poiché non ne ho mai visti di simili... erano scintillanti... fiammeggianti Burton E. Stevenson
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direi quasi. È stata la sera che Godfrey ed io tentavamo di trovare il cassetto segreto e quegli occhi fissavano il mio compagno come se volessero fulminarlo. Ora il signor Armand sembrava ascoltarmi distrattamente e fissava lo scrigno. — Ah, già, il cassetto segreto — mormorò. — Volete mostrarmi come funziona, avvocato? È una cosa che m'incuriosisce assai. Introdussi la mano nell'armadietto centrale e premetti i tre punti che la signora velata mi aveva indicato. La prima volta sbagliai l'ordine, ma alla seconda prova la piccola maniglia scattò in fuori e io aprii il cassettino. — Eccolo — dissi. — Guardate con quanta abilità è mascherato. Nessuno potrebbe sospettarne l'esistenza. Egli lo esaminò con molto interesse, poi lo chiuse e lo riaprì, facendo funzionare lui stesso il meccanismo. — È davvero perfetto — dichiarò. — Non ho mai visto un cassetto segreto così ben mascherato. L'idea di fabbricare il congegno in modo che il cassetto non si apra se non premendo le molle in un ordine determinato è geniale. Per la maggior parte i cassetti segreti sono segreti soltanto di nome... basta un po' di pazienza per trovarli, ma questo... Lo richiuse di nuovo e stette ad ammirare gli arabeschi che ne mascheravano l'inquadratura. — Il mio amico e io abbiamo esaminato lo scrigno, centimetro per centimetro e non l'abbiamo veduto — dissi. — Il vostro amico... mi sembra che ne abbiate fatto il nome, poco fa. Sì, sì, si chiama Godfrey. — E' un legale come voi? — No, no è un giornalista. Però, prima di fare del giornalismo è stato funzionario della polizia. È dotato di un acume e di un'astuzia straordinari e se c'era un uomo capace di trovare quel cassetto, quello era proprio Godfrey. Ma con quella combinazione di molle non c'è astuzia che tenga. — In ogni modo sono contento che il cassetto sia stato scoperto — disse il signor Armand. — Non vi nascondo, avvocato, che questo aumenta non poco il valore dello scrigno. — E quanto può valere? — domandai. — Il signor Vantine voleva che lo comprassi per lui e mi aveva menzionato una cifra impressionante. — Ecco — rispose il signor Armand dopo un momento d'esitazione — io non mi sentirei di dire una cifra, senza aver consultato mio padre, avvocato Lester. Lo scrigno è unico... forse il più bello che Boule abbia Burton E. Stevenson
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mai fabbricato. Avete scoperto il monogramma di Madame de Montespan? — No. Anche Vantine diceva che ci doveva essere, ma Godfrey e io non l'abbiamo nemmeno cercato. Armand aprì gli sportelli dell'armadietto centrale. — Voilà! — esclamò e mi additò un arabesco quasi sul margine superiore della tavola di fondo. — Guardate con quale arte si fonde con le altre figure. Ed eccovi l'emblema del donatore. — Indicò ancora un minuscolo sole d'oro con i raggi stilizzati tutt'attorno, accanto al monogramma. — Le Roi Soleil! — Le Roi Soleil! — ripetei. — Ma guarda! Come abbiamo fatto a non vederlo? In quel monogramma e in quell'emblema c'è tutta la storia di questo mobile, non è vero? Che cosa c'è, Parks? — domandai poi, vedendo apparire il domestico sulla porta. — C'è un furgone fuori, avvocato — disse. — Due uomini stanno scaricando un mobile. Ne sapete qualcosa? — Sì, sì — risposi. — Lasciateli entrare e dite di portare qui il mobile. Pregate anzi quel signore che sta facendo l'inventario di venire da me un momento. Il signor Vantine ha lasciato la sua collezione d'arte al Museo Metropolitano — spiegai volgendomi ad Armand — e desidero che il rappresentante della sovrintendenza sia presente quando avviene lo scambio. — Giustissimo — assentì il francese. Parks riapparve un momento dopo, guidando due uomini che portavano un oggetto rivestito di tela da sacco. L'incaricato del museo chiudeva la marcia. Gli spiegai la situazione e lui non fece obiezioni. — Senza dubbio si tratta di una cosa regolare, avvocato — disse. — Però sono spiacente che il Museo non possa entrare in possesso di un esemplare tanto raro — soggiunse fissando amorevolmente lo scrigno di Boule. — Forse potete comperarlo dal signor Armand — suggerii, ma l'altro rise e tentennò il capo. — No, purtroppo il Museo non può permettersi un lusso simile. Forse il nostro direttore potrà persuadere il grande Morgan ad acquistarlo per il Museo... glielo suggerirò. Frattanto i due facchini sotto la direzione di Armand avevano tolto l'imballaggio dall'altro scrigno. Anche quello era un bel mobile antico, ma anche ai miei occhi inesperti la sua inferiorità rispetto all'altro era evidente. — Saremo molto lieti di mostrarlo al signor Morgan — disse Armand Burton E. Stevenson
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sorridendo. — Non vi nascondo che avevo già pensato a lui come probabile acquirente. Cercherò di ottenere un appuntamento. Frattanto... — Frattanto lo scrigno è vostro — dissi io. Con lo stesso materiale tolto all'altro scrigno Armand fece imballare accuratamente il mobile e quando il lavoro fu terminato i facchini lo portarono fuori. Io stesso lo vidi scomparire con un certo rimpianto. Avevo la sensazione che con quello scomparisse l'ultima speranza di risolvere il mistero della morte di Vantine. Quantunque la mia stessa logica si ribellasse, un vago istinto mi diceva che in qualche modo quello scrigno di Boule aveva attinenza con la duplice tragedia. Il signor Armand si volse a me e mi porse la mano. — Spero di avere occasione di rivedervi, avvocato — disse con una cordialità che mi lusingò. — Se verrete a Parigi fatemi l'onore di avvertirmi. Sarò ben lieto di farvi ammirare alcune delle bellezze della nostra città, che non sono note a tutti. — Grazie — risposi. — Non dimenticherò il vostro invito. Intanto, dal momento che siete a New York... — Siete molto gentile — m'interruppe — e io stesso speravo che potessimo almeno pranzare insieme una volta. Ma sono obbligato a partire per Boston e di là proseguirò direttamente per Quebec. Non so se avrò occasione di ritornare a New York... dipenderà anche dall'atteggiamento del signor Morgan. Se ritorno ve lo faccio sapere. — Ci conto. Ne sarei molto lieto. D'altra parte spero ancora che vi possa balenare qualche soluzione di questo mistero. Scosse il capo sorridendo. — Temo che sia troppo difficile per un novellino come me. Per ora mi sembra un enigma impenetrabile. Se mai si trovasse la soluzione informatemi. Sarà senza dubbio molto interessante. Lo accompagnai fino alla porta. I due facchini stavano caricando il mobile sul furgone; quando ebbero finito salirono anche loro e l'autista mise in moto l'autocarro. Subito dopo il signor Armand prese posto in un taxi che aspettava e che partì subito nella direzione presa dal furgone. Parks e io lo seguimmo con gli occhi finché non ebbe svoltato al primo crocevia. — Il signor Godfrey ha perso un'occupazione — osservò il domestico sorridendo. — Da tre o quattro giorni non ha fatto che manovrare attorno a quello scrigno. Era qui anche ieri sera e si è fermato a lungo. — Ieri sera? — esclamai meravigliato. — Credevo di trovarlo qui oggi, ma sarà stato trattenuto da qualche cosa di importante. Burton E. Stevenson
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Un istante dopo scendevo la gradinata in due salti. Avevo visto passare un'auto pubblica sulla quale erano due uomini, uno dei quali passando mi aveva fatto un cenno di saluto con la mano. Avevo riconosciuto Godfrey.
19. "La Motti La Morti" Senza riflettere all'assurdità della cosa mi ero lanciato a corsa sfrenata per inseguire la macchina, ma ben presto mi resi conto che non avrei potuto tenergli dietro; allora mi guardai attorno e scorsi un provvidenziale taxi che avanzava lentamente in cerca di clienti. Senza un attimo di esitazione vi presi posto e ordinai all'autista di seguire la macchina di Godfrey. Ero fermamente convinto che questi a sua volta seguiva Armand e riflettei amaramente che aveva mancato di franchezza con me. Avevo solo intravisto il compagno del mio amico, ma mi era sembrato di riconoscere Simmonds. Il taxi di Godfrey procedendo rapidamente aveva quasi raggiunto quello di Armand e si teneva dietro al furgone, il mio procedeva a un centinaio di metri di distanza. Naturalmente vi erano parecchie altre vetture che facevano lo stesso percorso, cosicché il francese non poteva accorgersi di essere inseguito. A un tratto mi accorsi che stavamo inoltrandoci in uno dei quartieri più poveri della metropoli. Cosa andava a fare Armand da quelle parti? Si proponeva forse di lasciare il prezioso scrigno in una località come quella? Improvvisamente mi accorsi che il furgone rallentava, stava accostando al marciapiede. Mi sporsi in avanti e ordinai all'autista di svoltare in una laterale, cosa che quello fece immediatamente. Un istante dopo scendevo, pagavo la corsa e ritornavo di buon passo verso l'arteria dalla quale avevo deviato. Facendo capolino prudentemente dall'angolo vidi che il furgone si era proprio fermato, e così il taxi di Armand. L'altra vettura aveva proseguito, ed era scomparsa. I due facchini scaricarono lo scrigno e guidati da Armand lo portarono dentro l'edificio davanti al quale l'autocarro stazionava. Io non mi mossi e li vidi riapparire cinque minuti dopo accompagnati dal francese. Questi diede del denaro a loro e all'autista e il furgone si allontanò. Armand rimase un momento sul marciapiede guardando su e giù per la via, poi entrò nella casa. Subito dopo vidi Godfrey e il suo compagno, che era proprio Simmonds, sbucare da una via laterale che si apriva a destra dell'arteria poco più in là di quella che io avevo presa e avanzare cautamente. Erano sulla porta della Burton E. Stevenson
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casa dentro la quale era scomparso il francese quando li raggiunsi. Era un edificio sudicio e squallido come quasi tutti gli altri del quartiere. Il pianterreno era occupato da una lavanderia sulla cui insegna spiccava un nome francese e attraverso una porticina laterale si accedeva alla scala che portava ai piani superiori. Godfrey, il cui viso era tutto rosso per l'eccitazione, girò la maniglia della porta con grande circospezione. La porta era chiusa a chiave. Si chinò un attimo e avvicinò l'occhio alla serratura. — La chiave è nella toppa — sussurrò. Simmonds trasse di tasca una pinza lunga e sottile e gliela porse. Godfrey si guardò attorno, vide che in quel momento non vi era alcun passante vicino, introdusse la pinza nella toppa e afferrando l'estremità della chiave girò lentamente. — Ecco fatto — disse poi, senza far rumore spinse il battente ed entrò seguito da Simmonds e da me. Richiudemmo la porta e ci fermammo in ascolto. Io avevo il cuore in gola. Dal piano superiore ci perveniva il suono di una voce maschile che parlava concitatamente. A dispetto della semioscurità potei notare l'espressione stupita e allarmata di Godfrey il quale, perfettamente immobile, ascoltava quella voce. Anch'io tendevo l'orecchio, ma non riuscivo a capire una parola, poi, a un tratto, mi resi conto che parlava in francese. Eppure non era la voce di Armand... ne ero certo. Davanti a noi stava una scala stretta e ripida. Dopo un attimo di esitazione, Godfrey si sedette sul primo gradino e si tolse le scarpe facendoci cenno di fare altrettanto. Simmonds obbedì flemmaticamente, ma quanto a me mi tremavano le mani a tal punto che avevo paura di lasciar cadere una scarpa; Però riuscii a togliermele senza incidenti e le posai a terra ai piedi della scala. Quando finalmente alzai il capo con un sospiro di sollievo, Godfrey e Simmonds stavano già salendo i gradini e brandivano una rivoltella ciascuno. Li seguii, ma confesso che mi tremavano le ginocchia, poiché vi era qualcosa di sinistro in quella voce che continuava a blaterare. Sembrava la voce di un pazzo e aveva un tono feroce e trionfante a un tempo... In cima alla scala Godfrey sostò un momento in ascolto, poi riprese ad avanzare cautamente verso una porta aperta dalla quale la voce sembrava provenire. Con un gesto ci ordinò di fermarci dove eravamo. Tesi l'orecchio ancora e allora mi accorsi che quella voce era tanto monotona Burton E. Stevenson
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perché non faceva che ripetere all'infinito la stessa parola: — Revanche!... Revanche!... Revanche! Poi la voce calò di tono e io udii un rumore come di tela strappata. Godfrey, carponi, si era avvicinato alla porta e guardava nella stanza. Dopo un poco si ritrasse e ci invitò a guardare dentro a nostra volta. Non dimenticherò mai lo spettacolo che mi si offrì quando andai a spiare prudentemente oltre la soglia. La stanza era rischiarata soltanto dalla poca luce che filtrava attraverso le fessure delle imposte chiuse. Nel mezzo troneggiava lo scrigno di Boule e davanti ad esso, voltando le spalle alla porta era un uomo intento a strappare con gesti da forsennato la tela da sacco che lo proteggeva. Frattanto continuava a parlare da solo con una strana cantilena sostando di quando in quando per dare un'occhiata a una massa di forma incerta che giaceva al suolo contro il muro di fronte alla porta. Sulle prime, non potei distinguere che cosa fosse quella massa, poi, aguzzando gli occhi, mi accorsi che era il corpo di un uomo tutto avvolto in una rete, simile a quella dei pescatori. Fissai a lungo il prigioniero e, a un tratto, vidi lo scintillio dei suoi occhi i quali seguivano ogni gesto dell'uomo che manovrava attorno allo scrigno... uno scintillio inconfondibile... lo stesso che mi aveva spaventato già una volta prima d'allora... Godfrey mi pose una mano robusta sulla spalla, mi costrinse a ritirarmi e prese il mio posto. Io ritornai verso la scala e andai a sedermi sull'ultimo gradino asciugandomi il viso madido di sudore e cercando di capire qualcosa. Chi era quell'uomo? Che cosa faceva là contro il muro? Che cosa significava quella scena inverosimile? A un tratto ebbi l'impressione che il mio cuore facesse un salto, poiché Godfrey era balzato in piedi e si era precipitato nella stanza gridando: — Mani in alto! Simmonds lo aveva seguito subito e non credo che io impiegassi più di due secondi a raggiungere la soglia. Allora mi fermai di botto e dovetti appoggiarmi allo stipite per non cadere. La scena è così ben impressa nella mia memoria che mi basta chiudere gli occhi per rivederla ancora in ogni suo particolare. Lo scrigno stava là, in mezzo alla stanza, liberato del tutto dall'imballaggio, ma la figura che avevo visto raggomitolata al suolo era scomparsa e davanti a una porta aperta che dava in una stanza attigua stava un uomo gigantesco con le mani in alto e con il viso contratto dalla paura e dalla rabbia, mentre Godfrey gli premeva una rivoltella contro il petto. Burton E. Stevenson
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Poi, mentre io stavo a fissare lo spettacolo a bocca aperta, mi parve che qualcosa svolazzasse nell'aria al di sopra della testa dell'uomo il quale si mise a gridare: — La Morti La Morti Per un istante ancora egli rimase immobile, sempre con le mani in alto e con gli occhi sbarrati, indi, con un urlo strozzato, barcollò in avanti e stramazzò ai piedi di Godfrey.
20. La fuga Ricordo confusamente di aver veduto Godfrey chinarsi per un istante sul corpo, poi rialzarsi con un grido e precipitarsi attraverso quella porta aperta. Si udì un'altra porta che sbatteva, poi uno scalpiccio di passi affrettati. Prima che Simmonds e io comprendessimo ciò che accadeva, Godfrey era riapparso, aveva traversato d'un balzo la stanza e si era slanciato contro la porta che dava sul pianerottolo, nel momento stesso in cui veniva chiusa con fragore. Lo vidi scuotere disperatamente la maniglia, poi retrocedere di due passi e scaraventarsi contro il battente con tutto il suo peso. Ma la porta resistette e da fuori ci pervenne uno scroscio di risa beffarde che mi fece ghiacciare il sangue nelle vene. — Avanti dunque, idioti! — urlò Godfrey a denti stretti. — Non capite che quello se la svigna? Simmonds fu più pronto di me e tutti e due si gettarono contro la porta. Il legno scricchiolò, ma resistette; tuttavia, al secondo assalto combinato, il battente si schiantò da cima a fondo. Godfrey e Simmonds uscirono di corsa e io li seguii come un sonnambulo. Arrivai in cima alla scala in tempo per vedere Godfrey che tentava invano di aprire la porta di strada, poi si metteva a correre per il marciapiede verso la parte posteriore della casa. Un istante dopo un coro di urla femminili ci fece drizzare i capelli in testa. Come mi riuscisse di scendere quella scala non so davvero, ma anch'io percorsi il marciapiede, nella direzione presa dagli altri, aspettandomi ad ogni istante di trovarmi di fronte a chissà quale spettacolo di orrore. Arrivai a una porta aperta, la varcai e mi trovai in una lavanderia in mezzo a un gruppo di donne eccitate e furibonde che salutarono la mia comparsa con una nuova serie di strilli. Burton E. Stevenson
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Incapace di andare oltre, mi lasciai cadere su una cassa e le guardai. Credo che il mio aspetto fosse molto ridicolo, poiché le grida cessarono d'un tratto e udii invece un coro di risatine; ma in quel momento non mi preoccupavo certo del mio aspetto, né della figura che facevo. Ero ancora là seduto quando Godfrey riapparve, respirando affannosamente e digrignando i denti per la stizza. Il personale della lavanderia, rendendosi conto che qualcosa di straordinario stava accadendo, si raggruppò attorno a lui, ma lui si fece largo e andò dritto verso il tavolo al quale sedeva il direttore. — Un delitto è stato commesso qui, al piano superiore — disse. — Questo signore che è con me è il sergente Simmonds, del reparto investigativo. — E a quelle parole Simmonds mostrò il distintivo. — Noi dovremo notificare la cosa al quartier generale della polizia e vi consiglierei di indurre le vostre lavoranti a ritornare alle loro occupazioni. Non credo che vogliate essere coinvolto nella cosa. — No di certo — assentì il direttore con franchezza e, mentre Simmonds andava al telefono e si metteva in comunicazione con la centrale, discese dal suo trono e andò a disperdere il gruppo delle ragazze. Godfrey mi si avvicinò e mi pose una mano sulla spalla. — Perdiana, Lester, sembra che stiate tirando gli ultimi respiri! — Questa è proprio l'impressione che ho anch'io — risposi. — Se andiamo avanti di questo passo mi verrà un esaurimento nervoso. E voi credete di avere un'aria molto arzilla? — Non sono affatto arzillo. Ho lasciato che quel demonio uccidesse un uomo sotto il mio naso... letteralmente sotto il mio naso!... e ora è riuscito a svignarsela! — Che cosa? Avete detto uccidere? — balbettai. — Intendereste forse... — Se ci tenete, tornate al primo piano e date un'occhiata alla mano destra dell'uomo che giace là — rispose Godfrey in tono secco. — Non tarderete a capire che cosa intendo! Rimasi a guardarlo a bocca aperta incapace di credere alle mie orecchie... incapace di credere che Godfrey avesse davvero pronunciato quelle parole... "la mano destra dell'uomo che giace là..." quello poteva significare una cosa sola... Simmonds ci raggiunse; sembrava molto a disagio e si mordicchiava le labbra. — Ho parlato con Grady — disse — e gli ho raccontato l'accaduto. Dice che è troppo occupato per venire qui, che desidera che io prenda tutto su di me. Burton E. Stevenson
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Godfrey rise ironicamente. — Grady prevede la sua Waterloo! — osservò. — Ebbene, non è lontana. Ma sono contento per voi Simmonds... avete ancora la possibilità di farvi onore in questa faccenda! — Speriamo — brontolò Simmonds. — L'ambulanza arriverà tra poco. Sarà bene che ci rimettiamo le scarpe e che ritorniamo di sopra a vedere se c'è qualcosa da fare per quel poveretto. — Non ci può essere niente da fare — gli rispose Godfrey in tono stanco. — Però bisogna egualmente andare a vedere. Soltanto udendo le parole di Simmonds mi ricordai che ero senza scarpe. Ritornammo tutti e tre nell'ingresso, ci rimettemmo le scarpe, poi salimmo le scale. Sapevo quali pensieri passavano per la mente di Godfrey; si faceva una colpa di quell'ultima tragedia... si diceva che avrebbe dovuto prevederla e impedirla. Quando le cose andavano male lui se ne faceva sempre una colpa... ma soprattutto gli scottava di essersi lasciato sfuggire il nemico. L'ultima vittima giaceva dov'era caduta; accanto alla porta che dava in una seconda stanza. Simmonds si avvicinò alla finestra, spalancò le imposte e lasciò che il sole del pomeriggio inondasse la stanza. Poi si inginocchiò accanto al cadavere e ne alzò la mano destra perché potessimo vederla. Poco sopra le nocche si scorgevano due piccole incisioni dalle quali erano colate alcune gocce di sangue; tutt'attorno la carne era violacea e tumefatta. — Ho capito di che cosa si trattava nel momento stesso che questo poveretto si è messo a gridare "La mort!" — mormorò Godfrey. — E lui deve averlo capito quando ha ricevuto il colpo. Doveva già sapere qualcosa in proposito... forse aveva visto qualcun altro morire nello stesso modo. Mi sedetti, fissando il morto e tentando di raccogliere le idee. Dunque quel delinquente diabolico era rimasto in agguato nella casa di Vantine e aveva abbattuto dapprima Drouet, poi il padrone di casa stesso! Ma perché? Perché? Era incredibile, inesplicabile! Eppure doveva essere vero! Guardai di nuovo la terza vittima e vidi che era un uomo vestito grossolanamente, dai capelli neri arruffati e dalla barba lunga ancor più arruffata; era un vero gigante la cui forza fisica doveva essere stata enorme... ma tutta la sua forza non aveva valso a nulla contro quelle due graffiature dall'apparenza insignificante! A un tratto un pensiero mi fece sussultare. Burton E. Stevenson
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— Ma dov'è Armand? — gridai. — Dov'è Armand? Godfrey mi guardò con un sorriso di compatimento. — Ma come, Lester! Non avete ancora capito? È stato il vostro affascinante signor Armand che ha fatto questo bel lavoro! Così dicendo additava il cadavere. Mi parve di aver ricevuto una mazzata sulla testa. Stralunai gli occhi e Godfrey mi ordinò: — Andate alla finestra e respirate un po' d'aria fresca. Obbedii macchinalmente e rimasi appoggiato al davanzale a fissare intontito il flusso d'umanità che scorreva lungo i marciapiedi, ignaro della tragedia che si era verificata a così breve distanza. E alla fine la calma di tutta quella gente, la vista del mondo che continuava a vivere tranquillamente come al solito fecero sì che io ritrovassi un poco del mio sangue freddo. Nondimeno stentavo a capire la situazione. — Sarebbe dunque stato Armand quello che giaceva là nell'angolo? — domandai voltandomi. — Sicuro che era lui — rispose Godfrey. — Chi volete che fosse? — Godfrey — esclamai a un tratto — avete visto i suoi occhi mentre fissavano l'uomo che manipolava lo scrigno? — Sì, li ho visti. — Erano gli stessi occhi... — Sì, lo so. — E la risata... avete sentito la risata? — Sicuro che l'ho udita. — Io l'ho udita prima d'ora — soggiunsi — e voi allora credeste che fantasticassi! Tacqui rabbrividendo al ricordo. — Ma perché Armand se ne stava là così quieto? — domandai. — Era ferito? Godfrey mi additò l'angolo e disse: — Andate a vedere. Qualcosa giaceva al suolo nel punto in cui avevo visto quella figura apparentemente inerte, avanzai e curvandomi vidi che era un'ampia rete a trama minuta e molto robusta. — Questa deve essere stata gettata sulla testa di Armand quando è salito — spiegò Godfrey — oppure quando è entrato nella stanza. Poi l'uomo che ora è morto, gli è saltato addosso e lo ha legato con quelle corde. Scostando la rete vidi infatti sul pavimento alcuni pezzi di corda tagliuzzati. Burton E. Stevenson
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— Già, e non deve nemmeno aver fatto molta fatica — osservai. — Avete notato la sua corporatura, Godfrey? Era quasi un gigante! — Non l'avrebbe potuto fare se Armand non l'avesse assecondato — ribatté Godfrey. — Come vedete, non ha trovato nessuna difficoltà a liberarsi. — Mi mostrò la rete e mi fece notare che era tutta squarciata. — Mentre stava là raggomitolato, apparentemente immobile, si è aperto il varco con un coltello... avrei dovuto immaginare che non era veramente legato... che stava soltanto aspettando... ma tutto si è verificato così all'improvviso... Lasciò ricadere al suolo la rete con un gesto di disgusto e di scoraggiamento. Andò poi a fermarsi davanti allo scrigno di Boule e lo fissò a lungo pensosamente. Dopo un momento, il suo viso si rischiarò. La tela d'imballaggio era stata completamente strappata e il mobile troneggiava più bello che mai, ai raggi del sole che s'infrangevano sugli intarsi. — Ma lo prenderemo, Simmonds — fece Godfrey sorridendo. — Possiamo quasi dire di averlo nelle mani. È solo questione di aspettare, ma presto o tardi ci cadrà nelle braccia. Simmonds, desidero che voi chiudiate questo scrigno nella cella meglio custodita del vostro posto di polizia. Ne porterete la chiave con voi, sempre. — Chiuderlo? — balbettò Simmonds fissandolo a bocca aperta. — Sì — ribatté Godfrey — chiuderlo. È la unica possibilità di salvezza! — Aveva ritrovato la sua calma, la sua fiducia nella vittoria. — Voi siete incaricato di tutte le indagini di questo caso, non è vero? Ebbene, chiudetelo in una cella e non spiegate le vostre ragioni a nessuno. — Sarà fatto — ribatté Simmonds sorridendo. — Non ho nessuna ragione da spiegare... — Ma sì che avete delle ragioni — fece Godfrey fissandolo con uno sguardo fisso. — Lo farete, perché io ve lo chiedo, perché vi dico che presto o tardi, se tenete questo scrigno al sicuro dove nessuno può vederlo o toccarlo, l'uomo che noi desideriamo catturare ci cadrà nelle mani. E vi dico di più, Simmonds: se lo prendiamo davvero, io, come giornalista, farò il più grande bottino che mai mi sia capitato e voi avrete una fama mondiale. La Francia vi farà cavaliere della Legion d'Onore, Simmonds, badate bene a quello che dico! Non credete che il nastrino starebbe bene al vostro occhiello? Simmonds fissava il giovane come se temesse che fosse impazzito d'un tratto. A dire il vero, lo stesso pensiero passò per la mia mente. Pensavo che forse il cervello di Godfrey non avesse resistito alla delusione e al Burton E. Stevenson
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dispiacere subito. Lui scoppiò in una risata vedendo le nostre facce. — No, non sono matto — ci assicurò in tono più calmo — e non scherzo nemmeno. Parlo in tutta serietà, Simmonds, quando vi dico che quell'uomo sarà per noi la preda più grande che abbiamo mai catturata. È il più grande delinquente dell'epoca... lo ripeto, Lester, e questa volta senza eccezione. Forse ora siete disposto a convenirne. Ripensando ad Armand, così sicuro di sé, così distinto, così calmo, lanciando un'occhiata al cadavere della sua ultima vittima, non potei fare altro che annuire lentamente. — Ma chi è? — domandai. — Sapete chi è, Godfrey? — Ecco qui l'ambulanza — intervenne Simmonds udendo dei colpi robusti bussati alla porta di strada e corse ad aprire. — Andiamo, Lester — fece Godfrey prendendomi a braccetto. — Qui non abbiamo altro da fare. Usciremo dalla porta posteriore. Di emozioni ne ho avute abbastanza, per questa volta... e voi? — Anch'io, ve l'assicuro! — assentii e lui mi guidò verso il retro della casa, quindi nella strada, attraverso la lavanderia. — Ma, Godfrey, chi è quell'uomo? — ripetei. — Perché ha ucciso quel poveretto lassù? Perché ha ucciso Drouet e Vantine? Come ha fatto a penetrare in casa di Vantine? Qual è il suo scopo? — Ah! — esclamò il mio compagno guardandomi e sorridendomi. — Questo è il problema importante. Qual è il suo scopo? Ma non possiamo discutere qui nella via. D'altra parte, desidero riflettere un poco, Lester... e desidero che anche voi riflettiate bene sull'accaduto. Se mi sarà possibile farò una scappata da voi questa sera. Potremo sviscerare la questione. Vi va? — Sì — risposi. — Per l'amor di Dio, non mancate!
21. Godfrey tesse un romanzo Cominciavo a pensare che Godfrey m'infliggesse una delusione, tanto era tardi, quando, con mio grande sollievo, udii la sua scampanellata. Mi affrettai a farlo entrare e compresi subito, dal sospiro di sollievo che trasse lasciandosi cadere in una poltrona, che era stanco morto. — Mi fa bene venire qui di quando in quando a far due chiacchiere con voi, Lester — disse accettando il sigaro che gli offrivo. — È un riposo Burton E. Stevenson
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dopo la giornata di lavoro. Mi rise bonariamente. Gli domandai: — Ma come fate a resistere così bene? Questa storia mi ha quasi procurato un esaurimento nervoso mentre voi... — Riconosco che da molto tempo non mi capitava di mettere le mani in una faccenda paragonabile a questa. Di delitti ne accadono tanti, ma ben pochi sono realmente misteriosi. — Mi pare che questo lo sia abbastanza — osservai. — Già. Quello che lo rende più misterioso è l'apparente assenza del movente. In generale, non appena si appura il movente di un delitto, si viene a sapere chi lo ha commesso. Ma dove non si riesce a scoprire un movente presumibile, è difficile progredire con le indagini. — Ma qui il mistero non sta soltanto nell'assenza di un movente — obiettai. — Tutta la storia è misteriosa. Non si riesce nemmeno a capire come siano state uccise le vittime. Quando ci penso, ho la sensazione di aggirarmi in un labirinto dal quale non potrò mai uscire. — Ma sì che ne uscirete, Lester — fece Godfrey in tono placido. — Ne uscirete fra non molto! — Se avete qualche spiegazione da offrirmi, Godfrey, per l'amor del cielo, non mi lasciate sulle spine! Ho riflettuto e ho meditato fino a farmi dolere la testa. Vorreste forse dire che ormai sapete tutto? — "Sapere" è forse un verbo troppo forte. Ci sono ben poche cose a questo mondo che noi sappiamo davvero. Diciamo piuttosto che sospetto fortemente. — Tacque un attimo con gli occhi fissi al suolo. — Qualche volta mi avete accusato di fantasticare, Lester... l'altra sera, per esempio... eppure quella mia fantasticheria si è avverata. — Ritiro tutto quello che ho detto... — rispose in tono umile. — Sì, mi fa bene davvero venire da voi — soggiunse Godfrey ritornando all'argomento di prima. — Mi fa bene, perché mi chiarisce le idee. Non potete credere quanto mi aiuti esporre un caso a voi e tentare di rispondere alle vostre obiezioni. Voi, come avvocato, siete solitamente pronto a trovare il punto debole in una storia... e poi un avvocato, in questo caso, è sempre più difficile a convincersi che non una persona comune. Voialtri siete abituati a pesare le prove e le testimonianze... perciò io non mi ritengo mai sicuro di un'ipotesi finché non ha convinto voi. Anche allora, non sempre. — Ebbene, sono lieto di servirvi a qualcosa — dissi — di servire almeno come la pietra su cui aguzzate la lama del vostro ingegno. Coraggio, dunque, fantasticate ancora un poco, ditemi prima di tutto come mai voi e Burton E. Stevenson
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Simmonds vi siete trovati a seguire Armand. — Molto semplice: avevo scoperto che non era Armand. Felix Armand è a Parigi in questo momento. Siete troppo credulone, Lester. — Accidenti, non ho avuto il più vago dubbio sulla sua identità — balbettai. — Sapeva del mio telegramma... sapeva della risposta della ditta... — Naturale che lo sapeva. Il vostro telegramma non è mai stato ricevuto dalla ditta Armand, bensì lo ha captato il complice di costui; ed è stato lo stesso complice che vi ha spedito la risposta. Il nostro misterioso amico aveva previsto, naturalmente, che un telegramma sarebbe stato spedito alla ditta Armand non appena l'errore fosse stato scoperto, quindi aveva preso le sue precauzioni. — Allora voi credete tuttora che lo scrigno sia stato mandato a Vantine di proposito, e non per errore? — Su questo non ho più alcun dubbio. Lo scrigno è stato spedito dagli Armand in buona fede, perché credevano che fosse stato acquistato da Vantine... tutto ciò era stato disposto alla perfezione dal Grande Ignoto. — Ditemi come fate a saperlo, Godfrey — pregai. — Diamine, è stato abbastanza facile. Quando ieri mi avete parlato di Armand, ho capito o mi è parso di capire che si trattava di un trucco di qualche sorta. Però, per essere più sicuro ho telegrafato al nostro corrispondente di Parigi incaricandolo di indagare. Il nostro corrispondente è andato subito da Armand padre e ha appreso parecchie cose interessanti. La prima, che il figlio, Felix Armand, si trovava a Parigi; la seconda, che nessuno dei dirigenti della ditta sapeva qualcosa del vostro telegramma e della risposta da voi ricevuta; la terza, che se il vostro telegramma fosse arrivato, nessuno ci avrebbe capito niente, perché dai registri di Armand risulta che quello scrigno è stato comperato da Philip Vantine per la somma di quindicimila franchi. — Ma che dite? Proprio quello di Boule? — domandai incredulo. — Sì, proprio quello. Non si può dire che il prezzo fosse elevato. S'intende che gli Armand non sapevano nulla della storia della Montespan... si limitavano a vendere un mobile acquistato d'occasione, con un utile onesto. — Ma, non capisco — balbettai. — Vantine stesso mi ha detto di non aver comperato quello scrigno! — E infatti lui non lo ha comprato. Però c'è stato qualcuno che lo ha comprato a suo nome e lo ha fatto spedire a casa sua. — Pagando quindicimila franchi? Burton E. Stevenson
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— Sicuro... pagando quindicimila franchi agli Armand. — È un regalo un po' costoso — dissi debolmente, e avevo di nuovo la sensazione che la mia mente fosse offuscata. — Oh, non si trattava di un regalo. L'acquirente aveva l'intenzione di recuperare il mobile in qualche modo, ma la morte di Vantine lo ha disorientato. Se non fosse stato per quello... per un incidente che nessuno poteva prevedere... tutto sarebbe proceduto senza un incaglio e nessuno avrebbe saputo nulla di questa storia. — Ma che scopo aveva? Tentava forse di sottrarsi al pagamento dei diritti doganali? — Oh, nulla di così meschino. D'altra parte, se avesse riavuto direttamente da Vantine il mobile, avrebbe dovuto rifondergli le tasse pagate. A proposito, ve le ha rifuse? — No. Questo è un particolare a cui non ho pensato. Del resto Vantine deve aver pagato soltanto il diritto doganale per lo scrigno che ha comperato, poiché era quello che risultava sulla nota di spedizione. L'altro, dal canto suo, deve aver pagato un diritto doganale per lo scrigno che ha portato, quindi non pensavo che spettasse qualcosa alla proprietà Vantine. Probabilmente si deve qualcosa al governo, poiché lo scrigno che Vantine importò aveva, naturalmente, un valore molto più grande di quanto non risultasse sui documenti di spedizione. — Senza dubbio. L'altro scrigno è proprio quello che Vantine comperò. Naturalmente è stato spedito all'indirizzo dello pseudo-Armand, a New York. Il suo progetto è abbastanza chiaro... lui intendeva presentarsi a Vantine come rappresentante della ditta Armand o forse soltanto come proprietario dello scrigno della Montespan ed effettuare lo scambio. La morte di Vantine ha scompigliato i suoi progetti e lui ha dovuto fare il cambio per tramite vostro. Anche così sarebbe riuscito a portare a termine l'impresa, senonché la morte di Vantine e quella di Drouet ha richiamato la nostra attenzione sullo scrigno. — Dunque voi ritenete che quest'uomo abbia un complice impiegato presso Armand? — Non può essere altrimenti. L'impiegato che effettuò la presunta vendita a Vantine ha dato le dimissioni due giorni fa... non appena ricevuto il vostro telegramma e spedito la risposta. La polizia di Parigi lo ricerca, ma non credo che lo troverà. — Tutto ciò è abbastanza chiaro — dissi. — Può darsi benissimo che i due scrigni siano stati scambiati come voi dite... Anzi sono sicuro che avete ragione, ma con ciò non mi pare che ci avviciniamo ad una Burton E. Stevenson
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soluzione. Perché sono stati scambiati? Che cosa c'è in quello scrigno di Boule che induce lo sconosciuto a uccidere chiunque osa manometterlo? Crede forse che ci siano ancora le lettere? — Impossibile. Sa benissimo che non ci sono più... Glielo avete detto voi. D'altronde, prima che venisse a farvi visita non sapeva niente delle lettere. Se avesse saputo che c'erano le avrebbe tolte dal cassetto prima di spedire lo scrigno. — E allora che cosa c'è? E soprattutto, Godfrey, perché quell'individuo si è nascosto in casa di Vantine e ha ucciso due uomini? Lo hanno forse sorpreso mentre manovrava attorno allo scrigno? — Non vedo perché si dovrebbe credere che si trovasse in casa di Vantine — fece Godfrey. — Presumibilmente non ci ha messo piede finché non lo avete accompagnato voi stesso nel pomeriggio di oggi. — Suvvia, Godfrey — protestai — queste sono sciocchezze. Doveva trovarsi nella casa, altrimenti non avrebbe potuto uccidere Vantine e Drouet. — E chi dice che li abbia uccisi lui? Godfrey tirò tre o quattro boccate di fumo e rimase in atteggiamento contemplativo mentre io lo fissavo attonito. Finalmente riprese: — Ebbene, ora fantasticherò un poco. Ritorneremo al vostro affascinante amico che continueremo a chiamare Armand, per il momento. È un uomo straordinario. — Questo sì. — Posso soltanto ripetervi quel che ho già detto... secondo me è il più grande delinquente della nostra epoca. — Se è davvero un delinquente, sono d'accordo con voi. Però non riesco a capacitarmi che sia un delinquente. È un uomo colto, raffinato... — Ecco perché è tanto pericoloso. Un delinquente ignorante non è mai pericoloso... sono i delinquenti ignoranti che riempiono le prigioni. Ma guardatevi da quelli che possiedono un ingegno e un'istruzione. Poiché ci vuole dell'ingegno per essere delinquenti, Lester. Spero che un giorno o l'altro lo incontrerò. Non in una piccola schermaglia come questa, ma in una battaglia decisiva. Forse si batterà, ma sarà sempre una cosa interessante! — Lo credo! Ma andate avanti col vostro romanzo. — Eccolo. Questo signor Armand è un grande delinquente e, s'intende, dispone di molti subalterni sui quali deve contare per la sistemazione di certi particolari, poiché lui non ha il dono dell'ubiquità. Per lui è necessario che i suoi complici gli ubbidiscano ciecamente e per ottenere l'obbedienza Burton E. Stevenson
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assoluta si serve dell'unico mezzo che valga fra i delinquenti... la paura. Per qualunque disobbedienza c'è una sola punizione... la morte. E il metodo da lui usato per sopprimere il complice infedele è così infallibile e così misterioso da sembrare quasi soprannaturale. Infatti, disertori e traditori muoiono invariabilmente per effetto di una ferita insignificante alla mano destra poco sopra le nocche. Ascoltavo tutt'orecchi, come potete ben credere, poiché cominciavo a vedere a che cosa tendevano le fantasticherie del mio amico. — Per mezzo di questo segreto, Armand mantiene la sua assoluta supremazia — soggiunse Godfrey. — Però, di tanto in tanto, uno dei suoi complici si lascia tentare e diserta. Armand manda lo scrigno in America. Anche in questo caso la tentazione è molto forte; teme un tradimento e dispone nello scrigno un meccanismo atto ad infliggere la morte al traditore esattamente nello stesso modo in cui lui stesso la infligge... per mezzo di un aculeo avvelenato che ferisce la mano destra. Immaginatevi l'effetto di questo stratagemma sui suoi accoliti. Lui non si trova nemmeno nelle vicinanze quando il tradimento avviene, eppure il traditore muore all'istante e infallibilmente! Diamine, è stata un'idea sbalorditiva! E l'applicazione è degna di un grande ingegno. — Ma qual era il tradimento che Armand temeva? — domandai. — La manomissione del cassetto segreto. — Allora credete ancora nell'esistenza del meccanismo avvelenato? — Certo. La tragedia avvenuta oggi prova la verità dell'ipotesi. — Non capisco. — Via, Lester, è chiaro come il giorno. Chi era quel gigante barbuto che è stato ucciso? Il traditore, naturalmente. Scopriremo che era un membro della banda di Armand, vedrete. Ha seguito Armand in America, gli ha teso un agguato, l'ha preso nella rete e l'ha legato mani e piedi. Credete forse che Armand ignorasse la sua presenza in quella casa? Credete che sarebbe riuscito a prendere Armand prigioniero, se questi non si fosse divertito ad assecondarlo? — Non vedo come Armand avrebbe potuto difendersi una volta che quell'energumeno gli aveva messo le mani addosso. — Eppure avete visto voi stesso che in realtà i legami non sono serviti a nulla... che lui si è liberato quando ha voluto. — Questo è vero. — Allora ricostruiamo la storia — riprese Godfrey parlando in fretta. — Il traditore scopre il segreto dello scrigno; segue Armand a New York, lo pedina fino alla casa della Settima Avenue, gli tende l'agguato, lo afferra e Burton E. Stevenson
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lo lega. È inebriato dal proprio trionfo... come un pazzo canta la sua strana canzone da selvaggio gridando: "Revanche, revanche, revanche". Affinché il suo trionfo sia completo, non uccide subito il prigioniero. Lo scaraventa in un angolo della stanza e si mette a strappare l'involucro dello scrigno. La sua vittoria finale sarà quella di aprire il cassetto segreto sotto gli occhi di Armand. E Armand giace là nell'angolo, e lo fissa con occhi scintillanti, perché sa che invece sta per venire il momento del suo trionfo! — Il momento del suo trionfo? — ripetei. — Che intendete dire, Godfrey? — Intendo dire questo: nel momento in cui il traditore avesse aperto il cassetto, sarebbe stato colpito dal meccanismo avvelenato! Ecco che cosa aspettava Armand! M'appoggiai all'indietro contro lo schienale della mia poltrona, con un'esclamazione di stupore e di ammirazione. Ero stato ottuso a non capire! Armand non doveva fare altro che restare tranquillo nel suo angolo e permettere al traditore di cadere nella trappola che lo aspettava. Non c'era da meravigliarsi che i suoi occhi scintillassero tanto nell'osservare l'uomo che si abbandonava alla frenesia davanti allo scrigno! — Soltanto all'ultimo momento, quando il traditore era chino sullo scrigno e cercava il meccanismo del cassetto, mi sono reso conto di ciò che stava per accadere — soggiunse il compagno. — Non c'era tempo da perdere e sono balzato nella stanza. Armand è scomparso all'istante e anche il gigante ha tentato di scappare, ma l'ho fermato sulla porta. Non aveva idea del pericolo che correva... non credevo che Armand osasse attardarsi, oppure si è attardato. Ora che è troppo tardi lo capisco. Doveva uccidere quell'uomo, non aveva altra alternativa. Qualunque fosse il rischio che correva, bisognava che lo uccidesse. — Ma perché? Perché? — Per chiudergli la bocca. Se l'avessimo catturato vivo, gli avremmo strappato il segreto di Armand. Perciò doveva ucciderlo... ucciderlo con lo strumento avvelenato che senza dubbio porta sempre con sé... e c'è riuscito... e per giunta è riuscito a svignarsela! Il gigante era là, sulla porta che dava nella stanza attigua, vi ricordate? Ebbene, mentre io credevo che Armand fosse già lontano, questi era invece al di là di quella porta... a pochi passi da me. Mai in vita mia ho avuto la sensazione di essere stato menato per il naso come quando quella porta mi è stata chiusa in faccia! — Forse aveva preparato quella manovra — suggerii timidamente, pronto a credere qualunque cosa quando si trattava di quell'uomo straordinario. — Forse sapeva che noi eravamo là a spiare. Burton E. Stevenson
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— Naturale che lo sapeva — assentì Godfrey. — E pensare che io non l'ho capito! Pensare che sono stato tanto sciocco da supporre che avrei potuto seguirlo per le strade di New York senza che ne se accorgesse! Sapeva fin da prima che avrebbe potuto essere seguito e aveva preso le sue precauzioni... non so se vi siete accorto che la porta del pianerottolo è stata chiusa per mezzo di un lucchetto automatico e senza dubbio il lucchetto era già là, pronto, appeso all'anello infisso nel battente. — Ma è incredibile! È incredibile — protestai debolmente. — Nulla è incredibile quando c'è di mezzo quell'uomo! — Ma il rischio... pensate al rischio che ha corso! — E che gl'importa del rischio? Lui disprezza il pericolo... e non ha torto. Avete visto come se l'è cavata bene? Ebbene, questa è la storia di ciò che è accaduto nel pomeriggio di oggi, secondo il mio concetto. Ed ora vi lascio. Desidero che riflettiate per conto vostro, in proposito. Se vi sembra che il romanzo non regga, indicatemi il punto debole. Ma vedrete che regge... deve reggere perché è la verità! — Ma che cosa contate di fare con Armand? — domandai. — Non avete intenzione di tentare di catturarlo? Gli permetterete di prendere il largo? — Non prenderà il largo — rispose Godfrey e i suoi occhi lampeggiarono. — Non abbiamo bisogno di cercarlo, poiché abbiamo già messo la nostra trappola, Lester. E l'esca è tale che non potrà resistere alla tentazione. L'esca è lo scrigno di Boule! — Ma si renderà conto che è una trappola! — Se ne renderà conto di certo. — E credete che ci caschi lo stesso? — So che ci cascherà! Uno di questi giorni tenterà di farcela in barba, a dispetto della nostra trappola e di tirare fuori lo scrigno dalla cella blindata del posto di polizia della Ventitreesima strada, dove l'abbiamo chiuso! — Non può essere così sciocco... nessuno può essere così sciocco — dissi. — Rinuncerà all'impresa e se ne ritornerà a Parigi. — Se è l'uomo che penso non farà nulla di simile — ribatté Godfrey con la mano sulla maniglia. — Non rinuncerà mai! Aspettate con pazienza, Lester, tra un paio di giorni sapremo chi di noi due è miglior profeta. Temo una cosa sola, che riesca a portarci via lo scrigno a nostro marcio dispetto! E con questo se ne andò.
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"Crochard, l'invincibile" Sembrava che una volta tanto Godfrey fosse destinato a far fiasco, poiché i giorni passarono e nulla accadde... nulla cioè, riguardo allo scrigno. Naturalmente ci fu l'inchiesta in merito alla terza vittima e, una volta di più, fui costretto a rendere la mia testimonianza al cospetto del magistrato e dei giurati. Confesso che quella volta ebbi proprio la sensazione di fare una figura da imbecille e anche i giornali si permisero qualche lazzo sull'avvocato che era caduto in una trappola la quale, ora che tutte le circostanze erano note, sembrava tanto palese. I dati identificativi della vittima erano stati telegrafati a Parigi e l'uomo era stato identificato subito per un tale Morel, ben noto alla polizia come furfante ardito e pericoloso; anzi il capo della polizia francese considerava la cosa tanto importante che il giorno seguente telegrafò avvertendo che avrebbe mandato l'ispettore Pigot a New York per indagare sulla cosa e per conferire con i funzionari del reparto investigativo americano sul metodo migliore da usarsi per ricercare l'assassino. Il telegramma precisava che l'ispettore Pigot sarebbe partito immediatamente da Le Havre, con la nave La Savoie. Frattanto gli uomini di Grady, con Simmonds alla testa, si facevano in quattro per scoprire il nascondiglio del fuggiasco. Fu stabilita una vera e propria rete attorno alla città, ma quantunque ci cercassero parecchi pesciolini, quello che la polizia desiderava in modo particolare di pescare non era tra questi. Non si era nemmeno scoperto il più piccolo indizio. Il fuggitivo era scomparso nel modo più assoluto, e un paio di giorni dopo Grady si dichiarò convinto che il furfante aveva lasciato New York. Bisogna sapere che Grady aveva ripreso le redini delle indagini, spronato dalle frecciate dei giornali, e in particolar modo da quelle del Record, a compiere uno sforzo estremo. La natura singolare del mistero faceva sì che l'attenzione del pubblico fosse tutta concentrata sui progressi della polizia. Ogni investigatore dilettante del paese aveva una sua ipotesi da offrire e per la maggior parte le ipotesi erano arbitrarie e inverosimili. Grady parlò molto in quei giorni, spiegando con dovizia di particolari le misure straordinarie che aveva preso per catturare il delinquente, ma restava il fatto che tre uomini erano stati uccisi... che una serie di delitti era stata commessa e che il colpevole era ancora latitante. Naturalmente i giornali dopo avere esaurito la loro riserva di fantasticherie cominciavano a riportare le voci dell'opinione pubblica secondo le quali s'imponeva una riforma nel reparto investigativo. Burton E. Stevenson
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Lo scrigno di Boule restava chiuso nella cella della Ventitreesima Strada e Simmonds custodiva la chiave nella propria tasca. Il pubblico sapeva poco o niente in merito allo scrigno del quale si era parlato solo incidentalmente nei resoconti. La maggior parte dei giornalisti riteneva che quell'aspetto della questione fosse chiarissimo e che si trattasse semplicemente di un tentativo di introdurre di contrabbando nel paese un oggetto d'arte di grande valore. I casi di questo genere erano troppo comuni per attrarre l'attenzione in modo particolare. Lo stesso Simmonds non era al corrente di ciò che sapevamo Godfrey ed io, ma ormai si era reso conto che Grady vacillava sul suo trono e sentendosi anche lui in pericolo aveva deciso di aggrapparsi al mio amico giornalista come l'unica persona capace di trarlo d'impiccio. Siccome Godfrey aveva insistito assai sulla necessità di tenere lo scrigno sotto chiave, il sergente aveva seguito il consiglio senza discutere. Quanto a Grady non credo che nemmeno all'ultimo riuscisse a capire la parte importante che lo scrigno aveva avuto nel dramma. Però, mentre il pubblico si disinteressava dello scrigno di Boule e mentre la maggior parte dei giornalisti lo menzionava come un elemento di secondaria importanza, io mi divertivo ad osservare con quanta cura Godfrey si affannava a informare il fuggiasco del luogo in cui il mobile si trovava e del modo in cui era custodito. Mentre i redattori degli altri giornali ridevano della sua puerilità, lui si affannava a riferire con tutti i particolari come lo scrigno fosse stato posto in una cella blindata del posto di polizia della Ventitreesima strada, come le sbarre del cancello fossero in acciaio al nickel-cromo, tali da sfidare qualunque lima, come la cella avesse una serratura a combinazione nota soltanto a un uomo e come fosse isolata, trovandosi al centro del terzo corridoio, in una posizione tale da essere tenuta d'occhio in continuità dagli agenti di guardia, in modo che nessuno poteva avvicinarsi al cancello che la chiudeva, di giorno e di notte, senza esser visto. Egli spiegava anche che il cancello era munito di un segnale di allarme automatico che faceva trillare un campanello sulla scrivania del sergente di servizio e che, insomma, era una cella dalla quale nessuno poteva fuggire e in cui nessuno poteva entrare inosservato. Dello scrigno in sé, Godfrey diceva poco e teneva in serbo la sua storia per la soluzione finale che, secondo la sua convinzione, non avrebbe tardato. Ma i particolari che ho elencati furono ripetuti con tale insistenza dal Record che imbattutomi per caso in Godfrey un giorno, protestai, facendogli notare che sarebbe riuscito soltanto a spaventare il fuggiasco, anche se aveva ancora in animo di ricuperare lo scrigno, cosa di cui Burton E. Stevenson
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dubitavo. Ma Godfrey si limitò a ridermi in faccia. — Non c'è pericolo che si spaventi al punto da rinunciare — mi rispose. — Quell'uomo non è tipo da perdersi d'animo. Se non mi sono sbagliato nel giudicarlo, è uno di quei temerari che sono attratti dalle difficoltà che sembrano insuperabili. Più l'impresa è ardua, più li attrae. Ecco perché mi prendo la briga di battere tanto sulle precauzioni prese per custodire lo scrigno. — Ma dovrebbe essere incosciente per tentare di impadronirsi di quello scrigno — protestai. — È semplicemente impossibile. — Sembra impossibile, lo ammetto. Eppure, ogni mattina mi sveglio in preda al patema d'animo e mi precipito al telefono per accertarmi che il mobile è sempre al sicuro. Se potessi escogitare qualche altra precauzione, la prenderei subito. Scrutai attentamente la faccia di Godfrey, per accertarmi che non scherzasse. Egli sorprese il mio sguardo e rise. — Non ho mai parlato tanto sul serio in vita mia, Lester. Voi non valutate il nemico quanto me. È un genio e nulla è impossibile per lui. Sdegna le imprese facili... quando ritiene che un'impresa sia troppo facile, la rende difficile lui stesso; perché altrimenti non gli interessa. E' arrivato al punto di avvertire delle persone che tenevano i gioielli con troppa noncuranza dopo di che, quando i gioielli sono stati in un luogo più sicuro, è andato a prenderseli. — Mi pare una cosa abbastanza stupida — osservai. — Non dal suo punto di vista. Non ruba perché ha bisogno di denaro, ma perché ha bisogno di emozioni, è come lo sportivo che va sempre in cerca di imprese più ardue. — Allora voi sapete proprio chi è? — Credo di saperlo... spero di saperlo, ma finché non ne avrò la certezza non lo dirò a nessuno... nemmeno a voi. Ma se è colui che credo, sarebbe un piacere per me opporre le mie capacità alla sua astuzia. Qui da noi non c'è nessuno che si possa paragonare a lui... ed è un peccato! Che fosse un peccato mi sembrava discutibile, ma, logicamente, la mentalità di un redattore di cronaca nera non è quella di un avvocato. Feci notare a Godfrey che se il suo intuito non sbagliava, avrebbe avuto ben presto un'occasione di battersi contro il Grande Ignoto. — Sì, lo credo anch'io... e sono intimorito... lo sono stato fin dal momento in cui ho cominciato a sospettare la sua identità. Mi sento come un principiante che si disponga a giocare una partita a scacchi con un campione... matto in sei mosse. Burton E. Stevenson
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— Io non sarei propenso a considerarvi un principiante — dissi. — Non so se il Grande Ignoto come voi lo chiamate la pensi così — brontolò Godfrey, poi si accomiatò da me. A parte quell'incontro casuale, non lo vidi mai in quei giorni e me ne dolevo perché c'erano parecchie cose che ancora non riuscivo a capire e che speravo di farmi spiegare da lui. Dirò anzi che, quando una sera mi sedetti nella mia biblioteca e, dopo aver acceso la pipa, cominciai a riflettere su tutta la storia, mi resi conto che non ci capivo nulla. L'ipotesi di Godfrey reggeva alla perfezione, per quanto potevo vedere io, ma non portava ad alcuna soluzione. Come erano stati uccisi Drouet e Vantine? Perché erano stati uccisi? Qual era il segreto dello scrigno? In una parola che significava tutto quel mistero? Io non ero in grado di rispondere nemmeno a uno di questi interrogativi e le soluzioni che si presentavano alla mia mente sembravano tanto assurde che dovevo scartarle disgustato. Alla fine mi accorsi che l'enigma mi ossessionava e mi impediva di lavorare, cosicché cercai di bandirlo dai miei pensieri, lottando ogni volta che tentava di insinuarvisi. Ma se riuscivo a scacciare il pensiero dalla mente nelle ore del giorno, non potevo fare altrettanto durante la notte. I miei sogni divenivano sempre più orrendi. Vedevo sempre un serpente con la gola spalancata... Talvolta il serpente aveva la testa di Armand... altre volte aveva una testa umana il cui volto mi era ignoto, e il suo corpo sinuoso era tutto decorato da arabeschi simili agli intarsi dallo scrigno di Boule. Spesso scorgevo un sole d'oro che scintillava sulla sua fronte come un occhio luminoso. Non so dire quante volte vidi quel mostro azzannare le sue tre vittime, poi fissare me, come se mi avesse scelto come quarta... Ma non tenterò di descrivere quei miei sogni con tutti i particolari; anche oggi non posso rievocarli senza rabbrividire. E, finalmente, una sera, mentre me ne stavo seduto nella mia camera, incerto se coricarmi o no, stanco, eppure riluttante ad abbandonarmi a un sonno dal quale mi sarei svegliato col cuore in gola, udii una scampanellata. Una scampanellata che mi parve di riconoscere. Corsi ad aprire la porta e con grande gioia mi trovai a faccia a faccia con Godfrey. Compresi subito che aveva qualcosa di interessante da dirmi. Mi salutò sorridendo, poi il suo viso prese un'espressione grave e mi guardò fisso. — Che succede, Lester? Mi sembrate deperito. Lavorate troppo? — Non è questo — brontolai. — Non posso dormire. Quella storia mi ha sconvolto i nervi, Godfrey. Sono perseguitato da incubi... tutte le notti... Si sedette di fronte a me e continuò a guardarmi con aria ansiosa e Burton E. Stevenson
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preoccupata. — Così non va — protestò. — Dovete andar via... cambiare aria... prendervi una lunga vacanza. — Un cambiamento d'aria non mi gioverebbe affatto. È inutile che mi riposi finché questo mistero rimane insoluto. Anzi, soltanto lavorando riesco a sviare i miei pensieri. — Ebbene, non foss'altro che per amore della vostra salute, accelereremo la soluzione. — Volete dire che avete verificato... — Sì, ho verificato l'identità del Grande Ignoto e tra breve vi dirò chi è. Dopodomani, mercoledì, saprò il resto. La storia sarà al completo sul giornale di giovedì mattina. Potreste disporre in modo di partire per la campagna giovedì stesso. Non potevo fare altro che guardarlo a bocca aperta. Lui sorrise. — Ma guarda! Avete già un aspetto migliore! Prese un sigaro e io protestai: — Sentite, Godfrey, vorrei che sceglieste qualcun altro per i vostri esperimenti. Venite qui e fate scoppiare una bomba soltanto per vedere quanto mi fa saltare per aria. Sarà divertente per voi e forse istruttivo, ma i miei nervi non resistono. — Mio caro Lester — mi interruppe — non si tratta di una bomba, ma di una semplice constatazione di fatto. — Allora è vero? — Sicuro. — Ma come avete fatto... — Prima di rispondere alle vostre domande, desidero rivolgervene una io. Avete per caso fatto il mio nome a quel signore che si presentò come Felix Armand? — Sì — risposi dopo un momento di riflessione. — Credo proprio di avergli parlato di voi. Quando gli ho detto dei nostri tentativi per trovare il cassetto segreto ho fatto il vostro nome e lui mi ha domandato chi eravate. Gli ho risposto che eravate un genio per risolvere i misteri. — Questo spiega una cosa che non riuscivo a capire. Ora andate pure avanti con le vostre domande. — Avete detto un momento fa che saprete tutto in merito a questo affare, dopodomani. Come fate a calcolare il giorno in cui avrete la rivelazione? — Non ho bisogno di calcolare nulla. Ho ricevuto una lettera che stabilisce la data. Leggete! Così dicendo trasse di tasca un foglio e me lo Burton E. Stevenson
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porse. Era una missiva scritta a matita in una calligrafia delicata, quasi femminile, su un foglio di carta bianca. Con uno stupore che aumentava ad ogni parola, lessi questo straordinario documento: Caro signor Godfrey, sono stato molto lusingato per il vostro interessamento in merito alla faccenda dello scrigno di Boule e ammiro profondamente l'acume che avete dimostrato arrivando ad una conclusione tanto vicina al vero. Devo anche ringraziarvi per la cortesia con cui mi avete tenuto informato delle misure che sono state prese per custodire lo scrigno, misure che mi sembrano assai ben congegnate. Io stesso mi sono recato al posto di polizia, ho dato un 'occhiata alla cella, e ho constatato l'esattezza di tutti i particolari da voi forniti. Proprio per l'alta considerazione in cui vi tengo come avversario, vi comunico, in confidenza, che ho intenzione di ritornare in possesso di quanto mi appartiene mercoledì prossimo e che, a impresa compiuta, vi pregherò di accettare un piccolo ricordo del nostro incontro. Vogliate gradire, caro signor Godfrey, i più cordiali saluti dal vostro devotissimo Jacques Crochard, l'Invincibile Alzai il capo e vidi che Godfrey mi guardava con un sorriso malizioso. — Naturalmente si tratta di uno scherzo. Suvvia, Godfrey, non crederete che questa lettera sia genuina! — Forse possiamo verificare — rispose lui in tono pacato. — Sono venuto soprattutto per questo. Armand non vi ha lasciato un biglietto il giorno in cui è venuto all'ufficio e non vi ha trovato? — Sì, ha scarabocchiato qualche parola dietro un biglietto da visita. L'ho qui. Trassi di tasca il portafoglio e trovai subito il biglietto in questione. Mi bastò un'occhiata. Le poche parole scritte a matita erano indiscutibilmente vergate nella medesima scrittura della lettera. — Ed ora conoscete il suo nome — soggiunse Godfrey puntando il dito sulla firma della lettera. — Fin da principio sono stato convinto che era lui! Guardai la firma senza rispondere. Naturalmente avevo letto sui giornali Burton E. Stevenson
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parecchie volte il racconto delle prodezze romanzesche di Crochard, "l'invincibile", come lui stesso teneva a farsi chiamare, e non a torto. Però le sue imprese, quali le descrivevano i giornali, mi erano sempre sembrate troppo fantastiche per essere vere. Spesse volte avevo sospettato che si trattasse di una fantasia dei giornalisti parigini... di una di quelle storie fittizie che talvolta i quotidiani tengono in serbo per la stagione morta, oppure che fosse una specie di capro espiatorio a cui la polizia francese attribuiva tutti i reati che non riusciva a chiarire. Ora, tuttavia, sembrava che Crochard esistesse davvero; avevo la sua lettera nelle mani... avevo persino parlato con lui... e, ricordando l'impressione che avevo ricevuta della personalità dello pseudo signor Armand, capivo il motivo della sua straordinaria reputazione. — Dovendo dare una definizione di Crochard non c'è da esitare — riprese Godfrey impossessandosi di nuovo della lettera e appoggiandosi all'indietro nella poltrona per contemplarla. — Quello è uno dei più grandi delinquenti che mai abbiano vissuto... pieno di immaginazione e di risorse... e pieno di spirito anche. Per anni e anni ho seguito la sua carriera... appunto per questo ho potuto sospettare la sua identità. Prima d'ora ha ucciso un uomo che lo aveva tradito denunciandolo alla polizia, come ha ucciso quest'ultimo. Crochard non è mai più stato tradito. — Deve essere un demonio! — dissi con un brivido. — Sì, è un demonio, però fino al momento del suo arrivo a New York non aveva mai ucciso nessuno eccetto quel traditore. Quello aveva un certo diritto di ucciderlo... secondo il codice vigente nel mondo criminale. La sua stessa vita è stata in pericolo un'infinità di volte, ma lui non ha mai ucciso per salvare se stesso. — E Drouet e Vantine? — domandai. — Due incidenti dei quali non è responsabile — rispose Godfrey distrattamente. — Volete dire che non è stato lui ad ucciderli? — Sicuro! Quest'ultimo, che lui ha realmente ucciso, era un traditore come il primo. Crochard uccide i traditori, ma non gli avversari. Se non avesse avversari, la sua vita sarebbe priva di interesse. — Non posso capire un uomo simile — dichiarai. — Ebbene, guardate qui — soggiunse Godfrey puntando l'indice sulla lettera. — Mi considera il suo avversario diretto. Tenta forse di togliermi di mezzo? Al contrario, mi offre la possibilità di battermi con lui ad armi pari. — Ma, sentite, Godfrey, vorreste forse prendere questa lettera sul serio?. Burton E. Stevenson
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Tutt'al più posso ammettere che vi abbia scritto per portarvi fuori strada. Se ha detto mercoledì, vuol dire che intende fare il suo tentativo domani. — Non credo. Come vi ho detto, deve considerarmi un principiante... e di fronte a lui lo sono. Sapete dove ha scritto quella lettera, Lester? Proprio nell'ufficio del Record. Questo è un foglio della nostra carta. Si è seduto là, sotto il mio naso, ha scritto la lettera, poi l'ha messa nella mia cassetta e se n'è andato tranquillamente. Tutto ciò avveniva questa sera, quando l'ufficio era affollato. — Ma è assurdo che abbia scritto una lettera simile, se realmente medita di fare ciò che dice. Voi non avreste che da avvertire la polizia. — Noterete che dice che la comunicazione è confidenziale. — E voi avete intenzione di mantenere il segreto? — Sicuro! Considero che mi abbia reso un onore. Non ho mostrato questa lettera a nessuno, eccetto voi... in confidenza. — Mantenere un segreto simile è come favorire un delinquente... rendersi suo complice — osservai. — Eppure voi lo manterrete — ribatté Godfrey in tono fiducioso. — Io farò tutto quanto sta in me per impedire il successo di Crochard. Vedremo se è davvero invincibile! — Manterrò il segreto, perché ritengo che la lettera sia soltanto un trucco — dissi. — A proposito, ho ricevuto una comunicazione da Armand e Fils che mi conferma che dai registri della ditta risulta che lo scrigno di Boule è stato acquistato da Philip Vantine. Date le circostanze, dovrò reclamare la proprietà e consegnarlo al Museo Metropolitano. — Spero che teniate in sospeso i vostri passi fino a mercoledì — fece Godfrey prontamente. — Dopo mercoledì potrete fare quel che vi pare. — Credete proprio che Crochard farà il suo tentativo mercoledì? — Sì. Scrollai le spalle. A che serviva discutere con un uomo simile? — Rimanderemo tutto a dopo mercoledì, allora — assentii, e Godfrey, soddisfatto per la mia promessa, mi augurò la buona notte e se ne andò.
23. L'arrivo del signor Pigot Il pomeriggio seguente mi disponevo a lasciare l'ufficio, quando Godfrey si presentò. — Come vi sentite oggi, Lester? Burton E. Stevenson
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— Non molto bene. — Avete preso le vostre disposizioni per partire per la campagna giovedì? — Bando agli scherzi, Godfrey. — Non si tratta di scherzi. Desidero davvero che voi disponiate per la vostra partenza. Ma, nel frattempo, che ne direste di prendere una boccata d'aria salmastra? — Ottima idea. Avete una proposta da farmi? — Sì. La Savoie arriverà verso le sei. Ho intenzione di andare a bordo con il nostro canotto. Voglio far due chiacchiere con l'ispettore Pigot... il funzionario francese. Volete venire con me? — E me lo domandate? Dove ci troviamo? — All'imbocco di Liberty Street, alle cinque. — Ci sarò — promisi. Arrivai puntuale all'appuntamento. Il motoscafo lasciò gli ormeggi non appena fummo a bordo e cominciò a scendere il fiume facendosi strada fra le imbarcazioni che ingombravano l'acqua e lacerando l'aria con la sua sirena; quasi in continuità. Era un mezzo rapido e ben poche delle imbarcazioni del fiume riuscivano a tenergli dietro. C'erano altri due giovanotti a bordo... i cronisti che di regola erano incaricati di intervistare gli ospiti illustri sulle navi in arrivo. Godfrey scese nella cabina per discutere coi colleghi di alcuni particolari inerenti al lavoro e io me ne andai a prua per godere appieno dell'aria balsamica che veniva dal mare. La statua della Libertà si ergeva davanti a noi e il suo grande faro occhieggiava già sulle acque circostanti. Innumerevoli imbarcazioni attraversavano e riattraversavano il fiume e le loro luci si rifrangevano nelle onde. Sempre davanti a noi, in lontananza e un po' a sinistra, si scorgeva contro il cielo un bagliore bianco che indicava la posizione del parco dei divertimenti di Coney Island. Di lì a poco Godfrey mi raggiunse e in silenzio restammo ad ammirare il panorama di New York, con le sagome dei ciclopici edifici che si stagliavano contro il cielo. — È un bello spettacolo — osservò il mio compagno. — Ohilà, guardate quello yacht! Va come il vento. Il nostro battello non è certo una tartaruga, ma guardate come ci sorpassa. Chissà di chi è? Mi sapete dire a chi appartiene? — aggiunse poi volgendosi al nostro marinaio. — Non lo so — rispose l'uomo. — È un yacht privato... Non riesco a distinguere il nome nemmeno col cannocchiale. Batte bandiera francese. Ecco gli altri battelli della stampa che arrivano dietro di noi. E laggiù si Burton E. Stevenson
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vede il Savoie che rallenta in zona di quarantena. Infatti, in distanza davanti a noi, spiccava il grande scafo del transatlantico, tutto scintillante di luci. In breve la nave fu quasi ferma, un battello andò ad accostarsi alla murata, fu ormeggiato e tre o quattro uomini salirono a bordo del transatlantico. — Ecco i medici — osservò Godfrey. — Ed ecco lo yacht francese che si accosta a sua volta. Il battello dei sanitari, infatti si era staccato dalla nave e lo yacht, francese aveva preso il posto. Dopo un breve parlamentare, un uomo dello yacht, passò a bordo del Savoie. In breve fu la nostra volta e, dopo qualche manovra, riuscimmo ad ormeggiarci al Savoie e a salire a bordo... Godfrey e io e gli altri due giornalisti. I miei compagni sostarono per i convenevoli inevitabili con l'ufficiale che stava di guardia alla passerella, quindi s'incamminarono lungo un corridoio stretto che puzzava di gomma e di metallo surriscaldato e si arrampicarono per varie scalette fino a giungere sul ponte. Io li avevo seguiti. I due giornalisti ci lasciarono per andare a intervistare certi distinti passeggeri le cui opinioni sui problemi del giorno erano presumibilmente attese con ansia dal pubblico. Godfrey si fermò davanti all'ufficio del commissario di bordo al quale consegnò il proprio biglietto. — Desidererei vedere il signor Pigot, della Sùreté. Vorreste fargli portare il mio biglietto da qualche inserviente? — Non c'è bisogno — rispose l'ufficiale gentilmente. — Ecco laggiù il signor Pigot. Quello coi capelli bianchi che dà le spalle. Però bisognerà che aspettiate un momento: quel signore col quale sta parlando è un incaricato dell'ambasciata francese ed è arrivato a bordo or ora. Non potevo vedere bene in faccia l'ispettore Pigot, ma notai che aveva la figura eretta, caratteristica di coloro che hanno ricevuto un'istruzione militare. L'incaricato dell'ambasciata era un uomo di mezza età coi baffi impomatati e gli occhiali. In quel momento stava presentando i suoi omaggi al signor Pigot; dopo qualche parola trasse dalla tasca interna della giacca una busta sulla quale spiccava un immenso sigillo rosso. Il signor Pigot lo guardò un istante, mentre il suo compagno gli diceva ancora qualche cosa all'orecchio. Allora, con un cenno d'assenso, il funzionario s'incamminò verso una delle scalette che scendevano sotto coperta, seguito dall'altro. — Pratiche diplomatiche senza dubbio — commentò il commissario che aveva osservato la scena. — Il signor Pigot è uno dei nostri migliori Burton E. Stevenson
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funzionari e vedrete che è un vero piacere conversare con lui. Senza dubbio sarà libero tra un momento. — Già, ma intanto i miei degnissimi colleghi arrivano — brontolò Godfrey con una smorfia. — Sono alle mie calcagna... eccoli! Infatti, nei venti minuti che seguirono, i cronisti degli altri giornali continuarono ad arrivare a gruppi finché se ne ammassò una vera folla davanti all'ufficio del commissario di bordo. Quasi tutti i quotidiani avevano mandato i loro migliori collaboratori per intervistare Pigot. Si rendevano conto evidentemente dell'importanza dell'avvenimento. Vi fu uno scambio di lazzi, fatto in tono abbastanza amichevole, poi uno degli inservienti, dietro lauta ricompensa, fu indotto a portare i biglietti da visita della moltitudine al signor Pigot, con preghiera di concedere un'udienza. L'inserviente se ne andò ridendo e ritornò subito dopo per dire che il signor Pigot sarebbe stato lieto di vederli di lì a poco. Ma quando passarono altri cinque minuti e lui non apparve, la moltitudine ricominciò a dar segni d'impazienza. Gli eminenti rappresentanti della stampa non avevano l'abitudine di aspettare a lungo. — Io proporrei di prender d'assalto il castello — suggerì l'inviato del World. E proprio in quel momento il signor Pigot in persona sbucò dalla scaletta. In men che non si dica fu circondato. — Miei cari amici della stampa — disse parlando lentamente, ma con accento quasi perfetto — dovete perdonarmi se vi ho fatto aspettare, ma dovevo sbrigare una faccenda della massima importanza... e anche preparare la valigia. Giovanotto — soggiunse rivolto all'inserviente — troverete la mia valigia fuori della porta della cabina. Portatela qui, per cortesia, così sarò pronto a sbarcare subito. L'inserviente s'avviò all'istante e Pigot si volse di nuovo a noi: — Ora, signori, in che cosa posso servirvi? Godfrey si fece portavoce dei colleghi. — Innanzitutto desideriamo darvi il benvenuto in America, signor Pigot, ed augurarvi un soggiorno piacevole e interessante. — Siete molto gentile — rispose il francese con sorriso amabile. — Sono sicuro che il mio soggiorno sarà interessante... sono lieto di visitare la vostra meravigliosa città, di cui ho udito molte entusiastiche descrizioni. Godfrey riprese: — Noi speriamo inoltre che col vostro aiuto la nostra polizia possa risolvere il mistero che circonda la morte di tre uomini uccisi recentemente qui, e arrestare l'assassino. Sembra infatti che i nostri funzionari da soli non riescano a fare nulla. Burton E. Stevenson
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Il signor Pigot allargò le braccia. — Anch'io spero che possiamo riuscire — rispose — ma se la vostra polizia non ha avuto successo, il mio modesto aiuto conterà poco. Ho una profonda ammirazione per la polizia americana; i risultati da essa raggiunti sono meravigliosi, se si tien conto delle difficoltà che intralciano la sua opera. Il suo accento era così sincero che io ero quasi convinto che pensasse quello che diceva, ma Godfrey sorrise. — Tutti sanno che la polizia francese è la migliore del mondo. Senza dubbio avrete qualche ipotesi riguardo alla morte di questi uomini... — Non mi è possibile rispondervi con precisione al momento — disse il signor Pigot. — Prima di tutto devo consultarmi col capo del vostro reparto investigativo. Domani sarò lieto di comunicarvi le mie opinioni in proposito. Per questa sera le mie labbra sono chiuse, quantunque mi dispiaccia sembrare scortese. Si udì un mormorio di delusione. L'attacco diretto era fallito. Godfrey si preparò a un attacco sul fianco. — E sbarcate questa sera stessa? — domandò. — Aspettavo un rappresentante della vostra polizia — spiegò Pigot — e contavo di andare in città con lui. Non ho tempo da perdere. Più presto ci si mette all'opera, maggiori sono le probabilità di riuscita. Ah, forse è qui — soggiunse udendo una voce sonora che domandava del signor Pigot. Riconobbi quella voce e la riconobbe anche Godfrey sul cui volto si dipinse un'espressione delusa. Un istante dopo Grady, con Simmonds alle calcagna, si faceva largo tra il gruppo dei giornalisti. — Signor Pigot! — esclamò il capitano avviluppando la mano affusolata del francese nella sua grossa zampa. — Lieto di vedervi! Benvenuto nella nostra città. Spero che voi parliate l'inglese, perché io non so una parola della vostra lingua. Sono il capitano Grady, capo del reparto investigativo. Questo è il sergente Simmonds, uno dei miei collaboratori. Il signor Pigot s'inchinò profondamente. — Felicissimo di fare la vostra conoscenza, capitano... e la vostra, sergente Simmonds. Sì, parlo l'inglese, ma non molto bene. — Questi giornalisti vi stanno togliendo il fiato — fece Grady lanciando un'occhiata ostile al nostro gruppo e rabbuiandosi maggiormente alla vista di Godfrey. — Ora, ragazzi, farete meglio ad andarvene. Per questa sera non caverete niente né al signor Pigot né a noi... — Ho detto loro, dianzi, che prima di lasciarmi intervistare devo Burton E. Stevenson
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consultarmi con voi — assentì Pigot. — Allora andiamocene a bere qualcosa — suggerì Grady. — Speravo che potessimo scendere a terra subito — fece Pigot. — Devo mostrarvi i miei documenti... — Va bene, va bene — l'interruppe Grady. — Mi mostrerete i documenti poi vi farò visitare Broadway... voi converrete con me che non vi è nulla di simile nemmeno a Parigi. La nostra lancia ci aspetta e possiamo partire immediatamente. È questa la vostra valigia? Sì? Prendetela voi, Simmonds. Grady si avviò verso la scaletta. Un inserviente premuroso precedette Simmonds nell'impossessarsi della valigia. Il signor Pigot si volse a noi con un sorriso: — A domani, signori. Sarò all'albergo Astor e sarò lietissimo di vedervi... alle undici... va bene? Dolente di non potervi intrattenere questa sera. Strinse la mano al commissario di bordo, ci fece un ultimo cenno di saluto con la mano e raggiunse Grady che lo aspettava con palese impazienza. Scomparvero insieme giù per la scaletta. — Che differenza di stile, non è vero, cari colleghi? — domandò Godfrey guardandosi attorno. — Non avete arrossito per l'America? I giornalisti risero, poiché sapevano che Godfrey era in guerra con Grady, eppure era evidente che non gli davano torto. — Andiamo, Lester — soggiunse il mio compagno rivolto a me. — Ritorniamo a terra. Rimanderò il battello a rilevare gli altri due.
24. Il segreto dello scrigno Godfrey mi salutò sul molo e se ne andò frettolosamente in ufficio per scrivere un articolo, che, a quanto intuivo, doveva trattare principalmente delle maniere dei funzionari americani e in particolare modo di quelle di Grady. Quanto a me, l'aria di mare mi aveva aguzzato l'appetito, perciò presi un taxi e mi feci condurre al ristorante Murray, deciso a passare una buona parte della serata con le gambe sotto la tavola. Mangiai tanto comodamente e mi attardai così a lungo a prendere il caffè e a fumare qualche sigaretta che erano le dieci passate quando mi ritrovai nella quarantaduesima Strada; dopo un attimo d'esitazione decisi d'incamminarmi verso casa e svoltai verso la Broadway dove già Burton E. Stevenson
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cominciava ad affluire una parte del pubblico che usciva dai teatri. Quantunque l'abbia vista un'infinità di volte, la Broadway di notte presenta sempre ai miei occhi uno spettacolo affascinante, con le sue insegne luminose, con la sua folla mutevole, con il movimento dei veicoli e le vetrine scintillanti di luci. Grady aveva ragione dicendo che nemmeno a Parigi vi era niente di simile. Percorsi la grande arteria a passo lentissimo, facendo un'abbondante rifornimento di sigarette. Quando finalmente raggiunsi Madison Square andai a dare un'occhiatina al torrione bianco di Palazzo Flatiron che si stagliava contro il ciclo, poi guardai la torre del Metropolitan, ancor più alta, ma meno pittoresca, e vidi che il grande orologio luminoso segnava quasi le undici e mezzo. Ritornai sui miei passi e avevo svoltato per la ventitreesima Strada in direzione di Palazzo Lincoln, quando, proprio sull'angolo, mi trovai a faccia a faccia con tre uomini e, con un piccolo sussulto, riconobbi Grady e Simmonds, col signor Pigot in mezzo a loro. Evidentemente Grady si era sentito in dovere di mantenere la sua promessa nel modo più largo e generoso e di mostrare le meraviglia della Strada di Luce, da cima a fondo; la cerimonia, senza dubbio, aveva compreso l'iniziazione dello straniero a un certo numero di tipiche bevande americane... e il risultato di ciò era che le gambe di Grady vacillavano visibilmente. Per amor di confronto, diedi un'occhiata alle gambe del signor Pigot, ma mi parvero del tutto salde. — Ohilà, Lester — fece Simmonds, con una voce che dimostrava come anche lui non si fosse sottratto in alcun modo al programma dei festeggiamenti; persino Grady si degnò di farmi un cenno di saluto cordiale, dal che dedussi che non era in condizioni normali. — Buona sera, Simmonds — risposi e mi avviai nella direzione presa dai tre. Il sergente mi si mise al fianco e restammo qualche passo dietro agli altri. — Questo Pigot è straordinario — mi disse. — È un vero simpaticone... ha voluto vedere tutto e assaggiare tutto. Dichiara che New York batte Parigi. — E adesso dove andate? — domandai. — Facciamo una scappata al posto di polizia. Pigot dice che ha in serbo una grande sorpresa per noi... qualcosa che ha attinenza con quello scrigno... — Con lo scrigno? — Sì, proprio... — Simmonds, Godfrey ne sa qualcosa? — domandai seriamente. Il mio Burton E. Stevenson
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compagno parve impacciato. — No, ho proposto a Grady di telefonargli per farlo venire, ma il capo è andato su tutte le furie e mi ha detto di badare agli affari miei. — E se gli telefonassi io? — suggerii. — Non vi sembra una buona idea? — Io non ho niente in contrario — mi rispose Simmonds. — Benissimo. Voi cercate di tirare in lungo i preliminari il più possibile per dare a Godfrey una possibilità di arrivare in tempo. Simmonds assentì. — Farò quello che posso, ma non vedo a che cosa possa servire questa manovra. Il capo non lo lascerebbe entrare, anche se arrivasse. — Per questo ci rimetteremo a Godfrey. Quello che conta è che sia avvertito. È lui che ha fatto mettere lo scrigno dove si trova. — Lo so, e Pigot dice che è stata un'ottima idea di metterlo là... benché io non arrivi a capire perché. Comunque, fate che Godfrey si sbrighi. Arrivederci. Frattanto eravamo arrivati davanti al posto di polizia e i tre scomparvero. C'era un caffè con telefono pubblico all'angolo, e due minuti dopo mi mettevo in comunicazione con gli uffici del Record. No, il signor Godfrey non c'era, mi disse una voce piena di sussiego; se n'era andato da qualche tempo; no, il proprietario della voce non sapeva dove fosse andato, né quando sarebbe ritornato. — Sentite si tratta di una cosa importante — insistetti. — Fatemi parlare col redattore capo... presto. Un istante di silenzio, poi la voce mi domandò: — Chi debbo dire? — Lester, dell'ufficio legale Royce e Lester... sono un amico intimo del signor Godfrey. Il redattore capo parve comprendere chi ero, poiché si fece dare subito la comunicazione, ma non poté dirmi molto di più. — Abbiamo mandato Godfrey a Westchester per un'intervista interessante. È partito subito dopo terminato l'articolo su Pigot; dovrebbe essere di ritorno tra poco. Devo dirgli qualcosa? — Sì... ditegli che Pigot è al posto di polizia della ventitreesima Strada, e che sarà meglio che venga il più presto possibile. — Benissimo. Riferirò. Deluso, riappesi il ricevitore. Quando mi trovai nella via sostai esitando sul marciapiede, con gli occhi fissi sul fanale rosso del posto di polizia. Che cosa stava per accadere là dentro? Qual era la grande sorpresa che il signor Pigot preparava? La mia Burton E. Stevenson
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presenza sarebbe stata giustificata? Finalmente ricordandomi il modo cordiale con cui Grady mi aveva salutato e soprattutto le sue gambe vacillanti... e ricordandomi anche che, in fine dei conti, il peggio che mi poteva capitare era di essere buttato fuori... mi incamminai verso quel fanale ed entrai al posto di polizia. Nella prima sala non c'era nessuno eccetto il sergente di servizio. — Mi chiamo Lester — dissi. — Voi avete qui uno scrigno che appartiene alla proprietà del defunto Philip Vantine. — Abbiamo uno scrigno, ma non so a chi appartenga. — Appartiene alla proprietà del signor Vantine. — E che cosa me ne importa? — domandò il sergente guardandomi come se volesse accertarsi se ero ubriaco. — Spero che non sarete venuto qui a mezzanotte per dirmi questo. — No, ma desidererei vedere un momento quello scrigno. — Non lo potete vedere questa sera. Ritornate domani. Del resto, io non vi conosco. — Ecco qui il mio biglietto da visita. Il signor Simmonds e il signor Grady mi conoscono benissimo. Domani sarebbe troppo tardi. Il sergente prese il biglietto, lo guardò e tornò a guardare me. — Aspettate un minuto — disse finalmente e scomparve attraverso una porta in fondo allo stanzone. Rimase assente tre o quattro minuti e, intanto che aspettavo, la pendola del posto di polizia batté la mezzanotte. Contai i rintocchi netti e sonori, poi, nel silenzio che seguì, cominciai a tremare. E se Grady si fosse rifiutato di farmi entrare? Ma finalmente il sergente ritornò. — Seguitemi — disse aprendo l'uscio per lasciarmi passare. — La cella è quella là, col cancello. Feci uno sforzo disperato per assumere un contegno disinvolto, aprii il cancello che era soltanto accostato ed entrai, ma sulla soglia mi fermai di colpo. Là, in mezzo alla cella, stava lo scrigno di Boule, con accanto il signor Pigot; un po' in disparte Grady e Simmonds stavano seduti in posizione d'abbandono sulle loro sedie e fumavano due sigari neri e puzzolenti. Tutti e tre mi guardarono quando entrai; Pigot corrugò la fronte e io compresi che non gradiva la mia presenza; Simmonds ostentò un moto di stupore e Grady mi fece un sorriso vacuo e un po' ebete. La vista di quel sorriso mi sollevò il morale. — Ebbene, avvocato — disse lui — volevate vedere lo scrigno? Burton E. Stevenson
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— Sì... in realtà appartiene alla proprietà Vantine, capite. Farò i miei passi per ricuperarlo... sempre che non siate disposto a consegnarlo senza discussioni. — E quest'idea vi è venuta proprio adesso, in piena notte? — No — risposi coraggiosamente. — Ma ho visto voi e il signor Simmonds e questo signore entrare un momento fa mi è saltato in testa che la vostra visita avesse attinenza con lo scrigno. Naturalmente non vogliamo che il mobile sia danneggiato. Ha un grande valore. — Non vi preoccupate — rispose Grady. — Non lo danneggeremo. Del resto credo che, a partire da domani, potrete riprendervelo quando vorrete. Il signor Pigot, qui presente, vuole mostrarmi non so che, prima. Suppongo che abbiate un certo diritto ad assistere... perciò, se vi piacciono i giochi di prestigio, sedetevi. Non mi feci ripetere l'invito due volte e mi affrettai a procurarmi una sedia. Mi studiai poi di assumere una maschera indifferente, poiché il signor Pigot era palesemente seccato della mia presenza. Quanto a Grady, se notò la contrarietà dell'ospite, non ci fece caso e io cominciai a sospettare che la soavità del francese e la sua involontaria ostentazione di raffinatezza e di belle maniere avessero finito per urtargli i nervi, tanto erano in contrasto con i suoi modi ruvidi. Qualunque ne fosse la causa, c'era una certa sfumatura di malizia nel sorriso che egli rivolse al francese. — E ora, signor Pigot, siamo pronti per lo spettacolo — disse accomodandosi ancor meglio sulla sedia. Il funzionario francese cominciò con voce fredda e tagliente: — Quel che ho da dirvi, signor Grady, è di carattere confidenziale. Deve rimanere tra noi, finché il colpevole non sia catturato. L'espressione di Grady s'indurì alquanto; forse non gli piacevano gli imperativi. Ad ogni modo, ignorò l'implicita allusione a me. — Avete capito, avvocato Lester? — mi domandò guardandomi, e io annuii. Vidi un lampo di stizza passare negli occhi di Pigot e il suo viso si fece di porpora, poiché il tono di Grady era quasi insultante. Per un secondo credetti che fosse sul punto di rifiutarsi a procedere; ma si dominò. Ora potevo osservarlo meglio che non sulla nave e lo guardavo con vivo interesse. Era tipicamente francese... sbarbato, col viso segnato da piccole rughe, con gli occhi ombrati da foltissime sopracciglia grige e con i capelli corti quasi bianchi. Giudicai che fosse sulla sessantina; aveva quella cert'aria inconfondibile dell'uomo che è passato attraverso innumerevoli avventure, senza mai perdere il suo sangue freddo. Certo non l'avrebbe Burton E. Stevenson
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perduto nemmeno questa volta. — La storia che debbo raccontarvi — riprese — ha a che fare col furto dei famosi diamanti dei Michaelovitch. Forse vi ricordate il caso a cui alludo. Io me ne ricordavo di certo. Poiché il furto era stato perpretato ed eseguito con tale astuzia che i resoconti avevano attratto la mia attenzione, senza contare che i brillanti formavano la famosa collezione appartenente al granduca Michele di Russia e che avevano un valore calcolato a cinquanta milioni di franchi. — Quel furto — continuò il signor Pigot — fu eseguito con un metodo così straordinario che noi comprendemmo subito che poteva essere opera di un uomo soltanto... di un furfante di nome Crochard che si fa chiamare "l'invincibile"... di un furfante che ci ha dato un'infinità di noie e sul quale non siamo mai riusciti a mettere le mani. In questo caso, non avevamo alcuna prova diretta contro di lui; lo sottoponemmo a un interrogatorio e dovemmo constatare che aveva un alibi ineccepibile, cosicché fummo costretti a rilasciarlo. Sapevamo che era perfettamente inutile trattenerlo in arresto, finché non fossimo riusciti a trovare in suo possesso almeno una parte dei gioielli rubati. Crochard appariva come di consueto sui Boulevards, nei caffè eleganti, ovunque. Si faceva beffe di noi. Eravamo furibondi, ma la nostra legge è molto rigida. Per noialtri accusare un uomo, arrestarlo e dovere poi ammettere che ci siamo sbagliati è una cosa molto grave. Facemmo il possibile; tenemmo Crochard sotto una continua sorveglianza; perquisimmo il suo appartamento e quello della sua amante, ripetutamente. Una volta mentre si trovava nei pressi di Vincennes alcuni agenti di polizia lo aggredirono fingendosi ladri e lo perquisirono, ma invano. Naturalmente lui non si lasciava trarre in inganno. Sapeva benissimo che cosa stavamo facendo e che cosa cercavamo. Sapeva anche in nessun paese d'Europa avrebbe potuto tentare di vendere uno solo di quei gioielli. Sospettavamo che avrebbe tentato di portarli in America, perciò avvertimmo la vostra dogana. Sapevamo infatti che qui avrebbe potuto vendere i brillanti, fatta eccezione per i più grossi, non solo senza rischio, ma ad un prezzo maggiore di quello che avrebbe potuto ottenere in Europa. Facemmo il possibile per chiudergli tutte le strade... ma, ad un tratto, scomparve. Per due settimane non avemmo sue notizie, poi sapemmo la storia della morte di questo Drouet, ucciso a causa di una ferita alla mano. Riconoscemmo subito l'opera di Crochard, poiché sapevamo che Burton E. Stevenson
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possedeva il segreto di un veleno ultrapotente. È un segreto terribile che in tutta la sua vita ha utilizzato soltanto una volta... per uccidere un uomo che l'aveva tradito. Il signor Pigot fece una pausa e si passò una mano sulla fronte, poi riprese: — Non riuscivamo a capire quale potesse essere la connessione tra Crochard e Drouet. Drouet era soltanto uno sfaccendato, un fannullone, ma non un delinquente, poi c'è stata la morte di Morel, ucciso mentre tentava di manomettere questo scrigno, e abbiamo cominciato a capire. Abbiamo indagato in merito allo scrigno; abbiamo appreso la sua storia e il segreto della sua fabbricazione e la verità ha cominciato a delinearsi ai nostri occhi. Per verificare le conclusioni da noi raggiunte, io sono venuto in America. — Quali sono queste conclusioni? — domandò Grady che aveva ascoltato quel discorso con palese impazienza, in forte contrasto col mio interessamento. Io intuivo già quali potevano essere quelle conclusioni ed ero tutto emozionato. — Secondo la nostra ipotesi — rispose il signor Pigot senza accelerare minimamente — i diamanti dei Michaelovitch sono nascosti in questo scrigno. Molti indizi tendono a provarlo... e noi verificheremo ben presto. Così dicendo trasse di tasca un guanto d'acciaio, straordinariamente simile a quello usato da Godfrey e se lo infilò alla mano destra. — Quando si tenta di penetrare nei segreti dell"'Invincibile" bisogna indossare l'armatura — osservò sorridendo. — Ci sono già tre uomini che hanno pagato la loro imprudenza con la vita. — Tre uomini? — ripeté Grady. — Tre — insistette Pigot e li enumerò sulla punta delle dita. — Prima di tutto, l'uomo che si faceva chiamare d'Aurelle ed era in realtà un piccolo ricattatore di nome Drouet; secondo, il signor Vantine; terzo Morel. Di questo, l'unico che conti veramente è Vantine; la sua morte è stata un sciagura e sono certo che Crochard la deplora moltissimo. Forse deplorerebbe anche la mia morte, ma, ad ogni modo, non ho alcun desiderio di essere il quarto. — Un momento, signor Pigot — dissi, incapace di tacere più a lungo. — Tutto ciò è meraviglioso... e interessante. Ma non volete dirci qualcosa di più? Che cosa cercavano quei tre uomini? Gioielli? — Suvvia, avvocato, voi siete al corrente dei fatti quanto me — rispose il francese in tono ironico. — Sapete benissimo che Drouet è stato ucciso Burton E. Stevenson
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mentre cercava d'impossessarsi di un pacco di lettere che avrebbero compromesso gravemente una distinta signora; sapete che il signor Vantine è stato ucciso mentre tentava di aprire il cassetto, dopo che il segreto gli era stato rivelato dalla cameriera della suddetta signora, la quale a sua volta desiderava avere le lettere sperando di fare una speculazione; quanto a Morel, è stato soppresso direttamente da Crochard, perché era un traditore e meritava la morte. Guardai l'investigatore, sempre più attonito. Come faceva a sapere tante cose? Era forse riuscito a ricostruire tutta la storia dagli elementi slegati che la nostra polizia poteva avergli fornito? — Ma, nonostante tutto ciò che voi dite, io non capisco — balbettai. — Abbiamo aperto il cassetto segreto dello scrigno, ma non c'era alcun meccanismo avvelenato. In qual modo avrebbero potuto essere uccisi Drouet e il signor Vantine? — Semplicissimo — rispose Pigot. — Drouet e il signor Vantine hanno trovato la morte perché la cameriera della signora duchessa ha confuso la mano sinistra con la mano destra. Il cassetto che conteneva le lettere è a sinistra dello scrigno... guardate. Premette le molle come avevo visto fare alla signora velata, afferrò la piccola maniglia e aprì il cassetto. — Noterete che le lettere sono scomparse, poiché il cassetto è stato aperto dalla duchessa in persona, alla presenza del signor Vantine il quale cavallerescamente le ha permesso di recuperarle. Ma il cassetto che Drouet e il signor Vantine aprirono si trova alla destra dello scrigno, esattamente dalla parte opposta dell'altro e aperto da una combinazione simile. Però c'è una grande differenza. Nel primo cassetto non c'è niente di nocivo, mentre l'altro è difeso, per così dire, dal veleno più micidiale che esista attualmente. Guardate, signori. Spinto da un eccitamento incontenibile, mi ero alzato e mi ero avvicinato al francese. Questi si chinò leggermente, introdusse la mano nell'armadietto centrale e premette su tre punti. Si udì uno scatto secco e uno degli arabeschi si staccò formando una specie di maniglia, come avevo visto avvenire dall'altra parte. Il signor Pigot esitò un istante... chiunque avrebbe esitato... poi, afferrando la maniglia con la mano corazzata, tirò rapidamente. Si udì un clangore di acciaio contro acciaio... e il cassetto era aperto.
25. I diamanti Michaelovitch Burton E. Stevenson
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Il signor Pigot, freddo e imperturbabile, ci additò sorridendo la sua mano corazzata; vidi che sulla superficie d'acciaio erano due piccole depressioni. In fondo ad ognuna stava una goccia di un liquido color rosso viso. Che nervi d'acciaio possedeva quell'uomo! Ora provavo una grande ammirazione per lui. — Quel liquido, signori — disse con la sua voce pacata — è il veleno più potente che mai sia stato distillato, credo. Queste due gocce basterebbero ad uccidere una mezza dozzina di pecore. L'odore ne tradisce l'origine — (e infatti l'aria era pregna di un aroma di mandorle amare) — ma il veleno che solitamente si trae dallo stesso prodotto è nulla in confronto a questo. Bisogna sapere che Crochard, prima di intraprendere la sua carriera criminale, era un chimico di valore e risulta evidente che anche in quella sua prima attività ottenne risultati notevoli. È proprio questo segreto che lo rende tanto formidabile. Nessuno può lottare contro di lui. Ha un'astuzia e un acume eccezionali. Guardate ad esempio il segreto di questo cassetto: lui lo conosceva e se ne serviva all'occorrenza. Il signor Pigot rifletté un momento poi, si rivolse al sergente: — Ora, signor Simmonds, se volete avere la cortesia di tenere il cassetto in questa posizione, io renderò innocuo il serpente. Non c'è il minimo pericolo — soggiunse vedendo che Simmonds esitava. Così rassicurato, il sergente afferrò la maniglia del cassetto che tenne aperto, mentre il francese traeva di tasca una boccetta di cristallo. — Tirate ancora un po' — disse e quando Simmonds con evidente fatica, trasse a sé il cassetto, io vidi apparire due piccoli aculei. — Ecco i denti — soggiunse Pigot, poi avvicinò la bocca della boccetta successivamente ai due aculei passando nello stesso tempo l'altra mano dietro il meccanismo. — Il veleno è mantenuto in luogo da quella che si chiama attrazione capillare; io lo tolgo introducendo dell'aria dietro il condotto. Vedete? Si raddrizzò alzando la boccetta in modo che fosse in luce. Era piena a metà del liquido rosso. — Quanto basta per decimare la Francia — mormorò, poi mise il tappo alla boccetta e la fece sparire nella propria tasca. — Lasciate andare il cassetto, per cortesia, signor Simmonds. Il cassetto si richiuse istantaneamente e l'arabesco che fungeva da maniglia andò ad incastrarsi al suo posto con un lieve scatto. — Osserverete quanto sia ingegnoso questo meccanismo — fece il signor Pigot. — Non appena la mano, colpita dagli aculei avvelenati, lascia andare il cassetto, questo si richiude automaticamente e tutto ritorna a Burton E. Stevenson
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posto come prima... a parte il fatto che chi ha manomesso lo scrigno è spacciato. Ora lo apro di nuovo. Ecco che gli aculei colpiscono il guanto d'acciaio... se questo non ci fosse, lacererebbero la pelle della mano, ma ora senza conseguenze mortali. Girando questo bottone, io blocco la molla e il cassetto rimane aperto. L'uomo che ha fabbricato questo meccanismo ne era così orgoglioso che lo descrisse in una monografia. Ce n'è una copia negli archivi della biblioteca nazionale; l'originale è nelle mani di Crochard. È stato lui a trovare il nesso tra quella monografia e questo scrigno... che ha scoperto il meccanismo, lo ha rimesso in sesto e ha riempito di nuovo i condotti del veleno. — Questo Crochard sembra un individuo straordinario — osservò Grady riaccendendo il sigaro. — Lo è — assentì Pigot. — È proprio un uomo straordinario. Però anche lui non è infallibile; per esempio, quella monografia non faceva menzione dell'altro cassetto segreto... quello in cui la duchessa aveva nascosto le sue lettere d'amore... e Crochard non ne sapeva nulla. È stato appunto questo fatto che ha scompigliato i suoi piani. Una complicazione che lui non poteva prevedere. Ed ora, signori, avrò il piacere di farvi ammirare alcuni bellissimi brillanti. Fino a quel momento non avevo pensato a ciò che il cassetto conteneva; ero troppo affascinato dagli aculei e da tutta la storia raccontata con tanta calma, eppure con tanta efficacia, dall'investigatore francese; ora però vedevo che il cassetto era pieno di piccoli rotoli di ovatta che ricoprivano tutto il fondo. Il signor Pigot prese il primo rotolino, lo svolse e lo stese sull'assicella che sporgeva dallo scrigno: improvvisamente vedemmo uno scintillio di brillanti... brillanti tanto grossi e di un candore così perfetto che io mi lasciai sfuggire un'esclamazione di meraviglia. Perfino il signor Pigot, per il quale quella vista non era una sorpresa, non rimase imperturbabile; un lieve rossore si diffuse sulle sue gote prese un paio delle pietre più grosse, come per ammirarle più da vicino. Sciolse poi, uno dopo l'altro, gli altri rotoli di ovatta, soffermandosi di quando in quando a dare un'occhiata alle gemme di maggiori dimensioni. — Questi brillanti fanno parte della famosa collana che il granduca ereditò dalla madre — disse Pigot richiamando la nostra attenzione su una serie di gemme meravigliose racchiuse in uno degli ultimi rotolini. — Crochard, naturalmente, li ha tolti dalla montatura... era inevitabile, e intanto poteva fondere le montature e vendere l'oro; ma chissà quanti anni avrebbero dovuto passare prima che potesse vendere una di queste pietre Burton E. Stevenson
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in Europa. Ognuna di esse ha un nome e le sue caratteristiche sono note universalmente. Qui in America c'è una maggiore libertà nel commercio delle gemme; tuttavia credo che anche lui avrebbe trovato una certa difficoltà a vendere questa... Così dicendo svolse l'ultimo rotolo e ci mostrò un diamante rosa che mi parve grosso quanto una noce e tutto scintillante. — Forse avrete avuto occasione di ammirare il diamante Mazzarino, nella Galérie d'Apollon, al Louvre — soggiunse Pigot. — C'è sempre una grande folla davanti a quella vetrina e un inserviente è di guardia in permanenza, poiché la vetrina stessa contiene gemme di grande valore. Ma il Mazzarino non è fra quelle... poiché non è un brillante; si tratta di una riproduzione in cristallo... e questo è l'originale. Oh, è una cosa molto chiara — soggiunse udendo un'esclamazione incredula da parte di Grady. — Alcuni anni fa, i conservatori del Louvre avevano bisogno di forti fondi per l'acquisto di nuove opere d'arte e per il restauro di quelle vecchie. Cercarono allora un acquirente per il brillante Mazzarino e lo trovarono nell'imperatrice di Russia che aveva la passione delle pietre preziose e che, alla propria morte, lasciò la sua straordinaria collezione al figlio preferito. Una riproduzione del brillante Mazzarino fu posta al Louvre e ben presto il pubblicò dimenticò che questo non era il vero brillante. Per mio conto, ritengo che i conservatori del museo abbiano agito accortamente. Ma ora che dobbiamo fare con tutta questa roba? — domandò poi additando le gemme. — C'è una cosa sola da fare — rispose Grady scuotendosi da una specie di torpore. — Le riporremo in una cassetta di sicurezza il più presto possibile. Non mi fiderei certo a metterle nella cassaforte della polizia. Diamine, un tesoro simile tenterebbe l'Arcangelo Gabriele! — E si può trovare una cassetta di sicurezza a quest'ora? — domandò Pigot guardando l'orologio. — È quasi l'una e mezzo. — Niente di più facile a New York — rispose Grady. — C'è una banca aperta giorno e notte nella Quinta Avenue. Aspettate un momento... vado a prendere qualcosa in cui possiamo riporre le gemme. Uscì e ritornò poco dopo con una valigetta. — Questa andrà bene. — disse. — Mettete tutto qui dentro, poi telefonerò alla banca per fissare una cassetta. Simmonds e Pigot rifecero i rotolini di ovatta e li posero nella valigetta, mentre io li stavo a guardare trasognato. Capivo la tentazione che poteva assalire un uomo di fronte a simile bellezza. Non era tanto il valore dei gioielli che mi abbagliava, quanto la seduzione del loro scintillio... il Burton E. Stevenson
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pensiero che, se ne fossi stato il proprietario, avrei potuto a qualunque ora del giorno o della notte ammirarli, accarezzarli e osservare il loro prodigioso scintillio. — Il granduca Michele deve essere rimasto un po' scombussolato — osservò Simmonds che durante tutta quella scena non aveva perduto il suo sangue freddo e la sua serenità. — Sembrava impazzito — rispose Pigot ridendo. — Anche lui ha la passione delle gemme; le adora; non se ne separava mai, nemmeno per un giorno; le portava con sé dovunque. Anche quando si è trovato nella assoluta necessità di procurarsi del denaro... e gli è capitato più volte... non ha mai venduto uno dei suoi brillanti. Al contrario, quando ha del denaro si affretta a comprare qualche gemma di particolare bellezza. Da che ha perduto queste gemme è diventato nevrastenico. Ho sentito dire che su qualche punto siamo tutti un po' matti... ebbene, il granduca Michele è matto quando si tratta di diamanti. — Perché non offre una ricompensa per la restituzione? — domandò Simmonds. — Lo ha già fatto. Ha offerto immediatamente tutti i suoi beni... ma quei beni non sono abbastanza vasti per tentare Crochard; in realtà, il Granduca vive sull'appannaggio che gli passa la famiglia. Sarà molto lieto che abbiamo ritrovato le sue gemme. — Ecco fatto — fece Simmonds e chiuse la valigetta con un colpo secco nel momento in cui Grady rientrava. — Ho già disposto tutto per la cassetta di sicurezza — disse il capitano. — Uno dei nostri cellulari è già alla porta. Ho pensato di non fidarmi di un taxi... potrebbe capitare un incidente... non si sa mai. Voi, Simmonds, andate col signor Pigot e mettete un agente accanto all'autista. Quel Crochard potrebbe tentare un'aggressione. Avevo avuto lo stesso pensiero poiché Crochard doveva aver saputo dell'arrivo del signor Pigot e stentavo a credere che se ne rimanesse tranquillo e passivo lasciando che i gioielli venissero portati via... specialmente dopo la sfida lanciata a Godfrey. Provai quindi un senso di sollievo udendo che Grady prendeva delle precauzioni abbastanza rigide. — Fatevi dare una ricevuta in piena regola — riprese il capitano rivolto al sergente — e disponete in modo che la valigia venga consegnata soltanto quando voi e il signor Pigot vi presenterete insieme. Va bene così, signor Pigot? — Benissimo. — Allora ci vedremo domani mattina. Mi congratulo con voi per la Burton E. Stevenson
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scoperta fatta. Avete compiuto un prodigio. — Grazie — rispose Pigot con aria solenne. — Arrivederci, avvocato. Mi fece un profondo inchino e seguì Simmonds nel vestibolo. Grady si sedette e trasse di tasca un sigaro nuovo. — Ebbene, avvocato Lester, che cosa pensate di questi francesi? — mi domandò accendendo un fiammifero. — Sono meravigliosi. Anche ora non riesco a capire come faccia quel Pigot a sapere tante cose. — In base ai dati che possiede avrà intuito il resto — suggerì Grady. — L'avevo pensato anch'io, ma nessuno può colpire nel segno con tanta esattezza, soltanto per induzione. Per esempio, come faceva a sapere la faccenda di quelle lettere? — Veramente io non ne sapevo nulla — interruppe Grady. — Che cos'è quella storia? Gliela raccontai in breve, tacendo i particolari che potevano dargli un indizio sull'identità della signora velata. — Ci sono alcune cosette che io credevo fossero note soltanto a me e ad altre due persone... eppure il signor Pigot le sapeva. E ancora, come faceva a conoscere con tanta sicurezza il funzionamento del meccanismo? Come faceva a sapere che proprio quel rotolo di ovatta conteneva il brillante Mazzarino? Ricorderete che ce l'ha indicato prima ancora di aprirlo. Ricorderete che ci ha detto che era in quel rotolo, prima di svolgerlo. Grady sorrise bonariamente, con una cert'aria di protezione. — Ma mi sembra che fosse l'ultimo rotolo — osservò. — Dal momento che quel grosso diamante non era apparso in nessuno degli altri, poteva intuire che era in quello. — Forse avete ragione, ma mi è sembrato che maneggiasse quel meccanismo come se gli fosse familiare. Naturalmente può darsi che si sia preparato studiando i disegni di cui senza dubbio è corredata la monografia. Grady assentì. — Questi investigatori francesi si prendono un mucchio di brighe per inezie di questo genere. Hanno la passione di gettare le carte sulla tavola con un evviva trionfale, anche quando le carte non valgono un corno. — Però questa volta le carte erano buone — osservai. — Pigot è senza dubbio un uomo straordinario. — È un grande attore — aggiunse Grady. — Gli uomini di quella fatta agiscono sempre come se fossero sul palcoscenico. Qualche volta sono noiosi. Ohilà! Che c'è? Burton E. Stevenson
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La porta di strada si era spalancata; udimmo una voce concitata che apostrofava il sergente di servizio, poi un passo rapido attraversò il corridoio e Godfrey apparve. Diede una rapida occhiata allo scrigno di Boule e al cassetto segreto che stava aperto, vuoto, poi i suoi occhi si posarono su Grady. — Dunque, l'amico si è portato via tutto, eh? — domandò. — Ma chi credete di essere voi? — urlò il capitano facendosi paonazzo in volto. — Chi credete di essere, per entrare in questa maniera? Uscite, altrimenti vi faccio buttar fuori! — Non vi disturbate, me ne vado — ribatté Godfrey freddamente. — Ho visto tutto quello che volevo vedere. Vi dico soltanto una cosa, signor Grady... avete firmato la vostra condanna a morte, questa sera! — Che cosa intendete dire? — domandò il funzionario in tono più calmo. — Intendo dire che quando la storia di ciò che è avvenuto questa sera sarà messa in circolazione, non potrete resistere nemmeno un'ora. Grady era impallidito visibilmente e fissava Godfrey con gli occhi dilatati. Quanto a me, un terrore mortale mi stringeva il cuore. — Vorreste forse dire che non era Pigot? — balbettò il capitano. Godfrey rise amaramente. — Adesso la capite? Non era Pigot. Era Crochard in persona! Detto ciò, Godfrey girò sui tacchi e uscì sbattendo la porta.
26. Il volto del signor Pigot Quali che fossero i difetti di Grady, sapeva essere energico nei momenti critici. In men che non si dica si precipitò alla scrivania del sergente di servizio. — Fate uscire le riserve — ordinò — e fate venire gli altri cellulari. Telefonate al quartier generale che raccolgano tutti gli uomini disponibili e li mandino immediatamente alla banca della Quinta Avenue. In breve gli uomini di riserva uscirono infilandosi frettolosamente le giubbe mentre fuori nella via s'udiva un rombo di motori. Gli agenti s'arrampicarono nei cellulari su uno dei quali anch'io potei trovare un posto. Grady balzò sul sedile accanto al conducente della macchina su cui mi trovavo e subito partimmo a tutta velocità. Mi tenevo aggrappato al sedile per non essere scaraventato fuori nelle Burton E. Stevenson
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curve e intanto riflettevo furiosamente cercando di afferrare la situazione. Era mai possibile che Godfrey avesse ragione? Ma naturale che aveva ragione! Lo sentivo istintivamente... eppure, come aveva fatto Crochard a sostituirsi al funzionario francese? Dov'era Pigot? Si trovava forse in qualche angolo remoto, tutto rattrappito, con una piccola ferita sulla mano? Ma questo non era possibile; Grady e Simmonds erano stati con lui tutta la sera! Quell'uomo anziano dal volto fine, leggermente rugoso, era dunque l'individuo dall'aspetto virile e giovanile che io avevo conosciuto come Felix Armand? La cosa era tanto inverosimile che la mia ragione vacillava... eppure, a dispetto di tutte le apparenze, in fondo al mio pensiero vi era la certezza che Godfrey aveva ragione! La grossa vettura si fermò così bruscamente che io fui proiettato in avanti; gli agenti scesero a precipizio. Eravamo davanti alla banca che faceva servizio giorno e notte e ad una parola di Grady gli uomini formarono un cordone davanti all'edificio. Frattanto era arrivato l'altro furgone della polizia, ma gli uomini erano rimasti ai loro posti. Grady stava per impartire altri ordini quando una figura apparve sulla porta della banca sbraitando parole inarticolate che non potei afferrare. Ma Grady parve comprendere e salì la gradinata in due balzi con un'agilità che mi sorprese: lo seguii. Un gruppetto stava raccolto da un lato dell'atrio accanto a un corpo inerte, steso su un piccolo divano. Un istante dopo vidi che si trattava di Simmonds che giaceva supino con gli occhi spalancati e apparentemente fissi al soffitto. Osservai meglio e mi resi conto che quegli occhi non vedevano nulla. Grady si fece avanti tutto sconvolto. — Dov'è Kelly? — domandò. Un uomo pallidissimo, in uniforme, si alzò da una sedia sulla quale evidentemente si era lasciato cadere esausto. — Ah, eccovi! — soggiunse Grady guardandolo biecamente. — Ora mi spiegherete che cosa è accaduto... e presto! — Ecco, signor capitano... non è accaduto niente... so soltanto che quando ci siamo fermati di fuori, sono sceso, sono andato ad aprire lo sportello della macchina e ho trovato soltanto il signor Simmonds. Gli ho rivolto la parola e lui non mi ha risposto... allora l'ho toccato e mi è cascato quasi addosso. L'ho portato qui dentro, poi ho telefonato al posto di polizia e mi hanno detto che voi eravate già partito per venir qui. — Non avete udito nulla? Un rumore di lotta o qualcosa di simile? — Niente del tutto, signor capitano. — E non avete un'idea di dove possa essere sceso l'altro uomo? Burton E. Stevenson
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— Nossignore. — Il signor Simmonds aveva una valigetta con sé... l'avevate notata? — Sissignore... anzi l'ho cercata nel cellulare, ma non c'è. Grady si volse con un'imprecazione, e in quel momento cinque o sei agenti entrarono di corsa; erano gli uomini mandati dalla centrale. Udii il capitano impartire loro degli ordini in tono secco, poi gli agenti se ne andarono. Anche le riserve si allontanarono e io compresi che Grady stava tentando di formare una rete intorno alla zona in cui presumibilmente il fuggiasco era nascosto, ma quelle manovre non mi interessavano. Ero preoccupato per Simmonds. Gli presi la mano destra e la guardai, quindi trassi un profondo respiro di sollievo, poiché era illesa. — Qualcuno ha chiamato un medico? — domandai. — Sissignore — mi rispose un inserviente della banca. — Abbiamo telefonato... eccolo! Un ometto dalla barba nera si avanzò e si avvicinò subito al corpo esanime. Ascoltò il cuore, guardò gli occhi, abbassò le palpebre e le osservò mentre si rialzavano di nuovo, indi aprì la valigetta che portava. — Un po' d'acqua — disse. — Allora non è morto? — domandai. — No, ma deve avere ingerito o annusato qualcosa che gli ha fatto perdere i sensi. Con un brivido, ricordai la bottiglietta piena di liquido rosso che Crochard portava in tasca. Ma questa volta non aveva avuto intenzioni omicide; del resto, Godfrey mi aveva detto che non uccideva mai un avversario. Ben presto Simmonds chiuse gli occhi, trasse un profondo sospiro e si drizzò a sedere. Riaprì gli occhi e si guardò attorno come trasognato. — È meglio che vi sdraiate ancora — fece il medico. — State calmo. — Dove sono? — balbettò Simmonds, poi mi vide. — Lester! Dov'è... dov'è Pigot? Non sarà... Si fermò di colpo, si guardò attorno di nuovo, annaspò come se cercasse qualcosa e si rovesciò all'indietro privo di sensi. Non ricordo affatto come ritornai a palazzo Lincoln. Dovetti fare la strada a piedi, ma non lo so di preciso. So soltanto che verso le quattro mi trovavo raggomitolato in una poltrona nella mia biblioteca. Tentai di rievocare mentalmente ciò che era accaduto, ma mi resi conto che il mio cervello si rifiutava di lavorare. Barcollando mi trascinai fino alla camera da letto, mi spogliai, mi infilai sotto le coltri e spensi la luce. Poi, mentre me ne stavo là nelle tenebre, con gli occhi spalancati, un problema venne a Burton E. Stevenson
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turbarmi. Dov'era Godfrey? Si era forse lanciato sulle tracce di Crochard? Osava forse mettersi in lotta con quell'uomo? Forse in quel momento... Appena conscio di ciò che facevo, andai al telefono e chiamai il numero di Godfrey, benché avessi poca speranza di trovare l'amico in casa. Tuttavia un paio di minuti dopo udii la sua voce che rispondeva in tono tutt'altro che amabile. — Godfrey — cominciai — sono Lester. Quello se l'è svignata. — Naturalmente se l'è svignata! Spero che non mi abbiate tirato giù dal letto per dirmi questo. — Allora sapevate tutto? — Sapevo che se la sarebbe svignata. — Quando il cellulare della polizia è arrivato alla banca c'era soltanto Simmonds... — È stato ferito? — No, era privo di sensi, ma si è ripreso subito. — Bene. Sapevo che Crochard non poteva avergli fatto del male. Se n'è andato coi gioielli, naturalmente... — Naturalmente — ripetei meravigliandomi che Godfrey la prendesse con tanta calma. — Quando ci avete lasciato così a precipizio ho creduto che voleste lanciarvi all'inseguimento... — Già, quando lui aveva venti minuti di vantaggio! Mi credete tanto sciocco? L'altro giorno, con un vantaggio di mezzo secondo, me l'ha fatta in barba... — Ho tentato di mettermi in comunicazione con voi non appena Simmonds mi ha avvertito che avrebbero fatto un'ispezione allo scrigno. Vi ho telefonato all'ufficio... il redattore capo mi ha detto di avervi mandato a Westchester. Godfrey rise. — Già, sono andato a Westchester per una panzana montata dall'amico Crochard. Sarei ritornato in tempo lo stesso, se non fosse scoppiato un pneumatico della macchina che mi trasportava, a cinque miglia dalla città. Sapevo già che cosa c'era di nuovo... Ma ero bloccato. Ce l'ha fatta, Lester... ve l'avevo detto, del resto! — Ma, Godfrey, non capisco come siano andate le cose nemmeno ora. Grady e Simmonds hanno lasciato il piroscafo con Pigot e sono rimasti con lui tutta la sera. Come ha fatto Crochard a sostituirsi a lui? Che ha fatto di Pigot? Dov'è Pigot? — È ancora sul Savoie. Non appena ho lasciato il posto di polizia, ho Burton E. Stevenson
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spedito un telegramma radio al capitano della nave il quale ha poi trovato Pigot legato e imbavagliato sotto la cuccetta della sua cabina. E pensare che io non ho sospettato nulla! — soggiunse Godfrey amaramente. — Siamo stati là ad osservare come quel panfilo che batteva bandiera francese ci sorpassava, l'abbiamo visto portare un uomo a bordo del Savoie... abbiamo visto quell'uomo parlare con Pigot... ebbene, quell'uomo era Crochard. Ha trascinato Pigot nella cabina, gli ha somministrato la stessa roba che deve aver usato per Simmonds, l'ha nascosto sotto la cuccetta, poi si è camuffato e ha indossato i suoi vestiti... mentre noi, fuori, battevamo i piedi e l'aspettavamo. — Ma ha corso un rischio tremendo — osservai. — Chissà quante persone a bordo conoscevano Pigot... — Crochard non avrebbe esitato ugualmente, ma il rischio era minore di quanto voi non pensiate. Nessuno di noi aveva veduto Pigot da vicino... avevamo visto soltanto le sue spalle e la sua nuca; quanto ai passeggeri erano tutti occupati per le pratiche di sbarco. Ad ogni modo, si era camuffato alla perfezione. Crochard è un artista in questo e, senza dubbio, conosceva le sembianze di Pigot come se fosse suo fratello. Ma noi avremmo dovuto sospettare... avremmo dovuto sospettare di tutto, viceversa, sotto il nostro naso, Crochard si è impossessato dell'identità e dei documenti di Pigot e ha persino ricevuto i suoi ' 'cari amici della stampa' ' ; e io me ne sono stato là a fare il mio bel discorsetto come uno scolaro... senza dubbio lui mi terrà per quell'imbecille che sono! In ogni modo c'è una consolazione... questa storia sbancherà Grady. — Ma, Godfrey, se aveste visto quei brillanti... quei meravigliosi brillanti... e pensare che se li è presi sotto i nostri occhi! — E' triste, non è vero? Ma quel che è stato è stato Lester. In ogni modo, desidero che vi troviate nel vostro ufficio domani a mezzogiorno... o, per essere più precisi, oggi a mezzogiorno. — Va bene, ci sarò. — Non mancate. C'è ancora un atto della commedia da recitare. — Mi troverete — promisi — ma temo che quest'ultimo atto sarà abbastanza tetro. Sentite un po', Godfrey... — Adesso andate a letto — mi interruppe lui — parlate come un sonnambulo. Dormite! Avete preso le vostre disposizioni per andare in campagna? — Suvvia, Godfrey... vorrei sapere... — Per questa notte non ho altro da dirvi. Vi avverto soltanto che ho ancora una bomba da fare esplodere, Lester... ed è grossa. Vedrete che Burton E. Stevenson
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salto vi farà fare! Lo udii ridacchiare. — Buona notte — mi disse e riappese il ricevitore.
27. L'ultimo atto del dramma Quella mattina mi alzai così tardi che soltanto quando ebbi preso posto in una vettura della metropolitana potei aprire il giornale. Cercai macchinalmente il resoconto del furto, poi mi resi conto che nessuno dei giornali della mattina avrebbe potuto riportarlo, poiché non avrebbero fatto in tempo a introdurlo nella prima edizione. Erano passate poche ore, eppure mi sembrava un secolo da che Godfrey era entrato come un bolide al posto di polizia per destare Grady dal letargo. Pensavo all'appuntamento fissatomi da Godfrey per mezzogiorno. Aveva detto che l'ultimo atto del dramma sarebbe stato inscenato e aveva parlato anche di una bomba... Mi domandavo in che cosa potesse consistere quella bomba. C'erano molte cose da fare all'ufficio e il poco tempo che avevo disponibile passò così rapidamente che quando il fattorino venne ad annunciarmi che il signor Grady e il signor Simmonds chiedevano di me, sulle prime non collegai la loro visita con l'appuntamento di Godfrey. Poi guardai l'orologio, vidi che mancavano cinque minuti alle dodici e mi resi conto che gli attori si adunavano. Grady appariva molto turbato. Il suo volto generalmente florido era pallido e contratto; immaginai che aveva passato la notte insonne dando la caccia a Crochard... e bastava guardarlo per capire che la caccia era stata infruttuosa. Anche Simmonds aveva un aspetto poco arzillo e senza dubbio risentiva ancora della droga. — Lieto di vedervi sano e salvo, Simmonds — dissi. — L'avete scampata bella! — Lo credo anch'io! — rispose il sergente sedendosi. — Mi meraviglio di essere al inondo. — Vi ricordate qualcosa di ciò che è accaduto? — Niente. Ricordo soltanto che eravamo là seduti, uno accanto all'altro, sulla macchina della polizia, poi, ad un tratto, mi è parso che mi mancasse il fiato... e mi sono svegliato alla banca. — Dov'è quel Godfrey? — intervenne Grady. — Ha detto che sarebbe stato qui a mezzogiorno — risposi e guardai Burton E. Stevenson
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l'orologio. — È mezzogiorno adesso. Avevate appuntamento qui? Il capitano mi guardò con diffidenza. — Non ne sapete niente? — So soltanto che Godfrey mi ha pregato di trovarmi qui a mezzogiorno. Qual è lo scopo di questa riunione? — E che ne so io? — fece Grady sgarbatamente. — Mi ha mandato a dire che avrei fatto bene a trovarmi qui e io sono venuto nella speranza che abbia qualche informazione utile da darmi. Ma non sono disposto ad aspettare nemmeno un minuto. Andiamo, Simmonds. — Aspettate — interruppi udendo la porta che si apriva. — Forse Godfrey è qui. Era proprio lui. Entrò con un'altra persona che riconobbi per Arturo Shearrow, legale del Record. Godfrey ci salutò in blocco, con un inchino, poi, dopo aver posto una valigetta sulla mia scrivania, disse: — Credo che conosciate l'avvocato Shearrow... Lo scopo di questa riunione, Lester, è di chiarire una certa faccenda in relazione ai brillanti Michaelovitch, nonché di assicurare al Record il colpo più grosso che abbia fatto da parecchi mesi in qua. — Io non son certo venuto per assicurare un bel colpo al Record — interruppe Grady. — Quel giornale non mi ha mai trattato bene. — Vi ha trattato né più né meno di come meritavate — ribatté Godfrey. — Ora vi parlerò francamente, Grady. Siete fritto. Quando la storia della beffa di ieri sera sarà divulgata, non potrete tener duro nemmeno per un'ora. — Quando a questo, staremo a vedere! — brontolò il capitano, ma non aveva l'aria battagliera. — Se ho ben capito, non avete permesso a Simmonds di telefonarmi, ieri sera. È così? — Proprio così... non era affar vostro. — Può darsi, eppure, se io fossi stato là, il ladro più abile di Parigi, se non del mondo, sarebbe ora al sicuro dietro quelle sbarre di acciaio al nichelcromo del posto di polizia, invece di essere a piede libero, in grado di derubare qualcun altro. — Parlate con molta sicurezza — osservò Grady. — È facile sputar sentenze quando i guai sono già accaduti. — Ebbene, non starò a discutere con voi. Ammetto che quel furfante si era camuffato bene, tuttavia, di fronte al pubblico, voi avete mancato al vostro dovere non accorgendovi dell'imbroglio. Burton E. Stevenson
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Grady si asciugò la fronte. — Già, naturale! Avrei dovuto accorgermene! Avrei dovuto sospettare anche quando ho trovato voi e i vostri degni colleghi intenti a intervistarlo e quando ho esaminato i suoi documenti... — Ascoltatemi, Grady — soggiunse Godfrey, in tono più benevolo. — Io non ho nulla contro di voi personalmente e ammetto di aver fatto una figura da imbecille quando ero sulla nave a colloquio con Crochard. Ma questo non c'entra. Voi siete il capo del reparto investigativo e rispondete di tutto ciò che è accaduto. Siete un uomo energico, siete un galant'uomo, ma non siete adatto alla carica che occupate... è troppo elevata per voi... lo sapete benissimo. Ascoltate il mio consiglio: andate al telefono e date le dimissioni. Grady lo fissò, come se stentasse a credere alle proprie orecchie. — Telefonare le mie dimissioni? Per che razza d'idiota mi avete preso? — Vedo che lo siete più di quanto non sospettassi! Nemmeno le vostre aderenze possono più sostenervi, Grady. — Ed è per dirmi questo che mi avete fatto venire qui? — No — rispose Godfrey. — Tutto ciò non rappresenta che un incidentale... Voi stesso avete cominciato la discussione, non è vero? Comunque, vi ho fatto venire perché facciate la conoscenza... L'uscio del vestibolo si aprì. — Il signor Pigot — annunciò il fattorino. Allora diedi un balzo sulla sedia, poiché avrei giurato che l'uomo che stava sulla soglia era lo stesso che aveva aperto il cassetto segreto. Si avanzò scrutandoci l'uno dopo l'altro, poi il suo sguardo si fermò su Godfrey e lui sorrise. — Eccomi, signor Godfrey — disse e, quantunque la voce non fosse la stessa, notai che Crochard aveva imitato alla perfezione l'eloquio dell'investigatore. — Spero di non avervi fatto aspettare. — Niente affatto, signor Pigot — rispose Godfrey e gli offrì una sedia. Vedevo che Grady e Simmonds si aggrappavano ai braccioli delle loro poltroncine fissando il nuovo venuto con gli occhi sbarrati e la bocca aperta; intuivo quale pensiero attraversava la loro mente. Quello era Pigot davvero? Confesso che il sospetto balenò anche a me. Mi domandavo se Godfrey non si era lasciato beffare anche lui. Il giornalista ci guardò e sorrise. — Sono sceso al porto stamane, sono andato a bordo del Savoie e ho riferito l'accaduto al signor Pigot, pregandolo di presenziare a questa riunione. Vi assicuro che questo è proprio il signor Pigot della Sùreté e non Burton E. Stevenson
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Crochard. — Crochard ha avuto occasione di studiarmi — spiegò il francese — e qualunque cosa faccia, la fa da artista. Però, un giorno o l'altro, lo pescherò. Credete che ci sia speranza di trovarlo qui? — Temo di no — fece Godfrey. — Non parlate con tanta sicurezza! — intervenne Grady. — Non sono ancora un uomo finito... — Scusate se non ho fatto le presentazioni, signor Pigot — disse Godfrey. — Il capitano Grady, capo del reparto investigativo; il signor Simmonds, suo subalterno, l'avvocato Lester, mio amico e l'avvocato Shearrow, legale del Record. Il signor Grady, il signor Simmonds, l'avvocato Lester erano presenti, ieri sera, quando Crochard ha aperto il cassetto segreto. Grady arrossì visibilmente e anch'io mi sentii a disagio. Pigot ci guardò con un sorriso divertito. — Dev'essere stata un'esperienza interessante — osservò. — Non ho mai avuto il privilegio di vedere Crochard all'opera. Deploro che vi sia sfuggito. — Tanto più che si è preso i brillanti Michaelovitch — aggiunsi io. — Prima di toccare questo lato della questione avrei da rivolgervi un paio di domande, signor Pigot, per chiarire alcuni particolari — disse Godfrey. — È vero che il furto dei diamanti fu perpretato da Crochard? — Senza dubbio. Nessun altro ladro in Francia sarebbe stato capace di tanto. — È anche vero che non riuscite a trovare alcuna prova diretta a suo carico? — Verissimo, signor Godfrey. Crochard aveva disposto le cose con tanta abilità che noi avremmo dovuto trovare il bottino in suo possesso per poterlo accusare. — Cosa che non siete riusciti a fare, è vero? — Infatti, abbiamo cercato dovunque invano. — Naturalmente non sapevate nulla dello scrigno di Boule e del cassetto segreto. — No, non ne sapevamo nulla. Bisognerà che io esamini questo famoso scrigno. — Ne vale la pena. Comunque sospettavate che Crochard avrebbe tentato la vendita delle gemme qui, in America? — Lo sospettavamo e abbiamo fatto tutto ciò che stava in noi per impedirglielo. Contavamo molto sull'opera della vostra dogana. Burton E. Stevenson
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— La nostra dogana ha fatto il suo dovere — rispose Godfrey — Ma il tesoro è passato lo stesso. Naturalmente uno scrigno importato da una persona tanto conosciuta come il signor Vantine non poteva fare a meno di passare senza destare sospetti. — Già — mormorò il francese. — È stato un piano magistrale; ed ora, senza dubbio, Crochard potrà vendere i brillanti in tutta tranquillità. — No di certo, se potete fornirmene una descrizione precisa — protestò Grady. — Penserò io ad avvertire tutti i commercianti di pietre preziose del paese; sguinzaglierò tutti i miei uomini e... — Oh, non vale la pena di prendervi tutto questo disturbo — l'interruppe Godfrey in tono indifferente. — Crochard non tenterà di venderli. — Non tenterà di venderli? — fece eco Grady. — E perché? — Perché non li ha — rispose Godfrey sorridendo e fissando con aria ironica la faccia sbalordita del capitano. — Suvvia! — fece questi in tono disgustato. — Se non li ha lui, vorrei sapere chi li ha! — Li ho io — rispose Godfrey e col braccio spazzò via tutto ciò che ingombrava l'angolo dello scrittoio. — Stendete qui il vostro fazzoletto, Lester. Mentre io obbedivo come trasognato, lui aprì la valigetta e la capovolse sulla tavola; il contenuto uscì come una pioggia fosforescente. — Ecco qui i brillanti di Michaelovitch — disse Godfrey e, nell'attimo che seguì, si sarebbe potuto sentire volare una mosca.
28. Crochard1 scrive un epilogo Per un momento restammo tutti a fissare quella massa scintillante, poi Grady, con un grido inarticolato, balzò in piedi, e afferrò una manciata di brillanti, come per convincersi che non si trattava di un'allucinazione. — Ma... non capisco — balbettò. — Avete preso anche Crochard? — Non sono così fortunato — riprese Godfrey. — Ma come avete fatto a portargli via le gemme? Non ve le avrà date per farvi un omaggio! — Caro Grady, io non ho visto Crochard dal momento in cui voi l'avete condotto a terra. L'avrei pescato se aveste consentito a Simmonds di telefonarmi. Avevo già il mio piano, ma lui è stato troppo astuto. Sapevo che sarebbe venuto oggi... Burton E. Stevenson
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— Che cosa dite? — Sapevo che sarebbe venuto, perché lui stesso me l'aveva scritto — spiegò Godfrey. Il signor Pigot si permise una risatina ironica. — Questa è una delle sue bravate preferite — disse. — E mantiene sempre la parola. Godfrey soggiunse: — Il guaio è stato che io non pensavo che venisse tanto presto... poco dopo mezzanotte... cosicché lui è riuscito ad allontanarmi con la panzana di un fatto sensazionale inesistente. In questo sono stato uno sciocco. Però ho scoperto il cassetto segreto dieci giorni fa, quando lo scrigno era ancora a casa di Vantine... la sera stessa in cui la signora velata recuperò le sue lettere. È stato facile: mi meraviglio che non ci abbiate pensato, Lester. — Pensato a che? — domandai. — Alla chiave del mistero. Il cassetto che conteneva le lettere era alla sinistra; io ho capito subito che ce ne doveva essere un altro che si apriva nello stesso modo, a destra. Perché Drouet è stato ucciso? Perché ha sbagliato cassetto. Ha fatto funzionare la combinazione situata a destra, invece che quella di sinistra. La cameriera senza dubbio si confuse nell'informarlo. Il sospetto che in origine l'errore fosse dovuto a Julie viene confermato quando si intuisce che lei ha mostrato la combinazione a Vantine il quale muore avvelenato. Del resto, la stessa signora velata ha detto qualcosa che rivelava tutta la storia. — Che cosa? — domandai. — Ha detto di essere abituata ad aprire il cassetto con la mano sinistra e non con la destra. Per farla breve ho scoperto il cassetto senza difficoltà, dopo aver visto il funzionamento dell'altro. Allora ho preso le gemme, le ho portate a una fabbrica di brillanti falsi e ho ordinato una copia esatta di ognuno dei diademi Michaelovitch. L'impresa più difficile è stata quella di imitare questo grosso diamante rosa. Raccolse dal mucchietto la splendida gemma e la tenne tra pollice e indice. Pigot sorrise. — È il brillante Mazzarino e vale quindici milioni di franchi. Ce n'è una copia al Louvre. — Dunque quella storia è vera? — domandai. — Crochard ce l'ha raccontata. — È indiscutibilmente vera — rispose Pigot. — Non è neppure un segreto... è soltanto una faccenda dimenticata. Godfrey riprese il racconto. Burton E. Stevenson
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— Ebbene, quando ho avuto le copie, le ho avvolte nell'ovatta e le ho messe nel cassetto avendo cura di porre il Mazzarino in fondo. — È stata una fortuna che abbiate pensato a questo particolare. — osservai — altrimenti Crochard avrebbe sospettato l'inganno. Godfrey mi guardò, con un sorriso di compatimento. — Mio caro Lester, lui ha capito come stavano le cose al momento in cui ha aperto il primo rotolo. Non ho mai pensato di poterlo ingannare. Volevo soltanto procurargli una piccola sorpresa. E pensare che non c'ero! — Ma se sapeva che le gemme erano false, perché si è preso il disturbo di rubarle? — domandai. — Su questo punto sono rimasto perplesso anch'io questa notte... e lo sono ancora. — Siete sicuro di non aver fatto una confusione? — fece Grady. — Forse le pietre false sono queste. Pigot si fece avanti e guardò il Mazzarino. — Questo è autentico senza dubbio — dichiarò, poi diede un'occhiata agli altri. — No, signor Grady, queste gemme non sono false. — Ed ora, signori — riprese Godfrey — sono pronto a consegnarvi il tesoro. Contate i brillanti e rilasciatemi una ricevuta. — Dopo di che scriverete un bel resoconto e vi prenderete tutto il merito — brontolò Grady. — Vi sembra forse di meritarvene una parte? — domandò Godfrey, e il capitano non poté che tacere e arrossire. — Quanto al resoconto è già scritto. Fra dieci minuti uscirà l'edizione straordinaria del Record... e vi assicuro che farà colpo. Ora contate i diamanti. Ne troverete duecento e dieci. — Questo è il numero esatto delle pietre che furono rubate al Granduca — osservò Pigot cominciando a contare. Quando ebbe finito, Godfrey disse: — L'avvocato Shearrow ha già la ricevuta pronta. Shearrow trasse di tasca un foglio, lo spiegò e ne lesse il contenuto. Non era soltanto una ricevuta, ma una completa cronistoria dei fatti in cui. non erano omessi i particolari del furto e i meriti dovuti al Record per il recupero del bottino. A mano a mano che la lettura procedeva, la faccia di Grady si faceva sempre più congestionata e alla fine lui esplose: — Non firmerò un documento simile! Mi rifiuto! — Voi firmerete, non è vero, signor Pigot? — domandò Godfrey. — Certamente — rispose il francese. — Non è che un riconoscimento della vostra opera, e ve lo meritate. Burton E. Stevenson
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Così dicendo prese la penna e firmò! — Ora tocca a voi, Simmonds — fece Godfrey. — Non firmerete nemmeno voi! — intervenne Grady. — Restate dove siete, Simmonds. Vi proibisco di firmare. Ricordatevi che sono vostro capo. — No che non è il vostro capo, Simmonds — disse Godfrey in tono pacato. — Da oltre un'ora non è più nemmeno funzionario della polizia. Il capitano balzò in piedi. — Che cosa intendete dire? — Intendo dire che l'avvocato Shearrow ed io abbiamo avuto un colloquio col sindaco stamane e gli abbiamo sottoposto certe prove che sono in nostro possesso... Prove inerenti a questo caso, soprattutto. Le vostre dimissioni sono state accettate oggi a mezzogiorno. — Le mie dimissioni! — balbettò Grady. — Ma io non ho dato le dimissioni! — Se proprio ci tenete, potete dire questo al pubblico — rispose Godfrey gelidamente. — È affar vostro. Dovevate telefonare quando ve l'ho detto. Avanti, Simmonds. Grady rimase ancora un istante a fissare Godfrey con fare bieco e io temetti che gli mettesse le mani addosso; viceversa prese una decisione improvvisa, si cacciò il cappello in testa e uscì. Simmonds appose la sua firma al documento e io firmai a mia volta come testimone. Allora Godfrey afferrò avidamente il foglio e corse alla porta. — Portate questo all'ufficio il più presto possibile — disse a un uomo che aspettava fuori... — Telefonerò le istruzioni. — Ritornò da noi. — Questa è la mia ricompensa... o meglio la ricompensa del Record. E ora possiamo approfittare della vettura dell'avvocato Shearrow per andare a depositare il bottino nella cassetta di sicurezza di una banca. Erano passati dieci giorni quando Godfrey venne da me una sera. Ero appena ritornato da una breve vacanza e fui lieto di vederlo. — Avete ripreso un aspetto normale — disse lui scrutandomi. — Ero proprio un po' in pensiero per voi. — Grazie, ma sto veramente bene. Del resto, ve l'avevo detto: per riavermi avevo bisogno che quel mistero fosse risolto. — Ed è stato risolto alla data stabilita, non è vero? Quantunque le cose non siano andate come io prevedevo. Sapete, Lester, che intendo chiedere che mi venga consegnato quello scrigno? — Con quale diritto? Burton E. Stevenson
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— Il proprietario me ne ha fatto dono — rispose Godfrey porgendomi un foglio di carta. Lo spiegai e riconobbi la calligrafia delicata che già avevo visto una volta. La lettera diceva: Caro signor Godfrey Mi rendo conto di non aver valutato le vostre capacità al loro giusto valore e vi presento le mie sincere scuse. Spero che in avvenire mi sarà concesso di trovarmi ancora a tenzone con voi, ma per il momento sono costretto a ritornare in Europa, col piroscafo La Bretagne, poiché, dopo tutti i disturbi che mi sono preso, non posso rassegnarmi a separarmi dai brillanti del Granduca. Come pegno dell'alta stima che ho di voi, spero vorrete accettare in omaggio lo scrigno di Boule che, senza dubbio, il buon avvocato Lester vi consegnerà. Lo scrigno non è soltanto interessante come opera d'arte; anzi, per noi, il suo maggior pregio è dato dalla parte da esso avuta nella nostra piccola commedia. Mi farebbe piacere che adornasse un angolo della vostra casa. Al piacere di incontrarvi preso, vi prego di credermi, caro signore, vostro sincero ammiratore. Jacques Crochard, l'Invincibile — È un bel tipo, non vi pare? — fece Godfrey — Che cosa mi dite per lo scrigno? — Evidentemente Crochard ne è il legittimo proprietario... non credo che vi sia dubbio possibile. — Dunque è mio — soggiunse Godfrey esultante. — Lo manderò a ritirare domani. È ancora al posto di polizia? — Sì. Ma sentite, Godfrey, quando è partita La Bretagne? — Una settimana fa. Dovrebbe arrivare a Le Havre in mattinata, oggi. — Avete avvertito le autorità? — Di che cosa? — Diamine, delle intenzioni di Crochard in merito ai brillanti. Suppongo che anche quelli li trovino sulla nave... — Sì, con Pigot. Perché dovrei avvertire qualcuno? Devono ben sapere che Crochard tende a recuperare le gemme. È una questione di puntiglio. Penseranno loro a metterli al sicuro. — Non dovrebbe essere difficile — osservai. — La camera di sicurezza Burton E. Stevenson
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di una nave è uno dei posti più sicuri per custodire un tesoro. — Sì — mormorò Godfrey e poco dopo se ne andò. Ripensando bene all'inflessione che aveva dato a quel "sì", mi venne il dubbio che fosse più interrogativo che affermativo, tanto che, aprendo il giornale la mattina seguente, mi aspettavo quasi di vedere qualche titolo a caratteri cubitali, annunciate il saccheggio della camera di sicurezza della Bretagne. Ma il titolo non c'era e io, con un sospiro mezzo di sollievo e mezzo di delusione, volsi il mio interesse alle altre notizie. Ma due settimane dopo mi trovai sott'occhio un titolo sensazionale quando meno me l'aspettavo: I presunti brillanti Michaelovitch falsi! Funzionario francese che riporta dall'America le imitazioni in cristallo. A quanto diceva l'articolo, la frode era stata scoperta soltanto quando il Granduca Michele aveva mandato le gemme a un gioielliere perché le rimontasse. Non avevo bisogno di leggere il resto, poiché avevo capito in un lampo ciò che era accaduto. Capivo anche perché Crochard aveva tenuto i gioielli falsi... prevedeva che gli sarebbero stati utili! Dove e come fosse avvenuta la sostituzione nessuno sapeva e non era facile formulare un'ipotesi, poiché tra il momento in cui Pigot aveva presso possesso del tesoro e quello in cui la frode era stata scoperta erano passate più di tre settimane. Mi domandavo chi mai avrebbe acquistato il Mazzarino; senza dubbio doveva essere difficile realizzarlo. La risposta a questo interrogativo venne ben presto e in una forma sensazionale che diede a Crochard una pubblicità senza precedenti. Infatti una mattina, nella pagina degli annunci del Matin apparve una comunicazione che riporto fedelmente tradotta: Al Conservatore del Museo del Louvre Ho avuto la fortuna di entrare in possesso del diamante rosa noto come il Mazzarino. È mio desiderio restituirlo alla Collezione del vostro Museo affinché non sia più necessario ingannare il pubblico con un 'imitazione in vetro colorato. Sarò molto lieto di farvi dono di detta gemma, sempre che il Granduca Michele, il quale prima di me era possessore del brillante, voglia sanzionare la mia decisione. Se Sua Altezza rifiutasse, mi troverei nella penosa necessità di far tagliare il Burton E. Stevenson
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diamante per trarne diverse gemme di dimensioni normali, ma spero che non rifiuterà. Attendo una risposta su queste stesse colonne. Jacques Crochard, l'Invincibile Che poteva fare il Granduca? Essere da meno di un malfattore? Impossibile! Aderì quindi all'iniziativa di Crochard e due giorni dopo il Conservatore del Museo trovò sulla propria scrivania un pacchettino che conteneva la gemma. E Crochard? Ogni mattina leggo prima di tutto le notizie da Parigi, cercando l'Invincibile in qualche nuova incarnazione. Godfrey mi ha regalato la sua ultima lettera che ho fatto incorniciare e ho appeso in biblioteca. La rileggo quasi ogni giorno e una frase specialmente mi ricorre al pensiero, di continuo: Spero che in avvenire mi sarà concesso di trovarmi ancora a tenzone con voi. E io spero che mi sarà concesso il privilegio di assistere a quella tenzone... FINE
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